Altre inquisizioni

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Altre inquisizioni. Esercizi di spigolatura antipatica Marco Trainito (2003) I. TRE POEMI LATINI BUR a. Valerio Flacco, Argonautiche , a cura di Franco Caviglia, Rizzoli 1999. 1. Libro II, v. 645 (parla Cizico, che accoglie gli eroi e presenta loro la regione della Propontide su cui governa): «Nam licet hinc saevas tellus alat horrida gentes». Traduzione: «È vero: c‟è, al nostro confine, una regina terribile / che alimenta popoli atroci » (pp. 279 e 281), dove “regina” è un clamoroso refuso per “regione”. 2. Al verso 433 del libro V Vulcano è nominato tramite l‟epiteto “Mulciber”. Caviglia traduce con “Vulcano” ma precisa nella nota ad locum: «Designato nel testo con l‟epiteto, già noto alla poesia arcaica latina, di „Mulciber‟» (p. 496). E che c‟è di male? - direte voi. Niente, solo che l‟epiteto “Mulciber” era già apparso nel verso 315 del libro II, e anche lì Caviglia aveva tradotto con “Vulcano”… E allora mi domando e dico: questo tipo di note relative alle scelte di traduzione, non si mettono alla prima ricorrenza del termine in questione? 3. Tra i versi 228 e 229 del libro VI, Castore è indicato solo con l‟espressione “novus eques”, per dire che, mentre prima era a piedi in battaglia (siamo già nella Colchide), adesso monta il cavallo di un nemico da lui appena ucciso, di nome Gela (vv. 203-209). Il problema, però, è che questo Gela aveva un fratello, Medore, il quale cerca di scagliarsi su Castore per vendicarsi, ma viene subito trafitto da Falero («Actaei sed eum prior hasta Phaleri /deicit», vv. 217-218). Ecco però come Caviglia spiega l‟espressione “novus eques”: «Castore, finora penalizzato dal non poter esercitare la propria attività preferita, ma che ora è riuscito a procurarsi un cavallo da uno dei due fratelli da lui abbattuti » (p. 553). 4. Al verso 442 del libro VII Minerva è detta “Tritonia virgo”, e Caviglia, che rende con “Pallade”, chiarisce: «Nel testo (…) „Tritonia virgo‟. Epiteto consueto di Minerva nel linguaggio poetico; deriva dal nome di un lago della Tripolitania, oggi chiamato Lodiah, una delle sedi tradizionalmente indicate come patria della dea» (p. 641). Ben detto, peccato però che Caviglia qui si sia semplicemente dimenticato di una sua precedente nota esplicativa relativa al medesimo termine (questa volta reso con “Minerva”), dove peraltro era stato giustamente più dubbioso sulla spiegazione del misterioso epiteto. Cfr. infatti la nota relativa a II, 49, p. 221: «Nel testo (…) „Tritonia‟, convenzionale epiteto di Minerva collegato alla sua nascita, ma dal referente non chiarito: un lago dell‟Africa, una catena montuosa della Beozia, una sorgente in Arcadia?». Curioso, non trovate?

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Altre inquisizioni.

Esercizi di spigolatura antipatica

Marco Trainito (2003)

I. TRE POEMI LATINI BUR

a. Valerio Flacco, Argonautiche , a cura di Franco Caviglia, Rizzoli 1999.

1. Libro II, v. 645 (parla Cizico, che accoglie gli eroi e presenta loro la regione

della Propontide su cui governa): «Nam licet hinc saevas tellus alat horrida

gentes». Traduzione: «È vero: c‟è, al nostro confine, una regina terribile / che

alimenta popoli atroci» (pp. 279 e 281), dove “regina” è un clamoroso refuso per

“regione”.

2. Al verso 433 del libro V Vulcano è nominato tramite l‟epiteto “Mulciber”.

Caviglia traduce con “Vulcano” ma precisa nella nota ad locum: «Designato nel

testo con l‟epiteto, già noto alla poesia arcaica latina, di „Mulciber‟» (p. 496). E

che c‟è di male? - direte voi. Niente, solo che l‟epiteto “Mulciber” era già

apparso nel verso 315 del libro II, e anche lì Caviglia aveva tradotto con

“Vulcano”… E allora mi domando e dico: questo tipo di note relative alle scelte

di traduzione, non si mettono alla prima ricorrenza del termine in questione?

3. Tra i versi 228 e 229 del libro VI, Castore è indicato solo con l‟espressione

“novus eques”, per dire che, mentre prima era a piedi in battaglia (siamo già nella

Colchide), adesso monta il cavallo di un nemico da lui appena ucciso, di nome

Gela (vv. 203-209). Il problema, però, è che questo Gela aveva un fratello,

Medore, il quale cerca di scagliarsi su Castore per vendicarsi, ma viene subito

trafitto da Falero («Actaei sed eum prior hasta Phaleri /deicit», vv. 217-218).

Ecco però come Caviglia spiega l‟espressione “novus eques”: «Castore, finora

penalizzato dal non poter esercitare la propria attività preferita, ma che ora è

riuscito a procurarsi un cavallo da uno dei due fratelli da lui abbattuti» (p. 553).

4. Al verso 442 del libro VII Minerva è detta “Tritonia virgo”, e Caviglia, che rende

con “Pallade”, chiarisce: «Nel testo (…) „Tritonia virgo‟. Epiteto consueto di

Minerva nel linguaggio poetico; deriva dal nome di un lago della Tripolitania,

oggi chiamato Lodiah, una delle sedi tradizionalmente indicate come patria della

dea» (p. 641). Ben detto, peccato però che Caviglia qui si sia semplicemente

dimenticato di una sua precedente nota esplicativa relativa al medesimo termine

(questa volta reso con “Minerva”), dove peraltro era stato giustamente più

dubbioso sulla spiegazione del misterioso epiteto. Cfr. infatti la nota relativa a II,

49, p. 221: «Nel testo (…) „Tritonia‟, convenzionale epiteto di Minerva collegato

alla sua nascita, ma dal referente non chiarito: un lago dell‟Africa, una catena

montuosa della Beozia, una sorgente in Arcadia?». Curioso, non trovate?

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b. Ovidio, Metamorfosi, traduzione di Giovanna Faranda Villa, note di Rossella Corti,

Rizzoli 1994.

1. Inizio del libro X. Orfeo è nell‟Ade e prega Plutone di restituirgli Euridice. Fra le

altre cose dice di non essere venuto, come Ercole, per rompere le palle

sequestrando Cerbero. Per indicare Cerbero, però, Ovidio si serve di una perifrasi

e lo chiama “Medusaeum monstrum” (v. 22). La traduttrice se ne esce con

“parente di Medusa” (p. 577) (in “Fasti” 5, 8, lo stesso Ovidio chiama Pegaso

“Medusaeus equus”, ma qui è facile capire perché, dato che il cavallo è nato dal

sangue di Medusa). La nota ad locum però recita: «Cerbero, il cane infernale, è

figlio di Echidna (…) Non ci è noto il rapporto genealogico tra Medusa e

Cerbero» (p. 576). Un po‟ troppo arrendevole, non trovate? Se la Corti fosse

andata a dare un‟occhiata alla Teogonia di Esiodo (vv. 270 ss.) avrebbe trovato

non dico la risposta, ma qualcosa che si avvicina molto: qui infatti si scopre che

Echidna era figlia di Ceto e Forco, come le Gorgoni. Quindi Medusa è zia di

Cerbero, e come rapporto genealogico non è poco, anche se non è il massimo.

2. Libro XIII. Siamo nel pieno del bellissimo discorso in cui Aiace spiega perché le

armi di Achille dovrebbero toccare a lui, e non a quel fetentone di Ulisse. A un

certo punto l‟eroe ricorda alcune imprese di Ulisse, sottolineando che sono state

tutte compiute con l‟aiuto determinante di Diomede, e fra queste include

naturalmente l‟incursione nell‟accampamento di Reso (v. 98), episodio cui è

dedicato, come tutti sanno, l‟intero libro X dell‟Iliade. Nota ad locum: «Durante

una sortita notturna nel campo troiano, Ulisse e l‟amico Diomede uccisero Reso e

gli rubarono i famosi cavalli; poi intercettarono Dolone, una spia dei Troiani

ecc.». ALT!! Nel racconto pseudo-omerico (cui pure la Corti rimanda) la cattura

e l‟uccisione di Dolone precedeono l‟incursione nel campo troiano e la strage di

Reso e di 12 dei suoi uomini.

c. Stazio, Tebaide, traduzione e note di Giovanna Faranda Villa, Rizzoli 1998.

1. Libro VII, Giove sta spiegando a Bacco perché la guerra fra Tebani e Argivi è

inevitabile, e dice: «Labdacios vero Pelopisque a stirpe nepotes / tardum abolere

mihi» (vv. 207-208). Traduzione della Faranda Villa: «Ma i nipoti di Labdaco,

discendenti di Pelope, da tempo avrei dovuto distruggerli» (p. 475). Mi chiedo:

errore di stampa (“e i” dopo Labdaco, invece della virgola) o grave svista della

traduttrice? Infatti “discendenti di Pelope” non può essere un‟ulteriore

connotazione dei Tebani, perché si riferisce ovviamente agli Argivi (detti “gentes

Pelopis”, cioè peloponnesiaci, appena 40 versi più avanti).

2. Libro X, descrizione della “Virtus” (vv. 632 ss). La traduttrice segnala in nota (p.

704) che il passo è naturalmente intessuto di richiami virgiliani. Per esempio, «il

v. 638 [«iamque premit terras, nec vultus ab aethere longe»] ricorda da vicino

quello di Virgilio (Aen. X, 767) in cui si parla della Fama: “ingrediturque solo et

caput inter nubila condit”». Ma davvero? In Aen. X, 767 si parla del “magnus”

Orione (ivi, v. 763, che in VII, 256 per Stazio diventa “altus”), cui è paragonato

Mezenzio mentre entra in campo armato di una “ingens asta” (ivi, v. 762). È però

vero che un identico verso è riferito da Virgilio alla Fama, ma, ahimè, siamo in

IV, 177!

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II. ALTRE INQUISIZIONI

a. Rabelais, Gargantua e Pantagruele, traduzione e note di Augusto Frassineti, Rizzoli

1984.

1. Nel X capitolo del terzo libro ricorrono parecchie citazioni dall‟Iliade e

dall‟Eneide, visto che Pantagruele si serve di vaticini omerici e virgiliani per

far capire a Panurgo quanto sia difficile dare consigli sul matrimonio.

Ebbene, i versi di Iliade VIII, 102-103, nella nota di Frassineti diventano

“VIII, 303” (p. 645).

2. Sempre terzo libro, ma capitolo XXXII. Rabelais cita l‟espressione

proverbiale “bilancia di Critolao” (p. 797). Frassineti chiarisce in nota:

«Critolao, filosofo aristotelico del II secolo d. C. ecc.». ALT! Critolao è

vissuto nel II secolo AVANTI Cristo. È noto per aver preso parte con

Carneade e Diogene di Babilonia alla famosa ambasceria a Roma nel 155 a.

C. per ottenere il condono di una multa. Per tacere del fatto che l‟aneddoto

della bilancia ci è riferito da Cicerone (Tusc., V, 17, 51).

3. Quinto libro, capitolo II. Si parla dei Siticini, gli abitanti dell‟isola Sonante

trasformati in uccelli. A un certo punto si legge: «avevano il collo torto, le

zampe pelose, artigli e ventre d‟Arpie, culo da Stimfalidi». Solo alla parola

“Stimfalidi” Frassineti interviene con una nota che dovrebbe chiarire tutto, ed

è questa: «Uccelli orribilmente diarroici (Eneide, VIII, 214)». E ti saluto e

sono – direbbe Camilleri. Ma andando a dare un‟occhiata più da vicino alle

fonti, si vede che la nota è non solo generica ma disastrosamente imprecisa.

Intanto andava riferita alle Arpie, cui Virgilio (in III, 216-217 e non in VIII,

214!!) attribuisce una puzzolentissima diarrea («foedissima ventris /

proluvies»): da qui il rabelaisiano “ventre di Arpie”. Gli Stimfalidi, invece,

sono gli uccelli sterminati da Ercole nella VI fatica (da qui la ricorrenza del

suo nome subito dopo il passo citato), e il riferimento al loro culo è dovuto

probabilmente al fatto che, secondo alcuni mitografi, tali uccelli cacavano

escrementi così velenosi da bruciare le messi.

b. Roberto Cotroneo, Eco: due o tre cose che so di lui, Bompiani 2001

1. A p. 23 c‟è la citazione di un brano che si trova tra le pp. 35 e 36 di

Baudolino e che a un certo punto dice: «gli ho detto che a me san Baudolino

aveva detto che lui avrebbe conquistato Terdona, così loro si convincevano

che…» ALT! Dopo “Terdona” ci volevano i puntini di sospensione tra

parentesi, perché Cotroneo salta una frase. L‟errore è grave perché il “loro”

che viene subito dopo si riferisce ai messi di Terdona, che compaiono

appunto nella frase saltata. Inoltre l‟originale porta “San” e non “san”.

2. Ovvero 1. bis. A p. 73 Cotroneo torna a citare una parte dello stesso brano, e

stavolta la nostra frase compare così: “gli ho detto che a me San Baudolino

aveva detto che lui avrebbe conquistato Terdona, (…) così loro si

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convincevano che…». Questa volta compaiono il corretto “San” e la “(…)”,

ma resta quel “loro” che si riferisce ai messi di Terdona che compaiono nella

frase cancellata. Ma che gli costava a Cotroneo lasciare la frase “e soprattutto

ai messi di Terdona”? Che disturbo gli dava?

3. A p. 32 Cotroneo così introduce la citazione di un passo della p. 502 de Il

nome della rosa: «E in una delle pagine finali il giovane monaco scrive». Ma

Gesù mio, lo sanno anche i bambini che quando Adso scrive è «un vecchio

monaco, alle soglie della morte», come egli stesso si autodefinisce a p. 503!

4. P. 60, citazione da L’isola del giorno prima, p. 473: “Né sfuggirei alla puerile

curiosità del lettore, il quale vorrebbe sapere se davvero Roberto ha scritto le

pagine su cui mi sono intrattenuto sin troppo. Onestamente, dovrei

rispondergli che non è possibile che le abbia scritte qualcun altro, che voleva

solo far finta di raccontar la verità». Né sfuggirei alla puerile curiosità del

lettore, il quale vorrebbe sapere cosa c‟è di male in questo passo su cui mi

sono intrattenuto sin troppo. Onestamente, dovrei rispondergli che “non è

possibile” non è possibile, e infatti nell‟originale si legge “non è

impossibile”.

5. P. 83: «la scommessa di Roberto [il protagonista de L’isola del giorno prima]

non è ritornare a un passato che non torna, o meglio a un „tempo ritrovato‟,

non è quel finale nostalgico e melanconico è un conto aperto». Secondo voi

cosa voleva dire?

6. P. 87, citazione da L’isola del giorno prima, p. 470: «E così, se anche una

delle mie ipotesi si prestasse a continuar la narrazione, questo non avrebbe

certo una fine degna d‟esser narrata». Nell‟originale “questo” è ovviamente

“questa”.

7. P. 101: «Scrive Eco, nelle Sei passeggiate nel bosco narrativo: „talora

speriamo di far coincidere la nostra storia personale con quella

dell‟universo‟». E bravo Cotroneo, un errore e una leggerezza che manco il

più scarso scopiazzatore di tesi di laurea commetterebbe! Intanto l‟opera si

intitola Sei passeggiate nei boschi narrativi, e questo è l‟errore; e poi: ma il

lettore non ce l‟ha il diritto a una nota che dica dove diavolo si trova il passo

esattamente? Beh, ve lo dico io: a p. 173 (edizione Bompiani del 1995).

c. Imre Lakatos – Paul K. Feyerabend, Sull’orlo della scienza. Pro e contro il metodo,

a cura di Matteo Motterlini, prefazione di Giulio Giorello, Raffaello Cortina Editore

1995 (si tratta della raccolta di alcuni inediti dei due famosi epistemologi post-

popperiani, e in particolare della prima pubblicazione di gran parte della loro

corrispondenza).

1. Nella prima delle sue otto “Lezioni sul metodo” (tenute nel gennaio-marzo

1973 alla London School of Economics), Lakatos si avventura nella citazione

della citazione di due passi di Hegel da parte di Popper, e dice: «Tanto per

dare un‟idea di quello che Popper e i suoi colleghi del Circolo di Vienna

combattevano, ecco due citazioni da Hegel, che magari sono importanti, in

quanto potrebbero riferirsi, per esempio, alla teoria dei colori di Newton. La

„filosofia della natura‟ di Hegel era considerata vera e propria scienza.

Popper nella sua Società aperta, vol. II, p. 290 [tr. it. p. 400, nota 4] cita la

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definizione di Hegel del colore: “il colore è il ricostituirsi della materia ecc.

ecc.» (p. 30). Ora, qui ci sono cose che fanno “accapponare i capelli”, come

direbbero quelli di Striscia la notizia. Intanto si noti che la parentesi quadra

“[tr. it. p. 400, nota 4]” è di Motterlini, che è anche il traduttore. Si presume,

quindi, che egli sia andato a controllare, se non proprio il passo di Hegel (sul

quale non fornisce estremi bibliografici), almeno il passo di Popper (visto che

cita bene la tr. it. de La società aperta e i suoi nemici), e allora bisogna

concludere che sia Lakatos nel 1973 che lui nel 1995 erano affetti da

allucinazioni. Infatti, il passo di Hegel (che si trova nel § 303

dell‟Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio) parla del “calore”

(Die Wärme), e non del “colore”, e la cosa incredibile è che nel luogo di

Popper esso è citato del tutto correttamente!

2. Ma diamo uno sguardo anche alla “Prefazione” al volume, scritta da Giulio

Giorello (grande conoscitore di Popper, Lakatos e Feyerabend). A p. XI egli

scrive: «Non era forse Popper che nel lontano 1956 soleva iniziare le proprie

lezioni sul metodo scientifico “dicendo agli studenti che il metodo scientifico

non esiste”?». E la nota recita: «Popper (1956/1983), p. 35; cfr. anche

Feyerabend (1994), p. 102». Ora, il fatto è che la data “1956” è sbagliata,

perché Popper diceva quella cosa nel 1952. Tale data, fra l‟altro, ricorre nel

corso dello stesso volume in una lettera di Feyerabend (p. 294), e Giorello

avrebbe dovuto dirlo. Essa, inoltre, è facilmente deducibile da Feyerabend

(1994), p. 102, cui lo stesso Giorello rimanda in nota. Io sono propenso a

credere che, a meno che non si tratti di semplice errore di stampa, Giorello

sia vittima di un lapsus calami dovuto forse al fatto che in Popper

(1956/1983), cioè il primo volume del Poscritto alla Logica della scoperta

scientifica, il passo da lui citato ricorre nel primo capoverso della “Prefazione

1956”.

d. Jorge Luis Borges, Altre inquisizioni, Adelphi 2000

Dulcis in fundo, visto che in queste sono “altre inquisizioni” e che ho parlato anche

di Rabelais, vediamo come in Altre inquisizioni Borges cita Rabelais. Nel secondo saggio,

“La sfera di Pascal”, Borges traccia la storia della metafora (di origine ermetica) secondo cui

Dio è una sfera intelligibile, il cui centro sta dappertutto e la circonferenza in nessun luogo,

per mostrare i diversi usi che di essa sono stati fatti fino a Bruno e Pascal. Tra gli autori che

ne hanno fatto menzione egli cita appunto Rabelais e dice: «nel XVI [secolo], l‟ultimo

capitolo dell‟ultimo libro di Pantagruel alluse a “quella sfera intellettuale, il cui centro sta

dappertutto e la circonferenza in nessun luogo, che chiamiamo Dio”» (p. 16). Il mio adorato

Borges è il maestro delle citazioni bibliografiche inventate, ma devo riconoscere che con

quelle vere a volte non ci sa fare. Infatti, molto prima che nel capitolo quarantasettesimo,

l‟ultimo, del quinto e ultimo libro del Gargantua e Pantagruele, Rabelais aveva citato la

metafora nel capitolo tredicesimo del terzo libro in un passo quasi identico, che però

contiene un esplicito riferimento parentetico al fatto che essa è dovuta ad Ermete

Trismegisto (ed. cit., p. 661). Questo vuol dire che se Borges avesse avuto presente il primo

passo avrebbe dovuto citarlo per 2 buoni motivi: 1) perché viene prima e 2) perché solo in

esso compare il riferimento ad Ermete Trismegisto, il cui nome è centrale nella sua

“inquisizione”.