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[ VISIONI 152] Roma
15 gennaio 2019 Blog. https://incontridicinema.wordpress.com
m@il [email protected]
“Pickpocket”
La sconfitta del superuomo
Titolo originale: Pickpocket Regia: Robert Bresson Soggetto: Robert Bresson Sceneggiatura: Robert Bresson Fotografia: Leonce-Henry Burel Montaggio: Raymond Lamy Musiche: G.B. Lulli Scenografia: Pierre Charbonier Interpreti e personaggi: Martiri Lasalle (Michel), Marika Green (Jeanne), Pierre Leymarie (Jacques), Jean Pelegri (l'ispettore), Kassagi, Pierre Etaix Origine: Francia Anno: 1959 Durata: 74 minuti
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Trama
Michel è un borsaiolo di professione. Mentre esce dalla pista delle corse dei cavalli,
Michael viene improvvisamente arrestato. L'ispettore però, rilascia Michel poiché non
aveva abbastanza prove. Michel cade così nel giro dei borseggiatori professionisti che gli
insegnano il mestiere e lo invitano ad unirsi a loro in folli borseggi in luoghi affollati.
Michel (Martin LaSalle) è un giovane che sceglie l’illegalità come forma di critica verso la società. Nonostante gli avvertimenti di Jeanne (Marika Green) e Jacques (Pierre Leymarie), Michel compirà vari furti, con l’aiuto di due complici. Costretto a fuggire, al suo ritorno ritrova Jeanne abbandonata da Jacques e con una figlia. Michel decide di aiutarli, riprendendo a borseggiare, ma verrà arrestato. In carcere, grazie all’amore per Jeanne, Michel troverà la redenzione. Possiamo individuare due temi fondamentali in Pickpocket, film del 1959 di Robert Bresson: il primo, quello più visibile, è senza dubbio il tema della redenzione attraverso l’amore. Con un limpido e chiaro riferimento a Delitto e Castigo di Dostoevskij, Bresson, con la sua regia volutamente impersonale e distaccata, traccia il percorso umano ed interiore di Michel seguendo, come un cronista, l’evoluzione nella coscienza del protagonista. In questo senso, tutti gli espedienti tecnici di Bresson sono rivolti allo scopo di far vivere allo spettatore il moto della coscienza di Michel, il fluire stesso della sua vita, distaccandolo dalla recitazione: le dilatazioni date dalle lunghe inquadrature, le improvvise contrazioni create con riprese veloci e un montaggio dal ritmo incalzante e sincopato, le luci e l’illuminazione che astraggono il personaggio in un alone di grigio, determinando l’incertezza che è la caratteristica fondamentale di Michel. Bresson in Notes sur le cinématographe ha scritto: “Della FRAMMENTAZIONE: essa è indispensabile se non si vuole cadere nella RAPPRESENT-AZIONE. Vedere gli esseri e le cose nelle loro parti separabili. Isolare queste parti. Renderle indipen-denti per dar loro una nuova dipendenza”. Lo spazio in Pickpocket è frammentato e sconnesso dai continui primi piani sui movimenti delle mani
che, però, hanno una funzione di raccordo tra le scene, sostituendosi addirittura ai volti. Sono le mani a connettere gli spazi affollati del film, in quanto non prendono un oggetto, ma lo fermano, lo spostano, lo fanno circolare nello spazio. La sensazione d’incertezza che avvolge il protagonista, ci porta direttamente all’altro tema del film, lasciato deliberatamente sullo sfondo, come una vibrazione primordiale che lo percorre per intero. È il tema della scelta, tema principe dell’astrazione lirica, che in Bresson assume connotati vagamente religiosi: non c’è una lotta dello spirito come, ad esempio, nell’espressionismo, ma un’alternativa, una scelta che riguarda il modo di esistenza di colui che sceglie. In Bresson sono presenti dei tipi di personaggi che rappresentano modi concreti di esistenza: in Pickpocket, Michel rappresenta gli uomini grigi, quelli dell’incertezza, mentre, nell’insieme di complici e misfatti, rappresenta le creature del Male. Michel continua a borseggiare per aiutare Jeanne e la figlia ma, di fatto, trovandosi in una situazione che non gli permette più di scegliere. Non può diventare onesto, non può fermarsi, in quanto la scelta è coscienza di scelta come inflessibile determinazione spirituale, che si definisce con la potenza che possiede di poter ricominciare ad ogni istante, ricominciarsi verso se stessa, e confer-marsi così per se stessa, rimettendo ogni volta in gioco tutta la posta. Per questo non è un caso che, nel momento in cui questa falsa scelta raggiunge il suo massimo compimento, ovvero l’arresto, avviene la redenzione, che spezza la fissità circolare in cui si ritrova Michel: è la Grazia che si offre nel momento della condanna – a Raskolnikov come a Michel -, l’attesa della rivelazione che avviene improvvisa attraverso un bagliore, una luce sul volto di Jeanne, che è come un’epifania agli occhi del protagonista.
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Analisi
Diventato ladro per un'insana passione, Michel (Lassalle) viene avvicinato da un borsaiolo (pickpocket) professionista che lo coinvolge nelle sue malefatte.
Orgogliosamente convinto che gli esserei superiori - come lui - possano mettersi al di sopra della legge, Michel continua nei suoi furti ma il suo cuore arido comincia ad aprirsi all'amore per Jeanne (Green), una ragazza madre: quando verrà arrestato, penserà di suicidarsi ma la vista di Jeanne riuscirà a spezzare la corazza del suo egoismo e i due si baceranno attraverso le sbarre del parlatorio.
Idea Centrale
Ispirandosi vagamente a "Delitto e castigo" di Dostoevskij, il quinto lungometraggio di Bresson è costruito intorno alla sfida di raccontare il sentimento dell'orgoglio, attraverso una sorta di viaggio nell'anima umana sprovvisto però di qualsiasi alibi psicologico o deriva spettacolare.
Analisi
Facendo leggere alla voce di Michel alcuni passi del suo diario, Bresson facilita l'identificazione tra lo spettatore e il suo protagonista, ma poi allontana ogni possibile "simpatia" filmando il comportamento sdegnoso e freddo di Michel, sempre più schiavo del proprio vizio: ciò che appare sullo schermo sono così solo personaggi che "esistono appena", si muovono come sonnambuli, hanno lo sguardo sfuggente e l'andatura esitante, confusi con uno sfondo talmente banale da apparire opaco". Ma questo processo di astrazione, che sembra cogliere solo frammenti sparsi della realtà permette alla fine di un cammino lungo e sofferto di "far emergere l'anima e mostrare la vera ricchezza umana", quella che, nonostante la mediocrità di Jeanne e il vizio di Michel, li spingerà all'incontro col loro destino, tanto più improvviso quanto più inevitabile: è questa la "più bella storia
d'amore di tutto il cinema di Bresson, dolorosa certo ma anche piena di slanci e desiderio, capace di portarli a superare i propri limiti e ad aprirsi l'un l'altro". Uno stato di grazia, lontano ancora dal cupo pessimismo delle opere degli anni Ottanta, che si vede anche in una delle più belle scene girate dal regista, quella dei furti alla parigina Gare de Lyon, dove l'alternarsi di piani medi e primi piani, i movimenti di macchina (panoramiche e carrelli laterali molto corti) e il ritmo del motaggio trasmettono "l'esaltazione e l'eleganza di un'attività che sembra - paradosso morale - naturale per l'uomo", mentre il rischio di essere scoperti innerva le sequenze del piacere angosciante del pericolo.
Note e curiosità
Qualcuno sostiene che i dialoghi siano stati scritti in gran parte da Jean Cocteau, ma non ci sono prove convincenti. Il futuro regista Pierre Etaix è il secondo complice. (Da "Il Mereghetti - Dizionario dei film" ed. 1998)
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Storie
Le storie, per Bresson, sebbene interconnesse da un filo rosso – “angeli caduti” condannati ad una tensione insanabile tra volontà e destino, annichilimento e ribellione, rassegnazione e speranza – non sono che un espediente drammaturgico: così, anche nel diario di Michel, borseggiatore inesperto ma tenace, disposto a perdere tutto tranne la “professione”: per questa parte, viaggia, ritorna, per questa accetta la reclusione e la condanna, per questa rinuncia alla donna che scoprirà di amare. Inutile dirlo, il senso è fuori, stemperato nella cornice, raggrumato nelle dissolvenze che dividono le sequenze: è il buio, il silenzio, quel “troppo vuoto” insostenibile che ammalia e spaventa. Questa è la genialità bressoniana, il tentativo di far convergere personaggio e sguardo registico sul ritmo stesso della vita, che procede per dilatazioni (inquadrature inquietantemente lunghe), contrazioni (riprese velocissime, successione sincopata di dettagli), illuminazioni. Come spiega Giorgio Tinazzi, “la messa in forma è dunque l’aspetto più rilevante e l’interesse primario di Bresson” (Il cinema di Robert Bresson, Venezia, Marsilio, 1979).
Michel è dunque il vetro opaco nel quale specchiarsi (di qui l’inespressività di La Salle), la metafora corporea che permette di entrare nel movimento imprevedibile dell’esistenza. Quello che rimane sono solo visioni parziali e tronche: ecco allora gli ambienti mai ripresi in totale, le ellissi temporali improvvise, i dettagli strettissimi, i carrelli inattesi; lo stesso stile dunque, sembra descrivere il movimento di una coscienza in balìa di eventi incontrollabili. Così, anche la parola (inadeguata, insufficiente, precaria), preferisce spogliarsi, fino a diventare una lapide marmorea, asettica, priva di contatto autentico: “Jeanne, lei crede che verremo giudicati?”, “Sì, ma non temo per lei. Era perfetta”. In questo quadro persino la morte e la nascita sono fenomeni alla stregua degli altri: Michel si inginocchia ma non piange la morte della madre, e la figlia di Jeanne non è che “caduta” tra le altre “cadute”. In Pickpocket Bresson officia la sua messa con massimo rigore, con uno stile che Paul Schrader definisce “trascendentale”: si tratta di quella cifra limpida e filtrata, di quel linguaggio talmente asciutto e dedrammatizzato da rovesciarsi in una compartecipazione sofferta. Così l’individuo è costretto a sostenere reiteratamente le contraddizioni dell’esistenza che investono il piano personale (il bene e il male come unità ontologicamente inscindibili), morale (il peccato come agìto necessario), religioso (la tensione a un’entità unificante) e istituzionale (la legittimità di giudizio e condanna). È a quel punto che la realtà sembra riproporre la condizione del disordine onirico: “Lei sogna, non è nella vita reale” dice Jeanne. È su questo rovesciamento continuo di segno, che l’autore approda a quel nichilismo raggelante non privo di pietas, destinato ad una depurazione sempre più dura e spietata nelle opere successive. Il treno dell’esistenza (quello che conduce Michel da Parigi a Milano, da Milano a Roma e infine a Londra) percorre binari tanto necessari quanto sconosciuti (egli torna addirittura da dove è partito): sospinto dal vento della predestinazione di stampo calvinista (qui, il furto come vocazione), l’uomo soffre nel tentativo, regolarmente fallito, di autoaffermazione (“Questi muri, queste sbarre, tutto mi è uguale”) che contrasta con il tentativo di “credere” (“tutto – dice Jeanne – ha forse una ragione”). E tuttavia dentro questa circolarità insignificante, s’insinua la speranza di una Grazia, che però – quasi come una beffa – può presentarsi, come sa Dostoevskij, nel momento stesso della condanna. Ma allora qual è la conclusione di questa filosofia del pessimismo bressoniano? L’attesa della rivelazione, quella che il regista segnala con l’insorgenza, anch’essa improvvisa, del momento musicale, l’unico, come diceva Nietzsche, in grado di “ingabbiare” la volontà: in quella estemporanea epifania, miserevolmente, l’esistenza brilla (“C’era qualcosa che illuminava il suo viso”). Jeanne allora è l’essenza a lungo negata, che si
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offre bruciante a un’umanità inquieta e devota. Michel, dietro le sbarre, bacia castamente Jeanne sulla fronte, che, a sua volta, poggia le labbra sulla sua mano. Ma cos’è quel bagliore innaturale che si intravede sul suo viso? quel “lirismo” potente e misterioso? Dio? la Grazia? il Perdono? o forse solo lo squillo che sancisce il passaggio tra la condanna della vita e la condanna della morte? Non lo sappiamo, il finale è aperto, ma – dice Michel estraniato e commosso – “che strana strada ho dovuto percorrere per arrivare fino a te”.
Critica
Il cinema sonoro ha inventato il silenzio [Robert Bresson]
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Critica
“Pickpocket è il primo film di Robert Bresson. Quelli che ha fatto prima non erano che brutte copie.
Come dire, se si sa il valore di questo cineasta, che l'uscita di Pickpocket è una delle quattro o
cinque grandi date della storia del cinema”: così scriveva Louis Malle.
Per altri invece il regista era andato troppo avanti nelle sue ricerche, si era “chiuso a doppia
mandata nel suo genere” come aveva scritto sullo stesso settimanale, appena otto giorni prima, il
critico R. Cortade.
Nell'un caso e nell'altro
risultava comunque
sottolineato soprattutto
l'aspetto formale; nel film
infatti c'è una chiara ripresa di
elementi tematici ormai quasi
tipici, anche se problematizzati
(e ciò va detto nei confronti
delle molte interpretazioni
unidirezionali), ma soprattutto
la ricerca espressiva
predomina, emerge anzi come
l'interesse primario.
Proprio per tornare a
specificare come va intesa tale
problematizzazione si può
cominciare dai significati. La
tensione è ancora il polo propulsore: le sue diramazioni sono suggerite dalla didascalia iniziale,
sorta di emblematico “segno” col quale simmetricamente si chiude il film:
“So che abitualmente quelli che hanno fatto queste cose tacciono o che quelli che ne parlano non le
hanno fatte. Tuttavia io le ho fatte. O Jeanne, per venire fino a te quale strano cammino ho
dovuto compiere”;
l'attuazione della volontà è sottolineata dalla prima inquadratura (le mani che aprono la
borsetta); il desiderio di “affermazione” è espresso dalla prima voce fuori campo: “Non avevo più
i piedi per terra, dominavo il mondo”.
L'insopportabilità dello scacco è nelle parole che Michel pronuncia durante la visita finale di
Jeanne:
“Questi muri, queste sbarre, tutto mi è uguale. È l'idea che non posso sopportare. - Quale idea? -
Mi sono lasciato prendere. Non avrei dovuto fidarmi”.
L'itinerario di Michel si conclude su se stesso, lungo le tappe della volontà di affermazione,
scoprendo le “strane vie” per arrivare all'altro. Volontà che diventa necessità, che si qualifica
come bisogno di “uscita” (“Come ha potuto? gli chiede Jeanne, non c'è nulla di più sporco - Si può
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saperlo e tuttavia farlo - Ma perché? - Per uscire - Ma c'erano mille altri modi ...”), come
ristabilimento di valori (“raddrizzare il mondo”). Il rischio, allora, come privilegio. L'intento di
affermazione è anche teorizzazione dei rapporti tra individuo e apparato sociale, tra codici e
giudizio. Il dialogo col commissario è quasi didascalicamente chiaro:
“Non si può ammettere che delle persone capaci, intelligenti, degli uomini di talento, e anche dei
geni, invece di restare delle persone insignificanti tutta la vita in certi casi si sottraggano alle
leggi? Per la società sarebbe un beneficio. - E chi giudicherebbe questi uomini superiori? - Loro
stessi. - Il mondo, allora, a rovescio. - È già rovescio, lo si raddrizzerebbe”.
Il percorso del protagonista conosce l'imitazione, si intravede il grande tema dell'attrazione del
male, la sua dimensione ambigua:
“mi trovai di fronte a un uomo dal comportamento strano”
afferma Michel, e nella sequenza seguente lo si osserva mentre ne ripete i gesti; poco dopo si siede
al bar vicino al ladro,
“un quarto d'ora più tardi eravamo amici”.
Anche la qualità del percorso è ambivalente; l'aridità di Michel si afferma nel primo dialogo con
Jeanne che gli dà notizie della madre:
“Come sta? - Non bene, si tormenta. Manca di tutto, è di lei che ha bisogno. - Le dia questo
denaro. - Non entra? - Arrivederci ”.
Ma più tardi lo stesso Michel dirà a Jacques di amare la madre più di se stesso.
Del finale si è già discusso (…): è la riacquistata libertà interiore? È la rivelazione della Grazia? È
l'interpretazione più lineare, quasi facile; perché - ripeto - è forse la rivelazione a sé dell'altro, nel
momento in cui l'impossibilità la chiude. Tra progetto e scacco; dietro, ambivalente, il senso di
attesa. Il punto di arrivo può essere allora il rapporto che si crea tra l'afferma-zione (la libertà)
che cerchi e le costrizioni (cioè la negazione) che crei, tra l'afferma-zione e la solitudine, o la fuga
(e su quest'ultimo aspetto taluno ha giustamente insistito); l'estraneità è anche l'effetto della
volontà di uscire, del “sogno”:
“Lei sogna - dice Jeanne (sequenza del Luna-park), - non è nella vita reale. Non si interessa a
niente di quello che interessa gli altri ”.
Di fronte a questo grumo di difficili contraddizioni, l'atteggiamento di Bresson sta tra il distacco e
la partecipazione; lo si coglie persino nei particolari, nella sentenziosità del parlato alternata
all'anonimato e alle tonalità grigie, in quel lasciare andare il personaggio (per esempio, le
inquadrature di spalle) e nel riprenderlo in rilievo (il primo piano), nella fissità della macchina
da presa che fa da contraltare ad arditi movimenti (i carrelli indietro che stupirono Malle).
Ma l'andamento preminente è verso l'asetticità, meglio verso un appiattimento
sdrammatizzante: incontri, successi o fallimenti, nulla li differenzia. L'intreccio delle due
parabole complementari, i destini di Michel e Jeanne, è solo un segno; ed è proprio il segno il
termine di mediazione, di rapporto: i gesti, le mani come rivelazione di “abilità” (la famosa
sequenza-balletto alla Gare de Lyon), l'attimo di ogni rivelazione, come la morte: per tre minuti
ho creduto in Dio, afferma Michel.
Il caso provoca la Grazia, o il riconoscimento di possibilità: lo “strano cammino” o “il vento soffia
dove vuole”. Le intersezioni dei cammini testimoniano il segreto dei fatti, la non decifrabilità: il
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ricambio tra bene e male, il legame tra morte (la madre) e apertura (Jeanne) il quotidiano e le
sue rivelazioni; “ tutto - dice Jeanne - ha forse una ragione ”. (...)
Come si diceva all'inizio, la messa in forma è dunque l'aspetto più rilevante e l'interesse primario
di Bresson. La situazione-schema di base spingeva in questo senso, bisognava registrare il
muoversi in un universo ostile che provocava tensione, che misurava e caricava i gesti
dilatandoli. La suspence è creata e poi allentata (il poliziotto che si vede al commissariato e poi in
stazione ecc.), i contrasti attenuati, i rumori inducono ad acuire le situazioni e poi smorzano; il
tipo di inquadratura distende (la lunga inquadratura all'inizio, a Longchamp - circa 680
fotogrammi - è intervallata a gesti, mentre la voce dell'altoparlante rende l'esterno, il di fuori).
Un film anche di gesti, dunque; la macchina da presa li indaga (tutto il furto che attrae Michel
all'inizio, circa 1.230 fotogrammi), insiste (le prove, in camera; il primo furto di Michel, circa
3370 fotogrammi, il cliente in banca), segue creando iterazioni ossessive (i “ trucchi ” rivelati
dall'amico, sottolineati dalla musica, la prima che si sente), coglie il prolungamento, il peso, le
conseguenze ulteriori; altre volte spezza, cerca ritmi.
Conseguentemente è anche un film di cose, di oggetti. E di ambienti: la stanza (la “prigione”?) è
l'interno opprimente, mai visto in totale; sono brani di muro, colori; sono sfondi, strade, rumori,
personaggi anonimi. Il procedimento di prolungare l'inquadra-tura del personaggio rimanendo
sullo sfondo prima o dopo il suo ingresso in campo trova in Pickpocket uno dei casi di
applicazione più evidenti; la dilatazione produce appiatti-mento, cose fatti persone sullo stesso
piano, l'azione si stempera. Ma vi è anche un effetto sul personaggio, per l'oppressione che si
viene a creare, quasi isolandolo in un ambiente “insignificante” per cogliere i riflessi dei gesti e
dei comportamenti. Alle volte l'ambiente è il “trait d'union” di due sequenze, e il procedimento
citato serve allora di collegamento, provocando un effetto di iterazione e accumulazione.
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Robert Bresson
Bromont-Lamothe,
17 aprile 1907
Droue-sur-Drouette,
18 dicembre 1999
Robert Bresson, nato a Bromont-Lamothe, in
Alvernia, nel 1907 e morto a Parigi nel 1999, ha diretto
tredici film in quarant’anni (più un giovanile
mediometraggio comico del 1934, perduto e ritrovato a
metà anni Ottanta). L’esordio vero è negli anni
Quaranta, nella Francia in guerra; Bresson ha fatto
studi di filosofia, è segnato dai mesi di prigionia in un
campo tedesco e nutre molteplici passioni letterarie.
Ha subito chiaro che il cinema è scrittura: “Scrittura
con immagini in movimento e suoni”, come scolpisce a
lettere maiuscole nelle Notes sur le cinématographe, un
tesoro di aforismi, idee, allusioni che comincia a
comporre nel 1950 (uscirà nel 1975 presso Gallimard).
La conversa di Belfort (1943) è la storia dell’in-
contro e della sfida tra una suora e una peccatrice nel
chiuso di un convento, con dialoghi di Jean
Giraudoux; Perfidia (1944) è un geometrico intrigo
di vendetta femminile destinato allo scacco, ispirato a
Diderot. Pur nella forma depurata, nella concentra-
zione degli spazi, nel vuoto scavato attorno agli oggetti
e al loro significato, questi film sono appunto storia e
intrigo, sono narrazione coesa; sono ancora cinema,
insomma, e a Bresson il cinema non interessa. Il
cinema è quello che fanno gli altri, e “la vera
originalità consiste nel cercare di fare come gli altri,
senza riuscirci mai”. A Bresson non interessa
l’innovazione, gli interessa la rifondazione; non lo stile,
ma il linguaggio. Non vuole fare cinema ma
cinematografo, ovvero cinématographe. Un’ombra di
snobismo, un sospetto di sofisma? La parola in
francese ha un’eco che rimanda inequivocabile alle
origini e a Lumière. “Il cinema attinge a un fondo
comune. Il cinematografo è un viaggio d’esplorazione
su un pianeta sconosciuto”.
Bresson si dispone all’esplorazione, con inesauribile
energia intellettuale e la lucida percezione delle
difficoltà pratiche da affrontare: finanziamenti scarsi,
produttori diffidenti, affezione/disaffezione del
pubblico. (“Il cinematografo, arte militare. Si prepara
un film come una battaglia”). Per cominciare gli è
compagno di strada un controverso e molto amato
scrittore cattolico, Georges Bernanos, dal cui Diario di
un curato di campagna Bresson trae nel 1950 il suo
primo capolavoro, tutto sottrazione e passione (più
‘passione’ di quanta ce ne sarà nel successivo Processo
a Giovanna d’Arco), una giovane tonaca nera nella
Francia profonda, solitudine e dubbio, mani che
scrivono esitanti o febbrili, anima e malattia e sangue
e, da qualche parte, un anelito di trascendenza che il
dolore tormenta ma non spegne. È un anelito, una
possibilità, una scommessa, un “vento che soffia dove
vuole” che Bresson ancora esplora, con il
cinematografo, in Un condannato a morte è fuggito,
1956, il suo film resistenziale; e in Pickpocket, 1959,
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frammenti di vita di uno dei suoi balordi senza causa,
frammenti che trascendono il caso e si compongono in
destino (“Oh Jeanne, quale strano cammino ho dovuto
percorrere per giungere fino a te”: interpella-
zione/snodo di tutto il cinema di Bresson, e anche la
sua più audace concessione al lirismo, contratta però
in qualcosa che sembra nera ironia: sono parole
pronunciate dal parlatorio di un carcere da cui non si
uscirà più).
Il destino, d’ora in poi, si chiuderà in modo sempre più
inappellabile intorno ai personaggi di Bresson. Dopo il
suicidio che conclude Mouchette, si apriranno con un
suicidio Così bella così dolce (1969, esplorazione
retrospettiva d’una dissoluzione coniugale) e Il diavolo,
probabilmente (1977, esplorazione retrospettiva d’una
dissoluzione di famiglia, società e
politica); L’argent, 1983, è come si fermasse
immobile su una soglia, a contemplare il mondo
completamente corroso dal male che ora prende la
forma d’una banconota falsa e della sua distruttiva
circolazione. Sembra l’immagine al nero delle tante
peripezie morali, ilari o ciniche, con cui il cinema ha
inseguito biglietti di banca o di lotterie vincenti (Clair,
Sturges, Scorsese…). Il cinema, appunto.
Il cinématographe, giunto al suo esito più radicale, si
limita a “mettere in ordine” immagini dove la natura
maligna del denaro incrocia la natura maligna del
caso. Fine di ogni storia. Fine della Storia.
Banconote. Mani che scivolano abili nelle tasche dei
borseggiati (Pickpocket). Mani sempre più deboli che
reggono una penna (il Diario). Un cucchiaio, una molla
(Un condannato). Rumori, echi, silenzio (“Il cinema
sonoro ha inventato il silenzio”). Nessun realismo,
naturalismo, scansione narrativa, nessuna rappre-
sentazione. Il cinema/cinematografo persegue un’altra
possibilità. Gli oggetti e il dettaglio sono i suoi
strumenti (“un film di oggetti e un film sull’anima, cioè
cogliere questa attraverso quelli”; e con un tocco di
leggerezza, se così si può dire: “è attraverso gli oggetti,
più che attraverso la recitazione degli attori, che un
mondo è portato a esistere. Bisognerebbe citarli nei
titoli di testa”).
Il cinema di Bresson è in sé un oggetto enigmatico. È
dominato fin dall’inizio da un’urgenza teorica che non
deflette mai, che negli anni si affina, si ostina, si fa
blocco. Richiede una disposizione intellettuale e
antisentimentale (cioè, al cinema: innaturale). Non
permette di accomodarsi nella dolcezza di
un’immagine, mai. Ma allo stesso tempo, in mille
nervature segrete, è anche capace di produrre una
risonanza emotiva che non avevamo previsto, che ci
coglie impreparati, e perciò tanto più profondamente
scava. Concretezza, trascendenza, crudeltà, condizione
umana? “Se solo mia madre mi vedesse”, chiude Un
condannato a morte è fuggito.
Una Note: “Non correre dietro alla poesia. S’infila da
sola nelle giunture”. Le mystère Bresson.
Les affaires publiques (cortometraggio, 1934)
La conversa di Belfort (Les Anges du péché) (1943)
Perfidia (Les dames du Bois de Boulogne) (1945)
Il diario di un curato di campagna (Journal d'un curé de campagne) (1951)
Un condannato a morte è fuggito (Un condamné à mort s'est échappé conosciuto anche come Le vent souffle où il veut) (1956)
Diario di un ladro (Pickpocket) (1959)
Processo a Giovanna d'Arco (Procès de Jeanne d'Arc) (1962)
Au hasard Balthazar (Au hasard Balthazar) (1966)
Mouchette - Tutta la vita in una notte (Mouchette) (1967)
Così bella, così dolce (Une femme douce) (1969)
Quattro notti di un sognatore (Quatre nuits d'un rêveur) (1971)
Lancillotto e Ginevra (Lancelot du Lac) (1974)
Il diavolo probabilmente (Le diable probablement) (1977)
L’Argent (1983)