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Chiara Concina ISSN 1540 5877 eHumanista/IVITRA 7 (2015): 42-65 Appunti sui miti di Consolatio IV, m. 7, nella traduzione catalana Saplana-Ginebreda (ms. Münich, BSB, Cod. Hisp. 145)* Chiara Concina Università di Verona 1. Il volgarizzamento Saplana-Ginebreda della Consolatio Philosophiae È noto che il recupero medievale degli exempla e delle fabulae tratti dalla tradizione classica tende a riappropriarsi e ad amplificare gli elementi che si prestano all’allegoresi in chiave moralizzante, tendenza questa accentuata dalla pratica scolastica da un lato e dall’altro dalla poderosa tradizione esegetica che si coagula nei commenti latini che attorno a questa pratica fioriscono. Questo fenomeno viene continuato con successo anche nei volgarizzamenti degli auctores, per cui la Consolatio di Boezio offre un caso esemplare. Si tratta quasi sempre di un’ulteriore riscrittura, di una nuova metamorfosi dell’opera, in cui i materiali derivanti dal patrimonio dell’esegesi latina sono ricomposti e rielaborati nel processo di traduzione, in una situazione che è spesso quella della contaminazione e dell’ibridismo. Nei commenti latini prima (Courcelle, 239-344) e in quelli volgari poi si stratificano, mediante l’assembaggio di elementi compositi, differenti livelli testuali, tanto che spesso ci troviamo dinnanzi a un’amalgama di materiali cronologicamente e culturalmente eterogenei, le cui fonti sono difficilmente rintracciabili. I commenti lavorano in direzione di un’interpretazione cristiana dei miti classici in chiave sia evemeristica che allegorica. Le narrazioni pagane vengono rimodellate, e in alcuni casi arricchite mediante l’introduzione di elementi estranei al testo originale o mediante amplificatio della fonte, senza peraltro perdere mai di vista la nozione cruciale di integumentum, dispositivo ermeneutico che stempera la pericolosa eterodossia delle favole del mondo antico assicurandone la compatibilità con il dogma cristiano. 1 L’attività di traduzione della Consolatio Philosophiae di Boezio in epoca medievale si configura come un fenomeno di grande rilievo, per qualità e quantità, soprattutto per quel che riguarda lo spazio culturale romanzo, all’interno del quale si distinguono per numero e precocità di apparizione i volgarizzamenti galloromanzi, seguiti, nell’ordine, da quelli di area italiana e iberica. 2 Per quel che riguarda quest’ultimo dominio * Ringrazio di cuore Anna Maria Babbi per avermi indicato “la carrera e lo camí” boeziani e catalani. Sono grata a Vicent Escartí e a María Pardo Vuelta per la preziosa consulenza linguistica, e a Carmen Olmedilla Herrero per avermi generosamente messo a disposizione la sua edizione del commento latino di Guglielmo d’Aragona. Desidero ringraziare Gemma Avenoza per le indicazioni bibliografiche e Dolores Montagut, direttrice dell’Arxiu Comarcal de la Segarra, per la disponibilità e per la collaborazione profuse nell’inviarmi le riproduzioni dei materiali dell’archivio. 1 Sull’evemerismo si veda l’ormai classico articolo di Cooke; per quel che riguarda le glosse e i commenti al testo di Boezio ci si limita qui a rinviare a Jeauneau e a Nauta (1997). 2 Va ricordato che i volgarizzamenti più antichi del testo boeziano fanno la loro comparsa in area germanica, prima con le due redazioni della traduzione in medio-inglese realizzata nella cerchia di Alfredo il Grande e risalente alla fine del sec. IX (si veda a riguardo l’edizione allestita nell’àmbito dell’Alfredian Boethius Project: Godden & Irvine eds.), seguita da quella tedesca di Notker III di San Gallo, redatta intorno all’anno 1000 (Tax ed.); si vedano anche Palmer, che offre una panoramica d’insieme sulle traduzioni nord europee, da affiancare alle sezioni dedicate alla tradizione e ai volgarizzamenti olandesi e tedeschi di Hoenen & Nauta eds. (89-212 e 287-302) e, più in generale, ai saggi afferenti alle diverse aree europee contenuti in Minnis ed., ma anche al volume di recente pubblicazione Kaylor & Phillips eds. Sulle traduzioni galloromanze del testo boeziano si vedano le schede (e la bibliografia relativa) a cura di Glynnis Cropp e Keith J. Atkinson in Galderisi dir. (vol. 2/1, 377-388, n. 181). Per i volgarizzamenti italiani un sintetico panorama d’insieme si può reperire in

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Appunti sui miti di Consolatio IV, m. 7, nella traduzione catalana Saplana-Ginebreda (ms. Münich, BSB, Cod. Hisp. 145)*

Chiara Concina

Università di Verona

1. Il volgarizzamento Saplana-Ginebreda della Consolatio Philosophiae È noto che il recupero medievale degli exempla e delle fabulae tratti dalla tradizione

classica tende a riappropriarsi e ad amplificare gli elementi che si prestano all’allegoresi in chiave moralizzante, tendenza questa accentuata dalla pratica scolastica da un lato e dall’altro dalla poderosa tradizione esegetica che si coagula nei commenti latini che attorno a questa pratica fioriscono. Questo fenomeno viene continuato con successo anche nei volgarizzamenti degli auctores, per cui la Consolatio di Boezio offre un caso esemplare. Si tratta quasi sempre di un’ulteriore riscrittura, di una nuova metamorfosi dell’opera, in cui i materiali derivanti dal patrimonio dell’esegesi latina sono ricomposti e rielaborati nel processo di traduzione, in una situazione che è spesso quella della contaminazione e dell’ibridismo. Nei commenti latini prima (Courcelle, 239-344) e in quelli volgari poi si stratificano, mediante l’assembaggio di elementi compositi, differenti livelli testuali, tanto che spesso ci troviamo dinnanzi a un’amalgama di materiali cronologicamente e culturalmente eterogenei, le cui fonti sono difficilmente rintracciabili. I commenti lavorano in direzione di un’interpretazione cristiana dei miti classici in chiave sia evemeristica che allegorica. Le narrazioni pagane vengono rimodellate, e in alcuni casi arricchite mediante l’introduzione di elementi estranei al testo originale o mediante amplificatio della fonte, senza peraltro perdere mai di vista la nozione cruciale di integumentum, dispositivo ermeneutico che stempera la pericolosa eterodossia delle favole del mondo antico assicurandone la compatibilità con il dogma cristiano.1

L’attività di traduzione della Consolatio Philosophiae di Boezio in epoca medievale si configura come un fenomeno di grande rilievo, per qualità e quantità, soprattutto per quel che riguarda lo spazio culturale romanzo, all’interno del quale si distinguono per numero e precocità di apparizione i volgarizzamenti galloromanzi, seguiti, nell’ordine, da quelli di area italiana e iberica.2 Per quel che riguarda quest’ultimo dominio

                                                                                                               * Ringrazio di cuore Anna Maria Babbi per avermi indicato “la carrera e lo camí” boeziani e catalani. Sono grata a Vicent Escartí e a María Pardo Vuelta per la preziosa consulenza linguistica, e a Carmen Olmedilla Herrero per avermi generosamente messo a disposizione la sua edizione del commento latino di Guglielmo d’Aragona. Desidero ringraziare Gemma Avenoza per le indicazioni bibliografiche e Dolores Montagut, direttrice dell’Arxiu Comarcal de la Segarra, per la disponibilità e per la collaborazione profuse nell’inviarmi le riproduzioni dei materiali dell’archivio. 1 Sull’evemerismo si veda l’ormai classico articolo di Cooke; per quel che riguarda le glosse e i commenti al testo di Boezio ci si limita qui a rinviare a Jeauneau e a Nauta (1997). 2 Va ricordato che i volgarizzamenti più antichi del testo boeziano fanno la loro comparsa in area germanica, prima con le due redazioni della traduzione in medio-inglese realizzata nella cerchia di Alfredo il Grande e risalente alla fine del sec. IX (si veda a riguardo l’edizione allestita nell’àmbito dell’Alfredian Boethius Project: Godden & Irvine eds.), seguita da quella tedesca di Notker III di San Gallo, redatta intorno all’anno 1000 (Tax ed.); si vedano anche Palmer, che offre una panoramica d’insieme sulle traduzioni nord europee, da affiancare alle sezioni dedicate alla tradizione e ai volgarizzamenti olandesi e tedeschi di Hoenen & Nauta eds. (89-212 e 287-302) e, più in generale, ai saggi afferenti alle diverse aree europee contenuti in Minnis ed., ma anche al volume di recente pubblicazione Kaylor & Phillips eds. Sulle traduzioni galloromanze del testo boeziano si vedano le schede (e la bibliografia relativa) a cura di Glynnis Cropp e Keith J. Atkinson in Galderisi dir. (vol. 2/1, 377-388, n. 181). Per i volgarizzamenti italiani un sintetico panorama d’insieme si può reperire in

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linguistico, le prime traduzioni dal latino verso il castigliano compaiono già verso la fine del XII secolo, mentre “l’Etat Mitjana d’expressió vulgar catalana s’inaugura les darreres dècades del segle XIII” (Badia 1986, 79).3 Uno dei volgarizzamenti iberici più antichi, se non il più antico, del celebre prosimetrum ci è noto proprio grazie a una traduzione catalana, sulla quale venne a breve distanza di tempo allestita quella in castigliano.4 Accanto a questa traduzione, sulla quale si ritornerà a breve, ne vanno ricordate almeno altre quattro: quella in spagnolo del commento latino alla Consolatio di Nicholas Trevet (della seconda metà del secolo XIV, conservata in quattro codici);5 una versione glossata, sempre in spagnolo, detta ‘interpolata’ (tràdita da due manoscritti del XV secolo);6 quella castigliana attribuita a Pero López de Ayala (prima metà sec. XV) e commissionata dal connestabile di Castiglia Ruy López Dávalos (contenuta in cinque codici).7 A quanto appena menzionato si aggiunga infine una perduta traduzione catalana ascritta a Pere Borró.8 In via più generale, le vicende di questi testi sono da inserire nell’accelerazione che investe il fenomeno dei volgarizzamenti in Spagna, riscontrabile a partire dalla seconda metà del XIV secolo, che continuerà a ritmo sostenuto almeno fino alla prima metà di quello successivo.

La redazione originaria del primo volgarizzamento catalano del De Consolatione, databile alla seconda metà del XIV secolo (1358-1362 c.), si deve a Pere Saplana (m. 1365), frate del convento domenicano di Tarragona, che la dedicò all’infante Jaume IV di Maiorca, significativamente e verosimilmente negli anni in cui questi si trovava imprigionato nella fortezza di Castell Nou a Barcellona per ordine di Pere IV il Cerimonioso.9 L’evidenza dell’esistenza di questo testo, convenzionalmente indicato come redazione α,10 sarebbe in prima istanza provata da alcuni stralci di una trascrizione                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                    Albesano (45-53). Utile per un approccio generale anche la panoramica sulla fortuna europea di Boezio proposta in Troncarelli. 3 Sul fenomeno dei volgarizzamenti nella penisola iberica si rinvia a: Russell (dedicato al periodo 1400-1550); Badia (1991); Santoyo (che prende in considerazione il sec. XIV), e, più in generale, a Recio ed.; Wittlin; Paredes & Muñoz eds.; Alberni-Badia-Cabré eds. 4 La bibliografia ad oggi più completa riguardante le traduzioni iberiche di Boezio è fornita in Doñas (2013). Sui volgarizzamenti del prosimetrum realizzati in Spagna e sulla loro circolazione si vedano, oltre al fondamentale Riera i Sans, anche Keightley; González e Saquero Suárez-Somonte; Grapí e Sabaté. Per la presenza del testo latino della Consolatio in area iberica si rinvia qui a Briesemeister, e al censimento di Passalacqua & Smith. 5 L’edizione del ‘Trevet castigliano’ è stato oggetto della tesi di dottorato di Pérez Rosado (1992); a riguardo si vedano anche Weiss (244), e la disamina proposta da Olmedilla Herrero (1992), in cui si nota come in molti punti l’anonima traduzione castigliana del commento di Trevet sia in realtà debitrice alla traduzione del commento di Guglielmo d’Aragona attribuita a Saplana, per cui non si potrebbe più parlare di un ‘Trevet castigliano’ vero e proprio, ma di un testo i cui complessi rapporti con il commento dell’Aragonese da una parte e con la traduzione fatta da Saplana dall’altra risultano ancora da chiarire con precisione. 6 Cfr. Keightley (172-175); Doñas (2006) e (2009). 7 Edita in Cavallero ed. (1994); cfr. anche Keightley (184-187); Pérez Rosado (1993) e (1994, 120-126); Cavallero (1995); Doñas (2007b) e (2010), e Weiss (244-245). Sui problemi di attribuzione di questa redazione si veda la puntuale sintesi di Avenoza (471-472), a cui si rinvia (470-473 e 494) per un quadro aggiornato sui volgarizzamenti castigliani della Consolatio. 8 Per Pere Borró si vedano Riera i Sans (305-307) e Alvar & Lucía Megías (5-8). 9 Su Saplana si vedano Coll (1935); Riera i Sans (299-302, per la datazione di questa redazione); Fàbrega i Escatllar. 10 Si utilizzano le sigle delle due redazioni riprendendo quelle proposte da González Rolán e Saquero Suárez-Somonte e Avenoza; diversa la scelta di Keightley (qui le sigle sono in alfabeto latino), seguita anche da Ziino (2007) – che sostituisce le lettere greche a quelle latine di Keightley –, che invertono invece le due lettere greche utilizzando β per indicare la redazione di Saplana e α per designare la revisione di Ginebreda. Per i mss. si seguono invece le sigle di Keightley, mentre per i codici che sono stati segnalati solo in seguito a questo studio, si adotta la nomenclatura stabilita da Doñas (2007),

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tratta da un manoscritto dell’abbazia di Montserrat, effettuata prima che il manufatto andasse perduto durante la guerra di Indipendenza del 1811-12,11 dai quali si apprende, tra l’altro, che Saplana dichiara di basarsi su un commento a Boezio ascritto (erroneamente) a San Tommaso d’Aquino. Non sembrano ormai esserci più dubbi sul fatto che il testo latino che Pere ebbe sotto mano nel momento in cui si accinse a redigere la sua traduzione fosse in realtà un testimone latore del commento di Guglielmo d’Aragona (seconda metà del sec. XIII),12 come già messo in luce da Tomás González Rolán e Pilar Saquero Suárez-Somonte (323) e ribadito da Francesca Ziino (2007) e Carmen Olmedilla Herrero (1992 e 1997, 3), sulla scorta non solo delle evidenti identità riscontrabili tra il testo-fonte e il suo volgarizzamento, ma anche sulla base dell’osservazione che uno dei cinque testimoni che ci hanno tramandato l’opera dell’Aragonese (il ms. BnF, lat. 11856; sigla P), reca in limine l’attribuzione erronea all’Aquinate. 13 Un ulteriore testimone della redazione di Saplana sarebbe poi da individuare in un codice oggi perduto, il ms. XII (lacunoso, di 37 cc. complessive, sec. XV) dell’Archivo de Palacio di Barcelona, indicato da Keightley (176) con la sigla Ar.14

Per quel che riguarda invece i manoscritti sopravvissuti, la redazione probabilmente più fedele a quella di Saplana, anonima e convenzionalmente indicata con la sigla α,15 si è conservata nella sua veste linguistica originale in un frammento di cinque carte facenti parte di un codice miscellaneo: Barcelona, Arxiu de la Corona d’Aragó, Ripoll 113 (sec. XIV; sigla R), 16 e integralmente dalla versione castigliana contenuta nell’unico manoscritto della Biblioteca Nacional de Madrid, MS 10193 (sigla N), che reca la data del 21 settembre 1436 al colophon.17 A questo censimento si è in tempi recenti aggiunto un altro frammento catalano (Cervera, Arxiu Comarcal de la Segarra, senza segnatura, 1391(?)/1430 (?); sigla J), segnalato da Gemma Avenoza e individuato come latore di

                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                   indicando anche le sigle adottate da Ziino (2007), laddove esse divergono. 11 Si vedano Villanueva (205-206) e Albareda (198-200) per la descrizione del codice e per la trascrizione di alcune parti, riprodotte anche in González Rolán e Saquero Suárez-Somonte (321-322). 12 Sulla datazione di questo commento si veda Crespo. Il testo del commento di Guglielmo è stato edito nella tesi di dottorato Olmedilla Herrero ed. (1997); questa edizione sostituisce quella parziale di Terbille. 13 In Ziino (2007) viene inoltre rilevato che le redazioni α e β pur seguendo in via maggioritaria il testo di Guglielmo d’Aragona, recano anche alcune minime varianti o aggiunte di provenienza differente. 14 Il codice è descritto in Casanovas (31-32), ma si veda anche Riera i Sans (325). 15 Si utilizzano le sigle delle due redazioni riprendendo quelle proposte da González Rolán e Saquero Suárez-Somonte 1992 e Avenoza 2010; diversa la scelta di Keightley 1987 (qui le sigle sono in alfabeto latino), seguita anche da Ziino 2007 (che sostituisce le lettere greche a quelle latine di Keightley), che invertono invece le due lettere greche utilizzando β per indicare la redazione anonima e α per designare la revisione di Ginebreda. Per i mss. si seguono invece le sigle di Keightley 1987, mentre per i codici che sono stati segnalati solo in seguito a questo studio, si adotta la nomenclatura stabilita da Doñas 2007, indicando anche le sigle adottate da Ziino 2007, laddove esse divergono. 16 Il frammento di Boezio occupa le cc. 65a-69d (8 capitoli che comprendono il prologo e il testo, che si interrompe al quarto metro del primo libro), di questo manoscritto miscellaneo, proveniente dal monastero di Santa María de Ripoll, che contiene una raccolta di Vidas y milagros de santos. Sui testi agiografici tramandati dal codice si veda Vives i Gatell; la trascrizione del lacerto della Consolatio catalana è disponibile in Bofarull y Mascaró ed. (395-413) e nella tesi di dottorato Ziino (1997, vol. 2, 176-197; che non ho avuto modo di consultare, ma che cito sulla base di Ziino 2007, 104, n. 19). Il manoscritto è oggi disponibile online, tra i documenti digitalizzati inseriti nella banca dati PARES – Portal de Archivos Españoles (http://www.mcu.es/archivos/MC/ACA/BasesDatos.html; data ultimo accesso: 20/11/2014), effettuando una ricerca per titolo del ms. Flos sanctorum, o per segnatura: Archivo de la Corona de Aragón, ACA, COLECCIONES, Manuscritos, Ripoll, 113. 17 Edito nella tesi di dottorato di Ziino (1997). Il testo trasmesso da questo codice deriva da una perduta copia della traduzione catalana in una redazione affine a quella conservata dal ms. Ripoll 113. A riguardo si vedano anche Ziino (1998; ristampato in Ziino 2007) e (2003).

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una redazione probabilmente accostabile a quella di R, la cui esatta posizione all’interno del quadro che si è fin qui tracciato resta ancora da convalidare.18

La redazione catalana denominata con la sigla β, tramandata da nove codici in catalano, da due in castigliano (parziali) e da un incunabolo catalano e quattro edizioni a stampa castigliane (di cui tre incunabole), è invece, secondo il parere unanime degli studiosi che si sono occupati della questione, il frutto di un’operazione di revisione e completamento del testo di Saplana effettuata verso la fine del XIV secolo e dovuta ad Antoni Ginebreda (m. 1394 c.).19

                                                                                                               18 Questo frammento è contenuto in un manoscritto molto deteriorato e senza legatura che è stato incluso nel censimento di Doñas (2007, 297-298), sulla base delle informazioni presenti nella scheda redatta da Gemma Avenoza per il database BITECA (Bibliografia de textos antics catalans, valencians i balears) che fa parte delle banche dati bio-bibliografiche del portale Philobiblon dell’Università di Berkeley (http://bancroft.berkeley.edu/philobiblon/index.html; ultimo accesso: 22/06/2014). Le informazioni inerenti questo manoscritto sono reperibili mediante l’identificativo: BITECA manid 2780. 19 I codici catalani sono: 1) Barcelona, Biblioteca Universitària, ms. 77, sec. XV (sigla B, cfr. Keightley, 175; Doñas 2007, 297-298; sigla A di Ziino 2007, 85), il testo tràdito da questo codice è quello edito da Marian Aguiló nel 1873, edizione alla quale Àngel Aguiló aggiunse il frontespizio e un’introduzione nel 1904. La riproduzione digitale di questo ms. è consultabile on-line sul sito della Biblioteca virtual Miguel de Cervantes: http://www.cervantesvirtual.com/obra-visor/de-consolacio/visor/ (data dell’ultimo accesso: 20/11/2014). 2) Barcelona, Biblioteca de Catalunya, ms. 68, sec. XV (sigla C, Keightley, 176; Doñas 2007, 298; Ziino 2007, 85, designa questo ms. con la sigla B). 3) Madrid, Biblioteca Nacional, ms. 18396, sec. XV (sigla M, cfr. Keightley, 175-176; Doñas 2007, 298-299; Ziino 2007, 85 indica questo ms. con la sigla G). 4) Paris, Bibliothèque nationale de France, ms. Esp. 474, sec. XV (sigla P, cfr. Keightley, 175; Doñas 2007, 299; Ziino 2007, 85). 5) Berkeley, Bancroft Library, ms. UCB 160, ca. 1470-1480 (sigla K, cfr. Doñas 2007, 298; Ziino 2007, 85 designa questo ms. con la sigla Be), la versione digitale del codice si può consultare online sul sito della Bancroft Library di Berkeley: http://sunsite.berkeley.edu/cgi-bin/ebind2html/catalan/boethius?cap (data dell’ultimo accesso 20/11/2014). 6) Avignon, Archive du Département de Vaucluse, fond Requin, ms. 177, sec. XV (sigla V, cfr. Keightley, 176; Doñas 2007, 300; Ziino 2007, 85; e Brunel, che fornisce l’indice dei contenuti di questo frammento). 7) Cervera, Arxiu Comarcal de la Segarra, senza segnatura, 1426-1450, ms. acefalo e lacunoso (sigla Y), Stando a Doñas (2007, 297; cfr. Ibid., 300 per la descrizione del codice), questo ms. è senza segnatura, le antiche segnature vengono indicate tra parentesi (olim A; R. 4208; B II-34); mentre in BITECA esso viene indicato come R. 4208 (scheda a cura di Gemma Avenoza; identificativo: manid 2005; data ultimo accesso 20/11/2014), Ziino (2007, 85), fornisce la segnatura ‘MS 1’e gli attribuisce la sigla Ce. 8) Sevilla, Biblioteca Capitular (Colombina), ms. 5-5-26, sec. XIV (sigla Z; Il frammento boeziano è conservato alle cc. 121-132 di questo codice miscellaneo, ed è stato segnalato da Riera i Sans, 325; Cifuentes, 458, n. 99; Doñas 2007, 300; Ziino 2007, 103, n. 11). 9) Munich, Bayerische StaatsBibliothek, Cod. Hisp. 145, testimone completo segnalato in Perarnau i Espelt e in Ziino (2010, 388). I testimoni castigliani sono: 1) Madrid, Biblioteca Nacional, ms. 8320, sec. XV (sigla D, cfr. Doñas 2007, 301), si tratta di un codice miscellaneo che contiene un testo frammentario e anonimo intitolato Dialogo entre un sabio y una dueña (cc. 1-19), che segue in vari punti la traduzione della Consolatio nella redazione di Ginebreda, si veda in merito Pérez Rosado 1993, 113-120. 2) Madrid, Real Biblioteca, ms. II-589, sec. XV (sigla Q, cfr. Doñas 2007, 301-302, secondo il quale contiene un testo vicino a quello di Ginebreda). Edizione a stampa catalana: [Lérida, Heinric Botel], 2 giugno 1489, editio princeps (sigla L), un solo esemplare censito e conservato a Madrid, Biblioteca Nacional, I-1280, cfr. Doñas (2007, 302) e ISTC, ib00811700 (per gli incunaboli si farà riferimento all’Incunabula Short Title Catalogue, ISTC della British Library, disponibile online: http://www.bl.uk/catalogues/istc/). Edizioni a stampa in castigliano: 1) Toulouse, Heinrich Mayer, 4 luglio 1488 (sigla T, cfr. ISTC, ib00817000). 2) Sevilla, Meinardo Ungut e Estanislao Polono, 18 febbraio 1497 (sigla Se1, ISTC, ib00818000), consultabile in formato digitale sul sito della Biblioteca virtual Miguel de Cervantes (http://www.cervantesvirtual.com/obra/de-la-consolacion-de-la-filosofia/; ultimo accesso 20/11/2014); Antonio Doñas ha curato un’edizione online del testo di questo incunabolo (http://parnaseo.uv.es/Memorabilia/memorabilia8/boecio/index.htm) per il numero speciale di Memorabilia: Boletín de Literatura Sapiencial Medieval 8 (2004-2005). 3) Sevilla, Meinardo Ungut e Estanislao Polono, 14 ottobre 1499 (sigla Se2, ISTC, ib00818200). 4) Toledo, Juan Varela de Salamanca, 15 ottobre 1511 (sigla To, consultabile online sul sito http://bvpb.mcu.es/es/consulta/busqueda_referencia.cmd?posicion=2&idValor=53111&forma=ficha&id=

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Anche Ginebreda appartenne all’ordine domenicano, fu lettore in teologia, priore del convento di Santa Catalina a Barcellona (dal 1390) ed ebbe contatti e legami assai stretti con i sovrani aragonesi, che lo investirono di vari incarichi, fino a nominarlo predicatore della cappella reale (1384-85).20 Fu su richiesta del patrizio Bernat Joan, cittadino di Valencia, che Ginebreda (che aveva già portato a termine una traduzione del Compendium historiale iniziata dal confratello Jaume Domènech), completò il volgarizzamento del testo della Consolatio, forse aggiungendo alcune parti mancanti della traduzione del quinto libro, integrando il prologo con informazioni che non si trovavano nel suo modello e ripristinando la suddivisione originale tra metri e prose, che nella redazione di Saplana non rispettava quella del testo di Boezio.21 Come è stato dimostrato (Riera i Sans, 175-181; Keightley, 307-317; González e Saquero & Suárez-Somonte, 331), gran parte dei nuovi materiali innestati sulla più antica traduzione del prologo di Guglielmo d’Aragona fatta da Saplana derivano dal commento latino di Nicholas Trevet (1300 c.).

Al quadro appena ricostruito va inoltre aggiunta la testimonianza fornita dalla traduzione ebraica del Boezio catalano, redatta nel 1412 da Shemuel Benveniste, che si basa prevalentemente sulla redazione α (così come essa è tramandata da R e N), completandola però in alcuni punti con un testo derivante da β.22 Nella ricostruzione del quadro delle traduzioni iberiche del De Consolatione va infine ricordato che, come ha segnalato Francesca Ziino (2001b), il testo di β è stato alla base di una ritraduzione latina, contenuta nei cinque volumi riccamente miniati del codice London, British Library, MSS Harley 4335-4339 (sec. XV), che recano ‘a fronte’ anche una versione con glosse del testo francese (Cropp, 303-306; Galderisi dir., vol. 2/1, 384-385).

Concludendo questa sintesi necessariamente limitata dello stato dei lavori dedicati alla tradizione dei volgarizzamenti boeziani di area iberica, va detto che rimangono ancora da chiarire alcuni aspetti dei rapporti stemmatici puntuali intercorrenti tra i vari testimoni della redazione Saplana-Ginebreda, che meritano un’ulteriore e più accurata disamina che ci si propone di fornire in un’altra sede. Negli appunti che seguono ci si limiterà dunque a fare affidamento, per il segmento testuale che qui ci interessa, sulla lezione tràdita da uno dei codici della redazione di Ginebreda, quella del ms. H (Münich, BSB, Cod. Hisp. 145, cc. 112v-116v), testimone completo e ancora poco studiato, considerato da Josep Perarnau i Espelt (456) una copia “molt satisfactòria.” Le lezioni di H si presentano in effetti, per quel che concerne il testo di Consolatio IV, m. 7, alquanto regolari e accurate, soprattutto nella scrizione di toponimi e antroponimi, sebbene non manchino sviste dovute al copista (omissione di una parola, duplicazione                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                    380, ultimo accesso 20/11/2014). Q, T e Se1 sono tre traduzioni castigliane distinte del testo catalano di Ginebreda, mentre Se2 e To sono ristampe di Se1, cfr. Doñas (2007, 303) e Doñas ed. (2012). 20 Su Ginebreda si vedano Coll (1949, 16-31); Rebull (1977) e soprattutto De Puig i Oliver. 21 Stando a Keightley (182-184), la redazione R+N emanerebbe dalla redazione di Ginebreda, più diffusa e tramandata da un maggior numero di mss. Nel suo prologo Ginebreda afferma di aver integrato le traduzioni del terzo e quarto metro e della quarta e quinta prosa del Libro V della Consolatio. La critica si è dunque domandandata se Saplana avesse tradotto o meno i passi in questione poiché in realtà essi sono presenti nella traduzione castigliana di N. Riera i Sans (315-316) ipotizza che il volgarizzamento di Saplana fosse completo e che i passi in questione mancassero nel modello utilizzato da Ginebreda. Di parere differente a riguardo sono González Rolan e Saquero Suárez-Somonte (333), che sostengono che questi brani facevano parte della redazione originaria di Saplana e che Ginebreda li poteva leggere nel suo modello, ma, giudicandoli forse troppo sintetici, si adoperò per integrarli e ampliarli. 22 La traduzione ebraica è conservata da un testimone completo (San Pietroburgo, Biblioteca dell’Istituto di Orientalistica dell’Accademia delle Scienze di Russia, MS B 18) e da un frammento (Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana, Neofiti 8, cc. 71v-82v); si vedano Zonta, e Ziino (2001) e (2010), in cui viene proposto anche uno stemma della tradizione del ‘Boezio catalano’, da affiancare a quello già dato in González e Saquero Suárez-Somonte (337).

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di sintagma, aplografia, omeoteleuto), facilmente sanabili in molti casi sulla scorta delle lezioni contenute negli altri testimoni. La collazione è stata effettuata sui mss. P (Paris, BnF, Esp. 474, cc. 102b-105c); B (Barcelona, Biblioteca Universitaria, ms. 77, cc. 99b-102c); M (Madrid, Biblioteca Nacional, ms. 18396, cc. 133d-137d); Y (Cervera, Arxiu Comarcal de la Segarra, senza segnatura, olim A; R. 4208; B II-34; cc. 87b-90a); K (Berkeley, Bancroft Library, ms. UCB 160, cc. 84d-87b); sulla stampa incunabola L (Lérida, Heinric Botel, 2 giugno 1489, cc. n1r-n5v), e sull’edizione online curata da Antonio Doñas della traduzione castigliana dell’incunabolo Se1 (Sevilla, Meinardo Ungut e Estanislao Polono, 18 febbraio 1497). Non sono stati considerati i codici frammentari Z (Sevilla, Biblioteca Capitular Colombina, ms. 5-5-26) e V (Avignon, Archive du Département de Vaucluse, fond Requin, ms. 177), dal momento che non tramandano la sezione di testo in esame. In parallelo si è tenuto conto anche delle lezioni conservate da J (Cervera, Arxiu Comarcal de la Segarra, senza segnatura, cc. 85v-87v), che, in linea generale, non sembra discostarsi in modo evidente da quanto tramandano gli altri codici. Non mi è stato ancora possibile consultare gli incunaboli T e Q, il codice catalano C (Barcelona, Biblioteca de Catalunya, ms. 68), contenente la redazione di Ginebreda, né l’edizione di Francesca Ziino (1997) della redazione α in castigliano tràdita da N (Biblioteca Nacional de Madrid, MS 10193). Va da sé che i passi della Consolació riportati più avanti non hanno qui la pretesa di porsi a testo critico, ma semplicemente di restituire la lezione così come essa si legge in uno dei latori del brano, sanato dagli errori e dalle incongruenze più evidenti.23 Si prenderanno poi in considerazione anche i rapporti che intercorrono con il modello costituito dal commento latino di Guglielmo d’Aragona, con la ritraduzione latina del codice Harleiano, e le eventuali affinità che sussistono con il commento di Nicholas Trevet,24 tralasciando, almeno per ora, qualsiasi considerazione di tipo strettamente ecdotico per quel che riguarda l’insieme della tradizione. 2. Gli exempla di Consolatio IV, m. 7

Bella bis quinis operatus annis ultor Atrides Phrygiae ruinis fratris amissos thalamos piauit; ille dum Graiae dare uela classi optat et uentos redimit cruore, 5 exuit patrem miserumque tristis foederat natae iugulum sacerdos. Fleuit amissos Ithacus sodales, quos ferus uasto recubans in antro mersit immani Polyphemus aluo; 10 sed tamen caeco furibundus ore gaudium maestis lacrimis rependit. Herculem duri celebrant labores:

                                                                                                               23 Nell’edizione del testo si sono seguiti criteri moderni nella separazione delle parole, nella distinzione di i da j e di u da v, nell’introduzione degli accenti, delle maiuscole e delle minuscole e della punteggiatura. Lo scioglimento delle abbreviazioni è segnalato in corsivo, le integrazioni sono inserite tra parentesi quadre. Nelle note viene dato conto sia degli interventi effettuati che delle particolarità del ms. H. 24 Il dattiloscritto inedito del commento del Trevet, curato da Edmund T. Silk, è disponibile online grazie a Alastair Minnis e alla sua équipe: Silk ed., Expositio Fratris Nicolai Trevethi Anglici Ordinis praedicatorum super Boetio De Consolatione: <http://minnis.commons.yale.edu/> (ultimo accesso 20/11/2014).

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ille Centauros domuit superbos, abstulit saevo spolium leoni, 15 fixit et certis uolucres sagittis, poma cernenti rapuit draconi aureo laeuam grauior metallo, Cerberum traxit triplici catena, uictor immitem posuisse fertur 20 pabulum saeuis dominum quadrigis, Hydra combusto periit ueneno, fronte turpatus Achelous amnis ora demersit pudibunda ripis, strauit Antaeum Libycis harenis, 25 Cacus Euandri satiauit iras, quosque pressurus foret altus orbis saetiger spumis umeros notauit: ultimus caelum labor inreflexo sustulit collo pretiumque rursus 30 ultimi caelum meruit laboris. Ite nunc, fortes, ubi celsa magni ducit exempli uia. Cur inertes terga nudatis? Superata tellus Sidera donat. 35 (Bieler ed., IV, m. 7)25

Il rinvio ai toni e ai modi del teatro senecano nelle allegorie filosofiche ereditate

dalla tradizione platonica e stoica dei versi latini del settimo metro, sul quale si chiude il quarto libro del De Consolatione Philosophiae, viene dispiegato da Boezio nel delineare un trittico archetipico di eroi mitologici che ipostatizzano la struttura stessa di questa sezione e in cui lo spunto tratto dalla tradizione classica va a rifunzionalizzarsi nel suo confluire in seno ai versi recanti gli exempla di Agamennone, Ulisse ed Ercole. Gli endecasillabi saffici di questo metro assemblano e ripropongono in sintesi la sequenza filosofica percorsa nell’arco del libro;26 sequenza il cui nucleo epistemologico si pone nella distinzione tra provvidenza divina e fato e nella spiegazione di come vadano intese le azioni degli uomini, non imputabili all’esistenza di una ‘cattiva fortuna’, bensì all’attitudine morale di ciascuno. A figure paradigmatiche della virtus che “non                                                                                                                25 “Facendo guerra due volte cinque anni | l’Atride vendicatore espiò con le rovine | della Frigia il violato talamo del fratello. | Mentre desidera dar le vele alla flotta greca | e compra i venti a prezzo di sangue, | si spoglia dell’esser padre e, triste sacerdote, | fa un patto sacrifcando la misera gola della figlia. | Pianse l’Itacense i perduti compagni, | che il feroce Polifemo, nel vasto antro | disteso, aveva immerso nel ventre spietato; | e tuttavia quel furente, acciecato, | pagò con tristi lacrime il suo delitto. | Le dure fatiche rendon famoso Ercole: | egli domò i Centauri superbi, | strappò la spoglia al crudele leone, | con dardi infallibili trafisse gli uccelli, | portò via i pomi al drago occhiuto, | appesantendo la sinistra con il prezioso metallo, | trascinò Cerbero con triplice catena. | Si narra che, vincitore, abbia imbandito | alle crudeli pariglie il loro spietato padrone. | Perì l’Idra, bruciato che fu il suo veleno; | il fiume Acheloo, deturpata la fronte, | chinò vergognoso il volto sulle rive. | Abbatté Anteo nelle arene di Libia, | Caco saziò di Evandro l’ira, e il setoloso segnò con la bava quelle spalle | su cui, alto, il cielo si sarebbe posato. | Ultima fatica, sostenne il cielo | con non piegato collo e in ricompensa | dell’ultima fatica meritò, ancora, il cielo. | Andate ora, o forti, là dove vi guida | l’alta strada del grande esempio. Perché, fiacchi, | denudate la schiena? La terra, vinta, | le stelle vi dona” (Moreschini ed., 304-306). 26 Sulle fonti e sulla struttura di IV, m. 7, si vedano Scheible (153-154); Zwierlein (57-60); Lerer (180-202 e 248-253), quest’ultimo da affiancare alle precisazioni di O’Daly (220-235), a cui si rinvia per il commento dettagliato di questo metro.

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superetur aduersis” (Bieler ed., IV, pr. 7), Boezio pone i tre personaggi mitici di Agamennone, Ulisse ed Ercole, rievocando brevemente il sacrificio di Ifigenia in Aulide (vv. 1-7), l’uccisione di Polifemo da parte di Ulisse (vv. 8-12), per poi soffermarsi più ampiamente sulla catalogo dei labores di Ercole (vv. 13-35), culminanti nell’immagine dell’eroe che sostiene la volta celeste in vece di Atlante e nella sua glorificazione per cui “caelum meruit” (v. 31).

Il riutilizzo enfatico delle tre vicende mitiche in chiave esemplare e moralizzante, almeno per Ulisse ed Ercole (eroi le cui vicende si prestano tradizionalmente a una doppia polisemia negativa/positiva, comprensiva di molte gamme intermedie), era già stato sfruttato ampiamente dai commentatori antichi di Omero e dalla tradizione platonica e stoica, mentre più inconsueta è stata invece giudicata la scelta dell’episodio del sacrificio di Ifigenia. 27 La riscrittura boeziana condensa icasticamente l’insegnamento elargito nelle prose che precedono, distillandolo, in ultima istanza, nella sua facies stilisticamente più rarefatta nel sintagma che chiude questa sezione poetica, degno suggello all’ultimo dei tre metri ‘mitici’ della Consolatio, l’altissimo “Superata tellus | sidera donat” (vv. 34-35). Il settimo metro del quarto libro, letto in sequenza con gli altri due metri di argomento mitico che lo precedono (Orfeo III, m. 12 e Ulisse IV, m. 3), costituirebbe l’ultima parte di un trittico metaforico tracciato dall’autore, da identificarsi in un ideale schema ascendente che condurrebbe “from loss to restitution, from night to day, and from bodily harm to spiritual health” (Lerer, 185). Tuttavia, secondo alcuni, non sarebbe da escludere, per quanto riguarda la struttura, il peso e la posizione da ascrivere a questo metro all’interno della Consolatio, sia un’interpretazione che gli attribuisce una funzione di netto scarto rispetto agli inserti poetici dedicati a Orfeo e a Ulisse (O’Daly, 221), sia una lettura che, per quel che riguarda l’organizzazione interna di questo tassello poetico, vede negli episodi legati a Agamennone e Ulisse la volontà di creare una precisa funzione contrastiva rispetto a Ercole. Quest’ultima proposta esegetica mette in luce il progressivo percorso di svincolamento dalle preoccupazioni meramente terrene suggerito dai primi due miti, culminante nel conseguimento di una dimensione metafisica, che trascende l’esperienza umana, attuato e simbolicamente incarnato da Ercole, punto ultimo di una climax ascendente dell’evocazione mitica e dell’allegoria filosofica (Lerer, 193). 2.1. La cameriera di Ifigenia

Tornando dunque agli exempla così come essi sono stati fissati nel testo di H – da classificarsi nel quarto gruppo di varianti della revisione di Ginebreda individuate da Riera i Sans (323-324) –,28 si inizierà con l’osservare che esso è introdotto da una rubrica che propone una sintesi dei contenuti del metro, e che non è accostabile in questo caso a quanto si legge nella stessa posizione nel testo dell’Aragonese:

ANTONI GINEBREDA GUILHELMUS ARAGONIAE

En lo setèn metre Philosofia amostree que los hòmens deven

Deinde cum dicit: Bella bis quinis, et cetera. Confirmat sentenciam

                                                                                                               27 Stando a Seth Lerer (196) il nesso sarebbe da ricercarsi nel paragone tra le fatiche di Ercole e l’assedio di Troia presente nell’Agamennone di Seneca, da cui sarebbe parzialmente ripreso anche il canone dei labores proposto nella Consolatio. 28 La classificazione è proposta sempre in Perarnau i Espelt (457). Riera i Sans, che non era a conoscenza dell’esistenza del ms. H, individua come quarta revisione quella tràdita dal codice parigino P (proveniente dalla Biblioteca Colombina di Siviglia), caratterizzata principalmente dall’assenza di qualsiasi riferimento a Ginebreda nella rubrica iniziale che precede la storia di Boezio e Teodorico.

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ésser forts en soferir lo treball de fortuna, e molt més per aconseguir los béns celestials que no féu Agamenon per destrouir Troya, ne Ulixes per venjar sos29 companyons, ne Hèrcules per haver fama de fortalesa. E comença en lo latí: “Bella bis30 quinis operatur annis”, e en romans: “E d’açò pories pendre eximpli.” (H, c. 112v)

conclusionis predicte per gesta sapientum et magnorum uirorum. Et circa hoc duo facit: primo enim tangit gesta; secundo uero applicat ad propositum, ibi: Ite nunc fortes, et cetera. Circa primum tria facit: primo enim tangit gesta Agomennonis quando Troiam adiuit; secundo Vlixis quando de bello troiano rediuit, ibi: Fleuit amissos, et cetera. Tercio Herculis, ibi: Herculem duri, et cetera. (Olmedilla Herrero ed. 1997, 296-297)

Alla rubrica segue la narrazione in prosa in cui, a differenza di quanto accade

nell’originale guglielmino, non vengono riportati i lemmata del metro della Consolatio da glossare, ma i segmenti testuali vengono elaborati come un racconto continuo che sintetizza e al contempo spiega, fondendo il tutto in un unicum compatto. Lo schema generale e la partitura interna seguono fedelmente quelli del commento di Guglielmo, ma con alcuni spostamenti e alcune lievi amplificazioni della materia. È ciò che ad esempio si verifica nel primo dei tre quadri mitici, quello dedicato ad Agamennone, per cui si riportano di seguito in parallelo i passi corrispondenti del testo catalano e di quello latino:

ANTONI GINEBREDA GUILHELMUS ARAGONIAE

[E]31 d’açò pories pendre eximpli e doctrina en los valents e savis barons qui són estats en temps passats, e primerament en aquell valent baró Agamenon, lo qual fo grech e gran príncep. Aquest Agamenon, quant hac sebut que los de Troya havien feta gran honta e gran violença a son frare Menaleu, car forcívolment li tolgueren la sua muyller, Na 32 Elena, e la se’n manaren per força a Troya, lo dit Agamenon no volent sofrir la dita injúria, ab gran hostol de grechs se mès en la mar, volent anar contra Troya, e pervench en la illa appellada Aulíden, en la qual se colia Diana per déu. E quant aquí li defalguessen los vents que havia

Ad euidenciam primi sciendum quod propter raptum Helene, uxoris Menelay, Agamenon, frater Menelay, cum Grecorum exercitu iuit contra Troianos, ad quorum expugnacionem decem annis laborauit. Qui, cum iret cum maximo grecorum nauigio, applicuit insulam Aulidem ubi Dyana colebatur ut dea; cui, cum uenti prosperi defecissent, iuit ad templum Dyane et consuluit sacerdotem quid sacrificando posset a Dyana uentos prosperos impetrare. Calcas uero, qui sacerdos erat, consuluit sibi ut propriam filiam Ephygeniam immolaret et uento prospero non careret. Hoc accepto consilio uoluit Agamennon filiam

                                                                                                               29 sis nel ms. 30 quis vinis barrato dal copista prima di bis. 31 Spazio per l’iniziale lasciato in bianco nel ms. 32 ne nel ms.

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mester, anà-sse’n al temple de Na Diana e demanà als sacerdots quina cosa poria sacrifichar e fer sacrifici a la dita Diana, perquè tantost pogués aconseguir profitosos vents. E los sacerdots consellaren-li que degolàs sa filla pròpria, per nom Phigènia, e que la sacrifichàs a la [dita]33 Diana e que tantost hauria ço que demanava. E lo dit Agamenon no duptà de fer ço que li ere molt dolerós, segons natura e voluntat, per ço que pogués aconseguir ço que desiyava. Emperò quant Diana hagués vista la gran voluntat e valarosa del dit baró, hac pietat de la dita sua filla e no volch que morís, mas, en loch seu, que fos sacrificada la sua cambrera. E tantos com fon fet hac lo vent que desiyava, per què anà a Troya e la assetià e estech en lo setge .X. ayns e finalment la pres e la destrouí. (H, cc. 112v-113r)

immolare, sed Dyana recipiens uiri magnam uoluntatem, miserta est filie, loco cuius sacrificio dedit ceruam, uentorum prosperitate concessa. Hoc uolens tangere Philosophia dicit: Vltor Atrides operatus bella bis quinis annis piauit amissos thalamos fratris ruinis Frigie, id est regionis Troiane. Ille, id est ultor Agamennon, dum optat dare uela Graie classi, id est grecorum nauigio, et redimit uentos cruore, exuit patrem que, id est et, tristis sacerdos miserum iugulum federat nate. (Olmedilla Herrero ed. 1997, 297)

Da notare, oltre al calco puntuale della dispositio, la fusione dei due enunciati affini

del commento latino “cum Grecorum exercitu” e “cum maximo grecorum nauigio”, nell’unico sintagma “ab gran hostol de grechs se mes en la mar”, ma anche il riposizionamento dell’informazione riguardante la durata decennale della guerra di Troia a chiusura del quadro invece che in apertura. Il riferimento preciso al personaggio di Calcante del modello latino viene poi sostituito con l’indicazione più generica di “sacerdots”, che del resto si ritrova, ad esempio, anche nel commento di Nicholas Trevet, solitamente più dettagliato e complesso rispetto a quello dell’Aragonese: “super quo requisiti uates dixerunt regi, quod non haberet uentum prosperum nisi placaret Dianam sacrificando ei filiam suam Effigeniam” (Silk ed., 654; il corsivo è mio). Per la narrazione del sacrificio di Ifigenia in Aulide Boezio segue la tradizione che voleva che la figlia di Agamennone venisse effettivamente uccisa, senza il provvidenziale intervento di sostituzione con una cerva voluto da Diana (O’Daly, 224). Se a riguardo il Trevet commenta con la consueta precisione seguendo la versione del mito scelta da Boezio (pur rinviando al racconto fornito da Ovidio nelle Metamorfosi), Guglielmo d’Aragona menziona invece la sostituzione con la cerva. In questo passaggio il testo catalano presenta tuttavia una lettura apparentemente errata, dal momento che al “ceruam” latino fa corrispondere la traduzione “cambrera.” Il dato è interessante perché tutti i manoscritti consultati concordano nel restituire questa lezione, sostituendo un’ancella alla cerva della tragedia euripidea, o in genere all’animale sacrificale attestato da una serie di tradizioni parallele di matrice greca, che passa all’Occidente

                                                                                                               33 Anche il ms. P e la traduzione Castigliana leggono a la Diana; il codice B e l’incunabolo L recano invece la lezione a la dita Diana; i mss. M, Y e J na diana; K a diana.

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medievale principalmente mediante le Metamorfosi ovidiane, riprese ad esempio anche dal secondo Mitografo vaticano.34 Tale fraintendimento è poi ulteriormente confortato dalla traduzione castigliana di Se1, che reca anch’essa “camarera”, e dalla ritraduzione latina del codice londinese, in cui si legge: “Dyana, mota pietate erga dictam filiam, voluit quod cameraria dicte filie loco sui interficeretur et sibi sacrificaretur et filia in sua vita salvaretur” (London, BL, ms. Harley 4338, c. 91r). Si tratterebbe in questo caso, di una possibile imprecisione imputabile a uno dei traduttori, per cui il sostantivo “ceruam” – e si noti che uno dei testimoni del testo di Guglielmo d’Aragona reca tra l’altro la grafia “seruam” (Olmedilla Herrero ed. 1997, 297, e relativo apparato) –, è evidentemente stato interpretato con confusione del suono della consonante iniziale occlusiva velare sorda del latino con l’esito della fonetica catalana, per cui dinnanzi a vocale anteriore la velare è passata prima ad affricata sorda alveolare [ts], e infine a consonante alveolare [s], mantenendo però la notazione grafica ‘c’ (De B. Moll 2006, 104). Da qui l’identità fonetica di “ceruam” (cerva) / “seruam” (serva), la cui presenza attesterebbe una svista che compariva molto probabilmente già nel testo originale della traduzione catalana (peraltro generalemente piuttosto corretta nella resa), e che parrebbe dovuta a una evidente interferenza della lingua materna del traduttore al momento dell’interpretazione del modello. 2.2. Polifemo e le fate

Il racconto dell’uccisione di Polifemo da parte di Ulisse ripercorre ancora una volta puntualmente il testo della fonte, omettendo però anche in questo caso sia il riferimento di quest’ultima alle Metamorfosi, sia i versi originali di Boezio, che pur compaiono nella sezione finale del commento latino:

ANTONI GINEBREDA GUILHELMUS DE ARAGONIAE

Enaprés te pories remirar en la istòria de Ulixes, lo qual, quant tornà de la presó de Troya, per força de vent esdevench en les rochas de Polifeni, qui ere gigant molt orrible e malvat, lo qual havia un gran hull en lo front e no n’havia sinó aquell, e mentre aquell uyll fos sà, no podia ésser vençut, car axí lo havien fedat les ffades. E quant los companyons de Ulixes hac Polifeni morts e menjats, e Ulixes hac vista tan gran crueltat, havent gran dolor de la mort tan cruel de sos compayons, axí com valent e molt coretjós esvahí lo dit Polifeni e ferí-llo en l’uyll 35 e trasch-lo-li. Lo qual, quant fos cech e

Deinde cum dicit: Fleuit amissos, et cetera. Tangit aliud de Vlixe, ad cuius intellectum sciendum quod Vlixes rediens de bello Troiano per mare in pulsu uentorum rupibus applicuit Poliphemi cyclopis, qui horribilis gigas erat unum magnum oculum in medio frontis habens, quo existente saluo nullatenus posset uinci – hoc enim dederant sibi fate –, tandem existentibus sociis Vlixis ad terram uenit et eos omnes ut fera pessima deuorauit. Vlixes uero dolens de sociis tan quam magnanimus inuasit Poliphemum et eius oculum destruens terebrauit, unde cecus factus ut furiosus per rupes

                                                                                                               34 Cfr. Ovidio, Metam. XII, vv. 31-34: “victa dea est nubemque oculis obiecit et inter | officium turbamque sacri vocesque precantum | supposita fertur mutasse Mycenida cerva”; e il racconto del secondo Mitografo vaticano in Kulcsár ed. (273-274): “Ergo cum ab Vlixe, qui erat astutissimus, per nuptiarum simulationem abducta Iphigenia Agamenonis filia iam imolanda esset, numinis miseratione sublata est cerua supposita et translata ad Tauricam regionem et regi Thoanti tradita est sacerdosque facta Dictinne Diane.” Sulla ricezione e sulla fortuna del mito di Ifigenia si vedano più in generale Aretz, e Gliksohn (in partic. 40-57). 35 feril en lo luyll nel ms., per probabile errore di inversione del copista.

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foriós, e corregués per pendre Ulixes e aquell se deffesés d’ell, caech per les roques, qui eren molt altes, e morí. (H, c. 113r/v)

decessit, ut testatur Ouidius quartumdecimo Metamorphoseos per fabulam diffusius ibi tactam, quam Philosophia tangens dicit: Ythacus, id est Vlixes a loco sic dictus, fleuit amissos sodales, quos ferus Poliphemus recubans in antro uasto mersit inmani aluo; sed tamen furibundus, supple factus, ceco ore rependit gaudium mestis lacrimis, supple Vlixis. (Olmedilla Herrero ed. 1997, 297-298)

Si riscontra qui la tendenza del volgarizzamento catalano alla resa degli aggettivi

mediante dittologia sinonimica, come è il caso per “horribilis” a cui corrisponde “orrible e malvat”, o per “magnanimus”, tradotto con “valent e molt coretjós.” Da notare poi come al sintagma “hoc enim dederant sibi fate”, corrisponda il catalano “car axí lo havien fedat les ffades.” La traduzione presenta un certo grado di ambiguità, poiché se è vero che il fate del testo latino, cioè i fata, tendono ad essere identificati con le Parche (Harf-Lancner, 9-10 e 41-60), non si può qui escludere che a quest’altezza cronologica, il temine catalano “ffades” (sost. n. lat. FĀTUM > sost. m. cat. fat, plur. fats; ma plur. FATA > sost. f. cat. fada, plur. fades), sia utilizzato nella sua forma semanticamente attualizzata che indica non tanto il destino, o le divinità ad esso preposte, ma già quelle creature sovrannaturali che proprio in epoca medievale vengono ad assumere una loro precisa fisionomia almeno a partire dal XII secolo, fisionomia che si discosta profondamente da quella del mondo greco-romano. L’uso del verbo “fedat”, in luogo del latino “dederant”, sarebbe poi una spia ulteriore che fa propendere in direzione di questa interpretazione. Infine, la concordanza di tutti i testimoni presi in esame viene corroborata dal castigliano “ca lo avían fadado las fadas” di Se1, laddove invece la ritraduzione del ms. Harley risulta un po’ più sfumata: “Iste non habebat nisi unum oculum in fronte et fuerat ita fatatus quod, stante predicto oculo sano, a nemine posset vinci” (London, BL, Harley 4338, c. 91v).36 2.3. Ercole, “molt noble baró”

Il canone del dodekathlos di Ercole, così come esso si presenta nel metro boeziano,37 che, come si è detto, è il frutto di un’operazione di recupero e rielaborazione di una tradizione complessa (O’Daly, 235), influenzò profondamente, congiuntamente con altri testi, la ricezione e l’acquisizione di questo mito nell’Occidente medievale; come ha giustamente notato Marc-René Jung (9) “tout ce que le moyen âge occidental sait d’Hercule vient des textes latins, de l’Éneide, des Métamorphoses, des tragédies de Sénèque, de la Consolatio Philosophiae.”38 Il commento di Guglielmo d’Aragona riprende la tradizione che vede nell’eroe panellenico al contempo l’homo ethicus e

                                                                                                               36 Per l’agg. fatatus utile la sintesi di Harf-Lancner (61-65). 37 L’ordine delle fatiche nel canone di Boezio è il seguente: vittoria sui centauri; uccisione del leone di Nemea; uccelli del lago Stinfalo; furto dei pomi d’oro delle Esperidi; Cerbero; Diomede; uccisione dell’idra di Leerna; il corno di Acheloo; uccisione di Anteo; uccisione di Caco; uccisione del cinghiale di Erimanto; Atlante. 38 Più in generale, sulla fortuna e sulla tradizione di questo mito si veda il classico volume di Galinsky; per l’integrazione di Ercole nella tradizione cristiana si rinvia invece a Marcel; per un’analisi in chiave storica dell’origine di questo mito in relazione alle fonti greche si veda Jourdain-Annequin; mentre per le analogie e i rapporti con i miti medio-orientali si consulti West (2003, 460-462).

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l’indomito combattente, emblema della vittoria sul male e sulle passioni, perfettamente in linea con quanto traspare a riguardo già in Fulgenzio, Isidoro di Siviglia o nei Mitografi vaticani. Nel riportare le fatiche di Ercole, il volgarizzamento catalano segue ancora il modello latino, con qualche minima variazione. Va premesso che a sua volta il commento guglielmino si basa qui principalmente sulle auctoritates di Servio e Fulgenzio, integrate probabilmente da alcuni dettagli desunti dai Mitografi. Riprendendo il catalogo boeziano, Guglielmo inizia con il rievocare le dodici fatiche per poi fornirne la spiegazione morale, in cui non manca anche qualche dettaglio di tipo evemeristico. Va inoltre detto che, nel rivelare la veritas dei miti del settimo metro, l’Aragonese esclude del tutto i primi due a favore del terzo, contrariamente a quanto accade in Guillaume de Conches e in Nicholas Trevet, che recano invece anche le moralizzazioni delle fabulae di Agamennone e Ulisse. Si noti poi che Guglielmo non interpreta sempre con precisione i labores a cui si fa riferimento nei versi della Consolatio, facendo di Ercole il figlio del re di Grecia o confondendo gli uccelli della palude di Stinfalo con le arpie che perseguitano Fineo, o ancora scambiando Diomede con Busiride,39 e sostituendo quindi il nome del secondo con quello del primo, sfasatura che passa tale e quale nel testo catalano:40

ANTONI GINEBREDA GUILHELMUS ARAGONIAE

La sisena, per albergar ab Bursides, lo qual ere plen de malícia e per açò matava tots los seus hostes e donave’ls a menjar als seus cavalls, en axí que, pus que eren intrats en casa sua, no n’exien. Aquest fon mort per Hèrcules e donà a menjar la sua carn a bèsties. (H, c. 113r/v)

Sexto fuit missus ad hospicium Bursiridis, qui plenus nequicia omnes hospites occidebat. Hunc interfecit Hercules et eum ut pabulum dedit iumentis ipsius. (Olmedilla Herrero ed. 1997, 299)

Per l’episodio dell’idra di Leerna il testo di Ginebreda anticipa invece (ciò accade in

tutti i codici considerati e può darsi che si trattasse di un assetto presente nel modello latino di cui si servì l’autore) la spiegazione evemeristica del v. 22 del metro di Boezio, proposta da Guglielmo sulla scorta di Servio (ma il dato è presente anche nelle Etymologiae di Isidoro), includendola direttamente nel catalogo iniziale delle fatiche e non nella sezione finale dedicata alle moralizzazioni:

                                                                                                               39 Il racconto dell’uccisione di Busiride si legge in Igino, Fabulae: “Busiridem in Aegypto, qui hospites immolare solitus erat; huius legem cum audiit, passus est se cum infula ad aram adduci, Busiris autem cum vellet deos imprecari, Hercules eum clava ac ministros sacrorum interfecit” (Schmidt ed., 65); ma anche nei mitografi: “Busiris rex fuit Egypti, qui cum susceptos hospites immolare solitus esset, ab Hercule, cum eum etiam uoluisset occidere, interemptus est” (Mitografo II, Kulcsár ed., 238). La struttura e i dettagli del racconto corrispondono in realtà a quelli della fatica legata a Diomede, come si legge sempre nel secondo Mitografo vaticano: “Diomedes, rex Tracum habuit equos qui humanis carnibus uescebantur. Cum uero mult eius hospicio hospites interissent, Hercules ab eo in hospicium receptus, ne ab eodem circumuentus periret, eum equorum suorum pabulum fecit et equos eosdem occiso crudeli tyranno abductos ad solita pabula, id est ad gramina, mollita feritate reuocauit et filio suo Cromi habendos concessit” (Kulcsár ed., 233). Fraintendimenti e modifiche analoghi sono attestati, per esempio, anche in alcuni volgarizzamenti oitanici, come rilevato in Atkinson (45-46); ma si vedano anche Cropp 1999, e i testi editi in appendice di Babbi ed., 379-490. Per le arpie e per la fabula di Fineo, si confrontino anche i commenti di Guillaume de Conches (Nauta ed. 1999, 280) e di Nicholas Trevet (Silk ed., 658). 40 Su questo passo si veda anche Keightley (183-184).  

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La setena, quant lo tramès a la Ydra en la paluda, en la qual havia una serp molt cruel e perillosa, e fahia molt gran dampnatge a una ciutat qui ere prop. Hèrcules donà per consell a les de la ciutat que les herbes e·ls arbres qui eren entorn fossen arrencats, e los monts qui eren entorn fossen cremats tant quant poguéssen, enaxí que quant plouria, la pluja41 fos beguda e consumada per la terra cremada. E part açò, ab son artifici tramès foch gresch qui matà la dita serp qui habitava en la dita aygua, e les fonts se exequaren per los monts cremats e per les plantes arrencades. (H, c. 113v)

Septimo fuit missus ad Ydram, que in larua palude dicitur commorasse quam igne greco combussit. Et ideo subdit: Ydra combusto periit ueneno. […] De hoc tamen dicit Seruius aliter, scilicet quod circa uicinam ciuitatem erumpebat aqua per fonticulos plurimos, quorum cum obstrueretur unus, erumpebant alii duo uel tres magnum dampnum ciuitati ferentes. Sed super hoc requisito consilio, Herculis precepit montes uicinos comburi et arbores et herbas radicitus extirpari ut pluuia superueniens consumeretur in terra, et ita oporteret fontes siccari. Hoc transeuntes poete mutauerunt in fabulam Ydre combuste.42 (Olmedilla Herrero ed. 1997, 301)

Di conseguenza, nel segmento testuale finale, contenente le moralizzazioni, il

volgarizzatore si limita a riprendere sinteticamente quanto compare in limine alla sezione corrispondente di Guglielmo: “Per la Ydra cremada per foch és entès que tota enveja deu ésser seccada per foch de benignitat” (H, c. 116r), che traduce, con un lieve taglio, il latino “Quia eciam a corde sapientis igne benignitatis omnis inuidia relegatur, et Ydram dicitur Hercules combussisse” (Olmedilla Herrero ed. 1997, 301).43 Se il volgarizzatore omette sistematicamente qualsiasi riferimento alle auctoritates di Ovidio e di Servio, riproduce invece fedelmente gli accenni che vengono fatti alla fonte costituita dalle Mythologiae di Fulgenzio, come è possibile rilevare nel passo recante la moralizzazione dell’episodio del furto dei pomi delle Esperidi:

ANTONI GINEBREDA GUILHELMUS ARAGONIAE

Per los poms d’aur és entesa sciència, que és en lo verger de les Aspèrides. Aquestes Aspèrides foren filles de

Vlterius dicitur sapiens ab orto Hesperidum subripere poma. Hesperides enim dicuntur esse quatuor Athlantis

                                                                                                               41 quant plouria, la pluja ] plouria e la pluja H, plouria la pluya P, plouria la pluge B, plouria la plouge M, plourja la pluge Y, plouria la pluja K, plouria la pluga L, plouria que la pluya J, quando lloviesse, el agua Se1. 42  In effetti viene qui seguito quanto si legge nel commento di Servio a Eneide VI, 287: “hydram dicit, serpentem inmanis magnitudinis, quae fuit in Lerna Argivorum palude; sed latine excetra dicitur, quod uno caeso tris capita excrescebant. cum saepe triplarentur, admoto ab Hercule incendio consumpta narratur, cuius felle Hercules sagittas suas tinxisse dicitur. sed constat hydram locum fuisse evomentem aquas, vastantes vicinam civitatem, in quo uno meato clauso multi erumpebant: quod Hercules videns loca ipsa exussit et sic aquae clausit meatus; nam hydra ab aqua dicta est potuisse autem hoc fieri ille indicat locus, ubi dicit omne per ignem excoquitur vitium atque exudat inutilis umor” (Thilo ed., 50-51). Ma cfr. anche Isidoro, Etymologiae, XI, III, 34-35; Guillaume de Conches (Nauta ed. 1999, 283) e Nicholas Trevet (Silk ed. 660-661).  43 Più in generale sul motivo dell’idra nelle letterature indoeuropee si veda West (2007, 255-258).

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Atalante, rey de Àffricha, en lo verger de les quals foren consegrats poms d’aur per aquell déu qui és appellat Venus e liurats a un drach que gardàs les dites doncelles. Segons Ffulgenti, són nomenades axí: Equla, Ffetusa, Esper, Medusa. E vol dir, segons los latins: estudi, entendre, bé membrar e bé parlar. De l’ort d’aquestes, donques, deu traure los poms d’aur la persona sàvia,44 ço és, sciència, car les dites .IIII. coses són necessàries a compliment de sciència. (H, c. 114v)

regis Africe filie, in quarum orto fuerunt Veneri poma aurea consecrata tradita ad custodiendum draconi. De hac fabula dicit Fulgencius quod Hesperides sunt quatuor, scilicet Egula, Hesper, Medusa, Fetusa, quas nos latine studium, intellectum, memoriam, facundiam appellamus.45 (Olmedilla Herrero ed. 1997, 301)

Ma si noti qui che la precisazione relativa ad Atlante, “Athlantis regis Africe”, non è

riportata da Fulgenzio, ma si legge – per esempio – nel terzo Mitografo vaticano: “Hesperides, Atlantis filiae, regis Africae, hortum habuerunt” (Bode ed., 248). Se la fatica che ha per oggetto la lotta di Ercole contro Acheloo per la mano di Deianira si trova già molto sintetizzata in Guglielmo d’Aragona, dove viene privilegiata la spiegazione evemeristica, nella redazione catalana essa viene tagliata ulteriormente, con perdita definitiva di qualsiasi riferimento alla vicenda mitica e al corno di Acheloo, che viene semplicemente identificato con un fiume impetuoso, di cui Ercole devierà il corso in due parti:

ANTONI GINEBREDA GUILHELMUS ARAGONIAE

La vuytena vegada fo enviat en departir en dues partides lo ffluvi appellat Atalon, qui ere molt gran e fahia gran dampnatge sovén. (H, c. 113v)

Octauo fuit missus ad fluuium Acheloum ut alterum eius brachium ab alueo deuiaret, qui multum locis uicinis nocebat. Qui cum hoc fecisset, dicitur unum cornu eius fregisse. Et ideo dicitur: Fronte turpatus Achelous amnis ora demersit pudibunda ripis. (Olmedilla Herrero 1997, 299)

Più interessante risulta la parte finale del testo catalano, che effettua una scelta

differente rispetto alla fonte per quel che riguarda l’esegesi relativa agli ultimi versi del metro (vv. 32-35) – contenenti un’esortazione rivolta dalla Filosofia agli uomini forti –, per la quale Guglielmo fornisce una spiegazione ad litteram, seguita da una glossa finale riguardante l’assetto metrico del testo di Boezio. Il volgarizzamento presenta a questo punto una parafrasi ampliata dei versi della Consolatio, riportandoli sotto forma di discorso diretto:

                                                                                                               44 sauisa nel ms. 45  Cfr. Fulgenzio: “nam et Hercules aurea mala de horto Hesperidum tollit; quattuor enim Esperides dictae sunt, id est Egle, Esper, Medusa et Aretusa, quas nos Latine studium, intellectus, memoria et facundia dicimus, quod primum sit studere, secundum intelligere, tertium memorari quod intellegis, inde ornare dicendo quod terminas” (Helm ed. 1898, 97).  

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E per açò la Philosophia desperta[nt]46 tot hom47 per ço que aconsegüesquen lo finable bé e sobirà, diu encara: – O vosaltres barons, haiats vós sàviament e virtuosa e forts si volets tenir la carrera e lo camí celestial, e prenets eximpli del molt noble baró Hèrcules. E vosaltres folls e flachs e mesquins e debils per qué us desgarnits e ensenyats les espatles despuyllades, e meses en la48 batalla de la fortuna e us laxats vencre a les coses molt flaques terranals, car no podets esser vençut si us volets, e leugerament les podets vençre si us volets, les quals, si les vençets, haurets e guasayarets les coses celestials e perpetuals. (H, c. 116r/v)

Sebbene non sia ricontrabile un’identità puntuale tra il testo catalano che, dicevamo, si discosta qui dal suo modello diretto, si noterà che un analogo procedimento, con parafrasi dell’apostrofe di Filosofia e contrapposizione dell’esortazione ai savi agli ammonimenti a coloro che fiaccamente si lasciano sopraffare dalle avversità di Fortuna, si ritrova invece in Nicholas Trevet:

ITE NUNC FORTES hortetur ad imitacionem talium virorum forcium ostendens in exemplo quale premium assequentur. Et primo animat virtuosos ITE NUNC FORTES id est fortiter aduersa tollerantes illuc scilicet UBI DUCIT VIA CELSA id est ardua et laboriosa qualis est uia uirtutum que est VIA MAGNI EXEMPLI id est exemplificata a magnis uiris quos imitandos proposuit. Secundo redarguit uiciosos dicens CUR INERTES id est sine arte cuiusmodi sunt homines desides et delicati TERGA NUDATIS fugientes scilicet aduersa non rebellando per uirtutem quod est faciendum si quis consideret premium quod est ualde magnum scilicet adepcio celi. Unde dicit SUPERATA TELLUS SYDERA DONAT quia scilicet superata terrena concupiscencia efficitur homo dignus celo. (Silk ed., 665-666)49

Quanto emerge dall’analisi appena tracciata, non fa altro che avvalorare ulteriormente quanto già osservato da Francesca Ziino (2007, 94), per cui risulta evidente, soprattutto per gli inserti poetici, che nei volgarizzamenti iberici “the parallels among α, β and William’s commentary are more marked in the case of the meters: the vernacular versions often follow the arrangement of the verses provided by William, and in many passages they ignore Boethius’s verses and translate only William’s glosses.” In via più generale, si potrebbe qui ipotizzare anche una deliberata volontà di omettere una serie di informazioni, come le precisazioni metriche o le spiegazioni ad litteram, probabilmente giudicate di poca utilità rispetto ai fini del traduttore e ai destinatari del discorso messo in atto nel volgarizzamento. Se si pensa alla fortuna del mito di Ercole nel panorama letterario iberico che va dalla seconda metà del Duecento – con la Estoria de Hércules inclusa nelle compilazioni storiografico-enciclopediche alfonsine come la Estoria de España e la General Estoria –,50 fino a Quattrocento inoltrato, non si possono qui non ricordare brevemente Los Doce Trabajos de Hércules (1417) di Enrique de Villena che, nonostante l’illustre precedente costituito dal De                                                                                                                46 Lapsus calami dello scriba corretto sulla scorta degli altri testimoni che leggono: despertan P, despertant BMYKLJ, despertando Se1. 47 tot hom ] ho tot HLB, tot P, tot aço MY, les gents K, tot hom J, a todo hombre Se1. 48 fortuna barrato dallo scriba dopo la. 49 Cfr. anche Guillaume de Conches (Nauta ed. 1999, 287): “ITE NVNC. Hucusque hortatus est per historias et per integumenta. Modo hortatur proponendo pretium laboris, dicens: O FORTES uirtute et sapientia, ITE passibus bonae operationis, quia quot bona opera agimus tot passibus ad deum tendimus, VBI id est ad quod, DVCIT VIA MAGNI EXEMPLI scilicet praedicta exempla, quia CVR INERTES id est sine arte et negligentes, NVDATIS TERGA a uirtutibus, et ostenditis nuda sagittis hostis, id est uitiis diuersis. Ad hoc quod posset aliquis dicere: ‘quod praemium erit tanti laboris?’ subiungit: SVPERATA TELLVS DONAT SIDERA, quia deuicta omni cura terrenorum peruenitur ad gaudia caelorum.” 50 Per cui si vedano almeno Sánchez-Prieto Borja & Almeida Cabrejas eds. (cap. 393-435), e Fernández-Ordoñez (76-83).

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laboribus Herculis (1406) di Coluccio Salutati,51 hanno come modello diretto la sezione finale della prima parte della Fiorita d’Italia (1321-1337) di Guido da Pisa, come è stato dimostrato Paolo Cherchi (2002; Cátedra & Cherchi 2007, vol. 1, 115-131). La Fiorita e di conseguenza anche il trattato mitografico di Villena, riprendono dunque nell’impianto lo schema del dodekathlos proposto da Boezio (di cui vengono menzionate più volte nel corso del trattatello sia la Consolatio che l’apocrifo De disciplina scholarium).52 La materia classica viene da Villena amplificata secondo una partitura interna per cui le dodici fatiche rinviano ad altrettante categorie sociali, a loro volta suddivisibili in una serie di sottocategorie di numero variabile. Il testo prevede, per ogni fatica, una ripartizione in historia nuda (la narrazione fatta dagli scrittori antichi), declaración (interpretazione allegorica), verdad (la verità evemeristica) e aplicación (applicazione pratica), proponendo in sostanza una rilettura moderna strutturata mediante una sapiente ripresa di elementi già presenti nella tradizione esegetica più antica, sia classica che medievale. Ma ciò che qui interessa sottolineare è che Los Doce Trabajos de Hércules sono dedicati al cavaliere valenciano Pero Pardo, vale a dire a un pubblico che è quello della classe aristocratica e secolare alla quale il trattatello mitografico poteva interessare “como narración de la cual se podía extraer fácilmente una moral y una “aplicación” política y práctica” (Cherchi, 396), diventando, in ultima istanza, un manuale per l’istruzione morale del cavaliere. Si ritrova qui insomma la stessa attitudine al docere et delectare che aveva portato all’inclusione di una sintesi del prosimetrum di Boezio nel capitolo CCCLXXIIII del Tirant lo Blanch, nella Consolació appunto di Tirant a Plaerdemivida (Hauf ed., 1288-1293), che è al contempo omaggio a una auctoritas consolidata e al gusto di un’epoca.53

Tornando infine al volgarizzamento catalano della Consolatio, e prendendo spunto proprio dalle scelte effettuate nella redazione del brano che chiude l’ultimo metro del quarto libro riportato poco sopra, si può osservare l’affermarsi di un’attitudine alla semplificazione del sistema filosofico sotteso al capolavoro di Boezio, che, con l’ausilio degli insegnamenti tropologici desunti da Guglielmo d’Aragona, mira alla costituzione di un codice vulgato da leggersi in chiave didattico-morale. Se evochiamo per un attimo sia la dedica originaria di Saplana, che si rivolgeva all’infante Jaume de Mallorca affermando di aver intrapreso la traduzione della “per ço que us pogués aconçolar en vostras tribulacions” (Riera i Sans, 299), sia la dedica di Antoni Ginebreda, che dichiarava “Bernat Juan, donzel morador en la cibdad de Valencia, roguó a mi, fray Antón Ginebreda, de la orden de pedricadores de Barcelona, que por quanto él avía grand afección de aver la dicha obra complida, que yo quesiesse suplir los dichos defectos” (Riera i Sans, 309), risulta chiaro come il nostro volgarizzamento e la sua revisione anticipino, pur in due momenti diversi, quella tendenza che sarà predominante soprattutto per la temperie culturale del XV secolo. Ci si rivolge infatti alla sfera del patriziato e dell’aristocrazia, la cui attitudine inclinava più volentieri verso la fruizione, più che di astrazioni squisitamente filosofiche o di informazioni relative a tecnicismi                                                                                                                51 A riguardo si veda Morreale (1954), che fornisce un’analisi delle differenze che intercorrono tra le due opere. Il testo de Los Doce Trabajos de Hércules venne originariamente scritto in catalano e poi tradotto in castigliano dallo stesso Villena. Per l’edizione del testo castigliano, basata sull’incunabolo impresso a Zamora da Antón de Centenera nel 1483, si rinvia a Cátedra & Cherchi (2007, vol. 2, 17-88), si consulti anche Morreale ed. (1958), corredata da un puntuale e accurato studio preliminare. L’edizione del trattato di Villena basata sull’incunabolo castigliano (Burgos, Juan de Burgos, 1499) e curata da Eva Soler Sasera è disponibile online all’indirizzo: http://parnaseo.uv.es/lemir/textos/Hercules/Villena_Hercules.htm (data ultimo accesso 20/11/2014). 52 Per le altre fonti sulle quali si basò Villena si veda Morreale ed. (1958, XXXV). 53 Si ricorderà inoltre che il prologo del Tirant è ripreso proprio da quello dei Trabajos di Villena, per cui cfr. Cátedra 1993.

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metrico-retorici, di spunti morali che facilmente potevano essere inclusi nel codice etico cavalleresco, tanto più pregevoli se veicolati da un libro che una tradizione plurisecolare aveva riconosciuto quale contenitore privilegiato di storie esemplari e che è, per di più, storia esemplare esso stesso.

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