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Valutazione e bocciatura Articoli e documenti per informarsi e riflettere

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Valutazione e bocciatura

Articoli e documenti per informarsi e riflettere

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1. Tempo di pagelle, di scrutini e di primi annunci di bocciature. (di Alex Corazzoli)

Ma perché bocciare? A fermare la meritocrazia è arrivata la notizia di una proposta della coalizione Spd-Verdi della Bassa Sassonia che vorrebbe l’abolizione della bocciatura in tutte le scuole del Bundesland. Secondo la nuova sinistra di governo di Hannover rimandare i ragazzi è troppo umiliante e costa troppo. Un tema già affrontato: gli esperti dell’Ocse hanno calcolato che ogni bocciatura costa in media tra i 10 e i 15 mila dollari annuali. In paesi come la Spagna, il Belgio o l’Olanda, i “ripetenti” incidono sul 10% del budget complessivo per l’educazione. Non ne farei solo una questione di costi. Oggi a essere fermati sono ancora, come 60 anni fa, i ragazzi figli dei meno abbienti, provenenti dalle classi sociali più povere. Sto parlando di una povertà che spesso non è economica ma culturale. La conferma arriva da una ricerca di Skuola.net che esaminando le percentuali di promossi e bocciati nelle scuole superiori delle maggiori città italiane ha rilevato che il 23,4 % di coloro che frequentano un istituto professionale e il 20% degli studenti di un istituto tecnologico sono fermati mentre al liceo classico il semaforo rosso scatta solo per il 5,9%. Mi tornano in mente i grafici riportati da don Lorenzo Milani in “Lettera a una professoressa”: guardando il mestiere del babbo dei ragazzi bocciati risultava che il 55% dei figli dei contadini era fermato mentre era solo il 25% dei ragazzi provenienti da famiglie non contadine a essere respinto. Scriveva il prete di Barbiana: “Dei sei ragazzi bocciati, quattro stanno ripetendo la prima. Per la scuola non sono persi, ma per la classe sì. Forse la maestra non se ne dà pensiero, perché li sa al sicuro nella classe accanto. Forse se li è già dimenticati. Per lei che ne ha 32, un ragazzo è una frazione. Per il ragazzo la maestra è molto di più. Ne ha avuta una sola e l’ha cacciato”. Io non ho mai cacciato nessuno. Anzi. Almeno due volte, non ho permesso con il mio voto negativo, di bocciare dei bambini alla scuola primaria visto che in Italia c’è ancora la possibilità di fermare i bambini anche alla scuola dell’obbligo. La proposta tedesca è da prendere in considerazione. Certo non dobbiamo dimenticare, come molti miei colleghi delle superiori denunciano in libri e articoli, che i ragazzi arrivano all’università senza sapere scrivere correttamente. Ma non abbiamo bisogno di una strage che colpisca ancora e sempre le classi sociali più deboli. Abbiamo bisogno di una scuola che non umilia ma che comprende e che aiuta a migliorare. Penso a una scuola dove chi deve essere bocciato abbia un aiuto in più, un programma didattico che si adegui al percorso umano, più docenti “specializzati” al recupero. Una meritocrazia che non sia concorrenza e che non crei ansie. Ieri uscendo dalla scuola ho trovato attorno all’auto due bambini di 8 anni: “Ma quando danno le

pagelle?”. Ho chiesto loro: “Perché siete interessati ai voti?”. Uno di loro mi ha risposto: “Perché

ho paura di mio padre!”.

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2. PROMUOVERE O BOCCIARE? (Di Umberto Tenuta)

Alla bocciatura noi ricorriamo solo se essa costituisce, non il male minore, ma la soluzione migliore per assicurare il successo formativo all’alunno (B.S.)

Continua a porsi l’interrogativo "Promuovere o bocciare"? Alle sicurezze che nel passato i docenti avevano ora subentrano sempre più le incertezze, i dubbi, le crisi. Non è che manchino i docenti decisi a bocciare e quelli decisi a promuovere magari tutti gli alunni, indiscriminatamente. Ma, in genere, sembra prevalere l’incertezza, il dubbio, l’esitazione, determinata soprattutto dalla presenza di una normativa che sconsiglia o addirittura vieta di bocciare. Che fare, dunque? Quale criterio tenere presente? Al riguardo, si impongono alcune considerazioni di fondo, che riguardano, in particolare, l’orientamento formativo che la scuola va sempre più assumendo e gli effetti che la bocciatura pu avere sui singoli alunni. Innanzitutto, si impone la considerazione del carattere formativo della scuola, non solo della scuola dell’obbligo, ma anche del triennio finale della scuola secondaria. Si prende sempre più consapevolezza che il compito della scuola non è tanto quello di selezionare coloro che possiedono determinate competenze, quanto quello di garantire il successo formativo a tutti gli alunni, promuovendo la piena formazione della loro personalità. I giovani vanno a scuola per educarsi, per formarsi, per autorealizzarsi, acquisendo conoscenze, capacità ed atteggiamenti, ed il compito della scuola è quello di agevolare, favorire, rendere possibili i processi apprenditivi e formativi. Favorire i processi apprenditivi significa che i docenti non sono indifferenti ai risultati: essi non si limitano ad organizzare ed a svolgere l’attività educativa e didattica, lasciando agli alunni il compito e la responsabilità dell’apprendimento. Più che l’obbligo della frequenza, oggi si afferma il diritto all’educazione ed all’istruzione, che è diritto al successo formativo. Al riguardo, il Regolamento dell’autonomia scolastica usa l’espressione <<garantire il successo formativo>>: il compito dei docenti è quello di creare tutte le condizioni che rendano possibile agli alunni l’acquisizione delle conoscenze, delle capacità e degli atteggiamenti che attengono alla loro alfabetizzazione culturale e soprattutto alla loro formazione umana. In tale prospettiva, anche la valutazione va utilizzata come strumento per predisporre i percorsi formativi più idonei e più adeguati a garantire il successo formativo dei singoli alunni. Come è ormai acquisito alla consapevolezza sociopsicopedagogica, il successo nei processi apprenditivi e formativi pu essere assicurato solo a condizione che l’attività educativa si svolga secondo i principi più avanzati della ricerca metodologico-didattica. Da una parte, occorre privilegiare le strategie apprenditive più idonee, che sembrano essere quelle del problem solving (ricerca/riscoperta/reinvenzione/ricostruzione) e del cooperative learning, dall’altra occorre adeguare i percorsi didattici, oltre che ai livelli di sviluppo e di apprendimento, anche ai ritmi ed agli stili apprenditivi, che pertanto occorre fare oggetto di attenta verifica.

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� �È necessario accertare se gli alunni hanno o non hanno appreso e da questa conoscenza muovere per comprendere che cosa non ha funzionato, per capire i motivi che hanno impedito agli alunni di apprendere, in modo da poterli rimuovere. Se la verifica accerta che l’alunno non ha appreso il teorema di Pitagora, non ci si pu fermare a questa presa d’atto: non basta sapere che l’alunno non ha appreso. Questo bastava nella scuola selettiva, che aveva come suo compito di verificare se gli alunni erano in possesso delle conoscenze previste per la loro ammissione alla classe successiva, ma non basta più nella scuola dell’autonomia, che ha il compito di <<garantire il successo formativo>>: garantirlo significa promuoverlo, favorirlo, renderlo possibile. La valutazione non si limita a prendere atto dei risultati, non si limita a verificare che l’alunno non sa, ma si impegna a individuare, a ricercare, a scoprire perché l’alunno non ha appreso. In tal senso, la valutazione diventa un’operazione complessa, rivolta a prendere in considerazione la molteplicità dei possibili motivi dell’insuccesso dell’alunno. Preso atto che l’alunno non sa, ci si deve domandare il perché non ha appreso. L’alunno non ha appreso perché l’insegnamento: a) non è partito dai suoi livelli di sviluppo e di apprendimento? b) non ha rispettato i suoi ritmi e stili apprenditivi? c) non creato le motivazioni adeguate? d) non ha utilizzato le strategie didattiche più idonee? e) ha trascurato le attività di consolidamento? Queste ed altre possono essere le cause della mancata acquisizione delle competenze. Evidentemente, così impostata, la valutazione diventa un’operazione analitica, articolata, complessa. Occorre capire perché l’alunno non ha appreso, in quanto da questa comprensione si pu dedurre l’azione da svolgere. Una volta compreso perché l’alunno non ha imparato, è possibile assumere le decisioni più adeguate, anche in ordine all’ammissione o alla non ammissione alla classe successiva. Tutto ci che la scuola fa deve risultare funzionale al successo formativo. Anche la non ammissione alla classe successiva! L’alunno non viene ammesso solo se si ritiene che tale provvedimento risulta utile a garantire il successo formativo. E risulta utile perché l’alunno: a) non ha appreso, in quanto il tempo di cui ha potuto disporre non è stato sufficiente ed ha

quindi bisogno di un supplemento di tempo non inferiore ad un anno (non basta un’attività di recupero all’inizio dell’anno scolastico successivo per colmare il debito formativo);

b) non ha appreso perché non si è impegnato. È questa la motivazione più frequente, ma al riguardo occorre domandarsi se la scuola ha fatto tutto quello che era necessario per creare le motivazioni. La motivazione non è un problema privato dell’alunno, ma fa parte dell’azione educativa e didattica: spetta ai docenti suscitare le motivazioni (Agli svogliati date uno scopo, ammoniva Don Milani);

c) non ha appreso perché non possedeva i prerequisiti cognitivi: in questo caso occorre domandarsi che cosa è stato fatto per assicurarglieli;

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d) non ha appreso perché gli interventi educativi e didattici non erano rispettosi dei suoi stili apprenditivi: in questo caso, l’alunno non pu essere chiamato a rispondere delle inadeguatezze didattiche.

Vi possono essere altre motivazioni, che vanno esaminate tutte, sempre in funzione della creazione delle migliori condizioni per assicurare il successo formativo. In ordine alla mancata ammissione, occorre anche prendere in considerazione elementi del tipo:

a) come viene vissuta dall’alunno la mancata ammissione: essa diminuisce l’autostima e crea disagio sul piano relazionale?

b) la famiglia è contraria e quindi accresce il disagio dell’alunno?

Al riguardo, è appena il caso di evidenziare che il problema va visto soprattutto sul piano sociopsicopedagogico, ma non sono da trascurare anche le considerazioni di natura giuridica relativamente agli adempimenti che la scuola avrebbe dovuto attivare. Ad esempio:

a) la scuola ha verificato durante l’anno scolastico il mancato apprendimento ed ha attivato gli opportuni interventi individualizzati?

b) risultano documentate le iniziative di individualizzazione dell’insegnamento? c) è stato reso partecipe il collegio dei docenti, tenuto ad esaminare i casi di scarso profitto, a

norma dell’art. 4 del D.P.R. 416/1974? d) sono stati resi partecipi i genitori?

La bocciatura chiama in causa responsabilità molteplici: della famiglia, della scuola, dell’alunno. Vanno prese in considerazione tutte, non per mettere in moto atti di accusa, perché alunni e docenti non dovrebbero essere mai controparti, ma sempre compartecipi dell’impegno educativo. (…) I ritardi, la bocciature, le mortalità scolastiche sono sempre l’espressione di un insuccesso che riguarda tutti. Serena ed io, tutte le volte che parliamo dell’argomento, non concordiamo mai sull’opportunità di dare voti ai bambini a scuola e continuiamo ad avere opinioni diverse. Molto dipende dal fatto che viviamo due realtà diverse: in Svezia l’idea di dare i voti a un bambino delle elementari è pura follia, qualcosa di medioevale, se non ho capito male. Ma del resto anche verifiche e compiti a casa sono tenuti ben lontani dalle prime classi. Da noi è semplicemente la quotidianità: non abbiamo molte opportunità per chiederci se sono uno strumento valido o meno. Ci sono, si usano, i nostri bambini devono imparare a gestire questo metodo già dai primi giorni del loro ingresso nella scuola. A me il voto numerico non dispiace. E’ semplice, comprensibile, intuitivo nel suo significato, chiaro. Ha di positivo che non si riferisce al bambino, ma al suo compito: non esprime un giudizio sulla persona, non dice “sei un bambino bravo e intelligente” oppure “sei scarso e imbranato”, parla semplicemente di quel singolo lavoro ed esprime la possibilità di miglioramento. Il voto di per sé non dovrebbe creare ansie, competizione, sensazioni sgradevoli. E’ un dato di fatto, facilmente comprensibile, che introduce in modo semplice e immediato al concetto di valutazione.

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� �Preferisco il voto numerico al così detto “giudizio”, che era stato introdotto qualche tempo fa nella scuola elementare e prima ancora nella scuola media, proprio per evitare l’ansia da prestazione che deriverebbe dal voto. Già da un punto di vista linguistico, mi sembra che la parola “giudizio” sia più carica di significati ansiogeni, rispetto a “voto”: con un numero non ti giudico (e non giudico te), ma sistemo il tuo lavoro in una scala, una scala aperta, che puoi salire (o scendere) a seconda del tuo impegno. I giudizi buono, ottimo, discreto, sufficiente, non erano altro che verbalizzazioni dei voti, con un difetto in più, per : essendo aggettivi, un bambino poteva sentirli come riferiti a se stesso. Io, come persona, posso essere ottimo o sufficiente e soffrire in quest ultimo caso, se non mi sento adeguato. Sicuramente è più difficile riferire un numero a un modo di essere: io non sono 6 o non sono 9, il mio compito è da 6o da 9. Insomma, se una valutazione ci deve essere, il voto è il metodo che a me sembra più neutro e scevro di retro-significati. Ecco, sì… in teoria… Poi, purtroppo, sul sistema della votazione scolastica, si innesta tutta una serie di distorsioni che non dipendono, secondo me, dall’inefficacia del mezzo, ma da quello che ci si riesce a costruire sopra. Se fin dalla prima elementare si avvicinassero i bambini, da parte di tutti, insegnanti e genitori, al concetto di votazione con serenità, non credo che ci sarebbero grandi problemi: la scala da 4/5 (perché dubito che alle elementari ci sia qualcuno disposto a scendere al di sotto!) a 10 è tutta percorribile e accessibile. Insomma una scala di possibilità, non una rincorsa.

Perché invece spesso si innesca una competizione? Perché vedo genitori che si informano, appena all’uscita di scuola, sui voti presi dai figli e, peggio ancora, sui voti presi dagli altri compagni di scuola? Perché promettiamo regali e vantaggio “in cambio” di un buon voto a scuola o minacciamo punizioni per un voto negativo? Perché ancora molti insegnanti usano l’arma del “brutto voto” per ottenere attenzione e partecipazione? E, di conseguenza, perchè troppo spesso i bambini imparano a vedere i voti come un punteggio in una gara? Se il voto assumesse il suo solo significato di valutazione di un lavoro, non ci sarebbe bisogno di premiare per un voto buono o di arrabbiarsi per un voto negativo: sono solo uno strumento che serve a capire cosa è andato bene e cosa non è andato. Il voto positivo, significa semplicemente: bene, andiamo avanti. Quello negativo, vuol dire soltanto: stop, qui c’è da lavorare. A questo punto il voto dovrebbe smettere di essere un motivo di ansia e uno strumento di competizione (tra bambini, ma, purtroppo, soprattutto tra adulti!) e dovrebbe ricollocarsi nella sua semplice funzione di mezzo per comunicare.

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3. BOCCIARE O FAR SBOCCIARE? Castigare, bocciare, selezionare: un déjàvu

Stupisce che una ministra che all’atto dell’insediamento ha dichiarato di voler dialogare ‘con tutti’ si sia subito pronunciata a favore dei voti: in decimi e del mantenimento delle bocciature fin dalla primaria.

Forse non giunge al suo livello la percezione che una scuola che boccia è una scuola che produce quegli alunni di cui parlano i 600 dell’appello: alunni che non sanno argomentare, a cui non si è data possibilità di distinguere accuratamente fra parlato e scritto, non allenati a considerare i testi come organismi dinamici, a cui si richiede di apporre delle crocette e non si fanno compiere le esperienze fondantali di costruzione dei significati. Una scuola fatta per lo più di lezioni trasmissive è la scuola che pu bocciare ‘con scienza e coscienza’ perché misura livelli di adeguatezza e di approssimazione a quanto ha ‘insegnato’. Mentre una scuola della ricerca, della narrazione, della creatività, della discussione è una scuola che si rinnova ad ogni giorno, deve offrire strumenti e cercare di consolidare le competenze in nuce che farà emergere.

1) I VOTI Non si pu parlare di bocciature e insuccessi senza mettere in discussione il sistema di valutazione con i voti decimali. Constatati i danni indotti dal decreto sulla valutazione del 2008 del min. Gelmini che ha reintrodotto i voti, il MOVIMENTO DI COOPERAZIONE EDUCATIVA, ha lanciato nel 2015 la campagna ‘VOTI A PERDERE’ cui hanno aderito venti altre associazioni professionali e di genitori e molti pedagogisti, insegnanti, dirigenti scolastici.

La reintroduzione nel 2008 dei voti ha peggiorato la qualità della didattica e ridotto la valutazione a procedura sommativa, in definitiva a misurazione, consentendo di interpretare numeri cardinali attribuiti al singoli come elementi di una scala ordinale, istituendo così graduatorie indebite nelle classi.

Gli effetti sono stati abbondantemente descritti e sono osservabili in molte situazioni scolastiche: riduzione dell’autostima e della fiducia o sopravvalutazione delle proprie potenzialità, riduzione della motivazione ad apprendere a meccanismi di rinforzo esterno, confronto e competizione, clima di classe attento al risultato personale e non alla comune progressione, aggressività, forme di ansietà da prestazione, scarso sviluppo di competenze euristiche e metacognitive, una didattica trasmissiva e banalizzante. I voti non incentivano impegno ma tendenza all’imitazione e alla ripetizione, all’adeguamento a modelli esteriori. Riconoscere il valore di ognuno e l’apporto che ognuno pur con i propri limiti è in grado di dare è la chiave della motivazione, non disincentiva allo studio, non incoraggia la pigrizia.

2) L’OBBLIGO SCOLASTICO La scuola dell’obbligo, l’intero primo ciclo ( non solo la primaria) ha funzione promozionale e deve garantire a tutti un percorso ottennale unitario e coerente. Permettendo a tutti di sviluppare competenze e abilità strumentali di base. La scuola è un diritto che non pu essere subordinato a premi e punizioni. Se interrompe questo percorso tradisce la sua funzione, bocciando boccia se stessa.

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� �Non è indotta ad auto-interrogarsi sulle cause degli insuccessi cercando le strategie più efficaci di contrasto dell’insuccesso.

Il segreto del successo e di una valutazione efficace è infatti la revisione della programmazione e della metodologia da parte dei docenti, non lo scaricare la colpa degli esiti sugli studenti.

3) RIGIDITÀ DEL SISTEMA : purtroppo il nostro sistema scolastico, con classi formate per età senza quasi mai la possibilità di organizzare attività per classi aperte, con un insegnamento che si rivolge a tutti nello stesso modo, a seguito della bocciatura propone il modello della classe precedente che si ripete. Nei primi mesi della ripetenza i bambini bocciati possono dare l’illusione di stare al passo, poi, se non vengono organizzate attività di insegnamento individualizzato, ricadono nell’insuccesso.

Invece di bocciare, la scuola deve avviare subito attività affidate alla didattica del “fare”, l’insegnamento individualizzato.(recupero e potenziamento delle abilità strumentali di base, offerta di una varietà di s.moli, lavoro a piccoli gruppi, a coppie, in cui far vedere come si fa e far provare, costruire schemi buoni modelli, a par.re dal corpo, attraversando le fasi ben descritte da Bruner della manipolazione, della rappresentazione, della simbolizzazione).

Non dovrebbe, la scuola, disperdere tempo ed energie preziosi per allenare alle prove INVALSI. Se queste sono prove ‘autentiche’ dovrebbero essere affrontabili con il normale strumentario del curriculum scolastico, non tramite esercitazioni da manualetti.

4) i bambini con la bocciatura perdono i compagni e gli amici che fra l’altro continuano a vedere durante la ricreazione ma che non fanno più parte della “comunità della loro classe”. Questo fatto aggiunge una frustrazione affettiva oltre a quella dell’insuccesso.

5) Perdono la fiducia di base e quasi sempre anche “l’auto-efficacia” la cui perdita provoca una caduta verticale della motivazione. (proviamo a pensare all’ultima competenza che noi adulti: abbiamo appreso, che quasi sempre è quella digitale: cosa abbiamo pensato di fronte alla caduta della nostra auto-efficacia davanti alle difficoltà, non essendo nativi digitali, senz’altro abbiamo pensato di mollare tu1o. I bambini boccia:, che hanno assaggiato purtroppo il sapore amaro dell’insuccesso, spesso senza cognizione dei motivi del loro scacco, si demotivano irrimediabilmente. Inutile lamentare poi gli alti numeri di dispersione e abbandono negli anni successivi quando siamo noi a prefigurarne le basi)

6) I bambini bocciati spesso vengono “dimessi mentalmente” dai docenti che pensano che non ci sia tanto da fare per loro... (in classi numerose, con vari problemi all’interno- sono state tolte le compresenze, ore di discipline, risorse per la progettazione, smantella. i team,....)

7) ‘BOCCIARE SERVE’? EMOZIONE E CONOSCENZA

Due sono le motivazioni che vengono sostenute:

- Una versione ‘punitiva’

- Una versione ‘pietistica’ e compensatoria: ‘hanno bisogno di più tempo’ ‘ a causa delle lacune non ce la fanno, devono recuperare’

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� �Pensiamo alla scuola secondaria di primo grado, l’età più fragile. Il colpo inferto all’identità, alla stima di sé, non pu avere effetti positivi. Non è vero che la bocciatura serve a far impegnare di più, si traduce in uno stigma.

Se è vero che lo studio é interesse e passione, non lo si pu stimolare o addirittura indurre con la bocciatura. La prof.ssa Daniela Lucangeli dell’Università di Padova, esperta in meccanismi di apprendimento collega: alle ricerche in neuroscienze, afferma lo stretto intreccio fra il controllo delle emozioni e il pensiero razionale a livello di sistema nervoso. Se l’amigdala sviluppa un senso di impotenza che lei definisce come ‘appresa’ si genera ansia e un blocco anche del pensiero e quindi dell’apprendimento.

8) PARTI UGUALI FRA DISUGUALI

Si dice che non è giusto ‘premiare’ chi non studia. Ma non si pu considerare allo stesso modo chi ha interiorizzato la passione per lo studio e chi per motivi diversi non investe energia in questo ambito. Chi ‘sa’ studiare è fortunato, ha già la sua ricompensa nella scoperta del valore della conoscenza (don Milani) non ha bisogno di rinforzi esterni.

9) I MAESTRI

In Italia abbiamo molti esempi di maestri che non danno voti e non bocciano, maestri ‘storici’ da Lodi a Ciari a Manzi Gisella Galassi, a maestri dell’oggi, Lorenzoni, Tamagnini, e tanti altri che hanno indicato come procedere naturalmente sviluppando le capacità di pensiero dei ragazzi quando troppo spesso la scuola è luogo e fonte di dispersione del bene più prezioso, il pensiero.

10) SMANIA DI CONTROLLO

É paradossale che l’imperativo di bocciare venga da un ordine di scuola verso gli ordini precedenti, dalla secondaria di secondo grado verso la media e la primaria, come se questo controllo garantisse efficacia e severità: è un rovesciamento del ciclo di vita a vantaggio di che cosa e di chi? Per tutelare quale pretesa di eccellenza? Si afferma che la scuola che non boccia ‘fa finta di nulla’. Quando è la scuola che boccia che, facendo ‘parti uguali fra disuguali’ (don Milani) non vuole vedere disuguaglianze, disagi, culture diverse che mal si interfacciano con la mono-cultura scolastica.

Quando si afferma come nella petizione ‘change.org’ lanciata dagli ex allievi di don Milani che negli scorsi anni gli alunni bocciati alla primaria sono stati 11.866 nel 2015 e 11.071 nel 2016, si risponde con un’alzata di spalle ‘APPENA il 2%’ (evidentemente una scuola poco seria che non sa e non vuole scremare da subito).

É evidente l’intenzione malcelata di avere al passaggio alla secondaria un’utenza già selezionata: il lavoro ‘sporco’ ai livelli bassi.

Quando invece ogni ordine di scuola deve assumersi le proprie responsabilità, prendersi cura degli studenti che ha, di tutte le differenze che rendono una classe un gruppo da modellare e trasformare in comunità di apprendimento, non in somma di individui, senza indebiti riversamenti di aspettative sull’ordine di scuola precedente con pretese di adeguamento ai propri standard. La pedagogia non è un imbuto a rovescio.

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4. Da ANSA La buona scuola? Quella senza voti Valutazione dello studente mortifica i ragazzi meno preparati La valutazione dello studente, così com’è, serve solo a mortificare i ragazzi meno preparati. E’ questa la posizione dell’esperto, Francesco Dell’Oro, condivisa anche da alcuni partecipanti alla consultazione sulla Buona Scuola. Abolire i voti scuola, per salvare gli studenti: la proposta arriva da Francesco Dell’Oro, esperto di orientamento scolastico, e prende in esame i danni che una fredda valutazione scolastica può fare sugli studenti. I voti scolastici infatti, assicura l’esperto, dividono e creano confronti e competizioni tra ragazzi. E allora basta voti, la scuola deve saper correggere, non bocciare. La domanda che si pone l’esperto è: l'attuale organizzazione scolastica riesce a valorizzare i talenti degli adolescenti?. E la risposta non è rosea: “Le modalità e i criteri utilizzati nella valutazione dei nostri studenti rappresentano uno dei segnali più preoccupanti. Un messaggio della povertà della scuola e delle competenze di molti suoi interpreti”. ASSURDA LOGICA MATEMATICA – “Quando, ad esempio, la valutazione si presenta imbrigliata in una assurda logica matematica, con voti scolastici appesantiti e mortificati da unità decimali (4,9 in un compito di latino, 3,8 in greco, 5,95 in inglese, 2 meno, meno, meno in matematica), la nostra scuola viene meno a quello che dovrebbe essere uno dei suoi principi fondamentali di deontologia professionale: sostenere le persone nei momenti di difficoltà e rimotivarle. A volte (zero più...), sfiorando gravemente il ridicolo e alimentando una specie di galleria degli orrori o, per essere più moderati, delle sciocchezze scolastiche. Questa pratica della valutazione, appesa al bilancino del farmacista, è stupida e nociva. Non è più tollerabile e deve essere immediatamente fermata”. SOSTENERE I RAGAZZI – “La valutazione deve essere formativa: il cuore delle strategie dell’apprendimento. A volte, invece, i voti a scuola e i giudizi che noi insegnanti trasmettiamo, sembrano quasi materializzare frustrazioni, preoccupazioni e le nostre aspettative tradite. L'alibi delle frustrazioni che questi voti scolastici possono determinare e che, secondo alcune insistenti scuole di pensiero, rappresenterebbero un percorso obbligato e una condizione indispensabile per la formazione delle persone, ignora i problemi della quotidianità e, soprattutto, non regge di fronte alla grave perdita che ogni anno dobbiamo registrare a proposito di dispersione scolastica e di abbandoni. Le persone in difficoltà, quelle più fragili, devono essere sostenute e non ferite. E quando le perdiamo, è una sconfitta per tutti. ABOLIRE I VOTI - E la proposta arriva diretta: abolizione dei voti almeno a partire dalla scuola elementare. “I voti, innanzitutto, devono essere aboliti nella scuola primaria. Con una riflessione da fare per quanto riguarda la scuola secondaria di primo e di secondo grado. I voti scolastici possono essere un'arma impropria e interferire, soprattutto nell'infanzia e nella prima adolescenza, con la qualità delle relazioni e la possibilità di fare gruppo in una comunità scolastica” I VOTI DIVIDONO – “I voti scolastici dividono, creano confronti e, quindi, preoccupazioni e ansia. Colpiscono l'autostima e, in troppi casi, annullano il desiderio di scoprire e di imparare. I danni che possono creare su un equilibrato e sereno sviluppo psicofisico e relazionale sono incalcolabili. In questo campo, quello della valutazione, senza affidarsi a improbabili riforme, si può fare una rivoluzione. Subito e con poco. Serve solo un pizzico di equilibrio e di buon senso. Autorevolezza. E qualche vincolante indicazione ministeriale”.

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� �GUERRA ALLA DISPERSIONE – “Se vogliamo modificare i dati relativi agli abbandoni e alla dispersione scolastica, la scuola deve essere presentata e vissuta come il luogo elettivo per l’errore. Non per enfatizzare tale evenienza, ma nel momento della difficoltà, nel momento in cui si sbaglia o non si riesce a trovare una soluzione, il messaggio che deve arrivare ai nostri ragazzi è il seguente: «Attenzione, così non va bene! Ma, tranquilli, siete nel posto giusto e ora, insieme, cerchiamo la soluzione". […]

5. Voti in classe? Come i punti dati da un allenatore Da “Avvenire” di Elena Ugolini Perché dare voti ai singoli se è così importante il percorso comune che viene fatto in classe? Non c'è il rischio di scoraggiare un ragazzo dando valutazioni gravemente insufficienti? Molti pensano così, ed almeno due volte all'anno sui giornali compare la proposta di togliere i voti. “Ridurre” un ragazzo ad una pagella è profondamente sbagliato, ma non aiutarlo a capire a che punto si trova è ugualmente dannoso. I voti negativi sono semplici indicatori che, come la febbre, mettono in guardia rispetto a qualcosa che non va, ma è necessario che i ragazzi capiscano in che modo un quattro o un cinque possono essere “in potenza” delle sufficienze. Senza dare l'indicazione di una strada da percorrere i voti negativi disorientano e paralizzano i ragazzi. Non sono segnali per arrivare ad una destinazione. Dentro un voto ci devono essere i risultati delle prove svolte, la considerazione del percorso svolto dallo studente e di quello che dovrà ancora fare. Gli insegnanti, in fondo, dovrebbero essere visti come degli allenatori che danno punteggi perché desiderano portare i propri allievi a vincere il campionato, una partita dopo l'altra. Quando i docenti di lingue preparano i ragazzi agli esami di certificazione esterna delle competenze linguistiche questo diventa più chiaro e i ragazzi lo capiscono. Dovremmo sempre fare così.

6. I brutti voti fanno male o servono? Da “Corriere della Sera” In tempi di «contabilità» scolastica, con gli studenti italiani preoccupati di calcolare medie in vista degli esami finali, dalla Francia arriva una notizia che farà invidia a molti: la proposta di rivedere i voti e, chissà, forse abolirli. «Il nostro sistema di valutazione mette in evidenza le carenze e fallimenti e per alcuni può essere molto scoraggiante», ha detto il ministro dell’Educazione Benôit Hamon, che ha annunciato il lancio di una commissione per studiare come modificarlo. I risultati arriveranno a dicembre. Nel frattempo l’iniziativa fa discutere anche in Italia: in ballo ci sono due idee di scuola molto diverse. E difficili (impossibili?) da conciliare. «Fanno i bene francesi, il voto è un’arma impropria», dice Francesco Dell’Oro, a lungo responsabile dell’orientamento scolastico per il Comune di Milano e autore di La scuola di Lucignolo (Urra-Feltrinelli). Di più, per Eraldo Affinati l’arma è addirittura «contundente». Insegnante in un istituto professionale di Roma e scrittore anche lui, tra i suoi libri annovera L’elogio del ripetente (per Mondadori: i titoli, in entrambi i casi, dicono molto). Dall’altro lato della barricata invece c’è chi come Elena Ugolini, preside del Liceo Malpighi di Bologna, ex sottosegretaria e ora consigliera per il ministro dell’Istruzione, ne difende il valore educativo:

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� �«Sono importanti, danno la misura di quello che aspetterà gli studenti fuori dalla classe». E chi, come Paola Mastrocola, docente in un liceo torinese, romanziera e saggista (Togliamo il disturbo. Saggio sulla libertà di non studiare, Guanda) è ancora più drastica: «I voti li abolirei. Sono diventati finti - spiega -, non rappresentano più delle sanzioni, che invece sono indispensabili nel processo formativo». Medesimo obiettivo educativo, ragioni opposte. Dice Dell’Oro: «Eviterei i voti nella scuola primaria e alle medie. A livello personale ti esaltano se sei bravo e ti feriscono se sei in difficoltà». Non esattamente quello di cui hanno bisogno gli uni e gli altri. «Nella classe aizzano i confronti, mentre oggi la capacità di fare gruppo è la competenza più richiesta sul lavoro», aggiunge. Dell’Oro se la prende in particolare con «i voti imbrigliati in una logica matematica», che portano a segnare sul compito mostruosità come «0+»: «Invece di far capire ai ragazzi che la difficoltà è un’opportunità di crescita, creano situazioni giudicanti che diminuiscono la loro autostima». Ribatte Mastrocola: «La convinzione di non dover frustrare gli studenti è un errore clamoroso. Oggi diamo sei a tutti, perché siamo noi adulti i primi a non sopportare la frustrazione. Se metto insufficienze, il giorno dopo mi arrivano i genitori. E spesso piangono - racconta-. Invece un ragazzo ha bisogno di un adulto che davanti a un compito sbagliato glielo dica in modo deciso: è orribile». Se non se ne ha il coraggio, meglio allora «fare saltare voti, promozioni, bocciature. Ognuno arrivi dove arriva e noi certifichiamo il livello - propone-. Almeno così restituiamo responsabilità al singolo individuo». Anche Eraldo Affinati, che insegna in una comunità romana, «La città dei ragazzi», ha un problema con i sei tutti uguali. «Misurano il risultato, non il percorso. Ma è diverso se uno viene da una famiglia benestante, da una mamma che gli raccontava sempre le favole, oppure da una difficoltà sociale. Il primo sei non si è spostato di un millimetro, è come un cinque. Il secondo ha fatto un percorso molto lungo, vale come un otto». I voti allora andrebbero resi più soggettivi? Troppo facile: «Pensiamo alle lingue straniere, esistono standard europei che ne misurano la conoscenza - dice la preside Elena Ugolini -. Il docente che li segue e permette agli studenti di superare il First certificate (il certificato internazionale di competenza linguistica, ndr ), dà loro una grande possibilità. Chi dà otto senza raggiungere quegli standard nega una chiave per il futuro». La scelta è tra valorizzare tutti in un ambiente protetto o prepararli al mondo fuori, che non fa sconti. Sembra la quadratura del cerchio. Ma forse una strada c’è, e sta nel «rapporto diretto tra studenti e docenti, ogni giorno», dice Ugolini. «L’importante è spiegare sempre la ragione di una sufficienza o insufficienza - concorda Affinati -. Se si gioca a carte scoperte, i ragazzi capiscono benissimo. E non cadono nella frustrazione».

7. Combattere attivamente la dispersione Il Ministero dell’istruzione potrebbe/dovrebbe, anche operando in via amministrativa –meglio se sulla base di un atto parlamentare (mozione, ordine del giorno) – puntare a: a) Intraprendere una decisa azione di contrasto contro le bocciature nei primi due anni di scuola secondaria superiore attraverso piani di studio più flessibili e personalizzati - come già

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� �proposto da Tuttoscuola nel documento ‘Sei idee per rilanciare la scuola’ (settembre 2013) - prevenendo i rischi di bocciatura innanzitutto attraverso corsi di recupero obbligatori pomeridiani ed estivi, che consentano agli studenti un più adeguato recupero delle lacune accumulate e che parimenti rendano più facile incontrare e accogliere il disagio anche umano che questi ragazzi si trovano spesso a vivere. In questo senso sarà fondamentale agire, per quanto possibile, coinvolgendo anche i genitori, rendendo la famiglia attrice del processo di osmosi con la scuola. Un lavoro che potrebbe essere fatto con il supporto di cooperative sociali, che abbiano dimostrato di saper stare di fronte al mal di vivere di tanti di questi ragazzi. Parimenti i docenti saranno chiamati a un lavoro attento per una valutazione che tenga anche conto dei passi avanti rispetto alla situazione di partenza e della condizione familiare e sociale di provenienza degli alunni. Più in generale occorrerebbe superare l’idea, tuttora diffusa tra i docenti, che la bocciatura consegua quasi automaticamente al mancato raggiungimento da parte dello studente di un livello di prestazione standard, o comunque considerato come la soglia minima accettabile. Sarebbe utile, a tale proposito, a normativa invariata, suggerire l’approccio metodologico, utilizzato con successo nelle esperienze di integrazione, di una esplicita personalizzazione degli obiettivi formativi, valorizzando le attitudini e le potenzialità individuali e registrando a verbale, senza negarle o occultarle, le limitate performance raggiunte dallo studente in una o più discipline. L’attuale obbligo del ‘6’ in tutte le materie ai fini della promozione può essere rispettato, in caso di prestazioni limitate, dando a quel voto un valore di attestazione del raggiungimento di un obiettivo personale, o personalizzato, e non di uno standard prestazionale collettivo, impersonale. […]

8. Da “Dispersione nella scuola secondaria superiore”, Dossier di Tuttoscuola Considerazioni sulla fattibilità e possibili scenari

1. Riduzione delle bocciature La riduzione delle bocciature alla fine del primo e del secondo anno di scuola secondaria superiore comporterebbe anche un notevole risparmio complessivo, da reinvestire in politiche per la prevenzione e il recupero. Ad oggi le ripetenze solo nel primo biennio delle superiori sono circa 185 mila: secondo uno studio dell’allora ministro dell’economia Padoa-Schioppa per la Finanziaria 2007, una riduzione del 10% porterebbe un risparmio potenziale di oltre 100 milioni di euro l’anno. Infatti le 18.500 unità risparmiate corrispondono a circa 800 classi che, con una stima dell’80% possibile, potrebbero comportare la riduzione di 644 classi, corrispondenti a 1.455 professori e 425 Ata, per una minor spesa annua di 18,6 milioni di euro. Se il progetto Padoa-Schioppa diventasse attuale non in una logica di risparmio, bensì secondo un progetto di investimento per la prevenzione e il contrasto della dispersione scolastica, si avrebbero tre risultati: - I 18.500 studenti ‘salvati’ dalla ripetenza potrebbero costituire l’avanguardia di una popolazione scolastica sottratta all’insuccesso formativo e restituita ai normali percorsi di istruzione.

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� �- I 1.455 professori delle classi soppresse, appositamente formati, potrebbero costituire delle task force di docenti specializzati ed essere reimpiegati nell’organico funzionale d’istituto per progetti di recupero e sostegno formativo. - Le 425 unità di personale Ata potrebbero essere utilizzate per attività di scuole aperte.

La credibilità di un simile progetto richiede un coinvolgimento diretto delle istituzioni scolastiche e del personale. Alla base ci sarebbe un patto per il reinvestimento dei risparmi di sistema: gli organici risparmiati per la riduzione delle ripetenze potrebbero diventare risorsa dell’istituzione nella logica dell’organico funzionale.

9. Selezione dei punti dell’elenco: “La scuola che perde e la scuola che vince” di Domenico Starnone, da “Vieni via con me” 1. La scuola peggiore è quella che si limita a individuare capacità e meriti evidenti. La scuola

migliore è quella che scopre capacità e meriti lì dove sembrava che non ce ne fossero. 2. La scuola peggiore è quella che esclama: meno male, ne abbiamo bocciati sette, finalmente

abbiamo una bella classetta. La scuola migliore è quella che dice: che bella classe, non ne abbiamo perso nemmeno uno.

4. La scuola peggiore è quella che dice: c’è chi è nato per zappare e c’è chi è nato per studiare. La scuola migliore è quella che dimostra: questo è un concetto veramente stupido.

6. La scuola peggiore è quella che dice: ho insegnato matematica io? Sì. La sai la matematica tu? No. 3, vai a posto. La scuola migliore è quella che dice: mettiamoci comodi e vediamo dove abbiamo sbagliato.

9. La scuola peggiore dice: ah com’era bello quando i professori erano rispettati, facevano lezione in santa pace, promuovevano il figlio del dottore e bocciavano il figlio dell’operaio. La scuola migliore se li ricorda bene, quei tempi, e lavora perché non tornino più.

Una blogger italiana ha redatto un “contro-elenco”: 1. La scuola migliore è quella che valuta i meriti in modo oggettivo. Finché le lodi all’Esame

di Stato si sprecano laddove i risultati dell’Ocse smentiscono l’eccellenza, la valutazione non sarà mai oggettiva.

2. La scuola migliore è quella che non boccia se può garantire agli allievi un prosieguo degli studi volto a perfezionare l’apprendimento e a consolidare le conoscenze, competenze e abilità. Promuovere ragazzi con delle evidenti carenze non fa il loro bene ma solo il loro danno.

4. La scuola migliore è quella in cui anche chi sembra nato solo per zappare sia messo in condizione di imparare ad esprimere concetti elaborati, ad usare la testa per aspirare ad occupazioni future anche manuali, purché al “lavoro delle braccia” si accompagni anche quello della mente.

6. La scuola migliore è quella che si mette in discussione prima ancora di discutere se un allievo meriti un 3 in matematica o in qualsiasi altra materia.

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9. La scuola migliore è quella in cui la serenità di giudizio è la garanzia di una valutazione in base ai meriti degli studenti e non al 730 dei genitori. Entrambi gli elenchi ci portano a riflettere molto su come sta la nostra scuola e come il concetto di valutazione e di bocciatura possono cambiare di sfumatura e valore in base a come vengono osservati.

10. I voti e le bocciature fanno male agli studenti e alla scuola, di Franco Lorenzoni, insegnante Alla fine i voti sono rimasti anche nella scuola primaria e media. Ministra e governo hanno avuto paura di andare contro l’opinione prevalente degli insegnanti, già abbondantemente irritati per alcune pessime conseguenze della legge della buona scuola, e contro diversi opinionisti di peso, che vedono nei voti e nelle bocciature i simboli di una scuola seria e rigorosa. Insegno nella scuola elementare da 38 anni e continuo a domandarmi come sia concepibile affibbiare a un bambino un voto in geografia, italiano o matematica nei primi anni di scuola. A chi stiamo dando quel voto? Al grado di istruzione della sua famiglia? Al grado di ascolto che hanno avuto le sue prime parole a casa? Alle esperienze che ha avuto la fortuna di fare? Al destino che ha fatto giungere proprio qui la sua famiglia da campagne analfabete o dalle periferie di qualche megalopoli africana o asiatica? Sono convinto che quei voti non abbiano alcuna giustificazione e non contengano alcun valore pedagogico. Eppure un peso ce l’hanno, eccome! È a partire da quei primi voti, attesi da casa con sempre maggiore trepidazione, che la bambina o il bambino comincerà a scivolare e collocarsi, come la pallina di una roulette, dentro alla casella data da una classifica arbitraria di presunti meriti, che aumenteranno o avviliranno grandemente la sua fiducia in se stesso. I dispettosi ai posti di comando Ci apprestiamo quest’anno a celebrare i cinquant’anni della Lettera a una professoressa, scritta nel corso di un lavoro durato mesi da un gruppo di ragazzi contadini delle montagne del Mugello, guidati da don Lorenzo Milani nel suo ultimo anno di vita. “Non c’è nulla che sia ingiusto quanto far le parti uguali fra disuguali”, è scritto in quelle pagine. E ancora: “La scuola ha un problema solo. I ragazzi che perde. La vostra ‘scuola dell’obbligo’ ne perde per strada 462.000 l’anno. A questo punto gli unici incompetenti di scuola siete voi (insegnanti) che li perdete e non tornate a cercarli”. A cinquant’anni di distanza da quell’accorata denuncia la nostra scuola perde ancora il 15 per cento di ragazzi e, se si considerano separatamente i maschi, la cifra supera il 20 per cento, anche se è leggermente calata negli ultimi anni. “Una scuola che seleziona distrugge la cultura”, prosegue la Lettera . “Ai poveri toglie il mezzo d’espressione. Ai ricchi toglie la conoscenza delle cose. (…) Voi dite d’aver bocciato i cretini e gli svogliati. Allora sostenete che Dio fa nascere i cretini e gli svogliati nelle case dei poveri. Ma Dio non fa questi dispetti ai poveri. È più facile che i dispettosi siate voi”. Oltre il 50 per cento di adulti non è in grado di intendere un testo scritto minimamente complesso Di dispettosi la scuola ne ha conosciuti e ne conosce purtroppo molti, a partire dai posti di comando. Basti ricordare che dieci anni fa, quando Giulio Tremonti faceva il ministro dell’istruzione con la faccia di Mariastella Gelmini, l’Italia fu l’unico paese in Europa a ridurre drasticamente la spesa in istruzione, sottraendo alla scuola di base più di otto miliardi: quasi una

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� �finanziaria sulle spalle dei più piccoli. Lo stesso Tremonti, che aveva esaltato il ritorno all’antico con il fascistoide “Un maestro, un libro, un voto”, dovette ricredersi e affermare in una intervista che, effettivamente, la nostra scuola elementare era di qualità, “ma non possiamo permettercela”. A un paese che, al di là di tante promesse non mantenute del governo Renzi, continua a non riuscire a permettersi una scuola degna di questo nome – come spazi, come tempi, come qualità di formazione dei suoi docenti – dovremmo domandare tutti con forza quale futuro stia preparando per i suoi cittadini, dato che oltre il 50 per cento di adulti non è in grado di intendere un testo scritto minimamente complesso. Epidemia valutativa Siamo tornati al 2008 perché è allora che fu reintrodotto nella scuola elementare il voto decimale, impunemente spacciato come presunto ritorno alla serietà. Va detto con onestà che allora quel ritorno fu accolto con grande indifferenza e diffusa soddisfazione dalla maggioranza degli insegnanti. Se proviamo a entrare dentro al dettaglio del voto scopriamo che, intorno alla proposta cassata del superamento dei voti decimali e della bocciatura alla scuola media, si sono agitati in questi mesi aggressivi fantasmi, che bene esprimono una idea di scuola e di società che, in nome del merito, accoglie come inevitabile la selezione e l’espulsione dei più deprivati. Socialmente la scuola primaria oggi è un luogo delicatissimo, una sorta di pronto soccorso culturale – e interculturale – tanto necessario quanto fragile. È qui che si prova a costruire a fatica, giorno dopo giorno, una prima risposta al dettato dell’articolo 3 della costituzione, che invita a rimuovere gli ostacoli che trasformano le differenze in discriminazioni. È nelle sue aule che il 20 per cento di bambini stranieri accede, spesso a fatica, a un uso articolato della lingua italiana ed è qui che molte insegnanti, quasi tutte donne, si cimentano con dedizione e persuasione a realizzare ciò che nessuno sa ancora bene come fare: costruire una relazione viva con la cultura e articolare un uso di strumenti logici capaci di aiutare a intendere la storia e i fatti del mondo, attraverso un insieme di conoscenze elementari da costruire insieme, con gruppi di bambini assai disomogenei. Operare in questo modo è straordinariamente difficile perché comporta la creazione di una piccola comunità solidale, capace di ascolto reciproco. Esattamente il contrario di ciò che accade fuori dai muri della scuola, nelle strade di città in cui cresce sempre più la diffidenza, l’intolleranza, l’arrogante pretesa di difendere i propri piccoli o grandi privilegi particolari. Diversità è bellezza può essere un bello slogan, ma rischia facilmente di scivolare nella retorica se non ci diciamo quanto la convivenza tra diversi comporti fatica, lavoro, impegno e una grandissima creatività nel sapere affrontare giorno per giorno difficoltà di ogni genere, che non provengono solo dalla presenza di tante e diverse lingue e culture, ma da molteplici difficoltà familiari che si riversano nella scuola. La quantità di sofferenze e insofferenze di ogni genere, portate nella scuola da bambine e bambini, sono infatti in continuo aumento. Di fronte a questa sfida culturale, di cui troppo pochi si assumono la portata politica, la scuola appare fragile, talvolta si richiude in se stessa e sembra investita da una sorta di epidemia valutativa. Assistiamo al paradosso di ore e ore di corsi dedicati alla valutazione degli apprendimenti e all’attestazione delle competenze, senza un equivalente impegno a dar vita e sperimentare contesti capaci di costruire le competenze, valorizzando conoscenze ed esperienze diverse che i bambini covano in se stessi. Un mestiere artigiano I bambini hanno un grande bisogno di essere ascoltati, ma spesso noi insegnanti sembriamo non avere tempo sufficiente per questo. Hanno bisogno di vivere esperienze concrete e significative che

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� �coinvolgano il corpo nella sua interezza, devono poter sperimentare momenti di libera espressione e incontrare i più diversi linguaggi, lontano da giudizi che spesso avviliscono la memoria e la percezione di sé. Hanno certamente anche bisogno di conoscere le difficoltà che incontrano ed essere sollecitati ad accorgersi e a ritornare su una frase che comunica a fatica un pensiero, un’operazione sbagliata, un ragionamento o collegamento privo di coerenza logica. Ma queste necessarie sottolineature delle difficoltà che ciascuno incontra, si possono fare con un appunto a margine del foglio, una conversazione condivisa e anche con un punteggio specifico, nel caso di prove strutturate. Il problema è che quando questi dati disomogenei si rapprendono in un voto sul registro elettronico ogni mese o a fine quadrimestre, è pressoché inevitabile che quel numero si incolli al bambino. Così la valutazione, invece di essere un elemento utile a capire qualcosa di più del proprio percorso di apprendimento, si trasforma in un giudizio sul bambino tutto intero, che rischia di restare imprigionato nelle sue incapacità, in una scuola che si trasforma in luogo di impotenze apprese, come le chiama Daniela Lucangeli, che da anni studia con rigore difficoltà e fallimenti nell’apprendimento della matematica. Se la scuola porta i ragazzi a studiare solo per il voto, perdiamo il senso di capire qualcosa di più del mondo e di noi stessi Per quattro anni ho avuto la fortuna di avere un dirigente scolastico sensibile e rigoroso che, negli scrutini e consigli di classe di elementari e medie, chiedeva di evidenziare nei ragazzi solo ciò che sapevano fare, pretendendo che tutti noi insegnanti si facesse lo sforzo di imparare a osservare le competenze che ciascun ragazzo aveva o stava sviluppando, arginando le pigre lamentele di chi si ferma a considerare le inevitabili mancanze e perpetua la vieta discussione se sia meglio punire per fargliela vedere o stimolare un cambiamento di atteggiamento con un voto di incoraggiamento. È il voto stesso che va messo radicalmente in causa perché, se la scuola porta i ragazzi a studiare solo per il voto, perdiamo tutti il senso del ricercare insieme e cercare di capire qualcosa di più del mondo e di noi stessi. Non è possibile, infatti, che noi insegnanti non ci si assuma la nostra parte di responsabilità di fronte agli oltre due milioni di giovani che nel nostro paese non lavorano e hanno smesso di studiare. Che non trovino lavoro è un problema immenso, ma che non ritengano lo studio un luogo dove potere crescere e abbiano perso ogni fiducia riguardo alla bellezza del conoscere e del costruire l’autonomia del proprio pensare, è un nodo culturale di cui non possiamo non farci carico. Il nostro è un mestiere artigiano in cui dobbiamo avere la pazienza e il coraggio di mettere a punto gli strumenti del nostro operare ogni volta, perché ogni gruppo di bambini o ragazzi è un organismo complesso, composto da difficoltà e potenzialità sempre nuove, per affrontare le quali non ci sono ricette belle e pronte. Ora la difficoltà maggiore che incontriamo sta nel sapere osservare con cognizione di causa il contesto in cui agiamo, accorgendoci quanto lo condizioniamo. Nella maggioranza dei casi, infatti, la relazione con il sapere e la motivazione al conoscere e al mettersi in gioco di bambini e ragazzi passa per il corpo di noi insegnanti, passa per i nostri atteggiamenti e comportamenti, spesso inconsapevoli. Ecco perché la trasformazione della classe in una comunità capace di ascolto reciproco non è altra cosa dall’approfondimento personale delle conoscenze. Non ci sono quelli della scuola seria, che si preoccupano dei contenuti, e quelli della scuola buona che privilegiano le relazioni e lo star bene. Le due cose sono strettamente legate checché ne pensi Paola Mastrocola o il loquace Gruppo di Firenze per la scuola del merito e della responsabilità. La domanda intorno a cui lavorano le

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� �insegnanti più serie e persuase è questa: quali sono le condizioni perché un bambino arrivi a pensare che, se in classe un suo compagno ha qualche difficoltà e resta indietro, la cosa lo riguarda? La risposta più affilata ai sostenitori del ritorno alla bocciatura l’ha data Cinzia Mion, una dirigente scolastica del Movimento di cooperazione educativa ormai in pensione. Chissà perché leggendo il manifesto del Gruppo di Firenze contro l’abolizione dei voti e il divieto di bocciare mi è venuto subito in mente un gioco di Eric Berne dal titolo molto eloquente: Ti ho beccato, figlio di puttana. Chissà perché mi viene in mente che nella teoria dei giochi di Berne, consistenti in transazioni complementari per ottenere un risultato ben prevedibile, il tornaconto personale del gioco dalla denominazione un po’ faceta è la vendetta. Chissà perché a proposito della ineludibile dose di sadismo, che trapela da tutto ciò, mi viene in mente l’analisi di Kaes quando afferma: ‘La passione che anima le attività di formazione al di là di ogni dottrina e ogni ideologia, è da attribuirsi al fatto che il desiderio di formare è un’emanazione della pulsione di vita: si tratta di creare la vita e di mantenerla. Ma insieme alla pulsione di vita e in lotta con essa sono costantemente all’opera le pulsioni distruttive. Il desiderio di dare la vita si intreccia con il desiderio di distruggere l’essere in formazione che sfugge al formatore, che ferisce il suo narcisismo resistendogli, non piegandosi a diventare l’oggetto ideale desiderato. Questa ambivalenza marca profondamente gli atteggiamenti degli insegnanti proprio in quanto formatori. (…) Chissà perché mi risuonano alle orecchie le lamentele di un’insegnante famosa per il suo rigore, paladina della bella lezione trasmissiva che delusa esclama ‘i ragazzi non ti seguono più’… e non le passa nemmeno per la testa di ‘autointerrogarsi’. L’invettiva motivata di Cinzia Mion amplifica l’eco di un documento sottoscritto dall’Mce e da diverse associazioni professionali di insegnanti di diverso orientamento. È l’appello Voti a perdere, sottoscritto da oltre duemila insegnanti. Certo, la trasformazione dei voti in lettere non avrebbe cambiato le cose di per sé, ma avrebbe forse favorito il tornare a ragionare a fondo, con radicalità e urgenza, sulle conseguenze discriminatorie della troppo diffusa valutazione punitiva. I dati ci dicono infatti che un ragazzo bocciato moltiplica di oltre dieci volte la probabilità di andare ad aumentare le percentuali della dispersione scolastica, altissime nelle periferie di molte nostre città. I ragazzi che oggi smettono di studiare hanno caratteristiche quasi opposte rispetto ai figli dei contadini di montagna di cui si occupò con totale dedizione don Lorenzo Milani. Vivono infatti la loro forzata inattività circondati da gadget e cellulari. Figli di un consumismo forsennato e dissennato, sono aggrediti fin nell’intimo da altre forme di povertà culturali e relazionali, forse ancor più difficili da contrastare. Eppure, 50 anni dopo, anche per loro vale la denuncia dei ragazzi del Mugello: “La scuola è un ospedale che cura i sani e respinge i malati”.

11. Perché il registro elettronico è un' illusione educativa di Mariapia Veladiano Voti e assenze online permettono ai genitori di controllare tutto in tempo reale e da casa, ma così si smaterializzano i rapporti e vengono meno l'incontro e la fiducia

Sembra una formula magica di minaccia, invece è un progetto di innovazione che coinvolge tutta la scuola italiana. Prevede iscrizioni e certificati online, pagelle elettroniche, registri di classe e personali in formato elettronico. Si chiama "Piano per la dematerializzazione delle procedure amministrative in materia di istruzione, università e ricerca e dei rapporti con le comunità dei docenti, del personale, studenti e famiglie". Da questo anno scolastico tutto ciò è obbligatorio, però nel modo in cui sono obbligatorie le innovazioni in Italia, ovvero "senza nuovi o maggiori oneri a

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� �carico della finanza pubblica". Il che vuol dire che abbiamo tutto il tempo di farci sopra una riflessione. Si può parlar male del registro elettronico? O almeno guardar dentro a qualche suo effetto collaterale? La domanda non è se funziona o non funziona. Alla fine certo che sì. Dopo aver trovato le risorse per acquistare o affittare i notebook per tutte le aule di tutte le scuole del regno e per pagare i contratti alle aziende incaricate di risolvere i pluriquotidiani problemi tecnici e di garantire assistenza continua, dopo aver formato tutti gli insegnanti, governato le rivolte per lo stress iniziale da voti scomparsi e da password smarrita, blindato il sistema contro allievi-piccoli-hackerinformatici, alla fine funziona. Poi è un attimo trovare il quadro complessivo dei voti, la media della classe, della scuola, per materia, per provenienza geografica, per sesso, le assenze, le note, i ritardi, ancora per materia e per sesso. Per appartenenza religiosa e situazione sanitaria in teoria no, perché son dati sensibili. Ma il resto sì. Fin qui siamo (tutti) contenti. Si chiama efficienza ed è proprio da conoscere quello che vorrebbe compilare le pagelle a mano come pochi anni fa ancora capitava. Scrivere i voti uno a uno, e anche le assenze, decine di volte in decine di documenti. No no. Mai più. I voti e le assenze. Il registro elettronico permette di vedere online i voti e le assenze. I genitori dei ragazzi accedono con password e sanno in diretta, in tempo reale, se il figlio è a scuola o no, quale voto ha preso, in quale materia, la media, le note disciplinari, gli esiti intermedi e finali. Tutto tutto. Quel che altrimenti o comunque avrebbero saputo andando a colloquio con i docenti. Lo sanno da casa. Dall'ufficio. Da smartphone. Dove il registro elettronico c'è da un po', capita che i genitori non si facciano più vedere ai colloqui con i docenti o alle riunioni della Consulta, basta il voto letto sul video, la media la sanno fare da sé. Come se la valutazione fosse cosa di numeri: niente storia di una conquista da raccontare e condividere, niente alleanza educativa da concordare. La scuola in numeri: quattro-cinque-sei. Oppure i genitori a scuola ci vanno, ma vanno a fine quadrimestre e a fine anno, a contestare il voto in pagella, perché non rispetta la media dei voti monitorata per mesi online. Come se il processo di apprendimento e crescita potesse diventare un numero appunto. Con bel margine di paradosso, in anni in cui la crisi di partecipazione investe la scuola come tutta la realtà sociale e in cui nascono progetti per riportare i genitori a sentire la scuola realtà propria, a sentire che il "noi" della scuola comprende tutti, noi e loro. Questa iperconnessione sembra ratificare che quel che resta sono i rapporti immateriali. Una spiritualizzazione tecnologica. Fede in una tecnologia che sostituisce la relazione con la connessione. Sicuri che questo sia bene? È possibile che senza ben pensarci si stia avvalorando un vuoto tremendo. Vuoto di parole dette, di fiducia conquistata. Di fiducia. Non solo fra scuola e famiglie, ma forse e di più fra genitori e figli. Anche se il figlio non parla di scuola, con il registro elettronico il genitore comunque "sa" quel che conta. Il voto. L'assenza. Il marinare la lezione. Subito. L'istante che ci domina. Non c'è per il ragazzo quel tempo sospeso tra ciò che capita e il momento in cui se ne deve o può parlare. Il tempo di pensare, il dispiacere per il voto preso, il proposito di rimediare, il dire sì, è un brutto voto, ma con la promessa già pronta: sto studiando, domani mi faccio interrogare. O sperare che l'impulso di una mattina in fuga da scuola non sia scoperto. Capire da sé che non va bene. Poter ricominciare da un voto non scoperto e riparato, da un bigiare di cui ci si dispiace da soli. Come non c'è per i genitori il tempo per dedicare attenzione a quel che capita, interpretare i segnali, le parole non dette, aspettare quelle che possono arrivare se si lascia il tempo, appunto, e decidere che va bene, stavolta passa, perché il figlio ha capito, e poi vediamo.

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� �Sapere tutto subito placa l'ansia ma non sostituisce la fiducia. Codifica un terreno di ambigua trasparenza. In cui abita anche lo studente che infrange le regole. Uno studente che manometteva o bruciava il registro di classe cartaceo era limpidamente un mascalzone. Uno che viola il registro elettronico è in una confusa posizione di genialità male utilizzata. La notizia recente è che uno di questi studenti nello stesso giorno ha ricevuto, per il suo gesto di hackeraggio scolastico, dalla scuola una sanzione e da un'azienda informatica un'offerta di lavoro. In una scuola che ha soprattutto bisogno di alleanze concretissime di idee, persone e risorse, il registro elettronico può diventare un abbaglio che ci permette ancora una volta di non vedere quel che capita. Una fondamentale vita di relazioni che si perde. Chi lavora a scuola conosce l'importanza di guardare dritto dritto lo studente, a me gli occhi, nel momento in cui si scopre la firma falsa sull'assenza. Il decidere se dirlo o non dirlo al genitore o al ragazzo stesso, se far capire che si è capito, con lo sguardo che parla al posto delle parole, e basta quello, per sempre. Più avanza il possibile della tecnologia, più bisogna custodire la materialità delle relazioni. La relazione educativa è incontro. Incontrarsi è un argine all'idea che tutto possa esaurirsi nella virtualità di un rapporto online. Forse è di moda lasciarsi con un sms, a volte anche senza nemmeno quello. Di certo sarebbe indecente bocciare un ragazzo attraverso una comunicazione via web. La smaterializzazione (orrenda parola, vorrà dire qualcosa il fatto che sia così brutta la parola? Le parole contano, eccome) della scuola può andar bene per l'efficientamento (e qui il lessico vira verso l'horror, ma sta scritto proprio così) delle carte e procedure, certo non per i rapporti, che hanno bisogno del corpo. Gli occhi che scappano, le mani che da adolescenti non si sa dove mettere, la voce che dice la verità, le parole che spiegano, tante parole che spiegano come la fiducia è qualcosa che si costruisce fra persone che si incontrano e parlano, non su un computer che ci denuncia

12. "Bocciare? Inutile e dannoso". E in Italia i respinti sono troppi, di Salvo Intravaia

Uno studio dell'Ocse sui test Pisa. Colpiti soprattutto i più svantaggiati. Nel nostro Paese nei primi anni ripete oltre il 17%, cinque punti in più della media europea

La bocciatura, a scuola, non serve a niente. E nel nostro Paese si boccia un po' troppo. A sostenerlo è l'Ocse che ha recentemente pubblicato un approfondimento sui test Pisa - acronimo di Programme for International Student Assessment (Programma per la valutazione internazionale dell'allievo) - svolti nel 2012: il test internazionale che saggia le competenze dei quindicenni in Lettura, Matematica e Scienze. Il titolo del focus numero 43 è emblematico: "Gli studenti svantaggiati hanno più probabilità di ripetere l'anno?". La risposta sembra essere affermativa. E questo aspetto induce gli esperti dell'Ocse - l'Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico - a sostenere che non è la sola preparazione e determinare l'insuccesso scolastico. E che sarebbe meglio, anziché bocciare, dedicare più attenzione agli studenti fragili. Nei paesi Ocse, il numero degli quindicenni che ha riferito di avere ripetuto l'anno almeno una volta prima dei quindici anni è pari al 12,4 per cento: uno su otto. Percentuale che sale al 20 per cento tra i meno abbienti. "Anche tra studenti con rendimento scolastico simile, la probabilità di ripetere un anno è una volta e mezzo superiore per gli studenti svantaggiati", spiegano da Parigi. E in Italia? Nel Belpaese, gli alunni con una bocciatura sul groppone, rimediata alla media, nei primi anni delle scuole superiori o addirittura all'elementare, sono più di 17 su cento. Un dato che è in crescita di due punti rispetto a dieci anni prima. E tra i meno fortunati, provenienti da contesti

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� �socio-economici e culturali deprivati, il tasso di ripetenze sale al 26 per cento. In Giappone, Malesia e Norvegia, gli studenti intervistati non hanno riferito bocciature. In 24 paesi Ocse le bocciature si mantengono al di sotto del 5 per cento. Ma in alcuni paesi - come Francia, Germania, Portogallo e Spagna - il tasso di ripetenze schizza su valori superiori al 20 per cento raggiungendo e superano anche il 30 per cento. Ma gli esperti Ocse non hanno dubbi: "Molti paesi - spiegano - stanno trovando altri modi di aiutare gli studenti in difficoltà". Perché "la bocciatura, in pratica, non ha evidenti benefici indicati per gli studenti o per i sistemi scolastici nel suo complesso". "La bocciatura è un modo costoso di affrontare il problema degli insuccessi: fermando gli alunni la probabilità che abbandonino gli studi sale". "Alcuni paesi che avevano usato la bocciatura in modo massiccio hanno rivisto tale politica a favore di un maggiore sostegno intensivo e precoce nei confronti degli studenti in difficoltà". In altre parole, "la ripetizione dell'anno non offre alcun evidente beneficio per le prestazioni complessive di un sistema scolastico perché, come i risultati del Pisa mostrano, gli alunni appartenenti ad un contesto socio-economico svantaggiato hanno più probabilità di ripetere l'anno. E la bocciatura può anche rafforzare le disuguaglianze nel sistema". Che fare, allora? Occorre "offrire ore di insegnamento supplementare agli studenti che rischiano la bocciatura, adattando l'insegnamento alle loro esigenze in modo che possano recuperare il ritardo con i loro coetanei. Un modo di gran lunga migliore di sostenere gli studenti con difficoltà di apprendimento o problemi comportamentali".

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13. Dalle proposte di modifica del sistema scolastico nazionale (a cura dell’Associazione Comunità Papa Giovanni XXIII e del Gruppo di Ricerca per la Scuola del Gratuito) 1) Strumenti per lo sviluppo di un’educazione attiva, motivante e cooperativa Abolizione del voto numerico per la valutazione in itinere e sommativa nel primo ciclo scolastico. Il voto rappresenta per gli studenti la causa di ansietà maggiore che ne riduce la capacità di performance. Dai nostri studi e dalla letteratura pedagogica si ricava che laddove al posto del voto (numeri o lettere o altro equivalente) si instaurino forme di valutazione dialogica il rendimento nell’apprendimento migliora in percentuali notevoli. Nazioni come la Norvegia e la Finlandia hanno già adottato possibilità diverse dal voto e la Francia si sta avviando sulla stessa strada. Secondo la nostra esperienza, risulta efficace e motivante valutare sia le prove di verifica che il percorso periodico con uno scritto in forma di lettera ( Caro Mario……) in cui siano evidenziati i punti di forza e i punti deboli e il lavoro da fare per migliorare. Un tale modo di valutare appare molto più stimolante in quanto non pone l’attenzione dei ragazzi sul “quanto sono stato bravo o somaro” ma sul processo di sviluppo risultando quindi più incoraggiante e meno legato alla competizione tra pari. Il desiderio di correggere i propri errori cresce perché lo studente non si sente più pressato dalle medie e dalla finalizzazione di tutto il suo studio alla promozione ma al piacere di migliorare e di crescere in relazione alle sue capacità e alla sua personalità. L’attenzione si sposta dal “prodotto” al “processo” così come raccomandato dall’influente pensiero di Maria Montessori. Anche le forme di verifica degli apprendimenti dovranno pertanto essere meno legate alla schematicità funzionale al voto ( test, domande a risposta chiusa…. ) ma impostate in forma dialogica, colloquiale, espositiva.

14. Quando la didattica si libera del voto - Ferdinando Ciani Le scienze sono una materia di studio interessante per gli allievi ma solo in via teorica; quando si tratta di studiarle l’interesse sopravvive poco come per qualsiasi altra disciplina scolastica. Ciò che rende ostico lo studio scolastico non sono ovviamente le discipline in se, che possiedono comunque ciascuna il proprio fascino, quanto il fine per cui studiare cioè per subire un giudizio e il modo passivo di apprendere, dalla cattedra ai banchi. Pensate di leggere un romanzo sapendo che qualcuno ci interrogherà su esso e ci darà un giudizio critico in base alle risposte che sapremo dargli; leggeremmo mai più volentieri e con passione un libro? E infatti i giovani non leggono più: la scuola con la sua ossessione di trasmettere, verificare e giudicare mette in odio il sapere ai ragazzi. Nello scorso anno scolastico in una classe seconda di scuola media, avendo già ottemperato alla sacra regola delle due verifiche di minimo a quadrimestre, ho proposto ai miei studenti di occuparci di scienze in modo diverso, senza pensare a prove di valutazione, interrogazioni e voti. Dopo un primo momento di dubbio e di legittima diffidenza, rassicurati da me, insegnante notoriamente contrario al voto, i ragazzi hanno scelto liberamente l’argomento di ricerca: la malacologia cioè lo studio e classificazione delle conchiglie. Essi avevano visto che nel nostro laboratorio di Scienze giacevano in una scatola, abbandonati e caoticamente ammassati, numerosi reperti raccolti da chissà chi e quando. Dall’idea di sistemarli alla pratica il passo è stato breve; a più riprese per circa un mese la classe si è divisa in gruppi nel laboratorio e negli ambienti circostanti per portare a termine il lavoro. Muniti di manuali hanno ordinato per somiglianze e classificato i reperti, costruito le scatole per contenerli, fotografato i campioni, costruito schemi al computer, scritto una relazione sul lavoro svolto. Poi un’uscita in spiaggia per raccogliere altri reperti da aggiungere ai primi. Il lavoro è stato ottimo; i ragazzi hanno saputo collaborare attivamente e senza miei suggerimenti arrivare ad una classificazione corretta. Nonostante fossero liberi di circolare su un intero piano dell’edificio per scambiarsi manuali e materiali non si sono create situazioni di confusione tali da richiedere il mio intervento, tutto è filato liscio, tutto è stato funzionale al lavoro. La difficoltà maggiore è stata la costruzione delle scatole per sistemare i campioni ma nei momenti di scoraggiamento alcune ragazze di altri gruppi si sono offerte spontaneamente di aiutare il gruppo in difficoltà in perfetto stile cooperativo senza necessità di consultarsi con il prof. Questa attività gratuita, non dettata cioè dalla necessità di superare una verifica o di prendere un voto, svolta in forma laboratoriale e cooperativa dimostra come sia possibile raggiungere risultati didattici ed educativi molto migliori stimolando la motivazione intrinseca e offrendo modalità didattiche attive. Attraverso un

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tema portante, in questo caso la classificazione di campioni, gli allievi hanno messo in cantiere una serie di abilità, di osservazione, di analisi , di sintesi, di interpretazione, abilità manuali, organizzative, artistiche, espressive, informatiche, abilità relazionali, di autocontrollo e di lavoro cooperativo, acquisito conoscenze biologiche e linguistiche (ad esempio elementi di latino lingua scientifica). Hanno imparato molto divertendosi, sentendosi liberi di scegliere e di relazionarsi, investiti di fiducia e responsabilità, premesse fondamentali per una conoscenza desiderabile e lo sviluppo di una vitale voglia di crescere.

Io sto con i bocciati - Alex Corlazzoli Nei giorni scorsi, di prima mattina, due miei ex alunni mi hanno chiamato per annunciarmi che erano stati promossi, nonostante fossero consapevoli delle loro difficoltà. Grandi! Ce l’hanno fatta. Ma poi sono andato a vedere il tabellone davanti alla scuola media…..E sono diventato triste, molto triste avedere quel “NON AMMESSO” accanto a tanti nomi, persino vicino a chi pensava di essere arrivato al termine del percorso. Mi son tornate in mente le parole di don Lorenzo Milani: “Se si perde loro la scuola non è più scuola. E’ un ospedale che cura i sani e respinge i malati. Diventa uno strumento di differenziazione sempre più irrimediabile”. Oggi provo rabbia per quei ragazzi che si sono trovati una negazione davanti al loro nome. Ma che caspita pensano questi professori? Si sono messi nei loro panni? Io non ammetterei più questi insegnanti a scuola e fare una lista dei loro nomi con accanto, per esempio “prof. Mario Rossi NON AMMESSO ALL’INSEGNAMENTO”. Queste parole, prima di scriverle qui, le ho postate sulla mia pagina Facebook e nel giro di poche ore sono stato contattato da migliaia di ragazzi che mi hanno anche scritto in privato, chi per manifestare il suo apprezzamento, chi per insultarmi. Quest’ultimi sono chiaramente i più interessanti. Mi scriveAlessandro: “Dovrebbero bocciare di più. Dopo arrivano al lavoro che non sono in grado di scrivere una lettera commerciale. Tanto li fermano all’università”. E Marco che avrà più o meno 15-16 anni: “Gente che si spacca il filo per otto mesi deve essere paragonata a quelli che se ne fregano. Già che l’Italia fa schifo e pure i giovani. Passiamo anche quelli che non vogliono fare un cazzo…. siamo nella merda. Meritocrazia cazzo”. E Carlo: “In classe con me alle medie ne hanno bocciati solo due (con almeno otto che meritavano di essere erosi dalla faccia della terra) e quei due erano lavativi, stupidi e ignoranti. Promuoverli sarebbe stato come sputare in faccia ai ragazzini seri”. Potrei continuare con altri messaggi dello stesso tenore Il problema è: cos’è la meritocrazia in questo Paese? E’ la selezione della specie? O forse è arrivata l’ora di chiedersi se la scuola offra pari opportunità a tutti. Il sociologo Milton Roemer traduce così: non si tratta di appiattire le differenze e le qualità individuali, ma di livellare il campo di gioco. Il nostro campo-scuola è livellato? Caro Carlo, riguardo a quei due “lavativi, stupidi e ignoranti”,ti sei mai chiesto perché siano così? E ora che sono stati bocciati, cosa offrirà loro la scuola? Grazie alla non ammissione diventeranno intelligenti? O forse ritieni che bastiespellerli dalla scuola e dalla società per definire la soluzione? E tu, Alessandro, lo sai che quei ragazzi bocciati non arriveranno neanche all’università? Certo, tu sarai solo contento, ma noi, noi società, li avremo persi. Andranno a finire in quella che per te è solo una percentuale, ma per me è un numero che rappresenta uomini che magari un giorno potrei ritrovarmi in istituto di detenzione o in una comunitào semplicemente in un bar davanti alle macchinette da gioco. A questi ragazzi la scuola deve delle risposte diverse da quelle che ha offerto fino a oggi: queste risposte spesso potrebbero essere fornite da insegnanti che sappiano entrare nella loro psicologia, andare di là dell’etichetta “fannulloni”; altre volte, invece, laboratori dove questi giovani possano mettere in pratica altre competenze. Insomma, un’altra scuola perché la scuola non può essere uguale per tutti. Lo ha espresso chiaramente un dirigente scolastico di un istituto nella provincia di Udine, Aldo Durì, che in questi giorni di fronte ai troppi bocciati, in un’intervista al Messaggero Veneto, ha detto: “Attenzione, i ragazzi respinti (non pervenuti nemmeno alla fase di scrutinio a causa delle eccessive assenze,ndr), che conosco personalmente, non sono fannulloni che hanno marinato la scuola. Nella gran parte dei casi sonovittime di stati ansiosi, di sindromi depressive, di attacchi di panico legati alla frequenza scolastica. Ci sono ragazzi che recalcitrano come muli di fronte alle porte della scuola, ragazzi che si chiudono in casa, studenti che ricorrono perfino all’autolesionismo per manifestare il loro malessere. Non basta dire che sono ragazzi fragili e privi di carattere: una diagnosi banale che assolve tutti. Talvolta è la scuola a essere poco accogliente. Più di sovente sono le pressioni e le aspettative eccessive dei genitori a provocare le ansie da

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prestazione di questi adolescenti. Temo che i professori delle superiori non abbiano capito che il primo biennio è scuola dell’obbligo e, in quanto tale, deve fornire le competenze di base e che nella scuola dell’obbligo, come nelle primarie e nelle medie, nessuno può essere lasciato indietro. Sono stanco – conclude – di salvare la sopravvivenza di una scuola i cui docenti sembrano solo impegnati a decimare la popolazione scolastica e a scoraggiare le iscrizioni”.