Anno LXVII - n. 5-6 - Settembre-Dicembre 2014

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RIVISTA DELLA CORTE DEI CONTI 5-6 Rivista della Corte dei conti - www.rivistacorteconti.it Anno LXVII - n. 5-6 - Settembre-Dicembre 2014 In questo fascicolo: Federalismo fiscale e pareggio di bilancio Riorganizzazione delle pubbliche amministrazioni Armonizzazione dei bilanci pubblici Controlli e giurisdizione sui gruppi politici dei consigli regionali Gestione del 5 per mille e dell’8 per mille Spoils system Assenze dal lavoro per malattia e responsabilità amministrativa

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R I V I S T AD E L L AC O R T EDEI CONTI

5-6

Rivista della Corte dei conti - www.rivistacorteconti.itAnno LXVII - n. 5-6 - Settembre-Dicembre 2014

In questo fascicolo:

› Federalismo fiscale e pareggio di bilancio › Riorganizzazione delle pubbliche amministrazioni

› Armonizzazione dei bilanci pubblici › Controlli e giurisdizione sui gruppi politici dei consigli regionali

› Gestione del 5 per mille e dell’8 per mille › Spoils system › Assenze dal lavoro per malattia e responsabilità amministrativa

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La Rivista della Corte dei conti è a cura del Servizio Massimario e Rivista

Comitato scientifico

Umberto AllegrettiStefano BattiniAntonio BrancasiMarco CammelliFrancesco CapalboVincenzo Caputi JambrenghiBeniamino Caravita di TorittoSabino CasseseLucia Cavallini CadedduRoberto Cavallo PerinVincenzo Cerulli IrelliMario P. ChitiMarcello ClarichGiovanna ColombiniMaurizio ConversoAlfredo Corpaci

Guido CorsoGiorgio CostantinoMarco D’AlbertiMariano D’AmoreGiacinto della CananeaGian Candido De MartinGiuseppe Di GaspareMario DoglianiGiuseppe FarnetiErminio FerrariFabrizio FracchiaClaudio FranchiniFranco GalloFabio Giulio GrandisGiampaolo LaduAlberto Massera

Antonio PedoneBernardo Giorgio MattarellaRita PerezCesare PinelliGiuseppe PisauroAristide PoliceStefano PozzoliGiulio SalernoAldo SandulliMaria Alessandra SandulliMassimo SiclariDomenico SoraceLuisa TorchiaAldo TraviLuciano VandelliAlberto Zuliani

Hanno collaborato alla redazione di questo fascicolo:

Gaetano Berretta; Giulia Borgia; Anna Rita Bracci Cambini; Franca Brilli; Ernesto Capasso; Daniela Cimmino; Luciano Coccoli; Agnese Colelli; Catia De Angelis; Stefano De Filippis; Gerardo de Marco; Luciana De Santis; Giancarlo Antonio Di Lecce; Massimo Di Stefano; Luca Fazio; Valeria Gallo; Matteo Gnes; Carlo Greco; Paola Lo Giudice; Andrea Luberti; Alessandra Marzialetti; Gloria Mastrogiacomo; Nicoletta Natalucci; Michele Oricchio; Lucia Pascucci; Riccardo Patumi; Paola Pellecchia; Marco Pieroni; Alberto Rigoni; Eleonora Rubino; Carla Serbassi; Innocenza Zaffina.

Gaetano D’Auria, coordinatore e direttore responsabile

Gli articoli pubblicati dalla Rivista sono, di norma, sottoposti a una procedura di valutazione anonima.

La rivista è consultabile anche in:www.rivistacorteconti.it

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Rivista della Corte dei contiAnno LXVII - n. 5-6Settembre-Dicembre 2014

Pubblicazione bimestraledi servizio

Direttore responsabileGaetano D’Auria

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Errata-corrige

Nel fasc. n. 3-4/2014, vanno apportate le seguenti correzioni:

errata corrige

p. 124, prima colonna, ottavo rigo:d.l. 30 settembre 2003 n. 269, d.l. 30 settembre 2003 n. 269, convertito

con modificazioni dalla l. 24 novembre 2003 n. 326,

p. 205, prima colonna, undicesimo rigo:d.l. 6 luglio 2012 n. 95, convertito con modificazioni dalla l. 7 agosto 2012 n. 135, disposizioni urgenti per la re-visione della spesa pubblica con inva-rianza dei servizi ai cittadini

d.l. 6 luglio 2012 n. 95, convertito con modificazioni dalla l. 7 agosto 2012 n. 135, disposizioni urgenti per la revisio-ne della spesa pubblica con invarianza dei servizi ai cittadini, nonché misure di rafforzamento patrimoniale delle imprese del settore bancario

p. 235, seconda colonna, ventesimo rigo:l. 4 agosto 1955 n. 848, ratifica ed ese-cuzione della Convenzione per la sal-vaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali

l. 4 agosto 1955 n. 848, ratifica ed esecu-zione della Convenzione per la salvaguar-dia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, firmata a Roma il 4 novem-bre 1950 e del Protocollo addizionale alla Convenzione stessa, firmato a Parigi il 20 marzo 1952

p. 252,p. 287,p. 509,

prima colonna, primo rigo;prima colonna, ottavo rigo dal basso;prima colonna, ventesimo rigo:d.l. 1 luglio 2009 n. 78, convertito con modificazioni dalla l. 3 agosto 2009 n. 102, provvedimenti anticrisi, nonché proroga di termini

d.l. 1 luglio 2009 n. 78, convertito con modificazioni dalla l. 3 agosto 2009 n. 102, provvedimenti anticrisi, nonché pro-roga di termini e della partecipazione ita-liana a missioni internazionali

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III

S O M M A R I O

Parte I: ATTIVITÀ DI CONTROLLO E CONSULTIVA- Sezioni riunite in sede di controllo 1- Sezioni riunite in sede consultiva 39- Sezione centrale controllo legittimità 43- Sezione centrale controllo gestione 55- Sezione controllo enti 76- Sezione delle autonomie 81- Sezioni regionali di controllo 98- - Campania 98- - Emilia-Romagna 107- - Liguria 120- - Lombardia 122- - Marche 129- - Puglia 131- - Sicilia 137- - Toscana 140- - Veneto 141

Parte II: ATTIVITÀ GIURISDIZIONALE- Sezioni riunite in sede giurisdizionale 147- Sezioni riunite in sede giurisdizionale (in speciale composizione) 154- Sezione I centrale d’appello 217- Sezione II centrale d’appello 220- Sezione d’appello Regione Sicilia 236- Sezioni giurisdizionali regionali 248- - Calabria 248- - Campania 251- - Emilia-Romagna 271- - Friuli-Venezia Giulia 279- - Lazio 298- - Liguria 307- - Sardegna 308- - Umbria 323- - Veneto 327

Parte III: DOCUMENTAZIONE- Corte di giustizia dell’Unione europea 332- Corte costituzionale 340- Corte di cassazione 355- Tribunali amministrativi regionali 385– Anac-Agcm, Protocollo d’intesa tra l’Autorità garante della concorrenza e del mercato e l’Autorità nazio-

nale anticorruzione (11 dicembre 2014) 391– Mef-Anac, Documento condiviso dal Ministero dell’economia e delle finanze e dall’Autorità nazionale an-

ticorruzione per il rafforzamento dei meccanismi di prevenzione della corruzione e di trasparenza nelle so-cietà partecipate e/o controllate dal Ministero dell’economia e delle finanze (dicembre 2014) 394

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IV

Parte IV: DOTTRINA– Franco Gallo, Federalismo fiscale e vincolo del pareggio di bilancio 397– Antonio Brancasi, L’armonizzazione dei bilanci a fronte della loro funzione non meramente conoscitiva e

della autonomia regionale 406– Franca Brilli, L’armonizzazione dei sistemi contabili e degli schemi di bilancio delle amministrazioni pub-

bliche, con particolare riferimento agli enti locali 415– Fabio Giulio Grandis, Matteo Gnes, Armonizzazione contabile: competenza finanziaria “potenziata” e in-

tegrazione con la contabilità economico-patrimoniale 428– Michele Oricchio, Corte dei conti e fenomeni corruttivi nel sistema multilivello di governo 445

Note– Gerardo de Marco, Pensioni di reversibilità e indennità integrativa speciale (in margine a Corte cost. n.

227/2014) 343– Andrea Luberti, A proposito della competenza delle Sezioni riunite in speciale composizione nelle materie

di contabilità pubblica 389

Letture storiche– Pietro Cogliolo, Il contratto di impiego, in Riv. Corte conti, 1911, 213-221 457

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V

AgricolturaEccesso di produzione lattiero-casearia degli alleva-

tori italiani – Omesso versamento del c.d. prelie-vo supplementare da parte dei produttori – Som-me anticipate dallo Stato all’Ue in luogo dei pro-duttori – Conseguenze finanziarie – Recupero delle somme anticipate dallo Stato – Valutazio-ni della Corte dei conti 64

Amministrazione dello Stato e pubblica in genereDestinazione e gestione del 5 per mille dell’Irpef

– Elementi di criticità – Misure conseguenzia-li adottate dalle amministrazioni – Relazione al Parlamento 69

Destinazione e gestione dell’8 per mille dell’Irpef – Relazione al Parlamento 70

Fondo unico giustizia (Fug) – Gestione finanziaria 2008-2014 55

Incarichi esterni – Incarico di consulenza legale – Conferimento “in via breve” a un avvocato dello Stato – Previa verifica della possibilità di utiliz-zare personale proprio dell’ente – Necessità 252

Incarico di consulenza – Atto di conferimento ad una società – Controllo preventivo di legittimi-tà della Corte dei conti – Necessità 51

Ministero del lavoro, Inps, Inail e Agenzia delle en-trate – Protocollo d’intesa – Attività ispettiva – Lotta al lavoro sommerso e all’evasione contri-butiva 61

Riorganizzazione delle amministrazioni pubbliche – Disegno di legge – Audizione di rappresentanti della Corte dei conti 1

Transazione per il risarcimento di un danno am-bientale ‒ Incarico di consulenza ad una società – Motivazione a sostegno del ricorso alla consu-lenza – Necessità ‒ Somme da corrispondere alla società per l’attività transattiva – Pagamento di-retto da parte del privato – Esclusione 52

Avvocatura dello Statov.: Responsabilità amministrativa e contabile

Banca, credito e risparmiov.: Comune e provincia

Beni pubblici in generev.: Comune e provincia

Comune e provinciaAmministratori – Indennità di carica – Obbligo di ri-

duzione – Comuni interessati da variazioni demo-grafiche in aumento – Riduzione dell’indennità spettante agli amministratori – Modalità di calcolo 90

Garanzia dell’adempimento di obbligazioni da par-te di privati – Condizioni – Convenzione con una cooperativa di garanzia per l’accesso al credito di commercianti e artigiani – Esclusione 141

Norme statali di contenimento della spesa – Spe-se per il funzionamento degli apparati ammini-strativi – Riduzione – Computo – Esclusione dei finanziamenti specifici provenienti da soggetti esterni – Esclusione dei proventi conseguenti al-la vendita di spazi pubblicitari 117

Norme statali di contenimento della spesa – Ridu-zione dei costi degli apparati amministrativi – Compensazioni fra diverse modalità di riduzione – Ammissibilità – Limite annuale di spesa – Indi-viduazione 117

Patrimonio comunale – Edificio destinato all’eser-cizio pubblico del culto – Alienazione o permu-ta – Ammissibilità – Condizioni – Donazione – Esclusione 98

Personale – Contenimento delle spese – Consolida-mento con la spesa di personale degli organismi partecipati – Necessità 124

v. pure: Contabilità regionale e degli enti locali – Contratti pubblici – Responsabilità amministra-tiva e contabile

Contabilità dello Stato e pubblica in genereAgenzia delle entrate ‒ Riscossione coattiva del-

le entrate erariali ‒ Omessa attivazione del flus-so telematico fra Ragioneria generale dello Stato, Agenzia delle entrate ed Equitalia s.p.a. ‒ Con-cordanza fra i conti presentati da Equitalia e i conti delle ragionerie territoriali ‒ Competenza dell’Agenzia delle entrate 39

Conti giudiziali ‒ Agenti contabili delle Camere di commercio ‒ Obbligo di resa del conto giudizia-le ‒ Trasmissione dei conti alle competenti sezio-ni giurisdizionali 42

Documento di economia e finanza 2014 – Nota di aggiornamento – Audizione parlamentare di rap-presentanti della Corte dei conti – Documento per l’audizione 20

Istituzioni musicali senza scopo di lucro destinatarie di finanziamenti pubblici – Inserimento nell’e-lenco Istat delle amministrazioni pubbliche 212

Legge di stabilità 2015 – Audizione parlamentare di rappresentanti della Corte dei conti – Documento per l’audizione 20

INDICE ANALITICO[si riferisce alle pronunce di controllo e giurisdizionali pubblicate nelle parti I, II e III]

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VI

Riscossione delle entrate erariali – Conti giudiziali ‒ Equitalia e società delegate – Presentazione di un unico conto giudiziale su base provinciale – Ne-cessità 39

Contabilità regionale e degli enti localiComune e provincia – Accesso alla procedura di rie-

quilibrio finanziario pluriennale – Presupposti 163Comune e provincia – Anticipazioni di tesoreria –

Limite massimo – Rapporto tra anticipazioni e restituzioni – Modalità di calcolo 86

Comune e provincia – Contenimento delle spese per il personale – Omesso rispetto dei vincoli finan-ziari alla contrattazione integrativa – Compensa-zione con i risparmi derivanti da razionalizzazio-ni organizzative – Limiti – Compensazione con i risparmi derivanti da assunzioni programmate e non effettuate – Esclusione 134

Comune e provincia – Patto di stabilità interno – As-sociazione di comuni – Onere dei servizi gestiti in forma associata – Contabilizzazione a carico del comune capofila – Obiettivi di patto di stabi-lità per il comune capofila – Riduzione compen-sata dall’aumento degli obiettivi di patto per i co-muni non capofila 122

Comune e provincia – Piano di riequilibrio finanzia-rio pluriennale – Acquisizione di un’anticipazio-ne di liquidità da parte dell’ente – Esame del pia-no da parte della commissione operante presso il Ministero dell’interno – Sospensione – Omes-sa modificazione del piano da parte dell’ente in esito all’acquisizione dell’anticipazione – Effet-ti – Esame dell’originario piano di riequilibrio da parte della commissione – Necessità 81

Comune e provincia – Piano di riequilibrio finanzia-rio pluriennale – Anticipazioni di liquidità – Im-pegni di spesa per il pagamento delle quote di rimborso delle anticipazioni – Contabilizzazione quale spesa corrente – Elusione del divieto di in-debitamento per spese correnti – Sussistenza 164

Comune e provincia – Piano di riequilibrio finan-ziario pluriennale – Esecuzione – Scostamenti ri-spetto al piano – Rilevanza – Limiti 164

Comune e provincia – Piano di riequilibrio finanzia-rio pluriennale – Obbligo di copertura dello squi-librio principalmente nella prima fase di attuazio-ne del piano – Sussistenza 164

Comune e provincia – Piano di riequilibrio finanzia-rio pluriennale – Residui attivi – Valutazione di attendibilità da parte della Corte dei conti – Pro-ve presuntive – Ammissibilità 164

Comune e provincia – Piano di riequilibrio finan-ziario pluriennale – Riaccertamento straordinario dei residui attivi – Necessità 164

Comune e provincia – Piano di riequilibrio finan-

ziario pluriennale – Risultati di bilancio succes-sivi alla pronuncia negativa della sezione regio-nale di controllo – Rilevanza nel giudizio dinan-zi alle Sezioni riunite – Condizioni 164

Comune e provincia – Piano di riequilibrio finanzia-rio pluriennale – Sezione di controllo della Cor-te dei conti – Accertamento del mancato rispetto degli obiettivi intermedi del piano – Obbligo del prefetto di assegnare all’ente un termine per la dichiarazione del dissesto 164

Comune e provincia – Piano di riequilibrio finan-ziario pluriennale – Sezioni regionali della Corte dei conti – Verifica della congruenza del piano ri-spetto all’obiettivo del riequilibrio – Criteri 163

Comune e provincia – Piano di riequilibrio finan-ziario pluriennale – Società partecipate – Ripia-no dei debiti – Necessità – Esclusione 131

Comune e provincia – Piano di riequilibrio finanzia-rio pluriennale – Specificazione degli immobili da alienare – Esclusione 164

Comune e provincia – Rendiconto – Crediti e debi-ti fra l’ente locale e le società partecipate – Nota informativa asseverata dall’organo di revisione – Allegazione al rendiconto – Necessità fino all’e-sercizio 2014 140

Comune e provincia – Spesa per il personale – As-sunzioni a tempo determinato – Limite – 50 per cento della spesa sostenuta nel 2009 – Enti in re-gola con l’obbligo di riduzione della spesa per il personale – Limite delle assunzioni a tempo de-terminato – 100 per cento della spesa sostenuta nel 2009 – Assenza di spesa storica nel 2009 e nel triennio 2007-2009 – Obbligo di eliminazio-ne di tutte le spese per contratti a tempo determi-nato 104

Contratti pubbliciAppalti di servizi – Direttiva 92/50/Cee – Direttiva

2004/18/Ce – Azienda ospedaliera universitaria pubblica – Godimento di finanziamenti pubblici – Partecipazione a una gara d’appalto per la for-nitura di servizi – Presentazione di un’offerta al-la quale non è possibile fare concorrenza – Valu-tazione da parte dell’amministrazione aggiudica-trice – Possibilità di respingere l’offerta 332

Appalti di servizi – Direttiva 92/50/Cee – Direttiva 2004/18/Ce – Nozioni di “prestatore di servizi” e di “operatore economico” – Azienda ospedaliera universitaria pubblica – Ente pubblico economi-co – Attività prevalentemente non lucrativa – Fi-nalità istituzionale di offrire prestazioni sanitarie – Possibilità di offrire servizi sul mercato – Am-missione a partecipare a una procedura di aggiu-dicazione di un appalto pubblico 332

Comune e provincia – Acquisto di beni e servizi –

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VII

Affidamenti diretti e cottimi fiduciari – Ricorso alle centrali di committenza – Ammissibilità 120

Comune e provincia – Acquisto di beni e servizi – Gare telematiche – Diritti di segreteria – Obbligo di riscossione da parte degli enti locali – Esclu-sione 128

Comune e provincia – Acquisto di beni e servizi – Organizzazione di un evento artistico – Affida-mento diretto senza pubblicazione del bando – Ammissibilità 120

Comune e provincia – Acquisto di beni e servizi al di fuori del Mepa – Ammissibilità – Condizioni 120

Opere e lavori – Servizi e forniture – Contratti se-gretati – Tutela degli interessi essenziali per la si-curezza dello Stato – Deroghe alla disciplina dei contratti pubblici – Estensione della deroga a tut-te le amministrazioni pubbliche – Definizione del requisito della sicurezza 66

v. pure: Giurisdizione e competenza

Enti a cui lo Stato contribuisce in via ordinariaRete ferroviaria italiana (Rfi) s.p.a. – Gestione fi-

nanziaria 2013 76

Giudizi a istanza di parteResponsabilità amministrativa – Accertamento ne-

gativo – Ammissibilità – Condizioni 305

Giudizi di conto e per resa del contoIstanza del procuratore regionale successiva al de-

posito del conto presso l’ente locale – Inammissi-bilità – Obbligo dell’ente locale di trasmettere il conto alla Corte dei conti – Acquisizione del con-to nell’ambito del relativo giudizio 307

v. pure: Contabilità dello Stato e pubblica in genere

Giurisdizione e competenzaAppalto pubblico per opere stradali – Danni subiti

da Anas s.p.a. per indebito riconoscimento di ri-serve nella procedura di accordo bonario – Am-ministratori, dipendenti e componenti della com-missione di collaudo – Giurisdizione contabile – Componenti della commissione di accordo bona-rio, contraente generale e direttore dei lavori – Giurisdizione contabile – Esclusione 360

Azione di responsabilità amministrativa – Petitum sostanziale – Risarcimento del danno – Appli-cazione di un atto amministrativo illegittimo – Previo giudizio amministrativo sulla legittimità dell’atto – Esclusione 251

Equa riparazione per irragionevole durata del giudi-zio – Decisione della Corte dei conti che nega il discarico automatico delle somme iscritte a ruo-lo per ritenuta inidoneità della comunicazione di

inesigibilità – Eccesso di potere giurisdizionale – Esclusione 375

Giudizio di responsabilità – Contratto d’appalto – Legale rappresentante della società appaltatrice – Violazione degli obblighi derivanti dal contratto – Responsabilità dell’appaltatore – Giurisdizione contabile – Esclusione 304

Gruppi politici dei consigli regionali – Fondi asse-gnati dal consiglio regionale – Illecito utilizzo – Giurisdizione contabile 280

Gruppi politici dei consigli regionali – Gestione dei fondi erogati dai consigli regionali – Spese di rappresentanza – Responsabilità dei componen-ti del gruppo consiliare – Giurisdizione contabile 378

Opere pubbliche – Progettista – Nomina a consulen-te della direzione dei lavori – Omissioni ed erro-ri progettuali – Costi aggiuntivi di realizzazione dell’opera – Danno erariale – Giurisdizione con-tabile 361

Presidente del gruppo politico di un consiglio regio-nale – Gestione dei fondi erogati al gruppo dal consiglio regionale – Responsabilità patrimonia-le – Giurisdizione contabile 279

Presidente del gruppo politico di un consiglio regio-nale – Gestione dei fondi erogati al gruppo dal consiglio regionale – Responsabilità patrimo-niale – Giurisdizione contabile – Insindacabilità dell’attività amministrativa dei gruppi consiliari – Esclusione 279

Presidenti dei gruppi politici dei consigli regionali – Gestione di contributi pubblici – Responsabilità – Giurisdizione contabile 271

Regione in genere e regioni a statuto ordinario – Rendiconto – Parificazione – Decisione della Corte dei conti – Ricorso per cassazione – Inam-missibilità – Natura giurisdizionale della funzio-ne di parificazione – Irrilevanza 377

Società a partecipazione interamente pubblica – Sta-tuto sociale – Previsione di una partecipazione pubblica maggioritaria e non totalitaria – Possi-bilità di svolgere l’attività in maniera non preva-lente con i soci pubblici – Assenza di controllo analogo – Presidente del consiglio d’amministra-zione della società – Condanna penale per corru-zione – Danno all’immagine della società – Re-sponsabilità patrimoniale – Giurisdizione conta-bile – Esclusione 370

Società a partecipazione pubblica – Statuto sociale – Società non interamente posseduta da enti pub-blici – Svolgimento dell’attività in maniera non prevalente con i soci pubblici – Amministrato-ri della società – Spese di rappresentanza – Re-sponsabilità patrimoniale – Giurisdizione conta-bile – Esclusione 369

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VIII

Impiegato dello Stato e pubblico in genereAmministrazione dello Stato – Dirigenti – Atto di

conferimento di incarico di funzione dirigenzia-le di livello generale – Conferimento a soggetto esterno – Carenza dei requisiti previsti dalla nor-ma – Illegittimità 53

Incarico dirigenziale di II fascia – Decreto di confer-ma – Procedura comparativa – Necessità – Esclu-sione 49

Personale a tempo determinato – Misure per la ridu-zione del precariato – Procedure di stabilizzazio-ne – Questioni di legittimità costituzionale – In-fondatezza 348

Spoils system – Direttore dell’Agenzia del dema-nio – Cessazione dalla carica entro novanta gior-ni dal voto sulla fiducia al governo – Conferma nell’incarico – Deliberazione del Consiglio dei ministri – Adozione oltre il termine di novan-ta giorni dal voto sulla fiducia al governo – Non conformità a legge del provvedimento di confer-ma – Proposta formulata dal ministro competen-te entro il termine di novanta giorni dal voto sul-la fiducia al governo – Irrilevanza 46

v. pure: Responsabilità amministrativa e contabile

Impiegato regionale e degli enti localiComune e provincia – Assunzioni in livelli funziona-

li che non richiedono un titolo superiore a quello della scuola dell’obbligo – Limiti 137

Comune e provincia – Contratti a tempo determi-nato – Proroga – Condizioni – Avvenuta pro-grammazione del fabbisogno di personale 2013-2016 137

Comune e provincia – Lavoratori a tempo determi-nato – Stabilizzazione – Condizioni 137

Comune e provincia – Spese per il personale – Ob-bligo di riduzione – Inadempimento – Effetti 113

Comune e provincia – Personale – Trattamento ac-cessorio – Contenimento della spesa – Necessità – Risorse provenienti dai fondi per la contratta-zione decentrata – Irrilevanza 95

Contratto di lavoro a tempo determinato – Durata complessiva non superiore a tre anni – Applica-zione al personale degli uffici posti alle dirette di-pendenze del sindaco – Esclusione 129

Dirigente di ufficio tecnico comunale – Incentivo per la progettazione di opere pubbliche – Spet-tanza – Fattispecie – Situazione precedente l’en-trata in vigore della l. n. 14/2014 109

Provincia – Spese per il personale – Assunzioni – Lavoratori appartenenti a categorie protette – Di-vieto di assunzione a tempo indeterminato – Sus-sistenza 107

v. pure: Comune e Provincia – Contabilità regionale

e degli enti locali – Responsabilità amministra-tiva e contabile

Opere pubblichev.: Giurisdizione contabile

Pensioni civili e militariPensione di reversibilità – Indennità integrativa

speciale – Attribuzione nella misura percentuale prevista per il trattamento di reversibilità – Que-stione di costituzionalità – Manifesta infonda-tezza 340

Prescrizione e decadenzaDanno erariale – Occultamento doloso – Prescrizio-

ne dell’azione – Dies a quo – Decorrenza dalla scoperta del danno – Fattispecie 248

Inquadramenti illegittimi del personale di un ente lo-cale – Indebita erogazione di somme di danaro – Danno erariale – Prescrizione – Decorrenza dai singoli pagamenti delle somme non dovute – Fat-tispecie 298

Responsabilità amministrativa e contabile – Danno erariale per mancate entrate dovute all’illegitti-ma gratuita concessione di un bene – Decorrenza – Date delle singole mancate entrate mensili dei canoni 220

Previdenza e assistenza socialev.: Amministrazione dello Stato e pubblica in genere

Processo contabileComune e provincia – Piano di riequilibrio finanzia-

rio pluriennale – Corte dei conti – Deliberazione della sezione regionale di controllo – Impugna-zione – Sezioni riunite in sede giurisdizionale – Giudizio in unico grado – Applicazione delle re-gole processuali in materia di giudizio d’appello – Esclusione 163

Comune e provincia – Piano di riequilibrio finanzia-rio pluriennale – Corte dei conti – Deliberazione della sezione regionale di controllo – Impugna-zione – Sezioni riunite in sede giurisdizionale – Poteri istruttori – Limiti 163

Deliberazione della sezione regionale di control-lo sulla regolarità dei rendiconti dei gruppi con-siliari – Impugnazione davanti alle Sezioni riu-nite in speciale composizione – Parti necessarie del giudizio – Presidente della regione, presiden-te del consiglio regionale e procuratore generale della Corte dei conti – Omessa notifica del ricor-so al presidente del consiglio regionale – Integra-zione del contraddittorio – Necessità 154

Giudizio di responsabilità – Atto di citazione – No-

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IX

tifica a persona giuridica – Assenza di persone fi-siche nella sede indicata come sede della perso-na giuridica – Notificazione mediante affissione all’albo comunale – Inesistenza 303

Giudizio di responsabilità – Sorte capitale dedotta in citazione – Pagamento prima dell’udienza di di-scussione – Impedimento all’accertamento della responsabilità amministrativa – Esclusione 296

Giudizio di responsabilità – Sorte capitale dedotta in citazione – Pagamento prima dell’udienza di di-scussione – Valutazione ai fini dell’esercizio del potere riduttivo dell’addebito 296

Giudizio di responsabilità – Sospensione del giudi-zio di primo grado – Pendenza di ricorso in ap-pello su di una sentenza pronunciata per gli stessi fatti del giudizio sospeso – Omessa riassunzione in termini del giudizio sospeso – Estinzione del processo 249

Gruppi politici dei consigli regionali – Rendiconti – Pronunce delle sezioni regionali di controllo del-la Corte dei conti – Impugnativa davanti alle Se-zioni riunite giurisdizionali in speciale composi-zione – Legittimazione a ricorrere – Presidente del gruppo che ha sottoscritto il rendiconto – Av-venuta cessazione dell’esistenza del gruppo – Ir-rilevanza 207

Gruppi politici dei consigli regionali – Rendiconti – Pronunce delle sezioni regionali di controllo del-la Corte dei conti – Impugnazione – Termine – Decorrenza – Dall’entrata in vigore della nuova disposizione 210

Principio di non modificabilità del collegio giudi-cante – Diversità del collegio giudicante rispetto a quello dinanzi al quale si sono svolte preceden-ti udienze di trattazione – Irrilevanza 207

Rendiconti degli enti locali – Deliberazioni delle se-zioni regionali di controllo – Impugnazione di-nanzi alle Sezioni riunite in speciale composizio-ne – Interesse a ricorrere dell’ente locale – Sussi-stenza – Fattispecie 156

Rendiconti degli enti locali – Deliberazioni delle se-zioni regionali di controllo – Impugnazione di-nanzi alle Sezioni riunite in speciale composi-zione – Termine – 30 giorni dalla comunicazione della deliberazione al sindaco 156

Rendiconti dei gruppi politici del consiglio regiona-le – Deliberazione della sezione regionale di con-trollo della Corte dei conti – Impugnazione – Ri-corso della regione – Interesse erariale – Insussi-stenza – Inammissibilità del ricorso 193

Ricorso per revocazione – Errore di calcolo – No-zione – Fattispecie 236

Sezione giurisdizionale regionale – Ordinanza di so-spensione del processo – Ricorso alle Sezioni ri-unite – Ammissibilità – Applicazione delle nor-

me sul regolamento di competenza nel processo civile 147

Sezione giurisdizionale regionale – Ordinanza di sospensione del processo pronunciata d’ufficio – Previa instaurazione del contraddittorio fra le parti – Necessità – Esclusione 147

Sezioni regionali di controllo della Corte dei conti – Procedimento di accertamento della violazio-ne del patto di stabilità interno – Rapporti con il giudizio per l’applicazione di sanzioni personali a carico degli amministratori – Autonomia 156

Sospensione del processo – Pendenza di procedi-mento penale – Prova – Insussistenza – Illegitti-mità della sospensione del processo contabile 147

v. pure: Giurisdizione e competenza

Reati contro la pubblica amministrazioneDanno all’immagine della pubblica amministrazio-

ne – Reati commessi da soggetti privati – Risar-cibilità – Esclusione – Fattispecie 355

Regione in genere e regioni a statuto ordinarioGruppi politici dei consigli regionali – Rendicon-

ti – Controllo delle sezioni regionali della Cor-te dei conti – Accertamento di irregolarità – Deli-berazioni delle sezioni regionali – Impugnazione avanti al giudice amministrativo – Esclusione 385

Gruppi politici dei consigli regionali – Rendiconti – Linee guida deliberate dalla Conferenza Stato-re-gioni – Rendiconti resi prima della deliberazio-ne delle linee guida – Sottoposizione al controllo della Corte dei conti – Esclusione 207

Gruppi politici dei consigli regionali – Rendiconti – Tardiva trasmissione alla Sezione regionale di controllo della Corte dei conti – Difetto di colpa del gruppo consiliare – Applicazione delle san-zioni previste dalla legge – Esclusione – Fatti-specie 195

Gruppi politici dei consigli regionali – Rendiconti relativi all’esercizio finanziario 2013 – Attività di controllo – Spettanza alla Corte dei conti 352

v. pure: Giurisdizione e competenza – Processo con-tabile – Responsabilità amministrativa e conta-bile

Regioni a statuto specialeTrentino-Alto Adige – Provincia autonoma di Tren-

to – Gruppi politici del consiglio provinciale – Rendiconti – Attività di controllo delle sezioni regionali della Corte dei conti – Contraddittorio – Rilievi di irregolarità e richieste di integrazione documentale – Sufficienza 201

Trentino-Alto Adige – Provincia autonoma di Tren-to – Gruppi politici del consiglio provinciale –

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X

Rendiconti – Attività di controllo delle sezioni regionali della Corte dei conti – Spese per consu-lenze, studi e incarichi – Spese di rappresentan-za – Dichiarazione di irregolarità dei rendiconti – Fattispecie 201

Trentino-Alto Adige – Provincia autonoma di Tren-to – Gruppi politici del consiglio provinciale – Rendiconti – Spese per il personale – Assunzioni oltre il limite previsto dal regolamento consiliare – Irregolarità della spesa 201

Responsabilità amministrativa e contabileAmministratori di ente locale – Inquadramenti il-

legittimi di personale dell’ente – Pagamento di compensi non dovuti – Amministratori cessati dalla carica al momento dei singoli pagamenti – Responsabilità amministrativa – Esclusione 298

Amministratori e funzionari comunali – Raccolta differenziata dei rifiuti urbani – Violazione della normativa in materia – Mancati ricavi e maggiori costi per il comune – Danno erariale – Copertura del servizio a carico degli utenti – Irrilevanza 257

Buoni pasto – Erogazione illegittima – Danno erariale 224Comune e provincia – Presidente della provincia –

Ufficio di segreteria del presidente – Nomina di personale esterno all’amministrazione –– Danno erariale 240

Comune e provincia – Sindaco, componenti della giunta e dirigente – Responsabilità – Concessio-ne della gestione di un bene pubblico produttivo senza la previsioni di canoni a carico del con-cessionario – Danno erariale per mancati introi-ti – Sussistenza – Determinazione in via equita-tiva – Ammissibilità – Subentro di altri ammini-stratori durante il rapporto convenzionale – Irri-levanza 220

Dipendente pubblico – Assenza per malattia – Com-portamenti volti a rallentare la guarigione – Re-sponsabilità amministrativa – Fattispecie 324

Errore interpretativo indotto dall’incertezza del qua-dro normativo e giurisprudenziale di riferimento – Colpa grave – Esclusione – Fattispecie 252

Fondi pubblici erogati ai gruppi politici dei consi-gli regionali – Indebito utilizzo – Sindacato della Corte dei conti – Limiti 271

Gestione di fondi pubblici – Mantenimento di prassi illegittime – Elemento di aggravio della respon-sabilità – Condizioni 280

Gruppi politici dei consigli regionali – Fondi asse-gnati dal consiglio regionale – Illecito utilizzo – Responsabilità del presidente del gruppo – Condi-zioni – Effettiva gestione delle risorse assegnate 308

Gruppi politici dei consigli regionali – Fondi asse-gnati dal consiglio regionale – Obbligo di rendi-

contazione – Spese di rappresentanza – Obbligo di giustificazione – Sussistenza 280

Gruppi politici dei consigli regionali – Fondi as-segnati dal consiglio regionale – Presidente del gruppo – Utilizzo dei fondi per fini personali – Danno erariale 308

Gruppi politici dei consigli regionali – Fondi asse-gnati dal consiglio regionale – Spese di rappre-sentanza non giustificate – Danno erariale – Va-lutazione del concorso causale con soggetti non convenuti in giudizio – Necessità 280

Impiegato regionale e degli enti locali – Falsa atte-stazione della presenza in servizio – Danno era-riale 296

Incarichi esterni – Incarico di consulenza legale – Conferimento “in via breve” a un avvocato del-lo Stato – Incarico relativo a un affare già cura-to istituzionalmente dall’Avvocatura dello Stato – Illegittimità dell’atto di conferimento dell’inca-rico – Pagamento all’avvocato del compenso per l’incarico professionale – Danno erariale 252

Incidente d’auto su di una strada statale – Risarci-mento del danno civile a carico dell’Anas – Di-pendenti Anas – Assolvimento degli obblighi di vigilanza – Danno erariale – Esclusione 323

Medico dipendente da una Asl – Violazione del do-vere di esclusiva – Percezione dell’indennità di esclusiva – Danno erariale – Liquidazione in via equitativa 326

Militare della Guardia di finanza – Assenza dal ser-vizio per malattia – Regime di vita incompatibile con l’infermità dichiarata – Indebita percezione dello stipendio per il periodo di assenza – Danno erariale 327

Presidente del gruppo politico di un consiglio regio-nale – Spese di rappresentanza non dimostrate o non giustificate – Danno erariale 279

Presidente del gruppo politico di un consiglio regio-nale – Spese di rappresentanza non dimostrate o non giustificate – Danno erariale – Omessa vigi-lanza sui rendiconti del gruppo da parte dell’uf-ficio di presidenza del consiglio regionale – Ri-duzione dell’addebito a carico del presidente del gruppo consiliare 279

Presidente del gruppo politico di un consiglio re-gionale – Utilizzo dei contributi pubblici erogati al gruppo – Acquisto di spazi di comunicazione forniti da emittenti radiotelevisive locali – Dan-no erariale 271

Sindaco e dirigente comunale – Insindacabilità delle scelte discrezionali – Limiti – Fattispecie – Con-ferimento d’incarico professionale per una pro-gettazione già eseguita 217

Vigile del fuoco – Viaggio all’estero durante un’as-senza per malattia – Omessa agevolazione della

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XI

guarigione dalla malattia – Responsabilità ammi-nistrativa 324

v. pure: Giudizi a istanza di parte – Prescrizione e decadenza

Sanitario e personale della sanitàv.: Responsabilità amministrativa e contabile

Servizi pubbliciv.: Comune e provincia – Contratti pubblici

SocietàSocietà a partecipazione pubblica locale – Personale

– Riduzione dei costi – Obbligo delle società di attenersi agli indirizzi dell’ente locale 105

v. pure: Amministrazione dello Stato e pubblica in genere – Contabilità regionale e degli enti locali – Enti a cui lo Stato contribuisce in via ordinaria – Giurisdizione e competenza

Trasportiv.: Enti a cui lo Stato contribuisce in via ordinaria

TributiCondono fiscale ‒ Definizione dei carichi inclusi in

ruoli ai sensi dell’art. 12 l. n. 289/2002 ‒ Ruo-li finalizzati alla riscossione di entrate non aven-ti natura tributaria ‒ Somme dovute da dipenden-

te pubblico condannato dalla Corte dei conti per danno erariale ‒ Applicabilità 358

v. pure: Amministrazione dello Stato e pubblica in genere – Contabilità dello Stato e pubblica in ge-nere

Unione europeav.: Agricoltura

UniversitàContratto di collaborazione coordinata e continua-

tiva – Divieto di conferimento a soggetto in quiescenza – Conferimento di incarico di studio o consulenza a soggetto in quiescenza – Illegit-timità 50

Contratto di collaborazione coordinata e continuati-va – Lavori di falegnameria – Conferimento a un soggetto in quiescenza – Conformità a legge 48

Contratto di collaborazione coordinata e continuati-va – Progetto di ricerca interamente finanziato da terzi – Esperto da assumere per la realizzazione del progetto – Individuazione ad opera dell’ente finanziatore – Conformità a legge – Mancata se-lezione dell’esperto con procedura comparativa – Irrilevanza 45

Contratto di collaborazione coordinata e continuati-va – Termine di presentazione delle domande – Data di arrivo all’amministrazione – Legittimità – Condizioni 44

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XII

Parte IAttività di controllo e consultiva

Sezioni riunite in sede di controllo9 ottobre 2014, n. 10 113 ottobre 2014, n. 11 203 novembre 2014, n. 13 20

Sezioni riunite in sede consultiva24 ottobre 2014, n. 2 3924 ottobre 2014, n. 3 42

Sezione centrale controllo legittimità22 luglio 2014, n. 19 4330 luglio 2014, n. 20 455 settembre 2014, n. 21 4630 settembre 2014, n. 23 4829 ottobre 2014, n. 24 4912 novembre 2014, n. 27 505 dicembre 2014, n. 31 5130 dicembre 2014, n. 36 53

Sezione centrale controllo gestione24 luglio 2014, n. 6 5520 ottobre 2014, n. 11 6123 ottobre 2014, n. 12 6428 ottobre 2014, n. 13 6631 ottobre 2014, n. 14 6919 novembre 2014, n. 16 70

Sezione controllo enti23 dicembre 2014, n. 121 76

Sezione delle autonomie3 ottobre 2014, n. 22 813 ottobre 2014, n. 23 866 ottobre 2014, n. 24 9021 ottobre 2014, n. 26 95

Sezioni regionali di controllo

Campania6 ottobre 2014, n. 205 984 dicembre 2014, n. 245 10415 dicembre 2014, n. 254 105

Emilia-Romagna19 settembre 2014, n. 181 10719 settembre 2014, n. 183 10919 settembre 2014, n. 188 11317 dicembre 2014, n. 233 117

Liguria10 novembre 2014, n. 64 120

Lombardia28 maggio 2014, n. 191 12229 settembre 2014, n. 237 12413 novembre 2014, n. 301 128

Marche21 ottobre 2014, n. 67 129

Puglia25 settembre 2014, n. 164 1319 ottobre 2014, n. 176 134

Sicilia6 novembre 2014, n. 192 137

Toscana9 dicembre 2014, n. 260 140

Veneto9 dicembre 2014, n. 879 141

Parte IIAttività giurisdizionale

Sezioni riunite in sede giurisdizionaleord. 12 settembre 2014, n. 12 147

Sezioni riunite in sede giurisdizionale (in speciale composizione)ord. 2 settembre 2014, n. 32 1542 settembre 2014, n. 33 15622 ottobre 2014, n. 34 16313 novembre 2014, n. 46 1934 dicembre 2014, n. 54 19512 dicembre 2014, n. 59 201

INDICE CRONOLOGICO

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XIII

18 dicembre 2014, n. 60 20718 dicembre 2014, n. 61 21019 dicembre 2014, n. 63 212

Sezione I centrale d’appello19 novembre 2014, n. 1244 217

Sezione II centrale d’appello5 settembre 2014, n. 533 2205 settembre 2014, n. 534 224

Sezione d’appello Regione Sicilia25 settembre 2014, n. 392 23628 ottobre 2014, n. 430 240

Sezioni giurisdizionali regionali

Calabria14 ottobre 2014, n. 233 24821 ottobre 2014, n. 240 2493 novembre 2014, n. 257 251

Campania24 giugno 2014, n. 638 25120 novembre 2014, n. 1500 256

Emilia-Romagna10 ottobre 2014, n. 140 271

Friuli-Venezia Giulia3 febbraio 2014, n. 11 27923 ottobre 2014, n. 90 28018 novembre 2014, n. 93 296

Lazio24 settembre 2014, n. 677 29817 novembre 2014, n. 815 3034 dicembre 2014, n. 852 30422 dicembre 2014, n. 902 305

Liguria30 settembre 2014, n. 111 307

Sardegna18 novembre 2014, n. 229 308

Umbria1 agosto 2014, n. 92 3234 agosto 2014, n. 94 3247 agosto 2014, n. 95 326

Veneto24 dicembre 2014, n. 237 327

Parte IIIDocumentazione

Corte di giustizia dell’Unione europea18 dicembre 2014, n. C-568/13 332

Corte costituzionale26 settembre 2014, n. 227 34016 ottobre 2014, n. 237 34826 novembre 2014, n. 263 352

Corte di cassazioneSez. III pen., 12 dicembre 2013, n. 5481 355Sez. tributaria 9 aprile 2014, n. 8303 358S.U., ord. 16 luglio 2014, n. 16240 360S.U., ord. 22 settembre 2014, n. 19891 361S.U., 24 ottobre 2014, n. 22608 369S.U., 24 ottobre 2014, n. 22609 370S.U., 29 ottobre 2014, n. 22951 375S.U., 30 ottobre 2014, n. 23072 377S.U., ord. 31 ottobre 2014, n. 23257 378

Tribunali amministrativi regionali

BasilicataSez. I, 26 novembre 2014, n. 808 385

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N. 5-6/2014 PARTE I – ATTIVITÀ DI CONTROLLO E CONSULTIVA

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ATTIVITÀ DI CONTROLLOE CONSULTIVA

Sezioni riunite in sede di controllo

10 – Sezioni riunite in sede di controllo; deliberazio-ne 9 ottobre 2014; Pres. Squitieri, Rel. Chiappi-nelli, Granelli, Nispi Landi, Barisano, D’Evoli, D’Amico.

Amministrazione dello Stato e pubblica in gene-re – Riorganizzazione delle amministrazioni pubbliche – Disegno di legge – Audizione di rappresentanti della Corte dei conti.

Le Sezioni riunite in sede di controllo della Corte dei conti hanno deliberato il testo degli elementi per l’audizione di rappresentanti della Corte presso la 1ͣ Commissione permanente Affari costituzionali del Senato della Repubblica, nell’ambito dell’indagine conoscitiva sul disegno di legge in materia di rior-ganizzazione delle amministrazioni pubbliche (A.S. 1577, XVII legislatura).

1. IntroduzioneNel delineare il quadro programmatico di me-

dio e lungo termine la Nota di aggiornamento del Def 2014 offre una valutazione degli effetti sulla crescita economica di quattro linee di interventi di riforma strutturale, in corso di attuazione o di pros-simo avvio. Si tratta delle riforme della pubblica amministrazione, del lavoro e della giustizia non-ché delle misure per la competitività. Anche se gli effetti attesi nel breve periodo appaiono stimati con criteri prudenziali (+0,4 lo scostamento percentua-le nel 2015 rispetto alla previsione tendenziale del Pil), si conferma il rilievo assegnato a tali interventi per le prospettive economiche e di finanza pubblica (+3,4 per cento nel 2020, +8,1 per cento nel lungo periodo). In particolare, alle misure volte all’inno-vazione, alla semplificazione e alla modernizzazione della pubblica amministrazione sono imputati effetti positivi sulla crescita per un punto percentuale nel 2020 e 2,3 punti nel lungo periodo; al provvedimento oggi all’esame del Parlamento è, inoltre, assegnata la natura di “collegato” alla manovra di bilancio per il 2015-2017 che il governo si appresta a presentare alle Camere.

La stretta connessione con la strategia economi-co-finanziaria proposta dal governo rafforza l’im-portanza di un attento esame delle numerose e com-plesse disposizioni nelle quali si articola il disegno di legge in discussione. Per l’occasione dell’odierna

audizione, la Corte ha scelto di offrire all’attenzione del Parlamento una prima valutazione del provvedi-mento, affrontando le tematiche di maggiore rilievo delle materie in esso disciplinate. Resta confermata, peraltro, la più ampia disponibilità della Corte a for-nire al Parlamento il proprio pieno supporto in rela-zione ad ulteriori esigenze informative e di analisi che dovessero emergere nel corso della discussione dei decreti delegati.

Inevitabilmente, alcune tematiche richiederan-no istruttorie più ampie e meditate, ma si è inteso privilegiare la messa a punto di riflessioni operative volte sia a confermare quelli che appaiono indirizzi condivisibili e interventi costruiti con coerenza sia ad evidenziare aspetti problematici e punti critici.

In entrambe le direzioni, in più di un caso, la Cor-te ha già avuto modo di prospettare valutazioni nel quadro della propria attività di controllo e di refer-to. In alcune delle materie trattate non può non es-sere sottolineato come il disegno di legge non operi correzioni al margine degli assetti ordinamentali ma intervenga in direzione di cambiamenti radicali, ren-dendo più difficile e impegnativa la verifica degli ef-fetti attesi. Il taglio riformatore ambizioso e radicale avrebbe, forse, richiesto – ad avviso della Corte – un approccio più aperto nel riconsiderare gli stessi con-fini entro i quali opera l’amministrazione centrale e locale. Un tema quello della riflessione sul perimetro sostenibile dell’intervento pubblico su cui la Corte si è più volte soffermata, considerandolo un percorso strategico ineludibile sulla via della revisione e ra-zionalizzazione della spesa.

2. Semplificazione, innovazione e anticorruzione (artt. 1, 2, 3, 6)

L’art. 1 reca la delega al governo ad adottare decreti legislativi in materia di “Amministrazione digitale”. In sede di audizione del presidente della Corte dei conti presso la Commissione parlamen-tare per la semplificazione (12 marzo 2014) è stato evidenziato come, nonostante l’Italia sia stata tra le prime nazioni europee ad approvare norme e regole tecniche in materia di documenti informatici e firma digitale, tuttavia, non siano stati ottenuti i risultati di fluidificazione dell’azione amministrativa nei termi-ni auspicati. È, quindi, da condividere il nuovo con-ferimento, previsto nel disegno di legge, della delega al governo per dare impulso alla digitalizzazione del-la pubblica amministrazione, fattore che può contri-buire in modo decisivo al recupero di competitività dell’intero sistema produttivo.

Al riguardo appare degno di nota che, per disci-

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PARTE I – ATTIVITÀ DI CONTROLLO E CONSULTIVA N. 5-6/2014

2

plinare le modalità di erogazione dei servizi ai cit-tadini, in modo da assicurare la piena accessibilità on line alle informazioni personali e ai documenti in possesso delle amministrazioni pubbliche, ai paga-menti nei confronti delle amministrazioni, nonché all’erogazione dei servizi da parte delle amministra-zioni stesse, con invio dei documenti al domicilio fisico ove la natura degli stessi non consenta l’invio in modalità telematiche, sia prevista la ricognizione, da parte delle pubbliche amministrazioni dei proce-dimenti amministrativi di propria competenza entro quattro mesi dalla data di entrata in vigore della leg-ge, pena il divieto di procedere a nuove assunzioni a tempo indeterminato.

Ad avviso della Corte la previsione normativa evidenzia la volontà di procedere in tempi rapidi all’analisi dei procedimenti amministrativi neces-saria alla reingegnerizzazione alla luce delle nuo-ve tecnologie. Si deve, tuttavia, ribadire quanto già affermato nella sede dell’audizione presso la Com-missione parlamentare per la semplificazione, e cioè che le politiche di semplificazione amministrati-va mediante l’utilizzazione delle nuove tecnologie dell’informazione e della comunicazione richiedono una previa valutazione dell’impatto della regolazio-ne, che tenga conto del contesto organizzativo delle pubbliche amministrazioni e della strumentazione tecnica necessaria per dare piena operatività alle nuove norme.

Terminata detta ricognizione, il governo adotterà i decreti legislativi sulla base dei principi e crite-ri direttivi desumibili dagli artt. 12 e 41 del codice dell’amministrazione digitale e di quelli ulteriori in-dicati nel citato art. 1 d.d.l.

Tra i principi e criteri direttivi indicati nel citato art. 1 d.d.l. è da evidenziare la “completa demateria-lizzazione dei documenti amministrativi”. A tale ri-guardo osserva la Corte che il processo di demateria-lizzazione degli atti nelle pubbliche amministrazioni sovente si è limitato alle mere operazioni di proto-collazione elettronica, e non si è ancora raggiunta una completa diffusione dell’uso di documenti in-formatici firmati digitalmente, della posta elettroni-ca certificata (Pec), come strumento di trasmissione degli atti avente efficacia legale ai fini della prova dell’invio e della ricezione dei documenti, di piatta-forme interattive per la completa digitalizzazione dei procedimenti amministrativi, dell’archiviazione so-stitutiva dei documenti informatici. Ciò è dovuto, da una parte, ad una non ancora soddisfacente attitudine all’impiego delle nuove tecnologie dei dipendenti delle pubbliche amministrazioni italiane, dall’altra,

ai mancati investimenti in formazione finalizzata all’attuazione dei progetti di innovazione.

Degna di nota è la previsione, tra i principi e cri-teri direttivi, dell’aggiornamento continuo, anche previa delegificazione o deregolamentazione, delle modalità di erogazione dei servizi e di svolgimento dei processi decisionali, sulla base delle tecnologie disponibili e del grado di diffusione delle stesse pres-so gli utenti e di soddisfazione degli stessi. Appare condivisibile l’intento di adeguare dinamicamen-te i procedimenti amministrativi all’evolversi delle tecnologie, anche procedendo all’approvazione di nuove norme in base alla specifica autorizzazione le-gislativa a delegificare e a deregolamentare. Perples-sità, tuttavia, sorgono in ordine ad un’autorizzazione alla delegificazione e alla deregolamentazione priva di specifici e dettagliati criteri che ne delimitino l’e-sercizio.

L’“unicità dei punti di contatto” con i cittadini e le imprese rappresenta da venti anni a questa parte una criticità costante delle riforme amministrative. Gli insoddisfacenti risultati degli sportelli unici per le imprese fanno ritenere che un possibile rimedio alla scarsa efficacia delle misure di unificazione dei punti di contatto tra cittadini e imprese potrebbe es-sere la previsione, nei procedimenti amministrativi interessati dalla disposizione, di modalità auto appli-cative unite a specifiche sanzioni per i casi di inerzia.

L’introduzione di un unico documento contenen-te i dati di proprietà e di circolazione di autoveico-li, motoveicoli e rimorchi, da perseguire attraverso il collegamento e l’interoperabilità dei dati detenuti dalle diverse strutture, riorganizzando, anche me-diante eventuale accorpamento, le funzioni svolte dagli uffici del pubblico registro automobilistico e dalla Direzione generale per la motorizzazione del Ministero delle infrastrutture e dei trasporti, appare certamente condivisibile. La Corte rileva che la pro-posta dell’“eventuale” accorpamento delle funzioni svolte dagli uffici del pubblico registro automobili-stico e dalla Direzione generale per la motorizzazio-ne del Ministero delle infrastrutture e dei trasporti, sia stata reiterata da diversi decenni.

L’art. 2 reca la delega al governo ad adottare un decreto legislativo per il riordino della disciplina in materia di conferenza di servizi. Nell’ambito del de-creto legislativo si procederà al riordino della disci-plina in materia, rendendo, secondo l’intento dichia-rato, attuale la riorganizzazione dei servizi nell’otti-ca del buon andamento e dell’efficienza dell’ammi-nistrazione pubblica locale.

Anche in tema di conferenza di servizi si è dinan-

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N. 5-6/2014 PARTE I – ATTIVITÀ DI CONTROLLO E CONSULTIVA

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zi alla reiterazione del conferimento della delega per semplificare e rendere più efficace l’istituto. Al ri-guardo si osserva, anche sulla base delle esperienze, che, in assenza di rigide regole in ordine alla validità delle decisioni adottate a maggioranza e dei necessa-ri automatismi collegati al perfezionarsi del silenzio assenso di cui all’art. 3, i risultati attesi, già mancati nel passato, appaiono di difficile realizzazione.

L’art. 3 detta una nuova disciplina del silenzio as-senso. L’acquisizione dei concerti, degli assensi e dei nullaosta per l’adozione di provvedimenti normativi o atti amministrativi si è rivelata procedura talvolta lunga che vanifica l’intervento del legislatore. Al fine di accelerare tale procedura la disposizione in esame introduce il silenzio assenso nell’acquisizione dei predetti atti di concerto per l’adozione sia di atti nor-mativi che di atti amministrativi. Il c. 1 dell’art. 17-bis, introdotto dalla l. n. 241/1990, detta la disciplina applicabile ai concerti tra amministrazioni statali, in-dicando il termine di trenta giorni per l’acquisizione dell’assenso, del concerto o del nullaosta. Il termine è interrotto in caso di motivate richieste di modifica o di chiarimenti da parte dell’amministrazione che deve rendere il proprio assenso, concerto o nullao-sta, formulate in modo puntuale nel termine stesso. Il c. 2 prevede il meccanismo del silenzio assenso e attribuisce al Presidente del Consiglio dei ministri il compito di dirimere le controversie tra ministri sul-le modifiche da apportare. Il c. 3 detta la disciplina applicabile alle amministrazioni preposte alla tutela ambientale, paesaggistico-territoriale, dei beni cultu-rali e della salute dei cittadini, prevedendo termini più lunghi ed estende il meccanismo del silenzio as-senso anche ai concerti per amministrazioni diverse da quelle statali. Rimangono escluse dall’ambito di applicazione della disposizione, a norma del c. 4, le ipotesi nelle quali il diritto europeo richiede l’ema-nazione di provvedimenti espressi, escludendo il si-lenzio assenso.

La Corte ritiene che l’istituto del silenzio assenso sia un profilo importante delle misure di semplifica-zione e di accelerazione, anche se le precedenti espe-rienze di estensione dell’istituto hanno incontrato resistenze da parte degli apparati burocratici che ne hanno inficiato, sostanzialmente, la reale efficacia. Si auspica, quindi, un sempre maggior numero di pro-cedimenti che prevedano l’applicazione ditale istitu-to, salvaguardando, peraltro, le esigenze di garanzia della legalità e della trasparenza dei comportamenti nelle pubbliche amministrazioni. Ciò consentirà di rimuovere le persistenti inerzie in molti settori di at-tività delle stesse amministrazioni. Sono, invece, da

condividere le preoccupazioni sulle modalità di ap-plicazione del silenzio assenso nell’ambito alla tutela ambientale, paesaggistico-territoriale, dei beni cultu-rali e della salute dei cittadini. E pertanto, si esprime apprezzamento sulla previsione di termini più lunghi nelle predette materie nelle quali speciali garanzie sono assicurate dalla Costituzione.

L’art. 6 consente al governo di perfezionare e semplificare le disposizioni attuative in materia di trasparenza e di inconferibilità e incompatibilità di cui, rispettivamente al d.lgs. 14 marzo 2013, n. 33, e al d.lgs. 8 aprile 2013, n. 39. In particolare, per adattare meglio le disposizioni suddette alle esigenze emerse nel corso della loro applicazione dall’entrata in vigore ad oggi si è ritenuto necessario introdur-re, in aggiunta ai criteri già individuati dalla legge in materia di anticorruzione n. 190/2012, quelli oggi introdotti alle lett. a) e b) del c. 1 ovvero: che sia precisato l’ambito di applicazione degli obblighi in materia di prevenzione della corruzione e trasparen-za delle amministrazioni pubbliche; che siano ridotti e concentrati gli oneri gravanti in capo alle ammini-strazioni pubbliche.

Al riguardo si deve rilevare che la previsione normativa sembra obbedire alla necessità di ridurre i cosiddetti oneri burocratici derivanti dalle nuove norme anticorruzione. Sono stati da più parti mossi rilievi in ordine alla numerosità degli adempimenti introdotti dalle norme in materia di prevenzione del-la corruzione e di trasparenza, adempimenti che ral-lenterebbero l’attività amministrativa e assorbireb-bero risorse. Pur comprendendo la necessità di una revisione in materia, occorre ribadire la necessità di adeguare le misure di prevenzione della corruzione a quelle degli standard ormai consolidati in altri paesi.

3. La riorganizzazione dell’amministrazione statale (artt. 7 e 9)

La delega di cui all’art. 7, concernente la rior-ganizzazione dell’amministrazione dello Stato – at-traverso la modifica della disciplina della Presidenza del consiglio, dei ministeri, delle agenzie governati-ve nazionali, degli enti pubblici non economici – si inscrive per alcuni aspetti nel solco di un complesso percorso di riduzione degli apparati pubblici, che sulla spinta delle esigenze di contenimento della spesa, ha caratterizzato gli obiettivi di riforma degli ultimi anni, mentre per altri aspetti presenta profili anche innovativi di carattere ordinamentale.

Nel dettaglio, alcuni contenuti della delega (quali la riduzione di uffici e personale impiegato in attività strumentali e la riduzione degli uffici di diretta colla-

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borazione dei ministri e dei sottosegretari) risultano maggiormente correlati a misure di contenimento della spesa, in parte attuate dai regolamenti di rior-ganizzazione adottati ai sensi dell’art. 2, c. 10, d.l. n. 95/2012.

Si pone, dunque, all’attenzione da un lato l’esi-genza di un coordinamento anche formale da attuarsi in relazione alla pregressa normativa in sede di attua-zione della delega, dall’altro di considerare gli effetti delle riforme già avviate.

In relazione a queste, va evidenziato, come già rilevato dalla Corte, che le politiche di razionalizza-zione hanno privilegiato da anni interventi di imme-diata riduzione delle dotazioni organiche del perso-nale dirigenziale e non dirigenziale, peraltro avvici-nando la definizione degli organici in termini più o meno coincidenti con il personale in servizio.

A fronte di un più ampio orizzonte di riforma, quale emerge dalla stessa finalità della previsione di delega, intesa a privilegiare il ruolo di servizio della pubblica amministrazione ai cittadini ed alle impre-se, un obiettivo da perseguire è quello di una rivisita-zione delle dimensioni, del ruolo e delle attribuzioni degli uffici, da attuare attraverso un percorso di ra-zionalizzazione degli apparati in stretta aderenza alle funzioni perseguite e non solo in termini quantitativi. Tale percorso di razionalizzazione richiede un’atten-ta verifica delle funzioni svolte, anche alla luce di un possibile ripensamento del complessivo perimetro di intervento, a fronte delle competenze demandate ai livelli territoriali ed altri soggetti pubblici. In questa logica di fondo, in cui pare muoversi anche il dise-gno di legge all’esame, potrebbero rendersi maggior-mente espliciti gli ambiti di definizione della delega. Importante potrà risultare anche il raccordo tra or-ganizzazione e bilancio. La delega di cui all’art. 7 presenta profili nuovi di carattere ordinamentale con riferimento sia alla definizione degli strumenti nor-mativi e amministrativi per la direzione della politica generale del governo che alla trasformazione della prefettura-ufficio territoriale del governo in ufficio territoriale dello Stato.

Per quanto riguarda il rafforzamento del ruolo della Presidenza del consiglio dei ministri, in par-ticolare nell’analisi e nella definizione delle politi-che pubbliche, nel condividerne le linee di fondo, va osservato che la delega si inserisce, sotto questo profilo, nell’ambito di quelle riforme (l. n. 400/1988 e d.lgs. n. 300/1999) intese a dare attuazione alle funzioni di indirizzo e coordinamento del Presidente del Consiglio dei ministri nell’azione di governo di cui all’art. 95 Cost., prevedendosi ora un superamen-

to dello stesso d.lgs. n. 300. Valgono al riguardo le considerazioni, già svolte dalla Corte, circa la ne-cessità che la Presidenza del consiglio coniughi la flessibilità che le è connaturale con l’esigenza di una revisione dell’assetto organizzativo, che corrisponda prioritariamente a funzioni di supporto al coordina-mento dell’azione di governo più che a compiti di amministrazione attiva e che come tale rivesta carat-tere di maggiore snellezza.

In funzione del rafforzamento del ruolo della Pre-sidenza del consiglio è prevista anche la revisione delle funzioni di vigilanza sulle agenzie governati-ve nazionali e delle relative competenze; si prevede, inoltre, la eliminazione degli uffici ministeriali le cui funzioni si sovrappongono a quelle delle Autorità indipendenti. Nell’evidenziare la necessità di rac-cordo con la delega di cui all’art. 15 (criterio lett. a, in ordine alla definizione dei poteri di regolazione e controllo delle autorità indipendenti), più avanti esa-minata, appare condivisibile l’intento di eliminare sovrapposizioni.

In tal senso si era esplicitamente pronunciata la Corte nel Rapporto 2014 sul coordinamento della finanza pubblica, laddove con riferimento al com-plesso processo, da anni avviato, in tema di sop-pressione, incorporazione e riordino di enti ed orga-nismi pubblici, ha rilevato che gli interventi che si sono susseguiti hanno affrontato il tema degli enti pubblici prevalentemente con un approccio di tipo quantitativo, privilegiando la prospettiva di una ra-pida resa in termini di tagli. La Corte ha pertanto evidenziato la necessità di una riflessione ponderata sulle linee strategiche del riordino degli enti, soste-nuta da un’approfondita ricognizione per settori di intervento, per categorie di soggetti, per profili or-ganizzativi e contabili e, di conseguenza, in grado di avanzare proposte di razionalizzazione e di assicura-re, in modo mirato e non lineare, risparmi effettivi e permanenti di spesa (1).

Si tratta di un percorso rilevante suscettibile di più puntuale esplicitazione nella delega volta alla rivisitazione delle funzioni degli enti pubblici non economici nazionali espressamente menzionati al

(1) V., ora, sia pure in una prospettiva prevalentemente ri-cognitiva, l’art. 17 d.l. n. 90/2014, che prevede “al fine di pro-cedere ad una razionalizzazione degli enti pubblici e di quelli ai quali lo Stato contribuisce in via ordinaria, il Dipartimento della funzione pubblica della Presidenza del consiglio dei mi-nistri, entro sessanta giorni dalla data di entrata in vigore del-la legge di conversione del presente decreto, predispone un si-stema informatico di acquisizione di dati e proposte di razio-nalizzazione in ordine ai predetti enti”.

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c. 1. A tale percorso dovrebbe accompagnarsi an-che una omogeneizzazione del sistema dei controlli eventualmente sul modello sperimentato della l. n. 259/1958.

La delega di cui all’art. 7 prevede anche una ra-zionalizzazione della rete organizzativa e una revi-sione delle competenze e delle funzioni degli uffici territoriali del governo, attraverso la riduzione del loro numero: si pone al riguardo l’esigenza di uno stretto raccordo con la legge recentemente approva-ta dal Parlamento concernente il riassetto delle pro-vince e la istituzione delle città metropolitane (l. n. 56/2014).

Quanto alla trasformazione della Prefettura-Uf-ficio territoriale del governo in Ufficio territoriale dello Stato, nel condividerne di massima l’obiettivo di riordino su linee già da tempo avviate (2), vanno peraltro rappresentate le consistenti difficoltà di at-tuazione che la Corte ha già avuto modo di eviden-ziare nella Relazione sul rendiconto generale dello Stato per l’esercizio 2013.

Contenuti correlati a misure di contenimento del-la spesa e contestualmente a misure di semplificazio-ne presenta la delega, di cui all’art. 9 d.d.l. in esame, relativa al riordino delle funzioni e del finanziamen-to delle Camere di commercio, rispetto alla quale si prevede per un verso la ridefinizione delle circoscri-zioni territoriali con eliminazione delle duplicazioni con altre amministrazioni pubbliche soprattutto per quanto riguarda la funzione di promozione del terri-torio e dell’economia locale, mentre per altro verso si prevede il trasferimento al Ministero dello svilup-po economico delle competenze relative al registro

(2) Sulla base della delega contenuta nella l. n. 59/1997, l’art. 11 d.lgs. n. 300/1999 istituì gli uffici territoriali del go-verno (Utg) quali organi di rappresentanza generale dello Sta-to in periferia, i quali, oltre al mantenimento delle funzioni di competenza delle prefetture, avrebbero dovuto assumere la ti-tolarità di tutte le attribuzioni dell’amministrazione periferica dello Stato, ad eccezione di alcune espressamente indicate (af-fari esteri, giustizia, difesa, tesoro, finanze, pubblica istruzio-ne, beni culturali, agenzie e, successivamente, anche comuni-cazioni). Il d.p.r. n. 287/2001 individuava quali amministra-zioni avrebbero dovuto trasferire i compiti svolti dalle proprie strutture locali. In seguito alle difficoltà incontrate nell’attua-zione dell’originario disegno di riforma, l’art. 11 d.lgs. n. 300/1999 è stato significativamente modificato con il d.lgs. n. 29/2004 in virtù del quale gli uffici hanno assunto la nuova de-nominazione di Prefetture-Uffici territoriali del governo (Utg) e hanno mutato le loro funzioni, assumendo, accanto ai com-piti propri delle prefetture, un ruolo di coordinamento degli uffici periferici dello Stato. Conseguentemente, il d.p.r. n. 287/2001 è stato abrogato e sostituito dal nuovo regolamento di attuazione emanato con d.p.r. n. 180/2006.

delle imprese optando il legislatore al riguardo per una centralizzazione di competenze che dovrà tutta-via necessariamente garantire la continuità del servi-zio alle imprese (3).

Merita approfondimento l’intera materia concer-nente la rimeditazione dell’assetto e delle funzioni delle Forze di polizia, in considerazione soprattutto delle implicazioni di carattere ordinamentale in coe-renza alle quali vanno definiti i profili organizzativi, sviluppando comunque le potenzialità derivanti da una razionalizzazione territoriale e funzionale intesa ad eliminare duplicazioni e possibili sovrapposizioni.

Ci si riferisce alla parte della delega che prevede la revisione dell’assetto dei Corpi di polizia, ai fini dell’eliminazione delle duplicazioni e del coordina-mento delle funzioni, ed il riordino delle funzioni di polizia di tutela dell’ambiente e del territorio con l’eventuale assorbimento delle funzioni del Corpo forestale dello Stato nelle funzioni di altre Forze di polizia.

4. La definizione di pubblica amministrazione (art. 8)L’art. 8 introduce un apparato definitorio che ri-

guarda gli “ambiti applicativi di disposizioni a venire che investano le pubbliche amministrazioni”. La re-lazione illustrativa non specifica l’area di utilizzo di questo nuovo apparato, ma si limita a indicare che la norma è volta a dare una base legislativa alle defini-zioni che individuano le pubbliche amministrazioni, senza dover ricorrere all’elenco delle unità istituzio-nali redatto dall’Istat. Ciò al fine anche di prevenire il contenzioso che ha interessato lo stesso Istituto di statistica.

Si tratta di un obiettivo condivisibile. Al riguardo le Sezioni riunite della Corte, in occasione dell’esa-me di ricorsi di alcuni enti, hanno sottolineato come “il mero riferimento all’elenco Istat ai fini di una au-tomatica applicazione di vincoli e obblighi in mate-ria di revisione della spesa e di equilibri di bilancio costituisce un criterio che potrebbe produrre effetti distorsivi.

In altri termini, mentre la compilazione e l’ag-giornamento dell’elenco, secondo i principi standar-dizzati della contabilità nazionale, consente all’Istat di disporre di una base definita per la costruzione del conto delle amministrazioni pubbliche – e, quindi, per la trasmissione alla Commissione europea degli

(3) Sulla tematica vanno in generale richiamate le consi-derazioni svolte dalla Corte nella relazione della Sezione con-trollo enti sulla gestione finanziaria dell’Unioncamere (appro-vata con determina n. 89/2013).

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indicatori di saldo richiesti dalle regole concordate in materia di finanza pubblica – l’utilizzo di detto elenco in modo indifferenziato per l’applicazione di numerose norme sostanziali di controllo della spe-sa costituisce una scelta che meriterebbe una attenta riconsiderazione; e ciò soprattutto con riguardo alla estensione di misure di intervento, concepite essen-zialmente per il controllo dei flussi di bilancio di soggetti istituzionali di dimensioni maggiori, a unità istituzionali di minori dimensioni”.

Va tuttavia considerato che è proprio la sottopo-sizione a misure di finanza pubblica (limiti alla spesa o alle assunzioni) che ha spinto numerosi soggetti a ricorrere contro la inclusione nell’elenco Istat del-le amministrazioni pubbliche. Orbene, il c. 4 dello stesso art. 8 oltre a riconfermare la validità della ri-cognizione dell’Istat, ribadisce come “ai fini dell’ap-plicazione delle disposizioni in materia di finanza pubblica rimanga fermo quanto previsto all’art. 1, c. 2, l. n. 196/2009”. Con ciò sembra quindi confer-mato il collegamento tra l’inclusione in tale elenco e l’applicazione delle disposizioni di finanza pubblica. Permarrebbero, quindi, le ragioni del contenzioso con l’Istat.

Se poi le norme a venire disponessero che la sot-toposizione ai vincoli di finanza pubblica operi con riferimento alla nuova classificazione, la forte diffe-renza tra tale classificazione e l’elenco Istat, anche aggregando in tutto o in parte le diverse sottocatego-rie, potrebbe rendere non facile la valutazione degli effetti sui conti pubblici delle disposizioni previste. La difficoltà di riprodurre aggregazioni coerenti con quelle di contabilità nazionale (Sec2010), su cui si fonda la costruzione dei conti di finanza pubblica, riguarderebbe oltre al complesso delle amministra-zioni anche i sottosettori di maggior rilievo come quello delle amministrazioni locali e degli enti di previdenza.

In definitiva, la previsione normativa sembra aumentare (piuttosto che ridurre) le molte (troppe) definizioni, anche in relazione a criteri di inclusio-ne spesso troppo vaghi. Non va, poi, sottovalutata la difficoltà di identificare con d.p.r. gli enti apparte-nenti a ciascuna categoria (oltre diecimila), di con-trollare e aggiornare la completezza degli elenchi e di valutare l’omogeneità dei soggetti inclusi nelle diverse aggregazioni.

Senza considerare, infine, che sarà necessario chiarire come si debbano affrontare problemi di di-ritto transitorio, tenendo presente che la legislazione ancora in vigore utilizza riferimenti alla definizione di amministrazione pubblica non uniformi.

5. La riforma della dirigenza pubblica (art. 10)L’art. 10 del disegno di legge contiene i principi e

i criteri direttivi per l’esercizio di una delega legisla-tiva concernente la riforma dell’assetto ordinamenta-le della dirigenza pubblica.

Il complessivo disegno ripropone il ruolo uni-co dei dirigenti, già sperimentato con esiti non del tutto positivi nel nostro ordinamento, limitatamente alle amministrazioni statali, a partire dall’entrata in vigore d.lgs. n. 80/1998, successivamente abrogato dalla l. n. 145/2002. Il nuovo ruolo unico risulta ar-ticolato in tre distinti settori, rispettivamente riferiti alle amministrazioni statali, alle regioni e agli enti locali.

I criteri direttivi della delega prevedono, poi, l’a-bolizione dell’attuale articolazione della dirigenza in due fasce, la revisione delle procedure per il conferi-mento degli incarichi e di quelle per il reclutamento del personale.

Ulteriori disposizioni riguardano, infine, la re-visione del trattamento economico e l’introduzione di un periodo massimo per il collocamento in dispo-nibilità presso il ruolo unico, nel caso di protratto mancato conferimento di un incarico. Decorso tale termine viene prevista la decadenza dal servizio.

Sui problemi riguardanti l’attuale assetto ordina-mentale della dirigenza pubblica, sui nodi irrisolti e sulle criticità della vigente normativa, la Corte si è di recente espressa nel Rapporto 2014 sul coordina-mento della finanza pubblica, formulando una serie di osservazioni, che vengono riproposte nell’allegato riquadro 1.

In particolare, in quella sede la Corte sottoline-ava la necessità di garantire un contemperamento fra l’esigenza di assicurare la flessibilità dei modelli organizzativi e la salvaguardia di un’effettiva auto-nomia dei dirigenti nei confronti degli organi politi-ci, nel quadro del modello prescelto fin dal d.lgs. n. 29/1993, basato sulla separazione tra indirizzo poli-tico e attività gestionale.

La riforma proposta non sembra garantire questo punto di equilibrio, in quanto aumenta i margini di discrezionalità per il conferimento degli incarichi; una discrezionalità solo in parte temperata dalla pre-visione di requisiti legati alla particolare complessità degli uffici e al grado di responsabilità che i dirigenti sono chiamati ad assumere.

L’abolizione della distinzione in fasce, l’amplia-mento della platea degli interessati, la breve durata degli incarichi attribuiti, il rischio che il mancato conferimento di una funzione possa provocare la decadenza dal rapporto di lavoro, costituiscono un

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insieme di elementi che potrebbero sacrificare l’au-tonomia dei dirigenti.

Senza entrare nel merito di una scelta esclusiva-mente politica, osserva la Corte come i criteri diretti-vi della riforma delineano un modello ordinamentale che privilegia, per il conferimento della titolarità di uffici anche di piccole dimensioni, non già il posses-so di competenze specifiche legate alla conoscenza della complessa normativa dei settori di intervento, quanto il possesso di competenze manageriali che, come l’esperienza ha dimostrato, risultano di limi-tata applicabilità nell’ordinamento amministrativo.

La nuova disciplina assegna, infatti, un peso pre-valente alla pluralità delle esperienze e alla diversi-ficazione della carriera, rispetto alla valutazione di una sperimentata professionalità specifica, criterio non preso in considerazione tra quelli previsti per il conferimento della titolarità di un ufficio, garantita dalla presenza di funzionari amministrativi.

Ad avviso della Corte, andrebbero, pertanto, me-glio delineati il criterio dell’interscambiabilità dei ti-tolari degli uffici e le modalità per la selezione delle professionalità migliori, che rappresentano gli obiet-tivi della riforma.

Poiché gli appartenenti al ruolo unico risultano, tenuto conto degli attuali limiti al tasso di ricambio del personale pubblico, più o meno coincidenti con i posti di funzione disponibili, potrebbero verificarsi difficoltà nel concreto funzionamento dei ruoli uni-ci. Ciò in quanto la selezione dei titolari degli uffici potrebbe risultare condizionata dal diverso momento temporale di cessazione degli attuali titolari, con il rischio di non trovare tra i soggetti al momento privi di incarico professionalità adeguate ai posti da co-prire.

L’art. 10 dovrebbe contenere i criteri per un’esau-stiva definizione del nuovo assetto della dirigenza. Il testo, peraltro, non chiarisce se resteranno in vigore alcune norme specifiche contenute nell’attuale ordi-namento, non espressamente richiamate. Si tratta, in primo luogo, del permanere o meno degli attuali vin-coli assunzionali, della possibilità di conferire incari-chi a soggetti esterni all’amministrazione (compreso il personale amministrativo), e dell’attribuzione di compiti di consulenza e studio.

Sotto il profilo del trattamento economico, l’art. 10 contiene una rivisitazione in senso pubblicistico dell’attuale normativa.

Alla contrattazione collettiva nazionale e integra-tiva residuano, infatti, limitati margini d’intervento, non potendo in quella sede essere determinato né l’assetto della retribuzione complessiva, né il peso

delle diverse componenti, legate, in parte, agli atti organizzativi di dimensionamento degli uffici.

Sui possibili effetti finanziari connessi al riordi-no del trattamento economico, si rinvia all’allegato riquadro 2 che evidenzia le differenze tra la nuova e la previgente disciplina. Merita, in ogni caso, di essere segnalato come, in controtendenza rispetto al principio di garantire che una rilevante quota dei trattamenti accessori venga attribuita solo in esito ad un adeguato percorso di valutazione, la retribuzio-ne di risultato, attualmente pari ad almeno il 30 per cento del trattamento complessivo, secondo quanto previsto dal d.lgs. n. 150/2009, venga ridotta ad un massimo del 15 per cento.

L’estensione del ruolo unico anche ai dirigenti delle regioni e degli enti locali viene ad incidere sulla materia riguardante l’organizzazione degli uffici, che l’attuale art. 117 della Costituzione attribuisce alla competenza esclusiva delle singole regioni.

La normativa in esame non esclude espressamen-te dall’applicazione del ruolo unico neppure il perso-nale delle regioni a statuto speciale e delle province autonome di Trento e Bolzano, che hanno ordina-menti particolari e comparti autonomi di contratta-zione, nell’ambito di riserve statutarie ad intervenire sul trattamento economico e giuridico dei propri di-pendenti.

Anche con riferimento agli enti locali va valutata la compatibilità del nuovo sistema delineato, con il riparto di competenze fra Stato e regioni previsto dal citato art. 117 della Costituzione.

Analoghe considerazioni valgono anche per il ruolo della dirigenza degli enti locali che è discipli-nato con legge regionale.

La Corte prende atto della decisione di abolire la categoria funzionale dei segretari comunali e provin-ciali, scelta connessa con il mutato assetto costitu-zionale dei rapporti tra i diversi enti che compongo-no la Repubblica.

Suscita, comunque, perplessità, anche sotto il profilo di possibili effetti finanziari non quantificati, l’automatica inclusione di tutti gli appartenenti alle fasce A e B dell’Albo nel nuovo ruolo unico della dirigenza, nella considerazione che la piena equipa-razione, sotto il profilo economico dei trattamenti, è tuttora oggetto di contenzioso.

Non convince, infine, la previsione di un utilizzo dei segretari comunali inclusi nella fascia C come dirigenti responsabili dell’attuazione dell’indirizzo politico e del coordinamento dell’azione ammini-strativa anche presso comuni di minori dimensioni, attualmente privi di figure dirigenziali. La norma fa

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salvi i limiti derivanti dal contenimento della spesa di personale, ma entro tale ambito potrebbero co-munque verificarsi esorbitanze di spesa, a fronte del conferimento di funzioni di scarsa utilità per enti di dimensioni particolarmente ridotte.

La relazione tecnica afferma, con riferimento all’art. 10 il carattere esclusivamente ordinamentale della delineata riforma.

Al riguardo, il riquadro 3 si sofferma sul conte-nuto di alcune specifiche disposizioni che potrebbero avere effetti finanziari non presi in considerazione, legati principalmente all’istituzione di uffici, com-missioni, comitati per complesse attività di gestione dei diversi ruoli unici ed alla maggior ampiezza tem-porale del periodo di formazione.

6. Riordino della disciplina del lavoro delle pubbli-che amministrazioni (art. 13)

Con riferimento a tale previsione di riordino la Corte ha da tempo auspicato la necessità di una re-visione e di un coordinamento delle disposizioni, ripetutamente modificate ed integrate, contenute nel d.lgs. n. 165/2001.

Riguardo al potenziamento dei controlli sulla contrattazione integrativa, che riguarda oltre dieci-mila enti, la Corte sottolinea come l’eventuale mag-gior coinvolgimento delle sezioni regionali non può prescindere da un effettivo incremento dei mezzi e delle dotazioni di personale dei predetti uffici.

Suscita perplessità, e merita di essere chiarito il criterio enunciato alla lett. g) del citato articolo – progressivo superamento della dotazione organica come limite alle assunzioni – in un contesto caratte-rizzato dalla prevalenza di rapporti di lavoro a tem-po indeterminato che di fatto limita la possibilità di reiterati interventi sugli assetti organizzativi e sulla composizione dei pubblici dipendenti.

7. Riordino della disciplina delle partecipazioni azionarie delle amministrazioni pubbliche (AAPP) e dei servizi pubblici locali (artt. 14 e 15)

Gli artt. 14 e 15 prevedono una delega legisla-tiva per il riordino della disciplina delle partecipa-zioni azionarie delle amministrazioni pubbliche e dei servizi pubblici locali. In termini generali, i cri-teri e principi direttivi, da integrarsi con i più circo-scritti principi previsti dall’art. 12, appaiono molto ampi e non facilmente delimitabili. A evitare che i decreti delegati adottati ai sensi degli artt. 14 e 15 possano essere censurati per eccesso di delega, sa-rebbe opportuno che i criteri e principi in essi indi-cati venissero valutati alla luce del disposto dell’art.

76 Cost. Così come dovrà essere chiarito il rapporto tra principi e criteri di delega e quelli già rinveni-bili nella normativa vigente. L’art. 14 d.d.l. dispone una delega legislativa per il riordino della disciplina delle partecipazioni azionarie delle amministrazioni pubbliche.

Si tratta di una materia che necessita certamente di una disciplina organica, meno frammentaria e più semplice di quella attualmente in vigore.

Oggetto esplicito di riordino è la disciplina re-lativa alle “partecipazioni azionarie delle ammini-strazioni pubbliche”. Tuttavia non sono infrequenti i casi di società a responsabilità limitata, ovvero di fondazioni, consorzi ed enti di altra natura giuridica, già oggi assoggettati ai medesimi obblighi previsti per le società partecipate (ad esempio, aziende spe-ciali e istituzioni), nel presupposto corretto che, al di là della differente natura giuridica, la disciplina pubblicistica vada applicata in maniera omogenea a soggetti che vivono di finanza pubblica derivata. Pe-raltro, l’intestazione dell’art. 14 appare in contrasto con la lett. d) del medesimo articolo, riferita a tutti gli organismi partecipati dagli enti locali.

Una delega ampia che voglia definire “criteri di scelta fra modello societario e modello dell’ammini-strazione autonoma o criteri per l’internalizzazione” (lett. b), dovrebbe dunque essere ragionevolmente estesa a tutto il complesso mondo delle interessen-ze patrimoniali detenute dalle amministrazioni pub-bliche, senza essere apriori limitata al sottoinsieme costituito dalle società per azioni. Ciò nella consa-pevolezza che i modelli organizzativi di esercizio di funzioni e di gestione di servizi sono notevolmente cresciuti nel tempo, spesso con l’obiettivo di “por-tare fuori” dal bilancio dell’amministrazione di ri-ferimento parti più o meno significative dei costi, sostanzialmente svincolandone la gestione dagli ob-blighi di contenimento della spesa.

In particolare, la “societarizzazione” delle funzio-ni amministrative attraverso la diffusione incontrol-lata del modello in house non ha risparmiato alcun livello di governo, generando incremento dei costi, duplicazione e sovrapposizione di strutture, elusione dei vincoli pubblicistici (una sintetica trattazione del problema delle società in house delle amministrazio-ni centrali è contenuta nell’apposito riquadro 4). An-che al fine di ostacolare la proliferazione di soggetti partecipati nonché la sovrapposizione e duplicazione di competenze e costi, dovrebbe utilmente essere valutata l’opportunità di rendere più stringente, per l’amministrazione pubblica che assume una parte-cipazione, l’onere di esplicitare le considerazioni di

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“efficienza, efficacia ed economicità” che giustifica-no tale scelta.

Già da quanto fin qui osservato, emerge l’impor-tanza di approdare a una distinzione tra tipi di sog-getti partecipati in relazione alle attività svolte e agli interessi pubblici di riferimento, con individuazione della relativa disciplina, stabilendo, in relazione al tipo di società, la portata delle deroghe rispetto alla disciplina privatistica (cfr. lett. “a” della delega).

In termini generali, esiste oggi un intreccio non sempre districabile tra disciplina codicistica e dispo-sizioni speciali di varia natura e con diverse finali-tà. All’interno di questo intreccio, è comunque in-dividuabile uno statuto pubblicistico più stringente per le società strumentali, data la loro sostanziale assimilabilità con l’amministrazione di riferimen-to (trattandosi, in genere, di società in house), e la preoccupazione che queste possano essere utilizzate per eludere vincoli di finanza pubblica. A questo va aggiunta una progressiva stratificazione di discipline specifiche di settore e, in non pochi casi, relative al singolo soggetto partecipato da una o più ammini-strazioni pubbliche, che ha finito per disegnare un ampio e imprecisato campo nel quale di volta in vol-ta, in relazione a singole fattispecie, si applica una disciplina strettamente pubblicistica, ovvero una pri-vatistica, ovvero varie discipline per così dire “in-termedie”.

Il contesto operativo mostra l’urgenza di una va-sta opera di razionalizzazione della tassonomia dei soggetti partecipati, cui collegare la misura delle de-roghe rispetto alla disciplina codicistica, per giunge-re alla definizione di uno o più statuti societari certi, applicabili alle diverse tipologie.

Non del tutto chiari risultano i criteri di applica-zione del principio di “proporzionalità” delle dero-ghe alla disciplina privatistica. Se, come sembra, la deroga va misurata in termini di sacrificio dell’au-tonomia imprenditoriale conseguente alla previsione di vincoli pubblicistici, occorrerebbe prevedere che le “deroghe alla disciplina privatistica” fossero de-finite nei limiti di quelle strettamente necessarie “in relazione alle attività svolte e agli interessi pubblici di riferimento”. Nella misura in cui queste deroghe, come già oggi avviene, comportino una “raziona-lizzazione e rafforzamento dei criteri pubblicistici per gli acquisti e il reclutamento del personale, per i vincoli alle assunzioni e le politiche retributive, fina-lizzati al contenimento dei costi” (lett. e), dovrebbe essere assicurata la previsione di sistemi di moni-toraggio e strumenti di vigilanza che prevedessero anche meccanismi sanzionatori, in caso di mancato

rispetto, sia nei confronti degli amministratori della società che dell’amministrazione partecipante.

La lett. d) è tesa a rafforzare gli obiettivi di effi-cienza, efficacia ed economicità, e opportunamente dispone che si addivenga alla “precisa definizione delle responsabilità delle amministrazioni locali par-tecipanti e degli amministratori degli organismi parte-cipati”. Non risulta chiara la ragione in base alla quale detto criterio di delega sia limitato ai rapporti inter-correnti tra i soli enti locali e organismi partecipati, escludendo quindi l’ampio mondo delle partecipate delle amministrazioni centrali. L’occasione potrebbe essere colta per definire normativamente la complessa tematica della responsabilità amministrativo-contabi-le degli amministratori delle società partecipate.

La lett. c) genera un’evidente area di sovrapposi-zione fra la delega di cui si discute e quella disposta al successivo art. 15, in materia di riordino della di-sciplina dei servizi pubblici locali di rilevanza eco-nomica.

La Corte costituzionale ha, infatti, affermato (sent. n. 325/2010) che “la nozione comunitaria di servizi pubblici di interesse economico generale, ove limitata all’ambito locale, e quella interna di servi-zio pubblico locale di rilevanza economica hanno contenuto omologo”: occorrerà, pertanto, un atten-to coordinamento in sede di emanazione dei decreti delegati.

I criteri di delega contenuti nell’art. 15 (che de-vono pur essi essere integrati con quelli più generali fissati nell’art. 12) presentano ancor più spiccati ca-ratteri di genericità.

La lett. a), che prescrive la “definizione dei poteri di regolazione e controllo delle autorità indipenden-ti”, non fissa alcun criterio direttivo utile alla defi-nizione ditali poteri, e non vengono con precisione individuate le autorità di cui si tratta. Né risulta di grande ausilio la successiva lett. o), volta a regolare l’interazione fra vari livelli di governo e fra ammini-strazioni e autorità indipendenti.

Non è chiaro se la lett. d), relativa alla definizione degli ambiti territoriali ottimali per lo svolgimento dei servizi, abbia un contenuto innovativo rispetto alla disciplina vigente.

(Esempio art. 13 d.l. n. 150/2013 che, tra l’altro, prevede che la procedura di affidamento del servizio all’ente di governo dell’ambito territoriale ottimale debba essere ultimata entro il 31 dicembre 2014).

Considerato che da numerose indagini emerge come il settore presenti tuttora un eccessivo livello di frammentazione dal lato dell’offerta, appaiono ne-cessari principi chiari e maggiormente cogenti.

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PARTE I – ATTIVITÀ DI CONTROLLO E CONSULTIVA N. 5-6/2014

10

La lett. m), prevede che il decreto delegato debba contenere la “disciplina dei regimi di proprietà e di gestione delle reti”. Sembra qui alludersi al criterio cosiddetto dell’unbundling, con la connessa separa-zione fra proprietà o gestione della rete e fornitura del servizio. Ma, così come è formulato, il criterio di delega non pare sufficientemente esplicito nell’in-dirizzare il legislatore delegato verso tale direzione.

La successiva lett. n), dispone la “individuazione degli indirizzi per la definizione dei regimi tariffari”, e va letta insieme alla lett. a), relativa ai poteri delle autorità indipendenti. Ma, anche con questa integra-zione, non soddisfa l’esigenza di rendere esplicita la fissazione di regimi tariffari che tengano conto di quegli incrementi di produttività cui il settore deve essere indotto al fine di ridurre l’aggravio delle tarif-fe su cittadini e imprese.

Nel complesso dell’articolo non è resa esplicita

una preferenza per modalità di affidamento dei servi-zi che privilegino le procedure ad evidenza pubblica, salvo il rinvio alla disciplina della Unione europea (lett. h) e il meccanismo di premialità di cui alla lett. l), di cui andrebbero valutate le conseguenze di carattere finanziario. Parrebbe, pertanto, opportuno rendere più esplicita e cogente tale preferenza.

Più in generale la necessità di assicurare la co-genza delle norme assume carattere di evidente ur-genza nel settore dei servizi pubblici locali, caratte-rizzato da continue modifiche normative e da ripetuti differimenti di termini. Pertanto, la lett. h) dell’art. 15 dovrebbe espressamente assicurare la previsione di sistemi di monitoraggio e strumenti di vigilanza che prevedano anche meccanismi sanzionatori, in caso di mancato rispetto, sia nei confronti degli am-ministratori della società che dell’amministrazione partecipante.

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N. 5-6/2014 PARTE I – ATTIVITÀ DI CONTROLLO E CONSULTIVA

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Riquadro 1 – I nodi irrisolti della dirigenza pubblica(Stralcio dalla Relazione 2014 sul coordinamento della finanza pubblica)

Particolari criticità permangono nell’assetto ordinamentale della dirigenza pubblica amministrativa (1). A fronte di una sostenuta dinamica retributiva non è mai entrato a regime un idoneo sistema di valutazione della capacità manageriale, presupposto per la corresponsione della cosiddetta retribuzione di risultato.

La normativa sul reclutamento e sulla attribuzione degli incarichi, inoltre, non ha garantito il contem-peramento delle necessarie esigenze di flessibilità organizzativa con la garanzia di un’effettiva autonomia gestionale dei dirigenti nei confronti degli organi politici.

Quanto sopra alla luce degli ampi margini discrezionalità tuttora esistenti per la riconferma del dirigente o l’attribuzione di un incarico di livello superiore.

Sotto il profilo della flessibilità organizzativa e della rotazione degli incarichi, l’introduzione per un breve periodo di tempo del cosiddetto ruolo unico della dirigenza amministrativa non ha prodotto i benefici attesi.

Il meccanismo di reclutamento prevede, infatti, l’indizione di concorsi pubblici per un numero di posti pari a una percentuale delle cessazioni intervenute. La platea d’interessati coincide, quindi, con il numero degli incarichi vacanti da conferire. Ciascun soggetto, inoltre, una volta superato il concorso, acquisisce il diritto alla corresponsione quantomeno delle competenze fisse corrispondenti alla nuova qualifica acquisita.

L’unica forma di flessibilità si è di fatto concretata nell’attribuzione di non sempre utili incarichi di stu-dio e ricerca per i soggetti temporaneamente privi della titolarità di un ufficio. Il ruolo unico, infatti, non ha rappresentato nel periodo di sperimentazione, un albo di soggetti abilitati all’esercizio delle funzioni (come avviene per il reclutamento dei professori universitari), ma un elenco di personale già in possesso della qua-lifica dirigenziale e quindi avente diritto all’erogazione delle competenze fisse spettanti, indipendentemente dal conferimento della titolarità di un ufficio.

In un’ottica di spending review un preliminare intervento avente, a regime, caratteristiche strutturali, potrebbe consistere nella doverosa rivalutazione dell’attuale collocazione a livello dirigenziale di II fascia di uffici di piccole dimensioni che svolgono esclusivamente attività non aventi rilevanza esterna ma solo compiti serventi rispetto a strutture di più ampie dimensioni.

La titolarità di tali uffici potrebbe essere attribuita, a tempo determinato e previa idonea forma di sele-zione comparativa, ai funzionari appartenenti alla categoria più elevata della carriera amministrativa degli enti interessati, introducendo anche nel settore pubblico la figura professionale dei quadri, ben nota al lavoro privato, garantendo un percorso di carriera ai dipendenti più meritevoli (2).

Il differenziale retributivo attualmente esistente tra la più alta categoria di funzionari e i dirigenti di II fa-scia dà un’idea di quali potrebbero essere i possibili risparmi di spesa attraverso una opportuna modulazione dell’eventuale indennità di direzione da corrispondere agli interessati (3).

(1) Con tale termine si fa riferimento alle aree dirigenziali dei comparti: ministeri, agenzie fiscali ed enti pubblici non economici, Presidenza del consiglio dei ministri, regioni e autonomie locali, università ed enti di ricerca per un totale nel 2012 di 1.160 dirigenti di prima fascia e 12.112 dirigenti di II fascia. Problematiche particolari riguardano la dirigenza scolastica e la dirigenza medica del servizio sanitario nazionale per le quali si rinvia alle relazioni annuali sul costo del lavoro pubblico.

(2) Un meccanismo di conferimento della titolarità di uffici dirigenziali di minore importanza, analogo a quello sopradescritto, è attualmente utilizzato sia pur in via temporanea in attesa della conclusione delle ordinarie procedure di reclutamento presso le Agenzie fiscali sulla base di quanto disposto dagli specifici regolamenti di organizzazione (v. ad esempio, l’art. 24 del regolamento dell’Agenzia delle entrate).

Si tratta peraltro di una prassi che, ha dato luogo ad un diffuso contenzioso per quanto attiene alle procedure di selezione. In ogni caso agli interessati viene corrisposto per intero lo stipendio spettante ad un dirigente che riveste analoga posizione nella struttura.

Secondo i dati contenuti nel conto annuale per il 2012 presso le Agenzie fiscali il 64 per cento dei posti dirigenziali di II fascia sono coperti tramite il predetto meccanismo.

(3) Secondo una riaggregazione dei dati presenti nel conto annuale 2012, presso gli enti pubblici non economici la retribuzione complessiva dei dirigenti di II fascia è 3,5 volte quella dei funzionari della categoria più elevata; tale rapporto è pari a 1,8 presso la Presidenza del consiglio dei ministri con valori intermedi nei restanti comparti di contrattazione.

In valori assoluti la differenza oscilla tra i circa 43.000 euro del comparto Presidenza e i circa 95.000 del comparto enti pubblici non economici.

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PARTE I – ATTIVITÀ DI CONTROLLO E CONSULTIVA N. 5-6/2014

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Riquadro 2 – I criteri per il nuovo assetto retributivo dei dirigenti pubblici

La seconda privatizzazione del pubblico impiego ha delineato un nuovo assetto retributivo per la dirigenza pubblica, incentrato sulla onnicomprensività del trattamento economico e sulla semplificazione delle diverse componenti retributive, ridotte a tre grandi categorie: stipendio, retribuzione di posizione e retribuzione di ri-sultato. I principi normativi sono stati declinati nella contrattazione collettiva nazionale, a partire dalla tornata contrattuale relativa al quadriennio normativo 1998-2001 e ai due corrispondenti bienni economici.

Attualmente, il trattamento economico dei dirigenti risulta suddiviso in un trattamento economico fisso, che ricomprende lo stipendio tabellare e la retribuzione di posizione di parte fissa, entrambi comprensivi della tredicesima mensilità, e la retribuzione individuale di anzianità conservata come assegno personale dai soggetti che già la percepivano. Il trattamento accessorio è incentrato sulla retribuzione di posizione di parte variabile, legata alla complessità dell’incarico conferito e del connesso grado di responsabilità, e sulla retribuzione di risultato da corrispondere in esito alla verifica del raggiungimento degli obiettivi.

La seguente tabella, desunta dai contratti collettivi attualmente vigenti, risalenti al biennio economico 2008-2009, dà atto dei valori delle componenti fisse della retribuzione e dei criteri per la definizione di quelle variabili.

Trattamento economico dei dirigenti interessati dai nuovi ruoli unici secondo i vigenti c.c.n.l.

II fascia

Stipendio per 13

mensilità

Retribuzione di posizione parte

fissa per 13 mensilità

TOTALE trattamento

fisso (1)

Retribuzione di posizione (valore

massimo) (2) per 13 mensilità

Retribuzione di risultato

Area I (Ministeri)

43.310,9

12.155,61 55.466,51 45.348,31 Almeno 20 per cento

posizione in atto percepita

Area VI (Agenzie fiscali ed enti pubblici non economici)

Area VII (Ricerca, università)

Area VIII (Presidenza del consiglio dei ministri) 12.440,31 55.751,21 47.832,47

Area II (Regioni ed autonomie locali) (3) 11.533,17 54.844,07 45.102,87

Area III - Dirigenti amministrativi (Ssn) (4) (5) (6)

(1) Il trattamento fisso comprende altresì la retribuzione individuale di anzianità conservata come assegno ad personam.(2) Per le Aree VI e VII i c.c.n.l. prevedono la possibilità di incremento fino al 15 per cento dei valori massimi, in relazione alle

disponibilità presenti nei fondi unici. Per l’Area VIII è prevista la possibilità di un incremento fino al 10 per cento. Per l’Area II i c.c.n.l. prevedono per tutti gli enti del comparto una generica possibilità di incremento del valore massimo della retribuzione di posizione, senza fissazione di un limite.

(3) Relativamente all’Area II è prevista un’unica qualifica dirigenziale.(4) Per la dirigenza dell’Area III del Ssn la retribuzione di posizione minima è diversamente graduata in relazione alla complessità

dell’incarico attribuito e varia tra 3.832 e 14.816 euro.(5) Per la dirigenza dell’Area III del Ssn la retribuzione di posizione di parte variabile, finanziata mediante l’utilizzo di risorse

presenti in uno specifico Fondo, è diversamente modulata in valori minimi e massimi anche in relazione al conferimento o meno di un incarico di direzione di una struttura complessa.

Il trattamento accessorio, inoltre, prevede numerose indennità correlate alle condizioni di lavoro, al disagio e alla specificità dei compiti o alla professionalità richiesta.

(6) L’esistenza di adeguate risorse da destinare alla retribuzione di risultato è garantita dai c.c.n.l. per l’Area III, dalla costituzione di uno specifico Fondo esclusivamente destinato a tale finalità.

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N. 5-6/2014 PARTE I – ATTIVITÀ DI CONTROLLO E CONSULTIVA

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I fascia

Stipendio per 13

mensilità

Retribuzione di posizione fissa

(valore minimo) per 13 mensilità

TOTALE trattamento

fisso (1)

Retribuzione di posizione

(valore massimo)Retribuzione di risultato

Area I (Ministeri)

Relativamente alla dirigenza di I fascia i c.c.n.l. non prevedo-no alcun criterio per la graduazione della retribuzione di posi-zione di parte variabile, né la fissazione di un limite massimo al predetto emolumento.Non è neppure previsto un parametro per la determinazione della retribuzione di risultato. L’intera materia è demandata alla contrattazione integrativa ed ha come limite la disponi-bilità del Fondo per la retribuzione di posizione e di risultato.

Area VI (Agenziefiscali ed entipubblici noneconomici)

Area VII (Ricerca,università)

55.397,39 36299,70 91.697,09

Area VIII(Presidenza delconsiglio deiministri)

(1) Il trattamento fisso comprende altresì la retribuzione individuale di anzianità conservata come assegno ad personam.

Sulla base dei dati contenuti nell’ultima versione disponibile del Conto annuale predisposto dalla Rgs-I-gop, aggiornati all’1 gennaio 2013, sono stati elaborati i seguenti prospetti relativi alle retribuzioni medie lorde annue (suddivise in componenti fisse ed accessorie) dei dirigenti a tempo indeterminato destinatari dell’art. 10 d.d.l. all’esame.

Dirigenti di I fascia a tempo indeterminato – Composizione della retribuzione media 2012 (1)

CompartoStipendio + Tredicesima

mensilità

Posizione parte fissa

TOTALE(1)

Altre voci trattamento

fisso

TOTALE trattamento

fisso(2)

Posizione parte

variabileRisultato TOTALE

(3)Altre voci accessorie

TOTALE trattamento

variabile(4)

RETRIBUZIONE(1)+(4)

Ministeri 63.700 34.129 97.829 2.521 100.350 57.455 17.844 75.299 2.546 77.845 175.673

Presidenza delConsigliodei ministri 64.978 34.027 99.005 1.208 100.213 59.366 22.359 81.725 3.996 85.721 184.726

Agenzie fiscali63.565 33.508 97.073 3.715 100.788 54.930 55.950 110.880 4.820 115.700 212.773

Entipubblici noneconomici 62.456 33.641 96.097 1.386 97.483 69.950 50.177 120.127 4.075 124.202 220.299

Enti diricerca 59.995 36.159 96.154 1.513 97.667 47.403 12.101 59.504 268 59.773 155.927

Fonte: elaborazione su dati Rgs-Igop.(1) Esclusi arretrati relativi ad anni precedenti.

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PARTE I – ATTIVITÀ DI CONTROLLO E CONSULTIVA N. 5-6/2014

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CompartoStipendio + Tredicesima

mensilità

Posizioneparte fissa

TOTALE(1)

Altre voci trattamento

fisso

TOTALE trattamento

fisso(2)

Posizioneparte variabile

RisultatoTOTALE

(3)Altre vociaccessorie

TOTALE trattamento

variabile(4)

RETRIBUZIONE(1)+(4)

Ministeri 45.711 11.655 57.367 1.288 58.654 16.785 8.611 25.396 1.493 26.890 85.544

Presidenza del Consiglio dei ministri 47.312 11.140 58.452 942 59.394 25.861 7.468 33.329 5.071 38.400 97.793

Agenzie fiscali 46.127 11.293 57.420 1.754 59.174 20.965 30.277 51.242 3.506 54.748 113.922

Enti pubblicinon economici 45.876 11.754 57.630 1.052 58.682 26.972 43.225 70.196 6.416 76.613 135.295

Enti di ricerca 45.567 13.123 58.690 2.148 60.838 24.357 13.565 37.922 1.764 39.686 100.524

Università 45.711 14.490 60.202 783 60.985 21.857 14.274 36.131 1.692 37.823 98.808

Regioni e autonomie locali (2) 45.910 - 45.910 576 46.485 36.363 11.911 48.274 3.501 51.775 98.261

Dirigenti amministrativi SSN 45.175 7.228 52.403 784 53.187 12.200 8.364 20.564 8.561 29.125 82.312

Regioni (2) 46.036 - 46.036 617 46.653 39.298 16.553 55.851 1.821 57.672 104.325

Comuni (2) 45.776 - 45.776 494 46.270 34.709 9.128 43.837 4.464 48.301 94.571

Fonte: elaborazione su dati Rgs-Igop.

Dirigenti di II fascia a tempo indeterminato - Composizione della retribuzione media 2012 (1)

In relazione alla significativa differenza di trattamento economico, si riportano i dati relativi al personale delle Regioni a statuto ordinario e dei Comuni.

(1) Esclusi arretrati relativi ad anni precedenti.(2) Il comparto comprende i dirigenti delle Regioni a statuto ordinario, delle province, dei comuni e degli enti sub regionali e sub

comunali. Il conto annuale rileva, per il comparto, il valore complessivo della retribuzione di posizione.

Da ultimo, si riportano i dati relativi alla consistenza numerica dei dirigenti interessati dalla riforma.

Dirigenti in servizio all’1 gennaio 2013

Tempo indeterminato Tempo determinatoComparto I fascia II fascia I fascia II fascia

Ministeri(1) 244 2.120 49 190 Presidenza del Consiglio dei ministri(2) 105 159 10 11 Agenzie fiscali(3) 57 521 9 1.059 Enti pubblici non economici 88 789 8 73 TOTALE 494 3.589 76 1.333 Regioni ed autonomie locali(4) - 6.330 - 1.765 Dirigenza amministrativa Ssn(5) - 2.423 - 368 Ricerca 5 75 20 14 Università(5) - 210 - 39 TOTALE 494 12.342 76 3.466

Fonte: elaborazione su dati Rgs-Igop.(1) I Capi dipartimento/Segretari generali dei ministeri (20 unità) sono inclusi nella dirigenza di I fascia a tempo indeterminato. Nella

dirigenza di II fascia a tempo indeterminato non sono stati inclusi dirigenti medici in servizio presso il Ministero della salute (64 unità).(2) Escluso il personale “in prestito” da altre amministrazioni.(3) La dirigenza di II fascia a tempo determinato comprende 1.014 unità di funzionari della III Area con incarico dirigenziale provvisorio.(4) Relativamente all’Area II è prevista un’unica qualifica dirigenziale. La dirigenza di II fascia a tempo determinato comprende

229 dirigenti ex art. 110, c. 1, del Tuel.(5) La dirigenza non medica del Ssn (Area III) si articola nelle seguenti tipologie: dirigenza sanitaria (14.506 unità complessive),

tecnica (1.127 unità), professionale (1.413 unità) e amministrativa (2.714 unità).Il comparto prevede un’unica qualifica dirigenziale.

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N. 5-6/2014 PARTE I – ATTIVITÀ DI CONTROLLO E CONSULTIVA

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Il predetto assetto retributivo dovrebbe subire significative modifiche in relazione ai contenuti ordina-mentali della riforma recata dal citato art. 10.

La previsione di tre distinti ruoli unici che ricomprendono quasi diecimila enti comporta, infatti, la necessità di una omogeneizzazione dei trattamenti fissi che dipendono dai contratti collettivi nazionali per le attuali 8 aree di contrattazione e di quelli accessori decisi nella contrattazione integrativa che si svolge presso i singoli enti.

L’abolizione dell’attuale articolazione della dirigenza in due fasce implica, inoltre, la necessità di ride-terminare in un unico valore l’ammontare dei trattamenti fissi spettanti agli interessati che saranno inqua-drati nella medesima posizione retributiva.

Si tratta di problematiche complesse relativamente alle quali i criteri direttivi appaiono vaghi e generici essendo previsto esclusivamente il parametro dell’invarianza della spesa complessiva.

In ogni caso, dall’introduzione di un omogeneo trattamento fondamentale per l’unica qualifica dirigen-ziale – necessariamente più alto di quello attualmente previsto per la II fascia – non potranno che derivare maggiori costi a regime con riferimento all’ammontare dei trattamenti da corrispondere ai soggetti assunti con i nuovi concorsi. La retribuzione di ingresso, infatti, è attualmente parametrata a quella prevista per la fascia più bassa della dirigenza.

Ulteriori criticità derivano dalla previsione di un conglobamento della retribuzione di posizione di parte fissa nel trattamento fondamentale (art. 1, lett. l).

Al riguardo non è chiaro il significato da attribuire alla locuzione utilizzata (trattamento fondamentale).Qualora tale espressione vada intesa come riferita alle componenti stipendiali in senso proprio (in quan-

to, altrimenti, la norma non avrebbe alcun contenuto innovativo rispetto all’attuale assetto retributivo), dalla sua concreta attuazione potrebbero derivare, a regime, effetti finanziari non presi in considerazione, dal momento che lo stipendio rappresenta la base per il calcolo degli incrementi connessi ai futuri rinnovi contrattuali e per la stessa indennità di vacanza contrattuale.

Non va inoltre dimenticato che attualmente il pagamento degli stipendi è a carico degli ordinari capitoli di bilancio, mentre la retribuzione di posizione di parte fissa è finanziata utilizzando risorse presenti nei fon-di per la retribuzione accessoria, con conseguente necessità di operare le relative compensazioni finanziarie.Suscita infine perplessità la previsione che, nell’assetto delineato dalla riforma, la retribuzione di risultato debba essere non superiore al 15 per cento del totale degli emolumenti. Attualmente, infatti, ai sensi d.lgs. n. 150/2009 (previsione, peraltro, non attuata a seguito del blocco della contrattazione collettiva), la retribu-zione di risultato dovrebbe rappresentare almeno il 30 per cento della retribuzione complessiva. Il criterio contenuto nel d.d.l. appare, dunque, in controtendenza rispetto alla più volte enunciata necessità di correlare una parte congrua del trattamento economico al raggiungimento di obiettivi prefissati.

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PARTE I – ATTIVITÀ DI CONTROLLO E CONSULTIVA N. 5-6/2014

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Riquadro 3 – Eventuali effetti finanziari derivanti dall’art. 10 del disegno di legge

La relazione tecnica allegata al d.d.l. n. 1577, con riferimento all’articolo 10, afferma che tale disposizione, essendo di natura ordinamentale, non comporta nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica. Un’at-tenta lettura del testo evidenzia, peraltro, possibili conseguenze finanziarie derivanti, in particolare, dall’istitu-zione di commissioni e comitati per la gestione dei tre distinti elenchi in cui si articola il ruolo unico.

Il c. 1, lett. b-1) prevede l’istituzione, presso il Dipartimento della funzione pubblica, di una Commis-sione per la dirigenza statale, le cui funzioni dovranno essere anche quelle di verifica del rispetto del confe-rimento o della mancata conferma degli incarichi dirigenziali da parte delle amministrazioni, della effettiva attuazione dei sistemi di valutazione, e di tutte quelle funzioni che, ai sensi dell’art. 22 d.lgs. n. 165/2001, spettano al Comitato dei garanti (1) relativamente alla responsabilità dirigenziale.

La norma non esplicita la composizione e il numero dei membri della Commissione, né se ai compo-nenti spetteranno compensi. Non risulta, inoltre, prevista l’eventuale istituzione di un ufficio di supporto alla Commissione stessa. Va, al riguardo segnalato che la predetta Commissione dovrebbe avere anche il compito di istruire il possibile contenzioso con gli interessati.

Utili elementi per valutare l’esistenza di eventuali oneri potrebbero essere desunti da un esame del fun-zionamento e dei costi del soppresso ufficio del responsabile del ruolo unico presso la Presidenza del con-siglio dei ministri, istituito con il d.p.r. n. 150/1999, che, nel periodo di attività, ha svolto compiti analoghi a quelli della Commissione citata.

Analoghe considerazioni valgono per le altre Commissioni previste per le altre due partizioni del ruolo unico, relative alla dirigenza delle regioni e degli enti locali relativamente alle quali non è chiarita neppure la collocazione.

Con riferimento ai segretari comunali e provinciali (c. 1, lett. b-4), l’inserimento di tutti gli interessati nelle fasce A e B del soppresso Albo, non tiene conto del contenzioso attualmente in essere con orientamenti giurisprudenziali non omogenei, relativamente al diritto ad una piena equiparazione del trattamento econo-mico con quello spettante ai dirigenti degli enti locali.

Con riferimento ai segretari comunali di fascia C, suscita perplessità la previsione dell’eventuale confe-rimento di un incarico dirigenziale presso i comuni di minori dimensioni che attualmente non hanno in or-ganico posti di funzione di tale livello. La norma fa salvo il rispetto della vigente normativa di contenimento della spesa di personale, mentre, opportunamente, andrebbero richiamati anche i vincoli derivanti dal patto di stabilità interno.

Il c.1, lett. c. 1 riforma l’accesso alla dirigenza (2), privilegiando l’istituto del corso-concorso, con ca-denza annuale per ciascuno dei tre ruoli. Si prevede l’immissione in servizio dei vincitori come funzionari, con obbligo di formazione per i successivi quattro anni e la successiva immissione del ruolo unico dopo il superamento di un esame.

La norma non chiarisce se, nel calcolare il fabbisogno annuale di dirigenti, si debba ancora tener conto dei vigenti limiti al tasso di ricambio del personale, posto che la norma relativa è stata abrogata dall’art. 18 d.p.r. n. 70/2013 (3). L’obbligo di formazione viene elevato a quattro anni, senza una quantificazione dei costi, considerato che attualmente il periodo di formazione è pari a dodici mesi. Durante tale periodo, i vincitori di concorso dovrebbero percepire il trattamento economico dei funzionari, ma non è chiaro se, a fronte di tale emolumento, dove e se svolgeranno le relative funzioni

In relazione ai diversi costi delle procedure selettive, considerata la tempistica per l’effettivo svolgimen-to delle funzioni dirigenziali, la norma non chiarisce il riparto percentuale di utilizzo delle due modalità di accesso (corso-concorso e concorso).

Non risulta dettagliata, infine la composizione dell’organismo indipendente previsto dal c. 1, lett. c. 2, incaricato dello svolgimento degli esami per la conferma in ruolo degli assunti tramite concorso.

Proseguendo nella disamina, il c. 1, lett. c. 3 affida alla Scuola nazionale dell’amministrazione la gestio-ne dei corsi-concorsi e dei concorsi. Si prevede una nuova riforma della Scuola nazionale (appena riformata con il d.p.r. n. 70/2013), per consentire adeguata rappresentanza alle regioni e agli enti locali. La Scuola, nello svolgimento dei propri compiti, potrà avvalersi della collaborazione di scuole regionali e locali e di istituzioni universitarie, ma non sono quantificate eventuali oneri connessi.

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N. 5-6/2014 PARTE I – ATTIVITÀ DI CONTROLLO E CONSULTIVA

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Analoghe considerazioni valgono, relativamente al c. 1, lett. d) (obbligo di formazione annuale per i dirigenti, da svolgere in collaborazione con le scuole di formazione regionali o locali o di istituzioni uni-versitarie).

Non risultano quantificati gli oneri (c. 1, lett. e), relativi all’istituzione e alla gestione di una banca dati della professionalità dei dirigenti appartenenti ai tre ruoli (esperienze professionali, carriere, percorso di studi, valutazioni ottenute, ecc.), né a quale organismo saranno affidati i rispettivi compiti per ciascuno dei tre ruoli unici.

Il c. 1, lett. l), prevede la possibilità per i dirigenti di attribuire un premio monetario annuale a non più di un decimo dei dirigenti. Sembrerebbe trattarsi di un emolumento ulteriore rispetto alla retribuzione di risultato, da corrispondere nei limiti delle disponibilità degli attuali fondi unici, peraltro, già pressoché inte-ramente utilizzate per il finanziamento dei trattamenti accessori.

Suscita perplessità, inoltre, la previsione che analogo premio possa essere corrisposto anche a un decimo del personale, in quanto i trattamenti accessori per il predetto personale riguardano una materia riservata alla contrattazione collettiva nazionale di comparto e a quella integrativa.

(1) Il Comitato dei garanti è composto da un consigliere della Corte dei conti, designato dal suo presidente, e da quattro componenti designati rispettivamente, uno dal presidente della Commissione di cui all’art. 13 d.lgs. di attuazione della l. 4 marzo 2009, n. 15, in materia di ottimizzazione della produttività del lavoro pubblico, e di efficienza e trasparenza delle pubbli-che amministrazioni, uno dal Ministro per la pubblica amministrazione e l’innovazione, scelto tra un esperto scelto tra soggetti con specifica qualificazione ed esperienza nei settori dell’organizzazione amministrativa e del lavoro pubblico, e due scelti tra dirigenti di uffici dirigenziali generali di cui almeno uno appartenente agli Organismi indipendenti di valutazione, estratti a sorte fra coloro che hanno presentato la propria candidatura. I componenti sono collocati fuori ruolo e il posto corrispondente nella dotazione organica dell’amministrazione di appartenenza è reso indisponibile per tutta la durata del mandato. Per la par-tecipazione al Comitato non è prevista la corresponsione di emolumenti o rimborsi spese.

(2) Il reclutamento dei dirigenti è stato ultimamente rivisto dal d.p.r. n. 70/2013, che, ai sensi dell’art. 11 d.l. n. 95/2012, ha previsto il riordino delle Scuole pubbliche di formazione. In particolare, l’art. 7 del citato d.p.r. ha disciplinato il reclutamento dei dirigenti, attraverso gli strumenti del concorso e del corso-concorso, prevedendo per quest’ultimo la durata di dodici mesi e la corresponsione, durante la durata del corso, di una borsa di studio a carico della Scuola nazionale dell’amministrazione, che ha sostituito a decorrere dal 9 luglio 2013 la Scuola superiore della pubblica amministrazione.

(3) Art. 28 d.lgs. n. 165/2001 [Comma 7. In coerenza con la programmazione del fabbisogno di personale delle ammini-strazioni pubbliche ai sensi dell’art. 39 l. 27 dicembre 1997, n. 449, le amministrazioni di cui al c. 1 comunicano, entro il 30 giugno di ciascun anno, alla Presidenza del consiglio dei ministri-Dipartimento della funzione pubblica, il numero dei posti che si renderanno vacanti nei propri ruoli dei dirigenti. Il Dipartimento della funzione pubblica, entro il 31 luglio di ciascun anno, comunica alla Scuola superiore della pubblica amministrazione i posti da coprire mediante corso-concorso di cui al c. 3. Il corso-concorso è bandito dalla Scuola superiore della pubblica amministrazione entro il 31 dicembre di ciascun anno].

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PARTE I – ATTIVITÀ DI CONTROLLO E CONSULTIVA N. 5-6/2014

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Riquadro 4 – Le società strumentali delle amministrazioni centrali

Nell’ambito della generale opera di revisione degli assetti operanti all’interno della cornice pubblica, fi-nalizzata soprattutto alla razionalizzazione delle strutture ed al contenimento dei costi, la Corte, nel Rapporto 2014 sul coordinamento della finanza pubblica (delib. n. 5/2014), ha preso in esame il vasto settore delle società partecipate dallo Stato, anche al fine di considerarne l’eventuale sovrapponibilità o duplicazione di fun-zioni esercitate rispetto a quelle tipiche dell’amministrazione di riferimento, di altre società o di enti pubblici.

L’analisi si è incentrata su società che, pur mantenendo veste formalmente privatistica, rappresentano modelli conformativi di funzioni pubbliche, svolgono compiti e attività nel prevalente interesse del socio pubblico e sono assoggettate, secondo il paradigma comunitario, a particolari e penetranti regole di gestione e controllo. Si tratta di società in house, che rappresentano un modello organizzativo strumentale al socio pubblico che, nel tempo, si è fortemente dilatato a tutti i livelli di governo.

Ripetuti riferimenti all’esigenza di riassetto degli organismi partecipati dagli enti locali sono contenuti nella delib. n. 15/2014 più volte sottolineata in sede di audizioni al Parlamento.

Ma ampi processi di razionalizzazione dovranno interessare anche le società strumentali dello Stato. Si tratta di funzioni tipiche delle amministrazioni di controllo o vigilanti esercitate da società, nei confronti delle quali può effettivamente porsi un problema di duplicazione quando all’interno dell’amministrazione permangano e continuino a operare strutture al medesimo fine. La problematica risulta ancora più articolata in considerazione del fatto che la società, incrementando i costi, fa talvolta grande ricorso a collaborazioni esterne e incarichi di consulenza, non essendo assoggettata a limiti quantitativi, oppure si avvale di risor-se umane minime, con un costo inferiore a quello della governance, o, al contrario, presenta un costo del personale che assorbe quasi per intero il costo della produzione, lasciando dubbi sull’effettiva produttività dell’azienda. Un’esigenza di razionalizzazione può porsi anche con riguardo alle società che operano tutte nel medesimo settore con sovrapposizione di compiti, come avviene, ad esempio, nella valorizzazione e dismissione immobiliare, nel sostegno finanziario all’agricoltura o alle cooperative sociali. Con riguardo ai compensi dei componenti degli organi di amministrazione, corrispondere la componente variabile pressoché sempre integralmente, senza commisurarla al raggiungimento di specifici risultati, certi e misurabili, non considera che la performance realizzata in soli termini di utili o perdite può non essere un elemento esausti-vo, perché una società in perdita può essere costretta da vincoli economici di servizio, così come una società in utile può vivere in regime di monopolio o essere fortemente sussidiata.

L’interdipendenza funzionale con il ministero di riferimento è sempre molto marcata, e, talvolta, si è estrinsecata anche attraverso la comunanza della governance tra società ed ente di riferimento, rendendo di fatto nulla qualsiasi ipotetica separazione tra indirizzo e gestione.

Pur se attive in contesti differenti e con caratteristiche peculiari, la nota comune di tali società è quella di operare, normalmente, in forza di affidamenti diretti (tramite convenzioni, concessioni, contratti, ecc.) da parte dell’azionista o di differenti pubbliche amministrazioni. Alcune di esse, infatti, ricevono commesse tramite affidamenti diretti anche da parte di amministrazioni diverse dall’azionista e dal ministero vigilante o da quello che esercita l’indirizzo e coordinamento, modello organizzativo consolidato nel tempo, che pure andrebbe messo in discussione alla luce di recenti pronunce sfavorevoli all’affidamento diretto da parte di amministrazioni diverse dai soci (Corte giust., 8 maggio 2014, causa C-15/13).

Delle 46 società iscritte al 31 dicembre 2012 nel Conto del Patrimonio dello Stato, le seguenti hanno i requisiti per essere considerate strumentali: Invitalia (Agenzia nazionale per lo sviluppo di investimento e lo sviluppo di impresa s.p.a.), Consap (Concessionaria servizi assicurativi pubblici s.p.a.), Coni Servizi s.p.a., Consip (Concessionaria servizi informativi pubblici s.p.a.), EUR s.p.a. (Esposizione universale di Roma), Gse (Gestore servizi energetici s.p.a.), I.P.Z.S. (Istituto Poligrafico Zecca dello Stato s.p.a.), Italia lavoro s.p.a., Sicot (Sistemi di consulenza per il tesoro s.r.l.), Sogei (Società generale d’informatica s.p.a.), Sogin (Società gestione impianti nucleari s.p.a.), Arcus, Mefop (Sviluppo del mercato dei fondi pensione s.p.a.), Ram (Rete autostrade mediterranee s.p.a.), Sogesid (Società per la gestione degli impianti idrici s.p.a.), So.Se (Soluzioni per il sistema economico s.p.a.), Istituto luce-Cinecittà s.r.l., Studiare sviluppo, Cfi (Cooperazione finanza impresa soc. Coop.), So.Fi.Coop. (Società Finanza Cooperazione soc. Coop.), Isa (Istituto sviluppo agroali-mentare s.p.a.), Ales (Arte lavoro servizi s.p.a.), Difesa servizi s.p.a.

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* * *

Negli anni 2011, 2012 e 2013, hanno “pesato” sul bilancio dei ministeri, in termini di pagamenti a qual-siasi titolo erogati, rispettivamente per 785,9 milioni, 844,61 milioni e 574,91 milioni. In termini generali, questo non esaurisce il peso finanziario riconducibile alle società strumentali, la cui attività conosce anche canali diversi di sostegno, come rilevabile per le società che operano nel settore energetico, i cui costi pro-duttivi e di funzionamento costituiscono “oneri generali di sistema”, cioè gravano su una quota delle bollette energetiche posta a carico della collettività.

Al 31 dicembre 2012, le suddette società valgono in termini di patrimonio netto 2,56 miliardi, con un va-lore della produzione di 16,4 ed un costo della produzione di 16,2 miliardi (dati complessivi particolarmente incisi dal valore e dai costi della produzione di Gse, ampiamente superiori al miliardo). L’utile complessivo ammonta a 160,38 milioni che, rispetto al 2011, cresce del 2,2 per cento, mentre le perdite ammontano a 1,1 milioni, interamente attribuibili alla perdita di So.Fi.Coop.

Il costo del personale ammonta a 513,97 milioni con un complessivo numero di addetti di 9.606 unità, di cui 335 dirigenti. La spesa per retribuzione annua, calcolata come salario al netto degli oneri contributivi, ammonta a 421,56 milioni.

L’incidenza complessiva del costo del personale sul costo della produzione è del 3,16 per cento, ma il dato è particolarmente influenzato dall’elevato costo della produzione di Gse, e dal bassissimo costo del personale di Difesa servizi, che ha un organico di sole due unità a tempo determinato. Negli altri casi l’inci-denza supera mediamente il 30 per cento.

Il costo complessivo dell’organo di amministrazione delle società strumentali ammonta a 9,22 milioni (di cui 1,56 milioni attribuibili a parte variabile delle società detenute dal Mef). Le seguenti società si col-locano in una fascia di incidenza sul costo della produzione che va dal 4 al 18 per cento: Invitalia, Mefop, Ram, So.Fi.Coop., Isa, Difesa servizi.

Il totale dei crediti delle società strumentali ammonta a 5,38 milioni a fronte di debiti di 5,87 milioni (dato complessivo fortemente inciso dai valori di Gse, che ha crediti superiori a 3,4 miliardi e debiti di poco inferiori). Le seguenti società presentano una massa di crediti maggiore di quella dei debiti: Consip, Gse, Sose, Istituto Luce-Cinecittà, Cfi, So.Fi. Coop., Isa. Delle altre società, i cui debiti superano i crediti, quella che ha il divario più grande è Studiare sviluppo, con 51 milioni di debito e 1,5 milioni di credito. In altri casi il valore dei debiti arriva a triplicare quello dei crediti, come in Invitalia, Coni Servizi, EUR s.p.a., Sogin, Ram.

Ai debiti qui rilevati, è stato possibile rapportare la quota di debito verso fornitori, pari a 3,38 miliardi, con un’incidenza complessiva del 57,7 per cento sul totale dei debiti.

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I11 – Sezioni riunite in sede di controllo; deliberazio-

ne 13 ottobre 2014; Pres. Squitieri, Rel. Flacca-doro, D’Amico, Tutino.

Contabilità dello Stato e pubblica in genere – Do-cumento di economia e finanza 2014 – Nota di aggiornamento – Audizione parlamentare di rappresentanti della Corte dei conti – Docu-mento per l’audizione.

La Corte dei conti, a Sezioni riunite in sede di controllo, ha approvato il documento per l’audizione di rappresentanti della Corte, avanti alle Commis-sioni bilancio riunite della Camera dei deputati e del Senato della Repubblica, sulla Nota di aggiornamen-to del Documento di economia e finanza 2014. (1)

II

13 – Sezioni riunite in sede di controllo; deliberazio-ne 3 novembre 2014; Pres. Squitieri, Rel. Nispi Landi, Flaccadoro, Barisano, D’Amico, Tutino.

Contabilità dello Stato e pubblica in genere – Leg-ge di stabilità 2015 – Audizione parlamentare di rappresentanti della Corte dei conti – Docu-mento per l’audizione.

La Corte dei conti, a Sezioni riunite in sede di controllo, ha approvato il documento per l’audizione di rappresentanti della Corte, avanti alle Commis-sioni bilancio riunite della Camera dei deputati e del Senato della Repubblica, sul disegno di legge di sta-bilità 2015 (A.C. 2679, XVII legislatura). (2)

I

Sez. riun., delib. 13 ottobre 2014, n. 11

1. IntroduzioneLa Nota di aggiornamento del Def all’esame del

Parlamento presenta elementi di particolare novità per la gestione della politica economica del nostro paese.

(1) Il testo integrale del documento in epigrafe si legge in Rivista web Corte conti, fasc. 2/Ottobre 2014, www.rivistacor-teconti.it. Il testo della deliberazione avente ad oggetto l’Au-dizione di rappresentanti della Corte dei conti presso le Com-missioni riunite Bilancio (V Camera e 5a Senato) sul Docu-mento di economia e finanza 2014 si legge ibidem, fasc. 1/Lu-glio 2014, nonché in una versione di sintesi, in questa Rivista, 2014, fasc. 1-2, 19.

(2) Il testo integrale del documento per l’audizione si leg-ge in Rivista web Corte conti, fasc. 2/Ottobre 2014, www.rivi-stacorteconti.it.

Una valutazione complessiva delle implicazioni delle scelte che vi vengono assunte sarà possibile solo una volta che, con la presentazione del progetto di legge di stabilità, sarà completato il quadro informativo. Per il momento la Corte offre al Parlamento prime riflessio-ni sull’impianto generale della strategia proposta, sot-toponendo a verifica, in particolare, le ipotesi assunte con il quadro macroeconomico e di finanza pubblica e i vincoli posti dall’appartenenza all’Unione europea.

Il consistente ribasso delle stime di crescita e la preoccupazione per il protrarsi della recessione in cui versa l’economia italiana hanno spinto il gover-no ad una radicale revisione della strategia di fiscal policy. Con la relazione al Parlamento 2014, a cui è collegata la Nota di aggiornamento, il governo estende, infatti, il concetto di “eventi eccezionali” (la condizione che consente temporanee deviazioni dal percorso di riequilibrio strutturale del bilancio pub-blico), ricomprendendo in esso, accanto alle dimen-sioni del vuoto di prodotto, il rischio di deflazione che, per la prima volta dalla grande crisi degli anni Trenta, torna ad occupare una posizione preminente nel dibattito europeo. Ne consegue che, nella valuta-zione del governo, i rischi deflattivi e le relative im-plicazioni per la sostenibilità del debito dovrebbero suggerire, nella definizione delle misure di bilancio, di adottare una manovra espansiva a sostegno del-la crescita economica. A tal fine, poiché l’Italia, al pari dell’area euro, risente di problemi sia di offerta che di domanda, si ritiene necessario fare ricorso a tutte le leve di politica economica: monetaria, strut-turale e di bilancio. Una distinzione esplicita viene a tal riguardo proposta tra il breve termine, nel qua-le ci si propone di agire attraverso il sostegno della domanda aggregata, e il lungo termine, l’orizzonte nel quale indirizzare politiche strutturali in grado di innalzare permanentemente il potenziale produttivo.

Si propone, in tal modo, un nuovo policy-mix: l’adozione di una manovra di segno espansivo per il 2015 e la scelta di non operare correzioni sulle di-namiche tendenziali dei saldi per tutto il 2016. Solo nel 2017 la manovra di finanza pubblica tornerebbe a incidere nel senso di una riduzione dell’indebita-mento, assicurando, in tal modo, il raggiungimento del pareggio strutturale di bilancio.

Per il 2015, la modifica di impostazione si ac-compagna alla scelta di operare in disavanzo con mi-sure di sostegno dell’economia; una scelta da valuta-re con attenzione in rapporto sia alle regole poste dal sistema di sorveglianza europeo (Fiscal compact) che a quelle, non perfettamente sovrapponibili alle prime, derivanti dal recepimento in Costituzione del c.d. “pareggio di bilancio”.

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2. Il nuovo quadro macroeconomicoNello scorso aprile, con il Def 2014, il governo

decideva di derogare temporaneamente dal percor-so di avvicinamento all’Obiettivo di medio termine (Omt). La scelta era, appunto, motivata dalla presen-za di “eventi eccezionali”, identificati con una di-stanza dal prodotto potenziale (-3,7 per cento) molto superiore a quella soglia (-2,7 per cento) che la Com-missione europea considera come ancora rappresen-tativa di normali condizioni recessive.

Ferma restava, al contempo, l’intenzione del go-verno di non oltrepassare il limite di disavanzo no-minale del 3 per cento sul Pil, la soglia originaria del Trattato di Maastricht. Si sceglieva, anzi, di con-fermare per il 2014 la riduzione di indebitamento al 2,6 per cento, già risultante dai quadri tendenziali, mentre si annunciava l’adozione di misure correttive pari allo 0,3 per cento del Pil nel 2015 e a un ulterio-re 0,3 per cento nel 2016. L’annullamento del deficit strutturale veniva posposto al 2016.

Gli obiettivi programmatici del Def 2014 erano iscritti all’interno di un percorso di crescita dell’e-conomia che prevedeva un incremento del prodotto dello 0,8 per cento nell’anno in corso, dell’1,3 nel 2015 e dell’1,8 nella media del periodo 2016-2018. Queste stime, pur ritoccate verso il basso nel con-fronto con la Nota di aggiornamento 2013, hanno però mancato di realizzarsi. I segnali di rafforzamen-to della congiuntura, evidenziati dalle indagini quali-tative fra la fine dello scorso anno e l’inizio del 2014, non si sono infatti trasmessi ai dati reali e nel primo semestre il Pil si è contratto dello 0,3 per cento; gli andamenti correnti della produzione industriale se-gnalano la probabilità di una flessione anche nel ter-zo trimestre. Un ripiegamento osservato anche nella media dell’eurozona, dove i saggi di attività risulta-no oggi fortemente ridimensionati rispetto all’inizio dell’anno.

Nella Nota di aggiornamento 2014 si prende atto del mancato avvio della ripresa, incorporando nel quadro tendenziale un sensibile ribasso delle previsioni di crescita. Il Pil è ora atteso ridursi del-lo 0,3 per cento nel corrente anno (la terza flessione consecutiva) e il vuoto di prodotto supererebbe il 4 per cento, un valore molto più elevato della soglia rappresentativa di normali condizioni cicliche e che segnala la condizione di grave recessione. Il deterio-ramento delle condizioni macroeconomiche riguarda anche l’andamento dei prezzi, le cui dinamiche sono scese molto al di sotto del valore obiettivo del 2 per cento assunto dalla Banca centrale europea.

Tavola 1. - Crescita del Pil nominale e delle sue componenti

2013 2014 2015 2016 2017 2018

Nota di aggiornamento 2013

Pil nominale -0,5 2,9 3,6 3,5 3.6 -

- pil reale -1,7 1,0 1,7 1,8 1,9 -

- deflatore 1,2 1,9 1,9 1,7 1,7 -

Programma di stabilità Def 2014

Pil nominale 0,5 1,8 2,5 3,1 3,3 3,4

- pil reale -1,9 0,8 1,3 1,6 1,8 1,9

- deflatore 1,4 1,0 1,2 1,5 1,5 1,5

Nota di aggiornamento 2014

Pil nominale -0,5 0,5 1,0 2,2 2,7 2,8

- pil reale 1,9 -0,3 0,5 0,8 1,1 1,2

- deflatore 1,4 0,8 0,5 1,4 1,6 1,6

Fonte: Nota 2013, Def 2014 e Nota 2014.

All’interno del nuovo quadro tendenziale, con-trazione dell’attività reale e calo dell’inflazione si combinano nel determinare una crescita del Pil no-minale – la grandezza rilevante cui rapportare i saldi di finanza pubblica – molto al di sotto delle prece-denti aspettative. Il prodotto nominale è ora stima-to aumentare appena dello 0,5 per cento nel 2014 e dell’uno per cento nel 2015. Secondo le valutazioni del governo, il ribasso della previsione per il prossi-mo anno (un punto e mezzo) è attribuibile, in parti uguali a una minore crescita reale e a un calo dell’in-flazione, come misurata dal deflatore del prodotto (tavola 1).

Modifiche significative interessano sia i consu-mi che gli investimenti: si accentua la flessione dei consumi delle famiglie (si dimezza la già limitata crescita per il 2014 e rimane sotto l’1 per cento nel biennio successivo, contro la crescita attesa all’1,2 per cento nel 2017 nel Def), mentre registra un crollo quella per investimenti, che passa nel 2014 dal +2 per cento atteso secondo le previsioni di primavera, al -2 per cento di preconsuntivo e si dimezza negli anni successivi. A tali andamenti si accompagna una flessione delle esportazioni.

3. Un quadro macroeconomico tra rischi e oppor-tunità

Le assunzioni adottate nella Nota appaiono pru-denti, almeno nel brevissimo periodo (come valutato dallo stesso Ufficio parlamentare di bilancio). Al-cune evoluzioni meno favorevoli potrebbero, tutta-via, manifestarsi nel medio termine, sia in relazione all’orientamento delle politiche monetarie e all’an-damento dei tassi d’interesse, sia in rapporto all’an-damento dell’economia internazionale.

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La presentazione al Parlamento della Nota di aggiornamento del Def 2014 interviene in una fase interna ed internazionale (e, soprattutto, europea) di forte incertezza.

Il contesto economico internazionale è in rapida evoluzione e, di conseguenza, costituisce, in questa fase, il principale fattore di condizionamento delle prospettive della nostra economia. Un condiziona-mento che, più ora che prima, si estende all’intera area europea. Le tendenze emerse nel corso degli ultimi mesi hanno evidenziato un insieme di cambia-menti, orientati per lo più in direzioni sfavorevoli. Il quadro congiunturale dell’eurozona da alcuni mesi è peggiorato. Tutti i principali indicatori dell’area, compresi quelli relativi all’economia tedesca, hanno mostrato un ripiegamento nel corso dei mesi estivi. Il principale fattore di rallentamento pare rappresenta-to da un andamento cedente delle esportazioni. Tale andamento è legato in parte al rallentamento della domanda da parte delle economie emergenti, interes-sate dalla fuga di capitali dal 2013, e in parte alla flessione delle importazioni nelle aree a maggiore instabilità politica. Un impatto significativo deriva dalla caduta delle importazioni da parte della Rus-sia. Le vicende politiche internazionali condizionano anche le aspettative delle imprese; soprattutto per l’industria tedesca, che presenta un grado elevato di integrazione con i paesi dell’Europa dell’est (crisi Ucraina).

Un altro motivo di attenzione è rappresentato dall’emergere di rischi di deflazione nell’eurozona. Se si risolve in un fattore favorevole per la congiun-tura europea – nella misura in cui riflette la riduzio-ne dei prezzi delle materie prime internazionali – la deflazione rappresenta invece una condizione ne-gativa ove derivi dalla decelerazione dei salari do-vuta all’elevata disoccupazione, dal basso potere di mercato delle imprese, dalle svalutazioni nei diversi paesi emergenti. Tutti fattori che hanno inasprito lo scenario concorrenziale internazionale.

La recente caduta dell’inflazione dell’area euro, accompagnata anche da una riduzione delle aspetta-tive d’inflazione, rende più difficile la gestione della politica monetaria in un contesto di tassi di interesse su livelli molto bassi.

Tali elementi di rischio sono parzialmente miti-gati da altri aspetti dello scenario che puntano in una direzione più favorevole.

Innanzitutto i prezzi delle materie prime (anche energetiche) hanno registrato negli ultimi mesi una significativa contrazione, rafforzatasi nelle ultime settimane. Parte della riduzione dell’inflazione sa-

rebbe quindi da ricondurre ad uno shock favorevole dal lato dell’offerta.

Anche se la Bce non appare ancora nelle con-dizioni di replicare l’impostazione del quantitative easing della Federal Reserve, la bassa inflazione ha indotto la Banca centrale a programmare anche po-litiche monetarie non convenzionali, basate sull’ac-quisto di titoli cartolarizzati (Abs asset backed secu-rities) e di obbligazioni garantite (covered bonds).

D’altra parte, nel corso degli ultimi mesi si sono consolidate aspettative di tassi d’interesse stabilmen-te vicini allo zero e questo ha provocato una ridu-zione del livello dei tassi a lungo termine non solo tedeschi, ma anche dei paesi della periferia europea.

Si è quindi determinato uno sfasamento nelle attese relative alle prospettive della politica mone-taria europea rispetto a quella americana. Ne deriva un indebolimento del tasso di cambio dell’euro, che nel corso delle ultime settimane si è decisamente ac-centuato: un fattore anch’esso positivo per la ripresa economica.

La Nota di aggiornamento al Def recepisce in misura parziale le indicazioni che provengono da tali contrastanti fattori. Lo scenario proposto eviden-zia un andamento della crescita internazionale e del commercio mondiale ancora relativamente robusto, sulla base di ipotesi di incerta realizzabilità nelle fasi – come quella presente – di rapido cambiamento del-lo scenario. Il rischio principale è di incorporare ipo-tesi di cambio debole e tassi d’interesse bassi senza considerare nello scenario i timori di rallentamento della congiuntura internazionale da cui scaturiscono tali andamenti.

4. Il preconsuntivo 2014Le scelte proposte per il prossimo triennio sono

radicate nella Nota di aggiornamento ad un quadro di finanza pubblica aggiornato sulla base della revi-sione delle stime macroeconomiche, dell’attività di monitoraggio su spese ed entrate e dell’impatto dei provvedimenti introdotti successivamente all’appro-vazione del Def. Tale quadro risente, tuttavia, anche delle modifiche introdotte per tener conto del passag-gio al nuovo Sistema europeo dei conti nazionali e regionali (Sec 2010); modifiche che rendono difficile il confronto con l’andamento delle spese e delle en-trate previsto da ultimo nel Def.

Ove si guardi ai saldi, i dati di preconsuntivo per l’anno in corso segnalano scostamenti significativi rispetto alle stime del Documento di economia e fi-nanza.

In particolare, l’indebitamento netto della pubbli-

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ca amministrazione è stimato per il 2014 in oltre 49 miliardi (-3,0 per cento del Pil), con un aumento di 7,4 miliardi rispetto al Def (-2,6 per cento del Pil). Ciò nonostante che la stima relativa alla spesa per interessi risulti rivista in flessione per poco meno di 6 miliardi, anche a ragione della esclusione degli in-teressi sugli swap (al riguardo si veda l’appendice “La spesa per interessi: un aggiornamento”). Tali variazioni riflettono una forte riduzione dell’avanzo primario (che scenderebbe dagli oltre 40 mld previsti nel Def a poco più di 27 mld).

Ma se i dati esposti nella Nota saranno confer-mati, il 2014 non appare segnare un allentamento nell’impegno al contenimento della spesa. L’aumen-to dell’1 per cento della spesa complessiva è da ri-condurre alle misure di sostegno dei redditi disposte dal d.l. n. 66/2014 e ad un limitato aumento della spesa in conto capitale. Continua invece a ridursi la spesa per redditi da lavoro (di un ulteriore 1 per cen-to rispetto al 2013), mentre ritorna a calare la spesa per consumi intermedi, che, dunque, ha registrato una inversione di tendenza nel solo 2013, all’inter-no di un periodo non breve di continua riduzione. Il peggioramento dei saldi risulta imputabile alla flessione delle entrate, soprattutto di quelle dirette (in riduzione dell’1,5 per cento rispetto all’aumento inizialmente previsto dell’1,7 per cento) e al rallenta-mento di quelle indirette. Un cedimento delle entrate da riferire soprattutto, ma non soltanto, al passaggio da una crescita del Pil nominale dell’1,7 per cento prevista nel Def al solo 0,5 per cento.

Guardando, quindi, ai dati complessivi per il 2014, il saldo strutturale evidenzierebbe un peggio-ramento dello 0,3 per cento del Pil rispetto all’anno precedente: in presenza di una crescita negativa e di un output gap pari al 4,3 per cento, nelle stime del governo il peggioramento non configurerebbe una deviazione eccessiva.

Per quanto riguarda l’avvicinamento all’Obietti-vo di medio termine (Omt), ove le stime della Com-missione confermassero i valori di output gap assun-ti dal governo lo scostamento dal percorso sarebbe consentito. È da rilevare, tuttavia, che il progresso verso l’Obiettivo di medio termine viene valutato globalmente, tenendo conto, cioè, non solo dell’an-damento del saldo di bilancio, ma anche del rispetto della regola della spesa. Sul punto va osservato che la Nota non contiene gli elementi necessari a veri-ficare quanto affermato dal governo, ma rinvia al Documento programmatico di bilancio che sarà pre-sentato il prossimo 15 ottobre in concomitanza alla legge di stabilità.

5. Il quadro di finanza pubblica nel quadriennio 2015-2018

Il peggioramento delle stime dell’indebitamento netto riguarda tutto il periodo di previsione.

Tali andamenti risentono non solo dei risultati di finanza pubblica per il 2014, ma anche delle mutate prospettive macroeconomiche: la contrazione dell’e-conomia (-0,3 per cento) nell’anno in corso (a fronte del +0,8 per cento stimato ad aprile) è seguita da una crescita di appena lo 0,5 per cento nel 2015 (+1,3 per cento nel Def), che arriva a situarsi poco sopra l’1 per cento a fine periodo (1,9 per cento nel Def).

Per il quadriennio 2015-2018 le modifiche previ-ste rispetto al Def sono di maggior rilievo.

Ad aprile scorso, il profilo programmatico si so-vrapponeva al quadro tendenziale nel 2014, per poi fissare valori obiettivo che da un disavanzo dell’1,8 nel 2015 prevedevano il graduale passaggio a una situazione di attivo nel 2018. In termini di saldo strutturale, si indicava la possibilità di conseguire il pareggio a partire dal 2016, con una riduzione dallo 0,6 allo 0,1 per cento del prodotto già nel passaggio fra il 2014 e il 2015 (tavola 2).

Tavola 2. – Quadro programmatico e tendenziale:dalla Nota di aggiornamento 2013 alla Nota di aggiornamento 2014

(% del Pil)

2013 2014 2015 2016 2017 2018

Nota di aggiornamento 2013Indebitamento nominale tendenziale -3,1 -2,3 -1,8 -1,2 -0,7 -

Indebitamento nominale programmatico -3,0 -2,5 -1,6 -0,8 -0,1 -

Correzione 0,1 -0,2 0,2 0,4 0,6 -Saldo strutturale -0,4 -0,3 0,0 0,0 0,0 -Per memoria vuoto di prodotto (output gap) -4,8 -4,0 -2,7 -1,4 -0,2 -

Programma di stabilità Def 2014Indebitamento nominale tendenziale -3,0 -2,6 -2,0 -1,5 -0,9 -0,3

Indebitamento nominale programmatico -3,0 -2,6 -1,8 -0,9 -0,3 0,3

Correzione 0,0 0,0 0,3 0,6 0,6 0,6Saldo strutturale -0,8 -0,6 -0,1 0,0 0,0 0,0Per memoria vuoto di prodotto (output gap) -4,5 -3,7 -2,7 -1,6 -0,5 0,6

Nota di aggiornamento 2014Indebitamento nominale tendenziale -2,8 -3,0 -2,2 -1,8 -1,2 -0,8

Indebitamento nominale programmatico -2,8 -3,0 -2,9 -1,8 -0,8 -0,2

Correzione 0,0 0,0 -0,7 0,0 0,4 0,6Saldo strutturale -0,7 -0,9 -0,9 -0,4 0,0 0,0Per memoria vuoto di prodotto (output gap) -4,3 -4,3 -3,5 -2,6 1,4 -0,4

Nota: per il vuoto di prodotto scostamenti dal Pil potenziale.Fonte: Nota 2013, Def 2014 e Nota 2014.

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PARTE I – ATTIVITÀ DI CONTROLLO E CONSULTIVA N. 5-6/2014

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Simile profilo era sostanzialmente in linea con le indicazioni programmatiche contenute nella Nota di aggiornamento del settembre 2013, le principali dif-ferenze essendo riscontrabili in due decimi di punto di maggior indebitamento nominale nel 2015-2017 e in tre decimi di punto di maggior saldo strutturale nel 2014. Al di là di queste lievi differenze, il programma di consolidamento tracciato dal Def 2014, pur man-cando di soddisfare “temporaneamente” i rafforzati criteri della sorveglianza europea, restava improntato a un’evidente severità sia se riferito al parametro del 3 per cento, sia se rapportato agli andamenti storici della finanza pubblica italiana (grafico 1: omissis).

A sostegno della scelta di assegnare lo strumen-to della politica di bilancio all’obiettivo di rilancio della crescita depongono la rinnovata attenzione ai moltiplicatori fiscali, tema trascurato nel corso dell’avvitamento recessivo connesso alle politiche di austerità, e la conseguente stima, inserita dal go-verno nella relazione al Parlamento, dei consistenti impulsi recessivi che verrebbero trasmessi all’eco-nomia da una manovra che portasse al pareggio di bilancio nel 2015. È da rilevare in proposito che la correzione fa riferimento al disavanzo programmati-co (-0,9 per cento in termini strutturali) e non a quel-lo tendenziale.

Il maggiore indebitamento programmato per il 2015, pari a 0,7 punti di Pil, ha dunque dimensioni importanti. La composizione della manovra espansi-va sarà messa a punto, nel dettaglio, con il disegno di legge di stabilità, ma le indicazioni contenute nel-la Nota di aggiornamento già anticipano la strategia che si intende perseguire: dal lato espansivo, una ri-duzione delle imposte che gravano sul lavoro e sulle imprese e un rilancio degli investimenti pubblici; dal lato delle coperture, una compressione della dinami-ca della spesa corrente.

I rischi che gravano sulla congiuntura dell’eco-nomia italiana – ma anche la difficoltà di individuare tagli di spesa effettivamente operabili nel breve pe-riodo e/o riconducibili, come spesso ritenuto anche nel recente passato, a inefficienze con limitati impatti negativi – sembrano guidare la scelta del governo, che con il quadro programmatico va a correggere la restrizione implicita nello scenario tendenziale.

Prudente è la valutazione del governo che associa alla manovra 2015 effetti espansivi contenuti, misu-rando un impulso di appena un decimo di punto sul Pil. Un impatto più che compensato dalla revisione degli effetti delle riforme adottate nel 2012-2014, che per l’anno in corso sono stati ribassati di tre de-cimi di punto.

A fronte del limitato effetto in termini di prodotto rispetto al quadro tendenziale, obiettivo prioritario sembra essere quello di rendere possibile l’adozio-ne di riforme che incidano sul potenziale di crescita. Con ciò, oltre a procrastinare di un ulteriore anno l’a-dozione di misure di aggiustamento, si punta a ren-derne più tollerabile l’impatto con il maturare degli effetti delle riforme strutturali.

Coerentemente con la distinzione fra breve e lun-go termine, l’espansione del bilancio pubblico con-templata nella Nota di aggiornamento è dunque fina-lizzata ad accompagnare il dispiegarsi dei futuri ef-fetti delle riforme strutturali sul prodotto potenziale.

In termini strutturali, con il ricorso a una mano-vra espansiva e la implementazione delle riforme scontate nel nuovo quadro programmatico, si deter-mina una invarianza del saldo strutturale nel 2015 rispetto al 2014, con uno sconfinamento di circa un punto di prodotto dagli obiettivi fissati in precedenza (-0,9 nella Nota, -0,1 nel Def).

6. L’andamento del debitoL’aggiornamento del piano di rientro e i nuovi

obiettivi di saldo proposti dal governo incidono sul percorso di riduzione del debito, non consentendo di rispettare l’aggiustamento lineare minimo richiesto (Mlsa) dalle regole comunitarie, vale a dire quel mi-glioramento annuo del saldo strutturale che dovreb-be garantire il rispetto della regola del debito (ed in particolare il forward benchmark che rappresenta la condizione meno stringente per l’Italia) alla fine del periodo di transizione.

Secondo quanto affermato nella Nota, dato il quadro programmatico che prevede un indebitamen-to in termini strutturali pari a -0,9 per cento del Pil nel 2014 e nel 2015, il Mlsa comporterebbe una cor-rezione del 2,2 per cento per il prossimo esercizio, correzione che viene giudicata “né fattibile né auspi-cabile” per gli effetti recessivi che si verrebbero a de-terminare sull’economia. Tale aggiustamento si col-locherebbe comunque al di sotto di quello risultante dal quadro tendenziale (correzione richiesta pari al 3 per cento) proprio per gli effetti positivi sulla cre-scita, e quindi sul rapporto debito-Pil, conseguenti alle misure espansive e alle riforme che il governo intende adottare.

Nel caso in cui il debito si discostasse significa-tivamente dal proprio benchmark (come calcolato dalla Commissione) la Commissione procederebbe alla stesura di una relazione ai sensi dell’art. 126 del Trattato, nella quale al benchmark numerico si affiancherebbero valutazioni “qualitative” relative a

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N. 5-6/2014 PARTE I – ATTIVITÀ DI CONTROLLO E CONSULTIVA

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un certo insieme di “altri fattori rilevanti”. La “fles-sibilità interpretativa” che la Commissione si riserva è un elemento di grande importanza, soprattutto in presenza di parametri numerici avversi. Basti, in pro-posito, richiamare che, per quanto elevato, il valore dell’output gap indicato per il 2015 (3,5 per cento) si collocherebbe, comunque, al di sotto della soglia del 4 per cento oltre la quale non sarebbero richiesti aggiustamenti del saldo.

Tra questi, e più in particolare nell’ambito di quelli relativi all’evoluzione della situazione eco-nomica, nella Nota si sottolinea la severità del ciclo economico degli ultimi anni che ha portato ad una perdita di Pil di oltre 9 punti dal 2007 ad oggi, in par-te a sua volta imputabile agli sforzi di aggiustamento fiscale intrapresi tra il 2011 ed il 2013. In una situa-zione, come quella attuale, caratterizzata da un con-sistente vuoto di prodotto, una manovra correttiva di entità come quella prefigurata dal Mlsa comportereb-be il prolungamento della recessione ancora in atto.

Tali aspetti saranno oggetto della più complessiva valutazione da parte della Commissione in cui si ter-rà inoltre conto, tra l’altro, degli effetti riduttivi del debito del programma di privatizzazioni, pari nelle stime del governo, a circa 0,7 punti di Pil all’anno a decorrere dal 2015, a fronte di un ridimensionamento allo 0,28 per cento degli introiti previsti per l’anno in corso.

Guardando poi al profilo del rapporto debito/Pil nel medio periodo, non può non osservarsi che lo scenario di base (che fino al 2018 coincide con il quadro programmatico) incorpora delle ipotesi rela-tive agli andamenti macroeconomici e finanziari non esenti da rischiosità. Anche in presenza di una tenuta della finanza pubblica, una minore crescita (effettiva e potenziale) non potrebbe non ripercuotersi negati-vamente sulla dinamica del rapporto.

Per quanto riguarda il costo medio del debito, lo scenario base sconta dei tassi di interesse impliciti poco superiori al 3 per cento.

Quanto al saldo primario, si prevede il manteni-mento di un avanzo elevato (superiore al 4 per cento in termini sia nominali che strutturali nello scenario base), ben superiore a quello ottenuto negli anni pas-sati.

Ad esso, tuttavia, è affidata la sostenibilità delle finanze pubbliche nel lungo periodo. Come è eviden-te dalla Nota, valori dell’avanzo primario strutturale inferiori al 3 per cento del Pil non sarebbero suffi-cienti a ricondurre il rapporto debito-Pil al di sotto della soglia del 60 per cento. Avanzi primari intorno al 2 per cento del prodotto stabilizzerebbero, ferme

restando le altre ipotesi macroeconomiche, il rappor-to intorno a valori superiori al 120 per cento.

7. Tra regole europee e costituzionaliL’interruzione del percorso di rientro verso

l’Omt, che nelle intenzioni del governo ha una natu-ra temporanea, costituisce una novità nell’imposta-zione recente della politica di bilancio italiana. Gli interventi varati con le leggi di stabilità 2013 e 2014 e con il d.l. n. 35/2013, che pure hanno avuto na-tura espansiva, non avevano infatti pregiudicato la diminuzione dell’indebitamento strutturale, che nel biennio 2014-2015 è invece ora stimato attestarsi su un livello superiore a quello del 2013. Invero, questo incremento è di non immediata valutazione, dal mo-mento che il dato 2013 deriva anche da una revisione dei dati di contabilità nazionale e che ciò può deter-minare una discontinuità nel raffronto con gli scenari di previsione. Cionondimeno la Nota di aggiorna-mento sembra evidenziare come, nella valutazione del governo, il grado di cogenza dell’Omt risulti indebolito dalla fragilità dell’impianto analitico che presiede alla sua definizione (per una ricostruzione della metodologia, si veda l’appendice “L’indebita-mento strutturale: metodo di calcolo e simulazioni numeriche”). Appare piuttosto esplicita, da questo punto di vista, l’affermazione per cui “l’utilizzo del prodotto potenziale e dell’output gap nel contesto di regole fiscali, legate anche all’applicazione di verifi-che e sanzioni, va improntato a grande cautela, an-che per evitare rischi di politiche procicliche”. Una conclusione che dovrebbe richiamare l’attenzione europea sulla necessità di rivedere e semplificare gli attuali criteri di sorveglianza rafforzata, con l’inten-to di accrescerne il grado di intelligibilità per l’opi-nione pubblica e per il policy maker. Nell’incertezza generata dalle metodologie di calcolo al momento adottate, il governo sembra voler ancorare la propria strategia a un obiettivo più facilmente riconoscibile, e per questo più credibile, come è la soglia di massi-mo indebitamento nominale del 3 per cento.

Anche se la motivazione addotta dal governo a sostegno dell’allontanamento temporaneo dall’Omt è chiara, non sono del tutto dissipati i dubbi sul livel-lo del saldo programmatico 2015 (-0,9 per cento del Pil in termini strutturali con un aggiustamento di soli 0,1 punti e quindi inferiore a quanto richiesto dalle regole comunitarie). Se comprensibile è la volontà di non operare manovre restrittive che potrebbero mettere a rischio la ripresa dell’economia e determi-nare il prolungarsi della recessione, è da osservare che una crescita lieve ma pur sempre positiva del Pil (+0,6 per cento) e un output gap pari a -3,5 per

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PARTE I – ATTIVITÀ DI CONTROLLO E CONSULTIVA N. 5-6/2014

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cento (inferiore, dunque, alla soglia del -4 per cen-to), quali risultanti dal quadro programmatico della Nota, non sembrerebbero configurare le circostanze eccezionali come definite dall’art. 5 del regolamento n. 1466/1997.

Quanto alla flessibilità prevista dal medesimo art. 5, essa può essere invocata a fronte “dell’attuazione di importanti riforme strutturali idonee a generare benefici finanziari diretti a lungo termine, compreso il rafforzamento del potenziale di crescita sosteni-bile, e che pertanto abbiano un impatto quantifica-bile sulla sostenibilità a lungo termine delle finanze pubbliche”. Ai fini di una valutazione favorevole da parte del Consiglio, oltre al mantenimento del deficit nominale al di sotto del 3 per cento e al raggiungi-mento del pareggio entro il periodo di previsione, sarà pertanto cruciale la piena e rapida attuazione delle misure annunciate e la attendibilità/verificabili-tà degli effetti sulla crescita e sulla finanza pubblica.

Va poi considerata la coerenza di tale scelta con il dettato costituzionale. La legge costituzionale n. 1/2012 ha modificato l’art. 81 Cost. prevedendo al c. 1 che “lo Stato assicura l’equilibrio tra le entrate e le spese del proprio bilancio, tenendo conto delle fasi avverse e delle fasi favorevoli del ciclo economico”. Il successivo c. 2 ha disposto un generale divieto di ricorso all’indebitamento, salvo che “al fine di con-siderare gli effetti del ciclo economico e, previa au-torizzazione delle Camere adottata a maggioranza assoluta dei rispettivi componenti, al verificarsi di eventi eccezionali”.

Il principio dell’equilibrio di bilancio è stato esteso al complesso delle amministrazioni pubbliche con la modifica all’art. 97 Cost. disposta dall’art. 2 della legge costituzionale cit.

Sono stati definiti con la “legge rinforzata” n. 243/2012 “i criteri volti ad assicurare l’equilibrio tra le entrate e le spese dei bilanci” (c. 6 dell’art. 81 Cost. così come riformato), nonché la disciplina re-lativa a:

a) “le verifiche, preventive e consuntive, sugli andamenti di finanza pubblica”;

b) “l’accertamento delle cause degli scostamenti rispetto alle previsioni, distinguendo tra quelli dovu-ti all’andamento del ciclo economico, all’inefficacia degli interventi e agli eventi eccezionali;

c) “il limite massimo degli scostamenti negati-vi cumulati di cui alla lettera b) del presente comma corretti per il ciclo economico rispetto al prodotto interno lordo, al superamento del quale occorre in-tervenire con misure di correzione”;

d) “la definizione delle gravi recessioni econo-

miche, delle crisi finanziarie e delle gravi calamità naturali quali eventi eccezionali, ai sensi dell’art. 81, c. 2, Cost., come sostituito dall’art. 1 della presente l. cost., al verificarsi dei quali sono consentiti il ricorso all’indebitamento non limitato a tenere conto degli effetti del ciclo economico e il superamento del limi-te massimo di cui alla lettera c) del presente comma sulla base di un piano di rientro.

Quanto ai profili di compatibilità della imposta-zione adottata rispetto al nuovo art. 81, la questione verte essenzialmente sulla possibilità di riferire al 2015 “condizioni di grave recessione” in presenza delle quali sarebbe possibile un ricorso all’indebita-mento non limitato agli effetti del ciclo economico.

Nella Nota di aggiornamento al Def “evento ec-cezionale” è qualificato come “l’ulteriore e inusuale inasprimento delle condizioni dell’economia speri-mentato nell’anno in corso”.

In senso favorevole, come argomentato nella Nota di aggiornamento, milita un livello previsto dell’output gap, la differenza fra prodotto effettivo e prodotto potenziale, che rimarrà anche il prossimo anno, seppure in riduzione rispetto al 2014, ancora molto elevato. In senso contrario opera il fatto che, nelle medesime previsioni tendenziali formulate dal governo, il prossimo anno dovrebbe registrare una variazione positiva del Pil, e quindi una seppur lenta uscita dalla condizione di recessione (che la stessa Nota di aggiornamento definisce più propriamente come “un periodo di stagnazione”).

8. Osservazioni conclusiveIl documento presentato dal governo, che con-

ferma anche quest’anno il non puntuale rispetto dei requisiti previsti dalle norme di contabilità, prefigu-ra un cambiamento nell’impostazione della politica economica del paese, che appare sorretto tanto dal-la gravità della condizione recessiva dell’economia italiana, quanto dalle più recenti acquisizioni anali-tiche. Un giudizio più meditato richiede di conosce-re entità e composizione della manovra. E, dunque, di attendere la presentazione della legge di stabilità. Ma, restando per ora alla dimensione dei saldi, il peggioramento programmato, per quanto importan-te, non appare tale da imprimere, di per sé, un impul-so risolutivo per il riavvio della crescita.

Più che la dimensione dell’impulso, ciò che sembra effettivamente caratterizzare il percorso programmatico è la presa d’atto della necessità di prevedere un più realistico quadro dei risparmi di spesa conseguibili e degli effetti attesi dalle riforme avviate.

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Sotto questo profilo, la Nota non elimina la pre-occupazione per il crescente peso che si trasferirebbe sugli anni a venire in termini di revisione della spe-sa, assistita o meno da clausole di salvaguardia siano esse relative all’Iva o ai sistemi di agevolazione fi-scale. Riprendere il processo di convergenza all’Omt è cosa non facile anche contando su tassi di cresci-ta medi nel quadriennio 2015-2018 ben superiori a quelli del decennio passato.

La chiave di volta rimane, quindi, la capacità ef-fettiva delle riforme avviate di rileggere l’intervento pubblico alla luce della caduta di prodotto conosciu-ta negli anni della crisi e della necessità di rimuovere squilibri antichi per garantire la “ripartenza” dell’e-conomia.

Anche da questo punto di vista mancano ancora elementi importanti per poter valutare la realizzabi-lità e la sostenibilità dell’impianto programmatico. Elementi propri della legge di stabilità e delle misure di riforma.

La criticità della situazione attuale sul fronte dell’occupazione e della stessa tenuta del disegno europeo richiede un impegno straordinario.

Non si tratta di ricercare una deroga generica agli obiettivi, ma di proporre azioni mirate ad accresce-re il potenziale produttivo del paese. Su tutti questi aspetti il governo ha previsto interventi che vengono riconfermati nel documento programmatico in rispo-sta alle raccomandazioni della Commissione. Perché tale nuova impostazione risulti persuasiva e non sia esposta al rischio di reazioni sfavorevoli è necessa-rio, ad avviso della Corte, che il paese proceda senza incertezze nel percorso di attuazione delle riforme.

II

Sez. riun., delib. 3 novembre 2014, n. 13

Introduzione 1. La legge di stabilità 2015 avvia il percorso pro-

grammatico delineato nella Nota di aggiornamento del Def, sulla quale la Corte è stata ascoltata solo pochi giorni fa.

Il consistente ribasso delle stime di crescita e la preoccupazione per il protrarsi della recessione in cui versa l’economia italiana hanno spinto il governo ad annunciare, nell’aggiornamento del documento pro-grammatico, una radicale revisione della strategia di fiscal policy. Tenendo conto anche dei rischi deflat-tivi e delle relative implicazioni per la sostenibilità del debito, nella definizione della politica economica si è puntato nel breve termine, su misure di sostegno

della domanda aggregata, avviando, peraltro, politi-che strutturali in grado di innalzare permanentemen-te il potenziale produttivo nell’orizzonte di più lungo termine. Coerentemente con tale impostazione, il governo ha annunciato l’intenzione di adottare una manovra di segno espansivo per il 2015 e la scelta di non operare correzioni sulle dinamiche tendenziali dei saldi per tutto il 2016. Solo nel 2017 la manovra di finanza pubblica tornerebbe a incidere nel senso di una riduzione dell’indebitamento, assicurando, in tal modo, il raggiungimento del pareggio strutturale di bilancio.

In termini strutturali, con il ricorso a una manovra espansiva e la implementazione delle riforme sconta-te nel nuovo quadro programmatico, si è determinato nel quadro della Nota un limitato miglioramento del saldo strutturale nel 2015 rispetto al 2014 (solo lo 0,1 per cento), con uno sconfinamento di circa un punto di prodotto dagli obiettivi fissati in precedenza (-0,9 per cento nella Nota, -0,1 per cento nel Def).

Nel corso della consultazione preliminare all’e-same del Documento programmatico di bilancio, il governo ha accolto l’invito della Commissione ad assicurare nel 2015, in ottemperanza alle regole comunitarie, un rafforzamento della correzione del saldo strutturale. Le misure indicate nell’aggiorna-mento della Nota, che modificano l’impianto origi-nale della manovra, comportano un miglioramento dei saldi nel 2015, rispetto all’anno precedente, su-periore allo 0,3 per cento.

La legge di stabilità per il 2015: la composizione della manovra

2. La manovra proposta dal governo, nel testo iniziale presentato al Parlamento, prevedeva inter-venti per circa 36,2 miliardi nel primo anno, 45,1 miliardi nel 2016 e 45,6 miliardi nel 2017.

A copertura delle misure espansive, la stessa ma-novra individuava nuove risorse per circa 25,8 mi-liardi nel 2015, 45,2 miliardi nel 2016 e 52,5 miliardi nel 2017.

Nel 2015 gli interventi disposti determinava-no un incremento dell’indebitamento netto di 10,4 miliardi, mentre negli anni successivi la manovra comportava un miglioramento del saldo delle ammi-nistrazioni pubbliche di circa 200 milioni nel 2016 e di 6,9 miliardi nel 2017.

A seguito delle modifiche disposte dal governo in esito alle consultazioni con la Commissione, la dimensione complessiva della manovra verrebbe a ridursi a 32,4 miliardi nel 2015.

Ciò è dovuto, in particolare, alla riduzione del

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PARTE I – ATTIVITÀ DI CONTROLLO E CONSULTIVA N. 5-6/2014

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fondo per l’alleggerimento del carico fiscale per 3,3 miliardi e degli interventi per il cofinanziamento dei fondi comunitari per 500 milioni. A questi due inter-venti va ad aggiungersi una ulteriore estensione del regime del reverse charge, che è stimato produrre un incremento del gettito di 730 milioni.

Il finanziamento in disavanzo si ridurrebbe, pe-raltro, nel 2015 a 5,9 miliardi (dallo 0,7 allo 0,4 per cento del Pil) mentre si rafforzerebbe, nell’ipotesi del permanere degli effetti dell’“inversione contabi-le” (reverse charge), il miglioramento dei saldi negli anni successivi.

Le entrate registrano una riduzione netta di poco più di 1 miliardo nel 2015 e un incremento, rispetti-vamente, di 6,7 e 13,5 miliardi nel biennio succes-sivo. Un andamento che risente dell’inserimento a partire dal 2016 di una nuova clausola di salvaguar-dia per il conseguimento degli obiettivi programma-tici (12,8 mld che crescono a 19,2 mld nel 2017). Le spese presentano un incremento netto di circa 4,9 miliardi nel 2015 e di 5,9 miliardi in ciascuno degli anni successivi. Aumenta, in particolare, la compo-nente di spesa in conto capitale con una variazione incrementale nel triennio considerato (da 2 mld nel 2015 a 4,3 mld nel 2017).

Su tale rappresentazione della manovra incide naturalmente la contabilizzazione come maggiore spesa (nelle prestazioni sociali in denaro secondo i criteri di contabilità nazionale), del bonus di 80 euro per i lavoratori dipendenti (9,5 mld annui). Una sua considerazione tra le minori entrate modificherebbe invece considerevolmente il quadro complessivo della manovra: le entrate nette si ridurrebbero di 10,5 miliardi e di 2,7 miliardi nel primo biennio, per cre-scere di 3,9 miliardi nel solo anno terminale.

Volta a sostenere la competitività delle imprese e l’occupazione è la riduzione del cuneo fiscale sul lavoro, con la deducibilità integrale della componen-te lavoro (per i dipendenti a tempo indeterminato) dalla base imponibile dell’Irap e con gli sgravi sui contributi a carico del datore di lavoro, per un perio-do massimo di tre anni, per i nuovi assunti a tempo indeterminato nel 2015. A questi due interventi che rappresentano oltre il 40 per cento delle minori en-trate attese, si deve aggiungere la ridefinizione e il potenziamento del credito d’imposta per gli investi-menti in attività di ricerca e sviluppo.

A sostegno del reddito, per i lavoratori dipen-denti, è prevista la stabilizzazione del bonus Irpef di 80 euro mensili per i redditi fino a 26 mila euro, la corresponsione di un contributo per ogni figlio nato nel 2015 e, limitatamente ai lavoratori dipendenti del

settore privato, la possibilità di richiedere una quota del trattamento di fine rapporto (Tfr).

Per accompagnare l’attuazione della legge di de-lega in materia di ammortizzatori sociali è poi costi-tuito un fondo per il finanziamento degli interventi in materia di servizi per il lavoro e delle politiche attive e per la copertura degli oneri derivanti dall’at-tuazione dei provvedimenti normativi volti a favorire la stipula di contratti a tempo indeterminato a tutele crescenti (c.d. jobs act).

Di particolare rilievo gli interventi per il settore dell’istruzione nel cui ambito è prevista l’istituzione di un fondo per la realizzazione del piano “la buona scuola”, con una dotazione netta di 3,6 miliardi.

La manovra dispone, inoltre, il finanziamento delle cosiddette “politiche invariate”, ossia di quegli interventi che negli anni precedenti erano rifinanziati di anno in anno con le leggi di stabilità. Si tratta, ad esempio, del rifinanziamento delle missioni di pace, delle risorse destinate al riparto del cinque per mille, dei fondi per la social card, per le non autosufficien-ze, per le politiche sociali e per i lavoratori social-mente utili.

Tra gli interventi in conto capitale, si segnalano quelli per la ricostruzione dei danni provocati dal si-sma nella Regione Abruzzo e per la manutenzione straordinaria della rete ferroviaria.

La copertura della manovra è assicurata princi-palmente dalla riduzione delle spese delle ammini-strazioni territoriali e centrali a cui si aggiungono gli utilizzi di fondi accantonati per la riduzione del pre-lievo fiscale (per questi ultimi si tratta di 3 mld per il 2015 che salgono rispettivamente a 4,6 e 4,1 mld nel biennio successivo).

I ministeri concorrono direttamente per 2,3 mi-liardi nel 2015 e nel 2016 e per 2,4 miliardi nel 2017. Solo marginale è, poi, il contributo assicurato dalla riduzione dei trasferimenti alle imprese e dalla revi-sione della disciplina dei crediti d’imposta.

Gli importi più consistenti sono attesi dai rispar-mi di spesa corrente delle amministrazioni territoria-li: 8,5 miliardi nel 2015 che crescono ad oltre 10,5 nel 2017. Di questi, 4 miliardi sono richiesti alle re-gioni, mentre la restante somma è attesa dagli enti locali, che tuttavia ottengono una rilevante riduzione degli obiettivi del patto di stabilità interno (circa 3,4 mld) che è previsto si traduca in una crescita della spesa in conto capitale di pari ammontare.

Infine, maggiori entrate sono attese dall’innalza-mento dell’aliquota di tassazione per i fondi pensione (dall’11 al 20 per cento) nonché dall’incremento della tassazione della rivalutazione del trattamento di fine

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N. 5-6/2014 PARTE I – ATTIVITÀ DI CONTROLLO E CONSULTIVA

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rapporto dall’11 al 17 per cento e dall’introduzione nell’ordinamento nazionale del sistema dell’inversio-ne contabile per le operazioni relative al settore ener-getico e del gas e per le prestazioni di servizi di puli-zia e per gli acquisti delle pubbliche amministrazioni. Inoltre, sono attesi circa 1,6 miliardi nel 2015 (5,2 mld nel triennio) da una maggiore cooperazione tra l’amministrazione finanziaria e i contribuenti e dalla revisione del sistema di tassazione del gioco.

La manovra sulle entrate 3. Sul versante delle entrate, la manovra dovreb-

be produrre nel triennio effetti rilevanti, anche se di dimensioni e di segno differenziati: una riduzione di prelievo netto di poco più di 1 miliardo nel 2015 – per effetto di sgravi (11,4 mld) solo in parte com-pensati da inasprimenti impostivi (10,4 mld) – e, per contro, un aumento di prelievo netto dell’ordine di 6,8 miliardi nell’anno seguente, destinato a raddop-piarsi nel 2017 (13,5 mld).

Ma oltre che per le dimensioni complessive, la manovra si segnala anche per una composizione contraddistinta da molteplici misure dagli effetti variamente caratterizzati – di aggravio e di sgravio, diretti e indotti – e distribuiti su un’ampia platea di contribuenti.

Al loro interno, è possibile intravedere alcune li-nee guida, taluni obiettivi che ne sono espressione e la tipologia degli strumenti impiegati: tutti aspetti che aiutano ad esprimere una valutazione sulla strut-tura e sugli effetti della manovra ed a segnalare talu-ni rischi ed incertezze che potrebbero manifestarsi in sede attuativa.

4. La legge di stabilità 2015 appare orientata in due direzioni: rilanciare l’offerta, favorendo la ripre-sa della produzione; sostenere la domanda, creando spazi all’aumento del reddito disponibile e alla cre-scita dell’occupazione.

Nel perseguirle, il governo si concentra su tre obiettivi.

Quello della riduzione del cuneo fiscale risul-ta prioritario: le risorse impegnate ammontano nel triennio della previsione a complessivi 51 miliardi (23 di riduzione del prelievo e 28 sotto forma di au-mento di spesa). Ad essere “aggredite” sono tutte le componenti del cuneo: quella contributiva, interes-sata da una “cancellazione” triennale degli oneri pre-videnziali a carico dei datori di lavoro, per le assun-zioni a tempo indeterminato effettuate nell’arco del 2015; quella relativa all’Irap che, a seguito dell’inte-grale deducibilità del costo del lavoro dalla base im-ponibile, per i lavoratori a tempo indeterminato cessa

di far parte del cuneo fiscale; quella tributaria, infine, che almeno per 11 milioni di lavoratori dipendenti (quelli con reddito al di sotto di 26 mila euro, interes-sati dal bonus di 80 euro), registra un’attenuazione dell’onere Irpef.

Gli effetti del congiunto operare di tali misure sono, in astratto, di difficile identificazione. L’entità dello sgravio sarà infatti diversificata per ogni singo-la impresa, in relazione alla sua particolare combi-nazione di fattori produttivi (capitale e lavoro), alla quota di lavoratori a tempo indeterminato sul com-plesso dei dipendenti e, infine, al peso e al livello retributivo dei nuovi assunti. Risulta invece possi-bile formulare una valutazione degli effetti delle tre misure, separatamente considerate. In particolare, si può stimare che: a) l’intervento sull’Irap ridurrebbe strutturalmente il costo del lavoro in misura compre-sa fra l’1,5 per cento (per le imprese manifatturiere) e il 2 per cento (per quelle di servizi); b) la decon-tribuzione relativa ai nuovi assunti a tempo indeter-minato, intaccherebbe il costo del lavoro in misura più pesante (poco più del 20 per cento a un livello retributivo prossimo ai 26 mila euro) anche se per un arco temporale limitato a un triennio; c) il riconosci-mento del bonus, infine, avrebbe effetti significativi in termini di reddito disponibile e di riduzione del cuneo fiscale solo per i livelli retributivi più bassi (per una retribuzione lorda di 18 mila euro, l’onere dell’Irpef sarebbe contenuto di oltre 5 punti).

Un secondo obiettivo può essere individuato nel sostegno assicurato a specifici segmenti dell’attivi-tà produttiva. Ad essi sono destinati sgravi fiscali e contributivi netti di poco inferiori, per il triennio 2015-2017, a 4 miliardi di euro. Ne sono interessati soprattutto gli operatori di ridotte dimensioni del la-voro autonomo e della piccola impresa individuale, per effetto dell’introduzione di un nuovo regime fi-scale agevolato. Ma interventi non meno significativi sono indirizzati sia a favore di alcuni settori produtti-vi maturi (quello delle costruzioni, della riqualifica-zione energetica e dei mobili, che traggono beneficio dalla proroga del regime di detraibilità delle spese), sia a favore di settori innovativi caratterizzati dall’u-tilizzo di brevetti, marchi e opere d’ingegno (per effetto dell’introduzione di un regime di esclusione parziale dei redditi derivanti dall’utilizzo di beni im-materiali).

Un terzo obiettivo, infine, è quello rivolto al so-stegno alle famiglie e impegna circa 2,5 miliardi di risorse nel triennio. Ad esso risultano direttamente riconducibili due misure: il riconoscimento per un triennio di un bonus annuo di 960 euro, per ogni fi-

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glio nato o adottato fra il gennaio 2015 e il dicembre 2017 e la facoltà, accordata sperimentalmente a lavo-ratori dipendenti del settore privato, di optare per la corresponsione in busta paga della quota maturanda di Tfr. Ma, a ben vedere, tale obiettivo è rinvenibi-le – in concomitanza con quello della riduzione del cuneo fiscale – anche nella ricordata stabilizzazione del bonus da 80 euro.

5. Nell’avanzare prime valutazioni, conviene sof-fermarsi su due aspetti della manovra.

Il primo riguarda gli effetti attesi dalla prevista decontribuzione dei nuovi dipendenti assunti a tem-po indeterminato. La sua operatività, limitata alle assunzioni effettuate nel corso del 2015, presenta diversi aspetti problematici: possono beneficiarne anche imprese che abbiano ridotto gli organici ne-gli ultimi anni o mesi; la dimensione dell’intervento previsto (che consente di ridurre di oltre un terzo il costo del lavoro) potrebbe esercitare limitati effetti aggiuntivi di crescita dell’occupazione; il costo del-la misura – relativamente contenuto, anche perché sconta una diluizione nel tempo dei benefici – po-trebbe aumentare a seguito di una loro concentrazio-ne; in presenza di un incentivo così corposo, non pare si possano escludere, in assenza di adeguate cautele normative, comportamenti distorsivi volti a ottenere il beneficio della decontribuzione. Il secondo aspetto riguarda, invece, l’impatto del bonus di 80 euro in-trodotto dal d.l. n. 66/2014 e ora stabilizzato a decor-rere dal 2015. Gli effetti della misura si confermano importanti: l’esborso per la finanza pubblica è valu-tato in 9,5 miliardi l’anno, indipendentemente che la si configuri come una riduzione di prelievo o come un aumento delle spese di trasferimento alle fami-glie. Come è noto il bonus si applica a 11 milioni di lavoratori dipendenti (quelli con reddito imponibile compreso fra 8.147 e 26 mila euro) che fruiscono di un beneficio compreso fra 11 e 2 punti di aumento del reddito disponibile.

Restano, pertanto, esclusi dal provvedimento poco meno di 10 milioni di lavoratori dipendenti – collocati sotto o sopra le soglie prescelte – oltre, naturalmente, all’intera platea dei pensionati e dei lavoratori autonomi.

L’osservazione che i soggetti che beneficiano del bonus si identificano con le “code” reddituali più basse del lavoro dipendente ridimensiona gli effetti del provvedimento in termini di riduzione del cuneo fiscale. In questi casi il bonus assume i caratteri più vicini a quelli del trasferimento sociale che non a quelli della riduzione dell’Irpef.

Di conseguenza, nel momento in cui la legge

di stabilità rende permanente il bonus, sarebbe op-portuna una riflessione sulla natura dell’istituto, per deciderne o l’assorbimento nella struttura dell’Irpef ovvero l’esplicito inquadramento fra le misure a so-stegno dello stato sociale.

6. Quanto ai rischi e alle incertezze che la legge di stabilità 2015 evidenzia sul versante delle entrate, appare opportuno sottolineare:

- l’acuirsi delle incertezze sul gettito futuro, per effetto del crescente ricorso a clausole di salvaguar-dia che si connotano sempre più come soluzioni che rispecchiano difficoltà e ritardi nell’effettiva rea-lizzazione della revisione della spesa pubblica. Da un lato, dunque, risultano dilatate le responsabilità addossate al sistema del prelievo, dall’altro si ridu-cono gli spazi della politica fiscale. Una tendenza, questa, che risulta accentuata dal parallelo fenomeno che vede un “crescendo” nella prenotazione di getti-to futuro a copertura di già varati provvedimenti di politica economica: basti in proposito richiamare la situazione determinatasi sul fronte delle accise, con aumenti di prelievo per complessivi 2,2 miliardi già prenotati fino al 2021 per coprire esigenze di bilan-cio manifestatesi fin da otto anni prima;

- le incertezze e i rischi insiti nel ritorno ad un uti-lizzo improprio dei proventi (per loro natura incerti) della lotta all’evasione, per coprire spese o sgravi fiscali certi;

- il rischio che regioni ed enti locali siano indotti a compensare l’ulteriore riduzione dei trasferimenti recata dalla legge di stabilità con un aumento dell’im-posizione decentrata. Si consideri in proposito che nel corso dell’ultimo decennio le addizionali Irpef sono aumentate in misura significativa, sia quanto a gettito complessivo (quasi raddoppiato, fino ai 15 mld del 2013), sia quanto ad aliquote (l’incidenza ef-fettiva sul reddito medio dichiarato è passata dall’1,4 per cento all’1,7 per cento, con punte del 2,6 per cen-to nelle regioni sottoposte a piano di rientro). E la crescita potrebbe subire un’accelerazione nel 2015, allorché sarà possibile completare il percorso di au-mento dell’addizionale regionale (d.lgs. n. 68/2011) aumentando l’aliquota di un punto.

La spesa per il pubblico impiego7. Le previsioni a legislazione vigente contenu-

te nella Nota di aggiornamento al Def confermano che, nell’arco temporale di riferimento, la spesa per il pubblico impiego resta sotto controllo per effetto delle misure assunte con il d.l. n. 78/2010, alcune delle quali vengono prorogate dal disegno di legge di stabilità.

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Si tratta, in primo luogo, di un ulteriore rinvio della contrattazione collettiva (fino a tutto il 2015), misura destinata a comportare complessivamente un blocco della dinamica retributiva per ben due periodi triennali (2010-2012 e 2013-2015).

Effetti finanziari sono ascritti alla proroga di un anno della corresponsione dell’indennità di vacanza contrattuale, prevista a partire dal 2018. L’impatto migliorativo sull’indebitamento netto è stimato in 320 milioni per il predetto anno e in 170 milioni per quello successivo.

Il c. 3 dell’art. 21 proroga di un anno (fino al 31 gennaio 2015) il blocco dei meccanismi di adegua-mento retributivo per il personale non contrattualiz-zato. La relazione tecnica prevede un impatto mi-gliorativo, a decorrere dal 2015, pari a 40 milioni di euro, con effetti riflessi, in termini di minori entrate, pari a 20,7 milioni.

Come preannunciato, il disegno di legge di stabi-lità non contiene l’ulteriore proroga della disposizio-ne contenuta nell’art. 9 d.l. n. 78/2010.

Pertanto, a partire dal 2015, dovranno essere corrisposti agli interessati (sia pure senza arretrati) i benefici connessi con promozioni, avanzamenti di carriera e passaggi di livello, utili fino al 2014 esclu-sivamente a fini giuridici. Si tratta di oneri già previ-sti a legislazione vigente, particolarmente importanti con riferimento al personale delle forze armate e dei corpi di polizia.

Non risultano prorogate neppure le norme in ma-teria di vincoli assunzionali, con la conseguenza che le percentuali di nuovi ingressi restano quelle rimo-dulate nei diversi esercizi, fino al 2017, dalla legge di stabilità per il 2014. Vengono, peraltro, differite all’1 dicembre 2015 le assunzioni già previste per i corpi di polizia e per il corpo nazionale dei vigili del fuoco, a partire dal mese di gennaio del predetto anno, con un risparmio complessivo di 27,2 milioni (al lordo delle minori entrate fiscali).

Gli ulteriori interventi previsti, complessiva-mente di modesto rilievo finanziario, riguardano la manutenzione del sistema e la eliminazione di situa-zioni di privilegio connesse con trattamenti di parti-colare favore per specifiche categorie di interessati, quali la promozione al grado superiore prevista per il personale delle forze armate il giorno prima del collocamento a riposo, (beneficio destinato a riper-cuotersi esclusivamente sul sistema pensionistico), la riduzione dell’indennità di ausiliaria e dei premi spettanti ai piloti militari.

Fra tali interventi rientra anche l’abrogazione dei cc. 2 e 3 dell’art. 3 l. n. 42/2000, riguardanti i com-

pensi connessi con le rafferme biennali, norma pe-raltro che già risulta abrogata dal d.lgs. n. 248/2012.

Il disegno di legge di stabilità abroga di fatto, attraverso un pressoché totale definanziamento (119 mln di tagli su 122 di competenza del 2015) del fon-do relativo, la normativa in materia di revisione e riordino dei ruoli e della carriere delle forze armate, risalente al 2003 e sinora non attuata.

Va segnalata, infine, la disposizione contenuta nel c. 20 dell’art. 21 che, in analogia a quanto pre-visto per le prerogative sindacali del personale con-trattualizzato (art. 7 d.l. n. 90/2014), dispone il taglio del 50 per cento alle spese di funzionamento degli organismi rappresentativi del personale delle Forze armate e del corpo della Guardia di finanza.

Gli interventi sulla spesa delle amministrazioni cen-trali

8. Gli obiettivi di razionalizzazione, efficienta-mento e contenimento della spesa statale sono, or-mai da molti anni, al centro degli indirizzi di poli-tica di bilancio, pur essendo divenuti più pressanti in una fase di crescenti difficoltà finanziarie come quelle prodotte dalla crisi economica internaziona-le ed interna dell’ultimo quinquennio. Se, tuttavia, l’esigenza di ridurre l’incidenza della spesa pubbli-ca (e, quindi, anche della spesa dello Stato in senso stretto) sul Pil costituisce un traguardo largamente condiviso, molto più complessa e controversa appare l’individuazione dei settori di spesa realisticamente aggredibili, così come la misurazione dei margini di risparmio conseguibili e la scelta dei “tagli” da ef-fettuare.

La dimensione raggiunta dalla spesa dello Stato in termini di contabilità nazionale, oggi dell’ordine dei 370 miliardi al netto degli interessi sul debito (e, dunque, pari a più della metà della spesa pubblica primaria totale) induce a ritenere agevole una azio-ne di contenimento con effetti quantitativamente si-gnificativi e di rapida realizzazione. Nella realtà, le difficoltà di imprimere una inversione di marcia di impatto rilevante alle tendenze della spesa dello Sta-to, soprattutto nell’orizzonte del brevissimo periodo, emergono non appena si abbandoni la scala dei dati aggregati, per confrontarsi con i molteplici vincoli connessi alle funzioni e ai programmi demandati ai singoli ministeri.

Inoltre, non va sottovalutato che, a partire dal 2010, anche la spesa statale ha segnato una netta inversione di tendenza rispetto agli anni duemila: nel periodo 2000-2009, è bene ricordarlo, la spesa statale primaria era cresciuta ad un tasso medio an-

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nuo del 6 per cento; nel quadriennio 2010-2013 si è, invece, realizzata una diminuzione ad un ritmo annuo dell’1,5 per cento. Un risultato, quello della riduzione dei livelli nominali assoluti della spesa, di notevole rilievo, soprattutto in una fase ciclica che ha richiesto il potenziamento degli interventi di “am-mortizzazione” delle condizioni di più grave disagio economico e sociale.

Alla luce di tali evidenze fattuali, le strategie più recenti di revisione della spesa statale – e, in parti-colare, l’approccio adottato in sede di spending re-view – hanno assunto, nel confronto con opinioni e proposte emerse nel dibattito di politica economica – obiettivi più graduali e più realistici.

Con il disegno di legge di stabilità, ora all’esa-me del Parlamento, il contributo richiesto ai mini-steri in termini di riduzione della spesa è limitato. Nel quadro complessivo, il contributo assegnato ai ministeri è, infatti, di 2,3 miliardi nel 2015 e di cir-ca 2,4 miliardi nel 2016 e nel 2017. Va rilevato che tale importo deriva, per il 2015, da riduzioni di spe-sa corrente dell’ordine di 1 miliardo, da una minore spesa in conto capitale per poco meno di 900 milioni e da maggiori entrate nette per quasi 400 milioni. In termini di spesa, pertanto, l’obiettivo di riduzione è dell’ordine di 1,9 miliardi per il 2015.

Va osservato che, sempre in materia di spesa sta-tale, la manovra prevede anche tagli ai trasferimenti alle imprese e ai crediti di imposta. Si tratta di ridu-zioni per circa 81 milioni nel 2015 che crescono a circa 120 nel biennio successivo. Tra questi i tagli alla quota interessi dello Stato sul plafond gestito dal-la Cassa depositi e prestiti relativo al Fondo rotativo investimenti alle imprese e le somme destinate di re-cente dal d.l. n. 66/2014 alle “zone franche urbane”.

Si tratta di una area di interventi che è stata og-getto di ripetute analisi nelle diverse fasi recenti di revisione della spesa. Nel 2011, uno studio commis-sionato dal governo aveva portato ad individuare come eliminabili trasferimenti alle imprese nel bi-lancio dello Stato per 5,8 miliardi (a cui si aggiunge-vano 4,9 mld pagati dalle altre amministrazioni pub-bliche). Una quantificazione in seguito ricondotta dal governo stesso su livelli più limitati (1,4 mld). Più di recente anche il commissario alla spending review aveva inserito tale voce tra quelle che potevano dare un contributo significativo. L’attenzione si era con-centrata su un’area “aggredibile” di 3,7 miliardi nel 2014 che crescevano a 3,9 nel 2015 e 4,1 nel 2016. La riduzione graduale, a partire dal 2014 (1 mld) fa-ceva prefigurare risparmi per 1,6 miliardi nel 2015 e 2,2 miliardi nel 2016.

9. Quest’anno il disegno di legge di stabilità offre informazioni dettagliate sulla distribuzione del con-tributo al riequilibrio di bilancio richiesto ai ministe-ri. Ciò consente di disporre di un quadro dei risparmi attesi dagli interventi operati da ciascun dicastero e, di conseguenza, di esprimere prime valutazioni su-gli aspetti che potrebbero richiedere aggiustamenti e correzioni dirette ad evitare effetti indesiderati o il mancato conseguimento dei risultati programmati.

Più della metà del contributo complessivo richie-sto riguarda solo due Ministeri: la difesa (con oltre 750 mln) e il lavoro (con più di 450 mln). Importi non trascurabili sono anche quelli dei risparmi atte-si dal Ministero dell’istruzione (oltre 300 mln), dal Ministero dell’economia (più di 200 mln) e dal Mi-nistero delle infrastrutture (poco meno di 200 mln).

Come già osservato, il contributo al reperimento delle fonti di copertura dell’intera manovra, quanti-ficato per i ministeri in 2,3 miliardi per il 2015, è il risultato di una combinazione di tagli di spesa e di maggiori entrate (per importi molto ridotti anche di minori entrate) ed inoltre di un mix, molto diversifi-cato nel confronto tra ministeri, di riduzioni di spesa corrente e di minori spese di investimento o, in gene-rale, in conto capitale.

Proprio con riguardo ai due ministeri, difesa e la-voro, che assommano ad oltre la metà del contributo alla manovra, questo intreccio tra modalità diverse di perseguimento degli obiettivi assegnati si presta ad alcune puntualizzazioni, sinteticamente evidenziate qui di seguito e approfondite in un apposito allegato.

Con riguardo alla difesa, quasi l’intero risparmio atteso per il 2015 è assegnato alla riduzione di spese in conto capitale (719 mln su un totale di 767 mln), offrendo l’impressione di un effettivo rallentamento di alcuni programmi di spesa, soprattutto nel setto-re degli approvvigionamenti militari. In verità, va in proposito osservato che la stessa manovra disposta con il disegno di legge di stabilità prevede dismissio-ni di immobili del demanio militare per un importo di 220 milioni nel 2015 (più altri 100 mln sia nel 2016 che nel 2017), i cui proventi devono essere contabi-lizzati – secondo i criteri del Sec – a riduzione degli investimenti fissi lordi. Ciò significa, in altri termini, che il contenimento della spesa militare, per questa categoria economica, potrebbe risultare, almeno in parte, solo apparente.

In proposito va rilevata l’impropria utilizzazione di proventi per loro natura straordinari e una tantum per compensare la dinamica della spesa ordinaria del ministero. Inoltre, solo l’incertezza sui tempi di ef-fettiva acquisizione di tali proventi ha indotto a pre-

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vedere una sorta di clausola di salvaguardia relativa alle spese rimodulabili della difesa.

Anche nel caso del Ministero del lavoro, il peso delle maggiori entrate sull’insieme dei risparmi attesi è molto consistente (200 mln su 455 mln). In propo-sito, va segnalata, in particolare, la disposizione che riduce di 200 milioni di euro, a decorrere dal 2015, la dotazione finanziaria del fondo per il finanziamento degli sgravi contributivi per incentivare la contratta-zione di secondo livello. Tale sgravio è inteso a pre-miare le imprese che si trovino in situazione di rego-larità contributiva ed è volto ad incentivare gli istituti connessi con il recupero di produttività del lavoro.

Al riguardo si può osservare che il meccanismo di decontribuzione previsto a partire dal 2008, ha re-gistrato, nel tempo, un “tiraggio” sempre maggiore, con un numero di domande presentate da parte delle aziende di gran lunga superiore all’ammontare degli stanziamenti, con circa 40 mila imprese beneficiarie nel 2013, selezionate – in relazione all’entità delle risorse disponibili – sulla base del criterio della prio-rità temporale delle domande presentate.

In tema di tagli agli stanziamenti dello stesso Mi-nistero del lavoro meritano di essere segnalate altre due disposizioni del disegno di legge di stabilità:

a) la soppressione dello stanziamento previsto per l’assunzione di 250 unità appartenenti al profi-lo di ispettore del lavoro. Al riguardo va sottolineato come una recente relazione della Corte ha evidenzia-to con riferimento alla predetta attività ispettiva di-sfunzioni legate a duplicazioni di interventi da parte dei diversi enti interessati (ministero, Inps, speciale Nucleo dei carabinieri, Agenzia delle entrate e Guar-dia di finanza), all’assenza di una unitaria attività di programmazione alla mancata condivisione delle piattaforme informatiche e delle banche dati.

Il potenziamento dell’attività ispettiva, presup-pone, comunque, anche nella prospettiva prevista nel cosiddetto jobs act dell’istituzione di un’agenzia unitaria, la presenza di un congruo numero di pro-fessionisti adeguatamente formati considerato che il ruolo degli ispettori non si sostanzia esclusivamen-te nell’aspetto repressivo ma anche nelle attività di conciliazione monocratica e nella consulenza speci-fica sulle modalità attuative della complessa norma-tiva in materia di rapporti di lavoro.

b) La riduzione di 150 milioni di euro del fondo relativo al finanziamento degli istituti di patronato.

Tale previsione, osserva la Corte, va valutata alla luce delle modalità di finanziamento del predetto fondo, attraverso il versamento di una quota del get-tito complessivo dei contributi previdenziali, e alla

recente previsione che i patronati debbano ampliare significativamente la copertura territoriale del servi-zio, senza poter chiedere contributi diretti ai soggetti che si avvalgono della loro attività.

Nel settore della scuola, i risparmi di spesa previ-sti nel disegno di legge di stabilità sono da riconnet-tere prioritariamente ad interventi di razionalizzazio-ne organizzativa.

Si tratta del divieto, a partire dal prossimo anno scolastico, di disporre comandi, distacchi e fuori ruolo (2500 posizioni nel 2014), dell’obbligo, anche per i collaboratori dei dirigenti, di assicurare il pieno svolgimento della attività didattica, dell’abolizione dell’esonero dall’insegnamento dei docenti di edu-cazione fisica (ora sostituiti da supplenti) impegna-ti, a tempo pieno, nei progetti per l’avviamento alla pratica sportiva, del divieto, infine, di avvalersi di supplenze brevi, demandando alla capacità organiz-zativa di ciascun istituto il compito di fronteggiare con risorse interne la temporanea assenza dei titolari di funzioni didattiche ed amministrative.

Gli incrementi di efficienza connessi con gli in-terventi di semplificazione già avviati dovrebbero, poi, consentire una riduzione nell’organico di diritto del personale ausiliario, tale da garantire, a parità di risultati, un risparmio di spesa di oltre 50 milioni.

Con riferimento all’ulteriore riduzione (30 mln) del Fondo per l’arricchimento e l’ampliamento dell’offerta formativa, vanno ribadite le preoccupa-zioni già espresse dalla Corte in sede di certificazio-ne di un recente accordo sindacale, che prevedeva a copertura dei benefici concessi una significativa riduzione delle risorse presenti nel predetto fondo.

Osservava in quella sede la Corte la particolare importanza, sul piano non solo didattico ma anche sociale, delle finalità che il fondo dovrebbe garantire, quali l’insegnamento di una seconda lingua fin dalle scuole medie, la realizzazione di interventi perequa-tivi per le scuole in situazioni di particolare disagio, l’innalzamento del tasso di scolarità, nonché il cofi-nanziamento di iniziative che si avvalgono dell’uti-lizzo di fondi strutturali dell’Unione europea.

Le amministrazioni locali10. Gli enti localiTra gli interventi volti a contenere la dinamica

della spesa una particolare attenzione va dedicata a quelli riguardanti gli enti locali e le regioni che, come si è detto, dovrebbero consentire una riduzione di spesa corrente di oltre 8,5 miliardi, solo in parte compensata da una crescita di quella in conto capita-le di 3,4 miliardi negli enti locali.

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Per i comuni, la correzione è il risultato di un complesso insieme di fattori destinati a distribuirsi tra le amministrazioni in maniera molto differenzia-ta. Rinviato al prossimo anno il passaggio agli equi-libri di bilancio, l’applicazione dei nuovi principi contabili ai comuni e, in special modo, la previsione del fondo crediti di dubbia esigibilità (che sterilizza l’utilizzo di risorse non riscuotibili), sono destinati a produrre un “rafforzamento” nel vincolo riconduci-bile al patto, compensato dalla revisione al ribasso delle percentuali previste e dalla modifica della base per il calcolo del saldo obiettivo. L’effettiva azione di contenimento della spesa dipenderà non solo dalle misure specifiche introdotte con la legge di stabili-tà ma anche (e si può dire, soprattutto) dal rilievo che avrà l’entrata a regime delle norme che regolano l’armonizzazione dei sistemi e degli schemi contabili e l’impatto che queste avranno sull’operare del patto di stabilità interno.

È un intervento da tempo auspicato. Come la Corte ha sottolineato anche di recente (audizione presso la Commissione bicamerale per l’attuazione del federalismo fiscale, maggio 2014), tra le norme che caratterizzano il processo di revisione dell’ordi-namento contabile degli enti locali quella destinata ad assumere maggior rilievo è proprio l’applicazione del fondo che potrebbe accompagnare le ammini-strazioni in disavanzo “nascosto” verso condizioni di equilibrio effettivo.

L’attività di monitoraggio del patto di stabilità interno aveva più volte indotto a sottolineare il di-sallineamento dei risultati di cassa rispetto a quelli di competenza, che portava a interrogarsi sull’ef-fettiva consistenza delle poste positive non tradotte in riscossioni. Una condizione che richiamava alla necessità di avviare al più presto una attività di ri-ac-certamento dei residui finalizzata all’eliminazione delle poste inesigibili e, appunto, l’adozione di rego-le più “prudenti” per il futuro.

Se sarà confermata la stima dell’accantonamen-to destinato a “sterilizzare” le entrate per circa 2,4 miliardi (tali sono le stime assunte nella relazione tecnica al provvedimento che tuttavia ad avviso del-la Corte – e dello stesso governo – sottostimano il rilievo del fenomeno), nel complesso il contributo netto richiesto agli enti locali sarà di poco superiore al miliardo.

11. La revisione delle regole del patto accom-pagna gli enti locali in questo ultimo anno prima dell’introduzione del sistema degli equilibri di bilan-cio e si caratterizza per la semplificazione dei mec-canismi di quantificazione e per l’alleggerimento

complessivo dei saldi attraverso una forte riduzione dei coefficienti di correzione da applicare alla spe-sa corrente di comuni e province. Per i comuni, che vedono in sostanza dimezzata l’aliquota, l’effetto di tale misura viene quantificato nella relazione tecnica in oltre 3 miliardi annui fino al 2018. Si tratta di un beneficio importante che determina un abbattimen-to dell’obiettivo 2015, rispetto al calcolo effettuato sulla base delle norme previgenti, di oltre il 70 per cento. Il vantaggio si distribuisce tuttavia in modo differenziato sul territorio e soprattutto in considera-zione delle dimensioni dei comuni.

La differente ripartizione del beneficio a fronte di un taglio lineare dell’aliquota, dipende dalla se-conda variabile rilevante ai fini del calcolo, vale a dire la spesa corrente media su cui applicare il co-efficiente di correzione, che viene fatta scorrere in avanti di un anno. Se in aggregato lo scorrimento della base di calcolo non sembra determinare effetti significativi, sui saldi individuali le differenze non sono trascurabili. I comuni più “virtuosi” (circa il 42,5 per cento del totale) ottengono dalla revisione delle regole un abbattimento del patto 2015 quasi dell’80 per cento.

L’effetto positivo per i comuni legato alla ridu-zione delle aliquote (e per i soggetti più “virtuosi” allo scorrimento della base di calcolo) viene ridi-mensionato dall’applicazione a tutti i comuni delle nuove norme di contabilità che obbligano le ammini-strazioni a stanziare in bilancio una quota pari, per il 2015, almeno al 50 per cento dell’accantonamento al fondo crediti di dubbia esigibilità, accantonamento quantificato in base al tasso di mancata riscossione di entrate proprie registrato negli ultimi 5 anni. È pre-visto che tale stanziamento rilevi ai fini del patto di stabilità riducendo, di fatto, il livello di entrate utili per il saldo di competenza mista.

A ciò si aggiunga l’ulteriore obiettivo di rispar-mio di spesa corrente posto a carico dei comuni dall’art. 36 del disegno di legge di stabilità e quan-tificato in 1,2 miliardi, il cui effetto migliorativo dei saldi di finanza pubblica è garantito dalla riduzione di pari importo del fondo di solidarietà comunale. Un taglio di risorse che si cumula nel 2015 ai 280 milio-ni già previsti (d.l. n. 66/2014 e l. n. 228/2012).

Queste due misure impongono alle amministra-zioni una manovra correttiva di rilievo che tuttavia, in aggregato, non si discosta dai limiti dell’obiettivo di patto previgente considerando poi che la spesa in conto capitale ottiene una flessibilizzazione di 1 mi-liardo e che non si esclude – come avvenuto già in passato – che il maggiore spazio concesso si tradu-

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ca in un alleggerimento dell’obiettivo complessivo piuttosto che in investimenti aggiuntivi, il rispetto dei saldi programmatici potrebbe risultare meno ca-rico di tensioni rispetto agli ultimi anni.

Tuttavia il peso delle condizioni individuali degli enti appare determinare differenze anche significati-ve nella distribuzione del carico complessivo.

In particolare l’accantonamento al fondo crediti di dubbia esigibilità fa perno sulla capacità dell’en-te di incassare le proprie entrate, fronte sul quale si osservano forti criticità. Il tasso medio di mancata riscossione delle entrate extratributarie del quin-quennio 2009-2013 si approssima al 39 per cento, con punte ben al di sopra della media nelle regioni del Sud (69 per cento in Calabria, 60 per cento in Campania, 63 per cento in Sicilia e 55 per cento in Molise).

Dall’osservazione di un campione di comuni per i quali è stato possibile stimare la quota di accanto-namento ed il taglio del fondo di solidarietà, emer-gerebbe, infatti, che circa il 20 per cento degli enti si troverebbe ad affrontare una manovra complessiva superiore agli obiettivi previgenti, con una concen-trazione di soggetti svantaggiati connessa agli accan-tonamenti più elevati.

Va tenuto presente che la soglia minima di stan-ziamento pari al 50 per cento del fondo è prevista solo per il bilancio di previsione, mentre a rendicon-to dovrà essere data copertura all’intero accantona-mento, con la conseguenza che, se la regola dovesse essere applicata in tale senso anche ai fini della ve-rifica dei saldi rilevanti del patto, ben più stringente sarebbe la quantificazione finale di entrate su cui gli enti potranno contare per il raggiungimento degli obiettivi.

Il miglioramento dei conti comunali attraverso la riduzione del fondo di solidarietà per 1,2 miliardi si colloca nell’alveo delle misure di spending review (d.l. n. 95/2012 e d.l. n. 66/2014 che hanno già im-posto una riduzione di spesa per consumi intermedi di 2,9 mld nel biennio 2013-2014). Se nel riparto si confermasse il riferimento ai parametri concordati per la distribuzione dell’ultimo taglio disposto con il d.l. n. 66/2014, il contributo sarebbe crescente in proporzione al livello di spesa per consumi interme-di, ai ritardi nei pagamenti ed al mancato ricorso alle centrali uniche di committenza per l’acquisto di beni e servizi, con la previsione di alcune clausole di sal-vaguardia.

Compensare le minori entrate correnti per gli enti svantaggiati dalla manovra potrebbe voler dire rea-lizzare un taglio rispetto alla spesa media del triennio

2010-2012 di circa il 10 per cento, con punte oltre il 12 per cento in alcuni ambiti territoriali, a fronte di una riduzione di poco superiore al 4 per cento per i restanti comuni.

Infine, lo spazio finanziario aggiuntivo per pa-gamenti di spesa in conto capitale va visto anche in rapporto alle nuove compensazioni territoriali, che andranno a sostituire gli attuali meccanismi dei patti di solidarietà regionali.

Nel passaggio al nuovo sistema degli equilibri di bilancio delle regioni con conseguente superamento del patto di stabilità regionale, è comunque previsto che strumenti di compensazione orizzontale e verti-cale continuino a garantire, a livello regionale, quel-la flessibilità degli obiettivi che nelle ultime versioni del patto si era tradotta in un alleggerimento di oltre un miliardo annuo, destinato ai pagamenti di spesa in conto capitale. Tra i differenti meccanismi che po-tevano essere attivati, al patto verticale incentivato vanno ascritti i risultati migliori in termini di effica-cia, soprattutto perché ha consentito l’accesso ai be-nefici previsti dalle norme anche ad enti appartenenti ai territori più svantaggiati, dove le amministrazioni regionali erano più in difficoltà nella concessione di spazi finanziari.

Andrà pertanto osservato e valutato l’effetto che l’introduzione degli equilibri di bilancio per le regio-ni potrà avere sul sistema delle compensazioni a fa-vore degli enti del proprio territorio e pertanto sugli obiettivi di patto di questi ultimi.

Le regioni12. Il concorso delle regioni agli obiettivi di fi-

nanza pubblica è affidato a tre diversi interventi:- una modifica delle disposizioni introdotte con

il d.l. n. 66/2014 volta ad incrementare per gli anni 2015-2018 la riduzione di risorse a disposizione del-le regioni a statuto ordinario per circa 3,5 miliardi e delle regioni a statuto speciale per 548 milioni. De-finito il riparto per le regioni a statuto speciale, per le ordinarie è prevista una determinazione in sede di auto-coordinamento e, in mancanza, una applicazio-ne dei tagli da parte dello Stato, ivi comprese anche le risorse destinate al finanziamento della sanità;

- il passaggio al pareggio di bilancio delle regioni a statuto ordinario dal 2015, con conseguente ride-finizione di alcune voci e importi da ricomprendere nei saldi;

- l’abolizione del patto di stabilità sempre per le regioni a statuto ordinario, con la conseguente riscrittura del sistema sanzionatorio con riferimen-to ai saldi, la ridefinizione delle somme relative a

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PARTE I – ATTIVITÀ DI CONTROLLO E CONSULTIVA N. 5-6/2014

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particolari spesa da escludere dagli equilibri perché già escluse dai limiti del patto, la revisione delle modalità di funzionamento dei patti orizzontale e verticale.

Il contributo richiesto alle regioni appare molto impegnativo anche tenuto conto che si aggiunge a quello già previsto con il d.l. n. 66. Esso compor-terebbe in un solo anno una riduzione del 15 per cento della spesa “aggredibile” (quella al netto dei trasferimenti alle altre amministrazioni pubbliche e alla sanità). Va osservato che tale intervento si col-loca a valle dei tagli di risorse introdotti negli ultimi anni, che hanno portato ad una flessione delle spese dirette regionali (al netto dei trasferimenti ad altre pubbliche amministrazioni) di circa il 10 per cento nell’ultimo triennio.

L’anticipazione nel passaggio al pareggio di bi-lancio comporta, secondo la relazione tecnica, effetti finanziari di rilievo. Il miglioramento in termini di indebitamento netto legato alle modalità di calcolo dei saldi (con l’esclusione dagli equilibri di cassa del fondo di cassa e degli incassi per l’accensione di prestiti autorizzati ma non contratti, o da quelli di competenza della quota libera del risultato di ammi-nistrazione, o del fondo pluriennale, nonché la con-siderazione del fondo crediti di dubbia esigibilità), il cui impatto è stimato in 2 miliardi, è compensato dalla possibilità per le amministrazioni di ricompren-dere, ai fini dell’equilibrio, un importo di pari am-montare redistribuito tra regioni. Al riguardo resta da valutare, tuttavia, una volta completata la revisione dei residui attivi e passivi, e tenuto conto del pas-saggio alla competenza rinforzata, la sostenibilità dei bilanci regionali alla luce dei nuovi vincoli di equi-librio e/o la necessità di disporre modifiche alla l. n. 243/2012.

Il nuovo patto della salute13. Recependo quanto previsto dal nuovo patto

della salute siglato nello scorso mese di luglio, dato un livello di finanziamento del Ssn per il 2014 pari a 109,9 miliardi, il disegno di legge di stabilità fissa gli importi per il biennio 2015-2016 in misura pari, rispettivamente, a 112,1 miliardi e a 115,4 miliardi. Essi sono determinati sulla base della c.d. regola di variazione a legislazione vigente che prevede, per tale comparto, una crescita del finanziamento in li-nea con la dinamica attesa per il Pil nominale come indicato nelle stime ufficiali: 2,5 e 3,1 per cento nei due anni secondo il Def presentato nell’aprile scor-so (ultimo documento programmatico disponibile al momento della sigla del patto), superiore quindi agli

incrementi previsti nella Nota di aggiornamento pre-sentata a metà ottobre (1 per cento nel 2015 e 2,1 per cento nel 2016).

Inoltre, secondo quanto previsto dal c. 3 dell’art. 39 che conferma la previsione del patto, eventuali risparmi nella gestione della sanità rimangono all’in-terno del comparto: ciò potrà contribuire al miglio-ramento della qualità delle prestazioni e a facilitare il percorso di efficienza basato sui costi standard, av-viato in anni caratterizzati da una continua rimodula-zione delle risorse. La norma fa salvo il meccanismo previsto dal c. 80 l. n. 191/2009, che consente alle regioni in piano di rientro – che presentano un di-savanzo sanitario inferiore al gettito derivante dalla massimizzazione delle maggiorazioni dell’aliquota Irap e dell’addizionale regionale all’Irpef – di ridur-re le predette maggiorazioni, garantendo comunque una copertura adeguata del disavanzo, o di destinare il gettito eccedente a finalità extrasanitarie. Come la Corte ha avuto modo di osservare, tale ultimo mecca-nismo (introdotto dal d.l. n. 120/2013) fa venir meno il legame diretto tra formazione di disavanzi sanitari e attivazione della leva fiscale a copertura che pure, secondo il legislatore, era diretto ad innestare una sanzione politica nei confronti dell’amministratore regionale inadempiente/inefficiente.

È da rilevare, infine, che pur in assenza di una manovra che riguardi direttamente il comparto sa-nitario, per il quale sono confermate le risorse a le-gislazione vigente, un contenimento delle stesse po-trebbe derivare quale “effetto indiretto” dei risparmi di spesa richiesti alle regioni nell’ambito della legge in esame: come si è detto, in mancanza di un’Intesa entro il 31 gennaio 2015, lo Stato potrà procedere autonomamente ad una riduzione delle risorse regio-nali, ivi comprese quelle destinate al finanziamento corrente del Servizio sanitario nazionale. Tagli alla sanità non sembrerebbero, invece, essere proponibili da parte delle regioni (ove non in grado di indicare altre riduzioni di spesa), stante il divieto di distoglie-re per fini extrasanitari le risorse stanziate a garanzia dei livelli essenziali di assistenza.

In questa logica si inserisce, anzi, la disposizione dell’art. 42, che incrementa dal 90 al 95 per cento la quota di risorse del settore sanitario che in corso d’anno le regioni sono tenute a trasferire agli enti del servizio sanitario regionale, salvo il completo trasfe-rimento entro la fine del primo trimestre dell’eser-cizio successivo. La norma è diretta a migliorare la tempistica del pagamento dei debiti verso i fornitori e, insieme alla maggiore trasparenza contabile con-seguente all’attuazione d.lgs. n. 118/2011, dovrebbe

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contribuire a evitare il ripetersi dei ritardi verificatisi in passato.

Tra le numerose misure previste dal patto e ri-prese dal d.d.l. di stabilità, appare opportuno ricor-dare le disposizioni sulla governance sanitaria ed in particolare quelle sulle nomine dei commissari ad acta per la predisposizione e attuazione dei piani di rientro, per i quali si sancisce l’incompatibilità con l’affidamento o la prosecuzione di qualsiasi incarico istituzionale presso la regione soggetta a commis-sariamento. Appare senz’altro condivisibile sottrar-re alla disponibilità del governo regionale un’area rilevante come la sanità in presenza di quelle gravi inadempienze che portano al commissariamento e positiva è la scelta di affidarne la gestione a figure di qualificate e comprovate professionalità ed esperien-za, anche in base a risultati in precedenza consegui-ti. Resta, tuttavia, da chiarire la portata della norma, la cui applicazione riguarda “le nomine effettuate, a qualunque titolo, successivamente all’entrata in vi-gore della presente legge”: non è chiaro, infatti, se nelle regioni attualmente commissariate i presidenti che usciranno dalla prossima tornata elettorale conti-nueranno ad essere responsabili del settore in qualità di commissari, così come i loro predecessori, o se in base a tale disposizione non potranno svolgere tale compito.

Sempre in riferimento alle regioni in piano di ri-entro, specifiche disposizioni (art. 40) riguardano la Regione Molise: a distanza di sette anni dalla sot-toscrizione del piano di rientro, la regione presenta ancora un elevato disavanzo, parzialmente privo di copertura (29,3 mln nel 2013 secondo quanto emer-ge dalla verifica annuale dei competenti tavoli), tale dunque da far scattare le maggiorazioni delle aliquo-te fiscali oltre i massimi previsti dalla legislazione vigente; il disavanzo pregresso è anch’esso elevato e pari a 182 milioni: come rilevato giustamente nel-la relazione tecnica, “se paragonato alle dimensioni della Lombardia, sarebbe pari a circa 11 miliardi”. La gravità della situazione economico-finanziaria e sanitaria rende quindi necessario un piano straordi-nario di risanamento da recepire con un accordo spe-cifico Stato-regione, che definisca il nuovo percorso di rientro della regione e le condizioni per l’eroga-zione dei 40 milioni, quale intervento di accompa-gnamento statale al risanamento.

Tra le altre disposizioni attuative del patto occor-re, poi, richiamare quelle riguardanti il personale (c. 30), che prevedono l’estensione al comparto sanita-rio della proroga del tetto alla spesa fissato da ultimo dall’art. 17 d.l. n. 98/2011. Se da un lato il tetto è

prorogato fino al 2020, dall’altro si introducono de-gli elementi di flessibilità nella verifica degli adem-pimenti regionali, prevedendo che ove gli obiettivi di spesa non siano conseguiti, la regione si considera comunque adempiente se ha raggiunto l’equilibrio economico e se abbia attuato, tra il 2015 e il 2019, un percorso graduale di riduzione della spesa per il personale fino al completo conseguimento dell’o-biettivo nell’anno finale (2020). Quanto al blocco del turn over disposto quale sanzione per le regioni che in sede di verifica annuale non garantiscono l’e-quilibrio di bilancio, la durata dello stesso, attual-mente prevista fino al 31 dicembre dell’anno suc-cessivo a quello in corso, viene ridotto di un anno, portandolo alla fine dell’anno successivo a quello di verifica (c. 29).

Le misure per le società partecipate 14. La “Razionalizzazione delle società parte-

cipate”, cui è dedicato l’art. 43 d.d.l. di stabilità, è argomento di primaria attenzione nel processo di revisione della spesa pubblica, essendo evidenti le esigenze di un profondo riordino in un settore ad alto rischio per gli equilibri della finanza pubblica e con ampi margini di efficientamento.

Del resto, l’importanza del tema è confermata da una specifica delega che, sulla stessa materia, è contenuta nel provvedimento sulla riorganizzazione delle amministrazioni pubbliche (A.S. 1577).

Il disegno di legge di stabilità si limita, però, soltanto a dettare disposizioni che disciplinano il percorso di adesione agli Ambiti territoriali ottimali (Ato) e l’affidamento e gestione dei servizi pubbli-ci locali a rilevanza economica a rete, integrando e modificando quanto già previsto dall’art. 3-bis d.l. n. 138/2011, al fine espresso di superare l’attuale frammentazione del settore, di promuovere la gestio-ne aggregata e industriale e di favorire economie di scala e di scopo.

A fronte della riscontrata inerzia/resistenza degli enti tenuti ad organizzare la gestione dei servizi pub-blici in questione per ambiti territoriali, allo scopo di assicurare l’effettività delle disposizioni viene previ-sta l’attivazione di poteri sostitutivi.

È, infatti, affidato al presidente della regione, pre-via diffida ad adempiere agli enti locali che entro l’1 marzo 2015 non abbiano aderito agli enti di governo degli Ato, il potere di sostituirsi ad essi, stabilendone l’adesione. Un affidamento che appare in linea con i principi derivanti dall’art. 120 Cost., stabiliti in via giurisprudenziale in materia di attribuzione di potere sostitutivo (Corte cost., n. 43/2004).

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Per garantire maggiormente l’efficacia della nor-ma, potrebbe essere valutata l’opportunità di intro-durre un limite temporale per l’esercizio del potere sostitutivo.

Nell’affidamento del servizio pubblico a rete par-ticolare rilievo deve assumere la programmazione di adeguati investimenti, oltre che la capacità e sosteni-bilità degli stessi. Gli enti di governo, che per i ser-vizi pubblici di competenza comunale o provinciale saranno principalmente le province nel nuovo assetto istituzionale (art. 1, c. 90, l. n 56/2014), all’atto di affidamento del servizio sono tenuti a pubblicare sul proprio sito web una relazione (già prevista dall’art. 34, c. 20, d.l. n. 179/2012) orientata anche a far co-noscere gli investimenti programmati e la capacità di interventi infrastrutturali, e che dovrà contenere, tra l’altro, il piano economico finanziario, da asseverarsi da parte di istituto di credito o società di revisione.

Nel caso di affidamento in house, la relazione dovrà anche specificamente informare circa la so-lidità finanziaria della società, dando conto dell’as-setto economico-patrimoniale, del capitale proprio investito e dell’ammontare dell’indebitamento da aggiornare ogni triennio. Onde evitare che da inve-stimenti di capitale proprio possano derivare rischi di perdite che si riverbererebbero sul bilancio degli enti proprietari, gli stessi sono tenuti ad accantonare in bilancio pro quota una somma pari all’impegno finanziario corrispondente al capitale investito.

Condivisibile appare la previsione di detto ac-cantonamento di carattere prudenziale che, peraltro, potrebbe aggiungersi a quello previsto dal c. 551 l. n. 147/2013 destinato alla copertura delle perdite pre-gresse degli organismi partecipati.

Al riguardo, sembrerebbe opportuno che, oltre alla previsione di tale nuovo accantonamento, ve-nisse anche espressamente affermato il principio che la gestione societaria dei servizi pubblici locali, da svolgersi sotto il controllo dell’ente di governo dell’ambito, fosse improntata all’efficienza, econo-micità ed efficacia, requisiti che, ex se, dovrebbero garantire contro il rischio di perdite future.

La modifica introdotta all’art. 3 d.l. n. 138/2011 prevede la possibilità di revisione del piano econo-mico-finanziario dell’operatore economico affidata-rio nel caso in cui operazioni societarie (ad esempio fusioni o acquisizioni) possano rendere necessario l’accertamento della permanenza dei criteri qualita-tivi e delle condizioni di equilibrio precedenti. In tale evenienza è prevista anche la possibilità di aggior-nare il termine di scadenza originario, richiamando l’art. 143, c. 8, d.lgs. n. 163/2006. Opportunamente,

la verifica delle condizioni previste dal comma cita-to è rimessa all’autorità di regolazione competente, (peraltro al momento non prevista per il settore dei rifiuti) in quanto un prolungamento non giustificato del termine della concessione potrebbe configurare violazioni dei principi di concorrenza.

Poiché il soggetto gestore dovrà assicurare so-lidità economica ed efficienza gestionale, il nuovo c. 4 dell’art. 3-bis d.l. n. 138/2011 stabilisce che le principali risorse che sostengono i piani economi-co-finanziari di investimento approvati dagli enti di governo, dovranno provenire dal soggetto gestore stesso, in quanto i finanziamenti concessi a valere su risorse statali relativi a servizi pubblici locali a rete di rilevanza economica potranno soltanto essere aggiuntivi o di garanzia di realizzazione del piano. Applicando concetti di premialità cui il legislatore ha già fatto più volte ricorso, le risorse statali saranno destinate prioritariamente ai gestori selezionati con gara o di cui comunque l’Autorità di regolazione (o l’ente di governo) attesti l’efficienza gestionale e la qualità del servizio reso. Tali risorse potranno essere destinate anche a soggetti gestori che abbiano delibe-rato operazioni di aggregazione societaria.

È prevista, infine, l’esclusione dal patto di stabi-lità delle spese di investimento effettuate utilizzando le risorse provenienti dalla dismissione totale o par-ziale di partecipazioni in società.

La certezza nella determinazione di tali importi è opportunamente assicurata attraverso l’espresso ri-chiamo al codice Siope degli incassi derivanti dall’a-lienazione di partecipazioni in imprese di pubblici servizi (E4121) e di partecipazioni in altre imprese (E4122). La norma non determina effetti sull’inde-bitamento netto, trattandosi di spesa per acquisto di partecipazioni nelle imprese effettuata a valere sulle entrate da dismissioni immobiliari: né tali spese né le entrate da dismissioni concorrono ai fini dell’indebi-tamento netto.

Considerazioni conclusive15. In conclusione, la manovra proposta con la

legge di stabilità conferma l’impianto annunciato con la Nota di aggiornamento.

Nonostante il minor peggioramento dei saldi prefi-gurato nel nuovo quadro programmatico in risposta ai rilievi della Commissione europea, le misure disposte confermano le indicazioni programmatiche: esse mira-no a cambiare le aspettative degli operatori economici e a sostenerne la fiducia, con interventi strutturali di modifica del mercato del lavoro e del sistema fiscale. Così, a misure sul lato della domanda interna (bonus

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fiscale, intervento per i nuovi nati) si accompagnano interventi sul lato dell’offerta (taglio dell’Irap, decon-tribuzione, nuovi contratti di lavoro). Una azione di sti-molo che, ridotto a poco meno di 6 miliardi il ricorso al peggioramento dei saldi, per la gran parte continua a basarsi su interventi di carattere redistributivo.

Una opzione non priva di rischi ma giustifica-ta dalle difficili condizioni economiche del paese. Occorrerebbe, pertanto, una riflessione accurata sui provvedimenti assunti nei tempi e nelle modalità proposte.

La mobilitazione di risorse consistenti, specie se poste in rapporto con i vincoli di finanza pubblica, richiede un attento monitoraggio degli interventi per assicurarne, in fase di attuazione, l’efficacia e, so-prattutto, l’effettivo carattere aggiuntivo. A questo fine, alcuni aggiustamenti potrebbero essere oppor-tuni, come ad esempio in tema di sgravi contributivi per i nuovi assunti.

Si tratta anche di leggere gli interventi individua-ti in relazione all’effettiva capacità di affrontare una crisi del sistema produttivo, che è sì riconducibile ad un eccesso di pressione fiscale ma è anche connessa alla stagnazione della produttività totale dei fattori. Crisi che richiede un adeguato intervento sulle con-dizioni di contesto in cui vanno ad operare le imprese e, tra queste, una amministrazione non più percepita quale elemento di freno ma di supporto alla crescita.

In particolare nel caso delle misure di conteni-mento della spesa degli apparati pubblici, è urgente che esse siano accompagnate da un processo di ri-forma della pubblica amministrazione che ne delinei funzioni e limiti.

Le coperture individuate, specie quelle dal lato della spesa delle amministrazioni territoriali, man-tengono margini di incertezza per il timore sia che da esse derivino peggioramenti nella qualità dei servizi, sia che esse inducano ad aumenti delle imposte.

Occorre infine sottolineare il crescente impegno che grava sul futuro per ulteriori tagli di spesa, al momento sostituiti da clausole di salvaguardia: 16 miliardi nel 2016, oltre 23 miliardi nel 2017, che si aggiungono ai 3 miliardi di ulteriori tagli alla spesa a partire dal 2016.

In conclusione, gli spazi di azione per la politica economica con riguardo alle difficoltà del paese sono molto angusti. Il forte ruolo che rivestono in questa fase le aspettative di operatori economici e famiglie impegna tutti a rendere certa e spedita la direzione verso cui muovere e a cui concorrere.

* * *

Sezioni riunite in sede consultiva

2 – Sezioni riunite in sede consultiva; parere 24 ot-tobre 2014; Pres. Squitieri, Rel. Buscema; Equi-talia s.p.a.

Contabilità dello Stato e pubblica in genere ‒ Ri-scossione delle entrate erariali – Conti giudi-ziali ‒ Equitalia e società delegate – Presen-tazione di un unico conto giudiziale su base provinciale – Necessità.

D.lgs. 30 giugno 2011 n. 123, riforma dei controlli di regolarità amministrativa e contabile e potenziamen-to dell’attività di analisi e valutazione della spesa, a norma dell’art. 49 della l. 31 dicembre 2009 n. 196, art. 16.Contabilità dello Stato e pubblica in genere ‒

Agenzia delle entrate ‒ Riscossione coattiva delle entrate erariali ‒ Omessa attivazione del flusso telematico fra Ragioneria generale dello Stato, Agenzia delle entrate ed Equitalia s.p.a. ‒ Concordanza tra i conti presentati da Equitalia e i conti delle ragionerie territoriali ‒ Competenza dell’Agenzia delle entrate.

D.lgs. 30 giugno 2011 n. 123, art. 16.

Equitalia s.p.a., quale agente contabile della ri-scossione delle entrate erariali, è tenuta a presentare alle sezioni giurisdizionali della Corte dei conti un unico conto giudiziale delle entrate riscosse su base provinciale, nel quale devono confluire tutti i conti giudiziali compilati dalle società delegate dalla stes-sa Equitalia.

Compete all’Agenzia delle entrate, nelle more dell’operatività del protocollo d’intesa tra Diparti-mento della Ragioneria generale dello Stato, Agen-zia delle entrate ed Equitalia s.p.a. relativo al flusso telematico dei dati delle riscossioni coattive delle entrate erariali, l’accertamento, prima che i conti giudiziali di Equitalia s.p.a. vengano trasmessi alle ragionerie territoriali dello Stato per i controlli di loro competenza, della concordanza tra i conti della gestione ad essa presentati da Equitalia e i dati che la stessa Agenzia abbia acquisito dalle ragionerie territoriali.

Considerato ‒ Con nota n. 45523 del 21 maggio 2014 la Ragioneria generale dello Stato-Ispettorato generale di finanza ha chiesto il parere della Corte dei conti sulla presentazione, la parifica e il control-lo di regolarità amministrativa dei conti giudiziali di Equitalia, relativamente all’applicazione delle dispo-sizioni di cui all’art. 16 d.lgs. 30 giugno 2011, n. 123.

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La questione sottoposta all’esame del collegio attiene alle problematiche in materia di resa del con-to giudiziale da parte di Equitalia quale agente della riscossione nazionale, con riferimento a due distinti profili: la modalità di presentazione e la parifica del predetto conto.

Ritenuto ‒ 1. La prima questione attiene alla pre-sentazione da parte di Equitalia, quale agente con-tabile della riscossione di entrate erariali, dei conti compilati su base provinciale, che costituisce l’ambi-to territoriale entro il quale lo stesso agente contabile agisce per mezzo di società delegate facenti parte del proprio gruppo.

La rendicontazione delle riscossioni globalmente eseguite dalla predetta società presenta tuttavia, ad avviso del Dipartimento della Ragioneria generale dello Stato, delle difficoltà nell’esame e nelle verifi-che di regolarità amministrativo-contabile in quanto le riscossioni risultano prive dell’indicazione del tri-buto e dell’ente creditore.

Sul punto, il collegio, pur prendendo atto dell’ar-ticolazione territoriale della società Equitalia, riaffer-ma, in coerenza con l’orientamento giurisprudenzia-le pressoché uniforme delle sezioni giurisdizionali (Corte conti, Sez. I centr. app., n. 434/2008; Sez. giur. reg. Calabria, n. 47/2014; Sez. giur. reg. Sardegna, n. 317/2013; Sez. giur. reg. Veneto, n. 355/2012), il principio generale secondo il quale le disposizioni normative recentemente intervenute per delimitare i compiti della predetta società (v. da ultimo, l. 24 di-cembre 2013, n. 147), impongono di concentrare in un unico conto l’intera gestione dell’agente contabile principale, nella quale devono confluire le operazio-ni contabili poste in essere da soggetti che per esso agiscono (ai sensi dell’art. 188 r.d. n. 827/1924, che trova corrispondenza nella norma di diritto comune di cui all’art. 1228 c.c.), quali subagenti contabili.

Ciò in quanto la definizione del rapporto di de-bito-credito tra agente contabile e amministrazione pubblica deve formare oggetto di un conto unitario, di verifica della quantità e della legittimità dei movi-menti del carico del contabile, descritti e rappresen-tati computisticamente con espressioni numeriche che indicano la misura del carico (entrata) e quella del discarico (uscita), globalmente considerate per l’esercizio di riferimento.

Al tale conto unitario vanno allegati da parte della predetta società, quale agente contabile: a) “un elenco nominativo dei debitori dai quali non abbia-no riscosse le somme dovute durante l’anno, con la indicazione delle cause della mancata riscossione e col corredo dei documenti giustificanti le diligenze

usate, gli atti incoati e tutti gli altri mezzi adopera-ti, a tenore dei relativi regolamenti ed istruzioni, per riscuotere le dette partite”; b) “il conto di carico e di scarico debitamente documentato dei bollettari ri-cevuti e di quelli consumati”, qualora gli agenti in questione abbiano ricevuto in consegna tali bollettari “pel rilascio delle quietanze ai debitori” (art. 621 reg. cont. gen. Stato).

In via transitoria, per le attività svolte dalle so-cietà del gruppo Equitalia quale agente della riscos-sione per le entrate comunali e per le quali trovano applicazione le medesime sopraindicate disposizioni (art. 621 reg. cont. gen. Stato), tenuto conto che, in base alla recente normativa (da ultimo l. n. 147/2013, cit.), la predetta attività di riscossione appare desti-nata ad esaurirsi, si può consentire che alla mancan-za di un conto unico si sopperisca con un apposito prospetto di riconciliazione dei dati, da produrre su richiesta del magistrato relatore e da sottoporre al vi-sto di concordanza dell’amministrazione finanziaria.

2. La seconda questione attiene alle modalità di parifica dei conti resi da Equitalia quale agente con-tabile della riscossione, con specifico riferimento all’applicazione delle disposizioni previste nell’art. 16, c. 1, d.lgs. 30 giugno 2011, n. 123, secondo il quale gli “agenti contabili” “devono rendere il conto della propria gestione alle amministrazioni centrali o periferiche dalle quali dipendono, ovvero dalla cui amministrazione sono vigilati, per il successivo inol-tro a codesto ufficio di controllo”.

L’art. 2 d.p.r. 31 marzo 1972, n. 239 ha previ-sto che coloro che sono incaricati dell’accertamen-to, della riscossione e del versamento di entrate di qualsiasi natura di competenza dello Stato debbano comunicare gli accertamenti e le riscossioni alle am-ministrazioni dalle quali dipendono, nonché alle ra-gionerie competenti.

Ai sensi dell’art. 83, c. 28-septies, d.l. n. 112/2008, convertito dalla l. n. 133/2008, è prevista, da parte dell’Agenzia delle entrate, nei confronti del-la società Equitalia e sue partecipate, solo un’attività di coordinamento, attraverso la preventiva approva-zione dell’ordine del giorno delle sedute del consi-glio di amministrazione e delle deliberazioni da as-sumere nello stesso consiglio.

Il Dipartimento della Rgs con circolare n. 12 del 28 febbraio 2002 ha ritenuto che “a seguito della riorganizzazione” dell’amministrazione finanziaria – con soppressione del Ministero delle finanze, isti-tuzione del Ministero dell’economia e delle finanze, l’istituzione delle Agenzie fiscali – “spettano al Di-partimento della Ragioneria generale dello Stato i

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compiti di vigilanza e di controllo attribuiti dall’art. 74 legge di contabilità generale dello Stato e dagli artt. 622 e 623 del relativo regolamento”.

Il Dipartimento della Rgs nel richiedere il pare-re della Corte sulla predetta questione ha trasmesso il protocollo d’intesa del 17 maggio 2011, stipulato con l’Agenzia delle entrate ed Equitalia, nel quale sono previsti nuovi flussi telematici delle riscossioni coattive delle entrate erariali, diretti ad alimentare direttamente i sistemi informativi del predetto Di-partimento con le informazioni contenute nelle con-tabilità degli agenti contabili delle riscossioni e ciò al fine di “ottimizzare il sistema di rendicontazione delle entrate dello Stato nonché l’attività di riscontro contabile di competenza delle Ragionerie territoriali dello Stato”.

Nell’ambito dello stesso protocollo è previsto altresì l’invio da parte dell’Agenzia delle entrate al medesimo Dipartimento, con cadenza trimestrale, dei carichi (iscrizioni a ruolo e accertamenti esecu-tivi) e, al 31 gennaio di ogni anno, delle variazioni (sgravi, discarichi e variazioni).

Si prende atto che il Dipartimento della Rgs si è impegnato ad adeguare i propri sistemi informati-vi per ricevere i nuovi flussi informatici provenienti dall’Agenzia delle entrate e acquisire direttamente dagli enti impositori il flusso dei carichi e quello del-le variazioni degli stessi.

Quanto sopra premesso, il collegio osserva che la previsione dell’art. 16, c. 1, d.lgs. 30 giugno 2011, n. 123 – secondo il quale gli “agenti contabili” “devono rendere il conto della propria gestione alle ammini-strazioni centrali o periferiche dalle quali dipendono, ovvero dalla cui amministrazione sono vigilati, prima dell’inoltro” alla competente ragioneria territoriale – è in realtà finalizzata all’accertamento della concor-danza dei dati dei conti della gestione degli agenti contabili con quelli della stessa amministrazione, che dovrebbe, quindi, essere in possesso di elementi ed informazioni utili di riscontro, verificando e rile-vando eventuali discordanze e disallineamenti.

Ciò in quanto alla competente ragioneria terri-toriale spetta, infatti, il riscontro di regolarità am-ministrativa e contabile dei conti resi dagli agenti contabili, relativi alle riscossioni, previa la “parifica” o l’“accertamento di concordanza” che vanno svolti dall’amministrazione dalla quale dipendono gli stes-si agenti (art. 622 reg. cont. gen. Stato).

I termini della questione all’esame concernono, in particolare l’effettuazione della “parifica” dei dati resi nel conto dell’agente della riscossione Equitalia per le entrate erariali da parte della stessa ammini-

strazione – propedeutica alla loro trasmissione alla sezione giurisdizionale per l’esame giudiziale – che attesti la corrispondenza dei dati complessivi, distin-ti per esercizio e per ruolo, relativi alle riscossioni delle entrate erariali rispetto a quelli in suo possesso.

Sotto tale profilo il collegio è consapevole dell’insufficienza e dell’inadeguatezza del sistema di scritturazione delle entrate, considerazione più volte ribadita dalle Sezioni riunite in sede di relazione sul rendiconto generale dello Stato, nonché della brevità dei tempi per l’applicazione del piano operativo del predetto protocollo d’intesa.

Il collegio prende atto che una soluzione adeguata all’accertamento di concordanza tra i dati esposti nei conti resi da Equitalia e quelli dell’amministrazio-ne può rinvenirsi nel protocollo d’intesa tra Diparti-mento della Rgs, Agenzia delle entrate ed Equitalia che prevede nuovi flussi telematici delle riscossioni coattive delle entrate erariali, volti ad alimentare i sistemi informativi del predetto Dipartimento con le informazioni contenute nelle contabilità degli agenti contabili delle riscossioni.

Ciò in quanto vengono così resi disponibili at-traverso un sistema informativo, alimentato dall’A-genzia delle entrate e dalla stessa Equitalia, i dati essenziali che consentono al Dipartimento della Rgs di procedere con sufficiente grado di affidabilità al predetto accertamento.

Tuttavia, fino all’operatività di tale nuovo siste-ma, si rivela necessario che l’Agenzia delle entrate, alla quale la società Equitalia deve presentare i conti della gestione, acquisisca dalle ragionerie territoriali i dati occorrenti per la “parifica”, quali i riassunti dei ruoli inviati dalla stessa Equitalia, ai sensi d.m. 3 set-tembre 1999, n. 321, i conti mensili delle riscossioni, le contabilità amministrative, il prospetto dei disca-richi amministrativi e delle maggiori rateizzazioni degli agenti della riscossione.

Avvalendosi di tali informazioni la stessa Agen-zia potrà accertare la concordanza con le scritture dei conti resi dagli agenti contabili per le riscossioni era-riali prima della trasmissione alle stesse ragionerie territoriali per i controlli di rispettiva competenza.

P.q.m.: 1. Il collegio ritiene sussistente l’obbligo della società Equitalia di presentare alle sezioni giu-risdizionali della Corte, quale agente contabile prin-cipale, un unico conto riguardante l’intera gestione, nel quale devono confluire le operazioni contabili poste in essere per conto della società da soggetti che per essa agiscono, quali subagenti contabili.

2. Il collegio ritiene che una soluzione adeguata all’accertamento di concordanza tra i dati esposti nei

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conti resi da Equitalia e quelli dell’amministrazione può discendere dall’applicazione del protocollo d’in-tesa tra Dipartimento della Rgs-Agenzia delle entrate ed Equitalia nel quale sono previsti nuovi flussi tele-matici delle riscossioni coattive delle entrate erariali, diretti ad alimentare direttamente i sistemi informa-tivi del predetto Dipartimento con le informazioni contenute nelle contabilità degli agenti contabili del-le riscossioni.

Nelle more dell’operatività di tale nuovo sistema, ritiene il collegio che l’Agenzia delle entrate ‒ alla quale la società Equitalia è obbligata a presentare i conti della gestione ‒ debba acquisire dalle ragione-rie territoriali i dati necessari per la “parifica”, prima della trasmissione dei conti alle stesse ragionerie ter-ritoriali per i controlli di rispettiva competenza.

3 – Sezioni riunite in sede consultiva; parere 24 otto-bre 2014; Pres. Squitieri, Rel. Buscema; Camere di commercio.

Contabilità dello Stato e pubblica in genere ‒ Conti giudiziali ‒ Agenti contabili delle Came-re di commercio ‒ Obbligo di resa del conto giudiziale ‒ Trasmissione dei conti alle compe-tenti sezioni giurisdizionali.

D.lgs. 18 agosto 2000 n. 267, t.u. delle leggi sull’or-dinamento degli enti locali, artt. 93, 233; d.p.r. 2 no-vembre 2005 n. 254, regolamento per la disciplina della gestione patrimoniale e finanziaria delle Came-re di commercio, art. 37.

Gli agenti contabili delle Camere di commercio sono soggetti all’obbligo di resa del conto giudizia-le e, pertanto, i loro conti debbono essere trasmessi alle competenti sezioni giurisdizionali della Corte dei conti.

Considerato – L’Unioncamere con nota n. 0013135 del 27 maggio 2014, indirizzata al presi-dente della Corte, ha richiesto il parere circa la disci-plina dei conti giudiziali degli agenti contabili delle Camere di commercio.

In particolare, viene chiesto di procedere, in at-tesa di modifiche del regolamento di amministra-zione delle predette Camere, approvato con d.p.r. n. 254/2005, alle modalità applicative dell’art. 37 del predetto decreto presidenziale, tenendo anche conto delle direttive impartite dal Ministero dello sviluppo economico con la nota del 19 gennaio 2011.

I termini della questione possono così riassumersi:se le Camere di commercio siano obbligate alla

trasmissione alle sezioni giurisdizionali della Corte dei modelli dei conti giudiziali di cui agli allegati E e F d.p.r. n. 254/2005, che si riferiscono alla gestione del tesoriere e del cassiere interno ovvero debbano limitarsi all’acquisizione dei modelli di conto, redatti dai predetti agenti contabili;

l’esclusione dall’obbligo della resa del conto giu-diziale da parte del provveditore camerale che cura la gestione dei beni mobili ed immobili, la tenuta del libro degli inventari, la vigilanza degli automezzi e dei beni che si trovano in ambienti di uso comune;

l’esclusione dall’obbligo di resa del conto giu-diziale delle quote possedute dalle Camere di com-mercio in società o altri organismi, tenuto conto che dette quote sono di norma depositate presso l’istituto tesoriere o la stessa società.

Sulle predette questioni il Ministero dello svi-luppo economico, con la citata nota del 19 gennaio 2011, si è così espresso:

per le Camere di commercio possono trova-re applicazione, ad integrazione di quanto previsto dall’art. 37 d.p.r. n. 254/2005, le disposizioni previ-ste dagli artt. 93 e 233 d.lgs. n. 267/2000, con conse-guente obbligo di trasmissione alle sezioni giurisdi-zionali dei conti resi dal responsabile della cassa in-terna, del responsabile della gestione dei beni mobili e immobili, nonché dell’incaricato della gestione dei titoli azionari; per queste ultime tipologie di gestioni possono essere utilizzati, rispettivamente, i modelli n. 24 (conto della gestione del consegnatario dei beni mobili) e n. 22 (conto della gestione del consegnata-rio di azioni), approvati con d.p.r. 31 gennaio 1996, n. 194, con riferimento alle amministrazioni locali;

gli agenti contabili sono tenuti, ai sensi dell’art. 37 d.p.r. n. 254/2005, alla presentazione di tali mo-delli di conti (modelli E, F, 22 e 24) al segretario generale entro il termine di due mesi dalla chiusura dell’esercizio e le Camere di commercio sono tenu-te alla trasmissione alle sezioni giurisdizionali della Corte, ai sensi dell’art. 233, c. 1, d.lgs. n. 267/2000, entro il termine di sessanta giorni dall’approvazione del bilancio di esercizio;

le Camere di commercio sono invitate a prendere contatti con le predette sezioni giurisdizionali al fine di valutare i modi e i tempi dell’inoltro alle stesse dei modelli dei conti relativi all’ultimo esercizio e, ove occorra, alle gestioni degli esercizi pregressi rispetto all’entrata in vigore del d.p.r. n. 254/2005;

le Camere di commercio hanno l’obbligo di tene-re aggiornati i dati relativi agli agenti contabili tenuti alla resa del conto giudiziale alle sezioni giurisdizio-nali della Corte.

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Il Ministero dell’economia e delle finanze – Ispet-torato generale di finanza – invitato a far conoscere le proprie valutazioni sulle considerazioni svolte con la citata nota del Ministero dello sviluppo economi-co, si è espresso con nota n. 0039643 del 21 marzo 2011 condividendo le argomentazioni del Ministero dello sviluppo economico in ordine alla sottoposizio-ne, in mancanza di espressa e specifica normativa, dei soggetti che maneggiano denaro pubblico o sia-no incaricati della gestione dei beni delle Camere di commercio all’obbligo di resa del conto giudiziale, in applicazione del combinato disposto dell’art. 37 d.p.r. n. 254/2005 e artt. 93 e 233 d.lgs. n. 267/2000.

Nella stessa nota il predetto dicastero invitava poi i competenti uffici del Ministero dello sviluppo economico a farsi promotori di iniziative normative atte a definire compiutamente la disciplina in materia di resa del conto giudiziale da parte delle Camere di commercio.

Premesso – La richiesta di parere viene resa, ai sensi dell’art. 620 del regolamento di contabilità ge-nerale dello Stato, da parte del segretario generale dell’Unioncamere e sulla stessa è intervenuto l’avvi-so del Ministero dello sviluppo economico al quale, ai sensi degli artt. 4 e 4-bis l. 29 dicembre 1993, n. 580, sono attribuiti compiti di vigilanza sulle Came-re di commercio.

Dette problematiche attengono alle materie di contabilità pubblica, di cui all’art. 103, c. 2, Cost. Il sistema delle responsabilità vigente per gli impiegati civili dello Stato è stato esteso agli amministratori e ai dipendenti delle Camere di commercio con l’art. 21 l. n. 580/1993.

Ciò in quanto le predette Camere sono qualifi-cate come enti pubblici non territoriali e le loro fun-zioni, pur riguardando le categorie economiche del commercio, dell’industria e dell’agricoltura, hanno riflessi di carattere generale e, quindi, natura decisa-mente pubblica (ex multis, Sez. giur. reg. Lazio, 24 giugno 1996, n. 41).

La Suprema Corte di cassazione con diverse pro-nunce (S.U., n. 404, n. 405, n. 406 e n. 407 del 17 gennaio 1991) ha da tempo riconosciuto la sottoposi-zione alla giurisdizione della Corte dei conti dell’U-nioncamere e delle Camere di commercio.

L’art. 37 d.p.r. n. 254/2005 (“Regolamento per la disciplina della gestione patrimoniale e finanziaria delle Camere di commercio”), prevede l’estensione delle disposizioni in materia di giudizio di conto, di cui all’art. 10 l. n. 127/1997 (oggi trasfuse nell’art. 93 d.lgs. n. 267/2000), ai conti resi dagli agenti con-tabili delle predette Camere.

Ritenuto che:le questioni sollevate dal segretario generale

dell’Unioncamere di cui al parere espresso dal Mi-nistero dello sviluppo economico hanno già formato oggetto di alcune recenti decisioni di “orientamento” (Corte conti, Sez. contr. reg. Veneto, n. 62/2012; n. 134/2013; n. 139/2013; n. 186/2013; n. 202/2013; n. 271/2013; n. 291/2013; n. 37/2014), assunte a se-guito di un coinvolgimento degli organi direttivi dei predetti enti, e che sono state fondate sulla base delle peculiarità operative che dei principi posti a fonda-mento della necessarietà della resa del conto giudi-ziale da parte di chi ha maneggio di denaro o valori pubblici.

Tale decisioni vengono condivise da queste Se-zioni riunite.

Con le dette pronunce è stata effettuata una rico-gnizione dei principi generali di rendicontazione e del sistema delle garanzie sulle gestioni pubbliche, e la verificata applicabilità degli stessi alla gestione degli agenti contabili delle Camere di commercio, e ciò anche al fine di orientare gli adempimenti e le procedure consequenziali all’interno dei predetti enti.

La condivisibile conclusione alle quali pervie-ne la richiamata giurisprudenza è nel senso che, in attesa di una compiuta disciplina in materia di resa del conto giudiziale da parte delle Camere di com-mercio, i soggetti che maneggiano denaro pubblico o siano incaricati della gestione dei beni delle Came-re di commercio sono sottoposti all’obbligo di resa del conto giudiziale, in applicazione del combinato disposto dell’art. 37 d.p.r. n. 254/2005 e degli artt. 93 e 233 d.lgs. n. 267/2000, e che pertanto sussiste l’obbligo della trasmissione alle sezioni giurisdizio-nali dei conti resi del tesoriere, dal responsabile del-la cassa interna, dal responsabile della gestione dei beni mobili e immobili, nonché dall’incaricato della gestione dei titoli azionari, con applicazione dei mo-delli approvati con d.p.r. 31 gennaio 1996, n. 194, con riferimento alle amministrazioni locali.

P.q.m., nelle considerazioni esposte è il parere delle Sezioni riunite.

* * *

Sezione centrale controllo legittimità

19 – Sezione centrale controllo legittimità; delibe-razione 22 luglio 2014; Pres. De Franciscis, Rel. Targia; Università degli studi di Siena.

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Università – Contratto di collaborazione coordi-nata e continuativa – Termine di presentazio-ne delle domande – Data di arrivo all’ammini-strazione – Legittimità – Condizioni.

È conforme a legge il contratto di collaborazione coordinata e continuativa, stipulato da una universi-tà a seguito di avviso pubblico il quale preveda che il termine di scadenza delle domande sia riferito non al momento del loro invio, ma a quello in cui esse pervengono all’amministrazione (e ciò in deroga al principio generale in base al quale la tempesti-va consegna della raccomandata all’ufficio postale comporta il rispetto del termine stabilito dal bando), ove tale termine sia specificato in modo chiaro e uni-voco.

Fatto – In data 20 giugno 2014 perveniva all’uf-ficio di controllo preventivo di legittimità sugli atti del Ministero delle infrastrutture e dei trasporti e del Ministero dell’ambiente e della tutela del territorio e del mare, il contratto di collaborazione coordinata e continuativa stipulato in data 3 marzo 2014 tra l’U-niversità di Siena (dipartimento biotecnologie medi-che) e la dott.ssa Margherita Fusi, precedentemente restituito, per carenza documentale, con nota prot. 8937 del 27 marzo 2014, ai sensi dell’art. 5 d.lgs. n. 123/2011, in quanto il bando per l’individuazione del contraente non appariva conforme al regolamento per la disciplina dei contratti di collaborazione coor-dinata e continuativa dell’Università di Siena: esso si limita, infatti, a prevedere che “tra la data di pubbli-cazione dell’avviso e la data dell’individuazione del collaboratore da parte del committente, devono in-tercorrere almeno dieci giorni”, senza indicare alcun termine di decadenza nell’ipotesi in cui la domanda di partecipazione arrivi oltre una determinata data.

In sede di successiva nuova trasmissione, l’am-ministrazione faceva, tra l’altro, presente che il rego-lamento per la disciplina dei contratti di collabora-zione coordinata e continuativa e l’avviso pubblico disciplinano due diversi aspetti: il primo, il lasso di tempo minimo (10 giorni) che deve intercorrere tra la data di pubblicazione dell’avviso e quella di indi-viduazione del collaboratore e il secondo, il termine entro il quale sarebbero dovute pervenire le domande (31 gennaio 2014).

Tali condizioni sarebbero risultate entrambe ri-spettate nella fattispecie all’esame, dato che l’avviso pubblico risulta datato 20 gennaio 2014, il termine per la presentazione delle domande è stato fissato al 31 gennaio 2014 e l’individuazione del collaboratore è stata effettuata il successivo 28 febbraio 2014.

L’Università di Siena ha poi precisato come, in ogni caso, la natura di lex specialis del bando con-sentirebbe di superare un’eventuale difformità dello stesso rispetto a norme generali.

Diritto – La Sezione è chiamata a pronunciarsi sulla conformità a legge del contratto di collabora-zione stipulato in data 3 marzo 2014, meglio specifi-cato in narrativa, con riferimento, in particolare, alla legittimità dell’avviso pubblico e della successiva procedura selettiva.

Al riguardo deve preliminarmente evidenziarsi che, con le memorie prodotte in data 15 luglio 2014, l’amministrazione ha fornito elementi certi per poter affermare l’avvenuto rispetto del termine minimo di 10 giorni tra la data di affissione e quella di conferi-mento dell’incarico, previsto dal regolamento inter-no dell’ateneo per la disciplina dei contratti di col-laborazione coordinata e continuativa. Infatti, dalle dichiarazioni rese e dalla documentazione allegata, emerge che il predetto avviso per l’individuazione del collaboratore è stato pubblicato nell’albo on line del dipartimento dal 20 al 31 gennaio 2014.

Ciò premesso, occorre verificare se, in sede di av-viso pubblico, è possibile derogare, in assenza di una comprovata necessità, al principio generale in base al quale la tempestiva consegna della raccomandata all’ufficio postale comporta il rispetto del termine stabilito dal bando e se la deroga prevista nell’atto all’esame possa considerarsi espressa in modo chiaro e inequivoco. Al riguardo va osservato che il princi-pio della derogabilità da parte del bando alla regola generale costituisce jus receptum da parte della giu-risprudenza, che ha avuto modo di precisare la ne-cessità che la deroga sia espressa in modo chiaro ed inequivoco, dovendosi, in difetto, applicare il princi-pio generale in base al quale, ai fini del rispetto del termine, occorre prendere in considerazione la data di trasmissione e non quella di ricezione della domanda.

Nel caso di specie, il collegio ritiene che la locu-zione utilizzata (“la domanda di partecipazione do-vrà pervenire al dipartimento entro e non oltre il 31 gennaio 2014”) possa considerarsi sufficientemente chiara ed inequivoca.

A un tempo, in spirito di collaborazione, si ri-tiene di dover segnalare, per il futuro, l’esigenza di inserire l’ulteriore inciso “a pena di esclusione” (o un diverso inciso avente analogo contenuto) al fine di dissipare eventuali perplessità che potrebbero per-manere al lettore.

Parimenti, pur riconoscendo le obiettive esigenze di rendere celeri le procedure di selezione degli aspi-ranti collaboratori, la Sezione sottolinea l’esigenza di

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forme di pubblicità più adeguate al fine di consentire una più ampia partecipazione dei possibili aspiranti, anche attraverso modalità differenziate che tengano conto, sia dell’urgenza nell’acquisizione della pro-fessionalità, che della tipologia, durata e importo del contratto.

Alla luce delle suesposte considerazioni, il con-tratto all’esame può ritenersi conforme a legge.

P.q.m., la Sezione ammette al visto ed alla con-seguente registrazione l’atto specificato in epigrafe.

20 – Sezione centrale controllo legittimità; delibe-razione 30 luglio 2014; Pres. De Franciscis, Rel. Zuccheretti; Università degli studi di Pavia.

Università – Contratto di collaborazione coordina-ta e continuativa – Progetto di ricerca intera-mente finanziato da terzi – Esperto da assume-re per la realizzazione del progetto – Individua-zione ad opera dell’ente finanziatore – Confor-mità a legge – Mancata selezione dell’esperto con procedura comparativa – Irrilevanza.

D.lgs. 30 marzo 2001 n. 165, norme generali sull’or-dinamento del lavoro alle dipendenze delle ammini-strazioni pubbliche, art. 7.

È conforme a legge il contratto di collaborazione coordinata e continuativa stipulato da una universi-tà per la realizzazione di un progetto di ricerca inte-ramente finanziata da terzi, benché il contraente non sia stato selezionato con procedura comparativa ma sia stato indicato dall’ente finanziatore del progetto da realizzare.

Diritto – La Sezione è chiamata a pronunciarsi sulla legittimità del contratto con il quale il dipar-timento di ingegneria industriale dell’Università di Pavia ha attribuito un incarico al prof. Alberto Riva, in assenza di procedura selettiva, per l’espletamen-to di una ricerca riguardante la “Rete ematologica Lombarda (Rel)”, interamente finanziata dalla Fon-dazione Cariplo.

Come noto, l’art. 7, c. 6, d.lgs. n. 165/2001 e suc-cessive modificazioni prevede che le amministrazio-ni, per esigenze cui non siano in grado di far fronte con personale in servizio, possano ricorrere al con-ferimento di incarichi individuali mediante contratti di lavoro autonomo affidati ad esperti di particolare e comprovata specializzazione, in presenza di ben precisi presupposti.

Sul punto, la giurisprudenza di questa Sezione è

costante nell’interpretare rigorosamente i limiti pre-visti dalla legge (cfr., a titolo esemplificativo, delib. n. 25/2010; n. 1/2012; n. 2/2012; n. 26/2012) e, in argomento, sono intervenute anche numerose circo-lari del Dipartimento della funzione pubblica (per tutte, n. 2/2008) le quali hanno richiamato le ammi-nistrazioni pubbliche a valutare attentamente le pro-prie risorse, sia in termini organizzativi che di pro-fessionalità, proprio al fine di far ricorso ai contratti di collaborazione solo per esigenze temporanee ed a seguito di apposite e trasparenti procedure selettive.

Posto quanto sopra, la peculiarità del contratto de quo – come dianzi accennato – consiste nel fatto che l’incarico è stato attribuito dall’ateneo diretta-mente all’esperto indicato dall’ente finanziatore, sul presupposto che la Fondazione Cariplo non avrebbe erogato i fondi se la ricerca non fosse stata svolta dal prof. Riva, attesa la specializzazione acquisita anche a livello internazionale, come del resto comprovato dal curriculum in atti.

In proposito, occorre rammentare che la giuri-sprudenza di questa Sezione (cfr., per tutte, delib. n. 24/2009) è nel senso di ritenere che i predetti fondi, una volta confluiti nel bilancio dell’ente, debbono essere gestiti con le modalità tipiche della struttu-ra pubblica destinataria dell’intervento. Sempre in tale deliberazione era stato posto in evidenza che, per l’utilizzazione di essi, l’università – comunque – affronta costi sia in termini reali che di personale che vanno ad incidere su altri capitoli del bilancio pubblico.

Percorso argomentativo che traeva origine dal-la meno recente delib. n. 1/2005 della Sezione, ove pure si affermava che, tutte le somme stanziate nel bilancio dello Stato (e quindi degli enti pubblici) sono di pertinenza pubblica, a nulla rilevando la loro provenienza.

Facendo applicazione della giurisprudenza ci-tata, quindi, ne deriverebbe che l’università, pur nell’ipotesi di utilizzo di risorse provenienti da terzi, non potrebbe sottrarsi al procedimento normalmente utilizzato per l’espletamento di incarichi di colla-borazione, il quale prevede – in ogni caso – che la scelta avvenga attraverso una selezione comparativa tra vari candidati, venendo rimesse agli ordinamenti degli atenei le sole modalità e pubblicità delle pro-cedure stesse (cfr. delib. n. 12/2011; n. 15/2011; n. 18/2011, ecc.).

Nella presente fattispecie, peraltro, non può non riscontrarsi la particolarità riconnessa al fatto (debi-tamente documentato nella citata memoria presen-tata, da ultimo, dall’università) che, a seguito della

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convenzione stipulata con la Fondazione Cariplo, fu emanato da quest’ultima un vero e proprio bando con la finalità di “promuovere progetti internazionali per l’incremento dell’attrattività del sistema di ricer-ca regionale”.

In conseguenza di tale indizione, fu espletata una accurata istruttoria da parte di un apposito comitato tecnico tesa alla valutazione dei progetti presentati, completi altresì dell’indicazione dell’esperto che, in possesso dei requisiti richiesti dalla specifica ri-cerca (almeno 5 anni di esperienza presso università straniere, grado di seniority, ecc.), sarebbe stato in grado di portarla ad esecuzione. Tale aspetto, unito alla considerazione che non residuano ulteriori oneri a carico dell’università, fanno propendere il collegio per il superamento della censura relativa all’assen-za di procedura comparativa, potendo quest’ultima ritenersi validamente sostituita dalla valutazione ef-fettuata, nella fase precedente, per la scelta del pro-getto più idoneo comprendente anche il nominativo dell’esperto.

Conclusivamente, per le suesposte motivazioni, il provvedimento in esame si presenta conforme a legge.

P.q.m., la Sezione centrale controllo legittimità ammette al visto e alla conseguente registrazione il contratto in epigrafe.

21 – Sezione centrale controllo legittimità; delibera-zione 5 settembre 2014; Pres. De Franciscis, Rel. Granelli; Presidenza del consiglio dei ministri.

Impiegato dello Stato e pubblico in genere – Spoils system – Direttore dell’Agenzia del demanio – Cessazione dalla carica entro novanta giorni dal voto sulla fiducia al governo – Conferma nell’incarico – Deliberazione del Consiglio dei ministri – Adozione oltre il termine di novanta giorni dal voto sulla fiducia al governo – Non conformità a legge del provvedimento di con-ferma – Proposta formulata dal ministro com-petente entro il termine di novanta giorni dal voto sulla fiducia al governo – Irrilevanza.

D.lgs. 30 luglio 1999 n. 300, riforma dell’organiz-zazione del governo a norma dell’art. 11 l. 15 marzo 1997 n. 59, art. 67; d.lgs. 30 marzo 2001 n. 165, nor-me generali sull’ordinamento del lavoro alle dipen-denze delle amministrazioni pubbliche, art. 19; l. 15 luglio 2002 n. 145, disposizioni per il riordino della dirigenza statale e per favorire lo scambio di espe-rienze e l’interazione tra pubblico e privato, art. 3;

d.l. 3 ottobre 2006 n. 262, convertito con modifica-zioni dalla l. 24 novembre 2006 n. 286, disposizioni urgenti in materia tributaria e finanziaria, art. 2, c. 160; d.lgs. 27 ottobre 2009 n. 150, attuazione della l. 4 marzo 2009 n. 15, in materia di ottimizzazione del-la produttività del lavoro pubblico e di efficienza e trasparenza delle pubbliche amministrazioni, art. 40.

Non è conforme a legge il provvedimento di conferma di un dirigente (nella specie, il direttore dell’Agenzia del demanio) soggetto al regime dello spoils system, per il quale la deliberazione del Con-siglio dei ministri sia stata adottata oltre il termine di novanta giorni dal voto sulla fiducia al governo, non essendo a tal fine sufficiente l’adozione, entro il predetto termine, della proposta del ministro com-petente, la quale costituisce atto meramente endo-procedimentale, idoneo a dare impulso al procedi-mento ma non ad esprimere la volontà dell’autorità politica.

Diritto – La Sezione è chiamata a pronunciarsi sull’ambito di operatività del termine di cui all’art. 19, c. 8, d.lgs. 30 marzo 2001, n. 165, norma che si riferisce agli incarichi di segretario generale di mini-steri, agli incarichi di direzione di strutture articolate al loro interno in uffici dirigenziali generali e a quelli di livello equivalente, nonché, ai sensi dell’art. 2, c. 160, d.l. 3 ottobre 2006, n. 262, convertito con mo-dificazioni dalla l. 24 novembre 2006, n. 286, anche ai direttori delle agenzie, incluse le agenzie fiscali. E, più in particolare, sull’idoneità della proposta in data 26 maggio 2014, a firma del Ministro dell’economia e delle finanze, di conferma nell’incarico di direttore dell’Agenzia del demanio, al dott. Stefano Scalera, a produrre effetti interruttivi del termine previsto dal citato c. 8 dell’art. 19 d.lgs. n. 165/2001.

A tal fine appare necessario un breve inquadra-mento sistematico della disposizione in esame. Il c. 8 dell’art. 19 d.lgs. 30 marzo 2001, n. 165, è stato sostituito dall’art. 3, c. 1, lett. i), l. 15 luglio 2002, n. 145, successivamente modificato prima dall’art. 2, c. 159, d.l. 3 ottobre 2006, n. 262, convertito con modificazioni dalla l. 24 novembre 2006, n. 286, poi dall’art. 40, c. 1, lett. g), d.lgs. 27 ottobre 2009, n. 150. Nel testo vigente, la norma dispone la cessa-zione degli incarichi dei dirigenti di prima fascia “apicali” di cui al c. 3 del medesimo art. 19 d.lgs. n. 165/2001 e dei direttori delle agenzie, incluse le agenzie fiscali “decorsi novanta giorni dal voto sulla fiducia al governo”.

La norma in parola costituisce, in sostanza, l’asse portante dell’istituto dello spoils system. È, infatti,

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entro il termine perentorio di novanta giorni dalla data in cui il governo ottiene la fiducia che si deve esercitare il potere discrezionale – posto dalla legge in capo all’autorità politica – di scegliere nuovi diri-genti di prima fascia apicali, ovvero, di confermare i titolari degli uffici in carica. Il legislatore ha ritenuto di stabilire che, nell’ambito di un tempus deliberan-di di novanta giorni, gli organi di direzione politica della nuova compagine governativa che ha ottenuto la fiducia, manifestino espressamente la volontà di confermare nell’incarico i dirigenti assoggettati al regime dello spoils system, ovvero di sostituirli con altri. L’effetto che deriva dalla mancata conferma entro il suddetto termine è, per legge, l’automatica cessazione dell’incarico.

La questione che si pone, con rifermento alla fat-tispecie concreta all’esame della Sezione, è in quale fase del procedimento di conferma del direttore di Agenzia del demanio (ma più in generale per tutti i provvedimenti di conferma dei dirigenti generali apicali) si debba ritenere validamente espressa la vo-lontà dell’amministrazione di mantenere il dirigente nell’incarico ricoperto.

Sostiene il Ministero dell’economia e delle finan-ze che tale fase sia da individuare nel momento in cui si pone in essere l’atto di avvio della procedura dei cui all’art. 67, c. 2, d.lgs. 30 luglio 1999, n. 300 – che prevede che il direttore di un’agenzia (anche fisca-le) sia nominato con d.p.r., previa deliberazione del Consiglio dei ministri, su proposta del Ministro delle finanze – e cioè, quindi, alla data di formalizzazione della proposta del ministro.

La tesi non appare fondata. La proposta, infatti, atto indefettibile ed essenziale per l’avvio del proce-dimento di conferma di dirigenti apicali, non è di per sé idonea a esprimere la volontà dell’autorità politi-ca che, per incarichi di altissimo rilievo, come quelli ai quali si applica il regime dello spoils system, si esprime in una fase più avanzata del procedimento. A tal riguardo giova considerare che la proposta è atto endoprocedimentale idoneo a dare impulso al procedimento che, al tempo stesso, esprime anche un giudizio sul contenuto del provvedimento finale. Si potrebbe ipotizzare (come sembra evincersi dalle indicazioni contenute nella circolare della Presiden-za del consiglio dei ministri 31 luglio 2002, recante “Modalità applicative della legge sul riordino della dirigenza”) che l’effetto impeditivo della cessazio-ne dell’incarico possa prodursi esclusivamente con l’adozione del provvedimento formale di conferma (e perciò con l’emanazione del d.p.r. entro il termi-ne dei novanta giorni dall’ottenimento della fiducia)

o, addirittura, con la registrazione dell’atto da parte della Corte dei conti.

Ciò, ad avviso della Sezione, produrrebbe una compressione eccessiva del tempo a disposizione dell’autorità politica per valutare l’opportunità di continuare ad avvalersi della collaborazione di un dirigente di prima fascia apicale. Si deve al riguardo evidenziare che nel procedimento di nomina di tali dirigenti il d.p.r. lungi da essere un atto presidenziale proprio (nel quale viene espressa la volontà del ti-tolare della più alta magistratura della Repubblica), deve essere annoverato tra gli atti attraverso i quali il Presidente della Repubblica esercita funzioni di con-trollo (nella specie sulla regolarità dell’intero proce-dimento), potendo richiederne il riesame, ma senza poter incidere sulla determinazione del contenuto. In altre parole, trattasi di atti, espressione della funzio-ne amministrativa, formalmente presidenziali ma so-stanzialmente governativi, il cui contenuto è rimesso alla volontà del governo.

Il momento al quale ricondurre gli effetti confer-mativi dell’incarico di dirigente di prima fascia api-cale, va, ad avviso della Sezione, individuato nella fase decisoria della deliberazione del Consiglio dei ministri. È, infatti, collegialmente che si esprime la volontà del governo di nominare o confermare un di-rigente di prima fascia apicale ed è a quella data che se ne dà notizia all’esterno con il comunicato stampa del Consiglio dei ministri.

È, al riguardo da considerare che tra le finali-tà della norma contenuta nell’art. 19, c. 8, d.lgs. n. 165/2001 è da ricomprendere, oltre a quella di sol-lecitare decisioni ispirate ai principi di buon anda-mento e di continuità amministrativa, anche quella di rendere note – anche all’esterno della pubblica amministrazione – le persone fisiche titolari degli in-carichi in parola, al fine di garantire la certezza dei rapporti giuridici.

La deliberazione del Consiglio dei ministri è cer-tamente, come la proposta di avvio, atto endoproce-dimentale, ma ad essa possono essere riconosciuti i caratteri della decisorietà e della conoscibilità che sono richiesti dalla legge perché possano prodursi quegli effetti dell’atto di conferma idonei ad impedi-re la cessazione dell’incarico determinata dallo spi-rare del termine.

Non appare, peraltro, conferente il richiamo alla giurisprudenza della Corte costituzionale che si riferi-va a norme che prevedevano meccanismi di cessazio-ne automatica ex lege e generalizzata degli incarichi. Per ciò che concerne la cessazione di cui all’art. 19, c. 8 (nell’attuale testo), la Corte costituzionale (sent.

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n. 34/2010) ha, invece, affermato il principio in base al quale le disposizioni legislative che ricollegano al rinnovo dell’organo politico l’automatica decadenza di titolari di uffici amministrativi (c.d. spoils system) sono compatibili con l’art. 97 Cost. qualora si rife-riscano a soggetti che: a) siano titolari di “organi di vertice” dell’amministrazione; b) debbano essere no-minati intuitu personae, cioè sulla base di “valutazio-ni personali coerenti all’indirizzo politico regionali”.

Né pare rilevante a sostegno della legittimità del provvedimento di conferma del dott. Scalera il favor prestatoris richiamato dall’amministrazione. Non sembra, infatti, un trattamento di particolare favore attendere l’ultimo giorno (dei novanta previsti dalla legge) per la formulazione della proposta di confer-ma. Al contrario, il tempestivo invio alla Presidenza del consiglio dei ministri della proposta stessa, ai fini della necessaria deliberazione dell’organo collegiale entro il predetto termine, assicura al contempo mag-giori garanzie, sia all’interessato prestatore di lavoro, sia all’amministrazione proponente.

Tanto premesso, ritiene la Sezione che, non es-sendo stata adottata la deliberazione del Consiglio dei ministri nel termine di novanta giorni, la mera proposta del Ministro dell’economia e delle finanze non sia idonea a produrre gli effetti confermativi del dott. Scalera nell’incarico di direttore dell’Agenzia del demanio e che, pertanto, il provvedimento all’e-same sia da ritenersi non conforme a legge.

P.q.m., la Sezione ricusa il visto e la conseguente registrazione dell’atto specificato in epigrafe.

23 – Sezione centrale controllo legittimità; delibe-razione 30 settembre 2014; Pres. De Franciscis, Rel. Galeffi; Università degli studi di Palermo.

Università – Contratto di collaborazione coordi-nata e continuativa – Lavori di falegnameria – Conferimento a un soggetto in quiescenza – Conformità a legge.

C.c., art. 14; d.l. 24 giugno 2014 n. 90, convertito con modificazioni dalla l. 11 agosto 2014, misure urgenti per la semplificazione e la trasparenza amministrati-va e per l’efficienza degli uffici giudiziari, art. 6.

È conforme a legge il contratto avente ad oggetto il conferimento ad un soggetto in quiescenza di un incarico di prestazione d’opera di natura occasio-nale concernente lavori di falegnameria, in quanto il divieto di conferire incarichi esterni a soggetti in quiescenza è circoscritto agli “incarichi di studio”, agli “incarichi di consulenza” e agli “incarichi diri-

genziali”, e tale divieto, in quanto norma limitatrice dell’autonomia negoziale, è da valutare con criteri di stretta interpretazione.

Diritto – La Sezione è chiamata a pronunciarsi sulla legittimità del contratto sottoscritto l’8 luglio 2014 tra l’Università degli studi di Palermo e il sig. Giacomo Galante come descritto in premessa.

In particolare, viene in evidenza la condizione di pensionato del destinatario dell’incarico, condi-zione che risulta esplicitamente in atti ed è ammessa dall’università stessa, in relazione al divieto – intro-dotto dall’art. 6 d.l. 24 giugno 2014, n. 90, converti-to con modificazioni dalla l. 11 agosto 2014, n. 114 – di attribuire incarichi di studio e di consulenza a soggetti già lavoratori privati o pubblici, collocati in quiescenza.

Al riguardo, prima ancora di entrare nel merito delle vicende relative al caso specifico, riguardanti la fase di insorgenza del divieto (25 giugno 2014) in relazione alla data di stipula del contratto (8 luglio 2014) e alle date di svolgimento delle fasi prodro-miche del procedimento di selezione comparativa, il collegio ritiene necessario procedere ad una esatta individuazione della fattispecie in esame.

Il contratto all’esame è infatti espressamente in-testato “contratto di prestazione d’opera di natura occasionale” e riguarda la realizzazione – all’interno di uno specifico progetto – di lavori di falegnameria, attinenti alla precedente esperienza lavorativa del contraente.

Poiché la norma limitatrice si esprime nel senso che il divieto è circoscritto agli “incarichi di studio” e agli “incarichi di consulenza” (oltre che agli “inca-richi dirigenziali”), ritiene il collegio che il contratto stipulato con il sig. Galante non possa essere ricon-dotto ad alcuna delle predette tipologie.

Così posta la questione, emerge che il divieto introdotto dall’art. 6 d.l. n. 90/2014, in quanto nor-ma limitatrice, è da valutare sulla base del criterio di stretta interpretazione enunciato dall’art. 14 delle preleggi, che non consente operazioni ermeneutiche di indirizzo estensivo, fondate sull’analogia.

Non potendo applicarsi tale divieto oltre i casi espressamente indicati nella norma limitatrice (“in-carichi di studio”, “incarichi di consulenza” e “in-carichi dirigenziali”), ritiene il collegio che il caso specifico non rientri tra queste ipotesi, e quindi non incorra nel divieto introdotto dal predetto art. 5 d.l. n. 90/2014.

Restano pertanto assorbite le ulteriori questioni prospettate sulla decorrenza del divieto, il quale, per

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le ragioni in precedenza esposte, in concreto non col-pisce l’atto in esame.

Di conseguenza, la Sezione ritiene che l’atto in esame possa ritemersi conforme a legge.

P.q.m., la Sezione centrale controllo legittimità ammette al visto e alla conseguente registrazione l’atto in epigrafe.

24 – Sezione centrale controllo legittimità; delibera-zione 29 ottobre 2014; Pres. De Franciscis, Rel. Petronio; Ministero della difesa.

Impiegato dello Stato e pubblico in genere – Inca-rico dirigenziale di II fascia – Decreto di con-ferma – Procedura comparativa – Necessità – Esclusione.

D.lgs. 30 marzo 2001 n. 165, norme generali sull’ordi-namento del lavoro alle dipendenze delle amministra-zioni pubbliche, art. 19; d.lgs. 27 ottobre 2009 n. 150, attuazione della l. 4 marzo 2009 n. 15, in materia di ottimizzazione della produttività del lavoro pubblico e di efficienza e trasparenza delle pubbliche ammi-nistrazioni; l. 6 novembre 2012 n. 190, disposizioni per la prevenzione e la repressione della corruzione e dell’illegalità nella pubblica amministrazione, art. 1.

È conforme a legge il decreto di conferma di un incarico dirigenziale di II fascia senza il previo svolgimento di una procedura comparativa, ferma restando la necessità che le particolari esigenze di servizio atte a giustificare la conferma siano rese ostensive nel relativo provvedimento.

Diritto – La questione controversa verte sulla necessità di applicare la procedura di cui all’art. 19, c. 1-bis, d.lgs. n. 165/2001 anche in sede di rinno-vo di incarico dirigenziale di II fascia, e quindi se la specifica fattispecie del rinnovo possa essere o meno considerata una casistica a sé, sottratta agli obblighi di pubblicità introdotti in via generale da parte del d.lgs. n. 150/2009.

Nella valutazione della problematica è necessario tenere conto dello sviluppo della normativa nel tem-po e, in particolare, della circostanza che nel testo originario dell’art. 19 d.lgs. n. 165/2001 venivano poste norme sul conferimento degli incarichi volte ad assicurare che l’assegnazione corrispondesse all’in-teresse della pubblica amministrazione: era prevista l’adozione di criteri di rotazione e anche la facoltà di avvalersi dell’istituto della conferma, per estendere il periodo di durata dell’incarico (art. 19, c. 2).

Successivamente, con il d.lgs. n. 150/2009 non è stata più prevista la rotazione ed è stato introdotto il c. 1-bis dell’art. 19, che impone all’amministrazione di rendere conoscibili il numero e la tipologia dei po-sti di funzione dirigenziale che si rendono vacanti e i criteri di scelta, al fine di valutare i dirigenti disponi-bili all’assegnazione dell’incarico.

Tale disposizione si inserisce in un insieme di modifiche testuali apportate al t.u. sul pubblico im-piego dalla riforma del 2009, che sono rivolte a con-seguire una migliore organizzazione del lavoro e ad assicurare il progressivo miglioramento della qualità delle prestazioni erogate al pubblico, incidendo sulle competenze dirigenziali e sulle modalità di conferi-mento e revoca degli incarichi.

La procedura concorsuale introdotta prevede modalità atte ad assicurare la contemporanea sod-disfazione delle esigenze di trasparenza, non discri-minazione e buona amministrazione; all’interno di tale sistema i diritti e le aspirazioni convivono con le esigenze dell’amministrazione, come sottolineato da questa Sezione con delib. n. 3/2013.

L’introduzione di un sistema, per certi versi ana-logo a quello per la mobilità del personale, inseri-sce nuovi elementi di valutazione che si innestano sul principio di fondo, secondo il quale il criterio principale che deve presiedere all’assegnazione del-le funzioni è quello del buon andamento dell’ammi-nistrazione, al quale gli interessi individuali devono soggiacere.

Il quadro normativo in esame si è ulteriormente evoluto con l’emanazione della l. 6 novembre 2012, n. 190, che all’art. 1, c. 4, lett. e), e all’art. 1, c. 5, lett. b) detta criteri per realizzare la rotazione dei di-rigenti nei settori particolarmente esposti al pericolo di corruzione e misure per evitare sovrapposizioni di funzioni e cumuli di incarichi.

Il complesso di queste prescrizioni potrebbe con-durre a una lettura della norma che regola le proce-dure per l’assegnazione degli incarichi dirigenziali in questione, secondo la quale l’espletamento di proce-dure comparative sarebbe adempimento indefettibi-le, anche al fine di assicurare la neutralità e imparzia-lità nell’attribuzione delle funzioni dirigenziali e di evitare che vengano a consolidarsi posizioni esposte al rischio corruttivo.

È tuttavia da considerare se l’ipotesi del rinno-vo prevista per incidens dal c. 2 art. 19 sia o meno assimilabile ad un nuovo conferimento e, quindi, se debba soggiacere all’applicazione della normativa sopravvenuta in tema di procedure di assegnazione.

Al riguardo giova ricordare che il rinnovo è sem-

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pre preceduto da un conferimento che, dal 2009 in poi, avviene a seguito dell’esperimento di procedure per la valutazione comparativa degli aspiranti.

In sostanza, il prolungamento della permanenza nell’incarico di funzione di un dirigente che – es-sendo stato precedentemente selezionato all’atto del conferimento – ha dato buona prova, potrebbe realiz-zare l’interesse della pubblica amministrazione alla continuità delle funzioni e dimostrarsi conforme al principio di buon andamento.

L’esistenza di una correlazione fra interessi in gioco meritevoli di tutela impone, tuttavia, di effet-tuare una gradazione tra gli interessi medesimi, lad-dove anche l’esperimento della procedura compara-tiva può rappresentare l’affermazione di un principio di trasparenza in grado di sorreggere il buon anda-mento dell’amministrazione. È, tuttavia, evidente che posizioni individuali di interesse devono soggia-cere ad interessi preminenti di natura pubblica.

Nel caso in esame, la stessa amministrazione ha fatto presente che, sia per assicurare l’esigenza del-la continuità nelle funzioni in uffici di particolare e delicata rilevanza, sia per oggettive difficoltà che in-contrerebbe l’avvicendamento, ha ritenuto preferibi-le adottare il provvedimento di conferma.

Dall’analisi condotta emerge, quindi, che in ma-teria di assegnazione degli incarichi dirigenziali le procedure di valutazione comparativa imposte dalla novella del 2009 rispondono, oltre che ad un interes-se dei singoli candidati, anche a quello di assicurare la trasparenza e la neutralità nell’assegnazione delle funzioni, che tuttavia può risultare recessivo rispetto a peculiari esigenze di funzionamento che esigono la permanenza nell’incarico del dirigente già assegnato in precedenza.

Tali esigenze, peraltro, devono essere compiuta-mente rese ostensive nel provvedimento di confer-ma, in quanto una adeguata motivazione costituisce il presupposto che consente di fare ricorso a tale istituto, alternativo al nuovo conferimento, con la conseguenza di poter procedere in deroga al generale criterio della concorsualità.

In particolare, il ricorso alla conferma non po-trà trovare ragione in motivi di urgenza connessi ai tempi dell’esperimento della procedura comparativa, poiché la data di scadenza è nota in anticipo e con-sente di provvedere tempestivamente. Al contrario, motivi apprezzabili per farvi ricorso potrebbero es-sere rappresentati dall’alto livello di specializzazio-ne dei compiti assegnati all’ufficio, dalla particolare competenza posseduta e dai buoni risultati raggiunti dal dirigente preposto.

La previsione della rinnovabilità dell’incarico deve comunque incontrare limiti nella ragionevo-le durata dello stesso e soggiacere alle prescrizioni imposte dalla normativa anticorruzione, attraverso la fissazione di criteri di rotazione per gli incarichi esposti al rischio corruttivo.

Va, altresì, considerato che la normativa anticor-ruzione delinea un quadro di principi che esprimono disfavore nei confronti della permanenza eccessi-vamente protratta in un posto di funzione, dei qua-li l’amministrazione deve necessariamente tenere conto in sede di elaborazione delle procedure di cui all’art. 1, c. 5, sub b), l. n. 190/2012.

P.q.m., la Sezione ammette al visto e alla con-seguente registrazione il decreto del direttore degli armamenti navali del Ministero della difesa, in data 25 giugno 2014, di conferma nell’incarico di capo della XXII divisione, (bilancio e liquidazioni) presso la Direzione degli armamenti navali del dirigente di II fascia, dott.ssa Ines Di Bella e il decreto del diret-tore del Centro di supporto e sperimentazione navale di La Spezia del Ministero della difesa, in data 1 lu-glio 2014, di conferma nell’incarico di vice direttore e capo servizio supporto interno presso il Centro di supporto e sperimentazione navale del dirigente di II fascia, dott. Hebert La Tassa.

27 – Sezione centrale controllo legittimità; delibe-razione 12 novembre 2014; Pres. De Franciscis, Rel. Galeffi; Università degli studi di Napoli Fe-derico II.

Università – Contratto di collaborazione coordi-nata e continuativa – Divieto di conferimento a soggetto in quiescenza – Conferimento di incarico di studio o consulenza a soggetto in quiescenza – Illegittimità.

C.c., art. 14; d.l. 6 luglio 2012 n. 95, convertito con modificazioni dalla l. 7 agosto 2012 n. 135, dispo-sizioni urgenti per la revisione della spesa pubblica con invarianza dei servizi ai cittadini nonché misu-re di rafforzamento patrimoniale delle imprese del settore bancario, art. 5; d.l. 24 giugno 2014 n. 90, convertito con modificazioni dalla l. 11 agosto 2014 n. 114, misure urgenti per la semplificazione e la tra-sparenza amministrativa e per l’efficienza degli uffi-ci giudiziari, art. 6.

Non è conforme a legge il contratto avente ad oggetto il conferimento, ad un soggetto in quiescen-za, di un incarico di consulenza professionale per la progettazione di una learning factory nel settore

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delle lavorazioni meccaniche (nella specie, la Sezio-ne ha comunque escluso la possibilità di sollevare questione di legittimità costituzionale con riferimen-to agli artt. 3 e 51 Cost., essendo tale possibilità li-mitata alle ipotesi di violazione dell’art. 81 Cost.).

Diritto – La Sezione è chiamata a pronunciarsi sul-la legittimità del contratto sottoscritto il 4 agosto 2014 tra l’Università degli studi di Napoli “Federico II” e l’ing. Enrico Angelone, come descritto in premessa.

In particolare, viene in evidenza la condizione di pensionato del destinatario dell’incarico, in relazione al divieto – introdotto dall’art. 6 d.l. 24 giugno 2014, n. 90, convertito con modificazioni dalla l. 11 agosto 2014, n. 114 – di attribuire incarichi di studio e di consulenza a soggetti già lavoratori privati o pubbli-ci, collocati in quiescenza.

Al riguardo, il collegio ritiene necessario proce-dere a un’esatta individuazione della fattispecie in esame.

Il contratto all’esame è infatti espressamente in-testato “consulenza professionale” e riguarda una at-tività di progettazione di una Learning factory (Lf) (Fabbrica per apprendere) nel settore delle lavora-zioni meccaniche con riferimento alla scelta delle componenti strutturali, architettoniche ed operative: strutture in fondazione e in elevazione; impianti tec-nologici; opere murarie e di rifinitura; sistemi di al-larme e sicurezza.

La norma limitatrice si esprime nel senso che il divieto è da riferire agli incarichi di studio e agli incarichi di consulenza, oltre che agli incarichi diri-genziali.

Sotto il profilo oggettivo, sulla base delle risul-tanze istruttorie ed all’esito dell’esame della fattispe-cie, ritiene il collegio che il contratto stipulato con l’ing. Angelone rientra nell’area degli incarichi di studio e di consulenza, per i quali la norma limitatri-ce ha introdotto il divieto di conferimento.

Non può, peraltro, sfuggire a questo collegio la natura palesemente selettiva del divieto introdot-to dalla norma, la quale introduce nel sistema – in modo diretto e senza deroghe o eccezioni, se non per il caso della gratuità e per la durata massima di un anno – un impedimento generalizzato al conferimen-to di incarichi a soggetti in quiescenza.

Tale impedimento appare fondato su un elemen-to oggettivo che non lascia spazio a diverse opzioni interpretative, e pertanto suscita perplessità, in primo luogo, perché non riconosce all’interprete un grado minimo di valutazione.

Inoltre, la norma in questione potrebbe porre in

evidenza alcuni aspetti problematici sul pieno rispet-to degli artt. 3 e 51 Cost., in relazione rispettivamen-te al principio di uguaglianza e alla possibilità di ac-cedere ai pubblici uffici in condizioni di uguaglianza, soprattutto per la diversità di situazioni in cui posso-no trovarsi gli aspiranti agli incarichi, quali titolari di pensione di vecchiaia, di anzianità, di invalidità, o con trattamenti pensionistici esigui.

È noto al riguardo che la giurisprudenza costitu-zionale, pur ammettendo che la Sezione di controllo della Corte dei conti possa sollevare questioni di co-stituzionalità in via incidentale, limita tale possibilità alle ipotesi di violazione dell’art. 81 Cost., e non a tutte le disposizioni della Costituzione. Oltre che in sede di parificazione del bilancio dello Stato (sent. n. 37/2011, n. 213/2008 e n. 244/1995), ove il giudizio si svolge nelle forme della giurisdizione contenziosa, la Corte costituzionale ha infatti affermato la legitti-mazione della Corte dei conti a promuovere il sinda-cato di costituzionalità delle leggi di spesa in sede di controllo preventivo di legittimità, con riferimento ai profili di copertura finanziaria posti dall’osservanza dell’art. 81 Cost. (sent. n. 384/1991 e n. 226/1976).

Il chiaro orientamento della giurisprudenza costi-tuzionale, dal quale questo collegio non ha motivo di discostarsi, preclude pertanto alla Corte dei conti, nell’esercizio delle funzioni di controllo preventivo, di poter sollevare questioni di legittimità costituzio-nale in via incidentale per ragioni diverse daella vio-lazione dell’art. 81 Cost.

Conclusivamente, il collegio rileva che il contrat-to in esame ricade – sia sotto il profilo soggettivo, per la titolarità da parte dell’interessato di un trattamento pensionistico, sia sotto il profilo oggettivo, conside-rata la natura della prestazione richiesta, che rientra tra gli incarichi di studio e di consulenza – nell’am-bito applicativo del divieto introdotto dall’art. 6 d.l. n. 90/2014, convertito con modificazioni dalla l. n. 114/2014. Di conseguenza, la Sezione ritiene che l’atto in esame non possa ritenersi conforme a legge.

P.q.m., la Sezione centrale controllo legittimità ricusa il visto e la conseguente registrazione dell’at-to in epigrafe.

31 – Sezione centrale controllo legittimità; delibera-zione 5 dicembre 2014; Pres. De Franciscis, Rel. Granelli; Ministero dell’ambiente e della tutela del territorio e del mare.

Amministrazione dello Stato e pubblica in gene-re – Incarico di consulenza – Atto di conferi-

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mento ad una società – Controllo preventivo di legittimità della Corte dei conti – Necessità.

L. 14 gennaio 1994 n. 20, disposizioni in materia di giurisdizione e controllo della Corte dei conti, art. 3.Amministrazione dello Stato e pubblica in genere

– Transazione per il risarcimento di un danno ambientale ‒ Incarico di consulenza ad una società – Motivazione a sostegno del ricorso alla consulenza – Necessità ‒ Somme da cor-rispondere alla società per l’attività transatti-va – Pagamento diretto da parte del privato – Esclusione.

L. 14 gennaio 1994 n. 20, art. 3.

È soggetto al controllo preventivo di legittimità della Corte dei conti il decreto con il quale viene conferito da parte di una amministrazione ad una società un incarico di consulenza avente per oggetto l’attribuzione di funzioni di supporto del ministero conferente.

Non è conforme a legge il provvedimento col quale una direzione generale del Ministero dell’am-biente e della tutela del territorio e del mare abbia conferito una consulenza esterna ad una società, ove esso risulti carente di motivazione in ordine alla ne-cessità di ricorrere alla consulenza stessa e preveda il pagamento diretto alla società delle somme dovu-te dai privati in seguito a transazioni, in quanto tali somme, in base ai principi di unicità e di universalità del bilancio, debbono affluire al conto entrate dello Stato per essere poi riassegnate allo stato di previ-sione della spesa del ministero interessato.

Diritto – La Sezione è chiamata a pronunciarsi in ordine alla legittimità del provvedimento in epigrafe, con il quale la direzione generale per la tutela del ter-ritorio e delle risorse idriche del Ministero dell’am-biente e della tutela del territorio e del mare dispone-va l’attribuzione alla Sogesid s.p.a. delle funzioni di supporto al ministero nell’attività di consulenza per il danno ambientale sui siti indicati nel d.m. n. 3046 del 2 novembre 2006 e successive integrazioni.

Il collegio ritiene di dover prendere preliminar-mente in esame la questione relativa all’assogget-tabilità al controllo preventivo del suddetto atto di attribuzione di attività di consulenza specifica, al di fuori del rapporto convenzionale che legava l’ammi-nistrazione alla società.

L’atto all’esame, infatti, inizialmente non era stato ritenuto dall’amministrazione sottoponibile al controllo preventivo di legittimità della Corte dei conti, in quanto dallo stesso non derivavano “oneri a carico del bilancio del Ministero dell’ambiente e del-

la tutela del territorio e del mare”. Successivamente, invece, l’amministrazione ha ritenuto, sulla base del-la considerazione che “la l. n. 20/1994, così come modificata dall’art. 17, c. 30-bis, l. n. 102/2009, pre-vede il controllo preventivo di legittimità della Corte dei conti sulle consulenze”, di inviare al competente ufficio di controllo preventivo di legittimità il prov-vedimento in oggetto.

Al riguardo ritiene la Sezione di condividere l’impostazione da ultimo seguita dall’amministra-zione, secondo la quale l’atto all’esame, avendo per oggetto l’attribuzione di funzioni di supporto del ministero che precedentemente erano oggetto di un incarico di consulenza, sia da ricondurre alla speci-fica ipotesi dell’art. 3, c. 1, lett. f-ter), l. 14 gennaio 1994, n. 20, e, pertanto, da assoggettare al controllo preventivo di legittimità della Corte dei conti.

Per ciò che concerne il merito, la Sezione consi-dera fondate le perplessità in ordine alla legittimità del provvedimento in esame, manifestate dall’uffi-cio di controllo con il foglio di osservazioni prot. n. 27396 in data 26 settembre 2014 (cui l’amministra-zione, peraltro, non ha fornito elementi di risposta). E invero, il provvedimento risulta carente di motiva-zione in ordine alla necessità di ricorrere alla consu-lenza esterna, tenuto conto della presenza, nell’ambi-to della direzione generale per la tutela del territorio e le risorse idriche di un apposito ufficio deputato (Divisione VIII-contenzioso e danno ambientale) e della possibilità, in genere, di avvalersi, per i casi più complessi, dell’Avvocatura generale dello Stato.

In assenza di elementi di chiarimento da parte dell’amministrazione, appaiono confermati altresì i dubbi in ordine alla coincidenza, in tutto o in par-te, delle attività attribuite alla Sogesid s.p.a. con il provvedimento all’esame, con quelle oggetto dell’ulteriore convenzione stipulata tra il Ministero dell’ambiente e della tutela del territorio e del mare e la stessa società in data 10 novembre 2009, per lo svolgimento di supporto e di assistenza tecnica e specialistica al suddetto ministero.

Un ultimo profilo d’illegittimità, evidenziato dall’ufficio, concerne la mancata previsione del ver-samento in conto entrata delle somme oggetto della transazione, da corrispondere successivamente al consulente. Al riguardo si evidenzia che le somme da pagare da parte dei soggetti privati stabilite in sede di transazione, in base ai principi di unicità e di uni-versalità del bilancio dello Stato, sarebbero dovute affluire al conto dell’entrata per essere poi riassegna-te allo stato di previsione della spesa del Ministero dell’ambiente e della tutela del territorio e del mare.

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Il pagamento diretto da parte di soggetti privati a consulenti della pubblica amministrazione per le prestazioni rese è da ritenersi, pertanto, non confor-me a legge.

P.q.m., la Sezione ricusa il visto e la conseguente registrazione dell’atto specificato in epigrafe.

36 – Sezione centrale controllo legittimità; delibe-razione 30 dicembre 2014; Pres. De Franciscis, Rel. Martorana; Presidenza del consiglio dei mi-nistri.

Impiegato dello Stato e pubblico in genere – Am-ministrazione dello Stato – Dirigenti – Atto di conferimento di incarico di funzione dirigen-ziale di livello generale – Conferimento a sog-getto esterno – Carenza dei requisiti previsti dalla norma – Illegittimità.

D.lgs. 30 luglio 1999 n. 300, riforma dell’organiz-zazione del governo, a norma dell’art. 11 della l. 15 marzo 1997 n. 59, art. 75; d.lgs. 30 marzo 2001 n. 165, norme generali sull’ordinamento del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche, art. 19; d.lgs. 27 ottobre 2009 n. 150, attuazione della l. 4 marzo 2009 n. 15, in materia di ottimizzazione del-la produttività del lavoro pubblico e di efficienza e trasparenza delle pubbliche amministrazioni, art. 40.

Non è conforme a legge il decreto del Presiden-te del Consiglio dei ministri col quale viene conferito un incarico dirigenziale generale ad un funzionario dell’amministrazione statale estraneo ai ruoli dirigen-ziali, ove, da un lato, non ricorrano i presupposti della particolare e comprovata qualificazione per l’incari-co da svolgere e dell’assenza di idonee professionalità nei ruoli dirigenziali della stessa amministrazione e, dall’altro lato, l’incarico sia stato conferito mediante una procedura di selezione contemporaneamente ri-volta ai dirigenti interni e a candidati esterni, anziché mediante una selezione che fosse, in un primo momen-to, ristretta ai dirigenti interni e, all’esito infruttuoso di essa, a personale esterno.

Diritto – La Sezione è chiamata a pronunciarsi sulla legittimità del d.p.c.m. 4 settembre 2014 con il quale viene conferito alla dott.ssa Rosa De Pasquale, funzionario di ruolo del Miur, l’incarico dirigenziale di livello generale di direzione dell’ufficio scolastico regionale della Toscana, ai sensi dell’art. 19, c. 6, d.l. n. 165/2001 e successive modificazioni e integrazioni.

Come esposto in narrativa, il magistrato istrutto-re ha formulato una serie di rilievi, con riferimen-

to, in particolare, alla non comprovata sussistenza, nella fattispecie odierna, di tutti i presupposti nor-mativi che legittimano la ricorribilità all’esterno per la provvista del personale di qualifica dirigenziale generale, da preporre all’ufficio scolastico regionale della Toscana.

Si ha riguardo, in primo luogo, al requisito della “particolare e comprovata qualificazione professio-nale non rinvenibile nei ruoli dell’amministrazione” che, a mente del citato c. 6, deve possedere il sogget-to estraneo ai ruoli dell’amministrazione conferente.

È noto che, già nella formulazione origina-ria della norma, l’inciso “non rinvenibile nei ruoli dell’amministrazione”, in virtù degli ordinari criteri ermeneutici, non può che riferirsi alla “particolare e comprovata qualificazione professionale” che deve essere posseduta dai soggetti estranei, la quale, a sua volta, deve essere valutata dall’amministrazione conferente in stretta connessione con la particolari-tà dei compiti che la medesima intende affrontare e portare a compimento.

In altri termini, ritiene il collegio che il c. 6, aven-te valenza di norma di carattere complementare ri-spetto all’ordinario sistema di provvista delle profes-sionalità dirigenziali, sia finalizzato ad accrescere le capacità operative delle amministrazioni, attingendo a un bacino più ampio di quello delle unità dirigen-ziali già presenti nei ruoli delle amministrazioni me-desime, all’uopo acquisendo professionalità esterne altamente specializzate e qualificate.

L’art. 40, c. 1, lett. e), d.l. n. 150/2009 – succes-sivamente intervenuto ad apportare modifiche all’art. 19, c. 6, d.l. n. 165/2001 – ha inteso limitare ulterior-mente la facoltà di ricorrere a soggetti esterni, con-sentendo il conferimento degli incarichi a persone di particolare e comprovata qualificazione professio-nale solo nell’ipotesi in cui tale qualificazione non sia rinvenibile nell’ambito del personale dirigenziale dell’amministrazione; con ciò, rinforzando i requi-siti di professionalità già richiesti dalla precedente normativa, con la specificazione che deve trattarsi di “competenze non rinvenibili nei ruoli dell’ammini-strazione”, presupposto, quest’ultimo, in assenza del quale l’incarico non può essere conferito.

In tal modo, la disposizione citata crea un onere di previa verifica della sussistenza delle risorse uma-ne interne all’amministrazione in possesso di requi-siti professionali richiesti dall’incarico. Soltanto ove tale indagine dia esito negativo sarà possibile attribu-ire il posto vacante a soggetto esterno, se dotato della particolare specializzazione richiesta.

In definitiva, deve osservarsi che il legislatore ha

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introdotto un ulteriore presupposto di legittimità di tali conferimenti, da individuarsi nella circostanza per cui, solo dopo aver accertato che nei ruoli interni manchino le competenze professionali richieste, ri-sulta ammissibile il ricorso a professionalità esterne.

In tale ordine di considerazioni appare contrad-dittoria e comunque non dirimente la considerazione formulata dall’amministrazione che, pur dando atto della presentazione di candidature interne nella pro-cedura di interpello, conclude di non averne poi in concreto tenuto conto in quanto si trattava di diri-genti interni che avevano già accettato altri incarichi.

La non rinvenibilità nei ruoli dell’amministrazio-ne deve, per converso, essere apprezzata oggettiva-mente, coerentemente con la ratio della norma, che, secondo consolidata e conforme giurisprudenza di questa Sezione, deve intendersi, per un verso, tesa a limitare il ricorso a contratti al di fuori dei ruoli dirigenziali in ossequio a ragioni di contenimento della spesa pubblica, nonché di ottimizzazione del-la produttività del lavoro pubblico, per altro verso, a non mortificare le aspettative dei dirigenti interni che aspirino a ricoprire quel posto.

Sotto quest’ultimo profilo, vale ulteriormente os-servare che, lungi dal riproporre schemi di percorsi di carriera per anzianità di servizio, la previa ricerca all’interno delle qualifiche dirigenziali presenti nei ruoli dell’amministrazione realizza, ad un tempo, l’interesse di quest’ultima alla migliore e più effi-ciente utilizzazione delle risorse umane già presenti e, contestualmente, l’interesse dei dirigenti di ruolo a percorsi professionali che consentano un effettivo arricchimento del relativo curriculum.

L’eventuale valutazione negativa del dirigente prescelto rispetto agli obiettivi assegnatigli potrà essere effettuata dall’amministrazione nelle sedi ap-propriate, senza che, per converso, tale riscontrata anomalia finisca per costituire un presupposto di fat-to, non previsto dalla norma, per il ricorso all’attri-buzione dell’incarico ai sensi del c. 6.

Così opinando, infatti, la procedura in concreto seguita dall’amministrazione rischia di configurarsi come un surrettizio canale di reclutamento, parallelo, rispetto alle forme ordinarie all’uopo normativamente fissate e rivenienti la loro fonte nel principio di rango costituzionale dell’accesso al rapporto di lavoro pub-blico a seguito del superamento di pubblico concorso.

Con riguardo, poi, al requisito della “particolare e comprovata specializzazione”, che ha costituito og-getto del terzo motivo di rilievo, osserva il collegio che la pur nutrita serie di argomentazioni articolate dal Miur, incentrata essenzialmente sulla ricchezza

delle esperienze professionali maturate dall’inca-ricanda all’interno dell’ufficio scolastico regionale della Toscana, non dà evidenza di quell’elemento di aggiuntività rispetto alle funzioni istituzionali e/o ordinarie proprie del plesso amministrativo di che trattasi, che la norma richiede quale presupposto per l’attribuzione dell’incarico dirigenziale a soggetto esterno ai relativi ruoli.

Si consideri in tal senso che gli aspetti relativi alle particolari esperienze e competenze possedute dalla candidata prescelta, quali diffusamente rife-riti nella nota di controdeduzioni, non figurano tra gli obiettivi connessi all’incarico definiti nella nota del 14 agosto 2014 inviata dal capo di Gabinetto al Dipartimento della funzione pubblica, laddove, in-vece, si fa esclusivo riferimento al perseguimento delle finalità proprie dell’ufficio scolastico regiona-le, in relazione alle competenze istituzionali previste dall’art. 8 d.p.c.m. n. 98/2014.

In realtà, il profilo professionale del quale l’am-ministrazione ha in concreto necessità di dotarsi coincide perfettamente con le qualifiche istituzional-mente e ordinariamente presenti nei propri ruoli, na-turaliter destinate a disimpegnare le funzioni tipiche di direzione di un ufficio scolastico regionale, quali chiaramente si evincono dalle disposizioni di ran-go normativo e regolamentare dedicate a declinare le relative attribuzioni, ovvero l’art. 75, c. 3, d.l. n. 300/1999 e l’art. 8 d.p.c.m. n. 98/2014.

Semmai, le competenze aggiuntive richieste dalle particolari situazioni che attualmente si trova a gesti-re l’ufficio scolastico toscano, con particolare riguar-do al notevole contenzioso del personale della scuola ivi presente, ben potranno essere attinte dal dirigente generale “tipo” all’interno delle professionalità – di-rettive e dirigenziali – che figurano nell’organico del medesimo dell’ufficio scolastico regionale, in quanto tali dotate di quella conoscenza del territorio e delle connesse problematiche che, peraltro, sono state già positivamente considerate e valutate in occasione dei precedenti conferimenti di incarichi direttivi e dirigenziali, di cui la dott.ssa De Pasquale risultata attributaria.

Per quanto attiene, infine, al percorso procedi-mentale seguito al fine di individuare il candidato ritenuto più idoneo, tanto dalla prima nota di contro-deduzioni, quanto dalla memoria presentata in adu-nanza non risulta che l’amministrazione abbia scan-dito la procedura valutativa interna, con il relativo esito infruttuoso, rispetto alla fase necessariamente successiva, volta al reperimento all’esterno della professionalità mancante.

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L’amministrazione, infatti, – mentre sottolinea la complessità della procedura, necessitata dalla completa riorganizzazione determinata dal riordino delle proprie strutture centrali e periferiche connes-se all’entrata in vigore del nuovo regolamento di organizzazione (d.p.c.m. n. 98/2014) – dà conto di un’unica procedura valutativa, contemporaneamente rivolta ai dirigenti interni e all’esterno.

Tale procedura promiscua non appare in linea con il dettato del c. 6, che, per contro – nel porre in capo all’amministrazione un onere di previa verifica circa la sussistenza delle risorse umane interne, in possesso dei requisiti professionali richiesti dall’in-carico – determina una necessaria funzionalizzazione della procedura valutativa a tale obiettivo prioritario: rimettendo a una fase successiva ed eventuale, con-seguente all’esito infruttuoso della prima, la ricerca all’esterno finalizzata al conferimento di un incarico ai sensi del c. 6, che, in ogni caso, deve discendere da una rinnovata volontà discrezionale dell’amministra-zione medesima, debitamente motivata.

Per le ragioni sopra esposte la Sezione ritiene il provvedimento all’esame non conforme al disposto dell’art. 19, c. 6, d.l. n. 165/2001

P.q.m., la Sezione ricusa il visto e la conseguente registrazione al provvedimento indicato in epigrafe.

* * *

Sezione centrale controllo gestione

6 – Sezione centrale controllo gestione; deliberazio-ne 24 luglio 2014; Pres. Clemente, Rel. Ferraro, Montella; Ministero dell’economia e delle finan-ze e altri.

Amministrazione dello Stato e pubblica in gene-re – Fondo unico giustizia (Fug) – Gestione finanziaria 2008-2014.

D.l. 25 giugno 2008 n. 112, convertito con modifi-cazioni dalla l. 6 agosto 2008 n. 133, disposizioni urgenti per lo sviluppo economico, la semplificazio-ne, la competitività, la stabilizzazione della finanza pubblica e la perequazione tributaria, art. 61, c. 23; d.l. 16 settembre 2008 n. 143, convertito con modifi-cazioni dalla l. 13 novembre 2008 n. 181, interventi urgenti in materia di funzionalità del sistema giudi-ziario, art. 2.

La relazione riferisce al Parlamento in merito agli esiti del controllo eseguito sulla gestione del Fondo unico giustizia (Fug), in cui confluiscono le

somme di denaro sequestrate nell’ambito di proce-dimenti penali e di procedimenti per l’applicazione di misure di prevenzione o di sanzioni amministrati-ve, nonché proventi, crediti e altri beni, con i relativi interessi, intestati al Fondo da Poste italiane s.p.a., banche e altri operatori finanziari, depositari delle somme e dei beni in sequestro.

Le somme gestite dal Fug sono destinate a fina-lità di tutela della sicurezza pubblica, di funziona-mento degli uffici giudiziari e degli altri servizi isti-tuzionali del Ministero della giustizia e, per la parte restante, all’entrata del bilancio dello Stato.

L’indagine, che ha analizzato modalità, proce-dure e risultati della gestione del Fug, dalla relati-va costituzione, intervenuta nel 2008, fino a tutto il primo quadrimestre del 2014, ha inteso verificare la complessa attività di alimentazione, amministrazio-ne e devoluzione allo Stato delle ingenti risorse og-getto di provvedimenti ablatori, individuando aree di criticità negli adempimenti procedurali e nella rea-lizzazione dei molteplici obiettivi previsti dalla legge istitutiva.

La relazione evidenzia la presenza di risorse ancora in sequestro, alcune risalenti a molti anni addietro, per le quali non risultano intervenuti o comunicati provvedimenti definitivi di confisca, re-stituzione o devoluzione allo Stato. Rileva, inoltre, che il fenomeno della mancata destinazione al Fug di risorse sequestrate e confiscate rappresenta una criticità rilevante perché in grado di incidere negati-vamente sull’entità delle risorse intestate al fondo e da riassegnare al bilancio dello Stato.

Infine, nella prospettiva dell’ampliamento della massa di proventi da far affluire al Fondo, la rela-zione rileva l’opportunità di un intervento legislativo volto a destinare al Fug anche le risorse derivanti dai sequestri ante causam operati dalle procure della Corte dei conti. (1)

Oggetto e modalità di svolgimento dell’indagineNell’ambito dell’attività di controllo sulla ge-

stione programmata dalla Corte dei conti per l’an-no 2013 figurano, tra le altre, due indagini, concer-nenti, rispettivamente, la gestione del Fondo unico giustizia e il recupero dei crediti in conseguenza di sentenze passate in giudicato, che riguardano oggetti

(1) Il testo integrale della relazione è consultabile in www.corteconti.it.

L’indagine sulla gestione del Fondo unico giustizia è stata preceduta dalla delib. 14 ottobre 2010, n. 23, ibidem, riguar-dante il controllo sulla gestione dei beni confiscati alla crimi-nalità organizzata.

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distinti ma che hanno in comune il soggetto destina-tario, Equitalia giustizia s.p.a., gestore del Fondo e del sistema convenzionale di iscrizione a ruolo dei crediti di giustizia e degli adempimenti connessi.

L’indagine sullo stato di attuazione del Fug, pre-ceduta da analoga iniziativa della Corte inerente il controllo sulla gestione dei beni confiscati alla cri-minalità organizzata (cfr. delib. n. 23/2010), ha in-teso verificare, relativamente all’intero quinquennio trascorso dall’istituzione del Fondo, il complesso processo di alimentazione, amministrazione e de-voluzione allo Stato delle ingenti risorse oggetto di provvedimenti ablatori nell’ambito di procedimenti penali, amministrativi o di applicazione delle misure di prevenzione, individuando eventuali aree di cri-ticità negli adempimenti procedurali e nella realiz-zazione dei molteplici obiettivi previsti dalla legge istitutiva.

Per controllare le concrete modalità di acquisi-zione al Fug delle somme e dei proventi in sequestro nonché i criteri ed i risultati della gestione, sono stati acquisiti informazioni e dati contabili, tra cui le re-lazioni ed i rendiconti annuali e trimestrali già sotto-posti al vaglio del Mef e dei ministeri della giustizia e dell’interno, concernenti la natura e l’entità delle risorse periodicamente intestate al Fondo, di quelle prelevate e versate all’entrata del bilancio statale e di quelle restituite agli aventi diritto in caso di disse-questro o di revoca della confisca. Contestualmente, hanno formato oggetto di approfondimento la gestio-ne finanziaria e le operazioni di investimento delle disponibilità del Fondo, le commissioni/spese trat-tenute dagli operatori finanziari, le spese di ammi-nistrazione sostenute da Equitalia giustizia e quelle inerenti l’attività di investimento.

Allo scopo di verificare, poi, se erano regolarmen-te affluiti al Fondo tutti i proventi e le risorse previsti dalla normativa, sono state esaminate in dettaglio le varie procedure di comunicazione, di intestazione e di versamento poste in essere dagli uffici giudiziari, dall’Agenzia nazionale dei beni sequestrati e confi-scati alla criminalità organizzata (Anbsc), da Poste italiane s.p.a., dalle banche e dai vari operatori finan-ziari e assicurativi.

In particolare, sono stati analizzati i rapporti tra l’Anbsc ed Equitalia giustizia, valutando l’effica-cia dell’azione di monitoraggio e controllo svolta dall’Agenzia nei confronti degli amministratori giu-diziari e dei coadiutori relativamente alle operazioni di gestione dei compendi confiscati e di volturazione al Fug dei conti e dei proventi confiscati.

Analoga attenzione è stata rivolta alle modalità

di devoluzione al bilancio statale dei proventi ogget-to di confisca e di quote delle risorse in sequestro, a titolo di anticipazione sui futuri provvedimenti abla-tori definitivi, accertando la corretta riassegnazione degli stessi proventi agli appositi fondi di pertinenza dei ministeri della giustizia e dell’interno.

In base agli ulteriori elementi di analisi acquisiti dal Ministero dell’economia e delle finanze, Dipar-timento della Rgs, è stata approfondita la questione degli strumenti finanziari ed assicurativi in sequestro, valutando rischi ed effetti negativi indotti dall’even-tuale attivazione, prevista dalla recente normativa ma subordinata all’adozione di un decreto attuativo, della possibilità di procedere all’alienazione dei titoli ed al versamento anticipato allo Stato del ricavato della vendita.

Una particolare analisi è stata, poi, riservata ai criteri di misurazione e liquidazione dell’aggio spet-tante a Equitalia-giustizia nonché alle modalità e all’efficacia dell’azione di vigilanza e controllo sulla gestione del Fug assicurata dal Mef e dai ministeri dell’interno e della giustizia.

Infine, sono state oggetto di approfondito esame l’attività di rendicontazione, nei suoi diversi aspetti, la contabilità e le scritture separate istituite per le ope-razioni di gestione del Fondo ed il sistema dei con-trolli interni affiancato al monitoraggio direzionale.

Valutazioni conclusive e raccomandazioni1) L’indagine ha analizzato modalità, procedure e

risultati della gestione del Fondo unico giustizia, in-dividuando i diversi aspetti problematici e le criticità della complessa attività di acquisizione, lavorazione e versamento delle risorse amministrate dal sistema giustizia.

Il passaggio al nuovo modello gestionale facente capo ad Equitalia giustizia s.p.a. ha indubbiamente consentito di razionalizzare e rendere più trasparen-te e remunerativa l’amministrazione degli ingenti proventi che affluiscono al Fondo, attraverso la co-struzione di un’anagrafe nazionale delle risorse se-questrate e/o confiscate e dei relativi rapporti, una at-tenta gestione finanziaria delle risorse “liquide” e la possibilità, concessa dalla normativa, di “anticipare” ai ministeri beneficiari e all’erario quote di risorse in sequestro non ancora interessate da provvedimenti di confisca definitiva.

Nel corso dell’istruttoria si è proceduto a verifi-care, altresì, la sostanziale realizzazione degli obiet-tivi di efficienza e di trasparenza che la normativa in-tendeva perseguire con l’accentramento ad Equitalia giustizia della gestione di tutte le forme tecniche dei

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proventi che affluiscono al Fug, nonché il rispetto, da parte della Società, dei vincoli e delle modalità gestorie fissati dal regolamento approvato con decre-to n. 127/2009. È stata accertata anche l’adeguatez-za delle attività e procedure di controllo e vigilanza assicurate dai ministeri interessati e la validità del sistema dei controlli interni di gestione e del monito-raggio direzionale.

2) Una delle aree più delicate del sistema, ogget-to di approfondimento al par. 3. della relazione d’in-dagine, è quella concernente la corretta e tempestiva alimentazione del Fondo attraverso l’adempimento di precisi obblighi di comunicazione, intestazione e versamento delle risorse e dei proventi sequestrati/confiscati nell’ambito di procedimenti penali, di ap-plicazione di misure di prevenzione o di irrogazio-ne di sanzioni amministrative ovvero già depositati nell’ambito di processi civili o di procedure falli-mentari.

Per assicurare la regolarità della procedura di gestione è necessario che gli uffici giudiziari proce-denti curino specifiche comunicazioni al Soggetto gestore, relative alla generalità delle risorse da in-testare al Fug, mediante l’uso di modelli approvati con circolare del Ministero della giustizia, contenen-ti tutte le informazioni e i dati prescritti e firmati dal cancelliere responsabile del procedimento.

Nel caso di risorse sequestrate in data anteriore alla legge istitutiva del Fondo (d.l. n. 112/2008, con-vertito con modificazioni dalla l. n. 133/2008), gli oneri d’informazione e intestazione sono, invece, a carico di Poste italiane s.p.a., delle banche e degli operatori finanziari depositari delle somme, dei pro-venti e degli altri beni in sequestro e a suo tempo destinatari dei provvedimenti ablatori relativi.

In particolare, devono essere oggetto di tempe-stiva comunicazione a Equitalia giustizia i provve-dimenti di restituzione o di confisca delle risorse sequestrate, anche se antecedenti l’istituzione del Fondo, per consentire l’attivazione delle procedure di restituzione agli aventi diritto o di devoluzione allo Stato a cura della società che ne dà, poi, comuni-cazione all’ufficio giudiziario per la definizione delle posizioni di riferimento.

Ebbene, nel corso dell’istruttoria relativa all’in-dagine, la ricognizione dell’anagrafe dei sequestri ha evidenziato la presenza, tra le risorse ancora intestate al Fug, di proventi oggetto di provvedimenti ablatori non definitivi, alcuni risalenti addirittura all’inizio degli anni Ottanta, per i quali non risultano interve-nuti (o comunicati) successivi provvedimenti defini-tivi di confisca, restituzione o devoluzione.

La particolare situazione non può non costituire sintomo di criticità del sistema, così come l’esisten-za di un numero non indifferente di uffici giudiziari che, nonostante la localizzazione anche in aree no-toriamente interessate dalla criminalità organizzata, non hanno mai effettuato comunicazioni di provve-dimenti di pertinenza del Fug.

Al riguardo, è stata interessata la Direzione gene-rale della giustizia civile del Ministero della giustizia che, nell’osservare come la prolungata permanenza di risorse ancora in sequestro “sia riconducibile alla mancanza del provvedimento di dissequestro, di re-stituzione o di devoluzione o piuttosto alla situazio-ne di particolare affanno che si registra presso alcuni uffici giudiziari”, ha di recente acquisito da Equitalia giustizia l’elenco degli uffici giudiziari potenzial-mente inadempienti, verosimilmente tra quelli non ancora abilitati alle comunicazioni con sistema web, e il file delle risorse intestate con data di sequestro anteriore al 2006, per promuovere i necessari riscon-tri e la verifica delle posizioni con evidente indice di anomalia.

È auspicabile che Equitalia giustizia provveda periodicamente a segnalare analoghe situazioni di anomalia del sistema per i necessari approfondimenti.

3) Inoltre, l’esame dei rapporti tra l’Agenzia na-zionale dei beni sequestrati e confiscati alla crimina-lità organizzata (Anbsc) ed Equitalia giustizia s.p.a. (cfr. par. 3.3.2 della relazione) ha permesso di accer-tare che solo a partire dalla seconda metà dell’an-no 2012 l’Agenzia ha potuto avviare una adeguata azione di monitoraggio e controllo delle procedure di confisca e verificare il corretto adempimento, da parte degli amministratori giudiziari e dei coadiuto-ri, degli oneri di rendicontazione della gestione dei compendi confiscati e di volturazione al Fug dei con-ti riferiti alle varie procedure.

Dagli elementi informativi acquisiti emergono, infatti, difficoltà nei rapporti con l’Agenzia del de-manio, tuttora depositaria dei fascicoli dei compendi sequestrati prima dell’istituzione dell’Anbsc, e l’esi-stenza di una situazione che, se pur “costantemente monitorata”, appare caratterizzata dalla “accertata mancata volturazione di molte delle liquidità oggetto di sequestro e poi di confisca in forza di provvedi-menti ablatori antecedenti al 2009, anno di istitu-zione del Fug, giacché in precedenza non esisteva un obbligo in tal senso in capo all’amministrazione giudiziaria”.

Su sollecitazione della Sezione di controllo, l’Anbsc ha esteso le operazioni di verifica delle procedure pregresse (oltre 1.800 gestite in atto) per

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favorire l’emersione delle liquidità non volturate e richiamato gli amministratori al puntuale soddisfaci-mento degli adempimenti imposti.

Nell’occasione, è stato manifestato l’orienta-mento a subordinare alla regolare presentazione dei rendiconti e alla loro approvazione la corresponsio-ne agli amministratori del compenso finale ed anche di eventuali acconti nonché a valutare “la diligenza e puntualità” negli adempimenti ai fini del conferi-mento di nuovi incarichi della specie.

Il fenomeno della mancata volturazione al Fon-do di risorse sequestrate e confiscate, già accertato in occasione del controllo dei rendiconti finanziari e di cui non si conoscono ancora le reali dimensioni, rappresenta una criticità rilevante perché in grado di incidere negativamente sull’entità delle risorse inte-state al Fug e da riassegnare al bilancio dello Stato.

Va segnalato al riguardo che il neo direttore della Anbsc, in sede di adunanza pubblica in merito alla presente indagine, ha lamentato la sproporzione tra le dotazioni organiche dell’Agenzia ed i numerosi impegni da affrontare, auspicando l’adozione di nor-me più adeguate al funzionamento dell’organismo e la possibilità di utilizzare il sistema informatico sulle procedure di prevenzione, peraltro di imminente di-sponibilità.

4) Relativamente alla gestione finanziaria delle risorse intestate, Equitalia giustizia è vincolata ad as-sicurare le esigenze di liquidità del Fondo e a garan-tire la “pronta disponibilità delle risorse diverse dal denaro ovvero delle somme di denaro necessarie per eseguire le restituzioni e i prelevamenti” previsti per la conservazione e l’amministrazione dei compendi sequestrati.

In effetti, la società ha operato secondo le pre-scrizioni e i vincoli del regolamento n. 159/2009, accentrando le risorse “liquide” presso gli operatori finanziari che riconoscono le migliori condizioni di mercato unitamente alle maggiori garanzie di soli-dità patrimoniali e di efficienza e operando investi-menti esclusivamente in titoli emessi e garantiti dallo Stato italiano.

Allo scopo la società ha realizzato un progetto con il Consorzio Cbi (Corporate banking interbanca-rio) per assicurare l’interconnessione con il circuito bancario e alimentare, con le informazioni ricevute, un applicativo informatico interno finalizzato a so-stenere l’intero ciclo finanziario del Fug attraverso specifiche funzionalità, tra cui la possibilità di ac-cedere a tutti i conti intestati, conoscerne on line il saldo e i movimenti giornalieri nonché effettuare at-tività dispositive mirate.

Come precisato al par. 4.1 della relazione (tab. n. 3), nel periodo di operatività del Fondo, che ha ini-ziato a investire in titoli dello Stato solo a partire dal 2010, l’utile della gestione finanziaria, in progressi-vo incremento, ha raggiunto la cifra di oltre 90 mi-lioni di euro, con un utile netto già rilevato, detratti i costi di gestione, di 43,63 milioni sul quale si calcola l’aggio spettante al soggetto gestore.

A margine della gestione finanziaria, è stato evi-denziato nel referto il fenomeno, ricorrente nel set-tore penale, dell’inadempimento degli obblighi di comunicazione da parte degli operatori finanziari e quello delle risorse “liquide” non rendicontate, che la società giudica comunque marginale rispetto alla massa amministrata (in quanto oscillante nel periodo dal 2009 al 2013 tra il 2,3 per cento e lo 0,93 per cento del saldo iniziale delle risorse), e che dipende, in genere, dal ritardo nelle comunicazioni di inte-stazione o dalla presenza di risorse le quali, data la particolare natura del rapporto, non sono soggette a rendicontazione bancaria.

5) Per quanto concerne le risorse diverse da quel-le liquide e, in particolare, gli strumenti finanziari e assicurativi, il divieto di disinvestimento o di nuovi investimenti, inizialmente previsto dalla disciplina regolamentare, è stato superato dalla normativa in-tervenuta successivamente e, da ultimo, dalla l. 27 febbraio 2014, n. 15 che, all’art. 1, c. 21-quinquies, ha disposto l’adozione con d.p.r. di natura non rego-lamentare, di norme per disciplinare, tra l’altro, “ter-mini e modalità di vendita dei titoli sequestrati …, in modo da garantire la massima celerità del versa-mento del ricavato dell’alienazione” al Fug, in ogni caso restando fermi i limiti entro i quali è possibile l’utilizzo di beni e valori sequestrati.

Ma la possibilità di procedere all’alienazione dei titoli sequestrati, con versamento in entrata al bilan-cio statale ai fini della successiva destinazione alla spesa, possibilità subordinata comunque all’adozio-ne di un decreto attuativo, non è stata sinora seria-mente considerata, come osservato dalla Ragioneria generale dello Stato del Mef, in presenza di com-plesse problematiche emerse in sede di istruttoria tecnica e “in considerazione delle difficoltà incon-trate nella individuazione di un percorso operativo praticabile”.

Analogamente, non sarebbe giunto a conclusioni positive il gruppo di lavoro costituito presso l’uf-ficio legislativo finanze per definire un intervento normativo concernente la vendita degli strumenti finanziari in sequestro e la destinazione dei proventi relativi.

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Alcune problematiche sono di carattere tecnico come, ad esempio, la difficoltà di valutare le polizze assicurative, delle quali è noto il valore facciale ma non il premio che viene pagato e che è legato alla durata dell’evento assicurato.

Le maggiori criticità, però, derivano dal fatto che i titoli sequestrati, a differenza di quelli confiscati, “entrano soltanto in via provvisoria nella disponibi-lità dello Stato e potrebbero dover essere restituiti, a seconda dell’esito finale della controversia giudizia-ria” dalla quale ha avuto origine il provvedimento ablatorio.

È stato osservato in proposito che un’eventua-le alienazione di titoli azionari, soprattutto quando costituiscono o consentono una partecipazione di controllo in una società, è suscettibile di determinare l’insorgere di un contenzioso con il soggetto che ha subito il sequestro e, in caso di revoca della misura ablatoria, indurre l’interessato a chiedere “il risarci-mento del danno patito a causa della vendita operata in condizioni svantaggiose”.

6) Una particolare problematica è costituita, poi, dalle difficoltà di procedere alla restituzione del bene, per equivalente, al legittimo proprietario nel caso intervenga la revoca della confisca dello stes-so bene nel frattempo alienato. In tal caso il Fondo deve prima versare all’entrata del bilancio statale il ricavato della vendita e, poi, ai sensi dell’art. 46, cc. 1 e 2, d.lgs. n. 159/2011, sostenere l’onere finanzia-rio della restituzione della somma, maggiorata di una percentuale pari al tasso di inflazione annuo e dell’e-ventuale rivalutazione delle rendita catastale, se si tratta di un bene immobile.

Le difficoltà evidenziate, che rischiano di in-cidere sulla sostenibilità da parte del Fondo degli impegni finanziari connessi alle restituzioni e alle devoluzioni, sono state oggetto di quesito al Mef e approfondite in occasione di specifiche riunioni dalle quali è emerso l’orientamento a promuovere la mo-difica dell’art. 46 cit. per porre a carico dell’erario, e non più del Fug, l’onere dell’eventuale restituzione per equivalente degli immobili confiscati e alienati.

Problemi operativi sono stati, anche, segnalati dalla Direzione generale della giustizia civile relati-vamente alla fase di restituzione di somme intestate al Fondo e già incamerate al bilancio statale. Nella particolare ipotesi, difatti, si dovrebbe fare ricorso alla procedura di rimborso prevista dall’art. 68 delle istruzioni sul servizio di tesoreria dello Stato, trattan-dosi di somme che non sono più nella disponibilità del fondo e sulle quali non potrebbe intervenire il soggetto gestore, in assenza di una esplicita previ-

sione normativa che autorizzi la compensazione di partite creditorie e debitorie verso lo Stato.

7) Le più avvertite criticità concernono, peral-tro, la possibilità, disciplinata da espressa previsione normativa, di destinare all’entrata del bilancio dello Stato non solo le somme e i proventi derivanti da confisca ma anche, in una percentuale ormai conso-lidata prudenzialmente al 10 per cento dei sequestri giacenti, le somme oggetto di sequestro penale o am-ministrativo, disponibili per massa, in base a criteri statistici e con modalità rotativa.

La percentuale delle risorse in sequestro da “an-ticipare” (cfr. par. 5.3 della relazione) è fissata con decreto interministeriale, dopo aver proceduto alla scomposizione delle somme disponibili per classi di importo e data di sequestro e, quindi, alla ricostru-zione, per ciascun provvedimento giudiziario, del tempo trascorso dalla data della misura ablatoria e quella di restituzione/confisca, evidenziando la di-stribuzione statistica dell’evento finale e individuan-do tre fasce di “rischio uscita” dal Fondo.

La quota da versare all’entrata è, di norma, rife-rita alle risorse a basso-medio rischio e viene decur-tata dei prelievi precedentemente devoluti pro quota a titolo di anticipazione sulle somme che verranno presumibilmente confiscate.

In proposito, il Dipartimento della Rgs ha voluto precisare che “ulteriori anticipazioni … devono es-sere valutate con la massima attenzione e prudenza, tenendo conto che potrebbe sorgere l’esigenza di re-stituire agli aventi diritto, a seguito di dissequestro, una parte delle somme sequestrate a fronte delle qua-li è stata effettuata un’anticipazione di bilancio”.

L’utilizzazione di somme in sequestro, infatti, che rimangono nella titolarità di terzi, è considerata nei conti nazionali alla stregua di un’anticipazione passiva dello Stato e, quindi, oltre a non sortire ef-fetti positivi sull’indebitamento netto, produce effetti negativi sul debito pubblico, già incrementato a se-guito del versamento di una quota rilevante di risorse liquide oggetto di sequestro (finora 415,28 mln, pari a quasi il 52 per cento delle somme complessiva-mente devolute allo Stato).

Lo stesso Dipartimento della Rgs, nel richiamare l’attenzione sul fatto che le anticipazioni effettua-te hanno ridotto i margini per successive analoghe devoluzioni, sottolinea come l’eventuale estensio-ne dell’ambito di applicazione delle riassegnazioni, ad esempio, ai proventi derivanti dalla vendita di strumenti finanziari in sequestro, non potrebbe che incidere negativamente sugli “attuali tendenziali di spesa a legislazione vigente”, sollevando il problema

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di “trovare idonea copertura in termini di indebita-mento netto”.

8) Un altro aspetto di almeno apparente anomalia, sollevato anche in sede di interrogazione parlamen-tare (cfr. XVI legislatura, seduta n. 676 del 2 agosto 2012, all. B, n. 3/02432,), è quello concernente la vistosa sproporzione tra la consistenza annuale effet-tiva del Fondo (dai circa 1.442 mln dell’anno 2009 agli oltre 3.411 mln del 2013) e le risorse versate al capitolo di entrata 2414 del bilancio statale per esse-re destinate alla spesa (complessivamente 623,6 mln, nel periodo 2009-2013) e, ancora, quelle riassegna-te ai pertinenti capitoli degli stati di previsione dei ministeri della giustizia e dell’interno (560,1 mln, che si aggiungono alla somma di 100 mln inizial-mente stanziata sul cap. 3001 dell’Amministrazione dell’interno).

In effetti, si è visto come siano oggetto di ver-samento allo Stato e di riassegnazione ai dicasteri interessati (per il 98 per cento) e all’erario (per il 2 per cento), oltre all’utile della gestione finanziaria, solo le risorse “liquide” derivanti da confisca e quel-le oggetto di devoluzione nonché, per le risorse in sequestro, esclusivamente una quota calcolata con stima prudenziale e destinata nel tempo ad esaurirsi.

Va precisato, inoltre, che, in occasione della ri-partizione tra i destinatari finali, il Fondo deve assi-curare anche le finalizzazioni previste a legislazione vigente ed esattamente la copertura finanziaria del credito d’imposta per il ricorso alle procedure di me-diazione nelle controversie civili e l’alimentazione di specifici Fondi di solidarietà.

Questo spiega, tra l’altro, le ripetute osservazioni della Corte, Sezioni riunite in sede di controllo, rese in occasione della relazione annuale sul rendiconto generale dello Stato per gli esercizi 2010, 2011 e 2012, in merito alla particolare criticità del capitolo di spesa 1537, alimentato dal Fug, “a causa dell’in-certezza delle risorse finanziarie che si rendono di-sponibili nel corso dell’anno e, di conseguenza, per i ritardi con cui tale risorse affluiscono al predetto capitolo” che opera come fondo da ripartire per le spese di funzionamento della giustizia.

Tra gli importi scomputati dalla massa di risorse riassegnabili (623,6 mln nel quinquennio) vengono in evidenza 19,4 milioni non riassegnati per gli anni 2011 e 2012, verosimilmente perché le amministra-zioni interessate non hanno trasmesso in tempo utile al Mef le relative domande, e 11,9 milioni di somme versate nell’ultimo bimestre 2012 e da ripartire entro l’anno successivo.

A parere della Sezione, è auspicabile che, trat-

tandosi di finalizzazioni soggettivamente individuate per legge e di risorse fissate con decreto, si dispon-ga la riassegnazione con procedura automatica, non subordinata alle richieste di parte, assicurando l’a-dozione tempestiva degli atti presupposti, necessari alla definizione delle quote in riassegnazione e della percentuale di somme in sequestro da anticipare (a data attuale non risultano ancora acquisite dai mini-steri destinatari le risorse assegnate nel 2012 e non sono stati formalizzati i provvedimenti relativi alla medesima annualità).

9) La vera sfida, a questo punto, sarebbe quella di riuscire comunque a incrementare la quota di risorse intestate al Fondo effettivamente utilizzabili per le destinazioni previste dalla legge e, in particolare, per la riassegnazione al soddisfacimento delle esigenze di spesa dei ministeri della giustizia e dell’interno.

Un contributo interessante potrà venire dai ri-sultati dell’approfondita e incisiva azione di moni-toraggio e controllo sugli uffici depositi giudiziari che il Ministero della giustizia ha di recente avviato e che, dovrebbe essere, in prospettiva, assicurata sta-bilmente anche attraverso controlli specifici in occa-sione dell’attività di verifica svolta dall’Ispettorato generale del Ministero della giustizia.

È di notevole importanza, inoltre, il ruolo de-mandato all’Anbsc, da potenziare adeguatamente in uomini e risorse, per consentire un più esteso e tem-pestivo controllo delle procedure di confisca dei beni sottratti alla criminalità organizzata e di gestione dei relativi proventi, in modo da favorire l’emersione di conti e risorse non ancora correttamente intestati al Fug e da destinare in prospettiva alla devoluzione al bilancio statale.

Non sembra, invece, esserci spazio per soluzio-ni tecnico-operative che, nell’ambito della cornice legislativa, consentano di procedere all’alienazione anticipata dei titoli e dei diversi strumenti finanziari in sequestro, una volta preso atto dei fondati rilievi critici mossi dal Mef-Rgs in ordine ai rischi ed agli effetti negativi indotti da un ampliamento della mas-sa di risorse oggetto di “anticipazione”.

Una misura eventualmente da esplorare potrebbe consistere nella revisione in diminuzione dell’impor-to dell’aggio finora corrisposto al soggetto gestore nella percentuale massima del 5 per cento dell’utile annuo della gestione finanziaria del Fug.

Ma, come emerso dall’analisi condotta (cfr. par. 4.4 della relazione), l’andamento dei tassi d’interes-se e le oculate iniziative d’investimento finanziario finora promosse non hanno contribuito a rendere par-ticolarmente remunerativa tale gestione.

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Nell’attuale situazione del mercato è difficile ipotizzare un significativo effetto positivo per l’e-rario dall’eventuale riduzione di un paio di punti percentuali dell’importo dell’aggio. L’aggio erogato alla società, invero, comprendendo anche quello ma-turato a tutto l’esercizio 2013, non arriva a superare i 2,18 milioni, somma con la quale Equitalia giustizia deve sostenere i costi fiscali rimasti a suo carico non-ché le spese per investimenti tecnologici e per l’ac-quisto di beni strumentali ad utilità pluriennale, che convenzionalmente sono considerate pari all’am-montare delle quote di ammortamento e rimborsate con contributo statale nel limite delle suddette quote.

Sempre al fine di ampliare la massa di proventi Fug destinabili alle finalizzazioni oggi previste, po-trebbe essere valutata, infine, l’opportunità, previa specifica integrazione della legislazione in materia, di far confluire al Fondo anche le risorse derivanti dai sequestri ante causam operati dalle procure della Corte dei conti, con conseguente possibilità di rias-segnazione in caso di confisca definitiva a conclusio-ne del procedimento contabile.

11 – Sezione centrale controllo gestione; delibera-zione 20 ottobre 2014; Pres. Clemente, Rel. Buc-carelli, Ferraro; Ministero del lavoro, Agenzia delle entrate.

Amministrazione dello Stato e pubblica in genere – Ministero del lavoro, Inps, Inail e Agenzia delle entrate – Protocollo d’intesa – Attività ispettiva – Lotta al lavoro sommerso e all’eva-sione contributiva.

L. 14 gennaio 1994 n. 20, disposizioni in materia di giurisdizione e controllo della Corte dei conti, art. 3; l. 23 dicembre 2005 n. 266, disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (legge finanziaria 2006), art. 1, c. 172.

La relazione riferisce in merito ai profili attuativi del protocollo d’intesa, sottoscritto il 4 agosto 2010 tra il Ministero del lavoro e delle politiche sociali, l’Agenzia delle entrate e gli Istituti previdenziali, per la disciplina dell’interscambio di dati e informazio-ni finalizzato al potenziamento della lotta al lavoro sommerso e all’evasione contributiva.

Sul versante del coordinamento tra le diverse amministrazioni, la relazione evidenzia criticità e diseconomie, nonché problemi nello scambio delle informazioni, soprattutto a livello locale, a causa della mancanza di strumenti e applicativi informatici adeguati e omogenei.

La relazione rileva, inoltre, la persistente inade-guatezza del complessivo sistema di controllo e pro-spetta l’esigenza di accentrare in un unico soggetto l’attività di pianificazione dell’attività ispettiva.

Nel confronto con il biennio 2007-2008 (oggetto di precedente indagine della Corte), si registra, da un lato, una significativa e costante riduzione sia del numero dei controlli svolti dagli ispettori del lavo-ro e dai vari soggetti competenti, sia delle aziende in posizione irregolare, sia delle somme recuperate a titolo di premi e contributi evasi; dall’altro lato, un incremento delle aziende inadempienti rispetto a quelle ispezionate e l’aumento della manodopera ir-regolarmente occupata.

Infine, la relazione segnala l’aumento nel 2013 del ricorso agli strumenti di tutela anticipata e deflattiva del contenzioso, quali le conciliazioni monocratiche (27.858 nel 2013, 7.636 nel 2008), e delle diffide accertative ottemperate o rese esecutive con l’emissione di titoli esecutivi per il recupero dei crediti patrimoniali vantati dai lavoratori (+12 per cento rispetto ai dati del 2012). (1)

Valutazioni conclusive e raccomandazioni1. Per valutare gli effetti indotti dall’attuazione

del Protocollo d’intesa siglato tra il Ministero del la-voro e delle politiche sociali, l’Agenzia delle entrate e gli enti previdenziali, sono stati analizzati le con-venzioni di cooperazione informatica già attivate ed i numerosi accordi conseguenti all’intesa dell’agosto 2010, nonché i progetti ed i profili evolutivi della vi-gilanza (cfr. par. 6.2 e par. 6.3 della relazione).

Il quadro di situazione che emerge appare carat-terizzato da un razionale sistema di programmazio-ne e coordinamento dei controlli e di scambio delle informazioni, nonché da una maggiore attenzione alla qualità e all’efficacia delle ispezioni, orienta-te con priorità alla prevenzione degli abusi ed alla repressione dei fenomeni illeciti di più avvertito al-larme sociale (lavoro irregolare e sommerso, forme di sfruttamento della manodopera, evasione fiscale e contributiva, mancata ottemperanza alle norme di tutela del lavoratore e dei luoghi e delle condizioni di lavoro).

Il sistema di vigilanza, comunque, dovrebbe pre-stare adeguata attenzione anche al fenomeno del c.d. “lavoro in bianco”, cioè dell’abuso delle tutele da parte di soggetti che usufruiscono indebitamente di prestazioni previdenziali o di integrazione del reddi-

(1) Il testo integrale della relazione è consultabile in www.corteconti.it.

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to senza averne titolo, ed alle varie forme di irrego-larità parziale (il c.d. “lavoro grigio”), in genere con-nesso al ridotto pagamento dei contributi, alla pratica della retribuzione fuori busta, all’utilizzo irregolare di contratti di prestazione d’opera e di apprendistato.

2. L’analisi dei risultati a volte contraddittori dell’azione di controllo sviluppata nel periodo 2010-2013 non consente di stabilire, nel confronto con il modello e le dinamiche di sistema fotografati nella precedente indagine della Corte (n. 16/2009), se e in quale misura gli stessi risultati possono essere ri-tenuti conseguenza dell’incrementato interscambio informativo e delle maggiori sinergie stimolate dagli accordi tra istituzioni ed enti diversi.

Invero, dal monitoraggio generale dell’attività ispettiva emerge (cfr. par. 7.2), da un lato, una ri-duzione significativa e costante della massa degli interventi e del numero delle aziende individuate in posizione irregolare e, dall’altro, un incremento per-centuale di tali aziende rispetto a quelle controllate e della manodopera irregolare (a differenza dei lavora-tori completamente in “nero” che tendono a diminu-ire). Si assiste anche a un maggiore ricorso da parte del personale ispettivo agli istituti peculiari della conciliazione monocratica e della diffida accertativa, in funzione alternativa al tradizionale accertamento ispettivo con esito sanzionatorio, in grado di anti-cipare il soddisfacimento delle pretese patrimoniali dei lavoratori e svolgere una funzione deflattiva del contenzioso.

3. A questo proposito, non può non osservarsi come siano intervenute negli ultimi anni ed anche di recente ripetute modifiche e aggiustamenti dell’im-pianto giuslavoristico e sanzionatorio, indubbia-mente imposti dalla prolungata fase di stagnazione dell’economia e dalla crisi occupazionale, che coin-volgono sia gli obblighi contributivo-previdenziali a carico dei datori di lavoro che le tutele apprestate in favore dei lavoratori autonomi e subordinati. Il con-tinuo mutamento dello scenario legislativo e la stra-tificazione di norme talora non coordinate (cfr. par. 2 della relazione), a parte ogni giudizio di merito sulla validità delle soluzioni tecniche individuate dal legi-slatore, rischiano indubbiamente di incidere negati-vamente sulla concreta attività di vigilanza e control-lo assicurata, in particolare, dai funzionari ispettivi del Mlps e degli enti previdenziali, attività la cui efficacia dipende anche dalla stabilità delle regole e dei criteri interpretativi ed applicativi di riferimento.

E ancora, per fronteggiare con strategie e stru-menti adeguati il fenomeno del lavoro in “nero” e per potenziare il contrasto all’evasione fiscale e contri-

butiva, è necessario disporre di informazioni corrette sul numero delle aziende attive sul territorio (esisto-no ancora differenze sensibili tra i dati Inps, quelli proposti da Unioncamere e quelli forniti dall’Istat) e, soprattutto, di un quadro aggiornato sui diversi aspetti dell’evasione e sui risultati effettivamente ascrivibili al sistema dei controlli.

L’economia sommersa e l’evasione-elusione fi-scale e contributiva sono fenomeni spesso connessi che incidono negativamente sulla struttura econo-mico-produttiva e sociale del paese, poiché causano distorsioni e inefficienze nell’allocazione dei fattori, alimentano la concorrenza sleale nel mercato, sot-traggono risorse al bilancio pubblico e determinano situazioni di iniquità e sperequazione tra le diverse imprese e nella gestione della manodopera.

Alla pratica dell’occultamento della forza lavoro consegue inevitabilmente la dissimulazione dei costi e dei ricavi inerenti tale componente ed il mancato versamento dei contributi (sociali, previdenziali e assicurativi), omissione che, a sua volta, innesca altri fenomeni evasivi concernenti, da un lato, le imposte e gli oneri fiscali relativi alla produzione occultata e, dall’altro, l’omesso versamento delle imposte dirette da parte del lavoratore irregolare, nonché il mancato rispetto, da parte delle imprese, delle norme a tutela delle condizioni di sicurezza sul lavoro, dell’igiene e dell’ambiente.

Le stime del “sommerso economico”, già oggi elaborate dall’Istat, rappresentano sicuramente un quadro di riferimento macro sulle tendenze delle di-namiche evasive, ma non consentono di quantificare, ad esempio, il gap di gettito fiscale e contributivo, il cui andamento è condizionato anche dal sistema del welfare e dall’organizzazione del lavoro, determi-nando, tra l’altro, un vuoto informativo proprio sul versante dell’elaborazione degli indirizzi strategici necessari a orientare l’attività di vigilanza e controllo.

Va, pertanto, accolta con favore la recente ap-provazione della l. 11 marzo 2014, n. 23 (“Delega al governo recante disposizioni per un sistema fiscale più equo, trasparente e orientato alla crescita”) che, all’art. 3, prevede l’istituzione di un’apposita com-missione di esperti presso il Mef chiamata a redige-re un rapporto annuale sull’economia non osservata e sull’evasione fiscale e contributiva. Tra gli scopi espressamente indicati dalla legge delega figurano proprio: la valutazione del fenomeno evasivo, attra-verso stime ufficiali delle risorse sottratte al bilancio pubblico; l’illustrazione delle strategie, delle attività e dei risultati nel contrasto al fenomeno dell’evasio-ne fiscale e contributiva; l’individuazione delle linee

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d’intervento e di prevenzione nonché delle azioni volte a stimolare l’adempimento spontaneo e favori-re l’emersione di base imponibile.

Come noto (cfr. relazione del “Gruppo di lavo-ro sull’economia sommersa e i flussi finanziari”, istituito dal Mef, 14 luglio 2011), tra le metodolo-gie utilizzate per stimare la perdita di gettito vengo-no in rilievo due approcci principali che potrebbero trovare utile applicazione eventualmente in versione integrata: il metodo top down, che confronta i dati fiscali e contributivi dichiarati con un corrispondente indicatore macro, rappresentato di norma dai flussi di contabilità nazionale contenenti anche il dato dell’e-conomia non osservata, ovvero il metodo bottom up che opera sul piano concreto perché muove dall’e-videnza operativa, secondo un approccio di tipo in-duttivo, utilizzando fonti informative interne alle am-ministrazioni – quali archivi, database interconnessi, dati rivenienti dall’attività di accertamento, integrati con informazioni gestite da soggetti altri (operatori finanziari, intermediari, forze dell’ordine ecc.).

È da condividere, poi, l’affermazione contenuta nella direttiva ministeriale del 18 settembre 2008, se-condo cui l’efficacia dell’attività ispettiva andrebbe misurata e valutata non solo sulla base dei rapporti di lavoro sommerso scoperti e regolarizzati ma an-che delle situazioni di regolarità occupazionale e di rispetto della normativa che si riscontrano nell’area territoriale osservata, attribuendo così adeguato va-lore agli effetti repressivi e di deterrenza ma anche al contributo preventivo-promozionale dell’attività ispettiva.

4. Nella strategia di contrasto, un ruolo di primo piano è indubbiamente rivestito dal sistema articola-to dei controlli, che operano sul piano dell’informa-zione, della prevenzione e dell’accertamento, e delle sanzioni, che operano sul piano della repressione.

Sistema al cui funzionamento era orientata la normativa (art. 10, cc. 1 e 2, d.lgs. n. 124/2004), ri-masta finora sostanzialmente inattuata, che prescri-veva la raccolta di tutti i dati disponibili in un’unica “banca dati telematica” dei soggetti istituzionali in-teressati e la realizzazione di un network telematico per lo scambio tempestivo di informazioni in occa-sione dell’inizio e della conclusione degli accerta-menti ispettivi.

In attesa della realizzazione della banca dati uni-ca, il Protocollo siglato il 4 agosto 2010 e di recente rinnovato, doveva rappresentare un salto di quali-tà nel contrasto al fenomeno della manodopera in “nero” e dell’evasione fiscale e contributiva, attra-verso la sistematica messa in comune di informazio-

ni di carattere fiscale, previdenziale e assicurativo, disponibili negli archivi telematici dei vari organismi di vigilanza.

In realtà, vengono ancora segnalati problemi e diseconomie sul versante del coordinamento, con sovrapposizione ovvero duplicazione di controlli da parte dei diversi soggetti istituzionali e difficoltà nello scambio di informazioni, soprattutto a livello locale, con l’Agenzia delle entrate e la Guardia di finanza e tra le strutture periferiche del Mlps e de-gli enti previdenziali a causa della indisponibilità di strumenti ed applicativi informatici adeguati e con standards omogenei.

Non risulta, poi, che sia stato ancora attivato un canale telematico per assicurare lo scambio di infor-mazioni ed il coordinamento tempestivo degli inter-venti e delle verifiche tra l’Agenzia delle entrate, la Guardia di finanza e il Mlps.

Va rimarcato, ancora, che l’art. 7 d.l. n. 70/2011, convertito dalla l. n. 106/2011, già dispone che gli accessi dovuti a controlli di natura amministrativa in materia di lavoro nei confronti delle imprese indi-cate nell’art. 1 dell’allegato alla Raccomandazione 2003/361/Ce in data 6 maggio 2003 (imprese che oc-cupano meno di 250 persone, con un fatturato annuo non superiore a 50 mln oppure con un bilancio an-nuo non superiore a 43 mln) debbano essere oggetto di programmazione da parte degli enti competenti e di coordinamento tra i soggetti interessati, “esclusi i casi straordinari di controlli per salute, giustizia ed emergenza”.

Con decreto interministeriale di natura non re-golamentare, tuttora all’esame del Mef, dovrebbero essere disciplinati modalità e termini idonei a garan-tire una concreta programmazione dei controlli in materia fiscale e contributiva, nonché il più efficace coordinamento dei conseguenti accessi ispettivi da parte del Mlps, delle Agenzie fiscali, della Guardia di finanza, dell’Inps e dell’Inail, attraverso l’indivi-duazione delle informazioni che le stesse istituzioni devono scambiarsi prima dell’inizio e al termine di ispezioni e verifiche.

5. Si è visto che, con l’avvento della l. n. 92/2012 e di recente della l. n. 9/2014, di conversione del d.l. n. 145/2013, sono state notevolmente inasprite le misure sanzionatorie amministrative e civili, perché ritenute il rimedio di maggiore efficacia per assicu-rare l’esercizio dei diritti e delle tutele e contrastare l’occupazione dei lavoratori in “nero”.

La versione iniziale del d.l. n. 145/2013, nel-la parte non recepita dalla legge di conversione n. 9/2004, introduceva anche una limitazione da più

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parti auspicata a carico degli enti gestori di forme di assicurazione obbligatoria, i quali avrebbero do-vuto sottoporre preventivamente all’approvazione delle strutture centrali e territoriali del Mlps la pro-grammazione delle verifiche, “anche per superare in maniera pressoché definitiva la nota problematica concernente la cosiddetta sovrapposizione degli in-terventi”.

La decretazione d’urgenza, inoltre, aveva fatto proprio un irrigidimento sanzionatorio senza prece-denti (decuplicazione delle somme), poi decisamente ridimensionato (solo duplicazione) in sede di con-versione, operando una scelta pregiudiziale a favore dell’intervento repressivo in funzione ripristinatoria, risarcitoria e interdittiva.

A questo proposito si esprime l’avviso che un as-setto regolatorio correttamente impostato in tema di lavoro e previdenza sociale debba affidarsi maggior-mente a interventi legislativi di tipo preventivo-pro-mozionale con aspetti di premialità verso le impre-se virtuose, da coniugarsi con le misure afflittive in modo da orientare i comportamenti dei soggetti coin-volti, datori di lavoro e lavoratori, verso un maggiore adempimento spontaneo delle disposizioni di settore.

6. In conclusione, non si possono sottovalutare i progressi registrati sul versante dell’interscambio in-formativo tra amministrazioni ed enti diversi e della capacità dei servizi ispettivi di procedere a controlli selettivi nei riguardi della platea dei soggetti “incon-grui”.

Rimane, peraltro, ancora insoddisfatta l’esigen-za di realizzare l’integrale messa in rete delle varie banche dati esistenti e definire una strategia che, nel superamento della legislazione emergenziale, esalti il ruolo centrale della funzione ispettiva, possibil-mente “integrata” nel rispetto delle professionalità e competenze specifiche, e assicuri un coordinamento veramente efficace degli interventi sia nella fase pro-grammatoria che in quella operativa.

Senza una vera e propria cabina di regia a livel-lo nazionale con incisivi poteri di coordinamento, la presenza di una molteplicità di soggetti ispettivi, che dovrebbe di norma ampliare la capacità complessiva del sistema di controllo, rischia di determinare nella realtà sovrapposizioni di interventi e di competenze, difformità di valutazioni e di criteri di selezione ed anche, in taluni casi, forme di trattamento sperequate nei confronti delle diverse posizioni oggetto di ispe-zione.

Non sembra che esistano alternative alla forte richiesta di potenziamento dell’attività di vigilanza e controllo nel mercato del lavoro se non l’opzione

favorevole all’accentramento in un unico soggetto di diritto pubblico dell’attività di pianificazione e ge-stione delle proiezioni ispettive nella materia giusla-voristica e previdenziale, con la previsione di efficaci strumenti di coordinamento con la vigilanza resa in materia di sicurezza e tutela sui luoghi di lavoro.

Ovviamente, un’eventuale iniziativa normativa in tal senso presuppone il venir meno di qualsiasi residuale potere ispettivo in capo al ministero e agli istituti previdenziali e assicurativi.

12 – Sezione centrale controllo gestione; delibera-zione 23 ottobre 2014; Pres. Clemente, Rel. Mez-zera; Presidenza del consiglio-Dipartimento per le politiche europee e altri.

Agricoltura – Eccesso di produzione lattiero-ca-searia degli allevatori italiani – Omesso ver-samento del c.d. prelievo supplementare da parte dei produttori – Somme anticipate dallo Stato all’Ue in luogo dei produttori – Conse-guenze finanziarie – Recupero delle somme anticipate dallo Stato – Valutazioni della Cor-te dei conti.

Tfue, artt. 108, 258; l. 14 gennaio 1994 n. 20, dispo-sizioni in materia di giurisdizione e controllo della Corte dei conti, art. 3; d.l. 28 marzo 2003 n. 49, con-vertito con modificazioni dalla l. 30 maggio 2003 n. 119, riforma della normativa in tema di applicazione del prelievo supplementare nel settore del latte e dei prodotti lattiero-caseari; d.l. 10 febbraio 2009 n. 5, convertito con modificazioni dalla l. 9 aprile 2009 n. 33, misure urgenti a sostegno dei settori industriali in crisi, nonché disposizioni in materia di produzione lattiera e rateizzazione del debito nel settore lattie-ro-caseario, artt. 8-bis, 8-quinquies; d.l. 29 dicem-bre 2010 n. 225, convertito con modificazioni dalla l. 26 febbraio 2011 n. 10, proroga di termini previsti da disposizioni legislative e di interventi urgenti in materia tributaria e di sostegno alle imprese e alle famiglie, art. 2, c. 12-duodecies; l. 24 dicembre 2012 n. 228, disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (legge di stabilità 2013), art. 1, c. 525.

La relazione espone le valutazioni finali del-la Sezione, dopo le precedenti indagini del 2012 e del 2013, sulla gestione degli interventi di recupero delle somme pagate all’Unione europea dallo Stato, in luogo degli allevatori, per eccesso di produzione lattiero-casearia.

In particolare, la relazione osserva che la conse-

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guenza finanziaria della cattiva gestione trentennale delle quote latte – caratterizzata dalla confusione della normativa, delle procedure, delle competenze e delle responsabilità dei soggetti investiti e dall’in-certezza sui dati della produzione – si è tradotta, ad oggi, in un esborso complessivo nei confronti dell’U-nione europea di oltre 4,4 miliardi. La Sezione rileva che l’assunzione da parte dello Stato dell’onere del prelievo si configura come violazione sia della nor-mativa europea, sia degli obiettivi di politica eco-nomica dell’Unione europea in materia di organiz-zazione del mercato lattiero-caseario e tutela della libera concorrenza tra i produttori del settore.

La relazione evidenzia, inoltre, che, senza un’ef-ficiente azione di recupero delle somme anticipate dallo Stato, tale recupero diventerà sempre più im-probabile, con il rischio della traslazione dell’onere finanziario dagli allevatori inadempienti alla fisca-lità generale e conseguente imputazione di danno erariale nei confronti degli amministratori pubblici inadempienti. Queste ultime considerazioni hanno indotto la Sezione a inviare ai competenti uffici della procura della Corte la relazione deliberata. (1)

1. Valutazioni conclusive sui mancati recuperiLa Sezione centrale di controllo sulla gestio-

ne delle amministrazioni dello Stato della Corte dei conti ha svolto, nell’anno 2012, un’indagine su “Quote latte: la gestione degli interventi di recupero delle somme pagate dallo Stato in luogo degli alle-vatori per eccesso di produzione” (delib. n. 20/2012) e, nel 2013, una successiva sugli esiti della prima; “Quote latte: la gestione delle misure consequenziali finalizzate alla rimozione delle disfunzioni rilevate nel recupero del prelievo a carico degli allevatori” (delib. n. 11/2013). Le relazioni – riportate in alle-gato (all. n. 1) – hanno riscontrato notevoli critici-tà sulle modalità di gestione degli interventi, indi-viduando, altresì, le cause dei ritardi nei recuperi e le responsabilità dei molteplici soggetti istituzionali operanti nel settore.

La conseguenza finanziaria della cattiva gestio-ne trentennale delle quote latte – caratterizzata dalla

(1) Il testo integrale della relazione è consultabile in www.corteconti.it.

Le due precedenti relazioni sullo stato degli interventi di recupero delle somme pagate dallo Stato all’Ue in luogo degli allevatori per eccesso di produzione lattiero-casearia, appro-vate da Sez. contr. gestione, 24 dicembre 2012, n. 20, e 5 di-cembre 2013, n. 11, si leggono in questa Rivista, rispettiva-mente, 2013, fasc. 3-4, 86, e ibidem, fasc. 5-6, 70, con nota di richiami.

confusione della normativa, delle procedure, delle competenze e delle responsabilità dei soggetti in-vestiti e dall’incertezza sui dati di produzione – si è tradotta in un esborso complessivo nei confronti dell’Unione europea, a oggi, di oltre 4,4 miliardi. Per il periodo precedente la campagna lattiera 1995-1996, l’onere si è scaricato interamente sull’erario, mentre le somme teoricamente recuperabili nei con-fronti degli allevatori – e già anticipate all’Unione a carico della fiscalità generale – superano l’importo di 2.537 milioni. Tuttavia, risultava imputabile ai pro-duttori, secondo l’Agea, nel mese di dicembre 2012, il minor ammontare di 2.263 milioni, ridotto a 2.260 nel settembre 2013, ed ulteriormente diminuito a 2.207 milioni, secondo la comunicazione del luglio 2014. Di esso, il recuperato effettivo è trascurabile.

L’accollo da parte dello Stato dell’onere del pre-lievo si configura come violazione non solo della regolamentazione dell’Unione europea ma, altresì, degli obiettivi della sua politica economica, indi-rizzati all’efficiente organizzazione del mercato lat-tiero-caseario, al suo assetto strutturale in linea con la necessità di contenere le produzioni ed alla tutela della libera concorrenza tra i produttori del settore.

Dopo il deposito, in data 24 dicembre 2012, del primo rapporto, l’Italia è stata costituita in mora, il 20 giugno 2013, dalla Commissione europea, per i mancati recuperi; è stata avviata, pertanto, la proce-dura di infrazione, a norma dell’art. 258 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea (infrazione 2013/2092).

Inoltre, è intervenuta la decisione del 17 luglio 2013 della stessa Commissione, sfavorevole all’Ita-lia, relativa all’aiuto di Stato SA.33726 (11/C), aven-te a oggetto la proroga semestrale della settima rata del programma di rateizzazione previsto dalla l. n. 119/2003.

Nonostante tali significative sollecitazioni ester-ne, lo stato dei recuperi, a due anni dal primo referto della Corte, è fermo. Infatti, per le procedure coatti-ve, nel “periodo trascorso, non si rilevano variazioni significative, in quanto la riscossione esattoriale non è stata attivata” (1).

In definitiva:– la riscossione coattiva del prelievo non è progre-

dita a far data dall’introduzione della l. n. 33/2009;- l’onere della stessa è passato da Equitalia all’A-

gea, che versa in uno stato di crisi, anche per carenze finanziarie e di organico;

- l’operatività della procedura di riscossione pre-

(1) Nota n. DGU 745 del 24 settembre 2013 dell’Agea.

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vista dalla l. n. 228/2012 non è ancora oggi avvia-ta, per la necessità di dare concreta attuazione alla convenzione fra l’Agea ed Equitalia, siglata solo nel mese di novembre 2013.

Pertanto, in senso contrario all’assicurazione di una rapida e incisiva azione espressa nell’adunan-za del 6 dicembre 2012 da tutte le amministrazioni coinvolte – che hanno, significativamente, sconfes-sato le indicazioni della lettera del Presidente del Consiglio pro tempore n. USG 3782 P-4.2.6.2 al Mi-nistro delle politiche agricole alimentari e forestali del 24 settembre 2010 sull’“opportunità di sospen-dere, sino alla definitiva conclusione delle indagini in corso, le operazioni e le procedure esecutive dei provvedimenti di competenza del Commissario stra-ordinario, dell’Agea e degli organismi pagatori” (all. n. 2) – si constata, ancora una volta, un’inerzia ed una prassi amministrativa non conformi alla neces-sità di una decisa attività di recupero. Ciò comporta un rilevante incremento della probabilità che, con il passare del tempo, le procedure esecutive diventino impossibili, con il rischio della traslazione dell’onere finanziario dagli allevatori inadempienti alla fiscali-tà generale e la conseguente imputabilità del danno erariale derivante nei confronti degli amministratori pubblici inadempienti.

13 – Sezione centrale controllo gestione; delibera-zione 28 ottobre 2014; Pres. Clemente, Rel. Sira-gusa, Raeli; Ministeri vari.

Contratti pubblici – Opere e lavori – Servizi e forniture – Contratti segretati – Tutela degli interessi essenziali per la sicurezza dello Stato – Deroghe alla disciplina dei contratti pubblici – Estensione della deroga a tutte le ammini-strazioni pubbliche – Definizione del requisito della sicurezza.

D.lgs. 12 aprile 2006 n. 163, codice dei contratti pubblici relativi a lavori, servizi e forniture in attua-zione delle direttive 2004/17/Ce e 2004/18/Ce, art. 17; d.lgs. 15 novembre 2011 n. 208, disciplina dei contratti pubblici relativi ai lavori, servizi e forniture nei settori della difesa e sicurezza, in attuazione della direttiva 2009/81/Ce.

La relazione ha ad oggetto il risultato del con-trollo eseguito sull’attività negoziale svolta nel 2013 dalle amministrazioni statali con riguardo ai c.d. contratti segretati o eseguibili con speciali misure di sicurezza.

A partire dal 2012, la possibilità di adoperare

lo strumento della segretazione o dell’adozione di particolari misure di sicurezza è stata estesa dal le-gislatore a tutte le amministrazioni pubbliche. Nella relazione si evidenzia l’esigenza di definire in manie-ra più appropriata, da parte delle amministrazioni appaltanti, il requisito della sicurezza che legittima il ricorso alle speciali procedure negoziali, al fine di evitare che detto requisito sia utilizzato dalle ammi-nistrazioni solo al fine di evitare le forme di pubbli-cità e partecipazione previste per le gare pubbliche.

Nelle raccomandazioni conclusive la relazione elenca le criticità che necessitano di interventi cor-rettivi. (1)

Considerazioni finali e raccomandazioniLa presente rilevazione annuale intende corri-

spondere alla finalità di consentire al Parlamento la conoscenza aggiornata del settore della contrattua-listica pubblica riguardante la realizzazione di ope-re e l’acquisizione di servizi e forniture segretati o che esigono particolari misure di sicurezza, della sua evoluzione anche alla luce delle successive innova-zioni introdotte dal legislatore, della sua reale porta-ta applicativa, della conformità a legge delle relative realizzazioni.

Con l’esame delle singole realizzazioni contrat-tuali sottoposte a controllo, compiuto tramite gli strumenti e le metodologie proprie del controllo sulla gestione, vengono altresì fornite alle singole ammi-nistrazioni le rilevazioni e le osservazioni critiche ai fini del migliore e più efficace e regolare svolgimen-to della relativa attività.

Il fenomeno della progressiva estensione dell’uti-lizzo della strumentazione giuridico-amministrativa relativo ai contratti pubblici segretati o da concluder-si con particolari misure di sicurezza o riservatezza da parte di amministrazioni ulteriori rispetto a quelle originariamente indicate nella anteriore formulazio-ne legislativa, era stato segnalato nei precedenti re-ferti come il risultato di una tendenza caratteristica della situazione di fatto venutasi via via evolvendo nel tempo.

Dalle contrattazioni relative alla realizzazione di opere per le forze armate o di polizia, per le strut-ture che, naturalmente, presentano le caratteristi-che richieste dal “codice dei contratti” si era giunti all’inclusione di contratti di servizi o forniture affat-to particolari (un esempio era costituito nel 2010 dal

(1) Con riferimento agli esercizi finanziari 2010 e 2012, v., rispettivamente, Corte conti, Sez. contr. gestione, 7 dicem-bre 2011, n. 15, e 27 settembre 2013, n. 7, in questa Rivista, ri-spettivamente 2012, fasc. 3-4, 45, e 2013, fasc. 5-6, 51.

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sistema di controllo della tracciabilità dei rifiuti-Si-stri da gestirsi da parte del Ministero dell’ambiente e della tutela del territorio e del mare, poi rientrato nel 2011 nel novero delle procedure ordinarie; un altro esempio, anch’esso esaminato nei precedenti referti, riguardava le opere ed i contratti di fornitura e servizi afferenti l’attività di protezione civile o di commis-sariati straordinari).

Con l’estensione a tutte le pubbliche amministra-zioni della possibilità di utilizzare le deroghe al regi-me di pubblicità e concorrenza per i contratti segretati o da concludersi con particolari misure di sicurezza o riservatezza, introdotta a partire dal 2012 con la rifor-ma dell’art. 17 d.lgs. n. 163/2006, l’importanza della valutazione da compiersi da parte delle amministra-zioni destinatarie delle opere e delle forniture o dei servizi circa l’effettiva necessità del ricorso alla “se-gretazione” risulta in tutta la sua ampliata evidenza ed in più rileva l’aspetto della congruità dell’utilizzo dello strumento di selezione concorrenziale ridotta ri-spetto alle effettive necessità di farvi ricorso.

Si deve pertanto ribadire che l’utilizzo di mo-dalità di affidamento e il ricorso alle procedure che non prevedono le forme di pubblicità e partecipa-zione previste per le gare pubbliche – derogatorie rispetto al regime di concorrenza – devono trovare piena corrispondenza nelle caratteristiche dell’ope-ra o della fornitura, tali che giustifichino il carattere di eccezione al principio della concorrenza, in virtù del prevalente interesse alla sicurezza e riservatezza delle realizzazioni da compiersi a beneficio dell’am-ministrazione pubblica cui è affidato l’utilizzo della prestazione contrattuale.

Vi sono, quindi, delle specifiche condizioni ai fini della possibilità dell’utilizzo della deroga e ciò sta a significare che la potestà regolamentare dell’am-ministrazione non è libera, bensì circoscritta, nella individuazione dei casi in cui opera tale deroga, la cui natura è da ritenersi facoltativa (“possono essere eseguite in deroga”) e speciale, in quanto non tutte le opere o le acquisizioni di beni e servizi destinate ad attività delle amministrazioni ed enti individuati dalle disposizioni citate possono essere segretate, ma soltanto quelle aventi le caratteristiche indicate dalla legge.

1) Un primo aspetto di particolare criticità riguar-da, dunque, la necessità che l’adozione di procedure contrattuali in deroga, conseguenti alla dichiarazione di segretazione o alla dichiarazione della necessità dell’adozione di particolari “misure di sicurezza”, debba trovare concreta rispondenza, oltre che nei re-quisiti soggettivi, anche nelle caratteristiche oggetti-ve di tali realizzazioni.

Si intende fare riferimento a talune opere edili o tecnologiche di utilizzo comune – specificamente in-dividuate nelle pagine precedenti di cui al presente referto – per le quali appare quanto meno discutibile la necessità dell’utilizzo della deroga prevista dal più volte citato art. 17 nei casi, ad esempio, di realizza-zione di alloggi di servizio, ovvero per la ristruttura-zione di edifici, la messa in sicurezza di aree stradali adiacenti, e simili.

Significativa al riguardo, in senso contrario a tale tendenza, è la comunicazione pervenuta dall’Ammi-nistrazione dell’interno secondo la quale, fatte sal-ve le motivazioni adottate in precedenza per le sedi particolari, le nuove procedure avviate nel 2013 per l’affidamento di interventi sulle sedi di servizio dei vigili del fuoco non sono state assoggettate dichiara-zione di segretezza o a speciali misure di sicurezza.

2) Le principali raccomandazioni di questa Corte in ordine all’utilizzo del provvedimento di adozione della segretazione ovvero dell’adozione di particola-ri misure di sicurezza possono così riassumersi:

- non può farsi ricorso a motivazioni – che sareb-bero, peraltro, ultronee – di urgenza o necessità, non essendone per di più prevista la relativa dichiarazio-ne, a differenza che nella legislazione precedente;

- per i programmi pluriennali di intervento, può considerarsi sufficiente la dichiarazione iniziale di segretazione, purché in tali programmi siano pun-tualmente ed analiticamente indicate le opere da re-alizzare;

- qualora singole opere vengano sostituite da al-tre aventi natura e caratteristiche diverse da quelle previste nel programma iniziale, le nuove opere do-vranno essere oggetto di un nuovo procedimento di segretazione;

- la dichiarazione iniziale può anche coprire eventuali variazioni in corso d’opera, ma soltanto nel caso in cui queste non alterino i caratteri essenziali dell’intervento.

- per i contratti cui è attribuita una classifica di segretezza, ciò deve avvenire nel rispetto delle mo-dalità previste dall’art. 42 l. 3 agosto 2007, n. 124 o di altre norme vigenti specificamente indicate;

- sia i contratti segretati, che quelli per i quali è necessaria l’adozione di particolari misure di sicu-rezza, devono essere eseguiti da operatori economici in possesso dei requisiti previsti dal codice e, ai sensi e nei limiti di cui all’art. 42, c. 1-bis, l. n. 124/2007, anche del nulla osta di sicurezza.

3) Va particolarmente segnalato, inoltre, che la nuova formulazione dell’art. 17 del codice dei con-tratti pubblici richiede che, nel caso in cui le ammi-nistrazioni e gli enti usuari dichiarano, con provve-

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dimento motivato, i lavori, i servizi e le forniture eseguibili con speciali misure di sicurezza, queste ultime devono essere individuate nel predetto prov-vedimento.

La necessità che le “misure di sicurezza” fossero individuate nella misura più dettagliata possibile e non tautologicamente affermate, comportando l’ado-zione di provvedimenti di cautela ulteriori rispetto alle normali prescrizioni normative e contrattuali de-finite per le opere ordinarie, era già stata messa in evidenza nei precedenti referti di questa Corte.

Analogamente era stata segnalata la conseguente necessità che, una volta definite tali cautele, venisse-ro adottati – anche in sede di esecuzione contrattuale – comportamenti coerenti da parte delle amministra-zioni pubbliche interessate.

Attraverso l’analisi della documentazione perve-nuta, si sono riscontrate, tuttavia, prassi non unifor-mi al riguardo che vanno dalla puntuale e meticolosa specificazione dei vari passaggi e riscontri dei requi-siti necessari, relativamente ai luoghi, ai soggetti cui è affidata la realizzazione dei lavori o delle forniture, alle procedure di controllo, con una gradazione che va dalla richiesta (ove necessaria, alla luce anche del-le modifiche legislative intervenute) dell’abilitazione di sicurezza, Nos, alla indicazione nominativa degli incaricati all’esecuzione, fino alla generica richiesta (anche nei documenti di aggiudicazione) dei soli re-quisiti generali previsti dalla normativa comune alle opere e forniture ordinarie (non segretate).

4) Sul piano generale, si sono riscontrati – laddo-ve tale documentazione è stata fornita – alcuni casi di genericità nella fase della programmazione, princi-palmente ricavabili dalle considerazioni inserite nei decreti approvativi, che hanno influito sui tempi ed i costi delle opere previste.

5) Si ritiene che occorrerebbe, pertanto, attribuire maggiore incisività, anche ai fini della verifica del-le coperture finanziarie, all’atto di approvazione del contratto (con decreto): fase che, determina il perfe-zionamento del contratto e realizza la condizione af-finché possa e debba essere assunto l’impegno della spesa. Tale fase è rimasta per le amministrazioni sta-tali e il codice dei contratti pubblici ne ha confermato la necessità assieme ai relativi controlli.

L’affinamento della fase della programmazione potrebbe servire non solo a determinare quali opere pubbliche devono essere realizzate secondo un ordi-ne di priorità ed in base alle disponibilità finanziarie, ma anche al corretto utilizzo di una procedura avente carattere di eccezione rispetto alla regola della con-correnzialità nei (soli) casi in cui ciò sia effettiva-mente necessario in relazione ad esigenze di sicu-

rezza o di segretezza, in conformità a disposizioni legislative, regolamentari e amministrative vigenti ovvero quando lo esiga la protezione degli interessi essenziali della sicurezza dello Stato.

La chiarezza e trasparenza nella redazione dei programmi dovrebbero essere anche d’ausilio all’at-tività di riscontro da parte del Parlamento circa le realizzazioni effettivamente compiute anche ai fini della rimodulazione dei programmi di bilancio, o della cosiddetta spending rewiew, dal momento che la conformazione del bilancio dello Stato per “mis-sioni” e “programmi” presuppone che sia la stessa legge di bilancio a rappresentare la sede di copertura finanziaria dei programmi fattibili.

6) Con riferimento alle modalità di utilizzo delle deroghe previste in relazione alle finalità della segre-tazione od adozione di particolari misure di sicurez-za, altre considerazioni critiche riguardano il versan-te della verifica della gestione complessiva secondo i parametri dell’efficienza ed efficacia (e anche dell’e-conomicità), anch’esso previsto dal legislatore quale oggetto di controllo e valutazione affidati a questa Corte.

Al riguardo, sono qui sintetizzate alcune altre considerazioni di riepilogo, osservazioni e racco-mandazioni finali, rivolte a tutte le amministrazio-ni, ovvero con specifico riferimento per i rilievi o i riscontri negativi illustrati nelle pagine precedenti della presente relazione.

7) Per quanto concerne aspetti più di dettaglio, si sono riscontrati taluni casi di incoerenza tra la di-chiarazione di una indifferibilità, urgenza e rapidità nell’affidamento o nella realizzazione, smentita, di fatto, dalla distanza temporale intercorsa fino all’u-tilizzo dell’opera stessa, circostanza che può essere tranquillamente considerata come aspetto comune anche alle opere “ordinarie”.

8) Pochi sono stati i dati forniti in ordine ai col-laudi delle realizzazioni, soprattutto per quanto ri-guarda le “opere” propriamente dette.

9) In numerosi casi, dettagliati nelle pagine pre-cedenti del referto, si è riscontrato l’utilizzo genera-lizzato del ricorso a perizie di variante – strumento negoziale da ritenersi eccezionale secondo la legi-slazione vigente – pressoché esclusivamente in au-mento, ripetute e talvolta ravvicinate nel tempo. Tali varianti possono rientrare nell’iniziale dichiarazio-ne di segretazione delle opere soltanto nelle ipotesi previste dal “codice dei contratti pubblici” e quando non comportano sostanziali modificazioni rispetto al progetto approvato, nel qual caso dovrebbero essere precedute dagli accertamenti e deliberazioni di cui alla normativa sulla segretazione.

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Il fenomeno, rilevato con caratteri di generalità e frequenza – anche per interventi che usufruiscono già di deroghe normative assai ampie, quali ad esem-pio quelle previste per programmi realizzati attra-verso lo strumento del commissariato straordinario e delle relative agevolazioni finanziarie e contabili – induce anche a numerose considerazioni negative in ordine sia alla scarsa trasparenza ed affidabilità delle procedure seguite, sia in ordine allo svolgimento di una efficace azione di vigilanza preventiva da svol-gersi a cura dell’amministrazione stessa.

Su questo specifico punto, vanno sottolineate ul-teriori considerazioni critiche sia in ordine alla cor-retta individuazione, in fase di programmazione, dei fattori di costo, (soprattutto nei casi in cui si è giunti ad un costo finale della realizzazione assai superiore rispetto alla previsione iniziale di spesa) sia anche in ordine alla persistenza di una qualità realizzati-va non all’altezza delle prescrizioni dei capitolati e delle caratteristiche delle “regole dell’arte” come rilevato, ad esempio, per quei casi in cui si dà luogo all’esecuzione di varianti per “la efficace e migliore utilizzazione dell’opera”.

10) Con riferimento alla presenza di aggiudica-zioni che presentano percentuali di ribasso assai ele-vate, si ravvisa la necessità che le amministrazioni, utilizzando professionalità interne per la predisposi-zione dei capitolati, provvedano alla individuazione delle basi d’asta in maniera più accurata, per le quali attività è auspicabile anche una migliore azione di coordinamento e controllo da parte del Ministero delle infrastrutture e dei trasporti.

11) Nel settore delle forniture e dei servizi, si sono riscontrati anche casi in cui il contratto viene affidato direttamente ad un operatore economico determinato: oltre al classico caso, nelle forniture, della “privativa industriale”, anche per le consegne complementari o di lavori complementari, per lavo-ri o servizi che non possano essere separati, sotto il profilo tecnico o economico, dal contratto iniziale, senza recare gravi inconvenienti all’amministrazio-ne, ovvero per quei lavori che, pur essendo separabili dall’esecuzione del contratto iniziale, fossero stretta-mente necessari al suo perfezionamento.

12) Altri casi di affidamento diretto, ad esem-pio per forniture elettronico-informatiche che sono stati motivati con la compatibilità tecnica rispetto all’acquisizione di materiali già in uso (fatte salve le migliorie derivanti dal progresso tecnico e dall’an-damento dei prezzi eventualmente discendente), ri-chiedono, tuttavia, la verifica dell’effettiva necessità di una deroga alla concorrenza per motivi di sicu-rezza.

Si tratta, come è intuibile, di circostanze che do-vrebbero essere attestate da una previa e documenta-ta istruttoria tecnica ai fini di trasparenza nello svol-gimento dell’attività amministrativa.

In un caso, ad esempio, viene ipotizzata la for-nitura di lotti successivi di oggetto analogo alla fornitura iniziale, tramite l’utilizzo delle procedure Consip, con procedura diversa rispetto alla originaria fornitura dichiarata soggetta alle procedure deroga-torie di cui all’art. 17 cit.

Conclusivamente, facendo rinvio per le notazioni di dettaglio alle osservazioni contenute nelle pagine precedenti, va rimarcato come l’adozione di regole e procedure di carattere giuridico-amministrativo e di contabilità pubblica specifiche per il settore delle opere dei lavori, dei servizi e forniture aventi le carat-teristiche indicate dall’art. 17 del codice dei contratti pubblici, deve trovare il proprio completamento con le regole generali che attengono al corretto utilizzo delle risorse ad essi destinate ed alla copertura finan-ziaria (e amministrativa) dei relativi provvedimenti.

Comuni sono gli aspetti relativi alla efficacia delle realizzazioni ottenute, al rispetto della tempi-stica di svolgimento e conclusione, alla regolarità delle procedure utilizzate, anch’essi oggetto del ri-scontro e verifica di regolarità richiesti dalla legge a quest’Organo di controllo e sui quali sono stati forni-ti nelle precedenti pagine specifici riscontri e rilievi con riferimento ai singoli contratti.

Il verificarsi di tali condizioni, anche alla luce delle numerose innovazioni introdotte dal legislatore nazionale nel settore delle opere, servizi e forniture segretate, dovrebbe consentire una forma di monito-raggio utile al Parlamento e rendere maggiormente efficace la valutazione, per questi affidamenti con-trattuali, dell’uso corretto e trasparente delle dispo-sizioni derogatorie, più volte riaffermato anche nei precedenti referti di questa Corte.

I

14 – Sezione centrale controllo gestione; delibe-razione 31 ottobre 2014; Pres. Clemente, Rel. Mezzera; Presidenza del Consiglio dei ministri, ministeri vari.

Amministrazione dello Stato e pubblica in ge-nere – Destinazione e gestione del 5 per mil-le dell’Irpef – Elementi di criticità – Misure conseguenziali adottate dalle amministrazioni – Relazione al Parlamento.

L. 14 gennaio 1994 n. 20, disposizioni in materia di

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giurisdizione e controllo della Corte dei conti, art. 3; l. 23 dicembre 2005 n. 266, disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (legge finanziaria 2006), art. 1, c. 172; l. 24 di-cembre 2007 n. 244, disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (legge finanziaria 2008), art. 3, c. 64.

La relazione riferisce al Parlamento le risultan-ze del controllo eseguito sulle misure adottate dalle amministrazioni competenti per superare le disfun-zioni (già evidenziate dalla Sezione nella relazione al Parlamento del 18 dicembre 2013 n. 14) emerse nella gestione dei fondi derivanti dalla destinazione del 5 per mille dell’Irpef.

La relazione evidenzia che:1) al fine di non disperdere le risorse derivanti

dal 5 per mille, è indispensabile operare una più ri-gorosa selezione degli enti beneficiari. I dati relativi all’anno 2012 attestano che i beneficiari sfiorano, ormai, il numero di 50 mila. Inoltre, dei circa 10 mila Onlus e enti del volontariato, quasi 9 mila hanno ot-tenuto un contributo inferiore ai 500 euro, mentre oltre mille non hanno ricevuto alcuna “destinazio-ne” da parte dei contribuenti. Posto che la scelta del 5 per mille rappresenta una forma di finanziamento delle organizzazioni non profit, delle università e degli istituti di ricerca scientifica e sanitaria (con l’indicazione del codice fiscale nella dichiarazione dei redditi) per il perseguimento di fini di interesse generale, molti beneficiari non svolgono attività di interesse generale o non forniscono elementi atti a misurare il valore sociale della loro attività, rivolta esclusivamente ai loro soci o iscritti;

2) spesso, i centri di assistenza fiscale, cui mol-ti contribuenti si rivolgono, sono direttamente col-legati agli enti beneficiari e tendono a influenzare i contribuenti nella scelta del 5 per mille; donde la necessità di organizzare un’attività di audit da parte dell’Agenzia delle entrate sul comportamento di tutti i soggetti intermediari in potenziale conflitto d’inte-resse;

3) a fini di trasparenza nei confronti dei contri-buenti, è necessaria la pubblicazione sul web di un unico elenco annuale di tutti gli enti beneficiari, con l’indicazione dell’importo loro assegnato e del nu-mero dei contribuenti che hanno effettuato la desti-nazione del 5 per mille.

La relazione richiama, infine, l’attenzione sulla circostanza che la legge non consente il finanzia-mento, attraverso il 5 per mille, delle attività di tu-tela, promozione e valorizzazione dei beni cultura-li e paesaggistici svolte da enti di diritto pubblico,

mentre consente il finanziamento di enti privati spes-so non specializzati nel campo del restauro e della conservazione, i quali sviluppano, peraltro, progetti assai discutibili. (1)

II

16 – Sezione centrale controllo gestione; delibera-zione 19 novembre 2014; Pres. Clemente, Rel. Mezzera; Presidenza del consiglio dei ministri, ministeri vari.

Amministrazione dello Stato e pubblica in gene-re – Destinazione e gestione dell’8 per mille dell’Irpef – Relazione al Parlamento.

L. 14 gennaio 1994 n. 20, art. 3; l. 23 dicembre 2005 n. 266, art. 1, c. 172; l. 24 dicembre 2007 n. 244, art. 3, c. 64.

La relazione analizza le modalità di gestione dei fondi derivanti dalla destinazione dell’8 per mille dell’Irpef, individuando gli elementi di debolezza della normativa e della sua applicazione.

L’ammontare da ripartire tra le diverse confes-sioni religiose e lo Stato è sempre proporzionale (8 per mille) all’importo che lo Stato incassa a titolo di Irpef. La ripartizione è, invece, esclusivamente col-legata alla volontà dei contribuenti che esprimono, se lo ritengono, la propria preferenza in sede di di-chiarazione annuale dei redditi.

La relazione rileva la mancanza di trasparenza circa i dati relativi alle “destinazioni” effettuate dai contribuenti: sul sito web della Presidenza del consi-glio dei ministri, infatti, nella sezione dedicata, non vengono riportate le attribuzioni annuali alle confes-sioni religiose, né la destinazione che queste danno alle somme ricevute.

Nel corso degli anni, le somme distribuite attra-verso 1’8 per mille sono aumentate in modo consi-derevole, al contrario dell’altra fonte di finanzia-mento prevista dalla legge, le donazioni deducibili, che comportano il sacrificio di un esborso aggiun-tivo per i fedeli. In particolare, la Chiesa cattolica, dai 200 milioni ottenuti nel 1990 (corrispondenti, all’incirca, alla contribuzione fino ad allora ricevu-ta annualmente per il sostentamento del clero con il sistema dei supplementi di congrua e a quanto speso dallo Stato per gli edifici di culto dì proprietà degli

(1-2) Il testo integrale della relazione è consultabile in www.corteconti.it.

La precedente Sez. centr. contr. gestione, 18 dicembre 2013, n. 14, relativa alla gestione del 5 per mille, è pubblicata in questa Rivista, 2014, fasc. 1-2, 54, con nota di richiami.

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enti ecclesiastici), nel 2014 ha superato ampiamente il miliardo.

Le risorse di pertinenza statale sono utilizza-te per interventi straordinari di lotta alla fame nel mondo, per eventi calamitosi, assistenza a rifugiati, conservazione dei beni culturali, ristrutturazione, miglioramento, adeguamento antisismico ed effi-cientamento energetico degli immobili di proprietà pubblica adibiti all’istruzione scolastica. La relazio-ne rileva, tuttavia, come la mancanza di sensibiliz-zazione dell’opinione pubblica, da parte dello Stato, con campagne pubblicitarie sulle proprie attività con la fissazione di chiare modalità di utilizzo delle quote ad esso destinate, ha determinato, nel corso del tempo, la drastica riduzione dei contribuenti che destinano allo Stato la propria quota dell’8 per mil-le. (2)

I

Sez. centr. contr. gestione, 31 ottobre 2014, n. 14

8. Valutazioni conclusiveIl 5 per mille si propone di favorire la responsa-

bilità dei cittadini nella selezione della spesa sociale efficiente.

La rilevanza dell’istituto non può indurre, tutta-via, a considerare tale strumento di democrazia fisca-le da preferirsi, in ogni caso, all’intervento pubblico nelle attività sociali e, pertanto, non risulta accettabi-le il messaggio – che, pure, compare nella pubblicità a favore di alcuni beneficiari – secondo cui, aderendo al 5 per mille, “i fondi rimarranno a disposizione del-la nostra comunità; se non si firma, i fondi rimarran-no allo Stato e non si aiuta nessuno”.

È da rilevare un costante aumento dell’interesse nei suoi confronti. Infatti, il numero complessivo di coloro che hanno optato è passata dai 13 milioni, nel 2006, a superare abbondantemente i 16, nel 2011. Continua risulta, inoltre, a partire dal 2008, la pro-gressione delle scelte espresse e la diminuzione di quelle generiche.

Il quadro normativo dell’istituto risulta, tuttavia, confuso ed inadeguato al possibile nuovo ruolo isti-tuzionale del privato sociale.

Il 5 per mille, infatti, seppure sempre riproposto a partire dall’esercizio finanziario 2006, ha conservato carattere provvisorio ed è subordinato, ogni anno, a un’espressa previsione legislativa. L’instabilità e la frammentarietà della disciplina non agevolano la programmazione delle attività dei beneficiari; infat-ti, l’assenza di certezza non permette di assicurare

il finanziamento di progetti con entrate regolari e costanti. Al contrario, sarebbe essenziale la previ-sione di una certa continuità nell’assegnazione dei fondi, per dare sicurezza agli enti che vivono, talo-ra anche prevalentemente, di contributi volontari. Inoltre, alcune categorie di enti sono state ammesse al beneficio con effetto sugli esercizi precedenti. Si sono, altresì, succedute norme che hanno disposto la riapertura dei termini per la partecipazione al riparto del contributo, con il conseguente rientro in gioco di enti precedentemente non inclusi. Ciò ha comportato un rallentamento dei pagamenti, in quanto è stato ne-cessario rielaborare le ripartizioni e gli elenchi predi-sposti. Inoltre, a causa di tale confusione, l’Agenzia delle entrate, impegnata nell’effettuazione dei con-trolli, si è trovata a operare, contemporaneamente, su più annualità.

Un’organica normativa, stabile nel tempo, con-sentirebbe anche di semplificare le procedure e di evitare il ripetersi, ogni anno, dei medesimi adem-pimenti. Ciò permetterebbe di rendere più rapidi la pubblicazione degli elenchi dei beneficiari ed i con-trolli ed eviterebbe il ricorso a continue riaperture dei termini.

I ritardi nelle erogazioni – dovuti anche alla plu-ralità di amministrazioni coinvolte, con scarso coor-dinamento tra loro, e a disfunzioni interne a ciascuna di esse – sono ulteriore causa dell’incertezza sulla disponibilità delle risorse. In tal senso, viene rileva-to il fatto che, complessivamente, sono “otto gli enti pubblici coinvolti nella fase di iscrizione e in quella successiva di controllo. Gli enti no profit si sono tro-vati, spesso, in difficoltà nell’individuare il sogget-to cui chiedere le ragioni ostative all’iscrizione o le informazioni relative al ritardo nell’erogazione delle somme destinate dai contribuenti”.

Va rilevata l’incompetenza del Ministero del lavoro e delle politiche sociali nella compilazione degli elenchi dei soggetti ammessi al beneficio e la conseguente scarsa efficacia nella verifica dei requi-siti. Infatti, per gli enti del volontariato, è l’Agenzia delle entrate che determina i beneficiari aventi dirit-to. La fondamentale attività di vaglio degli aspiranti e il controllo delle dichiarazioni sostitutive sfuggo-no, pertanto, all’amministrazione che più conosce le problematiche del settore. D’altronde, l’Agenzia delle entrate riferisce che “i controlli effettuati ai fini dell’ammissibilità al riparto del 5 per mille non rien-trano tra le attività di controllo sostanziale dell’A-genzia delle entrate, attesa, peraltro, la natura non fiscale del contributo”.

Peraltro, il ricorso alle convenzioni – non ancora

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stipulate per gli anni successivi al 2010 – si è mostra-to un modello organizzativo dispendioso, motivo di conflittualità e di allungamento dei tempi.

Il notevole e costoso lavoro di verifica della ren-dicontazione procede a fatica ed in maniera assai la-boriosa, anche a causa dello scarso coordinamento e dell’assenza di flussi informativi essenziali per lo svolgimento di tale attività tra i ministeri e l’Agenzia delle entrate.

Attraverso le attuali modalità di iscrizione e ri-parto, vengono agevolati, di fatto, gli organismi di maggiori dimensioni e più strutturati. Ciò è dovuto alle maggiori capacità organizzative, alle superiori disponibilità finanziarie ed alle migliori capacità di competizione per ottenere la sottoscrizione dei con-tribuenti.

In senso opposto, le modalità di riparto produ-cono, tuttavia, anche una dispersione eccessiva de-gli importi in favore di una pletora di beneficiari, attribuendo, spesso, somme minime a molti enti. Ciò comporta un notevole costo di gestione ed un rallentamento delle procedure di erogazione, spesso per importi insignificanti, con il rischio di indebolire l’istituto del 5 per mille, rendendolo un inutile con-tributo a pioggia.

Paradossale risulta la presenza di un cospicuo numero di enti che non ricevono alcuna scelta, dimo-strando, così, di non essere di interesse nemmeno per i propri membri e sollevando dubbi sulla loro reale consistenza.

L’attribuzione delle risorse in base alla stretta capacità contributiva fa sì che alcune organizzazioni che possono raccogliere il favore di optanti abbien-ti ottengano, anche con un basso numero di scelte, somme assai rilevanti.

Notevole anche il numero di enti con un numero di scelte minime, anche di sola una o due. Peraltro, alcuni di questi riescono a ottenere importi rilevanti, per il fatto di essere sostenuti da contribuenti assai facoltosi. Ciò può produrre effetti distorsivi del si-stema, rischiando di piegare un istituto di rilevanza sociale a finalità egoistiche e personali.

L’ammissione al beneficio degli organismi del volontariato è esclusa per gli enti con personalità di diritto pubblico. Ciò non sembra del tutto coerente con le finalità dell’istituto, tenendo conto che, per altre categorie – ricerca scientifica, ricerca sanitaria, comuni – la natura pubblica non osta all’attribuzio-ne. Tale incongruenza ha indotto, ad esempio, all’e-sclusione di un ente quale la Croce rossa italiana, pure percepito da molti meritevole di sovvenziona-mento.

Per il finanziamento delle attività sociali svolte dai comuni di residenza, la differente capacità fisca-le dei contribuenti sul territorio nazionale fa sì che i comuni più ricchi possano beneficiare, in proporzio-ne, di maggiori introiti, senza alcun meccanismo di perequazione o coordinamento e accentuando, in tal modo, lo squilibrio socio-economico del paese.

Per gli enti di sostegno alle attività di tutela, pro-mozione e valorizzazione dei beni culturali e pae-saggistici non è prevista la scelta dell’ente da parte dei contribuenti. Ciò suscita perplessità, in quanto la mancata opzione è in contrasto con la ratio dell’i-stituto, essendo l’amministrazione a determinare i destinatari del contributo. Inoltre, l’esclusione degli enti di diritto pubblico appare arbitraria ed irrazio-nale, in quanto la scelta dei contribuenti si riferisce all’attività in sé di tutela, promozione e valorizza-zione. Peraltro, la limitazione del finanziamento ai soli enti privati non appare nemmeno sulla scheda di scelta.

La trasparenza dei dati sulla rete web è scarsa, ri-sultando, molte volte, non identificabili i beneficiari, a causa della genericità nell’indicazione di essi. Inol-tre, non vengono indicati dall’Agenzia delle entrate i dati aggregati dei contributi ottenuti dai beneficiari presenti in più elenchi. Infine, per gli enti di sostegno dei beni culturali e paesaggistici non è comunicata l’entità del contributo ricevuto e l’elenco degli esclu-si pubblicato sul sito web del Ministero non risulta completo.

La percentuale degli optanti fra coloro che non presentano la dichiarazione dei redditi è minima e, pertanto, risulta disincentivata la contribuzione al 5 per mille di una rilevante quota di persone, general-mente quelle a più basso reddito.

Nessuna scelta è possibile per i milioni di cittadi-ni che non pagano l’Irpef e che, pertanto, sono esclu-si da tale forma di partecipazione.

Sussiste un potenziale conflitto di interesse di numerosi enti che, anche indirettamente, gestiscono i Centri di assistenza fiscale e sono beneficiari del 5 per mille. Il Ministero del lavoro e delle politiche sociali è stato il solo a sottoporre la gestione del 5 per mille al controllo interno. Tuttavia, la valuta-zione del risultato appare del tutto autoreferenziale, mancando l’apporto valutativo-correttivo dell’or-ganismo a ciò deputato e il riscontro sull’efficacia dell’intervento.

9. Raccomandazioni1. Spetta al legislatore valutare se proseguire, per

l’avvenire, nell’esperienza del 5 per mille. Tuttavia,

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in caso di scelta positiva, si avverte l’esigenza del-la stabilizzazione dell’istituto, al fine di attribuirgli quei connotati di efficienza che solo una normativa organica e non precaria può garantire.

2. Tale riforma dovrebbe definirne i caratteri fon-damentali, individuando i soggetti beneficiari, da in-serirsi in elenchi stabili, anche al fine di eliminare la necessità di procedere annualmente all’iscrizione, essendo tale adempimento oneroso sia per gli enti che per le amministrazioni chiamate ai controlli.

3. Al fine di garantire la piena esecuzione della volontà e della libera scelta dei contribuenti, andreb-be eliminato il tetto di spesa, in maniera tale che l’at-tribuzione del 5 per mille dell’Irpef non si traduca in una percentuale, di fatto, minore. Se ciò non fosse possibile, al tetto di spesa sarebbe, comunque, pre-feribile una riduzione della percentuale attribuibile. Infatti, è grave che il patto tra lo Stato e i contribuen-ti venga sistematicamente violato, analogamente a quanto accade per la quota dell’8 per mille di com-petenza statale, che viene, spesso, dirottato su altre finalità rispetto a quelle indicate.

4. Al fine della razionalizzazione dell’istituto, potrebbe prevedersi l’aumento della soglia minima di contributo sotto la quale questo non sia attribuito.

5. Spetta al legislatore, inoltre, stabilire l’oppor-tunità di trovare adeguati strumenti di riequilibrio – come, per esempio, fissare una soglia in alto, oltre la quale gli enti perdano il beneficio della ripartizione delle quote inoptate – per garantire il soddisfacimen-to di bisogni che stentano a trovare adeguata rappre-sentanza, pur nella salvaguardia della libertà di scelta dei contribuenti.

6. Risulta necessaria una diffusione più rapida e trasparente dei dati sulle scelte dei contribuenti e, soprattutto, un’attribuzione più sollecita delle som-me spettanti ai beneficiari. La pubblicazione degli elenchi completi degli importi spettanti è connessa alla trasmissione delle dichiarazioni dei redditi. La necessità di attendere i termini per la presentazione delle dichiarazioni integrative comporta l’allunga-mento dei tempi per la determinazione degli importi definitivi. Per ridurli, potrebbe essere previsto di pro-cedere solo sulla base delle dichiarazioni tempestiva-mente presentate.

7. La concentrazione dei pagamenti in capo ad un’unica struttura potrebbe portare alla contrazione dei tempi di attesa dell’erogazione, evitando inutili passaggi procedurali.

8. Seppure il proliferare delle organizzazioni beneficiarie esprima la frammentazione dei bisogni della società contemporanea, si impone una più ri-

gorosa selezione delle stesse, al fine di non disper-dere risorse per fini impropri. D’altronde, il notevole e costoso lavoro di controllo della rendicontazione risulta, almeno finora, poco proficuo: una più rigo-rosa selezione degli enti risulterebbe, probabilmente, più utile per assicurare una più razionale allocazione delle risorse.

9. Aiuterebbe, in tal senso, una riforma del ter-zo settore, che permettesse la riunione, in una sola anagrafe, degli albi, degli elenchi e dei registri at-tualmente in vigore ed una più penetrante capacità di controllo delle singole amministrazioni competenti sulle iscrizioni e sulle cancellazioni. Il Ministero del lavoro e delle politiche sociali propone di predispor-re un progetto articolato, “per consentire, innanzi-tutto, un controllo sui registri provinciali e regionali da parte delle articolazioni della direzione generale competenti in materia di Onlus, volontariato e asso-ciazionismo, ovvero per incidere con un nuovo as-setto normativo, tenuto conto che l’unico registro na-zionale tenuto dal ministero cui si iscrivono possibili destinatari del 5 per mille è quello delle associazioni di promozione sociale”.

10. Come condiviso da molte amministrazioni interessate, parrebbe utile un’iniziativa che preveda la creazione di un database pubblico con dati pro-venienti dall’Agenzia delle entrate, dalla Camera di commercio, dal Coni e dalle altre amministrazioni coinvolte, che consenta di valutare più compiuta-mente l’operato degli enti con finalità sociali.

11. Risulta necessaria la semplificazione delle procedure amministrative, eliminando inutili reite-razioni annuali di attività incombenti sulle organiz-zazioni beneficiarie, ma imponendo, nel contempo, alle stesse, l’obbligo di pubblicazione dei bilanci, utilizzando schemi chiari, trasparenti e di facile com-prensione.

12. Rigorosi controlli e frequenti verifiche sul-le iniziative promosse e attuate non potrebbero che avvantaggiare ed incentivare gli enti che svolgono le loro attività nel pieno rispetto della normativa vi-gente.

13. Come auspicato dal Ministero del lavoro e delle politiche sociali, la pubblicità dei riscontri am-ministrativo-contabili effettuati in materia di omessa o non adeguata rendicontazione dovrebbe essere in-coraggiata, per espellere gli organismi non meritevo-li della fiducia accordata dai contribuenti.

14. Con riguardo alla pubblicazione sulla rete web, risulta necessaria una maggiore specificazione dei beneficiari, al fine della loro effettiva identifica-zione. Inoltre, per una reale trasparenza, è opportuno

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che i contributi concessi siano resi noti anche in for-ma aggregata, nel caso in cui gli enti partecipino al beneficio più volte, in diverse categorie. Infine, l’e-lenco pubblicato sul sito web della Amministrazione dei beni culturali dovrebbe contenere tutti gli esclusi dell’anno di riferimento.

15. Risulterebbe assai utile un’attività di audit dell’Agenzia delle entrate sul comportamento de-gli intermediari, allo scopo di individuare eventuali scorrettezze.

16. Nel caso in cui restino la preclusione di par-tecipazione per gli enti di diritto pubblico e l’impos-sibilità di scelta diretta dell’ente da parte dei contri-buenti, nella scheda per l’opzione della destinazione del 5 per mille a favore del finanziamento delle atti-vità di tutela, promozione e valorizzazione dei beni culturali e paesaggistici va specificato – per motivi di trasparenza – che la destinazione è solo a favore di organismi privati.

II

Sez. centr. contr. gestione, 19 novembre 2014, n. 16

18. Valutazioni conclusive e raccomandazioniIn generale, sull’istituto dell’8 per mille:1. Il contributo è obbligatorio per tutti, a pre-

scindere dall’intenzione manifestata. L’allocazione di questa quota del gettito Irpef è determinata da una sola parte dei contribuenti, gli optanti. Infatti, il meccanismo neutralizza la non scelta. In tal modo, ognuno è coinvolto, indipendentemente dalla pro-pria volontà, nel finanziamento delle confessioni, con evidente vantaggio per le stesse, dal momento che i soli optanti decidono per tutti, con l’ulteriore conseguenza che il peso effettivo di una singola scel-ta è inversamente proporzionale al numero di chi si esprime.

Il riparto anche delle scelte non espresse avvan-taggia, soprattutto, i maggiori beneficiari. L’effetto moltiplicatore ha portato, alcuni anni, quasi a far triplicare le risorse a disposizione delle confessioni.

Il sistema, pertanto, risulta non del tutto rispetto-so dei principi di proporzionalità, di volontarietà e di uguaglianza.

2. Scarsa è l’informazione posta in essere dalle amministrazioni su tale peculiare modalità di attribu-zione. Infatti, i contribuenti – anche dotati di diligen-za media – possono essere ragionevolmente indotti a ritenere che solo con una scelta esplicita i fondi vengano assegnati.

3. In un contesto di generalizzata riduzione delle

spese sociali a causa della congiuntura economica, le contribuzioni a favore delle confessioni continua-no, in controtendenza, ad incrementarsi, avendo, da tempo, superato ampiamente il miliardo di euro an-nui, senza che lo Stato abbia provveduto ad attivare le procedure di revisione di un sistema che diviene sempre più gravoso per l’erario, tanto più che, negli ultimi anni, si è assistito al sovrapporsi delle asse-gnazioni previste dal diritto pattizio con quelle – che raggiungono cifre, in taluni casi, ancora più consi-stenti – di diritto comune. Il progressivo accrescersi di queste ultime fa, in parte, venir meno le ragioni che giustificano il cospicuo intervento finanziario dello Stato disegnato dall’8 per mille, che ha “con-tribuito ad un rafforzamento economico senza prece-denti della Chiesa italiana” (209). (1)

Ciò rende opportuna una rinegoziazione del so-stegno finanziario alle confessioni. Già nella rela-zione della Commissione paritetica Italia-Cei del 9 febbraio 1996, si legge che “non si può disconosce-re che la quota dell’8 per mille si sta avvicinando a valori, superati i quali, potrebbe rendersi opportuna una proposta di revisione. La Parte governativa rile-va, infatti, che detti valori, già oggi, risultano supe-riori a quei livelli di contribuzione che alla Chiesa cattolica pervenivano sulla base dell’antico sistema dei supplementi di congrua e dei contributi per l’edi-lizia di culto. Un loro ulteriore incremento potrebbe comportare, in sede della prossima verifica triennale, una revisione dell’aliquota del c.d. 8 per mille”. Sor-prende, peraltro, come, negli anni seguenti, il tema dell’eccessivo finanziamento non sia stato più ripro-posto dalla Parte governativa, nonostante l’ulteriore, rilevante aumento delle risorse a disposizione delle confessioni.

Rideterminare gli importi attraverso una consi-stente riduzione della quota Irpef assegnabile o in base alle sole scelte espresse consentirebbe un ri-sparmio strutturale per lo Stato.

È singolare che la composizione della Commis-sione paritetica Italia-Cei, istituita nel 1992, sia stata sempre riconfermata, dalla data della sua costituzio-ne fino ad oggi, per due dei tre componenti della Par-te governativa.

4. Sebbene il sistema dell’assegnazione di una quota del gettito fiscale viga, oltre che in Italia, in altri paesi, la normativa italiana risulta la più favo-revole per le confessioni; in Spagna, il contribuente

(209) F. Margiotta Broglio, Gli accordi del 1984 e la legi-slazione ecclesiastica successiva: riflessioni su un ventennio di sperimentazioni, in I. Bolgiani (a cura di), Enti di culto e fi-nanziamento delle confessioni religiose, Bologna, 2007.

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attribuisce la percentuale effettiva della propria im-posta e, nel caso in cui non venga espressa alcuna preferenza, la quota resta a disposizione dello Stato. Inoltre, l’aliquota può essere destinata, in concor-renza con la Chiesa cattolica, ad altri specifici fini sociali. L’applicazione della normativa spagnola all’Italia comporterebbe, per la fiscalità generale, un minor esborso annuo per oltre seicento milioni di euro.

5. Vi è un’assenza di trasparenza sulle erogazioni da parte delle amministrazioni statali, benché i con-tribuenti siano direttamente coinvolti nelle scelte: sul sito web Presidenza del consiglio dei ministri, infatti, nella sezione dedicata, non sono riportate le attribuzioni annuali alle varie confessioni, né la de-stinazione che queste, nella discrezionalità, danno ai contributi ricevuti. Al contrario, la rilevanza degli importi imporrebbe un’ampia pubblicità e la messa a disposizione dell’archivio completo delle contri-buzioni versate negli anni, al fine di favorire forme diffuse di controllo. Infatti, solo attraverso un’ade-guata conoscenza della ripartizione dei fondi tra i beneficiari e tra gli scopi predeterminati dalla legge è possibile una scelta consapevole e ragionata. I con-tribuenti che vogliano conoscere la destinazione del-le contribuzioni sono costretti a consultare i siti web delle confessioni, in assenza di una riaggregazione dei dati sulla distribuzione complessiva del gettito fornita dall’amministrazione.

Sintomatica, in tal senso, la difficoltà nell’otte-nere il quadro completo dei finanziamenti nel corso della presente indagine, risultando i dati forniti dal-la Presidenza del consiglio, dal Ministero dell’eco-nomia e delle finanze e dall’Agenzia delle entrate bisognosi di ripetute rettifiche, pur dovendo essere questi, per un principio di trasparenza nei confronti del Parlamento e dei contribuenti, di immediata di-sponibilità e non oggetto di faticose elaborazioni.

6. Il ricorso alla pubblicità da parte delle confes-sioni religiose per accaparrarsi una quota sempre più rilevante della contribuzione pubblica rischia di cre-are un mercato della domanda e dell’offerta religiosa e del solidarismo, che pone il problema dell’equi-librio tra costi sostenuti e realizzazione degli scopi prefissati.

7. In assenza di una legge sulla libertà religiosa, idonea a garantire, per tutte le confessioni, contri-buti economici, si assiste al ricorso all’intesa per ottenere il vantaggio dell’accesso ai fondi dell’8 per mille e ad alcune agevolazioni, in campo fiscale, finanziario ed organizzativo. Ciò rende problemati-ci – sotto l’aspetto del principio di uguaglianza – il

ritardo nell’approvazione delle intese già concluse e, ancor di più, la mancanza di esse per altre con-fessioni, in particolare per quelle che, nel corso de-gli anni, sono divenute numericamente consistenti, cosa che finisce per negare a numerose collettività religiose di partecipare al finanziamento pubblico; la selezione dei soggetti ammessi o esclusi dalle in-tese ha motivazioni del tutto discrezionali e, come tali, foriere di possibili effetti discriminatori. Di qui, il rischio dell’affermazione di un pluralismo confes-sionale imperfetto, in cui il ricorso alla bilateralità pattizia permetta l’affermazione di uno status pri-vilegiato.

La possibilità di accesso all’8 per mille di molte confessioni oggi escluse cambierebbe il quadro della distribuzione delle risorse, riducendo le entrate, so-prattutto, della Chiesa cattolica e dello Stato, oggi avvantaggiati dal meccanismo.

8. Non ci sono verifiche sull’utilizzo dei fondi erogati alle confessioni – nonostante i dubbi sollevati dalla Parte governativa della Commissione paritetica Italia-Cei su alcune poste e sulla ancora non soddi-sfacente quantità di risorse destinate agli interventi caritativi – né controlli sulla correttezza delle attri-buzioni degli optanti, ne di monitoraggio sull’agire degli intermediari.

In particolare, sulla quota dell’8 per mille di competenza statale.

9. In violazione dei principi di buon andamento, efficienza ed efficacia della pubblica amministrazio-ne, lo Stato mostra disinteresse per la quota di pro-pria competenza, cosa che ha determinato, nel corso del tempo, la drastica riduzione dei contribuenti a suo favore, dando l’impressione che l’istituto sia fi-nalizzato – più che a perseguire lo scopo dichiarato – a fare da apparente contrappeso al sistema di finan-ziamento diretto delle confessioni. Risulta, pertan-to, del tutto frustrato l’intento di fornire una valida alternativa ai cittadini che, non volendo finanziare una confessione, aspirino, comunque, a destinare una parte della propria imposta a finalità sociali ed umanitarie.

Infatti:a) sorprende la totale assenza – negli oltre 20

anni di vigenza dell’istituto di promozione, da par-te dello Stato, delle proprie iniziative, risultando l’unico competitore che non sensibilizza l’opinione pubblica, con campagne pubblicitarie, sulle proprie attività. La mancanza di informazione e di campa-gne promozionali, a fronte di una forte attivazione delle confessioni finalizzata ad aumentare le proprie quote, ha contribuito a produrre la marginalizzazione

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dell’iniziativa pubblica e compromesso la possibilità di ottenere maggiori introiti. Non ci sono state inizia-tive nemmeno per la campagna pubblicitaria 2014, nonostante la novità consistente nella possibilità di destinare risorse per l’edilizia scolastica, tema parti-colarmente sentito dai cittadini.

b) Sin dai primi anni di applicazione dell’istitu-to, la quota è stata drasticamente ridotta, dirottata su altre finalità, a volte antitetiche alla volontà dei contribuenti, venendo meno l’affidamento – deri-vante dalla sottoscrizione – sull’utilizzo della stessa. Complessivamente, le decurtazione ai fondi rappre-sentano oltre i due terzi delle somme assegnate. Per gli anni 2011 e 2012, la quota è stata completamente azzerata; per il 2013, si è ridotta, da 170 milioni, alla cifra irrisoria di 400 mila euro.

c) Le risorse derivanti dall’opzione a favore dello Stato – nata come alternativa alla scelta per le confessioni – sono state veicolate, per una parte consistente, verso scopi riconducibili agli interessi di quest’ultime. Infatti, è stato rilevante, negli anni, l’apporto finanziario agli enti ecclesiastici e alle or-ganizzazioni confessionali rispetto alle altre tipolo-gie di enti; ciò appare singolare, in considerazione del fatto che questi godono già del contributo degli optanti per le confessioni, che risulta assai più con-sistente di quello di competenza statale. Il finanzia-mento statale di tali enti – per il rispetto dovuto ai contribuenti, che scelgono sulla base della distinzio-ne fra la quota destinata a soggetti religiosi e quella a diretta gestione statale – dovrebbe, eventualmente, gravare su altri capitoli di bilancio.

d) L’insufficiente determinatezza delle tipologie degli interventi, della loro straordinarietà e delle mo-dalità sulla concreta destinazione dei fondi ha pro-dotto scarsa coerenza delle scelte effettuate. Infatti, l’utilizzo della quota statale è stata, finora, effettuata, nella maggioranza dei casi, attraverso l’erogazione a pioggia ad enti, spesso privati, che ne hanno fat-to richiesta, rinunciando lo Stato alla definizione di obiettivi soddisfacenti. In definitiva, la quota statale è stata utilizzata, prevalentemente, per attività aventi carattere di supplenza o di riserva. Peraltro, la sele-zione dei beneficiari non risulta sempre da una tra-sparente e motivata decisione.

10. L’attribuzione delle scarse risorse alla gestio-ne diretta di enti privati ha prodotto, inoltre, l’atte-nuazione dei controlli su tali fondi, non procedendo i privati beneficiari al ricorso all’affidamento secondo le procedure di evidenza pubblica e alla verifica del buon esito delle attività attraverso la garanzia del collaudo pubblico.

11. Per garantire la piena esecuzione della vo-lontà e della libera scelta di tutti, la decurtazione della quota dell’8 per mille di competenza statale va eliminata. Risulta contrario ai principi di lealtà e di buona fede che il patto con i contribuenti sia viola-to, tanto più che vengono penalizzati solo coloro che scelgono lo Stato e non gli optanti per le confessioni, le cui determinazioni non sono toccate, cosa incom-patibile con il principio di uguaglianza: la volontà di chi sceglie lo Stato deve essere trattata con lo stesso rispetto riconosciuto a chi opta per una confessione religiosa.

12. L’istruttoria sulle richieste di contributi è po-sta in essere dalla Presidenza del consiglio dei mi-nistri, con l’apporto dei ministeri competenti, anche per gli anni in cui i contributi non sono assegnati o attribuiti in misura minima, rendendo tale attivi-tà priva di utilità, con conseguente, ingente spreco di energie e risorse pubbliche, dal momento che, da anni, le strutture preposte dedicano tempo e compe-tenze nella valutazione di migliaia di progetti che non sono, poi, finanziati.

* * *

Sezione controllo enti

121 – Sezione controllo enti; deliberazione 23 di-cembre 2014; Pres. (f.f.) Bove, Rel. Gorelli; Rete ferroviaria italiana (Rfi) s.p.a.

Enti a cui lo Stato contribuisce in via ordinaria – Rete ferroviaria italiana (Rfi) s.p.a. – Gestione finanziaria 2013.

L. 21 marzo 1958 n. 259, partecipazione della Corte dei conti al controllo sulla gestione finanziaria degli enti a cui lo Stato contribuisce in via ordinaria, art. 2.

La relazione riferisce al Parlamento in ordine ai risultati del controllo eseguito sulla gestione finan-ziaria di Rete ferroviaria italiana s.p.a. per l’eser-cizio 2013.

La relazione si sofferma sulle importanti innova-zioni sollecitate dalla direttiva n. 2012/34/Ue (c.d. “Recast”), con la quale si è inteso accelerare il processo di integrazione nel settore dei trasporti e migliorare l’efficienza e la competitività della rete. In tale contesto, appare rilevante il passaggio di Rete ferroviaria italiana da una contabilità di tipo regolatorio ad una di tipo industriale e la previsione dell’adozione di un piano strategico quinquennale e di un piano commerciale.

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N. 5-6/2014 PARTE I – ATTIVITÀ DI CONTROLLO E CONSULTIVA

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Altra importante innovazione è l’entrata in ope-ratività dell’Autorità di regolazione dei trasporti, cui sono stati affidati compiti di regolazione, promozio-ne e tutela della concorrenza nel settore dei traspor-ti. Rete ferroviaria italiana dovrà, pertanto, confor-marsi alle prescrizioni di quest’ultima in tema di ac-cesso equo e non discriminatorio alle infrastrutture ferroviarie.

Particolare attenzione viene posta sulla delibera dell’Autorità n. 70/2014, che prevede la rimodula-zione del canone dell’infrastruttura ferroviaria che si tradurrà, nel prossimo futuro, in minori ricavi di rilevante ammontare.

Quanto al personale, la relazione evidenzia un sostanziale equilibrio, rispetto al precedente eserci-zio (27.108 unità in servizio rispetto alle 27.101 del 2012).

Il costo del lavoro si è attestato a 1.456,2 milioni (+4,3 mln rispetto al 2012) e rappresenta oltre il 67 per cento dei costi operativi della società, assorben-do poco meno del 55 per cento dei ricavi aziendali.

Quanto ai risultati della gestione, la Corte con-ferma il trend positivo dei risultati di esercizio. Il bi-lancio 2013 di Rete ferroviaria italiana si è chiuso con un utile di 269,8 milioni, registrando un incre-mento considerevole rispetto al risultato conseguito nel 2012 (+68,6 per cento). In particolare, rispetto a precedente esercizio, al modesto incremento dei ricavi operativi attestatisi a 2.675,9 milioni (+0,47 per cento rispetto al 2012) si è contrapposta una significativa riduzione dei costi, pari ad oltre 127 milioni.

Permane negativo il saldo della gestione finan-ziaria in ragione del consistente aumento degli oneri finanziari inerenti la società Stretto di Messina, in liquidazione.

Il patrimonio netto della società si è attestato, al termine dell’esercizio in esame, a 33.289,8 milioni, registrando un incremento di 285 milioni rispetto al 2012. (1)

(Omissis) – Parte I

1. Il ruolo istituzionale e l’assetto societarioRete ferroviaria italiana spa (di seguito Rfi), è

una società per azioni interamente partecipata dalla Ferrovie dello Stato italiane (Fsi) s.p.a., costituita il 1 luglio 2001, in coerenza con le direttive comunitarie sulla separazione fra gestore dell’infrastruttura ferro-viaria nazionale (di seguito, per brevità, Gi o gestore

(1) Il testo integrale della relazione si legge in www.corte-conti.it.

infrastruttura) e produttore dei servizi di trasporto ferroviario (1). (Omissis)

Rfi, per la realizzazione dello scopo sociale, ha struttura e organizzazione con obiettivi temporali definiti dal piano industriale e provvede ai propri compiti attraverso finanziamenti pubblici con speci-fici Contratti di programma (Cdp), nonché attraver-so la riscossione dei canoni per l’utilizzo della rete da parte delle imprese ferroviarie che la utilizzano. (Omissis)

Il bilancio di esercizio di Rfi è inserito nell’am-bito del bilancio consolidato di Fsi, ed è redatto in conformità agli International financial reporting standard (Ifrs) emanati dall’International accoun-ting standard boards, adottati dall’Unione europea (Eu-Ifrs). (Omissis)

2. Le risorse umane2.1. La consistenza e la gestione del personale

nell’anno 2013Le unità in servizio al 31 dicembre 2013 ammon-

tavano a complessive 27.108 unità in sostanziale equilibrio rispetto all’esercizio precedente che evi-denziava la presenza in azienda, alla medesima data, di 27.101 dipendenti. (Omissis)

Nel corso del 2013 sono state effettuate n. 415 assunzioni da mercato, n. 20 assunzioni a seguito di contenzioso e si è registrata una mobilità netta in en-trata da società del gruppo per n. 972 unità. Il perso-nale in uscita che ha usufruito del fondo di sostegno al reddito è stato pari a n. 693 unità, mentre le ces-sazioni anticipate connesse alle incentivazioni all’e-sodo sono state pari a n. 328 unità. Le dimissioni, i licenziamenti e i decessi sono stati nel periodo pari a n. 379 unità. Gli ingressi si attestano complessiva-mente a n. 1407 unità mentre le fuoriuscite a n. 1400 unità. (Omissis)

2.3. Il costo del lavoro(Omissis) Dall’analisi dell’incidenza del costo

del lavoro sui costi operativi e sui ricavi aziendali emerge che il costo del lavoro si è attestato a 1.456,2 milioni e rappresenta oltre il 67 per cento dei costi operativi della società, assorbendo poco meno del 55 per cento dei ricavi aziendali. (Omissis)

Nel 2013, 247 dirigenti aziendali hanno avuto una retribuzione media di circa 113 mila euro annui pro capite, pari a un onere complessivo di 29,6 milioni.

La retribuzione media di un lavoratore dipenden-

(1) Per un approfondimento sull’istituzione della Società e sull’organizzazione si rinvia a quanto riferito nei precedenti referti.

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PARTE I – ATTIVITÀ DI CONTROLLO E CONSULTIVA N. 5-6/2014

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te si attesta a 37.500 euro aumenta del 2,96 per cento rispetto al 2012. (Omissis)

2.6. Le consulenzeNell’esercizio si rileva da un lato un consisten-

te aumento della quantità di incarichi seppure con un sostanziale mantenimento della spesa sostenuta nell’esercizio precedente (989 mila euro nel 2013 e 985 mila euro nel 2012).

Tra le spese sostenute si evidenzia l’erogazione di un servizio di management e recruting dei diri-genti (per oltre 300 mila euro) e l’erogazione di pre-stazioni formative a favore del personale di Rfi, per oltre 400 mila euro, tra cui due corsi di formazione teorico/pratica di guida sicura tenuti presso l’auto-dromo di Vallelunga nel 2013 (per 100 mila euro) ai quali hanno partecipato quadri impiegati ed ope-rai impiegati nelle direzioni territoriali produzione di Firenze, Roma e Napoli e nella direzione tecnica impiegati in attività di “pronto intervento” su guasti all’infrastruttura ferroviaria. (Omissis)

3. La liberalizzazione del trasporto ferroviario e l’Autorità di regolazione dei trasporti

(Omissis) – Nello specifico, con la direttiva 91/440/Cee, primo atto di derivazione comunitaria che ha dato avvio al processo di liberalizzazione, è stata operata in Italia la separazione delle attività di gestione dell’infrastruttura da quelle relative alla prestazione del servizio di trasporto ferroviario, sia sul “piano contabile” che adottando una “separazio-ne societaria” e, a partire dall’1 luglio 2001, la nuova configurazione societaria del Gruppo FS vede il Mef proprietario al 100 per cento del pacchetto aziona-rio di “Ferrovie dello Stato s.p.a.”, che, a sua volta, detiene il 100 per cento del pacchetto azionario di “Trenitalia s.p.a.”, società di trasporto ferroviario, e di Rfi, società giuridicamente distinte fra loro.

La direttiva 34/2014 “Recast” intende introdur-re ulteriori elementi per chiarire il perimetro dei di-versi segmenti di attività consentendo, in termini di gestione, organizzazione ed impiego degli asset, di distinguere più marcatamente le attività regolate da quelle a mercato anche attraverso il passaggio da una contabilità di tipo regolatoria ad un di tipo industria-le e la contendibilità dei servizi offerti alle imprese ferroviarie. (Omissis)

In tale contesto, la Commissione europea, pur riconoscendo la compatibilità con l’ordinamento comunitario del modello gestionale in cui il gestore dell’infrastruttura è inserito in una struttura vertical-

mente integrata con a capo una holding (31), quale quella di Rfi, ha stabilito che gli Stati membri devono provvedere affinché per le attività connesse alla pre-stazione di servizi di trasporto siano tenute contabi-lità separate rispetto alla gestione dell’infrastruttura ferroviaria, anche al fine di consentire di verificare il rispetto del divieto di trasferimento di fondi pubblici a fini diversi da quelli del potenziamento e manteni-mento delle infrastrutture.

In tale prospettiva deve intendersi l’adeguamento della normativa nazionale che ha stabilito con la l. 9 agosto 2013, n. 98 che “la separazione contabile e dei bilanci deve fornire la trasparente rappresenta-zione delle attività di servizio pubblico e dei corri-spettivi e/o fondi pubblici percepiti per ogni attivi-tà” (32). (Omissis)

4. Strumenti di pianificazione, programmazione e gestione degli investimenti e delle attività

La pianificazione delle attività di Rfi si esplica at-traverso l’adozione di un Piano industriale, che pre-vede il finanziamento degli interventi attraverso ri-sorse derivanti da fondi propri, dell’Unione europea, degli enti locali, dal mercato e da appositi Contratti di programma (Cdp) in coerenza con quanto stabilito dal Programma delle infrastrutture strategiche (Pis) del Mit allegato al Documento di economia e finanza (Def).

4.1. Il Piano industriale di Rfi quale strumento di pianificazione aziendale.

(Omissis) – In data 20 marzo 2014 è stato appro-vato dal cda il nuovo Pi 2014-2017 che tiene conto dei Cdp relativi agli investimenti e ai servizi, dell’e-voluzione del quadro economico, di quello regola-torio e normativo, nonché della capacità di creare valore in ogni settore di business e di supportare la crescita qualitativa e dei volumi dei servizi offerti, sia passeggeri Av/Ac che merci, affinché si possano dare risposte ad un mercato, regionale e metropolita-

(31) Tale posizione e stata ratificata nella recente senten-za del 3 ottobre 2013 con cui la Corte di giustizia europea si è pronunciata in merito alla procedura di infrazione (causa C-369/11).

(32) Art. 24, c. 2, d.l. 21 giugno 2013, n. 69, convertito con modificizioni dalla l. 9 agosto 2013, n. 98. Il governo nel-la relazione al d.l. n. 69/2013, tenuto conto della procedura d’infrazione (n. 2013/2213) avviata dalla Commissione euro-pea, ha dato atto che l’Italia ha recepito la separazione conta-bile fra le varie attività (soprattutto tra il settore merci e pas-seggeri), ma deve operare l’ulteriore separazione contabile delle singole attività. In tale prospettiva si è provveduto all’in-serimento, nel testo del d.lgs. n. 188/2003, di tale ulteriore condizione a garanzia dell’indipendenza tra Gi e If.

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no, caratterizzato da una forte domanda di qualità e puntualità dei servizi offerti. (Omissis)

4.2. Il Contratto di programma (Cdp) quale stru-mento di programmazione degli investimenti e delle attività. Criticità.

(Omissis) – Tuttavia la richiamata ripartizione del Cdp, in parte investimenti e servizi, sembrereb-be volgere verso il superamento con l’approvazione del Def 2014; il governo, infatti, nell’ambito della programmazione a medio termine ha individuato tra le priorità la necessità di ridefinire il rapporto con Ferrovie dello Stato italiane (Fsi) considerando che il Cdp, attualmente ripartito in parte “Investimenti” e parte “Servizi”, deve essere esaminato da parte del Mit e Rfi in modo unitario e in tempi certi (41).

La riconduzione a uno dei Cdp sarebbe peraltro ampiamente motivato, a seguito dell’approvazione dell’art. 24 d.l. n. 69/2013, con l’esigenza avvertita dal governo di favorire “una maggiore leggibilità dei bilanci del gruppo Fsi, nel suo insieme, con una più chiara rappresentazione dell’erogazione delle attivi-tà di servizio pubblico, in tutte le loro componenti, e dei corrispettivi e/o fondi percepiti per ogni altra attività”. (Omissis)

Parte II

6. Il bilancio di esercizio 2013(Omissis) – Rfi ha chiuso il bilancio 2013 con un

utile di 269,8 milioni (+69 per cento) e un valore di Ebitda di 516,5 milioni (+37 per cento), confermando il trend favorevole del 2012 chiuso con un utile di 159 milioni. I ricavi operativi nel quadriennio 2010-2013 sono aumentati del 3,66 per cento e del 0,45 per cen-to nel 2013. Il Mol è aumentato del 77,8 per cento dal 2010 al 2013 e del 37 per cento dal 2012 al 2013 (+139,7 mln). Il risultato operativo è aumentato nello stesso quadriennio del 186,6 per cento e del 57,4 per cento rispetto all’esercizio precedente. Il risultato net-to è amentato del 193 per cento circa nel quadriennio e del 57,40 per cento nell’esercizio in esame. (Omissis)

6.2. Situazione patrimoniale e finanziaria(Omissis) – Patrimonio nettoIl patrimonio netto della società si è attestato,

al termine dell’esercizio 2013 a 33.289.8 milioni

(41) L’allegato al Programma delle infrastrutture strategi-che del Mit, incluso nel Def 2014 approvato dal Consiglio dei ministri in data 8 aprile 2014 e dalle Camere in data 17 aprile 2014, ha confermato quanto previsto dalla Nota di aggiorna-mento del Def 2013 (settembre 2013).

aumentato di circa 285,1 milioni rispetto al 2012 (33.004.7 mln). (Omissis)

Contributi pubblici(Omissis) – Nel 2013 i contributi in conto eserci-

zio dallo Stato, che riguardano gli incassi relativi agli stanziamenti di competenza dell’anno, sono diminuiti (-60 mln) e si attestano a 1.050 milioni, mentre i con-tributi in conto investimenti dello Stato, che rappre-sentano il confronto tra i contributi allocati sui lavori in corso (Lic) a valere sugli acconti Mef e Mit per gli esercizi 2012 e 2013 sono aumentati (683 mln).

Gli altri contributi, che rappresentano i contributi allocati sui Lic a valere sugli acconti per contributi derivanti dalla comunità europea e dagli enti locali, sono pari a 1.138 milioni. (Omissis)

6.3. Il conto economico(Omissis) – Come già riferito nella precedente

paragrafo 6, il 2013 ha chiuso il bilancio in positivo, registrando un utile di 269,78 milioni in considere-vole incremento (109,8 mln) sul risultato conseguito nel precedente esercizio.

Il primo dato consuntivo d’interesse è il risultato operativo (Ebit) che si è attestato a 387,2 milioni, supe-riore di 140,9 milioni rispetto al 2012 (246,2 mln). La gestione finanziaria ha chiuso in negativo di euro 80,78, evidenziando un peggioramento consistente sull’anno di comparazione che presentava un saldo negativo di 62,2 milioni. Ciò in ragione del consistente aumento degli oneri finanziari seppur a fronte di un meno ro-busto aumento dei proventi: l’incremento degli oneri per circa 40 milioni è dovuto fra l’altro all’incremento degli accantonamenti di 48.882 mila euro della voce oneri finanziari accantonamenti e rilasci inerente la so-cietà Stretto di Messina posta in liquidazione.

6.5.1. RicaviNel corso del 2013 la società ha registrato ricavi

in linea con l’esercizio precedente a fronte di un lie-ve incremento degli altri proventi. (Omissis)

Al 31 dicembre 2013 i ricavi delle vendite e delle prestazioni, pari a 2.304,9 milioni nel 2013, in au-mento di 331 mila rispetto al 2012, rappresentano l’84 per cento del fatturato della società. (Omissis)

Gli altri proventi, rappresentano complessiva-mente il 13,9 per cento dei ricavi di Rfi s.p.a. nel 2013, in aumento rispetto al 2012. (Omissis)

6.5.2. CostiAlla fine del 2013 i costi di Rfi s.p.a. ammontano

a 2.159 milioni in diminuzione rispetto al 2012 di 127 milioni. (Omissis)

Al 31 dicembre 2013 i costi di Rfi, dettagliata-

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PARTE I – ATTIVITÀ DI CONTROLLO E CONSULTIVA N. 5-6/2014

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mente illustrati nella tabella seguente, registrano una diminuzione del 5,6 per cento rispetto al saldo regi-strato al termine del 2012. (Omissis)

10.1. Adozione da parte della Commissione euro-pea del Quarto pacchetto ferroviario da sottoporre al Parlamento europeo.

Il 30 gennaio 2013 la Commissione europea ha adottato, per la successiva approvazione da parte del Parlamento europeo, il c.d. “Quarto pacchetto fer-roviario”, che consta di sei proposte legislative per il completamento della creazione di uno spazio fer-roviario europeo unico rimuovendo ostacoli di tipo tecnico, amministrativo e giuridico. (Omissis)

10.5. Adeguamento della normativa agli obblighi di separazione contabile delle imprese ferroviarie e dei gestori dell’infrastruttura ferroviaria.

Va senz’altro ascritto tra i fatti di rilievo verifi-catisi nel corso del 2013, lo sforzo compiuto dal le-gislatore nazionale nell’ottica di adeguamento della normativa agli obblighi di separazione contabile del-le imprese ferroviarie e dei gestori dell’infrastruttura ferroviaria imposti dalla normativa comunitaria. In tale senso l’art. 24 d.l. n. 69/2013 ha stabilito che “la medesima separazione contabile deve fornire la trasparente rappresentazione delle attività di servizio pubblico e dei corrispettivi e/o fondi pubblici perce-piti per ogni attività”. Tale adeguamento normativo si è reso necessario a seguito dell’avvio della proce-dura di infrazione da parte della Commissione euro-pea (n. 2012/2213 del 24 gennaio 2013) per errata applicazione della direttiva 91/440/Cee relativa allo sviluppo delle ferrovie comunitarie.

10.6. Adeguamento della normativa per la deter-minazione dei diritti di accesso all’infrastruttura.

(Omissis) – Con decreto del 10 settembre 2013 il pedaggio unitario è stato ridotto nella misura del 15 per cento ed è passato da 14,7752 euro/treno*km a 12,5589 euro/treno*km.

Nell’anno 2014 il pedaggio per le linee Av è evo-luto a 12,8101 euro/treno*km. Con l’adozione della più volte menzionata delibera dell’Autorità di rego-lazione dei trasporti del 5 novembre 2014, n. 70 è stata prevista una riduzione del pedaggio a 8,2 euro/treno*km. (Omissis)

Considerazioni conclusiveRfi anche per il 2013 conferma il trend positivo

degli esercizi precedenti. In particolare, il bilancio di Rfi 2013 registra un utile di 269,78 milioni in consi-derevole incremento rispetto al risultato conseguito nel 2012 (+68,63 per cento).

I ricavi operativi hanno evidenziato un modesto incremento, rispetto all’esercizio 2012 (0,47 per cen-to), attestandosi a 2.675,93 milioni a fronte di una significativa riduzione dei costi pari al 5,56 per cen-to. (Omissis)

Dal lato dei costi operativi si rileva la signifi-cativa riduzione rispetto all’esercizio precedente di 127,18 milioni.

Il costo complessivo del personale si è mantenuto sostanzialmente stabile rispetto all’esercizio prece-dente e si è attestato a 1.456,2 milioni (+0,3 per cen-to sul 2012) malgrado l’entrata a regime del nuovo c.c.n.l. che ha visto le retribuzioni aumentare del 1,9 per cento. (Omissis)

Permane negativo il saldo della gestione finan-ziaria con una variazione di 18,6 milioni (-29,9 per cento sul 2012).

Il patrimonio netto ammonta, al 2013, a 33.289,8 milioni in aumento rispetto al periodo precedente (+285 mln sul 2012). (Omissis)

Nel 2013 i contributi in conto esercizio dallo Sta-to ammontano a 1.050 milioni e sono diminuiti di 60 milioni rispetto al 2012. Al contrario, i contributi in conto investimento dallo Stato sono aumentati di 683 milioni. (Omissis)

Il Def 2014, ha individuato tra le priorità la ne-cessità di ridefinire il rapporto con Ferrovie dello Stato italiane (Fsi) considerando che il Cdp, attual-mente ripartito in parte “Investimenti” e parte “Ser-vizi”, deve essere esaminato da parte del Mit e Rfi in modo unitario e in tempi certi. L’art. 1, c. 10, d.l. n. 133/2014 ha puntualmente individuato tempi e procedure per l’approvazione del Cdp parte investi-menti 2012-2016 approvato in data 8 agosto 2014 prevedendo una procedura accelerata coerentemente con quanto previsto dal Def 2014. In sede di conver-sione tale procedura è stata modificata prevedendo che l’approvazione avvenga previa trasmissione del richiamato Cdp-I alle competenti Commissioni par-lamentari per l’espressione del parere.

Rfi è alla vigilia d’importanti innovazioni sol-lecitate sia dalla direttiva 34/2012 c.d. “Recast” sia dalla piena operatività dell’Autorità di regolazione dei trasporti (Art).

Con la direttiva “Recast”, oltre a razionalizzare le normative esistenti si è inteso accelerare il processo d’integrazione del settore dei trasporti e, in particola-re, migliorare l’efficienza e la competitività della rete e del mercato ferroviario europeo. (Omissis)

* * *

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N. 5-6/2014 PARTE I – ATTIVITÀ DI CONTROLLO E CONSULTIVA

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Sezione delle autonomie

22 – Sezione delle autonomie; deliberazione 3 otto-bre 2014; Pres. Falcucci, Est. Ferone; Comune di Casamicciola Terme.

Contabilità regionale e degli enti locali – Comune e provincia – Piano di riequilibrio finanziario pluriennale – Acquisizione di un’anticipazio-ne di liquidità da parte dell’ente – Esame del piano da parte della commissione operante presso il Ministero dell’interno – Sospensio-ne – Omessa modificazione del piano da parte dell’ente in esito all’acquisizione dell’anticipa-zione – Effetti – Esame dell’originario piano di riequilibrio da parte della commissione – Necessità.

D.lgs. 18 agosto 2000 n. 267, t.u. delle leggi sull’or-dinamento degli enti locali, art. 243-quater; d.l. 8 aprile 2013 n. 35, convertito con modificazioni dal-la l. 6 giugno 2013 n. 64, disposizioni urgenti per il pagamento dei debiti scaduti della pubblica ammini-strazione, per il riequilibrio finanziario degli enti ter-ritoriali, nonché in materia di versamento di tributi degli enti locali.

L’inutile decorso del termine di sessanta giorni, concesso all’ente locale per procedere a modifica-zioni del piano di riequilibrio finanziario plurienna-le, laddove lo stesso abbia ottenuto un’anticipazione di liquidità dal “fondo per assicurare la liquidità per pagamenti dei debiti certi, liquidi ed esigibili”, costituisce una condizione legale di sospensione del termine per il compimento dell’istruttoria da parte della competente commissione operante presso il Ministero dell’interno; conseguentemente, il ritardo dell’ente nell’apportare modificazioni al piano non equivale alla mancata presentazione del piano, ma determina l’obbligo, per la suddetta commissione, di condurre la propria istruttoria sull’originario piano di riequilibrio, fatti salvi ulteriori approfondimenti di competenza della sezione regionale di controllo investita dell’esame del piano (nella specie, un co-mune aveva ottenuto, dopo l’approvazione del piano di riequilibrio, un’anticipazione di liquidità da parte del “fondo per assicurare la liquidità per pagamenti dei debiti certi, liquidi ed esigibili” per provvedere al pagamento di debiti certi, liquidi ed esigibili, ma non aveva apportato le conseguenti modifiche al pia-no originario).

Premesso – In punto di fatto, l’amministrazio-ne comunale di Casamicciola Terme (NA), che con deliberazione consiliare del 4 dicembre 2012 ave-

va deciso di avvalersi della facoltà di ricorrere alla procedura di riequilibrio finanziario pluriennale ex art. 243-bis Tuel, con successivo atto del 2 febbra-io 2013, aveva approvato il piano. Successivamente aveva chiesto l’accesso al “fondo per assicurare la liquidità per pagamenti dei debiti certi, liquidi ed esi-gibili”, previsto dal d.l. 8 aprile 2013, n. 35 converti-to con modificazioni dalla l. 6 giugno 2013, n. 64. A tale richiesta non aveva fatto seguito la modifica da parte dell’ente del piano di riequilibrio da adottarsi, ai sensi dell’art. 1, c. 15, d.l. n. 35/2013 cit., entro sessanta giorni dalla concessione dell’anticipazione da parte della Cassa depositi e prestiti che è stata effettivamente formalizzata con contratto sottoscrit-to in data 25 giugno 2013 (la data di scadenza era, pertanto, il 24 agosto 2013). Il consiglio comunale è stato poi sciolto a seguito delle dimissioni rassegnate da più della metà dei consiglieri in carica, con effetto dall’1 ottobre 2013.

Con nota del 17 aprile 2014 la commissione ex art. 155 Tuel, dando atto della mancata adozio-ne da parte del comune della modifica del piano di riequilibrio nel termine di sessanta giorni previsto dalla legge – omissione che ha considerato equiva-lente alla mancata presentazione del piano – ha ri-tenuto tale constatazione sufficiente all’arresto del procedimento istruttorio di sua competenza dando-ne, quindi, comunicazione alla sezione regionale di controllo. Il presidente della sezione, con ordinanza dell’8 maggio 2014, n. 35 ha disposto il deferimento alla medesima sezione regionale per deliberare sulla conclusione istruttoria appena ricordata e specifica-mente sulla effettiva riconducibilità del mancato ri-spetto del termine in questione alla fattispecie della mancata presentazione del piano nei termini di legge ed eventualmente concludere il procedimento con espressa pronuncia, dando avvio ai provvedimenti ex art. 243-quater, c. 7.

Nelle more dei surriferiti tempi procedimentali, il commissario straordinario del Comune di Casa-micciola Terme, in data 22 maggio 2014, ha adotta-to la deliberazione di modifica e riapprovazione del piano di riequilibrio finanziario pluriennale ai sensi dell’art. 1, c. 15, d.l. n. 35/2013, ampiamente tardiva, quindi, in quanto intervenuta nove mesi dopo la sca-denza del termine di legge.

In punto di diritto la sezione remittente rileva la non chiara formulazione del testo normativo in esa-me da cui non evincendosi, “inequivocabilmente, che il mancato rispetto del termine di cui all’art. 1, c. 15, d.l. n. 35/2013 cit., (…) comporta le medesime conseguenze della mancata presentazione del piano

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di cui all’art. 243-quater, c. 7, Tuel”, formula i que-siti di seguito ricapitolati.

In particolare la Sezione campana pone una que-stione principale e, poi, scrutinando le possibili solu-zioni alternative, prospetta altre questioni correlate.

La prima affronta il problema se il termine di cui all’art. 1, c. 15, d.l. 8 aprile 2013, n. 35, convertito con modificazioni dalla l. 6 giugno 2013, n. 64 se-condo cui “Gli enti locali che abbiano deliberato il ricorso alla procedura di riequilibrio finanziario plu-riennale di cui all’art. 243-bis d.l. 18 agosto 2000, n. 267, che richiedono l’anticipazione di liquidità di cui al c. 13, sono tenuti alla corrispondente modifica del piano di riequilibrio, da adottarsi obbligatoria-mente entro sessanta giorni dalla concessione della anticipazione da parte della Cassa depositi e prestiti s.p.a., ai sensi del c. 13”, debba essere considerato, o meno, perentorio alla stessa stregua di quello di cui all’art. 243-bis, c. 5, Tuel (termine perentorio di novanta giorni dalla esecutività della delibera di ricorso alla procedura, entro il quale deliberare il piano di riequilibrio). A tale assimilazione condur-rebbe il fatto che il nuovo termine non sarebbe altro che la previsione eccezionale di un differimento del termine perentorio di cui all’art. 243-bis, c. 5, cit., ragione per cui non può che essergli riconosciuta la medesima natura, con la conseguenza che, in caso di mancato rispetto del medesimo, troverà applicazione l’art. 243-quater, c. 7, Tuel e cioè l’avvio della pro-cedura per la dichiarazione di dissesto finanziario ex art. 244 Tuel.

Le questioni correlate originano, invece, dall’e-ventualità di ritenere non perentorio il nuovo termi-ne, per cui si pone la necessità di chiarire:

a) se la commissione di cui all’art. 155 Tuel, in assenza della modifica del piano entro il predetto ter-mine, debba, comunque, avviare l’istruttoria sul pia-no originariamente presentato, valutando la modifica (“obbligatoria”) come condizione di ammissibilità alla procedura ovvero di efficacia del piano di rie-quilibrio, con la conseguenza che, in assenza di tale presupposto, dovrebbe dichiarare l’inammissibilità del piano, così che anche in questi casi, troverebbe applicazione l’art. 243-quater, c. 7, Tuel;

b) se il consiglio comunale o, eventualmente, il commissario straordinario in caso di scioglimento degli organi ordinari, possa adottare la modifica del piano di cui all’art. 1, c. 15, d.l. n. 35/2013 cit., anche oltre il termine previsto, ovvero se lo stesso termi-ne vada interpretato come “termine di decadenza” e, quindi, oltre detto termine (sessanta giorni dopo la concessione dell’anticipazione di liquidità) sia

interdetta la possibilità di modificare il piano origi-nariamente presentato. Nel caso in cui si ritenesse preclusa all’ente la modifica del piano e, conseguen-temente, irricevibile la modifica tardiva, si porrebbe comunque la sub questione di cui al punto a), e cioè se la commissione debba, o meno, avviare l’istrutto-ria sul piano originariamente presentato, con le con-seguenze di cui al medesimo punto a) da intendersi qui integralmente richiamate;

c) se la commissione di cui all’art. 155 Tuel, in presenza di una modifica intervenuta dopo la scaden-za dei predetti termini, debba avviare l’istruttoria sul piano “modificato” tardivamente e quale sia l’effetto nell’ordinamento giuridico della modifica tardiva, ove non si ritenga che il termine di cui al citato art. 1, c. 15, d.l. n. 35/2013 sia perentorio ovvero di de-cadenza.

Nella disamina delle possibili soluzioni la Sezio-ne campana accede, in prima istanza, ad un’interpre-tazione che asseconda la natura perentoria del ter-mine ex art. 1, c. 15, ritenendo che il nuovo termine per modificare il piano costituisca una sorta di ecce-zionale riapertura del termine legislativamente qua-lificato perentorio ex art. 243-bis, c. 5, e che, quindi, per una sorta di forza attrattiva ripeterebbe la stessa natura giuridica di quello. Dunque, scaduti i sessan-ta giorni per modificare il piano senza l’intervenuta prevista modifica, lo stesso, attesa l’ipotizzata pe-rentorietà del termine, potrebbe intendersi come non presentato e la commissione non dovrebbe procedere all’esame del merito, com’è avvenuto nel caso del Comune di Casamicciola, ma interessare la sezione regionale di controllo per la definitiva pronuncia sul-la mancata presentazione del piano.

Tuttavia la sezione regionale constata la non ine-quivocabilità del contenuto dispositivo della norma e valuta, in alternativa, la natura non perentoria del termine, che imporrebbe alla commissione ministe-riale di riprendere l’istruttoria allo spirare del termi-ne concesso all’ente per modificare il piano, ma con la prospettiva di una conclusione scontata della stes-sa istruttoria, in quanto il piano originario manche-rebbe di un elemento essenziale che lo renderebbe inammissibile od inefficace. Accedendo a tale ipotesi interpretativa annota la sezione, non può non con-statarsi che l’apposizione del termine non avrebbe senso vanificandosi la ragione della funzione solle-citatoria, come in effetti si verifica nel caso che ha originato la questione, dove la modifica del piano è intervenuta ben nove mesi dopo la scadenza del ter-mine di legge.

La sezione remittente vaglia, poi, l’idea che il

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termine sia di “decadenza” nel senso di limitare l’e-sercizio della facoltà di modifica del piano entro un tempo certo, che è quello stabilito dalla legge (ses-santa giorni dalla concessione dell’anticipazione da parte della Cassa depositi e prestiti) trascorso il quale la modifica non potrebbe più essere operata. In tal caso pur approdandosi a una diversa qualificazione della natura del termine, non cambierebbe il proble-ma concernente gli adempimenti successivi a cui sarebbe tenuta la commissione ministeriale che do-vrebbe esaminare il piano, ma con la stessa prospet-tiva di una decisione pregiudicata dalla mancanza di elementi presuntivamente essenziali all’ammissibili-tà e all’efficacia del piano di riequilibrio, come si è già più sopra accennato.

Si ipotizza, infine, che la modifica integri una condicio iuris sospensiva dell’efficacia della proce-dura di riequilibrio al cui mancato verificarsi conse-guirebbe un’inammissibilità del piano.

La sezione conclude il suo excursus esegetico avvalorato dall’analisi del contesto normativo e giu-risprudenziale di riferimento, accreditando, come soluzione più appropriata, quella di dover ritenere il termine in questione perentorio. Approdo interpreta-tivo cui la Sezione campana giunge anche per ragioni di conformità agli indirizzi di orientamento della Se-zione delle autonomie. In particolare si fa riferimen-to ai casi in cui, nell’esaminare questioni di massima incentrate su aspetti relativi alla natura dei termini, è stato sottolineato che la sequenza procedimentale scandita dai segmenti istruttori che compongono l’i-ter dell’esame e della decisione sul piano di riequili-brio, trova le ragioni della sua rigidità strutturale, sia negli interessi dei terzi coinvolti dalla modifica dei normali canoni civilistici che regolano i rapporti di credito-debito, sia nella necessità che una procedura di riequilibrio finalizzata ad evitare il dissesto, non sia diluita in una abnorme dilatazione delle sue fasi.

Considerato – La problematica esposta non risul-ta sia già stata oggetto di esame e decisione in sede di deliberazioni sui piani di riequilibrio per cui non sussistono contrasti interpretativi; peraltro, come ben evidenzia la Sezione campana, sono in corso di istruttoria alla commissione ministeriale ex art. 155 Tuel, numerosi piani di riequilibrio finanziario pre-sentati da comuni che hanno anche ottenuto anticipa-zioni di liquidità ai sensi delle surrichiamate norme. Considerato che, oggettivamente, la disposizione in argomento è espressa in una formulazione lacunosa, è ipotizzabile che le incertezze interpretative qui ri-assunte possano riproporsi in fattispecie simili, per cui l’individuazione di una soluzione alla questione

posta è utile a prevenire contrasti interpretativi. Tale ipotesi è quella contemplata dalla recente novella normativa introdotta dall’art. 33, c. 2, d.l. 24 giugno 2014, n. 91, convertito con modificazioni dalla l. 11 agosto 2014, n. 116, che ha modificato l’art. 6, c. 4, d.l. 10 ottobre 2012, n. 174, convertito con modifica-zioni dalla l. 7 dicembre 2012, n. 213, introducendo anche la finalità di prevenire, oltre che risolvere, i contrasti interpretativi nella funzione attribuita alla Sezione delle autonomie di emanare deliberazioni di orientamento per le attività di controllo e/o consul-tiva.

Venendo all’esame degli aspetti di merito va evi-denziato che dalla ricostruzione della vicenda ammi-nistrativa si evince che l’elemento di innesto della questione interpretativa è stata la determinazione assunta dalla commissione ministeriale di conside-rare il termine assegnato per la modifica del piano a seguito della concessione dell’anticipazione di liquidità, alla stessa stregua del termine perentorio stabilito dalla legge per la presentazione del piano; da cui la conseguente interruzione dell’istruttoria e l’interessamento della sezione regionale per le deter-minazioni successive al, ritenuto, mancato rispetto del termine, ai sensi dell’art. 243-quater, c. 7, Tuel.

La Sezione campana, oggettivamente vincolata sul piano cognitivo, funzionale alla propria decisio-ne, dal comportamento procedimentale assunto dalla commissione ministeriale, – inappropriato per quan-to si andrà a valutare – ha ritenuto che il punctum individuationis della questione esegetica fosse da ri-condurre alla qualificazione del termine ex art. 1, c. 15, d.l. n. 35/2013, da cui la corretta e puntuale rico-struzione degli orientamenti formatisi sull’argomen-to e la coerente conclusione nella formulazione della soluzione più appropriata. D’altra parte la previsione in una specifica procedura di un adempimento obbli-gatorio sprovvisto di misura in ipotesi di omissione necessita, comunque, di un inquadramento che lo giustifichi nel contesto strutturale.

La tematica appare, però, suscettibile di essere esaminata, principalmente, sotto un altro profilo es-senzialmente di natura sostanziale. Tale è quello che si prefigura se si va a valutare quali sono gli effetti concreti che l’anticipazione di liquidità determina sull’efficacia del piano di riequilibrio e ciò per po-ter decidere quali possano essere le conseguenze, sul piano del procedimento istruttorio in corso davanti alla commissione ministeriale, della mancata o tar-diva modifica e, quindi, quali riflessi si producano sull’istanza di esame del piano che innesta il proce-dimento in seno alla commissione ex art. 155 Tuel.

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La prima riflessione cade sulla finalità dell’anti-cipazione di liquidità, per coglierne la sua significan-za nel contesto delle complessive esigenze di riequi-librio finanziario dell’ente e, quindi, individuarne la collocazione nel contesto istruttorio e nella struttura procedimentale.

In proposito va subito evidenziato che ciò che caratterizza l’anticipazione è l’immissione di liqui-dità nel sistema gestionale per ricostituire le risorse di cassa necessarie agli enti territoriali per onorare i propri debiti; l’anticipazione di liquidità consente di far fronte a spese già finanziate e non può costituire il finanziamento di una nuova spesa. L’art. 3, c. 17, l. n. 350/2003, come sostituito dalla lett. a), c. 1, art. 75 d.lgs. 23 giugno 2011, n. 118, aggiunto dall’art. 1, c. 1, lett. aa), d.lgs. 10 agosto 2014, n. 126; dispone, infatti, che, agli effetti dell’art. 119, c. 6, Cost. non costituiscono indebitamento “le operazioni che non comportano risorse aggiuntive, ma consentono di superare entro il limite massimo stabilito dalla nor-mativa statale vigente, una momentanea carenza di liquidità e di effettuare spese per le quali è già previ-sta idonea copertura di bilancio”.

La peculiarità consiste nella previsione della re-stituzione rateale sino ad un massimo di 30 anni. Tale anticipazione consente di superare l’emergenza dei pagamenti dei debiti pregressi e si concretizza nel-la mera sostituzione dei soggetti creditori dell’ente (il Mef in luogo degli originari creditori) e non può costituire il finanziamento di una nuova spesa (in ter-mini: Sez. autonomie, n. 19/2014).

Quindi, la somma complessivamente anticipata può corrispondere esattamente ai debiti inseriti nel piano di riequilibrio oppure può essere inferiore te-nuto conto che non tutti i debiti al 31 dicembre 2012, (guardando al primo intervento normativo) hanno potuto trovare capienza nella dotazione del fondo ex art. 1, c. 10, d.l. n. 35/2013 o, quanto meno, non tutti entro i tempi di erogazione della prima tranche. Tali debiti, giova ripetere, hanno copertura nel bilancio; copertura che, verosimilmente, è stata prevista nel-la predisposizione dello stesso piano di riequilibrio prima che venisse in considerazione l’anticipazione della liquidità.

In sostanza la maggiore liquidità di cui l’ente dispone attraverso l’anticipazione non impatta sui fattori di squilibrio individuati nel piano ai sensi dell’art. 243-bis, c. 6, lett. b) Tuel che sono quelli già concretizzatisi nella storia amministrativa dell’ente e che la legge impone di rilevare puntualmente nel pia-no, ma sulla durata del graduale riequilibrio finanzia-rio previsto dal successivo c. 8 del medesimo artico-

lo. Infatti, la maggiore dilazione, in trenta anni, della restituzione del debito, che sul decennio del piano di riequilibrio pesa per un terzo rispetto all’ipotesi di ripiano senza la liquidità anticipata, consente di re-cuperare maggiore fluidità della gestione finanziaria, liberata più rapidamente dal peso dei debiti preesi-stenti, in misura totale o parziale, mentre la maggiore spesa per interessi, per la parte che cade nei dieci anni del piano, determinata da un allungamento del periodo di estinzione dei debiti è compensata dalle economie derivanti dalle minori risorse di bilancio da impiegare per ripianare il disavanzo.

Peraltro, l’importo dell’anticipazione concessa non genera effetti espansivi della capacità di spesa e non ha effetti sul risultato di amministrazione, ri-spetto al quale è neutralizzato per effetto dell’iscri-zione nei fondi vincolati dell’esercizio di accerta-mento dell’entrata per una somma pari all’importo dell’anticipazione assegnata destinato alla restitu-zione dell’anticipazione ottenuta (Sez. autonomie, n. 14/2013 per la materia analoga delle anticipazioni dal fondo di rotazione ex art. 243-ter Tuel).

Tutte ragioni quelle fin qui ricordate che vogliono porre in luce come la mancata modifica del piano, in seguito all’anticipazione di liquidità, non integra un vulnus sul piano della finalità di riequilibrio tale da giustificare, di per sé, l’inammissibilità del piano ove non sia modificato incorporando gli effetti dell’antici-pazione. L’inammissibilità, infatti, si configura quan-do manca un elemento che condiziona l’espletamento della valutazione istruttoria; nella materia in esame, dunque, si configurerebbe laddove la carenza ipotiz-zata impedisse la valutazione di merito circa la con-gruità del piano di risanamento. Per le ragioni appena esposte non ricorre tale situazione anche perché la congruenza delle misure pianificate per riequilibrare il bilancio dell’ente non può che essere rafforzata da una più fluida situazione di cassa che si realizza nei fatti anche nel caso in cui il piano non sia modificato.

Il maggior peso sulla gestione ordinaria è rap-presentato dagli oneri per la restituzione dell’anti-cipazione ottenuta e dall’adeguamento del fondo di svalutazione crediti di cui all’art. 6, c. 17, d.l. 6 lu-glio 2012, n. 95, convertito con modificazioni dalla l. 7 agosto 2012, n. 135 (relativi ai cinque esercizi finanziari successivi a quello in cui è stata concessa l’anticipazione che deve essere pari almeno al 30 per cento dei residui attivi di cui ai titoli primo e terzo dell’entrata aventi anzianità superiore a 5 anni, in-vece del 25 per cento stabilito in via generale dalla ricordata disposizione). Circostanze, queste, che po-tranno essere valutate in sede istruttoria.

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Tornando al piano di rilevanza strettamente pro-cedimentale per individuare la valenza della modifi-ca nel contesto istruttorio e nella struttura procedi-mentale, va detto che tale adempimento finalizzato a tener conto delle anticipazioni di liquidità incide sul contenuto minimo del piano quale definito dall’art. 243-bis, c. 6. Detta disposizione prevede che il piano di riequilibrio finanziario (…) deve, comunque, con-tenere (…) tra l’altro, la puntuale ricognizione dei fattori di squilibrio, dell’eventuale disavanzo di am-ministrazione, dei debiti fuori bilancio e l’indicazio-ne per ciascuno degli anni del piano di riequilibrio della percentuale di ripiano del disavanzo da assicu-rare e degli importi previsti o da prevedere nei bilan-ci per il finanziamento dei debiti fuori bilancio. L’u-tilizzazione della maggiore liquidità costituita dalle anticipazioni va a incidere su questi aspetti del piano che sono tra quelli sui quali la commissione mini-steriale, prima, e la sezione regionale di controllo, poi, ciascuno per la sua competenza, conducono le proprie valutazioni: istruttorie, la commissione, co-gnitive e decisionali, la sezione. Conferma di quanto appena considerato si trae anche da quanto dispone l’art. 43, c. 1, d.l. 12 settembre 2014, n. 133 in ma-teria di utilizzo del fondo di rotazione di cui all’art. 243-ter Tuel, che considera dette risorse come una delle misure di cui all’art. 243-bis, c. 6, lett. c) del predetto t.u., utilizzabili ai fini del ripiano del disa-vanzo di amministrazione e per il finanziamento dei debiti fuori bilancio.

La regolamentazione sul contenuto minimo del piano di riequilibrio pluriennale, di cui all’art. 243-bis, c. 6, Tuel, contiene prescrizioni la cui eventua-le carenza non determina effetti sull’iter procedi-mentale, meno che mai quelli riconducibili all’art. 243-quater, c. 7, che rappresentano fattispecie legali tipiche (così definite in Sez. autonomie, n. 1/2013) – che, ovviamente, perderebbero tale connotazione se se ne estendesse la portata – ma solo sulle valutazio-ni istruttorie e decisionali come poco sopra ricordato. In altri termini l’art. 1, c. 15, d.l. n. 35/2013, nel pre-vedere l’obbligo per l’ente che abbia ottenuto l’anti-cipazione, di modificare il piano, opera un’implicita integrazione delle disposizioni contenute nell’art. 243-bis, c. 6, nel senso di ritenere rilevanti, ai fini del giudizio di congruenza questi elementi nuovi so-pravvenuti. Ma tale rilevanza non arriva fino al punto di considerare la carenza di tali elementi condizione assoluta di inammissibilità del piano, così come non lo sono le altre previsioni della stessa norma. Vale anche considerare che se si ritenesse equivalente la mancata modifica del piano alla mancata presenta-zione, visto che in quest’ultimo caso scatta la proce-

dura di dissesto, si avrebbe la situazione paradossale che un ente nel momento in cui dispone di maggiore liquidità, – superando, quindi, una delle due condi-zioni che ai sensi dell’art. 244 Tuel integrano il pre-supposto giuridico del dissesto e cioè la illiquidità dell’ente – per un inadempimento di carattere pre-valentemente formale, sarebbe costretto a dichiarare il dissesto.

In sostanza la locuzione contenuta nell’art. 1, c. 15, d.l. n. 35/2013 secondo la quale gli enti (…) sono tenuti alla corrispondente modifica del piano trova la sua ratio in un’esigenza istruttoria che è quella di implementare il programma di risanamento a miglior sostegno della congruenza delle previsioni, il tutto anche nell’interesse dell’ente che presenta il piano, tenuto conto che l’impiego della liquidità, come già detto, non può che alleggerire l’impatto finanziario del piano sulla gestione amministrativa.

Il riflesso sul piano formale-procedimentale è che il termine di sessanta giorni stabilito dalla legge ha natura di termine sollecitatorio che delimita gli ef-fetti di una condizione legale di sospensione dell’i-ter istruttorio, alla cui scadenza riprende il cammino procedimentale allo stato degli atti e, cioè, anche te-nendo conto della mancata modifica del piano. L’ob-bligo codificato dalla norma: “da adottarsi obbliga-toriamente entro il termine di sessanta giorni dalla concessione dell’anticipazione” si riferisce al tempo massimo concesso per l’adempimento e, conseguen-temente, tempo massimo di sospensione del procedi-mento istruttorio, ma non al compito di modificare il piano. Naturalmente in considerazione del fatto che la procedura di riequilibrio finanziario è cadenzata da termini, alcuni perentori, imposti all’ente locale a presidio di interessi pubblici di rilievo primario (Sez. autonomie, n. 11/2013), è necessario assicurare il rigoroso rispetto dei suddetti termini, esigenza che viene presidiata da una “reazione” procedimentale. Nell’individuare tale reazione è senz’altro condivisi-bile l’ipotesi formulata dalla sezione remittente che vede nell’inutile decorso del termine assegnato per modificare il piano l’effetto della decadenza dalla possibilità di provvedervi tardivamente. Di conse-guenza la commissione ministeriale non deve consi-derare l’eventuale inadempimento della modifica del piano alla stregua di una mancata presentazione dello stesso, ma solo un elemento di valutazione istruttoria nel complessivo contesto del progetto di risanamen-to, in sede di relazione finale ex art. 243-quater Tuel ed in tal modo prospettata alla sezione regionale di controllo.

Con il descritto modus operandi la sequenza dei

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segmenti procedimentali e il rispetto dei termini ca-denzati dalla disciplina normativa, non subiscono al-terazioni o dilatazioni improprie oltre quelle stabilite dalla novella normativa.

Le argomentazioni fin qui svolte portano a ritene-re che l’inutile decorso del termine di cui all’art. 1, c. 15, d.l. n. 35/2013 non equivale all’ipotesi di man-cata presentazione del piano contemplata dall’art. 243-quater, c. 7, Tuel. La norma nel prescrivere la modifica del piano per gli enti che richiedono l’anti-cipazione di liquidità di cui al c. 13 dello stesso arti-colo, introduce una condizione legale di sospensione del decorso del termine assegnato dall’art. 243-qua-ter, c. 1, alla commissione ministeriale, per il tem-po di sessanta giorni decorrenti dalla concessione dell’anticipazione; il procedimento sospeso riprende il suo corso una volta spirato detto termine con il completamento, da parte della commissione di cui all’art. 155 Tuel, della necessaria istruttoria condotta sull’originario piano di riequilibrio. La mancata mo-difica del piano, una volta decorso il predetto termi-ne non integra una condizione di inammissibilità, ma determina la decadenza dalla possibilità di provve-dervi, per cui non è ammessa una modifica del piano oltre il termine di legge.

A completamento della disamina della comples-siva vicenda relativa alla mancata modifica del pia-no di riequilibrio nei sensi fin qui trattati, non si può omettere un’ulteriore considerazione che prescinde dalle questioni poste dalla sezione remittente. Infatti, l’aver individuato le conseguenze del mancato adem-pimento istruttorio previsto dall’art. 1, c. 15, d.l. n. 35/2013 sul piano formale-procedimentale, non fa venir meno l’opportunità di considerare i riflessi di tale evenienza sul piano sostanziale del programma di riequilibrio e delle valutazioni di congruenza dello stesso. Fermo restando che la commissione ex art. 155 Tuel una volta decorso il termine per modificare il piano, prosegue la sua istruttoria sul piano origina-riamente presentato e redige la relazione finale sul-la base delle valutazioni che trae dalle previsioni di quel programma di risanamento, rimane il fatto che le maggiori disponibilità liquide a prescindere dalle vicende del piano di riequilibrio, una volta ottenu-te devono essere spese e deve cominciare il piano di restituzione; in pratica l’anticipazione di liquidità produce effetti scontati sulla gestione del bilancio e, più in generale, sulla programmazione – si pensi alla diversa entità del fondo svalutazione crediti – a pre-scindere dal percorso di riequilibrio che sicuramente li incorpora ma non ne è direttamente condizionato. Di tali evidenze la sezione regionale di controllo deve

tenere conto in conformità all’orientamento espresso nella delib. Sez. autonomie, n. 22/2013, nella quale si afferma che “la sezione regionale di controllo se, ai fini della formulazione del giudizio conclusivo sul piano di riequilibrio, dovesse ravvisare anche alla luce dei criteri e dei parametri delle linee guida ex art. 243-quater Tuel, la necessità di approfondimen-ti cognitivi necessari a rendere esplicito e chiaro il valore della congruenza, ai fini di riequilibrio, delle misure riportate nel piano, in ciò non può ritenersi pregiudicata dalle risultanze istruttorie rassegnate nella relazione finale della commissione, disponendo degli ordinari poteri cognitivi ed istruttori propri”.

P.q.m., alla questione interpretativo-applicativa riassunta in premessa, concernente l’interpretazione della natura del termine di cui all’art. 1, c. 15, d.l. n. 35/2013, è data soluzione nei seguenti termini: l’inu-tile decorso del termine di cui all’art. 1, c. 15, d.l. n. 35/2013 non equivale all’ipotesi di mancata presen-tazione del piano contemplata dall’art. 243-quater, c. 7, Tuel. Il predetto c. 15, nel prescrivere la modifica del piano per gli enti che richiedono l’anticipazione di liquidità di cui al c. 13 dello stesso articolo, in-troduce una condizione legale di sospensione, per la durata di sessanta giorni decorrenti dalla concessio-ne dell’anticipazione, del decorso del termine asse-gnato alla commissione ministeriale dal c. 1 dell’art. 243-quater; il procedimento sospeso riprende il suo corso una volta spirato detto termine con il comple-tamento, da parte della commissione di cui all’art. 155 Tuel, della necessaria istruttoria condotta sull’o-riginario piano di riequilibrio. La mancata modifica del piano, una volta decorso il predetto termine non integra una condizione d’inammissibilità, ma deter-mina la decadenza dalla possibilità di provvedere al riguardo, per cui non è consentita una modifica del piano oltre il termine di legge.

23 – Sezione delle autonomie; deliberazione 3 otto-bre 2014; Pres. Falcucci, Est. Ferone; Comune di Lusciano.

Contabilità regionale e degli enti locali – Comune e provincia – Anticipazioni di tesoreria – Li-mite massimo – Rapporto tra anticipazioni e restituzioni – Modalità di calcolo.

D.lgs. 18 agosto 2000 n. 267, t.u. delle leggi sull’or-dinamento degli enti locali, artt. 195, 222.

Per gli enti locali, il limite massimo delle antici-pazioni di tesoreria deve ritenersi fissato nella misu-ra dei tre dodicesimi delle entrate correnti accertate

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nel penultimo anno precedente al saldo e si determi-na tenendo comunque conto, in modo costante, del saldo tra anticipazioni ottenute e restituzioni inter-venute.

Premesso – 1. La questione di massima sulla qua-le la Sezione delle autonomie è chiamata a pronun-ciarsi attiene al criterio di computo del limite all’an-ticipazione di tesoreria previsto dall’art. 222, c. 1, Tuel che recita: “1) Il tesoriere, su richiesta dell’ente corredata dalla deliberazione della giunta, concede allo stesso anticipazioni di tesoreria, entro il limite massimo dei tre dodicesimi delle entrate accertate nel penultimo anno precedente, afferenti per i comu-ni, le province, le città metropolitane e le unioni di comuni ai primi tre titoli di entrata del bilancio e per le comunità montane ai primi due titoli”.

In punto di fatto va riferito che in sede di con-trollo sui dati di rendiconto dell’esercizio finanziario 2012 ai sensi dell’art. 1, cc. 166 ss., l. 23 dicembre 2005, n. 266, il Comune di Lusciano (CE) è stato de-ferito in udienza pubblica su varie questioni afferenti al predetto documento, tra cui il costante ricorso alle anticipazioni di tesoreria.

Avviata l’istruttoria e instaurato il contraddittorio sull’eventuale violazione del limite di cui all’art. 222 Tuel, l’ente affermava di avere ritenuto non violato il limite dell’art. 222 Tuel, poiché, il tesoriere, nel momento in cui concedeva l’anticipazione, verifi-cava sistematicamente che, “a saldo” dei reciproci rapporti di dare e avere, non fosse stato superato il ridetto limite quantitativo (ex art. 222 Tuel, pari ai tre dodicesimi delle entrate correnti rendicontate nel 2010). In termini nominali il limite delle anticipazio-ni risultava dimostrato nei dati riportati nel questio-nario predisposto per la rilevazione dei dati da rendi-conto significativi ai fini della relazione dei revisori dei conti, ai sensi delle già richiamate disposizioni.

In punto di diritto la sezione remittente pone la questione se il limite di cui all’art. 222 Tuel vada applicato al totale delle anticipazioni richieste e ot-tenute, per cassa, nel corso dell’esercizio finanziario (quindi tenendo conto solo delle utilizzazioni e non dell’eventuale periodica, totale o parziale, ricostitu-zione del plafond, mediante continue o sporadiche restituzioni) registrate in incasso sul titolo V ovvero vada rapportato, in modo costante, al saldo tra anti-cipazioni e restituzioni, per cassa, ritenendo che lo stesso limite si riferisca al “fido” massimo accorda-bile dal tesoriere.

Il quesito posto dalla sezione remittente è, per-tanto, il seguente:

“Se il limite cumulativo dell’art. 222 Tuel (aven-te a oggetto tanto le anticipazioni di tesoreria che le entrate a specifica destinazione di cui all’art. 195 Tuel) si traduca in un limite al ‘fido’ accordabile dal tesoriere, ovvero, se costituisca un limite sul totale delle somme complessivamente anticipabili dallo stesso, senza tenere conto delle restituzioni medio tempore intervenute”.

2. Le opzioni interpretative della sezione remit-tente.

2.1. La sezione remittente propone due soluzioni. La prima secondo la quale il tesoriere è tenuto a vi-gilare sull’osservanza del limite computando il totale delle utilizzazioni (quindi delle richieste di anticipa-zione accordate), senza tenere conto delle eventuali intermedie restituzioni. A sostegno di tale tesi depor-rebbero le seguenti argomentazioni:

a) il carattere derogatorio della disciplina rispetto alla costituzionale golden rule (art. 119, c. 6, Cost.), impone un’interpretazione rigorosa dei limiti di legge, in sintonia con la voluntas legis di limitare o escludere ogni ricorso agli impieghi di intermediari creditizi per il finanziamento della spesa corrente;

b) la lettura sistematica della disposizione sull’anticipazione di tesoreria con l’art. 205-bis Tuel (introdotto con il c. 68, lett. c, l. 31 dicembre 2004, n. 311) che disciplina l’apertura di credito in conto corrente, con funzione di finanziamento di un’opera;

c) il principio contabile n. 2, punto 60, per cui per “per le anticipazioni di tesoreria, l’impegno è assun-to in misura corrispondente all’ammontare massimo dell’anticipazione utilizzata nell’esercizio finanzia-rio di riferimento”;

d) la valorizzazione del ruolo del consiglio co-munale come organo di controllo e di indirizzo poli-tico-amministrativo che si esprime nel contenimento dell’azione della giunta tenuta a rispettare il limite ex art. 222 Tuel con un corrispondente stanziamento di bilancio sul titolo V, superato il quale sarebbe neces-sario procedere a un riconoscimento di debito fuori bilancio, ai sensi dell’art. 194, lett. e);

e) la possibilità di verificare agevolmente, dal rendiconto della gestione ex art. 227 Tuel, il rispetto di tale limite;

f) alcuni recenti, concordi, precedenti giurispru-denziali di questa Corte, in sede giurisdizionale, segnatamente la Sez. giur. reg. Veneto, 29 gennaio 2014, n. 36 e Sez. giur. reg. Calabria, 15 aprile 2014, n. 139.

2.2. La seconda tesi, meno restrittiva, identifica l’oggetto del limite nel fido concedibile e non nella somma delle anticipazioni complessivamente corri-

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sposte. Infatti, sostiene la Sezione campana, l’anti-cipazione di tesoreria si realizza nella forma tecnica dell’apertura di credito in conto corrente, sia pure contenuta entro limiti temporali e quantitativi preci-si; forma tecnica la cui struttura non poteva non esse-re presente al legislatore quando ha istituito il limite di cui all’art. 222 Tuel. Depongono, in questo senso, i seguenti argomenti:

a) l’esistenza della regola costituzionale contenu-ta nell’art. 119, c. 6, Cost. impedisce interpretazioni analogiche, non interpretazioni flessibili e sistema-tiche delle sue eccezioni (anticipazioni di tesoreria entro il detto limite quantitativo);

b) poiché la norma istituisce un limite e un ob-bligo a carico del tesoriere e solo indirettamente a carico degli enti locali, si deve ritenere che il legi-slatore abbia inteso riferire l’oggetto di tale obbligo al contenuto tipico della forma tecnica attraverso cui l’anticipazione si realizza (ovvero il “fido” dell’anti-cipazione di credito in conto corrente), anche a pre-sidio di un valore essenziale dell’ordinamento, come la “certezza del diritto”;

c) in un’ottica sistematica, i recenti interventi normativi hanno cercato di ampliare le maglie del ri-corso all’anticipazione di tesoreria, con l’obiettivo di garantire la predetta efficacia della deroga (da ultimo c. 12 art. 12 d.l. n. 133/2013);

d) l’art. 205-bis Tuel disciplina una forma tecni-ca e positiva d’“indebitamento”, pertanto, i limiti ivi dettati non possono trovare ragion d’essere ed esten-sione nell’ambito di un’operazione, quale l’antici-pazione di tesoreria, che per definizione legislativa non serve a drenare “risorse aggiuntive” ma a porre rimedio a momentanee deficienze di cassa (art. 3, c. 17, legge finanziaria 2014);

e) il principio contabile n. 2, nella versione 2004, punto 57, sembrava slegare espressamente l’operati-vità del limite da ogni riferimento agli stanziamenti di competenza, agganciandolo solo alle dinamiche di cassa. L’attuale versione del principio contabile n. 2, punto 60, adottata nel 2009, non contraddice quella versione ed impone, a scopo di neutralità dell’antici-pazione sul bilancio, di contabilizzare gli importi, in perfetto parallelismo, tra accensione e utilizzo, ob-bligo di restituzione, accertamento e impegno;

f) anche se la violazione del detto limite non emerge direttamente dal bilancio di previsione e dal rendiconto, è compito del tesoriere e dell’organo di revisione, in sede di verifiche di cassa (cfr. artt. 223 ss., Tuel) far emergere il superamento della soglia di legge e segnalarlo alla magistratura di controllo, nell’ambito dei controlli previsti dalla legge.

Considerato – La sezione remittente, nelle linee argomentative svolte per individuare il contenuto e, quindi, i limiti applicativi dell’art. 222 Tuel, indaga con rigorosa puntualità i riferimenti costituzionali ed ordinamentali specifici, anche in termini comparati-vi, utili ad avvalorare le tesi esposte che si fondano, entrambe, sulla necessità di cogliere aliunde gli ele-menti logici necessari alla ricostruzione dell’effettiva portata dispositiva della norma. Il senso del vincolo quantitativo posto dalla norma deve, invece, essere colto, innanzitutto, in correlazione alla causa propria dell’istituto delle anticipazioni di tesoreria e poi va-lorizzato anche nell’ambito giuscontabilistico. Infat-ti, il limite indicato nell’art. 222 Tuel ha un duplice significato: uno che afferisce alla causa negoziale tipica e cioè alla funzione economica del contratto di finanziamento, l’altro che prende consistenza alla luce dei principi dell’ordinamento contabile ma che è del tutto ininfluente sul regolamento negoziale.

Tuttavia è necessaria una breve riflessione a più ampio raggio prima di soffermare l’attenzione su predetti concetti ed innanzitutto una preliminare puntualizzazione sistematica in base alla quale va osservato che l’art. 222 è collocato al capo IV, tito-lo V, del Tuel che detta disposizioni per il servizio di tesoreria, sotto la rubrica altre attività affidate al tesoriere dell’ente e cioè: la gestione dei titoli e dei valori, art. 221 e anticipazione di tesoreria, art. 222. Attività, queste, la cui funzione economica specifica non è dissimile da quella che rientra nel novero delle analoghe attività privatistiche e che, con riferimento all’art. 222, non appare poter far sistema, come pro-pone la sezione remittente per illustrare la soluzio-ne più restrittiva, con l’art. 205-bis, che è collocato nel titolo IV che disciplina gli investimenti. Questo significa anche che non è improprio che nell’analiz-zare i contenuti delle disposizioni ad esse riferite, si tengano presenti i contenuti tipici civilistici dei con-tratti con analoga causa. Nel caso in esame l’interes-se è limitato solo all’art. 222.

Venendo ora a trattare dei significati del limite quantitativo ed in particolare quello ritenuto nego-ziale, va soffermata l’attenzione sul fatto che dal te-nore letterale della norma si rilevano due elementi fattuali che caratterizzano l’attività di anticipazione e, dunque, gli accordi contrattuali, vale a dire: la rei-terabilità delle richieste “Il tesoriere (…) concede anticipazioni di tesoreria” e poi il limite oltre il quale la richiesta non è proponibile. Il punto focale, ai fini che ne occupa, è rappresentato da questa seconda condizione che, in sostanza, integra una clausola le-gale automaticamente inserita nel contratto di tesore-

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ria e che vincola il tesoriere quanto l’ente, con la dif-ferenza che per il tesoriere non crea a suo carico uno specifico obbligo contrattuale, ma solo la facoltà di potersi legittimamente astenere dal dare esecuzione ad un’eventuale richiesta esorbitante il ridetto limi-te, in quanto tale adempimento non troverebbe vin-colo e, conseguente, responsabilità nella disciplina contrattuale. L’ente, invece, è direttamente vincolato nell’esecuzione del contratto, nell’ottica della sana gestione finanziaria, ad attenersi alla clausola legale.

Quindi sotto questo primo profilo si può conclu-dere che il limite dei tre dodicesimi delle entrate ac-certate nel penultimo anno precedente, rappresenta un elemento della struttura negoziale del contratto di finanziamento ed in tal senso il suo significato è, per così dire, autoconsistente limitandosi ad indicare la soglia del valore delle prestazioni alle quali è con-trattualmente tenuto il tesoriere.

L’illustrazione del secondo significato è condotta con il criterio di cogliere la proiezione della specifica disciplina normativa contenuta nell’art. 222 Tuel, sul piano dei principi dell’ordinamento contabile.

In proposito deve considerarsi che i suddetti ele-menti contenutistici dell’anticipazione di tesoreria: la reiterabilità delle richieste e il limite quantitativo, trovano fondamento in fattori incidenti sulla rego-larità della gestione, altrimenti non avrebbe senso il contesto normativo nel quale la norma è inserita. Ma questo, giova ribadirlo, non snatura la funzio-ne tipica dell’attività. Il primo e cioè la pluralità di richieste, risponde all’esigenza dell’ente di dover adempiere con tempestività alle proprie obbligazio-ni; obbligo rispetto al quale la carenza di liquidità non giustifica l’inadempimento secondo la regola del genus numquam perit. Dunque, ogni qual vol-ta in corso di esercizio si determina una situazione di illiquidità temporanea, l’ente può fare ricorso al servizio di tesoreria per ottenere anticipazioni, atti-vando il relativo contratto allo scopo specifico stipu-lato. È appena il caso di aggiungere, per completare l’illustrazione di tale aspetto funzionale dell’attività di anticipazione, che la tempestività dei pagamenti nella legislazione recente d.l. n. 66/2014, converti-to con modificazioni dalla l. 23 giugno 2014, n. 89 (artt. 27 e 41) costituisce una priorità della regolarità delle gestioni al punto da prevedere responsabilità dirigenziali e disciplinari (art. 27, c. 8) e vincoli alle gestioni (art. 41, c. 2) nonché integrare condizione per la riduzione degli obiettivi del patto di stabilità interno (art. 41, c. 3) a seconda del rispetto o meno dei tempi di pagamento. Proprio in quest’ottica, è diventata prassi normativa, soprattutto negli ultimi

tempi, a ragione delle continue modifiche al sistema di finanziamento degli enti locali che hanno deter-minato vuoti di liquidità, di colmare tali vuoti au-mentando il limite delle anticipazioni, sia pure cir-coscritto temporalmente, così come ricordato anche dalla sezione remittente. Questo porta ad una prima conclusione che la reiterabilità delle richieste costi-tuisce il riflesso diretto della circostanza che la ca-renza di liquidità non è predeterminabile, né stima-bile con largo anticipo ma può ripresentarsi più volte in corso di esercizio e soprattutto di diversa entità, così come il rientro dalla condizione di momentanea illiquidità può ripetersi più volte durante l’esercizio e per diversa entità. Situazione, questa, che con il livello di autonomia finanziaria raggiunto ora dagli enti territoriali, quantificabile in una misura media di circa il 70 per cento di entrate correnti proprie, e con la conseguente maggiore esposizione al rischio di difficoltà nella riscossione delle medesime entrate, va assumendo carattere di particolare criticità. Que-sto rischio è dedotto nel contratto di anticipazione con il tesoriere la cui causa tipica è quella di “porre rimedio ad eccessi diacronici tra i flussi di entrata e quelli di spesa” (Corte cost. n. 188/2014) attraverso un finanziamento a breve termine. È evidente che gli eccessi diacronici che determinano la precarietà del-la situazione di cassa possono raggiungere, come già considerato, livelli di intensità tali da poter assorbire anche non in corso avanzato d’esercizio, una gran parte del limite dell’anticipazione e rientrare a breve termine – come dovrebbe verificarsi in un’ordinata e attenta gestione – per il miglioramento degli incassi e magari ripresentarsi successivamente. Il tutto alla stessa stregua di quanto accade nei cosiddetti con-tratti di fido bancario. In sostanza, non si intravvedo-no ragioni peculiari per cui nell’ambito delle pubbli-che gestioni la causa del contratto di finanziamento a breve termine, alla quale è riconducibile l’antici-pazione di tesoreria, debba essere limitata nella sua tipica funzione economica che è quella di assicurare per un certo tempo determinato, l’intero esercizio, disponibilità liquide entro un tetto prestabilito a pre-scindere dal numero delle prestazioni oggetto del regolamento contrattuale. La Corte costituzionale, come già ricordato, ha individuato la specifica causa contrattuale come quella “nella quale si combinano la funzione di finanziamento con quella di raziona-lizzazione dello sfasamento temporale tra flussi di spesa e di entrata, attraverso un rapporto di finanzia-mento a breve termine tra ente pubblico e tesoriere” (Corte cost., n. 188/2014).

Quindi fermo restando che la causa economica del contratto di finanziamento è da ricondursi a quel-

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la appena ricordata, la ragione del limite, alla luce dei ricordati principi dell’ordinamento contabile, è quella, ovvia, di proporzionare il debito al livello di autosufficienza finanziaria accertata nel penultimo esercizio. Continuando nel parallelismo con gli isti-tuti di diritto comune si tratta di un implicito criterio fisso di stima della sostenibilità finanziaria dell’espo-sizione debitoria, che si fonda sulla consistenza dei risultati certi relativi al livello di accertamenti delle entrate.

Rispettato tale limite non c’è motivo di limitare l’utilizzabilità dell’anticipazione se l’ente attraverso il rientro dal finanziamento già utilizzato, ricostitui-sce il plafond disponibile. In sostanza il corretto uti-lizzo delle anticipazioni rende irrilevante il metodo di computo del limite; ritenere che il diverso criterio del calcolo del limite dell’anticipazione possa ga-rantire l’uso corretto della stessa, non sembra avere concreti appigli logici.

Peraltro, individuare nel criterio restrittivo del computo del limite all’anticipazione di tesoreria un succedaneo alle regole di salvaguardia degli equilibri di bilancio, come ricordato dalla sezione remittente in alcune pronunce delle sezioni regionali: “impedire all’ente locale un indebitamento in termini di cassa oltre le sue reali capacità debitorie, dunque oltre la possibilità di ripianare il prestito senza compromet-tere la stabilità e l’equilibrio strutturale del suo bi-lancio di cassa”, significa alterare il sistema deline-ato dall’ordinamento contabile che affida ad altri e numerosi specifici istituti la salvaguardia di tutti gli equilibri.

Il frequente ricorso alle anticipazioni di tesoreria può essere, invece, sintomo di una precarietà degli equilibri strutturali di bilancio, soprattutto quando il ricorso all’istituto prescinde dai momenti topici della gestione ordinaria nei quali sono maggiori i rischi di illiquidità. Ma tale evidenza non può andare oltre il suo significato sintomatico e giustificare, sul piano gestionale, l’adozione di misure necessarie a ripri-stinare ottimali condizioni di equilibrio e, in sede di controlli esterni, motivare un più attento monitorag-gio della gestione.

Le argomentazioni fin qui svolte conducono a ritenere, conclusivamente, che l’anticipazione di te-soreria costituisce attività regolata nel contratto di tesoreria la cui causa negoziale tipica di un finanzia-mento a breve termine è integrata nella sua funzione economica dalla clausola del limite quantitativo in-dicato dall’art. 222 Tuel. La disciplina negoziale è da ritenersi causalmente neutra rispetto ai motivi di una sana gestione finanziaria che impongono il ricorso

a tali risorse solo nel caso di momentanea illiquidi-tà. L’inosservanza di tali criteri e regole può rilevare come fatto sintomatico di una precarietà strutturale degli equilibri di bilancio che motivano gli altri ap-propriati interventi previsti dalla legge. Per le espo-ste ragioni il limite dell’art. 222 Tuel è da intendersi come limite al “fido” accordabile dal tesoriere, rap-portato, in modo costante, al saldo tra anticipazioni e restituzioni.

P.q.m., Alla questione interpretativo-applicativa riassunta in premessa, concernente il limite alla anti-cipazione di cassa previsto dall’art. 222 Tuel, è data soluzione nel senso che:

il limite massimo delle anticipazioni di tesoreria concedibili (avente ad oggetto tanto le anticipazioni di tesoreria che le entrate a specifica destinazione di cui all’art. 195 Tuel), fissato dall’art. 222 Tuel nella misura dei tre dodicesimi delle entrate correnti ac-certate nel penultimo anno precedente è da intendersi rapportato, in modo costante, al saldo tra anticipazio-ni e restituzioni medio tempore intervenute.

24 – Sezione delle autonomie; deliberazione 6 otto-bre 2014; Pres. Falcucci, Est. Franchi; Comune di Sanfrè.

Comune e provincia – Amministratori – Indenni-tà di carica – Obbligo di riduzione – Comuni interessati da variazioni demografiche in au-mento – Riduzione dell’indennità spettante agli amministratori – Modalità di calcolo.

L. 26 dicembre 2005 n. 266, disposizioni per la for-mazione del bilancio annuale e pluriennale dello Sta-to (legge finanziaria 2006), art. 1, c. 54.

Per i comuni interessati da variazioni demo-grafiche, la misura della diminuzione progressiva dell’indennità spettante agli amministratori deve essere determinata assumendo come base di calcolo l’ammontare della stessa indennità corrisponden-te alla collocazione del comune nella nuova classe demografica tra quelle contemplate dal vigente d.m. interno 4 aprile 2000 n. 119 (nella specie, si è ritenu-to che, a partire dall’anno 2013, la rideterminazione in riduzione nella misura del dieci per cento delle indennità, stabilita dalla legge finanziaria 2006, debba tenere conto degli importi aggiornati dell’in-dennità a seguito dell’aumento della popolazione del comune interessato).

Premesso – Con nota pervenuta per il tramite del consiglio delle autonomie locali del Piemonte in

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data 13 maggio 2014 il Comune di Sanfrè (CN) ha formulato alla Sezione regionale di controllo per il Piemonte una richiesta di parere in ordine alla cor-retta applicazione della vigente normativa in tema di determinazione della misura della indennità di fun-zione del sindaco e, segnatamente, in ordine alla pos-sibilità di rideterminare, in aumento, gli emolumenti già corrisposti in ragione dell’incremento demogra-fico medio tempore intervenuto.

In particolare, dopo aver evidenziato che l’attuale indennità mensile è stata calcolata avendo riguardo ai criteri fissati dal d.m. n. 119/2000 e in relazione alla dimensione demografica dell’ente come rilevata sino all’anno 2011 (seconda classe demografica, po-polazione da 1.001 a 3.000 abitanti), il comune istan-te, medio tempore transitato nella classe demografi-ca superiore (terza classe demografica, popolazione da 3.001 a 5.000 abitanti) ha chiesto di sapere se, a seguito delle elezioni amministrative del 25 maggio 2014, l’indennità da corrispondere al sindaco e agli assessori debba determinarsi sulla base della popo-lazione residente nel biennio precedente oppure non possa superare l’importo rideterminato in diminu-zione, conformemente al disposto di cui all’art. 1, c. 54, legge finanziaria 2006, e alla interpretazione resa dalle Sezioni riunite della Corte dei conti in sede di controllo con delib. n. 1/2012.

Scrutinati positivamente i profili di ricevibilità e di ammissibilità della richiesta – essendo la stes-sa pervenuta per il tramite del consiglio delle auto-nomie locali del Piemonte e risultando soddisfatti, nel caso di specie, i prescritti requisiti soggettivo e oggettivo – nel merito la Sezione regionale di con-trollo per il Piemonte, ha ritenuto di sospendere la decisione rilevando un contrasto interpretativo tra l’orientamento espresso dalle Sezioni riunite in sede di controllo con la pronuncia n. 1/2012 – applicabile al caso di specie – e le indicazioni rese dalla Sez. contr. reg. Veneto con la recente pronuncia n. 1/2014.

Richiamati i principi enunciati dalle Sezioni riu-nite in ordine alla latitudine applicativa della disci-plina vincolistica recata dall’art. 1, c. 54, legge fi-nanziaria 2006 e all’operatività del meccanismo di determinazione dei compensi previsto dalla stessa (riduzione del 10 per cento dei compensi di cui trat-tasi rispetto a quanto percepito dagli interessati al 30 settembre 2005) è stato, invero, rappresentato, come in una fattispecie analoga a quella oggetto di pare-re, la Sezione regionale di controllo per il Veneto sia pervenuta a conclusioni difformi.

Sotto tale profilo la Sezione regionale di controllo per il Piemonte ha precisato come la Sezione Veneto

con la citata pronuncia n. 1/2014, abbia sostenuto, tra l’altro, che “nelle more dell’adozione del nuovo decreto ministeriale con il quale troveranno applica-zione le riduzioni percentuali disposte dal citato art. 5, c. 7, d.l. n. 78/2010, l’adeguamento delle indennità spettanti al sindaco e agli assessori dovrà avvenire sulla scorta del criterio indicato dall’art. 156, c. 2, Tuel tenendo conto della popolazione residente al 31 dicembre del penultimo anno precedente a quello in corso”.

Di qui il prospettato contrasto interpretativo con i principi formulati dalle Sezioni riunite – alla stregua dei quali, a parere della sezione remittente, nessun ri-lievo potrebbe annettersi al dedotto incremento della popolazione – e la necessità di un indirizzo interpre-tativo univoco rispetto al quale assumerebbe, altresì, rilevanza, l’art. 1, c. 136, l. n. 56/2014 che, sebbe-ne non immediatamente riferibile alla questione di cui trattasi, è di recente, intervenuta, a porre nuovi vincoli in materia fissando un obbligo di invarianza della spesa per gli enti interessati da un aumento del numero di consiglieri ed assessori ai sensi del prece-dente c. 135.

A tal fine il presidente della Corte dei conti ha deferito la questione, ai sensi dell’art. 6, c. 4, d.l. n. 174/2012, alla Sezione delle autonomie.

Considerato – 1. La Sezione è chiamata a pronun-ciarsi in ordine alle modalità di calcolo dell’inden-nità mensile spettante al sindaco ed ai componenti della giunta comunale ed, in particolare, a precisare, se alla luce della vigente normativa, gli enti interes-sati da variazioni demografiche possano procedere, in applicazione del sistema tabellare di cui al d.m. n. 119/2000, alla rideterminazione degli emolumenti in parola ovvero se a ciò ostino il disposto di cui all’art. 1, c. 54, l. 23 dicembre 2005, n. 266 ed i principi formulati, ai sensi e per gli effetti dell’art. 17, c. 31, d.l. n. 78/2009 (Sez. riun., n. 1/2012).

Lo scrutinio della questione non può che prende-re le mosse dalla ricostruzione, ancorché sommaria, della normativa di interesse con riguardo al thema decidendum così delineato.

Come noto direttamente connessa allo status di amministratore locale è l’acquisizione di diritti di carattere economico che rinvengono fondamento nei principi sanciti dall’art. 51 Cost. nonché nell’art. 7 della Carta Europea dell’autonomia locale recepita nel nostro ordinamento con legge di ratifica 30 di-cembre 1989, n. 439 che, pur priva di immediato contenuto precettivo (cfr. Corte cost. n. 325/2010), si pone come parametro di riferimento per il legislatore e l’interprete.

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Tali principi hanno trovato positiva declinazione nell’articolata disciplina recata dall’art. 82 Tuel che assume, in questa prospettiva, indubbia valenza cen-trale.

Detta norma rileva, invero, sia per ciò che attiene alla individuazione dei soggetti cui compete la cor-responsione della indennità di funzione (cfr. c. 1 i cui contenuti vanno, peraltro, coordinati con quelli dei diversi provvedimenti normativi – da ultimo l. n. 56/2014 recante “Disposizioni sulle città metropoli-tane, sulle province, sulle unioni e fusioni di comu-ni” – che hanno modificato l’ordinamento delle isti-tuzioni locali e, per l’effetto, inciso lo status anche economico dei componenti degli organi di governo) sia per ciò che attiene alla misura della stessa che, a mente del c. 8, è determinata con decreto del Mini-stro dell’interno, di concerto con il Ministro del teso-ro, del bilancio e della programmazione economica.

Trattasi, in particolare, del d.m. dell’interno 4 aprile 2000, n. 119 che, già adottato in applicazio-ne della disciplina di cui all’art. 23 l. n. 265/1999 integralmente trasfusa nel menzionato c. 8 dell’art. 82, ha individuato una griglia di compensi tabella-ri differenziati prevalentemente in ragione delle di-mensioni demografiche degli enti – suddivisi in dieci classi – ed articolati in una componente di base fissa ed in una maggiorazione eventuale da corrispondere al ricorrere di determinati presupposti.

Lo stesso c. 10 del citato art. 82 prevede, peral-tro, meccanismi di adeguamento della misura della indennità mentre il c. 11, nella originaria formulazio-ne, prevedeva che gli emolumenti in parola potessero essere aumentati o diminuiti con idoneo atto delibe-rativo laddove risultassero verificate specifiche con-dizioni e, comunque, nell’ambito dei parametri indi-cati nel menzionato decreto ministeriale, in ossequio al principio di autonomia dell’ente locale.

Normative successive, in vista di un progressi-vo e sempre più significativo contenimento dei c.d. costi della politica, hanno eroso la disciplina recata dall’art. 82 Tuel la cui originaria formulazione è stata incisa da una pluralità di disposizioni che sono in-tervenute a porre vincoli, per un verso, riducendo la platea dei soggetti destinatari delle indennità, e per altro diminuendone progressivamente la misura (cfr. art. 1, c. 54, legge finanziaria 2006) ovvero preclu-dendone l’incremento (cfr. art. 2, c. 25, legge finan-ziaria 2008, artt. 61, c. 10, e 76, c. 2, d.l. n 112/2008).

Di qui il delinearsi di uno stratificato – e talora disorganico – corpus normativo che ha posto e conti-nua a porre delicate questioni di coordinamento e di coerenza sistematica anche in ragione del protrarsi

sine die di una sorta di regime transitorio, attesa la mancata adozione del d.m. previsto dall’art. 5, c. 7, d.l. n. 78/2010 con cui si sarebbe dovuto provvedere, riconducendo ad unità la congerie di norme regola-trici della materia, alla revisione degli importi tabel-lari previsti dal d.m. n. 119/2000.

2. In siffatto contesto va ad inscriversi la proble-matica all’esame della Sezione e le connesse que-stioni relative alla perdurante vigenza del sistema di riduzione delle indennità di cui all’art. 1, c. 54, l. n. 266/2005 (legge finanziaria 2006) ed alla incidenza dello stesso sul meccanismo tabellare di cui al d.m. n. 119/2000.

Come noto detta norma ha disposto, tra l’altro, che “per esigenze di coordinamento della finanza pubblica, sono rideterminati in riduzione nella mi-sura del dieci per cento rispetto all’ammontare ri-sultante alla data del 30 settembre 2005 i seguenti emolumenti: a) le indennità di funzione spettanti ai sindaci, ai presidenti delle province e delle regioni, ai presidenti delle comunità montane, ai presidenti dei consigli circoscrizionali, comunali, provinciali e regionali e delle comunità montane, ai componenti degli organi esecutivi e degli uffici di presidenza dei consigli dei citati enti.

Altrettanto note le questioni interpretative sorte, alla luce di sopravvenute normative vincolistiche e, segnatamente, del d.l. n. 112/2008, circa la latitudine applicativa di siffatta disposizione.

Sul punto è intervenuta, dapprima, la Sezione delle autonomie che con delib. n. 6/2010 ha eviden-ziato come, a seguito della entrata in vigore del d.l. n. 112/2008, convertito con modificazioni dalla l. n. 133/2008, dovesse, in applicazione del generale principio della successione nel tempo di fonti pari ordinate che regolano la medesima materia, ritenersi non più vigente la disposizione in esame.

Nel senso dell’intervenuta abrogazione della nor-ma – ritenuta priva di attualità alla luce dei vincoli e dei limiti di cui alla normativa sopravvenuta – si era-no, peraltro, espresse la Sezione di controllo per la Sardegna (parere n. 10/2008), la Sezione di controllo per la Toscana (parere n. 11/2007), la Sezione di con-trollo per la Basilicata (parere n. 26/2008) nonché, seppur con diverso percorso motivazionale, il Tar Lazio (cfr. sent. n. 4388/2011 con la quale la Sez. III ha evidenziato il carattere eccezionale e temporaneo della riduzione operata dall’art. 1 legge finanziaria 2006).

Tale orientamento è stato, tuttavia, rivisitato dalle Sez. riun. che con delib. n. 1/2012 – pronuncia resa ai sensi dell’art. 17, c. 31, d.l. n. 78/2010 – hanno rile-

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vato come “In mancanza di un limite temporale alla vigenza della predetta disposizione, limite peraltro contenuto in altre disposizioni analoghe della mede-sima legge finanziaria, il taglio operato può ritenersi strutturale, avente, cioè, un orizzonte temporale non limitato all’esercizio 2006” e come “tale interpreta-zione risulti condivisa sia dal Ministero dell’interno, dipartimento per gli affari interni e territoriali, e sia dal Ministero dell’economia e delle finanze, diparti-mento della Ragioneria generale dello Stato, i quali nei pareri forniti agli enti locali si sono espressi in tal senso”.

Disattesa, altresì, la tesi della abrogazione per incompatibilità posta a fondamento della pronun-cia della Sezione delle autonomie, le Sezioni riunite hanno ritenuto che “dal coordinamento delle dispo-sizioni contenute nella legge finanziaria 2006, con quelle successivamente intervenute in materia, emer-ge un quadro in base al quale gli importi spettanti agli interessati restano cristallizzati a quelli spettanti alla data di entrata in vigore del d.lgs. n. 112/2008, in quanto immodificabili in aumento a partire dalla predetta data”.

Coerentemente con le predette premesse le Se-zioni riunite, in punto di diritto, hanno precisato “che, all’attualità, l’ammontare delle indennità e dei gettoni di presenza spettanti agli amministrato-ri e agli organi politici delle regioni e degli enti lo-cali, non possa che essere quello in godimento alla data di entrata in vigore del citato d.l. n. 112/2008, cioè dell’importo rideterminato in diminuzione ai sensi della legge finanziaria 2006; ritengono altresì di richiamare come l’intera materia concernente il meccanismo di determinazione degli emolumenti all’esame è stata da ultimo rivista dall’art. 5, c. 7, d.l. n. 78/2010, convertito con modificazioni dalla l. n. 122/2010 che demanda ad un successivo d.m. dell’interno la revisione degli importi tabellari, ori-ginariamente contenuti nel d.m. 4 agosto 2000, n. 119 sulla base di parametri legati alla popolazione, in parte diversi da quelli originariamente previsti. Ad oggi, il decreto non risulta ancora approvato e deve pertanto ritenersi ancora vigente il precedente mec-canismo di determinazione dei compensi. Alla luce del quadro normativo richiamato e della ratio di rife-rimento, nonché di tutte le argomentazioni che pre-cedono, ritengono altresì queste Sezioni riunite che la disposizione di cui all’art. 1, c. 54, l. n. 266/2005 sia disposizione ancora vigente, in quanto ha pro-dotto un effetto incisivo sul calcolo delle indennità in questione che perdura ancora, e non può essere prospettata la possibilità di riespandere i valori delle

indennità così come erano prima della legge finan-ziaria 2006; ed essendo il d.l. n. 78/2010 finalizzato al contenimento della spesa pubblica, di tale vigenza dovrà tenersi altresì conto all’atto della ridetermina-zione degli importi tabellari dei compensi relativi, nel senso che quanto spettante ai singoli amministra-tori non potrà, in ogni caso, essere superiore a quanto attualmente percepito”.

I principi resi dalle Sezioni riunite sono stati pa-cificamente recepiti – anche in ragione dell’obbligo conformativo – dalle sezioni regionali di controllo che ne hanno fatto applicazione, soprattutto in sede consultiva, in modo rigoroso ritenendo il dictum del-le Sezioni riunite preclusivo di qualsivoglia incre-mento della misura delle indennità di funzione e dei gettoni di presenza.

Numerosi ed univoci i pareri resi in tal senso (cfr. ex pluribus, Sez. contr. reg. Toscana, n. 259/2012; Sez. contr. reg. Friuli-Venezia Giulia, n. 113/2014 e n. 114/2014).

Del resto la stessa pronuncia da cui origina la questione all’esame della Sezione delle autonomie pare muovere da siffatto assunto laddove la sezione remittente, per un verso, non riconnette alcuna rile-vanza alle “circostanze di fatto richiamate dall’ente in ordine all’incremento della popolazione rispetto all’obbligo di computare l’ammontare delle inden-nità spettanti agli amministratori degli enti locali ai sensi dell’art. 1, c. 554, l. 23 dicembre 2005, n. 266 ovvero rideterminando in riduzione nella misura del 10 per cento l’ammontare dei compensi percepiti al 30 settembre 2005” e, per altro, rileva un possibile contrasto interpretativo in relazione al parere reso dalla Sezione Veneto che, con delib. n. 1/2014, ha ri-tenuto ammissibili adeguamenti della indennità sulla scorta del criterio indicato dall’art. 156 Tuel.

Le conclusioni cui perviene la sezione remitten-te non appaiono, tuttavia, condivisibili pur dovendo rilevarsi come le coordinate interpretative rese dalle Sezioni riunite risultino ancora attuali.

Sotto tale ultimo profilo giova evidenziare come, in tal senso, deponga il quadro normativo già posto dall’organo nomofilattico a fondamento del proprio percorso argomentativo (cfr. in particolare, art. 61, c. 10, d.l. n. 112/2008, convertito con modificazio-ni dalla l. n. 133/2008 che ha sospeso la possibilità di adeguamento delle indennità previste dall’art. 82, c. 10, Tuel e art. 76, c. 3, della stessa legge che ha espunto la possibilità di incremento di cui al succes-sivo c. 11, art. 82) nonché la normativa sopravvenuta che, informata ad una logica di costante riduzione dei costi della rappresentanza politica, offre argomenti

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positivi a sostegno del carattere strutturale, e non meramente transitorio o eccezionale, delle riduzioni previste dall’art. 1, c. 54, legge finanziaria 2006.

Di rilievo, a tal riguardo, il disposto di cui all’art. 1, c. 136, l. n 56/2014 a mente del quale i comuni che versino nella ipotesi prevista dal precedente c. 135, ovvero l’aumento del numero dei consiglieri e del numero massimo di assessori, devono provvedere “a rideterminare con propri atti gli oneri connessi con le attività in materia di status degli amministratori locali, di cui al titolo III, capo IV, della parte prima del testo unico, al fine di assicurare l’invarianza della relativa spesa in rapporto alla legislazione vigente, previa specifica attestazione del collegio dei revisori dei conti”.

Detta disposizione, in una alle indicazioni rese dal Ministero dell’interno che ha evidenziato come l’applicazione della stessa debba tener conto delle esigenze di rafforzamento delle misure di conteni-mento e controllo della spesa, (cfr. nota prot. n. 6508 del 24 aprile 2014) appare, invero, significativa di una evoluzione normativa e di una tendenza univoca della legislazione in ragione della quale può ritenersi che l’effetto di sterilizzazione permanente del siste-ma di determinazione delle indennità e dei gettoni di presenza – richiamato dal Ministero dell’interno nel parere del 22 settembre 2010, corroborato dalla circolare n. 32 del 17 dicembre 2009 del Ministero dell’economia e delle finanze e recepito dalle Se-zioni riunite in sede di controllo con la pronuncia n. 1/2012 – sia ancora attuale e vigente.

Ne consegue la conferma delle indicazioni rese dalle Sezioni riunite con la citata pronuncia n. 1/2012.

Ciò nondimeno si ritiene che tali principi non possano considerarsi preclusivi dei meccanismi in-crementali previsti dal d.m. n. 119/2000 né che inci-dano sulla operatività degli stessi.

Analoghe considerazioni possono, peraltro, svol-gersi laddove l’ente per effetto di una riduzione della popolazione debba essere ascritto ad una classe de-mografica inferiore.

A tal riguardo si evidenzia, invero, come la di-sposizione di cui all’art. 1, c. 54, non rilevi con riferi-mento al meccanismo della determinazione tabellare per scaglioni previsto dal d.m. n. 119/2000, ancora vigente (in tal senso cfr. Sez. contr. reg. Lombardia, n. 35/2010).

Discende da ciò che, nel caso in cui l’ente locale medio tempore transiti in diversa classe demografi-ca, l’indennità – su cui operare la riduzione del 10 per cento – dovrà essere determinata in conformità

atteso, che la quantificazione dell’indennità degli amministratori, si configura quale antecedente giuri-dico e logico rispetto ad eventuali “rideterminazioni” degli importi tabellari dei compensi che, di contro, devono considerarsi non consentite.

Detta soluzione appare meritevole di apprezza-mento atteso che la stessa, pur non frustrando gli obiettivi di correzione e di risanamento dei conti di finanza pubblica sottesi alla normativa vigen-te, consente di contemperare le ragioni di parità di trattamento e di effettività dell’accesso alle funzioni pubbliche che informano il sistema tabellare di cui al menzionato regolamento.

Tale opzione interpretativa, d’altro canto, risul-ta coerente con le indicazioni fornite dal Ministe-ro dell’interno che, in sede di prima applicazione dell’art. 1, c. 54, legge finanziaria 2006, ebbe a preci-sare che qualora fosse stato rilevato ai sensi dell’art. 156 Tuel un aumento della popolazione dell’ente locale da comportare, dal gennaio 2006, un adegua-mento degli emolumenti agli importi tabellari relati-vi alla classe demografica superiore, la riduzione del 10 per cento andava applicata sugli importi aggior-nati (cfr. Ministero dell’interno, circolare 28 giugno 2006, n. 5).

Da ultimo non appare superfluo sottolineare come vertendosi in tema di discipline normative as-seritamente finalizzate al contenimento della spesa pubblica debba privilegiarsi un’applicazione non meramente formale delle stesse, avendo riguardo an-che a principi di sana gestione finanziaria.

Così se è indubbia la volontà del legislatore di attualizzare il più possibile il meccanismo di deter-minazione delle indennità in questione (cfr. Sez. auto-nomie n. 7/2010) parametrandone la misura a criteri strettamente correlati all’impegno che la carica con-ferita implica, è altrettanto indubbio che ogni decisio-ne, peraltro facoltativa, da cui deriva una rivisitazione di determinazioni già assunte ed un aumento di spesa debba essere adeguatamente ponderata sì da verifica-re se gli elementi di fatto posti a fondamento della stessa abbiano consistenza tale da assicurare l’osse-quio, anche sostanziale, della normativa vigente.

Correlativamente, laddove l’ente transiti in una classe demografica inferiore, senza indugio, dovran-no essere adottati gli opportuni provvedimenti per una rideterminazione, in riduzione, della indennità.

P.q.m., la questione di massima rimessa dalla Sez. contr. reg. Piemonte delib. n. 130/2014, come ricostruita in parte motiva, trova soluzione sulla base delle argomentazioni addotte, secondo il seguente criterio di orientamento:

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“la previsione di cui all’art. 1, c. 54, l. 26 dicem-bre 2005, n. 266 non incide sul meccanismo tabellare per scaglioni previsto dal d.m. n. 119/2000, ancora vigente, talché, nel caso in cui l’ente transiti in diver-sa classe demografica, l’indennità su cui operare la riduzione del 10 per cento dovrà essere determinata in conformità”.

26 – Sezione delle autonomie; deliberazione 21 otto-bre 2014; Pres. Squitieri, Est. Uccello; Comune di Barile.

Impiegato regionale e degli enti locali – Comune e provincia – Personale – Trattamento acces-sorio – Contenimento della spesa – Necessità – Risorse provenienti dai fondi per la contrat-tazione decentrata – Irrilevanza.

D.l. 31 maggio 2010 n. 78, convertito con modifica-zioni dalla l. 30 luglio 2010 n. 122, misure urgenti in materia di stabilizzazione finanziaria e di competiti-vità economica, art. 9.

Gli enti locali devono assoggettare alle vigenti misure di contenimento del trattamento accessorio corrisposto al personale dipendente (misure consi-stenti nel rispetto del limite del corrispondente im-porto dell’anno 2010, nonché nella riduzione pro-porzionale all’eventuale diminuzione del personale in servizio) tutte le risorse comunque destinate, ai sensi della contrattazione collettiva, al finanziamen-to di tale voce retributiva, indipendentemente dalla loro allocazione in bilancio e, in particolare, dalla circostanza che dette risorse provengano da fondi specificamente destinati alla contrattazione decen-trata.

Premesso – Con deliberazione 9 aprile 2014, n. 61, la Sezione regionale di controllo per la Basilica-ta, a seguito di una richiesta di parere del Comune di Barile, ha sollevato la seguente questione: “se le risorse da assoggettare a contenimento, ai sensi del c. 2-bis art. 9 d.l. n. 78/2010, siano integralmente iden-tificabili con quelle che confluiscono nei fondi delle risorse decentrate ovvero comprendano anche quelle diverse, rivenienti dal bilancio dell’ente, destinate al finanziamento del trattamento accessorio spettante ai titolari di posizioni organizzative negli enti di mino-re dimensione geografica (ai sensi degli artt. 8 ss., c.c.n.l. di settore 31 marzo 1999 e dell’art. 17, c. 2, lett. c, c.c.n.l. di settore 1 aprile 1999)”.

L’accennata questione di massima trae origine dal quesito posto dal sindaco di Barile (comune di

circa 2.800 abitanti), il quale, dopo aver ridisegna-to l’assetto organizzativo dell’ente con la previsione di cinque strutture di massima dimensione in luo-go dei precedenti tre settori e aver istituito le posi-zioni organizzative di cui agli artt. 8 ss. c.c.n.l. 31 marzo 1999, “il cui trattamento, trattandosi di ente privo di figure dirigenziali, non grava sul fondo ex art. 15 c.c.n.l. 1 aprile 1999, ma viene finanziato con risorse autonome del bilancio comunale”, chiede di conoscere se, fermo restando il rispetto dei vinco-li complessivi alla spesa di personale di cui all’art. 1, c. 557, l. n. 296/2006, “debba essere comunque considerato l’importo complessivo del trattamento retributivo assegnato alle posizioni organizzative. al medesimo titolo nell’anno 2010, quale limite mas-simo non derogabile fissato dall’art. 9, c. 2-bis, d.l. n. 78/2010, convertito con modificazioni dalla l. n. 122/2010”.

La questione all’esame verte, dunque, sull’ambi-to applicativo del tetto di spesa previsto dal c. 2-bis art. 9 d.l. 31 maggio 2010, n. 78, introdotto dalla legge di conversione 30 luglio 2010, n. 122, il cui dispositivo, dopo le modifiche apportate dall’art. 1, c. 456, l. 27 dicembre 2013, n. 147, così recita “A decorrere dall’1 gennaio 2011 e sino al 31 dicembre 2014 l’ammontare complessivo delle risorse destina-te annualmente al trattamento accessorio del perso-nale, anche di livello dirigenziale, di ciascuna delle amministrazioni di cui all’art. 1, c. 2, d.l. 30 marzo 2001, n. 165, non può superare il corrispondente im-porto dell’anno 2010 ed è, comunque, automatica-mente ridotto in misura proporzionale alla riduzione del personale in servizio. A decorrere dall’1 gennaio 2015, le risorse destinate annualmente al trattamento economico accessorio sono decurtate di un importo pari alle riduzioni operate per effetto del precedente periodo”.

In ordine al predetto limite di spesa, la sezione remittente ha evidenziato divergenze interpretative tra la Sez. contr. reg. Veneto (n. 717/2012), secondo la quale l’art. 9, c. 2-bis, non facendo espresso rife-rimento al “fondo” per il finanziamento della con-trattazione integrativa, includerebbe nel trattamento accessorio tutti gli emolumenti corrisposti a tale ti-tolo indipendentemente dalla loro allocazione in bi-lancio (fondo o altri capitoli di bilancio dell’ente), e le Sez. contr. reg. Lombardia (n. 59/2012) e Liguria (n. 17/2014), il cui avviso contrario troverebbe fon-damento in una pronuncia nomofilattica delle Sez. riun. (n. 51/2011), da cui emergerebbe che la lati-tudine operativa della disposizione vincolistica non possa andare oltre le risorse del fondo.

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La Sezione delle autonomie, nel prendere atto delle divergenti linee interpretative e della necessità di superare l’intervenuto contrasto, ritiene che la so-luzione della questione di massima all’esame richie-da l’adozione di una pronuncia d’indirizzo.

Considerato – Alla base dell’accennato contrasto interpretativo tra le richiamate sezioni regionali di controllo è la particolare disciplina prevista dal con-tratto collettivo nazionale di lavoro per il personale del comparto regioni e autonomie locali.

Invero, ai sensi degli artt. 8 ss. del vigente c.c.n.l. 31 marzo 1999, recante la revisione del sistema di classificazione professionale del personale, i sindaci dei comuni di minori dimensioni demografiche, privi di posizioni dirigenziali, hanno la facoltà, ricono-sciuta dall’art. 109, c. 2, Tuel, di conferire le relative funzioni dirigenziali ai responsabili degli uffici e dei servizi, i quali, nell’ambito di dette posizioni orga-nizzative, sono retribuiti con un trattamento econo-mico accessorio composto dalla retribuzione di posi-zione e di risultato.

A tal fine, l’art. 11, in combinato disposto con l’art. 17, c. 2, lett. c), c.c.n.l. 1 aprile 1999, recante i relativi istituti economici e normativi del personale del comparto, dispone l’esclusione di detti comuni dall’obbligo di costituire il fondo per la retribuzione di posizione e di risultato previsto per le politiche di sviluppo delle risorse umane e per la produttività, con il connesso onere di individuare, nell’ambito dei rispettivi bilanci, le risorse finanziarie necessarie alla relativa copertura.

La disciplina contrattuale del comparto degli enti locali prevede, dunque, un doppio regime di finan-ziamento della retribuzione di posizione e di risultato per i titolari di posizione organizzativa, il quale opera in ragione della presenza o meno delle posizioni diri-genziali nell’ambito della struttura degli enti. Infatti, mentre i comuni che dispongono di dirigenza devono far gravare il finanziamento della retribuzione acces-soria delle posizioni organizzative esclusivamente sulle risorse stabili del fondo per le risorse decentra-te, i comuni privi di posizioni dirigenziali, potendo individuare direttamente in bilancio le relative risor-se, non sono tenuti ad applicare, in tale fattispecie, il normale regime della contrattazione integrativa. È fatta salva, comunque, l’ipotesi in cui i dipendenti, nominati responsabili di posizione organizzativa, si-ano già titolari di diverso trattamento accessorio, nel qual caso si riduce in quota parte il fondo delle ri-sorse decentrate, giacché la retribuzione di posizione assorbe, ai sensi dell’art. 10 c.c.n.l. 31 marzo 1999, tutte le competenze accessorie e le indennità previste

dal contratto collettivo, compreso il compenso per il lavoro straordinario.

Peraltro, il superamento di tale doppio regime era previsto da una norma programmatica contenuta all’art. 14 c.c.n.l. 9 maggio 2006, per il personale del comparto delle regioni e delle autonomie locali rela-tivamente al biennio economico 2004-2005, il qua-le stabiliva che: “Con la stipulazione del prossimo c.c.n.l. relativo al quadriennio normativo 2006-2009, gli oneri connessi alla retribuzione di posizione e di risultato delle posizioni organizzative degli enti do-tati di personale con qualifica dirigenziale sono po-sti a carico del bilancio degli enti stessi”. Tuttavia, con il successivo c.c.n.l. 11 aprile 2008, valido per il quadriennio normativo 2006-2009 ed il biennio eco-nomico 2006-2007, una ulteriore clausola di rinvio, contenuta all’art. 10, ha rinnovato l’impegno a disci-plinare le modalità attuative della citata disposizione programmatica, dichiarazione d’intenti che, alla luce della sopravvenuta normativa transitoria introdotta dal d.lgs. n. 150/2009, è rimasta, tuttavia, al momen-to inattuata.

Alla luce della richiamata disciplina, si osserva dunque che la determinazione del significato precet-tivo dell’art. 9, c. 2-bis, d.l. n. 78/2010, convertito con modificazioni dalla l. n. 122/2010, non può non tenere in debita considerazione, anzitutto, l’espres-sione letterale adoperata dal legislatore per demarca-re l’ambito applicativo della disposizione in esame. Invero, l’impiego di termini dal valore semantico ge-nerale ed omnicomprensivo contenuti nell’espressio-ne “l’ammontare complessivo delle risorse destinate annualmente al trattamento accessorio del persona-le” denota una evidente volontà di ricomprendere nella fattispecie normativa ogni genere di risorse funzionalmente destinate ad offrire copertura agli oneri accessori del personale, senza alcuna conside-razione per l’origine o la provenienza delle risorse se non sotto il profilo della presenza di un vincolo di destinazione giuridicamente rilevante.

In questo senso, occorre riconoscere che tanto le risorse del bilancio imputate al fondo, quanto le ri-sorse direttamente stanziate in bilancio a copertura degli oneri relativi alle posizioni organizzative nei comuni privi di qualifiche dirigenziali presentano le medesime caratteristiche funzionali di destinazione e sono idonee ad incrementare la spesa per il tratta-mento accessorio del personale in ragione del loro concreto utilizzo.

La disposizione di cui all’art. 9, c. 2-bis, è peraltro inserita in un complesso di norme (si pensi ad esem-pio all’art. 9, c. 1, o all’art. 14, c. 9) volte a perseguire

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analoghi obiettivi di riduzione della spesa di persona-le, la cui funzione pratica, con riferimento alle com-ponenti del trattamento accessorio, si traduce in un rafforzamento del limite posto alla loro crescita com-plessiva a garanzia del contenimento della dinamica retributiva del personale nell’ambito delle finalità di riduzione della spesa corrente di funzionamento e di miglioramento dei saldi di finanza pubblica.

Ne discende che nel computo del tetto di spesa rientrano tutte le risorse stanziate in bilancio con vincolo di destinazione al trattamento accessorio del personale, indipendentemente da eventuali risorse derivanti da maggiori entrate.

Sul piano teleologico, la norma si inserisce, in-fine, nel quadro delle disposizioni di contenimento della spesa per il personale aventi natura cogente e inderogabile, in quanto rispondenti ad imprescindi-bili esigenze di riequilibrio della finanza pubblica ancorate al rispetto di rigidi obblighi comunitari. Tale norma è da considerare, quindi, di stretta inter-pretazione e non sono consentite limitazioni del suo nucleo precettivo in contrasto con il valore semanti-co dell’espressione normativa utilizzata.

Se, dunque, il legislatore ha inteso adoperare lo-cuzioni quali “l’ammontare complessivo delle risor-se” destinate al “trattamento accessorio del persona-le” (in alternativa all’espressione “ammontare delle risorse presenti nei fondi per la contrattazione inte-grativa”) è perché ha voluto comprendere nel limite stabilito anche le eventuali entrate ulteriori rispetto a quelle presenti nei fondi delle risorse decentrate.

Né sarebbe consentito all’interprete pervenire a soluzioni meno rigorose e, quindi, più favorevoli agli enti di minori dimensioni demografiche sul pre-supposto della mancanza delle qualifiche dirigenziali nell’assetto organizzativo dell’ente ovvero della non riconducibilità del trattamento accessorio alle posi-zioni organizzative qui considerate, giacché le retri-buzioni di posizione e di risultato spettanti ai titolari delle posizioni organizzative costituiscono, in questo caso, il trattamento economico accessorio che “as-sorbe”, per espressa disposizione contrattuale, ogni altra competenza accessoria spettante.

La particolarità della disciplina del trattamento accessorio applicabile ai comuni di minori dimen-sioni consente, invece, di far luce sul percorso ar-gomentativo seguito dalle Sez. riun. nella delib. n. 51/2011, adottata, ai sensi dell’art. 17, c. 31, d.l. n. 78/2009, per decidere una analoga questione di mas-sima in materia di contrattazione integrativa e di li-miti ordinamentali alla crescita dei relativi fondi di amministrazione.

Muovendo dal presupposto che il meccanismo di finanziamento dei fondi avesse vanificato l’efficacia delle misure di contenimento della spesa pubblica, giacché “assicurava tendenzialmente la copertura della spesa di personale attraverso risparmi, econo-mie di bilancio o maggiori entrate, ma non riusciva a garantire il controllo della dinamica retributiva e la compatibilità della stessa con il quadro macroeco-nomico e con le scelte programmatiche”, le Sezioni riunite hanno qualificato il c. 2-bis dell’art. 9 come “norma volta a rafforzare il limite posto alla crescita della spesa di personale che prescinde da ogni con-siderazione relativa alla provenienza delle risorse, applicabile, pertanto, anche nel caso in cui l’ente di-sponga di risorse aggiuntive derivanti da incrementi di entrata”.

Non vi è dubbio, al riguardo, che il riferimento a risorse aggiuntive di qualsivoglia provenienza corro-bori la tesi della inclusione nel vincolo di spesa all’e-same anche delle diverse risorse comunque destinate dagli enti di minore dimensione al finanziamento del trattamento accessorio, in ciò confermando un pas-saggio della circolare n. 12 del 15 aprile 2011 del Ministero dell’economia e delle finanze, secondo il quale: “l’applicazione dell’art. 9, c. 2-bis, riguarda l’ammontare complessivo delle risorse per il tratta-mento accessorio”.

Tale linea interpretativa non risulterebbe smenti-ta laddove le stesse Sezioni riunite affermano che la ratio dell’art. 9, c. 2-bis, consisterebbe nel “cristal-lizzare al 2010 il tetto di spesa relativo all’ammonta-re complessivo delle risorse presenti nei fondi unici che dovrebbero tendenzialmente essere destinate al trattamento accessorio del personale”, e nel “porre un limite alla crescita dei fondi della contrattazione integrativa destinati alla generalità dei dipendenti dell’ente pubblico”. In realtà, l’apparente contrasto trova la sua ragione giustificativa nella specificità della questione di massima di cui le Sezioni riunite erano state investite, attinente alle sole risorse og-getto di contrattazione decentrata e, quindi, alle sole risorse di alimentazione dei fondi di comuni di di-mensioni medio-grandi.

Analogamente, la citata circolare della Rgs avrebbe potuto fare riferimento ai “fondi” dei com-parti ai quali la stessa era indirizzata giacché tra que-sti non era compreso il comparto delle regioni e delle autonomie locali.

Deve dunque concludersi che il riferimento in-distinto “all’ammontare complessivo delle risorse destinate annualmente al trattamento accessorio del personale”, obbliga le amministrazioni che devono

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applicare il tetto di spesa ad individuare le specifiche modalità di finanziamento del trattamento accessorio nell’ambito del proprio comparto ordinamentale, che per gli enti locali prevede l’utilizzo delle risorse ac-cantonate nell’apposito fondo per le politiche di svi-luppo delle risorse umane e per la produttività, di cui all’art. 15 del c.c.n.l. 1 aprile 1999, qualora l’ente sia dotato di dirigenza, mentre per i comuni privi di di-rigenza, per i quali è concessa ai sindaci la facoltà di finanziare la retribuzione accessoria degli incaricati di posizioni organizzative con le risorse del proprio bilancio anziché con quelle del fondo delle risorse decentrate, le modalità di finanziamento possono es-sere duplici.

In tale ipotesi, l’ambito applicativo del c. 2-bis si estende anche alle risorse gravanti direttamente sul bilancio comunale purché queste non alimentino il trattamento accessorio in senso puramente “figu-rativo”, come nel caso in cui non siano destinate a finanziare gli incentivi spettanti alla generalità del personale e non rappresentino la copertura di costi aggiuntivi per il bilancio dell’ente.

Ad escludere tale circostanza è, tuttavia, la con-siderazione che le posizioni organizzative non costi-tuiscono incarichi aggiuntivi rispetto alle ordinarie mansioni lavorative né il relativo trattamento ac-cessorio viene finanziato mediante risorse di prove-nienza esterna all’ente con vincolo di destinazione all’origine.

Invero, la sola deroga compatibile con lo spirito del divieto di cui all’art. 9, c. 2-bis, sarebbe, infatti, quella fondata su economie di bilancio che scatu-rissero direttamente da un più efficiente utilizzo del personale, ciò in quanto l’intenzione del legislatore di ridurre la spesa di personale ponendo un freno alle dinamiche del trattamento accessorio si contrappone al favor dello stesso verso politiche di sviluppo della produttività individuale del personale (cfr., in tal sen-so, Sez. autonomie, n. 2/2013).

Sotto tale profilo, la retribuzione di posizione e di risultato attribuita ai titolari di posizioni organiz-zative non si discosterebbe dagli ordinari incentivi spettanti alla generalità del personale.

Allo stesso modo, la facoltà concessa al sindaco di istituire dette posizioni organizzative con copertu-re da ricercare “nell’ambito delle risorse finanziarie ivi previste a carico dei rispettivi bilanci”, esclude che il relativo trattamento accessorio possa essere finanziato esclusivamente mediante l’impiego di risorse etero-finanziate che neutralizzino il relativo impatto sugli equilibri del bilancio comunale.

P.q.m., la Sezione delle autonomie della Corte dei

conti, pronunciandosi sulla questione di massima ri-chiamata in premessa, posta dalla Sezione regionale di controllo per la Basilicata con delib. n. 61 del 9 aprile 2014, enuncia il seguente principio di indirizzo:

“Le risorse del bilancio che i comuni di minore dimensione demografica destinano, ai sensi dell’art. 11 del c.c.n.l. 31 marzo 1999, al finanziamento del trattamento accessorio degli incaricati di posizioni organizzative in strutture prive di qualifiche dirigen-ziali, rientrano nell’ambito di applicazione dell’art. 9, c. 2-bis, d.l. 31 maggio 2010, n. 78, convertito con modificazioni dalla l. 30 luglio 2010, n. 122, e suc-cessive modificazioni”.

* * *

SEZIONI REGIONALI DI CONTROLLO

Campania

205 – Sezione controllo Regione Campania; parere 6 ottobre 2014; Pres. Valentino, Rel. Sucameli; Comune di Sessa Aurunca.

Comune e provincia – Patrimonio comunale – Edificio destinato all’esercizio pubblico del culto – Alienazione o permuta – Ammissibilità – Condizioni – Donazione – Esclusione.

C.c., artt. 831, 1552; r.d. 18 novembre 1923 n. 2440, nuove disposizioni sull’amministrazione del patri-monio e sulla contabilità generale dello Stato, art. 3; d.lgs. 22 gennaio 2004 n. 42, codice dei beni cultura-li e del paesaggio, artt. 9, 53, 54, 57.

L’ente locale può vendere o permutare un edifi-cio di sua proprietà destinato all’esercizio pubblico del culto, a condizione che l’edificio non sia soggetto a vincoli di inalienabilità in base alla disciplina di tutela dei beni culturali e, comunque, che l’aliena-zione risponda a un interesse pubblico e sia adegua-tamente motivata, in relazione sia all’interesse pub-blico perseguito, sia al valore dedotto nella vendita o nella permuta, restando esclusa, in ogni caso, la cessione del bene a titolo gratuito, fatte salve le ec-cezioni consentite dalla legge.

Oggetto del parere – Con la nota richiamata in epigrafe il sindaco ha chiesto alla Sezione un pare-re in ordine alla conformità a diritto dell’operazione immobiliare come di seguito descritta.

Il comune richiamato è titolare della proprietà della Chiesa dell’Annunziata, risalente al XV seco-

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lo, bene di notevole valenza artistico-architettonica nel circuito turistico-religioso e attiva sul piano delle funzioni di culto. Esso è inoltre il terzo per esten-sione territoriale dell’intera Regione Campania e sarebbe proprietario di cospicui altri beni immobili comunque bisognevoli di urgenti interventi. Conse-guentemente urge un’efficiente ripartizione delle ri-sorse finanziarie disponibili.

Nei mesi scorsi il legale rappresentante della dio-cesi di Sessa Aurunca avrebbe chiesto di ottenere la cessione a titolo gratuito del prefato edificio di culto e di alcune sue pertinenze (immobile ex Eca) all’En-te diocesi di Sessa Aurunca.

Detto immobile, secondo quanto riferito, non rappresenterebbe nell’attuale patrimonio disponibi-le un reddito fruttifero e, allo stato attuale, neces-siterebbe di interventi di straordinaria ed ordinaria manutenzione atti a garantirne la piena fruibilità in condizioni ottimali.

In alternativa alla cessione a titolo gratuito, la diocesi avrebbe proposto una permuta con “un bene di sua proprietà di notevole valore sociale per la col-lettività”.

Le due alternative operazioni sarebbero prese in considerazione dall’ente civico a causa delle re-strizioni finanziarie legate alla spending review che legano la gestione del patrimonio a criteri di econo-micità ed efficienza.

L’amministrazione, a mezzo del sindaco pro tem-pore, chiede un parere sulla praticabilità dell’opera-zione secondo l’alternativa esposta. (Omissis)

Merito – 1. Come sopra riportato, l’istanza di pa-rere concerne un bene immobile:

- appartenente al patrimonio comunale;- che ha destinazione al culto;- “di notevole valenza artistico-architettonica an-

che nel circuito turistico-religioso”.La richiesta di parere verte, segnatamente, sulla

percorribilità di due alternative opzioni di cessione di un immobile alla diocesi locale, secondo una pri-ma ipotesi a titolo gratuito, nel secondo caso, a titolo oneroso, attraverso una permuta.

In via preliminare, il collegio rammenta che la funzione consultiva è diretta a fornire un ausilio all’ente richiedente per le determinazioni che lo stes-so è tenuto ad assumere nell’esercizio delle proprie funzioni, restando – dunque – ferma la discrezionali-tà e la correlativa responsabilità dell’amministrazio-ne in sede di esercizio delle proprie prerogative ge-storie, la quale deve essere rigorosamente esercitata entro i limiti di legge.

Pertanto, dovendosi escludere qualunque valuta-zione circa la legittimità delle concrete opzioni ge-stionali prospettate dall’ente, l’ambito della funzione consultiva va in questa sede limitata, senza pretesa di esaustività, al richiamo dei principi e dei più impor-tanti dati normativi in materia di regime giuridico che caratterizza i beni del patrimonio pubblico consistenti in edifici destinati al culto pubblico (e relative perti-nenze) di rilevanza storica, artistica e/o architettonica.

1.1. Come è noto, il regime dei beni pubblici ri-sulta diversificato a seconda che i beni siano ricon-ducibili al novero dei beni “demaniali” o del “pa-trimonio indisponibile” (beni pubblici strettamente intesi) ovvero a quello del patrimonio “disponibile”.

Tale regime di estende anche alle pertinenze (art. 817 c.c., cose destinate a servizio o ornamento della cosa principale, cui si estendono gli effetti di atti e rapporti della cosa principale, salvo sia diversamente disposto, art. 818 c.c.)

Invero, i beni destinati al culto pubblico cattoli-co, se appartenenti ad enti pubblici, hanno un regime giuridico del tutto simile a quello del patrimonio di-sponibile degli enti pubblici.

Segnatamente, occorre ricordare che le chiese, di norma, ricadono tra i beni destinati all’esercizio pubblico del culto ai sensi dell’art. 831 c.c. (a diffe-renza di quelle a “culto privato”, chiesa regolarmente officiata, nella quale durante le ore in cui è aperta, chiunque può accedere, senza dover esibire o avere un particolare titolo di ammissione) beni che posso-no indifferentemente appartenere a privati e ad enti pubblici, e comunque soggetti ad un peculiare regi-me giuridico che di seguito si espone.

I beni destinati al culto, infatti, sono oggetto di una specifica disciplina legale, spesso – in attuazio-ne degli artt. 7, 8 e 19 Cost. – di tipo consensuale o “concordataria” con le rispettive confessioni reli-giose.

Sul versante del diritto comune, il codice civile li inserisce tra i beni soggetti ad un particolare regime giuridico, in ragione dell’ente appartenenza e/o della loro funzione (libro III, titolo I, capo II, artt. 822-331 c.c.).

Segnatamente, ai sensi dell’art. 831 c.c. “1) I beni degli enti ecclesiastici sono soggetti alle norme del presente codice, in quanto non è diversamente dispo-sto dalle leggi speciali che li riguardano. 2) Gli edifi-ci destinati all’esercizio pubblico del culto cattolico, anche se appartengono a privati, non possono essere sottratti alla loro destinazione neppure per effetto di alienazione, fino a che la destinazione stessa non sia cessata in conformità delle leggi che li riguardano”.

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1.2. Tanto premesso, occorre evidenziare che il regime giuridico muta e diventa più rigoroso e re-strittivo, tanto in termini di godimento che di aliena-bilità, nel caso in cui lo stesso bene destinato al cul-to, oltre ad appartenere a un ente pubblico (elemento soggettivo), costituisca cosa d’interesse storico e/o artistico (elemento oggettivo).

La concorrenza di questi due elementi, determina la confluenza del bene nell’ambito del demanio acci-dentale, dello Stato o di altri enti pubblici (artt. 822, c. 2, 824, 830; art. 53 d.lgs. n. 42/2004, c.d. codice dei beni culturali).

Come noto i beni demaniali sono incommercia-bili, inusucapibili, non assoggettabili ad esecuzione forzata e inespropriabili; pertanto non possono for-mare oggetto di diritti a favore dei terzi, se non nei modi e nei limiti stabiliti dalle leggi che li riguardano (art. 823 c.c.).

L’art. 829 c.c., inoltre, dispone che “il passaggio dei beni dal demanio pubblico al patrimonio dello Stato deve essere dichiarato dall’autorità ammini-strativa. Dell’atto deve essere dato annunzio nella G.U. della Repubblica”. Pertanto, la sdemanializza-zione non può desumersi dalla sola circostanza che un bene non sia più adibito da lungo tempo ad uso pubblico, ma è ravvisabile solo in presenza di atti e fatti che evidenzino in maniera inequivocabile la volontà della pubblica amministrazione di sottrarre il bene a detta destinazione e di rinunciare definiti-vamente al suo ripristino (cfr. Cass., 30 agosto 2004, n. 17387; Tar Abruzzo-Pescara, 17 ottobre 2005, n. 580; Sez. contr. reg. Lombardia, n. 61/2013).

Nel caso dei beni del demanio culturale, la sde-manializzazione passa attraverso specifiche procedu-re, disciplinate dal codice dei beni culturali (d.lgs. n. 42/2004), che variano a seconda delle caratteristiche concrete del bene (artt. 12, c. 5, 55).

1.3. In proposito, si rammenta che le modalità concrete di godimento e i limiti alla loro commercia-bilità sono disciplinati dal codice dei beni culturali.

Il codice dei beni cultuali ha posto sotto la tutela dello Stato tutte le cose, mobili e immobili, aventi interesse artistico, storico, archeologico ed etnoan-tropogico (c.d. beni culturali, art. 10).

Tale tutela, infatti, sussiste anche quando le cose non appartengono ad enti pubblici e raggiunge la massima rigidità nel caso di confluenza nel demanio. Peraltro, il competente ministro deve “concordare” l’emanazione di atti e/o provvedimenti amministrati-vi riguardanti beni culturali destinati al culto cattoli-co (art. 9 codice dei beni culturali che parla di “beni culturali di interesse religioso”; art. 12.1 Accordo di

modificazione del Concordato lateranense firmato il 18 febbraio 1984, ratificato e reso esecutivo con l. 25 marzo 1985, n. 121; art. 11 l. n. 241/1990).

1.3.1. I beni culturali demaniali sono soggetti a uno stretto regime sul piano delle alienazioni.

Alcuni di essi, aventi determinate caratteristiche sono dichiarati inalienabili (art. 54, c. 1). Segnata-mente sono inalienabili in via assoluta: gli immobili e aree d’interesse archeologico; gli immobili rico-nosciuti monumenti nazionali; gli immobili appar-tenenti allo Stato o agli enti territoriali dichiarati d’interesse particolarmente importante per la testi-monianza della storia.

Sono altresì inalienabili in via assoluta, sia pure a titolo provvisorio (art. 54, c. 2, lett. a), i beni sottopo-sti alla procedura di verifica di “culturalità” ai sensi e per gli effetti degli artt. 12 e 13 del codice (con iscrizione finale in appositi elenchi). Segnatamente, per i beni immobili appartenenti agli enti pubblici territoriali con più di 50 anni di vetustà, fino all’esito della verifica dell’interesse artistico, storico, archeo-logico o etnoantropologico di cui all’art. 12, c. 2, del ridetto codice (in caso di esito negativo della proce-dura, è comunque necessaria un’apposita procedura di sdemanializzazione ai sensi dell’art. 12, c. 5, d.lgs. n. 42/2004) sussiste, infatti, una “presunzione di vin-colo” assoluto.

Tutti gli altri beni, riconosciuti d’interesse cultu-rale ma non ricadenti nel novero dell’art. 54, c. 1, del codice, sono alienabili mediante negozi traslativi ovvero concessioni (art. 57-bis), solo su autorizza-zione del ministero-soprintendenza (artt. 55, 56, 58) e salva la denuncia (art. 69) e il correlato diritto di prelazione dello Stato (artt. 60 ss.).

L’autorizzazione costituisce il mezzo previsto dalla legge per procedere alla sdemanializzazione dei beni del demanio culturale non sottoposti a vin-colo d’inalienabilità assoluta. Inoltre, il contenuto dell’autorizzazione ministeriale, ove indicante limiti, obblighi e divieti, refluisce direttamente nel contenu-to negoziale del titolo dispositivo, alla stregua di una clausola risolutiva espressa (art. 55-bis).

È sempre consentita, invece, l’alienazione tra enti pubblici, nei termini di legge (cfr. nel dettaglio, artt. 54, c. 3, e 57 codice beni culturali).

1.4. Si aggiunga che, più in generale, gli atti di alienazione, secondo i principi generali della con-tabilità pubblica, sono tipiche ipotesi di contratti “attivi”: secondo la nota summa divisio finanzia-rio-contabile dei contratti pubblici di cui all’art. 3 r.d. n. 2440/1923, i contratti della pubblica ammi-nistrazione possono essere attivi o passivi, ovvero

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comportare un entrata o un uscita; essi devono essere cioè caratterizzarsi per una bilateralità del sacrifico, a fronte di una prestazione resa o ricevuta; devono quindi inserirsi in una logica commutativa.

Non sembrano in linea generale trovare posto, in tale summa divisio, contratti liberali o a titolo gratu-ito sganciati da qualsiasi logica commutativa e che non rispondano, patrimonialmente, ad un interesse pubblico, se non nei casi previsti dalla legge.

2. In secondo luogo, si deve osservare che l’op-zione per un atto di alienazione in forma di donazio-ne, o comunque a titolo gratuito, mal si concilia con i principi giuscontabilistici di trasparenza, pubblicità e concorrenza, nonché di efficienza nella gestione del patrimonio pubblico (art. 3 r.d. n. 2440/1923; d.lgs. n. 163/2006), considerato il carattere infungibile del destinatario.

Tali principi sono ribaditi dall’art. 58, c. 7, d.l. n. 112/2008, convertito con modificazioni dalla l. n. 133/2008, secondo cui regioni, province e comuni, “possono in ogni caso individuare forme di valoriz-zazione alternative, nel rispetto dei principi di salva-guardia dell’interesse pubblico e mediante l’utilizzo di strumenti competitivi, anche per quanto attiene alla alienazione degli immobili di cui alla l. 24 di-cembre 1993, n. 560”.

I citati principi non sono derogabili nemmeno in forza dall’art. 12, c. 2, l. n. 127/1997, che pure con-sentiva a comuni e province di “procedere alle alie-nazioni del proprio patrimonio immobiliare anche in deroga alle norme di cui alla l. 24 dicembre 1908, n. 783 e successive modificazioni, e al regolamento ap-provato con r.d. 17 giugno 1909, n. 454, e successive modificazioni, nonché alle norme sulla contabilità generale degli enti locali”.

Infatti, la facoltà di derogare alle disposizioni ge-nerali riguardanti l’alienazione dei beni dello Stato incontra comunque il limite del rispetto dei princi-pi generali dell’ordinamento giuridico-contabile, in particolare quelli ricavabili dal r.d. n. 2440/1923 sulla contabilità generale dello Stato e dal relativo regolamento di esecuzione approvato con r.d. n. 827/1924. A conferma di ciò, la prefata disposizione termina specificando “A tal fine sono assicurati cri-teri di trasparenza e adeguate forme di pubblicità per acquisire e valutare concorrenti proposte di acquisto, da definire con regolamento dell’ente interessato”.

Il carattere infungibile del destinatario degli atti a titolo gratuito, infatti, si ritiene implichi un’eccezio-ne a tali principi, la quale deve trovare giustificazio-ne nelle stesse ipotesi in cui l’ordinamento contabile ammette la trattativa privata. I presupposti normativi

per il ricorso a tale modalità di scelta del contraen-te, si caratterizzano per la necessità di speciali ed eccezionali circostanze, previste dall’art. 41 r.d. n. 827/1924, tra cui si evidenziano:

“1) Quando gli incanti e le licitazioni siano anda-te deserte o si abbiano fondate prove per ritenere che ove si sperimentassero andrebbero deserte;

(Omissis)6) e in genere in ogni altro caso in cui ricorrono

speciali ed eccezionali circostanze per le quali non possano essere utilmente seguite le forme degli artt. 37-40 del presente regolamento”.

Gli stessi principi valgono e devono essere ri-chiamati per il caso della permuta, in cui sussiste un interesse allo scambio con uno specifico bene e ad uno specifico destinatario.

3. Tanto premesso, in generale, occorre tenere presente che tutti gli atti di disposizione del patri-monio pubblico, a prescindere dalla forma giuridica adottata non possono che essere funzionalizzati, in ogni caso, all’interesse pubblico.

Detto in altri termini, la perdita di un cespite deve essere adeguatamente compensata da una partita di carattere finanziario o con un’utilitas di carattere pa-trimoniale (in termini di uso, proprietà, servizi).

Ciò porta a presumere l’incompatibilità di atti di alienazione a titolo gratuito con l’interesse pubblico.

Tale utilitas, infatti, solo eccezionalmente può trovare giustificazione in interessi di carattere non patrimoniale, in base a precipue ed espresse dispo-sizioni di legge che tipizzano l’interesse tra gli scopi perseguibili dall’ente o che espressamente autorizza-no l’alienazione gratuita.

Sulla necessità che l’atto negoziale gratuito sia collegato all’interesse pubblico è sufficiente richia-mare la consolidata e risalente giurisprudenza del-la Corte di cassazione in materia di “donazione” da parte di enti pubblici (Cass. 22 gennaio 1953, n. 157; 17 novembre 1953, n. 3540; 5 luglio 1954, n. 2338; Cass., S.U. 18 febbraio 1955, n. 470; Cass. 16 giu-gno 1962, n.1525; 15 luglio 1964, n. 1906; 17 marzo 1965, n. 452; 7 dicembre 1970, n. 2589; 18 dicembre 1996, n. 11311).

Il principio fondamentalmente affermato dalla Cassazione è che pur non esistendo un divieto o una norma che preveda l’incapacità a donare da parte di tutti gli enti, la donazione, in ogni caso, non può in-tegrare una mera “liberalità”.

L’analisi della giurisprudenza richiamata infatti evidenzia:

- per un verso, che le fattispecie concrete esami-

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nate dalla giurisprudenza di legittimità interessano il diverso caso della donazione intervenuta tra enti pubblici, e non verso soggetti privati o verso soggetti ascrivibili a un altro, distinto e sovrano ordinamento;

- che “liberalità”, anche quando teoricamente ammessa, lo è soltanto in funzione dell’interesse pubblico con essa perseguito. Segnatamente, “Gli enti pubblici per i loro fini istituzionali sono incapaci di porre in essere atti di donazione e di liberalità che non costituiscono mezzi per l’attuazione di detti fini” (Cass., 7 dicembre 1970, n. 2589).

Detto in altri termini, la causa liberale, funzione per la quale un soggetto dell’ordinamento arricchisce in modo unilaterale e spontaneo un altro soggetto, si presume incompatibile con la capacità giuridica riconosciuta agli enti pubblici, in particolare degli enti locali, salvo vi sia un’espressa autorizzazione di legge o una chiara compatibilità con gli scopi isti-tuzionali. Per altro verso, l’ammissibilità nel nostro ordinamento di atti dispositivi atipici a titolo gratuito è fortemente revocata in dubbio, vigendo nel nostro ordinamento il principio di causalità e il filtro di me-ritevolezza (cfr. sul tema, Cass., 20 novembre 1992, n. 12401).

Tale ricostruzione ermeneutica trova conforto nei seguenti ulteriori argomenti. La capacità giuridica generale di diritto comune è pur sempre riconosciuta in funzione degli scopi e dei risultati cui tende il pro-cedimento amministrativo (art. 1-bis l. n. 241/1990).

Per tale ragione, l’attribuzione negoziale a tito-lo gratuito, poiché espone gli enti ad un potenziale impoverimento, riducendone i mezzi patrimoniali, si presume incompatibile con gli scopi istituzionali, sia che si agisca con moduli di diritto pubblico che con strumenti di diritto comune. Com’è stato affermato, infatti, il patrimonio degli enti pubblici, e in partico-lare degli enti locali, non può non produrre reddito o utilità (Sez. contr. reg. Sardegna, n. 4/2008).

Del resto, le prestazioni gratuite e a “fondo per-duto” devono avere un fondamento espresso nella legge (e negli scopi istituzionali dell’ente) e si rea-lizzano di norma attraverso atti amministrativi, per i quali il legislatore ha cura di fissare precisi limiti normativi e procedimentali (art. 12 l. n. 241/1990), nel senso della trasparenza.

Ove tali benefici fossero attribuiti per mezzo di atti non autoritativi (art. 1-bis l. n. 241/1990), biso-gna ugualmente verificare la compatibilità della cau-sa giuridica dell’atto con gli scopi e le garanzie del procedimento amministrativo, nella fase pubblicisti-ca che precede il compimento dell’atto (segnatamen-te nella fase della c.d. determinazione a contrarre,

cfr. Cons. Stato, A.p., n. 10/2011; Corte conti, Sez. contr. reg. Lombardia, n. 535/2012).

Sulla base alla stessa norma, si può facilmente ricavare come il perimetro della capacità giuridica degli enti pubblici non sia coincidente con quella degli altri soggetti di diritto comune, ma vada rita-gliata sugli scopi e sui limiti che la legge stabilisce in relazione allo loro esistenza e al loro agire, pena l’integrazione di abusi ed elusione di limiti di legge (cfr. Sez. contr. reg. Lombardia, n. 513/2013), con conseguenze tanto sul piano della validità degli atti che su quello della responsabilità dei soggetti agenti.

In ogni caso, a garanzia dell’utilitas publica, il sacrificio cui gli enti si espongono deve inserirsi in una logica commutativa, ovvero l’impoverimento deve essere compensato dalla realizzazione di un in-teresse ritenuto normativamente equivalente.

Inoltre, occorre adottare la massima cautela sia sotto il profilo causale (mediante la verifica in con-creto della sussistenza di significative circostanze soggettive e oggettive giustificative), sia sotto il pro-filo formale (adeguato percorso procedurale e moti-vazionale, nonché, adozione delle opportune forma-lità negoziali).

Detto in altri termini, la cessione a titolo gratuito si deve presumere in linea di massima incompatibi-le con l’interesse pubblico, specie in assenza di una previa verifica della possibilità di alienazioni a titolo oneroso in cui il corrispettivo sia allineato con il rea-le valore patrimoniale del bene.

E infatti, ove anche l’attribuzione costituisca at-tuazione del principio di sussidiarietà di cui all’art. 118 Cost., “l’attribuzione di beni, anche se appa-rentemente a ‘fondo perso’, non può equivalere a un depauperamento del patrimonio comunale, in considerazione dell’utilità che l’ente o la collettività ricevono dallo svolgimento del servizio pubblico o d’interesse pubblico effettuato dal soggetto che ri-ceve il contributo” (cfr. Sez. contr. reg. Lombardia, n. 262/2012; cfr. anche, Sez. contr. reg. Lombardia, n. 349/2011; Sez. contr. reg. Piemonte, n. 36/2014).

5. [recte: 4] In disparte qualsiasi valutazione sulla concreta legittimità di qualsiasi operazione negozia-le, con specifico riferimento agli aspetti giuscontabi-listici della permuta si osserva quanto segue.

Ai sensi dell’art. 1552 c.c., “La permuta è il con-tratto che ha per oggetto il reciproco trasferimento della proprietà di cose, o di altri diritti, da un contra-ente all’altro”: di conseguenza, a seconda delle carat-teristiche concrete dell’operazione, la permuta può costituire un’operazione finanziariamente neutra, un contratto attivo o un contratto passivo.

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Nel richiamare ulteriormente quanto sopra preci-sato in ordine alla necessità del rispetto dei principi di trasparenza e concorsualità, si rammenta che oltre alla norme specifiche concernenti le alienazioni im-mobiliari degli enti locali, nel caso in cui l’opera-zione comporti un conguaglio in danaro a carico del comune, rileva il c. 1-ter art. 12 d.l. n. 98/2011, così come introdotto dall’art. 1, c. 138, l. n. 228/2012, il quale dispone che “a decorrere dall’1 gennaio 2014 al fine di pervenire a risparmi di spesa ulteriori ri-spetto a quelli previsti dal patto di stabilità interno, gli enti territoriali e gli enti del servizio sanitario na-zionale effettuano operazioni di acquisto di immo-bili solo ove ne siano comprovate documentalmente l’indispensabilità e l’indilazionabilità attestate dal responsabile del procedimento. La congruità del prezzo è attestata dall’Agenzia del demanio, previo rimborso delle spese. Delle predette operazioni è data preventiva notizia, con l’indicazione del sogget-to alienante e del prezzo pattuito, nel sito internet istituzionale dell’ente”.

Peraltro, come precisato da costante giurispru-denza contabile, sotto il profilo dell’applicabilità dell’art. 12, c. 1-ter, occorre distinguere la fattispe-cie della permuta con conguaglio di prezzo da quella c.d. “pura”.

La ratio della richiamata norma, infatti, è con-seguire risparmi di spesa; di conseguenza essa è ap-plicabile a quei contratti che, comportando una mo-difica del patrimonio immobiliare dell’ente locale, importano una spesa per il bilancio dell’ente.

La permuta “pura”, pertanto, non ricade nell’al-veo di applicazione dell’art. 1, c. 12-ter, d.l. n. 98/2011, risolvendosi nella mera diversa allocazione delle poste patrimoniali afferenti a beni immobili e qualificandosi come un’operazione finanziariamen-te neutra (in termini, Sez. contr. reg. Lombardia, n. 97/2014, n. 162/2013, n. 164/2013 e n. 193/2013; Sez. contr. reg. Piemonte, n. 236/2013; Sez. contr. reg. Liguria, n. 9/2013; Sez. contr. reg. Veneto, n. 155/2013; Sez. contr. reg. Liguria, n. 9/2013).

Analoghe considerazioni possono estendersi al caso in cui sia previsto un conguaglio a favore del comune, salvi in ogni caso i principi generali di con-corsualità e trasparenza.

Si aggiunga che il c. 1-ter art. 12 cit. prescrive espressamente una serie di obblighi concernenti le operazioni di acquisto che prevedono l’indicazione “del soggetto alienante e del prezzo pattuito” mentre nel contratto di permuta le posizioni di alienante e di acquirente sono reciproche e predicabili con riferi-menti a entrambi i contraenti. Ciò costituisce un ul-

teriore indizio dell’inapplicabilità della disposizione in esame ai casi di permuta “pura” (in termini, Sez. contr. reg. Lombardia, n. 193/2013).

Tuttavia, per evitare l’impoverimento patrimo-niale dell’ente, anche in caso di permuta “pura”, l’o-perazione deve essere sostenuta da adeguata istrutto-ria che documenti il valore degli immobili permutan-di ed eventualmente evidenzi in termini la necessità di un conguaglio e le ragioni della congruità della sua determinazione.

In definitiva, e salvi, in ogni caso, i vincoli che comunque discendono dall’applicabilità delle norme del codice dei beni culturali, anche la permuta, come atto di disposizione del patrimonio immobiliare pub-blico, incontra tutti i limiti cui soggiacciono le alie-nazioni che interessano beni immobili di interesse religioso, destinati al culto ed eventualmente a ca-rattere culturale. Inoltre, poiché il valore storico-ar-tistico corrisponde inevitabilmente ad un elevato valore patrimoniale, la permuta con beni di solo “va-lore sociale” o ordinario valore di mercato, rischia di costituire una grave occasione di impoverimento dell’ente. Ciò spiega la necessità che, anche in caso di permuta, l’operazione sia preceduta da adeguata istruttoria che documenti il valore degli immobili permutandi, l’eventuale necessità di un conguaglio in denaro e le ragioni della congruità della sua deter-minazione. Tali operazioni devono essere adeguata-mente presidiate dal punto di vista procedimentale e motivazionale, al fine di non integrare occasioni di responsabilità amministrativo-contabile.

6. [recte: 5] In conclusione, gli enti locali sono chiamati in primo luogo a osservare la disciplina del demanio culturale sopra ricostruita, specie sotto il profilo dei vincoli di inalienabilità (art. 822, c. 2, c.c.; d.lgs. n. 42/2004); ove il bene non vi rientri o, comunque, ne sia stato sottratto secondo legittime procedure, in base alle sue caratteristiche concrete, gli atti di disposizione di tali beni devono rispettare i limiti sopra richiamati, sotto il profilo procedurale e sostanziale, in particolare sotto il profilo dei vincoli di destinazione.

Sul piano negoziale astrattamente considerato, per i medesimi enti, è presunta l’incompatibilità degli atti a titolo gratuito con la disciplina legale a presidio dell’esercizio della discrezionalità di spesa e negoziale degli enti pubblici.

Per quanto attiene alla permuta, oltre al rispetto delle norme in materia di alienazioni, l’ente, onde evitare un surrettizio depauperamento del patrimo-nio pubblico, dovrà far precedere la stessa da un’a-deguata stima degli immobili permutandi e da una

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rigorosa verifica della destinabilità dell’immobile sostitutivo alla pubblica utilità.

245 – Sezione controllo Regione Campania; parere 4 dicembre 2014; Pres. Valentino, Rel. Sucameli; Comune di Caianello.

Contabilità regionale e degli enti locali – Comune e provincia – Spesa per il personale – Assun-zioni a tempo determinato – Limite – 50 per cento della spesa sostenuta nel 2009 – Enti in regola con l’obbligo di riduzione della spesa per il personale – Limite delle assunzioni a tempo determinato – 100 per cento della spesa sostenuta nel 2009 – Assenza di spesa storica nel 2009 e nel triennio 2007-2009 – Obbligo di eliminazione di tutte le spese per contratti a tempo determinato.

L. 27 dicembre 2006 n. 296, disposizioni per la for-mazione del bilancio annuale e pluriennale dello Sta-to (legge finanziaria 2007), art. 1, cc. 557, 562; d.l. 31 maggio 2010 n. 78, convertito con modificazioni dalla l. 30 luglio 2010 n. 122, misure urgenti in ma-teria di stabilizzazione finanziaria e di competitività economica, art. 9, c. 28.

Gli enti locali possono avvalersi ogni anno di personale a tempo determinato o a convenzione, ovvero con contratti di collaborazione coordinata e continuativa, nel limite del 50 per cento della spe-sa sostenuta per la stessa finalità nell’anno 2009 o del 100 per cento della stessa spesa nel caso in cui abbiano rispettato le prescrizioni di legge per la ri-duzione del totale delle spese per il personale (ri-duzione dell’incidenza percentuale della spesa per il personale rispetto al complesso delle spese correnti; razionalizzazione e snellimento delle strutture buro-cratico-amministrative; contenimento delle dinami-che di crescita della contrattazione integrativa negli enti sottoposti al patto di stabilità interno; conteni-mento delle spese del personale entro il corrispon-dente ammontare dell’anno 2008 per gli enti non sottoposti al patto), con conseguente obbligo, nel caso di assenza, nell’anno 2009 o nel periodo 2007-2009, di spese per contratti a tempo determinato, di eliminare i corrispondenti costi dell’anno in corso, salve le eccezioni di legge.

Oggetto del parere – Con la nota richiamata in epigrafe il sindaco ha chiesto alla Sezione un pare-re in ordine all’interpretazione dell’art. 9, c. 28, d.l. n. 78/2010, convertito con modificazioni dalla l. n.

122/2010 come recentemente novellato dal d.l. n. 24 giugno 2014, n. 90, convertito con modificazioni dalla l. 11 agosto 2014, n. 114.

Segnatamente, il comune chiede se il “disposto dell’art. 9, c. 28, d.l. n. 78/2010 (esteso agli enti lo-cali dall’art. 4, c. 102, l. n. 183/2011) possa essere in-terpretato che, in assenza (o nell’insufficienza) di una spesa per assunzioni a tempo determinato nell’anno 2009 (come anche nel triennio 2007/2009), si possa procedere ‘almeno’ all’assunzione a tempo determi-nato di una figura professionale di categoria D per numero 18 ore settimanali ai sensi dell’art. 110, c. 2, d.lgs. n. 267/2000, al fine di poter attribuire la posi-zione organizzativa ai sensi dagli artt. 8 ss. c.c.n.l. 31 marzo 1999”.

Merito – 1. Il quesito posto dal comune riguarda l’esegesi dell’art. 9, c. 28, d.l. n. 78/2010, convertito con modificazioni dalla l. n. 122/2010.

Tale disposizione, nella formulazione attual-mente vigente, prevede che le amministrazioni dello Stato, anche ad ordinamento autonomo, le regioni, le provincie autonome e gli enti locali “possono avvalersi di personale a tempo determinato o con convenzioni ovvero con contratti di collaborazione coordinata e continuativa, nel limite del 50 per cento della spesa sostenuta per le stesse finalità nell’anno 2009. Per le medesime amministrazioni la spesa per personale relativa a contratti di formazione lavoro, ad altri rapporti formativi, alla somministrazione di lavoro, nonché al lavoro accessorio di cui all’art. 70, c. 1, lett. d), d.lgs. 10 settembre 2003, n. 276 e suc-cessive modificazioni e integrazioni, non può essere superiore al 50 per cento di quella sostenuta per le rispettive finalità nell’anno 2009. Le limitazioni pre-viste dal presente comma non si applicano agli enti locali in regola con l’obbligo di riduzione delle spese di personale di cui ai cc. 557 e 562 dell’art. 1 l. 27 dicembre 2006, n. 296 e successive modificazioni, nell’ambito delle risorse disponibili a legislazione vigente. Resta fermo che comunque la spesa com-plessiva non può essere superiore alla spesa sostenu-ta per le stesse finalità nell’anno 2009”.

Per una più chiara comprensione del complessivo quadro normativo di riferimento appare utile ricorda-re anche il disposto dei cc. 557-562 dell’art. 1 l. 27 dicembre 2006, n. 296, fissa un tetto alla spesa com-plessiva delle spesa per il personale, a prescindere da tipologie contrattuali predeterminate e salve le ecce-zioni di legge, rispettivamente, per gli enti soggetti e non soggetti al patto di stabilità interno.

2. Tanto premesso, si rammenta che il quesito ri-guarda la possibilità di individuare un diverso para-

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metro nel caso di assenza di spesa storica nel 2009 o nel triennio 2007-2009, secondo la fattispecie norma-tiva. Sul punto la Sezione si è recentemente espressa con la pronuncia consultiva n. 213/2014 (dalla quale non ravvisa ragione di discostarsi e alla quale rinvia per quanto non espressamente qui richiamato), ade-rendo ad una interpretazione restrittiva della norma e ritenendo che in caso di spesa storica assente nei periodi richiamati dalla legge, gli enti debbano ado-perarsi per azzerare la spesa relativa alla tipologia di contratti contemplati dalla norma.

3. Pertanto, in caso di violazione del tetto alla spesa complessiva per il personale ai sensi dell’art. 1 (cc. 557 e 562) della legge finanziaria 2007 e in assenza di spesa storica nei due periodi considerati dalla norma (2009 o media del triennio 2007-2009), gli enti non potranno che considerarsi obbligati ad assumere comportamenti gestionali volti alla elimi-nazione delle tipologie di spese contemplata dall’art. 9, c. 28, d.l. n. 78/2010, salve le eccezioni di legge (cfr. Sez. contr. reg. Campania, n. 213/2014; Sez. au-tonomie, n. 21/2014, sia pure incidenter; Sez. con-tr. reg. Lombardia, n. 215/2014) e salvi i margini di flessibilità individuati da Sez. riun., n. 11/2012.

254 – Sezione controllo Regione Campania; parere 15 dicembre 2014; Pres. Valentino, Rel. Serbassi; Comune di Macerata Campania.

Società – Società a partecipazione pubblica loca-le – Personale – Riduzione dei costi – Obbligo delle società di attenersi agli indirizzi dell’ente locale.

D.l. 25 giugno 2008 n. 112, convertito con modifi-cazioni dalla l. 6 agosto 2008 n. 133, disposizioni urgenti per lo sviluppo economico, la semplificazio-ne, la competitività, la stabilizzazione della finanza pubblica e la perequazione tributaria, art. 18.

Le società a partecipazione pubblica locale, to-tale o di controllo, devono rispettare gli obblighi di riduzione dei costi del personale, in termini di conte-nimento sia degli oneri contrattuali, sia di quelli de-rivanti da nuove assunzioni, con l’obbligo di confor-marsi, mediante propri provvedimenti, agli indirizzi impartiti dall’ente locale.

Fatto – Il sindaco del Comune di Macerata Cam-pania, dopo avere premesso che insieme ad altro ente, ha costituito una società in house providing, con capitale interamente pubblico, e dopo avere elencato varie disposizioni legislative riguardanti la

gestione del personale delle pubbliche amministra-zioni e relative società partecipate, chiede di cono-scere “se i dipendenti della società in house, intera-mente controllata da enti pubblici, sono soggetti al ‘blocco’ dei contratti, come i dipendenti degli enti locali, sia per la retribuzione individuale che per la retribuzione accessoria nel rispetto dei vincoli della spesa del personale nonostante la sottoscrizione del contratto nazionale di lavoro (Federambiente)”.

Merito – Ferme e integre restando, al riguardo, la discrezionalità gestionale e amministrativa dei com-petenti organi amministrativi e societari ed ogni con-nessa e conseguente forma di responsabilità, anche collegata a situazioni di fatto e di diritto preesistenti, va osservato che la variegata e ripetutamente modi-ficata legislazione in tema di società partecipate (1) (cfr. in proposito Corte conti, Sez. contr. reg. Emi-lia-Romagna, 7 luglio 2014, n. 170, che ne ha esegui-to una accurata ricostruzione), è di recente approdata nella modifica (operata dal d.l. 24 aprile 2014, n. 66, convertito con modificazioni dalla l. 23 giugno 2014, n. 89 e dal d.l. 24 giugno 2014, n. 90, convertito con modificazioni dalla l. 11 agosto 2014, n. 114), di cui al c. 2-bis art. 18 d.l. n. 112/2008, convertito con mo-dificazioni dalla l. n. 133/2008, che sembra essere più che mai volta in modo chiaro e semplice, ferma restando ogni altra disposizione vigente in materia,

(1) Le ultime norme in materia (che si riportano, nei limi-ti di quanto qui interessa) vigenti prima dell’entrata in vigore dei d.l. n. 66/2014 e n. 90/2014, avevano previsto quanto se-gue:

- l. n. 147/2013 (legge di stabilità 2014), art. 1, c. 557: la disposizione, nel sostituire il c. 2-bis art. 18 d.l. n. 112/2008, rubricato “Reclutamento del personale delle società pubbli-che”, confermava, per le stesse, l’applicazione delle disposi-zioni valevoli per le amministrazioni di riferimento, sia recan-ti divieti o limitazioni alle assunzioni di personale, sia quelle recanti obblighi di contenimento degli oneri contrattuali e del-le altre voci di natura retributiva o indennitaria;

- l. n. 147/2013, art. 1, c. 558: la disposizione, nel modifi-care l’art. 76, c. 7, d.l. n. 112/2008, aveva aggiunto anche le aziende speciali e istituzioni tra gli organismi partecipati dalle pubbliche amministrazioni di cui all’art. 1, c. 2, d.lgs. n. 165/2001 (e quindi anche gli enti locali) le cui spese di perso-nale dovevano essere computate, ai fini della misurazione del-le capacità assunzionali di queste ultime, mentre era già previ-sta l’inclusione di quelle sostenute dalle società a partecipa-zione pubblica locale totale o di controllo, titolari di affida-mento diretto di servizi pubblici locali senza gara, ovvero che svolgessero funzioni volte a soddisfare esigenze di interesse generale aventi carattere non industriale, né commerciale, ov-vero attività nei confronti della pubblica amministrazione a supporto di funzioni amministrative di natura pubblicistica, escluse le società quotate sui mercati regolamentari.

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non specificamente abrogata, ad un pieno coinvol-gimento sia degli enti partecipanti sia delle società partecipate, nelle decisioni in merito al prescritto obbligo di contenimento dei costi del personale di queste ultime.

L’art. 18 sopramenzionato prevede, infatti, che “le aziende speciali, le istituzioni e le società a par-tecipazione pubblica locale totale o di controllo si attengono al principio di riduzione dei costi del per-sonale, attraverso il contenimento degli oneri con-trattuali e delle assunzioni di personale. A tal fine l’ente controllante, con proprio atto di indirizzo, te-nuto anche conto delle disposizioni che stabiliscono, a suo carico, divieti o limitazioni alle assunzioni di personale, definisce, per ciascuno dei soggetti di cui al precedente periodo, specifici criteri o modalità di attuazione del principio di contenimento dei costi del personale, tenendo conto del settore in cui ciascun soggetto opera. Le aziende speciali, le istituzioni e le società a partecipazione pubblica locale totale o di controllo adottano tali indirizzi con propri prov-vedimenti e, nel caso del contenimento degli oneri contrattuali, gli stessi vengono recepiti in sede di contrattazione di secondo livello”.

Inoltre il d.l. n. 90/2014 ha modificato la disci-plina applicabile alle regioni e enti locali sottoposti al patto di stabilità interno nella materia de qua pre-vedendo: a) la possibilità di assunzione di personale a tempo indeterminato con limite di spesa percen-tuale differente rispetto, quella relativa al personale di ruolo cessato negli anni precedenti, e pari al 60 per cento, 80 per cento e 100 per cento, rispettiva-mente negli anni 2014-2015, 2016-2017 e negli anni successivi a partire dal 2018; b) la permanenza delle disposizioni previste dall’art. 1, cc. 557, 557-bis e 557-ter, l. n. 296/2006, con conseguente obbligo, per gli enti locali assoggettati alla disciplina del patto di stabilità interno, di computare anche la quota relativa al personale occupato presso organismi partecipati, variamente denominati, ai fini del rispetto della ri-duzione e del contenimento del trend della spesa in serie storica; c) l’abrogazione dell’art. 76, c. 7, d.l. n. 112/2008 che regolava il rapporto di incidenza tra spesa per il personale e spesa corrente ai fini delle nuove capacità assunzionali degli enti locali sotto-posti alla disciplina del patto di stabilità interno; d) il coordinamento, da parte degli enti locali, delle poli-tiche assunzionali dei soggetti indicati nell’art. 18, c. 2-bis, d.l. n. 112/2008 (tra cui le società partecipate) al fine di garantire, anche per i medesimi soggetti, una graduale riduzione della percentuale tra spese di personale e spese correnti.

Dal raffronto tra vecchia e nuova normativa emerge, a parere di questa Sezione (pur se si eviden-zia l’eliminazione della immediata e diretta appli-cazione alle aziende speciali, istituzioni e società a partecipazione pubblica, di alcuni tipi di vincoli alle assunzioni e alle spese di personale previsti per le amministrazioni di riferimento – vincoli derivanti, peraltro, da previsioni normative oggetto di nume-rosi interventi di modifica da parte del legislatore statale tali da non renderli stabili né definitivamente certi), che il nuovo dettato legislativo obbliga al ri-spetto dell’inequivocabile principio della riduzione dei costi del personale degli organismi partecipati dagli enti pubblici, sia in termini di contenimento degli oneri contrattuali che di quelli derivanti da as-sunzioni di personale, in armonia con quanto dispo-sto, in via generale, negli anni, in tema di riduzione globale della spesa pubblica.

Il legislatore detta, inoltre, in maniera dettaglia-ta, le modalità esecutive di attuazione della norma, prevedendo:

- la predisposizione, da parte dell’ente control-lante, di un proprio “atto di indirizzo” che, in confor-mità a quanto disposto, a suo carico in tema di divieti o limitazioni alle assunzioni di personale, definisca, per ciascun organismo partecipato, i criteri e le mo-dalità per raggiungere l’obiettivo della riduzione dei costi, previa verifica dello specifico settore di appar-tenenza;

- l’adozione, da parte di ogni ente partecipato, di propri provvedimenti di attuazione degli indirizzi espressi dall’ente controllante, con specifico obbli-go, nel caso di riduzione degli oneri contrattuali, di recepimento degli stessi in sede di contrattazione di secondo livello.

Appare chiaro come tale previsione sia ben più pregnante di quanto fino ad oggi predisposto in tema di riduzione dei costi del personale dei soggetti par-tecipati dagli enti pubblici, obbligando sia gli uni che gli altri (controllanti e controllati) ad una seria valutazione della propria situazione economico-fi-nanziaria, nonché delle reali e concrete necessità che a ciascuno di essi fanno capo, facendo emergere la responsabilità di ciascuno nel caso di mancata attua-zione delle misure che conformino i propri costi in maniera coerente con la qualità dei servizi prestati.

Ciò premesso, va osservato che la scelta prefe-renziale da esercitare, in concreto, nella prospettata fattispecie, non può che essere ispirata – in confor-mità alle esigenze di razionalizzazione e di econo-micità nella gestione di risorse pubbliche che sotten-dono proprio il sopra evidenziato quadro normativo

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– ad una coerente, completa e motivata applicazione di principi di sana gestione e di contenimento della spesa, mediante una previa valutazione di tutte le re-lative implicazioni, sia in termini di effettiva econo-micità, sia sotto il profilo dell’efficienza e del buon andamento dell’attività di amministrazione di che trattasi.

Resta pertanto più che mai attuale quanto più vol-te sottolineato, in termini di doverosità del controllo e della riduzione della spesa da parte delle pubbliche amministrazioni, dalla Corte dei conti – cfr. per tutte, Sez. contr. reg. Veneto – che, con delib. n. 903/2012, ha ricordato “l’utilizzo di risorse pubbliche, anche se adottato attraverso moduli privatistici, impone par-ticolari cautele e obblighi in capo a tutti coloro che – direttamente o indirettamente – concorrono alla gestione di tali risorse, radicandone la giurisdizione e il controllo della Corte dei conti”. Di conseguen-za, sempre secondo tale Sezione, l’ente socio dovrà effettuare “un costante ed effettivo monitoraggio sull’andamento della società, con una verifica co-stante della permanenza dei presupposti valutativi che hanno determinato la scelta partecipativa inizia-le”, mettendo in atto, volta per volta, gli interventi correttivi che si rendano necessari nel corso della vita della società, per assicurare al meglio la remu-nerazione del capitale investito con l’impiego di con-sistenti risorse pubbliche.

Su tali aspetti gestionali e decisionali la Sezio-ne non può, peraltro, esprimere valutazioni tali da indirizzare, nello specifico, l’attività discrezionale dei competenti organi, soprattutto, perché le sezioni regionali di controllo della Corte dei conti non pos-sono svolgere, in sede consultiva, una funzione di consulenza di tale latitudine da giungere ad inserirsi in attività gestionali amministrative e/o societarie, ovvero ad interferire con i poteri discrezionali di altri organi i quali siano titolari, in via esclusiva, del rela-tivo esercizio e della conseguente applicazione (cfr. Corte conti, Sez. autonomie, 17 febbraio 2006, n. 5; Sez. contr. reg. Campania, 24 luglio 2014, n. 187).

* * *

Emilia-Romagna

181 – Sezione controllo Regione Emilia-Romagna; parere 19 settembre 2014; Pres. De Salvo, Rel. Patumi; Provincia di Modena.

Impiegato regionale e degli locali – Provincia – Spese per il personale – Assunzioni – Lavora-

tori appartenenti a categorie protette – Divie-to di assunzione a tempo indeterminato – Sus-sistenza.

L. 12 marzo 1999 n. 68, norme per il diritto al lavoro dei disabili; d.l. 6 luglio 2012 n. 95, convertito con modificazioni dalla l. 7 agosto 2012 n. 135, dispo-sizioni urgenti per la revisione della spesa pubblica con invarianza dei servizi ai cittadini, art. 16; l. 7 aprile 2014 n. 56, disposizioni sulle città metropoli-tane, sulle province, sulle unioni e fusioni di comuni, art. 1, cc. 58-89.

Pur dopo l’entrata in vigore della legge di ri-forma delle province (n. 56/2014), il preesistente divieto, posto a loro carico, di assumere personale con contratti a tempo indeterminato deve ritenersi esteso anche ai lavoratori rientranti nelle categorie protette. (1)

Fatto – Il presidente della Provincia di Modena ha inoltrato a questa Sezione, ai sensi dell’art. 7, c. 8, l. n. 131/2003, una richiesta di parere concernen-te l’applicabilità, alle province, del disposto di cui

(1) Con il parere in epigrafe, la Sez. contr. reg. Emilia-Ro-magna conferma la posizione già esposta nella precedente de-lib. 20 novembre 2013, n. 273, che aveva a sua volta recepito il principio di diritto, enunciato – nell’esercizio della funzione nomofilattica – da Sez. autonomie, 29 ottobre 2013, n. 25, in Foro it., 2013, III, 619 (con nota di G. Ricci), nel senso di ri-tenere inapplicabile alle province l’art. 7, c. 6, d.l. n. 101/2013, in forza del quale le assunzioni obbligatorie a tempo indeter-minato di personale appartenente alle categorie protette sono disposte anche in deroga ai divieti di nuove assunzioni, previ-sti dalla legislazione vigente. Conseguentemente, era stato af-fermato il divieto, a carico delle province, di assumere perso-nale anche se appartenente a categorie protette – con contratti a tempo indeterminato, attesa la necessità di evitare, nelle mo-re del ridimensionamento delle province, immissioni nelle stesse di nuove risorse umane.

La richiesta di parere oggetto della deliberazione annotata consegue alla circostanza che, dopo la citata delib. n. 273/2013 della Sez. contr. reg. Emilia-Romagna, è intervenuta la novità della integrale riforma delle province, operata con la l. n. 56/2014.

La provincia istante domandava se tale disciplina avesse fatto venir meno l’esigenza di cristallizzare la struttura buro-cratica degli enti locali de quibus. La Sez. contr. reg. Emi-lia-Romagna ha, tuttavia, ritenuto che detta esigenza non pos-sa considerarsi affatto superata, in considerazione sia del pro-cesso di ristrutturazione delle province ormai avviato, sia del-la prevista mobilità in uscita del personale verso altre ammini-strazioni.

Nello stesso senso, con riferimento all’epoca in cui il pro-getto di razionalizzazione delle province non era giunto a compimento, v. Sez. contr. reg. Toscana, 12 dicembre 2012, n. 453, in questa Rivista, 2013, fasc. 1-2, 204.

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all’art. 7, c. 6, d.l. 31 agosto 2013, n. 101 (“Disposi-zioni urgenti per il perseguimento di obiettivi di ra-zionalizzazione nelle pubbliche amministrazioni”), convertito con modificazioni dalla l. 30 ottobre 2013, n. 125, avente a oggetto l’assunzione di personale appartenente alle categorie protette (di cui all’art. 1 l. 12 marzo 1999, n. 68), in deroga ai divieti di operare nuove assunzioni previsti dalla legislazione vigente.

Il presidente della provincia, in particolare, do-manda se, alla luce della promulgazione della l. 7 aprile 2014, n. 56, rubricata “Disposizioni sulle città metropolitane, sulle province, sulle unioni e fusioni di comuni”, che ha, tra l’altro, ridisciplinato le pro-vince, si possa considerare superata la deliberazione di questa Sezione del 20 novembre 2013, n. 273 che aveva ritenuto inapplicabile, alle province, l’art. 7, c. 6, d.l. n. 101/2013, secondo il quale “Le amministra-zioni pubbliche procedono a rideterminare il numero delle assunzioni obbligatorie delle categorie protette sulla base delle quote e dei criteri di computo pre-visti dalla normativa vigente, tenendo conto, ove necessario, della dotazione organica come ridetermi-nata secondo la legislazione vigente. All’esito del-la rideterminazione del numero delle assunzioni di cui sopra, ciascuna amministrazione è obbligata ad assumere a tempo indeterminato un numero di lavo-ratori pari alla differenza fra il numero come rideter-minato e quello allo stato esistente. La disposizione del presente c. deroga ai divieti di nuove assunzioni previsti dalla legislazione vigente, anche nel caso in cui l’amministrazione interessata sia in situazione di soprannumerarietà (omissis)”.

Diritto – (Omissis) La problematica della applica-bilità, alle province, dell’art. 7, c. 6, d.l. n. 101/2013 cit., è stata già oggetto di analisi da parte di questo collegio che, mediante delib. 16 aprile 2013, n. 207, ha rimesso gli atti al presidente della Corte dei conti, affinché potesse valutare la possibilità di deferire la questione alla Sezione delle autonomie; ciò allo sco-po di far emanare una deliberazione di orientamento, giustificata dal rilevato contrasto interpretativo tra diverse sezioni regionali di controllo della Corte dei conti.

La Sezione delle autonomie si è pronunciata, con delib. 29 ottobre 2013, n. 25, accogliendo la ricostru-zione prospettata da questa Sezione, sulla base del rilievo che “Il divieto, posto a carico delle province, di assumere personale a tempo indeterminato, di cui all’art. 16, c. 9, d.l. 6 luglio 2012, n. 95 (omissis), è tuttora in vigore. Tale divieto ricomprende anche le unità di personale aventi diritto al collocamento obbligatorio”.

La motivazione è stata individuata nella circo-stanza che il processo di riordino delle province, alla base del divieto di cui all’art. 16, c. 9, d.l. 6 luglio 2012, n. 95, per il quale “nelle more dell’attuazione delle disposizioni di riduzione e razionalizzazione delle province è fatto comunque divieto alle stes-se di procedere ad assunzioni di personale a tempo indeterminato”, era da considerarsi ancora in atto. Inoltre, non è stata giudicata possibile l’assunzione di soggetti appartenenti alle “categorie protette”, in quanto “stante la possibile soppressione dell’ente datore di lavoro, il legislatore ha ritenuto corretto e doveroso cristallizzare la struttura burocratica”.

Sulla base del principio di diritto enunciato dal-la Sezione delle autonomie, la Sezione regionale di controllo per l’Emilia-Romagna ha successivamente reso il parere richiesto, con delib. 20 novembre 2013, n. 273.

È ora utile procedere a una breve analisi delle norme, rilevanti ai fini del presente parere, emanate successivamente alla pronuncia della Sezione delle autonomie, n. 25/2013 e alla delib. n. 273/2013 di questa Sezione.

Mediante la l. 7 aprile 2014, n. 56 rubricata “Di-sposizioni sulle città metropolitane, sulle province, sulle unioni e fusioni di comuni” (c.d. “legge Del-rio“) il legislatore statale ha proceduto a riformare le province. La normativa ha innanzitutto modificato la natura stessa di queste ultime, che sono divenute enti di secondo livello, in quanto l’elezione dei relativi organi politici non avverrà più ad opera dei cittadini, bensì da parte dei sindaci e dei consiglieri comunali dei comuni della provincia (fatta eccezione per l’as-semblea dei sindaci, costituita dai sindaci dei comuni appartenenti alla provincia), come stabilito dall’art. 1, cc. 58-84.

Alle province, come riconfigurate, sono state ri-conosciute, dall’art. 1, cc. 85-89, diverse funzioni. In particolare, l’art. 1, cc. 85-86, ha affidato direttamen-te a tali enti alcune funzioni fondamentali, le quali, come previsto dal c. 87, saranno esercitate nei limiti e secondo le modalità stabilite dalla legislazione sta-tale e regionale di settore secondo la rispettiva com-petenza per materia. Il c. 88, inoltre, ha individuato altre funzioni esercitabili dalle province d’intesa con i comuni. Infine, il c. 89 ha previsto l’attribuzione di ulteriori funzioni alle province da parte dello Stato e delle regioni, secondo le rispettive competenze.

Il quadro delle funzioni che saranno effettiva-mente esercitate dalle province è, quindi, composito e non ancora del tutto definito.

La disciplina delle province introdotta dalla “leg-

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ge Delrio”, peraltro, è stata espressamente configura-ta come provvisoria, stante il disposto di cui all’art. 1, c. 51, per il quale “In attesa della riforma del titolo V, parte II, della Costituzione e delle relative norme di attuazione, le province sono disciplinate dalla pre-sente legge”.

La prevista riforma è stata oggetto di un disegno di legge costituzionale, presentato dal governo della Repubblica italiana, recante “Disposizioni per il su-peramento del bicameralismo paritario, la riduzione del numero dei parlamentari, il contenimento dei co-sti di funzionamento delle istituzioni, la soppressione del Cnel e la revisione del titolo V della Costituzio-ne”, approvato dal Senato della Repubblica in data 8 agosto 2014 e attualmente all’esame della Camera dei deputati. L’art. 28 (rubricato “Abolizione delle province”) del citato disegno di legge costituzionale prevede quanto segue: “All’art. 114 della Costituzio-ne sono apportate le seguenti modificazioni: a) al c. 1, le parole “dalle province,” sono soppresse; b) al c. 2, le parole: “le province,” sono soppresse.

Un intervento normativo rilevante ai fini del pa-rere de quo, è quello di cui al d.l. 24 giugno 2014, n. 90 (“Misure urgenti per la semplificazione e la trasparenza amministrativa e per l’efficienza degli uffici giudiziari”), convertito con modificazioni dalla l. 11 agosto 2014, n. 114, il quale, all’art. 3, c. 5, ha stabilito che “resta fermo quanto disposto dall’art. 16, c. 9, d.l. 6 luglio 2012, n. 95”. Riassumendo, il legislatore statale ha proceduto all’attesa modifica delle province, mutandone la natura e riducendo le funzioni a esse intestate, tuttavia operando median-te una disciplina che ha espressamente considerato, nelle more della riforma del titolo V, parte II della Costituzione italiana, come transitoria. Tale riforma al momento è all’esame della Camera dei deputati. Il legislatore, inoltre, ha espressamente considerato tuttora in vigore il disposto di cui all’art. 16, c. 9, d.l. n. 95/2012 che vieta alle province di procedere ad assumere personale a tempo indeterminato.

Delineato l’attuale quadro normativo, è ora pos-sibile stabilire se le province, alle quali è attualmente preclusa la possibilità di assumere personale a tempo indeterminato, si applichi o meno il disposto di cui all’art. 7, c. 6, d.l. n. 101/2013, in forza del quale le assunzioni obbligatorie a tempo indeterminato di personale appartenente alle categorie protette sono disposte in deroga ai divieti di nuove assunzioni pre-visti dalla legislazione vigente.

Non sembra a questo collegio che siano nella so-stanza mutati i presupposti sulla base dei quali la Se-zione delle autonomie, mediante la delib. n. 25/2013,

ha ritenuto prevalente, sulla prevista assunzione ob-bligatoria di appartenenti alle categorie protette, la norma avente a oggetto il divieto di assunzione a tempo indeterminato, valutando quest’ultima come “una disposizione che esula da motivazioni stretta-mente finanziarie per collocarsi su un piano di razio-nalità organizzativa: stante la possibile soppressione dell’ente datore di lavoro, il Legislatore ha ritenuto corretto e doveroso cristallizzare la struttura buro-cratica (nel comparto risorse umane) dello stesso, in vista dell’accennata soppressione (omissis) la nor-ma, nelle more dell’attuazione delle disposizioni di riduzione e razionalizzazione delle province, mira ad anticipare giuridicamente la stessa condizione di impossibilità di fatto all’assunzione che deriverebbe dall’eventuale estinzione dell’ente”.

Se è vero, infatti, che la radicale estinzione delle province è solo un’ipotesi, costituisce comunque un dato di fatto la ristrutturazione, ancora in atto, delle stesse. Tale situazione di precarietà rende irragione-vole l’ipotesi di incrementare il personale delle pro-vince, seppure mediante assunzione di appartenenti a categorie protette, anche in considerazione della circostanza che se si applicasse a tali enti l’art. 7, c. 6, d.l. n. 101/2013, il numero delle assunzioni da operare andrebbe determinato sulla base della dota-zione organica la quale, nelle more dell’emanazione dei decreti attuativi della l. n. 56/2014, costituisce un dato aleatorio. L’art. 1, c. 92, della legge da ultimo ci-tata ha infatti espressamente previsto il trasferimento anche di risorse umane dalle province agli enti su-bentranti nell’esercizio delle funzioni trasferite.

Pertanto, questa Sezione ritiene che le province non possano assumere con contratti a tempo indeter-minato lavoratori rientranti nelle categorie protette, non essendo a essi applicabile la norma ex art. 7, c. 6, d.l. n. 101/2013, in considerazione del processo di ristrutturazione in atto, nonché del previsto trasferi-mento, in uscita da tali enti, di risorse umane.

183 – Sezione controllo Regione Emilia-Romagna; parere 19 settembre 2014; Pres. De Salvo, Rel. Pieroni; Comune di Cesenatico.

Impiegato regionale e degli enti locali – Dirigente di ufficio tecnico comunale – Incentivo per la progettazione di opere pubbliche – Spettanza – Fattispecie – Situazione precedente l’entrata in vigore della l. n. 14/2014.

D.lgs. 18 agosto 2000 n. 267, t.u. delle leggi sull’or-dinamento degli enti locali, art. 110; d.lgs. 12 aprile 2006 n. 163, codice dei contratti pubblici relativi a

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lavori, servizi, e forniture in attuazione delle diretti-ve 2004/17/Ce e 2004/18/Ce, art. 92; d.l. 24 giugno 2014 n. 90, convertito con modificazioni dalla l. 11 agosto 2014 n. 14, misure urgenti per la semplifica-zione e la trasparenza amministrativa e per l’efficien-za degli uffici giudiziari, art 13-bis.

Prima dell’entrata in vigore della l. 11 agosto 2014 n. 14, che ha escluso la possibilità di corrispondere gli incentivi per la progettazione di opere pubbliche al personale degli enti locali con qualifica dirigen-ziale, il dirigente di ruolo dell’ufficio tecnico di un comune aveva senz’altro titolo alla corresponsione di tali emolumenti. (1)

Fatto – Il Comune di Cesenatico chiede di cono-scere se è legittimo corrispondere, per attività svolte nell’anno 2013, incentivi di progettazione, ai sensi dell’art. 92 d.lgs. n. 163/2006, al dirigente del setto-re urbanistica incaricato per l’ente, ai sensi dell’art. 110, c. 2, d.lgs. n. 267/2000, individuato specifica-

(1) Per corrispondere alla richiesta di parere avente a og-getto la possibilità di corrispondere incentivi per la progetta-zione al dirigente di ruolo dell’ufficio tecnico di un comune, la Sezione di controllo per l’Emilia-Romagna ha ricostruito il quadro normativo e ha richiamato la più recente giurispruden-za contabile.

In particolare, ha ricordato che la delib. Sez. autonomie, 15 aprile 2014, n. 7 (in questa Rivista, 2014, fasc. 1-2, 101), ha risolto, nell’esercizio della funzione nomofilattica, un contra-sto tra diverse sezioni regionali di controllo, avente ad ogget-to la delimitazione del concetto di “atto di pianificazione co-munque denominato”, presupposto per il riconoscimento degli incentivi di progettazione di cui all’art. 92, cc. 5 e 6, del codi-ce dei contratti pubblici. La Sezione delle autonomie ha chia-rito che detti emolumenti devono necessariamente essere rife-riti alla progettazione di opere pubbliche e non anche a meri atti di pianificazione non collegati direttamente alla realizza-zione di un’opera.

Per quanto concerne la normativa, la stessa Sezione delle autonomie ha evidenziato come l’art. 13-bis d.l. n. 90/2014 abbia stabilito, con disposizione non applicabile retroattiva-mente, che la previsione concernente la corresponsione degli incentivi alla progettazione “non si applica al personale con qualifica dirigenziale”. Pertanto, la soluzione interpretativa individuata nel parere in epigrafe può trovare applicazione so-lo rispetto a situazioni precedenti l’entrata in vigore della leg-ge di conversione del d.l. n. 90.

Ciò premesso, la sezione regionale ha fornito il richiesto parere evidenziando come anche il dirigente di ruolo di un uf-ficio tecnico del comune possa beneficiare degli incentivi alla progettazione (ovviamente – si ripete – in riferimento a situa-zioni antecedenti alla riforma legislativa di cui al d.l. n. 90 cit.), purché egli, nel rispetto del principio dell’alterità, non coincida con il soggetto incaricato di accertare il buon esito del progetto.

mente nel procedimento di redazione e progettazio-ne di “Variante generale al Prg 98, ai sensi dell’ex art. 15 l. reg. n. 47/1978 e successive modificazioni” come “progettista”, laddove il regolamento comuna-le vigente espressamente prevede che “progettisti” si identificano nei dipendenti di ruolo facenti parte dell’ufficio tecnico.

Diritto – (Omissis)2. Merito2.1. Al riguardo, giova premettere che il comune

richiedente, com’è possibile desumere dal pream-bolo dell’all. A alla richiesta di parere (che richia-ma la giurisprudenza di questa Corte in materia, in particolare i pareri della Sez. contr. reg. Toscana, n. 252/2013 e n. 276/2013 e Sez. contr. reg. Veneto, n. 361/2013), è avveduto – ma come si vedrà in modo insufficiente – della complessa questione interpreta-tiva concernente la spettanza degli incentivi di pro-gettazione ai sensi dell’art. 92 d.lgs. n. 163/2006, a favore dei dirigenti – nel senso che la previsione dell’art. 92, c. 6, d.lgs. n. 163/2006 conterrebbe, per i dirigenti, una norma d’incentivazione autonoma de-rogatoria rispetto al principio di onnicomprensività contenuta nel c. 5 del medesimo articolo.

In particolare, nella citata delib. n. 361/2013, la Corte dei conti, Sezione regionale per il Veneto ha ritenuto: “che la previsione dell’art. 92, c. 6, d.lgs. n. 163/2006 contenga un’esplicita norma d’incentiva-zione che deroga al principio di onnicomprensività. La norma introduce quindi una previsione deroga-toria autonoma e distinta rispetto a quella contenu-ta nel c. 5, ricavabile da numerosi fattori. Tale con-clusione è avvalorata, in particolare, sia dall’analisi dell’evoluzione storica della norma che dalla verifica della sua trasposizione nel corpus del codice dei con-tratti. Essa trova conferma altresì nell’esplicita pre-visione testuale della norma (atto di pianificazione comunque denominato), nonché dalla previsione di una diversa commisurazione del compenso rispetto a quanto previsto in tema di progettazione di opere pubbliche. L’oggettiva e dimostrata maggiore com-plessità delle funzioni di pianificazione trova una sua esplicitazione a livello normativo nella documenta-zione che viene allegata alle varianti agli strumenti urbanistici rispetto alle modifiche puntuali di essi connesse alla progettazione delle opere pubbliche. Tali attività di elaborazione sono pertanto di uno scrutinio comparativo alla luce dei principi dell’ordi-namento e in particolare di ragionevolezza e di quelli enunciati all’art. 36 della Costituzione. Anche sul piano soggettivo, le mansioni di pianificazione gene-rali – a differenza di quelle di progettazione di opera

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pubblica – non sono ascrivibili alla specifica compe-tenza di un solo soggetto, ma richiedono un’attività multidisciplinare, che non potrebbe trovare deroga alcuna attese le tassatività delle competenze profes-sionali stabilite dalla legge. Peraltro, esse richiedono comunque una intensa attività di coordinamento che trova esplicita conferma testuale nella norma del c. 6 nel rinvio alle modalità e criteri del regolamento di cui al comma precedente. La stessa commisura-zione del compenso, in modo sensibilmente diverso rispetto a quella di progettazione dell’opera pubbli-ca, dimostra come l’intenzione del legislatore è stata quella di attribuire la giusta retribuzione all’attività di pianificazione, anche mediata, a prescindere dal suo collegamento con un’opera pubblica”.

2.2. Tale questione interpretativa non costitui-sce, invero, il petitum del quesito, essendo quest’ul-timo volto a conoscere se il comune sia legittimato a estendere al dirigente del settore urbanistica del comune medesimo (come previsto dalla delibera a firma dello stesso dirigente del comune allegata alla richiesta di parere) la corresponsione degli incentivi per la progettazione, laddove, invece, il regolamento comunale, emanato ai sensi dell’art. 110, c. 2, d.lgs. n. 267/2000, indentifica i progettisti beneficiari “nei dipendenti di ruolo facenti parte dell’ufficio tecnico” (v. art. 3, c. 1, lett. b, del regolamento comunale per la corresponsione degli incentivi per la progettazione del 6 ottobre 2006).

2.3. Tuttavia, occorre qui svolgere un’importante precisazione circa la validità dell’orientamento for-mulato in proposito dalla Corte dei conti, Sez. contr. reg. Veneto, n. 361/2013, citata nel preambolo della determinazione n. 841 allegata alla richiesta di pa-rere, evidentemente non a conoscenza del comune richiedente.

2.3.1. La Corte dei conti, Sez. autonomie, con delib. n. 7/2014 ha risolto la questione di massima circa la corretta interpretazione delle disposizioni recate dall’art. 92, c. 6, d.lgs. 12 aprile 2006, n.163 (in prosieguo Codice dei contratti) e, in particolare, della definizione ivi riportata “atto di pianificazione comunque denominato”.

Due erano gli indirizzi interpretativi formatisi nella giurisprudenza della Corte, il primo conside-rava i corrispettivi previsti dalle citate disposizioni di cui all’art. 92, c. 6, a favore dei dipendenti, a ti-tolo d’incentivi alla progettazione interna, necessa-riamente collegati alla realizzazione di opere pub-bliche e la partecipazione alla redazione di un atto di pianificazione di carattere generale quale attività rientrante nell’espletamento di funzioni istituzionali

(cfr. ex multis: Sez. contr. reg. Toscana, n. 231/2011 e n. 15/2013; Sez. contr. reg. Piemonte, n. 290/2012; Sez. contr. reg. Puglia, n. 1/2012 e n. 107/2012; Sez. contr. reg. Lombardia, n. 452/2012 e n. 391/2013; Sez. contr. reg. Campania, n. 141/2013; Sez. contr. reg. Emilia-Romagna, n. 243/2013; Sez. contr. reg. Marche, n. 67/2013; Sez. contr. reg. Umbria, n. 119 e n. 125 del 2013); il secondo, di recente espresso dalla Sezione regionale di controllo per il Veneto (delib. n. 361/2013), e richiamato nel preambolo della de-terminazione del 4 dicembre 2013, n. 841, allegata alla richiesta di parere del Comune di Cesenatico, affermava che “con l’utilizzo della locuzione atto di pianificazione comunque denominato, lungi dall’au-torizzare interpretazioni restrittive, il legislatore ha inteso utilizzare una dizione sufficientemente gene-rale e aperta, tale da consentire di ascrivere all’ambi-to oggettivo della norma ogni atto di pianificazione, prescindendo dal suo collegamento diretto con la progettazione di un’opera pubblica”, concludendosi per un’applicazione dell’istituto premiale estesa ad ogni atto di pianificazione “anche di carattere me-diato”.

2.3.2. Nel merito, la Sezione autonomie, nella ci-tata delib. n. 7/2014, ha risolto la questione di massi-ma e dunque il contrasto tra le pronunce delle sezioni regionali di controllo della Corte nel senso che gli incentivi di cui al citato art. 92, cc. 5 e 6, devono essere necessariamente riferiti alla progettazione di opere pubbliche e non invece a meri atti di pianifi-cazione non collegati direttamente alla realizzazione di un’opera pubblica, come invece risulterebbe dalla citata determinazione n. 841 allegata alla richiesta di parere del Comune di Cesenatico, che, appunto, fa ri-ferimento alla progettazione della “variante generale al Prg 98, ai sensi dell’ex art. 15 l. reg. n. 47/1978 e successive modificazioni”.

2.4. Tanto premesso, in considerazione del tenore della richiesta di parere, occorre comunque stabilire se l’attuale formulazione del regolamento comunale per la corresponsione degli incentivi per la progetta-zione osti, in via di principio, a legittimare il comune a corrispondere, per attività svolte nell’anno 2013, incentivi per la progettazione (riferibile alla realiz-zazione di opere pubbliche) al dirigente responsabile della struttura, dato, come si è visto, che il citato re-golamento individua i beneficiari degli incentivi nei progettisti “dipendenti di ruolo facenti parte dell’uf-ficio tecnico”, come individuati dal dirigente.

2.5. Al riguardo occorre ricordare che il contratto collettivo nazionale di lavoro del personale dirigen-te del comparto regioni e autonomie locali (Area II,

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regioni e autonomie locali) Quadriennio normativo 2006-2009, Biennio 2006-2007 prevede all’art. 20 (Onnicomprensività del trattamento economico) quanto segue: “In aggiunta alla retribuzione di posi-zione e di risultato, ai dirigenti possono essere ero-gati direttamente, a titolo di retribuzione di risultato, solo i compensi previsti da specifiche disposizioni di legge, come espressamente recepite nelle vigenti di-sposizioni della contrattazione collettiva nazionale e secondo le modalità da queste stabilite: art. 92, c. 5, d.lgs. n. 163/2006; art. 37 c.c.n.l. 23 dicembre 1999; art. 3, c. 57, l. n. 662/1996; art. 59, c. 1, lett. p), d.lgs. n. 446/1997 (recupero evasione Ici); art. 12, c. 1, lett. b), d.l. n. 437/1996, convertito con modificazio-ni dalla l. n. 556/1996. L’ente definisce l’incidenza delle suddette erogazioni aggiuntive sull’ammontare della retribuzione di risultato sulla base criteri ge-nerali oggetto di previa concertazione sindacale, ai sensi dell’art. 6 c.c.n.l. del 22 febbraio 2006”. Tale clausola negoziale riproduce quelle già inserite nel c.c.n.l. del 23 dicembre 2009 (art. 26, c. 1, lett. e), e c.c.n.l. 10 aprile 1996 (art. 37, c. 1, lett. e).

Nell’orientamento applicativo del 27 novembre 2007, l’Aran ha anche chiarito che “le risorse deri-vanti dall’applicazione dell’art. 18 l. n. 109/1994 (ora art. 92, c. 5, d.lgs. n. 163/2006) possono confluire nel fondo di posizione e di risultato della dirigenza (per essere erogate come retribuzione di risultato) solo a condizione che sussistano i finanziamenti destinati all’esecuzione delle relative opere pubbliche e, na-turalmente, limitatamente al solo anno di riferimento temporale dello stesso finanziamento”.

2.6. Quanto all’individuazione dell’ufficio tecni-co, l’organigramma del Comune di Cesenatico non individua espressamente l’“Ufficio tecnico”, bensì diversi uffici con competenze di progettazione ur-banistica tra cui l’ufficio diretto dal dirigente arch. Vittorio Foschi, Edilizia privata-vigilanza (cfr. de-terminazione 4 dicembre 2013, n. 841, allegata alla richiesta di parere del Comune di Cesenatico); sic-ché, quest’ultimo sembra riconducibile nell’ambito applicativo della disposizione comunale.

2.7. Sulla base del ricostruito quadro normativo di riferimento, la formulazione della norma rego-lamentare del Comune di Cesenatico non sembra di per sé di ostacolo alla destinazione nell’an degli incentivi di cui al Fondo per la progettazione al per-sonale dirigenziale di ruolo di un ufficio tecnico del comune, in quanto come si è visto, sulla base delle vigenti clausole contrattuali, la c.d. onnicomprensi-vità del trattamento dei dirigenti appartenenti all’A-rea II (dirigenti di regioni ed enti locali) non esclude

l’eventuale destinazione, anche a loro beneficio, de-gli incentivi di cui all’art. 92 d.lgs. n. 163/2006.

3. Un ulteriore profilo merita di essere evidenzia-to sebbene esso non formi oggetto del quesito.

La citata determinazione del 4 dicembre 2013, n. 841, allegata alla richiesta di parere, prevede che il dirigente capo dell’ufficio risulta beneficiario nella misura del 40 per cento dell’incentivo; e tuttavia, tenuto conto del disposto di cui al quarto periodo dell’art. 92, c. 5, d.lgs. n. 163/2006 “La correspon-sione dell’incentivo è disposta dal dirigente prepo-sto alla struttura competente, previo accertamento positivo delle specifiche attività svolte dai predetti dipendenti”, la determinazione omette di indicare il soggetto deputato a “accertare” che le attività da re-munerare saranno svolte in modo positivo, potendo invero ipotizzarsi che, nel silenzio della determina, il capo dell’ufficio beneficiario dell’incentivo possa coincidere con il soggetto che provvederà all’accer-tamento del buon esito del progetto.

In proposito, occorre segnalare che il Comitato consultivo dell’Avvocatura generale dello Stato, nel parere 21 dicembre 2013, prot. n. 513720/23 (CS 4955-6145/13, Sez. VII, Avv. Marco Stigliano Mes-suti), in riferimento al quesito su “chi debba inten-dersi per membro interno ovvero esterno alla stazio-ne appaltante ai fini dell’applicazione rispettivamen-te degli incentivi ex art. 92, c. 5, d.lgs. n. 163/2006”, ha ritenuto che “gli aventi diritto potevano essere solo le figure tecnico-professionali espressamente richiamate ai fini del riparto, ossia il responsabile del procedimento, il progettista, il direttore dei lavori, i collaudatori, nonché i loro collaboratori”; il citato parere aggiunge che (nella fattispecie esaminata) “il convenuto ha percepito il fondo come collaboratore di sé medesimo in evidente violazione dell’art. 92, c. 5, nella parte in cui, invece, stabiliva la destina-zione a ‘economia’ non solo per la quota d’incentivo riguardante le attività conferite a soggetti esterni, ma anche per quelle prive del dovuto “accertamento” da parte del dirigente, e non vede il collegio come il (…) abbia potuto sindacare, valutare e, dunque, ‘ac-certare’ la propria auto-collaborazione”.

4. Occorre aggiungere che la disciplina in tema di riparto del Fondo per l’incentivazione per la proget-tazione interna è stata riconsiderata ad opera dell’art. 13-bis del d.l. 24 giugno 2014, n. 90 “Misure urgenti per la semplificazione e la trasparenza amministrati-va e per l’efficienza degli uffici giudiziari”, conver-tito dalla l. 11 agosto 2014, n. 114, che ha abrogato i cc. 5 e 6 dell’art. 92 del codice dei contratti pubblici relativi a lavori, servizi e forniture, di cui al d.lgs.

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n. 163/2006, che ha inserito, dopo il c. 7 dell’art. 93 del codice, il c. 7-ter, il quale così dispone “L’80 per cento delle risorse finanziarie del Fondo per la pro-gettazione e l’innovazione è ripartito, per ciascuna opera o lavoro, con le modalità e i criteri previsti in sede di contrattazione decentrata integrativa del per-sonale e adottati nel regolamento di cui al c. 7-bis, tra il responsabile del procedimento e gli incaricati del-la redazione del progetto, del piano della sicurezza, della direzione dei lavori, del collaudo, nonché tra i loro collaboratori; gli importi sono comprensivi an-che degli oneri previdenziali e assistenziali a carico dell’amministrazione. Il regolamento definisce i cri-teri di riparto delle risorse del fondo, tenendo conto delle responsabilità connesse alle specifiche presta-zioni da svolgere, con particolare riferimento a quelle effettivamente assunte e non rientranti nella qualifica funzionale ricoperta, della complessità delle opere, escludendo le attività manutentive, e dell’effettivo rispetto, in fase di realizzazione dell’opera, dei tempi e dei costi previsti dal quadro economico del proget-to esecutivo. Il regolamento stabilisce altresì i criteri e le modalità per la riduzione delle risorse finanzia-rie connesse alla singola opera o lavoro a fronte di eventuali incrementi dei tempi o dei costi previsti dal quadro economico del progetto esecutivo, redatto nel rispetto dell’art. 16 del regolamento di cui al d.p.r. 5 ottobre 2010, n. 207, depurato del ribasso d’asta offerto. Ai fini dell’applicazione del terzo periodo del presente comma, non sono computati nel termi-ne di esecuzione dei lavori i tempi conseguenti a so-spensioni per accadimenti elencati all’art. 132, c. 1, lett. a), b), c) e d). La corresponsione dell’incentivo è disposta dal dirigente o dal responsabile di servi-zio preposto alla struttura competente, previo accer-tamento positivo delle specifiche attività svolte dai predetti dipendenti. Gli incentivi complessivamente corrisposti nel corso dell’anno al singolo dipenden-te, anche da diverse amministrazioni, non possono superare l’importo del 50 per cento del trattamento economico complessivo annuo lordo. Le quote par-ti dell’incentivo corrispondenti a prestazioni non svolte dai medesimi dipendenti, in quanto affidate a personale esterno all’organico dell’amministrazione medesima, ovvero prive del predetto accertamento, costituiscono economie. Il presente comma non si applica al personale con qualifica dirigenziale”.

Per effetto di questa innovazione normativa: a) la disciplina del regime dell’incentivazione è ora espressamente da ricondurre alla sola realizzazione di opere pubbliche e non anche ad attività di pianifi-cazione territoriale; b) in base all’ultimo periodo del citato c. 7-ter, il legislatore, evidentemente ispirato

alla ratio del principio della onnicomprensività della retribuzione, prevede ora che non spetta al “dirigen-te” il riparto degli incentivi dal Fondo per la proget-tazione.

5. Conclusivamente, deve ritenersi che:a) l’ambito applicativo degli incentivi per la

progettazione di cui agli artt. 92 d.lgs. n. 163/2006 riguarda non un’attività di semplice pianificazione territoriale (come sembra avvenire nel caso all’esa-me), ma esclusivamente di progettazione collegata direttamente con la realizzazione di un’opera pub-blica;

b) fino all’entrata in vigore della legge di conver-sione 11 agosto 2014, n. 114, d.l. 24 giugno 2014, n. 90, anche il dirigente di ruolo di un ufficio tecni-co del comune potrebbe beneficiare degli incentivi, in quanto il contratto collettivo nazionale di lavoro dell’Area II prevede espressamente quale deroga al principio dell’onnicomprensività la spettanza di in-centivi per la progettazione (come detto, strettamen-te riferibile alla realizzazione di un’opera pubblica);

c) in base al principio dell’alterità, il beneficia-rio dell’incentivo non può coincidere con il soggetto (ad esempio, il capo dell’Ufficio tecnico) che prov-vederà all’accertamento del buon esito del progetto;

d) l’art. 93, c. 7-ter, ultimo periodo, del codice di cui al d.lgs. n. 163/2006, come inserito dall’art. 13-bis “Fondi per la progettazione e l’innovazione” della legge di conversione 11 agosto 2014, n. 114 del d.l. n. 90/2014 – disposizione non applicabile retro-attivamente, non essendo norma d’interpretazione autentica – ha espunto dall’ordinamento il c. 5 (al quale il c.c.n.l. dell’Area II faceva richiamo) e il c. 6 dell’art. 92 del codice dei contratti pubblici relativi a lavori, servizi e forniture, di cui al d.lgs. n. 163/2006; in base a tale nuova disciplina il riparto del Fondo per la progettazione non trova più applicazione per il personale con qualifica dirigenziale.

188 – Sezione controllo Regione Emilia-Romagna; parere 19 settembre 2014; Pres. De Salvo, Rel. Cossu; Comune di Montegridolfo.

Impiegato regionale e degli enti locali – Comune e provincia – Spese per il personale – Obbligo di riduzione – Inadempimento – Effetti.

L. 27 dicembre 2006 n. 296, disposizioni per la for-mazione del bilancio annuale e pluriennale dello Sta-to (legge finanziaria 2007), art. 1, cc. 557, 557-ter.

Agli enti locali con popolazione superiore a 1.000 abitanti, sottoposti dal 2013 al patto di sta-

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bilità interno, i quali non siano riusciti ad assicu-rare la riduzione della propria spesa di personale, si applica la sanzione del divieto di assunzione di personale, a qualsiasi titolo e con qualsiasi tipologia contrattuale, nell’anno successivo a quello nel quale l’inadempimento si è verificato. (1)

Premesso in fatto – Il Comune di Montegridolfo, premesso di essere un ente tenuto a rispettare il patto di stabilità interno a decorrere dal 2013, ha formu-lato alla sezione una richiesta di parere con la qua-le chiede di conoscere se può derogare al divieto di assunzione di nuovo personale previsto dall’art. 1, c. 557-ter, l. n. 296/2006 o, in caso negativo, quale soluzione sia possibile attivare per evitare la paralisi del comune tenuto conto che, dai dati del consuntivo 2013, risulta che non ha ottemperato all’obbligo di cui all’art. 1, c. 57, l. n. 296/2006.

In particolare, l’ente precisa di non essere riusci-to nel 2013 a ridurre la propria spesa di personale in quanto, dei sei posti che compongono la propria dotazione organica, due sono rimasti scoperti per diversi mesi dell’anno. Per sopperire a tali assenze il comune ha deciso di avvalersi di collaborazioni occasionali con dipendenti di altri comuni e di con-venzioni.

Rappresenta, altresì, che anche nel 2014 ci sono state nuove scoperture della pianta organica e che dei due dipendenti in servizio che rimarranno nei propri uffici uno usufruisce dell’orario ridotto.

L’ente deduce, infine, che l’incidenza della spesa per il personale è comunque inferiore al 50 per cento delle spese correnti. (Omissis)

(1) La deliberazione in epigrafe è di notevole interesse per la ricostruzione della disciplina in materia di vincoli alla spe-sa di personale, ai quali sono assoggettati gli enti locali. Oltre ai vincoli generici, sono elencati sia quelli relativi alle assun-zioni di personale a tempo indeterminato, sia quelli riguardan-ti le varie tipologie di lavoro flessibile. La deliberazione si se-gnala, altresì, per un’accurata analisi delle novità introdotte dal d.l. n. 90/2014 (convertito con modificazioni dalla l. n. 114/2014), in materia di assunzioni.

Dopo aver ricostruito il quadro normativo, la Sezione di controllo ha corrisposto alla richiesta di parere, affermando la tassatività del divieto di nuove assunzioni sancito dall’art. 1, c 557-ter, l. n. 296/2006 nei confronti degli enti locali, tenuti a rispettare il patto di stabilità, che non abbiano nell’anno prece-dente ridotto la spesa di personale.

Per quanto concerne le modalità di applicazione del divie-to ai comuni con popolazione compresa tra 1.001 e i 5.000 abitanti del divieto di assunzioni di cui all’art. 16, c. 31, d.l. n. 138/2011, la deliberazione rimanda alla pronuncia della Sez. autonomie, 11 maggio 2012, n. 6, in www.corteconti.it.

Nel merito – 4. Il quesito posto alla sezione con-siste nello stabilire se un ente locale – tenuto a ri-spettare il patto di stabilità interno a decorrere dal 2013 in quanto rientrante nell’ambito di applicazione dell’art. 16, c. 31, d.l. 13 agosto 2011, n. 138, con-vertito dalla l. 14 gennaio 2011, n. 148 – che non ab-bia, nel primo anno di applicazione di tale disciplina, ottemperato all’obbligo di riduzione annuale della spesa di personale (cfr. art. 1, c. 557, l. n. 296/2006), possa derogare al divieto di assumere nuovo perso-nale nell’anno successivo (cfr. art. 1, c. 557-ter, l. n. 296/2006).

5. Il citato art. 16, c. 31, d.l. n. 138/2011 ha previ-sto che “a decorrere dall’anno 2013, le disposizioni vigenti in materia di patto di stabilità interno per i comuni trovano applicazione nei riguardi di tutti i comuni con popolazione superiore a 1.000 abitanti”.

In merito all’applicabilità e alla decorrenza delle disposizioni che limitano il regime delle assunzioni di nuovo personale presso gli enti locali con popo-lazione superiore a 1.000 abitanti, si è pronunciata la Sezione delle autonomie con delib. n. 6/2012. In tale pronuncia è stato precisato che “i comuni con popolazione compresa tra 1.001 e 5.000 abitanti, che dall’anno 2013 saranno chiamati a osservare, in virtù dell’art. 16, c. 31, d.l. n. 138/2011, le regole del pat-to di stabilità interno, sono suscettibili di incorrere nel divieto di assunzioni previsto dal c. 4 dell’art. 76 d.l. n. 112/2008 soltanto a decorrere dall’anno 2014, in quanto la valenza chiaramente sanzionatoria del divieto, ricollegabile alla inosservanza dei vincoli stabiliti col patto di stabilità, restringe l’ambito sog-gettivo di operatività della disposizione ai soli enti connotati dalla esistenza di un pregresso vincolo obbligatorio, in forza del quale, gli stessi, possono essere chiamati a rispondere dell’inadempimento ad essi imputabile”.

6. Ciò premesso, la Sezione ritiene opportuno richiamare il quadro normativo contenente la disci-plina in tema di vincoli alla spesa e alle assunzioni di nuovo personale alla quale sono soggetti gli enti locali.

In particolare, per quelli assoggettati al patto di stabilità interno, la prima tipologia di vincoli è co-stituita dall’obbligo di riduzione tendenziale della spesa di personale da attuarsi mediante il conteni-mento della dinamica retributiva ed occupazionale con “azioni da modulare nell’ambito della propria autonomia” (art. 1, cc. 557 e 557-bis, l. n. 296/2006). La violazione di tale obbligo è sanzionata dal c. 557-ter del medesimo art. 1 (che richiama l’art. 76, c. 4, d.l. n. 112/2008 ove la sanzione è prevista) con il di-

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vieto di assunzione di nuovo personale nell’esercizio successivo.

Sempre per la medesima tipologia di enti i vin-coli alle assunzioni di nuovo personale sono stati ulteriormente suddivisi tra quelli riferiti al persona-le a tempo indeterminato, che rappresenta la forma ordinaria del rapporto di lavoro con la pubblica am-ministrazione in virtù dell’art. 36 d.lgs. n. 165/2001 secondo il quale “per le esigenze connesse con il proprio fabbisogno ordinario le pubbliche ammini-strazioni assumono esclusivamente con contratti di lavoro subordinato a tempo indeterminato”, e quelli che riguardano le tipologie di lavoro flessibile alle quali, ai sensi del richiamato art. 36 d.lgs. cit., si può ricorrere “solo per rispondere ad esigenze tem-poranee ed eccezionali”. I vincoli alle assunzioni a tempo indeterminato sono quelli previsti, oltre che nel richiamato art. 1, c. 557-ter, l. n. 296/2006, an-che nell’art. 76, c. 7, d.l. n. 112/2008 (oggi abrogato dall’art. 3, c. 5, d.l. n. 90/2014 ma sostituito dal c. 5-quater del medesimo art. 3 del quale si tratterà nel prosieguo) che subordinava la capacità assunzionale dell’ente al rispetto di una soglia percentuale (50 per cento) del rapporto di incidenza tra la spesa di per-sonale e quella corrente o, nel caso di rispetto di tale soglia percentuale, consentiva di assumere nuovo personale a tempo indeterminato “nel limite del 40 per cento della spesa corrispondente alle cessazioni dell’anno precedente”.

I vincoli alle assunzioni con contratti di lavo-ro flessibile sono contenuti nell’art. 9, c. 28, d.l. n. 78/2010 e successive modificazioni. Tale disposi-zione – che costituisce per le regioni, le province e gli enti locali un principio generale ai fini del coor-dinamento della finanza pubblica – prevede che le pubbliche amministrazioni possono avvalersi di per-sonale a tempo determinato o con convenzioni o con contratti di collaborazione coordinata e continuativa nel limite del 50 per cento della spesa sostenuta per le stesse finalità nell’anno 2009.

7. Come già questa Sezione ha avuto modo di precisare in recenti deliberazioni rese in sede di at-tività consultiva riguardanti, più specificamente, i li-miti alla spesa di personale ed alle nuove assunzioni gravanti sugli organismi partecipati dagli enti locali (cfr. delib. n. 170/2014 e n. 172/2014), rilevanti no-vità sono state di recente introdotte dall’art. 3 del d.l. 24 giugno 2014, n. 90, convertito con modificazioni dalla l. 11 agosto 2014, n. 144 in tema di vincoli che regioni ed enti locali sottoposti alla disciplina del patto di stabilità interno sono chiamati a rispettare.

In particolare, il predetto art. 3 d.l. n. 90/2014,

tra le altre, ha modificato la disciplina per le nuove assunzioni di personale a tempo indeterminato (c. 5, primo periodo, e c. 5-quater); ha confermato le di-sposizioni in tema di vincoli alla spesa di personale contenute nell’art. 1, c. 557, 557-bis e 557-ter, l. n. 296/2006 (c. 5, quarto periodo); ha abrogato la dispo-sizione contenuta nell’art. 76, c. 7, d.l. n. 112/2008 (c. 5, sesto periodo).

7.1. Per quel che concerne il regime delle nuove assunzioni di personale a tempo indeterminato ven-gono in rilievo due diverse disposizioni.

La prima di carattere generale, contenuta nel pri-mo periodo dell’art. 3, c. 5, d.l. cit., applicabile agli enti cui la disposizione è rivolta (i.e. regioni ed enti locali assoggettati al patto di stabilità interno) secon-do la quale, questi ultimi, negli anni 2014 e 2015, “procedono ad assunzioni di personale a tempo in-determinato nel limite di un contingente di personale complessivamente corrispondente ad una spesa pari al 60 per cento di quella relativa al personale di ruolo cessato nell’anno precedente”. La facoltà di assume-re nuovo personale è fissata per il 2016 e 2017 nella misura dell’80 per cento e del 100 per cento a decor-rere dall’anno 2018.

La seconda disposizione, contenuta nel c. 5-qua-ter del citato art. 3 d.l. n. 90/2014 (introdotta in sede di conversione in legge del d.l. n. 90/2014), consente alle regioni e agli enti locali assoggettati alla disci-plina del patto di stabilità interno di assumere nuovo personale con soglie percentuali più favorevoli (80 per cento della spesa relativa al personale di ruolo cessato dal servizio nell’anno precedente nel 2014 e nel limite del 100 per cento nel 2015) rispetto a quelle previste dal c. 5 primo periodo dell’art. 3 del decreto legge cit., per la generalità degli enti cui la disposizione di legge è rivolta, purché il rapporto di incidenza tra la spesa di personale e la spesa corrente sia pari o inferiore al 25 per cento.

7.2. Quanto poi ai vincoli in materia di spesa di personale, come già rilevato, sono state conferma-te le disposizioni di cui all’art. 1, cc. 557, 557-bis e 557-ter, l. n. 296/2006.

È, pertanto, richiesto che gli enti locali assogget-tati alla disciplina del patto di stabilità interno assi-curino una riduzione del trend storico della spesa di personale (c. 557), che computino in tale aggregato anche la spesa sostenuta per le tipologie di rapporti di lavoro indicate nel c. 557-bis (collaborazioni co-ordinate e continuative, somministrazione di lavoro, incarichi dirigenziali a personale esterno, personale occupato presso propri organismi partecipati senza estinzione del rapporto di pubblico impiego), rima-

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PARTE I – ATTIVITÀ DI CONTROLLO E CONSULTIVA N. 5-6/2014

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nendo assoggettati, nell’ipotesi di mancato adempi-mento del predetto obbligo, alla sanzione prevista nel c. 557-ter costituita dal divieto di assunzione di nuovo personale.

7.3. È stata, inoltre, disposta l’abrogazione dell’art. 76, c. 7, d.l. n. 112/2008 e successive mo-dificazioni che regolava il rapporto di incidenza tra la spesa di personale e la spesa corrente ai fini della misurazione della nuova capacità assunzionale con-sentita (nei limiti del 40 per cento della spesa soste-nuta per il personale cessato) soltanto per gli enti che presentavano un rapporto di incidenza inferiore al 50 per cento. Come già in precedenza rilevato, in sede di conversione del d.l. n. 90/2014, all’art. 3 è stato aggiunto il c. 5-quater il quale dispone che “fermi re-stando i vincoli generali sulla spesa per il personale, gli enti indicati al c. 5 (i.e. regioni ed enti locali sot-toposti al patto di stabilità interno), la cui incidenza delle spese di personale sulla spesa corrente è pari o inferiore al 25 per cento, possono procedere ad as-sunzioni a tempo indeterminato, a decorrere dall’1 gennaio 2014, nel limite dell’80 per cento della spe-sa relativa al personale di ruolo cessato dal servizio nell’anno precedente e nel limite del 100 per cento a decorrere dall’anno 2015”.

8. Alcune modifiche sono state, infine, introdot-te in materia di limiti alle assunzioni di personale a tempo determinato previste nell’art. 9, c. 28, d.l. n. 78/2010.

L’art. 3, c. 9, d.l. n. 90/2014 ha, infatti, stabilito, che «al c. 28 dopo il secondo periodo sono inseriti i seguenti: “I limiti di cui al primo periodo e al secon-do periodo non si applicano, anche con riferimento ai lavori socialmente utili, ai lavori di pubblica utilità, e ai cantieri di lavoro, nel caso in cui il costo del perso-nale sia coperto da finanziamenti specifici aggiuntivi o da fondi dell’Unione europea; nell’ipotesi di cofi-nanziamento, i limiti medesimi non si applicano alla sola quota finanziata da altri soggetti”.

L’art. 11, c. 4-bis, d.l. cit. ha inserito all’art. 9, c. 28, d.l. n. 78/2010 un altro periodo ai sensi del quale “le limitazioni previste dal presente comma non si applicano agli enti locali in regola con l’obbligo di riduzione delle spese di personale di cui ai cc. 557 e 562 dell’art. 1 l. n. 296/2006 e successive modifica-zioni, nell’ambito di risorse disponibili a legislazio-ne vigente».

9. Altra disposizione rilevante ai fini della tratta-zione del quesito in esame è quella introdotta dall’art. 11, c. 4-quater, d.l. n. 90/2014, che ha aggiunto il c. 31-bis all’art. 16 d.l. n. 138/2011.

Tale norma prevede che “a decorrere dall’anno

2014, le disposizioni dell’art. 1, c. 557, l. n. 296/2006 e successive modificazioni, in materia di riduzione delle spese di personale, non si applicano ai comuni con popolazione compresa tra i 1.001 e 5.000 abi-tanti per le sole spese di personale stagionale assun-te con forme di contratto a tempo determinato, che sono strettamente necessarie a garantire l’esercizio di funzioni di polizia locale in ragione di motivate caratteristiche socio-economiche e territoriali con-nesse a significative presenze di turisti, nell’ambito delle risorse disponibili a legislazione vigente”.

10. Tenuto conto del quadro normativo sopra descritto la sezione ritiene che il quesito posto dal Comune istante debba essere risolto nei seguenti ter-mini.

Nessuna assunzione di personale a tempo inde-terminato potrà essere disposta dall’ente nel 2014 in quanto al mancato rispetto dell’art. 1, c. 557, l. n. 296/2006 – circostanza di cui lo stesso ente nella richiesta di parere ha dato atto – consegue il divie-to di assunzione di personale a qualsiasi titolo e con qualsiasi tipologia contrattuale nell’anno successivo a quello nel quale l’inadempimento dell’obbligo del-la riduzione del trend storico della spesa di personale si è verificato (art. 1, c. 557, l. n. 296/2006).

Né si ritiene che possa essere invocata l’appli-cazione dell’art. 3, cc. 5 e 5-quater, d.l. n. 90/2014 in quanto la disciplina da essi prevista si riferisce al regime delle assunzioni di nuovo personale a tem-po indeterminato da parte di regioni ed enti locali assoggettati alla disciplina del patto di stabilità che possono essere disposte nei limiti ivi fissati, purché siano stati rispettati i vincoli alla spesa di personale previste in altre disposizioni di legge, quali l’art. 1, c. 557, l. n. 296/2006.

Non sembra, inoltre, che possa trovare applica-zione l’art. 11, c. 4-quater, d.l. n. 90/2014 in quanto le tipologie di spesa per il personale che l’ente ha indicato di aver sostenuto nel 2013 e 2014 per sop-perire alle assenze del proprio personale dipendente non rientrano tra quelle che la predetta disposizio-ne consente di escludere dal computo valido ai fini del rispetto dell’art. 1, c. 557, l. n. 296/2006 da parte dei comuni con popolazione compresa tra i 1.001 e 5.000 abitanti (tra i quali rientra il Comune istante).

Infine, l’esclusione di assunzioni di personale con contratti di lavoro flessibile nel 2014 da parte dell’ente istante deriva dall’applicazione dell’art. 11, c. 4-ter, d.l. n. 90/2014 che, come già visto al punto 8 della presente deliberazione, nel modificare la di-sciplina contenuta nell’art. 9, c. 28, d.l. n. 78/2010, consente solo agli enti locali in regola con l’obbligo

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N. 5-6/2014 PARTE I – ATTIVITÀ DI CONTROLLO E CONSULTIVA

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di riduzione delle spese di personale ex art. 1, c. 557, l. n. 296/2006 di non applicare i limiti per le assun-zioni di personale a tempo determinato previsti nel citato art. 9, c. 28, d.l. n. 78/2010.

233 – Sezione controllo Regione Emilia-Roma-gna; parere 17 dicembre 2014; Pres. De Salvo, Rel. Patumi; Comune di Calderara di Reno.

Comune e provincia – Norme statali di conteni-mento della spesa – Riduzione dei costi degli apparati amministrativi – Compensazioni fra diverse modalità di riduzione – Ammissibilità – Limite annuale di spesa – Individuazione.

D.l. 31 maggio 2010 n. 78, convertito con modifica-zioni dalla l. 30 luglio 2010 n. 122, misure urgenti in materia di stabilizzazione finanziaria e di compe-titività economica, art. 6; d.l. 31 agosto 2013 n. 101, convertito con modificazioni dalla l. 30 ottobre 2013 n. 125, disposizioni urgenti per il perseguimento di obiettivi di razionalizzazione nelle pubbliche ammi-nistrazioni, art. 1.Comune e provincia – Norme statali di conteni-

mento della spesa – Spese per il funzionamen-to degli apparati amministrativi – Riduzione – Computo – Esclusione dei finanziamenti spe-cifici provenienti da soggetti esterni – Esclu-sione dei proventi conseguenti alla vendita di spazi pubblicitari.

D.l. 31 maggio 2010 n. 78, convertito con modifica-zioni dalla l. 30 luglio 2010 n. 122, art. 6.

Gli enti locali tenuti a ridurre (in base all’art. 6, cc. 6 e 7, d.l. n. 78/2010) determinate spese sono liberi di rimodulare in modo discrezionale le percen-tuali di diminuzione, purché nel rispetto del limite complessivamente previsto, quale risulta dall’appli-cazione dei singoli coefficienti di riduzione (in mo-tivazione, si precisa che, per l’anno 2014, a seguito dell’inasprimento, da parte del legislatore statale, delle misure di contenimento della spesa, il coeffi-ciente di riduzione della spesa relativa a studi e in-carichi di consulenza è pari al 16 per cento della spesa sostenuta nell’anno base 2009, mentre, per l’anno 2015, esso è fissato al 12 per cento, sempre in rapporto al 2009). (1)

(1-2) Il parere in epigrafe affronta, per la prima volta, la problematica concernente la possibilità per un comune, ove decida di pubblicare un “giornale comunale”, di escludere, ai fini del calcolo dei limiti di spesa posti dall’art. 6 d.l. n. 78/2010 (c.d. “manovra estiva 2010”), i proventi conseguenti

Gli enti locali, nel calcolare le riduzioni di spesa per il funzionamento degli apparati amministrativi imposte dall’art. 6, cc. 6 e 7, d.l. n. 78/2010, pos-sono escludere le spese che sono state coperte con finanziamenti aggiuntivi e specifici, provenienti da altri soggetti, pubblici o privati, nonché, nel caso di pubblicazione di un “giornale comunale”, i proventi conseguenti alla vendita di spazi pubblicitari. (2)

Fatto – Il sindaco del Comune di Calderara ha inoltrato a questa Sezione, ai sensi dell’art. 7, c. 8, l. n. 131/2003, una richiesta di parere avente a ogget-to le spese sostenute per la pubblicazione e la diffu-sione di un giornalino comunale, nonché il vincolo gravante sulle stesse, ai sensi dell’art 6, cc. 7 e 8, d.l. 31 maggio 2010, n. 78 (“Misure urgenti in materia di stabilizzazione finanziaria e di competitività eco-nomica”), convertito con modificazioni dalla l. 30 luglio 2010, n. 122.

Si trascrive integralmente la richiesta:“Ai sensi e per gli effetti di cui all’art. 6, cc. 7 e

8, d.l. 31 maggio 2010, n. 78, convertito con modi-ficazioni dalla l. 30 luglio 2010, n. 122, dal 2011, i comuni non possono effettuare spese per un ammon-tare superiore al 20 per cento delle spese sostenute per l’anno 2009, con riferimento rispettivamente alle spese per studi ed incarichi ed alle spese relative a relazioni pubbliche, convegni, mostre e pubblicità.

Alla luce dei chiarimenti forniti sia dalla Corte costituzionale che da codesta spettabile Corte sulla vincolatività per gli enti locali:

- delle disposizioni in termini di limiti comples-sivi alla spesa;

- sull’applicabilità del suddetto limite anche alla spesa per “giornalino comunale”, quale spesa rien-trante nel più generale ambito delle spese oggetto di limitazione, si chiede;

- se sia corretto, come questa amministrazione ri-tiene, sommare le spese afferenti agli studi e consu-lenze (c. 7), alle spese per relazioni pubbliche, con-vegni, mostre e pubblicità (c. 8) anno 2009 e fissare il tetto massimo spendibile, in ciascun esercizio fi-nanziario, nel 20 per cento del suddetto ammontare;

- se sia corretto, come questa amministrazione ritiene, detrarre dal limite così determinato le spese

alla vendita di spazi pubblicitari. La soluzione individuata dal-la Sezione di controllo è basata su di un approccio pragmatico e, in particolare, sulla considerazione che l’esclusione dal cal-colo delle menzionate risorse non incide sul raggiungimento dell’obiettivo sottostante la normativa, che è quello di ridurre l’impatto di alcune spese sul bilancio dell’ente.

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per le entrate derivanti da specifici finanziamenti ine-renti le diverse tipologie di spesa.

Si chiede, per il giornalino comunale, se sia cor-retto, come questa amministrazione ritiene, detrarre dalle spese (redazione, stampa, diffusione) le entrate derivanti dalla vendita di spazi riservati nel giorna-lino stesso alle inserzioni pubblicitarie, quali “finan-ziamenti specifici di provenienza privata” inerenti la suddetta spesa”.

Diritto – (Omissis) 2. Merito2.1. Il comune istante domanda innanzitutto se

possa sommare gli importi sostenuti nell’anno 2009 per studi e incarichi di consulenza, con quelli soste-nuti, sempre nel medesimo anno, per relazioni pub-bliche, convegni, mostre, pubblicità e rappresentan-za, per poi fissare il tetto massimo di spesa, per le suddette tipologie, nel 20 per cento dell’ammontare complessivo.

Chiede, inoltre, se dal limite in tal modo deter-minato sia possibile detrarre le entrate derivanti da specifici finanziamenti, nonché quelle conseguenti alla vendita di spazi pubblicitari del giornalino.

2.2. Preliminarmente, occorre operare una rico-gnizione del quadro normativo.

2.2.1. Il citato d.l. n. 78/2010, mediante l’art. 6, cc. 7 e 8, ha disposto quanto segue:

7. “a decorrere dall’anno 2011 la spesa annua per studi ed incarichi di consulenza … sostenuta dalle pubbliche amministrazioni … non può essere supe-riore al 20 per cento di quella sostenuta nell’anno 2009”.

8. “A decorrere dall’anno 2011 le amministra-zioni pubbliche … non possono effettuare spese per relazioni pubbliche, convegni, mostre, pubblicità e di rappresentanza per un ammontare superiore al 20 per cento della spesa sostenuta nell’anno 2009 per le medesime finalità”.

Per completezza, è necessario ricordare che la Corte costituzionale, con sentenza 4 giugno 2012, n. 139, ha interpretato le disposizioni vincolistiche di cui all’art. 6 in analisi, nel senso che le stesse “non operano in via diretta, ma solo come disposizioni di principio, anche in riferimento agli enti locali”, i quali, pertanto, sono liberi “di rimodulare in modo discrezionale, nel rispetto del limite complessivo, le percentuali di riduzione … (delle) … voci di spesa contemplate nell’art. 6”.

In seguito, la Sezione autonomie di questa Cor-te, mediante Sez. autonomie, 30 dicembre 2013, n. 26, ha ulteriormente esteso la discrezionalità, per gli enti locali, di operare compensazioni, nel rispetto del

tetto complessivo di spesa risultante dall’applicazio-ne dei singoli coefficienti di riduzione per consumi intermedi, previsti da norme dettate in materia di co-ordinamento della finanza pubblica. In particolare, la Sezione autonomie ha considerato legittimo che lo stanziamento in bilancio, riferito alle diverse tipolo-gie di spese soggette a limitazione, avvenga in base alle necessità istituzionali dell’ente, ritenendo che il comune possa operare compensazioni tra gli importi calcolati nel rispetto dei vincoli di legge, anche al di là delle voci previste dall’art. 6 d.l. n. 78/2010. (3)

2.2.2. Il d.l. 31 agosto 2013, n. 101, rubricato “Di-sposizioni urgenti per il perseguimento di obiettivi di razionalizzazione nelle pubbliche amministrazioni”, convertito con modificazioni dalla l. 30 ottobre 2013, n. 125, all’art. 1, c. 5, ha stabilito che “la spesa an-nua per studi ed incarichi di consulenza … sostenuta dalle amministrazioni pubbliche … non può essere superiore, per l’anno 2014, all’80 per cento del li-mite di spesa per l’anno 2013 e, per l’anno 2015, al 75 per cento dell’anno 2014, così come determinato dall’applicazione della disposizione di cui al c. 7 art. 6 d.l. 31 maggio 2010, n. 78”.

2.3. È utile operare una breve ricognizione della più rilevante giurisprudenza di questa Corte in mate-ria di spese di pubblicità e rappresentanza.

2.3.1. Innanzitutto il magistrato contabile, nell’e-sercizio della funzione di controllo, ha evidenziato che le spese finalizzate a pubblicare e a diffondere un “giornalino comunale” sono soggette al regime vincolistico di cui all’art. 6, c. 8, a meno che non abbiano ad esclusivo oggetto forme di pubblicità a beneficio della cittadinanza previste dalla legge come obbligatorie (così le Sezioni riunite in sede di controllo, delib. 21 settembre 2011, n. 50).

2.3.2. L’ente locale, quindi, salvo il ricorrere del-la circostanza evidenziata, deve rispettare i vincoli imposti dall’art. 6, c. 8, alle spese per pubblicità e rappresentanza.

Nella nozione di pubblicità sono ricomprese le attività mediante le quali l’ente porta all’esterno del-la propria struttura notizie, anche riconducibili alle proprie finalità istituzionali, come quelle riguardan-ti la comunicazione istituzionale o le informazioni funzionali alla promozione dei servizi pubblici e delle modalità di fruizione degli stessi da parte della

(3) Nello specifico, il principio di diritto enunciato dalla Sezione delle autonomie ha avuto ad oggetto la possibilità di operare compensazioni tra i vincoli di cui al citato art. 6 d.l. n. 78/2010, ed i limiti introdotti alle spese per l’acquisto di mo-bili e arredi dall’art. 1, c. 141, l. 24 dicembre 2012, n. 228 (leg-ge di stabilità 2013).

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N. 5-6/2014 PARTE I – ATTIVITÀ DI CONTROLLO E CONSULTIVA

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collettività (Sez. contr. reg. Puglia, 18 aprile 2012, n. 53, la quale richiama espressamente la pronuncia delle Sez. riun. n. 50/2011).

Le spese di rappresentanza, invece, sono effet-tuate allo scopo di promuovere l’immagine o l’azio-ne dell’ente pubblico, mediante attività rivolte all’e-sterno. (4)

2.4. Non pare rilevante, ai fini del presente pa-rere, approfondire la problematica riguardante la ri-conducibilità delle spese per la pubblicazione di un giornalino comunale alle spese di pubblicità, oppure a quelle di rappresentanza, essendo comunque le due tipologie soggette al medesimo regime vincolistico, di cui al citato art. 6, c. 8.

È importante, al contrario, sottolineare come non sempre l’ente locale possa legittimamente utilizzare le pubbliche risorse allo scopo di inviare pubblica-zioni alla cittadinanza. Come questa Sezione ha già evidenziato (5), infatti, dette pubblicazioni, per es-sere giudicate legittime, non devono essere finaliz-zate a propagandare l’immagine dei vertici politici, in quanto in tal caso non costituirebbero legittime spese di rappresentanza, ma integrerebbero un danno all’erario.

2.5. È ora possibile fornire una risposta alle due richieste di parere.

2.5.1. Non vi è dubbio che l’ente locale, sulla base della richiamata sentenza n. 139/2012 della Corte costituzionale, possa operare compensazioni tra le singole voci di spesa sottoposte a riduzione dall’art. 6 d.l. n. 78/2010, nel rispetto del limite com-plessivamente previsto; le previsioni di cui all’art. 6, infatti, costituiscono mere disposizioni di principio, dettate ai fini del coordinamento della finanza pub-blica.

Tuttavia, contrariamente a quanto prospettato nella richiesta di parere, il comune non può procede-re sommando le spese sostenute nell’anno 2009, af-ferenti agli studi e consulenze (di cui al c. 7), a quelle per relazioni pubbliche, convegni, mostre e pubbli-cità (individuate dal c. 8), per poi fissare la somma

(4) Per un approfondimento, si rimanda al “Monitoraggio delle spese di rappresentanza sostenute dagli enti locali della Regione Emilia-Romagna nell’anno 2011”, approvato da que-sta Sezione, con delib. 24 ottobre 2013, n. 271.

(5) Delib. n. 271/2013, cit., par. 7, ove è evidenziato che diversi giornalini comunali esaminati da questa Sezione in oc-casione del monitoraggio, sono risultati al limite della legitti-mità, pubblicizzando i servizi offerti dall’amministrazione e le iniziative intraprese ma, al contempo, offrendo agli organi di vertice, mediante interviste e reportage fotografici, uno spazio non giustificato dall’esigenza informativa in favore dell’ente.

impegnabile “in ciascun esercizio finanziario” (per usare le parole dell’ente locale), nel 20 per cento del suddetto ammontare. Il regime vincolistico de quo, infatti, è stato ulteriormente aggravato dal legislatore statale, mediante l’art. 1, c. 5, d.l. n. 101/2013 (come già evidenziato al par. 2.2.2), che ha inciso sul di-sposto di cui all’art. 6, c. 7, prevedendo che la spesa per studi ed incarichi di consulenza “non può essere superiore, per l’anno 2014, all’80 per cento del limi-te di spesa per l’anno 2013 e, per l’anno 2015, al 75 per cento dell’anno 2014”. In pratica, il limite per le voci de quibus per l’anno 2014 è pari al 16 per cento rispetto all’ammontare delle spese sostenute nell’an-no base 2009, mentre per il 2015 sarà del solo 12 per cento, sempre in rapporto al 2009.

L’ente locale, quindi, può operare compensazioni tra le diverse voci di spesa, dopo aver applicato cor-rettamente i singoli coefficienti di riduzione previsti dal legislatore ed avere, conseguentemente, indivi-duato il tetto complessivo di risorse erogabili.

2.5.2.1. La seconda questione, relativa alla pos-sibilità di escludere, ai fini del calcolo dei limiti di cui all’art. 6, cc. 7 e 8, le spese oggetto di specifi-ci finanziamenti, è stata oggetto di esame da parte delle Sezioni riunite in sede di controllo di questa Corte, le quali si cono pronunciate con delibera-zione 7 febbraio 2011, n. 7. In particolare, è stato evidenziato che “con riferimento alla composizione della spesa per studi e consulenze è da ritenere che debbano escludersi dal computo gli oneri coperti mediante finanziamenti aggiuntivi e specifici tra-sferiti da altri soggetti pubblici o privati (omissis) atteso che le suddette spese, ove inserite in un pro-ficuo quadro programmatico, possano incrementare le competenze e le conoscenze dell’ente locale, non v’è ragione di includere nel computo delle spese per studi e consulenze quanto finanziato con le risorse dianzi indicate”.

Questa Sezione non ravvisa ragioni per discostar-si dall’interpretazione accolta dalle Sezioni riunite che, seppur dettata specificamente con riferimento alle spese di cui al c. 7 art. 6 deve, per comunanza di ratio, applicarsi anche a quelle prese in esame dal successivo c. 8.

2.5.2.2. Il principio enunciato dalle Sezioni riu-nite sembra, inoltre, poter essere applicato anche ai proventi conseguenti alla vendita di spazi pubblicita-ri del giornalino comunale.

L’esclusione dal calcolo di tali risorse di pro-venienza privata, infatti, non preclude il raggiungi-mento del fine sottostante la normativa vincolistica in analisi, che è quello di ridurre l’impatto di una

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specifica spesa (nel caso specifico, di pubblicità o di rappresentanza) sul bilancio dell’ente.

* * *

Liguria

64 – Sezione controllo Regione Liguria; parere 10 novembre 2014; Pres. Colasanti, Rel. Benigni; Comune di Loano.

Contratti pubblici – Comune e provincia – Ac-quisto di beni e servizi – Affidamenti diretti e cottimi fiduciari – Ricorso alle centrali di com-mittenza – Ammissibilità.

L. 5 giugno 2003 n. 131, disposizioni per l’ade-guamento dell’ordinamento della Repubblica alla l. cost. 18 ottobre 2001 n. 3, art. 7; d.lgs. 12 aprile 2006 n. 163, codice dei contratti pubblici relativi a lavori, servizi e forniture in attuazione delle direttive 2004/17/Ce e 2004/18/Ce; d.l. 24 aprile 2014 n. 66, convertito con modificazioni dalla l. 23 giugno 2014 n. 89, misure urgenti per la competitività e la giusti-zia sociale, art. 9; d.l. 24 giugno 2014 n. 90, conver-tito con modificazioni dalla l. 11 agosto 2014 n. 114, misure urgenti per la semplificazione e la trasparenza amministrativa e per l’efficienza degli uffici giudi-ziari, art. 23.Contratti pubblici – Comune e provincia – Acqui-

sto di beni e servizi al di fuori del Mepa – Am-missibilità – Condizioni.

D.lgs. 30 marzo 2001 n. 165, norme generali sull’or-dinamento del lavoro alle dipendenze delle ammi-nistrazioni pubbliche, art. 1; l. 27 dicembre 2006 n. 296, disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (legge finanziaria 2007), art. 1, c. 449.Contratti pubblici – Comune e provincia – Ac-

quisto di beni e servizi – Organizzazione di un evento artistico – Affidamento diretto senza pubblicazione del bando – Ammissibilità.

D.lgs. 12 aprile 2006, n. 163, art. 57.

L’ente locale, nelle ipotesi di affidamento diretto e di cottimo fiduciario di valore inferiore a 40.000 euro, ben può ricorrere alle centrali di committenza, a condizione che la concorrenzialità dei prezzi con-senta risparmi di spesa nel rispetto del principio di efficienza dell’azione amministrativa.

La possibilità degli enti locali di acquistare beni e servizi al di fuori del Mepa (Mercato elettronico della pubblica amministrazione) è subordinata al

rispetto dei limiti massimi di prezzo presenti sul mer-cato elettronico.

L’ente locale può procedere all’affidamento di-retto mediante trattativa privata senza pubblicazio-ne del bando, qualora intenda organizzare un evento artistico curato in esclusiva da un’agenzia di spetta-coli non iscritta al Mepa (mercato elettronico della pubblica amministrazione), atteso che l’infungibilità della prestazione artistica non consente lo svolgi-mento di procedure comparative.

Premesso – (Omissis) Il sindaco del Comune di Loano ha inviato al consiglio delle autonomie locali una richiesta di parere inerente all’impatto derivante dall’applicazione degli artt. 9 d.l. n. 66/2014 e 23 d.l. n. 90/2014 sulle procedure di affidamento di servizi e di acquisto di beni e forniture. In particolare l’ente chiede se:

a) sia da escludersi l’applicabilità del ricorso alle centrali di committenza nelle ipotesi previste dall’art. 125, c. 11, d.lgs. n. 163/2006 e nelle ipotesi di cottimo fiduciario sotto i 40.000 euro, in conside-razione che in tali casi la normativa consente di non intraprendere la procedura concorsuale;

b) sia possibile acquistare beni e servizi al di fuo-ri del Mepa (Mercato elettronico della pubblica am-ministrazione) qualora il ricorso all’esterno persegua l’obiettivo del contenimento della spesa pubblica;

c) sia possibile, qualora si debba organizzare un evento con un determinato artista curato in esclusiva da un’agenzia di spettacoli non iscritta al Mepa, pro-cedere all’affidamento diretto previsto dall’art. 57 d.lgs. n. 163/2006, senza ricorrere al mercato elet-tronico;

d) sia ammissibile una collaborazione diretta con associazioni di promozione culturale o sportiva, che non possono iscriversi al Mepa, con il pagamento di una prestazione di servizi in occasione di manifesta-zioni ed eventi inseriti nel calendario istituzionale. (Omissis)

La richiesta di parere concerne distintamente cin-que quesiti relativi, lato sensu, ai limiti di derogabi-lità alle procedure elettroniche, o comunque concor-renziali, per l’acquisto di beni e servizi da parte degli enti locali.

Con il primo quesito, in particolare, si chiede se l’art. 23-ter d.l. 24 giugno 2014, n. 90, converti-to dalla l. 11 agosto 2014, n. 114, che ha introdotto l’art. 333-bis d.lgs. n. 163/2006, escluda “l’applica-bilità del ricorso alle centrali di committenza nelle ipotesi di una procedura di affidamento diretto in base all’art. 125, c. 11, del codice dei contratti e nel-

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le ipotesi di cottimo fiduciario sotto i 40.000 euro, atteso che in tali casi la normativa ammette la non attivazione della procedura concorsuale”. In altre pa-role, il comune intende sapere se sia possibile anche in questi casi ricorrere alle centrali di committenza – che in ipotesi dovrebbero assicurare risparmi di non minima entità avendo la possibilità di fare ordini di rilevante entità – anche nelle fattispecie in cui l’ordi-namento consente l’acquisizione mediante ammini-strazione diretta per ragioni di semplificazione e di celerità, stante il ridotto importo della medesima.

La risposta è positiva.L’ordinamento privilegia gli strumenti delle cen-

trali di committenza e delle procedure selettive nel presupposto, imposto anche dal diritto comunitario, che la massima concorrenzialità consenta i migliori risparmi di spesa, contemperando però tale esigenza con il principio di efficienza dell’azione amministra-tiva in quanto – come è facile arguire – il ricorso a tali procedure implica sicuri costi temporali e proce-dimentali incompatibili con l’agere quotidiano di un ufficio pubblico. Questa è la ragione per cui gli ac-quisti sotto i quarantamila euro possono essere fatti direttamente dall’ufficio economale senza attivazio-ne di procedure concorrenziali. Nulla osta, pertanto, all’adozione delle procedure più garantistiche e al ri-corso alle centrali di committenza ove l’ente locale, nel caso specifico, ritenga maggiormente opportuno intraprendere questa seconda strada.

Con il secondo e il quarto quesito, che possono essere affrontati congiuntamente, il Comune di Loa-no chiede se sia possibile acquistare beni e servizi al di fuori del Mepa, eventualmente anche solo limita-tamente alle spese economali.

La questione è più complessa della precedente.L’art. 1, c. 450, l. n. 296/2006 dispone che “fer-

mi restando gli obblighi e le facoltà previsti dal c. 449 del presente articolo, le altre amministrazioni pubbliche di cui all’art. 1 d.lgs. 30 marzo 2001, n. 165 (tra cui rientrano gli enti locali) per gli acqui-sti di beni e servizi d’importo inferiore alla soglia di rilievo comunitario sono tenute a fare ricorso al mercato elettronico della pubblica amministrazione ovvero ad altri mercati elettronici istituiti ai sensi del medesimo articolo”.

Il chiaro obbligo di ricorso a un mercato elettro-nico (altro significato semantico non può assumere la locuzione “sono tenuti”), previsto dal c. 450, deve però tenere conto dell’espressa clausola di riserva prevista dalla disposizione che si pone in un’evi-dente posizione di sussidiarietà rispetto alle “facoltà previst[e] dal c. 449 del presente articolo”, le quali

ricomprendono la possibilità per gli enti locali di ri-volgersi al libero mercato con il limite imperativo, soggetto alla eterointegrazione prevista dall’art. 1339 c.c., dello stesso prezzo-qualità-quantità pre-visto dal sistema delle convenzioni Consip e dei mercati elettronici. Tale interpretazione congiunta, oltre a coordinarsi sistematicamente con il principio generale di economicità dell’attività amministrativa, codificato nell’art. 11 l. 7 agosto 1990, n. 241, trova ulteriore conferma letterale nell’ultima parte dell’art. 1, c. 449, legge cit. che espressamente stabilisce che i soli “enti del Servizio sanitario nazionale sono in ogni caso tenuti ad approvvigionarsi utilizzando le convenzioni stipulate dalle centrali regionali di rife-rimento ovvero, qualora non siano operative conven-zioni regionali, le convenzioni quadro stipulate da Consip s.p.a.”.

Pertanto si può ritenere che i comuni siano le-gittimati ad acquistare beni e servizi al di fuori del Mepa con il limite imperativo e ablativo dell’asso-luto rispetto dei limiti massimi di prezzo presenti sul mercato elettronico.

Con il terzo quesito il Comune di Loano chiede se sia possibile procedere all’affidamento diretto me-diante trattativa privata senza pubblicazione di ban-do qualora si intenda organizzare un evento con un determinato artista curato in esclusiva da un’agenzia di spettacoli non iscritta al Mepa.

La risposta è ugualmente positiva.In primo luogo si deve rilevare come la prestazio-

ne artistica non possa rientrare di per sé nella materia dell’appalto di servizi, costituendo una prestazione di opera professionale disciplinata dall’art. 2229 c.c. Non sussistono pertanto, ab origine, le ragioni per l’applicazione del codice dei contratti pubblici alla fattispecie in esame.

Quand’anche si dovesse ritenere che la mede-sima possa rientrare tra gli appalti di servizi, essa deve essere ricompresa nell’ambito di applicazione dell’art. 572 d.lgs. n. 163/2006 che consente la pro-cedura negoziata senza previa pubblicazione di un bando di gara “qualora, per ragioni di natura tecnica o artistica … il contratto possa essere affidato uni-camente a un operatore economico determinato”. È di tutta evidenza che l’infungibilità della prestazio-ne artistica rende la medesima inidonea ad essere oggetto di procedure comparative o elettroniche (le quali, tra l’altro, possono essere utilizzate solo per acquistare beni e servizi tra cui certamente non può rientrare quella in questione).

Infine, con il quarto quesito l’ente locale chiede se, in presenza di manifestazioni ed eventi inseriti

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nel calendario istituzionale, sia possibile la collabo-razione diretta con associazioni di promozione cultu-rale e sportiva che, in quanto tali, non possono iscri-versi al Mepa, con il pagamento di una prestazione di servizi.

Anche in quest’ultimo caso la risposta è positiva, seppure con alcune precisazioni.

Il mero presupposto soggettivo, e cioè l’impos-sibilità di aderire al mercato elettronico non può essere da solo requisito sufficiente per derogare al medesimo, considerato che la ragione della sua isti-tuzione risponde a esigenze di carattere pubblicistico di trasparenza, imparzialità ed economicità che sono prevalenti rispetto a quelle del singolo soggetto as-sociativo di collaborare con l’ente pubblico, quan-danche tale volontà non sia supportata da finalità lucrative ma dal perseguimento di scopi ideali, che però assumono rilevanza economica, trattandosi di prestazioni fornite a titolo oneroso. Diverso è il caso in cui l’associazione sia in grado di fornire un servi-zio non rinvenibile sul mercato elettronico (ovvero, per quanto detto sopra, rinvenibile a un prezzo-qua-lità superiore): in questo caso non sembrano esservi preclusioni a consentire tale collaborazione diretta, purché appunto limitata a prestazioni non altrimenti rinvenibili sui mercati elettronici.

* * *

Lombardia

191 – Sezione controllo Regione Lombardia; parere 28 maggio 2014; Pres. (f.f.) Braghò, Rel. Centro-ne; Comune di Mortara.

Contabilità regionale e degli enti locali – Comune e provincia – Patto di stabilità interno – Asso-ciazione di comuni – Onere dei servizi gestiti in forma associata – Contabilizzazione a ca-rico del comune capofila – Obiettivi di patto di stabilità per il comune capofila – Riduzio-ne compensata dall’aumento degli obiettivi di patto per i comuni non capofila.

L. 12 novembre 2011 n. 183, disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (legge di stabilità 2012), art. 31; l. 27 dicem-bre 2013 n. 147, disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (legge di stabilità 2014), art. 1, c. 534.

Il comune che, in qualità di ente capofila di un’associazione di comuni, gestisce funzioni e servi-

zi per conto dei comuni appartenenti all’associazio-ne, con conseguente attribuzione allo stesso comune, anche ai fini dell’obiettivo di patto di stabilità inter-no, di una spesa corrente maggiore rispetto a quella ad esso propria, ben può comunicare direttamente all’Anci (entro il 15 marzo di ciascun anno e, per il 2014, entro il 21 marzo) i dati relativi alla pro-pria spesa corrente media nel periodo 2009-2011, al fine di beneficiare, nel triennio 2014-2016, della rideterminazione degli obiettivi di patto, necessaria a sterilizzare gli effetti negativi derivanti dalla con-tabilizzazione a suo carico degli stessi connessi alla gestione associata intercomunale (in motivazione, si precisa che la riduzione degli obiettivi di patto per i comuni capofila dev’essere compensata dal corri-spondente aumento degli obiettivi per i comuni non capofila e che gli importi in riduzione e in aumen-to devono essere comunicati dall’Anci, entro il 30 marzo di ciascun anno, al Ministero dell’economia e delle finanze).

Premesso – Il sindaco del Comune di Mortara, con nota del 29 aprile 2014, ha formulato una ri-chiesta di parere avente a oggetto la rimodulazione degli obiettivi del patto di stabilità interno, previ-sta dall’art. 31, c. 6-bis, l. n. 183/2011, introdotto dall’art. 1, c. 534, l. n. 147/2013.

Il comune, in qualità di ente capofila, gestisce in convenzione il sistema integrato di interventi e servizi sociali per conto di altri 19 comuni, di cui 8 soggetti al patto di stabilità interno. L’importo medio degli impegni per il predetto servizio, nel triennio 2009-2010-2011, è stato pari a euro 449.497, di cui euro 161.647 riferiti al Comune di Mortara. L’onere riguardante gli altri comuni, che viene tuttavia con-tabilizzato nel bilancio del comune capofila, corri-sponde a euro 287.850, di cui euro 222.437 per i co-muni soggetti al patto di stabilità interno.

In considerazione del fatto che detta spesa, di pertinenza di altri comuni, agli effetti del patto di stabilità veniva attribuita al comune capofila (nel caso di specie, Mortara), sono state sollecitate presso l’Anci delle correzioni al suddetto meccanismo, in-tervenute con la norma sopra indicata (art. 1, c. 534, legge di stabilità n. 147/2013).

Tuttavia la Ragioneria generale dello Stato, con la nota che si allega, richiede che la nuova norma-tiva, per essere effettivamente applicata, sia suppor-tata da un accordo tra il comune capofila e gli altri aderenti alla gestione associata soggetti al patto di stabilità interno.

Al riguardo l’istante sottolinea come detta condi-

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zione non sia prevista dalla legge e che gli altri co-muni, per non peggiorare il loro obiettivo del patto di stabilità, non sono disposti a sottoscrivere alcun accordo.

Peraltro, precisa, le convenzioni che presuppon-gono l’attribuzione delle funzioni di comune capo-fila sono state approvate dagli organi competenti (consigli comunali). Pertanto chiede quale funzione decisoria possano avere in merito altri organi, come sindaci o funzionari dei comuni aderenti alla conven-zione.

Il sindaco del comune istante ritiene invece suf-ficiente comunicare al Mef-Rgs la quota di spesa che deve far carico al proprio bilancio e le quote di pertinenza dei comuni aderenti alla convenzione, se-gnalandole a questi ultimi per conoscenza. In caso contrario valuterà l’opzione di risolvere la conven-zione. (Omissis)

Merito – In via preliminare la sezione precisa che la decisione in ordine all’applicazione in concreto delle disposizioni in materia di contabilità pubblica è di esclusiva competenza dell’ente locale, rientrando nella discrezionalità e responsabilità dell’ammini-strazione. Quest’ultimo, tuttavia, potrà orientare la sua decisione in base alle conclusioni contenute nel presente parere.

L’art. 1, c. 534, lett. d), della legge di stabili-tà n. 147/2013, ha introdotto all’art. 31 della l. n. 183/2011, un c. 6-bis che, al fine di sterilizzare gli effetti negativi sulla determinazione degli obiettivi del patto di stabilità interno connessi alla gestione di funzioni e servizi in forma associata, dispone una riduzione degli obiettivi per i comuni che gestisco-no, in quanto capofila, funzioni e servizi in forma associata, compensata dal corrispondente aumento dei ridetti obiettivi per gli altri comuni associati, non capofila.

Nella circolare Mef-Rgs del 18 febbraio 2014, n. 6 inerente il patto di stabilità interno per il trien-nio 2014-2016, al paragrafo “Determinazione degli obiettivi programmatici”, si evidenzia come una del-le novità della metodologia di calcolo dall’anno 2014 sia appunto costituita dalla riduzione dell’obiettivo per i comuni che gestiscono, in quanto capofila, fun-zioni e servizi in forma associata (mediante il corri-spondente aumento per quelli associati non capofila). Correzione motivata dalla necessità di neutralizzare gli effetti negativi, sulla determinazione degli obiet-tivi del patto di stabilità, connessi alla gestione di funzioni e servizi in forma associata.

Infatti, il saldo finanziario di riferimento, anche per gli anni 2014, 2015 e 2016, è ottenuto molti-

plicando la spesa corrente media, impegnata in un predeterminato arco temporale (per il triennio 2014-2016 nel periodo 2009-2011), desunta dai certificati di conto consuntivo, per una percentuale fissata, per ogni anno del triennio, dall’art. 31, c. 2, legge di sta-bilità n. 183/2011.

Il nuovo c. 6-bis dell’art. 31 della l. n. 183/2011 interviene sulla quantificazione di tale obiettivo (non, si precisa, sul conteggio del saldo finanziario da conseguire nell’esercizio di riferimento) al fine di sterilizzare gli effetti negativi, sulla relativa determi-nazione, connessi alla gestione di funzioni e servizi in forma associata.

Il comune capofila, infatti, impegna, in virtù del-la convenzione, una spesa corrente maggiore (nel caso di specie, nel triennio 2009-2011), che incide sulla determinazione dell’obiettivo posto dal patto di stabilità negli esercizi successivi (nel caso di specie nel triennio 2014-2016), avente tuttavia causa nella gestione di servizi per conto degli altri comuni con-venzionati.

Nel caso del Comune di Mortara, in sostanza, l’avvenuta gestione di un servizio in qualità di co-mune capofila nel triennio 2009-2011 incide, aumen-tandolo, sulla determinazione dell’obiettivo del patto di stabilità per il 2014.

Per sterilizzare tale improprio effetto, l’art. 1, c. 534, legge di stabilità n. 147/2013 prevede una ridu-zione degli obiettivi per i predetti comuni (con sim-metrico aumento per quelli non capofila). A tal fine la norma dispone che, entro il 30 marzo di ciascun anno (termine per il 2014 ormai scaduto), l’Anci comuni-chi al Ministero dell’economia e delle finanze, me-diante un applicativo web (www.pattostabilitainter-no.tesoro.it) della Ragioneria generale dello Stato, gli importi in riduzione e in aumento degli obiettivi di ciascun comune, sulla base delle istanze prodotte dagli enti interessati il 15 marzo di ciascun anno (ter-mine poi prorogato, per il 2014, al 21 marzo).

Il Comune di Mortara, in data 25 marzo 2014, alla luce delle resistenze manifestate dai comuni convenzionati non capofila, ha chiesto al Mef-Rgs un parere circa gli aspetti applicativi della predetta disposizione. Il ministero, con nota del 9 aprile 2014, n. 34847, ha preso atto delle predette resistenze, an-che in altri casi tradottesi nella mancata sottoscrizio-ne del modello predisposto dall’Ifel (Anci) funzio-nale all’invio dei dati richiesti al fine di operare la rimodulazione degli obiettivi. Il ministero rappresen-ta che la riduzione degli obiettivi per l’ente capofila deve trovare una compensazione nell’aumento per quelli non capofila, al fine di mantenere inalterato

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PARTE I – ATTIVITÀ DI CONTROLLO E CONSULTIVA N. 5-6/2014

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l’obiettivo complessivo di comparto. Ne consegui-rebbe la necessità di un accordo fra gli enti coinvolti (anche se non espressamente indicato dalla norma) al fine di garantire una compensazione degli effetti prodotti a livello di comparto.

L’Anci, infatti, investita dalla legge del compito di coordinare l’acquisizione e la comunicazione del-le informazioni richieste, ha predisposto e messo a disposizione degli enti locali, nell’area riservata del portale Ifel, un modello di accordo a mezzo del qua-le tutti i comuni interessati dalla rimodulazione atte-stano il proprio consenso alla variazione da operare (modello sottoscritto dal sindaco e dal responsabile del servizio economico e finanziario).

Alla luce del dettato normativo, appare necessa-rio che il comune istante, al fine di poter beneficiare della rimodulazione degli obiettivi del patto di sta-bilità interno segua il procedimento sopra esposto, acquisendo la certificazione dei dati finanziari dagli altri comuni convenzionati.

Questi ultimi, in aderenza ai principi di corret-tezza e buona fede, oltre che di lealtà istituzionale, che devono presiedere i rapporti contrattuali fra le pubbliche amministrazioni, devono fornire i dati ri-chiesti, sottoscrivendo l’apposito modulo messo a disposizione dall’Anci.

In caso di rifiuto, alla luce della ratio dell’inter-vento normativo, fondato sulla necessità di steriliz-zare gli effetti che, sul conseguimento degli obiettivi del patto di stabilità interno, derivano dalla gestione di un servizio in qualità di comune capofila, la sezio-ne ritiene che quest’ultimo possa comunicare diret-tamente all’Anci i dati contabili richiesti dalla norma (firmati dal sindaco e certificati dal responsabile del servizio finanziario), inserendoli autonomamente nell’applicativo web sopra indicato.

Una diversa interpretazione potrebbe impattare negativamente sulla disponibilità di un comune a esercitare tale funzione, con ripercussioni negative sui servizi da erogare ai cittadini.

Inoltre, in assenza dell’indicato meccanismo di chiusura, per il quale l’Anci e il Ministero dell’e-conomia e delle finanze potranno dare le necessa-rie istruzioni operative, la norma rischia di risultare inapplicabile nel caso di mancata condivisione da parte dei comuni convenzionati non capofila che, alla luce del lasso di tempo trascorso (la spesa media da prendere a riferimento attiene al triennio 2009-2011), potrebbero non essere più interessati a colla-borare (nel caso, per esempio, di gestione attuale del servizio in maniera autonoma o in convezione con altri enti).

Si precisa, infine, che la corretta applicazione della procedura in esame, introdotta dall’ultima leg-ge di stabilità, sarà verificata dalla scrivente Sezione regionale nella pertinente sede dell’ordinario con-trollo sul rispetto del patto di stabilità interno (art. 148-bis Tuel, introdotto dall’art. 3 d.l. n. 174/2012, convertito dalla l. n. 213/2012).

237 – Sezione controllo Regione Lombardia; pare-re 29 settembre 2014; Pres. Braghò, Rel. Guida; Comune di Cesate.

Comune e provincia – Personale – Contenimento della spesa – Consolidamento con la spesa di personale degli organismi partecipati – Neces-sità.

D.lgs. 18 agosto 2000 n. 267, t.u. delle leggi sull’or-dinamento degli enti locali; l. 5 giugno 2003 n. 131, disposizioni per l’adeguamento dell’ordinamento della Repubblica alla l. cost. 18 ottobre 2001 n. 3, art. 7; l. 27 dicembre 2006 n. 296, disposizioni la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (legge finanziaria 2007), art. 1, cc. 557, 562; d.l. 25 giugno 2008 n. 112, convertito con modifi-cazioni dalla l. 6 agosto 2008 n. 133, disposizioni urgenti per lo sviluppo economico, la semplificazio-ne, la competitività, la stabilizzazione della finanza pubblica e la perequazione tributaria, art. 76; d.l. 24 giugno 2014, n. 90, convertito con modificazioni dalla l. 11 agosto 2014 n. 114, misure urgenti per la semplificazione e la trasparenza amministrativa e per l’efficienza degli uffici giudiziari, art. 3.

Gli enti locali, ai fini del rispetto sia dell’obiet-tivo di contenimento della spesa storica, sia dell’e-quilibrato rapporto fra la spesa per il personale e la spesa corrente, debbono consolidare la propria spesa per il personale con l’analoga spesa dei loro organismi partecipati (nella specie, di un consorzio di enti locali).

Premesso – Il sindaco del Comune di Cesate, con nota prot. n. 7537 1.11.4 del giorno 23 maggio 2014, dopo aver premesso che:

- ai fini della composizione dell’aggregato di spe-sa di personale lo stesso sembra assumere una com-posizione diversa se riferita al patto di stabilità, al contenimento della spesa, al monitoraggio del costo del lavoro o ai livelli assunzionali;

- l’art. 76, c. 7, d.l. n. 112/2008 dispone un divie-to “per gli enti nei quali l’incidenza delle spese di personale è pari o superiore al 50 per cento delle spe-

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se correnti di procedere ad assunzioni di personale a qualsiasi titolo e con qualsivoglia tipologia contrat-tuale: i restanti enti possono procedere ad assunzioni di personale a tempo indeterminato nel limite del 40 per cento della spesa corrispondente alle cessazioni dell’anno precedente. Ai soli fini del calcolo delle facoltà assunzionali, l’onere per le assunzioni del personale destinato allo svolgimento delle funzioni in materia di polizia locale, d’istruzione pubblica e del settore sociale è calcolato nella misura ridotta del 50 per cento. Per gli enti nei quali l’incidenza delle spese di personale è pari o inferiore al 35 per cento delle spese correnti sono ammessi, in deroga al li-mite del 40 per cento e comunque nel rispetto degli obiettivi del patto di stabilità interno e dei limiti di contenimento complessivi delle spese di personale, le assunzioni per turn over che consentano l’eserci-zio delle funzioni fondamentali previste dall’art. 21, c. 3, lett. b), della l. 5 maggio 2009, n. 42” e dispone altresì che siano calcolate “le spese sostenute anche dalle aziende speciali, dalle istituzioni e dalle società a partecipazione pubblica locale totale o di control-lo che sono titolari di affidamento diretto di servizi pubblici senza gara”;

- il principio di consolidamento della spesa (di origine giurisprudenziale) è stato recepito dal le-gislatore al fini dell’individuazione dei vincoli as-sunzionali di cui all’art. 76, c. 7, d.l. n. 112/2008, mentre ai fini del rispetto del tetto di spesa storica posto dall’art. 1, c. 557, l. n. 296/2006, ha imposto di consolidare quella sostenuta per “tutti i soggetti a va-rio titolo utilizzati, senza estinzione del rapporto di pubblico impiego, in strutture e organismi variamen-te denominati partecipati o comunque facenti capo all’ente” (cfr. art. 14, c. 7, d.l. n. 78/2010, convertito dalla l. n. 122/2010);

- gli orientamenti di matrice giurisprudenziale non offrirebbero una lettura di univoca portata;

- alla luce della normativa attuale non si rileve-rebbe un chiaro obbligo di consolidamento in capo al comune relativamente alle spese di personale soste-nute dalla partecipata, al fine di verificare la riduzio-ne della spesa storica;

- ha posto alla Sezione il seguente quesito gene-rale: “il comune è legittimato ad escludere dal con-solidamento delle spese di personale con le proprie aziende partecipate, un consorzio, ancorché sia un organismo titolare di affidamento diretto e svol-ga funzioni volte a soddisfare esigenze di interesse generale avente carattere non industriale, né com-merciale?”; il quesito viene, altresì, maggiormente dettagliato nella parte finale della richiesta di parere

ove si chiede “se la spesa di personale delle società a partecipazione (locale totale o di controllo, che sono titolari di affidamento diretto di servizi pubblici senza gara), dei consorzi, delle aziende speciali, del-le istituzioni o di altri organismi strumentali debba essere consolidata con quella del comune ai fini del rispetto, da parte di quest’ultimo, sia dell’obiettivo di contenimento della spesa storica, posto dall’art. art. 1, cc. 557 e 562, l. n. 296/2007, che dell’equilibra-to rapporto con la spesa corrente, posto dall’art. 76, c. 7, d.l. n. 112/2008, ancorché non vi sia personale delle predette società che vanti titolarità di rapporto di pubblico impiego”. (Omissis)

La richiesta del Comune di Cesate, come sopra ricordato, concerne la corretta interpretazione della nozione di spesa di personale, ai sensi dell’art. 1, cc. 557 e 562, l. n. 296/2006, e dell’art. 76, c. 7, d.l. n. 112/2008, e, in particolare, se tale spesa sostenuta dal comune debba essere consolidata con quella sostenu-ta dalle proprie società partecipate – a totale parteci-pazione o con partecipazioni di controllo e titolari di affidamento diretto di servizi pubblici senza gara – dai consorzi, dalle aziende speciali, dalle istituzioni o da altri organismi strumentali, al fine del rispetto da parte dell’ente locale sia dell’obiettivo di con-tenimento della spesa storica, previsto dalla prima disposizione sopra richiamata, che dell’equilibrato rapporto con la spesa corrente, posto dalla seconda disposizione sopra ricordata, ancorché non vi sia personale delle predette società che vanti titolarità di rapporto di pubblico impiego. Dalla richiesta di pa-rere si evince, in particolare, che il profilo di maggio-re interesse per il comune si sostanzi nella possibilità per quest’ultimo di escludere dal consolidamento delle spese di personale con le proprie aziende par-tecipate, un consorzio, titolare di affidamento diretto e svolgente funzioni volte a soddisfare esigenze di interesse generale avente carattere non industriale, né commerciale.

Giova preliminarmente evidenziare come succes-sivamente alla presentazione della richiesta di parere in esame sia parzialmente mutato il quadro normativo di riferimento. L’art. 76, c. 7, d.l. n. 112/2008 è stato, infatti, abrogato dall’art. 3, c. 5, d.l. 24 giugno 2014, n. 90, convertito con modificazioni dalla l. 11 agosto 2014, n. 114. Ne consegue che la questione interpre-tativa può ritenersi circoscritta a quella inerente l’ap-plicazione dell’art. 1, cc. 557 e 562, l. n. 296/2006.

La prima delle due disposizioni prevede che “ai fini del concorso delle autonomie regionali e locali al rispetto degli obiettivi di finanza pubblica, gli enti sottoposti al patto di stabilità interno assicurano la ri-

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duzione delle spese di personale, al lordo degli oneri riflessi a carico delle amministrazioni e dell’Irap, con esclusione degli oneri relativi ai rinnovi contrattuali, garantendo il contenimento della dinamica retributi-va e occupazionale, con azioni da modulare nell’am-bito della propria autonomia e rivolte, in termini di principio, ai seguenti ambiti prioritari di intervento: a) riduzione dell’incidenza percentuale delle spese di personale rispetto al complesso delle spese cor-renti, attraverso parziale reintegrazione dei cessati e contenimento della spesa per il lavoro flessibile; b) razionalizzazione e snellimento delle strutture bu-rocratico-amministrative, anche attraverso accorpa-menti di uffici con l’obiettivo di ridurre l’incidenza percentuale delle posizioni dirigenziali in organico; c) contenimento delle dinamiche di crescita della contrattazione integrativa, tenuto anche conto delle corrispondenti disposizioni dettate per le ammini-strazioni statali”. La seconda disposizione, invece, statuisce che “per gli enti non sottoposti alle regole del patto di stabilità interno, le spese di personale, al lordo degli oneri riflessi a carico delle amministra-zioni e dell’Irap, con esclusione degli oneri relativi ai rinnovi contrattuali, non devono superare il corri-spondente ammontare dell’anno 2008. Gli enti di cui al primo periodo possono procedere all’assunzione di personale nel limite delle cessazioni di rapporti di lavoro a tempo indeterminato complessivamente intervenute nel precedente anno, ivi compreso il per-sonale di cui al c. 558”.

Ai fini di una più agevole lettura del quadro nor-mativo di riferimento, meritano di essere richiamati anche:

- il c. 557-bis del medesimo articolo ora esami-nato, secondo cui “ai fini dell’applicazione del c. 557, costituiscono spese di personale anche quelle sostenute per i rapporti di collaborazione coordina-ta e continuativa, per la somministrazione di lavoro, per il personale di cui all’art. 110 d.lgs. 18 agosto 2000, n. 267, nonché per tutti i soggetti a vario ti-tolo utilizzati, senza estinzione del rapporto di pub-blico impiego, in strutture e organismi variamente denominati partecipati o comunque facenti capo all’ente”;

- il successivo c. 557-quater, introdotto dalla recentissima novella di cui all’art. 3, c. 5-bis, d.l. 24 giugno 2014, n. 90, convertito con modificazioni dalla l. 11 agosto 2014, n. 114, che stabilisce che “ai fini dell’applicazione del c. 557, a decorrere dall’anno 2014 gli enti assicurano, nell’ambito della programmazione triennale dei fabbisogni di perso-nale, il contenimento delle spese di personale con

riferimento al valore medio del triennio precedente alla data di entrata in vigore della presente disposi-zione”.

Come il comune dimostra di conoscere, tale que-stione interpretativa è stata già oggetto di plurime pronunce di questa Corte (ex plurimis, Corte conti, Sez. riun., 25 gennaio 2011, n. 3, 12 maggio 2011, n. 27, nonché Sez. autonomie, 29 aprile 2011, n. 8) e, in particolare, di questa Sezione, di seguito richiamate.

Una corretta valorizzazione dei principi pretori progressivamente emersi permette di chiarire i dubbi interpretativi posti dal comune istante. A questo fine, un punto di partenza di questo percorso interpretati-vo può, senza dubbio, essere individuato nella deli-berazione di questa Sezione n. 116/2013.

In relazione all’obbligo di consolidamento, da parte dei comuni, ai fini del rispetto dei predetti tet-ti o rapporti, degli oneri per il personale sostenuti a mezzo di consorzi, unioni, aziende speciali o altri organismi esterni all’ente medesimo (in particolare societari), si è, in particolare, ricordato nel richiama-to parere come “la scrivente Sezione si è pronunciata più volte (cfr., per esempio, delib. n. 99/2008 e n. 609/2011). La questione è stata anche affrontata dalla Sezione delle autonomie che, nella delib. n. 8/2011, aveva espresso, con specifico riferimento alla que-stione sottoposta al suo esame (scaturita dalla par-tecipazione di un ente ad una Unione di comuni), il principio interpretativo secondo cui anche la quota parte della spesa di personale dell’Unione, riferibile al comune che vi partecipa, deve essere imputata a quest’ultimo ai fini del rispetto del limite di cui al c. 557 della l. n. 296/2006.

Più in generale, la scrivente Sezione era già giun-ta alla conclusione secondo cui, ai fini del conteni-mento della spesa per il personale, la base di calco-lo, sostenuta da ciascun ente locale, dovesse tenere conto dei vari sistemi organizzativi nei quali, ormai, si articola l’amministrazione pubblica (cfr. delibera-zioni sopra citate). Le conclusioni cui era giunta la giurisprudenza contabile sono state poi confermate dal legislatore che, ai fini del rispetto del tetto di spesa storica posto dall’art. 1, c. 557, l. n. 296/2006, ha imposto di consolidare quella sostenuta per “tut-ti i soggetti a vario titolo utilizzati, senza estinzio-ne del rapporto di pubblico impiego, in strutture e organismi variamente denominati partecipati o co-munque facenti capo all’ente” (cfr. art. 14, c. 7, d.l. n. 78/2010, convertito con modificazioni dalla l. n. 122/2010). In seguito ai fini dell’osservanza del rap-porto fra spesa per il personale e spesa corrente (art. 76, c. 7, d.l. n. 112/2008), ha imposto di consolidare

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anche quelle sostenute “dalle società a partecipa-zione pubblica locale totale o di controllo che sono titolari di affidamento diretto di servizi pubblici lo-cali senza gara, ovvero che svolgono funzioni volte a soddisfare esigenze di interesse generale aventi ca-rattere non industriale, né commerciale, ovvero che svolgono attività nei confronti della pubblica ammi-nistrazione a supporto di funzioni amministrative di natura pubblicistica” (art. 20, c. 9, d.l. n. 98/2011, convertito dalla l. n. 111/2011)”.

Alla luce di queste premesse nella deliberazione in esame si è concluso che il comune, ai fini del ri-spetto del tetto di spesa storica e del rapporto spesa per il personale-spesa corrente, debba consolidare anche l’onere sostenuto per suo conto dal proprio Consorzio. Tale conclusione interpretativa trova, del resto, pieno conforto nelle successive delib. n. 449/2013 e n. 539/2013 di questa Sezione ove si è chiaramente affermato che l’elemento che determina la necessità del consolidamento delle spese di per-sonale sostenute dal soggetto partecipato dall’ente locale con quelle da quest’ultimo sostenute è indi-viduabile nel rapporto di stretta strumentalità (che, in alcuni casi, può assimilarsi a quello di immedesi-mazione organica) che lega il comune e il soggetto partecipato. La ratio di tale consolidamento, come chiaramente evidenziato nell’ora richiamata delib. n. 449/2013, è il perseguimento dei “fini della ridu-zione progressiva della spesa storica, della riduzione percentuale della spesa rispetto alla spesa corrente, della razionalizzazione ed accorpamento delle strut-ture burocratico-amministrative, del contenimento delle dinamiche di crescita della contrattazione inte-grativa, tenuto conto delle corrispondenti disposizio-ni dettate per le amministrazioni statali”.

Al contempo deve ricordarsi come il principio del consolidamento è stato specificamente declinato, per quanto riguarda le società in house, nella delib. n. 447/2013. In tale deliberazione si è pervenuti all’im-possibilità di ricondurre nel concetto di spesa di per-sonale rilevante ai fini della verifica richiesta dall’art. 1, c. 557, l. n. 296/2006, la spesa di personale della società in house diversa da quella, espressamente di-sciplinata, di cui al c. 557-bis (“soggetti a vario titolo utilizzati, senza estinzione del rapporto di pubblico impiego, in strutture e organismi variamente deno-minati partecipati o comunque facenti capo all’en-te”). Tale conclusione si fonda sulle seguenti argo-mentazioni:

- applicare il principio del consolidamento anche alla spesa storica ai sensi del c. 557 porterebbe ad una controproducente rigidità gestionale. Si pensi, ad

esempio, a società partecipate che gestiscono servi-zi caratterizzati da picchi di attività ultra-annuali: in tale ipotesi, una società potrebbe avere necessità di personale da assumere in forme flessibili solo per un periodo circoscritto, così però falsando la serie stori-ca della spesa per il personale”;

- il c. 557, infatti, si giustifica in organizzazioni di tipo burocratizzato laddove le attività svolte e le esigenze di personale sono relativamente rigide ed il personale stesso è normalmente assunto a tempo in-determinato. In un contesto in cui, invece, la flessibi-lità può essere un’esigenza irrinunciabile, applicare il c. 557 direttamente in capo al soggetto societario non appare ragionevole, creando vincoli tali da in-cidere in modo irragionevole sull’attività gestionale. Si pensi, per citare un esempio concreto, ad una so-cietà che si occupa, tra l’altro, di smaltimento neve: si tratta, come ovvio, di un’attività caratterizzata da picchi gestionali non costanti su un arco di tempo ul-trannuale. In un caso simile, il rispetto del c. 557 po-trebbe impedire alla società di assumere il personale necessario per garantire lo stesso servizio (nell’anno zero la società non assume in quanto non presenta esigenze di servizio che, invece, si presentano l’anno successivo senza possibilità di farvi fronte). È chiaro, in altri termini, che alla società in house, in difetto di una previsione espressa del legislatore, non possono essere estese regole pensate per il soggetto pubbli-co, regole la cui rigidità minerebbe la stessa capacità gestionale del soggetto. Resta fermo il principio per cui le società pubbliche in oggetto devono adeguare le proprie politiche di personale alle disposizioni vi-genti per le amministrazioni controllanti in materia di contenimento degli oneri contrattuali, delle altre voci di natura retributiva o indennitaria, e per le con-sulenze. In altri termini, comunque si configura un generale obbligo di contenimento da parte della sin-gola partecipata, riferito alle dinamiche retributive, indennitarie ed alle consulenze”.

Quest’ottica è stata fatta propria, sempre in rela-zione alla spesa di personale di una società in house, dalla recente delib. n. 76/2014 di questa Sezione, ove si è ricordato come “il principio di consolidamento della spesa (di origine giurisprudenziale) è stato re-cepito dal legislatore ai fini dell’individuazione dei vincoli assunzionali di cui all’art. 76, c. 7, d.l. n. 112/2008, mentre non è stato recepito dal legislatore ai fini di una valutazione sull’andamento della spesa storica ai sensi del c. 557 cit.

Le Sezioni riunite della Corte (Corte conti, Sez. riun., 25 gennaio 2011, n. 3, e 12 maggio 2011, n. 27, nonché Sez. autonomie, 29 aprile 2011, n. 8 e

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questa Sezione con delib. 5 dicembre 2008, n. 99) hanno ricordato che il principio del consolidamen-to, di matrice giurisprudenziale, è stato recepito dal legislatore con l’art. 20, c. 9, d.l. n. 111/2011, ai fini del rapporto spesa corrente-spesa di personale, men-tre il legislatore non ha esteso analogo principio per la spesa storica rilevanti ai fini dell’art. 1, c. 557, l. n. 296/2006. In maggior dettaglio, le Sezioni riuni-te – con pronunce nomofilattiche vincolanti ai sensi dell’art. 17, c. 31, d.l. n. 78/2009 (convertito dalla l. n. 102/2009) – hanno ritenuto che, anche in caso di reinternalizzazione di servizi precedentemente affi-dati a soggetti esterni, non è possibile derogare alle norme in materia di contenimento della spesa per il personale. Tali norme, infatti, costituiscono disposi-zioni di natura cogente che rispondono a imprescin-dibili esigenze di riequilibrio della finanza pubblica per ragioni di coordinamento finanziario connesse ad obiettivi nazionali ancorati al rispetto di rigidi obbli-ghi comunitari.

Le Sezioni riunite, in sostanza, “hanno escluso la possibilità di includere nella spesa da prendere come base di calcolo per accertarne la riduzione anche le spese per il personale sostenute dalla società in hou-se in relazione alla gestione del servizio da reinter-nalizzare. La base di tale ragionamento, implicita ma evidente, è la negazione dell’esistenza di un obbligo di consolidamento ai fini della riduzione della spesa storica” (Sez. riun., n. 26/2012 cit.)”.

Ripercorrendo l’iter argomentativo finora svolto, a fronte di una ratio legis individuabile nella volontà di ridurre il perimetro della pubblica amministrazio-ne, agendo sulla leva finanziaria – con la conseguenza che “i tetti imposti alle spese di personale e i vincoli assunzionali riferiti alla spesa corrente, si pongono quale limite finanziario alle funzioni e ai servizi ero-gabili dall’ente, in un periodo storico in cui lo Stato deve necessariamente ridurre la spesa pubblica per rispettare i parametri europei in materia di finanza pubblica” (Sez. contr. reg. Lombardia, n. 449/2013) –, è emerso il principio pretorio, sopra ricordato, che ai fini del contenimento della spesa per il personale, la base di calcolo, sostenuta da ciascun ente locale, debba tenere conto dei vari sistemi organizzativi nei quali, ormai, si articola l’amministrazione pubblica. Tale principio di consolidamento, com’è evidente, non può essere assolutizzato, ma deve essere sempre letto alla luce della ratio della disposizione in esame, anch’essa ora richiamata, e della successiva evolu-zione normativa. Ne è derivata l’esclusione del rilie-vo della spesa di personale di una società in house, tenuto conto, come visto, in particolare, delle con-

troproducenti rigidità gestionali, che potrebbero de-rivare dall’applicazione del principio del consolida-mento a società partecipate che, di norma, gestiscono servizi caratterizzati da picchi di attività ultrannuali: in tale ipotesi, una società potrebbe avere necessità di personale da assumere in forme flessibili solo per un periodo circoscritto, così però falsando la serie storica della spesa per il personale.

Ciò non esclude, però, che tale principio possa trovare piena vigenza in relazione a figure rispetto alle quali l’applicazione dello stesso non determini le criticità ora evidenziate, prime tra tutte, le aziende speciali: “il rapporto di immedesimazione organica e funzionale fra comune e propria azienda speciale implica la vigenza del principio di consolidamento delle spese di personale assunto dall’azienda mede-sima, ad onere dell’ente locale di riferimento” (Sez. contr. reg. Lombardia, n. 449/2013).

Uguale conclusione non può che estendersi ai consorzi, cui fa riferimento il comune istante nella propria richiesta di parere, in quanto:

- è evidente la stretta strumentalità, che rasenta l’immedesimazione organica e funzionale tra comu-ne e consorzio, che, come specifica il comune istan-te, è titolare di affidamento diretto e svolge funzio-ni volte a soddisfare esigenze d’interesse generale avente carattere non industriale, né commerciale;

- l’art. 31 Tuel espressamente prevede che ai con-sorzi si applichino, per quanto compatibili, le dispo-sizioni dettate per le aziende speciali, riconoscendo, dunque, la stretta vicinanza delle due figure.

Non può, quindi, che conseguirne, come prece-dentemente ritenuto da questa Sezione nella delib. n. 539/2013, che “la spesa di personale dei consorzi debba essere consolidata con quella del comune ai fini del rispetto, da parte di quest’ultimo, dell’obietti-vo di contenimento della spesa storica, posto dall’art. art. 1, cc. 557 e 562, l. n. 296/2006”.

301 – Sezione controllo Regione Lombardia; parere 13 novembre 2014; Pres. (f.f.) e Rel. Braghò; Co-mune di Travedona Monate.

Contratti pubblici – Comune e provincia – Acqui-sto di beni e servizi – Gare telematiche – Di-ritti di segreteria – Obbligo di riscossione da parte degli enti locali – Esclusione.

D.l. 7 maggio 2012 n. 52, convertito con modifica-zioni dalla l. 6 luglio 2012 n. 94, disposizioni urgenti per la razionalizzazione della spesa pubblica, art. 13.

Le ditte aggiudicatrici delle gare telematiche per

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l’acquisto di beni e servizi da parte degli enti locali non sono tenute, nei confronti degli enti stessi, al pa-gamento dei diritti di segreteria.

Premesso – Il sindaco del Comune di Travedona Monate (VA) ha formulato alla sezione una richiesta di parere in materia di diritti di segreteria e strumen-ti informatici di acquisto (art. 13 d.l. 6 luglio 2012, n. 52, convertito dalla l. 6 luglio 2012, n. 94) del seguente tenore: “Qualora si debba procedere alla sottoscrizione con atto pubblico amministrativo per l’affidamento di un servizio o di un lavoro, la cui gara è stata espletata attraverso la piattaforma elettronica Sintel e quindi mediante strumenti informatici di ac-quisto, sono dovuti, da parte della ditta aggiudicatri-ce i diritti di segreteria? (Omissis)

Merito – L’applicazione della disciplina in tema di utilizzo degli strumenti informatici e telematici per l’acquisito di beni e servizi da parte delle pub-bliche amministrazioni locali, appare scevra di dub-bi interpretativi. La norma disciplina esattamente il caso prospettato dall’amministrazione interpellante. La normativa in tema di revisione della spesa è inde-rogabile e cogente per gli enti destinatari, trattandosi di espressa applicazione del principio di coordina-mento della finanza pubblica locale.

Le disposizioni introdotte con il d.l. 7 maggio 2012, n. 52 (c.d. primo decreto in tema di revisione della spesa) hanno semplificato il ricorso agli stru-menti telematici per l’acquisto di beni o servizi da parte delle amministrazioni locali. A seguito dell’ob-bligo di utilizzo delle gare gestite con strumenti in-formatici (ad esempio, Sistema Sintel predisposto da Arca in Lombardia; Me.Pa.).

L’art. 13 del citato primo decreto spending re-view ha testualmente previsto la disapplicazione dell’obbligo di richiedere i diritti di segreteria, ai sensi dell’art. 40 l. 8 giugno 1962, n. 604 nell’ipotesi di stipula di contratti stipulati a seguito del ricorso a gare telematiche di acquisto.

* * *

Marche

67 – Sezione controllo Regione Marche; parere 21 ottobre 2014; Pres. (f.f.) Liberati, Rel. Di Marco; Comune di Acquasanta Terme.

Impiegato regionale e degli enti locali – Contratto di lavoro a tempo determinato – Durata com-plessiva non superiore a tre anni – Applica-

zione al personale degli uffici posti alle dirette dipendenze del sindaco – Esclusione.

D.lgs. 18 agosto 2000 n. 267, t.u. delle leggi sull’or-dinamento degli enti locali, art. 90; d.lgs. 6 settembre 2001 n. 368, attuazione della direttiva 1999/70/Ce relativa all’accordo quadro sul lavoro a tempo de-terminato concluso dall’Unice, dal Ceep e dal Ces, art. 4.

I contratti del personale assunto a tempo deter-minato per le esigenze degli uffici alle dirette dipen-denze del sindaco possono avere durata complessiva superiore a tre anni (ma, comunque, non superiore alla durata del mandato elettorale dell’organo po-litico), stante il carattere di specialità della norma (art. 90 Tuel) che consente tali assunzioni rispetto alla generale disciplina dei rapporti di lavoro a tempo determinato (in motivazione, si precisa che la deroga a tale disciplina è giustificata dal carattere fiduciario e dalla relazione funzionale che lega il personale di staff agli organi di direzione politica, nonché dai contenuti dell’attività lavorativa, intrin-secamente collegata all’esercizio delle funzioni di indirizzo e controllo dell’ente locale). (1)

Fatto – In data 9 ottobre 2014 è pervenuta, per

(1) Non constano precedenti specifici.La massima si fonda sul principio per cui sussiste un rap-

porto di specialità tra la normativa in materia di contratti per l’assunzione di personale in posizione di staff all’organo di direzione politica degli enti locali e la disciplina generale sui contratti a tempo determinato di derivazione comunitaria.

Secondo Corte conti, Sez. contr. reg. Veneto, 19 dicembre 2008, n. 181, in Rep. Foro it., 2009, voce Impiegato dello Stato e pubblico, n. 420, nell’ambito delle assunzioni negli enti pub-blici, i limiti relativi alla durata dei rapporti di lavoro flessibile imposti dall’art. 49 l. n. 133/2008 (di conversione con modifi-cazioni del d.l. n. 112/2008) non si applicano nel caso in cui al medesimo soggetto, al termine del triennio di collaborazione, venga proposta la sottoscrizione di un contratto a tempo deter-minato per ricoprire una funzione di staff all’organo politico dell’ente; tuttavia, il passaggio dal rapporto di lavoro flessibile a quello a tempo determinato, benché legittimo, non è automa-tico, dovendo l’ente, obbligatoriamente, a riprova non soltanto della legittimità del proprio operato, ma anche dell’effettiva necessità di tale iniziativa, verificare, rispetto allo status quo ante, l’opportunità di proseguire il rapporto a tempo determi-nato – in luogo di un contratto a tempo indeterminato – con riferimento alle specifiche esigenze dell’ente stesso.

Per altri aspetti relativi all’applicazione nel settore pub-blico della disciplina di cui alla direttiva 1999/70/Ce, recante l’Accordo quadro sul lavoro a tempo determinato, recepita dall’Italia con il d.lgs. n. 368/2001, v. Corte giust. Ue, 12 di-cembre 2013, causa C-361/12, in questa Rivista, 2014, fasc. 1-2, 265.

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il tramite del Cal della Regione Marche, una ri-chiesta di parere formulata dal sindaco del Comune di Acquasanta Terme ai sensi dell’art. 7, c. 8, l. n. 131/2003. Il parere ha per oggetto la corretta inter-pretazione della normativa in materia di costituzione di contratti di lavoro subordinato a tempo determina-to per il personale addetto agli uffici di supporto agli organi di direzione politica (uffici di staff).

In particolare, il sindaco chiede il parere di questa sezione in ordine alla possibilità di escludere i con-tratti di cui all’art. 90 d.lgs. n. 267/2000 (Tuel) dal termine massimo di trentasei mesi previsto dall’art. 4, c. 5-bis, d.lgs. n. 368/2001 e di ricondurli alla du-rata del mandato elettorale del sindaco.

Nel merito – 1. I dubbi interpretativi del comune istante concernono la corretta applicazione dell’art. 90 Tuel in combinato disposto con l’art. 4 d.lgs. n. 368/2001.

L’art. 90 Tuel stabilisce che “1) Il regolamento sull’ordinamento degli uffici e dei servizi può pre-vedere la costituzione di uffici posti alle dirette di-pendenze del sindaco, del presidente della provincia, della giunta o degli assessori, per l’esercizio delle funzioni di indirizzo e di controllo loro attribuite dalla legge, costituiti da dipendenti dell’ente, ovve-ro, salvo che per gli enti dissestati o strutturalmen-te deficitari, da collaboratori assunti con contratto a tempo determinato, i quali, se dipendenti da una pub-blica amministrazione, sono collocati in aspettativa senza assegni”.

L’art. 4 d.lgs. n. 368/2001, recante l’attuazione della direttiva 1999/70/Ce relativa all’accordo qua-dro sul lavoro a tempo determinato, prevede che la durata del rapporto a termine non possa essere supe-riore a tre anni e che eventuali proroghe siano conte-nute nel limite complessivo di trentasei mesi.

Si precisa che in virtù dello specifico rinvio con-tenuto nell’art. 36, c. 5-ter, Tupi, la disciplina con-tenuta nel d.lgs. n. 368/2001 è applicabile a tutte le pubbliche amministrazioni, fermi restando i principi della preferenza per il contratto a tempo indetermi-nato, della straordinarietà del ricorso alle forme con-trattuali flessibili e del divieto di trasformazione del contratto di lavoro da tempo determinato a tempo indeterminato.

2. Nel quadro normativo descritto si pone il pro-blema di stabilire se i contratti a tempo determinato del personale addetto agli uffici di staff ex art. 90 Tuel debbano essere contenuti entro il termine mas-simo di trentasei mesi.

Ritiene il collegio che la soluzione del quesito non possa prescindere dall’esame della ratio che

ispira la norma contenuta nell’art. 90 Tuel e dall’a-nalisi della relativa disciplina.

La disposizione citata, in applicazione del fonda-mentale principio di separazione tra funzione di in-dirizzo politico e funzione amministrativa, risponde alla necessità di assicurare agli organi titolari della funzione di direzione politica la possibilità di poter disporre di personale posto alle proprie dirette dipen-denze al fine di supportare il concreto “esercizio del-le funzioni di indirizzo e di controllo”.

In considerazione della particolare relazione fun-zionale che lega il personale di staff agli organi di direzione politica, il rapporto di lavoro subordinato costituito ai sensi dell’art. 90 Tuel ha natura eminen-temente fiduciaria ed è instaurato sulla base dell’in-tuitus personae, senza necessità di particolari proce-dure selettive.

Inoltre, in base al c. 3-bis introdotto dall’art. 11, c. 4, d.l. 24 giugno 2014, n. 90, nel caso in cui il trattamento economico sia parametrato a quello di-rigenziale può prescindersi anche dal possesso del titolo di studio.

Infine, il trattamento economico accessorio del personale di staff può essere sostituito con delibera motivata di giunta comunale da un unico emolumen-to comprensivo dei compensi previsti dai contratti collettivi per il lavoro straordinario, per la produtti-vità collettiva e per la qualità della prestazione indi-viduale (c. 3).

3. Le peculiarità della disciplina recata all’art. 90 Tuel inducono a ritenere che i rapporti di lavoro subordinato a tempo determinato instaurati ai sensi della norma in discorso presentino caratteri di spe-cialità rispetto alla generale disciplina dei rapporti a tempo determinato con la pubblica amministrazione, in considerazione dei contenuti dell’attività lavorati-va intrinsecamente collegata all’esercizio della fun-zione di direzione politica dell’ente locale.

In applicazione dei consueti canoni ermeneutici la specialità dell’art. 90 Tuel rispetto alle norme che disciplinano i contratti a tempo determinato esclude che al personale di staff possa applicarsi il termine massimo di trentasei mesi stabilito – in termini gene-rali – dal d.lgs. n. 368/2001.

Conclusivamente, ritiene il collegio che il con-tratto a tempo determinato del personale di staff ab-bia – quale unico limite temporale – la durata del mandato dell’organo politico a supporto del quale è addetto.

Sul punto deve precisarsi che l’art. 90 cit., a dif-ferenza di quanto specificato dall’art. 110, c. 3, Tuel con riferimento agli incarichi di responsabile di ser-

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vizio, di qualifiche dirigenziali e di alta specializza-zione, omette di stabilire che la durata massima dei contratti di lavoro del personale di staff non possa superare la durata del mandato del sindaco.

Tuttavia, da quanto detto in precedenza riguardo il carattere fiduciario ed il collegamento con l’eser-cizio delle funzioni di indirizzo politico può agevol-mente desumersi che la durata dei rapporti di lavoro in discorso, fatta ovviamente salva la possibilità di revoca anticipata, è strettamente collegata alla durata del mandato dell’organo politico in favore del quale i dipendenti prestano la loro attività lavorativa.

4. Le conclusioni di questo collegio sono coerenti con quanto già affermato dalla Sezione regionale di controllo per il Veneto con la delib. n. 181/2008, con la quale è stato affermato – sia pure con riferimento al testo dall’art. 36, c. 3, Tupi, così come modificato dall’art. 49, c. 3, l. n. 133/2008 – che il particolare contratto a tempo determinato disciplinato dall’art. 90 cit. debba essere escluso dall’applicazione del ter-mine massimo di durata triennale.

* * *

Puglia

164 – Sezione controllo Regione Puglia; delibera-zione 25 settembre 2014; Pres. (f.f.) Fazio, Rel. Sciancalepore; Comune di Casarano.

Contabilità regionale e degli enti locali – Comune e provincia – Piano di riequilibrio finanziario pluriennale – Società partecipate – Ripiano dei debiti – Necessità – Esclusione.

C.c., art. 2462; d.lgs. 18 agosto 2000 n. 267, t.u. delle leggi sull’ordinamento degli enti locali, artt. 243-bis, 243-quater, 244; l. 5 giugno 2003 n. 131, disposi-zioni per l’adeguamento dell’ordinamento della Re-pubblica alla l. cost. 18 ottobre 2001 n. 3, art. 7; d.l. 10 ottobre 2012 n. 174, convertito con modificazioni dalla l. 7 dicembre 2012 n. 213, disposizioni urgenti in materia di finanza e funzionamento degli enti ter-ritoriali, nonché ulteriori disposizioni in favore delle zone terremotate nel maggio 2012, art. 3.

L’ente locale, nel predisporre il piano di riequi-librio finanziario pluriennale, deve verificare e valu-tare la situazione delle società partecipate relativa-mente ai costi e agli oneri a suo carico, senza essere obbligato a prevedere il ripiano dei debiti delle so-cietà, anche se interamente partecipate.

Fatto – Con deliberazione n. 110/2012, adottata a seguito dell’adunanza del 13 ottobre 2012 e depo-sitata il 29 novembre 2012, dopo l’esame del rendi-conto 2010 del Comune di Casarano (LE) condotto ai sensi dell’art. 1, cc. 166 ss., l. n. 266/2005, questa Sezione regionale di controllo rilevava la presenza di numerose gravi irregolarità contabili e di vari com-portamenti difformi dalla sana gestione finanziaria e accertava che lo squilibrio strutturale del bilancio del Comune di Casarano presentava caratteri di gravi-tà tale che, in caso di mancata adozione di adeguate misure di salvaguardia necessarie al ripristino degli equilibri finanziari e di cassa, si sarebbe dovuto pro-cedere alla dichiarazione di dissesto. A tal fine, la Sezione assegnava il termine di sessanta giorni per l’adozione di un piano di rientro ai sensi dell’art. 6, c. 2, d.lgs. n. 149/2011. (Omissis)

Diritto – (Omissis)2.3. Debiti della società partecipata Casarano cit-

tà contemporanea s.r.l.Il Comune di Casarano aveva costituito il 24

settembre 2010 la società interamente partecipata “Casarano città contemporanea s.r.l.” (capitale so-ciale euro 10.000) avente a oggetto sociale la car-tolarizzazione relativa alla dismissione del patrimo-nio immobiliare dell’ente. Trattasi della società che avrebbe dovuto procedere all’alienazione dei beni patrimoniali dell’ente necessaria (come riportato nel piano di riequilibrio) per il risanamento finanziario dello stesso. La stessa società ha registrato perdite in tutti gli esercizi dalla data di costituzione ed è riuscita a vendere, dopo varie gare andate deserte, solo due immobili. Il comune, dopo aver proceduto, in data immediatamente successiva alla costituzione (30 settembre 2010) ad aumentare, in modo consi-derevole (euro 4.405.000 mediante conferimento di n. 4 immobili), il capitale sociale, ha venduto alcuni immobili alla medesima società, accertando la rela-tiva entrata.

Nel piano di riequilibrio risultano riportati de-biti nei confronti della società partecipata per euro 1.798.046,92. I debiti relativi alla società parteci-pata, alla data del 23 giugno 2014, ammontavano, invece, ad un importo, notevolmente superiore, pari ad euro 2.049.424,74. Tale importo deriva, in realtà, dalla esposizione della società nei confronti di una banca (euro 1.997.618,11) e da altre voci, non me-glio precisate (“competenze maturate dall’1 aprile al 15 maggio 2014” per euro 15.614,90 e “nuova finanza necessaria a chiudere la liquidazione” per euro 36.191,73). Il piano di riequilibrio prevedeva

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PARTE I – ATTIVITÀ DI CONTROLLO E CONSULTIVA N. 5-6/2014

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il ripiano dei debiti relativi alla società partecipata (euro 1.798.046,92) per euro 880.405,12 nel 2014 e per euro 917.641,80 nel 2015.

L’inserimento nel piano di riequilibrio in esame della copertura, da parte del comune, dei debiti della società Casarano città contemporanea s.r.l. (nella mi-sura indicata di euro 1.798.046,92, inferiore a quella attuale) è stato motivato dall’ente con gli obblighi derivanti dall’art. 243-bis, c. 8, lett. f), Tuel. Tale norma prevede “al fine di assicurare il prefissato gra-duale riequilibrio finanziario, per tutto il periodo di durata del piano”, che l’ente effettui “una verifica e relativa valutazione della situazione di tutti gli orga-nismi e delle società partecipati e dei relativi costi e oneri comunque a carico del bilancio dell’ente”.

Con delibera della giunta comunale n. 136 del 19 aprile 2014, acquisita dalla Sezione attraverso il sito internet dell’ente, oltre a fornire al responsabile del settore finanziario varie indicazioni in ordine al pa-gamento del debito e alla rinegoziazione di altra par-te dello stesso derivante da residuo capitale, interessi maturati e maturandi e spese di gestione, il Comune di Casarano ha deciso di procedere “all’accollo del debito ipotecario della società in liquidazione Ca-sarano città contemporanea con atto di dilazione di pagamento”. Non risulta attestato o dimostrato dal comune, in tale deliberazione, il rispetto dell’art. 6, c. 19, d.l. n. 78/2010 (o la non applicabilità dello stesso) che, con alcune eccezioni, vieta alle ammi-nistrazioni pubbliche partecipanti di effettuare au-menti di capitale, trasferimenti straordinari, aperture di credito o rilascio di garanzie a favore di società partecipate non quotate che abbiano registrato, per tre esercizi consecutivi, perdite di esercizio, ovvero, che abbiano utilizzato riserve disponibili per il ripia-namento di perdite anche infrannuali. Tale elemento, insieme alla legittimità dei pagamenti, da parte del comune, dei debiti della società partecipata Casara-no città contemporanea s.r.l., dovrà essere adeguata-mente approfondito dall’organo di revisione contabi-le. L’esito di tale istruttoria dovrà essere comunicato a questa Sezione entro sessanta giorni dal ricevimen-to della presente deliberazione.

Come chiarito verbalmente dal comune durante l’odierna adunanza pubblica a seguito di apposite domande da parte dei magistrati componenti il col-legio, sostanzialmente, il debito con la banca deriva dal fatto che la citata società interamente partecipa-ta ha pagato al comune il prezzo dei beni immobili acquistati dallo stesso, sostanzialmente, con soldi prestati dalla banca stessa. Tale prestito sarebbe stato rimborsato dalla società alla banca attraverso la ven-

dita degli immobili. Il comune aveva trasferito alla società ulteriori beni per garantire l’anticipazione (il capitale sociale pari a euro 10.000 il 24 settembre 2010, data di costituzione della società, è stato in-crementato, con atto del 30 settembre 2010, di euro 4.405.000 mediante conferimento di 4 immobili). Il sostanziale fallimento della operazione di vendita dei beni da parte della società ha determinato l’im-possibilità per la stessa di procedere al rimborso alla banca delle somme ricevute. Trattandosi di società interamente partecipata e volendo l’ente recuperare i beni conferiti alla società e oggetto di garanzia in favore della banca, il comune intende procedere al ripiano dei debiti della stessa società con la banca. Quanto affermato dal comune durante l’odierna adu-nanza pubblica conferma, sostanzialmente, quanto già riferito in merito dall’organo di revisione, in oc-casione del parere del 14 gennaio 2013 relativo al piano di riequilibrio in esame. L’organo di revisione, infatti, aveva già evidenziato che la società indica-ta “ha contratto delle anticipazioni su crediti con un istituto di credito garantito da una ipoteca sugli stessi immobili nonché dagli immobili rientranti nel capi-tale sociale conferiti dal socio unico”. (Omissis)

Come già riportato prima, l’inserimento nel piano di riequilibrio in esame della copertura dei debiti del-la società Casarano città contemporanea s.r.l. (nella misura indicata di euro 1.798.046,92, notevolmente inferiore a quella attuale) è stato motivato dall’ente con gli obblighi derivanti dall’art. 243-bis, c. 8, lett. f), Tuel. Tale norma, si ribadisce, prevede “al fine di assicurare il prefissato graduale riequilibrio finanzia-rio, per tutto il periodo di durata del piano”, che l’en-te effettui “una verifica e relativa valutazione della situazione di tutti gli organismi e delle società parte-cipati e dei relativi costi e oneri comunque a carico del bilancio dell’ente”. In sostanza, quindi, la norma richiamata non obbliga, automaticamente, a ripiana-re i debiti di una società (anche interamente) parte-cipata nei confronti di terzi, prevedendo al relativo finanziamento nell’ambito del piano di riequilibrio, ma impone, ovviamente, semplicemente di conside-rare nel piano di riequilibrio i “relativi costi e oneri comunque a carico del bilancio dell’ente”. In altre parole, tale norma non prevede deroghe all’ordinaria disciplina in materia di obblighi a carico dell’ente partecipante per i debiti dell’organismo partecipato, limitandosi semplicemente a imporre all’ente inte-ressato di considerare nel piano di riequilibrio, in analogia a quanto previsto per qualsiasi altra passivi-tà, anche gli oneri posti a carico dell’ente partecipan-te, secondo la ordinaria disciplina vigente in materia.

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Alla luce di quanto indicato, quindi, non risulta sufficientemente motivata dall’ente, sul piano giuri-dico, la decisione di procedere al ripiano degli in-genti debiti della società partecipata Casarano città contemporanea s.r.l. Non risultano sufficientemente chiarite, infatti, le ragioni giuridiche che obblighe-rebbero l’ente a pagare debiti di una società di capi-tali (quindi con autonomia patrimoniale perfetta), né risulta identificata la normativa che legittimerebbe una scelta discrezionale in tal senso. Non costituisce una valida giustificazione, come precisato dall’ente durante l’odierna adunanza pubblica, il fatto che i beni della società (già comunali) ipotecati hanno un valore superiore al debito della società nei confronti della banca, in quanto, comunque, la banca non po-trebbe esigere una cifra maggiore di quella ad essa dovuta, indipendentemente dal valore dei beni ipote-cati. Le motivazioni per giustificare il pagamento di tale debito da parte del comune, anche senza consi-derare che la società indicata è attualmente in stato di liquidazione, non possono poi prescindere dal fatto che il legislatore, negli ultimi anni, all’evidente fine di salvaguardare i bilanci degli enti pubblici parteci-panti in società in perdita, rispetto a quanto accadeva in passato, ha progressivamente abbandonato la lo-gica del salvataggio a tutti i costi di tali organismi.

La società Casarano città contemporanea s.r.l. è stata messa in liquidazione con deliberazione consi-glio comunale, 29 novembre 2013, n. 55 (quindi in data successiva all’approvazione da parte di questa Sezione, con delib. n. 153/2013, del piano di riequili-brio finanziario del comune). Come già riportato più volte precedentemente, il debito di tale società risul-ta di importo maggiore rispetto a quello previsto nel piano (da euro 1.798.046,92 a 2.049.424,74). L’ente ha comunicato (nota n. 20029 del 3 settembre 2014) di aver ottenuto una rateizzazione di pagamento del debito in argomento (n. 15 rate per gli anni 2014-2018, con n. 3 rate per ciascun anno), diversa da quella prevista nel piano di riequilibrio (il pagamento del debito era previsto solo negli esercizi 2014-2015) e di aver proceduto al pagamento delle n. 2 rate (euro 284.063,08 cadauna) il cui pagamento era previsto entro il 31 maggio e il 31 agosto 2014. Si segnala, a parte quanto già riferito e che si riferirà sulla que-stione, che la scansione temporale dei pagamenti ec-cederebbe la durata del presente piano di riequilibrio (l’ultimo esercizio interessato è il 2017) in quanto gli ultimi pagamenti sono previsti nell’anno 2018.

Considerato che, dopo l’approvazione del pre-sente piano di riequilibrio, la società menzionata è stata messa in liquidazione, il controllo sulla que-

stione relativa al pagamento, da parte del comune, dei debiti di tale società, non può prescindere da tale accadimento. Questa Sezione si è occupata già in passato (delib. n. 138/2014) della questione relativa alla possibilità, per l’ente partecipante, di ripianare i debiti della società partecipata in liquidazione, non discostandosi dal consolidato orientamento interpre-tativo seguito in merito dalla Corte dei conti.

Il vigente ordinamento giuridico prevede per le società di capitali (tra le quali rientrano le società a responsabilità limitata) un’autonomia patrimoniale perfetta in quanto i soci rispondono generalmente delle obbligazioni della società solo nei limiti della quota conferita. Da ciò deriva che, in generale, così come i creditori del socio non possono soddisfarsi sul patrimonio sociale, i creditori della società non possono pretendere che i soci facciano fronte ai de-biti della società con il loro patrimonio personale. Con riferimento specifico alle società a responsabi-lità limitata, in particolare, l’art. 2462 c.c. prevede che “per le obbligazioni sociali risponde soltanto la società con il suo patrimonio” e che “in caso di insolvenza della società, per le obbligazioni socia-li sorte nel periodo in cui l’intera partecipazione è appartenuta a una sola persona, questa risponde il-limitatamente quando i conferimenti non siano stati effettuati secondo quanto previsto dall’art. 2464 o fin quando non sia stata attuata la pubblicità prescritta dall’art. 2470”. In altre parole, anche nel caso di so-cio unico (cioè nel caso del Comune di Casarano in relazione alla società Casarano città contemporanea s.r.l.), a determinate condizioni, lo stesso risponde delle obbligazioni sociali solo nel caso di insolven-za della medesima, circostanza che, sulla base degli elementi acquisiti anche durante l’odierna adunanza pubblica, proprio per effetto dei beni conferiti dal co-mune alla società immediatamente dopo la relativa costituzione, nella fattispecie non ricorre.

La liquidazione della società a responsabilità li-mitata è una procedura, disciplinata dal codice civile agli artt. 2484 ss., mediante la quale si provvede alla estinzione dei debiti e alla ripartizione dell’eventuale residuo attivo. Quando i fondi disponibili non sono sufficienti a consentire il pagamento dei debiti della società, i liquidatori possono chiedere ai soci il ver-samento dei conferimenti ancora dovuti (art. 2491 c.c.). Approvato il bilancio finale di liquidazione, dopo la cancellazione della società, i creditori sociali non soddisfatti possono far valere i loro crediti nei confronti dei soci solo fino alla concorrenza delle somme da questi riscosse in base al bilancio finale di liquidazione (art. 2495 c.c.).

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È noto che, negli ultimi anni, si è formata un’ar-ticolata disciplina giuridica volta a evitare il salva-taggio a tutti i costi delle società partecipate da parte di enti pubblici e/o, comunque, ad arginare il rischio che le perdite finanziarie delle società partecipate fi-niscano con il pesare sul bilancio dell’ente pubblico partecipante. La giurisprudenza contabile è, da anni, compatta nel ritenere che non sussiste alcun obbligo per l’ente pubblico partecipante di assumere, a carico del proprio bilancio, i debiti della società partecipata in liquidazione qualora il patrimonio di quest’ultima non sia sufficiente a soddisfare le pretese creditorie. A maggior ragione tale principio vale quando il pa-trimonio della società è sufficiente a soddisfare i cre-ditori. Se il socio pubblico, realizzando un sostanzia-le accollo, decide di rinunciare al limite legale della responsabilità patrimoniale per debiti, quantomeno occorre una congrua motivazione che dia adeguata-mente conto delle ragioni di vantaggio, di utilità e/o di interesse pubblico che giustificano la decisione adottata. In assenza di adeguata motivazione, infat-ti, si concretizzerebbe un ingiustificato favor verso i creditori della società incapiente (ex multis sulla que-stione: Sez. contr. reg. Basilicata, n. 28/2011; Sez. contr. reg. Emilia-Romagna, n. 33/2011; Sez. contr. reg. Veneto, n. 434/2012; Sez. contr. reg. Lombardia, n. 98/2013; Sez. contr. reg. Liguria, n. 82/2013; Sez. contr. reg. Sicilia, n. 59/2014). A maggior ragione a tali conclusioni si perviene laddove non sia riscon-trabile a carico della società uno stato di insolvenza, essendo la stessa titolare di risorse sufficienti alla estinzione di eventuali debiti propri.

Nel caso in esame, quindi, sulla base dei dati resi noti a questa Sezione, la società è titolare di beni di valore superiore ai debiti. Non sembra sussistere, pertanto, alcun obbligo giuridico, a carico del Co-mune di Casarano, di procedere a pagare i debiti della società interamente partecipata nei confronti della banca che ha finanziato la descritta operazio-ne di cartolarizzazione, non ricorrendo, pur essendo socio unico, i necessari presupposti previsti dal ci-tato art. 2462 c.c., quali, in particolare, l’insolvenza della società. La decisione del comune di procedere al pagamento dei debiti della società partecipata, in assenza di obblighi di legge e in mancanza di un’i-donea motivazione, sulla base di quanto a conoscen-za di questa Sezione, vista la pregressa difficoltà di alienare il patrimonio immobiliare oggetto della ope-razione di cartolarizzazione, almeno potenzialmente, potrebbe concretizzare una ipotesi di ingiustificato favor nei confronti di chi è creditore di una società non insolvente (principalmente la banca che ha fi-nanziato l’operazione di cartolarizzazione), dal mo-

mento che consentirebbe allo stesso di riscuotere il proprio credito in forma liquida, come tale immedia-tamente spendibile o utilizzabile, anziché, a seguito di apposito procedimento, utilizzando gli strumenti di garanzia disponibili, attraverso beni immobili di incerta vendibilità nell’an e nel quantum, visto anche quanto accaduto in passato. Anche su tali aspetti, è necessario che l’organo di revisione proceda ad una accurata verifica. L’esito di tale verifica dovrà essere comunicato a questa Sezione entro sessanta giorni dal ricevimento della presente deliberazione. Questa Sezione si riserva, in merito, ulteriori approfondi-menti istruttori.

Si ritiene opportuno precisare, inoltre, che, nel-la fattispecie in esame, non ricorrono neanche gli elementi propri del debito fuori bilancio (art. 194 Tuel). Non sussistono, infatti, elementi per classifi-care quanto indicato nell’ambito di una delle tipolo-gie elencate dalla norma citata, elenco pacificamente ritenuto tassativo e non suscettibile di estensioni. Il debito fuori bilancio riconoscibile ai sensi dell’art. 194, c. 1, lett. c), Tuel è solo quello derivante dalla ricapitalizzazione, nei limiti e con le forme previste dal codice civile e dalle leggi vigenti in materia e fer-ma restando comunque una adeguata motivazione, delle sole società di capitali costituite per l’esercizio di servizi pubblici locali. Non è consentito, pertanto, avvalersi di tale norma per società di capitali (come quella in argomento) diverse da quelle espressamente indicate dalla citata norma. Tale strumento normati-vo, inoltre, non è disponibile per qualsiasi ipotesi di ripiano di una società di capitali, anche interamente partecipata, ma solo per la ricostituzione del capita-le deliberato per la costituzione della società. Risulta evidente, quindi, che non può ritenersi debito fuori bilancio riconoscibile ai sensi dell’art. 194 Tuel il descritto debito della società interamente partecipata “Casarano città contemporanea s.r.l.” e ciò per varie ragioni: non si tratta di una società costituita per l’e-sercizio di servizi pubblici locali ma per operazioni di cartolarizzazione; non si riscontra, nel caso di specie, una ipotesi di ricapitalizzazione della società ma una attività di ripiano del debito; non sussiste neanche un debito a carico del comune, trattandosi invece di un debito di una società di capitali, con autonomia patri-moniale perfetta, nei confronti di un terzo. (Omissis)

176 – Sezione controllo Regione Puglia; deliberazio-ne 9 ottobre 2014; Pres. (f.f.) Fazio, Rel. Addes-so; Comune di San Severo.

Contabilità regionale e degli enti locali – Comune

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e provincia – Contenimento delle spese per il personale – Omesso rispetto dei vincoli finan-ziari alla contrattazione integrativa – Com-pensazione con i risparmi derivanti da razio-nalizzazioni organizzative – Limiti – Compen-sazione con i risparmi derivanti da assunzioni programmate e non effettuate – Esclusione.

D.l. 6 marzo 2014 n. 16, convertito con modificazio-ni dalla l. 2 maggio 2014 n. 68, disposizioni urgenti in materia di finanza locale, nonché misure volte a garantire la funzionalità dei servizi svolti nelle istitu-zioni scolastiche, art. 4.

La disposizione di cui all’art. 4, c. 2, d.l. n. 16/2014 (convertito con modificazioni dalla l. n. 68/2014), secondo cui le regioni e gli enti locali che hanno rispettato il patto di stabilità interno posso-no compensare le somme indebitamente erogate per violazione dei vincoli finanziari posti alla contratta-zione integrativa con i risparmi effettivamente deri-vanti da misure di razionalizzazione organizzativa, va interpretata in senso restrittivo e, cioè, assumen-do a riferimento, da un lato, le sole somme erogate a seguito di illegittima costituzione del “fondo risorse decentrate” (che costituisce fattispecie comunque distinta da quella dell’utilizzo illegittimo del fondo stesso) e, dall’altro lato, i soli risparmi conseguenti alle misure di riorganizzazione che gli enti sono te-nuti ad adottare in esito alla violazione dei suddetti vincoli (nella specie, la sezione di controllo ha esclu-so la possibilità di compensare le somme da recupe-rare con i risparmi derivanti dalla decisione di un comune di non procedere alle assunzioni di persona-le previste nella programmazione del fabbisogno di personale per il triennio 2013-2015).

Fatto – Il sindaco del Comune di San Severo chiede a questa Sezione un parere circa la possibi-lità di compensare le somme indebitamente erogate in conseguenza del mancato rispetto dei vincoli fi-nanziari posti alla contrattazione collettiva integra-tiva – da recuperare, a norma dell’art. 4, c. 1, d.l. n. 16/2014, convertito con modificazioni dalla l. n. 68/2014, sulle risorse destinate alla contrattazione medesima, mediante il graduale riassorbimento delle stesse con quote annuali e per un numero massimo di annualità corrispondente a quelle in cui si è verifica-to il superamento del vincolo – con gli importi rela-tivi alle assunzioni contenute nella programmazione per il fabbisogno del personale per il triennio 2013-2015, che saranno detratti dalla programmazione per l’anno 2014.

A tal fine, il sindaco precisa che:

- il c. 2 dell’art. 4 d.l. n. 16/2014, convertito con modificazioni dalla l. n. 68/2014 prevede che “gli enti che hanno rispettato il patto di stabilità possono compensare le somme da recuperare di cui al pri-mo periodo del c. 1, anche attraverso l’utilizzo dei risparmi effettivamente derivanti dalle misure di ra-zionalizzazione organizzativa di cui al secondo e ter-zo periodo del c. 1, nonché quelli derivanti dall’art. 16, cc. 4 e 5, l. 15 luglio 2011, n. 111”;

- il Comune di San Severo ha rispettato il patto di stabilità, come rilevato in sede di approvazione del rendiconto per la gestione 2013;

- l’ente, nell’adozione della programmazione re-lativa al personale per l’anno 2014, non intende pro-cedere ad alcune assunzioni oggetto della program-mazione del fabbisogno per il personale per l’anno 2013 (un dirigente, un funzionario cat. D3 e n. 2 istruttori cat. C1: nel primo caso si tratta un concorso già bandito ed oggetto di programmazione del fab-bisogno per il personale per l’anno 2013, negli altri casi di procedure non avviate).

Alla luce di quanto sopra, il sindaco chiede se sia possibile la compensazione tra le somme da re-cuperare a norma del c. 1 dell’art. 4 d.l. n. 16/2014 e “gli importi tutti ovvero parzialmente (procedure concorsuali in atto e programmazione per il 2014) riferibili alle assunzioni di cui sopra contenute nel-la programmazione per il fabbisogno del personale per il triennio 2013-2015, che saranno detratti nella predisponenda programmazione per l’anno 2014. Si precisa che con tale riduzione della programmazione l’ente adotterà idoneo atto di razionalizzazione orga-nizzativa”.

Diritto – (Omissis) Passando al merito della ri-chiesta, si chiede se i risparmi derivanti dalle man-cate assunzioni contenute nella programmazione per il fabbisogno del personale per il triennio 2013-2015 possano essere portati a compensazione con le som-me indebitamente erogate per violazione dei vincoli finanziari posti alla contrattazione collettiva integra-tiva, somme da recuperare integralmente secondo le modalità indicate dall’art. 4, c. 1, d.l. n. 16/2014, convertito con modificazioni dalla l. n. 68/2014.

In via preliminare, appare opportuno delineare il perimetro applicativo del citato c. 1, tracciandone i confini rispetto alla contigua disposizione di cui al c. 3, atteso che solo nel primo caso le somme indebita-mente corrisposte sono suscettibili di compensazio-ne con i risparmi effettivamente derivanti dalle mi-sure di riorganizzazione e di razionalizzazione della spesa (mentre per la fattispecie del terzo comma è disposta, alle condizioni e nei limiti ivi previsti, la

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non applicazione, agli atti di costituzione ed utilizzo dei fondi, del meccanismo di sostituzione automatica delle clausole nulle previsto dall’art. 40, c. 3-quin-quies, d.lgs. n. 165/2001)

L’art. 4 d.l. n. 16/2014, rubricato “Misure conse-guenti al mancato rispetto di vincoli finanziari posti alla contrattazione integrativa e all’utilizzo dei re-lativi fondi” stabilisce le modalità di recupero delle somme indebitamente erogate per mancato rispetto dei vincoli finanziari posti alla contrattazione inte-grativa, prevedendo che il recupero avvenga sulle ri-sorse finanziarie destinate alla suddetta contrattazio-ne “mediante il graduale riassorbimento delle stesse, con quote annuali e per un numero massimo di an-nualità corrispondente a quelle in cui si è verificato il superamento di tali vincoli”.

La stessa disposizione, inoltre, prevede, per le regioni e gli enti che non abbiano rispettato i vincoli finanziari di cui sopra, l’obbligo, unitamente al recu-pero delle somme a valere sul fondo per il trattamen-to accessorio, di adottare misure di razionalizzazione organizzativa il cui contenuto viene indicato dal le-gislatore. Infatti, per le regioni, le misure di cui sopra si traducono nel contenimento della spesa personale (con una contrazione ulteriore rispetto a quella previ-sta dalla vigente normativa) mediante “l’attuazione di piani di riorganizzazione finalizzati alla raziona-lizzazione e allo snellimento delle strutture burocra-tico-amministrative, anche attraverso accorpamenti di uffici con contestuale riduzione delle dotazioni organiche del personale dirigenziale in misura non inferiore al 20 per cento e della spesa complessiva del personale non dirigenziale in misura non inferio-re al 10 per cento”.

Quanto agli enti locali, le misure di riorganiz-zazione consistono nella riduzione delle dotazioni organiche entro i parametri definiti dal decreto del Ministro dell’interno previsto dall’art. 263 Tuel e va-lidi per gli enti in condizioni di dissesto, con appli-cazione, al personale in soprannumero, delle dispo-sizioni di cui all’art. 2, cc. 11 e 12, d.l. n. 95/2012, convertito con modificazioni dalla l. n. 135/2012 (mobilità, collocamento a riposo per i lavoratori che possiedono i requisiti pensionistici antecedenti alla disciplina introdotta con d.l. n. 211/2011, procedure di esubero, ecc.)

Ciò posto in relazione all’obbligo di recupero delle somme indebitamente erogate ed all’obbligo di adozione di misure di razionalizzazione organizzati-va, il successivo c. 2 introduce la possibilità, per gli enti che hanno rispettato il patto di stabilità, di “com-pensare le somme da recuperare di cui al primo pe-

riodo del c. 1, anche attraverso l’utilizzo dei risparmi effettivamente derivanti dalle misure di razionalizza-zione organizzativa di cui al secondo e terzo periodo del c. 1” nonché di quelli derivanti dalle misure di razionalizzazione della spesa di cui all’art. 16, cc. 4 e 5, d.l. n. 98/2011, convertito con modificazioni dalla. l. n. 111/2011.

Una prima linea interpretativa delle previsioni sopra richiamate è stata tracciata dal comitato tem-poraneo composto in seno alla Conferenza unificata e costituito sulla base della circolare governativa 12 maggio 2014, n. 60. Nel documento, intitolato “Indi-cazioni applicative in materia di trattamento retribu-tivo accessorio del personale di regioni ed enti locali. Articolo 4 del decreto legge 6 marzo 2014, n. 16, recante: Misure conseguenti al mancato rispetto di vincoli finanziari posti alla contrattazione integrativa e all’utilizzo dei relativi fondi”, il comitato chiarisce l’ambito applicativo del c. 1 dell’art. 4, precisando che la disposizione si applica alle ipotesi di costitu-zione dei fondi in violazione dei vincoli finanziari, indirizzandosi agli enti che abbiano superato i limiti posti alla contrattazione decentrata, sia che siffatti li-miti derivino da fonti legislative (art 9, c. 2-bis, d.l. n. 78/2010; art. 76, c. 7, d.l. n. 112/2008, abrogato dall’art. 3, c. 5, d.l. n. 90/2014; art. 1, cc. 557 e 562, l. n. 296/2006) sia che promanino da fonte contrattuale (art. 15 c.c.n.l. 1 aprile 1999; art 26 c.c.n.l. 23 dicem-bre 1999). Pertanto, il c. 1 dell’articolo in questione pone un obbligo di recupero – con le modalità già sopra chiarite – delle somme indebitamente erogate a seguito della costituzione illegittima del fondo; si tratta di una fattispecie nettamente distinta da quella di cui al successivo c. 3 che, come sottolineato dal comitato, non sanziona l’illegittima costituzione del fondo, ma la fase successiva dell’utilizzo dello stes-so in violazione della disciplina vigente (con partico-lare riferimento ad indennità non previste dal c.c.n.l. o in misura differente da quella stabilità dal c.c.n.l., nonché al mancato rispetto dei principi di selettivi-tà con riferimento all’attribuzione della premialità e della carriera).

Mentre all’utilizzo illegittimo del fondo si ap-plica la disciplina del c. 3 (che, nei casi ivi previsti, esclude la nullità e la sostituzione automatica delle clausole in contrasto con i vincoli e i limiti imposti dalle norme di legge e dalla contrattazione collettiva nazionale), la compensazione di cui al c. 2 rimane circoscritta ai casi di determinazione del fondo in contrasto con i vincoli finanziari prevista dal c. 1 ed opera con riferimento ai soli enti che abbiano rispet-tato il patto di stabilità.

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Rileva, inoltre, il comitato che “il c. 2 dell’art. 4 d.l. 6 marzo 2014, n. 16 offre agli enti che abbia-no rispettato il patto di stabilità interno la possibilità di assicurare il recupero di cui al c. 1 attraverso la prioritaria destinazione dei risparmi di spesa effet-tivamente determinati a seguito dell’adozione delle misure di razionalizzazione organizzativa descritte dal c. 1 – per la quota eccedente il legittimo limite di spesa – nonché derivanti dall’attuazione dell’art. 16, cc. 4 e 5, d.l. 6 luglio 2011, n. 98 (piani triennali di riduzione e riqualificazione della spesa)”. Il richia-mo ai cc. 4 e 5 dell’art. 16 vale a precisare che “il risparmio destinabile allo scopo compensativo può essere anche il cento per cento di quello conseguente all’adozione di piani triennali di razionalizzazione e riqualificazione della spesa (c. 4), peraltro al netto delle economie ‘già previste dalla normativa vigen-te’ (c. 5) poiché non si tratta di destinare risorse ag-giuntive alla contrattazione collettiva decentrata (in questo caso limitate alla quota massima del 50 per cento del risparmio stesso), bensì – e viceversa – alla copertura delle quote di fondo decentrato da recupe-rare per superamento dei vincoli finanziari”.

Ciò posto e venendo all’oggetto della richiesta di parere, ritiene questa Sezione che la disposizione in esame abbia carattere chiaramente eccezionale, in quanto introduce una sorta di “sanatoria” per le fattispecie di illegittima costituzione dei fondi della contrattazione integrativa.

Stante la natura eccezionale della disposizione, la stessa non può che essere interpretata restrittivamen-te, con conseguente esclusione anche di un eventuale ampliamento in via analogica del campo di applica-zione.

Da quanto appena osservato discende che la compensazione di cui al c. 2 della disposizione in esame non può operare al di fuori delle ipotesi ivi espressamente contemplate.

* * *

Sicilia

192 – Sezione controllo Regione Sicilia; delibera-zione 6 novembre 2014; Pres. Graffeo, Rel. Di Pietro; Comune di Vita.

Impiegato regionale e degli enti locali – Comune e provincia – Lavoratori a tempo determinato – Stabilizzazione – Condizioni.

D.lgs. 18 agosto 2000 n. 267, t.u. delle leggi sull’or-dinamento degli enti locali, artt. 203, 204; d.lgs. 30

marzo 2001 n. 165, norme generali sull’ordinamen-to del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche, art. 35; l. 5 giugno 2003 n. 131, disposi-zioni per l’adeguamento dell’ordinamento della Re-pubblica alla l. cost. 18 ottobre 2001 n. 3, art. 7; d.l. 31 agosto 2013 n. 101, convertito con modificazioni dalla l. 30 ottobre 2013 n. 125, disposizioni urgenti per il perseguimento di obiettivi di razionalizzazione nelle pubbliche amministrazioni, art. 4.Impiegato regionale e degli enti locali – Comune e

provincia – Assunzioni in livelli funzionali che non richiedono un titolo superiore a quello della scuola dell’obbligo – Limiti.

D.lgs. 18 agosto 2000 n. 267, artt. 203, 204; d.lgs. 30 marzo 2001 n. 165, art. 35; d.l. 31 agosto 2013 n. 101, convertito con modificazioni dalla l. 30 ottobre 2013 n. 125, art. 4.Impiegato regionale e degli enti locali – Comune

e provincia – Contratti a tempo determinato – Proroga – Condizioni – Avvenuta programma-zione del fabbisogno di personale 2013-2016.

D.l. 31 agosto 2013 n. 101, convertito con modifica-zioni dalla l. 30 ottobre 2013 n. 125, art. 4.

L’ente locale, in caso di eccedenze di personale, non può prevedere l’ampliamento della dotazione organica al mero fine di inserire la stabilizzazione di lavoratori a tempo determinato nella programma-zione triennale dei propri fabbisogni di personale.

Negli enti locali, la copertura dei posti relativa ai lavoratori da inquadrare nei livelli retributivo-fun-zionali per i quali non è richiesto un titolo di studio superiore a quello della scuola dell’obbligo è sog-getta al limite del 50 per cento delle assunzioni con-sentite a ciascun ente per gli anni dal 2013 al 2016, anche complessivamente considerate.

La proroga dei contratti a tempo determinato del personale degli enti locali è subordinata non solo all’approvazione del programma triennale del fabbisogno del personale, ma anche alla previsione, nell’ambito dello stesso programma, di specifiche procedure concorsuali di assunzione e, comunque a condizione che vengano rispettati i limiti massimi della spesa annua stabiliti per la stipula dei contrat-ti a tempo determinato, nonché alcuni parametri, quali il fabbisogno effettivo di personale, le risorse finanziarie disponibili e i posti in dotazione organica vacanti.

Premesso – Il sindaco del Comune di Vita ha rappresentato a questa Sezione d’aver stipulato ori-ginariamente dei contratti di diritto privato con alcu-ni lavoratori di cui all’art. 2, c. 1, d.lgs. n. 81/2000,

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usufruendo del contributo previsto dalla l. reg. n. 16/2006. Da ultimo, l’efficacia dei contratti è stata prorogata fino al 31 dicembre 2014, ai sensi e per gli effetti dell’ultimo periodo dell’art. 4, c. 9-bis, d.l. n. 101/2013, come convertito dalla l. n. 125/2013, successivamente recepito dalla l. reg. n. 30/2014; per il momento, non si è addivenuti alla c.d. proroga fi-nalizzata di cui al c. 9 dell’art. 4 d.l. n. 101/2013, in relazione ai posti vacanti indicati nella programma-zione triennale del fabbisogno di personale, ma si è fatto ricorso alla più limitata proroga prevista dal c. 9-bis dello stesso articolo.

Poiché il quadro legislativo in materia è stato ri-disegnato dal c. 5 dell’art. 3 d.l. n. 90/2014, come convertito dalla l. n. 124/2014, l’ente ha chiesto di conoscere:

1) “se, in presenza di eccedenze di personale dichiarate per ragioni di tipo funzionale, sia possi-bile inserire nella programmazione del fabbisogno di personale, anche ampliando ove occorra la do-tazione organica, la stabilizzazione dei lavoratori a tempo determinato ai sensi del c. 6 dell’art. 4 d.l. n. 101/2013, relativamente a categorie e profili profes-sionali differenti da quelli oggetto della dichiarazio-ne di eccedenza”;

2) “se la copertura di posti relativamente alle qualifiche” ex art. 16 l. n. 56/1987, “nell’ambito dei processi di stabilizzazione del personale di cui al c. 8 dell’art. 4 d.l. n. 101/2013”, soggiaccia al limite finanziario del 50 per cento della capacità assunzio-nale dell’ente (ai sensi dell’art. 35, c. 3-bis, d.lgs. n. 165/2001), ovvero se non incontri alcun limite, trat-tandosi di una “forma di reclutamento” da qualificare come “ordinaria”, in conformità a quanto ipotizzato dall’Assessorato regionale del lavoro con la circolare n. 5500/Usi del 3 febbraio 2014 (dunque rientran-te nel paradigma di cui all’art. 36, c. 5-bis, d.lgs. n. 165/2001);

3) se, al fine di prorogare i contratti a tempo de-terminato in scadenza al 31 dicembre 2014, sia suffi-ciente, “ai sensi dell’art. 4, c. 9, d.l. n. 101/2013, aver approvato entro la stessa data il programma triennale del fabbisogno del personale 2014-2016 che com-prende le stabilizzazioni” de quibus, “ovvero se oc-corre aver dato attuazione (o principio di attuazione) al medesimo piano”;

4) se “la c.d. proroga finalizzata di cui al citato c. 9 dell’art. 4 può riguardare, comunque, tutti i la-voratori titolari di contratto a tempo determinato di cui all’art. 2 d.lgs. n. 81/2000, ovvero se tale proroga deve riguardare esclusivamente i posti previsti nel piano triennale destinatari di misure di stabilizzazio-

ne nelle more dell’effettuazione delle assunzioni”. (Omissis)

In primo luogo, l’ente ha chiesto di sapere “se, in presenza di eccedenze di personale dichiarate per ragioni di tipo funzionale, sia possibile inserire nella programmazione del fabbisogno di personale, anche ampliando ove occorra la dotazione organica, la sta-bilizzazione dei lavoratori a tempo determinato ai sensi dell’art. 4, c. 6, d.l. n. 101/2013, relativamente a categorie e profili professionali differenti da quelli oggetto della dichiarazione di eccedenza”.

Il quesito, per come formulato, non può che avere risposta negativa.

La programmazione presuppone la ricognizione dell’effettivo fabbisogno di personale dell’ente, in relazione (tra l’altro) alle funzioni istituzionali da svolgere, ai carichi di lavoro, alle risorse finanzia-rie a disposizione; il percorso programmatorio viene compiuto sulla base dell’analisi delle necessità og-gettive, non costituisce di certo uno strumento che possa giustificare di per sé un ampliamento della do-tazione organica, sorretto dall’unica necessità di sod-disfare l’esigenza di procedere a nuove assunzioni o alla stabilizzazione dei lavoratori precari. Di con-tro, il quesito sembra presupporre che il fabbisogno di personale possa essere determinato, nell’ambito della programmazione, non tanto in funzione delle necessità oggettive, quanto dell’esigenza di stabiliz-zare il personale ex art. 4, c. 6, d.l. n. 101/2013; in quest’ottica, del tutto inaccettabile, l’ampliamento della dotazione organica non sarebbe ricollegato alle esigenze di funzionalità degli uffici, ma all’obiettivo di stabilizzare il maggior numero possibile di perso-nale precario.

Il quesito, in altri termini, non è posto in maniera corretta. Il problema non è stabilire se la necessità di stabilizzare il personale precario debba influen-zare e condizionare la programmazione, ma semmai di comprendere se, dopo aver effettuato l’analisi del fabbisogno in funzione delle esigenze effettive dell’ente, emerga o meno la necessità di utilizzare dei profili professionali che, in concreto, coincidono con quelli del personale di cui al c. 6 dell’art. 4 d.l. n. 101/2013.

Il problema si sposta, pertanto, sull’individua-zione dell’autonomia di cui gode l’ente nell’ambito dell’attività di programmazione del fabbisogno di personale. In quest’ottica, non si può che raccoman-dare di seguire le regole, le procedure, i criteri e i limiti puntualmente definiti dalla legislazione di set-tore, la cui enucleazione specifica è estranea all’og-getto della presente richiesta di parere.

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In secondo luogo, il Comune di Vita ha chiesto di comprendere “se la copertura di posti relativamente alle qualifiche” ex art. 16 l. n. 56/1987, “nell’am-bito dei processi di stabilizzazione del personale di cui al c. 8 dell’art. 4 d.l. n. 101/2013”, soggiaccia al limite finanziario del 50 per cento della capacità assunzionale dell’ente (ai sensi del c. 3-bis dell’art. 35 d.lgs. n. 165/2001), ovvero se non incontri alcun limite trattandosi di una “forma di reclutamento” da qualificare come “ordinaria”, in conformità a quanto ipotizzato dall’Assessorato regionale del lavoro con la circolare n. 5500/Usi del 3 febbraio 2014 (dunque rientrante nel paradigma di cui all’art. 36, c. 5-bis, d.lgs. n. 165/2001).

Il quesito trova risposta nell’ultimo periodo del c. 8 dell’art. 4 d.l. n. 101/2013, in esame.

La norma stabilisce che “a decorrere dall’en-trata in vigore del presente decreto e fino al 31 di-cembre 2016, gli enti territoriali che hanno vuoti in organico relativamente alle qualifiche di cui all’art. 16 l. 28 febbraio 1987, n. 56 e successive modifica-zioni, nel rispetto del loro fabbisogno e nell’ambito dei vincoli finanziari di cui al c. 6, procedono, in deroga a quanto disposto dall’art. 12, c. 4, d.lgs. 1 dicembre 1997, n. 468, all’assunzione a tempo in-determinato, anche con contratti di lavoro a tempo parziale, dei soggetti collocati nell’elenco regiona-le indirizzando una specifica richiesta alla regione competente”.

La disposizione fa riferimento ai “vincoli finan-ziari di cui al c. 6”, che a sua volta stabilisce il limite del 50 per cento delle “risorse assunzionali relative agli anni 2013, 2014, 2015 e 2016, anche complessi-vamente considerate”.

Ne consegue ictu oculi che la copertura dei po-sti relativamente alle qualifiche di cui all’art. 16 l. n. 56/1987, “nell’ambito dei processi di stabilizza-zione del personale di cui al c. 8 dell’art. 4 d.l. n. 101/2013”, non può che soggiacere al limite finan-ziario del 50 per cento della capacità assunzionale dell’ente. La diversa tesi sostenuta dall’assessora-to regionale non appare condivisibile, sia perché si pone in contrasto con la previsione esplicita del combinato disposto dei cc. 6 e 8 dell’art. 4 in esame, sia perché viene enunciata sic et simpliciter nel cor-pus della circolare n. 5500/Usi del 3 febbraio 2014, senza l’esplicitazione di alcun percorso motivazio-nale.

Con il terzo quesito formulato, il Comune di Vita intende comprendere se, al fine di prorogare i con-tratti a tempo determinato in scadenza al 31 dicem-bre 2014, sia sufficiente, “ai sensi del c. 9 dell’art. 4

d.l. n. 101/2013, aver approvato entro la stessa data il programma triennale del fabbisogno del persona-le 2014-2016 che comprende le stabilizzazioni” de quibus, “ovvero se occorre aver dato attuazione (o principio di attuazione) al medesimo piano”.

La norma si riferisce testualmente alla program-mazione, senza fare alcun cenno a un incipit di esecuzione, sicché non si può che ritenere che sia sufficiente l’approvazione del programma trienna-le. Diverso potrebbe essere il problema dell’indivi-duazione delle eventuali responsabilità, nell’ipotesi in cui il programma dovesse trovare attuazione, nel corso degli anni, unicamente sotto il profilo delle stabilizzazioni in esame; sul punto, l’istanza non ha proposto però alcun quesito specifico.

Da ultimo, il comune ha chiesto di sapere se “la c.d. proroga finalizzata di cui al citato c. 9 dell’art. 4 può riguardare, comunque, tutti i lavoratori titolari di contratto a tempo determinato di cui all’art. 2 d.lgs. n. 81/2000, ovvero se tale proroga deve riguardare esclusivamente i posti previsti nel piano triennale destinatari di misure di stabilizzazione nelle more dell’effettuazione delle assunzioni”.

Nel sistema normativo, la proroga è strettamente correlata alla programmazione triennale. L’opzione legislativa risponde all’esigenza di evitare stabilizza-zioni indiscriminate, disancorate dal fabbisogno ef-fettivo dell’amministrazione; non a caso, è lo stesso comma 9 in esame a prevedere esplicitamente come la proroga possa essere disposta dagli enti solo qua-lora, “nella programmazione triennale del fabbiso-gno di personale (…) riferita agli anni 2013-2016”, essi prevedano di effettuare delle specifiche proce-dure concorsuali, a condizione che vengano rispetta-ti i limiti massimi per la spesa annua stabiliti per la stipula dei contratti a tempo determinato ed in fun-zione di alcuni parametri esplicitamente individuati, ovverosia “in relazione al proprio fabbisogno effet-tivo, alle risorse finanziarie disponibili e ai posti in dotazione organica vacanti, indicati nella program-mazione triennale” de qua, “fino al completamento delle procedure concorsuali e comunque non oltre il 31 dicembre 2016”.

Ne consegue che la proroga non può riguarda-re sic et simpliciter tutti i lavoratori titolari di con-tratto a tempo determinato di cui all’art. 2 d.lgs. n. 81/2000, ma può essere disposta solo nell’ambito della programmazione triennale del fabbisogno di personale e solo qualora concorrano tutti i presuppo-sti previsti dall’art. 4, c. 9, d.l. n. 101/2013.

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Toscana

260 – Sezione controllo Regione Toscana; parere 9 dicembre 2014; Pres. D’Auria, Rel. Boncompa-gni; Comune di Calenzano.

Contabilità regionale e degli enti locali – Comu-ne e provincia – Rendiconto – Crediti e debiti fra l’ente locale e le società partecipate – Nota informativa asseverata dall’organo di revisio-ne – Allegazione al rendiconto – Necessità fino all’esercizio 2014.

D.l. 6 luglio 2012 n. 95, convertito con modificazioni dalla l. 7 agosto 2012 n. 135, disposizioni urgenti per la revisione della spesa pubblica con invarianza dei servizi ai cittadini, art. 6.

A norma dell’art. 6, c. 4, d.l. n. 95/2012, conver-tito con modificazioni dalla l. n. 135/2012, gli enti locali hanno l’obbligo di allegare al proprio rendi-conto di gestione una nota informativa, asseverata dall’organo di revisione, che espone la verifica dei crediti e dei debiti sussistenti con le società parteci-pate e la motivazione degli eventuali disallineamen-ti; ciò, al fine di giungere ad una riconciliazione del-le reciproche posizioni debitorie e creditorie, anche in vista della redazione di un bilancio consolidato fra ciascun ente locale e le società partecipate (in motivazione, si precisa che la citata disposizione risulta abrogata, a decorrere dall’1 gennaio 2015, ad opera dell’art. 77, c. 1, lett. e, d.lgs. n. 118/2011, aggiunto dall’art. 1, c. 1, lett. aa, d.lgs. n. 126/2014, fatta salva la sua applicazione ai fini della rendicon-tazione dell’esercizio 2014).

Premesso – Il consiglio delle autonomie locali ha inoltrato alla Sezione – con nota prot. n. 8808/1.13.9 del 12 maggio 2014 – una richiesta di parere, for-mulata dal sindaco del Comune di Calenzano, in cui si chiede se la nota informativa prevista dall’art. 6, c. 4, d.l. n. 95/2012, convertito dalla l. n. 135/2012, da allegarsi al rendiconto della gestione da par-te degli enti locali, inerente la verifica dei crediti e debiti reciproci tra l’ente locale e le società parteci-pate, debba essere asseverata, oltre che dall’organo di revisione dell’ente stesso, anche da quello della società. In caso di risposta affermativa, si domanda se tale adempimento si sostanzi in un obbligo legale posto direttamente in capo alla società o, piuttosto, scaturisca da una richiesta dell’ente e se sia legittimo che gli oneri conseguenti all’asseverazione da parte dell’organo di revisione della società siano sostenuti dall’ente.

Considerato – (Omissis) 2. Nel merito, per un corretto inquadramento della problematica, occorre, preliminarmente, riportare il testo dell’art. 6, c. 4, d.l. n. 95/2012, convertito dalla l. n. 135/2012, che pre-vede: “A decorrere dall’esercizio finanziario 2012, i comuni e le province allegano al rendiconto della gestione una nota informativa contenente la verifica dei crediti e dei debiti reciproci tra l’ente e le società partecipate. La predetta nota, asseverata dai rispettivi organi di revisione, evidenzia analiticamente even-tuali discordanze e ne fornisce la motivazione; in tal caso il comune o la provincia adottano senza indu-gio, e comunque non oltre il termine dell’esercizio finanziario in corso, i provvedimenti necessari ai fini della riconciliazione delle partite debitorie e credito-rie”. Tale disposizione risulta abrogata, a decorrere dall’1 gennaio 2015, ad opera dell’art. 77, c. 1, lett. e), d.lgs. 23 giugno 2011, n. 118, aggiunto dall’art. 1, c. 1, lett. aa), d.lgs. 10 agosto 2014, n. 126, fatta salva la sua applicazione ai fini della rendicontazione dell’esercizio 2014. La norma, vigente sino a tutto l’esercizio finanziario 2014, si pone come obiettivo il conseguimento, in ossequio ai principi di certez-za e veridicità dei bilanci, di una rappresentazione contabile scevra dai disallineamenti eventualmen-te presenti nella esposizione delle poste debitorie e creditorie intercorrenti tra l’ente locale e la società partecipata, al fine di promuovere, sempre qualora si fosse in presenza di tali discordanze, gli idonei pro-cessi di correzione volti a rimuoverle. Pertanto, gli enti locali hanno l’obbligo di allegare al proprio ren-diconto di gestione una nota informativa, asseverata dal rispettivo organo di revisione, che esponga la ve-rifica dei crediti e dei debiti sussistenti con le parte-cipate e la motivazione di eventuali disallineamenti. La finalità di giungere a una riconciliazione delle re-ciproche posizioni debitorie e creditorie costituisce, inoltre, il presupposto necessario al processo di ela-borazione e redazione del bilancio consolidato. Dal tenore della disposizione è di palmare evidenza che l’obbligo di asseverare la nota informativa incombe esclusivamente sull’organo di revisione dell’ente lo-cale e non anche, quindi, della società partecipata, sebbene quest’ultima abbia, comunque, la facoltà di avvalersi delle competenze normativamente intestate al proprio organo di revisione contabile, al fine di ri-chiedere l’asseverazione del prospetto debiti/crediti, con onere, qualora sussistente, ovviamente a carico della stessa società partecipata.

È auspicabile, infine, sempre e comunque un con-fronto costruttivo tra i responsabili finanziari dell’en-te locale e della partecipata, teso a rendere edotti entrambi i soggetti delle informazioni che sono alla

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base della riconciliazione, onde risolvere con effetti-vità e tempestività le eventuali incongruenze conta-bili che dovessero emergere.

* * *

Veneto

879 – Sezione controllo Regione Veneto; parere 9 dicembre 2014; Pres. (f.f.) Brandolini, Rel. Tes-saro; Comune di Annone Veneto.

Comune e provincia – Garanzia dell’adempimen-to di obbligazioni da parte di privati – Con-dizioni – Convenzione con una cooperativa di garanzia per l’accesso al credito di commer-cianti e artigiani – Esclusione.

D.lgs. 18 agosto 2000 n. 267, t.u. delle leggi sull’or-dinamento degli enti locali, art. 207.

La garanzia prestata da un ente locale in or-dine all’adempimento di obbligazioni da parte di privati integra gli estremi di una comune garanzia fideiussoria, atteso che, in caso d’insolvenza del terzo, l’adempimento sarà dovuto dall’ente locale; di conseguenza, stanti i tassativi requisiti previsti dall’art. 207, c. 3, Tuel per il rilascio di garanzie a favore di terzi (il quale può avvenire, a determina-te condizioni, unicamente per l’assunzione di mutui destinati alla realizzazione o alla ristrutturazione di opere a fini culturali, sociali o sportivi, su terreni di proprietà dell’ente) non è consentito ad un comune di stipulare una convenzione con una cooperativa di garanzia tra commercianti o artigiani, mediante la costituzione di un fondo di controgaranzia per favo-rire l’accesso al credito da parte degli operatori del commercio o dell’artigianato.

Fatto – Il sindaco del Comune di Annone Veneto (VE), formula a questa Sezione una richiesta di pare-re, ai sensi dell’art. 7, c. 8, l. n. 131/2003, in materia di contabilità pubblica, inerente la possibilità da par-te dell’ente di convenzionarsi con una cooperativa di garanzia tra commercianti o artigiani, costituen-do un fondo di controgaranzia per favorire l’accesso al credito da parte degli operatori del commercio o dell’artigianato.

Il legale rappresentante dell’ente precisa al ri-guardo che “La cooperativa di garanzia interver-rebbe nei rapporti debitori delle imprese al fine di favorire l’accesso al credito” e pone quindi una se-rie di quesiti – in modo frammentario e tra loro non

omogenei – circa la natura dello stanziamento delle eventuali somme a bilancio; l’incidenza del fondo di garanzia sul limite ex art. 204 Tuel; se la materia rientri o meno nell’autonomia degli enti e se vi sia in realtà un principio secondo cui “è possibile tutto quello che non è vietato, o si può fare solo quello che è consentito”; se, in un contesto in cui il leasing è equiparato al mutuo, il fondo di garanzia sia equipa-rato al debito e quale differenza vi sia con le fideius-sioni disciplinate dall’art. 207 Tuel.

Diritto – (Omissis) Tra le tante richieste formu-late dall’ente, alcune, tra quelle circoscrivibili, non presentano inoltre i requisiti di ammissibilità ogget-tiva, in quanto, pur potendo essere astrattamente ri-condotte nell’alveo della contabilità pubblica, sono in realtà volte a ottenere indicazioni puntuali sulle modalità di natura gestionale volte a intraprendere la conclusione di un negozio giuridico e, financo, la rappresentazione contabile di una specifica e con-creta attività amministrativo-gestionale in itinere, non rientranti nei canoni dalla funzione consultiva demandata alla Corte dei conti la quale presuppone la non riconducibilità dei pareri richiesti ad ipotesi concrete (v., in proposito, Sez. autonomie, 27 aprile 2004, e 10 aprile 2006, n. 5), o per evitare di incorre-re addirittura, in un controllo di legittimità successi-vo non consentito dalla legge.

Ad ogni modo, non sarebbe, comunque, possibile effettuare un esame dettagliato sulla base degli ele-menti generici forniti dal comune interessato.

Né la Corte può esprimersi per la parte relativa alle istanze di carattere assolutamente generali, come quelle volte a richiedere se è possibile tutto quello che non è vietato, o si può fare solo quello che è consentito, oltretutto corredate da considerazioni di vario genere ma che comunque esorbitano dalla spe-cifica attribuzione consultiva della Corte.

Pertanto, sulla base delle considerazioni che pre-cedono, questo collegio ritiene inammissibile dal punto di vista oggettivo il quesito posto dal Comune di Annone Veneto.

2. Tuttavia, nel consueto spirito di collaborazione che caratterizza, comunque, l’operato della sezione e prescindendo dalla valutazione dello specifico nego-zio giuridico che l’ente locale intende porre in esse-re, la Sezione ritiene di dover richiamare unicamente i principi normativi che vengono in considerazione nel caso in esame, ai quali gli organi dell’ente, al fine di assumere specifiche decisioni in relazione a parti-colari situazioni, possono riferirsi, rientrando, giova ripetere, la scelta delle modalità concrete con le quali applicare la normativa in materia, nell’ambito dell’e-

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sercizio della discrezionalità amministrativa di com-petenza esclusiva dell’amministrazione comunale.

In proposito, quanto alla possibilità eventualmen-te concessa all’autonomia comunale di intervenire sul terreno delle garanzie creditizie da prestare per sostenere l’intervento economico di terzi nel territo-rio, va sottolineata la necessità, in primo luogo, di verificare i profili di carattere normativo che consen-tono l’esercizio della facoltà de qua: il che implica l’individuazione, in via preliminare, dei limiti e dei contorni di una potestà che non potrà prescindere da una sua necessaria regolamentazione per garantire una disciplina uniforme a tutela della par condicio, tanto più rilevante quando si tratti di attività econo-miche private (Corte giust. Ce, 7 dicembre 2000, cau-sa C-324/1998; 3 dicembre 2001, causa C-59/2000); ciò in relazione anche al disposto dell’art. 12 l. n. 241/1990 che affida allo strumento regolamentare l’attribuzione di vantaggi di carattere economico, nella cui ampia latitudine (cfr. questa Sezione, n. 716/2012) devono essere ricompresi anche quegli interventi settoriali che possono vulnerare la parità di trattamento tra soggetti posti in medesimo ambito.

In proposito, è d’uopo rilevare che questa Sezio-ne si è pronunciata negativamente in passato sulla possibilità di intervenire da parte del comune al di là dei ristretti limiti che sono previsti dall’art. 222 Tuel per la concessione di credito a favore di soggetti diversi dalle società partecipate di enti locali, con-cludendo che unicamente la legge disciplina l’eser-cizio dell’attività bancaria e la forma imprenditoriale dell’attività creditizia secondo regole settoriali che si applicano agli istituiti di credito mutuanti ai sen-si del t.u. delle leggi in materia bancaria e creditizia (d.lgs. n. 385/1993 e successive modifiche e integra-zioni). Dette regole impongono in prima istanza che l’attività creditizia possa essere effettuata solo dai soggetti individuati dal t.u. bancario nel quale all’art. 10 rubricato “Attività bancaria” si prevede che “1. La raccolta di risparmio tra il pubblico e l’esercizio del credito costituiscono l’attività bancaria. Essa ha carattere d’impresa. 2. L’esercizio dell’attività ban-caria è riservato alle banche. 3. Le banche esercitano, oltre all’attività bancaria, ogni altra attività finanzia-ria, secondo la disciplina propria di ciascuna, nonché attività connesse o strumentali. Sono salve le riserve di attività previste dalla legge” (questa Sezione, n. 979/2012). Parimenti, questa Sezione ha già, d’altro canto, nel recente passato evidenziato le potenziali-tà elusive delle operazioni creditizie dell’ente locale verso i terzi, che, laddove ammesse in linea gene-rale, nei confronti delle società partecipate, posso-

no tuttavia determinare effetti distorsivi sul calcolo dei saldi del patto di stabilità (cfr. questa Sezione, ex multis, n. 151/2013); manifestando, altresì, riserve sulla compatibilità con la normativa comunitaria in tema di concorrenza delle operazioni di concessioni di credito nei confronti di soggetti terzi (questa Se-zione, n. 40/2009).

Come si è avuto modo di sottolineare in tali pre-cedenti, la Sezione ritiene che potrebbe costituire elemento di criticità la concessione da parte dell’ente locale di un mutuo di scopo ad un soggetto privato (...) di fatto esercitando, seppur in modo occasionale, attività bancaria e creditizia pur non avendo la qua-lificazione di ente concedente che la norma speciale (Testo unico bancario e creditizio) impone (cfr. in termini questa Sezione, n. 979/2012).

E, del resto, la possibilità di una regolamenta-zione autonoma dell’ente locale in subiecta materia appare scarsamente compatibile con un quadro co-stituzionale, che, se pur consacra al più alto livello di disciplina l’estensione del potere regolamentare dell’ente locale (art. 117, c. 6, Cost. che attribuisce agli enti locali “la potestà regolamentare in ordine alla disciplina dell’organizzazione e dello svolgi-mento delle funzioni loro attribuite”), nondimeno non ammette intervento di carattere normativo gene-rale ed astratto da parte di un soggetto diverso dal-lo Stato, in una materia che la Costituzione assegna espressamente invece a questi.

La tematica afferente la tutela del risparmio e del credito, infatti, ed in particolare l’esercizio del cre-dito, è materia nella quale lo Stato ha legislazione esclusiva, ai sensi dell’art. 117, c. 2, lett. e), Cost., dal momento che costituisce uno dei fattori principali dell’equilibrio economico a cui l’ordinamento asse-gna una particolare protezione. Non a caso la norma ha per oggetto al primo comma il risparmio e il cre-dito (“la Repubblica incoraggia e tutela il risparmio in tutte le sue forme; disciplina, coordina e controlla l’esercizio del credito”): ed esso trova quindi diretto riconoscimento nell’art. 47 Cost., con cui si chiude il titolo III dedicato ai rapporti economici. Il risparmio costituisce, pertanto, un valore costituzionale che deve essere salvaguardato in tutte le sue forme: in-nanzitutto quello che entra a far parte della liquidità monetaria che richiede principalmente la difesa del valore della moneta soprattutto contro l’inflazione, in tutte le sue forme, includendo cioè non soltanto il credito, ma anche le attività mobiliari e assicurative. Il risparmio oggetto di tutela costituzionale sarebbe peraltro, secondo la prevalente dottrina, quello de-stinato a entrare nel ciclo economico, quale disci-

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plina delle modalità di garanzia degli investimenti, dal momento che il risparmio non andrebbe difeso quale valore in quanto tale, ma per la sua funzione strumentale alla distribuzione della proprietà e della ricchezza, in conformità a quanto espresso dagli altri articoli della Costituzione economica: in guisa che sarebbe, pertanto, estraneo alla tutela costituziona-le il mero accantonamento di ricchezza senza pre-visione di destinazione. Una conferma dello stretto legame tra la liquidità risparmiata e l’investimento si rinviene, del resto, nello stesso art. 117, c. 2, lett. e), Cost., come riformato nel 2001, laddove abbina la tutela del risparmio alla tutela dei mercati finanziari.

Nel caso di specie, l’autonomia regolamentare degli enti locali incontra, pertanto, il limite espresso della legge ordinaria statale nelle materie riserva-te dallo stesso art. 117 alla competenza legislativa esclusiva dello Stato, oltreché, come si vedrà, anche nelle altre disposizioni vincolistiche di matrice finan-ziaria che fanno capo agli artt. 117 e 119 Cost.

Non a caso, questa Sezione aveva coerentemen-te sottolineato in una fattispecie analoga, relativa all’indebitamento dell’ente locale come, attraverso tali disposizioni, si sia voluto introdurre, in via nor-mativa primaria, un meccanismo rigido che opera in modo vincolato su una delle componenti della spesa, appunto quella di investimento, utilizzata dagli enti per raggiungere parte degli obiettivi che si prefiggo-no, senza che residuino in capo agli enti medesimi margini di discrezionalità nella scelta dei parametri suddetti (questa Sezione, n. 269/2011).

L’autonomia dell’ente locale incontra peraltro ul-teriori limiti nella disciplina di carattere legislativo che presiede alla scelta – necessariamente governata dal principio di concorsualità – del contraente anche in ipotesi di affidamenti convenzionali (financo con enti pubblici: Cons. Stato, 15 luglio 2013, n. 3849), ove si tratti in particolare di offrire al mercato servi-zi rientranti in quelli previsti nell’allegato II-A alla direttiva 2004/18 (Corte giust., 19 dicembre 2012, causa C-159/11): e ciò alla luce dei principi sanci-ti dall’art. 2 d.lgs. n. 63/2006, a mente del quale la suddetta attività di affidamento di un servizio deve garantire, tra l’altro, i principi di libera concorrenza, parità di trattamento, non discriminazione, traspa-renza, proporzionalità, nonché quello di pubblicità con le modalità indicate nel codice.

3. Ma anche a voler fare applicazione della ge-nerale clausola stabilita dall’art. 11 c.c., secondo cui “Le province e i comuni nonché gli enti pubbli-ci riconosciuti come persone giuridiche godono dei diritti secondo le leggi e gli usi osservati come di-

ritto pubblico”, e dell’art. 1, c. 1-bis, l. n. 241/1990 (a mente del quale “La pubblica amministrazione, nell’adozione di atti di natura non autoritativa, agi-sce secondo le norme di diritto privato salvo che la legge disponga diversamente”), va, comunque, con-siderato che la capacità dell’ente locale di concedere garanzie è fortemente limitata, nell’an, nel quantum e nel quomodo, dalle vigenti norme vincolistiche in tema di finanza pubblica, che valgono a funzionaliz-zarne l’attività – anche di diritto privato – in ragione di scopi che la legge detta in nome di interessi speci-fici trascendenti l’orizzonte dell’ente locale, special-mente di matrice comunitaria.

Come può infatti desumersi dalle ipotesi previste dall’art. 207 Tuel, il rilascio di una garanzia fideius-soria è infatti funzionalmente connesso all’attività che il debitore principale svolge e/o all’investimento che intende avviare; pertanto, al pari di qualsiasi atti-vità amministrativa gestionale, anche la fideiussione andrà valutata secondo i criteri dell’efficacia, dell’ef-ficienza e dell’economicità, nonché alla luce dei li-miti e vincoli di finanza pubblica, previsti, come in seguito si preciserà, dalla normativa statale (cfr. Sez. contr. reg. Veneto, 14 ottobre 2011, n. 368).

La fideiussione comporta infatti l’assunzione di un rischio che l’ordinamento assimila, sotto molte-plici aspetti, a quello del ricorso all’indebitamento, implicando per l’ente medesimo la riduzione delle possibilità di ricorrere direttamente ad ulteriori ope-razioni finanziarie: in particolare, ai sensi dell’art. 207, c. 4, “gli interessi annuali relativi alle opera-zioni di indebitamento garantite con fideiussione concorrono alla formazione del limite di cui al c. 1 dell’art. 204 e non possono impegnare più di un quinto di tale limite”.

In altri termini, l’equiparazione della obbliga-zione fideiussoria a un’operazione d’indebitamento avrà in buona sostanza conseguenze sia sul piano della rappresentazione contabile, sia su quello della copertura e della sostenibilità finanziarie (cfr. Sez. contr. reg. Veneto, n. 368/2011 cit.), a fronte dell’a-lea “tipica” della fideiussione che espone l’ammi-nistrazione locale al rischio (attuale) del verificarsi dell’insolvenza del debitore e, conseguentemente, dell’attivazione della responsabilità patrimoniale.

A tale conclusione si perviene alla luce dei prin-cipi desumibili dalla normativa civilistica e giuscon-tabile, nonché dei principi contabili, idonei, da un lato, a individuare il contenuto degli obblighi assunti mediante il rilascio della fideiussione (questa Se-zione, n. 121/2013): dalla disamina delle caratteri-stiche dell’obbligazione fideiussoria vengono infatti

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in rilievo la tipica funzione economico-sociale (di ampliamento e rafforzamento delle garanzie per il creditore) e il carattere della “solidarietà” che impli-cano, per il garante, il sorgere di una “immediata” responsabilità patrimoniale che investe tutti i beni presenti e futuri del fideiubente.

Diversamente opinando, il rilascio di una garan-zia fideiussoria, assimilata normativamente all’ipo-tesi d’indebitamento, potrebbe esporre l’ente garante al rischio di escussione in caso di insolvenza del de-bitore, non solo in rapporto alla situazione debitoria attuale ma anche a quella prevedibile futura (cfr. que-sta Sezione, n. 449/2010), con ciò, mettendo a repen-taglio la tenuta degli equilibri di bilancio dell’ente laddove in tale sede non si sia provveduto a iscrivere la quota della garanzia prestata in apposito fondo ri-schi (cfr. Sez. contr. reg. Veneto, n. 368/2011).

La Sezione non può esimersi dal sottolineare che l’eventualità di rilasciare una garanzia fideiussoria ai sensi dell’art. 207 Tuel o, in subordine, dell’art. 1936 c.c., secondo la giurisprudenza di questa Corte, ap-pare pertanto riconducibile al generale divieto, per le regioni e gli enti locali, di ricorrere all’indebitamento per spese diverse dalle spese di investimento, previ-sto dall’art. 119 Cost. (cfr. Sez. contr. reg. Toscana, n. 153/2011; Sez. contr. reg. Veneto, n. 368/2011, nonché, ex multis, Sez. contr. reg. Piemonte, 13 set-tembre 2007, n. 14; Sez. contr. reg. Lombardia, 4 febbraio 2010, n. 92).

4. Pertanto, in relazione alla eventualità per un comune di convenzionarsi con una cooperativa di garanzia tra commercianti o artigiani, costituendo un fondo di controgaranzia per favorire l’accesso al credito da parte degli operatori del commercio o dell’artigianato, traendo spunto dalle coordinate er-meneutiche che precedono, occorre valutare la pos-sibilità per l’ente di prestare altre forme di garanzia, in particolare attraverso forme di garanzia impropria (c.d. lettere di patronage), in forza della quale un ter-zo c.d. patronnant fornisce alla banca finanziatrice informazioni relative al soggetto patrocinato (di soli-to una società partecipata dal patronnant) ed ai rap-porti intercorrenti con quest’ultimo. Trattasi di figura atipica di derivazione anglosassone, individuata dal-la prassi giurisprudenziale, contenente informazioni non definite nel contenuto, ma comunque idonee a rafforzare nella banca-creditrice il convincimento che il patrocinato farà fronte ai propri impegni (resti-tutori), al fine di agevolarne la positiva conclusione di operazioni di finanziamento in corso e/o di raf-forzare il convincimento del creditore sul buon esito dell’operazione.

In giurisprudenza sono state peraltro individuate due distinte tipologie:

- lettera di patronage debole, in cui, al di là della dichiarazione e della informazione, non vi è alcuna intenzione di assumere un diretto obbligo di garanzia verso il creditore finanziatore;

- lettera di patronage “forte” in cui il patrocinan-te non si limita a esternare la propria posizione di influenza, ma assume veri e propri impegni (quale ad esempio quello di salvaguardia della solvibilità della società controllata, o l’impegno a non cedere il controllo nella società partecipata sino all’estinzione del debito). In questa ipotesi e nella sola circostanza in cui sia indicato il limite massimo garantito (Cass., 26 gennaio 2010, n. 1520) si genera un’obbligazione negoziale, assunta in proprio dal patronnant, e aven-te per oggetto un facere, avente natura contrattuale e con finalità di garanzia (Cass., 27 settembre 1995, n. 10235; Trib. Milano, 22 giugno 1995).

Quest’ultima, che pone in essere un vero e pro-prio rapporto di garanzia atipica, tra il patronnant e il creditore garantito, assimilabile all’obbligazione del fideiussore, espone l’ente garante al rischio di escus-sione in caso di insolvenza della società debitrice.

Da ciò discende, secondo la costante giurispru-denza della Corte (cfr., ex multis, Sez. contr. reg. Emilia-Romagna, n. 17/2011; Sez. contr. reg. Ligu-ria, n. 17/2011), che alle lettere di patronage “forte” deve ritenersi applicabile l’art. 207 Tuel, sia con rife-rimento alla competenza soggettiva a emanarle (con-siglio), sia con riferimento al calcolo degli interessi, che dovrebbero entrare a far parte della capacità di indebitamento, alla stregua di quelli, come si è vi-sto, delle garanzie fideiussorie (art. 207, u.c., Tuel). Lettere di patronage e garanzia fideiussoria trovano, del resto, una convergenza in quelle che la pratica commerciale degli istituti bancari definisce lettere di patronage fideiussorie.

Al riguardo, la dottrina e la stessa giurisprudenza citata della Corte hanno distinto, nell’ambito delle lettere di patronage “forti”, due gruppi:

A) lettere contenenti impegni finalizzati a rassi-curare il creditore sulla circostanza che l’operazione da porre in essere in favore del patrocinato presenta uno scarso rischio imprenditoriale:

- lettere di impegno a non cedere il controllo sino all’estinzione del debito;

- lettere di obbligo in caso di futura cessione: qualora dovesse essere ceduta o diminuita la parteci-pazione nella società controllata, il mittente assume l’obbligo di pronto rimborso di quanto dovuto dalla società patrocinata;

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- lettere di influenza: nella quali il mittente si im-pegna ad esercitare la propria influenza ed il proprio controllo sul debitore, affinché adempia l’obbliga-zione assunta;

- lettera di divieto di svuotamento: con la quale il patronnant si impegna a non pregiudicare la sottra-zione di risorse o con particolari politiche imprendi-toriali la situazione finanziaria del patrocinato;

B) lettere contenenti dichiarazioni di assunzione di obblighi di dare o di responsabilità nel caso di in-solvenza o inadempimento del debitore:

- lettere d’obbligo al mantenimento della solvi-bilità;

- lettere di solvibilità finalizzata al rimborso: è lo stesso mittente che s’impegna a mantenere il debi-tore in condizioni di solvibilità tali da consentirgli il pagamento del debito;

- lettere di mantenimento della consistenza del capitale o del patrimonio del debitore;

- lettere di assunzione del rischio di perdite del creditore, in relazione al credito concesso al debito-re;

- lettere di assicurazione dell’adempimento, con obbligo di sostituirsi immediatamente alla parte ina-dempiente.

La stessa giurisprudenza citata ha individuato, tra le lettere di patronage debole (a carattere informati-vo) le seguenti tipologie:

1) dichiarazioni di consapevolezza: nella lettera il mittente dichiara di essere al corrente del rappor-to di finanziamento tra destinatario e debitore, e ne lascia intendere la benevola considerazione o appro-vazione;

2) dichiarazioni di influenza: nella lettera il mit-tente informa il destinatario del rapporto che lo lega al debitore;

3) dichiarazioni confermative del controllo o della partecipazione significativa: l’amministratore delegato della società controllante informa il credi-tore del rapporto di partecipazione e controllo inter-corrente con la società patrocinata, ove lo ritenga, la percentuale azionaria della controllata o collegata, da essa posseduta;

4) dichiarazioni di regolarità della condotta o della gestione: il patronnant dichiara, nella lettera, di conoscere i dati relativi alla attività del debitore e dichiara di averne appurato la regolarità;

5) dichiarazioni di fiducia nell’amministrazione della controllata;

6) dichiarazioni di approvazione dell’operazione finanziaria o creditizia in corso. Si utilizza il termine

“dichiarazione”, proprio perché l’atto tipico, conte-nuto nella lettera, consiste in comunicazioni esplicite di conoscenza, di assenso, di garanzia dell’affidabili-tà del debitore e di opportunità dell’affare.

5. Alla luce di quanto da ultimo evidenziato, l’e-ventualità per un comune di convenzionarsi con una cooperativa di garanzia tra commercianti o artigiani, avente il compito di intervenire nei rapporti debitori delle imprese al fine di favorire l’accesso al credito sembrerebbe senz’altro ascrivibile, prima facie, alla ipotesi di patronage forte sopra descritte.

La Sezione, sul punto, non può esimersi dal ricor-dare che, in generale, le garanzie, tipiche e atipiche (di cui la lettera di patronage costituisce una spe-cies), hanno il preciso scopo di rafforzare la garanzia richiesta dagli istituti bancari alle amministrazioni pubbliche per finanziamenti concessi a società, ol-tretutto partecipate, da queste ultime. Qualora invece essi riguardino società e/o soggetti diversi, appare vieppiù evidente la non pertinenza del negozio agli scopi dell’ente locale: infatti la giurisprudenza (Sez. contr. reg. Liguria, n. 17/2011 cit.) ha evidenziato che, allorquando l’oggetto della dichiarazione non riguardi tanto la situazione della società partecipa-ta dal patronnant (e l’influenza che questi eserciterà sulla stessa) bensì l’assunzione da parte del garante del medesimo obbligo di fare, ossia la medesima pre-stazione a cui è tenuta la società patrocinata, non di vera e propria lettera di patronage trattasi bensì di una comune garanzia fideiussoria, considerando che in caso d’insolvenza del terzo patrocinato sarà chia-mato a rispondere l’ente locale patronnant (mediante escussione dello stesso). Motivo per cui una forma di garanzia così descritta, oltre a rientrare senz’altro nel campo d’applicazione dell’art. 207 Tuel (e quin-di a trovare applicazione anche nei confronti delle lettere di patronage c.d. forti per mezzo delle qua-li il patronnant dichiara di impegnarsi a procurare le disponibilità finanziarie per l’adempimento delle obbligazioni della società patrocinata), non sembra consentita in alcun modo all’ente locale in altri casi non previsti dalla normativa vincolistica, nemme-no cioè mediante la forma di un convenzionamento con una cooperativa di garanzia tra commercianti o artigiani, e la costituzione di un fondo di controga-ranzia per favorire l’accesso al credito da parte degli operatori del commercio o dell’artigianato, in quanto esula esplicitamente dai canoni e dai rigidi parametri contemplati dalla norma testé citata.

Nel caso specifico, vanno richiamati infatti al riguardo i rigorosi, tassativi, requisiti previsti dalla norma dell’art. 207, c. 3, Tuel per il rilascio di ga-

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PARTE I – ATTIVITÀ DI CONTROLLO E CONSULTIVA N. 5-6/2014

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ranzie a favore di terzi: che può avvenire unicamente per l’assunzione di mutui destinati alla realizzazione o alla ristrutturazione di opere a fini culturali, socia-li o sportivi, su terreni di proprietà dell’ente locale, purché siano sussistenti le seguenti condizioni:

a) il progetto sia stato approvato dall’ente locale e sia stata stipulata una convenzione con il soggetto mutuatario che regoli la possibilità di utilizzo delle strutture in funzione delle esigenze della collettività locale;

b) la struttura realizzata sia acquisita al patrimo-nio dell’ente al termine della concessione;

c) la convenzione regoli i rapporti tra ente locale e mutuatario nel caso di rinuncia di questi alla realiz-zazione o ristrutturazione dell’opera.

La ratio di tale normativa appare riconducibile ancora una volta al generale divieto, già richiamato, per le regioni e gli enti locali, di ricorrere all’indebi-tamento per spese diverse dalle spese d’investimen-to, previsto dall’art. 119 Cost., al fine di limitare il ricorso a questa forma di finanziamento ai soli casi in cui i relativi costi possano risultare neutralizzati dai benefici derivanti alla collettività da spese di investi-mento (questa Sezione, n. 368/2011 e n. 121/2013). Nella disciplina in esame, il rilascio di una garanzia fideiussoria, esponendo l’ente garante al rischio di escussione in caso di insolvenza del debitore, viene,

come già evidenziato, assimilato all’ipotesi di inde-bitamento in relazione soprattutto, ai profili funzio-nali più sopra richiamati e contenuti in modo puntua-le e tassativo nella norma dell’art. 207 Tuel. Sul pun-to, la Sezione ribadisce conclusivamente quanto già espresso in precedenza, ovverossia come, attraverso tali disposizioni, si sia voluto introdurre, in via nor-mativa primaria, un meccanismo rigido che opera in modo vincolato su una delle componenti della spesa, appunto quella inerente l’indebitamento sia nell’an che nel quantum e nel quomodo, utilizzata dagli enti per raggiungere parte degli obiettivi che si prefiggo-no, senza che residuino in capo agli enti medesimi margini di discrezionalità nella scelta dei parametri suddetti (questa Sezione, n. 269/2011). La Sezione, in via generale, ricorda altresì, che, ove non ricol-legabili ai rigorosi parametri sopra evidenziati, per le fattispecie di che trattasi troverebbe applicazione anche la disciplina comunitaria in materia di aiuti di Stato di cui all’art. 87 del Trattato istitutivo della Co-munità europea (cfr. questa Sezione, n. 40/2009 cit.).

P.q.m., la Sezione regionale di controllo per il Veneto, dichiara il parere richiesto dal Comune di Annone Veneto (VE) inammissibile sotto il profilo oggettivo.

* * *

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N. 5-6/2014 PARTE II – ATTIVITÀ GIURISDIZIONALE

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ATTIVITÀ GIURISDIZIONALE

Sezioni riunite in sede giurisdizionale

12 – Sezioni riunite in sede giurisdizionale; ordinan-za 12 settembre 2014; Pres. Martucci di Scarfizzi, Est. Cirillo, P.M. Briguori; Proc. reg. Lombardia c. Penati e altri.

Annulla Corte conti, Sez. giur. reg. Lombardia, ord. 2 aprile 2014.

Processo contabile – Sezione giurisdizionale regio-nale – Ordinanza di sospensione del processo – Ricorso alle Sezioni riunite – Ammissibilità – Applicazione delle norme sul regolamento di competenza nel processo civile.

C.p.c., artt. 42, 47, c. 1; r.d. 13 agosto 1933 n. 1038, approvazione del regolamento di procedura per i giudizi innanzi alla Corte dei conti, art. 26; d.l. 15 novembre 1993 n. 453, convertito con modificazio-ni dalla l. 14 gennaio 1994 n. 19, disposizioni in materia di giurisdizione e controllo della Corte dei conti.Processo contabile – Sezione giurisdizionale regio-

nale – Ordinanza di sospensione del processo pronunciata d’ufficio – Previa instaurazione del contraddittorio fra le parti – Necessità – Esclusione.

C.p.c., art. 101; r.d. 13 agosto 1933 n. 1038, art. 26.Processo contabile – Sospensione del processo –

Pendenza di procedimento penale – Prova – Insussistenza – Illegittimità della sospensione del processo contabile.

C.p.c., art. 295; r.d. 13 agosto 1933 n. 1038, art. 26.

Contro il provvedimento della sezione regiona-le o della sezione centrale d’appello della Corte dei conti che abbia disposto la sospensione del proces-so è ammissibile il ricorso alle Sezioni riunite della stessa Corte secondo le norme generali in materia di regolamento di competenza nel processo civile, e tale impugnazione può essere proposta non solo con-tro il provvedimento di sospensione necessaria del processo ma anche contro le sospensioni facoltative non tipizzate. (1)

La norma secondo la quale il giudice che inten-da porre a fondamento della decisione un’eccezione d’ufficio deve previamente sottoporre la questione al contraddittorio tra le parti non trova applicazione nel caso che il giudice stesso adotti d’ufficio un prov-

(1) Cfr. Corte conti, Sez. riun., ord. 26 aprile 2012, n. 1, in questa Rivista, 2012, fasc. 1-2, 175, con nota di richiami.

vedimento non decisorio, come quello di sospendere il processo.

È illegittima la sospensione del processo conta-bile per pregiudizialità di un processo penale, ove non sussista la prova della pendenza del giudizio che si assume pregiudiziale (nella specie, le Sezioni riu-nite hanno rilevato che non pendeva in dibattimen-to alcun procedimento penale, ma esisteva soltanto un procedimento ancora allo stato di indagini sugli stessi fatti che avevano dato luogo al processo con-tabile, riguardanti, in particolare, l’acquisto, ritenu-to dannoso, di azioni di una società privata da parte di un ente locale).

Considerato in diritto – 1. In rito, premessa la regolarità del ricorso e delle notificazioni dello stes-so, nonché delle costituzioni dei difensori del Penati e del Ponti e delle comunicazioni della fissazione di udienza (attività svolte nel rispetto dei modi e pre-visti dall’art. 47 c.p.c.), va anzitutto esaminata l’ec-cezione di incompetenza delle Sezioni riunite della Corte dei conti sulla impugnazione qui in esame.

La difesa del Ponti contesta le ord. n. 1/2012 e n. 3/2012 di queste Sezioni riunite (che, alla luce della sentenza Corte cost. n. 30/2011, avevano individuato nelle Sezioni riunite il giudice competente a decide-re sui ricorsi per regolamento di competenza), affer-mando che – anche a voler ritenere ammissibile il regolamento di competenza avverso provvedimenti del giudice contabile, in forza di una “interpretazio-ne costituzionalmente orientata” dell’art. 42 c.p.c. – tutt’al più si potrebbe attribuire la competenza su tale gravame alla Corte di cassazione, per il combi-nato disposto degli artt. 26 r.d. n. 1038/1933 e 47, c. 1, c.p.c. (secondo cui “l’istanza di regolamento di competenza si propone alla corte di cassazione”), ma non si potrebbe ampliare ingiustificatamente le com-petenze delle Sezioni riunite, fissate dalla tassativa disposizione dell’art. 1, c. 7, d.l. n. 453/1993.

Su questo punto, ritiene il collegio di confermare l’orientamento giurisprudenziale ormai consolida-tosi (cfr. ordinanze sopra citate dalla difesa, nonché l’ord. Sez. riun., n. 1/2013), secondo cui la decisione sull’impugnazione in esame è di competenza di que-ste Sezioni riunite.

Infatti, è indubbio che la giurisprudenza ha rite-nuto l’art. 47 c.p.c. tendenzialmente applicabile nel giudizio dinanzi a questa Corte in forza del rinvio operato dall’art. 26 r.d. n. 1038/1933, ai fini della disciplina procedurale, in specie i cc. 2 e 3 dell’art. 47, che disciplinano modi e tempi del regolamen-to di competenza (cfr. Sez. riun., n. 1/2012/ord.; n.

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PARTE II – ATTIVITÀ GIURISDIZIONALE N. 5-6/2014

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3/2012/ord.; n. 1/2013/ord.); ed è altresì indiscutibile che l’art. 1, c. 7, d.l. n. 453/1993 prevede specifiche competenze delle Sezioni riunite solo per conflitti di competenza e questioni di massima.

Tuttavia, secondo la medesima giurisprudenza, l’ammissibilità del mezzo di impugnazione in esa-me nel rito dinanzi a questa Corte (cfr. par. 2 ss.) e l’individuazione dell’organo competente discendono non dall’art. 47, c. 1, c.p.c. bensì dalle norme ge-nerali fissate dall’art. 42 c.p.c. e dell’art. 26 r.d. n. 1038/1933, anche perché il c.p.c. (l’art. 47, c. 1) non può disciplinare competenze di organi appartenenti a giurisdizioni speciali né i rapporti tra giurisdizioni, disciplinati dall’art. 111 Cost., che prevede il ricorso in cassazione avverso provvedimenti della Corte dei conti solo per questioni attinenti alla giurisdizione (cfr. in tal senso Sez. riun., n. 1/2012/ord.). Di conse-guenza, non può in alcun modo affermarsi una com-petenza in materia della Corte di cassazione, e l’or-gano competente va individuato nelle Sezioni riunite della Corte dei conti “in base al combinato disposto degli artt 42 c.p.c., 26 r.d. n. 1038/1933 e 1, c. 7, l. n. 19/1994” (cfr. Sez. riun., ord. n. 3/2012 e n. 1/2013), in quanto esse costituiscono un’articolazione inter-na della giurisdizione contabile in sede di appello ed hanno funzioni analoghe a quelle delle Sezioni unite della Cassazione e dell’Adunanza plenaria del Con-siglio di Stato, come evidenziato dalla sentenza della Corte cost. n. 30/2011 (cfr. in tal senso Sez. riun., ord. n. 1/2012, n. 3/2012, n. 1/2013), onde non può affermarsi che le loro competenze, fissate dall’art. 1, c. 7, d.l. n. 453/1993, siano tassative (cfr. Sez. riun., ord. n. 3/2012, n. 1/2013), diversamente da quanto riteneva la precedente giurisprudenza (cfr. Sez. riun., sent. n. 7/2002/cc, n. 12/2002/cc).

L’eccezione in esame va quindi respinta.2. Occorre a questo punto soffermarsi sull’ecce-

zione di inammissibilità del regolamento di compe-tenza nei giudizi dinanzi alla Corte dei conti, solleva-te dalla difesa del Ponti per vari motivi.

2.1. Anzitutto, per affermare l’inapplicabilità dell’istituto in esame nei giudizi dinanzi a questa Corte, la difesa del Ponti valorizza l’eccezionalità della disposizione dell’art. 42 c.p.c., che non sarebbe applicabile al di fuori dei casi di espressamente pre-visti, in forza sia del principio di tassatività dei mez-zi di gravame (tanto più considerando che l’art. 42 c.p.c. prevede una impugnazione avverso un atto di natura ordinatoria, come il provvedimento di sospen-sione del processo), sia della specialità del processo contabile rispetto a quello ordinario.

In merito a tali questioni, certo non possono porsi

in dubbio i principi generali di tassatività dei mezzi di impugnazione e di specialità del processo conta-bile.

Tuttavia, come già evidenziato da queste Sezio-ni riunite (ord. n. 1/2012 e n. 3/2012) la Cassazione ha ritenuto che la tassatività dei mezzi di impugna-zione non implica la impossibilità di interpretazio-ne estensiva delle disposizioni che disciplinano il regolamento di competenza anche a fattispecie non espressamente previste, e quindi ha ammesso questo gravame – ad esempio – non solo per i giudizi civili, ma anche per i giudizi tributari (Cass., Sez. trib., n. 11140/2005) ed anche per i giudizi dinanzi ai giudici di pace (Cass., S.U., n. 21931/2008), e non solo av-verso ordinanze di sospensione necessaria ex art. 295 c.p.c., espressamente previste dall’art. 42 c.p.c., ma anche, ad esempio, avverso ordinanze di sospensio-ne facoltativa ex art. 337, c. 2, c.p.c. (Cass., ord. n. 21924/2008) o di sospensione facoltativa non tipiz-zate (cfr. infra, sub par. 3).

Inoltre, quanto alla specialità del rito dinanzi a questa Corte, la stessa difesa del Ponti riconosce che la disposizione dell’art. 26 r.d. n. 1038/1933 (rego-lamento di procedura dei giudizi dinanzi alla Corte dei conti) effettua un rinvio dinamico alle norme ed ai termini del c.p.c. “in quanto siano applicabili e non siano modificati dalle disposizioni del presente regolamento”; dunque non vi sono ostacoli per l’ap-plicazione non analogica, bensì diretta di dette dispo-sizioni, salvo l’accertamento di compatibilità tra rito ordinario e rito speciale e l’applicazione delle singo-le disposizioni speciali in luogo di quelle generali.

2.2. La difesa del Ponti eccepisce quindi la inap-plicabilità dell’art. 26 r.d. n. 1038/1933 per incom-patibilità del regolamento di competenza con il rito speciale.

Secondo la difesa – premesso che l’art. 26 r.d. n. 1038/1933 esclude l’operatività del predetto rinvio dinamico in presenza di istituti processuali incom-patibili con il regolamento di procedura dei giudizi dinanzi alla Corte dei conti o diversamente discipli-nati da quest’ultimo – dovrebbe ritenersi che il rego-lamento di competenza ex art. 42 c.p.c. sia inappli-cabile nel presente giudizio per incompatibilità, in quanto:

- il regolamento di procedura dei giudizi dinan-zi alla Corte dei conti non prevede l’istituto qui in esame;

- la disciplina speciale del rito dinanzi alla Corte dei conti è complessivamente diversa dalla disciplina del c.p.c. sul regolamento di competenza (la prima prevede l’udienza pubblica dinanzi alle Sezioni ri-

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N. 5-6/2014 PARTE II – ATTIVITÀ GIURISDIZIONALE

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unite, la seconda prevede la camera di consiglio di-nanzi alla Corte di cassazione);

- la competenza a decidere l’impugnazione in esame non può essere attribuita sic et simpliciter alle Sezioni riunite della Corte dei conti, alla luce dell’art. 47, c. 1, c.p.c. (che attribuisce tale compe-tenza alla Corte di cassazione);

- la disciplina sulle impugnazioni si fonda sui principi di “nominatività dell’organo competente” e di “tassatività delle procedure e dei termini” (ovvero una eccezionalità di fondo) che non consentirebbe la applicazione delle norme sulle impugnazioni al di fuori dei casi e modi espressamente previsti.

Il gravame richiama in tal senso le sentenze del-le Sez. riun., n. 7/2002; n. 12/2002 (che fondavano la inapplicabilità dell’art. 26 r.d. n. 1038/1933 sul-la specialità delle competenze delle Sezioni riunite ex art. 1, c. 7, d.l. n. 453/1993, sull’eccezionalità dell’art. 42 c.p.c., sulla diversità del rito e sulla tipi-cità dei mezzi di impugnazione).

2.2.1. In merito a tali questioni, va anzitutto pre-cisato che l’omessa previsione di questo mezzo di impugnazione nelle risalenti norme di procedura sui giudizi dinanzi a questa Corte (r.d. n. 1038/1933) non può fondare un argomento a contrario circa l’applicabilità dell’istituto (nel senso che il legisla-tore, non prevedendolo, ha inteso escluderlo), per i seguenti motivi.

a) Anzitutto, all’epoca di entrata in vigore del re-golamento di procedura la legge prevedeva un qua-si completo accentramento della giurisdizione della Corte dei conti (r.d. n. 1214/1934), e comunque la stessa possibilità di questioni di competenza terri-toriale era praticamente inesistente; ed anche l’or-dinamento processualcivilistico ignorava l’istituto del regolamento di competenza avverso ordinanze di sospensione del processo prima della riforma attuata con l. n. 353/1990.

b) Inoltre, il rinvio dinamico dell’art. 26 r.d. n. 1038/1933 consente in astratto la ricezione anche di un istituto non espressamente disciplinato, ferma restando la valutazione di compatibilità degli istituti generali con il giudizio speciale, nonché la inappli-cabilità di specifiche disposizioni codicistiche in-compatibili con il rito speciale, alla luce dei principi generali dell’ordinamento.

c) In ogni caso, la validità dell’argomento “a contrario”, come dell’argomento “a simili”, va sem-pre riscontrata alla luce della ratio delle norme e del sistema giuridico complessivo, che nel caso in esame inducono ad una interpretazione estensiva, e non restrittiva, delle norme in esame, in funzione di

esigenze di riduzione della durata del processo e di garanzia delle parti (cfr. par. 2.3)

2.2.2. Sono altresì innegabili alcune differenze tra il rito del regolamento di competenza ed il rito speciale dinanzi alla Corte dei conti (sui termini pro-cessuali, le procedure, le forme della discussione, l’organo competente alla decisione), ma esse non im-plicano una radicale incompatibilità dell’istituto del regolamento di competenza con il rito speciale, bensì – ai sensi dell’art. 26 r.d. n. 1038/1933 – un semplice adattamento del rito, che può essere tendenzialmente desunto dalle norme del c.p.c., nei limiti della spe-cialità del rito contabile (cfr. in tal senso Sez. riun., ord. n. 1/2012, n. 3/2012, n. 1/2013, che ritengono applicabili gli artt. 47, 49 e 50 c.p.c., nei limiti in cui tali disposizioni siano compatibili con le speciali disposizioni del rito dinanzi a questa Corte).

In particolare, come sopra precisato (cfr. par. 1), non può ritenersi applicabile la disposizione dell’art. 47, c. 1, c.p.c. nella parte in cui si prevede la com-petenza della Corte di cassazione anziché delle Se-zioni riunite di questa Corte (cfr. Sez. riun., ord. n. 1/2013), ma ciò implica non la incompatibilità del regolamento di competenza con rito speciale, bensì la inapplicabilità della predetta norma e la necessità di individuare l’organo competente in forza di altre disposizioni, secondo una interpretazione costituzio-nalmente orientata (cfr. par. 1).

2.2.3. Pertanto, deve affermarsi che non vi è ge-nerale incompatibilità tra rito speciale dinanzi alla Corte dei conti e regolamento di competenza, onde è applicabile l’art. 26 r.d. n. 1038/1933 e quindi le nor-me codicistiche sul regolamento di competenza pos-sono essere applicate nei giudizi dinanzi alla Corte dei conti ove non derogate e sempreché compatibili rispetto alle disposizioni speciali.

2.3. Infine, secondo la difesa del Ponti, la man-canza di un’impugnazione avverso i provvedimenti di sospensione del processo non costituirebbe vio-lazione del principio di ragionevole durata del pro-cesso ex art. 111 Cost. e 6 Cedu e della l. n. 89/2001, essendo l’eccessiva durata del processo conseguenza non della presenza o meno dell’impugnazione, ma di un uso distorto della sospensione stessa (citando in tal senso Sez. riun., n. 12/2002).

Su questo punto – anche volendo ammettere che l’eccessiva durata del processo può derivare (in con-creto) dall’uso distorto dell’istituto della sospensione e non dalla previsione o meno di un mezzo di impu-gnazione in quanto tale (che in casi concreti potrebbe al limite addirittura allungare i tempi del processo) – è tuttavia indubbio che, a prescindere dai casi con-

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PARTE II – ATTIVITÀ GIURISDIZIONALE N. 5-6/2014

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creti, la sospensione del processo determina di per sé un allungamento dei tempi processuali, laddove (per converso) le impugnazioni avverso la sospen-sione di per sé aprono una possibilità di riavvio del processo. In quest’ottica – alla luce dei principi di ragionevole durata dei processi desumibili dell’art. 6 Cedu e dell’art. 117 Cost., come interpretati dal-le sent. n. 348 e n. 349 del 2007 della Corte costi-tuzionale (cfr. Sez. riun., ord. n. 1/2002) e dall’art. 111 Cost. (cfr. Sez. riun., ord. n. 3/2012 e n. 1/2013) progressivamente attuati nell’ordinamento – la giuri-sprudenza ha ritenuto che una interpretazione “costi-tuzionalmente orientata” impone di ritenere le ipote-si di sospensione del processo fattispecie eccezionali di stretta interpretazione, e, per converso, i gravami avverso i provvedimenti di sospensione (nella fatti-specie l’art. 42 c.p.c.) istituti generali, applicabili an-che al di là delle ipotesi espressamente previste (Sez. riun., ord. n. 1/2012; n. 3/2012; n. 1/2013).

Pertanto, anche questa eccezione risulta infonda-ta.

2.4. In conclusione, deve ritenersi ammissibile la proposizione di un regolamento di competenza nei giudizi dinanzi alla Corte dei conti, e innanzi a queste Sezioni riunite, in forza di un’interpretazione costituzionalmente orientata del combinato disposto dell’art. 42 c.p.c. e dell’art. 26 r.d. n. 1038/1933.

3. I difensori delle parti resistenti hanno altresì eccepito la inammissibilità del ricorso avverso una ordinanza di sospensione “discrezionale” del proces-so.

Nel caso in esame, secondo i difensori, il collegio non aveva inteso disporre né una sospensione facol-tativa ex art. 296 c.p.c. (mancando una “istanza di tutte le parti”) né una sospensione “necessaria” ex art. 295 c.p.c. (anche perché la pregiudizialità penale è ormai preclusa dall’abrogazione dell’art. 3 c.p.p. e non è riconducibile all’art. 295 c.p.c.), bensì una so-spensione “discrezionale” fondata sui generali poteri del giudicante.

La difesa del Penati, in particolare, evidenziava che la giurisprudenza riconosce una “sospensione discrezionale” finalizzata non ad evitare contrasto di giudicati, ma ad acquisire elementi di giudizio indi-spensabili per una “più avveduta decisione” (Corte conti, Sez. III centr. app., 10 febbraio 2011, n. 135) e fondata non sulle disposizioni relative alla sospen-sione, ma sull’ampio potere sindacatorio del giudice contabile (ex art. 73 r.d. n. 1214/1934, artt. 14 e 15 r.d. n. 1038/1933), che ben consente l’acquisizione delle risultanze penali come mezzi di prova (Corte conti, Sez. I centr. app., 19 novembre 2013, n. 984).

Pertanto, come evidenziato anche dalla difesa del Ponti, il ricorso per regolamento di competenza sa-rebbe inammissibile, perché l’art. 42 c.p.c. – anche ammettendone l’applicazione nel giudizio contabi-le con una lata interpretazione estensiva – lo pre-vede espressamente solo avverso “i provvedimenti che dichiarano la sospensione del processo ai sensi dell’art. 295 c.p.c.”, laddove l’ordinanza impugnata in questa sede ha disposto una sospensione facolta-tiva, fondata sul potere istruttorio del collegio – pre-visto dall’art. 14 r.d. n. 1038/1933 – di “richiedere all’amministrazione e ordinare alle parti di produrre gli atti e i documenti che crede necessari alla decisio-ne della controversia”.

In ordine a tale questione, deve rilevarsi che – dopo alcune oscillazioni – la giurisprudenza ha ri-tenuto contraria ai principi costituzionali e quindi illegittima la “sospensione facoltativa” del processo, intesa come stasi sine die del processo, disposta di-screzionalmente dal giudice al di fuori delle ipotesi legislativamente previste, in forza del generale pote-re ordinatorio del giudice (ovvero il potere di stabi-lire tempi e modi del processo: cfr. ad esempio, art. 175 c.p.c.); e la medesima giurisprudenza ha quindi ritenuto tali ordinanze di sospensione facoltativa im-pugnabili con lo strumento del regolamento di com-petenza ex art. 42 c.p.c. (anche al di là della lettera dell’art. 295 c.p.c.) ed ex se illegittime se non fondate su una espressa previsione di legge. Tale svolta giu-risprudenziale risale alla nota ordinanza della Cass., S.U., n. 14670 dell’1 ottobre 2003, seguita da mol-teplici sentenze di sezioni semplici (citate dall’ord. n. 3/2012 di queste Sez. riun., alle cui motivazioni si rinvia, nonché Cass., ord. n. 23906/2010).

Questo, ovviamente, non esclude che il giudice, nell’esercizio dei suoi poteri istruttori, anche officiosi (artt. 14-15 r.d. n. 1038/1933), possa disporre l’ac-quisizione di informazioni o documenti desumibili da altri processi (in specie penali) per una più avvisata decisione, rinviando la trattazione in attesa della loro produzione; infatti, ciò non costituisce un ingiustifi-cato allungamento dei tempi del processo, bensì un tempo tecnico necessario alla decisione e normale esercizio della funzione istruttoria. Tuttavia, tale ipo-tesi (che la difesa qualifica “sospensione discrezio-nale” in funzione istruttoria) resta concettualmente distinta dalla sospensione in senso stretto, che rappre-senta un vero e proprio arresto del processo in attesa della conclusione di altra causa (art. 295 c.p.c.) o per consenso delle parti (art. 296 c.p.c.), ovvero per altri motivi di opportunità non tipizzati dalla legge che ad avviso del giudice impongono quella “stasi” del giu-

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N. 5-6/2014 PARTE II – ATTIVITÀ GIURISDIZIONALE

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dizio (sospensione facoltativa, che, come sopra pre-cisato, è da ritenersi inammissibile nell’ordinamento vigente).

Tanto premesso in generale, nella concreta fat-tispecie deve ritenersi che l’ordinanza impugnata – attesa la sua formulazione letterale – tendesse non ad acquisire elementi di giudizio (come pure sarebbe stato possibile), ma a sospendere il giudizio in attesa del processo penale, al di fuori delle ipotesi di sta-si del processo espressamente previste dalla legge; ovvero integrasse una vera e propria sospensione fa-coltativa. Infatti, nella motivazione dell’ordinanza si valorizzavano l’esistenza di un procedimento penale su circostanze (tempi e modi dell’acquisizione di una perizia di stima di azioni) ritenute rilevanti anche nel processo contabile in forza delle prospettazioni della procura regionale e dei difensori delle parti; nonché l’esistenza di un altro procedimento penale sulla congruità del prezzo delle azioni (il danno contestato nel processo contabile consisteva appunto nella in-congruità del prezzo pagato). Dopo queste premesse, nel dispositivo dell’ordinanza si stabiliva la “sospen-sione facoltativa del presente giudizio in attesa del deposito dell’esito dei procedimenti penali” predetti, senza peraltro né specificare quali “esiti” si intendes-sero acquisire (potendosi intendere anche come “esi-ti finali”, ovvero come sentenze definitive dei giudizi penali), né fissare una data di rinvio (o onerare la par-te di richiedere la fissazione di udienza).

Pertanto, deve ritenersi che il giudice a quo abbia disposto una sospensione facoltativa del processo; poiché avverso tale tipo di sospensione è ammesso il regolamento di competenza, in applicazione esten-siva dell’art. 295 c.p.c., l’eccezione in esame va re-spinta.

4. Infine, la difesa del Penati ha eccepito la inam-missibilità e/o improcedibilità del ricorso per carenza di interesse ex art. 100 c.p.c., atteso che la sospensio-ne del giudizio è stata disposta dalla Sezione territo-riale in attesa del deposito – ad opera della parte più diligente – dell’esito dei suddetti procedimenti pena-li; esito ormai accertato e documentato dalla procu-ra, la quale quindi ben poteva riassumere il giudizio chiedendo la fissazione di udienza, senza bisogno di proporre l’impugnazione al fine di annullare l’ordi-nanza (come del resto ammesso nello stesso ricorso per regolamento di competenza). Inoltre, il medesi-mo difensore ha depositato una memoria di “adem-pimenti istruttori” depositata il 17 giugno 2014 alla Sezione giurisdizionale della Lombardia, nella quale i difensori del convenuto davano atto dell’“esito” dei procedimenti penali in corso – come disposto

dall’ordinanza collegiale – affinché il presidente (cui l’atto era indirizzato) fosse “nelle condizioni di prendere la decisione che ritiene più opportuna” (cfr. svolgimento del processo, par. 4).

In ordine a tale eccezione, va anzitutto evidenzia-to che il provvedimento impugnato in questa sede ha “sospeso” il processo dinanzi alla Sezione territoria-le “in attesa del deposito dell’esito dei procedimenti penali” n. RG 3543/96 e n. RG 802/11, rispettiva-mente presso la Procura della Repubblica di Milano e la Procura della Repubblica di Monza.

Tanto premesso, in primo luogo – a parte la do-cumentazione esibita dalla difesa del Penati il 20 giugno 2014 (cfr. svolgimento del processo, par. 4) – dalle dichiarazioni delle parti negli atti di causa e in udienza (cfr. svolgimento del processo, par. 7) e dalla stessa ordinanza impugnata (che fa riferimento a semplici “procedimenti” penali, non a “processi” penali in corso), emerge che almeno uno di detti pro-cedimenti non ha avuto alcun “esito” (il n. 802/2011 pende ancora nella fase delle indagini preliminari); quindi, allo stato, sussiste l’interesse ad impugnare della procura regionale lombarda, che non può co-munque proseguire il processo in mancanza di detto “esito” (così come dalla stessa evidenziato nel ricor-so introduttivo).

In secondo luogo, il processo risulta allo stato so-speso, e nessuna delle parti ha chiesto la riassunzione del giudizio ex art. 297 c.p.c. o la revoca dell’ordi-nanza (senza esaminare la complessa problematica dell’ammissibilità di tale revoca). Pertanto, anche sotto questo profilo deve ritenersi che sussista un interesse concreto ed attuale ad impugnare del pub-blico ministero per pervenire ad una decisione sulla sua azione, attesa la stasi del processo, e quindi l’ec-cezione va respinta.

5. Esaurito l’esame delle questioni preliminari, può passarsi all’esame nel merito dei due motivi di gravame prospettati dalla procura regionale, parten-do dalla lamentata nullità dell’ordinanza di sospen-sione per violazione degli artt. 101 c.p.c., 26 r.d. n. 1038/1933, 24 e 111 Cost., eccepita dalla procura re-gionale ricorrente e dalla procura generale sotto vari profili (cfr. svolgimento del processo, par. 2, lett. A, e par. 6, lett. C, a) e contestata con articolate argo-mentazioni dalla difesa del Penati (cfr. svolgimento del processo, par. 3, lett. C, a) e del Ponti (cfr. svol-gimento del processo, par. 5, lett. D, a), nei sensi che seguono. (Omissis)

5.3. Premesso che è incontestato e indiscutibile l’interesse ad impugnare della procura regionale in relazione alla presunta violazione del diritto di dife-

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sa, questo motivo di gravame non può trovare acco-glimento, per un duplice ordine di ragioni.

5.3.1. Anzitutto, secondo la giurisprudenza del-la Cassazione, il “regolamento di competenza” è un mezzo di impugnazione utilizzabile per contestare la violazione delle norme che disciplinano la “compe-tenza”, non la violazione delle norme sostanziali o processuali diverse da quelle sulla competenza, vio-lazione che va fatta valere nei modi ordinari e non con questo speciale mezzo di impugnazione (in tal senso cfr. Cass., n. 14558/2002; n. 12983/2004; 29 settembre 2005, n. 19159 ed altre).

Ritiene il collegio che analoga regola debba va-lere nel caso in esame, nel senso che può farsi va-lere in sede di regolamento di competenza avver-so provvedimenti di sospensione (ex art. 42 c.p.c.) solo la violazione delle norme che disciplinano la “sospensione del processo”, non la violazione delle norme processuali che disciplinano l’adozione dei provvedimenti processuali; nella fattispecie, quindi, non può accogliersi – sotto questo profilo – la do-manda di annullamento dell’ordinanza di sospensio-ne fondata non sulla pretesa violazione delle norme sulla sospensione del processo, ma per violazione di norme che disciplinano l’adozione del provvedi-mento impugnato, in specie per la pretesa violazione dell’art. 101 c.p.c.

5.3.2. Inoltre, va evidenziato che la garanzia del contraddittorio è imposta dai principi dettati dall’art. 101 c.p.c., 24 e 111 Cost. (analoghi principi sono det-tati in sede europea), tendenzialmente in ogni fase del processo (cfr. art. 183, c. 4, c.p.c.). Tuttavia, la violazione del contraddittorio, del diritto di difesa e del giusto processo per pronunzie a “sorpresa” del giudice può ritenersi causa di nullità solo nel caso di “decisione” della causa, resa sulla base di questioni sulle quali non si sia instaurato un previo contrad-dittorio tra le parti; infatti, l’art. 101, c. 2, c.p.c. im-pone di rendere oggetto di previo contraddittorio tra le parti non ogni questione che il giudice esamini di ufficio, ma solo quelle che il giudice intende “porre a fondamento della decisione”. In altri termini, in for-za di tali principi è vietato al giudice di porre a base della “decisione” (della sentenza) questioni sollevate di ufficio e mai portate a conoscenza delle parti, a pena di nullità della sentenza (cui si riferisce per lo più la giurisprudenza in materia); ma non è previ-sta una sanzione di nullità qualora non si instauri il contraddittorio delle parti su questioni poste a base di provvedimenti che non “decidono” la causa, ma hanno mera natura ordinatoria. In questo caso, in-fatti, il contraddittorio e la difesa saranno comunque

garantiti – in via successiva – dalla possibilità di con-traddire “in sede di decisione” su tutte le questioni incidentalmente esaminate con il provvedimento or-dinatorio (che in quanto tale non pregiudica in alcun modo la “decisione” della controversia); e sarebbe semmai contrario ai principi di celerità del processo e superfluo rispetto al diritto di difesa ed al giusto processo un previo contraddittorio sulle questioni ri-levate di ufficio (con concessione di termini ex 101 c.p.c. e necessità di articolati provvedimenti) sia du-rante il corso di tutta l’istruttoria, sia nuovamente in sede di decisione, dove sempre potrebbe riproporsi la questione solo incidentalmente esaminata (senza efficacia di giudicato) in precedenza.

Nel caso in esame – come ammette la stessa procura generale (par. 6, lett. C, a) e come adom-bra la difesa del Penati (che peraltro afferma che l’ordinanza impugnata ha funzione istruttoria: cfr. par. 3, lett. C, a) – il provvedimento di sospensione del processo qui impugnato non può ritenersi avere natura decisoria nel senso prefato, perché non deci-de in alcun modo il merito della causa; anche se ad altri fini la legge ha ritenuto di equipararlo ad una decisione (in specie della creazione di un apposito mezzo di impugnazione, in funzione di diritti del-la parte costituzionalmente tutelati, ma diversi dal contraddittorio).

Di conseguenza, a prescindere dalla fondatezza nel merito delle opposte asserzioni delle parti nel caso concreto, non può affermarsi sussistere, sotto gli esaminati aspetti, una nullità del provvedimento impugnato.

5.2.3. Pertanto, questo motivo di impugnazione va disatteso per motivi di diritto, restando assorbite tutte le ulteriori questioni di rito e merito sollevate dalle parti con riferimento al caso concreto.

6. Il secondo motivo di impugnazione attiene alla nullità dell’ordinanza per insussistenza dei presup-posti della sospensione del processo, contestata dal-la procura regionale ricorrente (cfr. svolgimento del processo, par. 2, lett. B-D) e dalla procura generale (par. 6, lett. C, b) sotto vari profili:

a) violazione e falsa applicazione dell’art. 296 c.p.c. (mancanza dei presupposti della sospensione indicati da tale norma);

b) inapplicabilità dell’art. 296 c.p.c. (inammis-sibilità in astratto della sospensione facoltativa) per incompatibilità con il rito contabile;

c) violazione e falsa applicazione dell’art. 295 c.p.c., per insussistenza dei presupposti di fatto e di diritto della sospensione necessaria; in particolare, premessa la ricostruzione di queste Sezioni riunite

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N. 5-6/2014 PARTE II – ATTIVITÀ GIURISDIZIONALE

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circa il concetto di “pregiudizialità necessaria”, il pubblico ministero ha negato che nel caso in esame sussistessero i presupposti della pregiudizialità ne-cessaria:

- per la mancanza di norme che prevedano una pregiudizialità in senso tecnico del processo penale rispetto a quello di responsabilità;

- per la mancanza di una “pregiudizialità” in sen-so tecnico nel caso concreto, perché i procedimenti penali instaurati sulla stessa vicenda, peraltro ancora nello stato di indagini preliminari, avevano oggetto diverso da quello del processo contabile posto a base del presente gravame, e comunque mancava una pre-giudizialità in senso tecnico.

d) per illegittimità della sospensione facoltativa c.d. “discrezionale”, di elaborazione giurispruden-ziale, richiamando la giurisprudenza sopra citata.

La difesa del Penati ha replicato che il provvedi-mento in esame – di sospensione discrezionale – sa-rebbe assolutamente legittimo in quanto adottato dal collegio in funzione istruttoria, proprio sulla base dei plurimi riferimenti contenuti nell’atto di citazione ai procedimenti penali suddetti, riferimenti che face-vano presumere la rilevanza di detti procedimenti ai fini di un’avveduta pronuncia sul merito della causa (cfr. svolgimento del processo, par. 3, lett. C, b).

La difesa del Ponti, infine, ha affermato da un lato l’inammissibilità della nuova documentazione pro-dotta dalla procura (cfr. svolgimento del processo, par. 5, lett. B); dall’altro, sussistere tutti i presupposti di fatto e di diritto della sospensione del processo, attesa l’identità soggettiva ed oggettiva dei procedi-menti penali e di quello contabile e la pregiudizialità dell’accertamento del primo rispetto al secondo, e quindi la legittimità della sospensione del processo contabile in attesa di detti procedimenti (cfr. svolgi-mento del processo, par. 5, lett. D, d).

6.1. Tale motivo di appello è fondato e va accolto.6.2. Anzitutto, come sopra evidenziato, a parte la

possibilità astratta di una sospensione discrezionale del processo disposta dal giudice “in via istruttoria”, nel caso in esame non si verte in quest’ipotesi, bensì in una vera e propria sospensione non motivata da esigenze istruttorie ma giustificata da un presunto nesso tra giudizi penali e quello amministrativo-con-tabile (cfr. par. 3).

Sono quindi infondate le eccezioni della difesa del Ponti, che ipotizzano un fondamento dell’ordi-nanza in esame nei poteri istruttori del giudice.

6.3. Per lo stesso motivo, è del tutto irrilevante il richiamo all’art. 296 c.p.c., perché il giudice non ha assolutamente fatto riferimento a tale norma nel so-

spendere il processo; a parte il fatto che è incontesta-to e risultante ex actis che nella concreta fattispecie non sussistevano i presupposti per la sospensione su istanza delle parti ex art. 296 c.p.c. (in particolare il consenso delle parti), ammesso che tale fattispecie sia applicabile nel rito contabile.

6.4. Non sussistono, inoltre, i presupposti della sospensione necessaria del processo ex art. 295 c.p.c. (peraltro, nemmeno pronunziata nell’ordinanza).

Infatti, anche a prescindere da quanto affermato dalla giurisprudenza di questa Corte in merito alla inammissibilità in astratto di una pregiudizialità in senso tecnico tra processo penale e processo ammi-nistrativo-contabile (cfr., da ultimo, ord. Sez. riun., n. 2/2013 e giurisprudenza ivi richiamata), l’opera-tività dell’art. 295 c.p.c. presuppone una pregiudi-zialità concreta ed attuale, ovvero la pendenza della causa pregiudiziale (ad esempio cfr. Cass., ord. n. 6149/2005; n. 21931/2008; sent. n. 18026/2012).

Nel caso in esame, invece, non risulta in atti la pendenza di processo penale per nessuno dei pro-cedimenti in funzione dei quali è stato sospeso il processo amministrativo-contabile, tanto è vero che la stessa ordinanza dispone una “sospensione facol-tativa” (non necessaria ex art. 295 c.p.c.) facendo riferimento a procedimenti indicati con il numero di ruolo della procura della Repubblica; anzi – an-che a prescindere dagli atti prodotti dalla procura la cui ammissibilità è contestata dalla difesa del Ponti (svolgimento del processo, par. 2), ma nuovamente prodotti dalla difesa del Penati (cfr. svolgimento del processo, par. 4) – è sostanzialmente pacifico per ammissione delle stesse parti in udienza (cfr. svol-gimento del processo, par. 7), e negli atti (cfr. svol-gimento del processo, par. 2, lett. D, par. 3, par. 5 lett. D, b, par. 6, lett. C, bb, aaa), che allo stato non pende in dibattimento alcun processo penale relativo (essendo stato archiviato il processo relativo al falso ed essendo ancora nello stato di indagini il procedi-mento relativo alla compravendita delle azioni).

6.5. Quanto, infine, alla legittimità della c.d. “so-spensione facoltativa”, si è già richiamata la giuri-sprudenza secondo cui essa, qualora non trovi fonte in una precisa disposizione di legge, non può rite-nersi legittima, alla luce dei principi fondamentali dell’ordinamento (cfr. par. 3).

6.6. Nel caso in esame, quindi, mancando i pre-supposti legittimanti l’esercizio del potere di sospen-sione (cfr. par. 6.1-6.4) e non essendo sufficienti meri motivi di opportunità a fondare una sospensione sine die del processo (cfr. par. 6.5), l’ordinanza va ritenu-ta illegittima.

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7. In conseguenza di tutto quanto precede, il ri-corso del procuratore regionale si appalesa fondato e deve essere accolto nei limiti del secondo motivo di appello, annullando l’ordinanza di sospensione fa-coltativa del processo e rimettendo gli atti al primo giudice per la prosecuzione del giudizio di merito.

8. La complessità – ed anche la novità, sotto alcu-ni profili – delle questioni affrontate integrano gravi ed eccezionali ragioni per l’integrale compensazione tra le parti delle spese del presente giudizio di im-pugnazione, in applicazione dell’art. 92, c. 2, c.p.c.

P.q.m., la Corte dei conti a Sezioni riunite in sede giurisdizionale, definitivamente pronunciando, in accoglimento del ricorso proposto dal pubblico mi-nistero:

- disatteso il primo motivo di impugnazione, ac-coglie il ricorso, e per l’effetto annulla l’ordinanza impugnata e dispone la restituzione degli atti alla Se-zione giurisdizionale per la Regione Lombardia per la prosecuzione del giudizio: (omissis).

Sezioni riunite in sede giurisdizionale(in speciale composizione)

32 – Sezioni riunite in sede giurisdizionale (in spe-ciale composizione); sentenza-ordinanza 2 set-tembre 2014; Pres. Avoli, Est. Leone e Fazio, P.M. Pomponio; Gruppo consiliare Pse del Con-siglio regionale della Campania.

Processo contabile – Deliberazione della sezione regionale di controllo sulla regolarità dei ren-diconti dei gruppi consiliari – Impugnazione davanti alle Sezioni riunite in speciale compo-sizione – Parti necessarie del giudizio – Pre-sidente della regione, presidente del consiglio regionale e procuratore generale della Corte dei conti – Omessa notifica del ricorso al pre-sidente del consiglio regionale – Integrazione del contraddittorio – Necessità.

C.p.c., artt. 101, 102; r.d. 13 agosto 1933 n. 1038, ap-provazione del regolamento di procedura per i giudi-zi innanzi alla Corte dei conti, art. 26; d.l. 10 ottobre 2012 n. 174, convertito con modificazioni dalla l. 7 dicembre 2012 n. 213, disposizioni urgenti in mate-ria di finanza e funzionamento degli enti territoriali, nonché ulteriori disposizioni in favore delle zone ter-remotate nel maggio 2012, art. 1.

Nel giudizio dinanzi alle Sezioni riunite della Corte dei conti in speciale composizione, sul ricor-

so contro la deliberazione della sezione regionale di controllo che abbia dichiarato l’irregolarità del rendiconto di un gruppo consiliare sono parti in causa, oltre al ricorrente, la regione e il consiglio regionale, in persona dei rispettivi presidenti, quali parti resistenti, e il procuratore generale presso la Corte dei conti, che interviene nell’interesse della legge; pertanto, ove il ricorso non sia stato notifica-to al presidente del consiglio regionale, deve essere ordinata nei suoi confronti l’integrazione del con-traddittorio. (1)

(1) I. - Non constano precedenti in termini.II. - Per altri aspetti processuali dell’impugnazione delle

deliberazioni delle sezioni regionali di controllo aventi ad og-getto la regolarità dei rendiconti dei gruppi politici dei consi-gli regionali, v., Corte conti, Sez. riun. (spec. comp.), 13 no-vembre 2014, n. 46, in questo fascicolo, 193; 18 dicembre 2014, n. 60, in questo fascicolo, 207; 18 dicembre 2014, n. 61, in questo fascicolo, 210.

Circa le condizioni per l’applicazione delle sanzioni pre-viste dalla legge in caso di tardiva trasmissione dei rendiconti alla Sezione regionale di controllo della Corte dei conti, v. Sez. riun. (spec. comp.), 4 dicembre 201, n. 54, in questo fa-scicolo, 195.

III. - Sulla natura giuridica dei gruppi politici dei consigli regionali quali organi del consiglio regionale, v. Corte cost. 12 aprile 1990, n. 187, in questa Rivista, 1990, 2, 149, e 22 di-cembre 1988, n. 1130; v. pure la nota redazionale (sub I) a Corte conti, Sez. giur. reg. Lazio, decr. 20 dicembre 2012, n. 1, ivi, 2013, fasc. 1-2, 292.

Nella giurisprudenza ordinaria e amministrativa, sulla na-tura dei gruppi politici delle assemblee legislative, v. Cass., Sez. lav., 14 maggio 2009, n. 11207, in Riv. it. dir. lav., 2010, II, 865, con nota di A. Raffi, Il rapporto di lavoro alle dipen-denze dei gruppi parlamentari e la c.d. “autodichia” della Camera dei deputati; Cass., S.U., 24 novembre 2008, n. 27863, in Foro it., 2009, I, 760 (annotata da A. Raffi, op. cit.; da P. Rescigno, Dipendenti dei gruppi parlamentari e giudice del rapporto, in Riv. dir. civ., 2010, II, 317, e da A. Di Meglio, Estensione e limiti del principio dell’autodichia. Il caso dei gruppi parlamentari, in Riv. giur. lav., 2009, II, 682); Cass., S.U., ord. 19 febbraio 2004, n. 3335, in Rep. Foro it., 2004, voce Parlamento, n. 45; Cons. Stato, Sez. IV, 28 ottobre 1992, n. 932, in Cons. Stato, 1992, I, 1281.

Nel senso che i gruppi parlamentari (principio ovviamen-te applicabile anche gruppi politici dei consigli regionali) so-no da assimilare ai partiti politici, ai quali va riconosciuta la qualità di soggetti privati, v. Cass., S.U., n. 3335/2004, cit.

IV. - In tema controllo dei rendiconti dei gruppi politici dei consigli regionali, in particolare per quanto riguarda la lo-ro natura di rendiconti amministrativi, v. Corte conti, Sez. ri-un., 4 agosto 2014, n. 30, in questa Rivista, 2014, fasc. 3-4, 218, con nota di richiami.

Circa i limiti del sindacato delle sezioni regionali di con-trollo sui rendiconti dei gruppi politici dei consigli regionali, v. Corte conti, Sez. riun. (spec. comp.), 30 luglio 2014, n. 29, in questa Rivista, 2014, fasc. 3-4, 257, con nota di richiami.

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Diritto – Le Sezioni riunite della Corte dei conti, in speciale composizione, preliminarmente premet-tono che nelle more tra la proposizione del ricorso e la presente udienza, è stato pubblicato il d.l. 24 giu-gno 2014, n. 91 che ha previsto nell’art. 33, c. 2: al d.l. 10 ottobre 2012, n. 174, convertito con modifi-cazioni dalla l. 7 dicembre 2012, n. 213 sono appor-tate le seguenti modificazioni: (omissis) 3) al c. 12 è aggiunto il seguente periodo: “Avverso le delibere della sezione regionale di controllo della Corte dei conti, di cui al presente comma, è ammessa l’impu-gnazione alle Sezioni riunite della Corte dei conti in speciale composizione, con le forme e i termini di cui all’art. 243-quater, c. 5, d.lgs. 8 agosto 2000, n. 267”.

Pertanto, allo stato, deve essere affermata la giu-risdizione della Corte dei conti a Sezioni riunite in speciale composizione, giurisdizione volta a cono-scere dei ricorsi presentati dai gruppi consiliari nei confronti delle deliberazioni delle sezioni regionali di controllo che abbiano dichiarato l’irregolarità dei conti presentati dai gruppi medesimi.

Le Sezioni riunite devono, quindi, porsi il pro-blema della regolare costituzione del contraddittorio.

In fattispecie, il ricorso è stato notificato alla Se-zione di controllo della Corte dei conti per la Cam-pania, al procuratore generale della Corte dei conti e alla Regione Campania, in persona del legale rappre-sentante p.t.

Le Sezioni riunite in speciale composizione os-servano preliminarmente che la sezione del control-lo non può essere individuata come parte del giu-dizio. Ciò in quanto il controllo svolto dalla sezio-ne regionale non ha natura amministrativa, con la conseguenza che le relative deliberazioni non sono giustiziabili davanti al giudice ordinario o ammini-strativo.

È opportuno anche ricordare come le competenze in materia di controllo di regolarità contabile attribu-ite alla Corte dei conti rispondono all’esigenza della verifica complessiva dell’intero settore della finanza pubblica, anche per consentire allo Stato il rispet-to degli obblighi assunti in sede comunitaria. In un

V. - Sulla responsabilità amministrativa dei presidenti e dei componenti dei gruppi consiliari per l’illecito impiego dei fondi a questi erogati dai consigli regionali, v., da ultimo, Corte conti, Sez. giur. reg. Sardegna, 18 novembre 2014, n. 229, in questo fascicolo, 308; Sez. giur. reg. Emilia-Roma-gna, 10 ottobre 2014, n. 140, in questo fascicolo, 271; Sez. giur. reg. Friuli-Venezia Giulia, 3 febbraio 2014, n. 11, e 23 ottobre 2014, n. 90, in questo fascicolo, 279, 280, con no-ta di richiami ulteriori.

sistema plurale di autonomie contabili (di entrata e di spesa), in particolare dopo la riforma del titolo V della Costituzione con la l. cost. 18 ottobre 2001, n. 3, è emersa una forte esigenza di coordinamento di insieme, esigenza peraltro puntualmente intercettata e avvertita anche dal giudice delle leggi con la sent. n. 39/2014, laddove essa ha ritenuto che le attribu-zioni della Corte dei conti in tema di controllo della gestione finanziaria delle amministrazioni pubbliche … trovano fondamento … oltre che nell’art. 100, c. 2, Cost. (il cui riferimento al controllo della Corte dei conti “sulla gestione del bilancio dello Stato” deve oggi intendersi esteso al controllo sui bilanci di tutti gli enti che costituiscono, nel loro insieme, la finanza pubblica allargata), nella tutela dei princípi del buon andamento dell’amministrazione (art. 97, c. 1, Cost.), della responsabilità dei funzionari pubblici (art. 28 Cost.), del tendenziale equilibrio di bilan-cio (art. 81 Cost.) e del coordinamento della finanza delle regioni con quella dello Stato, delle province e dei comuni (art. 119 Cost.), cioè di princìpi che sono anch’essi riferiti a tutti gli enti che fanno parte della finanza pubblica allargata.

Il controllo della Corte dei conti è un controllo dotato di una specifica particolarità ordinamentale insita nella posizione di assoluta neutralità e terzietà con la quale vengono esercitate le relative funzioni e competenze.

La questione che il collegio è chiamato a scru-tinare s’incentra, dunque, sulla individuazione delle parti nella particolare tipologia del giudizio in tratta-zione, una volta ritenuto che, per le ragioni esposte, la Sezione regionale di controllo non può prefigurar-si come parte, né processuale, né sostanziale.

La soluzione non può prescindere dalla colloca-zione del presente giudizio tra quelli “ad istanza di parte” e dalla individuazione degli “interessi” desti-nati ad entrare nella dinamica processuale.

Si deve innanzitutto sottolineare che la dichiara-zione di irregolarità del conto non è fine a se stessa, implicando come conseguenza l’obbligo di restitu-zione da parte del gruppo delle somme ricevute a ti-tolo di contributo, dichiarate irregolari dalla apposita deliberazione della sezione del controllo.

Di qui il ruolo che deve essere riconosciuto ai soggetti interessati alla restituzione delle somme ri-cevute e irregolarmente utilizzate.

Al riguardo si deve osservare che le risorse finan-ziarie vengono erogate ai gruppi a valere sul bilancio del consiglio, a sua volta alimentato quasi esclusi-vamente (al netto delle partite di giro) dal bilancio della regione.

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In altre parole, l’autonomia finanziaria di cui si avvale il consiglio non può considerarsi assoluta e i saldi del suo bilancio finiscono necessariamente per riverberarsi e per confluire nel bilancio generale dell’ente.

Ciò comporta che il presidente della regione deve essere ritenuto come parte del processo, destinatario necessario della notifica del ricorso.

Può, in tale fattispecie, essere riconosciuta la qualità di parte anche al presidente del consiglio, destinatario “immediato e diretto” delle somme in ipotesi da restituire a seguito della dichiarazione di irregolarità.

Le Sezioni riunite in speciale composizione ri-tengono, in definitiva, che nel presente giudizio sul ricorso nei confronti della deliberazione della sezio-ne regionale di controllo di irregolarità dei conti del gruppo consiliare ricorrente le parti debbono inten-dersi – oltre all’attore – il presidente della regione e il presidente del consiglio regionale, oltre alla pro-cura generale, interveniente nell’interesse della leg-ge (e quindi, parte ad ogni effetto, sia pure con tale peculiarità).

Alla luce di quanto appena enunciato, il collegio rileva che in fattispecie il ricorso è stato regolarmen-te notificato al presidente della regione e alla procura generale, non è stato invece notificato al presidente del consiglio regionale.

Il collegio pertanto non può procedere a scrutina-re il merito della causa, dovendosi preliminarmente regolarizzare il contraddittorio.

Non si ritiene dover pronunciare sull’istanza cautelare, tenuto conto che essa è stata formalmente rinunciata all’udienza del 18 giugno 2014 e che, in ogni caso, non emerge dagli atti che la deliberazione in epigrafe della sezione regionale del controllo sia stata posta in esecuzione con la richiesta di restitu-zione delle somme dichiarate irregolari.

P.q.m., le Sezioni riunite della Corte dei conti, in speciale composizione, non definitivamente pronun-ciando, affermano che le parti processuali del pre-sente giudizio sono, oltre il ricorrente e la procura generale, il consiglio regionale della Campania, in persona del suo presidente e la Regione Campania, in persona del suo presidente;

Ritenuta, pertanto, la necessità che il contraddit-torio sia integrato con la parte cui il ricorso non è stato notificato; a tale scopo, pertanto, ordinano, che a cura della parte ricorrente si provveda all’integra-zione del contraddittorio nei confronti del consiglio regionale della Campania, in persona del suo presi-

dente, entro il termine perentorio del 25 settembre 2014, disponendo, allo scopo, il dimezzamento dei termini per comparire; fissano per la prosecuzione del giudizio l’udienza del 12 novembre 2014 alle ore 10,00. (Omissis)

33 – Sezioni riunite in sede giurisdizionale (in spe-ciale composizione); sentenza 12 settembre 2014; Pres. Martucci di Scarfizzi, Est. Acanfora, P.M. Lombardo; Comune di Assago.

Conferma Corte conti, Sez. contr. reg. Lombardia, 17 dicembre 2013, n. 544.

Processo contabile – Rendiconti degli enti locali – Deliberazioni delle sezioni regionali di con-trollo – Impugnazione dinanzi alle Sezioni ri-unite in speciale composizione – Termine – 30 giorni dalla comunicazione della deliberazio-ne al sindaco.

D.lgs. 18 agosto 2000 n. 267, t.u. delle leggi sull’or-dinamento degli enti locali, art. 148-bis; d.l. 10 otto-bre 2012 n. 174, convertito con modificazioni dalla l. 7 dicembre 2012 n. 213, disposizioni urgenti in materia di finanza e funzionamento degli enti terri-toriali, nonché ulteriori disposizioni in favore delle zone terremotate nel maggio 2012, art. 3.Processo contabile – Rendiconti degli enti loca-

li – Deliberazioni delle sezioni regionali di controllo – Impugnazione dinanzi alle sezioni riunite in speciale composizione – Interesse a ricorrere dell’ente locale – Sussistenza – Fat-tispecie.

D.lgs. 18 agosto 2000 n. 267, art. 148-bis.Processo contabile – Sezioni regionali di controllo

della Corte dei conti – Procedimento di accer-tamento della violazione del patto di stabilità interno – Rapporti con il giudizio per l’appli-cazione di sanzioni personali a carico degli amministratori – Autonomia.

D.lgs. 18 agosto 2000 n. 267, art. 148-bis.

L’impugnazione delle deliberazioni delle Sezioni regionali di controllo emanate all’esito dell’esame dei rendiconti degli enti locali è soggetta al termine perentorio di 30 giorni dal momento in cui la co-municazione della deliberazione sia pervenuta al sindaco del comune, e non già da quello, anteriore, del deposito del provvedimento presso la segreteria della sezione.

Sussiste l’interesse del comune ad impugnare la deliberazione della sezione regionale di controllo della Corte dei conti avente ad oggetto il controllo

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N. 5-6/2014 PARTE II – ATTIVITÀ GIURISDIZIONALE

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eseguito sul rendiconto del comune stesso, allorché dalla deliberazione conseguano l’obbligo di adotta-re provvedimenti idonei a rimuovere le irregolarità riscontrate e a ripristinare gli equilibri di bilancio, nonché le sanzioni previste dalla legge in caso di inadempimento all’obbligo di adottare i citati prov-vedimenti o di esito negativo della verifica che di tali provvedimenti sia eseguita dalla sezione di con-trollo.

Il potere della sezione regionale di controllo del-la Corte dei conti di accertare la sussistenza di prati-che contabili elusive del rispetto del patto di stabilità interno non è escluso dalla circostanza che gli stessi fatti possano essere valutati, ai fini dell’applicazione delle sanzioni previste a carico degli amministratori, da parte della sezione giurisdizionale regionale del-la Corte dei conti, poiché i due procedimenti, aven-do presupposti e finalità diversi, sono fra di loro del tutto autonomi.

Diritto – Risolta con la precedente sentenza par-ziale-ordinanza n. 24/2014/el la questione di giuri-sdizione con la declaratoria della sussistenza del po-tere cognitorio di queste Sezioni riunite in speciale composizione, questo collegio deve pronunciarsi ora, seguendo l’ordine logico-giuridico, su quella della tempestività del ricorso.

Orbene, occorre anzitutto ribadire che l’odierno ricorso è stato instaurato facendo espresso richia-mo sia all’art. 243-quater, c. 5, d.lgs. n. 267/2000 (Tuel), introdotto dalla lett. r) dell’art. 3, c. 1, d.l. n. 174/2012, convertito dalla l. n. 213/2014, – su cui si è sviluppato tutto il percorso ermeneutico che ha condotto queste Sezioni riunite a risolvere, in senso favorevole, la questione di giurisdizione con la pre-cedente sentenza non definitiva – sia all’art. 58 r.d. 13 agosto 1933, n. 1038, il quale al c. 1 dispone che “gli altri giudizi ad iniziativa di parte, di competen-za della Corte dei conti, nei quali siano interessati anche persone od enti diversi dallo Stato, sono isti-tuiti mediante ricorso da notificarsi nelle forme della citazione. Il decreto di fissazione d’udienza, emesso su istanza della parte più diligente, deve, a cura di questa, essere notificato a tutte le altre parti in cau-sa”, tipologia questa di giudizi a cui fa espresso rife-rimento lo stesso c. 5 dell’art. 243-quater.

Invero, secondo l’ormai pacifica giurisprudenza formatasi presso queste Sezioni riunite in speciale composizione, qualora si verta in materie di contabi-lità pubblica rientranti nella competenza giurisdizio-nale delle medesime (v. ex multis. sent. n. 2/2013/el; n. 6/2013/el; n. 7/2013/ris; n. 9/2013/el; n. 2/2014/el;

n. 14/2014/el) gli aspetti processuali vanno regolati dal predetto art. 58 del vigente regolamento di pro-cedura per i giudizi innanzi a questa Corte dei conti, integrato dalle disposizioni generali contenute nel titolo I nonché per quanto non ivi disciplinato, per effetto del rinvio dinamico recato dall’art. 26, dalle disposizioni processual-civilistiche in quanto appli-cabili.

Orbene, dal momento che l’art. 58 non preve-de alcun termine per l’istaurazione del giudizio (ed escluso che possano operare quelli previsti per le impugnazioni delle sentenze, non trattandosi di un appello, come nel prosieguo si preciserà), occorre stabilire se possa essere operante quello (peraltro ne-anche oggetto di contestazione da parte del Comune di Assago), di trenta giorni previsto dal succitato art. 243-quater, c. 5, d.lgs. n. 267/2000 (parimenti invo-cato dal ricorrente), per impugnare le deliberazioni delle sezioni regionali di controllo di approvazione o di diniego dei piani di riequilibrio finanziario plu-riennale.

Va anzitutto osservato che detto termine è stato espressamente applicato in una sentenza di queste Sezioni riunite in speciale composizione resa in un giudizio avverso una deliberazione del controllo in-tervenuta nell’ambito della procedura del cosiddetto “dissesto guidato” disciplinato dall’art. 6, c. 2, d.lgs. n. 149/2011 (vedasi sent. n. 2/2013/el).

Per quest’ultima però, come si è ampiamente osservato, per quanto concerne il profilo inerente la giurisdizione, nella precedente sentenza parziale n. 24/2014/el, l’identità di ratio con la procedura di ri-equilibrio pluriennale è di più immediata evidenza, in adesione alla pacifica giurisprudenza di queste Se-zioni riunite, anche successiva alla predetta pronun-cia (sent. n. 6/2014/el, n. 26/2014/el).

Senonché, ad avviso di questo collegio, il predet-to termine va ritenuto senz’altro operante – seguen-do un iter argomentativo avente valenza generale e, quindi, a prescindere dalla situazione economico-fi-nanziaria in cui versa, nello specifico, l’ente locale ricorrente – anche all’odierna tipologia di giudizio avverso una deliberazione emessa ex art. 148-bis d.lgs. n. 267/2000, in considerazione anzitutto del fatto che l’interpretazione della norma di tipo esten-sivo-analogico, basata sull’identità di ratio, è stata quella che ha già condotto a risolvere in senso favo-revole la questione di giurisdizione nella precedente sentenza parziale.

Giova precisare che detta identità di ratio è stata invece negata – sempre al medesimo fine, che ora rileva, di individuare il termine per proporre l’im-

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pugnativa – in altre tipologie di giudizi pure attri-buiti espressamente dal legislatore alla cognizione di queste Sezioni riunite in speciale composizione, ovvero quelli avverso i provvedimenti di inserimento negli elenchi Istat, ex art. 1, c. 169, l. n. 228/2012 (sent. n. 7/2013/ris, n. 15/2014/ris), avverso le de-liberazioni in materia di esame dei rendiconti dei gruppi consiliari ex art. 1, cc. 9, 10, 11, 12, d.l. n. 174/2012, convertito dalla l. n. 213/2012, anterior-mente all’entrata in vigore dell’art. 33, c. 2, lett. a), n. 3, d.l. n. 91/2014, convertito dalla l. n. 116/2014, che nel modificare il c. 12 ha previsto per l’impugna-tiva le forme ed i termini di cui all’art. 243-quater, c. 5 – (sent.-ord. n. 25/2014/el), nonché in materia di deliberazioni (ed allegate relazioni) in materia di parificazione dei rendiconti regionali ex art. 1, c. 5, del succitato d.l. n. 174/2012, convertito dalla l. n. 213/2012 (sent. n. 27/2014/el).

Invero, va rilevato che le deliberazioni delle sezioni di controllo di questa Corte dei conti che, nell’esercizio della predetta funzione ex art. 148-bis, accertano “squilibri economico-finanziari”, “manca-ta copertura di spese”, “violazione di norme finaliz-zate a garantire la regolarità della gestione”, possono essere anch’esse prodromiche ad un’eventuale deci-sione dell’ente locale di ricorrere, ove diano luogo a veri e propri “squilibri strutturali del bilancio in grado di provocare il dissesto finanziario, nel caso in cui le misure di cui agli artt. 193 e 194 non siano sufficienti a superare le condizioni di squilibrio rile-vate” (c. 1), alla procedura di riequilibrio finanziario ex art. 243-bis, con tutta la conseguente articolazio-ne procedimentale disciplinata dai commi successivi del medesimo articolo.

Quanto sopra trova un ulteriore conforto nel c. 6, lett. a), del predetto art. 243-bis laddove prevede che il piano di riequilibrio deve comunque contenere “le eventuali misure correttive adottate dall’ente locale in considerazione dei comportamenti difformi dalla sana gestione finanziaria e del mancato rispetto degli obiettivi posti con il patto di stabilità interno accer-tati dalla competente sezione regionale della Corte dei conti”.

Ma anche le deliberazioni che, sempre nell’eser-cizio del medesimo controllo ex art. 148-bis, acclara-no il mancato rispetto dell’obiettivo del patto di sta-bilità interno, pur non pregiudicando – ex se – l’equi-librio economico-finanziario del bilancio in termini di risultato di amministrazione, possono anch’esse costituire il presupposto di conseguenze potenzial-mente lesive per l’attività amministrativa dell’ente locale per effetto degli aspetti sanzionatori introdotti

dal legislatore (con le norme che saranno individuate nel prosieguo).

Giova richiamarsi a quanto osservato di recen-te da queste Sezioni riunite nella predetta sent. n. 27/2014/el cit. (sia pure in tale specifica fattispe-cie per negare e non per affermare, come in questo caso, l’identità di ratio sottesa all’applicazione del termine per impugnare) ovvero che la previsione del termine di 30 giorni ex art. 243-quater “si giustifica inserendosi le pronunce delle Sezioni riunite in spe-ciale composizione, nell’ambito di un più comples-so procedimento, scandito temporalmente attraverso termini stringenti per tutte le fasi del suo iter, al fine di assicurare la massima celerità nella verifica della sussistenza o meno delle condizioni per accedere ai piani di riequilibrio finanziario dell’ente locale”.

Non può, peraltro, omettersi di considerare l’e-vidente esigenza pratica connessa all’espressa fissa-zione da parte del legislatore del termine di 60 gior-ni per l’adozione, nell’ambito del procedimento di controllo, delle misure conseguenziali, il che rende necessaria l’applicazione di un ancora più stringen-te termine decadenziale entro cui l’ente locale possa agire in giudizio avverso la deliberazione.

Pertanto, alla luce delle predette considerazio-ni, all’odierno ricorso va applicato il termine di 30 giorni previsto dall’art. 243-quater, c. 5, d.lgs. n. 267/2000.

A questo punto occorre, però, risolvere l’ulterio-re questione, divenuta ovviamente rilevante, relativa all’individuazione del dies a quo del succitato termi-ne, in ordine al quale il predetto art. 243-quater nulla prevede espressamente.

Occorre anzitutto premettere che come si è già esposto in fatto, il segretario generale del Comune di Assago, dando esecuzione all’incombente assegna-togli nella sentenza parziale-ordinanza n. 24/2014/el, ha attestato di avere accertato, a seguito di verifiche all’uopo disposte, l’avvenuto invio di una comunica-zione, a mezzo fax, al numero corrispondente all’Uf-ficio ragioneria del comune, in data 15 gennaio 2014 (documento n. 4 della nota di deposito del 24 giugno 2014).

In punto di diritto, va rilevato che i difensori contestano la validità di tale forma di comunicazio-ne facendo espresso richiamo all’art. 47 del d.lgs. n. 82/2005 (recante il codice dell’amministrazione digitale), che, dopo avere sancito l’uso della posta elettronica certificata per le comunicazioni di prov-vedimenti tra le pubbliche amministrazioni (c. 1), prevede che “È in ogni caso esclusa la trasmissione a mezzo fax” (ultimo capoverso della lett. c, c. 2).

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Senonché per questa Corte dei conti vige l’art. 20-bis d.l. n. 179/2012, inserito dalla legge di con-versione n. 221/2012 e pertanto, fino alla data fissata con decreto del Presidente della Corte dei conti (che al momento non risulta ancora intervenuto) che deve stabilire, come previsto dal c. 1, “le regole tecniche ed operative per l’adozione delle tecnologie dell’in-formazione e della comunicazione nelle attività di controllo e nei giudizi che si svolgono innanzi alla Corte dei conti, in attuazione dei principi previsti dal d.lgs. 7 marzo 2005, n. 82”, ivi comprese “le regole e le modalità di effettuazione delle comunicazioni e notificazioni mediante posta elettronica certificata ai sensi del d.lgs. 7 marzo 2005, n. 82”, è previsto che “le notificazioni e le comunicazioni sono effettuate nei modi e nelle forme previste dalle disposizioni vi-genti” (c. 2, ultimo capoverso).

Ora, la disposizione ancora attualmente vigen-te in materia di comunicazione a mezzo fax è l’art. 43, c. 6, d.p.r. n. 445/2000 (testo unico in materia di documentazione amministrativa), a tenore di cui “I documenti trasmessi da chiunque ad una pubblica amministrazione tramite fax, o con altro mezzo tele-matico o informatico idoneo ad accertarne la fonte di provenienza, soddisfano il requisito della forma scritta e la loro trasmissione non deve essere segui-ta da quella del documento originale”, da ritenersi, pur non potendo la Corte dei conti qualificarsi una pubblica amministrazione, comunque applicabile analogicamente anche alla trasmissione dei suoi atti nell’esercizio della funzione di controllo, in mancan-za di una normativa speciale.

Vanno, altresì, richiamati i principi giurispru-denziali in materia di riproduzioni meccaniche ex art. 2712 c.c. espressi dalla Corte di cassazione, se-condo cui il fax rientra nell’ambito applicativo di detta norma e “forma piena prova dei fatti o delle cose rappresentate se colui contro il quale è prodot-ta non ne disconosce la conformità ai fatti alle cose medesime” (Sez. lav., n. 6911/2009) ed ancora, più di recente “Una volta dimostrato l’avvenuto corret-to inoltro del documento a mezzo telefax al numero corrispondente a quello del destinatario, è logico pre-sumere il conseguente ricevimento, nonché la piena conoscenza di esso da parte del destinatario, restando pertanto a carico del medesimo l’onere di dedurre e dimostrare l’esistenza di elementi idonei a confutare l’avvenuta ricezione (Sez. I, n. 349/2013).

Senonché, venendo alla concreta fattispecie, il segretario generale, nella nota trasmessa in esecuzio-ne dell’incombente ordinato da queste Sezioni riuni-te, pur riconoscendo l’avvenuta trasmissione e rice-

zione del fax da parte dell’ente locale, ha, tuttavia, dichiarato, come sopra si è evidenziato, che questo è stato inviato al numero del servizio ragioneria non-ché che è stato scaricato da un sistema e-mail di cui si avvale il Comune soltanto in data 30 aprile 2014 (come risulta dimostrato dal timbro di protocollazio-ne (n. 0006987/14) apposto sul medesimo).

Orbene, va rilevato che il punto n. 3 della deli-berazione contestata dispone espressamente che “la presente pronuncia sia trasmessa al sindaco, anche al fine di darne comunicazione al consiglio comunale, notiziando la Sezione dell’avvenuto adempimento” (oltre che, al punto n. 4, la sua trasmissione a mezzo sistema Siquel al revisore dei conti del comune).

Il dies a quo va, pertanto, necessariamente an-corato alla data della comunicazione della delibera-zione all’organo comunale che è stato espressamente deputato a darvi esecuzione (sindaco), dal momento che, trattandosi di un termine breve, non è da ritener-si sufficiente quello del mero deposito in segreteria (peraltro va osservato che anche ai fini del procedi-mento di controllo l’art. 148-bis fa espresso riferi-mento alla comunicazione del deposito della deli-berazione e non al mero deposito per far decorrere il termine di 60 giorni per l’adozione delle misure conseguenziali).

In conclusione, questo collegio ritiene che il ri-corso, in quanto notificato in data 14 maggio 2014 e depositato il successivo 15 maggio 2014, debba senz’altro ritenersi tempestivo, non potendo il dies a quo del termine di 30 giorni ex art. 243-quater del d.lgs. n. 267/2000 ancorarsi alla predetta data del 15 gennaio 2014 di trasmissione a mezzo fax della deliberazione in quanto, nella specifica fattispecie, per tutto quanto si è sopra evidenziato, detta trasmis-sione non è tale da assicurare, in mancanza di prova contraria, la piena conoscenza (non essendo suf-ficiente la mera conoscibilità) da parte del sindaco dell’esistenza dell’atto.

Occorre però, a questo punto, affrontare l’ulte-riore questione pregiudiziale sollevata dalla procura generale in ordine al difetto di un interesse attuale e concreto ad impugnare la deliberazione del Comune di Assago, peraltro in parte già delibata nella pre-cedente sentenza parziale (laddove si è rilevato che “I profili di inammissibilità per carenza di lesione immediata e di non sottoponibilità al sindacato giu-risdizionale delle Sezioni riunite, pur restando con-cettualmente distinti, finiscono con l’intersecarsi”: p. 25).

Secondo la pacifica giurisprudenza della Cassa-zione l’interesse ad agire, nella forma, in questo caso,

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dell’interesse ad impugnare, va valutato in relazione all’utilità concreta che, dall’eventuale accoglimento del ricorso, può derivare alla parte che lo propone (ex multis, Cass., n. 3472/1999; n. 7342/2002; Sez. lav., n. 1935/1994; Sez. V, n. 6546/2004); esso non può consistere, ad esempio, “in un mero interesse ad una più corretta soluzione di una questione giuridica, non avente riflessi pratici sulla decisione adottata” (Cass., n. 10558/2002).

Tale condizione dell’azione va identificata “in una situazione di carattere oggettivo derivante da un fatto lesivo, in senso ampio, del diritto e consi-stente in ciò che senza il processo e l’esercizio della giurisdizione l’attore soffrirebbe un danno. Da ciò consegue che esso deve avere necessariamente ca-rattere attuale, poiché solo in tal caso trascende il piano di una mera prospettazione soggettiva assur-gendo a giuridica ed oggettiva consistenza” (Cass., n. 5635/2002).

A ciò aggiungasi che il predetto interesse deve essere accertato in astratto con riguardo all’utilitas che, nella prospettazione della domanda giudiziale, il provvedimento giudiziale chiesto al giudice può ave-re rispetto alla posizione giuridica di cui si lamenti la lesione, a prescindere dalle allegazioni e dalle argo-mentazioni che, nel merito, sono esposte a sostegno della domanda medesima.

Orbene, venendo alla concreta fattispecie, occor-re valutare se la deliberazione impugnata sia idonea a produrre effetti pregiudizievoli, immediati e con-creti, con riferimento alla data della proposizione del ricorso, nei confronti del Comune di Assago.

Ad avviso di questo collegio, detti effetti pregiu-dizievoli non si pongono in termini di futura even-tualità con riferimento a segmenti procedurali relati-vi alla sua esecuzione, come sostiene la procura ge-nerale, bensì vanno individuati, come già in parte an-ticipato nella sentenza parziale, “con riferimento alle conseguenze derivanti sul piano oggettivo dell’atti-vità gestionale ed amministrativa, scaturenti dall’ap-plicazione sia dell’art. 148-bis d.lgs. n. 267/2000 che dei cc. 26, 28 e 29, art. 31, l. n. 13/20111 ([recte: 183]” – p. 25).

Invero, dall’art. 148-bis del d.lgs. n. 267/2000 scaturisce immediatamente l’obbligo per l’ente loca-le “di adottare, entro sessanta giorni dalla comunica-zione del deposito della pronuncia di accertamento, i provvedimenti idonei a rimuovere le irregolarità e a ripristinare gli equilibri di bilancio” nonché, in caso di inadempimento o di esito negativo della verifica da parte della sezione di controllo, l’effetto sanzio-natorio consistente nell’inibizione dell’“attuazione

dei programmi di spesa per i quali è stata accertata la mancata copertura o l’insussistenza della relativa sostenibilità finanziaria”.

Vanno poi considerati gli ulteriori effetti sanzio-natori contemplati dal legislatore per la violazione del patto di stabilità (in disparte la questione della sua individuazione ratione temporis che sarà affron-tata nel prosieguo) in quanto diretta conseguenza, con immediato pregiudizio sull’attività amministra-tiva e gestionale dell’ente e sulle fonti di finanzia-mento della stessa, della deliberazione del controllo impugnata.

Né, peraltro, è possibile ritenere che il Comu-ne di Assago, nel chiedere alla sezione regionale di controllo di fissare alla data del 16 aprile 2014 il ter-mine iniziale per il computo dei 60 giorni al fine di adottare le misure conseguenziali, abbia in tal modo fatto acquiescenza tacita, ai sensi e per gli effetti dell’art. 329 c.p.c, alla deliberazione, in tal modo decadendo dal potere di impugnare (come affermato nell’odierna udienza dal rappresentante della procu-ra generale).

Invero, ad avviso di questo collegio, non è pos-sibile, da tale richiesta, desumere l’implicita volontà dell’ente locale di non avvalersi del mezzo di impu-gnazione giudiziale, stante anche la mancata previ-sione di qualsivoglia effetto (preclusivo e/o sospen-sivo) sul procedimento di controllo scaturente dalla proposizione del ricorso.

Pertanto, alla luce delle predette considerazioni, va senz’altro affermata la sussistenza dell’interesse in capo al Comune di Assago ad ottenere l’annulla-mento della deliberazione impugnata.

Il comune ricorrente deduce, ancora, il difetto del potere da parte della sezione del controllo nell’ac-certare, in applicazione dell’art. 148-bis del d.lgs. n. 267/2000, la pretesa “elusione” del patto di stabilità, in quanto rientrante nella competenza cognitoria del-la sezione giurisdizionale regionale.

Orbene, il legislatore, con l’art. 20, cc. 10, 11 e 12, d.l. n. 98/2011, convertito dalla l. n. 111/2011 ha emanato precise disposizioni in materia di elusione delle regole del patto di stabilità.

In particolare, il c. 12 ha introdotto il c. 111-ter all’art. 1 della l. n. 220/2010 (a tenore di cui “Qua-lora le sezioni giurisdizionali regionali della Corte dei conti accertino che il rispetto del patto di stabilità interno è stato artificiosamente conseguito median-te una non corretta imputazione delle entrate o delle uscite ai pertinenti capitoli di bilancio o altre forme elusive, le stesse irrogano, agli amministratori che hanno posto in essere atti elusivi delle regole del pat-

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to di stabilità interno, la condanna ad una sanzione pecuniaria fino ad un massimo di dieci volte l’inden-nità di carica percepita al momento di commissione dell’elusione e, al responsabile del servizio econo-mico-finanziario, una sanzione pecuniaria fino a 3 mensilità del trattamento retributivo, al netto degli oneri fiscali e previdenziali.”), disposizione questa poi pedissequamente riprodotta nell’art. 31, c. 31, l. n. 183/2011 (legge di stabilità 2012).

Orbene, l’attribuzione alle sezioni giurisdizio-nali della competenza ad accertare comportamenti “antielusivi” del rispetto degli obiettivi, nell’ambito di una fattispecie tipizzata di responsabilità di tipo “sanzionatorio”, pur se finalizzata a tutelare il mede-simo bene giuridico (il rispetto del patto di stabilità interno), non interferisce, stante l’assoluta autono-mia dei giudizi (secondo i parametri a suo tempo fis-sati dalla Corte costituzionale nella sent. n. 29/1995), col potere intestato alle sezioni di controllo dappri-ma dall’art. 168 e poi dall’art. 148-bis del d.lgs. n. 267/2000, di accertare oltre all’an del rispetto degli obiettivi il quomodo ovvero le modalità con cui sono stati realizzati, dunque di indagare in ordine a viola-zioni che si realizzano in forma elusiva, il che signi-fica implementare una concezione sostanziale e non formale del controllo medesimo.

Quest’ultima trova fondamento in un preciso principio contabile cui gli enti locali devono confor-marsi, ai sensi dell’art. 3, c. 1, previsto dall’all. 1, n. 18, d.lgs. n. 118/2011 (recante “Disposizioni in ma-teria di armonizzazione dei sistemi contabili e degli schemi di bilancio delle regioni, degli enti locali e dei loro organismi”), per cui i fatti “devono essere rilevati contabilmente secondo la loro natura finan-ziaria, economica e patrimoniale in conformità alla loro sostanza effettiva e quindi alla realtà economica che li ha generati e ai contenuti della stessa e non solamente secondo le regole e le norme vigenti che ne disciplinano la contabilizzazione formale”.

Orbene, la fattispecie elusiva si sostanzia in “comportamenti che, pur legittimi, risultino inten-zionalmente e strumentalmente finalizzati ad aggira-re i vincoli di finanza pubblica” (come chiarito anche nella circolare della Rgs n. 5 del 14 febbraio 2012 relativa all’applicazione degli art. 30, 31 e 32 della citata l. n. 183/2011).

Ora, nella materia tributaria (dove l’elusione è stata codificata nell’art. 37-bis d.p.r. n. 600/1973, inserita dall’art. 7, c. 1, d.lgs. n. 358/1997 a tenore di cui “Sono inopponibili all’amministrazione finan-ziaria gli atti, i fatti e i negozi, anche collegati tra loro, privi di valide ragioni economiche, diretti ad

aggirare obblighi o divieti previsti dall’ordinamento tributario e ad ottenere riduzioni di imposte o rim-borsi, altrimenti indebiti”), la Cassazione ha avuto occasione di precisare che essa “può assumere sia la forma della mera devianza (utilizzazione impropria di uno strumento normativo” che quella “di abuso del diritto positivo (nel quale vengono posti in es-sere una molteplicità di atti al solo fine di ottenere il risparmio fiscale”(S.U. n. 30055/2008; Sez. V, n. 8487/2009).

Orbene, mutuando tali principi, il potere delle sezioni di controllo di accertamento della natura vio-lativa, nella forma elusiva – che ne costituisce, giova ribadirsi, una peculiare modalità –, dell’operazione va inquadrato nella verifica, con riferimento alla concreta fattispecie, dell’oggettiva devianza di essa rispetto alle regole che presiedono alla loro corretta qualificazione contabile, mediante imputazione delle entrate e delle spese ai capitoli di bilancio, ovvero “altre forme elusive”, a fronte di un rispetto solo for-male delle regole di finanza pubblica.

Tutto ciò, però, in una dimensione che prescinde da qualsivoglia valutazione in ordine al connotato soggettivo delle condotte tenute dai soggetti che agiscono per l’ente (amministratori e responsabi-le del servizio economico-finanziario), che quindi compete esclusivamente alla Sezione giurisdiziona-le regionale.

Ora, tale accertamento è prodromico all’applica-zione delle sanzioni amministrative previste del c. 26 del medesimo art. 31 l. n. 183/2011, come sostituito dall’art. 1, c. 439, l. n. 228/2012 a decorrere dall’1 gennaio 2013 (e in precedenza dall’art. 7, c. 2, d.lgs. 6 settembre 2011, n. 149, poi abrogato dall’art. 1, c. 507, l. n. 147/2013, ed ancora prima dall’art. 1, c. 119, l. n. 220/2010) per il caso di mancato rispetto del patto di stabilità interno.

Orbene, nel caso concreto, la Sezione regionale di controllo, nell’esercizio del potere intestatole dal legislatore, ha ritenuto che gli accertamenti a titolo di evasione fiscale Ici e Tarsu del 2011 abbiano so-stanziato una violazione di norme e principi contabili tale da pregiudicare l’equilibrio economico-finanzia-rio del bilancio 2011 nonché anche da ripercuotersi su quelli successivi, in quanto incidenti sul risultato di amministrazione 2011 (che registra un avanzo fi-nanziario di euro 17.359.292,75).

Inoltre, sia con riferimento a detto accertamento che, soprattutto, al secondo, relativo alla contabiliz-zazione in entrata nel rendiconto 2011 della somma di euro 514.800 versata dalla società “Tecno 80 So-cietà di Costruzioni Generali s.r.l.” per la concessio-

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ne delle cappelle gentilizie, ha ritenuto trattarsi di operazioni che sostanziano una violazione del patto di stabilità in forma elusiva, in quanto operazioni contabili non conformi alla loro sostanza economica ed amministrativa.

Pertanto, la sezione di controllo lombarda, nell’e-sercizio del medesimo potere ex art. 148-bis, ha or-dinato all’ente locale di rimuovere le irregolarità (nonché di trasmettere una nuova certificazione al Mef, come previsto dal c. 29 dell’art. 31, a rettifica della precedente, avente ad oggetto l’esatta quantifi-cazione dello scostamento dall’obiettivo del patto di stabilità interno).

Tale profilo dell’accertamento si colloca in una prospettiva evidentemente più ampia rispetto all’e-quilibrio economico-finanziario del bilancio dal momento che le regole del patto di stabilità interno (rimodulato reiteratamente: v., in tempi più recen-ti, artt. 77-bis d.l. n. 112/2008 convertito dalla l. n. 133/2008, 1, cc. 87 ss., l. n. 220/2010, 20 del d.l. n. 98/2011, convertito dalla l. n. 111/2011, 31 l. n. 183/2011) sono funzionalizzate al conseguimento degli obiettivi assegnati agli enti locali in vista di quelli generali di finanza pubblica assunti dall’Italia nei confronti dell’Unione europea, che hanno assun-to valenza costituzionale con l’art. 119 Cost., c. 1, come novellato dalla l. cost. n. 1/2012.

Un altro profilo d’illegittimità della deliberazio-ne impugnata è individuato dal comune ricorrente nell’inapplicabilità ratione temporis, al rendicon-to 2011, del più volte citato art. 148-bis d.lgs. n. 267/2000 in quanto disposizione che è stata inserita nel vigente testo unico dell’ordinamento degli enti locali dall’art. 3, c. 1, lett. e), d.l. n. 174/2012, con-vertito dalla l. n. 213/2012, dunque in vigore dall’8 dicembre 2012.

Inoltre, con riferimento alle sanzioni personali introdotte dal citato art. 31, c. 31, l. n. 183/2011, il comune ricorrente sostiene che trattasi di una norma-tiva, che, essendo entrata in vigore l’1 gennaio 2012, non può trovare applicazione con riferimento al ren-diconto 2011.

Orbene, quanto al primo profilo, il potere di con-trollo attribuito alle sezioni regionali di controllo di questa Corte dei conti dal predetto art. 148-bis si esercita sui bilanci e consuntivi, “ai sensi dell’art. 1, cc. 166 ss., l. 23 dicembre 2005, n. 266”, dunque sul-la base di una fonte giuridica legittimante previgente di molto al 2012 e rispetto alla quale è stato oggetto di un mero “rafforzamento”, come si evince dal teno-re letterale della disposizione.

Invero, contestualmente all’abrogazione dell’art.

1, c. 168, operata dal c. 1-bis dell’art. 3 del succita-to d.l. n. 174/2012, nel testo integrato dalla legge di conversione n. 213/2012 (il quale prevedeva che “Le sezioni regionali di controllo della Corte dei conti, qualora accertino, anche sulla base delle relazioni di cui al c. 166, comportamenti difformi dalla sana gestione finanziaria o il mancato rispetto degli obiet-tivi posti con il patto, adottano specifica pronuncia e vigilano sull’adozione da parte dell’ente locale delle necessarie misure correttive e sul rispetto dei vincoli e limitazioni posti in caso di mancato rispetto delle regole del patto di stabilità interno”) è stato intro-dotto, con lo stesso d.l. n. 174/2011, il più volte ri-chiamato art. 148-bis, di talché il potere di controllo de quo si è venuto ad esercitare senza soluzione, sul piano giuridico, di continuità.

Pertanto, alla data di chiusura dell’esercizio 2011, era già operante la normativa che intesta alla Sezione regionale di controllo il potere di accertare la violazione degli equilibri di bilancio e dell’obietti-vo del patto di stabilità, essendo stata soltanto intro-dotta una specifica sanzione derivante dalla mancata adozione delle misure correttive ovvero dall’esito negativo sulle stesse (preclusione dell’attuazione programmi di spesa).

Quanto al secondo profilo, le sanzioni personali per l’elusione del patto di stabilità, ex art. 31 cit., c. 31, l. n. 183/2011 (peraltro già in precedenza disci-plinate dall’art. 20, c. 12, d.l. n. 98/2011, convertito dalla l. n. 111/2011), sono l’effetto dell’accertamen-to di una fattispecie di responsabilità amministrativa per condotta antielusiva attribuita alla Sezione giu-risdizionale regionale, come peraltro ampiamento precisato nella deliberazione stessa, per cui ogni eventuale questione in ordine a detta pretesa irre-troattività potrebbe essere esaminata soltanto in tale sede.

Senonché, sia pure nella parte motivazionale e non propriamente dispositiva, la sezione regionale di controllo ha anche ordinato al comune di auto-ap-plicare nell’esercizio 2014 le sanzioni/limitazioni amministrative derivanti dalla violazione del patto di stabilità interno, ai sensi del medesimo art. 31, c. 26, l. n. 183/2011.

Queste sanzioni (riduzione del fondo sperimen-tale di riequilibrio o del fondo perequativo in misura pari alla differenza tra il risultato registrato e l’obiet-tivo programmatico rideterminato, limite agli impe-gni per spese correnti in misura superiore all’importo annuale medio dei corrispondenti impegni effettuati nell’ultimo triennio, divieto di ricorso all’indebita-mento per finanziare gli investimenti, divieto di pro-

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cedere ad assunzioni di personale, riduzione delle indennità di funzione e dei gettoni di presenza) ope-rano in termini oggettivi ed indifferenziati, ovvero senza alcuna graduazione, in relazione alla gravità o alla causa della violazione, incidendo in termini restrittivi sull’azione amministrativa e sulle relative fonti di finanziamento.

Orbene secondo la pacifica giurisprudenza della Cassazione, in tema di sanzioni amministrative ex l. n. 689/1981, queste “comportano l’assoggettamento della condotta illecita alla legge del tempo del suo verificarsi” (ex multis, Sez. VI, ord. n. 29411/2011; Sez. II, sent. n. 1789/2008).

Quindi in parte qua la doglianza è fondata e la di-sposizione sanzionatoria – eventualmente operante – in caso di confermata violazione del patto di stabilità – con riferimento alla specifica fattispecie, è quella contenuta nella previgente disposizione in materia recata dal precitato art. 7, c. 2, d.lgs. n. 149/2011, an-cora in vigore alla data del 31 dicembre 2011 (peral-tro, va osservato, dal contenuto identico al predetto c. 26 dell’art. 31 della l. n. 183/2011).

Passando al merito dell’odierno ricorso, innan-zitutto, al fine di delineare con precisione l’ambito di cognizione di questo collegio, va richiamata la pacifica giurisprudenza formatasi presso queste Se-zioni riunite in speciale composizione nell’ambito di giudizi promossi avverso l’approvazione o il diniego dei piani di riequilibrio ex art. 243-quater – estensi-bili senz’altro anche all’odierno ricorso – ovvero che trattasi di giudizio che “non costituisce un giudizio di appello avverso una decisione della sezione regio-nale di controllo, ma rappresenta un giudizio in uni-co grado, nell’ambito della giurisdizione esclusiva attribuita a questa Corte, con il quale si effettua una seconda valutazione, del tutto peculiare, delle deli-berazioni delle sezioni regionali di controllo nelle materie in questione” (sent. n. 6/2013/el; n. 3/2014/el; n. 14/2014/el; n. 26/2014/el).

Inoltre, è stato anche chiarito che in detti giudi-zi le valutazioni che il collegio è chiamato a effet-tuare non sono solo di stretta legittimità e coerenza del percorso argomentativo della deliberazione e la pronuncia “non può prescindere dall’esame nel me-rito dei dati contabili, sia pure nell’ambito dei pro-fili evidenziati nel ricorso i cui motivi peraltro non vincolano strettamente la presente cognitio, come in-vece avviene nei procedimenti di tipo squisitamente impugnatorio” (sentenze parziali n. 11/2014/el e n. 18/2014/el) di talché “i profili affrontati nella delibe-razione della sezione di controllo, oggetto di specifi-che doglianze del ricorrente, possono, alla luce della

normativa vigente e dei dati contabili a disposizione del collegio, essere oggetto di una diversa valutazio-ne, laddove la prima si dimostri fondata su uno o più elementi di fatto o di diritto non condivisibili” (sent. parziale n. 18/2014/el cit.).

34 – Sezioni riunite in sede giurisdizionale (in spe-ciale composizione); sentenza 22 ottobre 2014; Pres. Martucci di Scarfizzi, Est. Miele, Fazio; P.M. Auriemma; Comune di Napoli.

Contabilità regionale e degli enti locali – Comune e provincia – Accesso alla procedura di riequi-librio finanziario pluriennale – Presupposti.

D.lgs. 18 agosto 2000 n. 267, t.u. delle leggi sull’or-dinamento degli enti locali, artt. 173, 194, 243-bis, 244, 246, 247; d.lgs. 6 settembre 2011 n. 149, mec-canismi sanzionatori e premiali relativi a regioni, province e comuni a norma degli artt. 2, 17 e 26 l. 5 maggio 2009 n. 42, art. 6; d.l. 10 ottobre 2012 n. 174, convertito con modificazioni dalla l. 7 dicembre 2012 n. 213 disposizioni urgenti in materia di finanza e funzionamento degli enti territoriali, nonché ulte-riori disposizioni in favore delle zone terremotate nel maggio 2012, art. 3.Contabilità regionale e degli enti locali – Comune

e provincia – Piano di riequilibrio finanziario pluriennale – Sezioni regionali della Corte dei conti – Verifica della congruenza del piano ri-spetto all’obiettivo del riequilibrio – Criteri.

D.lgs. 18 agosto 2000 n. 267, art. 243-quarter; d.l. 10 ottobre 2012 n. 174, convertito con modificazioni dalla l. 7 dicembre 2012 n. 213, art. 3.Processo contabile – Comune e provincia – Piano

di riequilibrio finanziario pluriennale – Corte dei conti – Deliberazione della sezione regio-nale di controllo – Impugnazione – Sezioni ri-unite in sede giurisdizionale – Poteri istruttori – Limiti.

R.d. 13 agosto 1933 n. 1038, regolamento di proce-dura per i giudizi innanzi alla Corte dei conti, artt. 14, 15, 58; d.lgs. 18 agosto 2000 n. 267, art. 243-quar-ter; d.l. 10 ottobre 2012 n. 174, convertito con modi-ficazioni dalla l. 7 dicembre 2012 n. 213, art. 3.Processo contabile – Comune e provincia – Piano

di riequilibrio finanziario pluriennale – Corte dei conti – Deliberazione della sezione regiona-le di controllo – Impugnazione – Sezioni riuni-te in sede giurisdizionale – Giudizio in unico grado – Applicazione delle regole processuali in materia di giudizio d’appello – Esclusione.

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D.lgs. 18 agosto 2000 n. 267, art. 243-quarter; d.l. 10 ottobre 2012 n. 174, convertito con modificazioni dalla l. 7 dicembre 2012 n. 213, art. 3.Contabilità regionale e degli enti locali – Comune

e provincia – Piano di riequilibrio finanziario pluriennale – Esecuzione – Scostamenti rispet-to al piano – Rilevanza – Limiti.

D.lgs. 18 agosto 2000 n. 267, art. 243-quarter; d.l. 10 ottobre 2012 n. 174, convertito con modificazioni dalla l. 7 dicembre 2012 n. 213, art. 3.Contabilità regionale e degli enti locali – Comune

e provincia – Piano di riequilibrio finanziario pluriennale – Sezione di controllo della Corte dei conti – Accertamento del mancato rispetto degli obiettivi intermedi del piano – Obbligo del prefetto di assegnare all’ente un termine per la dichiarazione del dissesto.

D.lgs. 18 agosto 2000 n. 267, art. 243-quarter, 244; d.l. 10 ottobre 2012 n. 174, convertito con modifica-zioni dalla l. 7 dicembre 2012 n. 213, art. 3.Contabilità regionale e degli enti locali – Comune

e provincia – Piano di riequilibrio finanziario pluriennale – Risultati di bilancio successivi alla pronuncia negativa della sezione regiona-le di controllo – Rilevanza nel giudizio dinanzi alle Sezioni riunite – Condizioni.

D.lgs. 18 agosto 2000 n. 267, art. 243-quarter; d.l. 10 ottobre 2012 n. 174, convertito con modificazioni dalla l. 7 dicembre 2012 n. 213, art. 3.Contabilità regionale e degli enti locali – Comune

e provincia – Piano di riequilibrio finanziario pluriennale – Riaccertamento straordinario dei residui attivi – Necessità.

D.lgs. 18 agosto 2000 n. 267, artt. 228, 243-bis; d.l. 10 ottobre 2012 n. 174, convertito con modificazioni dalla l. 7 dicembre 2012 n. 213, art. 3.Contabilità regionale e degli enti locali – Comune

e provincia – Piano di riequilibrio finanziario pluriennale – Residui attivi – Valutazione di attendibilità da parte della Corte dei conti – Prove presuntive – Ammissibilità.

C.c., art. 2729; d.lgs. 18 agosto 2000 n. 267, art. 243-bis; d.l. 10 ottobre 2012 n. 174, convertito con modi-ficazioni dalla l. 7 dicembre 2012 n. 213, art. 3.Contabilità regionale e degli enti locali – Comune

e provincia – Piano di riequilibrio finanziario pluriennale – Anticipazioni di liquidità – Im-pegni di spesa per il pagamento delle quote di rimborso delle anticipazioni – Contabiliz-zazione quale spesa corrente – Elusione del divieto di indebitamento per spese correnti – Sussistenza.

Cost., art. 119, u.c.; d.lgs. 18 agosto 2000 n. 267, art. 243-ter; l. 24 dicembre 2003 n. 350, disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale del-lo Stato (legge finanziaria 2004), art. 3, c. 17; d.l. 10 ottobre 2012 n. 174, convertito con modificazioni dalla l. 7 dicembre 2012 n. 213, art. 3; d.l. 8 aprile 2013 n. 35, convertito con modificazioni dalla l. 6 giugno 2013 n. 64, disposizioni urgenti per il paga-mento dei debiti scaduti della pubblica amministra-zione, per il riequilibrio finanziario degli enti territo-riali, nonché in materia di versamento di tributi degli enti locali, art. 1.Contabilità regionale e degli enti locali – Comune

e provincia – Piano di riequilibrio finanzia-rio pluriennale – Obbligo di copertura dello squilibrio principalmente nella prima fase di attuazione del piano – Sussistenza.

Cost., art. 2; d.lgs. 18 agosto 2000 n. 267, art. 243-bis; d.l. 10 ottobre 2012 n. 174, convertito con modi-ficazioni dalla l. 7 dicembre 2012 n. 213, art. 3.Contabilità regionale e degli enti locali – Comune

e provincia – Piano di riequilibrio finanziario pluriennale – Specificazione degli immobili da alienare – Esclusione.

D.lgs. 18 agosto 2000 n. 267, art. 243-bis, d.l. 10 ot-tobre 2012 n. 174, convertito con modificazioni dalla l. 7 dicembre 2012 n. 213, art. 3.

L’accesso degli enti locali alla procedura di ri-equilibrio pluriennale del bilancio ha come presup-posto la sussistenza di squilibri strutturali in grado di provocare il dissesto finanziario e tale condizione coincide con i presupposti indicati dall’art. 244 Tuel per delineare lo stato di dissesto, con la differenza che le risorse destinate alla copertura dello squili-brio sono reperibili nell’arco di un decennio e che la pianificazione dell’estinzione dei debiti avviene sulla base di risorse finanziarie specificamente poste dal legislatore a disposizione dell’ente.

Il piano di riequilibrio pluriennale del bilancio di un ente locale è incongruente se si prefigge un obiettivo inferiore rispetto a quello necessario per conseguire il riequilibrio (incongruenza dell’obiet-tivo), o se le previsioni di entrata e di spesa in esso contenute non consentono il raggiungimento dell’o-biettivo (incongruenza dei mezzi).

Nel giudizio che si svolge, con le forme del giu-dizio a istanza di parte, innanzi alle Sezioni riunite della Corte dei conti sull’impugnazione del piano di riequilibrio di un bilancio comunale, è ammissibi-le l’esercizio del potere istruttorio, finalizzato non già alla ripetizione dell’attività di controllo, che è di competenza esclusiva della sezione regionale,

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bensì all’acquisizione di elementi essenziali o utili alle valutazioni che le Sezioni riunite sono chiamate ad effettuare circa la correttezza, la razionalità e la logicità delle argomentazioni poste a base della pro-nuncia con la quale la sezione di controllo ha negato l’approvazione del piano.

Il giudizio di impugnazione, davanti alle Sezioni riunite della Corte dei conti, della deliberazione con la quale la sezione regionale di controllo della stessa Corte abbia negato l’approvazione del piano di rie-quilibrio pluriennale del bilancio di un ente locale non si configura come un giudizio di appello contro la pronuncia della sezione di controllo, ma come un giudizio in unico grado di merito avverso tale pro-nuncia, la quale non costituisce espressione né di po-tere amministrativo, né di potere giurisdizionale, ma del distinto potere di controllo spettante alla Corte dei conti; in tali giudizi non trovano, pertanto, appli-cazione le regole processuali che delimitano l’ogget-to del giudizio di appello in tema di effetti devolutivi e di divieto di domande nuove in appello.

Qualora l’attuazione del piano di riequilibrio pluriennale del bilancio di un ente locale non sia pienamente conforme alle previsioni, il legislatore non impone la correzione del piano, tollerando non solo scostamenti di lieve entità, ma anche scosta-menti gravi che non evidenzino, tuttavia, una tenden-za negativa, ma siano meramente congiunturali (in motivazione, si precisa, che esiste, nella legislazione vigente, un vero e proprio principio di intangibili-tà del piano, seppure sia stato nel tempo affievolito dall’introduzione di specifiche eccezioni, tese, per lo più, a consentire la “riapertura” della pianificazio-ne, in ipotesi specifiche, prima del pronunciamento della sezione di controllo della Corte dei conti, e an-che dopo tale pronunciamento, benché negativo, in presenza di miglioramenti dei risultati di bilancio).

Ove la sezione regionale della Corte dei conti ac-certi, in sede di monitoraggio semestrale dell’attua-zione del piano di riequilibrio pluriennale del bilan-cio di un ente locale, il “grave e reiterato mancato rispetto degli obiettivi intermedi fissati dal piano” e, cioè, il peggioramento delle condizioni finanziarie dell’ente, il prefetto deve assegnare all’ente – appli-cando la disciplina del c.d. “dissesto guidato” – un termine non superiore a venti giorni per la dichiara-zione di dissesto.

Il fluire del tempo condiziona l’oggetto della valutazione che le Sezioni riunite sono chiamate a compiere in ordine alla congruità del piano di rie-quilibrio pluriennale del bilancio di un ente locale, dal momento che l’evolversi degli eventi influisce continuamente e incessantemente sugli equilibri di

bilancio dell’ente; le Sezioni riunite debbono, per-tanto, tener conto anche di fatti nuovi attestanti una diversa situazione finanziaria e contabile dell’ente, di un più virtuoso percorso di risanamento eventual-mente già adottato o in fase di adozione nell’ambito delle misure di risanamento programmate, nonché di migliorate ed effettive prospettive di recupero della stabilità finanziaria dell’ente.

L’operazione di riaccertamento straordinario dei residui attivi, propedeutica alla predisposizione del piano di riequilibrio pluriennale del bilancio di un ente locale, differisce da quella ordinaria solo in quanto può avvenire in qualsiasi periodo dell’anno, ma, come quella ordinaria, va condotta su ciascuna partita creditizia e debitoria.

Le sezioni regionali di controllo possono fare applicazione dell’art. 2729 c.c. e stabilire l’atten-dibilità delle previsioni di bilancio attraverso prove presuntive anche sulla base di procedimenti statisti-ci, l’adeguatezza dei quali può essere valutata dalle Sezioni riunite in termini di idoneità alla corretta rappresentazione dei fenomeni rilevati.

Le movimentazioni finanziarie in entrata e in uscita delle anticipazioni di liquidità concesse all’en-te locale che abbia presentato un piano di riequili-brio pluriennale del proprio bilancio devono trovare evidenziazione nelle tabelle dei flussi di cassa e non anche in quelle del bilancio di competenza (se non per memoria), trattandosi di entrate non destinate a finanziare nuove spese; inoltre, le anticipazioni ottenute debbono dar luogo all’apposizione di un vincolo sul risultato di amministrazione di pari im-porto, da decurtare ogni anno per la quota restitui-ta nell’esercizio, mentre la previsione, per ciascuno degli esercizi del piano, di stanziamenti di spesa in conto competenza per il rimborso delle anticipazioni costituisce un’elusione del divieto di indebitamento per spese non di investimento.

Il ripiano dello squilibrio di bilancio di un ente locale deve avvenire nella fase iniziale della pro-cedura di riequilibrio a) per ragioni di opportu-nità connesse all’esigenza che gli amministratori dell’ente coincidano con quelli cui compete l’attua-zione del piano; b) per il rispetto di un principio di equità intergenerazionale, corollario del principio di solidarietà di cui all’art. 2 Cost., in virtù del quale l’onere finanziario deve essere prossimo alle gene-razioni che beneficiano delle politiche di spesa (il disavanzo di amministrazione essendo determinato da trascorse politiche di spesa prive di copertura); c) per la necessità di ridurre la sofferenza della si-tuazione di cassa dell’ente.

L’ente locale, nel predisporre il piano di riequili-

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brio pluriennale del proprio bilancio, non è tenuto a specificare gli immobili da destinare alla vendita, ma a indicare quelli che possano esserlo; posto, infatti, che la funzione del piano è quella non già di por-re vincoli di spesa o di entrata, ma di dimostrare la capacità dell’ente di conseguire il risanamento con le risorse disponibili, ciò che rileva è la capacità dell’ente di raggiungere, anche attraverso la vendita dei beni disponibili, l’obiettivo di ripristinare l’equi-librio strutturale del bilancio.

Diritto – 1. Queste Sezioni riunite in speciale composizione sono chiamate a giudicare in ordine al ricorso proposto, ai sensi dell’art. 243-quater, c. 5, d.lgs. 18 agosto 2000, n. 267, introdotto dall’art. 3, c. 1, lett. r), d.l. 10 ottobre 2012, n. 174, convertito con modificazioni dalla l. 7 dicembre 2012, n. 213, con atto ritualmente depositato nella segreteria delle Sezioni riunite in data 21 marzo 2014 dal Comune di Napoli, in persona del sindaco pro tempore, contro il Ministero dell’interno e contro la prefettura-Ufficio territoriale del governo di Napoli, avverso e per l’an-nullamento della delibera della Sezione regionale di controllo della Corte dei conti per la Campania 19 febbraio 2014, n. 12 con la quale la stessa Sezione regionale di controllo ha deliberato di non approva-re il piano di riequilibrio finanziario pluriennale del Comune di Napoli, “valutandone la non congruenza ai fini del riequilibrio”.

2. In via preliminare ci si soffermerà su tre con-cetti centrali, che formano il substrato dell’odierna decisione: la collocazione della procedura di riequi-librio finanziario pluriennale nel quadro della conta-bilità degli enti locali, il concetto di congruenza og-getto della valutazione di tutti gli organi di controllo interessati dalla procedura, nonché l’ampiezza del potere cognitivo e, di riflesso, istruttorio della Corte dei conti in sede giurisdizionale.

2.1. La procedura di riequilibrio costituisce una procedura del tutto eccezionale e straordinaria, in-trodotta dal legislatore al fine di supportare i bilanci degli enti locali in una contingenza dovuta alle dif-ficoltà del ciclo economico avverso, che ha portato, essenzialmente, a un forte calo dei trasferimenti e delle entrate proprie, nonché all’incremento dell’e-vasione da accertamento e da riscossione.

L’eccezionalità deriva dal fatto che già nell’or-dinamento degli enti locali è prevista una procedura di riequilibrio, quella di salvaguardia degli equilibri di bilancio di cui all’art. 193 del d.lgs. n. 267/2000 (confermata dall’art. 9, c. 2, l. 24 dicembre 2012, n. 243), a cui l’ente può e deve ricorrere in via ordinaria.

La procedura “straordinaria” di riequilibrio fi-nanziario pluriennale differisce da quella “ordina-ria” non solo per la durata massima del periodo di riequilibrio, dieci anni (243-bis, c. 5, Tuel), anziché tre (art. 193, c. 3, Tuel), ma anche perché nel riequi-librio triennale la pianificazione, espressa nella deli-berazione di salvaguardia degli equilibri di bilancio, si riflette in maniera contestuale sui documenti di bilancio con la variazione dei bilanci di previsione annuale e pluriennale.

La manovra di riequilibrio “ordinaria”, i cui oriz-zonti temporali coincidono con quelli del bilancio pluriennale, non richiede controlli esterni, in quanto, nelle valutazioni del legislatore, le risorse destinate alla copertura del disavanzo sono caratterizzate teori-camente da un maggior grado di probabilità di realiz-zazione (anche perché solitamente relative ad esercizi ricadenti negli anni di un unico mandato elettorale e quindi meno esposte ad un rinvio delle esigenze di copertura a scopo esclusivamente dilatorio) e devono essere oggetto di una previsione di bilancio a caratte-re autorizzatorio, stante quanto previsto, in relazione al pluriennale, dall’art. 171, c. 4, Tuel.

La procedura di riequilibrio finanziario plurien-nale, dunque, abbracciando un arco temporale più vasto, comprensivo di più consiliature, richiede, a tutela degli equilibri finanziari futuri, maggiori limi-tazioni, maggiore intensità dei controlli nella fase di pianificazione e in quella attuativa e maggior rigore nel rispetto delle prescrizioni imposte dalla norma o dal piano, la cui violazione (nei casi di cui all’art. 243-quater, c. 7) comporta l’obbligatorietà della di-chiarazione di dissesto finanziario, persino se la pre-scrizione violata rivesta mero carattere procedurale.

Il Comune ricorrente ritiene che le affermazio-ni contenute nella deliberazione gravata in merito all’assenza di alternatività tra dissesto e procedura di riequilibrio siano contrastanti con quanto affermato dalla Sezione delle autonomie (cfr. delib. n. 16/2012, n. 1/2013 e n. 22/2013) e dalla Sezione regionale di controllo per la Calabria (cfr. delib. n. 11/2014), ri-guardanti, appunto, i rapporti tra dissesto guidato e procedura di riequilibrio, e con la ratio della norma che intende ovviare al dissesto.

La questione va affrontata e risolta in base alla lettura della disposizione di cui all’art. 243-bis, c. 1, Tuel.

L’impossibilità di riequilibrare il bilancio dell’en-te attraverso la procedura ordinaria, che, prima della vigenza del d.l. n. 174/2012, avrebbe obbligato l’en-te alla dichiarazione di dissesto finanziario, è il lo-gico ed implicito presupposto per il ricorso a quella straordinaria.

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In tal senso il legislatore ha inteso agevolare l’e-mersione di disavanzi occulti, offrendo agli ammini-stratori una vera e propria alternativa alla dichiara-zione di dissesto finanziario.

L’alternativa è effettivamente favorevole per taluni effetti, in quanto con la procedura di riequi-librio straordinaria, l’amministrazione, che nella previgente disciplina avrebbe dichiarato il dissesto, può, invece, gestire anche quella parte del bilancio che sarebbe stata oggetto della gestione liquidato-ria dell’organo straordinario di liquidazione; si po-tenziano le capacità solutorie grazie al ricorso alle anticipazioni a valere sul fondo di rotazione di cui all’art. 243-ter del Tuel, nonché alla possibilità di utilizzare per cassa le entrate a specifica destinazione (preclusa ai sensi dell’art. 195, c. 1, Tuel agli enti in dissesto fino all’emanazione del decreto ministeriale di approvazione dell’ipotesi di bilancio stabilmente riequilibrato) e al prolungamento del periodo di rie-quilibrio, evitando il default tecnico con il rischio di pagamento parziale della massa debitoria, di effetti negativi sull’immagine politica, sul merito di credi-to dell’ente locale, mentre gli effetti sull’economia locale sono meno dirompenti dell’evento dissesto e si potenziano i controlli esterni del Ministero dell’in-terno e della Corte dei conti.

Sono meno favorevoli taluni altri effetti, se si considera che, nonostante la coincidenza dei pre-supposti, per tutta la durata del piano la possibilità di ricorrere all’indebitamento è per lo più preclusa in caso di accesso al fondo di rotazione (salvo che per le spese di investimento connesse ai debiti fuori bilancio pregressi – art. 243-bis, cc. 8, lett g), e 9, lett. d), – e per quelle relative a progetti e interventi che garantiscano l’ottenimento di risparmi di gestio-ne funzionali al raggiungimento degli obiettivi fissati nel piano di riequilibrio finanziario pluriennale – art. 243-bis, c. 9-bis); inoltre, permane l’obbligo di man-tenere, nella misura massima consentita, le aliquote e le tariffe (art. 243-bis, c. 8, lett. g).

L’art. 243-bis, c. 1, richiede, quali condizioni concomitanti del ricorso alla procedura di riequili-brio, la sussistenza di “squilibri strutturali in grado di provocare il dissesto finanziario” e l’insufficien-za delle misure di cui agli artt. 193 (deliberazione di salvaguardia degli equilibri di bilancio) e 194 Tuel, per il superamento delle condizioni di squilibrio ri-levate.

La norma, a ben vedere, indica una condizione ben definita per il ricorso alla procedura, che è quella legata all’accertamento della strutturalità degli squi-libri di bilancio, “qualificata” dall’impossibilità di operare la salvaguardia degli equilibri di bilancio:

tale condizione coincide con quelle indicate dall’art. 244 Tuel per delineare lo stato di dissesto finanziario.

La norma, con tutta evidenza, con l’utilizzo dell’espressione “squilibrio strutturale”, ha intenso coordinare la procedura con quella del c.d. “dissesto guidato” di cui all’art. 6, c. 2, d.lgs. n. 149/2011.

Lo squilibrio strutturale, in entrambe le procedu-re (di riequilibrio finanziario pluriennale e di dissesto guidato), è una delle condizioni, necessaria ma non sufficiente, per l’adozione del provvedimento finale del dissesto guidato ed iniziale del ricorso alla proce-dura di riequilibrio finanziario, in quanto:

a) nella procedura di dissesto guidato, esso è cau-sativo del dissesto finanziario solo se assuma pro-porzioni tali da rendere impossibile la copertura fi-nanziaria attraverso il ricorso alla salvaguardia degli equilibri di bilancio. In tal caso l’accertamento dello squilibrio strutturale, per così dire, “qualificato” av-viene nella cosiddetta terza fase della procedura di dissesto guidato (successiva alla prima, di richiesta delle misure correttive, e alla seconda, di verifica dell’inadempimento all’obbligo di adozione di dette misure correttive);

b) nella procedura ex art. 243-bis Tuel, lo “squi-librio strutturale” è condizione necessaria ma non sufficiente per il ricorso alla procedura di riequili-brio, essendo necessaria, altresì, l’insufficienza del-le misure di cui agli artt. 193 e 194 al superamento delle condizioni di squilibrio rilevate. Tale condizio-ne, anche in questo caso, coincide con la definizione normativa di dissesto finanziario.

In entrambi i casi, pertanto, lo squilibrio strut-turale deve avere una dimensione quantitativa tale da provocare il dissesto finanziario, solo che in un caso è il presupposto perché il prefetto imponga la dichiarazione di dissesto finanziario, nell’altro è il presupposto perché l’ente ricorra alla procedura di riequilibrio.

Tale orientamento è confermato dall’evoluzione normativa recente.

La disposizione dell’art. 3, c. 3, lett. a), d.l. 6 marzo 2014, n. 16, come modificata dalla legge di conversione 2 maggio 2014, n. 68, nello spostare in avanti il limite temporale per il ricorso alla proce-dura di riequilibrio in pendenza di quella di dissesto guidato, cioè dalla prima deliberazione con la quale si avvia la procedura di dissesto guidato (quella di assegnazione del termine per l’adozione delle misure correttive) alla scadenza del termine di venti gior-ni assegnato dal prefetto per la deliberazione dello stato di dissesto (dopo la terza deliberazione con la quale si accerta lo stato di dissesto finanziario), ha confermato che la sussistenza delle condizioni per la

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dichiarazione dello stato di dissesto finanziario non preclude il ricorso alla procedura di riequilibrio, ben-sì ne è il presupposto necessario.

D’altronde, ciò corrisponde alla filosofia del si-stema di garanzia degli equilibri di bilancio, per cui non si ha stato di dissesto finanziario se è ancora pos-sibile fornire copertura allo squilibrio applicando le regole ordinarie sancite dagli artt. 193 e 194 Tuel.

L’eventuale inerzia nell’adozione della delibera di salvaguardia degli equilibri non provoca lo stato di dissesto, ma è equiparata dall’art. 193, c. 4, Tuel alla mancata approvazione del bilancio di previsio-ne di cui all’art. 141, con nomina del commissario prefettizio ed eventuale scioglimento del consiglio comunale, secondo la procedura dettata dal c. 2 di quell’articolo e, dopo la riforma del titolo V, secon-do le specifiche dettate dall’art. 1, cc. 2 e 3, d.l. 22 febbraio 2002, n. 13, convertito con modificazioni dalla l. 24 aprile 2002, n. 75 (la cui efficacia è stata prorogata di anno in anno da varie norme e, per il 2014, dall’art. 3, c. 1, d.l. 31 dicembre 2013, n. 150, convertito dalla l. 27 febbraio 2014, n. 15).

Ciò posto, l’affermazione effettuata dalla Sezio-ne regionale di controllo circa la sussistenza dello stato di dissesto finanziario (secondo le regole che consentono il riequilibrio nel termine massimo trien-nale) al momento dell’adozione della procedura di riequilibrio si risolve nell’accertamento della sussi-stenza del presupposto del ricorso alla procedura di riequilibrio, difettando il quale l’ente avrebbe dovuto adottare le procedure ordinarie di salvaguardia.

Pertanto, occorre affermare, in linea di massima, l’esistenza di un principio di alternatività tra la di-chiarazione di dissesto finanziario ed il ricorso alla procedura di riequilibrio. L’opzione del ricorso alla procedura deve essere portata all’attenzione del con-siglio comunale contestualmente all’opzione della dichiarazione di dissesto finanziario.

L’aspetto essenziale, inoltre, è che le regole del riequilibrio e, conseguentemente, gli elementi iden-tificativi dello stato di dissesto, ma solo per la con-dizione dell’incapacità funzionale (cioè dell’impos-sibilità di garantire l’assolvimento delle funzioni e dei servizi indispensabili derivante implicitamente dall’incapacità di reperire la copertura finanziaria di competenza), mutano con il ricorso alla procedura ex art. 243-bis Tuel, in quanto le risorse destinate alla copertura dello squilibrio (di competenza) sono re-peribili nell’arco massimo del decennio.

Diverso appare, invece, il trattamento riservato dal legislatore alla massa debitoria, cioè allo squi-librio di cassa, in quanto l’architettura della proce-dura non altera la regola fondamentale dell’art. 244

che riconosce l’insolvenza, una delle due condizioni alternative dello stato di dissesto finanziario, nell’e-sistenza nei confronti dell’ente locale di crediti certi liquidi ed esigibili cui non si possa fare validamente fronte con le modalità di cui all’art. 193 (per i debi-ti di bilancio), nonché con le modalità di cui all’art. 194 (per i debiti fuori bilancio).

Come chiarito dalla delib. 26 gennaio 2012, n. 2, la situazione di mera illiquidità assume carattere strutturale, ai fini dello stato di dissesto, nella pro-spettiva triennale e tale rimane nella procedura di riequilibrio.

D’altronde, in questo senso va l’approntamento da parte del legislatore dei seguenti appositi stru-menti tesi ad un immediato apporto di liquidità o alla rateizzazione del pagamento nel quadro della proce-dura:

- l’anticipazione di liquidità a valere sul “fondo di rotazione per assicurare la stabilità finanziaria de-gli enti locali” ai sensi dell’art. 243-ter Tuel (entro l’importo massimo di 300 euro per abitante per i co-muni);

- la possibilità di rateizzare nel periodo di riequi-librio i “soli” debiti fuori bilancio o, se riferibili a spese di investimento, di finanziarli con mutui in de-roga ai limiti di cui all’art. 204, c. 1, Tuel;

- la possibilità di ricorrere all’anticipazione di li-quidità ex art. 1, c. 13, d.l. n. 35/2013, con obbligo di modifica del piano ai sensi del successivo c. 15.

Senza tali apporti di liquidità, il ricorso alla pro-cedura di riequilibrio si rivelerebbe un inutile appe-santimento procedurale, fortemente esposto all’elu-sione dell’obbligo di dichiarare il dissesto finanzia-rio, che non risolverebbe in buona sostanza l’effetto concreto dello squilibrio strutturale, ovverosia la ca-renza di liquidità e il mancato soddisfacimento delle pretese dei creditori dell’ente.

Perciò, la pianificazione dell’estinzione del-la massa debitoria e del riequilibrio della cassa nel triennio in base alle risorse messe a disposizione a seguito del ricorso alla procedura appare un requisito del piano di riequilibrio, sulla congruenza del quale occorre l’espressione di un giudizio da parte della “filiera” del controllo interessata dalla procedura (or-gano di revisione economico-finanziaria, commis-sione, sezione regionale di controllo).

2.2. La sezione regionale di controllo esprime il proprio giudizio sul piano di riequilibrio finanziario in termini di “congruenza ai fini del riequilibrio”.

L’espressione, contenuta nell’art. 243-quater, c. 3, Tuel, richiama un concetto metagiuridico che ne-cessita l’ancoraggio a parametri di valutazione.

La congruenza esprime la qualità di una relazio-

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ne tra due elementi in termini non di perfetta ugua-glianza, né, all’opposto, di similitudine o similarità.

La congruenza è l’espressione, usata in geome-tria (due figure si dicono congruenti quando si può portare, senza deformazione una di esse a coincidere con l’altra) e in matematica (nella teoria dei numeri è una relazione di equivalenza tra due numeri), ine-rente la relazione tra due elementi o tra due numeri in termini, rispettivamente, di coincidenza o equiva-lenza.

L’utilizzo di tale termine con riferimento all’ar-gomento che qui interessa necessita di una precisa-zione.

Infatti, i principi contabili degli enti locali anno-verano tra i postulati del sistema di bilancio il sinoni-mo principio della congruità che “consiste nella ve-rifica dell’adeguatezza dei mezzi rispetto ai fini sta-biliti” e che, con riferimento alle entrate e alle spese, va valutata “in relazione agli obiettivi programmati, agli andamenti storici ed al riflesso nel periodo degli impegni pluriennali” (Osservatorio per la finanza e la contabilità degli enti locali del Ministero dell’interno “Finalità e postulati dei principi contabili degli enti locali” del 12 marzo 2008 – Post. n. 61-62).

Il giudizio di congruenza, pertanto, non implica un giudizio di perfetta sovrapponibilità tra le stime dell’ente e dell’organo di controllo, ma di equivalen-za rispetto all’obiettivo da conseguire.

Difatti, la relazione tra obiettivo e risultato del-la pianificazione è tra un elemento già esistente e certo (o che tale dovrebbe essere) dato dall’entità dello squilibrio da ripianare e una serie di elementi non ancora esistenti e sicuramente incerti, dati dalle entrate da accertare e da riscuotere e dalle spese da impegnare e pagare nell’arco di un decennio, il cui risultato algebrico fornisce l’entità della manovra di riequilibrio.

Il piano è incongruente se si prefigge un obiettivo inferiore rispetto a quello necessario per il riequili-brio (incongruenza dell’obiettivo) o se le previsioni di entrata e di spesa in esso contenute, a legislazione vigente, e ritenute attendibili non consentono in ogni caso il raggiungimento dell’obiettivo (incongruenza dei mezzi).

In definitiva, la sezione di controllo esprime il proprio giudizio in termini di veridicità (c.d. prin-cipio della contabilità privatistica del true and fair view secondo la direttiva 78/660/Cee) e attendibilità delle previsioni (parametro normativo anche del bi-lancio di previsione ai sensi dell’art. 162, c. 5, Tuel) e, di conseguenza, di sostenibilità finanziaria del ri-equilibrio in base alle previsioni ritenute veritiere e attendibili.

Il principio di attendibilità è considerato dall’Os-servatorio per la finanza e la contabilità degli enti lo-cali tra i postulati del sistema di bilancio, che consi-derano un’informazione contabile attendibile quella “scevra da errori e distorsioni rilevanti” per cui “tutte le valutazioni devono essere sostenute da accurate analisi degli andamenti storici o, in mancanza, da al-tri idonei ed obiettivi parametri di riferimento, non-ché da fondate aspettative di acquisizione e di utiliz-zo delle risorse”. Inoltre, “l’oggettività degli anda-menti storici e dei suddetti parametri di riferimento, ad integrazione di quelli eventualmente previsti dalle norme, consente di effettuare razionali e significati-ve comparazioni nel tempo e nello spazio e, a parità di altre condizioni, di avvicinarsi alla realtà con un maggior grado di approssimazione” (Post. 53-55).

Pertanto, gli andamenti storici costituiscono uno dei necessari parametri di giudizio dell’attendibilità.

Il giudizio di attendibilità deve ispirarsi a princi-pi di ragionevolezza e proporzionalità, il che implica anche la possibilità di prevedere una percentuale di tolleranza di errore nelle previsioni.

Questo concetto è espresso nel postulato della si-gnificatività e rilevanza (Post. n. 49-52) secondo il quale “errori, semplificazioni e arrotondamenti sono tecnicamente inevitabili e trovano il loro limite nel concetto di rilevanza; essi cioè non devono essere di portata tale da avere un effetto rilevante sui dati del sistema di bilancio e sul loro significato per i desti-natari”.

La possibilità di errore deriva, nel caso che qui occupa, dagli stretti termini di sessanta giorni (art. 243-bis, c. 5, prima della protrazione a novanta gior-ni operata dall’art. 3, c. 3-bis, d.l. 6 marzo 2014, n. 16, convertito dalla l. 2 maggio 2014, n. 68) entro i quali l’ente doveva completare la procedura di ado-zione del piano, dall’estensione temporale decenna-le del piano, dalla vastità delle misure da adottare in relazione alla rilevante entità dello squilibrio da ri-pianare, alla complessità della struttura organizzativa comunale e all’esistenza di numerosi fattori di non piena governabilità (esempio partecipazioni societa-rie comunali).

Parte ricorrente ha anche stigmatizzato come nella deliberazione della Sezione delle autonomie 16 gennaio 2014, n. 1 si sia ravvisata la necessità di valutare se la procedura di dissesto degli enti di gran-di dimensioni possa essere evitata per scongiurare le conseguenze sul piano finanziario e politico.

In effetti il default di enti di grandi dimensioni (Napoli è il terzo comune d’Italia per numero di abi-tanti ed il quinto per densità demografica), oltre le conseguenze sul piano politico – rectius istituzionale

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essendo estranea alla funzione di controllo ogni va-lutazione politica – e finanziario tipiche di un ente in dissesto, può influenzare il merito di credito na-zionale (rating), con effetti negativi, quindi, su altri enti pubblici.

In tal senso, lungi dal costituire una circostanza di ordine giuridico che possa trovare ingresso nel-la valutazione degli esiti dell’attività di controllo e men che meno in quella giurisdizionale, la preserva-zione degli equilibri di siffatti enti locali è interesse pubblico dell’economia nazionale e a questo valore sovrintende per prima l’amministrazione interessata.

2.3. Queste Sezioni riunite si soffermano sull’am-piezza del potere cognitivo e istruttorio.

Sul punto si richiama e si sviluppa quanto già espresso nella sentenza parziale e nell’ordinanza istruttoria.

In particolare, si è ritenuto di poter far uso del po-tere istruttorio, poiché, pur essendo quello innanzi a queste Sezioni riunite in speciale composizione, per espressa previsione normativa (art. 243-quater, c. 5, d.lgs. n. 267/2000, introdotto dall’art. 3, c. 1, lett. r), d.l. n. 174/2012, convertito dalla l. n. 213/2012), un giudizio che si svolge nelle forme dell’istanza di par-te, disciplinato – come innanzi detto – dall’art. 58 del Regolamento di procedura per i giudizi innanzi alla Corte dei conti approvato con il r.d. 13 agosto 1933, n. 1038, deve ritenersi sicuramente ammissibile il potere di queste Sezioni riunite in speciale composi-zione di fare uso del potere istruttorio di cui agli artt. 14 e 15 dello stesso Regolamento di procedura va-levole per tutti i giudizi innanzi alla Corte dei conti.

L’uso del potere istruttorio non è finalizzato alla ripetizione dell’attività di controllo, che è di compe-tenza esclusiva della sezione regionale, ma piuttosto alle valutazioni che il collegio è chiamato a effettua-re, che non sono solo di stretta legittimità e coerenza, bensì anche di correttezza, razionalità e logicità del percorso argomentativo e del corredo motivazionale posto a base della pronuncia di diniego del piano.

Ciò è anche in linea con la sent. n. 1/2007 della Corte costituzionale, la quale ha affermato, sia pure con riferimento al contrasto sottoposto al suo scruti-nio, che il giudizio ad istanza di parte “non è limitato all’esame della mera legittimità del provvedimento impugnato, il quale costituisce pur sempre presup-posto necessario del giudizio stesso” e che “all’esa-me della Corte dei conti viene sottoposto, pertanto, non già semplicemente l’atto finale del procedimento amministrativo, nel suo aspetto formale, perché se ne pronunci l’annullamento, bensì l’intero rapporto che ha formato oggetto della vertenza”.

Difatti, il ricorso può schiudere la necessità, an-

che attraverso un’apposita attività istruttoria, di ri-considerare alcuni aspetti che la sezione regionale di controllo ha insufficientemente affrontato o in re-lazione ai quali è pervenuta ad erronee conclusioni, ma nell’ambito dei soli profili evidenziati nel ricorso stesso che costituiscono i confini della cognitio di queste Sezioni riunite.

Quindi le Sezioni riunite possono riesaminare funditus i dati contabili acquisiti a seguito di istrutto-ria o già a disposizione e valutare la persistenza della validità delle conclusioni cui la sezione regionale di controllo è pervenuta, in ordine sia alla correttezza della quantificazione dei fattori di squilibrio (la con-gruenza dell’obiettivo del piano), che alla congruen-za degli strumenti finanziari previsti per conseguire l’obiettivo (la congruenza delle misure del piano).

A mero titolo esemplificativo, qualora la quanti-ficazione degli effetti di una misura del piano scatu-risca da un procedimento logico o matematico o sta-tistico viziato da un errore materiale o metodologico, il collegio può ritenere la quantificazione infondata, ma anche, sia pure nei limiti dei profili generali del ricorso, valutarne gli effetti sulla congruenza com-plessiva del piano, che costituisce l’oggetto della propria cognizione piena ed esclusiva, così come in-testatagli dalla legge.

Del resto, la composizione “speciale” di queste Sezioni riunite, che attinge anche a professionalità magistratuali maturate nella funzione del controllo, ha la propria ragion d’essere nell’ampiezza dei pote-ri cognitivi che il legislatore ha voluto assegnare al sindacato sulle deliberazioni adottate in ordine alla congruenza dei piani di riequilibrio, anche nell’ottica di una più celere definizione del giudizio sulla situa-zione finanziaria dell’ente locale.

Per tale motivo, peraltro, il legislatore non ha previsto la possibilità di un rinvio alla sezione regio-nale di controllo per una nuova valutazione del pia-no, né in via interpretativa sembra potersi pervenire a una tale soluzione che, peraltro, presupporrebbe una natura di mero scrutinio di legittimità, salve ulterio-ri e future rimeditazioni che non appaiono neanche confacenti all’esito del presente giudizio.

Come già affermato nella precedente sent. 18 marzo 2014, n. 3, il giudizio in questione non è un giudizio di appello, ma in unico grado di merito av-verso una decisione della sezione regionale di con-trollo, che, pur non essendo emanato da un organo amministrativo nell’esercizio di una funzione ammi-nistrativa, non è una pronuncia giurisdizionale per la stessa natura delle funzioni di controllo esercitate. Trattandosi, quindi, di giurisdizione piena ed esclu-siva in unico grado, non trovano ruolo, nei giudizi in

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questione, le regole processuali che delimitano l’og-getto del giudizio di appello in tema di effetti devo-lutivi del gravame e di divieto di “nova” in appello ai sensi dell’art. 345 c.p.c.

Non vi è dubbio che l’oggetto dell’analisi della sezione regionale di controllo è un atto di pianifica-zione la cui efficacia si proietta in un periodo di tem-po di notevole ampiezza e indica un percorso sogget-to inevitabilmente, nelle sue componenti, all’influen-za di innumerevoli fattori endogeni ed esogeni, che imporrebbero, in linea teorica, una continua azione di correzione della pianificazione.

La norma, tuttavia, non impone la correzione del piano qualora le risultanze contabili evidenzino sco-stamenti.

Esiste, invece, un vero e proprio principio di in-tangibilità del piano, seppure nel tempo il legislatore lo abbia affievolito introducendo specifiche eccezio-ni (art. 1, c. 15, d.l. n. 35/2013, convertito dalla l. n. 64/2013; art. 1, c. 573, l. n. 147/2013; art. 49-quin-quies d.l. n. 69/2013, convertito dalla l. n. 98/2013; art. 3, cc. 2 e 3-ter, d.l. n. 16/2014, convertito dalla l. n. 68/2014), tese, per lo più, a consentire la “ri-apertura” della pianificazione prima del pronuncia-mento della sezione solo in ipotesi specifiche e, dopo il pronunciamento, anche se negativo, della sezione di controllo, solo in presenza di miglioramenti dei risultati di bilancio.

Nel caso la sezione regionale accerti, nella sede del monitoraggio semestrale, il “grave e reiterato mancato rispetto degli obiettivi intermedi fissati dal piano”, cioè il peggioramento delle condizioni fi-nanziarie, la norma dell’art. 243-quater, c. 7, Tuel impone che il prefetto applichi l’ultima fase della procedura di dissesto guidato con assegnazione del termine non superiore a venti giorni per la dichiara-zione di dissesto.

Ciò porta a considerare che nella fase attuativa il deteriore scostamento dei risultati di bilancio reali rispetto a quelli pianificati impedisce interventi cor-rettivi e che, per essere causativo del dissesto, deb-ba essere rilevante in termini di durata (almeno un esercizio finanziario ovvero due semestri) ed inten-sità. Peraltro, tale condizione di dissesto si affianca a quella ordinaria dell’art. 244, in quanto eventuali ulteriori quote di disavanzo che dovessero provenire dalle gestioni degli esercizi futuri sarebbero soggette alla regola dell’art. 193, c. 3, d.lgs. n. 267/2000.

La disposizione, in ogni caso, conferma la tolle-ranza del legislatore non solo verso scostamenti dal-la programmazione di lieve entità, ma anche verso quelli gravi che non evidenzino, in realtà, una ten-denza negativa, ma siano meramente congiunturali.

Il trend della gestione, quindi, il cui periodo di osservazione deve essere quanto meno pari ad un esercizio finanziario, va valutato dalla sezione regio-nale di controllo, previa relazione dell’organo di re-visione economico-finanziaria, nell’esercizio di una competenza esclusiva.

Inoltre, è in discussione non solo la conformità a legge, ma anche la potenziale capacità di produrre effetti delle misure inserite in un atto di pianificazio-ne a lungo termine, peraltro, oggetto di cognizione a distanza di un notevole lasso di tempo dalla sua adozione.

Nel caso di specie, la data in cui il piano è stato deliberato è anteriore di quasi quindici mesi (nove mesi nella sua versione aggiornata) rispetto a quel-la di cognizione della vicenda in sede processuale, cioè dopo la scadenza dei primi due semestri di mo-nitoraggio (art. 243-quater, c. 6, Tuel), ovvero di un intero esercizio finanziario, e dopo l’approvazione di due rendiconti (2012 e 2013).

In alcuni precedenti di queste Sezioni riunite, si è affermato che il sindacato giurisdizionale non può prescindere da una “visione dinamica” (Corte conti, Sez. riun., 18 marzo 2014, n. 3, e 17 aprile 2014, n. 11) della situazione contabile dell’ente e delle ef-fettive e aggiornate prospettive di recupero, laddove dette circostanze emergano dagli atti processuali o dallo ius superveniens.

In effetti, è lo stesso concetto di strutturalità dello squilibrio che richiede valutazioni strettamente ine-renti alla situazione attuale.

Difatti, la strutturalità è il connotato che distin-gue l’incapacità funzionale e l’insolvenza (condi-zioni previste dall’art. 244 Tuel per la dichiarazione di dissesto), rispettivamente, dal mero squilibrio di competenza e di cassa, ed è individuabile secondo coordinate non solo quantitative (l’importo effettivo dello squilibrio assume significatività ai fini del dis-sesto in relazione all’importo delle risorse non vinco-late nuove o che si intendono liberare dagli impieghi ricorrenti) e qualitative (le risorse provenienti da pre-stiti o vincolate per legge o destinate agli impieghi connessi allo svolgimento delle funzioni e dei servizi indispensabili non possono essere disimpegnate per fare fronte agli squilibri di competenza, come non si può fare fronte alle esigenze di cassa con disponibi-lità liquide vincolate oltre il limite dell’anticipazione di tesoreria disponibile ai sensi dell’art. 195, c. 3, Tuel), ma anche temporali.

Al fine di salvaguardare gli equilibri di bilancio ed evitare il dissesto, infatti, possono essere utiliz-zate, per l’anno in corso e, ordinariamente (art. 193, c. 3, Tuel), per i successivi due anni o, al massimo,

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nove, in caso di piano di riequilibrio (art. 243-bis, cc. 5 e 6, lett. c, Tuel), tutte le entrate e le disponibilità, ad eccezione di quelle derivanti dai prestiti, di quel-le aventi specifica destinazione per legge e, nel caso della procedura ordinaria di salvaguardia degli equi-libri di bilancio, dei proventi derivanti dall’aliena-zione dei beni patrimoniali, questi ultimi utilizzabili solo per squilibri di parte capitale. Diversamente, in caso di ricorso alla procedura di riequilibrio finanzia-rio e di accesso al fondo di rotazione, l’art. 243-bis, c. 8, lett. g), obbliga l’ente ad impegnarsi ad alienare i beni patrimoniali non indispensabili per i fini isti-tuzionali per l’estinzione dell’intera massa passiva (Corte conti, Sez. autonomie, 20 maggio 2013, n.14).

Il fluire del tempo, quindi, non può non condi-zionare l’oggetto della valutazione di queste Sezio-ni riunite, perché l’evolversi degli eventi influisce continuamente e incessantemente sugli equilibri di bilancio dell’ente.

Perciò occorre “tener conto anche – in una visio-ne dinamica – di fatti attestanti una diversa situazio-ne finanziaria e contabile dell’ente, un più virtuoso percorso di risanamento eventualmente già adottato o da adottarsi, nell’ambito delle misure di risana-mento individuate, e di migliorate ed effettive pro-spettive di recupero” (cfr. Corte conti, Sez. riun., 18 marzo 2014, n. 3).

Con specifico riguardo ai profili di ammissibi-lità o meno di fatti nuovi, le Sezioni riunite hanno affermato che “(…) la verifica richiesta alle Sezioni riunite esclude la valutabilità di fatti tali da alterare le caratteristiche originarie del piano o che possano configurare un piano diverso, ma non si può però non tenere conto, come già dianzi argomentato, del carat-tere dinamico dei profili contabili che sostengono il piano, per loro natura in continua evoluzione. Il per-corso decennale di riduzione graduale del disavanzo originario, sostenuto dall’efficacia delle misure di risanamento individuate, si basa inevitabilmente su previsioni finanziarie e su risultanze stimate, ed è na-turale che queste – specialmente nel breve periodo ed in riferimento alla prima annualità del piano, la cui gestione si trova ad essere concomitante con lo svolgimento del procedimento di controllo e del suc-cessivo giudizio ad istanza di parte – possano subire rettifiche o aggiustamenti di maggiore o minore si-gnificatività ai fini del rispetto del piano, conseguenti al configurarsi di risultanze contabili effettive. Una “situazione contabile evoluta rispetto all’epoca in cui è stata adottata la delibera di diniego, costituita da sopravvenute risultanze contabili effettive non co-nosciute né conoscibili in quel momento,” – hanno continuato ancora le Sezioni riunite – “potrà, quindi,

essere considerata dalle Sezioni riunite, quando sia possibile trarne argomenti aggiuntivi utili a meglio valutare l’attendibilità (o l’inattendibilità) del piano in discussione e la capacità dell’ente di rispettare, seppure con gradualità, un percorso di rientro” (cfr. Corte conti, Sez. riun., 18 marzo 2014, n. 3).

Queste, innanzi tracciate, sono le coordinate en-tro cui si muove il percorso argomentativo di questo collegio.

3. Poste queste premesse, si prende atto che il piano di riequilibrio di cui alle delibere del consiglio comunale n. 3 del 28 gennaio 2013 e n. 33 del 15 lu-glio 2013 trova evidenza numerica essenzialmente in poche tabelle.

Nella delibera n. 3 del 28 gennaio 2013 sono le tabelle 1.2 “Equilibrio di parte corrente”, 1.3 “Equi-librio di parte capitale”, 2 “Ripiano del disavanzo di amministrazione”, 3 “Ripiano dei debiti fuori bilan-cio”, 5 “Flussi di cassa”.

Nella delibera n. 33 del 15 luglio 2013 sono le tabelle 1.1 “Equilibrio di parte corrente”, 1.2 “Equi-librio di parte capitale”, “Flussi di cassa”. Queste tabelle hanno sostituito quelle corrispondenti della delibera precedente.

In queste tabelle sono riportati gli effetti delle politiche di spesa e di entrata del Comune di Napoli illustrate nella delib. n. 3 del 28 gennaio 2013 e che hanno validità per l’intero arco decennale 2013-2022 del piano.

La particolarità della seconda deliberazione è che essa contiene gli adeguamenti del piano alla contra-zione dell’anticipazione di liquidità ai sensi dell’art. 1, c. 13, d.l. n. 35/2013, il che era prescritto dal suc-cessivo c. 15.

3.1. In occasione dell’aggiornamento al piano, che doveva avvenire in maniera “corrispondente” alla contrazione dell’anticipazione, sono state ri-toccate alcune stime di entrata e di spesa ed è stato aggiornato, per la parte del piano riguardante la com-petenza finanziaria, anche l’importo dell’entità dello squilibrio, costituito da disavanzo di amministrazio-ne, debiti fuori bilancio e passività potenziali.

Infatti, con il nuovo piano, muta il disavanzo di amministrazione da ripianare, da quello dell’e-sercizio finanziario 2011 di euro 850.209.816,99 a quello dell’esercizio finanziario 2012 di euro 783.187.157,06.

Dai debiti fuori bilancio e passività poten-ziali di 650.000.000 euro si è passati a debiti fuo-ri bilancio (86.802.125,49) e passività potenziali (552.961.007,26) per un totale di 639.763.132,75 euro.

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Lo massa passiva oggetto del riequilibrio nei due piani, pertanto, è calata da 1.500.209.816,99 a 1.422.950.289,81 euro.

La modifica “corrispondente” alla contrazione di anticipazione di liquidità doveva coincidere, invece, con una diversa distribuzione della quota annuale di ripiano del disavanzo di amministrazione, che si è riflessa in un vero e proprio spostamento di parte dell’onere, dal primo al secondo periodo del piano, ovverosia sono state rinviate in parte le previsioni di entrata connesse alla vendita degli immobili. Sul pia-no delle fonti di copertura, infatti, alle quote annuali di ripiano del disavanzo di amministrazione sono de-stinati, per lo più, i proventi delle alienazioni degli immobili, oltre che una piccola quota derivante dalla vendita di partecipazioni societarie.

In linea teorica, tale rinvio delle esigenze di co-pertura corrisponde alla necessità di collimare an-nualmente le riscossioni con le spese da affronta-re a titolo di rimborso delle rate di ammortamento dell’anticipazione di liquidità, che si distribuiscono in maniera costante per il periodo del piano con rate costanti e precisamente, per la prima tranche, euro 16.038.559,44 dal 2014 e, per la seconda, euro 16.667.273,82 dal 2015. Pertanto, a partire dal 2015, l’importo da corrispondere a Cassa depositi e prestiti ammonta a 32.705.833,26 euro.

Proseguendo nell’illustrazione delle modalità di costruzione della tabella del piano (aggiornato) di parte corrente, mentre le entrate correnti sono iden-tificate per titoli (i primi tre), le spese correnti (ov-vero quelle del titolo primo) sono illustrate con la denominazione dell’oggetto della spesa e non con la classificazione per “intervento” della stessa. Riclas-sificando le componenti di spesa secondo la riparti-zione per interventi prevista dal d.p.r. n. 194/1996, tra di esse non figurano gli interventi 9 (ammorta-menti di esercizio), 10 (fondo svalutazione crediti) ed 11 (fondo di riserva).

Sia le spese che le entrate riguardano le componen-ti “non finanziate”. Il comune non dà illustrazione se-parata della natura di queste componenti “finanziate”.

3.2. Infine, altra tabella essenziale è quella dei flussi di cassa.

La tabella individua le riscossioni attese e i pa-gamenti da effettuare nel decennio, comprensivi questi ultimi dei debiti pregressi ammontanti ad 1.078.477.000 euro.

La particolarità di questa tabella è che, corretta-mente, individua tra le riscossioni le anticipazioni da fondo di rotazione ex art. 243-ter Tuel e le anticipa-zioni di liquidità ex art. 1, c. 13, d.l. n. 35/2013, e tra i pagamenti previsti nel decennio quelli a titolo di

oneri di ammortamento anche se, come si vedrà più avanti, la loro quantificazione non appare conforme al dettato normativo.

3.3. La dimensione dello squilibrio (euro 850.209.816,99 è l’importo del disavanzo di ammi-nistrazione del 2011 oggetto del primo piano) e le circostanze in cui è emerso (al cambio di ammini-strazione dopo alcuni esercizi finanziari in avanzo di amministrazione) in assenza di passività generatesi improvvisamente, costituiscono un primo importan-te indizio dell’inattendibilità dei bilanci degli anni precedenti al ricorso alla procedura ex art. 243-bis.

Basti considerare che, sul piano del bilancio di competenza, nel solo quinquennio precedente (se-condo la fonte aperta del sito web finanza locale del Ministero dell’interno) gli esercizi finanziari sono stati chiusi con i seguenti consistenti avan-zi di amministrazione (per lo più liberi essendo la componente vincolata irrisoria) euro: 240.124.412 (2006), 213.066.505 (2007), 191.979.605 (2008), 178.802.248 (2009) e di 92.047.449 (2010).

Sul piano della cassa, pur in presenza al 31 dicem-bre 2012 di una giacenza di euro 193.699.404,85, il co-mune segnalava alla Cassa depositi e prestiti, qualche mese dopo la chiusura dell’esercizio finanziario 2012, che i debiti esigibili al 31 dicembre 2012, ma ancora non estinti, ammontavano a 949.009.357,37 euro.

La segnalazione veniva effettuata ai fini di be-neficiare dell’anticipazione di liquidità ex art. 1, c. 13, d.l. n. 35/2013, cioè di un prestito oneroso, poi concesso per 593.140.127,78 euro, per il quale l’ente sarà tenuto a corrispondere, nell’arco di un trenten-nio, cospicue somme a titolo di interessi passivi (per la precisione 338.661.762,94 euro come da piani di ammortamento).

La pubblicità della presente decisione costitui-sce di per sé notitia damni, che potrà essere valutata eventualmente dalla competente procura regionale.

4. Venendo al merito, il collegio osserva in limine che il piano di riequilibrio presenta numerosi profili problematici anche di ordine concettuale, dovuti ve-rosimilmente alla complessità della situazione, alla difficoltà di riavviare una macchina organizzativa di-versamente configurata in alcuni settori e alla novità dello strumento del riequilibrio.

Come si vedrà nel prosieguo, alcuni errori di si-stema hanno generato delle inaspettate “riserve di risorse”, inducendo questo collegio a quantificare le partite finanziarie oggetto dei rilievi sollevati dalla sezione regionale di controllo, e quindi, ad operare un bilanciamento complessivo degli elementi positi-vi e negativi in campo.

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Il giudizio di non congruenza del piano da parte della Sezione regionale di controllo per la Campania è stato motivato ampiamente nella deliberazione im-pugnata n. 12/2014 e riassunto nell’ultimo paragrafo recante “Considerazioni conclusive”.

I rilievi mossi possono essere suddivisi in due parti: quelli riguardanti la congruenza dell’obiettivo del piano e quelli riguardanti la congruenza delle mi-sure di riequilibrio.

Per quanto concerne la prima parte, la Sezione ha confutato la reale congruità e consistenza del risulta-to di amministrazione del 2012 (oggetto del ripiano) per:

- il mantenimento di partite creditizie dei titoli I e III delle entrate risalenti ad annualità superiori a die-ci anni, perfino al 1993, pari a 68.404.532,36 euro;

- un’insussistenza potenziale di parte dei residui attivi dei primi tre titoli delle entrate esistenti al 2012 di circa 431 milioni di euro;

- l’insufficienza del fondo svalutazione crediti, pur essendo calcolato nella misura stabilita dall’art. 6, c. 17, d.l. 6 luglio 2012, n. 95 (che, attualmente, fissa la sua consistenza obbligatoria nel 30 per cento dell’ammontare dei residui aventi anzianità superio-re a 5 anni), in relazione all’andamento della capa-cità di riscossione delle entrate dei titoli I e III per le quali sono state individuate maggiori difficoltà di esazione, sia in conto competenza che in conto re-sidui e la necessità di provvedere ad una diversa e più adeguata quantificazione del fondo svalutazione crediti, in virtù di un obbligo di legge in vigore dal 10 agosto 2011, ai sensi del d.lgs. 23 giugno 2011, n. 118, con decorrenza dall’1 gennaio 2015, per effetto della proroga disposta dell’art. 9 d.lgs. n. 102/2013.

Per quanto riguarda l’incongruenza delle misure di risanamento i rilievi riguardano:

- l’inattendibilità delle misure di risanamento adottate dall’ente sulla base di operazioni di dismis-sione del patrimonio immobiliare e di quote delle so-cietà partecipate a causa della natura straordinaria e dell’elevato grado di aleatorietà delle misure;

- l’assenza di controllo delle operazioni già poste in essere e di quelle da intraprendere per la mancata presentazione di un dettagliato cronoprogramma del piano di dismissione di n. 2.351 unità del patrimonio disponibile e n. 13.005 unità del patrimonio Erp;

- l’illegittima previsione d’incasso di 551.000.000 euro derivante dall’alienazione del patrimonio Erp utilizzabile, al fine del risanamen-to, nella più ridotta misura di 115.000.000 euro in ragione dei vincoli normativi (art. 1, c. 5, l. 24 di-cembre 1993, n. 560 e art. 1, c. 5, l. reg. 12 dicembre 2003, n. 24) che impongono di destinare le risorse

derivanti dall’alienazione degli alloggi di edilizia residenziale pubblica per il 75 per cento per finalità sociali abitative e solo per il 25 per cento dei pro-venti per il ripiano del deficit del comune, per cui le risorse derivanti dall’alienazione del patrimonio immobiliare utilizzabili ammonterebbero a soli 115 milioni di euro circa;

- la scarsa appetibilità sul mercato della New Company, che, trascorsa la fisiologica fase di start-up, presenta, a partire dall’anno 2015, utili d’eserci-zio decrescente e un indice di redditività del capitale proprio (Roe) che passa dal 10 per cento al 2,50 per cento per il periodo considerato;

- la mancanza di un’analisi di mercato in grado di valutare l’attendibilità dell’ambiziosa operazione prospettata, considerata anche l’attuale congiuntura economica del paese e le peculiari condizioni so-cio-economiche del territorio;

- l’incapacità del comune – già stigmatizzata dalla Sezione con le delib. n. 271/2011 e n. 23/2013 – di collocare sul mercato la società Terme di Agna-no s.p.a., nonostante sia stata, in passato, oggetto di continui investimenti per migliorarne gli asset (com-plessivamente pari a circa 9.200.000 euro dal 2008 al 2010 tra copertura perdite e aumenti di capitale) diretti a renderla più appetibile sul mercato;

- l’incapacità delle dismissioni patrimoniali di sostenere una sostanziale nonché strutturale opera-zione di risanamento, in luogo della ristrutturazione della spesa corrente e dell’efficientamento della ri-scossione delle entrate proprie;

- l’insufficiente rimodulazione della spesa di per-sonale per la sottostima del 20 per cento;

- l’esclusione di Anm s.p.a. dal calcolo dell’in-cidenza del costo del personale sulla spesa corrente, determinando, così, il superamento del limite del 50 per cento ai sensi dell’art. 76, c. 7, d.l. n. 112/2008, consentendo assunzioni che hanno finito per irrigidi-re la spesa corrente incidendo negativamente sui già precari equilibri di bilancio. La decisione di esclude-re Anm s.p.a. dal calcolo del c.d. consolidato risul-tava alla Sezione incomprensibile alla luce del fatto che il comune era pienamente consapevole di aver già violato nel 2011 il limite di legge attestandosi su un valore del 53,07 per cento e che, nonostante la se-gnalazione ad opera della Ragioneria generale dello Stato a seguito di verifica ispettiva nell’ottobre 2012, continuava ad assumere contra legem;

- la minore incidenza nei primi 5 anni della co-pertura del disavanzo di amministrazione (Sez. auto-nomie, n. 16/2012);

- la conferma nei riscontri effettuati dalla Com-missione nella Relazione finale che, rinviando nelle

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considerazioni conclusive al contenuto della rela-zione stessa, illustra, sia pur in modo estremamente sintetico e succinto, tutte le gravi criticità del piano riscontrate dalla Sezione e che, peraltro, emergono icasticamente nelle due particolareggiate richieste istruttorie del 9 maggio 2013 e del 18 settembre 2013 della suddetta Commissione.

5. In relazione alla prima parte, la Sezione ha ritenuto in buona sostanza non congruente la quan-tificazione dello squilibrio, soffermandosi, in parti-colare, sulla sospetta insussistenza di residui attivi in relazione alla vetustà di taluni e ad un calcolo di probabilità per tutti quelli di natura corrente.

Per inciso, come emerge dai principi contabili approvati dall’Osservatorio per la finanza e la con-tabilità degli enti locali, ai fini degli equilibri di bi-lancio di un ente locale, i concetti di inesigibilità e dubbia esigibilità (anche definita “dubbia o difficile esazione”), riferiti ai residui attivi sono equipollenti, differendo tra di essi, per il compimento del termine di prescrizione.

Occorre premettere, sul punto, che il comune, in epoca antecedente alla redazione del piano, ha opera-to il riaccertamento straordinario in due fasi:

- nella prima fase, antecedente al d.l. n. 174/2012, con atto di indirizzo della giunta comunale effettuato con delibera 25 maggio 2012, n. 388, era stata di-sposta la sospensione temporanea degli adempimen-ti relativi al rendiconto 2011 al fine di procedere ad un approfondimento circa la corretta qualificazione dei crediti sussistenti, insussistenti, inesigibili e di dubbia esigibilità, avviando una revisione straordi-naria dei residui attivi. L’assessore al bilancio e il ragioniere generale avevano inviato istruzioni a tutti i dirigenti comunali con nota n. 620753 del 30 lu-glio 2012 in ordine alla metodologia da seguire per l’individuazione, tra l’altro, dei crediti inesigibili e di dubbia esigibilità destinati ad essere stralciati dal conto del bilancio, i cui criteri di individuazione erano stati precedentemente condivisi dal collegio dei revisori, dal dirigente del servizio registrazioni contabili e adempimenti fiscali e dal dirigente del servizio ragioneria e controllo spesa in una riunione tenutasi il 4 giugno 2012. Questa fase si era conclusa con la cancellazione di crediti di dubbia esigibilità per un importo complessivo di euro 467.688.939,72;

- nella seconda fase, successiva al d.l. n. 174/2012, è stata prevista, con la disposizione del dirigente del servizio registrazioni contabili e adempimenti fiscali 29 ottobre 2012, n. 78, un’applicazione di una per-centuale di taglio dell’87,65 per cento a tutti i residui attivi ante 2006 ancora conservati. Operazione dalla

quale era conseguita una cancellazione di oltre 400 milioni di residui attivi aggiuntivi rispetto a quelli cancellati nella prima fase.

Complessivamente, perciò, erano stati elimi-nati residui attivi per un ammontare pari a euro 874.955.513,39.

Queste Sezioni riunite si soffermano su questa seconda fase dell’attività di riaccertamento, la quale è consistita in un taglio lineare di tutti i residui attivi ultra-quinquennali, secondo una percentuale calcola-ta “moltiplicando per i 5 anni di un ipotizzato piano di riequilibrio la percentuale media del 2,47 per cen-to dei crediti effettivamente riscossi e sottraendo il risultato (n.d.r. 12,35 per cento) dal totale”.

Sul punto si ritiene che siffatta operazione, pe-raltro calibrata su una durata massima quinquennale (secondo la prima stesura del d.l. n. 174/2012 non ancora convertito) e non decennale (secondo la ste-sura definitiva del d.l. n. 174/2012) del piano, che in linea teorica avrebbe consentito un minore stral-cio, ha comportato un’eliminazione dei residui attivi non conforme alla norma dell’art. 228, c. 3, d.lgs. n. 267/2000, che definisce l’operazione di riaccerta-mento come “la revisione delle ragioni del manteni-mento in tutto od in parte dei residui”.

L’analisi, in realtà, doveva essere condotta su cia-scuna partita creditizia.

Come stabilisce il principio contabile n. 2, par. 31, “Le operazioni di revisione conducono al riac-certamento delle posizioni creditorie ed all’eventua-le eliminazione, totale o parziale, dei residui attivi riconosciuti insussistenti, per l’avvenuta legale estin-zione o per indebito o erroneo accertamento del cre-dito. In tal caso i responsabili dei servizi devono dare adeguata motivazione descrivendo analiticamente le procedure seguite per la realizzazione dei crediti pri-ma della loro eliminazione totale o parziale”.

Ancor più chiaro è il principio contabile n. 3, par. 45, “L’operazione di riaccertamento dei residui attivi da iscrivere nel conto del bilancio è tesa alla verifica del permanere dei requisiti essenziali dell’accerta-mento delle entrate così come indicati nel principio contabile n. 2 e precisamente la ragione del credito, il titolo giuridico, il soggetto debitore, la somma e la scadenza. Durante tale verifica, da effettuarsi ob-bligatoriamente per ciascun singolo accertamento della gestione di competenza e per ciascun residuo attivo proveniente dagli anni precedenti, l’ente deve mantenere un comportamento prudente, evitando di conservare tra i residui attivi del conto del bilancio i crediti dichiarati assolutamente inesigibili, quelli controversi e quelli riconosciuti di dubbia o difficile esazione o premunirsi di costituire un fondo svaluta-

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zione crediti idoneo a bilanciare gli effetti negativi sul risultato di amministrazione che tali eliminazioni altrimenti produrrebbero”.

L’anomalo e assai sbrigativo metodo di stralcio di partite creditizie ha generato nella sostanza una riserva di risorse, alla stregua di un fondo svaluta-zione crediti, difficilmente quantificabile, che ve-rosimilmente troverà espressione nei bilanci futuri attraverso la reiscrizione in bilancio di maggiori ac-certamenti.

Il fenomeno già è iniziato a comparire sul rendi-conto 2013 depositato dall’ente.

Conclusivamente, siffatta erronea eliminazione, che ha avuto riflessi negativi sull’entità del disavan-zo di amministrazione, può sostanzialmente compen-sare da un punto di vista economico la persistenza nel bilancio dell’ente di residui attivi effettivamente insussistenti o di scarsa esigibilità, che potrebbero rinvenirsi altrove.

In ogni caso, il legislatore non consente l’elimina-zione di residui secondo metodi statistici e tale orien-tamento è vieppiù rafforzato dal privilegio accordato al metodo dell’adeguamento del fondo svalutazione crediti (ai sensi dell’art. 6, c. 17, d.l. n. 95/2012).

5.1. Ulteriore riflessione si è imposta in relazione al giudizio di non congruenza dell’obiettivo del pia-no (ovverosia alla presunta sottostima del disavanzo di amministrazione 2012) fondato essenzialmente su due presunzioni di inesigibilità (par. 7 “Osservazio-ni”), la prima basata su un calcolo statistico, la se-conda sulla mera vetustà del residuo.

5.2. Su tali presunzioni il comune ricorrente ha dedotto l’illogicità, la contraddittorietà, il travisa-mento dei fatti, il difetto di istruttoria e di motiva-zione, la violazione e la falsa applicazione dell’art. 6, c. 17, d.l. n. 95/2012, dell’art. 243-bis, c. 8, lett. e), e dell’art. 228, c. 3, Tuel, in quanto la sezione ha omesso di tenere in considerazione il radicale cam-bio di rotta impresso dalla nuova amministrazione in ordine alla veridicità delle scritture contabili. Difatti, l’amministrazione aveva avviato l’attività di revisio-ne dei residui con la deliberazione di giunta comuna-le, 25 maggio 2012, n. 388 conclusasi con la delibera di giunta comunale 31 ottobre 2012, n. 789, con la quale erano stati stralciati dal conto del bilancio cre-diti per 874 milioni 955mila 513,39 euro. Peraltro, con la propria delib. n. 23/2013 la Sezione aveva già preso atto positivamente di questa attività di riaccer-tamento dei residui, ma avrebbe mutato l’indirizzo nella deliberazione di diniego del piano, omettendo di considerare che le partite creditizie mantenute in bilancio avevano fatto registrare nel 2012 una ri-scossione di euro 4.581.960,50 e nel 2013 di euro

2.141.020,04, e che il fondo svalutazione crediti era stato costituito in misura superiore al limite normati-vo del 30 per cento.

La Sezione avrebbe ritenuto prive di riscontri documentali probatori le affermazioni circa la sus-sistenza di crediti per 15 milioni di euro della voce “recuperi diversi” provenienti dal 2003 e di crediti per 22 milioni di euro per crediti iva derivanti dal 1998 al 2002 effettuate da pubblici ufficiali e senza richiesta dei documenti probatori, ritenendo reale, in quanto incontestata da parte dell’amministrazione, l’insussistenza della restante parte del 40 per cento dei residui attivi corrispondenti ad un ammontare di circa 28 milioni di euro, anziché considerarli di dub-bia esigibilità ed in quanto tali computati nel fondo svalutazione crediti.

Il ricorrente lamenta anche che la Sezione ha rite-nuto l’insussistenza di residui attivi in relazione alla sola vetustà, in assenza di una verifica delle singole partite creditorie e omettendo di considerare la par-tita del fondo svalutazione crediti e la continuazione delle riscossioni sui predetti titoli.

La Sezione avrebbe ritenuto erroneamente, al-tresì, che l’annuncio, contenuto nella memoria il-lustrativa del comune in risposta all’ordinanza pre-sidenziale n. 1/2014, circa l’imminente attività di verifica delle ragioni di mantenimento dei residui attivi, potesse confermare i dubbi circa la veridicità del disavanzo di amministrazione, quando trattasi di un’attività imposta dall’art. 228, c. 3, Tuel.

Il ricorrente lamenta anche che la Sezione ha indi-viduato euro 431.262.176,95 di “potenziali” residui attivi di natura corrente insussistenti al 31 dicembre 2012 attraverso un procedimento statistico illogico e non corretto e che ha individuato nella tabella 7 del piano recante “Analisi della capacità di riscossione nel triennio” percentuali di riscossione dei titoli I e III inferiori al 50 per cento, mentre il 2011 (ultimo anno del triennio) rivela che la media dei titoli I e III si attesta al 67,06 per cento. (Omissis)

5.2.1. La procura ritiene che le doglianze del ri-corrente abbiano un fondamento giuridico in quan-to, viste le considerazioni della Sezione basate sulla straordinarietà della cancellazione dei residui come conseguenza di un’omissione passata, diventa arduo addebitare al piano decennale un fattore di irrego-larità od anomalia che viene ascritto alle passate gestioni. La procura, altresì, osserva che non sono convincenti e non adeguatamente motivati i rilievi secondo i quali “in sede di riaccertamento nei futu-ri esercizi sarà inevitabile continuare ad applicare le percentuali di insussistenza dei residui attivi rilevate nel 2011 in quanto queste ultime rappresentano una

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serie storica, la cui variabilità dipende unicamente dall’anzianità del residuo attivo”, nonché la tecnica di campionamento e non globale usata per individua-re i residui attivi insussistenti. In tal modo sarebbe derivata una “inferenza dalla inferenza” che depo-tenzia il calcolo effettuato.

Secondo la procura, la Sezione non avrebbe con-siderato che l’attività di riaccertamento dei residui è imposta dalla legge e che l’eliminazione dei residui deve conseguire all’esperimento di tutti gli atti giu-ridicamente ammessi per ottenere la riscossione, sot-tovalutando la distinzione tra insussistenza del credi-to e inesigibilità e riferendo le proprie osservazioni ai primi tre titoli delle entrate e non al I e III (art. 6, c. 17, d.l. n. 95/2012). Inoltre, per la procura, la Sezio-ne regionale ha omesso di considerare quanto affer-mato dalla Sezione delle autonomie nell’audizione presso la Commissione parlamentare per l’attuazio-ne del federalismo fiscale, 6 marzo 2014 secondo cui “la gestione dei servizi di riscossione dei tribu-ti e delle altre entrate dei comuni si caratterizza per svariate problematiche, anche a causa di un quadro legislativo mutevole e incerto” e che detta anomalia normativa ha fortemente contribuito a determinare “la formazione di ingenti residui attivi nei rendiconti degli enti, residui cui solo in parte ha posto argine l’istituzione obbligatoria, a decorrere dall’esercizio 2012, di un fondo svalutazione crediti non inferiore al 25 per cento dei residui attivi di cui ai titoli I e III dell’entrata, aventi anzianità superiore a 5 anni ex art. 6, c. 17, d.l. n. 95/2012”.

5.2.2. Queste Sezioni riunite ritengono di acco-gliere le doglianze del ricorrente e il parere della procura.

In ordine alla prima presunzione, essa è basata su un metodo statistico che queste Sezioni riunite non ritengono idoneo a rappresentare effettivamente i re-sidui attivi inesigibili.

L’inferenza statistica, in buona sostanza, giunge ad individuare tra tutti i residui attivi dei primi tre titoli delle entrate alla data del 31 dicembre 2012 quelli da ritenersi insussistenti, applicando la stessa percentuale di “insussistenza potenziale” dei residui attivi esistenti al termine dell’esercizio finanziario 2012 appartenenti ad un campione di quattro entrate del titolo I e III, ovverosia Tarsu, Sanzioni c.d.s., Re-cuperi diversi, Rimborsi iva.

Tali residui, potenzialmente insussistenti, che di-mostrerebbero l’inadeguatezza del fondo svalutazio-ne crediti determinato nel limite legale, sono stimati in euro 431.262.176,95.

A tale cifra si arriva applicando il seguente pro-cedimento:

- viene effettuato il campionamento di quattro ri-sorse ritenute più significative;

- di queste quattro risorse, vengono calcolate, di-stinte per esercizio di provenienza dei residui attivi, le percentuali dei residui attivi eliminati per insus-sistenza in sede di rendiconto 2011 rispetto a quelli di inizio esercizio 2011, ovverosia dopo il riaccer-tamento straordinario propedeutico all’approvazione da parte del Comune di Napoli del rendiconto 2011 (con delibera del consiglio comunale 30 novembre 2012, n. 54) e del Piano di riequilibrio;

- le percentuali di eliminazione dei residui atti-vi ricavate vengono applicate ai residui attivi della stessa risorsa, esistenti ad inizio 2013, di provenien-za dei due esercizi successivi a quello sul quale è calcolata la percentuale;

- vengono, quindi, calcolate le percentuali di in-sussistenza potenziale dei residui attivi iniziali 2013 di ciascuna risorsa e della somma delle quattro risor-se (34,75 per cento);

- quest’ultima percentuale viene applicata a tut-ti i residui attivi iniziali del 2013 di natura corrente (euro 1.240.926.767,64) ricavando, pertanto l’im-porto di euro 431.262.176,95.

Queste Sezioni riunite ritengono di aderire alle prospettazioni del ricorrente e della procura circa l’i-nadeguatezza del metodo applicato in quanto:

- un’unica percentuale di eliminazione viene applicata ai residui esistenti all’inizio del 2013 in maniera indifferenziata, indipendentemente, cioè, dall’esercizio di provenienza dei residui ai quali la riduzione è applicata, il che costituisce un difet-to intrinseco del sistema, in quanto i tassi (reali) di smaltimento dei residui e la consistenza dei residui variano generalmente in funzione della vetustà del residuo (decrescono per anzianità di residui maggio-ri) come riconosce la stessa Sezione regionale. In tal senso maggiormente appropriato sarebbe stato, ad esempio, il calcolo di una percentuale di insussi-stenza (basata anche su dati statistici regionalizzati o comunque territoriali) differenziata per tipologia di risorsa e per anno di anzianità, da applicarsi agli accertamenti totali di ogni esercizio di provenienza dei residui e da confrontarsi con il totale dei residui eliminati nel corso degli anni;

- la percentuale di insussistenza avrebbe dovu-to essere applicata ai residui del rendiconto 2012 al lordo delle insussistenze, anziché al netto, e, quindi, il “potenziale insussistente” si sarebbe dovuto con-frontare con i residui attivi già eliminati per insus-sistenza con il rendiconto 2012 (euro 17.317.781,87 del titolo I, euro 36.848.407,37 del titolo II, euro 41.853.007,78 del titolo III) per verificare se le stime

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effettuate in sede di controllo trovassero riscontro negli esiti dell’attività di riaccertamento dell’ente locale;

- la percentuale di insussistenza dei residui pren-de a riferimento, proiettandola nel futuro, in maniera eccessivamente penalizzante, un’attività di riaccerta-mento straordinaria svolta nell’esercizio precedente, i cui esiti, quantitativamente eccezionali e cospicui, comprendono anche eliminazioni per insussistenze che dovevano essere attuate in pregressi esercizi, come ha riconosciuto la stessa Sezione regiona-le, fornendo un risultato sproporzionato rispetto ad un’attività di riaccertamento che, dopo l’esercizio finanziario 2011, era destinata con ogni probabilità ad essere maggiormente contenuta;

- non sono stati esplicitati i criteri di selezione del campione impiegato nel procedimento statistico e ritenuto maggiormente significativo, anzi, come esplicitato dalla difesa comunale, sarebbe rimasta estranea la partita creditizia più rilevante, cioè l’en-trata da Ici/Imu che, secondo la nota n. 211771 del 13 marzo 2014, nel 2011 ha riscontrato un tasso di insussistenza dell’11 per cento;

- il procedimento riguarda i soli residui attivi cor-renti e non anche i restanti residui attivi e quelli pas-sivi, assumendo che tutti fossero sussistenti;

- il metodo statistico, riproducendo nel futuro le percentuali di eliminazione del passato e per di più di un solo esercizio, è eccessivamente orientato ai comportamenti pregressi dell’amministrazione sulla quale è applicato, con l’effetto di stimare, parados-salmente, una minor quantità di residui attivi ine-sigibili laddove le amministrazioni non operino un sostanziale riaccertamento e, viceversa, di penaliz-zare quelle che ne fanno un’applicazione costante e accurata.

5.2.3. In ordine alla seconda presunzione, que-sto collegio non ritiene che il mero mantenimento di partite creditizie per euro 68.404.532,36, pur ri-salenti ad annualità superiori a dieci anni dal 1993 al 2004, dimostri la piena insussistenza/inesigibilità/dubbia esigibilità delle stesse, in assenza di maggio-ri e più circostanziati elementi informativi in ordine alle ragioni del credito e all’esito dei tentativi di ri-scossione.

Manca, cioè, in proposito un composito quadro indiziario che possa condurre inequivocabilmente a ritenere che detti residui siano completamente inesi-gibili o di dubbia esigibilità.

Ciò è confermato dal fatto che nel 2011 i medesi-mi crediti erano stati riscossi per euro 4.581.960,50 e che la riscossione era proseguita nel 2013 per euro 2.141.020,04 nel 2013.

Peraltro, il ricorrente ha evidenziato che di que-sti residui la partita creditoria di euro 15.493.706,97 riguardante un contributo della Regione Campania è attualmente sussistente e che i crediti iva scaturenti dalle dichiarazioni annuali di 24 milioni, non hanno generato incassi perché, per euro 16.655.413, sospesi dall’amministrazione finanziaria a garanzia di iscri-zioni a ruolo a carico dell’ente per debiti contratti a vario titolo verso amministrazioni statali.

La dichiarazione dell’ente locale in ordine al fu-turo riaccertamento dei residui, essendo tale attività imposta dall’art. 228, c. 3, Tuel, in base all’evolversi della situazione a distanza di un anno, non dà piena dimostrazione dell’inattendibilità del risultato di am-ministrazione.

Parimenti, non può costituire elemento di prova dell’insussistenza la generica descrizione della ra-gione del credito per i residui attivi delle voci “recu-peri diversi” e “rimborsi iva” o il mancato riscontro probatorio documentale rispetto alla contestazione dell’insussistenza del 40 per cento dei residui attivi per circa 28 milioni di euro, difettando ulteriori indi-zi sull’insussistenza.

In ogni caso, il comune, in sede di ricorso, ha espresso più volte la dubbia esigibilità di tali residui ed, in quanto ultra-quinquennali, la loro “copertura” con il fondo svalutazione crediti.

Su tale punto, queste Sezioni riunite osservano che, in presenza di crediti di dubbia esigibilità, ne è obbligatorio lo stralcio o la costituzione di un equi-valente fondo svalutazione crediti.

Sui residui attivi rimanenti andrebbe, pertanto, calcolata la quota legale del fondo svalutazione cre-diti ai sensi dell’art. 6, c. 17, d.l. n. 95/2012.

5.3 Venendo al terzo motivo dell’incongruenza dell’obiettivo del piano, ovvero la consistenza del fondo svalutazione crediti, occorre premettere che la questione, nel caso specifico, concerne la con-gruenza dell’obiettivo di risanamento, ma, in realtà dovrebbe anche concernere la congruenza dei mezzi di risanamento.

Infatti, dal primo punto di vista, il fondo svaluta-zione crediti rientra nel calcolo del disavanzo di am-ministrazione oggetto del piano in quanto, laddove sia stato costituito nel corso dell’esercizio oggetto di ripiano (adempimento reso obbligatorio nel 2012 dall’art. 6, c. 17, d.l. n. 95/2012) e per la misura non utilizzata al fine di compensare le eliminazioni dei residui attivi per insussistenza o dubbia esigibilità, costituisce un fondo vincolato sottratto all’assorbi-mento dell’eventuale disavanzo e, quindi, ne incre-menta la consistenza.

Dal secondo punto di vista, ove si facesse appli-

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cazione in maniera estremamente rigorosa del prin-cipio della prudenza, il fondo svalutazione crediti dovrebbe essere una componente delle passività de-gli esercizi finanziari compresi nel periodo di risa-namento, in funzione dell’eventuale previsione del suo impiego futuro, effettuata anche sulla base della tendenza riscontrata nel passato, al netto della quota già sottratta all’assorbimento del disavanzo oggetto di ripiano.

Nel piano del Comune di Napoli la questione è stata oggetto di specifico rilievo da parte della Se-zione regionale di controllo in relazione sia al primo punto (fondo vincolato sul risultato di amministra-zione 2012), sia al secondo, ma limitatamente alla consistenza del fondo svalutazione del 2013, mentre nessuno specifico rilievo è stato mosso per il periodo successivo.

5.3.1. Occorre effettuare una breve rassegna di quanto avvenuto sul tema in discorso.

Il disavanzo di amministrazione 2012 di euro 783.187.157,06 oggetto del piano aggiornato (ap-provato con delibera del consiglio comunale, 15 maggio 2013 n. 20) aveva una componente di euro 746.665.980,12, corrispondente al disavanzo di amministrazione derivante dal saldo delle gestio-ni di competenza e dei residui, ed un’altra compo-nente di euro 36.521.176,94, corrispondente, oltre che a fondi vincolati a spese di investimento (euro 2.401.777,80), ad altre spese (euro 206.740,14) e ad opere di urbanizzazione (euro 1.158.228,11), anche al fondo svalutazione crediti per euro 32.754.430,89.

Quest’ultimo fondo era stato ridotto rispetto a quanto stanziato in sede di assestamento al bilan-cio di previsione 2012 (del. consiglio comunale, 30 novembre 2012, n. 55) in applicazione del d.l. n. 95/2012 (euro 79.991.604,78).

Le modalità di finanziamento del fondo stanziato nel 2012 consistevano, oltre che in entrate di parte corrente (recupero spese di rivalsa euro 1.030.773,83, contenzioso Napoletana gas euro 3.790.462, liquida-zione I.c.a. per euro 498.800), in entrate in conto ca-pitale (alienazioni Erp per 48 mln di euro, alienazioni del patrimonio disponibile per euro 25.627.542,45, condono per euro 1.044.026,50).

A partire dall’esercizio finanziario 2013, lo squi-librio di parte corrente non può essere finanziato dai proventi delle alienazioni immobiliari neppure in sede di salvaguardia degli equilibri di bilancio ai sensi dell’art. 193, c. 3, Tuel a seguito della modifica apportata dall’art. 1, c. 444, l. 24 dicembre 2012, n. 228. Il fondo vincolato in sede di risultato di ammi-nistrazione 2012 a titolo di fondo svalutazione credi-ti, tuttavia, è una passività che è oggetto del piano di

riequilibrio e, quindi, secondo quanto espresso dalla Sezione delle autonomie, finanziabile con i proven-ti delle alienazioni immobiliari in caso di ricorso al fondo di rotazione.

L’avanzo vincolato a titolo di fondo svalutazio-ne crediti del 2012 è stato considerato formalmente congruo dalla Sezione regionale.

Del resto, il ricorrente ha illustrato che nel 2012 erano stati cancellati euro 81.970.044,10 di residui attivi di natura corrente insussistenti o inesigibili, sebbene non sia stata specificata la quota stralciata di residui ultra-quinquennali.

Come affermato dal ricorrente, tra il 2012 e il 2013 sono stati cancellati residui attivi correnti per 200 milioni di euro riducendo il disavanzo di 150 mi-lioni di euro rispetto al rendiconto 2011.

La quota minima legale, infatti, in sede di rendi-conto 2012 si era attestata a euro 30.941.143,27 (25 per cento dei residui ultra-quinquennali dei titoli I e III pari ad euro 123.764.573,09), ed era inferiore a quella di euro 32.754.430,89 vincolata nel risultato di amministrazione 2012.

5.3.2. La Sezione, tuttavia, ha lamentato:- il rispetto solo formale del vincolo di istituzione

del fondo svalutazione crediti nella misura stabilita dall’art. 6, c. 17, d.l. 6 luglio 2012, n. 95 (che, al-lora, fissava la sua consistenza obbligatoria nel 30 per cento dell’ammontare dei residui aventi anzianità superiore a 5 anni);

- la necessità di provvedere ad una diversa e più adeguata quantificazione del fondo svalutazione cre-diti in virtù di un obbligo di legge in vigore dal 10 agosto 2011 ai sensi del d.lgs. 23 giugno 2011, n. 118, con decorrenza dal 1 gennaio 2015, per effetto della proroga disposta dell’art. 9 d.lgs. n. 102/2013;

- il mancato adeguamento del fondo svalutazione crediti alla capacità di riscossione delle entrate dei titoli I e III per le quali erano state individuate mag-giori difficoltà di esazione, sia in conto competenza che in conto residui, quale principio di buona gestio-ne e di prudenza;

- il finanziamento del fondo svalutazione con en-trate di difficile riscossione e con maggiori accerta-menti dai residui attivi dei titoli I e III.

5.3.3. Sul punto, il comune ricorrente deduce la non vigenza dell’obbligo di cui al d.lgs. n. 118/2011, e quindi l’applicabilità della legislazione di cui al d.l. n. 95/2012, e la congruenza del fondo svaluta-zione crediti che nel 2013 ammontava a non meno di 79.124.828,83 euro, come risulta dalla del. consi-glio comunale 16 dicembre 2013, n. 72, relativa alla manovra di assestamento generale di bilancio 2013.

Inoltre, nella memoria conclusionale, si riferi-

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sce che in ordine al fondo svalutazione crediti (Fsc) risultante dal rendiconto 2013 sono stati previsti fondi vincolati per euro 123.237.088,90 di cui euro 112.666.399,16 finalizzati al Fsc del 2014, pari al 57,48 per cento dei residui attivi ultra-quinquennali dei titoli I e III di euro 196.010.952,37.

5.3.4. In premessa queste Sezioni riunite eviden-ziano che il piano è uno strumento di pianificazione a legislazione vigente, per cui le previsioni annuali di entrata e di spesa tendenzialmente sono pressoché simili anno per anno, salvo gli effetti delle politiche di risanamento e dell’andamento previsto del ciclo economico e del costo del denaro.

La consistenza del fondo svalutazione crediti, in base ai principi contabili, deve essere pari ai resi-dui attivi di dubbia esigibilità o di difficile esazione indipendentemente dall’esercizio di provenienza e, in aggiunta, ad una percentuale imposta dalla legge (per il 2014 il 20 per cento) dei residui attivi ultra-quinquennali dei titoli di entrata I e III “per i quali i responsabili dei servizi competenti non abbiano analiticamente certificato la perdurante sussistenza delle ragioni del credito e l’elevato tasso di riscuo-tibilità”.

In sede di rendiconto 2012, non era provata l’esi-stenza di detti residui di dubbia esigibilità, se non per la quota ammessa dai dirigenti (euro 13.302,829,77) nel marzo 2013, come risulta dal parere di regolari-tà tecnico-contabile del ragioniere generale al ren-diconto 2012 e dalla delibera di giunta comunale n. 299 del 30 aprile 2013. Pertanto, considerato anche quanto già espresso in relazione ai vari aspetti ri-guardanti le modalità di riaccertamento dei residui e l’inadeguatezza delle presunzioni svolte dalla Se-zione sui residui insussistenti, la dimensione del fon-do svalutazione stanziato nel 2013 non è dimostrato fosse insufficiente.

Questo collegio neppure ha evidenza che le fonti di finanziamento del fondo vincolato di euro 32.754.430,89 fossero di difficile riscossione.

Inoltre, il fondo svalutazione crediti ex d.l. n. 95/2012, laddove non derivante da un avanzo vin-colato, è una posta passiva del bilancio di compe-tenza, che “neutralizza” gli effetti positivi del man-tenimento nel bilancio dell’ente di una posta attiva della gestione dei residui, attraverso il finanziamento derivante da un’entrata del bilancio di competenza, ed il fondo vincolato in sede di risultato di ammini-strazione 2012 non rinviene la fonte di finanziamen-to in un avanzo precedente.

Le entrate accertate nel 2012 destinate al Fsc sono risultate pari ad euro 14.398.420,15, inferiori rispetto ai 79.991.604,78 euro inizialmente previ-

sti, ed erano costituite da entrate da alienazioni per euro 8.648.000, da recupero spese di rivalsa per euro 1.489.958,15, da contenzioso con Napoletana gas euro 3.790.462 e da liquidazione I.c.a. euro 470.000.

La destinazione dei maggiori accertamenti di re-sidui attivi al finanziamento del fondo 2013 di euro 18.356.010,74 (come avvenuto anche nel 2014) non è, invece, preclusa dalla norma, né dai principi con-tabili. Peraltro, il riaccertamento riguarda importi già dichiarati dubbi e stralciati in sede di approvazione del rendiconto della gestione 2011, ma che l’ente ha ritenuto di riscrivere in bilancio.

5.4. L’evidenziazione, in tutti gli anni del piano di riequilibrio, del fondo svalutazione crediti ha ge-nerato dubbi in ordine alla costruzione degli equilibri di parte corrente.

Infatti, i saldi annuali di parte corrente (cioè la dif-ferenza tra le entrate di parte corrente o alla parte cor-rente destinate, e le spese di parte corrente inclusive di tutte le passività oggetto del piano), sono pianifica-ti come negativi, eccetto che per l’ultima annualità. Le fonti di copertura di questo differenziale negativo sono incluse nella voce “fondi vincolati del risultato di amministrazione applicati alla spesa corrente per il finanziamento del fondo svalutazione crediti – fondo non impegnabile”, che non sono passività corrispon-denti all’intervento 10 della spesa, ma, apparente-mente, un avanzo dello stesso valore (o di poco supe-riore), ma di segno opposto, dello squilibrio di parte corrente che si verifica anno per anno.

Nel seguente prospetto viene evidenziato, anno per anno, lo squilibrio di parte corrente e il fondo vincolato, quali esposti in allegato alla delibera con-siliare n. 33 del 15 luglio 2013. La loro differenza è il saldo positivo di parte corrente. (Omissis)

La giustificazione fornita dal Comune di Napoli nel corso dell’istruttoria è rinvenibile nella risposta del 19 settembre 2013 alla richiesta della Commis-sione di “adeguati chiarimenti in ordine agli equilibri di parte corrente (1.2 Sezione seconda – Risanamen-to), rimodulati con deliberazione consiliare n. 33 del 15 luglio 2013, nella misura in cui che essi risultano influenzati da una non corretta valutazione contabi-le del fondo svalutazione crediti che se da una parte non appare stanziato tra la spesa, dall’altra compare invece quale fonte di finanziamento del disavanzo corrente”.

Il Comune ha così risposto: “in riferimento spe-cifico alla iscrizione nella parte spesa della corri-spondente quota vincolata del risultato di ammini-strazione relativo al rendiconto della gestione 2012, si segnala che il fondo svalutazione crediti è inserito nella voce “Altre spese” del punto 1.2 Sezione se-

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conda Risanamento”. Tale voce per il 2013 è pari ad euro 142.670.298,15.

Purtuttavia, la voce “altre spese” è seguita dalla specifica “oneri straordinari, imposte”, cioè, salvo una diversa composizione della voce non espressa nel titolo descrittivo, sarebbe apparentemente limi-tata ai soli interventi 7 e 8 della spesa ai sensi del d.p.r. n. 194/1996 e non anche all’intervento 10 (fon-do svalutazione crediti). Al riguardo, all’esito dell’i-struttoria, non è stato sollevato specifico rilievo che, conseguentemente, non è stato oggetto di gravame.

Questo collegio, tuttavia, ritiene plausibile tale spiegazione anche alla luce degli impegni assun-ti sugli interventi 7 (euro 23.684.497,55) e 8 (euro 62.072.644,69) illustrati nell’allegato al rendiconto 2013 “Riepilogo generale di classificazione delle spese – Impegni per spese correnti”, la cui somma-toria di euro 85.757.142,24 è inferiore rispetto alla voce “altre spese” di euro 142.670.298,15.

Nel piano l’ente ha evidenziato separatamente la quota del Fsc derivante dall’avanzo vincolato (pari al primo anno ad euro 32.754.430).

Nel 2014 la quota prevista nel piano a titolo di fondo svalutazione crediti 2013 che si tramuta in avanzo vincolato è pari a euro 49.000.000, cifra in-feriore al totale del fondo svalutazione crediti del 2013, ma comunque congrua alla luce dei risultati del 2013 di cui si discorrerà più avanti.

Il che induce a ritenere che l’ente abbia previsto l’eliminazione di residui attivi per circa 45 milioni di euro. Negli esercizi successivi, tuttavia, in maniera anomala la quota di avanzo vincolato aumenta men-tre diminuisce la voce “altre spese”.

Questo collegio ritiene comunque che la criticità non influisca negativamente sul giudizio di congru-ità, anche alla luce dell’assenza di uno specifico ri-lievo sul punto da parte della sezione regionale, fer-ma restando la necessità di un attento monitoraggio sull’evoluzione del fondo svalutazione crediti.

5.4.1. Il ricorrente ha anche svolto considerazio-ni sui crediti di dubbia esigibilità riportati nel conto di bilancio 2013 e, di conseguenza, sull’adeguatezza del fondo svalutazione crediti 2014.

Al fine di dirimere il dubbio circa alcune affer-mazioni del comune, con ordinanza istruttoria col-legiale è stata richiesta una dettagliata relazione in ordine al rispetto dei criteri fissati dal principio con-tabile n. 3, par. 118 del Ministero dell’interno-Osser-vatorio per la finanza e la contabilità degli enti locali del 12 marzo 2008.

La richiesta istruttoria era scaturita dal fatto che nel bilancio del Comune di Napoli permanevano an-che a seguito della revisione straordinaria dei resi-

dui, terminata nel mese di ottobre 2012 (prima del rendiconto 2011 in occasione dell’approntamento del piano di riequilibrio) e continuavano a permane-re anche a seguito dell’approvazione del rendiconto 2013, residui attivi di dubbia esigibilità (nel 2013 quantificati e dettagliati dai dirigenti dei vari settori per un importo complessivo di euro 89.794.013,88, ma anche presenti nel conto del bilancio 2012 e più volte richiamati nel ricorso), nonostante l’art. 243-bis, c. 8, lett. e), Tuel, ne imponesse lo stralcio dal conto del bilancio per tutto il periodo di durata della procedura di riequilibrio.

La regola normativa non risulta una novità per gli enti locali, in quanto riproduce identica disposizione, rispondente al “principio dell’effettività dell’equili-brio finanziario”, dei principi contabili approvati dall’Osservatorio per la finanza e la contabilità degli enti locali, ed in particolare il principio contabile n. 2, par. 14, ed il principio contabile n. 3, par. 44, 45, 46, 49, 101, 118, 141.

Nel paragrafo 118 si specifica che per i residui di dubbia esigibilità (altrove definiti anche “di dubbia o difficile esazione”) in alternativa allo stralcio è pos-sibile costituire un fondo svalutazione crediti “a de-trazione”. Pertanto, ai fini dell’impatto sugli equilibri di bilancio le due regole sono del tutto equivalenti, in quanto detti residui sono sterilizzati ai fini degli equilibri.

Il ricorrente ha osservato che l’operazione stra-ordinaria di cui all’art. 243-bis non dovrebbe essere effettuata annualmente prima dell’approvazione del rendiconto, ma è preordinata, nel disegno del legi-slatore, a determinare una grandezza stock ai fini del piano di riequilibrio, mentre la ricognizione ordina-ria di cui all’art. 228 sembra far riferimento a una grandezza flusso ai fini del mantenimento dell’equi-librio finanziario.

Perciò, l’amministrazione negli anni successi-vi intende applicare unicamente la procedura di cui all’art. 228 Tuel ed osservare il principio contabile 3, par. 118, mantenendo in bilancio i crediti dubbi e presentando il relativo fondo svalutazione crediti a detrazione.

Il collegio, al riguardo, ritiene di convenire con quanto affermato dal comune ricorrente, consisten-do la straordinarietà del riaccertamento dei residui in una qualificazione dell’attività attinente non al pro-filo qualitativo o di tecnica, ma a quello temporale, cioè alla propedeuticità rispetto alla deliberazione del piano.

Difatti, il ricorso alla procedura di riequilibrio può avvenire in qualsiasi periodo dell’esercizio fi-nanziario, per cui il riaccertamento si impone anche

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a breve distanza da quello effettuato in via ordinaria, fermo restando che la straordinarietà richiama anche la necessità di un maggior rigore nella valutazione dei presupposti di mantenimento dei residui rispetto a quello usato nell’ultima attività di riaccertamento.

Il rilievo, tuttavia, era stato mosso al fine di appu-rare se, indipendentemente dalla scelta dello stralcio dei residui in alternativa alla costituzione del fondo svalutazione crediti per un corrispondente importo, l’ente avesse consapevolezza del fatto che l’esisten-za del carattere di dubbia esigibilità impone la neu-tralizzazione dell’effetto dell’entrata dubbia sugli equilibri di bilancio dell’ente.

Secondo il ricorrente, a partire dal 2012, con il meccanismo del consolidamento del fondo svalu-tazione crediti attraverso la creazione di un fondo vincolato, questo è sempre risultato superiore all’im-porto dei crediti di dubbia esigibilità sia per il 2012 che per il 2013.

Tuttavia, è già stato rilevato che i residui attivi di dubbia esigibilità attestati dall’ente fossero di scarsa entità nel rendiconto 2012 (la quota ammessa dai di-rigenti era di euro 13.302,829,77) e comunque fosse-ro ampiamente coperti dal fondo svalutazione crediti stanziato nel 2013 di euro 85.741.659, mentre, con riferimento al 2014, ciò non si è verificato.

La procedura di riaccertamento dei residui in vista dell’approvazione del rendiconto 2013 è sta-ta avviata con nota n. 95825 del 5 febbraio 2014 a norma degli artt. 228 Tuel e 58 del Regolamento di contabilità.

In riscontro alla stessa, i dirigenti dei centri di re-sponsabilità hanno segnalato crediti di dubbia esigi-bilità per un totale di euro 89.794.013,88 (di cui euro 15.444.477,29 relativi ad esercizi anteriori al 2008, euro 51.692.867,55 ad esercizi successivi al 2008 ed euro 22.656.669,04 derivanti da accertamenti del 2013).

Secondo il ricorrente, come da atti depositati nell’odierna adunanza, da tale somma occorrerebbe detrarre l’importo di euro 16.311.915 relativo ad una presunta entrata derivante dalla favorevole conclu-sione di un contenzioso instauratosi con il Ministe-ro dell’economia e delle finanze per il gettito Imu, con le conseguenze che i crediti di dubbia esigibilità corrisponderebbero ad euro 73.482.098,88 a fronte di un fondo vincolato sottratto all’assorbimento del disavanzo di euro 112.666.399,16.

Rispetto all’originaria previsione del fondo sva-lutazione crediti di euro 85.741.659 (finanziato in parte con il fondo vincolato di euro 33.912.659, in parte con stanziamenti di competenza per euro 51.829.000), in sede di assestamento, parte degli

stanziamenti di competenza, non potendo trasfor-marsi in accertamenti (dei 51.829.000 euro venivano accertati solo euro 11.092.220), sono stati sostituiti con maggiori accertamenti risultanti dal pre-rendi-conto 2013 per euro 45.212.169,83.

Pertanto, il Fsc del 2014 di euro 112.666.399,16 è determinato dal fondo vincolato ex d.l. n. 95/2012 proveniente dal 2013 di euro 45.004.879 (di cui euro 33.912.659 finanziato dal fondo vincolato 2012 ed euro 11.092.220 a carico del bilancio 2013), dal fondo vincolato costituito nel 2014 di euro 16.429.534,78 (di cui euro 16.311.914,78 corrispondente all’entra-ta da contenzioso Imu che era contemporaneamente considerato anche un credito di dubbia esigibilità), dal fondo vincolato di euro 27.231.985,38 (costitui-to e finanziato dal riaccertamento di residui attivi di provenienza del 2009 per circa la metà già stralciati dal bilancio 2011) e da un fondo vincolato costituito dai maggiori accertamenti derivanti dal rimborso dei crediti iva 2009 e 2010 per euro 24.000.000.

Lo stralcio dei residui attivi di dubbia esigibili-tà, nell’interpretazione propugnata da questo col-legio, comporterebbe secondo il ricorrente, la sola diminuzione del fondo svalutazione crediti a euro 22.872.385,28.

Tuttavia, si rileva che a tale importo, che costitu-isce un accantonamento ulteriore, dovevano essere aggiunte ulteriori risorse per raggiungere la quota minima legale del fondo svalutazione crediti del 20 per cento (euro 54.787.657,05) dei residui attivi di cui ai titoli I e III dell’entrata ante 2009 (pari a euro 273.938.285,23, come risulta dalla nota n. PG/34643 del 3 luglio 2014 depositata in data odierna anziché euro 292.423.380,26 come dichiarato dall’ente nel prospetto della nota n. PG/433224 del 29 maggio 2014), come stabilito dall’art. 1, c. 17, d.l. n. 35/2013, come modificato per il solo anno 2014 dall’art. 3-bis, c. 1, introdotto nel corso di questo giudizio dalla l. 2 maggio 2014, n. 68, di conversione del d.l. 6 marzo 2014, n. 16.

In altri termini, il fondo svalutazione crediti stan-ziato nel 2014 di euro 112.666,399 appare inadegua-to, in quanto deve essere composto:

- da una quota corrispondente ai residui attivi di dubbia esigibilità di euro 73.482.098,88 enunciati nella delibera giuntale n. 189 dell’1 aprile 2014 di ap-provazione della proposta di rendiconto 2013 (euro 51.692.867,55 provenienti dagli esercizi finanziari 2008-2012, euro 22.656.669,02 provenienti dall’e-sercizio finanziario 2013 ed euro 15.444.477,29 da-gli esercizi anteriori ultra-quinquennali);

- dal fondo svalutazione crediti nella misura le-gale del 20 per cento ex d.l. n. 68/2014 da calcolarsi

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sull’importo di euro 258.493.807,94 dei residui atti-vi ante 2009 (euro 273.938.285,23) decurtato della quota dei residui ultra quinquennali dei titoli I e III già computata ai sensi del precedente alinea (euro 15.444.477,29). La quota legale, pertanto, dovrebbe essere pari ad euro 51.698.761,59 (mentre nella vi-genza della norma precedente dell’art. 1, c. 17, d.l. n. 35/2013, doveva essere pari a euro 77.548.142,38).

Per effetto dei calcoli di cui sopra, il fondo stan-ziato nel bilancio 2014 attualmente dovrebbe essere pari ad almeno euro 125.180.860,47.

Perciò, per adeguare il fondo al dettato normati-vo il comune deve destinare risorse di competenza per un ammontare di euro 12.514.461,47 milioni di euro, in parte astrattamente rinvenibili dall’erronea imputazione di spesa a titolo di rimborso del fondo di rotazione per euro 7.000.000 che si illustrerà nel successivo paragrafo.

Peraltro, secondo la nota n. PG/534643 del 3 luglio 2014 depositata nell’adunanza odierna l’ente riferisce che “in base ai dati di pre-rendiconto regi-strati alla data odierna, risultano attualmente già se-gnalati dagli uffici maggiori accertamenti sui titoli primo e terzo dell’entrata per un importo comples-sivo di oltre 72 milioni di euro (…). Risulta quindi confermata ed anzi avvalorata la possibilità di desti-nare tali maggiori accertamenti, al pari di quanto già effettuato nel 2012 e nel 2013, al finanziamento di un apposito fondo vincolato sottratto all’assorbimento del disavanzo in sede di rendiconto 2014”.

5.5. Il giudizio di congruenza sul piano deve ap-puntarsi oltre che sulla corretta quantificazione dello squilibrio pregresso anche sulla corretta rappresenta-zione degli equilibri futuri.

In particolare, ci si riferisce al trattamento conta-bile previsto dal piano per le operazioni di rimborso delle anticipazioni di liquidità a valere sul fondo di rotazione ex art. 243-ter del d.lgs. n. 267/2000 e delle anticipazioni di liquidità ai sensi del d.l. n. 35/2013.

5.5.1. La Sezione regionale ha rilevato l’erronea contabilizzazione delle anticipazioni a valere sul fondo di rotazione in quanto “l’ente, iscrivendo im-propriamente nel piano pluriennale di riequilibrio tra gli stanziamenti di spesa la quota annuale di rimbor-so dell’anticipazione a valere sul fondo di rotazione, a differenza della corretta procedura seguita per l’an-ticipazione di liquidità ottenuta ai sensi dell’art. 1, c. 15, d.l. 8 aprile 2013, n. 35 convertito dalla l. 6 giu-gno 2013, n. 64, tiene conto, ai fini degli equilibri di parte corrente, di una spesa non dovuta. Tale impro-pria attribuzione genera una differenza di parte cor-rente inferiore a quanto rilevato nel piano decennale favorendo il comune nell’individuazione di risorse

che potrebbero essere utilizzate, prudenzialmente, per accrescere il fondo svalutazione crediti”.

5.5.2. Il ricorrente comune rileva, invece, che la contabilizzazione ha seguìto i dettami della Corte dei conti e del Mef-Rgs (circ. 18 febbraio 2014, n. 6) adottando il metodo del bilanciamento dell’entrata con l’impegno dell’intera somma ricevuta, generan-do per gli anni a venire residui passivi iscritti nel Tit. III della spesa cod. di bilancio 3.01.0303 int. 3, che si ridurrebbero in corrispondenza di ciascuna annua-lità dell’ammortamento. Inoltre, l’indicazione della Sezione delle autonomie contenuta nella delib. n. 14/2013 (in senso contrario la Sez. contr. reg. Ligu-ria, 17 luglio 2013, n. 65), che predilige alla forma-zione dei residui passivi, l’istituzione di un apposito fondo, sarebbe solo funzionale alla futura applica-zione della normativa in materia di competenza fi-nanziaria potenziata di cui al d.lgs n. 118/2011.

In aggiunta a tale modalità di sterilizzazione dell’entrata, l’ente ha appostato per le annualità del piano appositi stanziamenti di spesa dal 2014 al 2022. Il ricorrente afferma che tale stanziamento in-crementa le voci di spesa corrente in quegli anni tra-ducendosi in un comportamento virtuoso, in quanto il peso della restituzione non vale solo in termini di cassa ma anche di competenza.

5.5.3. La procura ritiene ragionevoli e condivisi-bili le considerazioni del comune ricorrente e “che, in tema, possa essere effettivamente dirimente e deb-ba senz’altro valere quanto il Comune di Napoli evi-denzia nel ricorso lì dove afferma che, dopo l’appro-vazione del piano, la Sezione regionale di controllo avrebbe potuto, attraverso una rigorosa verifica se-mestrale compiuta ai sensi dell’art. 243-quater, c. 6, disporre il progressivo adeguamento agli standard di contabilità potenziata di cui al d.lgs. n. 118/2011”.

5.5.4. Sul punto questo collegio ha avanzato ap-posita richiesta istruttoria al fine di comprendere il trattamento contabile effettivamente applicato ai due tipi di anticipazioni di liquidità, pervenendo alle se-guenti conclusioni.

Si premette che tali immissioni di liquidità nelle casse del comune, in quanto destinate a finanziare indistintamente spese correnti e in conto capitale, si porrebbero in contrasto con la regola aurea del divie-to di indebitamento per spese non di investimento di cui all’art. 119, u.c., Cost., qualora ad esse non venga attribuito un trattamento contabile che elida la capa-cità di dette somme di costituire “risorse aggiuntive” rispetto a quelle di bilancio.

Difatti, secondo quanto stabilisce l’art. 3, c. 17, l. 24 dicembre 2003, n. 350 non costituiscono inde-bitamento, agli effetti del citato art. 119 Cost., “le

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operazioni che non comportano risorse aggiuntive, ma consentono di superare, entro il limite massimo stabilito dalla normativa statale vigente, una momen-tanea carenza di liquidità e di effettuare spese per le quali è già prevista idonea copertura di bilancio”.

Pertanto, il finanziamento di spese correnti attra-verso indebitamento è consentito solo se sia privo del carattere di risorsa aggiuntiva, ovverosia deve essere finalizzato solo al pagamento di spese per le quali è già prevista un’idonea copertura di bilancio e rappresentare, quindi, un mero sostegno di liquidità (il divieto di cui all’art. 119, u.c., invece, riguarda il finanziamento di nuova spesa corrente o del disavan-zo di natura corrente).

Onde privare le anzidette anticipazioni della na-tura di risorsa aggiuntiva, occorre applicare un ido-neo trattamento contabile.

Con riferimento al solo fondo di rotazione, la Se-zione delle autonomie nella deliberazione 20 maggio 2013, n. 14 (antecedente quindi alla seconda stesura del piano) ha ritenuto che la tecnica contabile più appropriata, anche in vista dell’entrata in vigore del principio della “competenza finanziaria potenziata”, fosse quella di sterilizzare integralmente la contabi-lizzazione in entrata (imputata al Tit. V cod. Siope 5311 “mutui e prestiti del settore pubblico”) dal pri-mo anno di attivazione dell’anticipazione e da quelli successivi “iscrivendo nei fondi vincolati dell’eser-cizio di accertamento dell’entrata una somma, pari all’importo dell’anticipazione assegnata dal fondo di rotazione, come “fondo destinato alla restituzio-ne dell’anticipazione ottenuta dal fondo di rotazio-ne per assicurare la stabilità finanziaria dell’ente”. Negli esercizi successivi il fondo sarà progressiva-mente ridotto dell’importo pari alle somme annual-mente rimborsate con rate semestrali come previsto dal decreto del Ministro dell’interno di concerto con il Ministro dell’economia e delle finanze, in data 11 gennaio 2013, che verranno impegnate e pagate se-condo i surricordati criteri di imputazione” (imputa-zione al Tit. III della spesa tra i rimborsi di prestiti codice Siope 3311 “Rimborsi mutui e prestiti ad enti del settore pubblico”).

Diversamente, per l’anticipazione di liquidità ex d.l. n. 35/2013, per la quale si ponevano le mede-sime esigenze di sterilizzazione della registrazione contabile di entrata, la Sezione regionale di controllo per la Liguria nella delib. n. 65 del 17 luglio 2013, assunta nell’esercizio della funzione consultiva, ha propugnato il sistema della contestuale assunzione di un equivalente impegno di spesa “con una con-seguente generazione di residuo passivo pluriennale al Tit. III”.

In buona sostanza, la differenza principale tra i due sistemi è che i pagamenti delle rate di restitu-zione delle anticipazioni del fondo di rotazione sono effettuati in conto competenza, con una diminuzione di pari importo del fondo, in modo da non incide-re sul bilancio, mentre, nel caso della restituzione della quota capitale delle anticipazioni di liquidità, i pagamenti avvengono in conto residui, in quanto l’impegno contabile è stato assunto a monte dell’o-perazione di finanziamento.

Pur con le dovute precisazioni in ordine alla ne-cessità di adeguarsi al criterio adottato dalla Sezio-ne delle autonomie, dal punto di vista dell’impatto dei valori economici sui bilanci dell’ente non si ri-leva alcuna differenza, in quanto la sterilizzazione dell’entrata al fine del finanziamento di nuove risorse si compie ugualmente.

Ai fini di un piano di riequilibrio, le movimen-tazioni finanziarie in entrata ed in uscita delle anti-cipazioni da fondo di rotazione e delle anticipazioni ai sensi del d.l. n. 35/2013 eventualmente previste devono trovare evidenziazione solo nelle tabelle dei flussi di cassa, e non anche in quelle del bilancio di competenza se non per memoria, in quanto sono en-trate che non sono destinate a finanziare nuove spese.

Con l’approvazione del rendiconto 2013 (primo anno di vigenza del piano), si è palesato definiti-vamente il trattamento contabile che l’ente intende attuare, in maniera identica, con riferimento ad en-trambi i finanziamenti.

Difatti, nel rendiconto 2013 sono stati contabi-lizzati gli accertamenti di entrata al Tit. V, cat. 3, sia dell’anticipazione ex art. 1, c. 13, d.l. n. 35/2013 (euro 593.140.127,78 cod. 5032250), sia dell’antici-pazione a valere sul fondo di rotazione ai sensi degli artt. 4 e 5 del d.l. n. 174/2012 (euro 58.746.430,47 cod. 5032255) per un importo totale di euro 651.886.558,25.

A fronte di questi accertamenti di entrata, l’ente non ha adottato il metodo di sterilizzazione accolto dalla Sezione delle autonomie, ma quello della Se-zione di controllo per la Liguria, avendo assunto, sempre nell’esercizio finanziario 2013, con imputa-zione al Tit. III, int. 3, impegni di spesa per l’importo equivalente ai predetti accertamenti.

In buona sostanza, il Comune di Napoli ha già sterilizzato definitivamente l’entrata, sia pur con un trattamento contabile non validato dalla Sezione delle autonomie della Corte dei conti, ma conforme, in ogni caso, al divieto di indebitamento per spese correnti.

Senonché, il piano ha indicato all’ente, per l’am-mortamento dei finanziamenti, una strada alternativa

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rispetto al percorso già intrapreso, il quale dovrebbe proseguire con il rimborso delle anticipazioni me-diante pagamenti in conto residui, anziché, come ha statuito la Sezione delle autonomie, mediante paga-menti in conto competenza previa assunzione di un impegno apposito sui bilanci degli esercizi a venire.

Questa strada alternativa si manifesta, appunto, nella previsione, per ciascuno degli esercizi a parti-re dal 2014 fino al 2022, di stanziamenti di spesa in conto competenza per il rimborso delle anticipazioni come da tabella seguente (Omissis).

La ragione sostanziale di tale previsione è stata esplicitata dal comune nella risposta all’ordinanza istruttoria collegiale di cui alla nota n. PG/433224 del 29 maggio 2014 (p. 20), ove si dichiara che “in conseguenza dei pagamenti effettuati, nella fase di rendicontazione dell’esercizio finanziario verrà ri-dotto di pari importo l’impegno assunto nell’eserci-zio finanziario 2013”.

In definitiva, l’ente, pur avendo sterilizzato il finanziamento nel 2013 con l’assunzione di un im-pegno di spesa contestuale ed equivalente, intende finanziare direttamente con le risorse degli esercizi futuri il rimborso delle rate di ammortamento del-le anticipazioni, riducendo di una quota corrispon-dente al rimborso annuale il residuo passivo relativo all’impegno assunto nel 2013.

Siffatta pratica non è di per sé consentita dall’or-dinamento, in quanto il differimento della copertura finanziaria degli oneri di ammortamento, nel quale si risolve l’operazione sopra citata, conferisce alle anticipazioni la natura di risorsa aggiuntiva e, quin-di, di indebitamento ai sensi dell’art. 3, c. 17, l. n. 350/2003, che, ove destinato a spese correnti, come nel caso di specie, è vietato.

Come stabilisce quest’ultima disposizione, il pre-stito, per non costituire risorsa aggiuntiva, non solo non deve finanziare spese prive di copertura di bi-lancio, né nuove, né trascorse (ovvero disavanzi di amministrazione e debiti fuori bilancio), ma deve so-stanziarsi in un’operazione che consente di superare una momentanea carenza di liquidità.

A ben vedere, con quest’ultima espressione, la di-sciplina normativa si è occupata delle caratteristiche dell’ammortamento del prestito, fissando un duplice criterio d’identificazione dell’operazione non ricon-ducibile a indebitamento: quello della momentanei-tà, che impone un limite ai tempi di ammortamento del prestito (limite rimosso dal legislatore statale nei casi di specie avendo stabilito espressamente i tem-pi di restituzione) e quello della carenza di liquidità, cioè gli oneri di ammortamento non devono essere coperti da nuovi stanziamenti di entrata, perché sono

sufficienti le coperture finanziarie di bilancio, delle quali si attende esclusivamente il perfezionamento con la riscossione.

Qualora si preveda, invece, come nel caso di spe-cie, che gli oneri di ammortamento gravino sui bi-lanci di competenza futuri, il prestito si risolverebbe in un’anticipazione di utilità future sul piano della competenza, limite questo non rimosso espressa-mente dal legislatore.

Da un punto di vista sostanziale, detta previsione non inficia il piano, in quanto il trattamento contabile finora attuato, come risulta dal rendiconto 2013 la-scia ancora aperta l’alternativa, rendendo quello pia-nificato pienamente reversibile negli anni a venire.

L’aspetto di assoluta rilevanza è che l’inevitabile elisione dell’alternativa non consentita, che dovreb-be attuare il Comune di Napoli, non comporta il ve-nir meno di una risorsa, bensì di una passività.

Tale discorso riguarda gli oneri di rimborso dell’anticipazione da fondo di rotazione, i quali sono entrati nel calcolo degli stanziamenti di spesa negli equilibri di parte corrente, a differenza delle antici-pazioni di liquidità ex d.l. n. 35/2013, i cui importi sono iscritti per memoria.

Difatti, con la mera eliminazione dei predet-ti stanziamenti per il rimborso delle anticipazioni da fondo di rotazione dal piano, lo stesso verrebbe sgravato per un importo eccezionalmente rilevante, ovverosia euro 187.000.000, come si evince dalla ta-bella precedente.

La ragione di ciò è che l’ente non è stato in grado di rappresentare nella parte di piano dedicata al bi-lancio di competenza (neppure sotto forma di dimi-nuzione del disavanzo di amministrazione o di stan-ziamenti di entrata delle anticipazioni) un elemento futuro dell’operazione, ovverosia l’eliminazione anno per anno di quote dell’impegno di spesa, che il Comune prevedeva originariamente di assumere (e che effettivamente ha assunto), in misura pari all’im-porto stanziato per il rimborso delle rate di ammor-tamento.

In parte entrata non è dato rinvenire un importo corrispondente, in quanto queste passività nel piano non erano state destinate a sterilizzare un accerta-mento di entrata corrispondente, ma a sostituire un impegno.

Alla stessa conclusione erano giunte, peraltro, sia la Commissione nella relazione finale, sia la Sezione regionale di controllo avendo stigmatizzato siffatto trattamento contabile (delib. n. 12/2014 - par. 9.1 Osservazioni), in base al quale si “tiene conto, ai fini degli equilibri di parte corrente di una spesa non do-vuta”, affermando, di conseguenza, che “tale impro-

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pria attribuzione genera una differenza di parte cor-rente inferiore a quanto rilevato nel piano decennale favorendo il Comune nell’individuazione di risorse che potrebbero essere utilizzate, prudenzialmente, per accrescere il fondo svalutazione crediti”.

In definitiva, come anche chiarito dalla Sezio-ne regionale di controllo, l’ente ha sostanzialmen-te stanziato delle somme non utilizzabili destinate, quindi, a realizzare economie di bilancio nel corso del piano, quantificabili complessivamente in euro 187.000.000, che costituiscono una voce prudenzial-mente da accantonare a copertura di futuri eventuali decrementi di entrate.

Ai fini della valutazione di congruenza del piano questo aspetto assume rilevanza preponderante, in quanto il giudizio di veridicità e attendibilità delle previsioni deve riguardare qualsiasi elemento posi-tivo o negativo rilevante che possa incidere sulla so-stenibilità finanziaria del piano.

Pertanto, il piano è gravato nei restanti nove esercizi, compreso il 2014, da una passività di euro 187.000.000 che non deve essere contabilizzata, pari cioè a circa un terzo del disavanzo di amministrazio-ne 2013, che va a controbilanciare i possibili aspet-ti negativi che incidono sulla quantificazione delle passività da ripianare e delle misure di risanamento.

Nell’apposito paragrafo si tratterà, invece, dell’influenza di tali anticipazioni sulla previsione dei “flussi di cassa”.

6. Le misure di riequilibrio della massa passiva di euro 1.433.187.157,06 (euro 783.187.157,06 di disa-vanzo di amministrazione, euro 86.802.125,49 di de-biti fuori bilancio, euro 552.961.007,26 di passività potenziali) erano le seguenti:

a) dismissione del patrimonio immobiliare (pun-to 9.6 del piano) e di partecipazioni azionarie de-stinata al ripiano del disavanzo di amministrazione 2012 (valore della misura euro 783.187.157,06);

b) razionalizzazione delle società controllate o partecipate a maggioranza dal comune;

c) applicazione delle aliquote delle tariffe nella misura massima prevista dalla legge;

d) rimodulazione tributi propri e servizi a doman-da individuale;

e) risparmi di spesa del personale;f) taglio delle spese per servizi e trasferimenti.La copertura finanziaria del disavanzo di am-

ministrazione 2012 veniva individuata nei proventi delle alienazioni del patrimonio immobiliare del de-cennio a venire (2013-2022), e, per la quota residua di 50 milioni di euro, nella vendita di quote di parte-cipazioni societarie minoritarie. (Omissis)

6.1. In ordine alle dismissioni immobiliari, la Sezione regionale di controllo ha rilevato una prima criticità nel differimento della copertura del disavan-zo di amministrazione, sulla scorta anche di quan-to evidenziato dalla Sezione delle autonomie nella delib. 20 dicembre 2012, n. 16, secondo la quale “la maggiore ampiezza del tempo di esecuzione del piano, protratto in sede di conversione ad un arco decennale, vincola anche le future gestioni per cui la graduazione, negli anni di durata del piano, della percentuale del ripiano del disavanzo di amministra-zione e degli importi da prevedere nei bilanci per il finanziamento dei debiti fuori bilancio (art. 243-bis, c. 6, lett. d) deve privilegiare un maggior peso delle misure nei primi anni del medesimo piano e, preferi-bilmente, negli anni residui di attività della consilia-tura e comunque nei primi 5 anni”.

Al riguardo la procura generale evidenzia che “nelle linee guida allegate alla deliberazione delle Sezione delle autonomie è dato leggere la seguen-te frase: “sul punto non va trascurato di considerare che, pur in presenza di una rigorosa impostazione dei criteri di risanamento della gestione, la maggiore am-piezza del tempo di esecuzione del piano, protratto in sede di conversione ad un arco decennale, vincola anche le future gestioni per cui la graduazione, negli anni di durata del piano, della percentuale del ripiano del disavanzo di amministrazione e degli importi da prevedere nei bilanci per il finanziamento dei debiti fuori bilancio (art. 243-bis, c. 6, lett. d) deve privi-legiare un maggior peso delle misure nei primi anni del medesimo piano e, preferibilmente, negli anni residui di attività della consiliatura e comunque nei primi 5 anni”.

Tuttavia, prosegue la procura, “esiste una diffe-renza, palese e innegabile in termini giuridici, tra ciò che può essere eventualmente “privilegiato” in sede valutativa e ciò che, invece, la legge in ogni caso pre-vede e permette e l’art. 243-bis Tuel espressamente e testualmente prevede e permette (c. 8) che si debba procedere alla pianificazione (e quindi ad una corri-spondente valutazione, anche negativa, da parte del-la Sezione del controllo) del “graduale riequilibrio finanziario, per tutto il periodo di durata del piano”.

Sul punto, queste Sezioni riunite ritengono di concordare con quanto affermato dalla sezione re-gionale, sia pur facendone derivare diversi effetti.

La linea interpretativa dell’organo di coordina-mento delle sezioni regionali appare condivisibile per tre ordini di motivi:

- per ragioni di opportunità che l’amministrazio-ne pianificante coincida il più possibile con l’ammi-nistrazione destinata a dare attuazione al piano;

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- per il rispetto di un principio di equità interge-nerazionale, corollario del principio di solidarietà di cui all’art. 2 Cost., in virtù del quale l’onere fi-nanziario deve essere prossimo alle generazioni che beneficiano delle politiche di spesa (il disavanzo di amministrazione è dato da politiche di spesa passate prive di copertura);

- per motivi di sostegno alla cassa dell’ente. In-fatti, l’emersione di consistenti disavanzi di ammi-nistrazione non finanziabili se non con procedure ex art. 243-bis Tuel si accompagna a situazioni di cassa deficitarie e, qualora neppure l’anticipazione di tesoreria sia sufficiente a sostenere gli obblighi di pagamento, all’accumulo di una consistente massa debitoria. Fermo restando che il legislatore non ha imposto specifiche prescrizioni sul punto, differire nel tempo la copertura finanziaria del disavanzo si-gnifica non adeguare la pianificazione alle esigenze di cassa, il che sarebbe teoricamente motivo di in-congruenza del piano.

Senonché, laddove l’ente decida, nel quadro del-le misure di riequilibrio, di aderire anche alle misure straordinarie di sostegno alla liquidità previste dal legislatore (fondo di rotazione ex art. 243-ter e anti-cipazione di liquidità ex art. 1, c. 13, d.l. n. 35/2013 che di per sé rientrano nel potere del legislatore na-zionale di disciplinare le regole dell’accesso al credi-to degli enti territoriali come recentemente affermato dalla Corte costituzionale nella sent. 23 giugno 2014, n. 188), le esigenze di collimatura (non di copertura) tra cassa e competenza mutano di oggetto, dal paga-mento della debitoria all’ammortamento delle anti-cipazioni.

Queste ultime, essendo concepite come prestiti con rimborso a 10/30 anni a rate costanti, consentono una corrispondente e uniforme distribuzione tempo-rale della copertura finanziaria del disavanzo, coper-tura che deve, tra l’altro, realizzarsi in un tempo più breve (10 anni) rispetto a quello di ammortamento dell’anticipazione ex d.l. n. 35/2013 (30 anni). Tale esigenza si ritiene possa anche essere compatibile con il principio di equità intergenerazionale al qua-le si faceva riferimento dianzi, in quanto a monte vi è stata una valutazione del legislatore in ordine alla comunanza tra generazioni passate e future dell’inte-resse al bene della stabilità finanziaria delle autono-mie territoriali, che trova contemperamento nell’an-ticipo della copertura finanziaria del disavanzo di amministrazione rispetto agli obblighi di rimborso dell’anticipazione di liquidità.

Nel caso di specie, il disavanzo di amministrazio-ne è pari ad euro 783.187.157,06, mentre l’anticipa-zione di liquidità accordata è di euro 813.140.127,78

(di cui euro 593.140.127,78 ex d.l. n. 35/2013 ed euro 220.000.000 da fondo di rotazione) e le esi-genze di pagamento nel decennio del piano ad essa connesse ammontano ad euro 475.685.225,52 (euro 198.000.000 per restituzione dell’anticipazione da fondo di rotazione ed euro 277.685.225,52 per am-mortamento dell’anticipazione di liquidità a cassa depositi e prestiti).

In linea teorica, una corretta esecuzione del pia-no dovrebbe portare, quindi, al termine del periodo, ad un rilevante surplus di cassa essendo le esigenze di copertura complessive del decennio superiori, per più di 300 milioni di euro, a quelle di pagamento.

6.1.1. Sempre in ordine alle dismissioni immobi-liari, la Sezione regionale ha rilevato un numero di immobili oggetto di dismissioni sensibilmente infe-riore rispetto a quello che il piano intendeva effetti-vamente utilizzare.

Nel piano originario, il Comune di Napoli, in-vero con estrema laconicità, inadeguata rispetto al peso della risorsa, riferisce che “la dismissione del consistente patrimonio immobiliare dell’ente costi-tuisce una delle leve principali per far fronte al ri-piano del disavanzo. Al fine di dare maggiore tenuta ed effettività al piano stesso, sono stati considerati unicamente gli immobili, appartenenti al patrimonio disponibile ed Erp, già contenuti nell’attuale piano di dismissione. Per ulteriori informazioni, si rinvia alle relazioni allegate”.

Il comune rinviava, quindi, alle relazioni alle-gate per ulteriori informazioni, mentre considerava nel piano di riequilibrio unicamente gli immobili già contenuti nell’attuale piano di dismissione (di cui alle del. n. 47/2004 per il patrimonio disponibile e n. 10/2006 per il patrimonio Erp), al fine di dare mag-giore tenuta ed effettività al piano stesso.

Il ricorrente lamenta che il piano, in realtà, non limitasse la manovra ai soli immobili del piano di dismissione, ma la estendesse a tutti quelli inseriti nelle relazioni allegate (il cui valore supera in totale 3,5 mld) e che, solo per un principio di prudenza, erano stati considerati unicamente i valori economici corrispondenti ai ricavi attesi dalla vendita dei beni già programmata.

Quindi, secondo la difesa del ricorrente, nel com-puto della dismissione vanno calcolati anche 3.024 (dei 3.431) beni disponibili (e potenzialmente vendi-bili) non ancora in dismissione, per un valore poten-ziale di vendita di euro 177.037.561,21 e 35.565 (dei 36.791) beni indisponibili non in dismissione per un valore potenziale di vendita di 2.264.243.329,59 euro.

Sul punto la procura “data la natura delle censu-re mosse tramite il motivo di ricorso” ha ritenuto di

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“lasciare alle autonome valutazioni del collegio giu-dicante la puntuale verifica degli elementi addotti in censura dal Comune, dovendosi operare un mero raf-fronto tra i conteggi effettuati dalla Sezione e quelli indicati dal ricorrente sulla base della documentazio-ne messa a corredo del piano. Si può qui solo dire che la discrasia è evidente e che effettivamente sem-bra vi siano state letture diversificate dei dati eviden-ziati nella relazione presentata dal Comune”.

6.1.2. Le relazioni consistono nella nota n. 50659 del 21 gennaio 2013 del Servizio patrimonio e dema-nio, munita di un allegato denominato “relazione per la definizione dei valori inventariali e di stima del patrimonio potenzialmente vendibile”, a sua volta avente 4 elenchi annessi.

In tali elenchi, basati sui dati ufficiali forniti dal precedente gestore Romeo gestioni in data 15 dicem-bre 2012, sono ricompresi beni oggetto del piano di dismissione (all. A), beni disponibili non in dismis-sione (all. B), beni indisponibili non in dismissione (all. C) e beni demaniali (all. D).

L’all. A conteneva un numero di 15.356 unità im-mobiliari (2.351 del patrimonio disponibile e 13.005 del patrimonio Erp) per un valore potenziale di ces-sione di 1,06 miliardi di euro.

Sul punto, queste Sezioni riunite ritengono di aderire alla prospettazione del ricorrente.

Occorre considerare che il piano di riequilibrio è uno strumento di pianificazione attraverso il quale non vengono posti vincoli di destinazione alle en-trate, ma vengono effettuate solo mere previsioni di medio-lungo periodo, il livello di dettaglio delle qua-li non può spingersi ad individuare con esattezza, ad esempio, quale bene vendere.

D’altronde, l’esito negativo del monitoraggio semestrale, cioè il mancato raggiungimento degli obiettivi intermedi che porterebbe al dissesto finan-ziario ai sensi dell’art. 243-quater, c. 7, deve essere grave e ripetuto, cioè evidenziare un trend negativo di breve periodo e non l’inesatta esecuzione del pia-no pur corrispondente al trend programmato.

Per questo motivo la funzione del piano non è quella di porre dei vincoli di spesa o di entrata, ma di illustrare la capacità dell’ente di conseguire il ri-sanamento con le disponibilità di bilancio, ovvero la sostenibilità finanziaria.

Non assume, pertanto, rilevanza la specificazione della singola risorsa o del singolo intervento di spe-sa, purché sia evincibile in atti la capacità dell’ente di raggiungere attraverso la vendita di quanto dispo-nibile la monetizzazione pianificata.

In tal senso appare debba essere inquadrata l’af-fermazione dell’ente che finalizza alla maggiore te-

nuta ed effettività del piano l’individuazione (“uni-camente”) di una parte degli immobili.

Tale affermazione evidentemente tende a preci-sare che lo stato di avanzamento delle procedure di alienazione di detti immobili avrebbe consentito di anticipare l’accertamento di entrata, senza il bisogno di avviare nuove procedure di vendita per soddisfare le esigenze pianificatorie.

Pertanto, l’espressione utilizzata assume una va-lenza meramente descrittiva non solo perché quella del piano non è la sede idonea a stabilire un vincolo di specifica destinazione sui proventi di vendita di determinati immobili, la cui apposizione è riservata agli atti amministrativi esecutivi, ma anche perché essa non preclude, in futuro, la traslazione del vinco-lo di destinazione su altri beni immobili, la cui pre-senza e alienabilità è stata illustrata nel piano.

6.1.3. Sul tema delle dismissioni il Comune ha previsto la totale destinazione dei proventi della ven-dita degli alloggi Erp al ripiano del disavanzo di am-ministrazione.

La Sezione ha, invece, rilevato l’illiceità della destinazione a detto fine del 75 per cento dei proven-ti delle alienazioni degli alloggi Erp per un totale di euro 345.000.000, che, sottratti agli euro 896.066.943 dei ricavi attesi, riducevano a 551 milioni di euro cir-ca i proventi delle alienazioni utilizzabili.

A tal fine, la Sezione ha richiamato quanto pre-visto dall’art. 5 della l. reg. 12 dicembre 2003, n. 24.

Secondo detta norma “1. Le risorse derivanti dall’alienazione degli alloggi di edilizia residenzia-le pubblica sono destinate a piani di recupero e di riqualificazione – anche attraverso acquisizione di aree – nonché alla costruzione di nuovi alloggi ed altre finalità tese a dare risposte ai bisogni abitativi. 2. Le risorse di cui al c. 1 possono essere utilizzate fino al settantacinque per cento del ricavato. La quo-ta restante è utilizzata per il ripianamento del deficit degli enti proprietari”.

Parte ricorrente deduce che, in realtà, la norma identifica il 75 per cento come tetto massimo per l’u-tilizzo delle risorse predette ai fini dei piani di recu-pero, riqualificazione e costruzione di nuovi alloggi; la restante parte, non quantificata trattandosi della quota residua di quella non utilizzata nell’esercizio di detta facoltà, deve essere destinata al ripiano dei deficit degli enti proprietari.

La ratio legis sarebbe, pertanto, che i ricavi da vendita degli alloggi del patrimonio residenziale pubblico, se non sono utilizzati, anche per il totale, per finanziare lo svolgimento della funzione Erp, de-vono essere destinati necessariamente al ripianamen-to del deficit.

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Inoltre, il ricorrente ritiene che la dismissione di un alloggio di edilizia residenziale pubblica sia già, sostanzialmente, esercizio della funzione Erp poiché consente ai singoli assegnatari degli alloggi di acqui-stare l’abitazione in cui risiedono a prezzi inferiori a quelli di mercato.

In ogni caso, sostiene il comune ricorrente, con il ricorso alla procedura di cui all’art. 58 del d.lgs. n. 112/2008, l’inserimento degli immobili nel piano delle alienazioni e valorizzazioni immobiliari allega-to al bilancio di previsione, determinando la conse-guente classificazione come patrimonio disponibile, determinerebbe il venir meno del vincolo previsto dalla legge regionale.

Al riguardo la procura ha reputato fondate in punto di diritto le doglianze del ricorrente, per cui il limite del 75 per cento non sembra configurare un minimo inderogabile.

Inoltre, il pubblico ministero ha evidenziato che la “materia” dell’Erp, sebbene non sia espressamen-te contemplata dall’art. 117 Cost., “si estende su tre livelli normativi”, il terzo dei quali, rientrante nel c. 4 dell’art. 117 Cost., riguarda la gestione del patri-monio immobiliare di edilizia residenziale pubblica di proprietà degli Istituti autonomi per le case popo-lari o degli altri enti che a questi sono stati sostituiti ad opera della legislazione regionale (v. sent. Corte cost. n. 121/2010 e n. 94/2007).

Il primo livello normativo “riguarda la determi-nazione dell’offerta minima di alloggi destinati a soddisfare le esigenze dei ceti meno abbienti. In tale determinazione – che, qualora esercitata, rientra nel-la competenza esclusiva dello Stato ai sensi dell’art. 117, c. 2, lett. m), Cost. – si inserisce la fissazione di principi che valgano a garantire l’uniformità dei criteri di assegnazione su tutto il territorio nazionale, secondo quanto prescritto dalla sent. n. 486/1995”.

Il secondo livello normativo riguarda la program-mazione degli insediamenti di edilizia residenziale pubblica, che ricade nella materia “governo del terri-torio”, ai sensi dell’art. 117, c. 3, Cost., come preci-sato con la sent. n. 451/2006.

Il terzo livello normativo, rientrante nel c. 4 dell’art. 117 Cost., riguarda “la gestione del patri-monio immobiliare Erp di proprietà degli Istituti au-tonomi per le case popolari o degli altri Enti che a questi sono stati sostituiti ad opera della legislazione regionale” (sent. n. 94/2007).

Nella sent. n. 486/1995, secondo la procura, il Giudice delle leggi ha espressamente individuato e circoscritto un titolo competenziale statale nella definizione di criteri uniformi per tutto il territorio nazionale quanto all’assegnazione degli immobili

ai ceti meno abbienti, ma tra le competenze statali esercitabili (o in concreto esercitate) in nessun modo figura o si iscrive la prefissazione per legge di un cri-terio percentuale univoco nazionale per la dismissio-ne del patrimonio immobiliare Erp. Inoltre, il piano di rientro non ha “previsto una totale dismissione immobiliare tale da compromettere i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territo-rio nazionale attraverso una devoluzione dei proventi (ricavi) per il loro intero ammontare al fine del ripia-no del disavanzo”.

Sul punto queste Sezioni riunite giungono, sia pur con diversa motivazione, alle medesime conclu-sioni del ricorrente e della procura.

Occorre innanzitutto precisare che non si pone una questione di conflitto tra norme statali e norme regionali non risolvibile con il criterio della succes-sione delle leggi nel tempo.

Il prefato c. 1 dell’art. 5 appare riprodurre l’ana-loga disposizione di cui all’art. 1, c. 5, l. 24 dicembre 1993, n. 560, in virtù della quale “l’alienazione di alloggi di edilizia residenziale pubblica è consenti-ta esclusivamente per la realizzazione di programmi finalizzati allo sviluppo di tale settore”. Tale norma, che sanciva perentoriamente l’esclusività della desti-nazione ai programmi di sviluppo del settore, è stata sostituita dall’art. 5, c. 1, l. reg. n. 24/2003, come previsto dalla clausola generale di cui all’art. 1, c. 2, della medesima legge, secondo la quale “per tutto quanto non previsto dalla presente legge si applicano le disposizioni della l. n. 560/1993 e l. reg. 2 luglio 1997, n. 18”.

Non persiste il conflitto tra norma regionale e statale neppure nei confronti dell’art. 1, c. 14, l. n. 560/1993, secondo il quale “le regioni, su proposta dei competenti Iacp e dei loro consorzi comunque denominati e disciplinati con legge regionale, de-terminano annualmente la quota dei proventi di cui al c. 13 da destinare al reinvestimento in edifici ed aree edificabili, per la riqualificazione e l’incremen-to del patrimonio abitativo pubblico mediante nuove costruzioni, recupero e manutenzione straordinaria di quelle esistenti e programmi integrati, nonché ad opere di urbanizzazione socialmente rilevanti. Detta quota non può comunque essere inferiore all’80 per cento del ricavato. La parte residua è destinata al ri-piano dei deficit finanziari degli Istituti”.

Infatti, la norma è stata sostituita da quella analo-ga dell’art. 5, c. 2, l. reg. n. 24/2003.

La questione si appunta esclusivamente sulla norma regionale, la quale sembra prestarsi ad un’in-terpretazione letterale nel senso di consentire l’uti-lizzo dei proventi in maniera indifferenziata secondo

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le due esigenze – direttamente tese a dare risposta ai fabbisogni abitativi e di ripiano dei deficit – stabilen-do un tetto massimo per la destinazione alla prima delle due.

La correttezza di tale orientamento è evincibile dall’utilizzo, nel secondo comma del predetto artico-lo, delle espressioni “possono”, che indica una facol-tà e non un obbligo di utilizzo ai fini Erp, “fino al” che richiama il concetto di tetto massimo dell’eser-cizio della predetta facoltà, “la quota restante”, che impone un vincolo di destinazione per i proventi non utilizzati ai fini Erp indipendentemente dal valore della percentuale di non utilizzazione.

In tal modo il legislatore regionale ha riconosciu-to l’autonomia degli enti circa il riparto dei proventi tra le due alternative di impiego, salvo il rispetto del tetto di cui sopra.

Del resto, a ben vedere, i proventi destinati alla copertura dei deficit non avrebbero la funzione di fi-nanziare future spese, ma di sopperire alla mancata realizzazione di entrate.

Il legislatore regionale, in buona sostanza, ha ri-tenuto che il bene della “stabilità finanziaria” degli enti proprietari possa essere allo stesso modo, anche se in via indiretta e preventiva, funzionale al perse-guimento dei futuri programmi di Erp, ferma restan-do per gli enti locali proprietari la regola della desti-nazione dei proventi della vendita di beni immobili fissata dall’art. 193 Tuel, con l’eccezione prevista in caso di ricorso al fondo di rotazione nel quadro del piano di riequilibrio finanziario pluriennale.

La questione circa la valenza del piano delle alie-nazioni e valorizzazioni immobiliari ex art. 58, c. 2, d.l. 25 giugno 2008, n. 112, convertito dalla l. 6 ago-sto 2008, n. 133, prospettata dal ricorrente, non ha pregio.

Non sarebbe valsa a rimuovere un eventuale vin-colo di destinazione dei proventi impresso dal legi-slatore regionale l’approvazione del piano delle alie-nazioni e valorizzazioni immobiliari ex art. 58, c. 2, d.l. 25 giugno 2008, n. 112, convertito in l. 6 agosto 2008, n. 133: difatti, quest’ultima è una norma fina-lizzata meramente all’accelerazione delle procedure di vendita. Secondo essa “l’inserimento degli immo-bili nel piano ne determina la conseguente classifi-cazione come patrimonio disponibile” e non l’appo-sizione di una diversa destinazione dei proventi di vendita.

Del pari, non merita accoglimento la prospetta-zione in ordine alla sufficienza della corrispondenza alla funzione Erp della dismissione di un alloggio di edilizia residenziale pubblica, in quanto essa consen-tirebbe ai singoli assegnatari degli alloggi di acqui-

stare l’abitazione in cui risiedono a prezzi inferiori a quelli di mercato.

Senza dubbio tale corrispondenza esiste, ma essa non varrebbe a rimuovere un eventuale vincolo di destinazione dei proventi delle dismissioni.

Del resto, l’art. 5, c. 1, l. reg. n. 24/2003 finalizza espressamente le “risorse” derivanti dall’alienazione a “piani di recupero e di riqualificazione – anche at-traverso acquisizione di aree – nonché alla costruzio-ne di nuovi alloggi ed altre finalità tese a dare rispo-ste ai bisogni abitativi”, individuando, quindi, la mo-dalità con la quale, attraverso l’utilizzo dei proventi, si dovrebbe raggiungere ordinariamente la finalità di dare risposta ai bisogni abitativi.

Laddove si fosse addivenuti all’interpretazione opposta, in ogni caso, il patrimonio immobiliare di-sponibile non destinato ad edilizia residenziale pub-blica sarebbe stato in grado di fornire ampia garanzia di fungibilità dei beni immobili destinati ad Erp con i beni del patrimonio disponibile.

Pertanto, in disparte tali ultime considerazioni che non inficiano le argomentazioni innanzi svolti, la censura della Sezione regionale di controllo non è fondata.

6.1.4. Inoltre, la Sezione regionale di controllo ha rilevato l’assenza del cronoprogramma delle di-smissioni.

L’ente non è stato in grado di fornire il cronopro-gramma delle attività a seguito di apposite richieste della commissione e della sezione, il che preclude-rebbe il controllo sul raggiungimento degli obiettivi intermedi da parte dell’ente nel decennio.

Il ricorrente ritiene, al riguardo, che le attività da compiersi siano complesse soprattutto per gli alloggi Erp e che il gestore Napoli Servizi s.p.a., con uno schema riepilogativo del 3 marzo 2014, ha comun-que rappresentato che il processo coinvolgerà nel 2014 10.000 cespiti in modo da conseguire nel breve periodo un risultato di vendita di 3.000 unità.

Il Comune aveva comunque definito l’importo che riteneva di incamerare anno per anno, unitamen-te ad un istogramma di attività.

In vista della proposizione del ricorso, inoltre, il Servizio demanio, patrimonio e politiche per la casa con nota n. 213103 del 14 marzo 2014 ha identificato un piano di lavoro per la vendita di 480 unità immo-biliari già opzionate dai locatari.

Il pubblico ministero sul punto ha eccepito l’e-sistenza di un’oggettiva carenza istruttoria da parte della Sezione del controllo, posto che, da un lato, sembra essere stata sottostimata la specifica ed og-gettiva complessità dell’operazione pianificata dal comune (che è comune di grandi dimensioni, oltre

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che notoriamente affetto da situazioni altamente sen-sibili locali proprio nella materia dell’edilizia resi-denziale), e, dall’altro lato, sembra essere stata enun-ciata nella deliberazione un’affermazione tranciante, che considera l’assenza di un cronoprogramma al massimo dettaglio essere addirittura una circostanza idonea a precludere in toto, anche per le fasi succes-sive, i controlli che la stessa Sezione regionale è dal-la legge onerata ed abilitata a fare nel corso dell’inte-ro decennio e circa il raggiungimento degli obiettivi intermedi.

Anche su questo specifico aspetto queste Sezioni riunite convengono con il ricorrente e la procura.

L’adempimento dovrebbe essere riconducibile all’art. 243-bis, c. 6, lett. c), Tuel, che recita “6. Il piano di riequilibrio finanziario pluriennale deve te-nere conto di tutte le misure necessarie a superare le condizioni di squilibrio rilevate e deve, comun-que, contenere: (…) c) l’individuazione con relativa quantificazione e previsione dell’anno di effettivo realizzo, di tutte le misure necessarie per ripristina-re l’equilibrio strutturale del bilancio, per l’integrale ripiano del disavanzo di amministrazione accertato e per il finanziamento dei debiti fuori bilancio entro il periodo massimo di dieci anni, a partire da quello in corso alla data di accettazione del piano”.

La norma impone di individuare le misure di rie-quilibrio, quantificarle (da un punto di vista finanzia-rio) e prevedere “l’anno” di effettivo realizzo.

La norma, cioè, non richiede di indicare con pre-cisione la scansione procedimentale delle attività di attuazione del piano (nella specie quelle strumentali alle vendite), essendo sufficiente, ai fini della vali-dità del piano, la fissazione degli obiettivi intermedi annuali.

Tale adempimento è stato assolto dal Comune di Napoli avendo specificato anno per anno i corrispet-tivi di vendita attesi.

L’assenza del cronoprogramma non è preclusiva del monitoraggio semestrale: difatti, è onere e non obbligo dell’ente stabilire i risultati attesi per ogni semestre, anche al fine di coadiuvare l’organo di re-visione e la sezione nella formulazione di un giudi-zio circostanziato sul raggiungimento degli obiettivi, che, altrimenti, sarebbe lasciato al loro prudente ap-prezzamento.

In ogni caso, queste Sezioni riunite, in sede istruttoria, hanno richiesto una relazione illustrativa circa la connessione tra le già prospettate attività di dismissione dei beni immobili patrimoniali (disponi-bili ed Erp) e le previsioni di accertamento di entrate a copertura del disavanzo di amministrazione 2012 inserite nel piano di riequilibrio.

Alla luce della contestata congruità degli impor-ti previsti in ordine all’alienazione degli immobili, occorreva conoscere quali fossero stati i criteri di previsione adottati dall’amministrazione comunale per identificare le quote annuali dei proventi destina-ti al ripiano del disavanzo di amministrazione 2012, non solo sul piano della competenza (ove gli accer-tamenti di entrata previsti dovrebbero corrispondere a previsioni di conclusioni dei contratti di vendita), ma anche su quello della cassa, atteso che le riscos-sioni dei proventi conseguite nel 2013 (primo anno di validità del piano) erano di importo sensibilmente inferiore rispetto a quanto atteso.

L’ente ha risposto alla richiesta ritenendo che le dismissioni non assumono carattere preponderante rispetto al conseguimento degli obiettivi e che co-stituiscono una sorta di “fondo di garanzia” che va a sommarsi agli effetti connessi all’attuazione del complesso delle altre misure di risanamento (ridu-zione della spesa, incremento delle entrate, manu-tenzione dei residui e altre politiche di risanamen-to, quali le iniziative per la riduzione dei costi delle società partecipate, la riorganizzazione dei servizi tributari, e così via), la cui realizzazione conferisce essa stessa maggiore attendibilità al programma di risanamento in corso.

Sul punto, queste Sezioni riunite osservano che la più rilevante misura di risanamento (circa la metà del piano) non appare relegabile ad una mera funzione di garanzia; tuttavia, tale misura, come del resto tutte le misure di risanamento, sconta, nel primo periodo di attuazione, le difficoltà connesse al mutamento orga-nizzativo, che si accompagna inevitabilmente al rie-quilibrio e che, nel caso di specie, assume maggiore intensità a causa della reinternalizzazione della fun-zione di gestione del patrimonio da Romeo gestioni.

In risposta alla richiesta istruttoria, l’ente ha di-chiarato che:

- i parametri presi in considerazione dal Comune ai fini del computo delle alienazioni tengono conto di quelle già effettuate fino al 31 dicembre 2012 e, quindi, sono particolarmente attendibili, considerata l’elevata dimensione del campione statistico esami-nato;

- in sede di stima dei ricavi di vendita si è ritenu-to di dover detrarre l’importo dei corrispettivi che, anche se accertato nel decennio, verrà riscosso dopo il 2022, nei casi in cui il pagamento rateale è consen-tito in forza di legge o regolamenti;

- l’importo complessivo del ricavato da aliena-zioni immobiliari costituisce la previsione di accer-tamento dell’entrata sia in termini di competenza che di cassa;

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- per le alienazioni 2014 si è effettuato un calcolo percentuale prendendo come riferimento i dati delle vendite degli ultimi due anni, per cui si prevedono rogiti per 838 alloggi Erp e 145 alloggi disponibili.

Pertanto, si ritiene che, anche in relazione alle circostanze di fatto emerse, l’assenza del cronopro-gramma non risulti essenziale.

6.1.5. Ulteriore profilo di incongruenza del piano sollevato dalla Sezione regionale di controllo per la Campania era dato dall’esito dei precedenti piani di dismissione approvati con le delibere di consiglio n. 47/2004 e n. 10/2006, che avrebbe reso poco rassi-curanti le previsioni di vendita indicate nel piano di riequilibrio.

La Sezione riteneva che dal 2006 al 5 dicembre 2012 su un patrimonio composto da 15.536 unità erano stati dismessi in 7 anni solo 2.622 immobili, cioè il 16,87 per cento dell’intero patrimonio; delle 2.622 unità dismesse solo per il 73 per cento era stato stipulato un contratto di compravendita e di queste ultime solo circa il 35 per cento ha prodotto entrate approssimativamente per euro 52.000.000.

Il ricorrente ha eccepito, invece, che:- erano stati venduti e rogitati tutti i 3.456, anzi-

ché 2.622, immobili (di cui 484 appartenenti al pa-trimonio disponibile e 2972 al patrimonio Erp), per proventi accertati di euro 196.992.549,39 e che la percentuale rispetto al totale dei beni posti in vendita era del 22,25 per cento;

- che le vendite non riguardavano l’intero patri-monio, messo tutto in vendita, ma una parte;

- che il piano del 2006 era rimasto inattuato fino all’insediamento dell’attuale amministrazione la quale, imprimendo anche su questo fronte un deciso cambio di rotta rispetto al passato, si era fattivamente adoperata ai fini dell’alienazione del patrimonio, tan-to che il 90 per cento delle vendite innanzi elencate erano state realizzate nel triennio 2011/2013 (delle 3.456 unità immobiliari vendute solo 371 lo erano state nel quinquennio 2006-2010, mentre le rimanen-ti 3.085 nel quadriennio 2011-2013 in stretta sinergia con l’ex gestore del patrimonio).

In relazione a tale aspetto queste Sezioni riunite ritengono che, alla luce delle rilevazioni effettuate dall’ente e delle prospettive di cui al precedente sot-toparagrafo, le previsioni siano attendibili e congrue, specialmente alla luce delle modifiche organizzative intraprese, ma non ancora a regime. Ciò anche alla luce delle considerazioni che seguono. (Omissis)

6.1.7. Infine, sul conseguimento dell’obietti-vo programmato nel 2013, la Sezione regionale, nel prendere atto delle affermazioni del Comune sull’avvenuto conseguimento dell’obiettivo, ritiene

l’affermazione non suffragata da alcuna evidenza contabile.

Nel ricorso il comune ha presentato l’attestazione sul punto del ragioniere generale e del dirigente del Servizio demanio, patrimonio e politiche per la casa.

Nella memoria di comparsa del comune si è il-lustrata la proposta di approvazione del rendiconto di gestione 2013 di cui alla deliberazione giuntale n. 189 dell’1 aprile 2014, che ha evidenziato una ri-duzione del disavanzo di amministrazione dal 2012 (euro 783.187.157) al 2013 (euro 702.703.465,47) di euro 80.483.691,53, quasi tripla rispetto alla riduzio-ne programmata del disavanzo di 31 milioni di euro. Il che testimonierebbe sul piano fattuale la congruità del piano.

La riduzione del disavanzo sarebbe la conseguen-za dell’attività di alienazione dei beni del patrimonio immobiliare per 31 milioni di euro e delle altre mi-sure di risanamento per i restanti 49 milioni. La pro-iezione nei dieci anni di questo recupero porterebbe a 490 milioni la potenzialità di recupero delle altre misure di risanamento.

Il risultato del 2013 evidenzia il carattere pruden-ziale delle previsioni in forza del quale la mancata o parziale realizzazione di una delle misure di risa-namento potrà essere agevolmente compensata dai risultati delle altre misure.

Allegata alla memoria è stata depositata la deli-berazione di giunta n. 189 dell’1 aprile 2014 di pro-posta di approvazione del rendiconto 2013 e, in vista dell’udienza odierna, la deliberazione consiliare n. 20 del 15 aprile 2014 di approvazione del rendiconto 2013.

A riscontro dell’ordinanza istruttoria l’ente ha riferito che per le vendite del 2013 l’obiettivo è stato raggiunto a cavallo tra il 2012 e il 2013, in quanto l’amministrazione ha avuto contezza solo nel 2013 di un’ulteriore tranche di rogiti effettua-ti nel mese di dicembre 2012 per un controvalore di euro 11.483.503,12, che, aggiungendosi a euro 23.142.175,44, ha comportato la vendita di 825 al-loggi per un controvalore di euro 34.625.678,56.

L’ente ha anche spiegato la scarsità degli incassi del 2013 di euro 17.747.539,48 (euro 4.926.828,76 nel 2012 ed euro 12.820.710,72 nel 2013), di cui sono stati riscossi solo euro 1.748.213,91, in quan-to è ancora pendente un contenzioso con l’ex gesto-re che ha accantonato su un conto dedicato tutte le somme incassate dalle vendite effettuate dal 15 set-tembre 2012 al 15 aprile 2014 e le cauzioni versate dall’1 novembre 2012, mentre le rate di dilazione degli immobili Erp sono state incassate su conti del Comune a partire dalla rata di maggio 2013.

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In sede di ordinanza istruttoria queste Sezioni riunite hanno chiesto anche una tabella aggiornata relativa ai risultati conseguiti nel 2013 relativamen-te ai prospetti della “Sezione seconda risanamento aggiornamento” 1.1, 1.2 e flussi di cassa di cui alla delibera di consiglio comunale n. 33 del 15 luglio 2013.

Il ricorrente, sul punto, ha compilato le tre tabel-le.

Con riferimento al piano delle dismissioni la ta-bella riporta alla voce “disavanzo coperto con aliena-zioni patrimonio” l’importo di euro 19.193.099.

Il dato andrebbe integrato con quello del ri-accertamento di maggiori residui attivi per euro 11.483.503,12 derivanti dalle stipule di fine esercizio 2012, che rientrerebbe nella voce da rendiconto di euro 28.477.287,92.

Pertanto, risulta confermato il dato annunciato in sede processuale.

Conclusivamente, in punto di dismissioni del pa-trimonio immobiliare le censure della Sezione regio-nale di controllo appaiono superabili, fermo restando il potere di monitoraggio dell’andamento del piano. (Omissis)

46 – Sezioni riunite in sede giurisdizionale (in spe-ciale composizione); sentenza 13 novembre 2014; Pres. Martucci di Scarfizzi, Est. Pieroni, P.M. Auriemma; Regione Calabria, c. Corte conti – Sez. contr. reg. Calabria e altri.

Dichiara inammissibile ricorso avverso Corte conti, Sez. contr. reg. Calabria, 28 maggio 2014, n. 26.

Processo contabile – Rendiconti dei gruppi politi-ci del consiglio regionale – Deliberazione della sezione regionale di controllo della Corte dei conti – Impugnazione – Ricorso della regione – Interesse erariale – Insussistenza – Inam-missibilità del ricorso.

D.l. 10 ottobre 2012 n. 174, convertito con modifi-cazioni dalla l. 7 dicembre 2012 n. 213, disposizioni urgenti in materia di finanza e funzionamento degli enti territoriali, nonché ulteriori disposizioni in fa-vore delle zone terremotate nel maggio 2012, art. 1.

I soggetti legittimati ad impugnare la delibera-zione della sezione regionale di controllo della Corte dei conti che abbia affermato l’irregolarità del ren-diconto di un gruppo politico del consiglio regionale sono il presidente del consiglio regionale, il presi-dente del singolo gruppo consiliare e il singolo con-sigliere regionale che, in relazione al contenuto del-

la pronuncia dell’organo di controllo, abbia un in-teresse diretto all’annullamento della deliberazione, mentre la regione può impugnarla solo in presenza di uno specifico interesse erariale, la cui mancanza comporta la dichiarazione d’inammissibilità del ri-corso da essa presentato. (1)

Diritto – 1. In via preliminare va esaminata l’ec-cezione di inammissibilità del ricorso proposto dalla regione, sollevata dalla procura generale, stante il difetto di legittimazione attiva a proporre ricorso da parte del vice presidente della giunta regionale della Calabria, legale rappresentante pro tempore, e presi-dente del consiglio regionale della Calabria.

1.1. Accogliendo i motivi versati dalla procura occorre considerare che, relativamente ai rendicon-ti ritenuti essere “difformi” dal parametro di legge, l’avvenuto riscontro contabile delle irregolarità non può dirsi essere ridondato a detrimento di competen-ze amministrative regionali costituzionalmente pro-tette, essendo piuttosto l’accertamento di “controllo esterno documentale” giunto a segnalare le riscontra-te irregolarità proprio per salvaguardare e tutelare le prerogative dell’ente regione concernenti il bilancio regionale.

Del resto, è la sent. n. 39/2014 della Corte costi-tuzionale ad avere precisato che il rendiconto delle spese dei gruppi consiliari costituisce “parte neces-saria del rendiconto regionale”, nella misura in cui le somme da tali gruppi acquisite e quelle restituite devono essere conciliate con le risultanze del bilan-cio regionale, di talché i rendiconti – di natura ammi-nistrativa – dei gruppi consiliari si atteggiano quale una sorta di sottoconti del consuntivo regionale. È vero che la Corte costituzionale, con la stessa sent. n. 39/2014, ha pure ricordato che i gruppi consiliari sono stati qualificati dalla giurisprudenza come or-gani del consiglio regionale e proiezioni dei partiti politici in assemblea regionale (sent. n. 187/1990 e n. 1130/1988), ovvero come uffici comunque neces-

(1) Non constano precedenti in termini.Per altri aspetti processuali relativi all’impugnazione del-

le deliberazioni delle sezioni regionali di controllo aventi ad oggetto la regolarità dei rendiconti dei gruppi politici dei con-sigli regionali, v., Corte conti, Sez. riun. (spec. comp.), sent.-ord. 2 settembre 2014, n. 32, in questo fascicolo, 154, con nota di richiami anche sulla natura dei gruppi politici consilia-ri, nonché sui controlli dei loro rendiconti ad opera della Cor-te dei conti e sulla responsabilità erariale dei presidenti e dei componenti dei gruppi per la gestione dei fondi loro erogati a carico dei bilanci dei consigli regionali; 18 dicembre 2014, n. 60, in questo fascicolo, 207; 18 dicembre 2014, n. 61, in que-sto fascicolo, 210.

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sari e strumentali alla formazione degli organi interni del consiglio (sent. n. 1130/1988), ragion per cui una lamentata lesione delle prerogative dei gruppi si ri-solve in una compressione delle competenze proprie dei consigli regionali e quindi delle regioni ricorren-ti, conseguentemente legittimate alla proposizione di un conflitto di attribuzione (sent. n. 252/2013; n. 195/2007 e n. 163/1997). Parimenti vero, però, è il fatto che la sent. n. 39/2014 ha anche chiarito come, a prescindere dalla natura giuridica dei gruppi, l’e-ventuale “pregiudizio immediato e diretto arrecato a posizioni giuridiche soggettive” non può che deter-minare – nel silenzio della norma (lacuna ora espres-samente colmata e superata, come prima ricordato, dall’art. 33, c. 2, del citato d.l. n. 91/2014) – la facol-tà dei soggetti controllati di ricorrere agli “ordinari strumenti di tutela giurisdizionale previsti dall’ordi-namento” in base alle fondamentali garanzie costitu-zionali previste dagli artt. 24 e 113 Cost., qualificate come principi supremi dell’ordinamento e che per i gruppi consiliari non può essere esclusa la garanzia della tutela assicurata dal fondamentale principio de-gli artt. 24 e 113 Cost. (sent. n. 470/1997), restando in discussione non già l’an, ma soltanto il quomodo di tale tutela.

Inoltre, la Corte costituzionale (v. anche ord. n. 131/2014) ha dichiarato l’illegittimità costituzionale:

- del c. 10, primo periodo, dell’art. 1 d.l. n. 174/2012 nella parte in cui prevede il coinvolgimen-to del presidente della giunta nella procedura relativa alla trasmissione dei rendiconti dei gruppi consiliari alla competente sezione regionale di controllo della Corte dei conti, limitatamente alle parole “che lo tra-smette al presidente della regione”;

- del c. 10, secondo periodo, nella parte in cui prevede il coinvolgimento del presidente della giunta nella procedura relativa alla trasmissione delle deli-bere sugli effettuati controlli della sezione regionale della Corte dei conti ai gruppi consiliari, limitata-mente alle parole “al presidente della regione per il successivo inoltro”.

Alla luce dell’itinerario caducatorio tracciato dal-la Corte costituzionale, i soggetti legittimati a pro-porre il ricorso qui in esame, oggi espressamente pre-visto e consentito dall’art. 1, c. 12, d.l. n. 174/2012, come integrato dall’art. 33, c. 2, d.l. n. 91/2014 ed esperibile innanzi le Sezioni riunite della Corte dei conti in speciale composizione con le forme ed i ter-mini di cui all’art. 243-quater, c. 5, d.lgs. 18 agosto 2000, n. 267, devono pertanto essere individuati nel-la figura del presidente del consiglio regionale di cui il gruppo interessato è organo e proiezione, oppure

nel presidente del singolo gruppo consiliare, ovvero ancora nel singolo consigliere regionale interessato, e solo residualmente, nei limiti di seguito specificati, nel presidente della regione o, come avvenuto nella fattispecie, nel vice presidente della giunta regionale facente funzioni.

Ciò, in punto di legittimazione attiva.In particolare, con riferimento al vice presiden-

te della giunta regionale della Calabria, legale rap-presentante pro tempore e presidente del consiglio regionale della Calabria va affrontata la questione dell’interesse ad agire che non può essere risolto se non in sintonia con la giurisprudenza costituzionale sulla tutela delle finanze pubbliche come bene giuri-dico costituzionalmente protetto e in coerenza con la tradizionale giurisprudenza della Corte dei conti in punto di intervento delle pubblica amministrazione danneggiate nei giudizi di responsabilità ammini-strativo-contabile.

Va innanzitutto considerato che il pubblico mi-nistero contabile, nei giudizi de quibus, processual-mente inquadrati nel capo III del r.d. n. 1038/1933, rappresenta l’interesse generale oggettivo alla cor-retta gestione delle risorse pubbliche e, in ultima analisi, conformemente alla propria posizione ordi-namentale, interviene a tutela dell’integrità dell’era-rio e degli equilibri di bilancio (bene giuridico oggi tutelato direttamente a livello costituzionale dopo la Novella n. 1/2012).

Si tratta quindi di un interesse tutelabile, diretta-mente riconducibile al rispetto dell’ordinamento giu-ridico nei suoi aspetti indifferenziati, ed in tal senso il pubblico ministero si atteggia come rilevante parte necessaria poiché, nella fattispecie in esame, tutela in via esclusiva proprio l’interesse pubblico ogget-tivo alla corretta gestione delle risorse assegnate ai gruppi consiliari regionali.

Inoltre, può rilevarsi quanto avviene nei giudi-zi di responsabilità amministrativo-contabile, ove il pubblico ministero agisce a tutela, sia del generale interesse pubblico all’integrità delle pubbliche finan-ze, sia del patrimonio e delle finanze della pubblica amministrazione volta per volta danneggiata, ove non è stato ritenuto configurabile un autonomo interesse della pubblica amministrazione a spiegare un inter-vento ad adiuvandum del soggetto presunto respon-sabile, ma solo, ove del caso, in favore dello stessa pubblica amministrazione ritenuta danneggiata.

Ne consegue, sempre in termini generali, che la regione o il presidente del consiglio regionale pos-sono sì agire nei giudizi de quibus (quali parti cui – melius controparti – vanno effettuate le notifiche

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dei ricorrenti), ma solo se portatori di un interesse autonomo intestatogli dalla legge o ad adiuvandum delle ragioni del bilancio regionale.

Conclusivamente sul punto, non appare merite-vole di tutela un interesse a ricorrere della Regione Calabria, così come concretamente fatto valere con il presente ricorso, in quanto tendente ad una cadu-cazione della delibera della sezione regionale di con-trollo la cui pronuncia è accertativa di numerose ille-gittimità dei rendiconti dei gruppi consiliari, sol che si consideri l’obbligo di restituzione, a beneficio del bilancio regionale, delle somme non legittimamente rendicontate; il che esclude, anche ai sensi dell’art. 100 c.p.c. la sussistenza di un apprezzabile interes-se all’ottenimento di una pronuncia in danno delle finanze regionali.

1.2. Il ricorso in esame va pertanto dichiarato inammissibile non solo ai sensi dell’art. 100 c.p.c., ma anche per l’oggettiva non tutelabilità di un inte-resse, quale quello fatto valere, confliggente con le finalità di tutela del bilancio regionale, con conse-guente preclusione dell’esame del merito.

2. La natura del presente giudizio, le novità delle questioni esaminate e la presenza del pubblico mi-nistero concludente nell’interesse della legge, giu-stificano la compensazione delle spese legali e di giudizio.

P.q.m., la Corte dei conti, Sezioni riunite in sede giurisdizionale, in speciale composizione, così deci-de: dichiara l’inammissibilità del ricorso in epigrafe.

54 – Sezioni riunite in sede giurisdizionale (in spe-ciale composizione); sentenza 4 dicembre 2014; Pres. Martucci di Scarfizzi, Est. Leone e Fazio, P.M. Pomponio; Gruppo consiliare “Caldoro Pre-sidente” del consiglio regionale della Campania.

Annulla Corte conti, Sez. contr. reg. Campania, 30 aprile 2014, n. 132.

Regione in genere e regioni a statuto ordinario – Gruppi politici dei consigli regionali – Rendi-conti – Tardiva trasmissione alla sezione regio-nale di controllo della Corte dei conti – Difetto di colpa del gruppo consiliare – Applicazione delle sanzioni previste dalla legge – Esclusione – Fattispecie.

D.l. 10 ottobre 2012 n. 174, convertito con modifi-cazioni dalla l. 7 dicembre 2012 n. 213, disposizioni urgenti in materia di finanza e funzionamento degli enti territoriali, nonché ulteriori disposizioni in fa-vore delle zone terremotate nel maggio 2012, art. 1.

L’applicazione delle sanzioni di legge conse-guenti alla mancata presentazione dei rendiconti dei gruppi politici dei consigli regionali (sanzioni con-sistenti nella decadenza dal diritto all’erogazione delle risorse stanziate dal consiglio regionale per l’anno in corso e nell’obbligo di restituire le somme ricevute a carico del bilancio del consiglio regiona-le) presuppone un’omissione colpevole, imputabile al soggetto obbligato a rendere il conto; pertanto, la tardiva trasmissione alla sezione regionale di con-trollo, da parte del presidente del consiglio regiona-le, del rendiconto del gruppo consiliare, in quanto non dovuta ad inerzia di questo, non comporta l’ap-plicazione delle citate sanzioni; inoltre, va annullata la pronuncia della sezione regionale di controllo del-la Corte dei conti che abbia dichiarato la tardività della presentazione del rendiconto. (1)

Diritto – 1. Queste Sezioni riunite in speciale composizione sono chiamate a giudicare in ordine al ricorso proposto con atto depositato nella Segreteria delle Sezioni riunite in data 9 giugno 2014 dal grup-po consiliare “Caldoro Presidente” presso il consi-glio regionale della Campania, in persona del capo-gruppo dott. Maisto Pietro Giuseppe, rappresentato e difeso, giusta procura speciale rilasciata a margine dell’atto introduttivo, dall’avv. Emanuele d’Alterio, avverso e per l’annullamento, e/o integrale riforma, previa sospensiva:

- della deliberazione della Sezione regionale di controllo della Corte dei conti per la Campania 30 aprile 2014, n. 132 con la quale la stessa Sezione re-gionale di controllo della Corte dei conti per la Cam-pania ha dichiarato “ad ogni effetto e conseguenza di legge, la mancata trasmissione, a questa Sezio-ne regionale di controllo, del rendiconto del grup-po consiliare “Caldoro Presidente”, per l’esercizio 2013, entro il termine indicato dall’art. 1, c. 10, d.l. 10 ottobre 2012, n. 174, convertito con modificazio-ni dalla l. 7 dicembre 2012, n. 213, e dall’art. 3, c. 2, l. reg. Campania 5 agosto 1972, n. 6, quale sostituito dall’art. 6 della l. reg. Campania 24 dicembre 2012, n. 38, con assorbimento di ogni altra eccezione, de-duzione e richiesta”;

- della deliberazione della Corte dei conti – Se-

(1) Non constano precedenti in termini. Corte cost., 12 marzo 2014, n. 39, in questa Rivista, 2014,

fasc. 1-2, 277, ha dichiarato, tra l’altro, l’illegittimità costitu-zionale dell’art. 1, c. 10, d.l. n. 174/2012, convertito dalla l. n. 213/2012, nella parte in cui stabiliva che il presidente della re-gione fosse il tramite dei gruppi consiliari nelle loro comuni-cazioni con le sezioni regionali della Corte dei conti.

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zione regionale di controllo per la Campania 20 mar-zo 2014, n. 30 con la quale quella Sezione, premessa l’intempestività della trasmissione del rendiconto del gruppo consiliare in argomento, comunque dispone-va la comunicazione, entro 30 giorni, della docu-mentazione e di chiarimenti.

2. Il gruppo consiliare ricorrente, con la presenta-zione del ricorso, ha implicitamente riconosciuto la giurisdizione di queste Sezioni riunite in materia di deliberazioni delle sezioni regionali di controllo sui rendiconti dei gruppi consiliari regionali.

La procura generale, d’altro canto, ha chiesto in via preliminare la dichiarazione dell’inammissibilità del ricorso, in quanto le delibere delle sezioni regio-nali di controllo sui rendiconti dei gruppi consiliari dei consigli regionali non sono impugnabili innanzi alla Corte dei conti.

2.1. Preliminarmente, il collegio esamina le nor-me di cui si dibatte.

Il legislatore, con il d.l. 10 ottobre 2012, n. 174, convertito con modificazioni dalla l. n. 213/2014, all’art. 1, intitolato al “Rafforzamento della parteci-pazione della Corte dei conti al controllo sulla ge-stione finanziaria delle regioni”, prevede (c. 9) che ciascun gruppo consiliare “approva un rendiconto di esercizio annuale, strutturato secondo linee guida deliberate (…) per assicurare la corretta rilevazione dei fatti di gestione e la regolare tenuta della conta-bilità”.

Il c. 10 prevede che sul rendiconto di ciascun gruppo la competente sezione regionale di control-lo della Corte dei conti “si pronunci, nel termine di trenta giorni dal ricevimento, sulla regolarità dello stesso con apposita delibera”.

Se la sezione regionale di controllo non si pro-nuncia nel termine indicato, “il rendiconto di eserci-zio si intende comunque approvato”.

Quando, invece (c. 11) la sezione di controllo riscontra “che il rendiconto di esercizio del gruppo consiliare o la documentazione trasmessa a corredo dello stesso non sia conforme alle prescrizioni stabi-lite a norma del presente articolo”, essa trasmette al presidente del consiglio regionale (così, dopo la sent. n. 39/2014 Corte cost.) “una comunicazione affinché si provveda alla relativa regolarizzazione, fissando un termine non superiore a trenta giorni”.

Nel caso in cui il gruppo non provveda entro il termine fissato alla regolarizzazione, la norma è stata parzialmente riscritta dalla Corte costituzionale con la citata sent. n. 39/2014.

Il terzo e quarto periodo del c. 11 nel testo origi-nale prescrivevano:

(III periodo) “Nel caso in cui il gruppo non prov-veda alla regolarizzazione entro il termine fissato, decade, per l’anno in corso, dal diritto all’erogazione di risorse da parte del consiglio regionale”.

(IV periodo) “La decadenza di cui al presente c. comporta l’obbligo di restituire le somme ricevute a carico del bilancio del consiglio regionale e non rendicontate”.

2.2. La Corte costituzionale ha dichiarato l’ille-gittimità costituzionale del terzo periodo, in quanto ha ritenuto che il comma in esame “introduce una misura repressiva di indiscutibile carattere sanziona-torio che consegue ex lege, senza neppure consenti-re che la Corte dei conti possa graduare la sanzione stessa in ragione del vizio riscontrato nel rendiconto, né che gli organi controllati possano adottare misure correttive”.

A detta del giudice delle leggi, “ciò non consente di preservare quella necessaria separazione tra fun-zione di controllo e attività amministrativa degli enti sottoposti al controllo stesso che la giurisprudenza di questa Corte ha posto a fondamento della conformità a costituzione delle norme istitutive dei controlli at-tribuiti alla Corte dei conti”.

Con riferimento al quarto e ultimo periodo del c. 11, la Corte costituzionale ha affermato che esso, “nella parte in cui introduce l’obbligo di restituzione delle somme ricevute dal gruppo consiliare in caso di accertate irregolarità in esito ai controlli sui ren-diconti, sfugge alle censure delle regioni ricorrenti.”

Contrariamente alla sanzione della decadenza dal diritto all’erogazione delle risorse per il successivo esercizio annuale – afferma la Corte – “l’obbligo di restituzione può infatti ritenersi anzitutto un prin-cipio generale delle norme di contabilità pubblica. Esso risulta strettamente correlato al dovere di dare conto delle modalità di impiego del denaro pubblico in conformità alle regole di gestione dei fondi e alla loro destinazione alle funzioni istituzionali svolte dai gruppi consiliari.”

E ancora: “detto obbligo è circoscritto dalla nor-ma impugnata a somme di denaro ricevute a carico del bilancio del consiglio regionale, che vanno quin-di restituite, in caso di omessa rendicontazione. Ne discende che l’obbligo di restituzione discende cau-salmente dalle riscontrate irregolarità della rendicon-tazione”.

Alla fine, quindi, secondo la Corte costituzionale, l’obbligo di restituzione discende non dalla decaden-za – comminata dalla legge, ed espunta dall’ordina-mento dal giudice delle leggi – ma dall’omessa rego-larizzazione del rendiconto di cui allo stesso c. 11 (o dalla omissione del rendiconto).

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Anche il c. 12 deve essere riletto nel senso che l’obbligo di restituzione di cui al c. 11 consegue alla mancata trasmissione del rendiconto entro il termine ovvero alla delibera di non regolarità del rendicon-to da parte della sezione regionale di controllo della Corte dei conti.

2.3. L’esposizione che precede è propedeutica all’affermazione della giurisdizione della Corte dei conti e della competenza delle Sezioni riunite in spe-ciale composizione.

Nel caso di specie, la normativa nulla dice circa la ricorribilità delle delibere della sezione regionale di controllo; ricorribilità di cui, secondo una lettu-ra costituzionalmente orientata della normativa, non può dubitarsi, considerata la gravità della sanzione che segue alla mancata presentazione del rendiconto o alla dichiarazione della sua irregolarità.

La Corte costituzionale, nella citata sent. n. 39/2014, non si è espressa su quale sia il giudice dell’impugnazione delle deliberazioni della sezione regionale di controllo della Corte dei conti, assunte ai sensi dell’art. 1, cc. 9, 10, 11 e 12, d.l. n. 174/2012.

La Corte costituzionale ha affermato che “anche a prescindere dalla natura giuridica dei gruppi con-siliari, l’eventuale pregiudizio immediato e diretto arrecato alle posizioni giuridiche soggettive non può che determinare – nel silenzio della norma – la fa-coltà dei soggetti controllati di ricorrere agli ordinari strumenti di tutela giurisdizionale previsti dall’ordi-namento in base alle fondamentali garanzie costitu-zionali previste dagli artt. 24 e 113 Cost.”.

La Corte costituzionale ha quindi affermato che tale tutela non può essere esclusa per i gruppi con-siliari; ma il quomodo di tale tutela è un problema d’interpretazione della normativa vigente.

2.4. Tanto premesso si osserva che l’ordinamento vigente richiederebbe un intervento del legislatore, in sede di riordino delle norme emanate negli ultimi anni in modo frammentario e sotto la spinta dell’e-sigenza di ridurre la spesa pubblica, anche in con-siderazione dei vincoli derivanti dall’appartenenza dell’Italia all’Ue e a seguito della novella costituzio-nale n. 1/2012.

Ma, nelle more di un intervento sistematico del legislatore, e allo scopo di evitare un vulnus alla tu-telabilità di situazioni soggettive intestate a soggetti pubblici, le Sezioni riunite in speciale composizione non possono esimersi dall’interpretare la scarna nor-mativa vigente, alla luce dei principi costituzionali.

Centrale è, certamente, il dettato costituzionale di cui all’art. 103, c. 2, in base al quale “la Corte dei conti ha giurisdizione nelle materie di contabilità pubblica e nelle altre specificate dalla legge”, poiché

non par dubbio che tutta la normativa il cui rispetto è oggetto dell’accertamento di conformità e regolarità reso nella materia de qua da parte delle sezioni re-gionali di controllo, ivi compreso il profilo dell’ine-renza della spesa alle finalità istituzionali dei gruppi consiliari, è posta a tutela della finanza pubblica ed attiene, quindi, alle materie di contabilità pubblica, così come delineate più volte dalla giurisprudenza del giudice delle leggi e della stessa Corte dei conti.

Oltre la norma richiamata vi è poi l’art. 58 r.d. n. 1038/1933, norma anch’essa, invero, scarna, ma che si inquadra nel più generale schema del capo III del regolamento di procedura citato disciplinante i giu-dizi ad istanza di parte innanzi alla Corte dei conti.

Il richiamo dell’art. 58 pone il problema – che esula dall’attuale esame – della configurabilità di una controparte del gruppo consiliare ricorrente, che non può essere certo considerata la sezione del controllo, ma semmai la regione in quanto destinataria della restituzione delle somme relative a spese dichiarate non regolari.

Per restare al tema della giurisdizione, mentre non sembra possibile fare ricorso a un’applicazione analogica dell’art. 243-quater Tuel, si può, peraltro, pervenire ad una soluzione individuando il giudi-ce nella Corte dei conti in speciale composizione, dovendosi escludere, per motivi sistematici, sia il giudice ordinario (si controverte qui del controllo di regolarità e conformità di spese pubbliche), sia il giudice amministrativo (si tratta qui di una impugna-tiva di delibera promanante da un organo di controllo e quindi non assimilabile ad un provvedimento am-ministrativo).

Peraltro, si osserva solo incidentalmente che, successivamente alla camera di consiglio del 18 giu-gno 2014 di queste Sezioni riunite, per deliberare in-torno al presente giudizio, è stato pubblicato in G.U. il d.l. 24 giugno 2014, n. 91, poi convertito dalla l. 11 agosto 2014, n. 116 che prevede all’art. 33, c. 2 che “al d.l. 10 ottobre 2012, n. 174, convertito con modificazioni dalla l. 7 dicembre 2012, n. 213 sono apportate le seguenti modificazioni: (omissis); 3) al c. 12 è aggiunto il seguente periodo: “Avverso le de-libere della sezione regionale di controllo della Corte dei conti, di cui al presente comma, è ammessa l’im-pugnazione alle Sezioni riunite della Corte dei conti in speciale composizione, con le forme e i termini di cui all’art. 243-quater, c. 5, d.lgs. 8 agosto 2000, n. 267” (Omissis).

Le Sezioni riunite, in presenza del nuovo dato normativo, sia pure molto significativo ai fini della iurisdictio nella materia de qua, consapevoli della sua vigenza, ma anche temporaneità fino alla conversio-

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ne in legge, ritengono di dovere, comunque, svolgere autonoma argomentazione in punto di giurisdizione contabile anche alla luce degli interventi della Corte Suprema e della Corte costituzionale. Infatti, la Corte di cassazione (ord. n. 5805 del 13 marzo 2014) ha esteso la giurisdizione contabile a fattispecie ove sia individuabile identità di ratio e la Corte costituzio-nale, con la ripetuta sent. n. 39/2014, ha tracciato un ampio quadro ordinamentale costituzionale riferibile alle attribuzioni della Corte dei conti quale organo garante degli equilibri di finanza pubblica.

Tanto richiamato, il collegio è indotto a rico-noscere in via interpretativa (ed estensiva più che analogica) la giurisdizione della Corte dei conti e la conseguente competenza delle Sezioni riunite in spe-ciale composizione, sulla base del disposto dell’art. 103, c. 2, Cost., poiché si versa, innegabilmente, nel-le materie di contabilità pubblica.

Anche la procura generale, dopo avere, come già sopra ricordato, affermato che “si renderebbe neces-saria una pronuncia di inammissibilità del ricorso presentato, poiché il provvedimento richiesto non rientrerebbe nell’ambito di giurisdizione del giudice adito”, poi però afferma: “ancor più potrebbe essere considerato che le deliberazioni delle sezioni regio-nali di controllo si configurano quali atti rientranti nelle materie di contabilità pubblica ai sensi dell’art. 103, c. 2, Cost. in ordine ai quali, in base proprio alla norma costituzionale, sussiste la giurisdizione esclusiva della Corte dei conti, valorizzandone la riconducibilità per indicazione della stessa Corte costituzionale (sent. 39 cit.) alla materia della armo-nizzazione dei bilanci pubblici e del coordinamento della finanza pubblica”.

La conclusione della procura generale è che “tale inquadramento ordinamentale e sistematico lasce-rebbe spazio per una interpretazione affermante la giurisdizione della Corte dei conti (e per essa delle Sezioni riunite in speciale composizione) sulla mate-ria in oggetto in via analogica”.

Queste Sezioni riunite in speciale composizione, ritengono, pertanto, che per l’impugnabilità degli atti di controllo previsti nei cc. 9, 10, 11 e 12, art. 1 d.l. n. 174/2014 vada, per le ragioni esposte, dichiara-ta la propria giurisdizione riguardo ai gravami (non appelli, come la stessa giurisprudenza ha più volte chiarito) avverso le delibere delle sezioni regionali di controllo in punto di rendicontazione dei gruppi consiliari regionali.

3. Venendo al merito, il gruppo consiliare ricor-rente lamenta che la Sezione regionale di controllo per la Campania avrebbe dichiarato indebitamente la

tardiva trasmissione del proprio rendiconto dell’eser-cizio finanziario 2013, che doveva essere trasmesso a quella Sezione dal presidente della Regione Campa-nia entro 60 giorni dalla chiusura dell’esercizio (nel-la fattispecie entro l’1 marzo 2014), ma che invece era stato trasmesso e pervenuto a quella Sezione in data 4 marzo 2014.

3.1. All’assolvimento dell’adempimento erano chiamati tre soggetti: il gruppo consiliare che dove-va approvare e trasmettere il rendiconto al presidente del consiglio regionale, il presidente del consiglio re-gionale che, a sua volta, doveva trasmettere l’atto al presidente della regione e il presidente della regione che doveva trasmettere il rendiconto alla sezione di controllo.

La norma statale non fissava anche i termini di trasmissione endo-procedimentali, ma solo quello fi-nale che incombeva sul presidente della regione.

Né tale fissazione era prevista dall’art. 3, c. 3, l. reg. Campania 5 agosto 1972, n. 6, quale sostitui-to dall’art. 6 l. reg. Campania 24 dicembre 2012, n. 38 che, analogamente alla normativa nazionale, di-sponeva come segue: “il rendiconto è trasmesso da ciascun gruppo consiliare al presidente del consiglio regionale, per il successivo inoltro al presidente della regione. Entro sessanta giorni dalla chiusura dell’e-sercizio, il presidente della regione trasmette il ren-diconto di ciascun gruppo alla competente sezione regionale di controllo della Corte dei conti perché si pronunci, nel termine di trenta giorni dal ricevimen-to, sulla regolarità dello stesso con apposita delibera, che è trasmessa al presidente della regione per il suc-cessivo inoltro al presidente del consiglio regiona-le, che ne cura la pubblicazione. In caso di mancata pronuncia nei successivi trenta giorni, il rendiconto di esercizio si intende comunque approvato. Il ren-diconto è pubblicato in allegato al conto consuntivo del consiglio regionale e nel sito istituzionale della regione”.

Inoltre, le due discipline normative, statale e re-gionale, non fissavano, né a carico del presidente del consiglio regionale, né a carico del presidente della regione, adempimenti ulteriori rispetto a quello del-la mera trasmissione, rispettivamente, al presidente della regione e alla sezione regionale di controllo.

3.2. Secondo quanto risulta in atti, la tardiva tra-smissione, dalla quale la norma dell’art. 1, c. 12, d.l. n. 174/2012, nel testo all’epoca vigente, faceva de-rivare la decadenza dal diritto all’erogazione delle risorse stanziate da parte del consiglio regionale per l’anno in corso e l’obbligo di restituzione delle som-me ricevute a carico del bilancio del consiglio regio-nale e non rendicontate, non era dipesa dall’inerzia

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del gruppo il quale aveva trasmesso il rendiconto al presidente del consiglio regionale in data 19 febbraio 2014.

3.3. Stante la ricostruzione dei fatti come sopra, queste Sezioni riunite ritengono di accogliere il ri-corso del gruppo consiliare istante.

3.3.1. In primo luogo, si osserva che il termine di 60 giorni per la trasmissione appare perentorio, dal momento che la norma dell’art. 1, c. 12, d.l. n. 174/2012 riconnette espressamente determinati ef-fetti afflittivi non, come sostiene il ricorrente, alla semplice mancata trasmissione del rendiconto, che, pertanto, salvo un accertamento definitivo dell’i-nottemperanza intervenuto medio tempore, avrebbe consentito alla Sezione di proseguire nell’attività di controllo, bensì alla “mancata trasmissione del rendi-conto entro il termine individuato ai sensi del c. 10”.

In tal modo, identificando l’inottemperanza signi-ficativa in funzione del mancato rispetto del termine verrebbe ad integrarsi la violazione di un termine pe-rentorio e non ordinatorio, come sostiene parimenti anche la procura generale.

Del resto ciò è coerente, innanzitutto, con l’o-rientamento costante della giurisprudenza ammini-strativa secondo la quale “il termine è considerato perentorio, se un determinato atto o un’attività de-vono essere compiuti entro il lasso temporale di sca-denza del termine stesso, di guisa che se il termine non viene rispettato, quell’atto o quell’attività, pur se eventualmente posti in essere, risultano inutili, con conseguente applicazione di sanzioni e produ-zione di effetti sfavorevoli. Ciò in quanto il termine perentorio obbliga inderogabilmente al compimento di un’attività in quel determinato lasso di tempo al fine di fornire certezza all’attività stessa. Il termine ordinatorio, invece, viene così qualificato se alla sua inosservanza non sono previste sanzioni decaden-ziali o comunque effetti sfavorevoli. La funzione di questo termine è semplicemente quella di ordinare un’attività amministrativa, indirizzandola verso de-terminate procedure ed esiti; perciò, il non rispetto del termine non comporta il verificarsi di decadenze e l’applicazione di sanzioni” (Cons. Stato, Sez. II, 24 giugno 2011, n. 2552).

In secondo luogo, a differenza delle altre spese che costituiscono l’oggetto del rendiconto della re-gione, quelle sostenute dai gruppi consiliari regio-nali sono soggette al controllo di regolarità (non collaborativo, bensì consistente in un accertamento di conformità alla normativa generale e di settore, regionale e statale) da parte della Corte dei con-ti, per cui il rigoroso rispetto dei termini di inoltro dei documenti contabili è richiesto in funzione del

fatto che tale procedimento di controllo si innesta, quale segmento endoprocedimentale, nella comples-sa procedura di rendicontazione della regione. Tale segmento, peraltro, si dovrebbe chiudere al massimo nei sessanta giorni successivi al ricevimento del ren-diconto da parte della Sezione (trenta per la delibera-zione di accertamento della regolarità del rendiconto e trenta per la regolarizzazione da parte del gruppo consiliare).

Il rendiconto generale, infatti, ai sensi dell’art. 29 d.lgs. 28 marzo 2000, n. 76, doveva essere approva-to entro il 30 giugno dell’anno successivo con legge regionale, previa parificazione della stessa sezione regionale di controllo ai sensi dell’art. 1, c. 5, d.l. n. 174/2012, sulla base dello schema di rendiconto deliberato dalla giunta regionale.

Peraltro, l’art. 18, c. 1, d.lgs. 23 giugno 2011, n. 118 prevedeva (secondo la decorrenza fissata dall’art. 38) per gli esercizi finanziari dal 2015 in poi, un ter-mine più breve per l’approvazione del rendiconto con legge regionale, il 30 aprile (termine poi proro-gato al 31 luglio ai sensi dell’art. 80 del medesimo decreto legislativo, come modificato dall’art. 1, c. 1, lett. t), d.lgs. 10 agosto 2014, n. 126, mentre la data del 30 aprile è stata mantenuta per l’approvazione della proposta di legge regionale da parte della giun-ta proprio per consentire il giudizio di parificazione).

3.3.2. A differenza di quanto ritenuto dal ricor-rente circa il contrasto della deliberazione della se-zione regionale con la natura “collaborativa” del controllo della Corte dei conti, questo collegio rileva che l’attività di verifica condotta sui rendiconti dei gruppi consiliari si iscrive nel quadro dei controlli di accertamento di regolarità e conformità.

Difatti, gli effetti sanzionatori che scaturiscono dalla tardiva trasmissione dei rendiconti dei gruppi consiliari sono, per l’aspetto di deterrenza, funzio-nali al rispetto dei termini imposti dalla legge per il corretto e tempestivo svolgimento del processo di rendicontazione della regione, nell’ambito del quale si colloca il controllo della Corte dei conti.

La stessa sentenza della Corte cost. n. 39/2014 ha osservato che “il rendiconto delle spese dei gruppi consiliari costituisce parte necessaria del rendiconto regionale, nella misura in cui le somme da tali gruppi acquisite e quelle restituite devono essere conciliate con le risultanze del bilancio regionale”; dal che con-segue la natura di subconto di natura amministrativa dei rendiconti dei gruppi consiliari.

D’altronde, gli effetti sanzionatori non scaturi-scono dal controllo della documentazione contabile, ma da un comportamento che ne ostacola il tempe-stivo svolgimento.

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3.3.3. Affermata la perentorietà del termine in questione e la natura del controllo svolto, occorre stabilire se la sanzione possa applicarsi al gruppo consiliare regionale che, secondo le risultanze degli atti, aveva trasmesso il rendiconto al consiglio re-gionale prima dello scadere del termine di sessanta giorni previsto dal d.l. n. 174/2012.

Al riguardo, si osserva che le sanzioni per la tar-diva trasmissione gravano esclusivamente sul grup-po consiliare regionale, pur essendo all’epoca dei fatti solo uno, il primo, dei tre soggetti tenuti agli adempimenti e non quello tenuto alla trasmissione alla Sezione regionale.

Secondo il principio costituzionale della perso-nalità della responsabilità (art. 27), che è immanente nell’ordinamento tanto da avere una sua declina-zione, oltre che in tema d’illecito penale, anche in tema di illecito amministrativo (art. 3 l. 24 novembre 1981, n. 689) e d’illecito amministrativo-contabi-le (art. 1, c. 1, l. 14 gennaio 1994, n. 20), gli effetti sanzionatori non possono prescindere dal concetto di colpevolezza, per cui la responsabilità esiste solo per fatto proprio colpevole, o gravemente colpevole, sal-vo casi eccezionali e tassativi.

Al riguardo si ricorda la normativa in rassegna:- il c. 10, I e II periodo, secondo il quale “il ren-

diconto è trasmesso a ciascun gruppo consiliare al presidente del consiglio regionale, che lo trasmette al presidente della regione. Entro sessanta giorni dal-la chiusura dell’esercizio, il presidente della regione trasmette il rendiconto di ciascun gruppo alla com-petente sezione regionale di controllo della Corte dei conti”;

- il c. 12, secondo il quale “la decadenza e l’ob-bligo di restituzione di cui al c. 11 conseguono alla mancata trasmissione del rendiconto entro il termine individuato ai sensi del c. 10”.

In buona sostanza, il c. 12, nel descrivere la tardi-va trasmissione sanzionata non individua il soggetto colpevole del ritardo, né il c. 10 stabilisce termini particolari per la rendicontazione da parte del gruppo consiliare regionale.

Il che appare comprensibile in quanto le modalità di organizzazione interna e le funzioni che ogni sog-getto regionale mittente e destinatario del rendiconto è chiamato a svolgere in ordine allo stesso sono la-sciate all’autonomia di ogni regione (tale aspetto, del resto, ha portato la Corte costituzionale a dichiarare, nella sent. n. 39/2014, l’illegittimità costituzionale dell’art. 1, c. 10, primo periodo, del d.l. n. 174/2012 nella parte in cui prevedeva il coinvolgimento del presidente della giunta nella procedura di trasmissio-ne, perché il legislatore statale, nell’individuare l’or-

gano della regione titolare di determinate funzioni, aveva violato i parametri statutari di due regioni).

Se è indubbio che il termine oltre il quale scatta-no le sanzioni è da individuarsi in quello di 60 giorni dalla fine dell’esercizio finanziario oggetto di rendi-conto, occorre tuttavia considerare che la norma, alla quale occorre dare un’interpretazione razionale e in linea con la voluntas legis di disciplinare l’inoltro dei rendiconti dei gruppi consiliari, si riferisce all’ipote-si limite in cui la tardività dipenda esclusivamente dal comportamento del gruppo consiliare, ovverosia dalla violazione dei termini stabiliti eventualmente dalle disposizioni regolamentari interne regionali.

Ne consegue che l’eventuale ritardo nell’inoltro della documentazione alla sezione regionale di con-trollo (ora da parte della presidenza del consiglio re-gionale) per dare luogo alla sanzione prevista, deve essere astrattamente imputabile al gruppo consiliare, ovverosia deve essere cagionato dalla sua inerzia, non rilevando la perdita della materiale disponibilità del rendiconto, ma la sottrazione agli organi regiona-li destinatari della documentazione dei giorni che la normativa regionale ad essi riservava per lo svolgi-mento delle proprie funzioni.

In assenza di regolamentazione specifica, per-tanto, come nel caso di specie, il gruppo consiliare regionale è abilitato a presentare la documentazione entro il termine ultimo previsto dalla norma.

Nel caso di specie, pertanto, queste Sezioni riuni-te accertano la tempestiva trasmissione del rendicon-to da parte del gruppo consiliare in argomento poi pervenuto alla sezione regionale.

Pur essendo stata depositata copia del rendicon-to del gruppo, esula da ogni competenza di queste Sezioni riunite il relativo esame, demandato, invece, alla Sezione regionale di controllo ai sensi dell’art. 1, c. 10, d.l. n. 174/2012.

4. Pertanto, definitivamente pronunciando, que-ste Sezioni riunite accolgono il ricorso del gruppo consiliare “Caldoro Presidente” avverso la delib. del 30 aprile 2014, n. 132 della Sezione regionale di controllo per la Campania e, per l’effetto, annullano detta deliberazione e gli atti pregressi nella parte in cui è rilevata la tardiva presentazione del rendiconto.

Risultano integralmente assorbite le questioni di legittimità costituzionale e le altre questioni di meri-to sollevate dal ricorrente, così come la richiesta di provvedimento cautelare.

La peculiarità della complessa fattispecie, l’in-tervento del pubblico ministero a tutela della legge e la novità della questione giustificano una integrale compensazione delle spese.

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P.q.m., la Corte dei conti, Sezioni riunite in sede giurisdizionale, in speciale composizione, definitiva-mente pronunciando:

- dichiara la propria giurisdizione con conse-guente assorbimento delle questioni di costituziona-lità prospettate;

- rigetta tutte le eccezioni preliminari;- accoglie il ricorso e, per l’effetto, annulla la de-

libera impugnata e quella presupposta limitatamente alla dichiarazione della tardiva trasmissione del ren-diconto 2013.

59 – Sezioni riunite in sede giurisdizionale (in spe-ciale composizione); sentenza 12 dicembre 2014; Pres. Martucci di Scarfizzi, Est. Rosa, P.M. Re-becchi; Gruppi consiliari della Provincia autono-ma di Trento.

Accoglie parzialmente ricorso avverso Corte conti, Sez. contr. reg. Trentino-Alto Adige/Südtirol, Trento, 22 maggio 2014, n. 11.

Regioni a statuto speciale – Trentino-Alto Adige – Provincia autonoma di Trento – Gruppi poli-tici del consiglio provinciale – Rendiconti – At-tività di controllo delle sezioni regionali della Corte dei conti – Contraddittorio – Rilievi di irregolarità e richieste di integrazione docu-mentale – Sufficienza.

D.l. 10 ottobre 2012 n. 174, convertito con modifi-cazioni dalla l. 7 dicembre 2012 n. 213, disposizioni urgenti in materia di finanza e funzionamento degli enti territoriali, nonché ulteriori disposizioni in fa-vore delle zone terremotate nel maggio 2012, art. 1.Regioni a statuto speciale – Trentino-Alto Adi-

ge – Provincia autonoma di Trento – Gruppi politici del consiglio provinciale – Rendiconti – Spese per il personale – Assunzioni oltre il limite previsto dal regolamento consiliare – Ir-regolarità della spesa.

D.l. 10 ottobre 2012 n. 174, convertito con modifica-zioni dalla l. 7 dicembre 2012 n. 213, art. 1.Regioni a statuto speciale – Trentino-Alto Adi-

ge – Provincia autonoma di Trento – Gruppi politici del consiglio provinciale – Rendicon-ti – Attività di controllo delle sezioni regionali della Corte dei conti – Spese per consulenze, studi e incarichi – Spese di rappresentanza – Dichiarazione di irregolarità dei rendiconti – Fattispecie.

D.l. 10 ottobre 2012 n. 174, convertito con modifica-zioni dalla l. 7 dicembre 2012 n. 213, art. 1.

In tema di controllo sui rendiconti dei gruppi politici consiliari delle regioni e delle province au-tonome di Trento e di Bolzano, la regola del con-traddittorio con il soggetto controllato è rispettata allorché la sezione regionale di controllo, prima di dichiarare l’irregolarità del rendiconto, abbia fatto rilevare specifiche carenze e acquisito il rendiconto rielaborato dal gruppo consiliare e/o documentazio-ne integrativa ed esplicativa. (1)

È irregolare la spesa che un gruppo politico del consiglio di una provincia autonoma abbia sostenu-to per l’assunzione di un dipendente al di fuori del limite previsto nel regolamento del consiglio. (2)

Vanno dichiarate irregolari le contabilizzazioni, nei rendiconti dei gruppi politici del consiglio della Provincia autonoma di Trento, delle voci di spesa a) per consulenze, studi e incarichi, ove manchi la di-mostrazione delle prestazioni professionali rese, ov-vero manchi uno specifico progetto o la documenta-zione necessaria a consentire il giudizio di inerenza e riconducibilità della spesa ai fini istituzionali dei gruppi consiliari, nonché a dimostrare il risultato finale dell’attività; b) per spese di rappresentanza, ove le stesse non siano riconducibili a tale categoria, o perché trattasi di spese personali di singoli con-siglieri, o per la genericità della motivazione della spesa, o per la mancanza di un’adeguata dimostra-zione documentale delle circostanze e dei motivi della spesa o dell’inerenza della stessa all’attività istituzionale del gruppo consiliare e, più in generale, ove siano assenti i requisiti richiesti per la qualifica-zione di una spesa quale “spesa di rappresentanza” (nella specie, le Sezioni riunite hanno accolto solo in parte i ricorsi dei gruppi consiliari, con riguardo a spese ritenute irregolari dalla sezione regionale del controllo, ma che le Sezioni riunite stesse han-no considerato riconducibili all’attività istituzionale dei gruppi). (3)

Diritto – Si premette che si tratta di un ricorso collettivo, ma al cui interno vi sono censure varie, alcune di carattere generale ed altre differenziate,

(1-3) I. - Non constano precedenti in termini.II. - Sugli aspetti relativi, da un lato, al controllo dei ren-

diconti dei gruppi consiliari da parte delle sezioni regionali di controllo della Corte dei conti e, dall’altro lato, alla responsa-bilità erariale dei componenti dei gruppi consiliari per l’illeci-to impiego dei fondi erogati agli stessi gruppi dai consigli re-gionali, v. le note redazionali a Corte conti, Sez. riun. (spec. comp.), sent.-ord. 2 settembre 2014, n. 32, in questo fascicolo, 154, e a Sez. contr. reg. Friuli-Venezia Giulia, 3 febbraio 2014, n. 11, e 23 ottobre 2014, n. 90, sempre in questo fasci-colo, 279, 280.

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conseguendone che la pronuncia va resa con un’uni-ca sentenza, ma con riguardo alla regolarità o meno delle singole voci rendicontate come riferite a cia-scun gruppo.

1. Verificata positivamente l’intervenuta inte-grazione del contraddittorio con la Provincia auto-noma di Trento, il collegio osserva che trattandosi di mera notifica del ricorso, e non già di un ricorso in via principale, non si pone il problema di doversi esprimere sulla ammissibilità, in punto di interesse a ricorrere, della richiesta formulata in sede di costitu-zione da parte della provincia medesima.

2. Con il primo motivo di impugnazione si ecce-pisce la violazione dell’art. 1, c. 11, d.l. n. 174/2012 e la violazione del principio generale del contraddit-torio per aver omesso la Sezione regionale di chiede-re, prima della determinazione finale, la regolarizza-zione del rendiconto.

Sostiene parte ricorrente che la definitiva conte-stazione doveva seguire alla acquisizione della docu-mentazione inviata dai gruppi a seguito dei prelimi-nari rilievi. Tale omissione integrerebbe un’ipotesi di violazione del principio generale della tutela del contraddittorio.

Il motivo è infondato.Come correttamente osservato dalla procura ge-

nerale, il procedimento seguito dalla sezione regio-nale è conforme al modello procedimentale stabilito dalla norma di riferimento – art. 1, cc. 9, 10, 11 e 12, d.l. n. 174/2012.

In particolare, i cc. 10 e 11, rispettivamente, sta-biliscono che: a) la competente sezione regionale di controllo si pronunci nel termine di trenta giorni dal ricevimento sulla regolarità dello stesso con appo-sita delibera; b) qualora riscontri che il rendiconto o la documentazione trasmessa a corredo dello stes-so non sia conforme alle prescrizioni stabilite dalla norma, trasmetta, entro trenta giorni dal ricevimento del rendiconto, al presidente della regione una co-municazione affinché si provveda alla relativa re-golarizzazione, fissando un termine non superiore a trenta giorni; c) ove il gruppo non provveda alla regolarizzazione entro il termine fissato, decada, per l’anno in corso, dal diritto all’erogazione di risorse da parte del consiglio regionale; d) alla decadenza consegua l’obbligo di restituzione delle somme ri-cevute a carico del bilancio del consiglio regionale e non rendicontate.

Dunque, alla preliminare deliberazione, con la quale la sezione regionale segnala le parti del ren-diconto non conformi alle norme, richiedendone la regolarizzazione, segue, successivamente all’acqui-

sizione dei rendiconti regolarizzati, la pronuncia de-finitiva, senza che sia prevista alcuna ulteriore fase.

La Sezione regionale ha correttamente applicato la norma procedurale indicata, adottando una prima deliberazione – n. 5/2014 – con la quale ha rilevato specifiche carenze e irregolarità nella documentazione inviata, chiedendone l’integrazione e, successivamen-te all’acquisizione dei rendiconti inviati dal presidente del consiglio provinciale rielaborati dai gruppi con-siliari provinciali e della documentazione integrativa ed esplicativa, ha adottato, con la delibera oggetto del presene ricorso, la deliberazione definitiva.

3. Il secondo motivo di ricorso attiene alle mo-dalità del controllo esercitato dalla sezione regiona-le, anche alla luce della sent. n. 39/2014 Corte cost., dalle quali conseguirebbe la violazione dei principi generali di ragionevolezza e di proporzionalità.

Come è noto, l’art. 1 dell’all. A al d.p.c.m. 21 di-cembre 2012, con il quale sono state recepite le linee guida sul rendiconto di esercizio annuale approvato dai gruppi consiliari dei consigli regionali, dispone che ciascuna spesa indicata nei rendiconti deve cor-rispondere a criteri di veridicità e correttezza.

A mente dello stesso allegato, la veridicità attiene alla corrispondenza tra le poste indicate nel rendi-conto e le spese effettivamente sostenute; la corret-tezza attiene alla coerenza delle spese sostenute con le finalità previste dalla legge.

In particolare, la coerenza si declina secondo principi individuati dalla medesima normativa, ov-vero: “a) ogni spesa deve essere espressamente ri-conducibile all’attività istituzionale del gruppo; b) non possono essere utilizzati, neanche parzialmente, i contributi erogati dal consiglio regionale per finan-ziare, direttamente o indirettamente le spese di fun-zionamento degli organi centrali e periferici dei par-titi o di movimenti politici e delle loro articolazioni politiche o amministrative o di altri rappresentanti interni ai partiti o ai movimenti medesimi; c) i grup-pi non possono intrattenere rapporti di collaborazio-ne a titolo oneroso ed erogare contributi in qualsiasi forma, con i membri del Parlamento nazionale, del Parlamento europeo e con i consiglieri regionali di altre regioni, ed ai candidati a qualunque tipo di ele-zione amministrativa o politica, limitatamente, per questi ultimi, al periodo elettorale – come previsto dalla normativa vigente – e fino alla proclamazione degli eletti; d) non sono consentite le spese inerenti all’attività di comunicazione istituzionale nel perio-do antecedente alla data delle elezioni nel quale vige il relativo divieto ai sensi della normativa statale in materia di par condicio”.

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Con riguardo ai parametri del controllo esercitato dalle sezioni regionali sui rendiconti dei gruppi con-siliari, il collegio non intende discostarsi dai più re-centi approdi della giurisprudenza di queste Sezioni riunite in speciale composizione (sent. n. 45/2014/el), condividendone in pieno i passaggi motivaziona-li e argomentativi in forza dei quali:

- “il controllo deve verificare la veridicità del ren-diconto e la sua correttezza e regolarità, esigendosi, da una parte, che v’è la necessità che la spesa sia espressamente riconducibile all’attività istituzionale del gruppo e, dall’altra, che non sia, anche indiret-tamente, un modo per finanziare gli organi centrali e periferici dei partiti o di movimenti politici e delle loro articolazioni o di altri rappresentanti interni ai partiti o ai movimenti medesimi, ovvero i membri del Parlamento nazionale, del Parlamento europeo e con-siglieri regionali di altre regioni, nonché candidati a qualunque tipo di elezione amministrativa o politica”;

- “il controllo da esercitarsi nella materia “de qua” afferisce al rispetto dei parametri previsti sia dalle linee guida di cui al d.p.c.m. del 21 dicembre 2012, sia dalla normativa di riferimento regiona-le (ad esempio regolamenti, leggi regionali, statuti, etc.) o statale (d.l. n. 174/2012)”;

- “il controllo, dunque, coinvolge sia il parametro formale normativo ora concordato, sia, in concreto, il profilo dell’inerenza della spesa all’attività istitu-zionale del gruppo, arrestandosi innanzi allo stretto merito delle scelte discrezionali, salva la ovvia pos-sibilità di verifica del limite esterno costituito dalla irragionevole non rispondenza ai fini istituzionali del gruppo consiliare”.

Nello stesso senso, con analoghe motivazioni, si sono espresse le stesse Sezioni riunite in speciale composizione con le sent. n. 40/2014; n. 41/2014; n. 42/2014 e n. 43/2014.

3.1. La Sezione regionale nella deliberazione di cui trattasi ha affermato che “Con riguardo al rendi-conto presentato da ogni singolo gruppo consiliare, occorre precisare che in tanto se ne può valutare la regolarità in quanto si accerti la correttezza dei fatti di gestione rappresentati rispetto ai parametri norma-tivi, tecnici e contabili già sopra precisati, laddove il rendiconto, inteso come documento conforme al modello approvato, si limiti a dare di detti fatti una rappresentazione meramente sintetica dei soli risul-tati espressi in termini finanziari.

Veridicità (intesa come corrispondenza tra le po-ste indicate nel rendiconto e le spese effettivamente sostenute) e correttezza (intesa come inerenza ai fini istituzionali e coerenza delle spese sostenute con le

finalità previste dalla legge) sono infatti, come già evidenziato, i principi fondamentali cui devono con-formarsi le spese inserite nei rendiconti dei gruppi consiliari.

A tale scopo è perciò necessaria non solo la chia-rezza e la completezza delle singole voci rendicon-tate, ma anche la conciliazione di tutti gli importi esposti nel rendiconto con la documentazione risul-tante dall’estratto conto bancario intestato al gruppo consiliare e dai singoli giustificativi di spesa”.

Ha proseguito osservando che “Tutti i gruppi han-no provveduto ad inviare i rendiconti rielaborati, ma, in disparte la presenza in alcuni consuntivi di voci mutate nell’importo a seguito della rielaborazione senza una chiara giustificazione e di altre non ricon-ciliate con i giustificativi di spesa (come più avanti sarà indicato nel dettaglio), occorre rilevare che de-gli undici gruppi consiliari solo due (Misto e Verdi e Democratici del Trentino) risultano aver adottato il disciplinare interno per la tenuta della contabilità pre-scritto dal regolamento. Ne consegue che, in assenza del previsto disciplinare, nel corso del 2013 i gruppi hanno rilevato i fatti di gestione secondo modalità di-verse e in assenza di criteri predeterminati.

È del tutto evidente, tuttavia, l’essenzialità di un disciplinare che preveda, tra l’altro, la registrazione per data (protocollazione) della documentazione di autorizzazione alla spesa – nonché la registrazione per data dei movimenti in entrata e in uscita dei beni durevoli del gruppo – ai fini della corretta tenuta del-la contabilità.

I singoli importi per categorie di spesa riportati nei rendiconti, infatti, sono ricollegabili all’effetti-va effettuazione di spese solo grazie all’adozione di scritture nelle quali registrare cronologicamente ed analiticamente le singole operazioni effettuate, es-sendo la composizione interna di ciascun aggregato di spesa compiutamente ricostruibile solo con il sup-porto di annotazioni contabili analitiche.

Del resto, la “corretta rilevazione dei fatti di ge-stione”, cui, per espressa volontà del legislatore, sono finalizzate le prescrizioni poste dalle richiamate linee guida, non può che avvenire attraverso la regolare – nel senso di sistematica ed ordinata – tenuta della contabilità in corso di esercizio, non potendo ipotiz-zarsi che, a tal fine, sia sufficiente l’osservanza dello schema di rendiconto e la raccolta e conservazione della documentazione attestante le spese sostenute.

Va, inoltre ancora una volta evidenziato come in alcuni casi, a causa della diffusa opacità e impreci-sione dei consuntivi inviati in prima battuta a questa Sezione, si è dovuto procedere da parte dei gruppi

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alla rielaborazione dei rendiconti con modifiche di importi e l’inclusione di nuove spese che, talvolta, hanno avuto l’esito di pregiudicare in misura ancora maggiore l’attendibilità dei consuntivi.

Come la giurisprudenza di questa Corte ha già avuto modo di rilevare (tra le altre: Sez. contr. reg. Veneto, n. 269/2014), l’utilizzo di risorse a carico della finanza pubblica, reperite soprattutto attraverso i meccanismi del prelievo fiscale e sottratte (anche se per legittima scelta politica) ad altri potenziali uti-lizzi in favore della collettività, impone la massima trasparenza della gestione delle risorse medesime e l’obbligo di fornire, attraverso gli strumenti previsti e nell’osservanza della disciplina contabile, le infor-mazioni necessarie a soddisfare l’interesse pubblico di conoscere in modo chiaro e attendibile come le stesse siano state utilizzate.

Pertanto, l’assenza di criteri contabili predefiniti per la corretta rilevazione dei fatti di gestione, non-ché la necessitata modificazione di documenti che avrebbero dovuto ab origine dar conto della gestione in modo chiaro e preciso, e dunque, il non sufficiente grado di certezza raggiungibile circa la veridicità di tutto quello che è stato rendicontato, basterebbe di per sé a giustificare una declaratoria di irregolarità dei rendiconti dei gruppi per i quali è stata riscontrata.

Tuttavia, considerato che il regolamento consilia-re di recepimento della normativa in materia è stato adottato nell’aprile 2013, e che lo stesso sistema di rendicontazione previsto nel più volte citato d.p.c.m. è entrato a regime nel corso dell’esercizio 2013, la Sezione ha ritenuto di procedere all’esame di tutti i rendiconti nonostante la loro non piena attendibilità, fermo restando che gli esposti rilievi costituiscono una precisa indicazione pro futuro in ordine alle mo-dalità idonee a consentire a questa Corte di effettuare agevolmente i controlli di propria competenza.

Si segnala, in particolare, l’esigenza per i grup-pi di dotarsi di un libro cronologico che contenga la registrazione delle singole operazioni, di trasmettere alla Corte l’inventario dei beni durevoli e di elabo-rare un elenco degli impegni assunti in un anno, ma non liquidati né pagati in quell’anno (elenco residui), essendo utilizzato per la rendicontazione delle spese il criterio di cassa, e richiedendosi perciò la registra-zione delle spese nei libri cronologici come opera-zioni in uscita nell’anno nel quale il procedimento di spesa si conclude”.

Tali criteri generali, in base ai quali la Sezione regionale ha svolto la valutazione di regolarità del-la spese dei gruppi consiliari, alla luce del quadro normativo di riferimento e della giurisprudenza della

Corte costituzionale (sent. n. 39/2014), sono immu-ni da vizi connessi ad indebita valutazione su scelte discrezionali.

La richiamata sentenza, nell’affermare la legitti-mità costituzionale di diverse disposizioni del d.l. n. 174/2012, di attribuzione di questa nuova attività di controllo alla Corte dei conti, ascrivibili all’ambito materiale dell’“armonizzazione dei bilanci pubblici e coordinamento della finanza pubblica”, ha chiarito, con riferimento all’art. 1, cc. 9, 10, 11 e 12, che “il legislatore ha predisposto questa analisi obbligatoria di tipo documentale che, pur non scendendo nel meri-to dell’utilizzazione delle somme stesse, ne verifica la prova dell’effettivo impiego, senza ledere l’autonomia politica dei gruppi interessati al controllo. Il sindacato della Corte dei conti, assume infatti, come parametro, la conformità del rendiconto al modello predisposto in sede di Conferenza, e deve pertanto ritenersi do-cumentale, non potendo addentrarsi nel merito delle scelte discrezionali rimesse all’autonomia politica dei gruppi, nei limiti del mandato istituzionale”.

Ritiene il collegio che la sezione regionale non abbia contradetto, con l’adozione della delibera og-getto dell’odierno esame, i principi affermati dal giudice delle leggi, non avendo svolto valutazione di merito sulle spese sottoposte a rendicontazione, es-sendosi limitata a rilevare la non corrispondenza alla disciplina vigente ed ai criteri di rendicontazione.

3.2. Peraltro, anche richiamando la successiva sentenza (n. 130/2014), resa in sede di risoluzione di un conflitto di attribuzione sollevato da talune regioni nei confronti della Sezione delle autonomie e di talune sezioni regionali della Corte dei conti, nell’accogliere i ricorsi, la Corte costituzionale ha affermato che “Il dettato normativo configura dun-que il potere di controllo in esame come condizio-nato alla previa individuazione dei criteri per il suo esercizio e ciò sull’evidente presupposto della loro indispensabilità”.

Da ciò ne consegue, prosegue la Corte, che “Deve pertanto concludersi nel senso che non spettava allo Stato e, per esso, alla Corte dei conti, Sezione delle autonomie e sezioni regionali di controllo per le Re-gioni Emilia-Romagna, Veneto e Piemonte, adottare le deliberazioni impugnate con cui si è, rispettivamen-te, indirizzato ed esercitato il controllo sui rendiconti dei gruppi consiliari in relazione all’esercizio 2012”.

Sul motivo di ricorso afferente le spese imputate all’esercizio 2012 ancorché pagate nel 2013, devono essere pertanto accolte le censure di parte ricorrente, essendo stata violata, in tal caso, la previsione nor-mativa che fa decorrere il controllo della Corte sull’i-

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nerenza delle spese da tale ultimo esercizio e non già dal 2012, quando ancora non era in vigore il sistema dei controlli di cui al già citato d.l. n. 174/2012, suc-cessivamente disciplinato dal d.p.c.m. 21 dicembre 2012 (in tal senso, Sez. autonomie n. 15/2013, e sent. n. 29/2014 di queste Sezioni riunite).

4. Con riferimento alla spesa di personale (voce U1), alla luce di quanto disposto dal regolamento consiliare n. 17/2004, artt. 13 e 17, che trova appli-cazione nel procedimento di controllo di cui trattasi (l’art. 20 del regolamento consiliare n. 6/2013 rinvia l’entrata in vigore delle norme sulla disciplina delle spese di personale a decorrere dalla legislatura suc-cessiva alla sua entrata in vigore), va confermata la pronuncia di irregolarità (gruppo consiliare Partito Autonomista Trentino Tirolese) della spesa afferente all’assunzione di un dipendente in più rispetto al li-mite stabilito dalla norma regolamentare.

Non è condivisibile, infatti, l’assunto di parte ri-corrente che alla spesa per tale ulteriore unità di per-sonale si possa fare ricorso con l’utilizzo dei fondi trasferiti dal consiglio per spese di funzionamento, includendo la stessa nella voce residuale “altre rela-tive all’attività istituzionale del gruppo.”. La circo-stanza che al nuovo regolamento consiliare, conte-nente, all’art. 20, una disposizione transitoria più fa-vorevole in materia di personale, è data vigenza solo a decorrere dalla successiva legislatura, comprova che correttamente la Sezione regionale ha censurato l’assunzione di una unità di personale non consentita dall’art. 13 del regolamento del 2004, normativa di riferimento nella fattispecie in esame, che pone un chiaro limite al personale che poteva essere assunto dai gruppi consiliari.

5. Va altresì confermata la pronuncia di irregola-rità della Sezione regionale con riferimento ai rendi-conti dei gruppi consiliari che hanno contabilizzato la voce di spesa per consulenze, studi e incarichi (U6) omettendo di inviare la relazione del consulente a dimostrazione delle prestazione professionale resa ovvero per mancanza di uno specifico progetto. Si ha riguardo al gruppo misto (6.000 euro) e alla Lista Civica per Divina Presidente (9.068,13 euro), le cui spese non sono state supportate dalla trasmissione alla Sezione regionale della documentazione necessaria per il giudizio di inerenza e riconducibilità della spesa sostenuta ai fini istituzionali dei gruppi consiliari – in particolare della relazione finale –, nonché al gruppo Partito Democratico del Trentino (10.368 euro) per due consulenze conferite in assenza di un progetto specifico e della dimostrazione del risultato finale.

Le censure mosse dalla sezione regionale sul

punto non sono sottese ad alcuna valutazione di me-rito, bensì rilevano la mancata corrispondenza delle spese alla disciplina che nell’ordinamento regola i presupposti e i limiti degli incarichi di consulenza.

6. Non possono trovare accoglimento le censure di parte ricorrente afferenti alle voci di spesa spese per attività promozionali, di rappresentanza, conve-gni e attività di aggiornamento (U12).

Ricordano queste Sezioni riunite, che “Pur in assenza di specifiche disposizioni legislative che fissino i parametri e i presupposti di legittimità del-le spese di rappresentanza del settore pubblico, la giurisprudenza consolidata ne ha chiarito i relativi connotati: tali spese sono costituite dagli oneri finan-ziari sostenuti per mantenere o accrescere il prestigio dell’ente all’esterno, in ambiti direttamente attinenti ai propri fini istituzionali.

Esse ricomprendono gli oneri finanziari relativi alle varie forme di ospitalità, di manifestazione di os-sequio e di considerazione che l’ente realizza a tale scopo, attraverso i propri rappresentanti, nei con-fronti di organi e soggetti estranei, anch’essi dotati di rappresentatività.

Si deve escludere, conseguentemente, che le spe-se di rappresentanza possano avere luogo nell’am-bito di normali rapporti istituzionali e di servizio, ovvero nei confronti di soggetti esterni privi del re-quisito della rappresentatività degli enti ed organismi cui appartengono.” (Corte conti, Sez. contr. reg. Val-le d’Aosta, n. 8/2013).

Occorre, dunque, che sussista una stretta corre-lazione con le finalità istituzionali dell’ente, la ne-cessità di elementi che richiedano una proiezione esterna delle attività per il migliore perseguimento dei propri fini istituzionali, una rigorosa motivazione con riferimento allo specifico interesse istituzionale perseguito, alla dimostrazione del rapporto tra l’at-tività dell’ente e la spesa erogata, nonché alla qua-lificazione del soggetto destinatario dell’occasione della spesa, rispondenza a criteri di ragionevolezza e di congruità rispetto ai fini.

In altre parole “Le spese di rappresentanza, quin-di, devono rispondere a rigorosi criteri di ragionevo-lezza che vanno esplicitati nel provvedimento che le dispone con un’adeguata dimostrazione delle circo-stanze e dei motivi che inducono a sostenerla, oltre che della qualifica dei soggetti (esterni) che ne hanno beneficiato (Sez. giur. reg. Friuli-Venezia Giulia, n. 12/2011) (cfr., ex multis, Corte conti, Sez. giur. reg. Friuli-Venezia Giulia, 31 dicembre 2010, n. 216; Sez. II centr. app., 25 agosto 2010, n. 338; Sez. giur. reg. Lazio, 17 giugno 2009, n. 1181).

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Le irregolarità attengono ai rendiconti dei grup-pi Amministrare il Trentino (94,36 euro), Misto (1.100,05 euro), Italia dei Valori (665,65 euro), del-la Lista Civica per Divina Presidente (883,72 euro) e del Gruppo Union Autonomista Ladina (211,80 euro). Correttamente la Sezione regionale ha ritenuto la spesa non riconducibile nell’ambito delle spese di rappresentanza, trattandosi, nel primo caso, di spesa personale del consigliere, mentre, nel secondo, la ge-nericità della motivazione e l’assenza di una adegua-ta dimostrazione documentale delle circostanze e dei motivi della stessa non consentono di ritenerla am-missibile. Nello stesso senso per la spesa dei gruppi Italia dei Valori e Union Autonomista Ladina, per la quale non è stata adeguatamente dimostrata l’ineren-za con l’attività istituzionale del gruppo medesimo e, più in generale, sono assenti i requisiti richiesti per la qualificazione di una spesa quale “spesa di rappre-sentanza”.

7. Ugualmente non possono essere accolti i moti-vi di ricorso relativi alle spese logistiche (affitto sale riunioni, attrezzature e altri servizi logistici e ausilia-ri) (U15) di cui:

- al gruppo Italia dei Valori (150 euro), non es-sendo possibile accertare, attraverso la documenta-zione inviata, l’inerenza con le attività istituzionale del gruppo medesimo;

- al gruppo Lista civica per Divina Presidente (240 euro) in quanto non è stata dimostrata l’esclusi-va inerenza della stessa all’attività della Lista.

8. Altresì, non possono essere considerate regola-ri le spese risultanti da movimenti su i conti correnti bancari dei gruppi Amministrare il Trentino, Lega Nord Trentino, Union Autonomista Ladina e non rendicontate.

9. Anche alla luce delle considerazioni svolte da queste Sezioni riunite nella sent. n. 29/2014, che qui si intendono integralmente riportate, sono accoglibili le prospettazioni di parte ricorrente con riferimento alle seguenti voci di spesa, attesa tra l’altro l’obiet-tiva difficoltà, per la natura delle stesse, di far emer-gere quelle inerenti le funzioni dei gruppi e quelle qualificabili come “personali”:

- spese per la redazione, stampa e spedizione di pubblicazioni ecc. (U5), di cui ai gruppi consiliari Amministrare il Trentino, Misto, Popolo delle Liber-tà;

- spese postali e telegrafiche (U7), di cui ai grup-pi Amministrare il Trentino, Misto, Lista Civica per Divina Presidente, Popolo delle Libertà e Partito De-mocratico del Trentino;

- spese telefoniche e trasmissione dati (U8), di cui ai gruppo consiliare misto Italia dei Valori, alla Lista civica per Divina Presidente e al Gruppo Popo-lo delle Libertà;

- spese per cancelleria e stampanti (U9), di cui ai gruppi consiliari, Misto e Partito Autonomista Tren-tino Tirolese;

- spese per libri, riviste, pubblicazioni e quotidia-ni (U11), di cui ai gruppi Amministrare il Trentino, Misto, Italia dei Valori e alla Lista civica per Divina Presidente;

- spese per acquisto o il noleggio di dotazioni in-formatiche e di ufficio (U14), di cui alla Lista civica per Divina Presidente.

Ugualmente va accolta la richiesta di parte ricor-rente con riguardo alla spesa per acquisto e noleggio di cellulari (U13) di cui al gruppo Misto, trattandosi non già di acquisto di telefoni cellulari aggiuntivi ri-spetto a quelli già dati in dotazione al gruppo, bensì di accessori per un miglior utilizzo e funzionamento dei telefoni medesimi.

10. Sulla base delle argomentazioni che precedo-no, queste Sezioni riunite accolgono parzialmente il ricorso nei limiti di cui in parte motiva.

11. La natura del presente giudizio e la presen-za del pubblico ministero concludente nell’interesse della legge giustificano la compensazione delle spese legali e di giudizio.

P.q.m., la Corte dei conti, Sezioni riunite in sede giurisdizionale, in speciale composizione, definitiva-mente pronunciando, così decide:

accoglie parzialmente, nei limiti riferibili a cia-scun gruppo consiliare ricorrente, il ricorso colletti-vo in esame e, per l’effetto:

a) dichiara non assoggettabili al controllo di que-sta Corte le spese riferibili agli esercizi antecedenti al 2013;

b) dichiara regolari le contestate spese relative a:- redazione, stampa e spedizione di pubblicazio-

ni, ecc. (U/5);- postali e telegrafiche (U/7);- telefoniche e di trasmissione dati (U/8);- cancelleria e stampati (U/9);- libri, riviste, pubblicazioni e quotidiani (U/11);- acquisto e noleggio cellulari (U/13);- acquisto e noleggio dotazioni informatiche di

ufficio (U/14).c) Conferma per il resto le dichiarazioni di ir-

regolarità dei rendiconti formulate nella impugnata deliberazione.

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N. 5-6/2014 PARTE II – ATTIVITÀ GIURISDIZIONALE

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60 – Sezioni riunite in sede giurisdizionale (in spe-ciale composizione); sentenza 18 dicembre 2014; Pres. Martucci di Scarfizzi, Est. Loreto, P.M. Buccarelli; Gruppo misto del consiglio regionale del Piemonte.

Annulla Corte conti, Sez. contr. reg. Piemonte, 17 luglio 2013, n. 229.

Processo contabile – Principio di non modifica-bilità del collegio giudicante – Diversità del collegio giudicante rispetto a quello dinanzi al quale si sono svolte precedenti udienze di trat-tazione – Irrilevanza.

C.p.c., art. 276.Processo contabile – Gruppi politici dei consigli

regionali – Rendiconti – Pronunce delle sezio-ni regionali di controllo della Corte dei conti – Impugnativa davanti alle Sezioni riunite giu-risdizionali in speciale composizione – Legitti-mazione a ricorrere – Presidente del gruppo che ha sottoscritto il rendiconto – Avvenuta cessazione dell’esistenza del gruppo – Irrile-vanza.

D.l. 10 ottobre 2012 n. 174, convertito con modifi-cazioni dalla l. 7 dicembre 2012 n. 213, disposizioni urgenti in materia di finanza e funzionamento degli enti territoriali, nonché ulteriori disposizioni in fa-vore delle zone terremotate nel maggio 2012, art. 1.Regione in genere e regioni a statuto ordinario –

Gruppi politici dei consigli regionali – Rendi-conti – Linee guida deliberate dalla Conferen-za Stato-regioni – Rendiconti resi prima della deliberazione delle linee guida – Sottoposizio-ne al controllo della Corte dei conti – Esclu-sione.

D.l. 10 ottobre 2012 n. 174, convertito con modifica-zioni dalla l. 7 dicembre 2012 n. 213, art. 1.

Il principio di non modificabilità del collegio giudicante riguarda esclusivamente la fase delibera-tiva, nel senso che deve esservi identità del collegio dinanzi al quale si è svolta l’udienza di trattazione della causa con quello che abbia deliberato la de-cisione, mentre non comporta alcuna nullità la de-cisione della causa da parte di un collegio diverso da quello che ha assistito a precedenti udienze di trattazione. (1)

(1-3) I. - Sull’ambito di applicazione del principio di non modificabilità del collegio, in senso analogo alla massima (1) v. Cass., 20 settembre 2013, n. 21667, in Rep. Foro it., 2013, voce Procedimento civile, n. 228.

II. - Non constano precedenti nei termini di cui alla mas-sima (2).

In tema di ricorso contro la deliberazione della sezione regionale di controllo della Corte dei conti concernente il rendiconto del gruppo politico di un consiglio regionale, va affermata la legittimazione attiva del presidente del gruppo che abbia sottoscrit-to il rendiconto, benché questo non sia più esistente alla data di scadenza dei termini per l’impugnazione della pertinente deliberazione della sezione regiona-le di controllo (nella specie, le Sezioni riunite hanno affermato la legittimazione processuale attiva del presidente del gruppo misto del consiglio della Re-gione Piemonte, che aveva sottoscritto il rendiconto oggetto di controversia, essendo il gruppo stesso poi cessato come entità soggettiva autonoma, avendo aderito al gruppo “Il popolo della libertà”). (2)

Il controllo delle sezioni regionali di controllo della Corte dei conti sui rendiconti dei gruppi con-siliari deve svolgersi secondo i criteri previsti nelle linee guida deliberate dalla Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le regioni e le province autonome di Trento e di Bolzano e recepite con de-creto del presidente del consiglio dei ministri, come affermato dalla Corte costituzionale in sede di riso-luzione del conflitto di attribuzioni riguardante tale attività di controllo; di conseguenza, sono sottratti al controllo anzidetto i rendiconti dell’esercizio fi-nanziario 2012, in quanto ancora non soggetti alle suddette linee guida, approvate nel dicembre 2012 e pubblicate nel febbraio 2013 (nella specie, le Sezio-ni riunite, preso atto che l’impugnata deliberazione della sezione regionale di controllo era già stata pre-cedentemente annullata dalle stesse Sezioni riunite per la parte concernente altri gruppi consiliari, l’ha annullata anche in relazione alla posizione del grup-po non compreso nel precedente giudicato). (3)

Per altri aspetti processuali relativi all’impugnazione delle deliberazioni delle sezioni regionali di controllo aventi ad og-getto la regolarità dei rendiconti dei gruppi politici dei consigli regionali, v., Corte conti, Sez. riun. (spec. comp.), sent.-ord. 2 settembre 2014, n. 32, in questo fascicolo, 154, con nota di ri-chiami anche sulla natura dei gruppi politici consiliari, nonché sulle verifiche di regolarità dei loro rendiconti ad opera delle sezioni regionali di controllo della Corte dei conti e sulla re-sponsabilità erariale dei presidenti e dei componenti dei gruppi per la gestione dei fondi a questi erogati dai consigli regionali; 13 novembre 2014, n. 46, in questo fascicolo, 193; 18 dicem-bre 2014, n. 61, in questo fascicolo, 210.

III. - In senso conforme alla massima (3), nel senso che il sistema dei controlli sui rendiconti dei gruppi politici dei con-sigli regionali trova applicazione dall’esercizio finanziario 2013 (come chiarito da Corte cost., 15 maggio 2014, n. 130, in questa Rivista, 2014, fasc. 3-4, 429, con nota di richiami), v. pure Corte conti, Sez. riun. (spec. comp.), 30 luglio 2014, n. 29, ibidem, 257, con nota di richiami.

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PARTE II – ATTIVITÀ GIURISDIZIONALE N. 5-6/2014

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Diritto – Il collegio deve, innanzitutto, delimitare l’oggetto della causa che si articola nello scrutinio gradato delle seguenti questioni: eccezione sollevata dalla procura circa l’irregolare composizione del col-legio, eccezione di irritualità della ordinanza istrutto-ria pronunciata alla precedente udienza, questione di giurisdizione, merito.

Quanto alla prima eccezione, costituisce giuri-sprudenza pacifica (Cass., Sez. lav., n. 6857/2012) che i collegi i quali debbano procedere alla tratta-zione della causa in composizione (come quelli di queste Sezioni riunite), sono soggetti al principio dell’immutabilità del collegio. Tale principio è in-teso ad assicurare che i giudici che pronunciano la sentenza siano gli stessi che hanno assistito alla di-scussione della causa, onde evitare che la sentenza risulti deliberata da soggetti rimasti estranei alla trat-tazione, con la conseguenza che non è configurabile alcuna nullità nel caso di mutamento della compo-sizione del collegio nel corso della fase istruttoria antecedente quella deliberativa (Cass., 15 maggio 2009, n. 11295; 18 agosto 2009, n. 18268).

Ai sensi dell’art. 276 c.p.c., il principio dell’im-modificabilità del collegio giudicante trova pertan-to applicazione solo dal momento in cui inizia la discussione vera e propria, sicché solo la decisione della causa da parte di un collegio diverso da quel-lo che ha assistito alla discussione può dare luogo a nullità della sentenza, non rilevando, invece, una diversa composizione del collegio che abbia assistito a precedenti udienze di trattazione (Cass., 10 agosto 2006, n. 18156; 12 maggio 2005, n. 9968; 7 luglio 2004, n. 12154; 23 giugno 2000, n. 8588; 1 luglio 1999, n. 6797).

In conclusione, in fattispecie, non risulta violato il principio di immutabilità, atteso che la precedente ordinanza non ha avuto alcun contenuto decisorio, neppure implicito e che la discussione della causa è quella sviluppatasi nella presente udienza. Del resto il ricorso del sig. Formagnana, pur proposto conte-stualmente a quello degli altri gruppi, deve conside-rarsi autonomo, con la conseguenza che la discus-sione nel merito degli altri non ha rilievo nel caso. L’eccezione è quindi infondata.

In ordine, poi, al profilo dell’irritualità dell’ordi-nanza, il collegio ritiene l’eccezione inammissibile, in quanto l’ordinamento non prevede la possibilità di reclamo o gravame nei confronti di tali provvedi-menti pronunciati dal giudice.

Resta fermo che, nella fattispecie, il giudice non ha provveduto ad adempimenti volti a integrare un’eventuale carenza del quadro probatorio o moti-

vazionale delle parti, ma si è limitato a sollecitare un chiarimento specifico riguardante una particola-re situazione di fatto – circa la struttura dei gruppo misto ricorrente – chiarimento di tipo “certificativo” ampiamente giustificato, se non altro, dalla novità della materia.

In relazione alla questione di difetto di giuri-sdizione – relativa ai rendiconti consiliari 2012 – il collegio richiama integralmente, facendole proprie, tutte le argomentazioni della più volte richiamata sent.-ord. n. 25/2014.

Superati tutti i punti controversi sollevati e/o ri-baditi dalla procura in udienza, le Sezioni riunite in speciale composizione prendono in esame il punto relativo alla legittimazione attiva del sig. Michele Formagnana.

Osserva il collegio che, alla data di proposizio-ne del ricorso, il Formagnana non ricopriva più la carica di presidente del gruppo misto, che aveva for-malmente abbandonato l’1 marzo 2013, aderendo al gruppo “Il popolo della libertà”. È incontroverso che il predetto abbia sottoscritto il rendiconto in causa e che, in ogni caso, alla data del marzo 2013 il gruppo misto di cui si discute era cessato come entità sog-gettiva autonoma.

Si rileva a riguardo che una lunga serie di prece-denti giurisprudenziali hanno riconosciuto al gruppo costituito all’interno di una assemblea legislativa la veste giuridica di associazione non riconosciuta di diritto privato, quale proiezione dell’omologo partito politico di riferimento (cfr. Cass., Sez. lav., 14 mag-gio 2009, n. 11207; Cass., S.U., 19 febbraio 2005, n. 3335; Cons. Stato, Sez. IV, 28 ottobre 1992, n. 932).

In particolare, in sede di contenzioso del lavoro, la Corte di cassazione si è occupata della questione, trovando una soluzione volta a individuare due fac-ce complementari della medesima medaglia: “quella squisitamente parlamentare, in relazione alla quale i gruppi costituiscono gli strumenti necessari per lo svolgimento delle funzioni proprie del Parlamento, come previsto e disciplinato dalle norme della Co-stituzione, dalle consuetudini costituzionali, dai re-golamenti delle Camere e dai regolamenti interni dei gruppi medesimi; l’altra, più strettamente politica, che concerne il rapporto, molto stretto, ed in ultima istanza di subordinazione, del singolo gruppo con il partito di riferimento”.

La Corte di cassazione ha quindi concluso affer-mando che rispetto a questa seconda faccia “i gruppi parlamentari sono da assimilare ai partiti politici, ai quali va riconosciuta la qualità di soggetti privati” (Cass., S.U., ord. 19 febbraio 2004, n. 3335).

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N. 5-6/2014 PARTE II – ATTIVITÀ GIURISDIZIONALE

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Tutto ciò, ovviamente, senza che ciò abbia in-fluenza sul fatto che il gruppo consiliare regionale, secondo la giurisprudenza costituzionale (così Corte cost., 12 aprile 1990, n. 187), sia anche “organo del consiglio regionale, caratterizzato da una peculiare autonomia (…)” e svolgente funzioni intimamente legate all’esercizio della sovranità popolare.

I gruppi sono cioè soggetti il cui funzionamento (istituzione, funzioni e attività) è regolato da norme di diritto pubblico ed è garantito dall’erogazione di risorse pubbliche. La disciplina di riferimento impri-me, alle stesse, un vincolo di destinazione funziona-le; il compito di garantire la corretta destinazione dei fondi è attribuito al presidente del gruppo consiliare che è tenuto “per legge a osservare e far osservare i vincoli di destinazione, relazionando dettagliata-mente sull’impiego dei fondi erogati” (Corte conti, Sez. giur. reg. Lazio, 11 febbraio 2014, n. 154).

Orbene, sul piano civilistico può affermarsi che i gruppi consiliari possano qualificarsi come asso-ciazioni non riconosciute, cioè prive di personalità giuridica, ancorché esercenti una pubblica funzione.

L’art. 38 c.c. dispone la regola in base alla quale per le obbligazioni dell’associazione non riconosciu-ta rispondono anche (personalmente e solidalmente) coloro che hanno agito in nome e per conto dell’ente. Pertanto, nel caso dei gruppi consiliari, il presidente deve garantire la corretta gestione delle risorse pub-bliche erogate al gruppo (ed in caso di irregolarità del rendiconto ne risponderebbe con il proprio patri-monio personale). È pertanto a quest’ultimo che va riconosciuta la legittimazione processuale, ancorché cessato dalla carica, ad impugnare innanzi a queste Sezioni riunite in speciale composizione le delibera-zioni della sezione regionale di controllo.

In altre parole deve essere affermata la legitti-mazione processuale attiva del sig. Formagnana, in quanto sottoscrittore del rendiconto di un gruppo non più soggettivamente esistente alla data di scadenza dei termini per l’impugnazione della pertinente deli-bera della sezione regionale di controllo.

Nel merito deve dichiararsi in parte la cessazione della materia del contendere e, in parte, deve acco-gliersi il ricorso.

I cc. 9, 10, 11 e 12, dell’art. 1 d.l. n. 174/2012, secondo la lettura datane dalla Corte costituzionale (sent. n. 130/2014), dettano una disciplina del con-trollo sui rendiconti dei gruppi consiliari completa, non frazionabile e comunque esercitabile solo se-condo i criteri previsti nelle linee guida deliberate dalla Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le regioni e le province autonome di Trento e

di Bolzano e recepite con decreto del Presidente del Consiglio dei ministri, adottato solo il 21 dicembre 2012 ed entrato in vigore il 17 febbraio dell’anno seguente.

Ebbene, ai sensi dell’art. 1, c. 9, d.l. n. 174/2012, il rendiconto in esame è “strutturato secondo linee guida deliberate dalla Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le regioni e le province auto-nome di Trento e di Bolzano e recepite con decreto del Presidente del Consiglio dei ministri”. Il c. 11, poi, attribuisce alla sezione regionale di controllo un giudizio di conformità dei rendiconti medesimi alle prescrizioni dettate dall’art. 1, e quindi ai già detti criteri contenuti nelle linee guida.

Il dettato normativo, pertanto, secondo la Corte costituzionale, configurerebbe il potere di controllo in esame come condizionato alla previa individua-zione dei criteri per il suo esercizio e ciò sull’eviden-te presupposto della loro indispensabilità.

La sent. n. 39/2014 della Corte costituzionale, peraltro, ha già chiarito che “il rendiconto delle spe-se dei gruppi consiliari costituisce parte necessaria del rendiconto regionale, nella misura in cui le som-me da tali gruppi acquisite e quelle restituite devono essere conciliate con le risultanze del bilancio regio-nale [...]. Il sindacato della Corte dei conti assume infatti, come parametro, la conformità del rendiconto al modello predisposto in sede di Conferenza, e deve pertanto ritenersi documentale, non potendo adden-trarsi nel merito delle scelte discrezionali rimesse all’autonomia politica dei gruppi, nei limiti del man-dato istituzionale”.

La Corte costituzionale, dunque, proprio su ri-corso per conflitto di attribuzione promosso, tra le altre, dalla Regione Piemonte, ha statuito nel senso che non spettava allo Stato e, per esso, alla Corte dei conti, Sezione delle autonomie e Sezione regionale di controllo per il Piemonte, adottare le deliberazioni impugnate con cui si è, rispettivamente, indirizzato ed esercitato il controllo sui rendiconti dei gruppi consiliari in relazione all’esercizio 2012.

In particolare, risultano già annullate la delibera-zione della Corte dei conti, Sezione delle autonomie, 5 aprile 2013, n. 12, e 5 luglio 2013, n. 15, nonché le deliberazioni della Corte dei conti, Sezione regionale di controllo per il Piemonte, 10 luglio 2013, n. 263, con cui si è, rispettivamente, indirizzato ed esercita-to il controllo sui rendiconti dei gruppi consiliari in relazione all’esercizio 2012.

Le conclusioni alle quali è pervenuto il giudice delle leggi hanno escluso che la Sezione per il Pie-monte potesse esercitare il controllo per cui è causa,

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PARTE II – ATTIVITÀ GIURISDIZIONALE N. 5-6/2014

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con la conseguenza che, in questa sede, deve essere annullata l’ulteriore delib. n. 229/2013, l’unica, tra quelle originariamente impugnate, afferente la posi-zione del gruppo misto.

A tal riguardo, deve rilevarsi che la predetta de-liberazione è stata già fatta oggetto di annullamen-to da parte di queste Sezioni riunite con la sent. n. 25/2014/el e, pertanto, potrebbe, in astratto, anche in questa sede invocarsi la cessazione della materia del contendere.

In effetti, però, la deliberazione in questione si configura come atto plurimo, contenente cioè una se-rie di osservazioni sui rendiconti presentati, in quan-to avente ad oggetto una molteplicità di destinatari, tra i quali il gruppo misto.

Gli atti plurimi, pur essendo plurisoggettivi, si rivolgono in realtà singolarmente a ciascun destina-tario dell’atto; sono, invero, una pluralità di provve-dimenti raccolti in un unico atto, sicché l’invalidità di uno di essi non importa l’invalidità degli altri.

Ogni destinatario, in altri termini, subisce un ef-fetto lesivo che, per quanto omogeneo e per molti versi simile o affine a quello subito degli altri, è, comunque, sul piano giuridico-formale, autonomo e distinto.

Con la conseguenza che, a differenza di quanto accade per gli atti amministrativi generali, il sin-golo soggetto autonomamente leso da un atto ad effetti scindibili non può giovarsi del giudicato di annullamento ottenuto da altri soggetti destinata-ri dell’atto stesso (Cons. Stato, Sez. VI, 18 aprile 2013, n. 2152).

In sintesi, allorché le delibere delle sezioni di controllo contengono prescrizioni generali a valere su una pluralità di rendiconti predisposti da grup-pi diversi, l’annullamento eventualmente disposto da queste Sezioni riunite in speciale composizione è limitato unicamente agli affetti che involgono le parti ricorrenti, non estendendosi alle altre estranee al giudizio.

Ne consegue che dell’annullamento disposto con la sent. n. 25/2014/el possono giovarsi solo le parti di quel giudizio e, per quel che riguarda la posizione dell’odierno ricorrente, va, pertanto, disposto l’ulte-riore annullamento in parte qua.

La natura del presente giudizio esclude la neces-sità di ogni pronuncia sulle spese.

P.q.m., la Corte dei conti, Sezioni riunite in sede giurisdizionale, in speciale composizione, dichiara cessata la materia del contendere con riferimento alle delib. n. 15 della Sezione delle autonomie 5 luglio

2013 e n. 263/2013 della Sezione di controllo per il Piemonte.

Accoglie il ricorso del gruppo misto e, per l’effet-to, annulla la delib. n. 229/2013 della Sezione regio-nale di controllo per il Piemonte, nei termini di cui in motivazione.

61 – Sezioni riunite in sede giurisdizionale (in spe-ciale composizione); sentenza 18 dicembre 2014; Pres. Martucci di Scarfizzi, Est. Loreto, P.M. de Petris; Narduzzi c. Proc. reg. Friuli-Venezia Giu-lia.

Dichiara inammissibile ricorso avverso Corte conti, Sez. reg. contr. Friuli-Venezia Giulia, 29 aprile 2014, n. 64.

Processo contabile – Gruppi politici dei consigli regionali – Rendiconti – Pronunce delle sezio-ni regionali di controllo della Corte dei conti – Impugnazione – Termine – Decorrenza – dall’entrata in vigore della nuova disposizione.

D.lgs. 18 agosto 2000 n. 267, t.u. delle leggi sull’or-dinamento degli enti locali, art. 243-quater; d.l. 10 ottobre 2012 n. 174, convertito con modificazioni dalla l. 7 dicembre 2012 n. 213, disposizioni urgenti in materia di finanza e funzionamento degli enti ter-ritoriali, nonché ulteriori disposizioni in favore delle zone terremotate nel maggio 2012, art. 1, c. 12; d.l. 24 giugno 2014 n. 91, convertito con modificazioni dalla l. 11 agosto 2014 n. 116, disposizioni urgenti per il settore agricolo, la tutela ambientale e l’effi-cientamento energetico dell’edilizia scolastica e uni-versitaria, il rilancio e lo sviluppo delle imprese, il contenimento dei costi gravanti sulle tariffe elettri-che, nonché per la definizione immediata di adempi-menti derivanti dalla normativa europea, art. 33, c. 2.

Il termine di 30 giorni previsto a pena di deca-denza per il ricorso contro le deliberazioni delle se-zioni regionali del controllo sui rendiconti dei grup-pi politici dei consigli regionali si applica a tutti i ricorsi proposti successivamente alla disposizione di legge che l’ha introdotto (l’art. 33, c. 2, d.l. 24 giugno 2014 n. 91), mediante il rinvio alle norme sui ricorsi contro le deliberazioni delle sezioni stesse in tema di finanza degli enti locali; in caso di deli-berazioni intervenute anteriormente, il termine de-corre dall’entrata in vigore di tale disposizione di rinvio. (1)

(1) Non constano precedenti in termini.Per altri aspetti processuali relativi all’impugnazione delle

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N. 5-6/2014 PARTE II – ATTIVITÀ GIURISDIZIONALE

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Diritto – In via preliminare va esaminata l’ec-cezione di inammissibilità del ricorso, per tardività, formulata dalla procura generale.

Rileva il procuratore generale che il ricorso del sig. Narduzzi è tardivo in quanto proposto oltre il ter-mine di trenta giorni a decorrere dal ricevimento, da parte del medesimo, della raccomandata A/R con cui gli è stata trasmessa la delibera impugnata

L’eccezione è fondata.1. Il ricorrente lamenta in primo luogo di non

avere avuto conoscenza formale della deliberazione della sezione di controllo più volte citata, n. 64/2014, se non attraverso la notifica dell’invito a dedurre, av-venuta in data 5 agosto 2014.

Invero, si deve rilevare che – contrariamente a quanto sostenuto dal ricorrente – risulta agli atti di causa la prova attestante l’avvenuta trasmissione (a cura del presidente del consiglio regionale) al sig. Narduzzi, nel proprio indirizzo di residenza in Ro-veredo in Piano, Via Pionieri dell’Aria, n. 38, della deliberazione della sezione regionale di controllo n. 64 del 29 aprile 2014, a mezzo di nota n. 2919 in data 8 maggio 2014, spedita in pari data con raccoman-data A/R e ricevuta dal Narduzzi il giorno 12 mag-gio 2014. Entrambe le ricevute delle raccomandate A/R inviate dal presidente del consiglio regionale, unitamente alla copia delle delibere della sezione del controllo n. 64/2014 e n. 56/2014, risultano sot-toscritte personalmente dal Narduzzi. Con la stessa nota il presidente del consiglio regionale invitava il Narduzzi a restituire la somma di euro 32.800 en-tro il termine di 30 giorni decorrenti dal ricevimento della stessa, scaduti 1’11 giugno 2014; restituzione mai avvenuta.

La circostanza della personale sottoscrizione per ricevuta delle raccomandate A/R fa fede fino a que-rela di falso e dimostra come il ricorrente abbia, in realtà, avuto conoscenza legale della delibera n. 64, poi impugnata, ben prima della notifica dell’invito a dedurre, vale a dire in data 12 maggio 2014, se non addirittura, in via di fatto, già dal 30 aprile 2014, data

deliberazioni delle sezioni regionali di controllo aventi ad og-getto la regolarità dei rendiconti dei gruppi politici dei consigli regionali, v., Corte conti, Sez. riun. (spec. comp.), sent.-ord. 2 settembre 2014, n. 32, in questo fascicolo, 154, con nota di ri-chiami anche sulla natura dei gruppi politici consiliari, nonché sulle verifiche di regolarità dei loro rendiconti ad opera delle sezioni regionali della Corte dei conti e sulla responsabilità erariale dei presidenti e dei componenti dei gruppi per la ge-stione dei fondi a questi erogati dai consigli regionali; 13 no-vembre 2014, n. 46, in questo fascicolo, 193; 18 dicembre 2014, n. 60, in questo fascicolo, 207.

in cui il Narduzzi sedeva ancora in consiglio regio-nale.

Del tutto infondato appare, quindi, l’assunto di parte ricorrente secondo cui la delibera che costituisce premessa della richiesta restitutoria non sarebbe stata mai notificata al Narduzzi, come altrettanto inveritie-ro è il fatto che la legale conoscenza dell’esistenza della deliberazione sarebbe avvenuta per il Narduzzi solo con la notifica dell’invito a dedurre. Ciò stante, nella fattispecie oggetto dell’odierno giudizio il ter-mine di 30 giorni previsto dall’art. 243-quater, c. 5, Tuel per impugnare la delibera dinanzi a queste Se-zioni riunite è irrimediabilmente scaduto in data 11 giugno 2014, se non addirittura in data 30 maggio 2014, se si assume come dies a quo la data in cui la deliberazione della sezione regionale della Corte risulta comunicata al presidente del consiglio regio-nale quale destinatario istituzionale della stessa.

2. Il ricorrente lamenta, altresì, la mancanza di una disciplina transitoria nel d.l. n. 91/2014, il che giustificherebbe la rimessione in termini per errore scusabile.

L’assunto non appare condivisibile.Ed invero, il ricorso oggetto dell’odierno giudi-

zio è stato notificato alla procura generale con racco-mandata A/R spedita il 19 settembre 2014 e ricevuta in data 29 settembre 2014.

Già prima della proposizione del ricorso era, dun-que, vigente la norma di cui all’art. 33, c. 2, d.l. 24 giugno 2014, n. 91 che, aggiungendo un periodo al c. 12, art. 1, d.l. n. 174/2012, ha disposto che avverso le delibere delle sezioni regionali di controllo della Corte dei conti che si pronunciano sulla non regola-rità dei rendiconti dei gruppi assembleari dei consigli regionali è ammessa l’impugnazione alle Sezioni ri-unite della Corte dei conti in speciale composizione, “con le forme ed i termini di cui all’art. 243-quater, c. 5, d.lgs. 18 agosto 2000, n. 267”.

Già in analoga occasione queste Sezioni riunite (sent. n. 29/2014) hanno avuto modo di chiarire che tale norma non solo è stata ritenuta “sostanzialmente ricognitiva” della giurisdizione delle Sezioni riuni-te in speciale composizione nella suddetta materia, ma che tale norma ha apportato chiare indicazioni, attraverso il rinvio all’art. 243-quater, c. 5, d.lgs. 18 agosto 2000, n. 267, anche in ordine alle forme ed ai termini di impugnazione, termini che queste Sezio-ni riunite (sent. n. 2/2013) hanno qualificato di tipo perentorio.

È stato già chiarito che siffatto termine decaden-ziale breve è conforme alla ratio della previsione legislativa, che risponde all’esigenza di tutela delle

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PARTE II – ATTIVITÀ GIURISDIZIONALE N. 5-6/2014

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situazioni giuridiche eventualmente lese da pronun-ce delle Sezioni regionali di controllo assicurando, comunque in tempi brevi, elementi di certezza sulla legittimità delle gestioni in esame e sui dati finanzia-ri e di bilancio. Proprio per tali ragioni, queste Se-zioni riunite hanno ritenuto (sent. n. 36/2014) che il termine decadenziale di trenta giorni introdotto con il d.l. n. 91/2014 debba trovare applicazione per tutti i ricorsi incardinati successivamente alla sua entrata in vigore e che l’assenza di una disciplina transitoria confermi la volontà del legislatore di assoggettare allo stesso termine anche i ricorsi avverso delibere delle sezioni di controllo già comunicate agli interes-sati alla data di entrata in vigore delle nuove norme. In tali casi, tuttavia, il dies a quo non può che decor-rere dalla data di entrata in vigore della norma so-pravvenuta, piuttosto che dall’avvenuta conoscenza legale della deliberazione di controllo ritenuta lesiva.

Per tali ragioni la censura relativa all’errore scu-sabile e alla buona fede del ricorrente sul termine decadenziale breve per ottenere la remissione in ter-mini si appalesa priva di pregio.

3. Ma anche a voler ipotizzare, in ciò condividen-do le argomentazioni mosse dalla procura generale, di far decorrere il termine in questione dal momento dell’entrata in vigore dello ius superveniens (e cioè dell’art. 33, c. 2, lett. a, n. 3, d.l. n. 91/2014, peraltro non modificato dalla l. n. 116/2014 di conversione), vale a dire dal 24 giugno 2014, lo stesso è irreversi-bilmente spirato il 24 luglio 2014, ben prima della sospensione feriale dei termini. Ed infatti, il gravame (espressamente titolato “Ricorso ex art. 243-quater, c. 5, d.lgs. n. 267/2000”, a ulteriore riprova della co-noscenza, da parte del Narduzzi, di siffatto termine di trenta giorni) risulta notificato alla procura generale con raccomandata A/R spedita il 19 settembre 2014 e depositato presso la segreteria di questo giudice il 3 ottobre 2014, ovvero una volta spirato il termine decadenziale.

Ne consegue, pertanto, l’oggettiva tardività del ricorso e, quindi, l’inammissibilità dello stesso. Le argomentazioni che precedono inducono il collegio a considerare come l’odierno ricorso, oggettiva-mente tardivo, appaia in definitiva come un tenta-tivo di confondere artificiosamente i due ambiti di potestà cognitiva, volto com’è a precludere l’eserci-zio dell’azione di responsabilità amministrativa nei confronti dell’ex presidente di un gruppo consiliare, azione avente a oggetto non già l’irregolare rendi-contazione, bensì il danno erariale derivante dall’o-messa restituzione di somme al medesimo ascritta a titolo di colpa grave.

In proposito, queste Sezioni riunite devono ricor-dare che i due ambiti di cognizione che il legislatore – tramite diverse e separate discipline positive – af-fida rispettivamente alla competenza della sezione regionale di controllo e della sezione regionale giu-risdizionale vanno tenuti nettamente distinti, come in diversa occasione è stato, più in generale, già confermato (cfr. sent. n. 29/2014/el). Alla stregua di siffatte considerazioni, va dunque ribadito che altro è il controllo di regolarità sui rendiconti dei gruppi consiliari ex art. 1 d.l. n. 174/2012, che ha natura di accertamento di regolarità e di conformità meramen-te documentale (Corte cost., n. 39/2014) e attiene all’atto-rendiconto; altro è, invece, la valutazione, in termini di liceità, della condotta delle singole perso-ne fisiche costituenti il gruppo, sotto il profilo della sua potenzialità lesiva dell’erario regionale, la quale potrà essere esercitata in materia di giurisdizione di responsabilità.

In conclusione, ferma restando la pronuncia di inammissibilità per tardività, si ritiene tuttavia di dover fare altresì presente che sussistono comunque seri dubbi anche in ordine alla legittimazione del Narduzzi ad impugnare, atteso che all’epoca della presentazione del ricorso il medesimo non era più capo gruppo in carica della “Lega Nord”, come da lui stesso ammesso, né faceva più parte della politica attiva.

La natura del presente giudizio e la funzione di oggettiva tutela dell’ordinamento svolta dalla procu-ra generale precludono al collegio la pronuncia in or-dine alla condanna alle spese legali ai sensi dell’art. 96 c.p.c. Per la particolare natura della controversia e in ragione della soccombenza, sono poste a carico del ricorrente le sole spese del presente giudizio.

P.q.m., la Corte dei conti, Sezioni riunite in sede giurisdizionale, in speciale composizione, dichiara inammissibile il ricorso.

63 – Sezioni riunite in sede giurisdizionale (in spe-ciale composizione); sentenza 19 dicembre 2014; Pres. Avoli, Est. Scandurra, P.M. de Petris; Fon-dazione “I pomeriggi musicali” c. Istat e altri.

Contabilità dello Stato e pubblica in genere – Isti-tuzioni musicali senza scopo di lucro destina-tarie di finanziamenti pubblici – Inserimento nell’elenco Istat delle amministrazioni pubbli-che.

D.l. 8 luglio 2002 n. 138, convertito con modifica-zioni dalla l. 8 agosto 2002 n. 178, interventi urgenti

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N. 5-6/2014 PARTE II – ATTIVITÀ GIURISDIZIONALE

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in materia tributaria, di privatizzazioni, di conte-nimento della spesa farmaceutica e per il sostegno dell’economia anche nelle aree svantaggiate, art. 8; l. 31 dicembre 2009 n. 196, legge di contabilità e fi-nanza pubblica, art. 1; l. 24 dicembre 2012 n. 228, disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (legge di stabilità 2013), art. 1, c. 169.

È legittima l’inclusione nell’elenco Istat delle amministrazioni pubbliche di una fondazione avente lo scopo istituzionale di stimolare e di educare i cit-tadini all’apprendimento e all’ascolto della musica sinfonica, lirica e da camera e che abbia i caratteri per essere qualificata come istituzione senza scopo di lucro controllata e finanziata in prevalenza da am-ministrazioni pubbliche, che agisca quale produttore di beni e servizi non destinabili alla vendita (nella specie, tali caratteri sono stati ravvisati in capo alla Fondazione “Accademia nazionale di Santa Cecilia” e alla fondazione “I pomeriggi musicali”, in quanto costituite da pubbliche amministrazioni, finanziate dal fondo unico per lo spettacolo [con conseguente soggezione a vigilanza del Ministero per i beni e le attività culturali], ed aventi fini vincolati al perse-guimento di un interesse pubblico normativamente predefinito). (1)

Diritto – 1. In via preliminare, va esaminata la questione preliminare, sollevata dall’Avvocato ge-nerale dello Stato, concernente l’inammissibilità del ricorso a seguito della ritenuta “legificazione” degli elenchi Istat delle amministrazioni pubbliche per ef-fetto della novella introdotta dal d.l. 2 marzo 2012, n. 16, convertito dalla l. n. 44/2012.

L’eccezione va respinta. Si richiamano al riguar-do le motivazioni contenute nella sentenza di queste Sezioni riunite in speciale composizione n. 7/2013. In tale sede le Sezioni riunite hanno ritenuto che la menzione degli elenchi Istat del 2010 e del 2011 con gli estremi di pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale non abbia altro significato che quello reso palese dal-le espressioni utilizzate dal legislatore e, cioè, quello di individuare l’ambito applicativo delle disposizioni in materia di finanza pubblica, rispettivamente, per l’anno 2011 e per l’anno 2012, indicando la platea dei destinatari delle norme di ciascun anno.

A tal fine, la modifica recata dall’art. 5, c. 7, d.l.

(1) Nello stesso senso della sentenza in epigrafe, v. Corte conti, Sez. riun. (spec. comp.), 19 dicembre 2014, n. 62, e, con riferimento ai teatri stabili, 9 aprile 2014, n. 9, in questa Rivi-sta, 2014, fasc. 1-2, 151.

n. 16/2012, essendo intervenuta quando gli elenchi erano stati già redatti e pubblicati, non fa altro che menzionarli nei loro estremi identificativi. Si tratta, in altri termini, di una operazione di mera identifica-zione “storica” degli elenchi, senza che quegli elen-chi assumano una valenza diversa da quella che essi avevano al momento della loro pubblicazione e che traeva titolo dall’originaria formulazione dell’art. 1, c. 2, l. n. 196/2009 e, prima ancora, dall’art. 1, c. 5, l. 30 dicembre 2004, n. 311.

La diversa interpretazione sostenuta dall’avvo-catura dello Stato contrasta, inoltre, con la disposi-zione recata dal c. 3 dell’art. 1 della l. n. 196/2009 e soprattutto con la normativa comunitaria, che affida agli Istituti nazionali di statistica il compito di pre-disporre annualmente l’elenco delle “unità istituzio-nali” che rientrano nel settore delle amministrazioni pubbliche, la cui contabilità concorre alla formazio-ne del conto economico consolidato.

In particolare, appare in palese contrasto con la regolamentazione europea l’assunto secondo cui la ricognizione delle amministrazioni pubbliche – che, ai sensi dell’art. 1, c. 3, l. n. 196/2009, deve essere effettuata annualmente dall’Istat con proprio provve-dimento – sia ridotta per gli anni successivi al 2012, in conseguenza della pretesa “legificazione” degli elenchi del 2010 e del 2011, a una mera ripetizione di quegli elenchi “legificati” o “cristallizzati”; e ciò quando, al contrario, l’inclusione nell’elenco annua-le delle amministrazioni pubbliche presuppone un accertamento della sussistenza (o della permanenza) delle condizioni stabilite dagli “specifici regolamenti dell’Unione europea”, affinché un’unità istituzionale possa essere qualificata come amministrazione pub-blica.

2. Sempre in via preliminare, va ritenuta tam-quam non esset l’eccezione sollevata dalla procura generale in tema di legittimazione ad processum del presidente, dal momento che la deliberazione, con la quale il consiglio di amministrazione ha conferi-to mandato alla lite al presidente, è di data anteriore alla proposizione del ricorso dinanzi a queste Sezioni riunite.

3. Passando al merito, il collegio è chiamato a verificare se la Fondazione “I Pomeriggi musicali” abbia o meno i requisiti richiesti dai regolamenti eu-ropei per essere inserita nell’Elenco Istat delle am-ministrazioni pubbliche.

Con i motivi di ricorso, l’ente sostanzialmente lamenta il difetto della soggezione al controllo di un’amministrazione pubblica e il prevalente finan-ziamento con risorse provenienti da “vendite”.

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Con la prima argomentazione a sostegno del ri-corso, la Fondazione “I Pomeriggi musicali” sostie-ne che non avrebbe dovuto essere inclusa nell’Elen-co Istat, dal momento che essa dispone di una conta-bilità completa e che la stessa agisce nel mercato da produttore di beni e servizi destinabili alla vendita.

Al riguardo, è bene evidenziare che sulla base del Sec95, il Sistema europeo dei conti, l’Istat predispone l’elenco delle unità istituzionali che fanno parte del Settore “amministrazioni pubbliche” (Settore S13), i cui conti concorrono alla costruzione del conto eco-nomico consolidato delle amministrazioni pubbliche.

La compilazione di tale lista risponde a norme classificatorie e definitorie proprie del sistema stati-stico nazionale e comunitario.

Secondo il Sec95, ogni unità istituzionale viene classificata nel Settore S13 sulla base di criteri di na-tura prevalentemente economica, indipendentemente dal regime giuridico che la governa.

Seguendo tali criteri (cfr. par. 2.68 e 2.69 del Sec95), le unità classificate nel Settore delle ammi-nistrazioni pubbliche sono:

a) gli organismi pubblici che gestiscono e finan-ziano un insieme di attività, principalmente consi-stenti nel fornire alla collettività beni e servizi non destinabili alla vendita;

b) le istituzioni senza scopo di lucro che agisco-no da produttori di beni e servizi non destinabili alla vendita, che sono controllate e finanziate in preva-lenza da amministrazioni pubbliche;

c) gli enti di previdenza.La Fondazione “I Pomeriggi musicali” rientra

nella seconda delle categorie sopra individuate tra le istituzioni senza scopo di lucro che agiscono da pro-duttori di beni e servizi non destinabili alla vendita, controllate e finanziate in prevalenza da amministra-zioni pubbliche.

La distinzione tra produttori di beni e servizi de-stinabili alla vendita e produttori di beni e servizi non destinabili alla vendita si basa sul fatto che i prezzi applicati siano o non siano economicamente signifi-cativi (cfr. par. 5.1 del Manuale del Sec95 sul disa-vanzo e sul debito pubblico).

Per stabilire se un ente debba essere classificato nel settore delle amministrazioni pubbliche, il Sec95 richiede di verificarne l’assoggettamento a controllo pubblico e il comportamento economico, attraverso l’applicazione di un algoritmo di classificazione dei dati contabili (test del 50 per cento) valido per tutte le tipologie dei soggetti economici operanti nel mer-cato e le relative rappresentazioni contabili.

La veste giuridica privatistica non costituisce quindi ostacolo per l’inquadramento della Fondazio-ne tra amministrazioni pubbliche inserite nel conto economico consolidato, atteso che la funzione del Sec95 è proprio quella di prescindere, come ribadito più volte, dalla forma giuridica delle unità istituzio-nali, basando piuttosto la classificazione sugli effet-tivi comportamenti economici delle medesime unità.

Con l’ulteriore ragionamento attoreo, la Fonda-zione sostiene di non essere soggetta al requisito del controllo della mano pubblica.

Secondo quanto risulta dallo statuto in atti della ricorrente:

- sono enti fondatori – necessari – la Regione Lombardia, la Provincia di Milano e il Comune di Milano (art. 6); tra gli enti aderenti figurano i comuni capoluogo di provincia, gli enti locali, le Province della Lombardia e eventuali altri enti pubblici e pri-vati (art. 7);

- sono organi della Fondazione: il consiglio gene-rale, il consiglio di amministrazione, il presidente, il consigliere delegato, il collegio dei revisori dei conti, l’assemblea degli aderenti (art. 9);

- gli “atti essenziali alla vita dell’ente” sono de-liberati dal consiglio generale, organo di cui fanno parte i legali rappresentanti o i delegati per materia (ossia gli assessori competenti) della regione, pro-vincia e comune (art. 10);

- il collegio dei revisori è composto di quattro componenti, tutti nominati dalle amministrazioni pubbliche di riferimento (art. 14);

- il patrimonio della Fondazione è principalmente costituito dal Fondo di dotazione formato dai confe-rimenti in denaro e dì beni mobili ed immobili effet-tuati dagli enti fondatori (art. 4);

- per l’adempimento dei suoi compiti la Fonda-zione dispone di un Fondo di gestione formato dal-le rendite del patrimonio, dai contributi degli enti aderenti, dei contributi pubblici o privati versati alla Fondazione per il raggiungimento delle sue finalità, dai proventi delle attività organizzate (art. 5).

La Fondazione è amministrata dal consiglio di amministrazione (art. 11). Lo statuto attribuisce, dunque, al consiglio di amministrazione poteri pre-minenti, come quelli di deliberare gli indirizzi gene-rali dell’attività della Fondazione, di determinare i criteri di partecipazione al Fondo di dotazione e alle spese di esercizio degli aderenti e lo loro rappresen-tanza nel consiglio di amministrazione, di definire l’assetto artistico e organizzativo della Fondazione, di redigere il bilancio consuntivo e preventivo, di ap-provare il programma artistico, di deliberare sull’ac-

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quisto e alienazione di immobili nonché sulla stipula di finanziamenti o mutui ipotecari e di convenzioni con terzi concernenti la programmazione artistica, di nominare il presidente (art. 12) e il consigliere dele-gato (art. 13).

Il consigliere delegato agisce su delega del consi-glio di amministrazione. Suo compito principale è di dare esecuzione alle deliberazioni del consiglio. Egli non è pertanto organo intestatario di poteri suoi pro-pri, ma solo di quelli ad esso delegabili dal consiglio di amministrazione (art. 13).

Il consiglio di amministrazione è composto di un numero variabile da undici a sedici componen-ti. Del consiglio a undici componenti fanno parte tre designati dalla Regione Lombardia, tre dal Co-mune di Milano, uno dalla Provincia di Milano, due designati dal consiglio di amministrazione uscente, uno dall’assemblea dei lavoratori dipendenti e uno dall’Agis Lombardia.

Del consiglio a tredici membri possono far par-te altri due componenti nominati dalla Provincia di Milano, allorquando la stessa raggiunga una quota di contributo al Fondo di dotazione pari a quella de-gli altri due enti fondatori. Il numero dei membri del consiglio di amministrazione può aumentare, poi, fino a sedici con la nomina effettuata dal consiglio di amministrazione, di fino a tre membri in rappresen-tanza degli aderenti, eletti dall’Assemblea, qualora il numero degli aderenti sia superiore a tre.

Tale assetto statutario appare sufficiente ad af-fermare in concreto il controllo da parte della mano pubblica sulla Fondazione.

Del resto, gli unici enti fondatori sono pubbliche istituzioni: Regione Lombardia, Provincia di Milano e Comune di Milano. Come pubblici sono, di regola, gli enti aderenti.

Ben sette componenti del consiglio di ammini-strazione su undici sono nominati da soggetti pubbli-ci; almeno nove su tredici o su sedici in caso di com-posizione allargata del consiglio di amministrazione sono, parimenti, di nomina pubblica.

A norma di statuto, il consiglio di amministra-zione delibera gli indirizzi generali dell’attività della Fondazione, definendo la politica generale di istituto.

L’influenza che i soci pubblici fondatori eserci-tano sulla Fondazione è di tipo strutturale e decisio-nale e, non certo, da riferire ai programmi di attività culturale ed artistica, rispetto ai quali indubbiamente, assumono invece rilievo i diversi compiti e le funzio-ni affidate al direttore artistico.

La Fondazione è costituita da pubbliche ammini-

strazioni; è pubblicamente finanziata; i suoi fini sono vincolati al perseguimento di un interesse pubblico normativamente predefinito, quale quello di stimola-re e di educare i cittadini all’apprendimento ed all’a-scolto della musica sinfonica, lirica e da camera, sia vocale che strumentale.

Al riguardo il collegio osserva che la giurispru-denza di queste Sezioni riunite in speciale compo-sizione ha motivatamente ravvisato nella semplice percezione del contributo del Fondo unico per lo spettacolo – ammessa dalla stessa ricorrente – un indizio autonomamente sufficiente per ravvisare il requisito del controllo pubblico (sent. Sez. riun., n. 7/2013).

Ciò implica, necessariamente, l’assoggettamento della Fondazione alla vigilanza del Mibac sul cui sta-to di previsione grava il Fondo unico dello Spettaco-lo, ex art 1 l. n. 163/1985 (istitutiva del Fus).

L’erogazione di tale contributo è subordinata alla valutazione qualitativa dell’attività compiuta sulla base dei criteri di cui all’art. 5 del d.m. 9 novembre 2007 (poi, sostituito, con decorrenza 2015, dal d.m. 1 luglio 2014). L’ente percettore resta, inoltre, sogget-to al potere di verifica dell’amministrazione erogante (art. 6, c. 6, d.m. 9 novembre 2007) e persino la va-riazione dei programmi artistici deve puntualmente essere giustificata (art. 6, c. 9, d.m.).

Del resto, queste Sezioni riunite hanno già af-fermato, in fattispecie similare, che “non possono essere sottovalutate neppure le funzioni di vigilanza svolte dal Ministero dei beni e delle attività cultu-rali essendo certo che solo un controllo finalizzato al perseguimento degli scopi della Fondazione (in termini europei, della “politica generale” ovvero del “programma” dell’unità istituzionale) garantisce la continuità della partecipazione al Fondo unico del-lo spettacolo, oltre che di quelle altre contribuzioni provenienti dalla regione e dagli enti pubblici locali” (v. Sez. riun., n. 7/2013/ris, richiamata nello stesso senso anche da Sez. riun., n. 31/2014/ris).

Si tratta di evidenti indici di pubblicità che con-fermano il corretto inserimento della ricorrente tra i produttori di beni e servizi non destinabili alla vendi-ta nell’ambito delle istituzioni pubbliche (S13).

Sussiste, quindi, nel caso di specie, il requisito del controllo pubblico, secondo le definizioni con-tenute nel manuale del Sec95, della “capacità di de-terminare la politica generale o il programma di una unità istituzionale, se necessario scegliendo gli am-ministratori o i dirigenti” e, quindi, della capacità di influire in modo determinante sulla amministrazione attiva dell’unità istituzionale controllata (nozione

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PARTE II – ATTIVITÀ GIURISDIZIONALE N. 5-6/2014

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europea di controllo peraltro espressamente enun-ciata dal legislatore nazionale nell’art 6, c. 1, ultima parte, d.l. n. 95/2012, convertito dalla l. n. 135/2012, laddove è stabilito che “per controllo si deve inten-dere la capacità di determinare la politica generale o il programma di una unità istituzionale, se necessario scegliendo gli amministratori o i dirigenti”).

Riguardo al carattere del prevalente finanzia-mento con risorse provenienti da “vendite”, è bene evidenziare che per stabilire se un ente debba essere classificato nel settore delle amministrazioni pubbli-che, il Sec95 richiede di verificarne il comportamen-to economico attraverso il criterio del market/non market, funzionale alla distinzione tra “produttori di beni e servizi destinabili alla vendita” e “produttori di altri beni e servizi non destinabili alla vendita”.

Il test verifica in quale percentuale le vendite co-prono i costi di produzione dell’unità istituzionale considerata.

Allorché le vendite coprano più del 50 per cento dei costi di produzione, l’unità è considerata di tipo market, cioè “produttore di beni e servizi destinabili alla vendita” e, dunque, non classificabile all’interno del settore delle pubbliche amministrazioni.

In ordine a tale requisito, riferito al “prezzo eco-nomicamente significativo”, la ricorrente ha indicato un rapporto ricavi/costi, per gli esercizi 2009-2013, in un valore del c.d. test market/non market supe-riore al 50 per cento, facendo riferimento sia ai dati di bilancio della Fondazione che soprattutto a quelli consolidati/associati risultanti dalla somma tra i dati della Fondazione e quelli riferibili alla s.r.l. strumen-tale per la gestione dei teatri.

Riguardo al calcolo del test market/non market e del valore soglia indicato nel Sec95 per individuare il c.d. prezzo economicamente significativo che qua-lifichi o meno una istituzione pubblica quale produt-tore di beni e servizi destinabili o meno alla vendita, il Sec95 (par. 3.33) definisce, nei termini che seguo-no, le vendite e i costi di produzione.

Le vendite comprendono quelle al netto delle imposte sui prodotti, ma al lordo di tutti i trasferi-menti operati dalle amministrazioni pubbliche o dalle istituzioni dell’Unione europea e concessi a qualsiasi produttore in questo tipo di attività: sono compresi cioè tutti i contributi legati al volume o al valore della produzione mentre sono esclusi i trasfe-rimenti a copertura di un disavanzo globale (Sec95, par. 3.33 a).

I costi di produzione rappresentano la somma dei:

- consumi intermedi,

- redditi da lavoro dipendente,- ammortamenti,- altre imposte sulla produzione.Ai fini dell’applicazione di tale criterio, gli altri

contributi alla produzione non sono detratti. Allo scopo di garantire la coerenza dei concetti di ven-dite e di costi di produzione in sede di applicazione del criterio del 50 per cento, i costi di produzione dovrebbero escludere tutti i costi sopportati per inve-stimenti per uso proprio.

Il criterio del 50 per cento va applicato in un’ot-tica pluriennale, ossia solo se vale per diversi anni oppure se vale per l’anno in corso e ci si attende che varrà per il prossimo futuro.

Le fluttuazioni secondarie del volume delle ven-dite da un anno all’altro non richiedono una riclas-sificazione delle unità istituzionali (e delle loro Uae locali e produzioni) (Sec95, par. 3.33 b).

Nel caso di specie, la ricorrente utilizza tabelle dalla stessa elaborate, sostenendo che tra i contributi pubblici non andrebbe considerata una parte del Fus e che tra i costi non si dovrebbero considerare una parte di quelli per il personale.

I prospetti, i criteri di elaborazione e l’intera im-postazione concettuale indicati in sede di ricorso non appaiono condivisibili, né probanti con riferimento tanto all’individuazione delle voci di bilancio, quan-to alla mera sommatoria dei dati della fondazione con quelli della società ad essa strumentale, che si occupa della gestione dei teatri, senza che si sia pro-ceduto ad una corretta evidenziazione delle rispettive voci contabili e alla riconciliazione delle rispettive poste attive e passive.

Il richiamo ad alcuni dati normativi e, in parti-colare, all’art. 1, c. 1, lett. c) e d), d.m. 29 ottobre 2007, riportato nei prospetti, appare inconferente, atteso che il d.m. 29 ottobre 2007 si riferisce alle fondazioni lirico-sinfoniche e non alle Istituzioni concertistico-orchestrali (Ico), alle quali la ricorrente appartiene.

Altri riferimenti appaiono non sufficientemente specificati e, in ogni caso, non coerenti con i criteri normativi, in base ai quali, in conformità al Sec95, devono essere considerati e calcolati i cosiddetti “ricavi” ed il rapporto percentuale intercorso tra gli stessi e i costi della produzione.

In realtà, le argomentazioni della ricorrente mira-no, da un lato, ad ampliare il concetto di “ricavi” fino a ricomprendervi, artatamente, i contributi in conto esercizio ovvero le sovvenzioni pubbliche dirette a sostenere l’attività istituzionale dell’ente nella sua

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globalità, e dall’altro, ad espungere dai “costi del-la produzione” una quota parte delle spese afferenti il personale, così da soddisfare, in tal modo e a suo dire, il parametro percentuale necessario (50 per cen-to) per qualificarsi come ente market.

Ad avviso del collegio, sulla base di una giuri-sprudenza di queste Sezioni riunite che si va conso-lidando (Sez. riun., n. 7/2013/ris e n. 31/2014/ris), i ricavi propri della Fondazione sono rappresentati solo dalle entrate derivanti dall’attività caratteristica, cioè dai ricavi provenienti dalle vendite e dalle pre-stazioni di servizi tipiche dell’ente.

I contributi pubblici a carico del Fus e di cui la Fondazione ricorrente beneficia, come da essa stessa ammesso, non possono computarsi nelle “vendite”, alias nei ricavi, in quanto trattasi di contributi alla produzione-attività complessiva dell’ente.

In tal senso, quindi, appare inconferente la di-stinzione operata in sede di ricorso circa la destina-zione dei contributi Fus (“al parametro qualitativo” o “a parziale copertura degli oneri previdenziali-as-sistenziali”), atteso che tali trasferimenti sono tutti, indistintamente, finalizzati all’attività complessiva dell’ente.

I valori delle vendite o più correttamente delle entrate proprie dell’ente – quali emergenti dalla do-cumentazione in atti relativa agli esercizi 2010-2012 – sono tutti al di sotto della soglia del 50 per cento dei costi di produzione, sicché oggettivamente sus-siste il requisito della prevalenza del finanziamento pubblico indicato nella normativa europea.

I rapporti tra costi e ricavi evidenziano il carat-tere non market della Fondazione “I Pomeriggi mu-sicali”, con conseguente legittimità dell’inclusione della ricorrente nel settore delle amministrazioni pubbliche (S13).

Infine per quanto riguarda, infine, il motivo di ri-corso, relativo al fatto che l’Istat non avrebbe fornito alcuna spiegazione in ordine alle ragioni dell’inse-rimento della Fondazione nell’elenco in questione, ritenendo detto elenco palesemente viziato anche per difetto di motivazione e di istruttoria, osserva il col-legio che la compilazione dell’elenco Istat risponde a norme classificatorie e definitorie proprie del sistema statistico nazionale e comunitario, sviluppato sulla base dei dati forniti dalla stessa amministrazione in sede di rilevazione dei dati di bilancio consuntivo.

Secondo il Sec95, ogni unità istituzionale viene classificata nel Settore S13 sulla base di criteri di na-tura prevalentemente economica, indipendentemente dal regime giuridico che la governa in relazione ai dati riportati in sede di questionario Istat nell’am-

bito, per la parte che qui interessa, delle Istituzioni concertistico orchestrale (c.d. Ico), alle quali appar-tiene la Fondazione ricorrente.

Conclusivamente, per le ragioni esposte, il ricor-so è infondato e va respinto nel merito.

4. Alla soccombenza dovrebbe conseguire la condanna della parte ricorrente al pagamento, in fa-vore delle controparti, delle spese e degli onorari di difesa.

Tuttavia, tenuto conto della natura prevalente-mente pubblica delle risorse finanziarie a disposi-zione della Fondazione ricorrente, il collegio, con-siderata anche la novità e la complessità delle que-stioni controverse qui affrontate integrino “gravi ed eccezionali ragioni”, ritiene di poter compensare integralmente le spese tra le parti ai sensi di quanto previsto dall’art. 92, c. 2, c.p.c.

P.q.m., la Corte dei conti a Sezioni riunite, in spe-ciale composizione, definitivamente pronunciando, respinta ogni questione preliminare, rigetta il ricorso nel merito.

* * *

Sezione I centrale d’appello

1244 – Sezione I centrale d’appello; sentenza 19 novembre 2014; Pres. Colella, Est. Rosati, P.M. Briguori; Gaspari e altri c. Proc. reg. Marche.

Conferma Corte conti, Sez. giur. reg. Marche, 21 di-cembre 2012, n. 138.

Responsabilità amministrativa e contabile – Sin-daco e dirigente comunale – Insindacabilità delle scelte discrezionali – Limiti – Fattispecie – Conferimento di un incarico professionale per una progettazione già eseguita.

D.l. 23 ottobre 1996 n. 543, convertito con modifi-cazioni dalla l. 20 dicembre 1996 n. 639, disposizio-ni urgenti in materia di ordinamento della Corte dei conti, art. 3.

L’insindacabilità “nel merito” delle scelte di-screzionali compiute dai soggetti sottoposti alla giu-risdizione della Corte dei conti non comporta che esse siano sottratte a ogni controllo, essendo sempre sindacabili sotto i profili della razionalità ed econo-micità (nella specie, sono stati ritenuti responsabili di danno erariale il sindaco e il dirigente di un co-mune che avevano affidato un incarico esterno, per la predisposizione del piano di struttura e del pro-getto definitivo del piano regolatore generale, senza

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PARTE II – ATTIVITÀ GIURISDIZIONALE N. 5-6/2014

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tener conto degli esiti di un precedente incarico, con analogo oggetto, affidato dalla precedente ammini-strazione e svolto da un altro professionista). (1)

Considerato in diritto – Preliminarmente va di-sposta la riunione in rito degli appelli epigrafati, in quanto interposti avverso la medesima sentenza, ai sensi e per gli effetti dell’art. 335 c.p.c., che impo-ne che tutte le impugnazioni proposte separatamen-te contro la stessa sentenza vengano riunite, anche d’ufficio, in un solo processo.

Nel merito, gli appelli all’esame non sono meri-tevoli di accoglimento per i motivi che seguono.

In primo luogo va subito detto che – a pare-re di questo collegio d’appello e a prescindere dai profili d’illegittimità dell’incarico esterno conferito all’arch. Zazio, in quanto, come esattamente rile-vato nella sentenza impugnata “i vizi di legittimità nell’affidamento delle consulenze all’arch. Zazio non sono idonei a configurare un’ipotesi di respon-sabilità amministrativo-contabile per danno erariale ma, certamente, connotano la condotta gravemente colposa dei convenuti che ha determinato l’indebi-ta spesa a carico del comune” – l’attività svolta dal consulente esterno, arch. Zazio, nella circostanza, sia per come viene descritta astrattamente negli atti amministrativi di conferimento dei vari, continuativi incarichi, per cui è causa e sia per le modalità stesse con cui detta attività risulta essere stata in concreto svolta ed attuata, non sembra costituire un qualcosa di nuovo e di diverso rispetto alle risultanze cui era già giunto il precedente professionista esterno (a tut-to concedere, semmai, potrebbe costituire qualcosa di meramente aggiuntivo e di dettaglio, che non era necessario conferire all’esterno, potendo essere svol-to, tranquillamente, dalle professionalità interne agli uffici comunali), né sembra avere raggiunto – nella sostanza – obiettivi nuovi, che non fossero già stati adeguatamente considerati ed apprezzati, a seguito dell’attività tecnica di pianificazione del territorio lo-cale, già affidata ed eseguita dal precedente incarica-to esterno, prof. Bellagamba; non ha errato perciò il collegio giudicante di prime cure a ritenere l’attività dell’arch. Zazio, sostanzialmente, una duplicazione di attività esterna, già svolta ed eseguita con la pre-cedente amministrazione comunale.

E infatti, l’incarico affidato al prof. Bellagamba prevedeva la predisposizione di un piano di struttura

(1) Corte conti, Sez. giur. reg. Marche, 21 dicembre 2012, n. 138, confermata dalla sentenza in epigrafe, si legge in que-sta Rivista, 2013, fasc. 1-2, 300.

e di un progetto definitivo del piano regolatore ge-nerale, accompagnati anche da elaborati contenenti indicazioni progettuali più di dettaglio per la defini-zione concreta di piani attuativi e di indicazioni ope-rative per la gestione delle scelte dello stesso piano regolatore generale, relativamente agli interventi da realizzare nel breve periodo. Era, perdippiù, espres-samente previsto che il piano regolatore generale dovesse contenere gli indirizzi relativi ai piani ese-cutivi.

L’incarico progettuale redatto ed eseguito dal prof. Bellagamba, peraltro, conteneva anche tutte quelle prescrizioni di dettaglio, che gli attuali appel-lanti ritengono, invece, errando, siano state conferite, per la prima volta, all’arch. Zazio, con gli incarichi di cui si discute; in particolare, si può facilmente ve-rificare che gli incarichi conferiti con i decreti n. 31 e n. 52 dell’anno 2006 concernevano “studi e analisi” di cui il Comune di San Benedetto del Tronto era già in possesso, in quanto, in precedenza, già effettuati dal prof. Bellagamba.

In relazione agli altri incarichi, conferiti all’arch. Zazio, che – a parere di parti appellanti – avrebbero prodotto alcuni atti di programmazione urbanistica di particolare rilievo, si deve ritenere corretto il ra-gionamento del primo giudice laddove ha evidenzia-to che il c.d. “Schema direttore” altro non è se non un mero strumento programmatico, contenente indirizzi generali abbastanza generici e che non richiedeva una particolare competenza tecnica per essere stila-to, atteso che le analisi e i dati utilizzati erano già in possesso degli uffici comunali; né le varianti parziali ed i piani particolareggiati redatti dall’ufficio comu-nale di piano, con l’ausilio dell’arch. Zazio, poteva-no giustificare il ricorso ad una consulenza esterna ad alto contenuto di professionalità ed il conseguente esborso di danaro pubblico.

Tanto premesso sotto il profilo oggettivo e con-tenutistico dell’incarico conferito all’esterno, che appare del tutto inutile, ripetitivo di precedente in-carico, immotivato e foriero di danno erariale, risul-tano, inoltre, inconferenti le censure degli appellanti relative a un presunto sindacato del primo giudice, sulle scelte discrezionali dell’amministrazione, che, invece, sarebbero – per definizione – insindacabili.

Tuttavia, “insindacabilità” non significa certo che si possano effettuare scelte irrazionali ed immotiva-te, purché libere: la giurisprudenza di legittimità, in-fatti, del tutto pacificamente, ammette che le scelte di una pubblica amministrazione devono essere sem-pre sorrette da criteri di razionalità ed economicità e dunque il sindacato sulle scelte discrezionali di una

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N. 5-6/2014 PARTE II – ATTIVITÀ GIURISDIZIONALE

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pubblica amministrazione ben può aversi quando dette scelte appaiano irrazionali e diseconomiche per la pubblica amministrazione medesima; anzi, a fron-te di ciò, emerge un vero e proprio obbligo di verifica della razionalità delle scelte medesime, atteso il peri-colo, che potrebbe profilarsi, di lesione dei parametri normativi di economicità dell’azione amministrativa (art. 1 l. n. 241/1990).

Un comportamento di corretta gestione avrebbe richiesto scelte attente e oculate e un razionale vaglio critico del caso concreto e delle concrete possibilità, umane ed economiche esistenti all’interno dell’ente locale, prima di decidere di conferire nuovamente all’esterno un’attività progettuale, già efficacemente svolta da precedente esperto ed esporre l’ente locale a un aggravio di oneri economici.

Quanto alle doglianze, comuni a entrambe le di-fese, relative alla presunta insussistenza della colpa grave nella condotta tenuta dai signori Gaspari e Po-lidori va detto che sia il sindaco Gaspari che l’ing. Polidori risultano aver violato le regole della ordina-ria diligenza, cui erano tenuti, per le rispettive quali-tà di amministratore comunale e di dirigente tecnico, affidando con estrema leggerezza un nuovo incarico esterno ad altro professionista (mese di luglio 2006, con protrazione per circa quattro anni, pressoché continuativamente, fino al mese di giugno 2010) e senza tener conto degli esiti del precedente incarico, sostanzialmente, sulla stessa materia, di meno di un anno precedente (mese di ottobre 2005), causando, così, un notevole aggravio di costi all’ente locale.

Tutto ciò considerato e inoltre – come non ha mancato di precisare il procuratore regionale attore e la stessa sentenza impugnata – conferendo gli in-carichi de quibus “senza il preliminare accertamento circa l’impossibilità oggettiva di utilizzare risorse umane disponibili all’interno degli uffici [in parti-colare, senza tener conto che l’ufficio piano dell’en-te locale in questione già si avvaleva, all’epoca dei fatti, dell’ausilio di alcuni collaboratori a progetto, ben quattro, tra architetti e ingegneri, appositamen-te selezionati, a seguito di avviso pubblico]; senza l’effettuazione di procedure comparative per la scel-ta del consulente; senza considerare che gli incarichi non sono stati di natura contemporanea; senza l’at-testazione della comprovata capacità professionale dell’arch. Zazio; senza considerare che gli oggetti degli incarichi fossero la perfetta duplicazione di quanto richiesto e svolto dal prof. Bellagamba; sen-za alcun controllo sul lavoro svolto dal consulente”, questo collegio non può che confermare la sussi-stenza della colpa grave, nel comportamento tenu-

to dagli attuali appellanti, foriero di danno erariale, attesa l’irrazionalità e l’antieconomicità delle scelte operate, nella vicenda che qui ci occupa, da soggetti a un elevato livello professionale, politico-ammini-strativo e tecnico, rappresentativi del Comune di San Benedetto del Tronto e che avevano il dovere giuri-dico di mantenere indenne l’ente locale da situazioni pregiudizievoli sul proprio bilancio.

La circostanza che la sentenza impugnata ha rite-nuto di prendere in considerazione i vantaggi comun-que conseguiti dall’amministrazione locale per l’atti-vità svolta dal consulente, conferma che la “compen-sazione” – pur presa in considerazione e conteggiata – non ha tuttavia eliso in toto il danno erariale, per cui è causa, che, finché non sarà rifuso nelle casse comunali, è risarcibile, attesa la sua certezza ed at-tualità. In proposito, questo collegio ritiene corretto il criterio scelto dal primo giudice di quantificare il vantaggio conseguito dal comune in euro 60.000, corrispondenti al compenso equamente attribuibile al professionista esterno, per l’apporto collaborativo prestato al comune, in relazione ai quattro anni di attività, compensabili con 15.000 euro, ciascuno, in ragione d’anno.

Né appare corretto seguire il ragionamento di parti impugnanti, laddove sostengono – per quantifi-care il vantaggio – l’utilizzazione di parametri diver-si, quali le retribuzioni annuali percepibili da un fun-zionario comunale, in quanto il professionista inca-ricato (arch. Zazio) certamente non era tenuto a tutti gli obblighi di servizio di un dipendente comunale. Detta parametrazione appare perciò inconferente.

Detratta, perciò, la somma suddetta, il danno ri-sarcibile ammonta a 170.000 euro, da ripartirsi fra gli odierni appellanti, secondo la percentuale di riparti-zione che di esso ha effettuato il primo giudice, con ragionamento corretto ed esaustivamente motivato, da cui questo collegio non ha motivo di discostarsi.

Non si ravvisano sufficienti ragioni per l’eserci-zio del potere riduttivo dell’addebito.

Le spese legali di questo grado seguono la soc-combenza.

Va pronunciata altresì condanna per le spese di giustizia.

P.q.m., la Corte dei conti, Sezione I centrale d’ap-pello, definitivamente pronunciando, ogni contraria istanza ed eccezione reiette, rigetta gli appelli in epi-grafe riuniti (n. 45517 e n. 45521) e, per l’effetto, conferma l’impugnata sentenza.

* * *

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PARTE II – ATTIVITÀ GIURISDIZIONALE N. 5-6/2014

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Sezione II centrale d’appello

533 – Sezione II centrale d’appello; sentenza 5 set-tembre 2014; Pres. De Sanctis, Est. Padula, P.M. Lombardo; D’Amario e altro c. Proc. reg. Abruz-zo.

Conferma Corte conti, Sez. giur. reg. Abruzzo, 24 gennaio 2012, n. 27.

Prescrizione e decadenza – Responsabilità am-ministrativa e contabile – Danno erariale per mancate entrate dovute all’illegittima gratuita concessione di un bene – Decorrenza – Date delle singole mancate entrate mensili dei ca-noni.

C.c., art. 2935; l. 14 gennaio 1994 n. 20, disposizioni in materia di giurisdizione e controllo della Corte dei conti, art. 1; d.lgs. 18 agosto 2000 n. 267, t.u. delle leggi sull’ordinamento degli enti locali, art. 93.Responsabilità amministrativa e contabile – Co-

mune e provincia – Sindaco, componenti della giunta e dirigente – Responsabilità – Conces-sione della gestione di un bene pubblico pro-duttivo senza la previsioni di canoni a carico del concessionario – Danno erariale per man-cati introiti – Sussistenza – Determinazione in via equitativa – Ammissibilità – Subentro di altri amministratori durante il rapporto con-venzionale – Irrilevanza.

L. 14 gennaio 1994 n. 20, art. 1; d.lgs. 18 agosto 2000 n. 267, art. 93.

Ove il comune abbia concesso per un certo tem-po (nella specie, per 10 anni) la gestione di un bene pubblico, potenzialmente produttivo di entrate, sen-za la previsione di un canone o di altri obblighi a ca-rico del concessionario, la prescrizione dell’azione di risarcimento del danno erariale per le mancate entrate decorre non già dalla data della delibera-zione concessiva, bensì dalle singole scadenze delle rate mensili del presunto canone che avrebbe potu-to essere riscosso durante il rapporto; pertanto, la prescrizione va dichiarata limitatamente ai presunti mancati introiti di epoca anteriore al quinquennio antecedente all’atto del procuratore regionale (in-vito a dedurre o atto di citazione) interruttivo della prescrizione stessa. (1)

(1-2) La pronuncia, di cui non constano precedenti speci-fici, richiama, a sostegno dell’affermato principio, la giuri-sprudenza che si è formata sulla diversa ipotesi di danno era-riale consistente in una spesa dannosa che si risolva in paga-menti periodici avanti causa in un unico atto deliberativo ille-gittimo, mentre la fattispecie oggetto della pronuncia annotata

Rispondono di danno erariale per mancate en-trate di canoni, in concorso con il dirigente respon-sabile del procedimento che abbia anche svolto le funzioni di presidente della commissione di gara, il sindaco e i componenti della giunta comunale che, nel dare attuazione, con apposita deliberazione, ad un atto consiliare concernente la previsione di una concessione a privati della gestione della piscina comunale per un certo tempo (nella specie, per 10 anni), abbiano omesso di stabilire le modalità del compenso spettante al comune per l’affidamento della struttura, nonché di definire gli aspetti eco-nomici, oltre che gestionali, dell’affare, omissione ripetuta nel bando di gara, nella convenzione e nei successivi atti di affidamento (nella specie, i giudici d’appello hanno ritenuto che la responsabilità di tali agenti per il danno maturato nel periodo della du-rata decennale della convenzione – danno da deter-minarsi in via presuntiva ed equitativa, in relazione al presunto ammontare dei canoni di cui era stata omessa la previsione – non era esclusa dal suben-tro, durante lo stesso periodo, di altri amministra-tori non convenuti in giudizio, in capo ai quali non costituiva comportamento esigibile la riscossione di canoni dei quali non esisteva l’obbligo di pagamen-to, in quanto non previsti dalla delibera della prece-dente giunta). (2)

Motivi della decisione – In via del tutto pregiudi-ziale va confermata, in rito, la riunione degli appelli, già disposta con la sent.-ord. n. 441/2013, ai sensi del combinato disposto degli artt. 335 c.p.c. e 26 r.d. 13 agosto 1933, n. 1038, essendo stati prodotti tutti avverso la stessa sentenza.

L’art. 1 della l. 23 dicembre 2005, n. 266 (legge finanziaria 2006) nei cc. 231-233 ha previsto che: “con riferimento alle sentenze di primo grado pro-

riguarda, in sostanza, un danno da mancata entrata dovuto al-la concessione sostanzialmente gratuita di un bene pubblico.

Per la diversa ipotesi di mancata utilizzazione di un’opera pubblica v., invece, Corte conti, Sez. I centr. app., 22 maggio 2013, n. 339, in questa Rivista, 2013, 3-4, 320, con nota di ri-chiami.

Quanto alla giurisprudenza richiamata dalla pronuncia an-notata, che, in tema di più pagamenti frazionati nel tempo aventi titolo da un unico atto deliberativo o da un’unica mani-festazione di volontà, ha affermato il criterio della decorrenza della prescrizione dai singoli pagamenti, v. Corte conti, Sez. riun., 19 luglio 2007, n. 5, in questa Rivista, 2007, fasc. 4, 51; e 24 maggio 2000, n. 7, ivi, 2000, fasc. 3, 101; Sez. I centr. app., 1 agosto 2002, n. 272, ivi, 2002, fasc. 4, 136; 18 settem-bre 2003, n. 304, ivi, 2003, fasc. 5, 51; Sez. II centr. app., 26 marzo 2002, n. 97, ivi, 2002, fasc. 2, 146; Sez. III centr. app., 23 luglio 2003, n. 343, ivi, 2003, fasc. 4, 84.

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nunciate nei giudizi di responsabilità dinanzi alla Corte dei conti per fatti commessi antecedentemente alla data di entrata in vigore della presente legge, i soggetti nei cui confronti sia stata pronunciata sen-tenza di condanna possono chiedere alla competente sezione di appello, in sede di impugnazione che il procedimento venga definito mediante il pagamento di una somma non inferiore al dieci per cento e non superiore al venti per cento del danno quantificato nella sentenza” (c. 231); “la sezione di appello con decreto in camera di consiglio, sentito il procurato-re competente, delibera in merito alla richiesta e, in caso di accoglimento, determina la somma dovuta in misura non superiore al trenta per cento del danno quantificato nella sentenza di primo grado, stabilen-do il termine per il versamento” (c. 232); “il giudizio di appello si intende definito a decorrere dalla data di deposito della ricevuta di versamento presso la se-greteria della sezione di appello” (c. 233).

Nella specie risulta che, a seguito del decr. n. 39/2012, con cui questa Sezione ha accolto l’istanza di definizione agevolata, il sig. D’Amario ha deposi-tato (in data 11 giugno 2013) l’attestazione del Co-mune di Francavilla al Mare di avvenuto pagamento per euro 3.051,64 (capitale+interessi), con reversale n. 4112 del 13 dicembre 2012, euro 128,70 (spese di primo grado, liquidate nel decr. n. 39/2012, per tutti i destinatari del provvedimento stesso, in euro 111,11 ciascuno) e 9,75 (spese secondo grado).

Come si evince da quanto esposto, anche le som-me computate per le spese di giustizia risultano per errore versate al Comune di Francavilla al Mare, anziché, come espressamente imposto nel decr. n. 39/2012, all’erario.

In proposito va richiamato l’orientamento espres-so da questa Sezione di appello (ex multis, sent. 23 marzo 2012, n. 177 e precedente ivi richiamato), per il quale dal chiaro e inequivocabile tenore letterale delle predette disposizioni normative, va escluso che la definizione del giudizio sia subordinata, oltre che al pagamento della somma a titolo di sorte capita-le ed accessori anche all’integrale pagamento delle spese dei giudizi di primo e di secondo grado, stante anche la ratio acceleratoria del procedimento.

Se, però, non osta alla definizione del giudizio l’erronea attribuzione delle spese di giustizia alle casse comunali, questo collegio deve comunque di-sporre, in questa pronuncia, la condanna dell’appel-lante al pagamento delle spese del giudizio, di primo e secondo grado, che si confermano negli importi già liquidati nel decr. n. 39/2012, dunque in euro 111,11 (centoundici/11) per le spese di primo grado e in

euro 9.75 (quota individuale pari a un sesto di euro 58,48, da ripartirsi in parti uguali tra tutti i destinatari del decreto).

Pertanto, in applicazione alla normativa succitata, va dichiarato definito il giudizio di appello n. 43566, proposto da D’Amario Daniele, con condanna al pa-gamento, a favore della tesoreria centrale dello Stato, della spese del giudizio, di primo e secondo grado, negli importi indicati supra.

Pervenendo all’esame dell’appello di Angelucci (n. 43578), si osserva, preliminarmente, che il pre-detto ha riproposto (motivo n. 1) l’eccezione di pre-scrizione dell’azione di responsabilità amministra-tiva, già respinta nella sentenza impugnata, che sul punto va confermata.

Com’è noto, ai sensi dell’art. 1, c. 2, l. 14 gennaio 1994, n. 20, come sostituito dall’art. 3, c. 1, lett. b), l. 20 dicembre 1996, n. 639, il diritto al risarcimento del danno erariale si prescrive in cinque anni, decor-renti dalla data in cui si è verificato il fatto dannoso, ovvero, in caso di occultamento doloso del danno, dalla data della sua scoperta.

Già dalla lettura di detta norma si evidenzia l’in-congruità del richiamo, contenuto nell’appello, a giurisprudenza di questa Corte relativa a fattispecie interessate da vicende penali, la quale, in ragione del doloso occultamento, ha individuato il dies a quo, secondo specifica previsione di legge, nella cono-scenza o mera conoscibilità del fatto dannoso.

A prescindere da dette ipotesi di rilevanza penale, per fatto dannoso deve intendersi, in generale, non il momento del comportamento difforme dalle rego-le, ma quello del verificarsi dell’eventus damni: è da tale momento che l’organo inquirente contabile può legittimamente esercitare l’actio damni (ex plurimis, Corte conti, Sez. I centr. app., 12 maggio 1998, n. 130; id. 16 dicembre 2002, n. 441; id. 31 maggio 2004, n. 205; id. Sez. II centr. app., 11 novembre 2002, n. 339).

In particolare la giurisprudenza consolidata di que-sta Corte ha affermato che, in tema di responsabilità per erogazione di somme non dovute, la prescrizione decorre dal momento in cui avviene il pagamento, senza che si debba tener conto della data del fatto che ha reso dovuta l’erogazione (Corte conti, Sez. I centr. app., 1 agosto 2002, n. 272; id. 18 settembre 2003, n. 304; id. Sez. II centr. app., 26 marzo 2002, n. 97; id. Sez. III centr. app., 23 luglio 2003, n. 343).

Le Sezioni riunite di questa Corte, con sent. n. 7 del 24 maggio 2000 hanno fornito specifici chiarimen-ti per le ipotesi di illecito con effetti che si protrag-gono nel tempo, tra le quali indubitabilmente rientra

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l’omessa previsione di canoni periodici nelle delibe-razioni 5 maggio 2000, n. 35 e n. 36, che ha prodot-to il danno, per mancati introiti, fino alla riconsegna dell’immobile ed alla cessazione della gestione.

Ebbene, si è stabilito, nella suindicata sentenza, che i danni si verificano con i singoli esborsi dei cor-rispettivi periodici, soggetti, ciascuno, ad un proprio termine di prescrizione quinquennale, con decor-renza dalla data dei pagamenti stessi. Il medesimo principio è stato affermato nella sentenza delle Sez. riun. 19 luglio 2007, n. 5, in cui è stato ulteriormente chiarito che “la diminuzione del patrimonio dell’ente danneggiato – nel che consiste l’evento dannoso – assume i caratteri della concretezza e della attualità e diviene irreversibile solo con l’effettivo pagamento; è, quindi, da ogni singolo pagamento … che decorre il termine di prescrizione”.

Nel caso di specie, in adesione alla ratio del-la ripercorsa e condivisibile giurisprudenza, tenuto conto della quantificazione del danno effettuata nella citazione, fondata sui canoni mensili, di cui è stata contestata l’omessa previsione, il dies a quo ai fini del decorso della prescrizione va individuato, come affermato nella decisione abruzzese, nella data delle singole diminuzioni patrimoniali, derivate dal man-cato pagamento del canone per ogni mese di dura-ta del rapporto. Ne consegue che correttamente la sentenza ha considerato prescritti tutti i ratei mensili antecedenti al quinquennio decorrente dalla data (6 maggio 2006) dell’ultima notifica dell’invito a de-durre, emesso contestualmente nei confronti di tutti i presunti responsabili.

Nel motivo n. 2 l’appellante ha lamentato che il giudice di primo grado, dopo aver configurato l’ille-cito come istantaneo ad effetti permanenti, abbia poi imputato anche il danno maturato successivamente alla cessazione del mandato del sindaco, nell’aprile 2008, a suo avviso da addebitare alla nuova ammini-strazione comunale, per non aver riscosso i canoni.

L’assunto è infondato. Non costituisce comporta-mento esigibile, in capo agli amministratori succes-sivi a quelli deliberanti, la riscossione di canoni dei quali non esisteva l’obbligo di pagamento, in quanto non previsti dalla delibera della precedente giunta. La condotta pregiudizievole è stata esattamente rife-rita, per la posizione del sindaco, alla adozione della delib. n. 852/1999, sulla base delle prove versate agli atti del giudizio di primo grado. Né è configurabile in termini generali ed astratti, in mancanza di riscon-trabili elementi soggettivi ed oggettivi, un obbligo di accertare la legittimità della delibera in questione a carico della “nuova amministrazione comunale”.

Quindi l’appellante ha censurato la sentenza laddove ha ritenuto la sussistenza di un obbligo di pagamento del canone a carico del gestore privato, contestando l’inquadramento giuridico della fatti-specie nella figura della locazione o comodato gra-tuito (motivo n. 3). A suo avviso nessun canone era dovuto dalla società aggiudicataria considerato che essa gestiva un servizio di pubblica utilità a rilevan-za economica in luogo dell’amministrazione, eroga-to direttamente alla collettività, con assunzione del rischio della gestione (concessione di servizio pub-blico locale).

Sul punto si osserva quanto segue.Con la delibera del consiglio comunale n. 123

del 29 luglio 1999, premesso che i lavori relativi alle opere di costruzione della piscina erano in fase di completamento, era stato deciso di affidare a terzi, mediante gara, la “gestione del servizio di piscina comunale”. L’oggetto del rapporto era individuato in una serie di prestazioni che l’aggiudicatario si impegnava a svolgere, inerenti alla gestione della piscina e alla manutenzione dell’immobile, indica-te nel capitolato d’oneri allegato; il compenso non doveva gravare “sul bilancio del comune” e veniva individuato negli introiti corrisposti direttamente da-gli utenti.

Il consiglio rimetteva la predisposizione delle clausole essenziali da inserire nel contratto al bando di gara e alla lettera di invito, che sarebbero stati “ap-provati dagli organi esecutivi competenti con apposi-ti successivi atti tenendo conto degli indirizzi conte-nuti nel presente atto” (art. 3, lett. d, della delibera).

La giunta comunale, con delib. 7 settembre 1999, n. 852, con Sindaco Angelucci, ribadito l’oggetto del contratto come definito nella delibera consiliare, sta-biliva di approvare il bando di gara (appalto concor-so secondo il criterio dell’offerta economicamente più vantaggiosa; in caso di partecipanti insufficienti, affidamento a trattativa privata).

Il capitolato d’oneri (7 settembre 1999), tra l’al-tro, poneva a carico del comune “le spese per l’e-secuzione di lavori di straordinaria manutenzione”, disponendo anche che le opere di miglioria fossero “concordate con il comune” ex art. 1592 c.c., e che, qualora fossero effettuate “senza l’assenso scritto del comune”, il gestore non avrebbe avuto “diritto ad alcuna indennità salva la facoltà della riduzione in pristino”.

Ancora, si stabiliva che nell’aggiudicazione si dovesse tener conto del “progetto di gestione del servizio in relazione alla composizione del personale utilizzato, e dei titoli posseduti, alla programmazio-

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ne dei corsi e delle attività, alla politica dei prezzi, soprattutto per le fasce meno abbienti, ed agli spa-zi e facilitazioni riservati alle scuole, ai portatori di handicap”.

Indetta la trattativa privata, non essendo andata a buon fine la procedura di gara, si dispose l’ag-giudicazione a favore della Progetto sport gestione impianti s.r.l., con sede in Pescara, ma non seguì la stipulazione del contratto.

Ebbene, osserva il collegio, al cospetto dei ri-lievi di parte appellante, circa la sussumibilità della fattispecie nell’istituto della concessione di servizio pubblico, che è ampiamente nota la giurisprudenza che ha individuato gli indici rivelatori della conces-sione di servizi pubblici nella esistenza di servizio pubblico rivolto alla produzione di beni e utilità per obiettive esigenze sociali; nel porsi il corrispettivo del servizio a domanda individuale a carico dell’u-tente; nell’assunzione a carico del concessionario del rischio economico relativo alla gestione del servizio; nella sottoposizione del gestore ad una serie di obbli-ghi, tra i quali quelli di esercizio e tariffari; nella de-lega traslativa di poteri organizzatori dall’ente al pri-vato, per essere diretta l’utilità alla collettività, e non all’amministrazione, come nel contratto di appalto; nella trilateralità del rapporto, in quanto sogget-ti coinvolti sono l’amministrazione, il gestore e gli utenti, mentre nel contratto d’appalto il rapporto ha carattere bilaterale (si vedano: circolare della p.c.m. 1 marzo 2002, n. 3944; artt. 3, c. 12, e 30 c.c.p., ap-provato con il d.lgs. 12 aprile 2006, n. 163; quindi, ex plurimis, Cons. Stato, Sez. IV, 29 novembre 2000, n. 6325; Tar Campania-Napoli, 14 aprile 2013, n. 2012; da ultimo Cons. Stato, A.p., 30 gennaio 2014, n. 7).

Ebbene, dall’analisi della complessiva vicenda emerge un dato essenziale: è mancata la definizione degli obblighi del gestore, sotto il profilo della de-terminazione delle tariffe e degli standard di eserci-zio, volti a conformare l’espletamento dell’attività a regole di continuità, regolarità, capacità tecnico professionale e qualità (succitata giurisprudenza), perché ciò che connota in modo rilevante la natura di servizio pubblico è il conseguimento di fini sociali a favore della collettività, e perché il concessionario è investito di un’attività di interesse pubblico.

Detta previsione poteva essere contenuta in un qualsiasi atto, anche non tipizzato, della procedura, nella cosiddetta concessione-contratto, nel contratto di servizio, o comunque, in una convenzione. Invece la precisa determinazione di tali aspetti è stata lascia-ta alla libera determinazione del gestore, e alle sue scelte aziendali e imprenditoriali.

Certo non può ritenersi sufficiente l’avvenuta previsione, nel capitolato d’oneri, che nell’aggiu-dicazione si tenesse conto del progetto di gestione del servizio in relazione alla attività, alla politica dei prezzi, e ad alcuni obiettivi di rilevanza sociale, né che la società abbia effettivamente incluso nella pro-pria offerta detti elementi.

Gli obblighi del gestore andavano definiti, in ac-cordo con l’amministrazione, in un atto vincolante.

Non può esimersi, peraltro, il collegio dal rileva-re che, anche nella concessione di servizio pubblico, il pagamento di un corrispettivo da parte dell’am-ministrazione al terzo privato, più volte evidenziato dall’appellante, è solo una eventualità, finalizzata alla garanzia dell’equilibrio finanziario dell’impresa (si veda a riprova l’art. 30 d.lgs. n. 163/2006), rimes-sa alla scelta dell’ente, e che presuppone la previa valutazione economica del servizio e dell’intera ope-razione, che nella fattispecie non è stata effettuata e dimostrata.

Esclusa, per quanto detto, la configurabilità della concessione di un servizio pubblico, il caso di specie può essere inquadrato nella concessione di bene pub-blico. Escluso che l’impianto sportivo sia un bene demaniale (art. 824 c.c.) non essendo compreso tra quelli tassativamente elencati nell’art. 822 c.c., esso può farsi rientrare tra i beni del patrimonio indispo-nibile del comune, secondo la previsione dell’u.c. dell’art. 826 c.c. (“Fanno parte del patrimonio indi-sponibile dei comuni e gli altri beni destinati a un pubblico servizio”). Ne discende che l’affidamento della sua gestione e del suo uso alla società avviene necessariamente mediante una concessione (Cass., S.U., 29 novembre 1994, n. 10199; id. Cons. Stato, Sez. VI, 19 luglio 2013, n. 3924), in forza della quale l’amministrazione proprietaria del bene trasferisce per una durata determinata al concessionario, dietro pagamento di un canone, il diritto di uso e gestione del bene stesso.

Con le precisazioni ora effettuate, va pertanto confermata la sentenza laddove ha individuato l’il-lecito amministrativo-contabile nella mancata previ-sione di un canone.

Si condivide la sentenza anche sul punto della sussistenza della colpa grave e del nesso di causalità (motivo n. 4).

Quanto alla prima, è ravvisabile un atteggiamen-to di grave disinteresse nell’espletamento delle pro-prie funzioni, di negligenza massima, di deviazione dal modello di condotta connesso ai propri compiti (Corte conti, Sez. riun., 21 maggio 1998, n. 23; id Sez. I centr. app., 13 ottobre 2004, n. 348; id. Sez. III

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centr. app., 16 aprile 1998, n. 114; id. Sez. II centr. app., 29 luglio 1997, n. 121) e sussistendo un’anti-giuridicità evidente (Corte conti, Sez. III centr. app., 11 maggio 1998, n. 126).

Il predetto era in grado, infatti, di rendersi conto dell’antigiuridicità del proprio comportamento, te-nuto conto che, come sostanzialmente affermato nel-la sentenza, è di immediata percezione che il rispetto dei generali principi della corretta utilizzazione delle risorse economiche della collettività imponga il pa-gamento di un corrispettivo per godere di una strut-tura pubblica.

L’appellante ha dedotto, al fine di affermare la assenza di colpa grave, l’impossibilità di eseguire i consistenti lavori di ristrutturazione dell’impianto, che versava in stato di degrado. La circostanza non convince, considerato che, come si desume dalle pre-messe della delibera consiliare n. 123/1999, i lavori di costruzione e completamento della piscina comu-nale erano stati oggetto di separato appalto, senza contare che la manutenzione straordinaria dell’im-pianto natatorio, negli intendimenti dell’ammini-strazione (capitolato d’oneri), rimaneva comunque a carico della stessa.

Giustamente la sentenza impugnata ha esclu-so l’incidenza causale nella produzione del danno dell’operato del consiglio comunale, espresso nella delib. n. 123/1999, tenuto conto che essa rimetteva la predisposizione delle clausole essenziali da inserire nel contratto al bando di gara e alla lettera di invito, sulla base “degli indirizzi contenuti” nella medesi-ma delibera consiliare, che in definitiva consistevano solo nell’affidamento a terzi del servizio di piscina comunale, mediante contratto d’appalto di gestione del servizio, e nell’escludere che un compenso fosse erogato dall’amministrazione.

Dunque è corretto ritenere che la giunta avreb-be dovuto stabilire il compenso e le modalità dello stesso.

Infine, l’appellante ha opposto (motivo n. 5) che il quantum risarcitorio risulti integralmente assorbito dal valore economico dei consistenti interventi rea-lizzati, attribuito dal consulente tecnico d’ufficio in sede di accertamento tecnico preventivo, su ricorso della Progetto sport s.r.l.

Ebbene, nella relazione del consulente la stima (tot. euro 1.150.730) è distinta in tre valori, con rife-rimento: ai lavori di miglioria (euro 606.400); ai beni mobili durevoli (euro 424.850) e ai lavori autorizzati con delibere municipali, indicate con i n. 374/2001, n. 1151/2002 e n. 501/2003 (euro 119.480).

Quanto ai beni durevoli come macchine, attrez-

zature e arredi, il vantaggio è da escludere ex se, in quanto beni asportabili dalla struttura, come giusta-mente rilevato in sentenza.

Quanto ai lavori di miglioria non autorizzati il vantaggio per l’amministrazione non è configurabile, in quanto, per previsione del capitolato, le opere di miglioria dovevano essere concordate con il comune. Va ricordato, infatti, che ciò prevedeva il capitolato d’oneri, precisando che, qualora le migliorie fossero state effettuate “senza l’assenso scritto del comune”, il gestore non avrebbe avuto “diritto ad alcuna inden-nità salva la facoltà della riduzione in pristino”.

In ogni caso, per dette spese non autorizzate e per quelle autorizzate, ritiene il collegio che esse non possano essere valorizzate come utilità, in quanto l’amministrazione ha manifestato la volontà di ad-divenire a transazione, per la liquidazione, a favore della società, del valore delle opere eseguite a sue spese, come evidenziato dalla delib. 22 marzo 2013, n. 69 (senza allegato), depositata in udienza dalla parte appellante. È evidente come la regolamenta-zione dei rapporti di credito e debito tra l’ente locale ed il gestore, mediante l’atto transattivo, escluda in radice ogni ipotesi di residuale arricchimento delle parti.

Non sono stati allegati fondati motivi per l’appli-cazione del potere riduttivo.

Alla luce delle esposte considerazioni, l’appello di Angelucci va respinto in quanto infondato.

Ferma la condanna alle spese disposta con la sentenza di primo grado, la Sezione condanna, per il principio della soccombenza, l’appellante Angelucci al pagamento delle spese di questo grado di giudizio, nell’importo complessivo di euro 208 (duecentotto).

534 – Sezione II centrale d’appello; sentenza 5 set-tembre 2014; Pres. Rotolo, Est. Cirillo, P.M. Fe-derici; A.B. e altri c. Proc. reg. Campania.

Conferma, con diversa quantificazione del danno, Corte conti, Sez. giur. reg. Campania, 23 giugno 2008, n. 1521.

Responsabilità amministrativa e contabile – Buo-ni pasto – Erogazione illegittima – Danno era-riale.

R.d. 12 luglio 1934 n. 1214, approvazione del testo unico delle leggi sulla Corte dei conti, art. 52; l. 14 gennaio 1994 n. 20, disposizioni in materia di giu-risdizione e controllo della Corte dei conti, art. 1; l. 28 dicembre 1995 n. 550, disposizioni per la forma-zione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato

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(legge finanziaria 1996), art. 2; l. 2 ottobre 1997 n. 337, proroga dei termini previsti dall’art. 7 della l. 3 aprile 1997 n. 94, in materia di riordino delle com-petenze dei Ministeri del tesoro e del bilancio e della programmazione economica, art. 3.

Risponde di danno erariale il funzionario che abbia disposto l’erogazione di buoni pasto ai dipen-denti dell’amministrazione anche per giornate nel-le quali l’orario di lavoro non prevedeva la pausa pranzo fra due periodi di prestazione dell’attività lavorativa.

Diritto – (Omissis) 2. Passando al merito degli appelli, vanno anzitutto esaminati i motivi di grava-me afferenti alla illegittimità dell’erogazione.

2.1. La sentenza impugnata ha affermato che il buono pasto veniva concesso a prescindere dall’ef-fettuazione della pausa pranzo, a quanto era risultato dalle attestazioni di presenza (ad esempio i dipen-denti, che avevano fruito di settimana corta recupe-rando il sabato in cinque giorni, risultavano presenti in servizio solo per 7 ore e 12 minuti, anziché per 7 ore e 42 minuti, come avrebbe dovuto essere qualora essi avessero effettuato la pausa di 30 minuti).

Per converso, la difesa degli appellanti afferma la legittimità della erogazione dei buoni pasto a pre-scindere dall’effettuazione della pausa pranzo, sia con riferimento alla fattispecie astratta, sia con rife-rimento alla fattispecie concreta.

2.2. Sotto il primo profilo, le parti appellanti af-fermano che la normativa di settore non prevede lo svolgimento di una pausa pranzo, in aggiunta all’o-rario giornaliero di lavoro, come presupposto per il buono pasto, evidenziando quanto segue.

a) L’art. 19, c. 4, c.c.n.l. ministeri, sottoscritto il 16 maggio 1995 dispone solo che dopo sei ore di lavoro debba essere “prevista” una pausa non inferiore a 30 minuti (per il recupero energie e l’eventuale pranzo), non che essa debba essere effettuata; onde la pausa è un beneficio eventuale ed autonomo, cumulabile con il buono pasto (cfr. appelli Alfano, Spampanato).

b) Dato che il buono pasto ha funzione “sosti-tutiva” della mensa aziendale, non potendo essere concesso a chi utilizza la mensa interna (in tal senso, la difesa di Alfano e Spampanato cita anche la nota c.g.m. n. 7872 del 14 novembre 1997), e dato che la pausa pranzo serve a consentire ai dipendenti di usufruire della mensa stessa, ne conseguirebbe che non potrebbe imporsi al dipendente la pausa pran-zo come presupposto per ottenere il buono, qualora manchi una mensa interna (come al c.g.m. di Napoli:

cfr. appello Forlani) o comunque il dipendente non ne usufruisca (cfr. appelli Alfano e Spampanato).

c) Secondo gli appellanti, confermerebbero quest’impostazione le norme di legge (in specie l’art. 22 l. n. 724/1994; l’art. 3 l. n. 334/1987) e contrattua-li (art. 19 cit.) nonché l’espressa previsione dell’art. 3 n. 1 lett. c) della circolare della direzione generale dell’organizzazione giudiziaria del Ministero della giustizia in data 10 febbraio 1998, secondo cui il buono pasto spetta a chi prolunga l’orario di lavoro di sei ore giornaliere, facendo salva però la facoltà del dipendente di rinunziare alla pausa pranzo (cfr. tutti gli appelli qui in esame). In quest’ottica, il buo-no pasto costituirebbe una sorta di corrispettivo in natura della mensa e della pausa pranzo, che vengo-no riconosciuti a chi resta in servizio oltre il normale orario giornaliero di ufficio di 6 ore, ma che potreb-bero essere fruiti o meno dal dipendente, il quale sa-rebbe libero di rinunziarvi.

Sulla scorta di queste argomentazioni, sarebbe stata legittima la corresponsione del buono pasto a chi svolgeva un servizio giornaliero superiore a sei ore ma senza pausa, rinunziando a quest’ultima (ad esempio, un servizio di 7 ore e 12 minuti per cinque giorni, ovvero di 9 ore per due giorni e 6 ore per tre giorni).

2.2.1. In merito a tali motivi di appello, rileva il collegio che la normativa di settore dispone in modo chiaro e inequivocabile che il buono pasto spetta a condizione che venga concretamente effettuata la pausa pranzo.

Invero, a seguito dell’art. 22 l. n. 724/1994 – che prevedeva la possibilità di un orario di servizio arti-colato su 5 anziché 6 giorni settimanali, fatte salve particolari esigenze per servizi pubblici da erogarsi con continuità e con orario continuativo – l’art. 19, c. 4, c.c.n.l. del 16 maggio 1995 ha disposto che nel caso di prolungamento dell’orario di servizio oltre sei ore “deve essere prevista una pausa che comun-que non può essere inferiore ai 30 minuti” (dispo-sizione a sua volta precisata ed attuata con l’art. 7 c.c.n.l. del 12 gennaio 1996).

Quindi, l’art. 2, c. 11, l. n. 550/1995 (come in-terpretato dall’art. 3 l. n. 334/1997) ha previsto la concessione di buoni pasto al personale che presta servizio con prolungamento di orario oltre le sei ore e che non dispone di servizi di mensa, demandan-do l’attuazione di questi principi alla contrattazione collettiva (e ad un d.p.c.m. per il personale non con-trattualizzato).

In attuazione di questi principi, con il c.c.n.l. del 30 aprile 1996 (comparto ministeri) è stata discipli-

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nata la concessione del beneficio in questione, san-cendo (all’art. 4) che gli impiegati, facenti parte del personale contrattualizzato, hanno titolo ad un buono pasto:

a) “a condizione che non possano fruire a titolo gratuito di servizio mensa od altro servizio sostituti-vo presso la sede di lavoro” (c. 1);

b) “per la singola giornata lavorativa nella quale il dipendente effettua un orario di lavoro ordinario superiore alle sei ore, con la relativa pausa prevista dall’art. 19, c. 4, c.c.n.l., all’interno della quale va consumato il pasto” (c. 2);

c) ovvero “per la giornata lavorativa nella quale il dipendente effettua, immediatamente dopo l’orario ordinario, almeno tre ore di lavoro straordinario, nel rispetto della pausa prevista dall’art. 19, c. 4, c.c.n.l., all’interno della quale va consumato il pasto” (c. 3).

d) con la precisazione che, nella ipotesi in cui una quota o tutto il costo della mensa di servizio sia a carico del dipendente, il buono pasto serve a coprire tale costo (cc. 4 e 5).

Disposizioni del tutto analoghe sono state dettate per il personale non contrattualizzato (art. 2 d.p.c.m. 5 giugno 1997, secondo il quale “Il buono pasto vie-ne attribuito per la singola giornata lavorativa nella quale il dipendente protrae l’attività di servizio nelle ore pomeridiane, con l’effettuazione della pausa, o nella giornata in cui il dipendente effettua, immedia-tamente dopo l’orario ordinario e la pausa, almeno tre ore di lavoro straordinario”).

Dalla lettura di tali disposizioni emerge con chia-rezza che il buono pasto può essere riconosciuto solo se nella giornata di lavoro l’impiegato effettua, oltre al normale orario di lavoro (ad esempio, di 7 ore e 12 minuti per cinque giorni, ovvero di 9 ore per due giorni e 6 ore per tre giorni), anche una pausa pranzo “all’interno della quale va consumato il pasto”; in al-tri termini, pur essendo indubbio che il buono pasto è alternativo alla fruizione di una mensa gratuita, tale emolumento non ha la funzione di “monetizzare” il valore della mensa (lasciando libero il dipendente di utilizzare o meno il buono per pranzare), bensì ha la funzione di consentire la pausa pranzo anche ai dipendenti che non hanno una mensa interna, rico-noscendo loro la provvista necessaria per acquistare derrate alimentari e per effettuare la pausa, in fun-zione del recupero di energie psico-fisiche (e quindi in funzione della produttività del lavoro, oltre che in funzione assistenziale).

2.2.2. Non conduce a diverse conclusioni, anzi avvalora questa tesi la circolare del Ministero della giustizia (dir. gen. org. giud.) del 10 febbraio 1998

invocata da tutti i convenuti (la difesa di Alfano e Spampanato cita anche la nota ministeriale in 21 set-tembre 2001, peraltro irrilevante perché successiva ai fatti di causa).

Tale circolare, nel chiarire le condizioni di cor-responsione del beneficio in esame, individua alcuni casi in cui il diritto al buono pasto non è condizionato alla pausa. In specie, al par. 3.1 la circolare prevede che il buono pasto “c) compete, inoltre, al dipendente che articola il proprio orario di lavoro su cinque gior-ni settimanali (secondo la disciplina prevista dall’art. 22, l. n. 724/1994, come modificata dall’art. 6, c. 5, d.l. n. 79/1997, convertito dalla l. n. 140/1997), per ogni giorno di prolungamento dell’orario ordinario oltre le sei ore con la pausa per il pranzo. Tale condi-zione è ovviamente correlata alle concrete modalità di distribuzione dell’orario di lavoro nell’arco di cin-que giorni. Di norma, il recupero della giornata nella quale non è compiuto servizio lavorativo, sarà diviso in due giorni settimanali, per cui – eccetto particolari esigenze di servizio o l’adozione di scelte di orga-nizzazione che richiedano di distribuire il recupero per un numero maggiore di giornate – in quei giorni il dipendente dovrà osservare un orario complessi-vo di 9 ore, con trenta minuti di intervallo minimo. All’intervallo, peraltro, il dipendente può rinunciare, fermo restando il diritto al buono pasto, con il con-senso dell’amministrazione, consenso che sarà dato nel solo caso in cui l’attività ininterrotta risponda alle esigenze organizzative del servizio. L’articolazione dell’orario di lavoro in maniera tale che comporti il recupero della giornata nella quale non è compiuta l’attività lavorativa in più di due giorni settimanali, insieme al consenso alla rinuncia alla pausa, impe-gnano la personale responsabilità dei dirigenti” (il corsivo è ovviamente di chi scrive).

Risulta anzitutto evidente che la circolare non prevede affatto che il beneficio in questione spetti a prescindere dalla pausa, anzi prevede espressamente che il buono pasto spetta di norma solo se l’orario di lavoro viene prolungato di una pausa per il pranzo di 30 minuti almeno.

Inoltre, diversamente da quanto pretendono gli appellanti, la circolare non prevede un “diritto” del ricorrente a rinunziare all’intervallo senza perdere il beneficio, ma semplicemente chiarisce che (in deroga ai principi generali) non si perde il diritto al buono, qualora per esigenze di servizio il lavoro debba esse-re prestato senza interruzioni e quindi non sussista il diritto alla pausa (ai sensi dell’art. 22 l. n. 724/1994); così come avviene nell’analoga ipotesi in cui il ser-vizio sia articolato per turnazioni di almeno otto ore

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continuative senza pausa (par. 3.1, lett. b, della cir-colare), fattispecie anch’essa prevista dall’art. 22 l. n. 724/1994. Infatti, la circolare non prevede che il dipendente possa liberamente rinunziare alla pausa, bensì che spetta al dirigente (sotto sua diretta “re-sponsabilità”) prestare il suo consenso alla rinunzia, dopo avere verificato che “l’attività ininterrotta ri-sponda alle esigenze organizzative del servizio”.

In altri termini, la circolare non fissa un principio di irrilevanza della pausa pranzo, ma chiarisce solo che in alcune eccezionali ipotesi, in cui tale pausa non può essere concessa per esigenze di servizio (cfr. l’art. 22 cit.), può essere comunque riconosciuto il buono pasto, in deroga alle previsioni contrattuali, e sempre che vi sia stata una previa verifica della sussi-stenza in concreto di particolari esigenze di servizio che non abbiano consentito interruzioni della presta-zione lavorativa.

2.2.3. Pertanto, vanno respinti i motivi di appello fondati sulla pretesa legittimità della concessione del buono pasto senza svolgimento di pausa, in quanto la normativa di settore non consente la erogazione del beneficio in questione senza la effettuazione del-la pausa pranzo, fatte salve particolari ipotesi in cui, per esigenze di servizio, detta pausa non possa essere svolta.

2.3. Sotto un diverso profilo, la difesa di tutti gli appellanti afferma (con riferimento alla fattispecie concreta) la sussistenza dei presupposti per la con-cessione “in deroga” del buono pasto anche senza pausa pranzo, previsti dalla circolare del 10 febbraio 1998 (e dalla nota ministeriale 21 settembre 2001), ovvero una rinunzia alla pausa, accettata dalla am-ministrazione.

2.3.1. In particolare, i difensori degli appellanti affermano che:

a) la rinunzia dell’impiegato e l’accettazione dell’amministrazione non erano soggetti a forma scritta;

b) non occorrevano rinunzie e autorizzazioni specifiche (caso per caso) a non effettuare la pausa pranzo;

c) la sussistenza di rinunzie e accettazioni doveva essere presunta:

- per la concreta situazione organizzativa degli uffici, afflitti da vuoti di organico;

- perché la rinunzia e l’accettazione erano impli-cite nella richiesta di buoni pasto (elenchi dei benefi-ciari) trasmessa dai singoli Servizi al c.g.m. (l’inse-rimento nell’elenco dei soggetti che optavano per il buono pasto implicava essi avessero rinunziato alla pausa pranzo, e addirittura, in alcuni casi, vi erano

state rinunzie espresse) e nella liquidazione del be-neficio;

d) la programmazione degli orari di servizio (con la previsione della pausa obbligatoria) in sede di contrattazione decentrata era sopravvenuta ai fatti di causa (solo nel 1999 il c.g.m. aveva fatto propria tale modalità organizzativa; in precedenza nulla si diceva);

f) infine, la stessa amministrazione sembrava avere prestato tale consenso, anche perché non aveva proceduto al recupero.

2.3.2. In merito a tali motivi di appello, anche vo-lendo ipotizzare che non sia richiesta una forma scrit-ta per l’accettazione della pubblica amministrazione alla “rinunzia” alla pausa pranzo, si è già evidenziato (cfr. par. 2.2.2) che tale rinunzia non costituisce un “diritto” del dipendente, e che il dirigente non può riconoscere tale beneficio in maniera indifferenziata ma solo con riferimento a casi specifici, previo accer-tamento in concreto dell’esistenza di quelle esigenze di servizio che giustificano la deroga alla regola della pausa pranzo, previste fin dall’art. 22 l. n. 724/1994 (anche prima della circolare del 1998, meramente chiarificatrice, e della contrattazione del 1999).

Orbene, è evidente che i meri elenchi dei bene-ficiari di buoni pasto (riferiti a una pluralità indif-ferenziata di soggetti e per moltissimi giorni) non contengono alcuna valutazione sulla sussistenza di tali esigenze di servizio; onde non può presumersi un “consenso tacito” in base alla mera redazione dell’e-lenco senza tale valutazione. Inoltre, anche volendo ammettere che vi fossero vuoti di organico (peraltro, non provati con certezza nella loro concreta rilevan-za in relazione al carico di lavoro) in ogni caso non vi è prova che essi non consentissero una turnazione dei dipendenti con effettuazione delle pause. È infi-ne del tutto ovvio che l’omesso recupero dei buoni pasto dopo l’indagine amministrativa e il presente giudizio non implica l’esistenza del previo consenso a non effettuare la pausa, da porre a base della con-cessione dei buoni pasto.

2.3.3. Pertanto, in mancanza della prova di un accertamento specifico di esigenze di servizio che imponessero l’effettuazione di lavoro senza pausa, e quindi di una autorizzazione della pubblica ammini-strazione (sia pure tacita) a non effettuare la pausa, anche tali motivi di appello si manifestano infondati e vanno respinti.

2.3.4. Va poi precisato che per l’U.s.s.m. di Na-poli vi era un “verbale di riunione sindacale” del 28 marzo 1996 nel quale indiscriminatamente si con-sentiva di effettuare la pausa pranzo a fine turno,

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anziché dopo 6 ore, in considerazione delle partico-lari esigenze del Servizio minorile (“in particolare dell’A.S., impegnata sia sul territorio che alla presen-za assistenza alle udienze che normalmente vanno a prosecuzione”: cfr. doc. 23, fascicolo pubblico mini-stero nel giudizio n. 1473/R di primo grado). Secon-do la Santulli, tale atto fungerebbe appunto da accer-tamento della sussistenza delle esigenze di servizio legittimanti la “rinunzia” alla pausa pranzo e come accettazione da parte dell’amministrazione. In realtà, premesso che non è chiaro se tale “verbale” fungesse da accordo sindacale o da mera comunicazione degli intenti organizzativi della direttrice reggente Santulli (nel primo caso sarebbe di dubbia legittimità, dato che l’U.s.s.m. “non è sede di contrattazione sinda-cale”: cfr. relazione ministeriale in risposta all’ord. n. 73/2005), va segnalato che comunque l’accordo decentrato tale atto non avrebbe mai potuto derogare alle regole sulla pausa dopo 6 ore di lavoro dettate del c.c.n.l. del 16 maggio 1995, né poteva trovare ap-plicazione alla luce del c.c.n.l. sul buono pasto del 30 aprile 1996, che prevedeva una valutazione “in con-creto” delle esigenze di servizio che consentivano di non effettuare la pausa pranzo, non una indiscrimina-ta facoltà di non effettuare la pausa con attribuzione del beneficio in contestazione.

2.4. Infine, la sola appellante Santulli contesta che sussistevano in concreto i presupposti per la con-cessione dei buoni pasto, non per l’affermata “super-fluità” a tal fine della pausa pranzo (vuoi perché non richiesta dalla legge, vuoi perché “rinunziata” dagli interessati), bensì perché i dipendenti dell’U.s.s.m. di Napoli avevano comunque svolto un orario gior-naliero superiore a 7 ore e 42 minuti per cinque giorni, e quindi tale da consentire la erogazione del buono pasto.

A tal fine l’appellante – riconoscendo che l’o-rario giornaliero svolto risultava inferiore a 7 ore e 42 minuti dai cartellini marcatempo (utilizzati dagli ispettori ministeriali per calcolare l’orario di servizio svolto) – esibiva “agende-copia”, evidenziando che nell’U.s.s.m. da lei diretto vi erano una grave caren-za di organico e una attività molto complessa e di-scontinua da svolgere (assistenza ai minori e simili).

2.4.1. Deve tuttavia disattendersi anche tale moti-vo di gravame, in quanto – anche volendo ipotizzare particolari problematiche dell’ufficio ed un com-mendevole attaccamento al lavoro dei dipendenti dell’U.s.s.m. (così diligenti da prestare più ore di la-voro di quelle formalmente registrate) – dette “agen-de” non costituiscono prova certa di un maggiore orario di lavoro, ed in specie di un orario giornalie-

ro superiore di mezz’ora rispetto a quello risultante dagli atti ufficiali (cartellini marcatempo o simili), tanto più che esse vengono redatte dagli stessi dipen-denti interessati (cfr. la relazione ministeriale del 25 dicembre 2005, in risposta alla ordinanza istruttoria di primo grado n. 73/2005). (Omissis)

3. Analogamente infondati sono i motivi di gra-vame afferenti al difetto di legittimazione passiva, prospettati da vari convenuti affermando l’omessa violazione degli obblighi di servizio (difetto di anti-giuridicità e colpevolezza della condotta) e quindi la mancanza di nesso causale tra la condotta contestata ed il danno (rilevante per il riparto dell’addebito).

3.1. Come sopra precisato, i direttori dei vari ser-vizi facenti parte del c.g.m. di Napoli affermano che essi non avevano specifiche competenze relativa-mente alla gestione della spesa per buoni pasto, per cui non potrebbe loro imputarsi né una violazione di obblighi di servizio (rilevante ai fini dell’antigiuridi-cità e colpevolezza) né un nesso causale tra la loro condotta ed il danno.

a) Infatti, i direttori non erano agenti contabili, in quanto non avevano autonomia amministrativo-con-tabile (il De Angelis Preziosi afferma che perfino le sue ferie erano autorizzate dal dirigente c.g.m.), e si limitavano a rispondere alle richieste del dirigen-te del c.g.m., che era funzionario delegato e quindi vistava e autorizzava ogni atto di spesa ex d.p.r. n. 1538/1955. Nelle memorie per l’udienza deposita-te il 24 gennaio 2014 (sopra citate) il difensore di Bovenzi, De Angelis Preziosi, Triola e Santulli ha precisato che i suoi assistiti non avevano assegnato direttamente al personale dipendente i buoni pasto in questione, erogati dalla direzione c.g.m. che aveva il controllo su tutti gli atti degli uffici dipendenti.

b) Inoltre, Bovenzi, Triola, De Angelis Preziosi e Santulli erano solo direttori reggenti, ed erano tutti funzionari di VII livello (i primi due “educatore di VII livello”, il terzo “collaboratore di VII livello”, la quarta “assistente sociale di VII livello) laddove a capo dell’ufficio avrebbe dovuto esserci un funzio-nario di livello superiore.

3.2. Analogamente, la difesa del Forlani afferma la sua incompetenza in materia di liquidazione dei buoni pasto, per cui non potrebbe imputarsi né una violazione di obblighi di servizio (rilevante ai fini dell’antigiuridicità e colpevolezza) né un nesso cau-sale tra la loro condotta ed il danno, in quanto:

a) non vi era stata una delega di funzioni ma solo una delega di firma da parte del Sommella al Forlani;

b) la delega dei poteri di firma non escludeva la piena responsabilità del delegante, ai sensi dell’art.

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736 delle istruzioni generali dei servizi del tesoro; e infatti il Forlani aggiungeva il “per” agli ordinativi di spesa dei buoni pasto, che restavano intestati al Sommella;

c) la decisione di attribuire i buoni pasto con quelle modalità era conseguenza di un atto di orga-nizzazione del Sommella.

3.3. Viceversa, la difesa del Sommella (dirigente superiore del c.g.m. di Napoli) afferma che la viola-zione dei doveri di ufficio e quindi la causazione del danno sarebbero imputabili:

aa) al Forlani (delegato alla firma) per i danni da erogazioni indebite ai dipendenti del c.g.m. (impo-nendo quindi una condanna di quest’ultimo ad una quota superiore al 50 per cento addebitatogli in sen-tenza);

bb) ai direttori delle articolazioni del c.g.m. per i danni da erogazioni a dipendenti di tali articolazioni (C.p.a., U.s.s.m., I.p.m.) in quanto, a prescindere dal dato formale della sovraordinazione generica della dirigente c.g.m. a tutti gli uffici (evidenziato nella ri-sposta data dal Ministero all’ordinanza n. 75/2005), nei fatti i direttori delle varie strutture operavano in piena autonomia nell’individuare ed indicare al c.g.m. (in apposito prospetto) quali dei loro subor-dinati dipendenti avessero diritto ai buoni-pasto, previa ovviamente verifica delle presenze, nell’ottica del decentramento amministrativo;

cc) ai dirigenti ministeriali, in quanto non si po-trebbe affermare che essi non fossero in grado di va-lutare tutti i dati che pervenivano dai vari uffici.

3.4. Tutti questi motivi di appello sono infondati. (Omissis)

4. Gli appellanti contestano la sentenza impugna-ta soprattutto sotto il profilo dell’elemento sogget-tivo, affermando la mancanza del dolo nella corre-sponsione indebita di buoni pasto, avvenuta (secondo il giudice a quo) nella precisa consapevolezza della mancanza delle condizioni di legge all’uopo neces-sarie (dolo “erariale”) ovvero nella accettazione del rischio di attribuire erogazioni indebite ai dipendenti (c.d. “dolo eventale”); nonché la mancanza anche di colpa grave, attesa la presenza di una serie di circo-stanze esimenti o comunque comprovanti la assoluta buona fede degli appellanti.

In particolare, gli appellanti invocano i seguenti motivi di gravame.

4.1. In primo luogo, non sarebbe normativamen-te previsto il “dolo eventuale” nella materia della responsabilità per danno erariale ma solo in campo penale.

4.2. In secondo luogo, mancherebbe la prova del dolo, in specie delle circostanze indicate dalla sen-tenza come prove della coscienza e volontà di arre-care danno all’erario, ovvero:

aa) che gli appellanti fossero perfettamente con-sapevoli della necessità della pausa pranzo ai fini della concessione del buono pasto, in quanto le nor-me erano tali da non ingenerare alcun dubbio sulla loro interpretazione; tanto chiare e inequivocabili che in nessun altra regione si era addivenuti a quella interpretazione fatta propria dal c.g.m. di Napoli;

bb) che, ciononostante, si provvedesse all’eroga-zione senza lo svolgimento della pausa;

cc) che, quindi, vi fosse una “tacita intesa” tra la dirigente del centro, i direttori dei servizi e altri soggetti, per attribuire indebiti benefici ai dipendenti del c.g.m. di Napoli.

4.3. In terzo luogo, vi sarebbe la prova circostan-ze esimenti da dolo e colpa grave, alcune comuni a tutti gli appellanti, altre solo ad alcuni.

4.3.1. Anzitutto, tutti gli appellanti invocano pre-sunte incertezze interpretativo-applicative sulla nor-mativa dei buoni pasto, in quanto in molte ammini-strazioni venivano corrisposti detti buoni a chiunque osservasse un orario di 7 ore e 12 minuti, a prescinde-re dalla pausa pranzo (rinunziabile dagli interessati).

In particolare, la difesa di Bovenzi, De Angelis Preziosi, Santulli e Triola precisa che l’all. A) del c.c.n.l. del 22 ottobre 1997 (ministeri 1994-1997), in ordine al buono pasto ex art. 19 del c.c.n.l., pre-vedeva solo la necessità di una “programmazione” degli orari di servizio in sede decentrata; e che la Ragioneria generale dello Stato (I.g.o.p.) con nota del 28 ottobre 1997 aveva invitato tutte le pubbli-che amministrazioni a monitorare l’attuazione del c.c.n.l. 30 aprile 1996 ed a fornire informazioni sulla articolazione degli orari, sul personale che fruiva di settimana corta e sulle somme pagate per il beneficio in contestazione.

La difesa del Sommella e del Forlani, poi, evi-denzia che il quadro normativo confuso derivava anche dalla suddetta circolare ministeriale del 1998, che riconosceva la possibilità di una “rinunzia” alla pausa-pasto (che almeno apparentemente era stata accettata dall’amministrazione, anche centrale, che aveva liquidato le somme e non aveva effettuato al-cun recupero); e che la presenza di tale incertezza interpretativa era dimostrata dai ripetuti interventi in materia (sindacali e dirigenziali) attraverso accordi e direttive (che avevano chiarito la problematica sol-tanto dopo il verificarsi del danno in contestazione: cfr. infra, par. 4.3.2.2).

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PARTE II – ATTIVITÀ GIURISDIZIONALE N. 5-6/2014

230

4.3.2. In particolare, quanto ai direttori dei servizi di giustizia minorile (Bovenzi, De Angelis Preziosi, Santulli, Triola; così come per Alfano e Spampanato, che pure non si dilungano in specifiche considera-zioni sul punto) si afferma la loro buona fede nella individuazione dei soggetti aventi diritto ai buoni pa-sto, sulla base di una serie di circostanze eterogenee.

4.3.2.1. In primis, nel periodo in contestazione (1996-1998) pervenivano indicazioni non univo-che dagli uffici sovraordinati (d.g.c.m. e ministero), competenti alla liquidazione dei buoni pasto, che in-ducevano detti direttori a ritenere legittima la pras-si di riconoscere il buono pasto a prescindere dalla pausa pranzo.

a) Anzitutto, vi erano atti del c.g.m. che avallava-no una interpretazione “estensiva” delle disposizioni sul diritto ai buoni pasto, in quanto:

- come evidenziato dal Triola, con nota fax n. 709 dell’1 aprile 1996 la d.c.g.m. aveva precisato che i buoni pasto potevano essere attribuiti ai dipenden-ti autorizzati alla settimana corta con recupero in 5 giorni o con 2 rientri pomeridiani;

- Il Bovenzi aveva richiesto al c.g.m. chiarimenti sulla pausa ex art. 19, c. 4, c.c.n.l. (con nota n. 401 del 13 febbraio 1997), e detto c.g.m., con nota n. 1282 del 15 febbraio 1997, aveva risposto che la pausa era un “diritto” del dipendente che poteva anche rinun-ziarvi (e “lasciava intendere”, secondo il Bovenzi, che in tal caso il buono pasto spettava ugualmente); per cui, con nota n. 468 del 1 marzo 1997 (prospet-to dettagliato) l’appellante comunicava al c.g.m. che tutto il personale aveva rinunziato alla pausa pranzo articolando l’orario giornaliero di 7 ore e 12 minuti.

b) Inoltre, le note trasmesse dalla d.c.g.m. ai vari uffici per ottenere gli elenchi del personale avente diritto al beneficio in questione si limitavano a chie-dere chi svolgesse lavoro su 5 giorni con orario con-tinuato e con due rientri pomeridiani, senza alcun riferimento alla necessità di pausa intermedia.

c) Ancora, la direzione del c.g.m. non aveva ef-fettuato alcun rilievo sugli atti trasmessi dai diret-tori dei vari uffici (non solo in risposta alla prefata circolare I.g.o.p., ma anche in precedenza) dai quali emergeva che il diritto al buono pasto era stato ri-conosciuto a prescindere dalla fruizione della pausa pranzo. In particolare:

- il Bovenzi aveva comunicato periodicamente alla direzione del c.g.m. l’organizzazione del lavoro e dell’orario di servizio, ed in particolare aveva tra-smesso al c.g.m. un elenco del personale avente dirit-to ai buoni con precisa indicazione dell’orario di la-voro giornaliero e settimanale (già con nota 29 aprile

1997, a seguito della predetta risposta del c.g.m. al quesito sull’interpretazione del c.c.n.l. richiesta dal Bovenzi);

- il Triola aveva fornito un elenco dei lavoratori fruenti del beneficio (su richieste con note fax n. 831 del 23 aprile 1997 e 26 settembre 1997, n. 1922 della d.c.g.m.) da cui si desumeva con chiarezza la tipolo-gia dell’orario svolto;

- analogamente, i prospetti inviati dall’1 aprile 1996 in poi dal De Angelis Preziosi alla direzione c.g.m. di Napoli riportavano sempre l’indicazione nominativa e l’articolazione di orario di ogni dipen-dente;

- la Santulli aveva comunicato sia alla d.c.g.m. sia al ministero l’“accordo decentrato” stipulato con i sindacati sulla tipologia dell’orario di lavoro (in ot-temperanza al d.p.c.m. del 30 novembre 1995), che per la particolare tipologia del lavoro nell’U.s.s.m. prevedeva 7 ore e 12 minuti con la pausa pranzo a fine turno (ovvero all’uscita, non nel corso del la-voro); e periodicamente trasmetteva (su richiesta c.g.m.) il numero di buoni pasto spettanti ai dipen-denti.

Tali eccezioni sono state reiterate nelle memo-rie per l’udienza depositate il 24 gennaio 2014 dal difensore di Bovenzi, De Angelis Preziosi, Triola e Santulli, il quale ha precisato che i suoi assistiti ave-vano sempre comunicato periodicamente e su speci-fiche richieste del dirigente c.g.m., l’organizzazione del servizio del personale del suo ufficio, indicando l’orario di 7 ore e 12 minuti per cinque giorni, senza che venisse mai formulato alcun rilievo.

d) Infine, la d.c.g.m. aveva provveduto alla distri-buzione di tali emolumenti senza effettuare i suoi do-verosi controlli sugli elenchi dei buoni pasto (circo-stanza che, come sopra precisato, incide anche sulla individuazione del responsabile del danno, ovvero il legittimato passivo all’azione di responsabilità).

4.3.2.2. Inoltre, direttive specifiche sull’attri-buzione dei buoni pasto erano state impartite dagli uffici sovraordinati solo nel 1999 (dopo il periodo in contestazione e la stipula di appositi accordi sin-dacali).

In particolare, secondo l’appello del De Angelis Preziosi, solo dopo l’ispezione ministeriale del feb-braio 1999 la direzione del c.g.m. aveva chiarito che si potevano attribuire buoni pasto anche per 5 giorni settimanali, sempreché però si effettuasse la pausa pranzo (con fax n. 337 dell’11 febbraio 1999), e ave-va precisato che per fruire del buono pasto occorreva-no svolgere un orario di cinque giorni settimanali con 7 ore e 42 minuti (con nota fax n. 872 del 14 aprile

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1999). Analogamente, secondo l’appello del Bovenzi, il fax n. 337/1999 si limitava a chiarire l’impossibilità di concedere più di 2 buoni pasto a settimana; la rego-la secondo cui la effettuazione della pausa era presup-posto del buono pasto era stata recepita in sede locale solo con l’accordo sindacale decentrato sull’orario di servizio del 12 aprile 1999 (tra le Oo.ss. e il c.g.m., previsto dall’art. 19 c.c.n.l. ministeri 1994-1997, all. A), a seguito del quale il Bovenzi aveva emanato di-rettiva del 12 maggio 1999 in tal senso. Infine, nelle memorie per l’udienza depositate il 24 gennaio 2014 (sopra citate) la difesa di Bovenzi, De Angelis Prezio-si, Santulli e Triola ha precisato che già con nota del 15 marzo 1999 il c.g.m. aveva chiarito la necessità della pausa pranzo per fruire del buono.

4.3.2.3. In ogni caso, perfino dopo l’ispezione ministeriale, gli uffici sovraordinati avevano mani-festato qualche incertezza sulla necessità della pausa pranzo ai fini del buono pasto, in quanto:

- ancora con nota n. 1708 del 8 marzo 1999 (in-viata all’U.c.g.m.) il direttore reggente del c.g.m. di Napoli (il Forlani) affermava che i lavoratori “di norma” svolgevano 7 ore e 12 minuti con diritto al buono pasto; e sul capitolo 5380 (gestito direttamen-te dal c.g.m.) il ministro aveva accreditato somme con appositi ordini di accreditamento aventi funzio-ne autorizzativa della spesa (a. 50 LcgS e 279 RcgS) (secondo il Bovenzi);

- il c.g.m., nonostante quanto impostogli in sede di visita ispettiva, non aveva provveduto al recupero dei buoni pasto indebitamente corrisposti al persona-le, e l’U.c.g.m. non aveva preso alcuna iniziativa in merito (secondo il De Angelis Preziosi).

Anche nelle memorie per l’udienza depositate il 24 gennaio 2014 (sopra citate) il difensore di Bo-venzi, De Angelis Preziosi, Santulli e Triola ha la-mentato che l’amministrazione non aveva adempiu-to al dovere irrinunciabile di recuperare le somme indebitamente corrisposte al dipendente (si citava in tal senso la giurisprudenza del Consiglio di Stato), ma il giudice di primo grado non ne aveva tenuto conto.

4.3.2.4. La prassi degli altri uffici del c.g.m. era nel senso di ritenere la legittimità dell’erogazione dei buoni pasto a prescindere dalla pausa pranzo (Bo-venzi). In specie, a quanto riferisce il De Angelis Preziosi, tutto il personale del c.g.m. fruiva dei buo-ni pasto con quelle modalità, compreso il personale della d.c.g.m. che era nello stesso edificio del C.p.a. a capo del quale c’era detto appellante (il quale quin-di era convinto di agire nel rispetto delle direttive del c.g.m.).

4.3.2.5. Infine, il difensore di Bovenzi, De Ange-lis Preziosi, Triola e Santulli ha invocato specifiche circostanze soggettive esimenti da colpa grave, in particolare:

a) gli appellanti non avevano proprie specifiche competenze gestorie ed erano semplici reggenti, con la bassa qualifica di VII livello (cfr. svolgimento del processo, par. 2.1.2);

b) gli appellanti non avevano mai usufruito di buoni pasto (effettuando orario di 6 ore per 6 giorni: cfr. memorie per l’udienza depositate il 24 gennaio 2014);

c) il Bovenzi aveva chiesto chiarimenti alla d.c.g.m., che aveva risposto affermando la debenza dei buoni pasto anche senza pausa pranzo;

d) diversamente dagli altri appellanti, il De An-gelis Preziosi:

- era convinto di agire nel rispetto delle direttive dell’organo sovraordinato, in quanto tutto il perso-nale del c.g.m. ne fruiva, in specie il personale della dirigente del c.g.m., che era nello stesso edificio del C.p.a.;

- non aveva beneficiato di buoni pasto, se non dopo essere stato autorizzato dall’Ufficio centrale di giustizia minorile (con nota del 25 novembre 1997) a fruirne per 6 giorni settimanali per particolari esigen-ze di servizio (a volte, anche di notte);

e) la Santulli affermava che i buoni pasto in realtà spettavano (cfr. svolgimento del processo, par. 2.1.3), perché l’orario giornaliero svolto era molto superiore a quello risultante dai cartellini marca-tempo (si esi-bivano “agende-copia”), dato che nell’U.s.s.m. da lei diretto vi erano una grave carenza di organico e una attività molto complessa e discontinua da svolgere.

4.3.3. Viceversa, la difesa del Sommella (diretto-re del c.g.m.) afferma l’assenza di ogni colpevolezza invocando le circostanze in parte diverse.

4.3.3.1. Anzitutto, l’appellante invoca come scu-sante l’ignoranza sulle modalità di gestione dei buo-ni pasto, non sapendo egli che negli elenchi dei be-neficiari dei buoni fossero indicati anche dipendenti i quali non avevano effettuato la pausa pranzo, e che detti buoni venissero erogati “a pioggia”, a prescin-dere dalla interpretazione e dalla sussistenza in con-creto delle condizioni legali (pausa pranzo). Infatti, il Sommella lamenta che la gestione dei buoni era condotta dal Forlani (nella dirigente del c.g.m.) e dai direttori dei singoli servizi, e quindi non vi era né dolo (nemmeno come “accettazione del rischio”) di un danno che ignorava, né colpa grave, non potendo egli prevedere che venisse effettuata una gestione di-storta dei buoni.

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4.3.3.2. Del resto, premesso che in citazione si contestava all’appellante una culpa in vigilando (non un dolo, tanto meno eventuale), affermava la sua perfetta buona fede nell’erogazione dei buoni pasto, ovvero il convincimento di agire nel rispetto della legalità, considerando:

- il quadro normativo confuso (che aveva reso ne-cessari interventi sindacali e dirigenziali attraverso accordi e direttive);

- la direttiva della dir. gen. org. giud., secondo cui il beneficio in questione era concedibile anche senza la (rinunziabile) pausa pranzo, e quindi con la prestazione si sole 7 ore e 12 minuti di servizio al giorno; direttiva cui il Sommella si era pedissequa-mente adeguato;

- la circostanza che il ministero sembrava avere prestato il proprio consenso alla rinunzia alla pausa pranzo, in quanto aveva liquidato i buoni pasto ri-chiesti senza poi procedere ad alcun recupero;

- l’enorme mole di dati che pervenivano al c.g.m., che doveva essere considerata come esimente da col-pa grave (così come era stato ritenuto per i dirigenti ministeriali), mentre in sentenza era stata ritenuta prova che il Sommella fosse a conoscenza della ge-stione distorta dei buoni pasto.

4.3.4. Difese analoghe a quelle del Sommella (relative alla buona fede nelle erogazione dei buo-ni-pasto) sono state prospettate dalla difesa del For-lani (vice direttore del c.g.m.), con la precisazione che la funzione stessa del buono pasto (sostitutiva alla mensa) faceva presumere la superfluità della pausa pranzo e che la nota del Forlani del 26 febbra-io 2000, citata in sentenza come indice di colpevo-lezza, non aveva rilievo a tal fine, in quanto con essa il Forlani si era limitato a esprimere un suo parere sulla legittimità delle erogazioni e non a ratificare atti illegittimi.

4.4. Tutti i predetti motivi di gravame risultano infondati e vanno respinti.

4.4.1. Anzitutto, va precisato che indubbiamente la legge (anche penale) non prevede espressamen-te la figura del “dolo eventuale”; peraltro, essa non costituisce un’inammissibile creazione giurispru-denziale di un elemento (soggettivo) costitutivo del fatto illecito non previsto dalla legge, bensì una esemplificazione giurisprudenziale di uno dei tanti modi manifestarsi del dolo, tradizionalmente inte-so come “coscienza e volontà” del fatto illecito. In particolare, per quel che qui interessa, la sentenza ha affermato che gli appellanti fossero a conoscenza del fatto che mancassero le condizioni per l’erogazione dei buoni pasto, o quanto meno sospettassero la loro

assenza, e ciononostante abbiano consentito l’eroga-zione degli stessi a vario titolo (accettando il rischio di una dazione indebita): il che non può qualificarsi come errore (colpa), ma come scelta (coscienza e vo-lontà) rispetto al danno cagionato.

Analogo discorso vale per il c.d. “dolo erariale” o “contabile”, che rappresenta etichetta di comodo per indicare una cosciente (dolosa) violazione di ob-blighi di servizio, accompagnata dalla prevedibilità (non dalla previsione, nemmeno a titolo eventuale) del danno; figura, quest’ultima, che – sebbene carat-terizzata dall’assenza di una volontarietà del danno – certamente non può ascriversi a mera colpa lieve (attesa la volontarietà dell’inadempimento degli ob-blighi di servizio), e quindi è comunque sanzionata.

Tale motivo di gravame va quindi respinto.4.4.2. Nel merito, rileva il collegio che dagli atti

di causa risulta comprovato, se non il dolo accertato in sentenza, quanto meno un elemento soggettivo di colpa gravissima, nel cagionare il danno in contesta-zione.

4.4.3. Anzitutto, è pacifico che i buoni pasto vennero concessi senza che i dipendenti rispettas-sero un orario di servizio comprensivo della pausa pranzo (come consacrato nella sentenza impugnata e come risulta dalle relazioni ministeriali in atti). Gli appellanti si limitano in sostanza ad affermare che tale pausa non fosse prevista dalla legge come presupposto dell’assegno (tranne la Santulli, secon-do cui i dipendenti si trattenevano in servizio oltre gli orari riportati nei cartellini marcatempo e quindi rispettavano la pausa pranzo; ma si è sopra preci-sato – sub par. 2.4.1 – che non vi è prova certa di quest’assunto); o che in ogni caso il quadro norma-tivo fosse così ambiguo da far ipotizzare la super-fluità della pausa; o che comunque vi fossero circo-stanze che avevano indotto gli appellanti (in buona fede) a ritenere legittima la contestata erogazione dei buoni pasto.

Viceversa, come sopra evidenziato (par. 2 ss.), il quadro normativo era tutt’altro che oscuro o equivo-co. Infatti – a prescindere dalla complessa proble-matica della “programmazione” degli orari di servi-zio in sede decentrata e della concedibilità o meno del buono a chi articolasse l’orario di servizio con cinque anziché con due recuperi settimanali (ogget-to di varie note di chiarimento e accordi sindacali) – comunque il c.c.n.l. del 30 aprile 1996 e d.p.c.m. del 5 giugno 1997 sopra citati, relativi alla specifica materia qui in esame, prevedevano espressamente e con chiarezza che la pausa pranzo era condizione per l’attribuzione del buono pasto, tranne che in casi ec-

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cezionali, da autorizzarsi caso per caso, in relazione a concrete esigenze di servizio (cfr. par. 2.2.1).

Del resto, la chiarezza della normativa sui buoni pasto emerge anche dal fatto che solo presso il c.g.m. di Napoli si instaurò la prassi di conferire tale bene-ficio senza che si effettuasse la pausa pranzo, tanto è vero che al c.g.m. di Napoli venne attribuita quasi la metà dell’importo per i buoni-pasto complessi-vamente speso per tutti i centri di giustizia minorile italiani (cfr. par. 3.4.1); senza considerare che presso altri uffici della stessa amministrazione si dava cor-retta applicazione alle norme in esame, imponendo la pausa pranzo come presupposto del beneficio in questione (cfr. circ. n. 576256 del 15 agosto 1997 del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria: fasc. 1819/R di primo grado, produzione del pubbli-co ministero, doc. 25, documenti prodotti all’audi-zione di Alfano).

Inoltre, anche senza contare che tutti gli appellan-ti avrebbero dovuto sapere quali erano i presupposti dell’erogazione contestata, ed evitare interpretazio-ni discutibili e dannose per l’erario (il dirigente del c.g.m. ed il suo vice in quanto funzionario delegato, i direttori dei servizi in quanto preposti ai relativi uffici ed incaricati dell’accertamento in concreto della de-benza dei buoni), va segnalato che il ministero aveva espressamente ribadito la necessità della pausa pran-zo (in specie, con la nota ministeriale n. 50923 del 28 novembre 1997: cfr. doc. 5 della produzione del pubblico ministero nel fasc. 1473/R di primo grado); e risulta altresì in atti che il c.g.m. (nella persona del Sommella), nel richiedere a tutte le direzioni degli Istituti minorili e Servizi minorili del centro gli elen-chi con diritto ai buoni pasto per i periodi 1 aprile-31 dicembre 1996 e 1 gennaio-30 giugno 1997, aveva indicato quali fossero le condizioni del buono, preci-sando che occorreva il “rispetto dalla pausa prevista dell’art. 9, c. 2, c.c.n.l.” (cfr. nota prot. n. 8331 dell’1 dicembre 1997, trasmessa con fax n. 2501/1997, doc. 6 allegato alle deduzioni del Bovenzi, depositate nel fasc. 1819/R di primo grado).

Va infine segnalato che – diversamente da quan-to sostenuto in alcuni atti difensivi (cfr. par. 4.3.2.5 lett. b) – quasi tutti gli appellanti hanno usufruito dei buoni pasto in questione, ed avrebbero quindi dovu-to accertare la debenza o meno degli stessi, prima di attribuirseli in aperto conflitto di interesse. Infatti, dai documenti in atti (n. 1, n. 2, n. 3 e n. 4 allegati alla produzione del pubblico ministero nel fasc. n. 1819/R di primo grado; n. 6 allegato alla produzione del pubblico ministero nel fasc. n. 1473/R) emerge che Sommella e Forlani, Santulli, De Angelis Prezio-

si hanno beneficiato di buoni pasto per gli anni 1996-1998; l’Alfano per il 1997 ed il 1998; il Bovenzi solo per il 1998).

4.4.4. A fronte di queste univoche circostanze, risulta evidente la sostanziale infondatezza e irri-levanza delle pretese circostanze esimenti invocate dai difensori degli appellanti per affermare la loro perfetta buona fede, e quindi la mancanza di dolo e colpa grave.

4.4.4.1. Anzitutto, diversamente da quanto pre-tendono i difensori degli appellanti, non vi era alcuna incertezza interpretativo-applicativa derivante da atti o condotte degli uffici sovraordinati (cfr. par. 4.3.2.1, 4.3.3.2, e 4.3.4).

a) Infatti, la circolare del 10 febbraio 1998 del ministero non riconosceva un diritto alla “rinunzia” alla pausa pasto, ma solo la possibilità che in casi eccezionali l’amministrazione, per esigenze di servi-zio, autorizzasse l’interessato a non effettuarla, senza perdere il diritto al buono pasto (cfr. par. 2.2.2); vi-ceversa, i buoni erano stati erogati “a pioggia” senza effettuare un accertamento in concreto sulle esigenze di ufficio da porre alla base di una loro eventuale cor-responsione.

b) Inoltre, anche ammettendo che il ministero potesse in astratto avere contezza della distorta ap-plicazione del c.c.n.l. effettuata dal c.g.m. di Napoli (dai dati I.g.o.p., dalle richieste di buoni da parte del c.g.m. o aliunde), gli uffici ministeriali non avevano mai avallato tale distorta applicazione, bensì sia nelle comunicazioni formali del 1997, sia nella circolare del 1998 sopra citate avevano ben chiarito le condi-zioni per la concessione dei buoni-pasto, soprattutto la necessità della pausa pranzo.

c) Nemmeno, poi, può affermarsi che il ministero avesse tacitamente avallato l’operato del c.g.m., vuoi accreditando le somme per i buoni pasto (in quan-to l’accertamento in concreto della spettanza degli stessi era del c.g.m.: cfr. par. 3.4.1 e 3.4.2), vuoi non provvedendo al recupero dei buoni indebitamente erogati (in quanto tale circostanza è sopravvenuta alla indebita erogazione dei buoni pasto, e quindi non può fungere da scusante per la condotta conte-stata agli appellanti).

d) Inoltre, è indubbio che la dirigente del c.g.m. di fatto consentisse una “interpretazione estensiva” delle disposizioni sul diritto ai buoni-pasto, che venivano riconosciuti a tutti i dipendenti autorizzati alla setti-mana corta a prescindere dalla tipologia di recupero ed a prescindere dalla pausa pranzo, in aperta viola-zione del c.c.n.l., del d.p.c.m. e della successiva circo-lare ministeriale sopra citati, dato che detta dirigente:

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- non faceva riferimento alla pausa pranzo nelle richieste di elenchi dei beneficiari trasmesse ai vari servizi (par. 4.3.2.1.b);

- non aveva effettuato rilievi sugli elenchi tra-smessi dai vari servizi e dal contratto decentrato stipulato dalla Santulli, dai quali si desumeva che il buono veniva concesso anche senza la pausa pranzo (par. 4.3.2.1.c);

- aveva poi provveduto a corrispondere i buoni sulla base degli elenchi stessi, senza ulteriori con-trolli sulla spettanza del beneficio (par. 4.3.2.1.d);

È altresì indubbio che nel c.g.m. (in forza di tale interpretazione) si era creata una prassi costante (da parte di tutti i Servizi del centro) nel senso di pre-scindere dalla pausa pranzo ai fini del buono pasto (cfr. par. 4.3.2.4), e che solo nel 1999 si ebbe un’in-versione di tendenza, a seguito dell’ispezione e di direttive ed accordi sindacali (par. 4.3.2.2).

Tuttavia, non corrisponde al vero che il c.g.m. avesse reso edotti i direttori dei servizi della impos-sibilità di concedere i buoni pasto senza la pausa pranzo solo con atti del 1999; già con predetta nota n. 8331 dell’1 dicembre 1997 la dirigente del c.g.m. aveva chiarito a tutti gli uffici sottordinati che la pau-sa era imprescindibile presupposto del beneficio in contestazione. Pertanto, dopo tale data certamente la predisposizione degli elenchi è avvenuta in precisa e cosciente violazione di indicazioni anche del c.g.m.; prima di tale data, i vari direttori dei servizi (oggi ap-pellanti) avevano predisposto gli elenchi degli aventi diritto su richiesta del c.g.m., spesso perfino preci-sando che non veniva effettuata la pausa pranzo, ma senza porsi il problema di quali fossero le condizio-ni previste dalla legge o dal c.c.n.l. per l’erogazione del beneficio in esame (con l’eccezione del Bovenzi, della cui posizione si tratterà a parte).

È poi appena il caso di precisare che le vicende successive all’indebita erogazione dei buoni – come gli accordi sindacali e le direttive sopravvenuti (par. 4.3.2.2) e la reiterazione di una “interpretazione estensiva” della normativa in questione da parte del c.g.m. (par. 4.3.2.3) – da un lato, non possono fun-gere da scusanti perché sono circostanze sopravve-nute ai fatti di causa (e quindi non potevano essere presenti agli autori del danno mentre commettevano la condotta dannosa); dall’altro, non dimostrano ne-cessariamente l’esistenza di dubbi interpretativi, ben potendo essere spiegate anche con una (comprensibi-le) resistenza a perdere benefici fino ad allora fruiti e ad ammettere una applicazione distorta delle norme.

4.4.4.2. Risulta poi priva di ogni efficacia esi-mente la circostanza che i direttori dei servizi del

c.g.m. fossero avessero una qualifica di VII livello anziché la qualifica direttiva richiesta per dirigere il servizio.

Infatti, come sopra precisato, essi avevano co-munque funzioni di reggenza e le relative responsa-bilità (cfr. par. 3.4.2).

Pertanto, essi avrebbero dovuto accertare quali fossero i presupposti per la concessione del benefi-cio, prima di redigere l’elenco, se necessario chie-dendo chiarimenti al c.g.m. (cfr. 3.4.1.a); ed in ogni caso, dopo la predetta nota del Sommella dell’1 di-cembre 1997 erano perfettamente edotti della neces-sità di pausa pranzo (cfr. par. 4.4.4.1).

Viceversa, essi redassero gli elenchi senza effet-tuare le doverose verifiche sulla pausa pranzo (anzi, con la precisa consapevolezza che essa non veniva effettuata, nel caso della Santulli: cfr. par. 3.4.1.a) e quindi accertarono il rischio che i buoni venissero erogati in mancanza dei presupposti di legge, con condotta assolutamente inescusabile (con alcune precisazioni per il Bovenzi, sub par. 4.4.4.3 lett. e).

4.4.4.3. Quanto, poi, alle scusanti invocate dai singoli appellanti, può precisarsi quanto segue.

a) Vanno anzitutto disattese le eccezioni della di-fesa del Sommella circa la sua mancanza di colpa grave. Infatti, come sopra precisato, non si può af-fermare né che autori del danno fossero il Forlani e i direttori dei singoli servizi (per i motivi precisati sub par. 3.4.2), né una pretesa confusione del quadro nor-mativo, per una asserita condotta ambigua del mini-stero (per i motivi precisati sub par. 4.4.4.1); né si può affermare che il Sommella ignorasse le concrete modalità di erogazione del beneficio, a causa dell’e-norme mole di dati che pervenivano al c.g.m. (così come era stato ritenuto per i dirigenti ministeriali), in quanto l’appellante era a perfetta conoscenza delle distorte modalità di erogazione dei buoni pasto be-neficiandone in prima persona (cfr. par. 3.4.2), senza considerare che al c.g.m. pervenivano solo i dati del-la Campania e del Molise (non di tutta Italia, come al ministero).

b) Analoghe considerazioni valgono per le ec-cezioni della difesa del Forlani, che sostiene la sua buona fede nella erogazione dei buoni pasto. Infatti, anche a prescindere dalla nota del Forlani del 26 giu-gno 2000 inviata al ministero (che la sentenza impu-gnata qualifica “abnorme giustificazione degli abusi perpetrati”), deve evidenziarsi che:

- il Forlani gestiva le pratiche di buono pasto con delega di firma, e dunque era tenuto ad accertare con diligenza e completezza i presupposti della loro ero-gazione, tanto più che egli per primo ne beneficiava;

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- non vi era alcuna ambiguità nella normativa di settore (cfr. par. 2 ss.) né vi erano condotte degli or-gani sovraordinati che inducessero a ritenere legitti-ma l’erogazione di buoni pasto senza la pausa pranzo (par. 4.4.4.1);

- in qualità di stretto collaboratore del Sommella (e delegato alla firma per la materia in questione) egli non poteva ignorare le sopra citate note del ministero (n. 50923 del 28 novembre 1997) e del Sommella (n. 8331 dell’1 dicembre 1997) che imponevano la pausa pranzo ai fini del beneficio controverso;

L’insieme di tali circostanze induce a presumere il dolo, o comunque una inescusabile colpa gravissi-ma (da equiparare al dolo ai fini sanzionatori) nella contestata erogazione di buoni pasto.

c) Quanto al De Angelis Preziosi, non può affer-marsi che egli fosse convinto di agire nel rispetto delle direttive dell’organo sovraordinato per il fatto che tutto il personale della dirigente del c.g.m. (che lavorava nello stesso edificio del C.p.a. da lui diretto) fruisse del buono senza pausa, in quanto l’illegittimi-tà della prassi instaurata emergeva dalla nota dello stesso Sommella. Né a tal fine rileva il fatto che egli fosse stato autorizzato a beneficiare dei buoni pasto per 6 giorni settimanali per particolari esigenze di servizio dall’Ufficio centrale di giustizia minorile (con nota n. 50636 del 25 novembre 1997); tale nota, infatti, si limitava a riconoscergli la possibilità di ot-tenere il beneficio benché egli svolgesse servizio su sei giorni anziché cinque ai sensi della sopravvenuta l. n. 334/1997, ma non a derogare ai presupposti per la concessione e in specie alla pausa pranzo (a parte che la nota autorizzava l’interessato “nei limiti fissati dalla predetta normativa”).

d) Della palese infondatezza delle eccezioni della Santulli, circa la ritenuta legittimità delle erogazioni in esame, si è già trattato (cfr. par. 2.3.4 e 2.4).

e) Discorso in parte diverso vale per il Bovenzi.Detto appellante – diversamente dagli altri – si

era posto il problema della spettanza dei buoni pasto anche senza pausa pranzo, ed a tal fine aveva chiesto chiarimenti alla dirigente del c.g.m. (nota n. 401 del 13 febbraio 1997: cfr. l’audizione, doc. 16 del fasci-colo pubblico ministero nel giudizio n. 1819/R), la quale aveva risposto che poteva concedersi il buono pasto se il dipendente avesse rinunziato per iscritto alla pausa pranzo (con la nota n. 1282 del 15 febbraio 1997: cfr. doc. ult. cit.); e il Bovenzi aveva acquisito le rinunzie del personale interessato (doc. ult. cit.).

Pertanto, in relazione a questo primo periodo, non può configurarsi una colpa grave dell’appellan-te, considerati i chiarimenti forniti dal funzionario

delegato (le somme erano gestite dal c.g.m.) e anche la subordinazione gerarchica del Bovenzi al Som-mella (dirigente superiore).

Peraltro, va segnalato che con la nota dell’1 di-cembre 1997 più volte citata il c.g.m. aveva precisato la necessità della pausa pranzo ai fini del buono pasto (la nota era perfettamente conosciuta dal Bovenzi, che l’ha anche allegata al documento da ultimo cita-to: cfr. par. 4.4.3); laddove il Bovenzi non solo con-tinuò ad erogare buoni pasto, ma proprio nel 1998 ne beneficiò anch’egli.

Pertanto, in relazione a tale periodo non può con-figurarsi una assenza di colpa, bensì, se non un dolo eventuale, quanto meno una colpa gravissima, tale da non consentire l’applicazione del potere riduttivo.

4.5. In conclusione, alla luce delle circostanze che precedono, è impossibile non affermare il dolo o la colpa gravissima degli appellanti, con l’eccezione, per il Bovenzi, del periodo fino al 1997 compreso.

5. Deve respingersi anche il motivo di appello re-lativo alla mancanza di ingiusto danno erariale (par. 2.1.3 dello svolgimento del processo).

Premesso, infatti, che l’eventuale recuperabilità di erogazioni indebite già effettuate non incide sulla concretezza e attualità del danno (e quindi sulla sua azionabilità), va segnalato che alla data della presen-te decisione (2014) deve presumersi preclusa la pos-sibilità di un recupero che già nel 2003 era di dubbia praticabilità (par. 1.1.3.3 e 1.1.3.4 dello svolgimento del processo); e che – allo stato – non risultano recu-peri da portare a riduzione dell’addebito.

Quanto, poi, alla pretesa mancanza di danno, in quanto l’orario svolto sarebbe in realtà maggiore di quello contabilizzato, si rinvia a quanto sopra pre-cisato in merito alla mancanza di prova certa di tale circostanza (cfr. par. 2.4 e 2.4.1)

6. Deve essere altresì respinto il motivo di appel-lo relativo all’omesso esercizio del potere riduttivo dell’addebito (proposto dal solo Sommella), in quan-to, a parte le considerazioni della procura generale circa la responsabilità “contabile” di detto appellante (cfr. svolgimento del processo, par. 6.8.1), l’eleva-to grado di colpevolezza dei convenuti, ai limiti del dolo (eccezion fatta, per un limitato periodo, per il Bovenzi) non consente l’esercizio di tale potere.

7. Va infine dichiarato inammissibile per generi-cità – ai sensi dell’art. 98 r.d. n. 1038/1933 – il moti-vo di appello relativo alla presunta illegittimità della liquidazione delle spese (par. 2.1.4 dello svolgimen-to del processo) non essendo precisati negli appelli sotto quali profili e per quali importi vi sia violazione

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di legge (fermo restando che la sostanziale conferma della condanna di primo grado implica conferma an-che della condanna alle spese).

8. In conclusione, vanno respinti tutti gli appelli e va integralmente confermata la sentenza impugna-ta; eccezion fatta per l’appello del Bovenzi, che può essere parzialmente accolto per quanto riguarda i buoni pasto liquidati nel periodo anteriore all’1 di-cembre 1997 (per i quali non può configurarsi colpa grave), mentre va respinto per i buoni pasto liqui-dati su richieste del Bovenzi successive a tale data. (Omissis)

* * *

Sezione d’appello Regione Sicilia

392 – Sezione d’appello Regione Sicilia; sentenza 25 settembre 2014; Pres. De Musso, Est. Della Ven-tura, P.M. Aronica; Formica e altri.

Accoglie parzialmente ricorso per revocazione av-verso Sez. giur. app. reg. Sicilia, 27 febbraio 2013, n. 62/A.

Processo contabile – Ricorso per revocazione – Errore di calcolo – Nozione – Fattispecie.

C.p.c., artt. 112, 395; r.d. 12 luglio 1934 n. 1214, ap-provazione del t.u. delle leggi sulla Corte dei conti, artt. 26, 68.

Ai fini dell’impugnazione per revocazione di una sentenza del giudice contabile, l’errore di calcolo deve consistere nella non corretta percezione dei fattori dell’operazione da effettuare e deve essere decisivo, nel senso di costituire il motivo essenziale e determinante della pronuncia impugnata per revo-cazione, non potendo rilevare meri errori aritmetici o elementi che attengano al processo formativo del-la volontà del giudice (nella specie, i componenti di una giunta e della commissione legislativa dell’as-semblea regionale erano stati condannati in appello per il danno erariale derivante dal potenziamento arbitrario del servizio di emergenza ed urgenza 118, ma la pronunzia di merito non aveva considerato, nel quantificare il danno, i risparmi di spesa che l’opera-zione ritenuta illecita – aumento del numero di autisti soccorritori – aveva comunque comportato). (1)

(1) I. - In termini, sulle caratteristiche dell’errore revoca-torio, v., di recente, Cass., 7 maggio 2014, n. 9865, in Rep. Fo-ro it., 2014, voce Revocazione (giudizio di), n. 9; e, nella giu-risdizione contabile, Corte conti, Sez. III centr. app., 15 mag-gio 2013, n. 318, in questa Rivista, 2013, fasc. 5-6, 389.

Diritto – 1. In rito, si conferma la riunione degli odierni ricorsi per revocazione, in quanto tutti diretti avverso la medesima sent. n. 62/2013.

2. Sempre in via pregiudiziale, si ricorda breve-mente che gli odierni ricorrenti deducono, con argo-mentazioni del tutto analoghe, tre distinti vizi revo-catori.

Più in particolare, viene lamentato anzi tutto un errore di fatto della sentenza, ai sensi dell’art. 68, lett. a), r.d. 12 luglio 1934, n. 1214 e dell’art. 395, n. 4, c.p.c., il quale consisterebbe nella violazione dell’art. 112 c.p.c. in quanto, sebbene il procuratore regionale non avesse mai dedotto un danno eraria-le connesso all’incremento del personale da 10 a 12 unità sulle h24, la corte, sulla base di una presunta erronea percezione degli atti di causa, avrebbe rite-nuto sussistente una tale domanda risarcitoria, pro-nunziando la relativa condanna.

Sono stati poi dedotti, da tutte le difese, due erro-ri di calcolo ai sensi dell’art. 68, lett. a), r.d. 12 luglio 1934, n. 1214.

Sotto un primo aspetto, i ricorrenti evidenzia-no che l’aumento del numero degli addetti per cia-scuna ambulanza (da 10 a 12) è stato compensato dalla diminuzione del numero di ore per ciascuno, con conseguente venir meno, per intero, del danno come calcolato dalla sentenza impugnata (e loro ad-debitato). Un ulteriore errore di calcolo (e di fatto), consisterebbe nel non avere considerato, da parte del collegio d’appello, che ogni caso il danno accerta-to sarebbe stato da diminuire di 918.233,48 euro, in considerazione dell’entrata in funzione non contem-poranea, ma progressiva, di alcune delle postazioni ivi considerate.

3. Ciò posto, il primo profilo di revocazione so-pra descritto – il preteso errore di fatto con violazio-ne dell’art. 112 c.p.c. – va giudicato a tutta evidenza inammissibile.

3.1. Occorre premettere, in proposito, che in base all’art. 68, r.d. 12 luglio 1934, n. 1214, “le decisioni della Corte possono essere impugnate per revoca-zione ... quando: a) vi sia stato errore di fatto o di calcolo; b) per l’esame di altri conti o per altro modo

II. - Sulla vicenda di cui alla sentenza in epigrafe, v., Cor-te conti, Sez. contr. reg. Sicilia, 21 gennaio 2008, n. 2, in que-sta Rivista, 2008, fasc. 1, 10; Corte cost., 14 dicembre 2009, n. 337, in Foro it., 2010, I, 2334, con nota di richiami; Cass., S.U., 18 maggio 2014, n. 10416, in questa Rivista, 2014, fasc. 3-4, 518; Corte conti, Sez. giur. reg. Sicilia, 25 gennaio 2013, n. 363, e Sez. giur. app. reg. Sicilia, e 20 febbraio 2014, n. 62/A, in www.corteconti.it.

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si sia riconosciuta omissione o doppio impiego; c) si siano rinvenuti nuovi documenti dopo pronunciata la decisione; d) il giudizio sia stato pronunciato sopra documenti falsi”.

Ai sensi poi dell’art. 395, n. 4, c.p.c. – applicabile al processo contabile in virtù del rinvio dinamico di cui all’art. 26, r.d. 13 agosto 1933, n. 1038 – presup-posto dell’impugnazione per revocazione delle sen-tenze è, fra l’altro, l’esistenza “di un errore di fatto, risultante dagli atti o documenti della causa”.

Quest’ultima circostanza, a sua volta, ricorre “quando la decisione è fondata sulla supposizione di un fatto la cui verità è incontestabilmente esclusa, oppure quando è supposta l’inesistenza di un fatto la cui verità è positivamente stabilita”; comunque, in entrambi i casi, il fatto non deve aver costituito “un punto controverso sul quale la sentenza ebbe a pronunciare”.

In sostanza, l’errore di fatto (art. 68, lett. a, r.d. n. 1214/1934 e art. 395, n. 4, c.p.c.) deve necessa-riamente risultare dagli atti e documenti di causa; esso si verifica quando la sentenza è fondata sulla supposizione dell’esistenza di un fatto la cui verità è sicuramente esclusa o, viceversa, dell’inesistenza di un fatto la cui verità è incontestabilmente stabi-lita (Cass., 4 aprile 2000, n. 4070; 3 gennaio 2000, n. 4; 16 febbraio 2000, n. 1747; Corte conti, Sez. I centr. app., 9 luglio 2007, n. 193), consistendo esso in un travisamento dei fatti (Cass., 3 febbraio 2000, n. 1195), in una percezione di un fatto, rilevabile tra-mite i sensi o “anche in un vizio del ragionamento rispetto ad un fatto, in ordine al quale non era insorta controversia, che risultasse dalle deduzioni e dalle prove acquisite e cioè dal materiale di causa e che fu messo a presupposto della decisione, riconoscendo-gli il carattere di decisività” (Cass. 19 agosto 1952, n. 2713).

E comunque – è stato pure (ulteriormente) chia-rito dalla Suprema corte – l’errore di fatto idoneo a legittimare la revocazione non soltanto deve essere la conseguenza di una falsa percezione delle cose, “ma deve avere anche carattere decisivo, nel senso di costituire il motivo essenziale e determinante del-la pronuncia impugnata per revocazione” (Cass., 29 novembre 2006, n. 25376); in altri termini, tra la per-cezione asseritamente erronea da parte del giudice e la decisione emessa deve esistere un nesso causale tale che, senza quell’errore, la pronuncia sarebbe sta-ta diversa (v., ex plurimis, Cass., Sez. lav., 1 aprile 2006, n. 9396; id. Sez. III, 14 febbraio 2006, n. 3190; 28 giugno 2005, n. 13915 e 5 luglio 2004, n. 12283; id. Sez. I, 1 marzo 2005, n. 4295). Principi del tutto

analoghi, peraltro, sono stati recati in proposito da questa stessa Corte dei conti: v. Sez. riun., 9 febbraio 2006, n. 54 (“L’errore revocatorio di cui all’art. 395, n. 4, c.p.c., è quello che comunque riguarda accerta-menti di fatto compiuti dalla sentenza di cui si chiede la revocazione e ricorre soltanto in presenza di sviste non di giudizio, ma di percezione di fatti in contrasto con gli atti e le risultanze di causa, che non abbiano costituito un punto controverso sul quale la senten-za si sia pronunciata, ma rappresentato un errore la-tente, nel ragionamento svolto dal giudice su di un punto essenziale della decisione”); Corte conti, Sez. I centr. app., 11 settembre 2012, n. 459; 29 novembre 2011, n. 546; 3 novembre 2011, n. 494 e 5 giugno 2009, n. 384.

3.2. Ciò posto, ritiene il collegio che nel caso di specie non sia riscontrabile, in alcun modo, la situa-zione innanzi descritta.

Parti attrici, infatti, pretendono che l’avere il giu-dice ravvisato il danno erariale nell’incremento del personale da 10 a 12 unità sulle 24 ore, mentre il procuratore regionale non avrebbe mai dedotto detta specifica voce dannosa, integri i presupposti dell’er-rore revocatorio, sotto il profilo della (presunta) erro-nea percezione degli atti di causa.

Orbene, e anche a voler prescindere dall’infon-datezza di tale impostazione – il pubblico ministero attore, in realtà, aveva chiaramente lamentato (e ar-gomentato) anche tale specifico profilo di danno – le pretese dei ricorrenti si appalesano prive del minimo fondamento.

E invero gli interessati, nel dedurre un errore di percezione da parte del giudice, hanno in realtà la-mentato un’inesatta valutazione delle richieste avan-zate dalle parti e del materiale probatorio versato agli atti di causa: il collegio d’appello, in altri termini, non avrebbe delibato nel senso che (secondo la pro-spettazione attorea) sarebbe stato corretto secondo le risultanze processuali.

Ma una tale censura rappresenta, appunto, nient’altro che la denunzia di un errore di giudizio da parte del collegio.

Del resto, che ciò sia evidente, lo testimoniano le stesse prospettazioni dei ricorrenti i quali, pressoché all’unisono, deducono la violazione del principio di cui all’art. 112 c.p.c.: cioè appunto, e non a caso, di un principio di stretto diritto (a nulla rilevando, in proposito, che tale violazione sarebbe avvenuta, sempre secondo gli interessati, a causa di una – ine-sistente, si ribadisce – cattiva lettura degli atti di causa).

Resta il fatto, incontestabile, che il rimedio revo-

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catorio ex art. 68, lett. a), r.d. n. 1214/1934 e art. 395, n. 4, c.p.c., non consente in alcun modo il riesame delle valutazioni di ordine giuridico, compiute dal giudice del merito.

Tale primo profilo di ricorso va dunque dichia-rato inammissibile e non consente di superare il ju-dicium rescindens e pervenire alla fase rescissoria.

4. A differenti conclusioni deve invece giungersi, con riferimento ai denunziati errori di calcolo che, sempre ad avviso dei ricorrenti, avrebbero caratteriz-zato l’impugnata sentenza d’appello.

Come noto, sui motivi di revocazione un profi-lo problematico particolare, per quel che riguarda i giudizi innanzi alla Corte dei conti, è rappresentato proprio dall’errore di calcolo ex art. 68, lett. a), t.u. n. 1214/1934 cit., originariamente legato alla specifica materia dei giudizi di conto e che rileva nei limiti in cui la relativa pronuncia del giudice accerti le risul-tanze finali di gestione con una operazione che sia affetta da errori.

Tale peculiare ipotesi revocatoria, inquadrabi-le nel più ampio genus dell’errore di fatto e che è ritenuta pacificamente estensibile a tutte le altre ca-tegorie di giudizi contabili, deve necessariamente consistere in un travisamento dei dati emergenti dal-le risultanze processuali, non rilevando, a tal fine, le eventuali erronee valutazioni di siffatti dati (v. Corte conti, Sez. II centr. app., 11 aprile 2007, n. 117 e Sez. I centr. app., 7 giugno 2004, n. 216); essa non è quin-di configurabile quando il dedotto vizio sia, ad esem-pio, fondato su errori aritmetici intervenuti riguardo ad una valutazione equitativa del danno ex art. 1226, c.c. (Corte conti, Sez. riun., 3 aprile 1997, n. 36 e 29 ottobre 1996, n. 64), atteso che in tal caso la quan-tificazione effettuata dal giudice medesimo avviene mediante argomentazioni di natura prevalentemente logico-giuridica, non censurabili nella fase rescin-dente del ricorso per revocazione. Né, sotto altro profilo, potrebbero in proposito rilevare i meri errori aritmetici (che sarebbe possibile correggere con il più semplice procedimento di cui agli artt. 287 e 288 c.p.c.), dovendo trattarsi – secondo le regole generali già viste innanzi con riferimento all’errore di fatto in generale – di erronea considerazione dei fattori stessi dell’operazione da effettuare.

L’errore di calcolo deve consistere, insomma, in un errore materiale circa gli elementi da prendere in considerazione; errore che risulti essere frutto di disattenzione o di svista e che sia riconoscibile ictu oculi, e dal quale esula ovviamente tutto ciò che at-tiene al processo formativo e di manifestazione della volontà del giudice.

Alla stregua dei principi appena ricordati, i de-dotti errori di calcolo risultano entrambi sussistenti.

5. Come si ricorderà, un primo errore ai sensi dell’art. 68, lett. a), r.d. 12 luglio 1934, n. 1214, sa-rebbe stato commesso allorché il collegio d’appello non avrebbe tenuto presente che l’aumento del nume-ro degli autisti soccorritori per ciascuna ambulanza (da 10 a 12) era stato compensato dalla diminuzione del numero di ore per ciascuno, con conseguente ve-nir meno – sempre secondo i ricorrenti – dell’intero danno addebitato dalla sentenza: la spesa sostenuta per 3.072 dipendenti retribuiti 30 ore settimanali cia-scuno, sarebbe del tutto pari a quella relativa a 2.560 addetti retribuite 36 ore.

5.1. In ordine a tale specifica prospettazione, va dunque in primo luogo affermata (fase rescindente) l’ammissibilità, in rito, dell’errore revocatorio de-nunziato: la pronunzia di merito, effettivamente, non risulta avere considerato, nel momento in cui andava a quantificare il danno da addebitare agli ex ammini-stratori, i risparmi di spesa che l’operazione ritenuta illecita (aumento del numero di autisti soccorritori) aveva comunque comportato, e ciò conduce senza dubbio alcuno ad un erroneo saldo finale.

Nel merito poi delle deduzioni medesime (fase rescissoria), il vizio lamentato si appalesa tale solo in parte; non è in altri termini corretto affermare, come fanno gli interessati, che la maggiore spesa calcolata dal giudice di merito sia del tutto insussistente, poi-ché, sempre alla luce degli atti di causa, risulta evi-dente come una maggiore spesa vi sia effettivamente stata, seppure di entità minore rispetto a quanto con-teggiato in sentenza.

5.2. Per un’esatta e completa delibazione della problematica all’esame, occorre prendere le mosse dall’art. 5 dell’atto aggiuntivo alla convenzione del 31 marzo 2001, il quale prevedeva espressamente che: “al fine di garantire le condizioni di operatività della turnazione h24, il numero di unità di personale, addetto per ciascuna postazione e per tutte le ambu-lanze operative sul territorio della Regione siciliana, ivi incluse quelle già in esercizio, deve essere pari a n. 12, attestando le ore individuali di lavoro a n. 30 settimanali”; nei medesimi termini si è espresso l’art. 5 dell’atto aggiuntivo del 7 marzo 2006.

Dalla lettura delle su riportate clausole conven-zionali, parti ricorrenti ritengono che vi sia stata un’assoluta indifferenza del risultato finale, in termi-ni di costo per la regione: nel senso, come già innanzi accennato, che se il complessivo numero di ore di lavoro degli autisti soccorritori era rimasto invaria-to – dal momento che 2.560 autisti soccorritori (10

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per ciascuna delle 256 ambulanze) in servizio 36 ore settimanali totalizzano un monte-ore (92.160 ore, cioè 2.560x36) uguale a quello di 3.072 autisti soc-corritori (12 per ambulanza) in servizio per 30 ore (3.072x30 = 92.160) – allora anche la relativa spe-sa non sarebbe potuta aumentare. A conforto di tali deduzioni, le difese degli interessati hanno prodotto un’apposita perizia, ricostruttiva dei relativi dati a preventivo (“Annesso tecnico al ricorso per revoca-zione”, del revisore contabile avv. Luigi dell’Abate).

Tali “automatiche” conclusioni non hanno tutta-via fondamento, occorrendo esaminare invece, nel concreto e a consuntivo, i costi sopportati dalla re-gione nell’uno e nell’altro caso.

5.3. Sotto tale riguardo, di particolare importanza è il documento più volte richiamato, a suo tempo de-positato dalla procura regionale agli atti del giudizio, il “Prospetto contabile convenzione anno 2007”; più in particolare, si tratta dell’allegato “A” alla delibera-zione n. 21 del 21 luglio 2007, approvativa della c.d. convenzione-ponte relativa al 2006. Tale documento, contrariamente a quanto eccepito dal pubblico mi-nistero in udienza, consiste nel bilancio consuntivo relativo all’anno 2006 e dunque riguarda proprio il periodo in contestazione.

Emerge chiaramente, da detto prospetto, che vi è stata effettivamente una riduzione nel costo soste-nuto a consuntivo dalla Regione Sicilia per le retri-buzioni degli autisti soccorritori, a seguito del pas-saggio da 36 a 30 ore: il compenso lordo di ciascu-no degli addetti in servizio per 30 ore è stato pari a 25.225,06 euro, mentre risulta, sempre dal medesimo prospetto, che gli autisti soccorritori in servizio per 36 ore erano stati pagati 29.748 euro lordi.

Orbene, tenendo conto che gli addetti impiegati per 30 ore sono stati 3.072, è facile ricavare una spe-sa complessiva lorda di euro 77.491.384,32 mentre la corrispondente spesa per 2.560 addetti (quelli im-piegati per 36 ore) era stata pari a euro 76.154.880 (cioè 29.748x2.560).

Risulta esservi stata, insomma, una differen-za (nel senso di una maggiore spesa da parte della Regione Sicilia) di euro 1.336.504: somma che co-stituisce, indubbiamente, danno per l’ente regiona-le, inferiore però all’importo di euro12.481.474,56 che la sentenza qui impugnata aveva addebitato agli amministratori interessati, errando nel calcolo ef-fettuato; errore a sua volta dovuto ad un’inesatta ed incompleta considerazione dei fattori dell’operazio-ne aritmetica compiuta, in cui era stato calcolato un danno corrispondente alle intere retribuzioni dei 512 addetti in più, senza però considerare i minori stipen-

di percepiti complessivamente da tutti (e dunque non sottraendo i corrispondenti valori).

Si tratta pertanto, si ribadisce, di un errore revo-catorio commesso dal giudice del merito, del quale non viene confutato in alcun modo il percorso logico e di giudizio, ma unicamente l’inesatto computo del nocumento erariale che da quel percorso argomenta-tivo è derivato.

6. L’altro errore di calcolo – secondo cui il dan-no accertato in sentenza andrebbe diminuito di ulte-riori euro 918.233,48 – viene dai ricorrenti ancora-to all’entrata in funzione progressiva, e non invece contemporanea, di alcune delle nuove postazioni. Sul punto, gli interessati medesimi richiamano la ta-bella (pp. 53-60) della relazione Si.Se., anch’essa a suo tempo prodotta in atti dalla procura regionale.

La su detta relazione, descrittiva delle attività del Servizio 118 nel passaggio dalla prima alla seconda convenzione tra Regione Sicilia e Croce rossa italia-na, evidenzia in un’apposita tabella le effettive date di attivazione delle nuove postazioni, in ottemperan-za ai due atti aggiuntivi del 2005 e del 2006.

6.1. Dalla lettura della tabella, emerge come le postazioni previste dai due atti aggiuntivi non siano state tutte attivate immediatamente, a gennaio 2006; più in particolare, 14 postazioni risultano essere state attivate nel febbraio 2006 e 53 nel mese di maggio 2006. In considerazione di ciò, i relativi pagamenti, da parte della regione, hanno dovuto tenere conto di tale circostanza, come da espressa disposizione con-venzionale (“i pagamenti saranno disposti in relazio-ne all’effettiva attivazione degli automezzi nei termi-ni previsti”), mentre invece la sentenza impugnata ha quantificato il danno per l’intero periodo, ossia come se tutti gli autisti soccorritori fossero stati assunti a decorrere dal mese di gennaio 2006.

Tale modalità di calcolo rappresenta quindi, a tutta evidenza, un ulteriore errore di calcolo, nel me-desimo senso innanzi precisato in termini generali. È necessario, pertanto, provvedere a correggere anche tale specifico errore revocatorio.

6.2. Ciò posto, i ricorrenti quantificano l’errore in questione in euro 918.233,48, che sarebbero stati loro ingiustificatamente addebitati.

La cifra di cui sopra è stata desunta consideran-do la somma di euro 2.031,49 come il costo medio mensile di ogni autista soccorritore (a sua volta de-terminato in 1/12 di euro 24.377,88, costo annuale dei nuovi 512 addetti). Sono stati quindi sommati il costo di 28 mensilità (2 per ognuna delle 14 posta-zioni attivate a febbraio) ed il costo di 4 mensilità per 106 autisti soccorritori (2 per ognuna delle 53

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postazioni attivate a maggio), secondo quanto se-gue: 2.031,49x28 = 56.881,72, + 861.351,76 (cioè 2.031,49x4 mesi x106); il totale risultante è appunto pari a euro 918.233,48.

6.3. Anche tale prospettazione può essere accolta solo in parte.

E invero, non infondate appaiono, a tale riguardo, le osservazioni compiute dal pubblico ministero, il quale fa notare come, in generale, l’attivazione pro-gressiva delle postazioni ben potrebbe essere logica-mente compatibile con il calcolo operato in senten-za, non avendo le difese dei ricorrenti dimostrato che proprio le 512 unità ritenute superflue dal collegio di appello erano quelle che vennero impiegate nelle postazioni attivate solo successivamente.

E dunque, in accoglimento di detta osservazione, ritiene questo collegio di dover quantificare l’entità dell’errore denunziato, pur sussistente, in una som-ma minore, che tenga conto delle giuste puntualizza-zioni del requirente.

Una prudente valutazione equitativa dell’entità della somma corrispondente, in applicazione dei prin-cipi di cui all’art. 1226 c.c., conduce ragionevolmen-te a operare un abbattimento di circa il 20 per cento della cifra indicata dalle difese, che può dunque es-sere quantificata in euro 36.504; somma da sottrarre all’importo di danno come innanzi determinato.

7. In sostanza – e in conclusione – la complessiva somma da addossare ai ricorrenti, cioè la maggiore spesa indebita sopportata dalla regione all’esito del-la vicenda per la quale è causa, va rideterminato in complessivi euro 600.000, risultanti dalla somma di 1.336.504, sopra indicata (v. il precedente punto 5), sottratti 736.504, che come appena visto costituisco-no un risparmio conseguito dalla regione Sicilia. In tali termini deve dunque essere corretta la pronunzia n. 62/2013, oggetto degli odierni ricorsi per revoca-zione.

Per tutto quanto precede, le richieste degli odier-ni ricorrenti si appalesano parzialmente fondate, secondo tutto quanto innanzi precisato: il danno da addebitare agli interessati deve essere rideterminato nella misura totale di euro 600.000 (euro seicento-mila) e va suddiviso tra i condannati nelle medesime percentuali di cui alla sentenza impugnata (tenuto conto anche qui della quota “virtuale” che sarebbe stata da addebitare all’originario convenuto, poi de-ceduto, on.le Cintola), vale a dire: euro 35.086,14 ciascuno, per i signori Cuffaro Salvatore, D’Aquino Antonio, Scoma Francesco, Cascio Francesco, Par-lavecchio Mario, Pistorio Giovanni, Formica Santi, Dina Antonino, Basile Giuseppe, Costa David Sal-

vatore, Arcidiacono Giuseppe, Confalone Giancarlo e Moschetto Angelo Stefano; euro 28.776,04 ciascu-no, per i signori Granata Benedetto Fabio, Leontini Innocenzo, Lo Monte Carmelo e Cimino Michele.

Restano ferme – non essendo evidentemente possibile, nella presente sede revocatoria, delibare alcunché in proposito – le ulteriori statuizioni di me-rito di cui all’impugnata sent. n. 62/2013, in parti-colare quelle relative alle modalità di computo degli accessori (interessi e rivalutazione monetaria) e delle spese di giustizia.

Le spese del presente giudizio revocatorio, da ultimo, seguono la (sia pure solo parziale) soccom-benza e sono da addebitare ai ricorrenti medesimi, in solido e in parti uguali tra loro.

P.q.m., la Corte dei conti, Sezione d’appello per la Regione Sicilia, definitivamente pronunciando, previa riunione in rito, ogni contraria istanza ed ec-cezione reiette, accoglie parzialmente i ricorsi per revocazione di cui in epigrafe; per l’effetto, in ri-forma dell’impugnata sent. n. 63/2013, ridetermina il danno da addebitare ai ricorrenti in euro 600.000 = (euro seicentomila) nel totale, da suddividere tra i condannati nelle seguenti misure: (omissis).

430 – Sezione d’appello Regione Sicilia; sentenza 28 ottobre 2014; Pres. (f.f.) e Est. Zingale, P.M. Calaciura; Avanti c. Proc. reg. Sicilia.

Conferma Corte conti, Sez. giur. reg. Sicilia, 16 mag-gio 2013, n. 1953.

Responsabilità amministrativa e contabile – Co-mune e provincia – Presidente della provincia – Ufficio di segreteria del presidente – Nomina di personale esterno all’amministrazione –– Danno erariale.

D.l. 23 ottobre 1996 n. 543, convertito con modifi-cazioni dalla l. 20 dicembre 1996 n. 639, disposizio-ni urgenti in materia di ordinamento della Corte dei conti, art. 3; d.lgs. 18 agosto 2000 n. 267, t.u. delle leggi sull’ordinamento degli enti locali, art. 90.

Risponde di danno erariale il presidente di una provincia che abbia nominato i componenti del-la propria segreteria particolare facendo ricorso a personale esterno all’amministrazione, senza aver prima verificato l’esistenza di idonee professionalità dei medesimi compiti. (1)

(1) I. - Corte conti, Sez. giur. reg. Sicilia, 16 maggio 2013, n. 1953, confermata dalla sentenza in epigrafe, si legge in que-sta Rivista, 2013, fasc. 5-6, 457.

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N. 5-6/2014 PARTE II – ATTIVITÀ GIURISDIZIONALE

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Diritto – (Omissis) Passando alla disamina del-le questioni di merito, il collegio giudicante repu-ta pienamente condivisibile la tesi (sostenuta dalla procura e recepita dalla Sezione di primo grado) secondo cui, all’epoca in cui l’Avanti, in qualità di presidente della Provincia di Palermo, aveva emesso i provvedimenti di nomina e di assegnazione dei sog-getti esterni presso la propria segreteria particolare, erano ancora vigenti ed integralmente applicabili le disposizioni contenute nell’art. 14, cc. 8 ss., del rego-lamento approvato con la deliberazione della giunta provinciale n. 367/2 del 13 luglio 1999, concernenti l’attribuzione degli incarichi nell’ambito degli uffici di diretta collaborazione con gli organi di governo dell’ente locale ed i criteri di reclutamento del rela-tivo personale.

A tal proposito, il collegio giudicante reputa (contrariamente a quanto è stato sostenuto dall’A-vanti nell’atto d’appello) che:

- non assuma alcuna significativa rilevanza la cir-costanza che il predetto regolamento sia stato emana-to durante la vigenza dell’art. 51, c. 7, l. n. 142/1990, così come modificato dalle leggi n. 127/1997 e n. 191/1998;

- sia conseguentemente destituita di qualsiasi va-lido fondamento la tesi secondo cui la sopravvenuta formale abrogazione dell’art. 51 l. n. 142/1990, per effetto dell’entrata in vigore del d.lgs. n. 267/2000 (recante il nuovo t.u. in materia di ordinamento de-gli enti locali), avrebbe comportato automaticamente anche il venir meno della vigenza del regolamento in questione;

- siano ugualmente infondate le affermazioni se-condo cui: le disposizioni contenute nel medesimo regolamento sarebbero, comunque, divenute inappli-cabili, in quanto in contrasto con i principii contenu-ti nell’art. 90 d.lgs. n. 267/2000; avrebbero perduto rilevanza a seguito dell’entrata in vigore del “Rego-lamento di organizzazione degli uffici e dei servizi”, approvato con la deliberazione di giunta n. 1012/13 del 29 dicembre 2000.

In primo luogo, deve sottolinearsi che:

II. - Sul danno erariale derivante dall’affidamento di inca-richi a soggetti esterni all’amministrazione, v. Corte conti, Sez. giur. reg. Lazio, 15 maggio 2014, n. 424, ivi, 2014, fasc. 3-4, 332; Sez. giur. reg. Valle d’Aosta, ivi, 2013, fasc. 1-2, 329.

III. - Sulle condizioni per ritenere la conformità a legge di incarichi esterni, v., in sede di controllo sui provvedimenti di conferimento degli incarichi, Corte conti, Sez. centr. contr. le-gittimità, 8 aprile 2014, n. 5, ivi, 2014, fasc. 3-4, 73, e 12 giu-gno 2014, n. 12, ibidem, 83.

- l’art. 51, c. 7, l. n. 142/1990 disponeva che: “Il Regolamento sull’ordinamento degli uffici e dei servizi può prevedere l’istituzione di uffici posti alle dirette dipendenze del sindaco, del presidente della provincia, della giunta o degli assessori, per l’eserci-zio delle funzioni d’indirizzo e di controllo loro de-mandate dalle leggi, costituiti da dipendenti dell’ente locale oppure, salvo che il medesimo ente non abbia dichiarato il dissesto o non versi in situazione strut-turalmente deficitaria, da collaboratori assunti con contratto a tempo determinato”;

- a sua volta, l’art. 90 d.lgs. n. 267/2000 ha sta-bilito che: “Il Regolamento sull’ordinamento degli uffici e dei servizi può prevedere la costituzione di uffici posti alle dirette dipendenze del sindaco, del presidente della provincia, della giunta o degli as-sessori, per l’esercizio delle funzioni d’indirizzo e di controllo loro demandate dalle leggi, costituiti da dipendenti dell’ente locale, ovvero, salvo che per gli enti dissestati o strutturalmente deficitari, da colla-boratori assunti con contratto a tempo determinato, i quali, se dipendenti da una pubblica amministrazio-ne, sono collocati in aspettativa senza assegni.

Al personale assunto con contratto di lavoro su-bordinato a tempo determinato si applica il c.c.n.l. dei dipendenti degli enti locali”.

Orbene, dal raffronto tra le suddette norme si evince chiaramente la loro piena sovrapponibilità dal punto di vista sostanziale, considerato che entrambe:

- hanno attribuito all’ente locale la facoltà di au-torizzare, con proprie disposizioni regolamentari, l’i-stituzione di uffici di supporto (tra cui le segreterie particolari) posti alle dirette dipendenze degli organi di governo, in vista di un migliore esercizio, da parte dei medesimi, delle funzioni d’indirizzo politico-am-ministrativo e di controllo loro demandate dalle leggi;

- hanno previsto, in linea generale, la possibili-tà d’assegnare a tali uffici non soltanto dipendenti dell’ente locale ma anche collaboratori assunti con contratto a tempo determinato.

Tali norme generali non possono, tuttavia, essere intese (contrariamente a quanto ipotizzato dall’Avan-ti nell’atto d’appello) come disciplinanti in maniera esaustiva l’intera materia concernente le modalità di composizione delle segreterie particolari.

Infatti, l’elaborazione della concreta disciplina di dettaglio, da applicarsi nell’ambito di ciascun ente locale, è stata espressamente demandata (sia dall’art. 51, c. 7, l. n. 142/1990 sia dall’art. 90 d.lgs. n. 267/2000) alla potestà regolamentare dell’ente interessato, il quale dispone, pertanto, di un’ampia discrezionalità dal punto di vista organizzativo.

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Orbene, per quanto riguarda la Provincia regio-nale di Palermo, occorre soffermare l’attenzione:

- sia sul “Regolamento per il conferimento degli incarichi inerenti le funzioni di direzione, dirigenzia-li e di alta specializzazione, le collaborazioni ester-ne ad alto contenuto di professionalità nonché per l’attribuzione degli incarichi negli uffici di diretta collaborazione con l’organo di governo dell’ente”, approvato con la deliberazione di giunta n. 367/2 del 13 luglio 1999;

- sia sul “Regolamento di organizzazione degli uffici e dei servizi”, approvato con la deliberazione di giunta n. 1012/13 del 29 dicembre 2000 (succes-sivamente modificata con le delib. 18 aprile 2006, n. 86 e 26 maggio 2009, n. 122).

Ciò premesso, il collegio giudicante rileva che soltanto nel regolamento del 13 luglio 1999 si rinvie-ne (all’art. 14, cc. 8 ss.) una dettagliata disciplina in materia di composizione delle segreterie particolari del presidente, del vice presidente e degli assesso-ri della Provincia di Palermo nonché in ordine alle modalità di reclutamento e d’assegnazione del rela-tivo personale (ponendosi un’importante limitazione all’eventuale utilizzo di soggetti esterni all’ammi-nistrazione) mentre il regolamento del 29 dicembre 2000 si è limitato esclusivamente a prevedere la fa-coltà di costituzione di tale tipologia di uffici.

Appare, quindi, del tutto evidente che le disposi-zioni di dettaglio contenute nell’art. 14, cc. 8 ss., del regolamento del 13 luglio 1999:

- non si pongono affatto in contrasto con i princi-pii generali enunziati nell’art. 90 d.lgs. n. 267/2000, il cui contenuto, come sopra rilevato, è sostanzial-mente analogo a quello dell’abrogato art. 51, c. 7, l. n. 142/1990 (durante la vigenza del quale era stato emanato il regolamento del 13 luglio 1999);

- risultano, altresì, perfettamente compatibili con il “Regolamento di organizzazione degli uffici e dei servizi” del 29 dicembre 2000.

Deve, anzi, affermarsi che le specifiche disposi-zioni dettate dall’art. 14, cc. 8 ss., del regolamento del 13 luglio 1999 si pongono in un rapporto di chia-ra complementarietà con la generica previsione con-tenuta nel regolamento del 29 dicembre 2000 (che si limita ad annoverare, tra le strutture burocratiche “eventuali” dell’ente locale, le segreterie particolari in questione).

D’altronde, la tesi della perdurante vigenza del regolamento del 13 luglio 1999 trova puntuale aval-lo nello stesso regolamento del 29 dicembre 2000, in cui (sia pur con riferimento alla disciplina della “Dirigenza”) vengono richiamate espressamente (v.

l’art. 1, c. 4, e l’art. 21, c. 1) le norme contenute nel “Regolamento per il conferimento degli incarichi inerenti le funzioni di direzione, dirigenziali e di alta specializzazione, le collaborazioni esterne ad alto contenuto di professionalità nonché per l’attribu-zione degli incarichi negli uffici di diretta collabo-razione con l’organo di governo dell’ente, approvato con la deliberazione di giunta n. 367/2 del 13 luglio 1999”.

Inoltre, la validità della tesi della perdurante vi-genza e dell’integrale applicabilità delle norme con-tenute nel regolamento del 13 luglio 1999 trova un assai significativo riscontro nella circostanza che lo stesso presidente Avanti ha fatto esplicito ed inequi-vocabile riferimento all’art. 14 di tale regolamento in tutti i provvedimenti di assegnazione di personale alla propria segreteria particolare.

Ad abundantiam, il collegio giudicante osserva, infine, che la giuridica fondatezza di tale conclusione (ossia della perdurante vigenza e dell’integrale appli-cabilità, all’epoca in cui l’Avanti aveva provveduto all’assegnazione di personale alla propria segreteria particolare, delle norme contenute nell’art. 14 del regolamento del 13 luglio 1999) è stata esplicita-mente riconosciuta dalla difesa della medesima parte appellante nella memoria conclusionale depositata il 14 marzo 2014 (v. p. 5, secondo periodo) nonché confermata dall’avv. Armao in sede di discussione orale in udienza (in risposta ad una formale richiesta di delucidazioni rivoltagli da questa Corte).

Ciò definitivamente assodato, il collegio giudi-cante osserva che i cc. 8, 9, 10 e 11 del “Regola-mento per il conferimento degli incarichi inerenti le funzioni di direzione, dirigenziali e di alta specializ-zazione, le collaborazioni esterne ad alto contenuto di professionalità nonché per l’attribuzione degli incarichi negli uffici di diretta collaborazione con l’organo di governo dell’ente”, approvato con la de-liberazione della giunta provinciale n. 367/2 del 13 luglio 1999, dispongono testualmente che:

- “il presidente della provincia, per le finalità di cui al c. 1 (ossia quelle inerenti l’esercizio delle funzioni d’indirizzo e di controllo demandate agli amministratori dalle leggi), può istituire il proprio ufficio di Gabinetto e/o di segreteria particolare, co-stituiti da personale dell’ente, i cui componenti sono nominati con determinazione presidenziale” (c. 8);

- “il presidente può, altresì, istituire con propria determinazione l’ufficio di Gabinetto e/o di segrete-ria particolare del vice presidente e degli assessori, analogamente costituiti con dipendenti dell’ente; i componenti di tali uffici sono nominati dal presiden-

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te su proposta del vice presidente e degli assessori, che indicheranno anche il nome del capo dell’ufficio di Gabinetto e/o dell’ufficio di segreteria particolare” (c. 9);

- “il capo dell’ufficio di Gabinetto e/o dell’uffi-cio di segreteria particolare del presidente, del vice presidente e degli assessori, purché l’ente non ab-bia dichiarato il dissesto e non versi nelle situazio-ni strutturalmente deficitarie, di cui all’art. 45 d.lgs. n. 504/1992 e successive modificazioni, può essere esterno ed essere assunto con contratto di lavoro subordinato a tempo determinato di diritto privato, per un tempo comunque non superiore a quello del mandato elettivo del presidente al momento del con-ferimento” (c. 10);

- “qualora per i componenti degli uffici di Ga-binetto e delle segreterie particolari si faccia ricor-so a soggetti esterni, assunti con contratti di lavoro subordinato a tempo determinato di diritto privato, essi devono essere almeno in possesso dei requisiti richiesti per l’accesso al pubblico impiego e di titolo di studio adeguato alle funzioni ed ai compiti da at-tribuire” (c. 11).

Orbene, una rigorosa analisi letterale, sistematica e logica del complesso di tali disposizioni dimostra inequivocabilmente che, all’epoca dei fatti ogget-to del presente giudizio, gli eventuali conferimenti d’incarichi a soggetti esterni all’amministrazione provinciale di Palermo potevano ritenersi consentiti (ovviamente per quanto interessa specificamente in questa sede) soltanto se riguardanti i “capi” delle se-greterie particolari del presidente, del vice presidente o degli assessori mentre i semplici “componenti” dei medesimi uffici dovevano essere reclutati tra il per-sonale già in servizio nell’ente.

Né la validità di tale conclusione può essere plau-sibilmente messa in dubbio (come, invece, ipotizzato dall’Avanti) dalla circostanza che nella parte iniziale del c. 11 compaia la locuzione “qualora per i compo-nenti degli uffici di Gabinetto e delle segreterie parti-colari si faccia ricorso a soggetti esterni”.

Appare, infatti, del tutto evidente che, a fronte delle inequivocabili statuizioni contenute nei pre-cedenti cc. 8, 9 e 10 (secondo cui soltanto i “capi” delle segreterie particolari del presidente, del vice presidente e degli assessori possono essere eventual-mente reperiti tra soggetti esterni mentre il restante personale addetto a tali uffici dev’essere reclutato tra i dipendenti già in servizio nell’ente locale), l’utiliz-zo nella parte iniziale del c. 11 della parola “compo-nenti” si configuri come una mera imprecisione ter-minologica e vada, quindi, ragionevolmente riferita

esclusivamente all’ipotesi in cui vengano costituite più segreterie particolari (a supporto, rispettivamen-te, del presidente, del vice presidente e di singoli assessori), a ciascuna delle quali sia assegnato, in qualità di preposto, un soggetto esterno.

Appare, quindi, palesemente infondata dal punto di vista logico-giuridico la tesi dell’Avanti, secondo cui una lettura complessiva dei cc. 8, 9, 10 e 11 del regolamento in questione consentirebbe di ritenere che non soltanto il “capo” della segreteria particolare del presidente della provincia ma anche i semplici “componenti” della medesima struttura potevano es-sere incondizionatamente scelti tra soggetti esterni all’amministrazione.

Il collegio giudicante reputa, pertanto, piena-mente condivisibili le affermazioni contenute nella sentenza di primo grado, secondo cui risultano ille-gittimi tutti i provvedimenti (analiticamente elencati nell’atto di citazione della procura regionale, al quale si fa espresso rinvio in questa sede) con cui, in viola-zione delle tassative disposizioni contenute nell’art. 14, cc. 8-11, del “Regolamento per il conferimento degli incarichi … negli uffici di diretta collabora-zione con l’organo di governo dell’ente”, approvato con la deliberazione di giunta n. 367/2 del 13 luglio 1999, l’Avanti, nella sua qualità di presidente del-la Provincia regionale di Palermo, aveva, di volta in volta, conferito (o prorogato) incarichi a soggetti esterni all’amministrazione, assegnandoli in qualità di semplici “componenti” alla propria segreteria par-ticolare.

Più precisamente, si tratta delle nomine e delle proroghe riguardanti i signori: Sanlorenzo Riccardo, Santoro Marcella, Guiglia Serena, Sammartino Gio-vanni, Lo Conte Sabrina, Cusimano Marta, Campa-nella Giacomo, Poli Renata e Pezzano Federica.

Proseguendo nella disamina del gravame propo-sto dall’Avanti, il collegio giudicante deve ora va-gliare alcune specifiche argomentazioni con cui la parte appellante ha inteso giustificare, in ogni caso, il proprio operato dal punto di vista sostanziale, ne-gando, altresì, la sussistenza di un concreto danno erariale.

In tale ottica, l’Avanti ha, in primo luogo, soste-nuto che, anche ammesso che soltanto il “capo” del-la segreteria particolare del presidente poteva essere scelto tra soggetti esterni all’amministrazione pro-vinciale, gli incarichi da lui conferiti non potrebbero, comunque, ritenersi sostanzialmente illegittimi e, quindi, forieri di danno.

A tal proposito, l’Avanti ha rammentato che, in base all’art. 14, c. 9, regolamento del 13 luglio 1999,

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egli, come presidente della provincia, poteva istituire anche le segreterie particolari dei singoli assessori, assegnandovi soggetti esterni in qualità di “capi”.

In tale contesto, pertanto, le assegnazioni (come semplici “componenti” o “addetti”) di soggetti ester-ni, da lui formalmente effettuate nell’ambito della propria segreteria particolare, andrebbero intese come disposte, in realtà, a beneficio di singoli asses-sori, considerato che tali soggetti esterni avevano, di volta in volta, prestato la propria attività lavorativa presso questo o quell’assessorato.

Nella medesima ottica, l’Avanti ha, in secondo luogo, sostenuto che le formali assegnazioni alla propria segreteria particolare, in qualità di sempli-ci “componenti”, di Sanlorenzo Riccardo, Santoro Marcella, Campanella Giacomo, Sammartino Gio-vanni, Poli Renata, Lo Conte Sabrina, Pezzano Fe-derica, Guiglia Serena e Cusimano Marta potrebbero anche essere ragionevolmente intese come finalizza-te a dotare di personale professionalmente qualifica-to gli “uffici di staff” della presidenza della provincia o di altri assessorati, dato che a tali uffici sono de-mandate dalla normativa vigente funzioni ispettive, di studio e di ricerca, strumentali allo svolgimento delle attività gestionali, e che i soggetti in questione avrebbero reso anche prestazioni lavorative rientran-ti in tali ambiti.

Considerato, pertanto, che l’art. 14, c. 3, regola-mento del 13 luglio 1999 prevedeva che agli “uffici di staff” potevano essere assegnati, anche in qualità di semplici “componenti”, soggetti esterni all’ammi-nistrazione provinciale dotati di adeguata professio-nalità, l’Avanti ha affermato che, intendendo le no-mine in questione come finalizzate a potenziare gli “uffici di staff”, non potrebbe ravvisarsi nei compor-tamenti da lui tenuti alcuna sostanziale illegittimità produttiva di danno erariale.

Orbene, il collegio giudicante rileva che dalla di-samina dei singoli atti (analiticamente elencati nella citazione della procura) con cui l’Avanti ha, di volta in volta, conferito (o prorogato) gli incarichi ai vari soggetti esterni sopra elencati, si desume inequivo-cabilmente che:

- i medesimi venivano assegnati alla segrete-ria particolare del presidente in qualità di semplici “componenti” o “addetti”;

- in nessuno di tali provvedimenti è stata mai fat-ta menzione di un eventuale utilizzo di quei soggetti presso la segreteria particolare di questo o quell’as-sessore oppure presso “uffici di staff”.

D’altronde, ove la reale intenzione dell’Avan-ti fosse stata quella di assegnare i predetti soggetti

esterni non alla propria segreteria bensì alle segrete-rie particolari dei vari assessori (ovviamente, tenuto conto di quanto sopra sottolineato dal collegio giudi-cante, soltanto in qualità di “capi” e non di semplici “componenti”), egli avrebbe dovuto emanare spe-cifici provvedimenti in tal senso, seguendo, altresì, la procedura prevista dal c. 9 dell’art. 14 del regola-mento del 13 luglio 1999, secondo cui le assegnazio-ni di personale alle segreterie particolari dei singoli assessori potevano essere disposte dal presidente non autonomamente bensì soltanto su proposta dell’as-sessore interessato, che avrebbe dovuto, altresì, indi-care il nominativo del soggetto (eventualmente ester-no all’amministrazione) destinato ad essere il “capo” della propria segreteria.

Ugualmente, ove l’effettiva intenzione dell’A-vanti fosse stata quella di utilizzare soggetti esterni non nell’ambito della propria segreteria particolare bensì presso “uffici di staff” (che indubbiamente ven-gono configurati dall’art. 14 del regolamento del 13 luglio 1999 come strutture burocratiche ben distinte dalle semplici “segreterie particolari”), egli si sareb-be dovuto attenere a quanto chiaramente disposto dall’art. 14, c. 4, del medesimo regolamento, in base al quale alle assegnazioni temporanee di personale esterno presso gli “uffici di staff” poteva procedersi soltanto previo espletamento di apposite “selezioni”, in conformità a quanto stabilito dall’art. 11.

D’altronde, deve sottolinearsi che tutti i provve-dimenti della pubblica amministrazione (ed, a mag-gior ragione, quelli concernenti l’organizzazione degli uffici nonché le assunzioni e le assegnazioni di soggetti esterni) debbono essere motivati in ma-niera chiara, esauriente e trasparente (in conformità ai fondamentali principii sanciti dagli artt. 1 e 3 l. n. 241/1990), non essendo giuridicamente ammissibi-le che all’emissione di un determinato atto possano essere (nebulosamente) sottese finalità diverse da quelle ivi espressamente contemplate e non essen-do neppure consentito attribuire ex post al medesimo atto una portata (ossia una concreta valenza giuridi-ca) difforme da quella oggettivamente desumibile dall’analisi del suo contenuto.

Il collegio giudicante reputa, pertanto, che le tesi prospettate dall’Avanti non siano affatto condivisi-bili, apparendo esse finalizzate a tentare di giustifi-care, in qualche modo, ex post il suo operato, che il collegio giudicante, sulla base dell’analisi degli atti acquisiti al fascicolo processuale, reputa (come già evidenziato dalla Sezione di primo grado) pale-semente difforme dal modello legale di riferimento, sopra dettagliatamente illustrato (in base al quale il

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conferimento dell’incarico ad un soggetto esterno all’amministrazione provinciale di Palermo poteva ritenersi consentito soltanto per quanto riguardava la designazione del “capo” della segreteria particola-re del presidente mentre i semplici “componenti” di tale struttura dovevano essere reclutati tra gli impie-gati già in servizio nell’ente locale).

D’altro canto, le affermazioni dell’Avanti secon-do cui i soggetti esterni, da lui formalmente asse-gnati (in qualità di semplici “componenti”) alla sua segreteria particolare, sarebbero stati, in realtà, de-stinati ad essere utilizzati in strutture diverse da tale segreteria, da un lato, confermano l’illegittimità dei provvedimenti di nomina da lui emessi e, da un altro lato, avvalorano la tesi della sostanziale inutilità, dal punto di vista giuridico, delle assunzioni in servizio di tali soggetti.

In pratica, sembrerebbe che i medesimi siano sta-ti temporaneamente inseriti (peraltro senza il previo espletamento di alcuna procedura selettiva, come sarebbe stato necessario per un loro eventuale uti-lizzo presso “uffici di staff”, in base all’art. 14, c. 4, regolamento del 13 luglio 1999) nell’amministrazio-ne provinciale non al fine (genericamente dichiarato nei singoli provvedimenti di nomina) di supportare direttamente il presidente, in vista del migliore eser-cizio, da parte sua, delle funzioni d’indirizzo e di controllo istituzionalmente demandategli dalle leggi, bensì per espletare, all’occorrenza, attività lavorative (non preventivamente specificate) presso altri uffici dell’ente (ugualmente non previamente individuati).

Orbene, non può esservi alcun dubbio sul fatto che un tale modus operandi sia in stridente contrasto con tutti i fondamentali principi giuridici, cui deve costantemente conformarsi l’azione amministrativa, quali la legalità, il buon andamento, la razionalità, la trasparenza, la programmazione (sia delle attività da svolgere sia dell’utilizzo delle risorse umane e fi-nanziarie occorrenti), l’economicità, l’efficienza ecc.

Ad avviso del collegio giudicante, la tesi dell’il-legittimità, produttiva di danno erariale, dei com-portamenti tenuti dall’Avanti nella vicenda in esame appare ulteriormente corroborata dagli elementi di seguito illustrati.

In particolare:- il contenuto dei vari atti di nomina da lui emessi

è indubbiamente seriale e le rispettive motivazioni risultano meramente apparenti, come dimostrato dal fatto che le mansioni dei singoli soggetti assegnati alla segreteria particolare del presidente sono state sistematicamente indicate in maniera estremamente generica;

- le singole nomine e proroghe non sono state precedute da alcuna concreta e documentata analisi della loro effettiva utilità per l’amministrazione;

- inoltre, non risulta che siano state compiute preventive verifiche in ordine all’esistenza di pro-fessionalità interne alla provincia, idonee ad essere impiegate nella segreteria particolare del presidente, e, quindi, non è stato affatto accertato che il ricorso all’utilizzo di soggetti esterni costituiva un’esigenza imprescindibile.

A tal proposito, il collegio giudicante reputa che non siano affatto condivisibili le affermazio-ni dell’Avanti, il quale ha sostenuto (v. pp. 25 e 26 dell’atto d’appello) che egli, in qualità di presidente della provincia, poteva disporre di un’amplissima di-screzionalità nella scelta delle persone da assegnare alla propria segreteria particolare, le quali, quindi, avrebbero potuto essere da lui incondizionatamente reclutate anche al di fuori del personale in servizio presso l’ente pubblico, senz’alcuna necessità di com-piere verifiche in ordine all’esistenza o meno di ido-nee professionalità interne all’amministrazione né di accertare l’effettiva utilità e l’indispensabilità del ricorso all’utilizzo di soggetti esterni.

Ad avviso del collegio giudicante, infatti, la spe-cifica facoltà, che è stata riconosciuta dalla legge all’organo di vertice dell’ente locale, di istituire la propria segreteria particolare e di assegnarvi il rela-tivo personale non può essere esercitata in maniera arbitraria, ossia prescindendo totalmente dall’osser-vanza dei fondamentali canoni di razionalità, traspa-renza, economicità, efficienza ed efficacia dell’azio-ne amministrativa, chiaramente enunziati nell’art. 1 l. n. 241/1990, e nel d.lgs. n. 267/2000 e costituenti logici corollari del principio di “buon andamento della pubblica amministrazione”, che è consacrato nell’art. 97 Cost.

In sostanza, in base ai predetti fondamentali prin-cipii giuridici, da applicarsi incondizionatamente in tutti i settori dell’attività amministrativa, non può farsi legittimamente ricorso all’utilizzo di soggetti esterni all’amministrazione, senza:

- aver previamente constatato l’obiettiva insussi-stenza di professionalità interne, idonee a svolgere determinati compiti (anche, eventualmente, di natura fiduciaria);

- aver conseguentemente fornito una congrua e trasparente motivazione in ordine all’imprescindibi-le necessità di assumere personale esterno;

- aver preventivamente valutato in maniera rigo-rosa le utilità che l’amministrazione potrà conseguire dalle attività (da individuarsi in maniera dettagliata)

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che dovrebbero essere svolte dai medesimi soggetti esterni;

- aver compiuto una seria e documentata analisi del rapporto tra i costi che l’amministrazione viene chiamata a sostenere ed i benefici che essa potrà con-seguire.

Opinare diversamente (ossia sostenere che l’eser-cizio della facoltà di costituire la segreteria particola-re dell’organo di governo di un ente locale e di asse-gnarvi il relativo personale sia totalmente svincolata dall’osservanza dei fondamentali canoni disciplinanti l’azione amministrativa, aventi una specifica valenza giuridica) equivarrebbe a reputare consentite iniziati-ve arbitrarie, irragionevoli nonché antieconomiche e, quindi, foriere di sprechi ingiustificabili delle (ormai sempre più scarse) risorse finanziarie pubbliche.

Sulla base di tutti gli elementi sopra illustrati, il collegio giudicante reputa conclusivamente che non sia meritevole d’alcuna censura la sent. n. 1953/2013, con cui la Sezione di primo grado:

- ha stigmatizzato le molteplici illegittimità che avevano caratterizzato i provvedimenti con cui l’A-vanti aveva assegnato numerosi soggetti esterni alla propria segreteria particolare in qualità di semplici “componenti”;

- ha evidenziato che da tali illegittimità era sca-turito un ingente danno per le finanze della Provin-cia regionale di Palermo, avendo tale ente sostenuto spese che, in base alla normativa vigente, avrebbe-ro dovuto essere evitate (non essendo consentito, in base all’art. 14, cc. 8-11, del regolamento del 13 luglio 1999, utilizzare soggetti esterni in qualità di semplici “componenti” della segreteria particolare del presidente e, per di più, senza neppure aver ef-fettuato alcuna concreta e documentata verifica sia delle effettive necessità di personale in tale ufficio sia dell’indispensabilità del ricorso a soggetti esterni sia della loro reale utilità) e dalle quali, in ogni caso, non erano scaturite utilità giuridicamente apprezza-bili per l’amministrazione;

- ha affermato che l’Avanti doveva rispondere di tale danno, in quanto aveva tenuto comportamenti caratterizzati perlomeno da colpa grave, avendo egli operato con inescusabili superficialità e scriteriatezza dal punto di vista gestionale nonché in palese viola-zione sia della normativa vigente in subiecta materia (con particolare riferimento alle disposizioni conte-nute nel regolamento approvato con la deliberazione della giunta provinciale n. 367/2 del 13 luglio 1999) sia dei fondamentali canoni (aventi indubbia valenza giuridica) di razionalità, economicità, efficienza ed efficacia dell’azione amministrativa.

Restano da esaminare le ultime due problema-tiche sollevate dall’Avanti, concernenti, rispettiva-mente, l’individuazione del danno finanziario ogget-tivamente patito dalla provincia e l’entità dell’onere risarcitorio posto concretamente a suo carico.

Relativamente al primo profilo, il collegio giu-dicante reputa che, per le ragioni sopra illustrate, sia condivisibile la tesi della Sezione di primo grado, che (in conformità alla domanda giudiziale del pubblico ministero) ha individuato il danno patito dall’ammi-nistrazione provinciale nell’importo di 1.001.716,42 (cifra, in sé e per sé, non oggetto di alcuna conte-stazione da parte dell’Avanti in sede d’appello), os-sia in misura corrispondente alla complessiva spesa (già indicata nell’atto di citazione della procura), da ritenersi priva di qualsiasi utilità giuridicamente ap-prezzabile, che è stata sostenuta dall’ente locale per l’erogazione dei compensi ai soggetti esterni (Sanlo-renzo Riccardo, Santoro Marcella, Campanella Gia-como, Sammartino Giovanni, Poli Renata, Lo Conte Sabrina, Pezzano Federica, Guiglia Serena e Cusi-mano Marta), illegittimamente assegnati dall’Avanti alla propria segreteria particolare in qualità di sem-plici “componenti”.

A tal proposito, il collegio giudicante reputa ne-cessario precisare che, trattandosi di spese che (in base alla normativa vigente e ai principii basilari dell’azione amministrativa, entrambi sopra ampia-mente illustrati) avrebbero dovuto essere evitate e dalle quali, pertanto, non possono essere scaturite utilità giuridicamente apprezzabili, risulta palese-mente infondata la doglianza dell’Avanti, il quale ha sostenuto che, in sede di quantificazione del danno erariale, si sarebbe dovuto tener conto di ipotetici “vantaggi” fruiti dall’amministrazione per effetto delle prestazioni lavorative comunque rese dai sog-getti esterni in questione.

In tale ottica, il collegio giudicante reputa neces-sario richiamare la costante giurisprudenza di questa Sezione, secondo la quale, quando una norma (anche regolamentare) imponga agli amministratori pubbli-ci divieti in ordine all’effettuazione di determinate spese, ritenendole implicitamente non utili, è suffi-ciente, affinché si realizzi il danno erariale, la cir-costanza che le medesime spese siano state eseguite in violazione di tali divieti (v., ex plurimis, sent. n. 48/2007; n. 206/2008; n. 101/2010; n. 195/2010; n. 181/2013).

Opinando diversamente, verrebbe a essere so-stanzialmente vanificata l’efficacia vincolante dei canoni di comportamento imposti dalla normativa a carico degli amministratori, a tutela della sana ge-

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N. 5-6/2014 PARTE II – ATTIVITÀ GIURISDIZIONALE

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stione delle risorse finanziarie e a salvaguardia dei precari equilibri di bilancio degli enti pubblici.

Relativamente alla seconda problematica pro-spettata dall’Avanti, il quale (nella memoria conclu-sionale depositata il 14 marzo 2014) ha sostenuto che, in sede di quantificazione dell’onere risarcitorio da porsi effettivamente a suo carico, dovrebbe tener-si conto della valenza concausale nella produzione del danno che, a suo avviso, sarebbe ascrivibile ai comportamenti tenuti:

- dai singoli funzionari che, in veste di “respon-sabile del procedimento”, avevano avallato con la propria sottoscrizione la correttezza degli atti con cui egli aveva disposto la nomina di soggetti esterni in qualità di semplici “componenti” della propria se-greteria particolare;

- dai funzionari che avevano espresso parere fa-vorevole in ordine alla regolarità tecnica dei provve-dimenti di nomina da lui emessi;

- dai dirigenti che, di volta in volta, avevano ma-terialmente stipulato i contratti di lavoro con i sog-getti esterni assegnati alla segreteria particolare del presidente della provincia;

- il collegio giudicante osserva quanto segue.In primo luogo, deve sottolinearsi che la com-

petenza in materia di costituzione, organizzazione e composizione della propria segreteria particolare ap-partiene esclusivamente al presidente della provin-cia, trattandosi di un ufficio che, in base alla vigen-te normativa, ha il compito specifico di supportare l’organo di vertice dell’ente locale nell’espletamento delle proprie funzioni istituzionali d’indirizzo politi-co-amministrativo e di controllo.

Ne consegue che spetta soltanto al presidente (il quale è sempre tenuto all’osservanza della normati-va, anche regolamentare, vigente in materia nonché degli inderogabili canoni di razionalità, trasparen-za, economicità, efficienza ed efficacia dell’attività amministrativa) verificare le esigenze organizzative della propria segreteria, fissare il numero dei com-ponenti di tale ufficio ed individuare i soggetti ivi addetti.

Orbene, analizzando i fascicoli delle varie nomine e proroghe dei soggetti ai quali venne conferito l’in-carico di semplice “componente” della segreteria par-ticolare del presidente della provincia, si desume che:

- era lo stesso Avanti ad avviare le procedure, in-dividuando nominativamente le singole persone che dovevano essere assegnate alla sua segreteria ed im-partendo precise disposizioni agli uffici amministra-tivi sottordinati per la redazione degli atti all’uopo occorrenti;

- una volta predisposti tali atti propedeutici, era sempre l’Avanti a emettere la determinazione finale, con cui il soggetto, da lui già scelto, veniva formal-mente assegnato alla sua segreteria, nonché ad ordi-nare che venissero posti in essere gli adempimenti burocratici conseguenziali, ivi compresa la stipula del relativo contratto di lavoro;

- era ancora l’Avanti a disporre, di volta in volta, la proroga del singolo incarico.

Appare, quindi, del tutto evidente che:- il dominus di ciascun procedimento era sempre

il presidente Avanti, il quale, in virtù delle sue pre-rogative istituzionali e facendo espresso riferimen-to all’art. 14 regolamento del 13 luglio 1999 (della cui vigenza e del cui contenuto egli doveva, quin-di, essere perfettamente a conoscenza), provvedeva ad assegnare le varie unità di personale alla propria segreteria particolare ed a prorogarne gli incarichi, ritenendo di potersi avvalere incondizionatamente di soggetti esterni all’amministrazione, di cui egli stes-so ordinava l’assunzione;

- in tale peculiare contesto, pertanto, sia il fun-zionario che figurava come “responsabile del proce-dimento” sia quello che attestava la “regolarità tec-nica” del provvedimento di nomina emesso dal pre-sidente venivano ad assumere, in concreto, un ruolo meramente formale.

Per quanto riguarda il dirigente che provvedeva alla stipula del contratto di lavoro con il soggetto as-segnato dall’Avanti alla propria segreteria, non v’è dubbio che anche il medesimo si limitava ad espleta-re un’attività sostanzialmente vincolata, in attuazio-ne delle precise direttive impartite dal presidente.

Pertanto, ad avviso del collegio giudicante, non può ravvisarsi nei comportamenti dei funzionari so-pra indicati alcun concreto e giuridicamente apprez-zabile contributo concausale all’insorgenza del dan-no finanziario, che è stato patito dall’amministrazio-ne provinciale di Palermo per effetto delle illegittime nonché sostanzialmente inutili assegnazioni, dispo-ste autonomamente dal presidente Avanti, di soggetti esterni (in qualità di semplici “componenti”) alla sua segreteria particolare.

Il collegio giudicante reputa conclusivamente che, previo rigetto dell’appello proposto da Avanti Giovanni, debba essere integralmente confermata la sent. n. 1953/2013, con la quale la Sezione di primo grado ha condannato il medesimo a pagare alla Pro-vincia regionale di Palermo la complessiva somma di euro 1.001.716,42 (da maggiorarsi degli interessi legali, da calcolarsi con decorrenza dalla data di pub-blicazione della medesima sentenza e sino al soddi-

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PARTE II – ATTIVITÀ GIURISDIZIONALE N. 5-6/2014

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sfo del credito erariale) nonché alla rifusione delle spese processuali in favore dello Stato.

In virtù del principio della “soccombenza lega-le”, l’Avanti dev’essere condannato al pagamento, in favore dello Stato, anche delle spese relative al presente grado di giudizio.

P.q.m., la Corte dei conti, Sezione d’appello per la Regione Sicilia, definitivamente pronunciando: rigetta l’appello proposto da Avanti Giovanni avver-so la sent. n. 1953/2013, emessa dalla Sez. giur. reg. Sicilia in data 16 maggio 2013, le cui statuizioni di condanna a carico del medesimo Avanti vengono, quindi, integralmente confermate, sia per quanto riguarda il risarcimento del danno (quantificato in 1.001.716,42 euro, da maggiorarsi degli interessi le-gali calcolati secondo le modalità ivi specificate) in favore della Provincia regionale di Palermo sia per quanto concerne la rifusione allo Stato delle spese relative al giudizio di primo grado. (Omissis)

* * *

Sezioni giurisdizionali regionali

Calabria

233 – Sezione giurisdizionale Regione Calabria; sen-tenza 14 ottobre 2014; Pres. Condemi, Est. Guz-zi, P.M. Librandi; Proc. reg. c. Di Dieco e altri.

Prescrizione e decadenza – Danno erariale – Oc-cultamento doloso – Prescrizione dell’azione – Dies a quo – Decorrenza dalla scoperta del danno – Fattispecie.

Disp. att. c.p.p., art. 129; l. 15 novembre 1993 n. 453, convertito con modificazioni dalla l. 14 gennaio 1994 n. 19, disposizioni in materia di giurisdizione e controllo della Corte dei conti, art. 5; l. 14 gennaio 1994 n. 20, disposizioni in materia di giurisdizione e controllo della Corte dei conti, art. 1.

In caso di occultamento doloso del danno, il termine di prescrizione dell’azione di responsabili-tà amministrativa decorre dalla scoperta del danno stesso, la quale non necessariamente coincide con l’informativa ex art. 129 disp. att. c.p.p. da parte della pubblico ministero penale, o con la comunica-zione del decreto di rinvio a giudizio (nella specie, il pubblico ministero contabile era venuto a cono-scenza dell’evento dannoso mediante l’acquisizione degli atti di indagine trasmessi dalla polizia giudi-ziaria alla procura della repubblica).

Diritto – 1. I convenuti hanno entrambi eccepito la prescrizione dell’azione risarcitoria con riferimen-to alle somme percepite “nell’anno 2001 e nell’anno 2002” (p. 8 della memoria), sostenendo che, sebbene a conoscenza della “giurisprudenza domestica del-la Corte dei conti secondo cui nell’ipotesi di dolo (come quando vi è la commissione dei reati) il termi-ne prescrizionale inizia a decorrere dalla data della scoperta del danno e non dal perfezionamento dello stesso, nel caso che ci occupa deve evidenziarsi … che il termine prescrizionale sia iniziato a decorrere da data antecedente a quella della richiesta di rin-vio a giudizio” (p. 8 della memoria), precisamente dal “29 settembre 2006, quando il Comando della Compagnia di Castrovillari della Guardia di finanza ha provveduto a comunicare l’esito di indagine che vale, appunto, quale risultato finale di tutta l’attività poi utilizzata dalla procura regionale della Corte dei conti per il giudizio che ci occupa … tale fascico-lo dal quale è possibile desumere la data da cui far decorrere la prescrizione contraddistinto con la indi-cazione [23] è stato prodotto e allegato al fascicolo della Corte dei conti nel procedimento che ci occu-pa” (così in termini a p. 9 della memoria).

Il collegio ritiene del tutto infondata siffatta dife-sa per quanto di ragione.

Com’è noto, in base all’art. 1, c. 2, l. 14 gennaio 1994, in caso di “occultamento doloso del danno” l’esordio della prescrizione deve farsi risalire alla “data della sua scoperta”, dunque ad un momento inevitabilmente successivo a quello in cui vi è stata la spendita di denaro pubblico.

È altrettanto noto come la giurisprudenza mag-gioritaria della Corte dei conti si sia attestata nel sen-so di ritenere, per un verso, che la “scoperta” debba considerarsi avvenuta solo quando sia stata effettiva-mente disvelata l’azione nascosta all’attività formal-mente legittima (Corte conti, Sez. III centr. app., n. 330 del 19 ottobre 2007), e, per altro verso, nei casi in cui per il medesimo fatto vi sia stato anche l’e-sercizio dell’azione penale, di puntualizzare che l’e-sordio della prescrizione deve coincidere con la data del rinvio a giudizio (cfr. Corte conti, Sez. II centr. app., n. 208/2003; Sez. I centr. app., n. 122/2006, idem n. 29/2007; Sez. II centr. app., n. 296/2007), o, comunque, con quella dell’informativa ex art. 129, c. 3, c.p.p. (cfr. Corte conti, Sez. I centr. app., sent. n. 68/2006).

Il collegio senz’altro condivide tale imposta-zione, ma nel farlo non può sottrarsi all’esigenza di chiarire come essa valga solo a condizione che il disvelamento del danno, e con esso la sua piena

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N. 5-6/2014 PARTE II – ATTIVITÀ GIURISDIZIONALE

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conoscibilità da parte del creditore erariale, non sia stata conseguita prima, mediante cioè altri mezzi e con diverse forme.

Si intende in concreto sottolineare che, nei fatti, può ben verificarsi che l’evento dannoso venga co-nosciuto dal requirente contabile prima che sia for-mulata la richiesta di rinvio a giudizio o prima che gli venga inviata (dalla procura penale) l’informativa ex art. 129 disp. att. c.p.p., per cui appare del tutto logico sostenere che in tali casi il diritto-dovere del procuratore regionale di valutare se ricorrano o meno gli estremi per agire a tutela dell’erario nei cinque anni che la legge gli assegna, scatti dal momento in cui ha avuto comunque conoscenza del danno.

D’altra parte, tale impostazione è coerente con l’autonomia e l’esclusività che caratterizza la giu-risdizione contabile rispetto a quella penale, auto-nomia che deve dunque ritenersi tale anche durante la fase requirente dell’azione erariale, con la conse-guenza che nei casi in cui si configuri l’occultamen-to doloso del danno, il suo esercizio può senz’altro prescindere, e non può ritenersi esclusivamente di-pendente, dall’iniziativa di volta in volta assunta in sede penale.

Così opinando, il collegio deve a questo punto osservare che per la fattispecie di causa, la scoperta del danno non coincide, come pretenderebbe parte attrice e come meglio si dirà di qui a poco, con la data del “19 giugno 2008 in cui il giudice per le inda-gini preliminari presso il Tribunale penale di Castro-villari ha emesso il decreto di rinvio a giudizio degli imputati”, giacché con “il rinvio a giudizio il danno diventa oggettivamente percettibile, riconoscibile, certo, attuale, liquidabile effettivo e concreto” (pp. 16 e 17 dell’atto di citazione).

Né, tantomeno, il disvelamento può ritenersi av-venuto, come invece vorrebbero i convenuti, il 29 settembre 2006, data in cui il Nucleo di polizia tri-butaria dava conto dell’indagine penale n. 454/2006.

Ciò per l’ovvia ragione che tale ultima informa-tiva fu indirizzata alla sola procura della Repubblica presso il Tribunale di Castrovillari, come del resto era ovvio che avvenisse.

L’informativa in questione trattava, infatti, di re-ati accertati dalla polizia giudiziaria nel quadro e a sostegno di un’istruttoria penale, per cui non poteva che essere portata ad esclusiva conoscenza dell’in-quirente penale e non anche della procura contabile.

Da quell’informativa il requirente erariale non ha, quindi, potuto trarre alcun elemento di conosci-bilità del danno.

Il fascicolo penale (evidentemente comprensi-

vo anche della prima denuncia risalente al 2006) è stato poi inoltrato alla procura regionale, ma in un momento ben successivo e cioè il 16 dicembre 2009, giusta nota n. 431366/2009 della Guardia di finan-za-Compagnia di Castrovillari.

Tale oggettiva ricostruzione dei fatti è parsa al collegio quanto mai opportuna per far giustizia di momenti e situazioni che, in quanto citati a sostegno delle contrapposte tesi, avrebbero potuto ingenerare dubbi e incertezze nella configurazione del percorso prescrizionale che ha caratterizzato la vicenda.

Traendo le fila di tanto argomentare occorre ora individuare il momento a cui far risale il disvelamen-to del danno.

Esso non coincide, come detto, con la data del 19 giugno 2008 (decreto di rinvio a giudizio), né con quella del 29 settembre 2006 (informativa della po-lizia giudiziaria alla procura della Repubblica presso il Tribunale di Castrovillari, né, ancora, con la data del 16 dicembre 2009 (inoltro del fascicolo penale alla procura regionale), ma risale al 19 luglio 2007, a quando cioè il requirente contabile poté acquisire la relazione n. 9196/5089 del 28 giugno 2007 trasmes-sa dalla polizia tributaria.

Tale relazione, completa di tutti gli elementi che in punto di fatto caratterizzavano la vicenda, ha oggettivamente rappresentato la notitia damni ed è quindi grazie ad essa che il requirente è venuto a co-noscenza dell’evento dannoso.

A quella data va, quindi, fatto risalire l’esordio della prescrizione quinquennale, il cui decorso, os-serva il collegio, non si è affatto compiuto rispetto all’azione contabile oggetto di causa.

Sul punto è, infatti, sufficiente constatare come gli inviti a dedurre previsti dall’art. 5 l. 14 genna-io 1994, n. 19 e che notoriamente costituiscono atti interruttivi del decorso prescrizionale, sono stati no-tificati il 28 marzo 2012 al sig. Di Dieco Ettore e il 26 aprile 2012 al sig. Di Dieco Gaetano, dunque ben prima che fossero decorsi cinque anni dalla data, so-pra indicata, del 19 luglio 2007.

L’eccezione di prescrizione va, dunque, respinta. (Omissis)

240 – Sezione giurisdizionale Regione Calabria; sen-tenza 21 ottobre 2014; Pres. Condemi, Est. Guz-zi, P.M. Astraldi; Proc. reg. c. Santopaolo e altri.

Processo contabile – Giudizio di responsabilità – Sospensione del giudizio di primo grado – Pendenza di ricorso in appello su di una sen-

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PARTE II – ATTIVITÀ GIURISDIZIONALE N. 5-6/2014

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tenza pronunciata per gli stessi fatti del giudi-zio sospeso – Omessa riassunzione in termini del giudizio sospeso – Estinzione del processo.

C.p.c., artt. 3, 166, 181, 290, 295, 297, 307, 362; r.d. 13 agosto 1933 n. 1038, approvazione del regola-mento di procedura per i giudizi innanzi la Corte dei conti, artt. 13, 26, 90; r.d. 12 luglio 1934 n. 1214, approvazione del t.u. delle leggi sulla Corte dei con-ti, art. 71.

In caso di sospensione del giudizio per pendenza di ricorso in appello su di una sentenza di primo gra-do relativa agli stessi fatti oggetto del giudizio so-speso, la riassunzione deve avvenire entro il termine di sei mesi dal passaggio in giudicato della sentenza d’appello e, cioè, dallo spirare del termine di propo-sizione del ricorso per cassazione avverso la senten-za stessa; con la conseguenza che il decorso di tale termine determina che il giudizio sospeso si estingue per inattività delle parti, rilevabile anche d’ufficio.

Diritto – Il ricorso, in accoglimento della relativa eccezione di una delle parti convenute, va dichiarato estinto a termini dell’art. 307, cc. 3 e 4, c.p.c.

Le disposizioni del codice su sospensioni, inter-ruzioni, riassunzioni ed estinzioni si applicano in linea di principio anche davanti alla Corte dei con-ti, non solo per il rinvio generale dell’art. 26 r.d. 13 agosto 1933, n. 1038, ma anche per l’art. 13 dello stesso r.d., secondo cui “per la riassunzione d’istanza valgono le norme della procedura civile”.

Ebbene, secondo l’art. 307 c.p.c., “se dopo la no-tificazione della citazione nessuna delle parti siasi co-stituita entro il termine stabilito dall’art. 166, ovvero, se, dopo la costituzione delle stesse, il giudice, nei casi previsti dalla legge, abbia ordinata la cancella-zione della causa dal ruolo, il processo, salvo il dispo-sto dell’art. 181 e dell’art. 290, deve essere riassunto davanti allo stesso giudice nel termine perentorio di tre mesi che decorre rispettivamente dalla scadenza del termine per la costituzione del convenuto a norma dell’art. 166, o dalla data del provvedimento di can-cellazione; altrimenti il processo si estingue.

Il processo, una volta riassunto a norma del prece-dente comma, si estingue se nessuna delle parti siasi costituita, ovvero se nei casi previsti dalla legge il giu-dice ordini la cancellazione della causa dal ruolo.

Oltre che nei casi previsti dai commi precedenti, e salvo diverse disposizioni di legge, il processo si estingue altresì qualora le parti alle quali spetta di rinnovare la citazione, o di proseguire, riassumere o integrare il giudizio, non vi abbiano provveduto

entro il termine perentorio stabilito dalla legge, o dal giudice che dalla legge sia autorizzato a fissarlo. Quando la legge autorizza il giudice a fissare il ter-mine, questo non può essere inferiore ad un mese né superiore a tre”.

Nel caso di specie, non essendo stato assegnato uno specifico termine per la riassunzione con l’ordi-nanza collegiale n. 222/2012, trova applicazione la previsione dell’art. 297, c. 1, c.p.c., secondo cui, “se col provvedimento di sospensione non è stata fissata l’udienza in cui il processo deve proseguire, le parti debbono chiederne la fissazione entro il termine pe-rentorio di tre mesi dalla cessazione della causa di sospensione di cui all’art. 3 c.p.p. o dal passaggio in giudicato della sentenza che definisce la controver-sia civile o amministrativa di cui all’art. 295”. Tale termine, nel testo della medesima disposizione pre-vigente alle modifiche introdotte dalla l. 18 giugno 2009, n. 69, era di sei mesi.

Ora, nel caso di specie, per come esattamente ri-levato da parte convenuta, il passaggio in giudicato della sentenza d’appello n. 283/2013 va individuato nel sessantesimo giorno successivo alla sua pronun-cia, posto che avverso le sentenze rese dalle sezione d’appello della Corte dei conti è ammesso unicamen-te il ricorso per Cassazione per soli motivi di giuri-sdizione ai sensi dell’art. 362 c.p.c.

Per le sentenze rese dalla Corte dei conti, il prin-cipio del ricorso per Cassazione trova fondamento precostituzionale nell’art. 71 r.d. 12 luglio 1934, n. 1214, secondo il quale “le decisioni della Corte dei conti possono essere impugnate davanti la Corte di cassazione, tanto dalle parti quanto dal pubblico mi-nistero, con ricorso per annullamento per motivi di incompetenza o eccesso di potere ai sensi della l. 31 marzo 1877, n. 3761, nel termine di novanta giorni dalla notificazione della decisione impugnata”.

A questo punto, al fine di valutare la tempestività del ricorso ex art. 297 c.p.c. proposto dall’attore, va individuato il dies a quo del termine di sei mesi di cui sopra decorrente dal passaggio in giudicato della pronuncia d’appello che si ha con lo spirare del ter-mine ultimo per la proposizione del ricorso per Cas-sazione avverso la stessa.

Secondo l’art. 90 r.d. 13 agosto 1933, n. 1038, “il termine per impugnare le decisioni della Corte dei conti decorre per le parti dalla data di notificazione della decisione impugnata, per il pubblico ministero, dalla data di pubblicazione della decisione medesi-ma”: ne consegue che, nel caso che occupa, il ricorso per Cassazione per soli motivi di giurisdizione av-verso la sentenza d’appello n. 283/2013, andava pro-

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N. 5-6/2014 PARTE II – ATTIVITÀ GIURISDIZIONALE

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posto non oltre la data dell’11 luglio 2013, essendo avvenuto il deposito in data 12 aprile 2013 (cfr. Corte conti, Sez. I centr. app., 14 luglio 2004, n. 281; Sez. giur. reg. Lombardia, 4 dicembre 2002, n. 1947).

Alla data del 12 luglio 2013 la sentenza è passata in giudicato con le relative conseguenze di legge.

In ogni caso, la sentenza d’appello – già passata in giudicato – risulta trasmessa al procuratore regio-nale per la Calabria della Corte dei conti dalla procu-ra generale in data 11 settembre 2013, prot. n. 4997 e ricevuta il successivo 13 settembre 2013, prot. n. 11679 (cfr. documento in atti al fascicolo dell’atto-re e testualmente riportato nel ricorso). Al riguardo, nessuna delle rappresentazioni fattuali ed organiz-zative prospettate nel ricorso dall’attore può trovare menzione od accoglimento.

In conclusione, tanto a voler considerare la data del passaggio in giudicato della sentenza d’appello n. 283 (12 luglio 2013), quanto a voler considerare quella della sua trasmissione dalla procura genera-le al procuratore regionale (13 settembre 2013), il termine semestrale di cui all’art. 297 c.p.c. appariva irrimediabilmente spirato alla data del deposito del ricorso per fissazione d’udienza (11 giugno 2014).

Da tutto ciò consegue la declaratoria di estinzio-ne del processo per inattività della parte cui spettava riassumerlo a termini di legge.

Non è luogo a delibare sulle spese atteso che la dichiarazione di estinzione opera di diritto all’esito della inattività della parte cui spetta procedere alla ri-assunzione, ragion per cui essa può dichiararsi d’uf-ficio. (Omissis)

257 – Sezione giurisdizionale Regione Calabria; sentenza 3 novembre 2014; Pres. Condemi, Est. Scerbo, P.M. Beltrame; Proc. reg. c. Lucchetti e altri.

Giurisdizione e competenza – Azione di respon-sabilità amministrativa – Petitum sostanziale – Risarcimento del danno – Applicazione di un atto amministrativo illegittimo – Previo giudi-zio amministrativo sulla legittimità dell’atto – Esclusione.

C.p.c., artt. 167, 290, 306, 308, 386; l. 20 marzo 1865 n. 2248, all. E, legge sul contenzioso ammini-strativo, art. 5.

Il petitum sostanziale dell’azione di responsabi-lità amministrativa non è l’annullamento dell’atto illegittimo, oggetto della giurisdizione amministra-tiva, bensì il risarcimento del danno economico con-

seguente all’applicazione dell’atto illegittimo, né, ai fini dell’affermazione della giurisdizione contabile, l’accertamento della responsabilità amministrativa è subordinato al preventivo giudizio amministrativo sulla legittimità dell’atto.

Diritto – 1. In via pregiudiziale deve essere esa-minata l’eccezione di difetto di giurisdizione, moti-vata dalla difesa dei componenti la giunta camerale con l’argomentazione che nei giudizi di fronte alla Corte dei conti viene censurato un comportamento antigiuridico e non la illegittimità dell’atto emanato che può essere fatta valere solo di fronte al Tar e al Consiglio di Stato.

L’eccezione non è fondata. Nei termini, di non esemplare chiarezza, in cui è formulata, da un lato appare frutto di una erronea interpretazione della do-manda attrice, come diretta a ottenere un declaratoria di illegittimità del provvedimento di conferimento dell’incarico di consulenza; dall’altro, sempre erro-neamente, dà per scontata, nel sistema di riparto tra giurisdizione amministrativa e contabile, l’esistenza di una pregiudiziale amministrativa.

Così non è: il petitum sostanziale del presente giudizio, cui ai sensi dell’art. 386 c.p.c. occorre fare riferimento ai fini della decisione sulla giurisdizione, è rappresentato da una richiesta di risarcimento di un danno erariale causato da un comportamento antigiu-ridico da parte di soggetti legati da un rapporto di servizio con l’ente camerale danneggiato e pertanto costituisce un’ipotesi paradigmatica di responsabili-tà amministrativa.

La legittimità del provvedimento amministrativo – dalla cui esecuzione è derivato il danno erariale – non rappresenta l’oggetto principale della cognizio-ne giudiziale ma solo uno degli elementi costituenti la complessa fattispecie della responsabilità ammini-strativa, la cui verifica – non pienamente assimilabile alla disapplicazione ex art. 5, all. E, l. n. 2248/1865 – non incontra il limite del preventivo giudizio am-ministrativo, non previsto da alcun norma (S.U., 3 novembre 2005, n. 21291, e 10 luglio 2000, n. 469). (Omissis).

* * *

Campania

638 – Sezione giurisdizione Regione Campania; sen-tenza 24 giugno 2014; Pres. (f.f.) e Est. Berretta, P.M. Grasso; Proc. reg. c. Percopo e altri.

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PARTE II – ATTIVITÀ GIURISDIZIONALE N. 5-6/2014

252

Amministrazione dello Stato e pubblica in gene-re – Incarichi esterni – Incarico di consulenza legale – Conferimento “in via breve” a un av-vocato dello Stato – Previa verifica della possi-bilità di utilizzare personale proprio dell’ente – Necessità.

D.lgs. 30 marzo 2001 n. 165, norme generali sull’or-dinamento del lavoro alle dipendenze delle ammini-strazioni pubbliche, art. 7.Responsabilità amministrativa e contabile – In-

carichi esterni – Incarico di consulenza legale – Conferimento “in via breve” a un avvocato dello Stato – Incarico relativo a un affare già curato istituzionalmente dall’Avvocatura del-lo Stato – Illegittimità dell’atto di conferimen-to dell’incarico – Pagamento all’avvocato del compenso per l’incarico professionale – Dan-no erariale.

R.d. 30 ottobre 1933 n. 1611, approvazione del t.u. delle leggi e delle norme giuridiche sulla rappresen-tanza e difesa in giudizio dello Stato e sull’ordina-mento dell’Avvocatura dello Stato, artt. 13, 47; l. 2 aprile 1979 n. 97, norme sullo stato giuridico dei magistrati e sul trattamento economico dei magistra-ti ordinari e amministrativi, dei magistrati della giu-stizia militare e degli avvocati dello Stato, art. 17; l. 3 aprile 1979 n. 103, modifiche dell’ordinamen-to dell’Avvocatura dello Stato, artt. 9, 20; d.p.r. 31 dicembre 1993 n. 584, regolamento recante norme sugli incarichi consentiti o vietati agli avvocati e pro-curatori dello Stato ai sensi dell’art. 58 del d.lgs. 3 febbraio 1993 n. 29, artt. 3, 6.Responsabilità amministrativa e contabile – Er-

rore interpretativo indotto dall’incertezza del quadro normativo e giurisprudenziale di riferimento – Colpa grave – Esclusione – Fat-tispecie.

L. 14 gennaio 1994 n. 20, disposizioni in materia di giurisdizione e controllo della Corte dei conti, art. 1.

L’ente pubblico che intende conferire una con-sulenza c.d. “in via breve” in favore di un avvocato dello Stato è tenuto a rispettare la disciplina ordi-naria prevista per l’affidamento di incarichi profes-sionali esterni e, in particolare, a verificare se l’esi-genza di acquisire la prestazione specialistica non possa essere fronteggiata attraverso il personale in servizio.

È illegittimo il conferimento, da parte di un ente pubblico, di una consulenza esterna ad un avvocato dello Stato per la cura di un affare contenzioso giu-diziale o stragiudiziale già affidato istituzionalmente all’Avvocatura dello Stato e il conseguente paga-

mento all’avvocato del compenso per la prestazione professionale costituisce danno erariale.

Ai fini dell’affermazione della responsabilità am-ministrativa, non configura colpa grave la condotta degli agenti pubblici che abbiano cagionato un dan-no all’erario a causa dell’errore in cui siano incorsi per una oggettiva incertezza interpretativa derivante dalla problematicità del quadro normativo cui avreb-bero dovuto ispirare la loro condotta e dalla presenza di precedenti giurisprudenziali che non escludevano l’opzione ermeneutica prescelta e la condotta conse-guentemente adottata (nella specie, è stata esclusa la responsabilità dei commissari governativi che aveva-no conferito l’incarico di consulenza ad un avvocato dello Stato per la cura di un affare già affidato isti-tuzionalmente all’Avvocatura dello Stato ed è stata altresì esclusa la responsabilità dell’avvocato sia dell’avvocato distrettuale, sia dell’avvocato generale dello Stato e dei membri del consiglio degli avvocati e procuratori dello Stato che avevano disposto l’au-torizzazione della consulenza).

Motivi della decisione – (Omissis) 5. Esaurite le questioni preliminari, può essere affrontato il merito della controversia.

5.1. L’analisi della fattispecie di responsabilità amministrativo – contabile azionata dalla procura regionale deve essere prioritariamente concentrata sull’elemento oggettivo dell’illecito contestato. E quindi sull’intervenuto perfezionamento di un dan-no erariale quale conseguenza del pagamento della consulenza “in via breve” resa dagli avvocati dello Stato Percopo e Tesauro in favore del Commissariato governativo.

Sulla base delle allegazioni fattuali contenute nel fascicolo processuale ed in ragione del quadro nor-mativo e giurisprudenziale di riferimento il collegio ritiene che la consulenza controversa abbia determi-nato un pregiudizio erariale ai danni della struttura commissariale.

Si evidenzia quanto segue.1) L’assetto normativo che disciplina l’attività

dell’Avvocatura dello Stato è collocato sistemati-camente nel risalente r.d. n. 1611/1933, a mente del quale (art. 13) “L’Avvocatura dello Stato provvede alla tutela legale dei diritti e degli interessi dello Sta-to; alle consultazioni legali richieste dalle ammini-strazioni e inoltre a consigliarle e dirigerle quando si tratti di promuovere, contestare o abbandonare giudizi: esamina progetti di legge, di regolamenti, di capitolati redatti dalle amministrazioni, qualora ne sia richiesta; predispone transazioni d’accordo con

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le amministrazioni interessate o esprime parere sugli atti di transazione redatti dalle amministrazioni: pre-para contratti o suggerisce provvedimenti intorno a reclami o questioni mossi amministrativamente che possano dar materia di litigio”.

L’ausilio istituzionale dell’Avvocatura dello Sta-to è inoltre esteso, a determinate condizioni, anche alle amministrazioni non statali e alle regioni (la di-sciplina è contenuta nel titolo III del regio decreto, in particolare nell’art. 43).

L’interpretazione della norma porta a ritenere che i compiti assegnati dall’ordinamento si concentrino prioritariamente sullo svolgimento dell’attività pro-cessuale ma si estendano invero anche alle attività stragiudiziali. Il richiamato art. 13 prevede infatti che l’Avvocatura debba istituzionalmente provvede-re ad assicurare le “consultazioni legali richieste dal-le amministrazioni” e debba inoltre “consigliarle e dirigerle quando si tratti di promuovere, contestare o abbandonare giudizi”. Con riguardo alle amministra-zioni non statali, l’art. 47 prevede che “L’Avvocatura dello Stato dà i pareri che le siano richiesti dagli enti dei quali assume la rappresentanza e la difesa a nor-ma del titolo III”.

Il principio è confermato dall’art. 9, c. 4, l. n. 103/1979 (Modifiche dell’ordinamento dell’Avvo-catura dello Stato), a mente del quale “Salva la fa-coltà dell’Avvocatura generale dello Stato di rendere consultazione sulle questioni di massima in qualsiasi materia, l’avvocatura distrettuale dello Stato provve-de alla consulenza nei riguardi di tutti gli uffici della propria circoscrizione”.

2) L’attività istituzionale che i singoli avvocati dello Stato pongono in essere nell’esercizio delle funzioni a essi affidate è remunerata tramite l’ordi-nario trattamento retributivo. La materia trova disci-plina di base nella l. n. 97/1979 (Norme sullo stato giuridico dei magistrati e sul trattamento economico dei magistrati ordinari e amministrativi, dei magi-strati della giustizia militare e degli avvocati dello Stato), la quale fissa il principio (art. 17) dell’omni-comprensività del trattamento economico e prevede al c. 1 che “È fatto divieto al personale di cui alla presente legge, anche se fuori ruolo, di percepire in-dennità, proventi o compensi per prestazioni in favo-re della pubblica amministrazione, di enti pubblici o di società a partecipazione pubblica”.

In deroga al principio generale dell’omnicom-prensività del trattamento economico l’ordinamento consente tuttavia che in determinati casi gli avvoca-ti dello Stato possano percepire (oltre alle compe-tenze legali di cui all’art. 21 r.d. n. 1611/1933, c.d.

“propine”) compensi aggiuntivi per lo svolgimento di determinate attività. Il c. 2 del richiamato art. 17 della l. n. 97/1979 prevede infatti che “Sono comun-que esclusi dal divieto, oltre all’indennità integrati-va speciale, alla quota di aggiunta di famiglia, alla tredicesima mensilità, alle indennità di trasferta, di missione e di trasferimento e ai compensi per le atti-vità di cui all’art. 19 l. 15 novembre 1973, n. 734, i proventi, i compensi e le indennità spettanti per l’e-sercizio di funzioni elettive e per la partecipazione a organi speciali di giurisdizione, per l’espletamento di operazioni elettorali o di concorso, per ogni al-tro incarico per il quale la partecipazione è prevista dalla legge come obbligatoria e per lo svolgimento di incarichi di insegnamento, di studio e di ricerca. Sono fatte salve le detrazioni previste dalle leggi vi-genti”. Tra i compensi aggiuntivi che possono essere legittimamente percepiti dagli avvocati dello Stato in aggiunta allo stipendio devono annoverarsi quelli per lo svolgimento delle c.d. “consulenze in via breve” rese in favore delle amministrazioni pubbliche.

Sul punto, da un lato l’art. 17 della l. n. 97/1979 ammette compensi per una serie specifica di attività e, in via residuale, “per ogni altro incarico per il quale la partecipazione è prevista dalla legge come obbli-gatoria”, dall’altro lato l’art. 20 della l. n. 103/1979 (che ha modificato l’art. 3 r.d. n. 120/1941) ha previ-sto (terz’ultimo comma) che “Gli avvocati dello Sta-to, la cui collaborazione sia richiesta per compiti di natura giuridica in via continuativa e per una durata superiore a un anno da altra amministrazione dello Stato anche ad ordinamento autonomo, possono es-sere collocati fuori ruolo”.

La materia degli incarichi conferibili ha trovato successiva disciplina nel d.p.r. n. 584/1993 (regola-mento recante norme sugli incarichi consentiti o vie-tati agli avvocati e procuratori dello Stato ai sensi dell’art. 58 del d.lgs. 3 febbraio 1993, n. 29) il quale ha previsto da un lato le diverse tipologie di incarico ammissibile (art. 3), dall’altro lato (art. 6) il procedi-mento di autorizzazione necessario per il loro con-ferimento.

Sulla base della esposta normativa può pertanto essere affermato che l’ordinamento ammette la pos-sibilità che gli avvocati dello Stato svolgano attività consulenziale in favore delle amministrazioni pub-bliche e percepiscano una remunerazione specifica in aggiunta al trattamento stipendiale ordinario.

3) Le richiamate norme non forniscono inve-ro indicazioni precise sull’oggetto e sulle modalità di svolgimento di tali consulenze, ma si limitano a prevedere che esse debbano contemplare “compi-

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ti di natura giuridica in via continuativa” (art. 20 l. n. 103/1979) e che debbano tradursi (art. 3 d.p.r. n. 584/1993) in:

a) incarichi presso la Presidenza della Repub-blica, il Parlamento, la Corte costituzionale, la Pre-sidenza del consiglio dei ministri, i Ministeri, altri organi di rilevanza costituzionale;

b) incarichi di consulenza e collaborazione con organi regionali e con enti che sono ammessi ad av-valersi del patrocinio dell’Avvocatura dello Stato;

c) cariche e incarichi presso autorità amministra-tive indipendenti, ovvero presso soggetti, enti e isti-tuzioni che svolgono compiti di alta amministrazione e di garanzia;

d) incarichi presso enti e organismi internazionali o sovranazionali.

L’individuazione dell’oggetto e delle modalità di svolgimento delle consulenze “in via breve” risulta invero problematico e ciò in ragione del fatto che l’ambito di estensione dell’attività istituzionale che l’Avvocatura è tenuta a rendere in favore delle am-ministrazioni pubbliche – ed in relazione alla quale è fissato il principio generale dell’omnicomprensività del trattamento salariale dei singoli avvocati – risulta obiettivamente ampio e comprende sia l’attività di patrocinio giurisdizionale, sia la stesura di pareri, sia le attività di consulenza legale per “promuovere, contestare o abbandonare giudizi”. Su questo punto le norme primarie richiamate sopra – in particolare gli artt. 13 e 47 r.d. n. 1611/1933 e l’art. 9, c. 4, l. n. 103/1979 – sono chiarissime.

L’ambito di estensione della consulenza “in via breve”, che sulla base delle sintetiche indicazioni legislative può genericamente riguardare lo svolgi-mento, in via continuativa, di ogni attività di natura giuridica che coinvolga l’amministrazione pubblica che ne beneficia, tende invero a sovrapporsi alle at-tività istituzionali che l’Avvocatura dello Stato deve rendere in via istituzionale. E tale circostanza rende necessaria una particolare cautela ermeneutica, atte-so che lo svolgimento della consulenza “in via bre-ve” – alla quale corrisponde un compenso aggiuntivo a favore dell’avvocato che la svolge e un aggravio finanziario per l’ente che la riceve – si pone in ter-mini di eccezionalità rispetto all’assetto ordinario fissato dal legislatore (sia con riguardo al rapporto tra l’Avvocatura e le amministrazioni pubbliche, sia con riguardo al trattamento economico dei singoli avvocati).

In linea con i riscontri giurisprudenziali contenuti nei pronunciamenti del giudice amministrativo (pa-rere del Consiglio di Stato, Sez. II, n. 2085/1986 e

sent. Tar Lazio, Sez. III, n. 1864/1987) può ritenersi che la consulenza “in via breve” sia ammissibile in tutti i casi in cui l’amministrazione pubblica – per ragioni di obiettiva necessità che devono essere ade-guatamente motivate – intenda supportare l’apparato burocratico, per un determinato periodo di tempo, con un ausilio professionale di particolare qualifica-zione (quale è appunto quello di un Avvocato del-lo Stato). In queste ipotesi la consulenza si tradurrà nello studio e nell’analisi di ogni questione giuridica che l’ente intenderà sottoporre al legale incaricato e si svolgerà con immediatezza relazionale e snellezza operativa. Fermo restando, evidentemente, che qua-lora si renda necessario acquisire l’ausilio istituzio-nale dell’Avvocatura dello Stato – sia giudiziale, sia stragiudiziale – opereranno le regole ordinarie fissate dall’ordinamento.

Si osserva sul punto, contrariamente a quanto sostenuto dai convenuti Raineri, Bausano, Cesarano e Vanoli, che non sussiste alcuna ragione plausibile per ritenere che all’atto del conferimento di una con-sulenza “in via breve” l’ente non debba rispettare le norme e i principi in tema di affidamento di incarichi consulenziali (oggi fissati dall’art. 7, c. 6, d.lgs. n. 165/2001). Un’eventuale esenzione avrebbe dovuto trovare preciso riscontro normativo, che invero non è riscontrabile nella legislazione di riferimento e che non può essere ricavata, contrariamente a quanto as-serito dai succitati convenuti, dalla circostanza che tali consulenze trovino esclusivo riguardo discipli-nare nel d.p.r. n. 584/1993, atteso che tale provve-dimento normativo regola le condizioni necessa-rie perché un Avvocato dello Stato possa svolgere l’incarico e non già i presupposti che legittimano l’ente pubblico a conferirlo (cfr., sul punto, sia la de-liberazione della Corte dei conti, Sez. centr. contr. legittimità n. 23/2012, sia il parere del Consiglio di Stato, Sez. II, n. 2085/1986, dove si osserva che “È ovvio che, in ogni caso, l’amministrazione interessa-ta è preliminarmente tenuta a verificare se non possa sopperire con il personale a disposizione al disimpe-gno di compiti diversi da quelli rientranti nel servi-zio d’istituto e se, nell’ipotesi di ricorso a personale estraneo, non possa avvalersi della collaborazione di altre categorie di esperti in materie giuridico ammi-nistrative”).

Più problematico risulta il caso in cui la con-sulenza “in via breve” sia limitata ad una singola questione amministrativa. In questa ipotesi, invero ritenuta ammissibile dal giudice ordinario per le am-ministrazioni non statali (Cass., n. 10833/1990, nella quale viene dato conto del “sottile distinguo tra ‘at-

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tività di consulenza legale’ – retribuibile – e ‘attività consultiva’ – non retribuibile”, l’attività dell’Avvo-cato dello Stato può essere ritenuta ammissibile, ad avviso del collegio, soltanto nelle ipotesi in cui l’at-tività si sostanzi nello studio di questioni giuridiche che rendano particolarmente problematico lo svolgi-mento di un procedimento amministrativo e sempre che non ci si trovi in presenza di una controversia, anche se stragiudiziale, tra l’ente interessato ed al-tri soggetti dell’ordinamento (in tali ipotesi l’ambito di estensione della fattispecie riguardata dall’art. 20 l. n. 103/1979 – c.d. “compiti di natura giuridica” – trova un insuperabile limite nelle richiamate norme generali che affidano all’Avvocatura il compito di assistenza giudiziale e stragiudiziale in favore delle amministrazioni da essa tutelate).

Alla luce dell’assetto appena delineato deve es-sere conseguentemente escluso, in via generale, che possano essere conferite consulenze “in via breve” per lo svolgimento di compiti di natura giuridica che riguardino contenziosi, sia stragiudiziali, sia, a mag-gior ragione, giudiziali. In tali ipotesi non è ipotizza-bile un “distinguo” tra attività che l’Avvocato dello Stato debba rendere istituzionalmente e attività ulte-riori che l’Avvocato dello Stato possa essere chiama-to a rendere dietro compenso aggiuntivo. Ammettere una siffatta conformazione dell’assetto normativo porterebbe a dover riconoscere che l’ordinamento (con le richiamate disposizioni contenute negli artt. 13 e 47 r.d. n. 1611/1933 e art. 9, c. 4, l. n. 103/1979) avrebbe previsto che l’ordinaria attività di difesa de-gli interessi delle amministrazioni pubbliche tutelate dall’Avvocatura dello Stato non esaurisce ciò che può essere concretamente posto in essere per assicurare il miglior esito possibile del contenzioso. E ciò risulta, ad avviso del collegio, irragionevole. (Omissis)

5.3. Deve essere infine affrontata l’analisi dell’e-lemento psicologico. Il collegio, sulla base della complessiva valutazione della vicenda controversa, ritiene che la responsabilità amministrativo – conta-bile dei convenuti debba essere esclusa per difetto di un comportamento addebitabile a titolo di colpa grave, con la conseguenza che la domanda risarcito-ria formulata dall’organo requirente non può trovare accoglimento.

Si evidenzia quanto segue.1) Alla data in cui si sono verificati i fatti con-

troversi il quadro normativo e giurisprudenziale di riferimento non è risultato chiaro ed incontroverti-bile. L’analisi dei pronunciamenti sia del giudice amministrativo sia della Corte di cassazione poteva infatti indurre a ritenere che l’interpretazione delle

richiamate norme regolatrici dei compiti assegnati all’Avvocatura dello Stato ammettesse la possibilità di conferire consulenze “in via breve” in tutti i casi in cui emergesse una controversia stragiudiziale.

Sul punto la sentenza della Corte di cassazione, Sez. II, n. 10833/1990, affermava, seppure con ri-guardo ad una consulenza “in via breve” acquisita da un’amministrazione non statale (segnatamente l’A-zienda autonoma di assistenza al volo per il traffico aereo generale), che nell’ambito dell’assistenza stra-giudiziale era consentito il doppio binario tra attività istituzionale e attività consulenziale “in via breve”.

Dall’analisi delle allegazioni processuali emerge inoltre che, in assenza di diverse statuizioni norma-tive ovvero di precise pronunce giurisprudenziali in merito, tale linea interpretativa fosse invero am-messa dall’Avvocatura dello Stato. Si richiama, sul punto, quanto riferito dall’avv. Maria Cira Sannino in sede di sommarie informazioni rese il 23 ottobre 2009 al pubblico ministero penale di Napoli (“Parlai con l’avvocato distrettuale Bausano e gli dissi che il collega avendo ricevuto la consulenza dal commis-sariato e trattando l’affare consultivo aveva volontà contestualmente di trattare anche la vicenda proces-suale. È prassi peraltro che si concentrino in capo allo stesso avvocato gli affari della stessa vicenda. Se l’avvocato ha incarico di consulenza specialistica (sempre come avvocato dello Stato per altra pubbli-ca amministrazione) attrae a sé anche il contenzioso connesso o viceversa”).

2) L’analisi complessiva del comportamento po-sto in essere dai convenuti deve necessariamente te-nere in conto le circostanze appena riportate e induce il collegio a ritenere che l’intervenuto svolgimento della consulenza “in via breve” non possa essere ad-debitata ad un comportamento riprovevole oltre il limite della colpa grave.

Con specifico riferimento alla posizione dei sin-goli convenuti si svolgono le seguenti ulteriori con-siderazioni.

- I convenuti Cesarano e Vanoli hanno attivato il procedimento di conferimento e conferito formal-mente la consulenza “in via breve”. Se da parte loro sarebbe stato opportuno maggior rigore nel preten-dere che le attività di difesa e assistenza stragiudi-ziale venissero svolte dall’Avvocatura dello Stato in via istituzionale, nondimeno la situazione concreta in cui versava il commissariato governativo – per l’obiettiva limitatezza professionale interna (ampia-mente dimostrata in sede difensiva) – rendeva co-munque necessario assicurare la tutela dell’ente. E ciò in ragione dell’estrema rilevanza delle vicende

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controverse, soprattutto quella legata alla definizione del contenzioso “Jacorossi”.

Con riguardo alla posizione del convenuto Vanoli si evidenzia inoltre che all’atto della formalizzazio-ne dell’incarico (decr. n. 28/2008) risultava acquisi-ta dall’ente l’autorizzazione all’espletamento della consulenza rilasciata dall’Avvocatura generale dello Stato e tale circostanza poteva invero indurre a rite-nere che la consulenza fosse legittimamente confe-ribile.

- Sulla base della documentazione versata in atti può essere ragionevolmente ritenuto che sia l’avvo-cato generale, sia i membri del C.a.p.s., hanno deli-berato in merito alla consulenza “in via breve” senza una completa rappresentazione della vicenda fattua-le. Come emerso a seguito dell’analisi degli svolgi-menti fattuali, il procedimento di autorizzazione è stato connotato dall’acquisizione di un’incompleta e invero erronea comunicazione da parte dei due avvo-cati Percopo e Tesauro e ciò ha indubbiamente com-promesso il processo decisionale. Il collegio osserva sul punto che a seguito della comunicazione degli avvocati Percopo e Tesauro si era invero venuta a creare un’incongruenza tra tale comunicazione (dove la consulenza era limitata ad una sola vicenda giuri-dica) e la richiesta di autorizzazione della consulenza “in via breve” a suo tempo trasmessa dall’avvocato distrettuale di Napoli (estesa a due contenziosi). Un più attento esame del fascicolo avrebbe richiesto, sul punto, un aggravamento istruttorio ma tale omissio-ne non risulta sufficiente a sostenere un addebito a titolo di colpa grave.

Con riguardo infine alla posizione dell’avvoca-to distrettuale Bausano si osserva che il suo ruolo di vertice gerarchico dell’ufficio di Napoli (da cui de-rivava la piena conoscenza dei fatti o, quantomeno, il dovere di conoscerli) avrebbe dovuto indurlo a du-bitare della sovrapponibilità della consulenza “in via breve” rispetto alle due vicende contenziose (soprat-tutto, si ribadisce, quella “Jacorossi”). La contestata apposizione del parere favorevole allo svolgimento dell’incarico è tuttavia intervenuta con riguardo pre-cipuo all’assenza di impedimenti all’espletamento, da parte dei due avvocati designati, dei normali com-piti di istituto e non ha riguardato direttamente l’am-missibilità concreta della consulenza. Si evidenzia inoltre che l’avv. Bausano aveva assunto le funzioni di avvocato distrettuale soltanto nel dicembre 2006 (due mesi prima dell’intervenuto rilascio del parere) e ciò può aver determinato un’insufficiente rappre-sentazione, da parte sua, della situazione concreta in cui operare.

L’elemento psicologico della colpa grave necessi-ta, per poter essere affermato, che il comportamento posto in essere dall’agente pubblico sia in concreto connotato da un’azione od omissione che si caratte-rizzi per la palese violazione delle norme di diritto che conformano l’attività da porre in essere ovvero de-notino in capo all’agente una evidente trascuratezza degli obblighi di servizio e una negligenza operativa immediatamente percepibile. La Corte costituziona-le, nella fondamentale sent. n. 371/1998 ha indicato la ratio della disposizione contenuta nell’art. 3, c. 1, lett. a), d.l. 23 ottobre 1996, n. 543 (Disposizioni urgenti in materia di ordinamento della Corte dei conti), con-vertito con modificazioni dalla l. 20 dicembre 1996, n. 639, che sostituisce l’art. 1, c. 1, l. 14 gennaio 1994, n. 20, che ha disposto l’innalzamento del criterio di imputazione soggettiva della responsabilità per il pre-giudizio erariale alla colpa grave, individuandolo nel-la necessità di funzionalizzare l’attività dei pubblici dipendenti in termini di efficacia, efficienza ed eco-nomicità mediando tra la necessità di assicurare una effettiva forma di responsabilità per le attività illegit-time e tuttavia evitare la c.d. “paralisi gestionale” che potrebbe invero determinarsi per effetto dell’ecces-sivo rischio restitutorio-sanzionatorio connesso alla responsabilità amministrativo-contabile. Secondo il giudice delle leggi, “Nella combinazione di elementi restitutori e di deterrenza, che connotano l’istituto qui in esame, la disposizione risponde, perciò, alla finali-tà di determinare quanto del rischio dell’attività deb-ba restare a carico dell’apparato e quanto a carico del dipendente, nella ricerca di un punto di equilibrio tale da rendere, per dipendenti e amministratori pubblici, la prospettiva della responsabilità ragione di stimolo, e non di disincentivo”.

Il comportamento dei convenuti – come sopra analizzato – non può essere in conclusione qualifica-to gravemente colposo e non può fondare, ad avviso del collegio, l’affermazione di una loro responsabili-tà amministrativo-contabile.

6. La circostanza che il collegio abbia comun-que accertato il perfezionamento di un pregiudizio erariale e un comportamento dei convenuti non im-mune da censure costituisce giustificato motivo per disporre la compensazione integrale delle spese del procedimento.

1500 – Sezione giurisdizionale Regione Campania; sentenza 20 novembre 2014; Pres. Santoro, Est. Di Cecilia, P.M. Vitiello; Proc. reg. c. Ciavolino e altri.

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N. 5-6/2014 PARTE II – ATTIVITÀ GIURISDIZIONALE

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Responsabilità amministrativa e contabile – Am-ministratori e funzionari comunali – Raccolta differenziata dei rifiuti urbani – Violazione della normativa in materia – Mancati ricavi e maggiori costi per il comune – Danno erariale – Copertura del servizio a carico degli utenti – Irrilevanza.

Cost., art. 103; l. 14 gennaio 1994 n. 20, disposizioni in materia di giurisdizione e controllo della Corte dei conti, art. 1.

Rispondono di danno erariale gli amministra-tori, i dirigenti e i titolari del servizio rifiuti di un comune, che, violando la normativa in materia di raccolta differenziata dei rifiuti solidi urbani, ab-biano cagionato all’ente mancati ricavi dalla ven-dita del materiale raccolto e maggiori costi per lo smaltimento dei rifiuti raccolti (in motivazione, si precisa che, sebbene la copertura integrale del ser-vizio di raccolta e smaltimento dei rifiuti solidi ur-bani avviene mediante tariffe gravanti sugli utenti, il danno erariale consiste comunque nell’aver deter-minato, a carico del comune, una serie di costi sia per sostenere l’emergenza rifiuti in generale e per l’abbandono nelle strade cittadine di quantità enor-mi di rifiuti, sia per coprire l’onere di un servizio di raccolta in concreto non effettuato; inoltre, il danno risulta comunque prodotto al bilancio dell’ente, nel quale sono affluite le somme versate dai cittadini per sostenere l’onere della raccolta, ma indebitamente o inutilmente utilizzate a fronte di un servizio non reso o reso in modo difforme ed assolutamente in-sufficiente, sotto il profilo quali-quantitativo, rispet-to alla caratteristiche stabilite dalla normativa e dal contratto di servizio). (1)

Motivi della decisione – (Omissis) 6. Sgombrato il campo dalle questioni pregiudiziali e preliminari proposte dalle difese dei convenuti, il collegio può esaminare, in punto di merito, la vicenda descritta in

(1) Sulla vicenda dell’emergenza rifiuti in Campania, per i suoi riflessi in termini di danno erariale a carico di ammini-stratori e dipendenti pubblici, v., oltre le decisioni citate in motivazione, Corte conti, Sez. giur. reg. Campania, 15 febbra-io 2013, n. 222, in questa Rivista, 2013, fasc. 1-2, 282; Sez. giur. reg. Campania, 29 ottobre 2012, n. 1645, in Rep. Foro it., 2013, voce Responsabilità contabile, n. 218; Sez. giur. reg. Campania, 10 febbraio 2012, n. 143, in questa Rivista, 2012, fasc. 1-2, 236; Sez. giur. reg. Campania, 7 gennaio 2011, n. 1, ivi, 2011, fasc. 1, 220; Sez. giur. reg. Campania, 9 dicembre 2009, n. 1492, in Ambiente, 2010, 416, con nota di F. Di Dio, Danno erariale da mancata raccolta differenziata: uno sguar-do sul disastro campano; Sez. giur. reg. Campania, 27 dicem-bre 2007, n. 4174, in Giur. it., 2008, 1530.

narrativa, procedendo alla verifica della sussistenza, nel caso concreto, degli elementi tipici della respon-sabilità amministrativa che, com’è noto, si sostanzia-no in un danno patrimoniale, economicamente valu-tabile, arrecato alla pubblica amministrazione, in una condotta connotata da colpa grave o dolo, nel nesso di causalità esistente tra il predetto comportamento e l’evento dannoso ed, infine, nella sussistenza di un rapporto di servizio fra coloro che lo hanno determi-nato e l’ente che lo ha subito.

La domanda risarcitoria proposta si rivela fonda-ta nei termini di seguito illustrati e che costituisco-no ulteriori precisazioni e ragioni, seppure espresse sinteticamente, del percorso argomentativo desumi-bile anche dall’esame delle precedenti e specifiche conformi pronunce rese in analoghe questioni dalla Sezione (v., sent. n. 1041/2011; n. 1626/2012 e n. 1870/2013), pienamente condivisibili e le cui ragioni giuridiche si intendono ampiamente richiamate per relationem con espresso rinvio ad integrazione della presente motivazione (in termini, Cass., S.U., ord. n. 18477/2010; Cass., 27 novembre 2011, n. 11710; Sez. Lav., 11 febbraio 2011, n. 3367; Sez. V, 20 di-cembre 2006, n. 27203; 23 maggio 2005, n. 10860).

Orientamento giurisprudenziale ormai “consoli-dato” che si richiama in evidente ossequio al princi-pio di sinteticità e di economia processuale che trova legittimazione e giustificazione nel principio della ragionevole durata del processo, ai sensi degli artt. 111, c. 2 e 7, Cost., 118, c. 1, dovendosi privilegia-re la sintesi onde agevolare la redazione dei prov-vedimenti giurisdizionali (Cass., 30 marzo 2007, n. 7943). Tuttavia, onde chiarire meglio la fonte e gli elementi sui quali si fonda il convincimento del col-legio occorre precisare quanto segue.

6.1. In particolare, con riferimento all’elemento oggettivo del danno pubblico, la valutazione della sua sussistenza nel caso in esame postula la ricostru-zione delle disposizioni normative, anche di livello sovranazionale, vigenti in materia ratione temporis, vale a dire nel momento storico di realizzazione dei fatti e dell’evento dannoso contestati agli odierni convenuti.

Il diritto comunitario ha imposto agli Stati mem-bri, attraverso la direttiva del Consiglio n. 91/156/Cee del 18 marzo 1991, l’obbligo di adottare tutte le misu-re necessarie ad assicurare il recupero o lo smaltimen-to dei rifiuti senza pericolo per la salute dell’uomo e senza l’uso di procedimenti o di metodi che potreb-bero recare pregiudizio all’ambiente, vietandone nel contempo l’abbandono, lo scarico e lo smaltimento incontrollato (art. 4).

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È stato rilevato, altresì, che la gestione del ser-vizio di raccolta dei rifiuti implica “la raccolta, il trasporto, il recupero e lo smaltimento dei rifiuti, compreso il controllo di queste operazioni” (art. 1 dir. 91/156/Cee, cit.), mentre gli artt. 6 e 7 della su-indicata direttiva attribuivano agli Stati membri il compito di individuare l’autorità (o le autorità) com-petenti incaricate dell’attuazione delle disposizioni della direttiva medesima, elaborando uno o più piani di gestione dei rifiuti, intesi ad indicare tipo, quantità e origine dei rifiuti da recuperare o da smaltire (cfr. ord. n. 242/2010 emessa da questa Sezione giurisdi-zionale).

Sul versante della normativa interna, già la l. reg. Campania n. 10/1993, recante “Norme e procedure per lo smaltimento dei rifiuti in Campania”, aveva fissato all’art. 2, c. 1, lett. c), soglie specifiche di raccolta differenziata (10 per cento nel 1993, 20 per cento nel 1994 e 25 per cento nel 1995).

Ciò denota la ragione per cui, da alcuni decenni, la raccolta differenziata dei rifiuti viene proposta in quasi tutti i comuni d’Italia, dove negli ultimi tren-ta anni la produzione di rifiuti solidi urbani (Rsu) pro-capite giornaliera è praticamente raddoppiata, assumendo dimensioni significative. L’aumento in-discriminato delle quantità di rifiuti che vengono smaltiti nelle discariche controllate (oggi quasi tutte in via di esaurimento) ha portato alla ricerca di nuove vie da percorrere, cioè alla realizzazione di un mo-dello definibile, anziché dell’“usa e getta”, dell’“usa e riusa”. Alle discariche si sono, allora, affiancate ulteriori e variegate possibilità di smaltimento dei rifiuti solidi urbani: il riciclaggio, il compostaggio della frazione organica e la termovalorizzazione.

Assume fondamentale importanza, in materia, il d.lgs. 5 febbraio 1997, n. 22 (c.d. decreto Ronchi) e la successiva normativa del 2006 (d.lgs. 3 aprile 2006, n. 152), che disciplinano, in modo organico e sistematico, la gestione dei rifiuti solidi urbani, impo-nendo alle amministrazioni locali di ridurre la quan-tità di rifiuti mediante il reimpiego e il riciclaggio dei rifiuti, garantendo incentivi alle aziende che utilizza-no prodotti realizzati con materiale riciclato. La rac-colta differenziata, quindi, mira sostanzialmente al riutilizzo dei prodotti di scarto di qualsiasi presidio, soprattutto abitativo, per potere produrre nuovi ma-teriali ottenendo diversi vantaggi, sia a livello eco-nomico che ecologico. Grazie al riciclaggio, infatti, è possibile ottenere il triplice e consistente effetto: la riduzione dei rifiuti da smaltire, l’energia e le materie prime da reimpiegare.

Il decreto Ronchi ha costituito la normativa qua-

dro sulla gestione dei rifiuti fino all’entrata in vigo-re del d.lgs. n. 152/2006, di attuazione della delega contenuta nella l. 15 dicembre 2004, n. 308, per il ri-ordino, il coordinamento e l’integrazione della legi-slazione in materia ambientale, dando attuazione alle direttive comunitarie 91/156/Cee sui rifiuti, 91/689/Cee sui rifiuti pericolosi e 94/62/Cee sugli imballag-gi e i rifiuti di imballaggio. Detta disposizione di leg-ge contiene numerose innovazioni, rispetto alla nor-mativa precedente, le principali delle quali possono così riassumersi: nuove definizioni; nuova classifi-cazione dei rifiuti; redistribuzione delle competenze tra Stato, regioni e province; revisione del sistema di pianificazione; introduzione del sistema tariffario in sostituzione della tassa sullo smaltimento (tarsu); introduzione del regime di gestione degli imballaggi e dei rifiuti di imballaggio. Ma in particolare, per ciò che qui specificamente rileva, il d.lgs. n. 22/1997, che ha provveduto a definire ed individuare le fun-zioni amministrative relative alla gestione dei rifiuti a livello regionale, provinciale e comunale, “spinge ... fortemente a favorire le operazioni di recupero, riutilizzo e riciclo dei materiali e la progressiva ri-duzione delle discariche come sistema ordinario di smaltimento solo per i rifiuti inerti e per quelli resi-duati dalle operazioni di riciclaggio e di recupero”. A conforto della ritenuta validità, anche economica, di tale opzione, giova richiamare quanto affermato dall’agenzia per la protezione dell’ambiente e per i servizi tecnici (Apat), secondo cui “l’analisi dei co-sti relativi alla raccolta differenziata (…) consente di affermare che la raccolta differenziata in nessun caso determina un aggravio dei costi di gestione. Non solo, ma il livello del costo (…) non è comun-que correlato alla complessità del sistema di gestio-ne: vi sono, infatti, situazioni con elevata raccolta differenziata, importanti attività di trattamento ed incenerimento che hanno costi più bassi di situazio-ni associate a bassa raccolta differenziata e ricorso quasi esclusivo alla discarica” (v. delib. n. 6/G/2006 della Sezione centrale di controllo sulla gestione del-le amministrazioni dello Stato della Corte dei con-ti, “La gestione dell’emergenza rifiuti effettuata dai Commissari straordinari del governo”).

Per quanto concerne, in particolare, la raccolta differenziata, al capo II del “decreto Ronchi” vengo-no disciplinate le competenze dei distinti livelli am-ministrativi inerenti alla gestione del ciclo dei rifiuti. Per quanto in particolare riguarda la raccolta diffe-renziata, è stato stabilito che lo Stato indichi i criteri generali per l’organizzazione e l’attuazione della rac-colta differenziata dei rifiuti urbani (art. 18, c. 1, lett. m), che le regioni provvedano alla “regolamentazio-

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ne delle attività di gestione dei rifiuti, ivi compresa la raccolta differenziata di rifiuti urbani, anche pe-ricolosi, con l’obiettivo prioritario della separazione dei rifiuti di provenienza alimentare, degli scarti di prodotti vegetali e animali, o comunque ad alto tasso di umidità, dai restanti rifiuti” (art. 19, c. 1, lett. b), che le province curino l’organizzazione delle attività di raccolta differenziata dei rifiuti urbani e assimilati sulla base di ambiti territoriali ottimali delimitati ai sensi dell’art. 23 (c.d. Ato: art. 20, c. 1, lett. g) e che i comuni stabiliscano “le modalità del conferimento, della raccolta differenziata e del trasporto dei rifiuti urbani al fine di garantire una distinta gestione delle diverse frazioni di rifiuti e promuovere il recupero degli stessi” (artt. 21, c. 1, lett. c, e 23, c. 3).

Il richiamato strumento normativo, dopo aver imposto l’obbligo ai comuni del raggiungimento di percentuali minime progressivamente crescenti di raccolta differenziata dei rifiuti urbani rispetto al to-tale dei rifiuti prodotti, da realizzare entro determi-nate scadenze (art. 24), disciplina dettagliatamente la gestione dei rifiuti d’imballaggi (titolo II).

L’impianto normativo fonda la propria ratio nel fatto che “la raccolta differenziata svolge un ruolo ri-levante e prioritario nel sistema di gestione integrato dei rifiuti, in quanto consente sia di ridurre il flusso dei rifiuti da avviare allo smaltimento, sia di condi-zionare positivamente l’intero sistema di gestione, garantendo: a) la valorizzazione delle componenti merceologiche dei rifiuti sin dalla fase della raccol-ta; b) la riduzione delle quantità e della pericolosità dei rifiuti da avviare allo smaltimento indifferenzia-to, individuando tecnologie più adatte di gestione e minimizzando l’impatto ambientale dei processi di trattamento e smaltimento; c) il recupero di materiali e di energia nella fase del trattamento finale; d) la promozione di comportamenti più corretti da parte dei cittadini, con conseguenti significativi cambia-menti nelle abitudini di consumo, a beneficio di po-litiche di prevenzione e di riduzione” (citata delibe-razione n. 6/2007 della Sezione centrale di controllo sulla gestione delle amministrazioni dello Stato della Corte dei conti, “La gestione dell’emergenza rifiuti effettuata dai commissari straordinari del governo”).

Per quanto riguarda propriamente la Regione Campania, va rilevato che già l’ordinanza del p.c.m. n. 2425/1996, che affidò al commissario delegato dal governo per l’emergenza rifiuti in Campania – vale a dire il presidente della giunta regionale – specifici adempimenti finalizzati all’avvio di un programma di interventi, aveva previsto che l’attivazione della raccolta differenziata occupasse una posizione pri-

maria nell’ambito di tali interventi, incluso l’obbligo a carico dei comuni – da disporre a cura del commis-sario – di conferimento dei rifiuti urbani nei siti di produzione del Cdr.

Con la successiva ord. n. 2948/1999 fu stabilito che il commissario delegato-presidente della regio-ne realizzasse gli interventi per la produzione e l’u-tilizzo del combustibile derivato da rifiuti (Cdr) e, in materia di raccolta differenziata, la realizzazione della stessa (per carta, plastica, vetro, metalli, legno e frazione umida) in collaborazione con i presiden-ti dei consorzi di bacino, costituiti con la l. reg. n. 10/1993, e sentiti i sindaci dei comuni interessati, in modo tale da raggiungere le percentuali (minime) del 15 per cento di regio decreto entro il 31 dicembre 1999 e del 25 per cento negli anni successivi (rispet-tivamente del 10 per cento e del 15 per cento la fra-zione umida).

L’art. 2 della predetta ordinanza affidava al commissario delegato anche il compito di disporre “le modalità per il calcolo e l’accollo degli oneri gestionali a carico dei comuni”; al successivo art. 5 introduce una maggiorazione “nella misura del 6 per cento ogni punto percentuale in meno di raccolta differenziata rispetto all’obbiettivo minimo del 35 per cento” della tariffa per il conferimento dei rifiuti urbani provenienti dai comuni che non abbiano rea-lizzato nel mese precedente sul proprio territorio la raccolta differenziata nelle misure percentuali stabi-lite (cfr. punto 1.14).

L’ordinanza n. 3100/2000 stabiliva l’obiettivo minimo di raccolta differenziata da realizzare a par-tire dall’1 gennaio 2001, nella misura del 30 per cen-to, rispetto al precedente 35 per cento, mentre l’ord. n. 3479/2005 prevedeva una riduzione della tariffa di smaltimento dei rifiuti per i comuni che alla data del 31 dicembre 2004 avessero raggiunto una per-centuale di raccolta differenziata almeno pari al 30 per cento ed una ulteriore riduzione della medesima tariffa per quelli che avessero realizzato una percen-tuale di regio decreto almeno pari al 35 per cento al 31 dicembre 2005.

Successivamente, sono sopravvenute in materia rilevanti disposizioni legislative contenute nel d.lgs. n. 152/2006 e nella l. n. 296/2006 (finanziaria per il 2007), con cui sono state stabilite le percentua-li progressive di raccolta differenziata dei rifiuti da rea lizzare entro le varie scadenze consecutive, fino a pervenire alla percentuale del 65 per cento entro il 31 dicembre 2012.

Ulteriori disposizioni sono contenute nella l. n. 87/2007, con cui è stato previsto lo scioglimen-

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to dei consorzi costituiti, ai sensi dell’art. 6 l. reg. Campania n. 10/1993, per lo svolgimento del servi-zio di raccolta differenziata, ove tali consorzi “non adottino le misure prescritte da una specifica ordi-nanza commissariale ... per l’incremento significati-vo dei livelli di raccolta differenziata” dei rifiuti, da realizzare “mediante misure idonee a determinare il raggiungimento degli obiettivi minimi di cui ai cc. 1108 e 1109 dell’art. 1 della l. n. 296/2006 – nonché nell’ordinanza p.c.m. n. 3639/2008 – che ha previsto all’art. 3 l’obbligo per i comuni campani di elabo-rare, entro un dato termine, un piano delle misure necessarie per la raccolta differenziata, da realizzare in tempi brevi, pena, in caso di inadempimento, la nomina di un commissario ad acta da parte del com-missario delegato.

Occorre, ancora, evidenziare come sia nella de-liberazione n. 6/G/2007 della Sezione centrale di controllo sulla gestione delle amministrazioni dello Stato di questa Corte, sia nella “Relazione territo-riale sulla Campania” approvata il 26 gennaio 2006 dalla commissione parlamentare d’inchiesta sul ciclo dei rifiuti e trasmessa alle presidenze delle Camere l’1 febbraio 2006, si ricavi agevolmente come la mancata o insufficiente attivazione in molti comuni campani della raccolta differenziata, con conseguen-te crescita a dismisura delle quantità di rifiuti indif-ferenziati, costituisca una concausa dei problemi di blocco e cattivo funzionamento dei sette impianti di produzione del Cdr, cioè come fonte di ripetute situa-zioni emergenziali date dalla presenza di tonnellate di rifiuti giacenti nelle strade.

Entrambe le ricordate relazioni della commissio-ne parlamentare e della Sezione centrale contabile di controllo hanno concordato sulla circostanza che le priorità stabilite per l’attuazione del sistema di ge-stione del ciclo dei rifiuti dalle varie disposizioni legislative e attuative (v. ordinanze p.c.m. e commis-sariali) sin dal 1997 – in particolare, attività di pro-duzione di Cdr, trasferenza e costruzione di impianti di compostaggio – sono rimaste totalmente inattuate in assenza di un’efficace raccolta differenziata ed a causa del grave ritardo nella realizzazione degli unici due impianti di termovalorizzazione previsti, con il conseguente collasso del Piano regionale di smalti-mento rifiuti del 1997 e con la drammatica situazione di emergenza nell’emergenza ciclicamente ricorrente nella regione.

Deve osservarsi, in conclusione, che il clamoro-so fallimento dell’attività regionale campana di ge-stione dei rifiuti è ascrivibile sia all’errato e, talora, dissennato impiego delle risorse disponibili da parte

delle varie gestioni commissariali, sia all’endemico inadempimento da parte di molte amministrazioni locali delle precise e cogenti prescrizioni imparti-te in materia – appunto – d’integrale sistema della raccolta differenziata che va dall’attivazione alla sua compiuta realizzazione.

Che ai comuni fosse attribuita tutta una serie di obblighi nella regolamentazione della materia di che trattasi lo si desume non solo dal dato normativo te-stuale del richiamato art. 21 d.lgs. n. 22/1997 e dalle disposizioni contenute nelle ordinanze sopra ricorda-te, ma anche da quanto stabilito nel Piano regionale di smaltimento dei rifiuti, approvato per la prima vol-ta nel 1997, aggiornato nel 2002 e, successivamente, adeguato solamente con la l. n. 21/2006.

In primo luogo, va evidenziato che detto Piano re-gionale per lo smaltimento dei rifiuti, adottato in ese-cuzione di quanto prescritto dall’ord. n. 2560/1997 del Ministero dell’interno, aveva stabilito all’art. 1, c. 4, punto 4.1 che “ai fini dell’attuazione del piano, il commissario delegato dispone: l’attivazione ... del-la raccolta differenziata” in determinate percentuali entro dati termini, con l’avvalimento a tal fine “della collaborazione dei sindaci dei comuni capoluogo di provincia”.

Nella successiva parte sesta dedicata, specifica-mente, al sistema della raccolta differenziata dei ri-fiuti (punto 6.3), esso stabiliva che entro il 31 luglio 1997 i comuni, ai sensi dell’art. 21 d.lgs. n. 22/1997, dovessero approntare e approvare “appositi rego-lamenti con i quali, tra l’altro, disciplineranno, nel rispetto dei principi di efficienza, efficacia ed eco-nomicità, le modalità del conferimento di raccolta e trasporto dei rifiuti provenienti dalla raccolta diffe-renziata nell’ambito del proprio territorio ... con tali regolamenti i comuni dovranno individuare i punti di raccolta diffusi sul territorio e l’area di ubicazione dell’isola ecologica”. Nel caso di mancata adozio-ne dei regolamenti in parola, il piano regionale del 1997 ha stabilito che le province avrebbero dovuto provvedere alla nomina di appositi commissari ad acta per l’adozione dei provvedimenti di approva-zione dei regolamenti stessi. È stato, inoltre, previ-sto che entro il medesimo termine del 31 dicembre 1997 i comuni dovessero attuare “almeno la raccolta differenziata multimateriale secca” e che entro il 31 dicembre 1999 dovessero realizzare la raccolta diffe-renziata monomateriale, “al fine del raggiungimento dell’obiettivo fissato al 35 per cento”, cioè tutti i cit-tadini avrebbero dovuto “conferire presso i punti di raccolta (negli appositi contenitori o campane stra-dali) o presso i cassonetti condominiali il materiale

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riciclabile costituito essenzialmente da “materiale riciclabile secco” (carta, plastica, metalli e vetro) e da “materiale riciclabile umido”.

Con ord. n. 319/2002 del commissario delegato sono stati poi approvati il Piano di ridefinizione ge-stionale del ciclo integrato dei rifiuti nella Regione Campania e il piano economico finanziario riferito allo sviluppo del ciclo integrato dei rifiuti nei rispet-tivi ambiti; inoltre, sono stati istituiti gli Ambiti ter-ritoriali ottimali (Ato), ciascuno coincidente con le Province di Avellino, Benevento, Caserta, Salerno, Napoli (oltre a due sub Ato per la Provincia di Napo-li) e – per ogni Ato e sub Ato – gli Enti d’ambito per il ciclo integrato dei rifiuti (Epar), a cui è affidata la gestione amministrativa del ciclo integrato dei rifiu-ti a valle della raccolta degli stessi (ivi compreso il “coordinamento dei soggetti di cooperazione dei co-muni all’interno dell’Ambito territoriale ottimale”).

In particolare, il piano di ridefinizione gestionale del ciclo integrato dei rifiuti nella Regione Campa-nia dianzi citato, approvato nel 2002, ha svolto le seguenti premesse:

“Al fine di adempiere a quanto previsto dal d.l. n. 22/1997 e dalle oo.mm. in particolare art. 4 dell’o.m. n. 3100/2000 si rende necessario definire ed istitui-re gli enti di gestione e coordinamento degli ambiti territoriali ottimali e i soggetti di cooperazione tra comuni a cui affidare l’esercizio in forma associata delle funzioni amministrative in materia di rifiuti ... il nuovo modello impiantistico realizzato ed in via di realizzazione e la necessità di basare il ciclo in-tegrato dando priorità alla raccolta differenziata ed alle conseguenti attività di recupero, impone una totale revisione ed un coordinamento di tutte le fasi in un quadro di razionalizzazione e di ottimizzazio-ne dei servizi in assenza del quale i costi a carico dei comuni e di riflesso dei cittadini diventerebbero insostenibili ... Ulteriore elemento che rende fonda-mentale ed improcrastinabile la rimodulazione delle forme gestionali del ciclo integrato dei rifiuti è dato dalla necessità di stabilire una tariffa unica, in ambiti provinciali che si riferisca non alle varie fasi delle at-tività di trattamento, recupero o smaltimento, ma che rappresenti la tariffa del ciclo integrato dei rifiuti in grado di premiare coloro che, attraverso la raccolta differenziata sostengono un modello economico ba-sato sulla priorità del recupero di materia”.

Inoltre, il piano prevedeva espressamente che: “Per quanto concerne le attività di raccolta dei rifiuti e l’individuazione dei soggetti di cooperazione per la gestione amministrativa in forma associata delle atti-vità di raccolta unitaria dei rifiuti, al fine di raggiun-

gere l’obiettivo della economicità dei servizi di rac-colta, del coordinamento tra le attività di raccolta del sistema impiantistico realizzato o realizzando, della razionalizzazione dei mezzi e del personale impe-gnato, si istituiscono, sulla base delle forme organiz-zative previste dalla normativa esistente, soggetti di cooperazione tra i comuni, di cui all’art. 4 dell’o.m. n. 3100/2000. Gli attuali consorzi di Bacino di cui alla l. reg. n. 10/1993 attualmente esistenti in ogni ambito andranno a costituire soggetti di cooperazio-ne tra i comuni”.

Fra le competenze dei soggetti di cooperazione era ricompresa la “determinazione di una tariffa su scala sovracomunale, relativamente alla raccolta, che tenga conto dei necessari correttivi determinati da particolari esigenze da parte dei singoli comuni, in particolare in funzione del numero dei lavoratori già impegnati nella raccolta, all’incidenza del perio-do turistico e di altri fattori oggettivi che determina-no significative differenze tra i comuni”.

Era previsto anche l’obbligo, ricadente sui sog-getti di cooperazione, di elaborare “entro 90 giorni dalla loro costituzione, un piano di raccolta integrata dei rifiuti su tutto il bacino di competenza”, confor-me ai piani ed alle linee guida stabiliti dal commis-sariato di governo, che avrebbe dovuto comunque contenere: “un piano di raccolta integrato con speci-ficato le modalità di raccolta – un piano economico finanziario – elaborazione della tariffa suddivisa per utenze domestiche e non domestiche sulla base della formula generale del presente atto – un regolamento di igiene urbana o un’ordinanza sindacale conforme al piano stesso che contempli le modalità di conferi-mento dei rifiuti e le sanzioni ai trasgressori – sistemi di controllo da parte del comune rispetto al gestore del servizio e rispetto agli utenti”.

Quindi, secondo quanto specificato dal piano economico-finanziario allegato al piano di ridefini-zione gestionale del ciclo integrato dei rifiuti, “l’at-tivazione dei nuovi servizi di raccolta differenziata è legata ad una gestione associata dei servizi in tutti i comuni rispondente a criteri di efficienza, efficacia ed economicità”.

Successivamente, il piano regionale del 2006 ha esposto, al punto 1.3 intitolato “La raccolta differen-ziata”, quanto segue: “Sebbene la regio decreto sia posta in primo piano nelle attività degli enti interes-sati, i risultati acquisiti sul territorio regionale al 31 dicembre 2004 attestano al 13 per cento la percen-tuale di materiali inviati a recupero. Detto risultato è la sintesi di realtà sensibilmente differenti. Infat-ti, analizzando in dettaglio i dati forniti dai comuni

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delle diverse aree geografiche, si evincono i seguenti risultati:

- Provincia di Avellino: 17,4 per cento- Provincia di Benevento: 9,0 per cento- Provincia di Caserta: 10,2 per cento- Provincia di Napoli: 10,0 per cento- Provincia di Salerno: 20,4 per centoNon può trascurarsi che nei grandi agglomera-

ti urbani la raccolta differenziata, fino ad oggi, non ha prodotto risultati apprezzabili, mentre, numerosi sono i comuni, di medie e piccole dimensioni, che hanno ormai superato la soglia del 35 per cento di raccolta differenziata. In generale, comunque, nes-suna provincia, in media, ha raggiunto i livelli previ-sionali dettati dalla vigente normativa”.

Né appare superfluo, al fine di delineare compiu-tamente la cornice normativa e quella della gestione amministrativo-contabile della fattispecie in esame, richiamare l’ordinanza commissariale n. 28/2004 che stabiliva l’obbligo per tutti i comuni campani di avviare sul proprio territorio un definito e com-piuto servizio di raccolta differenziata (secondo le linee guida approvate con la precedente ordinanza commissariale n. 27/2004), in ragione del fatto che “lo sviluppo della raccolta differenziata rappresenta nel territorio campano oltre che un obbligo di legge supportato dalle note valenze ambientali, anche un ineludibile elemento per superare l’emergenza nel settore rifiuti” e che “ulteriori ritardi nello svilup-po della raccolta differenziata comporterebbero tra l’altro, maggiori difficoltà operative nelle forme di smaltimento, pesanti oneri economici nella gestione di una enorme quantità di frazione organica derivan-te da selezione meccanica e un irrazionale utilizzo della manodopera già impiegata nel settore”.

Conclusivamente, dal composito quadro norma-tivo appena descritto emerge perspicuo, ad avviso del collegio e per quanto di rispettiva competenza e in ragione dei molteplici profili evidenziati, l’obbli-go ricadente sulle singole amministrazioni comunali di attuare le prescrizioni legislative e commissariali in materia di raccolta differenziata dei rifiuti, fase imprescindibile e rilevantissima della gestione inte-grata del ciclo dei rifiuti, finalizzata a scopi di tu-tela ambientale, di tutela della salute, di risparmio energetico e di realizzazione di nuovi prodotti me-diante il riciclaggio ed il riuso dei materiali. D’al-tra parte, della conclusione cui si è pervenuto – con riferimento al carattere cogente, anziché meramente precettivo o programmatico, delle disposizioni che disciplinavano il servizio d’igiene urbana (raccolta e smaltimento dei rifiuti e attività connesse) esteso alla

raccolta differenziata dei rifiuti – è possibile rinve-nire agevolmente numerose tracce e conferme negli stessi atti versati nei fascicoli di causa.

6.1.1. Con riferimento alla fattispecie in esame, va rilevato che la gestione del servizio di raccol-ta dei rifiuti solidi urbani, integrato con la raccolta differenziata, era stato affidato, dapprima alla Igi.ca. s.p.a. – come detto, società a capitale interamen-te pubblico – sulla base di tre contratti di servizio (registrati al repertorio 14 luglio 2003, n. 15273; 12 novembre 2004, n. 15384 e 25 ottobre 2005, n. 15421) e in virtù di alcuni provvedimenti straordina-ri di proroga (delibera della commissione straordina-ria n. 87/2005, ordinanza del commissario prefettizio n. 562/2006 e ordinanza del commissario straordi-nario n. 719/2006), in considerazione del mancato completamento della procedura di gara ad evidenza pubblica, peraltro revocata per la predisposizione di un nuovo progetto e, poi, nuovamente bandita ed esperita, ma andata deserta.

Come già riportato in narrativa, secondo le dedu-zioni della procura:

- alla data dell’1 luglio 2003 la quota mensi-le è stata pari, rispettivamente, a euro 451.000 e a 458.000, Iva inclusa, dall’1 gennaio 2006, mentre l’importo globale erogato all’Igi.ca. ammonta a ben 18.864.663 euro;

- nessuno dei contratti stipulati conteneva indi-cazione specifica di tale prestazione, né ad essi è al-legato il capitolato d’appalto o preventivo che alla raccolta differenziata dei rifiuti faccia espresso rife-rimento;

- che, peraltro, l’assegnazione del servizio alla Genista e all’Igi.ca. è avvenuta con ordini diretti del subcommissario straordinario, Giulio Facchi, n. 57/2002, n. 24 e n. 28 del 10 aprile 2003; con det-te ordinanze, confermative degli importi dovuti alle suddette società e con cui si liquidavano eventuali costi aggiuntivi sul canone stabilito in termini di contributo, venivano disposte assegnazioni di mezzi tecnici direttamente nei confronti del commissario. Tutte le ordinanze menzionate facevano espresso riferimento all’emergenza rifiuti e alla necessità di sviluppare la raccolta differenziata;

- che in data 28 ottobre 2007 il contratto, i cui effetti avevano avuto decorrenza dall’1 novembre 2006, subiva risoluzione anticipata, rispetto a quella naturale fissata al 31 dicembre 2007; in detto contrat-to, stipulato il 28 dicembre 2006, n. 15463 di reper-torio, il servizio di raccolta e di gestione, per la prima volta, dell’intero ciclo di raccolta dei rifiuti veniva affidato al raggruppamento temporaneo d’impresa

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(A.t.i.) composto da Gesenu s.p.a. e Arzano Multi-servizi s.p.a. e proseguito, con ordinanza sindacale n. 420/2007, per un importo mensile di 515.000 euro, Iva inclusa, per una spesa complessiva di 6.152.615 euro;

- il rapporto negoziale, infine, si interrompeva, dopo una prima proroga poi revocata, in ragione dell’informativa antimafia riguardante la Arzano Multiservizi.

Dal 29 ottobre 2007 e fino al 28 aprile 2008 l’in-tero ciclo di raccolta è stato affidato all’ecologia Sa.ba. s.r.l. (determina dirigenziale n. 238/2008 e, poi, contratto n. 15501/2008 di rep., approvato con delibera 20 febbraio 2008), per un importo mensile di euro 515.000 (per complessivi euro 2.981.104);

- che con delibera di giunta n. 220 del 6 dicem-bre 2007, l’amministrazione comunale ha stabilito di avvalersi delle prestazioni del consorzio di Bacino 4 di riferimento sulla base dell’ottimistico, quanto irre-ale, assunto che l’ente “ha presentato il progetto ope-rativo per l’avvio nel frattempo della sola raccolta differenziata finalizzato al raggiungimento, in tempi brevi, della percentuale del 35 per cento prevista dal-la legge”, trasferendo al medesimo la gestione del servizio di raccolta differenziata che per tutto l’anno 2007 il consorzio aveva dimostrato di non essere as-solutamente in grado di assumere, anche in relazione alla pregressa fallimentare esperienza della Genista s.p.a. non avendo, del resto, mai il suddetto consor-zio avviato alcuna attività di raccolta differenziata (pur avendo, tuttavia, assunto in precedenza, attra-verso la Genista s.p.a., il servizio di raccolta rifiuti solidi urbani della città), l’amministrazione comuna-le ha denunciato tale omissione ai Carabinieri.

Contrariamente, seppure in parte, a quanto soste-nuto dalla procura e, soprattutto e più in generale, dalle difese di alcuni convenuti, l’originario contrat-to concernente detto servizio, vigente nel periodo 1 luglio 2003-31 dicembre 2004, registrato al n. 15384 di repertorio e stipulato tra le parti il 12 novembre 2004 per un importo di 7.369.090,92 euro, già pre-vedeva, seppure non espressamente nel testo ma in virtù di apposita clausola di rinvio c.d. recettizio operato ai fini del definito programma contrattuale al Capitolato speciale “prestazionale” di appalto, ap-provato nel 2004, che ne costituiva parte integrante, all’art. 2 “Oggetto dell’affidamento”, c. 1, lett. d), punti 1d, 2d, 3d, 4d e c. 2, la raccolta differenziata delle diverse frazioni merceologiche ivi specificate e le modalità di espletamento del servizio nel com-prensorio comunale, a cura della società affidataria, con analitica ed inequivoca indicazione dell’obbli-

go contrattuale che prevedeva il conferimento dei materiali raccolti ai rispettivi Consorzi nazionali di Filiera (Co.re.pla, Comieco, Co.re.ve) per il succe-daneo recupero e riciclo, senza la previsione di alcun compenso aggiuntivo o premialità-incentivo e con la precisazione che qualunque introito economico deri-vante da detto conferimento sarebbe stato incassato dal comune, direttamente o mediante la ditta affida-taria (all. 4 al fascicolo del pubblico ministero).

Tale sistema di raccolta, indipendentemente dalla sua intrinseca articolazione che riguardava espres-samente sia la raccolta indifferenziata che quella differenziata ma parziale (Igi.ca s.p.a., per gli anni 2004, 2005 e 2006) oppure l’intero ciclo dei rifiu-ti (R.t.i. Gesenu s.p.a. – Arzano Multiservizi s.p.a., dall’1 ottobre 2006 al 31 dicembre 2007, v. contratto rep. n. 15463 del 28 dicembre 2006 e ordinanza sin-dacale di proroga semestrale n. 420/2007; v. all. 8), è stato oggetto anche dei contratti successivamente stipulati e citati in narrativa, i quali si sono unifor-mati, sostanzialmente, operando il medesimo rinvio, pedissequamente recettizio, “agli stessi patti, prezzi e condizioni di cui al contratto n. 15384/2004 e rela-tivo capitolato allo stesso allegato” (cfr. all. n. 5, art. 4, e n. 7, art. 5, numeri da 3 a 8).

Orbene, occorre rilevare che, nonostante gli obblighi positivamente imposti, i livelli di raccolta differenziata dei rifiuti raggiunti nel periodo 2004-2007 sono risultati estremamente modesti o quasi del tutto insignificanti, attestandosi, in base ai dati dichiarati dal medesimo ente locale, nelle trascura-bili percentuali del 4,17 per cento nel 2004 (r.d. solo di ingombranti), del 3,44 per cento nel 2005 (solo in-gombranti e piccolissime quantità di vetro), del 3,81 per cento nel 2006 (quasi interamente rappresentata da ingombranti) e, infine, del 2,88 per cento nel 2007 (percentuale ancor più modesta nonostante risulti essere stata effettuata raccolta di materiale plastico, cellulosico, tessile e vetroso).

Infine, va precisato che il Comune di Torre del Greco è addivenuto all’emanazione dell’ordinanza contingibile ed urgente testé richiamata poiché co-stretto dall’impossibilità di avvalersi, in proposito, delle prestazioni del consorzio di Bacino “Napoli 4” Cosmarina 4, nel cui ambito territoriale rientrava, per alcune problematiche emerse e rappresentate dal commissario del medesimo consorzio al commissa-rio delegato, nonostante l’introduzione del regime obbligatorio di cui all’art. 4 d.l. 11 maggio 2007, n. 61, convertito dalla l. 5 luglio 2007, n. 87, che impo-neva ai comuni di avvalersi, in via esclusiva, di tali consorzi di Bacino.

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Orbene, tale circostanza comprova, in modo piut-tosto perspicuo, l’assunto attoreo della sussistenza del danno patrimoniale contestato, che può ragione-volmente stabilirsi nel costo della destinazione allo smaltimento e al mancato introito derivante dalla vendita dei materiali recuperati. Non inficia certo la conclusione raggiunta la tesi difensiva sostenuta da alcuni convenuti secondo cui l’insufficiente effettua-zione del servizio di raccolta differenziata rappresen-terebbe un mero inadempimento di clausole conven-zionali e, come tale, insindacabile in questa sede.

Come già precisato, al collegio non sfugge nem-meno che proprio il contenuto delle citate convenzio-ni che regolavano i rapporti tra le società commer-ciali affidatarie del servizio ed il Comune di Torre del Greco – nonché delle prodromiche deliberazioni consiliari e giuntali, unitamente alle determinazioni dirigenziali comunali riguardanti specificamente il servizio d’igiene urbana – confermi, in modo diretto ed inequivoco, la necessità che tale servizio si esten-desse obbligatoriamente alla forma integrata, com-prensivo della raccolta differenziata, interpretazione del resto avvalorata dai contratti susseguitisi la cui stipulazione è avvenuta in un quadro di sostanziale conferma e specificazione dei patti e condizioni det-tate, in via tralatizia e con più meno espresso rinvio alla relative disposizioni, dalla necessità di confor-marsi alla legge vigenti (decreto Ronchi e corpi nor-mativi successivi che regolavano l’intera materia) da cui, certamente, l’azione della pubblica ammini-strazione e quella delle società in essa momentane-amente “incardinate”, per effetto dell’espletamento del pubblico servizio, non potevano in alcun modo divergere.

E della descritta circostanza – e conseguente condotta obbligatoria – non può dubitarsi che sia le società che gli amministratori e dirigenti comunali fossero, naturalmente, ben consci, come si ricava, anche indirettamente, dalla specificità delle clau-sole contrattuali inserite nel programma pattizio e dall’articolato contenuto del disciplinare tecnico ap-positamente approvato ed accessivo alle convenzio-ni di servizio stipulate mediante contratto in forma pubblico-amministrativa; ne costituiscono fulgido esempio ed incontrovertibile dimostrazione, infatti, le impartizioni di determinate prescrizioni alla citta-dinanza e le iniziative e campagne informative o di sensibilizzazione e di persuasione cui erano, concor-sualmente, tenuti la società affidataria sotto l’egida ed il costante controllo del comune per regolamen-to comunale (che costituiva una prima applicazione dell’art. 21, c. 2, d.lgs. n. 22/1997, cfr. art. 1, prin.

gen.) e in virtù delle risalenti ordinanze sindacali che già disponevano l’attivazione di tale raccolta differenziata per le diverse frazioni merceologiche o di materiali, ritenuta indispensabile per un serio ed efficace servizio di raccolta dei r.s.u. (in proposito, cfr. ordinanza sindacale n. 651 del 20 giugno 2003; delib. di giunta n. 310/2003).

Tali circostanze, sostenute dalla procura, sono state del resto parzialmente confermate da alcuni difensori o non specificamente contestate e, quindi, costituiscono fatti che non occorre accertare in quan-to pacifici (arg. ex art. 115 c.p.c., anche nel testo in vigore ratione temporis, ante riforma introdotta dal-la l. n. 69/2009, secondo Cass., n. 13830/2004 e n. 10208/2007).

La vigente normativa in materia dettata dal d.lgs. 5 febbraio 1997, n. 22 e successive modificazioni, imponeva – si ribadisce – l’obbligo della raccolta differenziata delle varie tipologie dei rifiuti solidi ur-bani che consenta il riciclaggio di frazioni significa-tive dei medesimi, in modo da ottenere una riduzione dei rifiuti da smaltire in discarica.

In difformità con le suddette espresse previsioni di autonomia negoziale e quelle eteronome di fonte legale, nazionale o sovranazionale, integratrici e ri-chiamate anche nei programmi contrattuali stipulati, è fuor di dubbio che il servizio di che trattasi è stato svolto in maniera mediocre e del tutto insoddisfacen-te, nonostante l’“obiettivo” minimo da realizzare cui la società (ed il comune) avrebbe dovuto, necessa-riamente (e concorsualmente) tendere quale struttura deputata alla gestione di un servizio pubblico di inte-resse generale, ritenuto essenziale ed indispensabile (d.m. 28 maggio 1993), il cui svolgimento rientra nelle finalità istituzionali tipiche, prioritarie ed inde-fettibili dell’ente locale.

7. In ordine all’an del danno erariale, non si ri-tiene fondata l’argomentazione difensiva – dedotta da alcuni convenuti secondo cui la copertura inte-grale del servizio di raccolta e smaltimento dei ri-fiuti solidi urbani avverrebbe mediante la tariffa Rsu gravante sui cittadini, con conseguente inesistenza del danno pubblico azionato con l’atto introduttivo del giudizio. Occorre, infatti, in proposito conside-rare che il principio, stabilito dall’art. 61 d.lgs. 15 novembre 1993, n. 507, di corrispondenza tra get-tito complessivo della tassa e costo di esercizio del servizio di smaltimento dei rifiuti riguarda il limite d’importo complessivo annuale al quale devono sog-giacere le tariffe determinate dal comune (e quindi le scelte gestionali delle amministrazioni comunali: Cass., 17 novembre 2004, n. 21719). Si evidenzia,

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peraltro, che la disposizione richiamata, al c. 1, pre-vede che “il gettito complessivo della tassa non può superare il costo di esercizio del servizio di smalti-mento dei rifiuti solidi urbani interni ... né può essere inferiore ... al 70 per cento del predetto costo” per gli enti locali con situazioni strutturalmente deficitarie, mentre al c. 2 precisa che “il costo del servizio di cui al c. 1 comprende le spese inerenti e comunque gli oneri diretti e indiretti, nonché le quote di am-mortamento dei mutui per la costituzione di consorzi per lo smaltimento dei rifiuti”, cioè una serie di costi ordinari e prevedibili, in quanto tali irrelazionabili a quelli sostenuti per l’emergenza rifiuti in generale e per l’abbandono nelle strade cittadine di quantità enormi di rifiuti indifferenziati in particolare. Si os-serva, pure, che la Tarsu. deve coprire il costo di un servizio di raccolta rifiuti che si effettua in concreto, non quelli di un servizio che invece resta sostanzial-mente inattuato, come la raccolta differenziata dei ri-fiuti presso il Comune di Torre del Greco nel periodo 2004-2007.

Il collegio ritiene, in modo dirimente, di dover ri-cordare che è del tutto irrilevante la fonte di finanzia-mento delle risorse destinate (c.d. funzionalizzazio-ne) all’espletamento dei servizi pubblici, soprattutto se considerati essenziali per la collettività ammini-strata, assumendo decisivo valore il parametro di riferimento costituito dalla provenienza dal bilancio pubblico delle somme indebitamente o inutilmente utilizzate a fronte di un servizio non reso o reso in modo difforme e assolutamente insufficiente sotto il profilo quali-quantitativo rispetto alle caratteristiche stabilite dalla legge – fonte eteronoma – o in via di autonomia contrattuale (contratto di servizio, in que-sto caso).

Con la conseguenza che anche i fondi provenien-ti da privati cittadini erogati in ragione dell’esigenza di fiscalità generale e riscossi anche coattivamente per sussistenza di un’obbligazione rivestente natura tributaria ed in base ad un titolo di diritto pubblico, una volta versati ed inseriti o iscritti contabilmente nei bilanci dell’ente pubblico (Stato, regione o ente locale che sia) dismettono la primitiva natura priva-tistica propria e tipica della forma di finanziamento per assumere una vocazione pubblicistica, una sor-ta di novazione del titolo, in funzione dell’intenso vincolo di destinazione pubblica e della pertinenza all’ente pubblico che necessariamente li avvince in quanto teleologicamente volti al soddisfacimen-to di esigenze ed interessi sociali e pubblici la cui frustrazione, determinata da scorretta gestione, ben può dare luogo a responsabilità per violazione di

specifici obblighi di servizio derivanti dal rapporto giuridico di servizio intrattenuto con la pubblica am-ministrazione da coloro che quel denaro hanno ma-lamente amministrato (ex multis, cfr. Cass., S.U., n. 18259/2004; n. 15599/2009 e n. 22652/2008).

Incombe su tutti i soggetti, indipendentemente dalla natura pubblica o privata rivestita, che detti fondi amministrano assicurarne l’utilizzo nel rispet-to del vincolo di destinazione imposto (Cass., S.U., n. 295/2013).

8. Per quanto riguarda, in particolare, la valuta-zione del danno precedentemente descritto, occorre osservare quanto segue.

La prima tipologia di nocumento è rappresentata dai mancati introiti (lucro cessante) a titolo di corri-spettivo derivante dalla vendita del materiale raccolto in maniera differenziata, sebbene non risulti in pra-tica venduto, che è stata quantificata in complessivi 2.543.728,77 euro (rispettivamente, 629.496,40 euro per il 2004, 620.984,40 euro per il 2005, 609.312,06 euro per il 2006 e 683.935,91 per il 2007), a seguito di comparazione, per ogni anno preso in considera-zione, del reddito minimo astrattamente e potenzial-mente realizzabile in base alla legge con gli introiti effettivamente incamerati per il conferimento presso i consorzi di filiera del materiale stesso, per ogni sin-gola frazione merceologica.

La seconda posta dannosa, rappresentata dal c.d. danno emergente – determinato dai maggiori costi sostenuti a titolo di “tariffa smaltimento rifiuti” per il conferimento presso i C.d.r. di materiale che avrebbe potuto essere destinato proficuamente alla raccolta differenziata per ogni singola annualità e che invece ha costituito peso aggiuntivo da pagare, nei termini capillarmente descritti in citazione (pp. 25 ss.) – è stata quantificata in complessivi 3.669.431,47 euro (e, in modo disaggregato, 837.271,75 euro per il 2004, 840.721,36 euro per il 2005, 850.619,24 euro per il 2006 e 1.140.819,24 euro per il 2007).

L’organo requirente ha, altresì, tenuto conto dell’apporto concausale di altri soggetti e rideter-minato l’importo delle due distinte voci di danno, rispettivamente, in 1.148.290,40 euro (effettuate le opportune detrazioni di un quarto per il periodo giugno 2006-dicembre 2007 in quanto ritenuto non imputabile) ed in 1.638.949,40 euro la seconda, an-ch’essa decurtata per analoghe ragioni; per una som-ma complessiva di 2.787.240,04 euro.

Occorre, al riguardo, rilevare che la procura attri-ce nella valutazione del danno ha adottato – sia con riferimento al danno emergente che al lucro cessante – criteri opportunamente prudenziali e che il colle-

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gio condivide, sia sotto il profilo della tecnica liqui-datoria che del metodo applicativo; ciò nondimeno, si ritiene equo, in ragione delle considerazioni che saranno esplicitate nel punto riguardante il nesso di causalità, apportare un’ulteriore riduzione della cifra complessivamente liquidata per entrambe le partite di danno, nella misura del 40 per cento, di talché il nocumento derivato dalla mancata attivazione nel Comune di Torre del Greco di un efficiente sistema di raccolta differenziata dei rifiuti, viene, provviso-riamente, quantificato nella complessiva somma di 1.627.344,02 euro.

Inoltre, condivisibile è parimenti la necessaria e successiva ripartizione tra gli autori del danno – odierni convenuti – in ragione dei singoli apporti concausali (art. 1-quater l. n. 20/1994 e s.m. e i.), cui è rimproverabile la colpa grave per inescusabile trascuratezza nel concorrere, con la propria condotta, alla realizzazione di un efficiente ed efficace sistema di raccolta differenziata dei rifiuti, nonostante l’af-fidamento del relativo servizio a società pubbliche, peraltro costituite a tal fine specifico, consentisse una ragionevole aspettativa di successo.

9. La procura, pur avendo inizialmente contestato ai convenuti anche il danno all’immagine provocato alla Regione Campania, non ha inteso esercitare tale azione risarcitoria in via prudenziale e per ragioni di economia processuale alla luce del mutato qua-dro normativo che ne subordina l’esercizio all’avve-nuto riconoscimento di fatti costituenti solo alcune tipologie di reato (rectius, delitti contro la pubblica amministrazione, ex art. 17, c. 30-ter, d.l. n. 78/2009 convertito dalla l. n. 102/2009, modificato dall’art. 1 d.l. n. 103/2009, convertito dalla l. n. 141/2009).

Diversamente, il requirente ha ritenuto non sus-sistere alcuna preclusione per la condanna dei con-venuti, in misura di 150.000 euro, per danno con-seguente alla lesione della reputazione inferta al Comune di Torre del Greco, ribadendo tale richiesta nell’udienza di discussione.

La domanda proposta non può, però, trovare ac-coglimento per le ragioni già ampiamente descritte nel precedente specifico di questa Sezione, cui si ri-tiene di prestare continuità (sent. n. 1870/2013).

In detto arresto giurisprudenziale la Sezione ha affermato che: “la risarcibilità del danno non patri-moniale in favore della persona, anche giuridica, in passato limitata ai danni derivanti da reato – secon-do una rilettura costituzionalmente orientata dell’art. 2059 c.c. – è possibile ove venga in rilievo la lesione di beni o di valori (diritti) c.d. immateriali e inviola-bili della persona fisica non avente natura economi-

ca, anche di rilevanza costituzionale (Cass., S.U., n. 15022/2005; n. 11761/2006; n. 23918/2006).

Infatti, tra i diritti fondamentali rinvenibili diret-tamente in costituzione, rientra quello all’immagine della persona giuridica, privata o pubblica (come nel caso dell’art. 2 Cost.).

Nell’elaborazione del danno all’immagine come tipologia di danno non patrimoniale, si è ritenuto che esso debba sempre manifestarsi nelle conseguenze che genera nel soggetto, sotto il duplice profilo della incidenza negativa che la diminuzione della consi-derazione e del prestigio comporta nell’agire delle persone fisiche che ricoprano gli organi della perso-na giuridica o dell’ente e, quindi, nell’agire dell’en-te, e nei comportamenti dei consociati in genere o di settori o categorie di essi, con i quali la persona giuridica o l’ente di norma interagisca.

Orbene, in disparte dalla valenza del danno come danno-conseguenza, anziché danno-evento, con con-nesso, diverso regime probatorio (Cass., 4 giugno 2007, n. 12929, cit.), alla luce dei principi fissati dai recenti orientamenti giurisprudenziali non sembra vi sia più spazio per declinare e creare, all’interno dell’unica categoria generale di danno c.d. non pa-trimoniale prevista dal legislatore, ulteriori ed auto-nome sottocategorie di danno, che non siano meri aspetti o articolazioni che il danno “non patrimo-niale” assume nei diversi casi (sofferenze fisiche e psichiche; danno alla salute, alla vita di relazione, ai rapporti affettivi e familiari, alla personalità, ecc.; v. Corte conti, Sez. riun., n. 10/2003 e n. 1/2011; Cass., S.U., n. 26972 e n. 26975 dell’11 novembre 2008; Cass., n. 19816/2010).

Non può condividersi, pertanto, l’operata con-figurazione autonoma del danno alla reputazione, distinta rispetto a quello all’immagine, ma va affer-mata quella di unitaria voce di danno in base al cri-terio di sussunzione, come pregiudizio o lesione del diritto inviolabile della personalità dell’ente (artt. 2 Cost. e 10 c.c.), traducendosi nell’offesa al prestigio, al decoro ed all’onore che la persona, anche giuridi-ca, gode nei confronti dei consociati.

Anche diversamente opinando, del resto, la sus-sistenza del danno contestato non può ritenersi sus-sistente, non trovando conferma in sufficienti e ido-nei elementi probatori forniti dalla Procura che non ha soddisfatto il relativo onere, che le incombeva in base al tradizionale riparto delle attività processuali (art. 2967 c.c.).

10. Sotto il profilo della sussistenza dell’ele-mento del rapporto di servizio, per la sua configura-bilità nei confronti delle distinte società, pubblica e

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mista, è sufficiente operare un rinvio, ob relationem, alle considerazioni svolte precedentemente in sede di questione di giurisdizione (par. 1 della parte mo-tiva).

Per quanto, invece, concerne i restanti convenuti, amministratori, dirigenti comunali e subcommissa-rio straordinario, va ritenuta in re ipsa la sussistenza del rapporto di servizio o d’impiego intercorrente con l’amministrazione comunale danneggiata, es-sendo costoro tutti inquadrati nell’organizzazione o apparato amministrativo dell’ente locale poiché ri-vestenti in esso un incarico politico-amministrativo di sindaco (Ciavolino) o di assessore comunale con specifica delega all’ambiente (Carannante) o diri-genziale del competente settore (Merlino e Iazzetta), con rapporto di lavoro dipendente a tempo indeter-minato, secondo il corredo normativo contenuto nel combinato disposto degli artt. 50, 54, 107 e 93 d.lgs. n. 267/2000, oppure con relazione, quanto meno, di servizio o funzionale connotata da tale inserimento nell’apparato del soggetto pubblico, suscettibile di renderlo partecipe dell’operato della pubblica ammi-nistrazione (nel caso di Facchi, subcommissario, arg. ex Cass., S.U., 21 maggio 2003, n. 7946), la cui inos-servanza con violazione degli obblighi di servizio da esso discendenti comporta una condotta contra ius che, ove foriera di danno sofferto dalla pubblica am-ministrazione, indipendentemente se quella di appar-tenenza o altra, è suscettibile di scrutinio giurisdizio-nale riservato a questa Corte.

11. Per quanto, poi, concerne il nesso di causalità esso è rilevabile tra il danno descritto e le condotte tenute dai convenuti sulla base del criterio della c.d. causalità materiale o adeguata o della c.d. prognosi postuma, giudizio formulato ex ante, ai sensi degli artt. 40 e 41 c.p., sulla scorta dell’id quod plerumque accidit ed in termini di diretta e di immediata con-sequenzialità tra condotta ed evento lesivo, secondo quanto affermato dalla più accreditata giurispruden-za sia della Corte conti (Sez. riun., 4 marzo 1996, n. 96) sia della Corte di cassazione (23 aprile 1998, n. 4186; n. 329/2001; n. 7695/2008; n. 6474/2012; S.U., n. 577/2008).

Anche sotto tale profilo la prospettazione atto-rea si rivela sostanzialmente condivisibile. Invero, il nocumento di che trattasi si è senz’altro prodotto in conseguenza delle condotte, prevalentemente omis-sive e talora commissive, anche mediante omissione per violazione degli obblighi discendenti da parti-colari posizioni di garanzia o di controllo, sia degli amministratori comunali e dei dirigenti o con delega di settore in carica nel periodo considerato, sia del-

le citate società pubbliche affidatarie del servizio di raccolta differenziata dei rifiuti.

Stante l’assenza di comportamenti alternativi corretti dovuti, quanto esigibili, i molteplici motivi dedotti dai convenuti nelle proprie difese processuali inerenti all’attività “obiettivamente” amministrativa comunque svolta rivestono ed assumono rilevanza, non certo esimente o scriminante del danno erariale provocato, bensì unicamente sotto il diverso profi-lo della ripartizione della quota di danno causato in proporzione all’efficienza concausale delle singole condotte concorrenti ascrivibili ai responsabili, non potendosi comunque ritenere radicalmente escluso il singolo contributo per i motivi che meglio si spe-cificheranno più avanti, nella parte riservata all’ac-certamento dell’elemento costitutivo soggettivo o psicologico.

Pur tuttavia, per le ragioni di seguito esplicitate, si ritiene di dover apportare alla prospettazione at-torea un ulteriore correttivo, proprio a causa dell’e-stensione dei motivi in parte già indicati ed anticipati dallo stesso requirente nell’atto introduttivo del giu-dizio e ritenuti rilevanti ai fini della quantificazione del risarcimento del danno richiesto e della propor-zionale riduzione dell’addebito, accogliendo, per l’effetto, le richieste provenienti dai difensori di tutti i convenuti.

La prima si ricollega alle considerazioni svolte nella delibera n. 155/2010 dalla Sezione di controllo per Regione Campania in sede di controllo successi-vo sulla gestione (art. 3, c. 4, l. n. 20/1994), intitolata “La gestione dell’emergenza rifiuti in Campania” e approvata nell’adunanza del 28 settembre 2010, se-condo cui:

“Tra i fattori determinanti il persistere dell’emer-genza sono da annoverare:

- gli insufficienti livelli di raccolta differenziata;- il malfunzionamento e sovraccarico degli im-

pianti di selezione;- l’insufficienza degli impianti di compostaggio

di qualità;- l’erronea programmazione e i notevoli ritardi

nelle procedure autorizzative dell’utilizzo dei Cdr e nella realizzazione di termovalorizzatori, come quel-lo di Acerra;

- l’eccessivo frazionamento del servizio di rac-colta e trasporto dei rifiuti urbani;

- la temporanea assenza di sufficienti volumi di discarica.

Alla base delle gravi emergenze (in termini di ri-schi per la salute e per l’ambiente) determinate dalla

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gestione dei rifiuti e sfociate in un’endemica e ancor più grave crisi scoppiata alla fine dell’anno 2007 a causa della chiusura di uno dei più grandi siti di stoc-caggio di eco-balle (quello di Taverna del Re sito in Giugliano in Campania) che determinava il contem-poraneo blocco degli impianti di Cdr e la chiusura del più significativo sbocco della raccolta di rifiuti quotidiana, vi è una serie di omissioni e di inadem-pienze. Di questi, le principali responsabilità sono da attribuire alle molteplici incertezze normative, a una carente programmazione (spesso aggravata da insuf-ficiente coordinamento), nonché alla incapacità di ta-luni amministratori di Comuni e Consorzi di Bacino di attivare tempestivamente i fondi stanziati per la realizzazione di essenziali infrastrutture e di ottem-perare ad una corretta comunicazione con le popola-zioni di riferimento, così da mitigarne la naturale av-versione e diffidenza verso ogni tipo di insediamento impiantistico per quanto necessario e vantaggioso se correttamente gestito.

A tali lacune non sempre ha corrisposto l’azione sostitutiva delle strutture commissariali, necessaria soprattutto per utilizzare efficacemente i fondi stan-ziati e assicurare il normale svolgimento del ciclo dei rifiuti, specie nei casi di palesi incapacità nell’orga-nizzazione della raccolta differenziata o di omesso pagamento della tariffa dovuta per il conferimento dei rifiuti agli impianti.

Al contrario, il perdurante ricorso alla gestione straordinaria ha comportato il radicamento delle strutture commissariali, le quali hanno assunto un ruolo “omnicomprensivo” di programmazione, at-tuazione e gestione dell’intero ciclo dei rifiuti, con la graduale esternalizzazione delle funzioni e la ten-denza alla deresponsabilizzazione da parte dei livelli istituzionali ordinariamente competenti in materia”.

Le evidenziate osservazioni, sostanzialmen-te contigue rispetto a quelle esposte dal requirente nell’atto introduttivo del presente giudizio, non solo risultano perfettamente condivisibili perché formula-te a conclusione di un’indagine estremamente delica-ta quanto complessa, ben strutturata ed approfondita, con particolare e specifico riferimento naturalmente alla situazione emergenziale campana, ma inducono anche ad attribuire alle condotte degli odierni con-venuti nella determinazione del danno indicato un ruolo di efficienza causale leggermente più contenu-to rispetto a quello prospettato dalla procura attrice nell’atto di citazione a giudizio.

Il secondo motivo, invece, riposa sulla concreta individuazione delle singole quote di responsabilità in caso di concorso di colpe cc.dd. “esogene”, che

il collegio ritiene possano ricondursi anche ad altri soggetti, seppur non citati in giudizio, come, oltre a quelli indicati dalla procura, ad esempio, i com-missari straordinari all’emergenza rifiuti succedutisi nell’incarico, i componenti del consiglio comunale e, soprattutto, della giunta che, a più riprese, hanno concorso ad autorizzare l’affidamento del servizio, nonostante le gravi e reiterate inadempienze ed i deludenti risultati conseguiti, abdicando al concreto esercizio dei poteri pubblicistici decisionali e di vi-gilanza sulla gestione, tipica espressione di funzioni di riesame di un’amministrazione accorta e diligente.

Ma pure dei presidenti p.t. e commissari del con-sorzio di Bacino Napoli 4 Cosmarina (v. nota prot. n. 2283 del 9 luglio 2007 in ordine al ritardo e/o diffi-coltà di procedere al passaggio di cantiere e di affi-damento della gestione del servizio) e dei presidenti, amministratori e consiglieri p.t. delle società affida-tarie del servizio, nonché degli organi di controllo e di revisione sia dell’ente locale che della società pubblica, estese a determinate ed innegabili circo-stanze oggettivamente sussistenti, non disgiunte dalla valutazione complessiva del contesto generale nel quale i convenuti sono stati costretti ad operare nel determinato momento storico, rivelatosi estrema-mente critico e gravemente compromesso dalla non trascurabile tensione sociale.

A ciò si aggiunge il profondo disagio che mina-va il buon andamento dell’azione amministrativa per effetto del continuo susseguirsi di una profluvie di ordinanze commissariali che potevano imprimere alla medesima, nel già complesso quadro normativo esistente e delle modalità operative, quel carattere ondivago, di confusione e di incertezza che, peraltro, non rendeva certo agevole, in parte disorientandola, la ricerca e l’individuazione di un modello gestionale adeguato alle particolari esigenze con la conseguen-za del nocumento derivato dalla mancata attivazione e realizzazione nell’ambito comunale di un efficiente sistema di raccolta differenziata dei rifiuti nel perio-do 2004-2007.

Pertanto, pur sostanzialmente confermando il criterio applicativo della ripartizione interna delle singole quote di addebito o responsabilità elabora-to dalla procura, individuate secondo il principio di parziarietà come vuole l’art. 1, c. 1-quater e quin-quies, l. n. 20/1994 e successive modificazioni e in-tegrazioni, compresa quella ascrivibile al Facchi per la grave negligenza dimostrata nell’indicare la Igi.ca come soggetto affidatario senza alcun espletamento di gara e senza apposita e specifica previsione del servizio comprensivo della raccolta differenziata – a

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scanso di equivoci – il collegio ritiene opportuno e congruo apportare un temperamento alla richiesta di risarcimento del danno per l’innegabile ruolo più contenuto svolto nella produzione del danno conte-stato, in ragione di una sua complessiva riduzione percentuale del 40 per cento, come anticipato e pre-cisato in punto di valutazione del danno.

Ciò, si ribadisce, in relazione al riconoscimento dell’incidenza dei correlativi apporti o contributi con-causali provenienti da pluralità di condotte, seppur colpose e indipendenti, comunque collegate al fatto dannoso, realizzate da soggetti da ritenersi apparen-temente corresponsabili, come detto, seppur non evo-cati in giudizio, sulla base dell’applicazione del prin-cipio di equivalenza delle cause (art. 41, c. 1, c.p.).

12. Riguardo, infine, all’elemento soggettivo o psicologico dell’illecito amministrativo-contabile, che la procura ha qualificato come colpa grave, esso deve ritenersi sussistente per le seguenti considera-zioni.

Secondo la prospettazione del requirente i pre-giudizi patrimoniali precedentemente quantificati vengono, invero, ritenuti addebitabili, in larga mi-sura, alla Igi.ca s.p.a. ed alla R.t.i. Gesenu-Arzano Multiservizi s.p.a., società a partecipazione mista privata-pubblica, per non aver attribuito alla gestione del servizio di raccolta differenziata la dovuta impor-tanza per il carattere di essenzialità che essa, invece, era meritevole di rivestire per le ragioni suesposte, e che sarebbe impensabile, infatti, tanto nella logica giuridica ed economica, quanto in quella industriale e commerciale, che un soggetto creato in forma so-cietaria ed industriale agile e flessibile per attendere al servizio di raccolta rifiuti urbani comunali, con una propria dotazione patrimoniale e finanziaria, con un proprio presidente e un consiglio di amministra-zione per la definizione delle linee strategiche, con un amministratore delegato ed uno staff dirigenziale per dare concreta esecuzione agli obiettivi di impre-sa, con una convenzione di circa 7 milioni annui, con una rete di collaborazione, di contribuzione e di assistenza da parte di altre realtà istituzionali dello stesso settore (commissariato straordinario, consorzi di bacino, imprese pubbliche e private), con la dispo-nibilità di un patrimonio di conoscenze tecniche ed un know-how che nel settore dei rifiuti è un dato ac-quisito e che non richiede incerti empirismi, salti nel vuoto, ma nemmeno una medio-lunga formazione di esperienza, sarebbe impensabile, si diceva, che un soggetto del genere si accingesse a svolgere il sud-detto servizio prescindendo totalmente dal carattere essenziale della raccolta differenziata o la ritenesse

un attività marginale o meramente sperimentale nel suo asset e del suo core-business.

L’articolata ricostruzione operata dalla procura e le risultanze processuali inducono a ritenere piena-mente integrati gli estremi della colpevolezza, che assume indubbio grado di gravità, livello richiesto quale soglia minima di punibilità, a causa dell’ine-scusabile e macroscopica negligenza addebitabile, in via concorrente, alle società per azioni affidatarie del servizio, tradottasi nel mancato raggiungimento delle percentuali progressive di raccolta differenzia-ta, nonostante i precisi obblighi contrattuali e legali assunti.

Occorre rilevare che le società preposte alla ge-stione di un servizio pubblico, nei termini dianzi pre-cisati, sono esse stesse articolazione “strumentale e funzionale” della pubblica amministrazione per cui, in tale contesto, il management societario non può certo ignorare, incolpevolmente, la matrice pubbli-ca delle fonti del finanziamento – che provengono dall’ente locale azionista, esclusivo o prevalente, es-sendo senza alcun dubbio consapevole di utilizzare e di gestire risorse provenienti dalla collettività per l’esercizio della gestione di un servizio pubblico, vieppiù essenziale.

Pertanto, si ritiene che il pregiudizio patrimonia-le precedentemente quantificato sia riconducibile, in primo luogo, alle società affidatarie del servizio, per non aver dimostrato un sufficiente grado di compe-tenza professionale elaborando una proposta opera-tiva e tecnologica adeguata al compito assuntosi con la stipula del contratto di servizio e, per tale inescu-sabile negligenza, non aver consentito il raggiungi-mento delle percentuali di raccolta differenziata dei rifiuti stabilite dalla legge e richiamate dalle norme pattizie.

Del pari, si qualifica giuridicamente scorretto an-che il comportamento osservato dagli amministratori (sindaci e assessori) e dai dirigenti comunali del set-tore che hanno deciso e scelto di stipulare apposite convenzioni con detta società perseverando, pervica-cemente, nella realizzazione del programma pattizio nonostante le gravi inadempienze e senza con questo ottenere, però, migliori e più lusinghieri risultati (una sorta di culpa in eligendo).

Ma, soprattutto, per il particolare e rilevante ruo-lo rivestito all’interno della struttura comunale dagli amministratori e dai dirigenti, è loro rimproverabile l’aver sottovaluto o trascurato, grossolanamente, la notevole e fondamentale importanza assunta dall’e-sigenza di realizzare un servizio di raccolta differen-ziata efficace ed efficiente omettendo:

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- di disporre un’adeguata informazione e forma-zione della cittadinanza-utenza, ad esempio, attraver-so la realizzazione di idonee e concrete campagne di informazione sociale in grado di coinvolgere fattiva-mente i cittadini, capaci di smuovere, risvegliandole, le sopite coscienze civili dei più riottosi, ovvero di stringenti prescrizioni o con la predisposizione – e concreta applicazione – di rigorosi e severi strumenti sanzionatori conseguenti a capillari controlli in grado di costituire una deterrenza per eventuali violazioni od abusi, rivelandosi, con ogni evidenza, del tutto inadeguati gli atti di indirizzo e le ordinanze adottati;

- di esercitare poteri di sorveglianza e capillari controlli sulle modalità di raccolta e sulla corretta dif-ferenziazione e separazione dei materiali ricorrendo, in caso di risultati dimostratisi deludenti, all’appli-cazione o al potenziamento di sistemi di raccolta in grado di assicurare la separazione dei rifiuti, attesa l’insufficiente utilizzazione di campane e di conteni-tori in plastica, o favorendo e potenziando la raccolta c.d. porta a porta in modo diffuso e/o attraverso l’i-stallazione di sistemi di video-sorveglianza in pros-simità delle zone ove erano posizionati i contenitori (campane) destinati alla raccolta dei diversi materiali;

- di prevedere, come contraltare, sistemi premiali capaci di incentivare comportamenti sempre più vir-tuosi;

- di esercitare un corretto, puntuale e penetrante potere di vigilanza e di controllo dell’attività spiega-ta dalle società affidatarie del servizio, dimostratasi in concreto fallimentare, che si traduceva in un grave inadempimento, difforme da quello – correttamen-te esigibile – della prestazione contrattuale dovuta, abdicando all’adozione di rimedi sanzionatori di natura pubblicistica o privatistica che l’ordinamen-to giuridico e il contratto di servizio apprestava in favore delle parti adempienti, previa contestazione di disservizi, comportamenti propedeutici a provve-dimenti di liquidazione di un minor canone rispetto a quello pattuito o all’irrogazione di sanzioni pecu-niarie o penali, come indispensabile corredo sanzio-natorio e, nei casi più gravi e reiterati, addirittura, risolutorio, non certamente preclusi all’ente pubblico quali espressione di c.d. autotutela negoziale o pri-vata in presenza di posizioni giuridiche paritetiche di diritto soggettivo che connotano la fase di esecu-zione del contratto o della convenzione di affidamen-to, di chiara matrice sinallagmatica (Corte cost., 19 novembre 2007, n. 40 e 14 dicembre 2007, n. 431; Cass., S.U., 20 dicembre 2006, n. 27170 e 28 dicem-bre 2007, n. 27169; Cons. Stato, Sez. V, 29 novem-bre 2004, n. 7772).

Rimedi esercitabili dall’ente, come detto, intesi a colpire inadempimenti o adempimenti non conformi alle obbligazioni contrattuali, nell’interesse dell’ente amministrato o presso il quale si prestava la propria funzione.

Dalle risultanze istruttorie riguardanti i convenu-ti amministratori e dirigenti comunali ne emerge, in modo perspicuo, il comportamento eminentemente omissivo avendo tollerato un non esatto adempimen-to delle prestazioni previste dal contratto di servizio, essendosi inspiegabilmente ed ingiustificatamente astenuti dall’esercizio diligente delle proprie e dove-rose prerogative soprattutto in considerazione della difficile situazione concreta ed obiettiva che affligge-va la collettività alle prese con l’endemica difficoltà del corretto espletamento del descritto servizio pub-blico indispensabile ed essenziale non suscettibile di sospensione o di interruzione al fine di promuovere comportamenti virtuosi intesi a ripristinare livelli di legalità, di efficienza, di efficacia e di economicità che costituiscono parametri e tipica espressione en-diade dei principi di buon andamento, di legalità di imparzialità della pubblica amministrazione, di sana e prudente gestione delle risorse finanziarie pubbli-che (artt. 97 Cost. e 1 l. n. 241/1990 e successive modificazioni e integrazioni).

Del resto, è agevole rilevare come non sia pos-sibile traslare la responsabilità unicamente sulla so-cietà di gestione dal momento che non risultano negli atti di causa convincenti elementi probatori idonei a confutare la mancanza “a monte” di una raccolta dif-ferenziata dei rifiuti seriamente ed efficacemente in-trapresa, vale a dire effettuata tempestivamente e ra-gionevolmente già ab imis, vale a dire nel momento della produzione e del prelievo dei rifiuti selezionati dai locali, pubblici o privati, e dalle aree scoperte interessate, o della esatta collocazione dei medesimi nei distinti contenitori situati nel territorio comunale.

Conclusivamente, ai convenuti è rimproverabile un atteggiamento di sostanziale inerzia e ingiustifica-bile indifferenza rispetto a legittime e doverose atti-vità propositive e a iniziative da intraprendere poiché necessitate e volte al miglioramento del servizio e al costante monitoraggio del livello qualitativo e quan-titativo del servizio di raccolta differenziata; com-portamenti che denotano inescusabile negligenza e grave trascuratezza dimostrate nella cura dell’inte-resse pubblico che avrebbe dovuto essere invece tu-telato attraverso l’esatto svolgimento delle funzioni istituzionali loro attribuite.

Per cui è possibile affermare che la mancata o incompiuta realizzazione, nel Comune di Torre del

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Greco, di un efficiente ed efficace sistema di raccolta differenziata dei rifiuti, nonostante l’affidamento del relativo servizio ad un’impresa pubblica specifica-mente costituita per tale finalità e che avrebbe dovu-to essere dotata di un vasto patrimonio di conoscenze tecniche di settore che non lasciava certo spazio ad improvvisazioni o a superficialità nell’erogazione del servizio, rappresenta il risultato di una condotta gravemente colposa rimproverabile agli odierni con-venuti a causa della violazione di obblighi di servizio che richiedevano, essendo concretamente esigibile, l’osservanza sia di regole cautelari di diligenza (c.d. colpa generica), che di determinate disposizioni di leggi (c.d. colpa specifica), ai sensi dell’art. 43 c.p., la cui violazione è produttiva di conseguenze dan-nose per l’ente locale, facilmente prevedibili ed evi-tabili.

Ricorrono in capo ai convenuti, quindi, tutti gli elementi costitutivi cc.dd. positivi per affermarne la responsabilità amministrativa. (Omissis)

* * *

Emilia-Romagna

140 – Sezione giurisdizionale Regione Emilia-Ro-magna; sentenza 10 ottobre 2014; Pres. Di Mur-ro, Est. Chirieleison, P.M. Pilato, Principato; Proc. reg. c. M. e altri.

Giurisdizione e competenza – Presidenti dei grup-pi politici dei consigli regionali – Gestione di contributi pubblici – Responsabilità – Giuri-sdizione contabile.

Cost., artt. 121 e 122; l. 6 dicembre 1973 n. 853, au-tonomia contabile e funzionale dei consigli regionali delle regioni a statuto ordinario, art. 3; l. reg. Emi-lia-Romagna 8 settembre 1997 n. 32, funzionamen-to dei gruppi consiliari, modificazioni alla l. reg. 14 aprile 1992 n. 42, artt. 1, 3, 5, 6, 8-12.Responsabilità amministrativa e contabile – Fon-

di pubblici erogati ai gruppi politici dei con-sigli regionali – Indebito utilizzo – Sindacato della Corte dei conti – Limiti.

L. 6 dicembre 1973 n. 853, art. 3; l. reg. Emilia-Ro-magna 8 settembre 1997 n. 32, artt. 1, 3, 5, 6, 8-12.Responsabilità amministrativa e contabile – Pre-

sidente del gruppo politico di un consiglio regionale – Utilizzo dei contributi pubblici erogati al gruppo – Acquisto di spazi di comu-nicazione forniti da emittenti radiotelevisive locali – Danno erariale.

L. 6 dicembre 1973 n. 853, art. 3; l. reg. Emilia-Ro-magna 8 settembre 1997 n. 32, artt. 1, 3, 5, 6, 8-12.

Sussiste la giurisdizione della Corte dei conti in ordine all’accertamento, nei confronti dei presidenti dei gruppi politici dei consigli regionali, del danno erariale derivante dalla gestione dei contributi pub-blici erogati a tali gruppi per l’assolvimento delle loro funzioni. (1)

Al fine di accertare la responsabilità ammini-strativa e contabile dei presidenti dei gruppi con-siliari del consiglio regionale per l’indebito utiliz-zo dei fondi pubblici erogati ai gruppi medesimi, il sindacato della Corte dei conti dev’essere incentrato sulla verifica della conformità delle spese al vincolo pubblicistico di destinazione dei fondi, nonché sul ri-spetto dei divieti posti dalle norme imperative statali e regionali (contenute, nella specie, oltre che nella l. 6 dicembre 1973 n. 853, nella l. reg. Emilia-Roma-gna 8 settembre 1997 n. 32). (2)

Integra gli estremi del danno erariale l’effettua-zione della spesa sostenuta dal presidente del gruppo politico di un consiglio regionale per l’acquisto di spazi di comunicazione politica, in quanto l’ordina-mento ha tipizzato nella veste del messaggio politico autogestito (Map) – che reca in sovraimpressione, per tutta la sua durata, la dicitura messaggio politico a pagamento con l’indicazione del soggetto politico committente – l’unica forma possibile di acquisto a titolo oneroso di spazi di comunicazione politica sulle emittenti locali, con ciò escludendo e vietando l’ac-quisto a titolo oneroso di spazi di informazione. (3)

Diritto – 1. Preliminarmente, deve essere vaglia-ta l’eccezione, proposta dai convenuti, di nullità de-gli atti istruttori, dell’invito a dedurre e infine della citazione, a ragione dell’asserita violazione dell’art. 17, c. 30-ter, d.l. n. 78/2009, convertito con modifi-cazioni dalla l. n. 102/2009.

(1-3) I. - Sulla giurisdizione della Corte dei conti in ordi-ne all’accertamento della responsabilità patrimoniale degli ap-partenenti ai gruppi politici dei consigli regionali per l’illecito impiego dei fondi erogati ai gruppi dagli stessi consigli, v., Cass., S.U., 31 ottobre 2014, n. 23257, in questo fascicolo, 378, con nota di richiami; v. pure Sez. giur. reg. Friuli-Vene-zia Giulia, 3 febbraio 2014, n. 11, e 23 ottobre 2014, n. 90, in questo fascicolo, 279, 280, con nota di richiami ulteriori.

II. - Sulla responsabilità amministrativa dei presidenti e dei componenti dei gruppi consiliari per l’illecito impiego dei fondi a questi erogati, v., da ultimo, Corte conti, Sez. giur. reg. Sardegna, 18 novembre 2014, n. 229, in questo fascicolo, 308; Sez. giur. reg. Friuli-Venezia Giulia, n. 11/2014 e n. 90/2014, citt.

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Più in particolare, secondo gli intimati, l’organo requirente si sarebbe attivato sulla base di una notitia damni del tutto generica, essendo la relativa verten-za stata aperta a seguito di notizie di stampa apparse nell’agosto del 2012 su un organo di stampa locale (edizione solo online di la Repubblica – omissis) e nelle quali si riportavano le seguenti affermazioni: “consiglieri regionali che pagano con soldi pubblici interviste e ospitate nelle tv e radio locali”.

L’eccezione è infondata e, come tale, va rigettata.L’invocato art. 17 stabilisce, infatti, che “le pro-

cure della Corte dei conti possono iniziare l’attività istruttoria ai fini dell’esercizio dell’azione di danno erariale a fronte di specifica e concreta notizia di danno, fatte salve le fattispecie direttamente sanzio-nate dalla legge. Qualunque atto istruttorio o pro-cessuale posto in essere in violazione delle dispo-sizioni di cui al presente comma, salvo che sia stata già pronunciata sentenza anche non definitiva alla data di entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto, è nullo e la relativa nullità può essere fatta valere in ogni momento, da chiunque vi abbia interesse, innanzi alla competente sezione giurisdizionale della Corte dei conti, che decide nel termine perentorio di trenta giorni dal deposito della richiesta”.

La predetta disposizione si pone in piena armonia con il quadro da tempo delineato dalla Corte costi-tuzionale, secondo la quale il potere d’indagine del requirente contabile deve essere esercitato in presen-za di fatti o di notizie precise e non su mere ipotesi e astratte supposizioni, non potendo l’istruttoria dal medesimo espletata investire, in modo generico, un intero settore di attività amministrativa (Corte cost., n. 104/1989), né porsi come un’impropria attività di controllo generalizzata e permanente (cfr., fra le tan-te, Corte cost., n. 104/1989; n. 209/1994; n. 100/1995 e n. 337/2005).

Nello stesso solco, le Sezioni riunite di questa Corte, con la recente sent. n. 12/2011, hanno preci-sato quale sia il significato da attribuire all’espres-sione “specifica e concreta notizia di danno”, recata dall’art. 17, c. 30-ter, chiarendo che “il termine no-tizia, comunque non equiparabile a quello di denun-zia, è da intendersi, secondo la comune accezione, come dato cognitivo derivante da apposita comuni-cazione, oppure percepibile da strumenti di informa-zione di pubblico dominio; l’aggettivo specifica è da intendersi come informazione che abbia una sua peculiarità e individualità e che non sia riferibile ad una pluralità indifferenziata di fatti, tale da non ap-parire generica, bensì ragionevolmente circostanzia-

ta; l’aggettivo concreta è da intendersi come obiet-tivamente attinente alla realtà e non a mere ipotesi o supposizioni”. Può allora ritenersi che il requisito della specificità e concretezza della notizia di dan-no sia soddisfatto in presenza di una informazione comunque acquisita, relativa ad un fatto, anche non completo in tutti suoi elementi, ma individuato nel-le sue linee essenziali, e comunque presentante una obiettiva capacità di produrre un danno erariale, sì da richiedere lo svolgimento dell’attività istruttoria volta ad accertare la sussistenza di tutti i presupposti che concorrono a configurare la responsabilità am-ministrativa (in termini, ex multis, Corte conti, Sez. giur. reg. Campania, n. 448/2011).

Ovviamente, all’esito degli approfondimenti ori-ginati dalla segnalazione di danno, potranno emer-gere ed essere legittimamente contestate (anche) ipotesi di responsabilità ulteriori e diverse, ovvero più ampie, rispetto a quelle oggetto della “notizia” (in termini, Corte conti, Sez. giur. reg. Campania, n. 322/2011; id., Sez. II centr. app., n. 305/2010).

Orbene, nel caso di specie, l’attività d’indagine della procura erariale è stata originata, come ricorda-to, dalla pubblicazione di notizie di stampa apparse su organi di informazione locale.

Al riguardo il collegio ritiene che, nella specie, la notitia damni, costituita dagli articoli di stampa de-positati agli atti del giudizio, abbia i connotati della specificità e della concretezza. A fronte della pubbli-cazione di notizie di stampa, da cui emergeva una concreta e specifica notizia circa un danno erariale attinente a fatti oggettivamente individuati, ovvero la denuncia circa irregolarità amministrative compiute da componenti del consiglio regionale della omissis, in relazione all’acquisto di spazi di comunicazione politica su emittenti locali, la procura contabile ha doverosamente espletato tutte le attività necessarie ad integrare i dati in suo possesso, anche mediante opportune richieste di chiarimenti all’amministrazio-ne danneggiata.

2. L’azione erariale, avente a oggetto l’indebi-to utilizzo di fondi dell’assemblea legislativa della Regione Omissis, assegnati ai gruppi consiliari, per il pagamento di spazi di comunicazione fornita da emittenti radiotelevisive locali, si palesa fondata e, come tale, va accolta, affermando la responsabilità dei convenuti nei termini che seguono.

3. Innanzitutto è importante ribadire come il qua-dro normativo, ermeneutico ed applicativo di rife-rimento sia sostanzialmente chiaro ed intellegibile nei suoi contenuti. Opportuna appare comunque una ricognizione della normativa in tema di contributi ai

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gruppi consiliari, con richiami alla giurisprudenza costituzionale concernenti la natura degli stessi.

3.1. La normativa in tema di contributi ai gruppi consiliari regionali.

La l. reg. 8 settembre 1997, n. 32, recante “Fun-zionamento dei gruppi consiliari modificazioni alla l. reg. 14 aprile 1992, n. 42”, stabilisce all’art. 1, c. 5, che “Il consiglio regionale, con le modalità e gli effetti previsti dalla presente legge, svolge control-li sulla gestione dei contributi in denaro erogati ai gruppi a sensi degli artt. 3 e 4, c. 5, con oneri a carico del bilancio del consiglio regionale”.

L’art. 3 (Contributi ai gruppi), prevede poi che “1. Per le spese di funzionamento e per l’attività complessiva dei gruppi consiliari sono assegnati a ciascun gruppo contributi costituiti da: a) una quota, uguale per ogni gruppo, commisurata alle esigenze di base comuni a ogni gruppo; b) una quota raggua-gliata alla consistenza numerica di ogni gruppo”.

A norma dell’art. 5 (“Corresponsione dei contri-buti in denaro”), 1. L’ufficio di presidenza del con-siglio liquida i contributi spettanti a ciascun gruppo e ne autorizza il pagamento in rate bimestrali antici-pate (omissis) 3. I contributi sono riscossi dal presi-dente del gruppo, o da altro componente del gruppo a ciò abilitato in base al regolamento del gruppo o ad espressa delega del presidente o alle decisioni di cui al c. 2, che ne rilascia piena quietanza.

Quanto alla gestione dei contributi, l’art. 6 dispo-ne che:

1. Ciascun gruppo, sulla base di scelte autonome, organizza il proprio funzionamento e la propria atti-vità, destinando alle relative spese il complesso dei contributi cui ha diritto a norma dell’art. 3 e del c. 5 dell’art. 4;

2. I contributi devono essere utilizzati per il fun-zionamento e le attività dei gruppi consiliari com-prese le spese di rappresentanza e le spese relative a manifestazioni e altre attività, cui i consiglieri stessi siano stati incaricati di partecipare dal gruppo me-desimo;

3. In via del tutto eccezionale, nel caso in cui le spese di cui al c. 2 non siano documentabili, o risulti effettivamente impossibile produrre la documenta-zione, la documentazione stessa è surrogata ad ogni effetto da una attestazione motivata del presidente del gruppo, entro i limiti in cui la spesa stessa risul-ti congrua e giustificabile in riferimento a parametri obiettivi come ad esempio i costi dei trasporti pub-blici, la spesa chilometrica per uso di autovetture, i costi correnti di vitto e soggiorno.

La Sezione III della legge (artt. 8-15) si occupa

del rendiconto dei gruppi consiliari e disciplina le modalità con le quali questi ultimi debbono docu-mentare le spese pagate con i contributi ricevuti dal consiglio regionale.

In particolare, l’art. 8 dispone che “I gruppi ten-gono documentazione delle spese effettuate con im-piego dei contributi di cui alla presente legge, secon-do le indicazioni e le modalità disposte dall’ufficio di presidenza del consiglio” (c. 1), specificando poi che tale documentazione “deve essere conservata presso la sede del gruppo” e, alla fine di ogni legislatura, “è depositata presso l’ufficio di presidenza insieme all’ultimo rendiconto”.

L’art. 9 disciplina l’obbligo di redazione e appro-vazione del rendiconto relativo all’anno precedente, secondo il modello predisposto dall’ufficio di presi-denza del consiglio.

Le disposizioni di cui ai cc. 3-8 dell’art. 9, di-spongono che l’eccedenza dei contributi incassati, ma non utilizzati fino alle elezioni per il rinnovo del consiglio regionale, deve essere riversata al consiglio stesso, così come vanno riconsegnati i beni patrimo-niali ricevuti dalla regione e quelli acquistati con i contributi, se nella successiva legislatura non vi sia un gruppo consiliare collegato a quello uscente.

Inoltre, è chiaramente previsto che l’eventuale disavanzo risultante dall’ultimo rendiconto resta a carico del presidente del gruppo che ha sottoscritto il rendiconto, così come restano a carico del presidente del gruppo che le ha decise le spese impegnate fino alla data delle elezioni e non pagate entro il termine per la consegna dell’ultimo rendiconto (sei mesi dal-le elezioni per il rinnovo).

Gli artt. 11 e 12 disciplinano poi le modalità con cui l’ufficio di presidenza del consiglio “controlla la regolarità della redazione dei rendiconti ed eser-cita le altre attribuzioni previste dalla presente leg-ge”(art. 11, c. 1), avvalendosi “di un comitato tecni-co, formato da non meno di tre e non più di cinque revisori ufficiali dei conti”(art. 11, c. 2). Ai sensi del successivo c. 3, “il comitato tecnico può richiedere, con l’obbligo del segreto, ai presidenti dei gruppi i necessari chiarimenti, nonché l’esibizione delle do-cumentazioni e delle annotazioni di cui all’art. 8, c. 1. Sono considerati validi i documenti che conten-gano gli elementi sufficienti ad attestare l’avvenuta spesa”.

I provvedimenti di competenza dell’ufficio di presidenza sono specificati dall’art. 12, c. 1, e con-sistono nell’accertamento “che nel corso del perio-do cui il rendiconto si riferisce: a) non sussistono irregolarità di redazione del rendiconto; b) oppure

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sussistono irregolarità di redazione, o non risulta adempiuto l’obbligo di depositare il rendiconto. In tal caso l’ufficio di presidenza dispone, con effetto dal primo giorno del mese successivo, che il versa-mento dei contributi in denaro sia sospeso fino alla regolarizzazione o, in caso di mancato deposito, fino all’accertamento dell’avvenuto deposito del rendi-conto regolarmente redatto”.

Da tale complessiva disciplina, si possono trarre le seguenti osservazioni:

- l’attribuzione di fondi ai gruppi interni al con-siglio regionale è prevista da leggi regionali per con-sentire agli stessi di avere il personale e dei mezzi necessari all’assolvimento delle loro funzioni trat-tandosi, come chiaramente evidenziato dalla giuri-sprudenza (Cass., S.U., n. 3335/2004; Cons. Stato, Sez. IV, n. 932/1992), di soggetti intesi come proie-zione interna dei partiti politici di riferimento e orga-nismi strumentali interni all’assemblea con discipli-na pubblicistica;

- i contributi assegnati ai gruppi consiliari a va-lere sul bilancio regionale devono avere una destina-zione vincolata, prevista dalla legge;

- la contribuzione destinata al funzionamento dei gruppi consiliari, è di natura “pubblica”, caratteristi-ca questa idonea, laddove si consideri il consolidato orientamento giurisprudenziale della Corte di cassa-zione, a radicare la giurisdizione contabile. Come è noto, non si valuta necessariamente la caratteristica soggettiva dell’agente, ma si predilige l’aspetto “og-gettivo” della natura e della fonte delle risorse finan-ziarie utilizzate dal convenuto (Cass., S.U., ord. n. 4511/2006 per la quale, ai fini dell’individuazione del confine tra giurisdizione ordinaria e contabile, non si prende più in considerazione la qualità pubbli-ca del soggetto convenuto, bensì la fonte del finan-ziamento, la natura del danno e gli scopi perseguiti);

- la natura pubblica del contributo e il vincolo di destinazione impresso allo stesso dalla legge regio-nale richiedono che – oltre all’inerenza con l’attività istituzionale del gruppo consiliare (art. 6, cc. 1-2, l. reg. n. 32/1997) – venga garantita la legittimità in-trinseca della spesa, intesa come rispetto della nor-mativa sostanziale comunque applicabile alla con-creta modalità di impiego del contributo prescelta dal gruppo;

- le risorse assegnate ai capigruppo per coprire le spese sostenute nell’interesse del gruppo, fanno sor-gere a carico dei percettori, responsabili del gruppo consiliare, un onere di rendicontazione nei confronti della omissis, nonché un dovere di vigilanza relati-vamente alla corretta destinazione delle medesime;

- il presidente del gruppo ha la legale rappresen-tanza del gruppo ai fini dell’impiego dei fondi (a nor-ma della legge regionale egli deve quietanzare i ver-samenti ricevuti a tale titolo) e quindi a lui è intestato il potere di diretta disposizione della spesa e quello di approvazione delle spese ove esse si riferiscano alle iniziative di singoli componenti del gruppo. Egli inoltre vista la documentazione giustificativa di ogni registrazione contabile (cfr., art. 8, c. 1, l. reg. n. 32/1997 e art. 2, c. 3, delibera ufficio di presiden-za, 17 gennaio 2012, n. 5) e sottoscrive il rendiconto da trasmettere all’ufficio di presidenza del consiglio regionale (art. 10 l. reg. n. 32/1997), verificando la correttezza formale e sostanziale della spesa;

- la deviazione dalle finalità pubblicistiche delle spese, la loro omessa rendicontazione o la mancata attestazione, da parte del capogruppo, dei motivi e delle circostanze in cui esse sono state sostenute, co-stituiscono violazione delle regole di gestione di fon-di pubblici da parte del capogruppo cui l’ordinamen-to conferisce la responsabilità gestoria delle somme a ciò destinate e l’obbligo della tenuta di scritture contabili e di conservazione dei titoli di spesa.

3.2. La giurisprudenza costituzionale in materia di natura dei gruppi consiliari regionali e dei presi-denti dei gruppi stessi.

Come precisato più volte dal giudice delle leg-gi, i gruppi consiliari rappresentano diretta e impre-scindibile emanazione del consiglio regionale e si configurano, quali articolazioni necessarie dell’as-semblea consiliare, svolgendo in tale veste attività direttamente ed esclusivamente strumentali rispetto all’esercizio di funzioni legislative intestate al con-siglio regionale.

3.2.1. Al riguardo, “I gruppi consiliari sono stati qualificati dalla giurisprudenza costituzionale come organi del consiglio e proiezioni dei partiti politi-ci in assemblea regionale (Cost., n. 187/1990 e n. 1130/1988), ovvero come uffici comunque necessari e strumentali alla formazione degli organi interni del consiglio (Cost., n. 1130/1988 e n. 39/2014)”.

La Corte costituzionale, con sent. n. 1130/1988, ha precisato che i gruppi consiliari sono organi nei quali si raccolgono e si organizzano all’interno dell’assemblea regionale i consiglieri eletti al fine di elaborare congiuntamente le iniziative da intrapren-dere e di trovare in essi gli adeguati supporti orga-nizzativi per poter svolgere adeguatamente i propri compiti. Con sent. n. 187/1990 la stessa Corte ha ulteriormente chiarito che i gruppi consiliari sono organi del consiglio regionale, caratterizzati da una peculiare autonomia in quanto espressione, nell’am-

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bito del consiglio stesso, dei partiti o delle correnti politiche che hanno presentato liste di candidati al corpo elettorale, ottenendone i suffragi necessari alla elezione dei consiglieri. Essi pertanto contribuiscono in modo determinante al funzionamento e all’attività dell’assemblea, assicurando l’elaborazione di pro-poste, il confronto dialettico fra le diverse posizioni politiche e programmatiche, realizzando in una pa-rola quel pluralismo che costituisce uno dei requi-siti essenziali della vita democratica. Con la recente sent. n. 39/2014 sopra ricordata, lo stesso giudice delle leggi ha ribadito che i gruppi consiliari vanno qualificati come organi del consiglio e proiezioni dei partiti politici in assemblea regionale, ovvero come uffici comunque necessari e strumentali alla forma-zione degli organi interni del consiglio.

Anche le Sezioni unite civili della Corte di cas-sazione, con sent. n. 609/1999, hanno considerato i gruppi consiliari regionali quali organi delle regio-ni, affermando che “i gruppi consiliari sono orga-ni del consiglio regionale, espressione dei partiti o delle correnti politiche in esso rappresentati e che, in quanto tali, godono di una particolare autonomia in funzione dell’attività dell’assemblea” (cfr. Cass., S.U., n. 609/1999).

Sul punto, invero, ha avuto modo di pronunciar-si anche la Cassazione penale, la quale, con sent. n. 49976/2012, nel soffermarsi sulla natura giuridica dei gruppi consiliari, ha evidenziato, al riguardo, una realtà complessa e multiforme di aspetti coesistenti di natura pubblica e privata, rilevando che trattasi di “problematica, a lungo dibattuta in dottrina e in giu-risprudenza, senza essersi ancor oggi risolta in una definitiva reductio ad unum” (cfr. Cass., 28 dicembre 2012, n. 49976).

3.2.2. Con sent. n. 39/2014, la Corte costituzio-nale ha chiarito che “il rendiconto delle spese dei gruppi consiliari costituisce parte necessaria del ren-diconto regionale, nella misura in cui le somme da tali gruppi acquisite e quelle restituite devono esse-re conciliate con le risultanze del bilancio regionale […]. Il sindacato della Corte dei conti assume infatti, come parametro, la conformità del rendiconto al mo-dello predisposto in sede di Conferenza, e deve per-tanto ritenersi documentale, non potendo addentrarsi nel merito delle scelte discrezionali rimesse all’au-tonomia politica dei gruppi, nei limiti del mandato istituzionale”.

3.2.3. Quanto ai caratteri dell’autonomia orga-nizzativa e contabile dei consigli regionali, il giudice delle leggi ha costantemente affermato la diversità di posizione e funzioni degli organi del Parlamento na-

zionale rispetto a quelli delle altre assemblee elettive (tra le tante, Cost., n. 306 e n. 106 del 2002). Tale orientamento è stato espressamente sviluppato sotto molteplici profili, inerenti alla posizione delle assem-blee legislative nel sistema costituzionale e alla loro organizzazione, nonché al piano dei controlli e dei giudizi attribuiti alla Corte dei conti. Al riguardo, è stato ad esempio affermato che “non è possibile […] considerare estesa ai consigli regionali la deroga, ri-spetto alla generale sottoposizione alla giurisdizione contabile, che si è ritenuto operare, per ragioni stori-che e di salvaguardia della piena autonomia costitu-zionale degli organi supremi, nei confronti delle Ca-mere parlamentari, della Presidenza della Repubblica e della Corte costituzionale” (sent. n. 292/2001, con richiami anche alle sent. n. 110/1970 e n. 129/1981).

Ne consegue che, stando alla giurisprudenza co-stituzionale (v. sent., n. 39/2014), le assemblee elet-tive delle regioni si differenziano, anche sul piano dell’autonomia organizzativa e contabile, dalle as-semblee parlamentari, atteso che i consigli regionali godono bensì, in base a norme costituzionali, di ta-lune prerogative analoghe a quelle tradizionalmente riconosciute al Parlamento, ma, al di fuori di queste espresse previsioni, non possono essere assimilati ad esso, quanto meno ai fini della estensione di una di-sciplina che si presenta essa stessa come eccezionale e derogatoria (sent. n. 292/2001 e n. 81/1975).

3.2.4. In ogni caso il giudice delle leggi afferma che “l’obbligo di restituzione può infatti ritenersi an-zitutto principio generale delle norme di contabilità pubblica. Esso risulta strettamente correlato al dovere di dare conto delle modalità di impiego del denaro pubblico in conformità alle regole di gestione dei fon-di e alla loro attinenza alle funzioni istituzionali svol-te dai gruppi consiliari. Detto obbligo è circoscritto dalla norma impugnata a somme di denaro ricevute a carico del bilancio del consiglio regionale, che vanno quindi restituite, in caso di omessa rendicontazione, atteso che si tratta di risorse della cui gestione non è stato correttamente dato conto secondo le regole di redazione del rendiconto. Ne consegue che, l’obbligo di restituzione discende causalmente dalle riscontrate irregolarità nella rendicontazione” (sent. n. 39/2014).

3.3. Il principio costituzionale di autonomia dei consigli regionali e il sindacato giurisdizionale sull’illecita utilizzazione dei fondi erogati ai gruppi consiliari.

3.3.1. L’art. 122, c. 4, Cost. stabilisce che “i consiglieri regionali non possono essere chiamati a rispondere delle opinioni espresse e dei voti dati nell’esercizio delle loro funzioni”.

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Per costante giurisprudenza costituzionale tale immunità non è assoluta, e di regola non copre le fun-zioni di mera amministrazione attiva, perché secondo la Costituzione esse non rientrano nelle attribuzioni tipiche del consiglio, bensì in quelle della giunta e del presidente della giunta regionale (art. 121, cc. 3-4), e costituiscono estrinsecazione non già di auto-nomia costituzionale di organi rappresentativi, bensì di discrezionalità amministrativa (cfr. Corte cost., n. 81/1975; n. 69/1985; n. 70/1985; n. 289/1997 e n. 392/1999).

Con sent. n. 70/1985, la Corte costituzionale ha statuito che, anche se il nucleo caratterizzante del-le funzioni consiliari, quale definito dall’art. 121, c. 2, Cost., induca a considerare a esso estranee, in via di principio, le funzioni di amministrazione attiva, tuttavia può ritenersi che le attribuzioni costituzio-nalmente previste per i consigli regionali, coperte da immunità, non si esauriscano in quelle legislative, ma ricomprendano anche quelle di indirizzo politi-co, di controllo e di autorganizzazione, con richiamo alle “altre funzioni” conferite al consiglio dalla co-stituzione e dalle leggi, secondo la locuzione accolta dall’art. 121 Cost.

Con le sent. n. 289/1997 e n. 392/1999, viene affermato il fondamentale principio che l’immunità garantita anche per le funzioni di natura amministra-tiva, assegnate al consiglio regionale in via imme-diata e diretta dalle leggi dello Stato, non è volta ad assicurare una posizione di privilegio per i consiglie-ri regionali, ma si giustifica solo in quanto intesa a preservare da interferenze e condizionamenti ester-ni le determinazioni inerenti alla sfera di autonomia dell’organo.

In conclusione, il principio dell’autonomia dell’organo regionale non incide sull’obbligo di ri-spettare il vincolo di destinazione dei contribuiti ero-gati, la cui violazione può essere accertata in sede giurisdizionale nei confronti del responsabile, non essendo ravvisabile alcun profilo di immunità.

4. Nella citata memoria difensiva depositata in data 19 giugno 2014, i convenuti eccepiscono innan-zitutto la legittimità stessa dell’azione di danno era-riale, in quanto ritengono che la censura della procu-ra sia rivolta innanzitutto nei confronti della delibera regionale, la quale ammette che il consigliere regio-nale possa legittimamente spendere soldi pubblici per l’acquisto di servizi televisivi. Secondo la dife-sa, tale censura, così come posta, si sostanzierebbe in un giudizio di merito di politica legislativa tipica dell’assemblea, e sarebbe quindi inammissibile, con-siderato il preciso limite che la Corte costituzionale

(sent. n. 39/2013 e n. 130/2014) ha posto all’eserci-zio del sindacato della Corte dei conti sugli organi e sulle attività delle assemblee legislative regionali.

4.1. Il collegio ritiene non convincente l’argo-mentazione difensiva in base alla quale la giurisdi-zione contabile sulla gestione dei fondi destinati ai gruppi consiliari, determinerebbe una lesione delle prerogative di autonomia e d’insindacabilità, ricono-sciute dall’art. 122, c. 4, Cost.

Al riguardo, sarebbe sufficiente considerare, al fine di dedurre la non ricorrenza della lamentata le-sione, che la Corte costituzionale riconosce che l’in-sindacabilità dei consiglieri regionali è strettamente collegata alla tutela della funzione legislativa e d’in-dirizzo politico, senza che per questo sia compresa anche la mera funzione amministrativa (Corte cost., n. 69/1985; n. 209/1994).

Ma vi è di più.Nel caso oggetto del presente giudizio contabile,

l’addebito rivolto ai capo-gruppo in seno al consiglio regionale (pagamento di spazi di comunicazione for-nita da emittenti radiotelevise locali), risulta formula-to in termini di estraneità o, comunque, di non ricon-ducibilità, alla stregua di un criterio di ragionevolezza, all’autonomia funzionale del consiglio regionale (così come desunta dagli artt. 121 e 122 Cost.).

L’atto di citazione, infatti, non è imperniato su valutazioni negative in ordine alla utilità, alla profi-cuità o, addirittura, alla ricaduta pratica concreta del-le suddette spese e non contiene apprezzamenti rife-ribili al merito delle stesse da considerarsi inidonei, alla luce dei noti principi costituzionali (cfr. sent. n. 392/1999), ad essere elevati a criterio di verificazio-ne della riconducibilità o meno delle spese stesse al suddetto principio di autonomia, ma risulta corretta-mente incentrato sull’accertamento della conformità delle spese, effettuate dal singolo gruppo consiliare, al vincolo pubblicistico di destinazione, nonché sul rispetto di divieti posti da norme imperative, ricava-bili dalla normativa sostanziale applicabile alla vi-cenda gestoria oggetto di esame.

4.2. Per ciò che riguarda specificamente l’assog-gettamento dei consiglieri regionali alla giurisdizio-ne contabile, con la già ricordata sent. n. 292/2001 il giudice delle leggi, premessa la piena estensione del-la giurisdizione contabile nei confronti degli apparati regionali e provinciali, ha precisato che l’autonomia organizzativa e contabile di cui i consigli godono all’interno dell’ordinamento regionale non può im-plicare, di per sé, che l’amministrazione consiliare sfugga alla disciplina generale, prevista dalle leggi dello Stato, in ordine ai controlli giurisdizionali. In

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particolare, il giudizio di conto si configura essen-zialmente come una procedura giudiziale, a carattere necessario, volta a verificare se chi ha avuto maneg-gio di denaro pubblico sia in grado di rendere con-to del modo legale in cui lo ha speso, e dunque non risulti gravato da obbligazioni di restituzione (in ciò consiste la pronuncia di discarico). L’obbligo di resa del conto e le eventuali responsabilità per mancata o irregolare resa del conto non concernono necessa-riamente attività deliberative, come talune di quelle compiute dagli organi cui sono attribuite funzioni di ordinatori della spesa, ma semplici operazioni finan-ziarie e contabili che non si sostanziano nell’espres-sione di voti e di opinioni, e quindi, anche se facesse-ro capo a componenti del consiglio, non ricadrebbero nell’ambito della prerogativa di insindacabilità.

4.3. Le stesse Sezioni riunite della Corte dei conti, chiamate a stabilire se i presidenti dei gruppi consiliari regionali siano tenuti o meno a rendere il conto giu-diziale alla competente sezione giurisdizionale della Corte dei conti relativamente alla gestione dei fondi pubblici erogati secondo le norme regionali attuative della l. 6 dicembre 1973, n. 853, nel rilevare che “nes-suna disposizione normativa, statale o regionale, pre-vede l’attribuzione della qualifica di agente contabile ai presidenti dei gruppi consiliari”, con la conseguente non attivabilità nei loro confronti del giudizio di con-to, ha avuto modo comunque di ribadire che “i presi-denti e i consiglieri componenti dei gruppi consiliari regionali sono comunque soggetti alla responsabilità amministrativa e contabile per il danno cagionato alle finanze regionali per l’illecita utilizzazione dei fondi destinati al gruppo” (cfr. sent. n. 30/2014).

5. Priva di pregio appare essere l’ulteriore tesi di-fensiva in base alla quale, a far tempo dalla pubblica-zione del codice di autoregolamentazione, la prescri-zione secondo cui “la partecipazione ai programmi medesimi è in ogni caso gratuita” non sarebbe più applicabile all’emittenza locale, con la conseguente affermazione di un differente-opposto principio, che ammetterebbe la commerciabilità delle trasmissioni di comunicazione politica (art. 11-quater, c. 3).

5.1. Il collegio ritiene che la lettura del quadro normativo, così come fatta dalla difesa dei convenu-ti, non possa essere accolta, in quanto porrebbe chia-ri problemi di costituzionalità, giacché introdurrebbe un anomalo regime di commerciabilità della comu-nicazione politica, operando una irragionevole dif-ferenziazione tra trasmissioni diffuse nel circuito di emittenza nazionale (per le quali rimarrebbe la non commerciabilità) e quelle diffuse sull’emittenza lo-cale che sarebbero invece pienamente “commercia-

bili”. Una tale differenziazione, costituirebbe una pa-lese violazione dell’art. 3 Cost., in quanto situazioni sostanzialmente identiche, verrebbero disciplinate in modo ingiustificatamente diverso.

5.2. Parimenti è da respingere la tesi difensiva se-condo la quale il parere espresso dall’autorità per le garanzie nelle comunicazioni su richiesta del Comi-tato regionale per l’omissis, esprimerebbe un conte-nuto in realtà contrario a quanto argomentato e fatto proprio dalla procura contabile.

5.2.1. Il collegio ritiene che il parere rilasciato dall’Agom in data 5 settembre 2012 (prot. n. 45132), sia assolutamente chiaro, univoco ed intellegibile nel suo contenuto. Le sue conclusioni secondo le quali “alla luce del quadro normativa di riferimento, co-stituito dalla l. n. 28/2000, come modificata dalla l. n. 313/2003 e dal codice di autoregolamentazione dell’8 aprile 2004, l’unica forma possibile di cessio-ne a titolo oneroso di spazi di comunicazione politi-ca sulle emittenti locali è rappresentata dai messaggi politici autogestiti a pagamento, la cui messa in onda è consentita secondo i criteri e nei limiti previsti dalle norme sopra citate”, appaiono fondate su argo-mentazioni giuridicamente ineccepibili, da non poter essere messe in discussione da questo giudice.

5.2.2. Gli stessi risultati dell’istruttoria compiuta dal Corecom omissis (di cui all’all. A del 15 otto-bre 2012), incaricata dal Agcom di “valutare, sulla base del quadro normativo di riferimento indicato dall’autorità nella nota di riscontro (la nota di cui al punto precedente), la riconducibilità o meno delle trasmissioni oggetto del quesito alla fattispecie dei messaggi autogestiti a pagamento”, sono univoci nel considerare come tutte le “trasmissioni non sono assimilabili ai messaggi autogestiti a pagamento (Map), in quanto propongono un confronto dialettico fra più opinioni e non recano in sovraimpressione, per tutta la loro durata, la dicitura messaggio politico a pagamento con l’indicazione del soggetto politico committente”.

Gli odierni convenuti non contestano i risultati istruttori cui è giunto il Corecom omissis in ordine al fatto che le trasmissioni televisive, cui si riferisco-no le spese oggetto del presente giudizio, non siano assimilabili ai Map, unica forma di comunicazione politica che, per le motivazioni sopra riferite, può es-sere oggetto di cessione a titolo oneroso.

Pertanto e de plano, le spese sostenute dai capi-gruppo consiliari per l’acquisto di tali spazi di co-municazione politica, risultano essere palesemente contra legem, in quanto l’ordinamento ha tipizzato, nella veste del messaggio politico autogestito, l’u-

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nica forma possibile di cessione a titolo oneroso di spazi di comunicazione politica sulle emittenti loca-li, escludendo e vietando la cessione a titolo oneroso di spazi di informazione, in quanto la stessa risul-terebbe in evidente contrasto con i principi posti a tutela del pluralismo dell’informazione, primo fra tutti quello della parità di trattamento. In particolare, come già sottolineato dall’autorità garante delle co-municazioni, “una informazione effettuata sulla base del criterio del pagamento degli spazi ceduti, al di là degli aspetti deontologici della professione gior-nalistica che non sono di competenza dell’autorità, così come di eventuali profili di rilevanza penale, si rileverebbero in contrasto con i principi di parità di trattamento, obiettività, imparzialità ed equità che le emittenti locali devono rispettare sia nei programmi di informazione che in quelli di comunicazione po-litica” (nota del 5 novembre 2012 prot. n. 45132).

6. Relativamente agli addebiti contestati ai con-venuti capigruppo L.G.V. e G.G.G.

6.1. La memoria difensiva eccepisce che nessun addebito possa essere mosso al capogruppo V., non avendo quest’ultimo approvato i rendiconti nel quale sono state inserite le spese contestate, giacché detta approvazione sarebbe stata fatta direttamente dal vi-cepresidente del gruppo, non convenuto.

Al tal riguardo il collegio, sulla base della docu-mentazione depositata agli atti del giudizio, rileva che il rendiconto 2011 risulta firmato dal presidente del gruppo L.V. (v. nota di deposito n. 3, doc. 3, p. 52), mentre il rendiconto 2012 risulta effettivamente non firmato dal convenuto, bensì dal vice presidente del gruppo medesimo.

Il danno erariale imputato al V., viene pertanto ri-determinato, defalcando l’importo di euro 1.845,25, relativo al rendiconto 2012.

Per quanto concerne la fattura depositata dalla di-fesa e relativa a spese di pubblicità per un importo di euro 1.000, che si assume essere stata sostenuta dal gruppo consiliare per pubblicità radiofonica, questo giudice non può che rilevare che parte difensiva non ha fornito neanche il pur minimo principio di prova circa l’attinenza della citata spesa a quelle contestate dalla procura e oggetto del presente giudizio. Infat-ti, come si rileva dalla fattura, riportante la causale “Pubblicità radiofonica per convegno”, la stessa non appare riferibile né per natura, né per tipologia di spesa a quelle contestate con l’atto di citazione.

6.2. Per quanto riguarda la posizione del capo-gruppo G.G.G., la difesa evidenzia che l’ultima fat-tura di euro 1.210 emessa da omissis e omissis non venne mai pagata dal gruppo e quindi non vi fu il

relativo esborso, giacché il contratto con l’emittente venne risolto anticipatamente alla fine del mese di agosto 2012. All’uopo viene allegata copia della fat-tura rifiutata dal gruppo consiliare e da quest’ultimo mai pagata.

In merito al mancato pagamento della fattura de-positata unitamente alla memoria di costituzione, il rappresentate della procura ha ritenuto di non con-testare quanto affermato e documentato dalla difesa.

Pertanto, il danno erariale di euro 4.220 con-testato al consigliere G. a titolo di spesa sostenuta nell’anno 2012 per spazi televisivi, viene ridetermi-nato nel minore importo di euro 3.010.

7. L’elemento soggettivo della colpa grave nella condotta dei convenuti.

7.1. Come è noto, in base alla consolidata giuri-sprudenza della Corte dei conti, il concetto di col-pa grave va inquadrato nella nozione di colpa pro-fessionale di cui all’art. 1176 c.c., c. 2 e va intesa come inosservanza non già della normale diligenza del bonus pater familias, bensì di quella particolare diligenza occorrente con riguardo alla natura e alle caratteristiche di una specifica attività esercitata.

La colpa grave del professionista, da luogo a una forma attenuata di responsabilità in ragione delle dif-ficoltà e del rischio insito per quel tipo di attività, per integrare la quale è necessario che non vengano adottate quelle cautele, cure o conoscenze che co-stituiscono lo standard minimo di diligenza richiesta a quel determinato professionista. Perché si abbia colpa grave non è richiesto perciò che si sia tenuto un comportamento assolutamente scriteriato o ab-norme, ma è sufficiente che l’agente abbia omesso di attivarsi come si attiverebbe, nella stessa situazione, anche il meno provveduto degli amministratori eser-cente quella determinata attività.

Con specifico riferimento al grado di diligenza in concreto esigibile dai convenuti, la conoscenza della disciplina in materia di comunicazione politi-ca deve ritenersi rientrare nel bagaglio di diligenza ordinario di chi svolga una funzione rappresentativa, qual è l’incarico di presidente di un gruppo consi-liare, tenuto conto che la gestione di contribuzioni pubbliche, presenta aspetti di particolare rilevanza, visti i delicati interessi pubblici coinvolti e l’impatto finanziario per la collettività che la gestione di tali fonti finanziarie comporta.

Nel caso di specie, la gravità della colpa è deter-minabile, secondo un parametro oggettivo, dall’evi-dente illegittimità dell’impiego di risorse pubbliche per effetto di una condotta tenuta dai convenuti inos-servante di un chiaro divieto di matrice pubblicisti-

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co, tenuto conto del chiaro disposto del quadro nor-mativo di riferimento, nonché dei richiamati principi fondamentali in materia.

Ne discende che, nella specie, il danno all’erario si sostanzia dunque nella non conformità e nella ille-gittimità della spesa.

7.2. La difesa, per dimostrare la mancanza dell’e-lemento soggettivo della colpa grave, pone infine l’accento sulla circostanza ritenuta “scriminante” che i rendiconti delle spese predisposti dai capi-gruppo, avrebbero superato i controlli del Comitato tecnico e dell’ufficio di presidenza, competenti a formulare eventuali rilievi.

La tesi sostenuta dalla difesa non può essere ac-colta in ragione del carattere apodittico della stessa e perché chiaramente in contrasto con il tenore let-terale della disposizione di cui all’art. 1, c. 7, l. reg. 8 settembre 1997, n. 32, “i negozi giuridici posti co-munque in essere dai gruppi nella loro attività fanno capo esclusivamente alla responsabilità del presiden-te del gruppo”.

Il collegio ritiene, pertanto, che la condotta di soggetti che intervengono in una fase necessariamen-te successiva e con compiti assai distinti, non può co-stituire un effetto scriminante, capace di elidere o di attenuare la responsabilità dell’autore dell’atto.

8. Dalle condotte sopra descritte è derivato alla Regione Omissis un danno patrimoniale, in relazione alle somme illegittimamente erogate.

Il danno subito dalla Regione Omissis, va ripar-tito distintamente tra tutti i convenuti, nella misura sotto specificata e per ciascuno di essi, tenuto conto delle rispettive qualità e delle singole condotte indi-viduali.

* * *

Regione Friuli-Venezia Giulia

I

11 – Sezione giurisdizionale Regione Friuli-Venezia Giulia; sentenza 3 febbraio 2014; Pres. Lener, Est. Rigoni, P.M. Zappatori; Proc. reg. c. Moret-ton.

Giurisdizione e competenza – Presidente del gruppo politico di un consiglio regionale – Ge-stione dei fondi erogati al gruppo dal consi-glio regionale – Responsabilità patrimoniale – Giurisdizione contabile.

Cost., artt. 68, 103; l. cost. 31 gennaio 1963 n. 1, Statuto speciale della Regione autonoma Friuli-Ve-nezia Giulia, art. 16; l. reg. Friuli-Venezia Giulia 5 novembre 1973 n. 55, variazioni al bilancio della re-gione per l’esercizio finanziario 1973, art. 4; l. reg. Friuli-Venezia Giulia 28 ottobre 1980 n. 52, norme per il funzionamento dei gruppi consiliari, art. 12; l. 14 gennaio 1994 n. 20, disposizioni in materia di giurisdizione e controllo della Corte dei conti, art. 1.Giurisdizione e competenza – Presidente del

gruppo politico di un consiglio regionale – Ge-stione dei fondi erogati al gruppo dal consi-glio regionale – Responsabilità patrimoniale – Giurisdizione contabile – Insindacabilità dell’attività amministrativa dei gruppi consi-liari – Esclusione.

Cost., artt. 68, 103, 122; l. cost. 31 gennaio 1963 n. 1, art. 16; l. reg. Friuli-Venezia Giulia 5 novembre 1973 n. 55, art. 4; l. reg. Friuli-Venezia Giulia 28 ottobre 1980 n. 52, art. 12; l. 14 gennaio 1994 n. 20, art. 1.Responsabilità amministrativa e contabile – Pre-

sidente del gruppo politico di un consiglio re-gionale – Spese di rappresentanza non dimo-strate o non giustificate – Danno erariale.

L. 14 gennaio 1994 n. 20, art. 1.Responsabilità amministrativa e contabile – Pre-

sidente del gruppo politico di un consiglio regionale – Spese di rappresentanza non di-mostrate o non giustificate – Danno erariale – Omessa vigilanza sui rendiconti del gruppo da parte dell’ufficio di presidenza del consiglio regionale – Riduzione dell’addebito a carico del presidente del gruppo consiliare.

R.d. 12 luglio 1934 n. 1214, approvazione del t.u. delle leggi sulla Corte dei conti, art. 52.

Sussiste la giurisdizione della Corte dei conti nei confronti del presidente di un gruppo politico del con-siglio regionale per l’accertamento della sua respon-sabilità in relazione alla gestione dei fondi erogati al gruppo stesso dal consiglio regionale, ove tali fondi siano stati destinati a finalità diverse da quelle isti-tuzionali del gruppo o ad attività non funzionalmente collegate con la vita e le esigenze del gruppo (in moti-vazione, si precisa, altresì, che il presidente del grup-po consiliare è legato alla regione da un rapporto di servizio onorario, in virtù della titolarità della carica elettiva di consigliere regionale). (1)

(1-8) I. - Con riferimento alle massime (1), (2) e (5), sulla giurisdizione della Corte dei conti in ordine all’accertamento della responsabilità patrimoniale degli appartenenti ai gruppi politici dei consigli regionali per l’illecito impiego dei fondi

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PARTE II – ATTIVITÀ GIURISDIZIONALE N. 5-6/2014

280

La giurisdizione della Corte dei conti nei con-fronti del presidente di un gruppo politico del consi-glio regionale per l’accertamento della sua respon-sabilità nella gestione dei fondi erogati al gruppo stesso dal consiglio regionale non incontra il limite della presunta autonomia e insindacabilità dell’at-tività esercitata dai gruppi consiliari all’interno del consiglio regionale, atteso che l’oggetto del sinda-cato giurisdizionale non è costituito dalle scelte af-ferenti l’attività legislativa dell’organo collegiale, bensì all’attività amministrativa dei componenti dei gruppi in relazione alla gestione di risorse pubbli-che. (2)

Le spese di rappresentanza che i gruppi politi-ci dei consigli regionali effettuano con le risorse ad essi erogate dagli stessi consigli hanno la specifica funzione di mantenere o incrementare il prestigio istituzionale esterno del gruppo e, pertanto, debbo-no essere destinate a finanziare iniziative di visibilità e di comunicazione, onde far percepire all’elettora-to l’impegno del gruppo nell’attività politica della regione; pertanto, la mancata inerenza di tali spese alle menzionate finalità o la loro mancata rendicon-tazione costituisce un danno erariale per colpa gra-ve del presidente del gruppo consiliare. (3)

Nella quantificazione del danno cagionato alla regione dal presidente di un gruppo politico del consiglio regionale per l’illecita gestione dei fondi assegnati al gruppo stesso, va tenuto conto – con conseguente riduzione dell’addebito – del concorso causale dei componenti dell’ufficio di presidenza del consiglio regionale per non aver essi correttamente esercitato i loro compiti di controllo sull’operato del presidente del gruppo consiliare. (4)

II

90 – Sezione giurisdizionale Regione Friuli-Venezia Giulia; sentenza 23 ottobre 2014; Pres. Lener,

pubblici da essi percepiti a carico del bilancio regionale, v. Cass., S.U., 31 ottobre 2014, n. 23257, in questo fascicolo, 378, con nota di richiami.

II. - Sulla responsabilità per danno erariale dei compo-nenti dei gruppi politici dei consigli regionali per l’uso illeci-to dei fondi pubblici erogati ai gruppi stessi, v., da ultimo, Corte conti, Sez. giur. reg. Sardegna, 18 novembre 2014, n. 229, in questo fascicolo, 308; Sez. giur. reg. Emilia-Roma-gna, 10 ottobre 2014, n. 140, in questo fascicolo, 271; Corte conti, Sez. giur. reg. Friuli-Venezia Giulia, 10 luglio 2014, n. 61, e Sez. giur. reg. Lombardia, 28 luglio 2014, n. 163, in que-sta Rivista, 2014, fasc. 3-4, rispettivamente 303 e 341, con no-te di richiami.

Est. Di Lecce, P.M. Zappatori; Proc. reg. c. Va-lenti.

Giurisdizione e competenza – Gruppi politici dei consigli regionali – Fondi assegnati dal consi-glio regionale – Illecito utilizzo – Giurisdizione contabile.

Cost., artt. 103, 122; l. cost. 31 gennaio 1963 n. 1, art. 16; l. reg. Friuli-Venezia Giulia 5 novembre 1973 n. 54, norme riguardanti le spese di funzionamento dei gruppi consiliari; l. reg. Friuli-Venezia Giulia 28 ottobre 1980 n. 52; l. 14 gennaio 1994 n. 20, art. 1; d.l. 23 ottobre 1996 n. 543, convertito con modifica-zioni dalla l. 20 dicembre 1996 n. 639, disposizio-ni urgenti in materia di ordinamento della Corte dei conti, art. 3.Responsabilità amministrativa e contabile –

Gruppi politici dei consigli regionali – Fondi assegnati dal consiglio regionale – Obbligo di rendicontazione – Spese di rappresentanza – Obbligo di giustificazione – Sussistenza.

L. reg. Friuli-Venezia Giulia 5 novembre 1973 n. 54; l. reg. Friuli-Venezia Giulia 28 ottobre 1980 n. 52; l. 14 gennaio 1994 n. 20, art. 1; d.l. 23 ottobre 1996 n. 543, convertito con modificazioni dalla l. 20 dicem-bre 1996 n. 639, art. 3.Responsabilità amministrativa e contabile – Ge-

stione di fondi pubblici – Mantenimento di prassi illegittime – Elemento di aggravio della responsabilità – Condizioni.

L. 14 gennaio 1994 n. 20, art. 1; d.l. 23 ottobre 1996 n. 543, convertito con modificazioni dalla l. 20 di-cembre 1996 n. 639, art. 3.Responsabilità amministrativa e contabile –

Gruppi politici dei consigli regionali – Fondi assegnati dal consiglio regionale – Spese di rappresentanza non giustificate – Danno era-riale – Valutazione del concorso causale con soggetti non convenuti in giudizio – Necessità.

L. reg. Friuli-Venezia Giulia 5 novembre 1973 n. 54;

III. - Con riferimento alle massime (3) e (6), sulle carat-teristiche delle spese di rappresentanza ai fini della regolarità dei rendiconti dei gruppi politici dei consigli regionali non-ché ai fini della responsabilità dei presidenti e dei componen-ti dei gruppi consiliari per l’effettuazione di spese di rappre-sentanza non qualificabili come tali, ovvero non giustificate o documentate, v., da ultimo, Corte conti, Sez. riun. (spec. comp.), 12 dicembre 2014, n. 59, in questa fascicolo, 201; Sez. contr. reg. Toscana, 23 luglio 2014, n. 90, in questa Rivi-sta, 2014, fasc. 3-4, 187; Sez. contr. reg. Friuli-Venezia Giu-lia, 30 aprile 2014, n. 64, ibidem, 171; Sez. contr. reg. Valle d’Aosta, 28 febbraio 2014, n. 2, ibidem, 191, con nota di ri-chiami ulteriori.

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N. 5-6/2014 PARTE II – ATTIVITÀ GIURISDIZIONALE

281

l. reg. Friuli-Venezia Giulia 28 ottobre 1980 n. 52; l. 14 gennaio 1994 n. 20, art. 1; d.l. 23 ottobre 1996 n. 543, convertito con modificazioni dalla l. 20 dicem-bre 1996 n. 639, art. 3.

La giurisdizione della Corte dei conti sulla ge-stione dei fondi che i consigli regionali erogano ai gruppi politici per lo svolgimento delle loro funzioni istituzionali trova fondamento non solo nell’art. 103 Cost., che prevede la giurisdizione contabile nelle materie di contabilità pubblica e nelle altre specifi-cate dalla legge, ma anche nei princìpi ordinamenta-li che assoggettano le risorse pubbliche al controllo, anche giurisdizionale, circa la coerenza del loro im-piego con le finalità stabilite dalla legge (in motiva-zione, si precisa che i fondi assegnati ai gruppi con-siliari, per lo svolgimento dei loro compiti istituzio-nali hanno natura pubblica, in quanto provengono dalle risorse del bilancio del consiglio regionale, e mantengono tale connotazione anche a seguito della loro assegnazione ai gruppi consiliari). (5)

Le spese di rappresentanza effettuate dai consi-glieri regionali con l’utilizzo dei fondi assegnati dal consiglio al gruppo di appartenenza degli stessi con-siglieri devono essere sempre rendicontate, al fine di verificarne la coerenza con le finalità previste dalla legislazione regionale per l’impiego delle risorse as-segnate al gruppo. (6)

Il mantenimento di una prassi illegittima nella gestione di fondi pubblici può costituire un elemento di aggravio della responsabilità amministrativa, nei casi in cui l’agente avrebbe potuto modificare, con la propria condotta, una situazione foriera di grave pregiudizio per le finanze pubbliche. (7)

Nell’ipotesi di responsabilità erariale dei consi-glieri regionali che abbiano utilizzato per spese di

rappresentanza non giustificate i fondi assegnati al gruppo di appartenenza, le condotte poste in essere da soggetti non convenuti in giudizio – come i com-ponenti dell’ufficio di presidenza e il presidente del gruppo consiliare, che abbiano assunto un’effica-cia concausale nella produzione del danno eraria-le – rilevano anch’esse ai fini della quantificazione dell’addebito. (8)

I

Sez. giur. reg. Friuli-Venezia Giulia,3 febbraio 2014, n. 11

Diritto – Va inizialmente affrontata l’eccezione di difetto di giurisdizione della Corte dei conti sol-levata dal convenuto in memoria di costituzione, e la conseguente istanza di sospensione del processo ai sensi dell’art. 367 c.p.c. formulata a seguito della presentazione del regolamento di giurisdizione avan-ti alle Sezioni unite della Corte di cassazione.

Sostiene, infatti, Moretton che il giudice contabi-le non potrebbe pronunciarsi in merito alla vicenda dedotta in giudizio per effetto della natura giuridica del gruppo consiliare e dei suoi membri. Il difetto di giurisdizione risiederebbe, quindi, nel fatto che i con-siglieri regionali non potrebbero essere equiparati a meri dipendenti pubblici, ma, in virtù del parallelismo tra le garanzie accordate ai Parlamentari (scaturenti dal raffronto tra gli artt. 68, c. 1, e 122 Cost., e l’art. 16 dello Statuto speciale della Regione Friuli-Venezia Giulia), dovrebbero essere riconosciuti quali titolari di una funzione legislativa alla pari dei Deputati e dei Senatori della Repubblica. Qualsiasi sindacato esterno sull’attività dei gruppi consiliari, compreso il control-lo esterno sull’utilizzo dei fondi loro assegnati, sareb-be, a suo dire, un’inammissibile interferenza nell’atti-vità politica, non concessa a un organo magistratuale.

Inoltre, secondo la visione del convenuto, non vi sarebbe alcuna norma specifica che attribuisca alla Corte dei conti le ipotesi di danno da mala gestio dei fondi dei gruppi consiliari, come invece richiedereb-be l’art. 103 Cost. secondo l’interpretazione fornita da alcune pronunce della Corte costituzionale (Corte cost., n. 46/2008). In tal senso l’insindacabilità dei consiglieri regionali si estenderebbe anche alla sfe-ra della responsabilità patrimoniale perché diretta a tutelare la sfera di autonomia costituzionalmente riconosciuta, in virtù della non assimilabilità dei consiglieri agli amministratori e dipendenti pubblici, come invece prevede la l. n. 20/1994 nel delimitare la giurisdizione del giudice contabile.

IV. - Nel senso che i presidenti dei gruppi consiliari non sono soggetti all’obbligo di resa del conto giudiziale, ferma restando la loro responsabilità amministrativa e contabile per l’eventuale illecita utilizzazione dei fondi assegnati ai gruppi medesimi, v. Corte conti, Sez. riun., 4 agosto 2014, n. 30, in questa Rivista, fasc. 3-4, 218, con nota di richiami.

V. - Circa il potere della Corte dei conti di eseguire il con-trollo di regolarità dei rendiconti dei gruppi politici dei consi-gli regionali, v., da ultimo, Corte cost. 26 novembre 2014, n. 263, in questo fascicolo 352.

Nel senso che non rientra nella giurisdizione amministra-tiva la competenza a giudicare sull’impugnazione delle pro-nunce di controllo della Corte dei conti relative alla regolarità dei rendiconti dei gruppi politici dei consigli regionali, v. Tar Basilicata, 26 novembre 2014, n. 808, in questo fascicolo, 385, con nota di A. Luberti, La competenza delle sezioni riu-nite in speciale composizione nelle materie di contabilità pub-blica.

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282

In buona sostanza il difetto di giurisdizione della Corte dei conti si fonderebbe sull’insindacabilità as-soluta dell’attività dei consiglieri regionali trattando-si di membri di un organo legislativo e, conseguente-mente, le spese sostenute dai gruppi sarebbero con-nesse all’attività legislativa e valutate dal consiglio regionale in sede di voto sul bilancio consuntivo.

La prospettazione formulata dal convenuto, sep-pure suggestiva, non convince.

Questa Sezione si è già recentemente pronunciata in un caso analogo con ord. 10 dicembre 2013, n. 383 con l’enunciazione di principi generali valevoli anche in questa sede.

Inizialmente va osservato che esiste un rapporto di servizio onorario tra il Moretton e l’ente regiona-le in ragione della titolarità della carica elettiva di consigliere regionale, e che sussiste una relazione funzionale tra il presidente del gruppo consiliare e il consiglio regionale, finalizzata alla gestione pri-maria dei fondi pubblici destinati al funzionamento dei gruppi medesimi. Detto rapporto, generatore di una responsabilità di natura gestoria, emerge chiara-mente dall’art. 1, c. 1, del regolamento di esecuzione delle l. reg. n. 54/1973 e n. 52/1980 (delibera dell’uf-ficio di presidenza del consiglio regionale Friuli-Ve-nezia Giulia n. 196/1996), laddove si prevede che al presidente del gruppo siano versati i contributi per le spese di funzionamento, con ciò delineando nei suoi confronti un ben preciso compito di legittima gestio-ne dei fondi e di controllo sulle spese effettuate dai singoli consiglieri, cui è correlato anche il dovere di tenuta delle scritture contabili e di conservazione dei titoli di spesa (art. 3, c. 1, reg.) e di redazione di una nota riepilogativa delle spese con l’attestazione di conservazione dei documenti giustificativi a cura del presidente del gruppo consiliare (art. 6, c. 1, reg.).

La precisa disciplina normativa testé delineata, da sola sufficiente per proclamare la piena giurisdi-zione contabile nella fattispecie all’esame del colle-gio, può essere corroborata da ulteriori considera-zioni afferenti alla “pubblicità” della contribuzione destinata al funzionamento dei gruppi consiliari, lad-dove si consideri che, per consolidato orientamento giurisprudenziale della Corte di cassazione, per radi-care la giurisdizione contabile non si valuta necessa-riamente la caratteristica soggettiva dell’agente, ma si predilige l’aspetto “oggettivo” della natura e della fonte delle risorse finanziarie utilizzate dal conve-nuto (Cass., S.U., ord. n. 4511/2006 per la quale, ai fini dell’individuazione del confine tra giurisdizione ordinaria e contabile, non si prende più in conside-razione la qualità pubblica del soggetto convenuto,

bensì la fonte del finanziamento, la natura del danno e gli scopi perseguiti).

Non convince neppure l’argomentazione in base alla quale la giurisdizione contabile sulla gestione dei fondi destinati ai gruppi consiliari determine-rebbe una lesione delle prerogative di autonomia e d’insindacabilità che, secondo il convenuto, sarebbe-ro riconosciute dall’art. 122, c. 4, Cost. in relazione all’art. 16 Statuto Regione Friuli-Venezia Giulia. Ba-sterebbe, a tal fine, considerare che la Corte costitu-zionale riconosce che l’insindacabilità dei consiglie-ri regionali è strettamente collegata alla tutela della funzione legislativa e d’indirizzo politico, senza che per questo sia compresa anche la mera funzione am-ministrativa (Corte cost., n. 69/1985; n. 209/1994).

È di tutta evidenza che le tutele riconosciute ai consiglieri regionali pertinenti all’insindacabilità dei voti espressi non possa genericamente estendersi a tutta l’attività svolte dai gruppi consiliari, proprio per l’irragionevolezza conseguente a un ampliamento non giustificato di tutele costituzionalmente garanti-te, ma di stretta applicazione fattuale alle manifesta-zioni di volontà e d’opinione nel corso dell’attività d’aula. Non appare, invece, minimamente giustifica-ta l’estensione di dette garanzie anche ad altre atti-vità connesse alla vita dei gruppi consiliari, proprio per la mancanza di una norma specifica in tal senso e per la ratio della disposizione che ha riconosciuto le invocate guarentigie, le quali si limitano all’eserci-zio delle attività di voto e non possono certo limitare l’accertamento della responsabilità amministrativa (Corte cost., sent. n. 292/2001).

Né può condividersi l’affermazione del Moret-ton che vorrebbe escludere la giurisdizione contabile sul mero presupposto della “copertura” generale del bilancio mediante l’approvazione del rendiconto per opera del consiglio regionale, che determinerebbe un’ingiusta e inammissibile ingerenza del giudice contabile sui voti espressi dall’assemblea legislati-va. È inconcepibile che l’approvazione del bilancio consuntivo da parte del consiglio regionale determi-ni un’insindacabilità “derivata” delle decisioni con-tabili di cui il bilancio, quale documento contabile di sintesi, costituisce l’indicazione sommaria. Infatti, si determinerebbe un’area di totale irresponsabilità ci-vile, penale e contabile senza alcun fondamento giu-ridico e incompatibile non solo con l’interpretazione dell’art. 122, c. 4, Cost. (che, come detto, limita l’in-sindacabilità dei consiglieri regionali alle sole opi-nioni espresse nelle votazioni in aula nell’esercizio delle funzioni politiche), ma con i principi generali d’uguaglianza e legalità di matrice costituzionale.

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N. 5-6/2014 PARTE II – ATTIVITÀ GIURISDIZIONALE

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Pertanto non vi sono gli elementi per ritenere fondato l’invocato difetto di giurisdizione del giudi-ce contabile, che va invece dichiarata alla luce delle considerazioni sin qui svolte.

Va dunque rigettata la domanda di sospensione del giudizio ai sensi dell’art. 367 c.p.c., essendo la stessa manifestamente infondata.

Nel merito il collegio ritiene che vi siano gli estremi per dichiarare la responsabilità del convenu-to Moretton nei limiti di seguito riportati.

Le risorse attribuite ai gruppi consiliari regionali e imputate a spese di rappresentanza hanno la spe-cifica funzione di mantenere o incrementare il pre-stigio istituzionale esterno dell’organismo cui fanno riferimento. Si tratta di esborsi finalizzati a finanziare iniziative di visibilità e di comunicazione esterna del gruppo mediante la copertura delle spese di ospitali-tà o di convivialità per personalità o autorità esterne, onde consentire la massima divulgazione dell’attività istituzionale che svolge il gruppo consiliare all’inter-no del consiglio regionale con lo scopo di far perce-pire all’elettorato l’impegno della coalizione nell’at-tività politica della regione (Corte conti, Sez. giur. reg. Friuli-Venezia Giulia, n. 12/2011). Esse devono rispondere a criteri di decoro, sobrietà ed economici-tà, e sono destinate a coprire esigenze organizzative di eventi pubblici e a fornire ospitalità a personalità istituzionali in occasione di tali avvenimenti.

L’attribuzione di fondi ai gruppi interni al con-siglio regionale della Regione Friuli-Venezia Giu-lia è prevista dalle l. reg. n. 54/1973 e n. 52/1980 per consentire agli stessi di avere il personale e dei mezzi necessari all’assolvimento delle loro funzio-ni trattandosi, come chiaramente evidenziato dalla giurisprudenza (Cass., S.U., n. 3335/2004; Cons. Stato, Sez. IV, n. 932/1992), di soggetti intesi come proiezione interna dei partiti politici di riferimento e organismi strumentali interni all’assemblea con di-sciplina pubblicistica.

Il regolamento adottato con delib. n. 196/1996 dell’ufficio di presidenza del consiglio regionale del-la Regione Friuli-Venezia Giulia ha precisato qua-li fossero le spese da ricondurre all’esercizio delle funzioni attribuite dallo statuto regionale ai gruppi consiliari, onde fornire le linee guida per la compila-zione della relazione che l’art. 15 l. reg. n. 52/1980 impone sia inviata annualmente al citato ufficio di presidenza per illustrare come i contributi sono stati concretamente utilizzati.

La norma secondaria indica quali siano, nel concreto e con un’elencazione di natura tassativa, le spese di funzionamento dei gruppi consiliari che

giustificano l’utilizzazione dei contributi pubblici. Nel dettaglio (art. 1, c. 2, reg. n. 196/1996) si tratta degli esborsi per la divulgazione delle attività e dei programmi del gruppo, per la cancelleria e le tele-fonate, per le trasferte dei consiglieri connesse alle esigenze del gruppo, per l’acquisto di libri e giorna-li o per accedere a banche dati di stampa periodica, per la rappresentanza nell’interesse del gruppo e per la stipulazione di polizze assicurative integrative su autoveicoli utilizzati dai consiglieri o dal personale nell’esclusivo interesse del gruppo.

A conferma della tassatività dell’elenco il rego-lamento n. 196/1996 prevede che qualunque altra spesa di funzionamento, non contemplata nell’art. 1, c. 2, possa essere rimborsata unicamente a seguito di preventiva autorizzazione da parte dell’ufficio di presidenza, rendendo quindi del tutto eccezionali le ipotesi di spesa per le quali è ammessa la ripetizione.

Va evidenziato che i contributi regionali (previsti dalle l. reg. n. 54/1973 e n. 52/1980) sono versati direttamente al presidente del gruppo con un preciso vincolo di destinazione (funzionamento, aggiorna-mento e documentazione a vantaggio del gruppo), e che in capo al predetto sorgono una serie di obblighi inerenti alla gestione medesima.

Tra questi obblighi rientra quello di tenuta di scritture contabili inerenti i contributi e i finanzia-menti, nonché la conservazione dei titoli di spesa da cui deve emergere con chiarezza la causale di cia-scun esborso riconducibile al gruppo. A conferma della rigorosità degli obblighi imposti al capogrup-po, si dispone il deposito, al termine della legisla-tura, sia delle scritture contabili afferenti alle spese dei gruppi consiliari, sia i titoli di spesa in originale a riscontro della movimentazione contabile in esse contenuta. Ulteriore onere in capo al presidente del gruppo consiliare che emerge dal regolamento appli-cativo del 1996 è la presentazione di una nota riepi-logativa delle spese, con cadenza annuale, da pro-durre all’ufficio di presidenza e correlata da una rela-zione illustrativa e da una dichiarazione nella quale attesta che i documenti giustificativi sono conservati presso il gruppo medesimo. L’ufficio di presidenza si esprime su tale documento accertandone la rispon-denza alle disposizioni regolamentari, con l’attribu-zione del potere di chiedere chiarimenti. La sanzione conseguente al mancato adempimento delle predette prescrizioni consiste nella sospensione della corre-sponsione dei contributi (art. 6 reg. n. 196/1996). La connotazione pubblicistica delle risorse assegnate al gruppo consiliare emerge con chiarezza nella di-sposizione conclusiva del regolamento, che impone

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il riversamento al bilancio del consiglio regionale di ogni saldo attivo eventualmente risultante al termine della legislatura.

Alla luce delle considerazioni sin qui svolte, si può affermare che le risorse assegnate ai capigrup-po per coprire le spese di rappresentanza sostenute nell’interesse del gruppo (la cui utilizzazione costi-tuisce l’oggetto del presente giudizio) fanno sorgere a carico dei percettori, responsabili del gruppo consi-liare, un onere di rendicontazione nei confronti della regione, nonché un dovere di vigilanza relativamente alla corretta destinazione delle medesime.

La deviazione dalle finalità pubblicistiche delle spese di cui trattasi, la loro omessa rendicontazione o la mancata attestazione, da parte del capogruppo, dei motivi e delle circostanze in cui esse sono state sostenute costituiscono un’evidente violazione, gra-vemente colposa, delle regole di gestione di fondi pubblici da parte del capogruppo cui l’ordinamento conferisce la responsabilità gestoria delle somme a ciò destinate e, come già evidenziato, l’obbligo del-la tenuta di scritture contabili e di conservazione dei titoli di spesa.

Moretton aveva non solo l’onere conseguente alla sua posizione interna al gruppo consiliare di ap-partenenza di rendicontazione e di tenuta documen-tale delle ricevute di spesa imputate a spese di rap-presentanza, ma, soprattutto, il dovere di verificare che le spese da lui personalmente sostenute e quelle affrontate dai suoi colleghi di gruppo avessero effet-tivamente la destinazione richiesta dalla normativa di settore, ovvero che si trattassero di esborsi fina-lizzati a remunerare attività istituzionali del gruppo o comunque collegate con nesso funzionale con la vita e le esigenze del gruppo (Cass., n. 33069/2003).

Detta corrispondenza doveva quindi essere cer-tificata mediante esplicita indicazione, nel concreto, del contesto attinente l’attività nella quale la spesa era stata effettuata, a vantaggio di personalità o si-tuazioni esterne per le quali vi fosse un particolare interesse comunicativo giustificato dall’attività pub-blicistica del gruppo medesimo.

Nel caso concreto queste imprescindibili con-dizioni non emergono dalla documentazione che la procura contabile ha prodotto contestualmente alla citazione in giudizio.

Si tratta, infatti, nella maggior parte dei casi di ricevute di ristoranti, bar, enoteche e, in misura mi-nore, di altri esercizi commerciali di varia natura in relazione alle quali manca l’esplicita attestazione sui motivi e sulle esigenze di rappresentanza esterna che le hanno determinate.

Si prende atto che Moretton ha cercato di fornire una giustificazione delle spese che gli vengono con-testate, indicando in via generica esigenze di “ascol-to” delle necessità e delle aspettative della società civile che richiedevano ripetute consumazioni pres-so bar o ristoranti. Tuttavia, a giudizio del collegio, dette giustificazioni sono generiche, tardive e auto-referenziali, e comunque prive della specifica indi-cazione del nesso con la proiezione dell’immagine esterna del gruppo.

Né appare accettabile l’invocata sussistenza, a fini esimenti, di una “prassi” secondo la quale non competerebbe al presidente del gruppo alcun sinda-cato sulle spese effettuate, poiché l’obbligo di vigi-lanza e controllo sorge in maniera inequivocabile non solo dalle l. reg. n. 54/1973 e n. 52/1980, ma soprattutto dal più volte richiamato regolamento n. 196/1996 che disciplina con chiarezza evidente la materia di cui trattasi, e che non ammette consuetu-dini praeter legem trattandosi di settore, come visto, dettagliatamente regolamentato.

Va altresì aggiunto che dall’esame delle ricevute poste a giustificazione delle spese di rappresentanza del gruppo, emergono tipologie di spesa non com-patibili con la funzione istituzionale richiesta dalla norma. Tra queste vanno citate, a titolo meramente esemplificativo, gli acquisti presso negozi di calza-ture (ricevuta del 2 novembre 2011 per euro 194 e n. 2 ricevute del 24 dicembre 2011, emesse dal mede-simo esercizio commerciale, per euro 230 e per euro 280) e di pelletterie (ricevuta del 31 maggio 2011 per euro 125) senza l’indicazione del beneficiario e dell’occasione che avrebbe generato la necessità di un presente, oppure l’acquisto di boccioni d’acqua (ad esempio, tra le altre, ricevuta del 21 gennaio 2011 per euro 50,80) senza l’indicazione dei locali cui erano destinati e, de plano, del tutto incompa-tibili con le funzioni di comunicazione esterna del gruppo consiliare.

Da stigmatizzare, altresì, la frequenza eccesiva di ricevute di numerosi pasti consumati presso ristoran-ti, anche d’eccellenza, presenti nella Regione Friu-li-Venezia Giulia e in genere nel territorio nazionale, che rende inverosimile, sia per la numerosità sia per la mancanza d’indicazione specifica dei partecipanti alle riunioni conviviali e della giustificazione, che si tratti, per tutte le circostanze, d’incontri istituzionali.

A ciò deve aggiungersi l’incongruo ripetersi di ricevute rilasciate sempre dagli stessi ristoranti, mol-to spesso collocati fuori dalla regione o addirittura interni a circoli velistici della Provincia di Trieste.

Privo del requisito della rappresentanza esterna

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appare senza dubbio l’acquisto effettuato presso un negozio di Trieste specializzato in articoli per neo-nati per euro 337 (ricevuta del 16 novembre 2011), per il quale sembra difficile collegare una funzione d’immagine del gruppo consiliare nella totale man-canza d’indicazione dell’evento e del destinatario del presente, così come senza apparente giustificazione, in assenza di una corretta attestazione da parte del capogruppo, risultano gli acquisti per complessivi euro 310 presso un negozio di bigiotteria in Trieste in data 6 dicembre 2011 e la spesa in data 9 dicembre 2011 presso un supermercato Interspar di Pradama-no (UD) di generi alimentari per complessivi euro 200,48.

In definitiva questo collegio ritiene che Moretton non abbia correttamente gestito le pubbliche risorse a lui assegnate, quale presidente di gruppo consilia-re, per il fine della rappresentanza esterna del gruppo medesimo per l’anno 2011, avendo omesso di ripor-tare per ciascuna di esse il contesto e l’occasione pubblica nella quale sono state sostenute, circostan-za che avrebbe consentito, quanto meno, una verifica puntuale delle motivazioni per le quali si è proce-duto al rimborso con risorse della collettività. Tale omissione sussiste sia per quanto riguarda le somme poste a rimborso prive di giustificativo di spesa, sia per le somme personalmente eseguite dal convenuto e a lui rimborsate, sia infine per i rimborsi chiesti e ottenuti dai singoli consiglieri del gruppo, pur non potendosi ricondurre gli esborsi di cui si discute ad attività esterne ed istituzionali collegate all’attività del gruppo.

Riguardo alla quantificazione del danno si ritiene di dover imputare al convenuto interamente gli im-porti per i quali non sono stati rinvenuti giustificativi di spesa (euro 2.674,45) per assenza non solo di pro-va della legittimità della spesa ma altresì per l’assen-za di qualsiasi riscontro dell’effettività dell’indicato esborso.

Ugualmente vanno imputate al convenuto le somme concernenti le spese da lui personalmente sostenute in quanto prive di valida giustificazione secondo i criteri citati.

Quanto, invece, alle spese effettuate dagli altri consiglieri del gruppo Partito Democratico e rimbor-sate come spese di rappresentanza, si prende atto che nel corso del giudizio alcuni di loro hanno provvedu-to a saldare personalmente quanto di loro spettanza. (Omissis)

Infine vanno detratti dalla quantificazione finale di quanto dovuto dal Moretton a titolo di danno era-riale gli esborsi, poi rimborsati, destinati presumibil-

mente all’acquisto di libri e giornali le cui ricevute sono state allegate all’annotazione di Polizia eraria-le della Guardia di finanza del 30 gennaio 2013 (in atti). Trattasi di somme per le quali il regolamento n. 196/1996 prevede espressamente, all’art. 1, c. 2, lett. d), l’inclusione nelle spese di funzionamento per le quali il presidente del gruppo riceve i contributi pre-visti dalle leggi regionali. Nel dettaglio sono rappre-sentate dalle ricevute dell’11 gennaio 2011 per euro 15, del 14 luglio 2011 per euro 32, del 15 luglio 2011 per euro 26,50, del 3 novembre 2011 per euro 24 e del 19 novembre 2011 per euro 17,10 per un totale complessivo di euro 114,60.

Pertanto il danno erariale complessivo va deter-minato in euro 66.776,09, corrispondenti alla somma tra euro 2.674,45 (rimborsi senza alcuna giustifica-zione ed imputate a rappresentanza), euro 14.541,30 (rimborsi per spese di rappresentanza effettuate dal Moretton personalmente quale consigliere), ed euro 49.674,94 (differenza tra euro 83.538,15, quale som-ma imputata a rappresentanza dai consiglieri del gruppo ed euro 33.863,21, consistente nel cumulo dei vari rimborsi pro bono pacis resi dai vari apparte-nenti al gruppo nel corso del giudizio di cui si è dato atto nella motivazione), detratti euro 114,60 afferenti ad acquisto di libri e giornali.

Nella concreta quantificazione del danno il col-legio ritiene peraltro indispensabile considerare il concorso causale dei componenti dell’ufficio di pre-sidenza del consiglio regionale della Regione Friu-li-Venezia Giulia che con la loro condotta non hanno correttamente esercitato i loro compiti di verifica sull’operato del capogruppo Moretton.

Detto organo, infatti, per espressa disposizione dell’art. 6, c. 1, l. reg. n. 196/1996, non solo rice-ve annualmente una nota riepilogativa delle spese effettuate con i fondi erogati nell’anno precedente, ma stabilisce attivamente le modalità di redazione della predetta nota che viene accompagnata da una relazione illustrativa e dall’attestazione della conser-vazione dei documenti giustificativi presso il gruppo di riferimento.

Va osservato che l’ufficio di presidenza, ai sen-si del successivo c. 2 dell’art. 6 cit., deve attestare la rispondenza della nota che perviene dal gruppo consiliare alle disposizioni del regolamento di ese-cuzione delle l. reg. n. 54/1973 e n. 52/1980, con la possibilità di chiedere chiarimenti qualora si ritenes-se necessario.

Il quadro di riferimento entro cui si è sviluppata la vicenda consente di affermare che un più accu-rato controllo nel concreto dell’ufficio di presidenza

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avrebbe potuto evitare le distorsioni nella procedu-ra di attestazione e rimborso delle spese dei gruppi consiliari.

Il peso di questa mancata vigilanza dell’ufficio di presidenza, che ha inciso sulla determinazione concausale del danno patito dalla Regione Friuli-Ve-nezia Giulia, può essere preso in considerazione per un temperamento nella quantificazione del danno erariale (cfr. Corte conti, Sez. giur. reg. Sicilia, n. 2583/2013).

Il collegio ritiene che detto apporto concausale possa essere virtualmente valutato nel 10 per cen-to della responsabilità in esame, tenuto conto che i rendiconti resi annualmente all’ufficio di presidenza erano sommari e che agli stessi non venivano alle-gate le pezze giustificative delle spese effettuate dai gruppi consiliari.

Dall’addebito al Moretton va quindi detratto l’importo di euro 6.677,61, pari al concorso causale virtualmente da ascriversi all’organo suddetto, per una quantificazione finale a carico del convenuto di euro 60.098,48.

Conclusivamente va disposta la condanna di Mo-retton al pagamento, in favore della Regione auto-noma Friuli-Venezia Giulia, del danno quantificato nella misura di euro 60.098,48, oltre rivalutazione monetaria dal 10 febbraio 2012 (data di presentazio-ne da parte del convenuto della nota riepilogativa ex art. 6 reg. n. 196/1996 all’ufficio di presidenza del consiglio regionale) al deposito della presente sen-tenza e interessi legali dalla data di pubblicazione della sentenza all’effettivo soddisfo.

Le spese di giudizio seguono la soccombenza e vengono poste a carico del convenuto nella misura liquidata in dispositivo.

II

Sez. giur. reg. Friuli-Venezia Giulia,23 ottobre 2014, n. 90

Diritto – Preliminarmente all’esame del merito, ritiene il collegio di non poter valutare la sussistenza delle condizioni richieste dall’art. 367, c. 1, c.p.c., ai fini della sospensione del processo, non avendo la difesa del convenuto dimesso in atti copia del rego-lamento preventivo di giurisdizione proposto innanzi alla Corte di cassazione. Sempre in via preliminare va dichiarata l’inammissibilità dell’istanza, pervenu-ta in segreteria il 15 ottobre 2013, con la quale il con-sigliere Valenti ha chiesto di poter accedere alla defi-nizione agevolata del danno prevista dall’art. 14 d.l.

n. 102/2013. È noto, infatti, che la condizione neces-saria per accedere a tale beneficio è data dall’esisten-za, alla data del 15 ottobre 2013, di una pronuncia di condanna di primo grado al risarcimento del danno erariale. Orbene, la carenza di tale fondamentale pre-supposto e la considerazione che la disposizione in-nanzi richiamata assegna alle Sezioni d’appello della Corte dei conti la competenza a decidere i relativi giudizi, impongono la declaratoria di inammissibilità dell’istanza proposta dal convenuto.

Quanto all’eccezione di difetto di giurisdizione sollevata dalla difesa del Valenti, giova ricordare, in linea di continuità con la giurisprudenza di questa Sezione (cfr. Corte conti, Sez. giur. reg. Friuli-Ve-nezia Giulia, ord. n. 38/2013; id. Sez. giur. reg. Friu-li-Venezia Giulia, sent. n. 31 e n. 47 del 2014) come nella fattispecie in esame la giurisdizione del giudice adito trovi fondamento nella previsione di cui all’art. 103 Cost., oltre che nei principi ordinamentali che assoggettano ogni tipo di spesa pubblica al controllo, amministrativo e giurisdizionale, della conformità dell’impiego delle risorse della collettività alle fi-nalità istituzionali previste dalla legge. Per quanto attiene, nello specifico, alla posizione del convenu-to, il potere cognitorio del giudice contabile trova fondamento su più indici concorrenti che si possono così riassumere: a) il rapporto di servizio onorario instauratosi con la Regione Friuli-Venezia Giulia in ragione della carica elettiva di consigliere regionale; b) la relazione di carattere funzionale che discende dall’accesso del consigliere regionale ai contributi pubblici previsti dalle leggi n. 54/1973 e n. 52/1980; c) l’attività di maneggio di denaro pubblico avente una specifica destinazione funzionale.

È doveroso rilevare come la natura “pubblica” dei contributi erogati in favore dei gruppi consilia-ri sia comprovata non solo dalla diretta provenienza delle risorse dal bilancio del consiglio regionale, ma anche dallo specifico “vincolo” di destinazione im-presso ai contributi erogati, operante anche a seguito della loro assegnazione alla materiale disponibilità dei gruppi consiliari. Indicazioni in tal senso si trag-gono dalla disciplina che imponeva, al termine della legislatura, l’obbligo di restituzione al bilancio del consiglio dei saldi attivi residui dei gruppi consiliari (art. 6, c. 6, del regolamento di esecuzione delle l. reg. n. 54/1973 e n. 52/1980) e il trasferimento, al pa-trimonio del consiglio regionale, dei beni dei gruppi consiliari risultanti dall’inventario (art. 5, c. 2, reg. cit.).

Dalla natura “pubblica” delle risorse assegna-te ai gruppi consiliari discende la qualificazione, in

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termini di “danno erariale”, del pregiudizio ricondu-cibile ad un utilizzo delle stesse non riconducibile alle finalità proprie del contributo erogato. In siffatta prospettiva non può riconoscersi alcuna significati-va rilevanza al persistente dibattito sulla soggettività pubblica o privata dei gruppi consiliari, dovendosi ritenere oramai pacifico che ai fini del radicarsi della giurisdizione contabile, i tradizionali canoni “sogget-tivi”, tesi a valorizzare la qualità del soggetto agen-te siano divenuti recessivi rispetto alla valutazione dell’aspetto “oggettivo”, profilo nel quale assumono valore preminente la fonte del finanziamento, la na-tura del danno e gli scopi perseguiti (cfr. Cass., S.U., n. 4511/2006).

Né può fondatamente sostenersi che l’esercizio del sindacato giurisdizionale sulla gestione dei fon-di destinati ai gruppi consiliari comporterebbe una lesione delle prerogative di autonomia e d’insinda-cabilità previste dall’art. 122, c. 4, Cost. e dall’art. 16 dello Statuto speciale della Regione autonoma Friuli-Venezia Giulia. Sul punto deve innanzitutto rilevarsi che la questione all’esame implica un’atti-vità valutativa che non travalica i limiti della giuri-sdizione della Corte dei conti, considerato che la sua soluzione si compendia nell’accertare se rispetto al fatto lesivo dedotto in giudizio, vi sia una regola di carattere sostanziale che accordi protezione al consi-gliere regionale (cfr., con riferimento alla posizione dei parlamentari, Cass., S.U., n. 153/1999; n. 10376, n. 9550 e n. 5174 del 1997; id. n. 9357 e n. 8635 del 1996; id. n. 5477 e n. 5605 del 1995; v. anche Cass., S.U., n. 5756/2012).

A ogni buon conto va ricordato come in più oc-casioni la Corte costituzionale abbia sottolineato la diversità delle funzioni degli organi del Parlamento rispetto a quelli delle altre assemblee elettive, non potendosi considerare estesa ai consigli regionali la deroga rispetto alla generale sottoposizione alla giu-risdizione contabile che si è ritenuto di operare, per ragioni storiche e di salvaguardia della piena autono-mia costituzionale degli organi supremi, nei confron-ti delle Camere parlamentari, della Presidenza della Repubblica e della Corte costituzionale (v. Corte cost., n. 39/2014, che richiama la precedente sent. n. 292/2001; cfr., anche, Corte cost., n. 306/2002).

È noto, altresì, come la giurisprudenza costitu-zionale abbia più volte rimarcato la necessità di di-stinguere fra atti che per essere frutto di voti e opi-nioni espresse dai componenti del consiglio, possono ritenersi coperti dall’insindacabilità, nei limiti ogget-tivi in cui questa assiste le attività dei consigli regio-nali (cfr., ad esempio, sent. n. 69/1985; n. 289/1997

e n. 392/1999) ed atti (od omissioni) invece estranei a tale prerogativa e quindi suscettibili di dare luogo a chiamata in responsabilità (Corte cost., n. 292/2001). Tale distinzione rende palese il carattere relativo e del tutto peculiare di un’immunità la cui sussisten-za va accertata in concreto e che può ritenersi ope-rante unicamente con riferimento ad atti che siano ragionevolmente riconducibili all’attività legislativa del consigliere regionale, costituendo espressione dell’autonomia di tale funzione e delle fondamentali esigenze a essa sottese (Corte cost., n. 289/1997).

Una conferma della legittimità del sindacato del giudice contabile sulle spese in questione – pur ri-ferita ad ambiti temporali diversi e alla specifica materia del controllo – si desume dalla disciplina in-trodotta dal d.l. n. 174/2012. Chiamata a pronunciar-si su alcuni profili di asserita incostituzionalità del sopra indicato decreto legge, la Corte costituzionale, con la recente sent. n. 39/2014, ha avuto modo di ribadire, quanto ai caratteri dell’autonomia organiz-zativa e contabile dei consigli regionali, “la diversità di posizione e funzioni degli organi del Parlamento nazionale rispetto a quelli delle altre assemblee elet-tive (tra le tante, sent. n. 306 e n. 106 del 2002)”. Non meno significativa, nel contesto della richia-mata decisione, deve ritenersi l’affermazione secon-do cui l’art. 1, c. 11, d.l. n. 174/2012, nella parte in cui introduce l’obbligo di restituzione delle somme in esito a irregolarità accertate in sede di control-lo sui rendiconti dei gruppi consiliari, può ritener-si un “principio generale delle norme di contabilità pubblica”, “strettamente correlato al dovere di dare conto delle modalità di impiego del denaro pubblico in conformità alle regole di gestione dei fondi e alla loro attinenza alle funzioni istituzionali svolte dai gruppi consiliari” (Corte cost., sent. n. 39/2014).

Le stesse Sezioni riunite della Corte dei conti, chiamate a pronunciarsi sulla questione dell’attivabi-lità del giudizio di conto nei confronti dei presidenti dei gruppi consiliari regionali, hanno osservato che “l’autonomia organizzativa e contabile dei consigli regionali non può implicare di per sé che l’ammini-strazione consiliare sfugga alla disciplina generale, prevista dalle leggi dello Stato, in ordine ai controlli giurisdizionali”, ponendo, altresì, in evidenza che “il principio dell’autonomia dell’organo regionale non incide sull’obbligo di rispettare il vincolo di desti-nazione dei contributi erogati, la cui violazione può essere accertata in sede giurisdizionale nei confronti del responsabile, non essendo ravvisabile, al riguar-do, alcun profilo di immunità” (Corte conti, Sez. riun., n. 30/2014).

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Se, dunque, le guarentigie dei consiglieri regio-nali costituiscono un presidio delle più elevate fun-zioni di rappresentanza politica del consiglio regio-nale, da individuarsi nella funzione legislativa, in quella d’indirizzo politico e di controllo nonché nel-la funzione di autoorganizzazione interna (cfr. Corte cost., n. 69/1985; id. n. 209/1994), si ritiene che nella fattispecie all’esame tale meccanismo di tutela non possa ritenersi operante, in mancanza di elementi che consentano di ascrivere spese connotate da arbitra-rietà e irragionevolezza rispetto alle esigenze sottese all’erogazione del contributo pubblico, a quel nucleo ristretto di funzioni intestate al consiglio regionale che beneficiano dell’immunità prevista dagli artt. 122, c. 4, Cost. e 16 dello Statuto speciale della Re-gione Friuli-Venezia Giulia.

Parimenti infondata deve ritenersi la tesi secon-do cui l’affermazione della giurisdizione del giudice contabile implicherebbe l’esercizio di un sindacato sull’attività politica dei consiglieri regionali, ovve-ro sul merito delle scelte discrezionali effettuate dal consiglio regionale. In merito a tale argomentazione difensiva è sufficiente rilevare come la procura re-gionale si sia limitata a prospettare un’illiceità cor-relata all’assoluta carenza di elementi giustificativi idonei a far ritenere che l’attività gestoria dei contri-buti pubblici sia stata svolta in conformità ai principi di legittimità, coerenza e chiarezza di rendicontazio-ne che devono assistere l’utilizzo del denaro pub-blico, senza operare alcun sindacato di merito sulle decisioni di spesa operate dal consigliere regionale.

Non è suscettibile di favorevole scrutinio la censura secondo cui l’esercizio della giurisdizione del giudice contabile comporterebbe un sindacato sul voto espresso dai singoli consiglieri in sede di approvazione del bilancio consuntivo regionale. È noto, infatti, che il rendiconto generale della regione costituisce un mero documento di sintesi delle risul-tanze contabili della gestione delle attività e passività finanziarie e patrimoniali dell’ente. Orbene, appare evidente che ove si facesse derivare dal voto dell’as-semblea consiliare l’insindacabilità della sottostante attività di gestione del bilancio (ivi compresa quella afferente ai contributi regionali erogati in favore dei gruppi consiliari, le cui risultanze confluiscono nel bilancio del consiglio regionale) verrebbe a delinear-si un’area di totale irresponsabilità civile, contabile e penale, non assistita da alcun fondamento di diritto positivo ed incompatibile non solo con la concorde interpretazione giurisprudenziale dell’art. 122, c. 4, Cost., ma anche con le previsioni di cui agli artt. 3, 24 e 101 ss. Cost.

Alla stregua delle considerazioni innanzi esposte si ravvisano, conclusivamente, i presupposti per la declaratoria di giurisdizione del giudice contabile in ordine all’azione risarcitoria promossa dal pubblico ministero contabile nei confronti del sig. Gaetano Valenti.

Passando all’esame del merito va rilevato che all’epoca dei fatti (anno 2011), l’attribuzione di fondi pubblici in favore dei gruppi consiliari era prevista, per le occorrenze necessarie all’assolvimento delle relative funzioni istituzionali, dalle l. reg. n. 54/1973 e n. 52/1980. Il successivo regolamento di esecuzio-ne approvato con delib. n. 196/1996 dell’ufficio di presidenza, ha chiarito che i predetti contributi dove-vano ritenersi finalizzati alle “spese di funzionamen-to, di aggiornamento, di studio e documentazione, compresa l’acquisizione di consulenze e di collabo-razioni” oltre che all’acquisto di beni strumentali e all’affidamento di sondaggi.

Ai sensi dell’art. 1, c. 2, del citato regolamento, rientravano nel novero delle spese di funzionamento quelle: a) per iniziative di divulgazione dell’attività e dei programmi del gruppo, anche mediante stampa, manifesti, pubblicazioni o altri mezzi di comunica-zione; b) di cancelleria, postali, telefoniche e di fo-toriproduzione aggiuntive rispetto a quelle previste dall’art. 2, c. 3, l. reg. 28 ottobre 1980, n. 52; c) di rimborso per trasferte di consiglieri regionali com-ponenti il gruppo effettuate per esigenze del gruppo medesimo; d) per l’acquisto di libri, giornali, stampa periodica e per l’accesso a banche dati e reti informa-tiche; e) di rappresentanza sostenute nell’interesse del gruppo; f) per la stipulazione di polizze assicu-rative integrative sugli autoveicoli utilizzati dai con-siglieri o dal personale nell’interesse del gruppo. Le spese non rientranti fra quelle indicate al c. 2 dove-vano essere autorizzate in via preventiva dall’ufficio di presidenza (art. 1, c. 3, reg. cit.).

Ciò premesso, deve rilevarsi che la contestazione della procura regionale muove dall’assunto secondo cui le “spese di rappresentanza” effettuate dal con-venuto mediante l’utilizzo dei contributi destinati al funzionamento dei gruppi consiliari non reche-rebbero alcuna indicazione delle occasioni che le avrebbero rese necessarie, nonché dei nominativi e delle qualifiche dei soggetti beneficiari delle stesse. In definitiva, ad avviso dell’organo requirente, ci si troverebbe di fronte ad una gestione di fondi pubblici attuata in violazione dei principi fondamentali della contabilità pubblica, da ritenersi non solo illegittima, ma anche illogica, irrazionale e contraria ai principi del buon andamento e dell’imparzialità.

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In merito alle contestazioni attoree il patroci-nio del Valenti ha sostenuto che la procura regio-nale, fondando l’azione risarcitoria sull’assenza di elementi giustificativi dell’utilizzo del contributo pubblico, avrebbe realizzato “un’inammissibile in-versione dell’onere della prova”, avendo addossato al convenuto, a distanza di circa due anni, la dimo-strazione della legittimità delle spese sostenute, mal-grado fossero stati assolti gli obblighi documentali richiesti all’epoca dei fatti.

L’affermazione difensiva, per quanto suggestiva, non può trovare favorevole scrutinio, posto che per principi giurisprudenziali consolidati, il beneficiario di un contributo pubblico vincolato ad una specifica destinazione deve ritenersi assoggettato all’obbligo di dar conto del relativo impiego, dimostrando di aver utilizzato le risorse assegnategli in modo co-erente con le finalità che hanno costituito la causa dell’erogazione.

In ragione di tale premesse si ritiene di poter affermare che l’azione promossa dalla procura con-tabile abbia fatto emergere un inadempimento che rileva sul piano sostanziale ancor prima che su quel-lo processuale, posto che nel rapporto giuridico che si instaura tra l’ente erogante ed il destinatario del contributo, la giustificazione dell’attività di spesa forma oggetto di un’obbligazione correlata alla fon-damentale esigenza di garantire l’interesse alla tra-sparenza ed alla legittimità dell’impiego del denaro pubblico. Detto in altri termini, un’adeguata dimo-strazione dell’inerenza dell’attività di spesa alle fina-lità assegnate al contributo costituisce il presupposto indispensabile per affermare la liceità dell’impiego delle risorse pubbliche. In applicazione di tali prin-cipi deve ritenersi gravante sull’organo requirente la mera dimostrazione che il convenuto ha beneficiato di un contributo avente una specifica finalizzazione, mentre va considerato a carico del percettore l’one-re di provare che l’utilizzo delle risorse pubbliche è avvenuto nel rispetto della legge e in modo coerente con le finalità assegnate al contributo erogato (Corte conti, Sez. II centr. app., n. 64/2007; id. Sez. giur. reg. Piemonte, n. 172/2012).

Quanto alle modalità di giustificazione dei rim-borsi, se per le spese univocamente riferibili all’in-teresse del gruppo consiliare (si pensi, ad esempio, alla stampa di pubblicazioni divulgative) può es-sere sufficiente la mera allegazione del documento fiscale, non altrettanto può ritenersi per gli acquisti di beni o servizi privi di un’oggettiva ed immediata riferibilità alle esigenze istituzionali del gruppo (si pensi, sempre a titolo di esempio, alle consumazioni

effettuate presso bar o ristoranti). Risponde, infatti, a criteri logico – giuridici di immediata percezione che per quest’ultima categoria di spese, non distinguibili da quelle di carattere personale o effettuate per finali-tà di propaganda elettorale, il legittimo e trasparente utilizzo del denaro pubblico non possa prescindere da una rigorosa e documentata giustificazione atta a dimostrare il collegamento tra l’esborso sostenuto e l’attività svolta nell’interesse del gruppo.

Ai fini della valutazione della liceità della con-dotta del consigliere Valenti, va osservato come la giurisprudenza della Corte dei conti offrisse, all’e-poca dei fatti (anno 2011), indicazioni chiare sulla nozione di “spesa di rappresentanza” e su quali fos-sero le condizioni legittimanti l’utilizzo del denaro pubblico per tali finalità. Doveva, inoltre, ritenersi conosciuto da chi – come l’odierno convenuto – ope-rava in ambiti istituzionali di assoluta rilevanza – che le predette spese, per essere giustificate, richiedes-sero una correlazione con eventi connotati da ecce-zionalità o comunque dall’esigenza di promuovere, verso l’esterno, l’immagine dell’ente interessato. Era altrettanto noto che tali presupposti non potevano ravvisarsi nell’ambito di normali occasioni di incon-tro con soggetti non rappresentativi degli enti o delle istituzioni di riferimento (cfr. Corte conti, Sez. giur. reg. Friuli-Venezia Giulia, n. 216/2010).

Ed ancora, non poteva ignorarsi, tenuto conto dell’eco mediatica suscitata da casi eclatanti di mala gestio dei fondi destinati a spese di rappresentanza, che la giurisprudenza contabile considerasse inam-missibile sperpero di denaro pubblico e, dunque, fonte di responsabilità erariale, le spese effettuate per omaggi e pranzi offerti dall’amministrazione ai propri dipendenti, gli incontri conviviali non occa-sionati da manifestazioni ufficiali ovvero quelli af-ferenti ai “normali rapporti istituzionali”, gli esborsi sostenuti in favore di soggetti non rappresentativi degli organi di appartenenza, gli omaggi di confezio-ni di cioccolatini, le strenne natalizie, le erogazioni liberali disposte in favore di associazioni (cfr., tra le innumerevoli sentenze della Corte dei conti in ma-teria di spese di rappresentanza, Sez. I centr. app., n. 489/2013; Sez. giur. reg. Friuli-Venezia Giulia, n. 216/2010; id. Sez. giur. reg. Umbria, n. 178/2004; id. Sez. II centr. app., n. 106/2002; id. Sez. III cen-tr. app., n. 158/2000; id. Sez. giur. reg. Basilicata, n. 129/2000).

Da ultimo, non è giustificabile che il convenu-to, considerata la carica elettiva ricoperta, ignorasse quel pacifico principio giurisprudenziale, conforme a regole contabili di immediata percezione, secon-

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do cui il legittimo utilizzo del denaro pubblico per finalità di rappresentanza istituzionale non poteva prescindere da un’adeguata dimostrazione dei rela-tivi aspetti soggettivi, temporali e modali, idonea a consentire una valutazione della sua coerenza con i fini pubblici, non potendosi ritenere sufficiente a soddisfare tale esigenza una mera esposizione della spesa in forma generica o globale (cfr. Corte conti, Sez. giur. reg. Veneto, n. 456/1996). Giova peraltro rilevare che il profilo dell’“inerenza” della spesa co-stituisce, anche nell’ambito dell’attività svolte dalle Sezioni di controllo della Corte dei conti sui rendi-conti dei gruppi consiliari ex art. 1 d.l. n. 174/2012, un imprescindibile parametro di valutazione della liceità della gestione del denaro pubblico dai parte di tali soggetti (v. par. 6.3.9.6 sent. n. 39/2014 Cost.).

Tutto ciò considerato, osserva il collegio come le motivazioni addotte dal consigliere Valenti a giusti-ficazione delle spese contestate dalla procura regio-nale non rechino alcun elemento idoneo a dimostrare il collegamento con le esigenze di rappresentanza istituzionale del gruppo consiliare (va rilevato, in proposito, che l’art. 1, c. 2, lett. e, del regolamento fa espresso riferimento alle “spese di rappresentanza sostenute nell’interesse del gruppo”). A ben vedere, poi, dalla disamina della documentazione versata in atti non si evincono nemmeno gli elementi minimi (indicazione di tempi, modi e persone coinvolte negli eventi finalizzati ad accrescere la proiezione esterna del gruppo consiliare) che consentano di ascrivere i rimborsi conseguiti dal consigliere regionale al no-vero delle “spese di rappresentanza”.

A conclusioni non diverse si perverrebbe nel caso in cui le spese in contestazione (tutte rimborsate quali spese di rappresentanza) venissero scorporate – come richiesto dal Valenti – nelle voci “studio”, “beni strumentali”, “divulgazione attività”, “can-celleria, postali, telefoniche”, “trasferte e rimborsi chilometrici”, “libri e giornali” e “rappresentanza”, corrispondenti ad altrettante causali di spesa contem-plate dal regolamento di esecuzione delle l. reg. n. 54/1973 e n. 52/1980. Sul punto va osservato come la reiterazione, in questa sede giudiziale, degli ele-menti giustificativi già addotti dal consigliere Valenti in sede di controdeduzioni all’invito a dedurre, non abbia offerto elementi nuovi o comunque utili a dar conto di un utilizzo del contributo pubblico confor-me a criteri di legittimità, trasparenza e coerenza con le finalità allo stesso assegnate dalla legge.

Nel dettaglio si osserva che parte convenuta ha ricompreso, nel novero delle “spese di divulgazio-ne” (indicate in complessivi euro 11.643,71), “gli

incontri conviviali, nati con quello scopo ed aventi un numero pari o superiore a quattro partecipanti” (euro 9.089,11), le spese per l’“affitto sale, pernotto e pasti” (euro 2.336), quelle per l’acquisto di “pennel-li e pittura per preparazione cartelloni per incontri” (euro 159,10) nonché le “spese per fotografie” (euro 59,50). Orbene, in merito a tale categoria di spese il collegio, pur ritenendo che l’art. 1, lett. a) del re-golamento di esecuzione delle leggi n. 54/1973 e n. 52/1980 consentisse il ricorso ad iniziative diverse da quelle ivi esemplificate (stampa, manifesti, pub-blicazioni o altri mezzi o sistemi di informazione), deve rimarcare come l’utilizzo del contributo pub-blico imponesse la dimostrazione del collegamento con effettive e comprovate iniziative di divulgazione effettuate nell’interesse del gruppo consiliare.

Profilo, quest’ultimo, di non secondario interes-se, considerato che lo stesso regolamento non solo vietava l’utilizzo dei suddetti contributi per finalità quali il finanziamento delle spese di funzionamento degli organi di partiti e movimenti politici, ma nem-meno consentiva di erogare sovvenzioni in favore dei titolari di cariche elettive (art. 2, cc. 1 e 2, regola-mento approvato con delib. n. 196/1996). Si ritiene, dunque, che la documentazione giustificativa di tali spese, tra le quali assumono una spiccata rilevanza quelle di ristorazione, avrebbe dovuto consentire non solo di accertare la coerenza delle stesse con l’atti-vità istituzionale del gruppo, ma anche di escludere che si trattasse di un modo surrettizio per finanzia-re il partito politico o il titolare della carica elettiva. Conclusivamente, avuto riguardo alla mancanza di elementi idonei a riferire in modo univoco le “spese di divulgazione” effettuate dal Valenti all’interesse del gruppo consiliare di appartenenza, devono rite-nersi ingiustificati e, dunque, fonte di danno erariale, i relativi rimborsi conseguiti dal consigliere regio-nale.

La difesa del convenuto ha inoltre enucleato dal novero delle spese di rappresentanza quelle relative a un viaggio-trasferta effettuato a Stoccolma per moti-vi di “studio”, ricomprendendo, in tale voce, le spese di ristorazione ed “altre minori”, sostenute “a van-taggio degli accompagnatori che avevano fatto da interprete nella visita dell’impianto di incenerimento in città e della discarica di inerti trasformata in pista da sci con impianto di illuminazione notturna”. L’af-fermazione suscita non poche perplessità considerato che tale viaggio, effettuato dal Valenti in compagnia del coniuge, si colloca tra il 31 dicembre 2010 e il 3 gennaio 2011, e dunque a cavallo del capodanno del 2011. Ove, poi, si consideri che il convenuto è giun-

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to a Stoccolma la sera del 31 dicembre e rientrato a Trieste il 3 gennaio pomeriggio (un’agevole confer-ma, in tal senso, si desume dalle date e dai luoghi di emissione degli scontrini chiesti a rimborso), e che l’1 e il 2 gennaio (domenica) 2011 sono stati giorni festivi, risulta ben difficile dar credito alla tesi di-fensiva secondo cui si sarebbe trattato di un viaggio di “studio”. A ciò si aggiunga la considerazione che il Valenti, a conforto di quanto asserito, non ha pro-dotto alcun elemento a conferma di una visita istitu-zionale la cui organizzazione non poteva prescindere da preventivi accordi con le Autorità svedesi. Alla stregua di tali premesse, è opinione del collegio che i rimborsi conseguiti dal Valenti, nell’assenza di ele-menti attestanti l’effettivo compimento, nell’indica-to periodo (capodanno 2011) di un’attività di studio svolta nell’interesse del gruppo consiliare, devono ritenersi estranei alle finalità del contributo e, dun-que, fonte di danno per l’ente regione.

Anche con riferimento alla voce “trasferte e rim-borsi chilometrici” (indicate in complessivi euro 5.665,88), la difesa del Valenti non ha offerto utili elementi di chiarimento in merito alle circostanze giustificative dell’utilizzo del contributo pubblico. In merito a tale contestazione va utilmente rilevato che l’art. 1, c. 2, lett. c) del regolamento di esecu-zione delle l. reg. n. 54/1973 e n. 52/1980 ricom-prendeva, tra le spese di funzionamento del gruppo consiliare, quelle per “trasferte di consiglieri regio-nali, componenti il gruppo o di collaboratori di cui all’art. 14 l. reg. n. 52/1980, effettuate per esigenze del gruppo medesimo”. Appare, dunque, evidente – avuto riguardo al tenore letterale della previsione regolamentare – che le spese di trasferta, per poter-si considerare lecite, dovevano correlarsi a effettive e documentate esigenze del gruppo consiliare, da esplicitarsi quale “motivo” della missione. Per con-tro, il Valenti non ha offerto alcun elemento di det-taglio – né in annotazioni coeve al conseguimento del rimborso, né nella produzione effettuata in questa sede giudiziale – di un’attività svolta nell’interesse del gruppo consiliare, non potendosi ritenere idonee, a tal fine, le generiche dichiarazioni rese dallo stesso interessato in ordine alle date dei viaggi effettuati, ai luoghi raggiunti ed alla percorrenza chilometrica.

Deve aggiungersi che l’omessa indicazione di elementi giustificativi delle trasferte asseritamente effettuate non troverebbe giustificazione nemmeno ove si prospettassero esigenze di tutela della privacy, posto che la gestione delle risorse pubbliche non può ritenersi sottratta a forme di controllo che consen-tano di verificare la coerenza dell’attività di spesa

con le finalità assegnate dal legislatore al contributo erogato. È noto, infatti, come il tema dell’opponibi-lità della privacy alle esigenze di rendicontazione dell’utilizzo del denaro pubblico sia stato risolto, in giurisprudenza, con l’affermazione del principio se-condo cui l’eventuale carattere riservato della spesa non esclude affatto “l’obbligo di dare coeva giusti-ficazione della gestione di quel denaro, per com-provare la sua utilizzazione in modo conforme alle finalità, competenze ed attribuzioni istituzionali po-sitivamente disciplinate, ferma l’eventuale insinda-cabilità della singola scelta, una volta constatata tale conformità alle finalità, competenze ed attribuzioni istituzionali” (Cass. pen., n. 23066/2009). Ritornan-do, dunque, alla voce di spesa relativa alle trasferte, si osserva come ai fini dell’assolvimento dell’obbli-go di giustificare l’impiego del denaro pubblico sa-rebbe stata sufficiente l’esibizione di una preventiva autorizzazione da parte del presidente del gruppo o, quanto meno, un’annotazione contestuale o imme-diatamente successiva recante una motivazione, sia pure di carattere sommario, idonea a comprovare l’esistenza di un collegamento tra la spesa chiesta a rimborso e le esigenze istituzionali del gruppo consi-liare di appartenenza.

Da parte sua, il convenuto non ha offerto elemen-ti di chiarimento in merito ad una voce nella qua-le sono ricompresi non solo i rimborsi chilometrici (euro 5.175,28), ma anche la spesa per la riparazione di un telecomando (euro 36,66), quella relativa alla sostituzione dei pneumatici (euro 520) e per l’assicu-razione dell’auto (euro 524,17), nonché il tagliando di manutenzione (euro 226) ed il bollo dell’autovet-tura intestata al coniuge (euro 257,89), una vignetta autostradale (euro 30), ricambi per auto (euro 65), spese per riparazioni varie (euro 92) ed ulteriori spe-se per l’acquisto di pneumatici (euro 200).

In merito a tale voce di spesa appare evidente come la mancata allegazione di idonee giustificazio-ni delinei il carattere illecito dei rimborsi conseguiti dall’odierno convenuto. Né si ritiene di poter attri-buire alcun significativo rilievo all’affermazione di-fensiva secondo cui si tratterebbe di “interventi sul-le vetture a disposizione del convenuto, che questi utilizza comunemente per la sua attività politica ed istituzionale e di raccordo tra gruppo regionale e ter-ritorio”. Le connotazioni illecite di una condotta tesa a lucrare, in danno dell’ente erogatore, importi di de-naro non dovuti, è resa evidente dalla palese incom-patibilità dei rimborsi per spese di trasferta calcolate secondo le tariffe A.c.i. (per loro natura forfettari ed omnicomprensivi) con quelli relativi alle spese di

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riparazione e gestione dell’autovettura privata, da ritenersi, in ogni caso, non previsti nè consentiti. A connotare, poi, l’estrema disinvoltura con la quale il Valenti ha ritenuto di poter gestire il denaro pubbli-co destinato alle finalità di funzionamento dei gruppi consiliari, è l’accertata inclusione, nel novero delle spese chieste a rimborso, del tagliando di manuten-zione e del bollo dell’autovettura intestata al coniu-ge. In ragione di quanto innanzi esposto va confer-mato, anche con riferimento alle spese riclassificate sotto la voce “trasferte e rimborsi chilometrici”, il carattere illecito e causativo di danno erariale dei rimborsi conseguiti dal consigliere Valenti.

Quanto alla voce “cancelleria, postali e telefo-niche” non può che confermarsi l’addebito dedotto in citazione, non essendo stata dimostrata, per tale categoria di spese – da ritenersi, ai sensi dell’art. 2, c. 3, l. reg. n. 52/1980, direttamente gravanti sui fon-di del consiglio regionale e comunque non univoca-mente riferibili ad utilità del gruppo consiliare – la riconducibilità dei rimborsi conseguiti dal Valenti ad effettive e comprovate esigenze istituzionali. In assenza d’idonei elementi giustificativi, va confer-mato, anche con riferimento a tale voce di spesa, il carattere illecito dei rimborsi conseguiti dall’odierno convenuto.

Per quanto concerne l’acquisto dei “beni stru-mentali” il consigliere Valenti ha affermato che trattasi di beni restituiti al gruppo di appartenenza e da quest’ultimo trasferiti alla regione mediante re-dazione di apposito verbale. Dal raffronto dei beni elencati nel doc. n. 7 (v. produzione documentale del convenuto) con l’elenco delle spese allegato all’at-to di citazione, i beni strumentali in questione sono risultati i seguenti: portatile Apple (euro 1.080,48), navigatore Garmin (276,80), catena di 25 mt. (euro 89), sedia Ikea e 4 cuscini (euro 64,91), cuscino Ikea (euro 7,49), computer iMac con tastiera, mouse e ag-giornamenti (euro 1.199), fotocamera digitale, cavo Usb, borsetto, memoria, cornice (euro 228,70) per un totale di euro 2.946,38. Per converso, il televisore Samsung completo di telecomando (euro 340) e la chiavetta internet (euro 190), che pure risulterebbero consegnati al gruppo consiliare, non trovano riscon-tro nell’elenco delle spese che formano oggetto di contestazione nel presente giudizio. Nel complesso, trattasi di beni, che, fatta eccezione per la catena di 25 mt. (acquisto che avrebbe richiesto maggiori pre-cisazioni circa l’asserita natura di “bene strumenta-le” per le attività del gruppo consiliare), per il televi-sore Samsung e la chiavetta internet (spese che non formano oggetto di contestazione nel presente giudi-

zio), possono considerarsi di carattere strumentale, sicché la loro restituzione va considerata ai fini della decurtazione delle corrispondenti voci di addebito, per un importo complessivo pari ad euro 2.857,38.

Relativamente ai rimborsi conseguiti per l’ac-quisto di libri e giornali, il collegio, in conformità all’indirizzo assunto da questa sezione in fattispecie similari (cfr. Corte conti, Sez. giur. reg. Friuli-Vene-zia Giulia, n. 16/2014 e n. 25/2014), ritiene di poter confermare la liceità della relativa spesa, espressa-mente contemplata dall’art. 1, c. 2, lett. d) del rego-lamento citato –, da ritenersi giustificata in ragione delle esigenze di aggiornamento, di conoscenza e di approfondimento delle problematiche del territorio, da ritenersi necessarie per l’espletamento del manda-to consiliare. Va a ogni buon conto rilevato come tale voce di spesa – pari a complessivi euro 1.330 (120+116+120+116+120+20+104+2+124+120+124+120+124) – risulta già detratta dalla procura regionale nella quantificazione operata in citazione nei limiti dell’importo di euro 1.308, sicché va decurtato dal danno in contestazione l’ulteriore importo di euro 22.

Per quanto concerne gli asseriti errori di calcolo indicati dalla difesa del convenuto a pp. 25 e 26 del-la memoria di costituzione in giudizio, va osservato che l’importo di euro 64,70 afferente alla revisione dell’autovettura Lancia Y non è ricompreso nell’e-lenco delle spese effettuate dal Valenti nel mese di febbraio 2011 (v. produzione documentale di parte attrice); il che rende credibile – considerata anche l’assenza di deduzioni, sul punto, da parte dell’orga-no requirente – l’affermazione difensiva secondo cui si tratterebbe di importo che non ha formato ogget-to di rimborso. Vanno altresì decurtati l’importo di euro 40 (la ricevuta del 24 maggio 2011, rimborsata al Valenti, è di euro 50 mentre l’addebito evidenzia-to nell’elenco delle spese allegato alla citazione è di euro 90) nonché la somma di euro 5,66 riferibile alla differenza tra l’importo della fattura di euro 609,84 (spesa effettuata presso un supermercato in data 13 dicembre 2010) e quello della liquidazione disposta in favore del consigliere regionale (euro 604,18). Nella documentazione versata in atti non trova ri-scontro, invece, la contestazione, del tutto generica e immotivata, relativa al maggior addebito di euro 0,30 “per errata trascrizione dell’importo” (v. p. 26 della memoria di costituzione in giudizio). Va dato atto, infine, del riconoscimento, da parte del Valenti, che la presentazione della fattura di euro 126 (p. 16 dell’elenco della procura) ha dato luogo ad un erro-neo rimborso di euro 196 con una differenza, a debi-

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to per l’interessato, di euro 70. Il saldo di tali importi (erronei addebiti per euro 64,70+40+5,66; maggiori accrediti per euro 70) dà luogo a una differenza, da decurtarsi dal totale dell’importo richiesto in citazio-ne, pari a euro 40,36.

Con riferimento, infine, alle “spese di rappresen-tanza”, che nella riclassificazione operata dal Valenti ammontano a complessivi euro 7.567,58, va confer-mata l’assenza di elementi utili a riferire i rimborsi conseguiti dal Valenti ad effettive necessità di rap-presentanza del gruppo consiliare. Ancora una volta deve rilevarsi come a corredo della documentazione fiscale attestante le spese sostenute non sia stato alle-gato alcun elemento documentale comprovante l’or-ganizzazione di eventi di rappresentanza che abbiano visto la partecipazione di personalità esponenziali di enti, istituzioni e associazioni pubbliche o private.

La giustificazione di tali esborsi è affidata alle affermazioni del tutto apodittiche dello stesso Va-lenti, oltre che ad una documentazione fiscale che si presenta in forma anonima, priva di riferimenti all’i-dentità del soggetto che ha effettuato la spesa e di in-dicazioni utili a dimostrare il perseguimento delle fi-nalità sottese all’erogazione del contributo pubblico. Nulla, in definitiva, che consenta di riconoscere, in tali spese, le connotazioni tipiche dell’attività di rap-presentanza (“eccezionalità della spesa”, “ufficialità dell’evento” e “rappresentatività dei soggetti parte-cipanti”). E ciò non senza considerare che l’esigenza di un’adeguata giustificazione si imponeva anche in relazione alle previsioni regolamentari che vietavano di utilizzare i contributi destinati a gruppi consiliari per coprire i costi dell’attività politica o di pubbliche relazioni svolta dal singolo consigliere regionale (v. art. 2, cc. 1 e 2, del regolamento di esecuzione delle l. reg. n. 54/1973 e 52/1980).

L’esame della documentazione dimessa in atti ri-vela che in alcuni casi i rimborsi conseguiti dal con-sigliere Valenti hanno avuto a oggetto spese effettua-te presso gioiellerie, pelletterie, negozi di elettronica e di articoli per la casa. In altre occasioni si è trattato di spese effettuate presso supermercati, panetterie e rivendite di prodotti ortofrutticoli. Non sono mancati gli acquisti effettuati presso cartolerie, negozi di fer-ramenta e venditori ambulanti. Un numero rilevan-te di scontrini e ricevute fiscali è riferibile a pasti e consumazioni, anche di modesto importo, effettuate presso bar e altri esercizi di ristorazione. Quanto al pagamento di euro 375 effettuato in favore dell’Asso-ciazione Dream a.c.r.s.t., in relazione ad un incontro svoltosi presso una sala gestita da tale associazione per asserite finalità divulgative dell’attività consilia-

re, non può non rilevarsi come anche in questo caso l’affermazione difensiva sia rimasta priva di elemen-ti di riscontro idonei a comprovare la realizzazione di un’iniziativa d’interesse del gruppo consiliare. Degna di evidenza deve ritenersi, altresì, la “spesa” effettuata presso un supermercato di Gorizia, per un importo complessivo di euro 609,84 (rimborsato per euro 604,18), relativa ad acquisti palesemente estra-nei alle finalità istituzionali di un gruppo consiliare e, comunque, non adeguatamente giustificati (botti-glie di vino e di acqua minerale, bibite, pasta, olive, capperi, carciofini, crauti crudi, maionese, mostarda, acciughe, gamberi, acetelli, cappelletti, torroni, can-deggina, detersivo per lana e delicati, carta igienica).

Tutto ciò premesso e considerato, osserva il col-legio che la carenza di un’adeguata documentazione giustificativa, se sul piano soggettivo vale a qualifi-care la condotta del convenuto come inadempiente all’obbligo di dar conto della gestione delle risorse della collettività, su quello oggettivo rende l’attività di spesa inutiliter data in quanto non univocamente riferibile all’interesse sotteso all’erogazione del con-tributo pubblico. Non può ritenersi motivo di esclu-sione o di attenuazione delle responsabilità gestorie imputabili al Valenti, la mancata specificazione, nell’ambito del regolamento di esecuzione delle l. reg. n. 54/1973 e n. 52/1980, di specifiche modalità di rendicontazione delle spese di rappresentanza ef-fettuate dai singoli consiglieri, considerata non solo l’univocità dei principi affermati da una consolidata giurisprudenza della Corte dei conti, ma anche l’e-sistenza di concreti riferimenti desumibili dalla di-sciplina delle spese di rappresentanza del consiglio e della giunta regionale (v. art. 14 del regolamento di contabilità approvato con deliberazione dell’uffi-cio di presidenza n. 200 del 10 giugno 1996 nonché le previsioni del regolamento per l’esecuzione delle spese di rappresentanza dell’amministrazione regio-nale adottato con decreto del presidente della regione n. 119 dell’11 aprile 2006).

Deve ritenersi, infatti, che tali elementi offrissero ai consiglieri regionali un quadro sufficientemen-te chiaro e circostanziato dei presupposti richiesti per poter disporre spese aventi ad oggetto finalità di “rappresentanza” istituzionale del gruppo consi-liare. Ed è peraltro evidente come nella nozione di “rappresentanza” cui fa riferimento l’art. 1, c. 2, lett. e) del regolamento n. 196/1996 dell’ufficio di pre-sidenza, non potevano certamente ricomprendersi gli esborsi connessi alla generale attività politica e di pubbliche relazioni svolta dal consigliere regiona-le. In ragione di tali premesse devono ritenersi prive

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di giustificazione le numerose spese – in alcuni casi di modestissimo importo – afferenti a consumazioni effettuate presso bar o riferibili a pranzi, cene e pic-coli acquisti effettuati presso diversi esercizi com-merciali anche in occasione di incontri prenatalizi con elettori, simpatizzanti politici o esponenti di non precisati interessi e categorie.

La tesi secondo cui le “spese di rappresentanza” dei gruppi consiliari assumerebbero tratti del tutto peculiari rispetto a quelle effettuate nell’ambito della pubblica amministrazione e dalle istituzioni regiona-li, è peraltro smentita dai contenuti del d.p.c.m. del 21 dicembre 2012 che ha recepito le linee guida sui rendiconti dei gruppi consiliari approvate con delibe-razione della Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le Regioni e le Province autonome di Trento e di Bolzano. Per quanto il suddetto provvedi-mento non trovi diretta applicazione nella fattispecie all’esame, appare evidente come la nozione di spesa di rappresentanza ivi delineata non diverga affatto da quella innanzi prospettata. L’art. 1, c. 4, lett. g) d.p.c.m. del 21 dicembre 2012 prevede che il con-tributo pubblico può essere utilizzato “per le spese di rappresentanza sostenute in occasione di eventi e circostanze di carattere rappresentativo del gruppo consiliare che prevedono la partecipazione di perso-nalità o autorità estranee all’assemblea stessa quali: ospitalità e accoglienza”, escludendo che lo stes-so possa coprire le “spese sostenute dal consigliere nell’espletamento del mandato” ovvero “altre spese personali del consigliere”.

Né può trovare utile considerazione il richia-mo operato dalla difesa del convenuto alla sent. n. 29/2014 resa dalle Sezioni riunite della Corte dei conti in speciale composizione. Nell’ambito di tale decisione, afferente l’impugnativa della delib. n. 120/2014 della Sezione del controllo per l’Emi-lia-Romagna – e dunque, ambiti soggettivi ed ogget-tivi nonché parametri di riferimento diversi da quelli del giudizio di responsabilità amministrativo conta-bile – il collegio giudicante ha ritenuto, sulla base di un giudizio diretto ad accertare non solo la veridicità del rendiconto, ma anche la coerenza delle spese con le finalità previste dalla legge, che la documentazione allegata e le giustificazioni fornite dai gruppi fossero sufficienti a superare i rilievi mossi dalla sezione re-gionale. Trattandosi di un giudizio fattuale, peraltro riferito a un ambito diverso da quello che impegna le sezioni giurisdizionali della Corte dei conti in sede di giudizio di responsabilità amministrativa, non si ravvisano, nella richiamata pronuncia, elementi che consentano di superare un’illiceità che, nel caso in

esame, trova fondamento nella mancata allegazione di elementi giustificativi idonei a comprovare l’avve-nuto impiego dei contributi pubblici per finalità co-erenti con la destinazione agli stessi assegnata dalla legge.

La qualificazione, quanto meno gravemente col-posa, della condotta del consigliere Valenti non può ritenersi attenuata dall’esistenza di una “prassi” ul-tradecennale che, ai fini della rendicontazione delle spese di rappresentanza, non richiedeva la specifi-cazione dei motivi e l’indicazione delle generalità e delle qualifiche dei soggetti beneficiari. Costituisce, peraltro, un dato pacificamente acquisito, che nes-suna consuetudine, per quanto radicata nel tempo, può giustificare la violazione degli obblighi ineren-ti a una rendicontazione trasparente dell’impiego di denaro pubblico. Per converso va rilevato che il mantenimento di una prassi illegittima può costitu-ire un elemento di aggravio della responsabilità nei casi in cui la posizione dell’agente avrebbe potuto porre rimedio o modificare una situazione foriera di grave pregiudizio per le finanze pubbliche (cfr. Corte conti, Sez. II centr. app., n. 539/2013; id. Sez. giur. reg. Lazio, n. 1096/2012; id. Sez. III centr. app., n. 177/2006; id. Sez. III centr. app., n. 56/2005).

Definita, nei termini innanzi esposti, l’illiceità della condotta del consigliere Valenti e passando alla quantificazione del danno erariale, ritiene il collegio che il danno patrimoniale subito dall’Ente regione in relazione ai rimborsi illegittimamente conseguiti dal consigliere Valenti debba essere quantificato nell’im-porto di euro 29.607,73 (dalla richiesta di condanna, pari ad euro 32.527,47 vanno detratti gli importi di euro 40,36, euro 22 ed euro 2.857,38). L’importo così determinato va ulteriormente diminuito della somma di euro 896,45, che risulta già restituita al gruppo consiliare “Popolo della Libertà” mediante bonifico del 27 marzo 2013, contenente un espresso riferimento a n. 2 Iphone del costo di euro 600 ed al pagamento del canone telefonico di euro 296,45 (v. doc. n. 5 della difesa del Valenti). Trattandosi di versamento effettuato in favore del gruppo consiliare “Popolo della Libertà” a ridosso della scadenza della X legislatura, è ragionevole ritenere che tale importo sia confluito nelle restituzioni dei saldi attivi effet-tuati dal medesimo gruppo in favore del bilancio del consiglio regionale ex art. 6, c. 6, del regolamento di esecuzione delle l. reg.n. 54/1973 e n. 52/1980, con il conseguente effetto estintivo delle correlate poste di danno.

Ai fini dell’esatta determinazione dell’addebito il collegio, pur ritenendo assolutamente preminente la

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responsabilità del consigliere Valenti, reputa di do-ver valutare il concorso causale virtualmente riferi-bile all’ufficio di presidenza del consiglio regionale, organo che non risulta aver esercitato, con adeguata cura, i compiti di indirizzo e di vigilanza sull’utilizzo dei contributi erogati in favore del gruppo consilia-re “Popolo della Libertà”. L’ufficio di presidenza, ai sensi dell’art. 6, c. 1, del regolamento di attuazione delle l. reg. n. 54/1973 e n. 52/1980, non solo era destinatario della nota riepilogativa delle spese ef-fettuate da ciascun gruppo consiliare, ma stabiliva anche le modalità di redazione della nota di accom-pagnamento alla relazione illustrativa e dell’atte-stazione relativa alla conservazione dei documenti giustificativi delle spese. Il predetto ufficio doveva inoltre attestare la rispondenza della nota inviata dal gruppo consiliare alle disposizioni attuative del-le l. reg. n. 54/1973 e n. 52/1980, potendo chiedere chiarimenti qualora ciò fosse stato ritenuto neces-sario (art. 6 reg. cit.). Se ne deduce, da tanto, che sull’ufficio di presidenza ricadeva non solo l’onere di impartire direttive, ma anche quello di accertare la regolarità dell’attività di rendicontazione e verificare la conformità dell’utilizzo dei contributi alle finali-tà individuate nel regolamento di attuazione delle l. reg. n. 54/1973 e n. 52/1980.

Nel contempo, è doveroso valutare il contribu-to causale virtualmente riferibile al presidente del gruppo consiliare “Popolo della Libertà” al quale era iscritto il consigliere Valenti. Come innanzi ri-levato, il presidente del gruppo consiliare, destina-tario dei contributi previsti dalle l. reg. n. 54/1973 e n. 52/1980 (art. 1 reg. cit.) era tenuto a presentare, annualmente, all’ufficio di presidenza del consiglio regionale, una nota riepilogativa delle spese effettua-te con i fondi erogati nell’anno precedente, redatta secondo le modalità stabilite dallo stesso ufficio di presidenza e corredata da una relazione illustrativa e da una dichiarazione attestante la conservazione dei documenti giustificativi delle spese effettuate. La pregnanza dei richiamati adempimenti induce a ri-tenere che anche sul presidente del gruppo gravasse l’onere di vigilare sul corretto utilizzo dei contributi pubblici. Ed è altresì evidente che l’organo di vertice del gruppo consiliare, ove impossibilitato a effettua-re in prima persona i riscontri sull’utilizzo dei con-tributi pubblici, avrebbe dovuto impartire precise di-sposizioni al personale amministrativo, sorvegliando sul buon esito delle procedure di controllo.

È opinione del collegio che l’esercizio di un’ade-guata attività di vigilanza e controllo da parte dell’uf-ficio di presidenza e del presidente del gruppo consi-

liare avrebbe potuto evitare o quanto meno limitare il pregiudizio erariale derivante dall’illecito utilizzo dei contributi pubblici da parte del Valenti. Trattan-dosi di condotte riferibili a soggetti non convenuti in giudizio e alle quali va riconosciuta un’efficacia concausale nella produzione del danno erariale, si ri-tiene che le stesse debbano essere valutate, inciden-ter tantum, ai fini di una più esatta determinazione della quota del danno imputabile al convenuto (Cor-te conti, Sez. riun., n. 5/2001; Sez. III centr. app., n. 244/2003; Sez. giur. reg. Basilicata, n. 128/2006; Sez. giur. reg. Sardegna, n. 1834/2008; Sez. giur. reg. Molise, n. 5/2008). Ciò premesso, tenuto conto dell’ambito e della diversa rilevanza di competenze e poteri riconosciuti a tali organi, nonché della respon-sabilità assolutamente preponderante del convenuto per aver disposto tali spese e chiesto i relativi rim-borsi, si ritiene che l’apporto causale virtualmente imputabile all’ufficio di presidenza ed al presidente del gruppo consiliare, possa essere determinato, ri-spettivamente, nella misura del 10 per cento per il primo ed in quella del 5 per cento per il secondo.

Conseguentemente, dal danno erariale cagiona-to all’ente regione, determinato in complessivi euro 28.711,28 va scomputato l’importo di euro 2.871,12 pari all’apporto causale del 10 per cento virtual-mente ascrivibile all’ufficio di presidenza, e quello di euro 1.435,56 pari al contributo causale del 5 per cento virtualmente riferibile al presidente del grup-po consiliare, dovendosi, pertanto, quantificare nella somma complessiva di euro 24.404,60 il danno ad-debitabile all’odierno convenuto. In ordine alla su-bordinata richiesta difensiva di applicazione del po-tere riduttivo, reputa il collegio che nella fattispecie in esame, connotata da profili di grave e inescusabile trascuratezza nella gestione delle risorse pubbliche, non vi siano margini utili per una motivata riduzione dell’addebito.

In ragione di quanto sopra esposto, il sig. Gae-tano Valenti va condannato al pagamento, in favo-re della Regione autonoma Friuli-Venezia Giulia, dell’importo di euro 24.404,60 unitamente alla riva-lutazione monetaria sulla sorte capitale, da calcolarsi dalla data di presentazione, all’ufficio di presidenza del consiglio regionale, della nota riepilogativa pre-vista dall’art. 6 del regolamento approvato con delib. n. 196/1996, al deposito della sentenza, e interessi le-gali dalla data di pubblicazione della sentenza all’ef-fettivo soddisfo.

Le spese di giudizio seguono la soccombenza e vanno poste, a carico del convenuto, nella misura li-quidata in dispositivo.

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PARTE II – ATTIVITÀ GIURISDIZIONALE N. 5-6/2014

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93 – Sezione giurisdizionale Regione Friuli-Venezia Giulia; sentenza 18 novembre 2014; Pres. Lener, Est. Di Lecce, P.M. Spedicato; Proc. reg. c. Galdi.

Processo contabile – Giudizio di responsabilità – Sorte capitale dedotta in citazione – Pagamen-to prima dell’udienza di discussione – Impe-dimento all’accertamento della responsabilità amministrativa – Esclusione.

R.d. 18 novembre 1923 n. 2440, nuove disposizioni sull’amministrazione del patrimonio e sulla contabi-lità generale dello Stato, art. 83; r.d. 12 luglio 1934 n. 1214, approvazione del t.u. delle leggi sulla Corte dei conti, art. 52; l. 14 gennaio 1994 n. 20, disposizioni in materia di giurisdizione e controllo della Corte dei conti, art. 1; d.l. 23 ottobre 1996 n. 543, convertito con modificazioni dalla l. 20 dicembre 1996 n. 639, disposizioni urgenti in materia di ordinamento della Corte dei conti, art. 3.Responsabilità amministrativa e contabile – Im-

piegato regionale e degli enti locali – Falsa at-testazione della presenza in servizio – Danno erariale.

R.d. 18 novembre 1923 n. 2440, art. 83; r.d. 12 luglio 1934 n. 1214, art. 52; l. 14 gennaio 1994 n. 20, art. 1; d.l. 23 ottobre 1996 n. 543, convertito con modifica-zioni dalla l. 20 dicembre 1996 n. 639, art. 3; d.lgs. 30 marzo 2001 n. 165, norme generali sull’ordina-mento del lavoro alle dipendenze delle amministra-zioni pubbliche, art. 55-quinquies.Processo contabile – Giudizio di responsabilità –

Sorte capitale dedotta in citazione – Pagamen-to prima dell’udienza di discussione – Valuta-zione ai fini dell’esercizio del potere riduttivo dell’addebito.

R.d. 18 novembre 1923 n. 2440, art. 83; r.d. 12 luglio 1934 n. 1214, art. 52; l. 14 gennaio 1994 n. 20, art. 1; d.l. 23 ottobre 1996 n. 543, convertito con modifica-zioni dalla l. 20 dicembre 1996 n. 639, art. 3.

L’avvenuto pagamento, prima dell’udienza di discussione, della sorte capitale afferente al danno erariale dedotto in citazione non esime il collegio dall’accertare la responsabilità del convenuto, stan-te il carattere irretrattabile della pretesa azionata dal pubblico ministero contabile e la necessità di pronunciarsi sulle domande relative agli accessori del credito e alle spese di giustizia.

Integra un’ipotesi di danno erariale, rilevan-te sia sotto il profilo patrimoniale, sia sotto quello della lesione dell’immagine della pubblica ammini-strazione, la condotta del dipendente pubblico che, immediatamente dopo aver effettuato la timbratura

d’ingresso, si allontani dal servizio senza essersi fatto autorizzare o aver registrato la sospensione dell’attività lavorativa.

Nel giudizio di responsabilità amministrativa, il pagamento della sorte capitale afferente al danno dedotto in citazione costituisce, ove effettuato prima dell’udienza di discussione, un elemento sintomati-co di fattiva resipiscenza, utilmente valutabile ai fini dell’esercizio del potere riduttivo dell’addebito.

Diritto – In via preliminare osserva il collegio che il convenuto, successivamente alla notifica dell’atto di citazione, ha effettuato un bonifico bancario, in favore del Comune di Cervignano, dell’importo di euro 489,45 avente quale causale “versamento di quanto richiesto Corte dei conti 18 dicembre 2013 atto di citazione n. 13520”. Trattandosi di pagamento satisfattivo della sola sorte capitale richiesta in cita-zione dalla procura regionale, deve valutarsi la sussi-stenza delle condizioni che possono dar luogo a una pronuncia dichiarativa della cessazione della materia del contendere, peraltro sollecitata dalla stessa parte pubblica.

È noto come l’istituto della cessazione della ma-teria del contendere trovi un’esplicita previsione nel processo amministrativo (art. 23 l. n. 1034/1971; art. 34 d.lgs. n. 104/2010) e in quello tributario (art. 46 d.lgs n. 546/1992), ambiti nei quali la contesta-zione giudiziale si sostanzia nell’impugnativa di un provvedimento autoritativo, la cui rimozione in autotutela determina il venir meno dell’oggetto del contendere. Nel processo civile, che non contempla disposizioni di analogo tenore, un consolidato indi-rizzo giurisprudenziale ammette l’adozione di tale formula processuale nei casi in cui sopravvenga, in corso di causa, una situazione che elimini la ragione del contrasto tra le parti, facendo venir meno l’inte-resse a ottenere un risultato utile, giuridicamente ap-prezzabile e non conseguibile senza l’intervento del giudice (cfr. Cass., n. 3122/2003; id. n. 6395/2004).

Ciò premesso, nel verificare la compatibilità del-la pronuncia dichiarativa di cessazione della materia del contendere con le peculiarità proprie del giudizio di responsabilità amministrativa, deve innanzitutto rilevarsi che l’azione del pubblico ministero conta-bile assume, quali connotazioni essenziali, l’obbli-gatorietà, l’ufficialità e l’indisponibilità della prete-sa dedotta in giudizio, ponendosi a tutela non solo dell’amministrazione danneggiata, ma anche degli interessi generali dell’ordinamento. Trattandosi, dun-que, di materia sottratta alla disponibilità delle parti, deve ritenersi che anche nei casi in cui, a seguito della

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notifica dell’atto di citazione, intervenga l’integrale ristoro della pretesa attorea, l’organo giudicante non può esimersi dal valutare i presupposti giustificativi dell’addebito e, all’esito di tale preliminare valuta-zione, l’idoneità dell’importo versato dal convenuto a estinguere l’accertato danno erariale.

In ogni caso non è revocabile in dubbio che la de-libazione del merito della controversia si impone nei casi – come quello in esame – in cui la pretesa attorea non risulti soddisfatta in tutte le sue componenti, ivi comprese quelle accessorie, non rinunciabili dalla procura regionale, oltre che ai fini del regolamento delle spese di giustizia, decisione che nelle pronunce dichiarative della cessazione della materia del con-tendere viene assunta, per indirizzi giurisprudenziali consolidati, in virtù del principio della “soccomben-za virtuale” (cfr. Corte conti, Sez. giur. reg. Lombar-dia, n. 163/2014 e precedenti ivi richiamati).

Passando, dunque, all’esame del merito, reputa il collegio che nella vicenda all’esame siano ravvisabi-li i presupposti della responsabilità amministrativa, deponendo, in tal senso, gli elementi documentali allegati della procura regionale a sostegno della do-manda giudiziaria. Tra questi, viene ad assumere un particolare rilievo la sentenza con la quale il Tribu-nale di Udine ha applicato al sig. Galdi, ex art. 444 c.p.p., la pena di mesi cinque di reclusione e di euro 300 di multa per il reato di truffa aggravata (art. 640, c. 2, c.p.) per le medesime condotte che la procura regionale ha indicato in questa sede come causative di danno per il Comune di Cervignano.

È noto, infatti, che la sentenza di “patteggiamen-to” costituisce un indiscutibile elemento di prova per il giudice di merito, il quale, ove intenda discono-scere tale efficacia probatoria, “ha il dovere di spie-gare le ragioni per cui l’imputato avrebbe ammesso una sua insussistente responsabilità, ed il giudice penale abbia prestato fede a tale ammissione” (così: Cass., n. 10847/2007; v., ex multis, n. 19505/2003 e n. 4193/2003; n. 9358/2005 e n. 20765/2005; n. 17289/2006).

Secondo giurisprudenza consolidata, tale senten-za, pur non precludendo l’accertamento dei fatti in maniera difforme da quella compiuta dal giudice pe-nale, ciò nonostante viene ad assumere “un particolare valore probatorio, vincibile solo attraverso specifiche prove contrarie”, da allegarsi dalla parte che intende contestare i fatti che ne costituiscono il fondamento (cfr. Corte conti, Sez. I centr. app., n. 187/2003).

In disparte tale elemento di prova, una conferma in ordine alla materialità dei fatti contestati al conve-nuto si desume dall’attività investigativa svolta dai

Carabinieri di Cervignano, mai contestata sulla base di evidenze di segno contrario. Dall’attività di osser-vazione svolta dai militari dell’Arma dei Carabinieri emerge, infatti, che il sig. Galdi, nelle giornate del 27 febbraio e dell’1, 2 e 4 marzo 2010, subito dopo aver timbrato il cartellino, si è attardato per circa una mezz’ora presso un bar, mentre nelle giornate del 26 febbraio e del 10 marzo 2010 ha fatto rientro alla propria abitazione, ove si è trattenuto per alcune ore senza chiedere alcun permesso o autorizzazione all’ente datore di lavoro.

Quanto alle difese formulate dal convenuto a se-guito dell’invito a dedurre, osserva il collegio che an-che ove si ritenga che alcune delle giornate lavorative sopra indicate siano state connotate da un clima par-ticolarmente rigido, non è revocabile in dubbio che il nominato dipendente, nell’adempimento dei più elementari doveri di servizio, si sarebbe dovuto pre-sentare al responsabile del settore amministrativo per ricevere istruzioni sui compiti da svolgere. Da ultimo, è doveroso rilevare come le riferite pause lavorative, mai comunicate all’ufficio del personale, non siano state recuperate dal Galdi. Vero è che la permanenza in servizio del dipendente oltre le ore 13 non aveva lo scopo di “recuperare” le sospensioni dell’attività lavorativa, invero mai registrate, ma era correlata alla particolare struttura di un orario che prevedeva una flessibilità in entrata e in uscita di 30 minuti.

Per quanto concerne la “pausa caffè” – all’epoca dei fatti verosimilmente tollerata presso il Comune di Cervignano (v. verbale di S.I. rese dal sig. Marcel-lo de Marchi in data 11 marzo 2010) – si evidenzia come il Galdi ne abbia dato un’interpretazione di-storta, ritenendo, ad esempio, che la stessa consen-tisse di allontanarsi immediatamente dopo la timbra-tura di ingresso (trattasi di fatto, di un’autoriduzione dell’orario di lavoro) o, addirittura di far rientro alla propria abitazione e di restarvi per alcune ore – senza alcun permesso o autorizzazione – ove il nominato dipendente ritenesse che le condizioni metereologi-che avverse non permettevano lo svolgimento del servizio (pulizia delle strade del centro cittadino).

Alla luce di tali considerazioni devono ritenersi sussistenti i presupposti richiesti ai fini dell’affer-mazione della responsabilità erariale del convenuto. Sotto il profilo soggettivo è ravvisabile la sussistenza del dolo, quale consapevole volontà di sottrarsi all’a-dempimento dei doveri di servizio e di conseguire, in tal modo, un ingiusto vantaggio economico in dan-no delle finanze pubbliche. Sotto il profilo oggettivo, invece, appare condivisibile la quantificazione del danno patrimoniale di euro 163,15 effettuata dalla

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procura (ore 11,05 di mancata attività lavorativa per un costo orario di euro 14,72); altrettanto immune da censure, con riferimento al limitato ambito territoriale di diffusione della notizia, è da ritenersi la determina-zione del pregiudizio arrecato all’immagine dell’ente in misura pari al doppio delle retribuzioni erogate nel periodo di mancata resa della prestazione lavorativa.

La rifusione, da parte del convenuto, dell’intero danno erariale prima dell’udienza di discussione – elemento sintomatico di fattiva resipiscenza e fattore rilevante non solo ai fini della sollecita definizione del processo, ma anche in termini di garanzia di ef-fettività del risarcimento – costituisce una circostan-za valorizzabile ai fini dell’esercizio del potere ridut-tivo, consentendo al collegio di escludere dall’adde-bito la rivalutazione monetaria maturata sul credito risarcitorio. Alla stregua di tali premesse, il collegio, nel dare atto che il versamento della somma di euro 489,45, a seguito dell’esercizio del potere riduttivo dell’addebito, è da ritenersi satisfattivo dell’intero danno risarcibile, reputa sussistenti i presupposti per una pronuncia dichiarativa della cessazione della materia del contendere.

A tale pronuncia accede, in virtù del principio della soccombenza virtuale (cfr. Corte conti, Sez. III centr. app. n. 671/2013) la condanna del convenuto al pagamento delle spese di giustizia, che vengono liquidate nella misura determinata in dispositivo.

* * *

Lazio

677 – Sezione giurisdizionale Regione Lazio; senten-za 24 settembre 2014; Pres. De Musso, Est. Torri, P.M. Francavilla; Proc. reg. c. Abbate e altri.

Prescrizione e decadenza – Inquadramenti illegit-timi del personale di un ente locale – Indebita erogazione di somme di danaro – Danno eraria-le – Prescrizione – Decorrenza dai singoli pa-gamenti delle somme non dovute – Fattispecie.

C.c., artt. 2935, l. 14 gennaio 1994, n. 20, disposizio-ni in materia di giurisdizione e controllo della Corte dei conti, art. 1.Responsabilità amministrativa e contabile – Am-

ministratori di ente locale – Inquadramenti il-legittimi di personale dell’ente – Pagamento di compensi non dovuti – Amministratori cessati dalla carica al momento dei singoli pagamenti – Responsabilità amministrativa – Esclusione.

C.c., artt. 1219, 2943; c.p., artt. 40, 41.

Nel caso di danno erariale derivante dall’indebi-ta erogazione di una somma di danaro, la prescrizio-ne comincia a decorrere dal momento del pagamento della somma; pertanto, nell’ipotesi di inquadramenti illegittimi del personale di un ente locale, il danno si realizza con i singoli pagamenti delle non dovute maggiorazioni stipendiali, ciascuno dei quali è sog-getto ad un proprio termine prescrizionale.

Nel caso di inquadramenti illegittimi del per-sonale di un ente locale, non rispondono di danno erariale gli amministratori che, essendo cessati dal-la carica, non abbiano potuto porre in essere, in re-lazione al momento in cui il danno si è verificato e – cioè – al momento in cui è avvenuto il pagamento al personale dei compensi non dovuti, i comporta-menti necessari ad impedire che si procedesse a tali pagamenti.

Diritto – (Omissis) La materia dell’illegittimo in-quadramento del personale degli enti locali in livelli retributivi superiori a quelli spettanti è stata più volte oggetto di decisioni di questa Corte che ha in partico-lare osservato come, in dette ipotesi, il fatto dannoso (da intendersi nella sua complessità di comporta-mento gravemente colposo e di evento-danno) non si compia in un solo momento, ma assuma carattere permanente; il danno si formerebbe cioè progressi-vamente assumendo, via via, i caratteri della certez-za e della attualità – necessari per la proposizione dell’azione risarcitoria e quindi per il decorso della prescrizione del diritto al risarcimento – nel momen-to in cui vengono posti in essere i singoli pagamen-ti attuativi dell’atto illegittimo (cfr. Sez. giur. reg. Toscana 19 maggio 1999, n. 522 [in questa Rivista 1999, fasc. 4, 127]).

Peraltro, ad avviso del collegio, considerato che si versa in ipotesi di evento di danno che si protrae nel tempo, si pongono alcuni delicati problemi in or-dine ai seguenti profili:

a) individuazione della decorrenza del termine prescrizionale per l’esercizio dell’azione di respon-sabilità;

b) corretto accertamento del rapporto di causalità tra originaria delibera di inquadramenti illegittimi e i singoli conseguenti pagamenti periodici;

c) verifica della imputabilità di ciascun evento di danno a soggetti votanti la delibera originaria e/o a quelli eventualmente succedutisi nella carica.

Quanto al punto sub a), le Sezioni riunite di que-sta Corte con la decisione 24 maggio 2000, n. 7 han-no affermato che “nel caso di danno per erogazione di una somma di denaro la prescrizione comincia a

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decorrere dal pagamento e … pertanto nell’ipotesi di inquadramenti illegittimi del personale il danno si realizza con i singoli pagamenti delle non dovute maggiorazioni stipendiali, soggetto ciascuno ad un proprio termine prescrizionale” (idem: Sez. riun. 19 luglio 2007, n. 5)

Quanto ai punti sub b) e c), si osserva che un orientamento giurisprudenziale ritiene che, nei casi di specie, la responsabilità degli originari votanti l’il-legittima delibera di inquadramento in livelli supe-riori non possa essere automaticamente rimossa per il solo dato oggettivo del venir meno della possibilità di evitare che il danno si perpetui, potendo peraltro detta circostanza valere quale elemento che incide sulla misura del danno da addebitare tenendo con-to dell’eventuale incidenza che sull’entità del danno abbia esercitato la condotta omissiva di altri soggetti succeduti nella carica.

Al riguardo si osserva che con decisione del 18 gennaio 2001, n. 35 la Sezione II giurisdizionale centrale di questa Corte ha ritenuto che non sia rav-visabile una responsabilità per colpa grave degli am-ministratori succeduti che non avrebbero controllato la legittimità dell’operato dei predecessori e avreb-bero continuato ad eseguirne i deliberati, vista l’in-determinatezza e la illimitatezza di un tale obbligo di verifica che verrebbe in tal modo posto a loro carico.

Sul piano generale, si deve a questo punto sottoli-neare che la responsabilità amministrativa è persona-le e limitata ai fatti ed alle omissioni commessi con dolo o con colpa grave e che il diritto al risarcimento del danno si prescrive in ogni caso in cinque anni, decorrenti dalla data in cui si è verificato il “fatto dannoso”.

Il “fatto” che consente l’esercizio dell’azione di responsabilità è costituito dal binomio condotta- evento e la fattispecie dannosa si perfeziona con il verificarsi di quest’ultimo; in sostanza, il diritto al risarcimento del danno comincia a decorrere dal mo-mento in cui il danno si è verificato (con l’effettivo pagamento) e non da quello eventualmente diverso in cui è stato posto in essere l’atto illecito o illegit-timo.

Deve poi essere in concreto accertato il rapporto di causalità tra condotta ed evento anche alla luce del concorso di cause (comprese quelle sopravvenute) tra l’originaria delibera (l’atto illegittimo) e relativi pagamenti, con correlativo accertamento della impu-tazione di responsabilità per i vari pagamenti non do-vuti; dovendosi perciò distinguere tra oggettivo dies a quo della prescrizione, che è quello del pagamento o dei singoli pagamenti, ed imputabilità del danno

ad un soggetto, cosa ben diversa (cfr. Sez. riun., n. 7/2000).

In sostanza, ad avviso del collegio, la responsa-bilità per i pagamenti non può essere posta sempre ed indefinitamente a carico dei votanti la originaria delibera, in quanto essa nel tempo può diminuire per il concorso di cause successive, o cessare del tutto per il sopravvenire di cause che sono state da sole sufficienti a determinare l’evento (cfr. Sez. riun. 24 maggio 2000, n. 7), o comunque per l’insorgenza di fatti nuovi interruttivi del nesso di causalità.

A questo punto, per la soluzione dei problemi di cui ai punti b) e c), appare indispensabile definire la natura della fattispecie relativa agli inquadramenti illegittimi: ossia se e quando eventualmente si ver-si in ipotesi di illecito permanente ovvero di illecito istantaneo con effetti permanenti, secondo le note ca-tegorie create dalla giurisprudenza della Cassazione in materia di responsabilità civile.

A tal proposito, le Sezioni riunite di questa Corte, con la citata dec. n. 7/2000, hanno in generale ricon-dotto le ipotesi degli inquadramenti illegittimi tra le fattispecie antigiuridiche permanenti in quanto, pur potendo produrre immediatamente un danno, la si-tuazione antigiuridica (che è modificabile) si protrae tuttavia nel tempo per il persistere della volizione nella medesima, ovvero per l’omessa assunzione delle doverose iniziative occorrenti a porvi fine; di talché da tale perdurante condotta antigiuridica (an-che omissiva) conseguono altri ed autonomi accadi-menti di danno che tuttavia – pur rimanendo della stessa natura – possono essere riferiti ed imputati nel tempo a soggetti diversi da quelli originari, alla luce di una corretta individuazione del nesso di causalità e del concorso di cause ex artt. 40 e 41 c.p.

Per quanto attiene alla fattispecie oggetto del presente giudizio, occorre rilevare che – quanto alla posizione degli amministratori convenuti nel presen-te giudizio (Abbate, Colantonio, Forte, Iacobelli) – i medesimi (tranne il sig. Forte Bernardo, assessore ai lavori pubblici fino al 2009), erano già cessati dal-la carica nel periodo non prescritto decorrente dalla data di interruzione del termine prescrizionale; dies a quo da individuarsi a partire dalla data di notifica dell’invito a dedurre ai convenuti (ottobre-novembre 2013), ovvero a partire dalla sostanzialmente coeva data di notifica degli atti di diffida e costituzione in mora del novembre 2013; atti che, valutati nel loro complesso, contengono una richiesta di adempimen-to oggettivamente riconoscibile come tale da parte dei destinatari (siccome postulato dagli artt. 1219 e 2943 c.c.), recando l’intenzione dell’amministrazio-

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ne di rammentare esistenza e volontà di far valere un proprio diritto in relazione ad una fattispecie suffi-cientemente individuata sotto il profilo dell’oggetto e dei contenuti finanziari.

Non rilevando invece pregressi atti del luglio 2012 e dell’ottobre 2012, che – ancorché definiti “atti di costituzione in mora” – non rispondono compiu-tamente ai requisiti che, per pacifica giurisprudenza, un atto deve contenere per avere efficacia interruttiva della prescrizione; ovvero, oltre alla chiara indica-zione del soggetto obbligato (elemento soggettivo), l’esplicitazione di una pretesa e l’intimazione o la richiesta scritta di adempimento, idonea a manifesta-re l’inequivocabile volontà del titolare del credito di far valere il proprio diritto nei confronti del sogget-to indicato, con l’effetto sostanziale di costituirlo in mora (elemento oggettivo); occorrendo in sostanza che il creditore manifesti chiaramente, con un qual-siasi scritto diretto al debitore, la volontà di ottenere dal medesimo il soddisfacimento del proprio diritto; escludendosi l’efficacia interruttiva di sollecitazioni, quali quelle di specie, prive di carattere di intimazio-ne o di un’espressa ed univoca richiesta di adempi-mento (Cass., 12 febbraio 2010, n. 3371).

Pertanto, alla luce della suesposta ricostruzione giuridica della fattispecie in esame deve conseguen-zialmente affermarsi che, una volta che gli ammini-stratori cessano dalla carica, è sicuramente vero che non cessa la permanenza del danno nei confronti dell’ente locale e che il dies a quo della prescrizione dell’azione di responsabilità decorre dai singoli pa-gamenti, ciascuno secondo la propria scansione tem-porale soggetto ad un proprio termine prescrizionale.

Tuttavia non sembra possibile affermare che l’impossibilità materiale e giuridica degli ex ammi-nistratori del Comune di Roccasecca di evitare gli effetti di danno relativi a pagamenti, conseguenti all’adozione delle delibere suindicate, ma relativi al periodo (non prescritto) decorrente dal novembre 2008 fino alla data di ripristino del trattamento eco-nomico corrispondente ai pregressi inquadramenti (determina n. 5 del 22 febbraio 2012), in cui (tranne il sig. Forte) non erano più in carica, possa incidere eventualmente solo sulla “misura” del danno loro at-tribuibile.

Infatti, come evidenziato dalle stesse Sezioni ri-unite nella decisione n. 7/2000, una cosa è la que-stione della decorrenza del termine prescrizionale nei casi di fatti dannosi a carattere permanente, altra cosa la questione dell’accertamento della imputazio-ne di responsabilità: invero nei casi di inquadramenti illegittimi la situazione antigiuridica posta in essere

dagli amministratori – pur potendo produrre imme-diatamente un danno – può protrarsi nel tempo sia per il persistere della volizione nella medesima, ma anche per il comportamento omissivo nell’assumere tutte le doverose iniziative necessarie a farla cessare.

Non a caso la questione del dies a quo della pre-scrizione nelle ipotesi di situazioni antigiuridiche permanenti (come quelle relative ad inquadramenti illegittimi) “si intreccia con la problematica, di non minore rilevanza, inerente alla individuazione del nesso di causalità e del concorso di cause ed anche di quelle sopravvenute ai fini della individuazione della riferibilità del danno” (cfr. Sez. riun., n. 7/2000).

In sostanza, in simili fattispecie il venir meno della possibilità di evitare che il danno si perpetui – come nel caso di amministratori cessati dalla carica alla data dei pagamenti in relazione ai quali non è prescritta l’azione di responsabilità – è un elemento da tener presente in sede di verifica della sussistenza del rapporto di causalità tra il comportamento com-missivo od omissivo contra ius degli amministratori stessi e i singoli autonomi accadimenti di danno (id est: i pagamenti delle non dovute maggiorazioni sti-pendiali).

Trattasi nella specie di comportamenti (posti in essere dagli amministratori) commissivi ed omissivi di natura permanente (cfr. Sez. riun., n. 7/2000) in relazione ai quali la giurisprudenza della Suprema corte di cassazione ha però più volte giustamente os-servato che l’istantaneità o la permanenza del fatto illecito deve essere accertata con riferimento non già al danno, bensì al rapporto eziologico tra questo ed il comportamento contra ius dell’agente, qualificato dal dolo o dalla colpa.

Quindi, mentre si verserà in ipotesi di fatto ille-cito istantaneo quando tale comportamento è mero elemento genetico dell’evento dannoso e si esaurisce con il verificarsi di esso, pur se l’esistenza di questo si protragga poi autonomamente (fatto illecito istan-taneo ad effetti permanenti); viceversa si verserà in ipotesi di fatto illecito permanente quando il com-portamento contra ius oltre a produrre l’evento dan-noso, lo alimenta continuamente per tutto il tempo in cui questo perdura, avendosi così coesistenza dell’u-no e dell’altro (Cass., 1 febbraio 1995, n. 1156).

Da ciò discende – ad avviso del collegio – che, quando si parla di danni permanenti verificatisi nel periodo non soggetto a prescrizione che va dal no-vembre 2008 al febbraio 2012 in relazione ai quali accertare la responsabilità amministrativa contabile dei convenuti amministratori quali autori delle citate delibere del 2000, bisogna accuratamente distingue-

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re i casi di permanenza dei danni in ipotesi di illecito istantaneo con effetti permanenti (per i quali il termi-ne di prescrizione del diritto al risarcimento del dan-no non può non farsi decorrere dalla data del compi-mento della condotta violativa generatrice di danno con la quale si perfeziona l’illecito istantaneo, anche se poi il danno perduri di per sé ed autonomamente nel tempo), dai casi di danni permanenti conseguen-ti ad illecito permanente (in cui il comportamento o l’omissione contra jus, oltre a produrre l’evento dan-noso, lo alimenta continuamente per tutto il tempo in cui perdura, producendo altro ed autonomo danno che rinnovandosi continuamente è soggetto ad un proprio termine prescrizionale in relazione alla scan-sione temporale del sorgere del danno medesimo); (cfr. Cass., n. 7867/1995; n. 1346/1991; n. 875/1990; n. 4427/1985; Corte conti, Sez. riun., n. 7/2000).

Considerato che, nella presente fattispecie, nel periodo non prescritto che va dal novembre 2008 al febbraio 2012 gli amministratori convenuti (tranne il sig. Forte) non erano più in carica presso il Co-mune di Roccasecca da diversi anni, occorre prio-ritariamente verificare se possa essere ravvisato un nesso di causalità tra il comportamento (commissivo od omissivo) dei medesimi ed il danno conseguitone nel predetto periodo.

Considerato che – relativamente ai suddetti ex amministratori odierni convenuti – ci troviamo di fronte per quanto suesposto ad un caso di situazione antigiuridica a carattere permanente (id est: di illeci-to permanente; cfr. Corte conti, Sez. riun., n. 7/2000), in cui la responsabilità e con essa la relativa prescri-zione del diritto al risarcimento del danno vanno rapportate a ciascun accadimento di danno (che è autonomo) verificatosi attraverso i singoli pagamen-ti, occorrerà – ai fini che qui occupano – verificare momento per momento la attribuibilità agli ammini-stratori convenuti di detto danno non prescritto.

Al riguardo, visto che gli amministratori conve-nuti nel periodo considerato decorrente dal novem-bre 2008 al febbraio 2012 non risultano essere più in carica presso l’amministrazione in questione, reputa il collegio che in allora gli stessi non fossero più nel-la condizione di destinatari dell’obbligo giuridico di impedire l’evento di danno verificatosi nel suddetto lasso di tempo.

Invero, in questi casi il decorso del tempo non è indifferente sul piano della causalità, ma può al con-trario comportare che il danno possa essere causal-mente rapportato a soggetti diversi da quelli votanti la delibera originaria di inquadramenti illegittimi (cfr. Corte conti, Sez. riun., n. 7/2000).

Diversamente opinando, amministratori che han-no approvato una delibera illegittima nel 2000 po-trebbero non solo rispondere indefinitamente del loro operato, ma per di più in relazione a periodi lontani nel tempo in cui i medesimi non erano più nemme-no nella giuridica possibilità di intervenire in alcun modo per porre fine ad una situazione antigiuridica continuamente produttiva di autonomi accadimenti di danno (stante la rilevata natura permanente dell’il-lecito).

Invero, trattandosi nella specie di situazione anti-giuridica di danno che (per quanto attiene al periodo considerato decorrente dal novembre 2008 al febbra-io 2012) consegue ad un comportamento omissivo in ordine alle doverose iniziative occorrenti a por-vi fine (cfr. Corte conti, Sez. riun., n. 7/2000), detta omissione è la sicura conditio sine qua non dell’e-vento di danno, in quanto solo l’azione corrispon-dente impeditiva (nella specie: l’annullamento degli inquadramenti illegittimi ad opera degli amministra-tori stessi), qualora posta in essere, l’avrebbe potuto impedire.

Tuttavia – sul piano del rapporto di causalità – l’obbligo giuridico di impedire il perpetuarsi di dette conseguenze dannose (ex art. 40, c. 2, c.p.) nell’ipo-tesi (in questione) di fatto illecito permanente non poteva più gravare su soggetti (amministratori) ces-sati dalla carica e quindi impossibilitati a compiere l’azione doverosa, già in base al principio logico del nemo ad impossibilia tenetur.

In sostanza, per potersi affermare l’efficacia causale di un comportamento omissivo occorre la violazione di un obbligo giuridico di fare (cioè di impedire l’evento), il quale è logicamente escluso dall’impossibilità incolpevole di poter esercitare il potere giuridico che l’avrebbe impedito.

Reputa in definitiva il collegio che la cessazione dalla carica nel 2001 del Sindaco Abbate Antonio e dell’assessore Colantonio Antonio Fernando e nel 2006 dell’assessore Iacobelli Pompilio qui convenu-ti, abbia introdotto un fatto nuovo che ha interrotto il nesso di causalità esistente fino a quel momento tra la condotta tenuta dagli amministratori stessi con l’approvazione delle delibere del 2000 e i successivi effetti economici pregiudizievoli conseguitine, per la successiva inerzia dei medesimi nell’assunzione del-le doverose iniziative occorrenti per porvi fine.

In conseguenza, secondo il collegio, erano cer-tamente i nuovi amministratori destinatari – almeno in astratto – di un obbligo di impedire gli ulteriori autonomi eventi di danno verificatisi nel periodo de-corrente dal novembre 2008 al febbraio 2012.

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PARTE II – ATTIVITÀ GIURISDIZIONALE N. 5-6/2014

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Dicesi “in astratto” in quanto questa Corte ritiene che, la pur ritenuta sussistenza per un amministra-tore – sul piano del rapporto di causalità, ex art. 40, c. 2, c.p. – di un obbligo di porre fine ad una situa-zione antigiuridica permanente di danno da lui non originata, trovi poi in concreto un limite sul piano della attribuzione di responsabilità nella particola-re ampiezza delle verifiche di legittimità che in tal modo verrebbero poste a suo carico (naturalmente in assenza di precise circostanze di fatto e di diritto da cui possa invece inferirsene un particolare obbligo di agire, nella specie non introdotte nel giudizio dalla procura).

Con riferimento alla posizione del convenuto Forte Bernardo, pur alla luce delle considerazioni che precedono, la sussistenza di un rapporto di cau-salità tra la condotta del medesimo – che ha preso parte a tutte le delibere del 2000 aventi a oggetto gli inquadramenti illegittimi del personale, ricopren-do la carica di assessore al personale fino al 2005, e successivamente dall’anno 2006 al 2009 quella di assessore ai lavori pubblici – e gli eventi di danno verificatisi con riferimento al periodo non prescritto decorrente dal novembre 2008 fino alla data di ces-sazione dalla carica del 2009, risulta di problematica affermazione, atteso che il medesimo non risulta sia stato presente alla delibera della giunta comunale del 27 gennaio 2005 con cui il Comune di Roccasecca, nell’adottare un nuovo regolamento modificativo di quello di cui alla delib. n. 55/2000, non disponeva tuttavia la modifica degli inquadramenti di persona-le qui censurati; comportamento omissivo relativo a doverose iniziative occorrenti a porre fine situazione antigiuridica di danno che, non essendo imputabile al convenuto, si appalesa idoneo ad elidere il nes-so di causalità tra la condotta del Forte e gli eventi dannosi intervenuti nello spazio temporale di respon-sabilità non prescritto (dal novembre 2008 fino alla data di cessazione dalla carica del 2009), in astratto a lui imputabile.

Quanto alla posizione del segretario comunale Decina Angela, la quale secondo il requirente, pur presente alle sedute in cui erano stati adottati i de-liberati poi annullati, non ha fatto rilevare le illegit-timità e dannosità dei medesimi come sarebbe stato suo preciso dovere, rileva il collegio che (in coe-rente applicazione delle categorie sull’illecito civile di cui sopra) ci si trovi – viceversa – in ipotesi di fatto illecito istantaneo, trattandosi di comportamen-to omissivo che si è perfezionato e quindi esaurito con il compimento della presunta condotta violativa produttiva dell’evento dannoso: pur se l’esistenza di

questo danno si è poi protratta autonomamente (fatto illecito istantaneo ad effetti permanenti); con la con-seguenza che il termine quinquennale per l’esercizio della relativa azione di responsabilità era abbondan-temente prescritto alla data della sua proposizione, decorrendo il relativo dies a quo della prescrizione dalla data del comportamento contra jus produttivo del primo evento dannoso, poi protrattosi autonoma-mente con i suoi effetti lesivi, ma senza possibilità per l’agente di farlo cessare modificando la propria condotta, per l’ovvio motivo che la stessa aveva già avuto termine; senza pretermettere che, anche a voler collocare la presente fattispecie nell’ambito catego-riale dell’illecito permanente, l’avvenuta cessazione della dottoressa Decina dall’incarico di segretario comunale di Roccasecca in data 15 agosto 2001, po-stula comunque la interruzione del nesso di causali-tà, in analogia ai casi che precedono.

Quanto all’ipotesi subordinata della procura che nell’ipotesi di accoglimento dell’eccezione di prescrizione, per le poste di danno prescritte assu-me una responsabilità in via esclusiva e per l’intero del segretario comunale Decina ex art. 1, c. 3, l. n. 20/1994, per avere omesso sia la denuncia erariale che le messe in mora, nonostante il contenzioso pas-sivo in danno dell’ente fosse stato instaurato lo stes-so anno (2000) di adozione dei deliberati illegittimi – la stessa è da dichiararsi inammissibile, essendosi in tal modo contestata alla convenuta una (qualita-tivamente e quantitativamente) differente ipotesi di danno rispetto al contenuto (quale essenza tipica della fattispecie dannosa) dell’invito a dedurre, sia sotto il profilo della causa petendi che del petitum, in relazione alla quale la medesima non ha avuto modo di controdedurre nella fase pre-processuale (cfr. Sez. riun., n. 7 e n. 8 del 1998).

Nessuna responsabilità erariale è infine postula-bile nei confronti dei convenuti Tucci Aldo, Giorgio Giuseppe, Marsella Ercole, Vicini Paolo e Ricci An-gelo, in quanto l’accusa del requirente di aver i me-desimi indotto e favorito con piena consapevolezza l’indebita maggiorazione del trattamento economico conseguente agli illegittimi inquadramenti – in di-sparte la posizione del Giorgio e del Tucci cessati rispettivamente dal servizio dall’1 gennaio 2004 e dall’1 luglio 2007 come da documentazione in atti, con conseguente necessario accoglimento dell’ecce-zione di prescrizione del diritto al risarcimento del danno stante la rilevata data del primo atto interrutti-vo intervenuto con la notifica dell’invito a dedurre ai convenuti (ottobre/novembre 2013), ovvero a parti-re dalla sostanzialmente coeva data di notifica degli

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atti di diffida e costituzione in mora del novembre 2013 – è carente di evidenze probatorie assertive di collusive interessenze tra amministratori comunali e dipendenti interessati agli inquadramenti, i quali non erano nemmeno nella ragionevole condizione di di-sattendere deliberati e provvedimenti amministrativi assistiti dalla presunzione di legittimità; legittimità peraltro interinalmente ed indirettamente suffragata da un’ordinanza cautelare del Tar Lazio, Sez. II-bis, 13 luglio 2000, n. 6015 di rigetto dell’istanza cau-telare di sospensione dell’esecuzione della delibera-zione della g.m. n. 55 del 21 marzo 2000, solo molti anni dopo superata con la sentenza del Tar Lazio, Sez. Latina, n. 834/2011.

In conclusione, per quanto attiene alla prima fattispecie di danno, dalle suesposte considerazioni consegue – per il periodo non prescritto decorrente dal novembre 2008 al febbraio 2012 – l’assoluzione degli amministratori convenuti per rilevato difetto del nesso di causalità nella causazione del danno in questione; va invece dichiarata interamente prescrit-ta l’azione di responsabilità nei confronti del segre-tario comunale Decina Angela ed inammissibile l’i-potesi contestata in via subordinata dalla procura ex art. 1, c. 3, l. n. 20/1994, per mutamento dell’ipotesi di danno rispetto al contenuto dell’invito a dedurre.

Devono altresì essere assolti i convenuti Tucci Aldo, Giorgio Giuseppe, Marsella Ercole, Vicini Paolo e Ricci Angelo, quali dipendenti percettori delle som-me in contestazione per gli illegittimi inquadramenti, stante la rilevata insussistenza dell’elemento soggetti-vo per l’affermazione della responsabilità; per il Gior-gio e il Tucci anche in accoglimento dell’eccezione di prescrizione.

Quanto infine all’ulteriore ipotesi di danno era-riale relativa agli importi liquidati al legale ester-no dell’ente avv. Michele Nardone per l’attività defensionale svolta per il Comune di Roccasecca nell’ambito del giudizio definito con la sentenza del Tar Lazio, Sez. Latina, n. 834/2011, contestato dalla procura ai convenuti (cfr. pp. 4, 5, 10, 20 e 21 della citazione, come integrata con atto della procura del 31 marzo 2014) – e comunque in disparte la posizio-ne dei convenuti dipendenti percettori delle somme, completamente estranei già sul piano del nesso cau-sale, da un coinvolgimento nella presente ipotesi di danno – basti rilevare l’assenza di ogni ricostruzione logico-documentale attorea da cui possa inferirsi la puntuale riconducibilità ai medesimi di una condot-ta gravemente colposa e di un correlato nocumento patrimoniale; atteso che il mero fatto giuridico consi-stente nell’aver deliberato di resistere davanti al Tar

a tutela di atti amministrativi adottati ed al fine di contrastare un’istanza giurisdizionale introdotta da terzi poi rilevatasi fondata, non può costituire ex se elemento di responsabilità; postulandosi altrimenti che la stessa dialettica processuale che ha condotto alla sentenza amministrativa posta a base giuridi-co-fattuale della stessa azione del requirente dovesse aprioristicamente essere pretermessa.

P.q.m., la Corte dei conti, Sezione giurisdizionale per la Regione Lazio, assolve tutti i convenuti dalle pretese di cui all’atto di citazione in epigrafe, nei ter-mini di cui in parte motiva.

815 – Sezione giurisdizionale Regione Lazio; sen-tenza 17 novembre 2014; Pres. De Musso, Est. Rondoni, P.M. Montella; Proc. reg. c. Bitozzi e altri.

Processo contabile – Giudizio di responsabilità – Atto di citazione – Notifica a persona giuridica – Assenza di persone fisiche nella sede indicata come sede della persona giuridica – Notifica-zione mediante affissione all’albo comunale – Inesistenza.

C.p.c., artt. 140, 143, 145.

La notifica degli atti ad una persona giuridica (nella specie, una società) va eseguita unicamente nella sede di questa, mediante consegna di copia al rappresentante o alla persona incaricata a rice-verla, o addetta alla sede, o al portiere, oppure alla persona fisica che rappresenta l’ente; di conseguen-za, va ritenuta inesistente la notifica della citazione effettuata mediante affissione all’albo comunale, in assenza di persone fisiche presso l’indirizzo indicato come sede della società ed essendo deceduta la per-sona fisica rappresentante della società.

Diritto – In via pregiudiziale il collegio rileva che la notificazione dell’atto introduttivo del presente giudizio alla società Mad s.r.l. è inesistente e pertan-to la citazione va dichiarata inammissibile nei con-fronti dell’indicata società, in quanto la notifica della stessa non è idonea a produrre alcun effetto giuridico per una radicale estraneità delle modalità di esecu-zione della notificazione al modello processuale, che induce ragionevolmente a non ritenere conseguito lo scopo prefissato dalla legge per detto atto procedi-mentale, ossia il raggiungimento della sfera della co-noscibilità del destinatario e quindi della possibilità per quest’ultimo di esercitare effettivamente il diritto di difesa.

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Specificamente va rilevato che detta notificazio-ne è stata eseguita ai sensi dell’art. 143 c.p.c., con affissione dell’atto nell’albo della casa comunale del comune in cui risultava avere sede la società (Sant’Agata dei Goti), dopo un primo tentativo di notifica a mani del rappresentante legale pro tempore della stessa, nella cui relata si legge “anzi non potuto notificare perché manca il civico – da informazioni assunte sul posto la suddetta società è sconosciuta – specificare nominativo del legale rappresentante e numero civico”.

La procura attrice ha quindi chiesto che l’atto fosse notificato ai sensi dell’art. 143 c.p.c. alla so-cietà Mad s.r.l. (in persona del legale rappresentante, ma senza specificarne il nome), indicando quale ulti-mo domicilio conosciuto quello della sede sociale e l’ufficiale ha provveduto, con notifica nella cui relata si legge “al Comune di Sant’Agata dei Goti, a mani dell’impiegato addetto, in plico sigillato” ai sensi dell’art. 143 c.p.c.”.

Detta notificazione è a parere del collegio ine-sistente – in quanto l’atto processuale manca total-mente dei requisiti essenziali per la sua qualificazio-ne come atto del tipo giuridico considerato – poiché la notificazione degli atti alle persone giuridiche ai sensi dell’art. 145 c.p.c., va eseguita nella loro sede, mediante consegna di copia al rappresentante o alla persona incaricata a riceverli, o addetta alla sede, o al portiere, oppure alla persona fisica che rappresenta l’ente.

Nel caso di specie, pertanto, in mancanza di per-sone fisiche presso la sede della società, essendo la stessa sconosciuta all’indirizzo, ed in mancanza della persona fisica che rappresenti l’ente, essen-do il Mirimich deceduto ancor prima della stesura dell’atto introduttivo e non essendo a tutt’oggi stato nominato un altro rappresentante legale, la notifi-cazione non avrebbe potuto essere eseguita ai sensi dell’art. 143.

La notificazione a norma degli artt. 140 e 143 nei confronti delle persone giuridiche, infatti, secondo quanto stabilito dall’art. 145 c.p.c., u.c., può essere eseguita solo alla persona fisica che rappresenta l’en-te, indicata nell’atto.

Ne deriva l’inesistenza della notifica dell’atto introduttivo mediante affissione nel comune in cui ha sede la società. L’atto non può considerarsi, in-fatti, pervenuto, neanche minimamente, nella sfera di conoscibilità del suo destinatario, in quanto il luo-go in cui è avvenuta la notifica è privo di attinenza, riferimento o collegamento col destinatario stesso dell’atto e potenzialmente inidoneo a provocare la

conoscenza: stante l’inesistenza, è inammissibi-le qualunque forma di sanatoria e la citazione nei confronti della società Mad s.r.l. è inammissibile. (Omissis)

852 – Sezione giurisdizionale Regione Lazio; sen-tenza 4 dicembre 2014; Pres. De Musso, Est. Mencarelli, P.M. Giuseppone; Proc. reg. c. Pan-zini e altri.

Giurisdizione e competenza – Giudizio di respon-sabilità – Contratto d’appalto – Legale rap-presentante della società appaltatrice – Vio-lazione degli obblighi derivanti dal contratto – Responsabilità dell’appaltatore – Giurisdi-zione contabile – Esclusione.

D.lgs. 12 aprile 2006 n. 163, codice dei contratti pub-blici relativi a lavori, servizi e forniture attuazione delle direttive 2004/17/Ce e 2004/18/Ce.

Sussiste il difetto di giurisdizione della Corte dei conti nei confronti del legale rappresentante di una società appaltatrice per violazione degli obblighi derivanti da un contratto d’appalto stipulato con un comune (nella specie, per la mancata realizzazione dell’opera appaltata), qualora questo non abbia af-fidato al menzionato soggetto alcuna funzione di tipo progettuale o di controllo, né di gestione dei finan-ziamenti.

Diritto – Rileva il collegio, in ordine alla questio-ne pregiudiziale sollevata dalla difesa del convenu-to Iaquone circa il difetto di giurisdizione di questo giudice relativamente ai fatti ascritti, che l’eccezione va accolta.

In proposito va, infatti, ricordato che al riguardo la procura regionale ha ritenuto la sussistenza della giurisdizione della Corte dei conti richiamando l’in-dirizzo giurisprudenziale delle Sezioni unite della Cassazione (tra cui la sent. 1 marzo 2006, n. 4511). Secondo tale indirizzo, la partecipazione del privato a un programma pubblico, a prescindere dalle mo-dalità e degli strumenti in concreto utilizzati, realiz-za un rapporto di servizio capace di assoggettarlo alla giurisdizione della Corte dei conti per ipotesi di danno dovuto alla mancata realizzazione del pro-gramma, con pregiudizio sia delle finanze nazionali sia di quelle di derivazione comunitaria. Fattispecie certamente ricomprendente – ha prospettato la pro-cura – la vicenda relativa alle misure di investimento fondate sul programma di sviluppo rurale (Psr) La-zio 2007/2013, misura 227, per la quale il Comune

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di Terelle aveva partecipato al relativo bando di se-lezione proponendo un progetto di “realizzazione e ripristino funzionale di aree destinate ad uso turistico ricreativo e culturale didattico” – Azione 1 – ripristi-no, arredo e valorizzazione del sistema sentieristico ed aree limitrofe di servizio del plesso ecoturistico “Le casermette – ex stazione forestale”.

Misure richiamate poi nel contratto d’appalto sot-toscritto dallo Iaquone, reso così chiaramente consa-pevole – tale sul punto l’atto di citazione – che tale contratto di appalto si configurava quale mezzo di realizzazione del progetto sopra indicato a sua volta parte del programma comunitario di sviluppo rurale.

Peraltro – rileva il collegio – le Sezioni unite della Cassazione, con l’ord. 16 settembre 2014, n. 22615 confermando un indirizzo seguito dalle Sezioni cen-trali di appello della Corte dei conti (così già Sez. III giur. app., n. 202/2010) nell’affrontare funditus la questione, hanno affermato che certamente rientrano nell’ambito della giurisdizione della Corte dei conti anche i soggetti che, pure in assenza di un rapporto di lavoro, svolgano comunque un “servizio” per la pubblica amministrazione: così nel caso di danni era-riali imputati al comportamento di un organo tecnico straordinario, affidatario di qualificati poteri, ovvero nel caso dei consulenti della direzione dei lavori ov-vero ancora dei componenti di una commissione di collaudo.

Come del resto – continuano le Sezioni unite con la citata ordinanza – rientra nella giurisdizione della Corte dei conti la fattispecie della concessione a un privato della progettazione ed esecuzione di un’ope-ra di pubblica utilità con il trasferimento in tutto o in parte in capo al concessionario dell’esercizio di funzioni oggettivamente pubbliche, proprio del con-cedente. E analogamente in tale giurisdizione rientra l’azione di responsabilità nei confronti di un ammi-nistratore di una società destinataria di fondi pubblici in quanto la società beneficiaria di tale erogazione concorre alla realizzazione del programma della pubblica amministrazione, instaurando con questa un rapporto di servizio.

Nell’ordinanza citata, le Sezioni unite hanno invece ribadito (richiamando Cass., S.U., 16 luglio 2014, n. 16240) la diversità della situazione “quando il danno di cui si pretende il ristoro sia conseguenza di comportamenti che un soggetto abbia tenuto nella veste di controparte contrattuale dell’amministrazio-ne pubblica, squilibrando il sinallagma contrattuale e violando le obbligazioni derivanti dal contratto, alle quali corrispondono i diritti che il contratto medesi-mo attribuisce alla controparte pubblica”.

“In quest’ipotesi il soggetto non viola il dovere lato sensu pubblicistico di agire nell’interesse della amministrazione, ma viola un’obbligazione assunta nei confronti della amministrazione pubblica, con-troparte contrattuale”.

Ed indubbiamente – ad avviso del collegio – in tale situazione va ricompresa la posizione dello Ia-quone e della Eur Costruzioni sulla vicenda de qua, chiamati a rispondere della violazione delle obbliga-zioni derivanti dal contratto di appalto – in particola-re della mancata integrale realizzazione delle opere in esso previste quale riscontrata dai funzionari della regione – senza in alcun modo essere stati investiti di alcuna funzione pubblica propria del comune con-cedente, che ha elaborato direttamente il progetto da realizzare, ha provveduto, attraverso i propri dipen-denti Panzini e Francazi, ai controlli in essere, ed ha riscosso direttamente il contributo pubblico conces-so. (Omissis)

902 – Sezione giurisdizionale Regione Lazio; sen-tenza 22 dicembre 2014; Pres. De Musso, Est. Pozzato, P.M. Perin; Guerra c. Ministero della difesa.

Giudizi a istanza di parte – Responsabilità ammi-nistrativa – Accertamento negativo – Ammis-sibilità – Condizioni.

R.d. 13 agosto 1933 n. 1038, approvazione del rego-lamento di procedura per i giudizi innanzi la Corte dei conti, art. 58.

L’accertamento negativo della responsabilità amministrativa è ammissibile, nella forma di un giu-dizio a istanza di parte, nelle ipotesi in cui a carico dell’istante sia stato elevato, in sede amministrativa, addebito per danni o sia stata accertata in sede giu-risdizionale, pur se in un processo diverso da quello contabile, una responsabilità patrimoniale (in moti-vazione, si precisa che l’ammissibilità dell’actio ne-gatoria è collegata all’esigenza del giusto processo e del procedimento giurisdizionale ragionevolmente concluso in tempi rapidi, consentendosi al soggetto interessato di conseguire un risultato che rimarreb-be, altrimenti, condizionato all’esercizio dell’azione di responsabilità da parte del pubblico ministero contabile).

Diritto – Il giudicante, con sent.-ord. 3-16 luglio 2014, n. 589 ha dichiarato l’ammissibilità della pre-tesa attorea, riconducibile al particolare genus della c.d. actio negatoria della responsabilità amministra-

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tivo-contabile, definita dall’ordinamento nell’àmbito degli “altri giudizi ad istanza di parte” di cui all’art. 58 r.d. 13 agosto 1933, n. 1038.

Parte attrice chiede di essere esonerata dalla re-sponsabilità amministrativo-contabile ipotizzata dal Comando di artiglieria dell’esercito italiano, che ha formalmente costituito in mora il gen. Guerra.

Giova anzitutto rammentare che l’azione in que-stione viene svolta mediante chiamata in giudizio (citazione) dell’amministrazione che si assume dan-neggiata.

La giurisprudenza di questa Corte ha chiarito (cfr. Sez. I centr. app., sent. n. 199/1988 e n. 36/1994) che l’accertamento negativo della responsabilità ammi-nistrativa, di cui all’art. 58 r.d. n. 1038/1933, è am-missibile “nelle ipotesi in cui a carico dell’istante sia stato elevato, in sede amministrativa, addebito per danni o mosse intimazioni di pagamento da par-te dell’amministrazione, o quando la responsabilità dello stesso, nei suoi riflessi patrimoniali, sia stata accertata in sede giurisdizionale, pur se in un proces-so diverso da quello contabile”.

“In tali e consimili casi è la reale capacità dei menzionati atti a sostenere l’azione di responsabi-lità del procuratore generale che sostanzialmente rende concreto, attuale ed immediato l’interesse del ricorrente ad un’anticipazione del giudizio, il cui promovimento è di pertinenza esclusiva dell’organo requirente, onde pervenire ad una declaratoria di in-sussistenza degli elementi costitutivi di quell’azione o ad un verdetto assolutorio ove il procuratore gene-rale, in via riconvenzionale, nel giudizio ad istanza di parte, introduca la pertinente azione riparatoria” (cfr. Sez. I centr. app., sent. n. 36/1994, cit.).

L’accertamento negativo è quindi subordinato alla dimostrazione, da parte del soggetto richieden-te, di un concreto interesse: in questo contesto, tale condizione si verifica qualora sussista l’esigenza di protezione del profilo morale dell’interessato, “per i riflessi che anche la mera pendenza di un addebito in sede amministrativa comporta nella gestione delle relazioni del ricorrente sia nel contesto familiare che in quello collegato all’àmbito lavorativo e professio-nale” (cfr. Sez. giur. reg. Emilia-Romagna, sent. n. 1139/2006).

La possibilità, in via eccezionale, che la parte privata azioni il giudizio innanzi a questa Corte non confligge, come a contrario rilevato dalla procura procedente (anche in sede di conclusioni; cfr. atto in data 12 settembre 2014), con il principio secondo cui il potere di azione per l’accertamento della responsa-bilità amministrativa è istituzionalmente demandato

in via esclusiva all’ufficio del pubblico ministero contabile nell’interesse dell’erario.

L’ammissibilità dell’actio negatoria, in questo quadro, è collegata alle coniugate esigenze del giusto processo e del procedimento giurisdizionale ragione-volmente concluso in tempi rapidi, in sostanza con-sentendo al soggetto interessato di essere propulsore di un risultato che rimarrebbe pendente, in quanto condizionato all’esercizio dell’azione da parte della procura della Corte dei conti.

Nella fattispecie, la richiesta del sig. Guerra ri-sulta pienamente ammissibile:

- essendo egli destinatario di un atto di costitu-zione in mora dell’amministrazione (cfr. nota prot. 29413 in data 4 dicembre 2013 del comando di ar-tiglieria e.i.);

- essendo egli portatore di un interesse qualifi-cato (sotto il profilo morale e del senso di dignità, in stretta connessione al ruolo istituzionale rivestito, di capo del servizio amministrativo della scuola di artiglieria e.i.);

- avendo egli inoltre concreto interesse a neutra-lizzare l’intimazione alla restituzione comunicatagli dal comando di artiglieria, nonché le eventuali suc-cessive iniziative, dirette al recupero delle somme che si assumono indebitamente erogate.

Le situazioni in fatto e in diritto dedotte giustifi-cano pienamente, di conseguenza, l’attivazione dei meccanismi previsti dall’art. 58 r.d. n. 1038/1933 e l’anticipazione dell’accertamento dell’eventuale esonero di responsabilità del soggetto attore.

Deve essere pertanto disattesa la richiesta di ces-sazione della materia del contendere, formulata dal-la procura presso questa Sezione giurisdizionale in sede di conclusioni scritte.

Nel merito – (Omissis) Pur non risultando dimo-strata a carico del gen. Guerra una condotta connotata dalla colpa grave, l’attività del ricorrente non appare certamente contraddistinta da una piena diligenza – contrariamente a quanto affermato dal medesimo.

Nelle dedotte vicende ritiene perciò questo giu-dice – pur non avendo rinvenuto comportamenti improntati al massimo dello zelo nel perseguimen-to dell’interesse dell’ente di appartenenza – che non sia configurabile nell’operato del ricorrente quella estrema superficialità e negligenza che la normativa esige per l’imputabilità specifica e individuale della responsabilità amministrativa, con correlativa con-danna al reintegro dell’erario.

Pur sussistendo una complessiva valutazione non positiva del comportamento del suddetto ricorrente,

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N. 5-6/2014 PARTE II – ATTIVITÀ GIURISDIZIONALE

307

la sua pretesa deve essere accolta con riferimento all’accertamento negativo della responsabilità am-ministrativo-contabile. (Omissis)

* * *

Liguria

111 – Sezione giurisdizionale Regione Liguria; sen-tenza 30 settembre 2014; Pres. Coccoli, Est. Rio-lo, P.M. Bogetti; Proc. reg. c. Longagnani.

Giudizi di conto e per resa del conto – Istanza del procuratore regionale successiva al deposito del conto presso l’ente locale – Inammissibi-lità – Obbligo dell’ente locale di trasmettere il conto alla Corte dei conti – Acquisizione del conto nell’ambito del relativo giudizio.

R.d. 12 luglio 1934 n. 1214, approvazione del t.u. delle leggi sulla Corte dei conti, art. 45; d.lgs. 18 agosto 2000 n. 267, t.u. delle leggi sull’ordinamento degli enti locali, art. 233.

È inammissibile l’istanza per resa del conto che il procuratore regionale abbia rivolto all’agente contabile dell’ente locale successivamente all’avve-nuta presentazione del conto, da parte dell’agente, all’amministrazione; invero, l’agente contabile, dal momento in cui inoltra il conto all’amministrazione, non è più assoggettabile al giudizio per resa di conto e deve, contemporaneamente, ritenersi costituito in giudizio, nell’ambito del quale il giudice dovrà ac-quisire il conto ordinandone il deposito all’ammini-strazione ed eventualmente acquisendolo mediante la nomina di un commissario ad acta. (1)

Diritto – L’art. 233 d.lgs. 18 agosto 2000, n. 267, nel testo vigente prima delle modifiche apportate nel 2008, stabiliva che “Entro il termine di due mesi dal-la chiusura dell’esercizio finanziario, l’economo, il consegnatario di beni e gli altri soggetti di cui all’art. 93, c. 2, rendono il conto della propria gestione all’ente locale il quale lo trasmette alla competente sezione giurisdizionale della Corte dei conti entro 60 giorni dall’approvazione del rendiconto”.

Lo stesso articolo nel testo in vigore dal 7 di-cembre 2008 (come modificato dall’art. 2-quater, c. 6, lett. d, d.l. 7 ottobre 2008, n. 154, convertito con

(1) In termini, v. Corte conti, Sez. contr. reg. Liguria, 28 aprile 2014, n. 43, in questa Rivista, 2014, fasc. 1-2, 244, e già Sez. riun., 17 luglio 1991, n. 720, ivi, 1991, fasc. 4, 78.

modificazioni dalla l. 4 dicembre 2008, n. 189), sta-bilisce che “Entro il termine di 30 giorni dalla chiu-sura dell’esercizio finanziario, l’economo, il conse-gnatario di beni e gli altri soggetti di cui all’art. 93, c. 2, rendono il conto della propria gestione all’ente locale il quale lo trasmette alla competente sezione giurisdizionale della Corte dei conti entro 60 giorni dall’approvazione del rendiconto”.

Nel caso in esame, dagli esiti del d.l. n. 7/2014 è emerso che l’agente contabile Longagnani Giorgio aveva reso i conti relativi agli esercizi dal 2000-2009 nel mese di dicembre dell’esercizio di riferimento.

Il mancato deposito dei conti presso questa se-zione giurisdizionale è, pertanto, imputabile all’ente locale, che, in violazione di quanto prescritto dal pre-detto art. 233 d.lgs. n. 267/2000, non ha trasmesso i conti a questa sezione giurisdizionale.

È evidente che, avendo l’agente contabile presen-tato il conto all’amministrazione, il presente giudizio per resa di conto è risultato essere stato incardinato in assenza dei presupposti di cui all’art. 45 r.d. 12 luglio 1934, n. 1214, che dopo aver previsto, al c. 1, che “La presentazione del conto costituisce l’agen-te dell’amministrazione in giudizio” ha stabilito, tra l’altro, che in caso di “ritardo a presentare i conti nei termini stabiliti per legge o per regolamento” il pub-blico ministero con istanza alla competente sezione giurisdizionale chiede la fissazione di un termine perché venga presentato il conto.

Nella specie, sebbene sia stata l’amministrazione che con la nota prot. n. 3216 del 4 novembre 2010 diretta alla procura non ha provveduto alla trasmis-sione dei conti, né ha fornito dati precisi sull’avvenu-ta presentazione degli stessi, determinando l’istanza per resa di conto, il presente giudizio va comunque dichiarato inammissibile, stante l’avvenuta presenta-zione all’amministrazione dei conti da parte dell’a-gente contabile in data anteriore all’instaurazione del giudizio stesso.

In siffatto contesto, e in difformità dalla richiesta della procura di cessazione della materia del conten-dere, va dichiarata, invece, l’inammissibilità dell’i-stanza per resa di conto.

D’altra parte, come affermato anche dalle Sezio-ni riunite di questa Corte nella sent. 17 luglio 1991, n. 720 “L’agente contabile dal momento in cui inol-tra il conto all’amministrazione non è più assogget-tabile al giudizio per resa di conto e, contempora-neamente deve ritenersi costituito in giudizio. Ove l’amministrazione non trasmetta alla Corte dei conti il documento contabile il giudice potrà acquisire il conto esclusivamente nell’ambito del giudizio di

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PARTE II – ATTIVITÀ GIURISDIZIONALE N. 5-6/2014

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conto, ordinandone il deposito all’amministrazione ed eventualmente, ove a ciò l’amministrazione non provveda, acquisendolo mediante la nomina di com-missario ad acta”.

* * *

Sardegna

229 – Sezione giurisdizionale Regione Sardegna; sentenza 18 novembre 2014; Pres. Benussi, Est. Locci, P.M. Bussi; Proc. reg. c. Ladu.

Responsabilità amministrativa e contabile – Gruppi politici dei consigli regionali – Fon-di assegnati dal consiglio regionale – Illecito utilizzo – Responsabilità del presidente del gruppo – Condizioni – Effettiva gestione delle risorse assegnate.

Cost., art. 103; r.d. 12 luglio 1934 n. 1214, approva-zione del t.u. delle leggi sulla Corte dei conti, artt. 13, 52; l. 14 gennaio 1994 n. 20, disposizioni in ma-teria di giurisdizione e controllo della Corte dei con-ti, art. 1.Responsabilità amministrativa e contabile –

Gruppi politici dei consigli regionali – Fondi assegnati dal consiglio regionale – Presidente del gruppo – Utilizzo dei fondi per fini perso-nali – Danno erariale.

Cost., art. 103; r.d. 12 luglio 1934 n. 1214, art. 13, 52; l. 14 gennaio 1994 n. 20, art. 1.

La responsabilità erariale per l’illecito utilizzo dei fondi erogati dalla regione a un gruppo politi-co regionale è ascrivibile al presidente del gruppo a condizione che egli abbia effettivamente svolto compiti di gestione delle risorse assegnate al gruppo (nella specie, è stato accertato che il presidente del gruppo aveva la disponibilità della carta di credito e il potere di firma sul conto corrente bancario inte-stato al gruppo). (1)

(1-2) I. - Sulla responsabilità dei presidenti e dei compo-nenti dei gruppi politici dei consigli regionali per l’illecito uti-lizzo dei fondi erogati ai gruppi a carico dei bilanci consiliari, v., da ultimo, Corte conti, Sez. giur. reg. Friuli-Venezia Giulia, 3 febbraio 2014, n. 11, e 23 ottobre 2014, n. 90, in questo fa-scicolo 279, 280, nonché Corte conti, Sez. giur. reg. Lom-bardia, 28 luglio 2014, n. 163, in questa Rivista, 2014, fasc. 3-4, 341, con nota di richiami.

Sulla giurisdizione della Corte dei conti nelle controversie aventi ad oggetto l’accertamento della responsabilità patrimo-niale degli appartenenti ai gruppi politici dei consigli regiona-li in relazione all’illecito impiego dei fondi pubblici erogati ai

Risponde di danno erariale il presidente del gruppo politico di un consiglio regionale che abbia utilizzato, per fini personali, risorse finanziarie ero-gate dalla regione al gruppo per le esigenze del suo funzionamento. (2)

Diritto – 1. Delle questioni pregiudiziali.La difesa del convenuto ha sollevato differenti

questioni il cui esame verrà partitamente condotto.1.a: carenza di potere – sia di indagine che di

pronuncia – in capo alla Corte, vertendosi su fatti e vicende anteriori all’entrata in vigore del d.l. n. 174/2012, convertito con modificazioni dalla l. n. 213/2012, a mente della sent. n. 130/2014 della Cor-te costituzionale, depositata in data 15 maggio 2014.

Secondo l’assunto difensivo, il particolare siste-ma di controllo, di natura prettamente documentale, introdotto dalla legge menzionata, costituirebbe l’u-nico sindacato ammissibile sui rendiconti dei gruppi consiliari, in considerazione della particolare auto-nomia agli stessi riconosciuta.

Conseguentemente, in assenza di un preciso di-sposto normativo (quindi in epoca anteriore all’en-trata in vigore della legge stessa), sarebbe precluso al giudice contabile qualunque accertamento sull’ef-fettiva corrispondenza ai fini stabiliti della pubblica contribuzione, con preclusione dell’esercizio dell’a-zione di responsabilità amministrativo patrimoniale.

A supporto delle proprie affermazioni sono stati riportati ampi stralci, in memoria, della pronuncia del giudice delle leggi.

La linea difensiva, già sviluppata nelle controde-

gruppi stessi, v. Cass., S.U., 31 ottobre 2014, n. 23257, in que-sto fascicolo, 378.

II. - Per gli aspetti relativi all’esercizio del controllo della Corte dei conti sui rendiconti dei gruppi consiliari, v. la nota redazionale (sub IV) a Corte conti, Sez. riun. (spec. comp.), sent.-ord. 2 settembre 2014, n. 32, in questo fascicolo, 154.

Su taluni problemi processuali posti dall’impugnazione alle Sezioni riunite delle deliberazioni delle sezioni regionali di controllo in materia di regolarità dei rendiconti dei gruppi consiliari, v., oltre a Corte conti, Sez. riun. (spec. comp.), n. 32/2014, appena cit., Corte conti, Sez. riun. (spec. comp.), 13 novembre 2014, n. 46, in questo fascicolo, 193; 18 dicembre 2014, n. 60, in questo fascicolo, 207; 18 dicembre 2014, n. 61, in questo fascicolo, 210.

Nel senso che non compete al giudice amministrativo la giurisdizione in ordine all’impugnazione delle pronunce di con-trollo della Corte dei conti relative alla regolarità dei rendiconti dei gruppi politici dei consigli regionali, v. Tar Basilicata, 26 novembre 2014, n. 808, in questo fascicolo, 385, con nota di A. Luberti, A proposito della competenza delle Sezioni riunite in speciale composizione nelle materie di contabilità pubblica.

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duzioni all’invito, attraverso il richiamo alle delibe-razioni del 3 aprile 2013 e del 5 luglio 2013 emanate dalla Sezione autonomie della Corte, non può essere condivisa.

Come correttamente evidenziato dal procuratore regionale nell’atto introduttivo del giudizio, la difesa del convenuto sovrappone e confonde sindacati giu-diziari che devono rimanere distinti.

Prendendo le mosse dalla disposizione di legge scrutinata (in più occasioni) dalla Corte costituzio-nale, deve essere sottolineato che essa ha espressa-mente previsto un modulo di controllo dell’elaborato predisposto dai gruppi, ha previsto sanzioni per l’i-potesi di omessa e/o irregolare rendicontazione, ma tali aspetti potrebbero al più influire ai fini della ce-lebrazione del giudizio di conto, non attingendo alla diversa sfera della responsabilità patrimoniale.

Difatti, l’art. 1 d.l. 10 ottobre 2012, n. 174, con-vertito con modificazioni dalla l. 7 dicembre 2012, n. 213, ha previsto, al c. 9, che: “ciascun gruppo con-siliare dei consigli regionali approva un rendiconto di esercizio annuale, strutturato secondo linee guida deliberate dalla Conferenza permanente per i rappor-ti tra lo Stato, le regioni e le province autonome di Trento e di Bolzano e recepite con decreto del Pre-sidente del Consiglio dei ministri, per assicurare la corretta rilevazione dei fatti di gestione e la regolare tenuta della contabilità, nonché per definire la docu-mentazione necessaria a corredo del rendiconto. In ogni caso il rendiconto evidenzia, in apposite voci, le risorse trasferite al gruppo dal consiglio regionale, con indicazione del titolo del trasferimento, nonché le misure adottate per consentire la tracciabilità dei pagamenti effettuati”. I successivi commi, n. 10 e n. 11 hanno disposto, rispettivamente che: “il ren-diconto è trasmesso da ciascun gruppo consiliare al presidente del consiglio regionale, che lo trasmette al presidente della regione. Entro sessanta giorni dalla chiusura dell’esercizio, il presidente della re-gione trasmette il rendiconto di ciascun gruppo alla competente sezione regionale di controllo della Cor-te dei conti perché si pronunci, nel termine di trenta giorni dal ricevimento, sulla regolarità dello stesso con apposita delibera, che è trasmessa al presidente della regione per il successivo inoltro al presidente del consiglio regionale, che ne cura la pubblicazione. In caso di mancata pronuncia nei successivi trenta giorni, il rendiconto di esercizio si intende comun-que approvato. Il rendiconto è, altresì, pubblicato in allegato al conto consuntivo del consiglio regionale e nel sito istituzionale della regione” (c. 10) e che, “qualora la competente sezione regionale di control-

lo della Corte dei conti riscontri che il rendiconto di esercizio del gruppo consiliare o la documentazione trasmessa a corredo dello stesso non sia conforme alle prescrizioni stabilite a norma del presente artico-lo, trasmette, entro trenta giorni dal ricevimento del rendiconto, al presidente della regione una comuni-cazione affinché si provveda alla relativa regolariz-zazione, fissando un termine non superiore a trenta giorni. La comunicazione è trasmessa al presidente del consiglio regionale per i successivi adempimenti da parte del gruppo consiliare interessato e sospende il decorso del termine per la pronuncia della sezione. Nel caso in cui il gruppo non provveda alla regola-rizzazione entro il termine fissato, decade, per l’an-no in corso, dal diritto all’erogazione di risorse da parte del consiglio regionale. La decadenza di cui al presente comma comporta l’obbligo di restituire le somme ricevute a carico del bilancio del consiglio regionale e non rendicontate” (c. 11).

Il sistema delineato dalle riportate disposizioni, come emerge chiaramente dal tenore letterale delle stesse, risponde all’esigenza di avere un controllo esterno sui conti presentati dai gruppi consiliari, ma prescinde totalmente dall’accertamento di eventuali responsabilità dei componenti il gruppo stesso che, anche in presenza di una rendicontazione formal-mente corretta, potrebbero pur sempre sussistere.

A conferma di tale assunto basti por mente ai principi espressi dalla Consulta in sede di scrutinio della conformità a Costituzione delle norme richia-mate.

È stata in primo luogo ribadita (sent. n. 39/2014) la diversità di posizione e funzioni degli organi del Parlamento nazionale rispetto a quelli delle altre as-semblee elettive sotto vari profili, fra cui, in tema di controlli, l’impossibilità di estendere ai consigli regionali l’eccezionale deroga, rispetto alla generale sottoposizione alla giurisdizione contabile, vigente nei confronti delle Camere parlamentari, della Pre-sidenza della Repubblica e della Corte costituzionale (così escludendo che i parametri costituzionali, sta-tutari e delle relative norme di attuazione, evocati dalle regioni ricorrenti, rappresentassero le uniche fonti normative per la disciplina dei controlli sui gruppi consiliari regionali).

Nella medesima pronuncia la Consulta ha speci-ficato che il sindacato della Corte dei conti assume: “come parametro, la conformità del rendiconto al modello predisposto in sede di Conferenza, e deve pertanto ritenersi documentale, non potendo adden-trarsi nel merito delle scelte discrezionali rimesse all’autonomia politica dei gruppi, nei limiti del man-

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dato istituzionale”. Ha ritenuto, inoltre, la confor-mità a Costituzione del c. 11, ultimo periodo, nella parte in cui introduce l’obbligo di restituzione delle somme ricevute, in caso di accertate irregolarità in esito ai controlli sui rendiconti, in quanto “l’obbligo di restituzione può ritenersi principio generale delle norme di contabilità pubblica. Esso risulta stretta-mente correlato al dovere di dare conto delle modali-tà di impiego del denaro pubblico in conformità alle regole di gestione dei fondi e alla loro attinenza alle funzioni istituzionali svolte dai gruppi consiliari”. Ha, peraltro, dichiarato illegittima la sanzione della decadenza dal diritto all’erogazione delle risorse per il successivo esercizio annuale.

Nel solco della linea tracciata con la richiamata pronuncia, la successiva sent. n. 130/2014, espressa-mente richiamata dalla difesa del convenuto, emessa in un giudizio di conflitto di attribuzioni, ha ribadito che il sindacato esterno della Corte dei conti assume, come parametro, la conformità del rendiconto al mo-dello predisposto in sede di Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le Regioni e le Province au-tonome di Trento e di Bolzano e recepite con d.p.c.m. 21 dicembre 2012, attraverso una analisi obbligatoria di tipo documentale, sull’effettivo impiego dei fondi, che non entra nel merito delle scelte discrezionali ri-messe all’autonomia politica dei gruppi.

In ragione di tale circostanza, la Corte costitu-zionale, in assenza della previa individuazione dei criteri per l’esercizio del controllo, ha concluso “nel senso che non spettava allo Stato e, per esso, alla Corte dei conti, Sezione delle autonomie e Sezioni regionali di controllo per le Regioni Emilia-Roma-gna, Veneto e Piemonte, adottare le deliberazioni im-pugnate con cui si è, rispettivamente, indirizzato ed esercitato il controllo sui rendiconti dei gruppi con-siliari in relazione all’esercizio 2012”, annullando, per l’effetto, le deliberazioni che avevano formato oggetto del conflitto.

All’esito di tale disamina, seppure possa condivi-dersi l’assunto difensivo sull’applicazione del mec-canismo di controllo e sanzionatorio solo a partire dall’anno 2013, deve comunque ribadirsi che tale aspetto nulla ha a che vedere con la responsabilità oggi contestata, impedendo semplicemente che le competenti sezioni di controllo possano adottare un modello diverso o criteri di verifica diversi, per l’esame degli elaborati contabili, differenti da quelli normativamente previsti.

Ma ciò non significa che si crei una sorta d’im-munità totale, prima del 2013, in favore di tutti i componenti dei gruppi consiliari.

A escludere tale evenienza basta por mente, ai fini che qui interessano, alle diverse e numerose pronunce della Corte costituzionale e della Corte di cassazione che, nel prosieguo degli anni, hanno più pertinentemente vagliato l’aspetto della responsabi-lità (e non una fattispecie predeterminata di control-lo su atti, originata da una particolare contingenza socio-politica), per rendersi conto che l’invocata immunità totale per fatti e atti compiuti nell’esple-tamento della propria funzione, propugnata dalla difesa del convenuto, non costituisca un principio immanente del nostro ordinamento.

Difatti, la Corte costituzionale ha costantemente affermato la necessità di distinguere fra atti che, per essere frutto di voti e opinioni espresse dai compo-nenti del consiglio regionale, possono risultare co-perti dall’insindacabilità (entro i limiti oggettivi in cui la stessa può dirsi operante; cfr., ad esempio, sent. n. 69/1985, n. 187/1990, n. 289/1997, n. 1130/1988, n. 392/1999) ed atti o comportamenti estranei a tali funzioni e, quindi, suscettibili di dare luogo a chia-mata in responsabilità (Corte cost., n. 292/2001).

Ha, inoltre, più volte precisato la diversità di po-sizione e funzioni degli organi del Parlamento rispet-to a quelli delle altre assemblee elettive (Corte cost., n. 306/2002), non ritenendo estensibile ai consigli regionali la deroga rispetto “alla generale sottopo-sizione alla giurisdizione contabile, assentita, per ragioni storiche e di salvaguardia della piena auto-nomia costituzionale degli organi supremi, nei con-fronti delle Camere parlamentari, della Presidenza della Repubblica e della Corte costituzionale” (Corte cost., n. 39/2014, più sopra citata, che richiama la precedente sent. n. 292/2001).

L’immunità, che deve accertarsi in concreto può, alla luce di tali principi, ritenersi operante solamente per le più elevate funzioni di rappresentanza politica del consiglio regionale, da individuarsi nella funzio-ne legislativa, in quella di indirizzo politico e di con-trollo, nonché nella funzione di autorganizzazione interna (cfr. Corte cost. n. 69/1985; id. n. 209/1994 e n. 289/1997).

Difatti, l’art. 122, c. 4, Cost., è disposizione che, come insegna la Consulta, ha natura derogatoria ed è, quindi, di stretta interpretazione, per cui ogni sua “dilatazione al di là dei limiti precisi voluti dalla Costituzione costituisce una violazione dell’inte-grità della funzione giurisdizionale, posta a presidio dell’uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge, la cui disciplina è riservata alla competenza esclusi-va del legislatore statale, ai sensi dell’art. 117, c. 2, Cost.” (cfr. sent. n. 200/2008).

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N. 5-6/2014 PARTE II – ATTIVITÀ GIURISDIZIONALE

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Per altro verso, la difesa propugna, per il periodo precedente l’entrata in vigore del d.l. n. 174/2012, una sorta di “autodichia”, in cui i gruppi consiliari, nell’esercizio di tutte le proprie funzioni, sarebbero sottratti all’ingerenza degli altri poteri dello Stato e, segnatamente, al controllo in sede giurisdiziona-le. Sostiene, difatti, la difesa che ogni controversia attinente, in particolare, all’utilizzo dei fondi in do-tazione, dovrebbe trovare composizione all’interno dell’organo elettivo e delle articolazioni di questo al controllo preposte (in buona sostanza, il sistema pre-visto per l’attribuzione e successiva verifica dell’u-tilizzo delle contribuzioni sarebbe in sé compiuto, e non tollererebbe ingerenze esterne).

Orbene, l’attuale assetto costituzionale non cono-sce la vigenza di un principio generale di tale natura, sia perché siffatta potestà implicita non è desumibile dal principio della divisione dei poteri, che non è as-soluto, nel senso di assicurare l’indifferenza e l’im-penetrabilità tra i vari organi e le rispettive funzioni primarie, ma è attuato mediante forme di reciproco controllo, e sia, soprattutto, perché la tutela giuri-sdizionale costituisce, questa sì, principio cardine dell’ordinamento, atteso che la Costituzione assicura a “tutti” la tutela giurisdizionale dei propri diritti ed interessi legittimi, sicché le limitazioni a tale regola generale debbono essere espressamente previste (e sorrette da adeguata giustificazione).

Vigendo una Costituzione scritta, un principio implicito o una norma inespressa non può di per sé porsi in vittorioso contrasto con un principio fonda-mentale esplicito che assiste i consiglieri regionali, come si è visto, soltanto per alcune peculiari funzioni (ex art. 122 Cost.).

E, difatti, le assentite eccezioni al principio della indefettibilità della tutela giurisdizionale davanti ai giudici comuni (ordinari ed amministrativi), inte-granti ipotesi di autodichia a favore di organi costi-tuzionali, trovano espressa previsione o in norme di rango costituzionale (cfr. art. 66 Cost.) o, comunque, in norme cui va riconosciuto un fondamento costi-tuzionale, ancorché indiretto (a es. controversie di impiego dei dipendenti di Camera e Senato; giuri-sdizione domestica nei confronti dei dipendenti della quale è titolare la Corte costituzionale).

Le suesposte considerazioni rendono palese la radicale inidoneità della tesi difensiva a fondare l’e-senzione dalla giurisdizione, non potendo tale aspet-to trovare fondamento né nell’art. 122 della Costitu-zione, né in alcune delle disposizioni e/o regolamen-to adottati, nella specie, dalla Regione Sardegna, a non voler considerare che, qualora una siffatta dispo-

sizione fosse rinvenibile, essa si porrebbe in palese conflitto con vari precetti costituzionali, non ultimo quello che espressamente affida alla Corte dei con-ti la giurisdizione in materia di contabilità pubblica (art. 103, c. 2, Cost.).

Si deve, conseguentemente, riconoscere una por-tata limitata alle disposizioni volte a introdurre un rimedio interno, nell’ambito dell’organo al quale è affidata l’erogazione del contributo pubblico ai grup-pi consiliari, al fine dell’esercizio del potere di veri-fica e controllo, che non può precludere la possibilità di una successiva sindacato giurisdizionale, secondo i generali principi sanciti dalla Costituzione.

Ai fini del radicamento della giurisdizione conta-bile, inoltre, di poco momento appare l’esatto inqua-dramento della natura giuridica dei gruppi consiliari costituiti nell’ambito dell’assemblea regionale, se cioè dotati di soggettività pubblica o privata, proble-ma lungamente dibattuto in dottrina e in giurispru-denza “senza essersi ancor oggi risolto in una defini-tiva reductio ad unum” (cfr., da ultimo, Cass. pen., n. 49976/2012).

Ciò che assume rilievo è la fondamentale circo-stanza che, avendo gli stessi maneggio di denaro pro-veniente dalla regione e destinato alla soddisfazione di fini pubblici, per tale aspetto deve ritenersi sus-sistente la giurisdizione contabile, con conseguente affermazione di responsabilità in caso di utilizzo di-storto delle predette contribuzioni.

Ancora più correttamente, va affermato che la giurisdizione della Corte dei conti è da rinvenirsi non tanto nei confronti del gruppo in quanto orga-nismo pubblico e/o politico, ma, esclusivamente, nei confronti di chi, come singolo soggetto fisico, aven-do la materiale disponibilità del denaro, ne abbia in qualsivoglia modo abusato o non abbia “reso conto”, nei termini dettati dai principi generali di contabilità, della corretta destinazione delle risorse gestite.

Secondo l’orientamento ormai consolidato della Corte di cassazione, difatti, la qualità del soggetto (pubblico o privato) destinatario di pubbliche risor-se con vincolo di utilizzo e/o di scopo diventa inin-fluente, assumendo per contro preminente rilevanza la fonte del finanziamento, la natura del danno e gli scopi perseguiti, atteso che “il baricentro per discri-minare la giurisdizione ordinaria da quella contabile si è, infatti, spostato dalla qualità del soggetto – che ben può essere un privato o un ente pubblico – alla natura del danno e degli scopi perseguiti” (cfr. Cass., S.U., n. 4511/2006; n. 3367/2007; n. 100627/2011; n. 295/2013 e, da ultimo, n. 7377/2013).

Alla luce di tutte tali considerazioni, può conclu-

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sivamente affermarsi che, perché si incardini la giu-risdizione della Corte dei conti, è necessaria e suffi-ciente l’allegazione di una fattispecie oggettivamen-te riconducibile allo schema del rapporto d’impiego o di servizio del suo preteso autore, mentre afferisce al merito ogni problema attinente alla sua effettiva esistenza (Cass., n. 9188/2012 e n. 23332/2009), il che comporta la reiezione dell’eccezione di parte convenuta.

1.b.: inammissibilità dell’azione di responsabilità per effetto del decorso del termine di cui all’art. 5, c. 1, l. n. 19/1994 (come sostituito dal d.l. n. 543/1996 e convertito dalla l. n. 639/1996).

Riguardo all’eccepita inammissibilità, occorre premettere che la notifica dell’invito a dedurre ha avuto luogo in data 4 settembre 2013.

Pertanto, secondo la prospettazione difensiva, il termine di legge per controdedurre sarebbe venuto a scadenza il 4 ottobre 2013 e, il successivo termine di centoventi giorni per il deposito dell’atto di citazio-ne, sarebbe a sua volta improrogabilmente scaduto il 4 febbraio 2014 (la citazione è stata depositata il 7 febbraio 2014).

Dimentica, peraltro, parte convenuta, che nel cal-colo dei centoventi giorni utili per il deposito dell’at-to deve essere tenuta nel debito conto la cosiddetta sospensione feriale.

Difatti, l’art. 1 l. n. 742/1969 sulla sospensione feriale dei termini processuali, recita espressamente: “Il decorso dei termini processuali relativi alle giuri-sdizioni ordinarie e a quelle amministrative è sospe-so di diritto dall’1 agosto al 15 settembre di ciascun anno, e riprende a decorrere dalla fine del periodo di sospensione. Ove il decorso abbia inizio durante il periodo di sospensione, l’inizio stesso è differito alla fine di detto periodo”.

Su tale disposizione – e dopo che varie sentenze del consiglio di Stato avevano applicato la sospen-sione feriale anche ai termini per l’impugnazione degli atti amministrativi – si è peraltro ripetutamen-te pronunciata la Corte costituzionale (cfr. sent. n. 40/1985; n. 255/1987; n. 49/1990; n. 380/1992), che ha ritenuto superata (sent. n. 268/1993) “l’esigenza di ulteriori pronunce di illegittimità costituzionale” dell’art. 1 l. n. 742/1969, “dirette a inserire via via altre singole fattispecie nel contesto della stessa di-sposizione”.

Secondo il giudice delle leggi, infatti, è ormai “divenuta dominante, anche nella giurisprudenza relativa al processo civile, una lettura della disposi-zione sottoposta al vaglio della legittimità costituzio-nale che offre una più ampia e comprensiva nozione

di termine processuale, tale da non limitarne la por-tata nell’ambito del compimento degli atti successivi all’introduzione del processo, ma idonea invece a comprendere il ristretto termine iniziale entro il qua-le il processo deve essere introdotto, quando la pro-posizione della domanda costituisca l’unico rimedio per la tutela del diritto che si assume leso”.

Anche la giurisprudenza della Corte di cassa-zione ha da lungo tempo affermato il principio che “la sospensione del decorso dei termini processuale, che opera di diritto dall’1 agosto al 15 settembre di ogni anno, riguarda qualsiasi termine processuale”, e in ragione di detto assunto ne ha fatto applicazione con riferimento a differenti istituti, quali: il termine di sei mesi di cui all’art. 305 c.p.c., relativo al pro-cesso interrotto (cfr. Sez. I, 3 marzo 2004, n. 4297 e Sez. III, 25 maggio 2007, n. 12245); il termine annuale previsto dall’art. 307 c.p.c. per la riassun-zione del processo, “a nulla rilevando che il dies a quo e il dies ad quem di esso termine non cadano nel periodo di sospensione” (cfr. Sez. III, 5 maggio 1998, n. 4506); il termine di un anno dalla pubblica-zione della sentenza, previsto dall’art. 392 c.p.c. per la riassunzione dinanzi al giudice del rinvio disposto dalla Corte di cassazione, il quale “deve essere pro-rogato di quarantasei giorni” (cfr. S.U., 24 novembre 1994, n. 9968); il giudizio di querela di falso, anche se proposto in via incidentale e non principale in una controversia di lavoro o di previdenza (cfr. Sez. I, 6 settembre 2002, n. 12964).

Ciò sulla scorta della basilare affermazione che di tale sospensione debba tenersi conto in ogni caso, e non soltanto per i termini scadenti dall’1 agosto al 15 settembre, poiché essa riguarda tutti indistinta-mente i termini processuali, che riprendono a decor-rere dalla fine del detto periodo, in quanto, mentre la sospensione “dei termini nel periodo feriale ha ca-rattere generale, le eccezioni a tale regola, elencate dall’art. 3 della l. n. 742/1969, hanno carattere tassa-tivo, costituendo norme di stretta interpretazione non suscettibili di esegesi estensiva o, a maggior ragione, di applicazione analogica” (cfr. ancora Sez. I, 6 set-tembre 2002, n. 12964).

In applicazione di tale principio le stesse Sezio-ni riunite della Corte, pur ribadendo che “il vero e proprio rapporto processuale innanzi alla Corte dei conti si instaura solo con la notificazione dell’atto di citazione”, hanno affermato che “al periodo di centoventi giorni per emettere l’atto di citazione in giudizio – previsto dall’art. 5, c. 1, d.l. n. 453/1993, convertito dalla l. n. 19/1994, come sostituito dalla l. n. 639/1996 e decorrente dalla scadenza del termi-

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ne concesso dal procuratore regionale nell’invito a dedurre per la presentazione delle deduzioni da par-te del presunto responsabile del danno – si applica la sospensione dei termini processuali nel periodo feriale (1 agosto-15 settembre di ogni anno), di cui all’art. 1 della l. 7 ottobre 1969, n. 742” (sent. n. 7/2003).

Tale orientamento, da ritenersi consolidato nella giurisprudenza contabile, discende dall’ovvia consi-derazione che nel novero dei termini processuali di cui alla l. n. 742/1969, vadano ricompresi non solo i termini che incidono sulla dinamica del processo, cioè sul suo svolgimento interno, ma anche tutti i ter-mini (vedi giurisprudenza della Corte costituzionale più sopra richiamata), stabiliti per l’esercizio di po-teri sostanziali o previsti a pena di decadenza per la proposizione dell’azione, destinati a produrre i loro effetti sul processo.

Vi è soltanto da ricordare che, proprio in applica-zione del suddetto principio, le stesse Sezioni riunite hanno più di recente riconosciuto che “la sospensio-ne feriale si applica anche al termine, non inferiore a 30 giorni, assegnato dal procuratore regionale al presunto responsabile, in applicazione dell’art. 5, c. 1, d.l. n. 453/1993, convertito dalla l. n. 19/1994 e modificato dall’art. 1 d.l. n. 543/1996, convertito dalla l. n. 639/1996, per depositare deduzioni, docu-menti e richiesta di audizione” (cfr. sent., 15 febbraio 2007, n. 1).

Pertanto, l’eccezione difensiva deve essere re-spinta. (Omissis)

2. Del merito della causa.L’esame nel merito della causa impone alcune

considerazioni preliminari di carattere generale, al fine di meglio delineare, da un lato, la fattispecie di responsabilità in esame e, dall’altro, tratteggiare, con l’ovvio dovere di sintesi, le difese del convenuto che, per l’aspetto che qui interessa, appaiono non suppor-tate da alcuna documentazione, a suo dire non con-servata e difficilmente reperibile, a distanza di anni, in quanto le disposizioni regionali in materia non ne prevedevano l’allegazione all’atto della presentazio-ne del rendiconto.

La premessa da cui occorre partire è che, come emerge dall’atto di citazione in giudizio (anche per rispondere alle ulteriori osservazioni e argomenta-zioni svolte nel corso della discussione dal difensore del convenuto, per cui il processo avrebbe un con-vitato di pietra, da rinvenirsi nella classe politica), è che il Ladu non è stato citato perché presidente del gruppo consiliare, ma in quanto “amministratore” del gruppo stesso, ossia quale soggetto che ha effetti-

vamente assunto in proprio la gestione dei contributi ricevuti, mediante la disponibilità della carta di cre-dito e il potere di firma sul conto corrente bancario.

Ne consegue che, pur potendosi condividere le argomentazioni difensive dirette a rinvenire una po-sizione differenziata del presidente del gruppo con-siliare rispetto agli altri membri del gruppo stesso, tali prerogative si rivelano ininfluenti ai fini della re-sponsabilità contestata, posto che va operato un netto distinguo tra la funzione politica (assolutamente non sindacata e non sindacabile in questa sede) e quella più strettamente amministrativo – gestionale che, per contro, è idonea a radicare la giurisdizione contabile.

In altre parole, la semplice assunzione della qua-lifica di presidente (anche qualora allo stesso compe-tesse di dare l’autorizzazione alle spese, sempre se legittime) non determina automaticamente l’insorge-re di una responsabilità contabile ma, a tali fini, detta qualifica deve coesistere con compiti prettamente di gestione, ossia la disponibilità materiale delle risor-se, evenienza verificatasi nel caso in esame (in cui le figure di presidente del gruppo e amministratore dello stesso sono venute a coincidere).

Dalla effettiva gestione personale delle risorse assegnate al gruppo, le quali, si ricorda, hanno na-tura pubblica (data la provenienza delle stesse dal bilancio del consiglio regionale), e sono dirette alla soddisfazione di un fine parimenti pubblico, deri-vano importanti conseguenze che si riverberano sia sui criteri da adottarsi ai fini dell’accertamento della responsabilità, sia sugli oneri probatori gravanti sul convenuto.

La connotazione pubblicistica di tali risorse non muta a seguito della loro assegnazione alla materiale disponibilità dei gruppi consiliari, essendo le stesse vincolate alla soddisfazione di un pubblico interes-se e non rilevando la natura pubblica o privata del soggetto gestore, alla luce dei principi espressi dalla Corte di cassazione in tema di giurisdizione, più so-pra illustrati, e fatti propri dalla pacifica e consolida-ta giurisprudenza della Corte dei conti, in forza dei quali grava sul beneficiario di un contributo pubbli-co, avente una specifica finalizzazione, l’obbligo di dar conto del relativo impiego, offrendo la prova che le risorse attribuite siano state utilizzate per il soddi-sfacimento di tali finalità.

In tale contesto, la Sezione ritiene di poter affer-mare che l’azione promossa dalla procura regionale abbia fatto emergere un inadempimento del conve-nuto, quale gestore di una pubblica contribuzione, che rileva su un duplice piano: a) su quello sostanzia-le, posto che l’adeguata giustificazione dell’impiego

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del denaro pubblico, nel rapporto che si instaura tra l’ente erogante ed il destinatario del contributo, tro-va fondamento nell’esigenza di consentire la verifica del corretto impiego delle risorse della collettività; b) su quello probatorio – processuale, trattandosi di responsabilità contabile.

Sul piano sostanziale sussiste, difatti, l’interesse generale oggettivo alla regolarità della gestione fi-nanziaria e patrimoniale di un ente, scopo cui sono preordinati sia il giudizio di conto che di responsabi-lità (cfr. Corte cost., n. 68/1970).

Ne consegue che lo sviamento illecito di siffatte risorse, unitamente alla responsabilità dei soggetti cui tale sviamento sia imputabile, trova il suo giudi-ce naturale nella Corte dei conti, costituzionalmente deputata alla tutela del pubblico erario (ex art. 103 Cost.), e qualifica, in termini di “danno erariale”, il pregiudizio conseguente alla mancata dimostrazione della corrispondenza dell’utilizzo di esse alle finalità prestabilite.

È del pari evidente che il sindacato giurisdizio-nale sulla lecita erogazione di rimborsi spese a con-siglieri regionali non rientra tra le funzioni coperte da immunità espletate dai consiglieri regionali (ivi compresi i gruppi), circostanza questa che, ad avvi-so della Sezione, trova conferma nella sopravvenuta introduzione legislativa di una specifica modalità di controllo, che non esclude il giudizio di responsabi-lità, ma coesiste con esso, e rafforza la valenza pub-blicistica delle spese dei gruppi consiliari e la loro doverosa rispondenza ai fini istituzionali (che pertan-to deve ritenersi sussistente anche prima dell’emana-zione del d.l. n. 174/2012).

Del resto, in linea generale, è immanente nell’or-dinamento (ed è sempre stato ribadito: cfr. da ultimo, Corte conti, Sez. giur. reg. Lazio, 30 dicembre 2013, n. 914), il principio che i fondi pubblici, se incisi dal vincolo di destinazione, non possono seguire percor-si differenti da quelli per i quali vennero concessi, erogati e distribuiti.

Sul piano processuale costituisce, del pari, espressione di un principio generale di contabilità pubblica che il soggetto beneficiario di un contributo avente una specifica finalizzazione non può esone-rarsi dal “dar conto” del relativo impiego, offrendo la prova di aver destinato le risorse pubbliche alle fi-nalità proprie dell’erogazione (Sez. giur. reg. Veneto, 10 aprile 2014, n. 4).

Tale regola, non comporta eccezioni nel caso in cui la procura regionale abbia promosso l’azione di danno erariale per la mancanza di elementi che con-sentano di correlare, in modo univoco, l’utilizzo del

denaro pubblico alle finalità proprie del contributo erogato.

Nelle fattispecie di responsabilità contabile, di-fatti, sul pubblico ministero incombe esclusivamen-te l’onere di provare i fatti costitutivi della pretesa dedotta in giudizio, e cioè l’esistenza del rapporto dal quale deriva originariamente sul convenuto l’ob-bligo di utilizzazione del contributo e il fatto della non corrispondenza della prestazione concretamen-te effettuata a quella cui il convenuto medesimo era obbligato.

Rimane a carico del percettore l’onere di dimo-strare che l’utilizzo delle risorse pubbliche (contesta-to) è avvenuto nel rispetto della legge, e in coerenza con le finalità proprie del contributo erogato (Sez. II centr. app. n. 64/2007; id., Sez. giur. reg. Piemonte, n. 172/2012).

Riguardo a tale aspetto, l’orientamento giuri-sprudenziale tradizionale ha affermato che si sarebbe in presenza di un’inversione dell’onere della prova (ex multis, Sez. III cent. app., 13 settembre 2007, n. 249; Sez. giur. reg. Lombardia, 14 giugno 2006, n. 373), anche se non mancano statuizioni di segno di-verso (v. Sez. I centr. app., 2 giugno 1989, n. 186) che sostengono che anche in ipotesi di responsabilità contabile non vi sarebbero deroghe alla normale di-stribuzione tra le parti dell’onere probatorio, come scolpita dall’art. 2697 c.c. (in tale ottica, si appliche-rebbe quindi all’agente contabile il secondo comma di detta disposizione).

Una conferma indiretta dei richiamati principi si desume dal contenuto della sentenza della Corte costituzionale n. 39/2014, laddove ha affermato che l’obbligo di restituzione delle somme ricevute dai gruppi consiliari conseguente ad accertate irregolari-tà da parte delle sezioni regionali di controllo (art. 1, c. 11, d.l. n 174/2012), costituisce un principio gene-rale di contabilità pubblica, strettamente correlato al dovere di “dar conto” delle modalità di impiego del denaro pubblico in conformità alle regole di gestione dei fondi ed “alla loro attinenza alle funzioni istitu-zionali svolte dai gruppi consiliari”.

Così delineata la fattispecie di responsabilità sot-toposta al vaglio della Sezione, appare indubitabile che la mancata dimostrazione della corrispondenza al fine assegnato delle risorse gestite personalmen-te dal Ladu concretizza, di per sé, sia l’esistenza del danno che il nesso di causalità tra il comportamento tenuto dal convenuto e il pregiudizio conseguente.

Appare evidente, dalle risultanze degli atti, che le somme in contestazione siano pervenute nella perso-nale disponibilità del Ladu (o tramite disposizioni di

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cassa, o attraverso assegni intestatati a sé medesimo, ovvero attraverso l’utilizzo della carta di credito) e che le stesse rappresentano una parte (e sicuramente non la maggiore) dei contributi assegnati al gruppo di cui il convenuto era, si ripete, sia presidente che amministratore.

Il legale del convenuto ha sul punto obiettato che la procura avrebbe effettuato un’operazione chirur-gica estrapolando le singole partite per le quali non vi era la prova del buon fine della spesa, ma dimenti-ca, in tal modo argomentando, che scopo dell’azione di responsabilità non è una valutazione in generale della condotta politica e/o amministrativa dei sog-getti chiamati in causa, ma proprio l’enucleazione di singoli comportamenti che abbiano causato un pre-giudizio e l’individuazione delle singole spese (per l’ipotesi in esame) cui il pregiudizio è ricollegato, giacché non giustificate o non giustificabili.

L’attività politica non è minimamente intaccata dalla pretesa erariale, che trova in tutt’altra logica la sua essenza e da tutt’altri presupposti è governata, tan-to che il pubblico ministero si è limitato a prospettare una illiceità, correlata all’assoluta carenza di elementi giustificativi idonei a dimostrare che la gestione dei contributi pubblici, destinati alle spese di funziona-mento dei gruppi consiliari, sia stata coerente con le finalità assegnate a tali erogazioni, ovvero alla prova (raggiunta, per quanto si dirà in appresso, in relazione alle spese effettuate con la carta di credito) che tali contribuzioni siano state utilizzate per fini personali.

2.1. Delle singole voci di danno.Nel passare alla valutazione concreta della re-

sponsabilità del Ladu, va ricordato che il pubblico ministero ha contestato tre distinte partite di danno erariale, ossia: a) 139.300 euro, prelevate in con-tante; b) 36.500 euro, per assegni riscossi personal-mente dal convenuto; c) 77.566,73 euro, per le spese sostenute con la Carta si, di cui era titolare il gruppo consiliare.

Si è già posto in evidenza, nella narrativa del fatto, che per le prime due voci manca ogni e qualsivoglia pezza giustificativa, cosicché il pubblico ministero non è riuscito (né poteva, data la facile dispersione e la mancanza di qualunque traccia lasciata dall’utiliz-zo del denaro in contante) a ricostruire quale sia stata la destinazione finale dei prelievi effettuati.

La difesa del convenuto, in ordine a tali aspet-ti, si è limitata a sostenere che dette somme venne-ro utilizzate per le esigenze istituzionali, ma nessun elemento, che possa assumere anche il mero valore di un indizio, risulta essere stato fornito a sostegno dell’assunto.

A giustificazione della mancata conservazione della documentazione relativa (sempre che la stessa sia stata ab origine formata, cosa che non appare cer-ta, viste le dichiarazioni rese nel corso del processo penale, acquisite agli atti e liberamente valutabili dal collegio, di cui si dirà in appresso), è stato dedotto che le disposizioni dettate in materia non prevede-vano l’allegazione, al rendiconto, della documenta-zione di spesa.

Adduce, poi, la difesa che il convenuto avrebbe sottoposto a controllo tutte le spese, comprese quelle di ristorazione e di rappresentanza (limitate solo a partire dal 2011), con la convinzione che il supera-mento delle fasi di controllo sancisse la legittimità della spesa, secondo una prassi diffusa, per cui vi era una certa discrezionalità nell’effettuazione delle stesse, ferma restando la rispondenza ai fini cui erano destinate.

Infine, non vi sarebbe stata alcuna indicazione, di provenienza consiliare, utile per orientare i capi-gruppo nell’utilizzo delle somme, data l’incertezza, rilevabile persino nelle pronunce giurisprudenziali, sulla esatta portata di spese quali quelle di rappre-sentanza, mentre, per altro verso, non sarebbe stato possibile distinguere in maniera netta tra l’attività del gruppo e quella del partito politico, specie per la partecipazione a eventi (sul punto è stata richiamata la pronuncia n. 29/2014 delle Sezioni riunite in spe-ciale composizione, la quale avrebbe riconosciuto, nell’enucleare i compiti in concreto esercitabili da un gruppo consiliare, il particolare legame tra questi, il territorio e gli elettori).

Le argomentazioni difensive, benché sapiente-mente articolate, non appaiono idonee a far venir meno l’impianto accusatorio, fondato sulla non cor-rispondenza della spendita delle risorse assegnate al gruppo Fortza Paris agli scopi istituzionali, per le spese effettuate con la carta di credito, e sull’assenza di qualsivoglia “pezza giustificativa”, per le somme prelevate in contanti o tramite assegni a sé medesimo intestati, giacché non sono state supportate da alcun elemento di prova contrario.

A tal proposito occorre ricordare che il Ladu, avendo gestito materialmente le risorse, è l’unico a sapere, per il contante utilizzato, quale destinazione abbia avuto e, conseguentemente, l’unico in grado di fornirne la prova, poiché rientrante nella sua sfera di dominio (principio di c.d. vicinanza alla prova o di riferibilità; cfr. Cass., 9 novembre 2006, n. 23918 e, ancora prima S.U., 30 ottobre 2001, n. 13533).

Ben avrebbe potuto, dunque, a propria difesa, pur in assenza della prova documentale, utilizzare

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gli altri strumenti e iniziative che l’ordinamento ha approntato per sopperire alla mancanza o alla perdita dei documenti, iniziative e strumenti che invece il Ladu non ha neppure tentato di rappresentare.

Di fronte alla reiterata volontà (dimostrata anche in sede giudiziale, per l’aspetto che qui interessa) di non voler in alcun modo “giustificare” la corretta de-stinazione di quanto ricevuto, appare del tutto inin-fluente, e pertanto non può valere quale esimente, la circostanza che non vi fosse l’obbligo di conservare la documentazione o, recte, che la stessa non dovesse essere allegata al rendiconto.

Peraltro, la legittima destinazione delle somme, soltanto asserita dal convenuto, appare smentita da elementi gravi, precisi, concordanti che emergono con piena evidenza dagli atti di causa.

La mancanza di qualsivoglia elemento (docu-mentale) che comprovi quanto affermato dalle difese più sopra riassunte, si pone in palese contrasto sia con le disposizioni che (seppur in maniera non detta-gliata) hanno regolamentato l’utilizzo dei fondi, sia e vieppiù con la piena dimostrazione, che la procura attrice ha fornito con riguardo alle spese effettuate tramite Carta si, che le stesse siano state utilizzate per tutt’altri scopi che non quelli connessi all’attività del gruppo.

Di conseguenza, né il danno, né la responsabi-lità possono trovare esimenti nell’esistenza di una “prassi” ultradecennale e nel legittimo affidamento creatosi nel Ladu. Le prassi invocate, attengono, di-fatti, al più alla formalizzazione e documentazione della spesa, e non certo alle ragioni della stessa, che rimangono inevitabilmente astrette al fine pubblico.

Analogamente, nessuna rilevanza può darsi alla asserita difficoltà di individuare una linea di confine tra attività del partito e attività del gruppo. Tale con-fine, contrariamente a quanto dedotto, doveva essere ben noto, in ragione del divieto legislativo di finan-ziare, attraverso contributi pubblici, i partiti, intro-dotto fin dal 1974 (l. 2 maggio 1974, n. 195, art. 7) e di poi esteso, con l. 18 novembre 1981, n. 659, fino a contemplare espressamente l’ipotesi dei finanzia-menti e contributi, in qualsiasi forma o modo erogati, tra gli altri, ai consiglieri regionali (così ha disposto l’art. 4 della legge richiamata).

Lo stesso confine, risulta peraltro superato nel caso in esame, in senso “bidirezionale”, ove si con-sideri che, come emergerà dal prosieguo della tratta-zione, il Ladu non pare aver distinto tra spese soste-nute per l’attività ricollegabile al gruppo o al Partito (cfr. in particolare dichiarazioni rese nel dibattimen-to penale), mentre dall’esame dei bilanci del mo-

vimento “Fortza Paris” (versati in atti dal pubblico ministero ed affoliati ai nn. da 1032 a 1458), è dato riscontrare in più occasioni il versamento di somme in favore del Ladu stesso per rimborsi spese o “com-petenze federazione Nuoro” (cfr. atti aff. ai nn. 1424; 1425; 1124 e 1187).

Del pari inconsistenti si rivelano le asserite diffi-coltà nell’individuare la rispondenza al fine istituzio-nale di alcune spese, quali quelle di rappresentanza.

Deve sul punto essere osservato che, all’epoca dei fatti, costituiva un dato pacificamente acquisito, per la consistente giurisprudenza formatasi in mate-ria di danno erariale, che le spese di rappresentanza, per essere giustificate, dovevano porsi in relazione ad eventi connotati da rilevanza e ufficialità, atti a promuovere all’esterno l’immagine dell’ente o dell’organismo interessato.

La stessa giurisprudenza ha da sempre conside-rato onere imprescindibile a carico del soggetto che disponga una spesa di rappresentanza, l’allegazione di “un’adeguata esternazione delle circostanze e dei motivi che hanno giustificato l’esborso in relazione all’esigenza dell’ente di manifestarsi all’esterno, nonché una puntuale dimostrazione documenta-le degli aspetti soggettivi, temporali e modali della spesa stessa, tale da consentire una valutazione della rispondenza ai fini pubblici, non potendosi pertanto ritenere sufficiente una mera esposizione della spesa in forma generica o globale” (Corte conti, Sez. giur. reg. Veneto, n. 456/1996), richiedendo nel contem-po, una rigorosa giustificazione delle spese di rap-presentanza (e anche di quelle di funzionamento) con analitica indicazione, per ciascuna di esse, delle finalità istituzionali perseguite, del rapporto di perti-nenza tra attività dell’ente e spesa, della qualificazio-ne del soggetto destinatario rispetto alla spesa, della sua natura e della sua legittima misura (per una, pur sintetica panoramica, cfr., tra le innumerevoli altre, Corte conti, Sez. I centr. app., n. 35/1997; Sez. II centr. app., n. 162/1999; Sez. giur. reg. Sardegna, n. 109/1993; Sez. giur. reg. Veneto, n. 719/2003; Sez. giur. reg. Lazio, n. 1181/2009; Sez. II centr. app., n. 106/2002; Sez. II centr. app., n. 162/1999; Sez. II centr. app., n. 31/1998;

Sez. giur. reg. Friuli-Venezia Giulia, n. 216/2010; Sez. giur. reg. Umbria, n. 178/2004; Sez. II centr. app., n. 106/2002; Sez. III centr. app., n. 158/2000; Sez. giur. reg. Basilicata, n. 129/2000).

Infine, nessun elemento di novità, in punto di re-sponsabilità può dirsi introdotto, ad avviso del col-legio, dalla sent. 30 luglio 2014, n. 29, emessa dalle Sezioni riunite in speciale composizione, alla quale

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la difesa del convenuto si è richiamata per l’enuclea-zione dei compiti in concreto esercitabili da un grup-po consiliare, e per il riconoscimento del particolare legame esistente tra i componenti del gruppo consi-liare, il territorio, e gli elettori.

Fermo restando che detta pronuncia ha preso in esame il “sindacato della Sezione regionale”, pre-visto quale “mera corrispondenza contabile fra gli importi indicati nel rendiconto e quello riportato nei giustificativi di spesa esibiti”, i principi ivi dettati non si discostano da quelli costantemente affermati dal giudice contabile in materia di danno erariale.

È stata, infatti, ribadita, anche in tale occasione la necessità che la spesa sia “espressamente riconduci-bile all’attività istituzionale del gruppo e che i contri-buti erogati dal consiglio regionale non possono es-sere utilizzati, neanche parzialmente, per finanziare, direttamente o indirettamente le spese di funziona-mento degli organi centrali e periferici dei partiti o di movimenti politici e delle loro articolazioni politiche o amministrative o di altri rappresentanti interni ai partiti o ai movimenti medesimi o, ancora, ai can-didati a qualunque tipo di elezione amministrativa o politica”.

Ancora, è stato precisato che il “contributo per le spese di funzionamento non può essere utilizzato per spese sostenute dal consigliere nell’espletamen-to del mandato e per altre spese personali del con-sigliere, per l’acquisto di strumenti di investimento finanziario, nonché per spese relative all’acquisto di automezzi”.

La costante “dialettica con gli elettori” e il rap-porto più stretto che si instaura tra “un gruppo as-sembleare di un consiglio regionale e il territorio”, non vale dunque a giustificare una qualsivoglia spesa di natura politica, permanendo comunque la necessi-tà che tutte le spese, comprese quelle di rappresen-tanza, siano derivate da esigenze (documentate e/o documentabili) di “dare ospitalità a personalità o autorità chiamate a discutere temi d’interesse per gli abitanti della regione, quali, ad esempio, lo sviluppo del turismo, ovvero la ripresa dell’economia nelle zone colpite dal terremoto”.

Nell’enucleare, infine, una serie di spese compa-tibili e/o inerenti all’attività di un gruppo (acquisto di quotidiani, rassegne stampa e libri, attività di consu-lenza e di ricerca, e financo ristorazione, soggiorno, e contratti di collaborazione con esperti di problema-tiche regionali), le Sezioni riunite non hanno affatto escluso (come parrebbe desumersi implicitamente dalla difesa del convenuto), che di tali spese debba essere data dimostrazione e che permanga il vincolo

ineludibile al fine istituzionale, non fosse altro per-ché, in assenza di dati presupposti (travalicamento dei limiti di spesa) la stessa pronuncia ha rimarcato la sottoposizione alla “giurisdizione di questa Corte in materia di responsabilità amministrativa e conta-bile”.

Deve, dunque, concludersi, in punto di esame delle eccezioni della difesa, che nessuna prassi, per quanto radicata nel tempo, poteva giustificare, qua-lora ravvisabile, la violazione degli obblighi inerenti all’utilizzo del denaro pubblico, in conformità ai ri-chiamati parametri normativi e giurisprudenziali.

Ma l’aspetto fondamentale che caratterizza la vicenda all’esame della Sezione, scendendo nell’a-nalisi particolare del comportamento del Ladu, non è l’ammissibilità, in via teorica, dell’una o dell’altra spesa, bensì la totale assenza, per un verso, di qualsi-voglia documentazione che consenta l’identificazio-ne delle stesse e la possibile rispondenza ai fini isti-tuzionali e, per altro verso, la prova documentale che parte di esse (quelle effettuate con la carta di credito) siano del tutto estranee agli interessi del gruppo.

Tali aspetti rendono l’attività di spesa inutiliter data, poiché non univocamente riferibile all’inte-resse sotteso all’erogazione delle risorse pubbliche, configurando la sussistenza di un pregiudizio econo-mico subito dall’erario regionale.

Ai fini della valutazione degli altri requisiti ne-cessari per l’affermazione di responsabilità, appare innegabile che dette risorse, per gli aspetti che si sono già ampiamente trattati, fossero nella piena ed esclusiva disponibilità del Ladu, che le ha personal-mente gestite, attraverso l’utilizzo vuoi del conto corrente bancario, vuoi della carta intestata al grup-po, di talché appare evidente il nesso causale inter-corrente tra la condotta dallo stesso tenuto e il danno erariale conseguente.

Rimane da valutare l’elemento psicologico che ha contraddistinto la condotta dell’odierno convenu-to, per il quale la difesa ha addotto, da un lato l’as-senza dell’obbligo di produrre la documentazione giustificativa della spesa in sede di rendicontazione e, dall’altro, l’affidamento sulla legittimità della spe-sa stessa, venutosi a creare in ragione dell’avvenuto superamento delle verifiche interne previste dalla normativa di riferimento.

Nel ripercorrere le disposizioni dettate in mate-ria, seppur fosse stato escluso l’obbligo o onere che dir si voglia di allegazione di “pezze giustificative”, in sede di rendicontazione “interna”, le pur sintetiche indicazioni desumibili dalle deliberazioni adottate dall’ufficio di presidenza del consiglio, avrebbero

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dovuto richiamare l’attenzione del soggetto preposto alla gestione dei fondi ad un oculato utilizzo degli stessi, fermo restando che né allora l’esito positivo delle verifiche interne, né ora il previsto controllo esterno sui rendiconti dei gruppi, possano valere quali esimenti o escludere, per le ragioni già ampia-mente illustrate, l’obbligo di “dar conto”, in sede di giudizio di responsabilità amministrativo patrimo-niale, della gestione operata.

Ciò premesso, va ricordato che l’art. 1 della l. reg. 7 aprile 1966, n. 2 (come modificato dalla l. reg. 10 marzo 1968, n. 15; dalla l. reg. 19 aprile 1977, n. 14; dalla l. reg. 9 novembre 1981, n. 37; dalla l. reg. 31 maggio 1984, n. 26; dalla l. reg. 13 agosto 1985, n. 19; dalla l. reg. 22 gennaio 1986, n. 16; e, infine, dalla l. reg. 6 novembre 1992, n. 20), per l’aspetto che qui interessa, stabilita “l’indennità spettante ai membri del consiglio regionale in misura non supe-riore all’80 per cento, di quella fissata dalla l. 31 ot-tobre 1965, n. 1261”, ha disposto quanto segue:

L’ufficio di presidenza del consiglio determina: “1) l’ammontare della diaria, spettante ai membri del consiglio regionale, a titolo di rimborso per spese di soggiorno a Cagliari, diaria aumentata del 30 per cento per i consiglieri la cui abitazione sia situata a oltre 35 Km. dalla sede” (lett. a); “2) un contributo annuo a favore di ciascun consigliere regionale, non superiore a tre volte l’indennità consiliare mensile, da versarsi con le modalità stabilite dall’ufficio di presidenza del consiglio, per spese di documenta-zione, aggiornamento e stampa, strumentazioni tec-nologiche “(lett. h) e, infine, il contributo a favore di ciascun gruppo consiliare, suddiviso in una quota fissa “non inferiore all’85 per cento di un’indennità consiliare e non superiore a due volte la medesima, e in quote variabili ragguagliate al numero dei compo-nenti di ciascun gruppo e al costo dei dipendenti di ciascun gruppo, esclusi eventuali benefici eccedenti i trattamenti minimi garantiti dai contratti collettivi” (lett. d).

“L’ufficio di presidenza del consiglio determina i modi e i termini della resa del conto finale sull’uti-lizzazione del contributo da parte di ciascun gruppo” (lettera già modificata dalla l. reg. 6 novembre 1992, n. 20 e dalla l. reg. 25 ottobre 1993, n. 52 e successi-vamente così sostituita dall’art. 8, l. reg. 18 dicembre 1995, n. 37).

Con l. reg. 18 dicembre 1995, n. 37, sono state approvate le norme in materia di funzionamento e di assegnazione di personale ai gruppi consiliari. Tra queste l’art. 4 ha stabilito che “i gruppi consiliari non possono stipulare contratti per prestazioni d’opera,

fatta eccezione per il conferimento di incarichi libero – professionali per oggetti determinati, da adottarsi con contratti aventi forma scritta e la cui durata non può superare quella della legislatura nella quale detti contratti sono sottoscritti”.

In materia di contributi in favore dei gruppi con-siliari sono poi intervenute diverse delibere dell’uffi-cio di presidenza del consiglio.

Omettendo quelle che si sono limitate a prevede-re la misura mensile, i criteri di computo o l’adegua-mento del contributo (delibere 3 maggio 1965, n. 77; 10 febbraio 1967, n. 31; 19 febbraio 1969, n. 118; 8 aprile 1970, n. 28 e 24 gennaio 1973, n. 220 che han-no adeguato la misura dei contributi; 6 agosto 1974, n. 10, che ha istituto la struttura burocratica a suppor-to dei gruppi; e, ancora le delibere 6 novembre 1979, n. 7; 18 dicembre 1984, n. 37; 6 agosto 1987, n. 232; 5 novembre 1987, n. 242; 14 gennaio 1988, n. 253; 6 febbraio 1990, n. 34 e n. 249/1992, sempre relative alla misura e riparto delle quote di contributo) le de-liberazioni che hanno dettato disposizioni in materia di rendicontazione delle risorse assegnate ai gruppi sono essenzialmente due (per l’epoca in cui si sono svolti i fatti di causa).

La prima (delib. 4 maggio 1977, n. 222), è sta-ta modificata dalla delib. 5 ottobre 1993, n. 293 la quale, nata dall’esigenza di dotarsi di uno schema di rendiconto che fornisse una “adeguata informazio-ne in ordine all’effettivo utilizzo dei fondi erogati ai gruppi”, ha previsto che il rendiconto fosse costituito da una situazione finanziaria e da una relazione illu-strativa. “Entrambi i documenti, debitamente sotto-scritti dal presidente del gruppo e dall’amministrato-re del gruppo medesimo, devono essere presentati al collegio dei questori entro il mese di marzo di ogni anno” (art. 1).

L’atto deliberativo, pur non richiedendo la docu-mentazione delle spese, si è premurato che le stesse fossero analiticamente individuate nella relazione illustrativa, la quale, ai sensi dell’art. 3, oltre alle no-tizie di carattere generale sull’andamento finanziario della gestione, doveva indicare:

1) il numero dei dipendenti suddivisi per livello; il contratto di lavoro applicato nonché il numero dei collaboratori ed il compenso a ciascuno di essi cor-risposto;

2) le motivazioni che hanno dato luogo a even-tuali interessi passivi e se gli stessi riferiscono a ban-che o ad altri soggetti;

3) la cadenza periodica e la tiratura del bollettino del gruppo e di altre pubblicazioni fatte stampare dal gruppo;

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4) le spese sostenute per la partecipazione a con-vegni (indicando gli estremi e le località); i compensi corrisposti per studi, ricerche e consulenze con l’in-dicazione dei relativi beneficiari;

5) la natura dei beni acquistati e dei servizi di cui si è avvalso il gruppo con i relativi costi;

6) l’articolazione – se significativa – della voce “Spese diverse” e della categoria residuale “Spese per altre attività”;

7) ogni altra notizia ritenuta interessante in ordi-ne all’andamento della gestione.

Il gruppo consiliare Fortza Paris di cui il Ladu, seguendo la terminologia usata dalla predetta delibe-razione, era nel contempo presidente e amministrato-re, è risultato composto, per tutta la XIII legislatura, da 3 consiglieri e, dal dicembre 2008 da n. 4 consi-glieri (numero minimo perché lo stesso possa consi-derarsi esistente). È stato costituito il 28 luglio 2004 (data dell’autorizzazione dell’ufficio di presidenza del consiglio) dietro richiesta del 19 luglio 2004, presentata dai consiglieri Ladu, Murgioni e Onida, e si è sciolto nel marzo 2009.

L’esame degli atti versati al fascicolo di causa (atti affoliati da 736 a 756), relativi alla rendiconta-zione delle spese del gruppo, consente di appurare, senza dubbio alcuno, che il Ladu non abbia fornito neppure quel minimo di elementi e informazioni ri-chiesti dall’ufficio di presidenza.

Le relazioni illustrative risultano, difatti, pratica-mente identiche per tutto il periodo interessato dalla gestione, fatta eccezione per alcune notizie generali (contenute in premessa) che riguardano gli avvicen-damenti di consiglieri regionali nel gruppo.

Per le spese, si limitano a esporre, per tutti gli anni: “il rendiconto è caratterizzato principalmente dalle seguenti voci di spesa: 1) spese per il personale dipendente. Il gruppo ha tre dipendenti (di cui sono indicati i nomi), due di livello 1A e 1 di livello 1B. Il contratto di lavoro applicato rispetta le normative vi-genti e le direttive regionali sul personale dipendente dei gruppi consiliari. I contributi previdenziali sono comprensivi di tutti gli oneri, ivi comprese le ritenute a carico del gruppo.

2. Spese di amministrazione ricomprendono i co-sti relativi alla cancelleria ed agli stampati, le spese telefoniche e postali, separatamente evidenziate nel rendiconto allegato.

3. Spese per l’attività di studio ricomprendono l’acquisto di quotidiani e riviste di cui al punto 5.3 e la consulenza relativa ai servizi prestati dal dott. commercialista Ignazio Caboni per la predisposizio-ne delle buste paga e servizi connessi.

4. Rimborsi spese Sono riferite ai rimborsi ai consiglieri regionali del gruppo Fortza Paris per gli spostamenti effettuati dalla sede di residenza verso altre località per svolgere attività a favore del gruppo stesso, comprensivi dei rimborsi per costi sostenuti direttamente e imputabili al gruppo perché connessi e svolti per suo conto”.

Né elementi idonei a meglio specificare le spe-se effettuate negli anni dal gruppo, con l’individua-zione di quelle oggetto di contestazione, si ricavano dall’esame dei rendiconti prodotti.

Il modello di rendiconto predisposto dalla regio-ne reca diverse tipologie di spesa prescindendo dal-le spese per il personale (non contestate), le restanti voci sono: 2) spese di amministrazione, suddivise in: 2.1) spese di cancelleria e stampati; 2.2) spese telefo-niche; 2.3) spese postali; 2.4) spese diverse; 3) spese generali, suddivise in: 3.1) manutenzioni e riparazio-ni; 3.2) interessi passivi; 3.3) imposte e tasse; 3.4) spese di rappresentanza; 4) spese per la divulgazione dell’attività del gruppo, suddivise in: 4.1) conferenze stampa; 4.2) stampa del bollettino del gruppo; 4.3) stampa di altre pubblicazioni; 4.4) pubblicità, mani-festi; 5) spese per l’attività di studio, suddivise in: 5.1) convegni, studi, ricerche; 5.2) consulenze; 5.3) libri, riviste, quotidiani; 6) rimborso spese al com-ponenti del gruppo suddivise in: 6.1) per viaggi e missioni; 6.2) per attività da svolgere per conto del gruppo; 7) spese per provvista di beni e servizi; 8) spese per altre attività.

Pur in presenza di tale analitica suddivisione, la contabilizzazione delle spese effettuata dal gruppo, e per esso, dal Ladu, non consente l’individuazione di quelle contestate dal pubblico ministero in questa sede né fornisce un qualsivoglia supporto alle ecce-zioni difensive del Ladu (sebbene egli si sia limitato ad affermare che tutte le somme ricevute erano state utilizzate per i bisogni del gruppo) e alle dichiara-zioni dallo stesso rese nel corso del processo penale (versate in atti dalla procura contabile e che la Sezio-ne si è data cura di valutare), nell’interrogatorio da-vanti al pubblico ministero prima, e nel corso del di-battimento, poi (interrogatorio del 26 febbraio 2013).

Tali atti, che al pari degli altri versati in causa, laddove non rivestano valore di prova rafforzata (ex art. 2700 ss. c.c.), possono essere liberamente va-lutati dal collegio, a norma dell’art. 116 c.p.c., non offrono, come già evidenziato, elementi che possano indurre a una configurazione della vicenda in termini opposti a quelli prospettati dalla procura attrice.

Fermo restando che l’utilizzo del contante, lungi dal fornire la correntezza e la speditezza della spesa

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(giustificazione del Ladu), si presenta come lo stru-mento più consono a evitarne la ricostruzione, pare inverosimile che, ai fini di promuovere l’azione del gruppo, il Ladu abbia organizzato incontri, convegni o si sia avvalso di tre collaboratori sul territorio, a suo dire pagati con i soldi del gruppo (cfr. atti aff. da 577 a 683 e, in particolare 618), senza mai aver chiesto ricevute per l’affitto dei locali, per le altre spese, o che, nel caso di collaboratori fissi, egli non avesse provveduto alla stipula dei relativi contratti, cui era tenuto in forza dell’art. 4 l. reg. 18 dicembre 1995, n. 37.

Analogamente è a dirsi per l’acquisto di compu-ter nuovi per il gruppo, di cui nessuna traccia docu-mentale è stato in grado di esibire.

In punto di riscontro con gli elaborati contabili in atti, va in primo luogo osservato che in nessuno degli anni considerati risultano imputate spese alla voce n. 7 relativa alla provvista di beni e servizi (non vi è dunque nemmeno un piccolo indizio che la spesa per i computer sia stata realmente effettuata).

In ordine alle spese per attività svolta per conto del gruppo, va osservato che nell’apposita voce 6.2 del rendiconto, distinta dalle spese di viaggi e mis-sioni, hanno trovato imputazione: a) nel 2004, euro 28.271; nel 2005 e nel 2006 nessuna spesa; nel 2007 euro 8.650; nel 2008 euro 5.150; nel 2009 (primo trimestre) euro 6.280. Per contro, più consistenti si presentano, per tutti gli esercizi considerati, i rim-borsi per viaggi e missioni di cui alla voce richiamata (6.1): nel 2004 euro 28.271; nel 2005 euro 25.000; nel 2006: euro 34.400; nel 2007 euro 25.041,27; nel 2008 euro 14.255; nel 2009 euro 3.850, per i quali il Ladu non ha fornito il benché minimo elemento.

Le spese di rappresentanza (nel quale dovrebbero trovare allocazione, insieme alla voce convegni, le somme erogate per incontri ai fini della promozione dell’attività del gruppo) si presentano di scarsa en-tità: euro 2.000 nel 2005; euro 1.500,12 nel 2006; euro 2.600 nel 2007; euro 2.200 nel 2008 ed euro 2.650 nel 2009 (primo trimestre), mentre appaiono considerevoli le spese per telefonia e cancelleria, per tutti gli anni (cancelleria: una media di 6.000 euro per anno, con un picco di 15.000 euro nel 2005; tele-fonia: a parte spese relativamente ridotte per gli anni 2004 e 2005, per euro 3.868,36 e euro 3.000, sono stati contabilizzati 9.600 euro nel 2006; euro 9.800 nel 2007; euro 8.400 nel 2008; euro 4.100 nel 2009 per tre mesi).

Va detto, per inciso che i costi di telefonia risul-tano di gran lunga maggiori rispetto all’ammontare delle bollette telefoniche addebitate sul conto cor-

rente intestato al gruppo (cfr. aff. da 96 a 108), dalle società Telecom, Telecom Italia e Omnitel.

Infine, nei rendiconti, risultano spese considere-voli, negli anni dal 2006 al 2009 per pubblicità e ma-nifesti: nel 2005 euro 10.000; nel 2006 euro 15.000; nel 2007 euro 19250; nel 2008 euro 17.119,41; nel 2009 euro 6.350 (per tre mesi).

All’esito della disamina compiuta sugli elaborati contabili (rendiconto e relazione illustrativa) depo-sitati dal gruppo, va detto che la rendicontazione ha avuto luogo, da un lato, senza la corretta imputazio-ne delle spese alle singole voci previste dal rendi-conto e, dall’altro, senza le necessarie specificazioni che la delib. n. 293/1993 aveva richiesto per avere un quadro della tipologia delle spese affrontate e, in particolare: tiratura del bollettino del gruppo e di altre pubblicazioni fatte stampare dal gruppo, con riferimento alle spese contabilizzate alla voce 4.4 per pubblicità e manifesti; partecipazione e/o orga-nizzazione di convegni (per i quali andavano indi-cati luogo e data); i compensi corrisposti per studi, ricerche e consulenze, per cui andavano indicati i beneficiari.

Ciò impedisce, per un verso, che possa essere ri-conosciuto un qualsivoglia utilizzo per fini pubblici ai prelievi effettuati dal Ladu in contanti, la cui desti-nazione rimane, allo stato, del tutto sconosciuta (al-trettanto è a dirsi, ovviamente, per gli assegni che il Ladu ha intestato a sé medesimo e presentato all’in-casso) mentre, per altro verso, una siffatta rendicon-tazione e la mancata indicazione delle circostanze in cui le spese connesse ai prelievi siano state sostenute, financo nei ristretti termini imposti dalle disposizioni regionali, sono elementi idonei a connotare ulterior-mente l’elemento psicologico del Ladu, integrando, di per sé, violazioni delle regole di gestione di fondi pubblici, da parte dei soggetti responsabili del loro utilizzo, che la giurisprudenza riconosce quali grave-mente colpose (Corte conti, Sez. giur. reg. Friuli-Ve-nezia Giulia, 3 febbraio 2014, n. 11).

Peraltro, non va sottaciuto che nel caso in esa-me, la rendicontazione delle spese, in termini che ne impediscono l’identificazione, e per ciò quantomeno approssimativi e inattendibili, l’utilizzo del contante, pur in presenza di altre modalità di pagamento che potevano facilmente essere utilizzate, e che lo sono state per tutte le spese non contestate (per es. adde-bito in conto e/o assegni), unitamente alla mancata richiesta di una pezza giustificativa dell’esborso, alla mancata esibizione di qualunque elemento a giustifi-cazione dei pagamenti, sono circostanze che contri-buiscono ad ingenerare il convincimento, in ragione

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della loro concomitante presenza, che di tali spese non si volesse lasciare traccia.

A confortare tale conclusione soccorre la tipolo-gia delle spese sostenute con la carta di credito, i cui estratti conto sono stati acquisiti e versati in atti dalla procura regionale.

Sul punto mette conto di sottolineare che, su un importo complessivo pari a euro 77.566,73, ben 44.176,29 si riferiscono a spese di ristorazione, ed 24.262,30 a spese per carburanti.

Su tali tipologie di spese va detto che l’esame dei singoli estratti conto mensili (cfr. atti affoliati ai n. 111 ss. degli atti di causa) consente di appurare quanto segue: a) in primo luogo risultano effettuate spese, sempre per ristorazione e carburanti, a partire dal 2 luglio 2004, mentre il gruppo consiliare è stato costituito il 28 luglio 2004 (data dell’autorizzazione dell’ufficio di presidenza del consiglio) dietro richie-sta del 19 luglio 2004; b) gli addebiti presenti sugli estratti conto presentano una singolare sequenza, che si ripete mensilmente: vi è un rifornimento di carbu-rante presso distributori della zona di residenza del Ladu, seguito da consumazione pasti presso ristoran-ti di Cagliari, e altro rifornimento di carburante su-bito dopo; c) dal raffronto delle spese così calendate e l’elenco delle sedute dell’assemblea regionale nel corso della XIII legislatura, depositato dal pubblico ministero nel corso del dibattimento, emerge che gran parte degli acquisti di carburante, così come le spese di ristorazione, sono riconducibili non ad atti-vità del gruppo, ma alla partecipazione del Ladu alle sedute del consiglio. Il primo rifornimento è, difatti, avvenuto o il giorno prima, o nello stesso giorno del-la seduta (se pomeridiana), e il secondo rifornimento al termine delle riunioni dell’assemblea; d) altrettan-to è a dirsi per le spese di ristorazione in Cagliari, alle medesime date e per importi (assai spesso minimi, che fanno presumere la consumazione di un solo pa-sto) presso locali siti nelle vicinanze della sede del consiglio stesso (fra i più frequenti: ristorante Italia; trattorie: “Ci pensa Cannas”; “da Serafino”; Lilliccu).

È indubbio, data la concomitanza con le sedute consiliari, che sia ravvisabile, in tutte tali occasioni, una duplicazione di esborsi a carico dell’erario re-gionale, vista l’attribuzione di apposita diaria ai con-siglieri “foranei” (cfr. art. 1 l. reg. 7 aprile 1966, n. 2, e successive modificazioni, più sopra riportato), così come è innegabile che le stesse non possano essere dirette a soddisfare i fini propri del gruppo consiliare.

Le altre spese di ristorazione, che come si è visto, unitamente a quelle per rifornimenti costituiscono gli esborsi più rilevanti della carta di credito, appaiono

ascrivibili, per la restante prevalente parte, a consu-mazioni presso locali siti in Siniscola (luogo di resi-denza del Ladu), mentre si presentano più sporadiche le spese di ristorazione presso ristoranti e/o alberghi situati in altri luoghi. Pare ultroneo sottolineare che, anche per tali spese, nessuna principio di prova che ne confermasse la coerenza con l’attività del gruppo risulta fornita in questa sede, mentre, a scorrere le motivazioni che, a detta del Ladu (interrogatorio reso nel dibattimento in sede penale, aff. da 577 a 683) le sorreggevano, non vi è traccia alcuna di eventi ricol-legabili alla specifica attività del gruppo consiliare. Si citano, a titolo esemplificativo: a) l’“incontro”, presso l’albergo Su Littu di Bitti con alcuni ammini-stratori di zona, ma non si sa a quale fine: in tal caso la spesa di 860 euro è del 4 luglio 2004, ma il grup-po era stato costituito il 19 luglio 2004; b) analoghe considerazioni vanno svolte per gli “incontri seguiti da buffet” presso il ristorante Bovore di Siniscola; presso l’agriturismo Sa Tanca di Siniscola il 12 ago-sto 2007, in entrambi i casi con la partecipazione di un tal Mele Giuseppe, e presso la Locanda Fuffuraju il 14 settembre 2007 per i quali nessuna specifica in-dicazione è stata fornita sull’aderenza di tali spese alle funzioni proprie del gruppo Fortza Paris.

Per le spese diverse, di là delle spese addebitate “per errore” e sostenute in periodo di vacanza (hotel Files Horse Gard, Londra; Agip Madonna di Campi-glio; ristorante a Vienna il 26 agosto 2007), anche gli altri acquisti effettuati con la carta di credito paiono difficilmente riconducibili ad esigenze e/o attività proprie del gruppo consiliare.

Ci si riferisce, in particolare, alle spese affron-tate per le riparazioni delle auto (Audi A4 e Golf) di proprietà, rispettivamente, del Ladu e della di lui consorte.

Fermo restando che le due auto risultano nella piena proprietà e disponibilità del Ladu e/o del Ladu e dei suoi familiari, va rilevato in primo luogo come nessuna decisione formale sia stata assunta all’inter-no del gruppo (né alcun elemento è stato sul punto addotto).

Vero è, per contro, che anche la Audi A4 (per la quale vettura il Ladu ha addotto l’uso esclusivo per i bisogni del gruppo stesso) veniva usata dal con-venuto anche durante i periodi estivi e per gli spo-stamenti, come si è visto, che effettuava per recarsi dalla sede di residenza presso il consiglio regionale, per svolgere le funzioni cui era chiamato in forza del mandato elettorale ricevuto (tanto che gli interventi sulla carrozzeria dell’Audi e in particolare dei senso-ri, per sua stessa ammissione, si erano resi necessari

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in ragione delle difficoltà incontrate nel parcheggio del consiglio regionale).

Anche gli altri acquisti (valigeria e telefonini), possono difficilmente essere ascritti ad esigenze proprie del gruppo, sia perché ciascun consigliere regionale godeva, in quanto tale, di “un contributo annuo … non superiore a tre volte l’indennità con-siliare mensile, da versarsi con le modalità stabilite dall’ufficio di presidenza del consiglio, per spese di documentazione, aggiornamento e stampa, strumen-tazioni tecnologiche”, tra cui rientrano sicuramente i cellulari, sia perché l’una e l’altra tipologia di beni si prestano, anzi vengono prodotti, per l’uso individua-le, estraneo per ciò stesso alle finalità istituzionali del gruppo consiliare. La legittimità e la pertinenza agli scopi di siffatti beni, necessiterebbe di ben altro supporto documentale che mere affermazioni, do-vendo risultare la formale imputazione della spesa relativa alla fornitura tecnologica al gruppo in quan-to tale. Nel caso di specie non risulta, in qualsivoglia modo, che gli stessi siano rimasti nella disponibilità del gruppo o siano stati restituiti dal Ladu all’atto dell’acquisto di nuovi beni di natura similare (in par-ticolare gli acquisti di valigeria – borsa portadocu-menti – sono stati dallo stesso trattenuti anche dopo lo scioglimento del gruppo Fortza Paris).

All’esito della compiuta disamina, ritiene la Se-zione che non possano esservi dubbi che la condotta serbata dal Ladu sia stata chiaramente inosservante non solo delle disposizioni di settore, ma vieppiù dei fondamentali canoni di lealtà e correttezza che do-vrebbero regolare il rapporto con la pubblica ammini-strazione, nella gestione di risorse che sono e riman-gono pubbliche, in ragione della loro provenienza e del vincolo di destinazione e che, dunque, non posso-no essere considerate alla stregua delle risorse finan-ziarie di natura privata, di cui, come è ovvio, ciascuno mantiene la piena disponibilità e libertà di utilizzo.

Ciò che traspare da tutta la vicenda, contraria-mente a quanto asserito dalla difesa, non è un affida-mento del Ladu nella legittimità del proprio operato, in ragione di una prassi non perfettamente osservante degli obblighi di rendicontazione, ma un malinteso senso di appartenenza dei finanziamenti ricevuti, che il Ladu ha gestito come “se fossero propri”, utiliz-zando le somme contestate in parte e presumibilmen-te (visto che non è stato fornito, sul punto, neppure un principio di prova), per attività del partito, e sicu-ramente per fini personali, al di fuori di ogni previ-sione normativa, per esigenze che non diventano e non possono diventare “pubbliche” solo in ragione del ruolo rivestito.

Tale percezione distorta del vincolo di destina-zione delle somme ricevute, che per quanto consta in atti, sono state utilizzate senza nemmeno porsi il problema di una documentazione o di una giustifi-cazione (da rendere aliunde e, nella specie, in sede giudiziaria) delle pubbliche risorse, connota come dolosa la condotta dallo stesso serbata.

Difatti, il dolo che viene in rilievo nelle fattispe-cie di responsabilità amministrativo patrimoniale è l’ampia figura del c.d. dolo civile contrattuale o erariale, nei termini elaborati da lungo tempo dalla giurisprudenza contabile, che si è premurata, inol-tre, di distinguere tale connotazione psicologica del comportamento dal dolo rilevante in sede penale (an-che in ragione della autonomia dei giudizi penale e contabile e degli illeciti perseguiti nelle diverse sedi giudiziali), essendo quest’ultimo qualificato e per tale via tipico, il primo (dolo erariale) atipico e da inadempimento volontario e/o cosciente dell’obbli-gazione contrattuale (Sez. I centr. app., 30 maggio 2007, n 143 e 23 ottobre 2007, n. 358).

Si può perciò fare riferimento al dolo erariale nelle fattispecie in cui si abbia la consapevolezza di dovere una determinata prestazione e si ometta di darvi esecuzione intenzionalmente, in violazione dei fondamentali principi che regolano l’esercizio delle funzioni amministrative e, nel caso di specie, degli obblighi di “dar conto” della gestione del pub-blico denaro (della cui “finalizzazione” il Ladu era consapevole), senza che occorra altresì il requisito della piena consapevolezza del danno e delle con-seguenze pregiudizievoli per l’erario, in questo caso regionale.

Né può essere dimenticato che secondo i principi espressi dalla stessa giurisprudenza, il mantenimento di una prassi illegittima, lungi dal costituire un’esi-mente, comporta un aggravio della responsabilità, qualora la peculiare posizione del soggetto agente avrebbe potuto consentire di porre rimedio o mo-dificare una situazione foriera di grave pregiudizio per le finanze pubbliche (cfr. Corte conti, Sez. II centr. app., n. 539/2013; id. Sez. giur. reg. Lazio, n. 1096/2012; id. Sez. III centr. app., n. 177/2006; id. Sez. III centr. app., n. 56/2005).

Una notazione finale si impone, avuto riguardo alla richiesta formulata in via istruttoria dalla dife-sa del convenuto diretta all’acquisizione, ex art. 213 c.p.c., “di idonee informazioni scritte al consiglio regionale della Sardegna in ordine alle modalità di presentazione e di successivo controllo dei rendicon-ti dei gruppi consiliari nelle legislature precedenti la XIII (2004-2009), con particolare riferimento alle

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N. 5-6/2014 PARTE II – ATTIVITÀ GIURISDIZIONALE

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eventuali osservazioni e rilievi mossi dagli organi interni”.

Discende dalla natura personale della responsa-bilità e dall’esercizio dell’azione, rimesso esclusi-vamente al pubblico ministero, che non sia compi-to della Sezione appurare se tutti i gruppi consiliari avessero presentato il rendiconto con le stesse moda-lità del Ladu, sussistendo il potere/dovere del pub-blico ministero contabile di convenire in giudizio i soggetti responsabili laddove la omessa o imprecisa rendicontazione celi ipotesi di danno erariale.

Ai fini dell’affermazione della responsabilità del Ladu, invece, nessun elemento può trarsi dalle acqui-sizioni suddette, posto che questa si radica e si giusti-fica nel dovere del convenuto di dare conto della ge-stione, nella mancata giustificazione del “buon esito” delle somme ricevute (con riferimento, ovviamente, alle somme contestate) e nell’averne utilizzato una parte a fini esclusivamente personali, così arrecando un pregiudizio patrimoniale all’amministrazione di appartenenza.

Alla stregua delle considerazioni sopra svolte va emessa pronuncia di condanna, a titolo di dolo, a fa-vore del pubblico erario creditore, per il definitivo importo di euro 252.471,73.

Sulla somma, per la quale va pronunciata condan-na, è altresì dovuta, in conformità al prevalente indi-rizzo di questa Corte, la rivalutazione monetaria da calcolarsi secondo indici Istat a decorrere dalla data dell’evento dannoso (ossia dall’erogazione dei contri-buti al gruppo) e fino alla pubblicazione della presente sentenza. Dalla data di detta pubblicazione e sino al soddisfacimento del credito sono altresì dovuti, sulla somma come sopra rivalutata, gli interessi nella misu-ra del saggio legale fino all’effettivo pagamento.

Le spese seguono la soccombenza, ai sensi dell’art. 91 c.p.c.

P.q.m., la Corte dei conti, Sezione giurisdizionale per la Regione Sardegna, definitivamente pronun-ciando: condanna il sig. Ladu Silvestro a pagare, a titolo di risarcimento di danno, a favore del pubblico erario, e segnatamente della Regione autonoma della Sardegna, la somma di euro 252.471,73. (Omissis)

* * *

Umbria

92 – Sezione giurisdizionale Regione Umbria; sen-tenza 1 agosto 2014; Pres. Avoli, Est. Mondera, P.M. Principato; Proc. reg. c. Garofani.

Responsabilità amministrativa e contabile – In-cidente d’auto su di una strada statale – Ri-sarcimento del danno civile a carico dell’Anas – Dipendenti Anas – Assolvimento degli obbli-ghi di vigilanza – Danno erariale – Esclusione.

C.p.c., artt. 164.

Nel caso in cui un incidente d’auto su di una stra-da statale, causato da un’insidia occulta, abbia deter-minato a carico dell’Anas l’obbligo di risarcimento di un danno civile, deve escludersi la responsabilità amministrativa del capo cantoniere e del sorveglian-te Anas che abbiano assolto con puntualità i propri obblighi di vigilanza sul tratto di strada loro affidato.

Motivi della decisione – 1. Preliminarmente, il collegio deve esaminare l’eccezione di nullità, solle-vata dal sig. Principi Fabio.

La questione è infondata e deve essere respinta, in quanto i motivi di nullità della citazione, previsti dall’art. 164 del codice di rito, sono tassativi e tra gli stessi non rientra la presunta indeterminatezza del soggetto destinatario del richiesto risarcimento.

2. Il collegio passa a trattare il merito della causa.Non essendo in contestazione l’esistenza del rap-

porto di servizio tra i signori Garofani e Principi e la pubblica amministrazione, occorre verificare l’e-sistenza del nesso causale tra la condotta e l’evento e la grave colpevolezza dei presunti responsabili del danno erariale di cui si discute.

Dai fatti di causa discende la correttezza della condotta posta in essere dai due convenuti, in quanto:

a) il sig. Garofani ha regolarmente effettuato il controllo giornaliero del tratto interessato al sinistro e non è stata fornita prova certa dell’esistenza della chiazza d’acqua nel periodo (7-13) in cui il capo can-toniere ha svolto il proprio servizio;

b) il sig. Principi non ha posto in essere alcun com-portamento omissivo, tenuto conto che non è stato de-stinatario di nessuna segnalazione di insidia stradale e che, in base alla lett. c) dell’art. 10 del Regolamento del Servizio di Manutenzione delle strade ed autostra-de statali (Rmsaa) non era tenuto a verificare diretta-mente, in maniera sistematica e quotidiana, la sicurez-za e regolarità del tratto stradale allo stesso assegnato.

Da quanto esposto consegue, quindi, la mancan-za di responsabilità erariale in capo ai due dipendenti dell’Anas.

L’assenza di qualsivoglia illegittimità nella con-dotta dei convenuti è sufficiente a determinare l’as-soluzione degli stessi, ma il collegio ritiene opportu-no precisare anche che, dagli atti di causa, non risul-

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PARTE II – ATTIVITÀ GIURISDIZIONALE N. 5-6/2014

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ta, comunque, provato che l’incidente in questione sia stato determinato dalla chiazza d’acqua presente sull’asfalto.

3. I convenuti vanno, pertanto, prosciolti dalla domanda attrice, con il rimborso delle spese legali.

4. Dato l’esito del giudizio, non è luogo alla pro-nuncia sulle relative spese di giudizio.

94 – Sezione giurisdizionale Regione Umbria; sen-tenza 4 agosto 2014; Pres. Avoli, Est. Mondera, P.M. Principato; Proc. reg. c. Gimignani.

Responsabilità amministrativa e contabile – Di-pendente pubblico – Assenza per malattia – Comportamenti volti a rallentare la guari-gione – Responsabilità amministrativa – Fat-tispecie.

Responsabilità amministrativa e contabile – Vigi-le del fuoco – Viaggio all’estero durante un’as-senza per malattia – Omessa agevolazione del-la guarigione dalla malattia – Responsabilità amministrativa.

Sussiste la responsabilità amministrativa del di-pendente che, assente giustificato per malattia, abbia posto in essere comportamenti volti a rallentare la sua guarigione (in motivazione, si precisa che costi-tuisce specifico obbligo di servizio quello di agevola-re la guarigione, al fine di consentire la ripresa del servizio con la maggiore sollecitudine possibile). (1)

Va affermata la responsabilità amministrativa di un vigile del fuoco che, durante il periodo di assen-za per malattia conseguente a trauma alla caviglia, abbia effettuato un viaggio all’estero, aggravando e, comunque, non agevolando la propria guarigione. (2)

Motivi della decisione – 1. Il collegio ritiene di dovere, in primo luogo, esaminare e provvedere in ordine alle questioni preliminari poste dalla difesa.

Relativamente alla opinata nullità dell’atto intro-duttivo, per mancata valutazione delle osservazioni esposte dal sig. Gimignani a seguito dell’invito a de-durre, si osserva che le cause di nullità della citazio-ne sono tassative e, tra queste, non vi è la circostanza evidenziata dalla difesa.

In ogni caso, secondo giurisprudenza consolida-

(1-2) Sulla responsabilità amministrativa di pubblici di-pendenti connessa ad assenze dal servizio per malattia, v. pure Corte conti, Sez. giur. reg. Veneto, 24 dicembre 2014, n. 237, in questo fascicolo, 327.

ta, la procura non è tenuta a confutare puntualmente nell’atto di citazione le argomentazioni difensive espo-ste nelle deduzioni presentate dopo la notifica dell’in-vito a dedurre e, comunque, nel caso di specie, ciò è avvenuto, come si rileva dall’atto introduttivo, in cui a p. 10 si legge: “Non convincono le deduzioni fornite dal convenuto e confermate nell’audizione personale del 3 dicembre 2012 in quanto tendono a conferire va-lore legale ed indiscutibile al certificato medico che, invece, anche alla luce della citata giurisprudenza, va considerato tenendo presente la possibilità che vi pos-sa essere una discrasia tra una rappresentazione forma-le della situazione patologica descritta al medico dal paziente, rispetto alla reale situazione di fatto”.

2. Passando al merito, si rileva che, non essendo in contestazione l’esistenza del rapporto di servizio tra il sig. Gimignani e la pubblica amministrazione, occorre verificare se, nel caso di specie, si è verificato un dan-no erariale, se lo stesso sia attribuibile alla condotta del convenuto, posta in essere per dolo o colpa grave.

2.1. Innanzitutto è necessario chiarire che la vi-cenda non verte sulla falsità dei tre certificati medici, redatti dal medico di base, dott. Paolo Parasecolo, sulla cui base il sig. Gimignani si è assentato dal ser-vizio, dal 27 settembre al 4 novembre 2011.

Occorre, inoltre, precisare che non risulta provata l’affermazione fatta dalla procura nell’atto introdut-tivo ove si sostiene che il convenuto “ha, in maniera fraudolenta, indotto il proprio medico ad attestare una falsa patologia accentuando, se non inventando, un dolore alla caviglia” (p. 7 dell’atto di citazione) e che, ha agito dolosamente “al fine di acquisire una certificazione sanitaria allo scopo di organizzare un viaggio all’estero” (p. 7 dell’atto di citazione).

Ciò che, invece, risulta provato in atti (non smen-tito dall’interessato), è il fatto che il 29 settembre 2011, 10 giorni dopo l’infortunio sul lavoro e 2 gior-ni dopo essersi recato dal proprio medico di base, lamentando la persistenza del dolore alla caviglia infortunata ed avendo ricevuto la prescrizione di ul-teriori 10 giorni di riposo e cure, il sig. Gimignani si è recato in Francia.

Lo stesso convenuto, durante l’audizione per-sonale del 7 giugno 2012, davanti ai militari della Guardia di finanza, nucleo di polizia tributaria di Pe-rugia, ha dichiarato: di aver preso parte al viaggio in Francia a titolo personale; di aver visitato la città di Digione e “qualche cantina” e di aver partecipa-to nella città di Dreux alle manifestazioni relative al gemellaggio (“discorsi ufficiali in piazza, pranzo di gala ed incontri vari con le altre delegazioni delle cit-tà gemellate, visite alla fiera e mercatini vari)”.

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Il collegio, tenuto conto dei fatti sopra descritti, che si ritengono acclarati perché documentati e non contestati, ravvisa nella condotta del sig. Gimigna-ni una grave colpevolezza, conseguente alla elevata negligenza e imprudenza dimostrata nel decidere di affrontare da convalescente un viaggio di migliaia di chilometri, impegnativo per chiunque, tanto più per una persona non in perfetta forma fisica per aver su-bito un infortunio da pochi giorni.

Il dott. Paolo Parasecolo, medico di base che ha prescritto al Vigile del fuoco quaranta giorni di riposo, nel verbale del 7 giugno 2007, davanti ai finanzieri del Nucleo di polizia tributaria di Perugia, ha dichiarato che, quando il 27 settembre 2011 il sig. Gimignani si è recato nel suo studio, lamentando “dolore ed insta-bilità alla caviglia”, non gli ha riferito l’intenzione di effettuare un viaggio all’estero due giorni dopo.

Inoltre, circa il nesso tra lo sforzo conseguente al viaggio e il prolungarsi della patologia dolorosa, il dott. Parasecolo ha precisato che, da un punto di vista medico, è plausibile ritenere che “il non riposo abbia potuto peggiorare la situazione”.

Priva di pregio è la tesi difensiva che sostiene che, richiedendo l’attività di vigile del fuoco una peculiare condizione di idoneità fisica, “può ben es-servi un vigile del fuoco che si trovi in condizioni di svolgere una normale vita di relazione, essendo menomato in maniera non grave, ma non si trovi nel-le condizioni di svolgere il proprio servizio attivo” (p. 5 delle memorie difensive) e che “il dipendente poteva liberamente lasciare il proprio domicilio, non essendo obbligato al rispetto delle fasce orarie di re-peribilità” (p. 7 delle memorie difensive).

Ciò che la procura contesta, infatti, non è lo svol-gimento di “una normale vita di relazione”, assolu-tamente ammissibile, a volte addirittura consigliata, nella fase convalescenziale, ma lo svolgimento di attività eccezioni, stancanti e ritardanti del normale decorso di guarigione, quale senz’altro può essere considerato un viaggio all’estero, con un percorso di migliaia di chilometri e un innegabile sforzo fisico, a pochi giorni di distanza da un infortunio.

Il rapporto di lavoro con una pubblica ammini-strazione consiste, di norma, in un rapporto sinallag-matico in cui a una prestazione (attività lavorativa) corrisponde una controprestazione (retribuzione).

Nel caso di infortunio sul lavoro, l’ordinamento prevede il diritto del dipendente infortunato di as-sentarsi legittimamente dal servizio e di percepire la retribuzione, pur senza prestare la corrispondente attività lavorativa.

Tale diritto, però, comporta anche il dovere, da

parte del dipendente assente giustificato dal servizio per malattia, di agevolare la guarigione e/o, comun-que, di non porre in essere condotte, omissive o com-missive, atte a rallentare il processo riabilitativo e la conseguente ripresa del lavoro attivo.

Nel caso del sig. Gimignani, considerazioni di buon senso, prima ancora che di carattere medi-co-scientifico, avrebbero dovuto indurre il dipenden-te infortunato a osservare maggiore cautela e pru-denza e non certo a fare una vacanza all’estero con la caviglia dolorante, come dichiarato dallo stesso convenuto al medico di base (v. verbale del 7 giugno 2007 del dott. Paolo Parasecolo).

Si parla di “vacanza” in quanto il sig. Gimignani ha ammesso di aver partecipato al viaggio in Francia, non per ragioni istituzionali, in qualità di consigliere comunale del Comune di Todi, bensì a titolo personale.

Trattasi, quindi, di attività ludica non necessaria e ciò costituisce un ulteriore elemento che contribuisce a connotare di gravità la condotta del convenuto, che ha procrastinato la ripresa del servizio, rallentando il percorso di recupero fisico, in assenza di una causa di giustificazione.

Un comportamento di tale tipo, comporta la tra-sformazione dell’assenza dal servizio da legittima a illegittima e, pertanto, la percezione della retribuzio-ne, da parte di un dipendente pubblico che ostacoli una piena ripresa della funzionalità fisica, costituisce una spesa dannosa per l’amministrazione erogatrice.

Questo principio, esposto dalla procura regionale nell’atto di citazione e condiviso dal collegio, è sta-to ribadito anche in altri arresti della giurisprudenza contabile.

In materia si richiama la recente pronuncia n. 382 del 13 luglio 2011 della Sezione giurisdizionale re-gionale per il Veneto che, in un caso speculate alla vi-cenda del sig. Gimignani, ha condannato il pubblico dipendente che, durante l’assenza dal servizio per in-fermità, ha svolto un’attività fisica ritenuta altamente impegnativa, tale da determinare un evidente conflitto con i doveri di lealtà e correttezza che fanno capo al pubblico dipendente, nei confronti dell’amministra-zione datrice di lavoro, e che comportano l’obbligo di agevolare il recupero dell’efficienza fisica.

La Suprema corte di cassazione in varie occasioni ha avuto modo di statuire che l’aspettativa o il con-gedo per malattia serve al lavoratore “per ristabilire quello stato di salute che gli consenta di attendere alla sua attività lavorativa, non per attendere ad altre occu-pazioni che nulla hanno a che fare con il recupero fi-sico o che, addirittura potrebbero ostacolarlo” (Cass., S.U., sent. 13 maggio-1 luglio 2008, n. 17929).

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PARTE II – ATTIVITÀ GIURISDIZIONALE N. 5-6/2014

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3. Premesso quanto sopra, si reputa acquisita la prova dell’esistenza del danno, nonché della gravità della condotta posta in essere dal sig. Gimignani e del nesso causale tra la predetta e l’evento che si re-puta dannoso. (Omissis)

5. Da quanto sopra esposto discende che il sig. Gimignani Stefano deve essere condannato a risar-cire il danno cagionato all’erario, consistente nelle somme percepite durante il periodo di assenza per malattia 27 settembre-4 novembre 2011.

6. Così affermata la responsabilità del convenuto, il collegio ritiene, di poter far uso del potere ridutti-vo, in considerazione della peculiarità della fattispe-cie e del fatto che, se da un punto di vista empirico e fattuale è logicamente sostenibile che il viaggio in Francia abbia aggravato o, comunque, non agevolato la guarigione di una caviglia traumatizzata, d’altro canto non è dimostrabile con certezza che tutti gli ul-teriori quaranta giorni di assenza sono conseguenza della condotta avventata ed incauta del convenuto.

In considerazione di quanto sopra esposto, il dan-no addebitabile al sig. Gimignani è fissato in euro 1.000 (mille), oltre oneri rivalutativi e interessi, chie-sti da parte attrice.

In particolare, la rivalutazione deve essere cal-colata dalla data dell’evento di danno a quella del deposito della presente sentenza e gli interessi dal deposito al soddisfo.

7. Le spese di giudizio seguono la soccombenza.

95 – Sezione giurisdizionale Regione Umbria; sen-tenza 7 agosto 2014; Pres. Avoli, Est. Longavita, P.M. Chiappiniello; Proc. reg. c. Terenzi.

Responsabilità amministrativa e contabile – Me-dico dipendente da una Asl – Violazione del dovere di esclusiva – Percezione dell’indennità di esclusiva – Danno erariale – Liquidazione in via equitativa.

C.c., art. 1226; l. 23 dicembre 1998 n. 448, misure di finanza pubblica per la stabilizzazione e lo sviluppo, art. 72.

Risponde di danno erariale il medico, dipendente di una Asl, che abbia violato il dovere di esclusiva in-sito nel proprio rapporto di lavoro con il servizio sa-nitario regionale, percependo l’indennità di esclusiva malgrado lo svolgimento di attività libero-professio-nale non gratuita (nella specie, il danno erariale è stato liquidato in via equitativa, sulla base di un nu-mero stimato di visite private effettuate mensilmente).

Motivi della decisione – 1. La pretesa attrice è parzialmente fondata, nei limiti che seguono.

2. Al riguardo, indiscussa tra le parti l’applicabi-lità dell’art. 72 della l. n. 448/1998 al convenuto, in ragione del rapporto di lavoro “esclusivo” che lo lega dal 2000 all’Azienda ospedaliera di Perugia (v. p. 6 della memoria dell’avv. Zuccaccia del 28 maggio 2014), il collegio ritiene anzitutto non condivisibili le considerazioni della difesa del convenuto medesi-mo, circa la portata applicativa del precitato art. 72.

2.1. Secondo la predetta difesa, invero: “perché l’erogazione di emolumenti accessori […], come il c.d. assegno aggiuntivo di esclusiva, possa conside-rarsi indebita, […] deve essere data dimostrazione non della sola violazione dell’esclusività del rappor-to, ma anche del mancato assolvimento degli obbli-ghi e dei doveri connessi all’espletamento dell’atti-vità a tempo pieno” (v. p. 9 della memoria dell’avv. Zuccaccia del 28 maggio 2014).

2.2. Una simile interpretazione, frutto di una comprensibile lettura di parte della norma, cozza contro il dato testuale della norma stessa (v. art. 72, cc. 6 e 7, l. n. 448/1998), oltre che contro i principi affermati in proposito dalla giurisprudenza di que-sta Corte, che legano la fruizione dell’indennità di “esclusiva” semplicemente al rispetto dell’impegno assunto di non svolgere – “a titolo non gratuito” – at-tività ulteriori, rispetto a quelle proprie del dirigente medico intra moenia, e non anche alla mancata pre-stazione della prestazione dovuta presso la struttura sanitaria di appartenenza.

2.3. La giurisprudenza del tutto pacifica di que-sta Corte, invero, considera la violazione del dovere di “esclusiva”, come lesione del “sinallagma” con-trattuale, che giustifica l’attribuzione patrimoniale dell’indennità (di esclusiva, appunto) a fronte del dovere negativo, assunto dal medico, di non esple-tare nessun’altra attività “a titolo – si ripete – non gratuito” (cfr., chiarissima in proposito, Sez. giur. reg. Sardegna n. 46/2013, nonché Sez. app. reg. Si-cilia, n. 318/2013 e, di questa Sez. giur. reg. Umbra, n. 49/2005).

2.4. Nel contesto dell’art. 72 della l. n. 448/1998, pertanto, la violazione del dovere d’esclusività com-porta la percezione indebita della relativa indennità, che di per sé costituisce danno.

A tale voce di danno, poi, può aggiungersi anche quella ulteriore della mancata prestazione presso la struttura sanitaria di appartenenza, ricorrendone in concreto i presupposti.

2.5. Nella fattispecie all’esame del collegio, è ap-pena il caso di puntualizzarlo, la procura ha agito per

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N. 5-6/2014 PARTE II – ATTIVITÀ GIURISDIZIONALE

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il solo danno da indebita percezione dell’indennità di esclusiva, in relazione all’“attività libero profes-sionale privata nell’ambulatorio di viale Ancona n. 13 di Foligno” (v. p. 2 della citazione), espletata dal convenuto “dall’ottobre 2008 al febbraio 2012” (v. p. 13 della citazione).

3. Così disattesa la lettura dell’art. 72 della l. n. 448/1998 offerta dalla difesa del convenuto, va in-vece accolta l’eccezione della difesa medesima sulla mancata prova, da parte della procura, dell’espleta-mento della contestata attività libero-professionale per tutto l’indicato periodo dedotto in giudizio, ossia dall’ottobre del 2008 al febbraio del 2012.

3.1. Dai verbali di “sommarie informazioni” ver-sati dalla procura con la nota di deposito atti n. 1, del 27 maggio 2013, invero, emergono indicazioni su un’attività libero professionale “a titolo non gra-tuito” alquanto circoscritta (v. verbali di sommarie informazioni del sig. Innocenzi Giuseppe dell’1 apri-le 2012, della sig.ra Nofrini Serenella e del sig. Sca-roni Enzo in data – entrambi – 16 marzo 2012, oltre all’esposto della sig.ra Manganelli Donatella del 15 febbraio 2012) anche se la documentazione seque-strata presso l’abitazione del convenuto di Foligno, viale Ancona n. 13 (ricettari, blocchi di schede di diagnosi, piani terapeutici, ecc.), pure presente nella predetta nota di deposito atti, lascia ragionevolmente intravedere – secondo l’id quod plerumque accidit – un numero senz’altro maggiore di prestazioni sanita-rie “a pagamento”, eseguite dal convenuto, rispetto a quelle che emergono dai cennati verbali di sommarie informazioni.

3.2. Nel tratteggiato contesto, una liquidazione equitativa del danno si impone (ex art. 1226 c.c.), ed induce a fissare l’importo del danno stesso in non più di euro 10.660, pari – in cifra tonda – all’importo dell’indennità mensile di esclusiva moltiplicata per un numero di visite distribuite su dieci mesi, anco-rando la sinallagmaticità dell’indennità stessa su basi mensili.

3.3. Tanto tenendo anche conto dei precedenti di carriera evidenziati dalla difesa del convenuto (v. p. 7 della memoria dell’avv. Zuccaccia del 28 maggio 2014).

4. È appena il caso di rilevare come la sanzio-ne disciplinare inflitta al convenuto dall’Asl di ap-partenenza non incida in alcun modo sull’entità e sul titolo della presente condanna, contrariamente a quanto sostenuto in proposito dalla sua difesa (v. p. 6 della memoria dell’avv. Zuccaccia già menziona-ta), stante l’intrinseca diversità dell’azione discipli-nare (esercitata dalla predetta Asl), rispetto a quella

erariale (esercitata innanzi a questa Corte), in rela-zione anche alle diverse funzioni – rispettivamen-te – di deterrenza e risarcitoria da esse perseguite, come correttamente evidenziato in aula dal pubblico ministero.

5. Per quanto finora esposto e considerato, dun-que, il prof. Terenzi va condannato al pagamento dell’indicata somma di euro 10.660, a favore dell’A-zienda ospedaliera “Santa Maria della Misericordia” di Perugia.

6. Le spese di giudizio seguono la soccombenza.7. Sulle somme dovute per effetto della presente

sentenza (importo della condanna e spese di giudi-zio), competono gli interessi legali, dalla data di de-posito della sentenza stessa al soddisfo.

* * *

Veneto

237 – Sezione giurisdizionale Regione Veneto; sen-tenza 24 dicembre 2014; Pres. Carlino, Est. Mi-gnemi, P.M. Di Maio; Proc. reg. c. Piccolo.

Responsabilità amministrativa e contabile – Mi-litare della Guardia di finanza – Assenza dal servizio per malattia – Regime di vita incom-patibile con l’infermità dichiarata – Indebita percezione dello stipendio per il periodo di as-senza – Danno erariale.

Il militare della Guardia di finanza che si sia as-sentato dal servizio per malattia, facendo apparire uno stato di salute incompatibile con il servizio, ma conducendo, nel periodo di assenza, un regime di vita tale da escludere l’invalidità al servizio stesso risponde di danno erariale per l’indebita percezione della retribuzione e per il disservizio causato all’am-ministrazione. (1)

Fatto ‒ La procura militare della Repubblica presso il Tribunale di Verona, con nota del 7 marzo 2011, comunicava alla procura erariale di aver eser-citato l’azione penale nei confronti di Piccolo Rug-giero, finanziere in servizio presso il gruppo di Vene-zia della Guardia di finanza, accusato di diserzione, truffa militare, ritenzione di effetti militari.

(1) Sulla responsabilità amministrativa di pubblici dipen-denti connessa ad assenze dal servizio per malattia, v. pure Corte conti, Sez. giur. reg. Umbria, 4 agosto 2014, n. 94, in questo fascicolo, 324.

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PARTE II – ATTIVITÀ GIURISDIZIONALE N. 5-6/2014

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Con sent. 10 maggio 2012, n. 37, il Tribunale mi-litare di Verona riconosceva il Piccolo colpevole dei reati ascrittigli, condannandolo alla pena di 1 anno e 4 mesi di reclusione.

La decisione del tribunale veniva confermata dal-la Corte militare di appello di Verona, con la sent. 12 aprile 2013, n. 52, divenuta irrevocabile in data 7 giugno 2013.

In particolare, per quanto di rilievo in questa sede, nel giudizio penale veniva accertato che in data 29 giugno 2009, il militare, alla guida di una Mer-cedes e con a bordo il collega Morgante Francesco, veniva lievemente urtato da un’automobile condotta dalla fidanzata del Morgante.

Al pronto soccorso, il Piccolo veniva dimesso con diagnosi di “trauma distorsivo rachide cervicale” giudicato guaribile in dieci giorni.

In data 2 luglio 2009, il finanziere si sottoponeva a una nuova visita medica che si concludeva con una prescrizione di 15 giorni di riposo per “trauma del rachide cervicale causa di dolore al moto pronatorio e rotatorio”.

Alla successiva visita, effettuata il 10 luglio 2009, gli venivano riscontrate contratture muscolari e della colonna, con una prognosi di 35 giorni.

La sentenza di primo grado, confermata integral-mente in appello, accertava:

- che l’incidente era assolutamente inconsistente, trattandosi di una collisione laterale, a velocità estre-mamente ridotta, senza richiesta di danni da parte del Piccolo, e con danni minimi all’altra auto;

- che il giorno 30 giugno 2009 alcuni agenti in servizio presso la Questura di Vicenza intervenivano su richiesta di un soggetto che aveva denunciato di essere perseguitato da due persone, identificate poi in Piccolo Ruggiero e Morgante Francesco;

- che la fidanzata del Morgante, nel corso dell’i-struttoria, aveva dichiarato che sia il Morgante che il Piccolo, da lei frequentati, non avevano mai la-mentato alcun tipo di dolore per i danni conseguenti all’urto tra le loro macchine;

- che sempre la fidanzata del Morgante aveva di-chiarato che il Piccolo non aveva mai portato il colla-re, mentre il Comandante della Compagnia gdf di Vi-cenza aveva affermato di aver appreso dalla predetta che, dopo il 30 giugno 2009, sia il Morgante che il Piccolo avevano continuato ad uscire e frequentare locali, non manifestando mai sintomi di dolore;

- che i testi Sommaggio, Guidolin, Oliviero e Avitabile avevano intrattenuto rapporti con il Pic-colo e il Morgante nei primi 15 giorni del mese di

luglio, riferendo che il Piccolo non manifestò alcun tipo di impedimento fisico, che era in apparenti buo-ne condizioni di salute, ed era stato visto alla guida di una vettura senza che manifestasse segni di disagio fisico.

Sulla base delle illustrate risultanze processuali, il tribunale aveva condannato il Piccolo ritenendo che questi si fosse assentato dal servizio, senza che ne ricorressero le condizioni e consapevole di non aver riportato conseguenze dall’incidente, tenendo una condotta volta a far apparire uno stato di salute incompatibile con il servizio, rappresentando sinto-mi invalidanti non suscettibili di verifica; con ciò conseguendo l’ingiusto profitto di una retribuzione non dovuta.

La sentenza d’appello confermava che: “anche ammesso che l’imputato (avesse) realmente soffer-to la patologia asserita, si tratta(va) di una patologia che non impediva lo svolgimento di qualsiasi servi-zio, ma forse soltanto di alcune attività particolar-mente gravose. Anche il sanitario che ha rilasciato il giudizio medico-legale con prognosi più lunga … (sottolineava) che il Piccolo poteva lavorare e che non era del tutto inabile al servizio… Conferma la convinzione della Corte che l’imputato potesse svol-gere il servizio, il fatto che nel periodo in questio-ne l’imputato abbia trascorso i giorni di assenza dal servizio frequentando bar, locali notturni e sale da gioco. Alcuni di questi locali si frequentano in ore notturne, quando comunemente l’organismo ha bi-sogno di riposo, e cioè quando chi davvero soffre di una patologia tende a ritirarsi a casa, per riprendersi dai disagi del giorno. Tutti questi locali, inoltre, im-pongono ai frequentatori posture decisamente scon-sigliabili a chi soffra di dolori cervicali: le consuma-zioni avvengono in piedi, o su bassi divanetti, o su sgabelli privi di schienale; inoltre, in un andirivieni di avventori che costringe a frequenti spostamenti del corpo, e che non permette mai un completo rilas-samento della schiena, come invece un vero malato può fare comodamente solo a casa propria. A ulte-riore conferma, si segnala l’accaduto del giorno suc-cessivo al sinistro, quando alle 20.50 – un orario in cui gli ammalati di solito riposano, o preferiscono le pareti domestiche – la Polizia di Stato fu costretta a intervenire, su richiesta di un civile che sosteneva di essere inseguito da due persone, che furono identifi-cate come Morgante e l’imputato Piccolo … l’aver partecipato a una situazione di oggettivo contrasto con altri, per strada e in quell’orario, è un fatto spic-catamente non compatibile con la malattia asserita.

Di più tenue rilevanza, anche se pur apprezzabi-

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N. 5-6/2014 PARTE II – ATTIVITÀ GIURISDIZIONALE

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li se considerate insieme agli altri elementi, sono le circostanze che con altre persone il Piccolo non si sia lamentato dei dolori, e che non sia stato visto col col-lare di Schanz” (Corte militare di appello di Verona, sent. 20 marzo 2013, n. 52, pp. 8-13).

La procura erariale, ritenendo che dai fatti richia-mati fosse derivato un ingiusto danno all’erario, cau-sato dal Piccolo, gli comunicava l’invito a dedurre in data 14 ottobre 2013, contestandogli il pregiudizio prodotto all’amministrazione dalla corresponsione di una retribuzione non dovuta e dal disservizio provo-cato dall’assenza ingiustificata.

Il Piccolo non dava riscontro alle contestazioni mosse nell’invito a dedurre e, quindi, la procura lo citava in giudizio.

Evidenziava l’organo requirente che la sentenza penale irrevocabile, ai sensi dell’art 651 c.p., ha l’ef-ficacia di giudicato nel giudizio per il risarcimento del danno erariale quanto all’accertamento della sus-sistenza del fatto e all’affermazione che l’imputato l’ha commesso.

Dovrebbe, pertanto, assumersi, secondo l’Orga-no requirente, che il Piccolo sia stato assente ingiu-stificatamente dal servizio dal 29 giugno 2009 all’1 agosto 2009, simulando un’infermità invalidante.

Il militare avrebbe, quindi, cagionato un ingiu-sto danno all’ente di appartenenza consistente nella percezione di una retribuzione non dovuta nella mi-sura di euro 3.162, pari al corrispettivo percepito dal 29 giugno 2009 all’1 agosto 2009, e nel disservizio causato dall’assenza dell’unità e dall’onere della ri-organizzazione e della sostituzione, quantificato, in via equitativa, nella misura della metà dei predetti corrispettivi, ovvero euro 1.581.

Il convenuto non si costituiva in giudizio.All’udienza del 17 dicembre 2014, dichiarata la

contumacia del convenuto, la causa passava in de-cisione.

Diritto – Il giudizio odierno è finalizzato ad ac-certare la fondatezza della pretesa azionata dalla procura, concernente un’ipotesi di danno erariale, asseritamente patito dal Ministero della difesa, cau-sato da Piccolo Ruggiero, consistente nella indebita percezione della retribuzione dal 29 giugno 2009 all’1 agosto 2009 e nel disservizio causato all’am-ministrazione dalla assenza ingiustificata dal servi-zio.

Come rappresentato in fatto, all’udienza del 17 dicembre 2014, all’esito dell’accertata ritualità delle formalità di notifica dell’atto introduttivo del giudi-zio, è stata dichiarata la contumacia del convenuto.

Tale declaratoria, come evidenziato dalla giu-risprudenza della Corte di cassazione (sent. n. 526/1973, n. 6065/1985, n. 8873/1991), ha natura di mero accertamento della situazione processuale della parte che non si è costituita, senza incidere sulla po-sizione del contumace come parte del processo, qua-lità acquisita a seguito della rituale notifica dell’atto di citazione (Corte conti, Sez. giur. reg. Veneto, 21 gennaio 2014, n. 27).

Nel merito, va rilevato che, nella presente fat-tispecie, trova completa applicazione il disposto dell’art. 651 c.p.p.

Secondo la predetta norma, “La sentenza pena-le irrevocabile di condanna pronunciata in seguito a dibattimento ha efficacia di giudicato quanto all’ac-certamento della sussistenza del fatto, della sua illi-ceità penale e all’affermazione che l’imputato lo ha commesso, nel giudizio civile o amministrativo per le restituzioni e il risarcimento del danno promos-so nei confronti del condannato e del responsabile civile che sia stato citato ovvero sia intervenuto nel processo penale”.

La pronunzia della Corte militare d’appello 12 aprile 2013, n. 52, in sede penale, intervenuta sui fat-ti rilevanti anche per il presente giudizio, a seguito di processo dibattimentale, è divenuta irrevocabile il 7 giugno 2013.

È doveroso, dunque, che il collegio recepisca in-tegralmente le conclusioni cui è pervenuto in punto di fatto il giudice penale (Corte conti, Sez. I centr. app., 20 maggio 2010, n. 364).

Ma in ogni caso, va rilevato, anche al di là della automatica rilevanza, i fatti accertati nella sentenza penale di condanna ed il relativo materiale probato-rio versato anche agli atti del presente giudizio si ap-palesano, nel concreto, del tutto idonei a dimostrare la sussistenza dei presupposti fondanti la responsa-bilità erariale.

È dimostrato, infatti, che durante il periodo di as-senza dal servizio, il convenuto ha tenuto un regime di vita assolutamente incompatibile con una infermi-tà invalidante, tale da giustificare detta assenza.

Pertanto, la retribuzione indebitamente percepita dal Piccolo dal 29 giugno 2009 all’1 agosto 2009, quantificata in euro 3.162, come da prospetto della Guardia di finanza – Reparto logistico amministra-tivo Veneto dimostrativo delle competenze fisse e continuative del convenuto (all. 4 del fascicolo della procura), costituisce un danno erariale, dolosamente causato all’amministrazione di appartenenza, nella specie il Ministero dell’economia e delle finanze.

Va, quindi, integralmente accolta, per tale posta

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PARTE II – ATTIVITÀ GIURISDIZIONALE N. 5-6/2014

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di danno, la domanda della procura erariale e, per l’effetto, Ruggiero Piccolo va condannato al paga-mento di euro 3.162, oltre alla rivalutazione mone-taria secondo gli indici Istat, da calcolarsi dalla data del pagamento della retribuzione e sino alla data di deposito della presente sentenza, e agli interessi di legge, dalla data del deposito della sentenza all’ef-fettivo soddisfo.

È fondata anche la domanda della procura intesa ad ottenere il risarcimento del danno da disservizio, quantificato, in via equitativa in euro 1.581.

Il danno da disservizio costituisce una posta di nocumento che, secondo l’ormai consolidata e con-divisa giurisprudenza di questa Corte (si vedano, da ultimo, Corte conti, Sez. giur. reg. Veneto, 14 mag-gio 2014, n. 107; Sez. giur. reg. Puglia, 29 gennaio 2014, n. 118; Sez. giur. reg. Abruzzo, 21 febbraio 2013, n. 58), si risolve nel pregiudizio – ulteriore rispetto al danno patrimoniale diretto – recato dal-la condotta illecita del dipendente al corretto fun-zionamento dell’apparato pubblico, concretandosi, ad esempio, in una o più delle seguenti fattispecie: mancato conseguimento della legalità, della effi-cienza, della efficacia, della economicità e della produttività dell’azione e della attività di una pub-blica amministrazione (Corte conti, Sez. giur. reg. Umbria, 28 settembre 2005, n. 346); dispendio di energie per la ricostruzione di contabilità mancanti o contraffatte (Corte conti, Sez. giur. reg. Marche, 11 gennaio 2005, n. 18); costo sostenuto dall’am-ministrazione per accertare e contrastare gli effetti negativi sull’organizzazione delle strutture e degli uffici in conseguenza di comportamenti dolosi di un dipendente (Corte conti, Sez. giur. reg. Marche, 10 marzo 2003, n. 195); costi sostenuti per il ripristino della funzionalità dell’ufficio (Corte conti, Sez. giur. reg. Sicilia, 20 maggio 2002, n. 881); mancato con-seguimento del buon andamento dell’azione pubbli-ca (Corte conti, Sez. giur. reg. Umbria, 29 novembre 2001, n. 511); dispendio di risorse umane e di mezzi strumentali pubblici (Sez. II centr. app., 10 aprile 2000, n. 125).

La categoria dogmatica del danno da disservizio, quindi, si ricollega sempre all’espletamento del ser-vizio al di sotto degli standards di qualità e quantità richiesti e, pertanto, non conforme ai canoni di ef-ficacia, di efficienza e di economicità (Corte conti, Sez. giur. reg. Calabria, 5 novembre 2012, n. 319).

La specifica tipologia di danno erariale, progres-sivamente enucleata dalla giurisprudenza di questa Corte, presuppone un pubblico servizio lato sensu al quale correlarsi e consiste nel detrimento cagionato

all’organizzazione e/o allo svolgimento dell’attivi-tà amministrativa dal comportamento illecito di un dipendente (o amministratore), che abbia prodotto inefficienza, inefficacia, diseconomicità ovvero ille-gittimità dell’azione pubblica (Corte conti, Sez. giur. reg. Veneto, 14 maggio 2014, n. 107).

In buona sostanza, si realizza un danno da dis-servizio quando l’agire pubblico non raggiunge, re-lativamente al profilo qualitativo, le utilità ordinaria-mente conseguibili dall’utilizzo di risorse pubbliche, così determinandone una sostanziale dilapidazione, sub specie di una sottoutilizzazione funzionale (Cor-te conti, Sez. I centr. app., 12 febbraio 2014, n. 253 e 3 dicembre 2008, n. 532).

Più in dettaglio, in giurisprudenza si è riscontrata la sussistenza di un danno da disservizio in ragione del mancato raggiungimento delle utilità concreta-mente ricavabili dall’investimento di una certa quan-tità di risorse, umane e strumentali (Sez. giur. reg. Trentino-Alto Adige, Trento, 19 settembre 2005, n. 79; Sez. giur. reg. Lombardia, 16 maggio 2000, n. 648).

Ebbene, nel caso di specie, il collegio ritiene che dalla condotta dolosa del convenuto sia derivato an-che un danno da disservizio.

Giova a tal proposito rilevare che l’assenza del Piccolo dal lavoro si è prolungata per oltre un mese, durante il periodo estivo. Ed è fatto notorio che in tale periodo la sostituzione dei militari sia comune-mente meno agevole per l’amministrazione di appar-tenenza, che ha dovuto far fronte alla imprevista e ingiustificata assenza, distogliendo risorse che po-tevano utilmente essere impiegate in altri servizi o, comunque, rivedendo i già previsti piani di ferie.

Con riferimento al quantum del danno, indivi-duato in via equitativa dalla procura, la Corte di cas-sazione, con la sent. n. 13288/2007 ha evidenziato che l’esercizio del potere discrezionale di liquidare il danno in via equitativa, conferito al giudice dagli artt. 1226 e 2056 c.c., espressione del più generale potere di cui all’art. 115 c.p.c., dà luogo non già a un giudizio di equità, ma a un giudizio di diritto carat-terizzato dalla cosiddetta equità giudiziale correttiva o integrativa, che, pertanto, da un lato, è subordinato alla condizione che risulti obiettivamente impossibi-le o particolarmente difficile per la parte interessata provare il danno nel suo preciso ammontare, dall’al-tro, non ricomprende anche l’accertamento del pre-giudizio della cui liquidazione si tratta, presuppo-nendo già assolto l’onere della parte di dimostrare la sussistenza e l’entità materiale del danno, né esonera la parte stessa dal fornire gli elementi probatori e i

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N. 5-6/2014 PARTE II – ATTIVITÀ GIURISDIZIONALE

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dati di fatto dei quali possa ragionevolmente dispor-re, affinché l’apprezzamento equitativo sia per quan-to possibile, ricondotto alla sua funzione di colmare solo le lacune insuperabili nell’iter della determina-zione dell’equivalente pecuniario del danno (Corte conti, Sez. I centr. app., 18 giugno 2014, n. 871).

Nel caso di specie, pare congrua la quantificazio-ne in euro 1.581, operata dalla procura, in considera-zione del prolungato disagio funzionale causato dalla condotta del convenuto che, pertanto, va condannato anche al pagamento, in favore del Ministero dell’e-conomia e delle finanze, della predetta somma, oltre la rivalutazione monetaria secondo gli indici Istat dal

momento della cessazione della condotta (1 agosto 2009) fino al deposito della sentenza e gli interessi legali dal momento del predetto deposito sino all’ef-fettivo soddisfo.

Le spese seguono la soccombenza e si liquidano nella misura indicata in dispositivo.

P.q.m., la Corte dei conti, Sezione giurisdizionale regionale per il Veneto, definitivamente pronuncian-do, accoglie la domanda attorea e, per l’effetto, con-danna Piccolo Ruggiero.

* * *

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PARTE III – DOCUMENTAZIONE N. 5-6/2014

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DOCUMENTAZIONE

CORTE DI GIUSTIZIA DELL’UNIONE EUROPEA

C-568/13 – Corte di giustizia dell’Unione europea, Sezione V; sentenza 18 dicembre 2014; Pres. von Danwitz, Rel. Šváby, Avv. gen. Kokott; Azienda ospedaliero-universitaria di Careggi-Firenze c. Data Medical Ser-vice s.r.l. e altri.

Risolve questione pregiudiziale proposta da Cons. Stato (Italia), ord. 28 giugno 2013.

Contratti pubblici – Appalti di servizi – Direttiva 92/50/Cee – Direttiva 2004/18/Ce – Nozioni di “presta-tore di servizi” e di “operatore economico” – Azienda ospedaliera universitaria pubblica – Ente pub-blico economico – Attività prevalentemente non lucrativa – Finalità istituzionale di offrire prestazioni sanitarie – Possibilità di offrire servizi sul mercato – Ammissione a partecipare a una procedura di aggiudicazione di un appalto pubblico.

Tfue, art. 267; direttiva 92/50/Cee del Consiglio del 18 giugno 1992, che coordina le procedure di aggiudi-cazione degli appalti pubblici di servizi, artt. 1, 37; d.lgs. 30 dicembre 1992 n. 502, riordino della disciplina in materia sanitaria, a norma dell’art. 1 della l. 23 ottobre 1992 n. 421, art. 3; d.lgs. 17 marzo 1995 n. 157, attuazione della direttiva 92/50/Cee in materia di appalti pubblici di servizi, art. 2; direttiva 2004/18/Ce del Parlamento europeo e del Consiglio del 31 marzo 2004, relativa al coordinamento delle procedure di aggiudi-cazione degli appalti pubblici di lavori, di forniture e di servizi, artt. 1, 55; d.lgs. 12 aprile 2006 n. 163, codice dei contratti pubblici relativi a lavori, servizi e forniture in attuazione delle direttive 2004/17/Ce e 2004/18/Ce, artt. 19, 34, 86, 88.Contratti pubblici – Appalti di servizi – Direttiva 92/50/Cee – Direttiva 2004/18/Ce – Azienda ospedaliera

universitaria pubblica – Godimento di finanziamenti pubblici – Partecipazione a una gara d’appalto per la fornitura di servizi – Presentazione di un’offerta alla quale non è possibile fare concorrenza – Valutazione da parte dell’amministrazione aggiudicatrice – Possibilità di respingere l’offerta.

Tfue, art. 267; direttiva 92/50/Cee del Consiglio del 18 giugno 1992, art. 1, lett. c), 37; d.lgs. 30 dicembre 1992 n. 502, art. 3; d.lgs. 17 marzo 1995 n. 157, art. 2; direttiva 2004/18/Ce del Parlamento europeo e del Consiglio del 31 marzo, artt. 1, 55; d.lgs. 12 aprile 2006 n. 163, artt. 19, 34, 86, 88.

L’art. 1, lett. c), della direttiva 92/50/Cee del Consiglio, del 18 giugno 1992, che coordina le procedure di aggiudicazione degli appalti pubblici di servizi, osta a una normativa nazionale che escluda un’azienda ospe-daliera pubblica dalla partecipazione alle procedure di aggiudicazione di appalti pubblici, a causa della sua natura di ente pubblico economico (in quanto dotato di personalità giuridica e di autonomia imprenditoriale e organizzativa) svolgente attività prevalentemente non lucrativa, se e nei limiti in cui tale azienda è autorizzata ad operare sul mercato conformemente ai suoi obiettivi istituzionali e statutari.

Le disposizioni della direttiva 92/50/Cee del Consiglio, del 18 giugno 1992, che coordina le procedure di aggiudicazione degli appalti pubblici di servizi, e in particolare i principi generali di libera concorrenza, di non discriminazione e di proporzionalità soggiacenti a tale direttiva, devono essere interpretati nel senso che non ostano a una normativa nazionale che consenta a un’azienda ospedaliera pubblica, partecipante a una gara d’appalto, di presentare un’offerta alla quale non è possibile fare concorrenza, grazie ai finanziamenti pubblici di cui essa beneficia; tuttavia, nell’esaminare il carattere anormalmente basso di un’offerta sul fonda-mento dell’art. 37 di tale direttiva, l’amministrazione aggiudicatrice può prendere in considerazione l’esisten-za di un finanziamento pubblico di cui detta azienda beneficia, alla luce della facoltà di respingere tale offerta.

1. La domanda di pronuncia pregiudiziale verte sull’interpretazione degli artt. 1, lett. c), e 37 della direttiva 92/50/Ce del Consiglio, del 18 giugno 1992 (G.U. L 209, 1), e degli artt. 1, par. 8, c. 1, e 55 della direttiva 2004/18/Ce del Parlamento europeo e del Consiglio, del 31 marzo 2004, relativa al coordinamento delle proce-dure di aggiudicazione degli appalti pubblici di lavori, di forniture e di servizi (G.U. L 134, 114).

2. Tale domanda è stata presentata nell’ambito di una controversia tra l’Azienda ospedaliero-universitaria di Careggi-Firenze (in prosieguo: l’“Azienda”) e la Data Medical Service s.r.l. (in prosieguo: la “Data Medical

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N. 5-6/2014 PARTE III – DOCUMENTAZIONE

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Service”) in merito alla regolarità dell’esclusione del primo ente dalla partecipazione a una procedura di aggiu-dicazione di un appalto pubblico di servizi.

Contesto normativoIl diritto dell’Unione3. L’art. 1, lett. c), della direttiva 92/50 così disponeva:«“prestatori di servizi” [sono] le persone fisiche o giuridiche, inclusi gli enti pubblici che forniscono servizi

(...)».4. Ai sensi dell’art. 37 di tale direttiva:“Se, per un determinato appalto, talune offerte presentano carattere anormalmente basso rispetto alla pre-

stazione, l’amministrazione, prima di poter eventualmente respingere tali offerte, richiede per iscritto le preci-sazioni in merito agli elementi costitutivi dell’offerta in questione che essa considera pertinenti e verifica detti elementi costitutivi tenendo conto di tutte le spiegazioni ricevute.

L’amministrazione può prendere in considerazione giustificazioni riguardanti l’economia del metodo di prestazione del servizio o le soluzioni tecniche adottate o le condizioni eccezionalmente favorevoli di cui di-spone l’offerente per prestare il servizio, oppure l’originalità del servizio proposto dall’offerente.

Se i documenti relativi all’appalto prevedono l’attribuzione al prezzo più basso, l’amministrazione aggiudi-catrice deve comunicare alla Commissione il rifiuto delle offerte ritenute troppo basse”.

5. Il considerando 1 della direttiva 2004/18 indica che tale direttiva procede, per motivi di chiarezza, alla rifusione in un unico testo delle direttive precedenti applicabili in materia di appalti pubblici di servizi, di for-niture e di lavori, ed è basata sulla giurisprudenza della Corte.

6. Ai sensi del considerando 4 della richiamata direttiva:“Gli Stati membri dovrebbero provvedere affinché la partecipazione di un offerente che è un organismo di

diritto pubblico a una procedura di aggiudicazione di appalto pubblico non causi distorsioni della concorrenza nei confronti di offerenti privati”.

7. L’art. 1, par. 8, cc. 1 e 2, della medesima direttiva così prevede:«I termini “imprenditore”, “fornitore” e “prestatore di servizi” designano una persona fisica o giuridica o

un ente pubblico o un raggruppamento di tali persone e/o enti che offra sul mercato, rispettivamente, la realiz-zazione di lavori e/o opere, prodotti o servizi.

Il termine “operatore economico” comprende l’imprenditore, il fornitore, il prestatore di servizi. È utilizza-to unicamente per semplificare il testo».

8. L’art. 55 della direttiva 2004/18, rubricato “Offerte anormalmente basse”, è così formulato:“1. Se, per un determinato appalto, talune offerte appaiono anormalmente basse rispetto alla prestazione,

l’amministrazione aggiudicatrice, prima di poter respingere tali offerte, richiede per iscritto le precisazioni ritenute pertinenti in merito agli elementi costitutivi dell’offerta in questione.

Dette precisazioni possono riguardare in particolare:a) l’economia del procedimento di costruzione, del processo di fabbricazione dei prodotti o del metodo di

prestazione del servizio;b) le soluzioni tecniche adottate e/o le condizioni eccezionalmente favorevoli di cui dispone l’offerente per

eseguire i lavori, per fornire i prodotti o per prestare i servizi;c) l’originalità dei lavori, delle forniture o dei servizi proposti dall’offerente;d) il rispetto delle disposizioni relative alla protezione e alle condizioni di lavoro vigenti nel luogo in cui

deve essere effettuata la prestazione;e) l’eventualità che l’offerente ottenga un aiuto di Stato.2. L’amministrazione aggiudicatrice verifica, consultando l’offerente, detti elementi costitutivi tenendo

conto delle giustificazioni fornite.3. L’amministrazione aggiudicatrice che accerta che un’offerta è anormalmente bassa in quanto l’offerente

ha ottenuto un aiuto di Stato può respingere tale offerta per questo solo motivo unicamente se consulta l’offe-rente e se quest’ultimo non è in grado di dimostrare, entro un termine sufficiente stabilito dall’amministrazione

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PARTE III – DOCUMENTAZIONE N. 5-6/2014

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aggiudicatrice, che l’aiuto in questione era stato concesso legalmente. Quando l’amministrazione aggiudicatri-ce respinge un’offerta in tali circostanze, provvede a informarne la Commissione”.

Il diritto italiano9. Dall’art. 3 del d.lgs. 30 dicembre 1992, n. 502, “Riordino della disciplina in materia sanitaria” (supple-

mento ordinario alla G.U. n. 305, 30 dicembre 1992), come interpretato dalla Corte costituzionale, emerge che le aziende sanitarie sono enti pubblici economici che “assolvono compiti di natura essenzialmente tecnica, che esercitano con la veste giuridica di aziende pubbliche, dotate di autonomia imprenditoriale, sulla base degli in-dirizzi generali contenuti nei piani sanitari regionali e negli indirizzi applicativi impartiti dalle giunte regionali”.

10. Ai sensi dell’art. 3, par. 1-bis, di tale decreto legislativo:“In funzione del perseguimento dei loro fini istituzionali, le unità sanitarie locali si costituiscono in aziende

con personalità giuridica pubblica e autonomia imprenditoriale; la loro organizzazione ed il funzionamento sono disciplinati con atto aziendale [atto con cui sono definite le responsabilità nella gestione dell’azienda, in particolare a livello di bilancio] di diritto privato, nel rispetto dei princìpi e criteri previsti da disposizioni re-gionali. L’atto aziendale individua le strutture operative dotate di autonomia gestionale o tecnico-professionale, soggette a rendicontazione analitica”.

11. La direttiva 92/50 è stata trasposta nell’ordinamento giuridico italiano con d.lgs. 17 marzo 1995, n. 157 (supplemento ordinario alla G.U. n. 104, 6 maggio 1995).

12. Ai sensi dell’art. 2, par. 1, di tale decreto legislativo:“Sono amministrazioni aggiudicatrici: le amministrazioni dello Stato, le regioni, le province autonome

di Trento e Bolzano, gli enti pubblici territoriali, gli altri enti pubblici non economici, gli organismi di diritto pubblico comunque denominati”.

13. L’art. 5, par. 2, lett. h), di detto decreto legislativo prevede che quest’ultimo non si applichi “agli appalti pubblici di servizi aggiudicati a un ente che sia esso stesso un’amministrazione aggiudicatrice ai sensi dell’art. 2, in base a un diritto di esclusiva di cui beneficia in virtù di disposizioni legislative, regolamentari o ammini-strative, purché queste siano compatibili con il Trattato”.

14. La direttiva 2004/18 è stata trasposta nell’ordinamento giuridico italiano con d.lgs. 12 aprile 2006, n. 163 (supplemento ordinario alla G.U. n. 100, 2 maggio 2006), che codifica le regole in materia di appalti pubblici.

15. L’art. 19, par. 2, di tale decreto legislativo così dispone:“Il presente codice non si applica agli appalti pubblici di servizi aggiudicati da un’amministrazione ag-

giudicatrice o da un ente aggiudicatore ad un’altra amministrazione aggiudicatrice o ad un’associazione o consorzio di amministrazioni aggiudicatrici, in base ad un diritto esclusivo di cui esse beneficiano in virtù di disposizioni legislative, regolamentari o amministrative pubblicate, purché tali disposizioni siano compatibili con il Trattato”.

16. L’art. 34, par. 1, di detto decreto designa i soggetti ammessi a partecipare alle procedure di aggiudica-zione di appalti pubblici e dispone quanto segue:

“Sono ammessi a partecipare alle procedure di affidamento dei contratti pubblici i seguenti soggetti, salvo i limiti espressamente indicati:

a) gli imprenditori individuali, anche artigiani, le società commerciali, le società cooperative;b) i consorzi fra società cooperative di produzione e lavoro (…) e i consorzi tra imprese artigiane (...);c) i consorzi stabili, costituiti anche in forma di società consortili ai sensi dell’art. 2615-ter c.c., tra impren-

ditori individuali, anche artigiani, società commerciali, società cooperative di produzione e lavoro, secondo le disposizioni di cui all’art. 36;

d) i raggruppamenti temporanei di concorrenti, costituiti dai soggetti di cui alle lett. a), b) e c) (…);e) i consorzi ordinari di concorrenti di cui all’art. 2602 c.c., costituiti tra i soggetti di cui alle lett. a), b) e c)

del presente comma, anche in forma di società ai sensi dell’art. 2615-ter c.c. (...);e-bis) le aggregazioni tra imprese aderenti al contratto di rete ai sensi dell’art. 3, c. 4-ter, d.l. 10 febbraio

2009, n. 5 (...);

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f) i soggetti che abbiano stipulato il contratto di gruppo europeo di interesse economico (Geie) ai sensi del d.lgs. 23 luglio 1991, n. 240 (...);

f-bis) operatori economici, ai sensi dell’art. 3, c. 22, stabiliti in altri Stati membri, costituiti conformemente alla legislazione vigente nei rispettivi paesi”.

17. La lett. f-bis è stata inserita nell’art. 34, par. 1, d.lgs. n. 163/2006 con l’adozione del d.lgs. dell’11 settembre 2008, n. 152 (supplemento ordinario alla G.U. n. 231, 2 ottobre 2008), in seguito a una procedura d’infrazione avviata contro la Repubblica italiana dalla Commissione, la quale aveva sottolineato che le diret-tive in materia di appalti pubblici non consentono di limitare la possibilità di partecipare alle gare d’appalto a talune categorie di operatori economici.

18. Gli articoli da 86 a 88 del d.lgs. n. 163/2006 prevedono i meccanismi di verifica dell’anomalia dell’of-ferta, sulla base dei quali l’amministrazione aggiudicatrice può decidere di escludere un offerente dalla proce-dura di aggiudicazione dell’appalto di cui trattasi.

Procedimento principale e questioni pregiudiziali19. Con bando pubblicato il 5 ottobre 2005, la Regione Lombardia ha lanciato una gara d’appalto per

l’aggiudicazione, con il criterio dell’offerta economicamente più vantaggiosa, del servizio triennale di elabo-razione dati per la valutazione esterna sulla qualità dei farmaci. L’Azienda, che è stabilita in Toscana, regione in cui esercita le proprie attività, ha partecipato a tale gara d’appalto risultando prima classificata, soprattutto grazie al prezzo al quale proponeva i propri servizi, del 59 per cento inferiore a quello del secondo offerente classificato, la Data Medical Service. In seguito alla verifica dell’eventuale anomalia di tale offerta, l’appalto è stato attribuito all’Azienda con decisione della Regione Lombardia del 26 maggio 2006.

20. La Data Medical Service ha impugnato la decisione di aggiudicazione dell’appalto dinanzi al Tri-bunale amministrativo regionale per la Lombardia, sostenendo che l’aggiudicatario avrebbe dovuto essere escluso per il fatto che, conformemente alla normativa vigente, un ente pubblico non può partecipare a una gara d’appalto e che, in ogni caso, la sua offerta economica era anormalmente bassa, data l’entità del ribasso proposto.

21. Con sentenza del 24 novembre 2006 il Tribunale amministrativo regionale per la Lombardia ha accolto il primo motivo dedotto. Fondandosi sul combinato disposto dell’art. 5, par. 2, lett. h), d.lgs. n. 157/1995 e degli artt. 19 e 34 del d.lgs. n. 163/2006, tale giudice ha considerato che, quantunque queste due ultime disposizioni non fossero applicabili al caso di specie ratione temporis, vi fosse per gli enti pubblici, quali l’Azienda, un divieto formale di partecipare alle procedure di aggiudicazione degli appalti pubblici, essendo consentito a tali enti, in presenza di determinate condizioni, solamente l’affidamento di un appalto in via diretta. Infatti l’A-zienda, in quanto ente pubblico esclusivamente destinato alla gestione dell’ospedale pubblico fiorentino, non potrebbe agire in condizioni di libera concorrenza con soggetti privati.

22. L’Azienda ha interposto appello contro tale sentenza dinanzi al Consiglio di Stato, giudice amministra-tivo supremo in Italia.

23. Tale giudice osserva preliminarmente che, nonostante il fatto che il contratto di cui trattasi sia stato nel frattempo interamente eseguito, l’Azienda conserva un interesse a che sia riconosciuto il suo diritto di parteci-pare a gare d’appalto.

24. Il Consiglio di Stato rileva poi che la prima questione da esaminare nella fattispecie è quella dell’e-satta definizione della nozione di “operatore economico”, ai sensi del diritto dell’Unione, e della possibilità di ricomprendervi un’azienda ospedaliera universitaria pubblica. Per quanto attiene alla natura di tali enti nel quadro del processo di “aziendalizzazione”, ossia il passaggio a un modello imprenditoriale, il Consiglio di Stato sottolinea che tale processo ha portato alla trasformazione delle “unità sanitarie locali” preesistenti – in origine amministrazioni operanti a livello comunale – in aziende dotate di personalità giuridica e autonomia imprenditoriale, vale a dire autonomia organizzativa, patrimoniale, contabile e di gestione, circostanza che ha portato una parte della dottrina e della giurisprudenza nazionali a qualificare le aziende sanitarie pubbliche, comprese quelle ospedaliere, come “enti pubblici economici”. Tuttavia, la natura pubblica di tali soggetti non sarebbe discutibile. La loro attività non avrebbe prevalentemente finalità lucrativa e le stesse sarebbero titolari di poteri amministrativi in senso stretto, in particolare di tipo ispettivo e sanzionatorio.

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25. Il Consiglio di Stato dubita che, in tale contesto, si possa continuare ad affermare, come fa il Tribu-nale amministrativo regionale per la Lombardia, che in diritto italiano esiste un divieto categorico per tali aziende, in quanto enti pubblici economici, di partecipare alle gare pubbliche nella veste di “semplici concor-renti”. A tale proposito esso richiama la giurisprudenza della Corte, in particolare le sentenze Arge (C-94/99, EU:C:2000:677), CoNISMa (C-305/08, EU:C:2009:807) e Ordine degli ingegneri della Provincia di Lecce e a. (C-159/11, EU:C:2012:817), da cui emergerebbe che qualsiasi ente che si reputi idoneo a garantire l’esecuzio-ne di un appalto pubblico avrebbe il diritto di prendervi parte, indipendentemente dal fatto di essere un soggetto di diritto privato o di diritto pubblico.

26. Tale giurisprudenza sarebbe seguita da gran parte dei giudici italiani, i quali avrebbero inoltre sottoline-ato che l’elencazione di cui all’art. 34 del d.lgs. n. 163/2006 non può essere considerata tassativa. Il Consiglio di Stato considera che tale giurisprudenza comunitaria e nazionale osta a che l’art. 5, par. 2, lett. b), d.lgs. n. 157/1995 e l’art. 34 del d.lgs. n. 163/2006 siano interpretati nel senso di escludere a priori un’azienda ospeda-liera dalla partecipazione a una gara d’appalto. Infatti, un tale divieto in linea generale non avrebbe più ragione di esistere.

27. Ciò non equivarrebbe tuttavia ad autorizzare in maniera indiscriminata tali aziende a partecipare alle procedure di aggiudicazione di appalti pubblici. Secondo il Consiglio di Stato, la medesima giurisprudenza ha individuato in proposito due limiti: il primo, che l’attività posta a gara sia strumentale al conseguimento delle finalità istituzionali dell’ente pubblico di cui trattasi, e il secondo, che non vi sia una previsione normativa spe-cifica nazionale che vieti tale attività, in particolare in ragione del possibile effetto distorsivo sulla concorrenza.

28. Per quanto riguarda il primo limite, il Consiglio di Stato osserva che le aziende ospedaliere pubbliche, tanto più quelle universitarie, svolgono anche rilevanti funzioni di didattica e di ricerca, finalità istituzionali rispetto alle quali è possibile affermare che il servizio oggetto della gara di cui trattasi nella controversia di cui è investito, ossia l’elaborazione di dati, si pone in un rapporto di strumentalità. Quanto al secondo limite, il Consiglio di Stato rileva che la facoltà per un ente che beneficia di finanziamenti pubblici di partecipare libera-mente a una gara d’appalto pone il problema della parità di trattamento tra concorrenti disomogenei, da un lato quelli che devono stare sul mercato, e dall’altro quelli che possono contare anche su finanziamenti pubblici e sono quindi in grado di presentare offerte che nessun soggetto di diritto privato avrebbe mai potuto presentare. Si dovrebbero di conseguenza ricercare meccanismi correttivi volti a riequilibrare le condizioni di partenza tra i diversi operatori economici, meccanismi che dovrebbero andare oltre le procedure di verifica dell’eventuale anomalia delle offerte.

29. Alla luce di tali considerazioni, il Consiglio di Stato ha deciso di sospendere il procedimento e di sotto-porre alla Corte le seguenti questioni pregiudiziali:

“1) Se l’art. 1 della direttiva [92/50], lett[o] anche alla luce del successivo art. 1 par. 8 della direttiva [2004/18], [osti] ad una normativa interna che fosse interpretata nel senso di escludere [l’Azienda], in quanto azienda ospedaliera avente natura di ente pubblico economico, dalla partecipazione alle gare.

2) Se il diritto dell’Unione in materia di appalti pubblici – in particolare, i principi generali di libera concor-renza, non discriminazione, proporzionalità – osti ad una normativa nazionale che permetta ad un soggetto, del tipo dell’[Azienda], che beneficia stabilmente di risorse pubbliche e che è affidataria in via diretta del servizio pubblico sanitario, di lucrare da tale situazione un vantaggio competitivo determinante nel confronto concor-renziale con altri operatori economici – come dimostra l’entità del ribasso offerto – senza che siano previste al contempo misure correttive volte ad evitare un simile effetto distorsivo della concorrenza”.

Sulle questioni pregiudiziali

Sulla prima questione30. Tale questione tra origine dai dubbi espressi dal giudice del rinvio, che si chiede se la normativa italiana

vigente, interpretata nel senso di comportare un divieto generale per tutti gli enti pubblici, comprese di conse-guenza le aziende ospedaliere universitarie pubbliche quali l’Azienda, di partecipare alle procedure di aggiu-dicazione di appalti pubblici, possa essere considerata conforme alla giurisprudenza pertinente della Corte in materia di appalti pubblici.

31. Con la prima questione il giudice del rinvio chiede, in sostanza, se l’art. 1, lett. c), della direttiva 92/50

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osti a una normativa nazionale che esclude la partecipazione di un’azienda ospedaliera pubblica, come quella di cui al procedimento principale, dalle procedure di aggiudicazione di appalti pubblici, a causa della sua natura di ente pubblico economico.

32. In via preliminare occorre segnalare che, sebbene la questione posta dal giudice del rinvio faccia riferi-mento sia all’art. 1, lett. c), della direttiva 92/50 sia all’art. 1, par. 8, c. 1, della direttiva 2004/18, l’appalto di cui trattasi nel procedimento principale è tuttavia disciplinato, ratione temporis, dalla direttiva 92/50. Infatti, dal punto 19 della presente sentenza emerge che la Regione Lombardia ha avviato la gara d’appalto di cui trattasi nel procedimento principale con un bando pubblicato il 5 ottobre 2005. Orbene, in forza degli artt. 80 e 82 della direttiva 2004/18, quest’ultima ha abrogato la direttiva 92/50 soltanto con effetto al 31 gennaio 2006. Pertanto, la procedura di aggiudicazione dell’appalto pubblico di cui trattasi nel procedimento principale è disciplinata dalle norme in vigore alla data di pubblicazione del bando di gara.

33. Occorre poi osservare che la possibilità per gli enti pubblici di partecipare ad appalti pubblici, paralle-lamente alla partecipazione di operatori economici privati, risulta già chiaramente dal tenore letterale dell’art. 1, lett. c), della direttiva 92/50, secondo il quale i “prestatori di servizi” sono le persone fisiche o giuridiche, inclusi gli enti pubblici, che forniscono servizi. Inoltre, tale possibilità di partecipazione è stata riconosciuta dalla Corte nella sentenza Teckal (C-107/98, EU:C:1999:562, punto 51), ed è stata ribadita nelle sentenze suc-cessive Arge (EU:C:2000:677, punto 40), CoNISMa (EU:C:2009:807, punto 38) e Ordine degli ingegneri della Provincia di Lecce e a. (EU:C:2012:817, punto 26).

34. La Corte ha inoltre sottolineato a tale proposito che uno degli obiettivi della normativa dell’Unione in materia di appalti pubblici è costituito dall’apertura alla concorrenza nella misura più ampia possibile (v., in tal senso, sentenza Bayerischer Rundfunk e a., C-337/06, EU:C:2007:786, punto 39), apertura che è anche nell’interesse stesso dell’amministrazione aggiudicatrice considerata, la quale disporrà così di un’ampia scelta circa l’offerta più vantaggiosa e più rispondente ai bisogni della collettività pubblica interessata. Un’interpre-tazione restrittiva della nozione di “operatore economico” avrebbe come conseguenza che i contratti conclusi tra amministrazioni aggiudicatrici e organismi che non agiscono in base a un preminente scopo di lucro non sarebbero considerati come “appalti pubblici” e potrebbero quindi essere aggiudicati in modo informale, sot-traendosi alle norme dell’Unione in materia di parità di trattamento e di trasparenza, in contrasto con la finalità delle medesime norme (v., in tal senso, sentenza CoNISMa, EU:C:2009:807, punti 37 e 43).

35. La Corte ha così concluso che sia dalle norme dell’Unione sia dalla giurisprudenza risulta che è am-messo a presentare un’offerta o a candidarsi qualsiasi soggetto o ente che, considerati i requisiti indicati in un bando di gara, si reputi idoneo a garantire l’esecuzione dell’appalto, indipendentemente dal fatto di essere un soggetto di diritto privato o di diritto pubblico e di essere attivo sul mercato in modo sistematico oppure soltan-to occasionale (v., in tal senso, sentenza CoNISMa, EU:C:2009:807, punto 42).

36. Inoltre, come emerge dalla lettera dell’art. 26, par. 2, della direttiva 92/50, gli Stati membri hanno certa-mente il potere di autorizzare o meno talune categorie di operatori economici a fornire certi tipi di prestazioni. Essi possono disciplinare le attività dei soggetti, quali le università e gli istituti di ricerca, non aventi finalità di lucro, ma volti principalmente alla didattica e alla ricerca. In particolare, essi possono autorizzare o non autoriz-zare tali soggetti a operare sul mercato in funzione della circostanza che l’attività in questione sia compatibile, o meno, con i loro fini istituzionali e statutari. Tuttavia, se, e nei limiti in cui, siffatti soggetti siano autorizzati a offrire taluni servizi contro corrispettivo sul mercato, anche a titolo occasionale, gli Stati membri non possono vietare loro di partecipare a procedure di aggiudicazione di appalti pubblici aventi ad oggetto la prestazione degli stessi servizi. Un simile divieto contrasterebbe infatti con l’art. 1, lett. a) e c), della direttiva 92/50 (v., per quanto concerne le corrispondenti disposizioni della direttiva 2004/18, sentenze CoNISMa, EU:C:2009:807, punti da 47 a 49, nonché Ordine degli ingegneri della Provincia di Lecce e a., EU:C:2012:817, punto 27).

37. Come affermato dal rappresentante del governo italiano all’udienza tenutasi dinanzi alla Corte, le azien-de ospedaliere universitarie pubbliche come quella di cui trattasi nel procedimento principale, in quanto “enti pubblici economici”, secondo la loro qualificazione a livello nazionale, sono autorizzate a operare contro cor-rispettivo sul mercato, in settori compatibili con la loro finalità istituzionale e statutaria. Nel procedimento principale pare inoltre che le prestazioni oggetto dell’appalto pubblico di cui trattasi non siano incompatibili con gli obiettivi istituzionali e statutari dell’Azienda. In tali circostanze, che spetta al giudice del rinvio verifi-

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care, secondo la giurisprudenza della Corte richiamata al punto 36 della presente sentenza, non si può impedire all’Azienda di partecipare a tale appalto.

38. Occorre di conseguenza rispondere alla prima questione dichiarando che l’art. 1, lett. c), della direttiva 92/50 osta a una normativa nazionale che escluda un’azienda ospedaliera pubblica, come quella di cui trattasi nel procedimento principale, dalla partecipazione alle procedure di aggiudicazione di appalti pubblici, a causa della sua natura di ente pubblico economico, se e nei limiti in cui tale azienda è autorizzata a operare sul mer-cato conformemente ai suoi obiettivi istituzionali e statutari.

Sulla seconda questione39. Con la seconda questione il giudice del rinvio chiede in sostanza se le disposizioni della direttiva 92/50,

e in particolare i principi generali di libera concorrenza, di non discriminazione e di proporzionalità soggiacenti a tale direttiva, debbano essere interpretati nel senso che ostano a una normativa nazionale che consente a un’a-zienda ospedaliera pubblica, come quella di cui trattasi nel procedimento principale, di partecipare a una gara d’appalto e di presentare un’offerta alla quale non è possibile fare concorrenza, grazie ai finanziamenti pubblici di cui essa beneficia, senza che siano state previste misure correttive per prevenire le eventuali distorsioni della concorrenza che ne derivano.

40. Nell’ambito della motivazione di tale questione, il Consiglio di Stato esprime dubbi sul fatto che la procedura di verifica delle offerte anormalmente basse, di cui all’art. 37 della direttiva 92/50, possa essere considerata un mezzo sufficiente per prevenire tali distorsioni della concorrenza.

41. A tale proposito, sebbene il giudice del rinvio ritenga auspicabile ricercare meccanismi correttivi volti a riequilibrare le condizioni di partenza tra operatori economici disomogenei e che dovrebbero andare oltre le procedure di verifica dell’eventuale anomalia delle offerte, si deve constatare che il legislatore dell’Unione, pur essendo consapevole della diversa natura dei concorrenti che partecipano a un appalto pubblico, non ha previsto altri meccanismi oltre a quello della verifica e dell’eventuale rigetto delle offerte anormalmente basse.

42. Va inoltre rammentato che le amministrazioni aggiudicatrici devono trattare gli operatori economici su un piano di parità e in modo non discriminatorio, nonché agire con trasparenza.

43. Tuttavia, le disposizioni della direttiva 92/50 e la giurisprudenza della Corte non consentono di esclu-dere un offerente, a priori e senza esami ulteriori, dalla partecipazione a una procedura di aggiudicazione di un appalto pubblico per il solo motivo che, grazie a sovvenzioni pubbliche di cui beneficia, esso è in grado di presentare offerte a prezzi notevolmente inferiori a quelli degli offerenti non sovvenzionati (v., in tal senso, sentenze Arge, EU:C:2000:677, punti da 25 a 27, nonché CoNISMa, EU:C:2009:807, punti 34 e 40).

44. Ciò nonostante, in talune circostanze particolari, l’amministrazione aggiudicatrice ha l’obbligo, o quan-to meno la facoltà, di prendere in considerazione l’esistenza di sovvenzioni, e in particolare di aiuti non con-formi al Trattato, al fine eventualmente di escludere gli offerenti che ne beneficiano (v., in tal senso, sentenze Arge, EU:C:2000:677, punto 29, nonché CoNISMa, EU:C:2009:807, punto 33).

45. A tale proposito, come rilevato dalla Commissione nell’udienza dinanzi alla Corte, la circostanza che l’ente pubblico di cui trattasi disponga di una contabilità separata tra le attività esercitate sul mercato e le altre attività può permettere di verificare se un’offerta sia anormalmente bassa a causa di un elemento integrante un aiuto di Stato. Dall’assenza di tale separazione contabile l’amministrazione aggiudicatrice non può tuttavia desumere che tale offerta sia stata resa possibile grazie all’ottenimento di una sovvenzione o di un aiuto di Stato non conforme al Trattato.

46. Si deve inoltre sottolineare che dal tenore letterale dell’art. 37, par. 1 e 3, della direttiva 92/50 emerge che la possibilità di respingere un’offerta anormalmente bassa non è limitata alla sola ipotesi in cui la modicità del prezzo proposto in tale offerta sia giustificata dall’ottenimento di un aiuto di Stato illegale o incompatibile con il mercato interno. Tale possibilità riveste infatti un carattere più generale.

47. Da un lato, dal testo di tale disposizione risulta che l’amministrazione aggiudicatrice, in sede di esame del carattere anormalmente basso di un’offerta, è soggetta all’obbligo di chiedere al candidato di fornire le giustificazioni necessarie a provare la serietà della sua offerta (v., in tal senso, sentenza SAG ELV Slovensko e a., C-599/10, EU:C:2012:191, punto 28).

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48. Pertanto, l’esistenza di un dibattito effettivo in contraddittorio, situato in un momento utile nella pro-cedura di esame delle offerte, tra l’amministrazione aggiudicatrice e l’offerente, affinché quest’ultimo possa provare la serietà della sua offerta, costituisce un requisito della direttiva 92/50, al fine di evitare l’arbitrio dell’amministrazione aggiudicatrice e di garantire una sana concorrenza tra le imprese (v., in tal senso, senten-za SAG ELV Slovensko e a., EU:C:2012:191, punto 29).

49. Dall’altro lato, occorre osservare che l’art. 37 della direttiva 92/50 non contiene una definizione della nozione di “offerta anormalmente bassa”. Spetta pertanto agli Stati membri, e in particolare alle amministra-zioni aggiudicatrici, stabilire le modalità di calcolo di una soglia di anomalia costitutiva di un’“offerta anormal-mente bassa” ai sensi di tale articolo (v., in tal senso, sentenza Lombardini e Mantovani, C-285/99 e C-286/99, EU:C:2001:640, punto 67).

50. Ciò premesso, il legislatore dell’Unione ha precisato in tale disposizione che il carattere anormalmente basso di un’offerta dev’essere valutato “rispetto alla prestazione”. Pertanto, l’amministrazione aggiudicatrice, nell’esaminare il carattere anormalmente basso di un’offerta, può, al fine di garantire una sana concorrenza, prendere in considerazione non soltanto le circostanze elencate all’art. 37, par. 2, della direttiva 92/50, ma anche tutti gli elementi pertinenti con riferimento alla prestazione di cui trattasi (v., in tal senso, sentenza SAG ELV Slovensko e a., EU:C:2012:191, punti 29 e 30).

51. Occorre di conseguenza rispondere alla seconda questione dichiarando che le disposizioni della diretti-va 92/50, e in particolare i principi generali di libera concorrenza, di non discriminazione e di proporzionalità soggiacenti a tale direttiva, devono essere interpretati nel senso che non ostano a una normativa nazionale che consenta a un’azienda ospedaliera pubblica, come quella di cui trattasi nel procedimento principale, parteci-pante a una gara d’appalto, di presentare un’offerta alla quale non è possibile fare concorrenza, grazie ai finan-ziamenti pubblici di cui essa beneficia. Tuttavia, nell’esaminare il carattere anormalmente basso di un’offerta sul fondamento dell’art. 37 di tale direttiva, l’amministrazione aggiudicatrice può prendere in considerazione l’esistenza di un finanziamento pubblico di cui detta azienda beneficia, alla luce della facoltà di respingere tale offerta.

Sulle spese

52. Nei confronti delle parti nel procedimento principale la presente causa costituisce un incidente sollevato dinanzi al giudice nazionale, cui spetta quindi statuire sulle spese. Le spese sostenute da altri soggetti per pre-sentare osservazioni alla Corte non possono dar luogo a rifusione.

P.q.m., la Corte (Sezione V) dichiara:1) L’art. 1, lett. c), della direttiva 92/50/Cee del Consiglio, del 18 giugno 1992, che coordina le procedure di

aggiudicazione degli appalti pubblici di servizi, osta a una normativa nazionale che escluda un’azienda ospe-daliera pubblica, come quella di cui trattasi nel procedimento principale, dalla partecipazione alle procedure di aggiudicazione di appalti pubblici, a causa della sua natura di ente pubblico economico, se e nei limiti in cui tale azienda è autorizzata a operare sul mercato conformemente ai suoi obiettivi istituzionali e statutari.

2) Le disposizioni della direttiva 92/50, e in particolare i principi generali di libera concorrenza, di non discriminazione e di proporzionalità soggiacenti a tale direttiva, devono essere interpretati nel senso che non ostano a una normativa nazionale che consenta a un’azienda ospedaliera pubblica, come quella di cui trattasi nel procedimento principale, partecipante a una gara d’appalto, di presentare un’offerta alla quale non è possi-bile fare concorrenza, grazie ai finanziamenti pubblici di cui essa beneficia. Tuttavia, nell’esaminare il carattere anormalmente basso di un’offerta sul fondamento dell’art. 37 di tale direttiva, l’amministrazione aggiudicatrice può prendere in considerazione l’esistenza di un finanziamento pubblico di cui detta azienda beneficia, alla luce della facoltà di respingere tale offerta.

* * *

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CORTE COSTITUZIONALE

227 – Corte costituzionale; sentenza 26 settembre 2014; Pres. Cassese, Est. Criscuolo; C.C.I. c. Inps; interv. Pres. cons. ministri.

Pensioni civili e militari – Pensione di reversibilità – Indennità integrativa speciale – Attribuzione nella misura percentuale prevista per il trattamento di reversibilità – Questione di costituzionalità – Ma-nifesta infondatezza.

Cost., art. 117; l. 4 agosto 1955 n. 848, ratifica ed esecuzione della convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, firmata a Roma il 4 novembre 1950, art. 6; l. 8 agosto 1995 n. 335, rifor-ma del sistema pensionistico obbligatorio e complementare, art. 1, c. 41; l. 27 dicembre 2006 n. 296, disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (legge finanziaria 2007), art. 1, cc. 774, 776.

È manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 1, cc. 774 e 776, l. 27 dicem-bre 2006 n. 296, nella parte in cui dispone l’interpretazione autentica dell’art. 1, c. 41, della l. 8 agosto 1995 n. 335, prevedendo – con effetto sui giudizi pendenti all’entrata in vigore della l. n. 296/2006 – che l’indennità integrativa speciale già in godimento del dante causa ad un trattamento pensionistico di reversibilità “è at-tribuita nella misura percentuale prevista per il trattamento di reversibilità”, in riferimento all’art. 117, c. 1, Cost., in relazione all’art. 6 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali e all’art. 1 del Protocollo addizionale alla convenzione medesima. (1)

Considerato in diritto – 1. La Corte dei conti, Sezione giurisdizionale d’appello per la Regione siciliana, con ord. 29 ottobre 2013 (r.o. n. 272/2013), ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell’art. 1, cc. 774 e 776, l. 27 dicembre 2006, n. 296 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato-legge finanziaria 2007), “nella parte in cui incidono sui giudizi pendenti alla data della loro entrata in vigore, con riferimento all’art. 6 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (Cedu), e all’art. 1, prot. n. 1, della convenzione medesima, per violazione dell’art. 117 Cost., nei sensi di cui in motivazione”.

La Corte rimettente ritiene che le norme censurate, nella parte in cui dispongono che “L’estensione della disciplina del trattamento pensionistico a favore dei superstiti di assicurato e pensionato vigente nell’ambito del regime dell’assicurazione generale obbligatoria a tutte le forme esclusive e sostitutive di detto regime pre-vista dall’art. 1, c. 41, l. 8 agosto 1995, n. 335, si interpreta nel senso che per le pensioni di reversibilità sorte a decorrere dall’entrata in vigore della l. 8 agosto 1995, n. 335, indipendentemente dalla data di decorrenza della pensione diretta, l’indennità integrativa speciale già in godimento da parte del dante causa, parte integrante del complessivo trattamento pensionistico percepito, è attribuita nella misura percentuale prevista per il tratta-mento di reversibilità” (art. 1, c. 774); e che “È abrogato l’art. 15, c. 5, l. 23 dicembre 1994, n. 724” (art. 1, c. 776), violerebbero l’art. 117, c. 1, Cost., perché dette disposizioni, in assenza di “motivi imperativi d’interesse generale” e di “un ragionevole rapporto di proporzionalità tra i mezzi impiegati e lo scopo perseguito, restando indimostrati gli apprezzabili effetti contenitivi della spesa pubblica nel settore previdenziale”, intervengono sui giudizi in corso di cui è parte lo Stato ed assicurano a quest’ultimo l’esito favorevole delle controversie, in quanto privano i ricorrenti della possibilità di ottenere il riconoscimento – come finora accaduto secondo il consolidato diritto vivente – della più favorevole liquidazione della pensione di reversibilità, così ponendosi in contrasto con il principio di certezza del diritto e dell’equo processo, di cui all’art. 6 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con l. 4 agosto 1955, n. 848 (d’ora in avanti “Cedu”) e all’art. 1 del protocollo addizionale, come interpretati dalla Corte europea dei diritti dell’uomo, in particolare con sent. 7 giugno 2011, emessa in causa Agrati e altri contro Italia.

2. La questione è manifestamente infondata.3. Essa, come risulta dal petitum formulato dal giudice a quo, concerne “la legittimità costituzionale dei

cc. 774 e 776 dell’art. 1 della l. n. 296/2006, nella parte in cui incidono sui giudizi pendenti alla data della loro

(1) V. la nota di G. de Marco, infra, 343.

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entrata in vigore, con riferimento all’art. 6 Cedu e all’art. 1 del prot. n. 1 della convenzione medesima, per violazione dell’art. 117 Cost., nei sensi di cui in motivazione”.

Pertanto, la norma impugnata è l’art. 1, cc. 774 e 776, l. n. 296/2006, cit.; il parametro costituzionale è l’art. 117, c. 1, Cost.; la normativa interposta (ex multis, sent. n. 78/2012; n. 349 e n. 348 del 2007) è costituita dall’art. 6 Cedu e dall’art. 1 del protocollo addizionale alla detta convenzione, come interpretati dalla Corte di Strasburgo.

Così individuato il thema decidendi, si deve osservare che, come del resto si evince dalla stessa ordinanza di rimessione, questa Corte è stata chiamata più volte a scrutinare la legittimità costituzionale della citata nor-mativa, pervenendo sempre a pronunzie di non fondatezza delle questioni (ex multis, n. 1/2011; n. 228/2010 e n. 74/2008).

In particolare, con la sent. n. 1/2011, questa Corte, dopo aver ricostruito il quadro normativo di riferimento anche sulla scorta del percorso argomentativo seguito dalla sent. n. 74/2008, ha ribadito, tra l’altro, i principi da tale pronuncia affermati e cioè che: a) l’abrogazione – ad opera del c. 776 dell’art. 1 della l. n. 296/2006 – dell’art. 15, c. 5, l. n. 724/1994, non poteva considerarsi irragionevole per contraddittorietà, “giacché essa risulta rispondente ad una esigenza di ordine sistematico imposta proprio dalle vicende che hanno segnato la sua applicazione”; b) inoltre, “potendo il legislatore, in sede di interpretazione autentica, modificare in modo sfavorevole, in vista del raggiungimento di finalità perequative, la disciplina di determinati trattamenti eco-nomici con esiti privilegiati senza per questo violare l’affidamento nella sicurezza giuridica (sent. n. 6/1994 e n. 282/2005), là dove, ovviamente l’intervento possa dirsi non irragionevole, nella specie è da escludersi una siffatta irragionevolezza anche perché l’assetto recato dalla norma denunciata riguarda anche il complessivo riequilibrio delle risorse e non può, pertanto, non essere attenta alle esigenze di bilancio”.

Ciò premesso, la sent. n. 1/2011 così prosegue: «venendo all’applicazione, da parte della Corte di Strasbur-go, dell’art. 6 Cedu, in relazione alle norme nazionali interpretative concernenti disposizioni oggetto di proce-dimenti nei quali è parte lo Stato, giova rammentare – come messo già in luce dalla sent. n. 311/2009 di questa Corte […] – che la legittimità di tali interventi è stata riconosciuta: 1) in presenza di “ragioni storiche epocali”, come nel caso della riunificazione tedesca, unitamente alla considerazione della sussistenza effettiva di un sistema che aveva garantito alle parti, che contestavano le modalità del riassetto, l’accesso a, e lo svolgimento di, un processo equo e garantito»; 2) “per ristabilire un’interpretazione più aderente all’originaria volontà del legislatore, al fine di porre rimedio ad una imperfezione tecnica della legge interpretata” […]. «Alla stregua di quanto evidenziato dalla citata sent. n. 311/2009, nella vicenda da essa scrutinata, i principi in materia richia-mati dalla giurisprudenza della Corte europea costituiscono espressione di quegli stessi principi di uguaglianza, in particolare sotto il profilo della parità delle armi nel processo, ragionevolezza, tutela del legittimo affidamen-to e della certezza delle situazioni giuridiche, che questa Corte ha escluso siano stati vulnerati dalla norma qui censurata. Peraltro, in quell’occasione si è anche soggiunto che l’identificazione dei “motivi imperativi d’inte-resse generale”, che suggeriscono al legislatore nazionale interventi interpretativi, è opportuno che sia in parte lasciata agli stessi Stati contraenti, trattandosi, tra l’altro, degli interessi che sono alla base dell’esercizio del potere legislativo, considerato che le decisioni in questo ambito implicano, infatti, una valutazione sistematica di profili costituzionali, politici, economici, amministrativi e sociali».

La sent. n. 1/2011 aggiunge che «Nella complessiva cornice dianzi tratteggiata, deve ritenersi che le denun-ciate norme di cui ai cc. 774-776 dell’art. 1 l. 29 dicembre 2006, n. 296, sono effettivamente interpretative e assumono come referente un orientamento giurisprudenziale presente, seppur minoritario, così da scegliere, “in definitiva, uno dei possibili significati della norma interpretata”. Inoltre, se si tiene presente che nella fattispe-cie vengono in evidenza rapporti di durata, non può parlarsi di un legittimo affidamento nella loro immutabilità, mentre d’altro canto si deve tenere conto del fatto che le innovazioni che sono state apportate, e che non hanno trascurato del tutto i diritti acquisiti, hanno non irragionevolmente mirato all’armonizzazione e perequazione di tutti i trattamenti pensionistici, pubblici e privati. La l. n. 335/1995, infatti, ha costituito il primo approdo di un progressivo riavvicinamento della pluralità dei sistemi pensionistici, con effetti strutturali sulla spesa pubblica e sugli equilibri di bilancio, anche ai fini del rispetto degli obblighi comunitari in tema di patto di stabilità economica finanziaria nelle more del passaggio alla moneta unica europea. L’intervento legislativo ha, poi, salvaguardato i trattamenti di miglior favore già definiti in sede di contenzioso, “con ciò garantendo non solo la sfera del giudicato, ma anche il legittimo affidamento che su tali trattamenti poteva dirsi ingenerato” (sent. n. 74/2008)».

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Infine, la sent. n. 1/2011 conclude – «in modo particolare e “determinante” – come posto in risalto anche nella sent. n. 311/2009 – il “processo equo” e con esso il “giusto processo” ha trovato concretezza ed effettività anche tramite l’incidente di costituzionalità in una duplice occasione “conclusasi con una dichiarazione di infondatezza della questione, rispetto a parametri costituzionali coerenti con la norma convenzionale, piena-mente compatibile, così interpretata, con il quadro costituzionale italiano”».

Come si vede, la sentenza da ultimo citata ha scrutinato la legittimità costituzionale della stessa normativa oggetto dell’ordinanza di rimessione, riscontrandone la compatibilità in riferimento al parametro costituzionale evocato.

Il collegio rimettente non ignora la sent. n. 1/2011, della quale riassume le argomentazioni. Sostiene, però, che esse, per un verso, «sembrerebbero postulare che la riforma operata con la l. n. 335/1995 possa qualificarsi come dettata da “ragioni storiche epocali” e, per altro verso, che il legislatore abbia inteso “porre rimedio ad una imperfezione tecnica della legge interpretata”».

Ad avviso del collegio, né l’una né l’altra proposizione darebbero “effettiva contezza della realtà storica e giuridica nella quale la norma di interpretazione autentica è andata ad incidere”.

La l. n. 335/1995 sarebbe, molto più modestamente, una norma di armonizzazione del sistema pensionisti-co che, pur nella sua innegabile rilevanza sotto il profilo degli equilibri finanziari del sistema medesimo, non potrebbe certo assurgere a ragione storica epocale.

In secondo luogo, dopo la sent. n. 8/2002 delle Sezioni riunite della Corte dei conti, la giurisprudenza non avrebbe più avuto alcun dubbio sulla corretta interpretazione delle norme che, pertanto, sarebbero state lette-ralmente sovvertite (a distanza di ben quattro anni dal 2002) dall’intervento del legislatore.

Da ultimo, questa Corte, nella sentenza sopra richiamata, non avrebbe potuto tenere conto dell’ulteriore sviluppo, in tema di art. 6 Cedu, della giurisprudenza della Corte Edu, nei termini richiamati e contenuti nella sentenza emessa dalla stessa Corte il 7 giugno 2011 nella causa Agrati e altri contro l’Italia, specialmente con riferimento alla qualificazione dell’aspettativa – in rapporti di durata – come “bene”, dalla cui lesione quindi deriva la violazione dell’art. 6 Cedu e dell’art. 1 del protocollo addizionale alla convenzione medesima.

Queste argomentazioni non possono essere condivise.Invero, non è esatto affermare che la sentenza di questa Corte n. 1/2011 abbia postulato che la riforma

realizzata con la l. n. 335/1995 sia da qualificare come dettata da “ragioni storiche epocali” o che il legislatore abbia inteso “porre rimedio ad una imperfezione tecnica della legge interpretata”.

Senza entrare in valutazioni concernenti la natura della suddetta riforma – che, peraltro, non sembra collo-cabile nell’ottica riduttiva adottata dall’ordinanza di rimessione – si deve osservare che la sentenza di questa Corte da ultimo citata, dopo avere affermato che le norme denunciate sono effettivamente interpretative, ha aggiunto che esse «assumono come referente un orientamento giurisprudenziale presente, seppur minoritario, così da scegliere, “in definitiva, uno dei possibili significati della norma interpretata”» (sent. n. 1/2011, punto 7 del Considerato in diritto). Così decidendo, essa si è ricollegata al costante orientamento giurisprudenziale, in forza del quale il legislatore può adottare norme di interpretazione autentica, non soltanto in presenza di incertezze sull’applicazione di una disposizione o di contrasti giurisprudenziali, ma anche “quando la scelta imposta dalla legge rientri tra le possibili varianti di senso del testo originario, con ciò vincolando un significato ascrivibile alla norma anteriore” (ex plurimis, sent. n. 209/2010; n. 24/2009; n. 170/2008 e n. 234/2007).

Infine, il collegio rimettente sostiene che questa Corte, con la sent. n. 1/2011, non avrebbe potuto tenere conto, ratione temporis, dell’ulteriore sviluppo, in tema di art. 6 Cedu, della giurisprudenza della Corte Edu, nei termini contenuti nella sentenza emessa da tale organo in causa Agrati e altri contro Italia del 7 giugno 2011, specialmente con riferimento alla qualificazione dell’aspettativa, nei rapporti di durata, come “bene”, dalla cui lesione deriverebbe la violazione dell’art. 6 Cedu e dell’art. 1 del protocollo addizionale alla convenzione medesima.

Tuttavia, il giudice a quo non chiarisce, se non con un assunto meramente assertivo, quale incidenza avreb-be il nuovo sviluppo giurisprudenziale rispetto all’assetto normativo precedente, e la motivazione sul punto è essenziale, specialmente ove si consideri che le normative oggetto della sentenza di questa Corte n. 1/2011 e della citata pronunzia della Corte Edu sono differenti.

Peraltro, anche a prescindere da quanto da ultimo affermato, si deve osservare che la Corte Edu, con la sentenza emessa nella causa Agrati e altri contro Italia, ha stabilito la seguente regola di diritto: “Se in linea di

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principio, il legislatore può regolamentare in materia civile, mediante nuove disposizioni retroattive, i diritti derivanti da leggi già vigenti, il principio della preminenza del diritto e la nozione di equo processo sancito dall’art. 6 ostano, salvo che per ragioni imperative di interesse generale, all’ingerenza del legislatore nell’am-ministrazione della giustizia allo scopo di influenzare la risoluzione di una controversia. L’esigenza della parità delle armi comporta l’obbligo di offrire ad ogni parte una ragionevole possibilità di presentare il suo caso, in condizioni che non comportino un sostanziale svantaggio rispetto alla controparte”.

Detto principio è già stato esaminato da questa Corte con riferimento a norme interpretative, quindi, con efficacia retroattiva concernenti, come in questo caso, la materia previdenziale.

Nelle sent. n. 15/2012 e n. 257/2011, infatti, questa Corte – con riferimento a questioni di legittimità co-stituzionale per certi versi analoghe a quella qui in esame – ha affermato, in relazione alla enunciata regola di diritto, che “Anche secondo la detta regola, dunque, sussiste lo spazio per un intervento del legislatore con efficacia retroattiva (fermi i divieti di cui all’art. 25 Cost.). Diversamente se ogni intervento del genere fosse considerato come indebita ingerenza allo scopo di influenzare la risoluzione di una controversia, la regola stes-sa sarebbe destinata a rimanere una mera enunciazione priva di significato concreto”.

Nel caso in esame, come prima osservato, il legislatore con la norma censurata ha scelto uno dei possibili significati della norma interpretata, seppure ascrivibile a un orientamento giurisprudenziale minoritario.

Alla stregua delle considerazioni che precedono la questione, dunque, va dichiarata nel suo complesso ma-nifestamente infondata, in quanto il rimettente non ha addotto nuove argomentazioni a sostegno delle censure già esaminate da questa Corte.

P.m.q., la Corte costituzionale, dichiara manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 1, cc. 774 e 776, l. 27 dicembre 2006, n. 296 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale – legge finanziaria 2007), sollevata dalla Corte dei conti, Sezione giurisdizionale d’appello per la Regione siciliana, in riferimento all’art. 117, c. 1, Cost., in relazione all’art. 6 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali e all’art. 1 del protocollo addizionale alla convenzione medesima, con l’ordinanza indicata in epigrafe.

* * *

Pensioni di reversibilità e indennità integrativa speciale (in margine a Corte cost. n. 227/2014)

1. La sentenza in commento rappresenta l’ultimo capitolo, in ordine di tempo, di un travagliato percorso legislativo e giurisprudenziale che, ormai da lustri, continua a snodarsi intorno al tema della corresponsione dell’indennità integrativa speciale sulle pensioni di reversibilità riferite a pensioni dirette aventi decorrenza anteriore al 1995.

Vale la pena ripercorrere le principali tappe di questo percorso, evidenziando i problemi applicativi e interpretativi che si sono posti al riguardo, nonché le modalità con cui sono stati variamente risolti.

2. Com’è noto, l’art. 15 l. 23 dicembre 1994, n. 724, al c. 3 disponeva che “in attesa dell’armonizzazione delle basi contributive e pensionabili previste dalle diverse gestioni obbligatorie dei settori pubblico e privato, con decorrenza dall’1 gennaio 1995, per i dipendenti delle amministrazioni pubbliche di cui all’art. 1 d.lgs. 3 febbraio 1993, n. 29 e successive modificazioni e integrazioni, iscritti alle forme di previdenza esclusive dell’assicurazione generale obbligatoria, nonché per le altre categorie di dipendenti iscritti alle predette forme di previdenza, la pensione spettante viene determinata sulla base degli elementi retributivi assoggettati a contribuzione, ivi compresa l’indennità integrativa speciale […]”. Al c. 4 prevedeva poi che “la pensione di cui al c. 3, è reversibile con riferimento alle categorie dei superstiti aventi diritto in base all’aliquota in vigore nel regime dell’assicurazione generale obbligatoria per l’invalidità, la vecchiaia e i superstiti”. Al c. 5, infine, dettava una norma di salvaguardia secondo cui “le disposizioni relative alla corresponsione della indennità integrativa speciale sui trattamenti di pensione previste dall’art. 2 l. 27 maggio 1959, n. 324, e successive modificazioni e integrazioni, sono applicabili limitatamente alle pensioni dirette liquidate fino al 31 dicembre 1994 e alle pensioni di reversibilità a esse riferite”.

Si operava, così, a partire dall’1 gennaio 1995, il “conglobamento” dell’indennità integrativa speciale nella retribuzio-ne, ai fini della liquidazione della pensione: l’indennità in parola non era più corrisposta “in aggiunta” alla pensione, quale voce accessoria, ma diventava per così dire “pensionabile” essa stessa, secondo le stesse aliquote previste per la pensione

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base. Contribuiva quindi a determinare il calcolo della pensione, come lo stipendio, confluendo indistintamente nella pen-sione stessa.

In via di estrema semplificazione, un dipendente che percepiva in servizio una retribuzione utile a pensione di 100 e un’indennità integrativa speciale di 50, con il massimo dell’anzianità (aliquota dell’80 per cento) otteneva fino al 1994 la liquidazione di una pensione di 80 in aggiunta a cui gli era corrisposta l’indennità integrativa speciale di 50 (in totale: 130), mentre dal 1995 otteneva una pensione pari a 120 (l’80 per cento di 150).

Il “conglobamento” valeva, però, solo per le “nuove” pensioni dirette e solo per le reversibilità ad esse relative. Infatti, in virtù della clausola di salvaguardia di cui al c. 5, le pensioni di reversibilità, se riferite a una pensione ante 1995, cioè a una pensione in aggiunta alla quale continuava ad essere corrisposta l’indennità integrativa speciale, rimanevano discipli-nate dalle “vecchie” regole.

3. A pochi mesi di distanza era poi intervenuto l’art. 1, c. 41, l. 8 agosto 1995, n. 335 (entrato in vigore il 17 agosto 1995).

La nuova disposizione stabiliva, tra l’altro, che “la disciplina del trattamento pensionistico a favore dei superstiti di assicurato e pensionato vigente nell’ambito del regime dell’assicurazione generale obbligatoria è estesa a tutte le forme esclusive o sostitutive di detto regime”. Introduceva, inoltre, dei limiti di cumulabilità con gli altri redditi del percipiente (in base alla tabella F annessa alla legge), facendo comunque salvi i trattamenti previdenziali più favorevoli in godimento alla data di entrata in vigore della legge stessa, con riassorbimento sui futuri miglioramenti.

Le reversibilità dei dipendenti pubblici erano quindi liquidate, da allora in avanti, secondo le stesse regole previste per i dipendenti privati nel regime dell’a.g.o.

In applicazione di quest’ultima norma (prendendo a riferimento il caso più frequente, vale a dire quello del solo coniu-ge superstite senza altri aventi diritto in concorso alla pensione di reversibilità), l’Inpdap a partire dal 17 agosto 1995 ha liquidato le pensioni della specie nella misura del 60 per cento del trattamento pensionistico complessivamente percepito dal dante causa, indipendentemente dalla decorrenza della pensione diretta e indipendentemente dalla presenza o meno dell’indennità integrativa speciale quale voce aggiuntiva alla pensione (voce che, di fatto, veniva quindi ad essere “conglo-bata” nella pensione di reversibilità).

Riprendendo l’esempio già proposto in precedenza, in presenza di un pensionato ante 1995, deceduto dal 17 agosto 1995 in poi, il quale percepiva la pensione diretta di 80 più l’indennità integrativa di 50, la vedova si vedeva ora liquidare una reversibilità di 78 (pari al 60 per cento di 130, cioè di 80+50), anziché quella di 40 (il 50 per cento di 80) maggiorata dell’intera indennità integrativa speciale di 50 (per un trattamento complessivo di 90).

L’impostazione dell’Inpdap, però, fu subito contestata dai superstiti interessati, i quali ritenevano che la speciale di-sposizione di “salvezza” e “ultravigenza”, relativa alle reversibilità riferite a pensioni dirette ante 1994, non fosse stata superata dalla riforma dell’agosto 1995.

4. Ne scaturì l’introduzione di un contenzioso di tipo seriale dinanzi alla Corte dei conti in veste di giudice delle pen-sioni pubbliche.

Il contenzioso verteva, per l’appunto, sulle modalità con cui liquidare una pensione di reversibilità, dopo il 17 agosto 1995, nel caso in cui la pensione diretta del coniuge fosse stata liquidata entro il 31 dicembre 1994.

Da un lato, i pensionati ricorrenti invocavano l’applicazione del citato art. 15, c. 5, l. n. 724/1994 (chiedendo, così, di non “conglobare” l’indennità integrativa speciale nella pensione complessiva, bensì di corrisponderla quale assegno accessorio e dunque in misura piena); dall’altro lato, invece, gli enti di previdenza insistevano nel senso che la suddetta disposizione di favore era stata implicitamente abrogata dal citato art. 1, c. 41, l. n. 335/1995, per cui l’indennità integrativa speciale doveva essere conglobata nella pensione “base” e resa reversibile, in uno con essa, secondo l’aliquota prevista.

Sulla problematica si registrarono, inizialmente, alcune pronunce difformi e furono perciò interessate le Sezioni riunite della Corte dei conti, le quali con sent. n. 8/2002, nel dare soluzione alla relativa “questione di massima”, affermarono il seguente principio di diritto: “In ipotesi di decesso di pensionato, titolare di trattamento di riposo, liquidato prima del 31 dicembre 1994, il consequenziale trattamento di reversibilità deve essere in ogni caso liquidato secondo le norme di cui all’art. 15, c. 5, l. 23 dicembre 1994, n. 724, indipendentemente dalla data della morte del dante causa. L’art. 1, c. 41, l. 8 agosto 1995, n. 335, non ha effetto abrogativo dell’art. 15, c. 5, l. 23 dicembre 1994, n. 724”.

Si affermava, quindi, l’ultravigenza della legge speciale anteriore (del dicembre 1994) rispetto alla legge generale po-steriore (del dicembre 1995), in ossequio al noto brocardo lex posterior generalis non derogat priori speciali.

Successivamente, la giurisprudenza contabile si è pressoché costantemente pronunciata accogliendo i ricorsi degli in-

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teressati, uniformandosi al principio di diritto affermato dalle Sezioni riunite, principio che si andò quindi definitivamente consolidando negli anni successivi.

5. V’è da precisare, per completezza d’argomento, che non sempre, in concreto, la nuova disciplina introdotta dall’art. 1, c. 41, era deteriore rispetto alla precedente. Al contenzioso seriale di partenza si aggiunse, quindi, uno strascico conten-zioso “di ritorno”, allorché l’accoglimento dei ricorsi volti ad ottenere la salvaguardia delle “vecchie” regole si risolveva, di fatto, in un peggioramento del trattamento complessivo (per tutte, cfr. Sez. giur. reg. Piemonte, 9 luglio 2007, n. 193), almeno secondo l’impostazione degli enti di previdenza. Ciò accadeva, in particolare, in due casi.

Una prima fattispecie si verificava allorché la pensione diretta fosse di importo particolarmente elevato (superiore al quadruplo) rispetto all’indennità integrativa speciale; in questo caso, infatti, facendo sempre riferimento all’esempio classi-co della vedova da sola, l’aumento in termini di indennità integrativa speciale (che, una volta riconosciuta come voce acces-soria anziché essere conglobata, tornava ad essere corrisposta al 100 per cento, anziché secondo l’aliquota di reversibilità del 60 per cento) non era tale da compensare la contestuale perdita derivante dalla riduzione dell’aliquota di reversibilità della pensione “base”, che scendeva dal 60 per cento (nuova aliquota dell’a.g.o.) al 50 per cento (vecchia aliquota del si-stema pubblico). Ciò nel presupposto che la “nuova” e la “vecchia” disciplina dovessero applicarsi unitariamente e che non fosse quindi possibile mantenere l’indennità integrativa speciale come voce accessoria applicando al contempo la nuova aliquota dell’a.g.o. pari al 60 per cento (contra, però, v. Sez. giur. reg. Piemonte, 12 dicembre 2006 n. 297).

Una seconda fattispecie, che poteva ben coesistere con la precedente, si verificava allorché la vedova fosse a sua volta titolare di un’altra pensione diretta liquidata ante 1995 in aggiunta alla quale fosse corrisposta l’indennità integrativa spe-ciale (non “conglobata”). In questo caso, infatti, l’Istituto di previdenza, una volta scorporata l’indennità dalla pensione in esecuzione delle sentenze di accoglimento, ne disponeva la sospensione del pagamento per la parte superiore al c.d. “minimo Inps”, perché ritenuta non cumulabile con l’altra analoga indennità percepita dal superstite sull’altro trattamento di pensione (in base al ben noto “divieto” sancito dall’art. 99, c. 2, del “t.u. delle norme sul trattamento di quiescenza dei dipendenti civili e militari dello Stato”, approvato con d.p.r. 29 dicembre 1973, n. 1092). In altri termini, per chi divenisse titolare di due pensioni con indennità integrativa speciale, dopo il 1995 il “conglobamento” dell’indennità integrativa spe-ciale nel trattamento di reversibilità, per quanto ne comportasse in astratto la riduzione al 60 per cento, di fatto superava il problema della cumulabilità, rivelandosi così vantaggioso rispetto al “vecchio” regime.

6. Ad ogni modo, anche dopo la ricordata sent. n. 8/2002, gli enti di previdenza continuarono a resistere in sede conten-ziosa, insistendo per l’abrogazione implicita del citato art. 15, c. 5, l. n. 724/1994. Contenzioso in cui erano, però, sistema-ticamente soccombenti, fino a quando la tesi interpretativa sempre propugnata dall’amministrazione e coltivata dinanzi al giudice, non trovò conferma direttamente nella legge.

Infatti, con l’art. 1, c. 774, l. 27 dicembre 2006, n. 296 (legge finanziaria 2007), il legislatore ha dettato la seguente norma di interpretazione autentica: “L’estensione della disciplina del trattamento pensionistico a favore dei superstiti di assicurato e pensionato vigente nell’ambito del regime dell’assicurazione generale obbligatoria a tutte le forme esclusive e sostitutive di detto regime prevista dall’art. 1, c. 41, l. 8 agosto 1995, n. 335, si interpreta nel senso che per le pensioni di reversibilità sorte a decorrere dall’entrata in vigore della l. 8 agosto 1995, n. 335, indipendentemente dalla data di de-correnza della pensione diretta, l’indennità integrativa speciale già in godimento da parte del dante causa, parte integrante del complessivo trattamento pensionistico percepito, è attribuita nella misura percentuale prevista per il trattamento di reversibilità”.

L’interpretazione autentica del c. 774 era accompagnata da altre due disposizioni a essa correlate: il c. 775, da un lato, garantiva la “salvezza” dei trattamenti pensionistici più favorevoli in godimento, già definiti in sede di contenzioso, con riassorbimento sui futuri miglioramenti pensionistici; il c. 776, dall’altro lato, disponeva tout court l’abrogazione espressa del citato art. 15, c. 5, l. n. 724/1994.

7. Nel contesto giurisprudenziale descritto, già all’indomani dell’emanazione della suddetta norma di interpretazione autentica (e delle altre due disposizioni ad essa abbinate) furono sollevati dubbi di legittimità costituzionale (cfr. Sez. giur. reg. Sicilia, ord. 11 gennaio 2007, n. 13; Sez. giur. reg. Puglia, ord. 25 gennaio 2007, n. 7) mentre altre pronunce procede-vano a decidere direttamente nel merito facendo immediata applicazione delle nuove disposizioni (Sez. giur. reg. Calabria, 31 gennaio 2007, n. 68; Sez. giur. reg. Piemonte, 16 gennaio 2007, n. 14; Sez. giur. reg. Valle d’Aosta, 8 marzo 2007, n. 9; Sez. giur. reg. Lazio, 26 marzo 2007, n. 413; Sez. giur. reg. Liguria, 4 aprile 2007, n. 336; Sez. giur. reg. Emilia-Romagna, 23 aprile 2007, n. 331; Sez. giur. reg. Toscana, 11 aprile 2007, n. 329; Sez. giur. reg. Friuli-Venezia Giulia, 12 aprile 2007, n. 218; Sez. giur. reg. Sardegna, 23 marzo 2007, n. 306; Sez. giur. reg. Marche, 16 aprile 2007, n. 223).

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La Corte costituzionale, investita della questione, con sent. n. 74 del 12-28 marzo 2008 dichiarò non fondate le solle-vate questioni di legittimità costituzionale, osservando che: la norma censurata aveva scelto, in definitiva, uno dei possibili significati della norma interpretata; nel contesto di siffatta operazione, non poteva reputarsi contraddittoria, e dunque irra-gionevole, l’abrogazione – ad opera del c. 776 dell’art. 1 l. n. 296/2006 – del c. 5 dell’art. 15, cit., giacché essa risultava rispondente ad una esigenza di ordine sistematico imposta proprio dalle vicende che avevano segnato la sua applicazione; il legislatore, in sede di interpretazione autentica, può modificare in modo sfavorevole, in vista del raggiungimento di finalità perequative, la disciplina di determinati trattamenti economici con esiti privilegiati senza per questo violare l’affidamento nella sicurezza giuridica (Corte cost., n. 6/1994, e n. 282/2005), là dove, ovviamente, l’intervento possa dirsi non irragio-nevole. Nel caso in esame, la Consulta non ravvisava una l’irragionevolezza dell’intervento, anche per il fatto che l’assetto recato dalla norma denunciata riguardava il complessivo riequilibrio delle risorse e non poteva, pertanto, non essere attenta alle esigenze di bilancio; del resto, con il c. 775 il legislatore aveva salvaguardato i trattamenti di miglior favore già definiti in sede di contenzioso, con ciò garantendo non solo la sfera del giudicato, ma anche il legittimo affidamento che “su tali trattamenti soltanto poteva dirsi ingenerato”.

Cade opportuno evidenziare, in particolare, quest’ultimo enunciato in ordine al “legittimo affidamento”: affidamento che, evidentemente, secondo la Corte costituzione, poteva configurarsi solo a fronte di un diritto già acquisito al patrimonio dei titolari della pensione di reversibilità (per effetto di un contenzioso definito con valore di giudicato), ma non a fronte di un orientamento giurisprudenziale che non aveva (ancora) trovato alcuna applicazione utile con riferimento alle specifiche posizioni giuridiche ancora sub iudice.

Deve darsi atto, in proposito, che gli enti di previdenza avevano sempre interpretato ed applicato la normativa in discor-so, fin dalla sua emanazione nel 1995, nel senso poi avallato dal legislatore con l’interpretazione autentica; a ben vedere, quindi, il contenzioso instauratosi dinanzi alla Corte dei conti non verteva sul “ripristino” di una posizione favorevole, inizialmente riconosciuta ai pensionati e poi arbitrariamente soppressa (con lesione del correlato affidamento), ma sulla pretesa applicazione di una normativa eccezionale (ritenuta non applicabile dall’Inpdap, contrariamente alla giurispruden-za) di cui i ricorrenti non avevano, in effetti, mai beneficiato.

In quest’ottica, cioè, l’affidamento non sarebbe configurabile in relazione a benefici meramente “sperati”, in virtù di orientamenti giurisprudenziali favorevoli, essendo irrilevante che le correlate pretese siano state già azionate in sede con-tenziosa qualora, in concreto, l’interessato non abbia mai fruito del bene della vita oggetto di pretesa giudiziaria, essendogli esso stato negato dall’amministrazione, con indirizzo costante.

8. Dopo la pronuncia della Corte costituzionale n. 74/2008, una parte della giurisprudenza contabile ha proseguito nel dare applicazione concreta al “pacchetto” di disposizioni di cui ai citati cc. 774, 775 e 776.

L’attenzione si è concentrata, piuttosto che sui profili di costituzionalità, sugli effetti delle nuove disposizioni (e, in particolare, del c. 776) sul piano sistematico e segnatamente in relazione all’annosa questione dei limiti al cumulo delle indennità integrative speciali percepite su più pensioni, pervenendo a soluzioni variegate (v. Sez. I centr. app., 7 luglio 2008, n. 295; Sez. II centr. app., 25 luglio 2008, n. 252; Sez. III centr. app., 22 agosto 2008, n. 238; Sez. app. reg. Sicilia, 2 maggio 2008, n. 176; Sez. giur. reg. Lombardia, 17 novembre 2008, n. 829; Sez. giur. reg. Toscana, 19 maggio 2008, n. 350; Sez. giur. reg. Abruzzo, 22 settembre 2008, n. 348; Sez. giur. reg. Puglia, 8 luglio 2008, n. 553; Sez. giur. reg. Liguria, 22 ottobre 2008, n. 606; Sez. giur. reg. Marche, 15 dicembre 2008, n. 489; Sez. giur. reg. Piemonte, 12 febbraio 2009, n. 29).

Va ricordato, infatti, che la stessa Corte costituzionale, nel frattempo investita di alcune delle molteplici questioni di legittimità costituzionale afferenti al divieto di cumulo di più indennità integrative su più pensioni, aveva restituito gli atti alle remittenti sezioni della Corte dei conti affinché valutassero la persistente rilevanza delle sollevate questioni di legitti-mità costituzionale alla luce delle nuove norme in parola. In particolare, nell’ord. n. 119 del 14-24 aprile 2008 la Consulta aveva osservato “che la citata abrogazione dell’art. 15, c. 5, l. n. 724/1994 ha, di fatto, eliminato anche il riferimento alla perdurante applicabilità – quanto alle pensioni dirette liquidate fino al 31 dicembre 1994 e a quelle di reversibilità a esse riferite – delle disposizioni relative alla corresponsione dell’indennità integrativa speciale sui trattamenti di pensione pre-viste dall’art. 2 l. n. 324/1959 e successive modificazioni”.

In tema, si sono quindi a loro volta pronunciate le Sezioni riunite della Corte dei conti le quali, con sent. 26 febbraio 2009, n. 1/Qm, non dubitando della legittimità costituzionale della normativa in parola (a seguito della citata sentenza della Corte cost., n. 74/2008), hanno ritenuto che la disciplina sulla indennità integrativa speciale, precedente all’entrata in vigore dei cc. 774 ss., rimanesse applicabile fino al 31 dicembre 2006, mentre per il periodo successivo, cessata per le pensioni di reversibilità l’applicabilità della norma abrogata dal c. 776, non potesse essere riliquidata l’indennità integrativa speciale su tale pensione in godimento, applicandosi peraltro, ricorrendone i presupposti, la disposizione del c. 775.

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347

La Corte costituzionale, a sua volta, investita ancora una volta delle questioni di legittimità del “divieto di cumulo”, le ha dichiarate in parte inammissibili e in parte infondate, nel merito, con sent. n. 197 del 26 maggio-4 giugno 2010.

La giurisprudenza contabile si è quindi definitivamente consolidata per la sussistenza del divieto in discorso, indipen-dentemente dalle vicende riguardanti la norma di interpretazione autentica di cui al citato c. 774 (Sez. riun., 11 luglio 2003, n. 14; 22 febbraio 2006, n. 2; 26 febbraio 2009, n. 1; Sez. I centr. app., 25 ottobre 2010, n. 589; Sez. II centr. app., 25 ottobre 2010, n. 427; Sez. III centr. app., 11 novembre 2010, n. 770; Sez. app. reg. Sicilia, 15 dicembre 2010, n. 253).

9. La Corte costituzionale, nel frattempo, aveva poi avuto modo di riprendere in esame altri profili di legittimità costi-tuzionale degli stessi cc. 774 ss., sollevati con ordinanze della Sez. giur. reg. Lazio, Sez. giur. reg. Emilia-Romagna e Sez. II centr. app., pervenendo a soluzioni sempre negative (cfr. n. 228 del 21-24 giugno 2010 e n. 1 del 5-12 gennaio 2011), anche in relazione all’asserito contrasto delle disposizioni denunciate con il principio del giusto processo quale desumibile anche dall’art. 6 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo (Cedu) le cui norme integrano, quali “norme interposte”, il parametro costituzionale espresso dall’art. 117, c. 1, Cost., nella parte in cui impone il rispetto dei vincoli derivanti dagli “obblighi internazionali”.

10. Successivamente, tuttavia, nuovi spunti di valutazione circa la legittimità costituzionale dei cc. 774 ss., in discorso, sono stati tratti dalla sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo del 7 giugno 2011 sui ricorsi n. 43549/2008, n. 6107/2009 e n. 5087/2009 (Agrati e altri c. Italia).

La vicenda sottoposta alla Cedu si incentrava sulla interpretazione autentica dell’art. 8, c. 2, l. 3 maggio 1999, n. 124 (in materia di inquadramento del personale degli enti locali trasferito nei ruoli Ata statali), recata dall’art. 1, c. 218, l. 23 di-cembre 2005, n. 266 (legge finanziaria 2006). Come riepilogato nella stessa pronuncia della Cedu, su quest’ultima norma di “interpretazione autentica” si era registrata una divergenza di valutazioni tra la Corte costituzionale e la Corte di cassazione: la prima, benché specificamente sollecitata dalla seconda, aveva infatti ritenuto conformi a Costituzione le disposizioni censurate (n. 234/2007 e n. 311/2009).

Le parti interessate si erano quindi rivolte alla Corte europea lamentando innanzi tutto la violazione dell’art. 6, par. 1, della Convenzione europea per i diritti umani secondo cui “Ogni persona ha diritto che la propria causa sia esaminata equamente (…) da un tribunale (…), che deciderà (…) le controversie sui diritti ed obblighi di natura civile della stessa”.

L’adita Corte sovranazionale ha riconosciuto, in linea di principio, al potere legislativo la possibilità di regolamentare in materia civile, con nuove disposizioni dalla portata retroattiva, diritti risultanti da leggi in vigore. Tuttavia, ha osservato che il principio della preminenza del diritto e il concetto di processo equo sanciti dall’art. 6 ostano, salvo che per imperative ragioni di interesse generale, all’ingerenza del potere legislativo nell’amministrazione della giustizia al fine di influenzare l’esito giudiziario di una controversia; inoltre l’esigenza della parità delle armi implica l’obbligo di offrire a ciascuna parte una ragionevole possibilità di presentare la propria causa senza trovarsi in una situazione di netto svantaggio rispetto alla controparte. Nel caso di specie, ad avviso della Corte europea, l’adozione della legge finanziaria 2006 aveva direttamente definito il merito delle controversie pendenti, rendendo vana la prosecuzione dei procedimenti; ciò tuttavia era avvenuto in mancanza di una “ragione imperativa d’interesse generale”, con una “disposizione di interpretazione autentica diversa dal testo da interpretare e contraria all’interpretazione costante della Corte di cassazione”, con lo scopo unico “di difendere l’interesse finanziario dello Stato riducendo il numero di procedimenti pendenti dinanzi agli organi giudiziari”.

I ricorrenti lamentavano altresì la violazione dell’art. 1 del protocollo n. 1 alla Convenzione, secondo cui “Ogni per-sona fisica o giuridica ha diritto al rispetto dei propri beni. Nessuno può essere privato della proprietà se non per causa di pubblica utilità e alle condizioni previste dalla legge e dai principi generali del diritto internazionale. Le disposizioni precedenti non portano pregiudizio al diritto degli Stati di porre in vigore le leggi da essi ritenute necessarie per disciplinare l’uso dei beni in modo conforme all’interesse generale o per assicurare il pagamento delle imposte o di altri contributi o delle ammende”.

Al riguardo, la Cedu ha osservato che: tenuto conto della giurisprudenza dei giudici nazionali all’epoca vigente, i ricorrenti erano titolari di un interesse patrimoniale che costituiva, se non un credito nei confronti della controparte, perlo-meno la “legittima speranza” di ottenere il pagamento delle somme controverse, e aveva quindi carattere di “bene” ai sensi della prima frase dell’art. 1, del Protocollo n. 1; la legge di “interpretazione autentica” definiva il merito della controversia pendente e comportava quindi un’ingerenza nell’esercizio dei diritti che i ricorrenti potevano far valere in virtù della legge e della giurisprudenza in vigore e, pertanto, del loro diritto al rispetto dei loro beni; l’ingerenza non era motivata da una “causa di pubblica utilità” e gravava gli interessati di un onere anomalo ed esorbitante portando ai loro beni un “attacco sproporzionato e tale da rompere il giusto equilibrio tra le esigenze dell’interesse generale e la salvaguardia dei diritti fon-damentali degli individui”.

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11. La Sezione d’appello per la Regione Sicilia, facendo riferimento ai principi desumibili dalla richiamata sentenza “Agrati” (successiva anche alla pronuncia n. 1/2011), ha ritenuto che vi fossero elementi sufficienti a proporre nuovamente la questione di legittimità costituzionale dei cc. 774 ss. (che, ad avviso della sezione remittente, in assenza di “motivi im-perativi d’interesse generale” e di “un ragionevole rapporto di proporzionalità tra i mezzi impiegati e lo scopo perseguito, restando indimostrati gli apprezzabili effetti contenitivi della spesa pubblica nel settore previdenziale”, erano intervenuti sui giudizi in corso di cui è parte lo Stato assicurando a quest’ultimo l’esito favorevole delle controversie e privando i ri-correnti della possibilità di ottenere il riconoscimento – come fino ad allora accaduto secondo il consolidato diritto vivente – della più favorevole liquidazione della pensione di reversibilità).

La Corte costituzionale, tuttavia, con la sentenza che qui si commenta, ha ribadito che nel caso di specie la violazione dei parametri costituzionali invocati (rimasti invariati rispetto a quelli già scrutinati nelle proprie precedenti sentenze) non è ravvisabile, in considerazione non tanto della portata della riforma pensionistica del 1995 e degli interessi pubblici ad essa sottesi (che non sembrano collocabili in un’ottica riduttiva), quanto della già accertata compatibilità originaria dell’in-terpretazione indicata come corretta dal legislatore rispetto al testo della norma interpretata (non essendo stato attribuito ad essa alcun significato nuovo, estraneo al testo, con efficacia retroattiva), compatibilità che vale ad escludere, in radice, l’ingerenza “indebita” del potere legislativo sulla risoluzione delle controversie pendenti.

L’interpretazione autentica del c. 774 continua, pertanto, ad avere efficacia.

Gerardo de Marco

237 – Corte costituzionale; sentenza 16 ottobre 2014; Pres. Tesauro, Est. Amato; Provincia autonoma di Trento c. Pres. cons. ministri.

Impiegato dello Stato e pubblico in genere – Personale a tempo determinato – Misure per la riduzione del precariato – Procedure di stabilizzazione – Questioni di legittimità costituzionale – Infondatezza.

Cost., artt. 117, 118, 119; d.p.r. 31 agosto 1972 n. 670, approvazione del t.u. delle leggi costituzionali concer-nenti lo Statuto speciale per il Trentino-Alto Adige, artt. 8, 16, 79, 80, 81; d.lgs. 16 marzo 1992 n. 266, norme di attuazione dello Statuto speciale per il Trentino-Alto Adige concernenti il rapporto tra atti legislativi statali e leggi regionali e provinciali, nonché la potestà statale di indirizzo e coordinamento, art. 2; d.lgs. 16 marzo 1992 n. 268, norme di attuazione dello Statuto speciale per il Trentino-Alto Adige in materia di finanza regionale e provinciale, art. 17.

Sono infondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 4, c. 10, d.l. 31 agosto 2013 n. 101, conver-tito con modificazioni dalla l. 30 ottobre 2013 n. 125, il quale, per ridurre il precariato, limita, con disposizione espressiva della potestà statale in materia di coordinamento della finanza pubblica, l’utilizzo di personale temporaneo e ne favorisce, con procedure parzialmente riservate, la stabilizzazione, in riferimento agli artt. 8, n. 1, 16, 79, c. 3, 80 e 81 dello Statuto speciale per il Trentino-Alto Adige, all’art. 17 d.lgs. 16 marzo 1992 n. 268, all’art. 2 d.lgs. 16 marzo 1992 n. 266 e agli artt. 117, cc. 4 e 6, 118, 119, c. 1, Cost.

Considerato in diritto – 1. La Provincia autonoma di Trento, con ricorso notificato il 30 dicembre 2013 e depositato il 7 gennaio 2014, ha impugnato gli artt. 1, cc. 5 e 8, e 4, c. 10, d.l. 31 agosto 2013, n. 101 (Dispo-sizioni urgenti per il perseguimento di obiettivi di razionalizzazione nelle pubbliche amministrazioni), con-vertito, con modificazioni, dall’art. 1, c. 1, l. 30 ottobre 2013, n. 125, per violazione degli artt. 79, 103 e 104 dello Statuto speciale per il Trentino-Alto Adige (d.p.r. 31 agosto 1972, n. 670, recante “Approvazione del t.u. delle leggi costituzionali concernenti lo Statuto speciale per il Trentino-Alto Adige”); del titolo VI dello statuto speciale, in particolare degli artt. 79, 80 e 81, nonché delle relative norme di attuazione di cui agli artt. 17, 18 e 19 del d.lgs. 16 marzo 1992, n. 268 (Norme di attuazione dello Statuto speciale per il Trentino-Alto Adige in materia di finanza regionale e provinciale); degli artt. 87 e 88 dello statuto speciale, nonché del d.p.r. 15 luglio 1988, n. 305 (Norme di attuazione dello Statuto speciale per la regione Trentino-Alto Adige per l’istituzione delle sezioni di controllo della Corte dei conti di Trento e di Bolzano e per il personale ad esse addetto); degli artt. 8, n. 1, e 16 dello statuto speciale; del d.lgs. 16 marzo 1992, n. 266 (Norme di attuazione dello Statuto spe-ciale per il Trentino-Alto Adige concernenti il rapporto tra atti legislativi statali e leggi regionali e provinciali, nonché la potestà statale di indirizzo e coordinamento), in particolare degli artt. 2 e 4; degli artt. 117, cc. 3. 4

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e 6, 118 e 119, c. 1, Cost., in combinato disposto con l’art. 10 della l. cost. 18 ottobre 2001, n. 3 (Modifiche al titolo V della Parte seconda della Costituzione); del principio di ragionevolezza.

2. L’art. 1, c. 5, riguarda la spesa per studi e incarichi di consulenza sostenuta dalle amministrazioni pub-bliche dell’elenco Istat e prevede che venga ulteriormente decurtata, per gli anni 2014 e 2015, rispetto ai limiti derivanti dall’applicazione dell’art. 6, c. 7, d.l. 31 maggio 2010, n. 78 (Misure urgenti in materia di stabilizza-zione finanziaria e di competitività economica), convertito con modificazioni dall’art. 1, c. 1, l. 30 luglio 2010, n. 122.

3. Tale disposizione è impugnata dalla ricorrente solo a titolo cautelativo, per l’ipotesi in cui dovesse rite-nersi direttamente applicabile alla Provincia autonoma di Trento, in ragione del riferimento alle amministra-zioni pubbliche dell’elenco Istat.

3.1. In tal caso, ad avviso della difesa provinciale, sarebbe in contrasto con l’art. 79 dello statuto specia-le, perché introdurrebbe unilateralmente una misura di coordinamento della finanza pubblica, senza il previo accordo con la provincia e dunque in violazione della procedura rinforzata prevista dall’art. 104 dello statuto.

3.2. Si tratterebbe, inoltre, di una norma di dettaglio, che non lascerebbe al legislatore provinciale alcun margine di apprezzamento in sede di sua attuazione.

4. Le questioni relative all’art. 1, c. 5, non sono fondate.4.1. Il d.l. n. 101/2013, all’art. 12-bis, stabilisce che “Le regioni e le province autonome di Trento e di

Bolzano adeguano il proprio ordinamento alle disposizioni di principio desumibili dal presente decreto ai sensi dell’art. 117, c. 3, Cost., dei rispettivi statuti speciali e delle relative norme di attuazione” (c. 1); e che “Sono fatte salve le potestà attribuite alle regioni a statuto speciale ed alle province autonome di Trento e di Bolzano dai rispettivi statuti speciali e dalle relative norme di attuazione, nonché ai sensi degli artt. 2 e 10 l. cost. 18 ottobre 2001, n. 3” (c. 2).

Tale clausola di salvaguardia esclude la immediata cogenza delle disposizioni di principio poste dal decre-to, imponendo piuttosto un obbligo di adeguamento ad esse in capo alla provincia.

Nella specie, è questa la natura dell’art. 1, c. 5, il quale, pertanto, non ha applicazione diretta alla Provincia autonoma di Trento, con conseguente non fondatezza delle relative questioni di legittimità costituzionale.

Ciò è conforme alla costante giurisprudenza costituzionale sull’art. 6 d.l. n. 78/2010. Secondo la Corte, infatti, tale disposizione “stabilisce principi di coordinamento della finanza pubblica, in base all’art. 117, c. 3, Cost. (sent. n. 221 e n. 36 del 2013; n. 262, n. 217, n. 211 e n. 139 del 2012)” e “non lede l’autonomia finan-ziaria di regioni e province a statuto speciale (art. 119 Cost. e titolo VI dello Statuto del Trentino-Alto Adige)” (sent. n. 72/2014). Tra questi principi, in particolare, vi è quello posto dal c. 7, che impone di contenere le spese per studi ed incarichi di consulenza entro il 20 per cento del tetto raggiunto nel 2009.

Dell’art. 6, c. 7, l’impugnato art. 1, c. 5, riflette la medesima natura di norma di principio, sia perché esi-bisce un contenuto normativo analogo, ponendo anch’esso l’obbligo di limitare le spese per studi e incarichi di consulenza entro determinate percentuali del limite previsto per gli anni precedenti; sia perché si presenta anche funzionalmente connesso all’art. 6, c. 7, in quanto i tagli previsti sono rapportati ai limiti di spesa deter-minati proprio dall’applicazione di quest’ultima disposizione.

5. La ricorrente ha impugnato a titolo cautelativo anche l’art. 1, c. 8, che affida ad organi ministeriali il compito di effettuare visite ispettive per verificare il rispetto dei vincoli finanziari in materia di contenimento della spesa, denunciando alla Corte dei conti le irregolarità riscontrate.

5.1. Ad avviso della ricorrente, questa disposizione, nell’ipotesi in cui dovesse ritenersi direttamente ap-plicabile alla Provincia autonoma di Trento, sarebbe costituzionalmente illegittima “in via consequenziale”, in quanto prevederebbe un controllo sul rispetto di un vincolo incostituzionale.

5.2. Essa, inoltre, violerebbe il sistema dei rapporti tra Stato e Provincia quale delineato dallo statuto spe-ciale e dalle norme di attuazione, che non consentirebbe alla legge statale di introdurre unilateralmente, a carico della Provincia autonoma, controlli ad opera di organi ministeriali.

5.3. Sarebbe anche violato l’art. 79, c. 4, dello statuto speciale, il quale, con specifico riferimento al rispetto degli obblighi finanziari, dispone l’inapplicabilità alle province autonome delle disposizioni statali generali.

5.4. Sarebbe infine lesa l’autonomia organizzativa e finanziaria della provincia autonoma.

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6. Le questioni relative all’art. 1, c. 8, non sono fondate, nei termini di seguito precisati.6.1. Questa Corte ha dichiarato l’illegittimità costituzionale di norme che attribuivano ad apparati ispettivi

dell’amministrazione centrale poteri di verifica sul complesso delle attività amministrative e finanziarie degli enti territoriali (sent. n. 39/2014 e n. 219/2013).

Siffatte previsioni, infatti, eccedono i limiti del legittimo intervento del legislatore statale, in quanto attri-buiscono “non già ad un organo magistratuale terzo quale la Corte dei conti, bensì direttamente al governo un potere di verifica sull’intero spettro delle attività amministrative e finanziarie degli enti locali, sottraendolo, in tal modo, illegittimamente all’ambito riservato alla potestà normativa di rango primario delle ricorrenti regioni autonome” (sent. n. 39/2014).

6.2. Con specifico riguardo alle Province autonome di Trento e di Bolzano, poi, questa Corte ha riconosciu-to la spettanza a esse del potere ispettivo sulle unità sanitarie locali, in quanto riconducibile al più ampio potere di vigilanza, con la conseguente esclusione di un controllo aggiuntivo da parte del Ministero del tesoro (sent. n. 182/1997 e n. 228/1993).

6.3. È bensì vero che l’impugnato art. 1, c. 8, circoscrive tali verifiche al rispetto, da parte della provincia autonoma, dei vincoli finanziari in materia di contenimento della spesa previsti dal d.l. n. 101/2013 e non le estende all’intero spettro dell’attività amministrativa e finanziaria della ricorrente; nondimeno, tale disposizio-ne, ove applicata alla provincia autonoma, sarebbe in contrasto con l’art. 4 del d.lgs. n. 266/1992, ai sensi del quale, nelle materie di competenza propria della regione o delle province autonome, la legge non può attribuire agli organi statali funzioni amministrative, compresa quella di vigilanza, diverse da quelle spettanti allo Stato secondo lo statuto speciale e le relative norme di attuazione.

6.4. L’art. 1, c. 8, pertanto, non può ritenersi applicabile alla ricorrente in forza della clausola di cui all’art. 12-bis, la quale fa salve le potestà attribuite alle regioni ad autonomia speciale e alle province autonome dai ri-spettivi statuti e dalle relative norme di attuazione (c. 2) e dunque esclude che la Provincia autonoma di Trento sia tenuta ad attuare norme del decreto che interferirebbero con tali potestà.

7. L’art. 4, c. 10, stabilisce che “Le regioni, le province autonome e gli enti locali, tenuto conto del loro fabbisogno, attuano i cc. 6, 7, 8 e 9 nel rispetto dei principi e dei vincoli ivi previsti e tenuto conto dei criteri definiti con il decreto del Presidente del Consiglio dei ministri di cui al c. 5”.

7.1. La ricorrente lamenta l’illegittimità costituzionale di questa disposizione, perché le norme da essa richiamate, riguardando l’accesso alle pubbliche amministrazioni, non atterrebbero al coordinamento della finanza pubblica, ma all’organizzazione amministrativa e introdurrebbero limiti diversi da quelli costituzional-mente previsti, in violazione dell’autonomia legislativa, amministrativa e di spesa della Provincia autonoma.

8. Neppure le questioni relative all’art. 4, c. 10, sono fondate.9. Tale disposizione richiama alcuni commi del medesimo articolo che dettano una disciplina volta a ridurre

il precariato, limitando l’utilizzo di personale temporaneo e favorendone, con procedure parzialmente riserva-te, la stabilizzazione.

9.1. In particolare, il c. 6 prevede la possibilità per le pubbliche amministrazioni di bandire procedure con-corsuali, per assunzioni a tempo indeterminato di personale non dirigenziale, riservate a soggetti che abbiano svolto un certo periodo di servizio (almeno tre anni) a tempo determinato.

Questa Corte ha qualificato come principio fondamentale di coordinamento il limite – cui il c. 6 fa rinvio – previsto dall’art. 1, c. 558, l. 27 dicembre 2006, n. 296 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato – legge finanziaria 2007), che ammetteva alla stabilizzazione soltanto personale non diri-genziale che avesse già maturato tre anni di servizio alla data di entrata in vigore della medesima l. n. 296/2006 (in servizio in quel momento o alla luce del lavoro svolto nell’ambito del quinquennio precedente), ovvero che fosse destinato a maturarli in forza di contratti stipulati prima del 29 settembre 2006 (sent. n. 277/2013).

9.2. Il successivo c. 7 pone il criterio generale della preferenza per le assunzioni con contratti a tempo parziale.

Questa Corte, nello scrutinare una disposizione dal tenore in parte analogo, che sanciva un criterio di pri-orità “per l’attuazione dei processi assunzionali consentiti, disponendo che le amministrazioni pubbliche inte-ressate attingessero prioritariamente ai lavoratori a tempo determinato in regime di proroga, “salva motivata indicazione concernente gli specifici profili professionali richiesti”, ha rilevato come “Nel dare un’indicazione

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N. 5-6/2014 PARTE III – DOCUMENTAZIONE

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in termini di “priorità” rispetto ai lavoratori da assumere, infatti, il legislatore statale non pone vincoli rigidi, ma lascia alle singole amministrazioni la scelta in ordine alle assunzioni da operare, con la sola richiesta di mo-tivazione, ove necessitino di profili professionali specifici. Pertanto, non si tratta di una norma di dettaglio, ma di una norma che prescrive un criterio generale e impone di motivare le eventuali determinazioni regionali dif-formi da tale criterio” (sent. n. 89/2014). Il c. 7, pertanto, presenta la medesima natura di principio del c. 6, con il quale peraltro si trova in rapporto di stretta connessione, essendo preordinato a realizzarne meglio le finalità.

9.3. Il c. 8, a sua volta, stabilisce che le regioni predispongano un elenco di lavoratori socialmente utili e di giovani inoccupati dal quale gli enti territoriali che hanno vuoti in organico possano attingere per assunzioni a tempo indeterminato.

Anche questa disposizione, essendo finalizzata alla stabilizzazione dei lavoratori precari, è stata legittima-mente adottata dallo Stato nell’esercizio della sua competenza concorrente in materia di coordinamento della finanza pubblica (sent. n. 18/2013 e n. 310/2011).

9.4. Il c. 9, infine, prevede la possibilità di prorogare i contratti a tempo determinato, di cui all’art. 9, c. 28, d.l. n. 78/2010, per le pubbliche amministrazioni che abbiano programmato procedure concorsuali di stabiliz-zazione.

Questa Corte ha ripetutamente affermato che l’art. 9, c. 28, “pone un obiettivo generale di contenimento della spesa relativa a un vasto settore del personale, ma al contempo lascia alle singole amministrazioni la scel-ta circa le misure da adottare con riferimento ad ognuna delle categorie di rapporti di lavoro da esso previsti” (sent. n. 61/2014).

Si tratta, dunque, di un principio di coordinamento della finanza pubblica e il c. 9 ne riflette la medesima natura, trovandosi con esso in un rapporto di stretta imbricazione.

9.5. I commi richiamati dalla disposizione impugnata, pertanto, sia per le finalità perseguite, relative alla stabilizzazione dei lavoratori precari, sia per il loro collegamento con norme espressive della potestà statale in materia di coordinamento della finanza pubblica, sono parimenti disposizioni di principio e a esse, ai sensi della clausola di cui all’art. 12-bis, la provincia ha l’obbligo di adeguarsi, mediante la predisposizione delle fonti legislative e regolamentari necessarie alla loro attuazione.

9.6. Quanto al richiamato c. 5, questa disposizione rimette ad un d.p.c.m. la definizione dei criteri di ra-zionale distribuzione delle risorse che consentano alle pubbliche amministrazioni le assunzioni finalizzate alla stabilizzazione dei precari. Secondo la difesa provinciale, l’art. 4, c. 10, nel richiamare i criteri di cui al d.p.c.m. previsto dal c. 5, violerebbe il divieto di fonti secondarie statali nelle materie provinciali.

9.6.1. Neppure questa censura è fondata.9.6.2. Alla luce della clausola di salvaguardia, infatti, è la Provincia di Trento che deve adeguarsi all’art. 4,

c. 10. Ciò comporta che l’obbligo di adeguamento che grava in capo ad essa non è nei confronti del d.p.c.m. (che fra l’altro non risulta neppure adottato ed è al momento sostituito dalla circ. n. 5/2013 della Presidenza del consiglio), ma è nei confronti della sola fonte legislativa e cioè del predetto art. 4, c. 10.

Pertanto il rinvio al d.p.c.m. previsto dalla disposizione impugnata non opera nei confronti della provincia, la quale tuttavia deve assolvere al suo obbligo di adeguamento fissando con proprio atto interno i criteri di razionale distribuzione delle risorse.

P.q.m., la Corte costituzionale:1) dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 1, c. 5, d.l. 31 agosto 2013, n. 101

(Disposizioni urgenti per il perseguimento di obiettivi di razionalizzazione nelle pubbliche amministrazioni), convertito con modificazioni dall’art. 1, c. 1, l. 30 ottobre 2013, n. 125, promosse dalla Provincia autonoma di Trento, con il ricorso indicato in epigrafe, in riferimento agli artt. 8, n. 1), 16, 79, 80, 81 e 104 dello Statuto speciale per il Trentino-Alto Adige (d.p.r. 31 agosto 1972, n. 670, recante “Approvazione del t.u. delle leggi costituzionali concernenti lo Statuto speciale per il Trentino-Alto Adige”); all’art. 17 d.lgs. 16 marzo 1992, n. 268 (Norme di attuazione dello Statuto speciale per il Trentino-Alto Adige in materia di finanza regionale e provinciale); all’art. 2 d.lgs. 16 marzo 1992, n. 266 (Norme di attuazione dello Statuto speciale per il Trenti-no-Alto Adige concernenti il rapporto tra atti legislativi statali e leggi regionali e provinciali, nonché la potestà statale di indirizzo e coordinamento); agli artt. 117, c. 3 e 4, e 119, c. 1, Cost.;

2) dichiara non fondate, nei sensi di cui in motivazione, le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 1, c. 8, d.l. n. 101/2013, convertito con modificazioni dall’art. 1, c. 1, l. n. 125/2013, promosse dalla Provincia

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autonoma di Trento, con il ricorso indicato in epigrafe, in riferimento agli artt. 8, n. 1), 79, c. 4, 87 e 88 dello Statuto speciale per il Trentino-Alto Adige; al titolo VI dello statuto speciale; al d.p.r. 15 luglio 1988, n. 305 (Norme di attuazione dello Statuto speciale per la regione Trentino-Alto Adige per l’istituzione delle sezioni di controllo della Corte dei conti di Trento e di Bolzano e per il personale ad esse addetto); all’art. 4 d.lgs. n. 266/1992; agli artt. 117, c. 4, e 119 Cost.; al principio di ragionevolezza;

3) dichiara non fondate, nei sensi di cui in motivazione, le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 4, c. 10, d.l. n. 101/2013, convertito con modificazioni dall’art. 1, c. 1, l. n. 125/2013, promosse dalla Provincia autonoma di Trento, con il ricorso indicato in epigrafe, in riferimento agli artt. 8, n. 1, 16, 79, c. 3, 80 e 81 dello Statuto speciale per il Trentino-Alto Adige; all’art. 17 d.lgs. n. 268/1992; all’art. 2 d.lgs. n. 266/1992; agli artt. 117, c. 4 e 6, 118 e 119, c. 1, Cost.

263 – Corte costituzionale; sentenza 26 novembre 2014; Pres. Napolitano, Est. Coraggio; Pres. cons. ministri c. Provincia autonoma di Trento.

Regione in genere e regioni a statuto ordinario – Gruppi politici dei consigli regionali – Rendiconti rela-tivi all’esercizio finanziario 2013 – Attività di controllo – Spettanza alla Corte dei conti.

Cost., artt. 114, 117, 119, 121, 123; l. 22 maggio 1971, approvazione, ai sensi dell’art. 123, c. 2, Cost., dello Statuto della Regione Basilicata, artt. 11, 15, 21; l. reg. Basilicata 21 dicembre 2012 n. 28, recepimento d.l. n. 174/2012, convertito dalla l. 7 dicembre 2012 n. 213. Modifiche alla l. reg. 2 febbraio 1998 n. 8.

Spetta alla Corte dei conti, Sezione regionale di controllo per la Basilicata, anche sulla base dei criteri introdotti dalla l. reg. Basilicata 21 dicembre 2012 n. 28, la verifica della regolarità dei rendiconti consiliari regionali, effettuata con le deliberazioni dalla n. 51 alla n. 60 del 18 marzo 2014, con le quali è stato esercitato il controllo sui menzionati rendiconti relativi all’esercizio finanziario 2013 (in motivazione, si precisa che la censura regionale con la quale è stata dedotta la violazione, ad opera delle deliberazioni impugnate, di norme di legge statali e regionali riguardanti il costo massimo del personale integra la mera denunzia di una errata interpretazione della disciplina legale della materia e, in quanto tale, deve essere fatta valere nella appropria-ta sede giurisdizionale e non in sede di conflitto di attribuzione). (1)

Considerato in diritto – 1. La Regione Basilicata ha promosso conflitto di attribuzione nei confronti dello Stato in relazione alle dieci deliberazioni assunte dalla Corte dei conti, Sezione regionale di controllo per la Basilicata (dalla n. 51 alla n. 60 del 18 marzo 2014), con cui − in forza dell’art. 1, cc. 9, 10, 11 e 12, d.l. 10 ottobre 2012, n. 174 (Disposizioni urgenti in materia di finanza e funzionamento degli enti territoriali, nonché ulteriori disposizioni in favore delle zone terremotate nel maggio 2012), convertito con modificazioni dall’art. 1, c. 1, della l. 7 dicembre 2012, n. 213 − è stato esercitato il controllo sui rendiconti dei gruppi consiliari re-gionali relativi all’esercizio finanziario 2013.

La ricorrente si duole in primo luogo che la Corte dei conti, in violazione della sua autonomia legislativa, statutaria, finanziaria e contabile, abbia svolto un controllo di merito, diverso da quello meramente documen-tale che sarebbe stato delineato dal legislatore con il citato d.l. n. 174/2012 e da questa Corte con la sent. n. 39/2014.

(1) In precedenza, sulla carenza di attribuzione della Corte dei conti in ordine all’esercizio del controllo sui rendiconti dei gruppi consiliari relativi all’esercizio 2012, v. Corte cost., 15 maggio 2014, n. 130, in questa Rivista, 2014, fasc. 3-4, 429, con no-ta di richiami (nello stesso senso, da ultimo, Corte conti, Sez. riun. spec. comp., 18 dicembre 2014, n. 60, in questo fascicolo, 207, con nota di richiami).

Sulla responsabilità dei presidenti e dei componenti dei gruppi consiliari per l’illecito utilizzo dei fondi loro assegnati dai con-sigli regionali, v., da ultimo, Corte conti, Sez. giur. reg. Sardegna, 18 novembre 2014, n. 229, in questo fascicolo, 308; Sez. giur. reg. Emilia-Romagna, 10 ottobre 2014, n. 140, in questo fascicolo, 271; Sez. giur. reg. Friuli-Venezia Giulia, 3 febbraio 2014, n. 11, e 23 ottobre 2014, n. 90, in questo fascicolo, 279, 280, con nota di richiami.

Sulla giurisdizione della Corte dei conti in ordine all’accertamento della responsabilità erariale dei componenti dei gruppi con-siliari per l’illecita gestione dei fondi assegnati ai gruppi medesimi, v. Cass., 31 ottobre 2014, n. 23257, in questo fascicolo, 378, nonché Tar Basilicata, 26 novembre 2014, n. 808, in questo fascicolo, 385, con nota di A. Luberti, A proposito della competenza delle Sezioni riunite in speciale composizione nelle materie di contabilità pubblica.

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N. 5-6/2014 PARTE III – DOCUMENTAZIONE

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Con una seconda censura la Regione Basilicata lamenta, invece, che il controllo relativo al costo massimo delle spese di personale dei gruppi consiliari sia stato esercitato secondo criteri individuati ex post rispetto ai fatti di gestione.

Esso, inoltre, si sarebbe svolto in difformità rispetto a quelli seguiti dai gruppi medesimi, che − in applica-zione della l. reg. 2 febbraio 1998, n. 8 (Nuova disciplina delle strutture di assistenza agli organi di direzione politica ed ai gruppi consiliari della Regione Basilicata), come modificata con la l. reg. 21 dicembre 2012, n. 31 (Recepimento d.l. n. 174/2012, convertito dalla l. 7 dicembre 2012, n. 213. Modifiche all’art. 12 della l. reg. 5 agosto 2010, n. 28) − avrebbero rispettato i principi di non superamento del costo sostenuto al medesimo titolo nel 2012 e del non computo del personale comandato.

2. In relazione alla prima censura è fondata e assorbente l’eccezione di inammissibilità per genericità solle-vata dall’Avvocatura generale dello Stato.

Le deliberazioni contestate dalla Regione Basilicata dichiarano nelle ampie premesse di fare applicazione, nel controllo di regolarità dei rendiconti dei gruppi consiliari, dei criteri di veridicità e correttezza della spesa previsti dall’art. 1 dell’allegato “A” al d.p.c.m. 22 dicembre 2012, che, in forza dell’art. 1, c. 9, d.l. n. 174/2012, ha recepito le linee guida deliberate dalla Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le regioni e le pro-vince autonome di Trento e di Bolzano.

In ciò le deliberazioni sono in linea con quanto affermato da questa Corte nella sent. n. 39/2014, ove si è posto in evidenza che il controllo in questione, se, da un lato, non comporta un sindacato di merito delle scel-te discrezionali rimesse all’autonomia politica dei gruppi, dall’altro, non può non ricomprendere la verifica dell’attinenza delle spese alle funzioni istituzionali svolte dai gruppi medesimi, secondo il generale principio contabile, costantemente seguito dalla Corte dei conti in sede di verifica della regolarità dei rendiconti, della loro coerenza con le finalità previste dalla legge.

La pronuncia, del resto, si pone in continuità con l’auspicio già formulato da questa Corte “che il conferi-mento di contributi finanziari e di altri mezzi utilizzabili per lo svolgimento dei compiti dei gruppi consiliari sia sottoposto a forme di controllo più severe e più efficaci di quelle attualmente previste, le quali, pur nel rispetto delle imprescindibili esigenze di autonomia garantite ai gruppi consiliari, siano soprattutto dirette ad assicurare che i mezzi apprestati vengano utilizzati per le finalità effettivamente indicate dalla legge” (sent. n. 1130/1988).

Ciò premesso, non è chiaro se la ricorrente contesti la legittimità di questo controllo ovvero se intenda dolersi di un altro e più approfondito vaglio, che si sarebbe esteso al merito delle scelte discrezionali operate dai gruppi consiliari.

Essa, infatti, non sviluppa la tesi con l’esame delle spese di cui la sezione regionale di controllo della Corte dei conti ha affermato l’irregolarità, rendendo così la censura apodittica e priva di concretezza (sent. n. 122, n. 77 e n. 46 del 2013, n. 246/2012, n. 200/2010, n. 105/2009).

Ciò è del resto reso evidente dalla stessa circostanza che la doglianza è rivolta contro tutte le deliberazioni impugnate, senza alcun distinguo tra quelle che hanno accertato la regolarità dei rendiconti e quelle che si sono pronunciate nel senso dell’irregolarità.

3. La seconda censura è in realtà duplice, poiché la ricorrente lamenta, da un lato, la violazione della sua autonomia contabile in ragione dell’asserito utilizzo da parte della Corte dei conti, con riferimento alle spese di personale dei gruppi consiliari, di criteri individuati solo ex post, e, dall’altro, la violazione della normativa nazionale e regionale disciplinante la determinazione del costo massimo del personale medesimo.

La prima parte della censura non è fondata, poiché, come chiarito nelle deliberazioni impugnate, la sezione regionale della Corte dei conti ha operato la verifica della regolarità delle spese in esame sulla base dei criteri introdotti dalla l. reg. n. 31/2012 − in applicazione dell’art. 2, c. 1, lett. h), d.l. n. 174/2012 − entrata in vigore l’1 gennaio 2013, e quindi all’inizio del relativo esercizio finanziario.

La restante parte della censura è inammissibile. È noto che le regioni “possono proporre ricorso per conflitto di attribuzioni, a norma dell’art. 39, c. 1, l. 11

marzo 1953, n. 87, quando esse lamentino non una qualsiasi lesione, ma una lesione di una propria competenza costituzionale” (sent. n. 380/2007 e n. 27/2006). “Qualora ciò non si verifichi, e tuttavia si prospetti l’illegit-timo uso di un potere statale che determini conseguenze avvertite come negative dalle regioni, ma non tali da alterare la ripartizione delle competenze indicata da norme della Costituzione (o, comunque, da norme di rango

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costituzionale come gli statuti di autonomia speciale), i rimedi dovranno eventualmente essere ricercati dagli interessati presso istanze giurisdizionali diverse da quella costituzionale” (sent. n. 380/2007).

Ebbene, nel caso di specie, la Regione Basilicata si è limitata a dedurre la violazione, ad opera delle de-liberazioni impugnate, di norme di legge statali e regionali riguardanti il costo massimo del personale e, in particolare, il computo in tale tetto del personale distaccato e di quello alle dipendenze dei gruppi e dei singoli consiglieri, senza indicare quali siano le competenze costituzionali incise e in che modo la violazione di legge si rifletta su di esse.

La questione prospettata, dunque, si risolve nella mera denunzia di una errata interpretazione della discipli-na legale della materia e, in quanto tale, deve essere fatta valere nelle appropriate sedi giurisdizionali e non in sede di conflitto di attribuzione (sent. n. 52/2013).

Questa Corte, del resto, con la citata sent. n. 39/2014 ha chiarito che avverso le determinazioni della sezio-ne regionale della Corte dei conti in materia di controllo sui rendiconti dei gruppi consiliari “non può essere esclusa […] la garanzia della tutela dinnanzi al giudice assicurata dal fondamentale principio degli artt. 24 e 113 Cost. (sent. n. 470/1997)”.

Restava “in discussione, non già l’an, ma soltanto il quomodo di tale tutela, problema interpretativo della normativa vigente la cui definizione” (sent. n. 39/2014) è stata ritenuta esulante dall’oggetto del giudizio di costituzionalità. Sul punto, peraltro, va dato atto del successivo intervento del legislatore che − con l’art. 33, c. 2, lett. a), n. 3, d.l. 24 giugno 2014, n. 91 (Disposizioni urgenti per il settore agricolo, la tutela ambientale e l’efficientamento energetico dell’edilizia scolastica e universitaria, il rilancio e lo sviluppo delle imprese, il contenimento dei costi gravanti sulle tariffe elettriche, nonché per la definizione immediata di adempimenti derivanti dalla normativa europea), convertito con modificazioni dall’art. 1, c. 1, l. 11 agosto 2014, n. 116 − ha introdotto un secondo periodo all’art. 1, c. 12, d.l. n. 174/2012, specificando che “Avverso le delibere della sezione regionale di controllo della Corte dei conti, di cui al presente comma, è ammessa l’impugnazione alle Sezioni riunite della Corte dei conti in speciale composizione, con le forme e i termini di cui all’art. 243-quater, c. 5, d.lgs. 18 agosto 2000, n. 267”. (Omissis)

P.q.m., la Corte costituzionale,1) dichiara in parte inammissibile il ricorso per conflitto di attribuzione sollevato, in relazione alle deli-

berazioni dalla n. 51 alla n. 60 del 18 marzo 2014 della Corte dei conti, Sezione regionale di controllo per la Basilicata, dalla Regione Basilicata nei confronti dello Stato, con il ricorso indicato in epigrafe;

2) respinge per il resto il ricorso, dichiarando che spettava alla Corte dei conti, Sezione regionale di con-trollo per la Basilicata, operare la verifica della regolarità dei rendiconti consiliari anche sulla base dei criteri introdotti dalla l. reg. 21 dicembre 2012, n. 28 (Recepimento d.l. n. 174/2012, convertito con modificazioni dalla l. 7 dicembre 2012, n. 213. Modifiche alla l. reg. 2 febbraio 1998, n. 8).

* * *

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CORTE DI CASSAZIONE

5481 – Corte di cassazione, Sezione III penale; sentenza 12 dicembre 2013; Pres. Teresi, Est. Pezzella, P.M. D’Ambrosio (concl. diff.); Refatti e altri.

Annulla in parte senza rinvio App. Trento, 17 ottobre 2012.

Reati contro la pubblica amministrazione – Danno all’immagine della pubblica amministrazione – Reati commessi da soggetti privati – Risarcibilità – Esclusione – Fattispecie.

C.p., art. 185; c.c., art. 2059; c.p.p., artt. 74, 535; l. 27 marzo 2001 n. 97, norme sul rapporto tra procedimento pe-nale e procedimento disciplinare ed effetti del giudicato penale nei confronti dei dipendenti delle amministrazioni pubbliche, art. 7; d.l. 1 luglio 2009 n. 78, convertito con modificazioni dalla l. 3 agosto 2009 n. 102, provvedimen-ti anticrisi, nonché proroga di termini e della partecipazione italiana a missioni internazionali, art. 17, c. 30-ter.

Il danno subito dalla pubblica amministrazione per effetto della lesione all’immagine è risarcibile solo qualora derivi dalla commissione di reati, anche comuni, posti in essere da soggetti appartenenti ad una pub-blica amministrazione (fattispecie in cui la Corte ha escluso la risarcibilità del danno all’immagine arrecato da soggetti privi di qualifiche pubblicistiche all’Agenzia delle entrate, in conseguenza della commissione di reati di dichiarazione fraudolenta mediante uso di fatture per operazioni inesistenti e di emissione di fatture per operazioni inesistenti). (1)

Ritenuto in fatto – 1. Refatti Aldo veniva condannato dal Tribunale di Trento con sentenza del 13 dicembre 2011 per il reato di cui all’art. 2 d.lgs. n. 74/2000 perché, quale rappresentante legale e amministratore della Ri-gotti s.p.a. si avvaleva, nella dichiarazione annuale Iva della società predetta relativa all’anno di imposta 2004, di due fatture relative ad operazioni inesistenti, entrambe emesse nei confronti della Rigotti s.p.a.: la fattura numero 01 emessa dalla Rebo s.r.l. il 26 ottobre 2004 per l’importo imponibile di euro 7.400.000 e per Iva di euro 1.000.480 e la fattura numero 1 emessa dalla Fedra s.r.l. il 10 novembre 2004 per l’importo imponibile di euro 7.690.000 ed Iva di euro 1.538.000. Fatti commessi in Mezzocorona il 29 ottobre 2005.

Rigotti Giorgio e Bortolotti Franco venivano condannati a loro volta, con la medesima sentenza, il primo in qualità di amministratore e legale rappresentante della Fedra s.r.l. e il secondo in qualità di amministratore e legale rappresentante della Rebo s.r.l. per il reato di cui all’art. 8 d.lgs. n. 74/2000 per aver emesso le fatture citate nei confronti della Rigotti al fine di consentire alla stessa di evadere l’Iva. Fatti commessi in Trento il 10 novembre 2004 per Rigotti e il 26 ottobre 2004 per Bortolotti.

La pena loro irrogata era di anni due di reclusione per ciascuno dei tre imputati, pena estinta ex art. 1 l. n. 241/2006 e pene accessorie.

Tutti gli imputati venivano condannati poi in solido al risarcimento dei danni arrecati alla parte civile Agenzia delle entrate che si quantificavano in complessivi euro 4.000.000 (di cui euro 3.018.000 per danno patrimoniale – pari alla somma di euro 1.480.000, fattura emessa dalla Rebo s.r.l., e di euro 1.538.000 pari alla fattura emessa dalla Fedra s.r.l. – e la differenza per danno non patrimoniale sub specie di danno all’immagine), oltre spese del giudizio.

La Corte d’appello di Trento, con sent. 17 ottobre 2012 (dep. il 12 dicembre 2012), in parziale riforma della sentenza impugnata da tutti e tre gli imputati, dichiarava non doversi procedere nei confronti di Rigotti Giorgio e Bortolotti Franco in ordine ai reati rispettivamente loro ascritti perché gli stessi erano estinti per intervenuta prescrizione, con la precisazione che a carico dei predetti non sussisteva, come ritenuto dai giudice di primo grado, anche l’obbligo del risarcimento del danno patrimoniale a favore dell’erario. Confermava nel resto tutte le statuizioni quanto a Refatti Aldo che rimaneva obbligato al risarcimento del danno patrimoniale come già quantificato nella sentenza impugnata. Riaffermata la solidarietà nel debito verso l’erario di tutti e tre gli impu-tati quanto al solo danno non patrimoniale, ridefiniva quest’ultimo in euro 300.000 complessivi. Condannava Refatti Aldo al pagamento delle spese processuali relative al secondo grado di giudizio e tutti gli imputati, inoltre, alla rifusione in solido delle spese sostenute dalla parte civile Agenzia delle entrate, che liquidava in euro 2.300 per onorari. (Omissis)

(1) Massima ufficiale.

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356

Considerato in diritto – (Omissis) 8. Fondato appare il motivo di ricorso in relazione al danno all’immagine liquidato dalla corte territoriale, seppure in forma ridotta rispetto al giudice di prime cure in favore dell’Agen-zia delle entrate.

La Corte d’appello ha ritenuto di condannare gli imputati, solidalmente tra loro, riducendo la liquidazione fatta in via equitativa dal giudice di primo grado, a euro 300.000, con una motivazione insufficiente.

Va detto che al quesito sulla configurabilità in astratto del danno all’immagine, nei confronti dalla pubblica amministrazione, provocato dall’azione di un terzo, questa Corte in passato ha fornito una risposta positiva, affrontando il caso di un soggetto che con il proprio comportamento aveva leso il prestigio dell’ente pubblico (Sez. III, 1 ottobre 2002, n. 35868, Falconi, rv. 222512, nel pronunciarsi sulla questione, in materia di caccia, della legittimità della costituzione di parte civile dell’amministrazione provinciale in un procedimento per violazione dell’art. 30 l. 11 febbraio 1992, n. 157, in caso di caccia esercitata con mezzi vietati; si affermò allora che, atteso che l’esercizio della caccia con mezzi diversi da quelli consentiti determina una illegittima sottrazione al servizio pubblico della tutela dell’ambiente faunistico, ne derivava il conseguente danno all’im-magine della provincia, cui compete il dovere di assicurare il corretto esercizio della caccia, che legittima la risarcibilità del danno patito dall’ente locale).

Verso l’affermazione di un tale danno non patrimoniale (che, va ricordato, non esaurisce il genus, essendo in questo ricompreso, oltre il danno all’immagine, anche il danno morale) propende ancora oggi chi valorizza l’efferatezza dell’azione criminosa e la notorietà del fatto delittuoso per affermare che da tali elementi derivi nell’opinione pubblica la convinzione dell’inadeguatezza dell’azione di vigilanza degli organismi preposti alla tutela del bene. E quindi l’esistenza di un danno all’immagine patito dagli stessi e conseguentemente risarci-bile.

Pacificamente riconosciuto dalla giurisprudenza di questa Corte è che l’Agenzia delle entrate è legitti-mata alla costituzione di parte civile al fine di ottenere il risarcimento dei danni derivanti dalle violazioni penali tributarie (così questa Sez. III, 14 luglio 2010, n. 34456, Lazzarone, rv. 248992: nella specie, si trat-tava, anche in quel caso, di false fatturazioni per operazioni inesistenti e frode fiscale). Persona offesa dei reati tributari è, infatti, oltre all’amministrazione finanziaria, anche l’Agenzia delle entrate, quale ente cui è affidata la tutela dell’interesse al corretto adempimento dell’obbligazione tributaria (così Sez. II, 22 novem-bre 2011, n. 7739, dep. il 28 febbraio 2012, caso in cui, in applicazione del principio, la Corte ha dichiarato l’Agenzia delle entrate legittimata al ricorso per Cassazione avverso la sentenza di non luogo a procedere ex art. 428 c.p.p.).

Pacifico è anche che possa configurarsi a favore dell’Agenzia delle entrate un danno patrimoniale risarcibi-le, che non necessariamente corrisponde all’importo del tributo evaso.

Più complesso, nonostante la pronuncia di questa Corte del 2002, di cui si è detto, è il discorso che attiene alla sussistenza di un danno all’immagine dell’ente preposto, in un ambito territoriale più ampio, ad accertare e sanzionare delle violazioni di carattere generale rispetto agli autori delle violazioni stesse.

È il caso dell’Agenzia delle entrate quanto alle violazioni della legge tributaria. Ma potrebbe essere, lo stesso, ad esempio, per il Ministero dell’interno, a fronte di reati che coinvolgono l’ordine e la sicurezza pub-blica.

Sulla questione occorre oggi fare i conti con l’articolato ragionamento che ha offerto la Corte costituzio-nale con la sent. n. 355/2010 al fine di rigettare le censure d’illegittimità costituzionale sollevate nei confronti delle numerose questioni di legittimità costituzionale che erano state sollevate da varie sezioni giurisdizionali della Corte dei conti con riferimento alla norma di cui all’art. 17, c. 30-ter, d.l. n. 78/2009, convertito dalla l. n. 102/2009 e successive modificazioni (il c.d. “Lodo Bernardo”, dal nome del parlamentare proponente), ai sensi del quale “Le procure della Corte dei conti esercitano l’azione per il risarcimento del danno all’immagine nei soli casi e nei modi previsti dall’art. 7 della l. 27 marzo 2001, n. 97”.

L’art. 7 richiamato dispone a sua volta che “La sentenza irrevocabile di condanna pronunciata nei confronti dei dipendenti indicati nell’art. 3 per i delitti contro la pubblica amministrazione previsti nel capo I, titolo II, libro II, c.p., è comunicata al competente procuratore regionale della Corte dei conti affinché promuova entro trenta giorni l’eventuale procedimento di responsabilità per danno erariale nei confronti del condannato. Resta salvo quanto disposto dall’art. 129 delle norme di attuazione, di coordinamento e transitorie del codice di pro-cedura penale, approvate con d.lgs. 28 luglio 1989, n. 271”.

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Nella pronunzia ricordata la Corte costituzionale si preoccupava di precisare che l’art. 17, c. 30-ter, cit., ha lo scopo di “circoscrivere oggettivamente i casi in cui è possibile, sul piano sostanziale e processuale, chie-dere il risarcimento del danno in presenza della lesione dell’immagine dell’amministrazione, imputabile a un dipendente di questa”; la norma, cioè, secondo il giudice delle leggi deve essere interpretata “nel senso che, al di fuori delle ipotesi tassativamente previste di responsabilità per danni all’immagine dell’ente pubblico di appartenenza, non è configurabile siffatto tipo di tutela risarcitoria”.

Dunque, secondo il dictum della Corte costituzionale, soltanto nelle ipotesi in cui ricorrano taluni, speci-fici reati posti in essere dal pubblico dipendente (peculato, concussione, corruzione, ecc.) sarebbe in astratto ipotizzabile una concorrente lesione dell’immagine pubblica; in tutti gli altri casi non sarebbe ammissibile, in radice, alcuna tutela dell’immagine pubblica. E, secondo una prima, restrittiva, interpretazione sembrerebbe escludere la configurabilità del danno all’immagine nei confronti della pubblica amministrazione al di là delle ipotesi in cui vi è la giurisdizione della Corte dei conti, ossia quando si tratti di un’azione posta in essere da un pubblico dipendente.

Tale scelta legislativa di limitare i rei e la tipologia dei reati ritenuti rilevanti ai fini del danno all’immagi-ne è stata giudicata, dalla Consulta, non contrastante con i principi della Carta fondamentale, ma anzi è stato ritenuto possibile “ricondurre anche la norma ora in esame, limitativa della particolare forma di responsabilità per i danni da lesione dell’immagine della pubblica amministrazione, all’alveo dei meccanismi, previsti con il citato decreto legge, aventi lo scopo di introdurre nell’ordinamento misure dirette al superamento della attuale crisi in cui versa il paese”.

Il legislatore, dunque, ha ammesso la proposizione dell’azione risarcitoria per danni all’immagine dell’ente pubblico da parte della procura operante presso il giudice contabile soltanto in presenza di un fatto di reato ascrivibile alla categoria di “delitti dei pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione”; ciò per effetto del richiamo di cui all’art. 7 l. n. 97/2001 che fa espresso riferimento ai delitti previsti dal capo I, titolo II, libro II, c.p.

Non pare, peraltro, esservi alcun dubbio che la domanda di risarcimento del danno per la compromissio-ne dell’immagine dell’amministrazione possa essere proposta anche dinanzi ad un organo giurisdizionale diverso dalla Corte dei conti e al di fuori di un giudizio per responsabilità amministrativa, ai sensi dell’art. 103 Cost. Deve, in altri termini, optarsi per l’interpretazione secondo cui il legislatore non abbia inteso prevedere un maggiore ambito operativo alla giurisdizione contabile a discapito di un’altra giurisdizione, e segnatamente di quella ordinaria, ma soltanto circoscrivere oggettivamente i casi in cui è possibile, sul piano sostanziale e processuale, chiedere il risarcimento del danno in presenza della lesione dell’immagine della amministrazione. Che si avrà solo in presenza di una lesione dell’immagine della stessa ascrivibile ad un suo dipendente.

Come hanno correttamente rilevato numerose pronunce della Corte dei conti, quella della Consulta è una sentenza di rigetto e pertanto – a differenza di quelle dichiarative di illegittimità costituzionale, che hanno in-vece efficacia erga omnes, sulla scorta dell’insegnamento di questa Corte (di cui è stata richiamata la pronuncia delle S.U. penali n. 23016/2004) – vincolante (nemmeno in senso assoluto) solo per il giudice del procedimen-to nel quale la relativa questione è stata sollevata (in tal senso, tra tutte, Corte conti, Sez. giur. reg. Toscana, 18 marzo 2011, n. 90). Negli altri procedimenti, invece, il giudice conserva il potere-dovere di interpretare in piena autonomia la norma denunciata, quindi anche eventualmente in difformità dall’interpretazione fatta pro-pria dalla Corte costituzionale, sempre che il risultato ermeneutico sia adeguato ai principi della nostra Carta fondamentale.

Sulla scorta di tale principio, in numerose pronunce si è optato per un’interpretazione dell’art. 17, c. 30-ter, diversa e più ampia rispetto alla sentenza costituzionale n. 355/2010, anche non in presenza di un reato ascrivi-bile alla categoria dei “delitti dei pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione”, cioè di uno dei delitti previsti dal capo I, titolo II, libro II, c.p.

Il danno all’immagine della pubblica amministrazione, sia esso perseguito dinanzi alla Corte dei conti o davanti ad altra autorità giudiziaria, va configurato come danno patrimoniale da “perdita di immagine”, di tipo contrattuale, avente natura di danno-conseguenza (tale, comunque, da superare una soglia minima di pregiudi-zio) e la cui prova, secondo il costante orientamento di questa Corte in sede civile, può essere fornita anche per presunzioni e mediante il ricorso a nozioni di comune esperienza. Si tratta, in particolare, di danno conseguente alla grave perdita di prestigio e al grave detrimento dell’immagine e della personalità pubblica che, anche se

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non comporta una diminuzione patrimoniale diretta, è tuttavia suscettibile di valutazione sotto il profilo della spesa necessaria al ripristino del bene giuridico leso.

Univocamente – e convincentemente – si è ritenuto sussistente il danno all’immagine della pubblica am-ministrazione anche in presenza di reati comuni, sempre, tuttavia, posti in essere da appartenenti alla pubblica amministrazione stessa.

Non è questo, tuttavia, il caso che ci occupa, per cui l’impugnata sentenza va annullata senza rinvio limi-tatamente alla condanna degli imputati Rigotti, Refatti e Bortolotti al risarcimento del danno non patrimoniale in favore dell’Agenzia delle entrate.

P.q.m., annulla senza rinvio la sentenza impugnata limitatamente alla condanna degli imputati Rigotti, Re-fatti e Bortolotti al risarcimento del danno non patrimoniale in favore dell’Agenzia delle entrate.

Rigetta i ricorsi dei predetti nel resto nonché il ricorso dell’Agenzia delle entrate che condanna al pagamen-to delle spese processuali.

8303 – Corte di cassazione, Sezione tributaria; sentenza 9 aprile 2014; Pres. Di Iasi, Est. Perrino, P.M. Del Core (concl. diff.); Agenzia delle entrate c. Pagano e altri.

Rigetta ricorso avverso Trib. Pavia, 11 agosto 2008.

Tributi ‒ Condono fiscale ‒ Definizione dei carichi inclusi in ruoli ai sensi dell’art. 12 l. n. 289/2002 ‒ Ruoli finalizzati alla riscossione di entrate non aventi natura tributaria ‒ Somme dovute da dipen-dente pubblico condannato dalla Corte dei conti per danno erariale ‒ Applicabilità.

L. 27 dicembre 2002 n. 289, disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (legge finanziaria 2003), art. 12; d.l. 24 giugno 2003 n. 143, convertito con modificazioni dalla l. 8 agosto 2003 n. 212, disposizioni urgenti in tema di versamento e riscossione di tributi, di fondazioni bancarie e di gare indette dalla Consip s.p.a., art. 1.

La speciale procedura prevista dall’art. 12 della l. 27 dicembre 2002 n. 289, che ‒ per la definizione dei carichi inclusi in ruoli emessi da uffici statali e affidati ai concessionari del servizio nazionale della riscossione fino al 31 dicembre 2000 ‒ prevede che i debitori possano estinguere il proprio debito, senza corrispondere gli interessi di mora, con il pagamento di una somma pari al 25 per cento dell’importo iscritto a ruolo e delle somme dovute al concessionario a titolo di rimborso per le spese sostenute per le procedure esecutive eventualmente effettuate dallo stesso concessionario, è applicabile anche ai ruoli finalizzati alla riscossione di entrate non aventi natura tributaria (nella specie, si trattava di somme dovute allo Stato da un dipendente pubblico condannato dalla Corte dei conti per danno erariale).

Fatto ‒ La Corte dei conti, Sez. giur. reg. Lazio, condannò, fra gli altri, Angelo Pagano al risarcimento dei danni subiti dall’erario per mancati introiti d’imposte e di pene pecuniarie. Ne seguì, nel 1997, l’iscrizione a ruolo, a cura dell’ufficio del registro di Pavia, a carico di Pagano, dell’importo oggetto della condanna, cui Equitalia Esatri s.p.a., nella qualità di concessionario per la riscossione, diede seguito procedendo con pigno-ramento presso terzi, che sboccò nell’ordinanza di assegnazione emessa dal giudice dell’esecuzione per il predetto importo.

Angelo Pagano si valse, tuttavia, del condono contemplato dall’art. 12 l. n. 289/2002, provvedendo al pa-gamento del 25 per cento dell’importo di cui risultava debitore.

A seguito di questi fatti e, poi, della condanna, ad opera della Corte dei conti, Sez. giur. reg. Lombardia, di Equitalia Esatri s.p.a., ritenuta responsabile per il danno erariale determinato dall’ammissione di Pagano al condono (sentenza peraltro successivamente riformata dalla Sez. centr. app. della Corte dei conti), la conces-sionaria notificò a Pagano un avviso di mora avente ad oggetto la somma residua, sul presupposto dell’illegit-timità del condono ed instaurò un procedimento di pignoramento presso terzi nei confronti del Ministero delle finanze, alle dipendenze del quale Angelo Pagano lavorava.

Ne scaturì un procedimento di opposizione all’esecuzione, al quale partecipò anche l’Agenzia delle entrate.Il procedimento è stato definito dalla sentenza del Tribunale di Pavia indicata in epigrafe, la quale ha accol-

to l’opposizione, dichiarando, in particolare, l’inefficacia dell’atto di pignoramento di Equitalia Esatri s.p.a., in

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base al presupposto che Pagano avesse estinto il credito vantato dall’Agenzia delle entrate e l’estinzione della procedura esecutiva promossa nei confronti di costui.

Propone ricorso l’Agenzia delle entrate per ottenere la cassazione della sentenza, affidando il ricorso a quattro motivi, l’ultimo dei quali articolato in due diverse censure.

Resistono con controricorso Angelo Pagano ed Equitalia Esatri s.p.a.Deposita memoria ex art. 378 c.p.c. Equitalia Nord s.p.a., nella qualità d’incorporante Equitalia Esatri

s.p.a., giusta certificazione notarile, che parimenti produce.Diritto ‒ 1. Col primo motivo di ricorso, l’Agenzia delle entrate lamenta, ex art. 360, c. 1, n. 3, c.p.c., la vio-

lazione e falsa applicazione dell’art. 12 l. n. 289/2002, reputando che sia errata la sentenza, là dove ha affermato che il ruolo emesso per la riscossione di somme dovute allo Stato da dipendente del Ministero delle finanze condannato dalla Corte dei conti per danno erariale rientra nell’ambito di applicazione dell’art. 12 l. n. 289/2002, determinando un’irragionevole distinzione dei dipendenti pubblici debitori, soltanto ad alcuni dei quali sarebbe data la possibilità di estinguere il proprio debito col pagamento del 25 per cento dell’importo dovuto.

2. Il motivo è infondato e va in conseguenza respinto.2.1. Le Sezioni unite della Corte hanno già avuto occasione di chiarire che la speciale procedura prevista

dall’art. 12 l. 27 dicembre 2002, n. 289, per la definizione dei carichi inclusi in ruoli emessi da uffici statali e affidati ai concessionari del servizio nazionale della riscossione fino al 31 dicembre 2000, è applicabile anche ai ruoli finalizzati alla riscossione di entrate non aventi natura tributaria, e ciò in base alla norma interpretativa introdotta dall’art. 1, c. 2-decies, d.l. 24 giugno 2003, n. 143, convertito dalla l. 1 agosto 2003, n. 212, secondo cui, ai fini di tale procedura, “per ruoli emessi da uffici statali si intendono quelli relativi ad entrate sia di natura tributaria che non tributaria” (Cass., S.U., 30 giugno 2009, n. 15242, relativa alla domanda di restituzione di contributi per eventi sismici percepiti ai sensi della l. 14 maggio 1981, n. 219).

2.2. Non possono essere addotte in senso contrario le ordinanze della Consulta del 2004 (Corte cost., 29 dicembre 2004, n. 433) e del 2005 (Corte cost., 22 luglio 2005, n. 305), invocate dall’Agenzia, con le quali la Corte ha dato della norma in esame una lettura costituzionalmente orientata, escludendo che essa possa con-templare anche le somme iscritte a ruolo per sanzioni pecuniarie di natura penale, sul rilievo che l’estinzione delle pene può essere disposta solo con legge deliberata con la speciale maggioranza prevista dall’art. 79 Cost.

E ciò in quanto questa interpretazione è con ogni evidenza relativa, appunto, alle peculiarità delle sanzioni penali.

2.3. Né rileva la collocazione dell’art. 12, capo 2, titolo 2, l. n. 289/2002, variamente articolato a seconda del tipo di imposta e della fase in cui versa il rapporto tributario, valorizzata dalla giurisprudenza contabile richiamata dall’Agenzia al fine di escludere la materia della responsabilità per danno erariale dall’ambito di applicabilità della norma.

E ciò, in quanto, l’argomento, in sé non decisivo, è comunque superato dall’ampia formulazione della nor-ma di interpretazione autentica.

2.4. Non è risolutivo neanche l’argomento incentrato sulla prospettata violazione del principio costituziona-le di uguaglianza, in quanto, nell’ambito di una normativa volta al sollecito reperimento di risorse finanziarie, l’iscrizione del credito a ruolo da oltre un biennio è circostanza non certo ininfluente, bensì significativa della particolare condizione in cui versa il rapporto obbligatorio (pervenuto, cioè, da tempo alla fase della esecuzione coattiva, essendo mancato l’adempimento spontaneo) e, dunque, delle stesse prospettive di realizzo per lo Stato creditore (espressamente in termini, Cass., 24 aprile 2009, n. 9825).

3. Il rigetto del primo motivo comporta l’assorbimento del secondo e del terzo motivo, che propongono la medesima questione sotto differenti profili, in quanto comunque postulano l’illegittimità del condono e l’affer-mazione del seguente principio di diritto: “la speciale procedura prevista dall’art. 12 l. 27 dicembre 2002, n. 289, per la definizione dei carichi inclusi in ruoli emessi da uffici statali e affidati ai concessionari del servizio nazionale della riscossione fino al 31 dicembre 2000, è applicabile anche ai ruoli emessi per la riscossione di somme dovute allo Stato da dipendente condannato dalla Corte dei conti per danno erariale”.

4. Infondato è altresì il quarto motivo di ricorso, nella sua duplice articolazione, ex art. 360, c. 1, n. 3, c.p.c., di violazione dell’art. 12 l. n. 289/2002 e del d.lgs. n. 300/1999, per non aver considerato che il credito in que-

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stione è passato nella titolarità di soggetto diverso dallo Stato ‒ primo profilo ‒ e, ex art. 360, c. 1, n. 4, c.p.c., di violazione e falsa applicazione degli artt. 81 e 101 c.p.c., per la mancata integrazione del contraddittorio nei confronti dello Stato ‒ secondo profilo:

‒ quanto al primo profilo, la stessa Agenzia riferisce che il ruolo fu emesso dall’ufficio del registro di Pavia, su incarico del Ministero delle finanze, rispetto al quale l’istituzione dell’Agenzia realizza un peculiare feno-meno di successione a titolo particolare, incapace di mutare la natura del credito;

‒ quanto al secondo, l’instaurazione del giudizio in epoca successiva al verificarsi di tale successione non richiedeva alcuna integrazione nei confronti del dante causa.

5. Le peculiarità della lite e, in particolare, la circostanza che, in ordine alla fattispecie che ne è oggetto, non sono rinvenibili specifici precedenti della Corte, tuttavia, comportano la compensazione di tutte le voci di spesa.

P.q.m., la Corte rigetta il ricorso; compensa le spese.

I

16240 – Corte di cassazione, Sezioni unite civili; ordinanza 16 luglio 2014; Pres. Rovelli, Est. Rordorf, P.M. Fimiani (concl. parz. diff.); Olivieri e altro c. Proc. reg. Corte dei conti per il Lazio.

Regolamento di giurisdizione.

Giurisdizione e competenza – Appalto pubblico per opere stradali – Danni subiti da Anas s.p.a. per in-debito riconoscimento di riserve nella procedura di accordo bonario – Amministratori, dipendenti e componenti della commissione di collaudo – Giurisdizione contabile – Componenti della commissione di accordo bonario, contraente generale e direttore dei lavori – Giurisdizione contabile – Esclusione.

R.d. 12 luglio 1934 n. 1214, approvazione del t.u. delle leggi sulla Corte dei conti, art. 52; l. 11 febbraio 1994 n. 109, legge quadro in materia di lavori pubblici, art. 31-bis; d.l. 8 luglio 2002 n. 138, convertito con modifi-cazioni dalla l. 8 agosto 2002 n. 178, interventi urgenti in materia tributaria, di privatizzazioni, di contenimento della spesa farmaceutica e per il sostegno dell’economia anche nelle aree svantaggiate; d.lgs. 12 aprile 2006 n. 163, codice dei contratti pubblici relativi a lavori, servizi e forniture in attuazione delle direttive 2004/17/Ce e 2004/18/Ce, artt. 176, 240.

In tema di appalto pubblico per opere stradali, circa i danni subiti da Anas s.p.a. a causa dell’indebito rico-noscimento di riserve nella procedura di accordo bonario ex art. 31-bis della l. 11 febbraio 1994 n. 109 (ora, art. 240 d.lgs. 12 aprile 2006 n. 163), sussiste la giurisdizione di responsabilità della Corte dei conti verso gli organi e i dipendenti dell’Anas stessa, attesa la sua perdurante natura pubblicistica, e verso i componenti della commissione di collaudo, attesa la relazione funzionale che li lega all’ente pubblico appaltante; invece, la giurisdizione di responsabilità della Corte dei conti non sussiste verso i componenti della commissione di accordo bonario, attesa l’estraneità all’ente pubblico appaltante determinata dalla funzione conciliativa, né verso il contraente generale, attesa la natura contrattuale dell’iscrizione di riserve incidenti sul sinallagma negoziale, né verso il direttore dei lavori, atteso che questi, nell’appalto affidato a contraente generale, opera per quest’ultimo, anziché come agente pubblico. (1)

(1-2) I. - La massima (1) è ufficiale. La massima (2) è stata elaborata dalla redazione.II. - Con riferimento all’ordinanza sub I (n. 16240/2014):- sulla giurisdizione di responsabilità della Corte dei conti nei confronti degli amministratori e dipendenti di Anas s.p.a. per i

danni da essi cagionati alla società, data la perdurante natura di ente pubblico dell’Anas pur nella sua rinnovata veste formale di società per azioni, v. Cass., S.U., 9 luglio 2014, n. 15594, in questa Rivista, 2014, fasc. 3-4, 479;

- sulla giurisdizione della Corte dei conti in ordine all’accertamento della responsabilità per i danni cagionati ad un ente pub-blico dai componenti di un organo tecnico affidatario (come una commissione di collaudo) di poteri valutativi che si inseriscono nell’attività pubblicistica dell’ente, v., di recente, cit. in motivazione, Cass., S.U. 21 maggio 2014, n. 11229, ibidem, 526.

La Suprema corte esclude, invece, che operino come compartecipi di attività pubblicistiche dell’ente appaltante:- i componenti della “commissione di bonario componimento” (prevista dall’art. 31-bis l. n. 109/1994 e, ora, dall’art. 240 co-

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N. 5-6/2014 PARTE III – DOCUMENTAZIONE

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II

19891 – Corte di cassazione, Sezioni unite civili; ordinanza 22 settembre 2014; Pres. Rovelli, Est. Amendola, P.M. Fimiani (concl. conf.); Calatrava c. Proc. reg. Corte dei conti per il Veneto.

Regolamento di giurisdizione.

Giurisdizione e competenza – Opere pubbliche – Progettista – Nomina a consulente della direzione dei lavori – Omissioni ed errori progettuali – Costi aggiuntivi di realizzazione dell’opera – Danno eraria-le – Giurisdizione contabile.

R.d. 12 luglio 1934 n. 1214, art. 13, 52; l. 8 giugno 1990 n. 142, ordinamento delle autonomie locali, art. 58; l. 14 gennaio 1994 n. 20, disposizioni in materia di giurisdizione e controllo della Corte dei conti, art. 1; d.lgs. 18 agosto 2000 n. 267, t.u. delle leggi sull’ordinamento degli enti locali, art. 93; d.lgs. 12 aprile 2006 n. 163, art. 130.

Spetta alla Corte dei conti la giurisdizione per l’accertamento della responsabilità di un professionista pro-gettista e consulente alla direzione dei lavori di un’opera pubblica, in relazione al danno derivato all’ammini-strazione committente dai costi aggiuntivi connessi ad omissioni ed errori progettuali dell’opera (nella specie, al progettista erano stati affidati, fra l’altro, compiti di controllo delle integrazioni e modificazioni progettuali proposte dall’appaltatore, di analisi e verifica delle proposte tecniche e richieste di chiarimento da parte del costruttore relative alle strutture in acciaio e non, di supervisione e approvazione dei disegni di fabbrica, di suggerimenti e raccomandazioni in favore della direzione lavori). (2)

dice dei contratti pubblici), che opera in posizione di “naturale equidistanza” rispetto all’ente pubblico appaltante e all’impresa pri-vata appaltatrice (il che è ovviamente “inconciliabile” con l’inquadramento dei suoi compiti nell’attività pubblicistica dell’ente ap-paltante);

- il general contractor, investito (ex art. 176 codice dei contratti pubblici) della realizzazione di un’opera pubblica, ove il dan-no cagionato all’ente appaltante sia il risultato di comportamenti illegittimi che il contraente generale abbia assunto come contro-parte contrattuale dell’ente nell’adempimento dell’obbligazione di risultato costituita – appunto – dalla realizzazione dell’opera (e non come titolare di funzioni pubblicistiche che altrimenti graverebbero sulla stazione appaltante; il che assimilerebbe la posizio-ne del general contractor a quella del concessionario della progettazione ed esecuzione di un’opera pubblica o a quella del con-cessionario di un servizio pubblico, i cui comportamenti, assunti come dannosi per l’amministrazione, sarebbero soggetti all’ac-certamento giurisdizionale del giudice contabile: v., sotto vari profili, Cass., S.U. ord. 16 dicembre 2009, n. 26280, in Foro it., 2010, I, 1502, con nota di richiami; ord. 3 luglio 2009, n. 15599, ibidem, 1534, con nota di richiami; 22 febbraio 2007, n. 4112, in questa Rivista, 2007, fasc. 1, 202);

- il direttore dei lavori che abbia ricevuto tale incarico non dall’ente appaltante (nel cui apparato, pertanto, egli risulterebbe funzionalmente inserito: v., pure, infra, sub III), bensì dal general contractor, al quale fa carico la direzione dei lavori per l’esecu-zione del contratto avente ad oggetto la realizzazione dell’opera pubblica.

III. - Con riferimento all’ordinanza sub II (n. 19891/2014):- nel senso che l’affidamento da parte di una pubblica amministrazione dell’incarico di direttore dei lavori per la realizzazio-

ne di un’opera pubblica comporta l’inserimento dell’incaricato nell’apparato organizzativo dell’amministrazione, quale titolare di un organo tecnico e straordinario della stessa, con conseguente giurisdizione del giudice contabile a conoscere del danno erariale che il soggetto abbia, in ipotesi, cagionato all’ente, v., di recente, Cass., S.U. ord. 9 febbraio 2011, n. 3165, ivi, 2011, fasc. 1-2, 358; ord. 2 dicembre 2008, n. 28537, ivi, 2008, fasc. 6, 198;

- nel senso che, qualora, per carenza in organico di personale tecnico, per la difficoltà di rispettare i tempi di lavoro program-mati o per quant’altro (art. 17, c. 4, l. n. 109/1994; art. 90, c. 6, d.lgs. n. 163/2006), le amministrazioni aggiudicatrici, non in gra-do di espletare in proprio l’attività di direzione dei lavori, l’abbiano affidata al progettista (a norma dell’art. 27 d.lgs. n. 109/1994, corrispondente all’attuale art. 130 d.lgs. n. 163/2006), sussiste la giurisdizione del giudice contabile ove il danno erariale venga prospettato come derivante dall’insieme di tali prestazioni, posto che dal cumulo di incarichi sorge una complessiva attività pro-fessionale nella quale la progettazione è prodromica alla successiva direzione, di talché, proprio in ragione della sostanziale unita-rietà del rapporto, non è praticabile la scissione delle giurisdizioni, v. Cass., S.U., n. 28537/2008, cit.;

- nel senso che, in relazione alla realizzazione di un’opera pubblica intesa alla difesa della costa e alla salvaguardia del litora-le, appartiene alla giurisdizione contabile la domanda di risarcimento danni proposta nei confronti dei componenti di un organo tecnico straordinario, affidatario di qualificati poteri valutativi, e dei consulenti della direzione dei lavori, trattandosi di soggetti che, per l’attività svolta continuativamente, debbono ritenersi inseriti, seppure in via temporanea, nell’apparato organizzativo del-la pubblica amministrazione, v. Cass., S.U., 21 maggio 2014, n. 11229, ivi, 2014, fasc. 3-4, 526.

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I

Cass., S.U., ord. 16 luglio 2014, n. 16240

Premesso in fatto che:- il procuratore della Repubblica presso la Sezione giurisdizionale per il Lazio della Corte dei conti ha

promosso azione di responsabilità nei confronti di diverse persone, ritenute a vario titolo responsabili dei danni sofferti dall’Anas s.p.a. in occasione di un appalto per la costruzione di opere stradali, affidato alla Comeri s.p.a. in veste di contraente generale;

- i danni in questione, secondo il procuratore contabile, sono dipesi dal fatto che, a seguito di una procedu-ra di accordo bonario svoltasi a norma della l. n. 109/1994, art. 31-bis sono state riconosciute in favore della suddetta Comeri riserve dalla stessa iscritte in corso d’opera quantunque non ne ricorressero gli estremi e con l’applicazione di metodi di calcolo errati;

- la responsabilità è stata addebitata, oltre che allo stesso contraente generale Comeri s.p.a., al responsabile del procedimento, ing. Marra Biagio, ai componenti della commissione costituita a norma del citato art. 31-bis, avv. Puletti Luca, ing. Marzi Vincenzo e prof. Lacchini Marco, ai componenti della commissione di collaudo, dott.ssa Olivieri Valeria e ing. Achille Norberto, al direttore dei lavori, ing. Bevilacqua Antonio, ai componenti dell’Unità riserve dell’Anas s.p.a., avv. Picardi Gian Claudio e Rinaldi Maria Carolina e ing. Roberto Becali e Maurizio Faletti di Villafetto, al presidente del consiglio di amministrazione della stessa società, sig. Pietro Ciucci e ai dirigenti ing. Alfredo Bajo e Gavino Coratza, e i dott. Mauro Santangeli, Giancarlo Piciarelli, Leo-poldo Conforti e Stefano Granati;

- i difensori dei convenuti Olivieri, Bajo, Picardi, Ciucci, Granati, Conforti, Bevilacqua, Puletti, Achille, Lacchini e Comeri s.p.a., dopo essersi costituiti eccependo il difetto di giurisdizione della Corte dei conti, han-no proposto distinti ricorsi per regolamento di giurisdizione;

- il procuratore della Repubblica presso la Corte dei conti ha replicato con altrettanti controricorsi;- hanno altresì depositato controricorsi i difensori dei convenuti Marra e Rinaldi (nonché nuovamente Lac-

chini), anch’essi contestando la giurisdizione del giudice contabile;- il procuratore generale ha concluso chiedendo sia affermata la giurisdizione della Corte dei conti.

Considerato in diritto che:- preliminarmente giova procedere alla riunione dei ricorsi per regolamento di giurisdizione concernenti il

medesimo giudizio pendente dinanzi alla Sezione regionale per il Lazio della Corte dei conti;- nell’esaminare detti ricorsi appare opportuno distinguere la posizione degli organi e dei dipendenti dell’A-

nas s.p.a. da quella degli altri soggetti convenuti in responsabilità nel medesimo giudizio, che all’Anas sono invece estranei;

- quanto ai primi, dev’essere senz’altro affermata la giurisdizione della Corte dei conti;- basta in proposito rinviare, per brevità, alla motivazione della sentenza delle Sezioni unite di questa Corte

n. 15594/2014, ove sono diffusamente indicate le ragioni per cui, ai fini del riconoscimento della giurisdizione contabile in tema di responsabilità di organi e dipendenti dell’Anas, dev’essere riconosciuta la perdurante na-tura di ente pubblico di quest’ultima pur nella acquisita veste formale di società azionaria;

- quanto agli altri convenuti in responsabilità, si rende necessario un esame differenziato;- la giurisdizione della Corte dei conti appare difficilmente contestabile per i componenti la commissione

di collaudo;- è sufficiente richiamare, in argomento, il consolidato orientamento di questa corte – dal quale non si ha qui

motivo per discostarsi – secondo cui la giurisdizione di detto giudice sussiste tutte le volte in cui fra l’autore del danno e l’amministrazione o l’ente pubblico danneggiato sia ravvisabile un rapporto, non solo di impiego in senso proprio e ristretto, ma di servizio, per tale intendendosi una relazione funzionale caratterizzata dall’in-serimento del soggetto nell’apparato organico dell’ente e nell’attività di questo suscettibile di rendere il primo compartecipe dell’operato del secondo (cfr., tra le altre, S.U., n. 7946/2003, n. 4809/2008, n. 24671/2009);

- pertanto, la giurisdizione della Corte dei conti sussiste pienamente quando si discuta di danni erariali imputati al comportamento di un organo tecnico straordinario, affidatario di qualificati poteri valutativi, e dei

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consulenti della direzione dei lavori, trattandosi di soggetti che, per l’attività svolta continuativamente, deb-bono ritenersi inseriti, seppure in via temporanea, nell’apparato organizzativo della pubblica amministrazione (cfr. S.U., n. 11229/2014);

- non essendovi dubbi sul fatto che la commissione di collaudo (e dunque i suoi componenti), pur essendo esterna alla struttura organica dell’ente pubblico che funge da stazione appaltante, si inserisca nell’iter procedi-mentale come compartecipe dell’attività pubblicistica del medesimo ente appaltante, ne consegue che l’azione di responsabilità per danni derivanti da scorretto adempimento delle funzioni affidate a detta commissione (impregiudicata restando qui, ovviamente, ogni questione in ordine all’effettiva configurabilità di una tale re-sponsabilità nel caso di specie) rientra a pieno titolo nell’alveo giurisdizionale della Corte dei conti;

- alle medesime conclusioni non è possibile prevenire quanto ai componenti della commissione di bonario componimento, prevista dalla l. n. 109/1994, art. 31-bis (ora abrogato e rimpiazzato dall’art. 240 del codice dei contratti pubblici);

- detta commissione è chiamata ad esprimere una proposta di accordo bonario quando l’appaltatore abbia iscritto in contabilità riserve destinate a far aumentare in modo significativo (e comunque non inferiore al 10 per cento) il valore dell’opera previsto in contratto;

- la sua funzione consiste nel favorire il raggiungimento di una transazione tra l’amministrazione pubblica appaltante ed il privato appaltatore, che ha iscritto le riserve, onde essa si pone non già quale soggetto funzio-nalmente inserito nell’apparato organico dell’ente appaltante, bensì in posizione di terzietà, come è confermato anche dalle modalità della sua costituzione: un componente designato dal responsabile del procedimento, un altro dall’appaltatore ed un terzo di comune accordo tra i primi due, ovvero, in mancanza di accordo, dal pre-sidente del locale tribunale;

- la funzione conciliativa che è propria di tale commissione implica, necessariamente, la sua naturale equi-distanza rispetto all’ente pubblico appaltante ed all’impresa privata appaltatrice: il che risulta inconciliabile con la configurazione di un rapporto di servizio funzionale che la legherebbe solo al primo di tali soggetti;

- da ciò consegue la mancanza di uno dei presupposti indispensabili per l’esercizio della giurisdizione contabile nei confronti dei componenti dell’anzidetta commissione di accordo bonario, l’operato dei quali, se anche possa esser risultato dannoso per la pubblica amministrazione, è imputabile a soggetti da considerarsi affatto estranei rispetto all’amministrazione medesima;

- la giurisdizione della Corte dei conti non appare ravvisabile neppure nei confronti della Comeri s.p.a., che nella specie ha assunto la veste di contraente generale ed ha iscritto in contabilità le riserve dal cui indebito riconoscimento si pretende esser derivato un danno all’ente appaltante;

- l’istituto del contraente generale, ora disciplinato dall’art. 176 codice dei contratti pubblici, attiene al contratto col quale la stazione appaltante affida ad un soggetto dotato di adeguata esperienza e qualificazione nella costruzione di opere nonché di adeguata capacità organizzativa, tecnico-realizzativa e finanziaria la rea-lizzazione dell’opera, con qualsiasi mezzo, nel rispetto delle esigenze specificate nel progetto preliminare o nel progetto definitivo redatto dalla medesima stazione appaltante e posto a base di gara, contro un corrispettivo pagato in tutto o in parte dopo l’ultimazione dei lavori;

- il contraente generale assume su di sé anche compiti che altrimenti graverebbero sulla stazione appaltante, quali ad esempio lo sviluppo del progetto definitivo e le attività tecnico-amministrative occorrenti per perve-nire alla sua approvazione da parte del Cipe, ove detto progetto non sia posto a base di gara, l’acquisizione delle aree di sedime, la progettazione esecutiva, la direzione dei lavori, il prefinanziamento in tutto o in parte dell’opera da realizzare, la selezione dei soggetti gestori, l’indicazione del piano degli affidamento, delle espro-priazioni, delle forniture di materiale e di tutti gli altri elementi utili a prevenire le infiltrazioni della criminalità organizzata secondo le forme stabilite con gli organi competenti in materia, ferma restando la competenza della stazione appaltante in tema di approvazione del progetto definitivo, di elaborazione del progetto esecutivo e delle varianti, nonché di alta sorveglianza sull’esecuzione delle opere e di collaudo delle stesse;

- la varietà di siffatti compiti ha generato, anche nella dottrina, incertezze circa la natura giuridica del contraente generale, talvolta assimilato alla figura dell’appaltatore, altre volte considerato piuttosto come un mandatario senza rappresentanza nell’interesse dell’amministrazione, oppure accostato ad un concessionario di lavori pubblici;

- analogamente, il rapporto intercorrente tra l’amministrazione ed il contraente generale è stato ricondotto,

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di volta in volta, alle tradizionali figure dell’appalto, del mandato o della concessione amministrativa, ma non è mancato chi ha scorto in esso un’ipotesi di collegamento causale tra tipi negoziali diversi, oppure un contratto misto (atipico o connotato da una tipicità sui generis) o un contratto procedimentalizzato a struttura variabile;

- non v’è qui necessità di prendere posizione tra le diverse tesi affacciatesi a questo proposito in dottrina, bastando notare come l’esplicita previsione di affidamento al contraente generale della “realizzazione con qual-siasi mezzo dell’opera” (art. 176 codice dei contratti pubblici, c. 1), comporti incontestabilmente l’assunzione a suo carico di un’obbligazione di risultato (si veda anche, in tal senso Cons. Stato, n. 4584/2010, che proprio su questo aspetto fonda la differenza rispetto alla figura dalla concessione di committenza, connotata invece per il concessionario da un’obbligazione di mezzi), destinata a conglobare in sé le svariate attività strumentali cui dianzi s’è fatto cenno;

- si può forse allora convenire sulla possibilità che, al pari del concessionario, il contraente generale, per le funzioni attribuitegli nell’iter che conduce alla realizzazione di un’opera pubblica, venga sotto certi riguardi ad assumere la veste di soggetto funzionalmente inserito nell’apparato dell’ente pubblico appaltante, così da rendersi compartecipe dell’operato di quest’ultimo, assumendo la veste di agente dell’amministrazione, con la conseguente instaurazione di un rapporto di servizio idoneo a radicare l’esercizio della giurisdizione contabile di responsabilità della Corte dei conti in controversie aventi ad oggetto il risarcimento del danno erariale deri-vante dalla violazione di obblighi previsti dalla legge o dal contratto;

- potrebbe in tal caso valere, pur con le debite differenze, quanto già in precedenti occasioni questa corte ha avuto modo di affermare: cioè che, in presenza di una concessione ad un soggetto privato della progettazione ed esecuzione di un’opera di pubblica utilità, si ha il trasferimento in tutto o in parte in capo al concessionario dell’esercizio di funzioni oggettivamente pubbliche proprie del concedente, necessarie per la realizzazione dell’opera, con la conseguenza che agli atti posti in essere dal concessionario può essere, all’occorrenza, rico-nosciuta natura di attività amministrativa e che l’accertamento di eventuali responsabilità nel compimento di quegli atti rientra nella giurisdizione della Corte dei conti (S.U., n. 4112/2007);

- proprio in base a tale principio si è in passato deciso, ad esempio, che spetta alla Corte dei conti la giuri-sdizione in ordine alla domanda di risarcimento dei danni avanzata da un comune nei confronti della società concessionaria del servizio delle pubbliche affissioni e della pubblicità, per la mancata riscossione dei relativi tributi (S.U., n. 26280/2009), nonché in ordine all’azione di responsabilità amministrativa promossa nei con-fronti di una società privata che, in esecuzione di un appalto di servizi per la manutenzione e la gestione del patrimonio immobiliare di un ente pubblico, abbia cagionato danni a quest’ultimo per aver appaltato lavori con procedure irregolari e in violazione sia delle norme contrattuali sia dei regolamenti interni dell’ente (S.U., n. 15599/2009);

- siffatta conclusione, tuttavia, potrebbe risultare giustificata solo nel caso in cui il danno erariale in discus-sione dipendesse da comportamenti illegittimi tenuti dall’agente nell’esercizio di quelle funzioni per le quali possa dirsi che egli è inserito nell’apparato dell’ente pubblico appaltante così da assumere la veste di agente dell’amministrazione;

- ben diversa è la situazione che si determina, invece, quando il danno di cui si pretende il ristoro è con-seguenza di comportamenti che il contraente generale abbia assunto nella veste di controparte contrattuale dell’amministrazione medesima, squilibrando il sinallagma contrattuale proprio del contratto;

- in questo caso ad esser violato non è il dovere (almeno lato sensu) pubblicistico, gravante sul contraente generale, di agire nell’interesse dell’amministrazione, bensì quello di adempiere correttamente le obbligazioni dedotte nel contratto, alle quali corrispondono i diritti che il contratto medesimo attribuisce ad una parte nei confronti dell’altra;

- è proprio questa situazione ad essersi verificata nel caso in esame, giacché ciò di cui si fa carico alla Co-meri s.p.a. è di aver iscritto in contabilità riserve per le quali si assume che non ricorressero i presupposti, o che sarebbero state computate in misura maggiore del dovuto: cioè, in definitiva, di aver preteso ed ottenuto, grazie al parziale riconoscimento di dette riserve, una contropartita della propria prestazione contrattuale che non le sarebbe spettata;

- siffatta pretesa, con ogni evidenza, innesca una controversia tra la parti contrattuali, avente ad oggetto la corretta determinazione del corrispettivo dovuto per l’esecuzione del contratto, che, come tale, manifestamente non appartiene alla giurisdizione del giudice contabile;

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365

- la giurisdizione della Corte dei conti è da escludere anche nei confronti del direttore dei lavori;- si è affermato, in precedenti occasioni, che il direttore dei lavori per la realizzazione di un’opera pubblica,

in considerazione dei compiti e delle funzioni che gli sono devoluti, i quali comportano l’esercizio di poteri autoritativi nei confronti dell’appaltatore e l’assunzione della veste di agente, deve ritenersi funzionalmente e temporaneamente inserito nell’apparato organizzativo della pubblica amministrazione che gli ha conferito l’incarico, quale organo tecnico e straordinario della stessa, con la conseguenza che, con riferimento alla re-sponsabilità per danni cagionati nell’esecuzione dell’incarico stesso, è soggetto alla giurisdizione della Corte dei conti (S.U., n. 340/2003), con l’ulteriore precisazione secondo cui la responsabilità per danni cagionati all’amministrazione appaltante dal direttore dei lavori ricade nella giurisdizione della stessa Corte dei conti an-che se il medesimo soggetto abbia cumulato su di sé pure l’incarico di progettista (quantunque solo il direttore dei lavori, e non anche il progettista, sia temporaneamente inserito nell’apparato organizzativo della pubblica amministrazione appaltante quale organo tecnico e straordinario della stessa), sorgendo in tal caso la responsa-bilità dal cumulo degli incarichi e da una complessiva attività professionale che non consentono di scindere le giurisdizioni in presenza di un rapporto unitario (cfr. S.U., n. 28537/2008 e n. 7446/2008);

- quando però, come nel caso in esame, l’appalto sia stato affidato ad un contraente generale, secondo il modello già sopra riferito, che espressamente pone la direzione dei lavori a carico del medesimo contraente generale, sottraendola dalle funzioni proprie della pubblica amministrazione committente, viene meno il pre-supposto dell’inserimento del direttore dei lavori nell’apparato di detta amministrazione, onde non appare più possibile qualificarlo come un agente pubblico che esplica poteri autoritativi nei confronti dell’impresa appaltatrice;

- appare al contrario evidente che, quando esplica un compito rientrante nelle funzioni attribuite al contra-ente generale, il direttore dei lavori né è funzionalmente e temporaneamente inserito nell’apparato organizzati-vo della pubblica amministrazione, né esplica alcun potere autoritativo nei confronti del medesimo contraente generale, proprio per il quale invece egli opera;

- di conseguenza, in simili casi, neppure è possibile ravvisare nei confronti del direttore generale una re-sponsabilità ricadente nell’ambito della giurisdizione contabile.

P.q.m., la Corte, riuniti i ricorsi, dichiara:a) che compete alla Corte dei conti la giurisdizione in ordine all’azione promossa nei confronti dei signori

Olivieri Valeria, Bajo Alfredo, Picardi Gian Claudio, Ciucci Pietro, Granati Stefano, Conforti Leopoldo, Marra Biagio, Achille Norberto e Rinaldi Maria Carolina;

b) che la Corte dei conti è priva di giurisdizione nei confronti dei signori Bevilacqua Antonio, Puletti Luca e Lacchini Marco e della Comeri s.p.a.

II

Cass., S.U., ord. 22 settembre 2014, n. 19891

Svolgimento del processo – L’architetto Calatrava Valls Santiago donò all’amministrazione comunale di Venezia lo studio di fattibilità del quarto ponte sul Canal Grande, destinato a collegare il Piazzale Roma con la fondamenta prospiciente il Palazzo delle ferrovie. Esperita procedura di selezione a evidenza pubblica, la giunta conferì all’associazione professionale Santiago Calatrava s.a. l’incarico della progettazione definitiva ed esecutiva dell’opera. A seguito dell’approvazione dei progetti e dell’aggiudicazione dei lavori, il medesimo Calatrava, con det. 13 febbraio 2003, n. 202 integrata da successiva det. 16 maggio 2003, n. 1065 venne nomi-nato consulente della direzione dei lavori.

Nel corso dell’esecuzione dell’opera furono approvate varie perizie di variante. A fronte di importanti anomalie riscontrate nella struttura, oggetto di argomentati rilievi dell’Autorità per la vigilanza sui contratti pubblici di lavori servizi e forniture – Avcp – ed evidenziate altresì in relazioni redatte da consulenti tecnici officiati dal Comune di Venezia, dalla procura della Repubblica del locale tribunale nonché dalla procura re-gionale presso la sezione giurisdizionale della Corte dei conti per il Veneto, quest’ultima notificò all’architetto Calatrava, in qualità di consulente della direzione dei lavori, atto di invito a dedurre per preteso danno erariale.

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366

Successivamente la medesima procura lo ha citato a comparire innanzi alla sezione giurisdizionale della Corte dei conti per il Veneto.

Segnatamente l’architetto Calatrava è stato chiamato a rispondere delle varianti approvate in corso d’o-pera, asseritamente dovute a omissioni ed erroneità progettuali; dei costi aggiuntivi connessi al ritardo nel completamento dell’opera, pretesamente imputabile, tra l’altro, a continui tentativi in itinere di eliminare i problemi di staticità del ponte; delle divergenze tra il Piano di manutenzione a suo tempo redatto e gli esborsi che, in concreto, si sono rivelati a tal fine necessari, assumendosi al riguardo che il professionista, “laddove è risultato carente in fase progettuale, nulla ha fatto in veste di consulente della direzione lavori per ovviare a tali carenze”.

L’architetto Calatrava Valls Santiago ha proposto, ex art. 41 c.p.c., regolamento preventivo di giurisdizio-ne affidato a un unico motivo, illustrato anche da memoria, al quale il procuratore regionale ha replicato con controricorso. Ravvisandosi una delle ipotesi di cui all’art. 375 c.p.c., gli atti sono stati trasmessi al pubblico ministero presso la Corte di cassazione e all’esito del deposito della requisitoria con la richiesta di rigetto del ricorso, ne è stata disposta notificazione agli avvocati delle parti unitamente al decreto di fissazione dell’adu-nanza camerale.

1. Con l’unico motivo il ricorrente denuncia violazione e falsa applicazione delle norme in materia di ripar-to di giurisdizione e segnatamente degli artt. 102 e 103 Cost., r.d. n. 1214/1934, art. 13, l. n. 20/1994, art. 1. Se-condo l’esponente erroneamente la procura regionale avrebbe ritenuto la sussistenza di un rapporto di impiego e/o di servizio di cui egli sarebbe stato parte e altrettanto erroneamente avrebbe ravvisato il nesso eziologico tra la sua condotta e l’asserito evento dannoso.

Premesso di essere stato nominato consulente artistico del direttore dei lavori, sostiene il Calatrava che l’incarico andrebbe considerato quale mero accessorio di quello di progettista dell’opera, già conferitogli in precedenza. L’art. 2 della relativa delibera limitava invero la sua attività alla consulenza architettonica sulla progettazione esecutiva del ponte, con il divisato obiettivo di assicurare che nella concreta esecuzione della stesso ne venisse rispettata l’idea progettuale e la rilevanza estetica.

La palese accessorietà delle funzioni di consulente artistico del direttore dei lavori rispetto a quelle di progettazione e l’assenza nelle stesse di qualsivoglia esercizio di poteri autoritativi renderebbe pienamente applicabile, in parte qua, la giurisprudenza della Corte regolatrice che esclude la possibilità di evocare dinanzi alla Magistratura contabile il libero professionista che abbia svolto un incarico di progettista, posto che, r.d. n. 1214/1934, ex art. 13 e l. n. 20/1994, art. 1, c. 4, la giurisdizione della Corte dei conti riguarda la responsabilità dei pubblici funzionali e dei pubblici dipendenti.

Del tutto ininfluente sarebbe poi l’orientamento che riconosce la giurisdizione del giudice contabile nei confronti di soggetti privati che, per l’incarico ricevuto, debbano ritenersi funzionalmente e temporaneamente inseriti nell’apparato organizzativo dell’amministrazione, come il professionista esterno officiato della funzio-ne di direttore dei lavori, considerato che in casi siffatti il privato si pone come agente dell’amministrazione, dotato di poteri autoritativi nei confronti dell’appaltatore, laddove al Calatrava era affidata la sola consulenza artistica e che, in ogni caso, giammai né aveva avuto la gestione diretta di denaro pubblico, né aveva potuto concretamente influire sulla stessa, elementi dirimenti ai fini della sussistenza di quella giurisdizione. In parti-colare, l’estraneità del convenuto all’approvazione delle perizie di variante e ai maggiori costi di manutenzio-ne, oggetto di contestazione, emergeva dalla valutazione del ruolo da lui, nei fatti, svolto, nonché dal contenuto del contratto di consulenza sottoscritto.

In ogni caso, a tutto voler concedere, gli esborsi dei monitoraggi eseguiti sul ponte sarebbero eziologica-mente connessi all’originaria attività di progettazione, piuttosto che a quella di direzione dei lavori, di talché esulerebbero dalla sfera di controllo della magistratura contabile.

2. Nella memoria successivamente depositata, in risposta ai rilievi formulati nel suo controricorso dal pro-curatore regionale nonché alle conclusioni rassegnate dal procuratore generale presso la Corte di cassazione, il ricorrente ha segnatamente insistito sulla inconferenza del richiamo alla det. 16 maggio 2003, n. 1065 con la quale il Comune di Venezia gli avrebbe conferito un diverso incarico di consulenza, rispetto a quello originaria-mente affidato. E invero, considerato che nella citazione in giudizio la procura regionale aveva fatto riferimento esclusivamente al contratto del 20 marzo 2003, preceduto dalla det. affidamento 13 febbraio 2003, n. 202, il rilievo che si pretendeva di attribuire a quella del mese di maggio successivo eccedeva l’oggetto della domanda introduttiva del giudizio per preteso danno erariale ed esulava, quindi, dall’ambito della cognizione del propo-

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