Analisi e attualità del «Discorso sopra lo stato presente ... · Struttura e contenuto 26...
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UNIVERSITÀ DI PISA
FACOLTÀ DI LETTERE E FILOSOFIA
Corso di Laurea Magistrale in Lingua e Letteratura Italiana
Analisi e attualità del «Discorso sopra lo stato presente
dei costumi degl'italiani» di Leopardi
Primo Relatore Chiar.mo Prof. Luca Curti
Secondo Relatore Candidato Chiar.mo Prof. Alberto Mario Banti Marco Tagliavini
ANNO ACCADEMICO 2013/2014
1
INDICE
Introduzione 3
PARTE I Analisi del Discorso sopra lo stato presente
dei costumi degl'italiani di Leopardi 8
Capitolo I Lo slancio civile e patriottico prima della stesura del Discorso 8
Premessa ai capitoli II e II 19
Capitolo II Il Discorso sopra lo stato presente dei costumi degli'italiani 20
II. 1. Genesi e destinazione del Discorso 20
II. 2. Struttura e contenuto 26
Capitolo III Tematiche 35
II.I 1. La «società stretta» 35
III. 2. L'impalcatura filosofica del Discorso 47
III. 3. Leopardi lettore della Corinne di Madame De Staël e di Chateaubriand 62
III. 4. Leopardi lettore di Baretti, Gozzi, Parini, Goldoni 73
III. 5. Il concetto di evoluzione storica umana all'interno del Discorso 82
Premessa alla II parte 92
PARTE II Attualità del Discorso sopra lo stato presente dei costumi degl'italiani 93
Capitolo IV Individualismo e cinismo negli italiani 93
Conclusioni 120
Bibliografia 123
2
Introduzione:
Sebbene tante volte Leopardi si volga con disdegno e con amara ironia contro la mediocrità degli
uomini, specie di quelli del suo tempo, pronti a rifugiarsi in vane consolazioni ed a tornare ad
attendere la felicità dopo ogni delusione, il suo atteggiamento di fondo verso il genere umano non è
di sdegno e di condanna ma di fraterna compassione, e la sua filosofia amara e pessimistica non lo
porta affatto a distaccarsi dalla vita, né a porsi al di fuori dei più vivi dibattiti del suo tempo:
La mia filosofia, non solo non è conducente alla misantropia come può parere a
chi la guarda superficialmente, e come molti l'accusano; ma di sua natura
esclude la misantropia, di sua natura tende a sanare, a spegnere quel malumore,
quell'odio, non sistematico, ma pur vero odio, che tanti e tanti, i quali non sono
filosofi, e non vorrebbero esser chiamati né creduti misantropi, portano però
cordialmente a' loro simili, sia abitualmente, sia in occasioni particolari, a causa
del male che, giustamente o ingiustamente, essi, come tutti gli altri, ricevono
dagli altri uomini. La mia filosofia fa rea d'ogni cosa la natura, e discolpando gli
uomini totalmente, rivolge l'odio, se non altro il lamento, a principio più alto,
all'origine vera de' mali de' viventi1.
L'uomo, pensieri e sentimenti, è quindi al centro del mondo di Leopardi. L’interesse per l’uomo e
per la società, unito a una decisa vocazione all’impegno civile in senso moderno con punte di
schietta italianità, rivelata già da alcuni interventi giovanili (nel 1815 l’Orazione agli italiani in
occasione della liberazione del Piceno) e confermata nel 1818 con la composizione delle canzoni
All’Italia e Sopra il monumento di Dante, si esplica soprattutto nel Discorso sopra lo stato presente
dei costumi degl’italiani2, testo «tra i più suggestivi di Leopardi» secondo Romano Luperini3.
Incuriosito da questo testo, quasi del tutto trascurato a livello scolastico-accademico, iniziai già a
leggerlo nel 2010 durante le stesura della mia tesi triennale su Machiavelli e i Discorsi sopra la
prima deca di Tito Livio. Da tener presente che fra il novembre del 1823 ed il febbraio del 1824
l'elenco delle letture di Leopardi registra una copiosa presenza di testi machiavelliani (tra cui infatti
i Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio), con strascichi fino a settembre dello stesso anno (Il
Principe). Queste letture di Machiavelli sono importanti perché nello stesso periodo Leopardi
1 Zibaldone 4428. Per questo lavoro di tesi come edizione di riferimento per i passi tratti dallo Zibaldone si veda G. Leopardi, Tutte le opere, a cura di W. BINNI con la collaborazione di Enrico Ghidetti, vol. secondo, Sansoni Editore, Firenze 1969. Da qui in avanti l'edizione sarà sempre abbreviata semplicemente in Zibaldone.2Da qui in avanti spesso abbreviato per comodità in Discorso.3R.LUPERINI, P.Cataldi, L.Marchiani, F.Marchese, La scrittura e l’interpretazione - Edizione Rossa - Volume 2, Dal Barocco al Romanticismo (1610-1861) , G.B. Palumbo & C. Editore, pp. 446-448
3
iniziò proprio la stesura del Discorso, se si accetta l' ipotesi di datazione di Scarpa4 fissata attorno al
1824 (il problema della datazione sarà analizzato nel dettaglio nelle pagine successive). Quindi se,
come è probabile, almeno l'idea o l'abbozzo del Discorso nacque a ridosso di questo prolifico 1824,
la forte presenza di letture machiavelliane «contribuì non poco ad indirizzare la messa a fuoco del
punto di vista leopardiano sui costumi degli italiani»5.
La prima idea di questo lavoro di tesi magistrale nacque tuttavia seriamente a inizio 2011: di lì a
poco, esattamente il 17 marzo, si sarebbero festeggiati i 150 anni dell’Unità d’Italia. A tal proposito
in quel periodo uscì la riedizione aggiornata del Discorso6 di Giacomo Leopardi che, sebbene
composto molto probabilmente fra l’inverno e la primavera del 1824, fu pubblicato postumo solo
molti anni dopo la sua morte, esattamente nel 1906. È un pamphlet sulla mentalità, il carattere e la
moralità della società italiana di stupefacente attualità: «Le classi superiori d’Italia sono le più
ciniche di tutte le loro pari nelle altre nazioni. Il popolaccio italiano è il più cinico de’ popolacci
[…]; tutti sanno con Orazio che le leggi senza i costumi non bastano, e da altra parte che i costumi
dipendono e sono determinati e fondati principalmente e garantiti dalle opinioni […]; gli usi e i
costumi in Italia si riducono generalmente a questo, che ciascuno segua l’uso e il costume proprio
[…];7».
L’Italia, spiega Leopardi, oltre alle tante virtù, è una terra che sembra incapace di costruire una
solida convivenza civile, una sana dialettica; un paese dominato dal cinismo, incapace di rispettare e
di esser rispettato; un agglomerato di singoli individui ognuno sprofondato nel proprio privato, quel
«proprio particulare», che già il Guicciardini aveva denunciato come lo stretto orizzonte in cui
l’italiano ama rinchiudersi. Un paese troppo smaliziato per provare un autentico amore per la patria,
e dove l’opinione pubblica, la società civile, stenta a trovare la propria maturità. Mancano i legami
che fanno di una somma di individui una società civile, fondata non solo sulla legge, ma sul senso
di responsabilità della convivenza civile.
Sembra paradossale come Leopardi sia riuscito nel suo Discorso quasi a congelare non solo un
momento nella storia del popolo italiano, ma un’incapacità strutturale, genetica, endemica del
nostro paese. A testimonianza della forza di questo scritto ci furono nel 2011 letture pubbliche del
4Giacomo Leopardi, Opere, Saggi Giovanili ed altri scritti non compresi nelle opere, Carte Napoletane con giunte inedite o poco note, a cura di R. BACCHELLI e G. SCARPA, Officina Tipografica Gregoriana, Milano, 1935; pp. 1184-1222.5Discorso sopra lo stato presente dei costumi degl'italiani / Giacomo Leopardi; a cura di N. BELLUCCI, Roma, Delotti, 1988, pag.XXVII6Mi riferisco a Giacomo Leopardi / F. CORDERO, Discorso sopra lo stato presente dei costumi degl'italiani. Seguito dai pensieri d'un italiano d'oggi, Bollati Boringhieri, 2011 7Da qui in avanti l'edizione di riferimento per i passi citati dal Discorso è Giacomo Leopardi, Discorso sopra lo stato presente dei costumi degl'italiani, edizione diretta e introdotta da M. A. RIGONI, testo critico di M. DONDERO, commento di R. MELCHIORI, Biblioteca universale Rizzoli, 1998. L'edizione sarà abbreviata semplicemente in Discorso.
4
Discorso: nei teatri di tutta Italia dall’attore Toni Servillo e da Massimo Cacciari, oltre alle citazioni
che Roberto Saviano gli dedicò durante le sue apparizioni.
Il duplice intento di questa tesi, che spero di raggiungere, è quello sia di sottolineare l’importanza
del Discorso, dimenticato troppo facilmente tra le opere del poeta di Recanati, sia di dimostrare la
sorprendente attualità di alcune riflessioni a circa 200 anni dalla sua stesura. Quest’ultimo obiettivo
non è ancora stato compiuto da nessuno, motivo in più che mi ha spinto a intraprendere questo
lavoro di tesi magistrale.
Poiché il testo leopardiano è atipico e di non facile lettura, ho deciso di suddividere il presente
lavoro in due parti: una prima parte più letteraria dove il Discorso verrà prima analizzato nella sua
genesi e struttura, e poi dove verranno discusse alcune tematiche interessanti che, a mio avviso,
meritano di essere approfondite maggiormente; e una seconda e ultima parte, dove, come accennato
in precedenza, si tenterà di dimostrare come alcune considerazioni leopardiane relative agli italiani
siano ancora attuali nella società di oggi. In ognuna delle due parti non mancheranno numerose
connessioni con altre opere di Leopardi: le Operette morali8, i Canti9, e soprattutto lo Zibaldone,
«indispensabile più di ogni altro Censis per capire l'Italia e gli italiani10».
A causa della natura più sociologica che letteraria del Discorso, il mio lavoro, soprattutto nella
seconda parte, avrà inevitabilmente molte connessioni con la storia e soprattutto con la sociologia,
la scienza sociale che studia i fenomeni della società umana, indagando i loro effetti e le loro cause,
in rapporto con l'individuo e il gruppo sociale. Non si stupisca il lettore quindi se nella seconda
parte troverà riferimenti a fatti storico- culturali d'Italia così lontani dal tempo nel quale visse
Leopardi, poiché l'obiettivo, come già ribadito, è attualizzare il testo.
Il dibattito sull’assenza patologica della società civile italiana ha prodotto nel corso degli anni
centinaia di articoli, libri e saggi, di cui mi sono servito per suffragare la mia tesi. Al contrario sul
Discorso la letteratura critica è del tutto carente: di più si è scritto e discusso ampiamente a
proposito delle altre opere leopardiane (Canti soprattutto), e sul pensiero di Leopardi in generale.
Per questo lavoro di tesi, oltre all'edizione citata in precedenza diretta e introdotta da M. A. Rigoni,
mi sono avvalso di edizioni curate da altri editori e dei numerosi saggi sul pensiero di Leopardi, di
cui qui di seguito in un breve excursus bibliografico cito a scopo informativo e di orientamento i più
importanti contributi.
Tra i primi ad occuparsi dello studio del Discorso leopardiano fu non uno studioso, ma uno
sceneggiatore e scrittore, cioè Vitaliano Brancati (1907-1954) Nella prefazione alla sua antologia
8L'edizione di riferimento è Giacomo Leopardi, G. GETTO, E. SANGUINETI (a cura di), Operette morali, Milano, 1982. Sarà abbreviata in Operette morali.9L'edizione di riferimento è Giacomo Leopardi, Canti, a cura di G. e D. DE ROBERTIS, ed. A. Mondadori, serie Oscar studio, Milano 1978. Questa edizione sarà per le pagine seguenti abbreviato in Canti10A. ARBASINO, «la Repubblica», 28/7/1992. Il Censis (Centro studi investimenti sociali), fondato nel 1964, effettua studi e sondaggi sul comportamento sociale, economico e culturale degli italiani.
5
leopardiana Società, lingua e letteratura d'Italia11 egli definisce il Discorso sopra lo stato presente
dei costumi degl' italiani «un piccolo capolavoro che può stare alla pari coi più famosi del genere,
compresi quelli del Segretario fiorentino», confermando la propria abilità e inclinazione di lucido
osservatore dei fatti sociali italiani, riconosciuta anche dall' illustre amico Leonardo Sciascia. Pochi
anni prima il Discorso era uscito in due importanti raccolte di opere leopardiane, curate da
Francesco Flora12 e Giuseppe De Robertis13. L'opera venne poi inserita in tutte le più autorevoli
edizioni delle opere di Leopardi, da quella curata da Sergio e Raffaella Solmi14 a quella allestita da
Walter Binni15 con l'aiuto di Enrico Ghidetti.
Il Discorso riscosse una singolare fortuna editoriale tra la fine degli anni ottanta e gli inizi della
decade successiva: nel giro di sei anni ben 4 edizioni curate rispettivamente in ordine cronologico
da Novella Bellucci, Augusto Placanica, Maurizio Moncagatta e infine Franco Ferrucci16. Per
quanto riguarda la saggistica mi sono avvalso principalmente dei seguenti studi, citati in ordine
cronologico: Francesco De Sanctis, La letteratura italiana del secolo XIX, volume III, Leopardi, a
cura di Walter Binni, Bari, 1953; Francesco De Sanctis, Leopardi, a cura di C. Muscetta e A. Perna,
Einaudi, Torino 1961; G. A. Levi, Storia del pensiero di Giacomo Leopardi, Torino, 1911 (adesso,
con prefazione di A. di Benedetto, Bologna, 1987); M. Porena, Il pessimismo di Giacomo Leopardi,
Genova, 1923; B. Croce, Leopardi in Poesia e non poesia, Bari 1923; K. Vossler, Leopardi, Napoli
1925; L. Giusso, Leopardi e le sue ideologie, Firenze, 1935; G. Gentile, Poesia e filosofia di G.
Leopardi, Firenze 1939; A. Tilgher, La filosofia di Leopardi, Roma, 1940 (adesso con prefazione di
M. Boni, Bologna 1979); L. Salvatorelli, Il pensiero politico italiano dal 1700 al 1870, Torino,
1940; C. Luperini, Leopardi progressivo, in Filosofi vecchi e nuovi, Firenze 1947 (adesso Roma
1980); R. Amerio, L'ultrafilosofia di G. Leopardi, Torino, 1953; S. Timpanaro, Classicismo e
illuminismo nell'Ottocento italiano, Pisa, 1969; B. Biral, La posizione storica di Giacomo Leopardi,
Torino, 1974 (II edizione 1987); U. Carpi, Il poeta e la politica, Napoli, 1978; M.A. Rigoni, Saggi
sul pensiero leopardiano, Napoli 1985; W. Binni, Lezioni leopardiane A cura di Novella Bellucci,
con la collaborazione di Marco Dondero Prima edizione: La Nuova Italia, Firenze 1994; ristampa
ivi, 1998.
11Società, lingua e letteratura d'Italia a cura di V. BRANCATI., Milano, Bompiani, 1941 (tascabili Bompiani)12 Le poesie e le prose, II: Pensieri, Discorsi e Saggi, a cura di F. FLORA, Milano-Roma , Mondadori, 1937, pp.550-589.13LEOPARDI, Opere, II,: Scritti vari, Lettere a cura di G. DE ROBERTIS, Milano, Rizzoli, 1937, pp,.660-695.14LEOPARDI, Opere, t.I, a cura di S. SOLMI, Milano- Napoli, Ricciardi, 1956.15LEOPARDI, Tutte le opere, a cura di W. BINNI con la collaborazione di Enrico Ghidetti, Firenze, Sansoni, 1969, I, pp. 966-98316Discorso sopra lo stato presente degl'italiani, a cura di N. BELLUCCI, Roma,Delotti, 1988; Discorso sopra lo stato presente degl'italiani a cura di A. PLACANICA, Venezia, Marsilio, 1989; Discorso sopra lo stato presente degl'italiani a cura di M. MONCAGATTA, con introduzione di Salvatore Veca, Milano, Feltrinelli, 1991; Nuovo discorso sugli italiani con il Discorso sopra lo stato presente degl'italiani di Giacomo Leopardi , a cura di F. FERRUCCI, Milano, Mondadori 1993.
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Nel concludere questa introduzione al mio lavoro di tesi, vorrei citare un breve passo dai Canti
leopardiani. Uno dei testi più celebri di Leopardi, il Canto notturno di un pastore errante dell'Asia,
si apre con un' interrogazione rivolta alla luna:
Che fai tu, luna, in ciel? dimmi, che fai,
Silenziosa luna ?
Sorgi la sera, e vai,
Contemplando i deserti; indi ti posi17 […]
La forza e l'urgenza della domanda sono evidenziati in diversi modi: per mezzo dell'esortativo
«dimmi», attraverso l'anafora del sintagma «che fai», e del sostantivo «luna» con funzione vocativa,
rafforzato dal pronome «tu». Ebbene allo stesso modo, cercherò in questo lavoro di interrogare il
Discorso di Leopardi, consapevole della lezione che il poeta sembra indicarci nella lirica prima
citata, ovvero la necessità e il dovere di interrogarci sul senso della vita, nostra di italiani e
dell'uomo in generale, senza compiere né il gesto arrogante di crederci all'altezza della luna,
presumendo di aver trovato le risposte, né quello vile di abbassarci al rango del gregge di pecore del
pastore, e negare l'esigenza di domande, pur di non ammettere la mancanza di risposte certe.
17Canti, Canto notturno di un pastore errante dell'Asia, vv. 1-47
I parte
Analisi del Discorso sopra lo stato presente
dei costumi degl' italiani di Leopardi
Capitolo I
Lo slancio civile e patriottico prima della stesura del Discorso:
Dopo la sconfitta definitiva di Napoleone a Waterloo, il Congresso delle potenze vincitrici (Austria,
Prussia Russia ed Inghilterra) riunitosi a Vienna nel 1815 in nome del principio di legittimità
decise di restituire i rispettivi troni ai sovrani legittimi ai quali Napoleone aveva “illegalmente” tolto
la corona. Questo processo di ristabilimento del potere dei sovrani assoluti in Europa, ossia
dell'Ancien Régime, sul piano strettamente storico-politico dà inizio al periodo della
Restaurazione18.
Come si può intuire, il ritorno delle monarchie assolute in nazioni che, durante l'occupazione
napoleonica, avevano avuto una Costituzione e sperimentato leggi che garantivano l'uguaglianza tra
i cittadini, una burocrazia statale più rapida ed efficace, una serie di facilitazioni favorevoli agli
scambi commerciali e alle iniziative economiche, fu un grande punto debole, che avrebbe minato
ben presto in Europa l'ordine appena ristabilito.
L' affermazione del principio di equilibrio europeo e la creazione, fortemente voluta dall’Austria,
della Santa Alleanza, (un patto di reciproco aiuto tra le potenze in caso di insurrezioni popolari)
segnarono il trionfo della politica di Metternich (1773-1859), abilissimo diplomatico e politico
austriaco, uno dei principali negoziatori durante il Congresso di Vienna.
Al termine delle estenuanti trattative, il nuovo assetto politico territoriale italiano presentava: il
Regno di Sardegna, sotto i Savoia; il Regno Lombardo-Veneto, sottoposto alla corona imperiale
d'Austria e costituito dalla Lombardia e dal territorio dell'antica Repubblica di Venezia; il Ducato di
Parma, dato in vitalizio a Maria Luisa, moglie di Napoleone e figlia dell'imperatore d'Austria; il
Granducato di Toscana tornò agli Asburgo-Lorena; lo Stato della Chiesa, restituito al Papa; e il
Regno delle due Sicilie, nato dall'unificazione del Regno di Napoli e di Sicilia, affidato ai
Borboni19.
18Per un inquadramento complessivo si veda L'età della Restaurazione. Reazione e rivoluzione in Europa, 1814-1830, di P. CASANA TESTORE, N. NADA, edizione Loescher, Torino 1980; Le rivoluzioni borghesi (1789-1848 ), di E. J. HOBSBAWN, edizione Laterza , Roma-Bari , 1991. 19Per la situazione italiana si veda G. CANDELORO, Storia dell'Italia moderna, Feltrinelli, Milano 1956, in particolare i volumi II, III, IV; C. DUGGAN La forza del destino. Storia d'Italia dal 1796 a oggi, Laterza, 2008.
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Situata a sud di Ancona, la città di Recanati, dominio dello Stato pontificio, era agli inizi del XIX
secolo un esempio abbastanza tipico delle molte cittadine di provincia degli Stati Pontifici: le torri e
le mura medievali testimoniavano la sua importanza come roccaforte militare in quell'epoca, mentre
le ampie strade e l'imponenza delle case parlavano di un discreto successo commerciale nel XVI -
XVII secolo.
Tuttavia agli inizi del XIX secolo, durante gli anni in cui il giovane Giacomo Leopardi cresceva, la
ricchezza e la prosperità erano quasi completamente svanite, e Recanati si presentava, agli occhi del
viaggiatore che vi si recava, come un posto economicamente e culturalmente isolato e marginale.
In tale ambiente, Giacomo, maggiore di dieci fratelli (cinque morti in tenera età, Carlo e Paolina, da
lui intensamente amati, Luigi e Pier Francesco), secondo le antiche consuetudini nobiliari, ricevette
la sua prima educazione da precettori ecclesiastici (specialmente dall'abate Don Sebastiano
Sanchini, che confessò ben presto di non essere in grado di seguire il precoce fanciullo). Come è
noto, dai 10 ai 17 anni, Leopardi, risoluto a studiare da solo, si chiuse nella biblioteca paterna, dove
trascorse i «sette anni di studio matto e disperatissimo»20, che debilitarono la sua gracile
costituzione e ne minarono la salute per il resto della sua vita.
Al di là dei primi versi giovanili, il 1818 è l'anno in cui si apre la carriera poetica ufficiale di
Leopardi: tra settembre e ottobre del 1818 e il 1821 scrive 5 canzoni di spiccato intento civile e
politico: All'Italia, Sopra il monumento di Dante che si preparava in Firenze, Ad Angelo Mai
quand'ebbe trovato i libri di Cicerone della Repubblica, Nelle nozze della sorella Paolina, e A un
vincitore nel palllone (le cosiddette canzoni civili).
Scrivendo le sue prime canzoni, Leopardi, tutt'altro che felice nella periferica Recanati, trovò una
via di sfogo al suo disagio emotivo esistenziale in una visione idealizzata della nazione italiana.
Diversi elementi contribuiscono a questo slancio civile e patriottico, che infiamma il cuore del
giovane. In primo luogo il forte legame che si instaurò con il letterato piacentino Pietro Giordani
(1774-1848), esponente di spicco nella cultura centro-settentrionale.
Per capire l'influsso di Giordani su Leopardi, basti leggere con attenzione la lettera che il padre
Monaldo scrisse a Pietro Brighenti, datata 3 aprile 1820, nella quale parla dei sui figli, sfogando
tutta l'amarezza del suo cuore:
20Si veda la lettera all'amico Pietro Giordani datata 2 marzo 1818:«[...] Io per lunghissimo tempo ho creduto fermamente di dover morire alla più lunga fra due o tre anni. Ma di qua ad otto mesi addietro, cioè presso a poco da quel giorno ch’io misi piede nel mio ventesimo anno … ho potuto accorgermi e persuadermi, non lusingandomi, o caro, né ingannandomi, che il lusingarmi e l’ingannarmi pur troppo m’è impossibile, che in me veramente non è cagione necessaria di morir presto, e purché m’abbia infinita cura, potrò vivere, bensì strascinando la vita coi denti, e servendomi di me stesso appena per la metà di quello che facciano gli altri uomini, e sempre in pericolo che ogni piccolo accidente e ogni minimo sproposito mi pregiudichi o mi uccida: perché in somma io mi sono rovinato con sette anni di studio matto e disperatissimo in quel tempo che mi s’andava formando e mi si doveva assodare la complessione. E mi sono rovinato infelicemente e senza rimedio per tutta la vita, e rendutomi l’aspetto miserabile, e dispregevolissima tutta quella gran parte dell’uomo, che è la sola a cui guardino i più [...]» . Il testo di riferimento per le lettere di Leopardi è Epistolario, a cura di F. BRIOSCHI e P. LANDI, Bollati Boringhieri, Torino 1998 (da qui in poi Epist. salvo eccezioni)
9
Con l'occasione di una sua stampa, Giacomo aprì corrispondenza letteraria col sig.
Giordani, e restò innamorato della sua bella e cordiale maniera. Io secondai questa
amicizia, ed invitai il sig. Giordani a trattenersi con noi [..]. Egli mi favorì per alcuni
giorni, ma la venuta sua fu l'epoca in cui li figli miei cangiorono pensieri e condotta,
ed io forse li perdetti allora per sempre. Fino a quel giorno mai, letteralmente mai,
erano stati un'ora fuori dell'occhio mio e della madre. Li lasciai con Giordani
liberamente, stimando di lasciarli in braccio all'amicizia e all'onore. Non so, o per lo
meno mi giova ignorare, una gran parte, e forse la più interessante, di quanto formò
l'oggetto di quei lunghi colloqui. Certo si esagerò sulla infelicità di vivere in un
piccolo paese; si riscaldò la fantasia dei giovani come destinati dalla natura ad alte
imprese ed a teatro vastissimo [...]21
In secondo luogo, fu il cupo quadro storico della Restaurazione, il contesto politico a convincere
Leopardi a una mobilitazione pragmatica, come conferma la cultura italiana del tempo, tutta
polarizzata in senso nazionalistico e risorgimentale. In particolare nel mondo dell'aristocrazia, come
ha evidenziato di recente A. M. Banti22, il desiderio di redimere e scuotere la patria era ben
manifestato nel linguaggio del recupero dell'onore virile.
Di fronte a un evidente degrado morale, a un’Italia non ancora unita e sempre gravata da tanti mali
atavici, di fronte a una gioventù fiacca, imbelle, senza ideale di patria né fierezza, Leopardi esprime
il più vivo disappunto. Al contempo, vuole però dar credito ai giovani italiani («l'itala
gioventude23»). Punta quindi sulla reazione, sull’orgoglio e s’impegna in uno sforzo di formazione
civile, con la speranza di far nascere una nuova sensibilità.
Il movente patriottico e pedagogico è espresso efficacemente in un passo dello Zibaldone, datato 27
luglio 1821:
«Così a scuotere la mia povera patria, e secolo, io mi troverò avere impiegato le armi dell’affetto e
dell’entusiasmo e dell’eloquenza e dell’immaginazione nella lirica, e in quelle prose letterarie ch’io potrò
scrivere; le armi della ragione, della logica, della filosofia ne’ Trattati filosofici ch’io dispongo; e le armi del
ridicolo ne’ dialoghi e novelle Lucianee ch’io vo preparando24.»
Sulle ali di questo sogno («scuotere la mia povera patria»), il poeta marchigiano già nella canzone
All'Italia sottolinea la decadenza dei comportamenti moderni in opposizione all'esaltazione della
gloria degli antichi, la triste condizione di abbattimento morale dell'Italia e dei suoi abitanti:
21Ho tratto il testo della lettera da Vita di Giacomo Leopardi, M. SCHERILLO, Greco & greco Editori, 1991, pag 119.22BANTI A.M., La nazione del Risorgimento. Parentela, santità ed onore alle origini dell'Italia unita, Torino, Einaudi, 2000, pp 139-148.23 Canti, Canzone All'Italia, verso 52.24Zibaldone 1394.
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[…] Dov’è la forza antica?
dove l’armi e il valore e la costanza?
Chi ti discinse il brando?
chi ti tradí? Qual arte o qual fatica
o qual tanta possanza
valse a spogliarti il manto e l’auree bende?
Come cadesti o quando
da tanta altezza in cosí basso loco?
Nessun pugna per te? non ti difende
nessun de’ tuoi? L’armi, qua l’armi: io solo
combatterò, procomberò sol io.
Dammi, o ciel, che sia foco
agl’italici petti il sangue mio25.
Leopardi crede con tenacia in un risveglio, in uno scatto d’orgoglio e prova perciò a stimolare i
giovani italiani con le armi che meglio destreggia, soprattutto quindi con le armi della sua poesia
ricca di pathos esortativo.
Anche nel primo pronunciamento pubblico di Leopardi in fatto di poetica (coevo alla stesura delle
prime canzoni civili), ossia il Discorso di un italiano intorno alla poesia romantica nel quale il
tema principale è il rifiuto del Romanticismo, si ritrova una esortazione accorata agli italiani. Dopo
aver polemizzato con il Romanticismo, colpevole di aver reciso il legame tra poesia e natura, alla
fine dell'opera emerge il richiamo all'italianità, del resto evidente fin dal titolo:
Ma oramai sono sazio di scrivere, e voi sarete sazi di leggere, se però la pazienza
v’avrà sostenuti fin adesso, o Lettori miei. Perciò bastino le cose che si son dette. Ma
già sul finire, essendomi sforzato sin qui di costringere i moti dell’animo mio, non
posso più reprimerli, nè tenermi ch’io non mi rivolga a voi, Giovani italiani, e vi
preghi per la vita e le speranze vostre che vi moviate a compassione di questa nostra
patria, la quale caduta in tanta calamità quanta appena si legge di verun’altra nazione
del mondo, non può sperare nè, vuole invocare aiuto nessuno altro che il vostro. Io
muoio di vergogna e dolore e indignazione pensando ch’ella sventuratissima non
ottiene dai presenti una goccia di sudore, quando assai meno bisognosa ebbe torrenti
di sangue dagli antichi prontissimi e lieti; nè c’è una penna tra noi che s’adopri per
quella che gli avi nostri difesero e accrebbero con milioni e milioni di spade.
Soccorrete, o Giovani italiani, alla patria vostra, date mano a questa afflitta e giacente,
25 Canti, All'Italia, Versi 28-4011
che ha sciagure molto più che non bisogna per muovere a pietà, non che i figli, i
nemici [...]
Aggiungendo con fermezza:
Questa patria, o Giovani italiani, [...] giudicate se sia degna di quella barbarie la quale
io seguitando fin qui colla scrittura, non ho saputo nè potuto appena adombrare. Io
non vi parlo da maestro ma da compagno, (perdonate all’amore che m’infiamma
verso la patria vostra, se ragionando per lei m’arrischio di far parola di me stesso)
non v’esorto da capitano, ma v’invito da soldato. Sono coetaneo vostro e
condiscepolo vostro, ed esco dalle stesse scuole con voi, cresciuto fra gli studi e gli
esercizi vostri, e partecipe de’ vostri desideri e delle speranze e de’ timori. Prometto a
voi prometto al cielo prometto al mondo, che non mancherò finch’io viva alla patria
mia, nè ricuserò fatica nè tedio nè stento nè travaglio per lei, sì ch’ella quanto sarà in
me non ritenga salvo e fiorente quel secondo regno che le hanno acquistato i nostri
maggiori.26
«La passione nazionale e la volontà di riportare il discorso estetico in un quadro più vasto di ripresa
culturale e civile italiana e di far valere la poesia come forza di rigenerazione patriottica si
esplicitano nel finale enfatico, ma tutt’altro che convenzionale, del Discorso, rivolto
significativamente ai “giovani” italiani»27
Il movente patriottico e il forte impegno civile sono assai evidenti anche nelle altre canzoni citate.
La canzone dedicata al monumento di Dante (composta nell'ottobre del 1818, un mese dopo la
canzone gemella All'Italia, in occasione della pubblicazione di un manifesto con il quale si rendeva
pubblica la decisione di erigere a Firenze un monumento in onore di Dante) si apre infatti con
un'ulteriore esortazione alla patria e ai connazionali perché si risveglino e prendano coraggio:
Perché le nostre genti
Pace sotto le bianche ali raccolga,
non fien da’ lacci sciolte
dell’antico sopor l’itale menti
s’ai patrii esempi della prisca etade
questa terra fatal non si rivolga.
O Italia, a cor ti stia
far ai passati onor; ché d’altrettali
26Il testo è tratto da Giacomo Leopardi, Poesie e prose, vol. secondo, a cura di R. DAMIANI, Arnoldo Mondadori editore, collana I Meridiani, Milano 1988.27W. BINNI, La protesta di Leopardi , Sansoni, Firenze, 1973, p. 35.
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oggi vedove son le tue contrade,
né v’è chi d’onorar ti si convegna28.
Sulla stessa linea si pone anche la terza canzone, quella dedicata ad Angelo Mai. Composta nel
gennaio del 1820, fu scritta di getto sull'onda dell'emozione per le scoperte ciceroniane del Mai,
allora prefetto della Biblioteca Vaticana. Si leggano infatti i seguenti versi:
Italo ardito, a che giammai non posi
di svegliar dalle tombe
i nostri padri? ed a parlar gli meni
a questo secol morto, al quale incombe
tanta nebbia di tedio? [...]
Disdegnando e fremendo, immacolata
trasse la vita intera,
e morte lo scampò dal veder peggio.
Vittorio mio, questa per te non era
etá né suolo. Altri anni ed altro seggio
conviene agli alti ingegni. Or di riposo
paghi viviamo, e scorti
da mediocritá: sceso il sapiente
e salita è la turba a un sol confine,
che il mondo agguaglia. O scopritor famoso,
segui; risveglia i morti,
poi che dormono i vivi; arma le spente
lingue de’ prischi eroi; tanto che infine
questo secol di fango o vita agogni
e sorga ad atti illustri, o si vergogni.29
Anche la struttura sembrerebbe dar vita a una impalcatura letteraria molto vicina, non a caso, a
quella dei Sepolcri foscoliani: infatti identico è l'espediente di partire da uno spunto di cronaca30
come mera occasione per una rivisitazione delle glorie letterarie, del loro impatto con la realtà
italiana. La fin troppo eloquente condanna senza appello pronunciata qui da Leopardi verso i suoi
tempi, non sfuggì alla censura, che ne proibirà infatti la diffusione in tutto il Lombardo-Veneto in
mano agli Austriaci.28Canti, Sopra il monumento di Dante, versi 1-1029Canti, Ad Angelo Mai, versi 1-5, e 165-18030L'idea per la composizione del carme venne infatti al Foscolo dall'estensione all'Italia, avvenuta il 5 settembre del 1806, dell'editto napoleonico di Saint-Cloud (1804), che aveva imposto di seppellire i morti al di fuori delle mura cittadine e aveva inoltre regolamentato, per ragioni democratiche, che le lapidi dovessero essere tutte della stessa grandezza e le iscrizioni controllate da una commissione apposita.
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Anche le altre due canzoni, Nelle nozze della sorella Paolina e A un vincitore nel pallone
presentano un vivo impegno civile ed eroico. La canzone per il matrimonio della sorella Paolina
(che poi non si sposò), composta fra ottobre e novembre del 1821, presenta come tema centrale il
confronto tra la vile e corrotta Italia moderna e l’eroica antichità, in particolare in tema di
educazione dei figli. Desolante a questo proposito è il paragone fra i gloriosi modelli antichi (quello
dei giovani spartani e soprattutto quello di Virginia, che prega il padre: «E se pur vita e lena /
Roma avrà dal mio sangue, e tu mi svena», vv. 89-90) e il triste presente, nel quale la scelta che una
madre può compiere riguardo al futuro dei figli è in ogni caso amara:
[...]l'obbrobriosa etate
Che il duro cielo a noi prescrisse impara,
Sorella mia, che in gravi
E luttuosi tempi
L'infelice famiglia all'infelice
Italia accrescerai.Di forti esempi
Al tuo sangue provvedi. Aure soavi
L'empio fato interdice
All'umana virtude,
Nè pura in gracil petto alma si chiude.
O miseri o codardi
Figliuoli avrai. Miseri eleggi. Immenso
Tra fortuna e valor dissidio pose
Il corrotto costume31.
Le tre strofe centrali sono indirizzare alle donne in generale, considerate come coloro che devono
far crescere nei figli il coraggio e l'amore per la virtù, sull'esempio di quanto facevano le donne
spartane. Significativo ricordare, soprattutto perché scritte in piena Restaurazione, che le ultime
due strofe sono dedicate alla rievocazione della romana Virginia: la famosa eroina di una leggenda
romana collegata con l'abolizione del decemvirato legislativo del sec. V a. C. e con la restaurazione
della libertà plebea. Preferendo la morte piuttosto che cedere ai voleri del decemviro Appio
Claudio, ella ispirò i Romani a ribellarsi al crudele tiranno.
É importante ricordare che da queste disegnate nozze Leopardi prese lo spunto per svolgere le idee
accennate in un breve abbozzo intitolato Dell'educare la gioventù italiana32. Leopardi si limita in 31 Canti, Nelle nozze della sorella Paolina, versi 6-19.32Ecco il testo dell'abbozzo: «Sul gusto dell'ode 2. l. 3 d'Oraz. A voi sta, padri madri di far forti i vostri figli e dar loro grandi pensieri e inclinazioni, a voi d'ispirar loro l'amor della patria. Povera patria ec. e si può usare il pensiero di Foscolo che ho segnato ne' miei, verrà forse tempo che l'armento insulterà alle ruine de' nostri antichi sommi edifizi ec. Pensate che se non farete quello che sarà in voi ec. forse i vostri figli sopravviveranno alla patria loro. Questo tempo è gravido di avvenimenti: ricordanze de' fatti passati: grandi pensieri: calor d'animo ec. non lo sprecate: la generazione
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questo abbozzo a stilare una serie di punti da sviluppare. Fra i più significativi, figurano i seguenti:
incitare padri e madri a crescere figli forti, educandoli ad alti ideali oltreché all’amor di patria;
necessità di ricordare i fatti passati, di svincolarsi dai pregiudizi, di far risorgere l’amor della patria;
i genitori ricordino che fortes creantur fortibus et bonis; valore esemplificativo dei padri e delle
madri del mondo antico; richiamo alle donne di Sparta; esempio di Pantea e di Virginia.
La canzone A un vincitore nel pallone, composta a fine novembre del 1821, è invece dedicata
all’atleta (poi patriota33) Carlo Didimi, coetaneo di Leopardi nato a Treia (cittadina vicina a
Recanati). Essa sviluppa un abbozzo dallo stesso titolo (il pallone non corrisponde all’odierno
calcio, ma alla palla a muro, che già era stata cantata nel Seicento dal poeta Gabriello Chiabrera), e
soprattutto si connette a numerose riflessioni dello Zibaldone relative all’importanza del vigore
fisico, del coraggio, della vita attiva e del gioco: valori e costumi che nell’antichità erano
considerati propedeutici all’eroismo (i versi 14-26 sono infatti dedicati alla battaglia di Maratona, in
cui gli Ateniesi, già vincitori delle Olimpiadi, sconfissero i Persiani).
L'invito all'azione e al risveglio degli italiani deve essere immediato, altrimenti si prefigura un
futuro desolato in cui la civiltà italiana sarà presto un ricordo, con toni che sembrano anticipare
quelli ancora più scabri di alcuni versi della futura Ginestra:
[...]Tempo forse verrà ch’alle ruine
delle italiche moli
insultino gli armenti, e che l’aratro
sentano i sette colli; e pochi Soli
forse fien volti, e le città latine
abiterà la cauta volpe, e l’atro
bosco mormorerà fra le alte mura;
se la funesta delle patrie cose
obblivion delle perverse menti
che sorge ne profitti per cura vostra. Quando ci libereremo dalla superstizione dai pregiudizi ec. quando trionferà la verità il dritto la ragione la virtù se non adesso? Quando risorgerà l'amor della patria? quando? sarà morto per sempre? non ci sarà più speranza? Io parlo a voi: ricordatevi che fortes creantur fortibus et bonis. Ora ora è 'l tempo da ritrarre il collo dal giogo antico e da squarciare il velo ec. O in questa generazione che nasce, o mai. Abbiatela per sacra, destatela a grandi cose, mostratele il suo destino, animatela. Così faceano gli antichi padri: così le madri spartane, usciano incontro ai loro figli morti per la patria ec. E voi donne giovani voi spronate i vostri amanti ad alte imprese. Sublimità di pensieri e coraggio inaudito e desiderio di morte che può ispirar l'amore. Onnipotenza di chi combatte o fa altra bella cosa in presenza della sua amante, o col pensiero di lei. Siate grandi o giovani mie: imitate le antiche. Si può finire coll'esempio di Pantea esortante il marito a combattere l'oppressore dell'Asia ec. o colla costanza di Virginia, o con altro esempio di donna verso l'amante che forse si potrà trovare in Plutarco delle donne illustre. Si potrà anche fare un'apostrofe ai giovani stessi come nel mio discorso sui romantici. Raccontato il fatto di Pantea si può conchiudere sul gusto di Fortunati ambo, Si quaeret Pater urbium ec.». Il testo dell'abbozzo è tratto da Giacomo Leopardi, Poesie e prose con un autografo, a cura di S. A. Nulli, Hoepli, Milano, 1997, pag. 219.
33Dopo il fallimento dei moti rivoluzionari del 1831, Didimi essendo attivista mazziniano fu denunciato ma poi, quando diventò papa Pio IX, fu politicamente riabilitato svolgendo attività di amministratore comunale dal 1847 al 1849 a Treia.
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non isgombrano i fati, e la matura
clade non torce dalle abbiette genti
il ciel fatto cortese
del rimembrar delle passate imprese34.
Gli ideali patriottici sono ribaditi anche nella Prefazione alle dieci canzoni stampate a Bologna nel
1824:
Con queste Canzoni l’autore s’adopera dal canto suo di ravvivare negl’Italiani quel tale amore verso la patria
dal quale hanno principi o, non la disubbidienza, ma la probità e la nobiltà così de’ pensieri come delle
opere. Al medesimo effetto riguardano, qual più qual meno dirittamente, le istituzioni dei nostri governi, i
quali procurano la felicità de’ loro soggetti, non dandosi felicità senza virtù, nè virtù vera e generale in un
popolo disamorato di se stesso. E però dovunque i soggetti non si curano della patria loro, quivi non
corrispondono all’intento de’ loro Principi. Di queste Canzoni le prime due uscirono l’anno 1818,
premessavi allora quella dedicatoria ch’hanno dinanzi. La terza l’anno 1820 colla lettera ch’anche qui se le
prepone. E dopo la prima stampa tutte tre sono state ritoccate dall’autore in molti luoghi. L’altre sono
nuove35.
Insomma, durante gli anni venti del XIX secolo, Leopardi ha già composto un considerevole
numero di poesie di intento civile. Se l'itinerario della sua alta poesia, a partire da quelli stessi anni,
va ad imboccare definitivamente36 «una nuova e ben diversa strada, cioè quella della lirica, della
personale malinconia e della sofferenza universale»37, ciò dipende da non pochi motivi.
Per prima cosa il cosiddetto pessimismo storico leopardiano inizia a venire meno e a trasformarsi in
un profondo pessimismo cosmico. Se infatti, in una prima fase del suo pensiero (pessimismo
storico), Leopardi considerava l'infelicità dei moderni una conseguenza di una condizione storica,
progressivamente va convincendosi che non sono le condizioni storiche la causa dell'infelicità
umana, ma le stesse condizioni esistenziali dell'uomo. Nella prima fase del suo pensiero, a cui
appartengono le canzoni civili, Leopardi ritiene ancora possibile per i moderni recuperare le grandi
illusioni degli antichi. L'amore per la patria, la passione patriottica, l'azione, l'eroismo fanno parte
di quelle illusioni benefiche, che attutiscono ai suoi occhi l'infelicità umana. Per il poeta di
Recanati questo «sistema della natura e delle illusioni»38 protegge quindi l'uomo dal rendersi conto
della sua infelicità. L'approdo alla seconda fase del pensiero leopardiano (pessimismo cosmico)
34Canti, La ginestra, versi 40-52.35Ho tratto la citazione da A. PLACANICA, G. Leopardi, Discorso sopra lo stato dei costumi degl’italiani,, op.cit. pag. 2936La poesia sentimentale degli idilli aveva già fatto la sua comparsa in questi anni. Tra il 1819 e il 1822 compone L'infinito, La sera del dì di festa e Alla luna.37A. PLACANICA, G. Leopardi, Discorso sopra lo stato dei costumi degl’italiani,, op. cit. pag. 30.38W.BINNI, La protesta di Leopardi, op.cit. , pag. 23.
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determina, come è noto, una concezione della vita come male e una nuova concezione della natura,
vista come colpevole e inadeguata. Il sistema della natura e delle illusioni entra quindi
gradualmente in crisi.
Un altro motivo importante da tenere in considerazione è l'insieme degli eventi storici che si
verificarono in quegli anni: il fallimento dei moti rivoluzionari in Italia negli anni 1820-21. La
concessione di una Costituzione in Spagna da parte del sovrano a causa della rivolta scoppiata a
Cadice (dove erano stati concentrati circa 20.000 soldati destinati a imbarcarsi per l'America latina)
il giorno di Capodanno del 1820, contribuì ad esaltare gli ambienti carbonari e massonici e ad
accendere i moti rivoluzionari anche nella penisola italiana.
L'esempio della Spagna fu seguito qualche mese dopo nel Regno delle Due Sicilie: la rivolta
scoppiò a Nola (Napoli) il 1 luglio e dilagò in Campania, in Basilicata e in Puglia. I carbonari che
la guidavano chiesero la stessa Costituzione concessa ai comuneros (affine alla carboneria) e la
ottennero dal re Ferdinando I sette giorni dopo lo scoppio dell'insurrezione. A Palermo, invece le
corporazioni degli artigiani, incoraggiate da alcuni proprietari terrieri, diedero vita a un movimento
separatista, che chiedeva ai Borboni la separazione dell'isola dal Regno delle Due Sicilie e
ovviamente un governo autonomo. Nel Lombardo Veneto patrioti, intellettuali e militari entrarono
in fermento preparando un'insurrezione contro l'Austria. In Piemonte i moti scoppiarono
contemporaneamente in diverse città nel marzo del 1821, appoggiati in un primo momento dal
principe ereditario Carlo Alberto. Il re Vittorio Emanuele I, non riuscendo a fronteggiare la
situazione, abdicò in favore del fratello Carlo Felice, in quel momento assente da Torino, e nominò
reggente il proprio figlio Carlo Alberto. Questi concesse la Costituzione con la clausola che lo zio la
approvasse. Il nuovo re, invece, non solo non la firmò, ma al suo ritorno ordinò una durissima
repressione dei moti e ne impose il comando allo stesso Carlo Alberto.
L'arrivo dei soldati della Santa Alleanza (per il mantenimento dell'ordine, l'alleanza si basava sul
principio di intervento: nel caso uno Stato avesse avuto dei problemi causati da disordini
rivoluzionari che non fosse in grado di sedare e che potessero contagiare gli altri Stati, questi si
ritenevano in obbligo d'intervenire per sedare le rivolte), firmata da Austria, Prussia e Russia,
determinò il definitivo fallimento di tutti i moti in Europa. Nel marzo del 1821, un'armata di circa
50.000 uomini occupò Napoli, mentre circa altri 15000 si unirono alle truppe di Carlo Felice in
Piemonte. Poco prima l'esercito borbonico aveva posto fine al movimento separatista di Palermo.
Nel Regno Lombardo Veneto, prima ancora che i moti scoppiassero, l'armata austriaca pose la
regione in stato d'assedio, imponendo il coprifuoco la sera. In Spagna, Portogallo e in altre città
europee, le rivolte furono ugualmente represse. La repressione fu spietata ovunque. Le
Costituzioni furono abolite, la censura fu rafforzata, la polizia segreta dei governi assolutisti arrestò
carbonari, comuneros ed altri congiurati. Le condanne andarono dalle pena di morte all'esilio, al
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carcere duro, come accadde ai patrioti italiani Silvio Pellico (1789-1854) e Piero Maroncelli (1795-
1846), rinchiusi nella fortezza austriaca dello Spielberg. Il completo fallimento di tutte le
aspirazioni liberali e democratiche sembrarono quindi soffocate definitivamente, e il giovane
Leopardi ne risentì profondamente, acuendo il suo pessimismo.
Infine un altro motivo determinante portò poi Leopardi ad allontanarsi da una poesia di forte
impegno civile: i viaggi a Roma e in altre città italiane del Nord. Nel 1822 infatti il giovane conte
riuscì finalmente a lasciare Recanati. Se ne andò a Roma, e in seguito a Milano, Bologna e Firenze.
Tuttavia i viaggi non migliorarono granché l'opinione che aveva dei suoi connazionali, il cui
profondo individualismo, cinismo, e spirito di rassegnazione lo sgomentavano. E l'allarmò
constatare quanto poco fosse diffuso il sentimento nazionale, in anni in cui in altri paesi,
innanzitutto l'Inghilterra e la Francia, ma anche la Germania, sembravano nascere sentimenti
patriottici che ispiravano soldati, uomini politici, scrittori e artisti a superare se stessi.
Tutte queste riflessioni sono racchiuse nel Discorso sopra lo stato presente dei costumi
degl'italiani: esso, in stretta connessione con lo Zibaldone e le Operette, rappresenta l'ultimo
tentativo di Leopardi nelle vesti sia di educatore degli italiani sia di scrittore dal forte intento civile
che abbiamo visto costituisce l'esordio poetico del poeta.
L’impegno però non si limita a più esortazioni accorate, ma si attua sul piano speculativo, di cui il
Discorso rappresenta la più alta espressione. In un vero e proprio capolavoro di analisi sociale e
antropologica, Leopardi analizza con attenzione vizi e usanze del popolo italiano, ne svolge una
ricognizione lucida e formula una diagnosi, la cui sostanza pedagogica è duplice. Da un lato risiede
nel valore di denuncia, di monito per ogni cittadino e, in particolare, per le classi agiate; dall’altro
va vista nel suo aspetto funzionale, diagnostico e, per così dire, preparatorio, nel senso di fornire
informazioni su cui basare un eventuale, futuro rimedio educativo.
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Premessa ai capitoli II e III:
Per quanto riguarda il secondo capitolo (Il Discorso sopra lo stato presente dei costumi
degl'italiani) nel primo paragrafo le quaestiones saranno sia la relativa datazione del saggio sia i
motivi che hanno spinto Leopardi a comporlo, e poi a decidere di interromperlo. Avverto il lettore
come questo primo paragrafo sarà la parte meno originale del mio lavoro di tesi, poiché la critica
che si è occupata del Discorso, a mio avviso, ha già esaustivamente risolto molti problemi relativi
alla datazione e ai motivi della composizione. Tuttavia mi è sembrato giusto raccogliere brevemente
le ipotesi dei vari studiosi e fare così una sintesi, utile a ogni lettore che si avvicinerà per la prima
volta alla lettura del testo. Nel secondo paragrafo sarà evidenziata la natura dell'opera leopardiana,
che molto probabilmente autorizza a pensare ad una destinazione giornalistica per un pubblico
colto, e sarà fatta una sintesi dell'opera.
Il terzo capitolo (Tematiche), dedicato a diversi nuclei concettuali sul Discorso, è suddiviso
anch'esso in più paragrafi. Nel primo paragrafo sarà analizzato l'importantissimo concetto di società
stretta, mentre nei paragrafi successivi si analizzerà la forte impalcatura filosofica del Discorso; i
rapporti e gli influssi tra Leopardi e i letterati citati (francesi e italiani) all'interno dell'opera; e infine
il concetto di evoluzione storica umana leopardiana: tali tematiche (ad eccezione della prima
riguardante la società stretta, sui cui tuttavia fornirò nuovi spunti) non sono stati ancora discusse
dalla critica, se non parzialmente, e ho tentato quindi di sopperire a queste lacune.
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Capitolo II
Il Discorso sopra lo stato presente dei costumi degl'italiani
II.1. Genesi e destinazione del Discorso
Il Discorso sopra lo stato presente dei costumi degl'Italiani, contenuto in un unico manoscritto
autografo39, rimase inedito fino al 1906, quando comparve all'interno del volume Scritti vari inediti
di Giacomo Leopardi dalle Carte Napoletane40. Il volume fu pubblicato per conto di una
Commissione (presieduta da Giosuè Carducci e formata da altri illustri letterati) istituita per studiare
gli autografi leopardiani appartenenti all'eredità di Antonio Ranieri.
Non essendo il manoscritto datato da Leopardi, fin dalla sua scoperta sono state fatte ipotesi di
datazione. Una delle più autorevoli ipotesi è quella formulata da Gino Scarpa, apparsa nell'edizione
da lui curata del 193541. Nell’edizione da lui curata, Scarpa colloca la data di composizione del
Discorso tra il 6 marzo e il 1 aprile 1824, esattamente tra la fine del Dialogo di un Folletto e di uno
Gnomo, e l'inizio della stesura del Dialogo della Natura e di un'anima42.
Il saggio, aggiunge Scarpa, avrebbe dovuto essere pubblicato sull’Antologia di Firenze, il cui
fondatore, Giovan Pietro Vieusseux43, aveva spedito in omaggio a Leopardi l’ultimo numero
dell’annata 1823, con un invito alla collaborazione. La lettura della rivista aveva entusiasmato
Leopardi, come si evince da una lettera del 5 gennaio, in cui scrive:
39Il manoscritto cartaceo, unico testimone, è conservato presso la Biblioteca Nazionale Vittorio Emanuele III di Napoli, segnato Carte Leopardi X. 10-11. Esso comprende ben 48 carte, scritte con una corsiva. La successione delle note, che corredano il testo principale, non segue una normale progressione numerica, ma risulta sfasata. Dall'analisi delle note, e dalla presenza di cancellature, riscritture e correzioni, si può senz'altro ipotizzare che il manoscritto non rappresenti la bella copia in pulito, ma uno stato provvisorio di lavoro dell'opera.40Scritti vari inediti di Giacomo Leopardi dalle Carte Napoletane, curato da G. MESTICA, Le Monnier, Firenze, 1905, pp. 332-376.41Giacomo Leopardi, Opere, Saggi Giovanili ed altri scritti non compresi nelle opere, Carte Napoletane con giunte inedite o poco note, a cura di R. BACCHELLI e G. SCARPA, op. cit.42«Gli editori degli Scr. Vari videro giusto quando attribuirono il Discorso al 1824 (il ms. non porta data). […] Quanto al momento in cui fu composto, si osservi anzitutto che le considerazioni sulla solitudine […] saranno ripetute quasi testualmente dal Genio familiare del Tasso. Il Discorso era dunque già scritto quando l'autore, fra l'1 e il 10 giugno 1824, compose il Dialogo. A sua volta il Discorso riprende e continua le riflessioni intorno all'influenza del clima sul carattere e i costumi delle nazioni, contenute in un pensiero dello Zibaldone che porta la data del 15 febbraio 1824 [,,,]L''epoca della composizione resta così limitata tra il Febbraio e il Maggio 1824. Ma vi è ancora un indizio che può approssimarci al segno: nella penultima delle aggiunte, si menzionano le scoperte sulla superficie della luna annunciate dal prof. Gruithuisen di Monaco. E la notizia di quelle scoperte di strade, e di un edificio a forma di fortezza, il Leopardi la lesse nella Gazzetta di Milano del 29 marzo 1824, e si affrettò a trascriverla in una scheda […] servendosene poi nel Dialogo della Terra e della Luna, composto in aprile. A questo punto non ci resta che di trovare un intervallo nella composizione delle Operette, ove si possa ragionevolmente inserire la stesura del Discorso; e questo si riscontra, assai conveniente ai nostro indizi, nei ventidue giorni che corrono tra il 6 marzo, fine del Dialogo di un Folletto e di uno Gnomo, e il primo aprile, nel qual giorno fu cominciato il Dialogo della Natura e di un'anima [...]» in Notizie bibliografiche dell' op. cit. di G. SCARPA, pp. 1294-1295.43Sul rapporto interessante tra Leopardi e Vieusseux tornerò più avanti.
20
Io so bene che l’Italia ha grandissime necessità d’esser sovvenuta e beneficata,
com’Ella ha impreso a fare: non so già dire se ne sia degna: ma, posto ancora che
niuna virtù presente lo meritasse, potrebbe pur meritarlo la memoria delle sue virtù
antiche: e oggi la sua indegnità, la quale e senza sua colpa, dee muovere gli animi
buoni a compatirla e a soccorrerla per pietà, se non per merito. Quando Ella abbia
occasione di adoperarmi in cosa di suo servigio, non mi risparmi, perch'io me le
offerisco di cuore per quel ch'io vaglio [...]44.
e da un’altra del 2 febbraio:
[…] un Giornale deve promuovere principalmente il progresso e la propagazione
delle scienze morali. Ora queste scienze e tutte quelle che oggi si comprendono sotto
il nome di filosofia, parte principale del sapere in tutto il resto d’Europa, e
particolarmente propria del nostro secolo, sono appunto, come Ella sa, lo studio
meno coltivato in Italia, anzi vi sarebbero affatto ignote, se non fosse per mezzo de’
libri stranieri e delle traduzioni […] Ella dee perdonarmi la libertà del mio scrivere,
la quale, come uomo che vive fuori d'ogni commercio civile, tiene forse del
selvaggio. Se qualche articolo di genere filosofico le paresse a proposito del Suo
giornale, io potrei occuparmi a scriverne al mio meglio45.
Se ci fu un invio di materiale al Vieusseux, è molto probabile che l’articolo consistette nel Discorso
e questo andrebbe a vantaggio della ipotesi di datazione di Scarpa, anche se poi certamente non fu
mai pubblicato.
Successivamente l'edizione curata da Scarpa, un autorevole letterato che si è occupato del problema
della datazione del Discorso è stato Gennaro Savarese. Nel 1988 Savarese46 espose convincenti
perplessità sulle riflessioni di Scarpa47, in primis l'idea che un testo così complesso fosse stato
scritto in pochissimi giorni (6 marzo-1 aprile 1824); e avanzò l'ipotesi che lo scritto fosse stato
continuato da Leopardi nel 1826-27.
L' ipotesi di Savarese nega quindi che il Discorso sia stato scritto nei giorni formulati precisamente
da Scarpa, nei quali secondo quest'ultimo, Leopardi era libero da altri impegni letterari. Di
44Il carteggio tra Leopardi e Vieusseux è ora raccolto in una recente edizione: Leopardi nel carteggio Vieusseux. Opinioni e giudizi dei contemporanei, a cura di E. BENUCCI, L. MELOSI, D. PULCI, L. S. Olschki, 2001. 45Ivi, pag. 6746Gennaro Savarese, Il Discorso di Leopardi sui costumi degl'italiani: preliminari filologici, 1988, in Id., L'eremita osservatore. Saggio sui Paralipomeni e altri studi su Leopardi, Roma, Bulzoni, 1995, pp.209-232. Si veda anche Gennaro Savarese, Lingua e stile nel Discorso sopra lo stato presente dei costumi degl'italiani, 1992, in Id. L'eremita osservatore. Saggio sui Paralipomeni e altri studi su Leopardi, Roma, Bulzoni, 1995, pp.233-250.47Ibidem., pag.211: «gli argomenti di Scarpa, in alcuni punti accettabili, peccano in realtà, nel loro complesso, di eccessivo zelo geometrico, come di abbandono alle lusinghe di un puzzle ben riuscito, con i loro precisi incastri dell'ispirazione leopardiana nei giorni vuoti di altra attività letteraria».
21
conseguenza è assai probabile che la stesura del saggio leopardiano sia stata composta o
contemporaneamente alla scrittura delle Operette morali, oppure in anni poco dopo il 1824, ossia il
1826-1827. Le argomentazioni espresse da Savarese possono essere sintetizzate in tre punti: la nota
del Discorso in cui Leopardi riporta una notizia, attinta da una gazzetta, riguardante un filosofo
cinico; la forte vicinanza di contenuto tra lo Zibaldone negli anni 1826-27 e il Discorso; lo scambio
di epistole tra Leopardi e Vieusseux.
Queste tre argomentazioni sono state però corrette impeccabilmente da Marco Dondero48, un altro
studioso che si è occupato recentemente di questa difficilis quaestio, il quale ritiene assai più giusto
datare il Discorso tra la primavera e l'estate del 1824. In particolare risulta convincente l'analisi
codicologica del manoscritto eseguita da Dondero, che si basa su elementi passibili di un controllo
oggettivo quali la grafia e gli inchiostri usati da Leopardi (sono presenti ben 7 diversi inchiostri).
«L' ombra di dubbio»49 oggi sulla datazione dell'opera leopardiana sembra quindi scomparsa grazie
alle ricerche condotte da Dondero. Non vi sono mai stati dubbi invece che l'opera, sebbene rimasta
incompiuta, sia stata scritta per una eventuale pubblicazione sull'Antologia, la rivista di Vieusseux .
Giovan Pietro Vieusseux50 (1779 – 1863) è stato uno scrittore ed editore italiano, di origini svizzere.
Proponendosi come obiettivo la diffusione e lo svecchiamento della cultura nazionale, fondò
48«Non altrettanto stringenti sembrano le due principali argomentazioni che Savarese adduce a favore di una datazione agli anni 1826-1827. La prima: nella nota numerata nell'autografo come 18 […], Leopardi scrisse: «Lascio che non ha molti anni si parlò nelle gazzette di un filosofo cinico, di che nazione? Tedesco» Savarese attendibilmente individua la fonte di questa informazione in un articolo della Gazzetta di Milano del 30 gennaio 1823. Egli quindi rintraccia in un passo dello Zibaldone del 16 ottobre 1826 la frase: «Non ha molti anni (1823) che si è udito parlare nelle gazzette, di persone che emettevano scintille [...]» (Zib. 4218), riferita alla Gazzetta di Milano del 7 aprile 1823. Considerando dunque che è lo stesso Leopardi, scrivendo nel 1826, ad annotare la data 1823 per definire l'espressione «non ha molti anni», e che i contesti argomentativi che ospitano le due notizie curiose sono analoghi, lo studioso conclude che il passo del Discorso contenente la frase «non ha molti anni» deve essere stato scritto nello stesso 1826. Io credo che la fiducia nell'equazione «non ha molti anni» = 3 anni prima, sia eccessiva. Valga a eliminare almeno la certezza algebrica un esempio: nello Zibaldone, alla data 8 gennaio 1827, troviamo un altro passo contenente la frase «non ha molti anni»: «del resto non ha molt'anni che le nostre gazzette […] proposero […] ai fisici la questione del perché le stagioni a' nostri tempi sieno mutate d'ordine ecc. e cresciuto il freddo; e ciò da alcuni fu attribuito al taglio de' boschi del Sempione [...]»; in questo caso il riferimento è al 1825. Ma la stessa frase, all'interno di un contesto argomentativo non analogo ma identico, sarà utilizzato da Leopardi nel XXXIX dei Pensieri, addirittura durante gli anni Trenta: «e non ha molti anni, che fu cercata da alcuni fisici la causa di tale supposto raffreddamento delle stagioni, ed allegato da chi il diboscamento delle montagne […]».[…] La seconda argomentazione addotta in favore della datazione agli anni 1826-1827 richiede che si consideri prova di contiguità cronologica l'affinità di contenuto fra alcuni passi del Discorso e pagine dello Zibaldone datate appunto 1826 o 1827. A me pare che questo dimostri proprio il contrario. Infatti, se veramente Leopardi avesse scritto contemporaneamente i passi in questione, o se avesse deciso di riprendere in mano il Discorso stimolato dalla stesura dell'Indice del mio Zibaldone di Pensieri (11 luglio-14 ottobre 1827); se avesse fatto ciò, perché mai si sarebbe limitato, nei tre richiami allo Zibaldone, a rimandare a pagine datate non oltre il 28 settembre 1823 (p. 3546 dell'autografo)?Perché mai non corredare il manoscritto del Discorso di richiami a quelle pagine così simili scritte nel 1826-1827? Appare del tutto più economico, formulare un'altra ipotesi : che i passi di tenore simile al Discorso presenti nello Zibaldone del 1826-1827 siano stati scritti successivamente a esso. […]. La itazione da DONDERO è tratta da Giacomo Leopardi, Discorso sopra lo stato presente dei costumi degl'italiani, edizione diretta e introdotta da Mario Andrea Rigoni, op.cit, pp. 28-31.49B.BIRAL, La posizione storica di Leopardi, Einaudi, Torino, 1974, pag 128: «accettiamo l'ipotesi di Scarpa, non avendone nessun'altra da contrapporre. Ma permane un'ombra di dubbio».50Si veda R. CIAMPINI, Gian Pietro Vieusseux, i suoi viaggi, i suoi giornali, i suoi amici , Torino, Einaudi, 1953, con ampia nota bibliografica alle pp. 461-464.
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insieme a Gino Capponi l'Antologia, periodico d'informazione letteraria e politica, il cui primo
numero uscì a Firenze nel 1821.
Nata con l'intento di sprovincializzare la cultura italiana, inizialmente raccolse articoli di riviste
estere tradotti in italiano, quindi divenne il centro del dibattito culturale italiano. A questo progetto
collaborarono infatti quasi tutti gli intellettuali attivi fra il 1821 e il 1831, tra i quali Gabriele Pepe,
Pietro Colletta, Pietro Giordani, Niccolò Tommaseo, Giuseppe Montanelli, Francesco Domenico
Guerrazzi, Carlo Cattaneo e, appunto, Giacomo Leopardi. Pur accogliendo le istanze più disparate
la rivista vantava un orientamento comune: una preoccupazione pedagogica, che si sviluppava in
chiave antirivoluzionaria, e un'idea di letteratura impegnata per fini utili: le questioni letterarie
ebbero un posto marginale, mentre ci si occupò sistematicamente di economia, statistica, costumi,
storia, diritto e scienze naturali. Osteggiata dagli ambienti reazionari, la rivista venne tollerata dal
Granducato di Toscana fino al 1833. In precedenza ho già citato in parte la lettera del 2 febbraio
1824, nella quale Leopardi si dichiara disponibile a collaborare alla rivista del Vieusseux.
Il saggio sui costumi degli italiani non viene però pubblicato, e infatti il Vieusseux scrive di nuovo a
Leopardi, sollecitandolo ad assumere la veste di hermite des apennins in una lettera datata 1 marzo
1826:
Più volte ho pensato ad avere per corrispondente un hermite des apennins, che dal fondo del suo romitorio
criticherebbe la stessa Antologia, flagellerebbe i nostri pessimi costumi, i nostri metodi di educazione e di
pubblica istruzione, tutto ciò infine che si può flagellare quando si scrive sotto il peso di una doppia censura
civile ed ecclesiastica. Un altro romito dell'Arno potrebbe rispondergli. Voi sareste il romito degli
Appenini51.
Pochi giorni dopo da Bologna Leopardi gli risponde:
Vengo al cortese invito di scrivere per cotesto Giornale, [...] Credetemi che quel poco (veramente poco) che
io posso, lo spenderei volentieri tutto in servizio dell'Italia e vostro, aiutandovi in cotesta impresa secondo le
mie forze, [...] Ma quello che voi mi proponete di divenir vostro collaboratore regolare, credo che sarà
sempre incompatibile col mio stato, perchè la mia salute, che certo non è per mutarsi, non si vuol
sottomettere a nessuna regola del mondo, e non comporta che io mi obblighi a tempi determinati. [...] . La
vostra idea dell'Hermite des Apennins, è opportunissima in sè. Ma perchè questo buon Romito potesse
flagellare i nostri costumi e le nostre istituzioni, converrebbe che prima di ritirarsi nel suo romitorio, fosse
vissuto nel mondo, e avesse avuto parte non piccola e non accidentale nelle cose della società. Ora questo
non è il caso mio. La mia vita, prima per necessità di circostanze e contro mia voglia, poi per inclinazione
nata dall'abito convertito in natura e divenuto indelebile, è stata sempre, ed è, e sarà perpetuamente solitaria,
51 Di G.P. Vieussieux, 1°marzo 1826, in G.L., Epist., op.cit., vol I, p. 1094.23
anche in mezzo alla conversazione,[...] Da questa assuefazione e da questo carattere nasce naturalmente che
gli uomini sono a' miei occhi quello che sono in natura, cioè una menomissima parte dell'universo, e che i
miei rapporti con loro e i loro rapporti scambievoli non m'interessano punto, e non interessandomi, non gli
osservo se non superficialissimamente. [...] Tenete dunque per costante che la mia filosofia (se volete
onorarla con questo nome) non è di quel genere che si apprezza ed è gradito in questo secolo; [...] non so
quanto possa esser utile alla società, e convenire a chi debba scrivere per un Giornale52.
A quest'altezza Leopardi si dimostra quindi refrattario a una collaborazione stretta con l'Antologia,
rivendicando la propria diversità rispetto al modello di collaboratore richiesto da Vieusseux e dai
moderati toscani per i loro progetti riformistici.
Collegato al Discorso è indubbiamente anche il passo di una lettera dell'estate del 1826 scritta da
Luigi Stella (editore di Milano) in risposta ad una missiva di Leopardi andata perduta:
L'ultimo paragrafo della sua lettera m'ha fatto nascere l'idea d'un Opera che, fatta bene, potrebbe essere di
molto giovamento all'Italia: si tratta di far conoscere agl'Italiani il loro paese. Quest' Opera dovrebbe avere a
un di presso il titolo seguente: Quadro dell'Italia nell'attuale suo stato morale, politico, letterario»53.
Alla luce delle cose dette fin qui, provo a fornire una possibile ricostruzione delle vicende del
Discorso. Durante la primavera del 1824 Leopardi si dichiara disponibile a collaborare con il
gruppo di intellettuali ruotanti attorno all'Antologia di Pietro Vieusseux, e inizia la stesura
dell'opera. Nello stesso anno però la scrittura delle prime venti Operette occupano gran parte del
suo tempo, e il testo rimane incompiuto. É del resto lo stesso Leopardi nella lettera scritta da
Bologna e indirizzata al Vieusseux del marzo 1826 a suggerirci come fosse il suo abituale modus
operandi: «tanto più che io non sono niente buono a far molte cose in un tempo».
Vieusseux nel 1826 prova a sollecitare di nuovo Leopardi a una collaborazione con l'Antologia, ma
quest'ultimo rifiuta per due motivi: in primo luogo si fa sempre più evidente il suo allontanamento
dall'ambiente cattolico-moderato a causa di posizioni ideologiche e artistiche diverse (va ricordato
che Leopardi è un dichiarato antiromantico); inoltre, come si evince dalla famosa lettera bolognese
indirizzata al Vieusseux, i molti e tremendi errori di pubblicazione di alcune Operette, uscite
sull'Antologia, delusero profondamente Leopardi, convincendolo in cuor suo a non proseguire
qualunque futura pubblicazione:
«benchè mi abbiano un poco umiliato i molti e tremendi errori che sono corsi nella stampa (tali che spesso
nel leggerla non m'intendeva io stesso), e l'ortografia barbara che vi regna. Quantunque l'articolo che mi
riguarda abbia il titolo di primo saggio, credo che non abbiate però intenzione di pubblicare altri dialoghi, e 52Di G. Leopardi, 4 marzo 1826, Epist., op.cit., pag. 1096.53 Di Luigi Stella a Leopardi, 18 luglio 1826, Epist., op.cit., pag. 1100.
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che non ne abbiate anche copia, dopo rimandatomi il ms., della cui diligentissima spedizione vi rendo molte
grazie. Se fosse altrimenti, vi pregherei, quando sia senza vostro incomodo, di sospendere questa
pubblicazione54.»
Pochi mesi dopo Leopardi prova a sondare il terreno per una eventuale pubblicazione del Discorso
presso l'editore Luigi Stella di cui si fida ciecamente (alcuni progetti editoriali, tra cui un commento
al Canzoniere petrarchesco, erano già stati completati). Come si evince dalla lettera di Stella, la
risposta è positiva. Tuttavia sulla base delle lettere successive, dove non si ha più alcun riferimento
a tale progetto, si deve constatare come Leopardi avesse deciso definitivamente di non rendere
pubblico il Discorso. Ma per quali motivi?.
Sono sostanzialmente d'accordo con l'idea espressa da Massimiliano Biscuso, il quale ritiene infatti
che «le istanze critiche del Discorso e le sue potenzialità […] sono riassorbite e fatte proprie, in
una forma comunicativa mediata e letteralmente elaborata, e perciò agli occhi di Leopardi più
efficace, dalle Operette Morali».55 L'attenzione è rivolta completamente alle Operette, e infatti nel
giugno del 1827 a Milano presso lo stesso editore Stella viene pubblicata la prima edizione di
questa opera. Il fatto che Leopardi insista con l’editore affinché ne vengano spedite copie all’estero
evidenzia maggiormente l'interesse di Leopardi per una diffusione più ampia. Infine non è un caso,
che dopo la pubblicazione della prima edizione, Leopardi si concentri sulla stesura di altre Operette,
componendo infatti il Copernico, e il Dialogo di Plotino e Porfirio.
Rispetto al Discorso, le Operette erano di più ampia diffusione, e al tempo stesso con altre tecniche
permettevano di riflettere sui «vizi dei grandi, i principi fondamentali delle calamità e della miseria
umana, gli assurdi della politica, le sconvenienze appartenenti alla morale universale, e alla
filosofia, l'andamento e lo spirito generale del secolo, la somma delle cose,della società, della civiltà
presente.»56
Ha ragione inoltre S. Timpanaro quando osserva a proposito del Discorso che «per ragioni di
censura “esterna”, granducale (allusioni alla mancata unità d’Italia) [...] esso sarebbe stato rifiutato
o sottoposto a mutilazioni»57 . Analogamente Savarese parla di «scritto suicida», perché «contiene
in sé le ragioni […] della sua non pubblicazione.»58.
54Di G. Leopardi a Vieusseux, Epist., op, cit,, pag. 1110
55M. BISCUSO, La civiltà come rimedio di sé medesima. Il «Discorso sopra lo stato presente dei costumi degl’Italiani» e la “filosofia sociale” di Giacomo Leopardi, in «La Rassegna della Letteratura Italiana», 2008, 2, pp. 477-490.56Zibaldone, 139357S. TIMPANARO, Antileopardiani e neomoderati nella sinistra italiana, ETS, Pisa 1982, p. 179.
58G. SAVARESE, Lingua e stile nel Discorso sopra lo stato presente dei costumi degl’Italiani , in L’eremita osservatore. op. cit. p. 241).
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II. 2 Struttura e contenuto:
Nell'unico autografo il Discorso si presenta chiaramente suddiviso in cinque sezioni distinte,
corrispondenti a precise svolte argomentative. Inoltre nel manoscritto, a maggior riprova di questo,
le note leopardiane complementari al Discorso sono collocate alla fine di ciascuna delle cinque
sezioni.
Come già brevemente accennato in precedenza nella premessa, la struttura compositiva del saggio
molto probabilmente autorizza quindi a pensare ad una destinazione giornalistica per un pubblico
colto; e questo rafforza l'idea che la destinazione fosse l'Antologia del Vieusseux. Le cinque parti in
cui il testo è suddiviso nel manoscritto si presentano infatti come puntate, cioè come se Leopardi
avesse in mente di pubblicare le varie sezioni in più momenti.
Il Discorso presenta quindi una prima parte che fa da introduzione all'opera in cui Leopardi si
propone di compiere una nuova descrizione dei costumi degli italiani ; una seconda parte in cui si
descrive dettagliatamente la situazione italiana, analizzando la sua peculiarità rispetto ad altre
nazioni europee (in particolare in rapporto alla Francia); una terza parte in cui Leopardi sia
continua l'analisi dell'Italia sia si scaglia contro il Medioevo con un'aspra invettiva; una quarta parte
in cui Leopardi discute della differenza di costumi tra città e province, e ritorna sul tema complesso
della civiltà; e una quinta e ultima parte dove è constatata il sorpasso culturale e civile delle nazioni
sul nord sul meridione.
I) In Europa, dopo le recenti guerre napoleoniche, grazie al miglioramento dei commerci, ai sempre
più numerosi viaggi, si è introdotta fra le nazioni d'Europa «una specie d'uguaglianza di riputazione
sì letteraria e civile che militare.» Queste ragioni, unite al fatto che il « progresso dei lumi e dello
spirito filosofico e ragionatore [...] accresce i lumi e calma le passioni ed introduce uno abito di
moderazione», hanno permesso che si creasse in Europa uno spirito favorevole alla
comunicazione. Le nazioni più civili d'Europa (Germania, Inghilterra e Francia) hanno deposto gran
parte degli antichi pregiudizi nazionali sfavorevoli agli altri paesi, tra cui l'Italia. Rispetto al passato
quest'ultima è maggiormente oggetto di interesse (viaggi, diari, romanzi) da parte degli stranieri.
Per Leopardi gli scrittori stranieri che si sono interessati all'Italia sono incorsi tuttavia in due grossi
inconvenienti : le loro analisi e critiche spesso errano per insufficienza di dati e di osservazione; e
infine provocano reazioni irritate e spesso esagerate di odio negli italiani, i quali sono
«delicatissimi sopra tutti gli altri sul conto loro, [...] cosa veramente strana, considerando il poco o
niuno amor nazionale che vive tra noi, e certo minore che non è negli altri paesi». Leopardi
evidenzia come negli ultimi anni si siano divulgate in Europa dalla Corinne (il romanzo di M.me de
Staël, pubblicato nel 1807 ndr.) in poi più opere favorevoli all’Italia rispetto a prima. Si vede
26
infatti nel mondo civile «una inclinazione verso noi maggiore assai che fosse in altro tempo e che
sia verso alcun altro paese, ed una opinione vantaggiosa di noi», la quale secondo Leopardi supera
di non poco il nostro merito, ed è in molte cose contraria alla verità. Gli italiani stessi, continua
Leopardi, non scrivono nè pensano sullo stato del paese e dei costumi (eccetto Baretti), i quali sono
incredibilmente cambiati dai tempi della Rivoluzione francese. Grazie al dominio culturale straniero
l’ Italia si è parecchio aggiornata, e infatti si presenta «quanto alle opinioni, a livello cogli altri
popoli, eccetto una maggior confusione nelle idee, ed una minor diffusione di cognizioni nelle classi
popolari.» Leopardi intende cimentarsi nello stesso tentativo fatto dagli scrittori stranieri, cioè
parlare con «sincerità e libertà» dei presenti costumi dell'Italia agli italiani, visti per Leopardi come
suoi famigliari e fratelli59.
II)«La quasi universale estinzione o indebolimento delle credenze (opinioni ndr)», insieme alla
perdita dei vecchi valori costituiscono un serio problema per la conservazione e stabilità della
società, che «sembra opera piuttosto del caso che d'altra cagione». I vincoli delle leggi e della forza
pubblica non bastano purtroppo a garantirla. «In questa universale dissoluzione dei principii
sociali , in questo caos» tuttavia i paesi più civili (Francia, Inghilterra e Germania) possiedono un
principio che funge quasi da antidoto alla dissoluzione dei vincoli sociali: «Questo principio è la
società stessa». Queste nazioni hanno infatti «quel genere più particolare di società che suole essere
chiamato con questo medesimo nome ridotto a significazione più stretta, e consiste in un
commercio (rapporto ndr.) più intimo degl’individui fra loro.» Per mezzo di questa «società più
stretta, le città e le nazioni intiere, e in questi ultimi tempi massimamente, l’aggregato eziandio di
più nazioni civili, divengono quasi una famiglia».
Il cardine attorno a cui ruota l'intera compagine sociale è il bisogno di stima, bene di cui ognuno
vuole godere. Si può soddisfare questo bisogno solo all'interno di una società stretta, la quale infatti
offre la possibilità di mettersi alla prova e ottenere il riconoscimento altrui. Leopardi fa notare come
questa dipendenza dagli altri non vada scambiata pe altruismo; essa non è altro che amor proprio, il
quale determina il desiderio «che si chiama ambizione, vincolo e sostegno potentissimo della
società». L'ambizione di essere riconosciuto, che ognuno prova, richiede e postula quindi la società
stretta.
L’ambizione, continua Leopardi, può aver varie forme e vari fini: una volta essa era desiderio di
gloria, passione che fu comunissima, ma «ora questa è cosa troppo grande, troppo nobile, troppo
forte e viva perch'ella possa aver luogo nella piccolezza delle idee e delle passioni moderne, ristrette
e ridotte in angustissimi termini e in bassissimo grado dalla ragione geometrica (pensiero razionale,
ndr.) e dallo stato politico della società». L’amore della gloria è sì incompatibile con la natura dei 59Le citazioni contenute in questa prima parte sono tratte da in Discorso, pp. 45-50. Allo stesso modo nelle note seguenti sono indicate le pagine da cui sono prelevate le citazioni delle altre 4 parti dell'opera.
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tempi presenti, ma «presso quelle nazioni che hanno l’uso di quella società intima, l’ambizione
produce un altro sentimento tutto moderno»: ossia l' onore, il quale per Leopardi è un’illusione
(potentissima nelle nazioni e nelle classi che hanno l’uso di questa società stretta), «perché consiste
nella stima che gl’individui fanno della opinione altrui verso loro, opinione che rigorosamente
parlando, è cosa di niun conto.»
In una società stretta si forma quindi un' opinione pubblica, in cui «gli uomini politi» (dotati di un
grado elevato di educazione ndr) hanno cura della morale alla stessa stregua della loro esteriorità. Si
sviluppa quindi il «buon tuono», il quale, è «non solo il più forte, ma l’unico fondamento che resti
a’ buoni costumi». Dove non è presente il «buon tuono» della società la morale manca infatti di
ogni fondamento e la società di ogni vincolo. «Così nelle dette nazioni la società stessa producendo
il buon tuono produce la maggiore anzi unica garanzia de’ costumi sì pubblici che privati che si
possa ora avere, e quindi è causa immediata della conservazione di sé medesima»60.
III) Gli italiani dal tempo della rivoluzione in poi, sono, «quanto alla morale, così filosofi, cioè
ragionevoli e geometri, quanto i francesi e quanto qualunque altra nazione». Per Leopardi la
nazione italiana è all'incirca a livello di qualunque altra nazione più civile e più istruita d’Europa o
d’America. Per questo motivo, ne consegue che essa è priva come le altre nazioni di ogni
fondamento di morale, e di ogni vero vincolo e principio conservatore della società. Ma oltre a
questo, a differenza delle altre nazioni, l'Italia per Leopardi è priva anche di quel genere di stretta
società, di cui ha parlato prima. Una ragione di questa mancanza è certamente il clima, «che
gl’inclina a vivere gran parte del dì allo scoperto», ma anche la vivacità del carattere italiano che fa
sì che si cerchi di soddisfare più i desideri dei sensi che i bisogni dello spirito. Per queste ragioni in
Italia la negligenza e pigrizia sono molto diffuse. Le principali occasioni di socialità in Italia sono il
passeggio, gli spettacoli e le Chiese: tutte occupazioni che non stimolano affatto interazioni
reciproche.
Per Leopardi una conseguenza di questo è che «gl’italiani non temono e non curano per conto
alcuno di essere o parer diversi l’uno dall’altro, e ciascuno dal pubblico, in nessuna cosa e in nessun
senso». La nazione non solo non ha un centro politico, ma manca anche di un teatro nazionale, e
una letteratura nazionale moderna. La mancanza di società fa sì che in Italia non esista nemmeno
un «tuono italiano determinato». In Italia per Leopardi regna un individualismo senza freni, a tal
punto che «ciascuna città italiana non solo, ma ciascuno italiano fa tuono e maniera da sé».
Non essendoci neanche un buon tuono, non possono esserci neppure convenienza di società
(Leopardi scrive bienséances). Mancando queste, e mancando la società stessa, non può esserci
neppure gran cura del proprio onore, per cui l’idea stessa «d'onore delle particolarità che
60 Ivi pp. 50-7128
l’offendono o lo mantengono e vi si conformano, è vaga e niente stringente». Benché gli italiani
siano per Leopardi all'incirca a livello delle altre nazioni nella conoscenza generale della realtà e
delle cose «relativamente ai fondamenti dei principii morali», tuttavia l’Italia in fatto di scienza
filosofica e di cognizione profonda dell’uomo e del mondo è incomparabilmente inferiore alla
Francia, all’Inghilterra, alla Germania. Ma «contuttociò è anche certissimo, benché parrà un
paradosso, che se le dette nazioni son più filosofe degl’italiani nell’intelletto, gl’italiani nella pratica
sono mille volte più filosofi del maggior filosofo che si trovi in qualunque delle dette nazioni».
Gli italiani non tengono in alcun conto l' opinione pubblica. Insomma nessuna cosa è disposto «un
italiano di mondo» a sacrificare all’opinione pubblica, e questi «italiani di mondo che così pensano
ed operano, sono la più gran parte, anzi tutti quelli che partecipano
di quella poca vita che in Italia si trova». L'opinione pubblica, per la mancanza di società stretta,
pochissimo giova o nuoce: di conseguenza la gente «per quanta ragione abbia di dir male o bene di
uno, di pensarne bene o male, prestissimo si stanca dell’uno e dell’altro; si dimentica affatto delle
ragioni che aveva di far questo o quello, [...] e torna a parlare e pensare di quella tal persona con
perfetta indifferenza, e come d’una dell’altre». La vita in Italia non solo non ha sostanza, ma
nemmeno apparenza. La vita infatti si svolge solo nel presente, non è orientata né da illusioni né da
progetti o prospettive future. Mancando in Italia l' opinione pubblica e il senso della reciprocità che
comunica la società stretta, dilaga quindi la piattezza morale ed intellettuale. Leopardi ribadisce
l'importanza della società, affermando che è «uno de’ grandissimi e principali mezzi che restano
oggi agli uomini per non avvedersi affatto della nullità delle cose loro, [...] per non essere nella
pratica persuasi della total frivolezza delle loro occupazioni qualunque e della totale indegnità della
vita».
L’uomo, continua Leopardi, è senza dubbio un animale imitativo. Una parte maggiore o minore,
ma sempre una qualche parte, non solo della sua condotta, ma anche del suo carattere, dei suoi
costumi, del suo modo di pensare, dipende e imita l’esempio degli altri, cioè «precisamente e
massimamente di quella parte de’ suoi simili colla quale ei convive, sia che ei conviva per mezzo
della lettura, sia specialmente colla persona, sia come si voglia». Da questa riflessione sull'uomo,
Leopardi deduce che l’esperienza continua, che si ha nella società stretta, delle reciproche cure, dei
reciproci adattamenti fa sì che aumenti la fiducia nella vita e nelle cose umane (ma in Italia manca
tale tipo di società).
Un altro beneficio della società stretta consiste nel distogliere dal nichilismo: essa infatti favorisce
la facoltà «immaginativa» che corrobora la vita. La società stretta sta agli antipodi della
dissipazione comunicativa, della distrazione perenne. La facoltà immaginativa «che per natura ci
porta a conceder qualche valore alla vita, ha pure un pascolo nella società stretta, e facoltà di
conservar qualche parte della sua azione ed influenza sull’uomo». Tutto ciò non ha luogo nella
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dissipazione giornaliera e continua di una nazione senza società stretta. Segue una riflessione sulla
solitudine. Anche il nichilista-filosofo più disincantato nella solitudine scopre che la distanza, la
lontananza dagli oggetti reali, che lui crea nella riflessione, «giova infinitamente a ingrandirli».
La lontananza «apre il campo all’ immaginazione» e «risveglia e risuscita sovente le illusioni»; «l’
animo dell’ uomo torna a creare e a formarsi il mondo a suo modo»; e l’attenzione totale dell’
animo che nasce dalla mancanza di sensazioni che lo trasportino qua e là, fanno che all’ ultimo si dà
peso a menomissimi oggetti». La dissipazione continua senza società [...] è priva sia «delle risorse
interne dell’ immaginazione e dell’ animo» sia «dei soccorsi esterni della immaginazione».
Per queste ragioni secondo Leopardi «gl’ italiani di mondo, privi come sono di società, sentono [...]
più degli stranieri la vanità reale delle cose umane e della vita [...] e sono immedesimati con quella
opinione e cognizione che è la somma di tutta la filosofia, cioè la cognizione della vanità d’ ogni
cosa». Questo è l’ amaro destino di un popolo senza società stretta, un destino che porta al disgusto
ed alla noia.
Da queste cose nasce ai costumi il maggior danno possibile. Come la disperazione, il disprezzo e
l’intimo sentimento della vanità della vita sono i maggiori nemici del bene operare, e responsabili
del male e della immoralità. Da ciò infatti nasce l'indifferenza «profonda, radicata ed efficacissima
verso se stessi e verso gli altri, che è la maggior peste de’ costumi, de’ caratteri, e della morale». La
conseguenza principale per Leopardi è «un pieno e continuo cinismo d’animo, di pensiero, di
carattere, di costumi, d’opinione, di parole e d’azioni» ( le classi superiori d’Italia sono le più
ciniche di tutte le loro pari nelle altre nazioni). Conosciuta a fondo e sentendo continuamente la
vanità e la miseria della vita e la malvagità degli uomini, «il più savio partito è quello di ridere
indistintamente e abitualmente d’ogni cosa e d’ognuno, incominciando da se medesimo».
Gli italiani ridono perciò della vita: per Leopardi ne ridono assai più, e con più verità e persuasione
intima di disprezzo e freddezza di quanto accada nelle altre nazioni. Per tutto si ride in Italia, e
questa è la principale occupazione delle conversazioni, ma gli altri popoli altrettanto e più filosofi di
noi, ma con più vita, osserva Leopardi, ridono più delle cose che degli uomini, più degli assenti
che dei presenti. In Italia infatti il più del riso è sopra gli uomini e i presenti. La raillerie
(canzonatura ndr.) il persiflage (punzecchiatura ndr.), «cose sì poco proprie della buona
conversazione altrove, occupano e formano tutto quel poco di vera conversazione che v’ha in
Italia». Gli Italiani posseggono l’arte di perseguitarsi scambievolmente e di se pousser à bout
(spingersi al limite, ndr.) con le parole, più che alcun’altra nazione.
I danni provocati dal cinismo sono incalcolabili: dilaga il non-rispetto reciproco, ( «non rispettando
gli altri, non si può essere rispettato») a tal punto che ognuno deve imparare ad offendere, creando
le basi per una sorta di guerra di tutti contro tutti. Ma il danno è sempre riflessivo, ricade sull’
autore, poiché costui non può essere delicato e sensibile sul proprio conto. Se vuole offendere,
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costui deve indurirsi, ma con ciò contrae «un abito di disistima e disprezzo e indifferenza somma
verso se stesso». E la disistima di se stesso mina il principale fondamento delle moralità, che
abbisogna continuamente di autostima e di senso dell’ onore.: per cui Leopardi afferma che «un
uomo senza amor proprio […] è impossibile che sia giusto». Dimostrazione in positivo di questa
tesi: in una sana società stretta ognuno ha rispetto per il prossimo perché gli sta a cuore essere
rispettato. Questa è la semplice strategia del riconoscimento reciproco che ben funziona nelle
nazioni più civili.
Ulteriore conseguenza assai nociva: «Ciascuno combattuto e offeso da ciascuno dee per necessità
restringere e riconcentrare ogni suo affetto ed inclinazione verso se stesso, il che si chiama appunto
egoismo, ed alienarle dagli altri, e rivolgerle contro di loro, il che si chiama misantropia ».
Se presso le altre nazioni la società e la conversazione sono un mezzo efficacissimo d’amore sia
nazionale sia generalmente sociale; in Italia al contrario la società stessa, così carente, «è un mezzo
di odio e di disunione, accresce esercita e infiamma l’avversione e le passioni naturali degli uomini
contro gli uomini, massime contro i più vicini, che più importa di amare e beneficare o
risparmiare». La società (poca) che si ha in Italia è tutta a danno dei costumi e del carattere morale,
senza vantaggio alcuno. Per Leopardi queste sono quindi le conseguenze della poca società e della
poca vita che si ha in Italia.
Leopardi aggiunge tuttavia che «tutti o gran parte degl’inconvenienti [...] specificati hanno luogo
proporzionatamente anche nelle nazioni più sociali e nelle migliori conversazioni», perché ovunque
«l’uomo, considerato sì in se stesso e come individuo, sì come sociale, è imperfettissimo».
Dunque Leopardi non intende attribuire all’Italia esclusivamente «gl’incomodi» detti, però
quest'ultimi ,« per le cagioni e circostanze [...] specificate, sono [...] dominanti in Italia, di peggior
natura, più efficaci, più gravi, più estesi e frequenti e divulgati, più dannosi, più caratteristici e
distinti nella nostra società e nella nostra vita che altrove». In questo triste quadro sociale italiano,
Leopardi non rinuncia ad affermare il suo orgoglio nazionale, affermando di essere «ben lontano
dall’immaginare un mondo diverso e più bello del nostro né paesi remoti da’ miei occhi».
III) L’Italia si colloca a metà tra le nazioni più civili e quelle più arretrate, e questa sembra la
collocazione più svantaggiosa quanto ai costumi. Non ha infatti né i vantaggi dei paesi più civili ,
caratterizzati da società stretta (Francia, Inghilterra, Germania); né i vantaggi dei paesi più arretrati
(Spagna, Portogallo, Polonia, Russia), nei quali non è ancora avvenuta completamente la “strage
delle illusioni”, in modo tale che i valori tradizionali sono ancora efficaci.
Leopardi critica fortemente Chateaubriand, uno dei più noti esponenti del romanticismo francese, il
quale riteneva che «quando gli altri popoli rotti e invecchiati dall’eccesso della civiltà e per
conseguenza dalla corruzione avrebbero perduta ogni virtù, [..], la Spagna […] ancor vicina alla
31
natura, si sarebbe trovata in quello stato di vigore che nasce da’ principii e da’ costumi non corrotti
di una nazione serbata lontano e illesa dal commercio cogli altri popoli; e che [...]sarebbe tornata a
risplendere». In realtà l'idea di Chateaubriand è sbagliata: «se la Spagna differisce dalle altre
europee e dalle sue vicine, più che tutte queste altre non differiscono tra loro anche tra le più
lontane ciò non accade perch’ella abbia nulla d’antico o conservato o racquistato, ma perch’ella ha
conservato della barbarie dell’età media assai più ella sola che tutte l’altre nazioni civili insieme».
Segue una lunga digressione, con forte e appassionata declamazione oratoria, nella quale Leopardi
attacca il Medioevo e il suo spirito, lodando la «rinata civiltà», il «risorgimento de’ lumi» che ci ha
liberato «dalla natura proprio de’ tempi bassi, cioè di tempi corrottissimi; da quello stato che non
era né civile né naturale, cioè propriamente e semplicemente barbaro, da quella ignoranza [..], dalla
superstizione, dalla viltà e codardia crudele e sanguinaria, [...], dall’abuso eccessivo del duello,
dalla feudalità del Baronaggio e dal vassallaggio[...], dagli odii ereditarii e di famiglia, dalle guerre
continue e mortali e devastazioni e incendi di città […], dallo spirito non d’eroismo ma di
cavalleria e d’assassineria, dalla ferocia non mai usata per la patria né per la nazione, dalla total
mancanza di nome e di amor nazionale patrio, e di nazioni, dai disordini orribili nel governo, anzi
dal niun governo, niuna legge, niuna forma costante di repubblica e amministrazione, incertezza
della giustizia, de’ diritti, delle leggi, degl’instituti e regolamenti [..]». Da questo stato ci ha liberati
quindi la società moderna; questa è la sentenza leopardiana.
Terminata la digressione, Leopardi tuttavia attesta un vantaggio alla Spagna: l’avere «qualche
residuo di fondamento alla morale pubblica e privata»; fondamento che « manca all’Italia, senza
che sia compensato da quello che la civiltà moderna istessa offre alle nazioni d’Europa e d’America
più sociali e più vive di lei»61.
IV) Leopardi torna a parlare della situazione italiana, affermando che «gli italiani hanno piuttosto
usanze e abitudini che costumi». Questa affermazione ci fa capire come Leopardi veda nelle usanze
solo il frutto di ripetizione meccanica, mentre nei costumi egli vede il frutto di una forte educazione
sociale. «Lo spirito pubblico in Italia», continua Leopardi, «è tale, che, salvo il prescritto dalle leggi
e ordinanze de’ principi, lascia a ciascuno quasi intera libertà di condursi in tutto il resto come gli
aggrada, senza che il pubblico se ne impacci, o impacciandosene sia molto atteso, né se n’impacci
mai in modo da dar molta briga e da far molto considerare il suo piacere o dispiacere, approvazione
o disapprovazione». Poiché la società non si pone a giudice di nulla, quasi tutto è ammesso quindi.
Dilaga una tolleranza mal intesa, che concede agli altri e a se stessi il diritto di sentirsi al di sopra
dei vincoli sociali più profondi, cioè dei costumi. Per Leopardi manca ovviamente anche lo spirito
nazionale.
61Ivi pp.71-7532
Emerge un'altra considerazione generale sul mondo moderno, e cioè che i progressi dei lumi hanno
reso moralmente più vulnerabile le classi popolari di quelle aristocratiche e borghesi. La civiltà
viene da Leopardi presentata come fonte di corruzione («pur infondendo lo spirito di onore
mediante l’uso della società, e la stima dell’opinion pubblica che di là nasce, e la gelosia e cura di
quel che gli altri pensino e dicano di te»), e tutto l'appassionato elogio del progresso, affermato
poco prima nel Discorso, viene cancellato. Per Leopardi a causa della «distruzione o indebolimento
de’ principii morali fondati sulla persuasione, distruzione causata dal progresso e diffusione dei
lumi,» si sono diffuse in tutti i ceti la cupidigia e le passioni più elementari, che ora si trovano
senza antidoti. Chi ha minori mezzi riflessivi e conoscitivi si trova più facilmente vulnerabile quindi
alle pulsioni più basse. L'insieme di contraddizioni del pensiero leopardiano sul concetto di
progresso è visibile anche alla fine di questa parte del Discorso, dove si assolve la civiltà moderna,
definendola una specie di minore dei mali, poiché« la civiltà ripara oggi quanto ai costumi in
qualche modo i suoi propri danni, quando ella sia in un certo grado: e però non può farsi cosa più
utile ai costumi oramai che il promuoverla e diffonderla più che si possa, come rimedio di se
medesima da una parte, e dall’altra di ciò che avanza della corruzione estrema e barbarie de’ bassi
tempi, o che a questa appartiene, e corrisponde al di lei spirito, e all’impulso espresso e ai vestigi
lasciati da lei nelle nazioni civili»62.
V) Leopardi compie un confronto tra i popoli del nord Europa e gli italiani, affermando che i popoli
settentrionali meno caldi nelle illusioni, sono anche meno freddi nel disinganno». L’ Italia è in uno
stato, quanto alle cose reali che favoriscono l’ immaginazione e le illusioni , molto inferiore a quello
di tutte l’ altre nazioni civili” e, continua Leopardi, «non ci meraviglieremo punto che gli italiani la
più vivace di tutte le nazioni colte e la più sensibile e calda per natura, sia ora per assuefazione e per
carattere acquisito la più morta [...] indifferente, insensibile, la più difficile ad essere mossa da cose
illusorie, [..] la più povera, anzi priva affatto di opere d’immaginazione (nelle quali una volta, anzi
due volte, superò di gran lunga tutte le nazioni che ora ci superano), di poesia qualunque (non parlo
di versificazione), di opere sentimentali, di romanzi e la più insensibile all’effetto di queste tali
opere e generi (o proprie o straniere)». È chiaro che in questo passo del Discorso Leopardi ha in
mente quindi soprattutto la carenza di vera arte e letteratura. Dopo aver sottolineato che le pratiche
religiose sono per gli italiani solo usi e consuetudini «non costumi, e tutti ne ridono», si afferma in
pratica l'inversione dell’ antica geografia dell’ immaginazione. Ora, sono i popoli del nord la culla
dell’ immaginazione letteraria, filosofica. È soprattutto in Germania che ha luogo l’osmosi di
immaginazione, sistema, diligenza, applicazione e rigore nell’ osservazione. La superiorità dei
nordici è quindi solidamente fondata nella superiorità dell’ immaginazione, e questo è un dato
62 Ivi pp.75-7933
duraturo: «I popoli meridionali superarono tutti gli altri nella immaginazione e quindi in ogni cosa,
a’ tempi antichi; e i settentrionali per la stessa immaginazione superano di gran lunga i meridionali
a’ tempi moderni. La ragione si è che a’ tempi antichi lo stato reale delle cose e delle opinioni
ragionate favoriva tanto l’immaginazione quanto ai tempi moderni la sfavorisce».
L’immaginazione, la produzione di idee-forza, l’ innovazione scientifica ed artistica langue invece
dove la società non è più in grado di offrire opinione pubblica, né riconoscimento, né stima all’
immaginazione, ai suoi prodotti, ai suoi promotori. Questo aspetto ci fa capire ancora una volta
come il concetto di civiltà sia per Leopardi assai complesso.
Sulla base di queste idee, Leopardi sostiene la «decisa e visibile superiorità presente delle nazioni
settentrionali sulle meridionali, sì in politica, sì in letteratura, sì in ogni cosa, alla superiorità della
loro immaginazione» Il Discorso si conclude quindi con una riflessione che indirizza il processo
storico dal meridione (quindi l'Italia) verso il settentrione, la cui ascesa sembra inarrestabile63.
63Ivi pp. 79-8434
Capitolo III
Tematiche
III.1 La «società stretta»
Il termine «società stretta» compare spesso nello Zibaldone, e già prima della stesura del Discorso
sullo stato presente dei costumi degl' italiani. Esso è di conio leopardiano, ma si rifà sicuramente
alla situazione, descritta da Rousseau nel suo Discorso sull'origine e i fondamenti della
disuguaglianza (1755), creatasi dopo il passaggio dallo stato di natura a quello sociale:
Così che la natura non può nel suo primitivo disegno aver considerata, nè ordinata altra società nella specie
umana, se non simile più o meno a quella che ha posta in altre specie, vale a dire una società accidentale, e
nata e formata dalla passeggera identità d'interessi, e sciolta col mancare di questa; ovvero durevole, ma lassa
o vogliamo dir larga e poco ristretta [..] È cosa notabilissima che la società tanto più per una parte si è
allargata, quanto più si è ristretta, dico fra gli uomini. E quanto più si è ristretta, tanto più è mancato il suo
scopo, cioè il ben comune, e il suo mezzo, cioè la cospirazione di ciascuno individuo al detto fine.
Conseguenza naturale, ma niente osservata, del corollario precedente, e della proposizione da cui questo
deriva. Osservate. Ridotto l'uomo dallo stato solitario a quello di società, le prime società furono larghissime.
[...] Dilatiamo ora queste considerazioni, e seguendo ad applicarle ai fatti, ed alla storia dell'uomo,
paragoniamo principalmente gli antichi coi moderni, cioè la società poco stretta e legata, e poco grande, cioè
di pochi, con la società strettissima, e grandissima, cioè di moltissimi64.
La terminologia utilizzata da Leopardi è semplice: lo stato di società larga è quello in cui i contatti
tra i singoli o tra i piccoli gruppi umani sono sporadici e occasionali; nella società stretta, invece, le
relazioni tra gli uomini sono diventate regolari, sistematiche e stabili. Il passaggio è avvenuto nel
momento in cui la società larga ha lasciato il posto a quella stretta; tale passaggio è per Leopardi
storicamente irreversibile. Nelle società primitive, «larghe», dominavano l’amor patrio, la libertà,
la virtù, il bene comune; in quelle moderne, «strette», dominano l’egoismo, il dispotismo,
l’inerzia65. All'interno dello Zibaldone, il concetto di società stretta è quindi inteso come sinonimo
di società avanzata e moderna, ed è quindi visto come sostanzialmente negativo. Si veda questi
passi a titolo di esempio:
Stante la natura generale de' viventi, e massime quella dell'uomo in particolare, una società stretta, la quale è
cosa dimostrata che necessariamente produce tra gli uomini la disuguaglianza di mille generi e intorno a
mille beni e mali, non può a meno di eccitare e di mettere in movimento, com'ella fa in effetto, le passioni 64Zibaldone 873-87765Ivi, 872-911, 3928-30.
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dell'invidia, dell'emulazione, della gara, della gelosia, conseguenze necessarie, o piuttosto specie e nuances
dell'odio verso gli altri, naturale ad ogni essere che ami naturalmente se stesso66 […]
Dunque una società stretta nuoce necessariamente a grandissima parte (e la maggiore, perchè i più deboli
sono sempre i più) de' suoi individui: dunque il suo effetto è il contrario del fin proprio ed essenziale della
società, ch'è il bene comune de' suoi individui, o almeno dei più: dunque ella è il contrario di società, e
ripugna per essenza non pure alla natura in genere, ma alla natura e alla nozione stessa della società67.
[...]si raccoglie che il dir società stretta, massime umana, è contraddizione, non solo rispetto alla natura ec.
ma assolutamente, rispetto a se stessa, ne' termini, e rispetto alla nozione di queste parole. Perocchè società
importa quello che disopra si è definito; e società stretta importa communione d'individui sommamente
nocentisi scambievolmente, e odiantisi in atto gli uni gli altri sopra ogni altra cosa, giacchè, stante la natura
de' viventi, non vi può essere società stretta i cui individui non sieno tali, come si è dimostrato68.
Ebbene, questo non è il significato di società stretta che incontriamo nel Discorso. Cominciando la
sua analisi «delle opinioni e dello stato presente dei popoli69», Leopardi sottolinea la quasi
universale estinzione delle credenze su cui si possono fondare i criteri morali. Essendosi scoperta
anche la virtù come una illusione, il suo esercizio viene meno, lasciando spazio al dilagare del vizio.
In questa situazione, la conservazione della società genera meraviglia, dal momento che le leggi e la
forza pubblica, gli unici vincoli che ormai rimangono alla società, risultano insufficienti a tal scopo.
In questa «universale dissoluzione dei principi sociali», le nazioni civili
«hanno un principio conservatore della morale e quindi della società, che, benché paia minimo e quasi vile
rispetto ai grandi principi morali e d’illusione che si sono perduti, pure e d’un grandissimo effetto. Questo
principio è la società stessa70.»
Leopardi distingue quindi due tipi di società:
A- la società generalmente presa: «il convitto degli uomini per provvedere scambievolmente ai
propri bisogni e difendersi da’ comuni danni e pericoli71».
B- un genere particolare di società, «la società stretta»:
66Ivi, 377867Ivi, 378668Ivi, 378869Discorso, pag. 7170Ivi, pag. 5071ibidem
36
un commercio (rapporto, ndr) più intimo degl’individui fra loro, e massime di quelli, che, dispensati dalla
loro condizione dal provvedere coll’opera meccanica delle proprie mani alla loro e all’altrui sussistenza e
forniti del necessario alla vita col mezzo delle fatiche altrui, mancando de’ bisogni primi, vengono
naturalmente nel secondo bisogno, cioe di trovare qualche altra occupazione che riempia la loro vita, e
alleggerisca il peso dell’esistenza, sempre grave e intollerabile quando e disoccupata.72
Si tratta quindi di una parte numerosa della società. Leopardi poco dopo il passo appena citato
aggiunge precisando che include «rigorosamente parlando, tutti gli uomini, salvo gli agricoltori e
quelli che ci procurano il vestito di prima necessità73». Analizzando attentamente il testo, risulta
chiaro quindi che con società stretta, Leopardi intende un particolare costrutto sociale (o meglio un
insieme di dispositivi sociali), tipico della civilizzazione, che in certe società mature (Francia,
Inghilterra e Germania) agisce nel bel mezzo della società stretta, come viene concepita nello
Zibaldone. Se in quest'ultimo la società stretta viene vista in senso storico come «il frutto dell'opera
distruttiva politica e morale della ragione al massimo del dispiegamento della sua potenza74», nel
Discorso la società stretta (in un passo Leopardi usa anche il termine equivalente di «società
intima75») viene intesa in senso sociologico antropologico, imponendosi alla considerazione
leopardiana con una forte positività.
Nelle nazioni più evolute d'Europa (non in Italia), secondo Leopardi, è stato portato a compimento
quel processo di pensiero, che è stato in grado di fare astrazione della negatività della società e della
civiltà, e di incorporarla positivamente in nuove forme di comportamento e di etica sociale. Questa
società stretta è costituita da un’élite socio-economica di borghesi e nobili (il ceto medio o medio-
alto) che Leopardi contrappone alla più ampia classe dei contadini e degli artigiani che devono
lavorare per vivere. Solo nella società stretta le persone possono praticare l'uso scambievole nel
quale «gli uomini naturalmente e immediatamente prendono stima gli uno degli altri76», in modo
tale che
ciascuno fa conto degli uomini e desidera di farsene stimare (questa è propriamente la stima che si
concepisce di loro) e li considera per necessarii alla propria felicità, sì quanto ad altri rispetti, sì quanto a
questa soddisfazione del suo amor proprio che ciascuno in particolare attende, desidera e cerca da essi, da’
quali dipende, e non si può ricever d’altronde77.
72Ivi, pag. 5173Ibidem.74C. COLAIACOMO, Zibaldone di pensieri, in Letteratura italiana, a c. di A. Asor Rosa, volume IX , Torino, Einaudi, 2007, pp. 317-432, in particolare pag. 38175Discorso, pag. 5276Ivi, pag. 5177Ibidem.
37
Leopardi sottolinea il ruolo pubblico delle classi dirigenti, i cui costumi sono fondati sul buon
tuono, ovvero quell'insieme di regole e comportamenti accettati e condivisi dalla società stessa,
poiché
dove il buon tuono della società non v’è o non si cura, quivi la morale manca d’ogni fondamento e la società
d’ogni vincolo, fuor della forza,, la quale non potrà mai né produrre i buoni costumi né bandire o tener
lontani i cattivi. Così nelle dette nazioni la società stessa producendo il buon tuono produce la maggiore anzi
unica garanzia de’ costumi sì pubblici che privati che si possa ora avere, e quindi è causa immediata della
conservazione di sé medesima78.
I valori e i comportamenti della società stretta influiscono sull’organizzazione dei valori e dei
comportamenti della società complessiva. Il mezzo di questa generazione di valori e trasmissione di
costumi e individuato da Leopardi nel meccanismo dell’imitazione: «l’uomo è un animale imitativo
e d' esempio». E tale è sempre, afferma Leopardi, anche se emancipato, anche se filosofo, anche se
duro e inflessibile. Gran parte del suo carattere (quindi anche i suoi suoi comportamenti e il suo
stesso intelletto) è influenzato dall’esempio delle persone che gli stanno vicino o dai libri che legge:
Una parte maggiore o minore, ma sempre una qualche parte, non solo della sua condotta, non solo del suo
carattere, de’ suoi costumi, non solo del suo animo generalmente, ma del suo stesso intelletto, e del suo
modo di pensare, dipende, imita, si regola, è modificata dall’esempio altrui, cioè precisamente e
massimamente di quella parte de’ suoi simili colla quale ei convive, sia che ei conviva per mezzo della
lettura, sia specialmente colla persona, sia come si voglia79.
Ma la società stretta non è solo responsabile della generazione di una identità collettiva e di un
vincolo sociale all’interno delle singole realtà nazionali, bensì, nel complesso degli aumentati
scambi nel panorama europeo, essa assume una prospettiva internazionale:
Per mezzo di questa società più stretta:le città e le nazioni intiere, e in questi ultimi tempi massimamente,
l’aggregato eziandio di più nazioni civili, divengono quasi una famiglia, riunita insieme per trovare nelle
relazioni più strette e più frequenti che nascono da tale quasi domestica unione, una occupazione, un pascolo,
un trattenimento alla vita di quelli, [...]80
In un mondo dove dominano l' egoismo e l' individualismo, per Leopardi:
78Ivi, pag. 54-5579Ivi, pag. 59-60. Si veda anche il paragrafo successivo di questo lavoro di tesi per approfondire tale tematica.80Ivi, pag. 51
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l'uomo è nella società quello ch'è una colonna d'aria rispetto a tutte le altre e a ciascuna di loro. S'ella cede,
o per rarefazione, o per qualunque conto, le colonne lontane premendo le vicine, e queste premendo nè più
nè meno in tutti i lati, tutte accorrono ad occupare e riempiere il suo posto. Così l'uomo nella società egoista.
L'uno premendo l'altro, quell'individuo che cede in qualunque maniera, o per mancanza di abilità, o di forza,
o per virtù, e perchè lasci un vuoto di egoismo, dev'esser sicuro di esser subito calpestato dall'egoismo che ha
dintorno per tutti i lati: e di essere stritolato come una macchina pneumatica dalla quale, senza le debite
precauzioni, si fosse sottratta l'aria81.
In una società quindi dove «ciascun uomo individuo continuamente preme a più potere i suoi vicini,
e per mezzo di esso i lontani da tutti i lati, e n'è ripremuto da' vicini e da' lontani a poter loro nella
stessa forma» è «maraviglia» per Leopardi constatare che «la società non venga a distruggersi
assolutamente, e possa durare con questi principii distruttivi per natura loro […]82», perché si crea
«un equilibrio prodotto da una qualità distruttiva, cioè dall'odio e invidia e nemicizia scambievole di
ciascun uomo contro tutti e contro ciascuno, e dal perenne esercizio di queste passioni (cioè in
somma dell'amor proprio puro) in danno degli altri […]83»; un equilibrio «certo non naturale, ma
artifiziale», che «mantiene la società umana, quasi a dispetto di se medesima, e contro l'intenzione e
l'azione di ciascuno degl'individui che la compongono, i quali tutti o esplicitamente o
implicitamente mirano sempre a distruggerla»84.
Tale equilibrio è reso ancora più forte dal cardine costituito dalla società stretta. Prendendo in
prestito la terminologia medica85, possiamo affermare che Leopardi considera la società stretta una
sorta di medicina in grado di attenuare il male insito nella civiltà moderna, perché, come viene
detto quasi alla fine del Discorso, «la civiltà ripara oggi quanto ai costumi i suoi propri danni86»,
rendendo più accettabile e viva la vita degli uomini.
Indicazioni preziose in tal direzione sono state già fornite da Placanica, che parla di «stupenda
consequenzialità» con la quale «Leopardi riesce, contemporaneamente, a compiangere e ad
auspicare l’ampliamento della civiltà, tutta nuova e tutta illuminata, essendo ormai follia dar di
81 Zibaldone, 930.82Ivi, 243983Ivi, 2437-2438.84 Ivi, 2439.85 G. FERRONI ha notato che Leopardi mostra, a partire dal 1823, molta curiosità per i termini e le metafore mediche, come attestano anche alcune annotazioni di tipo linguistico: al 26 agosto 1823 risale una nota sul verbo deponente medeor: «Alla p.2996. marg. - vengono cred'io da medeor (medeo ancora si disse, poichè medeor si trova pure passivo), non da medicus. Lo deduco appunto dal veder medicor deponente come medeor, (laddove medico corrisponderà all'antico medeo), e dal vedere ancora che medicatus e medicatus sum suppliscono pel verbo medeor che manca del preterito e del participio in us. V. Forc. in Medeor. fine. Veggasi la p.3352. sgg. circa il continuativo meditor di medeor fatto dal suo participio in us.» ( Zib, 3264); al 5 settembre 1823 un'ampia serie di osservazioni sul legame tra medeor e meditor, e sul nesso etimologico tra medicina e politica, tra cura e comando (Zib 3352-60). Si veda G. FERRONI, Rimediare alla civiltà: antropologia ed ecologia in XII Convegno internazionale di studi leopardiani, La prospettiva antropologica nel pensiero e nella poesia di Giacomo Leopardi, Olschki, Firenze 2008. 86 Discorso, pag. 78
39
cozzo contro l’evoluzione storica, e invece saggezza accettarla con disposizione critica e
lucidissima, per cavarne tutto il bene che, nonostante tutto, essa può dare agli uomini d’oggi»87 .
Riporto qui di seguito un interessante passo, tratto dallo Zibaldone, dove sebbene si parli della
monarchia costituzionale, mi sembra si applichi alla perfezione anche alle riflessioni appena fatte:
Ed è manifesto che la costituzione (monarchia costituzionale ndr) non è altro che una medicina a un corpo
malato. La qual medicina sarebbe aliena da quel corpo, ma questo non potrebbe vivere senza lei. Dunque
bisogna compensare l'imperfezione della malattia, con un'altra imperfezione. E così appunto la costituzione
non è altro che una necessaria imperfezione del governo. Un male indispensabile per rimediare o impedire un
maggior male. Come un cauterio in un individuo affetto da reumi ec. Che sebbene quell'individuo vive
mediante quel cauterio, altrimenti non vivrebbe; e sebbene è libero da quel male, contro il quale è diretto
quel rimedio: contuttociò quello stesso rimedio è un male, un vizio, un'imperfezione[...] Così una gamba di
legno a chi ha perduto la naturale. Il quale cammina bensì con quella gamba, che altrimenti non potrebbe
sostenersi: ma non perciò resta ch'egli non sia imperfetto88.
Si immagini di sostituire alla parola «costituzione«» il termine di «società stretta» nel passo citato, e
si vedrà come il fondamento di essa, «benché paia minimo, e quasi vile rispetto ai grandi principii
morali e d’illusione che si sono perduti, pure è d’un grandissimo effetto», in quanto riesce a
«compensare l'imperfezione della malattia» più grande, ovvero la civiltà moderna, dominata
dall'egoismo e dall'odio.
Questa è la soluzione originale che Leopardi esprime nel Discorso: alla domanda come può durare
la società «dopo la strage delle illusioni, e la conoscenza della verità e realtà delle cose, e del loro
peso e valore89» il giovane conte di Recanati risponde che il principio conservatore della società è
la società stessa, la civilizzazione è rimedio di se medesima.
Prima di parlare della situazione italiana, dove la società stretta è assente, è opportuno fare questa
ulteriore considerazione. Leopardi afferma che gli uomini senza la società stretta «menerebbero il
tempo affatto vuoto90». Cosa intende? In queste parole ritroviamo il concetto di noia, uno dei temi
più presenti nelle opere leopardiane. Sulla noia nello Zibaldone troviamo che:
L'assenza di ogni special sentimento di male e di bene, ch'è lo stato più ordinario della vita, non è nè
indifferente, né bene, nè piacere, ma dolore e male. Ciò solo, quando d'altronde i mali non fossero più che i
beni, nè maggiori di essi, basterebbe a piegare incomparabilmente la bilancia della vita e della sorte umana
87A. PLACANICA, Discorso sopra lo stato dei costumi degl'italiani,op. cit., pag. 12 e pag.111.88Zibaldone 578-57989Discorso, pag. 5290Ivi, pag. 51
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dal lato della infelicità. Quando l'uomo non ha sentimento di alcun bene o male particolare, sente in generale
l'infelicità nativa dell'uomo, e questo è quel sentimento che si chiama noia91.
La noia viene vista quindi come la percezione allo stato puro dell'infelicità umana. Nel Discorso
Leopardi sostiene che una buona soluzione per alleggerire il peso della noia può essere nella
collettività: la società stretta permette di occupare totalmente il tempo, e di rimediare al vuoto dei
giorni, al tedio della vita che colpisce le classi più abbienti che non devono riempire il tempo con il
lavoro. Dal momento che non sono più possibili le azioni e la vita degli antichi, perché le loro sane
illusioni sono state distrutte per sempre, l'uomo moderno può, secondo Leopardi, tuttavia essere
meno infelice grazie all'attività e all'azione:
Ma incominciato ed arrivato fino a un certo segno lo sviluppo dell'animo, è impossibile il farlo tornare
indietro, impossibile, tanto negl'individui che nei popoli, l'impedirne il progresso. Gl'individui e le nazioni
d'Europa e di una gran parte del mondo, hanno da tempo incalcolabile l'animo sviluppato. Ridurli allo stato
primitivo e selvaggio è impossibile. Intanto dallo sviluppo e dalla vita del loro animo, segue una maggior
sensibilità, quindi un maggior sentimento della suddetta tendenza, quindi maggiore infelicità. Resta un solo
rimedio: la distrazione. Questa consiste nella maggior somma possibile di attività, di azione, che occupi e
riempia le sviluppate facoltà e la vita dell'animo. Per tal modo il sentimento della detta tendenza sarà o
interrotto, o quasi oscurato, confuso, coperta e soffocata la sua voce, ecclissato. Il rimedio è ben lungi
dall'equivalere allo stato primitivo, ma i suoi effetti sono il meglio che resti, lo stato che esso produce è il
miglior possibile, da che l'uomo è incivilito. Ma un italiano che o per natura o per abito abbia l'animo vivo,
non può in modo alcuno acquistare o ricuperare la insensibilità. Per tanto io lo consiglio di occupare quanto
può più la sua sensibilità. - Da questo discorso segue che il mio sistema, in vece di esser contrario all'attività,
allo spirito di energia che ora domina una gran parte di Europa, agli sforzi diretti a far progredire la
civilizzazione in modo da render le nazioni e gli uomini sempre più attivi e più occupati, gli è anzi
direttamente e fondamentalmente favorevole (quanto al principio, dico, di attività e quanto alla civilizzazione
considerata come aumentatrice di occupazione, di movimento, di vita reale, di azione, e somministratrice dei
mezzi analoghi), non ostante e nel tempo stesso che esso sistema considera lo stato selvaggio, l'animo il
meno sviluppato, il meno sensibile, il meno attivo, come la miglior condizione possibile per la felicità
umana92.
La società stretta, (costituita da Leopardi, come abbiamo detto, un’élite socio-economica di
borghesi e nobili), viene vista dunque come una positiva distrazione, perché per Leopardi la vita
occupata, in mancanza di sensazioni vive e varie, è la più felice. Infatti l’animo occupato è
91Zibaldone 449892Zibaldone, 4186-4188
41
«distratto da quel desiderio innato che non lo lascerebbe in pace, [...] così che è distratto da desideri
maggiori, e non ha campo di affliggersi della vanità e del vuoto delle cose93».
La distrazione, come «maggior somma possibile di attività», è favorita dalle concrete condizioni
storiche in cui si trova a vivere l’uomo. Quindi sarà più facile in Francia, in Inghilterra e in
Germania, dove fervono le attività industriali e commerciali, dove fioriscono le professioni, dove
c’è società stretta, che in Italia, dove al contrario la mancanza di società stretta e del suo buon
tuono (bon ton in francese) impediscono, secondo Leopardi, il passaggio della società italiana alla
compiuta modernità.
Come è noto, la classe che cerca sempre più ampio spazio nell'Europa del tardo XVIII secolo e dei
primi decenni dell' XIX secolo è quella che si definisce come borghesia94, ossia la classe sociale
intermedia tra il proletariato e l'aristocrazia, costituita da coloro che possiedono i mezzi di
produzione e da quei gruppi sociali, come professionisti, commercianti, artigiani, che ne
condividono valori, ideali, aspirazioni, modi di vivere. L'affermazione di questa classe, pur
differenziata secondo tipologie nazionali, politiche e ideologiche, si dimostra capace di plasmare,
con la propria irresistibile ascesa, un intero periodo storico, definito appunto "l'età della borghesia".
Anche sotto la «crosta conservatrice e tradizionalista della Restaurazione, si diffusero infatti in
misura crescente nella società europea valori e modelli di comportamento borghesi95», che
riflettevano la crescita di gruppi di imprenditori, commercianti e uomini d'affari. Più accentuato in
Inghilterra, Francia e nel Belgio, dove il peso dei ceti finanziari e imprenditoriali aumentò di pari
passo con la loro ascesa economica, tale fenomeno non interessò nella stessa misura gli altri paesi
(tra cui l'Italia), in cui questi ceti emergenti costituivano ancora ristette minoranze.
Al di fuori della nostra penisola, lo sviluppo della borghesia si concentrò su diversi aspetti che è
opportuno analizzare: innanzitutto il declino del potere economico e sociale della nobiltà e la
relativa tendenza all'imborghesimento delle sue opzioni produttive e professionali; rivoluzione
agraria (ammodernamento delle tecnologie e abbandono degli antichi rapporti giuridico- sociali
nelle campagne, con il consolidamento della produzione e del prestigio economico dei fittavoli a
danno dei contadini); rivoluzione industriale (l' espulsione dalle campagne dei contadini e il loro
inserimento nel mercato del lavoro industriale nelle grandi città; l'utilizzo dei capitali, provenienti
dall'agricoltura, in investimenti industriali e commerciali); costituzione dei grandi agglomerati
urbani a caratterizzazione industriale, con conseguente creazione di una forte modernizzazione delle
strutture collettive.
93Ivi, 172.94Si veda su tutti il fondamentale lavoro di E. HOBSBAWM Il trionfo della borghesia. 1848-1875, Roma-Bari, Laterza, 1976. 95T DETTI, Storia contemporanea, I. L'Ottocento, Bruno Mondadori, Milano 2000 (in collab. con G. GOZZINI), pag. 95
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Nel nostro paese durante i primi decenni dell'Ottocento la borghesia italiana era invece pressoché
assente: rispetto alla Gran Bretagna, alla Germania e alla Francia, in Italia il processo di
affermazione delle borghesie inizia soltanto nell'ultimo quarto dell'Ottocento e avviene comunque
nell'ambito di una società che vede la persistenza di mentalità, istituzioni e meccanismi economici
tipici dell'ancien régime. Quindi, come ha sottolineato A.M. Banti, ai tempi di Leopardi si può
parlare propriamente solo di «élites lombarde, piemontesi e toscane», e non di borghesia italiana
anche perché non si è ancora venuto a creare quel contesto italiano, «che è [...] piuttosto
incontrovertibilmente, quello che si formò a partire dal 186196», quando fu proclamato il Regno
d'Italia.
In Italia il radicamento fondiario, e la prospettiva dell'ascesa economica attraverso il rafforzamento
delle strutture proprietarie, legate alle ricchezza immobiliare, hanno da tempo caratterizzato la
stessa borghesia in ascesa (ma debolissima) e le sue scelte politiche. Lungi dal verificarsi un
imborghesimento della nobiltà (almeno nella scala dei valori e delle scelte economico sociali e
culturali), nel nostro paese si verifica per lo più l'opposto: cioè il subentrare di nuove famiglie
borghesi alle vecchie famiglie nobili col mantenimento delle solite opzioni economiche legate alla
terra e al suo arcaico sfruttamento in funzione di rendite dominicali, al di qua quindi di ogni
moderna logica di profitto (rafforzamento produttivo e conquista dei mercati).
Le classi commerciali e manifatturiere italiane rimanevano di dimensioni relativamente ristrette
tanto più se paragonate a quelle britanniche, tedesche e francesi; e perfino nei grandi centri la loro
presenza era limitata. Perfino a Milano, la città economicamente più avanzata d'Italia, il settore
imprenditoriale era modesto. Nel 1838 c'erano appena 42 banchieri, 25 cambiavalute, e 196
produttori tessili in una popolazione di quasi 150. 000 persone (i principali prodotti industriali
lombardi erano la seta e il cotone). C'erano poi alcune centinaia di commercianti all'ingrosso che
trattavano una varietà di prodotti agricoli e industriali (cereali, zucchero, cuoio e tessili): in tutto
poco più di un migliaio di persone, ai quali bisogna aggiungere 4700 proprietari terrieri (3000 dei
quali nobili) e una classe media professionale che contava 170 avvocati e 500 ingegneri97.
La vita socio-economica della penisola era quindi locale e frammentata, e le élites (ceto medio-alto)
incapaci di un radicale rinnovamento: dunque, una società sostanzialmente vecchia nonostante le
apparenti novità indotte dalla redistribuzione di redditi e cariche nell'era napoleonica. A tal
proposito G. Cantatano ha scritto:
96Sui valori e, in generale, sull'universo complessivo del mondo borghese dell'età liberale in Italia nei suoi diversi aspetti e caratteristiche si faccia riferimento a A. M. BANTI, Storia della borghesia italiana. L'età liberale, Donzelli, Roma 1996. Citazione a pag. XVI, Introduzione.97Traggo queste informazioni preziose da C. DUGGAN, La forza del destino. Storia d'Italia dal 1796 a oggi, Laterza, 2008
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Pertanto, l'assenza di società stretta e del suo buon tuono, impediscono, secondo Leopardi, il passaggio dalla
società moderna alla compiuta modernità. Nel senso che la produzione degli individui, in Italia, resta affidata
alla sfera pre-moderna dei rapporti naturali, la famiglia. Mentre in Europa non è più la tradizione, il
cattolicesimo, né la natura, i rapporti consanguinei della famiglia, a plasmare la coscienza dell'individuo.
Sono invece i rapporti formali e convenzionali della società, delle istituzioni, dello Stato. Perché è ormai
così, nel resto d'Europa, che si forma l'individuo moderno. [...]Mentre in Italia, perfino nelle classi più
elevate e colte, la sua formazione continua ad essere affidata alla stanca reiterazione della tradizione. Sul
modello biologico, naturale. All'interno di aggregati organici, influenzati dal localismo, dal familismo. Ecco
la modernità arretrata o l'arretratezza moderna dell'Italia colta da Leopardi, quel passato che non passa.98
Un motivo di questa arretratezza, oltre a cause storiche legate a secoli di frammentazione politica,
era anche legato alla scarsa livello di educazione e di cultura della maggior parte degli italiani. La
distanza sul terreno della cultura tra l'Italia e altri paesi più moderni era enorme. Se nel 1861, al
momento del primo censimento, gli analfabeti erano oltre il 78%99, la preoccupante situazione,
come si può immaginare, era ancora più grave durante gli anni in cui Leopardi scriveva il Discorso.
Per rigenerare l'Italia, giunta all'estremo del suo avvilimento, occorreva secondo Leopardi formare
il cittadino e il popolo anche con gli strumenti della cultura. La lettera a Giuseppe Montani del 21
maggio 1819 è un documento interessante del pensiero leopardiano sull’Italia di allora:
Secondo me non è cosa che l'Italia possa sperare finattanto ch'ella non abbia libri adattati al tempo, letti ed
intesi dal comune de' lettori, e che corrano dall’un capo all'altro di lei; cosa tanto frequente fra gli stranieri
quanto inaudita in Italia. E mi pare che l'esempio recentissimo delle altre nazioni dimostri chiaro quanto
possano in questo secolo i libri veramente nazionali a destare gli spiriti addormentati di un popolo e produrre
grandi avvenimenti. Ma per corona de' nostri mali, dal seicento in poi s'è levato un muro fra i letterati ed il
popolo, che 'sempre più s'alza, ed è cosa sconosciuta appresso le altre nazioni [...]100
Leopardi non è dunque affatto un intellettuale sradicato dal proprio contesto storico e sociale, ed è
proprio il Discorso che ne dimostra la capacità di cogliere, nonostante l'isolamento, il clima della
società italiana durante gli anni successivi al Congresso di Vienna. In un suo saggio Bruno Biral101
ha scritto che nel Discorso, con nel cuore «un disprezzo per l'ambiente recanatese e per la società
letteraria romana», Leopardi, pur con modeste esperienze sociali, riesce a cogliere con profondità ed
lucidità i limiti del costume civile italiano: individualismo, dipendenza da una classe arretrata di 98G. CANTARANO in L'unità nazionale nella filosofia italiana: dal Rinascimento al Risorgimento e oltre : atti del Convegno nazionale del Centro per la filosofia italiana, Roma Montecompatri, 2-10-17 dicembre 2011. In particolare pag. 55-65.99Veniva considerato non analfabeta anche chi era soltanto in grado di apporre la sua semplice firma. 100 Di G. Leopardi, 21 maggio 1819, Epist., I, 1044, op. cit.101B. BIRAL, La posizione storica di Giacomo Leopardi, Piccola biblioteca Einaudi, Filologia. Linguistica. Critica letteraria, Torino 1974.
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possidenti, la mancanza di circolazione culturale, l'assenza di onore. Ma soprattutto riesce ad
indicare l'autentica radice di questi mali, che è il mancato sviluppo della struttura economica
(capitalistica) del Paese.
Su questo tema anche Placanica ha enfatizzato il ruolo di guida della borghesia nel processo di
crescita civile e di modernizzazione, sostenendo che «Leopardi sente ormai l'ampiezza della
trasformazione capitalistica, la forza e il dinamismo che pervade le società nuove102», fondate
sull'etica dell'onore, ossia sul pubblico riconoscimento dei meriti personali.
Questa considerazioni sembrano portare al nucleo filosofico della sociologia marxista: ossia l'idea
del primato dell'economico sul culturale. Sicuramente Leopardi, sfruttando la sua grande capacità
di percepire i fenomeni e le relazioni umane, vede l'Europa (grazie alla conoscenza della
pubblicistica del tempo che lo teneva informato sugli avvenimenti degli altri paesi) pervasa da un
forte cambiamento sociale a tal punto da aprire il Discorso affermando come il suo secolo fosse
caratterizzato da un forte «incremento dello scambievole commercio e dell’uso de’ viaggi».
Al di là comunque di ogni forzatura ideologica103 (liberale, progressiva, marxiana...), a mio avviso,
ciò che conta davvero è che a Leopardi dappertutto l'ambiente sociale italiano appariva ormai
vecchio, cronicamente e inguaribilmente ammalato: soprattutto perché non si delineava all'orizzonte
un ricambio effettivo, fatto di classi sociali nuove poggianti su fondamenta nuova ed evolutesi con
meccanismi nuovi, ma soltanto nuovi protagonisti cresciuti all'ombra dell'antico e soddisfatti di
partecipare alla gestione della società antica.
Sintetizzando possiamo dire che nel Discorso Leopardi si chiede quali classi sociali possano farsi
portatrici di un rinnovamento, trovando la risposta che solo le classi medie e medio-alte (affrancate
dalle incombenze del lavoro materiale) possono adempiere a questo compito. Leopardi invita a
partire dall’alto, dai modi di comportamento e dalla cultura che informano la società civile.
La convinzione del ruolo strategico delle élites germina anche dalla sua profonda convinzione che l’
uomo, essendo come detto animale imitativo per eccellenza, ha sempre bisogno di ceti in grado di
dare esempi virtuosi per l’ intera compagine sociale. Viceversa, se l’input, il quale viene da chi ha
un ruolo sociale preminente, sarà di bassa lega o vizioso, i danni per il corpo sociale saranno
enormi. Agli occhi di Leopardi la classe dirigente d'Italia appare inadeguata; figlia ed espressione
di uno sviluppo mancato. L' Italia sebbene «priva come l’altre» nazioni «d’ogni fondamento di
morale, [...] è priva ancora di quel genere di stretta società» che agli occhi di Leopardi è
102A. PLACANICA, Discorso sopra lo stato dei costumi degl'italiani,op. cit. pag.88103 La vicenda della interpretazioni leopardiane può essere sintetizzata così: una prima fase (1947-anni '70) che comprende Luporini, Binni, Biral, Timpanaro, i quali vedono un Leopardi progressivo, antagonista, o democratico avanzato; una seconda fase, neogramsciana (anni '70-80), che propone un Leopardi premoderno, perché preborghese, immagine per nulla progressiva dell'intellettuale che sperimenta lo sradicamento delle epoche di passaggio; la terza fase, attuale, caratterizzata da idee di lettura politica slegate dalle letture precedenti, verso una definizione etica (poetica e politica insieme) della scrittura leopardiana.
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fondamentale per iniziare un'efficace opera di civilizzazione (società stretta come una sorta di
medicina, come detto in precedenza, in grado di rimediare ai mali stessi operati dal progresso della
civiltà) e di produzione di cultura.
La mancanza di un ceto medio-alto che sia cardine della società civile è quindi uno dei problemi più
importanti, il quale non fa altro che aggravare altri mali atavici presenti in Italia come il nichilismo
e lo scetticismo; dissipazione comunicativa; cinismo; mancanza di una cultura nazionale;
comportamenti dettati non da costumi, ma da mera abitudine; mancanza di senso progettuale, vita
vissuta soprattutto nella dimensione del presente.
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III. 2 L'impalcatura filosofica del Discorso:
L'impalcatura del Discorso è massicciamente speculativa e filosofica. Leopardi delinea infatti un
quadro della realtà italiana che mentre sembra derivato da un'analisi pragmatica e sociologica del
presente, nel tono e nelle conclusioni si attiene a un piano speculativo, disponendosi più come
massima universale che come considerazione particolare e contingente: il punto di maggior
concretezza della riflessione sui costumi degli italiani segna, pertanto, anche il momento del suo
assorbimento nella sfera della meditazione filosofica.
Mano a mano che ci si addentra nella lettura del Discorso, un lettore colto e attento può trovare
nelle riflessioni leopardiane rimandi e connessioni profonde con le idee dei più grandi intellettuali
della storia della filosofia, non solo a lui anteriori ma anche contemporanei. Soprattutto le note,
inserite da Leopardi per chiarire ed approfondire diversi punti del Discorso, dimostrano la sua
vastissima cultura filosofica, che fa da base per il «suo sistema»104 filosofico.
Vorrei iniziare dall'influsso di Montesquieu all'interno del trattato leopardiano: Charles De
Secondat, barone di Montesquieu (1689 – 1757), è stato uno dei primi a mettere in luce con stile
vivace e persuasivo l'influenza delle circostanza fisiche e specialmente del clima sul temperamento,
sulle leggi, sulla vita politica dei popoli e sul loro carattere105.
In Lo spirito delle leggi, la sua opera fondamentale scritta nel 1748, scrive:
Se è vero che il carattere spirituale e le passioni sono estremamente diverse nei
diversi climi, le leggi avranno da essere relative alla differenza di tali passioni e di
tali caratteri. […] Nei climi freddi si ha dunque maggior vigore. [...] Questa maggior
forza non può non produrre svariati effetti: per esempio maggior confidenza in se
stessi, cioè maggior coraggio; consapevolezza della propria superiorità, cioè minor
desiderio di vendetta; maggior senso di sicurezza, cioè piú franchezza, meno sospetti
e meno intrighi politici. Essa produrrà inoltre caratteri diversi e tipici. Si immagini un
uomo racchiuso in un luogo caldo: egli soffrirà, per ciò stesso, di grande
prostrazione. Se, in tale circostanza, gli si propone una azione coraggiosa, ne sarà
tutt'altro che entusiasta; per la sua attuale debolezza, la sua anima sarà invasa dallo
scoraggiamento; egli avrà paura di tutto, avrà la sensazione di non potere nulla. I
popoli dei paesi caldi sono vili come lo sono i vecchi; quelli dei paesi freddi
coraggiosi come i giovani. […]
104Zibaldone, 637105 Le interpretazioni deterministe (determinismo climatico, 18°-19° sec. soprattutto) oggi sono state chiaramente superate a favore di studi che privilegiano l’adattamento e la risposta culturale delle diverse civiltà al clima e ai suoi mutamenti.
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Nei paesi freddi si avrà scarsa sensibilità per i piaceri; essa sarà maggiore nei paesi
temperati, estrema nei paesi caldi. Cosí come si distinguono i climi mediante i gradi
di latitudine, li si potrebbe anche distinguere, per cosí dire, mediante i gradi della
sensibilità. [...]Nei climi nordici troverete popoli che hanno pochi vizi e molte virtú,
grande franchezza e sincerità. Avvicinatevi al mezzogiorno, e avrete l'impressione di
allontanarvi dalla morale stessa: passioni piú vive moltiplicheranno i delitti; ciascuno
cercherà di prevalere sugli altri per dare piú libero sfogo a queste stesse passioni. Nei
paesi temperati troverete invece popoli incostanti nel loro comportamento, sia nei
loro vizi che nelle loro virtú; il clima non è sufficientemente caratterizzato per poter
determinare con maggior precisione i loro caratteri.
Il calore in certi climi può essere cosí eccessivo da privare totalmente il corpo della
sua forza. La fiacchezza si comunicherà allora allo spirito stesso; non si avrà piú
alcuna curiosità, alcun desiderio di nobili imprese, alcun sentimento generoso; le
inclinazioni saranno tutte passive; la felicità sarà identificata con la pigrizia106 [...].
I testi di Montesquieu (in parte vi è comunque anche l'influsso di Voltaire) mostrano come da essi
Leopardi colga la centralità del rapporto tra situazione geografico-climatica e condizioni di vita e
cultura di un popolo. Leopardi ammirava il pensiero del filosofo francese, e la sua teoria del clima è
presente anche nel Discorso. In particolare si legga questo passo:
Gl'italiani dal tempo della rivoluzione in poi, sono, quanto alla morale, così filosofi,
cioè ragionevoli e geometri, quanto i francesi e quanto qualunque altra nazione, anzi
il popolo, il che è degno di osservarsi, lo è forse più che non è quello d'altra nazione
alcuna. [...] la nazione italiana presa insieme e paragonando classe a classe conforme
e corrispondente tra lei e l'altre nazioni, è appresso a poco a livello con qualunque
altra più civile e più istruita d'Europa o d'America. Per conseguenza da questa parte
ella è priva come l'altre d'ogni fondamento di morale, e d'ogni vero vincolo e
principio conservatore della società. Ma oltre di questo, a differenza delle dette
nazioni, ella è priva ancora di quel genere di stretta società definito di sopra. Molte
ragioni concorrono a privarnela, che ora non voglio cercare. Il clima che gl'inclina a
vivere gran parte del dì allo scoperto, e quindi a' passeggi e cose tali, la vivacità del
carattere italiano che fa loro preferire i piaceri degli spettacoli e gli altri diletti de'
sensi a quelli più particolarmente propri dello spirito, e che gli spinge all'assoluto
divertimento scompagnato da ogni fatica dell'animo e alla negligenza e pigrizia107
106I passi di Montesquieu sono tratti da Grande Antologia Filosofica, Marzorati, Milano, 1968, vol. XIV, pag. 509, in particolare Montesquieu, Lo spirito delle leggi, XIV, 1-2; XVII, 2; XVIII, 1, 2, 4 .107Discorso, pag.56.
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Per Leopardi il clima mite induce gli italiani ad una vita all'aperto e dunque alla messa in valore
degli aspetti esteriori dell'esistenza (i vestiti, gli spettacoli). La vita all'aperto è per Leopardi tutta a
svantaggio della vita interiore e di tutto ciò che attiene insomma le zone alte dello spirito. Sul
rapporto tra il clima e il carattere nazionale Leopardi si sofferma anche nello Zibaldone, in una
pensiero datato 15 febbraio 1824:
Certo le condizioni sociali e i governi e ogni sorta di circostanze della vita influiscono
sommamente e modificano il carattere e i costumi delle varie nazioni, anche contro
quello che porterebbe il rispettivo loro clima e l'altre circostanze naturali, ma in tal
caso quello stato o non è durevole, o debole, o cattivo, o poco contrario al clima, o
poco esteso nella nazione, o ec. ec. E generalmente si vede che i principali caratteri o
costumi nazionali, anche quando paiono non aver niente a fare col clima, o ne
derivano, o quando anche non derivano e vengano da cagioni affatto diverse, pur
corrispondono mirabilmente alla qualità d'esso clima o dell'altre condizioni naturali
d'essa nazione o popolo o cittadinanza ec108.
Un'altra tematica interessante presente nel Discorso è il concetto di uomo come «animale imitativo
e d'esempio» (assai frequente anche nelle pagine dello Zibaldone). Per Leopardi l'uomo è pervaso
dal desiderio di imitare i suoi simili. Per cui Leopardi, in un passo del Discorso citato anche in
precedenza, scrive che:
Una parte maggiore o minore, ma sempre una qualche parte, non solo della sua
condotta, non solo del suo carattere, de’ suoi costumi, non solo del suo animo
generalmente, ma del suo stesso intelletto, e del suo modo di pensare, dipende, imita,
si regola, è modificata dall’esempio altrui109 […]
In Leopardi l'idea di imitazione è sempre strettamente connessa a quella di assuefazione, e infatti
nella nota che segue la citazione riportata sopra, egli ci si sofferma approfonditamente:
Anche gli uomini più duri, ostinati, inflessibili, indipendenti, renitenti ai consigli, ai
desideri, alle opinioni altrui, nell’operare o nel pensare, nei sistemi di vita o di
credenze, fanno però grandissima e forse la maggior parte di quel che fanno,
credono la maggior parte di quel che credono, perciò solo che gli altri lo credono, lo
fanno, lo costumano, lo gradiscono. L’uomo il più singolare, il più libero, il più
brusco e selvatico, sia nella condotta, sia nelle opinioni e giudizi di qualunque sorta
108Zibaldone 4031.109Discorso, pag. 59.
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(se egli vive in società) non lo è veramente se non in piccola parte della sue azioni e
de’ suoi pensieri. In tutto il resto egli è determinato e modificato dagli altri.110 [...]
Il concetto di assuefazione, ossia l'adattamento dell'uomo imitando gli altri, è così importante nel
pensiero leopardiano che viene esteso a tutte le facoltà umane, facendolo diventare vero e proprio
principio di tutta la natura dinamica dell'uomo. Secondo Leopardi, tale concetto spiega anche il
perché l'uomo moderno sia così diverso da quello antico, a tal punto da essere arrivato a una sorta di
«seconda natura». In pratica si potrebbe affermare che la storia dell'uomo civilizzato è la storia delle
sue assuefazioni, cioè della possibilità di trasformazione della mente umana.
La capacità di assuefazione, collegata quindi alla sua conformabilità, è inoltre secondo Leopardi
ciò che distingue l'uomo dagli altri animali. Ciò che ci interessa in questa sede è capire da dove
Leopardi tragga spunto per queste riflessioni sull'imitazione e l'assuefazione dell'uomo. Anche qui
la critica al Discorso, soprattutto perché il concetto è rilegato in una nota al testo, non approfondisce
la questione.
Per l'idea di assuefazione, qui sviluppata nel Discorso, Leopardi ha come fonte le riflessioni del
filosofo inglese John Locke (1632 - 1704) e del francese Étienne Bonnot de Condillac (1715-1780):
del primo sono presenti nella biblioteca di Casa Leopardi sia l'Essai philosophique concernant
l'Entendement humain traduit de l'anglais par Pierre Coste (Amsterdam 1723), sia il Saggio
filosofico su l'umano intelletto compendiato dal dott. Winne e tradotto da Francesco Soave (Venezia
1794); mentre il secondo autore è presente nella biblioteca di Casa Leopardi con il Cours d’étude
pour l’instruction des jeunes gens, et qui a servi à l’éducation du Prince de Parme111 (1755), che in
effetti costituisce un abregé dell’Essai sur l’origine des connoissances humaines (1746). Il nome di
Condillac ritorna anche in una scheda autografa di Leopardi databile al 1825 in cui l’Essai del
filosofo francese è individuato nell’edizione in 3 volumi del 1777.
Il filosofo illuminista Condillac, prendendo come punto di partenza proprio il filosofo liberale
Locke (il quale riteneva che tutte le conoscenze derivano dall'esperienza), sostiene che l'intero
sviluppo delle facoltà umane derivi dall'esperienza possibile (sensismo). In pratica nell'uomo non
esiste nulla che non sia stato acquisito, e ogni innatismo viene cosi rifiutato alla base. Il Discorso
dimostra quindi l'adesione di Leopardi al sensismo illuministico, visibile nelle riflessioni trattate
nello Zibaldone tra gli anni 1819 e 1823.
É assai interessante notare che la posizione teorica sul sensismo viene contraddetta da alcune
intuizioni leopardiane di stampo platonico, in particolare per quanto riguarda la capacità creativa
110Discorso, pag. 60, nota h. Su questo tema si veda anche il recentissimo articolo di R. BODEI, Noi, forgiati dalle vite degli altri, in Il sole 24 ore, 6/10/2013.111Le informazioni sulle edizioni di opere di Locke e Condillac presenti in casa Leopardi sono state tratte da F. CACCIAPUOTI, Dentro lo Zibaldone. Il tempo circolare della scrittura di Leopardi, Roma, Donzelli, 2010, pp. 12 e 89.
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della memoria. Tale allontanamento dal sensismo, base gnoseologica dei filosofi dell'illuminismo
francese, compare al di fuori dello Zibaldone, e lo si trova piuttosto nei Canti, come ha notato
Franco Ferrucci, il quale sostiene che «quando Leopardi è poeticamente ispirato tende a distanziarsi
dalle sue stesse teorie di stampo deterministico112».
Tornando all'analisi dei punti filosofici più importanti all'interno del Discorso, è opportuno
analizzare la seguente nota leopardiana relativa all'inclinazione dell'uomo a seguire l'autorità, intesa
come autorità di opinione:
Dalla tendenza dell’uomo a imitare, massimamente i suoi simili, nasce in parte quella
sua inclinazione a seguire l’autorità sì nel risolvere e nell’operare che nel giudicare e
nel credere, inclinazione incontrastabilmente propria dell’uomo, non solo dell’uomo
debole, ma di tutti gli uomini più o meno, posti che sieno in relazione cogli altri.
[...]L’autorità ha sempre e inevitabilmente qualche o maggiore o minor parte nelle
determinazioni qualunque di qualunque mente, e massime di quelli che vivono in
società [...] Egli prova un certo piacere, un senso di riposo, un’opinione o una
confusa immaginazione di sicurezza, ricorrendo all’autorità, assidendosi sotto
l’ombra sua, e pigliandola come per ischerno delle determinazioni sì del suo
intelletto che della sua volontà, nella tanta incertitudine delle cose e della vita. La
ragione che gli dimostra la vanità ed insufficienza di questo schermo, non basta a
fare che egli in qualche modo non se ne prevaglia quasi sempre. E per lo contrario
essa ragione di rado può fare in qualsivoglia grande e forte spirito che una credenza o
una risoluzione presa contro l’avviso degli altri, e massime de’ più prossimi e
presenti, non che de’ più stimati, non sia sempre accompagnata da un qualche
sospetto e timore di avere errato e di errare, non ostante che ella si riconosca per
ragionevolissima quanto arriva a vedere il proprio pensiero e giudizio, e il contrario
avviso per falsissimo e privo di fondamento e cattivissimo. L’uomo preferisce
sovente l’avviso degli altri al consiglio proprio, o trovando quello conforme a questo,
è più mosso e riposa più sopra quello che sul proprio giudizio, anche nelle cose
dov’egli riconosce gli altri per molto inferiori a se d’intelligenza di pratica e simili.
Ciò nasce che le cause che determinano se stesso si veggono interamente, le altrui
non così bene, onde si stimano di più. L’uomo ha bisogno in tutto dell’illusione; e
della lontananza od oscurità degli oggetti per valutarli113
Questa lunga nota rappresenta uno dei passi più alti dal punto di vista filosofico all'interno
dell'opera. Leopardi qui si dimostra profondamente influenzato dal famoso mito platonico della
caverna. 112F. FERRUCCI, Il formidabile deserto. Lettura di Giacomo Leopardi, Fazi Editore, 1998, pag. 55.113 Discorso, pag. 61-61, nota i.
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É bene quindi fare una breve sintesi del mito prima di approfondire il passo.
Nel mito platonico ci sono dei prigionieri incatenati in una caverna sotterranea e costretti a guardare
solo davanti a sé. Sul fondo della caverna si riflettono immagini di statuette, che sporgono al di
sopra di un muro alle spalle dei prigionieri e raffigurano tutti i generi di cose. Dietro il muro si
muovono, senza essere visti, i portatori delle statuette, e più in là brilla un fuoco che rende possibile
il proiettarsi delle immagini sul fondo. Non avendo potuto vedere nient'altro, i prigionieri,
osservando le ombre, pensano che questa sia l'unica realtà. Ma se uno dei prigionieri riuscisse a
liberarsi e a fuggire, scoprirebbe che la vera realtà non sono né le ombre, né le statuette stesse, ma il
mondo fuori dalla caverna, illuminato dal sole (per Platone l'idea del Bene che tutto rende possibile
e conoscibile). L'uomo che è fuggito dalla caverna e ha visto tutto si trova in una situazione
piuttosto ambigua: da un lato vorrebbe rimanere all'aperto, dall'altro sente il bisogno di far uscire
anche i suoi amici incatenati; alla fine decide di calarsi nella caverna e quando arriva in fondo non
vede più niente, è come accecato. Sostiene di essere tornato per condurli in un'altra realtà, ma essi
lo deridono perché non riesce più neppure a vedere le ombre riflesse sul fondo. Lui però continua a
parlar loro del mondo esterno ma i suoi "amici" lo deridono e si arrabbiano, arrivando addirittura a
picchiarlo.
La «confusa immaginazione di sicurezza», l'ombra e lo schermo dell'autorità, la lontananza e
l'oscurità degli oggetti che ci sentiamo di valutare, sono usati quindi da Leopardi con evidente
rimando a Platone. Si può quindi affermare che l'intero brano sia debitore delle immagini delle
visioni ingannevoli che il prigioniero del mito platonico ha all'interno della caverna.
L'indubbio fascino del racconto platonico, uno dei miti più noti della Repubblica e del platonismo
in generale, ha profondamente influenzato la letteratura dei secoli successivi, e Leopardi non sfugge
a questa suggestione filosofica, pur con sostanziali divergenze: noi siamo sì come questi uomini
nella caverna che scambiano le ombre proiettate sul fondo (illusioni) per verità, ma il concetto
fondamentale espresso da Leopardi è che, invece del mondo immortale delle idee, tali ombre
mascherano la sostanza del nulla.
L'intera nota leopardiana va considerata quindi come un'applicazione del tema delle illusioni al
bisogno di autorità. Se quindi la fisica leopardiana rimane profondamente influenzata dal sensismo
settecentesco, la metafisica di Leopardi qui appare come un platonismo rovesciato in chiave
negativa. La denuncia leopardiana all'uomo che si accontenta del principio di autorità e delle idee
ricevute è quindi un invito a chi ancora intenda provare a pensare con la testa propria.
Lo stesso Leopardi, infatti, si raffigurava come «una persona che pens[a] alquanto diversamente
dagli altri» (lettera a Pietro Giordani dell’8 agosto 1817), profetizzava la sua vita con «un continuo
disprezzo di disprezzi e derisione di derisioni» (lettera a Pietro Giordani del 2 marzo 1818) e diceva
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di curarsi «poco [...] dell’opinione degli uomini» (lettera a Carlo Leopardi di fine luglio 1819)114.
Agli occhi del lettore colto del Discorso, Leopardi si pone come lo schiavo liberato del mito della
caverna, il quale ha il dovere di tornare tra i compagni schiavi imprigionati (gli altri uomini) e di
farli partecipi delle proprie conoscenze, pur consapevole di non venire ascoltato.
L'influsso del mito platonico della caverna qui nel Discorso è interessante perché permette anche un
suggestivo collegamento con il versetto evangelico posto in epigrafe alla Ginestra, la sua ultima
lirica composta a Torre del Greco nella primavera del 1836:
E gli uomini vollero piuttosto le tenebre che la luce (Giovanni, III, 19)
Il contesto materialistico e antireligioso del componimento costringe a rovesciare il senso che nel
testo di Giovanni hanno i termini tenebre e luce: mentre, secondo l'evangelista, la luce è la parola
divina, secondo Leopardi la luce è la coscienza della solitudine e dell'infelicità umana. Alle tenebre,
proprio come nella caverna mitica, appartengono, secondo Leopardi, tutte le illusioni, religiose e
laiche, che allontanano da questa presa di coscienza dolorosa ma necessaria. La Ginestra contiene
la descrizione più pessimistica dell'esistenza accanto a un elogio della filosofia dei lumi, ed è quindi
non da escludere, nel riferimento alla luce, una allusione anche alla corrente illuministica.
Passiamo adesso all'analisi di una delle ultime note del Discorso, nella quale Leopardi parla del
romanzo e del pensiero filosofico- culturale tedesco:
Se v’ha letteratura nella quale a’ tempi nostri (e ne’ prossimi passati) sieno ancora in
uso i sistemi e i romanzi di opinione, questa è l’inglese, e molto più la tedesca, perché
propriamente fra’ tedeschi si può dire che non v’ha letterato di sorta alcuna che o non
faccia o non segua un deciso sistema, e questo è per lo più, come è il solito e l’antico
uso dei sistemi, un romanzo. I più pazienti ed assidui osservatori, che sono senza fallo
i tedeschi, i più studiosi ed applicati a imparare e informarsi, sono per una curiosa
contraddizione i più romanzeschi. In Germania e in parte anche in Inghilterra v’ha
continuamente sistemi e romanzi in ogni letteratura, in filosofia qualunque, in
politica, in istoria, in critica, in ogni parte di filologia, fino nelle grammatiche,
massime di lingue antiche. Da gran tempo non esiste in Europa alcuna setta né scuola
particolare di una tal filosofia, molto meno metafisica, fuorché in Germania negli
ultimissimi tempi, e credo anche oggi, la setta e scuola, appunto metafisica, di Kant,
suddivisa ancora in diverse setta, e prima di Kant quella di Wolf. Il sistema del
romanticismo, che ha reso sistematica anche la poesia, non appartiene che a’
settentrionali, e massime a’ tedeschi115.114Di G. Leopardi, Epist., op. cit., 115Discorso, pag. 80-81, nota s.
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É un passo notevole perché ci permette di capire sia cosa Leopardi intenda con romanzo sia ci
permette di fare alcune riflessioni sul rapporto tra Leopardi e i pensatori tedeschi.
Per Leopardi il romanzo è un'invenzione fantastica e filosofica più che un genere letterario basato
sulla narrazione e sull'osservazione della realtà fattuale. Romanzo e spirito di sistema sembrano
equivalersi, e conseguentemente a Leopardi, secondo questa concezione, anche i trattati metafisici
di Wolf, e di Kant dovettero apparirgli come romanzi.
Christian von Wolff o Wolf (1679-1754) fu il più eminente filosofo tedesco nel periodo tra Leibniz
e Kant. Fu infatti allievo di Leibniz a Lipsia, e viene considerato il suo continuatore tanto nel
campo dell'etica quanto nel razionalismo, talora ingenuo, del suo atteggiamento (da cui la
volterriana satira del Candide); anche se, nel campo metafisico e speculativo, egli abbandonò la
dottrina delle monadi. La sua opera riguarda praticamente ogni aspetto della dottrina filosofica del
suo tempo, esposta e spiegata con il suo metodo matematico dimostrativo-deduttivo che
probabilmente rappresenta il picco della razionalità illuministica in Germania.
Non sappiamo cosa Leopardi avesse letto di Wolf, anche se è lecito supporre che di questo filosofo
egli conoscesse poco più del nome. Molto probabilmente Leopardi aveva letto pochissimo anche di
Immanuel Kant (1724- 1804), e questa ipotesi spiegherebbe lo scarso approfondimento che viene
fatto qui in questa nota del Discorso o in altri passi, assai frettolosi, contenuti nello Zibaldone.
Di sicuro sappiamo che il giovane Leopardi si era dato allo studio delle lingue, senza però arrivare
a leggere in modo corrente quella tedesca, la quale suscitò sempre il suo interesse. Parecchie
conoscenze lo avvicinarono alla cultura tedesca: vi furono infatti lo zio Carlo Antici (che fu paggio
alla corte di Monaco); un canonico tedesco che frequentava casa Leopardi; la lettura dell’opera De
l’Allemagne di M.me de Staël; e la consultazione dei sette volumi di storia della letteratura
universale di un ex-gesuita spagnolo editi nel 1763. Si aggiungano le amicizie con illustri tedeschi:
il Niebuhr, il Tirsch, lo Schultz, che scriverà in Germania la prima monografia sul poeta italiano.
Tornando a Kant, se in Zibaldone 946 compare nella lista dei «gran pensatori», in un altro pensiero,
30 agosto 1822, il giudizio di Leopardi è assai negativo:
I tedeschi incontrano molto meglio e molto più spesso nel vero quando scherzano, o
quando parlano con una certa leggerezza e guardando le cose in superficie, che
quando ragionano: e questo o quel romanzo di Wieland contiene un maggior numero
di verità solide, o nuove, o nuovamente dedotte, o nuovamente considerate, sviluppate
ed espresse, anche di genere astratto, che non ne contiene la Critica della ragione di
Kant. [...]116.
E anche anni dopo, mentre si trovava a Pisa, Leopardi annota nello Zibaldone:116Zibaldone 2618.
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Non si potrebbe dire della metafisica appresso a poco il medesimo che della
Geometria, e così scusare chi in metafisica amasse più di pensare che di leggere; chi
pretendesse di essere metafisico senz'aver letto o inteso Kant; chi si contentasse
talvolta di conoscere i risultati e le conclusioni delle speculazioni e ragionamenti de'
metafisici celebri, per poi trovarne da se stesso la dimostrazione, o convincersi della
loro insussistenza? La metafisica ha colle matematiche non poche altre somiglianze:
anche in metafisica una proposizione dipende spesso da una serie di proposizioni per
modo ch'è impossibile vederne colla mente la dimostrazione tutta in un punto; e
spesso chi è salito per questa serie fino a quell'ultima verità, ne acquista la
convinzione, e ne vede allora perfettamente le ragioni, che d'indi a poco non saprebbe
più rendere nemmeno a se stesso, benchè la convinzione gli duri. Anche in metafisica,
come in affari di calcolo, moltissime proposizioni e verità si credono sulla sola fede di
chi ha fatto il lavoro necessario per iscoprirle e renderle certe; lavoro troppo lungo e
difficile per essere rinnovato e rifatto, o seguito a passo a passo da altri, anche uomini
della professione.117
Alla luce di questi giudizi, il rapporto Leopardi-Kant ha sempre rivestito un grande interesse
nell'ambito della critica leopardiana. Sulla conoscenza di Kant in Leopardi è stato scritto fin dalla
fine del XIX secolo anche se si tratta per lo più di accenni e vaghi rimandi. L'avvio ad una più
approfondita e articolata indagine su questa questione, che merita di essere esaminata a fondo, è
stato fornita in primis da Antimo Negri con il saggio Leopardi e la filosofia di Kant118. Lungi
dall'essere esaurita, la problematica rimane aperta ad ulteriori indagini e sviluppi sono ancora
necessari tutt'oggi.
Tutto ciò non toglie che sicuramente Leopardi apprezzava la profondità e la forza delle riflessioni
dei filosofi tedeschi, ma non la loro innovazione e novità:
Ho detto che nessuna veramente strepitosa scoperta nelle materie astratte, e in
qualsivoglia dottrina immateriale è uscita dalle scuole ec. tedesche. Quali sono in
queste materie le grandi scoperte di Leibnizio, forse il più gran metafisico della
117Ivi, 4304.
118A. NEGRI, Leopardi e la filosfia di Kant, in Trimestre, V, 4, 1971, pp. 475-491, a proposito dei passi dello Zib., 2616-2618, 30 agosto 1822, dove è menzionata una Critica della ragione di Kant, e ancora Zib.,1848-1860 del 5-6 ottobre 1821. Si ricorda anche l'influenza che poté esercitare su Leopardi la lettura dei romanzi antikantiani di Wieland (Zib. 1630-1631, 5 settembre 1821, e ancora Zib. 2618 citata sopra.). Interessante anche R. KOFFLER, Kant, Leopardi and Gorgon Truth, in The Journal of Aesthetics and Art Criticism, XXX, 1971, I, pp. 27-33. Molte osservazioni sulle letture filosofiche di Leopardi si trovano in F. BRIOSCHI, Politica e metafisica nel Leopardi, in Acme, Annali della Fac. Di Lettere e Filosofia dell'Univ. Degli studi di Milano, vol. XXV, fasc. II, maggio-agosto 1972, pp. 141-142 Riprendendo lo spunto dal saggio di Negri, Loretta Marcon recentemente ha pubblicato sull 'argomento un nuovo lavoro sul rapporto Leopardi-Kant: L. MARCON, Kant e Leopardi. Saggi, Guida, Napoli 2011.
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Germania, e certo profondissimo speculatore della natura, gran matematico ec.?
Monadi, ottimismo, armonia prestabilita, idee innate; favole e sogni. Quali quelle di
Kant, caposcuola ec. ec.? Credo che niuno le sappia, nemmeno i suoi discepoli.
Speculando profondamente sulla teoria generale delle arti, i tedeschi ci hanno dato
ultimamente il romanzo del romanticismo, sistema falsissimo in teoria, in pratica, in
natura, in ragione, in metafisica, in dialettica, come si mostra in parecchi di questi
pensieri. Ma Cartesio, Galileo, Newton, Locke ec. hanno veramente mutato faccia
alla filosofia119.
Approfondiamo adesso il seguente passo del Discorso:
Questa illusione però è potentissima nelle nazioni e nelle classi che hanno l'uso di
quella intima società da cui solo ella può nascere. E particolarmente in Francia, molto
sono stati filosofi di opinione fino all'ultimo grado, e conoscitori intimi del vero in
tutta la sua estensione, e hanno sentito la vanità e nullità delle cose e degli uomini, e
molti hanno anche ne' loro scritti mostrato di dispregiar l'opinione pubblica, e anche
combattuta la stima forse eccessiva che se ne fa nella loro nazione e provatone
l'irragionevolezza, e il danno eziandio non piccolo in varie cose.120
A quali filosofi si riferisce? Verosimilmente Leopardi si riferisce a Voltaire (1694 -1778), il quale
amava andare contro corrente, ma soprattutto a Jean Jacques Rousseau (1712 -1778), che fu un
grande oppositore delle opinioni convenzionali del suo tempo, ovvero il secolo dei lumi.
Interrogandosi sul quesito proposto nel 1749 dall’Accademia di Digione, «se la rinascita delle
scienze e delle arti ha contribuito a migliorare i costumi», Rousseau scrisse infatti nel Discours sur
les sciences et les arts:
Preveggo che difficilmente mi si perdonerà il partito che sto per prendere. Urtando di
fronte tutto ciò che oggi forma l’ammirazione degli uomini non posso aspettarmi che
un biasimo universale 121.
Fornendo una risposta negativa alla questione sopracitata Rousseau dimostra di non preoccuparsi di
piacere «né ai begli spiriti né alla gente di moda» 122; a differenza dei philosophes, i quali
collaboravano spesso con i governanti del tempo dei Lumi, Rousseau, «spirito libero e
119Zibaldone 1857.120Discorso, pag.53.121 J. ROUSSEAU, Opere, a cura di Paolo Rossi, Sansoni, Firenze, 1972: Confessions, Les rêveries du promeneur solitaire, Dialogues de Rousseau juge de Jean Jacques, Discours sur les sciences et les arts, Emile, in particolare in Prefazione, pag.. 3.122 Ivi. pag. 3
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repubblicano» 123, afferma solennemente l'indipendenza dell’uomo di lettere, in quanto «niente di
grande può uscire da una penna del tutto venale» 124.
Il pensatore ginevrino denuncia una società nella quale conta solo l'apparenza:
Mille premi per i bei discorsi, nessuno per le belle azioni. […]
Non si domanda più di un uomo se abbia onestà, ma se abbia ingegno125.
Molto probabilmente quindi Leopardi, nel passo citato, aveva in mente queste riflessioni di
Rousseau sulla sua società.
Infine è giusto fare un confronto tra due note del Discorso, dove l'argomento filosofico è il
medesimo, ossia la solitudine. Leopardi afferma in un primo momento che:
[...]la solitudine, contro quello che si è sempre detto e creduto, ed oggi si crede e si
dice né più né meno, piuttosto nuoce alla morale dell’individuo, e massime di chi
abbia lo spirito filosofico, di quello che giovi. Le illusioni sociali cessano nella
solitudine, l’onor sparisce, perché tolto dagli occhi quello che le dava apparenza e
una specie di realtà, se ne vede l’irragionevolezza, la vanità e la frivolezza. Sparisce
l’onore, e il dovere non gli sottentra. [...] Mancano nella solitudine gli stimoli delle
passioni e le occasioni di fare il male, ma anche quelli e quelle di fare il bene, sicché
per questo lato appena si può dire se il carattere morale guadagni o perda. E d’altra
parte, mancati generalmente i principii e i fondamenti stabili della morale, che nella
solitudine non risorgono, (anzi all’opposto), si perdono anche, o s’indeboliscono e si
riconoscono riposatamente per frivoli quei ritegni e quegl’incitamenti dal male e dal
bene che la società stessa produce. Or questo è in pura perdita e danno del carattere
morale dell’individuo, quando anche non guasti i suoi disegni e le sue opere, per
mancanza di occasioni, naturale nella solitudine126.
In un'altra nota seguente però scrive un giudizio totalmente opposto al precedente:
La solitudine rinfranca l’anima e ne rinfresca le forze, e massime quella parte di lei
che si chiama immaginazione. Ella ci ringiovanisce. Ella scancella quasi o ristringe e
indebolisce il disinganno, quando abbia avuto luogo, sia pure stato interissimo e
profondissimo. Ella rinnuova la vita intera. In somma, bench’ella sembri compagna
indivisibile e quasi sinonimo della noia, nondimeno per un animo che vi abbia
123 Ivi, Confessions, p. 749.124 ivi, IX, p. 976. 125 Ivi,, pp. 11, 12 , 14.126Discorso, pag. 55, nota g.
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contratto una certa abitudine, e con questa sia divenuto capace di aprire e spiegare e
mettere in attività nella solitudine le sue facoltà, ella è più ampia a riconciliare o
affezionare alla vita, che ad alienare, a rinnovare o conservare o crescere la stima
verso gli uomini e verso la vita stessa, che a distruggerla o diminuirla o finir di
spegnerla. E ciò non per altro se non perché gli uomini e la vita sono lontani da lei,
giacché ella affeziona o riconcilia propriamente e più particolarmente non alla vita
presente, cioè a quella che si mena in essa solitudine, ma a quella del mondo che s’è
abbandonata intermessa con disgusto. V. i miei pensieri pag 678-83, 717, capoverso
3127.
Come spiegare allora questa aporia sul tema della solitudine? Come si può ben comprendere dalle
parole di Leopardi l'argomento è tutt'altro che semplice. Si tratta di una questione cara a Leopardi,
affrontata nel percorso morale del Manuale di filosofia pratica, e influenzato dalla lettura delle
opere sia dei grandi moralisti classici sia da quelli moderni francesi del XVIII secolo. 127Ivi, pag. 63, nota l. Nel rimando allo Zibaldone scrive: «Nous n'avons qu'une portion d'attention et de sentiment; dès que nous nous livrons aux objets extérieurs, le sentiment dominant s'affoiblit: nos desirs ne sont-ils pas plus vifs et plus forts dans la retraite?Mme. de Lambert, lieu cité ci-derriére (p. 677. fine) p. 188. La solitudine è lo stato naturale di gran parte, o piuttosto del più degli animali, e probabilmente dell'uomo ancora. Quindi non è maraviglia se nello stato naturale, egli ritrovava la sua maggior felicità nella solitudine, e neanche se ora ci trova un conforto, giacché il maggior bene degli uomini deriva dall'ubbidire alla natura, e secondare quanto oggi si possa, il nostro primo destino. Ma anche per altra cagione la solitudine è oggi un conforto all'uomo nello stato sociale al quale è ridotto. Non mai per la cognizione del vero in quanto vero. Questa non sarà mai sorgente di felicità, né oggi; né era allora quando l'uomo primitivo se la passava in solitudine, ben lontano certamente dalle meditazioni filosofiche; né agli animali la felicità della solitudine deriva dalla cognizione del vero. Ma anzi per lo contrario questa consolazione della solitudine deriva all'uomo oggidì, e derivava primitivamente dalle illusioni. Come ciò fosse primitivamente, in quella vita occupata o da continua sebben solitaria azione, o da continua attività interna e successione d'immagini disegni ec. ec. e come questo accada parimente ne' fanciulli, l'ho già spiegato più volte. Come poi accada negli uomini oggidì, eccolo. La società manca affatto di cose che realizzino le illusioni per quanto sono realizzabili. Non così anticamente, e anticamente la vita solitaria fra le nazioni civili, o non esisteva, o era ben rara. Ed osservate che quanto si racconta de' famosi solitari cristiani, cade appunto in quell'epoca, dove la vita, l'energia, la forza, la varietà originata dalle antiche forme di reggimento e di stato pubblico, e in somma di società, erano svanite o sommamente illanguidite, col cadere del mondo sotto il despotismo. Così dunque torna per altra cagione ad esser proprio degli stati e popoli corrotti, quello ch'era proprio dell'uomo primitivo, dico la tendenza dell'uomo alla solitudine: tendenza stata interrotta dalla prima energia della vita sociale. Perché oggidì è così la cosa. La presenza e l'atto della società spegne le illusioni, laddove anticamente le fomentava e accendeva, e la solitudine le fomenta o le risveglia, laddove non primitivamente, ma anticamente le sopiva. Il giovanetto ancora chiuso fra le mura domestiche, o in casa di educazione, o soggetto all'altrui comando, è felice nella solitudine per le illusioni, i disegni, le speranze di quelle cose che poi troverà vane o acerbe: e questo ancorché egli sia d'ingegno penetrante, e istruito, ed anche, quanto alla ragione, persuaso della nullità del mondo. L'uomo disingannato, stanco, esperto, esaurito di tutti i desideri, nella solitudine appoco appoco si rifà, ricupera se stesso, ripiglia quasi carne e lena, e più o meno vivamente, a ogni modo risorge, ancorché penetrantissimo d'ingegno, e sventuratissimo. Come questo? forse per la cognizione del vero? Anzi per la dimenticanza del vero, pel diverso e più vago aspetto che prendono per lui, quelle cose già sperimentate e vedute, ma che ora essendo lontane dai sensi e dall'intelletto, tornano a passare per la immaginazione sua, e quindi abbellirsi. Ed egli torna a sperare e desiderare, e vivere, per poi tutto riperdere, e morire di nuovo, ma più presto assai di prima, se rientra nel mondo. Dalle dette considerazioni segue che oggi l'uomo quanto è più savio e sapiente, cioè quanto più conosce, e sente l'infelicità del vero, tanto più ama la solitudine che glielo fa dimenticare, o glielo toglie dagli occhi, laddove nello stato primitivo l'uomo amava tanto più la solitudine, quanto maggiormente era ignorante ed incolto. E così l'ama oggidì, quanto più è sventurato, laddove anticamente, e primitivamente la sventura spingeva a cercare la conversazione degli uomini, per fuggire se stesso. La qual fuga di se stesso oggi è impossibile nella società all'uomo profondamente sventurato, e profondamente sensibile, e conoscente; perché la presenza della società, non è altro che la presenza della miseria, e del vuoto. Perché il vuoto non potendo essere riempito mai se non dalle illusioni, e queste non trovandosi nella società quale è oggi, resta che sia meglio riempiuto dalla solitudine, dove le illusioni sono oggi più facili per la lontananza delle cose, divenute loro contrarie e mortifere, all'opposto di quello ch'erano anticamente. (20 Feb. 1821.)»
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Tra i progetti più impegnativi lasciati irrealizzati da Leopardi figura infatti il Manuale di filosofia
pratica, cioè un manuale di speculazione applicata a situazioni fortemente concrete, che egli
intendeva ricavare soprattutto dagli appunti sparsi nello Zibaldone.
In particolare, come si deduce dal richiamo che Leopardi fa al suo Zibaldone alla fine della seconda
nota, per il tema della solitudine assume importanza anche l'attenta lettura di Madame de Lambert
(1647-1733), letterata francese, nota soprattutto per aver aperto il proprio salotto parigino ai più
illustri pensatori e scrittori francesi del tempo.
Leopardi ben presto inizia a concepire la solitudine sia come modo di curare l'anima, permettendo
all'uomo di riflettere su gioie e dolori (effetto positivo); sia come rischio e pericolo da cui tenersi
lontani, poiché l'eccesso di protezione dal mondo esterno, che si crea nell'uomo che coltiva la
solitudine, si può tramutare in odio verso gli altri, deformando i contorni della realtà, inibendo
l'azione e favorendo l'inazione (effetto negativo).
Nel Manuale di filosofia pratica, seguendo gli insegnamenti del filosofo stoico Epitteto, infatti si
afferma che il ripiegamento su se stessi, il rifiuto del mondo e delle responsabilità verso gli altri
divengono strumenti per difendersi dalla realtà. La solitudine, viene cercata come metodo: un
distacco spazio-temporale dalle passioni, una pausa per analizzare se stessi e per conoscersi. La
«solitude dit un grand homme, est l'infirmerie des ames»per citare Madame de Lambert128. É
interessante notare come in un'atmosfera di solitudine, si distende l'operetta morale Dialogo di
Torquato Tasso e del suo genio familiare. Scritto fra il 1 e il 10 luglio del 1824, tale operetta
morale fu definita da Leopardi un colloquio o soliloquio, e rivela una valenza positiva della
solitudine (Tasso fu messo in prigione a Ferrara dagli Este).
Anche il Dialogo della natura e di un islandese (una delle operette morali più famose per
l'enunciazione di alcune idee fondamentali sul rapporto uomo-natura) rispecchia questo punto di
vista. L'islandese, sebbene assai diverso dalla figura di Tasso, spiega alla Natura, con un complesso
discorso, che fin da giovanissimo ha provato a tenersi lontano dalle sofferenze senza mai provocare
il male di nessuno, scegliendo una vita solitaria che gli consentisse la tranquillità.
Come si può ben vedere il Dialogo riflette l'interesse leopardiano manifestato tra il 1823 e il 1824
per la filosofia stoica, nonché temi che ritroviamo nell'idillio La vita solitaria del 1821, dove la
condizione che rende possibile il ricordo e l’illusione è proprio la solitudine (la condanna alla
solitudine è il prezzo che l’uomo deve pagare per la sua liberazione, seppur momentanea, dalla
paura del Nulla)
Tuttavia la solitudine comporta anche delle conseguenze negative: il pericolo è cadere nel
solipsismo, ossia l’orientamento di chi considera il soggetto come l’unica autentica realtà, sia dal
punto di vista pratico, ponendo l’interesse individuale a fondamento determinante dell’azione, sia 128Leopardi riporta infatti queste parole di Madame de Lambert, tratto dalle sue reflexions sur les richesses, nell'edizione parigina del 1808, indicizzandolo per Parodie e correzioni, oltre che per Manuale di filosofia pratica.
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da quello gnoseologico-metafisico, intendendo la realtà esterna come semplice rappresentazione
della coscienza soggettiva.
In Leopardi vi è la consapevolezza che bisogna fuggire da passività, solitudine e inazione. Per
meglio dire le conosce talmente come aspetti del malessere quotidiano, non solo suo personale, ma
degli uomini figli della civiltà in generale, da comprenderne gli effetti. L'invito ad agire da parte di
Leopardi mostra come egli individui nell'azione una sorta di salvezza, anche se rimane in lui ben
chiara l'idea che una delle caratteristiche dell'uomo moderno è lo sradicamento.
Come evidenzia Bodei «l'azione che egli raccomanda sembra un supporto, utile strumento per tener
lontani malinconia, apatia, solipsismo e tarlo del pensiero; si tratta di un agire legato al quotidiano,
che nulla ha a che vedere con la curiosità di conoscere gli eventi caratterizzanti la stagione di una
vita. Ben diversa la scelta di un Hölderlin (poeta tedesco, ndr), che rifiuta di chiudersi nel mondo
interiore per non sfuggire lo spirito del tempo e che si lascia così coinvolgere dagli eventi della
propria epoca»129.
Alla luce di queste riflessioni, le due opinioni sulla solitudine, contenute nel Discorso, non vanno
lette in contrasto tra di loro, ma in una lettura unica che illustra conseguenze positive e negative di
tale pratica. È comunque suggestivo notare come l'opinione leopardiana che «la solitudine, contro
quello che si è sempre detto e creduto, ed oggi si crede e si dice né più né meno, piuttosto nuoce alla
morale dell’individuo, e massime di chi abbia lo spirito filosofico, di quello che giovi» è una forte
dichiarazione anti-Roussueu, che richiama certe affermazioni di altri due filosofi francese, Voltaire
e Diderot. Nelle opere di Rousseau, non solo quelle filosofiche, è difficile non notare una sua
propensione per la vita solitaria: basti leggere quanto scrive nell'Emile:
lettori, ricordatevi sempre che colui che vi parla non è né un dotto né un filosofo, ma un uomo semplice,
amico della verità, senza partito, senza sistema; un solitario che, vivendo poco con gli uomini, ha meno
occasione di assorbirne i pregiudizi, e maggior tempo per riflettere su quello che lo colpisce quando è con
essi in relazione130.
Rousseau amava definirsi un essere a parte; dicendo questo è come se avesse voluto porre se stesso
al di fuori del proprio tempo per difendere «i gelosi spazi della libera e ribelle coscienza» 131 Ma a
che cosa è dovuta la viva propensione di Rousseau per la vita solitaria? Egli stesso l’ha spiegata a
volte come desiderio di libertà e d’indipendenza (nelle lettere a Malesherbes parla del suo
«indomabile spirito di libertà» 132 ), a volte come un’incapacità innata alla vita sociale («sono nato
129R. BODEI, Scomposizioni. Forme dell'individuo moderno, Torino, Einaudi pag 94-95130 Emile, II, in Opere, op, cit. p. 411131 L. SOZZI, J. J. Rousseau, Franco Angeli, Milano, 1985, p. 18.132 Lettera I a Malesherbes, in Lettere morali, a cura di R. Vitiello, Editori Riuniti, Roma, 1978: Lettres à Malesherbes, Sophie d’Houdetot, Voltaire, C. de Beaumont e Fragment sur la liberté; pag. 195.
60
con un amore naturale per la solitudine che è aumentato man mano che conoscevo meglio gli
uomini» riferisce nella stessa lettera 133 ) e infine come desiderio d’evasione in un’altra realtà.
Evidentemente il sogno rousseauiano consisteva nel poter vivere in una società di uomini liberi e
trasparenti gli uni agli altri; non essendosi realizzato egli ha preferito vivere isolato. Come dice
Starobinski «se la trasparenza si realizza nella volontà generale, è da preferire l’universo sociale, se
può compiersi solo nella vita solitaria, quest’ultima è da preferire» 134.
In una società irrimediabilmente corrotta «tutto ciò che resta da fare al saggio […] è allontanarsi
dalla folla il più possibile e restare senza impazienza nel posto in cui l’ha messo il caso» 135.
Incapace di simulare e di dissimulare, il filosofo ginevrino cerca di dimostrarci che la sua solitudine
è segno d’innocenza e di bontà.
Per concludere su Rousseau, è forse vero che nella solitudine è possibile ricercare una trasparenza
altrimenti irrealizzabile in un mondo nel quale conta solo apparire, così come appare vera anche la
constatazione rousseauiana che «la coscienza è timida e paurosa e cerca la solitudine» 136, ma è
indubbio anche che una solitudine prolungata sia un ripiego, in quanto ognuno di noi costruisce la
propria personalità attraverso il confronto con gli altri (occorre avere, dunque, una concezione
intersoggettiva dell’io). É qui che Leopardi con le sue riflessioni si allontana da Rousseau.
Riassumendo il Discorso presenta numerose e complesse riflessioni filosofiche: da Montesquieu e
da Voltaire (grazie anche alle letture di Madame de Staël137) Leopardi riprende la teoria del
determinismo climatico; il Discorso in molti punti denota una notevole conoscenza sia degli autori
fondamentali dell'illuminismo francese (oltre a Montesquieu e Voltaire, citati prima, aveva letto
sicuramente Rousseau, Condillac, Diderot e D'Alembert), sia dell'empirismo inglese che aveva in
Locke il suo portavoce principale; Leopardi dimostra una sommaria lettura anche degli illuministi
tedeschi più importanti (Kant e Wolf in primis); e infine l'immersione totale nei «sette anni di studio
matto e disperatissimo138» durante la gioventù gli permette di possedere una conoscenza
approfondita anche dei grandi filosofi della civiltà classica, su tutti qui emerge la lettura di Platone.
133 ivi, p. 196.134 J. STAROBINSKI, Jean-Jacques Rousseau. La trasparenza e l'ostacolo (1975), trad. it Rosanna Albertini, Bologna: Il mulino, 1989, pag. 88.135 Dialogues, I, in Opere, op.cit., p. 1130. Qui Rousseau si sta riferendo alla «morale negativa», consistente nell’astenersi dall’ agire.136 Fragment sur la liberté, in Lettere morali, op. cit., p. 193.137A Madame de Stael si deve infatti la diffusione indiretta delle idee di Montesquieu in Italia, in un periodo nel quale gli si prestava meno attenzione: si veda D. FELICE, Modération et justice. Lectures de Montesquieu en Italie, préface de Jean Ehrard, Bologna, FuoriThema, 1995. 138Si veda nota 18 del presente lavoro di tesi.
61
III. 3 Leopardi lettore della Corinne di Madame De Staël e di Chateaubriand:
É assai noto il rapporto diretto di Leopardi con la copiosa biblioteca del padre Monaldo (circa
15.000 volumi). Gli anni di «studi leggiadri139», trascorsi tra «le sudate carte140» conferirono alla
cultura del giovane una vastità di conoscenze straordinarie, frutto di sterminate letture. Oltre che un
ricco numero di testi classici, la biblioteca paterna conteneva una notevole quantità di testi letterari,
italiani e stranieri, anche recenti. Alla sfrenata curiosità di Leopardi non sfuggirono neanche le
opere francese di Madame de Staël e di Chateaubriand, tra i primi esponenti del Romanticismo
letterario francese. Questi due grandi autori francesi vengono citati nel Discorso: proprio per questo
motivo verrà analizzato la loro importanza sul pensiero leopardiano e il perché siano menzionati nel
trattato.
La scrittrice francese Madame de Staël (1766-1817) ebbe un enorme influsso sul pensiero di
Leopardi 141 ; tutto ciò è visibile soprattutto nello Zibaldone dove è intessuto un dialogo continuo
con le idee della scrittrice francese. Molti lavori della Staël, tra cui L'Allemagne (dedicato alle
vicende della Germania), Corinne ou l’Italie (su cui mi soffermerò più avanti) e vari saggi di lei
apparsi nella «Biblioteca Italiana», vengono citati di frequente infatti dal poeta recanatese.
L'atteggiamento di Leopardi per M.me de Staël fu infatti «quanto mai lontano sia dalle forme di
incomprensione dei classicisti italiani (stigmatizzate già nel Discorso di un italiano intorno alla
poesia romantica), sia dall'ammirazione e dallo spirito di acquisizione un po' acritica dei romantici
italiani»142. Leopardi fa risalire alla Staël persino la scoperta della propria vocazione di filosofo:
Dedito tutto e con sommo gusto alla bella letteratura, io disprezzava ed odiava la
filosofia. I pensieri di cui il nostro tempo è così vago, mi annoiavano. Secondo i
soliti pregiudizi, io credeva di esser nato per le lettere, l'immaginazione, il
sentimento, e che mi fosse al tutto impossibile l'applicarmi alla facoltà tutta
contraria a queste, cioè alla ragione, alla filosofia, alla matematica delle astrazioni,
e il riuscirvi. Io non mancava della capacità di riflettere, di attendere, di paragonare,
di ragionare, di combinare, della profondità ec. ma non credetti di esser filosofo se
non dopo lette alcune opere di Mad. di Staël143.
139A Silvia, v. 15.140Ivi, v. 16.141Sull’influenza di Madame de Staël su Leopardi si veda sia S. RAVASI, Leopardi et Madame de Staël, Milano, Tipografia Sociale, 1910; sia il saggio di R. DAMIANI, All'ombra di Madame de Stael, in L'impero della ragione, Studi leopardiani, Ravenna, Longo, 1994, pp. 149-171. Infine N.BELLUCCI, Italiens et européens dans le Discours de Giacomo Leopardi, Introduction a G. Leopardi, Discours sur l’état présent des mœurs en Italie, édition bilingue, trad. de Y. Hersant, intr. de N. Bellucci, édition critique et notes de M.Dondero, Paris,Les Belles Lettres, 2003, pp.IX-XXXVI,XII-XIV142C. COLAIACOMO, Zibaldone di pensieri di Giacomo Leopardi, pag 431, in Letteratura italiana, diretta da Alberto Asor Rosa, Einaudi, 2007, Torino, in particolare volume IX.143Zibaldone, 1742. Passo datato 22 Novembre 1820
62
Aggiungendo:
Del resto per intendere i filosofi, e quasi ogni scrittore, è necessario, come per
intendere i poeti, aver tanta forza d'immaginazione, e di sentimento, e tanta capacità
di riflettere, da potersi porre nei panni dello scrittore, e in quel punto preciso di vista
e di situazione, in cui egli si trovava nel considerare le cose di cui scrive; altrimenti
non troverete mai ch'egli sia chiaro abbastanza, per quanto lo sia in effetto. E ciò,
tanto quando in voi ne debba risultare la persuasione e l'assenso allo scrittore, quanto
nel caso contrario. Io so che con questo metodo non ho trovato mai oscuri, o almeno
inintelligibili, gli scritti della Staël, che tutti danno per oscurissimi144.
Il Discorso, opera fondamentale nella riflessione filosofico-politica leopardiana, fa parte del piccolo
genere letterario sette-ottocentesco della descrizione dei caratteri nazionali: lo stesso Leopardi cita
fra i precedenti illustri il romanzo epistolare Corinne ou l’Italie di M.me de Staël (1807), allora
letta in tutta Europa. Con Corinne (vero e proprio bestseller in quegli anni), M.me de Staël porta al
suo culmine l’elogio dell’arte italiana generato dall’esperienza europea del grand tour
settecentesco, in un’ottica che ingigantiva l’antichità della tradizione culturale della penisola e la
spontaneità primigenia della sua vocazione al bello145.
Ciò che ci interessa in questa sede è analizzare che le riflessioni di Madame de Staël, contenute
nella sua Corinne, sollecitano la sferzante indagine leopardiana sui costumi degli italiani. Esiliata
da Napoleone per le sue idee liberali, nel 1802 la Staël si rifugia a Coppet (Svizzera) dove continua
la sua attività letteraria e politica. Pochi anni dopo, nella prima metà del 1805, ella compie un
viaggio in Italia: visita Firenze, Venezia, Roma e Napoli; è accolta con tutti gli onori in
Campidoglio e si mette in contatto con Vincenzo Monti (1754-1828). Il diario che scrisse durante
questo tour in Italia fu di fatto fondamentale per la successiva stesura della Corinne.
In essa approfondì il tema delle identità culturali europee, avviato sette anni prima in altri scritti: in
particolare nel trattato De la littérature considérée dans ses rapports avec les institutions sociales,
pubblicato nel 1800. Come suggerisce il titolo, protagonista è sì Corinna, ma anche l'Italia stessa.
Non mancano infatti brani meno narrativi e più propriamente teorici inseriti tra i dialoghi dei
protagonisti, che restituiscono un affresco del Bel Paese alle soglie del Risorgimento e che
racchiudono le idee estetiche dell'autrice. Il romanzo inoltre doveva apparire come un atto di scusa
dell'autrice nei confronti degli italiani e della loro letteratura, liquidata molto superficialmente nel
capitolo X del trattato De la littérature.
144 Ivi, 349,145Si veda T. CRIVELLI, Fra Oriente e Occidente: improvvisazione poetica e carattere nazionale italiano nella 'Corinne' di Mme de Staël, in Corinne e l'Italia di Mme de Staël, a cura di Beatrice Alfonzetti e Novella Bellucci, Roma, Bulzoni Editore, 2010, pp.83-106.
63
Il romanzo portava quindi di nuovo alla ribalta il nostro paese, dando inizio a quell'interesse
affettuoso e al tempo stesso critico per gli italiani, che caratterizzò il primo ottocento europeo.
Concetto del resto evidenziato da Leopardi stesso nel Discorso:
Certo è nondimeno che in questi ultimi anni si sono divulgate in Europa dalla
Corinna in poi più opere favorevoli all’Italia, che non sono tutte insieme quelle
pubblicate negli altri tempi, e nelle quali si dice di noi più bene che mai non fu detto
appena da noi medesimi. Alcune sono veri elogi nostri, scritti i più con entusiasmo
di affezione e, in parte, di ammirazione verso le cose nostre. E generalmente
parlando si vede nel mondo civile una inclinazione verso noi maggiore assai che
fosse in altro tempo e che sia verso alcun altro paese, ed una opinione vantaggiosa di
noi, la quale ardisco dire che supera di non poco il nostro merito, ed è in molte cose
contraria alla verità. E ben si può dire che oggi, al contrario che nel passato, gli
stranieri quando s’ingannano sul nostro conto, più tosto s’ingannano a favor nostro
che in disfavore. Contuttociò e la Corinna e tutte le altre siffatte opere sono guardate
dagl’italiani con gelosia, e molte cose vere ed utili hanno dette e scritte gli stranieri
sui nostri costumi che per questa e per altre cause non ci sono di veruna utilità146.
Ciò che maggiormente affascina Leopardi non sono né le digressioni sull'amore, né le descrizioni
paesaggistiche, né i concetti di poesia e dialoghi teatrali, bensì le lezioni sulla cultura italiana, le
riflessioni filosofiche, le considerazioni politiche e i principi di estetica cospopolita.
Si può affermare del resto che molti scritti della De Staël sono trattati di antropologia, ciascuno da
una prospettiva diversa: dalla teoria letteraria (De la littérature considérée dans ses rapports avec
les institutions sociales) all’esame delle categorie filosofiche e spirituali dei popoli (Corinne e De
l'Allemagne). In Corinne la trama romanzesca tra i personaggi di diversa nazionalità diventa un
pretesto per paragonare i differenti spiriti nazionali (va ricordato che la stessa protagonista Corinna
ha due nazionalità diverse, essendo figlia di un facoltoso lord inglese e di una nobildonna romana).
Il confronto tra i caratteri nazionali rientra nel comparativismo etnologico che interessa non solo
alla De Staël ma anche a tutto il movimento romantico.
Ad esempio per citare alcuni passi147:
A venticinque anni si sentiva deluso dalla vita, il suo spirito critico giudicava tutto in
anticipo e la sua sensibilità ferita non gustava più le illusioni del cuore [...] Aveva un
carattere vivace, sensibile e appassionato; concentrava in sé la capacità di
coinvolgere gli altri. Ma l’infelicità e il rimorso l’avevano reso timoroso verso il 146Discorso, pag.48.147Traggo le seguenti citazioni da Madame de Staël, Corinna o l'Italia, Michele Rak, Oscar Mondadori, 2006. Le citazioni successive sono prese dalla stessa edizione, che sarà abbreviata semplicemente in Corinna.
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destino: e non esigendo nulla da questo, credeva di disarmarlo. Sperava di trovare,
nel rigido attaccamento al dovere e nella rinuncia a ogni piacere della vita, una
garanzia contro le pene che feriscono l’anima (Inglese Oswald)
«Un inglese» si diceva Oswald «in circostanze simili sarebbe prostrato dalla
tristezza. Da dove viene la forza di questo francese? Da dove la sua vivacità? Il
conte d’Erfeuil conosce davvero l’arte di vivere? [...] »
«Bella straniera» replicò il conte d’Erfeuil «non vorreste mica che ammettessimo a
casa nostra la barbarie teutonica, le Notti di Young degli inglesi, i concetti degli
italiani e degli spagnoli? Che cosa diventerebbero, dopo un tale miscuglio, il gusto e
l’eleganza dello stile francese? -» (Francese d'Erfeuil)148
Tornando all'analisi del Discorso, in molteplici punti del trattato leopardiano affiorano riprese e
citazioni esplicite tratte dal romanzo della De Staël , come è stato recentemente dimostrato da
Rigoni149: «tutto un insieme di temi e di motivi sviluppati nel Discorso, compreso quello centrale
che l’Italia non ha società, deriva proprio dalla Corinne». È soprattutto il libro VI, intitolato
Moeurs et caractères de les Italiens, a essere fondamentale per il testo leopardiano.
Per vedere le evidenti riprese in alcuni punti si confronti alcuni passi di M.me de Staël con quello
leopardiano. Si veda il motivo della mancanza di società in Italia in Corinne, seguito dal passo di
Leopardi:
Le idee di considerazione e di dignità sono molto meno potenti e anche meno
conosciute […] in Italia che ovunque. La mancanza di una società e di un'opinione
pubblica ne è la causa150.
Per queste cagioni gl’italiani di mondo, privi come sono di società […]
Primieramente dell’opinione pubblica gl’italiani in generale, e parlando
massimamente a proporzion degli altri popoli, non ne fanno alcun conto. […] Niuna
vince né uguaglia in ciò l’italiana. Essa unisce la vivacità naturale (maggiore assai
di quella de’ francesi) all’indifferenza acquisita verso ogni cosa e al poco riguardo
verso gli altri cagionato dalla mancanza di società, che non li fa curar gran fatto
della stima e de’ riguardi altrui151. […].
148Corinna, pp rispettivamente 25, 33, 55149M.A. Rigoni, Leopardi e i costumi degli Italiani, introduzione al Discorso, op. cit. 150Corinna, pag. 67151Discorso,pag. 50
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Oppure si confrontino le osservazioni della De Staël sulle pratiche religiose, sul passeggio e gli
spettacoli con quelle leopardiane:
Non si comprende affatto, per esempio, donde venga il divertimento che i grandi signori romani trovano nel
passeggiare in carrozza da un capo all'altro del Corso, per ore intere, sia durante i giorni di carnevale sia
negli altri gironi dell'anno. Nulla li può distogliere da questa abitudine. Vi sono anche tra le maschere uomini
che passeggiano quanto più noiosamente è possibile al mondo, nei costumi più ridicoli, e che, […] non
dicono una sola parola in tutta la serata, ma hanno, per così dire, soddisfatto la loro coscienza carnevalesca
dal momento che non hanno trascurato nulla per divertirsi152.
Certo è che il passeggio, gli spettacoli, e le Chiese sono le principali occasioni di società che hanno
gl’italiani, e in essi consiste, si può dir, tutta la loro società […]. Essi dunque passeggiano, vanno agli
spettacoli e divertimenti, alla messa e alla predica, alle feste sacre e profane153.
Il Discorso sembra quindi in molti punti debitore dell'opera della scrittrice francese a tal punto che
alcuni critici hanno espresso un giudizio negativo: Jonard ad esempio, riprendendo l'idea di
Serranesco154 sulla discendenza del Discorso dalla tesi di Corinne, sostiene che è del tutto privo di
originalità perché intero debitore delle idee della de Stael.155 Anche Serban, un altro studioso
francese che si è occupato di Leopardi in molti suoi lavori, è della stessa idea.156
In realtà, sebbene, come detto, alcuni temi sviluppati in Leopardi, siano tratti da Corinne
radicalmente divergente è la valutazione. La questione è interessante, ma è stata solo in parte
discussa dalla critica che si è occupata del Discorso.
Madame de Staël, durante il suo Grand Tour in Italia, oltre ad avere la compagnia dello storico
Sismondi (1773-1842), aveva conosciuto, come detto, il Monti, il Melzi e altri scrittori e letterati
che l'avevano illuminata sulle condizioni politiche e sociali dell'Italia. Corinne nasce da queste
suggestioni che si traducono in un romanzo nel quale la protagonista è una donna profondamente
intrisa di sensibilità romantica. Poiché la protagonista Corinna non è solo la personificazione
dell’Italia, ma ne è anche il simbolo (è l'interprete dell’anima del popolo italiano), il romanzo
omonimo è un’ evidente esaltazione del nostro paese a tal punto che l'«illustre dama»157 nella lettera
indirizzata ai signori compilatori della Biblioteca italiana scrisse:
152Corinna, pag. 47153 Discorso, pag. 52154N. SERRANESCO, Leopardi et la France, Champion, Paris, 1913.155N. JONARD, Leopardi fra conservazione e progresso, in Il caso Leopardi, a cura di G. Petronio, Palumbo, Palermo 1974156N. SERBAN, Leopardi et la France, Essai de littérature comparée, Paris, Champion, 1913, pag. 169157Cosi Leopardi la chiama nel Discorso di un italiano intorno alla poesia romantica..
66
In nessuna opera al di là dei monti l’Italia fu più lodata che nella Corinna: i giornali
francesi, inglesi, tedeschi, rendendo conto di questa opera, hanno tutti notato ch’essa
faceva vivamente amare il paese di cui rappresentava l’immagine. [...] Questa
contraddizione si spiega facilmente. Gli inglesi e i tedeschi si fanno un dovere di
leggere le opere sulle quali essi scrivono, e questa non pare l’usanza di certi
fogliettisti in Italia158
Per la scrittrice francese (ma anche per il celebre connazionale Stendhal) l'assenza di società è
quindi anche la premessa per una celebrazione dell'Italia come paese della vita, della passione , una
sorta di Eden climatico, erotico ed artistico, estraneo alla riflessione come alla legge e alla morale.
Al contrario nel Discorso di Leopardi l'obiettivo principale è registrare la distanza tra l' Italia e gli
altri paesi europei e di conseguenza la sua profonda arretratezza (è un trattato filosofico di denuncia
quindi, non di esaltazione dell'Italia). L'assenza di società stretta è vista come una voragine paurosa
che non permette all'Italia di avvicinarsi alla struttura sociale e moderna delle altre nazioni.
Un'altra differenza, incredibilmente celata negli studi critici, è che tra Corinne e il Discorso vi è
una sostanziale differenza di genere: Madame de Staël, seguendo le indicazioni di Friedrich von
Schlegel (1772 – 1829) sceglie la forma del romanzo per Corinne (il romanzo è la tipica forma di
arte romantica per il suo carattere storico e poetico allo stesso tempo ed è un genere popolare perché
di più facile diffusione), che infatti ruota attorno a una trama amorosa; mentre Leopardi compone
un vero e proprio trattato antropologico filosofico, che riprende lo stile contratto e asciutto
dell'aforisma in molti punti (come punti di riferimento vi sono senz'altro anche i grandi moralisti
antichi come Marco Aurelio, o i moralisti moderni francesi come François de La Rochefoucauld).
Da Madame de Staël Leopardi prende solo stimoli e suggerimenti, perché egli di fatto crea un suo
proprio autonomo discorso, e le sue osservazioni, anche le più empiriche, si muovono entro un
contesto strutturalmente ideologico, lontano dalle occasioni e dagli incontri di viaggio della Staël,
che appunto, per dar verosimiglianza al suo romanzo, introduce il personaggio del viaggiatore tra
illuminista e romantico, cioè il personaggio di Oswald. Anche se l'interesse etnologico e sociale di
Corinne è il medesimo che sostiene il Discorso leopardiano, quest'ultimo è quindi molto più
approfondito e analitico per la sua natura di trattato filosofico-antropologico e non di romanzo.
Passiamo adesso al secondo grande scrittore francese citato nel Discorso, ossia François-René de
Chateaubriand (1768-1848), il fondatore del romanticismo letterario in Francia, il maestro degli
scrittori romantici noto per la sua ispirazione cristiana, per i soggetti poetici, per la manifestazione
sentimentale del mal du secle, e per le descrizioni della natura selvaggia. Il romanticismo era stato
infatti preannunciato in Francia agli inizi del XIX secolo dallo stesso Chateaubriand che aveva
158Traggo la citazione da Opere scelte di Madame de Staël, con introduzione e note di C. PELLEGRINI, Bologna, Zanichelli, 1925, pag. 178.
67
esaltato la religione cattolica in Le genie du Christianisme nel 1802, e creato un modello di eroe
romantico nel malinconico e solitario protagonista del romanzo Renè, pubblicato nel 1805.
Quasi a conclusione del trattato, Leopardi dopo aver discusso sulla realtà civile e culturale dell'Italia
contemporanea (paese incapace di essere o veramente tradizionale o veramente moderno), in
riferimento alla Spagna scrive:
l’Italia è, in ordine alla morale, più sprovveduta di fondamenti che forse alcun’altra
nazione europea e civile, perocché manca di quelli che ha fatti nascere ed ora
conferma ogni dì più co’ suoi progressi la civiltà medesima, ed ha perduti quelli che il
progresso della civiltà e dei lumi ha distrutti. Sì per l’una parte è inferiore alle nazioni
più colte o certo più istruite, più sociali, più attive e più vive di lei, per l’altra alle
meno colte e istruite e men sociali di lei, come dire alla Russia, alla Polonia, al
Portogallo, alla Spagna, le quali conservano ancora una gran parte de’ pregiudizi de’
passati secoli, e dalla ignoranza hanno ancor qualche garanzia della morale, [...]. Il
quale stato della Spagna in particolare, fece dire allo Chateaubriand prima della sua
rivoluzione, che quando gli altri popoli rotti e invecchiati dall’eccesso della civiltà e
per conseguenza dalla corruzione avrebbero perduta ogni virtù, e seco ogni forza,
valore ed energia, la Spagna ancor fresca, ancor vicina alla natura, si sarebbe trovata
in quello stato di vigore che nasce da’ principii e da’ costumi non corrotti di una
nazione serbata lontano e illesa dal commercio cogli altri popoli; e che quello sarebbe
stato il tempo in cui la Spagna sarebbe tornata a risplendere, e ricomparsa superiore
all’altre nazioni in Europa, come l’unica non corrotta159.
Leopardi quindi riporta e smentisce del tutto l’opinione di Chateaubriand in merito al vigore e alla
naturalità della nazione spagnola. Il passo in questione è contenuto in Il genio del Cristianesimo,
III,3,V:
La Spagna, separata dalle altre nazioni, presenta alla storico un carattere ancora più
originale: la specie di stagnazione di costumi in cui essa giace le sarà forse utile un
giorno e, quando i popoli europei saranno logorati dalla corruzione, tornerà a
splendere solo sulla scena del mondo, poiché il retaggio dei costumi sussiste ancora
presso di essa160.
Questa opinione non riguardava solo Chateaubriand, ma a ben vedere era un tema assai frequente
nella letteratura francese del primo Ottocento: in pieno Romanticismo la Spagna veniva percepita 159 Discorso, pag. 71-72.160François-René de Chateaubriand, Genio del Cristianesimo, traduzione di S. Faraoni, collana Il pensiero occidentale, Bompiani, 2008.
68
come «primitiva, selvaggia, pittoresca, ancora genuina nella sua gentilezza e cavalleria161» . Già
verso la fine del XVIII secolo nasce infatti fra poeti e filosofi degli altri paesi europei, il mito di
una Spagna romantica, al cui patrimonio culturale e letterario si guarda come manifestazione di una
innata ed eterna omogeneità sociale. Un popolo in cui sembrano albergare da sempre gli antichi
valori dell’onore, della fede cristiana, della dignità anche nella miseria, e dello spirito patriottico.
Sarà questo, per Friedrich Schlegel, il “pensare spagnolo” ed in questo patrimonio si cercherà
l’ispirazione per nuove produzioni artistiche. Inoltre si aggiunga anche la situazione storica coeva o
di poco precedente, che aveva visto la Spagna resistere eroicamente a Napoleone162, attirando a sé
l’ammirazione e le simpatie di inglesi e tedeschi, ma soprattutto risvegliando l’interesse dei patrioti
italiani tra i quali Giuseppe Mazzini (1805 - 1872)163
Leopardi aggiunge nel Discorso che
Si potrà forse disputare non poco se l’antica civiltà sia da preporre o posporre alla
moderna, in ordine alla felicità sì dell’uomo sì de’ popoli ed alla virtù, valore, vita,
energia ed attività delle nazioni. Ma lo stato della Spagna non ha niente a fare con
l’antica civiltà. Tutto quello che la Spagna (e i popoli che se le assomigliano) si
distingue dagli altri d’Europa [...] appartiene alla barbarie de’ tempi bassi, è una
derivazione, o piuttosto una continuazione di quella. Se la Spagna differisce dalle altre
europee e dalle sue vicine, più che tutte queste altre non differiscono tra loro anche tra
le più lontane ciò non accade perch’ella abbia nulla d’antico o conservato o
racquistato, ma perch’ella ha conservato della barbarie dell’età media assai più ella
sola che tutte l’altre nazioni civili insieme164.
161A. PLACANICA, Discorso sopra lo stato dei costumi degl’italiani, op. cit., pag. 186162Quando si pensa alla resistenza spagnola contro Napoleone è inevitabile ricordare alcune opere del celebre pittore Francisco José de Goya (1746-1828), come “Il 3 maggio” o la serie di acqueforti note come “I disastri della guerra”, di una violenza e di una crudezza ancor oggi agghiaccianti.. Giunto al potere, Napoleone si impose a Carlo IV (1788-1808) e al principe Godoy (amante della regina e confidente del re), ottenendo l'alleanza della Spagna. In realtà l'esercito francese, comandato da Junot, era diretto sia contro la Spagna sia contro il Portogallo. Così, le truppe francese occuparono fortezze del nord e della Catalogna; nella crisi del momento i fernandisti fecero arrestareGodoy e Carlo IV fu costretto ad abdicare a favore del figlio Ferdinando VII. L'imperatore dei francesi incontrò il nuovo sovrano e Carlo IV a Bayonne, dove, dopo aspri scontri verbali ed umiliazioni subite dai reali spagnoli, il fratello di Napoleone, Giuseppe Bonaparte, ottenne la corona di Spagna. La popolazione e alcuni ufficiali, preoccupati del futuro della corona spagnola, diedero allora vita a una diffusa rivolta contro il dominio francese durata sei anni dal 1808 al 1814, che mise in evidenza sia il sentimento nazionale sia la ribellione contro gli aspetti più moderni e innovativi della Rivoluzione francese. La resistenza spagnola dal 1809 in poi fu sostenuta dagli inglesi comandati da Wellington. Si veda a tal proposito David Chandler, Le campagne di Napoleone, Rizzoli, 1981; Georges Blond, Storia della Grande Armée, Rizzoli, 1981; Jean Taulard, Napoleone, Rlzzoli, 1989; Raymond Carr, Storia della Spagna (1803-1939), La Nuova Italia, 1966.
163V.M.G.PROFETI, G. Berchet e le Vecchie Romanze spagnuole, in Miscellanea di studi ispanici, Università di Pisa, 1965, pag. 203-205164 Discorso, pag. 72.
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La critica non si è soffermata a sufficienza su queste parole di Leopardi, a mio avviso molto
rilevanti In pratica le parole di Chateaubriand, contenute in Il genio del cristianesimo, vengono
rifiutate completamente sulla base di una distinzione fra civiltà antica, civiltà moderna, e civiltà che
Leopardi chiama «de tempi bassi165», ovvero quella medievale (si veda più nel dettaglio il paragrafo
della mia tesi intitolato Il concetto di evoluzione storica umana all'interno del Discorso). La
Spagna dei primi anni dell'Ottocento non assomiglia alle epoche antiche dell'umanità ma alle
epoche di decadenza166 (l'opinione di Leopardi sul Medioevo è del tutto negativa). É questo un tema
di grande importanza nell'analisi leopardiana, ed esclude qualsiasi speranza di palingenesi dalla
civiltà moderna attraverso una illusione di ritorno al passato che è depositato in «sacche di
immobilità storica167».
Da queste idee del Discorso si deducono due cose importantissime: ne consegue infatti sia
un'esaltazione del razionalismo europeo che va dal Rinascimento al Settecento, e che culmina
nell'Illuminismo; sia una condanna di ogni forma di religione (e quindi del Cristianesimo), e in
particolare del Medioevo, elemento non secondario di distanza rispetto ai romantici come lo stesso
Chateaubriand (nel Discorso è presente la più feroce requisitoria che Leopardi abbia scritto contro
questa epoca). Non solo Leopardi nega le idee di Chateaubriand, ma afferma seccato che egli:
come in molte altre cose, e per conseguenza necessaria di molti suoi falsi principii,
s’ingannava grandemente168.
Sebbene l'opera del romantico francese fosse ammirata in un primo momento da Leopardi, in
seguito, come dimostra la breve citazione, non esitò a criticarla. Ferdinando Neri ritiene il Génie di
Chateaubriand «una delle prime letture francesi del Leopardi169 [… ]ma dopo aver ascoltato quel
165 Ibidem.166In una realtà economica ancora basata sul latifondo e pressoché priva di quella classe media emergente altrove, la nazione spagnola secondo Leopardi rimaneva dunque legata ad una condizione suburbana della società e dell'economia e appariva pertanto più prossima all’antica età medievale che a quella industriale coeva. Il concetto ribadito anche nello Zibaldone, in particolare si veda questi due esempi 3577-78: «Questa mirabile e così lunga conservazione di sì speciale conformità col latino nella lingua spagnuola, conformità che passa quella conservata nella stessa sede dell'antico latino, cioè in Italia, dee riconoscersi dalle stesse circostanze che rendono e sempre resero gli spagnuoli, o loro permisero e permettono di essere così tenaci de' loro istituti, costumi, opinioni, religione ec.; così stazionari nel loro carattere, nel grado della loro civiltà; così lenti ne' loro progressi sociali ec. tanto che oggidì, dopo il rapido corso incominciato e tenuto dalle altre nazioni nell'ultimo secolo, la Spagna, a paragone del resto d'Europa, viene ad aver più del barbaro che del civile»; «Or tornando al proposito, le dette circostanze si possono dividere in geografiche, naturali e storiche. Se guardiamo alle prime, il sito della Spagna ch'è in uno estremo d'Europa, facendola poco frequentata dagli stranieri, rende la nazione poco soggetta a variarsi. Le seconde sono il clima, e il carattere nazionale in quanto alla parte fisica. Questo negli spagnuoli è pigro e molle e vago del riposare e dello stare più che dell'azione e del movimento, o certo capace di contentarsi facilmente del riposo, per poco che l'operare gli sia impedito o reso difficile.»167 F. FERRUCCI, Nuovo discorso sugli italiani con il Discorso sopra lo stato presente degl'italiani di Giacomo Leopardi, op. cit, pag 136.168Discorso, pag. 72169F. NERI, Il Leopardi ed un «mauvais maître» [«Rivista d’Italia», agosto 1915, vol. II, pp. 194-204], in Id., Letteratura e leggende. Raccolta promossa dagli antichi allievi con un ritratto e la bibliografia degli scritti del maestro, Chiantore, Torino 1951, pp. 276-288
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suo primo maestro [Chateaubriand]; [...] se ne ritrasse, quasi lo schivò; e volle denunciarne la
speciosa dottrina». Seguendo il percorso dell'ispirazione religiosa giovanile, anche Giovanni
Getto170 ritiene il Génie di Chateaubriand una delle principali fonti di Leopardi. L'ispirazione
religiosa, depositata negli abbozzi degli Inni cristiani, si trasferirà poi prima nell’Inno ai Patriarchi
e successivamente in Alla primavera («se a qualche vestigio di autore letto si deve pensare per la
concezione degli Inni cristiani non è a Manzoni che conviene rivolgersi, bensì ad un altro meno
autentico rappresentante del cattolicesimo dell’Ottocento, e precisamente all’autore del Génie du
Christianisme. Là allora si troverà che non solo di qualche vestigio è necessario parlare, sì invece di
un fitto intrico di orme precise»171).
Tra il 1819 e il 1823 vari elementi però entrano in gioco nel pensiero leopardiano, modificando
anche la sua opinione su Chateaubriand e i «suoi falsi principi». Nel 1819 traballa e viene meno in
particolare l'adesione di Leopardi al cattolicesimo; ed egli abbraccia definitivamente il sensismo
illuministico (dottrina secondo cui ogni conoscenza deriva dalle sensazioni e solo da loro). Questo
motivo è la causa principale dell'allontanamento dallo scrittore francese.
Giuseppe Chiarini (1833- 1908), uno dei primi a stendere una biografia del recanatese, scrive a tal
proposito nella sua Vita di Giacomo Leopardi (1905):
È noto che Giacomo vestì da ragazzo l’abito chiericale, ma non si sa il tempo
preciso. Monaldo, però, ha lasciato memoria, che a sei anni e mezzo (il 5 gennaio
1805) Giacomo fece da padrino alla benedizione del fonte nella chiesa parrocchiale
di Santa Maria in Monte Morello, portando la croce; che a dodici anni compiuti (il
19 agosto 1810) prese la tonsura, e che seguitò ancora per alcuni anni a vestire da
chierico ed usare alle funzioni di chiesa; il che lascia ragionevolmente supporre che
in quelli anni fosse disposto a seguire la carriera ecclesiastica. Quando veramente
gli venisse l’idea di abbandonarla e svestisse l’abito, si ignora; ma è probabile che
ciò avvenisse fra i diciotto ed i venti anni, allorché incominciò a sentire l’impero
della bellezza172.
A poco a poco infatti il giovane Leopardi rinnegò le idee che il padre gli aveva inculcato,
prendendo le distanze dal suo spirito reazionario, dall'arretratezza della sua cultura e soprattutto
dalla religione cattolica che non aveva potuto amare perché l'aveva dovuta sempre subire nei suoi
aspetti puramente formali, senza essere mai stato indirizzato a coglierne la sostanza profonda
(sappiamo come il padre fece di tutto per indirizzarlo verso la carriera ecclesiastica che rifiutò).
170G. GETTO, Saggi leopardiani, Vallecchi, Firenze 1966, Gli inni cristiani, [già in Carlo Cordié, a cura di, Studi in onore di Vittorio Lugli e Diego Valeri, Neri Pozza, Venezia 1961], pp. 239-272.171Ivi, pag.252172G. CHIARINI, Vita di Giacomo Leopardi, Firenze, G. Barbèra, 1905.
71
Il rigetto verso l'opera di Chateaubriand non riguardò solo Il genio del Cristianesimo, ma anche ad
esempio il romanzo Renè. Nello Zibaldone afferma:
Il qual ristagno è micidiale alla felicità per le ragioni sopraddette. Ora esso è l'effetto
proprio del moderno modo di vivere, e il carattere che lo distingue dall'antico, e
quello che osservato da Chateaubriand, volendo fare un romanzo di carattere
essenzialmente moderno, e ignoto e impossibile da farsi o da concepirsi agli antichi,
gl'ispirò il René, che si aggira tutto in descrivere e determinare questo ristagno, e gli
effetti suoi. Da ciò solo si conchiuda se la vita antica o la moderna è più conducente
alla felicità, ovvero qual delle due sia meno conducente all'infelicità. E poichè lo
Chateaubriand considera questo ristagno come effetto preciso e proprio del
Cristianesimo, vegga egli qual conseguenza se ne debba tirare intorno a questa
religione, per ciò che spetta al temporale. In verità si trova ad ogni passo che le sue
più fine, profonde, nuove e vere osservazioni e i suoi argomenti intorno al
Cristianesimo, e agli effetti di lui, ed alla moderna civiltà, ed al carattere e spirito
dell'uomo Cristiano, o moderno e civile, provano dirittamente il contrario di quello
ch'egli si propone. E può dirsi che ogni volta ch'egli reca in mezzo osservazioni
nuove, travaglia per la sentenza contraria alla sua, accresce gli argomenti che la
fortificano173
Leopardi evidenzia come Chateaubriand, contro i suoi stessi intenti, dimostri che proprio il
Cristianesimo ha tolto quella vitalità di cui, non a caso, i moderni sono privi. Infine c'è un altro
aspetto che vale la pena sottolineare: già all’epoca del Discorso entra in crisi in Leopardi la
nostalgia per la condizione originaria dell’umanità, che diventerà nel periodo napoletano ironica
presa di distanza dalle celebrazioni che romantici e reazionari facevano del «viver zotico e
ferino»174, per il semplice fatto che la condizione originaria e naturale è uno stato definitivamente
perduto dal genere umano. Ecco quindi spiegato un altro motivo della critica allo Chateaubriand
contenuta nel Discorso.
173Zibaldone, 2738-39174Paralipomeni, Canto IV, 9, I.
72
III. 4 Leopardi lettore di Baretti, Gozzi, Parini, Goldoni:
Nelle pagine iniziali del Discorso, subito dopo aver citato il romanzo Corinne ou l’Italie di Madame
de Staël, Leopardi scrive che gli italiani
non scrivono nè pensano sui loro costumi, come sopra niun’altra cosa che importi e
giovi ad essi o agli altri: eccetto forse il solo Baretti, spirito in gran parte
altrettanto falso che originale, e stemperato nel dir male, e poco intento e certo
poco atto a giovare, e sì per la singolarità del suo modo di pensare e vedere, benchè
questa niente affettata, sì per la sua decisa inclinazione a sparlare di tutto, e il suo
carattere aspro e iracondo verso tutto, il più delle volte alieno dal tutto175.
La critica che si è interessata al Discorso ha trascurato completamente questo giudizio su Giuseppe
Baretti (1719 - 1789), né ha evidenziato a quale dei suoi scritti il Leopardi si riferisca. É utile invece
a mio avviso, anche solo per mera curiosità letteraria, ampliare e discutere questo punto.
Leopardi si riferisce a uno scritto del 1768 di Baretti intitolato An Account of the Manners and
Customs of taly; with Observations on the Mistakes of Some Travelers, with Regard to that
Country176. É uno dei primi saggi di osservazione sugli italiani scritto da un italiano. In esso lo
scrittore torinese risponde ferocemente ad alcuni severi giudizi sugli Italiani espressi dal medico
chirurgo e letterato Samuel Sharp. Quest'ultimo, dopo aver lavorato come chirurgo presso il Guy's
Hospital di Londra dal 1733 al 1757 (acquisendo fama internazionale), fece un grand tour nel 1765
in numerose città italiane. Le sue osservazioni maturate in quell'anno confluirono in Letters from
Italy, uscite nell'agosto dell'anno successivo. Baretti, letterato poliglotta grazie ai suoi numerosi
viaggi in Europa177, rispose subito in inglese al letterato londinese che aveva vilipeso la nostra
nazione, dando alle stampe a Londra i due volumi dell’Account. É lo stesso Baretti in una lettera a
Iacopo Taruffi datata 20 aprile 1767 a spiegare le ragioni del suo saggio:
Vo’ rispondere ad uno d’un certo Samuello Sharp, cioè ad un Viaggio che costui ha
stampato, in cui strapazza l’Italia soverchiamente, trattando tutti gli uomini nostri di
175Discorso, pag. 48-49.176G. BARETTI, An Account of the Manners and Customs of Italy; with Observations on the Mistakes of some Travellers, with regard to the Country, London, T. Davies, and L Davis, and C. Rymers, 1768, 2 voll (la seconda edizione è del 1769: The second edition correctred; with Notes and Appendix added, in answer to Samuel Sharp, Esq., London, T. Davies, and L Davis, 1769).177Uno dei suoi principali luoghi di soggiorno all'estero fu proprio l' Inghilterra: visse a Londra prima dal 1751 al 1760, dando lezioni di italiano e scrivendo per i giornali, e poi dal 1766 fino alla morte, avvenuta l'anno dello scoppio della Rivoluzione francese. Nella capitale inglese ottenne un posto come segretario della Royal Academy of Arts, stringendo amicizia con personalità di valore come Samuel Johnson, Sir Joshua Reynolds, Oliver Goldsmith, Edmund Burke e David Garrick.
73
becchi, di fanatici e d’ignoranti, e tutte le nostre donne di puttanacce e di
superstiziose178»
L’Account sfugge a una drastica collocazione di genere a tal punto che Cristina Bracchi179 in una
recente monografia dedicata a Baretti e alla analisi di questo saggio afferma che la sua caratteristica
principale è il «suo libero fluttuare dal genere didascalico a quello odeporico, dal genere
apologetico a quello di guida turistica180». Se si osserva infatti attentamente l'opera, essa non è
facilmente inseribile in una forma letteraria preesistente e ben definita, pur essendo in parte affine a
molte di esse: è un libro di viaggio ma anche un trattato, è una lunga relazione tra il didascalico e
l’apologetico nella quale non si rinuncia del tutto all’invenzione; è altresì, in maniera assai
settecentesca, un libro di critica letteraria italiana ad uso di lettori stranieri.
Analizzando l'ampia pubblicazione in inglese del Baretti dal 1753 al 1779 (Remarks on the Italian
Language and Writers (1753), Introduction to the Italian Language (1755), Dictionary of the
English and Italian Languages, (1760), Easy Phraseology for the Young Ladies Who Intend to
Learn the Colloquial Part of the Italian Language (1775) solo per citarne alcune), ricca
testimonianza del suo lavoro di insegnante di italiano presso le benestanti famiglie londinesi, si può
affermare che anche l'Account del 1768 abbia soprattutto una funzione pedagogica, ossia anch'essa
è scritta con l'obiettivo di cercare di soddisfare il desiderio di conoscenza della lingua e della cultura
italiane espresso dai lettori inglesi. Resta comunque evidente l'intento del Baretti di spiegare come
Sharp avesse male interpretato le usanze italiane perché ignorava la lingua e aveva una conoscenza
solo superficiale del paese italiano.
Tradotta tempestivamente e con un buon successo di pubblico in francese (cosa che le consentirà
finalmente una pur minima circolazione in Italia, dal momento che l’inglese era una lingua
pressoché sconosciuta tra i nostri letterati del secondo Settecento) l’opera sarà proposta in una sua
versione in lingua italiana solamente nel 1818, ovvero giusto cinquanta anni dopo la sua prima
edizione londinese, grazie alla traduzione di Girolamo Pozzoli, una trasposizione assai libera, piena
di tagli ed omissioni e che oltretutto, come è facilmente verificabile da una rapida collazione dei
testi, discende assai più dalla già corrotta e rimaneggiata edizione transalpina che non dalla fonte
originale. È molto probabile che Leopardi avesse letto nella biblioteca paterna proprio la traduzione
italiana di Pozzoli, pubblicata con il titolo di Gl'italiani (così si chiamava l'Account nell'adattamento
di Pozzoli). Sebbene fin dalla infanzia Leopardi avesse imparato «latino, greco, ebraico, francese,
spagnolo, inglese, tedesco, per far suo tutto quell'immenso sapere raccolto nella biblioteca181», le
178Epistolario, Baretti, a cura di L. Piccioni, Bari, Laterza, 1936, vol. I, p. 349.179C. BRACCHI, Prospettiva di una nazione di nazioni.: An Account of the Manners and Customs of Italy di Giuseppe Baretti, Edizioni dell’Orso, Alessandria, 1998.180Ivi, p. 73.181Studio su Giacomo Leopardi, a cura di R.BONARI, Morano, Napoli 1885 , pag, 9
74
convincenti analisi di Verducci182 hanno dimostrato come Leopardi arrivò tardi alla conoscenza
della lingua inglese, ossia intorno al 1826, tuttavia non è da escludersi che egli possa aver giovato
delle competenze linguistiche del fratello Carlo o di altri amici e letterati.
Veniamo al giudizio assai critico di Leopardi sull'opera di Baretti. Ai suoi occhi, innanzitutto egli è
storicamente superato perché:
i costumi e lo stato d’Italia sono incredibilmente cangiati dal suo tempo, cioè da
prima della rivoluzione, al tempo presente. Allora, massime l’Italia meridionale,
era quasi in quello stato di opinioni e di costumi in cui si è trovata fino agli ultimi
anni ed ancora in grandissima parte si trova la Spagna. Ora per l’uso e il dominio
degli stranieri, massime de’ francesi, l’Italia è, quanto alle opinioni, a livello cogli
altri popoli, eccetto una maggior confusione nelle idee, ed una minor diffusione di
cognizioni nelle classi popolari183.
In secondo luogo per Baretti che ha la pretesa «di dipinger gl’Italiani tali quali sono» contro «le
calunniose imputazioni dei viaggiatori», gli italiani sono pacifici, moderati, misericordiosi, pii,
«naturalmente docili al giogo» (il che è inteso positivamente), intolleranti solo in questioni
amorose. Questo ritratto è, a giudizio di Leopardi, assai lontano della realtà; ed è per questo motivo
che nel Discorso il Baretti viene menzionato come «spirito in gran parte altrettanto falso che
originale184» con una «decisa inclinazione a sparlare di tutto185», a tal punto che «egli, anche
scientemente, sacrifica spesso a questa sua voglia, e a questo instituto e carattere de’ suoi libri, la
verità186.»
Leopardi avverte quindi nelle parole dell'Account una abile finzione letteraria nel ritrarre gli usi e i
costumi degli italiani; una finzione letteraria che ritroviamo anche nella sua opera più significativa,
la rivista Frusta letteraria (in fascicoli dal 1763 al 1765) nella quale Baretti, sotto lo pseudonimo di
Aristarco Scannabue, si scaglia contro sia i convenzionalismi dell'Arcadia sia contro alcune
posizioni degli illuministi. Dopo aver espresso questo suo giudizio feroce sul Baretti, Leopardi
aggiunge:
Anche il Gozzi, il Parini, il Goldoni e gli altri pochi comici italiani che meritano
questo nome e per conseguenza hanno studiato i costumi della propria nazione e di
questi parlano e questi descrivono, non gli stranieri, come tanti nostri drammatici,
e i presenti costumi, non gli antichi; anche questi, dico, si possono contare fra gli 182M. VERDUCCI, Cultura inglese in Giacomo Leopardi, S. Gabriele, Isola del Gran Sasso d'Italia: Eco, stampa 1994. 183Discorso, pag 49.184 Ibidem185Ibidem186Ibidem, nota e.
75
scrittori de’ nostri moderni costumi sebbene non filosofici né ragionati, ché tale
non fu l’instituto e la natura de’ loro scritti187.
Anche su questi tre autori della letteratura italiana, la critica non si è interessata ad approfondire il
perché vengano citati nel Discorso e quale opinione avesse il poeta recanatese di loro.
Prima di approfondire questo tema, è bene sottolineare come le convinzioni di Leopardi, riguardo la
scarsa propensione degli italiani al pensiero riflesso, siano presenti anche in un pensiero dello
Zibaldone datato 23 novembre 1820:
ma non tanti, nè tanto forti da resistere ai lumi così lungamente, come i paesi
meridionali, e soprattutto (la Spagna e) l'Italia, dove anche oggidì si vive poco, è
vero, perchè manca il corpo e il pascolo materiale e sociale delle illusioni, ma si
pensa anche ben poco188.
Placanica ha evidenziato del resto come «anche nei frequenti riferimenti all'amatissimo Alfieri e
all'amato Foscolo, è sempre sottolineato il contrasto con la restante negligente Italia, in una non
retorica sottolineatura della funzione civile dell'intellettuale.
Leopardi cita Gozzi (quasi un Carneade per i più oggi all'interno della nostra letteratura)
principalmente per la sua attività giornalistica. Gaspare Gozzi (1713-1786), non rifiutò infatti di
cimentare la sua abilità di letterato in un'attività prettamente commerciale quale il giornalismo. Di
origine nobile ma costretto a fare i conti con la minaccia della miseria, si impegnò in numerose
imprese editoriali, fondando periodici, case editrici, collane di classici. In questo confronto moderno
e spregiudicato con il mercato editoriale, Gozzi esprime il suo ideale di utilità e di impegno civile,
tipico degli illuministi. L’inclinazione di Gozzi verso il giornalismo si può riscontrare fin dalle sue
prime opere: le Lettere diverse (pubblicate a Venezia nel 1750) mostrano che le migliori qualità del
suo ingegno si esprimevano in una forma molto affine quella del saggio giornalistico. Lo stesso può
dirsi dei Sermoni: l’autore vi dipinge cose e uomini contemporanei, combatte tendenze errate del
pubblico, racconta casi della propria vita, spesso sotto forma di novellette morali e di quadri di vita
cittadina. Nella prosa giornalistica, un genere per il quale Gozzi deve essere quindi annoverato tra i
fondatori, egli quindi espresse le sue maggiori abilità: con tecnica più matura e consumata rispetto
ai Sermoni, redasse tra il 1760 e il 1761 La gazzetta veneta, e poi L'osservatore veneto.
In La gazzetta veneta, periodico bisettimanale i cui numeri uscirono dal 1761 al 1762, Gozzi ritrae
casi e macchiette della vita di Venezia, la sua città natale. Nelle intenzioni del Gozzi, La gazzetta
veneta doveva essere ispirata all’esempio dei giornali d’oltralpe, dove vigeva «un’usanza [...] assai
buona, ed è questa [...] una o due volte la settimana escono certi fogli, ne’ quali si contengono 187Ibidem, nota c188Zibaldone 350
76
alcune cosette che danno piacere a leggere, per ricreare le persone, e certe altre cose utili e a
proposito per le usanze e pegli agi della città189». Il pregio maggiore della Gazzetta risiede infatti
nelle vivaci scenette che hanno come sfondo la Venezia settecentesca. Testimonianza preziosa
grazie alla grande capacità di osservazione del Gozzi, essa era concepita secondo il modello illustre
dello Spectator, quotidiano inglese uscito dal marzo del 1711 al dicembre del 1712, fondato dal
politico, scrittore e drammaturgo Joseph Addison (1672-1719). Il giornalismo italiano, nel XVIII
secolo, sente infatti moltissimo l’influsso del giornalismo inglese e di quello francese, più
all’avanguardia. Traduzioni francesi e raccolte italiane dei saggi dello Spectator erano assai diffuse
a Venezia intorno alla metà del secolo XVIII, e il Gozzi si ispirò ad esse.
Un grande pregio dei saggi dello Spectator consisteva infatti nello stretto rapporto con la vita del
suo tempo, da cui traeva materia di discussione. Staccandosi dalla pura erudizione, e da ogni astratta
speculazione fine a se stessa, l’intenzione moralistica trovava la sua realizzazione concreta
nell’osservazione e nell’analisi di una società esclusivamente inglese, che veniva largamente
descritta. Lo stesso atteggiamento mostra il Gozzi nella morale della favola in versi che conclude il
manifesto della Gazzetta veneta, intitolato significativamente A chi ama i fatti suoi: «Perché cerchi,
o Lettore, da lontano? / Solo le cose di casa tua apprezza; / In essa hai tue ricchezze e tu nol sai; /
Cerca in tua casa e quelle troverai190».
Tuttavia, malgrado queste derivazioni strutturali, il Gozzi aveva una propria originalità nei confronti
dello Spectator, a cominciare dallo scopo della Gazzetta Veneta, che non è quello di impartire
precetti, ma di divertire il pubblico raccontandogli i fatti della vita quotidiana. La descrizione del
mondo umano negli articoli del giornale è il maggiore pregio secondo Leopardi, ed è per questo
motivo che lo cita nel Discorso. Con la stessa impostazione di base, anche se più letteraria, si pone
l'altro periodico bisettimanale del Gozzi, pubblicato tra il 1761 e il 1762, ossia L'osservatore veneto.
Il Catalogo della Biblioteca Leopardi191, pubblicato ad Ancona tra il 1898 e il 1899,
importantissimo strumento di ricerca per gli studi leopardiani in senso stretto, dimostra come
Leopardi avesse a sua disposizione la Gazzetta veneta e l'Osservatore di Gozzi. A differenza
dell'Osservatore che aveva conosciuto un'ampia circolazione, la Gazzetta già nella prima metà
dell'Ottocento era divenuta molto rara (anche perché ricco di annunci commerciali). Accanto a
questi due più noti periodici, compare anche il Mondo morale del Gozzi, romanzo allegorico, in cui
appaiono, fra l'altro, traduzioni da Luciano e dal Klopstock. L'opera di traduttore del Gozzi è
ribadita da Leopardi, fra l'altro, nel Preambolo del volgarizzatore192, posta all'inizio della sua 189Traggo la citazione da Opere del conte Gasparo Gozzi viniziano, volume VII, Tipografia e fonderia della minerva, Padova, 1819.190 Ivi, pag. 5-7.191Catalogo della Biblioteca Leopardi, «Atti e memorie della deputazione di storia patria per le province delle Marche», IV (1899). Il catalogo è ordinato alfabeticamente e contiene inoltre una breve appendice integrativa.192«Tutte le altre nazioni (intendo in questo discorso di parlare specialmente degli scritti in prosa) hanno piuttosto difetto che rarità di buoni e veri volgarizzamenti di libri antichi; non per incapacità delle loro lingue, come i Francesi, ma per
77
traduzione del Manuale di Epitteto che non fu mai pubblicato (nel 1830 l’editore restituì il
manoscritto a Leopardi), se non postumo, nel 1845.
Assieme al catalogo della biblioteca, qualsiasi studioso leopardiano deve tenere ben presente anche
gli elenchi di letture redatti dallo stesso Leopardi allo scopo di organizzare e disciplinare la propria
attività di studio. Apparsi in vari contributi in epoche diverse, essi sono stati unificati e pubblicati
integralmente con nuove aggiunte e correzioni nel 1966 da Giuseppe Pacella193. Letture di Gozzi
vengono segnalate anche in questi elenchi, precisamente in quelli relativi al novembre del 1825 e al
marzo dell'anno successivo.
Gaspare Gozzi è quindi un letterato caro al Leopardi, da cui trasse non poco spunto: basti
considerare, oltre a quanto detto fino ad ora, che sulla scia dell' Osservatore veneto, Leopardi aveva
in mente come progetto la pubblicazione di un periodico, chiamato Lo Spettatore fiorentino194. Il
tono leggero e moralistico del giornale avrebbe dovuto riprendere il modello della pubblicistica del
Settecento, in particolare i giornali di Gaspare Gozzi. Con il suo stile ironico e tagliente, Leopardi
nelle sue intenzioni avrebbe voluto rivolgersi quindi al variegato pubblico dei lettori di gazzette.
Purtroppo non si sa molto di questo periodico, progettato tra l'autunno del 1831 e la primavera del
1832, poiché la realizzazione di questo giornale andò in fumo. Si può ipotizzare che doveva essere
un sorprendente tentativo di contestare l'ideologia del progresso avvalendosi del mezzo tipico di
quella propaganda.
Passiamo adesso ad analizzare la ragione per cui nella lista di italiani a detta di Leopardi che hanno
studiato i costumi dell'Italia compaia anche il nome di Parini. Giuseppe Parini (1729 – 1799)
divenne subito dopo la morte, avvenuta un anno dopo la nascita di Leopardi, e per tutto l'Ottocento,
il simbolo del letterato impegnato in senso civile e morale. La sua figura di uomo e di poeta divenne
infatti simbolo dell'età del rinnovamento civile grazie sia alla sua opera poetica sia alla sua memoria
poco studio e poca opera posta dagl'ingegni dintorno a sì fatto genere, o poca loro sufficienza a trattarlo. Certo, fuori della tedesca, niuna lingua moderna è più capace che la nostra di traduzioni perfette, o almeno eccellentissime, da qual si sia favella del mondo, ma dal latino e dal greco massimamente. [...] E ristringendoci ora a dire dei libri greci e latini, parrebbe che in quel secolo nel quale più che in alcuno altro fiorirono tra noi lo studio sì di queste due lingue e sì della propria italiana, voglio dire nel cinquecento, i nostri migliori ingegni avessero temuto, e perciò schifato, di tentare con volgarizzamenti le opere degli antichi di maggior conto. Le quali in quel secolo furono per verità recate nella nostra lingua quasi tutte, ma le più da uomini insufficienti e di poco valore. Ben si leggono con diletto, a cagion di esempio, le cose di Seneca e di Boezio volgarizzate dal Varchi, e quelle di Aristotele, del Nazianzeno, di san Cipriano dal Caro, e sono di ottimo stile, e sì spedito e libero, che paiono anzi scritture originali che traduzioni. La qual cosa, dopo il cinquecento, mai nessuno Italiano, volgarizzando in prosa, non ha potuto ottenere, se non forse Gasparo Gozzi.» 193G. PACELLA, Elenchi di letture leopardiane, «Giornale storico della letteratura italiana», CXLIII, fasc. 444 (1966), pp. 557-577.194G.Leopardi, Lo spettatore fiorentino, Giornale di ogni settimana. Preambolo in Tutte le opere, a cura di W. Binni, op. cit, p.993. Su Lo spettatore fiorentino da segnalare lo studio interessante di I. DEL LUNGO, Un periodico-parodia disegnato da G. Leopardi, in Nuova Antologia, 16 agosto 1920, pp. 297-310, che osserva come il «Preambolo non sia stato rilevato per quel singolare e importante documento ch' esso è del pensiero leopardiano, anzi documento di vita e d'anima non meno rilevante degli scritti divulgati nella comune dei lettori». A distanza di anni questa affermazione resta attualissima. Si veda anche il recente studio di M. MONSERRATI, Le «cognizioni inutili». Saggio su «Lo Spettatore fiorentino» di Giacomo Leopardi, pubblicato da Firenze University Press , 2005.
78
perpetuata dal Foscolo nell'Ortis e nei Sepolcri, dall'elogio del Monti nella Mascheroniana, dal
giovane Manzoni nel carme In morte di Carlo Imbonati.
Anche Leopardi lo considera un modello da seguire proprio per il suo impegno civile e politico,
come esplica chiaramente in Il Parini, ovvero della gloria, una delle Operette morali:
Giuseppe Parini fu alla nostra memoria uno dei pochissimi Italiani che all'eccellenza
nelle lettere congiunsero la profondità dei pensieri, [...] Fu eziandio, come è noto, di
singolare innocenza, pietà verso gl'infelici e verso la patria, fede verso gli amici,
nobiltà d'animo, e costanza contro le avversità della natura e della fortuna, che
travagliarono tutta la sua vita misera ed umile, finché la morte lo trasse dall'oscurità.
Ebbe parecchi discepoli: ai quali insegnava prima a conoscere gli uomini e le cose
loro, e quindi a dilettarli coll'eloquenza e colla poesia195.
Nella sua opere Parini si pone un problema sociale: agli occhi di Leopardi egli è uno dei massimi
rappresentanti di quel nostro ceto intellettuale, che ancor prima della rivoluzione francese
combatteva, in nome della ragione e della natura, la vecchia civiltà medievale e feudale, contro le
sue ingiustizie, i suoi arbitri, i suoi privilegi. Il suo intento civile e sociale si può rilevare anche
dall'ode Alla musa, e soprattutto dai ben noti versi al Consigliere De Martini («Io volsi l'itale Muse
a render saggi e buoni i cittadini miei»)
Leopardi in particolare conosceva bene l'opera principale del Parini, ossia il poemetto satirico Il
giorno, nel quale il poeta immagina di essere precettore di un «giovin signore» durante il Mattino, il
Mezzogiorno, Il Vespro, la Notte (le quattro parti in cui si divide il poema). Il tema ispiratore del
Giorno è l'intento di dare forma letteraria alla rappresentazione della vita quotidiana
dell'aristocrazia milanese, a pochi anni dalla sua sconfitta politica e storica.
La descrizione di questa esistenza, del tutto risolta nel suo mero apparire e perciò nel suo essere
inutilmente elegante, raffinata, fastosa e piena di sé, è ben delineata grazie alla esperienza che il
Parini ebbe in casa di Gabrio e Vittoria Serbelloni, fra il 1754 e il 1762, in qualità di precettore dei
loro figli. In questi otto anni, Parini ebbe infatti la possibilità di osservare da vicino, nel loro
ambiente naturale, il comportamento e i costumi dei membri della nobiltà, giunta alla conclusione
del proprio predominio di classe nella società di antico regime. Inoltre, lavorando in casa Serbelloni
per tanto tempo, ebbe la possibilità di frequentare altre case di patrizi a loro legati, sottoponendo a
giudizio l'eleganza fastosa, la molle frivolezza, la brillante e futile mondanità dell'aristocrazia.
Giosuè Carducci dirà infatti che il Parini, «in posizione comoda per l'osservazione, alta per l'animo
195Operette morali, Il Parini ovvero della gloria.79
suo, poté studiar da presso, come da un palchetto al teatro, lo spettacolo dell'aristocrazia
decadente».196 L'interesse antropologico del Parini nel Giorno non sfuggì quindi al Leopardi.
Veniamo infine al perché Leopardi citi nel Discorso anche Carlo Goldoni. A Leopardi non
sfuggiva la grande riforma teatrale attuata dal commediografo veneziano. La riforma goldoniana
consiste nell'aver reagito alla decadente Commedia dell'arte in nome del realismo della vita
quotidiana, secondo quanto aveva fatto prima i comici antichi e recentemente in Francia il Moliere
(1622 – 1673). Mondo e teatro furono infatti i poli della sua poetica, come scrisse nella Prefazione
dell'autore alla prima raccolta delle commedie (1750):
[…] dirò con ingenuità, che sebben non ho trascurata la lettura de' più venerabili e
celebri Autori, da' quali, come da ottimi Maestri, non possono trarsi che utilissimi
documenti ed esempli: contuttociò i due libri su' quali ho più meditato, e di cui non mi
pentirò mai di essermi servito, furono il Mondo e il Teatro. Il primo mi mostra tanti e
poi tanti vari caratteri di persone, me li dipinge così al naturale, che paion fatti apposta
per somministrarmi abbondantissimi argomenti di graziose ed istruttive Commedie: mi
rappresenta i segni, la forza, gli effetti di tutte le umane passioni: mi provvede di
avvenimenti curiosi: m'informa de' correnti costumi: m'intruisce de' vizi e de' difetti che
son più comuni del nostro secolo e della nostra Nazione, [...] Il secondo poi, cioè il
libro del Teatro, mentre io lo vo maneggiando, mi fa conoscere con quali colori si
debban rappresentar sulle Scene i caratteri, le passioni, gli avvenimenti, che nel libro
del Mondo si leggono; come si debba ombreggiarli per dar loro il maggiore rilievo, e
quali sien quelle tinte, che più li rendon grati agli occhi dilicati degli spettatori […]
Mondo come esperienza della società contemporanea quindi, e teatro come pratica diretta della
realtà del palcoscenico (attori, pubblico...). Il grande pregio di Goldoni per Leopardi è quello di
aver riportato realisticamente nelle sue commedie la Venezia del XVIII secolo.
Nelle commedie goldoniane si muovono infatti personaggi di ogni ceto sociale, popolani, nobili e
mercanti, di cui l'autore rappresenta con acutezza e precisione vizi e virtù (in particolare viene
portato sulla scena un patriziato ormai decrepito con tutti i suoi difetti e debolezze). La
osservazione dei costumi sociali della sua epoca appare a Leopardi seria ed efficace, frutto dello
spirito dell'età illuministica e razionalistica.
L'interesse goldoniano per i costumi non riguardò solo quelli italiani ma anche quelli europei; stesso
interesse antropologico che compare non a caso nel Discorso. Lo dimostra la commedia Le bourru
bienfaisant, scritta in francese e rappresentata a Parigi nel 1771 (ricordata da Leopardi nello
Zibaldone197). La grande capacità di osservazione delle cose del mondo, che sempre lo aveva 196 GIOSUé CARDUCCI, Storia del Giorno di Giuseppe Parini, Zanichelli, 1892, pag, 160.197Zibaldone, 3943
80
guidato nella composizione delle sue commedie, unita a un inguaribile ottimismo esistenziale e
vitalistico gli aveva permesso di interessarsi e capire il mondo sociale francese, così diverso non
solo nelle sfumature da quello italiano e veneziano in particolare, ma anche nella sostanza.
L'interesse per i costumi europei in rapporto a quelli italiani è visibile anche in un'altra commedia.
Qualche decennio prima della pubblicazione dell'Account del Baretti, Goldoni infatti scriveva e
rappresentava una commedia "di carattere", La vedova scaltra (1748), in cui metteva in scena un
italiano, un inglese, uno spagnolo e un francese in competizione per la conquista della mano di una
bella vedova. Il copione brillante è una preziosa informazione sulle prime comparazioni che si
venivano facendo in quell'Europa, già avvezza ai primi paralleli antropologici sui caratteri
nazionali. Le singolarità di un popolo sono l'oggetto di queste osservazioni come, ai giorni nostri,
accade nelle più comuni "barzellette" dove, data una situazione tipica, vengono chiamati a
confrontarsi l'italiano, il francese, l'inglese ecc., dove ognuno "risponde" secondo una tipizzazione
del carattere, che spesso è un pregiudizio o uno stereotipo, ma che nell'intenzione di chi racconta è
un tentativo seppur rudimentale di dirci qualcosa di profondo, di noumenico, di quei popoli
chiamati in scena a recitare il proprio carattere.
81
III, 5 Il concetto di evoluzione storica umana all'interno del Discorso
Come ho evidenziato nelle pagine precedenti, Leopardi scredita l'opinione di Chateaubriad, il quale
riteneva che «la Spagna ancor fresca, ancor vicina alla natura, si sarebbe trovata in quello stato di
vigore che nasce da’ principii e da’ costumi non corrotti di una nazione serbata lontano e illesa dal
commercio cogli altri popoli; e che quello sarebbe stato il tempo in cui la Spagna sarebbe tornata a
risplendere, e ricomparsa superiore all’altre nazioni in Europa, come l’unica non corrotta198».
Leopardi si serve del caso particolare della Spagna per iniziare una lunga digressione199 di filosofia
della storia, dove emerge chiaramente una distinzione tra stato di natura, civiltà antica, «civiltà de'
tempi bassi», e civiltà moderna. É lo stesso Leopardi, alla fine della digressione, ad indicarci alcuni
passi del suo Zibaldone per approfondire maggiormente la questione.
Utilizzando sia l'ampia digressione del Discorso sia alcuni pensieri dello Zibaldone, ho cercato
quindi di ricostruire il complesso concetto di evoluzione storica dell'uomo per Leopardi, che parte
dallo stato di natura ed arriva fino ai tempi moderni:
Stato di natura:
Leopardi intende con stato di natura la condizione primigenia dell'uomo, l'equivalente secolarizzato
dell'Eden primitivo, o età dell'oro. Intende quindi la natura come essa doveva apparire all'uomo agli
inizi della sua lunga storia, quando l'uomo era ancora del tutto parte delle «convenienze naturali» e,
in questo senso, indistinguibile dagli altri esseri viventi. Lo stato di natura si presenta agli occhi del
poeta di Recanati come un al di qua della riflessione, e della distinzione spazio temporale, dunque
anche della memoria determinata e del linguaggio discorsivo: nello stato di natura regna l'istinto ed
è predominante l'attaccamento originario o immediato dei viventi all'esistenza e alla vita. Esiste
tuttavia, un «raziocinio primitivo, ossia il principio di cognizione comune a tutti gli esseri capaci di
scelta», ma questo è destinato quanto basta «a supplire ai bisogni» dell'uomo prima che «la società
qual'è, la ragione qual'è ridotta200» li accrescano smisuratamente.
Come ha sottolineato Placanica, «fino a quando l’uomo non fu in grado di scorgere, col lume della
ragione, la sua sostanziale pochezza, limitatezza, precarietà, egli poteva vivere in concordia con
l'esistente e godere di una vita dominata, in ogni momento e spessore, dalla natura201».
La natura instillava nell’uomo soltanto cose grandi: sentimenti, passioni, grande capacità
immaginativa e quindi illusioni, che Leopardi chiama «errori naturali» (l’immaginazione è la
facoltà produttrice delle illusioni). 198Discorso, pag. 72199Così Leopardi la definisce. Si veda Discorso pag. 75: «Da questa digressione tornando al proposito, dico che [...]»200Zibaldone, 402201 Discorso sopra lo stato presente degl'italiani a cura di A. PLACANICA, op. cit., p. 39
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Civiltà antica:
Per Leopardi ben presto però «l'uomo si allontana dalla natura, e quindi dalla felicità, quando a
forza di esperienze di ogni genere, ch'egli non doveva fare, e che la natura aveva provveduto che
non facesse [...]; a forza di combinazioni, di tradizioni, di conversazione scambievole ec. la sua
ragione comincia ad acquistare altri dati, comincia a confrontare, e finalmente a dedurre altre
conseguenze sia dai dati naturali, sia da quelli che non doveva avere. E così alterandosi le credenze,
o ch'elle arrivino al vero, o che diano in errori non più naturali, si altera lo stato naturale dell'uomo;
le sue azioni non venendo più da credenze naturali non sono più naturali; egli non ubbidisce più alle
sue primitive inclinazioni, perché non giudica più di doverlo fare, nè più ne cava la conseguenza
naturale ec. E per tal modo l'uomo alterato, cioè divenuto imperfetto relativamente alla sua propria
natura, diviene infelice202».
Il passaggio dell'uomo dallo stato di natura alla civiltà o società coincide con l'origine del pensiero e
del linguaggio. Quest'ultimo è infatti per Leopardi il «principalissimo istrumento della società203» ,
in quanto con lo sviluppo dei linguaggi (e le conseguenti conoscenze) si inizia a delineare il sistema
dei bisogni e dei desideri umani, in una distanza sempre più crescente dall'originario stato
primigenio.
Se la fase dello stato di natura era una età felice ma bestiale e selvaggia, nella civiltà antica,
incarnata nella civiltà della Grecia e di Roma, si instaura un equilibrio tra ragione e natura. Scrive
Leopardi:
dopo lo stato precisamente naturale, il più felice possibile in questa vita, è quello di una civiltà media, dove
un certo equilibrio fra la ragione e la natura, una certa mezzana ignoranza, mantengano quanto è possibile
delle credenze ed errori naturali (e quindi costumi consuetudini ed azioni che ne derivano); ed escludano e
scaccino gli errori artifiziali, almeno i più gravi, importanti, e barbarizzanti. Tale appunto era lo stato degli
antichi popoli colti, pieni perciò di vita, perché tanto più vicini alla natura, e alla felicità naturale204.
Essa rappresenta non solo il sorgere ma l’ideale di civiltà per Leopardi, in quanto non caratterizzata
più dall’eccesso di puro egoismo, e ancora non corrotta dagli eccessi della ragione distruttrice delle
illusioni. Proprio per questo motivo nello Zibaldone si trova spesso il termine sinonimo di «civiltà
mezzana». L’amor proprio del singolo, elemento ineliminabile nella natura umana, poteva
riversarsi, per effetto delle illusioni create dall’immaginazione, su un oggetto d’amore più ampio: la
realtà collettiva della patria, mentre l’odio veniva incanalato verso il nemico.
202Zibaldone, 446203Ivi, 937204Ivi, 421-422
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La virtù, sotto forma di eroismo, consisteva quindi nel sacrificarsi per la patria ed era il fine e non
uno strumento della vita umana. Ma, con il prevalere della ragione sulla natura, sparì anche la virtù
che opera sempre in nome di principi meramente ideali: essendo una illusione fra tante, risultò
inevitabile che si finisse di praticarla.
Bruto, il famoso romano che guidò con Cassio la congiura contro Cesare uccidendolo, diviene agli
occhi di Leopardi il primo moderno eroe-vittima della perfida ragione :«O virtù miserabile, eri una
parola nuda, e io ti seguiva come tu fossi una cosa: ma tu sottostavi alla fortuna» (Comparazione
delle sentenze di Bruto minore e di Teofrasto vicini a morte205). Di fronte all’avanzata sempre più
inarrestabile della ragione, ormai per Leopardi la vanità del mondo fu rivelata e la strage delle
illusioni compiuta definitivamente. Con il tramonto dell’età antica, inizia anche a diffondersi il
cristianesimo. Questa nuova religione anch’essa fu per l'uomo una illusione con l’apparenza di
verità, essendo una religione rivelata e quindi ragionevole:
Le Religioni antiche pertanto (eccetto negli errori non naturali e perciò dannosi e barbari, i quali non erano in
gran numero, nè gravissimi) conferivano senza dubbio alla felicità temporale molto più di quello che possa
fare il Cristianesimo; perchè contenendo un maggior numero e più importante di credenze naturali, fondate
sopra una più estesa e più profonda ignoranza, tenevano l'uomo più vicino allo stato naturale: erano insomma
più conformi alla natura, e minor parte davano alla ragione. [...]. Ma il detto effetto delle antiche religioni 205 Operette morali, Comparazione delle sentenze di Bruto minore e di Teofrasto vicini a morte «Io non credo che si trovi in tutte le memorie dell'antichità voce più lagrimevole e spaventosa, e con tutto ciò, parlando umanamente, più vera di quella che Marco Bruto, poco innanzi alla morte, si racconta che profferisse in dispregio della virtù: la qual voce, secondo ch'è riportata da Cassio Dione, è questa: O virtù miserabile, eri una parola nuda, e io ti seguiva come tu fossi una cosa; ma tu sottostavi alla fortuna. [..] Quei moltissimi che si scandalezzano di Bruto e gli fanno carico della detta sentenza, danno a vedere l'una delle due cose; o che non abbiano mai praticato familiarmente colla virtù, o che non abbiano esperienza degl'infortuni, il che, fuori del primo caso, non pare che si possa credere. E in ogni modo è certo che poco intendono e meno sentono la natura infelicissima delle cose umane, o si maravigliano ciecamente che le dottrine del Cristianesimo non fossero professate avanti di nascere. Quegli altri che torcono le dette parole a dimostrare che Bruto non fosse mai quell'uomo santo e magnanimo che fu riputato vivendo, e conchiudono che morendo si smascherasse, argomentano a rovescio: e se credono che quelle parole gli venissero dall'animo, e che Bruto, dicendo questo, ripudiasse effettivamente la virtù, veggano come si possa lasciare quello che non s'è mai tenuto, e disgiungersi da quello che s'è avuto sempre discosto. Se non l'hanno per sincere, ma pensano che fossero dette con arte e per ostentazione; primieramente che modo è questo di argomentare dalle parole ai fatti, e nel medesimo tempo levar via le parole come vane e fallaci? volere che i fatti mentano perché si stima che i detti non suonino allo stesso modo, e negare a questi ogni autorità dandoli per finti? Di poi ci hanno a persuadere che un uomo sopraffatto da una calamità eccessiva e irreparabile; disanimato e sdegnato della vita e della fortuna; uscito di tutti i desiderii, e di tutti gl'inganni delle speranze; risoluto di preoccupare il destino mortale e di punirsi della propria infelicità; nell'ora medesima che esso sta per dividersi eternamente dagli uomini, s'affatichi di correr dietro al fantasma della gloria, e vada studiando e componendo le parole e i concetti per ingannare i circostanti, e farsi avere in pregio da quelli che egli si dispone a fuggire, in quella terra che se gli rappresenta per odiosissima e dispregevole. [..] Questi tali rinnegamenti, o vogliamo dire, apostasie da quegli errori magnanimi che abbelliscono o più veramente compongono la nostra vita, cioè tutto quello che ha della vita piuttosto che della morte, riescono ordinarissimi e giornalieri dopo che l'intelletto umano coll'andare dei secoli ha scoperto, non dico la nudità, ma fino agli scheletri delle cose, e dopo che la sapienza, tenuta dagli antichi per consolazione e rimedio principale della nostra infelicità, s'è ridotta a denunziarla e quasi entrarne mallevadrice a quei medesimi che, non conoscendola, o non l'avrebbero sentita, o certo l'avrebbero medicata colla speranza. Ma fra gli antichi, assuefatti com'erano a credere, secondo l'insegnamento della natura, che le cose fossero cose e non ombre, e la vita umana destinata ad altro che alla miseria, queste sì fatte apostasie cagionate, non da passioni o vizi, ma dal senso e discernimento della verità, non si trova che intervenissero se non di rado; e però, quando si trova, è ragione che il filosofo le consideri attentamente.»
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non poteva durare, se non quanto durasse la credenza della verità reale di esse religioni: vale a dire, quanto
durasse quella tal misura e profondità d'ignoranza che permettesse di credere veramente e stabilmente dette
religioni, e gli errori e illusioni naturali che vi erano fondate. Prevalendo sempre più la ragione e il sapere, e
scemando l'ignoranza parziale, quelle religioni più naturali e felici, ma perciò appunto più rozze, non
potevano più esser credute, nè servire di fondamento a illusioni reali e stabili, alle azioni che ne derivano, e
quindi alla felicità. Le nazioni pertanto disingannandosi appoco appoco, perdevano colle illusioni ogni
vita206.
Civiltà de' tempi bassi (Medioevo):
Se nel Discorso viene esaltato come «i costumi, le opinioni e lo stato propriamente antico»
favorissero e generassero «il grande», con l'inizio della «civiltà de' tempi bassi» la situazione si
rovescia inesorabilmente. Leopardi attacca la civiltà medievale, spingendosi sino all'irrisione e al
disprezzo con forti toni che richiamano gli ideali illuministici di Voltaire.
Con il medioevo infatti inizia il secolo della barbarie, della superstizione, del pregiudizio, della
violenza, del dispotismo nemico della virtù; tare di cui l'uomo si è liberato soltanto con l'avvento del
la civiltà moderna:
Il grandissimo e incontrastabile beneficio della rinata civiltà e del risorgimento de’ lumi si è di averci liberato
da quello stato egualmente lontano dalla coltura e dalla natura proprio de’ tempi bassi, cioè di tempi
corrottissimi; da quello stato che non era né civile né naturale, cioè propriamente e semplicemente barbaro,
da quella ignoranza molto peggiore e più dannosa di quella de’ fanciulli e degli uomini primitivi, dalla
superstizione, dalla viltà e codardia crudele e sanguinaria, dall’inerzia e timidità ambiziosa, intrigante e
oppressiva, dalla tirannide all’orientale, inquieta e micidiale, dall’abuso eccessivo del duello, dalla feudalità
del Baronaggio e dal vassallaggio, dal celibato volontario o forzoso, ecclesiastico o secolare, dalla mancanza
d’ogn’industria e deperimento e languore dell’agricoltura, dalla spopolazione, povertà, fame, peste che
seguivano ad ogni tratto da tali cagioni, dagli odii ereditarii e di famiglia, dalle guerre continue e mortali e
devastazioni e incendi di città e di campagna tra Re e Baroni, Baroni e vassalli, città e città, fazioni e fazioni,
famiglie e famiglie, dallo spirito non d’eroismo ma di cavalleria e d’assassineria, dalla ferocia non mai usata
per la patria né per la nazione, dalla total mancanza di nome e di amor nazionale patrio, e di nazioni, dai
disordini orribili nel governo, anzi dal niun governo, niuna legge, niuna forma costante di repubblica e
amministrazione, incertezza della giustizia, de’ diritti, delle leggi, degl’instituti e regolamenti, tutto in potestà
e a discrezione e piacere della forza, e questa per lo più posseduta e usata senza coraggio, e il coraggio non
mai per la patria e i pericoli non mai incontrati per lei, né per gloria, ma per danari, per vendetta, per odio,
per basse ambizioni e passioni, o per superstizioni e pregiudizi, i vizi non coperti d’alcun colore, le colpe non
curanti di giustificazione alcuna, i costumi sfacciatamente infami anche ne’ più grandi e in quelli eziandio
206 Zibaldone, 420-42485
che facean professione di vita e carattere più santo, guerre di religione, intolleranza religiosa, inquisizione,
veleni, supplizi orribili verso i rei veri o pretesi, o i nemici, niun diritto delle genti, tortura, prove del fuoco, e
cose tali. Da questo stato ci ha liberati la civiltà moderna; da questo, di cui sono ancora grandissime le
reliquie, ci vanno liberando sempre più i suoi progressi giornalieri; da’ suoi effetti e da’ suoi avanzi e dalle
opinioni che li favoriscono procura e sforzasi di liberarci la nuova filosofia nata, si può dire, non ancor sono
due secoli, e intenta propriamente a terminare e perfezionare il nostro risorgimento dagli abusi, pregiudizi
(peggiori assai che l’ignoranza), depravazione e barbarie de’ tempi bassi; degna perciò solo di lode e
gratitudine e gloria e favore e coltura, e perciò solo utile o almeno perciò principalmente. Questo stato e
natura di cose, propriamente parlando, o gli effetti e avanzi suoi, o gli usi, le opinioni e le forme ad essa
appartenenti o corrispondenti, amano, difendono, lodano, cercano di ritenere e salvare dalla distruzione a cui
sono incamminate i nemici della moderna filosofia, quelli che piangono, condannano, biasimano,
oppugnano, combattono la civiltà moderna o i lumi del secolo e i suoi progressi, e quelli che fecero il simile
ne'’passati secoli, quelli che richiamano o richiamarono l'’antico, e se ne chiamano difensori e conservatori e
lo prendono per loro divisa, e gridano e s’indegnano contro la novità; laddove il vero antico è in gran parte
quello appunto che essi combattono, e non v’è cosa più propriamente antica di moltissime di quelle che essi
chiamano novità e che impugnano come tali e se ne maravigliano gravemente come cose finora ignote al
genere umano, e contrarie all’esperienza, e però perniciosissime. Vedi i miei pensieri p.162-163207
La citazione del passo del Discorso è lunga ma necessaria per rendere evidente il giudizio assai
negativo su questo periodo storico. Tutto ciò è ribadito, con toni tuttavia meno accesi e in modo più
breve, anche nello Zibaldone dove il Medioevo, «quel tempo che corse» dalla fine dell'antichità
«sino alla rivoluzione, fu veramente il tempo più barbaro dell'Europa civile208»
Un punto fondamentale del pensiero leopardiano che vale la pena ricordare e su cui si sono
soffermati diversi studiosi a cominciare dal Tilgher è la decisa «distinzione tra stato di natura e
barbarie, tra la sana primitività degli antichi, dominati da illusioni magnanime, e la corruzione del
medioevo»209. Il pensiero dello Zibaldone, al quale Leopardi rimanda, del 20 luglio 1820, affronta
in realtà il tema del rapporto tra Medioevo e incivilimento moderno da una prospettiva assai diversa
rispetto a quella suggerita nel Discorso. Se il giudizio assai critico sulla barbarie medievale rimane
invariato, al contrario il giudizio sull'operato della civiltà moderna è assai differente:
Lo scopo dell'incivilimento moderno doveva essere di ricondurci appresso a poco alla civiltà antica offuscata
ed estinta dalla barbarie dei tempi di mezzo. Ma quanto più considereremo l'antica civiltà, e la paragoneremo
alla presente, tanto più dovremo convenire ch'ella era quasi nel giusto punto, e in quel mezzo tra i due
eccessi, il quale solo poteva proccurare all'uomo in società una certa felicità. La barbarie de' tempi bassi non
era una rozzezza primitiva, ma una corruzione del buono, perciò dannosissima e funestissima. Lo scopo
207Discorso, pag. 75-76.208Zibaldone, 1101209A. TILGHER, La filosofia di Leopardi, Religio, Roma, 1940, pag. 67
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dell'incivilimento dovea esser di togliere la ruggine alla spada già bella, o accrescergli solamente un poco di
lustro. Ma siamo andati tanto oltre volendola raffinare e aguzzare che siamo presso a romperla. E osservate
che l'incivilimento ha conservato in grandissima parte il cattivo dei tempi bassi, ch'essendo proprio loro, era
più moderno, e tolto tutto quello che restava loro di buono dall'antico per la maggior vicinanza (del quale
antico in tutto e per tutto abbiam fatto strage), come l'esistenza e un certo vigore del popolo, e dell'individuo,
uno spirito nazionale, gli esercizi del corpo, un'originalità e varietà di caratteri costumi usanze ec.
L'incivilimento ha mitigato la tirannide de' bassi tempi, ma l'ha resa eterna, laddove allora non durava, tanto
a cagione dell'eccesso, quanto per li motivi detti qui sopra. Spegnendo le commozioni e le turbolenze civili,
in luogo di frenarle com'era scopo degli antichi (Montesquieu ripete sempre che le divisioni sono necessarie
alla conservazione delle repubbliche, e ad impedire lo squilibrio dei poteri, ec. e nelle repubbliche ben
ordinate non sono contrarie all'ordine, perchè questo risulta dall'armonia e non dalla quiete e immobilità delle
parti, nè dalla gravitazione smoderata e oppressiva delle une sulle altre, e che per regola generale, dove tutto
è tranquillo non c'è libertà), non ha assicurato l'ordine ma la perpetuità tranquillità e immutabilità del
disordine, e la nullità della vita umana. In somma la civiltà moderna ci ha portati al lato opposto dell'antica, e
non si può comprendere come due cose opposte debbano esser tutt'uno, vale a dire civiltà tutt'e due. Non si
tratta di piccole differenze, si tratta di contrarietà sostanziali: o gli antichi non erano civili, o noi non lo
siamo210.
In questa estesa nota, come si può ben vedere, il giudizio è fortemente negativo: l'incivilimento ha
conservato in grandissima parte il cattivo de' tempi bassi, contrariamente all'opinione quasi
entusiasta espressa nel passo riportato del Discorso, contrassegnato da termini che rimandano al
significato di rinascita, di libertà, e di progresso («da questo stato ci ha liberato la civiltà moderna»).
Più tardi, nel 1827, Leopardi assocerà di nuovo, sulla medesima linea di pensiero del Discorso, il
concetto di miglioramento sociale dell'epoca presente come ad un risorgimento, ad un recupero di
valori perduti:
La tendenza di questi ultimi anni, più decisa che mai, al miglioramento sociale, ha cagionato e cagiona il
rinnovamento di moltissime cose antiche, sì fisiche, sì politiche e morali, abbandonate e dimenticate per la
barbarie, da cui non siamo ancora del tutto risorti. Il presente progresso della civiltà, è ancora un
risorgimento; consiste ancora, in gran parte, in ricuperare il perduto211.
Mi riservo di spiegare più avanti la diversità di opinioni del pensiero leopardiano sulla civiltà
moderna che nasce leggendo le parole del Discorso e poi i passi dello Zibaldone. Prima è necessario
continuare l'evoluzione storica dell'uomo per Leopardi.
210Zibaldone, 162-163211Ivi, 4289, 18. Sett. 1827
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Civiltà moderna:
I momenti chiave che hanno segnato l'inizio in Europa della età moderna sono stati per Leopardi
prima il Quattrocento e poi il Rinascimento (nel Discorso vi è il termine «risorgimento212») dove «la
civiltà rinacque213». Benché considerata migliore della precedente epoca, l'età moderna non è
considerata da Leopardi «conforme alla prima (civiltà classica ndr), anzi beaucoup s'en faut».
Concetto che viene ribadito anche nello Zibaldone dove scrive infatti:
La civiltà moderna non deve esser considerata come una semplice continuazione dell'antica, come un
progresso della medesima. [...] queste due civiltà, avendo essenziali differenze tra loro, sono, e debbono
essere considerate come due civiltà diverse, o vogliamo dire due diverse e distinte specie di civiltà, ambedue
realmente complete in se stesse. Sotto questo punto di vista, diviene più che mai utile e interessante il
parallelo tra l'una e l'altra. E veramente l'uomo e le nazioni sono capaci, come di stato selvaggio, di barbarie,
di civiltà, tutti stati ben distinti tra loro per genere, così di diverse specie di civiltà, distinte non solo per
semplici nuances, come quelle che distinguono ora la civiltà presso le diverse nazioni colte,[...]. Intendo per
civiltà antica, e per termine di comparazione colla moderna, la civiltà dei Greci e dei Romani, e dei popoli
antichi da essi governati e civilizzati, o ridotti ai loro costumi214.
Si veda anche questo passo, sempre tratto dallo Zibaldone:
Ci resta ancora molto a ricuperare della civiltà antica, dico di quella de' greci e de' romani. Vedesi appunto
da quel tanto d'instituzioni e di usi antichi che recentissimamente si son rinnovati: le scuole e l'uso della
ginnastica, l'uso dei bagni e simili. Nella educazione fisica della gioventù e puerizia, nella dieta corporale
della virilità e d'ogni età dell'uomo, [..], in tutto il fisico della civiltà [...] Gli antichi ci sono ancora d'assai
superiori: parte, se io non m'inganno, non piccola e non di poco momento.215
Se la civiltà antica poggiava su di felice equilibrio tra immaginazione e ragione, dove le illusioni,
nonostante l'incedere della ragione (come appare nel caso di Teofrasto), fioriscono ancora
rigogliose, la civiltà moderna, sebbene proceda in direzione della conoscenza del vero, è
caratterizzata della fine delle illusioni e dei fondamenti della morale. La rivoluzione francese216 del 212Discorso, pag. 73213 Ibidem214 Zibaldone, 4171-4172215 Ivi, 4289216 Si veda CALAIACOMO, Zibaldone di pensieri di Giacomo Leopardi, pag: 428: «A partire dal Discorso, si chiariscono meglio, direi , i non numerosi giudizi sulla Rivoluzione francese, rintracciabili nello Zibaldone. Questi giudizi sembrano sempre tradire le grandissime difficoltà che il pensiero leopardiano doveva incontrare sia nella considerazione di questo evento, sia, al di là di ogni apparenza, nella valutazione della modernità: una difficoltà nella quale l'orrore che animava l'antico giudizio negativo sulla Rivoluzione, considerata dal giovane figlio di Monaldo come un evento mostruoso, perdura, pur nella sostanziale modifica del giudizio, incarnandosi nelle difficoltà del pensiero a definire un evento di natura contraddittoria e sfuggente»
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1789 e gli eventi post rivoluzionari, «mettendo sul campo ogni sorta di passioni», e ravvivando
«ogni sorta d’illusioni», ravvicinarono l'uomo alla natura, spingendo «indietro l’incivilimento217»
Tuttavia la lacuna grave della rivoluzione fu il tentativo di rendere ragionevole e filosofo il popolo,
non avendo pensato «che ragione e vita sono due cose incompatibili218». Questa tremenda
contraddizione ha portato al fallimento della rivoluzione, e fatto sì che il secolo XIX si presenti a
Leopardi come «il secolo della morte219», poiché la civiltà moderna e la filosofia «non molto dopo
sollevati dalla barbarie, ci hanno precipitati in un’altra, non minore della prima; quantunque nata
dalla ragione e dal sapere e non dall’ignoranza220», come afferma Eleandro nel discorso finale del
Dialogo di Timandro e di Eleandro.
Conclusione:
La complessiva evoluzione storica umana che sta dietro al Discorso e allo Zibaldone, sembra quindi
delineare una sovrapposizione tra una concezione, si potrebbe dire cristiano-lucreziana della storia,
vista come decadenza a partire dalle sue stesse origini, e una concezione ciclica della storia,
tramandata dalla storiografia antica (e mediata dall'influsso di Machiavelli e di Montesquieu) come
continuo avvicendamento di periodi di splendore, decadenza, e barbarie221. Si veda tuttavia il
seguente passo leopardiano, contenuto in Zibaldone:217 Zibaldone, 2334218 Ivi, 358219 Operette morali, Dialogo della moda e della morte. Parla la Moda:. «Già ti ho raccontate alcune delle opere mie che ti fanno molto profitto. Ma elle sono baie per comparazione a queste che io ti vo' dire. A poco per volta, ma il più in questi ultimi tempi, io per favorirti ho mandato in disuso e in dimenticanza le fatiche e gli esercizi che giovano al ben essere corporale, e introdottone o recato in pregio innumerabili che abbattono il corpo in mille modi e scorciano la vita. Oltre di questo ho messo nel mondo tali ordini e tali costumi, che la vita stessa, così per rispetto del corpo come dell'animo, è più morta che viva; tanto che questo secolo si può dire con verità che sia proprio il secolo della morte»220Eleandro: «Lasciamoli da parte per ora: e tornando al fatto mio, dico, che se ne' miei scritti io ricordo alcune verità dure e triste, o per isfogo dell'animo, o per consolarmene col riso, e non per altro; io non lascio tuttavia negli stessi libri di deplorare, sconsigliare e riprendere lo studio di quel misero e freddo vero, la cognizione del quale è fonte o di noncuranza e infingardaggine, o di bassezza d'animo, iniquità e disonestà di azioni, e perversità di costumi: laddove, per lo contrario, lodo ed esalto quelle opinioni, benché false, che generano atti e pensieri nobili, forti, magnanimi, virtuosi, ed utili al ben comune o privato; quelle immaginazioni belle e felici, ancorché vane, che danno pregio alla vita; le illusioni naturali dell'animo; e in fine gli errori antichi, diversi assai dagli errori barbari; i quali solamente, e non quelli, sarebbero dovuti cadere per opera della civiltà moderna e della filosofia. Ma queste, secondo me, trapassando i termini (come è proprio e inevitabile alle cose umane); non molto dopo sollevati da una barbarie, ci hanno precipitati in un'altra, non minore della prima; quantunque nata dalla ragione e dal sapere, e non dall'ignoranza; e però meno efficace e manifesta nel corpo che nello spirito, men gagliarda nelle opere, e per dir così, più riposta ed intrinseca. In ogni modo, io dubito, o inclino piuttosto a credere, che gli errori antichi, quanto sono necessari al buono stato delle nazioni civili, tanto sieno, e ogni dì più debbano essere, impossibili a rinnovarveli. Circa la perfezione dell'uomo, io vi giuro, che se fosse già conseguita, avrei scritto almeno un tomo in lode del genere umano. Ma poiché non è toccato a me di vederla, e non aspetto che mi tocchi in mia vita, sono disposto di assegnare per testamento una buona parte della mia roba ad uso che quando il genere umano sarà perfetto, se gli faccia e pronuncisi pubblicamente un panegirico tutti gli anni; e anche gli sia rizzato un tempietto all'antica, o una statua, o quello che sarà creduto a proposito.»221Si veda soprattutto l'interessante saggio di M. MUNIZ MUNIZ, Sul concetto leopardiano di decadenza storica, in Poetiche della temporalità, Palermo, 1990. Luporini parlava di «un concetto vagamente ciclico della storia umana, o meglio delle storie umane”, sebbene non necessitante (C. LUPORINI, Leopardi progressivo (1947), Editori Riuniti, Roma 1963, p. 30, mentre A. DI MEO ha evidenziato l' idea ciclica della storia , individuandone la genesi nei giovanili studi di storia dell’astronomia: A. DI MEO, Leopardi copernicano, Demos, Cagliari 1998, p. 61.
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L'uomo era corrotto, cioè, come ho dimostrato, la ragione aveva preso il disopra sulla natura: e quindi l'uomo
era divenuto sociale: quindi l'uomo era divenuto infelice, perchè prevalendo la ragione, la sua natura
primitiva era alterata e guasta, ed egli era, decaduto dalla sua perfezione primigenia, la quale non consisteva
in altro che nella sua essenza o condizione propria e primordiale. Da questo stato di corruzione, l'esperienza
prova che l'uomo non può tornare indietro senza un miracolo: lo prova anche la ragione, perchè quello che si
è imparato non si dimentica222.
Per Leopardi quindi «l’esperienza prova che l’uomo non può tornare indietro senza un miracolo: lo
prova anche la ragione, perché quello che si è imparato non si dimentica». Le illusioni («errori
naturali»), una volta che siano state dissolte, non possono essere ricreate, ma, come si vedrà a
proposito della gloria e dell’onore, possono essere sostituite da altre, più deboli e meno
coinvolgenti; invece le conoscenze possono essere sostituite dai pregiudizi («errori artifiziali»), che
garantiscono agli uomini una consolante immagine di sé e del proprio ruolo nell’universo.
Esattamente quanto sosterrà alcuni anni più tardi nel Discorso.
La complessità delle teorie leopardiane sull'evoluzione storica dell'uomo non deve stupire, in quanto
quella del Leopardi è sempre una riflessione in movimento nel corso degli anni, e dimostra come
questo tema antropologico lo interessò per tutta la vita. Sulla civilizzazione il giudizio leopardiano
non è meno complesso. Senza addentrarsi in «un ragionamento infinito223», si può affermare che da
una parte la civiltà è l'arma attraverso la quale l'uomo ha smascherato la verità della propria
condizione, recuperando così, se non la possibilità di essere felice, almeno la dignità della
coscienza; dall'altra parte però la civiltà, sottraendo l'uomo al dominio delle forze naturali e delle
illusioni, lo ha reso più egoista e fragile (per cui le società moderne sono caratterizzate da una lotta
disperata per l'affermazione individuale che Leopardi evidenzia nei termini ereditati dalla
riflessione politica di Machiavelli e di Hobbes).
Abbiamo visto come nel Discorso l'età della civiltà moderna venga esaltata come una epoca di
rinascita e di di progresso, al contrario di quanto sostiene in altri non pochi passi dello Zibaldone.
Come spiegare questa contraddizione? Ecco la risposta: il Discorso deve essere considerato come
un'esperienza culturale del tutto isolata, in cui la stessa polemica alla modernità e al progresso
(passi dello Zibaldone) viene posta come sullo sfondo dei tempi lunghi, mentre un diverso obiettivo
sembra premere Leopardi nel Discorso, e cioè quello del recupero, come che sia, e addirittura
dell'estensione e generalizzazione, del meglio della modernità, da indicare come traccia
all'inconcludente vita morale d'Italia, che è urgente avviare sulla scia delle nazioni evolutesi. Non
va assolutamente dimenticato che il Discorso venne composto per essere pubblicato nell'Antologia
222Zibaldone, 403223Operette morali, Dialogo di Timando ed Eleandro
90
del Vieusseux, impegnata in un grande programma di trasformazione del costume e della cultura
d'Italia in senso liberale e moderno.
Durante la composizione del Discorso Leopardi continua infatti ad avere l’ambizione di intervenire
sull’orientamento della civiltà italiana contemporanea, e forse di modificarlo, mentre egli in seguito,
resosi conto della totale incompatibilità fra la propria posizione e gli orientamenti culturali egemoni,
progressisti e spiritualisti, modificò radicalmente il tenore dei propri interventi, affidandosi a una
spietata satira del “secolo decimonono” (il Tristano, la Palinodia, I nuovi credenti, i Paralipomeni).
Alla critica contro l'età moderna, portatrice di una falsa libertà e felicità, «pare che Leopardi ponga
nel Discorso quindi una provvisoria sordina: è una polemica pur sempre valida, ma per ora il
problema è l'Italia, la cui sconfortante inferiorità va curata, addirittura, con un suo definitivo
ingresso nella modernità. Poi resterà da giocare la partita, solo qui e solo per ora sospesa, con le
magnifiche sorti e progressive: una lotta nella quale Leopardi non si darà tregua fino agli ultimi
giorni della sua vita224».
224Discorso sopra lo stato presente degl'italiani a cura di A. PLACANICA, op. cit., p. 189
91
II parte:
Attualità del Discorso sopra lo stato presente dei costumi degl'italiani
Premessa:
Prima di iniziare questa seconda parte, come già accennato nell'introduzione di questo lavoro di tesi
magistrale, vorrei avvisare il lettore che la stesura di questa sezione è stata più difficile della
precedente, poiché spesso mi ha portato ad allontanarmi dalle mie competenze letterarie e storiche,
facendomi addentrare in argomenti a me più ostici come sociologia e antropologia. Ho cercato
inoltre di non cadere nella trappole che spesso comporta l'attualizzazione di un testo lontano nel
tempo. Proprio per questi motivi mi sono servito di numerosi contributi desunti dall'opera di illustri
studiosi.
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Capitolo IV
Individualismo e cinismo degli italiani
Sarebbe scorretto, nonché antistorico, proiettare sull'Italia contemporanea i caratteri della società
della Restaurazione e del Risorgimento che Leopardi aveva davanti ai propri occhi. La differenza
principale dai tempi di Leopardi rispetto ai giorni odierni è sicuramente la situazione politica
italiana: quando egli scriveva il Discorso, conosceva benissimo la triste e irrisolta condizione del
paese, ancora disunito, e lontano quindi dal pieno raggiungimento di un'identità unitaria. Il concetto
viene sottolineato come amara chiusura in un passo225 dello Zibaldone, datato esattamente 7
novembre 1821, di qualche anno anteriore alla stesura del Discorso:
Certo se v’è nazione in Europa colla cui costituzione politica e morale e sociale
convenga meno una tal soggezione in fatto di lingua (e la lingua dipende in tutto
dalle condizioni sociali ec.), ell’è appunto l’Italia, che pur troppo, a differenza
della Germania, non è neppure una nazione, nè una patria226.
Ma se la situazione italiana è per fortuna nel corso del tempo radicalmente mutata da quella che
Leopardi ha descritto nel Discorso, non è detto tuttavia che alcune delle sue conclusioni non
possano essere ancora attuali. La società italiana di oggi, senza dubbio enormemente più colta e più
coesa rispetto a due secoli fa, non sembra tuttavia essersi sviluppata a tal punto da allontanarsi
definitivamente da quella matassa di egoismi, personali e corporativi, descritta da Leopardi nel
Discorso. Allo stesso modo non sembra essere cambiato in meglio il nostro senso civico, ossia tutto
ciò che concerne il cittadino in quanto membro di una società e di uno stato, con valore
prevalentemente etico: le conseguenze principali sono una reciproca e sempre più diffusa diffidenza
fra gli italiani, e una indifferenza per la cosa pubblica in forte aumento. Nazioni che da più lungo
tempo si sono costituite in unità politica, come la Francia e l'Inghilterra, si presentano oggi rispetto
all'Italia con un senso civico ben più evidente ed esplicito sotto molti aspetti. Per Leopardi la base
morale rappresenta l’humus culturale per la formazione di un controllo e autocontrollo sociale,
indispensabile alla strutturazione di una società moderna. Questi fondamenti promuoverebbero una
sorta di universalismo in grado di contenere l’atteggiamento opposto, ovvero il particolarismo.
225Leopardi riflette sulla lingua parlata in Italia e in Germania, discutendo anche in generale della società: «la lingua, la quale essenzialmente non può sussistere senza una simile uniformità di costumi ec. nella nazione, e senza la tirannia della società, di cui l’Italia manca affatto».226Zibaldone, 2065. Si noti che, sebbene la Germania agli inizi del XIX secolo avesse in comune con l'Italia la mancanza di unità politica e di una capitale, per Leopardi in questo passo la Germania, a differenza dell'Italia, viene considerata una nazione.
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Come già discusso nella prima parte di questo lavoro, Leopardi nel Discorso sottolinea negli italiani
sia la «vivacità»227 che considera superiore a quella dei francesi, sia la «indifferenza acquisita verso
ogni cosa228»; vivacità e indifferenza che si annodano in quello che oggi chiamiamo individualismo
estremo, confinante con autentico cinismo. Il tema dell’individualismo, in una società complessa in
continuo e forte cambiamento, ha un posto centrale in quanto influenza il nostro vivere quotidiano,
i nostri rapporti interpersonali e più in generale sociali. Per individualismo si intende, in generale,
un atteggiamento filosofico, politico o morale che enfatizza il valore dell'individuo rispetto a quello
della comunità o della società. L'individualismo (in particolare, ma non solo, in campo morale) può
spesso dare spazio quindi all'egoismo e al cinismo.
Sicuramente ci sono delle radici storiche che a partire dall’Illuminismo hanno portato
all’enfatizzazione del valore dell'individuo rispetto a quello della comunità o della società. Se da un
lato possiamo leggere come un valore positivo il porre l’individuo al centro rispetto alla società,
poiché ciò ha portato soprattutto nelle culture occidentali all’affermazione dei diritti individuali e
della dignità dell’essere umano229, tuttavia dall’altro lato ha creato sempre più col tempo una
contrapposizione tra persona e comunità, arrivando ad un profondo scollamento tra diritti e doveri
del singolo e della collettività. Riflettere oggi sull' individualismo implica quindi discutere anche
della dissoluzione dei valori etico-morali che ha portato a non riconoscere un valore intrinseco nella
comunità come luogo di condivisione e di crescita.
Per iniziare a dimostrare come il saggio di Leopardi a distanza di quasi due secoli sia ancora attuale
su questo argomento (pur con le ovvie e opportune cautele), proverei a prendere le mosse da una
acuta osservazione del nostro poeta-etnologo230, in un passo già ricordato:
Certo è che il passeggio, gli spettacoli, e le Chiese sono le principali occasioni
di società che hanno gl’italiani, e in essi consiste, si può dir, tutta la loro società
[…]. Conseguenza necessaria di questo è che gl'Italiani non temono e non
curano per conto alcuno di essere o parer diversi l'uno dall'altro, e ciascuno dal
pubblico, in nessuna cosa e in nessun senso […].Ciascuna città italiana non
solo, ma ciascuno italiano fa tuono e maniera da sé […]. 231
Lo stesso concetto viene ribadito da Leopardi anche nello Zibaldone in un passo datato 28
settembre 1823:
227 Discorso, pag. 56228 Ivi, pag. 66229Spesso il liberalismo, la concezione politica che fa valere il principio della libertà individuale, si associa all'individualismo e si fa garante della difesa dei diritti individuali contro l'oppressione della collettività,soprattutto i diritti di proprietà, di libertà di parola e di associazione.230 Discorso sopra lo stato presente degl'italiani a cura di M. MONCAGATTA, op. cit., introduzione di S.VECA, p. v.231 Discorso, pag. 56-57
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In una città piccola, massime dove sia poca conversazione, non essendo
determinato il tuono della società, [...] ciascun fa tuono da sè, e la maniera di
ciascuno, qual ch'ella sia, è tollerata e giudicata per buona e conveniente. Così a
proporzione in una nazione, dove non v'abbia se non pochissima società, come in
Italia. Il tuono sociale di questa nazione non esiste: ciascuno ha il suo. Infatti non
v'è tuono di società che possa dirsi italiano. […] Laddove in una nazione socievole,
e così a proporzione in una città grande, non è, non solo stimato, ma neppur
tollerato, chi non si conforma alla maniera comune di trattare, e chi non ha il tuono
degli altri, perché questa maniera comune esiste, e il tuono di società è
determinato, più o meno strettamente, e non è lecito uscirne senza esser messo,
nella società ec., fuor della legge, e considerato come da men degli altri, perché
dagli altri diverso, diverso dai più232.
Si può dimostrare come questo comportamento italiano, evidenziato da Leopardi durante gli anni
della Restaurazione, sia tutt’altro che scomparso oggi, anzi. Abbraccia a ben vedere tutta la storia
della nostra penisola, diventando prevalente soprattutto nelle fasi di decadenza nazionale. È la
supremazia del «particulare», già sostenuto per l’età delle signorie italiane da Francesco
Guicciardini233 (1483 - 1540), il quale constata che gli italiani sembrano curarsi esclusivamente dei
piccoli interessi della famiglia, del castello, del borgo, incapaci di uno sguardo più esteso, di un
respiro e di un orizzonte più ampio. È da ricordare infatti come Leopardi abbia letto frequentemente
la parte allora pubblicata dell'opera del Guicciardini, puntualmente interloquendo con essa,
soprattutto nello Zibaldone. In particolare è nota la sua conoscenza dei Ricordi, che menziona,
prima del 1824, in più loci234, cronologicamente vicini. L'assidua lettura dell'opera del Guicciardini
ha insomma permesso a Leopardi di confrontarsi con una fonte preziosa sulla storia e il carattere
degli italiani; tanto da scrivere chiaramente in un noto pensiero:
232Zibaldone, 3546-47233Nel Ricordo 28 di Guicciardini lo sdegno per la corruzione della Chiesa si accompagna alla definizione del particulare, che è la principale norma a cui ci si attiene nella vita. La considerazione è amara e rassegnata: «Io non so a chi dispiaccia piú che a me la ambizione, la avarizia e le mollizie de' preti; sí perché ognuno di questi vizi in sé è odioso, sí perché ciascuno e tutti insieme si convengono poco a chi fa professione di vita dipendente da Dio; e ancora perché sono vizi sí contrari che non possono stare insieme se non in uno subietto molto strano. Nondimeno el grado che ho avuto con piú pontefici, m'ha necessitato a amare per el particulare mio la grandezza loro; e se non fussi questo rispetto, arei amato Martino Luther quanto me medesimo, non per liberarmi dalle legge indotte dalla religione cristiana nel modo che è interpretata e intesa communemente, ma per vedere ridurre questa caterva di scelerati a' termini debiti, cioè a restare o sanza vizi o sanza autoritá.». La tendenza al male e all'interesse privato da parte degli uomini, per cui l'egoismo individuale è più forte del desiderio di libertà è presente anche nel Ricordo 66: «Non crediate a costoro che predicano sí efficacemente la libertá, perché quasi tutti, anzi non è forse nessuno che non abbia l'obietto agli interessi particulari, e la esperienza mostra spesso, ed è certissimo, che se credessino trovare in uno stato stretto migliore condizione, vi correrebbono per le poste» Traggo le citazioni da G. BALDI, S. Giusso, M. Razetti, G. Zaccaria - La letteratura, volume 2 - Paravia, Torino 2006 .234 Zibaldone 572, 1295
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Forse è il solo storico tra i moderni che abbia e conosciuto molto gli uomini e
filosofato circa gli avvenimenti attenendosi alla cognizione della natura umana, e
non piuttosto a una certa scienza politica, separata dalla scienza dell'uomo e per
lo più chimerica235
Anche François Guizot (1787 – 1874), statista e storico attivo nell'Ottocento, durante gli anni
turbolenti dei moti risorgimentali post Restaurazione, riteneva che gli italiani, più che vittime di una
lunga vicenda di oppressione da parte di popoli stranieri come essi tendevano a raffigurarsi, erano
vittime di se stessi e del loro «particulare». Il lato debole della civiltà italiana era da individuarsi
nell'esasperato individualismo, causa primaria degli appuntamenti mancati con la modernità e delle
tante occasioni perdute: dalla formazione di uno stato moderno a quella di un profondo
rinnovamento religioso durante la diffusione della Riforma luterana. In uno dei suoi primissimi
scritti per la rivista Giovine Italia, lo stesso Giuseppe Mazzini (1805 - 1872) riteneva che
l'individualismo fosse il vizio principale tra gli italiani, anche se la sua concezione di
individualismo italiano abbracciava anche il municipalismo, ossia l'eccessivo attaccamento alla
propria città, visto come dannoso per la diffusione dell'ideale patriottico italiano236.
Jacob Burckhardt237(1818 – 1897), uno dei più grandi storici del XIX secolo, attribuì agli italiani il
merito di aver inventato l’individualismo moderno durante il Rinascimento. Per lo storico svizzero,
tuttavia il carattere degli italiani non era semplicemente individualista, «ma si caratterizzava per un
individualismo soverchiamente sviluppato che era allo stesso tempo la condizione della sua
grandezza e il suo vizio fondamentale238.»
Agli inizi del XX secolo, la doppia morale e l'ipocrisia, incarnati nel cinismo italiano sono stati
racchiusi nel celebre aforisma di Carlo Emilio Gadda (1893 – 1973) «quella porca rogna italiana del
denigramento di noi stessi», nella sua opera Giornale di guerra e di prigionia239, nata
dall'esperienza della guerra e della prigionia, dopo la rotta di Caporetto. Da questo diffuso
svilimento «deriva [...] la reciproca diffidenza tra italiani, sia una certa sfiducia nelle proprie
capacità», per cui «accade spesso che gli italiani non si fidino né si stimino reciprocamene, che si
siano per dire così antipatici240». La sfiducia verso il prossimo provoca indifferenza e in alcuni casi
addirittura atteggiamenti predatori verso gli altri; all'opposto quindi del vero senso civico, inteso 235Pensieri, LI. Si veda G.Leopardi, Pensieri, a cura di A. PRETE, Feltrinelli, Milano 1994 236S. PATRIARCA, Italianità. La costruzione del carattere nazionale, Laterza, Roma-Bari, 2010, pag. 18237J. BURCKHARDT, La civiltà del Rinascimento in Italia [1860], Sansoni, Firenze, 1940 [traduzione italiana della seconda edizione tedesca di D. Valbusa]. Sul concetto di individualismo italiano in Burckhardt si veda S. LUKES, Individualism, New Yor, Harper and row 1973 238S. PATRIARCA, Italianità. La costruzione del carattere nazionale, op. cit., pag. 80239 Pubblicato nel 1955, a quasi quarant’anni dalla fine del conflitto. Nelle pagine di questi diari emerge soprattutto l'ignoranza e l'incapacità degli alti comandi, la loro ciarlataneria, o l'inafferrabile qualità etica di un popolo con cui Gadda non potrà mai identificarsi fino in fondo. É un'altra possibile fruizione di questi diari, leggibili come un piccolo trattato sul carattere degli italiani.240 C. AUGIAS, Il disagio della libertà, op. cit., pag. 74
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come un atteggiamento di fiducia negli altri orientato alla disponibilità a cooperare per il
miglioramento della società in cui si vive. Anche uno dei più importanti pensatori marxisti, ossia
Antonio Gramsci (1891-1937), nei suoi scritti studiò e analizzò la struttura culturale e politica della
società italiana, lamentando la morfologia degradata dell' individualismo italiano, che sfocia spesso
in organizzazioni malavitose (fenomeno ancora attualissimo):
Si osserva da alcuni con compiacimento, da altri con sfiducia e pessimismo, che
il popolo italiano è individualista: alcuni dicono dannosamente, alcuni
fortunatamente, ecc. […] Ma questo individualismo è proprio tale? Non
partecipare attivamente alla vita collettiva, [...] significa [...] non appartenere a
nessun gruppo costituito? Significa lo splendido isolamento del singolo
individuo, che conta solo su se stesso per creare la sua vita economica e morale?
[...] Significa che al partito politico e al sindacato economico moderni, come cioè
sono stati elaborati dallo sviluppo delle forze produttive più progressive, si
preferiscono forme organizzative di altro tipo, e precisamente del tipo malavita,
quindi, le cricche, le camorre, le mafie, sia popolari, sia legate alle classi alte.
[...] La ragione di questo stato di cose ha origini storiche lontane, e del
mantenersi di tale situazione è responsabile il gruppo dirigente nazionale241.
Nel 1926, come è noto, Gramsci venne arrestato dalla polizia fascista242 e condannato a venti anni di
carcere. Il passo riportato sopra è infatti contenuto nei celebri quaderni che Gramsci, durante gli
anni della sua prigionia, riempì di appunti e riflessioni su numerosi argomenti.
La questione dell'eccessivo individualismo italiano è sempre stata evidenziata quindi nei secoli,
segno di un comportamento duro da estirpare, tuttavia solo Leopardi compie nel suo Discorso una
accurata descrizione di questo vizio italiano. Sembra quasi che gli italiani abbiano applicato in
pieno la famosa battuta finale del Candide, ou l’Optimisme di Voltaire, quando il protagonista
Candido risponde a Pangloss, suo tutore: «Cela est bien dit, [...] mais il faut cultiver notre jardin».
Quest’ultima espressione chiude il Candide di Voltaire, e sebbene in quel frangente fosse usata con
accezione positiva, oggi suona tremendamente amara: l’individualismo porta in realtà alla
mancanza di benessere collettivo, a problemi di tipo sociale difficilmente estirpabili, al
disgregamento di un’idea di bene comune. A tale proposito, Antonio Caprarica ha coniato 241Traggo la citazione dalla raccolta dei suoi scritti dal titolo Passato e presente, Gramsci, Einaudi, 1951.242Lo stesso fascismo ripudiò l’individualismo, e infatti obbligò che si facessero delle imponenti sfilate e organizzò associazioni in cui regnasse uno spirito cameratesco Si veda a tal proposito S. PATRIARCA, Italianità. La costruzione del carattere nazionale, op. cit., pag 272.: «Nel contesto di una rivalità sempre più accesa tra gli Stati europei e di una crescente competizione internazionale per l'acquisizione di colonie, emerse la questione dell'eccessivo individualismo degli italiani; i nazionalisti sostenevano la necessità di limitarlo o di sopprimerlo rafforzando il potere dello Stato, allo scopo di rendere più salda la coesione nazionale […]. Permeato da questa ideologia, il fascismo tentò di trasformare gli italiani in un popolo disciplinato e militarizzato e condusse il paese alla vergogna di nuove aggressioni e al collasso completo.»
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efficacemente il termine di monadismo italico, prendendo in prestito il concetto di monadi del
filosofo Leibniz: «gli italiani manifestano continuamente un’attitudine a considerarsi un mondo a
sé, un caso a parte perfettamente titolato a ignorare gli altri»243.
L'invettiva leopardiana contro chi faceva «tuono e maniera da sé», seguendo «l'uso e il costume
proprio», massimizzando, cioè, l'interesse privato (tipico, del proprio nucleo familiare, della propria
corporazione) a scapito di quello collettivo e civico, si lega molto bene alle idee di Banfield.
Nel 1958 l'antropologo statunitense Edward C. Banfield (1916 – 1999) scrisse un saggio destinato a
diventare famoso e a suscitare molte discussioni. Il titolo del saggio era The Moral Basis of a
Backward Society (tradotto per Il Mulino come Le basi morali di una società arretrata244).
Fondamentale per la stesura di questo saggio che traeva spunto dall'analisi della società italiana di
un paese del sud-Italia degli anni cinquanta, Chiaromonte (adombrato nel libro con il nome di
Montegrano), fu il contributo di sua moglie, Laura Fasano, che per le sue origini aveva parlato
l'italiano fin da bambina. Come detto in precedenza, poco dopo la sua pubblicazione, il saggio
suscitò ampie discussioni, ma fu fondamentale per gli studi successivi sulla nostra società, tanto che
ancora oggi può essere considerato un buon punto di partenza, nonostante i diversi anni trascorsi
dall'analisi di Banfield. Gli studi di Banfield traggono spunto dalle idee di Alexis de Tocqueville245,
ossia che in una società moderna il progresso deriva in primis dalla capacità di associarsi. Banfield
arrivò a ipotizzare che la causa principale dell'arretratezza delle zone da lui studiate era dovuto a
una sopravvalutazione dei legami familiari che va a danno della capacità di associarsi e
dell'interesse collettivo. Gli individui sembrerebbero agire secondo la regola: massimizzare
unicamente i vantaggi materiali di breve termine della propria famiglia nucleare, supponendo che
tutti gli altri si comportino allo stesso modo.246 L'autore denominò questo fenomeno con il termine
di «familismo amorale». Familismo perché l'individuo perseguirebbe solo l'interesse della propria
famiglia nucleare, e mai quello della comunità che richiede cooperazione tra non consanguinei.
Amorale perché seguendo la regola si applicano le categorie di bene e di male solo tra famigliari, e
non verso gli altri individui della comunità. La formula ebbe successo, diventando una specie di
emblema della scarso senso civico degli italiani, soprattutto in rapporto al sud Italia. In altre parole
sembra esservi nella società italiana una resistenza, introiettata dalla mentalità collettiva, ad
accettare come vincolante tutto ciò che non sia specificamente incardinato nell'orizzonte di vita
degli individui, nei loro legami e nei loro sentimenti e bisogni (legato quindi alla propria cerchia
familiare).
243A. CAPRARICA, Gli italiani la sanno lunga... o no!?, Milano-Roma, Sperling & Kupfer-Rai-Eri, 2008.244 BANFIELD E. C., The Moral Basis of a Backward Society (1958) trad. it.: Basi morali di una società arretrata, Il Mulino, 1976[2006]245BANFIELD, op. cit., pag. 7 246BANFIELD, op. cit. pag. 83
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Tra gli studiosi che hanno ripreso e confermato le idee di Banfield va ricordato Robert D. Putnam,
il quale nel 1993 ha pubblicato il saggio intitolato Making Democracy Work: Civic Traditions in
Modern Italy247, la cui tesi centrale è che il capitale sociale è fondamentale per le prestazioni
istituzionali e il mantenimento della democrazia. Putnam ha studiato la performance di venti
governi regionali italiani dal 1970, che avevano istituti simili, ma differivano nel loro contesto
sociale, economico e culturale, arrivando alla conclusione che il governo regionale migliore,
tenendo gli altri fattori costanti, è quello con forti tradizioni di impegno civico. In altre parole,
Putnam, grazie alla sua indagine condotta per circa un ventennio, ritiene che il divario del Sud
rispetto al Nord dell'Italia non dipenderebbe da cause economiche, ma proprio da mancanza di
senso civico. Molto più dei fattori economici contano le ragioni storiche, le tradizioni di vita civile e
di autogoverno locale che affondano le radici nel passato del nostro paese.
L'eredità delle istituzioni medievali ha influito pesantemente sulla storia degli italiani: al Centro-
Nord le strutture sociali e l'atmosfera culturale hanno favorito la formazione di un capitale sociale
fatto di legami orizzontali, senso civico e spirito di collaborazione maggiori rispetto al Sud, dove la
frattura tra governanti, apertasi durante la monarchia feudale normanna, si è allargata durante tutta
l'età moderna, e i legami sociali si sono potuti sviluppare solamente sull'asse verticale del privilegio
e della clientela. Al Sud, alla carenza di senso civico e di senso di appartenenza a una comunità di
eguali corrispondono oggi il familismo amorale, il malgoverno e la mafia248.
Si può obiettare che le conclusioni di Banfield sono circoscritte al tempo storico analizzato (pochi
anni dopo la fine della seconda guerra mondiale), e che non è sufficiente lo studio di un paese
meridionale per arrivare a idee generali sull'intera Italia; mentre riguardo alla tesi di Putnam le
critiche si sono concentrate sulla tendenza al determinismo e all'approccio indifferenziato alle realtà
socioeconomiche del Sud.
Le obiezioni e le critiche ai due studiosi sono spesso ragionevoli. Come è del resto ragionevole la
tesi di L. Sciolla249 che evidenzia come spesso i «legami famigliari siano in grado di costruire forme
di socialità e legami più ampi in molti ambiti delle società moderne, compresa l'Italia». Eppure su
questo punto di vista grava pesantemente, sebbene non in maniera uniforme, il retaggio del passato:
le famiglie italiane si sono abituate ad assumere comportamenti difensivi, cinici, e perfino a volte
predatori, nei confronti di buona parte del mondo esterno, delle istituzioni statali, di quelle reti
sociali più ampie che trascendono i legami di sangue o i rapporti di amicizia in ambito strettamente
locale. L'età repubblicana purtroppo ha fatto ben poco per arginare tali inclinazioni, e la 247 PUTNAM R.D., Making Democracy Work: Civic Traditions in Modern Italy, Princeton University Press, Princeton, trad. it. La tradizione civica nelle regioni italiane, Mondadori, Milano, 1993248 É stato notato come Putnam non distingua tra senso civico riferito alla comunità locale e senso civico riferito allo stato nazionale. Infatti una cosa è avere il senso della piccola comunità, di persone che si conoscono, e che trovano un equilibrio tra i reciproci interessi corporativi. Altra cosa è il senso civico del rispetto astratto della legge, del rispetto del cittadino estraneo e ignoto, del sentimento nazionale.249 SCIOLLA L., Italiani. Stereotipi di casa nostra, Il Mulino, Bologna, 1997, pag. 59
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modernizzazione delle strutture socioeconomiche ha portato probabilmente a un rafforzamento, e
non a una diminuzione, di queste tendenze negative.
Questo spiegherebbe perché il familismo- particolarismo continui nel corso degli anni ad essere
adoperato dagli stranieri e dagli italiani stessi come una calzante rappresentazione del nostro paese,
che conferma la tesi di Leopardi sull'individualismo italiano ancor oggi. Trovo quindi molto
interessante e convincente la tesi sostenuta da Paul Ginsborg, il quale ha confermato anch'egli la
perdurante attualità del familismo- particolarismo degli italiani tuttora250, «a patto che venga
accuratamente definito e storicamente contestualizzato251». Il noto storico inglese, naturalizzato
italiano, ha ridefinito e adattato il concetto di familismo alle realtà dell'Italia contemporanea,
concludendo «di considerarlo come una forma particolare del rapporto tra famiglia, società e Stato;
una forma in cui i valori e gli interessi della famiglia si contrappongono a quelli degli altri principali
momenti di aggregazione che identificano una società democratica252». Ginsborg ha il pregio di
farci considerare il peso relativo di tutti gli elementi della relazione (famiglia, società e Stato)253, e
non solo quello della famiglia. L’Italia è stata caratterizzata storicamente da un accentuato
individualismo, da una società civile debole soprattutto nel Sud e da uno Stato democratico di tarda
formazione; ne consegue quindi per Ginsborg che per la famiglia si sprecano l'impegno, energie e
coraggio, ma rimane poco per la società e per lo Stato.
Il familismo è un tratto antico e tipicamente italiano, «un tratto che scaturisce dalla mancata
creazione di un’etica pubblica. Nella storia italiana», afferma Ginsborg, «in alcuni passaggi critici,
si sono create le possibilità per lo Stato di costruire una sfera pubblica forte, con le sue regole e i
suoi codici di comportamento. È accaduto all’indomani del processo di unificazione, e anche nella
stagione successiva alla fine della Seconda guerra mondiale. È accaduto dopo Tangentopoli. Ogni
volta ha agito la speranza della cesura storica. Il salto weberiano, però, non c’è mai stato254».
La dimensione particolarista, la stessa rilevata da Leopardi nel Discorso, rappresenta pertanto con
i giusti accorgimenti in maniera efficace gli italiani tuttora: ciò che fanno e che pensano; non quello
che dicono. Anche secondo Carlo Tullio-Altan il familismo- particolarismo degli italiani è una sorta
di metafisica dei costumi, propria del patrimonio mentale-culturale degli italiani di ieri e di oggi, 250 Nella prefazione all’ultima edizione italiana delle Basi Morali, BAGNASCO afferma quanto sia difficile liberarsi da Banfield: «ho il sospetto che anche in molti dei più accesi critici rimanga la sensazione di avere a che fare con una specie di fantasma nascosto da qualche parte nella casa, e pronto a ritornare quando e dove meno loro se lo aspettano». BAGNASCO A., Ritorno a Montegrano, in E.C. Banfield Le basi morali di una società arretrata, Il Mulino, Bologna, 2006.251GINSBORG P., L'Italia del tempo presente. Famiglia, società civile, Stato 1980-1996, Torino, Einaudi, 1998, pag.185. Si veda anche GIBSBORG P., Famiglie del Novecento. Conflitti, culture e relazioni, a cura di Ginsborg, Enrica Asquer, Maria Casalini, Anna Di Biagio, Carocci 2010252Ivi, pag. 187253GINSBORG analizza il rapporto tra questi tre elementi, prendendo come riferimento soprattutto Hegel. In Lineamenti della filosofia del diritto, il filosofo tedesco invita infatti a esaminare gli individui in relazione alle tre sfere sociali: famiglia, società civile e Stato. 254Traggo queste affermazioni da una intervista di Simonetta Fiori fatta a Ginsborg e pubblicata in un articolo di La Repubblica del 8/3/2010: Familismo Ginsborg, perchè l'Italia non ha un' etica pubblica.
100
che orienta i comportamenti in direzioni precise: trarre spesso vantaggi per sé, per la propria
famiglia (o corporazione) a discapito degli interessi collettivi255.
Inoltre, è presente un ostacolo ancora più arduo da superare: la mera osservazione (finanche
superficiale) della realtà quotidiana italiana. L’esperienza in prima persona e il racconto che se ne fa
nei mezzi di informazione rendono il compito di chi intende controbattere alle tesi del
particolarismo italiano quasi insormontabile. É bene evidenziare che molti effetti “asociali”,
individualistici, diciamo pure, certe distorsioni relazionali, sono riconducibili anche a un
narcisismo, sempre più pervasivo nelle società contemporanee, che ha raggiunto l'apice nel XX
secolo a partire dal secondo dopoguerra. Il primo a interessarsi a questo fenomeno sociale globale
è stato Christopher Lasch, storico e sociologo statunitense, il quale ha pubblicato per la prima
volta nel 1979 il celebre libro La cultura del narcisismo, divenuto un vero e proprio classico
sull’argomento256. La cultura del narcisismo conduce al ripiegamento su un «io difensivo».
Un ripiegamento quindi verso un individualismo che tende ad essere sempre più amorale purtroppo,
creando le basi di una «società cinica257», come ha scritto recentemente il sociologo Carlo Carboni
in un suo saggio: un individualismo che propone i suoi valori e spesso non cerca di confrontarli con
i valori collettivi, generando una discrasia tra valori del singolo e valori di tutti. Molti cittadini
italiani sono prigionieri di una mentalità corrosa per cui in pratica non si riconoscono nei valori
collettivi e si affidano spesso ai loro valori individuali e alle loro capacità di scelta.
Una miopia di massa e non solo delle élite, dimentiche che la società ha uno spessore morale da
sollecitare per raggiungere coesione, solidarietà e coralità. Si è creata di conseguenza, per citare
Emile Durkheim (1858 – 1917), uno dei padri fondatori della moderna sociologia, una «condizione
anomica» (ossia di carenza di regole), in cui le maggiori libertà dell'individuo si disperdono nei miti
255 C. TULLIO ALTAN, La nostra Italia, Arretratezza socioculturale clientelismo, trasformismo e ribellismo dall'Unità ad oggi Feltrinelli, Milano., 1986. C. Tullio Altan denota come del resto già Leon Battista Alberti, «pittore, architetto, poeta, erudito, filosofo e letterato», durante l'Umanesimo, ne i Libri della famiglia confermi ancora una volta la rilevanza della famiglia nella quotidiana sociologia dell'Italia. Scrive Altan: «Non si scorge mai, assolutamente mai, nell'opera di Leon Battista Alberti, un grappolo di famiglie, che giungano a formare una civitas, una società.» I Libri della famiglia sono un trattato morale in quattro libri, in cui Leon Battista Alberti introduce alcuni suoi parenti a dissertare sull'educazione dei figli, sul matrimonio, sull'amministrazione della casa, e infine sull'amicizia. Alberti esalta la vita campestre, secondo gli ideali idillici del Rinascimento; e mostra di fare assegnamento sulle energie creative dell'uomo, secondo lo spirito individualistico dello stesso Rinascimento.256 LASCH C., The Culture of Narcissism, Norton, New York 1979, trad. It, La cultura del narcisismo, Bompiani, Milano, 1981. Nella sua visione, l'individualismo è visto esclusivamente nel suo lato oscuro, come atteggiamento che si avvicina, nei suoi caratteri fondamentali, alla sindrome psicopatologica del narcisismo, intesa come forma estrema di «culto dell'io». Si tratta di un processo profondamente ambivalente. La società moderna spinge l'individuo a sviluppare un'attitudine maggiore verso l'introspezione e la ricerca interiore di sé, e ciò lo rende assai sensibile al problema del riconoscimento della propria identità, al punto che avverte con maggiore intensità la sensazione di non autenticità, di non essere completamente se stessi, rispetto a quanto avveniva in passato. Tuttavia, secondo Lasch, tale atteggiamento di fondo, lungi dall'arricchire la vita privata dell'individuo e i rapporti interpersonali, li impoverisce, lungi dal portare all'affermazione della sua personalità ne favorisce il suo completo collasso. La psicopatologia del narcisismo produce, infatti, la svalutazione sistematica degli altri, la mancanza di curiosità verso ciò che si colloca all'esterno del proprio io, la paradossale dipendenza dall'approvazione altrui, la superficialità nei rapporti affettivi, la difficoltà nel realizzare amicizie profonde e durature.257C. CARBONI, La società cinica. Le classi dirigenti italiane nell'epoca dell'antipolitica, Laterza, 2008.
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angusti e cinici di un individualismo senza compensazioni solidali. Giustamente Carboni invita un
lettore scettico a «sfogliare un qualsiasi quotidiano italiano di un qualsiasi giorno per leggere che
c’è un’Italia in cui alberga un individualismo disilluso e amorale»258.
Nel Discorso Leopardi sostiene che gli italiani a causa della mancanza di una solida e moderna
società (tematica importantissima, come ho cercato di dimostrare nella prima parte di questa tesi),
non hanno amor proprio, o meglio amor proprio inteso come particolare interesse per l’opinione
pubblica:
Primieramente dell’opinione pubblica gl’italiani in generale, e parlando
massimamente a proporzione degli altri popoli, non ne fanno alcun conto […] e
stimano ben dappoco chi pospone a questo fantasma i suoi interessi e i suoi
vantaggi reali259.
L’importanza dell’amor proprio nella vita sociale è, con sfumature e accentuazioni diverse, quasi un
luogo comune della cultura illuministica. Con particolare forza vi accenna anche Montesquieu,
autore caro a Leopardi:
È il desiderio di piacere che tiene insieme la Società, e tanta è stata la fortuna
del genere umano che questo amor proprio, che doveva distruggere la Società,
la fortifica invece, e la rende incrollabile260.
Il desiderio di piacere agli altri, continua Leopardi, si chiama ambizione, e costituisce un «vincolo e
sostegno potentissimo della società»261, poiché produce un «sentimento tutto moderno»262, ovvero
l’onore, inteso come rispetto. L’ambizione risulta quindi dalla modificazione dell’amor proprio
conformabile (vale a dire adattabile, come tutte le altre caratteristiche dell’uomo) alla vita di
società. La distinzione che qui Leopardi introduce fra l’amor proprio modificato in ambizione e
l’amor proprio naturale sembra rinviare alla differenza tra amour propre e amour de soi meme,
analizzata da A. O. Lovejoy in Rousseau263. L’ amour propre è un sentimento che nasce dal
confronto e non deve essere confuso con l’amour de soi même . Quest’ultimo è una preoccupazione
naturale per il nostro interesse personale, comune all’uomo e agli altri animali; l’amour propre
258Un paese normale? Saggi sull'Italia contemporanea, a cura di A. Mammone, N. Tranfaglia, G.A. Veltri, Dalai Editore, 2011, in particolare pag. 69-94. 259Discorso, pag. 58260MONTESQUIEU, Riflessioni e pensieri inediti, 1716-1755, Torino, Einaudi, 1943, p. 32261Discorso, pag. 52262Ibidem 263 A.O. LOVEJOY, L'albero della conoscenza, trad. it di D. De Vera Grande Pardini, Bologna, Il Mulino, 1982, pp. 57 ss. Su questo argomento interessante anche la lettura di L.J. CROCKER, Un' età in crisi. Uomo e mondo nel pensiero francese del Settecento, Bologna, Il Mulino, 1975.
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invece è un sentimento relativo, artificioso e nato nella società, che spinge ogni individuo a dare più
importanza a se stesso che agli altri. Ma in Italia l’amor proprio non si è modificato in ambizione,
con conseguente mancanza di principi morali. Il cinismo, ossia il disprezzo, l’indifferenza verso la
morale e i valori comuni, è uno dei difetti principali del carattere italiano:
Le classi superiori d’Italia sono le più ciniche di tutte le loro pari nelle altre
nazioni. Il popolaccio italiano è il più cinico di tutti i popolacci. Quelli che
credono superiore a tutte per cinismo la nazione francese, s’ingannano. Niuna
vince né uguaglia in ciò l’italiana. Essa unisce la vivacità naturale (maggiore
assai di quella de’ francesi) all’indifferenza acquisita verso ogni cosa e al
poco riguardo verso gli altri cagionato dalla mancanza di società, che non li
fa curar gran fatto della stima e de’ riguardi altrui: laddove la società
francese influisce tanto, com’è noto, anche nel popolo, ch’esso è pieno di
riguardi sì verso i propri individui, sì verso l’altre classi, quanto comporta la sua
natura264.
Le conclusioni di questo breve estratto dal Discorso sono ancora vivissime nella mentalità degli
italiani: basti pensare ai comportamenti cinici e individualisti che ogni giorno vediamo in
televisione, o leggiamo sui giornali. L’Italia che non rispetta le regole (stereotipo dell’italiano
furbo) e trae vantaggio dall’inefficienza della giustizia è solo un esempio. Di fronte a simili
caratterizzazioni si può sempre sostenere che si tratta di banali stereotipi, dei quali affrettarsi subito
dopo a denunciare la natura semplificata e convenzionale. Lo si può sostenere certo, ma non senza
torto, poiché «malgrado le loro semplificazioni e i molti errori, gli stereotipi etnici nascono da
osservazioni che spesso sono esatte, e dal sedimentarsi di concrete esperienze collettive. I caratteri
nazionali esistono davvero […]; sappiamo bene quanto le tecniche di sussistenza e i valori etici
impliciti ed espliciti, i costumi e i miti tramandati e le forme dell'educazione, possano rivelarsi
diversi da luogo a luogo ed esercitare influenze molto profonde a livello individuale265»
L’elenco dell’Italia cinica si allunga con gli evasori fiscali e con la corruzione. Tenterò di analizzare
brevemente questi fenomeni per evidenziare quanto detto. In tema di evasione fiscale, l'Italia si
colloca ai primissimi posti nella graduatoria internazionale (secondo uno studio dell’Agenzia
dell’Entrate si evade il 38 % delle tasse, con punte del 66 % nel Mezzogiorno).
Gli ultimi dati Ocse (Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico) pongono l'Italia
al terzo posto fra i paesi dell'area, dietro Turchia e Messico. Sono cifre raccapriccianti per un
paese civile, basti pensare a tutti i gravi danni che produce sul tessuto economico e sociale del 264Discorso, pag. 65-66.265 G. JERVIS, Sopravvivere al millennio, Milano, Garzanti, 1995, pp.58-60. Su questo tema è indispensabile anche la lettura di G. BOLLATI, L'italiano. Il carattere nazionale come storia e come invenzione, Torino, Einaudi, 1983.
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nostro paese: effetti negativi sull'equilibrio finanziario in termini di equità, distribuzione del reddito;
efficiente allocazione delle risorse; e soprattutto livello di etica pubblica e coesione sociale. Da un
punto di vista geografico, si evidenzia ancora una volta una linea di demarcazione tra Nord e Sud:
nel Nord Italia, dove si realizza la quota più rilevante degli affari e del reddito, si evade di più in
valore assoluto, mentre il Sud "vince" per numero di evasori. Il fenomeno caratterizza tutta la storia
dell’Italia recente: in particolare nel 1981 l’evasione fiscale in Italia ammontava a circa 28mila
miliardi di vecchie lire, equivalente al 7-8% del PIL, mentre oggi questa quota è salita appunto fra il
16,3% e il 17,5% del PIL266.
Per quanto riguarda la corruzione, secondo un recente studio di Transparency International,
(l'organizzazione internazionale non governativa che si occupa della corruzione nel settore pubblico
e nella politica), la corruzione continua sì a produrre effetti devastanti nelle società di tutto il
mondo, ma in Italia il fenomeno deve essere considerato ancora più allarmante soprattutto per il
fatto che il nostro paese fa parte delle grandi nazioni europee. Nel dettaglio, in una scala che va da 0
(corruzione massima) a 100 punti (corruzione minima), l'Italia ottiene soltanto 42 punti e si piazza
lontanissima (72esima) dalla sufficienza e soprattutto dai Paesi ritenuti più virtuosi ed etici:
Danimarca, Finlandia e Nuova Zelanda (tutti e tre con un voto di 90/100)267. L’Italia, rimane così in
fondo alla classifica europea della trasparenza, accompagnata da Bulgaria e Grecia. Sono perciò
arrivate numerose le inchieste giudiziarie a causa di tali comportamenti radicati nel profondo della
società italiana, che vedono l’interesse pubblico solo in funzione di un vantaggio personale, cinico
ed egoistico. Nei primi anni Novanta ci furono le inchieste cosiddette di Tangentopoli, una grande
spinta di rivolta contro la corruzione, a cui non sembra essere seguita tuttavia una stagione di totale
rinnovamento.
Da questi dati empirici sembra che in Italia non ci sia una salda coscienza civile, ma soprattutto che
non ci sia un vento di cambiamento nella sensibilità collettiva. Merita riportare anche per questo un
altro passaggio interessante del Discorso:
Il vincolo e il freno delle leggi e della forza pubblica, che sembra ora essere
l’unico che rimanga alla società, è cosa da gran tempo riconosciuta per
insufficientissima a ritenere dal male e molto più a stimolare al bene. Tutti
sanno con Orazio, che le leggi senza i costumi non bastano, e da altra parte che i
costumi dipendono e sono determinati e fondati principalmente e garantiti dalle
opinioni268.
266Traggo i dati dall'articolo uscito su Repubblica il 3 ottobre 2012, Giampaolino: Evasione, Italia ai vertici Destinare recuperi al taglio delle tasse.267Traggo le informazioni da C. AUGIAS, Il disagio della libertà, Rizzoli, 2011, pag, 206.268Discorso, pag.50
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Per la società italiana che continua a non avere una piena identità collettiva, Giuseppe De Rita,
presidente del Censis, ha coniato l'espressione di «società-poltiglia». In pratica la realtà italiana,
secondo uno degli ultimi rapporti del Censis, sta sempre più diventando una «poltiglia di massa,
impastata di emozioni, pulsioni, autoreferenziale e ripiegata su sé stessa, pericolosamente incline
sempre di più all’individualismo269» e al cinismo.
Per Leopardi, un’altra prova del cinismo, del disinganno e della completa mancanza di aspettative
dell’Italia, è il fatto che gli italiani ridono della vita. Gli Italiani, sostiene il poeta di Recanati,
avvertono più di ogni altro popolo la vanità di ogni cosa, e a questo rassegnati trovano che
Il più savio partito è quello di ridere indistintamente e abitualmente d’ogni cosa e
d’ognuno, incominciando da se medesimo. […] Gl’italiani ridono della vita: ne
ridono assai più, e con più verità e persuasione intima di disprezzo e
freddezza che non fa niun’altra nazione.[…] Per tutto si ride, e questa è la
principale occupazione delle conversazioni, ma gli altri popoli altrettanto e più
filosofi di noi, ma con più vita, e d’altronde con più società, ridono piuttosto
delle cose che degli uomini, piuttosto degli assenti che dei presenti, perché
una società stretta non può durare tra uomini continuamente occupati a deridersi
in faccia gli uni e gli altri, e darsi continui segni di scambievole disprezzo. In
Italia il più del riso è sopra gli uomini e i presenti. La raillerie il persiflage, cose
sì poco proprie della buona conversazione altrove, occupano e formano tutto quel
poco di vera conversazione che v’ha in Italia270.
Agli italiani, segnati dall'indifferenza, non resta che ridere, allora, ma la risata può solo accentuare il
vertiginoso baratro che separa ciascun individuo dall’altro. La parte finale della prima lettera inviata
da Giacomo da Roma al fratello Carlo (datata 25 novembre 1822) riporta un aneddoto pertinente al
tema della raillerie, del persiflage, e al tempo stesso curioso:
[…] Fa leggere questa lettera al signor Padre, al quale io non so quello che mi
scrivessi da Spoleto: perchè dovete sapere che io scrissi in tavola fra una
canaglia di Fabrianesi, Iesini ec. i quali s'erano informati dal Cameriere dell'esser
mio, e già conoscevano il mio nome e qualità di poeta271 ec. ec. E un birbante di
prete furbissimo ch'era con loro, si propose di dar la burla anche a me, come la
269Quarantunesimo Rapporto Censis sulla situazione sociale del Paese, 2007: «la società sembra adagiarsi in un'inerzia diffusa, una specie di antropologia senza storia, senza chiamata al futuro. Una realtà sociale che diventa ogni giorno una poltiglia di massa; impastata di pulsioni, emozioni, esperienze e, di conseguenza, particolarmente indifferente a fini e obiettivi di futuro, quindi ripiegata su se stessa. Una realtà sociale che inclina pericolosamente verso una progressiva esperienza del peggio». 270Discorso, pag. 66271 Da notare per curiosità come Leopardi usi volutamente il corsivo per il termine poeta; uso che esprime la particolarità di una condizione esistenziale e sociale che discrimina ed esclude.
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dava a tutti gli altri: ma credetemi che alla mia prima risposta, cambiò tuono
tutto d'un salto, e la sua compagnia divenne bonissima e gentilissima come tante
pecore. [...]272
Da questa corrispondenza apprendiamo, oltre al suo carattere appassionato (e spavaldo), che
Leopardi, anche se poco più che ventenne, godeva di una certa fama come poeta e che giustamente
se ne compiace. Ciò che comunque è opportuno focalizzare è che in quella stessa rumorosa tavolata
«di Fabrianesi e Iesini» faceva parte anche un prete anch'esso in vena di scherzi grossolani come gli
altri. Colpisce il fatto che il prete, pur non conoscendo di persona Leopardi, non si sottrae a
deriderlo e a denigrarlo.
In questa diffusa tendenza a prendersi in giro reciprocamente (canzonatura) Leopardi vedeva il
segno di una disperazione cosciente e di un sarcasmo permanente che spesso porta al degrado dei
rapporti personali e sociali. Ma per quale motivo la forza del riso, o per dir meglio, del sarcasmo e
della canzonatura (rispettivamente la raillerie e il persiflage nel Discorso) è così diffusa tra gli
italiani, allora come oggi?. È una conseguenza, ci suggerisce Leopardi, del fatto che gli italiani
hanno un forte senso della vanità della vita, che li rende più filosofi nella pratica. Tuttavia il riso
italiano, così come lo descrive Leopardi, non è per niente frutto di stoltezza e ingenuità. Casomai il
contrario. Gli italiani, sostiene Leopardi, conoscono più di chiunque altro «la vanità e le miserie
della vita e la mala natura degli uomini273»; non solo, ma sono convinti che in nessun modo questi
difetti e questi mali possano essere corretti. Incapaci di vera disperazione e di «risoluzioni
feroci274», si accomodano facilmente a vivere una vita che in parte disprezzano e a convivere e a
conversare con uomini che conoscono «per tristi e da nulla275». Il loro non è certamente il riso dello
stupido, lenitivo: semmai un «riso intelligente, stridulo, senza indulgenza, spesso sgradevole276».
Torna alle mente una delle Operette morali. Mi riferisco al Dialogo di Timandro e di Eleandro,
composto da Leopardi a Recanati dal 14 al 24 giugno del 1824 (non a caso vicinissimo, come data
di composizione, al Discorso). Lo scrittore Eleandro (colui che ha compassione dell’uomo) è
incalzato in una discussione dal critico Timandro (colui che onora l’uomo), il quale lo riprende per i
272 Lettera tratta da Giacomo Leopardi, Tutte le opere, a cura di Walter Binni, Sansoni , Firenze, 1969, volume I.273Discorso, pag, 64274Ibidem275Ibidem276Ricavo la citazione da un articolo di Giovanni Mariotti, intitolato Una risata, e fu immortalità All’ inizio c’ è stato Boccaccio. Poi, sette secoli d’ ironia e pubblicato il 20 agosto 2005 sul Corriere della sera. In questo articolo, partendo dal Discorso di Leopardi, Mariotti riflette sul riso e l'ironia presenti fin dagli albori nella nostra letteratura, vista come specchio della nostra società: «All' origine il Decameron, grande e complesso libro da cui si propagano spifferi di acre ilarità. Dieci racconti per dieci giornate: un organismo regolare, nobilmente simmetrico, che accettiamo come qualcosa di grazioso e di assai naturale, ciechi alla stranezza e, direi, all' insolenza di un' opera che gronda da un capo all' altro di risate, e ha come sfondo la peste [...]. Ridere durante la peste! Questo dissonante programma è uno fra gli atti inaugurali non solo della nostra letteratura, ma anche della nostra vita sociale e politica.»
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suoi scritti poco edificanti sul genere umano, e lo invita a mutare animo e a procurar di giovare alla
[sua] specie. Ma Eleandro risponde:
Ridendo dei nostri mali, trovo qualche conforto; e procuro di recarne altrui
nello stesso modo. Se questo non mi vien fatto, tengo pure per fermo che il
ridere dei nostri mali sia l’unico profitto che se ne possa cavare, e l’unico
rimedio che vi si trovi. Dicono i poeti che la disperazione ha sempre nella
bocca un sorriso. Non dovete pensare che io non compatisca all’infelicità
umana. Ma non potendovisi riparare con nessuna forza, nessuna arte, nessuna
industria, nessun patto; stimo assai più degno dell’uomo, e di una disperazione
magnanima, il ridere dei mali comuni; che il mettermene a sospirare, lagrimare
e stridere insieme cogli altri, o incitandoli a fare altrettanto277.
Eleandro, alter ego di Leopardi, osserva il fatto singolare che quanto più si è consapevoli della
propria infelicità, tanto più si è inclini a riderne. Il riso nel pensiero leopardiano è quindi
straordinariamente consolatorio, ed è in grado di distrarre dalla spietata verità delle cose278.
Tuttavia per Leopardi, ed è questo l'aspetto più importante che emerge dal Discorso, il riso è allo
stesso tempo anche «terribile ed awful279». È bene chiarire quest’ultimo concetto attraverso le
pagine dello Zibaldone, le quali dimostrano ancora di più l’attenzione che egli riservò a questo
tema. In un pensiero datato 23 settembre 1828 troviamo scritto:
Ridete franco e forte, sopra qualunque cosa, anche innocentissima, con una o due
persone, in un caffè, in una conversazione, in via: tutti quelli che vi sentiranno o
vedranno rider così, vi rivolgeranno gli occhi, vi guarderanno con rispetto, se
parlavano, taceranno, resteranno come mortificati, non ardiranno mai rider di voi,
se prima vi guardavano baldanzosi o superbi, perderanno tutta la loro baldanza e
superbia verso di voi. In fine il semplice rider alto vi dà una decisa superiorità
sopra tutti gli astanti o circostanti, senza eccezione. Terribile ed awful è la
277Operette morali, Dialogo di Timandro e di Eleandro, op, cit.278Va ricordato l'uso sistematico, anche se non unico, della ironia e del riso all'interno delle Operette Morali. L'ironia implica soprattutto un rifiuto dello strumentario ipocrita e vacuo della morale tradizionale: le Operette posso essere morali, come dice il titolo dell'opera, solo a patto di proporre una nuova forma di moralità, che prescinda da ammaestramenti e da astrazioni, e che smascheri la morale tradizionale, e si cali dentro la concreta realtà dell'esperienza, mettendone in luce i modi effettivi di essere. L'ironia e il riso hanno inoltre una funzione liberatoria e positiva: ridendo del confronto tra la reale infelicità dell'uomo e le illusioni consolatorie, si punta a mettere in risalto il limite della condizione naturale dell'esistenza; e riderne può confortare gli uomini, rendendo accettabile la scoperta del dolore. Infatti il riso è uno dei pochi modi concessi all'uomo per accrescere la propria vitalità, cioè per dare all'esistenza un significato (coincidente, nel pensiero leopardiano, con un'occupazione intensa e coinvolgente).279Si veda la nota seguente.
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potenza del riso: chi ha il coraggio di ridere, è padrone degli altri, come chi
ha il coraggio di morire280.
Il riso è quindi anche un’arma per imporsi sulle persone, poiché provoca l’attenzione e il rispetto
degli altri, e toglie loro la baldanza e la superbia. Il riso, come focalizzato da Lucio Felici281, in
questo pensiero dello Zibaldone è mostrato quindi nel suo essere segno di superiorità. Il persiflage
viene visto come una sorta di «forma di controllo sull'uomo», che ha l' obiettivo immediato di
«richiamare l'attenzione della “vittima” verso se stessa, chiudendola entro il perimetro del proprio
aspetto fisico» (Leopardi fu certamente crudelmente canzonato per questo) «o del proprio
comportamento intellettuale o morale»282. Si torna così al concetto di individualismo e cinismo.
Questo rapporto che l’italiano tiene con il mondo, con il prossimo è chiamato infatti da Leopardi
nel Discorso «atteggiamento cinico, […] cinismo d’animo, di pensiero, di carattere, di costumi,
d’opinione, di parole e d’azioni». Una modalità di esistere che, avulsa da ogni condivisione sociale,
si risolve spesso in comportamenti denigratori283:
Passano il loro tempo a deridersi, scambievolmente, a pungersi fino al
sangue[..], a mostrar con le parole e coi modi ogni sorta di disprezzo verso
altrui[..], a ridere indistintamente e abitualmente d’ogni cosa e d’ognuno
incominciando da se medesimo284.
Chiaramente le parole leopardiane rappresentano una descrizione iperbolica della situazione italiana
ai suoi tempi, frutto soprattutto del suo radicale pessimismo. Tuttavia la predominanza del riso
nella società italiana, intesa come derisione non solo degli altri, ma persino di se stessi, ci permette
di comprendere come mai il cinema negli anni del miracolo economico e post anni '60 continuasse a
descrivere e a rappresentare gli italiani con la maschera di attori comici.
Oltre al movimento neorealista, un altro filone cinematografico infatti nacque in Italia subito dopo
la fine della seconda guerra mondiale: la Commedia all'italiana, che fu dominante dagli anni '50
fino agli anni '80. Secondo Mario Monicelli (1915 – 2010), uno dei più celebri e apprezzati registi
italiani, la commedia all'italiana consisteva nel «trattare con termini comici, divertenti, ironici, 280Zibaldone, 3491.281 L. FELICI, Il nulla e il riso, in Il riso leopardiano – comico, satira, parodia, Atti del IX convegno internazionale di studi leopardiani, Leo S. Olschki Editore, Firenze 1995 .282Nuovo discorso sugli italiani con il Discorso sopra lo stato presente degl'italiani di Giacomo Leopardi , a cura di F. FERRUCCI, op, cit. pag. 52283Attualizzando questo concetto si può benissimo citare gli esempi dello sport in Italia: il ricorso continuo al persiglage, uno degli aspetti più evidenti della tifoseria di gruppo, perde spesso qualsiasi connotazione giocosa, per trasformarsi in una ossessione spesso violenta. Il calcio è infatti sicuramente la vera passione collettiva degli italiani dal dopoguerra ad oggi. Atteggiamento denigratori si notano oggi anche in televisione, dove spesso si accendono dispute piene di veleno. Su quest'ultima considerazione si veda G. GOZZINI, La mutazione individualista: gli italiani e la televisione, 1954-201,Laterza, 2011.284 Discorso, pag, 67
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umoristici degli argomenti che sono invece drammatici; è questo che distingue la commedia
all'italiana da tutte le altre commedie.»285 Alberto Sordi (1920 –2003) fu uno dei più importanti
interpreti di questo genere cinematografico italiano insieme a Vittorio Gassman, Marcello
Mastroianni, Ugo Tognazzi, e Totò.
Non è un caso che nel febbraio del 2003 tutti i più importanti giornali italiani dedicarono numerose
pagine alla scomparsa di Sordi, sottolineando quasi all'unanimità l'importanza dell'attore come
espressione del «carattere nazionale»286; l'attore che malgrado il forte accento romanesco era
diventato negli anni l'epitome dell'italiano medio, e la personificazione dominante del carattere
degli italiani287.
Il fatto che a un attore venga assegnato un ruolo del genere probabilmente non sorprende, se si
considera l'importanza del cinema nella cultura contemporanea. In Italia il fenomeno è «ancora più
accentuato perché nel periodo successivo al 1945 il cinema assunse una funzione nazionalizzatrice
in un contesto in cui, a parte l'estrema destra, il nazionalismo non aveva molta spendibilità
politica»288. Come ha evidenziato G.P.Brunetta il cinema allora divenne il veicolo privilegiato per la
produzione di immagini di italianità nel paese, e le commedie all'italiana degli anni Cinquanta e
Sessanta, divennero il primo genere capace di porre con continuità al grande pubblico il problema
dell'identità nazionale289.
Leopardi aveva notato l'interesse italiano per la commedia e la satira già nel XIX secolo e lo aveva
annotato in una pagina del suo Zibaldone, datata 25 luglio 1822:
Il piacere che noi proviamo della satira, della commedia satirica, della raillerie,
della maldicenza ec. o nel farla o nel sentirla, non viene da altro se non dal
sentimento o dall'opinione della nostra superiorità sopra gli altri, che si desta in
noi per le dette cose, cioè in somma dall'odio nostro innato verso gli altri,
conseguenza dell'amor proprio che ci fa compiacere dello scorno e
dell'abbassamento anche di quelli che in niun modo si sono opposti o si possono
opporre al nostro amor proprio, a' nostri interessi ec., che niun danno, niun
dispiacere niuno incomodo ci hanno mai recato, e fino anche della stessa specie
umana; l'abbassamento della quale, derisa nelle commedie o nelle satire ec. in
astratto, e senza specificazione d'individui reali, lusinga esso medesimo la nostra
285Le parole di Mario Monicelli sono tratte da un’intervista del giornalista Tonino Pinto al regista.286PATRIARCA S., Italianità. La costruzione del carattere nazionale,cit., pag.VIII287Va ricordato che, dopo i restauri nel 2003, La galleria Colonna a Roma, situato in piazza Colonna, è stata intitolata al grande attore romano (Galleria Alberto Sordi).288ibidem289BRUNETTA G.P., Storia del cinema italiano. Dal miracolo economico agli anni novanta, 1960-1993, Editori riuniti, Roma 2001, pag 369
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innata misantropia. E dico innata, perché l'amor proprio, ch'è innato, non può
star senza di lei290.
Ho aperto questa riflessione sul cinema per evidenziare meglio la tendenza degli italiani a ridere,
persino su se stessi: essi sembrano infatti essere ossessionati dalla messa in scena dei loro difetti. A
titolo di esempio, è impossibile non citare il film L'arte di arrangiarsi (1954), di cui Vitaliano
Brancati (il primo, come detto nella prima parte, a interessarsi al Discorso di Leopardi) scrisse la
sceneggiatura291. I personaggi di Alberto Sordi, simbolo di molti dei vizi italiani denunciati già da
Leopardi, sono quindi per concludere un esempio del talento di «un comico eccezionale che faceva
ridere con i lati negativi».292 Insomma il cinema ci ha fatto conoscere e ci fa conoscere tuttora noi
stessi.
Lasciando il cinema, lo sfrenato individualismo e cinismo dei nostri giorni ci permette infine anche
di comprendere l'ottica miope del nostro paese per quanto riguarda il futuro. L'immagine dell'Italia è
infatti quella di un paese quasi bloccato, rivolto al passato, incapace di storicizzare sistematicamente
o ammettere i propri errori, e di conseguenza smarrito se, e quando guarda il futuro. Anche le
riflessioni del Censis rimproverano all'Italia un rattrappimento sul presente, una scarsa propensione
a guardare al futuro, in termini di atteggiamento mentale e progettualità293. Riflessioni che Leopardi
nel Discorso aveva già anticipato quasi profeticamente:
[...]colle speranza dell’avvenire, rilevi il pregio dell’esistenza, la quale sempre
che manca di prospettiva d’un futuro migliore, sempre ch’è ristretta al solo
presente, non può non parer cosa vilissima e di niun momento, perché nel
presente, cioè in quello che è sottoposto agli occhi, non hanno luogo le illusioni,
fuor delle quali non esiste l’importanza della vita. Or la vita degl’italiani è
appunto tale, senza prospettiva di miglior sorte futura, senza occupazione, senza
scopo, e ristretta al solo presente294.
290Zibaldone, 2582291 Il film narra le vicende di un uomo, Rosario Simoni, che ripercorre la sua vita dagli inizi del secolo al dopoguerra durante la quale con cinismo e opportunismo diventa di volta in volta socialista, fascista, comunista, democristiano e, sul finale (dopo essere finito in prigione e aver perso tutto quello che aveva accumulato in una vita di traffici più o meno leciti), piazzista ambulante. É chiaramente una critica anche al trasformismo tipico delle élite italiane fin dal 1880, quando i gruppi parlamentari, di Destra e Sinistra, variavano le maggioranze in base a convergenze d'intenti su problemi circoscritti anziché su programmi a lungo termine. Poiché veniva rappresentato come un attributo o addirittura come una inclinazione istintiva dell'italiano medio diventava una componente quasi metastorica, di lì a poco personificata nel Gattopardo (1958) di Tomasi di Lampedusa, probabilmente il più famoso e celebrato romanzo dell'Italia repubblicana. 292M. MONICELLI, L'arte della commedia, Bari, Dedalo, 1986 293Censis, Fenomenologia di una crisi antropologica. Un mese di sociale, Francoangeli, Milano, 2011. In questa riflessione del Censis i segnali preoccupanti sono visti nella crescente sregolatezza delle pulsioni, nel rinserramento individuale, nella indifferenza collettiva; tutto ciò crea un rattrappimento nel presente.294Discorso, pag. 59
110
Del resto, l'Italia cinica emerge anche dalla politica di oggi, vista come specchio della società: i
Movimenti stessi appaiono incerti, divisi, poco determinati, incapaci di darsi una strategia unitaria
ed efficace, affetti anche loro da personalismi, egoismi (e cioè, alla fine, anch’essi malati dello
stesso male che vorrebbero combattere), dalla tendenza alla divisione, alla frammentazione, alla
litigiosità, all'incapacità di trovare punti di mediazione, di accordo, di unità (la litigiosità e la
maldicenza tutta italiana di cui parlava Leopardi), a scapito della civicness295.
L'individualismo e il cinismo discendono entrambi soprattutto dalla carenza di spirito civico o, se si
preferisce, dalla mancanza di un sentimento di lealtà verso la patria, la nazione o verso il «corpo
sociale296». Con quest'ultima espressione si indica la stretta connessione tanto degli uomini fra loro,
che dei fenomeni nascenti dalla vita sociale.
Ma quali sono le cause della mancanza di una solida società e in particolare dello scarso senso
civico degli italiani che Leopardi denunciava poco prima del Risorgimento, e presenti anche oggi?
Il carente senso civico, inteso però solo con il significato di indifferenza per le cose pubbliche, è
stato studiato da Ernesto Galli della Loggia297, storico e giornalista, il quale ritiene che le cause
vadano ricercate indietro nel tempo, ancor prima della nascita dello stato unitario nel 1861 e del
Risorgimento. A suo parere nel XVI secolo con «l'inizio della preponderanza spagnola nella
penisola, l'irrigidimento controriformistico, il decadere delle attività mercantili e la conseguente
riconversione della ricchezza alla proprietà terriera, il potere italiano si restringe e si concentra».
Tutto ciò fa sì che la politica in Italia sia in stretta relazione con i processi di chiusura e di
arroccamento del potere. Di conseguenza per Galli della Loggia nasce in seno alla società italiana
«una concezione venale» della politica, intesa come strumento per allargare reddito e prestigio
sociale. Partendo da un interessante passo298 tratto dai Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio di
Niccolò Machiavelli, Galli della Loggia conclude:
Questo modo d'essere della politica è l'esatto opposto del machiavelliano vivere
politico, ed è questo che fa terribile difetto nell'esperienza italiana: la politica
295 A tal proposito recentemente S. CASSESE, illustre giurista e giudice della Corte Costituzionale, ha calcolato come in 150 anni di storia unitaria si siano avvicendati circa 120 governi; una statistica che evidenzia una durata media di poco più di un anno per ogni mandato. CASSESE S., L'Italia: una società senza Stato, Il Mulino, Bologna (2011) 296Si esprime lo stesso concetto con alcune sfumature quando si dice tessuto sociale, contesto sociale, sistema sociale, organismo sociale. La filosofia politica, prendendo ispirazione dal linguaggio giuridico, parla della società anche come di una «persona», naturalmente non fisica, ma «persona morale».297E. GALLI DELLA LOGGIA, L'identità italiana, Bologna, il Mulino, 1998. 298«E per chiarire questo nome di gentiluomini quale e’ sia, dico che gentiluomini sono chiamati quelli che oziosi vivono delle rendite delle loro possessioni abbondantemente, sanza avere cura alcuna o di coltivazione o di altra necessaria fatica a vivere. Questi tali sono perniziosi in ogni republica ed in ogni provincia, ma più perniziosi sono quelli che, oltre alle predette fortune, comandano a castella, ed hanno sudditi che ubbidiscono a loro. Di queste due spezie di uomini ne sono pieni il regno di Napoli, Terra di Roma, la Romagna e la Lombardia. Di qui nasce che in quelle provincie non è mai surta alcuna republica né alcuno vivere politico; perché tali generazioni di uomini sono al tutto inimici d’ogni civilità.» Si veda Discorsi sulla prima deca di Tito Livio, LV, in Tutte le opere di Niccolò Machiavelli, a cura di F. Flora e C. Cordiè, Milano, Mondadori, 1949, volume I, pag. 212.
111
pensata ed agita come definizione (e realizzazione) dell'interesse collettivo. [..]
Vengono a mancare, dunque, per conseguenza, il retroterra di socialità [..], di
scambio, che rappresentano il necessario corollario della politica intesa come
vivere politico. In Italia, invece, i meccanismi ascrittivi e di rango, la famiglia, il
lignaggio, continuano in tal modo ad esercitare tutto il proprio ruolo,
schiacciando con il loro peso qualsiasi prospettiva di libera formazione
dell'individuo e di connessa fioritura di una società fondata sulle qualità
personali, sul merito, sulla stima, sull'ambizione del singolo e sul giudizio
dell'opinione, come era quella a cui pensava Leopardi299.
Altri storici che hanno riflettuto sulle cause dello scarso senso civico del nostro paese ne
attribuiscono la responsabilità al ritardo del processo di formazione di uno stato unitario: ad
esempio Umberto Cerroni300 sostiene che un'occasione mancata per la nascita di un forte stato
italiano ci fu già nel XIII secolo quando Federico II di Svevia non riuscì ad unificare la penisola a
causa dello strapotere politico della Chiesa (già Machiavelli nei Discorsi accusava la Chiesa di
essere stata la responsabile principale di questa situazione). Aldo Schiavone301 è invece convinto
che le ragioni dello scarso rispetto dei principi sociali sia dovuto alla Controriforma che avrebbe
lasciato una impronta indelebile sulla mentalità degli italiani determinando il primato della
intenzione sulla responsabilità, la cultura del pentimento, l'orrore per il cambiamento. Infine alcuni
studiosi, tra cui Guido Crainz302, per spiegare le cause dell'attuale male civico italiano partono dal
Risorgimento ed arrivano ad analizzare fenomeni del XX secolo importantissimi come il Fascismo.
Il 17 marzo 1861 il Parlamento piemontese proclama Vittorio Emanuele II (1820-1878) re d'Italia,
decretando la nascita di uno stato italiano dopo secoli di frammentazione. Un errore diffuso è
quello di considerare il processo risorgimentale «come un'esperienza nel corso della quale tutte le
componenti cooperano di buon grado e i diversi leader marciano (idealmente) tenendosi l'un l'altro
sotto braccio verso la meta comune, la formazione di uno stato per la nazione italiana303». La storia
del resto dimostra come la nascita di una nazione raramente è il risultato delle virtù di un popolo: la
geopolitica, le diplomazie e la forza militare giocano un ruolo preminente.304
Proprio per questo motivo immediatamente dopo la nascita, la nazione italiana non fu esente da
critiche, delusioni, ma soprattutto da contrasti e dissensi, che resero ovviamente meno solide le basi
del nuovo stato. Dopo la morte di Cavour (1810- 1861), il grande statista protagonista del nostro
Risorgimento, la guida del governo fu assunta da Bettino Ricasoli (1809- 1880), esponente della
299GALLI DELLA LOGGIA, L'identità italiana, op. cit., pag. 94 300CERRONI U., L'identità civile degli italiani, - 2. ed., ampliata. - Lecce : Manni, 1997 301SCHIAVONE A., Italiani senza Italia, Torino, Einaudi, 1998. 302CRAINZ G., Autobiografia di una repubblica. Le radici dell'Italia attuale, Roma, Donzelli, 2009 303 BANTI A.M., Il Risorgimento italiano, Roma-Bari, Laterza, 2004, pag. 119304PATRIARCA S., Italianità. La costruzione del carattere nazionale, op. cit., pag 37
112
cosiddetta Destra storica, lo schieramento politico che si poneva in una linea di sostanziale
continuità con le idee di Cavour. Si trattava di una classe dirigente in prevalenza piemontese, poco
consapevole dei problemi radicati nel resto d'Italia; infatti non si impegnò, come avrebbe dovuto, in
una vasta opera di socializzazione. In moltissimi esponenti della Destra c'era inoltre un
«atteggiamento duramente elitista, che considerava le classi popolari come soggetti pericolosi, o
comunque non veramente degni di un qualche sforzo di socializzazione: meno si occupavano della
cosa pubblica e meglio era305».
La Destra fu contraria a ogni ampliamento del suffragio, che rimase dunque ristretto a un numero
esiguo di persone: nelle elezioni tenutesi all'indomani dell'unificazione italiana furono chiamati a
votare solo 420.000 abitanti, corrispondenti al 1,9 % della popolazione. L'unificazione del paese era
avvenuta infatti sotto il segno del compromesso fra le due classi dirigenti della penisola, ovvero la
grande borghesia del Nord, e i latifondisti meridionali (criticati in generale da Leopardi nel
Discorso pochi anni prima).
La conseguenza più importante fu che ben presto si diffuse una concezione dello Stato come
nemico (quanto queste parole suonino purtroppo attuali anche oggi risulta chiaro se solo si sfogli
un qualsiasi giornale). Lo Stato, agli occhi degli italiani (il 77 % analfabeta), rubava ai campi i
giovani per portarli a svolgere il servizio militare; era spietato nella pressione fiscale (famosa la
tassa sul macinato del 1868); infine era lontano ed estraneo quando doveva intervenire a risolvere
problemi. In particolare al Sud si venne a diffondere il brigantaggio e il sistema della mafia, una
sorta di contropotere locale fondato sulle clientele e collegato ad attività illegali.
Queste riflessioni dimostrano come il Risorgimento lasci anche un'eredità amara di divisioni,
insuccessi, di contrasti, che non migliorarono, se non di poco, la diffidenza degli italiani verso la
questione civica. Massimo D'Azeglio, primo ministro del Regno di Sardegna negli anni 1849-1852
e poi esponente della Destra storica, durante gli ultimi anni di vita, trascorsi sul lago Maggiore, si
dedicò alla stesura delle sue memorie, pubblicate postume con il titolo I miei ricordi nel 1867. In
uno dei suoi pensieri, scriveva:
L'Italia da circa mezzo secolo s'agita, si travaglia per divenire un sol popolo e farsi
nazione. Ha riacquistato il suo territorio in gran parte. La lotta collo straniero è
portata a buon porto, ma non è questa la difficoltà maggiore. La maggiore, la vera,
quella che mantiene tutto incerto, tutto in forse, è la lotta interna. I più pericolosi
nemici d'Italia non sono gli Austriaci, sono gl'Italiani. E perché? Per la ragione
che gli Italiani hanno voluto far un'Italia nuova, e loro rimanere gl'Italiani
vecchi di prima, colle dappocaggini e le miserie morali che furono ab antico il
loro retaggio; perché pensano di riformare l'Italia, e nessuno s'accorge che per 305 BANTI A.M., Il Risorgimento italiano, op. cit., pag. 123
113
riuscirci bisogna, prima, che si riformino loro, perché l'Italia, come tutti i popoli,
non potrà divenire nazione, non potrà essere ordinata, ben amministrata, forte così
con lo straniero, come contro i settari dell'interno, libera e di propria ragione, finché
grandi e piccoli e mezzani, ognuno nella sua sfera non faccia il suo dovere, e non lo
faccia bene, od almeno il meglio che può. Ma a fare il proprio dovere, il più delle
volte fastidioso, volgare, ignorato, ci vuol forza di volontà e persuasione che il
dovere si deve adempiere non perché diverte o frutta, ma perché è dovere; e questa
forza di volontà, questa persuasione, è quella preziosa dote che con un solo
vocabolo si chiama carattere, onde, per dirla in una parola sola, il primo bisogno
d'Italia è che si formino Italiani dotati d'alti e forti caratteri. E pur troppo si va ogni
giorno più verso il polo opposto: pur troppo s'è fatta l'Italia, ma non si fanno gli
Italiani306.
La citazione è lunga ma necessaria, perché conferma tutte le difficoltà nel far nascere, all'indomani
dell'unificazione italiana, un sentimento nazionale e un senso di collettività negli italiani.
Applicando una similitudine letteraria con un romanzo uscito nel 1881, ossia venti anni esatti dopo
la proclamazione del regno d'Italia, gli italiani sembravano essere l'opposto dei Malavoglia. Riporto
un breve passo in cui padron 'Ntoni, il capofamiglia,
per spiegare il miracolo, soleva dire, mostrando il pugno chiuso - un pugno che
sembrava fatto di legno di noce - Per menare il remo bisogna che le cinque dita
s'aiutino l'un l'altra. Diceva pure: - Gli uomini son fatti come le dita della mano: il
dito grosso deve far da dito grosso, e il dito piccolo deve far da dito piccolo. E la
famigliuola di padron 'Ntoni era realmente disposta come le dita della mano307.
Gli esiti della prima guerra mondiale sui difficili equilibri interni del giovane stato italiano furono
molteplici; e il più evidente fu la profonda trasformazione dello Stato in senso autoritario, con la
tendenza (peraltro tipica nelle nazioni in guerra) al prevalere dell'esecutivo sul legislativo. Tuttavia
il paese affogava nella burocrazia e nell'incompetenza. Giuliano Procacci ha giustamente notato che
«se non si tiene presente questa complessa trasformazione dello Stato, che lo rese al tempo stesso
più autoritario e più inefficiente, più esposto alle pressioni dei grandi interessi privati, riesce
difficile comprendere come si siano potute verificare le protezioni, le complicità, le vacanze di
pubblici poteri che renderanno possibili episodi come l'impresa di D'Annunzio a Fiume, o
l'impunità delle violenze fasciste308.»
306M. D'AZEGLIO, I miei ricordi, a cura di S. Spellanzon, Rizzoli, Milano, 1956, pp. 17-18307La citazione da I Malavoglia è presa da W. BARBERIS, Il bisogno di patria, Torino, Einaudi, 2004, op.cit., p. 23308PROCACCI G., Storia degli italiani, Bari, Laterza, 1968
114
E a proposito di fascismo: il fatto innegabile che questo fenomeno politico sia nato in Italia, prima
di diffondersi, con caratteristiche differenti, in altri stati europei (in Spagna e in primis in
Germania) e nel resto del mondo, permette di porre interessanti domande sul carattere degli italiani
e sul loro senso civico. Quando il 28 ottobre 1922 colonne di camicie nere fasciste affluirono a
Roma da tutta Italia, senza incontrare resistenza, la reazione del paese fu debole. L'azione, che
mirava a esercitare una pressione sul Parlamento, andò oltre le aspettative dei fascisti, in quanto il
re Vittorio Emanuele III sciolse ogni riserva e chiamò Mussolini a Roma, incaricandolo di creare e
guidare un nuovo governo di coalizione.
Sin dalla sua comparsa, storici, commentatori e intellettuali italiani e stranieri si sono interrogati
sulla natura e sulle ragioni dell’emergere e dell’affermarsi del fenomeno fascista. Numerose erano
le domande che tali osservatori si ponevano: si tratta di un fenomeno politico nuovo? O è da
mettere in relazione alla tradizione politica del paese, al nostro carattere, ai nostri costumi? Tra gli
intellettuali che durante il regime fascista o successivamente durante l'età repubblicana si sono
interessati a questo argomento va ricordato Gobetti.
Piero Gobetti ( 1901- 1926) è stato un giornalista, politico, erede della tradizione post-illuminista e
liberale, che aveva guidato l'Italia dal Risorgimento fino all'avvento del Fascismo. Fondò e diresse
le riviste Energie nove, La Rivoluzione Liberale e Il Baretti, dando fondamentali contributi alla vita
politica e culturale, prima che le sue condizioni di salute, aggravate dalle violenze fasciste, ne
provocassero la morte prematura a 25 anni nell'esilio francese.
A differenza di Croce, il giovane Piero Gobetti non esitò a definire, con espressione efficace, il
fascismo come «autobiografia di una nazione», richiamando l'attenzione sul fatto che il governo di
Mussolini era più che politica ordinaria, era in verità l'espressione di «certi difetti sostanziali» degli
italiani, un popolo che «rinuncia[va] per pigrizia alla lotta politica309», non sacrificandosi per
difendere la libertà. In pratica il fascismo veniva visto come l'espressione delle profonde carenze di
senso civile degli italiani, di leopardiana memoria. In particolare l'espressione «autobiografia di una
nazione» comparve nel breve saggio Elogio della ghigliottina, contenuto nella rivista La
rivoluzione liberale del 23 novembre 1922:
[…] Ma di certi difetti sostanziali anche in un popolo "nipote" di Machiavelli non
sapremmo capacitarci, se venisse l'ora dei conti. Il fascismo in Italia è
un'indicazione di infanzia perché segna il trionfo della facilità, della fiducia,
[dell'ottimismo,] dell'entusiasmo. Si può ragionare del ministero Mussolini come di
un fatto d'ordinaria amministrazione. Ma il fascismo è stato qualcosa di più; è stato
l'autobiografia della nazione. Una nazione che crede alla collaborazione delle
309 GOBETTI P., La rivoluzione liberale. Saggio sulla lotta politica in Italia, Bologna, Cappelli, 1924 115
classi, che rinuncia per pigrizia alla lotta politica, [è una nazione che vale poco]
dovrebbe essere guardata e guidata con qualche precauzione310.
A tal proposito, Corrado Augias ha visto il fascismo come uno dei tanti momenti della storia
italiana nel quale è apparsa in tutta la sua evidenza la ricorrente propensione degli italiani a
spogliarsi delle libertà civili, esempio quindi di scarso civismo. La sostanziale passività311 degli
italiani e un carente spirito civico hanno fatto sì che «una maggioranza relativa di cittadini, stanchi
del peso e dagli affanni della cosa pubblica, abbia voluto caricare l'intero fardello sulle spalle di un
solo uomo visto come un inviato dalla Provvidenza.312»
A dimostrazione della fragilità politica e civile degli italiani si ricordino anche gli avvenimenti che
seguirono dopo l'assassinio, nell'estate del 1924, del deputato socialista Giacomo Matteotti. É in
quel momento che Mussolini rischia la massima impopolarità (lo stesso dittatore temeva che il suo
governo potesse cadere), eppure non ci fu nessun capovolgimento. Vittorio Emanuele III chiese un
segnale del Parlamento, una domanda d'intervento rivolta a Mussolini per via parlamentare, un
gesto da cui avrebbe potuto nascere un ribaltamento della situazione. Invece, malgrado la
disapprovazione di Giolitti e una indignazione evidente nel paese, gli oppositori del fascismo
restarono sull'Aventino e l'appello del re non trovò risposta.
Il 10 giugno 1940 l'Italia fascista entra in guerra al fianco della Germania nazista di Hitler: una
serie disastrosa di sconfitte militari, ma soprattutto lo sbarco alleato in Sicilia determinò il 25 luglio
del 1943 le forzate dimissioni di Mussolini e la fine del ventennio fascista. Dopo la liberazione del
Duce grazie a un blitz dei tedeschi sul Gran Sasso (12 settembre 1943), e la costituzione della
Repubblica Sociale italiana (RSI) nel nord-Italia con l'aiuto dei nazisti, in Italia l'opposizione alla
stessa RSI, nata per volere del nazismo, e all'occupazione nazista si organizzò nella guerriglia
partigiana. In un clima pieno di incertezze sul proprio futuro, «fu allora che la Resistenza armata
contro i nazisti e i loro alleati fascisti finalmente cominciò313», segnando sia il risveglio democratico
della nazione italiana sia il risveglio del senso civico per la collettività.
Sebbene la Resistenza costituisca uno dei più importanti momenti storici italiani nel quale vanno
infatti individuate le origini stesse della Repubblica Italiana (l'Assemblea Costituente fu in massima
parte composta da esponenti dei partiti che avevano dato vita al CLN, i quali scrissero la
Costituzione fondandola sulla sintesi tra le rispettive tradizioni politiche ed ispirandola ai principi
della democrazia e dell'antifascismo), purtroppo non determinò una radicale maturazione della
310 Traggo la citazione da P. GOBETTI, Scritti storici, letterari e filosofici, a cura di P. Spriano, Torino, Einaudi, 1969 311AUGIAS C., Il disagio della libertà, op. cit., pag 35312ibidem313PATRIARCA S., Italianità. La costruzione del carattere nazionale, op. cit., pag 58
116
coscienza civica del paese, non riuscì a curare del tutto il male che lo affliggeva fin dalla Unità
d'Italia, e che lo attanaglia ancora oggi pur con le ovvie differenze di tempo314.
L'Italia post-bellica davanti al mondo si proclamò sì costruita sui valori della Resistenza, ma vi
furono molti problemi: innanzitutto i valori della Resistenza appartenevano quasi esclusivamente al
nord-Italia; la dimostrazione forse più spettacolare della limitata risonanza dei valori della
Resistenza (e anche la frattura Nord- Sud sempre più evidente) si ebbe poi sulla questione della
monarchia o repubblica, e la vittoria di quest'ultima per pochissimi voti; un altro rilevatore
dell'abisso esistente tra la Resistenza e la realtà italiana post-bellica è il fatto che il nuovo stato
italiano esibiva un notevolissimo grado di continuità con il fascismo (assenza di epurazione); e
infine «il colpo più duro inferto alla speranza che i valori della Resistenza potessero fornire la base
di un convinto, condiviso senso nazionale venne dalla rottura della coalizione antifascista seguita
all'inizio della Guerra Fredda.»315 Il fronte antifascista fu infatti spezzato, un evento che fissò la
cornice entro la quale si sarebbe svolta la lotta politica in Italia nei successivi 45 anni (Democrazia
Cristiana e Partito comunista italiano): i valori della Resistenza «persero così qualunque residua
capacità di fornire una limpida piattaforma etica nella nuova Italia»316. La divisione tra i due
schieramenti principali sembra aver avvelenato la vita degli italiani per anni, spingendoli spesso ai
soliti atteggiamenti cinici ed individualisti che vediamo ancora oggi. I due partiti politici dominanti
puntarono inoltre a «mobilitare gli italiani ammantando i loro movimenti nell'ethos di sistemi
fideistici che incoraggiavano alla vittoria totale sugli avversari piuttosto che al dialogo»317 ed a una
etica condivisa. Sembra quasi che gli italiani «alla lunga non siano stati capaci di reggere la
straordinaria tensione di quelli anni di rinascita318», e di energia civile.
Alla fine della seconda guerra mondiale inoltre il Fascismo non era caduto nel discredito generale,
malgrado la devastazione che aveva prodotto. Sicuramente il Fascismo nella storia italiana è stato
un fenomeno tutt'altro che marginale, e Pier Giorgio Zunino in Interpretazioni e memoria del
314La Resistenza fu un movimento complesso e multiforme, la cui interpretazione ha suscitato un vivace dibattito tra gli storici. Tra le tante opinioni, va ricordata la linea minoritaria (che parte dalle idee di Renzo de Felice) che sostiene il concetto di «zona grigia», ridimensionando il valore del movimento partigiano. In sintesi: la grande massa degli italiani non prese una chiara posizione per la Resistenza, ma nemmeno per la Repubblica Sociale Italiana; si formò una grande zona grigia, impossibile a classificarsi socialmente, espressa trasversalmente da tutti i ceti sociali. Questa ipotesi evidenzia quindi che in Italia vi fu sia una guerra civile tra due minoranze e non una guerra collettiva di popolo; sia la presenza di una scarsa coscienza civile poiché la maggior parte degli italiani senza un sussulto di dignità o di amor proprio, preferì astenersi dal combattere i fascisti nel momento cruciale della guerra. L'espressione «zona grigia» venne utilizzata per la prima volta da Primo Levi in I sommersi e i salvati per indicare una realtà «dai contorni mal definiti, che insieme separa e congiunge i due campi dei padroni e dei servi»; a popolarla, è «la classe ibrida dei prigionieri - funzionari [ che] costituisce l'ossatura del Lager, e insieme il [suo] lineamento più inquietante» . DE FELICE R., Rosso e nero, Milano, Baldini & Castoldi, 1995; P. LEVI, I sommersi e i salvati,in M. Belpoliti (a cura di),Opere, vol.II,Einaudi, Torino 1997,p. 1022315AUGIAS C., Il disagio della libertà, cit., pag 52316C. DUGGAN La forza del destino. Storia d'Italia dal 1796 a oggi, op, cit. pag 623317Ivi, pag 679.318ZUNINO P.G., Interpretazioni e memoria del Fascismo: gli anni del regime, Laterza, 2001, pag. 57-61
117
Fascismo ha avvalorato recentemente la tesi che l'eredità del ventennio fascista è tutt'altro che
assente nella mentalità italiana:
Questi aspetti ci suggeriscono di considerare il fascismo – sulla scorta di
Giustino Fortunato -come rivelazione di mali e contraddizioni precedenti ma al
tempo stesso un crogiuolo, incubazione di istituzioni e culture che non
scompaiono con esso. Per quanto traumatici siano i crolli dei regimi autoritari – e
quello del fascismo certo lo fu – non lasciano il vuoto, la tabula rasa. Non
possono dissolversi come neve al sole quegli abiti mentali, quelle assuefazioni
alla sopraffazione, quel considerarsi al di sopra delle norme o non riparati da
esse che sono il primo portato delle dittature319
Non è un caso che lo stesso Palmiro Togliatti, politico antifascista e storico leader del Partito
Comunista, ritenesse nel giugno del 1944, a quasi un anno di distanza dalla fine ufficiale del
regime, il fascismo «una cosa troppo seria [...] perché si possa pensare di potersene liberare con un
volger di mano»320. Anche Carlo Dionisotti, illustre critico letterario e saggista, insisteva in un suo
articolo del giugno 1945 nella necessità di «rifare gli italiani e l'Italia insieme con un secondo
Risorgimento che gradualmente investa, sommuova l'intera nazione321». Il secondo Risorgimento gli
appariva un'opera appena avviata e ben lungi dall'essere compiuta con la Resistenza, come la
retorica avrebbe invece proclamato.
In conclusione le contraddizioni dello stato liberale fin dall'unità d'Italia, ma soprattutto la forte
eredità del fascismo (dura da estirpare come ricorda Zunino), e una imperfetta rigenerazione morale
e civica degli italiani con la Resistenza hanno fatto sì che l'era repubblicana fosse segnata fin dalla
nascita da gran parte degli storici problemi denunciati nel Discorso: mancanza di senso civico,
debole legalità, scarso rispetto per tutto ciò che è collettivo, sfiducia nello stato e nelle sue
istituzioni.
L'incapacità della stato dopo il 1860 di instaurare un'etica pubblica sovraordinata agli interessi
privati o di partito322 ha fatto sì che il paese si trovi tuttora paradossalmente davanti alla medesima
sfida di fondo individuata più di un secolo e mezzo fa prima da Mazzini, D' Azeglio e molte altre
menti brillanti del Risorgimento tra cui Leopardi, ossia il problema di instillare, nell'epoca della 319CRAINZ G., Autobiografia di una repubblica. Le radici dell'Italia attuale, cit., pag.29320Ivi, pag. 29321DIONISOTTI C, Scritti sul fascismo e sulla Resistenza, a cura di G. Panizza, Einaudi, Torino 2008, pag. 128322Secondo C. GALLI il rapporto tra l'Italia e le sue élite non è mai stato completamente risolto. I ceti dirigenti del paese hanno svolto solo raramente, e in periodi eccezionali, il compito di aggregare la società. Galli rovescia il luogo comune secondo cui la società detta civile sarebbe di gran lunga migliore di quella politica, detta anche casta: i due strati della società, ammesso che siano nettamente distinguibili, si riflettono invece uno nell'altro in uno specchio che deforma la reciproca immagine. C. GALLI, La classe dirigente liberale dall'Unità al fascismo; in Le culture politiche in Italia dal Risorgimento alla Costituzione repubblicana, Convegni del 150° dell'Unità d'Italia, Bologna 9 giugno 2011, BUP 2011, pp. 47-58 .
118
sovranità popolare, una coscienza civica e nazionale in una società che per secoli era stata
incoraggiata a guardare all'autorità come a una entità remota e sottratta a ogni controllo, e a
ubbidirle anche quando questa autorità era palesemente corrotta, incompetente e perfino ridicola.
Francesco De Sanctis, anch'egli tormentato dal problema di come infondere negli italiani una nuova
moralità aveva analizzato l'antica e radicata malattia italiana in termini di un inveterata tendenza da
parte dei suoi compatrioti a preferire il cinismo quietista e imbelle di Guicciardini all'acuminato
scandaglio morale e alla fattiva indignazione di Machiavelli.
Le riflessioni di Leopardi nel Discorso, tipica esercitazione allora frequente in cui si cerca di
descrivere il carattere e la mentalità delle nazioni e dei popoli, raggiungono una tale profondità da
essere ancora attuali, anche se, come è ovvio, le trasformazioni avvenute in Italia sono state
numerose in un arco temporale esteso. Giù nel profondo della società italiana gran parte è rimasto
come il poeta recanatese denunciava.
Si ha l'impressione che avesse ragione Benedetto Croce, quando si chiedeva in cosa consistesse il
carattere di un popolo:
La sua storia, tutta la sua storia, nient'altro che la sua storia323.
Naturalmente la formula perentoria lascia aperti i problemi: che cosa è la storia? che cosa si intende
per popolo? Ma risponde in modo soddisfacente allo scopo di negare che esista una essenza dei
popoli separata dagli accidenti che ne formano la vita e che tale essenza si possa isolare come una
figura storico-culturale indebitamente estrapolata e generalizzata.
323B. CROCE, Teoria e storia della storiografia, Bari 1973 (1 edizione Napoli 1917), pag. 325119
Conclusioni
Tra il 1924 e il 1925 Walter Benjamin (1892 – 1940), illustre filosofo e critico letterario, pubblica
un saggio sulle Affinità elettive di Goethe che resta, tra tutti i suoi lavori, uno dei più impegnativi e
suggestivi. Il testo si apre con una riflessione di ordine metodologico che si concentra in particolare
sulla distinzione tra due modi di avvicinamento all’opera letteraria, la critica e il commento. Scrive
Benjamin che «la critica cerca il contenuto di verità di un’opera d’arte, il commentario il suo
contenuto reale»324. In pratica si sostiene che un testo contiene sempre una doppia prospettiva, una
sorta di dicotomia complementare, definita dal contenuto fattuale e dal contenuto di verità. Un testo
letterario per Benjamin deve essere prima analizzato nella sua storicità, nella sua genesi, nelle sue
tematiche, si tratta insomma di mettere a fuoco il contenuto fattuale, mentre le ragioni che lo
rendono ancora vivo nel presente è il suo contenuto di verità325.
Nella stesura del mio lavoro di tesi ho provato ad applicare la prospettiva benjamiana al Discorso
sopra lo stato presente dei costumi degl'italiani di Leopardi. Veniamo al contenuto fattuale.
All'inizio della mio lavoro mi ero prefissato come obiettivo principale di analizzare alcuni degli
aspetti più interessanti del Discorso, in particolare cercando di mettere in luce il valore e la
ricchezza dell'opera, troppo spesso trascurata dalla critica a vantaggio dei Canti e delle Operette
morali. Nonostante gli studi degli ultimi anni (una singolare fortuna editoriale tra la fine degli anni
ottanta e gli inizi della decade successiva) alcune questioni relative al Discorso sono rimaste aperte.
Una prima questione interessante che ho trattato riguarda l'arretratezza della società italiana durante
gli anni della Restaurazione. L'assenza di società stretta (intesa da Leopardi come una élite
socioeconomica di borghesi e nobili), viene vista come un grave difetto che non permette l'ingresso
dell'Italia nel novero delle società più moderne d'Europa. Tale assenza permette di analizzare le
cause del ritardo della borghesia in Italia in quel periodo. L'opera leopardiana costituisce quindi un
documento storico preziosissimo su questo argomento.
324W. BENJAMIN, «Le affinità elettive» di Goethe, in Il concetto di critica nel romanticismo tedesco. Scritti 1919-1922, tr. it. Torino, Einaudi, 1982, p. 179. 325Benjamin utilizza due immagini molto suggestive. La prima immagine evocata è quella del paleografo e della pergamena: «Si può paragonare il critico al paleografo davanti a una pergamena il cui testo sbiadito è ricoperto dai segni di una scrittura più forte che si riferisce ad esso. Come il paleografo deve cominciare dalla lettura di quest’ultima, così il primo atto del critico ha da essere il commento». Dei due testi che il decifratore si trova a prendere in esame, il più importante sembra essere quello sbiadito (corrispondente al contenuto di verità dell’opera); la lettura comincia da quello più forte (immagine del contenuto reale) solo per ragioni tecniche, e perché esso si riferisce all’altro, ne parla sovrapponendovisi e contribuendo forse a renderlo illeggibile. La seconda immagine è quella del fuooco e della cenere:«Se si vuol concepire, con una metafora, l’opera in sviluppo nella storia come un rogo, il commentatore gli sta davanti come il chimico, il critico come l’alchimista. Se per il primo legno e cenere sono i soli oggetti della sua analisi, per l’altro solo la fiamma custodisce un segreto, quello della vita. Così il critico cerca la verità la cui fiamma vivente continua ad ardere sui ceppi pesanti del passato e sulla cenere lieve del vissuto». Le due citazioni sono tratte da «Le affinità elettive» di Goethe, cit., p. 179-180. Sull’uso della metafora in Benjamin, da un punto di vista letterario, si veda il libro di B. MORONCINI, Walter Benjamin e la moralità del moderno, Napoli, Guida, 1984.
120
Per quanto riguarda l'analisi filosofica all'interno del Discorso, il profilo emerso è molto
interessante: nel 1824, a 26 anni, Leopardi, avendo già compiuto lo svolgimento fondamentale del
suo pensiero, sebbene in seguito seguissero deduzioni e corollari, sistemava le sue idee nelle
Operette Morali e nel coevo Discorso, per dare vita in forma d'arte ai nuclei centrali del suo credo
intellettuale e morale derivato dalla sua esperienza personale e dalle sue letture. Dallo studio
dell'opera in particolare emergono i continui richiami alla cultura filosofica francese, da poco tempo
passata e diffusa in Europa grazie soprattutto all'ideologia rivoluzionaria e alle armi napoleoniche.
Il quadro sociale e filosofico che esce dal Discorso costituisce quindi un'esperienza unica nella
storia della riflessione leopardiana. Nel senso, cioè, che i suoi riferimenti possono trovare al
massimo dei riscontri all'interno dello Zibaldone, e però mai con la stessa omogeneità.
Nel Discorso, ricco di riflessioni e di penetrazione storico-psicologica, compare anche
l'apprezzamento di Leopardi per quattro intellettuali italiani che hanno trattato dei costumi degli
italiani nei loro scritti (Baretti, Gozzi, Parini, Goldoni). Nelle prima parte della tesi mi sono
occupato di questo aspetto, perché vi era una mancanza totale di ricerca approfondita su questo
argomento. Citando questi letterati italiani, come si è visto, Leopardi vuole evidenziare ed esaltare
la funzione civile dell'intellettuale, e di conseguenza far notare il contrasto con la restante
negligente Italia del tempo. Per completare il quadro completo di tutti i letterati citati nel Discorso,
mi sono occupato anche del rapporto tra Leopardi e i due scrittori francesi, Madame de Staël e
Chateaubriand. Leopardi considera, svolge e assimila pensieri ricavati dalla Staël per la
composizione del Discorso, ma si muove su un piano completamente autonomo e originale; mentre
studiare la denuncia di Leopardi contro Chateaubriand mi ha permesso di approfondire questioni
rilevanti come la condanna leopardiana di ogni forma di religione (e del Cristianesimo), e in
particolare del Medioevo. Infine, sfruttando la lunga digressione di filosofia della storia che
Leopardi compie nel Discorso, ho ricostruito il complesso concetto di evoluzione storica dell'uomo
per Leopardi, che parte dallo stato di natura ed arriva fino ai tempi moderni; una utile sintesi per
ogni lettore che vorrà accingersi a leggere per la prima volta l'opera e i passi connessi con lo
Zibaldone.
Veniamo alla seconda parte della tesi e al contenuto di verità. La posterità è solo presunzione di
lontananza, se il quadro antropologico non muta. Dall'altra parte, «ogni epoca interroga il passato
con la richiesta di una risposta utile al presente, o in ogni caso consonante con lo spirito del
tempo326». Centonovanta anni ci separano da quel marzo 1824 in cui Giacomo Leopardi, non ancora
ventiseienne, scrisse il Discorso: poche decine di pagine rimaste sepolte tra le carte e date alle
stampe tardivamente, nel 1906. Le conclusioni che Leopardi trae dall'esame dei costumi degli
italiani sono chiare. Indica l'individualismo, il cinismo e l'ipocrisia delle classi colte, come del
326W. BARBERIS, Il bisogno di patria, Torino, Einaudi, 2004, p. 4121
popolo, i caratteri costitutivi del popolo italiano e attribuisce alla mancanza di una salda società la
ragione di un simile stato. Analizzando gli aspetti della società moderna italiana, e rievocando le
vicende che hanno caratterizzato la storia italiana dei due secoli che conducono fino ai giorni nostri,
emerge che l'individualismo e il cinismo non sembrano essersi modificati, anzi per molti aspetti si
sono ulteriormente aggravati. Molte cose sono cambiate in Italia dai tempi di Leopardi, ma che
queste caratteristiche antropologiche, nonostante le profonde trasformazioni sociali ed economiche
accadute nel frattempo, siano ancora largamente diffuse, sia pure in modo non omogeneo, nelle
diversi classi della società e nelle diverse regioni del paese, è ben visibile, quando soprattutto si
facciano confronti con altri paesi civili.
Come ha evidenziato Carlo Tullio-Altan, spesso «una forma storica di mentalità non nasce dal
nulla, ma si delinea e si consolida, in un certo equilibrio storico […], e ciò non toglie che, una volta
che essa si sia costituita, tale mentalità, come in genere i fatti di cultura, persista ben oltre alle
condizioni originali che l'hanno prodotta, agendo a sua volta profondamente sulla realtà327».
Dalla analisi sembra inoltre che le classi dirigenti italiane abbiano combattuto molto poco quei
caratteri costitutivi dei nostri costumi che già indicava il grande poeta di Recanati e che cinismo,
furberia, ipocrisia, assenza di una coscienza civile abbiano attraversato il periodo liberale, quello
fascista e tutto quello repubblicano senza sostanziali progressi. La mancanza fondamentale
dell’Italia attuale sembra essere ancora una salda dimensione collettiva. Noi, posteri, siamo presi da
vertigine, perché quell’assenza di spirito pubblico che colpiva Leopardi, e si perpetuava nei primi
decenni dell’Italia unita, è la stessa che ipoteca il nostro presente. Quando ci lamentiamo della
mancanza nel nostro paese del senso civico, della coesione e dell'orgoglio nazionale, non possiamo
non pensare quindi a Leopardi, non solo come grande poeta, prosatore e filosofo, ma anche acuto
osservatore dei nostri costumi, in realtà uno dei pochi che abbiamo avuto dal Rinascimento ad oggi.
Nonostante l'individualismo, il cinismo, l'arretratezza socio-culturale italiana sotto molti aspetti,
non posso tuttavia non citare le parole di Leopardi quando afferma nel Discorso di essere
ben lontano dall’immaginarmi un mondo diverso e
più bello del nostro ne' paesi remoti da’ miei occhi328.
É anche il mio pensiero finale nel congedare questo mio lavoro di tesi.
327C. T. ALTAN, La nostra Italia, Arretratezza socioculturale clientelismo, trasformismo e ribellismo dall'Unità ad oggi, op. cit., pag 14328Discorso, pag. 70.
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