Anno XXXIX N. 7 Dicembre 2018 Euro 2,00 · zione della Settimana del Pianeta Terra, dedicata alla...

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Periodico di ricerche e di temi turistici, culturali, politici e sportivi Dir. responsabile Raffaele Castagna Anno XXXIX N. 7 Dicembre 2018 Euro 2,00 Trovata un'inedita opera di Cesare Calise Fonti archivistiche Forio - Il Torrione - Marchiotto Calise tra XVI e XVII secolo Tributo della Germania all'arte di Luigi Coppa in mostra gli acquerelli noti come "Hofheim 1957" Rassegna Libri Ex Libris Giardini Ravino XI edizione di Meristema Il territorio di Lacco Ameno Toponimi, nomi, il lascito del conte Mellusi Napoli "London Shadow" in mostra

Transcript of Anno XXXIX N. 7 Dicembre 2018 Euro 2,00 · zione della Settimana del Pianeta Terra, dedicata alla...

Periodico di ricerche e di temi turistici, culturali, politici e sportiviDir. responsabile Raffaele Castagna

Anno XXXIXN. 7

Dicembre 2018

Euro 2,00

Trovata un'inedita opera di Cesare Calise

Fonti archivisticheForio - Il Torrione - Marchiotto Calise tra XVI e XVII secolo

Tributo della Germania all'arte di Luigi Coppain mostra gli acquerelli noti come "Hofheim 1957"

Rassegna Libri

Ex Libris

Giardini Ravino XI edizione di Meristema

Il territorio di Lacco AmenoToponimi, nomi, il lascito del conte Mellusi

Napoli"London Shadow" in mostra

Si è svolta dal 14 al 21 ottobre 2018 la sesta edi-zione della Settimana del Pianeta Terra, dedicata alla scoperta delle risorse naturali, sia le più spet-tacolari, sia le meno conosciute ma non meno af-fascinanti: quelle che abbiamo la fortuna, spesso senza saperlo, di avere a due passi da casa.

La Settimana del Pianeta Terra vuole far ap-passionare i giovani alla scienza, alle Geoscien-ze in particolare, e trasmettere l’entusiasmo per la ricerca e la scoperta scientifica; far conoscere le possibilità che la scienza offre per migliorare la qualità della vita e la sicurezza, investendo su ambiente, energia, clima, alimentazione, salute, risorse e riduzione dei rischi naturali.

Dunque durante la Settimana del Pianeta Ter-ra è l’Italia che apre le porte sul suo patrimonio naturale!

L’isola d’Ischia ha partecipato all’evento con la manifestazione “Incontriamoci nella Baia di Cartaromana - Aenaria tra arche-ologia subacquea e geologia”, svoltasi sa-bato 20 ottobre 2018, a cura di: Marina di Sant’Anna, Coop IschiaBarche, Area Marina Protetta Regno di Nettuno, Marevivo, Ener-solar2000.

Nel passato l’isola di Ischia è stata il crocevia di popoli e culture del Mediterraneo, oggi può rappre-sentare il punto di incontro tra la geologia e l’arche-ologia. In particolare, la baia di Cartaromana custo-disce un inestimabile patrimonio geoarcheologico: l’isolotto del Castello Aragonese e l’antico porto romano di Aenaria, oggi sommerso.

Il Castello, geosito marino, sorge su un antico iso-lotto di origine vulcanica (300 mila anni fa) ed è lo-calizzato al bordo di una faglia (Rittmann e Gottini, 1981), che determina la risalita di intense emissioni di gas dal fondale marino. Gli scavi archeologici, ef-fettuati nell’insenatura costiera dal 2011 sotto la di-rezione della Soprintendenza Archeologica compe-tente, hanno individuato a una profondità compresa tra i cinque ed i sette metri le prime tracce dell’inse-diamento romano di Aenaria, costituito da banchi-ne portuali, resti di edifici, gallerie, ninfei e vasche di raccolta dell’acqua. Inoltre, l’ingente quantità di frammenti ceramici recuperati ha permesso di indi-care il periodo di maggior frequentazione del sito tra il I secolo a.C. ed il II secolo d.C., a cui seguirono gli eventi sismici e vulcanici parossistici che portarono alla sommersione dell’insediamento (tra il 150-130 d.C.). La varietà dei reperti archeologici rinvenuti nel corso degli scavi e le evidenze geomorfologiche fanno ipotizzare per l’approdo di Cartaromana di un consistente e ricco traffico di merci provenienti dall’intero bacino del Mediterraneo; mentre l’ampio arco cronologico della ceramica consente di confer-mare l’utilizzo della baia come punto di ridosso per le rotte marittime che solcavano il Tirreno anche dopo l’abbandono delle strutture portuali di Car-taromana. Le strutture antiche svolgono infine un importante ruolo come marker per lo studio delle variazioni del livello del mare.

Uno degli obiettivi previsti per il 2018 per l’Anno Europeo dei Beni Culturali è stato quello di favorire un cambiamento anche nella protezione e valorizza-zione del patrimonio culturale.

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La Rassegna d’Ischia n. 7/2018 3

La Rassegna d’IschiaIn questo numero

2 Settimana del Pianeta Terra

4 Un mondo in cammino Le migrazioni - Premio "Ischia l'isola verde"

4 Il profumo di Forio

5 Il territorio di Lacco Ameno Toponimi, nomi, il lascito del conte Marino

13 Riflessioni La magia di autunno

14 Rasegna Libri - Assaggi critici - L'altra metà della luna - Brutte storie, bella gente - Suoni da riscoprire, antichi organi - Potenza Divina d'Amore - Pubblicazioni di Raffaele Castagna

18 Pasquale Mirabella

19 Napoli - Palazzo Zevallos "London Shadow" in mostra

24 Il patrimonio storico-artistico Trovata un'inedita opera di Cesare Calise 29 Fonti archivistiche Forio - il Torrione... tra XVI e XVII secolo 33 Giardini Ravino La XI edizione di Meristema

37 Ex libris

43 Gino Coppa l'artista glocale Il pittore innamorato del continente nero 45 Stori Il mito dell'aviatore Francesco Baracca

49 Malgründe - Hofheim als Motiv Von Coppa bis Schmidt-Rottluf

Periodico bimestrale di ricerche e di temi turistici, culturali, politici e sportivi

Anno XXXIX- n. 7Dicembre 2018

Euro 2,00

Editore e Direttore responsabile Raffaele Castagna

La Rassegna d’IschiaVia IV novembre 19

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n. 2907 del 16.02.1980Registro degli Operatori

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Chiuso in redazione il 15 novembre 2018

In copertina (I) : Acquerelli di Luigi Coppa in esposizione a Hofheim

4 La Rassegna d’Ischia n. 7/2018

Un mondo in cammino: Le migrazioni Al Torrione di Forio il XVI Premio di Poesia “Ischia l’isola verde"

Il profumo di Forio (20 Ottobre 2018)

Forio - Eccola qui, è esistita veramente negli anni della nostra giovinezza. Si arrivava dalla piazza, dopo esserci seduti al Bar Maria, stan-chi per non aver fatto nulla, infilandoci poi con indolenza e ciabattando con i nostri zoccoli il vicolo del Torrione, dove viveva Donna Rachele Mussolini e dove c’era un cellaio del vino con un odore che non ho più sentito in tutta la mia vita, il profumo d’Ischia. E.... di fianco c’era la caser-ma della Finanza, proprio vicino alla scalinata del ristorante di Filippo il Saturnino. Propri qui cominciavamo a sentire il rumore e l’odore del mare, della spiaggia e dei nostri amici e scruta-vamo intorno per vedere se già erano scese le ragazze. E non c’era il catrame, non c’era l’asfal-to, non c’era il cemento e non c’erano i divieti di sosta. E.... non dovevi fare attenzione ad attra-versare la strada, perché la strada non c’era e non c’erano le auto. C’era la spiaggia! E c’erano Ciccio & Mario nello stabilimento balneare che affilavano le armi per fronteggiare l’ennesima giornata contro i “portoghesi” che occupavano

“Non fu il mare a raccoglierci. Noi raccogliemmo il mare a braccia aperte”. Erri de Luca

Con l’attenta sintesi della frase di Erri de Luca si è concluso sabato 6 ottobre 2018 il XVI concorso nazio-nale di Poesia “Ischia l’isola verde” quest’anno con un tema scottante: le “Migrazioni”, organizzato dall’As-sociazione Giochi di Natale. Le circa ottanta poesie esaminate dalla Giuria coordinata dalla Preside Prof. Angela Procaccini, hanno rivelato un substrato poeti-co di ottima qualità e freschezza creativa, anche se il tema era molto delicato e quanto mai attuale. In real-tà la mobilità umana è stata sempre una caratteristica del genere umano. Fin dalla preistoria esistono popoli nomadi e in cerca di aperture di nuovi mercati del la-voro. Gli uomini si muovono da sempre. E per fortuna, verrebbe quasi da dire molto banalmente. Dobbiamo ringraziare l’istinto ramingo dei nostri progenitori, e la loro pazienza migratoria, se altri continenti oltre all’A-frica sono stati popolati nel corso dei millenni.

Ma quali sono le ragioni più profonde che inducono l’individuo a mettere in gioco la propria esistenza? È su quest’argomento che i nostri cinquanta poeti hanno

infuso nelle proprie opere tutto il loro pathos ricavan-done, chi gli ambiti premi, chi il piacere di aver par-tecipato a un concorso che senz’altro regala emozioni forti, ome quelle raccontateci dai vincitori provenienti dalla Penisola e che hanno affrontato un lungo viaggio per venire a Ischia e trascorrere un’armoniosa serata.

Ai primi posti, rispettivamente per il tema libero e

per le migrazioni, si sono classificati i poeti Stefano Peressini di Carrara con “Verrà un giorno” e Vanes Ferlini di Imola con “Dove ti chiamano uomo”.

Altri premi e menzioni speciali: Francesco Quartaro di Napoli (poesia Strignimmece nu poco)– Giuseppe Dolce di Napoli (poesia Posti in piedi in Paradiso) – Ilaria De Maria di Ischia (poesia Lettera mai scritta) – Aurora Cantini di Aviatico –BG (poesia Sono foglia su una zattera) - Tiziana Del Sale di Novara (poesia Gigli di mare) – Gianni Sardi di Napoli (poesia La luce delle stelle)

Le Poesie vincitrici e il pdf dell’antologia 2018 si pos-sono leggere alla pagina:http://www.iltorrioneforio.it/eventi-2/eventi-2018/premio-di-poesia-ischia-lisola-verde/

gratis sedie e tavolini. Là in fondo c’era il molo tranquillo, e di là del molo per noi c’era l’infi-nito, e andava bene cosi. Dietro le cabine c’era la salita ripida di sabbia per arrivare al Soccor-so, passando per le case dei pescatori dove c’e-ra sempre la puzza di fogna e ci arrivavi con i piedi arsi dalla sabbia bollente, ma ne valeva la pena, perché proprio dove c’era l’odore di fogna c’era anche una fontanella che faceva sgorgare un’acqua gelida che sembrava un miraggio. E... alla spiaggia si arrivava anche passando al Bar Mimi, attraverso quel vicoletto stretto e curvo dove si vendevano le cozze e dove c’era anche la bottega del venditore di ghiaccio, perché nel-le case non c’era il frigorifero. E al ritorno dal mare, sulla strada verso casa, arrivavano dalle finestre la poesia del basilico e del pomodoro e il rumore allegro dei piatti e il rituale prevedeva una sosta nel vicoletto per comprare il ghiaccio. C’era da rinfrescare il vino bianco del cellaio. Questo era il profumo d’Ischia… Ricordi e in-finita nostalgia dell’Isola Verde!

Gaetano Ponzano

La Rassegna d’Ischia n. 7/2018 5

Il territorio di Lacco Ameno toponimi, nomi, il lascito del conte Marino

Lacco Ameno, il meno esteso tra i Comuni dell’I-sola d’Ischia, con il suo caratteri stico sco glio, il Fungo, si estende lungo il mare e sulle prime pen-dici dell’Epomeo con una su perficie di 2,07 Kmq e un’altitudine che va da metri zero sul li vello del mare ai circa 300 della contrada Fango.

Il toponimo si fa per lo più derivare dal «gre-co λαας, in latino lapis, nel plurale greco λακκε, vale a dire nell'italiano pietre: ed infatti il terri-torio del Lacco era pieno di grossi massi di tufo bianco..Può benanche derivare dalla parola greca λακκος denotante fossa, lacus, precipizio1». Nel 1862 il consiglio comu nale deliberava di chiedere al re Vittorio Ema nuele II l’aggiunta di Ameno al nome Lacco, concessione accordata con DM del 4 gennaio 1863.

Una prima descrizione topografica di Lacco si ritrova in un documento del 1036, anche se non tutte le informazioni sono state recuperate. Il Conte Ma rino e sua moglie Teodora, che aveva-no fatto ricostruire un piccolo tempio in onore di Santa Restituta sulle rovine dell’antica basilica paleocristiana (vedi infra) alle falde di Monte di Vico, lasciavano tutti i beni che possedevano non solo a Lacco, ma anche in altre parti dell’Isola e

1 Francesco De Siano, Brevi e succinte notizie di Storia na-turale e civile dell'isola d'Ischia, pag. 73 della ristampa quale suppleemento a La Rassegna d'Ischia, giugno 1994, dell'edi-zione 1801.

sul Ca stello, al convento e alla chiesa di Santa Ma-ria, condotti dai monaci benedettini e situati sul monte Ce mentara (oggi, Cim miento).

I proprietari dei territorio di Lacco, come per lo più di quelli di tutta l’Isola, erano la Chiesa e cittadini napoletani e, già nel 598, papa Gregorio Magno in terviene appunto per la tutela dei beni dei napoletani. Nella lettera usa l’espressione «de insulis» per indi care l’isola e l’isolotto del Castel-lo: non esi ste più per l’isola un nome proprio (Pi-thekoussai, Aenaria), ma il nome co mune «insu-la» che, per evoluzione fonetica, passerà a «Isla» e, infine a «Ischia».

Alcune denominazione di siti risalivano appun-to a quei proprietari napole tani, denominazioni ancora in uso agli inizi del ventesimo secolo, alme-no nei do cu menti catastali, perizie d’agrimensori e atti notarili. Battimelli/a, per esempio, indicava la zona che dal confine del territorio della parroc-chia SS.ma Annun ziata scende costeg giando il mare fino al Capitello e compren deva nel 1432 Lo Casale delle Pezzolle, poi Cantinella.

Sussistono ancora, verso la fine del ‘600, alcuni nomi che sembra difficile localiz zare: Mataran-gola o Mercogliano, luogo detto Baldaja. Loca-lizzato, invece, il territorio detto Cauza grande e Cauza piccola (un tempo Cales) con grotte, canti-ne e «palmentole», che si di stendeva al disotto del Cimmiento e raggiungeva il Capitello.

6 La Rassegna d’Ischia n. 7/2018

Riferendoci alle fonti letterarie più recenti ri-portiamo innanzitutto alcune notizie che si trova-no nella Guida o Cenni storici di Vincenzo Mira-bella (1854-1943), pubblicata in varie edizioni, e che comunemente cominciano col determinare i confini del luogo:

(Lacco Ameno) «È a tramontana, e confina all’est con Casamicciola per le colline dell’Eddo-made, Castanito e Casa Mennella, all’ovest con Forio per Zaro, al sud coi detti due comuni per il monte Catreca ed al nord col mare che ha limite dalla Marinella del Pozzillo sino alla metà della marina di S. Montano2.

Esso occupa la parte più centrale e vicina al mare dell’isola, circondato da ubertose ed allegre colline, che ad anfiteatro vengono giù fino alle pla-cide onde della sua spaziosa marina, ed abbraccia le contrade Fango, Pannello, Arbusto, Mezza-via, Casa Monti, Casa Siano, Fundera, Marina, Rosario, S. Montano, Montevico. Ed il versante nord-ovest dell’Eddomade, con villette e giardini e pianure coltivate a vigneti ed ortaggi»3.

In aggiunta, un’altra lettura specifica consente di fissare ulteriori toponimi. Di questa fonte (Gio-vanni Castagna4) si riporta il brano seguente:

«... Per quanto riguarda la topografia del Casa-le, abbiamo riscontrato nei registri parrocchiali i nomi dei seguenti luoghi:

- il Fango con la zona della Coste e la chiesa di S. Giuseppe;

- la Pandella (Pannello) ove sono situate le chie-se di Sant’Ambrogio (sicuramente la cappella del-la Villa Di Siano) e di Sant’Aniello (la via Pannello forse raggiungeva via Mezzavia nei pressi della chiesetta della famiglia Manso)5;

- il Nese (attuale via Oneso) con il suo Penni-

2 La linea marittima, dal nord-est, chiamasi: Marinella del Pozzillo, Batteria demolita del Pozzillo, Punta del Pozzo, Sco-gliera del Capitello, Marina del Lacco, Sbarcatoio, Pietra del Lacco o Fungo o Pietra grande o Capo di Triglia, Punta di S. Restituta, Batteria diruta di Montevico, Promontorio e Punta Vico, Marinella di Varalo, Grotta di Mario, Torre di Monte-vico, Punta del Lacco, Capo S. Montano, Seno S. Montano, Marina o Spiaggia S. Montano (nota Belli).3 Per questa guida del Mirabella ci riferiamo soprattutto all’edizione pubblicata nel 1950, a cura delle figlie.4 Castagna Giovanni - “Il Casale del Lacco (1630-1749)”, Lacco Ameno, La Rassegna d’Ischia, Anno V n. 2 (Marzo 1984)., n. 3 (Aprile 1984).5 Pandella è forma ipercorretta. Quasi tutti i parroci, abi-tuati alla pronunzia dialettale del nesso nd come nn (Can-dida Cannida), presi dal dubbio, trascrivono tutti i nessi nn come nd (Gendaro per Gennaro, Indocenzio per Innocen-zio, Giovandella per Giovannella....).

no (che inizia un po’ più su dell’attuale albergo La Pace) e una sua stradetta: la via del Uade del Nese (1749);

- Casa Monte: 1643 e 1648;- il Territorio del campo del Piro (1643); - Larbosto (L’Arbusto): 1668, 1688, 1698, 1699;- Beuarulo (Varule): 1699;- Marina di San Montano - San Montano: 1734;- Torre dì S. Restituta: 1705;- Marina del Puzzo dove il 31.12.1739 morirono

naufraghi cinque abitanti del Casale, fra cui una donna ed un napoletano il cui corpo fu ritrovato il 2.1.1740. Dovrebbe trattarsi di un punto ben preciso del litorale del Lacco, perché generalmen-te esso viene indicato come “spiaggia marina” o “marina”;

Via del Guado, forse il sentiero che ancor oggi mena alle Terme Rita, il corso della lava.

Sono, inoltre, citate Casa Barbera (Barbieri) e Casa Patalano».

Alcuni di questi toponimi sono rintracciabili an-che sulle carte moderne (foto IGM e foto 1840) come Campo, Arbusto, oltre San Montano, Santa Restituta; spesso, in altri documenti similari, in-vece di Pannella si trova Pennella.

Molto di più si scopre nella carta del 1817-19, nella quale si leggono, non soltanto: S. Montano, S. Restituta, Marina di Lacco, ma anche: Casino dell’Arbusto, Territorio del Campo6, Casamonte, Pannella, S. Aniello, ed anche Cava, Annunciata, Baudino, Torricella, Pozzillo, Capitello, Mezza-via, ed un non meglio leggibile Cango.

Si riporta inoltre da Pietro Monti (1980, nota 82 p. 5567), da un atto notarile del 25 aprile 1432, «una terra nel Lacco nominata la Corticella seu la corte...8»: sarà per l’assonanza, ma Corticella fa venir in mente la sospirata Torricella.

Percorso costieroPer quanto riguarda il percorso costiero, si sug-

6 Si sottolinea quest’altra lettura della T nei toponimi, che nella carta del 1586 è estensivamente impiegata per Tem-plum, e qui per Territorio.7 Pietro Monti, Ischia, archeologia e storia, Tipolitografia F.lli Porzio, Napoli 1980.8 Si riporta da G. G. Cervera, Cronache del ‘700 ischitano, Melito (Na), 1982: « ... Marino Galàtola (comprò) nel 1432... un vasto territorio in Lacco, chiamato variamente Lo Casa-le delle Pezzolle, La Corte e anche La Corticella, che indica la presenza dei due toponimi già in quella data» (il corsivo è nostro).

La Rassegna d’Ischia n. 7/2018 7

gerisce innanzitutto la lettura delle seguenti fonti letterarie:

Mirabella9: «... Batterie e Fortini: Batteria diruta ad ovest della marina di Villa dei bagni e l’altra invicinanza del porto; il forte Castiglione, Guardiola (antica batteria) a ponente della punta Perrone in Casamicciola; batteria quasi demolita10 per in-tero ad occidente della spiaggia Pozzillo in Lacco Ameno; la vec-chia batteria e l’antico fortino di Montevergine alla spiaggia Scia-vica e le batterie del Soccorso e di Citara, in Forio».

D’Ascia11: «... A questo fa se-guito l’altro del Castiglione, che a nord si abbassa in meschino so-litario lido, fino alla punta della Scrofa; poi si disperde fra i massi di punta Perrone posta a cavalie-ro del suo fumigante lido di Ca-samicciola.

Traversata la spaziosa marina di questo comune, ti viene in-contro a N. O. il lido e la punta di Serangelo, che s’inclina sui vigneti che sovrastano la piccola piaggia del Pozzillo ed alla pun-ta di tal nome, a cui segue l’altra del Capitello - punta di segmento di quel cerchio, che costituisce la deliziosa e languida marina del Lacco, adomprata ad ovest da Monte Vico.

Dalla testé accennata Punta-Perrone a Monte Vico si forma un seno di circa 3 chilometri-

Monte Vico sorge fra la mari-na descritta che lascia a levante, ed esso torcendo verso ponente si unisce al Capo S. Montano, il quale a N. O. s’incaverna nella sua deliziosa baia nel suo roman-

9 Mirabella Vincenzo, Cenni storici e guida dell’isola d’Ischia, III edizione.10 La batteria quasi demolita dovrebbe essere quella di Punta del Pozzo, che è indicata come Batteria diruta, nella carta del 1840.11 D’Ascia Giuseppe, Storia d’Ischia, 1867.

Particolare dalla carta dell'I.G.M. del 1957

Particolare dalla carta del 1840

8 La Rassegna d’Ischia n. 7/2018

tico, pittoresco seno, detto la Cala di S. Montano, protetto un tempo da una torre, i cui avanzi muti ed abbandonati stanno a storia dei passato, ed il viandante te li addita, quando domanderai della Torre di Zaro».

D’Ascia12: «... Questo Comune guardandolo, da Monte Vico, si presenta allo sguardo informa di anfiteatro metà inghiottito dalle onde, avvegnac-chè le colline di Castanito, di Pannella, di Mezza-via, dell’Arbusto, ed il promontorio di Monte Vico, da un lato, e quello più modesto dell’Ebdomada dall’opposto lido, chiudono in semicerchio dai tre punti di est, sud, ed ovest la estesa pianura, ricca di terreni irrigatori, piantati ad ortaggi, a verdure, a seminati, a vigne; occupati da case coloniche, da ville ridenti; e che, terminando da un lato alle falde di amenissime colline ombreggiate da ciuffi di scarsi selveti, dall’altro la corda del suo diame-tro fittizio è costituita dall’estesa marina, bagnata dalle onde per tutta la sua estensione nordica. Le contrade Pannella, Mezzavia, Casa-Monte, Casa-Siano, Fango, Cesa, Capitello, ed altre, sono com-prese nel raggio di questo piccolo Comune»13.

È bene sottolineare che la maggior parte di questi toponimi si ritrova nella carta del 1817-19, tranne Casa Siano14, e con Addomada, dietro Punta Sarangelo, in luogo di Ebdomada; nella carta del 1884, si trova invece Dometa; nella carta del Palmieri si legge a fatica un Lodomato o Lo-domate, a sottolineare come un nome insolito sia sottoposto a letture e scritture sofferte.

12 D’Ascia Giuseppe, op. cit.13 Sempre in D’Ascia si trova Casa Monti, onde abbiamo, dallo stesso A. due diverse indicazioni: Casa-Monte (p. 401), Casa-Monti (p. 402, 404), nell’ultima pagina ripetuta due volte, cui oggi corrisponde Casamonte.14 Un Siano vi è leggibile nel territorio di Casamicciola, a levante della Sentinella.

Sempre a questo riguardo, nell’Indice di Cerve-ra15 si legge Ledomada.

Dalla Guida del Cervera16 si riporta, ancora, quanto segue:

«Confina a Est con Casamicciola Tenne secon-do una linea che partendo dallo Scoglio del Poz-zo, sale per la Fundera seguendo Cava La Rita e Cava del Monaco, fino alla Frana del Caduto, dove incontra il Comune di Forio. Con questo, Lacco Ameno confina ai rimanenti punti cardi-nali, seguendo una linea che per la Roccia della Frana, per la Frana di Cràtica scende, lungo il Fango, fino alla Borbonica. Prosegue quest’ulti-ma fino all’incontro della via per S. Aniello - Via Mezzavia -, la segue, immettendosi nella Via per Canale e uscendo sul fianco di Caccavelli nella provinciale sopra S. Calcedonio, proprio di fronte all’edicola del Santo17. Cammina sulla provinciale fino alla curva di Mezzatorre e si getta nella Via S. Montano percorrendola fino al mare dividendo quasi a metà la spiaggia col Comune di Forio.

Le strade hanno una lunghezza di km. 6,380 (4150 interne e 2,230 esterne). La struttura del Comune rifugge dalle cime: si adagia nella conca naturale in cui, in bell’armonia, si intrecciano le balze della Fundera, della Pannella, dell’Arbusto, di Monte Vico, tutte sul limitare della piana. Lun-go il mare, lo Scoglio del Pozzo, la Pietra di Lacco, detta anticamente anche Triglia e ora conosciu-ta col nome di Fungo, la spiaggia, Punta Monte Vico, che con l’altra del Chiarito rappresentano le

15 Cervera Giovan Giuseppe – Guida d’Ischia, Edizioni Di Meglio, Ischia, 1959, pag. 351.16 Cervera Giovan Giuseppe – Guida d’Ischia, Edizioni Di Meglio, Ischia, 1959, pp.181/182.17 Questa edicola è ancor oggi esistente (V. La Rassegna d’Ischia, n. 5/2010 - Articolo di V. Belli, pp. 43-45).

Lacco Ameno - Veduta con Monte Vico che nella sua conformazione attuale non corrisponde a questa visione, e il Fungo

La Rassegna d’Ischia n. 7/2018 9

Due immagini della citata edicola di S. Calcedonio

due punte caratteristiche dell’Isola, lo Scoglio del Leone e la Spiaggia di S. Montano».

Di rilevante, in tema di toponimi, si segnalano anche le due Frane, il Canale, gli scogli del Pozzo e del Leone.

Si deve peraltro aggiungere che, parrà strano, ma in entrambe le carte del ROT e quella del 1838 all’80.000, - a fronte di tanti nomi riportati nella tabella precedente, del vecchio scoglio della Tri-glia, diligentemente disegnato dal Cartaro -, il ce-lebre Fungo non figura né come disegno, né con un qualsiasi nome; pochi in verità in queste carte gli scogli, e le Pietre a mare.

Carata del ROT

10 La Rassegna d’Ischia n. 7/2018

Altri appunti sui toponimi della zonaAllo scopo di raccogliere altre indicazioni sui to-

ponimi della zona, indicate nella tabella allegata, si riportano brani da fonti bibliografiche.

Parlando di Montevico, si individuano ai suoi due lati, orientale e occidentale (Ilia Delizia18):

.. le due insenature, “sotto Varule” e S. Monta-no....

- .. Arbusto, Mezzavia e Mazzola

- Monti Pietro19, in Ischia Altomedievale, alle pagine 25 e seguenti riporta il rogito del Conte Marino e di Teodora contessa, coniugi, del 1036, in cui si trovano alcuni toponimi, a cominciare da Aenaria e Insula Maior, a nomi di alcuni villag-gi20.

In particolare si legge: «... In questo giorno, quindi, con volontà manifesta firmiamo e tra-smettiamo a voi signor Pietro, venerabile abate dello stesso nostro monastero e, per mezzo tuo, al dipinto che facemmo esporre in quel nostro mo-nastero. Cioè, l’intero casale detto Vico, dove noi, indegni, facemmo costruire su nuove fondamen-ta un oratorio in onore della Vergine e Martire Restituta, sito nella detta nostra isola, chiama-ta Enaria, ma anche Isola Maggiore, insieme con l’intero monte, la torre e le vigne, palmento e pal-mento di sotto, confinante, a settentrione, con le spiagge del mare nostro, di cui vi offriamo anche l’intera pescagione; dall’altra parte, ad orien-te confina, invece, con la terra di Pietro Russo e con la terra dell’episcopato nostro della Santa Sede, proprio dove, tra esse, termina la schiappa e, poiché gira a mezzogiorno sfiorando la terra dello stesso episcopato, termina precisamente al lavinario; di nuovo, poi, gira verso occiden-te radente la terra di quel Lancialonga e termi-na proprio dove c’è un rialzo per il quale sale e giunge fino alla via pubblica; nella stessa parte meridiana e nella stessa via volge sempre ver-so mezzogiorno fino al nostro monte domnico e, poi, volge indietro sfiorando altra terra che (la-cuna) vi offriamo una seconda volta: lì, congiun-tasi con quella detta ad ille Cese e, ad oriente, con

18 Delizia Ilia, Ischia l’identità negata, ESI Napoli 1987, pag. 87.:19 Pietro Monti, Ischia Altomedievale, ricerche storico-ar-cheologiche, Ischia 1991.20 Regii Neapolitani Archivi Monumenta edita ac illustrata, vol. IV (1001-1048), Neapoli 1854, pp. 269-273.

il territorio detto Calquie al disopra del bagno; ad occidente ci sono il nostro monte detto Vico, una palude e l’altro monte nostro domnico; per la seconda volta vi offriamo e confermiamo l’in-tero fondo detto quiali con l’intero passaggio sot-terraneo che si unisce ad essa verso settentrione. Vi offriamo, inoltre, e confermiamo l’intera terra detta ad illa velogna e il menzionato luogo Vico al disopra del già citato calquie, che, da una par-te, è congiunto con il monte nostro domnico e, da due parti, con le vie ed il casale cala e sala…

Ci troviamo anche di fronte a toponimi poco evidenziati, come: Calquie, Lancialonga, Petri ruxi, Velogna.

Per quanto concerne la Turre, è assodato trat-tarsi di fabbricato preesistente, il cui materiale sa-rebbe stato poi utilizzato per la costruzione della Torre di Montevico.

Il documento originale e completo è stato an-che presentato in uno studio di Giovanni Casta-gna su La Rassegna dell’isola d’Ischia, n. 2/2005, tradotto in versione italiana, che per la parte qui riportata è in nota21.

Il documento del conte Marino, pubblicato in «Regii Neapolitani Archivi Monumenta Edita ac Illustrata», concerne il lascito del conte Ma-rino Mellusi e della consorte Teodora in favore del monastero benedettino e della relativa chie-sa, dedicata a Santa Maria sul monte Cementara,

21 ... in eadem meridian parte, usque at monte nostro domni- ... in eadem meridian parte, usque at monte nostro domni-co: et redit iusta halia terra quas nobis... iterum offeruimus. ibidem coniunta que nominatur adlile cese: et da ipsa hori-entalem parte terra que nominatur at calquie super ilio bal-neo: seu bineas. palmentum et subscetorium suum ibidem: coherente sibi ha parte septemtrionis plagias maris nostri unde omnem piscationem vobis exinde offerimus et firma-mus: et ab alia parte quod est ab oriente terra petri ruxi: et terra episcopatui nostri sancte sedis ipsius nostre insule: sicuti inter se egripus exfinat. et quomodo atbolvit in parte meridie iusta terra ipsius episcopatui. sicuti labinarium exfi-nat: et iterum reboìbit in parte hoccidentis iusta terra de illu lancialonga sicuti inter se lebata exfinat: et qualiter salit et badit usque at via publica: in ipsa parte meridie et in ipsa via reboìbit in eadem meridianam parte, usque at monte nostro domnico: et redit iusta halia terra quas nobis... iterum offe-ruimus. ibidem coniunta que nominatur ad lile cese: et da ipsa horientalem parte terra que nominatur at calquie super illo balneo: ha parte hoccidentis est mons noster qui nomina-tur at bicum. et lamma seu et alius mons nostro domnico et iterum offerimus et firmamus vobis et integra terra que nom-inatur quiali. cum integrum cuniolum ibidem coniuntum in parte septemtrionis: insuper offerimus et firmamus vobis et integra terra que nominatur ad illa velogna. at memorato loco bicu super iamdicto loco calquie: qui coheret sibi hab una parte monte nostro domnico. et a duobus partibus vias. et integrum casale que nominatur cala et sala»….

La Rassegna d’Ischia n. 7/2018 11

nell’attuale comune di Lacco Ameno, e localizzato da Giorgio Buchner sull’altura «Cimmiento» al di sopra dell’attuale via IV Novembre, è stato spes-so oggetto di studio, soprattutto per le importanti descrizioni di località dell’Isola, anche se l’iden-tificazione per tutte non è stata ancora possibile.

Gli studi più approfonditi del documento sono quelli di Pasquale Polito22, Pietro Monti23 e Nicola Cilento24, ricchi di indicazioni e di suggerimenti.

Tuttavia la traduzione di Polito è stata condot-ta su un transunto, anche se le descrizioni delle località sono piuttosto fedeli25. Un testo diverso, quindi, da quello proposto da Nicola Cilento26 e da Pietro Monti27.

Polito nel presentare il documento scrive: «Il rogito redatto in un latino medievale e curialesco quanto mai barbaro28 [...]». Niente di più vero e, appunto per questo, più interessante.

Dal testo di Giovanni Castagna, riportato sul numero citato de La Rassegna d’Ischia, pubbli-chiamo i seguenti tratti:

«Se ci limitiamo alle località individuate nella zona di Lacco Ameno (le prime quattro), vi tro-viamo due monti «domnico»: «monte nostro domnico» e «alius mons nostro domnico», di cui uno potrebbe essere l’Arbusto e, se il «mons dom-nico» di «at illo sorbedo», situato in altra parte dell’isola, è identico a quello che si riscontra nella zona Lacco, deve trattarsi naturalmente del mon-te Epomeo.

Non condividiamo con Pietro Monti l’attribu-zione del casale cala e sala all’attuale Casamic-ciola Terme, anche se anch’egli sembra piuttosto indeciso29.

Rileggendo, infatti, la descrizione dei due casali,

22 Polito Pasquale, Lacco Ameno, il paese, la protettrice, il folklore, Napoli 1963, pp. 120-125.23 Monti Pietro, Ischia archeologia e storia, Napoli, 1980, pp. 460-461 e 501-507. 24 Cilento Nicola, Il rapporto fra Ischia e il Ducato di Na-poli nel Medioevo in «La tradizione storica e archeologica in età tardo-antica e medievale: I materiali e l’ambiente», Centro di Studi su l’Isola d’Ischia, Primo colloquio di studi per il 17° centenario di S. Restituta, Napoli, 1989, pp 97-112.25 Polito Pasquale, o. c. p. 120.26 Cilento Nicola, o. c pp. 108 e 112.27 Monti Pietro, Ischia Altomedievale Ricerche storiche e archeologiche, Ischia, 1991 pp. 25-23. Cfr. anche pp. 24,43,74,83.28 Polito Pasquale, o. c p. 120.29 Monti Pietro, Ischia archeologia e storia, o.c. p. 460-461 («Cala forse Piazza Bagni, Sala forse Piazza Maio») e p. 506 («sito forse nel Comune di Casamicciola»)

ci acccorgiamo che hanno due confini in comune: la terra di Pietro Russo e il lavinario:

«l’intero casale detto Vico, [...] insieme con l’intero monte, la torre e vigne, palmento e il pal-mento di sotto, confinante, a settentrione, con le spiagge del mare nostro, di cui vi offriamo anche l’intera pescagione; dall’altra parte, ad oriente confina, invece, con la terra di Pietro Russo e con la terra dell’episcopato nostro della Santa Sede, proprio dove, tra esse, termina la schiappa e, poi-ché gira a mezzogiorno sfiorando la terra dello stesso episcopato, termina precisamente al lavi-nario»;

«l’intero casale cala e sala, con l’intera palude attaccate insieme; ad oriente, con il ruscello e la via per cui sale fino al monte, mentre, ad occi-dente, con il vigneto di Pietro Russo, di Maren-da, figlia di Maru de Mastalu, moglie di Giovanni, detto Pittulo, e con quella di Pietro chiamato de Conbento, e termina proprio al lavinario e pres-so la terra di illi isclani sullo stesso lato, nonché presso la schiappa e il poggio; mentre, dalla parte settentrionale, termina con la terra del monastero Salvatore insule maris e, a mezzogiorno, con il ci-glio del ricordato monte».

Potrebbe darsi che Pietro Russo possedesse una terra anche a Casamicciola, ma due coincidenze lasciano piuttosto perplessi.

Secondo il nostro modesto parere, il casale cala e sala dovrebbe corrispondere a quel territorio poi detto Cauza grande e Cauza piccola, che la Platea degli Agostiniani presenta in questi termi-ni: «Massaria detta Cauza grande e piccola olim Cales30, in seguito detta anche «Cauza dei Mona-ci». Questo territorio confinava tra l’altro con i «beni dei RR. PP. Conventuali di Ischia:

«per anni tre si ha affittato suddetta Massaria sita nel Lacco e proprio nel luogo detto Cauza dei Monaci di capacità di misurelle quaranta in circa, vitata e fruttata, parte schiapposa e parte in pia-no, giusta li beni di Antonino di Siano, beni dei RR. PP. Conventuali d’Ischia, altri beni del con-vento di S. Maria della Scala, via publica ed altri confini se vi sono31».

Come l’intero territorio era venuto nel 1400 in

30 «Platea corrente dei P.P. Agostiniani del Convento di S. Maria della Scala di Borgo Celsa», nuovamente rilegata con cartapecora, secondo una nota manoscritta del Sac. Agostino Lauro, nell’ottobre del 1964, da Rev.di Padri Olivetani dell’I-stituto per il restauro del libro di Roma, Via Berticucci 13.31 Platea, o. c p. 785.

12 La Rassegna d’Ischia n. 7/2018

possesso di Lucibella Cossa, po-trebbe anche darsi che «la terra del monastero Salvatore insule maris» sia poi passata al Con-vento dei Padri Conventuali. Un’ipotesi da verificare.

Il poggio, inoltre, che segnava uno dei confini di cala e sala, lo ritroviamo anche come confine tra Cauza dei Monaci e il terri-torio di Antonino de Siano nel 1756:

«Parimente si dichiara che la terra affittata a Carmine Ferraro vi sta un poggio tra esso ed An-tonino di Siano, quale deve stare secondo il possesso antico, come appare dalli manifesti fatti, dove presentemente s’osservano le Croci, come questo ed altro si leg-ge nella fede d’apprezzo fattane dal Sig. tavolario Nicola Capuano di Forio li 23 aprile 175632».

L’intera palude di cala e sala fa anche parte di Cauza dei Monaci: «s’affittano un territorio vitato, ficato e fruttato con una piccola porzione seminatoria e padulare [...] nel predetto Casale del Lacco nel luogo detto Cava de Mona-ci33».

Per quanto, infine, concerne il «ribo», si tratta sicuramente del corso della lava che fino al 1910, prima della inondazione, scorre-va lungo l’attuale via IV Novem-bre e scendeva fino al Capitello.

Ricapitolando, quindi: i due territori, Cala e Sala e Cauza dei Monaci, hanno in comune il poggio di confine, la palude, il probabile identico confine dei monasteri, (nel 1036 quello di S. Salvatore insule maris, passa-to forse ai padri Conventuali), il corso della lava, cioè, «il ribo».

Per il lavinario, crediamo che non si debba pensare a quel-lo che sino alla fine degli anni 40 del secolo scorso, scorreva

32 Platea o. c. p. 782.33 Platea o. c. p. 787.

proprio davanti alla chiesa S. Restituta, cioè, a quel rivoletto, del resto neanche tanto profon-do, che s’ingrossava soltanto in caso di pioggia o di abbondanti «culate». Nel 1036 doveva rac-cogliere le acque non solo pro-venienti dall’Arbusto, attraverso l’attuale via San Paolo, e da altre zone circostanti, ma doveva sicu-ramente avere una lunghezza ed una portata più grande ed in esso dovevano confluire le acque dei colli anche più distanti. Il confine poteva benissimo situarsi presso qualsiasi altro punto del suo per-corso.

Il territorio di Cala e Sala ci of-fre l’occasione per un’altra messa a punto. Fra i nomi dei proprie-tari dei diversi territori (Pietro Russo, Marenda filia Maru de Mastalu, moglie di Giovanni det-to il Pittulo, illu Lancialonga...),

Carta Geologica dell'isola d'Ischia alla scala 1/25.000 del Dott. Carl Wilhelm Casimir Fuchs

s’incontra l’espressione «terra de illi isclani», dove «isclani» non sta ad indicare un abitante dell’insula, sia essa maior o mi-nor, ma è un nome proprio, che evolverà poi in «Ischiano» ed avrà in seguito l’esito «Schiano». L’espressione, inoltre, permette di notare come il dimostrativo «ille» sia divenuto articolo….

Fonti principali- Studi e ricerche di Vincenzo

Belli sul Dispositivo difensivo dell'isola d'Ischia.

- Studi e ricerche di Giovanni Castagna su Lacco Ameno e l'iso-la d'Ischia.

- Studi e ricerche di Raffaele Castagna.

La Rassegna d’Ischia n. 7/2018 13

Riflessioni La Magia

di autunnoL’autunno è una stagione magi-

ca, intensa. Dopo che l’estate ha portato via con sé la calura di un sole cocente e la frenesia di fe-ste, di spettacoli che ci rendono frastornati e confusi, ci riappro-piamo finalmente dei nostri spa-zi, del nostro tempo, del nostro mondo interiore.

Più disponibili e pacati, osser-viamo la natura intorno a noi, che vibra ricca di vita, con il suo alternarsi di nuvole, di sole, di vento.

Una natura dinamica, che ci coinvolge e alla quale ci abban-doniamo, poiché siamo consci che essa ci rigenera nel corpo e nella mente.

L’autunno non è la stagione della malinconia e della tristezza, solo perché gli alberi si spogliano e si avvicina l’inverno, piuttosto si deve cogliere un aspetto essen-ziale che bisogna captare a livel-lo di energie sottili.

sta tra le foglie secche e marce, mentre i profumi della terra ine-briano i sensi.

I canestri colmi di castagne non mancano mai, spesso dei funghi si sente solo il profumo, almeno per gli inesperti. Ma poco im-porta. Esplorare luoghi selvaggi è sempre positivo, anche se tor-niamo a casa a mani vuote. Nei sentieri e nei luoghi più inter-ni si possono ancora ammirare centinaia di cellai costruiti nel tufo, ricchi di cunicoli, anfratti, palmenti. Imponenti botti di ro-vere sono lì a testimoniare che la vite è parte integrante della nostra cultura contadina; d’ogni intorno parracine (muri a secco) costruite con pietra tufacea e, tra il verde di vigneti e uliveti, svet-tano case di pietra e case rurali. Ruderi sparsi qua e là, coperti da erbe, appaiono come templi, bel-li e affascinanti anche nella loro lenta agonia. In questi siti anco-ra incontaminati ci sono essenze arboree che donano profumi e atmosfere che mai dimentichia-mo.

Ma quest’isola davvero speciale non finisce mai di stupirci. Appe-na fuori dalle strade del centro, ci si tuffa nel passato, percorren-do vicoli, slarghi, stradine, dove sembra di ascoltare le voci di donne che, un tempo, sedevano fuori agli usci di casa e raccon-tavano storie di fantasmi e lupi mannari. Nei comuni collinari è possibile incontrare personaggi autentici, vecchietti che, seduti tra le aiuole, amano comunicare per raccontare storie antiche.

L’autunno è magico, perché è la stagione dell’introspezione, della meditazione. L’eterno cielo della morte e della vita che si rigenera e si evolve nel tempo.

Clementina Petroni

Ci sentiamo più leggeri, vitali, ed in tal senso avvertiamo la ne-cessità di esplorare i sentieri, la montagna, la campagna, i boschi di lecci, di querce e i castagneti.

Per chi ama le passeggiate all’a-perto, l’isola, nonostante i suoi limiti fisici, appare come un con-tinente tutto da scoprire.L’entroterra, questo meraviglio-

so mondo sconosciuto a molti isolani e turisti, ci porta in una dimensione che non è quella cao-tica e snervante dei centri abitati, ma è intima ricerca di noi stessi e delle nostre radici. La grande fe-sta dell’autunno è la vendemmia: la campagna si popola di gente e di voci festose.

Un intero anno di lavoro viene premiato con la raccolta dell’uva, la pigiatura, l’odore del mosto che si spande nell’aria e si fonde con il profumo della salsedine.

Anche i boschetti si animano di persone in attesa delle prime piogge e, dopo qualche giorno di sole, in tanti, in piena notte o nel-le prime ore del mattino, si va in cerca di funghi e di ricci che ca-dono ormai maturi dalle piante di castagno. Con bastoni si rovi-

Il bosco della Falanga - Emerge dal castagneto un blocco di tufo

14 La Rassegna d’Ischia n. 7/2018

Rassegna Libri

Assaggi criticidi Pasquale Balestriere

Genesi Editrice, collana Saggistica, maggio 2018

Da opere di Flacco, Campana, Bàrberi Squarotti, Ruf-filli, Campanile, Argenti, Baroni, Campegiani, Cecca-rossi, Cerio, Pardini, Rescigno, Siniscalco, Spagnuolo, Vicaretti.

La raccolta di saggi e articoli dello scrittore e studioso Pasquale Balestriere, Assaggi cri-tici, ha vinto la sezione di Saggistica inedita del Premio I Murazzi 2018, con l’unanimità dei consensi. La Giuria ha particolarmente apprezzato lo studio sul poeta latino tutt’oggi più consultato e citato all’interno della cultu-ra occidentale, Orazio, a fianco del quale, con un salto nella modernità, l’Autore ha saputo bene interessarsi ad alcuni massimi prota-gonisti della letteratura del Novecento come Campana, Campanile e Bárberi Squarotti, per poi giungere a fornire testimonianza anche di Autori ancora in vita e in produzione come Antonio Spagnuolo e alcuni altri scrittori di spicco italiani.

Pasquale Balestriere è nato a Barano d’Ischia nel 1945, docente. Laureato in lettere classiche, studioso di dia-letto, usi e costumi della sua isola, scrive in versi e in prosa.

Oltre che di numerosi articoli e saggi, soprattutto di argomento letterario, pubblicati su giornali e riviste, è autore di racconti e ha dato alle stampe varie raccolte di liriche: E il dolore con noi, Avellino 1979; Effemeridi pitecusane, Ischia 1994; Prove d’amore e di poesia, Roma 2007; Del padre, del vino, Pisa 2009; Quando passaggi di comete, Torino 2010; Il sogno della luce, Castel di Judica 2011; Oltrefrontiera, Fondi 2015.

Si sono, tra gli altri, interessati della sua poesia Marica Razza, Luigi Pumpo, Guido Massarelli, Claudia Turrà-Rizzuto, Alberto Mario Moriconi, Walter Ciapetti, Giorgio Bárberi Squarotti, Nazario Pardini, Luigi Maino, Raffaele Urraro, Paolo Ruffilli, Pasquale Matrone, Umberto Vicaretti, Gian Paolo Marchi, Elio Andriuoli, Lorenza Rocco, Antonio V. Nazzaro, Luciano Nanni, Gianfranco Scialino, Luisa Martiniello, Antonio Spagnuolo, Ninnj Di Stefano Busà, Piera Bruno, Franco Campegiani.

Ha ottenuto il primo premio in numerosi concorsi letterari, tra i quali si ricordano almeno il “Città di Quarrata”, “Città di Rufina”, “Città di San Bonifacio”, “Città dei Due Mari”, “Poseidonia-Paestum”, “Alessandro Contini Bo-nacossi”, “Chiesetta del Monasterolo”, “Silarus”, “Natività”, “Il Portone”, “Il filo della memoria”, “Il Concorso degli Assi”, “Napoli Cultural Classic”, “Città di Pontinia”, “Città di Vecchiano”, “Mino De Blasio”, “Luigi Grillo-Poesia in Cattedra”, “Ugo Foscolo”, “Poesia della memoria”, “Il nomade e le stelle”, “Bere il territorio”, “Milano Streghetta”, “Il Chiostro”, “Aeclanum”, “Libero de Libero”, “Antica Sulmo”, “Mimesis”, “Borgo di Alberona”, Città di Partanna, “La poesia del 2016”, La Nuova Tribuna Letteraria, “Città di Grottammare”, “San Giacomo”.

Il 28 marzo 2015 gli è stata assegnata dall’Università Pontificia Salesiana di Roma la Laurea Apollinaris Poetica, conferita con solenne cerimonia presso la Facoltà di Scienze della Comunicazione.

Partecipa ad attività e dibattiti culturali con relazioni, conferenze, presentazioni di libri, recensioni, prefazioni, collaborazioni di vario tipo con giornali e riviste, blog ecc.

La Rassegna d’Ischia n. 7/2018 15

L’altra metà della lunadi Federica AmalfitanoAletti Editore, collana “Oro narrativa”, luglio 2018.

Brutte storie bella genteIncontri ordinari di una professione straordi-nariadi Gianfranco MatteraSan Paolo Edizioni, 2018

Sorprendenti e commoventi, ironiche e appas-sionate: questa raccolta di storie vere raccontate con piglio letterario presenta le sfide quotidiane di un assistente sociale: un uomo impegnato a fron-teggiare le problematiche delle persone comuni che si rivolgono ai servizi di assistenza. La pover-tà, l’immigrazione, la malattia psichiatrica, la so-litudine, l’handicap, la separazione, l’affidamento familiare. Questi, tra gli altri, i temi di scottante attualità trattati dal punto di vista di chi nei servi-zi sociali ci lavora. A ciascuno di essi corrisponde un volto, una persona: un’avventura di sofferenza e di coraggio. Con una scrittura asciutta e incisiva, rinunciando a ogni tentazione di autocelebrazio-ne della professione, Gianfranco Mattera ci apre alla conoscenza di un mondo sconosciuto andan-do oltre gli stereotipi e i luoghi comuni.

“Ho trovato un motivo per essere felice. Tu sei e resterai la cosa più bella che mi ha sconvolto l’esistenza... sei la mia metà della luna”.

Selene Verdana è pronta ad attaccare Florence insieme ai suoi alleati. I Kean hanno abbandona-to la piccola cittadina per cercare di proteggere i suoi abitanti e soprattutto Ellen che nel frattem-po, senza Taylor, si sente sempre più sola. Quan-do il suo lupo protettore però si fa vivo porta con sé qualcosa di oscuro; qualcosa che forse solo dei sentimenti profondi riusciranno a cambiare. Tra battaglie all’ultimo sangue, orde di licantropi pronte a morire per onore e segreti svelati, i due ragazzi cercheranno di riscrivere la loro storia, perché il filo invisibile che li tiene uniti è più forte di qualsiasi cosa.

Federica Amalfitano nasce a Ischia, si laurea in Scienze Biotecnologiche per la salute all’Università degli Studi di Napoli “Federico II” e lavora in un la-boratorio. Ha sempre avuto una passione smodata per i libri, ma quella per il genere Fantasy nasce grazie a “Il Signore degli anelli” di Tolkien e il primo libro di Cristopher Paolini “Eragon”. Ha pubblicato nel 2016 con la stssa Casa Editrice “Gli occhi del lupo”, primo volume del dittico.

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Suoni da riscoprireAntichi organi a canne di Ischiadi Francesco Nocerino

NaturalMenteMusica-CIDM, agosto 2018

cumenti e antichi strumenti nelle chiese, cappelle e congreghe di Ischia. Ed è stata particolarmente piacevole la scoperta di numerosi strumenti di no-tevole interesse, che, attivi da secoli, sono spesso ancora in piena efficienza, amorevolmente curati, restaurati e suonati.

Ed è proprio per rendere omaggio come ospite a questa virtuosa attività musicale ischitana che ho ritenuto opportuno raccogliere informazioni e ragguagli su questi strumenti e condividere, non solo con turisti o villeggianti, un percorso per am-mirare, apprezzare e magari ascoltare gli organi a canne antichi presenti nelle chiese di Ischia (Pre-fazione).

Potenza Divina d’AmoreRiflessioni sullo Spirito Santodi Antonio Magaldi

Finsol s.r.l. – Palestrina, settembre 2018. Postfazione di Mario Busca e Antonio Cacciuttolo

Prendendo spunto dai colori utilizzati nell’ico-na denominata La Trinità di Rublev (si invita il lettore a cercarne notizie nel caso in cui non l’a-vesse già apprezzata), la copertina del presente

Da oltre un decennio, durante l’estate, mi reco ogni anno ad Ischia per godere del bellissimo mare, degli incantevoli panorami, delle salubri acque termali, dell’ottima cucina e dei pregiati vini. In particolare, mi fermo a Ischia Ponte, luogo ricco di arte e di storia, dominato dal suo Castello Aragonese dove visse tra il 1501 e 1536 la nobile poetessa Vittoria Colonna (1490-1547), circonda-ta da eminenti artisti e letterati, tra i quali Ludovi-co Ariosto, Giovanni Pontano, Jacopo Sannazaro, Bernardo Tasso.

Durante quei giorni in cui le condizioni climati-che non consigliano di andare al mare a Cartaro-mana o a prendere il sole sulla vulcanica sabbia della spiaggia dei pescatori alla Mandra, adden-trandomi per le stradine caratteristiche che porta-no sopra Campagnano o a San Domenico, o anche semplicemente passeggiando per il borgo di Celsa o sul lungomare del porto, mi sono intrattenuto ad “andare per organi” ossia a cercare notizie, do-

La Rassegna d’Ischia n. 7/2018 17

volumetto ne utilizza il significato simbolico. Il giallo oro della parola DIO è simbolo di regalità e del sacerdozio regale di Gesù. Il rosso della parola AMORE è simbolo del sacrificio, della carità divi-na espressa dallo Spirito Santo. La cornice verde che racchiude la scritta in greco ὁ θεός ἀγάπη è simbolo della vita, donata dallo Spirito Santo. Il blu della terza persona singolare del verbo essere (verbo proprio di Dio: Io sono colui che sono, Es 3,14) è simbolo della vita eterna. L’incrocio tra le O delle parole DIO e AMORE non è un semplice

gioco ad incastro, ma identifica uno degli attribu-ti principali di Dio, sullo sfondo del greco antico con cui lo stesso apostolo ed evangelista Giovanni scrisse questa meravigliosa verità.Seguono le lingue principali dell’uomo di oggi che inneggiano a tale verità, scritte con caratteri di-versi per simboleggiare la diversità dei carismi e l’unità nell’espressione: spagnolo, cinese, bosnia-co, portoghese, arabo, francese, inglese e tedesco. (Risvolto di copertina).

Pubblicazioni di Raffaele Castagna - Edizioni Youcanprint

18 La Rassegna d’Ischia n. 7/2018

Il 13 ottobre 2018, nel New Jersey (USA) è venuto a mancare Pasquale Mirabella, per noi tutti isolani “Lambretta”, come era stato denominato per le sue doti di veloce attaccante nel campo calcistico, avendo militato da giovane nelle file della famosa Aenaria.

Appena ventenne, cominciò a girare per il mondo per imparare le lingue straniere e per diventare ap-prezzatissimo direttore di sala di importanti alberghi. Trentenne, si stabilì in America, ad Atlantic City, rico-prendo per tanti anni il ruolo di manager-supervisor del ristorante italiano ”Primavera” di Cosimo Caesars. Lascia l’amatissima moglie Cecilia, splendida donna honduregna, ed il giovanissimo figlio Nicolino, da lui adorato.

Due testi del calcio isolano1 riportano Pasquale Mi-rabella presente nelle file dell’Aenaria nei campionati 1959-60, 1960-61, 1961-62 e 1964-65.

Da “Lacco Ameno, il calcio dalle origini al 1970” di Pietro Ferrandino riportiamo il seguente profilo del giocatore:

Ala vivace e velocissima, dotato di dribbling e di ottima progressione, metteva in grado le punte di realizzare con i suoi precisi traversoni. Leggero fisi-

1 Raffaele Castagna, Calcio Ischia, 1956-1980, supplemento de La Rassegna d’Ischia n. 1/1981 - Pietro Ferrandino, Lacco Ameno, il calcio dalle origini al 1970, pubblicato con il pa-trocinio del Comune di Lacco Ameno e prefazione di Antonio Schiazzano, giugno 2005.

Il calcio e la compagine dell'Aenaria...

Pasquale Mirabella : una "Lambretta" a tutta velocità

Una formazione dell'Aenaria 1959-60 con Pasquale MirabellaIn piedi da sinistrra: Antonio Mattera, Abramo De Siano, Giuseppe Rispoli, Sebastiano Monti, Alfonso Martusciello, Mario Paparone, Scipione Di Meglio (allenatore) - Accosciati da sinistra: Alfredo D'Andrea, Gaetano Capuano, Pasquale Mirabella, Leonardo Monti, Ciro Gagliotta

camente, si mise in evidenza anche come buon rea-lizzatore.

Pasquale Mirabella: una “Lambretta” a tutta velocità - Un simpatico soprannome al passo coi tempi:

Il giovane Pasquale Mirabella è velocissimo e quan-do si lancia in fuga sulla fascia laterale esalta i tifosi entusiasti. Tra l’altro, lavora come operaio presso la rivendita di auto e ciclomotori (la prima sull’isola) del signor Amelio Bondavalli, il quale lanciò sul mercato isolano le vetture della “500”, della “600” e un mezzo di trasporto a due ruote che proprio in quest’epoca cattura i desideri e la fantasia degli italiani: “la Lam-bretta”. Troppo facile per i tifosi dell’Aenaria fare due più due uguale quattro: velocità più Bondavalli ugua-le … “Lambretta”. Così il simpatico Pasquale Mirabel-la divenne per tutti “Lambretta” e basta!

Da una cronaca del campionato 59-60Il Montesarchio viene travolto sull’isola per 7-1 e

Abramo De Siano, autore di quattro splendide reti e Mirabella…, ottimo trascinatore e splendido coordina-tore all’attacco, sono i protagonisti.

1961-62I ragazzi di Lupoli travolgono la Sibilla a Forio (5-0)

con doppiette di Ninone Di Meglio e Pasquale Mirabel-la, più gol di Raffaele Castaldi.

1964-65Si vince contro la Barrese grazie ad un rigore segnato

da Pasquale Mirabella, a dieci minuti dal termine.Enzo Patalano

La Rassegna d’Ischia n. 7/2018 19

di Carmine Negro

L’orologio segna le ore 18.00 di giovedì 18 ottobre 2018. Su quella che Stendhal definì la “strada più popolosa e allegra del mon-do” - via Toledo – si affaccia, questa sera, un Palazzo Zevallos Stigliano, sede museale di Intesa San Paolo, particolarmente festoso e seducente. Il severo e monumentale portale bugnato in marmo e piperno lascia intravede-re i dipinti dai colori accesi che spiccano sulle pareti del salone d’ingresso. Per richiamare i passanti, invitarli ad entrare, accompagnarli nel percorso di visita al palazzo, veloci ritmi-che elettroniche creano suggestive atmosfere; sono suoni che permeano il palazzo e si dif-fondono nella strada.

Per questa serata di apertura sono stati selezio-nati e miscelati1 alcuni dei brani più importanti e significativi nella scena musicale britannica degli anni ’90, rappresentativi di quel fenomeno musi-cale divenuto di fama internazionale denominato

1 Durante la serata inaugurale i brani musicali sono stati se-lezionati e miscelati da Giorgio Valletta, dj radiofonico di Radio Raheem.

“britpop”, che rispondeva, attraverso la musica, alla voglia di scoprire nuove motivazioni socia-li, ritrovare unità per cercare di uscire dall’oblio, riappropriarsi delle proprie radici, talvolta con contaminazioni, che le rendessero irriconoscibi-li. Questa corrente faceva convergere in sé non solo uno stile musicale, ma anche un fenomeno di costume e di comunicazione; rivoluzionava in senso culturale la società dell’epoca in sintonia con l’arte, la letteratura, il senso della polis. Tutto pareva essersi risvegliato, una nuova primavera, una nuova speranza che andava oltre la musica. Il genere musicale rock Grunge, sviluppato prin-cipalmente nella città di Seattle (U.S.A.), a partire dalla seconda metà degli anni Ottanta, più anar-chico e velleitario, comunicava cupismo e rasse-gnazione senza offrire una via d’uscita alla crisi di una generazione; in Gran Bretagna la rivoluzione, impersonata nella musica dal britpop, regalava invece il sogno di potercela fare.

Mentre comincio il percorso e mi perdo tra composizioni impressionanti, opere dalle tinte forti e visitatori entusiasti, rifletto sull’arte che non riproduce ciò che è visibile, ma rende visi-bile ciò che non sempre lo è (Paul Klee) e svela il sottile filo che lega la vita delle persone e le rende

“Mi è stato insegnato ad affrontare ciò che non posso evitare. La morte è una di quelle cose. Vivere nella società tentando di non guardare la morte è stupido perché guardarla ci fa ritornare alla vita con maggior vigore ed energia. Il fatto che i fiori non durino per sempre è ciò che li rende belli." (Damien Hirst).

Napoli - Palazzo Zevallos Stigliano

“London Shadow” in mostraDal 18 ottobre 2018 al 20 gennaio 2019

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meno isole. C’è poi la musica, tanta musica che in quegli anni vide la Gran Bretagna come prota-gonista. Oltre alla britpop c’è un altro tipo di stile legato alla rivoluzione dance-elettronica, presente in particolare a Bristol e definito “trip hop”. Tale termine, più sofisticato rispetto all’hip hop, deriva dal termine inglese trip che vuol dire viaggio con la mente. Tali sonorità, che hanno lasciato molte tracce nel suono dei decenni successivi, testimo-niano quanto la musica di quegli anni abbia in-fluenzato e interagito con gli artisti rappresentati nella mostra, da Damien Hirst in poi.

“London Shadow è un percorso attraverso l’arte inglese degli anni novanta, forse l’ultimo momento così compatto dell’arte europea, ed emerge una generazione forte, provocatoria e irriverente. Napoli, come al solito in Italia, è una città che riesce ad arrivare prima sulla dimen-sione internazionale… Diversi artisti come Mat Collishaw, Darren Almond, Gilbert & George, Jason Martin sono rappresentati nelle gallerie napoletane. Le donne hanno un ruolo determi-nante nella nascita e nello sviluppo nella YBA (Young British Artists): Sarah Lucas, Tracey Emin, Gillian Wearing, Sam Taylor-Wood, sono presenti con lavori davvero forti che mettono in crisi il potere dei loro colleghi maschi”. Così si esprime, nel suo intervento all’inaugurazione, il curatore dell’esposizione Luca Beatrice.

“London Shadow. La rivoluzione inglese da Gilbert & George a Damien Hirst” racconta, at-traverso ventitré opere di sedici artisti di fine anni ’80 e primi anni ’90, lo spirito di un’autentica rivolta. Il nome London Shadow, dato all’espo-sizione, deriva dal titolo di un’opera di Gilbert & George, il “duo terribile” attivo fin dalla fine degli anni ’60 che con le loro aspre opere, sarcastiche e provocanti, sono i precursori di quelle battaglie sociali e civili, che saranno le tematiche che si svi-lupperanno nella collettività dalla seconda metà degli anni ’80. Siglare individualmente le opere e adottare la “firma comune” Gilbert & George indi-cano non solo un rifiuto della distinzione dei ruo-li, ma anche un profondo riesame dei concetti di identità e di individualità. La firma comune sanci-sce l’universalità di un agire, che è alla base della creazione artistica, che rifiuta l’individualizzazio-ne e che richiama il loro motto: “l’arte è di tutti”. Anche l’allestimento delle mostre è un elemento fondamentale nella loro visione dell’arte: l’allesti-mento è parte integrante dell’opera perché, da un lato, sconvolge lo spazio soprattutto dal punto di vista delle dimensioni e, dall’altro, demolisce la

sacralità dell’opera, portandola dentro la vita, fa-cendone una parte della vita.

Sono questi i motivi del loro interesse a ripren-dere le esperienze umane di ogni tipo, indagando paure, ossessioni ed emozioni che gli individui provano quando sono posti davanti a temi forti quali sesso, razza, religione e politica. Essi stessi, con il loro vissuto, si sottopongono, per primi, a tale minuzioso esame, in un’ottica che vede l’ar-tista e l’opera d’arte coincidenti. “Essere sculture viventi è la nostra linfa, il nostro destino, la no-stra avventura, il nostro disastro, nostra vita e nostra luce” dichiarano indicando nel problema del rapporto tra l’arte e la vita l’asse portante della loro poetica.

Negli anni novanta Londra ritorna ad essere la città “cool” che più fa tendenza nel mondo. Coin-volge la musica con il fenomeno britpop, l’elettro-nica dei club che porta nelle canzoni una ventata di aria nuova e una leggerezza fino ad allora sco-nosciuta; con alcuni gruppi esplora sonorità di-verse e con altri viaggia su una musica più intimi-sta e adulta nei testi. In letteratura si segnala per il suo stile; la narrativa di Irvine Welsh, scrittore e drammaturgo scozzese, tratteggia i personaggi e gli ambienti, prediligendo quasi sempre situazio-ni borderline. Ci sono poi le periferie indiane del-lo scrittore anglo-pakistano Hanif Kureishi che, con il romanzo Il Budda delle periferie, cerca di dare un’identità ad un adolescente (primo nodo del romanzo), di madre inglese e padre pakista-no in un contesto sociale e politico in continuo mutamento, come quello dell’Inghilterra del-la Thatcher. E ancora la modella Kate Moss che con il suo fisico androgino e la sua bellezza pal-lida e fragile diventa un’icona capace di ispirare intere generazioni di donne, modelle, stilisti ma anche musicisti, artisti e fotografi. Ci sono i gio-vani stilisti come Alexander McQueen, provoca-tore professionale, l’hooligan della moda inglese, il designer dalla vena oscura, colui che denuncia la vacuità del mondo della moda, che veste le sue modelle come donne abusate, che le traveste da fate nere e che dice “non mi interessa essere apprezzato”. C’è poi il contributo dell’arte. Tra la fine degli anni Ottanta e i primi Novanta un gruppo di giovani studenti del Goldsmith College, poco più che ventenni, intravedono la possibilità di rompere i vecchi schemi e imporre con prepo-tenza segni e messaggi nuovi: nasce il movimento visual art2 conosciuto con il nome YBA (Young

2 L’area delle arti visive (o arti visuali) è estremamente

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British Artists) detto anche dei Brit artists (o Brit Pack) o ancora compreso nella denominazione più ampia di Britart. A guidare questo gruppo di anti-eroi, dove significativa è la presenza femmi-nile, è Damien Hirst. Ancora studente, organizza la mostra Freeze, che nel giro di poche settimane diventa l’evento capace di dividere le opinioni, tra odio e amore. Siamo alla fine degli anni Ottanta, il collezionista Charles Saatchi diventa il principale sostenitore di questo gruppo di artisti.

Damien Hirst realizza installazioni, sculture, dipinti e disegni che indagano le relazioni tra arte, scienza, vita e morte. In un tempo in cui l’esse-re umano è proiettato sul presente l’artista, con le sue opere, fissa la sua attenzione su un aspet-to della vita che l’uomo ha tentato di ignorare: la morte, la vita che scorre, il disfacimento del corpo. Il suo messaggio non è triste e cupo, anzi mescola la vita e la morte, teschi tempestati di diamanti e insetti colorati sono lì a rappresentare morte e vita, dolore e gioia, realtà e finzione. I suoi lavo-ri hanno spesso per oggetto cadaveri di animali imbalsamati, in alcuni casi sezionati e conservati in formaldeide. Tali opere sono comunque desti-nate alla scomparsa: i liquidi, infatti, rallentano soltanto il processo di decomposizione che, por-terà, in un modo o nell’altro, alla loro disgrega-zione. Damien Hirst è anche inventore di geniali installazioni che assemblano scultura, pittura e disegno, in cui cerca la sfida, il confine tra l’arte, la scienza e la cultura, esplorando l’incertezza, i sentimenti, l’amore, la vita e la morte, attraverso mezzi espressivi inaspettati e mai convenzionali. Mettere in mostra le contraddizioni, mescolare ricchezza e povertà, vita e morte, avanzare critiche contro il mondo dell’arte e rispettare le regole che servono per essere menzionato nei libri di storia o migliorare le quotazioni delle sue opere, utilizzare gli animali come strumento per le sue opere, spo-gliandoli di ogni dignità, adoperare abili strategie di marketing gli hanno procurato feroci critiche e reso personaggio controverso.

Gli artisti che condividono l’esperienza YBA sono tutti della stessa generazione, nati in buona parte negli anni Sessanta, a eccezione di Gilbert & George, che infatti Hirst considera precursori perché capaci di unire il pensiero concettuale con

ampia essendo definibile in tal modo qualunque forma arti-stica che abbia come risultato un oggetto visibile. Nella so-cietà contemporanea la cultura visiva ha assunto un’enorme importanza, più recentemente l’arte digitale e la new media art hanno guadagnato un ruolo non trascurabile in una cul-tura sempre più dominata dal visuale.

l’immaginario pop e una forte tendenza trasgres-siva anche in chiave omosessuale.

A Palazzo Zevallos Stigliano sono esposte tre opere di Damien Hirst. Problems, concessa ec-cezionalmente in prestito dallo stesso artista e proveniente dal suo studio di Londra, evidenzia la nostra risposta all’inquietudine legata alla ca-ducità dell’esistenza fisica e spirituale. In Everes Comyntas, un olio su tela, attraverso una farfalla viene rappresentata la fragilità e la labilità effime-ra della bellezza mentre Methyluracil consiste di una serie di punti colorati, dipinti con vernici in-dustriali su fondo bianco, tutti equidistanti l’uno dall’altro, spesso imitate dalla grafica pubblicita-ria degli ultimi anni. I cerchi colorati nascondono

Damien Hirst - Everes Comyntas

una particolarità: nessun singolo colore è ripetuto nella tela. La difficoltà dell’artista sta proprio nel-la scelta dei colori da accostare. Questi rappresen-tano il suo stato d’animo, più chiari o più scuri in base al suo personale livello di gioia. Quando ven-gono esposti nelle sale dei musei di tutto il mon-do, si attua proprio l’obiettivo di Hirst: provoca-re nel pubblico angoscia e un certo disturbo. Il visitatore, infatti, si sente stretto e accerchiato dalla ripetitività di tutti questi punti colorati, no-nostante l’apparente armonia delle composizioni e infastidito vorrebbe solo scappare. Questo per-ché gli Spot - realizzati con una nascosta carica aggressiva – invadono i nostri sensi, ne prendono possesso e ci creano un forte turbamento come se uscissero dalla loro dimensione.

L’itinerario espositivo che, con temi, tecniche e materiali diversi, si snoda intorno al suggestivo salone centrale, ricavato dal grande cortile sei-centesco del palazzo, consente un originale viag-

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gio nella pluralità di linguaggi di questa sorta di rivoluzione dell’arte contemporanea. La mostra prende in esame anche ricerche sperimentali, che riguardano quell’arte inglese che dagli anni ’90 tende al concettuale, che però ogni artista svi-luppa con elementi di assoluta originalità come le serie fotografiche Tuesday – 1440 minutes (1996) di Darren Almond che rappresentano elemen-ti astratti come il tempo; il neon Work No. 285. Things di Martin Creed (2002) o le due fotografie in bianco e nero Brian (1996) con le quali Gillian Wearing indaga sul confine tra pubblico e pri-vato nel tentativo di costruire una propria iden-tità. La duplicità di ogni essere umano è ripresa invece dalle due opere con occhi specchianti di Douglas Gordon Blind Jane R. Mirrored (2002) e Blind Hepburn Mirrored Eyes (2002) che invi-tano lo spettatore a identificarsi con volti celebri

zione di costume e società che si rispetti. Ecco dunque lo scheletro di bronzo di Marc Quinn inti-tolato Waiting for Godot (2006) o i lavori di Ga-vin Turk Love Turk Red Green and Blue (2009) e Holy Egg (2017) che giocano sull’imitazione di celebri icone dell’arte come ad esempio, un Con-cetto Spaziale di Fontana e le serigrafie di Andy Warhol o la rivisitazione del mito, tutto inglese, di Ophelia (2010) nell’opera di Matt Collishaw.

Michele Coppola, direttore centrale arte, cultu-ra e beni storici di Intesa Sanpaolo, afferma: “Le Gallerie d’Italia a Napoli si confermano luogo di conoscenza, studio e promozione dell’arte e della cultura contemporanea internazionale. Accanto all’ultimo Caravaggio e alla grande tradizione

Douglas Gordon - Blind Hepburn Mirrored Eyes

come quello di Audrey Hepburn. Decisamente più aggressive le Bad Girls nello scardinare ste-reotipi, allusioni sessuali e in generale il punto di vista maschile sulla donna, come l’opera in neon e plexiglas Be Faithful to Your Dreams (1998) di Tracey Emin, che attraverso la sua scrittura in corsivo fa un invito “Sii fedele ai tuoi sogni” o la scultura I Know What I Like in Your Wardrobe (‘So cosa mi piace nel tuo guardaroba’), (1996), di Sarah Lucas che indaga sul corpo, sulla realtà del vuoto, sulla potenza della differenza sessuale pre-sente, o il video di Sam Taylor-Wood Travesty of a Mockery (1995) che esplora la routine della vita quotidiana.

Un filo conduttore della mostra è senza dubbio l’ironia, elemento indispensabile di ogni rivolu- Gavin - Holy Egg

Marc Quinn -Waiting for Godot

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artistica napoletana, e dopo Le mille luci di New York, la mostra London Shadow rinnova l’aper-tura verso le ricerche più sperimentali. Con que-sto nuovo approfondimento si è voluto anche sot-tolineare il contributo di galleristi e collezionisti di Napoli all’arte britannica degli anni Novanta, a dimostrazione dell’impegno di Intesa Sanpao-lo nel valorizzare la straordinaria vivacità culturale della città”.

London Shadow riassume tensioni, ambiguità, vitalismo e contaminazioni della cultura inglese degli ultimi decenni, soprattutto celebra un desi-derio collettivo forse l’ultimo sogno dell’Europa.

Oggi, con la Brexit, la Gran Bretagna si avvia all’i-solamento. Non siamo più abituati al noi, non ab-biamo più aspettative comuni. Oggi che possiamo scegliere come chiamarci, optando per un nickna-me, pronti a cambiarlo alla prima occasione e ci nascondiamo all’altro dietro identità nascoste o invisibili per non farci individuare, non sappiamo più condividere pezzi di vita e quindi di futuro. Più che costruire con l'altro, cerchiamo di difenderci dall'altro. Qualche volta rincorriamo i miraggi, al-tre volte ci rifugiamo nei desideri individuali che spesso sono così piccoli da diventare incubi.

Carmine Negro

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Il patrimonio storico-artistico dell’isola d’Ischia

Trovata un’inedita opera di Cesare Calise

l'AnnunciAzionedi Ernesta Mazzella *

Sono ancora tante le ope-re d’arte da scoprire. L’isola di Ischia è custode di un ricco e va-riegato patrimonio culturale che deve essere amato, studiato e va-lorizzato; di quanto scrivo sono pienamente convinta.

Un’opera scoperta di recente è

Cesare Calise, Annunciazione con San Carlo Borromeo, Ischia, Chiesa di S. Antonio (Foto Luciano Basagni)

che notizie e piuttosto sommarie, che abbracciano un arco crono-logico dal 1588 al 1636. Il Calise ha realizzato per la nostra Isola un discreto numero di opere e la maggior parte di esse recano la data e la firma. L’Annunciazione è un’opera del tutto sconosciuta alla storiografia, emersa duran-te una mia solita passeggiata tra le tante chiese, cappelle e con-fraternite che caratterizzano e delineano il tessuto urbano in-sulano. L’opera è custodita at-tualmente nella sacrestia della chiesa del convento francescano di Sant’Antonio da Padova in Ischia; un tempo era posta nel corridoio del convento, ma igno-riamo la collocazione originaria, probabilmente una cappella di-smessa della chiesa; essa, passata completamente inosservata alla critica, viene presentata qui per la prima volta in questo piccolo articolo. Il dipinto attualmente risulta ascritto nella scheda mi-nisteriale2 e in quella del BeWeb3 come opera di Scuola Campana del XVII secolo4. Diversamente in questa sede mi è dato di col-locare il dipinto nel catalogo del

2 Scheda OA/P 1500063329, G. Borelli 1985, F. Chiurazzi 1997, ArtPast M. Monaco 2005.3 Inventario dei Beni storici e artisti-ci della Diocesi di Ischia, Scheda CEI: Soggetto: Dipinto raffigurante l’Annun-ciazione; Autore: Scuola Campana; Da-tazione: secolo XVII (1650-1699).4 Scheda OA/P 1500063329 cit., Opera di un ignoto pittore di ambito provin-ciale a carattere devozionale databile alla prima metà del sec. XVII quando si diffuse la venerazione per S. Carlo Bor-romeo.

il dipinto raffigurante l’Annun-ciazione con San Carlo Borro-meo1 del pittore foriano Cesare Calise, del quale possediamo po-

* Ringrazio il Superiore del Convento di Sant'Antonio d'Ischia P. Mario Lauro.

1 Olio su tela 196x142 (HxL).

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pittore Cesare Calise, artista emi-nente della pittura isclana del XVII secolo, in quanto l’opera è firmata dal Calise stesso. Infatti, in basso al centro della tela si leg-ge la classica firma con la formu-la latina “C. Calensis”, che il Ca-lise soleva apporre alle sue ope-re. L’inedita Annunciazione con San Carlo Borromeo arricchisce il corpus delle opere che l’artista poté realizzare per la commit-tenza isclana. Tale opera costi-tuisce l’unico dipinto calisiano che rappresenti il classico tema iconografico dell’Annunciazione, inoltre è l’unica opera del Calise presente nel Comune di Ischia5.

Il dipinto raffigura in alto un nimbo di luce nel cui centro pla-na la colomba dello Spirito San-to, che illumina l’Arcangelo Ga-briele, inginocchiato su delle nu-vole, posto in alto a sinistra, che stringe nella mano un bianco gi-glio ed è intento a manifestare la volontà di Dio a Maria, inginoc-chiata di fronte con mani giun-te, colta nell’atto di preghiera, come si intuisce dal libro aperto e dall’inginocchiatoio, mentre volge lo sguardo verso l’Arcange-lo. San Carlo Borromeo, posto in basso in primo piano nella sezio-ne sinistra del dipinto, abbigliato con mozzetta rossa cardinalizia, rivolge lo sguardo alla Vergine6

5 La maggior parte della produzione ar-tistica del Calise, infatti, si custodisce nei comuni di Forio: principalmente nella Chiesa di San Carlo, che la si può defini-re un tempio calisiano per la presenza di tre dipinti e gli affreschi che decorano le sue pareti, la Basilica e il Museo di Santa Maria di Loreto, la Basilica di San Vito M., il Santuario di Santa Maria del Soc-corso, la Chiesa di San Francesco di Pa-ola. Nel Comune di Barano nella chiesa di San Giorgio, frazione di Testaccio, e in quella di San Rocco.6 Carlo Borromeo nasce il 2 ottobre del 1538 ad Arona, da Margherita Medici di Marignano e Gilberto II Borromeo, pro-veniente da possidente e nobile fami-glia. Dopo aver studiato a Pavia diritto

Cesare Calise, Annunciazione con S. Carlo Borromeo, particolare dell'Arcangelo

Cesare Calise, Visione di San Giovanni Evangelista, 1601, Museo di Santa Maria di Loreto, Forio

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e, rappresentato secondo la po-stura tipica di un committente, assiste devoto alla scena dell’An-nunciazione. L’opera è dotata ancora della cornice originale.

San Carlo rientra pienamen-te nei consueti schemi calisiani per l’espressione del volto e può essere avvicinato al San Carlo in preghiera, posto sull’altare mag-giore nella chiesa omonima al Cierco in Forio. La mano del Ca-lise è riconoscibile nei panneggi, nella pennellata morbida, nelle tonalità squillanti, nei volti, in cui si ripete spesso lo stesso tipo fisionomico. A tale proposito, si confronti il Santo collocato nella composizione con quelle figure maschili delle tele raffiguranti la Visione di S. Giacinto e San Francesco nella chiesa di S. Car-lo.

La fisionomia della Vergine ri-chiama pienamente le Madonne calisiane; l’Arcangelo Gabriele, invece, presenta chiare analo-gie con la figura del S. Giovanni Evangelista rappresentato nel dipinto della Visione di S. Gio-vanni Evangelista, opera firma-ta e datata 1601, custodita nel Museo di Santa Maria di Loreto in Forio. Analogie nella composi-zione equilibrata e nel panneggio realizzato con pieghe morbide, il consueto rosa antico dell’abito della Vergine, consentono di col-legare questo dipinto alle opere foriane dell’artista.

In considerazione dell’assenza di qualsiasi riscontro documen-tario, la datazione ad annum del dipinto risulta particolarmente

civile e canonico, nel 1558 alla morte del padre prende il controllo degli affari di famiglia; poi, nel 1559 si laurea in utro-que iure. Poco dopo suo zio Giovan An-gelo Medici di Marignano, fratello di sua madre, viene nominato pontefice, con il nome di Pio IV. Carlo Borromeo, quindi, si trasferisce a Roma e viene nominato cardinale a poco più di vent’anni. Muore a Milano il 3 novembre 1584.

problematica; le presenti ana-logie consentono di collocare la tela isclana nella prima metà del XVII secolo, come è stato annotato nella scheda ministe-riale: prima metà del XVII se-colo quando si diffuse il culto a San Carlo Borromeo, e non in quanto si legge nella scheda CEI: 1650-1699. Possiamo aggiunge-re che appartiene allo stesso pe-riodo delle opere realizzate per la chiesa di San Carlo a Forio, sebbene vi si riscontrino alcune differenze. Per questi aspetti la datazione dell’Annunciazione è da fissare nella prima metà del XVII secolo.

L’opera è stata restaurata nel 2016 sotto l’alta visione della dott.ssa Gina Carla Ascione del-la Soprintendenza e il restauro è stato eseguito da Antonio Forcel-lino.

La ricostruzione della biografia e del percorso artistico del pitto-re Cesare Calise7 appare compito

7 G. Alparone, Opera sconosciuta di Cesare Calise, in “Corriere d’Ischia” settembre 1960; Idem, Difendere e va-lorizzare il nostro patrimonio artistico, settembre 1961; Idem, “Caesar Calen-sis Pingebat”, in Centro di Ricerche su l’isola d’Ischia, Ricerche, contributi e memorie. Atti relativi al periodo 1944-1970, a cura dell’Ente Valorizzazione Isola d’Ischia, Napoli, 1971, pp. 481- 496; N. D’Ambra, Personaggi foriani del passato, Centro di Ricerche Stori-che D’Ambra, Forio 1979, p. 22; G. Al-parone, “Cesare Calise, manierista del Seicento”, in Artisti dell’isola d’Ischia, a cura di M. Ielasi, Napoli, Società editrice napoletana, 1982, pp. 33-41; A. Di Lu-stro, Un documento inedito su un’ope-ra di Cesare Calise, in “La Rassegna di Ischia”, n°8, 1987, pp. 15-17; E. Persico Rolando, Dipinti dal XVI al XVIII nelle chiese di Ischia, Edizioni Graphotronic, Napoli 1991; Castagna G., A. Di Lustro, La diocesi d’Ischia e le sue chiese, Tipo-litografia Epomeo, Forio 2000; A. Della Ragione, Ischia Sacra, Edizioni Clean, Napoli 2005; R. Castagna, Isola d’Ischia tremila voci e titoli immagini, Tipolito-grafia Epomeo, Forio 2006, p. 43. R. Di Meglio, Cesare Calise, “Catalogo degli artisti” in “Forio Cultura”, http://www.

arduo, specialmente se si pensa che a lui toccò la medesima sorte di tanti altri artisti, le cui vite fu-rono alquanto “fantasticamente interpretate” dal De Dominici, che lo presentava come un pit-tore nativo della terra di Lecce, a causa del vezzo umanistico dell’artista, il quale era solito fir-mare le opere latinizzando il suo nome con la formula: “Caesar Calensis pingebat o pinxit”, e in alcune opere aggiungeva il geni-tivo “Forigii” per indicare la sua provenienza8. Bernardo De Do-minici nelle sue Vite pubblicate nel 1742-45 tradusse dunque la firma posta al dipinto raffiguran-te la Pietà che un tempo era nel-la chiesa di S. Giovanni Battista a Napoli9 come Cesare Calense e lo definì nativo della città sa-lentina di Lecce, dando origine ad un errore che durò per diver-si anni. Il De Dominici scrisse: “Cesare Calense fu della pro-vincia di Lecce e fece assai bene di pittura, con colore affumato, ma resta ignoto a noi di chi egli fusse discepolo, avendosi eletta una dolce maniera fondata su d’un perfetto disegno ed un otti-mo chiaroscuro; come si vede in una cappella della chiesa di San Giovanni Battista, presso la Ma-rina del Vino, ove in una tavola di altare vi è dipinto Cristo mor-to nel grembo della Santissima Vergine addolorata, in atto così mesto che ben dimostra l’intenso dolore che sente nel suo cuore. Da’ lati vi sono i santi apostoli Pietro ed Andrea che contem-plano il doloroso mistero. Opera

clio.unina.it/forio/index; L. Lamona-ca, Cesare Calise, pittore foriano, XVII secolo, in http:// ischialaperladelgolfo.blogspot.com8 Sul perduto dipinto di S. Onofrio del 1604 e la Madonna del Rosario del 1632 nella chiesa di S. Rocco a Barano. Cfr. A. Di Lustro, Un documento inedito su un’opera di Cesare Calise op. cit., p. 15. 9 Quest’opera è oggi perduta.

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veramente dipinta con buon di-segno, dolcezza di colore, mira-bile espressione, ed intelligenza del tutto assieme bene accorda-to, ed in questa vi è notato il suo nome”10.

Una prima riscoperta dell’arti-sta foriano la si deve al d’Ascia, suo concittadino, che nella sua Storia dell’isola d’Ischia11 docu-menta alcune opere dell’artista in diverse chiese di Forio, come il San Bartolomeo dipinto nel 1596 e il San Nicola da Tolentino del 1607 per la chiesa di Santa Maria di Loreto12, il S. Gennaro e S. Ce-cilia dipinto nel 1636 per la chie-sa di S. Vito13, tra tele e tavole vi sono gli affreschi realizzati per la chiesa di San Carlo: “tutti gli af-freschi, la maggior parte cassa-ti, che covrono le mura, le volte, gli angoli, e la cupola della chie-sa, sono usciti dal pennello Fo-riano, del noto Cesare Calise”14. E il d’Ascia documenta inoltre ancora altre opere.

Ma nonostante l’opera del d’Ascia, diversi studiosi, come il Villani15 e il Filangieri16, seguiva-no la versione del De Dominici e così nacque il “misterioso” pitto-re Cesare Calense della terra di Lecce. Dobbiamo attendere i pri-

10 B. De Dominici, Vite de’ Pittori, Scul-tori ed Architetti Napoletani, I-II, Napo-li 1742, ed. a cura di F. Sricchia Santoro e Zezza, Paparo Editore, Napoli 2003, p. 719.11 G. D’Ascia, Storia dell’isola d’Ischia, [Rist. Stab. Tip. Di Gabriele Argenio, Napoli 1867] Arnaldo Forni Editore 200412 Op. cit., p. 381. Op. cit., p. 381.13 Op. cit., p. 384. Op. cit., p. 384.14 Op. cit., p. 391.15 G. Villani, Scrittori e artisti pugliesi antichi moderni e contemporanei, Tra-ni 1904.16 G. Filangieri di Satriano, Documenti per la storia, le arti e le industrie del-le provincie napoletane [Napoli 1883-1891], ristampa anastatica con saggi di R. De Lorenzo e N. Barrella, Napoli 2002.

mi anni del Novecento quando il D’Addosio pubblica una serie di documenti che svelano la vera identità del pittore Cesare Cali-se: “Non trovo alcuno dei nostri biografi che abbia fatto parola di questo artista, salvo che non l’abbiano confuso con Cesare Calense di Lecce, del quale né il Filangieri né il de Dominici in-dicano in qual tempo dimorò in Napoli. Al Calise trovo notati pagamenti fattigli dal 1600 al 1626, e sebbene qualche poliz-za fosse girata a Galise o Cali-sio Cesare, egli firmava sempre Calise”17.

Inoltre, grazie ai documenti pubblicati dal D’Addosio si ap-prende che il Calise aveva bot-tega a Napoli presso la Fonta-na de l’Annuntiata alle Case de l’Egitiaca18. Le ricerche dedicate all’artista a partire dagli anni Cinquanta da un altro studioso isolano, Giuseppe Alparone19, hanno consentito una prima, parziale ricostruzione della vita e dell’attività di Calise, ma le no-tizie restano piuttosto frammen-tarie ed incerte, anche a causa della perdita di gran parte della produzione del pittore, compresa la Pietà ricordata da De Domini-ci. Quelle ricavate dai contratti firmati dall’artista e dai registri parrocchiali di Santa Maria di Loreto e di San Vito riguardano

17 G. B. D’Addosio, Documenti inedi-ti di artisti napoletani dei secoli XVI e XVII, [Napoli 1920], ristampa anastati-ca Arnaldo Forni Editore 1991, pp. 26-27. 18 G. B. D’Addosio, Documenti inediti di artisti napoletani op. cit., p. 2719 G. Alparone, Opera sconosciuta di Cesare Calise, settembre 1960 op. cit.; Idem, Difendere e valorizzare il nostro patrimonio artistico, settembre 1961op. cit.; Idem, “Caesar Calensis Pingebat”, in Centro di Ricerche su l’isola d’Ischia, Ricerche, contributi e memorie,op. cit., pp. 481- 496; Idem, “Cesare Calise, ma-nierista del Seicento”, in Artisti dell’iso-la d’Ischia op. cit.

un periodo compreso tra il 1588 e il 1632. Nel 1588 un “Cesaro Calise” dichiarava di aver ricevu-to in consegna delle suppellettili della Confraternita di S. Maria di Loreto. Nell’anno 1596 risulta dal Notamento delle anime della parrocchia di S. Vito, compilato da don Natale Capuano, zio del pittore, registrato nella famiglia di Arvina Piro, moglie di Pacifi-co Calise, insieme ai fratelli Mi-chelangelo, Giovanni, Vincenzo, Giacomo Antonio e la sorella Reale. Nello stesso anno firma la sua prima opera foriana, il Mar-tirio di S. Bartolomeo in S. Maria di Loreto20; nel 1601 esegue sem-pre per la stessa chiesa la Visione di San Giovanni Evangelista21.

I dizionari Bryan’s22 e Benezit23 lo citano come pittore operoso nella città di Napoli nel 1590. Nel 1599 compare in una polizza di pagamento per realizzare alcune opere a “monsig.re Gio: fran.co orefice vesc.o d’Acierno d. quat-tro, e per lui a Cesare Calise pit-tore …”24. Collabora con il pittore Francesco Curia alla realizzazio-ne del quadro della Madonna del Rosario per la chiesa della Congrega del Rosario in Orta di Atella, come si apprende nel documento del primo febbraio 1603, per la quale collaborazio-ne all’opera il Calise ottiene un pagamento di venti ducati, rice-vuto dal committente del dipin-

20 Oggi l’opera è quasi illeggibile.21 Attualmente è collocata nel Museo di S. Maria di Loreto.22 Brayan’s Dictionary of painters and Brayan’s Dictionary of painters and engravers, https://archive.org/details/bryansdictionaryos5brya/page/n9. 23 E. Benezit, E. Benezit, Dictionnarie critique et documentaire des peintres, sculpteurs, dessinateurs et graveurs, Editore R. Roger et F. Chernoviz, Parigi 1911. https://archive.org/details/dictionan-nairecrito3bene 24 A. Pinto, Raccolta notizie per la storia, arte, architettura di Napoli e contorni, Parte 1, https://www.academia.edu p. 914.

28 La Rassegna d’Ischia n. 7/2018

to Geronimo de Laurenzio25. Nel 1604 firma il S. Onofrio, andato distrutto, che un tempo era nella sacrestia dell’Annunciata a Ca-stello, frazione di Gragnano.

Risultano disperse anche altre opere documentate ed eseguite per le chiese napoletane che at-tualmente non sono più esisten-ti26. Nel 1611 dipinge a Napoli due quadri, di cui uno di questi raffi-gurava “la Madonna del Carmi-ne con li Angeli, per Francesco Nofra di Lipari”27. Nel 1620, il giorno 9 marzo, come si evince dai documenti, risulta lavorare ancora nel capoluogo parteno-peo, dove realizza un San Carlo Borromeo per don Cesare Man-freda “et pittare in detto Quatro S. Carlo Borromeo in ginocchio-ne avanti ad un Altare con la Croce et chiodi de N. S. libro bar-retta et padiglione, con il mio ri-tratto a bascio et di Diego mio nipote, lavorato de colori finis-simi ad oglio, di ogni perfettio-ne bontà et qualità, et prometta di dar quatro finito per tutta la metà di aprile prossimo, incluso al detto prezzo uno S. Carlo al panno che si farà avante detto Altare, et un altro al Baldacchi-no sopra all’istesso Altare, con la testa di morte ancora”28.

Il 13 aprile 1620 don Cesare Manfreda “paga ducati 9, a com-pimento di ducati 21 a Cesare

25 I. di Majo, Francesco Curia. L’opera completa, Electa Napoli 2002, pp. 95 – 187.26 G. B. D’Addosio, Documenti inedi-ti di artisti napoletani dei secoli XVI e XVII, [Napoli 1920], ristampa anastati-ca Arnaldo Forni Editore 1991, pp. 26-27; E. Nappi, Documenti inediti per la storia dell’Arte a Napoli, in “Quaderni dell’Archivio Storico”, Napoli 2004, pp. 163-164; A. Pinto, Raccolta notizie per la storia, arte, architettura di Napoli e contorni, Parte 1, https://www.acade-mia.edu - pp. 914-916.27 A. Pinto, Raccolta notizie per la storia op. cit., p. 915.28 Idem.

Calise per prezzo del Quatro di S. Carlo che mi dovea fare et ha consegnato”29. Sempre nel 1620 risulta nel registro parrocchiale di San Vito insieme alla moglie Caterina Castellaccio, senza pro-le. Nel 1632 dipinge nel suo stu-dio a Napoli per la chiesa del Soc-corso di Forio il dipinto con santi agostiniani S. Monica, S. Agosti-no e Nicola da Tolentino30.

Il Calise ha lavorato, oltre che per le chiese di Forio, in modo particolare per quella di San Car-lo dove ha lasciato un vero e pro-prio ciclo decorativo31, di Santa Maria di Loreto e di San Vito, anche per altre dell’isola come la Madonna del Rosario con le storie della vita della Vergine, nel 1632, per la chiesa di San Roc-co in Barano32. Dopo un inizia-le periodo manieristico, dovuto forse, secondo un’ipotesi avan-zata da Alparone, alla frequen-tazione della bottega del senese Marco Pino, presente nella città di Napoli dal 1557 almeno sino al 1582, la produzione di Calise sino al 1635 resta alquanto attar-data e superata, del tutto indif-ferente alla grande rivoluzione caravaggesca e ancora legata alla lezione del Cavalier D’Arpino, che era stato attivo nella Certosa di S. Martino a Napoli fra il 1589 e il 1591. Da qui il progressivo de-clino del pittore, poco richiesto e sottopagato, come testimonia il basso compenso, di 16 ducati, ricevuti il 15 giugno 1626 per i

29 Idem.30 A. Di Lustro, Un documento inedito su un’opera di Cesare Calise, op. cit., pp. 15-17. 31 E. Persico Rolando, Cesare Calise, in Una chiesa un quartiere, a cura di Pierluigi Di Maio, Tipolito Epomeo, Fo-rio 1992, pp. 55-58.32 G. Alparone, “Caesar Calensis Pin-gebat” op. cit., p. 497; E. Persico Rolan-do, Dipinti dal XVI al XVIII secolo nelle chiese di Ischia, Edizioni Graphotronic, Napoli 1991, p. 23.

lavori realizzati nell’Annunziata a Napoli33, inferiore rispetto ai pagamenti degli anni precedenti e a quelli dei pittori a lui contem-poranei.

La critica attuale lo definisce “mediocre o modesto” come si legge “Il pittore è probabilmen-te da identificare con il medio-cre Cesare Calise, documentato per quasi tutta la prima metà del Seicento, il quale firmava «Caesar Calensis». Costui ebbe bottega a Napoli e fu attivo so-prattutto per l’isola d’Ischia, mentre nessun’altra notizia lo mette in rapporto con la provin-cia di Lecce34. Ippolita Di Majo “Compare nei documenti, come aiuto del Curia, il modesto pit-tore ischitano Cesare Calise che non sembra però aver svolto un ruolo significativo nell’esecuzio-ne dell’opera”35. Purtroppo allo stato attuale risulta difficile co-noscere o ricostruire l’intera pro-duzione artistica del Calise; mol-te sono le opere perdute. Di que-ste si hanno notizie, grazie alle ricerche archivistiche condotte da alcuni studiosi36. Ed altre, come abbiamo visto, emergono dal nulla come nel caso di questa opera raffigurante l’Annuncia-zione, custodita nella sacrestia della chiesa di Sant’Antonio in Ischia.

Ernesta Mazzella

33 A. Pinto, Raccolta notizie per la storia op. cit., p. 915.34 B. De Dominici, Vite de’ Pittori, Scultori ed Architetti Napoletani op. cit., p. 719.35 I. di Majo, Francesco Curia. L’opera completa op. cit., nota 12, p. 9536 G. B. D’Addosio, Documenti inedi-ti di artisti napoletani dei secoli XVI e XVII, op. cit., pp. 26-27; E. Nappi, Do-cumenti inediti per la storia dell’Arte a Napoli, in “Quaderni dell’Archivio Stori-co”, Napoli 2004, pp. 163-164; A. Pinto, Raccolta notizie per la storia, arte, archi-tettura di Napoli e contorni, op.cit., pp. 914-916.

La Rassegna d’Ischia n. 7/2018 29

II

La relazione presentata alla Sommaria datata 1574 sostiene che «il popolo di detta Città et Iso-la, secondo la relatione che si è havuta da parroc-chiani delle Ecclesie, serà da sette milia anime». Questo è il primo dato generale sulla popolazio-ne dell’isola d’Ischia ed è ancora più importante perché riferisce il numero effettivo delle anime e non quello dei «fuochi», cioè il numero dei nu-clei familiari computati ai fini fiscali. Come ben sappiamo, il primo censimento con l’indicazione del numero dei fuochi dell’intera isola d’Ischia risale al 1511, come si rileva da un documento dell’Archivio di Simancas1 utilizzato da Giuseppe Coniglio2. La stessa fonte archivistica, per il censi-mento del 1531, registra ancora lo stesso numero di fuochi, cioè 3343, mentre per il censimento del 1532 Lorenzo Giustiniani4 enumera 638 fuochi5. Lo stesso numero dei fuochi in riferimento sia al 1539 che al 1542 è riferito dalla fonte documen-taria di Simancas6, mentre ancora il Giustiniani per il 1545 riporta la somma di 828 fuochi7. Con-tinuando a riferire le cifre dei «fuochi» attribuiti all’isola d’Ischia dai censimenti del secolo XVI,

1 Archivio di Simancas, Estado Leg. 1014 f. 30.2 Cfr. G. Coniglio, Il Regno di Napoli al tempo di Carlo V, Napoli 1951; cfr. anche R. Romano, Napoli dal viceregno al regno, storia economica, Einaudi Editore 1976, p. 12.3 Ibidem, p. 159; cfr. anche Archivio di Simancas, Estado 1008 f. 63 e 69. Su questo censimento cfr. pure A. Di Lu-stro, I marinai di Celsa e la loro chiesa dello Spirito Santo ad Ischia, Forio 2003 p. 24 e ss.; R. Castagna, Notamenti sulle dinamiche demografiche dell’isola d’Ischia dal XVI al XIX secolo, in La Rassegna d’Ischia, anno XXXVIII, n. 1 febbraio- marzo 2017, pp. 5-14. 4 L. Giustiniani, Dizionario ragionato del Regno di Napo-li, Napoli 1792-1805, tomo V, p. 158.5 Cfr. anche D. Niola-Buchner, L’Isola d’Ischia studio geografico, Istituto di Geografia dell’Università di Napoli, 1965 p. 31.6 Archivio di Simancas, Estado, Leg.1040 f.180; G. Coniglio, op. cit. pp. 153-54.7 L. Giustiniani, op. cit. p. 153.

dobbiamo sottolineare che in quello del 1561 sono registrati 934 fuochi8. Se questo dato corrispon-de alla realtà, dobbiamo tuttavia sottolineare che, nel fondo Torri e castelli dell’Archivio di Stato di Napoli fascic. 134, in riferimento all’anno 1567 circa la «guardia de torri» leggiamo la seguente annotazione: «Ischia che si nota franca R. 935». Ho l’impressione che il numero 935, che ricorre piuttosto sovente, non si riferisca tanto al nume-ro dei fuochi quanto piuttosto alla consistenza del gettito fiscale che l’isola d’Ischia deve versare allo stato. Me lo fa pensare il fatto che nel 1582-83 questa era effettivamente la somma che l’Isola doveva pagare allo Stato e lo deduco ancora dalla lettura del seguente documento: «Ischia tassata annui ducati 935. In dicto seguenti sp. 199 simili notati pro relata a sopradicto anno quinta indic-tionis ibi a supradictis precedentibus comtare de immunitate concessa per serenissima quondam Reges Alphonsum primum et Ferdinandun pri-mum et confirmata per Regem Cattolicum et …… est de novo concessa erat in poxessione predicte Universitatis Iscle collectarum fiscalium funtio-num fiscalium impositamque et imponendarum ubi etiam notatum fuisse dubitatum et dictum quod fiat relatio9». C’è però ancora un documen-to a conferma di quanto abbiamo qui detto e so-stenuto con altri documenti alla mano. Il docu-mento è il seguente: «Li carrichi deli pagamenti fiscali ordinari de fochi et Sali del regno le città et terre che in virtù de lloro privilegi so franche im-perpetuo de detti pagamenti fiscali in le province de Terra de Lavoro et Contado et Molise Ischia taxata in cedolarum de 93510». C’è da notare un altro dato che si riferisce alla prima metà del se-colo XVI ed è quello di P. Leandro Alberti, frate domenicano, che ha visitato i Campi Flegrei nel

8 ASN, fondo Fuochi Frammenti, fascic. 433 f. 4: «Nova numerationis Regni anni 1561 Terra di Lavoro, Ischia franca 934».9 ASN, Partium Regii Patrimonii cedole Regis Patrimonii, fascic. 28 f. 88.10 Ibidem, Inventario 198, fascic. n. 1, ff. nn.

Fonti archivistiche per la storia dell’isola d’IschiaA cura di Agostino Di Lustro

Colligite fragmenta, ne pereant

L'Università di Forio - Il Torrione Marchiotto Calise tra XVI e XVII secolo

30 La Rassegna d’Ischia n. 7/2018

1526 e nel 1536. Egli afferma che nell’isola d’I-schia vi è una città abitata da mille famiglie alla quale sono soggetti otto casali, tra i quali uno di quattrocento famiglie11. C’è da osservare che tra i due viaggi a Napoli e dintorni del P. Leandro Al-berti e la pubblicazione della sua opera sulle iso-le italiane, intercorre un periodo di almeno una ventina di anni e quindi non sappiamo a quale periodo, o anno, si debba riferire il numero del-le famiglie esistenti sull’Isola da lui riferito. Per quanto riguarda le «mille famiglie» che l’Alberti assegna alla città, D. Niola Buchner sostiene che «sicuramente la città di cui parla è quella sullo scoglio del castello, ma non sappiamo se vi sia-no compresi, come è probabile, gli abitanti del borgo di Celsa». In confronto con il numero dei fuochi dati dai censimenti di questi anni, in modo particolare da quelli del 1531 che ne segnala solo 334, dovremmo assegnare «alla città sul castel-lo» i mille fuochi che, comunque, appaiono ecces-sivi12.

Il casale di cui l’Alberti tace il nome e che risul-ta abitato da quattrocento fuochi, è certamente Forio. Non possiamo determinare il numero de-gli abitanti dell’Isola dalle indicazioni forniteci dai vari censimenti perché, essendo finalizzati ad adempimenti fiscali da parte della popolazione non siamo in grado di determinare il numero di anime di un fuoco, che variava da fuoco a fuoco. I calcoli che sono stati effettuati, assegnando a ogni fuoco un numero approssimativo di perso-ne, sono da considerare molto approssimativi. La stessa cosa avviene per le «famiglie» per cui non possiamo determinare il numero degli abitanti di Forio verso la metà del secolo XVI volendolo ricavare dal dato fornitoci dall’Alberti. Tuttavia il fatto che la cifra di quattrocento famiglie esi-stenti verso la metà del secolo XVI sia riportata dall’Alberti, la cui opera però viene pubblicata nel 1581 e quindi dopo parecchi anni dai viaggi dell’autore nella zona flegrea, viene confermata da un documento delle Provvisioni del Collaterale del 23 dicembre 1579 nel quale è detto che «lo ca-sale (di Forio) ave de fochi circa quattrocento13». Questo, in ordine di tempo, è il primo dato che abbiamo sulla popolazione calcolata in fuochi e non in anime, di una singola località dell’isola d’I-

11 L. Alberti, Isole appartenenti all’Italia descritte da P. Le-andro Alberti Bolognese, In Venetia appresso Gio. Battista Porta MDLXXXI, p. 24.12 Cfr. D. Niola Buchner, Ischia nelle carte geografiche tra 500 e 600, S. Giovanni in Persiceto 1984, p. 13.13 ASN, Provvisioni del Collaterale, fascic. 7, f. 233 - 234.

schia. Questo dato particolare mi sembra molto importante e attendibile perché scaturisce da una delibera del Parlamento generale con la quale «il casale de Forio del insula d’Ischa fa intendere a Vostra Eccellenza come per suvenire a lloro bi-sogni tanto de debiti come d’altre occorrentie et principalmente per pagare li Regij pagamenti fi-scali ha concluso de ponere gabelle sopra le cose infrascritte che di bascio si tasserà non avendo più espediente ne miglior modo, et manco dan-noso di questo14». Il «casale de Forino (sic) è loco povero et di poca industria et hoggi si trova che bisogna pagare alla Regia Corte l’anno ducati 500 in circa e poi si trova debitrice in altri de-biti contratti15». Forio, tra l’altro, «se ritrova de-bitrice in altri debiti contratti di reparationi di muraglie per difesa di Turchi et infideli alli quali vanno subietti non avendo nullo modo di sodi-sfare…». Inoltre Berardino Migliaccio di anni 77 e Giovanni Calise di anni 53 , a proposito della ga-bella detta del «mal denaro», attestano che Forio non riceve beneficio dalla fortezza d’Ischia e che non ha milizia alcuna e che le altre gabelle non bastano «a la spesa de la guardia del Torrione et condicione per la arteglieria, dove corre de spesa ogni anno da cinquanta ducati16».

In tutti questi problemi, piuttosto gravi, pre-senti nel casale di Forio, le deposizioni sottoscrit-te da più persone del posto, sono confermate sia dal Capitano d’Ischia Matteo Deca che dal Regio Collettore della Regia Camera Tommaso Salerno nella sua relazione sulle gabelle imposte agli abi-tanti dell’isola d’Ischia.

A qualcuno dei «miei venticinque lettori» può apparire poco attinente al titolo il lungo discorso fatto finora e, forse, si sta persuadendo che non riesco a ritrovare i «binari» del discorso. Vor-rei far notare a questi miei cari amici che questo «treno» sta viaggiando su due rotaie perfetta-mente allineate e che adesso il discorso, che ap-parentemente sembrava fuori posto, entra nel vivo del problema. Ci siamo, forse, dilungati nel ricordare le incursioni piratesche subite dall’isola d’Ischia nel secolo XVI, soprattutto tra il quarto e il settimo decennio del secolo. Da tutto questo scaturiscono anni veramente cruciali e crudeli per la maggior parte degli abitanti dell’Isola che

14 Ibidem, f. 325 r.15 Ibidem f. 326. Dichiarazione di Giovanni Vincenzo Ion-chese alias Capezza di Forio «ora in Napoli per diversi suoi negozii» e Giovanni Caruso di Forio, ma a Napoli anche lui per «vari negozii».16 Ibidem, ff. 33v-373 r.

La Rassegna d’Ischia n. 7/2018 31

hanno subito vari e sanguinosi assalti da parte di crudeli pirati. Una sorte particolarmente crudele in questi assalti pirateschi deve essere stata quella di Forio che ha subito gravissimi danni materiali e, forse, parecchie persone sono state anche ra-pite perché «casal di grande habitatione in loco aperto17» e privo di fortificazioni e maggiormente esposto alla furia dei pirati. Dinanzi alle reitera-te incursioni dei pirati gli abitanti di Forio hanno pensato alla loro difesa e hanno deciso di costruire una torre, senza badare a spese, per poter meglio difendere sia le singole famiglie che l’intero paese. Per questo «in lo sopradetto casale de Foria se vedono edificate sette torre de particolari cittadi-ni, ben munite d’arme, ne le quale se ponno sal-vare la gente de detto Casale quando ce corrono de Turchi, et principalmente un grosso Torrione edificato a dispesa dela Università del proprio casale de Foria, che per detta opera hanno preso ad interesse de settecento ducati, la quale tene-no ben munita de alcuni pezzetti di artiglieria di ferro, uno pezo di bronzo et altre arme per sua defensione18».

Questo però è stato un caso da considerare par-ticolare perché il duca d’Alcalà don Pedro de Ri-vera, viceré di Napoli dal 1559 al …, onde far fronte a questi assalti pirateschi, ma anche per favorire la preparazione della guerra che Filippo II di Spa-gna desiderava portare contro i Turchi, fece eri-gere torri su tutte le coste del Meridione d’Italia, soprattutto nel periodo 1567-6819. «La costruzio-ne e il funzionamento delle torri creò un piccolo esercito di addetti alle tipiche costruzioni20, con l’inevitabile gerarchia. Ma se la difesa costiera fu inefficiente, ciò è dovuto a difetti fondamentali. Primo fra tutti quello che fece gravare la spesa della costruzione e più tardi quella guardiania, dei restauri, e di tutto il personale addetto alle torri stesse, sulle università, con tassazioni e tri-buti che hanno tutta una storia di contestazioni e di liti, e dalle quali dipese la continuità della guardia e l’efficienza della difesa. Tassazione e tributi vessarono e immiserirono anche le già misere popolazioni locali. Il governo viceregnale provvide unicamente alle munizioni per la dife-

17 Regia Camera della Sommaria, Consulte vol. IV cit. f. 129 r.18 Ibidem, f. 130 r.19 G. Algranati, Alcuni caratteri della vita lungo le coste nel periodo viceregnale, in Studi in onore di R. Filangieri II, Napoli 1959 p. 420; G. Coniglio, I vicere spagnoli di Napoli, cit. p. 99.20 In genere erano centri di avvistamento del pericolo corsaro.

sa21». Nel casale di Forio però le cose si svolgono in modo diverso perchè è la stessa Università che decide di costruire, a proprie spese, una torre a difesa del suo territorio, senza chiedere nulla allo stato. Il fatto che anche diversi «particolari cit-tadini» avessero intrapreso la costruzione di una torre privata a difesa della famiglia, faceva sì che tutto il territorio potesse sentirsi maggiormente difeso contro altri probabili attacchi da parte dei pirati e dei corsari. Ma la costruzione del Torrio-ne fu possibile solo grazie alla sottoscrizione di un «mutuo ad interesse» di ben settecento ducati in un periodo in cui la popolazione era certamente diminuita a causa delle incursioni di Barbarossa e di Dragut. Questi settecento ducati di debito van-no aggiunti a quelli che l’Università ha già con-tratto da anni. Tra l’altro deve pagare cinquecen-to ducati alla Regia Corte ogni anno e in più «se ritrova debitrice altri debiti contratti per ono-rario di medici, di riparatione di muraglie per defensione de Turchi et infideli alli quali vanno subietti non havendo altro modo di sodisfare22».

Dobbiamo ancora sottolineare che tra i docu-menti esibiti a corredo della delibera adottata dal parlamento di Forio nel 1579, c’è una dichiarazio-ne di Icio de Nacera «sartore di anni 55» il quale dichiara che a Forio, tra l’altro, si paga una tassa «per servitio alle fortezze d’Ischa per detto Ca-sale non have cosa alcuna e quello che di esse si esige in detto Casale è di 300 ducati l’anno per-ché detto Casale non ne ha alcuna utilità». In più l’Università deve provvedere «a la spesa per la guardia del Torrione et condicione per la ar-teglieria, dove corre spesa ogni anno docati cin-quanta». Gli fa eco Berardino Migliaccio di anni 77 che precisa ancora «che non have milizia al-cuna23» . Inoltre vi è la gabella del «mal denaro» dalla quale si ricavano quattrocento ducati, «è stata affittata da Pietro Recene». Dichiarazioni dello stesso tenore, vengono sottoscritte anche da altre persone tra cui Giovan Angelo Calise di anni 48, Tommaso Calise di anni 50 , dal notar Gio-vanni Aniello Mancusi24.

21 G. Algranati, op. cit. pp. 421-22.22 Provvisioni del Collaterale, fascic. n. 7 f. 326.23 Ibidem, ff. 333r-335, documento del 23 dicembre 1579.24 Questo notaio ha rogato nella seconda metà del secolo XVI. L’atto più antico che ho trovato citato è del 9 novembre 1568 (CRS fascio 87 f. 49), mentre il più recente è del 2 set-tembre 1607 (ibidem, f. 88). La scheda notarile di questo no-taio è andata perduta. Nel secolo XVIII era conservata presso i fratelli Scipione, Domenico, Antonio, Nicola Attanasio di Ischia, figli ed eredi del notar Aniello Attanasio di Ischia e di Chiara di Iorio (ADI, Platea corrente- P.C.- f. 97, Nota de

32 La Rassegna d’Ischia n. 7/2018

Così veniamo a sapere che la costruzione del Torrione costò almeno 700 ducati all’Università di Forio che già doveva soddisfare tante altre tas-se. Dobbiamo ulteriormente precisare che per le torri costruite dallo stato in questo periodo, sia i costruttori che gli addetti alle stesse era il governo viceregnale a pagarli, male e tardi25. Questa non era la situazione del Torrione di Forio dove gli abitanti erano certamente sottoposti a un fortis-simo drenaggio economico, considerato che «per quello che ha visto ocularmente e per informa-tione havuta da diverse persone degne di fede, la detta Città et Insula è tutta povera, et li domi-ni del Insula per recatti pagano assai interesse che ascendono ala summa de ducati dui milia et cinquecento in circa26». Il fatto stesso che già nel 1573-74, cioè al tempo della relazione sulla situa-zione dell’isola d’Ischia, si parli sia di «un grosso torrione a difesa del Università del proprio casa-le de Forio, che per opera hanno preso ad inte-resse da settecento ducati» , mi spinge a ritenere che la data proposta da alcuni studiosi circa la sua costruzione, che secondo loro risalirebbe al 1480, non corrisponda alla realtà storica per vari mo-tivi. Tale datazione infatti manca di qualsiasi ri-ferimento documentario. Già Iasolino, senza fare esplicito accenno al Torrione, scrive che Forio è «ben munito in dodici (sic) torri, con artiglie-rie27». Lo stesso G. d’Ascia, che pure si dilunga a parlare di esso, non dà alcuna data di costruzio-ne pur affermando che è «la più antica di queste torri …….. edificata a spese dell’Università». La data del 1480 viene proposta sia da V. Mirabel-la28 che da W. Frenkel29. Infatti il debito di 700 ducati non sarebbe stato ancora estinto dopo un secolo dalla costruzione del Torrione. E’ vero che quelli sono stati anni cruciali nelle vicende della nostra Isola, ma è anche vero che abbiamo altri documenti che ci portano a considerare per nulla credibile la data del 1480. Negli anni precedenti

notai defonti d’Ischia e da chi presentemente si conservano le di loro scritture seu protocolli e fascicoli. I protocolli di quest’ultimo notaio costituiscono la scheda n. 768 del fondo Notai secolo XVIII dell’ASN e si compone di n. 35 protocolli che vanno dal 1699 al 1740.25 G. Algranati, op. cit. pp. 422-23.26 Relazione della Sommaria del 1574 f. 130 v.27 G. Iasolino, De’ remedi naturali che sono nell’isola di Pithecusa hoggi detta Ischia, Lacco Ameno Imagaenaria Edizioni d’Ischia 2000, p. 24.28 V. Mirabella , Cenni storici e guida dell’isola d’Ischia, Napoli 1913, p. 110.29 W. Frenkel, Guida dell’Isola d’Ischia, 1924, p. 250; I. Delizia, Ischia l’identità negata, ESI 1987, p. 128.

la informazione del 1573-74 sullo stato economi-co dell’isola d’Ischia, l’Università di Forio dovette certamente riunire il parlamento generale e stabi-lire di imporre una tassa da pagare una tantum da tutti i cittadini di Forio per estinguere il mutuo di 700 ducati che era stato acceso per far fronte alla spesa per la costruzione del Torrione. Ma su que-sto torneremo più avanti. L’estinzione del debito contratto per il Torrione comportò, comunque, nuove spese e, di conseguenza, si allargarono le tasse, o gabelle, sui generi di prima necessità.

Le spese di funzionamento e di manutenzione delle torri gravavano sulle popolazioni anche per quelle che erano state costruite a spese dello stato. A giudizio di G. Coniglio, tuttavia, almeno in am-bito generale, «non bisognava farsi molte illusio-ni sull’efficacia delle torri, anche là dove furono edificate onestamente. Quando poi le comunità pagavano, erano gli esattori che non versavano la riscossione agli interessati quanto percepi-to30». Non sappiamo in che modo l’Università di Forio abbia organizzato la riscossione delle tasse per l’eliminazione del debito contratto per la co-struzione del Torrione; è possibile che anche da noi ci sia stato qualche caso di sottrazione dei fondi a beneficio di qualcuno più furbo degli altri. Il rapporto fatto per conto della Sommaria se ci tiene a sottolineare che «in lo sopradetto casale de Foria se vedono edificate sette torri de parti-colari cittadini31, ben munite d’arme, ne le quale se ponno salvare la gente di detto casale quando ce corrono de Turchi32», ci fa pure chiaramente capire che per lo stato questo fatto costituisce una fortuna perché non deve spendere nemmeno un ducato di suo. Di altre torri non abbiamo nessun riscontro documentario.

Agostino Di Lustro

(II- continua)

30 G, Coniglio, op. cit. p. 111.31 Le torri che, in qualche modo, sono ancora riconoscibili oggi sul territorio di Forio sono: il Torone, sul poggio di fron-te alla basilica di S. Vito, quella del Cierco, quella di S. Gio-vanni in parte riconoscibile ancora una trentina di anni fa e successivamente abbattuta, la torre di Via Catella nella stra-da omonima, tutte cilindriche; le rettangolari invece sono: quella sulla Via Baiola, di Via Casa Patalano, quella detta di Nacera sopra la «Chiesina della Rose» , torre di Milone il palazzo Milone e la basilica di S. Vito, torre di Quattrocchi dirimpettaia della basilica di S. Maria di Loreto, sicuramen-te la più recente delle altre. Altre torri, oggi irriconoscibili, dovrebbero trovarsi all’inizio di Via Roma, e un’altra ancora è probabile che sorgesse sulla collina di Monticchio sopra la Via Cava delle Pezze, oggi Via Filippo Schioppa.32 Relazione del 1574 presentata alla Regia Camera della Sommaria in P. Lopez, op. cit. p. 202.

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di Elettra Carletti

Ai Giardini Ravino, nell’insolita cornice tempo-rale ottobrina e diviso in due giornate, si è svol-to Meristema, convegno annuale ormai alla XI edizione. Tema: “L’impero dei sensi”, perché la famiglia D’Ambra, titolare del parco botanico che costituisce il terzo attrattore culturale dell’isola d’Ischia, impegnata nella realizzazione del giar-dino sensoriale, è decisa ad approfondire gli ar-gomenti della percezione e della sensorialità per trarne ispirazione e meglio affrontare l’impresa.

Ha aperto il ciclo degli interventi, sabato 13 ot-tobre 2018, Gino Di Meglio, noto uomo di legge isolano, di cui ai Giardini Ravino si è svolta una mostra fotografica dal titolo, appunto, di “Perce-zioni”. Contenuto della sua conferenza è stato “Il vedere fotografico”, una cui specificità, condivi-sa peraltro da tutte le arti visive, è quella di far soffermare lo sguardo anche su particolari minu-ti, paesaggi ordinari, azioni quotidiane, che nella vita di tutti i giorni sfuggono ai più: è il caso del-la cesta di frutta di Caravaggio o della pompa di

benzina del quadro di Hopper. L’avvocato, dopo un’introduzione sulle antiche tecniche di stampa fotografica che usa, ha fatto notare come nelle sue foto esposte nella saletta “Moby Dick”, dove si è tenuto il convegno, tra gli oggetti ritratti, compaia sempre il vetro: un materiale di forte impatto vi-sivo e tattile, che può essere sonoro e che si presta a contenere profumi e bevande, coinvolgendo così tutti i sensi. Ma un’altra caratteristica del vetro è la sua fragilità, che evoca l’intrinseca imperma-nenza della condizione umana: una precarietà che, purtroppo, lo stesso Gino Di Meglio, a causa di un recente incidente nautico, ha avuto modo di sperimentare e che gli ha ispirato le foto che sono andate a costituire le “Percezioni” in mostra.

Cosa c’è di naturale nella sensazioneIl prof. Alessandro De Cesaris, giovane ischi-

tano ricercatore presso il Dipartimento di Studi umanistici dell’Università “Federico II” di Napoli, ha illustrato “Cosa c’è di naturale nella sensazio-ne”, fornendo un’introduzione a quella che è stata la trattazione filosofica del problema, attraverso

Giardini Ravino (Forio)

XI edizione di Meristema

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la discussione diretta di una questione specifica: il nesso tra sensazione e natura. La filosofia ha te-orizzato l’ambito della sensibilità come quello più propriamente “naturale” dell’uomo: a partire da Aristotele, viene attivata una cesura antropologi-ca che distingue nell’uomo una parte naturale – i sensi – e una parte “più che naturale” – la ragio-ne. E tuttavia, questa naturalità della sensazione viene costantemente dibattuta. In primo luogo, per via dei tentativi di ricomporre l’immagine dell’uomo unificando sensazione e intelletto, e dunque segnalando il carattere già da sempre “in-tellettuale” della sensazione umana: da cui la ric-ca articolazione di distinzioni classiche tra sensa-zione, percezione, sensibilità, sentimento, tutt’ora vigenti nel lessico filosofico e psicologico. In se-condo luogo, il campo della sensibilità viene già da sempre plasmato dalla dimensione tecnologi-ca, verso la quale l’attenzione è particolarmente viva nell’epoca contemporanea; tuttavia è una di-mensione che esiste fin da epoche ben più remote, perché col termine di tecnologia non ci si riferisce solo agli strumenti che orientano, potenziano e ri-configurano la sensibilità, ma anche alle pratiche di educazione dei sensi che costituiscono la base della cultura fin dall’antichità classica.

Ha approfondito l’aspetto filosofico del conve-gno Bruno Moroncini, già ordinario di Filosofia morale presso l’Università di Salerno, con un in-tervento volto anche a celebrare i centodieci anni dalla nascita del grande filosofo francese Maurice Merleau-Ponty, autore del fondamentale trattato Fenomenologia della percezione. L’esposizione di Moroncini è partita da un’analisi della polisemia del termine “sensus”, soffermandosi in particola-re sul significato di “sensazione” e sottolineando come più spesso che singolarmente, le sensazioni siano provate in modo sinestetico. Il professore ha poi tenuto un rapido excursus sull’empirismo

inglese che ha dedicato gran parte della propria riflessione ai fenomeni della sensazione e della percezione. Quindi è passato a una disamina de-gli stessi concetti all’interno della fenomenologia, che nella loro elaborazione imbocca una direzione opposta a quella della corrente empirista; infatti, i fenomenologi partono dai risultati della psicolo-gia della forma (Gestalt), che riconosce nell’atto percettivo un atto che coinvolge l’io, l’oggetto e la percezione, e che, quando si attiva, dà struttura alle singole sensazioni; per cui la percezione non si presenta come una somma frammentaria di parti isolate, ma come qualcosa di unitario: una “forma”, appunto, cioè un’organizzazione di ele-menti che produce senso e che risponde ad al-cune leggi fondamentali, come, per esempio, il rapporto figura/sfondo. Il particolare apporto di Merleau-Ponty alla concezione fenomenologica della percezione è il focus sulla percezione di sé, per la quale è necessario aprirsi all’intersoggetti-vità. Come per udire la nostra vera voce abbiamo bisogno di una registrazione e per avere la visio-ne completa del nostro corpo abbiamo bisogno di uno specchio, anche per avere la percezione di noi stessi abbiamo bisogno di una superficie rifletten-te: e questa superficie è l’altro.

L’importanza dei sensi nelle belle lettere

A questo punto si è passati a esaminare l’impor-tanza dei sensi nelle belle lettere. Gabriele Frasca, docente di letterature comparate nell’Ateneo sa-lernitano, nonché poeta, saggista e narratore, ha tenuto una conferenza dall’accattivante titolo “Un penetrante profumo di prosa: il senso dell’olfatto in Proust, Joyce, Nabokov e Burgess”. Il profes-sore ha esordito riportando una delle più celebri sinestesie mai narrate in letteratura: l’episodio della madeleine nella Recherche di Proust, in cui, allo sprigionarsi dell’aroma e del gusto di un certo pasticcino, all’io narrante si scatena una congerie di ricordi che occuperà il tempo di un cinquanten-nio e lo spazio di sette volumi per trovare il suo “senso”. E, trovandosi ai Giardini Ravino, Frasca ha citato una monografia di Samuel Beckett su Proust, in cui l’autore irlandese definisce i perso-naggi di Alla ricerca del tempo perduto come dei vegetali, perché nel regno della botanica, attraver-so la fioritura, il sesso è ostentato, proprio come nelle caratterizzazioni del romanziere francese, a partire da Marcel, il suo omonimo alter-ego lette-rario. Passando poi a un altro grande figlio della

Una delle fotografie di Gino Di Meglio in esposizione

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verde Irlanda, il professore ha fatto notare quan-ta parte abbiano gli odori nell’odissea di un solo giorno attraversata da Leopold Bloom, l’Ulisse di Joyce, soffermandosi in particolare sul capitolo de “I Lotofagi”. Affrontando Vladimir Nabokov, Ga-briele Frasca ha esposto come le suggestioni olfat-tive alimentino l’ossessione perversa di Humbert Humbert per Lolita. E sempre l’olfatto muove a violenza Alex, il criminale protagonista di Aran-cia meccanica, il romanzo di Anthony Burgess, da cui Stanley Kubrik ha tratto l’omonimo film, nel 1971, come nove anni prima aveva girato Lolita. E Frasca, ricoprendo anche una cattedra di Media comparati, non ha mancato un attento confronto tra i modi dei due romanzi e la loro trasposizione cinematografica.

La professoressa Silvana Cavella, coordinatrice del nuovo corso triennale di Tecnologie alimenta-ri presso il Dipartimento di Agraria dell’Univer-sità “Federico II” di Napoli, ha illustrato, con un efficace power point, “Il senso del gusto”, espo-nendo i risultati delle ricerche più recenti in ma-teria. Infatti, oltre ai già conosciuti recettori per i gusti del dolce, del salato, dell’amaro e dell’aspro, nuove acquisizioni sperimentali dimostrano la presenza sulla lingua di papille specializzate nel riconoscere il gusto del grasso e quello dell’uma-mi (“saporito” in giapponese), che corrisponde al sapore del glutammato ed è presente nei cibi ad alto contenuto proteico. Ma oltre a questi gusti, l’uomo percepisce in bocca anche altre sensa-zioni, di natura tattile, in cui non sono implicati i recettori gustativi e olfattivi: sono i sapori pic-cante, rinfrescante, astringente, metallico. Ma responsabile delle nostre reazioni agli alimenti è principalmente l’olfatto, i cui recettori si trovano nell’epitelio della cavità nasale, dove, attraverso il muco, le sostanze aromatiche vengono assorbite.

Tommaso Mascolo, sommelier ischitano, ha improntato il suo intervento, “I sensi del vino”, a pratica degustativa: accompagnandosi con una presentazione in power point che illustrava le sin-gole qualità organolettiche del vino, ha fatto ser-vire ai presenti un calice di Biancolella, prodotto isolano tra i più tipici, che ha fatto sorseggiare, commentandone le caratteristiche. Inutile sottoli-neare che il suo è stato il discorso più apprezzato.

Al convegno è seguita un’eccellente prestazio-ne degli alunni dell’Istituto Professionale per i Servizi Alberghieri e la Ristorazione “V. Telese” di Ischia. I ragazzi hanno preparato e servito un pranzo a base di cinque portate, ognuna delle

quali era stata concepita per stimolare soprattutto uno dei cinque sensi, con un’ottima riuscita.

I Giardini misteriosi e l’Inaudita musicaLa seconda parte di Meristema si è tenuta ve-

nerdì 19 ottobre, in collaborazione con l’associa-zione Ischia musica, che organizza, ormai da anni a Forio, i Corsi musicali, delle masterclass (alcu-ne delle quali si tengono nella saletta “Moby Dick” dei Giardini Ravino) dedicate al perfezionamento del canto e della pratica di diversi strumenti mu-sicali, che vedono arrivare allievi non solo da tutti i Conservatori d’Italia, ma anche da tutto il mon-do, con una presenza particolarmente massiccia di Cinesi e Giapponesi.

Il convegno si è aperto con una parte teorica ini-ziata da Orfeo De Nardi, critico cinematografico e presidente dell’ARCI Cinema, che, anche gra-zie alla proiezione di spezzoni di film, ha trattato dei “Giardini misteriosi”. Tra le pellicole scelte: Il giardino dei Finzi-Contini (1970) di Vittorio de Sica, tratto dall’omonimo romanzo di Giorgio Bassani; I misteri del giardino di Compton House (1982) di Peter Greenaway; Barry Lyndon (1975), tratto dal capolavoro di W. M. Thackeray per la regia di Stanley Kubrik; Oltre il giardino (1979) di Hal Ashby, con l’ultima, eccezionale, interpre-tazione di Peter Sellers.

Ha poi preso la parola Antonio Trudu, già do-cente di Storia della Musica contemporanea pres-so l’Università di Cagliari, per trattare la figura di “Olivier Messiaen: il maestro dei maestri della nuova musica”, del quale pure ricorrono i cen-todieci anni dalla nascita. Allievo di Paul Dukas, il compositore francese fece a sua volta scuo-la a musicisti del calibro di Pierre Boulez e Karl Heinz Stockhausen, che lo conobbero ai famosi Corsi estivi di Darmstad, cui Messiaen partecipò due volte. Tra le sue composizioni più famose, Il quartetto per la fine del tempo, scritto nel 1940, durante la sua prigionia in uno stalag di Gorlitz, dove fu eseguito da un clarinetto, un violino, un violoncello e un pianoforte, suonato dallo stes-so Messiaen, il quale, pur di portare a termine la composizione e l’esecuzione del Quartetto, rifiu-tò l’occasione di fuggire dal campo di concentra-mento.

Quindi è stata la volta di Emanuela Ballio, che ha dedicato la sua relazione, “Inaudita musica…”, alle compositrici da riscoprire. Infatti, se c’è un ambito nel quale le donne sono da sempre e tut-tora misconosciute è proprio quello della compo-

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sizione musicale, sebbene il primo compositore di cui ci è pervenuto il nome come autore di certa musica sia di sesso femminile: la celebre badessa tedesca Ildegarda di Bingen, vissuta nel XII seco-lo, riconosciuta come profetessa, santa e dottore della Chiesa, nota anche come scrittrice, poetes-sa e drammaturga, filosofa e teologa, naturalista e guaritrice. Del resto, quasi tutte le compositri-ci del passato appartenevano a ordini monasti-ci: tra queste, Raffaella Aleotti, la prima donna a pubblicare musica sacra. Fra le poche eccezioni, allo stato laicale rimasero Maddalena Casula-na, la prima donna nella storia della musica ad aver pubblicato composizioni proprie, e France-sca Caccini, figlia dell’illustre musicista Giulio, la prima compositrice ad aver scritto un’opera lirica, entrambe al servizio della corte medicea. La Casu-lana, in particolare, lamentò il silenzio della cultu-ra tardo-rinascimentale sulle artiste donne: nel-la dedica del suo Primo libro dei Madrigali alla sua protettrice, Isabella de’ Medici, scrive di voler «mostrare al mondo il vanitoso errore degli uomini di possedere essi soli doti intellettuali, e di non credere possibile che possano esserne do-tate anche le donne».

Ha concluso la parte dedicata alle conferenze il compositore Giorgio Klauer, docente di Musi-ca elettronica al Conservatorio di Venezia, par-lando di “Psicoacustica, interazione e paesag-gio sonoro”, un intervento tecnico, dedicato alla progettazione degli spazi all’aperto in funzione dell’esaltazione delle sonorità, siano esse quelle

naturali (gorgoglio di corsi d’acqua, canto degli uccelli, ecc.), siano quelle eseguite da musicisti o da strumenti musicali meccanici o elettronici, nelle diverse collocazioni urbane o extraurbane e con le relative inevitabili interferenze acustiche ambientali.

Quindi si è aperto il Concerto di musiche com-poste appositamente per i Giardini Ravino e in prima esecuzione assoluta.

La prima sonata è stata quella di Alvise Zam-bon, Sette espressioni intraducibili, eseguita da Federica Lotti all’ottavino e da Fabio Battistelli al clarinetto.

La seconda, Gravi, di Paolo Piaser, è stata ese-guita dallo stesso autore alla tastiera elettronica, mentre la bella, esotica presenza di Lara Makolle Mbella Tekovic lo accompagnava coi flauti.

Ancora flauto, e solo flauto, suonato di nuovo dalla professoressa Lotti, allieva di Severino Gaz-zelloni e concertista di fama internazionale, per la composizione di Andrea Toffolini, Pithecusa.

Infine, Giovanni Sparano ha eseguito con la tastiera elettronica il suo brano Corresponda-ces, evocando il tema della sensorialità datosi quest’anno da Meristema, attraverso le celebri si-nestesie della poesia di Arthur Rimbaud.

La serata si è chiusa con un piacevole concertino di jazz offerto dagli allievi dei Corsi Musicali, gui-dati dal maestro Marco Crestani.

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Croniche di Giovanni, Matteo e Filippo Villani, vol. I, Trieste 1857

Capitolo XIIICome il buon re Priamo riedificò la città di Troia

(…) Appresso la prima distruzione di Troia, Pria-mo, figlinolo del re Laomedonte, il quale essendo giovane non era allora in Troia, tornò poi con l'aiuto d’amici e rifece fare e ristorare di nuovo la detta cit-tà di Troia di maggiore sito, e grandezza, e fortezza che non era stata dinanzi, e tutta la gente del paese d’intorno vi ricolse e fece abitare, sicché in piccolo tempo moltiplicò e crebbe, e divenne delle maggiori e più possenti città del mondo; che, secondo raccon-tano le storie, ella girava settanta delle nostre miglia con popolo innumerabile. Questo re Priamo ebbe della sua moglie Ecuba più figliuoli e figliuole: il pri-mo ebbe nome Ettore, il quale fu valentissimo duca, e signore di grande prodezza e senno; l’altro ebbe nome Paride, e l’altro Deifobo, e Bleno, e ‘l buono Trailo; e quattro figliuole, Creusa moglie che fu d’E-nea, e Cassandra, e Polissena, e Iliona, e più altri fi-gliuoli di più altre donne, onde la storia di Troia di loro fa menzione, i quali tutti furono maravigliosi in prodezza d’arme. E appresso buon tempo essendo la detta città in grande e possente stato, e ‘l re Priamo e’ figliuoli in grande signoria, Paride e Troilo suoi figliuoli, e Enea suo nipote, e Polidamante con loro compagnia, armarono venti navi, e con quelle navi-cando, arrivaro in Grecia per vendicare la morte e l’onta del re Laomedonte loro avolo, e la distruzione di Troia, e la ruberia d’Ansiona loro zia; e arrivaro nel regno del re Menelao fratello del re Talamone ch’avea presa Ansiona, il qual Menelao avea per moglie Elena, la più bella donna che allora fosse al mondo, la quale era ita a una festa di sacrifici in una loro isola vocata Citerea; e veggendola Paride, incontanente innamorò di lei, e presela per forza, e uccisono e rubaro tutti quelli ch’erano alla detta festa e in su quell’isola e tornarsi a Troia. E per mol-ti si dice, che la detta reina Elena fu rubata in sull’isola che oggi è chiamata Ischia, e la terra del re Menelao era Baia e Pozzuolo, e ‘l paese d’in-torno ov’ è oggi Napoli e Terra detta di Lavoro, che in quelli tempi era abitata da’ Greci e detta la Gran-de Grecia. Ma per quello che troviamo per le vere storie, quella isola ove fu presa Elena fu Citerea, che

Ex Libris

oggi si chiama Citri la quale è in Romania incontro a Malvagia nel paese d’Acaia detto oggi la Morea; e la detta Elena fu serocchia di Castore e di Polluce onde i poeti fanno versi. Capitolo LIVCome l’isola d’Ischia gittò mara-viglioso fuoco

Nel detto anno 1302, l’isola d’Ischia, la quale è presso a Napoli, gittò grandissimo fuoco per la sua solfaneria1, per modo, che gran parte dell’isola con-sumò, e guastò infino al girone d’Ischia; e molte genti e bestiame e la terra medesima per quella pe-stilenza morirono e si guastarono. E molti per iscam-pare fuggirono all’isola di Procita e a quella di Capri, e a terra ferma a Napoli, e a Baia, e a Pozzuolo, e in quelle contrade, e durò la detta pestilenza più di due mesi. Lasceremo alquanto de’ nostri falli di Firenze e di que’ d’Italia, e faremo incidenza e digressione per raccontare grandi e maravigliose novitadi, che a questo tempo avvennero nel reame di Francia, cioè nelle parti di Fiandra, le quali sono bene da notare e da farne ordinata memoria nel nostro trattato. Capitolo CXIIICome il re Ruberto fece sua arma-ta di galee per contrastare quella de’ Ciciliani, e quello ch’adoperò

Nell'anno 1320, sentendo il papa e ‘l re Ruberto l’apparecchiamento fatto per gli usciti di Genova e per quello di Cicilia, feciono armare sessantacinque galee tra in Proenza e a Napoli, e quegli di Genova armarono venti galee; e del detto stuolo fu ammira-glio messer Ramondo di Cardona d’Aragona: e con-giunte le dette galee insieme, vennero sopra Genova per combattersi con quelle di Cicilia e degli usciti di Genova, le quali sentendo come venia contra loro quell’armata, si partirono della Riviera di Genova, e vennono in Porto pisano, e poi con savio provve-dimento dì guerra, e per fare partire l’armata del-

1 Solfanaria, cava di zolfo.

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la Riviera, sanza soggiorno se n’andarono in verso Napoli; e giunti all’isola d’Ischia, misono i cavalieri in terra, e corsono l’isola e guastarla in parte. Sen-tendo la loro partita l’ammiraglio del re Ruberto, con sua armata, si partì di Genova e della Riviera, seguendo vigorosamente i nemici per abboccarsi con loro, e sopraggiunsegli a Ischia una sera al tardi. Quelle galee di Cicilia e degli usciti, veggendo i ne-mici sì di presso per volere la battaglia, si ricolsono di notte, e si misono in mare dando voce di tornarsi in Cicilia. L’ammiraglio del re Ruberto veggendo-gli la mattina partiti, volendogli seguire, la gente di Principato, ch’erano intorno di trenta galee, trovan-

Raccolta di Novellieri italiani – Il Pecorone di Ser Giovanni Fiorentino, nel quale si contengono cinquanta novelle antiche d’invenzione e di stile, Torino 1853

(Novella II) - Finita la novella, cominciò Saturni-na e disse: Io ti voglio dire, come la città di Troia si disfece, e come gli edificatori di quella discesero da Fiesole.Come per le croniche si legge, Fiesole fu la prima città che in Europa fosse edificata, e il suo edifica-tore ebbe nome Atlante, ed ebbe una moglie chia-mata Elettra. Discese costui della schiatta di Cam, figliuolo di Noè, il quale ebbe tre figliuoli, l’uno no-minato Italo, l’altro Dardano e il terzo Sicano. Que-sto Sicano andò nell’isola di Sicilia, e ne fu il primo abitatore; per lo che, morto il re Atlante nella città di Fiesole, rimasero signori Italo e Dardano suoi figliu-oli, i quali erano ambidue valorosi e prodi, e ognu-no degno del governo del regno; e non potendo se non un solo signoreggiare, si accordarono che per risponso del loro Iddio uno si dovesse partire; e sa-crificando, fugli risposto dal loro Iddio, che Dardano dovesse ricercare altri paesi, lasciando Italo signore di Fiesole. D’Italo nacquero molti grandi e valenti signori, e dal suo nome denominò l’Italia; e in pro-cesso di tempo in Italia furono edificate molte belle e forti città, delle quali la città dì Fiesole sempre fu la principale, fin a tanto che Roma fu esaltata a gran signoria. Dardano si partì da Fiesole, e con Apol-line astrologo e gran seguito di sua gente arrivò in Asia nella provincia chiamata Frigia. La Frigia è di là dalla Grecia, passate l’isole dell’Arcipelago, in ter-ra ferma, e oggidì è posseduta dai Turchi. Dardano giunto ivi, per consiglio di Apolline edificò una città vicina al mare, e dal nome suo la nominò Dardanìa, e così fu nominata mentre che Dardano e suo. figliu-olo vissero. Dardano generò Erittonio, ed Erittonio generò Troio, il quale mutò nome alla città, e di Dar-dania la nominò Troia dal suo nome. Troio ebbe tre

dosi in loro paese, gridarono: rinfrescamento e pa-natica: e di vero bisogno ne aveano; e così a grido, sanza alcuno ritegno a Napoli se n’andaro. Le galee di Proenza e di Genova rinfrescati a Ischia alquanti giorni, avendo novelle come l’armata de’ Ciciliani e usciti di Genova aveano fatta la via di ponente verso Genova, per seguirle in verso Proenza si ritornaro: e così la detta armata per male seguire il loro ammira-glio, ovvero per sua diffatta e mala condotta, quasi tutta si sbarattò e venne a niente; che se avessono seguita quella de’ Ciciliani e degli usciti di Genova, di certo s’avvisava che sarebbero stati vincitori, per-ch’erano più galee e meglio armate.

figliuoli, cioè Ilo, Assaraco e Ganimede. Ilo in Troia edificò una rocca, e dal suo nome la fece nominare Ilion. Ilo generò Laomedonte e Titone. Titone ge-nerò Mennone, al cui tempo fu distrutta la. città di Troia. Troia fu ruinata due volte. La prima volta fu distrutta per lo grande e possente Ercole, il quale fu figliuolo di Alcmena figliuola di Elettrione; e con lui era Giason figliuolo di Eson e nipote di Pelia re di Tessalia, e Telamone re di Salamina che è un’isola nel mare Euboico per scontro ad Atene e vicina al sino Argolico. Questa volta Troia fu distrutta per-ché il re Laomedonte aveva vietato il porto di Tro-ia ad Ercole e ai suoi compagni, e fatto loro onta e villania, volendoli pigliare ed uccidere, quando con Giason andavano in Colchi per conquistare il vel au-reo, come raccontano i poeti. Laomedonte volse far questa violenza agli Argonauti, perché aveva tutti i Greci per nimici, per cagione di Tantalo che aveva rapito Ganimede suo zio e fratel di Ilo suo padre, vo-lendo a questo modo rinnovare l’antica guerra, ma ei ne rimase morto e Troia distrutta; e Telamone, che al conquisto della terra fu molto valoroso, prese Esiona figliuola di Laomedonte, e seco se la menò in Grecia, tenendola come sua amica. Dopo che Troia fa distrutta, Priamo giovane figliuol di Laomedonte non v’era presente; e ritornando, con l’aiuto degli amici rifece la citta con maggior sito e fortezza che non era di prima, e tutta la gente d’intorno vi rac-chiuse, tanto che in poco spazio di tempo crebbe e divenne grandissima, e si crede che girasse settanta miglia. Questo re ebbe una moglie che aveva nome Ecuba, della quale ebbe molti figliuoli maschi, i pri-mi dei quali furono Ettor, il quale fu valentissimo e di gran prodezza, Paris, Troilo, Eleno, Deifobo e Polidoro; e le prime e più famose delle figliuole furo-

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no Creusa, che fu moglie di Enea, Cassandra, Iliona, Licaste e Polissena; e di più altre donne ancora ebbe figliuoli, tal che fra tutti passarono il numero di qua-ranta. Questi figliuoli di Priamo fur tutti valorosi e gagliardi nell’arme. Essendo questa città in grande e possente stato, e lo re Priamo co’ figliuoli in gran si-gnoria, Paris con suoi armò venti navi, e navigando arrivò in Grecia, per vendicare la morte del re Lao-medonte suo avolo, e la distruzione di Troia e la cat-tività di Esiona sua zia, e smontarono nel regno del re Menelao fratello di Agamennone. Menelao aveva per moglie Elena, donna oltra le altre bellissima, la quale essendo allora andata ad una festa, la qual si faceva sopra una loro isola., fu veduta da Paris, il quale subito s’innamorò di lei, e senza altro, avendo ammazzati chi difendere la volse la presero e se ne la menarono a Troia. Per molti si dice che Elena fu rubata nell’isola che oggi si chiama Ischia,

che è tra Pozzuolo e Baia, dove è ora Napoli e Terra di Lavoro, che in quel tempo era abi-tata da’ Greci; ma per le vere istorie, l’isola dove fu rapita Elena fu Citera, che ora si chiama Cerigo, la quale è vicina al Peloponneso. Essendo menata Ele-na a Troia, Menelao con Agamennone suo fratello, e Castore e Polluce fratelli di Elena con gli altri signori della Grecia, fecero congiura sopra la distruzione di Troia; e raunando gran gente, con mille navi se ne vennero all’assedio di Troia, e quivi furono molte aspre battaglie, nelle quali restarono morti Ettor, Troilo e molti altri figliuoli del re Priamo; e stetter-vi a oste dieci anni, sei mesi e quindici giorni, ed al fine ebbero la città per tradimento, del quale molto ne fu incolpato Antenor, come scrive Darete Frigio, entrandovi dentro di notte; e dopo l’uccisione del re Priamo e di tutta la sua famiglia, e di molti altri cit-tadini, predandola l’abbrusciarono. (…)

Versione letterale dell’Iliade, Tomo II, Firenze 1804Omero, Iliade libro II vv. 780-785

Marciavan gli altri come se la terraTutta ardesse di fuoco; il suol gemeaDi sotto, come quando irato Giove Le saette scagliava e flagellava Il terren d’intorno a Tifeo làIn Arime, ove era posto secondoQuanto si dicea il suo letto; mentre Avanzavano, fortemente la terraStrideva così al calpestio (…)

Costoro s’incamminavano come se un foco divoras-se tutta la terra. Il suolo di sotto rimbombava: come allorché sdegnato Giove godi-folgore flagella la terra intorno Tifeo, colà negli Arimi (1), ove dicesi esser il letto di Tifeo; così sotto i loro piedi allor che marcia-vano gemea profondamente il terreno, e ben tosto ebbero varcato il campo.Intanto la veloce Iride, dal pié di vento, messaggie-ra dell’egi-tenente Giove, venne ai Trojani con tristo annunzio. Tenevano essi consiglio in sulle porte (del palagio) di Priamo, tutti insieme congregati, sì gio-vani che vecchi (2). Fattasi dappresso favellò Iride veloce il piede, assomigliandosi nella voce a Polite figlio di Priamo (3), che confidato nella velocità dei piedi sedeva esplorator de’ Trojani, (4) sulla cima della tomba del vecchio Esieta (5) a spiare quando gli Achei facessero mossa dalle navi. A questo so-migliante parlò Iride veloce il piede. Sempre a te, o vecchio, piacciono gli stemperati discorsi, come già in tempo di pace, ma ora si eccita una guerra inevi-

tabile. Io invero molte volte mi trovai nelle battaglie degli uomini, ma non mai vidi tale e tanto popolo.

1) Tifeo era un gigantacoio smisurato della razza dei Titani detto anche Tifone, benché altri il facciano di-verso. Eschilo nel Prometeo ne fa una pittura, alta-mente maestosa, e terribile.

Della terra il figliuol, della speloncaCilicia abitator, mostro di guerra,Il cento-teste soggiogato a forza, Furioso Tifon, che contro i numi Stette sol tutti, dall’orrende bocche Morte sbuffando, e gli ardenti occhi un lume.Spaventoso a veder folgoreggiavano, Quasi per disertar di Giove il Regno. Ma sull’audace il costui vigil telo Il fulmine piombò fiamme spirante, Che lo scosse dai vanti alti orgogliosi, Poiché percosso addentro infino al core Tutto in faville lo converse e in fiamme,E ‘l rimbombante fracasso del tuono, L’intronò, lo spossò, lo sconquassò.

Ove poi accadesse questa gran scena gli antichi non sono interamente d’accordo. Lo stesso Eschilo, non men che Pindaro dicono, che Tifeo fu sepolto sot-to l’Etna, ed a costui attribuiscono l’eruttazioni in-focate di quel monte vulcanico. Nel che parmi che siano censurati a torto da Strabone, e dal Casau-bono, come se confondessero la Sicilia colla Cilicia poich’essi non dicono se non che questo mostro fu

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allevato negli antri della Cilicia; il che non fa che il teatro della sua guerra con Giove, e del suo supplicio non potesse esser il monte Etna Omero dice espres-samente che ciò accadde negli Arimi, in Arimis, ma il punto sta a sapersi ove siano cotesti Arimi. Altri vogliono essi, e Tifone in Cilicia, ove accordano che fu allevato nell’antro Coricio, al che fa varie felicissi-me allusioni Temistio nella sua orazione all’impera-tor Valente intornio la ribellion di Procopio, nativo anch’egli di Cilicia. Altri li pongono nella Misia, det-ta abbruciata, che portava tutti i vestigj d’un paese incendiato, il che secondo Strabone quegli abitan-ti ripetevano da una tempesta di fulmini, o da una pioggia di fuoco accaduta al tempo di Tifeo. Altri con più d’apparenza suppongono che gli Arimi non sia-no altrove che in Siria. Di fatto non solo i Settanta, e Gioseffo, ma Strabone, Bocharte, e tutti ì critici sacri convengono che la Siria era detta Aram, e i Siri Ara-mei, Arimei o Arimi. Il colto Omerico viaggiatore Wood pensa perciò che questa favola debba riferirsi alla storia della Pentapoli nella Palestina, incendia-ta dal cielo per le sue nefandità. Un verso d’Omero che, secondo Strabone stesso, trovavasi immediata-mente annesso a quello degli Arimi, ajutato da un po’ di correzione, metterebbe fuor di dubbio la cosa. “Choro eni dryoenti, Ides en pioni demo; cioè in un luogo selvoso nel grasso paese d’Ida”. Non trovan-dosi negli altri paesi notizia di quest’Ida, il Taylor crede doversi leggere Judes, e allora il tutto è chia-rissimo, non potendosi, dice il Wood, vedere il mar morto, e le pianure di Sodoma, e di Gomorra senza che il verso d’Omero ci si presenti allo spirito. Ma che faremo del passo di Virgilio che mette Tifeo sot-to l’isola d’Ischia, dandole il nome d’Inarime, e mo-strando con ciò d’aver confuse le due voci Omeriche in Arimis in una? Inarime Jovis imperiis imposta Typhoeo. Di ciò fu egli pedantescamente ripreso da varj grammatici, al che allude facetamente il nostro Berni con quei versi:

Non con spesso quando l’anche ha rotte Dà le volte Tifeo l’audace ed empio, Scotendo d’Ischia le valli, e le grotte. Notate ben ch’io porto questo esempio Levato dall’Eneida di peso, E non vorrei però parere un scempio. Che mi fu detto che Virgilio ha preso Un granciporro in quel verso d’Omero, Il qual non ha, con riverenza, inteso. E certo è cosa strana, s’egli è vero , Che di due dizioni una facesse...

La cosa è tanto strana che non è a verun patto cre-dibile: benché lo stesso Wood si mostri disposto a crederlo. Parmi che siavi una spiegazione natura-lissima, atta a giustificar Virgilio da un errore così

grossolano. Premetto che l’isola d’Ischia, una delle Pitecuse vicino a Cuma nel regno di Napoli, soggetta a vulcani, e tremuoti, come sappiamo da Strabone, fu anch’essa dai popolani creduta il letto di Tifeo, né Virgilio trasportò la storia, ma la trovò bello e for-mata innanzi di lui. Posto ciò, se Inarime era presso i Latini il nome di quest’isola, è più che verisimile che Virgilio, il quale è ben naturale che ignorasse il nome originale dei Siri, credesse che Omero avesse realmente parlato d’Ischia, ma che il testo fosse scor-retto, e in luogo d’in Arimis dovesse leggersi Inari-men, il che fa una costruzione esattissima, variante ben più discreta, e naturale di molte altre spacciate come certissime dagli eruditi. Certo è che Plinio af-ferma positivamente aver Omero scritto Inarime, e lo stesso, per attestato del la Cerda , asserisce Massi-mo uomo greco, e studiosissimo d’Omero. Del resto il Sig. Vargas Maciucca, tuttoché creda aver errato Virgilio nel far una voce sola delle due Omeriche, è però convinto che egli intendesse perfettamente il vero senso d’Omero nella voce Arimi, che questo erudito deduce dal vocabolo fenicio hariim (ardo-res), e vuol che sia il nome greco-fenicio dell’isola d’Ischia, così chiamata assai propriamente da’ suoi antichi vulcani, e giustamente creduta il letto del fulminato gigante. I filosofi senza imbarazzarsi mol-to di queste discussioni erudite, osserveranno meco più volentieri, che dato il medesimo stato di spirito, e i medesimi fenomeni della natura, debbono risul-tarne appresso tutti i popoli le medesime spiegazio-ni, e i medesimi vaneggiamenti. In ogni paese sog-getto ad eruzioni vulcaniche dovea trovarsi un Tifeo; ma questo non era quello dei Greci, ma il Tifeo della natura formato nelle teste degli uomini spaventati, curiosi, e ignoranti. Chi cerca altra origine a questa, specie di favole, favoleggia egli stesso con più gravità che buon senso. 2) Da questo luogo apparisce che l’impero troia-no non era una monarchia propriamente detta, né l’autorità di Priamo assoluta, il che può servir a giu-stificarlo in parte del non aver tosto acconsentito a restituir Elena. 3) Il più giovine de’ suoi figli, che nella presa di Troia fu ucciso da Pirro. Virgilio ne descrive la mor-te in un modo interessante, e patetico. 4) Poiché Polite stava in sentinella a spiar le mos-se dell’armata greca, qual mestier c’era della buona Iride per avvertire i Trojani? e che faceva intanto Polite? restava egli immobile vedendo i Greci in mo-vimento? 5) Padre d’Antenore.

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Oeuvres inédites de Xavier De Maistre avec une étude et des notes par Eugène Rèaume, tome second, Paris 1877. XLV - A Madame La vicomtesse De Marcellus - Naples, 24 septembre 1833

Il y a eu à Ischia une cure miraculeuse. Une jeune fille de vingt ans, perclue de la ceinture aux pieds depuis quatre ans, avait fini ses bains sans la moin-dre amélioration, et devait partir le même jour que ma femme; la veille, son vieux pére et toute sa famille ont été à la messe avec elle et ont commu-nié; la jeune fille s’est endormie pendant les lita-nies de la Vierge qu’on a chantées après la messe et s’est réveiliée tout à coup avec des mouvements convulsifs; elle a demandé de l’eau, s’est plainte de vives douleurs, puis s’est mise à marcher et s’est je-tée à genoux aux pieds de la Madone. Les parents sont dans la joie, ils ont donné tout ce qu’ils avaient d’argent anz pauvres. Les uns disent que c’est l’effet des eaux, les autres que c’est un miracle. Je crois que c’est toujours un miracle quand on guérit d’une maladie, et qne c’en est un de n’être pas perclus.

Adieu, chère bonne Valentineka, je suis à vos pieds.

Si è avuta ad Ischia una guarigione miracolosa. Una ragazza di vent’anni, che era paralizzata dalla cintura ai piedi da quattro anni, aveva finito i bagni senza alcun miglioramento e doveva partire lo stesso giorno di mia moglie; il giorno prima, il suo vecchio padre e tutta la famiglia sono andati con lei a messa e si sono comunicati; la ragazza si è addormentata durante le litanie della Vergine, cantate dopo la Messa, e si è risvegliata improvvisamente con movi-menti convulsi; ha chiesto dell’acqua, si è lamentata di forti dolori, poi ha cominciato a camminare e si è gettata in ginocchio ai piedi della Madonna. I geni-tori, felici, hanno donato ai poveri tutti i soldi che avevano. Alcuni dicono che sia l’effetto delle acque, gli altri dicono che si tratti di un miracolo. Io credo che sia sempre un miracolo quando uno guarisce da una malattia e ottiene di non essere più paralizzato.Addio, mia buona Valentineka, sono ai tuoi piedi.

Cronaca delle Due Sicilie di C. De Sterlich, Napoli 1841

Addì 8 novembre, giorno di venerdì, due grandi barche, di cui una provveniente da Ischia, giunte nel canale di Miseno sono state urtate contro agli scogli frangendosi ambedue in minutissimi pezzi. Accorsa molta gente a vedere il pietoso spettacolo dalla mon-tagna alle cui falde il mare con i suoi fragorosi ca-valloni vi sbatteva contro tredici marinari e due fan-ciulli, totale delle due ciurme, non potendo in niun altro modo soccorrere quegli infelici à gittato loro delle funi perché vi si appendessero. Ma nessuno à potuto profittarne: alcuni troppo lontani, altri giunti ad afferrarvisi sono stati tutto ad un tratto sbalza-ti dalla furia del mare. Dopo d’aver lottato qualche ora con le onde sono tutti periti. Chi sa se qualcuno di loro si è avveduto che morivano benedetti da chi pregava il cielo per essi in quegli ultimi istanti. Ma la voce del curato che assisteva loro le anime dalla sommità della montagna, non à potuto essere intesa che solamente da Dio a cui parea che fosse più vicina che ad essi. Addì 6 marzo, sabato. Ad un’ora dopo il mezzodì una forte scossa di tremuoto à agitata per vari se-condi tutta l’isola d’Ischia, in ispezialtà i comuni di Lacco, di Forio e di Casamicciola. Dopo sei minuti vi

è stata un’altra scossa, ma non vi si è sofferto niun danno. Gli estinti vulcani su i quali posa quest’isola famosa del Mediterraneo ricordano con queste scos-se ciò che furono un giorno. Addì 12 maggio, mercoledì. Il pio e laical monte delle sette opere della Misericordia di Napoli à oggi avvisato gl’infermi poveri i quali avessero bisogno dei bagni e delle stufe dell’isola d’Ischia di presen-tarsi, ove vogliano profittare di quest’opera di carità, il dì 7 luglio per la visita generale che si farà dai me-dici deputati ad osservare il loro stato di salute. Addì 19 novembre, venerdì. È mancato ai vivi il commendatore Marino Caracciolo dei principi di Torchiatolo, nato addì venticinque del mese di feb-braio dell’anno 1783. Saputissimo ufiziale dell’ar-mata napoletana, egli cominciava la sua carriera da guardia marina giungendo fino al grado di colonnel-lo, altrimenti capitano di vascello. Nel 1804 si trovò su la fregata Sirena all’attacco ch’ebbe luogo nella rada di Tunisi. Due anni dopo, comandante una divisione di barche cannoniere, venne varie volte a battaglia col nemico nel faro di Messina e tre la coste delle Calabrie: le quali nel 1808 lo rividero nuova-

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mente a combattere su la corvetta Aurora, di ritorno dalle acque d’I-schia e da un fatto d’arme contro a ventiquattro cannoniere nemi-che. Nell’anno 1809 , con la frega-ta Minerva, fu alla presa d’Ischia e di Procida. Decorato nell’anno 1816 della medaglia di bronzo, ebbe nel 1819 la croce dell’ordine di San Giorgio della riunione, nel 1832 la dignità di maggiordomo di settimana, nel 1833 la commenda del real ordine di San Ferdinando

e del merito per la felice riuscita della sua diplomatica missione presso il bey di Tunisi con la quale procurò al suo signore tutta quella riparazione di che abbisognava la sua real dignità, ristabilì la sospesa amicizia tra le due corti e fu cagio-ne di un trattato di commercio che tornò di gran vantaggio alle due Si-cilie: e nello stesso anno non solo gli fu permesso da Sua Maestà il Re l’uso della commenda dell’ordine dei Santi Maurizio e Lazzaro avu-

ta dal re dì Sardegna, ma fu creato cavaliere dell’ordine di Carlo III di Spagna. Marino era della casa dei Caraccioli per la quale non sono illustrazioni che giungono nuove, in ispezialtà nelle cose di guerra. Ma egli non si rimase all’ombra di quelle dei suoi maggiori e volle procurarne una tutta sua. Fu quin-di prode e chiaro per modo che i nipoti porranno anche Marino fra gli avi di cui è bello ricordarsi.

Parco Archeologico dei Campi Flegrei

Il Visibile, l’Invisibie e il Mare

Mostra di sculture inedite per accogliere la sta-tua “Zeus in trono” in ritorno dal Getty Museum di Los Angeles!

Sabato 27 ottobre 2018 è stata inaugurata la mostra “Il visibile, l’invisibile e il mare” all’interno della sala “Polveriera” del Museo Archeologico dei Campi Fle-grei-Castello di Baia.

Undici statue hanno accompagnato il protagonista indiscusso, Zeus in Trono: in esposizione capolavori inediti, provenienti dai fondali del Parco Archeologico dei Campi Flegrei, da Cuma, da Miseno e dai giardini e dagli ambienti di rappresentanza delle ricche domus, dalle ville del patrimonio archeologico di Baia, che ne testimoniano il lussuoso stile di vita.

Nel percorso della mostra sono stati presenti sup-porti multimediali per offrire al visitatore una possibi-lità in più per comprendere le caratteristiche dei Cam-pi Flegrei: sono stati proiettati filmati per raccontare il particolare fenomeno del bradisismo, che ha reso unici siti e monumenti, conservandoli in un suggestivo dua-lismo tra terra e mare!

Prima dell’inaugurazione della mostra, il diretto-re del Parco, Paolo Giulierini, ha illustrato l’attività dell’ente dalla nascita ad oggi.

«Nove mesi di gestione del nuovo ente autonomo del Parco Archeologico dei Campi Flegrei sono stati im-piegati per costruire la macchina amministrativa e ge-stionale, l’immagine coordinata, il sito. Parallelamente abbiamo lavorato per perfezionare la progettazione e l’apertura dei cantieri, relativamente ai finanziamen-ti PON e FSC, alla riapertura prossima della Grotta di Cocceio e a moltissime attività didattiche e culturali che hanno caratterizzato la stagione del Parco. L’arrivo di Zeus scandisce simbolicamente la chiusura di que-sta prima parte dei lavori ed apre al rilancio in gran-de stile previsto per la prossima primavera. Rilancio che – continua Giulierini – si badi bene è ben visibile, già testimoniato da una sensibile crescita di pubblico

e dalla presenza del nostro ente nelle principali fiere turistiche nazionali ed internazionali, nonché in grandi progetti di ricerca con Musei cinesi, Università italiane e internazionali».

La statua di “Zeus in trono” risale al I secolo a.C. Alta 74 centimetri, rappresenta l’iconografia classica del dio greco. Proviene probabilmente dalle acque del golfo flegreo, considerate anche le sue condizioni: un lato ricoperto da incrostazioni marine (esposto a lungo nelle acque), un lato liscio (si ipotizza seppellito nel-la sabbia e dunque protetto). È stata esposta dal 1992 fino al 2017 al Getty Museum di Los Angeles, dopo es-sere finita in un giro di ricettatori. Nel 2012 attraverso l’analisi di un frammento di marmo ritrovato a Bacoli, si è trovata la corrispondenza con lo spigolo del brac-ciolo del trono di Zeus: la Guardia di Finanza, attraver-so un’immagine disponibile in rete, ha potuto sovrap-porre virtualmente la particella riemersa alla statua esposta al museo californiano, trovando una perfetta corrispondenza. Successivamente, a marzo 2014, è stata eseguita una verifica diretta e successivamente le analisi tecniche specifiche hanno determinato l’appar-tenenza e la provenienza. Grazie alle operazioni degli inquirenti e alle azioni di diplomazia della Magistratu-ra e del Ministero dei Beni Culturali, la statua è ritor-nata a giugno 2017 al Museo Archeologico Nazionale di Napoli. Sabato 27 ottobre 2018 è ritornata a casa!

A festeggiare il ritorno di Zeus al Parco Archeologi-co dei Campi Flegrei, oltre al direttore dell’ente, Pa-olo Giulierini, anche il procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Napoli Giovanni Melillo; il Capo di Gabinetto del Mibac, Tiziana Coccoluto; il sostitu-to procuratore presso la Procura di Napoli, Ludovica Giugni; il magistrato americano di collegamento con l’Italia, Cristina Posa; il Console generale degli Usa a Napoli, Mary Ellen Countryman.

La mostra, con il patrocinio del Ministero dei Beni e delle Attività Culturali, è stata promossa dal Parco Archeologico dei Campi Flegrei.

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A Forio vive e lavora in solitu-dine (ma con gli occhi ben aperti su tutto quel che succede) il pit-tore Gino Coppa. Non si può non accennare alla «particolarità» dell’isola d’Ischia. «Vasta come un continente» dice De Libero; e che assolve anche funzione di «con-tinente», assai diversa da Capri per la funzione che ha svolto e svolge. Basti pensare a chi sono gli «stranieri», tedeschi, inglesi, americani, ed anche italiani di grande prestigio intellettuale (…) che vanno e soggiornano a Ischia e a come ci vanno. Non per vacan-za o «buen retiro». La presenza di questi stranieri è attiva nell’isola (…) Gino Coppa è il frutto più inte-ressante di questo clima.

[…] Bisognerebbe vedere insie-me gli acquerelli, i suoi quadri ad olio, piccoli grandi e grandissimi, i quadri africani, i guerrieri e i bi-sonti per capire il senso di questo suo abbattersi sul foglio e di allar-garlo di forme, di corpi che diven-tano magiche vocatorie fino a far diventare Ischia una nuova Tahiti (Renato Guttuso).

Scegliere se dipingere la “bella veduta” o provare a cogliere l’inti-ma, contraddittoria relazione che c’è tra la bellezza dell’ambiente e la “millenaria” trasformazio-

ne del luogo in cui vive: il critico e giornalista Paolo Ricci descrive in questo modo la scelta a cui è chiamato ogni artista che voglia misurarsi con il paesaggio, in par-ticolar modo quello ischitano, as-sai più variegato e ricco di spunti rispetto a quello delle altre isole del Golfo. Nell’evidenziare l’alter-nativa, il Ricci dichiara anche la sua preferenza per la seconda op-zione, e quindi per quegli artisti che provano a ricondurre ad uni-tà il molteplice, magari eliminan-do qualcosa sul piano espressivo a vantaggio dell’essenzialità delle forme e dell’intensità e profondità del colore.

L’artista Luigi Coppa è stato uno di questi. Sempre Paolo Ricci, però, evidenzia lo stile “sui gene-ris” del pittore ischitano, mutua-to dai lunghi e ripetuti soggiorni africani. La particolarità, come afferma il Ricci: Coppa avrebbe assorbito dall’ “arte negra” la ca-pacità di individualizzare ciò che è generale, così diversa dalla tensio-ne dell’arte classica, “ellenica”, che invece parte dall’individuo per poi approdare all’ideal-tipo.

Nell’intera produzione artistica dal periodo giovanile, durante il quale sono le scene della vita di paese a essere dipinte, giungendo

al primo periodo africano, scoper-ta l’Africa nei viaggi in Kenia, Con-go, Uganda, con il ritorno a Forio e la successiva ripartenza per l’A-frica sub-sahariana, la pittura di Gino Coppa ha sempre avuto la ca-pacità di mescolare e unire uno sti-le alto e basso, colto e popolare, la lezione dell’Espressionismo tede-sco, scoperta nella sua Forio grazie ad Eduard Bargheer, con i colori, le suggestioni ischitane, africane, mediterranee.

Dell’arte cosmopolita e locale, oggi definita, arte glocale di Luigi Coppa, rimasero affascinati il cri-tico letterario Libero De Libero e, soprattutto, Renato Guttuso, uno dei pittori più importanti del ‘900 italiano.

A Gino Coppa, che pure ha sem-pre avuto un ricco mercato estero,

Gino Coppa, l' artista glocale

Il pittore foriano profondamente innamorato del continente nero

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Guttuso organizzò una personale a Roma nel 1975. A Coppa Guttuso dedicò pure una breve, sentita re-censione, pubblicata, come anche quella di Paolo Ricci, nel libro Artisti dell’isola d’Ischia di Massimo Ielasi (Società Editrice Napoletana, 1983).

Ma chi era Gino Coppa, l’artista che ha af-fascinato ed incuriosito i grandi e i piccoli del secolo recente?

Luigi Coppa nasce a Forio d’Ischia nel 1934. Comin-cia precocemente a dipingere e si diploma all’Istituto d’Arte di Napoli con il Primo Premio. Nel 1955 espone alla VII Quadriennale di Roma. La sua vita è caratte-rizzata da un rapporto continuo con l’Africa dove il padre per lunghi anni lavora. Vi si recherà frequen-temente e ne trarrà ispirazione per la propria ricerca pittorica.

Il suo lavoro conosce diverse e lunghe stagioni: Paesaggi e ritratti (1945-1957); Africa Nera: Ken-ya, Uganda, Congo, Ruanda e Burundi (1957-1970); Bambini e giocattoli; Amanti (1970-1976); Maghreb (1976-2011).

Numerosi viaggi di studio e di lavoro lo portano nel-le maggiori città italiane ed europee. Nel 1957 è invi-tato in Germania dalla gallerista e mecenate tedesca Hanna Bekker vom Rath che gli mette a disposizio-ne uno degli ateliers della sua famosa Blaue Haus a Hofheim amTaunus. Sempre nel ’57, grazie al Centro Studi Italiano di Istanbul, espone alla Moderno Gale-risindi quarantotto opere raffiguranti paesaggi e scene di Ischia. Trascorsi due mesi nella capitale turca, il 19 dicembre parte per Kampala per incontrare il padre dipendente della ditta di costruzioni stradali Stirling-Astaldi. Dopo un lungo soggiorno in Uganda e viaggi in Kenya, Congo e Ruanda Urundi ritorna a Forio dove realizza un vasto ciclo di opere ispirate all’Africa Nera.

Ad Ischia, diventata ormai centro internazionale di confluenza di artisti ed intellettuali, il lavoro del gio-vane Coppa non passa inosservato: i pittori tedeschi Hans Purmann ed Eduard Bargheer visitano il suo studio per vedere le “opere africane”; il giornalista francese François Bondy, direttore della rivista Preu-ves e l’intellettuale polacco KotJelensky, direttore del-la GalerieLambert, lo invitano ad esporre a Parigi.

Il matrimonio nel 1960 con Anita Verde e la nascita dei suoi tre figli: Teresa, Marianna e Giovanni gli ispi-rano i primi studi sui bambini e sui giocattoli, nonché il ciclo degli Amanti.

A Forio si lega d’amicizia con Renato Guttuso, Li-bero De Libero, Libero Bigiaretti, Natalino Sapegno, Gerhard Polt, Willy Maywald e altre personalità del mondo dell’arte e della cultura.

Nel 1976 si reca per la prima volta in Marocco. Inizia la ricognizione del mondo del Maghreb le cui espe-rienze alimentano ancora oggi la sua produzione pit-torica. Nel 1981/82 è in Algeria, Tunisia e di nuovo in Marocco. Le sensazioni, i colori, le immagini legate a questi viaggi si ritrovano nei quadri che espone nelle

grandi mostre al museo Vieille Charité di Marsiglia e allo Stadtmuseum di Graz. Nel 1989 il Centre Culturel Français in Algeria gli organizza una mostra itinerante nelle sue sedi di Annaba, Costantina, Orano,Tlemcen e Algeri che viene accolta con vivo interesse dalla criti-ca e dal pubblico algerino.

Nel 1997 riceve in premio dalla città di Monaco di Baviera un soggiorno di studio nella Villa Waldberta sul lago di Starnberg, luogo d’incontro e di lavoro per artisti e scrittori europei.

Nel 2001 la Regione Veneto e la città di Padova gli dedicano un’ampia personale a Palazzo del Monte. Nel gennaio 2004, in occasione del suo settantesimo compleanno, il Comune di Forio lo festeggia con una mostra antologica al Museo del Torrione e con una mostra di bozzetti di viaggio alla Villa Visconti, sede della Fondazione La Colombaia, dove viene presen-tato il volume Bozzetti maghrebini pubblicato in Ger-mania da un gruppo di amici ed estimatori tedeschi.

Nel 2008 prende parte alla mostra Arte senza con-fini. Le mostre itineranti di Hanna Becker vom Rath 1952 – 1967 nello Stadtmuseum di Hofheim, dove la sua Chiesa di Hofheim (1957) è esposta, tra gli altri, accanto ad opere di Dix, Klee, Nolde e Kandinsky. Nel 2011 espone al Palazzo Pretorio di Certaldo/Firenze. Nel 2014 partecipa alla mostra Da Guttuso a Matta. La Collezione Valenzi per Napoli, Maschio Angioino, Napoli. Nel 2016, nell’ambito del Premio Sebetia-Ter, gli viene assegnato il “Premio Maurizio Valenzi” per l’Arte figurativa. Luigi Coppa muore a Forio il 9 otto-bre 2018.

Ernesta Mazzella

La Rassegna d’Ischia n. 7/2018 45

di Vincenzo Cuomo

Lugo, ridente cittadina in provincia di Ravenna, era nota per essere stata, dal 1377, proprietà degli Estensi, prima di divenire nel 1598 parte integrante degli Stati della Chiesa. Tale centro nel 1888 ha visto crescere le proprie benemerenze agli occhi della storia, in quanto il 9 maggio vi nasceva un uomo la cui figura sa di leg-genda, mentre il suo nome ogni italiano, almeno una volta nella vita, ha sentito pronunciare: Francesco Ba-racca.

La famiglia era agiata ed in possesso di molte pro-prietà, di conseguenza per il ragazzo si prospettava una vita serena e lontano da affanni economici. Non appena però ebbe lume di ragione iniziò subito ad inte-ressarsi alla vita militare. Sua aspirazione era divenire Ufficiale dell’Arma di Cavalleria. Il padre non appena a conoscenza di questo desiderio mise in campo una serie di strategie per dissuaderlo. Avrebbe voluto lo af-fiancasse nella gestione dei beni di famiglia. Il giovane era però fortemente determinato e nulla riuscì a disto-glierlo da tale desiderio, che ad un dato momento di-venne una vera e propria vocazione. Terminati gli stu-di liceali presentò subito domanda per poter accedere all’Accademia del Regio Esercito di Modena. Ovvia-mente corso di Cavalleria. L’ostilità del padre a questa scelta venne poi gradatamente mitigata dalla madre, a cui Francesco si era rivolto per una intercessione e che aveva capito come il ragazzo amasse profondamente quella carriera.

Superati brillantemente gli studi poté così finalmente dare corso alla sua “... aspirazione... di poter un giorno vestire una gloriosa divisa ed essere degno in ogni mo-mento di essa”, ma anche divenire “...un buon Ufficia-le”. Il Reggimento a cui venne destinato fu il “Piemon-te Reale Cavalleria”, costituito il 23 luglio 1692 aveva partecipato a tutte quelle guerre destinate ad ingran-dire il Ducato di Savoia, sino alla creazione del Regno di Sardegna. Prese poi parte alle guerre risorgimentali, distinguendosi alla Sforzesca (21 marzo 1849), ove, per le impetuose cariche, allo Stendardo sarà concessa una Medaglia d’Argento. Una seconda la riceverà nel 1860 nel corso di quella campagna di supporto dell’Armata Sarda ai Legionari di Garibaldi.

Francesco Baracca affascinato dall’aeroplano, nuova scoperta dell’uomo che realizzava finalmente il sogno di Icaro, ad un dato momento prese sempre più ad in-teressarsi ad esso. Nel momento in cui la decisione gli apparve matura, presentò domanda per poter accedere ad una Scuola di pilotaggio di questa nuova Specialità del Regio Esercito che era l’aviazione. A Reims, ove in-sieme ad altri Ufficiali di Cavalleria era stato inviato, dopo alcuni mesi di intenso allenamento, conseguì il

tanto desiderato brevetto di volo. Quello militare lo ot-tenne successivamente in Italia volando su un “Nieu-port”,

Terminata la guerra italo-turca, con la conquista di Tripolitania e Cirenaica, alla quale, pur desiderando-lo, Baracca non riuscì a partecipare, fu destinato in Lombardia. Ivi (1912), inserito nell’organico di una Squadriglia del Regio Esercito, ebbe modo di com-pletare ed affinare il suo addestramento e far lievita-re competenza ed esperienza. Trascorse anche lunghi periodi presso quegli stabilimenti ove si costruivano i primi aerei. Ritornò anche, prima che avesse inizio la Grande Guerra, nuovamente in Francia per un corso di perfezionamento.

Il 28 giugno 1914, l’assassinio a Sarajevo dell'erede al trono imperiale asburgico di Vienna Francesco Ferdi-nando e la moglie Sofia, spalancava le porte alla Prima Guerra Mondiale. Il Regno d’Italia sino al 24 maggio 1915 rimase però neutrale, mentre la popolazione si spaccava tra neutralisti ed interventisti. Francesco Ba-racca fu decisamente tra questi ultimi. Iniziata la par-tecipazione italiana al conflitto, Baracca, con altri piloti su aeroplani “Nieuport”, verme destinato a difendere il Comando Supremo di Udine. Gli esordi furono però

Il mito dell'aviatore Francesco Baraccanel contesto della Prima Guerra Mondiale

Francesco Baracca (Foto da Museo di Lugo)

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deludenti, non per demerito, ma per l’avverso fato. Per ben tre volte infatti, nel corso di un duello aereo, la mi-tragliatrice del suo velivolo si inceppò.

Circa questi primi “Nieuport”, biposti del primo anno dell’entrata dell’Italia in guerra, va detto che l’armamento era costituito da un fucile in dotazio-ne all’osservatore. Questi, giunto alla giusta distanza di tiro, faceva fuoco contro il pilota nemico. Rapida-mente si pervenne poi ad una mitragliatrice fissata su un’ala del velivolo. Agli inizi del 1916, nel momen-to in cui la caccia si dotò di una più veloce classe di “Nieuport”, questa volta monoposto, fece la pro-pria apparizione una mitragliatrice fissata in alto e in allineamento con la traiettoria dell’aeroplano. Essa veniva azionata dal pilota con una leva non appena inquadrava, in un reticolo montato sul davanti, l’ap-parecchio avversario. Solo successivamente si giunse a quella mitragliatrice posizionata nell’elica e sincroniz-zata con la rotazione delle pale.

Nel ritornare agli eventi legati agli inizi della parteci-pazione italiana alla Grande Guerra, abbiamo dopo un periodo di lunghi voli fatti per difendere il Comando Supremo italiano, senza alcun momento di gloria, il 7 aprile 1916 Francesco Baracca abbatté il suo primo ae-roplano. Ricevuta la segnalazione che nel cielo tra Udi-ne e Gorizia erano stati avvistati dei velivoli austriaci, la 70a Squadriglia si alzò in volo. Baracca, dopo aver evitato le pallottole a lui dirette da un “Aviatik”, sparò a sua volta tre scariche a breve successione. L’ “Aviatik” colpito fu costretto ad atterrare. A questo punto, nota-to che vi era spazio sufficiente, anch’egli scese al suolo. Ciò, al fine di evitare che l’aeroplano venisse distrutto. Giunto di fronte al pilota austriaco, fortunatamente illeso, gli strinse la mano. L’osservatore di bordo, gra-vemente ferito, fu invece rapidamente condotto in un ospedale da campo italiano.

Tra fine aprile ed inizio maggio 1916, Baracca dovè subire una nuova ostile avversità. Ancora e per due volte consecutive, giunto a contatto con dei velivoli ne-mici, la mitragliatrice si inceppò. Il 16 maggio poi, alla notizia che ben 14 bombardieri austriaci si appresta-vano a scaricare il loro micidiale carico sul Comando Supremo e dintorni, la 70a Squadriglia venne subito

fatta levare in volo. L’azione fu coronata da successo. Dei tanti aeroplani nemici solo tre riuscirono a sgan-ciare le bombe, mentre due, colpiti, furono costretti ad atterrare.

I primi mesi dell’estate 1916 videro Francesco Ba-racca costantemente vincolato in scontri contro appa-recchi nemici. Il 23 agosto poi, tanto impegno venne premiato con un nuovo abbattimento. Abbattimento di un “Aviatik” a cui collaborarono i piloti Luigi Olivari e Folco Ruffo di Calabria, entrambi della Squadriglia. Il 16 settembre (1916) operò un nuovo abbattimento. Il 25 novembre nuova vittoria contro un “Albatros”. Francesco Baracca si avviava così a divenire il pilota per antonomasia. Ovunque, anche negli ambienti civi-li, si parlava costantemente di lui, del suo ardimento e del suo eroismo. Ricevette anche le prime Medaglie al Valor Militare.

Il 1917 è poi l’anno d’oro di Baracca. Anno punteg-giato da ben 25 vittorie, con relativo abbattimento de-gli aeroplani nemici da lui di volta in volta attaccati. In relazione a ciò la sua fama continuò a lievitare ed i suoi successi ad infiammare gli animi. Da questo en-tusiasmo fu contagiato anche il Re Vittorio Emanuele III. Il quale, nel corso di un’ispezione in zona, volle re-carsi personalmente a porgere il suo regale sentimento di felicitazione e rallegramento, a lui ed agli altri com-ponenti di una così formidabile Squadriglia. In questo anno, in omaggio ed in riferimento ai trascorsi nell’Ar-ma di Cavalleria, sulla fiancata dell’aeroplano di Barac-ca fece la propria apparizione un Cavallino Rampante, simbolo di eterna gloria e valore, passati alla storia con lui.

Sempre nel corso di questo 1917, Francesco Baracca, a ricompensa delle tante vittorie, si vide assegnata la prestigiosa onorificenza dell’Ordine Militare di Savoia. Con la promozione a Capitano assunse il comando del-la 91a Squadriglia, la quale adottò anch’essa, quale em-blema, il Cavallino Rampante. Nel prosieguo abbiamo che i vecchi velivoli vennero sostituiti da un nuovo mo-dello denominato “Spad”. Oltre ad avere la mitraglia-trice sincronizzata con il movimento dell’elica, questo aeroplano raggiungeva la velocità, per l’epoca a dir poco sorprendente, di circa 200 km/h.

Il 13 ottobre fu un giorno molto triste per Baracca. Il suo amico Tenente Luigi Olivari, che aveva raggiunto il numero di 12 vittorie, morì sulla pista in fase di decollo in seguito ad una manovra errata. Il 24 ottobre 1917 un’Armata austro-tedesca sfondò il fronte italiano a Caporetto. L’avanzata nemica venne però fermata sul fiume Piave. Nel corso della travolgente penetrazione in territorio italiano, Baracca fu di continuo in volo ad affrontare e tante volte ad abbattere i caccia nemici. Il 26 ottobre è anche colpito, ma riuscì a salvarsi gra-zie ad un atterraggio di fortuna. Ritornato alla base di “Santa Caterina” fu subito costretto ad abbandonarla, con gli altri piloti, a causa dell’arrivo degli austro-tede-schi. Prima però di raggiungere la nuova destinazione che gli era stata indicata, si recò di sua iniziativa a mi-tragliare le fanterie nemiche avanzanti.

Francesco Baracca a bordo del Nieuport (Foto da Museo di Lugo)

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Nel prosieguo della sua infaticabile attività di “cac-ciatore”, Baracca, il giorno 7 dicembre 1917, ottenne la trentesima vittoria, colpendo un “Albatros” che cadde in fiamme. Il giorno successivo il suo nome comparve nel Bollettino di Guerra del Comando Supremo. Nel corso del lungo inverno che seguì, l’attività aviatoria, a causa delle condizioni del tempo non sempre favore-voli, subì un certo rallentamento. In questo periodo Re Alberto del Belgio lo volle incontrare per consegnargli una importante decorazione del suo Paese.

Il momento di massima gloria Baracca lo visse al Te-atro alla Scala di Milano. Ivi, nel corso di una solenne cerimonia, a cui seguirono adeguati festeggiamenti, venne insignito della massima onorificenza che il Re-gno d’Italia concedeva ai propri Eroi: una Medaglia d’Oro al Valor Militare. Intanto, anche altri valorosi piloti videro lievitare il numero delle loro vittorie. Il Tenente Silvio Scaroni si attesterà sulle 26, il Ten. Col. Pier Ruggero Piccio a 24, il Tenente Flavio Baracchini a 21, il Capitano Folco Ruffo di Calabria a 20 e poi altri a seguire.

Comunque, non va dimenticato che anche le altre Nazioni presenti nel conflitto, avevano la loro avia-zione, sempre suddivisa in Caccia, Bombardieri e Ri-cognitori. Così come in Italia primeggiava Baracca, in Germania l’asso da tutti osannato e venerato era Man-fred Von Richtofen, detto il “Barone Rosso”, dal colore con cui aveva dipinto il suo apparecchio. Anch’egli Uf-ficiale di Cavalleria, prima di essere a sua volta abbat-tuto, riuscì a conseguire ben 80 vittorie. La Francia nei cieli vantava invece la presenza del Capitano Georges Guynemer. Pure lui, dopo aver conseguito 54 abbatti-menti, fu fatto precipitare da un anonimo pilota avver-sario, così come era accaduto a Von Richtofen. L’Au-stria-Ungheria si compiaceva invece con la presenza di Bruraowski, con 40 vittorie all’attivo. La Gran Breta-gna aveva invece Albert Ball, con 43 abbattimenti.

Con il ritorno della bella stagione l’attività di Baracca riprese con vigore. Gli abbattimenti continuarono. Il 23 maggio 1918 il Bollettino di Guerra del Comando Supremo lo cita in relazione al suo 32° scontro vit-torioso con il nemico. In questo periodo visse anche un momento altamente rischioso, che sarebbe potuto concludersi con una tragedia. In volo di ricognizione Folco Ruffo di Calabria scambiò il suo aeroplano per una apparecchio nemico e lo mitragliò. Fortunatamen-te senza colpirlo, anche perché l’Asso compì una spet-tacolare evoluzione. Al ritorno alla base, con fare cir-cospetto, si avvicinò a Baracca sperando che durante il volo non avesse riconosciuto in lui l’aggressore. Questi però lo guardò e con aria serafica gli disse che se pro-prio intendeva abbatterlo avrebbe dovuto: “...tirare un paio di metri più a destra”.

Il 15 giugno 1918 l’esercito austro-ungarico sferra una potente offensiva contro le linee italiane, nell’au-spicio possa condurre ad una nuova vittoria come l’an-no precedente a Caporetto. Gli scontri più violenti e sanguinosi si ebbero sul Monte Grappa e sul Piave, che in diversi punti venne superato, consentendo così

di creare delle teste di ponte in territorio italiano. La tenace resistenza posta in essere dai soldati italiani, è passata alla storia con il nome di Battaglia del Solsti-zio. In realtà Battaglia del Piave, ma ancora una volta la trasposizione in chiave poetica del D’Annunzio, che così ebbe a definirla, ebbe il sopravvento.

Nel corso di questo fatto d’armi, la caccia, con tutti gli apparecchi a disposizione, venne impegnata a con-trastare l’avanzata, colpendo gli aeroplani nemici e mi-tragliando le colonne in marcia. Non solo, ma anche, unitamente ai ricognitori, seguire gli spostamenti dei reparti sul terreno. Francesco Baracca fedele al suo ardimento di sempre fu costantemente in prima linea. Proprio in questo giorno di inizio attacco nemico, il 15 giugno 1918, il suo valore e l’alta professionalità rag-giunta gli consentirono di abbattere due velivoli avver-sari nello stesso giorno. Raggiungeva così il numero di 34 vittorie, dopo che aveva già raggiunto anche il grado di Maggiore.

Nella determinata volontà di impedire al nemico un’ulteriore avanzata, ma anche respingerlo sulle posi-zioni di partenza, il 18 giugno (1918) una formazione di oltre 70 caccia giunse sul Montello, collina in provincia di Treviso. E’ guidata dal Ten. Gol. Pier Ruggero Piccio e comprende anche la 91a Squadriglia comandata dal Baracca. Nel corso di un volo effettuato nella mattinata del giorno 19 giugno, Baracca, così come se un presa-gio di morte si fosse accostato a lui, è sfiorato al viso da una pallottola nemica. Pallottola che gli trapassa il collo del giubbotto di volo.

Sorta l’esigenza di continuare l’azione, nel pomerig-gio lo “Spad” di Baracca, unitamente ad altri velivoli, si alzò nuovamente in volo. A questo punto accadde qualcosa che non è mai stato del tutto completamente chiarito, tanto che ha generato varie ipotesi sulla morte dell’Asso. Il pilota Osnaghi, suo gregario, cioè sostan-zialmente addetto a guardargli le spalle nell’azione, nel momento in cui, disperato e da solo, ritornò alla base, riferì di aver visto come il fumo di una piccola esplo-sione all’interno dell’abitacolo di Baracca, unitamente ad una “brusca manovra fatta dall’aeroplano italiano. Quasi contemporaneamente lo perse di vista, nono-stante iniziasse a compiere ampi sorvoli sulla zona, termine della lunga ricognizione, rientrò alla base.

Nella speranza che cadendo si fosse solo ferito, il Ten. Col. Piccio si alzò in volo per cercare di rintrac-ciarlo. Il sopraggiunto buio della notte lo costrinse a rientrare. Non domi, altri piloti partirono allora in auto diretti verso la zona del fronte ove si supponeva potes-se essere precipitato Baracca. La notizia che un caccia italiano era piombato al suolo poco distante, pose tutti in grande apprensione. Comunque e con grande sollie-vo si scoprì non essere lo “Spad” di Baracca.

Malgrado non si riuscisse ad individuare il velivolo dell’Asso con il Cavallino rampante, le ricerche con-tinuarono ininterrotte. Esse adesso si spinsero anche molto più avanti negli anfratti del Montello. Ciò, in relazione alla ritirata delle truppe austro-ungariche, sconfitte alla fine della Battaglia del Solstizio. Dopo

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cinque giorni in cui nell’animo di tutti i componenti della Squadriglia la speranza di ritrovarlo ancora in vita si era affievolita sempre più, giunse quella dram-matica notizia che nessuno avrebbe voluto ascoltare.

Dal comando del 112° Reggimento Fanteria perven-ne una nota informativa in cui era detto che nel crepu-scolo del giorno 19, in una località del Montello nota come Busa delle Rane, era stato visto un aeroplano italiano cadere mentre intento a mitragliare il nemico al suolo. Recatisi rapidamente sul posto, venne subi-to avvistato lo “Spad” conficcato nel terreno a mo* di cuneo e quasi completamente distrutto dalle fiamme. L’ingiuria del fuoco aveva però risparmiato il corpo di Baracca, che giaceva a qualche metro dall’apparecchio.

Sulla fronte venne subito notato il foro di entrata di un proiettile, che era quello di un fucile in dotazione alla Fanteria asburgica. Eseguiti i rilievi del caso, la sal-ma venne condotta alla base accolta dalla disperazione di tutti i colleghi.

La commozione ed il lutto non coinvolsero solo gli appartenenti alla Squadriglia. L’intera Italia, civile e militare, ne fu toccata. Baracca era oramai divenuto un mito. Il mito del Cavaliere medievale che, senza mac-chie e senza paura, combatte lealmente per un ideale, senza infierire sul nemico vinto e senza lasciarsi anda-re a fragorose e tonanti elucubrazioni. Tutti i giornali, non solo italiani, ma anche stranieri, ne diedero la no-tizia, sempre con parole di toccante turbamento, emo-zione e rimpianto per una leggendaria figura oramai scomparsa dall’azzurro dei cieli.

L’abbattimento, come già accennato, nel tempo ha generato pure altre versioni. Qualcuno ad un dato mo-mento ventilò l’ipotesi di un suicidio da parte del pilo-ta. Ipotesi non suffragata da nulla, anzi smentita dal carattere forte ed esuberante di Baracca. Non solo, ma anche dalle parole contenute in una lettera indirizzata alla madre, in cui emerge tutta la sua determinazione a continuare a combattere contro il nemico. In essa, tra l’altro, dice: “...ogni giorno nuovo dimentico tutto il passato e mi figuro sempre che sia il primo giorno in cui mi trovo in guerra”.

Ancora abbiamo che un pilota austriaco al rientro in base, nel rapporto di volo scrisse di aver abbattuto un aeroplano in località Montello. A conferma del suo as-serito unì anche una foto scattata al momento in cui si vede un velivolo distrutto a terra. Dopo qualche giorno apparve una nuova versione del rapporto. In esso si di-ceva che, avendo appreso dell’abbattimento dell’aero-plano di Baracca, il Tenente pilota, coincidendo luogo data ed ora, affermava con certezza essere stato pro-prio lui ad abbatterlo.

Purtroppo, l’assenza di qualunque testimone ocu-lare, non può smentire quanto affermato dal Tenente asburgico. Qualche dubbio sulla veridicità del suo as-serito nella mente però compare. Osnaghi, prima che Baracca sparisse dalla sua vista, aveva notato del fumo o qualcosa che gli somigliasse, uscire dall’abitacolo ed un simultaneo sbandamento del velivolo. Di presenza di aeroplani nemici non fa alcuna menzione. Quindi,

di sicuro, al momento nei paraggi non ve ne erano. Ancora, il foro di pallottola che l’Asso mostrava sulla fronte era decisamente quello di un fucile e non eerto di una mitragliatrice montata su un apparecchio. Non volendo quindi credere che il pilota austriaco, visto l’a-eroplano cadere, si sia voluto gloriare dell’abbattimen-to, si può solo pensare che abbia fatto fuoco su di esso nel momento in cui già stava precipitando al suolo.

L’Asso degli Assi non venne sepolto in un Sacrario militare come un caduto qualsiasi. Per lui si vollero dei funerali solenni. Funerali che si svolsero nella sua Lugo ove venne sepolto. L’orazione funebre venne te-nuta dal personaggio più insigne e rappresentativo di quegli anni; il poeta Gabriele D’Annunzio. La 91a Squa-driglia, in suo onore, ne assunse l’intitolazione.

Poiché l’immagine di Francesco Baracca aveva tra-valicato tempi e spazi e si era profondamente radicata nel cuore e nella mente degli italiani, il corpo lo si volle custodire in un modo ancora più adeguato di come non si era già fatto. Con il bronzo fuso dei cannoni sottratti agli austriaci venne realizzato un artistico sarcofago. Su di esso fu posta un’aquila, simbolo universale del volo e del coraggio. Coraggio spinto sino al raggiungi-mento dei più alti traguardi nei cieli e nella vita.

A distanza di anni la mamma del grande Asso, mai rassegnata per la perdita del figlio, consegnò, quasi vo-lendo creare una continuità storica, al noto costruttore di auto sportive Enzo Ferrari l’immagine della Squa-driglia. Quel Cavallino rampante che dal velivolo di Baracca era poi trasmigrato sulla fusoliera degli ae-roplani dell’intera Squadriglia, per indicarne gloria e storia. Esso, come la mamma aveva di sicuro voluto, continua così ancora oggi ad essere emblema di apo-teosi e vittorie.

Oggi Francesco Baracca è una figura storica unani-mamente riconosciuta eccellente. Il suo comporta-mento, limpido e solenne, nonché intriso di una pro-fonda ed espressiva suggestione, lo ha reso l’immagine pura di quegli eterni valori di coraggio e devozione alla Patria. Ne sono conferma quel prestigio e quella cele-brità di cui gode in ambito nazionale ed internazionale. Ne è indice quella collocazione che lo vede primeggiare nel Pantheon dei personaggi più rilevanti della nostra storia. Ne è testimone, infine, quella definizione che da tanto lo accompagna e lo segue, quale sfavillante lumi-nosa scia, sino ad essere diventata quasi un secondo nome: “L’Asso degli Assi”.

Vincenzo Cuomo

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Stadtmuseum Hofheim (4 novembre 2018 / 3 marzo 2019)

Malgründe – Hofheim als MotivVon Coppa bis Schmidt-Rottluf

che nel 1947 cominciò ad ospitare artisti interna-zionali e giovani, che trovarono così ospitalità e ispirazione a Hofheim dipingendo la cittadina e i suoi paesaggi; a molti in quel periodo era proibito lavorare ed esibire la propria arte. Uno di tutti co-storo fu Luigi Coppa, che la donna incontrò a Fo-rio al Bar Maria, invitandolo poi a Hofheim, come si legge in una sua pagina di diario:

Ho incontrato la signora Bekker vom Rath a Forio nel mese di giugno del 1957. Era una di-stinta signora di circa sessant’anni. Mi avvicinò al Bar Internazionale, da Maria, dove sedevo so-litamente. Mi chiese se ero il pittore Luigi Cop-pa e se era possibile vedere i miei quadri. Visitò il mio studio quello stesso giorno in compagnia della scultrice Emy Roeder. Entrambe furono entusiaste del mio lavoro e la signora vom Rath mi chiese a bruciapelo se fossi interessato a co-noscere la Germania e l’arte tedesca. Le dissi che mi sarebbe piaciuto ma che le mie condizioni eco-nomiche in quel momento non mi permettevano di affrontare un tale viaggio. «Questo non è un problema!» rispose ed aggiunse che avrei potu-to accompagnare lei e la sua amica Emy Roeder nel loro viaggio di ritorno ad Hofheim am Tau-nus, vicino Francoforte, dove sarei stato ospite nella sua casa ed avrei potuto dipingere in uno dei suoi ateliers. Hanna Bekker era infatti una importante gallerista nonché mecenate tedesca. Già durante la guerra aveva aiutato molti artisti perseguitati dal regime nazista ospitandoli nella sua Blaue Haus e dandogli la possibilità di lavo-rare in tranquillità.

Partimmo due giorni dopo, di primo mattino, con la sua Volkswagen maggiolino cabriolet. Il viaggio durò circa venti giorni durante i quali Hanna mi mostrò i grandi musei e le importan-ti gallerie d’Italia. Visitammo Amalfi, Ravello, Roma, Orvieto, Firenze, Arezzo, Bologna, Vene-

gen Chemnitz, aus Privatbesitz sowie aus eigenem Bestand. Damit können eine größere Anzahl an Objekten an den Ort ihrer Entstehung und der Motivwahl zurückkehren. Zudem möchte die Ausstellung auch das Ergebnis zur Sammlungs-tätigkeit der letzten 25 Jahre vorstellen.

Tributo che la Germania rende all’arte di Lui-gi Coppa (venuto a mancare il 9 ottobre 2018) in una mostra a Hofheim che presenta oltre 100 opere, provenienti da Musei e collezioni private, tra cui acquerelli di Luigi Coppa di Forio, paesag-gi noti sotto il titolo “Hofheim 1957”, che quindi ritornano nel luogo dove furono concepiti e dove lui arrivò, appena ventitreenne, invitato dalla fa-mosa collezionista, gallerista e mecenate tedesca Hanna Becker vom Rath.

Vari i motivi dell’esposizione, ma principalmen-te la “Casa Blu” (Blaue Haus) con il suo ampio giardino abitata dalla pittrice, filantropa, collezio-nista e mercante d’arte Hanna Bekker vom Rath1,

1 www.hofheim.de/events - Von 1800 bis heute spiegeln sich die Epochen der Kunst und die Epochen der Stadt. Als Motive finden sich die Taunushöhen, der Kapellenberg, das Lorsbachtal, die Altstadt sowie Ansichten der heutigen Stadtteile. Häufiges Motiv ist das „Blaue Haus“ und sein weitläufi-ger Garten, welches die Malerin, Mäzenin, Sammlerin und spätere Kunsthändlerin Hanna Bekker vom Rath seit den 1920er Jahren bewohnte. Künstler wie Ludwig Meidner, Karl Schmidt-Rottluff, Ida Kerkovius und später auch Ernst Wilhelm Nay ließen sich von Haus und Garten immer wieder neu inspirieren und setzten die Motive in verschiedenen Sti-len und Techniken um. Mit Gründung des Frankfurter Kunstkabinetts Hanna Bek-ker vom Rath im Jahre 1947, fanden internationale und jüngere Künstler wie Heinz Battke und Luigi Coppa, Auf-nahme und Inspiration in Hofheim. Ev Grüger, Siegfried Reich an der Stolpe und Siegfried Shalom Sebba fanden in Hofheim neue Heimat und Arbeitsmöglichkeiten. Die nachfolgende Künstlergeneration um die „Hofheimer Gruppe“, die sich ab 1962 mit wechselnden Akteuren for-mierte, wird ebenfalls mit ihrem motivischen Beitrag prä-sentiert. Die Ausstellung zeigt mehr als 100 Werke aus Museen, dar-unter dem Brücke Museum Berlin und den Kunstsammlun-

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zia (dove mi presentò il gallerista Carlo Cardaz-zo), Milano (per un concerto alla Scala), Como (dove riposammo 4 giorni ospiti di un ricco indu-striale tedesco), Torino (per visitare la Triennale d’Arte) e ancora Colmar (per vedere la Crocifis-sione di Matthias Grünewald), Losanna, ecc.

La casa di Hanna Bekker ad Hofheim mi pro-curò un’emozione fortissima: le pareti erano or-nate con opere di Karl Schmidt-Rottluff, Wassili Kandinsky, Alexej von Jawlensky, Otto Dix, Kä-the Kollwitz, Erich Heckel, Ida Kerkovius, Emil Nolde, Pablo Picasso, Paul Klee e molti altri an-cora, artisti le cui opere avevo visto riprodotte fino a quel momento soltanto sui libri di storia dell’arte.

La signora mi alloggiò al primo piano della grande casa, in una bella camera-studio, dove lavorai per alcuni mesi ritraendo le case ed i pa-esaggi del Taunus.

Ad Hofheim conobbi quasi subito colui che di-venne uno dei miei più cari amici: Hugo Staab, il giovane proprietario del Café Staab, un locale dove si ritrovavano artisti e musicisti, si espo-nevano quadri e, la sera, uno straordinario trio suonava musica Jazz.

A luglio avevo quadri sufficienti per due mo-stre personali, che furono organizzate da Hanna Bekker vom Rath ad Hofheim nel Café Staab e a Francoforte nel Frankfurter Kunstkabinett (in der Stuttgarter Hausbücherei). Partecipai inol-

tre alla mostra collettiva Internazionale Ausstel-lung für Malerei a Francoforte/Hochst.

Durante la mia permanenza ad Hofheim Han-na Bekker non perse mai occasione per farmi conoscere luoghi e persone. Visitammo insieme i musei di Francoforte, Magonza, Darmstadt, Stoccarda (dove facemmo visita alla pittri-ce Ida Kerkovius nel suo studio), Wiesbaden, Mannheim, Heidelberg, ecc.

Alcuni mesi dopo il mio rientro in Italia partii per Istanbul per una mostra organizzata dall’I-stituto Italiano di Cultura e da lì proseguii per l’Uganda per incontrare mio padre.

I rapporti con Hanna Bekker vom Rath con-tinuarono negli anni seguenti. Di tanto in tanto ci davamo appuntamento in questa o quella cit-tà per visitare una mostra. Ricordo con gioia il nostro incontro a Parigi nel 1966 per vedere la grande mostra “Hommage à Pablo Picasso”. In quella occasione mi presentò tra gli altri lo scul-tore russo Ossipe Zadkine.

Le feci visita ad Hofheim nel 1982 come testi-monia una foto che ci vede ritratti un’ultima vol-ta insieme: morì appena un anno dopo, l’8 ago-sto 1983.

La mostra rientra anche nelle celebrazioni uffi-ciali per il 125° anniversario della nascita di Han-na Bekker vom Rath ed è stata ideata e curata dal-la direttrice Eva Scheid, antropologa culturale e storica dell’arte.

Luigi Coppa a Hofheim - 1957(Foto di Marta Hoepfner)

Stadtmuseum Hofheim La parete riservata alle opere di Luigi Coppa

Opere di Luigi Coppa

in esposizione a Hofheim