Ambiente Italia 2012

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Ambiente Italia 2012. Acqua: Bene comune, responsabilità di tutti. A cura di Duccio Bianchi e Giulio Conte

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ambiente italia 2012rapporto annuale di legambiente

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ITALIA

ANNUARI

AMBIENTE2012

ACQUA: BENE COMUNE,RESPONSABILITÀDI TUTTI

Rapporto annualedi Legambiente

a cura di Duccio Bianchie Giulio Conte

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ambiente italia 2012Acqua: bene comune, responsabilità di tutti

A cura di Duccio Bianchi e Giulio ConteautoriLorenzo Andreotti, GiornalistaDuccio Bianchi, Ambiente Italia, Comitato Scientifico LegambienteAnna Bombonato, Ambiente ItaliaLorenzo Bono, Ambiente ItaliaPaolo Carsetti, Forum italiano dei movimenti per l’acquaClaudio Massimo Cesaretti, Economista agrario, Comitato Scientifico LegambienteStefano Ciafani, Vicepresidente Nazionale di LegambienteGiulio Conte, Ambiente Italia e Iridra, Comitato Scientifico LegambienteDamiano Di Simine, Presidente Legambiente LombardiaGiuseppe Dodaro, Ambiente Italia, Vicepresidente Centro italiano per la riqualificazione fluvialeLuca Falasconi, Università di BolognaElena Ferrari, Ambiente ItaliaMarco Mancini, Ufficio Scientifico LegambienteGiancarlo Marini, Responsabile Servizio agricoltura del Parco regionale del MincioFabio Masi, Direttore tecnico di Iridra, Comitato Scientifico LegambienteAntonio Massarutto, Università di UdineMichele Merola, Ambiente ItaliaFrancesco Morari, Università di PadovaAndrea Segrè, Preside della Facoltà di Agraria Università di BolognaViviana Valentini, Ufficio Scientifico di LegambienteGiorgio Zampetti, Responsabile Scientifico di LegambienteEdoardo Zanchini, Vicepresidente e responsabile Energie rinnovabili di Legambiente

La sezione Testi è stata curata da Giulio Conte.La sezione Indicatori è stata curata da Duccio Bianchi, Lorenzo Bono, Elena Ferrari e Michele Merola.

realizzazione editoriale: Edizioni Ambiente srl www.edizioniambiente.it

coordinamento redazionale: Paola Cristina Fraschiniprogetto grafico: GrafCo3 Milano impaginazione: Roberto Gurdo

© copyright 2012, Edizioni Ambiente srlVia Natale Battaglia 10, 20127 Milanotel. 02.45487277, fax 02.45487333

ISBN 978-88-6627-028-7

Finito di stampare nel mese di febbraio 2012Genesi Gruppo Editoriale – Città di Castello (PG)

Stampato in Italia – Printed in Italy Questo libro è stampato su carta riciclata 100%

La pubblicazione è stata resa da

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indice

prefazione 11Vittorio Cogliati Dezza

introduzione 17Giulio Conte

parte prima acque in italia: agricoltura, città e industria

lo stato delle acque in italia: prelievi, consumi, qualità 29Giorgio Zampetti, Marco Mancini

l’evoluzione delle politiche idriche in italia 45Giuseppe Dodaro, Giulio Conte

quale pianificazione per migliorare le acque e ridurre il rischio? 59Giulio Conte

l’acqua e l’agricoltura: un rapporto difficile? 65Lorenzo Andreotti

una nuova prospettiva in tema di sprechi d’acqua 71Andrea Segrè, Luca Falasconi

approcci e tecniche per ridurre i consumi idrici in agricoltura 83Francesco Morari, Giancarlo Marini, Giulio Conte

una tassa di scopo per ridurre i consumi irrigui 91Claudio Massimo Cesaretti

dal letame nascono i fiori:gestione dell’acqua e modifiche dei cicli biogeochimici 95Giulio Conte, Fabio Masi

un’agricoltura diversa per avere acqua per tutti e “in buono stato” 103Giulio Conte

quantità e qualità: i problemi delle acque in città 109Anna Bombonato, Giorgio Zampetti

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idee per una gestione sostenibile dell’acqua in città 123Giulio Conte

piove, governo ladro. fermare il consumo di suolo e l’impermeabilizzazione del territorio 139Damiano Di Simine

rispettare i fiumi e il ciclo dell’acqua per mitigare il rischio idrogeologico sul territorio 149Giorgio Zampetti

tassare le acque in bottiglia per reinvestire sul territorio 153Viviana Valentini

l’idroelettrico di domani: produrre energia rispettando i fiumi 157Edoardo Zanchini, Giulio Conte

acqua e industria: un rapporto risolto? 165Stefano Ciafani

referendum sull’acqua: un voto per il ritorno al futuro 171Paolo Carsetti

i conti senza l’oste: come pagheremo il servizio idrico dopo il referendum? 181Antonio Massarutto

la svolta necessaria dopo la vittoria referendaria 191Stefano Ciafani

parte seconda gli indicatori dello stato dell’ambiente

i 10 indicatori più significativiLa crescita economica 199Povertà nel mondo 200Consumi energetici nel mondo 201Bilancio energetico in Italia 202Produzione di energia da fonti rinnovabili in Italia 203Mobilità delle persone in Italia 204Produzione e gestione dei rifiuti urbani in Italia 205Inventario nazionale delle emissioni di gas serra 206Inquinamento atmosferico delle città in Italia 207Tasse ambientali 208

indicatori in italia e nel mondoLa dimensione socioeconomicaIndice di sviluppo umano 209Disuguaglianze di genere 209Indice di competitività 210

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Reddito pro capite 211Export mondiale 212Prezzi commodity 213Aiuti allo sviluppo 214Denutrizione 215Densità popolazione 216Povertà in Europa 217Povertà in Italia 218Ricchezza delle famiglie 219Rifugiati e profughi 220Spesa militare 220Popolazione straniera in Europa 221Presenza straniera in Italia 221Aids 222Tasso di occupazione 223Tasso educazione universitaria 224Ricerca e sviluppo nel mondo 225Risorse umane scientifiche e tecnologiche 226Telecomunicazioni 227Uso pc 228Accesso internet 229Commercio equo e solidale 230

L’energiaConsumi energetici pro capite 231Consumi energetici per fonte 231Intensità energetica dell’economia 232Produzione elettrica nazionale 232Produzione e consumo di energia elettrica da fonti rinnovabili in Europa 233Consumi elettrici domestici in Ue 234Energia eolica 234Parco termoelettrico 235Biocombustibili 235Solare termico 236Solare fotovoltaico 236

La mobilitàMobilità internazionale delle persone 237Mobilità delle merci 237Mobilità internazionale delle merci 238Trasporto pubblico urbano 239Motorizzazione privata 239Parco autoveicolare 240Consumo carburante 240Qualità urbana: piste ciclabili 240Incidentalità stradale in Italia 241Incidentalità stradale in Europa 241

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I rifiutiGestione e smaltimento rifiuti urbani 242Rifiuti urbani in Europa 242Intensità di rifiuti in Europa 243

Le attività produttiveAree coltivate 244Qualità ambientale dei prodotti 244Produzione agricola 245Agricoltura biologica nel mondo 245Agricoltura biologica in Italia 246Certificazioni ambientali Iso 14001 247Turismo internazionale 247

Il clima e l’ariaEmissioni CO2 in Europa 248Emissioni CO2 da consumo energia 249Emissioni CO2 pro capite 250Emissioni CO2 intensità 251Emissioni di sostanze acidificanti in Europa 252Emissioni di precursori di ozono in Europa 252Emissioni di microinquinanti in Europa 253Emissioni di microinquinanti in Italia 253

Le risorse naturaliEstensione foreste 254Aree protette di interesse ambientale 254Balneabilità coste 255Stato ecologico dei laghi 255Qualità biologica dei fiumi 256Qualità delle acque sotterranee 257Specie endemiche 257Impronta ecologica 258

Le politiche ambientaliSpesa ambientale dello Stato 259Tasse ambientali Ue 259

indicatori nelle regioni italianeLa dimensione socioeconomicaPil pro capite 261Densità della popolazione 262Incidenza della povertà relativa 263Presenza straniera 264Tasso di occupazione 265Accesso internet 266

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L’energiaConsumi elettrici domestici 267Produzione lorda di energia elettrica per fonti 268

La mobilitàParco veicolare 269Tasso di motorizzazione 270

I rifiutiRaccolta differenziata 271Produzione rifiuti urbani 272

Le attività produttivePresenze turistiche 273Agriturismo 274Certificazioni ambientali Iso 14001 275

Le politiche ambientaliIllegalità ambientale 276

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prefazione

Per conoscere la qualità del vino non c’è bisogno di bere tutta una botte.

Oscar Wilde

Quando abbiamo cominciato a ragionare sull’edizione di Ambiente Ita-lia 2012 si era da poco concretizzato lo straordinario successo referenda-rio (per noi doppiamente straordinario, vista la vittoria contro il nuclea-re!). È stato naturale, e direi doveroso, a quel punto decidere di dedicare la parte monografica del Rapporto annuale di Legambiente e Ambien-te Italia all’acqua. La duplice vittoria referendaria rappresenta, infatti, un punto di svol-ta a vari livelli. Innanzitutto nella vita democratica italiana: dopo anni un referendum supera il quorum senza incertezze (ha votato il 57% de-gli elettori) raggiungendo in pieno l’obiettivo. Un punto di svolta, for-se a maggior ragione, anche per il modo in cui lo ha raggiunto. È stato uno straordinario momento di partecipazione e di affermazione da par-te di intere comunità della volontà di riappropriarsi del diritto di parola e di decisione su questioni pubbliche, di interesse generale e insieme di irriducibile valore quotidiano. Non solo, si sono determinate anche for-me nuove di partecipazione. Come sottolineava Ilvo Diamanti a pochi giorni da quel risultato, il 16% degli elettori (circa 7 milioni di persone di cui 1/3 giovani, e quindi per la prima volta chiamati al voto) ha fat-to campagna elettorale attiva, con forme e strumenti nuovi e vecchi (ab-

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biamo visto comparire di nuovo le auto con gli altoparlanti sul tetto!), ma soprattutto con un fortissimo senso del territorio e del ruolo della co-munità che lo abita. Considerazioni queste che valgono per tutti e due i referendum. Ma, mentre per il nucleare il referendum ha rappresentato la chiusura di un capitolo, per l’acqua, invece, la vittoria ha soprattutto aperto la strada alla riflessione, in particolare su tre aspetti.

Sicuramente i ripetuti tentativi, prima del governo Berlusconi e poi del governo Monti, di “aggirare” il chiarissimo voto degli italiani dimostra-no che la volontà di proseguire nella privatizzazione dei servizi pubblici, per quanto delegittimata, è tutt’altro che scomparsa, anzi si pone anche un problema di difesa del risultato referendario, per non far rientrare dal-la finestra quello che il referendum ha cacciato dalla porta.Con altrettanta certezza possiamo sostenere che il referendum ha fatto fare un enorme passo avanti alla tematica dei beni comuni, con tutta la sua carica di novità e di apertura di ulteriori possibili sviluppi nella ri-scoperta del valore della dimensione pubblica. Perché i beni comuni so-no quei beni, spesso anche immateriali, nei quali una comunità si iden-tifica e si riconosce, che sono al di là del diritto privato e del diritto pub-blico, della proprietà statale e del mercato, e che fanno riemergere dalla storia della nascita del capitalismo la dolorosa esperienza delle enclosu-res, le recinzioni che rappresentarono l’“appropriazione indebita” di ter-re che erano di nessuno perché erano di tutti.

L’attenzione ai beni comuni, per Legambiente, non è una novità, né l’e-splosione del tema ci coglie di sorpresa. Già nel Congresso del 2007 af-fermavamo che “il liberismo è nemico dell’ambiente. Uso del suolo, ac-qua, biodiversità, qualità dell’aria, devono essere regolati con rigore e nel-la consapevolezza che i beni ambientali sono beni scarsi ma beni comuni, e che mai, dunque, devono essere trattati come merci” e ancora “l’ac-qua è un bene comune, il suo utilizzo deve rispondere a criteri di utili-tà pubblica”. E oggi che tutti parlano a proposito e a sproposito di beni comuni, con tutta l’ambiguità che un termine di moda può implicare, si delinea un’opportunità nuova per dare ossigeno al ruolo della dimen-

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prefazione 13

sione pubblica, per creare comunità più consapevoli e coese, che sanno affrontare con proposte concrete i problemi quotidiani, esattamente co-me è successo nei referendum.Infine, bisogna capire e condividere qual è il problema. Il movimento per l’acqua, fin dal suo sorgere con il Contratto Mondiale, alla fine del seco-lo precedente, anche grazie all’innesto nel più vasto movimento del so-cial forum, era caratterizzato, soprattutto qui da noi, da forti motivazioni sociali, economiche, di governance. Poi le cose hanno iniziato lentamen-te a cambiare e l’attenzione all’ambiente è cresciuta, l’intreccio sociale/ambientale si è diffuso, per effetto soprattutto dell’esplosione di nuove emergenze (penso per esempio al drammatizzarsi del fenomeno dei pro-fughi ambientali nel sud del mondo o al diffondersi di catastrofi come quelle provocate dall’uragano Katrina a New Orleans). La campagna re-ferendaria, dalla raccolta delle firme in poi, ha visto maturare una nuova attenzione agli aspetti ambientali. Sul territorio, soprattutto nei piccoli comuni, era evidente che la gestione della risorsa idrica, la sua salvaguar-dia, l’intreccio con il complesso sistema idrico, dalla sorgente alla foce, passando per gli usi urbani e produttivi e la depurazione, rappresentasse-ro un unico grande nodo di problemi da tenere ben connesso. Connes-sioni che erano meno evidenti nella “civiltà” a intensa urbanizzazione.

Qui si apre una sfida importante che chiama in causa direttamente la re-sponsabilità politica e culturale degli ambientalisti, ovvero la necessità di affrontare la questione acqua nella complessità del sistema idrico per ca-pire come sia possibile oggi “risolvere il problema”. Per avanzare su que-sta strada non basta, ovviamente, rifarsi a quanto stiamo da anni soste-nendo. Noi per primi dobbiamo fare lo sforzo di ricollocare la questione nella sua dimensione sistemica, come si dice nel nostro gergo ambienta-lista, senza sottovalutare gli aspetti socio-economici, ma evitando il ri-schio che tutto si esaurisca in questa lettura, per il semplice fatto che an-che questioni strettamente di matrice socio-economica, come per esem-pio la questione della governance, della ripubblicizzazione, delle risorse, al di fuori di una lettura sistemica del ciclo idrico e dei diversi consumi che la risorsa subisce, al di fuori di una chiara consapevolezza dei rischi e

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dei problemi ambientali da risolvere risulterebbe incapace di individuare una soluzione effettiva. Si tratta cioè di tenere insieme le politiche agri-cole con quelle industriali, la cura ecologica dei sistemi territoriali con l’urbanistica e l’innovazione tecnologica negli edifici e nei quartieri, l’as-setto istituzionale con il reperimento delle risorse. La complessità dei problemi e la necessità di tenere insieme i diversi aspet-ti ci dicono che il problema acqua si può affrontare solo con un potente spirito di innovazione e cambiamento.

Servono politiche innovative per delineare una governance che prenda le distanze dall’ideologismo che vive in quelle posizioni che dopo i falli-menti di questi anni continuano a pensare che la privatizzazione rappre-senti una soluzione reale. E soprattutto servono politiche capaci di in-tervenire in città e nel territorio per configurare nuove soluzioni e nuo-ve opportunità.È indubbio che negli ultimi decenni si stia riducendo la disponibilità di acqua, ma soprattutto la qualità non migliora come imposto dalle diret-tive europee. Non basta quindi intervenire seriamente e con una pro-spettiva strategica sulla riduzione dei consumi, individuando i settori più idroesigenti e gli interventi di razionalizzazione possibili, serve interveni-re immediatamente sulla qualità in tutti i settori del sistema idrico, ap-plicando con coerenza il principio del full cost recovery. Per quanto siamo in ritardo ancora nella depurazione, dobbiamo avviare immediatamente un processo di innovazione e riorganizzazione nelle città, per valorizzare per esempio negli edifici la separazione tra acque grigie e acque nere o la raccolta e l’uso delle acque piovane. A tale proposito è urgente applicare anche a questo settore la misura della detrazione fiscale del 55% per in-terventi di razionalizzazione e risparmio idrico.

Con il Rapporto di quest’anno vogliamo entrare nel merito di questi aspetti, che più ci riguardano come ambientalisti, ma da cui pensiamo che nessun movimento sociale possa ormai prescindere se vuole essere parte della soluzione e non semplicemente attestarsi nella posizione di denuncia delle malefatte e delle incapacità degli altri.

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prefazione 15

Non abbiamo la presunzione di pensare che il nostro ragionamento sia l’unico utile. Tutt’altro, pensiamo però che sia un tassello indispensabi-le da connettere con gli altri perché si facciano concreti passi avanti nel-la soluzione delle numerose falle del sistema idrico italiano e della sua gestione. Le riflessioni e le proposte che avanziamo in questo Rappor-to vogliono solo essere un contributo per aprire una riflessione ampia su quali debbano essere le politiche di sistema, con quali risorse, con quali strumenti. L’attenzione che c’è oggi intorno a questi temi deve trasfor-marsi in nuova consapevolezza delle strade che è necessario percorrere per giungere a una soluzione.

Vittorio Cogliati DezzaPresidente Nazionale Legambiente

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introduzione Giulio Conte

Nel primo rapporto Ambiente Italia, uscito nel 1989, uno dei capitoli sulle acque fu affidato a Mario Di Carlo, chimico, dirigente storico di Legambiente, amico, scomparso prematuramente lo scorso anno. Scri-veva, Mario, a proposito della depurazione in Italia: “Molte sono state le risorse finanziarie che sono state spese nel settore, si parla di una ci-fra tra i 20.000 e i 30.000 miliardi [di lire, pari a circa 10-15 miliardi di euro]. Abbiamo una potenzialità di buon livello che coprirebbe buona parte delle necessità del nostro paese, ma il livello di funzionamento e di efficienza di questa rete è veramente scarso”.

Dieci anni più tardi, nel 1998, il rapporto Ambiente Italia dedicava un’am-pia parte monografica alle acque. Molte cose erano cambiate: la legge di difesa del suolo e la costituzione delle Autorità di bacino, la raziona-lizzazione della gestione delle acque e degli scarichi urbani, con la legge 36 del 1994. Eppure, nell’introduzione, Lucia Venturi e io lamentava-mo come la politica delle acque fosse ancora sostanzialmente un lungo elenco di opere (acquedotti, fognature, depuratori, argini, rettificazio-ni) mancando di misure tese “a ridurre le emissioni alla fonte ricorrendo alle tecnologie pulite, a disincentivare lo sviluppo urbanistico irraziona-le che tanti danni provoca al sistema idrico, a prevenire l’inquinamen-to diffuso, a rinaturalizzare i corsi d’acqua per restituire loro l’originaria capacità autodepurativa”.

giulio conte – Ambiente Italia e Iridra, Comitato Scientifico Legambiente.

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Un altro decennio è trascorso e ancora molto è cambiato. La direttiva quadro sulle acque approvata nel 2000 (numero 60), in parte anticipa-ta in Italia dal Dlgs 152/99, ha radicalmente cambiato le politiche idri-che europee: gli stati membri non possono limitarsi a garantire gli “usi” dell’acqua (la potabilità, la balneabilità) e a depurare gli scarichi, ma de-vono adottare Piani a scala di bacino che puntino a raggiungere il “buo-no stato” degli ecosistemi acquatici. Ma il primo decennio del 2000 ha anche visto svilupparsi intorno al tema dell’acqua un enorme movimento di opinione internazionale. Dalla presentazione nel 1998 del “Contratto mondiale per l’acqua”, in molti paesi del mondo grandi masse di cittadi-ni hanno manifestato con forza la loro volontà che il servizio idrico non venga affidato al mercato e rimanga saldamente nelle mani pubbliche.

Il 2011 è stato in Italia l’anno della vittoria del sì al referendum sull’ac-qua, un evento importante non solo per le politiche idriche ed energeti-che oggetto dei referendum, ma anche per la democrazia italiana in ge-nerale: da molti anni, infatti, lo strumento referendario sembrava incapa-ce di smuovere l’opinione pubblica. Il consenso della maggioranza degli italiani al referendum sull’acqua è un risultato importante e un prezioso tesoro per tutti coloro che hanno a cuore un’Italia più pulita e più giu-sta. È fondamentale però che il credito ottenuto grazie al consenso po-polare sia utilizzato per migliorare le politiche e renderle più efficaci ed efficienti, oltre che eque. Come apparirà chiaro ai lettori di Ambiente Italia 2012, vinto il referendum, restano ancora aperte importanti do-mande. La gestione pubblica sancita dal referendum riguarda meno del 20% dell’acqua consumata in Italia e il restante 80% non ci interessa? L’acqua in mano pubblica garantisce “di per sé” una gestione corretta o è necessario prevedere meccanismi di controllo e partecipazione alle scel-te? Non servono anche strumenti che orientino cittadini e imprese ver-so un uso responsabile dell’acqua?

Per questo il Rapporto annuale a cura di Legambiente e Ambiente Italia torna ancora una volta sul tema dell’acqua. Un tema complesso e artico-lato che intreccia aspetti diversi: dal rischio idraulico e geomorfologico,

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introduzione 19

alla gestione del servizio idrico, alla tutela della biodiversità (le specie di pesci delle acque interne sono tra i gruppi più a rischio di estinzione) e del paesaggio (gli architetti che originariamente hanno disegnato valli, pianure e coste – non dimentichiamolo – sono i fiumi), alla produzio-ne industriale ed energetica, all’agricoltura e all’autosufficienza alimen-tare. Gli esperti che hanno contribuito a questo Ambiente Italia ci per-mettono di abbracciare il tema nella sua complessità e di delineare un quadro di sufficiente chiarezza: dove siamo ora e che direzione è neces-sario prendere.

Sulla drammatica situazione del rischio idrogeologico non serve forni-re dati (che pure Legambiente e Protezione Civile forniscono periodi-camente con i rapporti Ecosistema Rischio): gli eventi drammatici verifi-catisi nel 2011 in Lunigiana, Liguria e Sicilia – solo per citare gli ultimi in ordine di tempo – ne sono la più evidente testimonianza. Sembra or-mai generalmente riconosciuto che se gli eventi meteorologici eccezionali – che si ripetono ormai quasi ogni anno – sono presumibilmente legati al cambiamento climatico, le cause dei disastri sono da attribuire in lar-ga misura al mezzo secolo di progressiva urbanizzazione (si veda in pro-posito il contributo di Damiano Di Simine, Fermare il consumo di suolo e l’impermeabilizzazione del territorio), che ha radicalmente modificato la risposta idrologica del territorio. Sulle strategie per affrontare il proble-ma resta però notevole confusione. Molti sindaci dei Comuni interessa-ti dagli eventi alluvionali dello scorso autunno ritenevano, per esempio, che per ridurre il rischio fosse necessario e urgente dragare gli alvei dei corsi d’acqua, mentre la gran parte degli “esperti” consultati dai media a ridosso della tragedia, chiedeva politiche per favorire la “manutenzio-ne” del territorio montano abbandonato. Si tratta di azioni nel miglio-re dei casi inutili, nel peggiore dannose, in grado di aggravare il proble-ma piuttosto che risolverlo. L’escavazione degli alvei – praticata allegra-mente per decenni nella seconda metà del secolo scorso – è all’origine di buona parte dei problemi di dissesto del territorio italiano (si vedano in proposito i lavori di Hervé Piegay, Massimo Rinaldi, Pino Sansoni e Nicola Surian citati nel volume curato da A. Nardini, G. Sansoni per il

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Cirf, La riqualificazione fluviale in Italia. Linee guida, strumenti ed espe-rienze per gestire i corsi d’acqua e il territorio, 2006). Quanto alla manu-tenzione e/o pulizia del reticolo idrografico minore nelle parti montane dei bacini, si tratta di pratiche che tendono ad accelerare i tempi di cor-rivazione, aumentando i picchi di piena. L’abbandono delle attività agri-cole tradizionali in montagna ha certamente degli effetti negativi, ma la sostituzione di prati pascoli con arbusteti e boschi, non può che avere ef-fetti positivi sulla risposta idrologica complessiva dei bacini idrografici.

Le strategie da attuare sono purtroppo più complesse e articolate: Gior-gio Zampetti nel suo contributo, Rispettare i fiumi e il ciclo dell’acqua per mitigare il rischio idrogeologico sul territorio, ne fornisce un’utile sin-tesi. Si tratta in buona sostanza di restituire condizioni di naturalità in tutte le porzioni di bacino dove questo è possibile – le “teste” dei baci-ni, ma anche le aree agricole collinari e le porzioni di piane alluvionali salvate dall’urbanizzazione – lasciando quindi la possibilità ai corsi d’ac-qua di esondare o erodere dove questo può avvenire senza minacciare vite umane, e concentrare opere e interventi di manutenzione su brevi tratti di corsi d’acqua fortemente urbanizzati dove è impensabile delo-calizzare i beni esposti.

Ma veniamo allo sfruttamento delle risorse idriche. I dati presentati da Giorgio Zampetti in Lo stato delle acque in Italia, per quanto ancora incerti in particolare sui consumi agricoli – che oscillano tra i 20 e i 30 miliardi di metri cubi a seconda delle stime –, ci confermano qualcosa che in realtà sapevamo da tempo: in Italia il prelievo idrico è eccessi-vo. Prelevare tra i 40 e i 50 miliardi di metri cubi ogni anno, in parti-colare concentrati nel periodo estivo, impoverisce troppo fiumi e falde e li rende incapaci di ospitare comunità ecologiche equilibrate e di ri-cevere il carico inquinante – ancorché depurato – prodotto sul territo-rio nazionale. Una riduzione dei consumi – e quindi dei prelievi – per lasciare più acqua alla circolazione naturale è necessaria per raggiunge-re ecosistemi acquatici in “buono stato” come richiesto dalla direttiva quadro. Una particolare attenzione questo volume la dedica al compar-

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to agricolo, ultimamente trascurato anche se di gran lunga il maggior consumatore d’acqua in Italia e in buona parte d’Europa. Il contribu-to di Francesco Morari, Giancarlo Marini e Giulio Conte, Approcci e tecniche per ridurre i consumi idrici in agricoltura, spiega come sia tec-nicamente possibile una riduzione di almeno il 30% dei consumi a pa-rità di superficie irrigata mentre quello di Claudio Massimo Cesaret-ti, Una tassa di scopo per ridurre i consumi irrigui, suggerisce una stra-da per trovare le risorse per le aziende agricole disposte a innovare. Ma i contributi di Lorenzo Andreotti, L’acqua e l’agricoltura: un rapporto difficile?, e Giulio Conte, Un’agricoltura diversa per avere acqua per tut-ti e “in buono stato”, mostrano la necessità di una maggior attenzione al tema “acqua”, da parte dei sistemi comunitari di sostegno all’agricol-tura mentre quello di Andrea Segrè e Luca Falasconi, Una nuova pro-spettiva in tema di sprechi d’acqua, sottolinea l’importanza delle scelte dei consumatori (che possono orientare il mercato verso produzioni a minor “impronta idrica”).

Certo la riduzione dei prelievi non è tutto; il problema della qualità del-le acque dei nostri fiumi – con più del 50% dei campioni analizzati che non raggiunge il buono stato – dipende anche da un sistema di depu-razione inadeguato. Le considerazioni di Mario Di Carlo pubblicate in Ambiente Italia 1989 si riferivano ai depuratori censiti dall’Anci (Asso-ciazione nazionale dei Comuni italiani) nel 1987, che erano 1.581 per una capacità effettiva di depurazione pari a circa 37 milioni di abitanti equivalenti. Oggi i depuratori (dati Istat riferiti al 2008) sono 7.000 per una capacità di depurazione effettiva che supera i 75 milioni di abitan-ti equivalenti. Eppure la qualità delle acque dei nostri fiumi, laghi e ma-ri è ancora ben lontana dal pieno recupero che sarebbe lecito attendersi. Il problema intuito da Mario Di Carlo già più di 20 anni fa – non ba-sta costruire depuratori per avere acque in buono stato – è rimasto so-stanzialmente immutato fino a oggi. Certo, il completamento della rete depurativa (circa il 30% degli scarichi ancora non è depurato) è neces-sario, ma negli ultimi 10 anni è cresciuta, nel mondo tecnico scientifi-co, la consapevolezza che il problema dell’inquinamento delle acque non

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possa essere risolto solo attraverso la depurazione. Ne davo conto nell’in-troduzione a Nuvole e sciacquoni, il libro con cui, nel 2008, ho cercato di portare anche in Italia il dibattito internazionale sull’innovazione tec-nica nei sistemi di igiene urbana e ingegneria sanitaria: “da oltre un de-cennio, a occhi esperti di tutto il mondo, è risultato sempre più chiaro che il modello di gestione delle acque nelle nostre città non è sostenibile. Non è sostenibile il modello ‘urbano’, basato su ‘prelievo, distribuzione, utilizzo, fognatura, depuratore, scarico’, perché comporta un uso ecces-sivo di risorse idriche di altissima qualità, perché produce inquinamen-to che può essere solo parzialmente ridotto ricorrendo alla depurazione, perché non si cura di riutilizzare risorse preziose come l’azoto e il fosfo-ro contenute nelle ‘acque di scarico’. Non è sostenibile il modello ‘do-mestico’, perché è basato su una serie di pratiche come minimo rozze, se non completamente illogiche: l’approvvigionamento idrico delle nostre case attraverso un’unica fonte – l’acqua fornita dall’acquedotto pubbli-co –, anche quando sarebbe possibile, utile e conveniente raccogliere e usare l’acqua di pioggia; il consumo indiscriminato dell’acqua potabile, usata in grandi quantità per scaricare il wc; l’eliminazione di tutti i nostri scarti attraverso un unico sistema di scarico – siano essi escrementi con carica batterica altissima, urine ricche di prezioso azoto, o acqua pratica-mente potabile usata per sciacquare la frutta”. Anche su questi temi Am-biente Italia 2012 propone, nei contributi di Giulio Conte e Fabio Ma-si, Dal letame nascono i fiori: gestione dell’acqua e modifiche dei cicli bio-geochimici, e Giulio Conte, Idee per una gestione sostenibile dell’acqua in città, riflessioni e soprattutto soluzioni: dalla separazione delle reti, ai si-stemi di trattamento decentrato, al riuso delle acque usate, fino alla se-parazione alla fonte delle urine.

Insomma il bilancio degli ultimi 20 anni di politiche idriche non è gran-ché soddisfacente in termini di risultati raggiunti: il successo ai referen-dum e la diffusione nel mondo tecnico scientifico di nuovi approcci più attenti agli aspetti ecologici possono essere i segnali di un cambiamen-to di tendenza?

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Al momento il dibattito sull’attuazione dell’esito referendario si concen-tra sugli aspetti economico finanziari: come restituire nelle mani pub-bliche le proprietà delle aziende che, negli anni scorsi, sono state aper-te ai capitali privati? Da dove prendere le risorse per gli ingenti investi-menti necessari per completare (e dovremmo aggiungere rinnovare!) le infrastrutture per il servizio idrico integrato? Su quest’ultima domanda proponiamo in questo volume punti di vista diversi: accanto a quello di Paolo Carsetti, del Forum italiano dei movimenti per l’acqua, quello dell’economista Antonio Massarutto, molto criticato proprio dal movi-mento stesso. Questa scelta, lungi dall’essere “cerchiobottista” segna la specificità della posizione di Legambiente (ma mi sentirei di dire, anche di gran parte del movimento ambientalista italiano, che degli studi e dell’e-sperienza del professor Massarutto si è spesso servito in passato) all’in-terno del movimento referendario, che pure l’associazione ha sostenuto con convinzione. Una specificità che richiede spazi di approfondimento e di confronto su alcuni aspetti (per esempio il principio del full cost re-covery, da abbandonare secondo Paolo Carsetti, da preservare il più pos-sibile secondo il contributo di Stefano Ciafani, La svolta necessaria dopo la vittoria del referendum) ma che certamente costituisce un elemento di ricchezza per tutto il movimento per l’acqua bene comune, sia in termi-ni di proposta politica sia di capacità di aggregazione.

Ma forse il contributo più importante che gli ambientalisti possono por-tare al dibattito post referendario non riguarda gli aspetti economico finanziari, ma proprio il “che fare”. E Ambiente Italia 2012 è senz’al-tro, da questo punto di vista, un sasso nello stagno. Al lettore, infatti, apparirà chiaro che le cose da fare non si limitano affatto a ridefinire gli assetti proprietari degli enti di gestione o anche a riformare i mec-canismi di finanziamento del Servizio idrico integrato, ma abbraccia-no le politiche agricole e quelle industriali, le politiche territoriali in senso ampio e quelle urbanistiche e di difesa del suolo in particolare. Si tratta di un cambiamento profondo che richiederà una riforma nor-mativa articolata (i cui contenuti sono solo in parte anticipati nei con-tributi di Giuseppe Dodaro e Giulio Conte, L’evoluzione delle politiche

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idriche in Italia, e Giulio Conte, Quale pianificazione per migliorare le acque e ridurre il rischio?).Ma soprattutto richiede un cambiamento delle coscienze. Il movimen-to referendario ha avuto il grande merito di riaccendere l’attenzione sui “beni comuni”. Quelle cose che non possono essere privatizzate, né ven-dute o comprate, semplicemente perché non appartengono a qualcuno in particolare, ma a tutti. Riconoscere il valore di bene comune all’acqua ha un profondo significato antropologico e politico, indipendentemente dalle scelte tecnico-operative riguardanti la sua gestione. Prendersi cura dei beni comuni implica diritti e responsabilità: sarebbe una ben misera vittoria se la gestione pubblica dell’acqua fosse finalizzata a mantenere basse le tariffe. Quale valore attribuiamo al più prezioso dei beni comu-ni se non siamo disposti a pagare il prezzo di due o tre caffè per riceve-re a casa 1.000 litri di acqua perfettamente potabile, che – compreso nel prezzo – vengono anche ritirati dopo l’uso, depurati e restituiti all’am-biente in buone condizioni?

Il dibattito intorno ai beni comuni è parte di una più ampia riflessione sul cambiamento del modello di sviluppo. Ormai è evidente a tutti, che la ripresa della “crescita”, attesa per uscire dalla crisi che morde tutt’Eu-ropa, non può riguardare la produzione e il consumo di beni fisici, ma la loro qualità, intesa anche come sostenibilità ambientale ed equità sociale del processo produttivo. Questo implica per i cittadini la responsabilità di riconoscere il valore di tale qualità e il farsi carico dei suoi costi, an-che quando questo significa modificare il proprio “paniere” di consumi e consumare (o sprecare) un po’ meno. In altre parole se, come propo-sto su queste pagine da Claudio Massimo Cesaretti, riteniamo utile una tassa di scopo sugli usi agricoli dell’acqua per disincentivare gli sprechi e finanziare gli investimenti, dobbiamo poi essere disposti a farcene carico anche noi, quando andiamo al mercato a comprare arance o pomodori.

La crisi economica, arrivata dopo un lungo periodo di “deregulation”, è la prova che deve essere la politica – nel suo senso più nobile – e non il mercato a guidare lo sviluppo umano. Ma il mercato deve rispondere

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alla politica integrando nel valore di beni e servizi, gli effetti della buo-na politica, orientando così le scelte dei cittadini. Nelle democrazie di mercato le cose funzionano così: l’alternativa è l’economia pianificata e i piani quinquennali, soluzioni che riguardano altri sistemi di governo e, almeno per il momento, non se ne prevede il ricorso nei paesi dell’U-nione europea.

Grazie al successo del referendum, l’idea di bene comune si sta esten-dendo. In Lombardia, il 2011 si è chiuso con l’approvazione di una leg-ge che riconosce anche il suolo quale “bene comune”. Seppure insoddi-sfacente negli strumenti di tutela, la nuova legge lombarda è un segnale positivo. La sfida ora è tutta nel definire sistemi di regole dei beni co-muni che, bilanciando in modo equilibrato vincoli e strumenti econo-mici – quali tasse di scopo e canoni d’uso: per esempio, prevedendo un canone per tutti coloro che occupano suolo, commisurato all’imperme-abilizzazione – , spingano i diversi attori che operano sul territorio a ri-durre la propria “impronta” su di esso e sulle sue risorse naturali. Esten-dere al suolo il concetto di “bene comune”, traducendolo in scelte po-litiche forti, è dunque una delle strade da seguire con convinzione per migliorare anche le acque. E sarà forse il modo per provare almeno a ri-spondere, con cinquant’anni di ritardo, alla domanda di Gianni Roda-ri: “Spiegatemi voi dunque, in prosa od in versetti, perché il cielo è uno solo, e la terra è tutta a pezzetti” (tratto dalla poesia “Il cielo è di tutti”).

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i conti senza l’oste: come pagheremo il servizio idrico dopo il referendum?Antonio Massarutto

Il referendum ha affermato – nel caso ce ne fosse bisogno – che l’acqua è un bene comune che appartiene a tutti i cittadini, e che per la sua es-senzialità deve essere accessibile. Il servizio idrico – il sistema di gestione e le infrastrutture che permetto-no ai cittadini di fruire di questo bene comune – può essere considera-to come un enorme condominio, del quale tutti facciamo parte. Come ogni condominio che si rispetti, anche questo deve ripartire i suoi costi tra i condomini. “Comune”, del resto, viene dal latino cum muniis, e al-lude al fatto che per condividere i diritti sulla cosa comune occorre con-dividere anche i doveri.

i numeri del problema

Accessibile, dunque: ma non per questo gratuito. La variabile indipen-dente di questo ragionamento è che il costo necessario per far funziona-re il sistema deve essere, in qualche modo, coperto.Complessivamente, il costo operativo (ossia la pura gestione) si può quan-tificare in 5 miliardi di euro/anno, corrispondenti allo 0,3% del Pil. So-no le spese per il personale (circa 1/3), per l’energia, le materie prime, le forniture di beni e servizi che le gestioni acquistano dall’esterno per il loro funzionamento.

antonio massarutto – Docente Economia pubblica Università di Udine.

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A questi vanno aggiunti – in termini di pura spesa – investimenti che i piani d’ambito stimano in un valore medio annuo di poco meno di 37 euro pro capite, ossia circa 2,2 miliardi di euro/anno (0,14% del Pil). Questi sono gli investimenti previsti, peraltro largamente sottostima-ti rispetto al valore che sarebbe davvero necessario per rinnovare le reti esistenti e completarle adeguandole agli standard europei; quegli stan-dard il cui mancato raggiungimento, a 20 anni di distanza dalla direttiva 91/271, stanno per costarci l’ennesima brutta figura a livello comunita-rio, condita dalle ennesime salatissime sanzioni. Una stima da noi effet-tuata sulla base di un metodo parametrico valuta l’investimento di equi-librio tra il doppio e il triplo di quello pianificato: arrotondando, siamo sui 6 miliardi/anno.A regime, dunque, il settore idrico dovrebbe essere in grado di mobilita-re una spesa annua tra gli 8 e gli 11 miliardi, che pro capite fanno 125-180 euro/anno. Questo è un valore medio: quello che si dovrebbe spen-dere mediamente se il sistema fosse in equilibrio. Ma il sistema non è in equilibrio, poiché sconta un lungo periodo di stasi in cui si è investito molto meno di quanto si doveva; gli investimenti per metterci a pari do-vrebbero essere dunque più elevati per un po’ di anni.

Spendere di meno si può, in due modi, uno virtuoso, uno no.Il primo (quello virtuoso) è quello di cercare di rendere le gestioni più efficienti, risparmiando su costi non necessari. Questo è senz’altro pos-sibile, ma richiede l’esistenza di un sistema di regolazione tale da incen-tivare i gestori in questa direzione. L’esperienza mostra abbastanza chia-ramente che non è la natura proprietaria del gestore a incidere sui livel-li di efficienza, ma la capacità del regolatore di incidere efficacemente sulla formazione dei costi, incentivando in modo continuo incremen-ti di produttività. L’altro modo (per niente virtuoso) è quello di rinunciare a investire: ma, detto nudo e crudo, significa scaricare questi costi sui nostri figli e nipoti (senza contare le multe europee di cui si è detto). La riforma avviata nel 1994, scommettendo sulla possibilità che il sistema potesse autofinan-ziarsi attraverso le tariffe e operando in una logica industriale, è riusci-

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to a mettere in moto un po’ meno investimenti di quanto i piani inizial-mente prevedessero, ma siamo comunque su valori superiori ai 30 euro pro capite/anno. Prima, quando a finanziare la spesa era la fiscalità ge-nerale, si investiva meno della metà.

questione di scelte

Il problema del servizio idrico è tutto in questi pochi numeri. È un pro-blema, ma anche un’opportunità: nel senso che si tratta di una spesa in grado di mobilitare un indotto che genera posti di lavoro e ricchezza, cosa che per un paese sull’orlo della recessione è pur sempre meglio che niente. Oltre tutto, si tratta di posti di lavoro e ricchezza che in buona parte si creerebbe qui, e non in Cina, e anche questo non dovrebbe spia-cere a nessuno. Come si possono mobilitare cifre del genere? È abbastanza ovvio: o di-sponendo di entrate correnti di pari entità (che permetterebbero di non ricorrere al debito) o chiedendoli al mercato: indebitandosi con le ban-che, emettendo obbligazioni o altri titoli, e così via. La seconda ipotesi richiede – è altrettanto ovvio – che al costo dell’investimento si sommi la remunerazione che chi presta le risorse chiederà. Questo, si noti, è del tutto indipendente dal sistema di gestione. Qualsi-asi gestore – pubblico o privato, cooperativo o misto – sostiene in linea di principio gli stessi costi, e li deve in qualche modo coprire.Le entrate correnti possono essere sia la fiscalità generale alimentata dalle imposte e poi trasferita al settore, sia le tariffe che i cittadini pagano di-rettamente al gestore. A chiedere i soldi al mercato ci può andare lo sta-to (debito pubblico) oppure il gestore: ma in entrambi i casi dovrà non solo restituire a rate il capitale che il mercato gli mette a disposizione, ma anche remunerarlo alle condizioni che il mercato richiede. O le en-trate correnti sono tali da permettere al gestore di autofinanziarsi intera-mente, oppure esse dovranno comunque coprire le uscite finanziarie ne-cessarie per rimborsare i prestiti e pagare gli interessi.

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Chiunque stia programmando l’acquisto di una casa si trova nella stes-sa situazione: o i soldi ce li ha, oppure se li deve far prestare, e in questo secondo caso dovrà ricavare dalle proprie entrate correnti (il suo stipen-dio) quanto occorre mensilmente per pagare la rata del mutuo.Ora, sembra potersi senz’altro escludere la possibilità recuperare queste risorse attraverso la fiscalità generale. Per quanto lo 0,5% del Pil non rap-presenti in sé e per sé una cifra proibitiva, ognuno si rende conto che, con i tempi che corrono, caricare anche un solo euro di spesa sulla fi-scalità generale è temerario, anche volendosi limitare a quella sola com-ponente che, secondo le proposte referendarie, dovrebbe essere esclusa delle tariffe, ossia l’erogazione di 50 l/giorno e gli investimenti. Del re-sto, come si notava poco fa, anche quando il vincolo di bilancio morde-va meno di adesso, la fiscalità generale si è mostrata assai poco generosa nei confronti del servizio idrico.

D’altra parte, gli italiani hanno votato solennemente contro la possibili-tà che l’acqua sia erogata “for profit”. Personalmente, ritengo che quello del profitto sia un falso problema che la campagna referendaria ha in larga misura travisato, confondendo la remunerazione del capitale investito (ossia, il costo che il capitale co-munque ha, qualunque sia il gestore che si rivolge al mercato per essere finanziato) con il profitto, che corrisponde a quanto rimane al gestore una volta sottratti dai ricavi i costi che questo ha sostenuto, ivi compresi quelli del capitale. Se la regolazione delle tariffe è tale da non consentire al gestore la formazione di profitti di monopolio, l’utile che la gestione genera dovrebbe corrispondere alla normale remunerazione del capita-le proprio. Un gestore che non ha capitale proprio dovrebbe in alterna-tiva ricorrere al debito, e ovviamente remunerarlo a un tasso non dissi-mile. E, aggiungiamo, l’esistenza di un capitale proprio è in genere una precondizione per accedere ai finanziamenti a debito.A ogni modo, gli elettori sono stati di un altro avviso, e il pronunciamen-to popolare va ovviamente rispettato anche quando – come è il caso di chi scrive – non lo si condivide. Dunque, se si vuole prendere alla lette-ra il risultato del voto, non è praticabile neppure la strada di fondare la

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gestione dei servizi su gestioni che operano in una logica di impresa, in-vestendo capitale proprio e remunerandolo con i proventi della gestio-ne. Chi si illude che in questo modo i cittadini risparmieranno, poten-do eliminare dalla tariffa l’odioso balzello del 7%, potrebbe avere presto una brutta sorpresa. Si noti infatti che nella formulazione della legge che esce dal referendum, la tariffa, seppur non più fissata “... tenendo con-to dell’adeguatezza della remunerazione del capitale investito”, resta co-munque, come recita lo stesso comma dello stesso articolo, una riga do-po, il corrispettivo del costo del servizio, del quale fanno parte anche gli investimenti (e dunque i relativi costi finanziari, nel caso in cui il gesto-re dovesse sostenerne).

Insomma, con o senza referendum i costi vanno coperti (altrimenti le aziende falliscono e/o gli investimenti non si fanno). Ci rimangono, so-stanzialmente, due possibilità.La prima è quella di obbligare ogni gestore ad autofinanziarsi con le en-trate correnti di origine tariffaria, e tutte le altre forme di coinvolgimento diretto dei cittadini, dall’azionariato popolare ai prestiti infruttiferi sot-toscritti dagli utenti in modo più o meno volontario. Impossibile? Non necessariamente, a patto che sia chiaro che il cittadino dovrebbe in que-sto caso pagare annualmente il corrispondente dell’uscita di cassa. Se – all’incirca – 80 euro/anno che i cittadini pagano servono a coprire le spese correnti, i 37 euro di investimenti dovrebbero sommarsi annual-mente a questa spesa. Rimarremmo sui 117 euro/anno a testa, comun-que più di quelli che stiamo spendendo oggi, e più di quanti è previsto di spenderne a regime. Teniamo inoltre presente che i 37 euro sono un valore medio (su base nazionale e su base pluriennale). Se per alcuni an-ni volessimo accelerare gli investimenti per recuperare il tempo perduto – diciamo, investendone 60 o 70 per qualche anno – dovremmo preve-derne altrettanti pagati direttamente dai cittadini con le tariffe. Questo accadrebbe se il servizio idrico fosse davvero un condominio, e se a questo condominio fosse per qualche ragione precluso il ricorso a fi-nanziamenti esterni. Il cittadino potrebbe facilmente accorgersi che, in questo modo, si paga di più, e non certo di meno.

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Ovviamente, quella del condominio è solo una metafora: nel nostro ca-so, non è necessario coprire tutte le spese con entrate correnti, a patto di poter ricorrere al credito. Questa del resto è una strada che tutte le aziende idriche hanno già ampiamente sfruttato, e certamente non gra-tis. Con le banche, come nella maggior parte dei casi si è fatto, ma an-che con altri strumenti, dall’emissione diretta di obbligazioni (come fece l’Acquedotto Pugliese), che sui suoi bond già oggi paga un tasso di poco inferiore al 7%: ragione per la quale lo stesso Nichi Vendola, referenda-rio della prima ora, ha affermato che di tagliare dalla tariffa pugliese la remunerazione del capitale non se ne parla proprio.

È difficile avventurarsi in stime su quanto i cittadini potrebbero spende-re se il servizio idrico – organizzato, come è adesso, su ambiti di gestio-ne tendenzialmente autosufficienti – dovesse davvero poggiare solo sul-le risorse che ciascuna è in grado di generare. L’esperienza delle gestioni in house è stata fin qui spesso negativa: si tratta di aziende che hanno in-contrato enormi difficoltà a rivolgersi al mercato del credito, in genere perché le banche si fidavano poco della loro capacità di generare davvero, con la puntualità necessaria, i flussi di cassa necessari a ripagare i debiti. Solo chi ha avuto l’accortezza di costruire fin dall’inizio piani “bancabi-li” – ossia, con caratteristiche tali che i margini necessari per il rimbor-so dei prestiti potessero essere ritenuti sufficientemente certi – ci è riu-scito, in genere con la necessità di ridurre drasticamente il volume di in-vestimenti pianificati.Nello scenario attuale, oltre tutto, è assai dubbio che le gestioni pubbli-che riuscirebbero a finanziarsi a tassi inferiori a quel 7% che, in campa-gna referendaria, è stato additato all’opinione pubblica come un esoso tasso di usura, nemmeno se a garantirle fosse lo stato.Quella di finanziare il servizio idrico ricorrendo all’indebitamento di-retto dei gestori è comunque, a mio avviso, una soluzione dal fiato cor-to, almeno finché le gestioni opereranno in ordine sparso. Operando in questo modo, riuscirebbero a finanziarsi solo le gestioni degli ambiti più forti – quelli per esempio che, potendo contare sulla presenza di aree ur-bane sufficientemente grandi e dense, sono in grado di garantire flussi

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di cassa più consistenti e più facili da prevedere. Mentre invece risulte-rebbero penalizzate le aree dove, per qualsiasi ragione, il servizio pro ca-pite ha costi superiori, per via dell’utenza meno densa, della più sfavore-vole dotazione di risorse, o perché hanno investimenti maggiori da fare.

una proposta: un fondo comune

E quindi? Una strada possibile è quella di unire le forze.Immaginiamo un fondo comune. Grande come l’Italia. Una Cassa De-positi e Prestiti dedicata al sistema idrico. Immaginiamo che questo fon-do si finanzi con una tassa pagata da tutti i cittadini: una tassa di scopo, che potremmo strutturare in molte maniere. Butto lì una proposta: la tassa potrebbe avere una componente fissa, calcolata su base patrimonia-le (per esempio sui valori catastali degli immobili), e una variabile, pro-porzionale ai consumi di acqua (o, al limite, sui consumi di acqua che eccedono una certa quantità). La quota fissa potrebbe a sua volta conte-nere un meccanismo di premio-sanzione diretto a incentivare il rispar-mio idrico, come per esempio uno sconto per chi dimostra di avere ri-strutturato la toilette o di avere installato un sistema di riuso delle acque meteoriche o delle acque grigie depurate.Una tassa dell’ordine di 15 euro pro capite, potrebbe finanziare diretta-mente investimenti intorno a 1 miliardo di euro: utilizzandone il gettito con criteri rotativi, e operando su una dimensione territoriale sufficien-temente grande, il fondo funzionerebbe come una banca che presta le risorse che ottiene alle gestioni per fare gli investimenti, a un tasso bas-so o al limite nullo, purché con adeguate garanzie di recuperare la quo-ta di ammortamento (per esempio, attraverso una prelazione sul getti-to delle tariffe).Si è detto però che, almeno per una certa fase, il criterio rotativo non è possibile, perché tutti devono investire contemporaneamente. Dun-que, il ricorso al mercato è inevitabile. Ma un conto è mandarci le sin-gole aziende ognuna per conto proprio, un conto è farlo, almeno in par-te, attraverso una facility condivisa. Immaginiamo per esempio che il

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fondo possa anche fare leva su queste entrate, collocando a sua volta dei bond. Immagino che per il mercato non sarebbe indifferente prestare a questa entità, piuttosto che a ciascuna singola gestione: il rischio di de-fault sarebbe infatti diluito, la priorità nella riscossione delle tariffe do-vrebbe costituire una garanzia solida, che potrebbe essere ulteriormen-te rafforzata con una garanzia sovrana (che, benché screditata, qualcosa comunque ancora vale).Immaginiamo infine di affidare al fondo una sorta di due diligence del-le gestioni, subordinando la concessione dei prestiti a una verifica dell’e-quilibrio finanziario, prevedendo, se del caso, anche forme di commis-sariamento per le gestioni che non rispettano determinati parametri di solidità finanziaria.Non sto inventando nulla: sto semplicemente copiando qualcosa che, con modalità diverse, esiste in molti paesi, dalla Francia agli Usa, dal Porto-gallo ai Paesi Bassi o alla Slovenia. La tassa di scopo, volendo, c’è già: è il canone demaniale che lo stato (o meglio, le regioni) riscuotono per i prelievi di acqua, ora è a un livello irrisorio, ma potrebbe essere ridise-gnata senza particolari difficoltà.Un simile meccanismo potrebbe a mio avviso completare efficacemente quello “endogeno”, generato, in ciascun ambito, dalla tariffa e dai volu-mi di indebitamento che questa può sostenere.In ogni caso, è chiaro che saranno sempre i cittadini a pagare: ma questo non dovrebbe poi spiacere a quanti ritengono che, nel criterio di equità che deve necessariamente sorreggere la ripartizione delle “spese di con-dominio”, il criterio dell’accessibilità del bene essenziale non possa essere disgiunto da un’adeguata responsabilizzazione di chi usa il bene comune e da meccanismi che premino chi si dà da fare per un uso più sostenibile.

L’acqua – e più di tutto, le fogne e i depuratori – attendono da trop-po tempo che gli italiani si rimbocchino le maniche e mettano mano ai portafogli per provvedere a quanto non siamo stati capaci di fare finora. È una spesa certamente ingente, ma comunque non tale da preoccupar-ci in chiave macroeconomica. Dal referendum è venuta una voce molto forte contro l’ipotesi che l’inevitabile business legato al settore idrico si-

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gnificasse lucro di pochi profittatori ai danni dei cittadini. Questa pre-occupazione va presa sul serio, e affrontata con un sistema di regolazio-ne adeguato, ancora in larga parte da costruire. Ma dire di no al business dei “furbetti del quartierino” e della casta non può significare l’ennesi-mo rinvio degli investimenti di cui questo settore ha bisogno. Business, del resto, non è una parolaccia. Vuol dire posti di lavoro, economia che si mette in moto per fare cose che – in questo caso – a parole tutti repu-tano indispensabili, e gli ambientalisti più degli altri.

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i 10 indicatori più significativi 203

l’energiaproduzione di energia da fonti rinnovabili in italia

Il contributo energetico da fonti rinnovabili negli ultimi anni è in continua crescita e, secondo le stime, nel 2009 si attesta a 20,6 Mtep (come combustibile fossile sostituito). Le fonti classificate come rinnovabili in Italia – incluso il grande idroelettrico e i rifiuti che rappresentano rinnov-abili improprie o parziali – pesano nel 2010 per circa l’11% del consumo interno lordo, un valore superiore a quello medio degli ultimi anni di circa due punti percentuale. Nel 2010 le principali fonti rinnovabili sono rappresentate dalla produzione idroelettrica (54,5%) e dall’utilizzo di legna e biomassa (23,9%), seguiti dall’eolico (9,7%) e dalla geotermia (6,8%). Le quote prodotte dal solare e dai rifiuti sono entrambe intorno al 2,5%. Nel 2010 continua la crescita, già evidenziata negli ultimi anni, della producibilità idroelettrica che, con un incremento di circa il 4% rispetto al 2009, raggiunge i 11.246 ktep, il valore più alto nella serie storica considerata. In termini per-centuali però, rispetto alla quantità totale di energia prodotta da fonti rinnovabili, l’idroelettrico continua a perdere quote rispetto, per esempio, al 2004 quando rappresentava ben il 62% circa del totale da rinnovabili. Solare ed eolico hanno conosciuto una notevole crescita negli ultimi anni. L’eolico è passato tra il 2000 e il 2010 da 124 a 2.008 ktep (con un incremento del 40% solo nell’ultimo anno); nello stesso intervallo di tempo, il solare (termico e fotovoltaico) è cresciuto anche di più, da 14 a 519 ktep, con un incremento di ben il 127% dal 2009.

produzione energetica da fonti rinnovabili in italia 1996-2009 (ktep)

25.000

20.000

15.000

10.000

5.000

0

12,0%11,0%10,0%9,0%8,0%7,0%6,0%5,0%4,0%3,0%2,0%1,0%0,0%

1996

1997

1998

1999

2000

2001

2002

2003

2004

2005

2006

2007

2008

2009

2010

Fonte: elaborazione Ambiente Italia su dati Terna 2011, Ispra Rapporto Rifiuti, Enea, Gse.

Idroelettrico Eolico Solare Biomasse, biocombustibili, biogas Rifiuti Geotermia % sul consumo energetico interno

% consum

o energetico

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204 ambiente italia 2012

lamobilitàmobilità delle persone in italia

La mobilità delle persone in Italia è tra le più alte d’Europa: superiore del 25% (in termini di passeggeri-km pro capite) rispetto alla media europea. Tuttavia nel 2010, complice forse la crisi economica, si registra una flessione complessiva della mobilità delle persone con valori che si attestano a 918.560 milioni di passeggeri per km (-2,1% rispetto al 2009). Nell’ultimo anno cala-no in particolare i viaggi in auto e moto (-2,8%) e in treno (-1,7%), mentre crescono soprattutto quelli in aereo (+7,3%). Ampliando lo sguardo all’ultimo decennio, l’aereo registra un incremento di ben il 52% (complice la costante evoluzione di questo settore), con il trasporto pubblico su gomma che cresce del 12%, analogamente a quanto avviene per la mobilità su nave. Viceversa auto-moto e ferrovie presentano flessioni, rispettivamente del 2 e del 6%. Complessivamente in Italia (come in Europa) la mobilità delle persone è principalmente basata sul mezzo auto-mobilistico privato che copre circa l’80,6% degli spostamenti totali. Le altre modalità presen-tano valori decisamente più bassi: 12,1% per l’autobus, 5,2% per il treno, l’1,7% per l’aereo. In particolare l’Italia è il grande paese europeo con la più elevata quantità pro capite di mobilità motorizzata, quasi 12.000 passeggeri km/ab annui. L’Italia inoltre presenta ormai da anni un tasso di motorizzazione (numero di auto ogni 1.000 abitanti) decisamente superiore alla media europea: nell’ultimo anno disponibile (il 2009) il valore dell’Italia è stato pari a 605 auto ogni 1.000 abitanti contro le 473 dell’Unione europea, le 510 della Germania, le 500 della Francia, le 470 del Regno Unito. Va infine segnalato che nel 2010 Istat ha revisionato i dati sulla mobilità delle persone (a partire da quelli del 2000).

evoluzione delle modalità di trasporto passeggeri in italia (milioni di pax-km)

1.000.000

900.000

800.000

700.000

600.000

500.000

400.000

300.000

200.000

100.000

0

Nota: nel Conto nazionale dei trasporti 2009-2010 è cambiata la modalità di calcolo dei dati per i mezzi privati a partire da quelli del 2000.

Fonte: Ministrero dei Trasporti, Conto nazionale trasporti (varie annualità).

1958

1962

1966

1970

1974

1978

1982

1986

1990

1994

1998

2002

2006

2010

Ferrovie Pullman, tram e metro Aereo e nave Privato (auto e moto)

Ambiente Italia 2012.indb 204 30/01/12 16.08

indicatori in italia e nel mondo 245

Cereali Carne 1990 2000 2009 1990 2000 2009 Asia 872.585 996.272 1.192.726 51.472 92.024 116.444 Africa 93.411 111.646 160.805 8.756 11.303 14.080 Nord America 369.205 393.898 468.869 31.435 41.644 46.093 Centro e Sud America 99.083 137.993 165.055 20.165 32.475 44.148 Europa 493.853 384.854 465.743 63.883 51.714 54.907 Italia 17.410 20.660 17.391 3.950 4.089 4.132 Oceania 23.948 35.337 36.101 4.505 5.388 5.884 Mondo 1.952.088 2.060.002 2.489.301 180.219 234.551 281.559

Fonte: Faostat database, 2010.

comparazioni internazionali (migliaia di tonnellate di prodotto)

leattivitàproduttiveproduzione agricola

% bio Variazione 2005 2007 2008 2009 su sau* 2009/2005 Africa 486.674 875.284 880.898 1.026.632 0,1% 111% Asia 2.678.716 2.890.243 3.293.945 3.581.918 0,3% 34% America del Nord 2.219.643 2.292.418 2.577.575 2.652.624 0,7% 20% Oceania 11.811.868 12.110.758 12.140.107 12.152.108 2,8% 3% America latina 5.072.158 6.414.709 8.065.890 8.558.910 1,4% 69% Europa 6.669.468 7.627.825 8.176.075 9.259.934 1,9% 39% di cui Italia 1.067.102 1.150.253 1.002.414 1.100.000 8,9% 3% Mondo 28.938.527 32.211.237 35.134.490 37.232.127 0,9% 29%

* Superficie agricola utilizzata.

Fonte: FiBL & Ifoam 2011.

superficie biologica o in conversione (ettari)

leattivitàproduttiveagricoltura biologica nel mondo

Ambiente Italia 2012.indb 245 30/01/12 16.08

246 ambiente italia 2012

agricoltura biologica per ordinamento produttivoettari in conversione e convertiti

leattivitàproduttiveagricoltura biologica in italia

1994 1999 2006 2009 2010 Cereali 22.341 165.019 239.092 251.906 194.974 Ortaggi 2.811 13.936 39.696 34.222 27.920 Frutta 6.786 47.667 65.221 81.933 73.108 Vite 3.759 23.897 37.693 43.614 52.273 Ulivo 5.447 69.142 107.233 139.675 140.748 Foragg., prati, pasc. 23.517 333.828 558.693 451.622 486.336 Altro 6.013 70.428 100.534 103.711 138.382 Totale 70.674 723.917 1.148.162 1.106.683 1.113.742

2001 2007 2006 2009 2010 Pollame 648.693 1.339.415 1.339.415 2.399.885 2.518.830 Bovini 330.701 244.156 244.156 185.513 207.015 Ovini 301.601 859.980 859.980 658.709 676.510 Api (in numero di arnie) 48.228 112.812 112.812 103.216 113.932 Caprini 26.290 93.876 93.876 74.500 71.363 Suini 25.435 26.898 26.898 25.961 29.411 Altre 3.959 11.122 11.122 11.545 11.652 Totale 1.384.907 2.688.259 2.688.259 3.459.329 3.628.713

Fonte: elaborazione su dati Sinab, Sistema d’informazione nazionale sull’agricoltura biologica.

allevamenti biologici: numero di capi

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