Anticipazione Della Tutela Nei Delitti Di Terrorismo Ed Eversione

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1 Anticipazione della tutela nei delitti di terrorismo ed eversione Schema sintetico di svolgimento A cura di Serafino Ruscica Èra necessario innanzitutto trattare il tema dell'anticipazione della tutela penale in generale ricollegando questa problematica a due grandi questioni che animano da sempre il dibattito penalistico: da un lato l'esigenza garantista di non anticipare eccessivamente la soglia della tutela penale per non comprimere il diritto inviolabile alla libertà personale di cui all'articolo 13 della Costituzione, il principio di proporzionalità, il principio di sussidiarietà ma soprattutto il principio di materialità nonché di necessaria lesività. Pertanto sarebbe stato opportuno analizzare il fondamento - costituzionale del principio di necessaria lesività che si pone come limite negativo rispetto alla tendenza tipica purtroppo del nostro legislatore di procedere ad una anticipazione della soglia della tutela penale per esigenze di di stampo repressivo o di tenuta del sistema penale. In particolare si poteva analizzare due tipiche tecniche cui ricorre legislatore per realizzare l'anticipazione della sua della tutela penale: il ricorso al dolo specifico o la configurazione di reati di pericolo che talvolta tuttavia finiscono col punire il pericolo del pericolo. In proposito era utile rinviare al dibattito molto in voga nella dottrina per penalistica circa la giustificazione costituzionale delle deroghe al principio di necessaria lesività per quelli che vengono in genere qualificati come delitti di direzione (in proposito non può non rinviarsi alla trattazione dello Zuccalà). L'autore muovendo dalla svalutazione del principio di necessaria lesività a cui negava valore di carattere generale, giungeva ad una netta differenziazione tra tentativo di attentato: basandosi sulla lettera di quest'ultimo, in buona sostanza, nei delitti di attentato è richiesta solo la direzione soggettiva del fatto che verso un risultato lesivo e non è richiesto che tale direzione fosse desumibile dalla condotta: si giungerà così a valorizzare il profilo soggettivo del reato per la realizzazione del quale è richiesta solo l'estrinsecazione della consapevole intenzione dell'agente. Si finiva così con conferire perfetta legittimazione al diritto penale dell'atteggiamento interiore che si caratterizzava per l'arretramento della soglia di punibilità dell'attentato e di tutta la concezione dell'illecito penale. L'attentato diventava, quindi, un reato di mera disobbedienza che prescindeva dalla offensività della condotta e da qualunque riferimento al pericolo per il bene giuridico tutelato Il polo opposto del principio garantista della necessaria lesività è rappresentato da coloro che ritengono di dover dar voce alle esigenze di tenuta del sistema talvolta espresse nella formula di derivazione anglosassone Law and Order, le quali il nome di esigenza di tenuta repressiva del sistema ammettono una limitazione del principio costituzionale di necessaria lesività. La nostra legislazione in passato si è resa protagonista di palesi violazioni del principio di necessaria leesività proprio nell'ambito dei delitti contro la personalità dello Stato: si pensi per esempio all'aggravante delle finalità terroristiche introdotte nella legislazione emergenziale di fine anni 70. La tematica andava poi attualizzata tenendo in considerazione due differenti dati interpretativi da un lato l'emersione di una nuova emergenza terroristica di stampo internazionalistico che desta non poco allarme sociale ma d'altra parte non può non tenersi conto delle novità introdotte recentemente nella nostra parte speciale del codice e caratterizzate da una adeguamento al principio di necessaria visività operato con la legge numero 85 del 2006.

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Anticipazione della tutela nei delitti di terrorismo ed eversione

Schema sintetico di svolgimento

A cura di Serafino Ruscica

Èra necessario innanzitutto trattare il tema dell'anticipazione della tutela penale in generale ricollegando questa problematica a due grandi questioni che animano da sempre il dibattito penalistico: da un lato l'esigenza garantista di non anticipare eccessivamente la soglia della tutela penale per non comprimere il diritto inviolabile alla libertà personale di cui all'articolo 13 della Costituzione, il principio di proporzionalità, il principio di sussidiarietà ma soprattutto il principio di materialità nonché di necessaria lesività.

Pertanto sarebbe stato opportuno analizzare il fondamento - costituzionale del principio di necessaria lesività che si pone come limite negativo rispetto alla tendenza tipica purtroppo del nostro legislatore di procedere ad una anticipazione della soglia della tutela penale per esigenze di di stampo repressivo o di tenuta del sistema penale.

In particolare si poteva analizzare due tipiche tecniche cui ricorre legislatore per realizzare l'anticipazione della sua della tutela penale: il ricorso al dolo specifico o la configurazione di reati di pericolo che talvolta tuttavia finiscono col punire il pericolo del pericolo.

In proposito era utile rinviare al dibattito molto in voga nella dottrina per penalistica circa la giustificazione costituzionale delle deroghe al principio di necessaria lesività per quelli che vengono in genere qualificati come delitti di direzione (in proposito non può non rinviarsi alla trattazione dello Zuccalà). L'autore muovendo dalla svalutazione del principio di necessaria lesività a cui negava valore di carattere generale, giungeva ad una netta differenziazione tra tentativo di attentato: basandosi sulla lettera di quest'ultimo, in buona sostanza, nei delitti di attentato è richiesta solo la direzione soggettiva del fatto che verso un risultato lesivo e non è richiesto che tale direzione fosse desumibile dalla condotta: si giungerà così a valorizzare il profilo soggettivo del reato per la realizzazione del quale è richiesta solo l'estrinsecazione della consapevole intenzione dell'agente.

Si finiva così con conferire perfetta legittimazione al diritto penale dell'atteggiamento interiore che si caratterizzava per l'arretramento della soglia di punibilità dell'attentato e di tutta la concezione dell'illecito penale.

L'attentato diventava, quindi, un reato di mera disobbedienza che prescindeva dalla offensività della condotta e da qualunque riferimento al pericolo per il bene giuridico tutelato

Il polo opposto del principio garantista della necessaria lesività è rappresentato da coloro che ritengono di dover dar voce alle esigenze di tenuta del sistema talvolta espresse nella formula di derivazione anglosassone Law and Order, le quali il nome di esigenza di tenuta repressiva del sistema ammettono una limitazione del principio costituzionale di necessaria lesività.

La nostra legislazione in passato si è resa protagonista di palesi violazioni del principio di necessaria leesività proprio nell'ambito dei delitti contro la personalità dello Stato: si pensi per esempio all'aggravante delle finalità terroristiche introdotte nella legislazione emergenziale di fine anni 70.

La tematica andava poi attualizzata tenendo in considerazione due differenti dati interpretativi da un lato l'emersione di una nuova emergenza terroristica di stampo internazionalistico che desta non poco allarme sociale ma d'altra parte non può non tenersi conto delle novità introdotte recentemente nella nostra parte speciale del codice e caratterizzate da una adeguamento al principio di necessaria visività operato con la legge numero 85 del 2006.

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Pertanto si poteva fare riferimento alla compatibilità costituzionale dei delitti di attentato, alla parificazione prima giurisprudenziale poi normativa, dell'attentato con il tentativo (come noto il delitto di attentato rappresenta il principale esempio reato a consunzione anticipata figura tipiche del diritto penale politico).

Si tratta, nella sua configurazione classica, di delitto a consunzione anticipata perché punisce come delitto perfetto fattispecie che più potrebbero configurare un tentativo, richiedendo la legge da parte dell'agente un comportamento rivolto alla lesione dell'interesse protetto senza però che occorra l'effettiva realizzazione della lezione. Com'è noto sono diverse le tesi dottrinali che hanno tentato di rendere compatibile il delitto di attentato con i nostri principi costituzionali che ne avrebbero invece imposto una parificazione rispetto al tentativo.

Questi principi andarono poi valutati alla luce delle recenti pronunce che hanno riguardato noti fatti di cronaca verificatisi nel nostro paese dopo l'11 settembre 2001, e dopo l'emersione del fenomeno delle nuove BR, alla luce dunque di un'emergenza senza fine che porta spesso la giurisprudenza a farsi portatrice di istanze di sicurezza collettiva di una società non safe.

Sul tema si rinvia a Temi svolti 2012, a cura di Serafino Ruscica, ed. Dike, Tema P3, Reati a consumazione anticipata, dolo specifico e principio di necessaria lesività di Chiara Grimaldi.

Schema preliminare di svolgimento della traccia

- Introduzione: il principio di necessaria lesività. - Gli interventi della Corte Costituzionale in tema di principio di necessaria lesività. - Il dolo specifico ed il suo possibile atteggiarsi nei reati a consumazione anticipata.

- La recente opinione della Corte di Cassazione sul tema.

Dottrina

F. MANTOVANI, Diritto Penale, - Parte Generale – CEDAM, Padova, 2009;

F. ANTOLISEI, Manuale di Diritto Penale, Parte Generale, Giuffrè, 2003;

F. CARINGELLA – M. DE PALMA, Lezioni e Sentenze di Diritto Penale, 2010, Dike;

S. REITANO, Riflessioni a margine sulle nuove fattispecie antiterrorismo in.Riv. it. dir. e proc. pen. 2007, 01, 217

Giurisprudenza

Corte Cost. 7 Luglio 2005 n. 265

Premesso che il principio di offensività opera su due piani, rispettivamente, della previsione normativa sotto forma

di precetto rivolto al legislatore di prevedere fattispecie che esprimano in astratto un contenuto lesivo (contro cui

devono ritenersi siano rivolte le censure del giudice rimettente) e dell'applicazione giurisprudenziale (offensività in

concreto), quale criterio interpretativo-applicativo affidato al giudice, va rilevato che la norma in esame, nell'insieme

degli elementi costitutivi che la compongono, vale a dire materialità della condotta incriminata e conseguente possibilità

di condurre in sede di applicazione della norma un incisivo controllo circa la sussistenza del requisito dell'offensività in

concreto, consente di concludere che essa mira a prevenire, sotto forma di reato di pericolo, la commissione di delitti

contro il patrimonio, nel rispetto del principio di offensività in astratto. Non sono, pertanto, fondate le questioni di

legittimità costituzionale dell'art. 707 del codice penale (Possesso ingiustificato di chiavi alterate o di grimaldelli), in

riferimento agli artt. 3, 13, 24, secondo comma, 25, secondo comma, 27, primo, secondo e terzo comma, della

Costituzione.

Corte cost., 20-giugno 2008, n. 225

L'ampia discrezionalità che va riconosciuta al legislatore nella configurazione delle fattispecie criminose si estende

alle modalità di protezione dei singoli beni o interessi: rientrano in tale discrezionalità anche l'opzione per forme di

tutela avanzata, che colpiscano l'aggressione ai valori protetti nello stadio della semplice esposizione a pericolo, e

l'individuazione della soglia di pericolosità cui connettere la risposta punitiva, nel rispetto del principio di necessaria

offensività del reato. In tale ambito, spetta alla Corte procedere alla verifica della offensività "in astratto", acclarando se

la fattispecie delineata dal legislatore esprima un reale contenuto offensivo, esigenza che, nell'ipotesi di reato di

pericolo, presuppone che la valutazione legislativa di pericolosità del fatto risponda all'id quod plerumque accidit. Se

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tale condizione è soddisfatta, il compito di uniformare la figura criminosa al principio di offensività nella concretezza

applicativa resta affidato al giudice ordinario.

Cass. pen., 07 giugno 2002, n. 565

Posto che nel nostro ordinamento vige il principio di offensività, alla cui luce (sia esso, o meno, di rango

costituzionale) ogni interpretazione di norme penali va condotta, è compito del giudice, e non obbligo del legislatore,

stabilire, valendosi degli strumenti ermeneutici che il sistema offre e, primo fra tutti, dell'art. 49, secondo comma, c.p.,

(c.d. reato impossibile), se una concreta fattispecie sia idonea o meno ad offendere i beni giuridici tutelati dalle

normative in discussione, al fine di determinare, in concreto, la soglia del penalmente rilevante, entro la quale al giudice

stesso spetta, comunque, graduare la pena in ragione della gravità del reato e delle circostanze. Il richiamo a tale

principio di offensività appare, pertanto, del tutto inconferente, una volta che il giudice di merito abbia dimostrato che

gli atti posti in essere sono del tutto idonei ad offendere i beni giuridici tutelati dalle norme violate.

Cass., Pen. Sez. I, 20 giugno 2006 n. 3486.

Il reato di cui all'art. 270-bis cod. pen. (associazioni con finalità di terrorismo e di eversione dell'ordine

democratico), è un reato di pericolo presunto, per la cui configurabilità occorre, tuttavia, l'esistenza di una struttura

organizzata, con un programma comune fra i partecipanti, finalizzato a sovvertire violentemente l'ordinamento dello

Stato e accompagnato da progetti concreti e attuali di consumazione di atti di violenza. Ne consegue che la semplice

idea eversiva, non accompagnata da propositi concreti e attuali di violenza, non vale a realizzare il reato, ricevendo

tutela proprio dall'assetto costituzionale dello Stato che essa, contraddittoriamente, mira a travolgere. Analoghe

considerazioni vanno fatte per il reato di cui all'art. 272 cod. pen. (propaganda ed apologia sovversiva o antinazionale)

per il quale è necessario che l'azione sia idonea a suscitare consensi in un numero indeterminato di persone

relativamente non ad un'idea bensì ad un programma violento di eversione.

Cass. Pen.,Sez. I, 22 aprile 2008,. n. 21686.

Ai fini della configurabilità del delitto di cui all'art. 270-bis, cod. pen., non è necessario il compimento dei reati

oggetto del programma criminoso, ma occorre comunque l'esistenza di una struttura organizzativa che presenti un grado

di effettività tale da rendere almeno possibile l'attuazione di tale programma e che giustifichi la valutazione legale di

pericolosità, correlata alla idoneità della struttura stessa al compimento di una serie indeterminata di reati per la cui

realizzazione l'associazione si è costituita. .

Cass.Pen., Sez. VI, 8 maggio 2009, n. 25863

Ai fini della configurabilità del delitto di associazione con finalità di terrorismo anche intenzionale o di eversione

dell'ordine democratico (art. 270-bis, cod. pen.), non è necessaria la realizzazione dei reati oggetto del programma

criminoso, ma occorre l'esistenza sia di un programma, attuale e concreto, di atti di violenza a fini di terrorismo o di

eversione dell'ordine democratico, sia di una struttura organizzativa stabile e permanente che, per quanto rudimentale,

presenti un grado di effettività tale da rendere possibile l'attuazione di quel programma. (Fattispecie relativa alla

presunta costituzione di un'associazione terroristica operante per via telematica su tutto il territorio nazionale).”

Cassazione Penale, Sez. VI, sentenza 25 luglio 2011, n. 29670 “L’addestramento ad attività con finalità di

terrorismo anche internazionale di cui all’art. 270-quinquies c.p. è un reato a duplice dolo specifico, caratterizzato dalla

realizzazione di una condotta in concreto idonea al compimento di atti di violenza ovvero di sabotaggio di servizi

pubblici essenziali e, in secondo luogo, dalla presenza della finalità di terrorismo descritta dall’art. 270-sexies c.p.

Legislazione correlata

Art. 25 Cost.

Art. 49 c.p. (Reato supposto erroneamente e reato impossibile)

Art. 27 del D.p.r n. 448 del 1998.

Art. 34 del d.lgs 274 del 2000.

Art. 707 c.p. (Possesso ingiustificato di chiavi alterate o di grimaldelli)

Art. 270 bis c.p. (Associazioni con finalità di terrorismo anche internazionale o di eversione

dell'ordine democratico)

Art. 270 quinquies c.p. (Addestramento ad attività con finalità di terrorismo anche internazionale)

SVOLGIMENTO

Il principio di offensività o di necessaria lesività è intrinsecamente connesso alla cosiddetta

concezione materiale o realistica del reato. I sostenitori della suddetta teoria, infatti, attribuiscono

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rilevanza al fatto di reato non solo se ed in quanto conforme al modello legale e dunque tipico, ma

anche se ed in quanto realmente lesivo ed offensivo del bene giuridico protetto dalla norma penale

incriminatrice. Pertanto nell’ipotesi di eventuale scissione tra tipicità e offensività, la teoria

realistica del reato nega tout court qualsivoglia rilevanza penale al fatto che, seppur tipico e

rispondente al modello legale, si rivela, tuttavia, inoffensivo dell’interesse tutelato. Non stupisce

pertanto che i sostenitori di questa opinione ravvisino nell’art. 49 del codice penale, più che il

completamento della disciplina del delitto tentato, come pure da molti sostenuto, (in quanto

implicitamente sancirebbe la non punibilità del tentativo impossibile), un diverso principio di

portata più generale, che nega la punibilità di condotte conformi al tipo descrittivo, ma

contrassegnate da quel deficit di offensività che non consente di ritenerle lesive di alcun bene

protetto. Del resto, secondo l’insegnamento della Corte Costituzionale (sentenza n. 360/1995), tutte

la volte in cui la condotta del soggetto agente si riveli assolutamente inidonea a ledere o porre in

pericolo il bene giuridico tutelato, viene meno la riconducibilità della fattispecie concreta a quella

astratta "perchè la indispensabile connotazione di offensività in generale di quest'ultima implica di

riflesso la necessità che anche in concreto la offensività sia ravvisabile almeno in grado minimo,

nella singola condotta dell'agente, in difetto di ciò venendo la fattispecie a rifluire nella figura del

reato impossibile (art. 49 c.p.)". Il rispetto del principio di offensività imporrà pertanto all’organo

giudicante un’attenta analisi onde verificare se la condotta del soggetto agente possa o meno essere

considerata idonea ad offendere il bene giuridico protetto. Tuttavia, come è noto, non esiste nel

nostro ordinamento una specifica e precisa previsione normativa, di natura costituzionale o scandita

sotto l’egida della legge ordinaria, che sancisca expressis verbis l’operatività del principio di

necessaria lesività. Non troveremo, in altri termini, una norma che cristallizzi l’antico brocardo

nullum crimen, nulla poena sine iniuria, né nel codice penale né tra gli articoli della nostra

costituzione. Ciononostante, come sovente avviene, tale principio può dirsi ormai assorbito e

compenetrato nel nostro ordinamento più di altri che, seppur testualmente consacrati a livello

normativo, sono rimasti privi di applicazione pratica. In ogni caso, è bene sottolineare che, proprio

per far fronte a tale carenza, è previsto, de jure condendo, l’inserimento nel codice penale di una

norma che finalmente riconosca cittadinanza a tale principio. Nonostante la mancata previsione

espressa del principio in questione, il Giudice delle Leggi, come in precedenza accennato, ne ha in

più occasioni rimarcato l’importanza se non addirittura l’imprescindibilità ai fini della

qualificazione del fatto quale reato previsto dalla fattispecie tipica e dunque ai fini della

conseguente punibilità del soggetto agente.

Così, a titolo esemplificativo, nel giudizio di legittimità costituzionale dell’articolo 163, comma 3, del regio

decreto 18 giugno 1931, n. 773 (Approvazione del testo unico delle leggi di pubblica sicurezza), la Corte Costituzionale (Ordinanza n. 30/2007) ha affermato che “spetta al giudice ordinario verificare se la condotta così realizzata” ( nella specie trattavasi di coloro che, rimpatriati con foglio di via obbligatorio, omettevano tuttavia di presentarsi nel termine ivi prescritto all’autorità di pubblica sicurezza indicata nel foglio di via), “per quanto conforme all’astratto modello punitivo delineato dal legislatore, appaia tuttavia, nella sua specifica concretezza, assolutamente inidonea a porre a repentaglio il bene giuridico tutelato, posto che l’art. 25 della Costituzione quale risulta dalla lettura sistematica a cui fanno da sfondo […] l’insieme dei valori connessi alla dignità umana, postula […] un ininterrotto operare del principio di offensività dal momento della astratta predisposizione normativa a quello della applicazione concreta da parte del giudice, con conseguente distribuzione dei poteri conformativi tra giudice delle leggi e autorità giudiziaria, alla quale soltanto compete di impedire, con un prudente apprezzamento della lesività in concreto, una arbitraria ed illegittima dilatazione della sfera dei fatti da ricondurre al modello legale».

Dunque “l’ininterrotto operare del principio di offensività,” a cui la Corte Costituzionale fa riferimento, è ormai destinato a permeare non solo l’attività giurisprudenziale, ma a porsi da faro e guida, per così dire, anche per il legislatore, al quale non sarà permesso di prevedere fattispecie penali che non postulino l’offesa al bene giuridico protetto dalla norma incriminatrice.

Del resto, già molto tempo prima, la Corte Costituzionale aveva avuto modo di chiarire che il principio di offensività opera su due piani, e cioè sul piano della previsione normativa, sub specie di precetto indirizzato al legislatore, chiamato a prevedere fattispecie che in astratto esprimano un contenuto offensivo o quanto meno, la messa in pericolo del bene o interesse oggetto della tutela penale («offensività in astratto»), ma anche sul piano

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dell’applicazione giurisprudenziale («offensività in concreto»), quale criterio interpretativo-applicativo che il giudice dovrà utilizzare al fine di accertare che la condotta del soggetto agente abbia effettivamente leso o messo in pericolo l’interesse tutelato.

In altre pronunce la Corte ha ribadito la “duplice sfera di operatività, in astratto e in concreto, del principio di necessaria offensività, quale criterio di conformazione legislativa delle fattispecie incriminatrici e quale canone interpretativo per il giudice.”

L’importanza del principio di offensività è stata in altre occasioni sostenuta dal Giudice delle Leggi. Così, ad esempio, in relazione all’articolo 707 c.p., “Possesso ingiustificato di chiavi alterate o grimaldelli”,

laddove ha ritenuto (Sentenza n. 265 del 2005) non fondate le questioni di legittimità costituzionale sollevate in riferimento agli articoli 3, 13, 24 comma 2, art. 25 comma 2 , art. 27, comma 1, 2, 3 della Costituzione.

Ed invero, a fondamento della propria decisione, la Corte ha precisato come il reato in questione sia caratterizzato non solo da una condotta positiva data dal possesso, da parte del soggetto agente, di strumenti atti ad aprire serrature, ma anche dalla ricorrenza di un elemento negativo rinvenibile invece nella mancanza di elementi che possano giustificare la destinazione di tali oggetti.

La norma de qua, infatti, nell’ottica della Corte, è catalogabile nell’alveo dei reati di pericolo di cui si darà conto a breve, ed ha lo scopo di prevenire la commissione di delitti contro il patrimonio, nel rispetto del principio di offensività.

In particolare, secondo il Giudice delle leggi, “il giudice chiamato a fare applicazione della norma dovrà pertanto operare uno scrutinio particolarmente rigoroso circa la sussistenza del requisito dell’offensività in concreto, verificando la specifica attitudine funzionale degli strumenti ad aprire o forzare serrature (v. ordinanza n. 36 del 1990, nonché sentenza n. 370 del 1996), e valutando soprattutto quando gli strumenti di cui l’imputato è colto in possesso non denotino di per sé tale univoca destinazione le circostanze e le modalità di tempo e di luogo che accompagnano la condotta, dalle quali desumere l’attualità e la concretezza del pericolo di commissione di delitti contro il patrimonio.”

Altre volte la Corte ha invece dichiarato l’incostituzionalità della norma sottoposta al suo vaglio

proprio in considerazione del mancato rispetto, da parte del legislatore, del principio di offensività.

Così, con riguardo all’art. 688, comma 2 c.p., che sanzionava colui che, condannato per un delitto

non colposo contro la vita e l’incolumità individuale, veniva colto in stato di manifesta ubriachezza

in luogo pubblico o aperto al pubblico. In tale pronuncia (sentenza n. 354 del 2002), la Corte

dichiarava l’incostituzionalità della norma considerando che l’avere riportato una precedente

condanna per delitto non colposo contro la vita o l’incolumità individuale, avrebbe reso punibile

una condotta che, se posta in essere da un diverso soggetto, non avrebbe assunto alcun disvalore

penale.

Al contrario, secondo la formulazione della norma, la precedente condanna del soggetto agente si

sarebbe tramutata in una sorta di marchio indelebile, destinata a classificare una condotta che, se

posta in essere da chiunque altro, non avrebbe in alcun modo configurato illecito penale.

Nell’ottica della Corte, dunque, la norma incriminatrice avrebbe punito non l’ubriachezza del

soggetto, ma piuttosto una qualità personale del medesimo. Il rischio, come è facile intuire, sarebbe

stato quello di mantenere in vita “una sorta di reato d’autore”, in netto contrasto proprio con il

principio di offensività del reato.

Principio che, peraltro, si pone quale limite alla discrezionalità legislativa in materia penale, ed è

“desumibile dall’articolo 25, secondo comma, della Costituzione, nel suo legame sistematico con

l’insieme dei valori connessi alla dignità umana, opera in questo caso nel senso di impedire che la

qualità di condannato per determinati delitti possa trasformare in reato fatti che per la generalità

dei soggetti non costituiscono illecito penale.”

Più risalente nel tempo è invece la pronuncia con la quale la Corte Costituzionale ebbe modo di

pronunciarsi in materia di c.d. mendacità non invasiva. ( Sentenza n. 519/1995)

In quell’occasione la Corte ebbe modo di sottolineare che la figura criminosa della mendicità non

invasiva doveva ritenersi costituzionalmente illegittima alla luce del canone della ragionevolezza.

Ed invero, anche in tal caso le considerazioni della Corte erano tutte incentrate sull’assenza di

offesa arrecata al bene giuridico tutelato dalla norma incriminatrice, ovverosia la tranquillità

pubblica e l'ordine pubblico, a bene vedere in alcun modo compromessi né messi in pericolo dalla

“mera mendicità che si risolve in una semplice richiesta di aiuto.” Passate al vaglio alcune tra le diverse pronunce della Corte costituzionale che si sono soffermate sul principio

di offensività, occorre ora analizzare il medesimo principio da dvers angoli prospettici.

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Si tratta pertanto di rintracciare i referenti normativi contenuti nella legge ordinaria o costituzionale che, sebbene non arrivino a conclamarne apertis verbis l’operatività del principio, sembrano tuttavia presumerla o in alcuni casi addirittura darla per scontata.

Si allude in aprticolare alle previsioni degli articoli 13, 25, II comma, e 27 della Costituzione. Anzitutto, è stato affermato che l’articolo 25, II comma della Costituzione, quando subordina la punibilità alla

commissione di un fatto, non può che riferirsi ad un "fatto" che sia effettivamente foriero di conseguenze lesive o quanto meno pericolose per il bene giuridico.

Argomentando a contrario, del resto, risulterebbero puniti semplici atteggiamenti privi di una reale e concreta consistenza, con grave vulnus al principio di libertà di pensiero, garantito dall’articolo 21 della Costituzione.

Anche l’articolo 27 della Costituzione nasconderebbe un’implicita proclamazione del principio di necessaria lesività.

Infatti secondo la più recente interpretazione dell’articolo in questione operata dal Giudice delle Leggi, per potersi ipotizzare la responsabilità penale è necessaria la rappresentazione soggettiva degli elementi significativi della fattispecie in capo al soggetto agente: tra tali elementi significativi sono ricompresi soprattutto gli elementi offensivi del bene giuridico.

Il fine rieducativo della pena che il terzo comma dello stesso articolo riconosce, sembrerebbe perdere di senso se non postulasse, a monte, la commissione di un fatto realmente offensivo da parte del soggetto agente.

Inoltre è opinione condivisa che l'art. 13 Cost. nello stabilire che la libertà personale è inviolabile, sembra ammetterne una eventuale restrizione nei soli casi in cui effettivamente sia stata arrecata offesa ad un bene di pari valore e dignità.

Ciò posto, passati in rassegna quelli che sono considerati i referenti costituzionali del principio di necessaria lesività, occorre soffermarsi sui referenti dettati a livello di legge ordinaria, generalmente individuati negli articoli 49 c.p., nonché negli articoli 27 del D.p.r n. 448 del 1998 e 34 del d.lgs 274 del 2000.

L’articolo 49 del codice penale sembrerebbe rappresentare, secondo i più, il referente normativo di tale principio. Infatti, disciplinando il reato impossibile per inidoneità dell’azione, lascia dedurre la punibilità e dunque la sussistenza del reato solo quando il fatto tipico, sia offensivo e pertanto “idoneo.

Parimenti il D.p.r. 448 del 1998, in materia di processo minorile, fa riferimento al “tenuità del fatto” e all’ “occasionalità del comportamento” per giustificare la richiesta, da parte del P.M. della sentenza di non luogo a procedere a causa per l’appunto dell’“irrilevanza del fatto”.

L’articolo 34 del Dlgs del 2000, invece, prevede direttamente una causa di improcedibilità nei casi di particolare tenuità del fatto, seppur avuto riguardo ai reati di competenza del giudice di Pace Penale.

Giova altresì ricordare l’art. 115 c.p., che prevede la non punibilità nel caso in cui l’accordo o istigazione a commettere un reato non sia stata accolta, salva l’eventuale applicabilità, in siffatta ipotesi, di una misura di sicurezza ( al pari di quanto acccade nell'ipotesi prevista dall'art. 49 comma 2 c.p.).

E' necessario a quseto punto analizzare quella particolare categoria di reati di pericolo rappresentata per l’appunto dai reati a consumazione anticipata. La problematica relativa al loro possibile atteggiarsi con il principio di offensività si pone in quanto, a ben vedere, tali reati costituiscono ancora meno di un tentativo punibile difettando dei requisiti posti dall’articolo 56 del codice penale.

Per i reati a consumazione anticapata non sembra rilevare l’idoneità degli atti, ma solo la loro finalità criminosa (non a caso la più autorevle dottrina li definisce delitti di direzione). Così ad esempio, si vedano gli articoli 283, 241, 285, 286 del Codice Penale.

Tali previsioni normative sono solitamente poste a presidio di beni giurdici di rango primario, come la pubblica incolumità o la personalità dello Stato: interessi ritenuti dal legislatore meritevoli di tutela anticipata giustificandosi pertanto l'anticipazione della tutela penale rispetto alla soglia di rilevanza minima rappresentata dal tentativo punibile. Simili previsioni trovano fondamento nei crimina lesae majestatis, che hanno caratterizzato come noto gli ordinamenti autoritari in epoca preilluministica, e per i quali, a ben vedere, non veniva in rilievo la nota distinzione tra atti preparatori ed atti esecutivi, dal momento che interesse primario dello Stato era quello di arginare e reprimere, sin dall’inizio, qualsiasi tipo di possibile manifestazione delittuosa che potesse anche solo lontanamente minacciare l'integrità dello Stato impersonata dal potere del monarca assoluto.

Tali ftttispecie di reato sono contraddistinte dall'uso di precipue forme linguistiche quali l'utilizzo del verbo “attenta” , sia nella rubrica che nel testo dell’articolo, come avviene ad esempio negli articoli 276, 295, 296 del c.p. o della locuzione “ fatto diretto a”, come avviene ad esempio negli articoli 241, 283 e 420 c.p.

A ben vedere, vigente il codice Zanardelli, attentato e tentativo presentavano le medesime caratteristiche strutturali e non v’erano dubbi sul fatto che i meri atti esecutivi avrebbero potuto dar luogo sia all’una che all’altra figura criminosa. Secondo talune impostazioni dottrinali il Codice Rocco avrebbe invece voluto introdurre una demarcazione tra i due istituti. In particolare, secondo una rigorosa impostazione di tipo soggettivistico, sarebbe stato sufficiente ad integrare l’attentato qualsiasi atto, anche il più remoto, che avesse rivelato l'intenzione (attraverso la mera direzione dell'azione verso un risultato) di arrecare offesa al bene giuridico tutelato. Tuttavia, letti alla luce del principio di offensività, i confini tra le figure del tentativo e dell'attentato diventano sempre meno evidenti, ed anzi assurgono a figure affini dal punto di vista strutturale e funzionale.

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La interpretazione di tali delitti alla luce del principio costituzionale di necessaria lesività porta a catalogare l'attentato nella categoria dei reati di pericolo postulandosi il concreto accertamento della pericolosità della condotta, attraverso il riscontro non solo della univocità, ma anche della idoneità degli atti a realizzare il risultato lesivo.Tale interpretazione si impone al fine di evitare la punizione, a priori, di fatti o condotte che si rivelino del tutto innocue ed inidonee ad arrecare lesione o messa in pericolo del bene giuridico protetto. La recente riforma operata dal legislatore con la l. n. 86 del 2006 ha sancito in via legislativa quel percorso di equiparazione tra attentato e tentativo che la giurisprudenza da tempo aveva inaugurato.

Tra i reati per i quali l’ordinamento prevede una tutela anticipata sono da annoverarsi inoltre i reati associativi. In tali casi, infatti, il legislatore anticipa la tutela penale punendo il solo fatto associativo se finalizzato alla commissione di delitti: non vi è dubio che in tali casi in deroga al l'art. 115 c.p. si punisce un fatto meramente preparatorio rispetto all'inizio di esecuzione delittuosa. Si punisce pertanto una condotta (garantita dall'art. 16 della Costituzione) per il solo fatto che sia caratterizzata dal fine di delinquere sbilanciando la costruzione della fattispecie interamente sull'elemento psicologico (il dolo specifico, per l'appunto).

Ciò che preme sottolineare è che in tali casi, a ben vedere, è proprio grazie al recupero del principio di necessaria lesività che si è avvertita l’esigenza, da parte della giurisprudenza, di punire solo quei comportamenti che verosimilmente possano rivelarsi fonte di un pericolo serio e concreto per il bene giuridico protetto dalla norma penale. Pertanto, nei reati associativi, la giurisprudenza non ritiene sufficiente ai fini della punibilità il mero legame tra più persone, seppure caratterizzato dalla mala intentio, tutte le volte che quel vinculum non presenti quei caratteri di stabilità e organizzazione tali da far presumere la concreta idoneità a realizzazione il fine criminoso preso di mira dagli associati. Parimenti non è ritenuta sufficiente a configurare la punibilità di tali reati la presenza di strutture associative dal carattere evanescente ed astratto, specie perché in tal caso, oltre a non sussistere un serio pericolo per i beni protetti, vi sarebbe anche il rischio di punire unicamente una inclinazione ideologica degli adepti, in violazione del principio nemo cogitationis poena patitur.

Nelle sue ultime pronunce, la Corte di Cassazione è infatti incline a ritenere che, proprio in omaggio al principio di necessaria lesività, occorre escludere la possibilità di considerare meritevoli di punizione le fattispecie considerate dai suddetti reati associativi tutte le volte in cui non si ravvisi l’esistenza di una struttura organizzativa effettivamente ed obiettivamente idonea al compimento dei reati per i quali l’associazione stessa risulta costituita. Ed invero, secondo il recente orientamento della Suprema Corte, seppure non emerge la necessità che siano effettivamente e compiutamente realizzati i reati perseguiti dagli associati, è invece imprescindibile che esista una struttura organizzativa che palesi uno stadio di effettività tale da far presumere la verosimile attuazione del programma delittuoso. Assume rilievo particolare ai fini della nostra indagine l’articolo 270 bis c.p., (Associazioni con finalità di terrorismo e di eversione dell'ordine democratico) ad esempio, punisce con la reclusione da sette a quindici anni “chiunque promuove, costituisce, organizza, dirige o finanzia associazioni che si propongono il compimento di atti di violenza con finalità di terrorismo o di eversione dell’ordine democratico..”, ribadendo peraltro che “la finalità di terrorismo ricorre anche quando gli atti di violenza sono rivolti contro uno Stato estero, un’istituzione o un organismo internazionale.” In relazione a tale reato, la giurisprudenza della Suprema Corte ha osservato che nononstante si tratti di un reato di pericolo presunto, è necessaria, tuttavia “l'esistenza di una struttura organizzata, con un programma comune fra i partecipanti, finalizzato a sovvertire violentemente l'ordinamento dello Stato e accompagnato da progetti concreti e attuali di consumazione di atti di violenza. Ne consegue che la semplice idea eversiva, non accompagnata da propositi concreti e attuali di violenza, non vale a realizzare il reato, ricevendo tutela proprio dall'assetto costituzionale dello Stato che essa, contraddittoriamente, mira a travolgere..”.

Il requisito dell'organizzazione stabile ed effettiva tale da rendere possibile l'attuazione del programma criminale non implica però il riferimento a schemi organizzativi ordinari, essendo sufficiente che i modelli di aggregazione tra sodali integrino il "minimum" organizzativo richiesto a tale fine.

Petanto deve ritenersi che il reato di associazione con finalità di terrorismo anche internazionale o di eversione dell'ordine democratico sia integrato anche nell’ipotesi di organizzazione associativa di tipo rudimentale “che sia però capace di porre in essere numerosi atti di violenza contro enti ed istituzioni, idonei a condizionarne il funzionamento.” Ciò sul presupposto che, evidentemente un’organizzazione di tipo anche rudimentale non vuol tuttavia significare assenza di organizzazione laddove, al contrario, la stessa si riveli comunque in grado di operare funzionalmente ai fini presi di mira dagli associati. Orbene, come è facilmente intuibile, avuto riguardo a tale fattispecie, la giurisprudenza ha sottolineato che il regime probatorio atto a dimostrare la sussistenza di tale categoria di reati non potrà che esser caratterizzato da stringenti e tassativi limiti: la doverosa tutela delle libertà di associazione nonché di manifestazione del pensiero, riconosciute dalla Costituzione, imporranno di prendere in considerazione non di certo la semplice ideologia che ispira le azioni degli associati, ma la finalità violenta che essi perseguono.

Il dolo specifico, che caratterizza tale fattispecie, non è sufficiente al fine di idividuare la sussistenza del reato: si richiede piuttosto la necessità che siano compiuti atti materiali effettivamente e realmente idonei a mettere in pericolo l'ordinamento costituzionale.

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La tematica dei reati a consumazione anticipata, infatti, presenta inevitabili risvolti non solo in relazione al principio di offensività, ma anche relativamente all’elemento soggettivo che investe a vario titolo tale categoria di reati.

Si tratta quindi di focalizzare il ruolo svolto dal dolo specifico nell'ottica dell'anticipazione della tutela penale. È bene premettere che i reati a dolo specifico, come è noto, sono caratterizzati dal perseguimento, da parte del soggetto agente, di un fine ulteriore che si rivela estraneo rispetto alla materialità della fattispecie contemplata dalla norma penale incriminatrice, senza tuttavia che il perseguimento di tale fine rilevi ai fini della consumazione del reato stesso. La principale differenza rispetto al dolo intenzionale, infatti, sta proprio nel fatto che in quest’ultimo caso il soggetto mira alla realizzazione ad al perseguimento di un fine che, lungi dall’essere estraneo alla materialità della fattispecie prevista dalla norma penale incriminatrice, si presenta al contrario quale elemento costitutivo della stessa. Corollario di tale profondo discrimen tra le due figure è il fatto che, in presenza di dolo intenzionale, laddove il soggetto agente abbia effettivamente posto in essere e realizzato la finalità perseguita, il reato potrà dirsi perfezionato. Al contrario, laddove la norma contempli un’ipotesi di dolo specifico, l’eventuale mancato raggiungimento dell’ulteriore finalità in vista della quale il soggetto ha agito non rileva in alcun modo ai fini del perfezionamento del reato stesso. Ed invero, il raggiungimento o meno di quel fine ulteriore potrà acquisire rilevanza solo in seguito sotto il profilo sanzionatorio. Secondo la tradizionale ripartizione, il dolo specifico a sua volta può venire in rilievo come dolo specifico di offesa, dolo specifico di ulteriore offesa e dolo differenziale. Nel primo caso (dolo specifico di offesa), la finalità ulteriore voluta dall’agente interviene a dare rilevanza penale a condotte che, in assenza di quel particolare fine, sarebbero invece pienamente consentite.

Nel caso di dolo specifico di ulteriore offesa, invece, la finalità ulteriore che spinge il soggetto agente ad agire, rende ancora più grave e offensiva una condotta che già risulta essere deprecabile. Il dolo differenziale, come già la definizione sembra anticipare, viene invece in rilievo tutte le volte che intervenga a contrassegnare una determinata condotta illecita rispetto ad un’altra. Passate in rassegna le diverse figure di dolo specifico occorre analizzare in che modo tale elemento soggettivo si rapporti con i reati a consumazione anticipata. Al riguardo, occorre evidenziare che la maggior parte degli orientamenti dottrinari in materia ravvisano, nei reati a dolo specifico, delle ipotesi di reato di pericolo concreto nei quali il pericolo per l’offesa al bene giuridico protetto non è presunto dal legislatore, ma necessita del concreto accertamento ad opera del giudice. In tali ipotesi, a ben vedere, lo scopo preso di mira dal soggetto agente, che rappresenta la finalità ulteriore dal medesimo perseguita, deve a sua volta essere correlato all’oggettiva idoneità della condotta a realizzare l’evento stesso. Nei reati a dolo specifico la consumazione anticipata si traduce in astratto nel prevedere la punibilità della condotta a prescindere dal raggiungimento del fine preso di mira dall'agente. Si impone tuttavia una reinterpretazione di tali reati, costituzionalmente orientata e conforme al principio di necessaria lesività che imponga all'interprete la verifica dell'idoneità degli atti al raggiungimento dello scopo preso di mera, con il risvchio altrimenti di punire condotte meramente velleitarire.

Ne è conferma il fatto che, semmai la finalità presa di mira dal soggetto agente non fosse in concreto perseguibile perchè gli atti non sono obiettivamente idonei al raggiungimento dello scopo, si finirebbe con il punire unicamente quella volontà di per sé considerata. Occorre, cioè, che la volontà, che connota il fine e lo scopo del soggetto agente, non rimanga isolata, ma sia invece accompagnata da atti idonei alla finalità perseguita. In altri termini, è proprio l’idoneità degli atti che carica di disvalore penale il fine preso di mira dall'agente: la questione è stata recentemente affrontata dalla Suprema Corte proprio con riguardo al reato di cui all’articolo 270 quinquies c.p., che punisce l'addestramento ad attività con finalità di terrorismo anche internazionale.

In proposito il Supremo Consesso ha osservato (Cassazione Penale, Sez. VI, sentenza 25 luglio 2011, n. 29670) che la ratio di tale articolo sembra essere agevolmente ravvisabile nella necessità di reprimere “specifici comportamenti funzionali alla preparazione di veri e propri attentati.”. Anche in tal caso, infatti, siamo in presenza di un delitto a consumazione anticipata inserito dal D.L. 27 luglio 2005, n. 144, art. 15, comma 1, convertito dalla L. 31 luglio 2005, n. 155, emanato in attuazione dell'art. 7 della Convenzione di Varsavia del 16 maggio 2005. In particolare, tale articolo punisce con la reclusione da cinque a dieci anni chiunque al di fuori dei casi di cui all’articolo 270-bis prima esaminato, “addestra o comunque fornisce istruzioni sulla preparazione o sull’uso di materiali esplosivi, di armi da fuoco o di altre armi, di sostanze chimiche o batteriologiche nocive o pericolose, nonchè di ogni altra tecnica o metodo per il compimento di atti di violenza ovvero di sabotaggio di servizi pubblici essenziali, con finalità di terrorismo, anche se rivolti contro uno Stato estero, un’istituzione o un organismo internazionale.” specificando altresì che “la stessa pena si applica nei confronti della persona addestrata.” La Corte ha osservato che il risultato specifico descritto nella prima parte dell’art. 270 quinquies, pur non dovendo raggiungere le soglie del tentativo, deve comprovare la serietà dell’azione rispetto al primo fine, proiettandosi all’esterno attraverso momenti concreti di corrispondenza nei confronti della fattispecie.

La necessità di una severa tipizzazione dei singoli momenti strumentali che definiscono la condotta impone, quindi, un’altrettanto severa diagnosi sulla possibilità che quelle condotte descritte nell’art. 270 quinquies possano effettivamente realizzarsi non secondo modelli puramente didascalici (pur - almeno di norma - indispensabili nella struttura della fattispecie) ma concretamente idonei, nella loro intrinseca consistenza (da valutare ex ante, ma sulla base di elementi di fatto: spaziali, temporali, personali, etc.), da divenire verificabili dal giudice di merito nella loro proiezione verso il risultato rappresentato e voluto. L’esigenza di punire i comportamenti prodromici ad

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un'attività terroristica di tutta evidenza costituisce il fondamento che giustifica l’anticipazione della soglia della punibilità. Ciò posto, nella sentenza citata, la Corte distingue anzitutto la condotta sul piano oggettivo, ravvisandola in un'attività consistente” “nell'addestramento o nella fornitura di istruzioni alla preparazione o all'uso di materiali esplosivi, di armi da fuoco, di altre armi, di sostanze chimiche o batteriologiche nocive o pericolose, nonchè di ogni altra tecnica o metodo (e qui la condotta assume una proiezione finalistica che sintetizza le poliformi attività di addestramento e di istruzione, così da esorbitare dal dato puramente oggettivo) per il compimento di atti di violenza ovvero di sabotaggio di servizi pubblici essenziali.” Con particolare riferimento all’elemento soggettivo, la Suprema Corte ha affermato che trattasi in realtà di un reato a duplice dolo specifico, che si caratterizza, da un lato, dalla “ realizzazione di una condotta in concreto idonea al compimento di atti di violenza ovvero di sabotaggio di servizi pubblici essenziali e, in secondo luogo, dalla presenza della finalità di terrorismo descritta dall’art. 270-sexies c.p.”. La motivazione posta a fondamento di tale assunto è strettamente collegata, nell’ottica della Suprema Corte, alla necessità di salvaguardare proprio il principio di offensività. Infatti, quello stesso principio dovrà essere collegato, secondo la Corte, “ai fini corrispondenti a momenti teleologici non necessariamente interagenti ma comunque scomponibili e senza che sia individuabile tra di essi un vincolo di continenza.”. Ed invero proprio dal rilievo giuridico assegnato a ciascuna delle due finalità previste dalla norma in questione (compimento di atti di violenza ovvero di sabotaggio di servizi pubblici essenziali e finalità di terrorismo) “è possibile attribuire alle condotte descritte dall'art. 210 quinquies c.p. valore designante pure per la necessità di verificare la possibilità di realizzazione dello scopo divisato. Secondo un modulo non isolato nella 'novella' del 2005, la quale ha inserito anche il reato di cui all'art. 210 quater ('Arruolamento con finalità di terrorismo'), pur esso a doppio dolo specifico, richiedendo (ma sempre secondo il modello del pericolo concreto), da un lato, la finalizzazione dell'arruolamento di una o più persone al compimento di atti di violenza ovvero di sabotaggio di servizi pubblici essenziali e, dall'altro lato, la comune finalità di terrorismo.”

L’evento, pertanto, assurge quale “proiezione psicologica della condotta”e giustifica la anticipazione della punibilità.

Ed infatti, la finalizzazione dell'addestramento e dell'istruzione verso il compimento di atti di violenza, etc. postula, perchè la fattispecie venga realizzata, l'idoneità del contatto a realizzare il risultato perseguito.

La finalità perseguita assume in tali reati, secondo il dictum della Suprema Corte, un “valore quasi assorbente” rispetto al resto della fattispecie.

Corollario di tale impostazione è che, tutte le volte in cui la finalità descritta dalla norma in esame non sia in concreto perseguibile a causa dell’inidoneità delle condotte poste in essere rispetto al raggiungimento dello scopo, ci troveremmo di fronte a quella che la Corte definisce “una fattispecie di pura volontà”, in cui addirittura l'anticipazione della consumazione non sembra neppure “riconoscibile sul piano del possibile giuridico”.

In una tale casi, infatti, non sarebbe possibile ipotizzare alcun tipo di offesa, e pertanto non sarebbe possibile ricondurre la vicenda non solo ad un’ipotesi di reato di pericolo concreto, ma neanche una fattispecie di pericolo presunto o astratto.

Non sarebbe infatti sufficiente, affinchè tale fattispecie associativa venga realizzata, il solo associarsi, anche se finalizzato alla commissione di più reati;

Ciò comporta che, sotto il profilo della volontà, la proiezione della condotta verso un certo risultato, se connotata dalla concreta idoneità di raggiungerlo, permea di sè l'intera fattispecie; in tal modo eludendo sterili sezionamenti della fattispecie stessa.

Con riguardo all’art. 270 quinquies, dunque, la necessità di una severa tipizzazione dei singoli momenti strumentali che definiscono la condotta impone, quindi, un'altrettanto severa diagnosi sulla possibilità che quelle condotte descritte nell'art. 210 quinquies possano effettivamente realizzarsi non secondo modelli puramente didascalici (pur - almeno di norma - indispensabili nella struttura della fattispecie) ma concretamente idonei, nella loro intrinseca consistenza (da valutare ex ante, ma sulla base di elementi di fatto: spaziali, temporali, personali, etc), da divenire verificabili dal giudice di merito nella loro proiezione verso il risultato rappresentato e voluto.

Anche in tal caso, dunque, è l’idoneità dei mezzi che conferisce rilevanza penale al fine, ed al contempo, è anche la finalità presa di mira dal soggetto agente che a sua volta ne giustifica la punibilità.

Nella medesima occasione la Suprema Corte ha anche avuto modo di specificare che, perché possa dirsi configurato il delitto di Associazione con finalità di terrorismo anche internazionale o di eversione dell’ordine democratico (art. 270 bis c.p.), non è necessaria la realizzazione dei reati oggetto del programma criminoso, ma occorre l’esistenza sia di un programma, attuale e concreto, di atti di violenza a fini di terrorismo o di eversione dell’ordine democratico, sia di una struttura organizzativa stabile e permanente che, per quanto rudimentale, presenti un grado di effettività tale da rendere possibile l’attuazione di quel programma.

Per completezza di esposizione preme in ogni caso sottolineare che, avuto riguardo alla tematica ora analizzata, parte della dottrina è tuttavia giunta a conclusioni assai diverse rispetto a quelle alle quali da ultimo è approdata la Suprema Corte.

Ed infatti è stato al riguardo sostenuto che la finalità che consiste nel “ compimento di atti di violenza o di sabotaggio di servizi pubblici essenziali”, quale prevista e contemplata dalla norma incriminatrice, non rappresenterebbe una forma di dolo, né tanto meno di dolo specifico.

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Piuttosto, infatti, tale finalità sarebbe da considerarsi ala stregua di attributo e requisito della condotta, la quale, se non rivolta al compimento di atti di violenza (o di sabotaggio), in alcun modo potrà caricarsi di disvalore penale ai sensi di quanto previsto dalla fattispecie penale.

Secondo tale impostazione dottrinale, “ il compimento di atti di violenza o di sabotaggio di servizi pubblici essenziali,” in alcun modo rappresenterebbe il fine preso di mira dal soggetto agente, a differenza della invece “essenziale” finalità terroristica, ma servirebbe piuttosto a delineare i tratti attraverso i quali si estrinseca la condotta di addestramento. Ciò anche in considerazione del fatto che, a ben vedere, in assenza di una simile estrinsecazione della condotta questa stessa potrebbe a pieno titolo rientrare nell’area del penalmente lecito.

Pertanto, lo scopo contemplato dalla norma in questione rappresenterebbe una modus operandi del soggetto agente nel quale si concentra l’area del penalmente rilevante.

A conferma di ciò, la suesposta tesi ritiene infatti che, in tutti i casi in cui la condotta di addestramento non presentasse tali fini, ben potrebbe trovare la sua ragion d’essere o finalità ultima nel compimento di atti del tutto leciti.

Nonostante tale diversa impostazione, è opportuno rilevare come tale dottrina giunga alle medesime conclusioni della Suprema Corte in punto di qualificazione del reato de quo alla stregua di reato a pericolo concreto.

La salvaguardia del principio di offensività sarebbe al sicuro laddove si accerti che il dolo specifico abbia effettivamente sorretto e giustificato la tipizzata condotta di addestramento al compimento di atti di violenza o di sabotaggio, caricandola dei requisiti necessari per a far si che la stessa possa essere considerata del tutto idonea a porre in essere la finalità terroristica.

Conseguentemente, e proprio in virtù di tale presupposto teorico, al giudice sarebbe consentito formulare un giudizio di colpevolezza nella sola ipotesi in cui risultasse accertata l’oggettiva idoneità della condotta di addestramento a realizzare la finalità terroristica e non solamente il mezzo per la realizzazione della stessa.

In ogni caso, ed a sostegno invece della ricorrenza, in tale fattispecie, di un dolo specifico “doppio”, occorre rilevare che anche la tecnica legislativa utilizzata sembrerebbe deporre in tal senso. Infatti, la qualificazione dello scopo di compiere atti di violenza o di sabotaggio di servizi pubblici essenziali quale dolo specifico, in aggiunta a quello rappresentato dalla finalità terroristica, deriverebbe anche dalla stessa formulazione della norma penale incriminatrice.

Ed invero, il legislatore è solito classificare le fattispecie penali a dolo specifico attraverso l’utilizzo di locuzioni quali “ allo scopo di “ oppure “al fine di” . L’utilizzo dell’espressione “per il”, in tal caso, sarebbe la conferma di quanto sinora sostenuto.