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Ancorare il porto al territorio Il territorio della portualità Negli ultimi vent’anni i porti hanno conosciuto una crescita esponenziale della produttività, che ha permesso di far fronte – contribuendo a favorirlo – all’incremento del trasporto internazionale conseguente alla rilocalizzazione delle attività industriali su scala globale e alle profonde trasformazioni geografiche nei mercati delle materie prime e nei modelli di consumo. Il fenomeno è stato accompagnato da una sistematica crescita della competizione fra i porti, causata proprio dalla riduzione dei costi di trasporto, segnatamente terre- stre, che ha eroso la protezione geografica degli hinterland portuali e attenuato i con- seguenti monopoli. Oggi, diminuiti il costo generalizzato (monetario e non monetario) dei porti, il flus- so di traffico nei porti più competitivi è cresciuto molto più rapidamente che la pro- duzione nei loro hinterland. Tuttavia, produttività, traffici e quote di mercato crescenti non assicurano di per sé un proporzionale aumento nel valore aggiunto e nei benefici macroeconomici deri- vanti dall’esistenza del porto, soprattutto al livello locale. Da un lato, infatti, l’impatto economico dei porti tende oggi a diffondersi sull’intera area dei fruitori dei servizi portuali (produttori e consumatori; spesso, soprattutto nel contesto europeo, su scala internazionale), per la cui competitività e qualità di vita l’accessibilità da essi fornita è essenziale. D’altro lato, gli impatti economici localizzati in prossimità dei porti (occupazione e in generale retribuzione dei fattori produttivi) sono in calo, alme- no in relazione al volume di traffico, mentre il consumo di spazio e le esternalità am- bientali negative sono fortemente crescenti e rimangono concentrati nel territorio che ospita il porto. Abbracciando idealmente l’arco degli ultimi trent’anni, il panorama dei fattori di cambiamento si può così sintetizzare: la globalizzazione dell’economia mondiale ha comportato la rilocalizzazione nei paesi in via di sviluppo di molte industrie di base (petrolifere, chimiche, siderur- giche, meccaniche) che in precedenza avevano un ruolo preponderante nella strut- tura economica delle regioni portuali delle economie più avanzate; unitizzazione, intermodalità e cicli specializzati di trasporto hanno sostanzialmen- te “sganciato” dal porto la funzione di nodo di traffico, che può ora svolgersi an-

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Ancorare il porto al territorio

Il territorio della portualità

Negli ultimi vent’anni i porti hanno conosciuto una crescita esponenziale della produttività, che ha permesso di far fronte – contribuendo a favorirlo – all’incremento del trasporto internazionale conseguente alla rilocalizzazione delle attività industriali su scala globale e alle profonde trasformazioni geografiche nei mercati delle materie prime e nei modelli di consumo.

Il fenomeno è stato accompagnato da una sistematica crescita della competizione fra i porti, causata proprio dalla riduzione dei costi di trasporto, segnatamente terre-stre, che ha eroso la protezione geografica degli hinterland portuali e attenuato i con-seguenti monopoli.

Oggi, diminuiti il costo generalizzato (monetario e non monetario) dei porti, il flus-so di traffico nei porti più competitivi è cresciuto molto più rapidamente che la pro-duzione nei loro hinterland.

Tuttavia, produttività, traffici e quote di mercato crescenti non assicurano di per sé un proporzionale aumento nel valore aggiunto e nei benefici macroeconomici deri-vanti dall’esistenza del porto, soprattutto al livello locale. Da un lato, infatti, l’impatto economico dei porti tende oggi a diffondersi sull’intera area dei fruitori dei servizi portuali (produttori e consumatori; spesso, soprattutto nel contesto europeo, su scala internazionale), per la cui competitività e qualità di vita l’accessibilità da essi fornita è essenziale. D’altro lato, gli impatti economici localizzati in prossimità dei porti (occupazione e in generale retribuzione dei fattori produttivi) sono in calo, alme-no in relazione al volume di traffico, mentre il consumo di spazio e le esternalità am-bientali negative sono fortemente crescenti e rimangono concentrati nel territorio che ospita il porto.

Abbracciando idealmente l’arco degli ultimi trent’anni, il panorama dei fattori di cambiamento si può così sintetizzare: – la globalizzazione dell’economia mondiale ha comportato la rilocalizzazione nei

paesi in via di sviluppo di molte industrie di base (petrolifere, chimiche, siderur-giche, meccaniche) che in precedenza avevano un ruolo preponderante nella strut-tura economica delle regioni portuali delle economie più avanzate;

– unitizzazione, intermodalità e cicli specializzati di trasporto hanno sostanzialmen-te “sganciato” dal porto la funzione di nodo di traffico, che può ora svolgersi an-

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che in località interne e comunque a distanza dal porto; molte fasi del ciclo frui-scono ora di una maggiore, quando non totale, libertà localizzativa, che tende a traslarsi anche sulle attività indotte;

– con l’affermarsi dell’intermodalità, il controllo del ciclo del trasporto, pur restan-do in prevalenza nelle mani degli operatori marittimi, vede affermarsi anche altri attori, inclusi importanti operatori dell’interno

1;

– le applicazioni delle tecnologie informatiche e telematiche al ciclo del trasporto accrescono la libertà localizzativa di molte imprese port related, o di loro singole funzioni;

– le innovazioni nelle tecniche di movimentazione dei carichi (segnatamente l’alto tasso di meccanizzazione e automazione dei terminali specializzati) hanno accre-sciuto vertiginosamente la produttività del lavoro con pesanti ripercussioni oc-cupazionali; il porto si è trasformato da industria labour intensive a industria capital intensive e land intensive, ma anche labour saving;

– il continuo progresso tecnico nei trasporti marittimi e il perseguimento delle eco-nomie di scala della nave, reso possibile dall’aumento del traffico e dall’unitizzazione e specializzazione, determinano l’obsolescenza dei terminali tradizionali e l’inadeguatezza fisica (bacini, fondali, banchine) di molti scali

2;

– il perdurante sviluppo della containerizzazione postula crescenti spazi portuali, in genere non disponibili nei terminali tradizionali, e spinge alcuni grandi terminali caratterizzati da limitati spazi verso un decentramento dell’impianto portuale lun-go la costa e/o un decentramento degli spazi per lo stoccaggio in inland termi-nals;

– le economie di scala realizzate mediante i consorzi e le concentrazioni armatoriali sia nel traffico container che nelle rinfuse hanno portato ad una crescente concen-trazione, su navi di dimensioni sempre maggiori, di traffici prima suddivisi tra più unità; di qui la necessità per i porti di offrire strutture adeguate e tali da consenti-re anche nelle operazioni portuali economie di scala per attrarre tali traffici;

– i porti maggiori sono serviti da adeguate infrastrutture di trasporto terrestre (spe-cialmente ferroviario) sui cui gravitano regioni interne molto più estese di quelle

1 In effetti in certe filiere produttive nazionali il controllo del ciclo di trasporto intermodale è assunto

prevalentemente da operatori non marittimi, di solito accrescendo l’importanza dei centri interni come centri decisionali, in sostituzione del centro portuale; si tratta in generale di filiere che difficilmente coinvolgono tratte marittime importanti. A livello di traffici internazionali, se mai, la tendenza è oppo-sta. Si pensi ad alcuni fra i maggiori armatori (Maersk, Msc) che tendono ad “espandersi” dal mare alla terra, includendo segmenti terrestri e gestione dei terminali portuali, fino alla gestione di attività logistiche. O, in Italia, al gruppo Messina, che per gran parte del proprio traffico cura l’intero ciclo intermodale, in particolare via ferrovia. 2 In Italia, prima della riforma del 1994 si poteva parlare di terminal portuale con il significato attuale

solo nei casi di autonomie funzionali, allorché la banchina era la parte a mare della filiera di approvvigionamento in importazione e molto spesso anche di quella di esportazione del prodotto finito. In tutti gli altri casi, salvo ipotesi limitatissime di magazzini in concessione con priorità di attracco a banchina o di banchine specializzate (a Trieste, ad esempio, lo Scalo Legnami) vi erano semplicemente delle banchine pubbliche assegnate dall’Autorità Marittima/Portuale a seconda della disponibilità e chiaramente delle caratteristiche delle navi da operare. Ragione per cui certe banchine diventavano obsolete per le grandi navi ed erano riservate alle altre o dismesse e tombate quando non servivano più per nessun genere di nave.

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servite dal trasporto tradizionale; quindi le potenziali aree di mercato dei grandi porti e terminali contenitori tendono sempre più a sovrapporsi le une alle altre, e tempi di resa, efficienza e qualità del servizio costituiscono discriminanti sempre più decisive nella scelta del porto;

– l’affermazione del transhipment, conseguente alla ricerca delle economie di scala della nave e dell’impianto portuale, ha contribuito a modificare le relazioni tra porti e territorio; un terminal di transhipment non si sostituisce infatti agli altri terminal, ma vi si aggiunge “a monte”; e poiché nell'operazione di trasbordo av-viene una prima selezione dei contenitori in funzione della destinazione territoria-le, i volumi da trasportare diminuiscono rispetto a quelli trasportati dalla nave madre e le dimensioni delle navi feeder sono più contenute; cosicché il transhi-pment consente alla merce di provenienza transoceanica su grandi navi di essere comunque indirizzata su porti regionali (vedi ad esempio l'alimentazione di Ra-venna, Ancona, Salerno, Savona, ecc.), il cui rapporto con il territorio si rafforza (nel senso che senza il transhipment parte della merce non vi arriverebbe); in so-stanza, per l'importazione i terminal di transhipment sono da considerare più co-me porti di origine che di destinazione

3;

– tutto questo ha comportato, non di rado, la necessità o l’opportunità di abbando-nare i vecchi siti portuali, spesso non ampliabili anche a causa della presenza di un fitto tessuto urbano circostante, per spostarsi verso nuove aree costiere, dove si concentrano i nuovi investimenti (e gli impianti a più elevato contenuto tecno-logico e innovativo) e che sono spesso caratterizzate da grandi spazi e da minori pressioni insediative;

– da parte dell’opinione pubblica e politica si registra una crescente attenzione ai problemi collegati alle attività portuali, onde ridurne l’impatto negativo: da un la-to il porto risente negativamente della (sempre maggiore) congestione delle aree urbanizzate; dall’altra è sempre meno tollerato l’impatto delle attività portuali sulla congestione stessa, nonché sull’inquinamento marino, atmosferico, acustico, sulla sicurezza, sul pregio paesistico e ambientale della città e in particolare del suo waterfront.

3 Da sempre infatti il trasbordo (pratica antica quanto la navigazione) è stato utilizzato per servire dai

porti maggiori anche porti minori che, al più, possono contare su collegamenti locali; e che, senza trasbordo, mai avrebbero potuto ricevere certe merci. Questa funzione distributiva è stata sempre svolta da Genova nei confronti ad esempio della Sardegna e della Sicilia nei traffici internaziona-li/intercontinentali: il caffè dalle Americhe o dall’Africa arrivava a Genova con le navi dell’Italia e del Lloyd Triestino che mai avrebbero scalato direttamente a Cagliari o Catania dove invece la merce ar-rivava grazie al trasbordo sulle navi dei servizi locali con le isole. In gergo tecnico, si parlava allora di “porti terminali” o “porti base” (Genova, Napoli, Livorno, Trieste, Venezia) e di “porti secondari” o “post terminali” per gli altri (Cagliari, Olbia, Catania, ecc.). Anche i noli in genere erano diversi: per i porti più piccoli si spendeva di più per coprire la seconda tratta marittima. Nell’epoca della containe-rizzazione il transhipment, oltre a portare traffici container in porti che non potrebbero essere serviti direttamente (Chioggia, Monfalcone, Porto Nogaro, ecc.), in virtù dei collegamenti locali realizzati con navi da poche decine/centinaia di Teu, grazie all’interscambio tra linee, ha aumentato e reso più fre-quenti i collegamenti anche a livello internazionale prima limitati sulle lunghe distanze esclusivamente ai traffici diretti da porto a porto.

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La globalizzazione e la transizione postindustriale di paesi come l’Italia, insieme alle trasformazioni tecniche ed economiche nell’industria trasportitico-logistica, stanno dunque ridisegnando il ruolo e le funzioni dei porti e delle regioni portuali.

Demaritimisation e remaritimisation L’indebolimento delle relazioni tra porto e territorio indotto da questi processi, e più specificamente tra sistema produttivo imperniato sul porto e sistema socio-economico del territorio (città o regione) che ospita il porto è stato talora definito con il termine demaritimisation.

Il termine non è peraltro privo di ambiguità. Esso è a volte impiegato con un signi-ficato essenzialmente “tecnico”, a identificare la perdita di importanza economica del-le funzioni marittimo-portuali. Altre volte invece chi lo utilizza sembra volere indica-re – attribuendogli un significato economico più generale, se non addirittura un signi-ficato “culturale” – la vera e propria perdita del carattere e della “cultura produttiva” marittima di un sistema economico, nel quale progressivamente scompaiano la voca-zione ai traffici internazionali, al commercio marittimo, all’esercizio e al controllo del-le attività di trasporto ad esse collegate o accessorie.

La prima accezione è descrittiva di una conseguenza delle trasformazioni tecnolo-giche ed economiche degli ultimi decenni – diffusamente descritta nei capitoli primo e secondo della seconda parte del volume – e assume quindi una valenza piuttosto neu-trale, indicando un processo evolutivo che ha luogo ovunque e (se mai) in modo più accelerato e pronunciato proprio nelle regioni a forte e perdurante vocazione maritti-mo-portuale.

La seconda accezione, al contrario, evoca un’evoluzione problematica e patologi-ca di queste trasformazioni, diffusa a tutto ciò che lega l’economia locale al mare, al porto, ai traffici marittimi. Con la conseguenza che, in questi porti e regioni, si ali-menta un processo cumulativo in cui ad una perdita di “coscienza” o di “vocazione” marittima consegue uno depauperamento dell’industria marittimo-portuale, minori in-vestimenti, minori interessi e perdita di priorità delle scelte politiche sul versante ma-rittimo. Nonché, inevitabilmente, riposizionamento nell’utilizzo delle risorse/fattori del sistema locale verso altri settori ritenuti, a torto o a ragione, maggiormente strate-gici per lo sviluppo regionale. Laddove all’opposto, in altre regioni portuali – con un processo che, di fronte alle medesime trasformazioni tecnologiche e organizzative dell’industria portuale, dei trasporti e della logistica, potremmo definire di remariti-misation – non solo si concentrano traffici e investimenti, ma aumenta il controllo sui cicli di trasporto e sulla logistica industriale, gangli vitali dell’economia mondiale di questi anni, in cui l’apertura dei mercati raggiunge il suo massimo storico e i cicli produttivi sono costituiti da una sequenza sempre più articolata, nello spazio e nel tempo, di attività di trasformazione e trasporto.

La prevalenza dell’uno o dell’altro di questi scenari dipende da una complessa re-lazione di fattori. La stessa trasformazione del nodo portuale da momento iniziale o finale di un sistema di trasporto semplice anello intermedio della catena logistica, pur essendo elemento decisivo nel determinare questa evoluzione, non spinge di per sé in una delle due direzioni, potendo alternativamente determinare la perdita di importanza

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a favore di terminali interni o di un ristretto numero di porti leader, oppure al contra-rio aumentare i margini di crescita e di indotto dell’economia portuale ben al di là della tradizionale funzione di intermediazione per l’hinterland e di attrattore per l’industria pesante e le attività di trasformazione.

Porti e poli della cultura marittima

In questo contesto, i percorsi di sviluppo socio-economico della regione portuale po-stulano un trade off fra obiettivi parzialmente in contraddizione. Si confrontano infatti due finalità: massimizzare l’utilità del porto per i port users diretti e indiretti (finalità microeconomica, riferita all’intero settore produttivo nel quale il porto si inserisce, e al quale corrisponde una funzione “imprenditoriale” dell’istituzione di governo) e ot-timizzare gli impatti localizzati sul territorio che ospita il porto, in termini di reddito, occupazione, condizioni ambientali, qualità della vita (finalità macroeconomica cui corrisponde un ruolo politico, economico e sociale delle istituzioni).

Per quanto esista una relazione di dipendenza fra obiettivi micro e macro, è evi-dente il potenziale conflitto tra ricadute positive e negative suscitate dalle strategie di crescita dei porti e in ultima analisi dalla loro stessa esistenza. Diventa quindi molto importante l’analisi degli effetti del porto in termini di occupazione, intesa non più solo in termini di addetti diretti dell’industria terminalistica e portuale, ma anche, e soprattutto, come effetti occupazionali indotti dalle molteplici attività che ancora pos-sono trarre vantaggio da una localizzazione portuale, constatando che è essenziale il rapporto spaziale tra il porto e il suo intorno, e la capacità di pianificare il territorio in funzione non solo dello svolgimento delle attività di interscambio modale in senso stretto, ma sempre più in funzione delle attività logistiche funzionalmente collegabili al transito della merce nel nodo portuale.

Il concetto di cluster, come si è argomentato in questo studio, è un utile strumento analitico per la valutazione di questi effetti.

Lo studio ha messo in luce, anche attraverso l’identificazione e analisi del cluster logistico-portuale genovese, la necessità di perseguire non solo strategie di gestione dei porti che ne aumentino l’efficacia a beneficio dei loro fruitori, ma anche tenere in considerazione le caratteristiche rilevanti per l’economia locale, in termini di utiliz-zo/retribuzione di fattori produttivi e creazione di valore aggiunto a livello locale.

Rispetto ai dati di traffico, proprio il valore aggiunto localmente creato può costi-tuire un migliore indicatore della performance del porto, anche rispetto alla sua soste-nibilità, poiché permette di captare un’ampia gamma di effetti generati dalla presenza del nodo portuale nel sistema economico locale.

È in questa prospettiva che assume rilievo il tema della governance portuale, inte-sa come insieme di interazioni tra soggetti che danno luogo a particolari scelte di go-verno per l’uso dello spazio. Il tema della governance va dunque affrontato ponendo l’attenzione sullo spazio inteso come risorsa pubblica scarsa suscettibile di utilizzi alternativi, ma al contempo fattore critico di successo per i porti e addirittura condi-zione fondamentale per generare/trattenere reddito e occupazione nel territorio portua-le.

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Il territorio della portualità è dunque caratterizzato dalla presenza (e talvolta con-trapposizione) tra una dimensione pubblica, che investe obiettivi macroeconomici e che produce un impatto di carattere territoriale e una dimensione privata, che investe obiettivi microeconomici ed è caratterizzata da un impatto di tipo settoriale.

A queste due dimensioni è possibile associare due diversi mercati dello spazio portuale. Il primo può essere interpretato come un mercato di “destinazione” dello spazio, e corrisponde alla definizione del quantum di portualità rispetto agli altri usi potenziali del territorio, sia urbano che dell’hinterland. Il secondo è un mercato di al-locazione e fa riferimento alla assegnazione dello spazio portuale ai diversi operatori e all’appropriata definizione e regolazione dei rapporti contrattuali fra proprietari e gestori.

I nuovi scenari nei rapporti tra porti e economie locali contribuiscono a rendere il tema della governance portuale il corollario logico all’analisi dell’estensione territo-riale e qualitativa degli impatti dei porti.

Come ampiamente argomentato nel corso del lavoro, la maggiore libertà dei traffi-ci nella scelta del porto e la maggiore indifferenza localizzativa delle attività port re-lated costituisce un potenziale elemento di crisi. Al tempo stesso tuttavia i porti ri-mangono importanti motori dell’occupazione, anche perché l’indebolimento dei vinco-li “tecnici” della catena del trasporto non implica che le regioni portuali non possano tuttora conservare e/o sviluppare significativi vantaggi localizzativi per attività eco-nomiche afferenti all’industria logistica e ad altre attività.

Dalle nuove strategie localizzative e dai potenziali conflitti per l’uso del territorio emergono così, allo stesso tempo, nuove minacce e nuove opportunità per i territori portuali. Naturalmente ciò avviene ora e avverrà d’ora in avanti in un contesto di stra-tegie localizzative che non consente più rendite di posizione (se non limitatamente ad un ristretto numero di attività, il cui potenziale occupazionale è per giunta in forte di-minuzione) e si inseriscono invece nella più generale competizione tra sistemi econo-mici territoriali per l’attrazione delle attività economiche.

È in questa prospettiva che il concetto di cluster marittimo-portuale, e le rifles-sioni e ricerche in ordine alla loro formazione e performance, non solo costituiscono un efficace strumento di analisi, ma possono aiutare nella definizione di nuove strate-gie per le città portuali.

Il cluster, come definito nel presente lavoro, è un sistema economico territoriale locale caratterizzato dalla specializzazione economica in uno o più settori integrati verticalmente o orizzontalmente e dall’intensità delle relazioni tra le imprese locali attive in questi settori, e tra di esse e gli altri elementi del sistema locale. Esso è un sistema complesso, contraddistinto da relazioni che si sviluppano intorno ad una spe-cializzazione economica di base e che vanno oltre le dimensioni municipali e urbane, spesso assunte come oggetto di analisi. Il concetto di cluster è oggi importante perché consente un’analisi della competitività economica e geografica a livello non solo na-zionale e regionale, da un lato, o strettamente urbano/locale, dall’altro, ma anche ad una scala territoriale intermedia quale quella provinciale o quella di area vasta.

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Cluster logistico-portuale e strategie territoriali

In termini di strategie si pone quindi il problema di conciliare il ruolo che il porto de-ve svolgere nel sistema generale del trasporto con quello di generatore di ricchezza locale.

Anche se in un grande porto commerciale solitamente prevale il ruolo di anello fondamentale della supply chain e del sistema del trasporto nazionale ed internaziona-le, non è equo, né, alla lunga, concretamente possibile, che la sua funzione verso il territorio locale venga trascurata, dovendosi ricercare costantemente un contenimento del disequilibrio tra le due funzioni e tra i loro effetti. Analogamente, non sarebbe corretto pianificare uno sviluppo portuale (infrastrutturale o funzionale) tenendo solo conto dei suoi effetti sul territorio, ma trascurandone la coerenza col sistema del tra-sporto.

Le azioni tese al miglioramento delle ricadute economiche locali, dovute alla pre-senza di un porto commerciale di grandi dimensioni, possono conseguentemente esse-re programmate solo entro la “cornice” costituita dal ruolo che il porto deve svolgere nel sistema trasportistico nazionale: ciò significa che “l’interesse della merce” non può venire forzato, perché esso deve essere compatibile con l’interesse del sistema generale. Le azioni di miglioramento dovranno allora essere di tipo complementare, vale a dire, ad esempio, di attrazione di attività che possano avvalersi dell’attività portuale e del ruolo principale assolto dal porto.

Queste considerazioni portano ad una prima conclusione: che un corretto processo di pianificazione di un porto non può che richiedere la partecipazione, sia pure even-tualmente a livelli decisionali diversi, sia delle istituzioni ed amministrazioni preposte al sistema logistico generale che di quelle responsabili dello sviluppo territoriale lo-cale.

Dallo studio del cluster, come proposto e sviluppato nel presente lavoro, sono emersi due significativi esiti, che possono aiutare a portare avanti il ragionamento sul-le possibili strategie territoriali delle città portuali: – la messa a fuoco e discussione di politiche di rafforzamento e consolidamento

del cluster come possibile strategia territoriale in un’ottica di almeno parziale di-saccoppiamento tra volume di traffico e crescita economica legata all’industria portuale;

– il possibile ruolo degli enti territoriali, tra i quali la Provincia, in una strategia di rafforzamento e consolidamento del cluster logistico-portuale, a partire dal caso genovese.

Si è infatti argomentato che, ai fini dell’indotto occupazionale dei porti, risulta oggi rilevante non solo l’insieme delle politiche volte all’incremento del traffico portuale, ma anche, se non soprattutto, l’insieme delle politiche – territoriali, infrastrutturali, urbanistiche, fiscali, di marketing urbano – che creano le condizioni per trattenere o attrarre nei nodi portuali un’industria logistica-portuale oggi fortemente footloose (cioè a localizzazione indifferente). Il punto cruciale oggi è infatti che il centro marit-timo rimanga titolare delle funzioni direzionali delle attività produttive che ad esso fanno capo, e centro di produzione e di offerta dei servizi di rango più elevato.

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All’opposto, la possibile fuga delle imprese fuori dalla città portuale comporta una caduta del valore aggiunto e dell’occupazione; cioè il depauperamento del tessu-to economico locale, la perdita di alcune funzioni di leadership e al limite, l’attenuazione della capacità del porto di porsi come polo di crescita per l’area circo-stante.

In una prospettiva di rafforzamento del cluster il porto deve puntare a mantenere la leadership di attività kowledge intensive (organizzazione del ciclo logistico, for-warding, intermediazioni, commercio, telecomunicazioni, marketing, promozione, ri-cerca, governance) che pongono un’enfasi sulla cultura trasportistica e logistica e sul-la conseguente attività di ricerca e sviluppo, di capacità di apprendimento e di intro-duzione di processi innovativi, piuttosto che sulla mera esecuzione di procedure ope-rative ormai altamente standardizzate, ancorché fortemente specializzate e capital in-tensive. Ne scaturisce l’idea di un porto (o di un cluster) che ha la funzione di orche-strare un insieme di attività di trasporto non necessariamente ospitate fisicamente.

Le considerazioni emerse forniscono indicazioni per le politiche che investono in primo luogo il settore della pianificazione territoriale e del land use.

L’attenzione dell’analisi economica territoriale si sposta verso la competizione fra porti, la loro capacità di attrarre attività e insediamenti, le “condizioni al contorno” delle scelte insediative delle imprese. Parallelamente, anche il tema dei costi ambien-tali dello sviluppo economico è strettamente legato alle scelte localizzative, poiché esse determinano non solo la concentrazione o dispersione degli effetti economici po-sitivi del sistema produttivo, ma anche quella degli effetti ambientali negativi di (al-meno) una parte di esso.

In generale, dunque, l’insieme dei comportamenti localizzativi dei soggetti econo-mici costituisce ormai il tema principale rispetto al vasto ambito di obiettivi politici ed economici rientrante nella definizione dello sviluppo economico portuale. Diventa allora rilevante che cosa un cluster è in grado di produrre meglio in relazione alle pro-prie risorse e punti di forza. Non solo il patrimonio di infrastrutture e servizi, ma an-che la concentrazione spaziale di caratteristiche (relazioni orizzontali e verticali tra imprese, competenze diffuse, capacità progettuale, elevato livello di concorrenza in-terna pur nell’eterogeneità settoriale, dimensionale e internazionale), non sempre mo-netizzabili e quasi mai spostabile o riproducibile altrove.

In un cluster non esiste un vertice che gestisce i processi decisionali. Anzi, esso diviene “sistema” se gli attori operanti sul territorio, e aventi obiettivi diversi, spesso configgenti, vincoli diversi, e condizioni di informazione diverse, riescono a operare nell’ambito di obiettivi coordinati, a promuovere sinergie, a comporre i conflitti. L’informazione, in particolare, è il terreno comune su cui creare il confronto fra i di-versi soggetti.

Si radica proprio qui, dunque – nell’esigenza di trasformare una mera giustapposi-zione spaziale di localizzazioni produttive e residenziali in un sistema, orientato ad un progetto di sviluppo condiviso, capace di generare e massimizzare le economie ester-ne del territorio – una forte domanda di governance intesa come coordinamento e o-rientamento dei processi decisionali complessi, fatti dell’azione e reazione di più sog-getti che si trovino nelle condizioni di diversità, conflittualità, e asimmetria operativa

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e informativa, qui ampiamente discussi in relazione al caso del cluster logistico-portuale genovese.

Proseguendo questa linea di pensiero si introduce e induce l’idea di un parziale disaccoppiamento tra aumento dei traffici e consolidamento del cluster, tra porti e po-li della cultura marittima.

Il sostegno e lo sviluppo delle attività port required è ovviamente condizione ne-cessaria per l’esistenza stessa dei porti. In assenza di queste, nessuno sviluppo eco-nomico portuale, durevole o no, è comunque possibile. Tuttavia al modello che pro-pone una visione univoca di competizione crescente tra città portuali essenzialmente basata sull’aumento dei traffici e di tutte quelle infrastrutture che garantiscano auspi-cabile e indefinito aumento dei traffici, è possibile contrapporre un modello di disac-coppiamento tra aumento dei traffici e rafforzamento del cluster, al quale è possibile associare un parziale disaccoppiamento tra aumento dei traffici e ruolo di poli della cultura marittima.

Tenendo conto che ovviamente una certa quantità di traffico è condizione necessa-ria anche per il poli in questione (non fosse altro che per determinarne storicamente la nascita), in questo caso l’attenzione è focalizzata sul rafforzamento delle caratteristi-che del cluster, proprio a partire dalla consapevolezza che, in certi contesti e per certi porti, politiche volte all’aumento dei traffici sono condizioni necessarie ma non suffi-cienti a sostenere lo scenario di competitività oggi esistente.

Le condizioni per consentire questo tipo di politiche sono la presenza di un hinter-land importante sotto il profilo del potenziale demografico ed economico, un certo volume di traffici e la possibilità di sviluppare tutte le funzioni (porti non specializza-ti). I fattori di localizzazione cruciali sono le economie esterne di tipo cumulativo: la capacità acquisita, il sapere diffuso, il know how, elementi che per definizione è e-stremamente difficile “introdurre” ex-novo in un territorio, perché sono frutto di un processo dinamico, lento, di sviluppo cumulativo. Lo sviluppo economico si afferma e si consolida, in questo stadio, grazie alla rete dei servizi alle imprese, alle strutture di formazione professionale, alle forme associative dell’intrapresa economica e del lavoro.

Nel perseguimento di questo modello la questione realmente rilevante è dotare il territorio di una capacità di apprendimento, e di introduzione/diffusione di innovazioni di processo e di prodotto, di adattamento del cluster come organismo vivente nell’economia globale, di accoglimento delle istanze sociali e anche morali più avan-zate.

Questa esigenza si traduce nella necessità di strutture per la formazione di base e quella superiore, la ricerca di base e quella specialistica, il supporto alle innovazioni, le iniziative di coordinamento (fra soggetti appartenenti al sistema) e di networking (con soggetti esterni), la presenza di centri e processi decisionali. Le “infrastrutture” a sostegno di questi processi sono le istituzioni pubbliche e le imprese nel loro poten-ziale ruolo di sistemi di capacità istituzionale, le scuole, le università, i centri di for-mazione e ricerca, le strutture culturali, quelle per l’accoglienza di studiosi e lavora-tori stranieri, quelle per l’apprendimento delle lingue.

La capacità di integrare conoscenza locale e processi di apprendimento divengono in quest’ottica elementi fondamentali. La conoscenza (know how) serve a rafforzare le

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competenze di settore e le performance di mercato, e in qualche modo costituisce l’azione del cluster sul proprio ambiente economico, la capacità di apprendimento (know why) è quella che serve a formare i processi di apprendimento e di innovazione in quanto tali, destinati ad essere sfruttati in primis nei settori di specializzazione ma anche ad adattare il cluster ai mutamenti dell’ambiente esterno (l’economia e la so-cietà mondiali). Il passaggio dal know how al know why significa che il territorio non è più “solo” dotato di una “abilità economica”, ma di una cultura economica e im-prenditoriale che agisce come fattore endogeno di localizzazione e di innovazione. È questo l’elemento maggiormente cumulativo (tende cioè a riprodursi ed amplificarsi laddove è già presente) e al tempo stesso maggiormente “duraturo” dal punto di vista del radicamento territoriale, in quanto àncora al territorio processi di apprendimento che creano la capacità di innovare.

Gli enti territoriali e la governance

È evidente che l’idea di un modello di sviluppo incentrato sul consolidamento del cluster portuale − e non solo sull’aumento dei traffici − pone essenzialmente un pro-blema di governance, in quanto coinvolge, come prima evocato, la capacità di coordi-nare soggetti con obiettivi diversi, anche configgenti, e condizioni informative diverse. Richiede conoscenza degli obiettivi e dei singoli processi decisionali degli attori, e attiva risorse (tecnologie, investimenti e soprattutto capitale umano) e processi che devono essere residenti e non esogenamente determinati o governati.

Nel caso del cluster logistico-portuale genovese è possibile aggiungere specifiche osservazioni. Come si dirà nel capitolo quarto, dall’analisi sono emerse tre caratteri-stiche principali: – l'importanza dei fattori di contesto nella localizzazione delle attività legate all'in-

dustria portuale; – la mancanza di relazioni di fiducia e/o di azione collettiva nel contesto genovese

(core portuale); – l'integrazione con il contesto alessandrino che non offre solo prospettive di svi-

luppo infrastrutturale ma anche di rafforzamento ed evoluzione della struttura e della governance del cluster.

Ricordiamo inoltre che, sulla base delle osservazioni emerse nel capitolo terzo, quarto e quinto è possibile identificare alcuni nodi critici che caratterizzano il ruolo della provincia in materia portuale: – la mancanza, nel quadro normativo di riferimento, di un adeguato rilievo al pro-

cesso della pianificazione urbanistica, non essendo sufficiente il semplice appello alla collaborazione fra istituzioni;

– la difficoltà dell’ente territoriale, segnatamente della Provincia, a percepire le reali esigenze e priorità di fronte alle diverse posizioni degli operatori;

– la presenza di una relazione diretta e biunivoca tra spazi (pianificazione portuale) e sistema infrastrutturale che si traduce in una reciproca dipendenza (la disponi-bilità di spazi è inutile se priva di collegamenti; gli investimenti in infrastrutture possono essere eccessivi, e quindi difficili da finanziare e in generale da pro-muovere, se non accompagnati da incremento dei traffici, possibile solo grazie e

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vere, se non accompagnati da incremento dei traffici, possibile solo grazie e mag-giori spazi);

– l’individuazione di una insufficienza e di una scarsa coerenza del sistema infra-strutturale sul territorio provinciale, a fronte di una solo parziale possibilità di in-tervento diretto anche in relazione ai diversi livelli di cogenza del Piano Territo-riale di Coordinamento

4;

– l’insufficiente confronto e cooperazione con le province contermini; – l’assenza di un orientamento a livello regionale sul rapporto tra porto e area vasta

(nonostante le linee guida per la redazione del Piano Regolatore Portuale emanate a livello statale).

Ora, se da un lato sono rilevabili nodi critici, dall’altro è da sottolineare che il ruolo della Provincia nelle connessioni sovracomunali e interprovinciali assume particolare significato nel quadro di cooperazione interistituzionale necessario alle politiche di sviluppo dei porti.

La necessità di stabilizzare e fluidificare le relazioni tra i comuni coinvolti si scon-tra infatti con asimmetrie dimensionali tra il comune che ospita il porto e i comuni in-teressati dalle localizzazioni di imprese, da un lato, e di strutture collegate alla logi-stica portuale, quali interporti e retroporti, dall’altro. Il livello provinciale si configura quindi come il più idoneo alla gestione di politiche concordate, garantendo una mag-giore simmetria dei soggetti amministrativi coinvolti.

Bisogna inoltre aggiungere che il coinvolgimento regionale potrebbe presentare di-verse ma altrettanto significative asimmetrie in termini di priorità politiche. Scelte prioritarie per la Regione Liguria, in quanto legate alla portualità, potrebbero non ri-sultare altrettanto centrali nell’agenda della Regione Piemonte, in quanto legate a si-tuazioni maggiormente periferiche. Uno scambio istituzionale che vede nelle Province attori-chiave garantirebbe probabilmente una risposta al problema della giusta dimen-sione di gestione della governance del cluster logistico-portuale, ed è proprio in quest’ottica che vengono proposte ipotesi di lavoro operative nel paragrafo che se-gue.

4 Il Piano può quindi essere letto per livelli di cogenza decrescenti:

– Indicazioni con valore di immediata prevalenza (ex art.21, comma 2 L.U.R. 36/97): in particolare per quanto riguarda la viabilità provinciale l’individuazione di una fascia di flessibilità di 15 mt per lato, funzionale alla realizzazione degli interventi come indicato all’art. 15 delle Norme di At-tuazione;

– Indicazioni con valore prescrittivo (ex art.21, comma 1, lett.c L.U.R. 36/97): previsioni riguar-danti l’organizzazione complessiva del sistema del verde;

– Indicazioni con valore di indirizzo e coordinamento con efficacia direttiva (ex art.21, comma 1, lett.b L.U.R. 36/97): ovvero tutti i contenuti della Descrizione Fondativa, in particolare per quan-to concerne l’area vasta portuale l’Analisi Conoscitiva di Infrastrutture, Servizi, Sistema Insedia-tivo, nonché gli elementi di crisi e valori descritti nella struttura del Piano e le relative Missioni di Pianificazione;

– Indicazioni con valore di orientamento ad efficacia propositiva (ex art.21, comma 1, lett.a L.U.R. 36/97): indicazioni, contenute nella Struttura del Piano, riguardo i sistemi produttivi e il soddisfacimento della domanda di servizi da parte dei Comuni;

– Indicazioni con valore di segnalazione delle problematiche, o con valore di semplice segnalazio-ne: i Contributi della Struttura del Piano, in particolare le indicazioni per la definizione delle infra-strutture autostradali nel nodo genovese.

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Ancora un commento richiede il tema della cooperazione orizzontale tra porti a-diacenti. Vale la pena ricordare che la prospettiva assunta in questo lavoro privile-giava la dimensione intercomunale e provinciale. Ovviamente, assumendo una prospettiva di carattere regionale meriterebbe particolare attenzione la relazione tra porti geograficamente vicini, e in particolare, in Liguria, il rapporto fra Genova e Savona. Dagli esiti di questo lavoro si può comunque osservare che è difficile immaginare una reale cooperazione orizzontale che parta dalle singole Autorità Portuali. Più verosimile invece pensare ad una correlazione tra i singoli porti e la Regione: a livello regionale si può infatti coordinare l’offerta di portualità nelle diverse tipologie di carico, l’offerta di capacità infrastrutturale e di servizi logistici, identificare le carenze dell’offerta e organizzarla in una logica di sistema portuale regionale. In questa prospettiva si può pensare per esempio a funzioni pubbliche attivabili attraverso un utilizzo mirato di Fondi Europei. O che si ponga a livello europeo il problema della connessione tra i corridoi e sistemi di porti europei.

Ponendo l’attenzione alla geometria del cluster risulta inoltre evidente che la Pro-

vincia può risolvere in modo adeguato il problema dell’interfaccia con i piccoli co-muni che, come emerso con chiarezza dall’indagine, la riconoscono come principale (e talvolta unico) interlocutore istituzionale.

Particolare attenzione riveste la definizione di quelle proposte di sviluppo dei por-ti e delle strutture funzionalmente connesse che travalicano i confini di una stessa provincia, ponendo evidenti problemi di coordinamento e di corretta ripartizione delle responsabilità.

La questione degli interporti pone con forza il tema dei rapporti istituzionali tra gli enti coinvolti. Agendo unicamente alla scala comunale, il comune nel quale risiede il porto dovrebbe rapportarsi con il comune che ospita l’interporto, con evidenti asim-metrie tra i soggetti (diversa dimensione demografica ed economica) accentuate dalla non continuità territoriale. Problemi che rendono necessario e auspicabile porre la questione non a livello di comuni, ma a livello di province.

Questa osservazione è tanto più tangibile nel caso di Genova a causa della caren-za di spazi. Il senso del ruolo della Provincia nella costruzione di una visione condi-visa di sviluppo territoriale è riconducibile al fatto che negli spazi interni funzional-mente collegati al sistema portuale il comune coinvolto non è mai una grande città, quindi il rapporto fra comune e comune può non garantire adeguate caratteristiche di cooperazione interistituzionale.

D’altra parte, avocare il tema degli interporti al livello regionale può essere con-temporaneamente non necessario (gli aspetti rilevanti riguardano province finitime o una sola provincia) e non sufficiente (le province interessate possono appartenere a regioni diverse). È inoltre opportuno sottolineare che potrebbe trattarsi di un tema marginale in rapporto alle strategie regionali. Queste osservazioni individuano diversi temi strettamente connessi alla governance del cluster: – la differente dimensione dei comuni che ospitano porti da quelli che ospitano in-

terporti;

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– la relazione spaziale tra porti e entroterra (con particolare riferimento al tema del-la continuità territoriale, intesa nel senso specifico di contiguità tra differenti ter-ritori amministrativi);

– le capacità delle Pubbliche Amministrazioni nella gestione di processi cooperati-vi e negoziali.

Tutte queste osservazioni indirizzano verso l’opportunità di sviluppare una pianifica-zione strategica di area vasta, che dovrebbe caratterizzarsi quindi per: – il carattere negoziato e, possibilmente, partecipato, attraverso la costruzione di

una “visione” del futuro condivisa dal maggior numero di attori locali; – il carattere operativo (cioè orientato alla promozione di azioni e progetti) anziché

passivo e vincolistico; – il carattere flessibile (cioè suscettibile di aggiustamenti e revisioni) anziché rigi-

do; – l’approccio integrato (economia, società, ambiente, cultura); – la funzione di quadro strategico di lungo periodo entro il quale assicurare coe-

renza ai singoli progetti; – la partnership pubblico-privato nella promozione (e nel finanziamento) degli in-

terventi; – la dimensione territoriale di area vasta, cioè sovracomunale, che rilancia la ne-

cessaria concertazione tra livelli di governo diversi (cfr. Gibelli, 2003); – l’adesione ai principi dello sviluppo sostenibile, con l’introduzione di valutazioni

anche di tipo qualitativo. Questo approccio consentirebbe di porre al centro dell’attenzione dei processi di de-cisione e di trasformazione territoriale l’intero territorio interessato dal cluster e dalle sue dinamiche economiche e relazionali, e non la sola amministrazione locale, attra-verso forme innovative di governance.

Questo tipo di indirizzo deve però andare di pari passo con un’attitudine e un ruo-lo di analisi critica nei confronti dei progetti volti a modificare l’attuale assetto del sistema portuale.

Il ruolo dell’ente territoriale provinciale

Verso un ruolo più incisivo del sistema socio-economico locale

L’esposizione che precede ha messo in rilievo la limitatezza dei poteri e delle respon-sabilità della Provincia relativamente alle problematiche dello sviluppo e della piani-ficazione portuale. D’altra parte, il quadro normativo di riferimento per il governo del territorio è entrato in una fase evolutiva difficilmente contenibile, sicché si aprono prospettive per una ridefinizione del ruolo della Provincia, anche nella prospettiva della “Città Metropolitana”. In questa situazione, è utile evidenziare alcune possibili linee di intervento volte a valorizzare il ruolo della Provincia (o della futura “Città Metropolitana”) in campo portuale. Fermo restando che le ipotesi formulate nel segui-to devono essere considerate semplici spunti di riflessione, avanzati in sede tecnica

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da chi scrive, e rivolti a consentire una migliore valutazione dei vari aspetti in gioco, e non a indicare precise proposte operative.

Si è ampiamente argomentato sui motivi che giustificano la rivendicazione di un ruolo più incisivo, rispetto alla situazione attuale, delle comunità territoriali in materia portuale, in ragione delle implicazioni che lo sviluppo di un porto può avere, sia in senso positivo che in senso negativo, sull’assetto e sullo sviluppo del territorio che lo ospita.

È però importante osservare che la rivendicazione di un maggiore ruolo, in genera-le, dei governi regionali e/o delle comunità territoriali (Province o Comuni) può as-sumere due diversi aspetti: la richiesta di un maggiore potere nella pianificazione del-lo sviluppo dei porti, da un lato, e, dall’altro, quella di un ruolo specifico nella deter-minazione dell’assetto istituzionale e gestionale degli scali. I due aspetti vanno tenuti distinti: si potrebbe infatti immaginare un sostanziale ampliamento dei poteri delle comunità territoriali nelle decisioni relative agli investimenti portuali e al ruolo dei vari scali nel sistema nazionale di trasporto, lasciando però allo Stato la competenza esclusiva di determinarne il modello organizzativo e i meccanismi decisionali e di controllo, o, viceversa, accentrare il primo aspetto, lasciando ai poteri locali la mas-sima libertà sul secondo.

Il ruolo maggiormente significativo (e più esplicitamente riconosciuto) dei governi locali e delle comunità territoriali nella determinazione dei programmi di sviluppo dei porti appare tanto più necessario (cfr. capitolo primo della seconda parte) quando ci si riferisce, come modello di sviluppo, al porto detto di “terza generazione”, quali-ficato dal fatto che l’area portuale non si limita ad essere un luogo di passaggio delle merci, ma tende a diventare un elemento di attrazione e sede di svolgimento di attività economiche (industriali e/o commerciali) anche non strettamente collegate alle opera-zioni portuali tradizionali. La realizzazione di questo obiettivo richiede uno stretto le-game dei porti con le comunità territoriali, e il radicale superamento della situazione di separatezza, e spesso di conflittualità, che, soprattutto nei paesi a tradizione centra-lizzata, ha caratterizzato i loro rapporti. È inadeguato perciò un processo di pianifica-zione che – se interpretato in modo restrittivo – lasci ad un solo soggetto (un’Autorità Portuale in diretta dipendenza dal governo centrale) la promozione del processo di pianificazione e preveda i momenti di controllo a processo iniziato, o addirittura a scelte compiute. Si deve a questo proposito denunciare una carenza “culturale” dell’attuale legislazione: la legge 84/94 si preoccupa di prescrivere la condizione che i Piani Regolatori Portuali non contrastino con gli strumenti urbanistici in vigore, ma, nell’enunciare la “missione” delle Autorità Portuali, la indica soltanto nella “pro-grammazione, coordinamento, promozione e controllo delle operazioni portuali” (art. 6.1), senza indicare esplicitamente che lo sviluppo del porto deve essere compatibile con quello del territorio di cui il porto fa parte.

Una volta accettata la validità della rivendicazione delle comunità territoriali (Re-gioni ed enti locali) di disporre di maggiori poteri nel processo di pianificazione por-tuale, occorre chiedersi se questo potere di intervento debba logicamente comportare anche interventi nella determinazione dell’assetto istituzionale dei porti e forme più o meno penetranti di ingerenza nella loro gestione. Come sopra osservato, fra i due a-spetti non esiste un nesso necessario, poiché è possibile che le necessità di coordi-namento degli investimenti, e di eventuale specializzazione dei diversi scali, possano

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mento degli investimenti, e di eventuale specializzazione dei diversi scali, possano essere soddisfatte adeguatamente con la razionalizzazione del processo di pianifica-zione, senza alcuna necessità di attribuire alle Regioni o agli enti locali poteri sull’organizzazione dei porti stessi e/o ingerenza nella loro gestione.

Va tuttavia osservato che un maggiore coinvolgimento delle comunità territoriali nell’organizzazione dell’assetto gestionale dei porti potrebbe contribuire a superare quella separatezza che ha finora contraddistinto le due entità, e che talvolta si manife-sta ancora nella sottovalutazione, rispettivamente, delle esigenze e aspettative delle comunità locali e del ruolo che i porti svolgono per lo sviluppo del territorio e delle loro necessità di ammodernamento ed espansione. Se vogliamo che nelle nostre città nasca e si affermi (o si consolidi) una cultura portuale, e che i porti siano considerati una risorsa da coltivare e potenziare e non un corpo estraneo, bisogna creare le pre-messe istituzionali di questo processo. Una nuova organizzazione non implica imme-diatamente la nascita di una nuova cultura, ma può offrire un contributo sostanziale alla sua formazione.

Proposte circa le possibili linee di azione

Alla luce degli approfondimenti analitici, e fermo restando che non vengono formulate in questa sede proposte “politiche” definite nei dettagli, si possono qui riprendere le più rilevanti conclusioni della ricerca, formulando nel seguito alcune ipotesi di inter-vento che dovrebbero essere oggetto di una valutazione a livello politico. 1. Inserirsi attivamente nel processo di riforma portuale L’insieme dei problemi coinvolti in una riforma dell’ordinamento portuale italiano, anche se, in termini di principio, limitata a semplici aggiustamenti del sistema esisten-te, è tale, come si è detto, da richiedere un ruolo decisionale maggiore da parte delle comunità locali; e giustifica dunque la raccomandazione, agli organi responsabili della Provincia e della futura Città Metropolitana, di inserirsi, nel rispetto delle responsabi-lità istituzionali, nel processo di revisione in corso della normativa vigente, insistendo simultaneamente sui due aspetti sopra evidenziati: la necessità di razionalizzare il processo di pianificazione e l’opportunità di configurare modelli di gestione dei porti che contemplino una maggiore presenza delle comunità territoriali. 2. Razionalizzare il processo di pianificazione portuale e territoriale È emerso che oggi la Provincia non è posta nelle condizioni di svolgere un ruolo inci-sivo nella pianificazione portuale. La razionalizzazione del processo di pianificazione deve consentire di confrontare, secondo appuntamenti precisi, le varie ipotesi di svi-luppo delle infrastrutture portuali e dei sistemi di collegamento con l’entroterra, al fine di consentire all’attività realizzativa di svolgersi senza intoppi. In questo quadro dovranno anche essere definite le responsabilità per il finanziamento delle varie infra-strutture, il grado di coinvolgimento delle finanze pubbliche, e il ruolo che dovrà es-sere assunto dai privati.

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3. Un maggiore ruolo nell’esame e approvazione dei progetti di sviluppo portuale Questo obiettivo può essere perseguito con soluzioni più o meno innovative. Volendo limitarsi a semplici aggiustamenti del sistema, va segnalata l’opportunità di rivedere la composizione del Comitato Portuale, che nella sua attuale configurazione si presta a sospetti di conflitto di interessi e non consente alle comunità territoriali di svolgere un ruolo significativo. In questa prospettiva, dovrebbe essere considerata la trasfor-mazione in un comitato più ristretto, composto di Regione, Provincia o Città Metropo-litana, Comuni e Autorità Portuale (o Autorità Portuali interessate) coi compiti esclu-sivi di tracciare le grandi linee di pianificazione del territorio. Gli altri problemi at-tualmente affidati al comitato portuale (approvazione dei Piani Operativi Triennali, attribuzione delle concessioni, controllo della gestione dell’Autorità Portuale) potreb-bero essere attribuiti alla commissione consultiva prevista all’articolo 15 della legge. 4. Contrastare il rischio di involuzione burocratica del sistema Esiste il concreto rischio che le ovvie esigenze di coordinamento e razionalizzazione si traducano nella costituzione “a cascata” di una serie di organi burocratici, legati da rapporti di subordinazione e controllo, con conseguente appesantimento dei processi decisionali e perdita di quell’impostazione manageriale che, al contrario, è ritenuta unanimemente necessaria. Al contrario, la sfida organizzativa che si pone è quella di realizzare forme di coordinamento che rispettino scrupolosamente le autonomie ge-stionali ed evitino l’appesantimento dei processi decisionali, consentendo al tempo stesso di rendere operanti le sinergie e le razionalizzazioni necessarie per realizzare un sistema trasportistico adeguato alle esigenze di sviluppo del territorio.

Coerentemente con queste indicazioni di carattere generale, conviene tenere pre-senti alcune questioni.

In primo luogo, esiste il problema di sorvegliare il processo di attuazione delle ri-forme costituzionali introdotte con la legge del 3 ottobre 2001. Come si ricorderà, è oggetto di discussione se il conferimento di poteri alle Regioni sul modello gestionale dei porti possa essere riconosciuto per tutti i porti o soltanto per quelli di interesse regionale e interregionale. Abbiamo espresso in proposito l’opinione, sostenuta anche da autorevoli giuristi, che, poiché le nuove norme costituzionali non distinguono fra porti maggiori e porti minori, il decentramento federalistico dei poteri va riconosciuto con riguardo a tutti i porti, e che un’eventuale riserva allo Stato del controllo diretto dei porti maggiori richiederebbe un’ulteriore modifica costituzionale. La logica del conferimento non sembra infatti quella di stabilire un livello di governo coerente con l’estensione del bacino di traffico, quanto coerente con la rilevanza del porto per i processi socio-economici e le interazioni con il territorio. Sembra però imprudente ritenere che questa opinione si affermi senz’altro nella pratica. Allo stato attuale, non si può fare altro che raccomandare di seguire con grande attenzione il problema, fa-cendo valere con forza gli argomenti che possono essere portati a favore di una svolta in senso federale. È appena il caso di sottolineare che questo aspetto ha importanza particolare per la Liguria, dove soltanto il porto commerciale di Imperia potrebbe non

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essere considerato di rilevanza nazionale dal punto di vista dell’estensione del bacino di traffico, e quindi sarebbe il solo a rientrare nelle responsabilità regionali e delle comunità territoriali.

In secondo luogo, va considerato il fatto che, in ogni caso, il processo di decen-tramento dei poteri in materia portuale riguarda ad oggi, per esplicita previsione costi-tuzionale, le sole Regioni, che diventano quindi l’interlocutore fondamentale per fare valere le istanze metropolitane (e segnatamente quelle della Provincia o Città Metro-politana) di maggiore coinvolgimento nella pianificazione e nell’organizzazione della gestione dei porti. Un altro interlocutore essendo ovviamente costituito dai Comuni, che hanno anch’essi un rilevante interesse ad una più incisiva partecipazione alle de-cisioni relative allo sviluppo dei porti.

Infine, per quanto riguarda il modello gestionale dei porti, è noto che sono state avanzate anche proposte di soluzioni molto innovative, come quella di configurare i porti come società per azioni, ancorché partecipate da enti pubblici. Una proposta in tal senso è stata avanzata dall’Associazione dei Comuni Italiani (ANCI), secondo la quale il controllo della gestione portuale dovrebbe essere affidato ad una società di capitali caratterizzata da una quota maggioritaria di partecipazione del Comune (dei Comuni) interessato(i) dal territorio portuale, con eventuali partecipazioni di altri enti territoriali e regionali e un’adeguata rappresentanza dei gestori delle reti terrestri, de-gli utenti, e della business community.

Questa tesi presenta due aspetti discutibili: il rischio di ridurre Regioni e Province ad un ruolo troppo marginale, e un’apertura agli utenti e alla business community, che, se eccessiva, potrebbe generare conflitti di interesse e forme esasperate di con-sociativismo nella gestione dei porti. Per contro, la formula della società di capitali a partecipazione pubblica potrebbe presentare diversi vantaggi: maggiore agilità dei processi decisionali e accentuazione del carattere imprenditoriale della gestione, pos-sibilità di diversificare la partecipazione pubblica lasciando spazio alle diverse entità interessate al porto (caso di un porto il cui territorio di riferimento non è limitato ad una sola regione), e, non meno importante, completa soggezione dell’ente gestore al diritto civile e alle procedure fallimentari.

Questa impegnativa prospettiva va semplicemente segnalata5, perché esula dai li-

miti del presente studio. La sua realizzazione comporterebbe infatti la soluzione di vari importanti problemi giuridici, fra i quali: l’esercizio di funzioni autoritative da parte di soggetti di diritto civile; la conciliazione di un regime privatistico dei porti con il carattere demaniale delle aree portuali; la definizione delle responsabilità per il finanziamento delle opere portuali. Il problema è inoltre complicato dalle incertezze del quadro legislativo che sono state messe in rilievo nel corso dell’esposizione pre-cedente. È peraltro opportuno che si considerino anche queste prospettive di evolu-zione, per quanto non propriamente imminenti, nell’eventualità che esse possano as-sumere in futuro una maggiore concretezza.

5 Cfr. De Vergottini (2001).

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La formazione come politica portuale

Le linee guida descritte – imperniate sul rafforzamento di una pianificazione a caratte-re strategico e su un ruolo di analisi critica nei confronti delle proposte legislative di volta in volta emergenti − devono essere completate da un terzo tema di estremo ri-lievo per il ruolo dell’ente territoriale: lo sviluppo di politiche di formazione che possano essere di sostegno alle politiche per l’occupazione e per lo sviluppo territoriale. In questa ricerca è emerso più volte che una politica che traguardi lo sviluppo congiunto di un porto e del territorio, e assuma come modello di riferimento il porto di “terza generazione”, richiede uno stretto legame fra il porto e le comunità territoria-li. Perché un porto si affermi come polo logistico e come elemento di una più genera-le politica di sviluppo, non basta che esso adegui a posteriori le infrastrutture portua-li alle esigenze dei traffici e del sistema economico, ma sono necessarie una serie di altre condizioni: la disponibilità di spazi attrezzati per svolgere servizi logistici ad al-to valore aggiunto e una politica urbanistica conseguente, una politica di sostegno e incoraggiamento all’insediamento degli operatori capaci di svolgere questi servizi, la predisposizione di validi collegamenti con il porto. La predisposizione delle capacità professionali, manageriali, analitiche e culturali atte a creare queste condizioni e a cogliere le opportunità che ne derivano richiede un’adeguata politica di formazione culturale e professionale. Quest’ultimo punto merita particolare attenzione, data l’importanza del problema e le specifiche responsabilità istituzionali che ha la Provin-cia in questa materia.

Sotto questo profilo, è anche opportuno che le iniziative formative, per quanto possano eventualmente già essere numerose e positive, siano inserite in un quadro di insieme che assicuri la loro convergenza verso l’obiettivo di una politica generale di sviluppo del territorio. In questa prospettiva, alla formazione non è richiesto soltanto di rispondere alle specifiche richieste in atto, ma anche, se non soprattutto, di prepara-re il terreno ai futuri sviluppi, predisponendo le nuove professionalità necessarie e preparando gli operatori di tutti i livelli a rispondere positivamente all’evoluzione in corso.

Fattori di cambiamento e nuove professionalità

A questo fine, è utile porre ancora una volta l’attenzione alle numerose e profonde trasformazioni che la portualità sta attraversando o ha recentemente attraversato, qua-li, in particolare: – il superamento già accennato del concetto di porto-emporio e le modificazioni

che si sono prodotte nel ruolo e nell’assetto istituzionale dei porti; – l’intermodalità, che comporta profonde modificazioni in tutti gli anelli della cate-

na del trasporto; – l’importanza assunta dalla logistica; – le potenzialità offerte dall’evoluzione tecnologica, che rendono possibili soluzioni

operative in precedenza non ipotizzabili, cui corrisponde una domanda di fattori produttivi qualitativamente e quantitativamente diversa;

– le pressioni competitive conseguenti all’allargamento dei mercati;

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– la normativa comunitaria in materia di trasporti (sostegno al trasporto combinato, sviluppo dello short sea shipping, riequilibrio fra le diverse modalità di traspor-to, etc.);

– l’evoluzione della normativa in materia portuale e le pressioni in corso per un suo ulteriore adeguamento;

– infine, ma non ultime come importanza, le regole a tutela della concorrenza stabi-lite dalle norme europee.

Questo insieme di fattori evolutivi richiede nuove conoscenze e capacità a tutti i li-velli, e comporta l’aggiornamento e l’evoluzione delle figure professionali esistenti, e anche l’affermazione di nuove. Così ad esempio: – agenti marittimi e spedizionieri sono spinti a ridisegnare il loro ruolo per adattarsi

alle nuove esigenze; si riscontrano in particolare accavallamenti fra le due figure e la tendenza ad assolvere e offrire a terzi servizi dedicati alla logistica di distri-buzione;

– è emersa una figura in parte nuova (e certamente nuova per l’Italia), quella del terminalista, impresa che gestisce un terminale portuale con una propria organiz-zazione, radicando la scelta localizzativa con investimenti in sovrastrutture e im-pianti per la movimentazione e lo stoccaggio;

– diventano essenziali i collegamenti fra gli operatori dei diversi anelli della catena di trasporto (armatori, terminalisti, autotrasportatori, ferrovie), con conseguente richiesta di specialisti in logistica e di “ruoli di interfaccia”, qualificati dalla co-noscenza delle problematiche dei settori a monte e a valle e dalla capacità di in-teragire con gli stessi;

– al livello del porto, la disponibilità di nuove tecnologie crescentemente mecca-nizzate e informatizzate opera nel senso di un netto ridimensionamento quantitativo delle operazioni portuali tradizionali in rapporto al volume di traffico (da parte sua in forte aumento); e di una riduzione generale dell’occupazione diretta, alla quale fa però riscontro una maggiore richiesta di diverse capacità professionali, rendendosi necessaria una sempre maggiore capacità di “manipolare” simboli e informazioni anziché (solo) carichi;

– la stessa natura del management portuale subisce modificazioni; il superamento del tradizionale modello della comprehensive port authority, e la crescente con-correnza fra imprese private postula la necessità di eliminare le gestioni burocra-tiche e di adottare comportamenti innovativi e autonomi, centrati sulla pianifica-zione e controllo piuttosto che sulla gestione quotidiana;

– a livello di pubbliche amministrazioni, le crescenti responsabilità richiedono la presenza di funzionari sensibili alle esigenze dei processi di mutamento in corso, ma capaci di confrontarsi con cognizione di causa con gli operatori del settore.

Le linee guida di una politica formativa

La formulazione di un preciso piano di formazione non rientra fra gli obiettivi del pre-sente studio. Tuttavia si ritiene opportuno delineare alcuni criteri di fondo, che do-vrebbero presiedere allo sviluppo di un efficace piano della formazione, che natu-ralmente non dovrà prescindere da un censimento delle necessità (bisogni formativi nelle principali aree facenti parte del cluster logistico-portuale e delle iniziative in

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principali aree facenti parte del cluster logistico-portuale e delle iniziative in atto o in progetto nell’immediato futuro) e delle iniziative in atto (allo scopo di verificare se esse coprono tutta l’area di intervento).

Esso dovrà in primo luogo definire le iniziative specifiche per le diverse categorie di fruitori, con attività formative differenziate non soltanto per i contenuti ma anche per le modalità di esecuzione (per esempio: a tempo pieno per laureati o diplomati in attesa di primo impiego, a tempo parziale per funzionari della pubblica amministra-zione o quadri aziendali; le metodologie didattiche devono anch’esse essere adattate alle specifiche conoscenze ed esperienze dei fruitori; e così via).

Solo a titolo di esempio, si specificano nella tabella che segue alcune delle possi-bili tipologie formative differenziate in funzione dei possibili fruitori.

DESTINATARI CONTENUTI DI MASSIMA Dirigenti e quadri superiori degli enti ter-

ritoriali, delle istituzioni, delle imprese Incontri seminariali dedicati all’approfondimento di

temi attuali dell’evoluzione del sistema trasportistico e portuale

Quadri e funzionari di Autorità Portuali, Comuni, Camere di commercio, Capitane-rie, ecc.

Cicli di formazione/aggiornamento sul nuovo ordi-namento portuale italiano e sulle principali problemati-che aperte

Aggiornamenti normativi Quadri superiori responsabili della ge-

stione di uffici o reparti di imprese del setto-re portuale e trasportistico, o con compiti di elevata specializzazione

Corsi di formazione avanzata sui sistemi e sulle tecniche di gestione aziendale, sulle problematiche spe-cifiche della logistica e dell’intermodalità

Corsi sulla sicurezza Neo-laureati, neo-assunti o candidati

all’assunzione Corsi-base di formazione manageriale intercalati da

stage nelle aziende di possibile destinazione Personale esecutivo destinato alla con-

duzione o manutenzione di mezzi e macchi-nari

Addestramento alle mansioni specifiche Corsi di sensibilizzazione e formazione alla sicu-

rezza

Tabella 0.1: tipologie formative differenziate in funzione dei possibili fruitori

La formazione potrà essere a carattere istituzionale o per progetto. La prima è rivolta a categorie di fruitori individuati in funzione del loro ruolo attuale e prospettico; la seconda include programmi che fanno parte di un progetto complessivo di mutamento volti, oltre che a diffondere le conoscenze e le capacità necessarie, a fare maturare atteggiamenti positivi di fronte ai processi innovativi.

È inoltre opportuno affiancare alla formazione “istituzionale” e di progetto una se-rie di iniziative volte a diffondere la conoscenza delle problematiche economico-sociali, giuridiche e organizzative che vengono in gioco quando si affrontano i pro-blemi dello sviluppo portuale e delle sue interconnessioni con lo sviluppo del territo-rio.

Il piano della formazione dovrà agire sulle conoscenze e sulle attitudini. Alla for-mazione di base e a quella specialistica, destinate ad agire sulle conoscenze (saper fare), va affiancata una formazione volta ad incidere sugli atteggiamenti (voler fare),

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Ancorare i porti al territorio 37

cioè a fare acquisire la consapevolezza delle caratteristiche del mutamento perseguito e a fare maturare atteggiamenti positivi al riguardo, superando le possibili resistenze ai mutamenti.

Va da sé, infine, che la formulazione di un piano della formazione efficace e reali-stico richiede una stretta collaborazione fra tutti gli organismi interessati e un’efficace opera di coordinamento da parte dell’ente istituzionalmente competente. Sarà inoltre necessario verificare che le varie iniziative siano coerenti con le normative in vigore per quanto attiene all’accesso agli eventuali contributi comunitari.

Linee di policy, questioni aperte e future ipotesi di lavoro

L’idea del disaccoppiamento almeno parziale tra volumi di traffico e crescita econo-mica del cluster richiede la progettazione e implementazione di politiche mirate rivol-te al rafforzamento e consolidamento del cluster.

Queste politiche sottendono inevitabilmente una capacità di innovazione degli enti territoriali in termini di: – procedure operative a sostegno della pianificazione territoriale; – promozione di azioni collettive e cooperative, a carattere volontario, legate al

marketing, all’internazionalizzazione, all’innovazione nelle imprese; – eventuale creazione di organismi intermedi (si pensi all’esempio di SLALA) che,

se costituiscono certamente un fattore di complicazione funzionale e territoriale, dall’altro esprimono spinta al decentramento e all’iniziativa di auto-organizzazione locale, e al momento attuale costituiscono forse l’unica risposta ai problemi della pianificazione territoriale analizzati nel capitolo quinto.

Con specifico riferimento alla maggiore incidenza delle Province nel governo della portualità, questa – alla luce delle argomentazione addotte nei precedenti paragrafi – può in sintesi essere perseguita principalmente in tre direzioni: – esercitare pienamente le competenze affidate alla Provincia nell’attuale assetto

normativo; – sviluppare politiche di formazione che possano essere di sostegno alle politiche

del lavoro e allo sviluppo territoriale; – esercitare un ruolo di analisi critica e proposta nei confronti dei progetti volti a

modificare l’attuale assetto del sistema portuale. In una prospettiva di breve periodo e di ideale proseguimento dell’attività fino ad og-gi svolta alcune iniziative a carattere propositivo che potrebbero essere promosse dal-la Provincia come possibili indirizzi operativi per il cluster logistico-portuale genove-se sono: – la promozione di convegni con i Comuni coinvolti nel cluster, allo scopo di pre-

sentare l’analisi svolta e discutere l’esistenza, la morfologia e le caratteristiche del cluster logistico-portuale genovese; attraverso di essi si potrebbero verificare il livello di percezione dell’appartenenza al cluster, le strategie di sviluppo dei singoli Comuni e la coerenza con possibili politiche volte al rafforzamento del cluster;

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38 Ancorare i porti al territorio

– il censimento dei progetti, o ricognizione puntuale sul territorio delle strategie per il supporto alla localizzazione delle imprese del cluster logistico-portuale, nonché l’esistenza e il livello di coerenza di progetti specifici, all’interno del clu-ster, in termini di infrastrutture e servizi di carattere intercomunale e interprovin-ciale;

– la promozione da parte della Provincia di accordi territoriali, in forma di iter procedurali formalizzati (sperimentabili a partire da progetti pilota)

6, capaci di

prendere in considerazione ed eventualmente compensare vantaggi e degli svan-taggi dei processi insediativi legati alla portualità (imprese e infrastrutture per la logistica, in primo luogo), in coordinamento con le altre amministrazioni locali e sovralocali coinvolte, finalizzati a superare la concorrenza tra territori comunali confinanti nell’attrarre insediamenti, a gestire i possibili conflitti, a creare occa-sioni per politiche coordinate e favorire processi di costruzione di capacità istitu-zionale

7;

– la realizzazione di un bilancio del cluster che prendendo avvio dal bilancio socia-le in fase di formulazione da parte dell’Autorità Portuale, estenda quel tipo di a-nalisi all’intero cluster logistico-portuale, così come identificato dal presente stu-dio.

6 Cfr. Balducci A., Fedeli V., Manfredini F., Pucci P. (2006).

7 Cfr. Cristoforetti G., Ghiara H. (2006).