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LE DISABILITA’ DEL MINORE NEL CONTESTO SCOLASTICO: DEFINIZIONE E ANALISI DEL FENOMENO E DELLE RETI DI SOSTEGNO. INDAGINE CONOSCITIVA DELLA FIGURA DELL’AEC (Sperati, 2013) Per ulteriori informazioni: www.alessiosperati.it Email: [email protected] ANALISI DEI PRINCIPALI DISTURBI IN ETA’ EVOLUTIVA NEL CONTESTO SCOLASTICO In questo capitolo verranno dapprima inquadrati i principali disturbi in età evolutiva che maggiormente risultano inferire nel contesto scolastico, facendo riferimento ai Disturbi dell’Apprendimento e Disturbi del Comportamento e successivamente saranno analizzate due specifiche disabilità come la Dislessia ed il Deficit dell’Attenzione ed Iperattività per i quali, le attuali norme cogenti riconoscono all’alunno il diritto ad una didattica flessibile e tutorata da figure di sostegno e supporto. Dei due disturbi vengono analizzati tutti gli aspetti clinici comprendendo in questi anche i fattori di comorbilità con altre disabilità concorrenti. 1. Disturbo Specifico dell’Apprendimento Il termine Disturbo Specifico di Apprendimento (DSA) si utilizza per indicare una popolazione clinica, relativamente disomogenea, che presenta una difficoltà significativa e persistente negli apprendimenti cosiddetti espliciti e per l’apprendimento scolastico di base (lettura, scrittura e calcolo), in assenza di altre patologie (neurologiche, psichiatriche o sensoriali) ed in presenza di adeguate opportunità di apprendimento (Stella, 2002). Con il termine DSA ci si riferisce ad un gruppo eterogeneo di disturbi manifestati da significative difficoltà nell’acquisizione e nell’uso di abilità di ascolto, espressione orale, lettura, ragionamento e matematica, presumibilmente dovuti a disfunzioni del sistema nervoso centrale. Con i DSA possono coesistere difficoltà nei comportamenti di autoregolazione, nella percezione sociale e nell’interazione sociale, che tuttavia non costituiscono un DSA. Essi possono verificarsi in concomitanza con altri fattori di disabilità con influenze estrinseche, ma non sono il risultato di quelle condizioni o influenze (Hammil, 1990). La categoria raccoglie una gamma diversificata di problematiche nello sviluppo cognitivo e nell’apprendimento scolastico che non rappresentano disabilità mentali gravi e definibili in base al mancato raggiungimento di criteri attesi di apprendimento rispetto alle potenzialità generali del soggetto (Cornoldi, 1991).

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SOSTEGNO. INDAGINE CONOSCITIVA DELLA FIGURA DELL’AEC (Sperati, 2013)

Per ulteriori informazioni: www.alessiosperati.it Email: [email protected]

ANALISI DEI PRINCIPALI DISTURBI IN ETA’ EVOLUTIVA NEL CONTESTO

SCOLASTICO

In questo capitolo verranno dapprima inquadrati i principali disturbi in età evolutiva che

maggiormente risultano inferire nel contesto scolastico, facendo riferimento ai Disturbi

dell’Apprendimento e Disturbi del Comportamento e successivamente saranno analizzate due

specifiche disabilità come la Dislessia ed il Deficit dell’Attenzione ed Iperattività per i quali, le attuali

norme cogenti riconoscono all’alunno il diritto ad una didattica flessibile e tutorata da figure di

sostegno e supporto.

Dei due disturbi vengono analizzati tutti gli aspetti clinici comprendendo in questi anche i

fattori di comorbilità con altre disabilità concorrenti.

1. Disturbo Specifico dell’Apprendimento

Il termine Disturbo Specifico di Apprendimento (DSA) si utilizza per indicare una

popolazione clinica, relativamente disomogenea, che presenta una difficoltà significativa e persistente

negli apprendimenti cosiddetti espliciti e per l’apprendimento scolastico di base (lettura, scrittura e

calcolo), in assenza di altre patologie (neurologiche, psichiatriche o sensoriali) ed in presenza di

adeguate opportunità di apprendimento (Stella, 2002).

Con il termine DSA ci si riferisce ad un gruppo eterogeneo di disturbi manifestati da

significative difficoltà nell’acquisizione e nell’uso di abilità di ascolto, espressione orale, lettura,

ragionamento e matematica, presumibilmente dovuti a disfunzioni del sistema nervoso centrale. Con

i DSA possono coesistere difficoltà nei comportamenti di autoregolazione, nella percezione sociale e

nell’interazione sociale, che tuttavia non costituiscono un DSA. Essi possono verificarsi in

concomitanza con altri fattori di disabilità con influenze estrinseche, ma non sono il risultato di quelle

condizioni o influenze (Hammil, 1990).

La categoria raccoglie una gamma diversificata di problematiche nello sviluppo cognitivo e

nell’apprendimento scolastico che non rappresentano disabilità mentali gravi e definibili in base al

mancato raggiungimento di criteri attesi di apprendimento rispetto alle potenzialità generali del

soggetto (Cornoldi, 1991).

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Grazie all’elaborazione di manuali diagnostici quali il DSM e l’ICD-10 è stato possibile

descrivere le difficoltà di apprendimento in età evolutiva in disturbi specifici dell'apprendimento

(DSA) e disturbi non specifici di apprendimento (DNSA). Grazie ad essi si può finalmente porre

un’accurata diagnosi di Disturbo Specifico di Apprendimento solo quando, a test standardizzati di

lettura, scrittura e calcolo, il livello di una o più di queste tre competenze risulta di almeno due

deviazioni standard inferiore ai risultati medi prevedibili, oppure l’età di lettura e/o di scrittura e/o di

calcolo è inferiore di almeno due anni in rapporto all’età cronologica del soggetto, e/o all’età mentale,

misurata con test psicometrici standardizzati, nonostante una adeguata scolarizzazione. Tali disturbi

(denominati dislessia, disortografia e disgrafia, discalculia) sono sottesi da specifiche disfunzioni

neuropsicologiche, isolate o combinate. Nel DSM-IV sono inquadrati nell'Asse I come Disturbi della

Lettura, dell'Espressione Scritta e del Calcolo (DSM-IV, 1994).

Nell'ICD-10 vengono inseriti all'interno dei disturbi dello Sviluppo Psicologico con il termine

di Disturbi Specifici delle Abilità Scolastiche (DS di Lettura, di Compitazione, delle Abilità

Aritmetiche e DS misto). I disturbi non specifici di apprendimento, invece, si riferiscono ad una

disabilità ad acquisire nuove conoscenze e competenze non limitata ad uno o più settori specifici delle

competenze scolastiche, ma estesa a più settori.

Nel DSM-IV viene inoltre sottolineato che altre patologie quali il ritardo mentale, il livello

cognitivo borderline, l'ADHD, l'autismo ad alto funzionamento, i disturbi d'ansia, alcuni quadri

distimici, sono alcune tra le categorie o entità diagnostiche che causano o possono causare disturbi

non specifici dell'apprendimento. Sia il DSM-IV che l'ICD-10 prevedono anche una categoria

diagnostica denominata disturbo di apprendimento non altrimenti specificato, ovvero una categoria

residua del capitolo dei disturbi specifici di apprendimento.

Fondamentale per tale motivo risulta, prima di includere il disturbo di un bambino in questa

categoria diagnostica, escludere la presenza di una eziologia tra quelle antecedentemente citate, le

quali possono incidere negativamente sull’apprendimento e che possa di per sé giustificare il quadro

clinico.

I problemi di apprendimento, per le ragioni esplicate, condizionano la vita del bambino

disabile, incidendo negativamente sui risultati ed il percorso scolastico e relativo alle attività

quotidiane che richiedono, in particolar modo, capacità di lettura, calcolo e scrittura. Possono essere

utilizzati differenti metodi statistici per stabilire se un divario risulta significativo. Usualmente viene

definito sostanzialmente inferiore un divario minore tra i risultati ed il QI, specie nei casi in cui la

prestazione del soggetto nel test può essere stata compromessa da un disturbo associato

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dell’elaborazione cognitiva, da un disturbo mentale o da una condizione medica generale

concomitanti o dal retroterra etnico o culturale del soggetto. Nel caso in cui vi fosse un deficit

sensoriale, le difficoltà di apprendimento devono andare al di là di quelle di solito associate al deficit.

Per capire in maniera accurata l’incidenza che questa problematica causa nella vita delle

persone, basti pensare che i Disturbi dell’Apprendimento possono persistere nell’età adulta (DSM-

IV, 1994, 64). Tutto ciò sfata la nota e diffusa considerazione, che vigeva fino al decennio precedente,

secondo cui le difficoltà di letto-scrittura dei bambini derivano da problemi emotivi o relazionali, da

un approccio sbagliato di genitori o insegnanti, oppure da uno scarso impegno del bambino (Ibidem).

Per capire l’evoluzione dello studio e dell’analisi dei DSA, dopo aver presentato gli studi del

secolo scorso, vediamo come, in particolar modo nel contesto italiano, la sensibilità sia aumentata in

maniera proporzionale anche al livello di interesse e di analisi del fenomeno preso in esame.

Nel gennaio 2007, in un articolo redatto dalla Consensus Conference, vengono rese note le

“Raccomandazioni per la pratica clinica sui Disturbi Specifici dell’Apprendimento” (Consensus

Conference, AID, 2007), promossa dall’Associazione Italiana Dislessia (AID), grazie alla

collaborazione di professionisti e dei rappresentanti delle principali organizzazioni che si occupano

di questi disturbi (neuropsichiatri infantili, psicologi, logopedisti, pediatri, ecc.).

Esse sono state inoltre aggiornate nel febbraio del 2011 grazie al lavoro del Panel di

Aggiornamento e Revisione della Consensus Conference (PARCC), la quale ha fatto richiesta di

approvazione al Sistema Nazionale delle Linee Guida (DSA Documento d’intesa, PARCC, 2011).

Le raccomandazioni per la pratica clinica sui Disturbi Specifici dell’Apprendimento

prevedono che la principale caratteristica di definizione di questa “categoria nosografia”, è quella

della “specificità”, intesa come un disturbo che interessa uno specifico dominio di abilità in modo

significativo ma circoscritto, lasciando intatto il funzionamento intellettivo generale (Consensus

Conference, AID, 2007).

In questo senso, secondo le nuove raccomandazione proposto dalla Consensus Conference, il

principale criterio necessario per stabilire la diagnosi di DSA è quello della “discrepanza” tra abilità

nel dominio specifico interessato (deficitaria in rapporto alle attese per l’età e/o la classe frequentata)

e l’intelligenza generale (adeguata per l’età cronologica).

Lentamente lo studio dei DSA si è orientato, come per tutti i disturbi di sviluppo, secondo due

linee di ricerca: da un lato attraverso l’analisi trasversale di ampie popolazioni in modo tale da definire

in modo più preciso le caratteristiche neuropsicologiche del disturbo e l’esistenza di eventuali

sottogruppo clinici; dall’altro studi longitudinali di casi singoli o casistiche, analizzando l’evoluzione

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del disturbo settoriale e sulla sua influenza sullo sviluppo complessivo del bambino (DSA Documento

d’intesa, PARCC, 2011).

Considerato che un disturbo di apprendimento rappresenta un avvenimento vitale per un

bambino o un adolescente e anche per la sua famiglia, il disturbo specifico dell’apprendimento

diviene in grado di innescare reazione psicologiche che possono ulteriormente accentuare il disturbo

stesso, poiché sono in grado di interferire con il trattamento educativo stesso, possono ostacolare la

qualità del successivo andamento e possono rappresentare un fattore di rischio psicopatologico.

Per tale motivo si pone una particolare attenzione all’intreccio degli aspetti emotivi e cognitivi

che rappresentano spesso il cardine di ogni intervento riabilitativo (Masi et al., 1993).

Per ottenere un’adeguata analisi dei DSA, alla luce del percorso intrapreso, ritengo opportuno

avere un approccio di tipo psicopatologico, avvalendoci dei concetti espressi nel DSM-IV e nell’ICD-

10, poiché consentono una specifica analisi e definizione della struttura psicologica di un soggetto

con disturbi di apprendimento, in particolar modo della sua organizzazione funzionale e mentale.

Partendo dal presupposto che l’apprendimento viene considerato la funzione biologica per

eccellenza mentre l’intelligenza è la funzione di vertice della specie umana che sottintende tutte le

altre, dunque un malfunzionamento di queste aree ci obbliga a prendere in esame l’insieme dei

parametri che condizionano la vita mentale del bambino disabile (Stella, 2002).

La patologia è costituita da arresti e rallentamenti di sviluppo spesso precoci, o regressioni di

meccanismi amputanti o pervasivi. Si ottiene di conseguenza una distorsione primitiva o secondaria

dello sviluppo epistemico con riduzione dell’energia necessaria alla conoscenza.

In realtà la lettura e la scrittura sono così facili da acquisire che per un soggetto normodotato

ne risulta più difficile non imparare o resistere all’apprendimento piuttosto che appropriarsi di queste

abilità. Considerando che molti soggetti con deficit cognitivo di grado medio riescano ad imparare la

letto-scrittura, viene a confermarsi che l’acquisizione del codice scritto non richiede particolari

requisiti cognitivi (Ibidem).

In sintesi, la difficoltà a leggere e a scrivere è spesso indicativa della presenza di una difficoltà

specifica che riguarda determinati processi e abilità senza tuttavia includerne tutti gli ambiti del

funzionamento cognitivo.

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1.1. Tipi e classificazioni

Per garantire una corretta ed accurata analisi del fenomeno garantendo la classificazione dei

disturbi dell’apprendimento prenderemo in riferimento, in particolar modo, il DSM-IV e l’ICD10, in

quanto deputati allo studio minuzioso del disturbo da noi esaminato. Secondo tali manuali esistono

tre tipi principali di disturbi dell’apprendimento:

- il disturbo specifico di lettura;

- il disturbo specifico di scrittura;

- il disturbo specifico del calcolo (DSM-IV, 1994).

Il disturbo specifico di lettura (dislessia evolutiva), è caratterizzato dalle difficoltà del

bambino nel comprendere i suoni delle lettere e nel riconoscere le parole, con problemi di memoria

e di linguaggio. Il secondo disturbo è rappresentato dai disturbi specifici di scrittura caratterizzando

nel bambino problemi di disortografia e disgrafia. Infine presentiamo i disturbi specifici del calcolo,

ovvero la discalculia, caratterizzati dall’incapacità evolutiva di produzione o “disturbo di scrittura e

aritmetica”, la quali causano anche problematiche nel calcolo, nella scrittura e spesso nello spelling.

Dopo aver presentato sinteticamente la classificazione dei DSA passiamo ora ad approfondire

ciascuna delle diverse tipologie. Per quanto concerne l’esame del processo di scrittura si richiede la

valutazione delle componenti disortografiche e disgrafiche. Per la diagnosi di disortografia, connessa

con disturbi dell'area linguistica, vale la regola di una quantità di errori ortografici che difettano in

misura uguale o superiore alle due deviazioni standard rispetto ai risultati medi dei bambini che

frequentano la stessa classe scolare.

La disgrafia, invece, sembra essere conseguenza di disturbi di esecuzione motoria di ordine

disprassico quando non fa parte di un quadro spastico o atassico o extrapiramidale. Anche per i

disturbi di apprendimento della scrittura sono riconosciuti sottotipi correlati a fattori linguistici

(disortografia) e a fattori visuo-spaziali (disortografia, disgrafia) e, inoltre, viene delineata una forma

di difficoltà della scrittura dovuta a disturbi di esecuzione motoria, di ordine disprassico (disgrafia).

Il terzo tipo di disturbo è chiamato disturbo di deficit attentivo e comporta difficoltà di concentrazione

e di controllo dell’impulso.

La diagnosi di discalculia non può essere formulata prima della III elementare, anche se già

nel primo ciclo elementare possono essere rilevate discrepanze fra le capacità cognitive globali e

l'apprendimento del calcolo numerico (che comprende la numerazione bidirezionale, la transcodifica,

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il calcolo mentale, l'immagazzinamento dei fatti aritmetici, il calcolo scritto). La valutazione si

riferisce alla correttezza e soprattutto alla rapidità.

L'efficienza del problem solving matematico non concorre alla diagnosi di discalculia

evolutiva, ma appare correlato al livello delle competenze cognitive o al livello di competenza

linguistica. Per la discalculia sono individuati diversi tipi di disabilità che riguardano: la

processazione dei numeri, cioè il riconoscimento dei simboli numerici e la capacità di riprodurli

graficamente e organizzarli nello spazio, il sistema del calcolo con l’utilizzazione di procedure per

eseguire le operazioni matematiche, e la risoluzione dei problemi aritmetici che comporti l’analisi dei

dati e l’organizzazione del piano di lavoro.

Per avere un’idea dell’evoluzione degli studi effettuati nella seconda metà del secolo scorso,

con la conseguente visione del fenomeno presentiamo il lavoro di Boder che nel 1973, compie un

studio estensivo sugli errori di lettura in un gruppo di dislessici, arrivando a classificarli in tre distinte

categorie: disfonetici; diseidetici, misti. I disfonetici rappresentavano il 70% del campione,

presentando un pattern di errori compatibile con un deficit nella processazione fonologica. I

diseidetici, invece, manifestavano un pattern di errori di natura visiva. I misti, infine, evidenziavano

errori compatibili ad ambedue le categorie precedenti. L’autore conclude la sua indagine asserendo

che il gruppo dei misti rappresentava i casi più gravi assumendo peculiarità più enigmatiche rispetto

all’eziologia del disturbo (Boder, 1973).

Le principali differenze tra sottotipi, da cui sembrano derivare incongruenti associazioni,

dipendono dal fatto che mentre alcune classificazioni tra quelle derivate con metodi indiretti, cioè a

partire da modelli neuropsicologici, attribuiscono un nome al sottotipo in base alla funzione

“vicariante” (cioè il dominio cognitivo che in quel sottotipo è funzionalmente conservato), altre

classificazioni, tra cui quella di Boder (basata su un approccio diretto) utilizzano una tassonomia

descrittiva.

In questo secondo caso il sottotipo è denotato da un termine che indica il deficit

neuropsicologico o il dominio funzionale selettivamente colpito. Nonostante le differenze tuttavia

risulta evidente che, rispetto al fenotipo clinico, la maggior parte dei lavori individua due aree

funzionali coinvolte nel processo di lettura selettivamente colpite nei bambini dislessici,

grossolanamente corrispondenti a quelle che Boder chiama canale visivo e canale uditivo.

Attraverso l’approccio diretto è possibile ottenere una definizione operativa di dislessia come

un disturbo della lettura in cui le performance di lettura e scrittura mostrano l’esistenza di deficit

cognitivi nella funzione visivo-gestaltica, in quella uditivo analitica od in entrambe. Questa

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definizione, unitamente con i sottotipi identificati risulta compatibile con buona parte delle

descrizioni effettuate con il metodo indiretto: da ciò risulta evidente che la dislessia costituisca

un’entità nosologica definita da un pattern di deficit cognitivi specifici, le cui caratteristiche cliniche

dipendono da un equilibrio dinamico tra task cognitivi ascrivibili rispettivamente al canale visivo

gestaltico e uditivo-analitico.

Nella dislessia disfonetica è presente una disabilità fonologica connessa a volte con un

disturbo del linguaggio. Numerosi soggetti con dislessia di questo sottotipo presentano all’anamnesi

disturbi del linguaggio espressivo ed alcuni anche di quello recettivo, con evoluzione positiva per

quanto concerne l’eloquio per la maggior parte dei casi, ma persistenza di difficoltà di ordine

fonologico, morfologico e sintattico in merito all’apprendimento della lingua scritta.

I bambini con dislessia disfonetica mostrano difficoltà nell’analisi fonologica della parola e

nell’integrazione simbolo-suono (difficoltà a compitare foneticamente, a suddividere in suoni e

sillabe le parole); presentano errori di discriminazione uditiva, omissione-inversione-sostituzione di

lettere-sillabe, errori di analisi sequenziale uditiva.

Questi bambini leggono frettolosamente, tentano di leggere le parole utilizzando minimi

indizi, di solito dalla prima o dall’ultima sillaba, non si correggono quando sbagliano e pronunciano,

a volte, parole senza senso. Anche la scrittura risente di questa modalità di lettura. Gli errori più

frequenti sono: difficoltà nella corrispondenza grafema-fonema, inserimento od omissione di sillabe

e lettere, scambio di grafemi. Per la frequenza elevata di errori che compaiono immediatamente

all’inizio dell’apprendimento della lettura e scrittura, vengono solitamente individuati ed inviati ai

Servizi, molto tempo prima dei bambini dislessici diseidetici.

La dislessia diseidetica è sottesa da disturbi visuo-percettivi, cioè difficoltà nel riconoscere le

parole così come appaiono, nella memoria visiva di lettere e parole, nell’analisi sequenziale visiva; i

soggetti con questo sottotipo di dislessia compiono errori di tipo speculare, inversioni di lettere e

sillabe. Sono dei lettori lenti, ma accurati, tendono a sillabare tutte le parole come se le vedessero per

la prima volta. Nella scrittura sono accurati e gli errori ortografici sono comunque dei buoni

equivalenti fonetici. Possono però essere presenti inversioni di sillabe e lettere, inversioni visuo-

spaziali ed inversioni di lettere visivamente simili. Per queste caratteristiche di lettura e scrittura non

vengono segnalati precocemente dalle scuole. Ciò avviene, di solito, alla fine della quinta elementare

oppure in prima media, quando le richieste scolastiche diventano maggiori delle capacità del

bambino. La dislessia mista comprende l’associazione delle difficoltà uditive e visive.

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Per la misurazione di questi disturbi dell’apprendimento vengono utilizzati diversi tipi di test,

in modo tale da garantire una visione specifica della problematica e garantire una valutazione accurata

di un bambino per un possibile disturbo di lettura il quale potrebbe includere una valutazione delle

abilità di riconoscimento delle parole.

Quest’ultime sono, infatti di rilevanza fondamentale, in quanto rappresentano le basi per

comprendere il significato a partire dalla decifrazione ed è importante conoscere se le abilità in questa

area sono significativamente sotto la media (Stanovich, 1982). Una valutazione potrebbe includere

un test di lettura che preveda la lettura di quelle che sono chiamate non-parole. Esse sono

combinazioni pronunciabili di lettere Inglesi che possono essere suoni che non rispettano le regole

fonetiche fondamentali.

Questo tipo di test valuta la consapevolezza fonemica che è la chiave per decodificare parole

in un sistema alfabetico come l’Inglese (Stella, 2002). Si possono utilizzare inoltre test di spelling

con parole dettate al bambino, test di calcolo aritmetico per determinare cosa il bambino conosce

delle operazioni aritmetiche fondamentali. Questi test vanno ad analizzare le prestazioni comparate

all’età e non al livello del raggiungimento scolastico e se un bambino presenta un basso livello di

conseguimento ai test è appropriato considerale questo problema come disturbo d’apprendimento.

Può, tuttavia, risultare doveroso analizzare altre ragioni per le basse prestazioni dovute a diverse cause

come, per esempio, la presenza di gravi disturbi emotivi o problemi neurologici.

Per identificare la presenza di un disturbo dell’apprendimento ci si avvale anche dell’ausilio

de Il Test dell’Intelligenza (QI test) definito come la base del processo di valutazione nella definizione

dei DSA, in quanto tale definizione richiede che un bambino abbia un’intelligenza nella media o sopra

la media (Ibidem). Inoltre vi deve essere la presenza di una sostanziale discrepanza tra il potenziale

QI ed i livelli di profitto conseguito nel periodo di scolarizzazione. In sintesi le abilità di lettura e di

calcolo devono essere significativamente inferiori a ciò che potrebbe essere predetto dal punteggio

del QI.

Nel 2007 la Consensus Conference, durante “Raccomandazioni per la pratica clinica sui

Disturbi Specifici dell’Apprendimento”, viene evidenziato come accanto al profilo della dislessia

intesa come disturbo specifico della decodifica vi sia anche l’accezione di disturbi della comprensione

del testo scritto indipendenti sia dai disturbi di comprensione da ascolto che dagli stessi disturbi di

decodifica. Inoltre sottolinea che riguardo all’età minima in cui è possibile effettuare la diagnosi, essa

dovrebbe teoricamente coincidere con il completamento del 2° anno della scuola primaria (2^

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elementare), dal momento che questa età coincide con il completamento del ciclo dell’istruzione

formale del codice scritto (Consensus Conference, AID, 2007).

Entro questa età l’elevata variabilità inter-individuale nei tempi di acquisizione non consente

un’applicazione dei valori normativi di riferimento che abbia le stesse caratteristiche di attendibilità

riscontrate ad età superiori. Ciò nonostante, è importante sottolineare che già alla fine del 1° anno

della scuola primaria (1^ elementare) si può capitare di valutare bambini con profili funzionali

compromessi con la presenza di altri specifici indicatori diagnostici (pregresso disturbo del

linguaggio, familiarità accertata per il disturbo di lettura), che si ritiene utile anticipare i tempi della

formulazione diagnostica, o comunque, di una ragionevole ipotesi diagnostica, prevedendo necessari

momenti di verifica successivi.

Esiste un generale consenso sul fatto che il disturbo specifico di lettura modifica la sua

espressione nel tempo. Si sottolinea, tuttavia, che la diversa espressività del disturbo nel tempo, anche

in relazione alle diverse fasi di acquisizione dell’abilità di lettura, andrebbe maggiormente

documentata e dettagliata. Riguardo alla diversa espressione del disturbo tra i soggetti, al momento

non è stato possibile definire con chiarezza dei “sottotipi” unanimemente condivisi.

Nella Consensus Conference si tratta del Disturbo della Scrittura suddividendola in due

componenti: una di natura linguistica (deficit nei processi di cifratura) e una di natura motoria (deficit

nei processi di realizzazione grafica). Anche nel caso della scrittura, è necessario somministrare prove

standardizzate. Il Disturbo di Scrittura può presentarsi in isolamento (raramente) o in associazione

(più tipicamente) ad altri disturbi specifici. Al fine di descrivere questa possibile co-occorrenza di più

disturbi, senza stabilire una gerarchia tra gli stessi, si propone di utilizzare la dicitura estesa “Disturbo

Specifico di Apprendimento della Lettura e/o della Scrittura (grafia e/o ortografia) e/o del Calcolo”.

Per quanto concerne il Disturbo del Calcolo, invece, esso si distingue nella Discalculia da i

differenti profili connotati da debolezza nella strutturazione cognitiva delle componenti di cognizione

numerica (cioè intelligenza numerica basale: subitizing, meccanismi di quantificazione,

comparazione, seriazione, strategie di calcolo a mente) ed altri che coinvolgono procedure esecutive

(lettura, scrittura e messa in colonna dei numeri) ed il calcolo (recupero dei fatti numerici e algoritmi

del calcolo scritto).

Anche per il Disturbo Specifico del Calcolo, come per quelli della lettura e della scrittura, vi

è un generale accordo sulla necessità di somministrare prove standardizzate che forniscano parametri

per valutare la correttezza e la rapidità, attesi per l’età e/o classe frequentata nelle prove specifiche.

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Per la valutazione delle competenze di cognizione numerica si raccomanda di tenere conto soprattutto

del parametro rapidità (Ibidem).

Per l’analisi dei disturbi della cognizione numerica si raccomanda l’individuazione precoce di

soggetti a rischio tramite l’analisi di eventuali ritardi nella acquisizione di abilità inerenti alle

componenti di intelligenza numerica (possibile già in età prescolare).

L’analisi dei disturbi delle procedure esecutive e di calcolo si concorda con la prassi comune

di definire l’età minima per porre la diagnosi non prima della fine del 3° anno della scuola primaria

(3^ elementare), soprattutto per evitare l’individuazione di molti falsi positivi. Anche il Disturbo del

Calcolo può presentarsi in isolamento o in associazione (più tipicamente) ad altri disturbi specifici.

Come già specificato in precedenza si propone di utilizzare la dicitura estesa “Disturbo Specifico di

Apprendimento della Lettura e/o della Scrittura (grafia e/o ortografia) e/o del Calcolo”, per

caratterizzare queste diverse possibilità (Ibidem).

1.2. Dislessia, analisi e definizione

La dislessia, maggiormente studiato tra i DSA, è per la maggior parte espressione di un

qualche difetto delle funzioni corticali superiori (Mattis, 1978), che causa differenti problematiche e

per tale motivo si ritiene doveroso affrontare la problematica attraverso uno studio ed un approccio

di ricerca multidisciplinare. La dislessia è un’incapacità, o almeno una anormale difficoltà di

apprendimento della lettura, che ha i suoi caratteri specifici (Stella, 2002).

In alcuni casi i disturbi di lettura sono stati considerati come l’espressione di un deficit di

processamento uditivo (Tallal et al. 1991), in altri implicati da un deficit visivo e visuo-spaziale

(Pavlidis, 1985) oppure come espressione di deficit dei processi fonologici (Temple & Marshall,

1983) e meta fonologici (Lovett, 1992) o come il risultato di un deficit meno specifico ma altrettanto

significativo dei processi di automatizzazione (Nicholson & Fawcett, 1990).

La dislessia, quindi, non dipende da cause organiche, si stabilisce su un insieme di

insufficienze funzionali diversamente associate o isolate, quali, appunto, le insufficienze del

linguaggio, della capacità motoria, dello schema corporeo, dell’organizzazione spazio-temporale e

del ritmo, poiché si innesta su un ritardo della maturazione nei diversi campi causando un ritardo che

comporta un deficit strumentale sul piano del linguaggio scritto.

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Agli inizi degli anni ’90 viene proposto lo studio di Castel e Coltheart (1993) i quali hanno

descritto la dislessia come un disturbo derivante dal deficit di alcune componenti del sistema di lettura

attribuibile al cattivo funzionamento di moduli innati predisposti per questo tipo di apprendimento,

introducendo quindi ipotesi genetiche per spiegare l’origine di queste difficoltà.

Nel 1999 due autori (Biancardi e Milano) propongono un’ulteriore definizione terminologica

della “sindrome dislessica” la quale comprende oltre alla dislessia (difficoltà di lettura) anche i

disturbi come disgrafia (cattiva grafia), disortografia (frequenti errori ortografici), discalculia

(difficoltà nel calcolo e nella manipolazione dei numeri).

In sintesi, con il termine dislessia si intende uno specifico disturbo dell’apprendimento di

origine neurobiologica che si presenta in assenza di disabilità neurologiche o sensoriali e di condizioni

socioculturali svantaggiate. Essa si caratterizza principalmente per la difficoltà di automatizzazione

(velocità) e correttezza della lettura, tuttavia si ritiene doveroso considerarla come un disturbo

evolutivo complesso con una base biologica che produce una certa familiarità: spesso si trova

all’interno della famiglia del bambino dislessico un parente che condivide le stesse problematicità

(Marzocchi, 2011, 20).

Il DSM-IV pone come caratteristica fondamentale del Disturbo della Lettura (definita appunto

dislessia) il livello di capacità di leggere raggiunto (precisione, velocità, comprensione della lettura

misurate da test standardizzati somministrati individualmente) che si situa sostanzialmente al di sotto

di quanto ci si aspetterebbe data l’età cronologica del soggetto, la valutazione psicometrica

dell’intelligenza, e un istruzione adeguata all’età.

L’anomalia della lettura interferisce sostanzialmente con l’apprendimento scolastico o con le

attività della vita quotidiana che richiedono capacità di lettura. Se risulta presente un deficit

sensoriale, la difficoltà nella lettura vanno al di là di quelle di solito associate con esso. Nei soggetti

con Disturbi della Lettura, la lettura orale è caratterizzata da distorsioni, sostituzioni o omissioni. Sia

la lettura orale che quella a mente sono caratterizzate da lentezza ed errori di comprensione.

Secondo i dati presente nel DSM-IV circa il 60-80% dei soggetti a cui viene diagnosticato un

Disturbo della Lettura sono maschi e molto spesso le procedure di segnalazione risultano fuorvianti

rispetto all’identificazione dei maschi poiché essi evidenziano, molto spesso, comportamenti

dirompenti in associazione con i Disturbi dell’Apprendimento. Si è riscontrato che il disturbo si

manifesta in percentuale più bilanciata tra maschi e femmine quando si usa una valutazione

diagnostica attenta e criteri rigorosi piuttosto che la segnalazione da parte della scuola e le procedure

diagnostiche tradizionali (DSM-IV, 1994, 66).

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La prevalenza del Disturbo della Lettura è difficile da stabilire perché molti studi sono centrati

sulla prevalenza dei Disturbi dell’Apprendimento senza un’accurata distinzione in disturbi specifici

della Lettura, del Calcolo, o dell’Espressione Scritta i quali rappresentano circa 4 casi su 5 di Disturbo

dell’Apprendimento (Ibidem).

A livello sintomatologico le difficoltà di lettura possono insorgere già nel periodo dell’asilo,

ma raramente viene diagnosticato in questa fase o all’inizio delle scuole elementari poiché

l’insegnamento formale della lettura di solito non inizia prima di questo livello nella maggior parte

degli ambienti scolastici, soprattutto nei casi in cui il Disturbo di Lettura è associato ad un QI alto.

Infatti il bambino può “funzionare” al livello della classe o quasi ed il disturbo può non essere

completamente visibile fino alla quarta elementare e oltre.

Gli studi sull’eziologia della dislessia evolutiva (DE), ovvero l’emergere del disturbo

all’inizio del processo di scolarizzazione, mostrano che la causa più frequente è la presenza di

difficoltà di lettura anche in alcuni membri della famiglia, in particolare da uno dei due genitori (Stella

et al., 2001), registrando, infatti in circa il 65% dei casi di Dislessia Evolutiva una familiarità per lo

stesso disturbo.

La dislessia evolutiva è un disturbo strumentale accompagnato spesso da difficoltà nella

scrittura e nei processi di letto-scrittura del numero e del calcolo. Si manifesta in soggetti privi di

disturbi neurologici, sensoriali, cognitivi, relazionali e risulta presente nonostante essi abbiamo avuto

normali opportunità scolastiche. Il dislessico evolutivo presenta:

- QI nella norma,

- lettura ad alta voce molto stentata,

- difficoltà ortografiche,

- difficoltà nella scrittura dei numeri,

- difficoltà di apprendimento delle tabelline e del calcolo mentale,

- instabilità motoria e/o disturbi di attenzione.

Si ritiene fondamentale riportare ciò che tali soggetti non presentano:

- difficoltà di ragionamento,

- difficoltà di comprensione delle spiegazioni orali,

- difficoltà di comprensione del testo (De Granndis, 2007, 13).

La dislessia evolutiva si accompagna quindi alle disortografie, ossia a difficoltà nel realizzare

i processi di correzione automatica del testo. Gli errori ricorrenti del dislessico sono di tipo fonologico

(scambi, omissioni-aggiunte, inversioni di regole) e/o di tipo grafemico (errori di regole, doppie,

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attaccatura-staccatura delle parole), i quali rappresentano gli errori maggiormente riscontrati a una

modificazione dell’apprendimento (Ibidem).

Castel e Coltheart, in linea con gli autori precedentemente citati, partono dall’ipotesi che per

la lettura esistano moduli innati, ovvero di capacità computazionali geneticamente prespecificate,

ipotizzando che la dislessia derivi dalla frattura selettiva di uno o più di questi moduli (Stella, 2002).

Negli stessi anni viene proposta una seconda ipotesi, presentata negli stessi anni, in contrasto

con la prima, poiché considera l’acquisizione di questa abilità come il risultato di un processo di

specializzazione funzionale che si conclude con una modularizzazione, una vera e propria

compilazione di un programma di esecuzione automatica di una serie di microprocessi, ma che

inizialmente non poggiano su componenti prespecificate per un unico compito (Karmiloff & Smith,

1992). Tuttavia questo approccio non pone in discussione la base genetica della dislessia, ma discute

il fatto che la restrizione genetica possa riguardare aspetti cosi specifici. Si ipotizza, quindi, che la

predisposizione riguardi i processi di codifica in generale, invece di coinvolgerne solo uno in

particolare.

I dati sulla comparsa a grappolo dei DSA e sul rapporto tra i disturbi specifici del linguaggio

e DSA evidenziano l’alta frequenza di disturbi di codifica piuttosto che compromissioni molto

settoriali, il che sembra confermare la seconda ipotesi (Brizzolara e Stella, 1995). Il problema dello

studio della dislessia sembra infatti scaturito dai differenti modelli di interpretazione, visto i diversi

approcci che determinano differenti classificazioni dei sottotipi di dislessia.

Una maggiore coerenza si scopre invece nei modelli più trasversali che ipotizzano che i deficit

nei processi di automatizzazione (Nicholson e Fawcett, 1994 a e b), o in altri in cui si attribuiscono

alle difficoltà di processa mento rapido di stimoli acustici (Merzenich et al., 1996) o visivi (Casco,

1993; Slaghuis et al., 1993) le difficoltà di acquisizione del codice scritto. Questi ultimi contributi

offrono un’interessante visione ai cosiddetti “ritardi di sviluppo” sia del linguaggio sia della letto-

scrittura ed inoltre ai successivi deficit di automatizzazione.

Tali ricerche pongono come obiettivo primario la dimostrazione che alla base delle difficoltà

di apprendimento della lettura vi sarebbe una difficoltà dei soggetti, da loro esaminati, come elementi

dinamici di un processo. Il deficit responsabile della DE agirebbe sulla risoluzione temporale di eventi

percettivi e sull’organizzazione temporale di azioni coordinate (Lovegrove, 1993).

I DSA hanno la caratteristica di permanere nel tempo, tuttavia la compromissione funzionale

dei diversi sistemi quali la scrittura, lettura e calcolo, presenta un percorso diverso a seconda dalla

diversa struttura dei processi che li sottendono. Ciò significa che una persona dislessica mantiene

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un’efficienza di lettura diversa da un pari livello di educazione accademica anche dopo molti anni di

attività (Wolff et al., 1990; Klicpera e Schamann, 1993).

Questo rappresenta per il dislessico l’impossibilità di “guarire”, poiché la dislessia non è una

malattia, poiché è la conseguenza funzionale di una peculiare architettura neurofisiologica, neuro

biochimica o immuno-neuro-endocrina che in quanto tale non è modificabile.

Tuttavia si ritiene opportuno precisare che, talvolta, i bambini con DSA non mostrano

difficoltà nelle capacità cognitive, riuscendo di fatto ad assolvere con discreto successo alle funzioni

per le quali le loro abilità specifiche sono scadenti. Si possono incontrare casi in cui il bambino non

riesce a decifrare bene, ma capisce bene il testo, oppure bambini che risolvono problemi aritmetici

intuitivamente senza essere tuttavia in grado di scriverlo.

Dunque il disturbo di apprendimento si considera specifico nel senso che esso riguarda

specificamente alcuni aspetti di codifica e decodifica senza compromettere i processi strategici di

comprensione e di composizione del testo o di soluzione di problemi.

L’evoluzione naturale dei DSA non può essere trattata come fenomeno unico vista la diversità

dei singoli processi (lettura, scrittura, sistema dei numeri e calcolo), poiché la natura stessa di questi

compiti influisce in maniera diversa nello sviluppo. Ciò può spiegare il fatto che esistano differenti

strutture del compito tra le varie abilità che potrebbe contribuire a spiegare la differenzazione dei

profili come effetto dello sviluppo.

La letto-scrittura appare sin da subito abbastanza evidente, poiché per leggere e scrivere una

parola le unità sub lessicali da considerare sono molteplici. In seguito il processo di automatizzazione

grazie al raggruppamento delle sequenze ricorrenti (clusters), il processo si semplifica.

Nella scrittura del numero, invece, succede il contrario poiché all’inizio si scrivono numeri

piccoli con pochi elementi, che richiedono scarso impegno sequenziale e sintattico, mentre in seguito

il carico aumenta. Questo fenomeno è conosciuto come reading-arithmetic disparity (Whitehurst e

Fischel, 1993).

Di conseguenza l’evoluzione dei disturbi va analizzata in modo separato per ciascuna abilità.

Nel 1993 Klicpera e Schabmann propongono uno studio longitudinale sull’evoluzione della lettura e

della scrittura su un campione di 458 bambini austriaci seguiti dalla 2° elementare alla 3°.

Grazie a questi autori si può osservare l’andamento delle due abilità nel corso del periodo di

scolarizzazione obbligatoria. Vengono considerate separate le evoluzioni delle componenti di rapidità

e correttezza. Emerge che se pur l’andamento complessivo rappresenta un generale incremento di

velocità, le differenze tra i diversi gruppi selezionati rimangono inalterate nel corso dello sviluppo.

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Con tali risultati si evidenzia che i dislessici della 2° elementare e della 3° media mantengono

la stessa differenza di velocità nella lettura rispetto alla media e ai lettori normodotati. Le differenze

nella correttezza di codifica, ovvero la percentuale di errori commessi nel corso della lettura, si

riducono invece sensibilmente nel corso degli anni.

Questo miglioramento sarebbe un effetto della familiarizzazione con i patterns ortografici,

tuttavia, bisogna osservare che il gruppo dei bambini con DSA non raggiunge nemmeno in 3° media

il livello di correttezza che i lettori normodotati mostravano in 2° elementare. Questo perché l’effetto

dell’aumento della complessità ortografica si ripercuote negativamente su coloro che presentano

difficoltà di scrittura e lettura.

Uno studio effettuato da Stella e Biancardi (1992) su 24 soggetti con DE seguiti fino al termine

della scuola media inferiore, ne risulta che almeno 20 bambini hanno ricevuto una bocciatura, alcuni

di questi almeno due volte, specialmente durante il periodo della scuola media inferiore. Ciò fa

supporre che i bambini con DE, in questa fase, subiscono maggiormente l’influsso negativo della loro

problematica e sembra confermare la rilevanza che questo disturbo ha durante le diverse tappe della

scolarizzazione.

In questo studio, inoltre, vengono analizzate e ricercate eventuali correlazioni tra Q.I.,

provenienza familiare, il sesso, e l’insuccesso scolastico, ma in nessuna di queste sembra riscontrarsi

un fattore che abbia un effetto specifico sulla storia scolastica. I dislessici sono dunque candidati

all’insuccesso scolastico con una probabilità molto superiore rispetto alla media dei coetanei, già sin

dalle prime fase del periodo di scolarizzazione. Studi più recenti (Facoetti e Lorusso, 2000)

sostengono che la dislessia evolutiva abbia a livello biologico, un’eziologia neurologica. Si

tratterebbe dunque di un disturbo associato all’anormale sviluppo neurologico di entrambe le strutture

e le funzioni cerebrali.

Essa ha, inoltre, origine nella famiglia poiché i fattori di rischio ereditabili variano dal 23 al

65%. Per esempio se si prendono in considerazione le famiglie con gemelli omozigoti, se uno dei due

è dislessico, risulta molto probabile che anche l’altro lo sia, piuttosto che nei casi di un gemello

dizigote. Gli studi genetici hanno identificato i possibili cromosomi compromessi: il 6 e il 15. Le

indagini neurobiologiche evidenziano differenze nella corteccia temporo-parietale tra soggetti con

dislessia e soggetti non affetti (Stella, 2002).

Tuttavia, essendo la lettura un processo di decodifica di simboli in sequenze fonemiche di

suoni, essa presuppone sia abilità visuo-percettive sia abilità linguistiche, ipotizzando quindi un

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deficit in ambedue le sfere. In un articolo dell’Espresso del 1 giugno del 2000, secondo Ovadia, il

periodo di manifestazione dei “segnali-spia” del disturbo variano a seconda dell’età:

- tra i 3-4 anni se il bambino non riesce a tenere in mano un libro, non differenzia i segni e i

disegni dalle lettere, non sa riconoscere il proprio nome se scritto, presenta un vocabolario

limitato,

- tra i 5-6 anni se il bambino non è in grado di individuare i suoni che compongono una parola,

se è lento nel nominare oggetti familiari o colori,

- tra i 6-8 anni se si lamenta del fatto che leggere è più facile per i compagni che per lui, non sa

proprio come decodificare parole sconosciute, ha risultati scolastici molto inferiori alla media

della classe, evita di leggere,

- tra gli 8-10 anni se il ragazzo comincia a rinchiudersi in se stesso o ha altri comportamenti

anormali, sembra indovinare le parole che non conosce usando strane strategie di lettura, si

concentra così tanto nel decodificare le parole che perde il senso di ciò che sta leggendo.

La commissione sulla Dislessia del Consiglio Superiore di Sanità dell’Olanda (1997) propone,

infatti, un periodo di osservazione con strumenti sistematici di almeno sei mesi nel corso dei primi

anni di scolarizzazione, consigliando per chi evidenziasse tali problematiche, servizi sanitari per una

diagnosi specializzata.

1.3. Comorbidità con altri disturbi

La condizione di dislessia spesso è associata ad altri disturbi evolutivi, quali disortografia,

discalculia, disturbo da deficit di attenzione e iperattività, disturbi del comportamento o dell’umore

(demoralizzazione), scarsa autostima e deficit nelle capacità sociali.

Si ritiene opportuno sottolineare come la dislessia sia un disturbo in cui il sistema cognitivo

ha una serie di debolezze: nella ricerca visiva strategica, nella focalizzazione degli stimoli,

nell’apprendimento per appaiamento che risulta necessario all’acquisizione del processo di

conversione grafema-fonema, nella fusione e manipolazione, nella memoria di suoni, nel recupero

immediato di stringhe lessicali (Marzocchi, 2011, 20-21). Proprio queste debolezze possono essere

la causa principale delle comorbidità precedentemente citate.

La percentuale dei bambini o adolescenti con DA che abbandonano la scuola è stimata intorno

al 40%. Gli adulti con DA possono avere notevoli difficoltà nel lavoro o nell’adattamento sociale.

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Molti dei soggetti (10-25%) con Disturbo della Condotta, Disturbo Oppositivo Provocatorio,

Disturbo da Deficit di Attenzione/Iperattività, Disturbo Depressivo Maggiore, o Disturbo Distimico

sono affetti anche da Disturbi dell’Apprendimento (DSM-IV, 1994, 64). Inoltre esistono verifiche

che i ritardi di sviluppo del linguaggio possono insorgere in associazione con i DA (specie con il

Disturbo della Lettura), anche se questi ritardi possono non essere sufficientemente gravi da

giustificare la diagnosi separata di Disturbo della Comunicazione. I DA possono, inoltre, essere

associati ad una più alta incidenza del Disturbo di Sviluppo della Coordinazione o ad una varietà di

condizioni mediche generali come avvelenamento da piombo, sindrome fetale da alcool, o sindrome

dell’X fragile (Ibidem).

In particolar modo lo studio della DE viene influenzato maggiormente dalla ricerca delle

componenti specifiche del disturbo, investigando in questo modo l’architettura neuro-psicologica del

processo di lettura. Nei bambini i disturbi di lettura tendono a presentarsi associati a disturbi di

scrittura quali la disortografia, che compromette l’utilizzazione del codice ortografico; la disgrafia

che causa difficoltà di realizzazione dei pattern motori; la discalculia associata ai disturbi del calcolo

e del sistema dei numeri.

L’ICD-10 codifica il disturbo di lettura con F81.0 e assegna la diagnosi anche in associazione

al disturbo specifico della compitazione (disortografia). Per consentire un’accurata comprensione dei

disturbi di scrittura si ritiene doveroso utilizzare il DSM-IV il quale asserisce che la caratteristica

fondamentale del Disturbo dell’Espressione Scritta è una capacità (misurata con test standardizzato

somministrato individualmente o con una valutazione funzionale delle capacità di scrittura) che si

situa sostanzialmente al di sotto di quanto previsto in base all’età cronologica del soggetto, alla

valutazione psicometrica dell’intelligenza e a un’istruzione adeguata all’età.

L’anomalia dell’espressione scritta interferisce notevolmente con l’apprendimento scolastico

o con le attività di vita quotidiana che richiedono capacità di scrittura. Se è presente un deficit

sensoriale, le difficoltà nelle capacità di scrittura vanno al di là di quelle di solito associate ad esso.

Esiste, quindi, un insieme di difficoltà del soggetto di comporre testi scritti, evidenziata da errori

grammaticali o di punteggiatura nelle frasi, con una scadente organizzazione in capoversi, errori

multipli di compitazione e calligrafia deficitaria (DSM-IV, 1994, 69).

Il DSM-IV sottolinea come la principale caratteristica del Disturbo del Calcolo è rappresentata

da una capacità di calcolo (misurata con test standardizzati somministrati individualmente sul calcolo

o sul ragionamento matematico) che si situa sostanzialmente al di sotto di quanto previsto in base

all’età cronologica del soggetto, alla valutazione psicometrica dell’intelligenza e a un’istruzione

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adeguata all’età. Il disturbo del calcolo condiziona, quindi, in maniera significativa l’apprendimento

scolastico o le attività della vita quotidiana che richiedono capacità di calcolo. Se appare presente un

deficit sensoriale le difficoltà nelle capacità di calcolo vanno al di là di quelle di solito associate con

esso.

Nel Disturbo del Calcolo possono essere compromesse diverse capacità come quelle

linguistiche, percettive, attentive e matematiche (DSM-IV, 1994, 68). Alla dislessia vengono spesso

associate problematiche relativa al mantenimento dell’attenzione, ad una scarsa memoria, a difficoltà

nell’organizzazione spaziale e/o temporale e difficoltà nella lateralizzazione (De Grandis, 2007, 12-

13).

Spesso si manifesta anche la compromissione del linguaggio verbale, interessate da disturbi

di alcune aree (accesso lessicale, ordinamento sintattico) e questo anche nei casi in cui non vi sia stato

un progressivo ritardo nell’acquisizione del codice verbale (Mattis, 1978; Chase & Tallal, 1990).

I bambini che presentano disturbi del linguaggio, infatti, manifestano quasi sempre difficoltà

nell’apprendere la letto-scrittura in quanto la difficoltà di decodifica dei segni scritti può essere

considerata una successione della primaria difficoltà di decodifica fonologica presentata dai bambini

con disturbo specifico di linguaggio (Snyder & Downey, 1991).

Con il progredire del tempo tali associazioni di disturbi tendono ad indebolirsi ed i profili che

ne emergono sono caratterizzati dalla presenza di un disturbo più marcato in una delle abilità

compromesse (lettura, scrittura, calcolo).

I disturbi specifici dell’apprendimento di natura congenita spesso si manifestano a grappolo

piuttosto che isolatamente, come accade nel caso dei disturbi acquisiti. Diverse ricerche confermano

percentuali molto elevate di compresenza di dislessia, disortografia e discalculia, soprattutto nei primi

anni di scolarizzazione (Badian, 1983; Rourke 1989).

Si può ipotizzare di conseguenza una fase di sviluppo in cui il disturbo è pervasivo ed interessa

tutte le abilità in cui si richiede l’acquisizione di un codice, mentre in un momento successivo, il

disturbo si circoscrive in un ambito più ristretto, in una o in alcune di queste abilità.

Sul piano applicativo questi elementi concordano con le osservazioni di genitori ed insegnanti

che riferiscono spesso le difficoltà in tutti gli ambiti (Stella, 2002). Esistono inoltre ipotesi sulle quali

i deficit di memoria fonologica e memoria di lavoro frequentemente rilevati come possibili cause

della dislessia possano essere considerati come sintomi di un unico deficit sottostante nei processi di

automatizzazione (Nicholson e Fawcett, 1993).

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Un disturbo neuropsicologico può dipendere da alcune disfunzioni che impediscono una o

poche competenze riguardanti il leggere e lo scrivere e per di più soltanto in una sola fase dello

sviluppo, altre volte un disturbo neuropsicologico può interferire con altri meccanismi

neuropsicologici causando problemi in una rete puro cognitiva più o meno ampia e complessa. Quindi

il disturbo neuropsicologico che causa la dislessia in una determinata fase dello sviluppo può perdere

il suo peso nella sua disfunzionalità dopo che quella stessa fase è stata superata, viceversa può avere

poco peso in una determinata tappa evolutiva e successivamente incrementarsi con altre disfunzioni

neuropsicologiche, determinando un disturbo rilevante.

Si ritiene necessario analizzare i disturbi neuropsicologici in età evolutiva definendo i DSA

caso per caso o tipo per tipo, in base a diverse ipotesi cliniche e patogenetiche.

Infatti un caso di DSA, per quanto specifico o settoriale, potrebbe scaturire da una diversa

presenza di disturbi neuropsicologici micro-settoriali, oppure da un sovraccarico imposto ad un

singolo meccanismo neuropsicologico necessario per attivare molte competenze o cui la rete

cognitiva risponde con troppi compensi, eccessivi ed non coordinati.

La neuropsicologia clinica ci fa constatare che su 3 bambini con DSA almeno uno al

completamento dell’età evolutiva si è organizzato come un Ritardo Mentale Lieve (Stella, 2002, 39-

40).

La definizione di Ritardo Mentale si basa su un riscontro di un disturbo cognitivo significativo,

che coinvolge una componente generale o specializzate dell’intelligenza. Il funzionamento

intellettivo nei casi di RM viene fortemente influenzato anche dai livelli motivazionali e dalla sfera

affettiva-sociale.

Numerosi autori evidenziano che la presenza di un riguardoso rischio psicopatologico globale

in soggetti con disturbi di apprendimento. L’incidenza con la depressione in questi soggetti appare

significativa in quanto risulta presente nel 25-35% dei casi (Stella, 2002, 65).

Altrettanto significativi sono i rapporti dei disturbi dell’apprendimento con i disturbi della

condotta (Heavy, 1989) tramite la manifestazione di quadri ansiosi nei quali la componente dell’ansia

diventa un tratto stabile della personalità (Margalit e Shulman, 1986), oppure tramite l’utilizzo di

lamentele somatiche ipocondriache (Margalit e Raviv, 1984), la presenza di idee suicidarie e/o

tentativo di suicidio. Proprio in quest’ultimo indice si ritiene doveroso soffermarsi in quanto in uno

studio di Peck nel 1985 esso riporta i dati secondo i quali il 50% dei ragazzi della sua casistica di

suicidio prima dei 15 anni presentava un disturbo di apprendimento. Di conseguenza si ritiene

doveroso consigliare e progettare programmi volti a garantire una maggiore informazione e

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consapevolezza nel personale scolastico, focalizzandosi sul riconoscimento di segnali premonitori di

un tentativo di suicidio, specie in assenza di chiare manifestazioni depressive (Smith, 1990).

Naturalmente i rapporti tra psicopatologia generale e disturbi di apprendimento non sono

univoci. Un disturbo dell’apprendimento può anche rappresentare il modo attraverso il quale si

esprime un preesistente disturbo globale della personalità, disturbo che cerca un nuovo equilibrio,

interno o esterno, amputante ed antieconomico. Queste implicazioni possono essere responsabili di

una insorgenza, un mantenimento o un irrigidimento del disturbo di apprendimento e possono

interferire con l’interevento riabilitativo.

I bambini, ma soprattutto gli adolescenti, tendono a crearsi rappresentazioni del loro

funzionamento mentale in base alla mediazione tra disturbo di apprendimento ed uno stato di

sofferenza emotivo. Le sviluppate capacità di astrazione possedute in questo periodo evolutivo

consentono un rapporto diverso con il proprio Sé e con il mondo esterno, condizionando la loro

visione spazio-temporale, con il possibile e con il reale, modificando in questo modo, la propria

percezione della realtà fisica e mentale.

Il sentimento della propria identità, la visione del proprio Sé, va incontro ad un continuo

processo di riorganizzazione (Harter, 1989) ché può essere fortemente influenzato da una

concomitante condizione psicopatologica (Masi et al., 1994).

Le razionalizzazioni e le intellettualizzazioni adolescenziali rappresentano un tentativo ci

confermare a se stessi la solidità di questo Sé cognitivo, come apparato di comprensione e di controllo

della realtà interna ed esterna. Per queste motivazioni i disturbi di apprendimento rappresentano un

evento vitale in grado di incrinare la solidità del Sé cognitivo, soprattutto nel periodo evolutivo poiché

il Sé acquista maggiore solidità e concretezza.

In questa fase il disturbo può assumere caratteristiche ego distoniche, in quanto estende la sua

area di influenza anche al di fuori del contesto scolastico, sviluppando la nascita di schemi

interpretativi che negano il funzionamento mentale, ovvero l’apprendimento (Stella, 2002).

Determinate ricerche parlano di una componente specifica del Sé in età evolutiva, il cosiddetto

“Sé accademico” che raffigura la rappresentazione di sé come studente (Chapman, 1988). Esso appare

strettamente correlato al Sé cognitivo ed una sua debolezza può introdurre reazioni più generalizzate

sulle modalità di auto rappresentazione (Stella, 2002).

Questo può essere la causa principale di determinate manifestazioni psicopatologiche

particolarmente frequenti nei soggetti con disturbi di apprendimento, poiché rappresentati da una

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evidente debolezza dell’autostima e da una fragilità nella rappresentazione dei propri successi si

pensiero (Fine et al., 1993). Risultano frequenti alcuni aspetti clinici quali:

- la prevalenza di contenuti di inferiorità e di vulnerabilità, con riferimento alle proprie funzioni

mentali,

- la percezione di uno scarso potere di controllo sul proprio ambiente e sul proprio destino

(Weisz et al., 1993),

- un disinvestimento cognitivo ed un funzionamento mentale superficiale.

Spesso è rintracciabile inoltre un fattore scatenante o aggravante il quale è rappresentato da

un evento vitale negativo che mina ulteriormente la fiducia nel potere conoscitivo ed interpretativo

del proprio destino. Ciò non determina una vera e propria depressione ma una forte debolezza del Sé

cognitivo, determinando una serie di conseguenze sulla qualità dei processi di apprendimento e sulle

possibilità di una loro modifica nell’intervento riabilitativo.

Questa debolezza può esprimersi clinicamente in modo diretto esprimendo sentimenti di

inadeguatezza, di colpa, di solitudine, di abbandono o, in caso contrario, presentando una espressività

di tipo provocatorio-oppositorio, la quale maschera solo in parte i sentimenti depressivi sottostanti.

Le rappresentazioni deboli del Sé sono accentuati da due aspetti fondamentali quali la bassa autostima

derivata da qualcosa che il soggetto non ritiene di avere (intelligenza) e la carenza (di intelligenza)

che riguarda il soggetto stesso, ma non le altre figure che lo circondano (Stella, 2002).

Questo indica che la percezione di un funzionamento intellettivo non adeguato può essere in

grado di attivare un intreccio emotivo-cognitivo con una propria autonomia psicopatologica. In questa

maniera si possono leggere i dati epistemologici che sottolineano l’elevata incidenza di disturbi

depressivi con ritardo mentale di diversa eziologia (Bregman, 1991).

Può spesso accadere che la mancanza di un’adeguata autostima accademica diventa pervasiva,

togliendo complessità al Sé, che si mostra uniformemente dominato dalla debolezza della propria

auto rappresentazione. Ciò può scaturire, nei casi di fallimento cognitivo, una sovrapposizione a

strutture preesistenti narcisisticamente più fragili, per fattori relazionali precoci, causando nel

soggetto un indebolimento strutturale intollerabile manifestando di conseguenza fughe della mente,

ricorso ad agiti, fughe nel lavoro e talvolta anche tentativi di suicidio (Stella, 2002).

Il DSM-IV sottolinea come i Disturbi dell’Apprendimento devono essere differenziati da

normali variazioni nei risultati scolastici e da difficoltà scolastiche dovute a mancanza di opportunità,

insegnamento scadente, o fattori culturali. Un’istruzione inadeguata può causare una scadente

prestazione ai test standardizzati di rendimento.

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Inoltre i bambini che presentano una retroterra etnico o culturale differente rispetto alla cultura

scolastica prevalente o che seguono i loro studi in lingue diverse dalla lingua di appartenenza possono

avere risultati inferiori ai test di rendimento presentando punteggi relativamente bassi (DSM-IV,

1994, 65).

Una compromissione visiva o uditiva può danneggiare la capacità di apprendimento e

quest’ultimo può essere diagnosticato in presenza di tali deficit sensoriali solo se le difficoltà di

apprendimento vanno al di là di quelle solitamente associate a quei deficit.

Concomitanti condizioni neurologiche o altre condizioni mediche generali dovrebbero essere

codificate sull’Asse III. Nel Ritardo Mentale le difficoltà di apprendimento sono proporzionate alla

compromissione generale del funzionamento intellettivo. In alcuni casi di Ritardo Mentale Lieve, il

livello di apprendimento nella lettura, nel calcolo, o nell’espressione scritta è significativamente al di

sotto dei livelli previsti in base all’istruzione del soggetto e alla gravità del Ritardo Mentale. In questi

casi dovrebbe essere ulteriormente diagnosticato l’appropriato Disturbo dell’Apprendimento.

Dovrebbe essere fatta un’ulteriore diagnosi aggiuntiva di Disturbo dell’Apprendimento nel

contesto di un Disturbo Pervasivo dello Sviluppo solo quando la compromissione scolastica è

significativamente al di sotto dei livelli previsti in base al funzionamento intellettivo e all’istruzione

del soggetto. Può accadere anche che in soggetti con Disturbi della Comunicazione il funzionamento

intellettivo debba essere valutato usando misurazioni standardizzate della capacità intellettiva non

verbale. Può essere diagnosticato il Disturbo dell’Apprendimento nei casi in cui si manifesta un

rendimento scolastico significativamente inferiore rispetto ai risultati della misurazione di questa

capacità.

Il Disturbo del Calcolo e il Disturbo dell’Espressione Scritta insorgono assai frequentemente

in associazione con il Disturbo della Lettura. Quando vengono soddisfatti tutti i criteri per più di un

Disturbo dell’Apprendimento, tutti quanti dovrebbero essere diagnosticati (Ibidem).

Nel caso in cui il DSA sia associato ad un disturbo psicopatologico la comorbidità tra le due

affezioni può sottendere relazioni diverse, con diverse implicazioni teoriche e cliniche, anche se non

sempre chiaramente distinguibili nel singolo soggetto, soprattutto se la diagnosi viene posta

tardivamente. In alcuni casi il disturbo psicopatologico sembra essere una conseguenza del disturbo

di apprendimento e dell'insuccesso scolastico che esso comporta.

In questi casi il disturbo psicopatologico tende a ridursi spontaneamente in parallelo con la

riduzione delle difficoltà scolastiche; in altri casi il DSA appare agire come un fattore scatenante per

la strutturazione di un disturbo psicopatologico già presente, sia pur in forma larvata, negli anni

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precedenti, in questo caso l'andamento dei due disturbi appare relativamente indipendente. Queste

due situazioni non vanno in ogni caso confuse con il percorso inverso, quando cioè il disturbo di

apprendimento è aspecifico e rappresenta solo un sintomo del disturbo psicopatologico.

La comprensione della natura dei rapporti tra DSA e disturbi del comportamento richiede una

interpretazione esplicativa che a sua volta deve fare riferimento a una precisa teoria psicopatologica.

Per esempio se si adotta la chiave di lettura della Psicopatologia Cognitiva si può capire come il DSA

si inserisce lungo l’itinerario di sviluppo di un bambino determinando comportamenti di chiusura

depressiva (internalizzanti) oppure di oppositività (esternalizzanti), che hanno significati diversi a

seconda della qualità dei legami di attaccamento genitori–bambino.

In letteratura viene riportata comorbilità fra disturbi specifici di apprendimento e disturbi

psicopatologici appartenenti all'Asse I del DSM IV nel 50% dei casi. Molteplici sono le categorie

diagnostiche interessate.

Disturbi esternalizzati o disturbi con comportamento disturbante (DSM IV-R):

- Disturbo da deficit di attenzione e iperattività frequentemente è embricato con i disturbi

di apprendimento specifici e aspecifici,

- Disturbo Oppositivo-Provocatorio: favorisce il disadattamento scolastico e talvolta può essere

secondario alle esperienze frustranti vissute dai bambini a causa di insuccessi nella didattica,

- Disturbi della condotta e inerenti l'area della devianza sociale, eventualmente associati ad

abuso di sostanze e comportamenti delinquenziali spesso in rapporto con situazioni scadenti

sul piano sociale.

Disturbi internalizzati:

- i Disturbi d'ansia sono spesso associati ai Disturbi di apprendimento, nelle varie articolazioni:

attacchi di panico, disturbo di ansia di separazione, fobie semplici, fobia sociale. Questi

disturbi possono condurre anche a ritiro dalla scuola, per periodi transitori o prolungati, e

comunque interferiscono sulle possibilità di trattamento e recupero delle difficoltà nel settore

didattico,

- Disturbi somatoformi possono essere espressione di reazioni secondarie agli insuccessi e

frustrazioni in campo didattico e produrre disadattamento e ritiro transitorio o prolungato dalla

scuola,

- Disturbi dell'umore possono subentrare secondariamente a disturbi specifici delle abilità

scolastiche o essere una componente causale di disturbi aspecifici di apprendimento.

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Rappresentano un rischio sia per il fenomeno di abbandono della scuola, spesso collegato a

ritiro sociale, sia, più raramente, per la comparsa di idee suicide.

2. Disturbi del comportamento

L’origine di questi disturbi, un tempo considerati capricci e spesso perseguiti con castighi e

punizioni, può essere individuata dall’attenta analisi delle caratteristiche neuropsicologiche del

bambino, delle modalità dei primi rapporti con la madre, della tipologia personale dei modelli di

riferimento evolutivo, della modalità educativa.

Il disturbo della condotta è uno dei più frequenti problemi riscontrati in salute mentale perché

gli aggressori non solo infliggono gravi danni agli altri ma rischiano più degli altri di essere condotti

in arresto, di cadere in depressione, di fare abuso di sostanze e, infine, di tendere al suicidio (Hales

et. al., 1999). Non si tratta di una singola entità medica ma coinvolge varie forme di comportamento

deviante. Dopo i 18 anni, il disturbo della condotta può sfociare in un disturbo della personalità

antisociale, che rientra nella psicopatia (Lahey et al., 2005).

Diversi autori sostengono una predisposizione ereditaria associata a modelli familiari e/o

sociali in contrasto con le necessità evolutive di un bambino con determinate caratteristiche personali

(Raine et al., 1990). Si ipotizza una diminuita funzionalità del Sistema Nervoso Autonomo e la

maggiore attività di neurotrasmettitori implicati nei meccanismi aggressivi e nel metabolismo della

serotonina (Lahey et al., 1993).

Nei genitori di bambini affetti da DC sono di frequente riscontro: abuso di sostanze, patologie

psichiatriche, carenze affettive, modelli educativi rigidi o assenti o frustanti, con la conseguenza di

disturbo nel processo d’attaccamento, inizio dei disturbi del bambino e conseguente carente

disponibilità di supporto affettivo-educativo da parte dei caregiver. I bambini con DC appartengono

più frequentemente a famiglie con problematiche sociali ed economiche (Patterson et al., 1989).

Nel 1997 con la American Academy of Child & Adolescent Psychiatric (AACAP) si

propongono le linee guida ed una sintesi pratica dei parametri con la quale si descrive la valutazione,

diagnosi differenziale ed il trattamento di bambini, adolescenti e adulti che manifestano i sintomi del

disturbo da deficit dell’attenzione.

In un modo o nell'altro, molti giovani fanno cose che hanno effetti distruttivi su sé stessi o su

altri. Ogni ragazzo ha un proprio metodo di fronteggiamento, sebbene solo alcuni di tali metodi hanno

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conseguenze nefaste. Così come il comportamento è indicativo di un disturbo della condotta, tanto il

disturbo è comune tra i giovani. Almeno il 50% di genitori con figli di un'età compresa tra i 3 ed i 6

anni, hanno riferito determinati comportamenti da parte loro, anche se il trend è in diminuzione

(Santrock, 2008).

Coloro che persistono nella propria condotta deviante sono probabili candidati per un servizio

di consulenza psicologica. Si stima che almeno il 5% di giovani mostrano gravi problemi della

condotta, essendo descritti come impulsivi, iperattivi, aggressivi e coinvolti in condotte devianti. Le

motivazioni spaziano da tare ereditarie e/o caratteriali, genitori irresponsivi e ambiente sociale dove

la violenza è all'ordine del giorno. A fronte dei considerevoli interventi posti in essere dalle istituzioni

pubbliche per prevenire e curare tali disturbi, c'è un vuoto di consenso su quali metodi effettivamente

promuovere (Ibidem).

Nei genitori di bambini con Disturbo Oppositivo Provocatorio è più frequente il riscontro di

disturbi dell’umore. I tratti di maggiore riscontro nella personalità dei genitori di bambini con DC

sono: depressione, abuso di sostanze, comportamenti antisociali. Pur accettando la predisposizione

genetica, risulta più significativo per determinare l’insorgenza del DC le caratteristiche dei modelli

familiari e sociali.

Questi tipi di disturbi sono diventati molto frequenti, a tal punto da essere considerati, da

alcuni genitori specie nelle società benestanti, come parte di una condizione del processo evolutivo

infantile. Tali condizioni, spesso generatrici di marcati disagi nei bambini, nelle famiglie e nella

società, producono difficoltà nella relazione con gli altri e un’organizzazione problematica della

personalità.

Il disturbo della condotta è un comportamento caratterizzato dalla persistenza dell’assenza di

rispetto per i diritti delle altre persone e dal mancato adeguamento alle regole familiari e sociali,

includendo anche le forme di bullismo frequenti e persistenti.

Possono essere distinte due forme di DC, una a esordio nel periodo infantile e una in fase

adolescenziale (DSM-IV, 1994). Vi sono bambini con insorgenza precoce del disturbo (24-36 mesi)

con un’evoluzione caratterizzata da manifestazioni con maggiore espressività in determinati periodi,

spesso in concomitanza con situazioni ambientali che richiedono nuovi adattamenti comportamentali,

mentre in altri periodi il comportamento è meno disturbante, ma con una continuità che tende ad

assumere caratteristiche più gravi nelle fasi evolutive successive e in particolare nell’adolescenza.

Per la diagnosi i sintomi devono persistere per almeno sei mesi, pertanto non vanno interpretati come

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DC quelle manifestazioni reattive e oppositive di breve durata per condizioni ambientali

particolarmente impegnative per l’adattamento comportamentale.

Il DSM-IV individua come rappresentativi quattro sintomi: aggressione o minacce gravi a

persone o animali, danni alle proprietà, violazione delle regole familiari e sociali, persistente

atteggiamento negativizzante e mentoniero per ottenere vantaggi o evitare punizioni. Il DSM-IV

ritiene necessari per la diagnosi di DC almeno tre dei sintomi sopra citati.

Per l’ICD-10 (F91) i DC sono caratterizzati da una modalità ripetitiva e persistente di condotta

antisociale, aggressiva o provocatoria, la cui diagnosi va posta tenendo in considerazione l’età del

bambino ed escludendo alcune manifestazioni tipiche di fasi precoci quali accessi d’ira e aggressività

saltuaria.

I sintomi più frequenti sono: manifestazioni aggressive verso persone o cose, crudeltà verso

gli animali, danni a proprietà (distruzioni, furti, incendi), marcati accessi d’ira scarsamente motivati,

assenze da scuola e fughe da casa, comportamento provocatorio e insolente, rifiuto di qualsiasi regola.

Sono esclusi da questa diagnosi tutti i comportamenti antisociali isolati o molto saltuari.

I soggetti con DC hanno scarsa capacità di dare valore alle necessità del benessere altrui, non

si percepiscono problematici, anzi ritengono gli altri offensivi e minacciosi nei propri confronti e per

tale motivo giustificano il loro comportamento aggressivo e antisociale. Genitori e insegnanti

frequentemente non comprendono questi comportamenti come espressione di una patologia,

ritengono il bambino capriccioso e necessario di castighi e punizioni, potenziando così le dinamiche

vissute e aggravando le manifestazioni patologiche.

Una delle conseguenze del disturbo della condotta è la delinquenza minorile che si riferisce

ad una serie di comportamenti tesi a violare la legge e ad assumere pattern devianti, un concetto più

ampio che spazia dal vandalismo al delitto. Seguendo le statistiche americane, otto giovani su dieci

vanno a delinquere. Negli ultimi due decenni, comunque, c'è stato un trend crescente di reati compiuti

da femmine (Tong, 2010). La delinquenza minorile è stata rilevata in diverse culture quali minoranze

etniche e sub culture devianti in proporzione a tutta la popolazione, come precedentemente citato,

anche da alcuni fattori quali l'eredità, i condizionamenti sociali e le esperienze familiari traumatiche.

In sintesi uno dei fattori, determinanti nello sviluppo e nel mantenimento di comportamenti

associati al disturbo della condotta, è l'adesione a comportamenti indesiderati. La terapia adatta, di

conseguenza, si concentra principalmente su come determinati problemi possono essere stimolati

dall'ambiente sociale di riferimento (Eyberg et al., 2008). Si necessita quindi l’incoraggiamento dei

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giovani ad assumere atteggiamenti e sperimentare situazioni tali da evitare che i su detti problemi

possano incidere nelle scelte individuali.

Oltretutto, si cerca di coinvolgere anche i genitori in modo da evitare che si possano ricreare

delle situazioni che in maniera latente potrebbero favorire comportamenti devianti (Ibidem).

2.1. Tipi e classificazioni

I bambini con disturbi del comportamento rappresentano l'incubo di genitori e insegnanti. Questi

bambini sembrano essere accomunati da una difficoltà di controllo e gestione delle proprie emozioni

e da una compromessa capacità di conformare il proprio comportamento alle richieste dell'ambiente.

Sono bambini che faticano a prendere in considerazione il punto di vista altrui e pretendono che i loro

desideri e necessità abbiano la priorità su tutto e su tutti.

Frequentemente è riscontrabile aggressività, rabbia, oppositività, provocazione e trasgressione di

norme sociali e morali. Questi problemi possono diventare delle vere e proprie patologie psichiche e

costituiscono quelli che vengono chiamati disturbi del comportamento. Le manifestazioni più

facilmente riscontrate sono tre: il disturbo da deficit di attenzione-iperattività, il disturbo della

condotta e il disturbo oppositivo provocatorio.

I bambini con DC ad esordio precoce sono solitamente più aggressivi, manifestano

menomazioni nel funzionamento più marcate e hanno maggiori problemi temperamentali, cognitivi

e neurologici hanno spesso una storia familiare per tale disturbo, provengono da ambienti familiari

peggiori e hanno maggiori problemi sociali rispetto ai soggetti con DC ad esordio adolescenziale

(Moffitt e Caspi, 2001).

I disturbi del comportamento, secondo l'ICD-10, sono una modalità ripetitiva e persistente di

condotta antisociale, aggressiva o provocatoria, introducendo sottocategorie diagnostiche:

- disturbo della condotta limitata al contesto familiare,

- disturbo della condotta con ridotta socializzazione,

- disturbo della condotta con socializzazione normale,

- disturbo oppositivo provocatorio.

Il disturbo della condotta limitato al contesto familiare (ICD-10, F91.0) prevede che il

comportamento antisociale è attuato solo all’interno del nucleo familiare e le manifestazioni possono

essere: furti a scapito dei familiari (specie di denaro), azioni distruttive di oggetti dei componenti la

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famiglia, aggressioni ai membri del nucleo familiare, provocazioni, opposizioni, non rispetto delle

regole familiari, incendi e distruzioni di mobili e apparecchiature del nucleo.

Il disturbo della condotta con ridotta socializzazione (ICD-10, F91.1) è caratterizzato dalla

presenza del comportamento tipico del disturbo e dalla mancata socializzazione con il gruppo dei

coetanei che tendono a isolarlo per il suo comportamento.

Le manifestazioni più frequenti sono: spacconerie e rissosità con i compagni, estorsioni e

aggressioni verso i coetanei, mancato rispetto delle regole comunitarie, rifiuti alla collaborazione,

violenti accessi di rabbia incontrollabile, azioni distruttive delle cose altrui, incendi, crudeltà verso i

compagni e gli animali.

Il disturbo della condotta con socializzazione normale (ICD-10. F91.2) è caratterizzato da un

comportamento antisociale e aggressivo che non avviene nel proprio gruppo di coetanei, nei cui

confronti si comporta adeguatamente anche con legami di amicizia. La condotta antisociale si

manifesta al di fuori del gruppo d’appartenenza, può rivolgersi verso adulti, familiari o altri bambini.

Il gruppo d’appartenenza può essere un gruppo delinquenziale o anche formato da individui normali.

Le manifestazioni più frequenti sono: spacconerie e rissosità con i compagni esterni al proprio

gruppo, provocazioni, opposizioni, rifiuti alla collaborazione, furti, azioni distruttive, estorsioni e

aggressioni, violenti accessi di rabbia incontrollabile, azioni distruttive delle cose altrui, incendi,

crudeltà verso i compagni e gli animali, mancato rispetto delle regole comunitarie.

Il disturbo oppositivo provocatorio (ICD-10, F91.3) è contraddistinto da un comportamento

persistente, ripetitivo e marcatamente ostile, oppositivo e provocatorio, in assenza di attività

antisociali e aggressive. Il comportamento scorretto si manifesta verso adulti e bambini con rapporti

di confidenza.

Le manifestazioni più frequenti sono: sfide, provocazioni, scontri verbali e insulti, opposizioni

alle regole e alle richieste di partecipazione, facile irritabilità, atteggiamenti negativizzanti, insolenti

e offensivi. Da alcuni autori questo tipo non è considerato come DC (DSM-IV) anche se col tempo

può trasformarsi in DC. Secondo il DSM-IV, invece, il disturbo della condotta si caratterizza per una

modalità ripetitiva e persistente di comportamento antisociale, aggressivo e provocatorio, in cui i

diritti fondamentali degli altri o le principali norme o regole societarie appropriate per l'età vengono

isolate, manifestato dalla presenza di almeno 3 dei seguenti criteri nei 12 mesi precedenti, con almeno

un criterio presente negli ultimi 6 mesi. Aggressioni a persone o animali (minacce, frequenti

comportamenti prepotenti; frequente scatenamento di risse; uso di armi che possano arrecare danni

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fisici ad altri; crudeltà fisica con persone o animali; furto con aggressioni, scippo, estorsione o rapina;

attività sessuali imposte ad altri).

Distruzione della proprietà (accensione di fuochi con deliberata intenzione di recare danni,

distruzione deliberata di proprietà altrui). Frode o furto (penetrazione in edifici, domicili o automobili

altrui; frequenti menzogne per ottenere vantaggi o favori; furto di articoli di valore senza affrontare

la vittima). Gravi violazioni di regole (non ritorno a casa per la notte prima dei 13 anni di età non

stante le proibizioni genitoriali; fuga da casa in almeno due occasioni mentre vive con i genitori, non

frequenza delle lezioni, con inizio prima dei 13 anni).

Il disturbo oppositivo provocatorio prevede invece la manifestazione di una modalità di

comportamento negativistico, ostile e provocatorio che dura da almeno 6 mesi, durante i quali si

evidenziano almeno 4 dei seguenti sintomi: collera frequente; litigiosità frequente con adulti; sfida

aperta frequente/rifiuto di rispettar le regole, adulte o meno; frequente provocazione; suscettibilità e

irritabilità; rancorosità e vendetta frequente.

Viene considerato soddisfatto un criterio solo se il comportamento si manifesta più

frequentemente rispetto a quanto si osserva tipicamente in soggetti paragonabili per età e livello di

sviluppo. L'anomalia del comportamento causa in ambedue i disturbi una forte compromissione,

clinicamente significativa, del funzionamento sociale, scolastico o lavorativo, e nel caso in cui il

soggetto ha 18 anni o più, non sono soddisfatti i criteri per un disturbo antisociale di personalità

(DSM-IV, 1994).

2.2. Il Disturbo da Deficit dell’Attenzione (ADHD)

Il disturbo da deficit d'attenzione e iperattività (ADHD) è caratterizzato da un grado di

attenzione scarso, inadeguato per lo sviluppo, o da aspetti di iperattività e impulsività inappropriata

all’età o da entrambi. Si tratta di bambini con un alto livello di attivazione, evidenziando

un’impossibilità nello stare fermi, mostrandosi irrequieti e impulsivi, parlando incessantemente e ad

alta voce (Viola, 2010, 17).

Il disturbo da deficit d'attenzione e iperattività rappresenta una delle condizioni maggiormente

incidenti in età evolutiva, riguardando il 5% circa della popolazione scolare, mediamente un bambino

iperattivo per classe (Fedeli, 2012). La situazione diviene ancora più allarmante se si considerano due

aspetti: da un lato, accanto ai soggetti con una chiara diagnosi del disturbo, esiste un'ampia zona grigia

di bambini e ragazzi che presentano generiche difficoltà d'attenzione e di autoregolazione

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comportamentale; dall'altro lato, tali problematiche determinano sequele particolarmente invalidanti

a tutti i livelli dell'esperienza quotidiana.

Il bambino iperattivo, infatti, non apprende efficacemente, ha difficoltà a interagire in modo

positivo con i compagni, va incontro a numerosi piccoli e grandi incidenti. Il quadro si completa con

un dato ancor più preoccupante: i deficit attentivi presentano un fortissimo rischio di cronicizzazione,

in grado di incidere sull'intera carriera del soggetto (Ibidem).

Storicamente agli inizi del 1900 i bambini con danni neurologici causati da encefalite che

manifestavano sintomi di iperattività, impulsività e disinibizione furono raggruppato sotto l’etichetta

di “sindrome iperattiva”; negli anni sessanta, invece, un gruppo di bambini senza danni neurologici

ma con disturbi di apprendimento e instabilità emotiva, fu descritto come affetto da danno celebrale

minimo (Kaplan, 2002). Il disturbo da deficit di attenzione/iperattività è stato proposto nel DSM-III (1980) per

descrivere aspetti diffusi e problematici che riguardano l’area sia comportamentale che cognitiva,

causandone una significativa ripercussione negativa negli aspetti scolastici.

La caratteristica fondamentale del Disturbo di Attenzione/Iperattività è una persistente

modalità di disattenzione e/o iperattività-impulsività che è più frequente e più grave di quanto si

osserva tipicamente in soggetti ad un livello di sviluppo paragonabile.

Il DSM-IV distingue tre tipi di ADHD: uno prevalentemente inattentivo, uno prevalentemente

iperattivo /impulsivo ed uno combinato (DSM-IV, 1994). I bambini con ADHD mostrano, soprattutto

in assenza di un supervisore adulto, un rapido raggiungimento di un elevato livello di "stanchezza" e

di “noia” che si evidenzia con frequenti spostamenti da un'attività, non completata, ad un'altra, perdita

di concentrazione e incapacità di portare a termine qualsiasi attività protratta nel tempo.

Nella gran parte delle situazioni, questi bambini hanno difficoltà a controllare i propri impulsi

ed a posticipare una gratificazione: non riescono a riflettere prima di agire, ad aspettare il proprio

turno, a lavorare per un premio lontano nel tempo anche se consistente (Ibidem). Quando confrontati

con i coetanei, questi bambini mostrano una eccessiva attività motoria (come muovere continuamente

le gambe anche da seduti, giocherellare o lanciare oggetti, spostarsi da una posizione all'altra).

L’iperattività compromette l’adeguata esecuzione dei compiti richiesti, infatti questi bambini

sono visti, nella gran parte dei contesti ambientali, come agitati, irrequieti, incapaci di stare fermi, e

sempre sul punto di partire. Un adulto può avere l’impressione che il bambino abbia difficoltà a

comprendere le istruzioni e faccia un uso improprio delle abilità di memoria.

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L’eziologia del disturbo non è tuttavia ancora nota, la maggior parte dei bambini con ADHD

non mostrano danni celebrali e la mancanza di una base neurofisiologica e neurochimica specifica

del disturbo suggerisce una causa multifattoriale (Viola, 2010, 19).

Alcuni studi sostengono che le cause derivano da fattori che potrebbero aver contribuito al

verificarsi dell’ADHD quali:

- esposizione prenatale ad elementi tossici,

- prematurità,

- insulti meccanici prenatali al sistema nervoso fetale (Kaplan, 2002).

Le ultime ricerche evidenziano un’incidenza ereditaria di circa l’80%, tuttavia non sono

ancora state identificati geni specifici legati al disturbo. Gli studi di genetica molecolare hanno

individuato due geni legati alla dopamina che risultano alterati (Bisiacchi, Fabbro, 2002).

Di tutt’altra opinione sono gli studi che sostengono e dimostrano che i bambini

istituzionalizzati con una prolungata e drammatica carenza emozionale, sono spesso iperattivi e con

uno scarso livello di attenzione, dimostrando che gli eventi stressanti, danni emotivi, condizioni

socio-economiche contribuiscono all’instaurarsi e al mantenimento dell’ADHD senza tuttavia

risultare un fattore predominante (Kaplan, 2002).

Secondo i criteri del DSM-IV (Ibidem), il Disturbo da Deficit Attentivo con Iperattività

(ADHD, acronimo per l’inglese Attention Deficit Hyperactivity Disorder) e’ caratterizzato da due

gruppi di sintomi o dimensioni psicopatologiche definibili come inattenzione e

impulsività/iperattività. L’inattenzione, o distraibilità, si manifesta soprattutto come scarsa cura per i

dettagli ed incapacità a portare a termine le azioni intraprese: i bambini appaiono costantemente

distratti come se avessero sempre altro in mente, evitano di svolgere attività che richiedano attenzione

per i particolari o abilità organizzative, perdono frequentemente oggetti significativi o dimenticano

attività importanti.

L’impulsività si manifesta come difficoltà, ad organizzare azioni complesse, con tendenza al

cambiamento rapido da un’attività ad un’altra e difficoltà ad aspettare il proprio turno in situazioni di

gioco e/o di gruppo. Tale impulsività è generalmente associata ad iperattività: questi bambini vengono

riferiti "come mossi da un motorino", hanno difficoltà a rispettare le regole, i tempi e gli spazi dei

coetanei, a scuola trovano spesso difficile anche rimanere seduti.

Tutto ciò cause delle assolute conseguenze negative a livello sociale, scolastico ed

occupazionale, poiché causa spesso, per le ragioni analizzate, intraprendere azioni pericolose senza

prima aver ragionato sulle conseguenze (Cornoldi et al., 2009). Tutti questi sintomi non sono causati

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da deficit cognitivo (ritardo mentale) ma da difficoltà oggettive nell'autocontrollo e nella capacità di

pianificazione.

Secondo il DSM-IV alcuni sintomi di iperattività–impulsività o di disattenzione che causano

menomazione devono essere presenti prima dei 7 anni di età, nonostante spesso molti soggetti

vengano diagnosticati dopo che i sintomi permangono da diversi anni, soprattutto per i casi relativi

agli individui affetti dal Tipo con Disattenzione Predominante. Una compromissione deve essere

presente in almeno due contesti (a casa, a scuola o a lavoro). Deve essere chiaramente un’interferenza

col funzionamento sociale, scolastico, o lavorativo adeguato rispetto al livello di sviluppo.

L’anomalia non si manifesta esclusivamente durante il decorso di un Disturbo Pervasivo dello

Sviluppo, di Schizofrenia o di un altro disturbo Psicotico e non è attribuibile ad un altro disturbo

mentale (Disturbo dell’Umore, Disturbo d’Ansia, Disturbo Dissociativo o un Disturbo di Personalità).

La disattenzione può manifestarsi in situazione scolastiche, lavorative e sociali con la conseguenza

di caratterizzare tali soggetti non consentendo a prestare attenzione ai particolari con la conseguenza

di fare errori di distrazione nel lavoro scolastico o in altri compiti. Il lavoro spesso si presenta

disordinato e svolto senza cura e ponderazione poiché i soggetti hanno spesso hanno difficoltà a

mantenere l’attenzione nei compiti e nell’attività di gioco trovando molto difficile di conseguenza

portare a termine i compiti, passando di frequente da un’attività ad un’altra senza completarne

nessuna. Spesso sembra che la loro mente sia altrove o che essi non ascoltino o non abbiano sentito

cosa sia stato detto loro.

I soggetti a cui è stato diagnosticato questo disturbo possono cominciare a fare qualcosa,

passare ad un’altra attività, dedicarsi ancora ad altro, passare a qualcos’altro ancora, prima di portare

a termine qualsiasi cosa. Proprio per questa situazione essi non riescono a portare a compimento i

compiti, incombenze o doveri da svolgere, poiché non riescono a seguire le istruzioni e soddisfare le

varie richieste. L’incapacità di portare a termine i compiti deve essere presa in considerazione nel

fare questa diagnosi solo se è dovuta a disattenzione piuttosto che ad altre possibili ragioni.

Questi soggetti hanno spesso difficoltà nell’organizzarsi per svolgere compiti e attività, poiché

questi richiedono uno sforzo mentale protratto vengono avvertiti come spiacevoli e notevolmente

avversati. Di conseguenza, questi soggetti tipicamente evitano o hanno forte avversione per attività

che richiedono protratta applicazione e sforzo mentale o che richiedono capacità organizzative o

particolare concentrazione.

Questo evitamento deve essere dovuto alle difficoltà del soggetto connesse all’attenzione e

non dovuto ad un’attitudine oppositiva primaria, anche se può manifestarsi, tuttavia, un’opposizione

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secondaria. La modalità con la quale questi soggetti lavorano è caratterizzata da uno stato di

“disorganizzazione” ed il materiale necessario per svolgere i vari compiti viene disperso, adoperato

senza cura e spesso danneggiato. Inoltre si sottolinea una spiccata tendenza a distrarsi da stimoli

irrilevanti e sovente sospendono i lavori in corso, prestando attenzione a rumori o ad eventi privi di

una e vera e propria rilevanza.

Si presentano spesso distratti e sbadati nelle attività, mentre nelle situazioni sociali, la

disattenzione può essere espressa dal fatto che cambiano spesso d’argomento nella conversazione,

non manifestano un ascolto attivo, né un’attenzione alle conversazioni e non seguono le indicazioni

e le regole di giochi e attività. Vista la particolarità di questo disturbo, numerosi sono stati gli studi

sull’attenzione arrivando a teorizzare tre livelli di attenzione:

- l’attenzione sostenuta che rappresenta la capacità di mantenere il livello di attenzione

prolungato nel tempo,

- l’attenzione divisa che consiste nella capacità di prestare attenzione a più stimoli

contemporaneamente,

- lo shift attentivo riguarda l’abilità di spostare alternativamente l’attenzione tra due compiti

(Di Nuovo, 2006).

L’iperattività può essere manifestata, riportando vari esempi dal DSM-IV, agitandosi e

dimenandosi sulla propria sedia, non restando seduti quando si dovrebbe; correndo privi di controllo

o arrampicando in situazioni in cui è fuori luogo; può esprimersi con difficoltà nel gioco o in una

tranquilla dedizione in attività da tempo libero; con il sembrare spesso “sotto pressione” o

“motorizzati”; oppure manifestando un eloquio eccessivo.

Per quanto concerne in particolar modo il contesto scolastico, sia in classe sia nel gioco i

bambini con ADHD si caratterizzano per il continuo cambiamento di attività, visto che perdono

rapidamente l’interesse per ogni iniziativa che venga proposta o che loro stessi iniziano (Cornoldi et

al., 2009).

L’iperattività può variare con l’età del soggetto e con il livello di sviluppo e la diagnosi

dovrebbe essere fatta con cautela con i bambini piccoli. I bambini che muovono i primi passi e i

bambini in età prescolare con questo disturbo differiscono dai bambini con una attività normale per

il fatto che sono sempre in movimento e sempre tra i piedi, saltellano avanti e indietro, si arrampicano

sui mobili, corrono per la casa ed presentano evidenti difficoltà a partecipare ad attività di gruppo

sedentarie all’asilo.

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Il DSM-IV ci riporta alcuni esempi di bambini in età scolare evidenziano comportamenti

simili, ma con una minore frequenza o intensità rispetto ai bambini che muovono i primi passi e ai

bambini in età prescolare. Essi hanno difficoltà nel rimanere seduti, si alzano frequentemente e si

dimenano sulla propria sedia, oppure si aggrappano al suo bordo. Giocherellano nervosamente con

oggetti, picchiettano con le mani, e agitano troppo gambe e piedi. Si alzano spesso da tavola durante

i pasti, mentre guardano la televisione o mentre fanno i compiti; parlano di continuo e fanno troppo

rumore durante attività che dovrebbero comportare calma.

Negli adolescenti e negli adulti i sintomi di iperattività assumono la forma di irrequietezza e

di difficoltà a dedicarsi ad attività tranquille e sedentarie. L’impulsività si manifesta con l’impazienza,

la difficoltà nella gestione dei propri sentimenti e reazioni, per esempio, “sparando” le risposte prima

che le domande siano state formulate completamente, evidenziando difficoltà nell’attendere il proprio

turno, interrompendo sovente gli altri o intromettendosi nei “fatti altrui” fino al punto di causare

difficoltà nell’ambiente sociale, scolastico e lavorativo.

Gli altri possono lamentarsi di non riuscire a dire una parola in una conversazione, poiché i

soggetti con questo disturbo tipicamente fanno commenti quando non è il momento, non ascoltano le

direttive, iniziano conversazioni in momenti non idonei, interrompendo eccessivamente gli altri, sono

invadenti, arraffano oggetti altrui, toccano cose che non dovrebbero toccare, e fanno i pagliacci.

L’impulsività può essere, spesso, anche la causa di incidenti e al coinvolgimento in attività

potenzialmente pericolose senza considerare le possibili conseguenze. Le manifestazioni attentive e

comportamentali compaiono di solito in diversi contesti, che includono la casa, la scuola, il lavoro e

le situazioni sociali. Per fare una diagnosi deve essere presente una compromissione almeno in due

contesti.

Risulta difficile e raro che un soggetto mostri lo stesso livello di malfunzionamento in tutti i

contesti o tutte le volte nello stesso contesto. I sintomi tipicamente peggiorano in situazioni che

richiedono uno sforzo mentale protratto nel tempo o che mancano di attrattiva o novità. I segni del

disturbo possono essere minimi o assenti quando il soggetto riceve frequenti premi per il

comportamento appropriato, quando è sotto stretto controllo, in un ambiente nuovo, quando è

impegnato in attività particolarmente interessanti, in una situazione a due, mentre con molta più

probabilità i sintomi si manifestano in situazioni di gruppo (DSM-IV, 1994).

Per tutte le ragioni precedentemente citate è fondamentale porre una grande attenzione ed

occuparsi della sfera emozionale del bambino con ADHD. Proporre programmi in grado di sviluppare

capacità di empatiche e di comportamenti pro sociali, i quali si rivelerebbero utili poiché in grado di

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aumentare nel bambino la consapevolezza di sé e delle proprie emozioni e lo aiuterebbe nella gestione

complessa dei rapporti interpersonali, accrescendo l’autostima e la possibilità di instaurare buone

relazioni sociali (Tironi, Marzocchi, 2009).

Il clinico, quindi, dovrà attuare un’indagine completa e accurata tramite una raccolta di

informazioni da diverse fonti come quella dei genitori e degli insegnanti, indagando il comportamento

del soggetto in analisi in diverse situazioni ed in ciascun contesto.

2.3. Comorbidità con altri disturbi

All'ADHD possono accompagnarsi altri disturbi come l'ansia o la depressione. Tali elementi

possono complicare notevolmente la diagnosi e il trattamento. Studi accademici e ricerca in ambito

pratico suggeriscono che la depressione nell'ADHD sembra incrementarsi nei bambini parallelamente

alla loro crescita, con un più alto tasso di crescita nelle ragazze che nei ragazzi (Brunsvold, 2008).

Quando un disturbo dell'umore complica l'ADHD sarebbe più auspicabile trattare prima il

disturbo dell'umore anche se i genitori dei bambini che hanno ADHD spesso desiderano che sia

trattato prima l'ADHD, dato che la risposta al trattamento è più veloce (Ibidem). In un recente studio

sui disturbi dell'umore ha evidenziato come i ragazzi con diagnosi di sottotipo combinato hanno

dimostrato di soffrire di ADHD (Bauermeister et al., 2007). Per quanto concerne i disturbi relativi

all'ansia, invece, si è riscontrato essere comune nelle ragazze con diagnosi di sottotipo caratterizzato

da disattenzione di ADHD (Ibidem).

Le caratteristiche associate variano a seconda dell’età e del livello di sviluppo e possono

includere scarsa tolleranza alla frustrazione, accessi d’ira, prepotenza, caparbietà eccessiva e

frequente insistenza sul fatto che le richieste siano soddisfatte, labilità d’umore, demoralizzazione,

disforia, rifiuto da parte dei coetanei e scarsa autostima. I risultati scolastici spesso risultano scarsi,

compromessi e svalorizzati in modo significativo, comportando, tipicamente conflitti con la famiglia

e con le autorità scolastiche.

I disturbi del comportamento nel contesto scolastico sono spesso correlati con il disturbo da

deficit di attenzione/iperattività, infatti i sistemi diagnostici (DSM-IV; ICD-10) correlano tra loro i

disturbi nella sfera dell'attenzione e i disturbi delle manifestazioni comportamentali.

Il DSM-IV riunisce sotto la denominazione disturbi da deficit dell'attenzione e da

comportamento dirompente l'ADHD, il disturbo oppositivo provocatorio e i disturbi della condotta.

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Nell'ICD-10 è presente la descrizione di quadri analoghi sotto la diagnosi generale di disturbi da

condotta ipercinetica. Gli ostacoli più frequentemente incontrati dai bambini con questo tipo di

diagnosi riguardano le aree dell'apprendimento, del controllo dell'aggressività e delle relazioni sociali,

inoltre la presenza contemporanea di comportamenti aggressivi e disturbi della condotta o oppositivo

provocatorio è un forte predittore dell'abuso di sostanze, della delinquenza e dell'iperattività.

La comorbidità con la diagnosi di disturbo dell'apprendimento non raggiunge percentuali

elevate, seppur le difficoltà scolastiche rappresentino un segno centrale del disturbo, mentre risulta

rilevante il fattore rivestito dal rifiuto da parte dei pari. Essa è una delle caratteristiche maggiormente

riscontrate nelle ricerche e nella pratica clinica. Si evidenzia, inoltre, come la valutazione negativa da

parte del gruppo dei pari sia un forte predittore di esiti negativi a lungo termine come abbandoni

scolastici, delinquenza e indici globali di psicopatologia.

I dinamismi e le disfunzioni familiari fanno rilevare frequentemente alti livelli di stress, come

pure difficoltà nella sfera dell'attenzione e dell'apprendimento, nei genitori, che presentano spesso,

oltre alla psicopatologia in sé, elevati tassi di stress e scarso senso di competenza e interazioni

conflittuali con il bambino.

L'ICD-10 definisce il disturbo oppositivo provocatorio in base alla presenza di un

comportamento marcatamente provocatorio, ostile e disobbediente e all'assenza di più gravi atti

antisociali o aggressivi, inserendolo tra i disturbi della condotta, mentre per il DSM-IV, il disturbo

oppositivo provocatorio prevede una modalità di comportamento negativistico, ostile e provocatorio

che dura da almeno 6 mesi, durante i quali si evidenziano almeno 4 dei seguenti sintomi: collera

frequente; litigiosità frequente con adulti; sfida aperta frequente/rifiuto di rispettar le regole, adulte o

meno; frequente provocazione; suscettibilità e irritabilità; rancorosità e vendetta frequente. Viene

considerato soddisfatto un criterio solo se il comportamento si manifesta più frequentemente rispetto

a quanto si osserva tipicamente in soggetti paragonabili per età e livello di sviluppo.

Nel disturbo della condotta l'ICD-10 illustra una modalità ripetitiva e persistente di condotta

antisociale, aggressiva o provocatoria, introducendo sottocategorie diagnostiche: disturbo della

condotta limitata al contesto familiare; disturbo della condotta con ridotta socializzazione; disturbo

della condotta con socializzazione normale; disturbo oppositivo provocatorio.

Secondo il DSM-IV, invece, il disturbo della condotta si caratterizza per una modalità

ripetitiva e persistente di comportamento antisociale, aggressivo e provocatorio, in cui i diritti

fondamentali degli altri o le principali norme o regole societarie appropriate per l'età vengono isolate.

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Per effettuare, infatti, una diagnosi di disturbo dell’attività e dell’attenzione, infatti, il bambino

deve manifestare contemporaneamente la disattenzione, l’iperattività e l’impulsività. L’esperienza

clinica e gli studi neuropsicologici confermano che una compromissione funzionale del bambino che

presenta solo i sintomi del disturbo dell’attenzione è paragonabile a quello del bambino che manifesta

sia disattenzione che iperattività-impulsività (Marzocchi, 2011, 10).

Secondo il manuale dell’OMS la diagnosi di disturbo dell’attività senza iperattività viene

inserita in “altri disturbi specifici comportamentali o emotivi solitamente con insorgenza in età

infantile” (ICD-10, F.98.8).

Molti casi tendono a registrare sintomi sia di disattenzione che di iperattività-impulsività,

predominando o l’una o l’altra caratteristica. Il sottotipo appropriato dovrebbe essere indicato sulla

base della caratteristica sintomatologica predominante negli ultimi sei mesi. I criteri diagnostici del

DSM-IV per il disturbo da deficit di attenzione/iperattività prevede la decodifica in base al tipo: tipo

combinato; tipo con disattenzione predominante; tipo con iperattività/impulsività predominante.

Il Disturbo da Deficit di Attenzione/Iperattività, Tipo Combinato, prevede la comparsa di sei

(o più) sintomi di disattenzione e sei (o più) sintomi di iperattività-impulsività, i quali persistono per

almeno sei mesi. La maggior parte dei bambini e degli adolescenti con questo disturbo presentano

quindi il Tipo Combinato, anche se ciò non può essere applicato con certezza anche per gli adulti

affetti dal disturbo.

Il Disturbo da Deficit di Attenzione/Iperattività, Tipo con Disattenzione Predominante,

caratterizzano questo sottotipo con la presenza e la persistenza di sei (o più) sintomi di disattenzione

(ma meno di sei sintomi di iperattività-impulsività) per almeno sei mesi. L’iperattività può non essere

ancora una manifestazione clinica significativa in molti casi, mentre in altri si tratta solo di

disattenzione.

Il Disturbo da Deficit di Attenzione/Iperattività, Tipo con Iperattività-Impulsività

Predominante, dovrebbe essere usato se sei (o più) sintomi di iperattività-impulsività (ma meno di sei

sintomi di disattenzione) sono persistenti per almeno sei mesi. Tuttavia la disattenzione è anche in

questi casi una manifestazione clinica significativa.

In sintesi i disturbi del comportamento che possono associarsi all'ADHD sono il Disturbo

Oppositivo-Provocatorio (DOP) ed il Disturbo della Condotta (DC). La precocità dell'associazione

ADHD-DC rappresenta un fattore di forte rischio evolutivo e richiede quindi interventi terapeutici

tempestivi, per evitare l'evoluzione verso un disturbo antisociale a varia espressività. Studi in follow-

up tendono a confermare come ADHD e DOP-DC possano essere considerate condizioni cliniche

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almeno parzialmente distinte e che il rischio di evoluzione verso un disturbo antisociale sia legato a

questa comorbidità piuttosto che all'ADHD di per sé.

Bambini con ADHD e DC hanno un DC generalmente più precoce, più grave e duraturo, che

fa seguito ad un iniziale ADHD. Se è vero che circa 1/3 dei bambini o adolescenti con DC evolvono

verso un disturbo antisociale della personalità, appare probabile che i soggetti con comorbidità

ADHD-DC possano rappresentare un sottogruppo a più alto rischio sul piano prognostico, in

particolare se l'ADHD permane in adolescenza (Masi, 2012).

Il rischio di disturbo antisociale è molto inferiore, se non assente, nei bambini con ADHD

senza DC. Il DC, ma non il DOP, è un predittore di una negativa evoluzione, quale l'associazione con

una dipendenza da sostanze; la prognosi sarebbe negativa solo in quella parte minoritaria di DOP che

evolvono verso il DC. Se infatti è vero che il DC è generalmente preceduto da un DOP, il DOP di per

sé è solo un debole predittore di DC (Ibidem).

In un articolo proposto da Gabriele Masi, direttore dell’unità operativa di neuropsichiatria

infantile di Pisa, emergono dati secondo i quali L’ADHD e i disturbi dell’umore presentano una

percentuale variabile di coesistenza che oscilla dal 15 al 75% dei casi a seconda delle diverse

casistiche. Questo rilevante scarto nelle stime epidemiologiche sottolinea la discordanza tra i

ricercatori nell'interpretare manifestazioni depressive come una demoralizzazione implicita al

disturbo oppure come un disturbo depressivo associato.

La frequenza di depressione nei bambini ADHD e nei loro parenti di primo grado è maggiore

rispetto alla popolazione generale sia in campioni clinici che epidemiologici, inoltre i figli di soggetti

con disturbo depressivo hanno un’incidenza maggiore di ADHD. I soggetti con ADHD associato a

disturbi depressivi (e/o ansiosi) hanno una insorgenza più tardiva, una minore compromissione

cognitiva e minori segni di disfunzione neurologica minore; tali dati avrebbero fatto pensare ad un

sottogruppo con distinta eziologia.

Circa il 25% dei bambini con ADHD presenta associati disturbi d’ansia, tale frequenza è

riferita maggiore nei soggetti con ADD senza iperattività, che rappresentano anche la popolazione

che pone nei confronti dei disturbi d'ansia i problemi più spinosi di diagnosi differenziale. Infatti

sintomi cognitivi (difficoltà di concentrazione), comportamentali (irritabilità, agitazione

psicomotoria) ed affettivi (labilità emotiva, demoralizzazione, necessità di rassicurazioni) possono

essere presenti sia in soggetti ADHD che in soggetti con disturbi d'ansia.

I bambini ADHD con comorbidità ansiosa si presentano meno impulsivi, hanno minore

frequenza di DC, mentre sono più frequenti le difficoltà nella socializzazione, in particolare in

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adolescenza. In altri termini sembra che l'associazione con disturbi d'ansia eserciti una azione

protettiva nei confronti di una possibile evoluzione dissociale.

Sintomi del tipo ADHD sono frequentemente descritti in bambini con ritardo mentale o

patologie dello spettro dei disturbi pervasivi dello sviluppo, sia di tipo autistico che non autistico. Si

ritiene che la frequenza di disturbi dell'attenzione con iperattività sia 3-4 volte superiore in soggetti

con ritardo mentale rispetto ai soggetti normodotati, anche se una diagnosi di ADHD non dovrebbe

essere fatta in soggetti con ritardo mentale grave o profondo. In questi casi è spesso difficile

riconoscere i disturbi comportamentali impliciti nel ritardo mentale da quelli legati ad una

comorbidità ADHD.

In generale il problema della comorbidità in questi soggetti è spesso trascurato, per un effetto

generale di mascheramento diagnostico che il ritardo mentale esercita sulle manifestazioni

psicopatologiche ad esso associate.

In questi casi deve essere affrontato il problema della diagnosi differenziale, che è rilevante

soprattutto in età prescolare, quando bambini con disturbi pervasivi dello sviluppo non autistici o

bambini con ritardo mentale presentano una marcata disorganizzazione del comportamento, con

iperattività, discontrollo del comportamento, instabilità affettiva, aggressività, che possono essere

confusi con i sintomi dell'ADHD. La ripetitività e rigidità di questi sintomi è maggiore nei soggetti

con disturbi pervasivi dello sviluppo e/o ritardo mentale, così come è maggiore la frequenza di

disturbi della comunicazione, di ritiro sociale e di stereotipie motorie o linguistiche.

In genere con il passare degli anni la diagnosi differenziale diventa più chiara, ma la possibilità

di una associazione tra questi disturbi può favorire un mascheramento diagnostico che impedisce il

riconoscimento dell'ADHD associato.

Sintomi dell'ADHD possono infine essere riscontrati in bambini o adolescenti che pur in

presenza di un livello intellettivo nella norma o solo lievemente deficitario presentano caratteristiche

atipiche nella qualità delle relazioni interpersonali e nella regolazione delle emozioni. In contesti

sociali questi bambini appaiono scarsamente in contatto con gli altri o mostrano scarsi segni di

interesse emotivo oppure si sentono fortemente a disagio ed hanno gravi alterazioni nelle regole della

interazione sociale. Talora essi reagiscono in modo catastrofico a frustrazioni anche non gravi con

pianto o rabbia. Possono essere presenti manierismi, stereotipie, che si accentuano sotto stress.

Il pensiero può essere atipico, con tendenza alla perseverazione su temi specifici, con

ossessioni o fobie bizzarre, magari con interessi stereotipati, ma talora anche francamente

disorganizzato. Tali bambini ed adolescenti vengono percepiti come bizzarri, strani, eccentrici. Essi

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non rientrano in categorie diagnostiche definite, anche se alcuni ricevono diagnosi di disturbo

pervasivo dello sviluppo non altrimenti specificato, oppure di sindrome di Asperger oppure di

disturbo della personalità schizoide o schizotipico (Masi, 2012).