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PROGETTO RESTAURO Trimestrale per la tutela dei Beni Culturali anno 12 - numero 42 - primavera 2007 rivista fondata da Giulio Bresciani Alvarez SOMMARIO Enrica Boschetti Il fascino discreto del ciclododecano Leonardo Borgioli pagina 2 Olimpia Niglio La conoscenza come metodo per la conservazione del paesaggio e dell’architettura. I dammusi di Pantelleria pagina 6 Daria Maltseva Tecnica della pittura russa antica: analisi sullo studio e il restauro in Russia pagina 11 Antonella Cesaroni La manutenzione inadeguata che pregiudica la sostenibilità di un’opera eclettica pagina 16 Gaia Salvatori Aspetti conservativi del fondo fotografico Gabriella De Florio ottocentesco e novecentesco dell’archivio Matania di Napoli pagina 23 Silvia Covelli Un’esperienza pratica di trazionamento graduale Stefania Gavazzi di un dipinto su tela Andrea Lutti pagina 28 Marco Ferrero Il Cristo della Domenica: un’iconografia tra arte e religione. Un esempio vicentino. pagina 33 Anna Pietropolli Segnalazioni bibliografiche pagina 39 Direttore Renzo Fontana Direttore responsabile Luca Parisato Vicedirettore Anna Pietropolli Responsabile di redazione Marina Daga Redazione Loredana Borgato, Anna Brunetto, Michela Carraro, Luca Caburlotto, Paolo Cremonesi, Maria Sole Crespi, Olimpia Niglio, Renzo Ravagnan Corrispondente dall’Inghilterra Claudia Sambo Corrispondente dagli U.S.A. Maria Scarpini Periodicità trimestrale Amministrazione e redazione il prato casa editrice via Lombardia, 41/43 - 35020 Saonara (Padova) tel. 049/640105 fax 049/8797938 e-mail: [email protected] – www.ilprato.com © Copyright gennaio 1998 il prato casa editrice – Padova Ideazione grafica ADV Solutions – Ospedaletto Euganeo (PD) Stampa: Arti Grafiche Padovane Abbonamento a quattro numeri Italia 18 – estero 38 da versare sul c.c.p. 13660352 intestato a il prato casa editrice via Lombardia, 41/43 – 35020 Saonara (Padova) Protezione dei dati personali - Informativa ex artt. 13 e 23 D.Lgs. n. 196/2003. I dati personali raccolti al momento dell’abbonamento sono trattati dalla casa editrice il prato, titolare del trattamento. Il conferimen- to dei dati richiesti è facoltativo: un eventuale rifiuto di comunicare i dati indicati nel modulo on line come necessari comporta, tuttavia, l'impossibilità di fornire il Servizio richiesto. L’abbonato potrà esercitare i diritti di cui all'art. 7 del D.Lgs. n. 196/2003 (accesso, corre- zione, cancellazione, opposizione al trattamento ecc.) rivolgendosi al Titolare del trattamento: casa editrice il prato, via Lombardia, 41/43, 35020 Saonara (PD). Ogni fascicolo Italia: 6 – estero 12 Registrazione presso il Tribunale di Treviso n. 971 del 19.09.1995 In copertina Madre di Dio del Segno. Collezione F. Bigazzi (Museo di Icone Russe di Peccioli - Pisa), XVIII sec. Le opinioni espresse negli articoli pubblicati dalla rivista Progetto Restauro impegnano esclusivamente i rispettivi autori.

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PROGETTO RESTAUROTrimestrale per la tutela dei

Beni Culturalianno 12 - numero 42 - primavera 2007

rivista fondata daGiulio Bresciani Alvarez

SOMMARIO

Enrica Boschetti Il fascino discreto del ciclododecanoLeonardo Borgioli pagina 2

Olimpia Niglio La conoscenza come metodo per la conservazionedel paesaggio e dell’architettura. I dammusi diPantelleriapagina 6

Daria Maltseva Tecnica della pittura russa antica: analisi sullo studio e il restauro in Russiapagina 11

Antonella Cesaroni La manutenzione inadeguata che pregiudica lasostenibilità di un’opera ecletticapagina 16

Gaia Salvatori Aspetti conservativi del fondo fotografico Gabriella De Florio ottocentesco e novecentesco dell’archivio Matania

di Napolipagina 23

Silvia Covelli Un’esperienza pratica di trazionamento graduale Stefania Gavazzi di un dipinto su telaAndrea Lutti pagina 28

Marco Ferrero Il Cristo della Domenica: un’iconografia tra arte ereligione. Un esempio vicentino.pagina 33

Anna Pietropolli Segnalazioni bibliografichepagina 39

DirettoreRenzo Fontana

Direttore responsabileLuca Parisato

VicedirettoreAnna Pietropolli

Responsabile di redazioneMarina Daga

RedazioneLoredana Borgato, Anna Brunetto, Michela Carraro, LucaCaburlotto, Paolo Cremonesi, Maria Sole Crespi, OlimpiaNiglio, Renzo Ravagnan

Corrispondente dall’InghilterraClaudia Sambo

Corrispondente dagli U.S.A.Maria Scarpini

Periodicitàtrimestrale

Amministrazione e redazioneil prato casa editricevia Lombardia, 41/43 - 35020 Saonara (Padova)tel. 049/640105 fax 049/8797938e-mail: [email protected] – www.ilprato.com

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Ogni fascicoloItalia: 6 – estero 12Registrazione presso il Tribunaledi Treviso n. 971 del 19.09.1995

In copertinaMadre di Dio del Segno. Collezione F. Bigazzi(Museo di Icone Russe di Peccioli - Pisa), XVIII sec.

Le opinioni espresse negli articoli pubblicati dallarivista Progetto Restauro impegnano esclusivamentei rispettivi autori.

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IntroduzioneLe possibilità di utilizzo di un mate-riale che può sublimare a temperatu-ra ambiente, ossia passare dallo statosolido a quello gassoso sono nume-rosissime, e particolarmente interes-santi per certe situazioni in cui ilproblema dei residui è cruciale.La presente comunicazione è incen-trata su una applicazione che uniscefantasia e conoscenza dei materiali,ed è solo un primo passo in uno stu-dio più articolato che si spera possarendere l’operazione della pulituradelle opere policrome più sicura esemplice.Ci sembra doveroso partire da unabreve descrizione del ciclododecano,materiale già sul mercato da alcunianni e al centro di numerosi studi [1,2, 3], ma poco conosciuto nel setto-re del restauro dei dipinti su tela.Il ciclododecano è un idrocarburoalifatico ciclico, di formula C12H24,ovvero un anello di dodici atomi dicarbonio, ciascuno legato a dueatomi di idrogeno, a formare una“corona” non planare, secondo lafigura 1.Possiamo pensarlo come un fratellomaggiore del cicloesano, e comequesto altamente apolare ed incapa-ce di formare legami di una certaentità con le molecole che lo circon-dano. Da questo deriva un’alta ten-sione di vapore, e a questa caratteri-stica è collegata la proprietà dellasublimazione.Anche la solubilità è limitata ai solisolventi apolari (white spirit, essenzadi petrolio ed idrocarburi in genera-le...), mentre i solventi ad alta emedia polarità (acqua, alcoli, cheto-

ni...) non sono capaci di dissolverlo.Le altre proprietà chimico-fisichesono riportate nella tabella 1.Il ciclododecano può essere applica-to tramite bomboletta spray, metodosicuramente semplice e veloce, mache non permette l’impregnazione inprofondità. Infatti nello spray il ma -teriale è disciolto in una miscela dipropano e butano liquidi, che al mo -mento dell’applicazione evaporanocompletamente senza veicolare ilmateriale all’interno dei pori; in que-sto caso l’effetto consolidante èmolto limitato, e si ha sostanzial-mente un effetto protettivo/fissativo.Questo effetto è strettamente legatoalla distanza di spruzzo, che regolala natura del film ottenibile, secondo

quanto riportato dal papà del ciclo-dodecano e maggior esperto, il tede-sco Hangleiter [2] nella tabella rias-suntiva n. 2.Se si desidera invece un effetto con-solidante o di saturazione dei pori èpossibile l’applicazione a pennellodel ciclododecano solido sciolto inun idrocarburo (white spirit o essen-za di petrolio), al 50% in peso.L’applicazione da white spirit con-duce a film più porosi, mentre l’es-senza a film più compatti.Proprio Hangleiter, assieme alla col-laboratrice Salzmann, ha presentatoall’ultimo Convegno “Colore e con-servazione”, tenutosi a Milano nelNovembre 2006, i risultati di misureeffettuate su carta e intonaci, volte adeterminare per quali solventi ed inche misura il materiale può costitui-re una barriera.Gli effetti sulle barriere di ciclodode-cano sono strettamente correlati allapolarità del solvente e alla sua capaci-tà di bagnare le superfici, proprietà

Materiali e metodi

Il fascino discreto del ciclododecanoEnrica Boschetti*, Leonardo Borgioli**

Fig. 1. Due possibili forme del ciclododecano, con struttura non planare e due rappre-sentazioni 3D.

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quest’ultima inversamente propor-zionale alla tensione superficiale.In altre parole l’acqua, che possiedealta tensione superficiale e bassopotere bagnante, viene sempre bloc-cata, comunque si applichi il ciclo-dodecano.Se all’acqua viene aggiunto però untensioattivo ecco che la sua tensionesuperficiale si abbassa e bagnameglio le superfici; in questo caso lametodologia di applicazione diventafondamentale: si ha parziale penetra-zione se il ciclododecano è statoapplicato a spray o da soluzione. Peravere un completo isolamento ènecessario applicare il ciclododeca-no fuso.Diminuendo la polarità e anche latensione superficiale, per esempiocon l’alcool etilico, si riscontra unabuona penetrazione attraverso i filmsottili e risulta bloccato solo conl’applicazione del prodotto fuso.Infine tutti gli idrocarburi (alifatici,aromatici e clorurati) portano alla

completa dissoluzione del ciclodo-decano, e non possono quindi esserebloccati, ma anzi vengono utilizzatinel caso si voglia rimuovere rapida-mente i residui.Nel caso si desideri rallentare oimpedire la sublimazione è possibilecoprire la superficie con uno stratouniforme di adesivo o un film bar-riera in alluminio. Per la protezionea lungo termine di affreschi Han -gleiter aveva utilizzato del poliure-tano bicomponente e carta stagnola,ma anche del semplice miele, cheaveva la sola funzione di sostenere lapellicola d’alluminio. In questo se -condo caso una volta staccata la pel-licola e lavato via il miele con unaspugna umida il ciclododecano (chesaturando la porosità aveva impedi-to la penetrazione del miele),riprendeva il processo di sublima-zione.In questi ultimi anni è stato studiatoa fondo il problema della penetrazio-ne dei solventi negli strati pittorici

[4], e del conseguente fenomeno del“leaching”, ossia dell’estrazione deicomponenti a basso peso molecolaredel medium oleoso invecchiato.Tale estrazione comporta una ridu-zione dello spessore del film dilinossina (l’olio siccativo polimeriz-zato), ed il contemporaneo irrigidi-mento del film, dato che tali compo-nenti a basso peso molecolare fun-zionano anche da plastificanti.Per ovviare al problema sono statemesse a punto due strategie: lavorarecon soluzioni acquose di vario tipo[5] o “bloccare” il solvente gelifican-dolo, utilizzando miscele di acidopoliacrilico a lunga catena (Car -bopol) e tensioattivi basici (Etho -meen), secondo alcune proceduremesse a punto da Wolbers [6].L’utilizzo dei solvent gel risultacomunque problematica quando lasuperficie del dipinto è afflitta daelevata porosità o craquelures. Inqueste aree il gel si deposita ed è dif-ficile rimuoverlo completamente, odiviene necessario ripetere insisten-temente il tamponcino di cotoneimbevuto di solvente libero. In que-ste situazioni è frequente osservareun fenomeno di “spurgo” dai crettinei momenti successivi alla pulitura,quando il solvente assorbito, polareo apolare che sia, completa la suaevaporazione. Dai cretti risale quin-di lo sporco che era assorbito all’in-terno, e costringe a riprendere l’ope-razione di pulitura, anche se inmodo più leggero e limitato a questearee.L’idea di fondo della nostra speri-mentazione era quella di “saturare”le porosità e i cretti, riempiendoli diciclododecano, ed effettuare la puli-tura con sistemi acquosi o solventgel. Il “prodotto barriera” se nesarebbe andato al termine della puli-tura.Sebbene numerose pubblicazioniabbiano preso in esame varie appli-

Materiali e metodi

Tab. 1. Proprietà chimico-fisiche del ciclododecano.

Tab. 2. Caratteristiche del film di ciclododecano in funzione della distanza di spruz-zo con bomboletta spray.

Formula: C12H24Punto di fusione: 58-61°CPunto di ebollizione: 243°CPeso specifico: 0,83 kg/dm3Tensione di vapore: 7200 hPa a 50°C ca

4500 hPa a 20°C caDensità relativa: 0,7 g/cm³ a 20°C caViscosità a 65°c 2,2 mPas

Distanza di spruzzo Caratteristiche del film ottenibile3-4 cm film denso con buone proprietà meccaniche6-10 cm film morbido uniforme>10 cm film molto poroso e facilmente rimovibile.

Perdita di materiale

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cazioni del ciclododecano in campocartaceo [7], lapideo [8], nel restaurodegli affreschi [9], e nel settorearcheologico [10], non sappiamomolto dei trattamenti dei dipinti sutela, benché siano già stati effettuati[11].

Parte sperimentaleLa sperimentazione del ciclodode-cano solido è avvenuta su tre dipin-ti di Ludovico Pogliaghi (Milano1857-1950) a olio su tela cm 60x90.Si tratta di tre opere nate e vissuteinsieme e quindi con le stesse pro-blematiche.Si presentavano sporchi di polvere edi catrame di sigarette oltre a unostrato di vernice finale molto ingial-lita. Inoltre tutti e tre avevano alcu-ni piccoli sfondamenti con relativelacerazioni della tela causati da urti.La pellicola pittorica, molto cretta-ta, era fortemente distaccata dalsupporto, e quindi questa situazioneimpediva una pulitura tradizionalesenza prima intervenire con un pre-consolidamento. Si è quindi decisodi testare il ciclododecano su unodei tre dipinti, solubilizzandolo conun rapporto in peso 1:1 in white spi-rit D 40 ed in essenza di petrolio.Entrambi i solventi sono dearoma-tizzati e denaturati con il 7% dibutilacetato.Queste due miscele sono state appli-cate a pennello a 40°C circa, andan-do quindi per saturazione dellaparte trattata. Durante e subitodopo questo intervento, si è notatala forte capillarità anche perimetraledi questi materiali sciolti nei solven-ti sopra citati. Sulla superficie sideposita parte del prodotto, a for-mare una patina bianca. Dopo tregiorni di sublimazione a 20°C, lapellicola pittorica presentava ancoraresidui di materiale a chiazze,soprattutto nella zona trattata conwhite spirit.

La procedura di pulitura prevedeva:- un primo passaggio a SalivaSintetica per asportare polveri e rela-tivi sporchi idrosolubili;- asportazione della vernice moltoingiallita utilizzando butilacetato.La pulitura a Saliva Sintetica si èeffettuata con l’aiuto di batuffoli dicotone, pennelli e addirittura spaz-zolini senza avere il benché minimomovimento di scaglie di colore. Lapulitura a butilacetato, soprattuttonel campione trattato con essenza dipetrolio, non consentiva agio nellalavorazione a causa del rapido solle-vamento del colore ( forse per la per-centuale di butilacetato contenutacome denaturante). Appena termi-nata la pulitura dei campioni alcunevescicole, date da parziali distacchidella pellicola pittorica dal supporto,erano abbastanza evidenti. Ma unaltro dato interessante si è riscontra-to il giorno dopo. Non si notavaalcuno spurgo dai cretti come invecespesso succede nelle puliture tradi-zionali, spurgo che obbliga a ripren-dere la pulitura.In base ai dati riscontrati da questeprove, si è deciso di affrontare glialtri due dipinti avvalendosi dell’usodel ciclododecano in essenza dipetrolio, data la sublimazione piùomogenea notata nelle aree dove siera utilizzato questo solvente.Senza intervenire sui dipinti, lasciatiquindi ancora vincolati ai loro telai,si è steso il ciclododecano sciolto inessenza 1:1. Sono stati lasciati i qua-dri stesi su un tavolo con il coloreverso l’alto (in questo modo non siaiutava la sublimazione anche dalretro) per 62 ore a 22°C. Nel giornoprogrammato per la pulitura, avendoancora del materiale visibile sullapellicola, si è accelerata la sublima-zione superficiale usando una stufet-ta ad aria calda posta a distanza dicirca 120 cm. Rimosso il consolidan-te dalla superficie, si è effettuato la

pulitura con Saliva Sintetica usando,come nei campioni, anche gli spaz-zolini. Asciugata la superficie, idipinti sono stati svincolati dai telaigodendo ancora dell’azione delciclododecano (si temeva che dopol’utilizzo del solvente da usare perl’asportazione della vernice, si sareb-be perso molto di questa agevolazio-ne), e in effetti, sia durante l’estrazio-ne dei chiodi, sia durante l’appiana-mento sul tavolo dei bordi, non si èavuto alcuna perdita di frammenti dicolore e nemmeno di preparazione.Si è poi valutato, per l’asportazionedella vernice, di utilizzare un solven-te più volatile e più polare del butila-cetato e, stabilitane l’idoneità, si èusato acetone. Questo ultimo inter-vento è stato estremamente rapido(all’incirca 1/2 ora per il totale dellasuperficie di ogni dipinto), e il colo-re è sempre rimasto perfettamenteadeso al supporto. Anche questavolta non si è evidenziato alcunospurgo dai cretti. Forse l’utilizzo diun solvente più veloce, che non haintaccato il momentaneo consolida-mento sottostante, non ha causatoalcuna vescicola di distacco, oppureil motivo può stare nel fatto che ilsolvente-veicolo usato per apportareil ciclododecano, cioè l’essenza dipetrolio, lascia un film più uniformee compatto rispetto al white spirit(per risolvere questi quesiti sarannonecessari test incrociati tra solventi-veicolo e solventi di pulitura a diver-sa volatilità).Nei giorni a seguire, si poteva anco-ra notare visivamente la presenza delciclododecano depositato fra letrame della tela. Al 9° giorno, sem-pre tenendo i dipinti a temperaturaambiente, il nostro “affascinante”materiale non si notava più.È doveroso aggiungere che il primodipinto, avendo solo effettuato delleprove col ciclododecano e, nelleparti non trattate, avuto i fatidici

Materiali e metodi

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“spurghi” dai cretti, oltre a quellevescicole da distacco citate prece-dentemente, ha necessitato di unconsolidamento per la riadesionedegli strati.Questo è stato eseguito con Aqua zol500 sciolto in acetone in rapporto inpeso 1:8 (quindi con una concentra-zione piuttosto elevata).Negli ultimi due casi invece, anchese all’apparenza al termine dellapulitura non necessitavano di unconsolidamento permanente, si èconsiderato che all’arrivo in labora-torio tutti e tre i dipinti presentava-no un generale problema di distaccodella pellicola pittorica. Si è quindideciso di consolidare i due dipintisempre con Aquazol 500 in acetone,ma con una concentrazione minore(rapporto in peso 1:11).È nostra intenzione proporre questointervento, sicuramente empirico,non come una procedura standardda riapplicare in altre situazioni, macome una osservazione di un feno-meno che riteniamo di estremo inte-resse.

ConclusioniSi è ritenuto opportuno mettere aconoscenza la comunità del restaurodelle nostre semplice osservazioni,che potranno essere un punto di par-tenza per ulteriori prove e ricerche.Sicuramente sarà necessario il sup-porto dei laboratori chimici, pereffettuare rigorose prove sugli effet-ti dei solventi e per conoscere preci-samente i tempi di sublimazione delciclododecano anche in base allecondizioni ambientali. Riteniamo che veramente questomateriale abbia da dirci-darci moltecose fra cui, soprattutto, non estrar-re i materiali a basso peso molecola-re derivanti dal naturale invecchia-mento dello strato pittorico, maanche lavorare in sempre maggioresicurezza sugli oggetti affidatici, ed

apportare sempre meno materiali alloro interno.

Bibliografia1. H.M. HANGLEITER, E. JÄGERS, E.JÄGERS; “Flüchtige Bindemittel” Zeit -schrift für Kunsttechnologie undKonservierung 2, 1995.2. H. HANGLEITER; “Temporary protec-tion of sensitive surfaces about the usageof volatile binding agents” DRV Con -ference, Berlin 2000.www.hangleiter.com/html_e/index_.htm(ultimo accesso 2/2/2007)3. L. SALTZMANN, H. HANGLEITER;“Cy clododecane - New ideas for appli-cation” DKF course, Copenhagen 2005.www.hangleiter.com/html_e/index_.htm(ultimo accesso 2/2/2007)4. K. SUTHERLAND; “The extraction ofsoluble components from an oil paintfilm by a varnish solution” Studies inConservation 45, 2000.5. R. WOLBERS; “La pulitura di superficidipinte - Metodi acquosi”, Padova 2005.6. R. WOLBERS; “Notes for workshop onnew methods in the cleaning of pain-tings” Getty Conservation Institute,California 1990. Si veda anche la serie diarticoli a cura di Paolo Cremonesi invari numeri di Progetto Restauro degliultimi anni.7. I. BRUCKLE, J. THORNTON, K.NICHOLS, G. STRICKLER; “Cyclodo -decane: technical note on some uses inpaper and objects conservation” Journalof the American Institute for Con -servation, Vol. 38, No. 2, Summer, 1999.8. R. STEIN, J. KIMMEL, M. MARINCOLA,F. KLEMM; “Observations on cyclodode-cane as a temporary consolidant forstone” Journal of the American Institutefor Conservation, Vol. 39, No. 3, Au -tumn - Winter, 2000.9. A. FELICI, M.R. LANFRANCHI, G.C. LANTERNA, M. RIZZI; “Alcuneesperienze nell’uso del ciclododecano nelrestauro delle pitture murali”, 2003.10. V. MUROS, J. HIRX; “The use ofcyclododecane as a temporary barrier forwater-sensitive ink on archaeologicalceramics during desalinization” Journalof the American Institute for Con -servation, Vol. 43, 2004.

11. Dipinti su tela trattati con ciclodo-decano sono quelli del Chiostro diSchöntal (pubblicato sulla rivista tede-sca “Kunsttechnologie und Kon ser -vierung” del 1987), del Castello diLudwigsburg e del Castello di Wei -kersheim, ed un VanDyck della catte-drale di Francoforte sul Meno.www.hangleiter.com/html_e/index_.htm(ultimo accesso 2/2/2007).

Materiali e metodi

* Restauratrice privata, diplomata alLiceo Artistico di Milano, lavora da piùdi 25 anni nel settore del restauro dipintisu tela e tavola, con settore preferenzialela pittura dell’800.

**Laureato a Firenze nel 1990 inchimica, con una tesi sulle micro -emulsioni applicate agli affreschi dellaCappella Bran cacci, alla Chiesa delCarmine. Ha lavorato come ricercatorepresso la Syremont per poi approdare al -l’espe rienza di docenza e di assistenzatecnica per i prodotti, sempre nel settoredel restauro. È responsabile dell’ufficiotecnico-scientifico di C.T.S. Srl.

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La percezione di un luogo,sia esso naturale o artificiale,è indissolubilmente legataa un’esperienza culturale.Marc Trieb (N.Y. 1998)

La conoscenza del passato è un datoda cui non possiamo prescindere sevogliamo conservare quanto l’uomoha scoperto e realizzato. Con riferi-mento all’architettura è soprattuttola storia e l’analisi delle tecniche co -struttive – scrive Paolo Portoghesi –a consentirci di riportare l’architet-tura stessa “alle sue radici naturali, alsuo rapporto diretto (...) con la

e a tutti quei componenti di cui ilmanufatto è costituito. Così la lettu-ra diretta dell’architettura diventa,allo stesso tempo, storia e progettoconservativo e la materia assurge asimbolo della memoria e della cultu-ra di un popolo.Scrive De La Blanche che la pietra“dà la propria impronta indelebileanche al paesaggio umano realizzan-do una particolare continuità franatura, cultura, ambiente urbano erurale”3.In quest’ottica l’ambiente Medi -terraneo ci mostra una cultura archi-tettonica molto organica dove la pie-tra propria dei manufatti edilizidiventa immagine del paesaggio,dando vita ad una straordinaria rela-zione tra natura e cultura antropica.Al riguardo Paolo Portoghesi scriveche “la materia prima e dominante diun luogo di sabbia, terra o pietra chesia, è matrice di ogni architettura, diogni cultura materiale: essa ha in -fluenzato in modo determinante lapercezione e formato la sensibilitàdegli uomini che si sono succeduti inquel luogo di generazione in genera-zione e l’architettura, utilizzandola,

Architettura e conservazione

La conoscenza come metodo per laconservazione del paesaggio edell’architettura.I dammusi di PantelleriaOlimpia Niglio*

Fig. 1. Un’immagine dei terrazzamenti dell’isola di Pantelleria conresidenze rappresentate dai dammusi.

Fig. 2. Pantelleria. Il dammuso. Organizzazione peraggregazione complessa. G. De Giovanni, Laboratorio diArchitettura. Processi e metodi di una cultura tecnologica.

vocazione ambientale dei luoghi edelle comunità umane”1.Certamente l’interesse a testimonia-re e documentare civiltà e luoghi delpassato fa si che la conoscenza si tra-sformi in memoria storica, intesaanche come informazione necessariaper la costituzione di una culturaarchitettonica legata ai materiali, alletecniche e al processo tecnologico2.Percorrendo questo itinerario cono-scenza e metodo conservativo si rife-riscono ad un sistema costruttivo equindi tecnologico, non più legatosolo all’analisi della forma ma, alcontrario, all’analisi delle materia,quindi alla pietra, al legante, al legno

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ne ha moltiplicato ed istituzionaliz-zato il luogo (...) la cultura della pie-tra è importante quanto la culturadei dialetti4.Un esempio che merita particolareattenzione, in questo ambito di anali-si, è il caso dell’architettura vernacola-re di Pantelleria, un’isola dell’arcipe-lago siciliano, a sud-ovest di Mazzaradel Vallo e a poco meno di 70 Kmdalla costa della Tunisia (fig. 1).L’attenzione verso l’architetturaspontanea dell’arcipelago sicilianopone in primo piano la figura di KarlFriederich Schinkel (1781-1841)quale precursore dell’idea che l’ar-chitettura vernacolare mediterraneae italiana, in particolare, siano fontedi ispirazione e di riflessione suiprincipi primari della progettazionearchitettonica. Ciò è quanto emerge dalla riflessio-ni, dopo il suo viaggio in Italia nel1804, in cui Schinkel elabora untema, quello dell’architettura verna-colare, che ha continuato ad avereuna particolare rilevanza fino alMovimento Moderno e i cui svilup-pi risultano oggi ancora da indagare.I primi abitanti dell’isola di Pan -telleria, nella preistoria, hanno di -mostrato di possedere metodi co -struttivi ed architettonici ben distin-

guibili da altri popoli presenti nelmondo antico. Ed è proprio la natu-ra dell’isola, così varia e unica nelMediterraneo, che ha sensibilmenteinfluenzato gli uomini, che per mil-lenni l’hanno abitata. In teressantisono le tracce che oggi si possonoammirare e primo fra tutti l’insedia-mento preistorico ubicato in localitàMursia. Si tratta di un villaggio for-tificato, costruito a strapiombo sulmare, circondato da un possentemuro, un’opera di grande abilitàcostruttiva che questo popolo ci hatramandato. Questi stessi modellicostruttivi, si sono evoluti in seguitoalle colonizzazioni che si sono suc-cedute nel corso dei secoli, dandoorigine a quei due concetti fonda-mentali che hanno caratterizzatol’isola dal punto di vista architetto-nico: l’uso della pietra vulcanica(nota anche pantellerite) e la coper-tura a volta estradossata delle co -struzioni.Sull’isola proprio tra reperti neoliti-ci e romani di estremo interesse sipuò osservare e documentare un’ar-chitettura di origine rurale, dallastruttura povera e semplice neimateriali costruttivi che localmenteprende il nome di dammuso. Il ter-mine prende origine dal vocaboloarabo “dammus” che sta ad indicarela volta a calotta sferica estradossatama la parola dammuso oggi sta adindicare l’intero manufatto.L’isola ha una connotazione dichia-ratamente vulcanica e questo hafatto si che non fossero particolar-mente reperibili risorse organiche,come il legno e quindi sin dall’etàneolitica le abitazioni sono state rea-lizzate con pietra proveniente di ter-reni bonificati e quindi si tratta dimateriale lavico. Ma l’uso della pie-tra è stato anche determinato dallecondizioni climatiche proprie del-l’isola: allo stesso tempo questa èsoggetta a temperatura particolar-

mente elevate, per lunghi periodidell’anno, e da una costante ventila-zione in cui prevalgono venti dimaestrale. Quindi solo il legnosarebbe stato in ogni caso un mate-riale adatto soprattutto a contrastareil degrado prodotto dalle condizioniatmosferiche e dal tempo. Il materia-le per la costruzione, quindi, è statosempre ricavato dalla terra dell’isola:dallo spietramento del terreno pocoprofondo si è spesso ottenuta laquantità necessaria di materiale perla realizzazione delle murature diqualsiasi tipo, poste in opera a seccoanche per la realizzazione di terraz-zamenti per la coltivazione della vitee dei giardini murati, adottando l’an-tica tecnica di riempimento a saccoper i grossi spessori. Proprio lo spie-tramento consentiva lo scavo del ter-reno e quindi il tracciamento succes-sivo anche delle fondazioni, nonmolto profonde, generalmente in -torno ai 50 cm. Sulle fondazionivenivano alzate poi le murature peri-metrali che raggiungevano spessoricompresi da 1 a 2 metri e all’internodelle quali spesso si ricavavano pic-coli spazi connessi all’uso del dam-muso. L’eccezionale spessore di murioltre ad essere necessario per assor-bire le spinte delle cupole, concepiteper permettere la canalizzazione del-l’acqua piovana verso le cisterne,poste in prossimità del dammuso,permette di isolare l’interno dallatemperatura esterna in modo daconsentire di creare un ambiente fre-sco d’estate e caldo d’inverno.Anche la sua tipologia trova origininella cultura araba anche se la mag-gior parte di quelli che oggi possia-mo osservare sono stati realizzati trail XIX ed il XX secolo.Per la costruzione dei dammusi nonsi ricorreva alla figura di un architet-to: si trattava di un’architettura abi-tativa semplice dove ognuno aveva leconoscenze per costruire”5.

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Fig. 3. (1) Aira - (2) Passiaturi - (3) Jardinu - (4) Stinnituri - (5) Forno -(6) Canalizzazione - (7) Cisterna - (8) Stalla.

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Aspetto molto importante era lascelta del luogo dove costruire ildammuso. Nella maggior parte deicasi sorgeva sempre nel punto piùroccioso e povero di terra, in prossi-mità possibilmente di antichissimecisterne puniche o romane da annet-tere poi al fabbricato. La terrazzaesterna veniva orientata in base aipunti cardinali ed ai venti dominan-ti, e si aggiungeva sempre un porticoalla facciata nelle zone più esposte alsole, realizzato con piccoli tronchidi legno su cui si faceva crescere unapianta. La tipologia costruttiva, sindalle origini, si sviluppa per aggrega-zione di elementi geometricamentesemplici e monocellulari. Con il tempo la costruzione cresce,cambia e si rimodella per aggrega-zione sempre di cellule semplici. Laconformazione morfologica del-l’unità abitativa di base aveva misurae partizione costante. Un intonacodi calce rivestiva talvolta la “faccia-ta” principale e le cornici delle fine-stre. Alla fine del XIX secolo faceva-no la loro comparsa, in principiocome rivestimento per i sedili chedelimitano le terrazze, le piastrelle inceramica smaltata (dette “Vietri”,

dalla località campana da cui arriva-vano). A volte si aggiungeva un albe-ro, una palma, per nobilitare l’insie-me del paesaggio circostante il dam-muso. Un elemento particolare dellasistemazione esterna è rappresentatadalla presenza di un recinto muratocircolare, detto anche “U Jardinu”,all’interno del quale trovano collo-cazione piante di agrumi. La costru-zione in materiale lavico è un vero eproprio “tempio” di pietra dedicatoall’albero di agrume, insomma unvero “monumento” che dimostra inquale considerazione è tenuto que-st’albero, tanto da co struirgliun’opera muraria così impegnativaper proteggerlo dai venti e crearglicalore nei mesi invernali (fig. 2).Ultimata la muratura perimetraleveniva disposta una struttura inlegno orizzontale, costituita da travialloggiate in fori ricavati nella stessamuratura. Successivamente sulle tra -vi venivano disposti dei piastriniverticali in pietra su cui poggiare deitravetti inclinati il tutto poi ricoper-to con pietre e aggiunta di táiu, ossiaterra im pastata con acqua. Il tuttoserviva a costruire la direttrice dellavolta estradossata.

In epoche più recenti la coperturadel dammuso veniva usata dellacalce, che doveva arrivare da fuori,via mare, anche perché l’isola ne erasprovvista (così come attualmente).La calce veniva però utilizzata, insie-me al leggerissimo lapillo di tufovulcanico, unicamente per le super-fici di raccolta e tenuta all’acqua:copertura praticabile, gronda ecisterna interrata. Raramente la calceveniva usata per “nobilitare” il pavi-mento, anticamente quasi sempre inbattuto di terra su rudimentalevespaio. Un po’ di calce, di tanto intanto, serviva anche a ripulire l’ac-qua delle cisterne, resa cattiva dallapoca ossigenazione, e nei mesi inter-medi alla manutenzione del secolaremanto di copertura. Poggiata su unsedile, o a chiudere la bocca di unacisterna, stava una grossa e liscia pie-tra di mare, utilizzata per indurire elevigare le superfici impermeabili.Infine la aperture, i portici e gli arma-di a muro (kaséne) , realizzati nellespesse murature, venivano praticaticon molta attenzione; in particolarel’architrave in pietra da taglio squa-drata veniva usato per la chiusurasuperiore del vano della porta princi-

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Fig. 4. Resti del “U Jardinu” di una sistemazione esterna di undammuso, all’interno del quale venivano collocate le piante diagrumi.

Fig. 5. Pantelleria. Dammusi su aree terrazzate.

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pale, lasciando all’arco di scarico, rea-lizzato sopra di esso, la funzione disorreggere la muratura sovrastante.Il dammuso è mediamente compostoda tre vani: una sala, il “cammarino”e l’alcova. Non manca mai il fornoche è sempre esterno ed inglobato inun locale adiacente al dammuso.Infine il giardino esterno, general-mente terrazzato, è un vero e pro-prio tempio di pietra, dedicato all’al-bero d’agrume, limone, cedro, aran-cio. La sua configurazione ben siricollega ai terrazzamenti degli inse-diamenti Maya in Perù (MachuPichu) che trovano espressioneanche in alcuni villaggi delle IsoleCanarie, in particolare sull’isolaTenerife. Gli archeologi, infatti,hanno dimostrato lo stretto legametra la cultura mediterranea e quellasud-americana in epoche del tuttoremote ed insospettabili e pertanto ilriferimento a queste tipologie arcai-che non è infondato (fig. 3).L’analisi di questa architettura ver-nacolare mediterranea può essereeseguita mediante alcune linee guida:

1) La presenza di modelli formali,tipologici e costruttivi, cui questecostruzioni fanno costante riferi-mento, ed un legame biunivoco tratali modelli e la cultura che li ha pro-dotti. La cellula principale del dam-muso, l’abitazione, deriva sempredall’accostamento di alcuni elementi:la camera (kàmmira), ambiente prin-cipale posto trasversalmente all’in-gresso, dalle dimensioni standard di3x6 mt; l’alcova (arkòva) e il cameri-no (kammirìnu), dalla forma quadra-ta, voltati a botte e prospicienti lacamera, sul lato opposto all’entrata;simmetricamente disposti ai lati diquest’ultima, due camerini più pic-coli o armadi a muro; una nicchia difronte alla porta d’ingresso, ricavatain mezzo alla muratura che divide ledue alcove e destinata in genere ad

immagini votive o ad un vaso con deifiori; una finestra, dalla sagomacaratteristica, su uno dei lati cortidella camera; alcune nicchie (kasène)ricavate nelle pareti. Al l’esterno unsedile (dukkéna) recinge la terrazzaantistante l’ingresso, sotto cui spessosi trova una cisterna per la raccoltadell’acqua piovana (fig. 4).

2) L’esistenza, all’interno del terri-torio rurale, di una rete di consuetu-dini, e quindi di relazioni, che deri-vano dall’interazione dell’ambientecostruito con il paesaggio circostan-te, dando a quest’ultimo una nuovastruttura. L’uso della tecnica dellapietra a secco, sia per i terrazzamen-ti che per le abitazioni, che ha datoforma all’aspetto visibile del territo-rio, mutandone in continuazionel’orografia; la creazione di un siste-ma di approvvigionamento dell’ac-qua che ha implicato un lavorocostante nel tempo, tale da modifica-re implicitamente e quasi segreta-mente il paesaggio stesso dell’isola;l’uso di tecniche di difesa delle col-ture dai venti che, oltre a particolariaccorgimenti nelle tipologie di im -pianto delle essenze, ha dato vita adun tipo di giardino che si è diffuso inbreve tempo su tutta l’isola divenen-do parte del paesaggio stesso; la scel-ta dell’orientamento migliore, nellacostruzione delle case, per gestire almeglio l’irraggiamento solare e di -fendersi dai venti freddi dominanti(accorgimenti che hanno portato,nella parte meridionale dell’isola,all’adozione di un porticato in mu -ratura antistante l’abitazione).

3) La necessità di considerare questedue tematiche (modelli e relazioni) edi accettarne il loro continuo diveni-re, per potere in qualche modo com-prendere, interpretare, il paesaggiorurale e la sua architettura. L’an -tropologia ci ha insegnato a conside-rare gli effetti del mercato mondiale

sulle civiltà contadine di tutto ilmondo, a studiarle non più comesistemi integrati e chiusi, ma comeunità interrelate ed inserite, ciascunacon le sue modalità, in un insiemeeconomico e politico globale. L’in -tervento in un ambiente rurale conqueste caratteristiche impone unalettura attenta dello stesso, che tengaconto anche della sua insospettatacapacità di accogliere cambiamenti(fig. 5).Parole simili possono essere utilizza-te non solo per raccontare di Pan -telleria, ma si adattano a un grannumero di paesaggi rurali del Me -diterraneo ed alla loro architettura(intesa nel senso più ampio del ter-mine). In questi territori, da sempresoggetti a mutamenti, la civiltà con-tadina è praticamente scomparsa. Alivello economico la funzione agrico-la è generalmente ridotta a hobby,mentre predomina quella residenzia-le (con una nuova categoria “stagio-nale” di proprietari non residenti)che genera nuove dinamiche di sfrut-tamento del territorio-paesaggio eduna riconsiderazione del suo valoreeconomico. Il mutamento di signifi-cato di queste “architetture” al per-durare della for ma ne definisce unasostanziale condizione di monumen-talità; la forte riconoscibilità di unpaesaggio del genere ne ha quindideterminato anche una remunerativa“vendibilità” turistico-residenziale. Idammusi – e le costruzioni rurali ingenere – sono stati costruiti e modi-ficati per secoli dai contadini seguen-do leggi che raramente, ed in modosecondario, avevano a che fare conconcetti o capricci di carattere esteti-co, obbedendo a quelle poche regoledettate da esigenze vitali e di econo-mia (intesa nel senso più lato del ter-mine)6. I vecchi proprietari agricol-tori hanno ceduto quei beni cheerano – e sono – la materializzazionedella cultura e della storia della

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comunità locale. Nella maggior partedei casi il mutamento, più o menolibero e più o meno rapido degli usidel territorio ne ha provocato la lentainvasione e lo stravolgimento, conuna sparizione anche totale dell’anti-co sistema di segni (una delle conse-guenze più visibili e dannose perl’ambiente rurale in questione è ildepauperamento delle potenzialitàproduttive del territorio prodottodal frazionamento a fini speculatividi parecchie proprietà agricole, gran-di o piccole) A Pantelleria le normedi tutela del territorio riescono inparte a limitare gli abusi, nella con-vinzione che la ricchezza del paesag-gio sia un bene troppo grande perlasciare campo aperto al “liberismo”edilizio, e che sia quindi doverosopreservarne alcune qualità, soprat-tutto quelle visive: sulla base dellenorme vigenti, a Pantelleria il nuovodeve essere “in stile”, per non arreca-re danno al paesaggio. Opere moder-ne come la ristrutturazione di casaVictoria, eseguita da Oscar Tusquetsnel 1977, non supererebbero mai lebarriere imposte dalla normativaodierna. Sotto l’imperativo di limita-re i danni, il paesaggio, da noi“inventato”, si cristallizza; bruttotermine questo, che non rende giu-

stizia dell’estrema duttilità con cuitale territorio è stato (ed è) continua-mente riscritto dall’uomo nei secoli.Magari è più esatto definire la cosacome uno dei termini in cui oggiquesto tipo di paesaggio è percepito,riletto e interpretato: in poche parolereinventato (fig. 6).

Note1. P. PORTOGHESI, Le inibizioni dell’ar-chitettura moderna, saggi tascabiliLaterza n. 12, Bari 1979.2. G. DE GIOVANNI, Laboratorio di Ar -chitettura. Processi e metodi di una cul-tura tecnologica, Ed. Documenta, Pa -lermo 2001, p. 73.3. P. VIDAL DE LA BLANCHE, Principesde la Geographie Humaine”, Paris 1948.4. P. PORTOGHESI, Luogo e materia, inMateria n. 5, Reggio Emilia 1990.5. L’importanza di un modello unico diriferimento, come prodotto di una cul-tura condivisa, è fondamentale nellacostruzione di un ambiente e della suaarchitettura. Alla forma del costruito,già definita a priori, bastavano pochealtre decisioni prese direttamente sulposto, relative alla posizione della casarispetto all’ambiente circostante:“...Il modello è il risultato della collabo-razione di molte persone per molte gene-razioni, così come tra chi costruisce e chiutilizza l’edificio... visto che tutti conosco-no il tipo, non c’è bisogno di progettisti.

Viene chiamato qualcuno a costruire soloperché le sue conoscenze sono più detta-gliate, ma la costruzione è semplice, chia-ra e facile da capire e tutti ne conoscono leregole. C’è un’immagine della vita condi-visa da tutti, una gerarchia accettata e,quindi, un modello comune di riferimen-to. Questa immagine, condivisa e accetta-ta, funziona fin quando la tradizionerimane viva; se questa muore il panora-ma cambia...”. E ancora “...Questi edificisi basano sull’idea che debba essere soddi-sfatto uno scopo co mune nel modo piùsemplice, diretto e meno dannoso possibi-le. Questo può succedere solamente inuna società in cui i cambiamenti avven-gono all’interno di un’eredità comune edi una gerarchia di valori che si riflettenei tipi di edifici. C’è l’assenza di preteseestetiche, l’interazione con il luogo ed ilmicroclima, il rispetto verso gli altri everso la loro casa e, conseguentemente,verso l’ambiente na turale o costruito dal-l’uomo; si opera all’interno di un linguag-gio quindi me diante variazioni che rien-trino nell’ordine dato... Un’altra caratte-ristica è la capacità di aggregazione, lanatura non specializzata e aperta di que-ste costruzioni, che gli permette di accet-tare senza sforzo i cambiamenti...”. A.RAPOPORT, Pour une anthropologie de lamaison, Dunod, Paris 1972.6. Rapoport sostiene che, nella configu-razione dello spazio abitativo, “...laforma ha origini principalmente cultura-li, in secondo luogo dipende da clima,materiali, economia, difesa... Nel mo -mento in cui cambia una cultura o unmodo di vita, la forma non avrà piùsenso. Però sappiamo anche che moltecose hanno valore anche quando è scom-parsa la cultura che le ha prodotte e ven-gono utilizzate anche quando è cambia-to enormemente il senso a loro attribui-to...”. A. RAPOPORT, op. cit.

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La documentazione fotografica è a curadell’Arch. Marcello Maltese (Trapani).

* Docente di Restauro ArchitettonicoUniversità di Pisa. Direttore della colla-na Esempi di Architettura.Fig. 6. Pantelleria. Dammusi realizzati su preesistenze.

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I più alti esempi di pitture di icono-grafia russa dimostrano come le que-stioni complesse teologiche, possanomanifestarsi in una perfetta formaartistica. Questo spiega la fortissimaimpressione emotiva prodotta suglispettatori dalle icone russe antiche. Una delle caratteristiche fondamen-tali che differiscono l’icona russadalle opere dei maestri occidentali,consiste nel fatto che il mondo del-l’icona è lontano dalla realtà, e nonper la mancanza di capacità da partedel maestro di rappresentare glioggetti e lo spazio in maniera preci-sa, ma per distinguere il mondo Ter -restre da quello Celeste. Il linguag-gio dell’icona è convenzionale, pro-fondamente simbolico e, quindi,molto difficile da percepire.Attraverso la conoscenza delle fasidi produzione dell’icona e delle par-ticolarità della tecnica pittorica, ci siavvicina alla comprensione del suosignificato, poiché esiste un legameprofondo tra questi elementi. So -stanzialmente il processo della pro-duzione dell’icona è rimasto invaria-bile nel corso di quasi dieci secolicon la seguente metodologia:

- Il supporto dell’icona veniva rea-lizzato con legno stagionato edessiccato; per le icone di media mi -sura bastava la larghezza di una solaasse di legno, invece per le tavolegrandi venivano riunite più assi. Sulretro venivano incastrate delle tra-

verse che servivano per prevenirel’incurvamento del legno. Poi, disolito, la parte centrale della tavolaveniva scavata, lasciando dei margini(che formano una specie di cornice):veniva fuori il cosiddetto incavo.- Sulla tavola veniva incollata unatela su cui stendere a strati sottili lapreparazione a base di gesso e colladi pesce (fig. 1)2;- Successivamente veniva brunita lasuperficie e veniva eseguito il dise-gno preparatorio (fig. 2). Per lasciareil disegno a vista sotto gli strati pit-torici, molto spesso i lineamenti del-l’immagine venivano incisi, e fatta lacosiddetta grafia.- L’icona viene dipinta mediante latecnica con la tempera ad uovo.Il metodo della pittura degli incarna-ti con l’uso del cosiddetto sankir’,era già stato descritto nelle Erminiegreche, manuale per iconografi chedivenne il più adoperato nella Rus’:all’inizio veniva applicata la primacampitura scura color terra d’ombra,chiamata sankir’ (fig. 3): la sfumatu-ra del suo colore variava a secondadel luogo e del tempo di esecuzionedell’icona. In seguito per creare l’ef-fetto volumetrico venivano stesinumerosi strati di ocra, in modo taleche ogni strato successivo si restrin-geva di più rispetto al precedente ediventava più chiaro per la sovrap-posizione di più strati di ocra, oanche con l’aggiunta di sempre più

biacca (fig. 4). I dettagli più accen-tuati venivano segnati da lumeggia-ture, spesso eseguite con l’uso dibiacca quasi pura (fig. 5). Le partifigurative dell’immagine attorno aivolti venivano sottoposte ad un trat-tamento analogo. Alla fine dell’ope-razione venivano apposte le lumeg-giature e le scritte d’oro (fig. 5-6),dopo di che la pittura veniva copertacon uno spesso strato di olifa (olio dilino cotto con essicativi).

Nel XIX secolo, l’attenzione degliesperti fu rivolta all’esame e allo stu-dio dei materiali costitutivi dell’ico-na russa nel tentativo di prenderecoscienza della sua singolarità e dipenetrare nella sua essenza. Oltreall’analisi stilistica delle icone, allasuddivisione in diverse scuole e allericerche iconografiche, iniziaronogli studi della metodologia di esecu-zione delle icone, basati sui dati for-niti dai Vecchi Credenti e dai pittoridi icone provenienti dalle famiglieche svolgevano questo mestiere dasecoli. L’interesse per l’aspetto tecni-co ebbe il suo riflesso anche neglistudi teologici, cosí che i materialistessi dell’iconografia acquisironoun’interpretazione simbolica: “illegno è il simbolo dell’Albero dellaVita, del Paradiso, è l’immagine dellapreghiera del mondo; la preparazio-ne (levkas), fatta di gesso e di colla dipesce, è il simbolo di un intero marepietrificato di pure preghiere delleanime cristiane e di Dio stesso, il Cuisimbolo è il pesce, nonché l’immagi-ne di ogni creatura che elogia Dio; ei stessi pigmenti di pietre e di terre,che hanno assorbito la durezza dellaterra, e gli stessi colori, con legante abase di uovo, simbolo della Pasqua;tutto insieme è il simbolo della sal-vezza della Creatura divina median-te la preghiera verso Dio”.

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Tecnica della pittura russa antica:analisi sullo studio e il restauroin Russia1

Daria Maltseva*

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Inoltre, negli studi del filosofo-teo-logo, padre Pavel Florenskij, anchetutte le tappe principali della crea-zione dell’icona vennero percepitesimbolicamente. Per esempio, la pre-parazione della tavola con l’incavo,l’applicazione degli strati di gesso ela grafià, rivelano l’unità della natu-ra e dell’origine sia dell’icona sia del-l’affresco. La divisione dei compititra quei maestri che facevano il dise-gno, quelli che dipingevano le vesti, ipalazzi e i paesaggi (maestri dellapittura degli spazi figurativi attornoai volti), e quelli che invece dipinge-vano i volti, le mani e i piedi (maestridella pittura dell’incarnato), rispec-chia non solo l’organizzazione este-riore del processo iconografico, maanche il suo principio essenziale,quello della partecipazione comune.L’abbondanza dell’oro sullo sfondo

di tante icone e nell’assist3 viene rife-rita all’identificazione dell’oro edella luce: “In ogni caso evidente-mente l’oro si riferisce all’oro spiri-tuale – alla luce sovraceleste diDio”4. La fase iniziale della pitturadell’icona, la doratura del fondo, el’applicazione dell’assist alla fine,vengono considerate in questo con-testo: “Con l’oro della grazia crea-trice incomincia l’icona e con l’orodella grazia santificante, cioè con lasottolineatura aurea [razdelka] siconclude”5.Tutto il processo pittorico, cioè lacostruzione della forma dallo scuroal chiaro, viene paragonato al movi-mento dal buio verso la luce: “[...] loschema astratto, la luce-ambiente, ilprofilo che ne risulta, la potenzialitàdella rappresentazione e del suocolore, quindi la graduale rivelazio-

ne dell’immagine, la sua modellatu-ra, la sua articolazione, la definizio-ne del suo volume attraverso l’illu-minazione. Gli strati dei colori cheperciò vengono stesi via via semprepiù luminosi, poi rifiniti con sottililinee di biacca, con i “movimenti” ele “tacche”, creano nella tenebra delnon essere l’immagine, e questa im -magine a partire dalla luce”6.I regolamenti rigidi dell’iconografia,consacrati dalla tradizione plurise-colare, non ostacolarono la creazio-ne di opere uniche e tanto diverse tradi loro. Malgrado i limiti canoniciimposti alla forma dell’icona, l’auto-re era libero di scegliere i mezzi pit-torici. Essi erano variabili secondo lenorme estetiche dell’epoca – ci fuuna pittura scura con gli sfondi oli-vastri nei tempi di Ivan il Terribile;una pittura graziosa e trasparente

Materiali e tecniche

Figg. 1-6. Le fasi di esecuzione di un’ico-na. Fig. 1. Tavola di legno con e senza latela.

Fig. 2. La doratura e il disegno prepara-torio.

Fig. 3. Le prime campiture scure.

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che permetteva di sfruttare l’espres-sività del disegno preparatorio nelleopere dei maestri della scuola degliStroganov; ci fu una decorazioneabbondante realizzata con linee neresulla foglia d’oro o d’argento arric-chita dalle lacche colorate nel XVIIsecolo; un ampio impiego dell’orodella crisografia7; invece dell’assist,la diffusione degli sfondi lavorati abulino ed incisione nel XIX secolo,ecc. D’altro lato, la varietà dei proce-dimenti tecnici serviva ad esprimereidee complesse.Oggigiorno un’ampia gamma dimetodi di indagine fornisce occasio-ni nuove per lo studio delle icone.L’esame della tecnica pittorica spes-so aiuta a capire il significato stessodell’opera. La combinazione di vari metodidella costruzione della forma è più

tipica per l’iconografia bizantina marara nell’ambito russo. In generale,la diffusione di metodi pittoricidiversi da quello di sankir’ fu pro-pria del periodo iniziale della pitturarussa antica, fino alla fine del XIVsecolo.L’approfondimento delle conoscen-ze sulla tecnica della pittura russaantica apporta significative modifi-che nella metodologia del restaurodelle icone.La moderna metodologia del restau-ro implica tutta una serie di indaginiche consente di scoprire lo stato diconservazione della pittura origina-ria, nonché la stratigrafia degli inter-venti successivi. Questo momentodella ricerca è particolarmente im -portante, perché le condizioni dellapittura originaria molto spesso sonoesigue a tal punto che rendono senza

senso l’operazione di pulitura. D’al -tra parte, il fatto che tutti i materialicostitutivi dell’icona siano sensibilialle condizioni ambientali (fattori ditemperatura e di umidità), causaspesso il degrado della preparazionee dello strato pittorico. Inoltre l’oliodi lino cotto, a differenza delle ver-nici a base di resine, perde la traspa-renza in un periodo abbastanza bre -ve e diventa scuro, rendendo l’im-magine poco leggibile. Per questeragioni le icone venivano periodica-mente “restaurate”: veniva tolto lostrato protettivo scurito e venivanorifatte le parti danneggiate della pre-parazione e dello strato pittorico. L’olifa si toglieva con diversi metodi:veniva “raschiata”, cioè abrasa con lapietra pomice, o dissolta con sostan-ze aggressive. Poi si stuccavano e siridipingevano le mancanze ripren-

Materiali e tecniche

Fig. 4. Gli schiarimenti. Fig. 5. Le lumeggiature e l’assist. Fig. 6. La fase finale.

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dendo i particolari dell’immagine suuna notevole parte dell’icona permimetizzare l’intervento. Non rara-mente tali procedimenti portavanoal deterioramento dello strato pitto-rico originale, visto che venivanoapplicati non con lo scopo di preser-

vare l’autenticità di esso, bensí didare all’icona un’apparenza di inte-grità.Oltre a tali metodi dannosi esistevaperò un’altro approccio. A voltedurante l’intervento di “restauro”l’olio di lino cotto annerito non

veniva tolto completamente, venivasolo leggermente assottigliato inmodo da far apparire i contorni del-l’immagine, quindi l’icona venivaridipinta totalmente o parzialmentesopra di essi (in rari casi, sopra unaltro strato di gesso). Tuttavia talelavoro richiedeva una notevole mae-stria dell’iconografo-restauratore,perciò più spesso erano gli sfondi, inquanto parte meno importante, asubire i rinnovamenti (fig. 7); sucerte icone è possibile individuarefino a 6-8 strati pittorici che si riferi-scono a diversi periodi.Dato che molte icone, soprattuttoquelle antiche, subirono più inter-venti del genere nel corso della loroesistenza, la maggior parte di questeè giunta ai nostri tempi con tracce dinumerosi rinnovamenti. Per definirecorrettamente il progetto di restau-ro, è fondamentale tenerne conto.In Russia ci sono varie strutture spe-cializzate nel restauro delle icone. Illaboratorio di restauro delle icone,attivo nel Museo di Stato Russo diSan Pietroburgo dal 1898, ha accu-mulato una larga esperienza. I Ci -rikov, i Brjaghin, i Tjulin, iconografidiventati i primi restauratori musea-li, posero le fondamenta della nuovascienza, svilupparono i principi delrestauro, avviarono le misure ditutela del patrimonio artistico neidintorni della città. La generazionedei restauratori degli anni ’20-’30 necontinuò il lavoro, si occupò dellostudio approfondito della collezio-ne. Quest’attività però fu sospesaper non poco dalla Seconda GuerraMondiale. Dure prove toccarono airicercatori del museo: dovetterosgomberare gli oggetti esposti nelleretrovie, fare il possibile per salvarele opere rimaste ridistribuendo lecollezioni, verificando sistematica-mente lo stato dei monumenti,

Materiali e tecniche

Fig. 7. Madre di Dio del Segno. Collezione F. Bigazzi (Museo di Icone Russe diPeccioli - Pisa), XVIII secolo, Tempera su tavola, 31,8x27,2x2,8 cm. Nella partedestra vi è una prova di pulitura: sul margine si nota uno strato di olifa annerita, laridipintura, e sopra un altro strato di vernice scurita.

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applicando misure di manutenzionepreventiva. Per diversi anni il museorimase sprovvisto di restauratori diicone. Solo nel 1954 riprese il fun-zionamento del laboratorio.Negli anni dell’attività del laborato-rio si svilluparono i principi essen-ziali del restauro scientifico. Du -rante la pulitura delle opere i restau-ratori spesso lasciano le ridipinturenelle lacune, per completare l’imma-gine (a differenza del ritocco adacquarello il quale non ammette laripresa degli elementi figurativi.Per il consolidamento viene usata lacolla di storione, uno dei materialicostitutivi tradizionale dell’icona. Intutti i centri di restauro della Russiadi preferenza vengono usati materia-li naturali (all’Istituto di Restauro aMosca oltre alla colla di storioneviene impiegata anche la colla diconiglio).La pulitura, cioè l’eliminazione dallapittura iniziale della vernice scurita edelle successive sovrapposizioni, èl’operazione più importante delrestauro. Nel quadro di una meto-dologia largamente accettata, l’oliodi lino cotto e le ridipinture veniva-no ammorbiditi da impacchi consolvente e poi eliminati a il bisturi.Nel laboratorio del Museo di StatoRusso nei primi anni ’70 le operazio-ni di pulitura delle icone venivanogià realizzate con il microscopio,quindi con l’uso di microstrumenti.Questa prassi migliorò considere-volmente la qualità della pulitura epermise di scoprire diverse peculia-rità tecniche nella realizzazione delleicone, per esempio la presenza divelature finali finissime, l’applica-zione di tecniche miste (anche nellapittura del XIII sec.!), l’uso di lacchecolorate e di pigmenti organici.Il risultato di queste osservazioniportò alla limitazione nell’uso dei

solventi, i quali non soltanto influi-scono notevolmente sugli strati pit-torici superiori finissimi e minano lastabilità di coesione tra le particelledi colore ma, modificando anche leproprietà ottiche della pittura, cau-sano la distorsione dell’immaginedell’opera e quindi il travisamentodella sua concezione.Il legame dei procedimenti tecnicicon il contenuto e la simbologia del-l’opera si riflette nella prassi delrestauro. Questo spiega la necessitàdi un sistema integrale di studio, cheincluda, oltre alle indagini tecniche,anche l’esame dell’iconografia delmanufatto e l’analisi nel contestoiconologico. Il confronto di questifatti dà un’idea della struttura pitto-rica e logica di ogni icona, indispen-sabile all’attività dei restauratori8.Sia il concetto generale del restaurodi un’icona, sia l’intervento su partisingole dell’immagine, sia l’aspettofinale dell’opera dopo il restaurodipendono in gran parte dalla com-prensione dell’idea dell’autore daparte del restauratore. Il mancatorispetto di questa prassi porta a gravierrori. Troviamo per esempio nume-rose icone con gli sfondi raschiatifino al gesso, per rendere l’immaginepiù luminosa. Tale intervento di -strugge l’integrità delle opere, togliel’equilibrio della gamma cromaticaoriginaria. Inoltre crea complicazio-ni per l’attribuzione delle icone,necessariamente basata sull’analisi ditutti gli elementi pittorici. Infineconfonde le idee sul contenuto teo-logico dell’opera, visto che i colorinell’iconografia russa hanno unsignificato simbolico.

Note1. Il testo si basa sull’esperienza pressoil Laboratorio di restauro delle icone delMuseo di Stato Russo di San Pietro -burgo, dove l’autrice ha lavorato per piùdi venti anni.2. Le figure nn. 1-6 presentano materia-le didattico sulle fasi dell’esecuzione diun’icona, realizzato dalla dott.ssa Gra -zia Sgrilli e gentilmente da lei concessoper la pubblicazione.3. Lumeggiature realizzate a forma diraggi con foglia d’oro o d’argento.4. P. FLORENSKIJ, Le Porte regali,Milano, Adelphi, 2004, p. 145.5. Ibidem, p. 155.6. Ibidem, p. 165.7. Lumeggiature in oro realizzate colpennello.8. Le metodiche circa il restauro delleicone sopracitate sono accettate pressola Scuola Internazionale e Laboratoriodi Restauro di Icone Russe di Peccioli(Pisa) istituita in collaborazione con ilMuseo di Stato Russo di San Pie tro -burgo.

Materiali e tecniche

* Responsabile della Scuo la In terna zio -nale e La boratorio di Restauro di Iconerusse di Peccioli (PI).

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IntroduzioneAttorno alle problematiche dellosviluppo sostenibile, è tornato diattualità il tema della conservazionedelle risorse edilizie esistenti, attua-bile attraverso il prolungamento delciclo di vita utile dei singoli edifici,che inizia da una corretta progetta-zione e una scelta dei componentiadeguati, fino a un programma dimanutenzione preventiva. Ritar -dando nel tempo la dismissione del-l’edificio o delle sue parti deterioratesi evita il costo ambientale di unanuova fase realizzativa, operazioneche sappiamo determina erosione dirisorse primarie e aumento del cari-co annuo della produzione di rifiutia essa legati. A tale riguardo, però,non possiamo trascurare che moltospesso si richiede la dismissioneanticipata di un edificio a favore diuna ricostruzione dello stesso. Aquesto punto è auspicabile unmiglioramento del processo di pro-duzione e gestione di un edificio,prevedendo la costituzione di unciclo più virtuoso realizzabile attra-verso, ad esempio, il riciclaggio diuna parte dei materiali dimessi e illoro reimpiego come materie primeo semilavorati.Questa strategia sta pian piano inse-rendosi nel settore delle costruzionie dei processi produttivi, tanto chenei recenti progetti di emanazioni dinorme sulla redazione dei Manualidi Manutenzione vengono incluseanche le “istruzioni per la dismissio-

ne e lo smaltimento”. In essa si con-siglia di indicare: la sequenza e laprocedura per il disassemblaggio; lamodalità di raccolta e stoccaggiodelle macerie con differenziazioneper parti costruttive; le procedureper lo smaltimento in discarica e perl’avvio dei processi di riciclaggio.Questi criteri assieme ai requisiti1della manutenzione preventiva, chesono alla base di una progettazionesostenibile, sembrerebbero indicareuna nuova metodologia di controllonell’ambito costruttivo che appare amolti anche complessa da realizzare.

Eppure essa non è altro che unretaggio di prassi operative del pas-sato soppiantate dall’avvento delMovimento Moderno e dal relativoconcetto della costruzione, qualebene effimero, di durata limitata, daconsumare in pochi anni.

Storia di un progettoLa Chiesa-Santuario del SS. Croci -fisso di Treia (fig. 4), in provincia diMacerata, nasce, come edificio eclet-

Architettura e conservazione

La manutenzione inadeguata chepregiudica la sostenibilità di un’opera ecletticaAntonella Cesaroni*

Fig. 1. Bazzani: Santuario del SS. Cro -cifisso di Treia, prospetto “lato posteriore”.

Fig. 2. Bazzani: Santuario del SS. Cro -cifisso di Treia, prospetto laterale.

Fig. 3. Scale e porte, previste dall’archi-tetto, per accedere alle parti più alte del-l’edificio, o alle volte interne.

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tico, dalla dismissione anticipatadella primordiale costruzione, dovu-ta all’ampliamento settecentesco diuna pieve medievale. Il progetto, delgiovane Ingegnere architetto CesareBazzani (1873-1939), si evolve dauna prima ipotesi di restauro, conricostruzione ex-novo della solaporzione absidale, perduta nell’in-cendio del 1902, a un progetto(1903) (fig. 1) che dispiega tutta laclassicità tipica della formazione del

progettista, legata ai principi dimodernità, quali lo stile floreale e lenuove tecniche costruttive. L’ester -no che deve esprimere la“Nazionalità Italiana” (fig. 10) siadegua al genius loci e alla tradizionelocale legata alla produzione deimattoni della vicina fornaceBartoloni: il mattone a cortina è ilrivestimento per eccellenza e allaparte decorativa in cotto è affidato ilcompito, tramite cornicione decora-tivo e archetti (fig. 2), di dissimularele tradizionali falde del tetto, facen-do apparire l’edificio come un’insie-me di terrazza piane di stile secessio-nista.Il mattone domina la scena del can-tiere treiese sia per l’uso della tipolo-gia del forato, che fa la sua comparsanei solai piani a voltine e travi dop-pio T, sia nel caso in cui sarà chiama-to a sostituire la progettata intelaia-tura in cemento armato della navata,del tetto e della cupola (seconda fasedel cantiere, 1915-1922). La struttu-

ra portante, in muratura listata amattoni, consente il riutilizzo sele-zionato delle macerie tra cui i matto-ni della precedente costruzione.L’interno dell’edificio, che ricalca lapianta basilicale precedente, mette inluce una caratteristica che sarà tipicadel movimento moderno: l’usocostante di intonaco che varia daquello bianco per i locali funzionali,a quello finto mattone di tutta lenavata e del presbiterio2; a quelloliberty di un verde tenue con foglieper il coro; all’incondizionato az -zurro delle volte (fig. 3), a ricordodel cielo, su cui risaltano i decorisimbolici in stile floreale del giglio,dell’uva, degli angeli, della croce edei chiodi su di un mosaico dorato.La linea simbolica interna si staccacompletamente dall’esterno classico,facendone un scrigno prezioso esuggestivo dove il cemento armatoornamentale e qualche stucco, seb-bene di ispirazione liberty (come pergli angeli giganti, fig. 7), manifestanol’equilibrio di una composizionepensata secondo le regole classichedell’architettura. Il tema delle fine-stre, caro al movimento razionalista,a Treia si manifesta già in modoembrionale, presagendone i succes-sivi sviluppi. L’uso di infissi realiz-zati in qualunque forma ma conmateriali moderni, come i profilatiin ferro, e la costante ‘lucernaio’ pre-sente sulle coperture piane3 segnala-no l’importanza dell’illuminazionenell’architettura del Novecento.La peculiarità del cantiere treiese èriconducibile al fatto che il direttoredei lavori coincida con lo stesso pro-gettista, per cui tutte le decisioni divariazioni in opera, legate anche allelungaggini di cantiere e allo scoppiodella prima guerra mondiale, riman-gono coerenti con l’idea iniziale ehanno sempre per obiettivo la con-clusione dell’opera a qualunquecosto. I compromessi, a volte, hanno

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Fig. 4. Vista d’insieme del Santuario delSS.Crocifisso di Treia.

Fig. 5. La struttura in ferro della cupolada un’immagine d’epoca.

Fig. 6. 1906-1907, l’area di cantiere, lascarpata sulla destra, usata come deposi-to dei materiali.

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tivo, tende a innervarsi nelle struttu-re tradizionali come le murature inlaterizio e la muratura in pietra op -pure nelle finitura dei motivi decora-tivi e scultorei5, secondo una prassiben nota agli architetti accademistiitaliani. La recente attribuzione alcantiere eclettico di importanti inno-vazioni procedurali, che preludonoall’età moderna, quali ad esempio ilmontaggio in serie di componenti aopera di maestranze specializzateoppure la suddivisine dei lavori traspecialistici6, lasciava presagire piùimportanti informazioni sulla con-duzione del cantiere e sulle risorseprimarie da far fruttare, soprattuttonel caso di siti disagiati e ritenutiperiferici rispetto alle città. Le indi-cazioni offerte dagli ordini del diret-tore dei lavori, figura che a Treia èricoperta dallo stesso Bazzani, indi-cano chiare disposizioni in meritoalla organizzazione logistica delle

aree di cantiere e delle metodiche diriutilizzo dei materiali, ritenuti indi-spensabili per la struttura portantedella nuova costruzione. La letturadi alcuni brani, tratti dagli scritti del-l’architetto-ingegnere, ci permette diconoscere la filosofia perseguita dalprogettista nel riciclaggio dei mate-riali.Nella lettera missiva7 di ripresa deilavori del 1915, ad esempio, l’archi-tetto impartisce istruzioni chiarerichiedendo la demolizione dellaparte vecchia del Santuario e losgombero dei materiali «... disponen-do con ordine tutti i materiali dirisulta sia nei magazzini, sia nelpiazzale del Santuario scaricandocalcina e terra nella relativa scarpa-ta8: prendendo tutte le precauzioneper evitare sinistri ai lavoratori...».Nella continuazione dei lavori del1917 si dispone che i ‘murati’ dellaparte alta delle cappelle laterali «...dovranno essere condotti tutti a mat-toni ben assestati e spianati utiliz-zando completamente il materiale didemolizione...»; nel caso delle mura-ture sopra la navata centrale, invece,si puntualizza che oltre ai ‘murati’,da condurre come indicato sopra, siusi per «la faccia a vista esterna ditale sopraelevazione, per i pilastrinisottostanti e gli archetti, muratura a

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Fig. 7. SS.Crocifisso: Il presbiterio, zonain forme e decori liberty.

Fig. 8. Disegno dei componenti caratte-ristici del lanternino della cupola.

Fig. 9. SS.Crocifisso interno Navata: gliarchi trasversali della campata sostengo-no il timpano di appoggio della copertura.

determinato scelte migliorative,come nella cupola, realizzata instruttura in ferro (fig. 5) e lamine inalluminio, altre volte errori di messain opera da parte delle maestranze,come il mancato aggancio tra vec-chia facciata e navata. Per poter es -primere un giudizio obiettivo e con-fermare le capacità cantieristiche delBazzani sarebbe necessario fare unconfronto con altre opere dove l’in-gegnere abbia rivestito anche il ruolodi direttore dei lavori come a Treia.Molto spesso egli forniva solo ildisegno architettonico e alcuni pare-ri in corso d’opera.

La sostenibilità del nuovo cantieresecondo il BazzaniIl cantiere eclettico del Santuario delSS. Crocifisso di Treia si muove tratradizione e modernità. La partico-larità dell’edificazione4, oltre chenella combinazione di materiali cherisultavano, per il tempo in Italiaancora sperimentali, anche perchèadottati in una tipologia monumen-tale non comune come quella dellaChiesa, sta nel fatto di fornire consi-gli di conservazione di risorse e rici-claggio delle stesse, in quanto lanuova costruzione nasce dalla dis -missione anticipata del vecchio edifi-cio. Il ferro, quale materiale innova-

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mattoni a macchina e nuovi...»; per itimpani sovrastanti gli arconi dellanavata centrale (fig. 9), sui quali pog-gerà il tetto, e per i rinfianchi degliarconi si utilizzi materiale di demo-lizione.Nel caso poi dell’impossibilità direalizzare le intelaiature e copertureprogettate, sia piane che a falde, conla tecnologia del cemento armato9 ilBazzani riesce a porre rimedio al -l’emergenza grazie ai materiali adisposizione in cantiere: ovvero tra -vi a doppio T per i solai a voltinedelle terrazze; murature con mate-riali di risulta, presenti in deposito;paramento esterno a cortina, sia perla navata centrale e sia per il tambu-ro della cupola, all’inizio pensatecon una intelaiatura in cemento ar -mato. Per quanto riguarda il sistemacopertura, la necessità impone l’ab-bandono del cemento armato e il ri -torno a una copertura a capriate contravi trasversali (terzere) in ferro etegole tipo marsigliesi legate su tra-vetti cm 7x7, una soluzione che ga -rantirà, rispetto al cemento armato,la smontabilità e la sostituibilità deicomponenti del sistema in qualsiasimomento, e non da meno l’ispezio-nabilità delle volte a vela sottostanti,altrimenti non facilmente raggiungi-bili.La cupola stessa assumerà un’ossa-tura portante in ferro rivestita insemplice lamine di alluminio chioda-te, i doccioni che corrono lungo glispigoli della cupola sono nascosti daborchie sempre in alluminio a imita-zione dei costoloni delle cupole tra-dizionali, mentre il lanternino, negliintercolumni tra finestre, è dotato diuna muratura che assolve al compitodi anima sostenente gli elementidecorativi prefabbricati in cementoarmato (fig. 8).Nella seconda fase del cantiere tra levarie iniziative per far fruttare ilmateriale vecchio a disposizione tro-

viamo anche una rivendita di ele-menti costruttivi quali i coppi, op -pure decorativi come i lampadari diBoemia. Nel tentativo di risparmiaresi opta anche per l’impiego di mae-stranze locali, nella fattura di partidecorative, alle cui limitate capacitàsi deve adattare il progettista, sce-gliendo componenti standardizzatiche si applichino alla struttura por-tante senza ausilio di manodoperaspecializzata, come invece era acca-duto fino al 191110.Le lungaggini di realizzazione, la pe -nuria di materia prima, quale ilcemento tra il 1915 e il 1918, e nonda meno le necessità di un commit-tente povero, identificato nei FratiMinori, ci hanno consegnato unafabbrica tradizionale nelle forme mache, in più casi, utilizza materialinuovi sia per spazi non rappresenta-tivi (sacrestia, vano scala, confessio-nali sotto la cantoria) sia per sistemitecnologici, come le chiusure ester-ne, identificabili negli infissi e nellastruttura della cupola.Tali scelte avevano in sé la prerogati-va di mantenere un grado di smonta-bilità, ispezionabilità, sostituibilitàma soprattutto reversibilità dovuta,molto probabilmente, al grado diincertezza fornita dalla sperimenta-zione di nuovi materiali, i cui com-portamenti erano ancora ignotiall’usura del tempo. Tali sistemi,concepiti come reversibili e flessibi-li, si sono dimostrati i più delicati esoggetti a interventi costanti dimanutenzione a causa della loro na -tura deteriorabile o a causa di so -pravvalutazioni delle relative presta-zioni: non sono da trascurare glierrori di messa in opera o progettua-li dovuti alla carenza di sperimenta-zione. Accanto all’inserimento delle nuovetecnologie, la storia di questo cantie-re, riconferma le qualità di un mate-riale che, seppur tradizionale come il

laterizio, è flessibile nella realizza-zione di forme e di funzioni variabi-li11, durabile e affidabile nel tempo,ma soprattutto è sostenibile graziealle percentuali elevate di riutlizzo,riciclaggio e alla bassa produzione discarti lavorativi12. Ricordiamo cheper l’analisi del ciclo di vita, anchedei singoli prodotti, è importantevalutare l’entità dell’impatto sul-l’ambiente e il laterizio, oltre a ga -rantire prestazioni termiche costantinel tempo, a differenza dei materialisintetici, quali guaine e isolanti,dopo anni si presta al suo completoriutilizzo nell’impasto di nuovi mat-toni, tramite polverizzazione. Nonda meno è l’alluminio che nel cantie-re di Treia è utilizzato in primis perla copertura della cupola, esso puòessere interamente recuperato, salvonel caso in questione in quanto com-promesso dalla stesura di strati dibitume.

Quale manutenzione in un secolo divita?La lunga storia manutentiva delSantuario del SS. Crocifisso di Treia,registrata costantemente dalle cro-nache del convento, offre un altrospunto di riflessione: la manutenzio-ne, se condotta a danno avvenuto, ineconomia e senza conoscenza dellanatura dei sistemi che compongonoil manufatto, oppure applicando cie-camente tecnologie entrate nell’usocomune ma non per questo adattabi-li al vecchio, possono determinarecambiamenti estetici e funzionali,non di meno strutturali, del sistemacostruito, facendo della manuten-zione un nuovo atto progettuale.Tutto ciò ripropone la domanda inquale misura sia giusto sostituire icomponenti originali, in quale misu-ra si debba mantenere o ripristinarein un’architettura moderna o pre-moderna.I numerosi interventi necessari a eli-

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minare le infiltrazioni d’acqua, che siritenevano derivassero dalla coper-tura in alluminio della cupola e nondalle connessioni tra muratura efinestre, hanno determinato la perdi-ta del rivestimento in lamine che sisarebbe potuto semplicemente sosti-tuire13. Con essa è andato perduto ilrequisito dell’ispezionabilità dellacupola, della sua struttura portantenonché l’accessibilità alla cupola sot-tostante in camorcanna. L’inte -laiatura portante in ferro si è appe-santita, gravandovi il carico di piùstrati di bitume sovrapposti e suc-cessive lastre di rame.Il problema del dilavamento delleacque sulla cupola era già noto nel1926, un anno dopo la consacrazio-ne definitiva, quando vi furono iprimi interventi per sanare le perditealle condotte della acque poste agliangoli della cupola. I fatti lascianopensare anche a errori di progetta-zione, determinando nell’ultimointervento, di due anni fa, l’ulteriore

alterazione estetica e assieme strut-turale. La variazione estetica è legatada una parte all’eliminazione di alcu-ni costoloni14 (fig. 12), nel tamburo,che proseguivano oltre un cornicio-ne, evidenti sia dai disegni delBazzani che dalle foto storiche, dal-l’altra a un restauro in loco dellelacune degli elementi decorativi incemento che ne hanno cambiatofisionomia e forma. Le variazionetecnologiche e strutturali sono scan-dite anche dalla sostituzione degliinfissi15 che, nel caso del lanternino,erano parte integrante dell’ossaturain ferro, mettendo in crisi la conti-nuità strutturale del cupolino.Questo ultimo intervento, sicura-mente attribuibile alla carenza diconoscenze sulla natura costruttivadel Santuario, ha determinato lacompromissione di una delle pochecupole interamente concepite inferro del periodo eclettico italiano:eppure gli interventi dei decenniprecedenti, prevedendo una doppia

finestra in plexiglas fissa (fig. 11), siera mossa su una linea di decisioniche facevano della reversibilità lamiglior politica per le operazionimanutentive.Altri due errori sono stati concepitinelle fasi di manutenzione: il primoè quello del rifacimento del pianoterrazzato sopra la sacrestia e soprail vano scala, avvenuto negli anniCinquanta e che ha determinato laperdita del prezioso lucernaio e con-trolucernaio, elemento ricorrentedell’architettura bazzaniana, a favo-re del più popolare e modernovetrocemento (forse nel vano tenta-tivo di evitare le infiltrazioni, provo-cando gli attuali problemi di con-densa per assenza di aerazione natu-rale); il secondo è la sostituzionenegli anni Settanta dei tetti a falda,non più tegole marsigliesi legate suicorrenti, ma piano di tavelle consovrastante getto in ce mento ecopertura di nuovo in tegole.Quest’ultima sostituzione ha deter-minato, la perdita dell’accessibilità erelativa ispezionabilità delle volte avela della navata centrale così comela smontabilità e sostituibilità, perpiccoli elementi, del sistema coper-tura, avendolo trasformato da unsistema a secco a un sistema quasimonolitico su cui sarà difficile inter-venire puntualmente e con costilimitati16. Sicuramente una sceltamolto più vicina all’idea del Bazzani,che pensava a coperture con intelaia-tura in cemento armato a discapitodi un sistema sostenibile da moltipunti di vista. L’intervento di sosti-tuzione del lucernaio, invece, faparte di quella tipologia di variazio-ni che hanno pregiudicato la ricono-scibilità dell’ambiente stesso, elimi-nando un componente architettoni-co che, oltre a contraddistinguerel’operato dell’architetto, dava quali-tà a un locale funzionale. A tal pro-posito, in termini di conservazione-

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Fig. 11. Esempio di finestre doppie, adot-tate per evitare le infiltrazioni d’acqua.

Fig. 10. Stato attuale della zona absida-le della chiesa.

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Note1. Per requisiti si intendono quelliormai riconosciuti dalla pratica manu-tentiva di affidabilità, durabilità emanutenibilità e per quest’ultima si cita-no i gradi di accessibilità e integrabilitàcome fondamentali per aumentare leprestazioni.2. Di tradizione più che altro eclettica.3. Questa prerogativa, di ispirazionewagneriana, tipica della poetica delBazzani, farà dell’elemento tecnologico-funzionale ‘lucernaio’ la co stante diriconoscimento della sua architettura,come nella Biblioteca Nazionale diFirenze, in banche e in molti edificipubblici dell’epoca. Per gli infissi è indi-cata la precauzioni di interporre reti,esterne o interne, a protezione dellegrandinate e dell’accidentale rottura deivetri.4. Si ricorda che da una prima ipotesi direstauro si passò al progetto di riedifica-zione completa secondo lo stile nuovo,detto liberty. La costruzione fu portataavanti in due fasi successive, prima laparte absidale (1905-1911) e poi la nava-ta, campanile e cupola (1915-1925). Lanavata fu demolita e riedificata comple-tamente. 5. È il caso delle “Anime degli Angeli”in cemento armato decorativo, pensatein profilati quadri e cilindri per le ali sudi un supporto di muratura in mattoni.6. Ad esempio la ‘ditta muraria’ chepreparava la base per le opere in calce-struzzo armato, oppure il fabbro che sioccupava del montaggio infissi e deisolai composti in travi bullonate, mar-misti, decoratori, ecc.7. Missiva n. 608 tratto dall’ArchivioPrivato Convento Frati Minori di Treia,Raccoglitore VII, C 3°.8. Lo smaltimento avviene in un’arealimitrofa al cantiere, la scarpata lateralealla chiesa, dove calcina, terra e qualchemattone o pietra andranno a occupareun luogo naturale, costituendo un sub-strato sopportabile per la vegetazione.Tale luogo, identificabile anche da unafoto storica, è ancora esistente, e il suopermanere in un stato naturale confermacome i materiali di scarto di costruzioni

Architettura e conservazione

restauro, ci si chiede se sia il caso dioptare per un ripristino oppure ras-segnarsi alla perdita definitiva del-l’oggetto, accettando la sovrapposi-zione della tecnologia degli anniCinquanta e relative limitatezze,non in grado di rimuovere la causadei difetti e de gradi manifesti.Dalle operazioni di miglioramentosismico, conclusesi nel 2004, si è evi-denziato il distacco del muro vec-chio di facciata dalla struttura dellanavata, un errore attribuibile all’im-presa che non aveva realizzato quan-to richiesto dal Bazzani: le ammor-sature tra vecchio e nuovo eranostate tralasciate o incompiute nellatarda costruzione della Facciata(dopo 1950) Tra le altre iniziative dimanutenzione-conservazione rien-tra anche la chiusura delle numerosebuche pontaie, difficili da raggiunge-re per le normali operazione di puli-zia, precludendo la facile collocazio-ne di impalcature per futuri inter-venti.Tra le prerogative dell’opera bazza-niana è da sottolineare che l’architet-to si pone sempre il problema del-l’accessibilità e raggiungibilità delleparti alte dei suoi edifici, costellandol’esterno delle sue opere di scale apioli (fig. 2); se difatti pensa adarchitetture i cui spazi sono di pro-porzioni monumentali, le sue terraz-

ze piane o le coperture in generedevono essere sempre raggiungibiliperché luoghi prediletti per le collo-cazioni impiantistiche, come serba-toi o ascensori che contraddistingue-ranno l’edilizia moderna17.In conclusione, possiamo affermareche è difficile riconoscere dove arri-vino i difetti progettuali, dove quellidi una sbagliata manutenzione, dovequelli di una messa in opera non aregola d’arte, o di un’eccessiva fidu-cia verso i nuovi materiali, quali ilcemento e il ferro. Resta comunqueil fatto che una manutenzione, sep-pur costante, non è riuscita a preser-vare alcune delle più belle caratteri-stiche dell’opera eclettica treiese, mane ha solo ritardato il momento dellasostituzione Unica chance in difesadel giovane progettista Bazzani èquella di non aver dimenticato, nellefasi di progettazione e di cantiere, ilproblema della manutenzione o curacostante del costruito, filosofia tipi-ca del passato, ma dimenticata dallaprassi del comune operare del -l’epoca.Allo stato attuale torna, pertanto,necessario definire una metodologiaoperandi, una gerarchia di decisioni,applicabile sia alla conservazione diquanto rimasto, sia al ripristino o alrecupero di quanto ancora c’è diparticolare, ma che conservi in sé itermini di sostenibilità e di reversibi-lità tipici di una corretta manuten-zione, anche nel caso in cui, perobsolescenza funzionale, ci si debbaorientare verso operazioni di ade-guamento degli spazi alle nuove esi-genze dei fruitori e utenti.

Fig. 12. I piccoli contrafforti della cupo-la poi eliminati definitivamente.

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storiche, grazie alla loro origine organi-ca, abbiano costituito una di scaricacompatibile con l’ambiente.9. La variante della tecnologia di realiz-zazione del sistema di copertura è dovu-ta all’impossibilità di procurarsi cemen-to nel periodo della prima guerra mon-diale, per cui si ripiega su di una soluzio-ne dipendente anche dai materiali dispo-nibili in cantiere e dalla necessità di nonfermare il cantiere.10. I trasporti ferroviari, nella prima fasedel cantiere, dalle acciaierie di Terni odai decoratori di Perugia, dalle fabbri-che di vetri di Roma oppure dalla fab-brica dei cementi di Spoleto, costavanodi meno del trasporto, con carri, daMacerata a Treia. Queste difficoltà erelative spese, se superate nella primafase del cantiere, si fanno ardue con laprima guerra mondiale, per cui si predi-lige la materia prima locale dei mattoniofferta dalla vicina fornace Bartoloni edi maestranze come il fabbro ferraiolocali, limitando gli ordini di materialidalle grandi città al minimo indispensa-bile.11. Da quella di riempimento per i rin-fianchi, a quella strutturale degli arconi,a quella decorativa-artistica esterna,oppure a formare l’anima dei decori inpietra artificiale.12. Almeno in questa esperienza tuttoquello che è laterizio vecchio è statoreimpiegato magari assieme alla pietraper i rinfianchi degli archi e volte.13. Tra le opzioni di progetto propostealla Proprietà Comunale, alla Provinciae alla Soprintendenza, negli anni Ses -santa, c’era anche quella di sostituzionedell’alluminio con lamine di rame mavisto l’indifferenza generale gli utenti,cioè i frati, hanno provveduto alla piùeconomica spalmatura di bitume dimo-strandosi da subito un rimedio insuffi-ciente e pregiudicandone definitivamen-te la particolarità della copertura. Lavera causa era legata principalmenteall’infiltrazioni costanti dagli infissi.14. Questi costoloni sembravano avesse-ro funzioni di fermo delle gronde oriz-zontali.15. In questo non si è pensato a un recu-pero-restauro dell’infisso come nel caso

della Casa Malaparte o ad altri esempidi conservazione del moderno, preser-vandone cioè la tecnologia e la materiastessa.16. Quanto detto si è dimostrato nelrecente intervento di miglioramentoantisismico dove nel tetto si è intervenu-ti con una nuova impermeabilizzazionedi tutte le superfici per evitare le inutilipezzature.17. In questo caso sono interessanti idocumenti relativi alla costruzione dellaBiblioteca Nazionale di Firenze dove siprevede l’allocazione di serbatoi perl’acqua sulle terrazze in corrispondenzadei torrioni e i suggerimenti, in corsod’opera, per l’inserimento di un ascen-sore.

Architettura e conservazione

*Dottoranda in Tecnologia dell’Ar -chitettura presso il Dipartimento TAeD(Tecnologia dell’Architettura e Design“Pierluigi Spadolini”) dell’Universitàdegli Studi di Firenze, con una Tesisull’Approccio manutentivo program-mato per la conservazione e restauro diun’opera eclettica: il Santuario del SS.Crocifisso-Treia (MC) di Cesare Baz -zani. La ricerca per la Tesi è alla base diquesto scritto.

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L’Archivio napoletano dell’Asso -ciazione “Ugo Matania. LiberoCentro di studi per le Arti Visive”

Sulla collina del Vomero a Napoli viè un luogo in cui la memoria storicadi tre generazioni di artisti vive an -cora in un Archivio dove si sonoaccumulati nel tempo rari materiali edocumentazioni funzionali a precise

esigenze artistiche e professionali.Gran parte delle opere e dei docu-menti relativi all’attività dei pittoriEduardo Matania (Napoli 1847-1927), Alberto Della Valle (Napoli1851-1928), Fortunino Matania(Napoli 1881-Londra 1963), UgoMatania (Napoli 1888-1979) e delfotografo Pier Luigi Pretti (con fotodal 1900 al 1926) sono conservati in

una casa-studio ancora aperta allaproduzione artistica contemporaneae dal 1979 Associazione culturale.Oltre a dipinti, tavole illustrate,fotografie, disegni e schizzi, si con-servano ancora arredi, calchi, attrez-zature, libri, giornali, riviste, manife-sti che, insieme a lettere e cartolineillustrate, rivelano l’inclinazione allaconservazione della memoria, parti-colarmente spiccata in artisti deditiper ‘professione’ alla documentazio-ne pittorica della storia, dell’attuali-tà, del costume.Dalla collezione si può ripercorreremolta storia dell’illustrazione e dellafotografia dalla metà dell’800 al ’900di una Napoli in stretto contatto conaltre città d’Italia e del mondo sulfilo proprio della produzione e cir-colazione delle immagini nel settoredella stampa illustrata.Per realizzare le pagine illustrate siraccoglievano fonti di ogni naturaraccolte, mano a mano, in un archi-vio ispirato alla logica dell’assem-blaggio di modelli a fini documenta-ristici e, quindi, non alla collezione‘completa’ della stampa, quantopiuttosto alla varietà di spunti e rife-rimenti che essa poteva fornire. Dentro ogni cartella si nasconde,così, molto più della somma dei sin-goli documenti conservati e possonoschiudersi, se non ci si lascia tentareda un intento semplicemente ordina-torio, molti tasselli storici e percorsiper sfidare l’inerzia del passato edaprire la strada alla decifrazionedelle memorie. (G.S)

Il materiale fotografico dell’archivioMataniaL’archivio fotografico Matania ospi-ta diverse tipologie di fondi, da ungrande numero di stampe (albumina,carbone, gelatina ai sali d’argento) difine Ottocento e del Novecento(Fondo Alberto Della Valle, Fondodelle Agenzie Internazionali di

Conservazione

Aspetti conservativi del fondo fotografico ottocentesco e novecentesco dell’archivio Mataniadi NapoliGaia Salvatori*, Gabriella De Florio**

Fig. 1. Ritratto di gruppo (stampa ai sali d’argento su cartone, cm 20x17). Fondo“Raccolta di stampe di fine Ottocento”.Nel riquadro: ossidazione dell’immagine argentica denominata specchio d’argento.

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Stampa e raccolta di stampe di fineOttocento), ad una grande collezio-ne di circa quattromila diapositivestereoscopiche in vetro al bromurod’argento, eseguite dal 1900 al 1926(Fondo Pier Luigi Pretti): si tratta diuna meravigliosa raccolta che meritaun articolato progetto di conserva-zione, restauro e valorizzazione1.I problemi conservativi dell’archivionascono da una serie di fattori inter-ni ed esterni. Sottolineando che ilmateriale fotografico è per sua natu-ra poco stabile, essendo il frutto direazioni chimiche, abbiamo l’insta-bilità delle sostanze che formanol’immagine, instabilità dei leganti,instabilità dei supporti e dei tratta-menti di finitura, presenza di residuichimici (fattori interni). Le causeesterne di degrado sono legate almicroclima, ossia luce, temperatura,umidità e inquinamento atmosferi-co, che favoriscono l’alterazione

fotochimica, l’idrolisi e ossidazionedei sali d’argento, comportandocambiamenti di colore ed un degra-do fisico. La temperatura e l’umiditàrelativa registrate nei locali dell’ar-chivio Matania dal mese di dicembre2005 al giugno 2006 oscillano tra i14-20 °C con il 60%-80% di umidi-tà relativa: i valori di U.R. sonogeneralmente superiori a quelli rac-comandati per una conservazioneideale (20%-50%) e possono inge-nerare forme di degrado biologico echimico; si tratta d’altronde di pro-blematiche presenti nella maggiorparte delle raccolte ospitate in edifi-ci storici2.Le forme di alterazione biologicariscontrate all’interno dei diversifondi sono rappresentate dalla pre-senza di muffe che in alcuni casihanno danneggiato le fotografienutrendosi delle sostanze organichepresenti (carta e/o gelatina) produ-

cendo nel fototipo macchie di diver-si colori, e zone pulverulenti. Ildegrado chimico invece è contraddi-stinto dall’ossidazione dell’immagi-ne argentica che provoca la tipicaalterazione (presente in particolarmodo nelle immagini positive enegative con l’emulsione in gelatina)denominata “specchio d’argento”.Questo è un processo degenerativodi tipo ossido-riduttivo delle parti-celle d’argento disperse nello stratodel legante. Esse subiscono un’ossi-dazione e tendono a migrare verso lasuperficie del fototipo, metallizzan-do il suo aspetto soprattutto nellezone più scure dell’immagine (riqua-dro fig. 1), che assumono un aspettocaratteristico di specchio, visibile adocchio nudo inclinando leggermenteil fototipo3. Analizzando le diversecollezioni si è riscontrato che l’umi-dità ha alterato i leganti (albume,gelatina, collodio) che trattengonoin sospensione le particelle che com-pongono l’immagine, fissandola alsupporto (metallo, vetro, carta, pla-stica). Ad esempio l’albume checaratterizza le stampe di fine Ot -tocento è nel tempo ingiallito provo-cando in alcuni casi la totale scom-parsa dell’immagine (fig. 2). L’alte -razione è dovuta alla sua tendenzanaturale ad ingiallire, all’umidità chefavorisce l’interazione del biancod’uovo con i composti alcalini (rea-zione di Mailland) o ad un’esposi-zione prolungata alla luce che pro-voca un deterioramento fotochimicodovuto alle radiazioni ultraviolette. Icambiamenti di colore che possonoarrivare sino ad uno sbiadimento,possono derivare anche da un insuf-ficiente lavaggio che lascia all’inter-no della fotografia residui di iposol-fito di sodio che si combinano conl’argento formando solfuro d’argen-to4. Pur essendo tipico dei procedi-menti argentici (carta salata, albumi-na, aristotipia) il mutamento è pre-

Conservazione

Fig. 2. Fanny Zampini Salazar (stampaall’albumina cm 9,5x13). Fondo dellaraccolta di stampe di fine Ottocento.

Fig. 3. Stampa all’albumina su cartonecm 17x25. Fondo della raccolta di stam-pe di fine Ottocento.

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sente anche in altri fototipi (adesempio stampe al carbone) che pos-sono alterarsi in quanto montati suun supporto acido5.Sono infatti seri i danni provocatidall’interazione dell’argento con lesostanze presenti nei supportisecondari di montaggio, come carto-

ni, colle, vernici. In particolare i car-toncini da montaggio utilizzati infotografia nella seconda metà del -l’Ottocento erano realizzati conpasta di legno, meno costosi ma ric-chi di residui come la lignina, resineed altre sostanze organiche, che intempi relativamente brevi, associati acondizioni di conservazione nonidonee provocano la degenerazioneacida della carta, che si presentasotto forma di un più o meno marca-to ingiallimento, un aumento dellafragilità e un rilascio di sostanzeacide che danneggiano i documenticon cui sono a contatto6. Ad esem-pio alcuni cartoni di montaggio pre-senti all’interno delle raccolte sisono ingialliti e l’umidità ha favorito

il rilascio di determinate sostanzeche hanno causato la comparsa divistose macchie giallo-rosse dettefoxing che si sono sviluppate su tuttala superficie (fig. 3). L’umidità hafavorito la distorsione del supportoche ha causato delle spaccature sullastessa immagine e la presenza del-l’insetto Lepisma saccarina (“pescio-lino d’argento”), ghiotto di carta,zuccheri e amidi ha danneggiato inqualche esemplare i bordi con vereerosioni superficiali7 (fig. 3).Alcune stampe all’albumina chesono state osservate a 30 ingrandi-menti, hanno rivelato una classicaalterazione dello strato fotografico.Si sono verificate delle fessurazioni o“craquelures” che derivano sostan-zialmente dalla perdita di elasticitàdello strato di albumina, che tendefortemente ad incurvarsi su se stessonon adattandosi al supporto (fig. 4):questo tipo d’alterazione dello stratocostituisce anche un indizio per ilsuo riconoscimento8.Anche il fondo di stereoscopie PierLuigi Pretti e le 111 cartelle checostituiscono il fondo delle AgenzieInternazionali di stampa hanno subi-to alterazioni dovute principalmenteai fattori climatici. Nel tempo l’insta-bilità dell’umidità ha agito sulle lastrestereoscopiche alla gelatina di bro-muro d’argento causando la dilata-zione del legante, che essendo unasostanza fortemente igroscopica si èdeformata, provocando così il totaledistacco dal supporto in vetro (fig.5). Un ulteriore rischio di degradodelle lastre è rappresentato dalla lorofragilità; la caduta accidentale dialcuni contenitori ha causato infattila rottura di alcune stereoscopie dan-neggiandole gravemente9 (fig. 6).Altresì lo stato di conservazionedelle fotografie contenute nelle 111cartelle presenta aspetti problematici.Sul retro di molti documenti sonopresenti timbri e didascalie (strisce di

Conservazione

Fig.4. Craquelures di una stampa all’al-bumina. Fondo della raccolta di stampedi fine Ottocento.

Fig.5. Villa Pierce, Posillipo (diapositiva stereoscopica, cm 10,5x4,5). Fondo PierLuigi Pretti.

Fig. 6. Venditrice di semi, Napoli (diapositiva stereoscopica, cm 10,5x4,5).Fondo Pier Luigi Pretti.

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carta comune battute a macchina)fissate con della colla che a volteinvade l’intero supporto (fig. 7). Lapresenza di colle e adesivi ha causatomacchie da contatto; in particolare lecolle, che hanno la tendenza adassorbire l’umidità, hanno favorito losviluppo di muffe. Una grande quan-tità di queste fotografie recano sulretro il timbro dell’agenzia dallaquale provengono. L’inchiostro ditali timbri potrebbe essere incompa-tibile con il fototipo e danneggiarenotevolmente l’immagine a strettocontatto con esso. Per essere sicuridella sua inerzia chimica bisognereb-be sottoporlo al test di reattivitàfotografica detto PAT (PhotographicActivity Test). Solo attraverso le ana-lisi chimiche degli inchiostri e dellecolle sarà possibile valutare i criteridi conservazione del fondo delleAgenzie In ternazionali di stampa10.I problemi conservativi dell’archivioMatania derivano anche dall’utilizzodi contenitori potenzialmente nonidonei, costituiti da scaffali e mobiliin legno (il legno invecchiando puòrilasciare sostanze responsabili dellosbiadimento delle immagini argenti-che). Altri problemi vengono daicontenitori utilizzati per custodire le

fotografie. Ad esempio le stampeall’albumina del fondo AlbertoDella Valle sono conservate in foglidi carta comune particolarmentericca di sostanze acide che hannoportato, a partire dai bordi, ad unosbiadimento delle immagini (fig. 8);le cartelle del fondo delle Agenzieinternazionali di stampa non sonoidonee alla conservazione dellestampe perché sono costituite da uncartone acido ed, essendo aperte,facilitano la penetrazione di polveree insetti (fig. 9); le stereoscopie posi-tive del fondo Pier Luigi Pretti sonoconservate in box di plastica con uncoperchio di cartone derivato davecchie scatole di medicinali confe-zionate dallo stesso Pretti, medico diprofessione (fig. 10). Le stereoscopienegative sono conservate nel loroastuccio di cartone originale mainterfogliate con carta non neutra.Quindi per poter salvaguardare leimmagini fotografiche dal deperi-mento è necessario predisporreun’adeguata politica di tutela chetenga conto delle specificità delmateriale e che preveda interventiconservativi di ampio respiro, in sin-tonia con le caratteristiche dell’edifi-cio storico che le ospita. La conser-

vazione della fotografia avviene at -traverso il controllo del microclima ela scelta di materiali idonei comescaffali in alluminio anodizzato oacciaio inossidabile, scatole e buste incarta a pH neutro o con materie pla-stiche idonee (polietilene, polipropi-lene), l’importante è che questi pro-dotti siano certificati e conformi allanormativa ISO 10214:1991 (Photo -graphy - Processed Photo gra phicMaterials - Filing Enclosures for Sto -rage)11. Il materiale fotografico del-l’archivio Matania deve essere ade-guatamente indagato e tenuto sottocontrollo al fine di salvaguardare unpatrimonio che per la sua ricchezzastorica e culturale merita di esseretrasmesso al futuro12. (G.D.F.)

Note1. L’articolo si basa sulle ricerche effet-tuate in occasione della tesi in Con -servazione dei Beni Culturali discussa dachi scrive nel luglio 2006: G. DE FLORIO,La Conservazione della Foto grafia: me -todologie d’intervento per il fondo foto-grafico dell’Archivio Napole tano Ma -tania, Seconda Univer sità di Napoli, Fa -coltà di Lettere e Filosofia, relatore prof.Paolo Bensi. Colgo l’occasione per rin-graziare sentitamente il prof. Bensi, laprof.ssa Rosanna Cioffi (corelatrice), la

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Fig.8. Fotografie corrispondenti al romanzo d’avventura sal-gariano “L’uomo di Fuoco” 1904 (stampe all’albumina cm12x9). Fondo Alberto Della Valle.

Fig. 7. Fotografie recanti sul retro didascalie e timbri delle agen-zie di stampa. Fondo delle Agenzie Internazionali di Stampa.

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prof.ssa Gaia Salvatori della SecondaUniversità di Napoli, il prof. LorenzoScaramella, docente di Storia e Tecnicadella Fotografia presso la Facoltà diConser vazione dei Beni Culturalidell’Univer sità Suor Orsola Benincasa diNapoli e il suo assistente Marco Casciel -lo, Giulia Cucinella Briant restauratricepresso l’Institut National du Patrimoinedi Parigi, Rosario Petrosino, direttore delCentro Pro vinciale del Restauro e dellaConser vazione della Fotografia di No -cera Inferiore, l’artista Tullia Matania el’architetto Raffaello Salvatori proprieta-ri dell’archivio Matania per l’aiuto e leindicazioni che mi hanno fornito nell’ela-borazione della tesi.2. S. BERSELLI, L. GASPARINI, L’ar chi viofotografico, Manuale per la conservazio-ne e la gestione della fotografia antica emoderna, Bologna 2000, pp. 110-117.3. L. SCARAMELLA. Fotografia, Storia eri conoscimento dei procedimenti foto-grafici, Roma 2003, p. 152.4. P. BENSI, Appunti sulla conservazio-ne delle fotografie di interesse storicoartistico, in “Quaderni del Museo, Ac ca -demia Ligustica di Belle Arti”, 1985,Genova, n. 2, La fotografia contributi distudio, pp. 13-14.5. L. SCARAMELLA, op.cit, Roma 2003,p. 193.6. L. SCARAMELLA, Evoluzione e carat-

teristiche dei supporti fotografici nei pro-cedimenti di stampa e di ripresa, inStoria e Tutela del patrimonio fotografi-co, Atti del 1° incontro, 3-5 maggio,Palermo 2005, pp. 21-30.7. D. MATÈ, L. RESIDORI, Il deteriora-mento e la conservazione delle fotogra-fie, Udine 2002, pp. 264-268.8. B. LAVÉDRINE, La conservazionedelle stampe fotografiche dell’Ottocento,in “OPD Restauro”, 2, 1990, pp. 17-28.9. D. MATÈ, L. RESIDORI, op.cit, Udine2002, p. 260.10. L.M. BITELLI, R. VLAHOV, A proposi-to di conservazione, in Photographia. At -tività di catalogazione e tutela dei fondifotografici in Emilia-Romagna a cura diG. BENESSATI, Bologna 2003, pp. 11-13.11. S. BERSELLI, L. GASPARINI, op.cit,Bologna 2000, pp. 97-99.12. Con un primo progetto di “Recu -pero storico-artistico della collezione didiapositive stereoscopiche dell’ArchivioMatania”, proposto dal Dipartimentodelle Componenti culturali del territo-rio della Seconda Università degli Studidi Napoli e finanziato dalla RegioneCampania (L.R. 49/85), nel 2001-02 si èprovveduto alla classificazione per areegeografiche e tematiche prevalenti del-l’intero fondo Pretti ed alla riproduzio-ne di 1720 lastre su pellicola negativa acolori e relativa stampa su carta.

BibliografiaL.M. BITELLI, R. VLAHOV, La Foto gra -fia, tecniche di conservazione e problemidi restauro, Bologna 1987.J.M. REILLY, Care and Identification of19th Century Photographic Prints, Ro -chester 1986.S. RUELLO, La Conservazione preventi-va del patrimonio fotografico: specificitàed esigenze, in Storia e Tutela del patri-monio fotografico, 3-5 maggio, Palermo2005.M.C. SCLOCCHI, D. MATÈ, D. RUGGIERO,I costituenti organici dei materiali foto-grafici. Loro suscettibilità ad attacco bio-logico, in “AFT”, anno XVII, n. 35,Giugno 2002.I. ZANNIER, La fotografia in archivio,Milano 2000.

Tutte le fotografie riprodotte sono con-servate nell’archivio dell’AssociazioneUgo Matania di Napoli.

** Gaia Salvatori. Docente di Storia del-l’arte contemporanea nella Fa coltà diLettere e Filosofia, Seconda Universitàdi Napoli, Santa Maria Capua Vetere(Caserta).** Gabriella De Florio. Laureata inConservazione dei Beni Culturali allaFacoltà di Facoltà di Lettere e Filosofia,Seconda Università di Na poli, SantaMaria Capua Vetere.

Conservazione

Fig. 9. Tipologie di cartelle. Fondo delle Agenzie Internazio nali diStampa.

Fig.10.Box in plastica. Fondo Pier Luigi Pretti.

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“...tutto dipende da quello che si rie-sce a considerare come strettamenteindispensabile per il dipinto...”Apriamo l’articolo con questa sinte-si efficace sul Minimo Intervento chepuò far capire la strada che ab biamointrapreso, quella di non avere lapresunzione e valutazione di se stes-si, che spesso spinge verso un inter-vento eccessivo, ma quella di mirareal massimo successo conservativocon interventi di restauro minima-mente invasivi, curiosi anche deirisultati che riusciremo ad ottenere.Questo modo di lavorare esprime unaspetto mentale più che una tecnica enella maggior parte dei casi, porta al

rifiuto di ricette standardizzate o ditecniche di routine, rendendocicoscienti che ognuno dei nostri“pazienti” è un caso unico e che diconseguenza deve ricevere un tratta-mento mirato alla sua “malattia”1.Il nostro “paziente” è un dipinto adolio raffigurante un ritratto d’uomo,aventi dimensioni pari a 55x68,5 cm(fig. 1). In alto a destra è visibile ladata di esecuzione – 1865 – cherende certa un’autografia andatapurtroppo persa a causa del degradosubito per incuria.Questa data, tarda rispetto allo stiledi epoca neoclassica del dipinto, evi-denzia il gusto dell’autore per una

ritrattistica ormai passata, oppure diun autore avanti con gli anni cheancora ama questo stile ed ad essorimane legato.È rappresentato un uomo dall’aspet-to curato, proveniente dal cetomedio, possibile funzionario o pic-colo proprietario; il suo viso si sta-glia con toni rosa caldi su una tintadi fondo uniforme in tono di terrad’ombra naturale. L’autore non evi-denzia pittoricamente emozioni ecarattere del personaggio, il vestito ècomposto da una giacca scura dipanno pesante, camicia bianca e cra-vatta, che pare usuale per l’uomo.L’autore non evidenzia pittorica-mente emozioni e carattere del per-sonaggio, il vestito è composto dauna giacca scura di panno pesante,camicia bianca e cravatta, che pareusuale per l’uomo.La qualità tecnica degli impasti dicolore è regolare e l’insieme, anchese non ricco di particolari, è la buonacomposizione di un altrettanto buonritratto.

Materiali e metodi

Un’esperienza pratica di trazionamento graduale di un dipinto su telaSilvia Covelli*, Stefania Gavazzi**, Andrea Lutti***

Fig. 1. Prime fasi di lavoro. Fig. 2. Particolare del dipinto.Fig. 3. Rinforzi provvisori dei tagli sulretro.

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Per capire meglio il lavoro svolto èfondamentale conoscere, oltre allatecnica esecutiva, lo stato di conser-vazione del dipinto.L’opera si trovava vincolata al suotelaio nella parte inferiore, dove nonerano presenti tutti i suoi vincoli, elungo il lato destro e sinistro, sola-mente per i primi dieci centimetri. Illato superiore non aveva più il mar-gine che un tempo teneva il dipintoancorato al telaio.Questa situazione ha fatto si che latela si deformasse producendo pie-ghe, spanciature e un rilassamentosia trasversale che longitudinale;nella zona centrale e in due puntidella zona inferiore, danni di naturaaccidentale hanno inoltre prodottopiccole lacerazioni. La tela, con trama fitta, spessore sot-tile e armatura a tela pari 1:1, presen-tava in maniera marcata l’improntadel telaio e, tranne per le piccole lace-razioni precedentemente citate, pote-va ritenersi in un discreto stato diconservazione. Le perdite di stratopittorico, inteso come strato prepara-torio e colore, si presuppone sianostate causate proprio dalla mancatatensione perdurata per lungo tempotra la tela e il telaio (fig. 2).La preparazione era molto sottile ela pellicola pittorica si presentava inalcune zone quasi spelata, segno evi-

dente di una pulitura aggressiva e, diconseguenza, di un tentativo direstauro avvenuto precedentemente.Quest’ipotesi è rafforzata dal fattoche sul lato destro del perimetro deltelaio sono stati trovati due tipi dif-ferenti di chiodatura: una con chiodiartigianali a testa larga e l’altra conchiodi più piccoli e di recentecostruzione; inoltre sul marginedella tela si evidenziavano fori dichiodi precedenti.Il telaio,in buonostato di conservazione, era costituitoda quattro elementi perimetrali inabete con incastri espandibili a teno-ne-mortasa, lungo la zona centraledelle assi laterali era presente un leg-gero incurvamento verso l’internopari ad un millimetro circa.Tutti questi elementi hanno permes-so di tracciare un’ipotetica linea deldegrado subito dal dipinto, dovutasia allo stato di conservazione, siaalle operazioni di restauro avvenutein passato, e di cercare di conseguen-za soluzioni poco invasive e reversi-bili al fine di recuperare il dipinto eripristinare un buon equilibrio con-servativo.La scelta di un intervento minimo,supportata dalle buone condizionidel telaio, da un discreto stato diconservazione del supporto, dai rife-rimenti dei punti di ancoraggio(chiodi e fori degli stessi sul margine

della tela), ha spinto a non adottarele tecniche più invasive, quali fode-ratura o fasce perimetrali, fonti dimaggiori stress per l’opera.Si è invece deciso di ripristinarel’equilibrio e la stabilità esistente tratela e telaio ritensionando la telastessa senza svincolarla dai pochichiodi esistenti e utilizzando i vinco-li rimasti nel telaio come punto diriferimento per il raggiungimentodelle dimensioni originali del sup-porto, restituendo quindi ai chiodi lafunzione persa al momento deldistacco.In primo luogo sono state applicatedelle strisce di tessuto sinteticoTergal apprettate con Beva-film sul verso del dipinto(fig. 3), aventi la funzione di impedi-re che le lacerazioni si dilatasserodurante il tensionamento, e successi-vamente è stato eseguito un consoli-damento sul recto in prossimità dellelacerazioni del supporto e abrasionidi pellicola pittorica con Plexisol

Materiali e metodi

Fig. 4. Rinforzi dei vincoli. Fig. 5. Applicazione delle fascette di rin-forzo dei vincoli.

Fig. 6. Incollatura della fascia sostitutivadel margine superiore.

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P550 al 5% in White Spirit per evita-re che si verificassero ulteriori perdi-te di colore sempre durante il tensio-namento. A questo punto si presentava la pro-blematica maggiore, ossia riuscire aportare in tensione i tre lati deldipinto svincolati dal telaio, sapendoche nella parte superiore, oltre alritiro della tela di circa cinque milli-metri, mancava il margine utileall’inchiodatura e anche i marginilaterali presentavano un modestoritiro del supporto.La prima operazione è stata nel met-tere in sicurezza il lato inferiore,l’unico ancora in buona parte vinco-lato al telaio (7 chiodi su 13) e cheavrebbe subito sollecitazioni maggio-ri. Laddove il connubio tra chiodo etela era funzionale sono state applica-te delle rondelle in metallo con EVA42036, appositamente deformate inmaniera da renderle più idonee, conlo scopo di aumentare la superficiedella testa del chiodo di modo che ilvincolo potesse assorbire meglio letensioni esercitate (fig. 4).In alcuni punti i chiodi originaliarrugginiti avevano provocato l’os-sidazione della tela, la sua rottura edi conseguenza la perdita di anco-raggio. In queste zone è stata appli-cata una fettuccia di tessuto sinteticoTergal apprettata con Beva-film sul

verso del dipinto in corrispondenzadel foro (fig. 5).La testa del chiodo è stata ripulitadalla ruggine, trattata con un con-vertitore ed è stato creato un forelli-no sul tessuto sintetico affinché siriuscisse a inserire la testa del chio-do, ripristinando in questo modo lafunzione originaria del vincolo(anche qui sono state poi applicate lerondelle).Successivamente, per riportare latela in tensione sia lungo i lati verti-cali che orizzontali, è stato necessa-rio utilizzare un telaio interinaleprovvisorio di dimensioni più gran-di rispetto a quello originale e conuno stesso spessore, ancorato trami-te piastrine metalliche.Le fasi di lavoro si sono susseguite inquest’ordine: lungo il lato superioreè stata applicata una striscia perime-trale di tessuto sintetico Tergalapprettata con Beva-film lasciatamomentaneamente “libera” ma conil preciso scopo, una volta recupera-te le dimensioni del dipinto e rag-giunta la giusta tensione, di farlesvolgere la funzione di margineandato perso (fig. 6). La mancanza dipellicola pittorica e preparazioneall’estremità del lato superiore hapermesso di ancorare in otto puntipiù o meno equidistanti tra di loro,una fascia in Tergal (fig. 7) apprettata

solo in questi precisi punti e lungatutto il margine, mentre la parteopposta della fascia è stata rigirata suse stessa formando una tasca nellaquale è stato inserito un piccolo“stecchino” in legno al quale poisono stati annodati dei fili di Nylon.I fili sono stati collegati all’asse supe-riore del telaio interinale tramite ottoviti sulle quali si potesse esercitare latrazione necessaria e regolare la forzadel trazionamento (fig. 8).Una volta portato il lato superiorealla giusta tensione è stato fissato illato destro, avendo come riferimen-to di una giusta posizione i fori pre-senti sui margini laterali della telarispetto alle teste dei chiodi originalied utilizzando lo stesso procedimen-to effettuato per il margine inferiore.A questo punto il problema si pre-sentava sul lato sinistro che, a causadel ritiro subito dalla tela durante lamancanza di tensione, non permette-va di far coincidere manualmente ilforo sul supporto con la testa delchiodo inserito nel telaio. Si è decisodi applicare una trazione con meto-dologie simili a quelle utilizzate per illato superiore, con la differenza chein questo caso era presente il margi-ne e tenendo conto che mettendo intrazione il lato come fatto per laparte alta, non si sarebbe potuto vin-colarlo se non eliminando tempora-

Materiali e metodi

Fig. 7. Applicazione della fascia per ten-sionare il lato superiore.

Fig. 8. Tensionamento della parte alta. Fig. 9. Tensionamento del lato sinistro.

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neamente la trazione su tutto ilbordo, con il rischio di perdere laposizione recuperata. Di conseguen-za è stata adottata una trazione pun-tuale in corrispondenza di ogni chio-do, in modo che raggiunta la giustaposizione si sarebbero potuti tagliaretre fili di Nylon alla volta e inserire lefettucce sotto la testa dei chiodi; ilprocedimento è stato ripetuto fino alcompleto ancoraggio.Per realizzare le singole trazionisono state adoperate lo stesso tipo difettucce di Tergal utilizzate prece-dentemente, ma di lunghezza mag-giore, in modo da poterle ripiegaresu se stesse creando una tasca doveinserire un piccolo bastoncino inlegno, al quale annodare il filo diNylon, legato nell’estremità oppostaa una vite posta sul telaio provviso-rio (fig. 9).Una volta riportato il dipinto allesue dimensioni originali sono stateapplicate le rondelle su tutte le testedei chiodi sia per un motivo di sicu-rezza che per un fatto estetico.Per finire sono stati rimossi i rinfor-zi applicati sulle lacerazioni perpoter risarcire queste zone con unametodologia più opportuna. Comeriempitivo dei tagli sono stati inseri-

ti dei fili di una tela vegetale con lestesse caratteristiche di quella origi-nale, saldati con poliammideLascaux e come ulteriore sostegno aquesta sutura sono stati applicatirinforzi di Velo di Lione apprettatocon Beva-film (fig. 10).Il risultato ottenuto, visto le condi-zioni iniziali, ha superato le nostreaspettative.Non nascondiamo che abbiamoincontrato alcune difficoltà durantela fasi lavorative dovute soprattuttoall’utilizzo di queste nuove metodo-logie e a un approccio mentale diffe-rente rispetto a quello convenzio -nale.Pur non essendo riusciti ad ottenereuna perfetta planarità, risultato facil-mente raggiungibile con una fodera-tura, l’approccio rispettoso e ragio-nato verso l’opera risulta essere,oltre che affascinante, un’alternativavalida rispetto alle metodologie tra-dizionali che giustifica il compro-messo di accettare alcuni “difetti”.

Materiali e metodi

* Diplomata presso l’Istituto per l’Arte eil Restauro di Palazzo Spinelli, Firenze.Restauratrice titolare del laboratorio“Studio Restauro” via GerolamoAcerbis, 7 - Alzano lombardo, Bergamo.

** Diplomata come Tecnico di Restauropresso la Scuola Regionale per laValorizzazione dei beni Culturali,Enaip Lombardia, Botticino-Brescia.

*** Restauratore titolare del laboratorio“Lutti Restauri”, via Astino, 53 - Bergamo.

Fig. 11. Quadro durante la lavorazione. Fig. 12. Quadro a lavoro ultimato.

Fig. 10. Rinforzo sul retro di un tagliocon il velo di Lione.

Note

1. Questi concetti hanno avuto modo diessere messi in pratica durante un corsosul Minimo Intervento organizzatodalla C.N.A. di Bergamo con il docenteAlberto Finozzi,

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www.esempidiarchitettura.it

Lo spazio pubblicoa cura di Chiara Visentin

n° 1/2007

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Lavorare di domenica, nel cristianiz-zato occidente, appariva senza dub-bio sino a pochi decenni orsono ungesto di cui vergognarsi. Si trattavadi un divieto consolidato dalla tradi-zione, cui soltanto poche categoriepotevano sfuggire e non senza inqualche modo dimostrare l’assolutanecessità della loro trasgressione:difficile non pensare ai lavori deicampi, per i quali era ed è impossibi-le ipotizzare di poter svolgere in unmomento preciso e preordinato leincombenze imposte dalla natura1.Di là di queste categorie lavorative,tuttavia, il lavoro domenicale si èvenuto configurando nella tradizio-ne occidentale tardo-antica, semprepiù impregnata di cristianesimo,come un gesto profondamente

secolo alla realizzazione di numero-si esempi che testimoniano come laChiesa abbia cercato di dissuadere ifedeli dal lavoro domenicale attra-verso la realizzazione di immaginisacre che raffiguravano il Cristomartoriato e come crocifisso unaseconda volta: ma non trafitto daichiodi della crocifissione, bensì daglistrumenti quotidianamente impiega-ti dai lavoratori nell’esplicazione deipropri lavori.Le testimonianze artistiche di tale pre-cisa volontà espressa dalla Chiesa –note sotto il nome di Cristo dellaDomenica3 – sono oggi poco più diuna sessantina, ubicate prevalente-mente nelle aree a ridosso dell’arcoalpino centro-orientale: Austria,Germania, Italia settentrionale eSvizzera oltre a Repubblica Ceca eIstria, quasi si fosse trattato inmaniera specifica di un ambito cul-turale concentrato tra le popolazioniabituate a convivere con climi diffi-cili e minori possibilità di diluire ilproprio lavoro nell’arco di un perio-do di maggiore respiro4.Al di fuori di siffatto contesto geo-grafico compatto e sostanzialmenteomogeneo, l’immagine del Cristo

offensivo nei riguardi della Divinità,sino a sfociare in un esplicito divietocodificato nel Sinodo di Szabolcs del1092: un processo parallelo a quelloche ha visto la domenica imporsi alsabato quale giorno di riposo e didevozione2.

In tale ottica, unitamente ai tradizio-nali strumenti coercitivi di naturamorale – in primis le omelie decla-mate nel corso delle celebrazioniliturgiche – si è venuto sviluppandoall’interno della struttura ecclesiasti-ca medievale un nuovo mezzo dicomunicazione, al contempo effica-ce e suggestivo, ovvero l’affresco.Il binomio sorto da tale connubio,consolidatosi nel corso dei secoli, hacondotto a partire dal XIII-XIV

Il Cristo della Domenica:un’iconografia tra arte e religione.Un esempio vicentino.Marco Ferrero*

Fig. 1. Esterno della chiesa. Fig. 2. Navata e parete settentrionale della chiesa.

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sofferente e trafitto dagli oggettidella quotidianità ha trovato ampiospazio in Inghiterra, particolarmentenell’area meridionale incluso ilGalles5.Si tratta di un’iconografia che –come altri casi analoghi legati allapercezione dell’elemento sacro e allostretto rapporto esistente tra signifi-cante e significato – si spense a parti-re dagli anni immediatamente suc-cessivi al Concilio di Trento, cheimpose un maggior rigore anchenella realizzazione delle immaginisacre6: si dovevano in particolareevitare quelle che avessero comeoggetto un falso dogma, “nequerudibus errandi occasionem prae-beat neque sacrae scripturae, velEcclesiae Historiae adversetur;neque turpitudinem, aut procaci-tatem ostentet; vel risum moveat; veldenique fìdelium oculis ullam offen-sionem afferat”7.Il risultato è che ancora oggi le iconedi cui stiamo discorrendo sono per-cepite dai più come un vero e pro-

prio oltraggio alla figura santa diCristo.L’avversione verso tale tipologia èstata alla base della distruzione dimolte tra esse e se alcune si sono salva-te lo dobbiamo probabilmente alla –in tal caso meritevole sotto il profilodella conservazione del manufatto –negligenza di alcuni parroci, che nonprovvidero a mettere in atto ledisposizioni dei loro superiori: cosìfu a Biella8, così a San Vito diLeguzzano.L’evoluzione del genere sembraessere stata lenta e le sue radiciaffondano probabilmente nel VIsecolo quando papa Gregorio IMagno affermò di avere avuto unavisione durante una celebrazioneeucaristica, il cui oggetto era ilCristo sofferente9, contornato daquelle che sarebbero diventate nel-l’iconografia e nella terminologia learma Christi10, ovvero gli strumentilegati alla sua passione: inizialmentelimitati rigorosamente a quelli utiliz-zati per la flagellazione e la crocifis-

sione, essi avrebbero nel tempoassunto un diverso significato, quel-lo di una seconda crocifissione ope-rata questa volta con gli oggetti dellavita quotidiana.Alcuni tra essi mantennero una dop-pia valenza o, meglio, forse mutaro-no nel tempo il proprio significato: idadi, per esempio, inizialmente lega-ti al ruolo avuto nella spartizionedelle vesti di Cristo, poi divenutil’emblema del gioco d’azzardo, cosìfortemente avversato dalla Chiesa.Se tuttavia le arma Christi appariva-no quasi esclusivamente attorno allafigura di Cristo morto, spesso il solobusto emergente dal sepolcro, glistrumenti cui in questa sede si fariferimento si configurano in manie-ra diversa e Cristo appare flagellatosì, ma vivo, a testimoniare chiara-mente che la sua morte sarebbe stataprossima e provocata dall’atteggia-mento dei fedeli, ostinati nel nonpiegarsi a uno dei precetti principalidella Chiesa cattolica, ovvero quellodel riposo domenicale.

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Arte e storia

Fig. 3. Visione d’insieme dell’affresco sulla parete setten-trionale: si noti in alto a destra ciò che resta di uno sche-letro (la morte, una danza macabra?).

Fig. 4. Visione d’insieme del pannello relativo al Cristo dellaDomenica.

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La figura di Cristo mostra di aversubìto in tale contesto una profondaevoluzione, che in un certo sensotravalica l’aspetto personale perdiventare emblema di una Chiesacolpita e martoriata: il Salvatorediventa così assimilabile a sanSebastiano martire e il suo apparirevivo al centro della scena testimoniail perdurare nel tempo delle soffe-renze inflitte dall’umanità insensibi-le al suo grido di dolore.

In area veneta le testimonianzesuperstiti di tale manifestazionedisciplinare da parte della gerarchiaecclesiastica sono soltanto due, ma laloro qualità sotto il profilo icono-grafico e iconologico è assolutamen-te di primordine: gli esempi riporta-ti nella pagine seguenti sono relativialla fascia pedemontana che corredall’Alto Vicentino al Trevigiano esono riferibili rispettivamente allachiesa dell’Immacolata Concezionedi S. Vito di Leguzzano (Vi) e a quel-la di S. Pietro di Feletto (Tv).Proprio forse perché relativamentecontigui sotto il profilo geografico, idue affreschi sembrano riassumeretutte la caratteristiche del genere:entrambi si collocano in pieno XIVsecolo, configurandosi dunque,all’interno della tipologia, comeesempi precoci; evidenziano lediverse possibilità di inserimento nelcontesto architettonico dell’edificio,ovvero all’interno della navata ilprimo, sotto il portico esterno ilsecondo; ma, soprattutto, rilevanocome, sia pure nella sostanzialeomogeneità del genere, le raffigura-zioni potessero assorbire le caratte-ristiche locali e differenziarsi peralcuni significativi elementi.

L’affresco di Feletto11 costituiscenella sua classicità un esempio ico-nografico di notevole spessore, siaper la capacità di porsi quale esem-

pio canonico del genere sia per la suaimponenza narrativa. Cristo, postocome in tutti i casi noti in posizionefrontale, sembra quasi arrendersi alleferite inferte dai numerosi oggettidel lavoro quotidiano che lo circon-dano. È significativo che nel com-plesso degli oggetti che lo colpisco-no vi sono, senza distinzione o gra-duatoria alcuna, sia elementi legatirealmente alla possibilità di ferire edunque tipici dell’attività bellica -così è per la balestra in basso a sini-stra - sia più semplici come la botteper il vino in alto a destra.Quasi un’enciclopedia del divieto,nell’intento evidente di sottoporre aifedeli – e del resto l’immagine sitrova di poco discosta dall’ingressoalla chiesa – un catalogo completodei lavori che non si sarebberodovuti porre in essere nel giornodedicato al Signore.

Diverso e per certi versi maggior-mente significativo il caso di S. Vitodi Leguzzano. Apparentemente ilquadro sembra godere di un minorerilievo rispetto a quello trevigiano,collocato com’è all’interno dell’edi-ficio sacro, dunque meno visibile.Due elementi tuttavia lo rendonoper certi versi unico: in primo luogoil fatto che la chiesa che lo ospita èstata, probabilmente proprio neidecenni in cui l’affresco è stato ese-guito - seconda metà del XIV secolo-, la chiesa relativa a un ospedale diBattuti12. Se dunque, da un lato, il“Cristo” doveva essere di minor evi-denza, il fatto che la chiesa avessedegli ospiti per così dire fissi, rende-va la sua importanza indubbiamentedi assoluto rilievo e, certo, di assiduafrequentazione.In secondo luogo, ma indubbiamen-te l’elemento di maggior pregiosotto il profilo contenutistico, ci tro-viamo di fronte a un quadro compo-sito assai più ricco di tutti quelli

Fig. 5. L’area di sinistra del pannello congli oggetti d’offesa: si noti la presenza,accanto ai tradizionali oggetti a lama,dei dadi e di un pettine.

Fig. 6. La parte centrale con la Madonna eCristo, apparentemente seduto in grembo.

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noti: infatti il Cristo non è solo ma,per quanto l’affresco sia lacunoso eprivo della sua parte inferiore, è pos-sibile osservare come egli sieda ingrembo alla Madonna e gli strumen-ti da lavoro offendono dunque nelcorpo e nello spirito non soltanto ilFiglio, ma anche la Madre. Colpisce,inoltre, rispetto alla maggior partedegli esempi noti, la posa serenadelle due figure, entrambre vestite enon nude o ricoperte da un sempliceperizoma, lo sguardo fisso versol’osservatore esterno, uno sguardoindubbiamente più ammonitore chedi dolore. Anche gli attrezzi trovanoposto in un contesto particolare,tutti ordinatamente disposti alladestra e alla sinistra delle duePersone, come a voler definire uncatalogo più che a ferire in manieraesplicita i corpi, che così rimangonointatti e sani nella loro divinità.Per quanto ci è dato di conoscere, sitratta dell’unico esempio di talegenere e per cercare di individuarne

il motivo è opportuno, credo, consi-derare il contesto locale della pitturaa fresco della seconda metà del XIVsecolo in area vicentina. Anche se la devozione alla Verginetroverà nella costruzione del santua-rio di Monte Berico nel 1430 il suomomento di maggiore esaltazione13,ciononostante essa era già assai fer-vida nei secoli precedenti tanto che,e questo soprattutto in area pede-montana tra Thiene e Schio, le raffi-gurazioni della Vergine, fosse Essa introno o con il Bambino, sono assaifrequenti. Forse questo pertanto ilmotivo della presenza, a sottolineareche l’offesa era rivolta, in un certosenso, all’intera sacra famiglia14.Più complesso che in altri casi appa-re anche il generale contesto dentro ilquale l’affresco è collocato. Se pureprivato di gran parte della sezionesuperiore, i pochi lacerti rimasti per-mettono di vedere in alto a destra ciòche rimane di uno scheletro, ricordoforse di una raffigurazione dellamorte o di una perduta danza maca-bra, che costituirebbe un unicum nelterritorio considerato. Al di là diogni supposizione rimane il fatto chequesta porzione di muratura affre-scata sembra essere stata dedicato perbuona parte alla sottolineatura di unasorta di memento per tutti quanti sitrovavano a passare e a sostaredavanti alle raffigurazioni.Sotto il profilo della contestualizza-zione sociale, l’affresco sembra poiricondurre a un territorio pretta-mente contadino, come ci ricordanogli attrezzi raffigurati, chiaramentecontestualizzati, a differenza del-l’esempio trevigiano, senza dubbiopiù complesso e articolato, risultatoforse di una società maggiormentedifferenziata al suo interno. In taleottica “contadina” credo debba esse-re letta anche la presenza in due dif-ferenti riquadri della figura di S.Antonio abate, particolarmente

venerato proprio in ambito rurale15.Nell’esempio vicentino, poi, preval-gono in maniera prepotente gli stru-menti “da taglio”, mentre pochesono le concessioni a quegli elemen-ti della quotidianità spensierata - inquesto caso i dadi da gioco - a piùriprese stigmatizzati dalle istituzioniecclesiastiche16.Di lì a pochi secoli, comunque, benpoco sarebbe rimasto di quei divieti,di quelle paure, di quel rispettodovuto a Cristo.

Note1. Per comprendere la dialettica assaivivace sui temi del lavoro della terra esulla necessità di porre attenzione aun’etica autentica del lavoro contadinosi veda la nota pastorale “Frutto dellaterra e del lavoro dell’uomo”. Mondorurale che cambia e Chiesa in Italia, acura della Conferenza EpiscopaleItaliana, 19 maggio 2005.2. Sui tempi e i modi attraverso i quali siè venuta delineando la prefenza per ladomenica quale giorno di riposo e didevozione per i cristiani si vedano: K.BILHMEYER - H. TUECHLE, Storia dellaChiesa, vol. I, II, III, IV, Brescia,Morcelliana, 1973; A.F. VAUCHER, LeJour Seigneurial, Collonges, Fides, Sous-Saléve, 1970; ID., L’histoire du salut, sup-plement 3, Le Jour de repos dans l’egliseprimitive, Dammarie-les-Lys, S.D.T.,1951, pp. 466-501; J. VUILLEMIER, Lejour du repos à travers les ages, Dam -marie-les-Lys, Les Signe des temps, 1936.3. La sua diffusione - per lo meno rela-tivamente agli esempi rimastici - è piut-tosto omogenea in area centro europea,tanto che l’esempio ha assunto una pro-pria terminologia a seconda delle areegeografiche entro le quali si è venutodefinendo: Christ du dimanche inFrancia, Feiertagschristus nei paesi di lin-gua tedesca, Sunday Christ in quelli dilingua inglese (una interessante disaminadel genere si può leggere in A. REISS, TheSunday Christ: Sabba tarianism inEnglish Medieval Wall Painting, BritishArchaeological Re ports, British Series,292, Oxford, Ar chaeopress, 2000), Sveta

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Fig. 7. L’area di destra, interamentededicata agli oggetti da taglio.

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Arte e storia

nedelja nei territori dell’ex-Jugoslavia. Siveda anche il breve, ma intenso, saggio diC. CARTIGLIA, Il Cristo della domenica.Un modello iconografico fra Trecento eQuattro cento, in “Prometeo”, 65 (1999),pp. 98-102.4. Tra le eccezioni si deve annoverarequello della chiesa di S. Flaviano aMontefiascone (Vt): cfr. G. BRECCOLA,Il “Cristo della Domenica” nella basili-ca di S. Flaviano a Montefiascone, in“Biblioteca e Società”, XLVIII, fasc. 2-3,dicembre 2003, pp. 41-44: l’autore èl’unico inoltre a mostrare di essera aconoscenza dell’esempio vicentino.5. Si veda a questo proposito C.WALKER BYNURA, Violent Imagery inLate Medieval Piety, in GHI Bulletin,n. 30, primavera 2002, pp. 3-36.6. Sebbene il Concilio abbia emanatosoltanto principi generali sulla liceitàdell’uso delle immagini e ne abbia difatto approvato l’impiego a fini catechis-tici, l’arte dei decenni successivi al suosvolgimento risentì dei cambiamentireligiosi imposti.7. Constitutiones, et Decreta Dio -ecesanae Synodi Viterben. Per admodumIllustrem, et Reverendiss. D. D. Caro -lum Archiepiscopum Montilium Epi -scopum Viterben, in Cattedrali Ec clesiaS. Laurentij Civitatis Viterbi, iiij IdusMartij 1584, celebratae, Viterbi, apudAugustinum Colaldum, 1584, p. 23.8. Sul Cristo di Biella cfr. per tutti P.TORRIONE, Scoperto il significato di unodei più interessanti affreschi biellesi, in“Biella”, 5, 1967.9. Sotto il profilo dell’indirizzo sceltodalla nascente Chiesa delle originimedievali, il caso della visione diGregorio Magno assume una valenzastraordinaria, poiché in maniera esplicitamostra il valore attribuito alle immagininel contesto della catechesi e della predi-cazione. Il pontefice si era così espressonella prima epistola indirizzata a Sereno,vescovo iconoclasta di Marsiglia: “Perquesto motivo infatti si fa uso della pit-tura nelle chiese, affinché coloro chesono analfabeti ‘leggano’, perlomenovedendole sulle pareti, ciò che non sonoin grado di leggere nella Scrittura” (PL77, col. 1027). Nella seconda aveva pun-

tualizzato: “Una cosa è adorare una pit-tura, un’altra apprendere che cosa debbaessere adorato grazie a ciò che è illustra-to nella rappresentazione. Infatti ciò chela scrittura offre a coloro che leggono,questo la pittura offre a coloro che guar-dano, poiché in essa anche gli analfabetivedono che cosa debba essere appreso, inessa leggono coloro che non sanno leg-gere” (PL 77, col. 1128).Nella concezione di papa Gregorio leimmagini assolvono una precisa funzio-ne di predicazione, con lo scopo princi-pe di istruire il popolo che, per lo piùanalfabeta, non ha la possibilità di legge-re direttamente il testo biblico. In que-sto caso l’immagine è complementare altesto sacro: poiché il messaggio cristianonon può raggiungere tutto il popolo deifedeli sotto la forma di discorso, il con-tenuto biblico può essere anche insegna-to e appreso per mezzo dell’immagine ela predicazione raggiunge il popoloanalfabeta tramite l’immagine.10. Interessanti sotto questo profilodiversi affreschi di epoca medievale: tratutti ricordo quello di Rhazüns realizza-to intono alla fine del XV secolo e raf-figurante appunto la visione di papaGregorio. In merito alla cosiddetta“messa di san Gregorio” si veda l’ampiabibliografia relativa contenuta in A.LODA, Il torchio mistico: Cristo e la vitetra passione ed eucaristia, in “Il sanguedella redenzione”, rivista semestrale deimissionari del preziosissimo sangue, a.2005, n. 2, p. 38n.11. Per un’analisi di questo affresco sivedano: P. DALTO, Il “Cristo dellaDomenica” di San Pietro di Feletto, in “ilFlaminio”, 3, 1984, pp. 25-39 e A.SCALCO, Il Cristo della Domenica di SanPietro di Feletto, Tesi di laurea, Universitàdi Ca’ Foscari, Venezia, a.a. 2003-2004.Tra altri esempi collocati esternamentericordo quello affrescato nel tardoQuattrocento sulla facciata della chiesadei Ss. Filippo e Giacomo di Campitellodi Fassa e quello sostanzialmente coevodella chiesa di S. Vitale a Bormio: N.PEREGO, I peccati della domenica. Laprofanazione del riposo festivo nell’icono-grafia del “Cristo della domenica”, in“Notiziario della Banca Popolare di

Sondrio”, n. 101 (2006), pp. 146-153.12. G. MACCÀ, Storia del TerritorioVicentino, XI/2, Caldogno, 1814, pp.336-337. Si osservi come tipiche espres-sioni artistiche dei Disciplinati, oBattuti, furono la passione di Cristo e ildolore della Madonna: cfr. Humana fra-gilitas: i temi della morte in Europa traDuecento e Settecento, a cura di A.Tenenti, Clusone (BG), 2000.13. La costruzione delle due chiese diMonte Berico è legata alle apparizionidella Madonna a una contadina di nomeVincenza Pasini: la prima il 7 marzo1426 e la seconda l’1 agosto 1428. Inquegli anni, una grave epidemia di pesteimperversava a Vicenza e solo la costru-zione del santuario ne fermò le devasta-zioni. Cfr. AA.VV., Il Monte Berico,Vicenza 1989.14. Sia pure en passant non possiamopoi fare a meno di notare profonde simi-litudini tra la Madonna di San Vito equella raffigurata nella chiesa di S.Martino a Schio: non lontano unaMadonna in trono con Bambino è pre-sente nella pieve di S. Maria a Zugliano.15 G. GOZZI, Sant’Antonio Abate ilGrande: vita, leggende, culti, arte, tradi-zioni: una storia affascinante come unfiore che si racconta a colori su un prato,Mantova, Sometti, 2005.16 Sui giochi nel medioevo e sulla lorocondanna si veda L. ZDEKAUER, Il giocod’azzardo nel Medioevo italiano,Firenze, Salimbeni, 1993. Il sia pur lib-erale Federico II condannò decisamenteil gioco dei dadi: “[...] stabiliamo checoloro che giocano a dadi, facendolo dicontinuo, al punto di non avere altraattività della quale vivere, i frequentatoridi taverne, che eleggono le taverne comeproprio ambiente naturale, coloro chepossiedono giochi d’azzardo o dadi permetterli a disposizione dei suddetti gio-catori, siano dichiarati infami, e perciònon siano ammessi a testimoniare né aricoprire un pubblico ufficio [...]”.Costituzioni di Melfi, III libro, leggeXC (L’infamia delle alee e dei dadi).

* Studioso di storia medievale,Presidente del Centro Studi Medievali“Ponzio di Cluny”.

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Bibliografia

Simona Troilo, La patria e la me -moria. Tutela e patrimonio culturalenell’Italia unita, Milano, Mon dadoriElecta S.p.A., 2005, pp. 261, Euro19.00, collana Electa per Belle Arti,diretta da Rosanna Cappelli conAnna Grandi.Da dove nasce l’idea di patrimonioculturale e di tutela che oggi ancora èalla base della nostra legislazione e delcomune sentire? Per andare alla radi-ce del moderno concetto di patrimo-nio culturale l’autrice analizza lasituazione di una precisa area geogra-fica italiana, comprendente l’Umbria,le Marche e l’Abruzzo, dall’unitàd’Italia fino ai primi anni del XXsecolo. È infatti in questi anni crucialiche in Italia si valuta l’eredità del pas-sato per progettare nuove forme ditutela della propria storia e della pro-pria identità culturale. Nel momento

in cui l’Italia si univa, le singole muni-cipalità e le varie città cercarono lapropria identità culturale rivendican-do il rispettivo diritto a tutelare letracce del proprio passato. Gli impel-lenti mutamenti che si stavanoapprossimando con il Nove cento (lacomparsa del movimento socialista edemocratico, lo sviluppo del turismo,la diffusione di nuove tecniche dicomunicazione e di riproduzione)portarono infine a nuovi soggetti pre-posti al patrimonio culturale e a nuovivalori ad esso connessi, e l’avventodelle normative di tutela che costitui-scono ancora oggi le fondamenta dellalegislazione sui beni culturali.

Caterina Bon Valsassina, Re stau romade in Italy, Milano, Mon dadoriElecta S.p.A., 2006, pp. 276, Euro18.00, collana Electa per Belle Arti,diretta da Rosanna Cappelli conAnna Grandi. In occasione del centenario dellanascita di Cesare Brandi, l’attualedirettrice Caterina Bon Valsassinaripercorre in questo volume la storiaistituzionale dell’Istituto Centrale delRestauro dalla sua fondazione nel1939 a oggi. L’excursus, scandito tem-poralmente in quattro capitoli corri-spondenti ai vari periodi di reggenzadei direttori che si sono succeduti acapo dell’Istituito (Cesare Brandi1938-1961; Pasquale Rotondi 1961-1973; Giovanni Urbani 1973-1983,per arrivare ai nostri giorni), è l’occa-sione per analizzare nel tempo la fun-zione e il significato di questo centro,capirne i punti di forza, le debolezzee gli aspetti non più attuali, e soprat-tutto per vedere quale valenza possa

avere nel futuro e quali trasformazio-ni debbano compiersi perché l’ICRpossa continuare a rivestire un ruolodi leader nel campo del restauro.Caterina Bon Valsassina, riprendendouno spunto dell’attuale capo delDipartimento Ricerca, Innovazione,Orga niz zazione del Ministero,Giuseppe Proietti, punta soprattuttosu un globale riassetto degli istitutiministeriali con competenze nelrestauro (oltre all’ICR, l’Opificiodelle Pietre Dure di Fi renze, l’IstitutoCentrale per la Patologia del Libro, ilCentro per la Fotoriproduzione,Legatoria, Re stauro) che porti allacreazione un organismo unico, ovve-ro un Istituto Superiore per ilRestauro cui affiancare un Istituto perla Ricerca Scientifica. A corredo delvolume un’appendice documentariasul l’ICR.

Segnalazioni bibliograficheAnna Pietropolli

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Ugo Procacci a cento anni dalla nasci-ta (1905-2005), a cura di Marco Ciattie Cecilia Frosinini con la collabora-zione di Sandra Damianelli, Firenze,Edifir, 2006, pp. 266, Euro 30.00, col-lana Storia e Teoria del Restauro, 4°volume. Il volume raccoglie gli Atti della gior-nata di studio (Firenze, 31 marzo2005) organizzata dall’Opificio dellePietre Dure di Firenze in collabora-zione con l’Unversità degli Studi diFirenze, la Soprintendenza per ilPatrimonio Storico Artistico e Etno -antro polo gico di Firenze, Pistoia ePrato e la Soprintendenza Specialeper il Polo Museale Fio rentino perricordare una figura fondamentaleper la storia dell’arte e per la tutela deibeni culturali in Italia: quella di UgoProcacci, nato a Firenze nel 1905 erimasto per tutta la sua vita e la suacarriera legato al capoluogo toscano,dove lavorò nella Soprintendenzafino a ricoprire il ruolo di direttore. Ilsuo nome è legato soprattutto alGabinetto dei Restauri, fondato uffi-cialmente presso la Soprintendenza

di Firenze nel 1934, quando il giova-ne Procacci era ispettore. Fu propriolui a dare pubblicamente notizia dellacreazione del Gabinetto in un artico-lo pubblicato sul “Bollettino d’Arte”del 1935-36 dal titolo Restauro adipinti della Toscana. In queste pagi-ne vi era già tutta la concezione diProcacci del restauro: strumento tec-nico e scientifico, ma anche di studioe di ricerca. Queste le linee guida pertutta la sua lunga carriera, durante laquale ci furono avvenimenti tragici,come l’alluvione di Firenze del 1966,e molte dispute sul restauro e sul suosignificato. Oggi di Procacci si devo-no apprezzare non solo la prepara-zione e la professionalità, ma anche lacoerenza e rettitudine morale costan-temente dimostrate. Nel volumesono raccolti infine numerosi docu-menti utili per la ricostruzione del-l’attività di Ugo Procacci.

Paola Del Vescovo, Il Trattato diTeofilo e il problema dell’originedella pittura ad olio, Ferrara, LibertyHouse, 2006, pp. 149, s.i.p.Negli ultimi anni si è verificato uninteresse sempre crescente per lefonti storiche sulle tecniche artisti-che, grazie alla consapevolezza cheruolo fondamentale per affrontareogni intervento di conservazione e direstauro su di un opera d’arte ha laconoscenza delle tecniche artistiche edei materiali con i quali essa è statarealizzata. Paola Del Vescovo analiz-za in questo volume le fonti docu-mentarie su una delle tecniche artisti-che più problematiche, dibattute eimportanti, quella della pittura adolio. In particolare la fonte principal-mente chiamata in causa è il Trattatodi Teofilo (Theophilus Presbyter),dal titolo Schedula diversarumartium, variamente datato tra il IX eil XIII secolo, anche se la critica piùrecente propende a collocarlo nellaprima metà del XII secolo, sicura-

mente di origine tedesca, forse com-posto all’interno di un monasterobenedettino. All’interno del variega-to panorama critico al riguardo del-l’origine della pittura ad olio, ampia-mente analizzato dall’autrice nel pri -mo capitolo, e delle molteplici fontitecniche antiche, anch’esse rilettedalla Del Vescovo nel secondo capi-tolo, il trattato teofiliano riveste unruolo senz’altro significativo nelpanorama della trattatistica medieva-le, per i riferimenti contenuti nel ILibro circa l’utilizzo dell’olio come“medium” pittorico e per il modorazionale, ordinato e consequenzialecon cui sono descritti i procedimentiartistici e artigianali. Il Trattato diTeofilo è dunque una delle tappe fon-damentali che portarono nel corsodel medioevo alla tecnica della pittu-ra ad olio, innestatasi gradualmentesugli antichi procedimenti della tem-pera tramite le preziose conoscenzetramandatesi nel tempo su oli e ver-nici. In appendice del volume un’uti-le raccolta di documenti relativi allatecnica della pittura ad olio.

Bibliografia

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