Andrej Tarkovskij - Lezioni di regia fra tempo e catarsi

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(6) ALIAS DOMENICA 13 GENNAIO 2013 Lezioni di regia fra tempo e catarsi Una scena dell’«Andrej Rublëv» (1966) di Andrej Tarkovskij di PAOLO LAGO ●●●Una scultura del tempo: ecco come si configura l’immagine cine- matografica secondo Andrej Tarko- vskij; ed è necessario che in ogni in- quadratura si possa percepire il movi- mento del tempo stesso. La realtà è ciò che il cinema deve rappresentare per scolpire le sinuose forme del tem- po, una realtà semplice, lontana – di- ce il regista («il cinema usa la realtà, usa le immagini del tempo che scor- re») – dalle più astruse simbologie e dietrologie che la critica vorrebbe tro- vare nelle sue opere. Ed è difficile non pensare a una scultura del tem- po che scorre, a un ritmo dello stesso tempo scandito in immagini, quan- do, ad esempio, assistiamo al movi- mento della macchina da presa che segue i protagonisti di Stalker (1979) mentre si stanno spostando su un car- rello ferroviario diretti verso la «Zo- na»: il suono meccanico, scandito, del treno, e le lentissime inquadratu- re dei loro volti come rapiti dallo stes- so scorrere del tempo. Oppure quan- do vediamo Gorcakov, l’esule russo protagonista di Nostalghia (1983), mentre attraversa la vasca della piaz- za di Bagno Vignoni svuotata dall’ac- qua con una candela accesa in mano e veniamo rapiti dall’incedere quasi ieratico della fiamma coperta ora dal- la mano, ora dalle falde del cappotto del personaggio. E non è un caso che proprio Scolpi- re il tempo si intitoli la più nota raccol- ta di scritti teorici di Tarkovskij, tra- dotta da Ubulibri nel 1988. Ad arric- chire l’universo teorico tarkovskijano provvede adesso un volume a cura di Andrea Ulivi e di Andrej A. Tarko- vskij, figlio del regista, La forma del- l’anima Il cinema e la ricerca dell’asso- luto (Rizzoli, «I libri della speranza», pp. 202, 9,90, traduzione di Isabella Serra). Prima di riproporre alcuni bra- ni tratti da Scolpire il tempo, il volu- me ci offre una serie di scritti vera- mente interessanti, ancora inediti in Italia, dal titolo (imbastito di echi ej- zenstenjani) di Lezioni di regia che raccolgono le lezioni che Tarkovskij ha tenuto fra il 1967 e il 1981 presso i corsi di specializzazione universitaria organizzati dal Goskino (Comitato statale cinematografico). Il regista si rivolge agli interlocutori come se des- se tanti preziosi consigli a un caro amico, con uno stile semplice, imme- diato, colloquiale (molto simile a quello utilizzato nei suoi diari, tradot- ti in italiano nel 2002 per le Edizioni della Meridiana, col titolo Martirolo- gio), parlando anche delle sue abitu- dini, dei suoi gusti, della sua predile- zione per un cinema assolutamente non ‘commerciale’, dei registi più amati (Bergman e Bresson, quest’ulti- mo, altro grande ‘scultore del tem- po’), perfino dei suoi sogni. Ad esem- pio, veniamo a sapere che un suo so- gno ricorrente è la casa dell’infanzia, che verrà ricostruita in un teatro di posa ne Lo specchio (1975), il più auto- biografico dei suoi film, a proposito della quale dice: «era un appartamen- to abitato dal tempo», plasmato dalle concrezioni che lo stesso tempo ha di- segnato nella sua forma abitativa (e si ricordino anche questi versi del pa- dre Arsenij, inseriti in Nostalghia: «si confonde l’udito per il tuono lontano / della casa paterna che respira»). Importante è quindi il ritmo nell’in- quadratura, il suo saper plasmare il tempo come una scultura, ritmo che equivale, secondo Tarko- vskij, a una parola «vera» in letteratura («una parola imprecisa in letteratura e un’imprecisione del ritmo nel cinema ugualmente distruggono la verità dell’opera»). E la ritmicità del tempo è avver- tibile in ogni inquadratura del suo cinema, a partire dal primo lun- gometraggio, L’infanzia di Ivan (1962), passando per Andrej Rou- blëv (1966), che ripercorre la vita del grande pittore russo di ico- ne, fino ad arrivare alla seconda fase del suo cinema, che possia- mo far iniziare con Solaris (1972). Fra i registi contemporanei che più hanno recepito la lezione tarkovskijana ricordiamo Andrej So- kurov il quale, con Arca russa (2002), ci mostra immagini cristalli- ne pulsanti di tempo: un unico lungo piano sequenza dentro il grande scrigno temporale che è l’Ermitage di San Pietroburgo. Un altro elemento assai importante nel cinema del maestro russo è la catarsi, la quale, per usare le sue parole, «equivale pro- prio a un’empatia che conduce alla pace, alla felicità, a una pro- spettiva». E, con un esempio tratto dai Fratelli Karamazov: «Pensate solo ai fratelli Karamazov: uno santo e paz- zo, l’altro, Mit’ka, condannato per omicidio, il terzo uscito di senno, il lo- ro padre, Fjodor Pavlovic, e alla fine “Urrà per Karamazov!” Questa è pro- prio una “catarsi”. Se i fratelli Karama- zov sono serviti a qualcosa, allora pos- siamo credere in noi!». Così, dopo le innumerevoli deva- stazioni della guerra, delle battaglie, alla fine di Andrej Roublëv assistiamo all’esplosione catartica dell’arte, le icone del grande maestro inquadrate in ralenti, in carrellate come carezze, immagine nuova e splendente. Dopo le sofferenze generate dai fantasmi sulla stazione orbitante, dal revenant della moglie morta, lo psicologo Kris Kelvin troverà finalmente una catarsi nel ritorno alle origini, alla casa avita, in Solaris. In Stalker, dopo le dure prove cui si sottopongono lo stesso Stalker, l’unico capace di attraversa- re le insidie della «Zona», e due uomi- ni disillusi, che nulla più hanno da perdere, uno scrittore alcolizzato e uno scienziato, dopo un cammino periglioso scandito dalle più svariate angosce personali, giungono final- mente alle soglie di una stanza dove possono venir esauditi i desideri ma non entrano, consapevoli che solo dentro di noi possiamo trovare la feli- cità; alla fine del film la figlia dello Stalker pronuncerà dei versi muoven- do dei bicchieri con la forza del pen- siero mentre sentiamo esplodere l’In- no alla Gioia di Beethoven: la poesia e la musica, catarticamente, sono l’approdo di un percorso di dolore. In Nostalghia, girato in Italia, nel se- nese, l’esule Gorcakov, straniero ma- lato di una lancinante nostalgia per la sua terra, percorrerà il suo cammi- no insieme a un altro ‘straniero’, il fol- le Domenico (interpretato dall’attore bergmaniano Erland Josephson), che è stato rinchiuso in manicomio, rie- merso dalle vertigini del «grande in- ternamento» (per usare un termine foucaultiano): insieme approderan- no alla catarsi finale attraverso il fuo- co (il russo portando il fuoco attraver- so l’acqua, Domenico, addirittura, dandosi fuoco in piazza per dare vo- ce all’universo dei cosiddetti ‘folli’). Infine, l’ultimo film di Tarkovskij, gi- rato in Svezia, Sacrificio (1986), ci mo- stra il personaggio Alexander (sem- pre Josephson) che, per scongiurare una catastrofe nucleare, sceglie di ri- nunciare a tutto: nelle ultime inqua- drature il protagonista viene condot- to via come folle dopo aver dato fuo- co alla propria casa. La catarsi, dopo l’angoscia della catastrofe, arriva co- me speranza per un mondo nuovo, un mondo salvato dove il figlio di Alexander potrà portare avanti i valo- ri della semplicità; in un percorso in- verso rispetto a quello di Nostalghia, il protagonista imboccherà la strada della follia ben consapevole di essere riuscito a salvare la propria famiglia e il mondo intero. Il cinema di Tarkovskij, come ci confermano questi scritti, scandisce quindi un percorso di sofferenze in cui alla fine riluce sempre l’immagi- ne della speranza, in cui si continua a percorrere, parafrasando il Ripellino di Praga magica, «il lungo, chaplinia- no cammino della speranza». La sua opera, pulita, netta, come è solo quel- la dei grandi maestri, ci insegna che, dopo l’angoscia, la disperazione, il do- lore, possiamo, nonostante tutto, an- cora credere in noi, e sorridere, e mai smettere di sperare: davvero, «Urrà per Karamazov!». In alcune dispense universitarie degli anni 1967-’81 il regista russo, con stile semplice e colloquiale, parla di gusti, abitudini, Bresson e Bergman, sogni ricorrenti «LA FORMA DELL’ANIMA» DI ANDREJ TARKOVSKIJ, SCRITTI SUL CINEMA (IN PARTE INEDITI) ICONOLOGIA Raffigurare Dio nell’interessante e problematico monumento del teologo Boefsplug di ALESSANDRA SARCHI ●●●Sono tante le ragioni per cui la consultazione di un’opera monumentale come quella del teologo e storico dell’arte François Boefsplug (Le immagini di Dio nell’arte Una storia dell’eterno nell’arte, traduzione di Chiara Bongiovanni, Einaudi «Grandi Opere», pp. VII-584, 95,00) può risultare interessante, almeno altrettante delle precauzioni metodologiche che l’autore di continuo mette in campo e che si potrebbero riassumere, con un po’ di semplificazione, nel paradosso: com’è possibile tracciare una storia iconica di Dio identificato dai tre grandi monoteismi, ebraismo cristianesimo e islamismo, con l’eterno, l’onnisciente, il trascendente e quindi per definizione irrappresentabile? Se tradizione ebraica e islamismo hanno resistito nei millenni a quelli che nei rispettivi testi sacri vengono definiti come pericolosa tentazione e peccato passibile di forti punizioni divine, come mai il cristianesimo ha invece aderito al mondo delle immagini per raffigurare il divino, creando non solo simboli che stanno per l’irrapresentabile ma vere e proprie figure cultuali? La risposta a tale domanda è un ripercorrere la lunghissima storia occidentale da che il cristianesimo ha fatto la sua apparizione, portando come elemento di forte novità rispetto all’ebraismo, l’incarnazione divina in un corpo d’uomo e in una storia individuale, in sostanza nel tempo, e introducendo rispetto al dogma monoteistico la complicazione dell’unità-trinità di Dio. L’essere sceso in mezzo agli uomini, l’essere carne d’uomo, sarebbe la legittimazione cristiana a raffigurare Dio. Boefsplug coglie nell’incipit giovanneo una suggestione spaziale di tipo visivo: «In principio era il verbo, il verbo era presso Dio e il verbo era Dio». Lo stare accanto, che poi dal punto di vista iconografico prenderà molteplici varianti: Dio padre vecchio e barbuto, il giovane figlio di fianco, o sotto, lo Spirito Santo a lato, o tutti e tre sullo stesso piano. Il verbo si dà già spazializzato e quindi raffigurabile. Ma sappiamo che questa è materia di secolari discussioni, scontri e concilii, da quello di Nicea (325) in poi, e di proclamazioni di dogmi, ortodossie ed eresie. Tuttavia, come giustamente sottolinea l’autore, la storia iconica non coincide con la storia dell’idea di Dio, poiché le forme dell’arte seguono percorsi non così univoci, e hanno la capacità di assimilare dati culturali e psichici ben più larghi e vasti: sarà sufficiente pensare all’incorporazione di elementi della tradizione pagana all’interno della iconografia cristiana, così evidente nell’arte del tardo impero, ad esempio. Eppure questa millenaria spinta a raffigurare Dio si è progessivamente esaurita nel processo di mondanizzazione, inarrestabile dal Settecento in poi. Permane il crocifisso come simbolo di un’umanità ingiustamente sofferente, nelle sue mille riappropriazioni, da quelle legate alle guerre a quelle della cultura pop, ma l’eclissi del Padre, e quindi del credo nella salvazione, è un dato certo. E se possiamo rispettare l’auspicio di Boefsplug, dichiaratamente teologo quando dice: «L’inconscio visivo degli occidentali non ne può più ... Lasciare che Dio se ne vada potrebbe allora significare liberarsi dal peso delle immagini che ritardano l’emergere di un nuovo volto di Dio», non possiamo a maggior ragione dare per scontata, o necessaria, la presenza di quella iconografia – il crocefisso per l’appunto – nei luoghi pubblici del nostro paese. TARKOVSKIJ

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(6) ALIAS DOMENICA13 GENNAIO 2013

Lezioni di regiafra tempo e catarsi

Una scenadell’«Andrej Rublëv» (1966)di Andrej Tarkovskij

di PAOLO LAGO

●●●Una scultura del tempo: eccocome si configura l’immagine cine-matografica secondo Andrej Tarko-vskij; ed è necessario che in ogni in-quadratura si possa percepire il movi-mento del tempo stesso. La realtà èciò che il cinema deve rappresentareper scolpire le sinuose forme del tem-po, una realtà semplice, lontana – di-ce il regista («il cinema usa la realtà,usa le immagini del tempo che scor-re») – dalle più astruse simbologie edietrologie che la critica vorrebbe tro-vare nelle sue opere. Ed è difficilenon pensare a una scultura del tem-po che scorre, a un ritmo dello stessotempo scandito in immagini, quan-do, ad esempio, assistiamo al movi-mento della macchina da presa chesegue i protagonisti di Stalker (1979)

mentre si stanno spostando su un car-rello ferroviario diretti verso la «Zo-na»: il suono meccanico, scandito,del treno, e le lentissime inquadratu-re dei loro volti come rapiti dallo stes-so scorrere del tempo. Oppure quan-do vediamo Gorcakov, l’esule russoprotagonista di Nostalghia (1983),mentre attraversa la vasca della piaz-za di Bagno Vignoni svuotata dall’ac-qua con una candela accesa in manoe veniamo rapiti dall’incedere quasiieratico della fiamma coperta ora dal-la mano, ora dalle falde del cappottodel personaggio.

E non è un caso che proprio Scolpi-re il tempo si intitoli la più nota raccol-ta di scritti teorici di Tarkovskij, tra-dotta da Ubulibri nel 1988. Ad arric-chire l’universo teorico tarkovskijanoprovvede adesso un volume a cura diAndrea Ulivi e di Andrej A. Tarko-

vskij, figlio del regista, La forma del-l’anima Il cinema e la ricerca dell’asso-luto (Rizzoli, «I libri della speranza»,pp. 202, € 9,90, traduzione di IsabellaSerra). Prima di riproporre alcuni bra-ni tratti da Scolpire il tempo, il volu-me ci offre una serie di scritti vera-mente interessanti, ancora inediti inItalia, dal titolo (imbastito di echi ej-zenstenjani) di Lezioni di regia cheraccolgono le lezioni che Tarkovskijha tenuto fra il 1967 e il 1981 presso icorsi di specializzazione universitariaorganizzati dal Goskino (Comitatostatale cinematografico). Il regista sirivolge agli interlocutori come se des-se tanti preziosi consigli a un caroamico, con uno stile semplice, imme-diato, colloquiale (molto simile aquello utilizzato nei suoi diari, tradot-ti in italiano nel 2002 per le Edizionidella Meridiana, col titolo Martirolo-

gio), parlando anche delle sue abitu-dini, dei suoi gusti, della sua predile-zione per un cinema assolutamentenon ‘commerciale’, dei registi piùamati (Bergman e Bresson, quest’ulti-mo, altro grande ‘scultore del tem-po’), perfino dei suoi sogni. Ad esem-pio, veniamo a sapere che un suo so-gno ricorrente è la casa dell’infanzia,che verrà ricostruita in un teatro diposa ne Lo specchio (1975), il più auto-biografico dei suoi film, a propositodella quale dice: «era un appartamen-to abitato dal tempo», plasmato dalleconcrezioni che lo stesso tempo ha di-segnato nella sua forma abitativa (e siricordino anche questi versi del pa-dre Arsenij, inseriti in Nostalghia: «siconfonde l’udito per il tuono lontano/ della casa paterna che respira»).

Importante è quindi il ritmo nell’in-quadratura, il suo saper plasmare il

tempo come una scultura, ritmo che equivale, secondo Tarko-vskij, a una parola «vera» in letteratura («una parola imprecisa inletteratura e un’imprecisione del ritmo nel cinema ugualmentedistruggono la verità dell’opera»). E la ritmicità del tempo è avver-tibile in ogni inquadratura del suo cinema, a partire dal primo lun-gometraggio, L’infanzia di Ivan (1962), passando per Andrej Rou-blëv (1966), che ripercorre la vita del grande pittore russo di ico-ne, fino ad arrivare alla seconda fase del suo cinema, che possia-mo far iniziare con Solaris (1972). Fra i registi contemporanei chepiù hanno recepito la lezione tarkovskijana ricordiamo Andrej So-kurov il quale, con Arca russa (2002), ci mostra immagini cristalli-ne pulsanti di tempo: un unico lungo piano sequenza dentro ilgrande scrigno temporale che è l’Ermitage di San Pietroburgo.

Un altro elemento assai importante nel cinema del maestrorusso è la catarsi, la quale, per usare le sue parole, «equivale pro-prio a un’empatia che conduce alla pace, alla felicità, a una pro-

spettiva». E, con un esempio trattodai Fratelli Karamazov: «Pensate soloai fratelli Karamazov: uno santo e paz-zo, l’altro, Mit’ka, condannato peromicidio, il terzo uscito di senno, il lo-ro padre, Fjodor Pavlovic, e alla fine“Urrà per Karamazov!” Questa è pro-prio una “catarsi”. Se i fratelli Karama-zov sono serviti a qualcosa, allora pos-siamo credere in noi!».

Così, dopo le innumerevoli deva-stazioni della guerra, delle battaglie,alla fine di Andrej Roublëv assistiamoall’esplosione catartica dell’arte, leicone del grande maestro inquadratein ralenti, in carrellate come carezze,immagine nuova e splendente. Dopole sofferenze generate dai fantasmisulla stazione orbitante, dal revenantdella moglie morta, lo psicologo KrisKelvin troverà finalmente una catarsinel ritorno alle origini, alla casa avita,in Solaris. In Stalker, dopo le dureprove cui si sottopongono lo stessoStalker, l’unico capace di attraversa-re le insidie della «Zona», e due uomi-ni disillusi, che nulla più hanno daperdere, uno scrittore alcolizzato euno scienziato, dopo un camminoperiglioso scandito dalle più svariateangosce personali, giungono final-mente alle soglie di una stanza dovepossono venir esauditi i desideri manon entrano, consapevoli che solodentro di noi possiamo trovare la feli-cità; alla fine del film la figlia delloStalker pronuncerà dei versi muoven-do dei bicchieri con la forza del pen-siero mentre sentiamo esplodere l’In-no alla Gioia di Beethoven: la poesiae la musica, catarticamente, sonol’approdo di un percorso di dolore.In Nostalghia, girato in Italia, nel se-nese, l’esule Gorcakov, straniero ma-lato di una lancinante nostalgia perla sua terra, percorrerà il suo cammi-no insieme a un altro ‘straniero’, il fol-le Domenico (interpretato dall’attorebergmaniano Erland Josephson), cheè stato rinchiuso in manicomio, rie-merso dalle vertigini del «grande in-ternamento» (per usare un terminefoucaultiano): insieme approderan-no alla catarsi finale attraverso il fuo-co (il russo portando il fuoco attraver-so l’acqua, Domenico, addirittura,dandosi fuoco in piazza per dare vo-ce all’universo dei cosiddetti ‘folli’).Infine, l’ultimo film di Tarkovskij, gi-rato in Svezia, Sacrificio (1986), ci mo-stra il personaggio Alexander (sem-pre Josephson) che, per scongiurareuna catastrofe nucleare, sceglie di ri-nunciare a tutto: nelle ultime inqua-drature il protagonista viene condot-to via come folle dopo aver dato fuo-co alla propria casa. La catarsi, dopol’angoscia della catastrofe, arriva co-me speranza per un mondo nuovo,un mondo salvato dove il figlio diAlexander potrà portare avanti i valo-ri della semplicità; in un percorso in-verso rispetto a quello di Nostalghia,il protagonista imboccherà la stradadella follia ben consapevole di essereriuscito a salvare la propria famiglia eil mondo intero.

Il cinema di Tarkovskij, come ciconfermano questi scritti, scandiscequindi un percorso di sofferenze incui alla fine riluce sempre l’immagi-ne della speranza, in cui si continua apercorrere, parafrasando il Ripellinodi Praga magica, «il lungo, chaplinia-no cammino della speranza». La suaopera, pulita, netta, come è solo quel-la dei grandi maestri, ci insegna che,dopo l’angoscia, la disperazione, il do-lore, possiamo, nonostante tutto, an-cora credere in noi, e sorridere, e maismettere di sperare: davvero, «Urràper Karamazov!».

In alcune dispenseuniversitariedegli anni 1967-’81il regista russo,con stile semplicee colloquiale,parla di gusti,abitudini, Bressone Bergman,sogni ricorrenti

«LA FORMA DELL’ANIMA» DI ANDREJ TARKOVSKIJ, SCRITTI SUL CINEMA (IN PARTE INEDITI)

ICONOLOGIA

Raffigurare Dionell’interessantee problematicomonumentodel teologoBoefsplug

di ALESSANDRA SARCHI

●●●Sono tante le ragioni per cuila consultazione di un’operamonumentale come quella delteologo e storico dell’arteFrançois Boefsplug (Le immaginidi Dio nell’arte Una storiadell’eterno nell’arte, traduzione diChiara Bongiovanni, Einaudi«Grandi Opere», pp. VII-584, €95,00) può risultare interessante,almeno altrettante delleprecauzioni metodologiche chel’autore di continuo mette incampo e che si potrebberoriassumere, con un po’ disemplificazione, nel paradosso:com’è possibile tracciare unastoria iconica di Dio identificatodai tre grandi monoteismi,ebraismo cristianesimo eislamismo, con l’eterno,l’onnisciente, il trascendente equindi per definizioneirrappresentabile?

Se tradizione ebraica eislamismo hanno resistito neimillenni a quelli che nei rispettivi

testi sacri vengono definiti comepericolosa tentazione e peccatopassibile di forti punizioni divine,come mai il cristianesimo hainvece aderito al mondo delleimmagini per raffigurare il divino,creando non solo simboli chestanno per l’irrapresentabile mavere e proprie figure cultuali?

La risposta a tale domanda èun ripercorrere la lunghissimastoria occidentale da che ilcristianesimo ha fatto la suaapparizione, portando comeelemento di forte novità rispettoall’ebraismo, l’incarnazionedivina in un corpo d’uomo e inuna storia individuale, insostanza nel tempo, eintroducendo rispetto al dogmamonoteistico la complicazionedell’unità-trinità di Dio. L’esseresceso in mezzo agli uomini,l’essere carne d’uomo, sarebbe lalegittimazione cristiana araffigurare Dio. Boefsplug coglienell’incipit giovanneo unasuggestione spaziale di tipovisivo: «In principio era il verbo, il

verbo era presso Dio e il verbo eraDio». Lo stare accanto, che poi dalpunto di vista iconograficoprenderà molteplici varianti: Diopadre vecchio e barbuto, ilgiovane figlio di fianco, o sotto, loSpirito Santo a lato, o tutti e tresullo stesso piano. Il verbo si dàgià spazializzato e quindiraffigurabile.

Ma sappiamo che questa èmateria di secolari discussioni,scontri e concilii, da quello diNicea (325) in poi, e diproclamazioni di dogmi,ortodossie ed eresie. Tuttavia,come giustamente sottolineal’autore, la storia iconica noncoincide con la storia dell’idea diDio, poiché le forme dell’arteseguono percorsi non cosìunivoci, e hanno la capacità diassimilare dati culturali e psichiciben più larghi e vasti: saràsufficiente pensareall’incorporazione di elementidella tradizione paganaall’interno della iconografiacristiana, così evidente nell’arte

del tardo impero, ad esempio.Eppure questa millenaria spinta araffigurare Dio si èprogessivamente esaurita nelprocesso di mondanizzazione,inarrestabile dal Settecento inpoi. Permane il crocifisso comesimbolo di un’umanitàingiustamente sofferente, nellesue mille riappropriazioni, daquelle legate alle guerre a quelledella cultura pop, ma l’eclissi delPadre, e quindi del credo nellasalvazione, è un dato certo. E sepossiamo rispettare l’auspicio diBoefsplug, dichiaratamenteteologo quando dice:«L’inconscio visivo deglioccidentali non ne può più ...Lasciare che Dio se ne vadapotrebbe allora significareliberarsi dal peso delle immaginiche ritardano l’emergere di unnuovo volto di Dio», nonpossiamo a maggior ragione dareper scontata, o necessaria, lapresenza di quella iconografia – ilcrocefisso per l’appunto – neiluoghi pubblici del nostro paese.

TARKOVSKIJ