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ANTROPOMETRIA Il peso corporeo (espresso in chilogrammi, kg) e la statura (espressa in metri, m) sono le misure antropometriche più largamente utilizzate per gli studi di tipo epidemiologico sullo stato nutrizionale di una popolazione. Il valore predittivo di tali parametri per definire la composizione corporea rimane tuttavia scarso: considerando il peso corporeo come determinato dalla somma di due compartimenti - massa grassa (FM) e massa libera da grasso (FFM) - la determinazione del solo peso corporeo non risulta informativa dei rapporti relativi fra le stesse. Si rende così necessario il ricorso ad indici che, utilizzando i predetti parametri, possano rappresentare misure di riferimento valide circa l’adiposità degli individui. I parametri di obesità più idonei a tale scopo sono il peso relativo e gli indici peso corporeo/statura. Il peso relativo, ottenuto dal rapporto fra il peso osservato del soggetto ed il peso standard, viene espresso come percentuale, al di sopra o al di sotto dello standard stesso. (ad esempio un eccesso ponderale fra il 20 ed il 40% viene classificato come sovrappeso; fra il 40 e l’80% come obesità manifesta, oltre l’80% come obesità grave). Il peso standard o ideale per un individuo appartenente ad una popolazione è quello derivato dalla media ottenuta da un ampio gruppo di soggetti della stessa statura, sesso ed età, appartenenti alla stessa popolazione. Tuttavia le tabelle di riferimento del peso ideale sono ritenute attualmente poco significative e le maggiori organizzazioni sanitarie riconoscono una maggiore validità agli indici di obesità, combinazioni di peso corporeo e statura non riferiti ad uno standard. Fra essi l’Indice di Quetelet o Indice di Massa Corporea (Body Mass Index, BMI), ottenuto dal rapporto fra il peso corporeo espresso in chilogrammi ed il quadrato della statura espressa in metri (kg/m2) è considerato come il più valido indicatore dell’obesità, in quanto meno correlato con la statura rispetto ad altri (in particolare in corrispondenza dei due estremi della distribuzione: 150 cm e 180 cm). L’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) ha definito come limite fra peso corporeo normale ed obesità il valore di BMI pari a 30 kg/m2. (Vedi tabella 1). Tabella 1 Classificazione dell’obesità e definizione del rischio relativo in base al BMI ed alla circonferenza vita (OMS, 1997) Rischio relativo Definizione BMI (Body Mass Index) Uomini: Donne: Circonferenza vita 102 cm 88 cm Circonferenza vita 102 cm 88 cm Sottopeso <18.5 Normopeso 18.5-24.9 aumentato Preobesità 25.0-29.9 aumentato alto Obesità 30.0-34.9 (grado I) alto molto alto 35.0-39.9 (grado II) molto alto molto alto >40.0 (grado III) enormemente alto enormemente alto Il BMI è correlato con la massa grassa e ne spiega la variabilità solo nella misura del 60-80% e rappresenta pertanto anche un indicatore dell’altro compartimento corporeo, la massa magra. Dal confronto fra i valori di BMI e le percentuali di massa grassa (misurate con metodica densitometrica) è emerso che il BMI risulta significativamente correlato con la quantità di massa grassa per le popolazioni (r=0.49-0.62 per il sesso maschile e r=0.64-0.91 per il sesso femminile) con un errore standard tra il 3% ed il 6% del peso corporeo; il confronto per singolo individuo risulta invece scarsamente predittivo, riuscendo il BMI a spiegare solo poco più del 50% della varianza del contenuto percentuale di massa grassa. Quindi individui con lo stesso BMI possono avere una quantità di grasso corporeo notevolmente diversa (per un intervallo di BMI di 20-25

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ANTROPOMETRIA

Il peso corporeo (espresso in chilogrammi, kg) e la statura (espressa in metri, m) sono le misure

antropometriche più largamente utilizzate per gli studi di tipo epidemiologico sullo stato

nutrizionale di una popolazione. Il valore predittivo di tali parametri per definire la composizione

corporea rimane tuttavia scarso: considerando il peso corporeo come determinato dalla somma di

due compartimenti - massa grassa (FM) e massa libera da grasso (FFM) - la determinazione del solo

peso corporeo non risulta informativa dei rapporti relativi fra le stesse. Si rende così necessario il

ricorso ad indici che, utilizzando i predetti parametri, possano rappresentare misure di riferimento

valide circa l’adiposità degli individui. I parametri di obesità più idonei a tale scopo sono il peso

relativo e gli indici peso corporeo/statura.

Il peso relativo, ottenuto dal rapporto fra il peso osservato del soggetto ed il peso standard, viene

espresso come percentuale, al di sopra o al di sotto dello standard stesso. (ad esempio un eccesso

ponderale fra il 20 ed il 40% viene classificato come sovrappeso; fra il 40 e l’80% come obesità

manifesta, oltre l’80% come obesità grave). Il peso standard o ideale per un individuo appartenente

ad una popolazione è quello derivato dalla media ottenuta da un ampio gruppo di soggetti della

stessa statura, sesso ed età, appartenenti alla stessa popolazione.

Tuttavia le tabelle di riferimento del peso ideale sono ritenute attualmente poco significative e le

maggiori organizzazioni sanitarie riconoscono una maggiore validità agli indici di obesità,

combinazioni di peso corporeo e statura non riferiti ad uno standard.

Fra essi l’Indice di Quetelet o Indice di Massa Corporea (Body Mass Index, BMI), ottenuto dal

rapporto fra il peso corporeo espresso in chilogrammi ed il quadrato della statura espressa in metri

(kg/m2) è considerato come il più valido indicatore dell’obesità, in quanto meno correlato con la

statura rispetto ad altri (in particolare in corrispondenza dei due estremi della distribuzione: 150 cm

e 180 cm). L’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) ha definito come limite fra peso

corporeo normale ed obesità il valore di BMI pari a 30 kg/m2. (Vedi tabella 1).

Tabella 1 Classificazione dell’obesità e definizione del rischio relativo in base al BMI ed alla

circonferenza vita (OMS, 1997)

Rischio relativo

Definizione BMI

(Body Mass Index)

Uomini:

Donne:

Circonferenza vita

102 cm

88 cm

Circonferenza vita

102 cm

88 cm

Sottopeso <18.5

Normopeso 18.5-24.9 aumentato

Preobesità 25.0-29.9 aumentato alto

Obesità 30.0-34.9 (grado I) alto molto alto

35.0-39.9 (grado II) molto alto molto alto

>40.0 (grado

III)

enormemente alto enormemente alto

Il BMI è correlato con la massa grassa e ne spiega la variabilità solo nella misura del 60-80% e

rappresenta pertanto anche un indicatore dell’altro compartimento corporeo, la massa magra. Dal

confronto fra i valori di BMI e le percentuali di massa grassa (misurate con metodica

densitometrica) è emerso che il BMI risulta significativamente correlato con la quantità di massa

grassa per le popolazioni (r=0.49-0.62 per il sesso maschile e r=0.64-0.91 per il sesso femminile)

con un errore standard tra il 3% ed il 6% del peso corporeo; il confronto per singolo individuo

risulta invece scarsamente predittivo, riuscendo il BMI a spiegare solo poco più del 50% della

varianza del contenuto percentuale di massa grassa. Quindi individui con lo stesso BMI possono

avere una quantità di grasso corporeo notevolmente diversa (per un intervallo di BMI di 20-25

kg/m2, il contenuto di grasso del corpo varia dal 15% al 25%). La scarsa predittività sulla massa

grassa trova riscontro statistico nell’ampiezza degli intervalli di confidenza della regressione del

BMI sulla percentuale di massa grassa (per un valore di BMI pari a 25 kg/m2 l’intervallo andrebbe

dal 14% al 30%). La predizione risulta inoltre influenzata da errori sistematici tendendo a

sovrastimare il contenuto di grasso nei giovani ed a sottostimarlo negli anziani, senza considerare la

non applicabilità della formula in alcuni gruppi di soggetti per i quali la quota relativa di massa

grassa risulta sovrastimata (donne in gravidanza e atleti) o sottostimata (soggetti disidratati) e la non

affidabilità di applicazione nelle popolazioni pediatriche (a causa dell’assenza di parametri di

riferimento e della limitata possibilità di confronto tra popolazioni etnicamente diverse). Per tali

motivi viene impiegato principalmente negli studi di popolazione e come indagine di screening per

la valutazione dell’obesità.

Nella tabella di seguito, riportiamo i vantaggi e gli svantaggi della metodica.

Tabella 2 Vantaggi e svantaggi dell’uso dell’indice peso/statura:

Vantaggi Svantaggi

Semplicità di raccolta dei dati Possibilità di misclassificazione

in particolari tipologie di soggetti

Misura con errore analitico trascurabile Possibilità di misclassificazione

in particolari condizioni fisiologiche

Possibilità di utilizzare dati self-reported Mancanza di dati ritenuti affidabili

su popolazioni pediatriche

Costo trascurabile Variazione dei parametri

in età geriatrica

Semplice confrontabilità dei dati

in studi policentrici

Limitata precisione nella stima

del grasso corporeo in soggetti atipici

CIRCONFERENZE

Le circonferenze esprimono le dimensioni trasversali dei vari segmenti corporei.

Sia che esse siano utilizzate da sole o congiuntamente a circonferenze misurate allo stesso livello,

sono indici di crescita, dello stato nutrizionale e della distribuzione della massa grassa. I punti di

rilevamento utilizzati per queste misure sono quelli raccomandati dall’Ufficio Europeo dell’OMS :

circonferenza alla vita: punto intermedio tra margine costale inferiore e la spina iliaca anteriore-

superiore;

circonferenza ai fianchi: valore massimo in corrispondenza dei gran trocanteri.

Metodo di misura: il soggetti deve stare in piedi con il peso del corpo equamente distribuito sulle

due gambe e respirare normalmente. La misura va rilevata alla fine dell’espirazione e il nastro

metrico mantenuto sempre in posizione orizzontale.

Il metro dovrebbe essere flessibile e anelastico, con un regolo largo circa 0.7 cm impresso su di un

lato.

Circonferenza del polso: la circonferenza del polso serve per valutare la taglia corporea ed è anche

utilizzato come indice di massa scheletrica.

Metodo di misura: il soggetto è in piedi, l’avambraccio è flesso sul gomito a 90° e il palmo della

mano rivolto verso il basso. Il nastro metrico è posizionato a livello dei processi stiloidi dell’ulna e

del radio.

SIGNIFICATO DEL RAPPORTO VITA / FIANCHI

La distribuzione adiposa può essere identificata con il Rapporto tra Circonferenza della Vita e la

Circonferenza dei Fianchi (Waist/Hip Ratio,WHR) e il suo valore è correlato con un aumento del

rischio di malattie cardiovascolari, diabete mellito, ipertensione.

A seconda del valore del WHR si possono distinguere tre tipi di obesità: Androide, Ginoide e

Intermedia.

La prima è caratterizzata da un accumulo di grasso nella parte centrale del corpo. E’di tipo

ipertrofico (adipociti di grandi dimensioni) e si accompagna ad alterazioni del metabolismo lipidico

e glucidico con maggior rischio di malattie cardiovascolari.

La seconda è caratterizzata da accumulo di grasso in sede glutea e femorale. E’ di tipo iperplastico

(adipociti di dimensioni normali ma aumentati numericamente).

Recentemente anche in età pediatrica tale valutazione si sta diffondendo per un più preciso

inquadramento delle eventuali complicazioni metaboliche. I valori soglia associati ad un maggior

rischio clinico, traslati dagli studi effettuati sugli adulti, sono una WHR>1 per i maschi e WHR>0,9

per le femmine (Linea Guida Clinica per l’identificazione, la gestione e la prevenzione del

sovrappeso e dell’obesità essenziale nel bambino, 2005).

Androide: WHR > 0.85

Obesità centripeta, prevalentemente a carico del tronco, con gambe sottili.

Distribuzione del grasso al viso, collo, spalle ed addome al di sopra dell’ombelico.

Aumentata incidenza di:

diabete

iperlipoproteinemia glucido-sensibile ed ipercolesterolemia

iperuricemia

ipertensione ed aterosclerosi

Ginoide: WHR < 0.78

Secondo le linee guida europee la

circonferenza vita non dovrebbe

superare i 102 cm negli uomini e

gli 88 cm nelle donne. Il rapporto

vita/fianchi dovrebbe essere

inferiore a 0,95 per gli uomini e

0,8 nelle donne.

Distribuzione del grasso tipicamente femminile, su anche, natiche, cosce ed addome sotto

l’ombelico.

Aspetto “a pera”, con accumulo del grasso sottocutaneo al di sotto dell’ombelico e agli arti inferiori.

Si associano:

minore incidenza di malattie metaboliche, diabete, ipertensione

maggiore incidenza di insufficienza venosa, artrosi del ginocchio

cellulite

Intermedia: 0.78 < WHR < 0.84

L’aspetto è molto più vicino alla forma androide, tuttavia la distribuzione del grasso non è ben

definita come nei casi precedenti.

Si associa spesso a malattie vascolari, come succede per le forme androide.

Per maggiore precisione, il rapporto vita/fianchi (WHR) assume dei range differenti a seconda che

si applichi agli uomini o alle donne.

Donne

WHR> 0.85 obesità androide

WHR< 0.78 obesità ginoide

0.79 WHR 0.84 obesità intermedia

Uomini

WHR> 1.0 obesità androide

WHR< 0.94 obesità ginoide

WHR 0.99 obesità intermedia

PLICOMETRIA

Nell’uomo il tessuto adiposo sottocutaneo rappresenta circa la metà di tutto il tessuto adiposo

corporeo variando a seconda dell’età e del sesso. La misura di alcune pliche cutanee permette di

caratterizzare la distribuzione del tessuto adiposo in siti particolari e dare indicazioni sullo stato

nutrizionale e energetico. Lo strumento utilizzato in questo caso è il calibro per la plica cutanea, o

plico metro (fig 2), costituito da una molla calibrata la cui compressione o estensione determina lo

spostamento su una scala lineare circolare. La misura si legge in millimetri.

a. Obesità androide

b. Obesità ginoide

Metodo di misura: la plica cutanea deve essere presa tra pollice e indice

escludendo il muscolo sottostante, 1 cm al di sopra della sede stabilita e

le branche del calibro applicate parallelamente ad essa. La misura deve

essere letta due secondi dopo aver applicato la pressione. La misura va

ripetuta due o tre volte per valutare l’errore sperimentale e come valore

finale si assumerà la media delle tre rilevazioni. Se la differenza tra

queste è superiore ad 1mm si dovrà ripetere il rilevamento. E’importante che la misurazione sia

fatta sempre dal medesimo operatore per eliminare l’errore inter-operatore.

Figura 3: Siti di misurazione delle pliche corporee

La metodica assume che la compressibilità delle pliche sia costante; tale fattore in realtà varia con

lo stato di idratazione, con l’età del soggetto e con lo spessore della plica (soggetti molto magri o

grandi obesi, e soggetti anziani sono generalmente valutati con maggiore incidenza di errore).

Le misurazioni vengono introdotte in formule utili alla determinazione della densità corporea totale

e quindi della quantità di grasso sia distrettuale che totale. La relazione tra lo spessore delle pliche

cutanee e le percentuali di massa grassa viene sviluppata attraverso specifiche equazioni di

regressione.

La distribuzione del grasso sottocutaneo viene correlata alla distribuzione del grasso viscerale; in

realtà non risulta una simile correlazione lineare e il limite principale della plicometria è

rappresentato proprio dall’assunzione che la quantità del grasso sottocutaneo rispecchi quella del

grasso viscerale, oltre che dalla difficoltà di effettuare le misure con errori che rientrino all’interno

dell’errore standard del 5%.

La metodica richiede un “training” di standardizzazione delle misurazioni affinché l’errore delle

misure (sia intra-operatore che inter-operatori)1 resti entro i limiti dell’errore standard; l’errore nella

misura della massa grassa corporea rispetto alla metodica densimetrica è stato valutato intorno al 3-

5% in funzione dell’età, del sesso e del livello di obesità.

Fig. 2.2 Plicometro

costituito da una molla calibrata la

cui compressione o estensione

determina lo spostamento su una

scala lineare circolare. La misura si

legge in millimetri

Il metodo plicometrico è un metodo indiretto: le misurazioni vengono elaborate in formule per la

determinazione della densità corporea; in particolare la stima della percentuale del grasso corporeo

viene derivata dall’equazione di regressione del logaritmo della somma delle quattro pliche

(bicipitale, tricipitale

FORMULE PREDITTIVE PER LA COMPOSIZIONE CORPOREA

Dalla misura delle pliche si può predire la densità corporea e da questa la percentuale di massa

grassa. Vari autori nel corso della storia si sono posti il problema di come stimare la composizione

del corpo in vivo, arrivando a definire modelli nel tempo più sofisticati a cui ricondurre i soggetti.

Gli strumenti a disposizione del ricercatore che affronta questo tema, sono rappresentati dalla

psicometria, dalle circonferenze e dai diametri sopra esposti, nonché dall’analisi impedenziometrica

e dexa di più recente introduzione. Della BIA (bioimpedenziometria) parleremo più avanti.

La formula di Durnin e Womersly (1974) permette di calcolare la densità corporea:

D = c - m x log(somma 4 pliche)

dove D è la densità, c ed m sono due costanti determinate in base all’età ed al sesso, le 4 pliche

sono: bicipitale, tricipitale, sottoscapolare e soprailiaca.

Conoscendo la densità si ricava la percentuale di massa grassa dalla formula di Siri(1956):

% di grasso = (4,950/densità)-4,5*100

Altre equazioni sono:

Equazione di Katch e Mc Ardle (1973)

Donne 17-26 anni

BD = 1,08347 + 0,0006 (A) - 0,00151(B) + 0,00097 (C)

Maschi 17-26 anni

BD = 1,09665 – 0,00103 (A) - 0,00056 (B) – 0,00054 (D)

Dove: A = spessore plica al tricipite, B = spessore plica sottoscapolare, C = spessore plica

addominale, D = spessore plica coscia.

Queste equazioni sono state elaborate studiando un campione di studenti americani fisicamente

attivi composto da 53 maschi e 69 femmine. L’età media era di 19,3 ± 1,5 anni.

La metodica di riferimento è la pesata idrostatica.

Equazioni di Jackson e Pollock(1978)

Hanno sviluppato due diverse equazioni: a tre e a sette pliche.

BD = 1,112-0,00043499 (X1) + 0,00000055 (X1)²-0,00028826 (X4)

Dove:

X1: somma delle 7 pliche: pettorale, ascellare media, tricipitale, sottoscapolare, sovrailiaca, addominale,

coscia anteriore,

X4: età,

BD = 1,10938 – 0,0008267 (X2) + 0,0000016 (X2)² - 0,0002574(X4)

X2= somma delle 3 pliche pettorale, addominale, anteriore della coscia.

BD = 1,1125025 –0,0013125 (X3) + 0,0000055 (X3)²- 0,000244 (X4)

X3= somma delle 3 pliche pettorale, tricipitale, sottoscapolare.

L'equazione di Jackson e Pollock a tre pliche è usata per valutare la composizione corporea degli

atleti, quella a sette pliche per valutare la composizione corporea nella popolazione generale.

Queste equazioni sono state elaborate esaminando un campione di 308 maschi di età compresa tra

18 e 61 anni. La metodica di riferimento è la pesate idrostatica e la % FM è stata calcolata con

l’equazione di Siri.

METODICA BIA (IMPEDENZA BIOELETTRICA)

La capacità del corpo umano di condurre corrente elettrica è nota da più di cento anni. Nel 1800

Alessandro Volta dimostrava che l’interfaccia elettrodo–elettrolita costituiva la sorgente di un

potenziale elettrico. Ohm nel 1826 sceglieva una coppia bismuto termofila come sorgente del

potenziale elettrico; ciò avrebbe condotto alla formulazione della legge che porta il suo nome.

Successivamente è stato ipotizzato che l’interfaccia elettrodo–elettrolita possedesse proprietà di

capacitanza. La prima misura della capacitanza dell’interfaccia veniva effettuata nel 1871 da

Varley. Il primo modello di soluzione elettrolitica con misura della capacitanza viene attribuito ad

Helmholtz nel 1879.

I tessuti acquosi del corpo possono essere considerati come soluzioni elettrolitiche in quanto

l’acqua corporea contiene molti soluti. Grazie a questa proprietà è possibile usare la metodica BIA

per valutare quei distretti corporei che sfruttano le caratteristiche elettriche delle soluzioni

elettrolitiche al passaggio di una corrente alternata.

Il tessuto biologico è considerato costituito da due compartimenti fluidi, extracellulare (ECW) ed

intracellulare (ICW), con comportamento elettrico differente: il compartimento ECW simula la

resistenza mentre quello ICW fa da condensatore.

Somministrata a basse frequenze (fino a 5 kHz) la corrente attraversa prevalentemente il tratto

ECW mentre a frequenze maggiori supera le membrane cellulari e il tratto ICW permette un

passaggio migliore determinando uno sfasamento del flusso di corrente in uscita. Tale effetto

prende il nome di reattanza capacitiva(Xc). L’impedenza (Z) esprime l’impedimento totale al

passaggio di corrente essendo la somma degli effetti del tratto resistivo (R) e capacitivo (Xc) ed è

inversamente proporzionale al contenuto di acqua ed elettroliti del corpo.

La definizione di resistenza (R) è: R=ρL/S dove L è la lunghezza del conduttore e S la sezione.

Considerando il corpo umano come un cilindro la formula diventerà: R=H/S (dove R è la

resistenza, H è la statura del soggetto sottoposto alla misura, ed S è la sezione traversa, che per

convenzione si assume costante). Da qui: V=H2/R (equazione che relaziona il volume del cilindro

con il valore della resistenza). Tale equazione risulta alla base delle formule per la determinazione

della TBW o della FFM. In particolare, la seguente equazione

TBW = a(H2/R)+b

(equazione di tipo lineare, dove i coefficienti a e b sono calcolati su popolazioni specifiche) pone in

relazione il volume di acqua totale corporea (TBW) e l’indice BIA (H2/R).

Attraverso questa metodica si determinano quindi :acqua totale corporea (TBW), fluidi

extracellulari (ECW) e intracellulari (ICW), massa magra (FFM) e massa grassa(FM), massa

cellulare metabolicamente attiva (BCM).

Esistono diversi tipi di apparecchi impedenziometrici; alcuni vengono definiti monofrequenziali, dal

momento che erogano corrente alternata alla frequenza costante di 50 kHz.

Attualmente vengono utilizzati anche impedenziometri che lavorano a più frequenze, detti

multifrequenziali. Infatti, mentre a bassa frequenza il contributo resistivo è massimalmente dovuto

al comparto extra-cellulare, ad alta frequenza anche il tratto capacitivo fa sentire la sua influenza,

man mano che i vari condensatori si “attivano”, sfasando più o meno la corrente in uscita.

In tal modo, da una serie di misure di resistenza (A), reattanza (Xc), angolo di fase (f) e impedenza

(Z), ottenute a varie frequenze di corrente erogata, è possibile determinare la cosiddetta frequenza

caratteristica (Fc).

Tale parametro, introdotto in formule più complesse di quella fondamentale, permette la

determinazione di valori più accurati di TBW, ICW, ECW, e quindi di FFM.

Metodo di misura: il soggetto deve essere disteso con le gambe leggermente divaricate e le braccia

abdotte in modo che non tocchino il corpo, non deve indossare nessun oggetto metallico. Elettrodi

sensori vengono applicati sulla superficie superiore della mano (tra le prominenze del radio e

dell’ulna e tra il terzo e il quarto metacarpo) e del piede (tra il malleolo mediale e laterale e tra il

secondo e terzo metatarso) ad almeno 5 cm di distanza.

I risultati della BIA possono essere alterati da numerosi fattori quali la temperatura cutanea, la

dinamica respiratoria, l’assunzione di cibo o bevande, l’esercizio fisico e il ciclo mestruale.

Posizione del soggetto nella BIA

Posizione degli elettrodi

Impedenziometro

monofrequenziale

BIA 101, Akern®.

Temperatura cutanea: il microcircolo cutaneo è in grado di dilatarsi in risposta ad un aumento

della temperatura della cute. Al contrario, la diminuzione della temperatura cutanea produce

vasocostrizione, con diminuzione del flusso ematico.

Questo spiega perché valori più alti di impedenza possano essere registrati in seguito a

raffreddamento della cute (Caton et al., 1988; Garby et al., 1990) In presenza di febbre, la BIA è

inattendibile. Essa registrerà infatti valori d’impedenza molto bassi.

Dinamica respiratoria: è opportuno verificare che la frequenza e escursione respiratoria siano

quelle “fisiologiche” per il soggetto. Modificazioni dell’escursione della gabbia toracica possono

comportare infatti una modificazione del volume conduttivo, e conseguentemente, dell’impedenza.

Esercizio fisico: l’esercizio fisico moderato non è in grado di influenzare la BIA. Al contrario,

quando intenso e prolungato, esso produce valori artificiosamente bassi d’impedenza.

L’aumento della temperatura cutanea e, possibilmente, una perdita di acqua prevalente su una di

elettroliti, possono spiegare questo fenomeno.

Cibo e bevande: Kushner (1992) consiglia che il soggetto sia a digiuno da liquidi e solidi da

almeno 2-5 ore.

Il contenuto del canale alimentare può infatti interferire con la misurazione dell’impedenza. Inoltre,

nella fase post-assorbitiva, il passaggio di liquidi nel torrente circolatorio può produrre valori

alterati di impedenza.

Tuttavia, Fogelholm et al. (1993) hanno osservato che l’errore prodotto dalla misura dell’impedenza

a 2-5 ore da un pasto può essere accettabile a livello di gruppo ma non del singolo individuo.

Pertanto, essi propongono una notte di digiuno (8 h) quale procedura standard per la BIA.

Ciclo mestruale: il ciclo mestruale comporta variazioni “fisiologiche” dell’impedenza bioelettrica.

Esse sono state poste in relazione a:

1. modificazioni della compartimentazione di TBW, come ad esempio, la possibile espansione

premestruale di ECW,

2. modificazioni della temperatura corporea, per l’effetto termogenico del progesterone e,

3. modificazioni del comportamento alimentare, particolarmente in fase premestruale.

Gleichauf & Roe (1989) hanno osservato che la variabilità nella misura dell’impedenza nel corso di

un ciclo mestruale è da imputare più alla variazione fisiologica che non all’errore di misurazione.

Esse consigliano di standardizzare la misurazione relativamente al periodo del ciclo mestruale e di

effettuare, ove possibile, misurazioni multiple.

L’impiego di contraccettivi orali non è apparentemente associato ad alterazioni dell’impedenza

(Chumlea et al. 1987).

DENSITOMETRIA A DUE LIVELLI ENERGETICI

(Dual energy X-Ray Absorptiometry, DXA)

La DXA misura la densità ossea, il suo contenuto minerale, la massa grassa e la massa magra

corporea. L’attenuazione che un tessuto biologico oppone ad un fascio incidente di radiazioni è

funzione dello spessore, della densità e della composizione chimica del tessuto stesso. La metodica

DXA per lo studio della massa grassa ed in generale dei tessuti molli si basa sul principio che tali

tessuti determinano un’attenuazione costante all’emissione di due definite radiazioni energetiche di

40 kV e 70 kV (raggi X). Il fenomeno dell’attenuazione si basa sull’effetto fotoelettrico e

sull’effetto Compton. Nella realtà il fenomeno dell’attenuazione non è lineare, tuttavia assumendo

che sia costante si ha:

per un tessuto costituito da sola massa grassa: Rf = 121

e per un tessuto costituito dalla sola massa magra: Rl = 1.399

mentre l’attenuazione per il tessuto osseo risulterebbe molto più alta.

Poiché nell’organismo umano ogni tessuto risulta costituito da più componenti in proporzioni

diverse, l’attenuazione energetica risultante presenta un valore medio.

Si può scrivere la seguente espressione:

Rf)- (Rl

Rf) -(RflRfl

Dove Rfl indica l’attenuazione misurata, Rf la costante riferita al solo tessuto grasso, ed Rl la

costante riferita al solo tessuto magro.

Nella misura totale corporea, il 40-45% dei pixel (punti luminosi di cui è costituita l’immagine

radiologica sul monitor, il cui tono nella scala dei grigi è in relazione alla densità del volume del

tessuto analizzato) sono classificati come contenenti massa minerale ossea; il restante è

rappresentato dai tessuti molli. Il sistema DXA consta di un piano di rilevazione in cui sono inseriti

i sensori per il rilevamento dell’attenuazione. A tale piano viene applicato un carrello mobile che

scorre longitudinalmente e che trasporta l’emettitore di energia che a sua volta può scorrere su

binari in modo trasversale mediante un motore di precisione. Per mezzo di un computer dedicato si

determina il moto longitudinale e trasversale dell’emettitore, l’acquisizione dei dati di attenuazione

rilevati e la successiva elaborazione dei dati per la stampa o la visione dei risultati della

composizione corporea.

Figura 3: Apparecchiatura DXA

I valori misurati con la metodica DXA per la massa ossea, la massa libera dal grasso e la massa

grassa sono stati comparati con misure effettuate con altre tecniche e in particolare il confronto con

misure derivate dall’analisi dell’attivazione neutronica (NAA) ha dato una buona correlazione per il

calcio totale corporeo (2-3% di variabilità).

L’errore di tale metodica è stato valutato intorno al 3-4% per il grasso corporeo e dipende

prevalentemente da stati di alterata idratazione e dallo spessore antero-posteriore corporeo (che, se

maggiore di 20 cm, comporta un errore superiore a quello definito). La riproducibilità della misura

dipende invece dalla risoluzione adottata (numero di punti scansionati per cm2 di area corporea);

tale riproducibilità risulterebbe ottimale per le misurazioni che consentono l’analisi di 5-10 punti

per cm2.

La tecnica DXA risulta un metodo preciso ed accurato per la misura della massa grassa corporea

totale e distrettuale. La misura del grasso corporeo risulta più accurata e precisa in soggetti adulti

con peso corporeo inferiore a 100 kg. La misura del grasso corporeo a livello intraaddominale è

stata misurata con misura tomografica e confrontata con le determinazioni ottenute mediante

antropometria (plicometria) e DXA; le misure del grasso addominale ottenute con metodica DXA

risultavano valide (r = 0,9, s.e.e. = 7%) ed il valore predittivo veniva migliorato dalla combinazione

con le misure antropometriche.

In definitiva, la bassa invasività (circa 0,6 mSv) rispetto alle metodica tomografica e la possibilità di

ottenere misure segmentali corporee (tessuto adiposo intraddominale) ne consigliano l’utilizzo per

effettuare una corretta valutazione della composizione corporea.

Esempio di output DXA

TEST ELISA PER LA DETERMINAZIONE DELLA CAPACITA’ ANTIOSSIDANTE

PLASMATICA

E’ un saggio il cui scopo è quello di accertare la presenza di un antigene (ELISA diretto o a

"sandwich") o di un anticorpo specifico contro un antigene (ELISA indiretto). E' un metodo molto

comune e relativamente affidabile in quanto, se correttamente operato, fornisce una garanzia di

successo variabile dal 90% al 95%. L'enorme disponibilità di anticorpi monoclonali, inoltre, rende

l'esecuzione del test ELISA molto veloce. Il rilevamento del complesso antigene-anticorpo

mediante enzyme-linked immunoassay (ELISA) risulta essere un metodo usato sia in diagnostica

sia per studiare interazioni antigene-anticorpo.

La tecnica si avvale della seguente procedura di esecuzione:

I. Assorbimento dell'antigene sul fondo di una vaschetta di reazione (provetta, piastra petri,

pozzetto di una piastra per ELISA): verso la soluzione contenete l'antigene nella vaschetta di

reazione in condizioni in cui l'antigene si adsorbirà ; rimozione dell'antigene in eccesso;

saturazione dei siti liberi sulla superficie (in genere di materiale plastico) della vaschetta di

reazione con proteina non reattiva (albumina di siero bovino o latte scremato) per impedire

l'adsorbimento dell'anticorpo alla superficie della vaschetta.

II. Un'aliquota di una soluzione contenente l'anticorpo viene aggiunta alla vaschetta di

reazione. Dopo incubazione per permettere la formazione dell'eventuale complesso

antigene-anticorpo (giallo), la soluzione che contiene l'anticorpo libero viene rimossa.

III. Incubazione con anticorpo secondario per la rivelazione del complesso antigene-anticorpo

primario: trasferimento nella vaschetta di reazione di una soluzione contenente un anticorpo

specifico per il frammento costante dell'anticorpo primario. Allontanamento dell'anticorpo

secondario in eccesso. L'anticorpo secondario formerà un complesso con l'anticorpo

primario a sua volta associato all'antigene (specifico). L'anticorpo secondario è modificato e

porta legato un enzima (tipicamente perossidasi o fosfatasi alcalina).

IV. Rilevazione del complesso antigene-anticorpo: aggiunta del substrato dell'enzima coniugato

all'anticorpo secondario; si sceglie un substrato sintetico tale per cui il prodotto della

reazione con l'enzima coniugato all'anticorpo secondario è colorato (tipicamente: giallo per

la fosfatasi alcalina o rosso per la perossidasi): la presenza del complesso antigene-anticorpo

primario viene rilevata attraverso lo sviluppo del colore. L'intensità del colore dipenderà (a

parità di tempo di incubazione) dal numero di complessi presenti.

V. RISULTATI di un test ELISA: l'assenza del colore giallo indica l'assenza del complesso

antigene-anticorpo primario nel campione analizzato; l'intensità del colore giallo nei diversi

pozzetti della piastra ELISA è proporzionale al numero di complessi antigene-anticorpo

(primario) formati e quindi alla concentrazione dell'antigene(in grado di legare l'anticorpo

primario) nel campione analizzato.

Sono possibili schemi sperimentali diversi in cui in ogni reazione parallela si immobilizza lo stesso

campione di antigene e si utilizzano campioni di anticorpi (primari) diversi.

In questo caso lo sviluppo del colore e la sua intensità saranno misure della presenza di anticorpi

primari in grado di riconoscere l'antigene e della loro concentrazione (o affinità per l'antigene).

ANALISI POLIMORFISMI GENETICI

Si parla di polimorfismo genetico quando una variazione genetica ha una prevalenza maggiore

dell'1% nella popolazione. La variazione genetica può essere determinata da sostituzioni, delezioni

o inserzioni di basi nel DNA e può riguardare regioni codificanti e regioni non codificanti.

I Loci polimorfici sono quelli per i quali almeno il 2% della popolazione risulta eterozigote. Le

conseguenze di questi polimorfismi possono essere silenti con una variazione proteica con la stessa

funzione, oppure una variazione nella sequenza aminoacidica che non altera la struttura della

proteina e infine non silenti quando si avrà un cambiamento del fenotipo, ad esempio si avranno

proteine modificate la cui funzione risulterà alterata.

Il polimorfismo genetico è attivamente e costantemente mantenuto nelle popolazioni per selezione

naturale, a differenza dei polimorfismi transitori in cui una forma viene progressivamente sostituito

da un'altra.

Il processo di determinazione dei polimorfismi genetici di un individuo è noto come

genotipizzazione. Uno dei primi metodi utilizzati per la genotipizzazione riguardava non i geni ma

le proteine polimorfiche conosciute come isoenzimi, o isozimi. Gli isoenzimi sono forme diverse di

una proteina, che hanno una composizione di aminoacidi leggermente differente. Dal momento che

la composizione aminoacidica di una proteina è geneticamente programmata dalla sequenza di

DNA che la codifica, l'analisi degli isoenzimi rileva un polimorfismo genetico. Poiché queste

differenze nella composizione in aminoacidi possono originare proteine che hanno diverse cariche

elettriche, i polimorfismi isoenzimi vengono identificati con l'estrazione di proteine da un

organismo e separati con elettroforesi su gel, una tecnica utilizzata anche per studiare i polimorfismi

del DNA.

Un metodo di rilevazione precoce dei polimorfismi del DNA ancora in uso utilizza enzimi di

restrizione. Questi enzimi batterici tagliano il DNA in sequenze specifiche di riconoscimento. Gli

enzimi di restrizione spaccano il DNA in una serie di frammenti che possono essere separati

mediante elettroforesi su gel. Alcuni polimorfismi alterano le sequenze di riconoscimento, in modo

che l'enzima non riconosce più un sito o riconosce un nuovo sito. Questo si traduce in una nuova

serie di frammenti di DNA che possono essere paragonati ad altri per rilevare le differenze. Queste

differenze si chiamano polimorfismi da lunghezza dei frammenti di restrizione (RFLP).

La Reazione a Catena della Polimerasi (PCR) è una metodica basata sull’amplificazione in vitro di

sequenze definite di DNA. Questa tecnica consente di ottenere centinaia di migliaia di copie del

DNA di interesse per successive caratterizzazioni (determinazione della lunghezza, della sequenza

nucleotidica ecc.) senza dover ricorrere ai comuni metodi di clonaggio né all’uso di vettori di

clonaggio o della loro propagazione all’interno di cellule. È una tecnica utile nel produrre milioni

di copie di una specifica sequenza di DNA in breve tempo. È necessario che le estremità della

sequenza da amplificare siano conosciute con sufficiente precisione per poter sintetizzare degli

oligonucleotidi che saranno ibridizzati ad esse, e che una piccola quantità di della sequenza sia

disponibile per dare inizio alla reazione. Non è necessario che la sequenza da sintetizzare

enzimaticamente sia inizialmente presente in forma pura; essa può anche essere una frazione

minoritaria di una miscela complessa. Un tipico ciclo di PCR prevede 3 fasi:

DENATURAZIONE del DNA (94-96 ºC): I campioni sono portati alla temperatura di 94-96 ºC

per 1 o più minuti per separare il doppio filamento che costituisce il DNA in singoli filamenti.

APPAIAMENTO (Annealing) dei primers (50-60 ºC): la temperatura è abbassata fino a 50-60

ºC per 1 o più minuti. Questo permette il corretto allineamento dei primers (inneschi) con la

propria sequenza complementare. I primers sono disegnati in modo da legarsi alle regioni del

DNA che dovranno essere amplificate.

ESTENSIONE dei primers (72 ºC): la temperatura è nuovamente innalzata a 72 ºC per 1 o più

minuti. Questo consente alla Taq polimerasi (una DNA polimerasi termostabile così chiamata

perché originariamente isolate dal batterio Thermus aquaticus) di attaccarsi ad ogni priming-site

e sintetizzare il nuovo DNA.

Fig 8. Esempio di strumentazione PCR

In genere, questi tre steps vengono ripetuti per circa 30 cicli consecutivi e comunque non più di 50.

Per controllare se la reazione ha amplificato il frammento di DNA target si utilizza l’elettroforesi su

gel di agarosio per la separazione taglia-dipendente dei prodotti della reazione. A seconda della

concentrazione di agarosio (che varia a seconda della grandezza dell’amplificato) presente nel gel i

frammenti verranno fermati in base al loro peso molecolare: templati più pesanti avranno una corsa

corta, mentre i templati con peso molecolare più leggero presenteranno una corsa più lunga. Nel gel

è disciolta una quantità di etidio-bromuro che agendo da agente intercalante, andrà a legarsi ai

templati e attraverso l’irradiazione UV-B verrà evidenziato il prodotto della PCR. La corsa

elettroforetica è effettuata insieme ad un ladder contenente frammenti di DNA a peso molecolare

conosciuto per comparare e, dunque, determinare la taglia dei frammenti prodotti dalla reazione.

Questa tecnica può essere utilizzata per un’ampia gamma di bersagli molecolari.

In Tabella 1 sono riportati polimorfismi genetici coinvolti nelle diverse patologie di interesse

nutrizionale, che verranno analizzati

TABELLA 1. POLIMORFISMI GENETICI

Gene Varianti

genetiche

Ruolo del gene

IL-6 -174 G/C Infiammazione

RANKL -290 C>T

Metabolismo osseo ed osteoporosi

OPG 1181 G>C

ESR1 IVS1-401 T>C

ESR2 IVS1-354 A>G

VDR C TaqI T

LRP-5 4037C>T Metabolismo lipidico

MTHFR 677 C>T Metabolismo omocisteina,folati

ANALISI DELL’ESPRESSIONE GENICA

L’Espressione genica è il processo attraverso cui l'informazione contenuta in un gene viene convertita in

una macromolecola funzionale (tipicamente una proteina). L'espressione genica è finemente regolata

dalla cellula. Tutti i passaggi dell'espressione genica possono essere modulati, a partire dal

passaggio della trascrizione del DNA ad RNA, fino alle modificazioni post-traduzionali della

proteina prodotta. La regolazione dell'espressione genica è fondamentale per la cellula, perché

le permette di controllare le proprie funzioni interne ed esterne. L'espressione di molti geni è

regolata a valle della trascrizione, ad esempio attraverso l'azione di miRNA o siRNA, piccole

molecole di RNA in grado di portare alla degradazione del trascritto (alte concentrazioni di

mRNA non sono dunque sempre correlate ad alte concentrazioni di proteina). In ogni caso, la

quantità di mRNA è un dato di notevole interesse nella misura dell'espressione genica. La

tecnica classica di quantizzazione del mRNA è il Northern blot, un processo attraverso il quale

un estratto di RNA proveniente dal sistema biologico da analizzare viene dapprima separato in

un gel di agarosio, quindi ibridato con una sonda radioattiva complementare al solo RNA di

interesse. In questo modo, è possibile visualizzare e quantificare la presenza dell'RNA di

interesse. Il Northern blot è una tecnica utilizzata sempre più raramente, a causa delle

problematiche correlate all'uso di reagenti radioattivi e della scarsa sensibilità nella

quantizzazione. In ogni caso, esso viene ancora usato in diverse occasioni, ad esempio per

discriminare tra due trascritti che presentano splicing alternativo. Due metodi più moderni per

misurare la quantità di un singolo mRNA sono la real-time polymerase chain reaction (real-

time PCR) o la reverse transcriptase-polymerase chain reaction (RT-PCR), che permettono di

quantificare la presenza di un determinato trascritto anche in pochi nanolitri di estratto cellulare.

Per tale elevatissima sensibilità la RT-PCR è attualmente la tecnica di elezione. Oltre a tali

metodi, che consentono di quantificare solo poche differenti molecole di mRNA per volta,

esistono metodologie che permettono di effettuare screening molto ampi del trascritto

complessivo di una cellula. Una di queste metodologie è quella dei DNA microarray che,

attraverso l'utilizzo di supporti che contengono migliaia di sonde di DNA complementari ai

trascritti della cellula, è in grado di fornire un'analisi contemporanea di migliaia di differenti

mRNA. In network di regolazione genica (GNR) descrivono le complesse interazioni che

influenzano l’espressione genica e, conseguentemente, il comportamento cellulare. In tale rete,

gli input, i segnali in ingresso, sono rappresentati da proteine come i fattori di trascrizione, a

loro volta i prodotti dell'espressione di altri geni regolatori,) e gli output, i risultati, sono

rappresentati dai livelli di espressione del gene, cioè dalle quantità degli mRNA e delle proteine

corrispondenti prodotti.

In questo frangente si inserisce l’attività di ricerca svolta, con l’obiettivo di identificare il

rapporto causa-effetto tra alimenti e genetica. Ovvero il fine ultimo è quello di studiare come

l’alimento, nel suo complesso, possa interagire con il patrimonio genetico umano, quali geni

possano venire up o down regulated.

Lo sviluppo delle conoscenze delle interazioni tra nutriente e geni ha permesso di ampliare il

significato di nutriente. Nella nostra era post-genomica il nutriente può essere definito come un

costituente della dieta ben caratterizzato dal punto di vista fisico, chimico e fisiologico; esso

rappresenta il substrato energetico o precursore nella sintesi di macromolecole o altri

componenti necessari nel differenziamento e crescita cellulare; interviene nel riparo del DNA,

nelle difese o nel mantenimento delle molecole segnale; è cofattore o determinante di strutture e

funzioni molecolari, e/o promotore dell’ integrità cellulare e di organo. Il nutriente, quindi, può

influenzare o regolare la trascrizione del DNA, la traduzione in proteine o i processi metabolici

post-traduzionali. E’ importante, quindi, conoscere i possibili effetti di specifici componenti

alimentari sul genoma di una popolazione eterogenea, sia per prevederne i benefici che i rischi.

Le variazioni genetiche inter-individuali rappresentano un determinante critico nelle richieste di

nutrienti quanto mai differenti tra individuo ed individuo. Da alcuni anni la nutraceutica e la

genomica nutrizionale (nutrigenetica e nutrigenomica) sono diventate delle vere discipline con

progetti di indagine accurati e sostanziosi. Il nutriente può influenzare o regolare la trascrizione

del DNA, la traduzione in proteine o i processi metabolici post-traduzionali; interviene nel

riparo del DNA, nelle difese o nel mantenimento delle molecole segnale; è cofattore o

determinante di strutture e funzioni molecolari, e/o promotore dell’ integrità cellulare e di

organo.

In particolare, il cibo risulta essere non solo il fornitore di nutrienti necessari per il nostro corpo,

ma anche un portatore di informazioni a carattere regolatorio. Soprattutto i

microRNA potrebbero funzionare come molecole di segnale attive per il trasporto

di informazioni tra specie o addirittura regni diversi. Sebbene il meccanismo di come i

miRNA si trasferiscano tra i diversi organismi non è ancora ben caratterizzato, i risultati dei

primi studi scientifici indicano il coinvolgimento di microvescicole e specifiche proteine RNA-

trasportatrici.

Queste scoperte suggeriscono ipotesi sia sul potenziale impatto che le piante possono avere sulla

fisiologia degli animali a livello molecolare, sia sulla possibilità che i miRNA, derivati dagli

alimenti, possono offrirci un altro mezzo per modulare il metabolismo e fornire i nutrienti

necessari o terapeutici.

L’attività di ricerca verte sull’analisi dei geni coinvolti nei processi infiammatori.

L’infiammazione acuta si verifica in risposta a danni cellulari dovuti alle infezioni o lesioni.

Durante questo processo, fattori cellulari e plasma-derivati favoriscono lo spostamento e il

reclutamento di cellule immunitarie circolanti nel tessuto colpito. Queste cellule immunitarie a

regolano positivamente la produzione di citochine infiammatorie che reclutano a loro volta

cellule immunitarie aggiuntivi per promuovere una risposta immunitaria. L’inflammosoma ha

un profilo d’espressione di circa 84 geni, coinvolti nelle funzioni infiammatorie e da complessi

di proteine coinvolte nell'immunità innata.

Il gruppo di geni dell’inflammosoma è:

IM2, CASP1 (ICE), PYCARD (ASC).

CASP1, NAIP, NLRC4 (IPAF), PYCARD (ASC).

CASP1 (ICE), CASP5, NLRP1.

CASP1 (ICE), NLRP3, PYCARD (ASC).

BCL2, BCL2L1 (BCL-X), CARD18 (ICEBERG), CD40LG (TNFSF5), CTSB, HSP90AA1,

HSP90AB1, HSP90B1 (TRA1), MEFV, PSTPIP1, PYDC1 (POP1), SUGT1, TNF, TNFSF11,

TNFSF14, TNFSF4 (OX40L).

IFNG, IL12A, IL12B, IL18, IL1B, IL33, IRAK1, IRF1, MYD88, P2RX7, PANX1, PTGS2

(COX2),

RAGE, RIPK2, TIRAP, TXNIP.

CIITA, NAIP (BIRC1), NLRC4 (IPAF), NLRC5, NLRP1, NLRP12, NLRP3, NLRP4, NLRP5,

NLRP6, NLRP9, NLRX1, NOD1 (CARD4), NOD2.

BIRC2 (c-IAP2), BIRC3 (c-IAP1), CARD6, CASP8 (FLICE), CCL2 (MCP-1), CCL5

(RANTES), CCL7 (MCP-3), CFLAR (CASPER), CHUK (IKKa), CXCL1, CXCL2, FADD,

IFNB1, IKBKB, IKBKG, IL6, IRF1, IRF2, MAP3K7 (TAK1), MAPK1 (ERK2), MAPK11,

MAPK12, MAPK13, MAPK3 (ERK1), MAPK8 (JNK1), MAPK9 (JNK2), NFKB1, NFKBIA

(I?Ba/MAD3), NFKBIB (TRIP9), PEA15, RELA, RIPK2, SUGT1, TAB1 (MAP3K7IP1),

TAB2 (MAP3K7IP2), TNF, TRAF6, XIAP.

CASP1 (ICE), CASP5.

L’infiammazione innesca così, processi ossidativi e di danno cellulare. Il gruppo di geni

coinvolti nello stress ossidativo sono:

GPX1, GPX2, GPX3, GPX4, GPX5, GPX6, GPX7, GSTP1, GSTZ1.

PRDX1, PRDX2, PRDX3, PRDX4, PRDX5, PRDX6 (AOP2).

CAT, CYBB, CYGB, DUOX1, DUOX2, EPX, LPO, MGST3, MPO, PTGS1, PTGS2 (COX2), PXDN,

TPO, TTN.: ALB, APOE, GSR, MT3, SELS, SOD1, SOD3, SRXN1, TXNRD1, TXNRD2.

Geni coinvolti nel Metabolismo delle specie reattive dell’Ossigeno (ROS)

SOD1, SOD2, SOD3.

ALOX12, CCS, DUOX1, DUOX2, GTF2I, MT3, NCF1, NCF2, NOS2 (iNOS), NOX4, NOX5,

PREX1, UCP2.

AOX1, BNIP3, EPHX2, MPV17, SFTPD.

APOE, ATOX1, CAT, CCL5 (RANTES), CYGB, DHCR24, DUOX1, DUOX2, DUSP1 (PTPN16),

EPX, FOXM1, FTH1, GCLC, GCLM, GPX1, GPX2, GPX3, GPX4, GPX5, GPX6, GPX7, GSR, GSS,

HMOX1, HSPA1A, KRT1, LPO, MBL2, MPO, MSRA, NQO1, NUDT1, OXR1, OXSR1, PDLIM1,

PNKP, PRDX2, PRDX5, PRDX6 (AOP2), PRNP, RNF7, SCARA3, SELS, SEPP1, SIRT2, SOD1,

SOD2, SQSTM1, SRXN1, STK25, TPO, TTN, TXN, TXNRD1, TXNRD2.

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