“G. Leopardi E. Majorana”–€¦ · E mentre ritorno dall'allenamento odierno, nella mia mente...

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  • Si rinnova puntuale anche quest’anno l’iniziativa della nostra scuola, a supporto della generosità dei signori Lutman, che con questo concorso ricordano il figlio Paolo, offrendo una bella opportunità a giovani che amano scrivere di sport. A loro va un abbraccio affettuoso e un ringraziamento di cuore: il Liceo “G. Leopardi – E. Majorana” è riconoscente per la loro amicizia e la loro vicinanza. Anche nella presente edizione del concorso, la partecipazione è stata ampia e studenti di varie parti d’Italia si sono impegnati in un esercizio di scrittura creativa, che ha prodotto risultati interessanti, vagliati come sempre dalla giuria presieduta dal giornalista Gianni Mura. A lui un grazie speciale e caloroso per essersi fatto carico di scegliere i vincitori nella rosa dei racconti finalisti, assegnando a questo concorso il valore aggiunto della sua competenza e del suo stile inconfondibile, nel segno di un rapporto ormai consolidato che ci fa particolarmente onore. Complimenti, infine, alle ragazze e ai ragazzi che si sono cimentati in questa XIV edizione 2019 e, in particolare, ai tre studenti risultati vincitori. Il Dirigente Scolastico Teresa Tassan Viol

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    Noi ci credevamo: Italia-Brasile dell’82 “Noi ci credevamo. A quell’età ci si crede per forza. Con il grande “Dino Dio” in porta (così l’avevamo ribattezzato nei cori che accompagnavano la partita) non potevamo certo uscire. Il Brasile? Buona squadra, ma noi eravamo noi! Rossi era il ragazzo che avremmo voluto essere, Gentile aveva affilato le armi, Oriali correva per mille... Non avremmo mai potuto perdere quella partita. Come tutte le altre, del resto.... Ad Anna piaceva camminare tenendo per mano un amico. Non so sinceramente perché, ma a quel tempo non mi sembrava una cosa strana. Io mi mettevo nel gruppo e sfruttavo la scia degli altri. Quando era sola, piombavo con un argomento qualunque. Con lei era facile parlare di tutto. Si poteva parlare di Dio come di Rummenigge. E non è che ci si confondeva. La gara fu bellissima. Segnò Rossi, pareggiò Socrates, tornammo avanti ancora con Rossi e poi Falcao per il due a due. Un goal che non ci voleva. Un goal evitabile se solo un uomo fosse uscito a difendere, al limite dell’area, in modo decente. Mancavano 22’ tra noi e la fine di un sogno. «Dino Dio!». Anna aveva gli occhi scuri ma chiari. Li aveva castani ma facevano molta luce. Come il sorriso. La carnagione era un po’ olivastra. Era minuta (ma io, a quel tempo, ero appena più alto di lei, piuttosto magra, con seni e fianchi normali), però si vedeva che era già donna. Avevamo la stessa età, ma lei era un po’ più grande.... Non feci nulla, come sempre. Lei a un certo punto mi si avvicinò e mi baciò sulla bocca. Per me, ma anche per lei (ne sono certo), era il primo. Ne seguirono almeno altri dieci sino all’atterraggio. Ce li demmo senza dirci quasi nulla e l’ultimo durò di più. “Dino Dio” parò sulla linea e fu annullato anche un goal buono ad Antognoni. Avevamo vinto. Vinto con i più forti del mondo e ora Polonia e Germania non potevano (e fu così) spaventarci. Eravamo i primi al mondo ma ce ne sentivamo al di sopra. Come su un aereo, in volo di ritorno, eravamo in undici, in cento, in milioni di campioni. “

    Paolo Lutman

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    Fiiii, fiiii, fiiii

    “Tempo che scorre e ansia che sale”

    Fischi, urla, trombette. Tic, tac, tic, tac. Orologio, pioggia, umido, freddo, fango. Fango sulle scarpe, fango su parastinchi e calzettoni, fango sulle braccia, sui capelli e sulla faccia. Mi serve una doccia. Tra poco. Tanto c'è la pioggia. Fiiiii. Ecco, di nuovo. Si riparte. Ce l'hanno sempre loro. Mai una volta che riusciamo a prendergliela! Tic, tac, tic, tac. Per fortuna siamo già nel secondo supplementare. Che fastidio la fascia sul braccio sinistro. È anche piena di fango! Palla che si avvicina, attenzione. È alta, ma non c'è problema, la posso prendere. Si! Rinviata lontano, si! Eppure è sempre bianca, sempre. Ma perchè ci sono cinque arancioni tutti in quella zona? Ehi raga, giriamo la squadra! Ri-organizziamoci, presto! Tic, tac, tic, tac. Okay, la pioggia ha quasi lavato via tutto il fango dai miei capelli. No, non farti saltare così! Dov'è il mio terzino sinistro!? Oh no, l'ha saltato. Bene, uno contro uno, posso farcela. Dietro di me c'è solo il portiere, non lo faccio passare. Cavolo, è veloce. Ora è entrato in area, ma non c'è problema, chiudo lo specchio e non faccio fallo. Sono in ritardo, cavolo! Non può tirare! Tic, tac, tic, tac. Il portiere si prepara ad uscire. Umido, vento, pioggia, fango. Grida di esaltazione dal pubblico. Sempre più'vicino alla maglia bianca. La sua gamba si prepara a scagliare la palla. È il momento. Scivolata? Si, scivolata. Bruciore sulla coscia, contrastato dal freddo e umido sul resto del corpo. Oh, no. Fiiii. Lo sapevo.

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    Fischi, trombette, grida e urla. Maglia bianca a terra. Maglie arancioni che si avvicinano. Anche maglia giallo evidenziatore si avvicina. Indica il dischetto di gesso bianco con la mano. Effettivamente ho preso la palla, ma ho colpito anche lui. Paura. Ansia. Preoccupazione. Sento le viscere che mi salgono al posto del cuore, e il cuore al posto delle corde vocali. Mi rialzo, vedo maglia gialla che si avvicina. So già cosa succederà. Tic, tac, tic, tac. Avvicina la mano al taschino. Non tira fuori niente? Ma cosa succede? Ah. È semplicemente il cartellino giallo, stesso colore della sua maglietta. Poi avvicina di nuovo la mano al taschino. Eh si, stavolta vedo subito bene il colore. Rosso fuoco. Prevedibile. Il giallo preso nel primo tempo mi ha fregato. Mi giro, inizio a slegare la fascia. Il portiere si avvicina. Non riesco a guardarlo in faccia mentre gli passo la fascia. Inizio ad andare verso gli spogliatoi. Tic, tac, tic, tac. Responsabilità e colpa formano un peso nel mio stomaco. Proprio in finale doveva succedere. Solo un giallo in tutta la stagione, arriva la partita più importante, ed ecco, combinato il disastro. Fiiiii. Avrei dovuto essere il trascinatore, invece mi sono ritrovato a commettere l'errore fatale. Tic, tac, tic, tac. Arrivo alla porta degli spogliatoi. Mi fermo sotto la pensilina, mi giro. Ecco, il bianco sta per calciare. Tum. La rete si muove. Maglie bianche che corrono in giro. Maglie arancioni che si disperano. Pioggia che scende. Senso di colpa che sale. Groppo in gola che si fa sempre più denso. Tutt'attorno, la festa. Non riesco a guardare. Un bagliore in lontananza attira il mio sguardo: il luccichio della coppa vicino alle tribune. La stessa coppa che abbiamo desiderato per tutta la stagione. E che oggi ho reso impossibile da conquistare, Tic, tac, tic, tac. Il

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    gioco riprende. Tic, tac, tic, tac. Non riesco nemmeno a guardare. Fulmine in lontananza. Poi il tuono. Pioggia. Sento il fango. Sento la sconfitta, il fallimento, la disperazione. Sento la rabbia, l'odio e l'oblio. Sento il vento. Freddo sulla faccia, taglia come un coltello. Sento la paura. Fiiii, fiiii, fiiii. Maglie bianche che esultano. Ultimo bagliore della coppa sostituito da persone che corrono. Fischi, urla e trombette dal pubblico.

    Enrico Zonta Liceo Scientifico Michelangelo Grigoletti

    Pordenone (Racconto primo classificato)

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    I GUANTONI DI LEA

    “Chi la dura la vince”

    Suona la sveglia. Ancora una volta, come tutte le mattine. Ancora una volta, come tutte le mattine, la spengo e mi rigiro nel mio piumone per potermi godere altri cinque minuti di pace e quiete prima di scendere al piano di sotto e affrontare mia madre. Il rapporto con lei è cambiato da quando ho deciso di iscrivermi alla mia prima lezione di boxe e da quel giorno sono passati ben quattro anni. Lei continua a non accettare che la sua unica figlia, così dolce e carina e sempre vestita di rosa, pratichi uno sport così mascolino e aggressivo. Per lei è inconcepibile. Anche se ho sempre amato le cose da ragazza, in me c'è sempre stato qualcosa che mi rendeva diversa dalle altre. Invece di appendere poster di cantanti famosi super carini, nella mia cameretta ci sono poster di miti e idoli come Irma Testa, Laila Ali, Muhammad Ali e Rocky Marciano. E mentre con calma mi alzo dal letto e ammiro le mie fantastiche medaglie in mostra di fronte al mio letto, la voce di mia mamma rompe il silenzio: "Lea sbrigati o farai tardi a scuola!". "Si, mamma. Arrivo!"

    Un pratico jeans, una maglietta rigorosamente rosa, una felpa col cappuccio, il mio zaino, ma soprattutto il mio borsone. Non mi importa se spesso e volentieri dimentico i libri delle lezioni, per me l'importante è ricordarmi di prendere il mio borsone con i guantoni, le fasce, il paradenti e il mio outfit per salire sul ring. Le mie lezioni di boxe sono tutti i giorni alle 16.00 dopo scuola. "Lea tu sei nata per questo sport", è stata la prima frase che mi

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    ha detto Andrea con sguardo fiero, la prima volta che mi ha visto sferrare un gancio e un jab sul ring. Da quel giorno, entusiasta che il mio allenatore credesse tanto in me, mi sono dedicata a capofitto a migliorare le mie potenzialità. Giorno dopo giorno ho imparato combinazioni, calci e schivate. È molto difficile trovare uno sparring partner che non si scandalizzi di allenarsi con una donna. Spesso il solo fatto che io sia una donna è per i miei avversari una vittoria già garantita, ma esclusivamente nella loro fantasia. Perché una ragazza non può essere forte e coraggiosa come un ragazzo? Mi alleno più duramente di alcuni ragazzi e credo di avere almeno il triplo della loro forza quando colpisco. Il ring è l'unico luogo in cui non mi sento giudicata. Da quando ho iniziato ad allenarmi per i campionati regionali, le mie amiche si sono allontanate da me perché si sentono imbarazzate ad avere un'amica che potrebbe stendere un ragazzo. Ma solo io non ci vedo nulla di male? Perché la pallavolo o il calcio possono essere sport adatti sia ai ragazzi che alle ragazze e il pugilato no? E mentre ritorno dall'allenamento odierno, nella mia mente rimbomba questa domanda con una potenza frastornante e mi lascia sempre più allibita il fatto di non riuscire a trovare una risposta a questa domanda.. "Scusa, colpa mia..." mi sento dire all'improvviso, mentre inconsapevolmente mi massaggio il centro della fronte. "Oh no, scusami tu. Sono sovrappensiero e non mi sono accorta di te". È un ragazzo biondo, alto, con occhi scuri e di bella presenza fisica. Raccoglie in fretta le sue cose e scappa. Non so chi sia, ma ha qualcosa di familiare, riconosco in lui qualche dettaglio, ma non riesco a capire a cosa. Manca solo un mese alle Regionali e mi sembra di vivere male questa situazione, poiché la mia unica ancora e roccia su cui poter contare è il mio allenatore. Le mie amiche sono sparite, ho saputo che si sono iscritte tutte insieme a un corso di moda e che

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    stanno prendendo delle lezioni di danza classica. Mia mamma continua a non approvare lo sport per cui io mi sacrifico e ogni buon momento è l'ideale per ribadirmi che lei non è d'accordo. Per sottolineare ancor di più la sua disapprovazione per il pugilato, la mia cara mammina ha deciso di non pagarmi più le lezioni e per continuare ad allenarmi dovrò trovarmi un lavoro e pagarmele da sola. Ricordo ogni dettaglio di discussione, qualche giorno fa sono tornata dal mio allenamento con un occhio nero, gonfio, e nuance violacee. Cosa sarà mai un occhio nero?! Avevo abbassato la guardia per un attimo... Ma per mia mamma quella è stata la goccia che ha fatto traboccare il vaso. Non è mai venuta a vedermi gareggiare, non mi ha mai chiesto come mi sentissi dopo un allenamento, ma almeno finanziava la mia passione. In seguito a quell'occhio nero, però, lei ha deciso di tirarsi completamente fuori da quella che è ormai una parte della mia vita. Manca una settimana alle Regionali e la pressione inizia a farsi sentire e io non ho nessuno con cui sfogarmi o nessuno su cui contare. Non che il mio allenatore non mi sproni abbastanza, ma avrei la necessità di avere l'appoggio di qualcun altro esterno a quel mondo. Di qualcuno che creda in me a prescindere da ciò che faccio sul ring. È finalmente arrivato il giorno della gara. Mi sveglio presto, ci mettiamo in viaggio e arriviamo al palazzetto. Aspetto che gli altri sfidanti si scontrino ed ecco che sento chiamare il mio nome. Chiedo aiuto al mio allenatore per stringere il caschetto, passo sotto le corde e sono sul ring. Il caschetto mi permette di vedere solo lo sguardo dell'avversario, tutto il resto del viso è coperto. Conosco già quello sguardo, ma non è il momento di rifletterci, devo focalizzarmi sull'obiettivo per cui mi sono tanto impegnata: vincere. L'arbitro fischia e si inizia: l'incontro è diviso

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    in più riprese di tre minuti l'una, con un intervallo di sessanta secondi. Alla fine dopo più e più riprese, riesco a vincere quel girone e con facilità riesco a vincere anche i gironi successivi. "Lea è la vincitrice di questa categoria!". Non posso credere alle parole che l'arbitro ha pronunciato. In questo momento si sono concretizzati tutti i sacrifici che in alcuni momenti sembravano inutili e vani. Nella mia testa c'è una confusione enorme, ancora non realizzo. Il mio allenatore e i miei avversari mi hanno accerchiato per potersi congratulare con me. Tra i tanti sguardi rivedo quello sguardo familiare, il ragazzo del ring. Mi si avvicina, si leva il caschetto e si congratula con me con una stretta di mano. È il ragazzo con cui mi ero scontrata per strada, è un pugile anche lui. Ecco cosa aveva di così famigliare. Oggi, a distanza di un altro anno, mia mamma ha finalmente accettato la mia passione. Ancora non è d'accordo, ma già l'accettazione è un gran bel passo. Delle mie ex amiche continuo a non sapere che fine abbiano fatto ma per fortuna, durante il campionato regionale sono riuscita a conoscere delle ragazze simpaticissime con cui adesso ho instaurato un ottimo rapporto, e Marcus, il ragazzo dallo sguardo familiare, è il mio perfetto sparring partner. Chissà che altro mi riserverà la vita e... soprattutto il pugilato.

    Lucia Palmieri I.I.S.S. "Aldo Moro"

    Trani(Bt) (Racconto secondo classificato)

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    6 Agosto 1383

    Questa Storia è stata liberamente tratta da personaggi storici ed eventi realmente accaduti…….

    Non le era permesso nulla. Doveva diventare quella che loro volevano diventasse. E loro non sapevano quanto le spezzasse l'anima. Ci riuscirono. A dodici anni Elizabeth FitzAlan sposò Sir William Montacute, obbedendo alla volontà dei suoi genitori di mantenere un alto lignaggio, dopo svariate richieste di matrimonio da parte di altrettanti svariati nobili. Era il 1378. Lui aveva ventidue anni, un carattere risoluto, a tratti tendente all'impetuoso. Elizabeth non lo amava. Naturale. Eppure nascose quella forza in lei e quel dolore per dover rinunciare alla propria giovinezza, e lo accettò come marito. Negli anni tra i due nacque una sorta di collaborazione, per vivere il più serenamente possibile. A lei iniziò a piacere quel lato ribelle del marito, a lui intrigava l'aria di mistero della sua giovane e bella moglie. Per questo, segretamente, lui le insegnò come funziona una giostra medievale. Sir William le adorava, e condividere un certo gusto nello sport con la piccola Elizabeth gli fece nascere quella scintilla che non pensava si potesse provare per una donna. Elizabeth se ne accorse, e sebbene non ricambiasse, un dolce affetto si impossessò del suo cuore, e iniziò ad essere felice. Fino al 6 agosto 1383.

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    Windsor, Berkshire. ed Elizabeth si piantò le mani sui fianchi. Sir William sorrise. Adorava far scattare sua moglie. Elizabeth sospirò. Quando le faceva quel sorrisetto sentiva l'affetto sbocciare in lei.

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    I cavalli sfrecciarono nelle due corsie, le lance e i cavalieri protesi avanti, le urla della folla, due secondi all'incontro, uno... II legno cozzò sull'armatura di Sir William, che venne spinto indietro. Perse l'equilibrio e cadde rovinosamente da cavallo, no, la caviglia restò bloccata nella staffa, e venne trascinato dal cavallo per molti, troppi metri. Elizabeth scattò in piedi insieme alle altre donne intorno a lei, i servitori accorsero a fermare il destriero, a soccorrere Sir William, che non si muoveva più. Elizabeth vide Sir Alec lanciare l'elmo e alzare il braccio vittorioso, e voltarsi verso di lei. Una rabbia bollente esplose nel suo petto. Corse alla tenda, dove suo marito era assistito dal medico di corte e il suo servitore, e crollò in ginocchio al suo fianco, prendendogli la mano. singhiozzò. Aprì un filo gli occhi, guardandola, ma non disse nulla. mormorò il medico di corte. alzò di scatto la testa Elizabeth. La guardò solennemente, tristemente. Guardò il medico, senza fiato, senza parole. Non serviva che dicesse altro. Scorse il volto del marito, la fronte madida, un livido che andava formandosi sulla tempia. I suoi occhi ancora lucenti di orgoglio e protezione. Un silenzio che fece dialogare entrambi.

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    Elizabeth si alzò, tirò i lacci dai lunghi capelli, e iniziò a slacciare il prezioso abito. II servitore sgranò gli occhi e Sir William con un gesto fin troppo repentino gli schiaffeggiò debolmente la guancia. mormorò perso il medico,

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    Ebbe quattro figli, il titolo di prima duchessa di Norfolk, ma niente era più come prima. Viene studiata come prima duchessa del ducato più ricco e potente d'Inghilterra, secondo solo alla famiglia reale; come "la donna dai quattro mariti"; come Lady Companion , una delle prime a ricevere tale onorificenza, fondata proprio dal Re Edoardo III. Ma nessuno sa che non fu solo questo. Eccetto voi. Questa storia è stata liberamente tratta da personaggi storici ed eventi realmente accaduti, a dimostrare che lo sport non ha tempo e genere.

    Angela Dal Cin Liceo Linguistico “Da Collo” Conegliano (Racconto terzo classificato)

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