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Approfondimenti di diritto previdenziale. In particolare, l infortunio sul lavoro: causa violenta, occasione di lavoro ed infortunio in itinere. Dott.ssa Gabriella Piantadosi

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Approfondimenti di diritto previdenziale. In particolare, l’infortunio

sul lavoro: causa violenta, occasione di lavoro ed infortunio in itinere.

Dott.ssa Gabriella Piantadosi

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Sommario

Premessa ............................................................................................................................................... 3

La tutela INAIL (cenni) ............................................................................................................................ 4

Le prestazioni Inail ........................................................................................................................................ 7

L’infortunio sul lavoro .......................................................................................................................... 15

La causa violenta ......................................................................................................................................... 16

Nozione .................................................................................................................................................... 16

L’alterità o esteriorità. In particolare: i fattori microbici o virali, lo sforzo, l’infarto. .............................. 17

La rapidità e la concentrazione................................................................................................................ 24

L’occasione di lavoro .................................................................................................................................. 25

Nozione .................................................................................................................................................... 25

Rischio proprio, improprio e ambientale ................................................................................................. 25

Il rischio elettivo ....................................................................................................................................... 32

L’infortunio in itinere ........................................................................................................................... 36

Nozione e fonti ............................................................................................................................................ 36

Il “normale percorso” .................................................................................................................................. 40

Gli infortuni occorsi entro l’abitazione, le pertinenze e le parti condominiali. ........................................ 43

La pausa pranzo ....................................................................................................................................... 45

L’uso del mezzo privato necessitato ............................................................................................................ 46

L’uso della bicicletta ................................................................................................................................ 52

Il rischio elettivo nell’infortunio in itinere .................................................................................................. 56

L’infortunio e il fatto doloso del terzo: in particolare nell’infortunio in itinere. ...................................... 60

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APPROFONDIMENTI DI DIRITTO PREVIDENZIALE. IN PARTICOLARE, L’INFORTUNIO SUL LAVORO: CAUSA VIOLENTA, OCCASIONE DI LAVORO

ED INFORTUNIO IN ITINERE.

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Premessa

L’art. 38 della Costituzione prevede: “Ogni cittadino inabile al lavoro e sprovvisto dei

mezzi necessari per vivere ha diritto al mantenimento e all’assistenza sociale.

I lavoratori hanno diritto che siano preveduti ed assicurati mezzi adeguati alle loro

esigenze di vita in caso di infortunio, malattia, invalidità e vecchiaia, disoccupazione

involontaria.

Gli inabili ed i minorati hanno diritto all’educazione e all’avviamento professionale.

Ai compiti previsti in questo articolo provvedono organi ed istituti predisposti o integrati

dallo Stato.

L’assistenza privata è libera”.

La norma individua, dunque, nei primi due commi, livelli di tutela diversi.

Il primo comma si riferisce a tutti i cittadini che non siano in grado di provvedere al proprio

sostentamento; prevede una forma di tutela che garantisce i mezzi necessari per vivere al

cittadino che sia divenuto, o sia sempre stato, inabile al lavoro, anche se non presti e non

abbia mai prestato un’attività lavorativa.

Si tratta di una tutela di carattere assistenziale, generale ed indifferenziata.

Il secondo comma dell’articolo 38 prevede, invece, una tutela di natura previdenziale, che

riguarda un’area più ristretta di soggetti (i lavoratori), a cui è assicurata una tutela

differenziata, più forte: sono garantiti non solo i mezzi necessari per vivere, ma i mezzi

adeguati alle esigenze di vita. E ciò in ragione del peculiare rilievo che la Carta

costituzionale assicura al lavoro, che è bene primario (art. 1), da tutelare in tutte le sue

forme ed applicazioni (art. 35).

Efficacemente la Corte Costituzionale ha affermato che l’art. 38 cit. “configura due modelli

strutturalmente e qualitativamente distinti: l’uno, fondato sulla solidarietà collettiva,

garantisce ai “cittadini”, ove ad alcuni eventi si accompagnino accertate situazioni di

bisogno, “i mezzi necessari per vivere”; l’altro, suscettibile di essere realizzato mediante

gli strumenti mutualistico-assicurativi, attribuisce ai “lavoratori”, prescindendo da uno

stato di bisogno, la diversa e più elevata garanzia del diritto a “mezzi adeguati alle loro

esigenze di vita” (sentenza n. 31 del 1986).

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In entrambi i modelli “è rimessa alla discrezionalità del legislatore la determinazione dei

tempi, dei modi e della misura delle prestazioni sociali sulla base di un razionale

contemperamento con la soddisfazione di altri diritti, anch’essi costituzionalmente

garantiti, e nei limiti delle compatibilità finanziarie” (Corte Cost., sentenza n. 17/1995).

Così, l’assicurazione per l’invalidità, la vecchiaia e i superstiti (che si alimenta attraverso i

“contributi” versati all’INPS) ha senz’altro carattere generale e prescinde dal rischio

professionale.

L’assicurazione contro gli infortuni e le malattie professionali rappresenta, invece, una

tutela aggiuntiva ed autonoma, che implica da parte dei datori di lavoro una contribuzione

ad hoc, integrata dai cd. “premi”, corrisposti in ragione del livello di rischio connesso alle

attività svolte.

In definitiva, l’assicurazione obbligatoria contro gli infortuni sul lavoro e le malattie

professionali risponde alla scelta del legislatore di assicurare al lavoratore, che abbia

riportato una menomazione a causa/in occasione dell’attività lavorativa, un trattamento

rafforzato rispetto a quello dei cittadini o anche dei lavoratori vittime di infortuni o divenuti

invalidi per cause estranee all’attività lavorativa. Risulta, dunque, tutelato in modo più forte

il cd. “rischio professionale” rispetto al cd. “rischio generico”.

La tutela INAIL (cenni)

La tutela contro gli infortuni e le malattie professionale è gestita, in massima parte,

dall’Istituto Nazionale per l’Assicurazione contro gli infortuni sul lavoro e le malattie

professionali (INAIL).

L’INAIL, secondo la previsione dell’art. 7 della Legge 30 luglio 2010, n. 122, ha acquisito

anche le funzioni in precedenza svolte da altri Istituti previdenziali: l’IPSEMA, Istituto di

Previdenza per il Settore Marittimo, in materia di assicurazione degli addetti alla

navigazione marittima ed alla pesca marittima e l’ISPESL, Istituto Superiore per la

Prevenzione e la Sicurezza del Lavoro, in materia di ricerca, sperimentazione e controllo

nella prevenzione degli infortuni, la sicurezza del lavoro e la tutela della salute negli

ambienti di vita e di lavoro.

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Inoltre, a seguito dell’abrogazione di istituti tipici del pubblico impiego, quali la causa di

servizio, l’equo indennizzo e la pensione privilegiata (art. 6 del Decreto Legge 6 dicembre

2011, n. 201, convertito con modificazioni, dalla Legge 22 dicembre 2011 n. 214), anche i

dipendenti pubblici sono soggetti all’assicurazione obbligatoria contro gli infortuni sul

lavoro gestita dall’INAIL, con conseguente applicabilità della normativa contenuta nel T.U.

1124/1965 e nel D. Lgs. 38/2000 (fatta eccezione per il comparto sicurezza, difesa, vigili del

fuoco e soccorso pubblico)1.

Le principali fonti normative che regolano la materia sono:

1 In precedenza, la tutela contro gli infortuni sul lavoro, se gestita dall’INAIL, poteva essere fornita con la

modalità della “gestione per conto dello Stato”, regolata dal D.M. 10 ottobre 1985 del Ministero del Tesoro,

in base alla quale l’Amministrazione statale competente aveva il ruolo di assicurante e assicuratore insieme

ed erogava al dipendente infortunato la retribuzione al posto dell’indennità per inabilità temporanea assoluta,

mentre l’INAIL anticipava le prestazioni (indennizzi in capitale e rendite vitalizie) e successivamente

addebitava alle Amministrazioni le spese sostenute per le prestazioni corrisposte e per i costi di gestione, che

le venivano annualmente rimborsati, con l’esclusione della indennità giornaliera per le inabilità temporanee

(vedi, in materia: Cass. 26 maggio 2004, n. 10170). Peraltro, nella maggior parte dei casi, tutti i dipendenti

pubblici, compresi gli appartenenti alla carriera dirigenziale, alle forze dell’ordine ed ai corpi militari, in caso

di infermità o di lesioni traumatiche per ragioni e/o fatti di cui fosse accertata la connessione con lo

svolgimento del servizio di adibizione erano tutelati facendo ricorso agli istituti del riconoscimento della

causa di servizio e della concessione dell’equo indennizzo (e ai collegati istituti del rimborso delle spese di

degenza per causa di servizio e della pensione privilegiata), originariamente regolati dal T.U. 10 gennaio

1957, n. 3 e dal relativo regolamento attuativo di cui al D.P.R. 3 maggio 1957, n. 686.

Detta forma di tutela specifica e tipica dei lavoratori del settore pubblico non escludeva che - ove previsto -

si potesse fare ricorso anche all’assicurazione obbligatoria contro gli infortuni sul lavoro gestita dall’INAIL e

disciplinata dal D.P.R. n. 1124 del 1965, poi integrato dal D. Lgs. 23 febbraio 2000, n. 38. In simile

evenienza, le prestazioni offerte dai due diversi sistemi previdenziali venivano considerate come distinte ma

complementari, secondo uno schema in cui l’applicazione del riconoscimento di infermità dipendente da

causa di servizio (e degli altri istituti connessi) era automatica e coeva all’instaurarsi del rapporto di lavoro (e

aveva, quindi, carattere obbligatorio), mentre quella delle provvidenze gestite dall’INAIL non nasceva

automaticamente per il solo inizio dell’attività lavorativa ma aveva alla base un apposito rapporto

previdenziale, cui si ricorreva nel settore pubblico solo in casi particolari, come laddove l’attività lavorativa

fosse reputata pericolosa (e aveva, pertanto, carattere sussidiario).

La suddetta complementarietà tra i due diversi sistemi si fondava sul principio fondamentale del divieto di

cumulo di due prestazioni previdenziali per la medesima infermità o lesione, che comportava, fra l’altro, che:

1) la retribuzione automaticamente erogata dall’Amministrazione di appartenenza al dipendente infortunatosi

per causa di servizio escludesse la corresponsione dell’indennità per inabilità temporanea assoluta da parte

dell’INAIL, in ogni caso;

2) dalla somma eventualmente liquidata a titolo di equo indennizzo dovesse essere detratto quanto

eventualmente corrisposto dall’INAIL.

Con riguardo a quanto indicato sub 1 deve essere precisato che in caso di riconoscimento della causa di

servizio il lavoratore aveva diritto al trattamento economico completo di spettanza nell’intero periodo di

assenza conseguente all’infortunio o alla malattia (cfr. Sez. L, Sentenza n. 17895 del 23/07/2013).

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- il D.P.R. 30 giugno 1965, n. 1124 (“Testo unico delle disposizioni per l’assicurazione

obbligatoria contro gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali”), pubblicato nel

Supplemento ordinario alla G. U. 13 ottobre 1965, n. 257, tuttora vigente;

- il Decreto Legislativo 23 febbraio 2000, n. 38 (“Disposizioni in materia di assicurazione

contro gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali, a norma dell’articolo 55, comma 1,

della legge 17 maggio 1999, n. 14”), pubblicato in G. U. 1 marzo 2000 n. 50, che ha

comportato profonde innovazioni al sistema previgente.

Nel sistema di cui al D.P.R. n. 1124 del 1965 il godimento della tutela assicurativa contro

gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali richiede congiuntamente due condizioni:

una soggettiva ed una oggettiva.

Quanto al presupposto soggettivo, sono assicurati i soggetti compresi in una delle categorie

individuate dall’art. 4; quanto al presupposto oggettivo, i soggetti così individuati devono

svolgere una delle attività indicate dall’art. 1, protette in quanto ritenute pericolose.

I datori di lavoro tenuti alla contribuzione, specificati dall’art. 9, sono quelli che,

nell’esercizio delle attività di cui all’art. 1, occupano persone tra quelle indicate nell’art. 4.

In altri termini, secondo il modello del T.U. del 1965, la tutela trova applicazione soltanto

per quelle lavorazioni (cd. “attività protette”) che il legislatore ritiene rischiose secondo una

valutazione “tipica”: all’interno di tali lavorazioni la tutela è assicurata solo a determinate

categorie di lavoratori, specificamente indicate.

Su tale sistema é intervenuta, ripetutamente, la Corte costituzionale, affermando il principio

secondo cui presupposto esclusivo per la configurabilità dell’obbligo assicurativo é

l’esposizione al rischio, e ricavandone la tendenziale estensione della garanzia a tutti i

soggetti che, per ragioni di lavoro intese in senso ampio, siano esposti ad un rischio

obiettivamente riferibile alle lavorazioni protette (sentenza n. 98 del 1990; sentenza n. 171

del 2002).

In applicazione di questo principio, la Consulta ha inciso sull’art. 9, ampliando la nozione

del “datore di lavoro” tenuto agli adempimenti contributivi (escludendo, in particolare, che

il soggetto obbligato al loro versamento sia necessariamente colui che determina le

condizioni di rischio: sentenza n. 98 del 1990), ed ha esteso la portata dell’art. 4, ritenendo

ingiustificata l’esclusione, dall’elenco delle persone assicurate, dei prestatori di attività

lavorative operanti nelle stesse condizioni di rischio di altre categorie protette (ad es.,

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sentenza n. 476 del 1987: familiari partecipanti all’impresa familiare indicati nell’art. 230-

bis cod. civ. che prestano opera manuale od opera a questa assimilata; sentenza n. 137 del

1989: ballerini e i tersicorei addetti all’allestimento, alla prova o all’esecuzione di pubblici

spettacoli; sentenza n. 332 del 1992: associati in partecipazione).

Parallelamente, anche gli interventi legislativi hanno ampliato il novero delle categorie

protette: la legge n. 493 del 1999 ha istituito l’assicurazione obbligatoria per la tutela dal

rischio infortunistico per invalidità permanente derivante dal lavoro svolto in ambito

domestico (art. 7); il D. Lgs, n. 38 del 2000 ha esteso l’obbligo assicurativo ai dirigenti (art.

4), ai lavoratori parasubordinati (art. 5), agli sportivi professionisti (art. 6).

Il sistema di tutela attuale si è, dunque, formato attraverso un processo progressivo in cui un

ruolo decisivo è stato svolto - oltre che dagli arresti della Corte Costituzionale e dagli

interventi normativi - dalle decisioni della giurisprudenza ordinaria.

Anzi, talvolta, in tale evoluzione, gli interventi del legislatore avuto la funzione di codificare

e “cristallizzare” in precetti normativi gli orientamenti espressi dalla giurisprudenza

ordinaria e costituzionale; particolare esempio di tale processo, come vedremo anche in

seguito, è fornito proprio dalla tutela dell’infortunio in itinere, enucleata dalla

giurisprudenza sulla base della nozione di occasione di lavoro di cui al D.P.R. 30 giugno

1965, n. 1124, art. 2, e poi recepita dalla L. n. 144 del 1999, art. 55, lett. u) e dal D. Lgs.

38/2000.

In quest’opera ermeneutica, che ha senz’altro esteso gli ambiti dell’originaria tutela

assicurativa, i giudici hanno comunque sempre tenuto conto - e devono tener conto - del

necessario bilanciamento tra la tutela degli interessi dei lavoratori e l’equilibrio finanziario

degli enti assicuratori. Si rischierebbe, altrimenti, di ampliare in misura eccessiva l’area

coperta dall’assicurazione, con conseguente aggravio del costo della stessa ed inevitabili

squilibri per il bilancio INAIL.

Le prestazioni Inail

Il diritto del lavoratore (cd. assicurato) alle prestazioni erogate dall’Inail è un diritto

soggettivo, che scaturisce dal rapporto assicurativo, in presenza delle condizioni previste.

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Nel sistema dell’assicurazione contro gli infortuni e le malattie professionali vige il

principio della cd. “automaticità delle prestazioni”, per cui il diritto del lavoratore

infortunato o affetto da malattia professionale ad ottenere dall’INAIL le prestazioni

assicurate dalla legge prescinde dal versamento dei premi da parte del datore di lavoro.

Ciò è sancito espressamente dall’art. 67 del T.U. 1124/1965, a mente del quale “Gli

assicurati hanno diritto alle prestazioni da parte dell’Istituto assicuratore anche nel caso in

cui il datore di lavoro non abbia adempiuto agli obblighi stabiliti nel presente titolo”.

Al principio di automaticità della prestazione fanno eccezione gli infortuni in ambito

domestico, per i quali il diritto decorre dal giorno successivo alla data del pagamento del

premio; inoltre, nel caso dei lavoratori autonomi (quali, ad es., artigiani o coltivatori diretti),

il diritto alle prestazioni economiche resta sospeso fino al versamento del premio dovuto.

L’art. 66 del T.U. prevede le seguenti prestazioni dell’assicurazione:

1) un’indennità giornaliera per l’inabilità temporanea;

2) una rendita per l’inabilità permanente;

3) un assegno per l’assistenza personale continuativa;

4) una rendita ai superstiti e un assegno una tantum in caso di morte;

5) le cure mediche e chirurgiche, compresi gli accertamenti clinici;

6) la fornitura degli apparecchi di protesi.

Oltre quelle suindicate, l’INAIL eroga, sulla base di ulteriori disposizioni, le seguenti

prestazioni:

7) quote integrative sulla rendita base, spettanti agli infortunati permanentemente invalidi,

in rapporto al carico familiare (art. 77. D.P.R. 1124/1965);

8) rendita di passaggio, prevista a favore dei lavoratori affetti da conseguenze dirette di

silicosi ed asbestosi, che si trovano in specifiche condizioni (art. 150 T.U. 1124/65);

9) assistenza ai grandi invalidi del lavoro (artt. 178 e 179 T.U. 1124/65);

10) tutela in favore degli orfani dei caduti sul lavoro T.U. (legge 987/41, D.L. 327/47).

Le prestazioni che costituiscono, per lo più, oggetto del contenzioso giudiziario sono quelle

indicate ai nn. 1 e 2 dell’elenco che precede (indennità giornaliera per l’inabilità

temporanea; rendita per l’inabilità permanente).

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A norma dell’art. 68 del D.P.R. n. 1124 del 1965, l’indennità giornaliera per inabilità

temporanea è dovuta sino a quando dura l’inabilità assoluta, che impedisca totalmente e di

fatto all’infortunato di attendere al lavoro.

Pertanto, l’indennità giornaliera per inabilità temporanea non può essere concessa laddove

lo stato di inabilità sia solo parziale (Sez. L, Sentenza n. 2894 del 13/02/2015).

Viene erogata dall’INAIL a decorrere dal quarto giorno successivo al verificarsi

dell’infortunio ovvero alla manifestazione della malattia professionale ed è corrisposta per

tutta la durata dell’inabilità. Ha la funzione di integrare la capacità di guadagno del

lavoratore, venuta meno a causa della temporanea perdita dell’attitudine al lavoro, sicché

deve essere commisurata alla retribuzione effettivamente percepita nei quindici giorni

precedenti l’evento lesivo.

L’Inail eroga l’indennità giornaliera nella misura del:

60% della retribuzione media giornaliera fino al 90° giorno

75% della retribuzione media giornaliera dal 91° giorno fino alla guarigione.

In caso di ricovero dell’assicurato presso un istituto di cura, l’INAIL può ridurre di un terzo

l’importo della indennità al lavoratore senza familiari a carico.

Quanto ai giorni non coperti dall’assicurazione, il datore di lavoro ha l’obbligo di pagare al

lavoratore infortunato l’intera retribuzione per la giornata nella quale è avvenuto l’infortunio

e il 60% della retribuzione stessa per i successivi 3 giorni, salvo migliori condizioni previste

da contratti collettivi o individuali di lavoro.

La rendita per inabilità permanente è disciplinata dall’art. 74 T.U. 1124/1965, che (a

seguito dell’intervento di C. Cost., sentenza n. 93/77, che ha equiparato la soglia dei

postumi permanenti rilevante sia per l’infortunio che per le malattie) dispone che, qualora

dall’infortunio o dalla malattia professionale residuino postumi permanenti di grado pari o

superiore all’11%, sia corrisposta, con effetto dal giorno successivo a quello della

cessazione dell’inabilità temporanea assoluta, una rendita di inabilità rapportata al grado

dell’inabilità stessa e ragguagliata alla retribuzione effettivamente percepita nell’anno

precedente, nel rispetto del minimale e del massimale di legge.

La rendita prevista dalla disciplina di cui al d.P.R. n. 1124 del 1965 si riferisce

esclusivamente alla riduzione della capacità lavorativa e, anche in base all’interpretazione

fornita dalla Corte costituzionale (sentenze n. 319 del 1981, n. 87 e 356 del 1991), non

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comprende una quota volta a risarcire il danno biologico, atteso che la configurabilità

concettuale della duplice conseguenza (patrimoniale e non patrimoniale) del danno alla

persona non significa che il diritto positivo prevedesse un “danno biologico previdenziale

patrimoniale” (Sez. L, Sentenza n. 4080 del 21/03/2002).

La Corte Costituzionale, con sentenza n. 356/1991, ha chiarito che “le indennità previste dal

d.P.R. n. 1124 del 1965 sono collegate e commisurate esclusivamente ai riflessi che la

menomazione psico-fisica ha sull’attitudine al lavoro dell’assicurato, mentre nessun rilievo

assumono gli svantaggi, le privazioni e gli ostacoli che la menomazione comporta con

riferimento agli altri ambiti e agli altri modi in cui il soggetto svolge la sua personalità nella

propria vita”.

Infatti, oggetto di copertura assicurativa, secondo il T.U. del 1965, erano soltanto le ipotesi

in cui il lavoratore, a seguito di infortunio o malattia professionale, aveva subìto una

riduzione della propria capacità lavorativa, con esclusione dei casi in cui la menomazione

dell’integrità psico-fisica di origine professionale non aveva alcuna incidenza sull’attitudine

al lavoro.

La Consulta ha ritenuto che l’esclusione dell’intervento pubblico per la riparazione del

danno alla salute patito dal lavoratore in conseguenza di eventi connessi alla propria attività

lavorativa non può dirsi in sintonia con la garanzia della salute come diritto fondamentale

dell’individuo e interesse della collettività (art. 32 Cost.) e, ad un tempo, con la tutela

privilegiata che la Carta costituzionale riconosce al lavoro come valore fondante della nostra

forma di Stato (artt. 1, primo comma, 4, 35 e 38 Cost.), nel quadro dei più generali principi

di solidarietà (art. 2 Cost.) e di eguaglianza (art. 3 Cost.), anche sostanziale (cfr. C. Cost.,

sentenza n. 87/1991).

Così, i Giudici delle leggi, con la sentenza n. 356/1991 cit., hanno evidenziato che “le stesse

ragioni che hanno indotto ad introdurre un sistema di assicurazione sociale obbligatoria in

materia di infortuni sul lavoro e di malattie professionali, inducono a ritenere che il rischio

della menomazione dell’integrità psico-fisica del lavoratore medesimo, collegato allo

svolgimento delle sue mansioni, debba godere di una garanzia differenziata e più intensa,

che consenta quella integrale ed automatica riparazione del danno biologico che la

disciplina comune non è in grado di apprestare in modo effettivo. Il danno all’integrità

fisica deve essere oggetto di piena tutela assicurativa per finalità che trovano consacrazione

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nell’art. 32 ed anche - come è stato rilevato in dottrina - nel senso di solidarietà sociale che

permea di sé l’intera Costituzione”.

Sulla base di tali presupposti la Corte ha rivolto al legislatore un chiaro invito - già espresso

nella sentenza n. 87/1991- “ad un intervento diretto ad una riforma del sistema assicurativo

idonea ad apprestare una piena ed integrale garanzia assicurativa rispetto al danno

biologico derivante da infortunio sul lavoro o da malattia professionale” (sentenza n.

356/91).

A tale invito il legislatore ha dato seguito con il D. Lgs. n. 38/2000, che si applica agli

infortuni verificatisi e alle malattie professionali denunciate a decorrere dal 9 agosto 2000.

Tale normativa ha innanzitutto definito il danno biologico, ai fini della tutela

dell’assicurazione obbligatoria contro gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali, ed

in via sperimentale, come la “lesione all’integrità psicofisica, suscettibile di valutazione

medico legale, della persona”. Ha, quindi, conseguentemente, modificato la disciplina delle

prestazioni di natura economica erogate dall’Inail per l’indennizzo di postumi permanenti

derivati da infortunio sul lavoro o da malattia professionale (art. 13).

È, invece, rimasta immutata la disciplina dell’indennità per inabilità temporanea assoluta.

In particolare, con l’art. 13 del D.lgs. 38/2000 il legislatore ha operato un bipartizione dei

gradi di menomazione: i postumi di grado compreso tra il 6% e il 15% sono indennizzati in

capitale, mentre quelli di grado pari o superiore al 16% sono indennizzati in rendita.

L’importo della rendita viene effettuata attraverso la combinazione di due voci distinte:

l’una relativa al danno biologico, l’altra relativa alla riduzione della capacità lavorativa.

Schematizzando, l’art. 13 del d. lgs. n. 38 del 2000 - che ha sancito il passaggio

dall’indennizzo della riduzione della capacità di lavoro generica (proprio del T.U.

1124/1965) all’indennizzo del danno biologico - consente di individuare, ai fini della tutela

dell’assicurazione obbligatoria conto gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali, tre

ipotesi distinte:

a) le menomazioni di grado inferiore al 6%, che non danno luogo ad alcuna prestazione;

b) le menomazioni comprese tra il 6 ed il 15%, che danno luogo ad un indennizzo in somma

capitale, rapportato al grado di menomazione dell’integrità psico-fisica (danno biologico);

c) le menomazioni pari o superiori al 16%, che danno luogo ad una rendita ripartita in due

quote, di cui la prima è determinata in base al grado della menomazione, cioè al danno

biologico subito dall’infortunato, mentre la seconda tiene conto delle conseguenze di natura

patrimoniale (che vengono presunte iuris et de iure) della menomazione.

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Al fine di valutare l’incidenza della menomazione dell’integrità psico-fisica sull’attività

lavorativa del soggetto leso l’art. 13 del D.lgs. 38/2000 ha introdotto delle tabelle, che

consentono una maggiore personalizzazione dell’indennizzo.

Gli eventi indennizzati dall’INAIL sono: l’infortunio e la malattia professionale.

Riservata al prosieguo la trattazione dell’infortunio, si forniranno, di seguito, brevi cenni

sulle malattie professionali.

La malattia professionale è una patologia la cui causa agisce lentamente e progressivamente

sull’organismo e che trova la sua causa, o concausa, in un’attività lavorativa morbigena.

In origine, il legislatore ha adottato un sistema cd. chiuso, con l’introduzione di tabelle che

indicavano, in modo tassativo, le malattie riconoscibili come professionali, le lavorazioni

che ne costituivano causa ed il periodo massimo di indennizzabilità dalla cessazione

dell’attività lavorativa.

Le tabelle in parola sono state definite dal T.U. 1124/1965 e successivamente aggiornate

con il DPR 482/75 ed il DPR 336/94.

Come noto, il sistema tabellare, da un lato, soffre il limite della rigidità, ma, dall’altro, offre

al lavoratore un grande vantaggio sotto il profilo probatorio: se l’assicurato ha contratto la

malattia in una delle lavorazioni tassativamente indicate nelle tabelle, quella malattia è, fino

a prova contraria, di origine professionale (sicché il lavoratore è dispensato dal provare

l’etiologia della tecnopatia). Un esempio al riguardo è dato dal tunnel carpale, contratto a

seguito di “vibrazioni meccaniche trasmesse al sistema mano braccio”.

Con la sentenza n. 179 del 1988, la Corte Costituzionale ha dichiarato l’illegittimità, in

riferimento all’art. 38, comma 2, Cost., dell’art. 3, comma 1, del T.U. delle disposizioni per

l’assicurazione obbligatoria contro gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali

approvato con D.P.R. 30 giugno 1965 n. 1124, “nella parte in cui non prevede che

l’assicurazione contro le malattie professionali nell’industria è obbligatoria anche per

malattie diverse da quelle comprese nelle tabelle allegate concernenti le dette malattie e da

quelle causate da una lavorazione specificata o da un agente patogeno indicato nelle

tabelle stesse, purché si tratti di malattie delle quali sia comunque provata la causa di

lavoro”.

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È stato, così, introdotto nel nostro ordinamento previdenziale il cd. “sistema misto” di tutela

delle malattie professionali.

È bene, infatti, chiarire che la pronuncia della Corte costituzionale non ha soppresso il

previgente “sistema tabellare”, per il quale erano indennizzabili le sole forme morbose

elencate in dette tabelle, contratte nell’esercizio ed a causa di determinate lavorazioni,

tassativamente descritte nelle tabelle medesime, ma ha ampliato l’area della copertura

assicurativa, consentendo “(nell’ambito delle attività protette industriali e agricole di cui

rispettivamente agli artt. 1, 206, 207 e 208 D.P.R. n. 1124 del 1965) l’indagine sulla

eziologia professionale delle malattie indipendentemente dagli elenchi stabiliti e dai tempi

della manifestazione morbosa richiesti dalla legge”.

La parziale dichiarazione di incostituzionalità dell’art. 3 del T.U. del 1965 consente al

lavoratore di ottenere le prestazioni dell’INAIL anche se la forma morbosa da cui si è affetto

sia diversa da quelle specificamente elencate nelle tabelle o sia eziologicamente collegabile

all’esercizio di lavorazioni diverse da quelle descritte nelle tabelle stesse, purché sia

comunque dimostrata la causa di lavoro.

È evidente che anche nel sistema attuale l’assicurato ha interesse a far accertare che sono

comprese nelle tabelle sia la malattia da cui è affetto, denunciata come professionale, che la

lavorazione svolta, potendo così giovarsi della presunzione di origine professionale

dell’infermità: ove dimostri di essere affetto da una malattia “tabellata” e di essere stato

addetto ad una attività considerata idonea, secondo le tabelle, a cagionare quella data

patologia, è dispensato dal dimostrare la sussistenza del nesso di causalità tra l’attività di

lavoro svolta e la manifestazione morbosa.

In altri termini, a seguito della sentenza n. 179 del 1988 della Consulta, si è instaurato un

sistema di tutela delle malattie professionali di natura mista: uno tabellare, che prevede la

tutela per determinate lavorazioni e per determinate malattie indicate nelle tabelle annesse al

d.P.R. n. 1124 del 1965, in relazione alle quali il lavoratore si giova della presunzione legale

del nesso eziologico tra l’attività lavorativa espletata e l’agente patogeno a cui è stato

esposto; un altro non tabellare, che richiede al lavoratore di fornire la prova sia della

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esistenza della malattia sia delle caratteristiche morbigene della lavorazione svolta, sia,

infine, del nesso di causalità tra la lavorazione e la tecnopatia2.

Per completezza, va aggiunto che l’art. 10 del D. Lgs. 38/2000 ha previsto la costituzione di

una commissione scientifica per l’elaborazione e la revisione periodica dell’elenco delle

malattie di cui all’articolo 139 e delle tabelle di cui agli articoli 3 e 211 del testo unico. Ha,

inoltre, stabilito: “Fermo restando che sono considerate malattie professionali anche quelle

non comprese nelle tabelle di cui al comma 3 delle quali il lavoratore dimostri l’origine

professionale, l’elenco delle malattie di cui all’articolo 139 del testo unico conterrà anche

liste di malattie di probabile e di possibile origine lavorativa, da tenere sotto osservazione

ai fini della revisione delle tabelle delle malattie professionali di cui agli articoli 3 e 211 del

testo unico”.

Le malattie professionali comprese nelle tabelle inserite negli allegati 4 e 5 del T.U.

1124/1965 (rispettivamente richiamate dagli artt. 3 e 211 e riferite all’industria ed

all’agricoltura) ed assistite dalla presunzione suddetta sono state progressivamente

aggiornate sino all’intervento effettuato con il D.M. 9 aprile 2008.

L’elenco delle malattie professionali di cui all’art. 139 del T.U. (di cui l’origine

professionale è solo probabile o possibile) è stato aggiornato con D.M. 10 giugno 2014.

2 Quanto al nesso causale, è bene ricordare che la giurisprudenza di legittimità ha chiarito che anch’esso è un

“fatto”, che deve essere provato dal lavoratore ricorrente, ma è un fatto “sui generis”, da qualificare come

tale ai fini del principio decisorio dell’onere della prova. Il suo accertamento non può essere affidato alle

opinioni soggettive dei testi, inammissibili, né ad un certificato di parte: esso, infatti, ha una preminente

componente valutativa che richiede necessariamente l’intervento di un consulente tecnico nominato dal

giudice, avente competenze di carattere medico legale.

La prova del nesso di causalità deve avere un grado di ragionevole certezza, nel senso che, esclusa la

rilevanza della mera possibilità dell’eziopatogenesi professionale, questa può essere invece ravvisata in

presenza di un rilevante grado di probabilità, per accertare il quale il giudice deve non solo consentire

all’assicurato di esperire i mezzi di prova ammissibili e ritualmente dedotti, ma deve altresì valutare le

conclusioni probabilistiche del consulente tecnico in tema di nesso causale, facendo ricorso anche ad ogni

utile iniziativa ex officio diretta ad acquisire ulteriori elementi, in relazione all’entità ed alla esposizione del

lavoratore ai fattori di rischio. Ad. es., il c.t.u. può giungere al giudizio di ragionevole probabilità anche in

base alla compatibilità della malattia non tabellata con la noxa professionale, desunta dalla tipologia delle

lavorazioni svolte, dalla natura dei macchinari presenti sul luogo di lavoro, della durata della prestazione

lavorativa, e per l’esclusione di altri fattori extra-professionali. Per suffragare una qualificata probabilità si

possono utilizzare congiuntamente anche dati epidemiologici.

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L’infortunio sul lavoro

Un riferimento normativo fondamentale nella materia che ci occupa si rinviene nel DPR 30

giugno 1965, n. 1124, che sia nel titolo I (“L’assicurazione infortuni malattie professionali

nell’industria”) che nel titolo II (“L’assicurazione infortuni e malattie professionali

nell’agricoltura”) comprende un capo II (denominato “Oggetto dell’assicurazione”), il

quale, a sua volta, prevede due norme sostanzialmente speculari: gli artt. 2 e 3 (titolo I, capo

II) e gli artt. 210 e 211 (titolo II, capo II), che recano le definizioni degli eventi tutelati:

l’infortunio (art. 2; art. 210) e le malattie professionali (art. 3; art. 211).

Per quanto ci interessa più specificamente in questa sede, gli artt. 2 e 210 si riferiscono

all’infortunio sul lavoro e prevedono che “L’assicurazione comprende tutti i casi di

infortunio avvenuti per causa violenta in occasione di lavoro, da cui sia derivata la morte o

un’inabilità permanente al lavoro, assoluta o parziale, ovvero un’inabilità temporanea

assoluta che importi l’astensione dal lavoro per più di tre giorni”.

L’art. 210, inoltre, prevede: “Deve considerarsi come inabilità permanente assoluta la

conseguenza di un infortunio la quale tolga, completamente e per tutta la vita l’attitudine al

lavoro.

Deve considerarsi come inabilità permanente parziale la conseguenza di un infortunio, la

quale diminuisca in misura superiore al quindici per cento e per tutta la vita, l’attitudine al

lavoro, in conformità della tabella allegato n. 2.

Si considera come inabilità temporanea assoluta la conseguenza di un infortunio che

impedisca totalmente e di fatto per un determinato periodo di tempo di attendere al

lavoro”.

Determinante, in ogni caso, perché possa addivenirsi all’indennizzo è la ricorrenza della

causa violenta e dell’occasione di lavoro.

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La causa violenta

Nozione

L’espressione causa violenta è stata introdotta dal legislatore ben prima del richiamato T.U.

del 1965; essa risale, infatti, alla L. 17 marzo 1898, n. 80 (art. 7), istitutiva

dell’assicurazione obbligatoria contro gli infortuni sul lavoro nel nostro Paese.

L’art. 7 di detta legge prevedeva: “L’assicurazione deve essere fatta a cura e spese del capo

o dell’esercente dell’impresa, industria o costruzione per tutti i casi di morte o lesioni

personali provenienti da infortunio, che avvenga per causa violenta, in occasione del

lavoro, le cui conseguenze abbiano una durata maggiore di cinque giorni”.

Il significato giuridico della nozione, nel tempo, si è profondamente evoluto.

La nozione di causa violenta è stata, infatti, oggetto, sia da parte della giurisprudenza che

della dottrina, di un’interpretazione estensiva, tanto da ricomprendere non solo gli eventi

traumatici di natura meccanica e chimica (traumi contusivi, discontinuativi, distorsivi, da

strappamento, da compressione, asfittici o da sconfinamento, anche correlati ad uso di

attrezzature ed utensili), ma anche le forme di energia suscettibili di un impatto violento con

l’uomo (energia meccanica, energia elettrica o elettromagnetica, energia termica, basse

temperature), nonché sostanze volatili tossiche o asfissianti, sostanze liquide tossiche o

caustiche, microrganismi.

Ripetute, nella giurisprudenza di legittimità, sono le pronunce che definiscono la causa

violenta come un’azione rapida e concentrata nel tempo, che agisce dall’esterno verso

l’interno dell’organismo dell’infortunato, sì da comportare le alterazioni che determinano le

lesioni e la morte.

La Corte di cassazione ha fornito la seguente definizione di causa violenta: “l’azione

violenta che può determinare una patologia riconducibile all’infortunio protetto deve

operare come causa esterna, che agisca con rapidità e intensità, in un brevissimo arco

temporale, o comunque in una minima misura temporale, non potendo ritenersi

indennizzabili come infortuni sul lavoro tutte le patologie che trovino concausa

nell’affaticamento che costituisce normale conseguenza del lavoro” (cfr. Sez. L, Sentenza n.

14119 del 20/06/2006; conf. Sez. L, Sentenza n. 17649 del 28/07/2010).

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Gli elementi che, dunque, tradizionalmente, individuano la nozione di causa violenta, in

relazione all’infortunio sul lavoro, sono: l’esteriorità o alterità, la rapidità e

concentrazione.

L’alterità o esteriorità. In particolare: i fattori microbici o virali, lo sforzo, l’infarto.

L’alterità, o esteriorità, si può manifestare in modi diversi: alcune cause comportano un

rapporto diretto tra fattore causale e persona del lavoratore (ad es. macchina operatrice,

oggetto da sollevare nello sforzo), altre sono di carattere diffusivo o ambientale (ad es.

energia elettrica, nucleare, termica, sostanze tossiche).

La giurisprudenza ha chiarito che costituisce causa violenta anche l’azione di fattori

microbici o virali che, penetrando nell’organismo umano, ne determinano l’alterazione

dell’equilibrio anatomo-fisiologico, sempreché tale azione sia in rapporto con lo

svolgimento dell’attività lavorativa, anche in difetto di una specifica causa violenta alla base

dell’infezione. E ciò anche se gli effetti dei fattori microbici o virali si manifestino dopo un

certo tempo.

Esempi di fattispecie che in concreto sono state esaminate dalla giurisprudenza:

l’odontotecnico che contrae il virus di epatite HCV in occasione e a causa della

propria attività di lavoro, pungendosi nel riparare apparecchi ortodontici (Sez. L,

Sentenza n. 20941 del 28/10/2004);

l’infermiere professionale che contrae un’epatite pungendosi con l’ago di una siringa

mentre effettua un prelievo di sangue ad un ricoverato (Sez. L, Sentenza n. 7306 del

01/06/2000).

È stato ritenuto che anche un agente lesivo, presente nell’ambiente di lavoro in modo

esclusivo o in misura significativamente superiore che nell’ambiente esterno, il quale

produca un abbassamento delle difese immunitarie, rientra nella nozione di causa

violenta. Tale caso è stato esaminato da Cassazione civile, sez. lav., 26/05/2006, n. 12559,

la quale ha anche chiarito, in termini più generali, che la nozione attuale di causa violenta

comprende qualsiasi fattore presente nell’ambiente di lavoro, in modo esclusivo o in

misura significativamente diversa rispetto all’ambiente esterno. Dal suo meccanismo

d’azione, se rapido e concentrato, oppure lento, deriva poi la collocazione dell’evento tra gli

infortuni sul lavoro o le malattie professionali.

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Un caso concreto: Sez. L, Sentenza n. 12559 del 26/05/2006

Alcuni lavoratori, addetti alla macellazione e lavorazione di carni fresche presso vari

salumifici, avevano chiesto la condanna dell’Inail a pagare la indennità per inabilità

temporanea assoluta per i giorni impiegati per la estirpazione di verruche contratte nella loro

attività. In particolare, avevano assunto che le verruche erano state prodotte da virus

contratti sul lavoro, e pertanto costituivano infortunio professionale.

La consulenza tecnica d’ufficio, disposta dal primo giudice, aveva imputato gli episodi

morbosi, identici per tutti i ricorrenti, non ad un passaggio del virus dall’animale all’uomo,

bensì al fatto che alcune proteine della carne, non identificate, importando la distrazione

delle difese immunologiche della cute, provocavano l’abbassamento della soglia di

controllo dell’organismo, con conseguente esplosione della virulenza del virus già di per sè

presente, allo stato latente, in molti organismi umani.

Il Pretore aveva rigettato la domanda.

Il giudice del gravame aveva respinto l’appello dei lavoratori, ritenendo, tra l’altro, che

“l’esclusione del passaggio diretto del virus dalla carne animale all’uomo preclude la

configurabilità del requisito della causa violenta e, dunque, dell’infortunio, dal momento

che non può ritenersi azione violenta un fenomeno qualificato dall’abbassamento delle

difese immunologiche come causa di affermazione di un virus presente, e latente,

nell’organismo”.

La Corte di Cassazione, chiamata a pronunciarsi sulla fattispecie descritta, ha chiarito che

“Nel caso in esame il fattore causale è stato individuato dal c.t.u., e fatto proprio dal

giudice d’appello, nell’azione di alcune proteine della carne, non identificate, le quali

importano la distrazione delle difese immunologiche della cute, provocano l’abbassamento

della soglia di controllo dell’organismo, con conseguente esplosione della virulenza del

virus già di per sè presente, allo stato latente, in molti organismi umani. Tale fattore detiene

quel carattere di alterità ed esteriorità richiesto dalla nozione originaria di causa

violenta. L’unica particolarità, che il giudice del merito ha ritenuto ostativa, è che non

importa penetrazione del virus dall’esterno nell’organismo umano, ma ciò non esclude che

il fattore causale possa appartenere all’ambiente di lavoro, il che è sufficiente ad

integrare quella che, con fedeltà lessicale, continua ad essere denominata causa violenta”.

In altri termini, a differenza dei casi prima considerati, in cui il virus era introdotto

dall’esterno attraverso una puntura, la giurisprudenza ha ritenuto che vi sia “causa violenta”

– e che, dunque, il requisito dell’alterità sussista – anche quando il virus è già presente

nell’organismo, ma è “risvegliato” o “potenziato” da fattori esterni presenti nell’ambiente di

lavoro (proteine della carne).

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Vi sono delle ipotesi in cui il carattere di alterità della causa violenta è meno evidente e,

ciononostante, la giurisprudenza ne ha riconosciuto, a determinate condizioni, la sussistenza

e, dunque, l’indennizzabilità degli infortuni. È il caso dello

sforzo.

In proposito è stato chiarito: “In materia di infortunio sul lavoro, la causa violenta richiesta

ai fini dell’indennizzabilità dall’art. 2 d.P.R. n. 1124 del 1965 deve consistere in un evento

lesivo che opera “ab extrinseco”, ossia dall’esterno verso l’interno dell’organismo del

lavoratore, ovvero in uno sforzo compiuto da quest’ultimo per vincere una forza

antagonista peculiare della prestazione o dell’ambiente di lavoro, sforzo che, con azione

rapida ed intensa, abbia determinato una lesione dell’organismo” (Sez. L, Sentenza n. 12671

del 15/12/1997).

Come si vede, la massima appena riportata, sebbene più datata, ha portata più ampia di Sez.

L, Sentenza n. 14119 del 20/06/2006, innanzi citata: fermi i caratteri della rapidità e

dell’intensità, si precisa che l’evento lesivo può consistere anche in uno sforzo del

lavoratore.

In relazione a tali fattispecie alcuni interpreti hanno comunque ritenuto rispettato il carattere

della “alterità” della causa violenta, in quanto la forza antagonista esterna dovrebbe

individuarsi nella forza di gravità.

In alcune pronunce, più risalenti nel tempo, è stato affermato che lo sforzo fisico costituente

causa violenta dell’infortunio del lavoratore è quello che implica la messa in azione di

energie fisiche muscolari allo scopo del compimento di un lavoro il quale richieda il

superamento di una resistenza anormale o, almeno, notevolmente superiore a quella

abituale (Sez. L, Sentenza n. 4500 del 10/07/1981).

Più di recente la Cassazione ha, invece, chiarito che la causa violenta, richiesta dal D.P.R.

n. 1124 del 1965, art. 2, per l’indennizzabilità dell’infortunio, può riscontrarsi anche in

relazione allo sforzo messo in atto nel compiere un normale atto lavorativo, purché lo

sforzo stesso, ancorché non eccezionale ed abnorme, si riveli diretto a vincere una resistenza

peculiare del lavoro medesimo e del relativo ambiente, dovendosi avere riguardo alle

caratteristiche dell’attività lavorativa svolta e alla loro eventuale connessione con le

conseguenze dannose dell’infortunio (Sez. L, Sentenza n. 27831 del 30/12/2009).

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Costituiscono, ad esempio, sforzi integranti causa violenta:

l’atto dell’avviamento a strappo del motore della falciatrice (Cassazione civile, sez.

VI, 13/03/2017, ordinanza n. 6451);

il sollevamento di un soggetto disabile da parte dell’autista di un pulmino di persone

disabili (arg. ex Cassazione civile, sez. VI, 10/10/2012, n. 17286).

Al contrario, è stata esclusa la sussistenza della causa violenta nel caso della rottura del

menisco subita da un lavoratore a seguito del semplice movimento di rotazione del

ginocchio, compiuto nel passare dalla posizione accosciata a quella eretta (Cassazione

civile, sez. lav., Sentenza n. 4500 del 10/07/1981). È stata ugualmente respinta la richiesta

del lavoratore, il quale non aveva provato di aver proceduto ad uno spostamento di pacchi di

peso rilevante e che proprio lo sforzo al quale si era sottoposto fosse stata la causa

determinante del dolore allo sterno e del malore sopravvenuto (Cassazione civile, sez. lav.,

27/09/2013, n. 22257).

Non infrequenti sono i casi in cui, nel corso dell’attività lavorativa, il lavoratore sia colto,

magari a seguito di uno sforzo, da infarto cardiaco.

Ebbene, è stato chiarito che l’infarto, di per sé, non integra la causa violenta.

Piuttosto, il giudice è chiamato ad accertare, in concreto, se la rottura dell’equilibrio

nell’organismo del lavoratore sia da collegare causalmente a specifiche condizioni

ambientali e di lavoro improvvisamente eccedenti la normale adattabilità e

tollerabilità, tali da integrare fattori almeno concorrenti (concorrenza non esclusa dal

fatto che le conseguenze lesive si determinino nel quadro di una situazione morbosa

preesistente) alla produzione di una lesione organica con azione rapida ed intensa.

Deve, dunque, escludersi dalla nozione giuridica di infortunio il semplice effetto logorante

esercitato sull’organismo, lentamente e progressivamente, da gravose condizioni di lavoro

(Sez. L, Sentenza n. 12685 del 29/08/2003; in senso conforme: Sez. L, Sentenza n. 10566

del 2013; Sez. L, Sentenza n. 26231 del 2009).

Non si può, quindi, ritenere che l’infarto in quanto tale integri di per sé ovvero rappresenti

esso stesso la causa violenta, senza la necessità di individuare una causa che agisca

dall’esterno verso l’interno dell’organismo. Né è sufficiente, per riconoscere un’eziologia

lavorativa, il solo fatto di lavorare. Si finirebbe, altrimenti, con il confondere la causa, da

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ricercarsi nelle condizioni della prestazione lavorativa, con l’evento (sovente a rapida

evoluzione) che esse producono nell’organismo dell’infortunato (cfr. Sez. L, Sentenza n.

6464 del 2004).

D’altra parte, diversamente opinando, dovrebbe ritenersi che l’infarto sopraggiunto durante

il lavoro vada qualificato in ogni caso come infortunio, a prescindere dalla dimostrazione di

un qualsiasi nesso con l’attività lavorativa.

In proposito esaminiamo il caso scrutinato da Sez. L, Sentenza n. 12685 del 29/08/2003.

Un caso concreto: Sez. L, Sentenza n. 12685 del 29/08/2003

Il Tribunale di Rimini, in accoglimento dell’appello dell’Inail, aveva riformato la sentenza

del Pretore della stessa sede, rigettando la domanda proposta dagli eredi di un lavoratore

per l’accertamento che questi era deceduto a causa di infortunio sul lavoro verificatosi il 12

gennaio 1994.

Il Tribunale aveva rilevato che non era stata acquisita alcuna prova dell’intervento di una

causa violenta in occasione di lavoro, essendo il lavoratore deceduto per insufficienza

coronarica acuta mentre espletava la sua normale attività lavorativa, senza aver compiuto

sforzi o lavorato in condizioni comunque gravose e di disagio.

La Corte di cassazione è stata chiamata a pronunciarsi a seguito del ricorso degli eredi.

Si legge nella sentenza della Corte: “F.V., conducente di autotreno, si era mosso dalla sua

abitazione alle ore 8, aveva prelevato il veicolo dal parcheggio sito a poca distanza

dall’abitazione e alle ore 9,30 giungeva presso la ditta dove doveva consegnare un carico di

marmi; effettuate le operazioni di scarico (cui il V. non partecipava), si accingeva a

ripartire per una nuova consegna quando veniva colpito dal malore.

Da tale accertamento (…), si evince come non sia risultata alcuna causa esterna

qualificabile come violenta, anche nell’ampia accezione accolta dagli orientamenti

giurisprudenziali richiamati, sicché non può annettersi alcun valore decisivo alla

circostanza del precedente infarto subito (che si denuncia non essere stata considerata dal

Tribunale), in difetto di qualsiasi elemento sul quale fondare neppure un giudizio di

probabilità che l’episodio non si sarebbe verificato se il V. si fosse astenuto dal prestare

l’attività lavorativa. Né la notoria gravosità della prestazione lavorativa di un conducente di

autotreno può giovare alla tesi dei ricorrenti, atteso che il Tribunale ha accertato che vi era

stata un’attività di guida durata poco più di un’ora”.

Come si vede, la Suprema Corte ha escluso, nel caso considerato, la sussistenza di una causa

violenta non essendo stato provato che il lavoratore avesse sostenuto prestazioni diverse da

quelle ordinarie ovvero avesse affrontato uno sforzo peculiare dell’attività esercitata, non

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essendo in particolare risultato che avesse partecipato alle operazioni di scarico del

materiale.

Di contro, è stata ammessa la riconducibilità dell’infarto alla fattispecie dell’infortunio

professionale quando in presenza di particolari circostanze e modalità dell’attività

lavorativa:

prestazioni intense e stressanti compiute per alcuni giorni (Sez. L, Sentenza n. 14085

del 26/10/2000: l’infarto, intervenuto presso il domicilio del lavoratore poco dopo la

conclusione dell’attività lavorativa, era ricollegabile in maniera specifica, sia pure in

un quadro di predisposizione patologica e di abitudini lavorative e di vita, alle

prestazioni intense e stressanti compiute per alcuni giorni dal lavoratore stesso,

funzionario direttivo di una organizzazione sindacale, ai fini dell’inaugurazione di

una nuova sede e delle manifestazioni collaterali);

stress emotivi determinati da un accadimento eccezionale ed inaspettato (Sez. L,

Sentenza n. 9888 del 05/10/1998: l’infarto del miocardio istantaneo era occorso,

anche se in presenza di precedente patologia del sistema cardiocircolatorio, al

conducente di un treno in occasione dell’improvviso attraversamento dei binari da

parte di una persona, a causa dello stress ricollegabile al timore dell’impatto con il

predetto soggetto).

In relazione allo sforzo fisico ed agli accadimenti stressanti, è stato affermato che la

predisposizione morbosa del lavoratore non esclude il nesso causale tra lo stress emotivo

e ambientale e l’evento infortunistico, in relazione anche al principio della equivalenza

causale di cui all’art. 41 cod. pen., che trova applicazione nella materia degli infortuni sul

lavoro e delle malattie professionali, dovendosi riconoscere un ruolo di concausa anche ad

una minima accelerazione di una pregressa malattia, - salvo che questa sia sopravvenuta in

modo del tutto indipendente dallo sforzo compiuto o dallo stress subito nella esecuzione

della prestazione lavorativa -, la quale, anzi, può rilevare in senso contrario, in quanto può

rendere più gravose e rischiose attività solitamente non pericolose e giustificare il nesso tra

l’attività lavorativa e l’infortunio (Sez. L, Sentenza n. 13928 del 24/07/2004).

Analizziamo, in proposito, una fattispecie concreta.

Un caso concreto: Sez. L, Sentenza n. 13928 del 24/07/2004

Il 23 marzo 1993 un lavoratore iniziava la prestazione alle 7,30 provvedendo alla

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“sabbiatura” di manufatti utilizzando un compressore del peso di 20 kg, da sostenere con le

braccia per tutta la durata dell’operazione, il quale emetteva un getto continuo di aria

fredda che lo investiva al torace. L’operazione si svolgeva all’aperto in condizioni

climatiche sfavorevoli in quanto la temperatura era di circa zero gradi. Dopo circa tre ore di

lavoro il ricorrente accusava dolore epigastrico e precordialgia improvvisi che lo

costringevano ad interrompere il lavoro con ricovero immediato all’ospedale, dove gli

veniva diagnosticato un infarto del miocardio.

Sorta controversia sull’origine professionale dell’infarto, il c.t.u. osservava che “nel caso in

questione la lesione da infortunio è identificabile eventualmente nella nècrosi infartuale da

ischemia coronarica, e la “causa violenta” (causale, dannosa ed esteriore all’organismo)

potrebbe potenzialmente identificarsi nell’affaticamento fisico legato alle mansioni del

momento oppure, ad esempio, all’intenso freddo di quel mattino (come risulta dalla

relazione ispettiva INAIL). È infatti noto che sia un intenso affaticamento fisico, sia

l’esposizione al freddo intenso, in un soggetto coronopatico, possono scatenare uno spasmo

coronario o un’aumentata richiesta di sangue al miocardio”. Il c.t.u., tuttavia, pur

ammettendo l’intensità traumatica dello sforzo muscolare e delle condizioni ambientali in

un soggetto coronopatico, riteneva, comunque, tali elementi come “fattori concausali

minori in presenza già di una cardiopatia sia pure asintomatica fino al momento

dell’evento” ed escludeva che l’attività descritta potesse considerarsi causa o concausa

dell’evento, mettendo in risalto che l’evento avrebbe potuto prodursi in ogni momento,

indipendentemente dall’attività lavorativa.

La Corte di Cassazione, ribadendo che il ruolo causale dell’attività lavorativa non è escluso

da una preesistente condizione patologica del lavoratore la quale, anzi, può rilevare in

senso contrario, in quanto può rendere più gravose e rischiose attività solitamente non

pericolose e giustificare il nesso tra l’attività lavorativa e l’infortunio (Cass. 9 settembre

2003 n. 13184) e che un ruolo di concausa va attribuito anche ad una minima accelerazione

di una pregressa malattia (Cass. 21 maggio 2003 n. 8019), ha ritenuto che il giudice

dell’appello, facendo proprie acriticamente le conclusioni espresse dal consulente tecnico

d’ufficio, non avesse tenuto presenti i principi espressi dalla giurisprudenza di legittimità,

non rilevando quegli elementi risultanti dallo stesso elaborato peritale dove, pur essendo

stata ritenuta la presenza di una coronopatia, peraltro asintomatica sino al momento

dell’evento, veniva riconosciuta la presenza di fattori concausali minori e la possibilità che

un forte affaticamento fisico e l’esposizione a freddo intenso, in un soggetto

coronaropatico, potessero scatenare uno spasmo coronario. La Corte ha, dunque, ritenuto:

“Sotto questo aspetto la sentenza appare insufficientemente motivata perché, di fronte a tali

elementi, il giudice del merito avrebbe dovuto indicare le ragioni per cui aveva ritenuto

che, in ogni caso, senza sforzo intenso cui il ricorrente era stato sottoposto e l’esposizione

al freddo, l’infarto si sarebbe comunque verificato nei tempi e nei modi del decadimento”.

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Non è invece, indennizzabile l’infortunio quando esso abbia solo fatto emergere una

sintomatologia dolorosa latente in un soggetto portatore di malattia pregressa.

Alcuni esempi al riguardo sono i seguenti:

Cassazione civile, sez. lav., 19/03/2015, sentenza n. 5507: il ricorrente aveva subito,

a causa dell’infortunio, un trauma indiretto al rachide (da sforzo), con formazione di

ernie discali a livello delle vertebre L4-L5 e L5-S1, e un trauma diretto (da caduta) al

livello dell’emitorace sinistro, con formazione di ematoma intercostale, esitato in

tessuto fibroso. Il ricorso è stato respinto in quanto il consulente tecnico d’ufficio

aveva escluso che lo sforzo compiuto dal lavoratore nell’alzare una cesta avesse

potuto “slatentizzare l’ernia”, ritenendo invece che avesse “slatentizzato” la

sintomatologia dolorosa in un soggetto già portatore di patologia congenita e cronico-

degenerativa, di esclusiva origine extralavorativa;

Cassazione civile, sez. lav., 06/09/2006, sentenza n. 19172: la lavoratrice sosteneva

che, mentre sollevava uno scatolone di elaborati, aveva avvertito un forte dolore al

polso. Senonché, a giudizio del consulente tecnico, la lavoratrice era affetta da

sindrome di De Quervain (ovvero una tenosinovite cronica stenosante del pollice, che

viene causata da una serie di microtraumi tanto che in genere viene contratta da sarte,

dattilografe, pianisti e lavandaie) sicchè era assai probabile che al momento

dell’evento riferito come infortunio sul lavoro la donna fosse già affetta da tale

sindrome e che, al più, l’operazione consistita nel sollevare lo scatolone avesse

costituito l’occasione per la “slatentizzazione di una patologia preesistente”. È stata,

quindi, esclusa la sussistenza di una causa violenta in occasione di lavoro (sforzo

ovvero trauma distorsivo), trattandosi di sindrome pregressa, cagionata da una serie

di microtraumi che si era solo manifestata mediante l’apparizione del dolore.

La rapidità e la concentrazione

La rapidità e la concentrazione della causa rappresentano il criterio distintivo tra gli

infortuni sul lavoro, connotati da tali elementi, e le malattie professionali, caratterizzate,

invece, da una causa lenta.

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È interessante notare come il medesimo fattore possa costituire, alternativamente, causa di

infortunio sul lavoro o di malattia professionale, a seconda che agisca in maniera rapida e

concentrata nel tempo oppure diluita e lenta.

L’occasione di lavoro

Nozione

Come detto, gli articoli 2 e 210 del DPR 1124/1965 prevedono che “L’assicurazione

comprende tutti i casi di infortunio avvenuti per causa violenta in occasione di lavoro”.

La giurisprudenza di legittimità ha delineato, progressivamente, una nozione di “occasione

di lavoro” ampia, che supera i limiti concettuali della “causa di lavoro”, comprendendo in

essa ogni fatto comunque ricollegabile al rischio specifico connesso all’attività lavorativa

cui il soggetto è preposto.

Tale interpretazione appare senz’altro coerente con la lettera e la ratio del T.U. del 1965.

Appare, infatti, significativo che il legislatore, negli artt. 2 e 210 cit., abbia adoperato

l’espressione “occasione” di lavoro, anziché “causa” di lavoro: si è voluto, così, coprire con

la garanzia assicurativa una serie di eventi dannosi che possono colpire il lavoratore sul

luogo di lavoro e durante l’espletamento della prestazione non riconducibili al rischio

intrinseco connesso alla specifica attività lavorativa svolta.

Ne segue che il sinistro indennizzabile non può essere circoscritto nei limiti dell’evento di

esclusiva derivazione eziologica materiale dalla lavorazione specifica espletata

dall’assicurato, ma va riferito ad ogni accadimento infortunistico che all’occasione di

lavoro sia ascrivibile in concreto, pur se astrattamente possibile in danno di ogni comune

soggetto, in quanto configurabile anche al di fuori dell’attività lavorativa tutelata ed

afferente ai normali rischi della vita quotidiana privata.

Rischio proprio, improprio e ambientale

La giurisprudenza ha ormai chiarito che “la nozione di occasione di lavoro di cui al D.P.R.

n. 1124 del 1965, art. 2, implica la rilevanza di ogni esposizione a rischio ricollegabile allo

svolgimento dell’attività lavorativa in modo diretto o indiretto (con il limite del c.d. rischio

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elettivo) e, quindi, anche della esposizione al rischio insito in attività accessorie o

strumentali allo svolgimento della suddetta attività, ivi compresi gli spostamenti spaziali

compiuti dal lavoratore all’interno dell’azienda” (v. fra le altre, Sez. L, Sentenza n. 6511 del

07/05/2002). Conseguentemente l’occasione di lavoro, di cui all’art. 2 d.P.R. n. 1124 del

1965, è configurabile anche nel caso di incidente occorso durante la deambulazione

all’interno del luogo di lavoro.

Come si vede, la Corte ritiene che l’indennizzabilità dell’infortunio subito dall’assicurato

sussiste non solo nell’ipotesi del rischio specifico proprio, ovvero del rischio insito

nell’atto materiale della prestazione di lavoro svolta dal dipendente (intrinsecamente

connesso, cioè, allo svolgimento delle mansioni tipiche del lavoro svolto), ma anche

nell’ipotesi di rischio specifico improprio (detto anche rischio generico aggravato), e

cioè riguardante attività prodromiche e strumentali allo svolgimento delle suddette mansioni

e, comunque, ricollegabili al soddisfacimento di esigenze lavorative o aziendali, a nulla

rilevando l’eventuale carattere meramente occasionale di detto rischio. Il fatto che dette

attività, strettamente connesse con la prestazione lavorativa, siano imposte al lavoratore

come rispondenti a precise esigenze aziendali, fa sì che esse assumano, nei confronti del

lavoratore medesimo, un carattere di particolare pericolosità (rischio specifico improprio o

generico aggravato).

Ad esempio:

Sez. L, Sentenza n. 180 del 05/01/2005 ha ravvisato l’esposizione a rischio insito in

attività accessorie o strumentali allo svolgimento della attività lavorativa nel caso di

un infortunio occorso ad un’infermiera ospedaliera, che si era recata in bagno per

lavarsi alla fine del turno, corrispondendo, detta esigenza, ad una fondamentale

norma igienica direttamente collegata al lavoro svolto dall’infortunata.

Egualmente, Sez. L, Sentenza n. 14287 del 28/07/2004 ha riconosciuto

l’indennizzabilità dell’infortunio avvenuto nel corso di un’attività prodromica e

strumentale allo svolgimento delle mansioni nel caso del lavoratore che aveva

varcato la soglia dell’ufficio per cercare delle istruzioni per mettere in moto un

trattore gommato che doveva essere riparato dal ricorrente e nel fare ciò urtava

contro una vetrata e si infortunava.

Analizziamo più nel dettaglio tale ultimo caso.

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Un caso concreto: Sez. L, Sentenza n. 14287 del 28/07/2004

Il lavoratore (G. W.) era caduto nel varcare la soglia dell’ufficio per cercare delle istruzioni

per mettere in moto un trattore gommato, che doveva essere riparato.

La Corte d’appello di Ancona, confermando la pronuncia di primo grado, aveva escluso

che ricorresse, nella specie, l’occasione di lavoro, argomentando che, al di là della semplice

coincidenza topografica e cronologica, non sussisteva, nel denunciato infortunio, alcun

elemento di connessione causale, né diretto né indiretto, tra l’evento patito dal G. e il

rischio specifico o aggravato dal lavoro, poiché l’atto di scivolare rappresenta un rischio

generico di qualsiasi persona, lavoratore e non.

Avverso tale sentenza d’appello G. W. propose ricorso per Cassazione.

La S.C. ha accolto il ricorso, ritenendo che la Corte d’appello di Ancona non avesse fatto

corretta applicazione della nozione di “occasione di lavoro” così come individuata ed

elaborata dalla giurisprudenza, con particolare riferimento alla nozione di “rischio

improprio”.

I Giudici di legittimità hanno ritenuto che “Nella specie è pacifico in punto di fatto che

l’infortunio sia avvenuto proprio nel corso di un’attività prodromica e strumentale allo

svolgimento delle mansioni: il G. aveva varcato la soglia dell’ufficio per cercare delle

istruzioni per mettere in moto un trattore gommato che doveva essere riparata da esso

ricorrente, nel fare ciò urtava contro una vetrata e si infortunava”.

Strettamente connessa al rischio improprio è la nozione di rischio ambientale, quale rischio

che deriva dalla pericolosità dello spazio di lavoro, della presenza di macchine e del

complesso dei lavoratori in esso operanti.

A tale definizione è riconducibile l’indennizzabilità dell’infortunio occorso durante gli

spostamenti nel luogo di lavoro. Cfr., in proposito, ex multis:

Sez. L, Sentenza n. 12652 del 17/12/1998, che ha ritenuto avvenuto in occasione di

lavoro l’infortunio occorso ad una lavoratrice che, durante lo svolgimento

dell’attività lavorativa, era caduta nel bagno dello stabilimento il cui pavimento

risultava viscido e scivoloso a causa di un’anomala fuoriuscita di acqua dal

termosifone rotto ivi istallato;

Sez. L, Sentenza n. 10298 del 04/08/2000, in fattispecie relativa a lavoratore

scivolato sulle scale mentre si recava a chiudere la porta del magazzino della ditta

datore di lavoro;

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Sez. L, Sentenza n. 13447 del 09/10/2000, relativa ad una fattispecie di un’impiegata

della P.A. addetta al video - terminale che, spostandosi da un ufficio all’altro della

sede di lavoro recando con sè un faldone da utilizzare per la sua attività, era scivolata

e caduta in terra riportando una frattura ossea;

Sez. L, Sentenza n. 9556 del 13/07/2001, in fattispecie relativa a lavoratore scivolato

sulle scale mentre si recava nella palestra dell’edificio scolastico presso il quale

prestava servizio come bidello per effettuare lavori di pulizia;

Sez. L, Sentenza n. 3363 del 08/03/2001, in fattispecie relativa ad un’impiegata

caduta spostandosi dal monitor del computer ad un armadio per prelevare un

fascicolo;

Sez. L, Sentenza n. 1944 del 11/02/2002, che ha ritenuto indennizzabile l’infortunio

occorso alla dipendente di un’azienda alberghiera, caduta dalle scale del seminterrato

dell’albergo, ove prestava la sua attività lavorativa, mentre si recava a timbrare il

cartellino delle presenze.

Il carattere ampio della suddetta nozione si rinviene anche in altre pronunce, ove si precisa

che, ai fini dell’indennizzabilità dell’infortunio, per “occasione di lavoro” devono intendersi

tutte le condizioni, comprese quelle ambientali e socio-economiche, in cui l’attività

lavorativa si svolge e nelle quali è insito un rischio di danno per il lavoratore,

indipendentemente dal fatto che tale danno provenga dall’apparato produttivo o

dipenda da terzi o da fatti e situazioni proprie del lavoratore, col solo limite, in

quest’ultimo caso, del c.d. rischio elettivo, ossia derivante da una scelta volontaria del

lavoratore diretta a soddisfare esigenze personali (ex plurimis Sez. L, Sentenza n. 12779 del

23/07/2012; Sez. L, Sentenza n. 6 del 05/01/2015; Cassazione civile, sez. lav., 13/05/2016,

sentenza n. 9913).

Una applicazione della nozione di “occasione di lavoro” testè richiamata si rinviene nella

decisione della Suprema Corte che segue, e che andremo ad esaminare.

Un caso concreto: Sez. L, Sentenza n. 12779 del 23/07/2012

Il giorno 8 febbraio 2001 P.G., insegnante di laboratorio tecnico presso un istituto

scolastico, mentre, in adempimento dei suoi doveri di sorveglianza, si trovava nel cortile

scolastico intento a visionare una partita di pallamano tra scuole di diversi istituti, si era

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avvicinato all’ex alunno D. S. - che in precedenza, nel corso della mattina, lo aveva

insultato nella strada pubblica - e tra i due era nata un’accesa discussione, presto sfociata in

una vera e propria colluttazione, in esito alla quale il docente aveva riportato lesioni.

A fronte di tali fatti, la Corte d’Appello - come già il giudice di primo grado - aveva negato

il diritto all’indennizzo in base alla considerazione che il requisito della occasione di lavoro

postula la necessità di un nesso di causalità tra prestazione lavorativa ed infortunio. Più in

dettaglio, secondo la Corte d’Appello, il rischio di aggressioni all’interno della scuola non

poteva ritenersi rischio specifico connaturato all’attività dell’insegnante, atteso che questi

non stava svolgendo una attività della propria specifica materia.

La Corte di Cassazione ha accolto il ricorso del lavoratore, ritenendo che la Corte

d’Appello avesse dato, in violazione di legge, una lettura restrittiva del requisito di

“occasione di lavoro” richiesto, unitamente alla causa violenta, dal D.P.R. 30 giugno 1965,

n. 1124, art. 2.

La Corte territoriale, infatti, aveva considerato rilevante per riconoscere il diritto alla tutela

assicurativa contro gli infortuni sul lavoro la sussistenza tra la specifica attività lavorativa

ed il sinistro subito dal lavoratore di un nesso di causalità, che presuppone non tanto una

mera correlazione cronologica e topografica, o un collegamento marginale, tra prestazione

di lavoro ed evento dannoso, ma richiede che questo evento dipenda dal rischio specifico

(proprio) insito nello svolgimento delle mansioni tipiche del lavoro affidato, ovvero dal

rischio, pur sempre specifico (ma improprio), insito in attività accessorie, ma

immediatamente e necessariamente connesse, o strumentali, allo svolgimento di quelle

attività.

Secondo la Cassazione, così giudicando, la Corte di Appello si era dissociata dai principi

enunciati dalla giurisprudenza di legittimità, in base ai quali, ai fini dell’indennizzabilità

dell’infortunio subito dall’assicurato, per “occasione di lavoro” devono intendersi tutte

le condizioni, comprese quelle ambientali e socio - economiche, in cui l’attività

lavorativa si svolge e nelle quali è insito un rischio di danno per il lavoratore,

indipendentemente dal fatto che tale danno provenga dall’apparato produttivo o

dipenda da terzi o da fatti e situazioni proprie del lavoratore, col solo limite, in

quest’ultimo caso, del c.d. rischio elettivo, ossia derivante da una scelta volontaria del

lavoratore diretta a soddisfare esigenze personali. Secondo tale orientamento, dunque,

l’evento verificatosi “in occasione di lavoro” travalica in senso ampliativo i limiti

concettuali della “causa di lavoro”, afferendo nella sua lata accezione ad ogni fatto

comunque ricollegabile al rischio specifico connesso all’attività lavorativa cui il soggetto è

preposto; il sinistro indennizzabile ai sensi del D.P.R. n. 1124 del 1965, art. 2 non può

essere circoscritto nei limiti dell’evento di esclusiva derivazione eziologica materiale dalla

lavorazione specifica espletata dall’assicurato, ma va riferito ad ogni accadimento

infortunistico che all’occasione di lavoro sia ascrivibile in concreto, pur se astrattamente

possibile in danno di ogni comune soggetto, in quanto configurabile anche al di fuori

dell’attività lavorativa tutelata ed afferente ai normali rischi della vita quotidiana privata.

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In definitiva, Sez. L, Sentenza n. 12779 del 23/07/2012, coerentemente con altre pronunce

(cfr. Cass. n. 12652 del 1998; Cass. n. 14287/2004; Cass. n. 16417/2005), ha chiarito che

l’evento infortunistico verificatosi in occasione di lavoro non va considerato sotto il profilo

della mera oggettività materiale dello stesso, ma, ai fini della sua indennizzabilità, deve

essere esaminato in relazione a tutte le circostanze di tempo e di luogo connesse all’attività

lavorativa espletata, potendo in siffatto contesto particolare assumere connotati peculiari tali

da qualificarlo diversamente dagli accadimenti comuni e farlo rientrare nell’ambito della

previsione della normativa di tutela, con l’unico limite della sua ricollegabilità a mere

esigenze personali del tutto esulanti dall’ambiente e dalla prestazione di lavoro (c.d. rischio

elettivo).

In concreto, l’accertamento della sussistenza o meno dell’occasione di lavoro e, dunque, del

collegamento dell’infortunio con l’attività lavorativa svolta nell’ampia accezione sinora

esaminata non è sempre agevole. Ciò emerge dall’esame di una serie di sentenze della

Suprema Corte, che, talvolta, cassando le decisioni di merito che avevano escluso la

sussistenza di una “occasione di lavoro” (ravvisando la sussistenza di un mero rischio

generico), hanno, invece, ritenuto che l’infortunio fosse conseguenza dello specifico rischio

lavorativo.

Esaminiamo alcune fattispecie concrete, venute al vaglio di giudici di gradi diversi.

Un caso concreto: Sez. L, Sentenza n. 16417 del 04/08/2005

La fattispecie esaminata riguardava una lavoratrice che, mentre stava salendo le scale per

recarsi negli uffici al primo piano del luogo di lavoro, era scivolata battendo la zona

sacrale, la spalla e la mandibola.

Il Pretore di Modena aveva ritenuto che l’infortunio fosse avvenuto in occasione del lavoro

e, pertanto, aveva condannato l’Inail a corrispondere alla lavoratrice l’indennità per

inabilità temporanea assoluta.

Sull’appello dell’Inail, il Tribunale di Modena aveva riformato la sentenza pretorile

rigettando tutte le domande attrici. In particolare, il Tribunale aveva rilevato che la

occasione di lavoro presuppone comunque “un nesso eziologico, quantomeno mediato e

indiretto, tra evento lesivo e prestazioni del dipendente”; che “il quadro emerso dall’unica

deposizione testimoniale nulla aveva consentito di appurare in tal senso, semplicemente

delineando una situazione di rischio tanto generico quanto giuridicamente insignificante,

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proprio di quegli spostamenti a piedi da un luogo ad un altro che fanno parte dei normali

comportamenti di ogni essere umano”; che “ancorquando, in ipotesi, volesse ammettersi

che le scale erano percorse per accedere agli uffici ove (era) collocato l’apparecchio

marcatempo”, “farebbe difetto, invero anche in tal caso, la specificità idonea a dissolvere la

genericità del rischio”, mentre, comunque, nessun elemento è emerso “quanto al luogo ove

era diretta” la lavoratrice, la quale “non ha assolto all’onere probatorio incombentele circa

il fatto che la caduta sarebbe avvenuta durante lo svolgimento di un’attività resa

indispensabile da quella lavorativa”.

In altri termini, i giudici di merito, pur ammettendo l’estensione dell’occasione di lavoro in

relazione agli eventi collegati in modo mediato e indiretto all’attività lavorativa, avevano

escluso l’indennizzabilità dell’infortunio ritenendo che, nel caso di specie, vi fosse stato un

rischio comune e che lavoratrice non avesse dimostrato di aver salito le scale per svolgere

un’attività indispensabile alla prestazione lavorativa.

La Corte ha dissentito da tali valutazioni. Si legge nella motivazione della sentenza: “Al di

là, … anche, del mancato riscontro, nella deposizione testimoniale, della circostanza di

fatto secondo cui la V. stesse salendo negli uffici superiori per timbrare il cartellino

(circostanza, a fronte della quale, il rischio sarebbe stato, invero, connesso specificamente

al relativo obbligo contrattuale), lo spostamento negli uffici al piano superiore, dopo

l’inizio dell’orario di lavoro (“erano da poco passate le otto del mattino”), non poteva

essere considerato puramente e semplicemente al pari di “quegli spostamenti a piedi da un

luogo ad un altro che fanno parte dei normali comportamenti di ogni essere umano”, così

come ha ritenuto il Tribunale (…). D’altra parte, a ben vedere, la valutazione del rischio

improprio, come sopra descritto, non richiedeva affatto la prova rigorosa “che la caduta

sarebbe avvenuta durante lo svolgimento di un’attività resa indispensabile da quella

lavorativa” nel senso affermato dal Tribunale, essendo comunque tutelato anche il rischio

meramente occasionale, purché ricollegabile, anche in modo mediato e indiretto alle

prestazioni lavorative (…).

In tali sensi, peraltro, la impugnata sentenza è incorsa anche nel vizio di insufficiente e

contraddittoria motivazione, in quanto (…), pur riconoscendo rilevanza ad ogni nesso,

seppure mediato ed indiretto, ha poi finito per ancorare il giudizio soltanto ad uno stretto

rapporto di “indispensabilità”, estraneo ai principi sopra richiamati”.

Un caso concreto: Sez. lav., 03/04/2017, sentenza n. 8597

B.C., lavoratore alle dipendenze della C.S.G. S.p.a., mentre era alla guida di

un’autobetoniera, fu colpito da uno shock anafilattico conseguente alla puntura di un

insetto, che ne provocò la morte. A seguito dell’infortunio, l’INAIL comunicò alla società

datrice di lavoro l’aumento del tasso di premio applicabile per l’anno 2008.

La società si rivolse al Tribunale di Vercelli, chiedendo il ricalcolo del premio applicato per

l’anno 2008, senza che si tenesse conto dell’infortunio mortale ed il tribunale accolse la

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domanda.

La Corte d’appello di Torino, invece, a seguito di impugnazione, rigettò la domanda della

società. A fondamento della sua decisione affermò che l’evento mortale, pur essendo stato

determinato dal caso fortuito, con assenza di ogni responsabilità da parte dell’imprenditore,

non escludeva l’occasione di lavoro, essendo l’infortunio connesso alle modalità di

svolgimento dell’attività lavorativa, con la conseguente legittimità del provvedimento

adottato dall’istituto assicuratore.

Contro la sentenza la C.S.G. S.p.A. propose ricorso per cassazione, assumendo che per

giurisprudenza costante l’occasione di lavoro sussiste solo quando l’attività lavorativa

esponga il soggetto ad un rischio diverso da quelli gravanti sulla generalità dei cittadini o

aggravi questi ultimi in misura non trascurabile, pur non richiedendosi che esso sia quello

tipico della specifica attività, e non essendo per contro sufficiente che l’infortunio avvenga

in luogo o nel tempo di lavoro. In particolare, rilevava che la Corte, dopo aver escluso ogni

responsabilità del datore di lavoro e ricondotto l’infortunio al caso fortuito, aveva ritenuto

rilevanti le condizioni di tempo e di luogo in cui esso si era verificato, senza considerare

che il rischio di essere punti da un insetto incombe su chiunque si trovi in un qualsiasi

ambiente, compreso l’abitacolo di un automezzo.

La Corte ha ritenuto il ricorso infondato, affermando: “Per la normativa dell’assicurazione

contro gli infortuni sul lavoro non sono oggetto della speciale tutela solo gli infortuni

direttamente derivati dalla lavorazione cui sono addetti i singoli lavoratori, ma tutti gli

infortuni comunque verificatisi “in occasione di lavoro” (secondo la esplicita previsione

dell’art. 2 cit.) e quindi non solo quelli riconducibili al rischio “tipico” della specifica

lavorazione, ma anche quelli derivanti da caso fortuito ed, in alcune ipotesi, quelli che

discendono da cause estranee al lavoro svolto (cfr. Corte Cost. 2 marzo 1991, n. 100 e 3

ottobre 1990, n. 429).

… La Corte territoriale ha fatto corretta applicazione dei principi su richiamati ed ha

adeguatamente esposto le ragioni per le quali ha ritenuto sussistente l’occasione di lavoro,

sottolineando come l’evento che ha dato corso alla sequenza causale che ha poi determinato

la morte del lavoratore, ossia la puntura dell’insetto, si sia verificato in condizioni spazio-

temporali caratterizzate dall’essere in quel momento il soggetto intento all’attività di lavoro

e, quindi, occupato nella guida dell’automezzo che gli ha impedito o comunque reso più

difficile difendersi dall’insetto. Si tratta di un accertamento di fatto congruo ed esaustivo,

insindacabile in questa sede, non ravvisandosi i vizi motivazionali lamentati con il ricorso”.

Il rischio elettivo

La nozione di “rischio elettivo” è strettamente connessa alla tematica della rilevanza

dell’elemento soggettivo nella causazione dell’infortunio sul lavoro, elaborata dalla

giurisprudenza della Corte di cassazione sulla base della normativa di riferimento.

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Per quanto riguarda l’elemento soggettivo della colpa (su cui cfr., ampiamente, in

motivazione, Cass. 6 agosto 2003 n. 11885), è stato evidenziato che secondo l’art. 1900 cod.

civ. l’assicuratore non risponde per i sinistri cagionati da colpa grave del contraente,

dell’assicurato o del beneficiario, salvo patto contrario; invece, l’art. 11, comma 3, T.U.

1124/65 pone una disciplina autonoma rispetto a quella civilistica, stabilendo che l’INAIL

può esercitare l’azione di regresso contro l’infortunato “quando l’infortunio sia avvenuto

per dolo del medesimo accertato con sentenza penale”. Se ne desume che il dolo del

lavoratore assicurato nella causazione dell’infortunio ne esclude l’indennizzabilità, mentre

l’eventuale colpa del lavoratore nella causazione dell’infortunio sul lavoro (non menzionata

affatto dall’art. 11, comma 3, cit.) è irrilevante.

Dalla disciplina positiva sembra potersi desumere che nella nozione di colpa è compresa

anche la colpa grave: tale sarebbe quella di un lavoratore che lavori ad una macchina priva

dei congegni di sicurezza (Cass. 9 settembre 1991, n. 9456).

Di qui la ripetuta affermazione che la colpa del lavoratore, anche ove esclusiva, nella

causazione dell’infortunio sul lavoro non esclude la indennizzabilità di quest’ultimo (cfr., ex

multis, Cass. 6.3.1996 n. 1750; Cass. 4.12.2001 n. 15312).

Detta affermazione trova conforto anche nel fondamento dell’assicurazione obbligatoria,

costituito dal rischio professionale, il quale postula che la tutela debba comprendere anche

gli infortuni avvenuti per colpa del lavoratore infortunato. L’assicurazione obbligatoria è

mirata, infatti, a coprire anche e soprattutto gli infortuni accidentali. La colpa del lavoratore,

consistente nell’effettuare l’operazione lavorativa con imprudenza (talvolta determinata

anche dalla dimestichezza con gli strumenti di lavoro), negligenza o imperizia, non incide

perciò sulla tutela antinfortunistica: non la elimina né la riduce.

Secondo la giurisprudenza di legittimità più recente, l’unico vero limite atto ad escludere la

occasione di lavoro - e, dunque, l’indennizzabilità - pur se l’infortunio occorso sia collegato

topograficamente e temporalmente all’attività lavorativa è il cd. rischio elettivo.

In materia di assicurazione obbligatoria contro gli infortuni sul lavoro, costituisce rischio

elettivo tutto ciò che è estraneo e non attinente all’attività lavorativa e dovuto a una

scelta arbitraria del lavoratore, il quale crei ed affronti volutamente, in base a ragioni

o a impulsi personali, una situazione diversa da quella inerente all’attività lavorativa,

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ponendo così in essere una condotta interruttiva di ogni nesso tra lavoro, rischio ed

evento.

Tale genere di rischio - che è in grado di incidere, escludendola, sull’occasione di lavoro - si

connota per il simultaneo concorso dei seguenti elementi: (a) presenza di un atto volontario

ed arbitrario, ossia illogico ed estraneo alle finalità produttive; (b) direzione di tale atto alla

soddisfazione di impulsi meramente personali; (c) mancanza di nesso di derivazione con lo

svolgimento dell’attività lavorativa (Sez. L, Sentenza n. 15047 del 04/07/2007).

I predetti elementi concorrono a distinguere il rischio elettivo dall’atto lavorativo compiuto

con colpa (ovvero imprudenza, negligenza, imperizia), nel quale, come detto, è comunque

riconosciuta la copertura infortunistica.

Innumerevoli sono le fattispecie, verificatesi in concreto ed esaminate dalla giurisprudenza,

in cui ha assunto rilievo la nozione di rischio elettivo.

Significativo in proposito appare il caso del lavoratore che, mandato dal proprio datore di

lavoro a frequentare un corso di perfezionamento antincendio presso la sede del Corpo

Permanente dei Vigili del Fuoco di Trento, durante la pausa caffè, cadeva nel vano per il

“discensore” dei vigili del fuoco, cui si era avvicinato per curiosità, riportando lesioni. Il

lavoratore nell’occasione (pur rendendosi conto dell’esistenza del vano), vinto dalla

curiosità di andare a vedere cosa vi fosse, si era avvicinato pericolosamente alla botola con

il “discensore”, tanto da precipitarvi.

La Corte di Cassazione ha ritenuto che l’infortunio fosse avvenuto in ambiente di lavoro e

durante lo stesso, perché nel periodo lavorativo va ricompresa anche la necessaria pausa del

caffè, accordata dal docente in funzione anche delle eventuali esigenze fisiche dei

partecipanti al corso; ciononostante, ha affermato che la caduta del lavoratore era stata la

conseguenza di un rischio elettivo, costituito dalla sua incauta curiosità di voler osservare da

vicino il vano nel quale era allocato il “discensore” per i vigili, avvicinandosi tanto da

perdere l’equilibrio e così cadere nello stesso (Sez. L, Sentenza n. 15047 del 04/07/2007).

Esaminiamo altri casi concreti in materia di rischio elettivo.

Un caso concreto: Sez. L, Sentenza n. 1718 del 2006

C.M. conveniva in giudizio davanti al Pretore di Crotone l’INAIL, chiedendo che venisse

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accertato il suo diritto alla rendita da inabilità permanente per infortunio sul lavoro

occorsogli mentre, alla fine del proprio orario di servizio, nell’apprestarsi a timbrare il

cartellino marcatempo nei locali dell’ASL n. 5 di Crotone presso l’ospedale S. Giovanni Di

Dio, era intervenuto a sedare una lite tra la guardia addetta al servizio di vigilanza ed un

altro soggetto, rimanendo colpito in modo violento al braccio sinistro con residuati postumi

permanenti di una paralisi al nervo radiale dopo una riportata frattura al braccio sinistro.

Respinta la domanda dal Tribunale, la Corte d’Appello di Catanzaro rigettava il gravame

del lavoratore osservando che l’intervento di C.M. per sedare una lite insorta tra altri non

poteva essere collegata all’espletamento di un atto intrinseco alla prestazione di lavoro e

non era stato imposto dalle modalità di esecuzione delle prestazioni lavorative dovute o da

circostanze di tempo e di luogo che, prescindendo dalla volontà del lavoratore, fossero

comunque collegate all’attività lavorativa. La Corte territoriale aggiungeva che la

circostanza che l’intervento del lavoratore per sedare la lite fosse stato effettuato sul luogo

e durante l’orario di lavoro non valeva a collegare l’infortunio né direttamente né

indirettamente all’attività lavorativa e a trasformare quello che era stato un infortunio al

lavoratore in un infortunio sul lavoro.

La Corte di Cassazione ha ritenuto che l’infortunio occorso a C. M., pur essendo collegato

topograficamente e temporalmente all’attività lavorativa, era derivato da una scelta

arbitraria del lavoratore, non giustificata né dai doveri imposti dall’art. 593 c.p., riferiti a un

dovere di soccorso o di collaborazione con le forze dell’ordine rispetto a fatti già avvenuti e

non in corso di svolgimento, nè a doveri di solidarietà costituzionalmente previsti,

prospettandosi, anzi, per chi partecipa con le apparenti sembianze di paciere a una

colluttazione tra due soggetti la possibilità che egli possa essere incriminato per rissa ai

sensi dell’art. 588 c.p..

In pratica, in tale fattispecie il nesso tra l’attività posta in essere dal lavoratore, dalla quale è

derivato l’evento infortunistico, e l’attività lavorativa è stato considerato inesistente, in

quanto l’intervento per sedare una rissa è stato ritenuto del tutto arbitrario, ovvero

rientrante nel c.d. rischio elettivo.

Un caso concreto: Cassazione civile, sez. VI, 27/05/2015, sentenza n. 10984

R., dipendente dell’AFOR, il giorno dell’infortunio era intento, insieme ad altri operai

costituenti la propria squadra di lavoro, al rifacimento del tetto di un rifugio di montagna ed

alla predisposizione di misure antincendio, consistenti nel taglio dell’erba e della

vegetazione circostante. Dei componenti la squadra, tre si dedicavano al taglio dell’erba ed

altri tre, tra cui R., alla sistemazione delle tegole del tetto. Dopo un primo viaggio con un

mezzo agricolo per trasportare le tegole dal luogo del deposito al rifugio, quattro operai si

erano recati a caricare altre tegole per un secondo viaggio, un altro operaio si era

allontanato nei pressi della propria auto, il caposquadra aveva fatto ritorno in altra località

per prendere il carburante necessario al funzionamento dei decespugliatori; R. era rimasto

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solo vicino al rifugio.

Gli operai, tornati nei pressi del rifugio, notavano l’assenza di R. ed uno di essi si

accorgeva che la scala artigianale destinata ad essere usata per salire sul tetto era

appoggiata ad un albero poco distante. Un operaio, avviatosi verso la scala, notava R.

disteso, in posizione supina, ai piedi dell’albero ove la scala era appoggiata e si accorgeva

che era inanimato; i Carabinieri, immediatamente avvisati, giunti sul posto, constatavano il

decesso di R.

La Corte di Cassazione ha ritenuto che dagli elementi emersi dalle indagini penali (in

particolare, sulla scorta del verbale di sopralluogo dei carabinieri, del referto stilato dal

medico che aveva constatato il decesso, della informativa degli Ispettori del Servizio

Prevenzione, Igiene e Sicurezza degli Ambienti di Lavoro dell’Azienda Sanitaria) si

doveva giungere alla conclusione che il decesso di R. era stato determinato dalla caduta

accidentale dalla scala sulla quale egli stesso era salito per ragioni del tutto estranee alla

propria attività lavorativa (in particolare, volendo raggiungere un nido sito sull’albero).

Ha, quindi, ritenuto provata la ricorrenza di un rischio elettivo cui ricollegare il verificarsi

dell’infortunio: l’attività posta in essere da R. e dalla quale era dipeso l’infortunio mortale

era del tutto estranea all’attività lavorativa e diretta, piuttosto, alla soddisfazione di un

impulso personale.

In definitiva, può affermarsi che l’elemento psicologico del lavoratore, anche solo colposo,

quando è particolarmente qualificato per la sua abnorme deviazione dalla corretta

esecuzione del lavoro, può comportare un aggravamento del rischio tutelato talmente

esorbitante dalle finalità di tutela da escluderla.

È opportuno precisare che la nozione di “rischio elettivo”, come sopra esaminata, è stata

elaborata in tema di infortunio occorso nell’attività lavorativa diretta. Qualche precisazione

sarà necessaria in relazione all’infortunio in itinere.

L’infortunio in itinere

Nozione e fonti

Il d.P.R. n. 1124 del 1965 non conteneva una norma generale sull’infortunio in itinere, ma

solo una norma specifica, l’art. 6, relativa all’indennizzabilità degli infortuni in itinere dei

marittimi durante i viaggi compiuti per imbarcarsi o per rimpatriare.

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In particolare, i marittimi avevano diritto alle prestazioni INAIL anche se l’infortunio

avveniva “durante il viaggio compiuto per andare a prendere imbarco sulle navi al servizio

delle quali sono arruolate o per essere rimpatriate nel caso in cui la dimissione dal ruolo

abbia avuto luogo per qualsiasi motivo in località diversa da quella di arruolamento o da

quella in cui esse trovavansi al momento della chiamata per l’imbarco, sempreché nel

viaggio di andata o di ritorno esse non mutino senza ragione l’itinerario prestabilito”.

Nonostante l’assenza di una norma di carattere generale in materia, la Corte di Cassazione

ha elaborato principi idonei a tutelare il lavoratore infortunatosi nel percorso casa-lavoro.

Significativamente, con sentenza n. 3734 del 20/04/1994, le Sezioni Unite hanno affermato

che la mancanza, nel T.U. n. 1124 del 1965, di una generale previsione di tutela

dell’infortunio in itinere non esclude la indennizzabilità di questo, qualora le circostanze del

suo verificarsi siano tali da determinare un vincolo, obiettivamente ed intrinsecamente

apprezzabile, con la prestazione dell’attività lavorativa.

Corrisponde ad un orientamento assolutamente tralatizio quello enunciato da Sez. L,

Sentenza n. 8396 del 23/09/1996: “Ai sensi dell’art. 2 del d.P.R. 30 giugno 1965 n. 1124,

l’indennizzabilità dell’infortunio “in itinere” subito dal lavoratore nel percorrere, con un

mezzo proprio, la distanza fra la sua abitazione ed il luogo di lavoro postula: a) la

sussistenza di un nesso eziologico tra il percorso seguito e l’evento, nel senso che tale

percorso costituisse, per l’infortunato, l’“iter” normale per recarsi al lavoro e per tornare alla

propria abitazione; b) la sussistenza di un nesso causale, sia pure occasionale, tra l’itinerario

seguito e l’attività lavorativa, nel senso che il primo non fosse dal lavoratore percorso per

ragioni personali o in orari non ricollegabili, nella loro immediatezza temporale, con la

seconda; c) la necessità dell’uso del veicolo privato, adoperato dal lavoratore, per il

collegamento fra abitazione e luogo di lavoro, considerati gli orari lavorativi e dei pubblici

servizi di trasporto e tenuto conto, alla luce del principio di cui all’art. 16 Cost., della

possibilità di soggiornare in luogo diverso da quello di lavoro purché la distanza fra tali

luoghi appaia ragionevole”.

In particolare, la giurisprudenza di legittimità precedente al 2000 ha chiarito che “il rischio

generico connesso all’impiego dei mezzi pubblici di trasporto assume una connotazione

eziologica professionale, tanto da diventare “rischio generico aggravato”, allorché tale

impiego sia imposto dalla necessità di raggiungere il posto di lavoro”, con conseguente

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indennizzabilità del cosiddetto infortunio “in itinere” innanzitutto quando il lavoratore abbia

fatto uso del mezzo di trasporto pubblico (Sez. L, Sentenza n. 13097 del 24/11/1999).

La Legge 17 maggio 1999, n. 144 (“Misure in materia di investimenti, delega al Governo

per il riordino degli incentivi all’occupazione e della normativa che disciplina l’INAIL,

nonché disposizioni per il riordino degli enti previdenziali”) all’art. 55, lett. u), ha posto

come criterio direttivo per il legislatore delegato la previsione di una specifica disposizione

per la tutela dell’infortunio in itinere che recepisse i principi giurisprudenziali consolidati in

materia.

Pertanto, i principi giurisprudenziali elaborati in materia di infortunio in itinere hanno

costituito, dapprima, diritto vivente nell’ambito dell’interpretazione dell’art. 2 del T.U. n.

1124/1965 e poi hanno riempito di contenuto il precetto introdotto dal D. Lgs. n. 38 del

2000 (art. 12).

L’art. 12 del Decreto Legislativo 23 febbraio 2000, n. 38 ha espressamente ricompreso

nell’assicurazione obbligatoria la fattispecie dell’infortunio “in itinere”, inserendola

nell’ambito della nozione di occasione di lavoro.

Infatti, il predetto art. 12, denominato proprio “infortunio in itinere”, ha aggiunto

all’articolo 2 ed all’articolo 210 del D.P.R. 1124/1965 il seguente comma: “Salvo il caso di

interruzione o deviazione del tutto indipendenti dal lavoro o, comunque, non necessitate,

l’assicurazione comprende gli infortuni occorsi alle persone assicurate durante il normale

percorso di andata e ritorno dal luogo di abitazione a quello di lavoro, durante il normale

percorso che collega due luoghi di lavoro se il lavoratore ha più rapporti di lavoro e,

qualora non sia presente un servizio di mensa aziendale, durante il normale percorso di

andata e ritorno dal luogo di lavoro a quello di consumazione abituale dei pasti.

L’interruzione e la deviazione si intendono necessitate quando sono dovute a cause di forza

maggiore, ad esigenze essenziali ed improrogabili o all’adempimento di obblighi

penalmente rilevanti. L’assicurazione opera anche nel caso di utilizzo del mezzo di

trasporto privato, purché necessitato. Restano, in questo caso, esclusi gli infortuni

direttamente cagionati dall’abuso di alcolici e di psicofarmaci o dall’uso non terapeutico di

stupefacenti ed allucinogeni; l’assicurazione, inoltre, non opera nei confronti del

conducente sprovvisto della prescritta abilitazione di guida”.

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Da ultimo, la legge 28 dicembre 2015, n. 221 (in G.U. 18/01/2016, n.13) ha disposto (con

l’art. 5, commi 4 e 5), la modifica degli artt. 2 e 210 suindicati, inserendo, all’articolo 2,

terzo comma e all’articolo 210, quinto comma, dopo il terzo periodo, ovvero dopo le parole

“purché necessitato”, la seguente previsione: “L’uso del velocipede, come definito ai sensi

dell’articolo 50 del decreto legislativo 30 aprile 1992, n. 285, e successive modificazioni,

deve, per i positivi riflessi ambientali, intendersi sempre necessitato”.

Come si vede, l’art. 12 del D.Lgs. n. 38/2000 ha esteso espressamente la tutela assicurativa

a qualsiasi infortunio verificatosi lungo il percorso dalla casa al luogo di lavoro, con

conseguente irrilevanza della tipologia dell’attività lavorativa svolta dall’infortunato e del

rischio ad essa connessa: esso tutela, quindi, un rischio generico (legato al percorso), che si

considera “aggravato” e suscettibile, quindi, di tutela solo in quanto il lavoratore è tenuto ad

effettuare quel determinato percorso, in quell’orario, con quelle modalità, dovendo rendere

o avendo reso la prestazione lavorativa.

Proprio per circoscrivere l’ambito della copertura assicurativa dell’infortunio in itinere,

l’art. 12 ha stabilito che esso è indennizzabile se accaduto:

- durante il normale percorso di andata e ritorno dall’abitazione al posto di lavoro;

- durante il normale percorso che il lavoratore deve fare per recarsi da un luogo di

lavoro ad un altro, nel caso di rapporti di lavoro plurimi;

- durante l’abituale percorso per la consumazione dei pasti qualora non esista una

mensa aziendale.

Le eventuali interruzioni e deviazioni del normale percorso non rientrano nella copertura

assicurativa ad eccezione dei seguenti casi:

- interruzioni/deviazioni effettuate in attuazione di una direttiva del datore di lavoro;

- interruzioni/deviazioni “necessitate” ossia dovute a causa di forza maggiore o per

esigenze essenziali ed improrogabili (es.: esigenze fisiologiche) o nell’adempimento

di obblighi penalmente rilevanti (es.: soccorso nelle ipotesi di cui all’art. 593 c.p).

L’assicurazione opera anche nel caso di utilizzo di un mezzo di trasporto privato, a

condizione che ne sia necessitato l’uso.

Sono espressamente esclusi dall’indennizzo gli infortuni direttamente causati dall’abuso di

sostanze alcoliche e di psicofarmaci, dall’uso non terapeutico di stupefacenti e allucinogeni

nonché dalla mancanza della patente di guida da parte del conducente.

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Peraltro, la giurisprudenza ha chiarito che il D. Lgs. 23 febbraio 2000, n. 38, art. 12 esprime

dei criteri normativi (come quelli di “interruzione o deviazione del tutto indipendenti dal

lavoro o, comunque, non necessitate”, che delimitano l’operatività della garanzia

assicurativa) utilizzabili per decidere anche controversie relative a fatti antecedenti alla sua

entrata in vigore, militando in tal senso: a) la circostanza che la L. 17 maggio 1999, n. 144,

art. 55, lett. u), ha posto come criterio direttivo per il legislatore delegato il recepimento dei

principi giurisprudenziali consolidati in materia, i quali, pertanto, hanno costituito,

dapprima, diritto vivente nell’ambito dell’interpretazione del D.P.R. n. 1124 del 1965, art. 2,

per poi plasmare, come tali, il contenuto del precetto introdotto dal D.Lgs. n. 38 del 2000,

art. 12; b) il fatto che il sistema dell’assicurazione contro gli infortuni e le malattie

professionali si è evoluto tramite interventi legislativi che, non di rado, hanno avuto la

funzione di far assurgere a dignità di norma positiva gli orientamenti giurisprudenziali

(come è dimostrato proprio in relazione all’istituto dell’infortunio “in itinere”, che l’opera

della giurisprudenza ha conformato muovendo dalla nozione di occasione di lavoro); c) il

rilievo in base al quale una norma successiva ben può costituire criterio interpretativo che

illumina anche il regime precedente (cfr. Sez. L, Sentenza n. 15266 del 06/07/2007).

Di seguito si analizzeranno più nel dettaglio, alla luce dei casi concreti e della

giurisprudenza di legittimità, i limiti di indennizzabilità degli infortuni in itinere, con

particolare riguardo:

- all’interpretazione della nozione di “normale percorso”;

- all’indennizzabilità degli infortuni occorsi entro l’abitazione, le pertinenze e le parti

condominiali;

- all’indennizzabilità degli infortuni occorsi durante la pausa pranzo;

- all’indennizzabilità degli infortuni occorsi su mezzo privato, ivi incluso il caso

dell’utilizzo della bicicletta;

- al rischio elettivo.

Il “normale percorso”

Occorre, innanzi tutto, chiarire quale sia il percorso “normale” e se, in particolare, esso

coincida sempre con quello più breve.

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Cassazione civile sez. lav., 24 settembre 2010, n. 20221 ha chiarito: “In tema di infortunio

“in itinere”, indipendentemente dall’applicazione dell’art. 2, comma terzo, del d.P.R. n.

1124 del 1965 (aggiunto dall’art. 12 del d.lgs. n. 38 del 2000), per rischio elettivo, che

esclude la cosiddetta “occasione di lavoro”, si intende una condotta personalissima del

lavoratore, avulsa dall’esercizio della prestazione lavorativa o ad essa riconducibile,

esercitata ed intrapresa volontariamente in base a ragioni e motivazioni del tutto personali,

al di fuori dell’attività lavorativa a prescindere da essa, idonea ad interrompere il nesso

eziologico tra prestazione ed attività assicurata. Ne consegue che l’infortunio che sia

occorso al lavoratore nel tragitto prescelto dal lavoratore per raggiungere il posto di

lavoro non è escluso dalla copertura assicurativa per il solo fatto che non fosse il “più

breve”, dovendosi verificare la “normalità” della percorrenza dell’itinerario seguito e

la sua non riconducibilità a ragioni personali, estranee all’attività lavorativa”.

La Corte ha, dunque, cassato la decisione della Corte d’Appello di Lecce, in quanto aveva

escluso l’occasione di lavoro nell’infortunio occorso a D.M.G. esclusivamente a causa della

mancata percorrenza della strada “più breve” di collegamento tra il proprio domicilio e il

luogo di lavoro. Si legge nella motivazione della sentenza: “Il Giudice del merito ha omesso

di effettuare una completa valutazione in concreto su tali aspetti della fattispecie,

limitandosi ad osservare che il tragitto prescelto dal dipendente non risultava essere il “più

breve” per raggiungere il posto di lavoro, mentre invece avrebbe dovuto procedere alla

verifica della sussistenza del diverso criterio della “normalità” della percorrenza

dell’indicato itinerario tra casa e lavoro, secondo i principi già enunciati dalla

giurisprudenza citata, ed attualmente codificati nella L. n. 38 del 2000, art. 12, che

riconoscono la copertura assicurativa qualora il comportamento del lavoratore non sia

motivato come appena accennato - in base a ragioni del tutto personali, al di fuori

dell’attività lavorativa.

E tuttavia, la sig.ra D. M. ha riportato nel ricorso in esame, nel rispetto del principio di

autosufficienza, le deposizioni dei testi escussi da cui emergono ulteriori elementi di

valutazione, quali, ad esempio, l’orario in cui avvenne l’incidente, di poco anteriore

dall’inizio del turno di lavoro - ore 6 -, mentre, per altro verso, alcun raffronto risulta

essere stato fatto tra “la strada più breve” e quella percorsa dall’infortunato, descritta

come più comoda e conveniente (presenza di una stazione di rifornimento 24/h; più diretto

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accesso rispetto al luogo di lavoro). La Corte ha invece omesso di esaminare tali aspetti,

configurando la sussistenza del ed. rischio elettivo, senza motivare adeguatamente la

ragione della sua decisione”.

In altri termini, per verificare se un percorso sia “normale” il giudice del merito è chiamato

ad una valutazione ben più complessa di quella relativa alla lunghezza/brevità del percorso:

occorre considerare la tipologia del percorso, la conformazione dei luoghi e le condizioni

climatiche; in alcuni casi possono assumere rilievo anche le condizioni soggettive del

lavoratore (es: avanzato stato di gravidanza) o il contesto socio economico di riferimento.

Può, infatti, essere “normale” percorrere una strada che, pur non essendo in assoluto la più

breve, sia più sicura o più riparata in presenza di fattori climatici avversi o in condizioni di

salute precarie.

In determinati contesti socio-economici, poi, in relazione a particolari esigenze, possono

venire in rilievo standards specifici (sul tema cfr., in motivazione, Cassazione civile, sez.

lav., 13/04/2016, sentenza n. 7313).

Ad esempio, la Corte di Cassazione si è occupata di un infortunio accaduto in ambiente

agricolo: un agricoltore ritornava verso il proprio fondo a bordo di un trattore cingolato,

senza percorrere la strada rotabile, ma attraversando i campi; il trattore era finito in una

buca, ribaltandosi, e così provocando la morte del conducente. I giudici di merito hanno

ritenuto che la scelta di tornare a casa, a bordo del trattore cingolato, attraverso i campi e

non seguendo la comoda e sicura strada che conduceva alla sua masseria - in ora di scarsa

luminosità - costituiva un rischio elettivo, ostativo all’indennizzabilità dell’infortunio. La

Suprema Corte ha cassato la sentenza di merito, ritenendo che la stessa avesse omesso di

considerare “la esistenza di standards rispetto ai quali il non uso della strada battuta può

esser perfettamente consono ad un certo costume - o mentalità - del mondo dell’agricoltura”

(Sez. L, Sentenza n. 9837 del 27/07/2000).

Di contro, Sez. L, Sentenza n. 15266 del 06/07/2007 ha confermato la sentenza impugnata,

che aveva escluso potesse indennizzarsi l’infortunio occorso ad un lavoratore in

conseguenza di sinistro verificatosi su percorso diverso da quello normale di rientro dal

lavoro al luogo di residenza, avendo egli effettuato una deviazione per provvedere alla

sostituzione degli pneumatici usurati dell’autovettura, la quale non poteva reputarsi

“necessitata” secondo i criteri normativi posti dall’art. 12 del citato d.lgs. n. 38 del 2000,

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ED INFORTUNIO IN ITINERE.

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(bensì ascrivibile a rischio elettivo), giacché non giustificata da esigenze essenziali ed

improrogabili, tra queste non potendo, per giunta, includersi la dedotta usura del treno di

gomme, perché ben poteva essere rilevata per tempo.

Gli infortuni occorsi entro l’abitazione, le pertinenze e le parti condominiali.

Occorre, quindi, chiedersi se il “percorso” coperto dalla tutela comprende anche i luoghi di

privata dimora dei lavoratori ovvero aree condominiali. È frequente, infatti, che il lavoratore

cada mentre si prepara ad andare a lavoro, ovvero esce di casa o vi fa rientro.

Sul punto la giurisprudenza appare assai chiara, avendo individuato un limite preciso al

tragitto coperto dalla tutela assicurativa.

Infatti, l’infortunio “in itinere”, come tale indennizzabile nell’ambito della tutela del

lavoratore contro il rischio di infortuni sul lavoro, non è configurabile - oltre che nell’ipotesi

di infortunio subito dal lavoratore nella propria abitazione (o nel proprio domicilio o

dimora) - anche in quella di infortunio verificatosi nelle scale condominiali od in altri luoghi

di comune proprietà privata, atteso che l’indennizzabilità (come risulta chiaramente anche

dalle disposizioni di cui al D.Lgs. n. 38 del 2000, art. 12) presuppone che l’infortunio si

verifichi nella pubblica strada o, comunque, non in luoghi identificabili con quelli di

esclusiva (o comune) proprietà del lavoratore assicurato (cfr. Sez. L, Sentenza n. 9211

del 09/06/2003).

È stato, quindi, precisato che l’infortunio in itinere non è configurabile se l’evento accade

nell’abitazione del lavoratore assicurato o in luoghi che sono nella sua disponibilità anche

non esclusiva (quali le scale condominiali): la copertura assicurativa non può essere estesa a

comportamenti che, per il luogo in cui sono posti in essere, non possono ritenersi finalizzati

al lavoro sì da determinare l’aggravamento del rischio generico, al quale sono esposti gli

altri soggetti. Diversamente non potrebbe giustificarsi la limitazione della copertura

assicurativa antinfortunistica anche agli episodi che dovessero verificarsi nella abitazione

dell’assicurato nella fase di preparazione per recarsi al lavoro, ed in relazione ai quali è

sempre stata esclusa l’indennizzabilità (così, in motivazione, Cass. 21 aprile 2004 n. 7630,

non massimata).

Nella stessa ottica i Giudici di legittimità hanno escluso l’indennizzabilità di un infortunio

occorso ad un lavoratore che era scivolato con il motorino sulla rampa del garage al rientro

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a casa dopo il lavoro. E ciò sulla base della seguente considerazione, che assume valore di

principio generale: “l’estensione della protezione assicurativa a tutte le attività in qualche

modo prodromiche addirittura alla partenza del lavoratore da casa verso il luogo di lavoro o

consecutive e conseguenti al suo rientro porterebbe ad una estensione dell’assicurazione

obbligatoria contro gli infortuni sul lavoro ad un ambito ben più ampio di quello per il quale

è stata istituita, fino a ricomprendervi, in pratica, infortuni occorsi al lavoratore in quanto

tale e non in quanto occasionati dalla attività lavorativa” (cfr. Cass. 13 maggio 1998 n.

4841).

Coerentemente, Cassazione civile, sez. lav., 16/07/2007, n. 15777 ha escluso

l’indennizzabilità dell’infortunio occorso al lavoratore mentre si recava al lavoro scivolando

sul portone di casa. La Corte ha precisato che tale conclusione deriva - più che dalla pur

oggettiva necessità che sempre l’assicurato ha di percorrere, come la generalità degli

abitanti di stabili condominiali, le scale comuni (e sovente altri luoghi di comunione

forzosa, come portone di casa, cortili, viali in complessi residenziali) per accedere alla

pubblica strada - dal peculiare rapporto intercorrente tra beni condominiali e singola unità

abitativa. Il proprietario dell’abitazione, infatti, al di là dei poteri esclusivi sul proprio

immobile, ha anche, se non la disponibilità completa, quanto meno il potere di intervenire

efficacemente - anche attraverso la doverosa sollecitazione degli organi preposti

all’amministrazione - su tutto ciò che riguarda i beni condominiali sicché non è rinvenibile

alcuna valida ragione per l’attribuzione di indennità o rendite aventi la loro causa

nell’infortunio che il lavoratore subisca in detti luoghi, che possono considerarsi, seppure in

senso improprio, come pertinenze della abitazione o come beni che, per essere

funzionalmente connessi con essa e per soddisfare identiche o complementari esigenze

familiari, non possono che essere assoggettati ai fini assicurativi ad un trattamento unitario.

La Corte ha, quindi, concluso, in termini generali, che “alla stregua di una interpretazione

letterale nonchè logico- sistematica del D.Lgs. n. 38 del 2000, art. 12, la configurabilità di

un infortunio in itinere comporta il suo verificarsi nella pubblica strada e, comunque, non

in luoghi identificabili in quelli di esclusiva proprietà del lavoratore assicurato o in quelli

di proprietà comune, quali le scale ed i cortili condominali, il portone di casa o i viali di

complessi residenziali con le relative componenti strutturali” (cfr. Cassazione civile, sez.

lav., 16/07/2007, n. 15777).

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La pausa pranzo

L’art. 12 D. Lgs. 38/2000, come abbiamo visto, offre tutela anche nel percorso per

consumare il pasto a casa, quando l’azienda non sia provvista di una mensa.

Tale espressa previsione trova applicazione, ad esempio, in Sez. L, Sentenza n. 7612 del

05/06/2001, che precisa che “Anche per le fattispecie alle quali non è applicabile “ratione

temporis” l’art. 12 del D.Lgs. n. 38 del 2000 deve considerarsi indennizzabile come

infortunio “in itinere” l’infortunio occorso su una autovettura privata al lavoratore durante

l’intervallo per il pasto lungo il normale percorso di andata o di ritorno dal luogo di lavoro a

quello di consumazione del pasto, qualora siano state accertate la mancata predisposizione

di un servizio di mensa aziendale e l’inesistenza di mezzi pubblici idonei. In base

all’evoluzione della giurisprudenza di legittimità in materia, infatti, da un lato non è da

considerare esigibile, secondo l’attuale modo di vivere e di sentire, che il lavoratore

provveda a nutrirsi nell’intervallo del pranzo consumando sul luogo di lavoro cibo portato

da casa e dall’altro l’utilizzazione di una autovettura privata in mancanza di mezzi pubblici

per il soddisfacimento di una esigenza connessa al mantenimento delle condizioni fisiche

idonee a consentire lo svolgimento delle prestazioni lavorative pomeridiane si deve

considerare obbligata e non il frutto di una libera determinazione del lavoratore non

funzionale allo svolgimento della prestazione lavorativa”.

La lettura della giurisprudenza relativa alla consumazione dei pasti a casa introduce un altro

argomento di sicuro interesse, relativo alla indennizzabilità dell’infortunio occorso al

lavoratore che si sposti con mezzo privato. Ad. esempio, Sez. L, Sentenza n. 11917 del

07/08/2003 ha chiarito che l’assicurazione non opera nel caso in cui l’infortunio si sia

verificato nel tragitto percorso dal lavoratore col motorino per recarsi nella propria

abitazione durante la pausa pranzo, ove risulti accertato che la necessità di fare ricorso a tale

veicolo è esclusa dalla vicinanza del posto di lavoro (nella specie circa 1.500 metri) e dalla

possibilità di effettuare il percorso sia interamente a piedi, sia utilizzando per una parte un

mezzo di trasporto pubblico.

Egualmente, Sez. L, Sentenza n. 8889 del 10/05/2004 ha ritenuto che “costituisce rischio

elettivo, frutto di una libera determinazione del lavoratore priva di alcun diretto

collegamento con l’attività lavorativa svolta, la scelta del lavoratore di consumare il pasto

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presso la propria abitazione, raggiungendola con il mezzo proprio durante la pausa pranzo,

qualora l’uso del mezzo proprio non sia necessitato dalla durata della pausa pranzo o

dall’impossibilità di avvalersi di mezzi pubblici”. Nel caso in concreto esaminato, la S.C. ha

ritenuto non qualificabile come infortunio in occasione di lavoro il sinistro stradale

verificatosi mentre il lavoratore, alla guida del proprio ciclomotore, raggiungeva la propria

abitazione per consumarvi il pasto, in una fattispecie in cui il lavoratore era tenuto a tornare

in ufficio il pomeriggio soltanto per un’ora e trenta in orario a sua scelta entro le ore 18.00.

In altri termini, il tempo a disposizione rendeva non necessitato l’uso del mezzo privato.

L’uso del mezzo privato necessitato

Il legislatore parte dal presupposto che il mezzo di trasporto pubblico costituisce lo

strumento normale per la mobilità delle persone e comporta il grado minimo di esposizione

al rischio di incidenti (cfr., pacificamente, Sez. 6 - L, Ordinanza n. 22759 del 03/11/2011).

Pertanto, l’uso del mezzo proprio, con l’assunzione degli ingenti rischi connessi alla

circolazione stradale, deve essere valutato con adeguato rigore (cfr., in motivazione,

Cassazione civile, sez. VI, 20/04/2016, sentenza n. 7831).

In linea di principio, l’infortunio “in itinere” non può essere ravvisato in caso di incidente

stradale subito dal lavoratore che si sia spostato con il proprio automezzo al luogo di

prestazione dell’attività lavorativa fuori sede, dal luogo della propria dimora, ove l’uso del

veicolo privato non rappresenti una necessità, in assenza di soluzioni alternative, ma una

libera scelta del lavoratore (cfr. Sez. 6 - L, Ordinanza n. 22759 del 03/11/2011; Sez. L,

Sentenza n. 19940 del 06/10/2004).

Non si ha, quindi, infortunio in itinere indennizzabile se l’intero percorso, fra abitazione e

luogo di lavoro, è agevolmente servito dai mezzi di trasporto pubblico (cfr., in motivazione

Cassazione civile sez. lav., 29 luglio 2010, n. 17752).

L’utilizzo del mezzo di trasporto privato deve essere effettivamente “necessitato”, cioè

funzionalizzato, in relazione alle circostanze di tempo e di luogo in cui avviene, ad un

corretto e puntuale adempimento dei compiti lavorativi (cfr. Sez. L, Sentenza n. 10162 del

25/07/2001).

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Del resto, la Corte di cassazione ha più volte affermato che nella valutazione circa la

necessità dell’uso del veicolo privato, adoperato dal lavoratore, per il collegamento tra

abitazione e luogo di lavoro occorre considerare:

- gli orari di lavoro e quelli dei pubblici servizi di trasporto ovvero la compatibilità degli

orari dei pubblici servizi di trasporto rispetto all’orario di lavoro dell’assicurato;

- la sicura fruibilità dei pubblici servizi di trasporto qualora risulti impossibile, tenuto conto

delle peculiarità dell’attività svolta, la previa determinazione della durata della sua

prestazione lavorativa (cfr., ex ceteris: Sez. L, Sentenza n. 1320 del 01/02/2002; Sez. L,

Sentenza n. 7717 del 23/04/2004; Sez. L, Sentenza n. 13376 del 23/05/2008).

Ad esempio, Sez. L, Sentenza n. 7717 del 23/04/2004 ha confermato la sentenza di merito

che, con adeguata motivazione, aveva ritenuto l’indennizzabilità dell’infortunio,

considerando non compatibili gli orari dei mezzi pubblici rispetto all’orario di lavoro, sia in

relazione al disagio costituito dal prolungamento dell’assenza del lavoratore dalla sua

famiglia, sia in riferimento alla possibilità di spostare l’orario di entrata ed uscita dal lavoro,

valutato come meramente ipotetico, perché non vi era stato alcun accordo tra le parti e

perché non si poteva ravvisare un obbligo in tal senso in capo al lavoratore.

La giurisprudenza di legittimità ha chiarito che, “In materia di assicurazione contro gli

infortuni sul lavoro, ai fini dell’indennizzabilità dell’infortunio “in itinere” anche in caso di

utilizzo del mezzo di trasporto privato deve aversi riguardo a criteri che individuino la

legittimità o meno dell’uso del mezzo in questione secondo gli “standards” comportamentali

esistenti nella società civile e rispondenti ad esigenze tutelate dall’ordinamento, quali un più

intenso legame con la comunità familiare ed un rapporto con l’attività lavorativa diretto ad

una maggiore efficienza delle prestazioni non in contrasto con una riduzione del conflitto fra

lavoro e tempo libero (cfr. Sez. L, Sentenza n. 10750 del 03/08/2001).

È stato, tuttavia, precisato che “in materia di indennizzabilità dell’infortunio “in itinere”

occorso al lavoratore che utilizzi il mezzo di trasporto privato, non possono farsi rientrare

nel rischio coperto dalle garanzie previste dalla normativa sugli infortuni sul lavoro

situazioni che senza rivestire carattere di necessità - perché volte a conciliare in un’ottica di

bilanciamento di interessi le esigenze del lavoro con quelle familiari proprie del lavoratore -

rispondano, invece, ad aspettative che, seppure legittime per accreditare condotte di vita

quotidiana improntate a maggiore comodità o a minori disagi, non assumono uno spessore

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sociale tale da giustificare un intervento a carattere solidaristico a carico della collettività”

(Sez. L, Sentenza n. 17167 del 27/07/2006).

Esaminiamo un caso concretamente vagliato dalla giurisprudenza.

Un caso concreto: Sez. L, Sentenza n. 17167 del 27/07/2006

S.V., dipendente della società La R.-U., addetta alla vendita-cassiera, assunta con contratto

di lavoro part-time e con orario “variato di mese in mese”, riferiva che il 21 marzo 1997,

mentre alle ore 8,10 circa era intenta a raggiungere il posto di lavoro in motociclo, era

caduta dal veicolo, battendo violentemente il corpo sulla sede stradale. Chiedeva che

venisse accertato che l’infortunio subito configurava un infortunio “in itinere” e,

conseguentemente, l’INAIL fosse condannata a corrisponderle le prestazioni dovute per

l’inabilità temporanea nonché per i postumi permanenti residuati.

Il Tribunale di Ravenna rigettava la domanda, con sentenza confermata dalla Corte di

appello. In particolare, la Corte territoriale osservava che non era ravvisabile quella

necessità dell’uso del veicolo privato richiesto, secondo i principi enunciati in

giurisprudenza, ai fini dell’indennizzabilità dell’infortunio “in itinere” in quanto nel caso di

specie, sulla base degli elementi di fatto raccolti in sede istruttoria, era emerso che,

attraverso l’uso del mezzo privato, si realizzava un risparmio di tempo di 15, 20 o 25

minuti per ogni viaggio, da non considerarsi eccessivamente disagevole o gravoso in

relazione alle comuni esigenze di vita familiare.

S. V. proponeva ricorso per cassazione, sostenendo che doveva considerarsi incongruente

la valutazione della Corte d’appello di Bologna in quanto, considerando le circostanze del

caso concreto, risultava evidente che l’unico mezzo ragionevolmente utilizzabile al fine di

armonizzare al meglio l’orario d’ufficio con le normali esigenze di vita personale e

familiare della lavoratrice era il motociclo, il cui uso doveva conseguentemente

considerarsi del tutto legittimo anche in considerazione della distanza (2.500-3000 metri)

tra casa e posto di lavoro.

Il ricorso è stato respinto. Richiamati i principi espressi da Cass. n. 10750/2001, cit., la

Suprema Corte ha ritenuto che in relazione alla specifica posizione della V. di lavoratrice in

part-time - istituto questo volto di per sè a conciliare le esigenze lavorative con altre

specifiche e peculiari esigenze (comprese quelle familiari) del lavoratore - era emerso come

il mancato risparmio di tempo derivante da una soluzione diversa da quella dell’uso del

proprio motociclo non fosse di entità tale da incidere in maniera rilevante sulle sue comuni

esigenze di vita familiari sicché non si configurava una “necessità” di detto uso capace di

giustificare e legittimare le rivendicazioni avanzate in giudizio.

In senso conforme Cassazione civile, sez. lav., 17/01/2007, n. 995 ha affermato che

“l’esigenza di conciliare le ragioni del bilancio dello Stato con i compiti di tutela sociale che

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pure competono alle istituzioni non consente di gravare la collettività di spese ricollegabili a

comportamenti non improntati alla necessaria prudenza. Pertanto, se il lavoratore usa il

mezzo privato per il tragitto casa-lavoro, non è possibile far rientrare nel rischio coperto

dalle garanzie previste dalla normativa sugli “infortuni in itinere” una serie di condotte

improntate a maggiore comodità - o minori disagi - laddove non vi sia una vera e propria

necessità” (nel caso considerato è stato ritenuto che, in presenza di mezzi di trasporto

pubblici utili, il risparmio di quaranta minuti che il lavoratore conseguiva con l’uso del

mezzo proprio configurasse una “mera comodità personale, trattandosi di differenza di

tempo di entità modesta e sicuramente tollerabile”).

Esaminiamo alcuni casi concreti in cui sono stati applicati i predetti principi.

Un caso concreto: Cassazione civile, sez. lav., 20/10/2014, n. 22154

La Corte distrettuale aveva ritenuto che, nella fattispecie concreta, l’uso del mezzo proprio

non fosse necessitato.

Tramite consulenza tecnica d’ufficio era stato, infatti, accertato che, tra l’abitazione ed il

luogo di lavoro vi era la distanza di 900 metri e di 70 metri dalla fermata dell’autobus

all’ingresso della ditta; era stata altresì verificata l’esistenza di un servizio di linea “con

partenze mattutine alle ore 7.05 e 7.55 con percorrenza del tragitto in circa 3 minuti”.

I giudici d’appello avevano, dunque, considerato che il lavoratore avesse senz’altro a

disposizione il servizio di linea di trasporto pubblico: e ciò sia utilizzando la corsa delle

7.05, ritenuto orario del tutto fisiologico nell’ambito dell’ordinario panorama del

pendolarismo lavorativo, sia utilizzando “anche” la corsa delle ore 7.55, tale da consentirgli

di raggiungere il posto di lavoro all’orario di lavoro programmato per le ore 8.00.

Avevano, altresì, valutato che, data la media età lavorativa del lavoratore e la mancata

allegazione di problemi fisici o di salute, il tragitto non superiore al chilometro era

comodamente percorribile anche a piedi senza eccessivo dispendio di energie fisiche.

La Corte di Cassazione ha confermato la sentenza impugnata, evidenziando che la stessa

era conforme ai principi giurisprudenziali in materia e la parte istante si era limitata a

prospettare una nozione soggettiva di uso “necessitato” del mezzo proprio, conforme alle

proprie aspettative personali ma ben lontana dal senso proprio dell’impossibilità di fare

altrimenti.

In definitiva, il mezzo privato è necessitato quando i mezzi pubblici mancano o sono

inadeguati. Il bilanciamento delle esigenze di lavoro con quelle familiari proprie del

lavoratore, pur se finalizzate ad accreditare condotte di vita improntate a maggior comodità

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o a minor disagio, non è di per sé sufficiente per il riconoscimento dell’infortunio “in

itinere” in assenza della dimostrazione dell’effettiva necessità dell’utilizzo del mezzo

privato (Cassazione civile sez. lav., 29 luglio 2010, n. 17752; Cass. 7 marzo 2008, n. 6211)

In ogni caso, è onere del lavoratore dimostrare la necessità dell’uso del veicolo privato,

ferma la possibilità del giudice di ricorrere all’art. 421 c.p.c. per integrare il “principio di

prova” offerto. E ciò sulla scorta dell’insegnamento secondo cui nel rito del lavoro,

caratterizzato dall’esigenza di contemperare il principio dispositivo con quello della ricerca

della verità materiale, allorché le risultanze di causa offrano significativi dati di indagine, il

giudice, ove reputi insufficienti le prove già acquisite, deve esercitare il potere-dovere

previsto dall’art. 421 c.p.c., di provvedere d’ufficio agli atti istruttori sollecitati da tale

materiale probatorio e idonei a superare l’incertezza sui fatti costitutivi dei diritti in

contestazione, purché i fatti stessi siano allegati nell’atto introduttivo, senza che possano

rilevare eventuali preclusioni o decadenze processuali, in quanto la prova disposta d’ufficio

è solo un approfondimento, ritenuto indispensabile ai fini del decidere, di elementi probatori

già obbiettivamente presenti nella realtà del processo.

Proprio in relazione al dovere/potere del giudice di merito di attivare i propri poteri officiosi

per accertare i fatti rilevanti al fine di verificare il carattere necessitato dell’uso del mezzo

privato si segnala la decisione di Cassazione civile, sez. lav., 10.12.2007 n. 25742.

Un caso concreto: Cassazione civile, sez. lav., 10/12/2007, n. 25742.

B.D., dipendente di una Cassa di Risparmio e addetto alla sede centrale di quell’istituto,

conveniva in giudizio l’Inail e ne chiedeva la condanna alla corresponsione di una rendita,

previo accertamento che l’infortunio in itinere occorsogli in data 1.12.1999 era avvenuto in

occasione di lavoro. In ricorso l’assicurato esponeva che quel giorno, mentre nell’ora di

pausa pranzo si recava in motocicletta dalla sede della banca alla propria abitazione, era

stato investito da un altro autoveicolo riportando serie lesioni personali. Deduceva che

nello spazio di un’ora di pausa pranzo doveva raggiungere la propria abitazione, desinare e

tornare al lavoro. Assumeva di essere costretto a recarsi a casa per il pranzo in motorino

perché nella sede di lavoro mancava una mensa aziendale e perché la frequenza dei mezzi

pubblici di trasporto non gli consentiva di andare a casa e tornare nel breve tempo della

pausa.

L’Inail resisteva osservando che il ricorrente aveva fatto uso non necessitato del mezzo

privato, assumendo così un rischio elettivo non indennizzabile.

Il Tribunale di Teramo respingeva il ricorso, con sentenza confermata dalla Corte di

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Appello di L’Aquila.

In particolare, la Corte territoriale osservava che l’assicurato non aveva provato circostanze

decisive, quali gli orari delle corse dei mezzi pubblici, la loro incompatibilità con l’orario di

inizio e termine dell’intervallo destinato al pranzo, i tempi di percorrenza tra la sede

dell’impresa e la propria abitazione. La Corte rilevava, altresì, che il prospetto con gli orari

del servizio pubblico di trasporto depositato dall’appellante non erano sufficienti poiché

nell’atto di appello mancava qualsiasi precisazione in ordine alle fermate di partenza e di

arrivo che interessavano il B.; per contro l’Inail aveva dedotto che la distanza tra il posto di

lavoro e l’abitazione dell’appellante era di soli km 2,5 e che le fermate dei mezzi pubblici

distavano dalla sede dell’ufficio e dall’abitazione, rispettivamente, m. 200 e m. 100.

La Corte di cassazione ha censurato la sentenza impugnata, stigmatizzato che il Giudice di

appello aveva ritenuto non rilevante il prospetto con gli orari della linea del servizio

pubblico, depositato dall’appellante, “in mancanza di qualsiasi precisazione in ordine a

quali sarebbero state le fermate di partenza e di arrivo”, agli orari delle corse ed alla loro

compatibilità con l’orario di lavoro, ai tempi di percorrenza; allo stesso modo aveva

ritenuto privo di valore probatorio il documento prodotto dall’appellante contenente la

dichiarazione del datore di lavoro attestante l’orario di lavoro del B. con la precisazione che

“a pranzo con una sola ora di intervallo non è possibile andare a lavorare con i mezzi

pubblici”.

Orbene, la Suprema Corte ha ritenuto che la suddetta documentazione costituiva comunque

un principio di prova dei fatti costitutivi allegati dall’appellante che non poteva esimere il

Giudice di merito dall’esercitare i poteri d’ufficio assegnatigli dall’art. 421 c.p.c.; pertanto,

le lacune lamentate dal giudice di appello in ordine agli orari delle corse dei mezzi pubblici,

alle fermate, ai tempi di percorrenza, alla compatibilità con gli orari di lavoro ecc.

avrebbero potuto essere facilmente superate acquisendo ex officio i necessari documenti,

peraltro di facile reperimento, o invitando le parti a produrli. Ha, dunque, accolto il ricorso

e cassato con rinvio la sentenza impugnata.

Nel descritto panorama giurisprudenziale, invero alquanto consolidato, si segnala, di

recente, Cassazione civile, sez. lav., 13/04/2016, n. 7313, la quale ha affermato: - che l’uso

del mezzo proprio (senza alcuna altra connessione funzionale con l’attività lavorativa

assicurata) non è di ostacolo all’indennizzabilità, ma permane la condizione che l’uso sia

necessitato; - che il requisito della necessità non deve essere tuttavia inteso in senso

assoluto, essendo sufficiente una necessità relativa (ossia emergente attraverso i molteplici

fattori non definibili in astratto che condizionano la scelta del mezzo privato rispetto a

quello pubblico). A sostegno di detta interpretazione, secondo Cass. 7313/2016, muovono

anzitutto alcuni elementi normativi contenuti nella stessa disciplina di legge: assume rilievo,

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in particolare, il fatto che è tutelato l’infortunio occorso durante il tragitto dal luogo di

lavoro a quello di consumazione abituale dei pasti (non necessariamente la propria

abitazione) se l’azienda sia sfornita di mensa aziendale. Se la necessità fosse stata assoluta,

e non valutabile secondo gli standards di vita attualmente seguiti, una previsione di questo

tipo sarebbe stata scarsamente giustificabile; mentre imporre al lavoratore l’usanza di

portarsi le vivande da casa sarebbe stata contraria ai tempi ed ai costumi sociali in vigore.

La Corte ha chiarito che occorre ricercare i criteri individuativi della normalità del percorso

e della necessità del mezzo - oltre i quali insorge il rischio elettivo e l’uso non necessitato -

facendo ricorso a valori guida dell’ordinamento giuridico, di valore costituzionale, idonei a

risolvere il conflitto fra l’interesse dell’istituto assicuratore a non erogare prestazioni che

esulino dalla funzione di copertura dei rischi propri delle attività lavorative e l’interesse del

lavoratore di veder non escluse dall’ambito di tali atti, momenti peculiari della sua

personalità di uomo-lavoratore in esso coinvolte (quali la libertà di fissazione della

residenza, il rapporto con la comunità familiare, una più intensa tutela previdenziale meglio

attagliata alle esigenze della società in cui opera). Sull’applicazione concreta che la sentenza

n. 7313/2016 ha fatto di tali principi si tornerà infra.

L’uso della bicicletta

L’art. 5 della L. 28 dicembre 2015, n. 221 (pubblicata nella G.U. n. 13 del 18.1.2016),

contenente “disposizioni in materia ambientale per promuovere misura di green economy e

per il contenimento dell’uso eccessivo di risorse naturali”, prevede specifiche disposizioni

volte ad incentivare la mobilità sostenibile anche nei percorsi casa lavoro, ivi inclusi le

iniziative di bike-pooling e di bike-sharing, i programmi di educazione e sicurezza stradale,

di riduzione del traffico, dell’inquinamento e della sosta degli autoveicoli in prossimità delle

sedi di lavoro “anche al fine di contrastare problemi derivanti dalla vita sedentaria”.

I commi 4 e 5 dell’art. 5 cit. sono intervenuti ad integrare la disciplina dell’infortunio in

itinere (di cui al T.U. n. 1124 del 1965, art. 2, comma 3 e art. 210, comma 5), chiarendo che

“L’uso del velocipede, come definito ai sensi del D.Lgs. 30 aprile 1992, n. 285 e successive

modificazioni, art. 50 deve, per i positivi riflessi ambientali, intendersi sempre necessitato”.

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In sostanza, attraverso la nuova disciplina, ai fini dell’infortunio in itinere, l’uso del

velocipede (ovvero - secondo la definizione del codice della strada - del veicolo, con due o

più ruote, funzionante a propulsione esclusivamente muscolare, per mezzo di pedali anche

se a pedalata assistita) deve ritenersi sempre assicurato, come lo è, per la stessa normativa,

l’andare al lavoro con il mezzo pubblico.

Di recente la Corte di Cassazione (Sez. lav., 13/04/2016, sentenza n. 7313, cit.) ha chiarito

che detta normativa, proprio perché espressione di istanze sociali largamente presenti da

tempo nella comunità, può essere utilizzata dal giudice in chiave interpretativa al fine di

chiarire anche il precetto precedente, con riferimento a infortuni verificatisi prima

dell’entrata in vigore della L. 28 dicembre 2015, n. 221 (ovvero prima del 2.2.2016).

Esaminando la decisione della sentenza n. 7313/2016 emerge come tale impostazione possa

portare a conclusioni diverse da quelle della giurisprudenza “tradizionale”.

Un caso concreto: Cassazione civile, sez. lav., 13/04/2016, sentenza n. 7313.

La Corte d’Appello di Firenze, in riforma della sentenza di primo grado del Tribunale di

Livorno, respingeva la domanda di M.B., che aveva chiesto il riconoscimento di un

infortunio in itinere asseritamente subito allorché, in data 2.1.2008, in Livorno, alle ore

14.50, al termine del turno mattutino, stava facendo ritorno a casa in bicicletta, venendo

colpito da un motociclo.

A differenza del primo giudice, il quale aveva ritenuto che la distanza casa-lavoro da

coprire fosse eccessiva per andare a piedi, in considerazione delle esigenze legate ad una

famiglia con una persona anziana da assistere, mentre il ricorso al trasporto pubblico non

era agevole, la Corte d’Appello aveva sostenuto che il M. non avesse provato la

contingente necessità dedotta (somministrare un’iniezione alla suocera) per fare ricorso al

mezzo privato, e poiché la strada da percorrere, benchè non coperta da mezzi pubblici, era

di soli cinquecento metri, doveva ritenersi che l’uso del mezzo privato non fosse comunque

necessitato, potendo lo stesso percorso essere coperto a piedi nel giro di pochi minuti (7,5),

mentre l’utilizzo della bicicletta in città, in quanto soggetto ai pericoli del traffico, aveva

comportato un aggravamento del rischio rispetto all’andare a piedi, tanto più nel mese di

gennaio quando si era verificato l’infortunio.

La Corte di Cassazione ha evidenziato come “la modalità di percorrenza tragitto abitazione-

lavoro con mezzo privato possa corrispondere anche ad esigenze di un più intenso rapporto

con la comunità familiare, ad es. negli intervalli lavorativi, per mantenere un più stretto e

frequente legame con i membri della stessa. Ed anche ad esigenze di raggiungere in

maniera riposata e distesa i luoghi di lavoro. In tal modo assicurando un proficuo apporto

alla organizzazione produttiva nel quale il lavoratore è inserito: e ciò risponde ad un valore

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di utilità sociale ben presente nell’ordinamento”.

In questa ottica è stata ritenuta rilevante la tendenza, divenuta sempre più pressante, a

favorire l’utilizzo della bicicletta in quanto mezzo che riduce costi economici, sociali ed

ambientali: e ciò al fine di ottenere benefici non solo di carattere ambientale ma anche per

la salute dei cittadini, ed in prospettiva un calo delle spese sanitarie a carico del sistema

nazionale.

Alla luce di tale comune sentire e dei principi interpretativi che possono trarsi dall’art. 5

della L. 28 dicembre 2015, n. 221, la Cassazione ha censurato la decisione del giudice

d’appello, in quanto aveva “parametrato la legittimità del ricorso al mezzo privato

sostanzialmente soltanto in relazione al criterio della distanza che separa l’abitazione dal

luogo di lavoro (peraltro considerata in unico senso di percorrenza); mentre la legittimità

del mezzo in questione va individuata in relazione ad un criterio di normalità-razionalità

che tenga conto di vari standards comportamentali esistenti nella società civile,

rispondendo a valori guida dell’ordinamento all’interno di un determinato contesto socio

economico.

La distanza, tanto più quando venga in considerazione l’utilizzo della bicicletta, non può

essere ritenuto in assoluto un criterio selettivo da solo sufficiente ad individuare la

necessità dell’uso del mezzo privato (nel senso relativo che si è prima indicato).

(…) L’utilizzo della bicicletta da parte del lavoratore per recarsi al lavoro deve essere allora

valutato in relazione al costume sociale, alle normali esigenze familiari del lavoratore

(anche senza la presenza di contingenti necessità quale quella allegata ma non provata nel

giudizio di merito), alla presenza di mezzi pubblici, alla modalità di organizzazione dei

servizi pubblici di trasporto nei luoghi in cui più è diffuso l’utilizzo della bicicletta, alla

tipologia del percorso effettuato (un conto è l’impiego su un percorso urbano, un conto su

una strada non urbana), alla conformazione dei luoghi, alle condizioni climatiche in atto (e

non tanto a quelle stagionali), alla tendenza presente nell’ordinamento e rivolta

all’incentivazione dell’uso della bicicletta (codice della strada; L. n. 221 del 2015 cit.)”.

Di recente la giurisprudenza ha anche affrontato un caso particolare, relativo alla possibilità

di ritenere avvenuto “in occasione di lavoro” l’infortunio occorso ad un sindacalista in

permesso retribuito.

Un caso concreto: Cassazione civile, sez. lav., 07/07/2016, sentenza n. 13882

Il ricorrente era dipendente del Consorzio C. con mansioni di conduttore di mezzi

meccanici nei lavori di costruzione della galleria della linea direttissima nella tratta

ferroviaria. L’attività lavorativa era prestata dal lunedì al venerdì di ogni settimana durante

la quale L. alloggiava nel cantiere presso locali all’uopo predisposti per gli operai dal

datore di lavoro. Era, inoltre, membro del Consiglio direttivo della FILCA CISL e dirigente

della RSU di cantiere; era stato designato dalla società C. a rivestire l’incarico di lavoratore

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incaricato della sicurezza ai sensi del D.Lgs. n. 626 del 1994.

La società C. aveva indetto una riunione sindacale, presso la sede della società, alla quale il

L. aveva partecipato fruendo di un permesso sindacale retribuito. La riunione, aperta ai

rappresentanti sindacali, era funzionale all’organizzazione dell’attività lavorativa da parte

del datore di lavoro. Dopo la riunione, durante il viaggio di rientro al cantiere dove

alloggiava, L. rimase vittima di un incidente stradale, riportando un’invalidità permanente

pari al 50%.

La Corte d’Appello di Catanzaro ha accolto l’appello proposto dall’INAIL avverso la

sentenza del Tribunale di Crotone che aveva condannato l’Istituto ad erogare al L. la

rendita per inabilità permanente nella percentuale del 50%, riconoscendo la sussistenza di

un infortunio in itinere.

La Corte territoriale ha sostenuto che, nella fattispecie, mancasse il requisito dell’occasione

del lavoro, in quanto il sinistro stradale si era verificato mentre il lavoratore si trovava in

permesso sindacale retribuito ed a seguito della sua partecipazione ad una riunione relativa

ad attività sindacale, da egli svolta in modo episodico ed occasionale quale rappresentante

sindacale (membro del direttivo della CISL oltre che membro della RSU). La Corte ha

sostenuto che non poteva attribuirsi rilievo al fatto che la riunione cui il L. aveva preso

parte era funzionale all’organizzazione dell’attività lavorativa da parte del datore di lavoro,

posto che altrimenti si sarebbe allargata eccessivamente la nozione di “occasione di

lavoro”.

La Corte di Cassazione ha riformato la decisione, ritendo che “una volta accertato che la

riunione fosse stata promossa dal datore di lavoro, presso la propria sede, ed avesse ad

oggetto l’organizzazione dell’attività lavorativa, la Corte aveva errato nel negare la

riferibilità della funzione espletata come sindacalista all’attività lavorativa; posto che la

partecipazione di un lavoratore, ancorchè in qualità di sindacalista ed in permesso

sindacale, ad una riunione che attiene all’attività dell’impresa, non può certamente dirsi

attinente ad interessi diversi, estranei o immeritevoli di tutela rispetto a quelli presidiati

dalla tutela assicurativa.

Ne consegue che la presenza del lavoratore lungo il percorso necessario per recarsi alla

stessa riunione dal cantiere dove egli alloggiava, e viceversa, deve ritenersi riferibile al

lavoro; e che le lesioni riportate in conseguenza dell’incidente stradale costituiscano

infortunio in itinere, avvenuto in occasione del lavoro; e siano pertanto indennizzabili ai

sensi della disciplina dell’art.12 del d.lgs. 38/2000 (che ha aggiunto un ultimo comma agli

artt. 2 e 210 del t.u. 1124/65); il quale, non va dimenticato, esclude la protezione

assicurativa dell’infortunio che avvenga sul normale percorso che ricollega al lavoro, nel

solo caso “di interruzione o deviazione del tutto indipendenti dal lavoro o, comunque, non

necessitate”.

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Il rischio elettivo nell’infortunio in itinere

Come anticipato, anche prima dell’entrata in vigore del D. Lgs. 23 febbraio 2000, n. 38, art.

12, che prevede espressamente per la prima volta l’indennizzabilità dell’infortunio in

itinere, la riconducibilità di quest’ultimo nell’ambito del rischio professionale e

dell’assicurazione obbligatoria infortuni e malattie professionali comportava per il datore di

lavoro, in ragione della natura essenzialmente assicurativa della relativa tutela, l’assunzione

di tutte le conseguenze contributive derivanti per legge dalla verificazione di quell’evento

dannoso, in particolare la rilevanza anche di tale tipo di infortunio agli effetti del tasso

specifico aziendale del premio di assicurazione applicabile (cfr., ex ceteris, Sez. L, Sentenza

n. 11792 del 06/08/2002).

Per quanto riguarda la tematica dell’elemento soggettivo nella causazione dell’infortunio sul

lavoro in genere, si è detto che, esclusa l’indennizzabilità di questo in caso di dolo

dell’assicurato nella causazione dell’infortunio, alla stregua del D.P.R. 30 giugno 1965, n.

1165, art. 11, comma 3, la giurisprudenza della Corte di cassazione ha ritenuto l’irrilevanza

della colpa, nelle sue varie gradazioni, anche se esclusiva (Cass. 4 dicembre 2001 n. 15312),

in ragione del carattere autonomo di tale disciplina rispetto a quella civilistica (per la quale

diversamente dispone l’art. 1900 c.c.).

Secondo consolidata interpretazione giurisprudenziale, in caso di infortunio, il

comportamento del lavoratore interrompe il nesso causale solo quando costituisca la

conseguenza dell’assunzione di un rischio elettivo, qualificato come una deviazione

arbitraria dalle normali modalità operative per finalità personali, comportante rischi diversi

da quelli inerenti alle normali modalità di esecuzione della prestazione e quindi escludente

l’“occasione di lavoro”.

Tali principi, anticipando il contenuto del D.Lgs. n. 38 del 2000, art.12, cit. (a sua volta

utilizzabile nella valutazione degli infortuni avvenuti in precedenza: cfr. Cass. 6 luglio 2007

n. 15266), sono stati ripetutamente ritenuti applicabili anche all’infortunio in itinere, con

l’avvertenza che in questo caso viene richiesto un maggior grado di responsabilità da parte

del lavoratore, in ragione della temporanea sua sottrazione all’ambito strettamente aziendale

organizzato dal datore di lavoro (cfr. ex plurimis, Cass. 3 agosto 2005 n. 16282 e 4 luglio

2007 n. 15047).

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In altri termini, il “rischio elettivo”, configurato come l’unico limite alla copertura

assicurativa di qualsiasi infortunio, in quanto ne esclude l’essenziale requisito della

“occasione di lavoro”, assume, con riferimento all’infortunio in itinere, una nozione più

ampia rispetto all’infortunio che si verifichi nel corso dell’attività lavorativa vera e propria,

in quanto comprende comportamenti del lavoratore infortunato di per sé non abnormi,

secondo il comune sentire, ma semplicemente contrari a norme di legge o di comune

prudenza.

Così, non è indennizzabile l’infortunio in itinere in caso di deviazione dal percorso diretto,

di guida senza patente o in stato di ebbrezza o sotto l’effetto di sostanze stupefacenti e, in

genere, in caso di comportamenti che, di per sé, non sono abnormi, ma comunque si

pongono come contrari a norme di legge o di comune prudenza.

In applicazione di tale principio:

Sez. L, Sentenza n. 6725 del 18/03/2013 ha confermato la sentenza impugnata, la

quale aveva ritenuto che la scelta del lavoratore di utilizzare, in luogo dei mezzi

pubblici, il proprio motoveicolo per coprire la distanza di due km tra la propria

abitazione ed il posto di lavoro integrasse comportamento configurabile come

“rischio elettivo”.

Sez. L, Sentenza n. 19496 del 10/09/2009, nello scrutinare il caso di un infortunio

mortale occorso ad una lavoratrice che era stata investita da un treno mentre

attraversava i binari di una stazione, ha ritenuto che l’attraversamento dei binari -

senza servirsi del sottopassaggio pedonale - integrasse, secondo il comune sentire,

una clamorosa imprudenza e un comportamento abnorme.

Anche la violazione di norme fondamentali del codice della strada, valutata nella sua

gravità in concreto rispetto alla norma violata, può integrare quel rischio elettivo che

esclude l’indennizzabilità dell’infortunio in itinere. In proposito:

Sez. L, Sentenza n. 11885 del 06/08/2003 ha confermato la decisione di merito che

aveva rigettato la domanda di corresponsione della rendita INAIL proposta dai

superstiti di un lavoratore deceduto a causa di un infortunio occorsogli mentre, alla

guida di un ciclomotore, si stava recando dalla propria abitazione nel luogo di

lavoro, avendo imboccato una strada in violazione del divieto di transito, ed

incrociato altra autovettura per evitare la quale aveva operato una repentina manovra

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che aveva determinato il ribaltamento del ciclomotore e le lesioni in seguito alle

quali era deceduto.

Sez. 6 - L, Ordinanza n. 3292 del 18/02/2015: nel caso considerato, Z.A.S.,

coltivatore diretto, titolare di un’azienda di allevamento, aveva subito un infortunio

mentre era alla guida della propria auto diretto a raggiungere un’azienda agricola. La

Corte di Cassazione ha ritenuto che correttamente il Tribunale di Campobasso (con

decisione confermata dalla Corte di appello) avesse rigettato la domanda ritenendo

che l’infortunio si fosse verificato per rischio elettivo cui lo Z. si era

volontariamente esposto mentre era alla guida della propria auto: l’incidente era

stato patito dallo Z. per sua colpa, consistita nell’aver provocato una violenta

collisione con altra autovettura proveniente dalla opposta direzione di marcia dopo

aver eseguito una manovra di sorpasso su un tratto di strada che tale condotta

vietava, in prossimità di una curva e tenendo una velocità non adeguata alle

condizioni stradali.

Rilevante, ai fini della valutazione della sussistenza del rischio elettivo in caso di infortunio

in itinere, può essere la sosta al bar durante il percorso.

In proposito assume innanzi tutto rilievo l’ordinanza n. 1 del 10-11.1.2005, in cui la Corte

Costituzionale - nel dichiarare la manifesta infondatezza della questione di legittimità

costituzionale dell’art. 2, terzo comma, del d.P.R. 30 giugno 1965, n. 1124 (Testo unico

delle disposizioni per l’assicurazione obbligatoria contro gli infortuni sul lavoro e le

malattie professionali), aggiunto dall’art. 12 del decreto legislativo 23 febbraio 2000, n. 38

(Disposizioni in materia di assicurazione contro gli infortuni sul lavoro e le malattie

professionali), sollevata, in riferimento agli articoli 3, primo comma, 38, secondo comma, e

76 della Costituzione, dal Tribunale di Trento3 - chiariva, in motivazione, che: la soluzione

3 Il Tribunale di Trento – adito dai superstiti di un assicurato deceduto nel percorso dal luogo di lavoro a

casa, interrotto solo per una breve sosta – aveva dichiarato, con ordinanza del 29 aprile 2003, rilevante e non

manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 2, terzo comma, del d.P.R. 30

giugno 1965, n. 1124 (Testo unico delle disposizioni per l’assicurazione obbligatoria contro gli infortuni sul

lavoro e le malattie professionali), aggiunto dall’art. 12 del decreto legislativo 23 febbraio 2000, n. 38

(Disposizioni in materia di assicurazione contro gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali), nella

parte in cui esclude dall’assicurazione obbligatoria contro gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali

gli infortuni in itinere in ogni caso di interruzione non necessitata del normale percorso di andata e ritorno

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di continuità nel tragitto compiuto dal lavoratore dalla propria abitazione al luogo di lavoro,

e viceversa, viene meno solo in caso di una vera e propria “interruzione”, per definire la

quale occorre tener conto della giurisprudenza in materia, secondo la quale una breve sosta,

che non alteri le condizioni di rischio per l’assicurato, non integra l’ipotesi

dell’“interruzione”; detto orientamento giurisprudenziale vale ad indirizzare verso

l’interpretazione adeguatrice della disposizione censurata, sì da restringere la fattispecie

esclusa dall’indennizzabilità; l’interpretazione stretta dell’ipotesi dell’“interruzione” è

suggerita anche dalla tendenziale generalità della regola dell’indennizzabilità dell’infortunio

in occasione di lavoro, onde la prevista deroga ad essa non può che essere intesa

restrittivamente; non vi è un’assoluta equiparazione tra breve sosta e interruzione.

Ai principi enunciati dalla Consulta si ispira la pronuncia di seguito esaminata.

Un caso concreto: Sez. L, Sentenza n. 15973 del 18/07/2007

Il lavoratore L. N. subiva un incidente stradale il giorno 14 febbraio 1998 mentre, alla

guida della propria auto, ritornava dal luogo di lavoro alla propria abitazione, entrambi siti

nel comune di Massa.

La sua domanda di rendita veniva respinta dal Giudice del lavoro, il quale riteneva che il

nesso di causalità fosse stato interrotto da una sosta voluttuaria ad un bar sito lungo il

medesimo percorso.

La decisione veniva confermata dalla Corte d’Appello di Genova, che, in sentenza, poneva

una duplice distinzione: tra soste necessitate (quali la necessità di un breve riposo durante

un lungo percorso o la necessità di soddisfare esigenze fisiologiche) e soste voluttuarie, ed

in questo secondo ambito quelle di pochi minuti, insuscettibili di modificare le condizioni

di rischio, e quelle di apprezzabile durata e consistenza (come nella specie, circa un’ora),

tale da far ritenere che anche la circolazione stradale possa aver avuto una sensibile

modifica, sulla base dell’id quod plerumque accidit.

La Corte di Cassazione ha richiamato la giurisprudenza costituzionale citata (ordinanza

1/2005) che, decidendo su una fattispecie di sosta voluttuaria al bar di pochi minuti, aveva

precisato, con ordinanza interpretativa di rigetto, che una breve sosta non integra

interruzione (che esclude la copertura assicurativa), ove non modifichi le condizioni di

rischio.

Ha, dunque, ritenuto che “la sosta voluttuaria al bar va inquadrata quindi nel rischio

elettivo, nell’ambito del percorso, che costituisce la occasione di lavoro, in quanto dovuta a

libera scelta del lavoratore, che comporta la permanenza o meno della copertura

assicurativa a seconda delle caratteristiche della sosta, e cioè delle due condizioni indicate

dal luogo di abitazione a quello di lavoro e non solo quando l’interruzione determini l’insorgenza di una

situazione di rischio diversa da quella occasionata dallo svolgimento delle mansioni lavorative, così da

comportare il venir meno dell’occasione di lavoro prevista dall’art. 2, primo comma, del citato d.P.R. n. 1124

del 1965.

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ED INFORTUNIO IN ITINERE.

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dalla giurisprudenza costituzionale, e cioè le sue dimensioni temporali e l’aggravamento

del rischio”.

Dopo aver precisato che per la sosta al bar occorre tenere presente anche il maggior rigore

necessario nel valutare il rischio elettivo nell’infortunio in itinere - che assume una nozione

più ampia rispetto all’infortunio che si verifichi nel corso dell’attività lavorativa vera e

propria, in quanto comprende comportamenti del lavoratore infortunato di per sè non

abnormi, secondo il comune sentire, ma semplicemente contrari a norme di legge o di

comune prudenza - la Corte ha aggiunto che la valutazione delle circostanze di fatto della

interruzione non necessitata è compito del giudice del merito, il quale potrà adottare criteri

quali il tempo della sosta in termini assoluti, o in proporzione alla durata del viaggio, in

quanto la interruzione non necessitata non può essere di durata tale da elidere il carattere

finalistico che giustifica la tutela dell’infortunio in itinere, o, come indicato dall’istituto

assicuratore, delle motivazioni stesse della sosta.

In definitiva, la Cassazione ha confermato la sentenza impugnata, non vertendosi, nella

specie, in una sosta necessitata né in una sosta voluttuaria di pochi minuti, insuscettibile di

modificare le condizioni di rischio.

L’infortunio e il fatto doloso del terzo: in particolare nell’infortunio in itinere.

Può accadere che il lavoratore subisca un evento lesivo, talvolta mortale, per il fatto doloso

di un terzo (ad es. in caso di rapina, aggressione, omicidio, ecc.).

Vi è da chiedersi se l’azione di un terzo interrompa il nesso causale tra l’occasione di lavoro

e l’evento lesivo.

Si ritiene, ormai pacificamente, che le aggressioni subite dal lavoratore a scopo di rapina,

sia nello stesso luogo di lavoro, sia in altri luoghi, ma tuttavia in qualche modo collegate

all’esecuzione della prestazione, siano coperte dalla garanzia assicurativa.

Così:

- Sez. L, Sentenza n. 4716 del 21/07/1988 ha cassato la sentenza che aveva escluso

l’indennizzabilità dell’infortunio subito dall’autista di un’impresa di autotrasporti

rimasto ferito nel corso di un’aggressione a colpi di arma da fuoco ai danni del

committente che era a bordo dello stesso autocarro;

- Sez. L, Sentenza n. 1014 del 23/02/1989 ha ritenuto coperto dalla tutela INAIL il

caso del custode di un condominio, morto a seguito di colpi di arma da fuoco

sparatigli da ignoti durante lo svolgimento della sua attività lavorativa;

- Sez. L, Sentenza n. 430 del 18/01/1991 ha ritenuto configurabile l’occasione di

lavoro nell’ipotesi di un soggetto ferito mortalmente nel corso di una rapina

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commessa in occasione dell’acquisto di materiale necessario per la produzione,

costituente attività strettamente connessa alla prestazione di lavoro manuale;

- Sez. L, Sentenza n. 3747 del 11/04/1998 ha affermato che, in caso di aggressione del

lavoratore sul posto di lavoro del lavoratore da parte di estranei, non può escludersi il

collegamento dell’episodio con l’attività lavorativa, ai fini del riconoscimento della

occasione di lavoro e della conseguente configurabilità di un infortunio sul lavoro

indennizzabile da parte dall’INAIL, se non sussistono precisi elementi sui motivi del

litigio e sulle modalità dell’aggressione che facciano escludere la presunzione di un

collegamento, non di pura coincidenza temporale e spaziale, tra l’episodio e l’attività

lavorativa (Nella specie era conseguita la morte del lavoratore; la S.C. ha annullato

per vizio di motivazione la sentenza impugnata che apoditticamente aveva ritenuto

che il litigio fosse scoppiato per futili motivi e per motivi strettamente personali non

collegabili all’attività lavorativa, senza neanche considerare la prodotta sentenza

penale di condanna dalla quale risultava che gli aggressori intendevano “approfittare

ingiustamente del materiale di cantiere”);

- Sez. L, sentenza n. 15691 del 13/12/2000 ha affermato la copertura dell’infortunio

subito dal gestore di un distributore di benzina per effetto di una rapina perpetrata in

suo danno al fine di sottrargli l’incasso della giornata;

- Sez. L, Sentenza n. 12779 del 23/07/2012 ha cassato la decisione di merito che aveva

escluso la sussistenza di un’occasione di lavoro nel caso del ferimento di un

insegnante, aggredito da un ex studente, mentre si trovava nel cortile della scuola,

intento alla sorveglianza degli allievi (cfr. amplius supra nel par. “Rischio proprio,

improprio e ambientale”).

Alla medesima conclusione si è giunti anche in caso di omicidio volontario, originato

tuttavia da comportamenti tenuti dal lavoratore nell’esercizio delle sue mansioni: Sez. L,

Sentenza n. 774 del 28/01/1999 ha affermato l’indennizzabilità dell’infortunio occorso a un

dipendente attinto da colpi di arma da fuoco mentre a bordo della propria vettura faceva

ritorno alla sua abitazione, il quale era stato in precedenza aggredito e minacciato per la sua

attività di addetto agli ordini di acquisto perché “non lasciava vivere altri candidati alle

forniture”.

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Una ulteriore estensione della copertura assicurativa in caso di illecito del terzo ai danni del

lavoratore si è registrata con riferimento all’ipotesi di un particolare rischio ambientale,

ravvisato in occasione di attività lavorativa svolta in un paese estero con diffusa ostilità

verso imprese di diversa nazionalità.

In particolare, Sez. L, Sentenza n. 9801 del 02/10/1998 ha ritenuto che le condizioni di

pericolosità ambientale esistenti in taluni paesi stranieri in determinate contingenze storico -

politiche assumono per i lavoratori italiani all’estero la natura di rischio specifico improprio

e possono quindi determinare l’indennizzabilità dei conseguenti eventi dannosi. Nel caso

specifico, un lavoratore italiano in servizio in Libia alle dipendenze di una ditta italiana era

rimasto vittima di un attentato mentre tornava al “campo” dopo avere accompagnato, per

servizio, una persona all’aeroporto. La S.C. ha confermato la sentenza di merito, che aveva

ritenuto che, sulla base degli atti, il movente dell’omicidio doveva ricondursi alla situazione

esistente all’epoca, di generalizzato sentimento antitaliano e di contrapposizione della Libia

ai paesi occidentali, cioè a condizioni di rischio ambientale connesse all’attività esercitata in

Libia dall’impresa datrice di lavoro.

Nonostante l’evoluzione giurisprudenziale testé delineata, è rimasto fermo il principio

secondo il quale non è possibile ignorare il preciso elemento normativo dell’occasione di

lavoro, cosicché, per la configurazione dell’infortunio sul lavoro ai sensi del D.P.R. n. 1124

del 1965, non è sufficiente che sussista la causa violenta e che tale causa abbia coinvolto

l’assicurato nel luogo ove egli svolge le sue mansioni, ma è necessario che tale causa sia

connessa all’attività lavorativa, nel senso cioè che inerisca a tale attività e sia almeno,

occasionata dal suo esercizio.

Il principio è valso ad escludere l’occasione di lavoro, in particolare, per gli omicidi in alcun

modo connessi con il lavoro, sul rilievo che la “mera presenza” dell’infortunato sul posto di

lavoro e la coincidenza temporale dell’infortunio con la prestazione lavorativa costituiscono

soltanto un indizio della sussistenza del rapporto “occasionale” e non la prova di esso, posto

che non può escludersi - specie quando trattasi di omicidio volontario - che l’evento

dannoso sarebbe stato comunque consumato dall’aggressore, ricercando l’occasione

propizia anche in tempo e luogo diversi da quelli della prestazione di lavoro (cfr. Cass. 23

febbraio 1989, n. 1017; 19 gennaio 1998, n. 447; 29 ottobre 1998, n. 108159).

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Con particolare riguardo all’infortunio in itinere dovuto ad illecito del terzo, si è andato

progressivamente delineando un contrasto nell’ambito della giurisprudenza, relativo alla

necessità che la causa violenta sia comunque connessa all’attività lavorativa.

Si è reso, dunque, necessario l’intervento delle Sezioni Unite della cassazione.

In particolare, una prima opzione interpretativa (Cass. 10.7.2012 n. 11545; Cass. 14.2.2008

n. 3776) tendeva ad estendere il concetto di infortunio assicurato affermando il principio

secondo cui “in tema di assicurazione contro gli infortuni sul lavoro, pur nel regime

precedente l’entrata in vigore del D.Lgs. n. 38 del 2000, è indennizzabile l’infortunio

occorso al lavoratore in itinere, ove sia derivato da eventi dannosi, anche imprevedibili ed

atipici, indipendenti dalla condotta volontaria dell’assicurato, atteso che il rischio inerente il

percorso fatto dal lavoratore per recarsi al lavoro è protetto in quanto ricollegabile, pur in

modo indiretto, allo svolgimento dell’attività lavorativa, con il solo limite del rischio

elettivo”.

Espressione di tale orientamento sono:

Sez. L, Sentenza n. 11545 del 10/07/2012: cassando la decisione della Corte

territoriale (secondo la quale il fatto doloso del terzo aveva interrotto il nesso causale

fra la ripetitività necessaria del percorso casa-ufficio e gli eventi negativi, ad essi

connessi), ha ritenuto indennizzabile l’infortunio occorso ad una lavoratrice sulla

strada del rientro a casa a seguito di una aggressione avvenuta a fini di scippo, che le

aveva provocato varie lesioni.

Sez. L, Sentenza n. 3776 del 14/02/2008: ha cassato con rinvio la sentenza della

Corte d’Appello che aveva escluso la configurabilità dell’infortunio “in itinere” in

favore di un lavoratore che, mentre faceva ritorno dal luogo di lavoro (sito in Napoli,

Via Chiatamone, presso la sede del giornale Il Mattino, dove lavorava in qualità di

operaio addetto al reparto rotative) con la propria moto a causa dello sciopero dei

mezzi pubblici, era stato affrontato da due malviventi, aggredito con pugni e colpi di

arma da fuoco e rapinato della moto.

A ben vedere, però, nella motivazione della sentenza, un collegamento con l’attività

lavorativa è stato comunque individuato: il possesso di un bene patrimoniale (la

moto), quale strumento necessario attraverso il quale si realizza l’iter protetto,

suscettibile di essere oggetto di rapina.

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L’opposto indirizzo (espresso da Cass. 11.6.2009 n. 13599, che richiama Cass. 23-2-1989 n.

1017, Cass. 19.1.1998 n. 447 e Cass. 29.10.1998 n. 10815) riteneva, invece, che non fosse

possibile ignorare il preciso elemento normativo dell’occasione di lavoro: per la

configurazione dell’infortunio indennizzabile riteneva comunque necessario che la causa

violenta fosse connessa all’attività lavorativa, nel senso che inerisse alla suddetta attività o

che fosse almeno occasionata dal suo esercizio.

In particolare, Sez. L, Sentenza n. 13599 del 11/06/2009 ha affermato che “in tema di

indennizzabilità dell’infortunio in itinere, si sottrae a censure la decisione di merito che, a

fronte dell’omicidio del lavoratore, ad opera di ignoti, nel tragitto percorso per recarsi al

lavoro, ha ravvisato tra prestazione lavorativa ed evento una mera coincidenza cronologica e

topografica, un indizio del nesso di occasionalità, peraltro contraddetto da altri indizi (quali

alcuni prossimi congiunti del lavoratore rimasti a loro volta vittime di omicidi due anni

prima), escludendo qualsiasi collegamento oggettivo tra evento, esecuzione del lavoro e

itinerario seguito per raggiungere il luogo di lavoro a bordo della propria autovettura”.

Sempre Cass. n. 13599/2009 cit. ha sottolineato che, anche con riferimento all’infortunio in

itinere, già anteriormente al D.Lgs. n. 38 del 2000, non era “possibile ignorare il preciso

elemento normativo dell’occasione di lavoro”, principio, in alcune pronunce, era “valso ad

escludere l’occasione di lavoro, in particolare, per gli omicidi in alcun modo connessi con il

lavoro, sul rilievo che la “mera presenza” dell’infortunato sul posto di lavoro e la

coincidenza temporale dell’infortunio con la prestazione lavorativa, costituiscono soltanto

un “indizio” della sussistenza del rapporto “occasionale” e non prova di esso, posto che non

può escludersi - specie quando trattasi di omicidio volontario - che l’evento dannoso

sarebbe stato comunque consumato dall’aggressore, ricercando l’occasione propizia anche

in tempo e luogo diversi da quelli della prestazione di lavoro (Cass. 23 febbraio 1989, n.

1017, Cass. 19 gennaio 1998, n. 447, Cass. 29 ottobre 1998, n. 10815”).

Tale secondo indirizzo appare in linea con le pronunce (tra cui Cass. 17.6.2014 n. 13733) le

quali, più in generale, sottolineano che, in materia di infortunio sul lavoro, il D. Lgs. n. 38

del 2000, art. 12, esprime criteri normativi (come quelli di “interruzione o deviazione del

tutto indipendenti dal lavoro o comunque non necessitate”) che delimitano l’operatività

della garanzia assicurativa, condizionando la indennizzabilità dell’infortunio alla sussistenza

di un vincolo “obiettivamente ed intrinsecamente apprezzabile con la prestazione

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dell’attività lavorativa” e all’accertamento di “una relazione tra l’attività lavorativa ed il

rischio al quale il lavoratore è esposto, indispensabile a concretizzare quel “rischio specifico

improprio” o “generico aggravato” che rientra nella ratio dell’art. 2 D.P.R. n. 1124 del

1965.

Chiamate a pronunciarsi, le SS.UU. (nella sentenza n. 17685 del 07/09/2015) sono

pervenute alla conclusione che l’art. 12 del d.lgs. 23 febbraio 2000, n. 38, introducendo

l’ipotesi legislativa dell’infortunio in itinere, non ha derogato alla norma fondamentale di

cui all’art. 2 del d.P.R. 30 giugno 1965, n. 1124, che prevede, tra i requisiti necessari per

l’indennizzabilità dell’infortunio, l’occasione di lavoro.

Le SS.UU. hanno chiarito che l’“occasione di lavoro” costituisce il criterio di

collegamento con l’attività lavorativa che giustifica la tutela differenziata,

costituzionalmente garantita, rispetto ad altri eventi dannosi: essa, pur evolutasi in senso

estensivo - fino a ricomprendere nella tutela tutte le attività prodromiche e strumentali

all’esecuzione della prestazione lavorativa e tutte le condizioni, comprese quelle ambientali

e socio - economiche, in cui l’attività lavorativa si svolge e nelle quali è insito un rischio di

danno per il lavoratore - è rimasta pur sempre ancorata ad un rapporto, seppure mediato e

indiretto, comunque non assolutamente marginale tra l’evento ed il lavoro, in modo cioè che

l’infortunio sia in qualche modo “occasionato” dal lavoro stesso.

D’altra parte, il D. Lgs. n. 38 del 2000, art. 12, ha espressamente ricompreso

nell’assicurazione obbligatoria la fattispecie dell’infortunio in itinere, già elaborata dalla

giurisprudenza, inserendola nell’ambito della nozione di “occasione di lavoro” di cui al

D.P.R. n. 1124 del 1965, art. 2, di guisa che è indubbio che il “comma aggiunto” non può

che essere pur sempre letto nel quadro del sistema delineato dal citato art. 2, che al primo

comma detta la norma fondamentale della materia, secondo la quale l’assicurazione

comprende tutti i casi di infortunio avvenuti per causa violenta in “occasione di lavoro”.

Per tali ragioni è stato riaffermato il principio secondo cui “la espressa introduzione

dell’ipotesi legislativa dell’infortunio in itinere non ha derogato alla norma fondamentale

che prevede la necessità non solo della “causa violenta” ma anche della “occasione di

lavoro”, con la conseguenza che, in caso di fatto doloso del terzo, legittimamente va esclusa

dalla tutela la fattispecie nella quale in sostanza venga a mancare la “occasione di lavoro” in

quanto il collegamento tra l’evento e il “normale percorso di andata e ritorno dal luogo di

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abitazione e quello di lavoro” risulti assolutamente marginale e basato esclusivamente su

una mera coincidenza cronologica e topografica. Ciò è quanto accade nel caso in cui la

causa violenta sia il fatto doloso del terzo riconducibile a rapporti personali tra l’aggressore

e la vittima, del tutto estranei all’attività lavorativa ed a situazioni di pericolo individuale,

alle quali la sola vittima è, di fatto, esposta ovunque si rechi o si trovi, indipendentemente

dal percorso seguito per recarsi al lavoro.

Alla stregua dei suddetti principi le SS.UU. hanno confermato la decisione della Corte

territoriale, rilevando che, nella fattispecie considerata, la lavoratrice, “nonostante si

trovasse sul percorso casa-azienda in orario prossimo all’inizio del lavoro, ha subito un

rischio che riguarda la sua vita personale, del tutto scollegato all’adempimento

dell’obbligazione lavorativa o dal percorso per recarsi in azienda”, essendo stata “aggredita

e accoltellata dal proprio convivente” (come da accertamenti dell’INAIL), evento questo

che “ha spezzato ogni nesso” con la prestazione lavorativa.

In definitiva, le SS.UU. hanno aderito all’indirizzo espresso da Sez. L, Sentenza n. 13599

del 11/06/2009, in quanto basato su una corretta interpretazione logico-sistematica dell’art.

2 cit., laddove l’indirizzo opposto - oltremodo estensivo, inspiegabilmente, però, soltanto

con riferimento all’infortunio in itinere - si fonda esclusivamente su una interpretazione del

comma aggiunto meramente letterale e del tutto avulsa dalla norma fondamentale di cui al

comma 1 e dai principi propri del sistema assicurativo.

Gabriella Piantadosi

(magistrato)