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ALL’INIZIO ANDAVA TUTTO BENE STORIE DI MADRI, DI MOGLI, DI FIGLIE. STORIE DI DONNE USCITE DALLA VIOLENZA.

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ALL’INIZIO ANDAVA TUTTO BENE

STORIE DI MADRI, DI MOGLI, DI FIGLIE. STORIE DI DONNE USCITE DALLA VIOLENZA.

ALL’INIZIO ANDAVA TUTTO BENESTORIE DI MADRI,

DI MOGLI, DI FIGLIE. STORIE DI DONNE

USCITE DALLA VIOLENZA.

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Osservatorio sulla violenza di genere

ALL’INIZIO ANDAVA TUTTO BENE

STORIE DI MADRI, DI MOGLI, DI FIGLIE. STORIE DI DONNE USCITE DALLA VIOLENZA.

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© Provincia autonoma di TrentoAssessorato all’università e ricerca, politiche giovanili, pari opportunità, cooperazione allo sviluppoAssessorato alla salute e e politiche socialiAgenzia provinciale per la famiglia, la natalità e le politiche giovanili

Ufficio StampaResponsabile: Giampaolo Pedrotti, capo ufficio stampaRaccolta interviste: Arianna TamburiniRedazione dei testi: Arianna Tamburini e Gianna Zortea

Progettazione e coordinamentoUfficio per le politiche di pari opportunità e conciliazione vita-lavoro: responsabile Lucia Trettel, Sabrina Zanoni

GraficaGiorgia Codato

FotoNel frontespizio: Ecuba piange nel ratto di Polissena - statue in Loggia de Lanzi, Italy / foto di Gabriele Maltinti / shutterstock.com

StampaCentro duplicazione - Provincia autonoma di Trento

Uno speciale ringraziamento per la supervisione dei testi a Mauro Neri

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Sommario

Note al testo ............................................. 04

Prefazioni .................................................... 05

LE STORIE

Alcesti ............................................................ 06

Andromaca ................................................. 08

Deianira ........ . ............................................... 10

Ecuba .............................................................. 12

Gorgofone ................................................... 14

Atalanta ......................................................... 16

Amimone ...................................................... 18

Polissena ...................................................... 20

Ifigenia .......................................................... 22

Asteria ............................................................ 24

Creusa ........................................................... 26

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Note al testo

“ALL’INIZIO ANDAVA TUTTO BENE”, è la frase che gli addetti ai lavori sentono più di frequente nel raccogliere le testimonianze di donne maltrattate. Ed è forse la fra-se che più restituisce lo smarrimento che queste donne provano nel subire violenza all’interno di una relazione affettiva ed intima, all’interno della propria vita di coppia, all’interno di una famiglia creata insieme. È difficile spezzare un legame in cui si è creduto, ancor più perché gli uomini che maltrattano tendono ad isolare, svalorizzare e umiliare le donne che, spesso, si convincono di essere inadeguate e colpevoli.Qui troverete 11 brevi storie di donne che sono uscite dalla cosiddetta “spirale della violenza” e hanno saputo ricostruirsi una vita, grazie anche al supporto della rete dei servizi antiviolenza del Trentino. 11 donne, madri, mogli, compagne e figlie, alcune straniere, altre italiane, altre ancora (e non sono poche) trentine. Per loro sono stati scelti altrettanti nomi di “donne notevoli” della mitologia greca. Sono storie esemplari ma non stereotipate: sebbene prive di dettagli privati, esse sono ricche di forza e di coraggio e racchiudono in sé tante altre storie, nelle quali ciascuna donna maltrattata si potrà riconoscere e, si spera, trovare la forza di dire basta.I “lui” invece non hanno nome. Le ragioni sono molteplici. Ma la prima, la più impor-tante, è che al centro di questo racconto ci sono le donne. Quei “lui” hanno trovato fin troppo spazio, hanno portato via fin troppa vita.

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Prefazioni

Alcesti, Polissena, Deianira... sono alcune figure femminili del ricco pantheon greco, ma soprattutto sono alcuni dei nomi scelti per dare un’identità provvisoria a queste donne uscite da percorsi di violenza. Violenza subita da quei mariti, fidanzati, compa-gni, padri che avrebbero dovuto affiancarle e sostenerle nel percorso di vita, ma che invece si sono rivelati tutt’altro. 11 storie di violenza per 11 straordinarie figure femminili che, grazie anche alla rete dei servizi presenti in Trentino, sono riuscite a ricostruirsi un futuro. La violenza pur-troppo produce un trauma profondo che colpisce tutti gli aspetti della vita di una persona. Ed è solo attraverso una coraggiosa azione sinergica, pubblica e del privato sociale, che possiamo aiutare le donne maltrattate a uscire dall’isolamento e dalla solitudine e a ricominciare. Alcesti, Polissena, Deianira e le altre donne qui raccontate ce l’hanno fatta, speriamo che il loro esempio aiuti altre 10, 100, 1.000 donne. Hanno trovato la forza di dire ba-sta. Di dire no. Ma soprattutto di chiedere aiuto. C’è il racconto del prima, del durante, del dopo. C’è il racconto di quel momento in cui hanno deciso di dire basta. Quel coraggio che speriamo possa essere esempio per tutte, per segnare una svolta, per chiudere una porta, per ricominciare a vivere.

Sara FerrariAssessora all’università e ricerca, politiche giovanili, pari opportunità, cooperazione allo sviluppo

Prendersi cura, sono queste le parole che vorrei mettere in rilievo riferendomi alla rete dei soggetti che quotidianamente si trovano ad affrontare situazione di violenza di genere. La sinergia fra enti diversi è sicuramente il modo più efficace e tempestivo per dare risposta alle donne vittime. Nessun intervento singolo permette infatti di eli-minare la violenza di genere, ma solo un insieme di azioni, solo un percorso integrato fra i diversi attori ci possono consentire di affrontare in modo significativo ed efficace questo tipo di violenza e le sue conseguenze.È questa l’ottica con la quale è stata voluta la legge provinciale 6 del 2010 “Interventi per la prevenzione della violenza di genere e per la tutela delle donne che ne sono vittime” che, appunto, promuove la rete di collaborazione e coordinamento tra tutti gli enti e i soggetti che intervengono nei casi di violenza contro le donne. Una rete che vede oggi coinvolti attivamente operatori sociali, sanitari, del privato sociale e delle forze dell’ordine.E se da un punto di vista sociale i servizi degli enti territoriali lavorano in stretta con-nessione con i servizi antiviolenza, sia residenziali, sia di consulenza e orientamen-to gestiti dagli enti del privato sociale nell’ambito del coordinamento del Servizio politiche sociali della Provincia, dal punto di vista sanitario, gli operatori, i medici e gli infermieri agiscono invece principalmente nelle situazioni acute o di emergenza, purtroppo per le conseguenze dirette di atti di maltrattamento o violenza. Operatori, infermieri, ostetriche, ginecologi, psicologi e assistenti sociali operano anche a livello preventivo attuando, all’interno dei consultori, interventi di tipo clinico al singolo, alla coppia ed educativo di gruppo agli adolescenti. È questa la rete di soggetti che ha sostenuto, aiutato, assistito le figure femminili protagoniste di questi racconti. Loro ce l’hanno fatta, speriamo che possano essere di esempio per tante altre.

Luca ZeniAssessore alla salute e politiche sociali

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Alcesti

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Era l’amore di una vita. Il primo. Quello conosciuto tra i banchi di scuola. Quello con cui potevi condividere tutto: lo studio, gli amici, la famiglia, i sogni. Alcesti con quel ragazzo irresistibile, trentino come lei, aveva cominciato da subito a costruire una vita insieme. Dopo il diploma aveva proseguito gli studi e lui l’aveva sostenuta fino alla laurea. Poi la convivenza e infine il fatidico sì. Alcesti si sentiva fortunata. ALL’INIZIO ANDAVA TUTTO BENE. Ma poi con il tempo qualcosa si era rotto. Non andava più bene che lei lavorasse, anche se i soldi non bastavano mai. Le uscite con le amiche erano vietate, perfino il semplice andare a fare la spesa diventava fonte di litigio. La gelosia aveva invaso ogni spazio di vita e Alcesti l’aveva lasciata entrare in lei, tanto da farla diventare la normalità. Lentamente, alla gelosia era subentrata la violenza. Uno schiaffo era stato il primo se-gnale. Le scuse, il perdono. Ma poi uno spintone, e un altro, e un altro ancora; e gli insulti gratuiti, che rappresentavano ormai la prassi, la consuetudine. E quella passione fortissima, alla quale non poteva opporre rifiuto: Alcesti diceva sempre di sì, pur di man-tenere un equilibrio precario, pur di sentirsi amata, desiderata.L’arrivo del primo figlio aveva peggiorato ancora di più le cose. Alcesti non era più solo una cattiva moglie, ora era inadatta a fare la mamma. Perennemente sotto accusa, sotto pressione. Quello che faceva non era mai abbastanza, non era mai giusto. A volte si svegliava nel cuore della notte e si chiedeva chi fosse l’uomo che dormiva accanto a lei. Una seconda gravidanza aveva portato solo una tregua temporanea; mentre stava allattando erano ricominciate le violenze, le accuse. E lei si sentiva sempre più inade-guata.Oggi Alcesti è riuscita a dire basta. Ci ha pensato la sorella a darle una mano. Quella prima volta al Centro antiviolenza se la ricorda bene. Ha segnato la sua vita, quella dei suoi bambini, dei familiari. Ha raccontato la sua storia e nel farlo ha capito che non era tutto “normale”. Ha capito che l’amore non ha nulla a che vedere con la paura, la violenza, i silenzi. Ha anche compreso che non è sola. C’è voluto del tempo ma ora si sta separando. I figli hanno capito: il papà lo vedranno ogni tanto. Non si guarda più indietro e se le capita di ripensare a quel “prima” lo fa per prendere coraggio e guardare al futuro con maggiore fiducia.

ALCESTI, sposata con Admeto, re di Fere, si sacrifica per l’amato marito e viene salvata da Eracle (Ercole)

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Andromaca

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La violenza era arrivata un po’ alla volta e lentamente aveva invaso ogni spazio. Era ini-ziata con uno schiaffo, seguito dal “mi dispiace”. Andromaca era rimasta basita, ma poi lo aveva giustificato: sicuramente aveva avuto una giornata difficile, sul lavoro, magari aveva litigato con qualcuno. Ma dopo alcuni mesi era successo di nuovo. Questa volta era stato uno spintone che l’aveva fatta sbattere, forte, sul mobile della cucina. Negli occhi di lui in un attimo lo sguardo era passato dall’odio al “cosa ho fatto?”, “Non lo farò più, te lo prometto”. Quella volta il livido sul braccio era rimasto molti giorni, aveva dovu-to mettere una maglia a maniche lunghe, anche se era estate. E ai clienti aveva detto di sentire freddo: “Sì, sarà un po’ di febbre, passerà”. Ma dentro di lei era rimasto un gran-de vuoto, lo smarrimento di essere trattata così da suo marito, dal padre dei suoi figli. Poi era successo di nuovo e questa volta era dovuta andare all’ospedale. “È stata una caduta accidentale - aveva detto agli operatori sanitari: - che sbadata, non avevo visto l’ostacolo”. I lividi pian piano erano scomparsi. Era rimasta però la paura che succedes-se di nuovo. Quel dover stare sempre attenta, a vigilare. Che tutto andasse bene. Che la cena fosse pronta alle 19.30. Che i bambini mangiassero tutto, che la casa fosse in ordine, il negozio pure. Che lo spettacolo proseguisse e quella famiglia perfetta conti-nuasse a recitare la propria parte agli occhi del paese, agli occhi di amici e familiari. Ogni tanto con la mente andava a quel pomeriggio d’autunno di una trentina di anni prima, quando avevano deciso di sposarsi e di formare insieme una famiglia, entrambi trentini, entrambi commercianti. ALL’INIZIO ANDAVA TUTTO BENE: condividevano lo stesso lavoro, in un negozio, e prendevano assieme le decisioni. Ma poi, dopo la nascita della prima figlia, lui aveva cominciato ad essere molto severo con la bambina. A punirla se sgarrava, ad incolpare la moglie e a sminuirla. Poi i primi schiaffi. La richiesta di scuse, i fiori e il perdono. Ma con la seconda gravidanza il con-trollo si era fatto più serrato. Erano cominciate le discussioni violente, gli oggetti rotti e la violenza era diventata sessuale, le umiliazioni all’ordine del giorno. Con l’arrivo di altri due bambini, due maschietti bellissimi, la violenza si era estesa an-che a loro, coinvolgendo soprattutto la figlia più grande, che osava sfidare il padre, che si rinchiudeva in camera, che gli teneva testa. Andromaca aveva cercato più volte di calmare gli animi, era anche scappata di casa coi figli più piccoli, una, due, tre volte. Ma era sempre ritornata. Il tempo era passato, i figli erano diventati grandi e avevano lasciato il nido. Ed era stato a quel punto che Andromaca, davanti alla casa ormai vuota, aveva sentito crescere in sé la risoluzione e aveva trovato la determinazione per andarsene. A darle l’aiuto neces-sario era stata propria quella figlia speciale, testarda come il padre, ma forte e risoluta. Con lei era andata al Centro antiviolenza, dove era stata accolta, sostenuta e aiutata. Il percorso di ricostruzione è stato lento e difficile, ma Andromaca è riuscita a resistere, grazie alla sensibilità che ha incontrato ogni giorno, al sostegno e all’aiuto dei suoi figli. Ora è diventata nonna. Accompagna i nipotini al parco. Li spinge sull’altalena. Li vede giocare spensierati sull’erba. Ogni tanto la più piccola, di due anni, inciampa. La ten-tazione è quella di correre da lei per aiutarla a rialzarsi. Ma la piccola un po’ alla volta si aggrappa allo scivolo e trova la forza per rimettersi in piedi da sola. Corre dalla sua nonna per abbracciarla. Andromaca capisce che nulla è stato vano. Che quel coraggio per rialzarsi, per dire basta, è servito. Quell’abbraccio se lo gode tutto, le permette di riconciliarsi con il mondo, ma soprattutto con se stessa.

ANDROMACA, figlia del re di Tebe e fedele moglie di Ettore, figura tragica della mitologia, destinata a perdere tutti i suoi cari

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Deianira

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Il primo amore non si scorda mai. Lo aveva ben presente Deianira quando aveva fatto entrare lui nella sua vita. Entrambi giovanissimi, trentini, studiavano insieme nella stes-sa scuola. A Deianira era piaciuto subito quel ragazzo timido e impacciato, ma capace di una grande generosità. Fiori, cioccolatini e animaletti di peluche avevano suggellato un amore tenero, sbocciato fra ragazzi poco più che adolescenti.ALL’INIZIO ANDAVA TUTTO BENE. Ma poi qualcosa non aveva funzionato. Lui ave-va iniziato a diventare possessivo, voleva che Deianira seguisse solo le sue indicazioni, pretendeva di controllarla, di accompagnarla o seguirla. A quel punto, esasperata, lo aveva lasciato. Ma lui non si era rassegnato a quel semplice “no” scritto con il cellulare. E quindi aveva insistito, utilizzando lo stesso strumento con il quale era stato rifiutato. Erano stati tanti, gli sms, con cui aveva tempestato Deianira, centinaia, forse migliaia. In tutti il messaggio disperato “ti amo, non riesco a dimenticarti”. Deianira, dopo alcuni mesi, spaventata da tanta insistenza, si era confidata con i genitori e aveva deciso, a malincuore, di cambiare il numero di telefono. Ma non era bastato. Ed erano arrivate le lettere, decine e decine di missive avevano in-vaso la casa di Deianira. Poi i fiori, i cioccolatini, i regali. Perfino i fuochi d’artificio sotto la porta di casa. Finché non era arrivato lui, di persona, sotto le finestre, ad aspettare un suo sguardo, un suo cenno. Di giorno e di notte. Si appostava, la seguiva, la pedinava senza parlare, silenzioso ma inquietante. E per Deianira era arrivata la paura. Paura di uscire di casa, paura di uscire di scuola, paura di incontrarlo. A dire “no” questa volta è stato il padre, che ha preso per mano sua figlia e l’ha accom-pagnata al Centro antiviolenza per porre un freno a questo corteggiamento ossessivo. La denuncia e il sostegno degli operatori del Centro sono stati la chiave di volta, per De-ianira. Per sapere che c’è un limite fra il corteggiamento e l’oppressione, per capire che quello che ha subito è stata una persecuzione, per conoscere il nome di questo reato, “stalking”, per ricominciare senza paura.

DEIANIRA, moglie di Eracle (Ercole), pose fine alla vita terrena del semidio involontariamente

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Ecuba

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Del suo Paese di origine non ricordava molto, Ecuba, perché era venuta via piccola piccola. Era arrivata in Trentino dall’Africa con i genitori, perché il papà aveva trovato un lavoro nell’edilizia, ma di questo posto conosceva poco. In Trentino frequentava una comunità di conterranei dove l’identità culturale era forte, dove la vita era scandita in modo preciso e i matrimoni venivano stabiliti dai genitori. Di lui non sapeva nulla, ma le avevano detto che era una brava persona, con una casa di proprietà e un lavoro stabile nel settore edile, che l’avrebbe fatta vivere “all’occidentale”. ALL’INIZIO ANDAVA TUTTO BENE. Lui riempiva Ecuba di attenzioni, la circondava di lusso. Ecuba non poteva uscire di casa, ma non si preoccupava, aveva tutto ciò che poteva desiderare. Ma poi erano nate le figlie. Tre bellissime bambine. Tre maternità difficili, durante le quali il controllo si era fatto via via più serrato e si era esteso ai soldi, alla spesa, alla scuola. E un passo alla volta Ecuba si era ritrovata segregata in casa. Non poteva recarsi al supermercato, le era vietato gestire i soldi anche per le piccole spese o imparare l’italiano; veniva poi trattata dalle figlie come una sorella maggiore perché lui la svalutava in continuazione nel suo ruolo di madre. Senza considerare che Ecuba fuori dalla mura domestiche non conosceva nessuno, non aveva amiche e nes-sun sostegno dalla rete familiare. Ma anche senza modelli di confronto, non era difficile capire che quella non era la normalità e che lui non era il suo padrone. Era stato a quel punto che Ecuba aveva deciso di dire basta e di affidarsi ai servizi antiviolenza del ter-ritorio per essere accolta in un luogo protetto. Ma non aveva tenuto conto delle reazioni di lui: le sue scuse, la promessa di seguire un percorso per lasciarsi alle spalle la violenza, la voglia di collaborare con la rete dei professionisti che stava seguendo Ecuba, l’avevano convinta che forse qualcosa era cambiato. Ecuba poi si sentiva in colpa, di fronte a tutte le sue attenzioni, non voleva togliere il papà alle proprie figlie, che lo adoravano per i tanti regali e vestiti che avevano ricevuto. Il primo passo per tornare indietro era stato facile. Tornare nella violenza lo era stato ancora di più, perché per lui ormai Ecuba era una sua proprietà. Le mani intorno al collo, i capelli strappati, i calci, i pugni divennero di nuovo una costante nella sua vita. Ma poi il controllo e l’autorità paterna si imposero anche alle figlie e fu proprio una di loro, la più grande, a chiamare le forze dell’ordine e i servizi antiviolenza, dopo le ennesime botte alla mamma, spaventata da quel papà così violento, diverso da come lo aveva conosciuto.Il percorso di ricostruzione per Ecuba è stato davvero lungo, perché si sentiva ormai una donna distrutta, che pensava di non poter avere più nulla dalla vita. Oggi, grazie al lungo lavoro di affiancamento, si è rafforzata, ha ripreso autorità sulle figlie, conosce l’italiano, ha un lavoro, una casa. È riuscita a trovare la forza per rinascere.

ECUBA, seconda moglie di Priamo e madre di 19 dei 50 figli che ebbe il re di Troia, fra cui Ettore e Paride

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Gorgofone

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Era stato il classico colpo di fulmine estivo. Gorgofone lo aveva conosciuto durante una vacanza. Lui aveva fatto subito breccia nel suo cuore, era un professionista che lavorava in Trentino da molti anni, un suo coetaneo nato come lei nell’Italia del sud oltre 40 anni fa. Era sicuro di sé, attento e premuroso. Le aveva dichiarato amore eterno.Gorgofone aveva una figlia da un matrimonio precedente, naufragato dopo un tradi-mento, e aveva anche una laurea. Ma al Sud era precaria e, seguendo quest’uomo in Trentino, sperava di trovare non solo una dimensione affettiva serena, ma anche un’oc-cupazione dignitosa, a tempo pieno. ALL’INIZIO ANDAVA TUTTO BENE. Lui aveva accolto Gorgofone nella casa che ave-va in Trentino, considerava la figlia come se fosse sua. Ma poi era rimasta incinta. Le attenzioni ora erano tutte per il bambino che portava in grembo, mentre la madre era sempre più messa da parte, era solo un guscio per la nuova vita che portava in sé. Quando era nato il bambino, Gorgofone non contava più nulla, per il marito non era capace di essere una brava madre, non poteva occuparsi di suo figlio. E lei non riusci-va più a riconoscere, in quest’uomo distaccato e freddo, il professionista affettuoso e sincero che aveva conosciuto alcuni anni prima. Le discussioni pesanti, gli oggetti scagliati e rotti, gli spintoni, la violenza psicologica erano stati il passo successivo. Poi la messa in discussione del rapporto con la figlia più grande, al punto che la ragazza se n’era andata di casa. Nel frattempo il tanto agognato lavoro non era arrivato: ora che aveva un bambino piccolo era ancora più difficile trovare un’occupazione stabile e Gorgofone era diventata sempre più dipendente dal marito. Il bambino era proprietà del marito e lei non poteva decidere nulla. Finché, dopo una accesa discussione, lui le aveva scagliato addosso le stoviglie. Gor-gofone aveva conosciuto così la paura, paura della violenza, paura di non potersi tenere il figlio, paura di non essere più in grado di farcela da sola. Alla fine è arrivata la decisione di fare quel primo passo verso i servizi antiviolenza del territorio. Da cui ne sono arrivati tanti altri. È arrivato l’aiuto, quello psicologico, il sup-porto, il sostegno e, soprattutto, si è dato avvio al percorso di separazione in sicurezza. Oggi Gorgofone abita nella sua casa, il marito se n’è andato definitivamente, e sta rico-struendo la sua vita con l’affetto di entrambi i figli.

GORGOFONE, figlia di Perseo e, nella mitologia, prima donna a risposarsi da vedova

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Atalanta

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ATALANTA, esperta cacciatrice e veloce nella corsa, alla nascita venne abbandonata dal padre - che avrebbe voluto un maschio - e fu allattata da un’orsa

Atalanta non conosceva questa regione così al nord. Le avevano detto che in inverno cadeva la neve. “Cosa sarà mai la neve”, pensava, lei che veniva da un posto così caldo che in inverno al massimo si tenevano le finestre chiuse. Neanche il marito lo aveva mai visto, ma era così che andava dalle sue parti. Le avevano detto che doveva sposarsi, che lui avrebbe pensato a tutto mentre lei, così giovane, non doveva preoccuparsi di nulla. ALL’INIZIO ANDAVA TUTTO BENE. Certo, doveva preparare il pranzo proprio come piaceva a lui, pulire come voleva la suocera, lavare, cucire, stirare. Non poteva uscire di casa se non per curare l’orto e togliere le erbacce dal giardino, ma in fondo cosa le man-cava? Le cose da fare erano sempre tante e poi, in questo Paese così freddo, Atalanta non conosceva nessuno e non poteva stringere amicizie perché non sapeva parlare l’i-taliano e lui non le permetteva di iscriversi a un corso. Poi era rimasta incinta. E le cose avevano cominciato a peggiorare. Atalanta non poteva uscire per le visite di controllo e non sapeva quindi se la gravidanza stava procedendo regolarmente. I lavori domestici gravavano ancora tutti su di lei ed era sempre tanto stanca, ma se si lamentava veniva sgridata. Finché un giorno era arrivato il primo schiaffo. Poi le spinte, i calci, i pugni. Ed era nata la sua bambina, nella violenza.Le giornate di Atalanta, dopo la nascita della bambina, erano proseguite così per un po’, fra le denigrazioni del marito e della suocera perché non era stata in grado di partorire un figlio maschio e le violenze quotidiane: Atalanta era ormai diventata la serva di casa. Ma poi qualcosa era cambiato: con l’iscrizione della bambina alla scuola materna Ata-lanta era riuscita finalmente ad imparare l’italiano dalla sua bimba, a conoscere altre famiglie e a capire che ci poteva essere una vita diversa dalla sua, fatta di segregazioni e soprusi quotidiani. A farle conoscere l’esistenza dei servizi antiviolenza del territorio, e della rete di accoglienza e assistenza del Trentino, era stata una vicina, ma Atalanta aveva ancora tanta paura. Paura di perdere ciò che rappresentava la sua vita, la sua meravigliosa bambina. Un timore purtroppo fondato. Lui infatti, forse avvertendo qualcosa di diverso nell’aria, aveva deciso di portare la famiglia in quella che aveva chiamato “una vacanza”, nel Paese di origine, in Nord Africa. E poi il dramma: con un sotterfugio le aveva tolto figlia, soldi e documenti, lasciandola sola. Atalanta disperata, aveva tentato in tutti i modi di rintracciare la bambina che sembrava sparita nel nulla. Inghiottita fra le tante abitazioni tutte uguali nella periferia della città. Finché era avvenuto un piccolo miracolo: la donna trovò un aiuto da lontano. In quel Trentino tanto freddo, i servizi antiviolenza furono al suo fianco e un’avvocata la sosten-ne, riuscendo, attraverso il Consolato, a farle riavere i documenti per rientrare in Italia. In Trentino Atalanta trovò calore e affetto, venne accolta in una struttura dedicata, aiutata nella sua lunga, lunghissima battaglia legale per riavere al suo fianco la bambina. So-stenuta dai servizi, Atalanta lottò con le unghie e coi denti per trovare la figlia e impedire che subisse ciò che aveva passato lei. Mise in vendita tutto ciò che aveva per recarsi in Africa una, due, tre volte, separarsi legalmente dal marito e finalmente scovare la figlia adorata. Ma solo dopo numerose altre traversie, Atalanta e la sua bimba riuscirono a tornare entrambe in Trentino.Oggi Atalanta è una persona diversa, è più forte, conosce l’italiano, grazie all’inserimento lavorativo ha trovato una piccola occupazione, con l’aiuto della rete dei servizi antiviolen-za ha anche una casa. Tutti i giorni accompagna la sua bambina a scuola, è al suo fianco, la segue mentre entra in classe. Perché ha ancora tanta paura di perderla di nuovo e che la tranquillità, per cui ha lottato con così tanta determinazione, le venga strappata.

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Amimone

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AMIMONE una delle cinquanta figlie del re Danao, che aveva per madre Europa, ebbe un figlio da Poseidone

Amimone era una bella donna e veniva dall’Est Europa. Conosceva cinque lingue, aveva una laurea, era brillante e colta, ma non aveva una grossa stima di sé. Amimone non la-vorava, non le serviva perché c’era lui, quel professionista diplomato molto serio, cono-sciuto durante una vacanza in Trentino. Lui l’aveva subito corteggiata con insistenza, rose, cioccolatini, cene galanti, vestiti e borsette. Lui, che aveva dieci anni in più di lei, garbato, colto e distinto, sapeva con certezza come conquistare le donne. Amimone ne era rimasta affascinata al punto di decidere di trasferirsi in Trentino per convivere con l’amore della sua vita. ALL’INIZIO ANDAVA TUTTO BENE. Amimone e il compagno facevano vita sociale, frequentavano ambienti eleganti, uscivano a cena, andavano a teatro. Amimone si sen-tiva come in una favola. Finché qualcosa non si era incrinato. Quella sera aveva una forte emicrania e di uscire proprio non ne aveva voglia. All’ordine perentorio di prepararsi in pochi minuti, Amimone si era rifiutata ed aveva ricevuto un pugno forte, dritto allo stomaco. Durante la cena con gli amici aveva fatto finta di nulla, era rimasta al suo fianco, da splendida donna “copertina”, di facciata. Ma poi a casa aveva fatto le valigie ed era tornata all’Est, dal fratello. Ma lui non si era arreso. Non era disposto a perdere la sua donna ed era andato a riprendersela contrito, con fiori, gioielli, regali. Quel “non lo farò più”, l’aveva convinta che le cose sarebbero cambiate. Per un po’ era stato così: certo era sempre geloso e dispotico, ma queste erano le ca-ratteristiche che all’inizio l’avevano attratta. Ma poi Amimone si era accorta di essere in dolce attesa. Aveva sempre voluto un bambino di cui prendersi cura, un piccolo che la chiamasse mamma: lei che non aveva più i genitori, con solo un fratello a farle compa-gnia, aveva sempre sognato una famiglia numerosa. Ma non corrispondeva ai desideri del suo compagno. Il passo verso la violenza fu, purtroppo, breve: la violenza più brutta e meschina di tutte, perché la costrinse ad abortire, a rinunciare per sempre a questa straordinaria opportunità. Amimone, dopo aver subito questa terribile decisione, si ritrovò distrutta, fragile e scon-volta. Fu facile per lui imporsi in ogni campo. Poco alla volta la privò delle speranze, delle risorse, dei sogni. La violenza, fisica, sessuale, psicologica divenne parte della vita quotidiana, come le minacce di morte e gli insulti. Al di fuori erano sempre una coppia perfetta, lei algida e bellissima, lui ricco e famoso, nessuno avrebbe potuto credere che dietro questa facciata vi fossero violenza, disagio, brutalità. Amimone non cercava aiuto, perché era certa che nessuno le avrebbe creduto.A soccorrerla fu, ancora una volta, il fratello. L’angoscia di Amimone era stata talmente forte, durante quei pochi colloqui telefonici nascosti al compagno, da far decidere al fratello di venire in Trentino per starle vicino. Grazie a lui si è recata ai servizi antivio-lenza del territorio e ha trovato accoglienza e sostegno in una struttura dedicata. Ha imparato a vedere il suo compagno con occhi diversi, a capire che non era onnipotente e che, anche se l’aveva privata dei sogni, lei poteva ancora essere libera. Era tutto qui, quello che le serviva, una forte iniezione di fiducia, avere qualcuno che credesse in lei. Oggi Amimone è ripartita da zero, è tornata nell’Est Europa con il fratello, ha trovato un lavoro, ha ricominciato a vivere e a sognare.

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Polissena

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POLISSENA, figlia di Priamo, causò involontariamente la morte di Achille, che si era innamorato di lei, e fu sacrificata sulla sua tomba per propiziare gli dei

Il prete, i due testimoni, lui e Polissena. Erano solo loro cinque al loro matrimonio, in quella assolata mattina estiva di 10 anni prima. Si erano conosciuti al liceo, che fre-quentavano assieme, nel Sud Italia. Dopo il diploma avevano deciso di trasferirsi al Nord, in Trentino, dove lui aveva trovato un lavoro pubblico. Ma prima bisognava cele-brare le nozze. A due giorni dalla cerimonia, per una piccola incomprensione, lui aveva vietato a parenti ed amici di partecipare. Doveva essere quello il segnale di una storia destinata a fallire. Polissena se lo rimproverava ogni giorno, soprattutto quando guar-dava i suoi due figli. Per i suoi bambini era una vita fatta di “no”. Non avevano potuto conoscere i loro nonni. Non sapevano cosa volesse dire andare a mangiare dalla zia o a pesca con il nonno. Non c’erano feste di compleanno, nessun regalo da scartare. La musica era vietata. Dovevano guardare i cartoni animati di nascosto e, al minimo rumore, spegnere tutto.Non vivevano in una casa, ma in una caserma ove la quotidianità era fatta solo di ordi-ne, regole, disciplina e violenza. Non era permesso sbagliare, sporcare il tavolo, dimenti-care una luce accesa. Non era permesso essere felici. C’erano solo punizioni, cinghiate e grida. E quando ad essere picchiata era Polissena, i bambini si rifugiavano sotto le coperte, si tappavano le orecchie per non sentire le urla. Polissena ogni sera quando li metteva a letto sussurrava loro all’orecchio “ANDRÀ TUTTO BENE”. Tre parole che l’aiutavano ad andare avanti. A farsi coraggio, quando lui l’accusava di tradirlo, anche se lei lo amava ancora, quando non preparava il pranzo come voleva, quando le camicie non erano stirate alla perfezione. A farsi coraggio per arginare la violenza quotidiana, per proteggere i suoi bambini da quel padre così violen-to, per dare loro una parvenza di normalità. Il coraggio alla fine l’ha trovato il piccolo di casa raccontando tutto alla mamma di un suo amico. Quel giorno a casa sono arrivate le forze dell’ordine e i servizi antiviolenza. Sono stati questi ultimi ad aiutare Polissena a ritrovare la forza, a spiegarle che amore non è appartenenza e violenza, ad accompagnare i bambini in un lungo percorso per superare il trauma di quel papà aggressivo. Oggi Polissena e i suoi due bambini vivono in una struttura protetta, una nuova vita dove tutto è all’insegna del disordine, dove la televisione è sempre accesa e i dolci non mancano mai.

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Ifigenia

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IFIGENIA, figlia di Agamennone, doveva essere sacrificata per placare l’ira di Artemide che impediva alle navi di partire per Troia, fu salvata dalla dea stessa

Quel giorno, certo, se lo ricorda bene. Ricorda lui seduto a tavola, il suo solito lamentarsi per il cibo. Ricorda quel bicchiere tirato con forza, con rabbia. I pezzetti di vetro ovun-que. Il vino rosso sul muro, sulla sua faccia, le gocce di sangue sul pavimento. Ricorda anche la forza di reazione di quel momento, che era riuscita miracolosamente a tirar fuori: la lucidità di alzarsi, uscire di casa, chiudere la porta e chiedere aiuto. Era succes-so altre volte, ma mai la violenza era stata così rovinosa, qualche spintone, uno schiaf-fo. Le altre volte era tornata a casa: forse perché non sapeva dove andare, forse perché lui sembrava cambiato. Si erano conosciuti pochi anni prima, entrambi avevano più di cinquant’anni, entrambi erano stati tanto delusi dalla vita. Ifigenia era in Trentino da un po’, alla ricerca di un lavoro che in Sud America non riusciva a trovare. Lui in Trentino ci era nato, ma aveva perso il lavoro e senza titolo di studio era difficile ricominciare. Ave-vano deciso di farlo insieme, di sostenersi a vicenda in una vita avara di opportunità. Ma poi qualcosa non aveva funzionato. La violenza era entrata nella vita di Ifigenia poco a poco. Prima psicologica, con le critiche, la denigrazione, le accuse. Poi i vestiti tagliati, il cibo buttato. Fino a quel giorno. Quello in cui aveva deciso di non tornare mai più. Quello in cui si era rifugiata, solo con i vestiti che aveva addosso, da quei servizi antiviolenza che la sua vicina le aveva indicato. Per riprendere in mano la propria vita, per capire che dentro di lei c’erano ancora tante opportunità, c’erano creatività, compe-tenze, sicurezza. Oggi Ifigenia non ricorda neanche più cosa di quella storia ALL’INIZIO ANDASSE BENE.L’unico ricordo che le rimane della “vita di prima” sono quelle cicatrici. Guancia destra, appena sotto l’occhio. Un centimetro più su e probabilmente avrebbe perso la vista. Tutti i giorni prima di uscire di casa si trucca per bene, tenta di nascondere quelle im-perfezioni, quei segni sulla pelle che non andranno più via. Neanche nella sua testa. Una casa, un’occupazione, una stabilità. Ha raggiunto questo Ifigenia. Ci sono voluti del tempo e tanti sacrifici, ma ora può finalmente dire di essere serena.

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Asteria

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ASTERIA, fu perseguitata da Zeus e, per sfuggirgli, si trasformò in un uccello, ma precipitò nel mar Egeo dove diventò un’isola

Una casa spaziosa con tanta luce. Un giardino, due posti macchina, il garage. Una casa da sogno. A 10 minuti in bicicletta dal lavoro, a 15 minuti in macchina da casa dei suoi. Un lavoro ben retribuito, ma soprattutto che le piaceva molto. Asteria si sentiva fortunata, aveva tutto, o quasi, nella propria vita. Le mancava solo un compagno con cui condividere il proprio cammino. Sperava infatti che quella casa così bella un giorno sarebbe potuta diventare il nido per la sua famiglia. In realtà aveva smesso di cercarlo, il grande amore, non ci credeva più. Finché un giorno aveva incontrato lui, a una cena organizzata a casa di amici comuni. Lui, un giovane laureato trentino come lei, così intrigante e subito complice. Lui che non aveva perso l’occasione per invitarla al cinema la sera successiva e salutarla con un bacio sulla guancia. Lui che una settimana dopo le aveva fatto recapitare 11 rose. Era stato così che in pochi mesi, al culmine di un corteggiamento romantico, si era ritro-vata a convivere con quell’uomo, a visitare capitali europee, centri benessere, ad andare a cena in locali eleganti. ALL’INIZIO ANDAVA TUTTO BENE. Così bene che Asteria si sentiva fortunata. Ma poi le cose avevano cominciato a cambiare. A pensarci bene era partito tutto dalla perdita del lavoro. Lui aveva preso l’abitudine di passare le ore a casa, davanti al computer, totalmente impassibile alla vita. Senza stimoli o volontà di cercare qualcosa di nuovo, tanto c’era Asteria che manteneva entrambi. Ma continuava a volere, anzi pretendere, quel tenore di vita al quale si era abituato.E poi le prime urla, gli scatti nervosi, il controllo. La seguiva nei suoi spostamenti, la voleva tutta per sé. Asteria era sua, gli apparteneva, perché doveva lavorare? I soldi facevano comodo, ma le ore passate fuori di casa, lontano da lui, erano un problema. Ogni minuto in più al lavoro diventava fonte di litigio, al punto che la accompagnava, poi la aspettava sotto l’ufficio per riportarla a casa. Il lavoro, lo stesso che prima era motivo di orgoglio, era diventato la causa di ogni male. I litigi erano sempre più furibondi, erano volate le prime minacce e poi gli insulti. Piano piano Asteria si era ritrovata sempre più sola, con un uomo che non riconosceva e non amava più, senza amici, isolata dalla famiglia e praticamente segregata in casa. Inghiottire l’orgoglio e tornare dai suoi genitori non è stato facile, per Asteria. Sono stati loro ad accompagnarla ai servizi antiviolenza del territorio, per capire cosa fare. Perché lui, nel frattempo, si era asserragliato nella casa di Asteria e la minacciava costante-mente. È stato solo grazie ai servizi antiviolenza e all’appoggio di un avvocato che è riuscita ad allontanarlo da casa. Oggi lui risulta irreperibile. E ad Asteria non è bastato cambiare la serratura, ha dovuto vendere. Perché le è rimasta la paura di trovarlo sul vialetto di accesso, sulla porta di casa. Ma soprattutto perché ogni stanza le ricordava quei momenti, quella violenza, quello sguardo senza anima.

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Creusa

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CREUSA, figlia di Eretteo, re di Atene, venne violentata da Apollo e generò un figlio

Creusa lo aveva notato, fin dal primo giorno di università. Non era trentino, come lei, ar-rivava sempre in ritardo e andava via prima. Non prendeva appunti ma faceva un sacco di domande. Alto, intelligente, pronto alla battuta. Irraggiungibile. Sì, non avrebbe mai avuto una sola possibilità con quel ragazzo.“Mi passi gli appunti di oggi?” La richiesta di quel lunedì mattina l’aveva trovata total-mente impreparata. La risposta era stato un imbarazzato ma deciso “ma certo”. “In cambio di uno spritz ovviamente”, aveva ribattuto lui con prontezza. Poi aveva preso gli appunti, fatto l’occhiolino ed era scappato via. Creusa non ci credeva. Gli aveva rivolto la parola! A lei che si sentiva così brutta. A lei che i tacchi non li metteva, il trucco solo se capitava e nell’armadio non aveva neppure una gonna. Man mano che passavano i giorni il rito degli appunti era diventato una costante, il momento della giornata che Creusa aspettava con trepidazione. Anche lo spritz tan-to promesso finalmente era arrivato. Con l’inizio della loro relazione l’invidia delle sue compagne di corso aveva poi fatto capolino. Ogni tanto le sentiva mormorare: “Cosa ci troverà in quella là, perchè non vuole una come me?” Il passo successivo era stata la convivenza in un monolocale. Le compagne di corso le vedeva sempre meno. A lui non piaceva averle in casa e tanto meno che si mandassero messaggini su whatsapp in continuazione. “A cosa ti servono? Ci sono io!” Le aveva urlato un giorno. Creusa aveva acconsentito. Aveva già lui. Le bastava. Tutto il resto non contava più. La sua migliore amica aveva provato a dirglielo. Aveva provato a spie-garle che l’amore era bello se era condiviso. Che lei non era una sua proprietà. Che non doveva fare tutto quello che le diceva. Creusa si era arrabbiata, tanto da non voler più vedere la sua migliore amica. La laurea l’avevano festeggiata insieme. E un po’, anche se lui non lo avrebbe mai ammesso, era stato anche merito suo. Se Creusa non avesse compilato la domanda di laurea, cercato un relatore, scelto l’argomento e soprattutto scritto la tesi, lui non si sarebbe certamente laureato in tempo.ALL’INIZIO ANDAVA TUTTO BENE. Ma ora la vita era fatta di urla, di botte, di insulti. Creusa quella notte, quando lui l’aveva picchiata così forte sul letto da farla quasi sve-nire, era scappata. Era andata dalla sua amica, che l’aveva accolta, si era presa cura di lei, l’aveva accompagnata ai servizi antiviolenza del territorio.Grazie al sostegno e al supporto di una rete di persone preparate, Creusa è riuscita a riprendere in mano la sua vita, a capire che l’amore non poteva essere violenza e su-premazia. Creusa oggi si è iscritta alla laurea magistrale. Gli aperitivi li prende con le amiche e si è ripromessa una cosa: gli appunti non li passerà più a nessuno.

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PROVINCIA AUTONOMA DI TRENTOAssessorato all’università e ricerca, politiche giovanili, pari opportunità, cooperazione allo sviluppoAssessorato alla salute e politiche socialiAgenzia provinciale per la famiglia, la natalità e le politiche giovanili

Ufficio per le politiche di pari opportunità e conciliazione vita-lavoroVia don G. Grazioli, 1 - 38122 TRENTOtel. 0461 493219 - fax 0461 494111pariopportunita@provincia.tn.itwww.pariopportunita.provincia.tn.it

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ALL’INIZIO ANDAVA TUTTO BENE

STORIE DI MADRI, DI MOGLI, DI FIGLIE. STORIE DI DONNE USCITE DALLA VIOLENZA.

ALL’INIZIO ANDAVA TUTTO BENESTORIE DI MADRI,

DI MOGLI, DI FIGLIE. STORIE DI DONNE

USCITE DALLA VIOLENZA.