Appunti di viaggio Trento,nelregnodegliOttomila · 2 Alpinismogoriziano-2/2000...

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TRIMESTRALE DELLA SEZIONE DI GORIZIA DEL CLUB ALPINO ITALIANO, FONDATA NEL 1883 ANNO XXIV - N. 2 (136) - APRILE-GIUGNO 2000 SPEDIZIONE IN A.P. - COMMA 20/C ART. 2 - LEGGE 662/96 - FILIALE DI GORIZIA In caso di mancato recapito restituire a CAI Gorizia, Via Rossini 13, 34170 Gorizia Appunti di viaggio Trento, nel regno degli Ottomila di MARKO MOSETTI Similaun. Il film in 90 minuti ricostruisce un probabile (o possibile) ultimo anno di vita di Ötzi, partendo dagli indizi rac- colti attorno al suo corpo nei ghiacciai del Similaun. Un lavoro di fantasia, cer- tamente, ma con basi scientifiche e con un alto grado di plausibilità, senza dimenticare la spettacolarità. Un altro film a soggetto è stato il vincitore della Genziana d’oro Gran Premio «Città di Trento»: si tratta di Himalaya - L’infanzia di un capo del regista francese Eric Valli, già vincitore a Trento nel 1991 con Cacciatori nelle tenebreun grande film questo Himalaya, tanto da essersi meritato una nomination all’Oscar come miglior film straniero per il Nepal, ed ha meritato ampiamente la Genziana d’oro. Caso più unico che raro, non ci sono stati in sala stampa all’atto della proclamazione dei vincitori mugugni, Dal Batognica (M. Rosso), verso S. Est, le cime che sovrastano il laghetto Jezero v Lusnici (gruppo del Krn). U na delle piccole correzioni di rotta delle quali si parlava più sopra è stata l’istituzione que- st’anno della nuova sezione di «opere a soggetto» nella quale concor- revano 7 film. Un’attenzione dovuta che è stata ben ripagata dall’alta qualità delle opere in concorso. Ed iniziamo proprio da questa sezione la disamina dei premi e dei film. Miglior opera a soggetto e vincitore del premio Genziana d’oro «Città di Bolzano» è stato Der Ötztalmann und seine Welt dell’austriaco Kurt Mündl. Già giornalista scientifico e autore di libri, alcuni in collaborazione con l’eto- logo Konrad Lorenz, produttore e auto- re di documentari e reportages scienti- fici, si è cimentato con quella che è stata una delle scoperte più sensazio- nali degli ultimi anni: l’uomo del lizzazione. La mia risposta è che c’è lo spazio ed il bisogno anche di un grande emporio, e questo a mio avviso è il ruolo che il FilmFestival di Trento si è ritaglia- to. La prova sta nelle 48 edizioni portate a buon fine ed il fatto di essere sempre un punto di riferimento per quanti, nel mondo, ruotano attorno all’ambiente della montagna e dell’esplorazione. Sicuramente il lavoro del cronista non è facilitato da queste dimensioni. È praticamente impossibile vedere tutto quello che viene proiettato, seguire le presentazioni di libri, le conferenze, gli incontri, vedere le mostre e partecipare alle manifestazioni collaterali che fanno la ricchezza del FilmFestival. Attendiamo con fiducia però gli svilup- pi dell’ingegneria genetica e delle bio- tecnologie che renderanno prima o poi anche noi uni e trini. T rento, stazione ferroviaria, attendo il treno che mi riporterà a casa. Il FilmFestival numero 48 è terminato, la Giuria ha espresso i suoi giudizi. Sono ancora frastornato dai giorni trascorsi tra proiezioni, incontri, mostre, bevute tra amici. Trovo che il treno sia il mezzo ideale per ritornare alla vita di ogni gior- no, un distacco lento, un micromondo sospeso sulle rotaie dove puoi pensare, senza preoccupazioni, cullato dal don- dolio ipnotico del convoglio. C’è tutto il tempo per ricomporre i ricordi, le sen- sazioni, le idee, gli stimoli raccolti. Com’è stata l’edizione di quest’an- no? Dopo parecchi anni di frequentazio- ne al FilmFestival ho capito (non è mai troppo tardi) che è inutile aspettare chis- sà quale rivoluzione, stravolgimento, eclatante novità. La macchina rodata fa la sua strada apparentemente con moto immutabile, sempre eguale a se stessa. In realtà ci sono piccoli aggiustamenti ogni anno, correzioni di rotta forse impercettibili ma che mantengono alla manifestazione trentina una posizione di primato nei confronti di quelle analoghe sparse per il mondo. Vetrina privilegiata scelta quest’anno da 23 nazioni che hanno inviato 201 opere. Dopo anni di abbuffate di film al limite del collasso, dallo scorso anno la commissione di selezione ha cominciato, per fortuna, a stringere le maglie dell’ammissione al concorso. Così quest’anno 78 sono stati i film a contendersi le Genziane, in rap- presentanza di 19 nazioni. Anche così però, pur dopo lo sfoltimento radicale, la Giuria Internazionale ha auspicato per le edizioni a venire una selezione ancora maggiore. Se andiamo a sfogliare i vec- chi numeri di questo periodico vediamo che questo auspicio era anche il nostro. Oggi però credo di poter dire che più o meno questa sia la giusta misura per Trento, per mantenere quella caratteri- stica che lo contraddistingue da tanti altri FilmFestival, quella cioè di offrire non una scelta ristretta, magari di livello altissimo ma ristretta, di opere bensì uno sguardo ampio sul mondo del cinema di montagna, esplorazione, avventura. Si dirà che è anacronistico continua- re così in un mondo che va, in tutti i campi, sempre di più verso l’alta specia-

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TRIMESTRALE DELLA SEZIONE DI GORIZIADEL CLUB ALPINO ITALIANO, FONDATA NEL 1883

ANNO XXIV - N. 2 (136) - APRILE-GIUGNO 2000

SPEDIZIONE IN A.P. - COMMA 20/C ART. 2 - LEGGE 662/96 - FILIALE DI GORIZIA

In caso di mancato recapito restituire a CAI Gorizia, Via Rossini 13, 34170 Gorizia

Appunti di viaggio

Trento, nel regno degli Ottomiladi MARKO MOSETTI

Similaun. Il film in 90 minuti ricostruisceun probabile (o possibile) ultimo annodi vita di Ötzi, partendo dagli indizi rac-colti attorno al suo corpo nei ghiacciaidel Similaun. Un lavoro di fantasia, cer-tamente, ma con basi scientifiche e conun alto grado di plausibilità, senzadimenticare la spettacolarità.

Un altro film a soggetto è stato ilvincitore della Genziana d’oro GranPremio «Città di Trento»: si tratta diHimalaya - L’infanzia di un capo delregista francese Eric Valli, già vincitorea Trento nel 1991 con Cacciatori nelletenebre. È un grande film questoHimalaya, tanto da essersi meritato unanomination all’Oscar come miglior filmstraniero per il Nepal, ed ha meritatoampiamente la Genziana d’oro.

Caso più unico che raro, non cisono stati in sala stampa all’atto dellaproclamazione dei vincitori mugugni,

Dal Batognica (M. Rosso), verso S. Est, le cime che sovrastano il laghetto Jezero v Lusnici (gruppo del Krn).

U na delle piccole correzioni dirotta delle quali si parlava piùsopra è stata l’istituzione que-st’anno della nuova sezione di

«opere a soggetto» nella quale concor-revano 7 film. Un’attenzione dovuta cheè stata ben ripagata dall’alta qualitàdelle opere in concorso.

Ed iniziamo proprio da questasezione la disamina dei premi e dei film.Miglior opera a soggetto e vincitore delpremio Genziana d’oro «Città diBolzano» è stato Der Ötztalmann undseine Welt dell’austriaco Kurt Mündl.Già giornalista scientifico e autore dilibri, alcuni in collaborazione con l’eto-logo Konrad Lorenz, produttore e auto-re di documentari e reportages scienti-fici, si è cimentato con quella che èstata una delle scoperte più sensazio-nali degli ultimi anni: l’uomo del

lizzazione. La mia risposta è che c’è lospazio ed il bisogno anche di un grandeemporio, e questo a mio avviso è il ruoloche il FilmFestival di Trento si è ritaglia-to. La prova sta nelle 48 edizioni portatea buon fine ed il fatto di essere sempreun punto di riferimento per quanti, nelmondo, ruotano attorno all’ambientedella montagna e dell’esplorazione.

Sicuramente il lavoro del cronistanon è facilitato da queste dimensioni. Èpraticamente impossibile vedere tuttoquello che viene proiettato, seguire lepresentazioni di libri, le conferenze, gliincontri, vedere le mostre e parteciparealle manifestazioni collaterali che fannola ricchezza del FilmFestival.Attendiamo con fiducia però gli svilup-pi dell’ingegneria genetica e delle bio-tecnologie che renderanno prima o poianche noi uni e trini.

T rento, stazione ferroviaria,attendo il treno che mi riporteràa casa. Il FilmFestival numero48 è terminato, la Giuria ha

espresso i suoi giudizi. Sono ancorafrastornato dai giorni trascorsi traproiezioni, incontri, mostre, bevute traamici. Trovo che il treno sia il mezzoideale per ritornare alla vita di ogni gior-no, un distacco lento, un micromondosospeso sulle rotaie dove puoi pensare,senza preoccupazioni, cullato dal don-dolio ipnotico del convoglio. C’è tutto iltempo per ricomporre i ricordi, le sen-sazioni, le idee, gli stimoli raccolti.

Com’è stata l’edizione di quest’an-no?

Dopo parecchi anni di frequentazio-ne al FilmFestival ho capito (non è maitroppo tardi) che è inutile aspettare chis-sà quale rivoluzione, stravolgimento,eclatante novità. La macchina rodata fala sua strada apparentemente con motoimmutabile, sempre eguale a se stessa.In realtà ci sono piccoli aggiustamentiogni anno, correzioni di rotta forseimpercettibili ma che mantengono allamanifestazione trentina una posizione diprimato nei confronti di quelle analoghesparse per il mondo. Vetrina privilegiatascelta quest’anno da 23 nazioni chehanno inviato 201 opere. Dopo anni diabbuffate di film al limite del collasso,dallo scorso anno la commissione diselezione ha cominciato, per fortuna, astringere le maglie dell’ammissione alconcorso. Così quest’anno 78 sono statii film a contendersi le Genziane, in rap-presentanza di 19 nazioni. Anche cosìperò, pur dopo lo sfoltimento radicale, laGiuria Internazionale ha auspicato per leedizioni a venire una selezione ancoramaggiore. Se andiamo a sfogliare i vec-chi numeri di questo periodico vediamoche questo auspicio era anche il nostro.Oggi però credo di poter dire che più omeno questa sia la giusta misura perTrento, per mantenere quella caratteri-stica che lo contraddistingue da tantialtri FilmFestival, quella cioè di offrirenon una scelta ristretta, magari di livelloaltissimo ma ristretta, di opere bensì unosguardo ampio sul mondo del cinema dimontagna, esplorazione, avventura.

Si dirà che è anacronistico continua-re così in un mondo che va, in tutti icampi, sempre di più verso l’alta specia-

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2 Alpinismo goriziano - 2/2000

mormorii, proteste, fatti comuni in pre-cedenti edizioni. La speranza ora è chele promesse di Andrea Occhipinti dellaLucky Red, distributore italiano diHimalaya, di farlo uscire nelle sale nelprossimo inverno diventino realtà. Nellostesso periodo in cui si svolgeva il festi-val a Trento, Himalaya riempiva le salecinematografiche in Francia. Le imma-gini del film ci portano a Dolpo, il soloesempio di cultura tibetana vitale eintoccata. È la storia di uno scontrogenerazionale e di una iniziazione.

La terra di Dolpo è povera e produ-ce nutrimento solo per 4-5 mesi all’an-no. È questa la ragione per cui il suopopolo, sulle piste carovaniere, guidan-do gli yak, commerciando, cerca ilcompletamento indispensabile alla suasopravvivenza. Il regista afferma diconsiderare Himalaya un western, unwestern tibetano, una saga universale eatemporale che racconta una storia dipotere, fierezza e coraggio. Di certo è,come ha detto Adalberto Frigerio, com-ponente della Giuria Internazionale, chemanca solamente il sapore del burro diyak per sentirsi veramente in Tibet.

Stando a Trento nei giorni delFilmFestival più volte mi sonoritrovato a pensare di essere unprivilegiato: riesco a vedere una

gran quantità di belle opere, cose inte-ressanti, stimolanti, che purtroppopochi riusciranno a vedere. E questopensiero è diventato vivo e bruciantementre assistevo alla proiezione diRitratti - Mario Rigoni Stern di CarloMazzacurati. Sono 55 minuti in bianco enero, con camera quasi sempre fissa sulprimo piano dello scrittore che stimola-to dalle domande di Marco Paolini rac-conta, nell’arco di tre giornate, la suavita. Qualche giornalista lo ha bollatocome noioso e non c’è stato nessunpremio per questo film. Capiamo ancheche non può essere facile da digerireper i giurati internazionali Steve Burns,Francisco Algora, Rachid Benhadj,Christophe Profit. Rimane però unagrande lezione quella che Rigoni Sterndà, parlando della sua giovinezza tra lemontagne, del soldato in guerra, delritorno a casa e dell’altopiano di Asiago,per arrivare alle riflessioni sul presente,sulla natura, sulla memoria e responsa-bilità. Ma non c’è solamente RigoniStern: sebbene discreti, la presenza egli interventi di Marco Paolini offronouna lettura supplementare ed uno sti-molo ad ascoltare e cercare di capireciò che prima è stato. Sperare di poter-lo vedere in televisione, sua vera dimen-sione, anche e soprattutto per l’altovalore educativo, equivale alla speranzadi imbroccare un 6 al Superenalotto.

Meglio quindi metterci il cuore inpace (ma il servizio pubblico quale pub-blico serve?) e rivolgere uno sguardo almercato del VHS.

Nutrita e tutto sommato di buonaqualità la sezione dedicata alla monta-gna e all’alpinismo.

Francamente brutto l’attesoDhaulagiri Express di Stipe Bozic,documentazione della fantastica impre-sa solitaria di Tomaæ Humar sulla pare-te sud del Dhaulagiri.

Più interessanti, anche se i mezzimessi in campo sono stati più modestied anche le salite documentate nonsono così mediaticamente spendibilicome quella di Humar, ma qui stiamoparlando anche di cinema, ancorchè dimontagna, sono stati gli italiani PamirAlay-Climbing Big Wall 1999 e BigStone.

Lorenzo Peverello e AlbertoBeltrami, registi di Pamir Alay, si sono

M ai come quest’anno il tendo-ne del centro «S. Chiara» hameritato il nome di CampoBase, tale era la concentra-

zione di himalaysti presenti al FilmFes-tival.

Da sir Edmund Hillary a ReinholdMessner, a Fausto De Stefani, CarlosCarsolio, Kurt Diemberger, alla tarvisia-na «più alta d’Italia» (tre ottomila) NivesMeroi, allo sloveno Tomaæ Humar chesul Dhaulagiri nello scorso autunno haportato un passo più in là il confine delpossibile.

Tante erano le voci da ascoltare, ipensieri, le visioni, le esperienze da rac-cogliere, infiniti gli aspetti di ognuno deipersonaggi presenti e del loro modo divivere la montagna e quella himalayanain particolare e di esprimersi su di essa.

Mi è capitato di scambiare quattrochiacchiere (e parla molto bene l’italia-no) con Krzysztof Wielicki, polacco,quinto uomo al mondo ad aver salito i14 ottomila.

Comparso sulla scena dell’alpini-smo himalayano nel 1980 si è presenta-to da subito come un personaggio fuoridal comune salendo per primo almondo l’Everest in invernale. Nel 1984corre da solo sul Broad Peak, è in vettain 22 ore. E poi è tutto un susseguirsi divie nuove, solitarie, invernali e saliteveloci (1990, Dhaulagiri, via nuova, soli-taria, 17 ore!!!) fino al 1996, quandosempre quasi di corsa tocca la vetta delNanga Parbat.

Chiude così la sua serie, ma non lasua voglia di continuare ancora a cer-care emozioni sulle più alte cimedell’Himalaya.

Chi desidera organizzare una con-ferenza con Krzysztof Wielicki puòprendere contatto con Mario Corradini,tel. 0461 558022 (ore serali); e-mail:[email protected]

D. - Nel 1996 hai concluso, quintouomo al mondo, la tua corsa alla salitadel 14 ottomila. Dopo aver raggiuntoquesto traguardo, quali altri obiettivipossono rimanere ad un alpinista cheha dedicato vent’anni della sua vitaall’Himalaya? Quali sono i tuoi prossimiprogetti?

R. - Quando sono arrivato inHimalaya, le prime volte, la salita di tuttie 14 gli ottomila non era nei miei piani.Non era certamente questo lo scopoche mi portava in montagna. È veroperò che quando vai su quelle monta-gne con continuità alla fine è probabileche dopo un certo tempo ti ritrovi adaverli saliti tutti. Ma questo, ripeto, nonera il mio scopo precipuo. Il mio obietti-vo principale era, ed è, quello di racco-gliere emozioni. Arrivato però ad uncerto punto, quando ne mancanopochi, intervengono altri fattori, altrespinte, con le quali devi pure fare iconti, e sono quelle dei media. Ecco,sono loro che ti spingono a finire laserie, a chiudere in qualunque modo.

Per andare avanti, al punto in cui seiarrivato, devi avere successo. Allora lapressione dei media può diventare unaiuto per sentirti forte e realizzato. Io l’hofatto più per gli altri, per me non è unacosa importante. Se uno ha salito tuttigli ottomila può solo voler dire che ècapace di fare qualcosa in alta monta-gna, e basta.

Finita questa corsa volevo vedere econoscere altri luoghi, Africa, Alaska, mail mio cuore da quando ho visto quellemontagne, è in Himalaya.

All’interno dei 14 ottomila si è inven-tata un’altra convenzione, gli «high five»,le cinque cime più alte. Ebbene, nessu-no fino ad oggi li ha mai saliti in invernotutti e cinque. Questo è il mio prossimoobiettivo. Del resto tre sono già in car-niere con tre prime ascensioni invernali,e l’Everest in prima invernale è stato ilmio primo ottomila in assoluto, vent’an-ni fa, nel 1980. Mi rimangono quindiMakalu e K2. Ci ho già provato, conpoca fortuna, ma ci riproverò.

D. - Tu hai cominciato ad andare inHimalaya vent’anni fa, nel 1980; cosa ècambiato da allora nell’alpinismo hima-layano?

R. - È cambiato tutto, o quasi. Unaspedizione vent’anni fa era un’avventurache andava preparata, le distanze eranoancora enormi. Oggi tecnologia e nuovimezzi tecnici hanno accorciato ledistanze, e per l’avventura ... basta lacarta di credito in tasca.

Per noi all’epoca le montagne eranoun sogno lontano. Non dico che fossepiù bello allora, quando la strada perraggiungere il campo base e poi la vettaera lunga, veramente lunga, in tutti isensi, e sempre in salita. Oggi c’è unagran specializzazione e le prestazionisono straordinarie, ma è una specie dimordi e fuggi. Per me è giusto salire congradualità. C’è però questa grandecomodità che i tempi attuali ti offrono enon è una cosa da buttare via.

D. - In questo ultimo anno soprattut-to, e qui al FilmFestival abbiamo vistodue film su questa vicenda, si è parlatomolto a beneficio del grande pubblicoche della montagna conosce solo letinte forti, del ritrovamento del corpo diMallory e di conseguenza del fatto chequeste alte montagne diventino dei«cimiteri a cielo aperto». Quale è il tuopunto di vista?

R. - Il problema sicuramente esisteanche se i media, soprattutto quelli nonspecializzati, ci dipingono come dei cini-ci mostri che salgono le montagne piùalte della terra scavalcando e scansan-do distese di cadaveri. Questo non misembra un buon modo di fare informa-zione, ma è un male comune, in Italiacome negli Stati Uniti come in Polonia. Ame personalmente in vent’anni è capita-to una sola volta di vedere il corpo di unalpinista.

Forse bisognerebbe far capire chenon ci sono alpinisti che salgono le mon-tagne per andare a morire. Sai che puòsuccedere, ne sei consapevole. La mon-

tagna non uccide, siamo noi che creia-mo i presupposti e le occasioni per gliincidenti.

Devi avere paura, questo è impor-tante, ma devi dominarla. È questo cheti fa crescere e che probabilmente timantiene vivo. Tutti noi uomini, o quasitutti, siamo in cerca di emozioni, inmontagna, in mare, in aria, in millemaniere diverse. La montagna ha il van-taggio, per me, di essere un ambienteancora abbastanza vergine per ricerca-re emozioni.

D. - Quando nel 1980 hai salitol’Everest d’inverno in occidente eri unperfetto sconosciuto. Dopo aver chiusola serie dei 14 ottomila la tua notorietà ècambiata?

R. - Sono sempre più popolare inPolonia che in occidente. Da noi èancora molto viva la figura di JerzyKukuczka. Non mi preoccupo peròmolto della mia notorietà, adesso il mioalpinismo è una bella attività perchénon è competitivo ma ti spinge ad aiu-tarti quando ci sono delle difficoltà.Questo è un valore umano molto impor-tante.

La spedizione, ad esempio, io nonla vedo solamente in funzione della sali-ta, ma come un contenitore di valoriumani. Mi piace stare con la gente.

D. - Qual è oggi la situazione dell’al-pinismo polacco?

R. - L’alpinismo polacco è statosicuramente condizionato negli anni ’70e ’80 dal sistema politico, nel bene e nelmale. Era difficile uscire dal paese,organizzare spedizioni, o anche solofarne parte. Bisognava essere sempre almassimo. Noi in Polonia lo chiamiamol’effetto dell’«uccello imprigionato»:quando ti davano la possibilità di usciredalla gabbia avevi la voglia, il desideriodi recuperare il tempo perso, di raggiun-gere gli alpinisti delle altre nazioni. Equesto moltiplicava le nostre forze.

La montagna, l’alpinismo, era unadelle poche possibilità che avevamoper realizzarci. Adesso il sistema ècambiato, non c’è più la gabbia ma èscomparsa anche dalle nuove genera-zioni quella rabbia, quella voglia di fareche noi avevamo. Qualcuno dice ancheche la colpa è nostra, che abbiamo por-tato i limiti troppo in là, non so. Speroche in pochi anni la situazione si risolva.Il fatto è anche che il mondo alpinisticopolacco è un circolo chiuso, quasi ini-ziatico, se ci entri a far parte ti isoli in uncerto modo dal resto della società. Tiritrovi sempre con le stesse personeche sono alpinisti o legati a quelmondo, parli sempre e solo di quello,vivi in funzione della montagna. Forse ilgiovane di oggi non è più capace diaccettare questo.

C’è un detto polacco che recita chel’alpinismo è una malattia dalla qualenon si guarisce, fino alla morte. Non lopuoi lasciare quindi. E se lo lasci, alloravuol dire che non l’hai fatto sul serio.

(M.M.)

L’intervista

Wielicki, il quinto al mondo

visti attribuire il premio UIAA. Il loro filmracconta della prima salita da parte ditre guide trentine di una inviolata paretealta 1300 metri con elevate difficoltà,nella catena del Pamir Alay kirghizo.Nella motivazione del premio la giuria havoluto mettere in evidenza l’aderenzadell’impresa alla filosofia dell’UIAA, non-ché alle tendenze attuali dell’alpinismo

di punta sulle grandi strutture rocciose.Big Stone di Valerio Folco è stata

giudicata la miglior opera di autore ita-liano. Anche in questo caso si tratta diun documentario autoprodotto ma ipossibili limiti tecnici del video vengonosuppliti dalla qualità dell’impresa, lasalita di «Reticent Wall», una delle piùdifficili vie di roccia al mondo su El

Capitan, e dallo spirito dell’arrampicataestrema, sempre gioioso, e di grandepreparazione tecnica.

La Genziana d’oro per il miglior filmdi alpinismo è andata a I cavalieri dellevertigini di Gianluigi Quarti, GiovanniCenacchi e Fulvio Mariani. Il film riportaalla luce un episodio forse un po’dimenticato della grande competizione

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Alpinismo goriziano - 2/2000 3

Cime Castrein e Forcella Mosè da Est.

che negli anni ’50 coinvolgeva l’alpini-smo europeo sulle ultime vie classichedelle Alpi. La «direttissima» alla CimaOvest di Lavaredo fu il campo di batta-glia fra gli svizzeri Weber e Schelbert egli Scoiattoli di Cortina. La storia diquesta salita viene rivissuta ed esami-nata in tutti i particolari, con un grandelavoro di ricerca storica, di raccoltadelle impressioni dei protagonisti piùnoti ma anche di quelli (quelle!) meno. Ilritmo del racconto è avvincente e leimmagini ne sono il giusto contraltare,tanto da farne l’opera che in questaedizione del FilmFestival più si è avvici-nata allo spirito della cronaca giornali-stica e quindi meritevole anche del pre-mio della stampa, assegnato dai gior-nalisti accreditati. Una certa curiositàhanno suscitato tre film di produzioneitaliana che possono in un certo qualmodo essere associati in un unicoscopo didattico. Il primo, premio CONI,è dichiaratamente un’opera didattica.Si tratta di Dry Tooling di SandroTamanini, ed illustra le più avanzatetecniche di progressione su ghiacciofino alle estreme possibilità di salita sumisto, una nuova tecnica ed un nuovomodo di affrontare la montagna. Nuovimateriali, nuova mentalità, nuove sen-sazioni da sperimentare. La mia per-plessità nei confronti di questo filmriguarda la piattezza dell’illustrazione e,come a scuola, quando il professorespiega, laggiù sulla cattedra, dopo unpo’ ci si annoia.

Diversi invece sono i modi di farlezione, di raccontare la montagna e lasua storia che hanno escogitato rispetti-vamente Vittorio Moroni ed EnricoCamanni con Vincenzo Pasquali.L’incontro di Moroni racconta l’alpini-smo e la montagna attraverso l’iniziazio-ne di una giornalista neofita di vette daparte del giovane «Rampikino» Maspese del vecchio Ugo Fiorelli. Un modo sim-patico di ironizzare sugli stereotipi dellagente di pianura e su quelli dei valligiani.La montagna inventata di Camanni ePasquali ha uno sviluppo abbastanzasimile al precedente ma questa volta lagiornalista digiuna di montagna il suoapprendistato lo compie attraverso lalettura e lo studio dei classici e della sto-ria dell’alpinismo. È un viaggio attraver-so fatti ed imprese ma soprattutto uomi-ni ed idee. È stato premiato con il rico-noscimento istituito quest’anno e asse-gnato dalla Direzione del Festival almiglior film di produzione autonoma,comunque documentata, ovvero finan-ziato dagli stessi realizzatori.

Un lieto ritorno a Trento è statoquello del sudafricano Nic Good (St.Valentin, 1997) che con Oceans of Fearsi aggiudica la Genziana d’argento perla miglior opera d’avventura e sport.Film scanzonato e con finale non scon-tato sulla salita e seguente discesadella via «Ocean of Fear» (oceano dipaura) su una parete all’estremo suddell’Africa.

Nell’edizione che Trento ha volutodedicare agli 8000 ed ai protagonisti diquelle imprese, sono stati presentati inconcorso due film sulla scomparsa diG. Mallory. Le secret de la déesse filmfrancese di Thierry Pellissier è, comerecita la segnalazione della Giuria, l’e-semplare ricostruzione storica di unmistero dell’alpinismo himalayano.Ricostruzione che parte dalla storia diMallory, rifacendosi a preziosi materialid’epoca che riguardano le spedizionihimalayane inglesi del 1921, 1922 e1924. Materiali d’archivio dell’AlpineClub di Londra, della Royal GeographicSociety e di Sandra Noel, figlia delcineasta di quelle lontane spedizioni.Ma malgrado la ricerca minuziosa, letestimonianze attuali, il ritrovamento

del corpo di Mallory, il mistero sulla suafine e su quella di Irvine e sul loro even-tuale raggiungimento della vettadell’Everest rimane più fitto che mai.

Meno valido, ma è il mio modestis-simo parere, è il documentario Lost onEverest dell’inglese Peter Firstbroock,che segue la spedizione che ritroverà ilcorpo di Mallory.

Indubbiamente lo scoop, ancorchèmacabro, è stato grande, ma disturbaquella presa di posizione fin da bel prin-cipio, molto poco in spirito BBC (per laquale Firstbroock lavora) che vorrebbeMallory ed Irvine caduti di ritorno dallacima. Forse proprio per questo gli èstato assegnato il premio RAI per ilmiglior documentario televisivo.Curioso è il finale della motivazione delpremio FISI attribuito al video svizzeroSoul Pilot di Rob Bruce e DominiquePerret, “da apprezzare ma certamenteda non imitare”. Dopo la sequela dimorti e disgrazie, dopo gli infiniti appel-li che ogni inverno e primavera vengonolanciati alla prudenza sugli sci e all’at-tenzione al rischio valanghe nella prati-ca dello scialpinismo, si «apprezza» e sipremia un video che con buon ritmo emusica coinvolgente mostra uno sciato-re lanciarsi a capofitto in spettacolaridiscese vergini, tagliare allegramentependii, provocare slavine. E tutto que-sto nel nome della Federazione ItalianaSport Invernali. Da non imitare!!!

Tanti, troppi per la pazienza del let-tore, sarebbero i film di cui parlare. Milimiterò, purtroppo, ad un cenno perUshuaïa Nature: Les mémoires de laterre di Gilles Santantonio, premio spe-ciale per la miglior fotografia, un grandeesempio di documentario naturalistico.

Altra breve segnalazione per laGenziana d’argento per la miglior operadi esplorazione e tutela dell’ambiente,l’austriaco Spuren im Sand di WaltraudPaschinger, un documentario sullariconquista da parte della natura deiterreni violentati e abbandonati dall’in-dustrializzazione.

Scarsa purtroppo e di poco peso larappresentanza regionale.

Alpi Giulie - Storie, percorsi, rifugidi Gianpaolo Penco, nato come serietelevisiva di pochi minuti a puntata mache, cuciti assieme a formare undiscorso unitario, diventa lenta epesante. Forse è più adatto al formatoCD-Rom che ad una sala di proiezione.

Un gioiellino, purtroppo non capito,si è rivelato invece Valentin Stanic dellaregista slovena Marjeta Svetel. Nonnuova a Trento, dove è presente fin dal1994 e dove è stata componente dellaGiuria nel 1998.

Il film è la ricostruzione, parte incostume d’epoca, parte attraversointerviste attuali, della vita di ValentinStanic, pioniere dell’alpinismo nato allafine del 1700 in un villaggio della valledell’Isonzo, nei pressi di Kanal.Studente a Salisburgo partecipò allaprima salita al Grossglockner, fu poi perprimo e da solo sul Watzmann, monta-gna bavarese leggendaria. Finiti glistudi divenne prete prima sull’altopianodella Bainsizza, poi a Kanal. In età piùavanzata fondò e diresse a Gorizia uncollegio per giovani sordomuti e sidedicò ad alleviare le sofferenze deisuoi parrocchiani senza peraltro maidimenticare le amate montagne. La suamemoria alpinistica è tenuta viva dauna targa sul Watzmann, da un rifugio alui dedicato sulle Alpi Giulie Slovene eda una cima che porta il suo nome. Unomaggio doveroso ad un personaggioimportante della fase pionieristica del-l’alpinismo.

L ’evento di maggior richiamo diqueste giornate trentine è statosenza dubbio l’incontro con iprotagonisti delle salite agli

8.000. Nel cinquantesimo anniversariodella prima salita ad una vetta di oltreottomila metri il FilmFestival ha volutodedicare l’intera edizione di quest’annoai giganti himalayani ma soprattuttoagli alpinisti che sulle loro pareti hannoscritto pagine di storia. Nutrito il parter-re degli ospiti che nei due giorni diincontri, convegni, serate sono stati let-teralmente sommersi da un vero e pro-prio bagno di folla. Su tutti spiccava lamole imponente di sir Edmund Hillary,accresciuta di un paio di spanne nonsolamente dal fatto di essere stato ilprimo alpinista in cima all’Everest, maanche e soprattutto dai progetti cheassieme alla moglie ha portato avanti erealizzato a favore delle popolazionihimalayane. Progetti e attività che stan-no molto a cuore al grande neozelande-se, che lo ha più volte ribadito nei variincontri e conferenze. Un’attenzioneparticolare alle popolazioni sherpa etibetane è rivolta anche da Fausto DeStefani, uno degli otto uomini al mondoche finora hanno concluso la serie disalite sui 14 ottomila. Degli altri eranopresenti a Trento Reinhold Messner,

Nives Meroi, tre ottomila in dieci mesi; ilfrancese Christophe Profit; Eric Abram,oscuro «portatore» che con Bonatti sisacrificò a portare le bombole dell’ossi-geno per la vetta di Lacedelli eCompagnoni.

Tutti questi personaggi sono statiintrodotti nel corso di una serata intera-mente dedicata all’alpinismo himalaya-no da un Reinhold Messner nelle insoli-te vesti di presentatore. Così tra storia,piccole e veloci interviste, applausi delpubblico e filmati storici, il grandeReinhold ha condotto la stipatissimafolla dell’Auditorium dall’atmosferacalda e pesante della sala ai brividi del-l’alta quota ed all’aria sottile. Ognuno,una volta sul palco, ha portato il suocontributo alla costruzione della storia.Ed il pubblico ha sorriso (Cassin: seandavo con Desio al K2 gli avrei porta-to via una parte di gloria) e si è com-mosso (Diemberger che racconta lafine della compagna Julie Tullis al K2nell’86; Wielicki che ricorda gli amiciKukuczka e Wanda Rutkiewicz), e si èsentito, per una sera, parte della storia.

Altro appuntamento importantee tradizionale a Trento èMontagnalibri, giunta quest’an-no alla 14ma edizione. La gran-

Carlos Carsolio e Krzysztof Wielicki.Assenti perché impegnati in spedizioniErhard Loretan e Sergio Martini. Sonostati altresì della partita KurtDiemberger, unico alpinista al mondo apoter vantare due prime ascensionisugli 8.000; Tomaæ Humar, lo slovenoprotagonista sulla parete sud delDhaulagiri nello scorso autunno, edindicato dallo stesso Messner come «ilfuturo dell’alpinismo himalayano»; SoroDorotei; Riccardo Cassin; la tarvisiana

de rassegna ha ritrovato una colloca-zione centrale, dal punto di vista logisti-co, ritornando in centro città dal freddocapannone in cui era stata confinata loscorso anno. Sotto il tendone eretto inpiazza Duomo hanno trovato postooltre 800 libri da sfogliare.

600 novità editoriali fra guide alpini-stiche, escursionistiche, di natura esport in montagna, studi d’ambiente,geologia, geografia, cartografia, diari,biografie d’alpinismo, avventura, spedi-

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4 Alpinismo goriziano - 2/2000

zioni. 160 i volumi esposti nelle duemostre tematiche. 74 le riviste specia-lizzate in mostra, 350 le case editrici.

La partecipazione straordinaria deglieditori è stata rilevata dalla coordinatricedella rassegnaWolftraud De Concini cheha spiegato come sia in mostra «unamontagna per tutti i gusti, per gli sporti-vi e per gli studiosi. Anche per gli aman-ti del mistero. Perché per la prima voltal’Everest è servito da palcoscenico adun romanzo giallo. Una dimostrazione dicome questa vetta sia oramai parte inte-grante della fantasia dei lettori».

Sempre in ambito librario è stato as-segnato il 29° Premio ITAS del libro dimontagna. Il «Cardo d’oro» del primo pre-mio è stato vinto da Yves Ballu con l’emo-zionante e precisa ricostruzione della tra-gedia del Monte Bianco del Natale 1956,in cui due giovani scalatori perirono dopolunghi giorni di agonia in attesa che daChamonix si organizzassero i soccorsi:epopea raccontata inNaufragio sulMonteBianco edito da Vivalda.

È stato comunque il cinema afarla da padrone, né potevaessere altrimenti. Sacrificate dauna programmazione che le

sovrapponeva alla proiezione dei film inconcorso le due retrospettive di filmsulle «grandi conquiste himalayane» esul cinema elvetico.

Interessanti le brevi proposte cheprecedevano le proiezioni serali, dedica-te di volta in volta a personaggi diversilegati al cinema ed alla montagna, daSpencer Tracy, protagonista del celebreLa montagna del 1956, a Ro Mercenaroed il cinema d’animazione, al cinema diLuis Trenker raccontato da Florian, figliodel regista e suo aiutante, a RemyJulienne, cascatore e controfigura dicelebri attori in film d’azione e ad altorischio. Per finire con la presentazionealla stampa specializzata dell’Internatio-nal Alliance for Mountain Film, un gruppodi lavoro composto dai più importantiFilmFestival mondiali, da Trento alMuseo della montagna di Torino, daAutrans (Francia) a Banff (Canada), dalPremio Alp-Cervino a Graz, da LesDiableretes (Svizzera) a Torello (Spagna),che ha per scopo la valorizzazione e laconservazione della cinematografia dimontagna attraverso momenti di lavorocomune da affiancare o integrare alleattività normalmente svolte.

In conclusione non poteva mancareuna piccola nota stonata. Il FilmFestivalaveva dedicato una mattinata alle scuo-le medie della città di Trento, invitandogli studenti ad un incontro che con il tito-lo di «Ciao Montagne», una serie diproiezioni ed altri incontri sui temi del-l’ambiente e della natura, avrebbe dovu-to fare da guida ai ragazzi nella cono-scenza della montagna. Cesare Maestriavrebbe dovuto intrattenere i ragazzicommentando un suo filmato. Ebbene,nessuna scuola si è presentata all’ap-puntamento. Scandalo e conseguenteitalianissimo palleggio delle responsabi-lità e accuse. Il Provveditorato agli studispiega che il programma è giunto inritardo; Antonio Cembran direttore delFestival constata la «lontananza dellascuola dalle sensibilità culturali che nonrientrano nei programmi didattici»;Cesare Maestri rileva che «ancora unavolta la nostra scuola ci conferma ilcompleto disinteresse per l’ambienteche è la cosa più sacra che abbiamo».

Non sappiamo di chi sia la ragionee di chi il torto: possiamo però fare unapiccola constatazione anche noi, unaconstatazione stupita sul fatto che in 48edizioni del FilmFestival di Trento nes-suno mai si sia sognato di far parteci-pare le scuole a questa manifestazione.

N ell’oblio dei goriziani è ingiu-stamente andata la memoriadi un pioniere dell’alpinismo,oltre che di un degno sacerdo-

te e poeta che una città come Monacodi Baviera ricorda con una piazza:Valentin Stanig, o Stanic secondo lamoderna grafia slovena. Ma anch’eglifirmava Stanig per cui gli lasceremo ilvecchio nome. È ricordato con un pic-colo monumento a Canale sull’Isonzo.È nato infatti in quei pressi, a Bodrez,da una famiglia contadina, il 12 feb-braio del 1774. Ma nei tanti richiamibiografici che troviamo nella letteraturaalpina tedesca e nel BiographischesLexikon des Kaisertums Österreich del1878 è scritto che è nato imGörzischen, nel Goriziano.

Nella storia dell’alpinismo austria-co e tedesco occupa un capitolo dirispetto: nel 1799 raggiunse, primo esolitario, la cima del Watzmann; nel1800 fu nella spedizione che conquistòil Grossglockner; nel 1801 tornò suimonti paterni sopra l’Isonzo, che eglichiamava con l’antico nome tedescoIsnitz. Fu in vetta al Tricorno (Triglav o,con toponimo più primitivo, Terglou)con la famosa guida Anton Kos e salìancora da solo il Mangart.

Si era in pieno tempo di leggendecupe che volevano le cime dei montiminacciosamente inviolabili, abitate daesseri maligni; Stanig, da ricercatore escienziato, non se ne fece mai proble-ma. Semmai le cime erano luogo dovecantare inni a Dio per la bellezza dellaCreazione.

Stanig era ancora teologo aSalisburgo quando partecipò, nel lugliodel 1800, alla spedizione del principearcivescovo Salm-Reifferscheid e delvicario von Hohenwarth al Grossglock-ner; spedizione davvero: sei calessicon cavalli, due carri per il trasportodel bagaglio, vari cavalli da sella, servi-tori e cuochi, cibi in abbondanza, Tokaje Malaga, per oltre sessanta persone.Saussure sul Bianco, tredici anniprima, aveva insegnato con le diciottoguide di accompagnamento ed unascorta di viveri con ogni ben di Dio.

Dopo tre giorni, gli «scalatori» dellaspedizione Salm - il parroco Horrasch,von Hohenwarth ed altri due - raggiun-sero la cima grande e la cima piccola,alle undici del mattino del 28 luglio. Fuuna giornata storica. L’indomani, unaltro gruppo della spedizione, conStanig in testa, raggiunse di nuovo lacima. Erano contadini e falegnami diHeiligenblut che dovevano portare lacroce da collocare sulla vetta. A Stanigvenne un’idea che passò alla storia. Sifece tener ben saldo il lungoAlpenstock che aveva con sé (altridicono un palo, un tronco d’albero) e visalì come un acrobata fin in cima, dilu-viando con urla e jodler di gioia: volevadire - al mondo intero, che nulla sape-va nel fondo brumoso delle valli, chelui, Valentin Stanig, era salito sulGrossglockner più in alto di quelli delgiorno prima.

Troppo lungo sarebbe fermare lagioiosità di questo e di altri racconti dicime. Un cenno ne facemmo nel libro«Tricorno 1778-1978» che il CAI gori-ziano pubblicò a duecento anni dallaprima salita sul Tricorno. Più ampia-mente ho scritto di Stanig, raccoglien-do alcuni passaggi delle sue relazionipubblicate a Vienna nel 1881, aSalisburgo nel 1885 nella «Zeitschrifft

des Deutschen und ÖsterreichischenAlpenvereins», per un libro sulle AlpiGiulie di prossima pubblicazione.Rimando ad esso gli appassionati distoria alpinistica.

Del Tricorno scrisse Stanig che eraun monte pauroso, tanto più arduo digrandi montagne che aveva scalato nelSalisburghese. Ricordò la traversatafinale: «Dovetti ripararmi con ambe lemani gli occhi per non vedere ai duelati il precipizio e guardare soltantodavanti a me». Certamente, oggi fasorridere, ma erano tempi in cui si arri-vava in cima sfiniti dalle lunghe marcedi avvicinamento e con gli scarponichiodati; erano tempi in cui violare l’ar-cano delle alte montagne era un avve-nimento, faceva notizia su tutti i gior-nali ed i salitori venivano chiamati edammirati nelle conferenze pubbliche.

Ma torniamo al goriziano ValentinStanig che, dopo essere stato cappel-lano a Nonnenberg, vicino a Salisbur-go, dove fu ricordato per il «Kaplangar-ten», un giardino a terrazze rocciose incui aveva raccolto tutta la flora dellaregione, fu restituito alla sua patriagoriziana. Fu in cura d’anime aBainsizza (Banjøice) dove visse inmiseria per oltre sette anni sotto unacapanna con il tetto di paglia e poi aRonzina (Roœinj) per altri dieci. La care-stia del 1817 lo costrinse ad un appelloall’imperatore Francesco I. Lo fece inpoesia: «Uns drückt Noth / Franz! gibBrod / Sonst, o Gott / Schneller Tod».Come a dire: ci occorre pane, ci toccamorire! E non solo l’imperatore Franzmandò il pane alla gente affamata diStanig, ma due anni dopo lo fece chia-mare a Gorizia a fare il canonico delDuomo (Domherr von Görz). Stanig aGorizia fu anche imperialregio ispetto-re scolastico e fondò e diresse l’istitu-to per sordomuti, dove espresse unaprofonda umanità. Lavorando, ancorasettantatreenne, alla costruzione di unmuro, gli si rovesciò addosso una pie-tra che stava sollevando, gli procuròuna grossa emorragia che lo mandò amorire nell’ospedale di Gorizia il 29aprile del 1847.

Anniversari

Duecento anni di

Valentin Stanig.

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((PP..GG..))

Valentin Stanig, pioniere nell’obliodi CELSO MACOR

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Alpinismo goriziano - 2/2000 5

Editoriale

Il poeta invisibile

diario, tutto misurò con i suoi strumen-ti, tutto raccolse della flora e dei mine-rali. Ma i sentimenti la vincevano sullascienza. Pensava che le montagnehanno le radici nel cuore della terra, nelsuo mistero. Parlava da solo. Eranoparole che si caricavano d’enfasi, macome venivano, venivano. «Tu, o uomo- diceva, gridava forse -, tu che non seipietra ma hai un’anima, quanto dovre-sti startene muto davanti a questemontagne. Quanto se piccolo, uomo, equanto sei grande se ti rendi conto chenon sei solo corpo, ma anche spirito. Inquesta tua possibilità di sentire, in que-sta libertà illimitata che qui ti si riveladovresti cercare la verità per tornaredabbasso ad incontrare con animodiverso i fratelli buoni e cattivi». L’ecodella sua voce tornava dopo sei secon-di. Annotò anche questo mentre non sidecideva a scendere dalla cima, ché gliera troppo doloroso il distacco da quel«primo posto nel teatro del mondo»dove non era arrivato nessuno prima dilui, o forse solo qualche cacciatore, macon ben altri sentimenti.

Wilhelm Lehner nel suo libro «DieEroberung der Alpen», stampato aLipsia nel 1924, definì Stanig «der ersteBergsteiger aus Liebhaberei», il primoalpinista per amore, pioniere di quellastoria delle Alpi che si colloca al disopra della esplorazione scientificadelle vette o dei richiami della cacciaper rispondere all’«auf höherenWunsch», ad un desiderio più alto.

Nel 2000 Salisburgo ricorderà cer-tamente i duecento anni da quel 28luglio 1800 in cui la più alta vettadell’Austria fu raggiunta dall’uomo, unavvenimento che corse in tutta Europa,come quattordici anni prima la conqui-sta della cima del Monte Bianco. Ericorderà Valentin Stanig. Lo ricorderàla sua terra natale, la terra che raccol-se la sua opera spirituale e che conser-va le sue spoglie mortali?

Anniversari

Duecento anni di Grossglockner

In tedesco ed in cragnolino Stanigscrisse poesie e Lieder; tradusse moltipoeti tedeschi, ma di lui restano notesoprattutto le relazioni alpinistiche sul-l’esplorazione delle Alpi. A Stanighanno dedicato fitte pagine tutti gli sto-rici dell’alpinismo austriaco e tedesco:da Wilhelm Lehner a Karl Ziak, a KurtMaix.

Stanig intercalava nelle sue memo-rie spesso frasi latine che, insieme conil suo tedesco ancora acerbo di duesecoli fa, scioglievano racconti carichidi fascino e di magia. «Quis contrame?» scriveva con scherzosa edostenta superbia affrontando l’alto Göllin piena notte. Amava andar solo,anche per risparmiarsi i soldi delleguide. Con Anton Kos questionò dibrutto sul prezzo da pagare. Altre voltepreferiva la compagnia di qualche cac-ciatore nell’avvicinamento alla monta-gna: quello non costava niente, andavaper le sue e conosceva i sentieri. Ledescrizioni delle ascensioni sono diuna semplicità, di una precisione, diuna forza narrativa, oltre che di un can-dore e di un entusiasmo irripetibili.Leggendole ti sembra di camminargli afianco.

Sul Watzmann rischiò di finire in uncrepaccio. Un ponte di pietre crollò unistante dopo che l’aveva passato. Lapioggia non lo fermò davanti al monteHoher Göll. Stette una notte intera acontemplare il correre rapido dellenuvole davanti alla luna fin che il montelasciò trasparire la sua cima. Il diradar-si delle nuvole annunciava un’alba fan-tastica che mutava di continuo in toni ecolori. Quando il sole illuminò la vetta ilsuo trionfo solitario era vicino. Unpanorama senza confini si apriva d’o-gni parte sopra i vinti abissi che preci-pitavano sul selvaggio Köningssee. Edil momento era reso ancora più dolcedallo scampanio degli animali al

pascolo, dalle grida e dai canti dei lorocustodi che a ondate, come il vento,giungevano sulla cima. Stanig percor-reva con gli occhi uno ad uno i grandipatriarchi delle Alpi, tutti all’orizzontecome per un magico appuntamento:dal Wiesbachhorn, lontano e maesto-

so, al Grossglockner che aveva cono-sciuto un anno prima, alle più vicinetorri di calcare dello Steineresmeer, ilmare di pietra: il solitario Teufelshorn, ilWatzmann e cento altre cime. E valli epaesi con i loro campanili; e laghi eboschi e prati. Tutto annotò per il suo

Il Grossglockner dall’Adlersruhe.

S iamo stati anche noi complicie artefici del rapido esauri-mento in edicola del numeromonografico di «Alp» dedica-

to alle Alpi Giulie.Finalmente il giusto riconosci-

mento alle nostre montagne, unaluce gettata sulla loro invisibilità, aldi là dei vari spizzichi e smozzichiapparsi sulla stampa specializzatanazionale nel corso degli anni, ricchisolamente di trite banalità sicura-mente poco invitanti.

Tuttavia ci sentiamo di muovereun appunto. Alle pagine 84 eseguenti della rivista in questione untitolo invitante, «Uno scaffale per leGiulie», ed una firma autorevole,Spiro Dalla Porta Xidias, richiamanol’attenzione.

A parte la discrasia, che colpisceil lettore giunto alla fine dell’articolo,tra il contenuto dello stesso e l’elen-co, curato da Luciano Santin sullacolonna a fianco, di volumi dedicatialle Giulie, salta immediatamenteagli occhi un grave peccato di omis-sione.

Fatta salva la libera interpretazio-ne di ognuno, l’impressione che si haleggendo quelle note è che l’amicoSpiro consideri degni di attenzione equindi di entrare nell’empireo degliAutori di montagna solamente gliAlpinisti, coloro che fanno i gradi,aprono vie, dominano il vuoto. Mauna verità ben nota nel campo dell’e-ditoria di montagna è che non sem-pre, anzi, esiste una diretta relazionetra una elevata capacità alpinisticaed una altrettanto elevata padronan-za della penna e del congiuntivo. Lafirma di Celso Macor non è alpinisti-camente spendibile? È questa l’unicagiustificazione che riusciamo a trova-re alla sua assenza nella disamina diSpiro.

Ma non si parlava di libri e lette-ratura, ancorchè di montagna?

Ammesso e non concesso che lafrequentazione montana di Celsonon abbia avuto particolari qualitàalpinistiche, ben altri ed alti sono isuoi meriti in rapporto alla montagna,alle Giulie in particolare ed alla lette-ratura ad esse riferita.

Forse non è inutile ricordarecome il nome oggi così conteso, chetutti in regione ed oltre si affannano afare proprio, a proposito ma moltospesso a sproposito, di Julius Kugy,sarebbe ancora nel baule ben chiusodei dimenticati, se non fosse statoper la volontà e l’opera di CelsoMacor, Mario Lonzar e Ervino Pocar.E se non bastasse questo ci sono gliinnumerevoli scritti che Celso hadedicato alle montagne, alle Giulie inparticolare, da Zwölfer e Tricornoagli ultimi splendidi Aesontius, Volocon l’aquila e Silenzi in concerto, chelo collocano di diritto in quella posi-zione in cui si finge di non vederlo,quale degno erede di Julius Kugy,nuovo e purtroppo già scomparsopoeta e cantore delle Alpi Giulie. Anoi ed ai lettori di «Alpinismo gorizia-no» il piacere di saperlo; ai molto piùnumerosi lettori del numero mono-grafico di «Alp» questa fortuna èstata negata. Ed una parte delle AlpiGiulie, quella del cuore, della poesia,della cultura, rimane ancora invisibi-le.

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6 Alpinismo goriziano - 2/2000

Novità in libreria

La Contessa sul Monte Biancoed altre storiedi MARKO MOSETTI

C he il turista o viaggiatore che neiprimi anni del 1800 si avventu-rasse sulle più alte cime delleAlpi stendesse poi una relazione

dettagliata delle sue avventure, peripe-zie ed emozioni alle alte quote, dovevarisultare una cosa abbastanza comune.Non altrettanto comune, anzi assoluta-mente eccezionale lo era se fatto da unadonna.

Henriette d’Angeville, nobildonnafrancese nata in pieno Terrore, è stata laprima donna non valligiana, in pratica laseconda assoluta, a salire in cima alMonte Bianco. Aveva 44 anni nel 1838quando organizzò e partì con la sua spe-dizione, assieme a sei guide e qualcheportatore. Non le bastava il viaggio finoa Chamonix, nè le tranquille passeggia-te che erano il massimo che la maggiorparte degli ancora rari visitatori di quellaparte delle Alpi si concedeva allora.Contro tutte le convenzioni dell’epoca leivoleva tutto, il massimo, la cima dellamontagna più alta, e forse a conti fattianche di più, visto che una volta in vettasi farà alzare a braccia dalle guide, più inalto di chiunque altro.

Da questa esperienza la contessad’Angeville riporterà a valle appunti eschizzi raccolti, vergati, tracciati durantei giorni di preparazione, quelli dell’azio-ne, ed i successivi alla felice riuscita del-l’impresa.

Dagli appunti lei trarrà la cronacadella salita, gli schizzi verranno affidatiad esperti pittori affinchè ne rendanovalide immagini ad illustrare il racconto.Il tutto è finalizzato alla pubblicazione diqueste, sicuramente inusuali per l’epo-ca, memorie. Il progetto però si arenò. Illibro, che in quegli anni avrebbe dovutoessere una specie di instant book, videla luce solamente nel 1987 presso l’edi-tore francese Arthaud.

Nel 1989 Vivalda pubblicò una primaversione italiana, priva però dell’appara-to iconografico. Ritorna in libreria oggiLa mia scalata al Monte Bianco dellacontessa Henriette d’Angeville, correda-to dalle riproduzioni delle tavole di quel-la che avrebbe dovuto essere l’edizioneoriginale. La collana de «I Licheni» diVivalda si arrichisce così di un titoloimportante della storia dell’alpinismopionieristico.

I 150 anni e più trascorsi in qualcheoscuro cassetto non tolgono nulla alfascino ed al divertissement della scrittu-ra di quella che fu «la fidanzata del MonteBianco». Le pagine restituiscono al letto-re di oggi le osservazioni, le idee, le emo-zioni di questo personaggio così pococondizionato dal conformismo del suotempo. Quello che maggiormente colpi-sce sono proprio gli sguardi acuti ed avolte pungenti che Henriette d’Angevillevolge a tutto ed a tutti quelli che in qual-che maniera ruotano attorno alla spedi-zione: amici e parenti preoccupati (dellasua incolumità fisica o delle chiacchiereche inevitabilmente si solleveranno?),abitanti e guide di Chamonix, il parrocodella cittadina alpina, gli usi, i modi di vitae di andare in montagna dell’epoca.

Si può prestare a diverse letturequesto libro: financo, si può supporre, aquella di qualche vetero femminista chepuò trovare tra queste pagine interes-santi spunti sulla condizione femminilenei primi anni dell’800, vista attraverso lepupille privilegiate di un’eccentrica nobi-le. Ma quella per la quale noi propendia-mo, almeno di primo acchito, è quellapiù semplice del puro piacere e godi-mento. E anche così non mancheremodi stupirci e di rimanere ammirati di fron-te a quello che per l’epoca era un fatto disicuro straordinario, frutto di una forza divolontà granitica al motto di «volere èpotere» e, ça va sans dire, del denaro.

L a collana de «Le guide di Alp» siarricchisce di due nuovi titoli.Nella sezione dedicata all’alpini-smo vede la luce Gran Sasso,

150 itinerari scelti, dai classici ai piùrecenti di Fabrizio Antonioli e FabioLattavo. Ambedue istruttori nazionali dialpinismo del CAI e autori di articoli suriviste specializzate di alpinismo eguide, Lattavo dirige la scuola di alpini-smo «La spada nella roccia». Entrambihanno aperto nel gruppo del Gran

dell’Italia scalabile. È un invito, comerecita la quarta di copertina, a scoprire ilgioiello dell’Appennino. Le note tecni-che sono quelle consuete della collana,complete di tutto quanto può essereutile all’informazione dell’alpinista che siavvicina a queste pareti. Utile, vista larelatività dell’interpretazione a cui siprestano certi schizzi o certe descrizio-ni, l’idea di tracciare l’itinerario descrittodirettamente sulla fotografia. La descri-zione della via poi, come gli autori spe-cificano, è tanto più precisa e dettaglia-

Il gruppo del Montasio dalla Forcella Lavinal dell’Orso (Sud-Est). Al centro il ripidissimocanalone Huda Pàliza, il più lungo delle Giulie, che sprofonda nella Spragna.

Sasso numerosissime vie nuove.Qualificati pienamente quindi per pro-porre al climber curioso di nuovi oriz-zonti verticali questa scelta di itinerarisu un massiccio che, se è ben cono-sciuto dagli alpinisti ed arrampicatoridel centro-sud, non lo è altrettanto perquelli del resto d’Italia tra i quali si mettetranquillamente chi scrive queste note.Ma se non sono in grado di giudicare labontà della scelta delle proposte eposso solamente appellarmi alla garan-zia di serietà che offre l’editore, possoaltresì felicitarmi per l’impegno a farconoscere una parte decentrata

ta quanto meno facile è leggerla sullafotografia. La scelta degli itinerari com-prende vie storiche, di 3° e 4° gradodegli anni ’30 per arrivare alle più recen-ti realizzazioni moderne, della fine deglianni ’90.

Molto opportune le note iniziali rela-tive alla logistica e all’aspetto climaticoe meteorologico della zona. Se il nume-ro monografico della rivista Alp delmarzo 1999 dedicato al Gran Sassoaveva stuzzicato la fantasia, questovolume alza ulteriormente il livello dellacuriosità per quello che viene definitouno dei più bei calcari d’Europa.

I l più bel trekking d’Europa, è cosìche viene definito il percorso anula-re attorno al Monte Bianco. Per prin-cipio rifuggiamo da affermazioni

così assolute, ma indubbiamente il tourdel «tetto d’Europa» sta sicuramente allapari dei percorsi più noti e celebrati delNord e Sud America e dell’Himalaya.

Attraversato per la prima volta daHorace-Benedict de Saussure nel 1767viene ora descritto da Stefano Ardito,alpinista, viaggiatore, fotografo, giornali-sta, scrittore e divulgatore di cose alpine.

La guida si inserisce nella collana diAlp dedicata all’escursionismo.

Attraverso 12 tappe e 48 possibilivarianti l’autore ci indica la strada attra-verso le valli svizzere, francesi, italianeche circondano il Monte Bianco. Dodicitappe modificabili ed adattabili alle esi-genze di chiunque, dal trekker più tran-quillo a quello più instancabile. Le emo-zioni sono comunque garantite dallapresenza costante di panorami mozza-fiato, all’ombra delle cime e delle paretiche hanno segnato grandi pagine dellastoria dell’alpinismo: le GrandesJorasses, l’Aiguille Verte e le altre grandicime del gruppo. Ma anche i maestosighiacciai, così carichi di fascino e sug-gestione, nomi epici anche questi:Brenva, Miage, Trient, Mer de Glace,Bossons.

Il grande fascino però di questotrekking non è dato solamente dallaonnipresenza del grande massiccio maanche e soprattutto da una natura mera-vigliosa, ricca di laghi, morene, flora,stambecchi e marmotte.

L’invito a percorrere i sentieri di que-sto grande tour che trasuda dalle paginee dalle immagini della guida è quanto maiallettante. Le varianti poi permettono diarricchire il percorso originario e di adat-tarlo agli interessi, alla curiosità, alladisponibilità di tempo e fiato di ognuno.Ogni tratto di percorso è illustrato da car-tine, sviluppo altimetrico, note su tempidi percorrenza e chiare descrizioni. Nonmanca nient’altro che preparare lo zainoe partire. Ma anche a chi non potessefarlo è consigliabile questa lettura:potrebbe così scoprire, sulle note delcelebre motivo, che la sua stanza non hapiù pareti ma ...

C resce sempre di più, negli ultimianni, l’interesse per le vicendedella prima guerra mondiale eper i luoghi che di quei fatti furo-

no teatro. Le attenzioni degli appassio-nati si sono concentrate laddove i segninon solamente della lotta ma anchedella dura vita degli eserciti contrappostisono rimasti più evidenti: la montagna.

L’interesse storico si è intrecciatocon la pratica escursionistica e la ricer-ca con il turismo, il tutto per saldarsi allafine nel monito: perché non debba suc-cedere più! Sotto la spinta di associazio-ni di ex combattenti e di società di studimilitari, interi tratti di fronte alpino sonostati ripristinati ed offerti allo studiosocome all’escursionista in forma dimuseo all’aperto, spiegazione e monito.È fuor di dubbio che simili opere costi-tuiscano anche un valido richiamo turi-stico.

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Alpinismo goriziano - 2/2000 7

Accanto ai lavori sul campo si arric-chisce anche la già ricca bibliografia suquelle vicende, e la sempre maggiordistanza nel tempo dai fatti trattati con-tribuisce a che questi studi siano sem-pre più corretti ed imparziali dal punto divista storico.

La casa editrice Panorama di Trentoche si è sempre distinta in questocampo ha mandato da poco in libreria ilquarto volume che Robert Striffler hadedicato alla guerra di mine sul frontedelle Dolomiti.

Dopo i primi tre dedicati rispettiva-mente alle zone della Marmolada, delLagazuoi e del Col di Lana, tocca ora alMonte Sief, prosecuzione dei combatti-menti che insanguinarono il Col di Lana.

Dopo l’esplosione della mina dell’a-prile 1916 il Col di Lana passò in manoitaliana ma la porta della Val Badia eraancora chiusa dalle difese del Sief, a soli700 metri di distanza in linea d’aria.

Per oltre un anno e mezzo i dueeserciti si contrapposero sui 2424 metridella cima, lungo la cresta affilata, sullependici del monte. Il solito stillicidio divite umane oramai noto, comune a tutti ifronti. E come su altre cime si iniziò benpresto a cercare di sopraffare il nemicoa colpi di mina. Nonostante tre esplosio-ni che sconvolsero la montagna e cheancora oggi sono testimoniate daprofondissimi segni sul terreno, la situa-zione non ebbe sbocchi. L’interesse perquesto libro è dato dal fatto che a diffe-renza delle zone precedentemente trat-tate negli altri volumi, sul Monte Sief nonera mai comparsa alcuna monografia.L’anno e mezzo di lotta viene seguito,studiato, sviscerato da Striffler con unaminuzia certosina. Ordini, azioni dimassa, singoli episodi vengono esami-nati, riportati, confrontati e collocatinella loro esatta posizione spazio-tem-porale. La lettura, a volte, sprofondandonella minuzia dei particolari, angosciafino a rendere quasi l’esasperazione, latensione dell’attesa dell’esplosione dellamina. Quasi 400 pagine ricche di parti-colari, 200 foto e schizzi, la possibilità diconfrontare la situazione di allora conquella di oggi, un dizionario topograficoad illustrare con più di 200 voci i luoghi ele posizioni.

Allegata al volume una cartina conevidenziati i percorsi di nove escursioniconsigliate e descritte minuziosamentein coda al volume, con le spiegazioniriguardo ai resti delle posizioni chelungo questi itinerari si incontrano.

L ’apporto di Gorizia nella grandestoria della speleologia sicura-mente non è stato fondamentale.Mancava però fino ad oggi uno

studio che gettasse uno sguardo d’in-sieme su quella che è stata la genesi, losviluppo, i personaggi, i risultati e lasituazione attuale di questa pratica nelgoriziano. Mancava fino al quinto nume-ro di «Sopra e sotto il Carso», la pubbli-cazione del Centro Ricerche Carsiche«C. Seppenhofer» di Gorizia. MaurizioTava gnut ti cura per intero questo nume-ro unico dal titolo Storia della speleolo-gia a Gorizia e lo fa partendo da lontano,quasi sicuramente da un mito: Danteche si fa ispirare dalle cavità e dagli orri-di della Tolminca per il suo «Inferno». Masi sa che ogni contrada d’Italia contaluoghi che avrebbero ispirato il Poeta,tanto almeno quante sono le grotte chein Grecia e sulle sue innumerevoli isoleavrebbero visto i natali di Zeus. Ben piùreali e documentate furono le ricerche, ilavori, le esplorazioni che con GiovanniFortunato Bianchini dal 1700 portaronoanche a Gorizia e nel suo territorio l’inte-resse per il mondo ipogeo. Ma è nellaseconda metà dell’800, con CarloSeppenhofer, che la speleologia, intesaanche come puro piacere di scoperta eavventura, compare in città. Anche da

noi gli inizi della speleologia furono lega-ti, come già a Trieste, ai problemi idricidella città che nella seconda metà delXIX secolo andava sviluppandosi sem-pre di più e con la crescita aumentava larichiesta d’acqua.

L’utile che apre le porte al dilettevo-le, l’interesse che sconfina nel piacere.

Luigi Gallino, primo rilevatore delle

del FilmFestival di Trento ha raccoltoriconoscimenti anche ai festival di Banff,Torello, Santander e Teplice. I due gio-vani registi Guillermo Campo e JesusBosque arrivano da diverse esperienze,l’uno specializzato in produzioni susport di montagna e ad alto rischio, l’al-tro ha collaborato con organizzazioniimpegnate in programmi di educazione

Nel 1999 una spedizione sale,seguendo la via dei due pionieri, tenen-do conto dei precedenti tentativi fatti persvelare il mistero e degli indizi raccolti,alla ricerca di quel che rimane di quell’a-scensione di 75 anni prima. La storia delritrovamento del corpo di Mallory è arri-vata sulle prime pagine di tutti i quoti-diani del mondo, assieme alle macabre

grotte di Postumia, Mariano Apollonio,Renato Boegan, Alvise Comel, tutti furo-no attivi a Gorizia tra le due guerre mon-diali. Si arriva così a periodi più recenti,più documentati: ai primi anni ’60 checonobbero il costituirsi dello SpeleoClub, del Gruppo Speleologico, dellaSpeleo Equipe, e quindi dei primi lavoridi gruppo, delle prime spedizioni, corsi,contatti con l’esterno.

Una parte importante della ricercaTavagnutti la dedica al Gruppo Speleo«L. V. Bertarelli» anche se interrompe ladisamina di questa storica associazionein corrispondenza del formarsi delCentro Ricerche Carsiche «C. Sep -penhofer». Come se da allora ad oggi il«Bertarelli» non avesse più svolto attivitào fosse scomparso. Il racconto quindi siconclude solo con le vicende del «Sep -penhofer».

È un primo passo questo diTavagnutti che mancava, soprattuttoper cercare di non disperdere documen-ti e memorie di storia cittadina, un’inda-gine che però andrebbe sicuramenteapprofondita ed arricchita e soprattuttoresa con maggior imparzialità. Interes -sante e curioso l’apparato iconografico.Infine un particolare ci ha colpito nelleultime tormentate vicende della speleo-logia goriziana raccontate da MaurizioTavagnutti, e ci ha fatto venire in menteuna domanda: come mai laddove cisono scissioni c’è sempre un nome chericorre? Forse è una domanda malevola,forse pensiamo male, sicuramentesiamo faziosi.

D ue le novità che segnaliamo nelsettore dei video, i numeri 44 e45 della collana de «I Capola -vori del Cinema di Montagna» di

Alp, rispettivamente Montañas de ayer(le montagne del passato) e Dispersisull’Everest. Montañas de ayer oltre adessere stato premiato nell’edizione 1999

popolare in Sud America. Insieme hannorealizzato un gioiellino di 44 minuti tuttoincentrato sui tentativi di scalata dell’ul-timo picco vergine del massiccio deiMallos de Riglos, in Spagna. L’epoca incui la vicenda si svolge sta a cavallo tragli anni ’30 e ’40, in una nazione appenauscita da una sanguinosa guerra civileed entrata in un regime che la chiuderàal mondo per anni. Sono i ricordi dell’u-nico sopravvissuto di quei giorni grandiche mettono in moto il film, un’accurataricostruzione delle vicende, delle trage-die e di tutta l’atmosfera dell’epoca.L’osservatore attento riuscirà certamen-te a cogliere il raffinato lavoro dei duegiovani registi. La vicenda è avvincentecome tutte le sfide fra uomini e monta-gne. Diverse cordate si cimentano sullaspettacolare guglia di conglomerato,chiamata per la sua particolare forma «Elpuro», il sigaro. I migliori scalatori diSpagna si contendono la prima salita,alcuni pagano con la vita i loro tentativi.Alla fine la lotta si restringe a due corda-te, la vittoria è di una sola ma la festa perla riuscita accomuna tutti.

Dispersi sull’Everest è stato presen-tato quest’anno al FilmFestival di Trentodove ha vinto il Premio RAI. È una pro-duzione recentissima quindi. Il regista,Peter Firstbrook, lavora dal 1977 per laBBC specializzandosi in documentari.Dal 1995 cura in particolare programmisu viaggi e avventure. Con questo lavo-ro documenta la ricerca delle tracce diMallory e Irvine, i due scalatori inglesivisti vivi per l’ultima volta l’8 giugno 1924mentre salivano verso la cimadell’Everest. Da quel giorno, il mondoalpinistico è sempre rimasto nel dubbiose i due avessero o no raggiunto la cima,primi al mondo su un ottomila, e su quel-lo più alto. La figura di Mallory ha assun-to contorni mitici, con la sua scomparsada leggenda, nelle nuvole, in camminoverso la vetta più alta della terra, quasida semidio.

foto. Ma sebbene il ritrovamento siastato un fatto eccezionale, sostanzial-mente non ha svelato il mistero dell’e-ventuale prima salita all’Everest. Il docu-mentario di Firstbrook è la cronaca esat-ta di quella spedizione e del ritrovamen-to del cadavere di Mallory.

P er chi non avesse ancora letto Ilvolo della martora e visto L’uomodi legno Vivalda manda in edicolaun cofanetto con libro e videocas-

setta in edizione economica, solo 19.900lire. A conferma, se ce ne fosse ancorabisogno, del grande e continuo interesseper il personaggio Mauro Corona.

Henriette d’Angeville - LLaa mmiiaa ssccaallaattaa aallMMoonnttee BBiiaannccoo 11883388 -- ed. Vivalda - I Licheni -pag. 170 - Lit. 28.000.-

Fabrizio Antonioli - Fabio Lattavo - GGrraannSSaassssoo,, 110055 iittiinneerraarrii sscceellttii,, ddaaii ccllaassssiiccii aaii ppiiùùrreecceennttii -- ed. Vivalda - Le guide diAlp/alpinismo - pag. 159 - Lit. 24.000.-

Stefano Ardito - IIll ggiirroo ddeell MMoonnttee BBiiaannccoo -ed. Vivalda - Le guide di Alp/escursionismo -pag. 135 - Lit. 25.000.-

Robert Striffler - GGuueerrrraa ddii mmiinnee nneelllleeDDoolloommiittii -- MMoonnttee SSiieeff 11991166//11991177 - ed.Panorama - Trento - pag. 391 + cartina - Lit.42.000.-

Maurizio Tavagnutti - SSttoorriiaa ddeellllaa ssppeelleeoolloo--ggiiaa aa GGoorriizziiaa - in Sopra e sotto il Carso n. 5 -1999 - Numero unico del Centro RicercheCarsiche «C. Seppenhofer» - Gorizia - pag.148 s.p.i.

Guillermo Campo - Jesus Bosque -MMoonnttaaññaass ddee aayyeerr - VHS Colore, 44’, inglesecon sottotitoli in italiano - ed. Vivalda - Icapolavori del cinema di montagna - Lit.34.900.-

Peter Firstbroock - DDiissppeerrssii ssuullll’’EEvveerreesstt -VHS colore, 50’, inglese con sottotitoli in ita-liano - ed. Vivalda - I capolavori del cinemadi montagna - Lit. 34.900.-

Mauro Corona - Fulvio Mariani - IIll vvoolloo ddeellllaammaarrttoorraa -- LL’’uuoommoo ddii lleeggnnoo - ed. Vivalda -Libro + VHS Lit. 19.900.-

Dal Zuc del Bòor verso S.E.: al centro nella nebbia la Val Resia.

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L’alpinismo dell’altra metà del cielodi MARTA WATSCHINGER

In memoriam

Karl Kuchardi PAOLO GEOTTI

N ella tarda estate del 1999, Paolaed io risalivamo l’ampia schienache da malga Neval alta porta asella Bioica e poi alla cima del

Crostis, uno dei molti percorsi che noisorelle compiamo nel corso dell’annosulla montagna di casa, di quella che fula nostra casa d’infanzia.

Andiamo alla ricerca dei segni delpassato, come se qualcosa fosse ancorada rivedere o da ridisegnare per quel cheriguarda la nostra vita, quasi a ritrovare leragioni di scelte compiute e le loro giusti-ficazioni. Di segni del passato su questamontagna ne rimangon tanti, anche se lariconquista da parte del bosco dellesuperfici un tempo falciate, li sta rapida-mente cancellando. Sono segni di guer-ra, di monticazioni antiche, di sfalci com-piuti nel mese che va da sant’Anna a sanBartolomeo, segni tutti che parlanoanche, se non soprattutto, al femminile.

Lasciandoci alle spalle i ruderi dimalga Neval, raggiunta la sella, ci siamoaffacciate sulla vallata settentrionale e,come ogni volta, la vista del Cogliàns edella Chianevate ci ha lasciate in unsilenzio pieno di suoni esterni (frusciod’ali, vento negli ontani verdi, campanac-ci lontani …) ed interni (voci familiari, bat-tito del cuore …). Abbiamo camminato alungo quel giorno, vagabondando e alledomande che ci ponevamo sull’esserestate ragazze di montagna e poi donne dipianura e sul tanto fare, fare …

Ebbene, alcune risposte a quelledomande le ho trovate nel bel volumeC’è una donna che sappia la strada? diDaniela Durissini (ed. Lint, lire 29.000)che traccia la storia dell’alpinismo esplo-rativo delle donne sui monti della nostraregione, soprattutto là dove tratta dellacondizione delle montanare e del lororapporto con il mondo che le circondava,fatto di sfruttamento, miseria ed insensi-bilità. Ma non solo, inevitabilmente, perla condizione di sottomissione che ladonna aveva, il libro traccia anche la sto-ria dell’alpinismo esplorativo maschile,poiché molte ragazze, soprattutto citta-dine, camminavano dietro al padre, aifratelli o al marito. Spesso della loro pre-senza nelle escursioni non resta traccianelle relazioni scritte dai maschi, a sotto-lineare la scarsa considerazione in cuierano tenute. Bisogna tuttavia conside-rare con benevolenza questi uomini chehanno permesso ed accelerato un pro-cesso comunque inevitabile, cioè l’ap-propriazione delle vette anche da partedelle donne.

La società dell’Ottocento non eracerto benevola con le ragazze dediteall’attività sportiva, la serietà della lorocondotta e la loro moralità erano consi-derate discutibili e come minimo origina-li. In una società conformista quale quel-la friulana, queste ragazze per lo più diestrazione sociale elevata, rappresenta-rono un importante drappello anticipato-re di un’emancipazione che fu, prima ditutto, convincimento interiore. Per le lorocoetanee del popolo la strada era piùimpervia, passando sempre attraversogli spallacci della gerla e l’approccioall’alpinismo da sfruttate.

Descrivendo le imprese alpinistichecompiute per curiosità, diletto, lavorodagli alpinisti e dalle alpiniste, l’Autricedeve analizzare, e lo fa con grande par-tecipazione e dovizia di documenti, ilruolo di queste donne. Per necessità eper arrotondare il magro bilancio familia-re, esse si affiancavano alle spedizionicome portatrici, raramente come guide,spesso e a lungo considerate poco piùche animali da soma.

Con la Grande Guerra il ruolo di que-ste donne riceve la “consacrazione” uffi-ciale anche se il cavalierato giungerà con

che Cjanevate sia singolare; perciò ilnome italiano del Kellerspitz, anche senella tavoletta 1:25000 è indicato come“Creta delle Chianevate”, deve essereCreta della Chianevate (cfr. G. Marinelli:Guida della Carnia e del Canal del Ferro).

Nel testo ho trovato con piacereosservazioni e documenti che mettono inluce le personalità di Michele Grassi,avvocato tolmezzino, dell’insigne studio-so Giovanni Marinelli e di Pietro Cozzi,alpinisti dei primordi, che hanno mostra-to comunque un atteggiamento di aper-tura ed una valutazione egualitaria neiconfronti delle donne in montagna, conuna non trascurabile modernità di vedu-te.

Il testo scorrevole, molto stimolante,pieno di osservazioni e riflessioni, risultaassai documentato con una ricca biblio-grafia per chi voglia attingere alle fonti inmodo diretto.

Nel corso della lettura ho apprezzatol’uso di espressioni come … “il Jôf Fuart,il Jôf di Montasio”, quando nella stampaattuale molti usano, sbagliando, l’artico-lo “lo”, dimenticando che la i lunga neinostri toponimi ha valore consonantico(cfr. G. Marinelli, E. Castiglioni); sidovrebbe dire anche il Jalovez, il Judrio.Così è stato gradito leggere “salita al Zucdel Boor”. Viceversa mi ha sorpresa l’usodell’espressione “delle Cjanevate” inquanto nelle parlate carniche mi risulta

molti, troppi anni di ritardo.Non ho trovato nel testo un’espres-

sione, forse volontariamente omessa,che esprime secondo me, l’atteggiamen-to iniziale degli alpinisti in montagna neiconfronti delle donne: misoginia, untempo manifesta, oggi più occasionale,come a difesa di una superiorità fisica (eintellettuale e caratteriale ?) che il tempoha smentito. A questo proposito va sot-tolineato che dalla frase, attribuita a C.Mantica, che costituisce il titolo del volu-me è stato tolto l’avverbio “almeno”, chedà una valutazione riduttiva e maschilistadel ruolo della donna, considerata a queitempi, non in grado di fare la guida inmontagna.

D icono che quando ti senti preci-pitare in una situazionecosciente di repentino e imma-ne pericolo, nei pochi secondi

che rimangono, la mente ti faccia scor-rere alla velocità di un sogno le immagi-ni che sono rimaste più impresse o le piùsignificative della tua vita. Ebbene,credo che ciò accada anche quandoaltri ci lasciano, fatalmente privandoci,ahimé, di una parte di noi stessi, quellache ci accomunava allo scomparso.

La morte di Karl Kuchar, 92ennealpinista emerito e decano della sezionedi Villaco dell’Österreichischer Alpen -verein, è certamente uno di questi casi.

Una persona che aveva caratterizza-to il nostro rapporto di oltre quarant’an-ni, con le sue qualità espressive di ami-cizia e rispetto, riconoscenza e ammira-zione, affetto e allegria e che lasciavuoto e tristezza nel nostro animo.

Il suo amore per la montagna èdimostrato non soltanto dalle impresealpinistiche della gioventù, ma anchedall’impegno organizzativo offerto alla

sua sezione e al mondo alpinistico diquesto nostro angolo d’Europa. Egli erastato infatti uno dei promotori degli

incontri delle tre regioni di Carinzia,Slovenia e Friuli - Venezia Giulia confi-nanti ai piedi delle Alpi Giulie e inizio diquarant’anni fa nel nome del cantore diqueste montagne, Julius Kugy, nato aGorizia da famiglia carinziana e slovenaper parte di madre.

Lui era l’ultimo rimasto dei promoto-ri di questa prestigiosa iniziativa, dopo lascomparsa di Hermann Wiegele, MihaPotoœnik e Mario Lonzar. Avevano intui-to prima di tutti che i rapporti umani,quelli sinceri tra popoli che vivono aipiedi delle medesime montagne, nonpotevano che far nascere rispetto e ami-cizia reciproci.

Ricorderemo Karl Kuchar tra i suoifiori del Villacher AlpenGarten, stupendobalcone colorato e profumato di fronte aquelle Alpi Giulie che tanto amava. Esimpaticamente alla guida dei giovanidella sua sezione alle gite in montagna,d’estate e d’inverno con gli sci. Oppureancora alle feste di carnevale e alle gitesul Carso e al suo posto alla segreteriadei Convegni Alpi Giulie, sempre pre-sente e partecipe, con la sua voce fortee chiara. Soprattutto una immaginetorna alla nostra memoria prepotente-mente: quella scattata in cima alMangart, insieme con gli altri storici pro-motori degli incontri internazionali delletre regioni. Guardava diritto e profondo,come l’ultima volta a Tarvisio lo scorsoautunno quando ci eravamo salutati.

Arrivederci in montagna e grazie!

M. Zermula dalle pendici S.O. del M. Lodin.

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Cose d’altri tempi

Sulle tracce di Kugy a Gorizia,sessant’anni dopodi CARLO TAVAGNUTTI

I l fotografo Gaetano Lazzaro è sicu-ramente molto noto a Gorizia per lasua lunga attività professionale nelcampo fotografico ma pochi lo

ricordano grande appassionato di mon-tagna ed assiduo frequentatoredell’Alpe. Socio del nostro club, dal1937 al 1962, negli anni giovanili è statoprotagonista di numerosissime escur-sioni sulle Giulie, compiute normalmen-te nell’ambito dell’attività sociale, mapiù frequentemente con gite organizza-te in privato con gli amici Patuna, Pupine Salvaterra ma anche con Marini e conil notaio Marega (che aveva l’automobi-le!). Un solo rammarico, quello di nonessere mai stato sulla vetta del Tricornononostante due tentativi; era periodo diguerra e le autorità militari lo avevanorimandato a valle dall’allora Rif.Cozziora Træaøka Koœa, a due passi dal “Redelle Giulie”.

Siamo agli inizi degli anni Trenta eLazzaro fa il suo tirocinio e le primeesperienze fotografiche presso l’atelier“Fototecnica” di Della Ricca in CorsoItalia ed iniziano anche le sue primeescursioni in montagna. Porta sempreal seguito la sua macchina fotografica,una 6X9 a lastre, e dai monti riportamolte immagini di paesaggio alpino,contrariamente all’altro fotografo, l’a-mico Avanzini, che inquadra nel suoobiettivo quasi esclusivamente fiori.Sono gli anni delle pubblicazioni diKugy, nelle quali le fotografie delleGiulie occupano grande spazio special-mente nel volume Die Julischen Alpenim Bilde e Lazzaro scrive al “grandevecchio” proponendogli i suoi paesag-gi.

Nasce tra i due un’interessante cor-rispondenza nel periodo 1939-1942 coninvio di numerose lettere che il nostrosocio ha gelosamente conservato peroltre sessant’anni.

In quelle lettere dello scrittore, oltreai tanti apprezzamenti per le fotografieinviategli, traspare ancora il suo grandeamore per i “suoi monti” ma c’è anchegrande entusiasmo per i progetti dinuove pubblicazioni o per collaborazio-ni con altri autori e fotografi anche stra-nieri: esce infatti nel 1940 la sua operaNel sorriso divino del Monte Rosa confotografie di Sella, Gugliermina e dellosvizzero Mittelholzer. Nel 1942 Kugyinvita ancora il fotografo goriziano adinviare in Germania le sue foto al Dott.Kaltenegger per una nuova pubblica-zione sulle Alpi Giulie, poi più niente: laguerra in atto cancella ogni iniziativa edoffusca tutti gli entusiasmi, Kugy scom-pare e la sua figura rimarrà nell’obliofino al 1967.

Tra le tante lettere di Kugy aLazzaro ne pubblichiamo una, quelladel 19 febbraio 1939, forse la più signi-ficativa per i goriziani: contiene infattigli elogi per la traduzione in italiano diErvino Pocar dell’opera Dalla vita di unalpinistama critica aspramente le ripro-duzioni fotografiche che non reggono ilconfronto con quelle dell’edizione inlingua tedesca. Dal M. Santo il profilo delle Giulie orientali, a sinistra il Krn (foto Gaetano Lazzaro, con pellicola all’infrarosso - 1934).

TTrriieessttee,, 1199//22//3399CCaarroo SSiiggnnoorree!!

GGrraazziiee ppeerr llee bbeelllliissssiimmee ffoottooggrraaffiiee:: VVaallbbrruunnaa ccooll ppeerroo ssuullpprraattoo ee ccoollllaa cchhiieesseettttaa nnaassccoossttaa èè llaa ppiiùù bbeellllaa.. AAnncchhee iillMMoonnttaassiioo èè ddii ggrraannddee eeffffeettttoo!! QQuueessttee dduuee ddoovvrreebbbbeerroo eennttrraarreenneellllaa ««JJuulliisscchheenn AAllppeenn iimm BBiillddee»»..

PPeerr iill mmoommeennttoo mmii bbaassttaannoo qquueessttee,, ggrraazziiee.. LLeeii mmii hhaa ffaattttoouunn ggrraannddee ppiiaacceerree,, ssppeecciiaallmmeennttee ccooll qquuaaddrroo ddii VVaallbbrruunnaaccoommee ssoopprraa..

««LLaa vviittaa ddii uunn aallppiinniissttaa»» eessiissttee iinn eeddiizziioonnee iittaalliiaannaa pprreessssoollaa SSoocciieettàà EEddiittrriiccee ««EErrooiiccaa»» iinn MMiillaannoo.. LLaa ttrraadduuzziioonnee èè sspplleenn--

ddiiddaa,, nnoonn ppoottrreebbbbee eesssseerree ppiiùù bbeellllaa.. TTrraadduuttttoorree EErrvviinnoo PPooccaarr,,oorriiuunnddoo ddaa GGoorriizziiaa..

LL’’eeddiizziioonnee sstteessssaa,, ssppeecciiaallmmeennttee llee iilllluussttrraazziioonnii ssoonnoommiisseerraabbiillii,, ppeerrcchhéé iinn IIttaalliiaa ssii ssppeennddee ppooccoo ppeerr iill lliibbrroo.. NNoonn ssiippuuòò ccoonnffrroonnttaarree ccoollllee eeddiizziioonnii tteeddeesscchhee ssppeecciiaallmmeennttee ccoonnqquueellllee ddii LLeeyykkaarrnn..

SSee vviieennee aa TTrriieessttee oo aa VVaallbbrruunnaa,, vveennggaa aa ttrroovvaarrmmii..RRiinnnnoovvoo ii mmiieeii rriinnggrraazziiaammeennttii ee ssoonnoo sseemmpprree iill SSuuoo ddeevvoo--

ttiissssiimmooMMii ddiiccaa qquuaallii ffoottooggrraaffiieehhoo ddaa rreessttiittuuiirree.. JJ.. KKuuggyy

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stivali, guanti e tute idrorepellenti, lampa-de e caschetto protettivo con impianto diilluminazione elettrico attraverso batte-ria, ecc.

Una data significativa è rappresenta-ta dal 1 maggio (festa del lavoro!) 1993,quando, sollevato un chiusino di cemen-to posto lungo il basamento della fontanadel Pacassi in piazza Vittoria, calandosilungo una scaletta in ferro, ci troviamoall’interno di una galleria chiusa a volta: èl’inizio della speleologia urbana a Gorizia!

Le uscite successive permetteranno,nel tempo, la pressoché completa rico-struzione del percorso dell’antica grap-pa, nata come opera di difesa alla basedel colle del Castello: il tracciato si svi-luppa partendo da Via Rastello, sotto ilmarciapiede posto di fronte al Palazzodella Prefettura, attraversa Via Roma,prosegue lungo Via Oberdan, gira poi perVia Morelli, attraversa Via Crispi e il giar-dino della Camera di Commercio, Via DeGasperi e Via Mazzini, sotto il corridoioerboso che separa la sede della PoliziaMunicipale dal Comune, chiudendosiinesorabilmente all’altezza di Via Rabattaconseguentemente alla trasformazioneedilizia.

La collocazione storica precisa diquesto canale, la cui denominazioneproviene con tutta probabilità dal termi-ne germanico “graben” che significaappunto “canale, fossato”, è incerta ecompresa fra il 1300 e il 1500. In epocastorica, man mano che l’abitato della villadi Gorizia si sviluppa ai piedi del colle,questa zona assume importanza rilevan-te rispetto alla parte “alta” del borgoaccentrando interesse per la presenza diuomini e traffici di merci. Un riscontro diciò è rappresentato dall’estensione al“quartiere basso” del privilegio di cittàda parte del conte Giovanni nel 1455.

In tale epoca gli edifici si sviluppanoprincipalmente in un settore a semicer-chio che va da Via Rastello a Piazza S.Antonio. Esistono anche dei muri mode-sti detti muri di braida il cui scopo moltoprobabilmente ha più carattere sanitario(evitare l’introduzione di epidemie) e di

controllo delle merci (evitare contrab-bandi) che di difesa. Quest’ultimo ruolo èaffidato invece alla “grappa”, canaled’acqua largo in origine almeno 6-8metri, secondo alcuni addirittura di più.Essa risulta ancora aperta nell’800 inbase alle carte topografiche dell’epoca.Nel 1911 viene costruita Via Lantieri inrilevato sbarrando il percorso della grap-

vera e propria rete fognaria verrà realiz-zata a cominciare dall’Ospedale nel1938-39. Nel 1938, altresì, viene spostatala fontana dal centro di piazza Vittoriaall’attuale collocazione più decentrata.

Proprio sotto la fontana del Pacassi,le nostre ricerche hanno messo in risaltola presenza all’interno della galleria, disupporti in pietra a sostegno di tubazioniin piombo, regalo di Maria Teresad’Austria (nel 1786 si chiamava “acque-dotto teresiano”) a sostituzione delleprecedenti tubazioni in legno.

Fra i reperti raccolti nelle galleriedella grappa, puntualmente consegnatialla Soprintendenza alle Belle Arti per laloro catalogazione e datazione, spiccanoalcuni cocci di argilla e porcellana fattirisalire al 1400-1500.

L’entusiasmo conseguente ai positi-vi risultati iniziali è naturalmente cresciu-to in maniera contagiosa coinvolgendoun gruppo più numeroso di appassiona-ti, tanto che l’attività è stata allargata adaltri settori.

Per esempio, verso la fine del 1993 èstata avviata in collaborazione conl’Azienda per i Servizi Sanitari (ex USL n.2“Goriziana”) la ricerca e l'esplorazionedei pozzi cittadini prelevando campionid’acqua per l’analisi sia chimica che bat-teriologica; l’anno successivo detta atti-vità è stata estesa anche al territorio delComune di S. Floriano del Collio. In tota-le sono state rilevate ben più di 50 riserved’acqua fra pozzi e cisterne di varia fattu-ra, tangibile segno di un passato in cuil’approvvigionamento idrico ha costituitoun problema di vitale importanza.

Un ulteriore fattore nuovo ed impor-tante venutosi a creare nel nostro perio-do di attività a metà degli anni ’90 (le cuiorigini derivano probabilmente dalla fine

Grappa sotto la fontana del Pacassi (P.zza Vittoria) con supporti in pietra a sostegno delletubazioni dell’acquedotto teresiano.

Studi e ricerche

Gorizia sotterraneadi LUIGI BARBANA

È vero che nel sottosuolo di Goriziaesiste un’estesa rete di cunicoli egallerie che collega i maggioripunti strategici della città?

È vero che dei passaggi sotterraneicollegano il Castello con la chiesa di S.Ignazio?

Che riscontro hanno nella realtàodierna le poche e frammentarie notiziestoriche in merito all’esistenza di vie difuga dalla cima del colle del Castelloverso ... “le prigioni del Castello si trova-vano sino al 1660 in alcuni sotterraneiattigui ad una fitta rete di camminamen-ti, che servivano al vettovagliamento incaso di assedio e puranco ad una ritiratain caso di bisogno. Questi ultimi condu-cevano in varie direzioni. Uno sboccavanell’Arsenale, cioè nel magazzino dellearmi che si trovava nelle vicinanze delPalazzo dei Conti Strassoldo in piazzaSant’Antonio. Un altro conduceva nelborgo di Prestau (n.d.r.: attuale zona diVia del S. Gabriele), ove si trovavano lescuderie del Conte; un terzo terminavaverso il bosco Panovizza ed un quartoverso la Piazza della Vittoria. Il Castelloaveva due accessi ... era cinto all’ingiroda grosse mura fortificate con diversitorrioni, sulle cui piattaforme v’eranobalestre di ferro, e diviso dal resto delcolle da un largo e profondo fossato ...”

Queste e molte altre domande cihanno stimolato ad intraprendere un’at-tenta attività di ricerca che ha rivelato neltempo nuovi spunti ed elementi di note-vole interesse. In molte città la nuovabranca della speleologia denominatacorrentemente “speleologia urbana” hapreso piede assieme alla modernizzazio-ne delle tecniche di progressione e spe-cializzazione nel settore; si spazia dallaricerca di antichi acquedotti di epocaromana, all’individuazione di intere ecomplesse reti di cunicoli sotterranei,all’esplorazione delle fortificazioni e cintemurarie delle città.

L’attività che il Gruppo Speleo L.V.Bertarelli ha intrapreso fin dal 1993 si èresa possibile grazie all’acquisizionedelle opportune autorizzazioni e nullaosta rilasciati dagli organi competenti, acominciare dal Comune di Gorizia. Loscopo di partenza era direttamente mira-to alla ricerca ed individuazione dellarete sotterranea costituita da cunicoli,passaggi e gallerie fornendo una mappa-tura precisa e dettagliata del sottosuolocittadino. Le verifiche sullo stato genera-le dei sotterranei hanno comportato l’a-nalisi visiva dei vari tracciati e della lorostruttura documentandone i caratterisalienti ed eventuali cedimenti, frane,interruzioni. Sono stati quindi rilevati datitecnici in merito alle dimensioni deidiversi cunicoli corredati da documenta-zione fotografica. L’esperienza di alcunisoci nel campo della fotografia in grottae del rilievo in ambienti bui (gli strumentidi misura hanno previsto l’impiego dicordella metrica, distanziometri, bussolae inclinometro) ha contribuito ad ottene-re dei risultati molto soddisfacenti.

Le precauzioni nelle varie fasi cheprecedono ed accompagnano ogni sin-gola esplorazione sono doverose: inqueste circostanze la collaborazionedella Polizia Municipale è stata ampia,nell’allestimento dell’apposita segnaleti-ca e nella deviazione del flusso pedona-le e talvolta anche del traffico veicolare.Le “calate” hanno implicato la predispo-sizione di strutture artificiali per l’anco-raggio, scalette moderne con pioli in allu-minio e discese in corda. Un importanteausilio ci è stato poi fornito dal persona-le dell’Azienda Multiservizi Goriziana (exAziende Municipalizzate) nel verificare,all’apertura dei tombini, prima di iniziarele esplorazioni, l’eventuale presenza digas nocivi. A livello personale è statocurato ogni aspetto legato all’equipag-giamento più appropriato, prevedendomascherine per filtrare l’aria, l’impiego di Cripta sotto la chiesa di Sant’Ignazio.

pa in quel tratto.An cora nel 1935risulta a cieloaperto il trattoche attualmenteat traversa ilgiar dino dellaCamera diCom mercio eVia Mazzini.

La grappadelimita il terri-torio cittadinotanto che i suoiestremi sonocontraddistintidalla presenzadella cosiddetta“dogana” in ViaRastello e dallaPorta della cittàin Via Alviano(ex strada diVienna).

Questo ca -nale le cui ac -que, attraversodue bretelle (l’u -na attraverso leattuali Piazzadella Vittoria eVia Carducci,l’altra da ViaMorelli a ViaPetrarca) si sca-ricano nel tor-rente Corno,rappresenta iprimi reticolidella fognaturacittadina. La

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zazione artificiale in cemento che inglobaper un lungo tratto il torrente Corno all’in-terno della città, percorrendone il trac-ciato in territorio italiano per intero, vale adire da piazza Catterini fino a sbucarenella zona a cielo aperto nel tratto termi-nale della cosiddetta «valletta delCorno»; in particolare è stata postaattenzione all’esame della struttura checostituiva i vecchi ponti in pietra presen-ti quando le acque scorrevano libera-mente in superficie. L’ampia documenta-zione fotografica realizzata potrà esseredi ausilio all’Amministrazione comunaleper analizzare le varie ipotesi di «rinatu-ralizzazione» e riporto alle origini di alcu-ni tratti del torrente Corno.

Quanto fin qui esposto e molte altreinformazioni costituiranno parte inte-grante del libro di prossima pubblicazio-ne (con tutta probabilità verrà stampatoalla fine di quest’anno); esso conterrà iresoconti della ricca attività di speleolo-gia urbana svolta a partire dal 1993 da ungruppo di appassionati soci delBertarelli, naturalmente ampiamente cor-redato da dati tecnici, ma anche da fotoa colori. Il libro vuole essere un’occasio-ne per l’approfondimento della cono-scenza di Gorizia «sotterranea» alla por-tata di tutti. Pertanto sarà nostra premu-

della “guerra fredda”, dalla caduta del“muro”, dall’indipendenza dellaSlovenia, ecc.) ha determinato il venirmeno dei vincoli militari gravanti sulCastello, offrendoci la possibilità diesplorare anche questa antica fortifica-zione, simbolo della città. Ciò ha implica-to, doverosamente, l’apertura di unnuovo capitolo di ricerca di documenta-zione; malgrado la buona volontà di alcu-ni, l’approfondimento della ricerca tema-tica per il reperimento di informazioni sulCastello (l’ambizioso desiderio era quellodi trovare concreto supporto alla tantodecantata esistenza di cunicoli o gallerie)ha fatto emergere una realtà che coinvol-ge gli archivi storici di almeno quattrocittà quali Gorizia stessa, Trieste,Lubiana e Vienna.

Ma dove finisce la sfera dello speleo-logo urbano e incomincia quella dellostudioso? Senza voler dare una rispostao prendere posizione in questa diatribada tempo esistente, ci pare opportunolasciare ad esperti e storici ben più com-petenti lo sviluppo e l’approfondimentodei temi di ricerca traendone le opportu-ne conclusioni o formulando le proprieipotesi; dal canto nostro crediamo diaver svolto un’importante opera di docu-mentazione e verifica di una realtà ipo-gea complessa e speriamo di aver con-tribuito al miglioramento della conoscen-za non tanto per vantare dei meriti quan-to per raggiungere un interesse collettivosuperiore.

L’esplorazione nell’area del Castelloè stata comunque portata a termine conmolta soddisfazione ed alcuni successidi rilievo: ci si è calati all’interno di tutti ibastioni, è stata rilevata una “stanza”nell’intercapedine delle mura perimetrali,è stata percorsa una galleria per parec-chi metri dalla base del colle fino a ridos-so del castello; anche il pozzo centrale èstato esplorato come, del resto, alcunialtri, grazie alla collaborazione di alcunispeleo-sub, in particolare dall’espertoStavros Frenopoulos. Spesso ci hannochiesto: ma, l’avete trovato il tesoro? E ilforziere non era in fondo al pozzo? Larealtà a volte è molto più semplice ecruda: il pozzo è in gran parte riempitoda materiali inerti, «avanzati» in una dellevarie fasi di ricostruzione del Castello.

Con ciò non vogliamo comunque svi-lire la curiosità e la fantasia popolari:muoversi all’interno di un’ampia galleriarisalendo il colle, riuscire a superare alcu-ni cumuli di frana, mettere in risalto ulte-riori prosecuzioni, scoprire di essere apochi metri dal corpo centrale del castel-lo ha un fascino incommensurabile.

Altre energie sono state poi indirizza-te nell’esplorazione di stanze e sotterra-nei inerenti edifici religiosi quali chieseed antichi conventi. Maggiore attenzioneè stata rivolta alla chiesa di Sant’Ignaziocon le sue cripte, alla lunga serie di stan-ze sotto la Biblioteca, all’antica Cappellasepolcrale nel Duomo dedicata a S.Acazio. In tutte queste circostanze ladocumentazione raccolta costituiscefonte di particolare interesse dal punto divista della ricostruzione storica per laloro unicità, visto che tali strutture hannosubito di recente lavori di ristrutturazio-ne.

Inoltre, sulla scorta di notizie e fontistoriche più recenti (ovviamente in termi-ni relativi) riguardanti la città di Gorizia,sono stati ispezionati diversi rifugiantiaerei. Molti hanno la classica forma aferro di cavallo, il più grande (ca. 300metri di lunghezza) è rappresentato dallagalleria di via Bombi. Le tecnichecostruttive spaziano dallo scavo su con-glomerato al rivestimento in mattoncini;alcuni sono dotati di muri paraschegge,altri conservano ancora i pilastrini latera-li in cemento per il sostegno della trava-tura in legno.

Da ultimo, anche se con ciò non sivuole porre la parola «fine» sulla speleo-logia urbana, ci si è calati nella canaliz-

Ricordando

Giuliano Pecar e il Coro “Monte Sabotino”di VINCENZO CARAVAGLIO

Grappa sotto via Morelli.

Giuliano Pecar, il secondo da sinistra, con gli amici del Coro (foto Alvise Duca).

R icordare Giuliano Pecar è anda-re con la memoria alla secondametà degli anni Quaranta, quan-do una generazione poco più o

poco meno che ventenne si lasciavaalle spalle il vuoto disastroso generatodalla guerra ed aveva avanti a sé unfuturo tutto da riempire. Fresco dimaturità scientifica, quel futuroGiuliano lo riempì di due grandi passio-ni: il suo «mestiere» e la montagna, sor-rette entrambe da un entusiasmo chenon lo abbandonerà mai e da un’unicaetica: «Andare in montagna per tornarein montagna». Cioè: qualunque fossel’impresa, affrontarla in sicurezza perpreparazione e consapevolezza. Percontinuare.

Con questa etica praticò la monta-gna, con successo, nei suoi vari aspet-ti. Gli fu possibile, in una con l’amicoChiuzzelin, di «inventarsi» uno sci alpi-

nismo, «ante litteram» da queste parti acavallo degli anni ’50, epoca di scarsafortuna per questo sport. Con attrezza-ture ed equipaggiamento da pionieri.Ne furono scenari il Monte Cavallo diPontebba, per esempio, e le Carnichedall’Oisternig a Pramollo in invernale,tutta in quota lungo il confine, e leVenoste, in altra stagione, ancora inquota e lungo il confine, dall’Altissimafino a scendere a Curon Venosta. Lavalutazione della consistenza nevosaveniva da quanto di meteorologia pub-blicavano i giornali, con l’attenzionerivolta alle precipitazioni ed alla pro-gressione delle temperature prima,durante e dopo le nevicate. I satellitimeteorologici dovevano ancora essereinventati. Allenamento e forma veniva-no dalle lunghe scarpinate estive,magari con qualche bivacco nei boschi,come da Nevea a Chiusaforte passan-

do per la cima del Canin. Ma anchenelle Dolomiti: Antelao, Sorapis, PizzoBoè, Marmolada per citarne alcune. Ela Pala Bianca (3738 m.) nelle Venoste.Qui, primi anni ’60, Giuliano fu protago-nista determinante in un’operazione disoccorso alpino, con mezzi improvvisa-ti. Giunti in vetta, lui e l’amicoChiuzzelin, si trovarono di fronte dueragazzi in grave stato di shock: il padredi uno dei due era scivolato in un cana-lone di ghiaccio. Lo trovarono, unagamba rotta, al limite di un crepaccio. Ilrecupero fu cosa delicata: il trasporto aspalla fino al Rifugio Pio XI, mille due-cento metri più sotto, fu cosa massa-crante. In rifugio, la sufficienza freddadel giorno prima per questi due «citta-dini», erano tra l’altro tempi di tensioneetnica in Alto Adige, lasciò posto aduna cordiale, autentica ammirazione.

Il «mestiere» Giuliano lo respirò finda ragazzo nella «bottega» del padre.Un istriano che ebbe sotto l’Austria ildiploma di «accordatore, riparatore,costruttore di pianoforti» e lavorò aVienna, Trieste ed anche a Cremona,approdando infine a Gorizia nel 1925con un proprio laboratorio.

In quel laboratorio Giuliano imparòa conoscere il pianoforte fin nelle intimestrutture e ne assorbì la tecnica.Studio, attitudine, conoscenza dellamusica, una istintiva capacità di stabili-re con gli altri un rassicurante rapportoumano ne fecero un solido, capaceprofessionista. Andò in Cina, su invito,nelle fabbriche di pianoforti per consu-lenze tecniche. Ricevette a Milano nel1986, dalle mani del presidente delDISMA (Distributori Italiani StrumentiMusicali Associati), il premio «Una vitaper lo strumento musicale». E tanti altririconoscimenti ed attestazioni. Però ciòche forse alla fine gli dava maggiorsoddisfazione era la galleria di fotogra-fie con dedica autografa che ornanoancora oggi il suo studio. Sono le foto-grafie di personaggi eminenti nel

ra compiere gli opportuni sforzi affinchéil prezzo di vendita risulti accessibile e icontenuti della pubblicazione siano difacile comprensione dando ampio spa-

zio alle immagini senza peraltro svilire laricchezza di contenuti tecnici.

FFoottoo aarrcchhiivviioo GGrruuppppoo SSppeelleeoo LL..VV.. BBeerrttaarreellllii..

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campo della musica, che egli ebbe laventura di conoscere nel frequentare lemaggiori fabbriche di pianoforti nonsolo europee, ai concerti, o per motiviprofessionali o semplicemente perchésuoi clienti, come il pianista russo LazarBerman. Vi si leggono tra le tante lefirme di Carlo Maria Giulini, ArturoBenedetti Michelangeli, Uto Ughi,Severino Gazzelloni, Paul BaduraSkoda, Sviatoslav Richter.

La musica Giuliano l’aveva nel san-gue. Ne dette prova quando, ragazzo,fu preso a suonare nelle orchestrine edancor più quando, neanche a vent’anni,ne mise su una propria.

Nella tarda estate del 1961, sebbe-ne con preoccupazione per il pocotempo che gli impegni di lavoro gliavrebbero concesso, accettò di pren-dere in mano un embrione di coro, cuipochi amici frequentatori della monta-gna tentavano di dar vita.

Si capì subito che non ci sarebbestata nessuna concessione per i pezzi«strappa applausi». Incominciò conalcune armonizzazioni di ArturoBenedetti Michelangeli, spaziò nelcanto delle tradizioni popolari alpine edella guerra alpina, scegliendo quantogli era di congeniale. Leggendolo, quelcanto, alla luce del suo modo di sentiree di vivere la montagna.

Il coro, non tutti provetti conoscito-ri di musica, ebbe la sua prima uscita aVisinale del Judrio, sul breâr di una«Festa dell’Imperatore». Alla seconda,in Creta Grauzària, si caratterizzò perquello che voleva essere: un coro dimontagna. Bastò qualche anno perpartecipare a qualche concorso: duevolte ad Adria, convegno di ragguarde-voli cori del Triveneto, conseguendonel ’67 l’ottavo posto in classifica e l’e-sibizione nella serata conclusiva.

Un quarto posto fu ottenuto nellasezione «folklore» di un concorsoSeghizzi. Nel 1968, cinquantesimo dellafine della prima guerra mondiale, in unaserie di manifestazioni celebrative dellaVittoria, la RAI invitò il coro per un pro-gramma di canzoni di quella guerra. Perinciso va detto che, nel corso della regi-strazione, l’esperto in sala sollevò unadisputa vivace su una questione tecni-ca e musicale insieme. Alla fine fu resaragione al direttore del coro.

La stagione di Giuliano alla direzio-ne del coro finì nei primi anni settanta,quando esigenze di lavoro sue e quelle,composite, del coro entrarono in con-flitto. Forse non sempre il coro si reseconto di quel conflitto.

Fu suggello l’esecuzione di quellecanzoni che più avevano unito. AlBivacco Gorizia, in una mattina colora-ta d’autunno, fu pubblico un’esiguacompagnia che scendeva dalla ForcellaAlta di Rio Bianco e prese posto a metàdel canalone.

L’eco si disperse quasi a Tarvisio.Quando muore un alpino, gli alpini

dicono: «È andato avanti». È un atto difede, o solo una speranza, o solo il rifiu-to di un distacco definitivo. O, forse,tutto questo insieme.

Per noi, Giuliano «è andato avanti».

U n caro amico e un uomo digrande stile: è questa l’immagi-ne che mi è rimasta di GiulianoPecar. Nella semplicità del suo

carattere c’era un’energia che si irradia-va in molte direzioni, una capacità diunire il senso del dovere e della dignitàprofessionale al più schietto piacere del-l’evasione. Non aveva bisogno di osten-tare le sue non comuni competenze, eciò lo rendeva insieme autorevole e sim-

Furono quelle esperienze a dare il«la» a un’esistenza piena di soddisfazio-ni. La bottega del riparatore e accorda-tore di pianoforti si trasformava in unampio negozio, il più rinomato dellaregione. Per Giuliano la vendita non erauna pratica commerciale ma una speciedi rito, dal quale non era raro chenascesse una nuova amicizia. E cosìarrivavano nel suo studio pianisti di tuttala regione, e poi dal resto d’Italia, dallaSlovenia, dall’Austria. Passavano anchei grandi nomi della concertistica interna-zionale, con i quali alle volte finiva percrearsi una simpatica complicità.Qualche ora prima del concerto, mi rac-contò, si era trovato con uno di questi

ciante si trasformava allora in un auten-tico cow-boy. Ricordo di averlo incon-trato una volta in un bosco, lungo unripido sentiero che corre sul dorso diuna collina. A me sembrava già tanto riu-scire a farlo a piedi, lui cavalcava felice.

Tutto quelle esperienze rendevanoinconfondibile e degno di ammirazionelo stile di quell’uomo. Suonare all’audito-rium era un’altra cosa quando in fondoalla sala c’era Giuliano Pecar. Credo chetanti amici musicisti potrebbero confer-marlo: la sua presenza aggiungeva qual-cosa, nobilitava il concerto.

Era generoso, e soprattutto sinceroe riservato nella sua generosità. Hoancora davanti quel suo amabile sorriso,

concerto in casa di amici, gli accennaiall’idea di registrare la musica di CeciliaSeghizzi: in un momento ebbi a disposi-zione i suoi splendidi pianoforti e uncontributo alle spese.

I suoi splendidi pianoforti. Mi accor-go di avergli rubato una parola: quel-l’aggettivo era suo, gli veniva fuori dallabocca ogni volta che c’era qualcosa dibello per cui infiammarsi, dopo un con-certo, dopo qualche ora trascorsa acavallo. Era l’espressione di un’autenti-ca gioia di vivere. Forse il simbolo dellasua stessa esistenza, quella che resteràsempre nella nostra memoria.

(mi pare Paul Badura Skoda) a correre ea impantanarsi in una campagna semial-lagata, senza accorgersi che il tempopassava e nella sala qualcuno stavaaspettando il famoso pianista...

C’era infatti, accanto al lavoro e allamusica, la passione per la natura. Neipomeriggi di autunno, se faceva beltempo, era raro incontrarlo in negozio. Icavalli erano la tentazione più forte, poiveniva la montagna. Il distinto commer-

una leggera piega degli occhi cheaccompagnava le poche parole di pron-ta disponibilità. È stato il più generosomecenate della vita musicale goriziana,come tante associazioni locali potrebbe-ro testimoniare. Quando gli chiesi innoleggio un pianoforte per prepararmiall’esame di ottavo, me lo prestò gratui-tamente per tutto un inverno, scusando-si soltanto per non aver potuto provve-dere al trasporto. In una serata dopo un

La Sella Œez Hribarice (2.358 m.).

AAllppiinniissmmoo ggoorriizziiaannooEEddiittoorree:: Club Alpino Italiano, Sezione diGorizia, Via Rossini 13, 34170 Gorizia.DDiirreettttoorree RReessppoonnssaabbiillee:: Luigi Medeot.

SSeerrvviizzii ffoottooggrraaffiiccii:: Carlo Tavagnutti.SSttaammppaa:: Grafica Goriziana - Gorizia 2000.Autorizzazione del Tribunale di Gorizia n.102 del 24-2-1975.

LLAA RRIIPPRROODDUUZZIIOONNEE DDII QQUUAALLSSIIAASSII AARRTTIICCOOLLOO ÈÈ CCOONN--SSEENNTTIITTAA,, SSEENNZZAA NNEECCEESSSSIITTÀÀ DDII AAUUTTOORRIIZZZZAAZZIIOONNEE,,CCIITTAANNDDOO LL’’AAUUTTOORREE EE LLAA RRIIVVIISSTTAA..

Il mecenate della musica gorizianadi ALESSANDRO ARBO

patico.Ricordo bene la

prima volta che l’hoconosciuto, al primopiano del suo negozio divia Contavalle. La suapresenza, accompagna-ta dalle tracce di un pro-fumo che amava portaree che per me sarebbecol tempo divenutoquasi un simbolo del suodistinto savoir-faire, ren-deva singolare quelluogo. Un’aura di rispet-to circondava le figure diquei lunghi animali neri esilenziosi; finché le suemani si appoggiavanosulla tastiera e tuttol’ambiente sembravavivere. Erano accordicomplessi, manciate ditimbri che mettevano inluce l’anima di queglistrumenti, che Giulianoamava come fosserosuoi amici d’infanzia.

Era uno dei tratti piùbelli della sua persona-lità: amava il suo lavoroe, come può testimonia-re chiunque lo abbiaconosciuto, ne era benripagato. Con gli occhipieni di entusiasmo miraccontava come dabambino si trattenevasotto quelle lunghecode, a respirare l’odoredel legno e a osservare igesti del padre. Da lì eranata una passione chenon sarebbe mai tra-montata. Durante laguerra, la musica loaveva reso protagonistadi numerose avventure.Rientrava poco primadell’alba, violando ilcoprifuoco: assieme aicompagni del suo com-plessino, zitti zitti, su uncamion degli americani,dopo aver passato lanotte a suonare per unballo.

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Kak Æabiøki (1.844 m.), Tolmino (SLO).

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Lettera ai socidi FRANCO SENECA

A nche per la Sezione sono terminate le Scuole! In questa prima parte dell’an-no si sono svolti, con buoni risultati, i numerosi Corsi organizzati per i sociche vogliono approfondire la conoscenza e la pratica della montagna neisuoi vari aspetti. L’obiettivo primario che il C.A.I. si pone con essi è quello di

avviare i soci alla montagna in sicurezza e con cognizione di causa, quello secon-dario di acquisire l’esperienza necessaria per partecipare alla vita sezionale e allesue manifestazioni.

Si sono conclusi i corsi di sci di fondo, di sci alpinismo, di Montikids per i gio-vani, della Scuola di alpinismo e i due di escursionismo. Questi ultimi sono stati digran lunga i più impegnativi, sia per gli allievi che per gli istruttori; i due corsi infattihanno coinvolto, in due riprese di cinque settimane consecutive ciascuna e conbello e brutto tempo, numerosi istruttori ed allievi. Ma se per gli allievi si tratta di unimpegno voluto, per gli istruttori lo consideriamo spesso, e ingiustamente, quasidoveroso; quanti altri soci infatti sarebbero disposti a impiegare tante settimane diprimavera per insegnare ad altri ad affrontare la montagna?

Parallelamente sono proseguite, e con buon seguito, le gite sociali; la presenzadei soci si è rafforzata ed è stata premiata da un tempo quasi sempre ottimo. Si ènotato inoltre un interessante ricambio nei partecipanti: ciò è forse il risultato deicorsi di escursionismo degli anni precedenti, con nuovi soci molto motivati e spes-so già coinvolti nell’attività sociale. Le mete, che si susseguono con difficoltà cre-

scenti, saranno un graduale allenamento per quanti hanno l’obiettivo delGrossglockner o del Monte Rosa; e per esse un buon allenamento è condizionenecessaria, anche se non sufficiente.

Ma non è solo l’attività escursionistica che ci interessa; il Coro Monte Sabotinoha collezionato una serie di iniziative e di successi veramente notevoli; ha parteci-pato a concorsi nazionali ed internazionali concludendo la prima parte dell’anno conun affollatissimo concerto cittadino all’Auditorium di Gorizia ed una sua versionealpina al Santuario di Lussari. Un augurio di successo alla rinnovata Direzione delCoro, che ha incrementato l’organico con l’acquisizione di nuove leve!

La Scuola di Alpinismo ha concluso il suo corso di roccia con la consueta affi-dabilità. Per il futuro è prevista una maggiore collaborazione fra i Direttivi dellaScuola e della Sezione per integrare risorse e programmi, risolvendo alcuni proble-mi logistici e di disponibilità delle persone. I settori interessati sono la gestione deiCorsi, attività didattiche e di aggiornamento per i capigita ed anche gite sociali.

Un appuntamento molto importante ci viene proposto dal Gruppo Speleo cheorganizza un Corso nazionale di perfezionamento speleologico per la fine di luglio;il corso avrà la durata di una settimana ed impegnerà il Gruppo, sia dal punto di vistalogistico che didattico, in una manifestazione di grande interesse e prestigio.

Ed ora una nota per i pochi Soci ritardatari. Non sempre uno si ricorda di rinno-vare il canone sociale, oberato da tante altre incombenze analoghe, non sempreuno trova il tempo di utilizzare quella finestra di un’ora del giovedì che la Sezioneriserva ai Soci, non sempre uno trova il tempo di passare alla posta per fare il ver-samento su c/c postale, ma almeno chi fa attività escursionistica o alpinistica siricordi dell’assicurazione legata al pagamento della quota sociale per il 2000.Ricordo che dal 31 marzo scorso l’assicurazione e l’invio delle riviste sono sospesie si possono riattivare solo con il rinnovo del canone.

Un augurio di buona estate in montagna e non solo!

Esperienze e passioni

Cacciatori di nevedi FRANCESCO PORTELLI

L a prima volta che agganci loscarpone agli attacchi e tenti dicontrollare gli sci da discesa nonte la scordi più: di fronte a te hai

un bel pendio innevato che però temiben presto di accarezzare col viso, per-ché alle gambe hai due «missili» pronti apartire non appena dai una piccola spin-ta verso valle.

Anni dopo il ricordo di queste paureda principiante ti fa sorridere e cominci ascendere con sicurezza per qualsiasipendio, per poi accorgerti che hai biso-gno di qualcosa di diverso: devi sceglie-re tu l’itinerario di discesa (non chi pro-getta i tracciati delle piste a fianco degliimpianti di risalita), individuando i periodimigliori per le escursioni e cercando dicapire su che tipo di neve ti capiterà discendere (non certo sul solito «biliardo»di neve compattata dai mezzi battipista).

È nata così in te la passione per loscialpinismo, uno sci di fatica ed avven-tura, libero dalle masse del turismo inver-nale ma non svincolato da regole di com-portamento alle volte molto rigide. Se haila fortuna di conoscere qualcuno con cuidividere queste esperienze, cominci apercorrere gli itinerari classici della tuaregione, imprecando sulla precaria tenu-ta delle pelli di foca nelle tue prime salitealle cime innevate che, come esige lapratica di questo sport, si trasformeran-no in problematiche discese una voltatolte le pelli dagli sci e bloccato il tallonecon la chiusura dell'attacco. Neve cro-stosa, gessosa, bagnata sono dei mici-diali deterrenti per i neofiti scialpinisti,ma non ci si sente battuti e tomboladopo tombola si comincia ad abbozzarequalche pregevole traccia di discesa supendii che sarà un piacere osservare dalrifugio con una buona birra in mano, certidi meritare un po’ di riposo dopo unadomenica di fatica.

Ma come sempre succede, il parti-colare di oggi diventa il banale domani ele gite locali non ti bastano più: la tuavoglia di novità ti spinge a caricare gli scisu di un aereo di linea internazionale perpraticare lo scialpinismo in ambienti

extra-alpini che lasceranno in te ricordiindimenticabili, come in Norvegia, peresempio.

Non sarà certo facile scordare leemozioni provate sciando sui pendii diun fiordo a nord del Circolo Polare Articodi fronte al mare aperto (su neve polve-

rosa, tanto per gradire!) ed una volta fini-ta la discesa farsi fotografare da un com-pagno con le alghe marine sopra lapunta degli sci. Indimenticabili, ma permotivi diversi, sono pure un estenuanteslalom in un tipico betulleto norvegese,un incontro fortuito con un branco di

renne selvatiche in prossimità di unacima ed una cena non proprio economi-ca a base di pesce in un «pub» locale.

La stessa voglia di novità induce araggiungere un altro luogo poco cono-sciuto e frequentato per la pratica dellosci: i monti Tatra, in Slovacchia. Materialicaricati in un furgone e scaricati dieci oredopo raggiunto l’albergo, ci si avvicina adelle vette selvagge attraversandouniformi abetaie, dalle quali sporgono afatica, e contrastanti, i plinti in cementodi sostegno alla linea ferroviaria; l’impo-nenza delle chiome degli abeti annichili-sce la violenza visiva dell’architetturaindustriale comunista, tanto da farladimenticare ben presto per la voglia dirisalire quegli stimolanti pendii che siscorgono a malapena al di fuori di unbanco di nuvole basse. Neve magnifica,ma pessime condizioni atmosferiche chelimiteranno la permanenza in questiambienti a pochi giorni soltanto. La giàevidenziata osservanza di regole rigideporta quindi a delle amare rinunce, chepossono essere motivo di discussionecon chi ti accompagna in questi viaggima non intaccano la tua voglia di scopri-re nuovi scenari dove muoverti con unpaio di tavole ai piedi per lasciare cosìuna traccia sulla neve immacolata cherimarrà disegnata anche nella tua memo-ria.

In queste righe ho cercato di riassu-mere quali sono stati i passi che mihanno condotto a praticare lo scialpini-smo nelle dimensioni che ritengo piùautentiche, ma la mia storia è del tuttosimile a quella che hanno vissuto altriamici della nostra sezione con cui hocondiviso queste esperienze: sono pro-prio queste affinità ad unirci in un gruppodi appassionati sempre in cerca (omeglio a caccia) di nevi non battute.

Ormai da tempo chiusa la stagione,desidero ringraziare chi mi ha accompa-gnato e chi non ho potuto rivedere que-st’anno per le belle giornate di tempolibero spese insieme, rivolgendo a tuttil’augurio di fantastiche esperienze futuresugli sci. Buona sciata, snow hunters!

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