Alonge, Perrelli - Storia del teatro e dello spettacolo

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NUOVO MANUALE DI STORIA DEL TEATRO di Roberto Alonge 1- IL TEATRO CLASSICO GRECO-ROMANO Aristotele nella sua Poetica scrive che la tragedia nascerebbe “ da coloro che intonano il ditirambo” il teatro nasce insomma in connessione con la religione (ditirambo = ). La parola tragedia dovrebbe voler dire “canto del capro”, forse in riferimento agli uomini-capro a cui era affidata la celebrazione corale del dio Dioniso. L’origine religiosa della tragedia non toglie che l’evento teatrale sia soprattutto uno spettacolo, come mostra l’etimologia della parola teatro, dal verbo theàomai, cioè guardare. C’è teatro nella misura in cui qualcuno guarda e qualcuno è guardato. Il teatro si realizza entro uno spazio ben definito, l’edificio teatrale greco utilizza per lo più un pendio naturale di una collina, su cui viene impiantato un sistema di gradinate a semicerchio intorno al Coro. Sul fondo c’è lo Skené, che è un povero edificio che serve all’attore per vestirsi. Secondo le ipotesi oggi prevalenti gli attori agivano su un grande spazio di Orchestra e Skené. Almeno nel V secolo gli attori non stanno su un palcoscenico, ma operano a livello-terra insieme al Coro (formano da dodici o quindici persone, inizialmente aveva solo la funzione di commento alla vicenda, successivamente diventa un vero e proprio personaggio). Inizialmente c’è un solo attore, Eschilo ne introduce un secondo e Sofocle ne inserisce un terzo, attori che sono sempre maschi sino alla scena elisabettiana. Una caratteristica del teatro Greco è la presenza della maschera, simbolo del divenire altro da sé. In Greco l’attore è chiamato “ hypokritès”, cioè colui che risponde, probabilmente nel senso di colui che risponde al Coro, ma nelle lingue neo-latine diventa ipocrita, cioè qualcuno che mente, che assume falsamente le sembianze di un altro. La maschera ha 2 funzioni: - Facilita l’identificazione dell’attore con il personaggio. - Consente ad un numero ridotto di attori di fare più parti. Era lo Stato a pagare gli attori e quindi dovevano essere pochi e dovevano avere diverse abilità (dalla recitazione al canto). I primi autori erano anche attori e qui la mancanza di didascalie perché l’attore essendo anche regista non aveva bisogno di segnare le didascalie della messinscena. Nonostante fosse uno spettacolo all’aperto, il teatro greco non ignorava del tutto effetti scenici prodotti da specifici artifici. Sono infatti le divinità che compaiono in alto nei momenti decisivi: la Menachè è una sorta di gru che solleva in aria gli attori, come in una specie di volo (es la Medea di Euripide) e il “deus ex machina” indica appunto l’intervento risolutivo di un dio che compare per mezzo di un marchingegno. Come detto prima lo Stato pagava gli attori e gli autori, mentre il Coro era retribuito da ricchi cittadini privati. Lo stato inoltre rimborsava anche il biglietto al cittadino che ne faceva domanda. In conclusione possiamo dire che lo Stato di assumeva il peso di un’iniziativa culturale perché riconosceva la funzione civile del teatro come modo di cementare la comunità. Gli spettacoli teatrali si inserivano in una struttura agonale in cui tre autori presentavano una tetralogia di 3 tragedie e 1 dramma satiresco. Una trilogia tragica giuntasi è l’Orestea di Eschilo (Agamennone, Coefore e Eumenidi). Erano previsti premi al miglior autore, al miglior attore e al miglior Coro. Nella sua Poetica Aristotele non detta delle norme; si limita a prendere atto di ciò che nei fatti accadeva nelle tragedie che leggeva. Constatava cioè, semplicemente, che nella maggior parte delle tragedie la vicenda si svolgeva in un luogo fisso, senza cambiamenti di scena; e si svolgeva “entro un solo volgere del sole”, da intendere o come un lasso di 24 h o 12 h. In ogni caso i teorici classicisti del Rinascimento trasformarono quella che in Aristotele era una sola constatazione in OBBLIGO, in criteri normativi e rigidi, validi sia per la tragedia sia per la commedia. Anche la divisione in cinque atti della tragedia non risale ad Aristotele, ma si impose in epoca ellenistica.

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Riassunto

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NUOVO MANUALE DI STORIA DEL TEATRO

di Roberto Alonge

1- IL TEATRO CLASSICO GRECO-ROMANO

Aristotele nella sua Poetica scrive che la tragedia nascerebbe “ da coloro che intonano il ditirambo” il teatro nasce insomma

in connessione con la religione (ditirambo = ). La parola tragedia dovrebbe voler dire “canto del capro”, forse in riferimento

agli uomini-capro a cui era affidata la celebrazione corale del dio Dioniso.

L’origine religiosa della tragedia non toglie che l’evento teatrale sia soprattutto uno spettacolo, come mostra l’etimologia della

parola teatro, dal verbo theàomai, cioè guardare. C’è teatro nella misura in cui qualcuno guarda e qualcuno è guardato.

Il teatro si realizza entro uno spazio ben definito, l’edificio teatrale greco utilizza per lo più un pendio naturale di una collina, su

cui viene impiantato un sistema di gradinate a semicerchio intorno al Coro. Sul fondo c’è lo Skené, che è un povero edificio che

serve all’attore per vestirsi.

Secondo le ipotesi oggi prevalenti gli attori agivano su un grande spazio di Orchestra e Skené. Almeno nel V secolo gli attori

non stanno su un palcoscenico, ma operano a livello-terra insieme al Coro (formano da dodici o quindici persone, inizialmente

aveva solo la funzione di commento alla vicenda, successivamente diventa un vero e proprio personaggio).

Inizialmente c’è un solo attore, Eschilo ne introduce un secondo e Sofocle ne inserisce un terzo, attori che sono sempre maschi

sino alla scena elisabettiana. Una caratteristica del teatro Greco è la presenza della maschera, simbolo del divenire altro da sé.

In Greco l’attore è chiamato “ hypokritès”, cioè colui che risponde, probabilmente nel senso di colui che risponde al Coro, ma

nelle lingue neo-latine diventa ipocrita, cioè qualcuno che mente, che assume falsamente le sembianze di un altro.

La maschera ha 2 funzioni:

- Facilita l’identificazione dell’attore con il personaggio.

- Consente ad un numero ridotto di attori di fare più parti.

Era lo Stato a pagare gli attori e quindi dovevano essere pochi e dovevano avere diverse abilità (dalla recitazione al canto). I primi

autori erano anche attori e qui la mancanza di didascalie perché l’attore essendo anche regista non aveva bisogno di segnare le

didascalie della messinscena.

Nonostante fosse uno spettacolo all’aperto, il teatro greco non ignorava del tutto effetti scenici prodotti da specifici artifici. Sono

infatti le divinità che compaiono in alto nei momenti decisivi: la Menachè è una sorta di gru che solleva in aria gli attori, come in

una specie di volo (es la Medea di Euripide) e il “deus ex machina” indica appunto l’intervento risolutivo di un dio che compare per

mezzo di un marchingegno.

Come detto prima lo Stato pagava gli attori e gli autori, mentre il Coro era retribuito da ricchi cittadini privati. Lo stato inoltre

rimborsava anche il biglietto al cittadino che ne faceva domanda. In conclusione possiamo dire che lo Stato di assumeva il peso di

un’iniziativa culturale perché riconosceva la funzione civile del teatro come modo di cementare la comunità.

Gli spettacoli teatrali si inserivano in una struttura agonale in cui tre autori presentavano una tetralogia di 3 tragedie e 1 dramma

satiresco. Una trilogia tragica giuntasi è l’Orestea di Eschilo (Agamennone, Coefore e Eumenidi). Erano previsti premi al miglior

autore, al miglior attore e al miglior Coro.

Nella sua Poetica Aristotele non detta delle norme; si limita a prendere atto di ciò che nei fatti accadeva nelle tragedie che leggeva.

Constatava cioè, semplicemente, che nella maggior parte delle tragedie la vicenda si svolgeva in un luogo fisso, senza cambiamenti

di scena; e si svolgeva “entro un solo volgere del sole”, da intendere o come un lasso di 24 h o 12 h.

In ogni caso i teorici classicisti del Rinascimento trasformarono quella che in Aristotele era una sola constatazione in OBBLIGO, in

criteri normativi e rigidi, validi sia per la tragedia sia per la commedia. Anche la divisione in cinque atti della tragedia non risale ad

Aristotele, ma si impose in epoca ellenistica.

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Dal punto di vista dei contenuti tutti e tre i grandi tragici attingono al patrimonio culturale di eroi e eroine. La società greca trova in

questo mondo la propria identità. Soltanto il mondo greco, così laico e privo della fede in una giustizia divina, poteva inventare la

tragedia che ha il centro nel tema del dolore e della sofferenza come conseguenza di un errore o di una colpa.

La presenza della divinità in Euripide è un fatto quasi formale, l’interesse si concentra sulla figura umana, la sua psicologia e i suoi

sentimenti del suo agire. In altri casi Euripide sperimenta genialmente una tragedia a lieto fine.

2- LA SCENA MEDIOEVALE

Con la dissoluzione dell’Impero Romano viene meno l’intero assetto culturale della società. Gli stessi edifici teatrali vanno in

rovina; l’attacco violento della chiesa nei confronti del teatro. I padri della Chiesa si scagliano con particolare violenza contro questa

realtà:

1- Tertulliano : paragona gli attori a delle prostitute perché fanno mercificazione del proprio corpo. Individua una vera e

propria ossessione dello sguardo: spettacolo è pericoloso perché è il luogo dove gli attori si presentano alla VISTA degli

spettatori.

2- Lattanzio: polemizza contro gli istrioni che con i loro effeminati corpi, rammolliti in abiti e comportamenti femminili,

simulano femmine impudiche con gesti disonesti e definisce le attrici con il nome di meretrici.

3- Agostino: lo spettacolo ha una grande capacità di toccare l’anima dello spettatore. Per la Chiesa l’attore è colui che

mente, che ammalia per la sua abilità a essere quello che non è.

Dopo la caduta dell’Impero romano il teatro si sposta in strada: sono i mimi a mantenere in piedi una qualche forma di

spettacolarità per le epoche considerate “senza teatro”.

Il giullare è un affabulatore che non rappresenta, ma monologa, senza un copione scritto, ma facendo riferimento alla memoria

orale.

Il Medioevo non possiede un’idea di teatro perché essa è distrutta, per un verso dalla caduta dell’Impero romano e dall’altro dalla

durissima campagna repressiva intrapresa dalla Chiesa nei confronti del teatro e dello spettacolo.

Nonostante la Chiesa bocci il teatro, ne prende spunto con le spettacolarizzazioni delle prediche: nasce così un teatro all’interno

della chiesa con lo scopo di catturare il pubblico dei fedeli; non c’è dunque da parte della cultura cristiana medioevale la nozione di

teatro, ma c’è il riconoscimento di una nozione di spettacolo.

La drammatizzazione delle prediche porta da un lato ad un’estensione e dall’altro ad uno slittamento linguistico dal latino ai diversi

volgari. Per esempio il “Jeu d’Adam” che tratta la storia di Adamo ed Eva, quella di Caino e Abele e termina con la sfilata dei Profeti

e l’annuncio della venuta di Cristo.

L’uso del volgare nei dialoghi è finalizzato al pubblico, costituito da un volgo ignorante, mentre il latino delle didascalie si rivolge

agli organizzatori dello spettacolo, quasi sicuramente ecclesiastici. C’è uno scarto evidente tra organizzatori dello spettacolo e

spettatori, ma anche tra organizzatori ed esecutori: i secondi possono anche essere laici illetterati, che devono solo sapersi

esprimere nella propria lingua madre, ma i primi non possono non appartenere alla classe ecclesiastica, in grado di comprendere le

note di regia, redatte in latino. Occorre istruire sia l’attore che impersona Adamo, sia gli attori che impersonano tutti gli altri

personaggi. Non per nulla l’istruttore era il nome del nostro attuale regista.

Il teatro religioso i mysteres francesi, miracle plays inglesi, sacre rappresentazioni o laudi italiane, autos sacramenteles spagnoli,

oltre a varie vicende sulla vita dei santi, come imitatio Christi. Cristo rappresenta la contaminazione piena di stili: è il massimo

sublime, è il dio incarnato, che sperimenta le brutture e le ignominie del mondo. L’eroe della tragedia greca cade ma conserva

intatta la sua dignità, Cristo è il modello di un eroe non tragico, è un eroe bastonato, offeso, umiliato. La vicenda di Cristo passa

attraverso una serie di tappe, le unità di tempo e di luogo sono assolutamente improponibili.

Il gusto della mescolanza di stili spiega anche l’inserirsi, all’interno della vicenda religiosa, di intermezzi comici. Effetti ancora più

buffoneschi si determinano quando sono inseriti i contadini, presentati sempre come imbroglioni e ladri, secondo il dominante

punto di vista antivillanesco.

Da questo angolo concettuale ci sono elementi di contatto con il teatro greco: ancora una volta il teatro nasce in rapporto con la

religione; coinvolge l’intera comunità e non degli strati sociali ristretti, come avverrà con il teatro rinascimentale. Su un punto il

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teatro medievale marca delle peculiarità divergenti rispetto al teatro greco: la non costruzione di luoghi specifici. È evidente che il

non costruire edifici teatrali è un modo di non riconoscere la realtà teatrale.

Il teatro moderno deve assai di più al teatro profano, che soprattutto verso la fine del Medioevo comincia a trovare una forma

sedimentata dentro ai meccanismi della festa.

3- Il PRIMO CINQUECENTO: IL RINASCIMENTO

Per tutto il Quattrocento è ancora largamente dominante in Europa il modello teatrale sacro. Ma proprio in Italia, nel corso del

Quattrocento, a differenza di quanto accade nel resto dell’Europa, si va riscoprendo la cultura classica ad opera degli umanisti. Le

accademie sono i primi centri di rielaborazione di questo enorme tesoro. Siamo all’invenzione del teatro moderno, nel senso

etimologico: inventio come ritrovamento, come riscoperta della classicità. È la corte a farsi centro di diffusione del nuovo teatro

classico. Nella corte è il teatro dentro la festa: il teatro prende parte in occasione di una ricorrenza festiva insieme a banchetti,

danze, giostre, tornei.

Questo tipo di teatro si riferisce ad una èlite. Spesso il committente dello spettacolo teatrale è il fruitore dello stesso: è questo il

fenomeno della privatizzazione del teatro. Il teatro serve a contrassegnare il potere, funzione come status symbol. Il teatro

allestito nel Palazzo del Principe presenta commedie e tragedie di stampo classico mentre al di fuori del palazzo, nelle piazze, il

popolo continua ad assistere alle tradizionali Sacre Rappresentazioni.

La diversità fra le due tipologie teatrali non sta solo sui contenuti, ma anche sulle scenografie: la scena medioevale presenta in

successione lineare tutti i luoghi dove si svolgeva l’azione, uno accanto all’altro, mentre in quella rinascimentale la scenografia si

unifica in un quadro solo, costituito da uno spicchio di città alle spalle degli attori. Le città riprodotte a teatro sono sempre perfette,

perché appunto hanno valore ideologico. Si fa inoltre uso della prospettiva, ignota al teatro medievale.

Il teatro nasce dentro al festa. La festa ha un committente, che è il principe, e il teatro è una parte di un tutto cui si applicano non

dei professionisti, ma dei dilettanti, che lo fanno per diletto. Il teatro nel Rinascimento è pur sempre attività marginale. C’è lo

spettacolo, ma non ci sono ancora le professioni dello spettacolo. Similmente i recitanti non sono attori bensì generici cortigiani,

persone che operano per puro piacere.

L’elemento dominante è l’eccezionalità della visione, è l’eccellenza della costruzione inaspettata, straordinari, che sorprende e

stupisce anche colui che ne è stato l’artefice. Il teatro del Rinascimento nasce sotto il segno di questa componente visionaria. Ciò

che ha prevalso nella cultura Occidentale è la visione frontale che separa nettamente attori e spettatori. C’è una grande superiorità

gerarchica e morale in chi guarda, rispetto a chi è guardato.

I primi due teatri in Italia sono della fine del Cinquecento: il Teatro Olimpico di Vicenza e il Teatro Olimpico di Sabbioneta. Gli

umanisti riscoprono il valore fondante del teatro, cemento della comunità, e chiedono pertanto la costruzione di teatri stabili.

Una buona idea di scena prospettica è fornita dal trattatista Sebastiano Serlio ne “Il secondo libro di prospettiva”: la scena

prospettica non è insomma veramente bidimensionale, ma in qualche modo risulta tridimensionale; non solo dipinta, ma anche in

qualche modo in rilievo. Gli attori sono costretti a recitare unicamente nel proscenio.

La commedia italiana del Cinquecento è propriamente il punto di incontro della tradizione dei commediografi latini e della

tradizione boccacciana. Un esempio è offerto dalla Calandria. Se il plot di questa riporta ai Menaechmi di Plauto, basta una piccola

modificazione del sesso dei due protagonisti a preparare svolgimenti di azioni che evidenziano un accento più equivoco, più

sensibile a una aperta allusività sessuale. Il greve moralismo della società morale non poteva consentire adulteri, che costituiscono

quasi la norma dell’universo giocoso della carnalità boccacciana.

Nella cultura cortigiana domina il gusto della varietà: a fianco di rappresentazioni di commedie latine e di commedie italiane,

troviamo anche la diversa spettacolarità minimo-gestuale di buffoni, giocolieri, mimi, danzatori. Uno di questi è il senese Niccolò

Campani, detto lo Strascino. Il Campani è la figura più nota di una realtà senese diffusa nel primo trentennio del secolo, fatta di

piccoli intellettuali di modesto livello culturale che amano scrivere e recitare tutta una ricca gamma di testi teatrali.

Oltre alle commedie cittadine e alle commedie rusticane, abbiamo le commedie pastorali nel Cinquecento (terzo genere) con il

capolavoro di Torquato Tasso, l’Aminta, rappresentata per la pria volta nel 1573.

A Venezia dietro alla realtà teatrale non c’era una corte, ma un sistema oligarchico. C’erano diverse compagnie teatrali dai nomi

scherzosi, che si preoccupavano di organizzare eventi ludici e festivi, per le ricorrenze del carnevale, ma anche soltanto per onorare

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l’arrivo in Città di ospiti illustri. Troviamo attori, giocolieri, buffoni, ma anche professionisti del teatro, come l’attore lucchese

Francesco Nobili, detto Cherea. La sua presenza a Venezia è accertata a partire dal 1508.

L’industria tipografica veneziana è assai viva nei primi decenni del secolo dal punto di vista delle edizioni di testi teatrali. In questo

ambiente di varietà di stili spettacolari rappresentato dalla Venezia degni anni Venti si impone l’astro del padovano Angelo Beolco,

detto Ruzante. Certo il Beolco con La Pastoral tende a creare una commedia contadina accanto alla commedia dei pastori, sì che la

Pastoral diventerebbe una antipastorale, ma il processo non viene portato alle sue estreme conseguenze.

Angelo Beolco rappresenta l’esempio più alto di commedia villanesca, però la commedia villanesca non è solo Beolco. A Siena nel

1531 si forma una compagnia, la Compagnia dei Rozzi, che incentra il proprio lavoro entro l’orizzonte rusticano: chi aderisce alla

Congrega acquista il nome di “rozzo” ma ne perde la sostanza. La scelta dei Rozzi sta nel puntare quasi esclusivamente nel

personaggio villano, a differenza dei Pre-Rozzi.

Il più importante dei Rozzi, Salvestro il Fumoso, di professione cartaio. Scrisse fra il 1544 e il 1552 sei testi, quattro commedie

villanesche e due pastorali, che mettono tutte al centro dell’osservazione la figura del contadino. Il Capotondo (1550), che

assomiglia al Bilora ruzantiano, narra la storia di un cittadino che sceglie come amante la moglie di un contadino e chiede in cambio

un indennizzo di grano e olio. A parte il diverso esito, narrano la storia di contadini economicamente disperati, pronti a prostituire

in qualche modo le mogli. Fame e miseria determinano una serie di rapporti immorali in vicende immorali.

Anche a Firenze, come a Venezia, il teatro si sviluppa tardivamente a causa della mancanza di uno stato principesco ben radicato:

dove manca un’organizzazione principesca dello Stato non si dà invenzione al teatro, non si apre la cosiddetta scena cortigiana. A

Firenze è emblematica la figura dell’araldo, attore-autore di un teatro ancora non ben saldo nella città. Giorgio Vasari ricorda due

compagnie del piacere, quella del Paiuolo e quella della Cazzuola.

Se a Venezia è la scena villanesca che si impone, grazie alla fervida originalità linguistica e attoria di Angelo Beolco, A Firenze si

impone la scena cittadina, sotto la spinta dell’autentico capolavoro, quale è la Mandragola. C’è insomma uno spessore di vita

cittadina e borghese che emerge vistosamente dall’opera.

La Mandragola e la Clizia sono due commedie dello stesso autore con due maniere diverse per sottolineare gli stessi problemi, per

mettere a fuoco il milieu sociale di una borghesia cittadina del tempo della repubblica fiorentina di Soderini, divisa fra pubblici

affari e vizi privati, fra affari e sesso.

Ludovico Ariosto incomincia col teatro fra il 1508 e il 1509, costeggiando i modelli classici. Ariosto, da grande organizzatore del

teatro di corte, aiuta Beolco nelle sue perfomances ferraresi. Nel 1528 comincia a cambiare aria e con la sua Lena rompe con le

prime commedie plautineggianti; c’è ancora l’intreccio plautino, con il servo che aiuta il padrone, ma c’è anche un duro spaccato

sulla realtà sociale della Ferrara di quel tempo. Una moglie che si prostituisce per mantenere un marito poltrone, che si

imbestialisce facendosi animale da monta di 100 mascalzoni e un marito che le propone una lista sempre più lunga di clienti e la

sollecita al commercio anale.

Il frutto più maturo del realismo rinascimentale è rappresentato dalla Venexiana, con la sua centralità della realtà urbana di

Venezia. Narra la storia di due nobildonne che si contendono l’amore del bel Iulio, un forestiero milanese disinvolto e

spregiudicato. La Venexiana è un’anti-commedia, la commedia risulta sdoppiata in due commedie minori: il secondo e terzo atto

narra l’amore tra Iulio e Angelo e il quarto e il quinto quello tra Iulio e Valeria. Iulio non lascia Angela per Valeria, ma

semplicemente trascorre il tempo passando dall’una all’altra. Questa commedia rifiuta il finale e rappresenta perciò lo spaccato

della vita vissuta senza una conclusione, oltre al finale rifiuta anche le unità di tempo e di luogo.

Il tempo scandisce la durata del loro piacere. Nella commedia esiste uno spazio aperto, rappresentato dalle calli e dai canali e uno

spazio chiuso, quello delle abitazioni delle due donne. Lo spazio aperto è dissipazione, vuoto; lo spazio chiuso è simbolo di

privilegio, perché dentro quello spazio si svolge il solenne rito dell’amore, dell’eros, del piacere e diventa il simbolo di privilegio di

una classe borghese libera da esigenze economiche.

4- IL SECONDO CINQUECENTO: LA COMMEDIA DELL’ARTE

Alla data del 1547 sono già morti tutti i grandi autori della civiltà rinascimentale: Bembo, Castiglione, Ariosto, Guicciardini,

Machiavelli, Beolco, Folengo. La nascita della Commedia dell’Arte rappresenta la nascita di un modo diverso di fare teatro rispetto

al primo Cinquecento.

Leone de’ Sommi autore di un trattato “Quattro dialoghi in maniera di rappresentazioni sceniche”, l’originalità del suo trattato

consiste appunto nell’attenzione alla dimensione dello spettacolo. Il punto di vista privilegiato è quello dello spettatore, non quello

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del lettore. Egli dichiara apertamente che ci può essere un testo bello sulla carta, che non risulta però tale sul palcoscenico e

viceversa. Ma è sorprende l’dea che ha dell’attore, al quale chiede di essere ubbidienti all’autore e di accettare lunghe prove; si

avvicina così alla linea del PROFESSIONISMO TEATRALE.

Il 25 febbraio del 1545 otto uomini si presentano davanti un notaio di Padova, per stipulare un contratto. Hanno deciso di costituirsi

in una sorta di società, per recitar commedie di loco in loco, al fine di guadagnar denaro. C’è uno spirito pratico, molto borghese,

che ha costituito un nuovo mestiere. Il teatro piace e si può campare di teatro: facendolo pagare, anziché regalandolo come si

usava prima nelle corti. Commedia dell’arte rinvia alle Arti e Corporazioni del Medioevo, dunque arte come mestiere.

E caratteristiche di questa nuova professione teatrale erano: far pagare il biglietto e ed essere sempre in viaggio, attori itineranti.

Oltre a queste due novità, c’erano quelle dei ruoli fissi, in cui ogni attore si specializza in una figura e la novità dei canovacci, che

sostituivano i testi scritti. I canovacci era un intreccio della commedia a grandi linee che dava molto spazio all’improvvisazione. Di

grande efficacia è la novità delle maschere. Le maschere sono tratte dal folklore, dalle pratiche carnevalesche, ma i qualche modo

sono implicite negli intrecci della commedia del Primo Cinquecento. Un’altra novità di grande importanza è costituita dal pluralismo

linguistico, in cui gli attori si esprimevano con vari dialetti, oltre al costituente italiano; La caratteristica più decisiva della Commedia

dell’Arte è però la piena valorizzazione del corpo, con una forte gestualità.

Ciò che determina il trionfo della Commedia dell’Arte è la comparsa rivoluzionaria della donna sul palcoscenico. Donna allettatrice:

per vendere qualsivoglia cosa nulla è più efficace di una donna più o meno svestita. Lo spettacolo del corpo femminile aumenta

l’industria dello spettacolo. Le donne attrici fanno una bella vita, ma pagano il prezzo di dover finire a letto con i maggiorenti,

perché sono tutte mezze-prostitute.

La Commedia dell’Arte ha una durata lunga, da metà Cinquecento a metà Seicento. Il picco di eccellenza di questa nuova forma

d’arte è nei decessi a cavallo fra fine ‘5500 e inizi ‘600, quando operano tre comici illustri, che sanno usare anche la penna: i coniugi

Andreini e Flaminio Scala.

Da un lato il canovaccio indica l’elenco delle Robbe per la Commedia, cioè l’elenco degli oggetti che serviranno agli interpreti e ha

una finalità pratica, dall’altro ogni canovaccio è introdotto da un Argomento e risponde a una finalità puramente narrativa.

L’ambientazione è quella delle troupes dei comici illustri, che arrivando in una città, affittano uno stanzone, dove si esibiscono a

pagamento.

Con il Ritratto Flaminio Scala ci offre la visione della realtà dei teatranti vista dall’interno. Vittoria è una attrice, prima donna della

compagnia, ma è anche una demi-mondaine, che si è conquistata perle e diamanti non solo grazie alle sua abilità attoriche, ma

soprattutto grazie alle sue abilità amatorie. E se i due vecchi Pantalone e Dottor Graziano sono attratti dal fascino dell’attrice,

anche l’attrice non nasconde la sua volontà di adescamento. Vittoria si muove come una prostituta di alto bordo, cercando

accanitamente informazioni su entrambi i borghesi che vorrebbero spennare.

Le attrici attirano gli uomini di ogni ceto e grado e disgregano l’unità familiare, determinando la rovina la rovina dei maschi e

generando gli adulteri dei mariti e dei padri di famiglia, e suscitando liti e questioni fra spasimanti rivali. Lo spettacolo è finito in una

rissa, così come denunciato tante volte dagli uomini di Chiesa nei loro pamphlets contro la Commedia dell’Arte. La commedia non si

limita ad offrirci un quadro realistico e spietato della condizione dell’attrice. Il Ritratto è l’unico canovaccio di ambiente borghese

dei cinquanta di Flaminio Scala. In questa commedia c’è un doppio adulterio: Pantalone e Graziano sono spostati rispettivamente a

Isabella e Flaminia, che hanno da tempo una relazione con i giovani Orazio e Flavio.

5- LA SCENA ELISABETTIANA TRA CINQUECENTO E SEICENTO

Tra la fine ‘400 e inizi ‘500 si realizza in Italia, all’interno delle corti, una rottura, uno strappo drastico rispetto alla tradizione

teatrale medievale: mentre nelle piazze il popolo continua a seguire spettacoli religiosi, all’interno dei palazzi, un pubblico elitario e

raffinato, fruisce di spettacoli laici. Solo la Francia subisce l’influsso del classicismo propagato dal Rinascimento Italiano; non per

nulla il ‘600 francese corrisponde grossomodo al ‘500 italiano.

La mescolanza di stili, cioè la contaminazione fra tragico e comico, che caratterizza lo spettacolo religioso medievale, si ritrova

puntualmente in Shakespeare. In tre tragedie shakespiriane non mancano scene di gusto comico-buffonesco. In Macbeth si impone

lo sproloquio dell’ubriaco, nell’Amleto introduce due clowns e nell’Otello c’è uno scambio di pesanti allusioni sessuali. Shakespeare

è in grado di leggere in latino, ma segue i gusti più semplici del suo pubblico.

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La sete di divertimento fa parte di una metropoli viva come lo è Londra e tutta protesa nei traffici e nell’arricchimento. Un 10%

della popolazione frequenta i teatri una volta alla settimana. Chi scriveva per il teatro, per il suo ruolo simile, aveva lo stesso

atteggiamento di chi oggi scrive per la televisione. PRODUZIONE COMMERCIALE per un guadagno.

Da un lato Londra sembra in anticipo su tutta l’Europa per quanto riguarda l’industria dello spettacolo: qui c’è un pubblico di

spettatori paganti che acquista la merce teatro ed è un pubblico interclassista. E dall’altro in Inghilterra è ancora più forte

l’avversione della Chiesa nei confronti del teatro: quando i Puritani prenderanno il potere, non solo decapiteranno il re, ma

imporranno un ventennio, dal 1642 al 1660, senza teatro.

Simile all’arena da combattimento è l’edificio teatrale, a forma vagamente circolare, a cielo aperto. Il palcoscenico si protende

dentro la platea, sì che gli spettatori in qualche modo circondano gli attori. Sul palcoscenico, una botola, sta a simboleggiare

l’inferno, da cui può uscire un diavolo o un fantasma. Il alto una balconata per alcune scene o dove possono stare i musici.

Un teatro scenograficamente povero, anche senza effetti di luce, per la rappresentazione diurna. Anche le compagnie teatrali sono

povere: mancano le attrici, i personaggi femminili sono recitati da giovinetti vestiti da donne. Si parla di scenografia verbale: sono le

parole dei personaggi ad evocare il tipo di ambientazione.

Mancano insomma le attrici, e sempre a causa della forte pressione moralizzatrice dei Puritani. L’invenzione della donna è merito

dei comici dell’Arte. Le attrici inglesi arriveranno solo con la riapertura dei teatri, con il ritorno del nuovo re, Carlo II. Gli attori

perseguitati dalla legge inglese, per sfuggire, sono costretti a mettersi sotto la protezione di qualche nobile, a indossare la livrea del

proprio padrone.

Shakespeare lavora nella compagnia dei Lord Chamberlain’s Men, che diventa poi quella dei King’s Men, cioè dei servitori del re. Le

vite di alcuni scrittori di teatro sono già di per sé significative; vite tormentate, brevi e talvolta drammatiche. Cristopher Marlowe è

un intellettuale laico, blasfemo, omosessuale, che muore nel corso di una rissa in una taverna londinese, a causa di una lama di

pugnale che penetra in un occhio. Marlowe riscuote un grande successo popolare con Tamerlano il grande.

Il modo di operare di Shakespeare è totalmente diverso dagli altri: lavoro di scrittura sostanzialmente artigianale, fatto spesso di

adattamenti di testi già scritti da altri, con zeppe, segmenti dialogici sistemati alla bell’e meglio, interpolazioni che gli attori fanno al

momento della rappresentazione. Shakespeare era un grande attore, ma manager di compagnia, invece che grande interprete. Il

suo impegno principale era quello di fornitore di copioni, scritti parte in versi e parte in prosa. Il BLANK VERSE è un verso sciolto,

non rimato, il cui ritmo si avvicina al parlato inglese.

L’Amleto è ricavato da un antico racconto popolare scandinavo: il re di Danimarca è morto, e la regina è convolata rapidamente a

seconde nozze con il cognato. Lo spettro del morto sovrano appare al figlio Amleto e gli rivela che è stato in realtà avvelenato dal

proprio fratello, Claudio. Solo alla fine realizza la vendetta dovuta, uccidendo finalmente lo zio, e morendo egli stesso. Il momento

più celebre dell’Amleto è quello che lo vede come l’eroe del dubbio, l’intellettuale riflessivo, in cui l’eccesso di riflessione frena e

impedisce il passaggio all’azione. Nella lingua italiana l’aggettivo amletico vale come irresoluto, ambiguo. Certo Amleto non è

Oreste, che uccide prontamente Clitemestra. Perché Oreste agisce prontamente di fronte ad un fatto, ad un omicidio indubitabile

di Agamennone. Amleto rinvia e prende tempo perché è alle prese con un semplice sospetto di omicidio, e comunque il suo

informatore è uno spettro.

Prima dell’incontro con lo Spettro, che diventa per lui una epifania, emerge una chiara sensazione di dolore in Amleto, a differenza

della madre, che si è prontamente risposata. Nella scena dell’incoronazione del re, Amleto compare vestito a lutto (dressed in

black), per marcare fortemente il suo dissenso.

La rivelazione dello Spettro apre un abisso fra lui e l’universo femminile: l’omicidio di Claudio ricade su Gertrude, che la vede una

quasi complice. La visione misogina che scaturisce dalla rivelazione dello Spettro si allarga in maniera nefasta su tutte le donne, e

dunque anche su Ofelia, che sarà costantemente oggetto di grevi allusioni sessuali da parte di Amleto. Arriva a colpevolizzare la

madre, usando lo stesso soggetto per il verbo to kill e per to marry with. È la madre cioè che ha ucciso e ed è stata corresponsabile

del delitto Gertrude diventa un’immagine così del negativo.

Amleto insomma rivede l’omicidio di suo padre e allo stesso tempo riversa ingiurie sull’eterno femminino, sulla madre e si Ofelia. È

un play within the play, il dramma nel dramma, invenzione del teatro elisabettiano. Alla corte di Danimarca arrivano casualmente

degli attori girovaghi e Amleto chiede loro di rappresentare la vicenda del Duca Gonzago, avvelenato nel giardino del nipote

Luciano. È una storia che fa da specchio alla realtà di quanto è avvenuto nel regno di Danimarca. La finzione raddoppia la verità e la

verità esplode proprio rispecchiandosi nella finzione. Dinanzi al teatro parla l’inconscio dell’assassino, i suoi nervi e il suo corpo.

Claudio si alza e fugge, rivelando così ad Amleto di essere lui l’assassino.

Page 7: Alonge, Perrelli - Storia del teatro e dello spettacolo

Meno celebre dell’Amleto è però l’Otello. Nella tradizione scenica l’attore che interpreta Otello, interpreta anche Iago. Comunque è

Iago ad avere il maggior numero di battute ed è lui ad aprire la tragedia.

Nella vita militare c’è una regola antica: le progressioni di carriera si fondano sull’anzianità e sull’esperienza. Il merito sopra ogni

cosa, al di là dei pregiudizi razziali: Otello ne è la dimostrazione, un moro accettato come capo militare di una potenza di bianchi,

come Venezia. Otello però ha degenerato la norma tradizione, vedendo prevalere quella delle raccomandazioni, anche Iago è

ricorso alla raccomandazione, ma invano.

Shakespeare in questa tragedia mette bene a fuoco il personaggio femminile di Desdemona, figlia unica di un importante senatore

veneziano, che con lei ha sostituito l’immagine della moglie morta. Lei in Otello vede una figura paterna essendo di età più

avanzata e si lascia incantare da lui. Desdemona “passa da un padre ad un altro”.

Il padre vede la fuga della figlia come un TRADIMENTO D’AMORE, vive l’allontanamento dal nido paterno della figlia come la fine di

una storia d’amore, tant’è che soffre e muore di dolore.

Per Otello il matrimonio con Desdemona non sembra fondato sulla spinta dell’eros, ma su qualche esigenza diversa, al momento

inesplicata. Emblematici sono due fatti: primo quando Otello parte per Cipro decide di non portarsela nella propria nave, ma la

affida a Iago e nella prima notte a Venezia decide di non fare l’amore nell’ora disponibile, ma di fare loving talk.

Per Desdemona, l’abbandono della casa paterna rappresenta una violenza; per lei ci si può sottrarre a una vita in fusione con una

persona solo optando per un’altra in fusione con un’altra persona. Desdemona è affascinata dall’uomo di potere: passa dalla

fascinazione del politico alla fascinazione del militare.

Il sospetto che Desdemona tradisca Otello con Cassio è forte ed è ancora più rafforzato quando lei chiede ad Otello di reintegrare

Cassio, in precedenza allontanato per una mancanza militare. La gelosia per Cassio ha un senso proprio, perché Cassio possiede e

tre cose che Otello non ha: è bianco, è un abile conversatore ed è giovane.

A Cipro la vita fra i due è diversa rispetto a Venezia: a Venezia è totalmente in fusione con Desdemona, a Cipro Otello deve

dividersi fra gli impegni maritali e quelli militari. Desdemona si sente trascurata e investe psicologicamente il suo tempo nell’affaire

di Cassio, che ha per lei essenzialmente un valore simbolico.

Il primo regalo che Otello ha fatto a Desdemona era un fazzoletto, che lei ha lasciato cadere. È un atto mancato che sta a significare

l’insofferenza della donna.

Shakespeare è un autore che produce teatro con la mentalità dell’artigiano, sistema, aggiusta, rappezza secondo le esigenze del

pubblico: passa da frasi sublimi a frasi triviali e basse. All’inizio del secondo atto Iago conversa con Desdemona utilizzando battute a

sfondo misogino a allusioni grevi e sessuali e Desdemona gli tiene testa.

Alla fine della tragedia Otello uccide Desdemona e si sottrae all’arresto suicidandosi. Otello tragedia dell’amore e della gelosia, ma

tragedia che termina su uno speech che non dice molto di Desdemona, anzi la incastra tra il prologo e l’epilogo in cui parla dello

stato veneziano. Il vero amore di Otello non è Desdemona, ma Venezia. Desdemona ha rappresentato per lui un segno di

integrazione, uno status symbol. Il tradimento di Desdemona rappresenta la totale sconfitta, l’annientamento totale. Lui si sente

estraneo, extracomunitario.

Con Macbeth Shakespeare inventa il suo primo grande personaggio femminile. I generali Macbeth e Banquo sono reduci da una

battaglia in cui si sono cinti di gloria, e incontrano tre streghe che salutano il primo quale “Barone di Cawdor” e futuro re, il secondo

quale “inferiore a Macbeth, e più grande”, che non sarà re, ma padre di re. Poco dopo Macbeth vieni insignito dal proprio re come

Barone di Cawdor.

Macbeth è la storia di una tentazione dell’anima: si tratta di vedere fin dove osa spingersi lo spirito umano, abbagliato dal sogno di

diventare re. Il problema di Macbeth è di essere un uomo senza desiderio; il suo desiderio è il desiderio della moglie.

La moglie non deve ignorare la grandezza che le è stata promessa. Se Macbeth diventerà re, lo sarà per la grandezza della sua

regina, per la gloria di lei, prima ancora che la sua. La monarchia sarà così una diarchia.

Shakespeare costruisce un dialogo di formidabile contrasto tra l’esitazione costante dell’uomo e la determinazione radicale della

donna, che sa bene che dovrà essere lei a fare il lavoro sporco. Sin dall’inizio la Lady sa benissimo che toccherà a lei il peso

principale dell’impresa: è lei ad essere delegata dal marito a operare l’omicidio. Lui si affida a lei.

Page 8: Alonge, Perrelli - Storia del teatro e dello spettacolo

A Macbeth non resta che arrendersi e riconoscere la superiore tempra maschile della donna. Arrendersi, per Macbeth, vuol dire

però accettare la sfida, significa mostrarsi uomo, ed è lui dunque ad uccidere. Lady dichiara che avrebbe fatto lei, se non avesse

assomigliato a suo padre. C’è un limite anche per Lady, non ha potuto pugnalare un’immagine paterna.

E dal secondo atto, fino al termine del terzo, sarà per Macbeth un calvario di ossessioni e di incubi, in cui vedrà lo spettro di

Banquo, fatto uccidere, insieme ad altri. È come se Lady si fosse bruciata per alimentare la forza di Macbeth, convincendolo ad

uccidere il re.

Macbeth si rivela autonomo solo a partire dal momento in cui la moglie scompare. Lei vive in lui. La morte di Lady diventa per

Macbeth un passaggio fondamentale, è l’occasione di una epifania folgorante.

Shakespeare usa una triplice metafora per indicare la vita: la vita è un’ombra in cammino uso del tema del viaggio per indicare il

tempo della vita; la vita è un povero attore la persona umana, un attore di basso rango che si sbraccia sul palcoscenico e dopo

nessuno sa chi è; infine una storia raccontata da un idiota.

Nel tempo lungo della tragedia il nostro eroe è maturato. La morta improvvisa della Lady chiarisce a Macbeth che si può morire

anche prima della fine del corso intero della natura Macbeth prende coscienza che la vita NON ha senso, è una storia signifying

nothing per cui non ha nemmeno importanza cercare di vivere il più lungo possibile. Macbeth, rimasto solo, si ritrova nel suo

personaggio unico di guerriero, che intende morire come è sempre vissuto, da combattente.

JOHN FORD che scrive il suo capolavoro “Pensavo che fosse una sgualdrina” un quadro implacabile di una società cinica, crudele,

contro cui si staglia di una storia incestuosa di un amore tra fratello e sorella.

La storia inizia quando Annabella vede un giovanotto dal suo balcone passare sotto, non riconoscendo in lui il fratello Annabella

non vuole riconoscere il suo amore per il fratello. Giovanni confessa il suo amore ad Annabella e le offre il pugnale affinché le apra

il petto (cuore e pugnale Amore e Morte). Annabella ricambia confessandogli il proprio amore per lui.

Si offre così il quadretto di una coppia di giovani orfani, che vivono in una ricca casa borghese con un padre assente. Due bambini

che hanno investito il loro amore sul doppio, il mito dell’Androgine, diviso dalla divinità in due parti, che da allora si ricercano per

ritrovarsi.

Nel secondo atto si registra la capacità di iniziativa femminile di Annabella, capace di reggere le redini del gioco. Nel terzo atto

abbiamo la svolta: Annabella è incinta e il trauma la predispone al pentimento, si confessa dal Frate e accetta la proposta di sposare

Soranzo. Ma nel quarto atto lui scopre che il figlio non è suo, di fronte agli insulti del marito, Annabella non nasconde il suo

adulterio. All’inizio del quinto atto Annabella aspetta il momento in cui il marito vorrà ucciderla, ma salvaguarda ancora il fratello

continuando a celare il nome del presunto adulterino.

Soranzo scopre il nome dell’adulterino e organizza un banchetto per far ammazzare dai sicari Giovanni, Giovanni intuisce tutto ed

entra in camera della sorella, la ammazza con un pugnale. Entra nella sala del banchetto con il cuore di lei infilzato sulla punta del

pugnale ed incominciano così una serie di uccisioni: muore Giovanni, il marito e il padre Florio.

6- LA SCENA SPAGNOLA TRA CINQUECENTO E SEICENTO

I teatri che fiorirono nella Spagna rinascimentale sorsero nello stesso periodo dei teatri elisabettiani ed ebbero forma non dissimile.

La somiglianza NON è casuale: hanno una matrice comune la scena medioevale.

I maggiori personaggi della scena spagnola appartengono tutti alla sfera religiosa: Tirso de Molina, Calderòn de la Barca, Lope.

L’autore della Celestina, Fernando de Rojas, è un ebreo convertito al cattolicesimo, e il suo capolavoro è fortemente segnato da un

intento moraleggiante. Da notare che sia Lope che Tirso che Calderòn compongono testi sacri e testi profani. Nonostante il

processo di laicizzazione del teatro continua a vivere accanto al tema profano anche un tema a carattere religioso, con commedie

aventi personaggi della Bibbia, della vita dei Santi o con gli autos sacramentales.

Al centro della scena spagnola c’è il corral, un recinto, una sorta di cortile costituito dalle pareti delle case contigue, con il

palcoscenico impiantato ad un’estremità dello spazio. Sul terreno, in piedi, il pubblico popolare; intorno, lungo i muri, gradinate con

posti a sedere per i più agiati; in fondo la cazuela, loggione per pubblico femminile; ai balconi e finestre circostanti il pubblico di

rango più elevato.

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A partire dal 1574 la presenza di comici dell’Arte, in provenienza dall’Italia, contribuisce ad accelerare il processo di trasformazione

della scena teatrale in senso professionistico. La loro influenza consente di far accettare la presenza delle donne come attrici, ma la

drammaturgia spagnola continua ad essere legata alla tradizione medioevale.

La comedia nuova, di Carpio Lope de Vega, ripropone puntualmente i moduli più significativi della tradizione medievale: piena

libertà spazio-temporale, superamento della distinzione di generi, che dà vita alla tragicommedia, presenza quasi sistematica della

figura del gracioso, una sorta di buffone. Accanto a questi elementi di continuità, ci sono delle innovazioni: le commedie di genere

avventuroso, le cosiddette capa y espada, la presenza di commedie a tre atti, invece che a cinque atti.

Lope de Vega nel 1609 pubblica in versi un poemetto, in cui c’è il riconoscimento della centralità sociologica del pubblico, che è il

vero committente-pagatore del drammaturgo, il quale deve mettersi in sintonia con le predilezioni degli spettatori.

Nel complesso, per il teatro, il Seicento è un secolo d’oro, che contrasta con il declino politico-sociale della Spagna. In questo

teatro, si respira il clima della Controriforma, cioè una immobilità ideologica, un ancoramento ai valori del conservatorismo sociale

e politico.

Il Fuente Ovejuna di Lope racconta la storia di un signorotto feudale che, nell’omonimo paese, si diverte a razziare e violentare le

donne del paese. Per l’indignazione la popolazione si rivolta e uccide il tiranno. Tutti gli abitanti pensano che il vero responsabile di

ciò è Fuente Ovejuna, intendendo che la responsabilità è collettiva e solidale di fronte alle mostruosità del potere locale. C’è un

ribaltamento della visione contadina, qui i contadini vengono visti come portatori di dignità e moralità contro le ignominie nobiliari.

In realtà Lope incastona la vicenda all’interno di un preciso conflitto politico-dinastico: il commendatore si è schierato contro i

sovrani Ferdinando e Isabella. Il componimento di Lope è quindi un progetto encomiastico, di esaltazione del potere storicamente

vincente in Spagna, quello sovrano, contro la tradizionale anarchia feudale. Il governo della dinastia reale è legalmente preferibile

alle angherie dell’amministrazione locale.

Autore invece di una sola opera è Fernando Rojas, cui si deve sicuramente uno strano testo, stampato, anonimo, Comedia de

Calisto y Melibea. La prima edizione comprende infatti ben sedici atti; a partire da una nuova edizione, di qualche anno dopo, gli

atti diventano addirittura ventuno. È una sorta di testo teatrale da leggere, che rivela forti legami con il mondo medievale. Calisto

infatti è un giovane aristocratico, che si accende di passione alla sola vista di Melibea e che scala le mura del palazzo della

nobildonna per fare l’amore con lei. La novità è la mescolanza di livelli, alto e basso, della ruffiana Celestina, che per denaro

favorisce l’amore dl giovane. È un quadro formato da giovani aristocratici innamorati e da ruffiani, prostitute e servi. La trama

cavalleresca e cortese si intreccia con tinte di violento realismo (il cosiddetto realismo medievale).

Ogni atto dell’opera contiene un argomento e quello dell’atto diciannove (la morte di Calisto) ci dice che questo è il premio che

ricevono quelli come lui; e per questo gli amanti devono imparare a disamare. La morte assume l’idea della punizione. Nella prima

edizione Calisto muore al termine della sua unica notte d’amore, a espiazione immediata del peccato commesso. C’è una dura

polemica anti-signorile che attraversa tutta l’opera perché mette a confronto il mondo ozioso dei nobili padroni con il mondo

povero e affamato dei servi e dei poveri.

Tra le tanti morti, l’unica che muore senza invocare il perdono divino è Melibea, colei che non subisce la morte, ma che la

programma e la decide. Melibea è figura complessa , apparentemente contraddittoria: respinge la avances di Calisto, ma le accetta.

L’immagine di lui ha colpito lei quanto lei ha colpito lui. Non c’è nessuna barriera sociale ad impedire un possibile matrimonio, ma

le nozze non stanno all’interno delle intenzioni della coppia. C’è solo la pulsione dispotica dei sensi: pienamente esternata da

Calisto, il quale si dichiara pronto a fare l’amore anche sotto gli occhi della serva di Melibea, Lucrezia.

Melibea si riconosce nell’ideologia cortese del parlar d’amore, del ragionar d’amore, ma avverte lo scarto tra la lingua e le mani, fra

il linguaggio della ragione e quello del corpo. Non sono fragilità e timidezze verginali, anche dopo un mese di pratiche sessuali

troviamo le stesse movenze e le stesse battute, diversamente da Calisto che si è fatto più sicuro di sé. Melibea vive continuamente

il trauma dello strappo, della trasgressione. Può piangere la verginità perduta, ma di fronte alla morte può piangere di non aver

fatto l’amore abbastanza con lui.

Sulla scia di Lope troviamo Tirso de Molina, degno di memoria per il celebre El burlador de Sevilla y convidado de piedra. È il testo

fondatore del mito secolare di Don Giovanni. Da un lato c’è el burlador, l’uomo che vive di inganni, e che arriva alla livida burla di

invitare a cena la statua dell’uomo che ha ucciso, dall’altro c’è appunto la statua del convitato, che al termine dell’insolito

banchetto stringe la mano di Don Juan. Ed è una stretta che lo arde e lo uccide, dannandolo per l’eternità. Per un verso il

protagonista del male imprese, ma per l’altro verso il giustiziere per conto divino malvagio. È lo stesso Don Juan a fornire un ritratto

di sé che non ha nulla di affascinante. Il suo piacere da sempre è quello di burlar, cioè di ingannare le donne. Non è tanto il gusto

dell’eros, il desiderio carnale, ma piuttosto un perverso desiderio CEREBRALE, un frigido compiacimento a cogliere il fiore della

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verginità della donna, per disonorarla, coinvolgendola nel destino vorticoso della sedotta ed abbandonata. Per Don Juan risulta

facile sedurre le donne del popolo, operando di giorno e a viso scoperto, giocando sul fascino della propria condizione nobiliare e

sulle abilità del proprio linguaggio fiorito.

Invece, con le gentildonne Isabella e Donna Anna il nostro Don Juan deve operare di notte e a viso coperto. Se la popolana crede

alla favola del matrimonio e risulta parte debole, l’aristocratica è più scaltra, meno suggestionabile e risulta quindi una parte forte.

Il buio della notte rappresenta il momento ideale per infilarsi nel letto della donna e rubarne la purezza. Don Juan non rappresenta

quindi la figura del seduttore, ma piuttosto quella del LADRO D’AMORE. Nell’eroe quindi non c’è grandezza, nemmeno al

sopraggiungere della morte, anzi quando essa arriva, prima della scadenza naturale, il nostro eroe rivela tutte le sue insicurezze e le

sue fragilità. Comincia col confessare che una delle sue imprese amatoriali è stato un flop: quella con Donna Anna.

Anche Don Juan, al pari di Celestina, non è un eroe del male, non è figura diabolica. All’incontro con il destino, alla svolta della

morte, rinnega la sua carriera di ribaldo peccatore e implora l’aiuto religioso. Se Celestina invocava la confessione, Don Juan

pretende la confessione e l’assoluzione, vuole la certezza di essere salvato.

A trentacinque anni di distanza, il Don Giovanni viene ripreso da Moliére. Il suo Don Giovanni non crede in Dio e non può per

questo pentirsi. Una delle scene più inquietanti della pièce è là dove un povero chiede l’elemosina a Don Giovanni, il quale pone al

povero un semplice ricatto: avrà dei soldi, ma a condizione che bestemmi Dio. Il personaggio perciò muore stoicamente,

raccontando semplicemente la sua morte. Il sottotitolo è diverso: non L’ingannatore e il convitato di pietra, ma bensì L’ingannatore

o il convitato di pietra. Il Don Giovanni di Molière è, si, questa volta, un eroe del male o, meglio, un eroe che si ribella a Dio in

nome dei valori terreni, della civiltà laica. A differenza del Don Giovanni di Tirso, quello di Molière è autenticamente interessato al

piacere istintuale dei molteplici rapporti con le donne. Non c’è in lui il gusto di disonorarle, ma solo quello di godersele, in una

voluttà che è fondata sulla continua novità del partner.

Il punto più alto del teatro spagnolo è rappresentato da Pedro Calderon de La Barca, con il suo capolavoro La vida es sueño. La

struttura di questa commedia è di cappa e spada, in cui c’è l’ossessione dell’onore. Clotaldo ha sedotto e abbandonato in passato

una gentildonna, cui ha lasciato però la spada. E ritroviamo altresì il gracioso, nella figura di Clarino, al servizio di Rosaura, le

esprime le piccole viltà dell’uomo qualunque alle prese con i grandi eventi della storia. Quando scoppia la battaglia finale, e

ciascuno dei due eserciti inneggia al proprio capo, Clarino inneggia a tutti e due, preoccupato solo di campare. E alla fine viene

ucciso da una pallottola vagante. Ritroviamo parimenti la consueta apologia del potere monarchico. Basilio, re di Polonia, ha fatto

incarcerare suo figlio Sigismondo, ed è pronto a lasciare il trono ad Astolfo, ma una insurrezione popolare sconfigge il re e

attribuisce la corona al legittimo erede. Sigismondo perdona il padre e lo sconfitto Astolfo, dandogli in sposa Rosaura. Rosaura è

stata disonorata da Astolfo e solo lui può rimediare sposandola. Sigismondo sposerà la cugina di Astolfo, Stella, solo per un puro

interesse politico.

È Basilio con una penetrante riflessione sulla condizione umana a spingersi molto in avanti. Ha incarcerato il figlio per timore della

sua natura violenta, ma decide di lasciargli la possibilità di una prova: all’inizio del secondo atto escono le prime pulsioni violente,

quando uccide un servo e tenta di violentare Rosaura. Sigismondo ha patito sulla sua pelle la pedagogia del terrore. Il lamento di

una vita umana che è data per essere tolta, attraverso il passaggio della morte, a cui nessuno può sfuggire. Ripete per ben 4 volte

che la nascita stessa è un delitto e che dunque l’esistenza è un male, un castigo; accentuato questo castigo dalle sue condizioni di

privata libertà.

7- LA SCENA FRANCESE DEL SEICENTO

Rispetto all’Inghilterra e alla Spagna, la Francia vanta una maggiore vicinanza geografica all’Italia, e forse questo spiega l’influsso

che la cultura classicista del Rinascimento italiano esercitò sulla cultura francese. Dall’Italia provengono flussi ininterrotti di comici

dell’Arte, che a Parigi si fissano, in pianta stabile. La Francia diventa a tutti gli effetti la seconda patria della Commedia dell’Arte. Dal

punto di vista teatrale vale in Francia quella che si chiama appunto la sala all’italiana, con il pubblico contrapposto frontalmente

agli attori, che operano dinanzi ad una scena prospettica.

Il Seicento francese è definito Le Grand Siècle, per la grandezza di tre grandi autori francesi: Corneille, Molière e Racine. Il più

vecchio dei tragediografi francesi è Pierre Corneille, che trionfa con un’opera, Le Cid, che non rispetta le unità di tempo e di luogo

aristoteliche. L’aristocrazia tentò di usare il teatro come arma ideologica, per celebrare i valori che definiscono la propria

superiorità di classe. Da questo punto di vista il Cid è un exemplum superbo. Rappresentato nel 1637, il Cid presenta una vicenda

ispirata a cronache spagnole medievali di lotta contro i Mori, che valorizzano un condottiero liberatore. Corneille ambienta la

vicenda a Siviglia, alla corte di Don Fernando, primo re di Castiglia. Don Diego e Don Gomes sono due importanti uomini d’arme del

re, ma il primo è vecchio e il secondo nella sua piena maturità fisica. Il re ha appena assegnato al primo la funzione di precettore del

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proprio figlio, erede al trono, e Don Gomes, che si ritiene più degno di Don Diego, lo insulta e lo schiaffeggia. Don Gomes ha

un’altissima considerazione di sé e ritiene che lo stato stia in piedi grazie al valore del suo braccio.

Lo schiaffo è un’umiliazione insopportabile, tanto più all’interno del codice cavalleresco. Lo schiaffo presuppone il duello, ma Don

Diego è troppo vecchio: mette mano alla spada, ma un colpo efficace del suo rivale gliela fa cadere. È l’ignominia, il disonore. Se

Don Diego non ha potuto battersi in duello, perché ormai incapace di tenere salda la spada in mano, sarà il figlio Rodrigo a battersi

per lui. E qui c’è il coup de de théatre: Rodrigo dovrà battersi contro il padre di Chimène. I due giovani si amano reciprocamente e il

matrimonio era ben accetto dai rispettivi genitori, ma adesso l’Onore combatte contro l’Amore. Duro e implacabile è Don Diego,

che ordina al figlio “Muori o uccidi”. Ma duro e implacabile è anche Rodrigo, che non solo vendica prontamente il padre, mache,

davanti al dolore della ragazza per la morte del padre, non rinnega il proprio omicidio. L’amore non è che un piacere, l’onore è un

dovere. I due padri parlano la stessa lingua: l’amore è solo rischio di rammollimento, di cedimento, di debolezza. La lingua dei

giovani è più articolata, si apre alle spinte contraddittorie del cuore. L’obbedienza filiale alle leggi del clan non impedisce il sussulto

delle voci del sentimento.

Don Diego consiglia al figlio di mettersi in testa al manipolo di soldati per sconfiggere i Mori. La vittoria militare spingerà forse il re a

perdonare l’omicidio di Don Gomes e spingerà Chimène al perdono. Il pubblico del tempo ritrovava altre suggestioni

contemporanee: la Francia era anch’essa inquieta e impaurita, come la corte e il popolo della tragedia.

Il consiglio di Don Diego si è rivelato giusto. Diventa impossibile per il re punire il novello eroe che ha salvato la nazione dall’assalto

dei Mori, in una situazione praticamente di supplenza. Chimène tuttavia ci prova, e dinanzi alle esitazioni del re, fa appello ai

cavalieri: che sfidino a duello Rodrigo, uno dopo l’altro. E colui che gli porterà la sua testa, avrà la sua mano. Il re concede che

Chimène possa essere soddisfatta da un solo campione, individuato nel personaggio di Don Sancio, che la tavola dei personaggi

individua come “innamorato di Chimène”. Corneille escogita tuttavia un ultimo colpo di scena: nella terz’ultima scena del quinto

atto, si presenta a Chimène Don Sancio con una spada in mano e Chimène lo copre di insulti, sostenendo che è un assassino e si

rifiuta di volerlo sposare. Quando la donna smette di insultarlo, confessa di essere stato battuto e graziato da Rodrigo, che lei non

può rifiutare di sposare.

La caratteristica di Corneille sta proprio in questa doppia tattica; da un lato puntare risolutamente sul consenso del pubblico

mondano, dall’altro cercare la legittimazione dei dotti rispetto ai successi conseguiti a livello popolare.

Scritta invece prima del Cid è una commedia curiosa, L’illusione teatrale. È una commedia con valore metateatrale, cioè che parla

del teatro stesso. Della condizione degli attori, della magia del palcoscenico e dei vani pregiudizi contro questa professione.

Diverso da Corneille è Jean Racine: Corneille dipinge gli uomini “come dovrebbero essere”, ma Racine “come essi sono”. In una

delle sue prime tragedie Andromaque, Oreste giunge alla corte del re dell’Epiro, Pirro, preoccupata che Pirro non abbia ancora

provveduto ad eliminare il figlio di Ettore, della cui madre, Andromaca, Pirro è innamorato. Pirro, nonostante l’amore per

Andromaca, è in procinto infatti di sposare Ermione, figlia di Elena e di Menelao, ma di Ermione è innamorato appunto Oreste, il

quale progetta ad un certo punto di rapirla. Pirro garantisce ad Andromaca che difenderà la vita del figlio Astianatte, ma chiede in

cambio di essere amato da lei. Di fronte alla ferma resistenza di Andromaca, Pirro, alla fine del secondo atto, decide di sposare

Ermione, ma appena vede Andromaca, alla fine del terzo atto, cambia idea e decide di sposare lei e non più Ermione. È Pirro in

persona a buttare tra le braccia di Ermione Oreste, cercando di liberarsene, per trarsi d’impaccio da un matrimonio che gli è stato

imposto e che vuole azzerare.

Si tratta di un dramma pre-borghese, che valorizza ed esalta i personaggi. Oreste fa finta di essere al servizio della causa patriottica

dei Greci. Pirro, con maggiore trasparenza e più marcata sfrontatezza, arriva a rinnegare i valori della stirpe e della nazione greca:

nella sua proposta di matrimonio ad Andromaca, fa una vera e propria dichiarazione di alto tradimento nei confronti del popolo

greco. Non stupisce che i greci presenti al matrimonio reagiscano a tali parole con un unanime “grido di rabbia” e che lo uccidano

immantinente.

La modernità di Racine sta nella sua capacità pre-freudiana, di scavare nella psiche dei personaggi, di penetrare fasci di luce

tenebrosi ed inquietanti sull’inconscio dei suoi eroi ed eroine. Ermione respinta e vigliaccamente offesa dalle parole di rifiuto di

Pirro, aspira a vendicarsi, grazie all’aiuto di Oreste, ma Oreste non è all’altezza della situazione. Il povero Oreste ovviamente è tanto

incapace, quanto sfortunato. I Greci insorgono e lo uccidono prima che Oreste entri in azione. Nel finale Ermione si suicida tra le

braccia del morto Pirro e Oreste da di matto. È uno scacco generazionale per i tre figli degli eroi, tutti e tre sconfitti, mantre l’unica

che trionfa veramente è la figura forte della straniera Andromaca.

Racine invece di rappresentarci la dura violenza materiale, ci rappresenta la violenza psicologica che esercita su Andromaca Pirro,

quando le presenta un aut aut; di fronte a ciò però Andromaca mostra della astuzie e delle sottigliezze inaspettate. Andromaca nei

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confronti di Pirro, cambia idea due volte, nel primo atto lo rifiuta, nel terzo atto lo accetta. Andromaca è pronta ad uccidersi, per

non dover essere la moglie, ma prontissima a fare la vedova, visto che Pirro è morto: è diventata la reine e, come tale, vendica

Ettore, facendo finta di vendicare Pirro.

La Fedra, allestita per la prima volta nel 1677, narra la storia di Fedra, che ama incestuosamente Ippolito, figlio di primo letto del

proprio marito Teseo. Un mito già trattato da Seneca ed Euripide, ma Racine ci aggiunge la dimensione del PECCATO.

Ippolito la prima volta, al verso 26, la chiama con il suo nome, “ Fedra”, ma al verso 36 la chiama, la figlia di Minosse e di Pasifae, la

quale, smaniosa di accoppiarsi con un toro si fece costruire da Dedalo un costume da vacca. Viene il sospetto di una pungente

polemica: solo Fedra è riuscita a placare l’ardore erotico dell’instancabile seduttore Teseo, perché figlia di tale madre e quindi

capace di performances inarrivabili.

Per Euripide e Seneca, il giovane Ippolito è violentemente misogino, cultore feroce della dea della caccia e della castità, Diana. I

fratelli di Aricia, erede al trono e futura sposa di Ippolito, sono tutti stati sterminati da Teseo e il matrimonio della sorella superstite

è l’unico modo per evitare che nascano vendicatori.

Ippolito, d’altro canto, fra tutte le donne sceglie l’unica su cui è calato l’interdetto paterno. Questa è un’ulteriore maniera per

smarcarsi dal padre. Solo l’eliminazione di Teseo libererà il figlio dal padre-padrone, dal padre-castratore. L’amore di Ippolito è

tutto cerebrale, pura metafora di un problema assai differente, quello della sua emancipazione dalla sottomissione paterna.

Quello di Aricina non è amore, ma mero compiacimento di piegare chi non si è mai piegato: è innamorata del suo potere, del

potere che scopre di avere su un uomo, di fare innamorare l’ex misogino. Ippolito crede di amare, ma in realtà combatte la sua

battaglia contro il padre; Aricia sa benissimo che per lei la relazione con Ippolito è solo la prima mossa di un progetto politico.

Quando arriva Teseo, non più morto, ma inaspettatamente redivivo, Ippolito è straordinariamente gelido con lui. Il padre cerca il

rapporto con il figlio, ma lui si sottrae, allude a Fedra. È lo stesso Ippolito ad autodenunciarsi, si sente in colpa di aver sognato la

morte del padre, di aver ristrutturato il regno di Teseo a favore di Aricia, oltre che di essersi dichiarato ad Aricia.

Jean-Baptiste Poquellin, detto Molière, fu figlio dei comici dell’Arte. È una figura nuova di attore-scrittore, legato alla convenzione

della commedia, con ascendenze nella commedia italiana del ‘500. Molière è il leader indiscusso della sua compagnia teatrale.

Tartufo, Don Giovanni e Il Misantropo sono pieces che preparano alla lontana quello che sarà il cosiddetto dramma borghese. Non

c’è ancora però il salotto borghese, come cornice esaustiva dell’azione scenica. Tartufo è collocato nella casa di un ricco mercante,

Orgone. Per tutto il primo atto non è affatto chiaro in quale stanza si svolga la vicenda e bisognerà arrivare al terzo atto per averne

la conferma ufficiale, grazie ad una battuta della serva di Tartufo. Ignoriamo ancora in quale spazio della casa si svolga il plot, ma

sappiamo che c’è un petite cabinet, uno stanzino, da cui è possibile ascoltare tutto ciò che viene detto. Infatti Damida (figlio di

Orgone) nel terzo atto usa questo stanzino per origliare il dialogo fra Tartufo ed Rlmira (moglie di Orgone).

Nella casa di Orgone si origlia molto. Tutti sono in tensione per la strana infatuazione che il paterfamilias mostra nei confronti di

Tartufo e quindi tutti sono in ascolto. Orgone ha appena il tempo di dichiarare la sua volontà alla figlia che compare Dorina: Dorina

non è andata ad origliare nel petit cabinet perché lei non vuole origliare. Dorina entra scopertamente, perché scopertamente vuole

opporsi al padrone. Il tema del petit cabinet è il leitmotiv dell’opera. Oltre al tema dell’ascoltare e dell’origliare, si impone

nell’opera anche il tema del VEDERE: non più il petit cabinet, ma il tavolo, un tavolo spostato in proscenio. Orgone può nascondersi

sotto il tavolo, anche se esso resto collocato dov’è sin dall’inizio, presumibilmente sul fondo della scena. Il movimento ha quindi un

significato che deve essere colto: lo spettatore vedrà il dialogo proibito fra Tartufo ed Elmira, ma vedrà anche

contemporaneamente Orgone nascosto sotto al tavolo che vedrà la scena. Il marito accovacciato sotto al tavolo è una gag che

toglie violentemente alla scena incriminata, che la rovescia istintivamente su un risvolto buffonesco.

Nel secondo incontro tra Tartufo ed Elmira la donna deve non solo scusarsi dell’incidente avvenuto nel primo incontro, ma deve

anche assicurargli che in questo secondo incontro non saranno né spiati, né ascoltati: utilizzo del sostantivo surprise e insistenza sul

chiudere la porta riportato nel discorso di Damide. Siamo insomma in un interno di casa borghese, incentrato su un vasto salotto di

ricevimento al piano terra, su cui si apre il petit cabinet, collocato sul fondo. Deentro questo spazio borghese è Elmira

propriamente a distribuire falsi indizi, a indicare continuamente porte da chiudere e porte da aprire, a suscitare auna attesa di

insidie, spionaggi, trabocchetti.

Il capolavoro di Molière mette a fuoco una scena tabù, quello del tentativo di una donna sposata, condotta nella casa della donna,

sotto gli occhi stessi del marito che è il benefattore del potenziale adultero. Molière mette al centro una scena INTERDETTA; anche

nell’Amleto c’è un personaggio, Polonio, che origlia una scena pericolosa. Polonio origlia un adulterio e Damide e Orgone origliano

Page 13: Alonge, Perrelli - Storia del teatro e dello spettacolo

il quasi-adulterio di Elmira con Tartufo. La forza di questa scena è così devastante, indicibile, che non riuscendo a dirla la ripete per

ben due volte: due volte avviene il gioco di seduzione Elmira-Tartufo e per ben due volte ricorre all’artificio della terza persona che

origlia. La seduzione di una donna sposata in casa propria è un’immagine troppo scandalosa per i gusti del tempo.

Nel gioco di seduzione la donna ha preso l’iniziativa, ma proprio perché ha preso l’iniziativa, è adesso prigioniera del contrattacco di

tartufo, il quale pretende il gesto del bacio come prova. C’è una violenta nel forza nelle parole di tartufo: il desiderio e il piacere del

bacio è solo SUO; egli ne vuole, ne esige il pagamento con la brutalità e l’implacabile durezza di una tassa dovuta, e che deve essere

comunque saldata. Come difesa alla violenza verbale di Tartufo lei usa l’artificio del colpo di tosse: dopo il terzo e ultimo colpo di

tosse, ormai con totale disperazione si rivolge al marito.

Nella prima parte il tavolo serviva al gioco delle sedie, in cui lei invitava l’uomo a sedersi; nella seconda lastra il tavolo può servire

come appoggio o di supporto per qualche possibile atto di violenza libidinosa da parte di Tartufo. Nelle illustrazioni del tempo c’è

Elmira con una mano appoggiata al tavolo: probabilmente Elmira si vendica del marito che non vuole credere al corteggiamento di

Tartufo, facendosi corteggiare da lui proprio davanti ai suoi occhi. Molière sottolinea il risvolto comico del tema dell’origliamento.

Elmira lancia davanti a tutti la sua sfida: riuscirà a far vedere a Orgone le avances rivoltele da Tartufo.

La scena del corteggiamento può avere un solo spettatore, il tavolo non può sotto alcuna persona, se non solo il marito stesso.

Nell’inconscio di Elmira il tavolo è la pietra di paragone dell’umiliazione del marito, il passaggio a una condizione di voyeur. Orgone

calato ormai nella parte di voyeur non riesce più ad uscirne fuori. Non bastano tre colpi di tosse e un pugno sul tavolo a fargli caoire

che ormai è tempo di uscire. Orgone ormai è sordo ai segnali di Elmira per una buona ragione, che non c’è maggior sordo di chi non

vuole sentire. Orgone ormai ama di più Tartufo di quanto ormai ami sua moglie. Orgone è affascinato da quella situazione

triangolare. Solo quando Tartufo esce di scena Orgone è capace di RIMETTERSI IN PIEDI ed uscire da sotto il tavolo. Sotto sotto

Orgone non può sopportare che Tartufo ami sua moglie e non ami lui: è una omosessualità fantasmata. Il palinsesto segreto di

Tartufo è rappresentato dal TRIANGOLO.: amare in due la stessa donna, vedere l’altro che possiede la tua donna.

8- SETTECENTO: LA NASCITA DEL DRAMMA BORGHESE

Il teatro moderno conosce per un paio di secoli, ‘500 e ‘600, solo gli antichi generi della “tragedia” e della “commedia”. Nel

Settecento prende piede il nuovo genere del “dramma”. Con questo termine gli antichi intendevano indifferentemente la tragedia,

la commedia e il dramma satiresco. In questo periodo c’è la volontà di dare ospitalità e cittadinanza alla società effettuale, cioè agli

autentici protagonisti della nuova realtà sociale che comincia ad essere egemonizzata dal ceto borghese in ascesa.

Denis Diderot con il primo testo teatrale Il Figlio Naturale. Il testo è corredato da ben tre dialoghi riguardanti il testo stesso, ed è

introdotto da alcune svelte paginette di premessa, in cui Diderot racconta che era andata a riposarsi in campagna, dopo l’uscita del

sesto volume dell’Enciclopedia e che li aveva fatto conoscenza del signor Duval. Diderot fissa due punti basilari del nuovo discorso

della cultura borghese: il valore pedagogico del teatro, la sua capacità di fare impressione sugli spettatori; ma anche la qualità dei

contenuti drammaturgici, che vanno estratti dalla vita quotidiana vissuta.

La borghesia precapitalistica di mercanti fiorentini affida ai libri di famiglia, ai libri di ricordanze, il solenne compito di compattare i

discendenti nella memoria del padre fondatore della potenza del clan. A metà ‘700 il padre di Dorval preferisce affidare al teatro la

funzione di cementare gli eredi nel ricordo religiosamente impegnativo di papà Lysimond. Il teatrino di famiglia è una finzione-

metafora del teatro tout court. Se i libri sono il genere nuovo inventato dalla borghesia mercantile fiorentina del ‘300, il “dramma”

è il genere nuovo inventato dalla borghesia europea di metà ‘700. Il palcoscenico coincide con il salotto della casa borghese.

Diderot è stato accusato di aver tratto il suo Figlio naturale da Il vero amico di Carlo Goldoni. Ma in Goldoni non c’è mai questo

sapore di vita borghese vissuta, gli spazi delle sue commedie sono formalmente vuoti. La locandiera si svolge in una locanda, luogo

anonimo, quasi pubblico, pura zona di passaggio fra interno ed esterno; in Goldoni l’ambiente conserva ancora qualcosa di aperto.

Goldoni è ancora sensibile al fascino dell’interno borghese. Le sue stanze sono generiche, prive di indicazioni di didascalie

significative. Lo spazio interno goldoniano si arricchisce qualche volta di una connotazione fondamentale, quella delle porte, luoghi

di passaggio, che dovrebbero difendere l’intimità dell’interno e che invece si rivelano oggetto di violenza esterna.

La fondazione del dramma borghese però non si risolve nell’individuazione di uno specifico spazio scenico, definito con i tratti

dell’interno, del salotto borghese, ma anche di contenuti nuovi: i personaggi parlano continuamente di denaro, di fortune che

diviene quindi il segno linguistico di una ossessione sociale. Il dramma borghese è la trascrizione scenica di una histoire vèritable, di

una storia vera. Non più finzione, ma verità. La borghesia si sente così egemone da osare di raccontare sé stessa: gli amori, i

sentimenti e anche i soldi.

Page 14: Alonge, Perrelli - Storia del teatro e dello spettacolo

Nel 1761, Goldoni compone quella straordinaria Trilogia della villeggiatura che mescola genialmente dissipazione finanziaria e

dissipazione amorosa. Giacinta, fidanzata a Leonardo, si innamora di Guglielmo. Leonardo vuole sposare Giacinta perché è pieno di

debiti e conta sulla di lei dote di ottomila scudi., ma anche il padre di Giacinta all’ultimo deve scoprire che non possiede quello che

ha promesso. Alla fine Giacinta è costretta a sposare Leonardo. Non si può rinnegare la parola data, tanto più se la parola data è

una PAROLA SCRITTA. La scrittura fissa una volta per sempre lo spazio del lecito e lo distingue dallo spazio dell’illecito. La scrittura

contabile mette su carta gli andamenti finanziari della buona economia, la scrittura matrimoniale i movimenti sentimentali della

buona coppia. La scrittura contabile coincide in qualche modo con quella matrimoniale.

La Drammaturgia d’Amburgo di Gotthold Ephraim Lessing: una pubblicazione periodica sulla stagione teatrale di cui Lessing è

drammaturgo e consulente nel nuovo Teatro Nazionale, in cui c’è una compagnia di attori fissi. momento fondamentale della

critica teatrale. Il giornale ha ora al centro delle sue pagine il commercio, la relazione fra i sessi, le mode culturali, le coffee houses e

il teatro: ci sono recensioni degli spettacoli teatrali.

Il processo di impossessamento del teatro da parte della borghesia è in realtà un processo lento, dovuto al fatto che esistono

all’interno di essa due correnti, quelli filo-teatrali sono in minoranza.

Goldoni è un poeta di compagnia, vive accanto agli attori, è uno dei primi a guadagnarsi l’esistenza con la propria professione di

scrittore teatrale, ma proprio questo gli rinfaccia Baretti, scandalizzato dal fatto che abbia potuto comporre 16 commedie nuove

nell’arco di un solo anno. Baretti ha una concezione demonizzante dell’opera scenica, pensa che la rappresentazione sia solo un

intralcio alla lettura del testo scritto.

9- L’INTERMEZZO CLASSICI-ROMANTICI

A metà ‘700 la tragedia e la commedia rischiano di essere sostituiti dalla nuova forma teatrale del dramma. Il francese Pierre

Augustin Caron de Beaumarchais si comincia ad interessare al genere comico con Il barbiere di Siviglia e Il matrimonio di Figaro

(una forte satira sociale contro il dispotismo della nobiltà e della magistratura del tempo).

Molti letterati europei continuano però ad interessarsi alla tragedia, soprattutto a quella classicistica: basata sulle regole

aristoteliche di unità di tempo e luogo. Ne sono esempi il francese Voltaire e l’italiano Alfieri. Aristotele nella sua Poetica attribuì il

primato alla TRAGEDIA, ci fu una gara tra i letterari per diventare sommo tragico attenersi alle regole aristoteliche e ritrovare

l’essenzialità dei personaggi.

Nell’Antigone Alfieri segue sostanzialmente la traccia di Sofocle, ma innova su un punto capitale, immagina un’alternativa

(matrimonio al posto della condanna) che mina alla base l’intreccio tragico. La tragedia è sempre sul punto di trasformarsi in

commedia a lieto fine: basta che Antigone accetti.

Il nascente DRAMMA BORGHESE vive dietro le pieghe della tragedia alfieriana. Ma la tragedia di impianto classicistico non

è solo insidiata da una vita sociale che è sempre più borghese e mercantile.

Se la Francia è la patria del Dramma Borghese, tedesco è essenzialmente il grande movimento culturale del romanticismo (Sturm

und Drang) in cui viene ribadita la centralità della tragedia pura.

Rivalità tra la mentalità di Hugo (dramma diderotiano) e la mentalità di Schiller e Goethe (il modelle shakespeariano).

Manzoni si concentra sul problema delle unità di luogo e di tempo. Nella Prefazione al Carmagnola Manzoni individua nitidamente

la duplice conseguenza negativa di quelle unità: una di ordine estetico e una di ordine morale. La tragedia francese è immorale

perché basata sulle regole aristoteliche. Secondo Manzoni la passione d’amore è quella che meglio si presta a svolgersi nel giro

ristretto delle 24 ore, gli altri sentimenti necessitano di molto più tempo.

A. De Vigny: Chatterton Londra 1770, Chatterton è un poeta povero che vive in affitto da un ricco borghese, della cui moglie è

follemente innamorato; la moglie contraccambia, ma lo ritiene immorale. Alla fine C. si avvelena e la donna muore di dolore. È un

affresco che dipinge il dissidio che c’è tra il poeta e la società capitalistica, il potere che uccide la fantasia e l’intelligenza.

A. Dumas figlio: La signora delle camelie prostituta di lusso Marguerite che si innamora di un giovane ricco A. Duval, che rischia di

rovinarsi economicamente per lei; il padre del giovane convince la donna a lasciarlo. Marguerite alla fine muore di tisi, ma il papà di

Duval conduce nel letto di morte il giovane amato. ha venature melodrammatiche e romantiche, è un quadro sociale, rappresenta

problematiche di vita quotidiana. Verdi tradurrà l’opera in musica nell’opera La traviata e sarà il cavallo di battaglia dell’attrice

Eleonora Duse.

Page 15: Alonge, Perrelli - Storia del teatro e dello spettacolo

Il genere Largamente dominante a Parigi è il VAUDEVILLE: un prodotto industriale fatto in serie a più mani, con una forma

drammaturgica esile, in cui le parti dialogate si alternano a canzonette. Con il tempo scompaiono le parti cantate, ma resta una

struttura di teatro leggero, costituito di imprevisti e situazioni piccanti, ovviamente a lieto fine.

10- FINE OTTOCENTO TRA MARX E FREUD: LA GRANDE DRAMMATURGIA EUROPEA E LA PICCOLA DRAMMATURGIA ITALIANA

La borghesia ha faticato ad assimilare il teatro, nato come giocattolo di corte e poi assimilato come intrattenimento mondano.

Negli ultimi decenni dell’ 800 ci fu una divisione all’interno della borghesia: quella che contrappone il divertimento all’istruzione, lo

svago alla riflessione intellettuale. Ci fu uno scarto ampio fra l’uso del teatro con funzioni culturali e l’uso con funzioni edonostiche.

La borghesia vedeva il teatro come un romanzo, cioè un mezzo per comunicare i segni dei mutamenti epocali provocati dal

capitalismo europeo; come occasione di autoriflessione e di autocritica.

L’infittirsi della popolazione nelle zone urbane crea le condizioni di un MERCATO per la vendita dei prodotti dell’industria dello

spettacolo. Gli edifici teatrali si moltiplicano. Con le grandi esposizioni è la merce stessa che diventa spettacolo, e l’acquirente è il

pubblico. Un pubblico eterogeneo, cosmopolita, costituito essenzialmente da i nuovi ricchi, meno acculturato, con sete di

divertimento, denaro e sesso.

La drammaturgia francese di questo periodo è dominato dalla problematica denaro/sesso, ricerca del guadagno, ossessione

dell’adulterio. CAFE-CONCERT: locale per l’ascolto di musica ed esibizioni di canto.

La macchina spettacolare si fa via via più complessa e articolata: a musicisti e cantanti si affiancano comici, danzatori, acrobati,

giocolieri, ventriloqui, fachiri, illusionisti e performers di ogni tipo e colore. Uno spettacolo composto cioè di una varietà di numeri,

destinato a diventare col tempo il vero e proprio VARIETA’. Il caf- cons è il luogo dove si assiste all’esibizione teatrale fumando,

bevendo, mangiando; la diffusione inizia intorno al 1890.

Il Divan Japonais è il più famoso cafè-concert, è il primo esempio di strip-tease. Tutto il teatro dell’ottocento è governato dalla

logica del visuale, del piacere dell’occhio. L’architettura teatrale è a ferro di cavallo: lo spettacolo è nella sala, nei palchetti, gli

spettatori sono attori che si offrono alla vista di altri spettatori. TEATRO VISIONE. Le attrici sono soubrettes, indossano abiti lussuosi

e si esibiscono in primo piano, nel proscenio.

H. IBSEN: è il principale rappresentante di un teatro che si pone come momento di alta e sofferta riflessione sulla condizione

borghese. È lui l’inventore di quello che chiamiamo il SALOTTO BORGHESE. I protagonisti di Shakespeare e Molière possono

muoversi e parlare OVUNQUE; i protagonisti di Ibsen possono stare solo nelle loro CASE, che cono connotate come loro. Le sue

didascalie sono significative, raccontano la vita dei personaggi, prima che essi entrino in scena.

Casa di bambole: il piacere della donna coincide con il piacere per lo spazio che questa donna gestisce, accudisce, cura. Ibsen in

questa opera Ibsen inventa genialmente il terzo escluso, cioè il personaggio che è funzionale alla felicità della coppia, rappresentato

da Torvald. Rank copre i buchi che Torvald lascia aperti nel suo mènage. Lo spazio con Ibsen si dilata, si articola in una molteplicità

di tappeti, tende, portiere, che tendono a celare, a creare una couche calda, intima. Tutto ciò però finisce per sollecitare

origliamenti: cioè che va tenuto celato può sempre essere spiato. Nel suo teatro non sono tanto i servi a origliare i padroni, ma i

padroni a origliare i padroni. Si origlia moltissimo.

Con Ibsen il teatro diventa lo specchio critico della società, il luogo deputato a dibattere seriamente le grandi questioni della

famiglia, del lavoro e della carriera. Ibsen sottrae al teatro la sentimentalità e introduce la discussione, la riflessione, l’analisi dei

problemi. Con Ibsen i mostri dell’inconscio spuntano fuori e dominano la scena collegamento a Freud.

A. STRINDBERG: i primi capolavori naturalisti, incentrati sulla scontro dei sessi. (Il padre, La signorina Julia lotta dei sessi e lotta di

classe). Strindberg dichiara che il linguaggio dell’eros è il linguaggio della violenza e non solo della tenerezza. Uso del tema del

sangue.

A. CHECOV: provoca una trasformazione della tipologia del dramma di fine ‘800: inserimenti di letti nel salotto, perdita del valore di

luogo limitato, diventa LUOGO PUBBLICO = il salotto interno si fa esterno, perché C. è sempre stato attratto dal fuori.

rapida schedatura delle didascalie.

Dilatazione dei personaggi: è difficile individuare l’attore principale.

La prospettiva si allarga

Muta la struttura del dialogo: non più la prevalenza di duetti e scambi di battute, ma insistenza sui concertati corali.

Page 16: Alonge, Perrelli - Storia del teatro e dello spettacolo

In Italia c’è una piccola drammaturgia con la produzione di pochi testi per autore: ACHILLE TORELLI con I mariti, MARCO PRAGA

con La moglie ideale e GIUSEPPE GIACOSA con Tristi amori e Come le foglie. Questa drammaturgia si muove in sintonia con i

modelli europei, ma risulta autonoma rispetto a essi. In Giacona c’è quello che ritroviamo in Ibsen: le questioni di famiglia, del

rapporto uomo-donna che si mescolano con la volontà dei maschi a realizzarsi nel lavoro. Giacosa in Come le foglie costruisce un

altro prototipo, quello del dramma corale: con molti personaggi protagonisti, lunghi silenzi, pianti improvvisi.

11- IL TEATRO DEL GRANDE ATTORE TRA FINE ‘800 E PRIMO ‘900

L’800 è un periodo teatrale di intreccio tra drammaturgia e attori e la nuova figura del regista. Le compagnie Italiane sono basate su

un organico di ruoli, al di sotto stanno i generici, utilizzati in parti generiche per ruoli sia da giovane che da vecchio. Il PRIMO

ATTORE e la PRIMA ATTRICE sono i ruoli di maggiore importanza, Tommaso Salvini e Adelaide Ristori o Eleonora Duse.

Il BRILLANTE: determinante nei testi comici, motore dinamico nella vicenda al punto da assorbire il primo attore. Il CARATTERISTA:

legato ai personaggi di carattere della drammaturgia molièriana/goldoniana. ( una variante è il TIRANNO). L’ATTORE/ ATTRICE

GIOVANE: destinati a diventare i primi attori, spesso sono ruoli che assorbono i cinquecenteschi innamorati. La SECONDA DONNA: è

rivale della prima donna, è o la donna maritata o la donna amante. Il PROMISCUO: consente il passaggio da personaggi patetici a

personaggi comici, importante per le compagnie dialettali, il grande promiscuo era Eduardo De Filippo.

Il sistema dei ruoli secondo alcuni non nasce obbligatoriamente dalla commedia dell’Arte. Attraverso il ruolo l’attore si limita a

ripetere la stessa prestazione, avendo così più possibilità per perfezionarsi. Prima di possedere le caratteristiche artistiche di un

ruolo un attore deve possedere la physique du role.

Fine ‘700 e inizi ‘800: fase di transizione tra il vecchio teatro erede della commedia dell’Arte e la nuova drammaturgia illuministica.

C’è inoltre l’abbandono delle maschere e l’inserimento dei ruoli, che svolgono una funzione di mediazione.

La compagnia è del CAPOCOMICO, un impresario che si fa carico delle spese, coordina, supervisiona, cura la scenografia,

sceglie il repertorio e dirige le prove.

L’attore conosce solo la sua parte (parte scannata)

Il DIRETTORE DI SCENA dispone il materiale, solitamente un attore fallito; accanto a esso c’è il TROVAROBE, che viaggiava

con cianfrusaglie utili per l’arredo.

Gli abiti sono a spese dell’interprete, e sono spesso disomogenei e molto approssimativi. La limitata disponibilità

economica dell’attore lo spinge a cercare costumi di ripiego.

Estremamente sommaria anche l’illuminazione, che ha la funzione di far vedere e non rappresentativa. Solo nell’800 si

arriva all’idea della luce come poesia scenica, che ha valenza simbolica e rappresentativa.

La poca illuminazione ha un duplice aspetto: 1- esalta il valore minimo del volto dell’attore; 2- nasce dalla concezione del teatro

dell’attore, in cui ciò che conta è la presenza viva, demiurgica dell’attore.

Fine ‘800: processo di SINDACALIZZAZIONE dell’attore, in cui verranno migliorate le condizioni di esso. Primo viaggio a proprie

spese con un contratto unico fu nel 1906, le spese di viaggio vennero assunte dal capocomico. Il mondo delle compagnie è

stratificato: primarie, secondarie e terz’ordine; stratificazione fatta in base all’importanza del viaggio che compiono.

La performance del grande attore è fondata sulle risorse individuali dell’interprete. Il pubblico di intenditori va a teatro non per

assistere ai capolavori culturali, ma per vedere il lavoro del singolo attore.

12- IL TEATRO DEL REGISTA TRA FINE ‘800 E PRIMO ‘900

Il teatro vecchio e nuovo del grande attore e del regista convivono all’incirca negli stessi anni. Il primo impulso alla regia viene dal

ducato tedesco di Sassonia, da parte di Giorgio II insieme al regista LUDWIG CHRONEGK, che organizza una straordinaria

compagnia, su base dilettantistica, chiamata I Meininger. Per la compagnia è fondamentale il rispetto del testo, la pratica di prove

lunghe e rigorose, la verità quasi archeologica di costumi e delle scene, nuove tecniche di illuminazione, cura nelle scene di massa,

uso di comparse, assoldate nelle varie città, una troupe di 70 persone con rotazione delle parti principali.

A. ANTOINE: ha fondato nel 1887 il Theatre Libre; il suo riferimento è Zola. Il suo primo obiettivo è la riforma dell’impianto scenico.

- vuole fare emergere la totalità, il quadro d’insieme.

- gli attori devono essere piazzati in uno spazio credibile, reale, non ridicolo.

Page 17: Alonge, Perrelli - Storia del teatro e dello spettacolo

- la scena viene costruita, non più dipinta e l’attore non recita più davanti essa, ma dentro ad essa.

- uso totale dello spazio e sfruttamento della gestualità dei movimenti, del linguaggio del corpo.

A. STANISLAVSKIJ: padre della regia moderna: fonda il Teatro d’Arte di Mosca; dichiara guerra a tutti i vizi consueti dell’attore.

- rifiuta la gerarchia delle parti

- preferisce attori giovani ai narcisisti famosi

- è contro la teatralità = alla falsità scenica

- usa le invenzioni registiche per celare i difetti e le incertezze dell’attore

- il regista non deve sovrapporsi all’attore, ma assecondarlo, perché l’essenziale è nelle mani dell’attore

Con Checov, Stanislavskij scopre la centralità dell’attore nella scena, ribalta l’attenzione del regista dal testo all’attore. Non esiste

più il regista despota, ma la messinscena nasce dall’accordo regista/attore; comincia a fare uso di una recitazione fatta di tonalità

sfumate, pause; si viene a creare l’atmosfera.

BIOMECCANICA: teatro del corpo, movimento di MEJERCHOL’D sperimenta riflessioni sull’arte attorica.

Secondo Stanislavkij i veri attori sono quelli privi di sensibilità = lavorano con distacco e senso critico immedesimazione, l’attore

deve vivere nel personaggio.

REVIVISCENZA: processo attraverso cui l’attore rievoca e rivive un’esperienza in qualche modo autobiografica, almeno analoga a

quella del personaggio. Si può prendere in affitto un abito, ma non un sentimento. L’attore non può recitare un personaggio che

non ha dentro di sé, che non sente.

Stanislavskij nel 1930 rovescia il “Sistema” e parla di azioni fisiche. È sempre operante l’intreccio spirito/corpo ma è difficile

“fissare” i sentimenti. cambia la costruzione del personaggio: non occorre che gli attori imparino la parte a memoria, basta che

conoscano l’intreccio, devono IMPROVVISARE una serie di azioni fisiche. Il testo drammaturgico viene fissato quando le azioni

fisiche vengono fissate la dimensione fisica stimola quella spirituale.

Il regista si impone avendo di fronte degli attori non prestigiosi, il grande attore gli oppone resistenza. Questo è il motivo per cui la

regia arriva in Italia solo con la II Guerra Mondiale, perché patria dei massimi attori mondiali. Il regista si pone come servo d’autore,

cioè interprete fedele del testo, si nasconde dietro l’autore per giustificare il suo comando sull’attore.

Il regista lavora per l’autore, non pone il suo nome nella locandina, si presenta come attore (inizialmente si presenta come direttore

di scena). L’attore si sente represso, condiscendente al volere del regista.

Spesso il drammaturgo lavora a stretto contatto con il palcoscenico; in qualche caso punta addirittura a farsi animatore del teatro. I

padri fondatori della regia: ADOLPHE APPIA e EDWARD GORDON CRAIG.--> il loro contributo teorico resta fondamentale

comunque per definire lo spettacolo come realtà estetica.

La forza dello spettacolo del grande attore è fondata sul CORPO, sulla propria voce; quella del regista invece sul TESTO, sul rispetto

rigoroso del testo. C’è una spinta naturale insomma a guidare l’autore verso la funzione registica. La regia si definisce innanzitutto

come un MESTIERE, come un nuovo mestiere dell’industria dello spettacolo che si va affermando nel corso del primo Ottocento,

soprattutto a Parigi; nel ‘900 invece diventerà un’arte il regista comincerà a voler creare, realizzando un prodotto originale e non

duplicando uno già esistente.

Nascono i LIBRETTI DI ISTRUZIONE: 1827-1828 in Francia e servono a potre riallestire gli spettacolo e dirigere la scena e gli attori,

l’unica cosa che manda è il regista. Interpretando correttamente questi libretti il regista non fa azione creativa, ma fa azione

duplicativa.

13- PRIMO ‘900: LE AVANGUARDIE STORICHE E PIRANDELLO

Primo ‘900 è contrassegnato da una grande irrequietudine spirituale, dovuta al disagio della società europea che si avvia alla I

Guerra Mondiale; nascita di nuove correnti, come il Futurismo, il Dadaismo, il Surrealismo, chiamate AVANGUARDIE STORICHE.

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1° evento: “Manifesto del Futurismo”, pubblicato il 20 febbraio 1909 da Filippo Tommaso Marinetti.

- Marinetti vuole adeguare la realtà artistica alla modernità del sistema economico-sociale.

- Non si rende conto che la scena europea è ormai mutata e ha assimilato il concetto di regista, lui parla ancora di

drammaturghi.

- Contribuisce a definire lo spettacolo moderno con l’invenzione delle serate futuriste, capaci di coinvolgere e scatenare il

pubblico.

PETROLINI = generale artista solista di varietà

Sulla stessa linea delle serate futuriste, troviamo le serate dadaiste, con spettatori che lanciano verdura o monetine fondate da

TRISTAN TZARA (Dadaismo). Testo dadaista: “S’il vous plait” di Breton e Soupault

- 3 atti; dialoghi con registi contrapposti, prima razionali, poi incomprensibili.

- 4° atto: discussione del pubblico sullo spettacolo; finti spettatori accanto ai veri.

BRETON: nel 1924 si passa al surrealismo.

ARTAUD: attore, regista, drammaturgo, visionario del teatro.

- Scrive “Il teatro e il suo doppio” .

- Esaltazione della centralità della centralità del corpo e del fisico

- Insiste sulla globalità della realtà dello spettatore. TEATRO TOTALE, capace di colpire completamente lo spettatore.

PIRANDELLO: massimo drammaturgo del ‘900

- 6 personaggi in cerca d’autore (1921) = enorme successo distruzione del teatro del salotto borghese, il pubblico entra in

teatro e trova il teatro unicamente. Non c’è sipario e non c’è illusione teatrale, c’è il palcoscenico nudo e degli attori che

fanno gli attori e poi arrivano sei personaggi che chiedono al Capocomico di fare il dramma: il dramma è unicamente in

loro stessi, non c’è scritto.

- Ciascuno a suo modo (1924) = i finti spettatori pirandelliani non si confondono in nessuna maniera con i veri: i primi

stanno sul palcoscenico, i secondi stanno nella platea.

La commedia di Pirandello è immaginata come ispirata ad un fatto di cronaca. I personaggi della realtà si comportano come i

personaggi della finzione.

La vita irrompe nel teatro per far riconoscere la superiorità del teatro. è la vita che elimina l’arte= capace di intuire la

dimensione dell’uomo

P. svolge un lavoro di riadattamento tra le tradizioni e le spinte estreme

Innamorato della sua attrice MARTA ABBA.

Scriverà verso il 1916 una serie di drammi borghesi, ambientati in Sicilia, riprendendo la drammaturgia di Giacosa.

Recupera la struttura del triangolo adulterino della drammaturgia francese, ma riscattandola dalle vacuità del teatro

commerciale.

Marta Abba, rappresenta per Pirandello un amore mai realizzato.

GABRIELE D’ANNUNZIO: si illude di riuscire a realizzare un teatro di poesia, scritto in versi, però fallisce miseramente, nonostante si

appoggi alla più grande attrice di tutti i tempi, Eleonora Duse.

- Fedra il poeta italiano innova la storia, immaginando che Fedra abbia patito uno stupro ad opera di Teseo e innova

parimenti il personaggio di Ippolito, non più contrapposto al padre, ma suo fedele ammiratore.

14- ANNI ’30/’50: DAL TEATRO POLITICO AL TEATRO DELL’ASSURDO

Pirandello scrive per il CINEMA, nuovo mezzo di comunicazione di massa, che ha marginalizzato il teatro. Dall’avvento del teatro

sonoro il teatro si rassegna a diventare un’arte DI NICCHIA, cioè che interessa solo uno strato sociale limitato di persone colte. Il

teatro, inoltre, durante le lotte di classe veniva usato come ARMA POLITICA, essendo un mezzo caldo, aveva più capacità di

Page 19: Alonge, Perrelli - Storia del teatro e dello spettacolo

convincimento. Ci fu inoltre la nascita del teatro AGIT-POP, utilizzato per determinare la presa di coscienza sui problemi di ogni

giorno; nascita del teatro per bambini, specialmente in Russia, coinvolgendoli nel gioco teatrale.

V. E. MEJERCHOL’D, il più geniale allievo di Stanislavskij, è l’inventore della Biomeccanica, sorta di training per forgiare attori in

grado di controllare il proprio corpo, valorizza la corporeità dell’attore al posto della sua parola.

Il Teatro d’Arte era un’istituzione privata, sostenuta dal mecenatismo degli industriali moscoviti, Lenin usò i soldi destinati ai Soviet

per finanziarlo.

BERTOLT BRECHT: si oppone all’immedesimazione dell’attore nel personaggio, perché così si immedesima anche l’osservatore; se

l’attore si estranea dal personaggio, lo farà anche lo spettatore. deve restare, FREDDO, RAZIONALE, CRITICO.

Primo tentativo di teatro politico si deve al regista E. PISCATOR = Ad onta di tutto! (1925). Il teatro politico o teatro epico

presuppone una sorta di io epico, che è al centro dello spettacolo, che anzi organizza lo spettacolo. Nel poema epico a differenza

della rappresentazione teatrale c’è un narratore che racconta i personaggi e guida l’intreccio.

Brecht compone una tabella di confronto fra il teatro drammatico e quello epico: la prima è attiva, coinvolge lo spettatore, ne

esaurisce l’attività, consente sentimenti/emozioni e l’uomo si presuppone noto/immutabile; la seconda è narrativa, fa dello

spettatore un osservatore, ne stimola l’attività, lo costringe a decisioni e l’uomo è oggetto di indagine/mutabile.

IONESCO E BECKETT Teatro dell’Assurdo: esprime il disagio che ha vissuto la civiltà occidentale, si sofferma su temi esistenziali: la

falsità dei rapporti sociali, la solitudine, l’incomunicabilità, la mancanza di valori, il mistero della morte.

La cantatrice calva (1950) di Ionesco e Aspettando Godot (1953) di Beckett: si aspetta una persona che non arriva mai e in quel

lasso di tempo non successo praticamente nulla. Ciò che stupisce nel testo non è l’attesa, ma proprio la condizione dell’inutilità e

l’assurdo dell’esistenza umana, percepita come attesa della morte.

Con il Teatro dell’Assurdo l’atto unico o comunque la misura breve del testo smettono di essere forme drammatiche minori, meno

impegnative. L’atto unico è una concentrazione drammatica che coglie l’essenza di una condizione umana.

15- SECONDO ‘900 ITALIANO: L’AVVENTO (TARDIVO) DELLA REGIA E TARDI EPIGONI DEL GRANDE ATTORE

C’è un ritardo storico della scena italiana rispetto all’Europa. In Italia si può cominciare a parlare di regia solo dal 1932, quando

Silvio D’Amico conia la parola regista. In Italia la resistenza degli attori contro l’avvento della regia è più tenace e vincente; inoltre il

mestiere di autore è tramandato di padre in figlio, non c’è una scuola di teatro e quindi la volontà di stare sotto al padrone. In Italia

la drammaturgia è gracile, con autori scarsamente autorevoli, che non riescono ad influenzare gli attori con cui lavorano. Per farsi

valere l’autore deve farsi uomo di teatro, CAPOCOMICO. Il vero innovatore della scena italiana è SILVIO D’AMICO. Nel 1935 ottiene

dal fascismo l’aiuto per fondare l’Accademia Nazionale di Arte Drammatica: decide di promuovere il teatro di regia, in cui il regista

ha tra le mani un attore disciplinato, diplomato all’accademia.

LUCHINO VISCONTI: regista cinematografico e teatrale; elimina il suggeritore, impone lunghe prove; crea la “compagnia dei

giovani”. È Visconti ad esaltare un talento come Vittorio Gassman.

Un autore non è mai interpretato una volta per sempre. La caratteristica dell’opera d’arte è proprio quella di contenere in sé una

pluralità di significati, e il lavoro della critica consiste proprio nel mettere a fuoco dimensioni prima occultate.

Nella Locandiera di Visconti le vicende da private si fanno pubbliche, vengono ambientate nei cortili esterni della locanda = spazi

squallidi, quasi disadorni ( = fabbriche dell’accumulazione capitalistica) REALISMO GOLDONIANO che ispira l’opera di Visconti, che

D’Amico critica.

GIORGIO STREHLER: fondatore del Teatro Piccolo di Milano; comincia con Arlecchino e il servitore dei 2 padroni nel 1947; esalta la

corporeità e valorizza la Commedia dell’Arte. 1947 = nascita del Teatro Pubblico di Milano; Strehler valorizza il teatro italiano e le

sue radici.

Trilogia della villeggiatura: Non più personaggi graziosi e delicati, ma la ricostruzione di un ceto borghese al tramonto (crisi politica,

morale, intellettuale). Corrisponde al Giardino dei ciliegi di Checov che Strehler mette in scena nel 1955, dove la Rivoluzione

Francese corrisponde alla Rivoluzione Russa.

Si dice che i personaggi goldoniani appartengano alla pre Rivoluzione Francese. Goldoni fa la caricatura di un ceto

mercantile veneziano ozioso.

Page 20: Alonge, Perrelli - Storia del teatro e dello spettacolo

Strehler possiede una vena lirico-sentimentale; è un grande illustratore di atmosfere e paesaggi

Avventure della villeggiatura = storia d’amore infelice perché Giacinta è promessa sposa di Leonardo, ma ama disperatamente

Guglielmo. Strehler conserva le linee portanti e rinforza la dimensione sentimentale; il linguaggio è più melodrammatico rispetto a

Goldoni, introduce quell’idea di vero amore che in Goldoni manca assolutamente; il copione è un punto di partenza che poi viene

rielaborato dalla gestica dell’attore, insieme al regista, quando va in scena.

MARIO MISSIROLI: regista discontinuo, direttore del Teatro Stabile di Torino; firma anche lui una Trilogia nel 1981 e non utilizza

ambientazioni realistiche, ma solo un palcoscenico circolare, praticamente vuoto, inclinato verso gli spettatori, Innovatore della

regia; rappresenta l’amore brutale, carnale.

MASSIMO CASTRI: firma una trilogia nel 1995-1996 in tre distinte serate, anche Castri lavora sulla scenografia, ma con minor senso

di astrazione rispetto a Missiroli; aggiunta di personaggi secondari; forzatura del teatro di Goldoni. Castri è molto attento alla

dimensione sociologica, che opera degli scandagli sulla psicologia dei personaggi, sullo strato profondo, nascosto, del testo.

LUCA RONCONI: meno coinvolto dai condizionamenti della storia; sperimenta sulla dimensione spazio-comunicativa.

Il Ventaglio di Goldoni = opera poco famosa, scelta da Ronconi; ventaglio = simbolo erotico, fantasia carnale; ricchi con ricchi,

poveri con poveri; Ronconi CARICA tutte le scene in cui Evaristo e Giannina vengono a contatto. Ronconi ha colto perfettamente la

qualità di simbolo erotico del ventaglio. L’attrice di Ronconi, seduta nella sua bottega, allarga le gambe e fa aria all’oggetto oscuro

del desiderio il ventaglio serve a sventagliare il sesso femminile, serve a placare l’ardore della bramosia.

Il regista è colui che interpreta il testo Ronconi è importante a livello sia italiano che mondiale.

Il teatro di regia è la grande innovazione della scena italiana del ‘900 che si accompagna alla fondazione dei teatri pubblici. Ora in

Italia si riconosce il valore culturale dello spettacolo, deve essere incoraggiato e sostenuto dal denaro pubblico, il teatro si è rivelato

uno strumento di promozione/propaganda, è un mezzo caldo. Per le nazioni democratiche questo non è corretto, perché essendo il

teatro una pratica commerciale-economica non va sostenuta dallo stato. Dopo la II Guerra Mondiale sviluppo dell’idea che la

cultura vada sempre sostenuta teatro come SERVIZIO PUBBLICO.

Ai pochi registi/artisti, si affiancano registi modesti raccomandati.

VITTORIO GASSMAN: Frutto dell’Accademia d’Arte Drammatica, poi comincia a lavorare nel cinema.

EDUARDO DE FILIPPO: figlio d’arte; attore e autore; amplia lo spazio verso l’esterno; aveva una mimica facciale straordinaria,

esprimeva umanità sofferente.

DARIO FO: attore e autore; scrive negli anni ’60 commedie di satira politico-sociale; lavora teatralmente con tutto il corpo, è un

mimo straordinario. È l’ultimo erede della schiatta dei grandi attori ottocenteschi, offrendo il meglio di sé quale attore solista nel

Mistero Buffo del 1969. Nel 1999 vince il premio Nobel per la letteratura.

CARMELO BENE: massimo esponente della Neo Avanguardia Italiana degli anni ’60-’70; TEATRO DI RICERCA E SPERIMENTAZIONE =

punta sul linguaggio NON verbale e valorizza la dimensione del corpo, del gesto, del suono, della scenografia; rielabora la scrittura

shakespeariana; ultimo moderno erede della gloriosa tradizione del Grande Attore.

16 – SCIAMANI E POETI DELLO SPETTACOLO

Industria dello spettacolo= processo di mercificazione che pone al centro il Teatro-prodotto, indirizzato ad un pubblico di

consumatori, che vedono il teatro come svago. creazione di un’opposizione che vuole ricreare la partecipazione e fusione tra

attore e pubblico. è necessario l’incontro!

HAPPENING = significa avvenimento= spettacolo che rifiuta l’idea del palcoscenico e l’uguaglianza della visione degli spettatori

(negli happenings ciò che vedono alcuni spettatori è diverso da ciò che ne vedono altri); è uno spettacolo improvvisato; qualunque

luogo è adatto per l’happening; avviene la rinuncia dell’elemento dialogico e favore del visuale, del sonoro; c’è legame fra la

dimensione dell’incontro e quella dello spazio. spazio di relazione diventa una componente dello spettacolo; ogni spettacolo avrà

il suo spazio diverso, come è diverso lo spettacolo.

1959 primo successo del Living Theatre, fondato a New York nel 1947 da Judith Malina e Julian Beck.

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Teatro della crudeltà: rigore, applicazione, decisione, determinazione; es The Brig di Brown: prigione per marines indisciplinati,

dove vige la regola della violenza fisica e psicologica. Gli attori danno colpi veri, al punto da doversi scambiare ogni sera per evitare

di essere troppo percossi effetto traumatico sul pubblico.

Al Festival d’Avignone debutta Paradise Now = evento scandalo del Living viaggio, ascesa verso la Bella Rivoluzione anarchica non

violenta = operazione intellettuale. Crollo della barriera che oppone palcoscenico e platea: trasformazione degli spettacolo in

happenings dove gli spettatori intervengono e recitano.

PETER BROOK: regista inglese; lavora nel TEATRO COMMERCIALE e per la Royal Shakespeare Company. Nel 1970 si trasferisce a

Parigi e da vita al Centro Internazionale di Ricerca Teatrale.

Effettua un processo di allontanamento dalle istituzioni teatrali

Importante è lo scavo sull’arte dell’autore

Decide di operare con una TROUPE di attori di varia nazionalità, di lingue diverse, perché rompono la convenzione della

dizione perfetta su cui si regge l’industria dello spettacolo

Interviene con il suo gruppo in Iran, Africa, USA, in cerca di un pubblico nuovo, vergine.

Rinnovamento scenico J. GROTOWSKI = regista polacco, fondatore del Teatro Laboratorio (1959).

Riflette sulla perdita di identità del teatro rispetto allo sviluppo del cinema e della TV, inferiorità tecnologica del teatro il

teatro deve ammettere i suoi limiti, deve riconoscersi povero, rinunciando a tutto, il teatro scopre la presenza viva

dell’attore. Solo riconoscendosi povero il teatro può trovare una sua specificità rispetto al cinema e alla TV.

Il teatro può esistere anche senza testo, perché lo spettacolo è costruito a partire dal rapporto con l’attore, non con il

testo ciò che conta è l’incontro bisogna abolire la distanza tra attore e spettatore.

Es. Il principe costante (1965) = adattamento di un testo di Calderòn de la Barca. Un principe (Don Fernando) è prigioniero dei Mori,

preferisce la morte piuttosto che cedere l’isola di Ceuta, dominio della cristianità.

Grotowski inventa uno spazio rettangolare, gli spettatori osservano la scena dall’alto verso il basso per dare vita nel

pubblico al processo di IMMEDESIMAZIONE (bisogna allontanare il pubblico, non avvicinare l’attore).

Grotowski inventa il training = allenamento fisico e mentale, perché secondo Grotowski l’incontro riguarda soprattutto la

coppia regista/attore e le prove teatrali sono un momento fondamentale.

L’attore più celebre è R. CIESLAR.

È paradossale che Grotowski per trent’anni, fino alla morte avvenuta nel 1999, sia oggetto di grande venerazione da parte

di una metà del mondo teatrale, benché non sia presente a livello di creazioni sceniche.

EUGENIO BARBA: allievo di Grotowski

Nel 1964 fonda a Oslo l’Odin Teatret, riunendo attori rifiutati dalle tradizionali accademie d’arte drammatica, teatro di

autodidatti, di “outsiders”.

Gli attori improvvisano, hanno lunghi periodi di prove, c’è una ricca partitura di azioni, e assenza di dialogicità, a causa dei

loro problemi di dizione e problemi di lingua.

Lo spazio scenico è semplice, rettangolare con panche; spettacolo senza parole, fatto di partitura musicale, alternarsi di

luce e buio, riempiti dal sonoro (teatro prepotentemente musicale e cromatico).

Nel 1976 lancia il Manifesto del Terzo Teatro.

TEDEUSZ KANTOR: artista teatrante, pittore, scenografo, organizzatore di happenings ed eventi teatrali; capolavori: La classe morta

e Wielopole-Wielopole.

Ritorno alla dimensione dello spettacolo e non più sull’evento, sul lavoro sull’attore.

Il suo attore è BIO-OGGETTO= organismo unitario, l’attore viene privato della sua capacità emotiva; l’attore convive con

una protesi del proprio corpo, finisce per assumere la rigidità dell’automa.

Intervento del regista sul palcoscenico, vestito come gli attori, ma non è l’attore (corregge i dettagli, controlla il lavoro),

non si pone mai frontalmente al pubblico.

Alla fine dello spettacolo gli attori ricevono gli applausi, Kantor NO! Perché non è un attore sta sul palco perché è contro

le convenzioni teatrali, è trasgressivo; stando sul palco a correggere l’attore, distrugge l’illusione, impedisce all’attore di

prendersi troppo sul serio, lasciandosi trasportare dalle emozioni.

Page 22: Alonge, Perrelli - Storia del teatro e dello spettacolo

Kantor è stato accusato di megalomani, con la sua volontà di trasportare la figura del regista sul palcoscenico, ma questa

presenza ha valore simbolico, la volontà di prendere possesso del palcoscenico e sottrarlo agli attori.

17 – IL CORPO, L’IMMAGINE E IL DITO DI DIO

Il testo ha una valenza sacrale (in francese texte=evangeliario).

La regia prima era una professione dell’industria dello spettacolo, poi è diventata esercizio artistico, pratica creativa. tentativo di

ristabilire un collegamento con l’antica radice divina che è nel testo. Il regista è il sacerdote della religione del testo; il teatro è il

luogo di conoscenza, luogo geometrico in cui la creazione del testo è RI-CREATA dagli operatori della scena. Il regista sembra ormai

aver soppiantato il ruolo del drammaturgo.

Nel secondo ‘900 i veri scrittori di teatro sono: Pirandello e Beckett

Non c’è scrittura drammaturgica contemporanea perché non ce n’è bisogno bastano i testi accumulati in precedenza. È la

creatività del regista che consente di dire la contemporaneità, mettendo in scena i classici del passato.

Kantor MEGALOMANIA = il sacerdote si è fatto egli stesso divinità. Kantor era regista e drammaturgo.

ITALIA la funzione del regista/direttore di teatro è burocratizzata, asservita al potere politico. non c’è più regia perché non c’è

più interesse per la scrittura.

La scommessa di vincere consiste nel dimostrare che si può scegliere anche un argomento moralmente pericoloso riuscendo a

creare un testo moralmente accettabile.

ISADORA DUNCAN: fondatrice della danza libera: corpo quasi nudo, scalzo, armoniosamente in ascolto della propria spinta

interiore.

PINA BAUSCH: fondatrice della teatrodanza

ROBERT WILSON: regista e attore; lavora sulle dimensioni del tempo e dello spazio il tempo viene rallentato, l’attore può

impiegare un’ora ad attraversare la scena o dieci minuti a voltare la testa. Lo spettatore deve raggiungere uno stato misto, di sonno

e veglia, di percezione e immaginazione propria.

Aggressione della rete = Modernità = cambio del modo dell’informazione e perdita del senso della proprietà intellettuale del testo.

ciò che conta non è essere, ma essere VISTO DEMONIACA PRESENZA E POTENZA DELL’IMMAGINE il legame con il divino non è

più garantito dalla scrittura, che ormai è superata dalle straripanti autostrade informatiche della rete.