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1 Franco Perrelli LA FORTUNA DI GIUSEPPE GIACOSA IN SCANDINAVIA 1. La fortuna di Giuseppe Giacosa in Scandinavia è un tema doppiamente interessante: sotto il profilo storico, perché fu una vicenda abbastanza articolata, che dà la piena misura della rilevanza internazionale della drammaturgia dell’autore piemontese; sotto l’aspetto critico, perché rimette in gioco una valutazione complessiva del suo teatro, tacciato dai detrattori di scarsa originalità 1 e, in particolare, di essere concepito – per quanto riguarda proprio la sua fase maggiore e borghese «sous l’influence des vents froids qui appostèrent un jour en Italie, sur leur aile glacèe, la pensée sevère de Ibsen et de Bjœrnson», per citare Maurice Muret (a proposito di Diritti dell’anima), che sarà poi seguito da Benedetto Croce, ma in qualche modo preceduto da Giovanni Pozza 2 . Pietro Nardi ricorda in particolare che, oltre a Diritti dell’anima, Come le foglie, dopo la prima, fu salutato dalla critica italiana (e in seguito, nel 1909, anche da quella francese, «concorde») come una derivazione di Ibsen e del Bjørnson di Un fallimento. Nardi stesso e altri studiosi (Anna Barsotti), lavorando prevalentemente sui testi, hanno difeso Giacosa contro tali attribuzioni 3 , ma, a questo punto, piuttosto che seguire piste già battute, può essere forse interessante rovesciare l’ottica di osservazione e domandarsi: gli scandinavi, i compatrioti di Ibsen, come consideravano il drammaturgo italiano? 2. Nei primi anni Novanta, Giacosa è presente sui palcoscenici tedeschi con Tristi amori e, nel giugno del 1896, in una lettera alla madre scritta da Budapest, afferma di avere ricevuto «mille prove di una [sua] notorietà europea che proprio non credev[a] così larga», e, tra l’altro, anche gli omaggi di danesi, svedesi e norvegesi 4 . A quell’epoca, Giacosa era infatti ben noto in Scandinavia e soprattutto in Svezia, la nazione nordica nella quale riscosse la sua prima e maggior fortuna. Il drammaturgo s’affermò, infatti, soprattutto al Teatro Reale di Stoccolma, a cavallo fra Otto e Novecento, in una fase d’indubbio interesse di questa scena per il 1 Lapidaria la sentenza di Croce: «Il Giacosa non ebbe mai nulla di sostanziale da dire, che non fosse stato già detto o che non dicessero meglio altri: nulla di profondamente proprio e personale. Egli non possedeva un bicchiere suo, né grande né piccolo: possedeva altri pregi, di uomo e di scrittore, ma non quello» (B. CROCE, La letteratura della nuova Italia, Bari, Laterza, 1914, II, pp. 214-5). 2 M. MURET, Giacosa et ses pièces sociales, in «La Revue», I febbraio 1906; B. CROCE, La letteratura cit., pp. 215, 225; G. POZZA, Cronache teatrali (1886-1913), a cura di G.A. Cibotto, Vicenza, Neri Pozza, 1971, p. 198 ss. 3 P. NARDI, Vita e tempo di Giuseppe Giacosa, Milano, Mondadori, 1949, pp. 809-10. Nardi rifiuta, per I diritti dell’anima, ambedue i riferimenti con decisione, perché inverificabili o troppo generici e conclude: «Accontentiamoci di dire che Giacosa respirò l’atmosfera dei tempi, come la respirò Ibsen, e che il suo incontro con Ibsen non è che apparente» (p. 734). Cfr. inoltre A. BARSOTTI, Giuseppe Giacosa, Firenze, La Nuova Italia, 1973, p. 233 ss., ma anche L. GEDDA, Giuseppe Giacosa commediografo e narratore, Torino, Trauben, 2000, p. 112 ss. 4 P. NARDI, Vita e tempo cit., p. 783. www.turindamsreview.unito.it

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Franco Perrelli LA FORTUNA DI GIUSEPPE GIACOSA IN

SCANDINAVIA 1. La fortuna di Giuseppe Giacosa in Scandinavia è un tema doppiamente

interessante: sotto il profilo storico, perché fu una vicenda abbastanza articolata, che dà la piena misura della rilevanza internazionale della drammaturgia dell’autore piemontese; sotto l’aspetto critico, perché rimette in gioco una valutazione complessiva del suo teatro, tacciato dai detrattori di scarsa originalità1 e, in particolare, di essere concepito – per quanto riguarda proprio la sua fase maggiore e borghese – «sous l’influence des vents froids qui appostèrent un jour en Italie, sur leur aile glacèe, la pensée sevère de Ibsen et de Bjœrnson», per citare Maurice Muret (a proposito di Diritti dell’anima), che sarà poi seguito da Benedetto Croce, ma in qualche modo preceduto da Giovanni Pozza2. Pietro Nardi ricorda in particolare che, oltre a Diritti dell’anima, Come le foglie, dopo la prima, fu salutato dalla critica italiana (e in seguito, nel 1909, anche da quella francese, «concorde») come una derivazione di Ibsen e del Bjørnson di Un fallimento. Nardi stesso e altri studiosi (Anna Barsotti), lavorando prevalentemente sui testi, hanno difeso Giacosa contro tali attribuzioni3, ma, a questo punto, piuttosto che seguire piste già battute, può essere forse interessante rovesciare l’ottica di osservazione e domandarsi: gli scandinavi, i compatrioti di Ibsen, come consideravano il drammaturgo italiano?

2. Nei primi anni Novanta, Giacosa è presente sui palcoscenici tedeschi con Tristi

amori e, nel giugno del 1896, in una lettera alla madre scritta da Budapest, afferma di avere ricevuto «mille prove di una [sua] notorietà europea che proprio non credev[a] così larga», e, tra l’altro, anche gli omaggi di danesi, svedesi e norvegesi4. A quell’epoca, Giacosa era infatti ben noto in Scandinavia e soprattutto in Svezia, la nazione nordica nella quale riscosse la sua prima e maggior fortuna.

Il drammaturgo s’affermò, infatti, soprattutto al Teatro Reale di Stoccolma, a cavallo fra Otto e Novecento, in una fase d’indubbio interesse di questa scena per il

1 Lapidaria la sentenza di Croce: «Il Giacosa non ebbe mai nulla di sostanziale da dire, che non

fosse stato già detto o che non dicessero meglio altri: nulla di profondamente proprio e personale. Egli non possedeva un bicchiere suo, né grande né piccolo: possedeva altri pregi, di uomo e di scrittore, ma non quello» (B. CROCE, La letteratura della nuova Italia, Bari, Laterza, 1914, II, pp. 214-5).

2 M. MURET, Giacosa et ses pièces sociales, in «La Revue», I febbraio 1906; B. CROCE, La letteratura cit., pp. 215, 225; G. POZZA, Cronache teatrali (1886-1913), a cura di G.A. Cibotto, Vicenza, Neri Pozza, 1971, p. 198 ss.

3 P. NARDI, Vita e tempo di Giuseppe Giacosa, Milano, Mondadori, 1949, pp. 809-10. Nardi rifiuta, per I diritti dell’anima, ambedue i riferimenti con decisione, perché inverificabili o troppo generici e conclude: «Accontentiamoci di dire che Giacosa respirò l’atmosfera dei tempi, come la respirò Ibsen, e che il suo incontro con Ibsen non è che apparente» (p. 734). Cfr. inoltre A. BARSOTTI, Giuseppe Giacosa, Firenze, La Nuova Italia, 1973, p. 233 ss., ma anche L. GEDDA, Giuseppe Giacosa commediografo e narratore, Torino, Trauben, 2000, p. 112 ss.

4 P. NARDI, Vita e tempo cit., p. 783.

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repertorio italiano e spagnolo, quando – nel periodo della cosiddetta Associazione ovvero dell’autogestione da parte degli attori (1888-1907) – s’impose «innegabilmente una certa preponderanza di Giacosa e José Echegaray»5. Su 272 titoli nel cartellone di questi quasi due decenni, troviamo 8 copioni italiani, di cui ben 5 di Giuseppe Giacosa e uno a testa per Vittorio Bersezio (Le miserie d’monssù Travet [Kronans kaka], 16 rappresentazioni fra il 1893 e il 1894), Marco Praga (L’amico [Förråd], 26 rappresentazioni fra il 1895 e il 1897) e Felice Cavallotti (La figlia di Jefte [Jephtas dotter], da una rielaborazione tedesca del testo, per 4 rappresentazioni nel 1897). L’insieme delle repliche giacosiane arriva a ben 105, fra il 1890 e il 1903, con il record di Tristi amori, che, fra il 1891 e il 1905, tocca 45 rappresentazioni. Un successo imponente, se si pensa che autori del calibro di Ibsen, in quella contingenza storica, sulla stessa scena, potevano arrivare a 15 rappresentazioni con La donna del mare o a 21 con La commedia dell’amore e che il memorabile Verso Damasco di Strindberg del 1900 si fermò a 20, mentre Delitto e delitto dello stesso autore, in un arco ampio fra il 1900 e il 1906, si tenne a quota 436.

Nel 1890, Giacosa contava già importanti rapporti con il mondo intellettuale svedese e, il 16 dicembre, aveva indirizzato da Milano una lettera proprio ad August Strindberg, dalla quale si evince che, circa un mese prima, aveva ricevuto dal suo «cher et illustre confrère» la traduzione francese del Padre e quella tedesca della Signorina Julie. Anche questo contatto potrebbe essersi stabilito a partire dalla prima affermazione svedese dello stesso Giacosa e, noteremo incidentalmente, che il traduttore di Resa a discrezione [På nåd och onåd] – il testo con il quale l’italiano debutta con buon successo e 12 rappresentazioni al Teatro Reale, il 28 gennaio 1890 – era Erik Thyselius, un giornalista e letterato radicale della cerchia strindberghiana7.

Resa a discrezione era stato cominciato nel 1884, allestito a Milano nel 1886 e pubblicato due anni dopo. Si trattava di una commedia, nella quale la fatua scommessa di due nobildonne, Elena di Roveglia e Gemma del Pallio, parimenti attratte dall’ardimentoso Andrea Sarni, allo scopo di farlo ritirare da una spedizione artica, culmina nella passione e nel matrimonio conclusivo della prima dama, infine soggiogata dall’uomo. Sebbene il copione presentasse dei tratti ancora goldoniani, in quanto «ben assemblato dramma di routine secondo i modelli francesi» – come si

5 S. TORSSLOW, Dramatenaktörernas republik, Uppsala, Kungl. Dramatiska Teatern, 1975, p. 279. 6 Ivi, p. 308 ss. Si tenga presente che di norma il 40% del repertorio si teneva in cartellone meno di

10 giorni. Per una corretta contestualizzazione della fortuna di Giacosa in Scandinavia andrà altresì rilevato che, nel periodo preso in esame, fine Ottocento-anni Venti, la fama di Ibsen si consolidò in termini assoluti a livello internazionale, ma la sua drammaturgia (e Hedda Gabler resta un caso emblematico) non ebbe sempre dal pubblico e dalla critica un’accoglienza favorevole. Ai primi del Novecento, come testimonia un ibseniano del calibro di Otto Weininger, si aveva talora una percezione d’invecchiamento del teatro dell’autore norvegese, che poteva addirittura sollevare un «senso di noia» (O. WEININGER, Delle cose ultime, Pordenone, Studio Tesi, 1985, p. 8).

7 Cfr. F. PERRELLI, Una lettera di Giacosa a Strindberg, in AA. VV., Materiali per Giacosa, a cura di R. Alonge, Genova-Milano, Costa & Nolan, 1998, p. 334 ss. Giacosa si era dichiarato colpito dal Padre soprattutto per la «tristesse navrante et poetique dans le fond» del dramma e aveva promesso interessamento, traduzioni e diffusione in Italia del teatro del collega svedese. Strindberg arriverà invece sui nostri palcoscenici nel 1893, soprattutto tramite le edizioni di Max Kantorowicz e il traduttore Paolo Rindler (cfr. F. PERRELLI, La prima fortuna di Strindberg sulle scene italiane, in «Il Castello di Elsinore», n. 30, 1997, p. 5 ss.; F. PERRELLI, “Och nu är Italien öppet för barbaren…”. Det första mottagandet av Strindberg på de italienska teaterscenerna, in «Strindbergiana», n. 14, Stockholm, Atlantis, 1999, p. 116 ss.). I rapporti con Giacosa avevano, tuttavia, almeno inizialmente, sollecitato grandi speranze di affermazioni italiane tramite la compagnia di Ermete Novelli, tanto da essere addirittura rilanciate sulla stampa svedese (cfr. Strindberg i offentligheten 1887-1892, Uppsala, Litteraturvetenskapliga Institutionen Uppsala Universitet, 1980, p. 135). In seguito, un deluso Strindberg si dichiarerà, in varie circostanze, addirittura danneggiato da Giacosa (vedi n. 30).

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sarebbe notato in Svezia [«Aftonbladet», 21 settembre 1891] – non era affatto distante dal repertorio lieve e mondano che continuava a resistere sulla scena del Teatro Reale dell’epoca e che proprio Strindberg aveva bollato, in diverse occasioni, come artificioso e fatto solo di personaggi «in camicie inamidate e strascichi lunghi metri con almeno 20.000 franchi di rendita»8.

Sarà la stessa stampa di Stoccolma a riconoscere che il testo di Giacosa, che «era ambientato nell’alta società romana», presentava una «lista dei personaggi piuttosto ampollosa e pullulante di marchese, contesse, baronesse, marchesi e cavalieri», una circostanza che invitava a una brillante distribuzione delle parti9 come a un sontuoso allestimento che mirava a formalizzare la recitazione stessa: «Le ricche ed eleganti toilette erano portate con autentica finezza e su tutta la rappresentazione aleggiavano gusto e seducente bellezza. […]. Al ballo dell’ultimo atto […] i signori competevano in eleganza (frac colorati di differenti sfumature!) con le signore» [V.S. (V. Sjöberg), «Dagens Nyhter», 29 gennaio 1890].

La critica ricorda ancora che Giacosa è un avvocato, come la maggior parte dei commediografi francesi, ma ammette che «la [sua] forza sta nel tono leggero della conversazione, nella forma graziosa e negli effetti superficiali orientati a compiacere i gusti del grande pubblico per ciò che è romantico e ricco di sentimento. L’argomento sa solo Dio quante volte sia stato sviluppato, senza smettere d’interessare, tanto più che il trattamento che ne fa Giacosa è piccante e divertente» [«Nya Dagligt Allehanda», 29 gennaio 1890]. Un po’ come accade con Paolo Mantegazza, Giacosa, «con vivacità meridionale, non tiene conto di parecchie concatenazioni come dei preliminari, e fa sviluppare l’azione così velocemente che non solo gli artisti sulla scena, con la recitazione, ma persino gli spettatori debbono molto supplire con la loro fantasia». Resa a discrezione potrebbe ricordare Le Roman d’un jeune homme pauvre di Feuillet, ma mentre «l’autore francese parla alla riflessione raziocinante dello spettatore, quello italiano di più alla sua sensibilità intuitiva», sicché non appare chiara, per esempio, la conversione dell’eroina dalla civetteria al vero amore, per cui, per tutto il secondo atto, non si capisce neanche bene quali sentimenti provi costei. Tuttavia, in conclusione, «quando la nostra scena non è nazionale, è sempre meglio che sia del tutto internazionale, non unilaterale cioè nel recepire drammi solo da certi paesi» come la Francia o la Germania, escludendo, per esempio, l’Italia che, in questo caso, propone un drammaturgo quantomeno interessante [H.A.R (H.A. Ring), «Svenska Dagbladet», 29 gennaio 1890].

Positivo, per Giacosa, anche il giudizio di un altro critico prestigioso, Georg Nordensvan (G–g N), che osserva: questa «salongskomedi» è «teatro, null’altro che teatro», una «commedia virtuosistica […] completamente scritta per gli attori. Ma scritta da un virtuoso che conosce assolutamente la tecnica del suo mestiere. […] La commedia è frivola, ma brillante», e «la si guarda con un certo piacere anche sulla scena svedese, sebbene il giorno dopo si sia dimenticato tutto, ad eccezione forse delle toilette delle signore e dei frac colorati dei signori». La recitazione è di alto livello ed equilibrata. Louise Fahlman, infatti, è lodata dalla critica unanime e pure il promettente giovane Georg Skånberg, nonostante appaia convenzionale nella plastica, sa rendere con calore il suo personaggio [«Aftonbladet», 3 febbraio 1890].

Quasi contemporanee a questa affermazione, nel 1891, troviamo delle edizioni svedesi di drammi giacosiani: Una partita a scacchi [Ett parti schack], tradotto da

8 Cfr. F. PERRELLI, August Strindberg. Sul dramma moderno e il teatro moderno, Firenze, Olschki,

1986, p. 12. 9 G. Skånberg (Andrea Sarni), L. Fahlman (Elena di Roveglia), C.G. Rydgren (Teodoro di

Roveglia), H. Rundberg (Gemma Del Pallio), N. Personne (Filippo Landucci), E. Hillberg (D’Almèna).

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Göran Björkman e pubbicato da Bille, nonché Il trionfo d’amore [Kärlekens triumf], tradotto da Helmer Key ed edito da Albert Bonnier10. L’esito incoraggiante di Resa a discrezione spinse il Teatro Reale a presentare proprio quest’ultima traduzione, sicché, il 20 marzo del 1891, la leggenda drammatica in due atti in versi del 1875 – un garbato rifacimento in salsa medievale e piemontese delle Turandot di Carlo Gozzi e di Schiller, la cui linea d’azione (si notò in Svezia) appariva abbastanza analoga a quella di Resa a discrezione – fu abbinata a un dramma realistico, Familjelycka di Anne Charlotte Leffler, nota scrittrice svedese femminista, che aveva sposato un nobile napoletano. Si trattava di un testo scritto nello stile del parigino Théâtre Libre, di pessimistica critica sociale, sulle menzogne e le ipocrisie che dividono le generazioni, ammorbando la stessa vita familiare, e aveva proprio bisogno di essere bilanciato dal lavoro di Giacosa, «grazioso e attraente interno di castello del Trecento, senza alcuna originalità d’impianto, ma scritto in versi abbastanza belli» [«Nya Dagligt Allehanda», 23 marzo 1891].

La stampa fu concorde nell’evidenziare la netta divaricazione di stile fra i drammi, che ebbero comunque tutt’e due successo. La critica premiò di più la gradevolezza di quello di Giacosa, valorizzato anche dalla pittoresca scenografia di Carl Grabow (realizzata sotto l’influsso della recente tournée dei Meininger a Stoccolma, nel giugno dell’89) [«Svenska Dagbladet», 23 marzo 1891] e dall’affiatamento dell’ormai collaudata coppia Fahlman-Skånberg, che fu generalmente apprezzata, sebbene l’attrice tendesse più a evidenziare gli aspetti passionali del personaggio a scapito della sua iniziale fierezza [T.H. (T. Hedberg), «Aftonbladet», 23 marzo 1891]11.

L’opera si sarebbe tenuta in repertorio fino al gennaio del 1892 con 18 rappresentazioni. Un altro successo, insomma: la leggenda giacosiana assecondava, del resto, le tendenze più estetizzanti del tempo e il censore Erik af Edholm, già intendente delle scene regie – per intenderci, l’uomo che aveva affondato nel 1872 le possibilità di allestimento di Maestro Olof di Strindberg e che riteneva che «toute vérité n’est pas bonne a dire… men che mai in un Teatro Reale» – ebbe addirittura modo di definirla «un miraggio da tempi migliori», nonché «una perla purissima, profonda nel suo contenuto e splendente all’apparenza»12.

3. Arrivò presto anche il Giacosa più moderno. Tristi amori ovvero Stulen lycka

(Felicità rubata), nel 1891-2, diventa «la novità letteraria più discussa della stagione», in Scandinavia (come nella vicina Germania)13. Il dramma – sostenuto da Gustaf Fredrikson, dall’autunno del 1891 responsabile della programmazione del Teatro Reale – fu dato a Stoccolma alla presenza del principe ereditario italiano, il 18 settembre 1891 (assieme alla commedia danese in un atto, En varning di Emma Gad). La versione svedese era di Ernst Lundquist, che traduceva regolarmente per il Teatro Reale, e l’allestimento curato dal famoso attore Emil Hillberg, che viveva un periodo di particolare brillantezza creativa e interpretava pure il ruolo dell’avvocato Scarli14.

10 Sempre in questo periodo si erano diffuse, suscitando attenzione, anche le novelle alpine giacosiane, nell’antologia pubblicata a Stoccolma nel 1890, Från det nya Italien, che conteneva racconti della contessa Lara, Matilde Serao, Panzacchi, Verga e De Amicis.

11 Come poi accadde alla più «languida» debuttante norvegese Mejlænder, che la sostituì dall’8 di maggio [«Nya Dagligt Allehanda», 9 maggio 1891]

12 S. TORSSLOW, Dramatenaktörernas republik cit., p. 266. 13 P. LINDBERG, August Lindberg, skådespelaren och människan, Stockholm, Natur & Kultur,

1943, p. 323 (vedi anche L. GEDDA, Giuseppe Giacosa commediografo cit., p. 38). 14 Cfr. G. NORDENSVAN, Svensk teater och svenska skådespelare. Från Gustav III till våra dagar,

Stockholm, Bonniers, 1918, II, p. 418.

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Emil Hillberg, l’avvocato Scarli in Stulen lycka. Il pubblico affollò la sala, leggiamo sui giornali, e apprezzò il programma. Anzi, la

novità di Giacosa, pur ricordando Le Supplice d’une femme di Dumas-Giradin, e Galeotto di Echegaray, fu giudicata superiore al Trionfo d’amore che si era visto di recente [V.S., «Dagens Nyheter» 19 settembre 1891]. Si trattava in fondo della tipica «moderna tragedia dell’adulterio, coltivata con particolare assiduità dagli autori francesi», ma, se Resa a discrezione faceva ricordare Scribe e il primo Dumas fils, ora veniva in mente più che altro Sardou, sebbene si rilevasse una differenza sostanziale fra il marito tradito del dramma francese e quello italo-spagnolo. Il primo appariva immancabilmente «grottesco, litigioso, insopportabile»; il secondo «onesto, incline al sacrificio, simpatico». A Giacosa si riconosce la capacità di condire e ravvivare, con «raffinata speziatura» e sempre «brillanti» dettagli (per esempio, il dissidio di Fabrizio con il padre o la scena di Emma con la cameriera nel primo atto), l’altrimenti non nuova vicenda, che però colpisce proprio per «come l’autore delinea la silenziosa sofferenza dei due colpevoli, accresciuta dall’inesauribile generosità del marito e amico tradito». È questa bontà che introduce la catastrofe nel secondo atto, la cui ultima scena, con la rivelazione dell’adulterio, si staglia come «un piccolo capolavoro d’invenzione e di forza patetica. Senz’altro quanto di più appassionante si possa vedere a teatro». Il finale con Emma che, implicitamente lasciata libera di scegliere dal marito, dopo avere esitato a seguire l’amante, resta e si riconcilia con Giulio, per amore della figlia, non è forse congruo e, in generale, tutto il terzo atto perde un po’ di mordente [– x – n (A. Axelsson), «Nya Dagligt Allehanda», 21 settembre 1891].

Interessante un giudizio comparativo, assai lusinghiero per Giacosa, di Georg Nordensvan, anche in relazione a un occasionalmente evocato, ma – va da sé – astorico ibsenismo di Tristi amori, un testo che era stato scritto nel 1886-87, prima cioè dell’affermazione europea e italiana del drammaturgo norvegese, verificatasi immediatamente dopo. Giacosa – osserva Nordensvan – si rivela «drammaturgo esperto, nonché fine e acuto conoscitore di esseri umani»; Emma «non ha nulla delle attese di Nora, ma assai del desiderio di molte nature umane di sacrificarsi». Nell’opera, ci sono «uomini comuni e non eroi. […] Tutto procede così semplicemente, così naturalmente come per tutti i piccoli o grandi drammi che si svolgono ogni giorno fra quattro mura – anche in posti diversi dalle città della provincia italiana – senza spingersi il più delle volte oltre quelle quattro mura, se non in forma alterata, nelle cerchie dei chiacchieroni. Sorprendente è l’audacia che dimostra l’autore nell’evitare gli effetti teatrali». L’ultimo atto in particolare sarà

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parso di certo deludente a più di un appassionato spettatore, che, al posto di un finale così semplice da sembrare «non teatrale», s’aspettava pistolettate o almeno grandi tirate e maledizioni. Sta di fatto che il dramma di Giacosa, «dal principio alla fine, dà l’impressione della realtà, la realtà naturale senza affettazione, senza l’artificiale luce teatrale su persone e situazioni. Dal momento che questa pittura della verità è realizzata con fine arte psicologica e pieno possesso della tecnica, il risultato è un capolavoro di alto rango, un capolavoro da attribuire alla nuova drammaturgia, per la quale le sentinelle hanno a lungo scrutato» [«Aftonbladet», 21 settembre 1891].

Tristi amori insomma diventa in Svezia una pietra miliare di una più avanzata concezione del dramma. Forse non a caso, anche sul fronte interpretativo, la parte di Emma venne affidata a Lotten Seelig, un’attrice che, nel 1885, aveva infranto tutte le gerarchie divistiche del Teatro Reale, interpretando, adolescente, Hedvig nella realistica Anitra selvatica diretta da August Lindberg. Come a suo tempo nel memorabile spettacolo ibseniano, la Seelig si confermava, nella parte di Emma Scarli, straordinaria per la sua abilità di entrare nel personaggio che doveva incarnare e per la sua estraneità a qualsiasi «civetteria nei confronti del pubblico»; sempre naturale e controllata, negli sguardi, nella mimica, nella cangiante sonorità della voce, come nella recitazione muta, senza mai cadere nel patetico di cattivo gusto, l’attrice suscitò «profonda emozione» [V.S., «Dagens Nyheter», 19 settembre 1891]. Nel primo atto, la Seelig recitava «con mimica dettagliata e nervosa inquietudine» il suo ruolo di adultera, che ha «disgusto delle affettuosità del marito» e cammina sull’orlo di un vulcano. Nella scena con il conte, «mostrava distintamente la donna ancora inesperta nella dissimulazione, che mente male, che non ha il controllo della propria mimica, ma che, con uno sforzo che la porta quasi a soffocare, cerca di conservare il dominio di sé». Negli atti successivi, però, il personaggio perdeva a tratti un po’ di rilievo [– x – n, «Nya Dagligt Allehanda», 21 settembre 1891] e la voce «non sempre conferiva sonora espressione alle situazioni»; il ruolo, comunque, era nel complesso tutt’altro che facile [«Aftonbladet», 21 settembre 1891].

Emil Hillberg conservava un certo aplomb nello smascherare gli amanti e, «nel terzo atto, rappresentava con impressionante ironia l’indignazione del marito tradito per la frode che si era esercitata nei suoi confronti» [– x – n, «Nya Dagligt Allehanda», 21 settembre 1891], mentre Georg Skånberg rendeva Fabrizio, con «calore e passione meridionale». Si trattava di un «eccellente allestimento», nel quale anche gli altri ruoli (Nils Personne, nella parte del conte; Mauritz Gründer come Ranetti, chiacchierone di provincia; la Julin, «eccellente cameriera» dalla opportuna prosaicità) presentavano una consistente caratterizzazione realistica [V.S., «Dagens Nyheter», 19 settembre 1891].

Il dramma fu ripreso, a Göteborg, nel febbraio del 1892, proprio da August Lindberg, che operò intensamente in quella città fra il 1890 e il 1893, impegnato in un avanguardistico quanto arduo «progetto di grande teatro popolare», tra l’altro, rappresentando il suo repertorio ibseniano, che comprendeva sia il debutto del Costruttore Solness sia una prima nazionale di Peer Gynt, che diede un segnale nuovo. Lindberg era stato il primo che avesse osato allestire Spettri in Scandinavia e l’indiscusso paladino del realismo scenico, ma adesso tendeva a muoversi «nella direzione delle correnti svedesi degli anni Novanta e del simbolismo europeo» ovvero «verso un repertorio che rispecchiava il riorientamento dell’epoca nel senso della gioia, della bellezza e della forza della fantasia»15.

15 U.-B. LAGERROTH, August Lindberg – traditionsbrytare på Dramaten, in AA. VV., Den svenska

nationalscenen: Traditioner och reformer på Dramaten under 200 år, a cura di C. Rosenqvist, Viken, Bra Böcker, 1988, p. 158.

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Certo anche in quest’ottica, il grande attore volle interpretare il ruolo di Scarli al fianco di Julia Håkansson nella parte di Emma16. A Göteborg, Tristi amori ottenne uno straordinario successo e, sullo Scarli di Lindberg, il prestigioso critico Karl Warburg ebbe modo di scrivere che si trattava di «una prestazione assolutamente magistrale, per la quale non esistevano adeguate parole di elogio»17. Nei Tristi amori di Lindberg, si rilevò una finissima distillazione delle peculiarità del nuovo stile che s’identificava con l’attore: «Difficilmente» – osservò un critico – «sembrano potersi realizzare un’arte più nobile, una più raffinata recitazione d’assieme. Il tutto viene sviluppato in termini ovattati, tranquilli, ma che effetto in questa rappresentazione apparentemente così semplice. Di rado, molto di rado, è dato assistere a qualcosa del genere!». Con Giacosa, insomma, si affermava pienamente e quasi si esaltava quanto Lindberg aveva cercato d’imporre al teatro scandinavo: «un’intensità lirica fortemente satura, che non consentisse alcun tipo di clichè teatrale», e Tristi amori si dimostrava repertorio elettivo per un simile progetto di riforma scenica18.

Ci si è chiesti spesso se Giacosa evolvesse organicamente dal romanticismo verso un verismo teatrale o assecondasse, ondivago ed eclettico, le mode; è un problema che può avere le sue ragioni dentro le categorie di studio della letteratura drammatica, ma, dal punto di vista del teatro, tutto si semplifica. Infatti, il caso di Lindberg (e non solo) rende evidente che Giacosa, sotto il profilo della scena, negli anni Novanta, diventa soprattutto un formidabile alleato degli attori che lottano per un profondo rinnovamento degli stili interpretativi attraverso l’essiccazione della retorica e della tipizzazione dei ruoli. Il verismo giacosiano può essere o meno conseguente nella globalità della sua produzione, ma viene senz’altro avvertito come puntuale e necessario per le tendenze, nella sostanza antiteatrali (in un senso quasi prestanislavskiano del termine), di un realismo attoriale, che, nelle atmosfere sobrie e nei sentimenti sfumati dei drammi dell’autore piemontese, trova un materiale raffinato, di assoluta suggestione e tutt’altro che chiuso a vaghe implicazioni simboliste, quantunque senza attingere le meno popolari soluzioni d’avanguardia dell’Ibsen coevo.

Lindberg porterà Tristi amori in tournée, nel 1893, a Stoccolma, al Vasa Teatern, dove Julia Håkansson si distinse per «una personalità caratterizzata da mezzi naturali, chiari e sicuri»; del resto, era un’attrice che eccelleva nei ruoli «più istintuali che di riflessione» e il personaggio di Emma aveva molto da offrirle. Tristi amori, ottenendo «ovazioni ogni sera», si trasformò nel «momento più alto» della tournée di Lindberg19, che, nell’ultimo anno dell’Associazione, avrebbe poi sostituito, «con nitore e autorità», lo stesso Hillberg finché la parte non passò ad Adolf Berlin, un bravo interprete che veniva dallo Svenska Teatern di Hälsingfors20 e, quindi, a Tore

16 Gli altri interpreti erano Tore Svennberg (Fabrizio), Oscar Eliason e Albin Lavén. 17 P. LINDBERG, August Lindberg cit., pp. 322-3. Allo Stora Teatern di Göteborg, Tristi amori

sarebbe rimasto in seguito in repertorio fra il 6 febbraio 1899 e il 27 aprile 1904 (Stora teatern i Göteborg 1893-1929, a cura di A. Fromell, Göteborg, A. Lindgren & S. B., 1929, p. 96).

18 P. LINDBERG, August Lindberg cit., pp. 344-5. 19 G. NORDENSVAN, Svensk teater cit., pp. 425, 433; P. LINDBERG, August Lindberg cit., pp. 344-5. 20 G. NORDENSVAN, Svensk teater cit., pp. 440, 460. Sulla «piacevole» sorpresa di questo nuovo

protagonista, nel gennaio del 1905, si esprimerà un critico esigente e sofisticato come Carl G. Laurin: «La grande scena del regolamento dei conti, Berlin la recitava con un crescendo e un’angoscia naturale di effetto avvincente. L’attore si muoveva con estrema disinvoltura e sembrava – almeno in questo ruolo – decisamente simpatico». Anche il conte Arcieri era «felicemente» passato dal «pregnante» Personne a quell’«ottimo interprete di caratteri» che era Nils Arehn, il quale «aveva evidentemente dedicato un onesto lavoro a quel disonesto figuro». Meno convincente l’interprete femminile: Augusta Lindberg «– l’infedele signora Scarli – era un po’ meglio del solito, sebbene più che adeguatamente piccolo-borghese», mentre Skånberg, come Fabrizio, «ruotava orribilmente gli occhi», risultando inefficace. Laurin osservava ancora: «Tristi amori dell’italiano Giacosa tratta senza moralismi e senza

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Svennberg, che, ancora nel febbraio del 1922, riprese il copione, con immutato successo e apprezzamento da parte della critica, spingendo con misura il personaggio sul versante del tragico21.

Certo, a quell’altezza temporale, si poteva percepire il dramma lontano dalle tendenze più informali e d’avanguardia alla moda, e tuttavia vi «si avvertiva come un alitare di vento caldo e greve, esalante dal profumo del dolce-amaro frutto proibito. Una rancorosa coscienza malata, serrata nel cuore, allorché bocca e mani colgono il frutto, che pende nel giardino del vicino, ma che un essere infedele ci offre, è questa la realtà che Giacosa è capace di esprimere e che rappresenta in un’ammirevole forma drammatica. Ogni atto è straordinariamente costruito con il suo contrasto di quotidiano e patetico e la sua tensione» [R.G.B, «Aftonbladet», 26 febbraio 1922].

Tore Svennberg e Signe Kolhoff al Mindre Teatern nella ripresa di Stulen lycka, a Stoccolma nel 1922.

Tant’è che, negli anni Venti, in Scandinavia, Giacosa sembra più moderno di

Ibsen. Sulla distanza, infatti, Tristi amori appariva, a detta di Bo Bergman, «forte, vero e concentrato, eccellentemente costruito e di fatto con più profonde radici nella vita vissuta di molta di quella drammaturgia che evidentemente ispirava l’autore. […] Non so se Ibsen l’abbia direttamente ispirato, ma si può sempre definire l’eroina di

frivola superficialità, il vecchio, alquanto usato e per la scena così particolarmente indicato, tema dell’adulterio. Che Giacosa non sia stato influenzato da Ibsen? Comunque sia, c’è una gravità nordica in questo dramma» (C.G. LAURIN, Ros och ris. Från Stockholms teatrar (1903-1913), Stockholm, Norstedts, 19182, p. 50). Su Augusta Lindberg (che era moglie di August Lindberg), Vera von Kræmer, su «Svenska Dagbladet» del 2 novembre 1904, aveva scritto che si trattava di un’attrice di temperamento serio, che, in Tristi amori, rivelava «un calore vitale intenso e forte», peraltro peculiare di tutti i suoi ruoli, quantunque non fosse aliena dai «grandi gesti, strumenti troppo puntualizzati, che esaurivano la forza immaginativa dello spettatore» (cfr. anche S. TORSSLOW, Dramatenaktörernas republik cit., p. 209).

21 «Nella grande scena del secondo atto, quando la casa sembra andare in frantumi, c’è misura nell’espressione dei sentimenti: «nessun gesto patetico, solo un’orribile insensibilità, come se la vitalità dei nervi si fosse scissa». In questa ripresa, anche Signe Kolthoff (Emma) ebbe «una serata felice», quantunque a tratti esibisse «una mimica troppo fortemente accentuata». Di maniera Henning nella parte di Fabrizio; superficiale il conte di Ivar Nilsson e alquanto macchiettistico il Ranetti di Josua Bengtsson [B B-n (B. Bergman), «Dagens Nyheter», 26 febbraio 1922].

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Tristi amori una Nora che rimane. Nora, nonostante tutto, è un’astrazione teorica. Emma ha più carne e sangue, è soprattutto madre. C’è in questo dramma familiare, che sacrifica il cuore al dovere, l’erotismo alla prole, un amaro senso della realtà, una logica severa, un distanziamento dal manierato teatro delle passioni quanto da quello dei problemi. Così può accadere, si dice in Casa di bambola. Così accade, si dice in Tristi amori. L’amore non sostiene qualsiasi atmosfera. E la bambola di una bimba può annientare l’estrema energia» [«Dagens Nyheter», 26 febbraio 1922]22.

4. Nel 1892, l’editore di Ibsen a Copenaghen, Gyldendal, aveva stampato, nella

versione, un po’ esplicativa, del letterato Sophus Bauditz, Tristi amori, sempre come Stjaalen Lykke. Nel volume si precisava che questo titolo era tratto dall’edizione svedese, da cui evidentemente quella danese dipendeva e che i diritti erano detenuti dalla Journalistforening che, di fatto, ne patrocinò la prima rappresentazione, ospite di Folketeatret, il 30 aprile 1892. Il testo di Giacosa, nella lunga serata teatrale dell’epoca, fu abbinato a una commedia di Labiche, Judith ovvero L’Amour de l’art23.

In Danimarca, il dramma fu rappresentato di fronte alla famiglia reale, ma accolto più freddamente che in Svezia. L’inizio straziante sembrò sciupato dalle chiacchiere di Ranetti e l’opera nell’insieme fu giudicata monotona, forse anche a causa della recitazione che pure era affidata a noti attori. Fino all’ultimo atto, Emma interpretata dalla Hennings apparve infatti uniforme nel suo tormento; August Liebman rese Fabrizio con intelligenza, ma ne fece un tipo troppo malandrino; solo l’equilibrato Scarli di Christian Zangenberg tenne alto l’interesse, mentre il Conte di Dorph-Petersen era giusto una «buona maschera» [A.A., «Politiken», I maggio 1892].

Tristi amori passò quindi, nel 1893, sulle scene di un altro teatro privato minore, il Kasino, il 26-27-28 marzo e ancora il 16-17-21 aprile, associato alla farsa in tre atti, Les Surprises du divorce di Alexandre Bisson e Antony Mars. Sei rappresentazioni su una scena che teneva in media una commediola o una farsa (i generi privilegiati dal suo repertorio) dalle 3 alle 12 repliche non significano affatto un insuccesso. Anzi, si notò sulla stampa che il «dramma coniugale italiano sul modello scandinavo» ebbe un «curioso destino» a Copenaghen: nonostante avesse riscosso consensi in tutta Europa e fosse rappresentato in Danimarca da ottimi interpreti, non aveva suscitato particolare attenzione, ma recitato da «attori abituati alle farse e alle operette era riuscito a imporsi». «Eccellente» fu infatti giudicata la resa della scena della rivelazione dell’adulterio da parte di Hans Riber Hunderup (Scarli), Dagmar Orlamundt (Emma) e Vilhelm Wiehe (Fabrizio), che riuscirono a realizzare un’«energica recitazione d’assieme»; nei ruoli secondari, si segnalarono Peter Fjelstrup e Odgeir Stephensen, il quale curiosamente conferì al conte la «maschera del re galantuomo» [O.R., «Politiken», 27 marzo 1893]. Anche la messinscena sembrò «straordinariamente rispettabile» e l’interpretazione di Wiehe in particolare caratterizzata da una «certa intimità che rendeva un effetto delicato» [«Dagens Nyheder», 28 marzo 1893]24.

22 In controtendenza, Rbs, su «Nya Dagligt Allehanda», il 26 febbraio, riteneva Tristi amori «un

lavoro drammatico consumato e senza interesse». La messinscena aveva comunque i suoi pregi, che compensavano la pochezza dell’opera.

23 M. AHREND LARSEN, Folketeatrets Repertoire 1857-1988, København, Mellemspil, 1988, p. 75. 24 Noteremo che Hans Riber Hunderup, all’epoca direttore artistico del Kasino (teatro peraltro

sull’orlo del fallimento), che curò personalmente la messinscena giacosiana, era stato nel 1887 il protagonista del debutto danese del Padre di Strindberg. Dobbiamo varie notizie sulla fortuna di Giacosa in Danimarca alla cortesia di Ole Bøgh.

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5. È sempre nella versione di Bauditz che Tristi amori arriva quindi in Norvegia, fedelmente tradotto Sorgfuld Elskov25, sulla principale scena della capitale, il Kristiania Theater, fra il 4 novembre 1892 e il 7 settembre 1893. La messinscena fu curata dal figlio di Bjørnstjerne Bjørnson, Bjørn, un artista che si era formato con i Meininger, ma che era al corrente delle tendenze del teatro italiano. Bjørn Bjørnson interpretò anche l’avvocato Scarli e, secondo il prestigioso critico Henrik Jæger, realizzò in questo ruolo quanto di meglio avesse fatto fino a quel momento, per forma, calore e interiorità, al Kristiania Theater [«Dagbladet», 9 dicembre 1892].

Come nel caso svedese, anche qui Giacosa sembra diventare uno strumento di rinnovamento delle convenzioni teatrali. Il critico di «Dagbladet», Hans Wiers-Jenssen (H. W.–J.), in un articolo particolarmente approfondito del 5 novembre 1892, partendo dalla considerazione che individuare il tono giusto per «recitare una tragedia in una sala da pranzo» poteva essere talora difficile, paragona il drammaturgo italiano a Turgenev26. Gli interpreti di fatto indulgevano a una certa «esteriorità», rendendo, per esempio, «graziosa» la prima scena del dramma, che avrebbe dovuto se mai essere tormentosa, ma, «nonostante le sue pecche, la rappresentazione aveva un onorevole livello», quantomeno sul fronte dei singoli interpreti. Anche qui si confermava che lo Scarli di Bjørn Bjørnson si elevava al di sopra dei comuni ruoli di bravura e sapeva rendere commovente il finale del secondo atto: «C’era una corrente sotterranea di sofferenza in ogni battuta e una forza davvero impressionante nel suo sfogo». Johanne Dybwad si era impegnata molto, sebbene la sua personalità s’attagliasse poco al personaggio di Emma e, per rendere la sua «fragilità», facesse talora ricorso ai «grandi mezzi, dove sarebbe stato il caso di usarne di ridotti». In qualche scena – quando, per esempio, apparecchia in silenzio la tavola dopo l’uscita di Fabrizio (il poco convincente Nicolai Halvorsen), per buttarsi singhiozzante sul sofà – dava tuttavia il meglio di sé. Quanto ai ruoli secondari, il conte di Fredrik Garmann appariva un discreto «numero di bravura» e almeno «gaia» era giudicata l’interpretazione di Krohn dell’avvocato Ranetti. Anche solo leggendo quest’articolo, si ha l’impressione che la linea teatrale giacosiana tendesse a spiazzare in fondo le caratterizzazioni consuete alle quali si conformavano gli attori norvegesi del tempo, pur formatisi alla grande scuola realistica nazionale o tedesca, costringendoli a confrontarsi con stili pressoché inediti, decisamente antiretorici.

Nella cornice di questo fervore realistico, «Aftenposten» criticò l’istruttore perché l’allestimento non sembrava adeguatamente italiano. Bjørn Bjørnson replicò con puntiglio: «Allorché il recensore, nella sua inconcepibile arroganza, sottolinea che la messinscena non presenta nulla di particolarmente italiano, senza la cameriera in costume, al pubblico potrà sembrare che abbia qualche ragione di biasimo. Io però ho soggiornato dieci anni in Italia e ho verificato che al Nord – in particolare verso il confine francese – non c’è nulla di caratteristico, a differenza che al Sud. Si arredano le case cioè esattamente come in Francia. Al contrario, ho spesso visto cameriere – in particolare le balie – nel costume regionale locale, che caratterizza la vita popolare di Roma e di Napoli, sia dentro casa che fuori. L’autore è torinese e io ho ambientato la vicenda in quella parte del paese. Il nuovo recensore potrebbe sforzarsi di capire che

25 Negli archivi del Kristiania Theater, presso la Biblioteca Nazionale di Oslo, si conserva il

sufflørbog (il copione del suggeritore) che è appunto ricavato da una copia dell’edizione a stampa danese. Non è tuttavia facile determinare se tale copione sia stato usato nel 1892 o per un successivo allestimento nel 1899 a Bergen, dove Tristi amori fu rappresentato prima con il titolo di Stjaalen Lykke, ma, ripreso il 30 settembre 1906, presso Den Nationale Scene, con quello di Sorgfuld Elskov. Notizie sulla fortuna norvegese di Giacosa ci sono state gentilmente comunicate da Trine Næss.

26 L’autore russo, nel 1890, era stato rappresentato a Kristiania con Nathalia (cfr. T. NÆSS, Christiania Theater forteller sin historie 1877-1899, Oslo, Novus forlag, 2005).

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ha a che fare con gente matura, che non prende cantonate del genere, o lascia governare il caso, quando è in gioco l’arte» [«Aftenposten», 11 novembre 1892]27.

Al di là di tutte le polemiche, il successo di pubblico fu indiscutibile e confermato da ben 18 rappresentazioni28. Ma come fu accolto dalla critica Giacosa in casa di Ibsen?

La stampa parla di Tristi amori come di «un’opera di grande effetto» [«Morgenposten», 6 novembre 1892] e sostiene che, nonostante il titolo richiami qualcosa di cupo e sanguigno, si tratta di «un dramma intimo giocato fra tre personaggi […] quasi senza intreccio, in una cornice angusta e con un apparato semplice, ma di una straordinaria intensità e profondamente avvincente» [«Morgenbladet», 5 novembre 1892]. «Verdens Gang» (5 novembre 1892) non trova invece Tristi amori «particolarmente significativo e originale», ma concede che è «interessante e solidamente costruito con un riconoscibile influsso da parte della letteratura scandinava sia per la tecnica sia per la concezione». Il tema del taglio nordico del dramma, appena sfiorato in Svezia, appare un po’ più accentuato a Kristiania: Tristi amori sembra qualcosa di «radicalmente differente» da quello che si conosce dello stile romanzo-latino, tanto che potrebbe ambientarsi indifferentemente in Italia o in Norvegia per il suo «tono di fondo austero e serio» e la sua morale pressoché nordica: «Nella nazione dell’autore non si concepisce certo l’amore colpevole come quell’infedeltà assoluta che il dramma stigmatizza». «Dagbladet» (5 novembre 1892) si spinge ancora a osservare che Giacosa «non è andato alla solita scuola degli italiani moderni ovvero quella francese, ma sembra al contrario aver imparato la tecnica drammatica da Ibsen. Per questo motivo il suo dramma è diventato una pacata potente tragedia. La bravura di Giacosa sta infatti nel «dipingere con piccoli tratti, dove gli antichi usavano grandi linee».

Insomma, si abbozzava una specie di generico, orgoglioso e comprensibile tentativo di cooptazione del dramma alla corrente nazionale che si stava imponendo a livello europeo, proiettando in fondo sullo stesso Giacosa una luce indirettamente assai positiva, che appare ancor più vivida se consideriamo che la scrittura di Tristi amori – come s’è ricordato – precede in ogni caso il trionfo di Ibsen sul continente.

6. Il 10 ottobre del 1894, il Teatro Reale di Stoccolma tornò a Giacosa, con un atto

unico che si stava affermando in Germania, Diritti dell’anima (abbozzato nel 1889 e terminato nel 1894). Själens rättigheter, tradotto sempre da Helmer Key e allestito a cura di Emil Hjernested fu presentato in abbinamento alla commediola in tre atti Trogen som guld di Emma Gad e – a differenza di quest’ultima, giudicata piuttosto «inconsistente e insignificante») [«Aftonbladet», 11 ottobre 1894] – ebbe al solito ottima accoglienza, con 14 rappresentazioni fino al 6 settembre 189529.

Il debutto corse parallelo alla tournée nordica del Théâtre de l’Œuvre di Aurélien Lugné-Poe allo Sveateatern (9-11 ottobre), che presentava Pélléas et Mélisande e L’Intruse di Maeterlinck, ma pure Creditori di Strindberg. In una lettera del 18 ottobre, il drammaturgo svedese doveva lamentarsi con un amico che Lugné-Poe era stato considerato un attore «di terza classe» e che non aveva riscosso grande successo

27 Cfr. B. ERBE, Bjørn Bjørnsons vej mod realismens teater, Bergen-Oslo-Tromsø,

Universitetsforlaget, 1976, p. 292. 28 Secondo il Theatre-Journal del Kristiania Theater, il pubblico, la sera del debutto, era interessato

e plaudente, ma la replica successiva, con la sala quasi tutta venduta, fu meno fortunata, perché, dopo il primo atto, fu bloccata a causa di un malore di Bjørn Bjørnson (cfr. anche «Aftenposten», 7 novembre 1892). Nonostante il successo, Tristi amori fu ripreso al Centralteatret di Oslo solo l’8 marzo 1923 e nessun altro testo di Giacosa sembra sia mai stato rappresentato in Norvegia.

29 Il 16 ottobre, la stampa riporta che, per un’indisposizione degli attori, Diritti dell’anima viene dato insieme a Vi skiljas di Sardou.

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anche a causa di una concomitante prima al Teatro Reale che aveva fatto ombra, appunto quella di Diritti dell’anima30.

La critica svedese fu senz’altro molto positiva con Giacosa. Il drammaturgo italiano è mirabilmente riuscito «a contenere un dramma in un atto unico e a non farne solo un episodio» [P.S. (Pehr Staaff), «Dagens Nyheter», 15 ottobre 1894]; l’opera è «un malinconico, ma fine e avvincente quadro d’atmosfera», nel quale l’autore ha sostanzialmente sviluppato l’idea che un marito non può disporre dell’anima della moglie [– x – n, «Nya Dagligt Allehanda», 11 ottobre 1894]; «Dentro questa cornice stretta il bravo drammaturgo ha trovato posto per un conflitto che insieme scuote e appassiona, di autentica finezza poetica e psicologica». Intelligente l’interpretazione di Lina Sandell, «senza traccia di trucchi da primadonna»; bravi anche Bror Olsson, al debutto al Teatro Reale, e Hedlund in un ruolo di contorno [G–g N, «Aftonbladet», 23 ottobre 1894].

Come si vede, l’incidentale definizione crociana di «piccolo dramma ibseniano» per Diritti dell’anima31, che, a questa altezza temporale, poteva pure avere qualche senso, qui non trova riscontri di rilievo.

7. Come le foglie, rappresentato a Milano il 31 gennaio del 1900, arrivò pochi mesi

dopo a Berlino e a Copenaghen, al Kasino, il I novembre, con il titolo di Familien Rosani32, nella traduzione di Jens Bayer e Lauritz Swendsen, che ne curò pure l’istruzione scenica. Questa volta i danesi avevano battuto sul tempo gli svedesi, ma il testo si tenne fino al 7 novembre per 6 rappresentazioni e – come al solito in questa nazione – si ha l’impressione che Giacosa fosse recepito un po’ in tono minore. Il Kasino aveva all’epoca buoni attori33, ma non era probabilmente la scena più adeguata per dare sostanza alla malinconica musa giacosiana, sicché toccò ancora al Teatro Reale di Stoccolma, tre anni dopo, realizzare un allestimento di prestigio di Come le foglie.

Som blad för stormen, tradotto da Erik Thyselius, con l’allestimento di un istruttore assai preparato come Emil Grandinson, debuttò infatti il 22 aprile 1903, abbinato al monologo-atto unico in versi di José Echegaray, En bröllopsnatt, alla presenza del principe ereditario e della corte svedese. Il dramma fu rappresentato 16 volte fino al 7 settembre 1903 e considerato uno degli eventi drammatici di maggior peso del secolo che cominciava34.

Del resto, Giacosa era ormai un autore affermato in Svezia e la considerazione prevalente sulla stampa è quella di uno fra i più significativi drammaturghi europei. In generale, si è convinti che Come le foglie non sia propriamente una commedia, bensì un dramma serio e, «nel suo fatalismo, una storia comunque morale» [Renè (Anna Branting), «Stockholms-Tidningen», 23 aprile 1903]; un copione senz’altro italiano d’ambientazione, ma di carattere universale, la cui vicenda, pur con qualche lungaggine («Il tema sarebbe stato più adatto per un romanzo»), si dipana in progressione per sfociare in un finale «d’inconsueta bellezza poetica» [A., «Aftonbladet», 23 aprile 1903], con il suo affascinante chiaro di luna.

La compagnia era di livello e, come al solito in Svezia, per Giacosa si mobilitarono i migliori attori. Nella parte di Nennelle, troviamo la terza moglie di Strindberg, «l’attrice del nuovo secolo», Harriet Bosse, che interpretò il ruolo in

30 F. PERRELLI, Una lettera di Giacosa cit., p. 338. 31 B. CROCE, La letteratura cit., p. 225. 32 Il sufflørbog presenta però il più fedele titolo alternativo di Som Bladene for Vinden. 33 Adolf Jensen, Jonna Neiiendam, Egill Rostrup, Holger Reenberg, Elisabeth Rosenberg, Thora

Schmidt, Petrine Møller, Ellen Jacobsen, Axel Strøm, Harald Kolbe, Christian Schrøder, Fritz Boesen, Mathilde Fjelstrup, Alvina Køster, Johs. Mortensen, Hans Olsen e Christensen.

34 G. NORDENSVAN, Svensk teater cit., p. 453.

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termini «indistinguibili dalla natura» [–nn–, «Dagens Nyheter», 23 aprile 1903]35 ovvero con il suo caratteristico stile smorzato e con «l’irremovibile tranquillità e la malinconica rassegnazione» che caratterizza il personaggio. Skånberg era «un virile e simpatico Massimo»; Valborg Hansson con Albion Örtengren dei buoni interpreti dei coniugi Rosani, mentre Nils Arehn funzionava meno come Tommy e Wagner, l’artista seduttore, non sembrava né un artista né un seduttore [«Nya Dagligt Allehanda», 23 aprile 1903].

La scena finale del quarto atto di Som blad för stormen, con la coppia Bosse-Örtegren, in una vignetta su «Stockholms Tidning» del 23 aprile 1903.

Forse lo scandaglio che, in Come le foglie, Giacosa fa della vita quotidiana è

troppo minuzioso, ma, al solito, l’intreccio è attraente e nitido, anche se non si giustifica l’esitazione di Nennele a concedersi a Massimo [«Nya Dagligt Allehanda», 23 aprile 1903]. Si tratta, comunque, di un’opera «fortemente costruita su un’idea semplice» con «personaggi sorprendentemente caratterizzati e un dialogo al di sopra di ogni elogio», anzi «uno dei dialoghi più naturali» che si siano mai uditi sulle scene nordiche [–nn–, «Dagens Nyheter», 23 aprile 1903]. Il dramma di Echegaray era senza interesse36, al contrario di quello di Giacosa: «Lavoro ben scritto e di qualità, con una fine e mirata psicologia, con una corrente forte e controllata di sentimento, una straordinaria descrizione del milieu e un dialogo naturale; una notevole prova di moderno realismo drammatico su uno sfondo italiano […]. Costruito in maniera chiara e naturale, forse un po’ dilatato, ma libero da ogni convenzionale riempimento, il dramma interessa dal suo caratteristico inizio sino al finale bello e intenso, e appartiene senza dubbio al miglior repertorio presentato quest’anno dal Teatro Reale» [T.H., «Svenska Dagbladet», 23 aprile 1903].

8. È verissimo che J.B. Halvorsen, nel 1899, indicherà Diritti dell’anima come

«una specie di continuazione, imitazione o variazione» di Casa di bambola, addirittura a p. XV della prefazione al sesto volume dell’edizione ibseniana dei

35 Vedi anche C. WAAL, Harriet Bosse. “Det nya seklets skådespelerska”, Stockholm, Natur och

Kultur, 1993, pp. 58, 223. 36 Si noti che José Echegaray era già candidato al premio Nobel, che avrebbe ottenuto nel 1904

insieme a Frédéric Mistral.

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Samlede Værker, e che un critico del calibro di Karl Warburg, nella voce dedicata a Giacosa su Nordisk familjebok (1908), gli attribuirà «fine psicologia e schietta naturalezza, pur senza forti effetti», nonché radicali intenzioni innovative, ma anche, con Tristi amori, un’adesione alla «scuola ibseniana», tuttavia, se il quadro che abbiamo delineato ha qualche validità o completezza, non si può affermare che, in Scandinavia, il teatro di Giacosa abbia suscitato accuse o sospetti di plagio.

La critica nordica più attenta si limita di norma a considerare un’obiettiva transizione di Giacosa dagli stili drammaturgici francesi ad altri più evoluti e attuali e, per questo, genericamente definiti come nordici, per poi riconoscere all’italiano un’autonoma cifra stilistica, una sorta di poetico understatement scenico, che pone, tra l’altro, agli attori – e questo andrebbe, se mai, sottolineato – nuovi e complessi problemi d’interpretazione, in una chiave di dissoluzione delle più consolidate caratterizzazioni e degli stili retorici persistenti all’epoca.

Leggendo Tristi amori, possono affiorare echi casuali di Casa di bambola o Spettri (si pensi solo alla firma falsificata dal conte, che sembra pure un redivivo ciambellano Alving), ma si tratta, con ogni probabilità, di quegli ingredienti della scuola francese che Bjørnson, in primo luogo, e lo stesso Ibsen dovettero progressivamente (e più o meno parallelamente a Giacosa) raffinare per attingere la maturazione di quel teatro diverso che avrebbe fatto esclamare, nei primi anni Novanta dell’Ottocento, che «dal Nord veniva la luce»37. Il dramma nordico infatti non nasce dal nulla, bensì da una lenta macerazione dei modelli francesi: dal superamento di Scribe, attraverso Sandeau, Mallefille e, oltre, Barrière, Sardou e soprattutto Musset, cruciale icona di un teatro intimo38; dal confronto con Dumas fils e Augier (evocati da Georg Brandes, nel 1871, come autori d’avanguardia, impegnati e da imitare)39.

Dopo tutto, a Copenaghen, c’era stato anche chi aveva parlato di Tristi amori come di «un dramma coniugale sul modello francese, con una straordinaria scena centrale d’effetto» [«Socialdemokraten», 28 marzo 1893], mentre, quando Giovanni Pozza recensisce, nel febbraio del 1894, la rappresentazione italiana di Un fallimento di Bjørnson (quasi contemporanea a quella di Diritti dell’anima), non può esimersi, pur dandone un giudizio positivo, dal rintracciare, nel testo, «il convenzionalismo romantico del teatro francese di trent’anni or sono»40. I nordici e Giacosa, insomma, furono impegnati in un analogo, autonomo e difficile percorso di emancipazione o di evoluzione rispetto agli imperanti modelli francesi.

È evidente che, da Diritti dell’anima in poi, la consapevolezza dell’esistenza di quella che, a Parigi, era ormai riconosciuta come «l’Ecole “Nordiste”»41 diventa per il drammaturgo piemontese un naturale elemento di confronto. A questo punto,

37 La frase, «Das Licht kommt jetzt aus Norden!», rilanciata nel 1893 dalla stampa tedesca e

divenuta proverbiale in tutta Europa, è di Hermann Sudermann (vedi S. AHLSTRÖM, Strindbergs erövring av Paris, Stockholm, Almqvist & Wiksell, 1956, p. 159 e passim).

38 Di derivazione mussettiana è, per esempio, un’opera fondamentale come Sposi novelli di Bjørnson del 1865, tradotto in Francia nel 1884 e prima ancora in Italia nel 1881 (cfr. C. WIBORG BONAFEDE, La Norvegia in Italia, Oslo, Biblioteca Universitaria, 1981, p. 166). Per il resto, ricorderemo incidentalmente – anche per puntualizzare le eventuali relazioni fra il drammaturgo norvegese e Giacosa – che, sulla scia di Ibsen, Bjørnson sarà rappresentato e riscuoterà interesse in Italia con Un fallimento e Il guanto, dal dicembre 1893 e, con particolare intensità, nel 1894-5 (anni in cui Sposi novelli e Leonarda si aggiunsero ai repertori teatrali) e a seguire, ma con un progressivo declino.

39 Cfr. F. PERRELLI, La grande stagione del teatro scandinavo, in AA. VV. Storia del teatro moderno e contemporaneo, a cura di R. Alonge e G. Davico Bonino, Torino, Einaudi, 2000, II, pp. 785-6, 798.

40 G. POZZA, Cronache teatrali cit., p. 197. Di «tinta di romanticismo francese, scuola Ohnet, che anima il lavoro» parla più puntigliosamente Guglielmo Ferrari su «La Stampa» del 6-7 gennaio 1895.

41 Cfr. S. AHLSTRÖM, Strindbergs erövring cit., pp. 211 ss., 323.

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Giacosa – e si pensi solo, in Come le foglie, a quello strano pittore norvegese (di nome Helmer!), la cui arte sembrerebbe ricordare l’ultimo stile di Ibsen42 – pare quasi lasciare nei suoi copioni, con sornione ammiccamento, vere e proprie tracce di citazioni nordiche, che non inficiano però nella sostanza la sua indipendente e ben matura ricerca di una sobria scrittura drammaturgica, realizzata con finissimi tocchi impressionistici.

Una volta tanto, ci sarebbe proprio da prestar fede a un autore che interpreta se stesso, allo stesso Giacosa quindi, il quale – riproponendo la prima ricezione italiana di un Ibsen più filosofo che artista – aveva detto a Roberto Bracco: «Che Ibsen abbia lasciato in me una impressione profondissima ed abbia in parte modificato il mio concetto dell’opera scenica, è vero; ma non è men vero che né vorrei, né saprei piegare il mio ingegno latino alle forme nordiche, né ragionare in luogo di rappresentare»43. In questa dichiarazione, pare esserci davvero la misura dell’originalità di Giacosa, e anche qualche suo limite latino, come l’aver continuato a ricamare sul tema dell’adulterio, quando Ibsen si muoveva su ben altri orizzonti, ma senz’altro – per concludere – tutta la sua personalità d’interprete europeo di un teatro nuovo, posizionato sui confini di un realismo avanzato e mai banale.

42 Giulia riassume così la poetica del pittore norvegese: «Dice che la pittura è la penetrazione

dell’occulto, che non si rivolge ai sensi ma alle anime. Infatti egli trasfigura. I suoi paesaggi volano. Tutte le cose hanno le ali» (Atto II, sc. 7; G. GIACOSA, Teatro, a cura di P. Nardi, Milano, Mondadori, 19682, II, p. 538).

43 Cit. in P. NARDI, Vita e tempo cit., p. 728. In generale, un franco riconoscimento da parte di Giacosa dell’importanza del teatro nordico è pure confermato in un articolo su «Verdens Gang» del 23 maggio 1892, firmato da Anne Charlotte Leffler, che ci offre un cenno sulla considerazione di cui la drammaturgia scandinava godeva nel nostro paese alla fine del XIX secolo: «Non è inconsueto oggi in Italia ritrovare nelle critiche, nei saggi letterari, nelle conferenze, le letterature nordiche come quelle dalle quali i giovani hanno assai più da imparare che dalla letteratura francese che, fin qui, è stata il modello e l’esempio per i drammaturghi italiani. Giuseppe Giacosa ha di recente sottolineato ciò in una conferenza sulla drammaturgia moderna e, nelle critiche su [il mio dramma] Come si fa il bene, recentemente pubblicato in traduzione italiana, ritornano parecchie volte espressioni come questa: “Basta leggere questo dramma per capire quanta miseria domini nella nostra letteratura contemporanea”. Ciò che è soprattutto considerato eccellente nella letteratura nordica è la sua grandissima ricchezza d’idee, il suo trattamento dei più profondi problemi psicologici rispetto a quella italiana».

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