Alessia Patanè, Elvira Picozza, Giovanni Raponi · GUERRA, RACCONTO E MEMORIA nei Comuni di...

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1 Alessandra Broccolini, Rosina Floris, Donato Maraffino, Alessia Patanè, Elvira Picozza, Giovanni Raponi GUERRA, RACCONTO E MEMORIA nei Comuni di Priverno, Prossedi, Roccasecca dei Volsci e Sonnino (1943 - 1944) a cura di Donato Maraffino Progetto della Regione Lazio “Settant’anni dopo. La memoria della seconda guerra mondiale sul territorio della Regione Lazio” Comuni di Priverno, Prossedi, Roccasecca dei Volsci e Sonnino (Latina)

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Alessandra Broccolini, Rosina Floris, Donato Maraffino,

Alessia Patanè, Elvira Picozza, Giovanni Raponi

GUERRA, RACCONTO E MEMORIA

nei Comuni di Priverno, Prossedi, Roccasecca dei Volsci e Sonnino (1943 - 1944)

a cura di Donato Maraffino

Progetto della Regione Lazio

“Settant’anni dopo. La memoria della seconda guerra mondiale

sul territorio della Regione Lazio”

Comuni di Priverno, Prossedi, Roccasecca dei Volsci e Sonnino (Latina)

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Alla cara bibliotecaria dott.ssa Pierina Carfagna

Con gratitudine, a te e alla tua sensibilità, dedichiamo questo lavorofatto insieme, perché, pur nel dolore per la tua scomparsa, si possa con-servare il ricordo della tua operosa tenacia nel servizio culturale allacomunità di Priverno.

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Introduzione pag. 7

Guerra vissuta, guerra narrata pag. 11di Donato Maraffino

Ascoltare, dialogare, condividere pag. 25 di Alessandra Broccolini

Questioni di equilibrio: ricordare/dimenticare pag. 51di Giovanni Raponi

Gli eroi silenziosi dell’altra Resistenza pag. 65 di Elvira Picozza

Zeithain, campo di morte pag. 76 di Padre Luca M. Airoldi

Da Sonnino ai campi di prigionia jugoslavi pag. 121 di Rosina Floris

Il diario pag. 131 di Innocenzo Pennacchia

La memoria si racconta pag. 159di Alessia Patanè

Dall’alto, al basso... attraverso pag. 197di Giovanni Raponi

Settant’anni dalla Guerra: pag. 215percorsi nella memoriadi Luisella Fanelli, Donato Maraffinoe Benedetto Supino

Indice

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Ringraziamenti

Dopo un lungo anno di lavoro e incontri, consegniamo al Lettore questo volume, che è operadi molte mani, di molte intelligenze, di svariate sensibilità e disponibilità. In primo luogogratitudine, ricordo e affetto vanno alla Dott.ssa Pierina Carfagna che proprio nella fase di

stampa del presente lavoro è venuta meno all’affetto dei suoi cari e della comunità di Priverno, dopoche con determinazione, impegno e consigli ha accompagnato ideazione e inizio di tutto il nostropercorso di ricerca. Con il suo prezioso lavoro ha dato vita alla biblioteca comunale per molti anni.Ci mancheranno i suoi consigli, la sua tenacia, il suo lavoro come punto di riferimento della culturadella nostra comunità.

Per il presente lavoro ringraziamo inoltre: i Sindaci dei quattro Comuni della Rete, insieme ai loro delegati Franco Greco, Giuseppe Papi

e Maurizia De Angelis e la dott.ssa Carla Carletti (responsabile del settore cultura del Comune diPriverno) per il sostegno e la gestione del progetto;

il Consiglio Comunale dei Giovani, il Centro Sociale Anziani, le Associazioni dei Combattentie Reduci, l’Associazione Nazionale dei Carabinieri in congedo, la Croce Rossa di Priverno, l’Asso-ciazione Culturale Ricercatori “Militaria” e i cittadini che ci hanno accompagnato nel lungo percorsodi scoperta delle memorie;

l’Assessore alla Cultura, dott.ssa Lidia Ravera e i Dirigenti e responsabili di settore della RegioneLazio*, la dott.ssa Sabrina Varroni, la dott.ssa Paola Guerrini, il direttore dott.ssa Miriam Cipriani ei Dirigenti scolastici, che hanno accettato la sfida di un lavoro integrato e di complesso coordina-mento.

Un ringraziamento va a Elvira Picozza (docente del team e fino al febbraio 2015, Assessore allaCultura del Comune di Priverno) che con convinzione, sensibilità e determinazione ha dato un con-tribuito per l’ideazione, il sostegno al progetto e la sua realizzazione, insieme alla dirigente LuisellaFanelli, per il convinto contributo didattico e la disponibilità organizzativa. Una gratitudine particolareva a tutti i docenti del team per la presenza, la pazienza e la costanza nel superare le difficoltà e nelperseguire il senso e gli obiettivi del lavoro deciso sempre insieme. Un saluto e un encomio specialeva ai ragazzi, alle famiglie, agli anziani e ai cittadini che hanno condiviso questa esperienza e che cihanno dimostrato quanta ricchezza umana, intelligenza e positiva sensibilità ci siano nelle nostre co-munità e quanto sia giusto sempre più sostenere una memoria e una cittadinanza consapevole.

Il coordinatore del progettoProf. Donato Maraffino

* Il progetto è finanziato dalla Regione Lazio (in base alla determinazione n. G03172 del 17/03/2014)

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Gentile Lettore,

Gli ultimi giorni di maggio del 1944 segnarono la fine delle operazioni militari della secondaguerra mondiale nel nostro territorio e, anche se il conflitto terminò l’anno seguente, ildramma vissuto dalle popolazioni si era ormai compiuto, tanto da lasciare indelebili e pro-

fonde ferite nella vita delle nostre Comunità e nelle memorie popolari.In quest’ambito si è ritenuto importante stimolare una ricerca, un confronto sui caratteri specifici

della violenza militare sopportata dalle comunità del Lazio meridionale e del Mezzogiorno d’Italia,fino alla liberazione di Roma e sui dati della ricerca storiografica e delle memorie orali, scritte od’altro tipo oggi disponibili.

Per riprendere gli ultimi racconti e le memorie, non sempre coincidenti con le diverse narrazionistoriografiche, un team di docenti, dirigenti scolastici, amministratori dei Comuni di Priverno, Pros-sedi, Roccasecca e Sonnino nell’ambito del Progetto della Regione Lazio “Settant’anni dopo. La me-moria della seconda guerra mondiale sul territorio della Regione Lazio”, si è impegnato ad attivareesperienze di ricerca, ascolto delle memorie e uso delle fonti. A loro, ai servizi culturali va il nostropiù sincero ringraziamento per un lavoro che ha visto partecipi alunni, cittadini, anziani e famiglie,insieme ad associazioni e istituzioni locali dei comuni della rete del progetto.

Oltre che una nutrita serie di incontri di storia, di metodologia del trattamento delle fonti orali,di rappresentazioni teatrali, il team conclude il suo lavoro pubblicando questo volume che siamofelici di consegnare al pubblico, ai cittadini di oggi e di domani perché si costruisca una più profondacoscienza dei fatti di allora, con il fine di migliorare la comprensione del passato delle nostre comunitàe ampliare il dialogo tra i futuri cittadini della nuova Europa.

Dott. Andrea Polichetti Commissario Straordinario del Comune di Priverno

Dott. Angelo PinciveroSindaco del Comune di Prossedi

Dott.ssa Barbara PetroniSindaco del Comune di Roccasecca dei Volsci

Dott. Luciano De AngelisSindaco del Comune di Sonnino

Priverno, Ottobre 2015

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Introduzione

Questo non è un libro di storia. E’ piuttosto un libro di storie e di domandesulle storie personali e comunitarie. Ed è un libro di domande sulle storiedi un tempo vicino, di settant’anni or sono e delle violenze e miserie su-

bite e, alcune volte, dimenticate.

La guida a tali domande è stata l’inesauribile spinta alla verità, non assolutaben s’intende, ma quella ragionevolmente accettabile, perché spesso la maggiorparte degli uomini si accontenta dell’opinione prevalente piuttosto che “(…) ri-cercare la verità, che gli è indifferente e preferisce adottare le opinioni che gligiungono già pronte.” Questa disincantata affermazione di Tucidide continua permolti aspetti a restare vera, perché risulta molto faticoso controllare e soppesarecon metodo e pazienza i fatti e gli eventi, piuttosto che credere.

E se alcune volte la tendenza a “credere” è intrinseca all’umano, altre è fruttodelle condizioni, delle mutevoli esperienze della vita ordinaria o di quellaestrema, come quella passata tra le violenze di una guerra o dei campi di prigio-nia, di cui si occupano le testimonianze qui raccolte. E forse quando è troppotragica e dolorosa la realtà, molto pervasiva è la necessità di acquietare la co-scienza, di riporre nel fondo di ognuno il dolore patito e, forse, dimenticare.

E proprio questo movimento di deposizione definitiva della memoria in veritàcodificate e trasmesse, che la critica storica e l’indagine antropologica non pos-sono accettare, perché se il compito della ricerca è riprendere il filo dei discorsi,nei meandri delle narrazioni si trovano sempre inciampi, vuoti, angoli in ombra,riflessi inspiegabili.

Questa mania di cercare risposte all’inspiegabile guida anche chi vuole com-prendere gli eventi di quella guerra totale che i popoli europei hanno sopportatoe che sono stati oggetto del lungo percorso di studio e ricerca svolto da docentie alunni delle scuole dei Comuni di Priverno, Sonnino, Roccasecca dei Volsci eProssedi. In fondo, questo è un particolare sentimento d’amore per la ricerca, lostesso che ha animato Marc Bloch quando, la mattina del 16 giugno 1944 a SaintDidier de Formans, nei pressi di Lione, dopo essere stato torturato, prima di ve-nire fucilato da un plotone di SS, in cuor suo forse avrà pensato alla sua vita do-nata alla storia, così elogiata nell’Apologie pour l'histoire ou Métier d'historièndi cui non avrebbe visto la pubblicazione. E per lui, sollevarsi dal fango e dalsangue delle trincee, osservare i fatti tragici della sconfitta delle democrazie, edarsene una ragione “storica” e “antropologica” non deve essere stato movimento

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Guerra, racconto e memoria

da poco. Sospendere la propria idea di giustizia e la sete di libertà, dal giudiziostorico è cosa difficilissima. Specialmente oggi, tempo in cui memoria e storiasi confondono e/o sono confusi e il ricordo e le passioni facilmente sostituisconola ponderazione dei fatti.

Ma non è questo il rischio che corre questo volume. In esso si usano le fonti(testimonianze ufficiali e quelle diffuse nei ricordi popolari) con delicatezza eaccortezza, senza l’apologetica del dolore, ma portando allo scoperto gli angolisottovalutati del vissuto delle comunità lepine e ausone durante il biennio 1943-44. Dal gennaio 1944, l’offensiva anglo-americana (che aggiunse alla Linea Gu-stav il secondo fronte con lo sbarco di Anzio e Nettuno) chiuse questo territorioin una terribile tenaglia militare, con un plus di violenza inaspettata e non com-prensibile, che si riversò sulle popolazioni dei Comuni adagiati tra il Garigliano,Fondi-Terracina, la Pianura Pontina, la Valle del Fiume Amaseno e parte deimonti Lepini. Una violenza mai vissuta che si aggiungeva alle razzie, deporta-zioni, fucilazioni già perpetrate dalla Wehrmacht nei lunghi mesi precedenti.

In casi così estremi l’antropologo si chiede cosa avviene agli uomini, lo sto-rico cerca spiegazioni del perché ciò sia successo, ma sanno entrambi che si de-vono dirigere lì dove passioni, ragioni, ideologie e bisogni materiali siconcentrano, per capire il “senso” dell’accaduto. E questo luogo si può trovarenella memoria dei viventi o nelle testimonianze lasciate (nelle carte d’archivio onei luoghi di vita, di lavoro o di preghiera). Lo storico diviene il «cacciatore»onnivoro di questi dati, di tracce, di segni e testimonianze che sono fonti intelle-gibili soltanto se sollecitate da interrogativi originali, posti con rigore metodolo-gico e onestà intellettuale. E l’onestà intellettuale è non fare della storia narratao delle testimonianze la conferma del già pensato, ma farsi attirare dalle disso-nanze, dagli angoli difficili dei racconti già tramandati.

Così come questo testo, che è uno sguardo sugli uomini, sulla fatica di cono-scerli e sul rispetto dei loro difetti. E pur confessando la loro innegabile scelta diparte, cioè che la liberazione dal nazifascismo era una necessità per la libertà eil futuro dell’Europa, gli autori ricostruendo quel plus di violenza inutile (alcunibombardamenti, gli stupri sulle donne e le terribili stragi o i campi di prigioniae di morte), ci indicano il senso dell’onestà intellettuale.

In fondo il racconto storico è colorato in chiaroscuro, con perimetri labili,transitori. Chi è attirato dagli uomini e dalla loro vita nel passato non preferisceil posto sicuro dell’identità, ma ama situarsi sulle aree di “confine”, o nella terradi mezzo, in cui le autorità si dileguano e gli attraversamenti sono la regola.

Siamo in tempi difficili per la storia, inondati dal passato nelle fiction, neipassaggi televisivi, nella storia proposta dagli attori stessi degli eventi e in quella

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a portata di mano nell’enciclopedia totale di internet. Eppure, mai come oggi, iltempo della memoria e delle identità si è accorciato e mai la frattura tra la storianarrata e quella ricostruita con fonti scritte, trova così difficile ricomposizione.E’ come se il tramonto delle ortodossie storiche, figlie di un mondo bipolare, chehanno attraversato tutte le società dell’Occidente, determinandone faglie pro-fonde e impenetrabili al dubbio, abbia lasciato aperti nuovi spazi di libertà nellaricerca degli eventi che mal si conciliano con quella storia-narrazione che hacreato identità inossidabili [nazione, etnia, patrie socialiste, classe, partito (…)].

In questo ambito, settant’anni dagli eventi del secondo conflitto mondialenon sono tanti. Troppi e profondi sono i solchi irrorati dai dolori umani, dallesperanze non esaudite, dagli odi suscitati, dai crimini commessi, perché sia facilepassare il guado dell’ortodossia. Eppure, se si parla di revisionismo bisogna sot-tolineare almeno una trasparente obiettività: esiste un revisionismo necessario,insito nel mestiere stesso dello storico e consistente nella reinterpretazione pe-renne dei fatti, nel rivedere tesi e ipotesi di spiegazione, che non reggono di frontealle novità della memoria, delle prove archivistiche e documentarie. Ed esiste unrevisionismo narrante, fatto di giudizi totalizzanti, che crea una nuova ortodossia(le “nuove storie” etniche, o del Meridione, o della Padania, o della vera storiascozzese, o catalana ecc.). Queste innalzano gli eventi a testimonianze assolutedi una strategia di occultamento preordinata dalla storia “ufficiale”, a loro direfatta ad arte per giustificare la vittoria dei più forti.

E con questo dire hanno buon gioco, perché una parte della storiografia no-vecentesca, si è attardata troppo nel giustificare l’operato degli stati, dei poterireali, delle nazioni o delle patrie della Libertà o della Giustizia, per paura del-l’Avversario, piegandosi alla logica della narrazione strumentale. Ma il novecentostorico è anche pieno di esperienze di grande dignità storiografica, capaci di ri-vedere, reinterpretare, dare un nuovo sguardo, fare emergere passati dimenticati.La storia degli ultimi, quella dei genocidi, la vita quotidiana, la storia delle men-talità, la storia “femminile”, la storia dei fenomeni economici, la profondità psi-coanalitica dei comportamenti umani, l’anatomia dei poteri, le invarianzegiuridiche, ecc. hanno rotto il monopolio della storia politico e militare-diplo-matica, allargando lo sguardo, approfondendo il vissuto degli uomini e delle isti-tuzioni da loro create. Così i testi e gli articoli di quest’opera, ci aiutano acomprendere che l’inevitabile non è una categoria storica e che la domanda sulleresponsabilità, è sempre aperta e mai completamente esaudita. Se è vero che perun verso si può dire con Euripide che “Gli dei ci creano tante sorprese: l’attesonon si compie e all’inatteso un dio apre sempre la via. (Medea)”, leggendo i fattiqui descritti e ricordati, è dimostrabile sempre che, anche nelle condizioniestreme, la direzione degli eventi non è mai scontata e, almeno una parte del-l’accaduto è sempre frutto delle decisioni umane. (D.M.)

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GUERRA VISSUTA, GUERRA NARRATA

di Donato Maraffino

Sono passati settant’anni dalla fine della seconda guerra mondiale e, al vol-gere di questa prima parte del XXI secolo, insieme al tempo si stanno inabissandole memorie personali di milioni di persone che parteciparono e patirono quei tra-gici eventi. In questi decenni una copiosa produzione storica ha cercato di trac-ciare il senso di quei fatti, i drammi nazionali vissuti, il costo umano e morale diun conflitto immane, che non ha risparmiato luogo del pianeta, generazioni, po-poli o etnie in una concentrazione di violenza mai vista prima. La ricerca storica,prima irretita nel vissuto contradditorio delle contrapposte esperienze militari,poi perimetrata dagli interessi strategici e globali della Guerra Fredda e, infine,faticosamente uscita dalla contrapposizione ideologica, ha però fatto innumere-voli passi avanti.

Progressi nell’identificazione delle ragioni della nascita dei totalitarismi edelle responsabilità diverse per tale tragico conflitto, nella comprensione dellesue dinamiche militari e, infine, la consapevolezza dei costi umani e delle re-gressioni morali di una guerra “totale” che non ha risparmiato mezzi, uomini,città o villaggi, eserciti o inermi popolazioni civili, fronti interni o esterni, terra-ferma, mari e cieli, in un turbinio di violenza mai sperimentata perché prodottacon un razionalismo organizzativo moderno e una tecnica militare industrializ-zata.

Ma la cosa più sconvolgente è che tale abolizione tendenziale di tutti i confinigeografici, etnici, sociali e umani nell’uso della violenza ha messo in ombra moltiinterrogativi morali, nel tentativo di giustificarne tutti gli esiti con la necessità difar capitolare il nemico con uno sforzo bellico da produrre fino all’ultima possi-bilità offensiva.

Il disegno della guerra di movimento (tanto progettata dai circoli militari dellaGermania dell’inizio del ‘900) si realizza nella sua dimensione più totale, in tuttele direzioni, tanto che la sensazione di pericolo per gli attacchi militari assumeun carattere totalmente diverso rispetto alla prima guerra mondiale. Con l’usodell’aviazione militare e dei sottomarini, esso può venire da tutte le direzionicreando una paura globale e una sensazione di impotenza nelle popolazioni ci-vili.

Per questo nel presente passaggio dei settant’anni dalla fine della secondaguerra mondiale, è auspicabile che sempre più la ricerca storica e documentariasi soffermi a fare il punto sulle acquisizioni e sulla completezza della ricostru-

Donato Maraffino, docente di storia e filosofia presso il liceo scientifico G. B. Grassi di Latina, impegnato nell’ambito della riflessionee ricerca di filosofia morale e saggista di storia della mentalità e della medicina; responsabile di diverse iniziative editoriali, di appro-fondimenti tematici. Tra gli altri ricordiamo: Libertà e servitù volontaria La fortuna del Discorso di Etienne de La Boétie, Dopo ilModerno Principe: sui cambiamenti della forma-partito di Donato Maraffino in Annuario del dialogo, dell’incontro e del confrontodella S.F.I., o i testi nella rivista Contemporaneità pontina. Rivista di storia, cultura ed eventi civili Anno I-II e III, n. 0, 2003, 2004e 2005 o Nel prisma della memoria. Riflessioni ed antologia delle esperienze didattiche di storia del Novecento pontino, Latina 2001e Quel terribile autunno del 1918. Progresso civile-sanitario e pandemia di "Spagnola" nel Lazio meridionale, Latina, 2003.

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zione dei fatti che hanno segnato la vita delle popolazioni con una violenza mi-litare sconosciuta nelle comunità locali, come le nostre, attraversate dai frontimilitari. Insieme, è quanto più necessario comprendere la diversa profondità deglistudi, cercando di identificare i campi ancora poco sondati dalla ricerca e am-pliando l’uso delle fonti (comprese quelle orali) al fine di far emergere quei fe-nomeni che spesso la storia diplomatica o militare non riescono a ordinare espiegare.

In realtà, ormai sono trent’anni che la storiografia ha ampliato di molto ilventaglio, concentrandosi anche sul vissuto della guerra, non solo dei soldati suifronti, ma anche delle popolazioni (donne, anziani, bambini, comunità marginali).Questa spinta ad allargare la complessità della ricostruzione storica è emersa perl’affermarsi di nuove sensibilità sociali nella società europea dagli anni ’70 inpoi. Da qui gli studi hanno preso avvio analizzando la vita quotidiana, l’alimen-tazione popolare, la crisi economica, le strategie di sopravvivenza, le violenzeperpetrate dagli eserciti sui soggetti deboli come le donne, i profughi o i prigio-nieri di guerra. In questo modo si è allargato lo spettro del significato del termineguerra, consegnando ai cittadini una coscienza più profonda dei fenomeni tra-sversali che hanno vissuto le popolazioni di nazioni diverse e, ancora di più, laconsapevolezza che spesso l’uso della macchina militare, anche quella organiz-zata per vincere il totalitarismo nazionalsocialista e il fascismo, non è stato esenteda un surplus di violenza inutile. Questa ha caratterizzato i diversi fenomeni(bombardamenti, stupri, campi di prigionia) che hanno fatto emergere con forzanon solo la domanda sulla legittimità giuridica (oggetto di interminabili discus-sioni) quanto quella sul superamento dei limiti di una violenza moralmente ac-cettabile.

Inoltre, l’affermazione di fonti nuove e sconosciute alla ricerca storiograficadegli anni ‘50 (fotografia, film, riprese sul campo, registrazione diretta deglieventi), hanno favorito l’emergere del racconto “spontaneo” dei testimoni, unaoralità diffusa, assente nelle narrazioni storiche precedenti. Cosicché si può direche le indagini storiche sono state radicalmente ripensate (nel metodo, nelle fontie nelle acquisizioni), perché quelle ufficiali o militari spesso originate da interessitattici o strategici manifestavano la loro parzialità e rimanevano intrappolate nellacontrapposizione ideologica e politica della Guerra Fredda.

Superando l’impostazione diplomatico-militare si è aperto un campo inter-pretativo proficuo, che ha disegnato scenari prima in ombra e si è raggiunta laconsapevolezza che l’utilità e dignità storica della fonte non è garantita in anti-cipo da chi la produce, ma è tale soprattutto nella comparazione valutativa conle altre e la loro corrispondenza con prove documentarie o narrative acquisite.Insieme a questa considerazione metodologica, nel ricostruire gli eventi dellaguerra, è emerso anche il rifiuto dell’ineluttabilità e imprevedibilità dei “dannicollaterali” alle popolazioni civili, una volta scoperto, che, spesso la violenzamilitare è andata ben oltre il teorema del sufficiente uso delle armi per disartico-lare le strutture militari del nemico. Infatti, la teoria della “guerra totale” che haaffascinato governi e élite militari di diversi paesi (totalitari e non), spesso negataa parole, nei fatti è stata spesso sperimentata nei bombardamenti aerei, navali o

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di terra, alimentata dall’illusione che, non esistendo discontinuità tra militare ecivile, tutto concorreva ad alimentare la macchina di guerra del nemico e quindi,“disarticolare” le strutture civili (strade, ospedali, quartieri industriali ecc.) eranecessario e risolutivo per l’esito del conflitto.

Ma i fatti ben presto dimostrarono il contrario: nessun paese ha capitolatoper elevata quantità di distruzione, ma esclusivamente per la perdita progressivadel controllo militare dei territori e nessuna rivolta popolare ha portato alcunpaese fuori dalla guerra o ha messo fine ai governi di occupazione militare. Chi,omettendo considerazioni di legittimità morale, con la distruzione totale volevaspingere le popolazioni contro i governi, si accorse tardi, e a danni fatti, cometale teoria fosse sbagliata, tragicamente sbagliata. E anche l’uso della bomba ato-mica (che per alcuni circoli militari doveva essere l’arma risolutiva e emblemadella guerra totale) sancì non solo la fine della guerra con l’orrore dei morti diHiroshima e Nagasaki, ma inaugurò insieme un nuovo terrore, quello della nottetermonucleare, in cui militarmente il nemico non poteva più essere vinto.

Memoria e comunità pontine, ausone e lepineLo stato della ricerca storica in merito alle specificità del vissuto della guerra

mondiale nei territori e comunità pontine, ausone e lepine è contraddittorio. Ascorrere la storiografia regionale e locale si fa presto a individuare il carattereper lo più diplomatico-militare cui fa riferimento l’innumerevole mole di studidi singoli autori o memorialisti. In primo luogo, i riferimenti sono le memorie diguerra di graduati o semplici militari delle forze armate americane, inglesi e, inmisura minore, francese e di altre nazionalità che formavano la V armata impe-gnata sulla Linea Gustav. Per lo più degli ultimi decenni, è la rievocazione storicadi parte tedesca, consolidata dall’Istituto storico Germanico che ha parzialmenteriempito la lacuna sull’argomento. Al contrario, negli ultimi anni, una vasta seriedi ricerche ha trovato avvio in istituzioni, università italiane ed europee sui temiprincipalmente controversi come le violenze militari, i bombardamenti e le re-sistenze europee e regionali. In generale, quindi, si assiste ad una revisione dellastoria militare, con analisi che vogliono evidenziare le relazioni con la storia ma-teriale e il tasso di violenza, che hanno sopportato le popolazioni civili, sia daparte dell’esercito tedesco, sia con un altro genere di valutazioni, da parte deglialleati anglo-americani. La specificità della situazione militare del territorio pon-tino, ausono e lepino stretto, dopo il gennaio del 1944, tra due fronti militari, hastimolato la crescita degli studi sui singoli comuni durante questo periodo, arric-chendo di molto il ventaglio di notizie di accadimenti direttamente legati al pas-saggio delle divisioni militari tedesche (Panzer-Grenadier-Division,Gebirgs-Division, Infanterie-Division e Feldgendarmerie-Trupp) e alleate (V ar-mata composta da due divisioni USA l’85a e 88°, dal Corpo di spedizione Fran-cese composto da 1 divisione motorizzata, 2 divisioni Marocchine, 3 algerine, 4divisioni di montagna marocchine e in aggiunta 3 gruppi di Tabor-Goumiers).

L’abbondanza della memorialistica ha sollecitato l’espandersi di studi deglieventi accaduti nei comuni che di più hanno sopportato la violenza militare, inparticolare quelli della fascia sud pontina, vicino il Garigliano e la linea Gustav

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e quelli a ridosso della testa di ponte dello sbarco anglo-americano di Nettunoed Anzio (Cisterna ed Aprilia). Invece, la ricostruzione del passaggio del frontemilitare nei comuni della Valle dell’Amaseno (Sonnino, Roccasecca, Pisterzo,Priverno e più ad est Amaseno, Vallecorsa, Villa S. Stefano e Ceccano) e quellidelle pendici dei Lepini (Patrica, Prossedi, Maenza e Roccagorga) e ancora piùa nord (Sezze, Cori, Bassiano, Semoneta, Carpineto romano, Giulianello, Roc-camassima) fino al decennio passato è stata di molto limitata a singole memorie,ricostruzioni o eventi militari.

Due sono le opere pubblicate già diversi anni fa, che hanno cercato specifi-camente di dare un senso generale agli eventi comunitari: la prima per quantitàdi indicazioni documentarie è quella di Annibale Folchi dal titolo La Fine di Lit-toria del 1995 che tratteggia per fonti ufficiali e tramite esse, la fine del fascismopontino, la guerra e tutti i fenomeni ad essa collegati (sfollamenti, bombarda-menti, distruzioni, crisi economica, alimentazione). Se il pregio dell’opera stanell’aprire un primo interessante “cantiere” documentario della storia pontina,poiché l’autore segue esclusivamente i resoconti diretti, l’analisi dei fenomenispesso si disperde in una frammentazione di dati a dispetto della sintesi storio-grafica necessaria.

Le altre opere I giorni della Guerra in provincia di Littoria del 1974 e conparziali modifiche Cronache dai due fronti edita nel 2004 sono di PierGiacomoSottoriva, che seguendo le memorie di guerra di autori-militari o studiosi spe-cialmente di ambito anglosassone o americano, inaugura il filone narrativo dellaguerra in area pontina, mantenendosi però strettamente a considerazioni qualita-tive anche su questioni importanti (bombardamenti, stupri ad esempio) oggi alcentro del dibattito storiografico. Dopo un periodo di stasi la situazione sta cam-biando: da un decennio si assiste a un rinvigorire degli studi locali, che pur man-tenendo in maggioranza l’impronta memorialistica, hanno aperto la riflessioneanche sui fenomeni della vita materiale e comunitaria in tempo di guerra, le stra-tegie di sopravvivenza, la funzione delle donne, le violenze sopportate (razzie,requisizioni di manodopera, alimentazione e bombardamenti). Per il generalecambiamento della ricerca storica italiana avvenuto dopo gli anni ’80, le ricerchehanno ripreso vigore negli archivi locali e territoriali e nella memoria diffusa,iniziando un percorso di ristrutturazione delle storie comunitarie, con la scopertadi eventi (deportazioni, prigionie, stupri) di cui la storiografia aveva ampiamentesottovalutato l’impatto sulla mentalità collettiva. Con tali ricerche si compren-dono meglio gli atteggiamenti contraddittori delle popolazioni locali sia verso learmate tedesche che quelle liberatrici anglo-americane. Inoltre la Rete, ha stimo-lato la pubblicazioni e concentrazione nei siti web di memorie e immagini o laraccolta di notizie finalizzate ad ampliare la storia delle singole comunità. La fa-cilità di diffusione di tali studi, delle novità archivistiche o delle testimonianzeorali hanno creato un fenomeno nuovo: la ricerca dei ricordi sedimentati nellapropria comunità e l’utilizzo della memoria diffusa ancora presente, proprio allimite di tale possibilità, considerato che dopo settant’anni, gli attori o testimonidi quegli eventi stanno scomparendo. Diversamente dagli anni ’70 quando siamava contrapporre la “storia dal basso” (presupposta come spontanea e veri-

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tiera) a quella ufficiale o delle autorità militari, la riscoperta delle fonti orali è fi-nalizzata oggi a realizzare una complementarietà con altre fonti (fotografiche,filmiche, amministrative, militari) quando queste da sole sono incapaci a faremergere fenomeni sottovalutati.

Il costo umano e civile.L’aggregazione dei dati circa i morti è quanto mai incerta. Alcuni autori in-

dicano in 7000 i morti e 10000 i feriti, per bombardamenti, mitragliamenti aerei,ritorsioni naziste, fucilazioni per atti di sabotaggio, che noi immaginiamo, per lopiù concentrati vicino ai due fronti di guerra e nei comuni a ridosso delle lineedi fuoco tra il 1943 e il 1944. Ancora più spinosa è la questione dei feriti da armiguerra da suddividere tra coloro colpiti da armi da fuoco (schegge, mitraglia-menti, bombe) nei comuni e i feriti durante le azioni militari nei diversi frontimilitari in Europa, in URSS e in Africa. Ma a rendere ancora più incerta la valu-tazione dei costi umani si devono aggiungere i soldati morti sui fronti di guerrae i decessi per malattie a causa dell’estrema indigenza patita dai militari italianinei campi di prigionia in Germania (Internati Militari Italiani), nei Balcani, inURSS e altre parti del mondo. Ma andiamo con ordine.

Le incursioni aeree anglo americane dopo il settembre-ottobre 1943 si inten-sificarono sia sui comuni vicini alla Gustav sia su quelli di retrovia. Con esse sicercò di disarticolare gli spostamenti dei reparti tedeschi lungo la valle del Lirie quella dell’Amaseno, per isolare le truppe tedesche sulla Gustav e, alla fine delgennaio 1944, anche quelle collocate a ridosso della testa di ponte di Anzio. Maproprio su questo fronte le armate tedesche dimostrarono una capacità di resi-stenza che Clark, comandante in capo della V armata e il generale del VI corpod’armata J. Lucas non avevano previsto. I mesi tra gennaio e maggio del 1944furono terribili: per le quantità di militari morti da entrambe le parti, di prigionieridi guerra catturati, per la sofferenza delle popolazioni di tutti i Comuni al di sopradella Linea Singer, oltre le atrocità e le distruzioni già patite lungo la linea delGarigliano. In questo scenario sono da inserire i bombardamenti dell’Air Forcee della RAF (Royal Air Force) delle realtà lepine e ausone della Valle dell’Ama-seno. I comuni di Sermoneta, Cori, Sezze, Priverno, Sonnino furono ripetuta-mente colpiti.

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Per i Comandi germanici all’opposto tutto doveva sorreggere lo sforzo daOrtona a Cassino e Minturno, perché la posta in gioco (la liberazione di Roma)era troppo alta. L’occupazione militare tedesca fino allo sbarco di Anzio consi-derò tutta la provincia (da Fondi al suo nord, compresa l’area lepina) una retroviamilitare, che doveva fungere da supporto allo sforzo di difesa sulla Gustav. Lavia Casilina, il Passo della Palombara-la Marittima da Priverno all’Appia, eranole arterie di mobilitazione dei mezzi militari (carri armati, camion per il trasportotruppe, mezzi blindati, cannoni ecc.) tra il fianco e la retrovia ovest della Gustave le casamatte di Cassino. Quindi le arterie stradali Formia-Fondi-Terracina e lapianura bonificata, la linea Ferroviaria Roma-Cisterna, Fossanova erano strate-giche per opporsi all’offensiva anglo-americana. D’altronde l’importanza dellatenuta militare a sud di Littoria era già presente nell’ordine della costituzionedella Singer come linea di eventuale arretramento del fronte. Per questo la retro-via non deve essere intesa solo come spazio geografico, ma come area organiz-zativa di sostegno all’esercito, in primis con il vettovagliamento, tanto che lostoccaggio delle farine, la panificazione e la macellazione delle carni divennerovitali per i comandi tedeschi di stanza nei comuni collinari e per i reparti a riposodopo il combattimento sul fronte. Il contrasto tra autorità civili e tedesche, quandoavvenne, si incentrò sulla ripartizione delle quote, poiché dopo l’estate siccitosae i mancati raccolti del 1943, il fabbisogno minimo alimentare delle popolazionicollinari non era soddisfatto. Per questo la panificazione e le razzie di animali,prima nei poderi della pianura, poi nei Comuni collinari, divennero strategici peri comandi tedeschi che usavano rappresaglie contro furti o tentativi di sottrazionedi tali alimenti da parte delle affamate popolazioni locali.

Dopo la caduta della Gustav, lo scontro militare assunse un carattere diestremo movimento con i reparti della Wehrmacht in ritirata e la linea Hitler-Sin-ger parve tenere solo lungo la Via Appia e a Terracina. Ma l’aggiramento tatticoValle Marina Fondi-Sonnino della V armata di fatto chiuse la fase dei due fronti.Dopo la metà di maggio il ricongiungimento tra i reparti della V armata prove-niente da sud e quelli della testa di ponte fu questione di giorni. Tutto precipitòper i tedeschi con la capitolazione di Terracina e, a nord, di Aprilia e Citerna el’arrivo dei reparti Inglesi, Polacchi, Francesi nella Valle dell’Amaseno. Un pic-colo lasso di tempo e un ristretto e montuoso spazio territoriale erano disponibiliai tedeschi per la ritirata lungo la carpinetana e la direttrice Velletri- Valmontonee così fu. Da questo punto di vista le popolazioni di Piperno, Sonnino, Rocca-secca, Prossedi, Maenza e Roccagorga furono fortunate: la Wehrmacht decise dinon stabilizzare lì il fronte optando per una ritirata dalla valle del Liri e dell’Ama-seno. Lo scontro militare diretto durò poco anche se fu molto violento. Così lepopolazioni acclamando l’arrivo della V armata si accorsero dell’origine varie-gata dei soldati liberatori: americani, canadesi, neozelandesi, inglesi, polacchi,francesi, algerini, marocchini.

Ma solo a liberazione avvenuta ci si accorse dell’impatto distruttivo dei pas-saggi dei fronti militari in provincia. Solo nel censimento della fine del 1945 idati circa le distruzioni di immobili civili sembrano più precisi in quanto oggettodelle pratiche di ricostruzione del dopoguerra. Infatti, durante gli 85 attacchi

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aerei, 49 mitragliamenti, 24 bombardamenti, 12 bombardamenti e mitragliamenti,in otto comuni le distruzioni oscillavano tra il 75 e il 92 per cento dato parzialeper difetto riassunto dalla prefettura di Littoria. Non è difficile comprendere chetali picchi si raggiunsero nei Comuni a ridosso delle linee dei fronti sud e norddella provincia. Più precisamente la distruzione degli immobili per bombarda-menti e cannoneggiamenti fu di 6942 case totalmente distrutte (53000 stanze) ela creazione di una massa di 20000 abitanti senza alloggio. In tale ambito, dallericostruzioni appare evidente che la rete di sorveglianza aerea e di allerta notturnae diurna era più una disposizione cartacea che realtà. L’organizzazione della di-fesa della popolazione, che era pertinenza dei gruppi comunali e Sindaci e la retedi rifugi attrezzati, erano praticamente assenti. Lo sfollamento antiaereo eraquello spontaneo e il rifugio nelle campagne o colline era l’unico mezzo di difesae riparo per intere famiglie. E proprio intorno alle operazioni di bombardamento,ai loro tragitti e obiettivi in questi ultimi anni si accentra l’attenzione della sto-riografia sia italiana che di ambito anglosassone. Se si analizzano tali tragitti èdifficile comprendere i comportamenti militari dell’aviazione inglese e ameri-cana, perché non sono solo i fronti strategici e le loro retrovie oggetto di bom-bardamento aereo. Inoltre, non si comprende quanto l’errore militare abbia incisosugli esiti tragici delle operazioni aeree che spesso colpivano i centri storici col-linari senza evidenti motivi. I comandi inglesi già prima della guerra avevanorealizzato foto-planimetrie con l’esatta collocazione degli impianti industriali,stazioni, strade, depositi e collegamenti da colpire in caso di guerra e i piloti ave-vano a disposizione tali obiettivi, anche se la difficoltà nasceva dalla necessitàdi riconoscerli visivamente. Ma questo può spiegare il mitragliamento sui centriurbani o i bombardamenti di centri storici di Priverno, Terracina, Sezze, Sonnino(per dire i casi emblematici) dove viveva la maggior parte dei cittadini ? Siamosicuri che anche in questo una perdita del limite morale non sia la stata causatadella non ponderata considerazione delle conseguenze? E perché escludere dallecause un perdurante considerazione negativa degli italiani colpevolizzati per laderiva militarista del Fascismo? E’ evidente che tali fenomeni niente affatto iso-lati (di cui è difficile ponderare la consistenza in termine di morti) abbiano de-terminato diffidenze, ostilità e astio verso le forze anglo-americane, anche in chiaveva ormai maturato una critica al fascimo pontino accusato a ragione di dimo-strarsi incapace di realizzare un minimo di difesa delle popolazioni.

Per quello che attiene alle strutture economiche e le infrastrutture civili loscenario di distruzione è gravissimo. Ecco un’efficace sintesi proposta da Pier-Giacomo Sottoriva, che è utile riportare per intero: “- le banchine portuali di Gaeta, Formia e Terracina vennero distrutte da carichedi dinamite piazzate dai tedeschi- le flottiglie da pesca vennero quasi interamente affondate per rendere inutiliz-zabili gli accosti alle banchine già distrutte;- una carta dell'Opera nazionale Combattenti, realizzata attraverso sopralluoghie la istruttoria delle pratiche di risarcimento dei danni di guerra, attribuisce al-l’Agro Pontino 299 poderi (erano stati costruiti solo negli anni immediatamenteprecedenti) distrutti, 507 fortemente danneggiati e 954 danneggiati, con 4205

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vani distrutti e oltre 8000 danneggiati;- 10.468 ettari di superficie agricola furono allagati dai tedeschi mediante la rot-tura delle opere di bonifica e rimasero sommersi e sottratti all’agricoltura perdue anni (1944-45);- 71 mila metri cubi di stalle e magazzini furono distrutti e circa 100 mila dan-neggiati;- il 50 per cento dei macchinari agricoli o dei mezzi di trazione furono annien-tati;- l’agricoltura subì la perdita di oltre 6.500 ettari di superficie boschiva, di 8,5milioni di viti totalmente distrutti e di altri 4 milioni danneggiati; di 220 milaolivi perduti e 150 mila danneggiati, di 600 mila alberature varie distrutte o dan-neggiate;- per quanto riguarda le scorte vive, andarono perduti 47.491 bovini, pariall'83,4% del patrimonio anteguerra; 6495 equini, 59.303 ovini, 11.000 suini.”

Più studiate sono state le operazioni di distruzione delle opere di bonifica eil minamento costiero realizzato dalle divisioni tedesche con il sostegno operativoo la mancata reazione dell’ONC (Opera Nazionale Combattenti). E si comprendeperché: tali operazioni colpiscono l’immaginario collettivo della funzione rige-neratrice delle terre pontine che il Fascismo aveva propagandato negli anni trenta.Dalle ricostruzioni è evidente che i responsabili del fascismo pontino tra la finedel 1943 e l’inizio del 1944 non vogliono o non riescono a opporsi alle decisionidel Comando germanico e, consci di ciò, al massimo cercano di limitare di effettidella distruzione delle paratie, dei canali, lo smontaggio delle idrovore ma difatto non sortiscono alcun risultato nell’affievolire le condizioni di disagio dellepopolazioni coloniche e non. La palude ritornò sui terreni inondando casolari,aziende agricole, strade di bonifica, ricreando le condizione di una virulenta ri-nascita della malaria. Insieme all’impaludamento, il minamento rappresentò unainutile barriera preventiva (visto gli eventi dello sbarco degli alleati del gennaio1944) e causa di una quantità di invalidi e morti durante e dopo la fine del con-flitto, non ancora censita.

Riprendendo la sintesi di Sottoriva, questa è la situazione“- nel campo delle opere pubbliche e di bonifica, fu messo fuori uso il 50% degliimpianti idrovori e andarono distrutti o gravemente danneggiati 30 ponti in ce-mento armato costruiti da pochi anni. Nel conto entra anche la perdita di diser-batrici per i canali, l’intasamento delle foci e il taglio di argini dei fiumi, ilsabotaggio di paratie, di ponti, strade, porti, ferrovie, lo smontaggio e il furto dimacchine idrovore.

A queste perdite si aggiunsero due conseguenze direttamente connesse con laguerra: le malattie, a cominciare dalla malaria, che assunse un carattere epidemicoe che investì tutti i paesi costieri e di pianura, da Cisterna a Minturno; e la morteper esplosioni di ordigni bellici. Va in proposito ricordato che circa 12.259 ettaridi terreno agricolo furono minati, insieme a circa 100 km di litorale, per una pro-fondità che andava fino a 5-600 metri” e aggiungiamo noi la crisi generale del-l’assistenza sanitaria che durante gli anni ’30 il fascismo aveva con difficoltà

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costruito. Insomma la guerra presentava il suo conto che consisteva in una regres-sione economica e civile che andava ben oltre la situazione pre-bonifica.

Ma se da un piano economico passiamo in rassegna le acquisizioni della storiasociale e politica dell’ex provincia di Littoria le questioni diventano più compli-cate. Ci viene in soccorso parzialmente l’opera di Folchi che, in diversi capitoli,descrive la crisi del fascismo pontino. La sensazione che emerge è quella di unosmottamento generale del regime, delle sue organizzazioni comunali e provin-ciali, una fuga precipitosa dalle proprie responsabilità e all’incapacità di fron-teggiare le decisioni delle autorità militari tedesche. Ma questa è un’impressionegenerale, che ancora deve essere dimostrata attraverso l’analisi dei comporta-menti dei dirigenti dei Fasci di combattimento e delle sezioni del PNF locali.Storiograficamente siamo di fronte a uno squilibrio narrativo: di fronte a suffi-cienti analisi economiche, tecniche della bonifica prima degli anni della guerra,lo studio del fascismo politico, la rete organizzativa del ceto amministrativo, deiPodestà e il cambiamento dei comportamenti dopo il luglio del 1943, sono tuttorada delineare. Certo si assiste a quel nuovo trasformismo che portò una parte delceto dirigente fascista a inserirsi nelle dinamiche di potere della nuova Italia re-pubblicana. Ma quanto sia stato largo questo comportamento, cosa lo motivassee quale atteggiamento assunsero le autorità militari americane e governative ita-liane (Prefetti ad esempio) è tutto da indagare sistematicamente. In soccorso, percolmare questa lacuna storiografica, potrebbero dimostrarsi utili le analisi deiprocessi di epurazione che si sono svolti o che si sono interrotti o le documenta-zioni dei partiti politici che si riorganizzarono dal giugno del 1944. Ma ad oggila documentazione dei partiti è ampiamente dispersa (ad esclusione dei versa-menti del PCI presso l’archivio di stato di Latina).

Sgombero delle popolazioni e rastrellamentiLa vicenda degli sfollamenti tra la fine del 1943 e tutti i primi mesi del 1944

è emblematica dei rapporti tra i comandi tedeschi e le autorità repubblichine fa-sciste della provincia di Littoria. Se all’inizio gli sfollamenti dei comuni vicinoalle linee di fuoco (Castelforte, Fondi, Itri, Minturno, Formia) e della fascia co-stiera (Borgo Hermada-Terracina, S. Felice durante il settembre 1943) erano al-meno concertati con il prefetto, di fronte alla resistenza delle autorità locali, ilcomando germanico assunse direttamente la decisione di impartire gli ordini sal-tando a piè pari le autorità repubblichine. Il 20 gennaio si prevedono altri 31483sfollati da veicolare presso città del nord. Pochi giorni dopo avviene lo sgomberodei Comuni e i borghi vicino alle aree di sbarco degli anglo americani di Nettunoe Anzio. Ma lo sgombero forzato delle persone e famiglie risultava complicatoper il rifiuto dei contadini di lasciare incustodite le stalle, i magazzini e le casecoloniche, e per la diffidenza dei cittadini dei centri urbani ad allontanarsi dallecomunità, preferendo optare per il ricovero nelle vicine campagne dei Comunidelle colline. Di fronte a tale disordine, il 17 marzo 1944 con il precipitare dellasituazione il comando di divisione tedesco emette l’ordine di sgombero di 220000persone di tutta la provincia in tre fasi, da radunare in aree di “raccolta” e inviarea Breda, Cesano e Narni (comunicando il provvedimento alla Prefettura di Pri-

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verno). Tale direttiva viene poi sospesa il 28 marzo seguente, ad esclusione dellapopolazione di buona parte delle realtà della bonifica, che dovette sopportarelunghi tragitti con mezzi di fortuna o a piedi verso il borgo di Fossanova e Car-pineto, che divennero crocevia di molti sfollati. In realtà gli sgomberi andaronoad aumentare l’afflusso straordinario verso Roma (si parla di 300000 sfollati) efinirono per aggravare le condizioni alimentari della Capitale, ampliando il mer-cato nero e elevando il costo degli affitti. Tale fenomeno è quantitativamente si-gnificativo perché di fatto aumentò la pubblica disistima del governorepubblichino di Salò e dimostrò l’inefficienza del fascismo di Littoria e dellecittà nuove. L’altro fenomeno ancora da ricostruire con un’aggregazione dei datiè quello dei rastrellamenti tedeschi durante l’occupazione del 1943-1944. Datala vicinanza e la facilità di trasporto verso la linea Gustav era molto convenienteai Comandi tedeschi considerare i Comuni della provincia di Littoria e di Frosi-none un “naturale” serbatoio di manodopera. L’argomentazione che il lavoro dicostruzione delle opere di difesa sulla linea di Cassino, da questo punto di vista,rappresentasse una “fortuna” per molti maschi dei Comuni collinari e si sianoevitati molti trasferimenti nei campi di lavoro o fabbriche militari in Germania,appare plausibile. Ma questa appare più una induzione che una tesi dimostratadalle aggregazioni di dati dei singoli comuni.

Il caso storiografico degli stupri del 1944Le donne dei comuni del Frusinate e dei Comuni lepini dovettero sopportare

un altro fenomeno di inusitata violenza da parte dei reparti di marocchini-Gou-miers aggregati alla legione francese. La ricostruzione di tale violenza ha subitonegli ultimi anni una importante accelerazione sotto la spinta di alcune ricercheche oscillano tra antropologia, sociologia e storia. La geografia degli stupri com-prende l’area settentrionale della provincia di Napoli e Caserta, il frusinate, laprovincia di Littoria fino a Viterbo e parzialmente la Toscana meridionale. Ciòche colpisce è l’estensione temporale del fenomeno che perdura dalla metà dimaggio a tutto luglio del 1944, quando ormai questi territori erano stati già libe-rati, in un crescendo di allarme delle popolazioni e di sostanziale inerzia dei Co-mandi alleati.

La difficoltà della ricostruzione è conseguenza del carattere “molecolare”della violenza che nelle campagne era perpetrata da piccoli gruppi di marocchini-Goumiers su singole donne o famiglie. D’altra parte il senso di vergogna, il li-mitato ricorso ai medici o il mancato ricovero negli ospedali pubblici, la pauradell’emarginazione comunitaria cui si andava incontro con la denuncia, sarannoinevitabilmente un ostacolo al censimento degli stupri per singole aree o comuni.Nonostante ciò le informative dell’Arma dei Carabinieri e dei Prefetti già dal 24maggio 1944 avvertivano del fenomeno i Comandi alleati, sottolineandone l’am-piezza, la gravità e l’allarme sociale che determinavano nelle popolazioni locali.Perché allora non si è intervenuti con le norme della giustizia militare per ridurrealmeno la tragica violenza sulle donne? Infatti passarono diversi mesi prima chei Comandi francesi (CEF) e la loro ambasciata prendessero posizione, ricono-scessero i fatti e emanassero disposizioni per il “risarcimento” alle donne vittime

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di violenza sessuale ad opera dei Goumiers. Nell’ottobre del 1944 il Ministerodegli esteri compila un censimento della violenza delle truppe marocchine, evi-denziando la differenza di comportamento tra queste e le truppe americane ma,data la situazione politico-militare, evitava valutazioni sul mancato interventorepressivo dei comandi militari della V Armata.

Molti erano Comuni della provincia di Littoria citati in questo elenco conl’indicazione del numero delle vittime di violenza e la quantità di infezioni ve-neree. Quantità approssimative, certamente sottostimate e non ancora censite.Ma le disposizioni per il risarcimento, che doveva iniziare con una dichiarazionegiurata raccolta dal Comune e oggetto di valutazione dell’Intendenza di Finanzae della “Società Restituire” per conto dell’ambasciata francese, non resero facileil riconoscimento della violenza subita.

Infatti, al di là della grave crisi amministrativa in atto dopo il maggio 1944,l’aver attribuito tale procedura ai Sindaci o al personale amministrativo, anzichéall’Arma dei Carabinieri, per esempio, ha reso più labile l’attestazione di veridi-cità.

Al 31 agosto del 1947 le domande per le tre province di Latina, Frosinone eViterbo erano 20000. Durante tutto il 1948, di fronte alla spinta degli organi diinformazione, delle petizioni, degli incontri pubblici, e delle interrogazioni par-lamentari, si riaprì la possibilità di presentazione delle pratiche e nel giro di duemesi (febbraio-marzo 1949) furono presentate altre 22000 domande di risarci-mento della violenza sessuale, derubricata “a danno di guerra”. Alcune inchiesteprefettizie evidenziarono che la raccolta delle istanze divenne questione di con-tesa politico-elettorale, oggetto di corsa clientelare al consenso durante le elezionidel 1948 e che, le istanze raccolte dai Comuni, spesso non rispondevano allareale quantità della violenza subita, dove in eccesso e dove in difetto.

Insomma, sembra che la battaglia politica comunale di forte contrapposizionetra Democrazia Cristiana e Fronte popolare del Partito Comunista e Socialistainquinasse di fatto la necessaria chiarezza circa le aventi diritto, tanto che leistanze furono pubblicamente accusate di non essere tutte veritiere, in quanto vi-ziate dal considerare il risarcimento una sorta di sussidio post bellico da gestireda parte dei Comuni a favore delle famiglie. Inoltre, tale diffidenza unita all’enor-mità complessiva dei risarcimenti (12 miliardi per 22000 domande), aprì un pro-cesso amministrativo lungo e mai chiuso, lasciando aperta la questione dellaquantità di violenze subite dalle donne di quei Comuni. Da allora per lunghi anniquesta tragedia è caduta nel dimenticatoio istituzionale, allargando il distacco trala memoria, la vergogna sociale, il dolore individuale e il pubblico racconto sullaguerra mondiale e sulla liberazione. Ma l’interrogativo che ci preme è il seguente:perché la storiografia della seconda guerra mondiale sembra accompagnare que-sta dimenticanza?

Al di là della tendenza semplicistica di un “revisionismo” non storico matutto ideologico, che vuole vedere una macchinazione politica e sociale degli al-leati contro gli italiani e le donne, tutto teso implicitamente a suggerire una su-periorità morale del fascismo o del nazismo difficile da dimostrare, per noi piùrealisticamente congiuravano a favore del silenzio diversi fattori. Insieme allanecessità di obliare i terribili fatti della guerra, la memoria della violenza subita

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dalle donne, insieme alle sofferenze dei prigionieri di guerra e ai reclusi nei campidi sterminio, venne rimossa pubblicamente eclissandosi nella memoria indivi-duale e familiare, perché forse dimenticare era necessario per mettersi dietro lespalle la miseria, la violenza della guerra e aprirsi alla speranza. Ma tale osser-vazione se vale dal punto di vista psicologico, non tiene conto delle convenienzepolitiche e della lettura della storia. Prima l’alleanza militare antinazista, poidopo il 1948, lo scontro tra democrazie e comunismo sovietico, rendono incapacii partiti della nuova democrazia italiana a soddisfare quelle esigenze di giustiziache non erano compatibili con logica delle contrapposizioni. Così la considera-zione che anche le armate alleate dovessero giustificare le azioni che andavanooltre i limiti morali accettabili di una condotta di guerra, era di per sé ritenutapericolosa. Inoltre, il riconoscimento e l’accettazione di tutte le nuove forze po-litiche da parte degli anglo-americani sembravano giustificare il silenzio duranteil 1944 e 1945 e, in questo processo di dimenticanza, si immerse anche la storio-grafia che ha evitato, per decenni, il riferimento a questo volto della guerra pernon macchiare l’immagine dei liberatori.

Così l’apertura della contrapposizione ideologica (DC contro Fronte Popo-lare), la necessaria convergenza sui risarcimenti delle violenze viene sostituitadallo scontro elettorale, deteriorandone anche in questo caso l’istanza di giustiziadelle donne colpite. La riapertura storica e il riemergere dalla memoria diffusa,come avviene per la Shoah e gli Internati Militari Italiani (cui rimandiamo il Let-tore nelle pagine seguenti), così si può spiegare solo quando entra in crisi la con-trapposizione ideologica degli anni della Guerra Fredda.

Così si riaprono i racconti.Ma cosa ha modificato le interpretazioni apologetiche di parte o quelle esclu-

sivamente militari? La loro difficoltà a dar conto dello scarto tra il racconto sto-riografico preminente, spesso intrappolato nella logica della Guerra Fredda, edil vissuto degli uomini delle comunità, dei fronti di guerra o dei campi di prigio-nia. Una parte di questo vissuto o emergeva parzialmente o spesso non trapelavanelle fonti ufficiali (delle Prefetture, delle Giunte comunali, negli organi ammi-nistrativi dello stato periferico e centrale). E pur quando affiorava non era spie-gabile con la categoria dell’ineluttabilità, cioè di un plus di violenza ritenutanecessaria e ineliminabile, accettata quasi come un fenomeno “inevitabile” e pre-sente in tutti i conflitti armati. Questo giustificazionismo storico spesso era raf-forzato con la descrizione di tali eventi come “specifici di un territorio, di alcunecomunità” e quindi non adatti a caratterizzare un conflitto militare.

Ma quando nella società cambiano gli umori, le sensibilità pubbliche eumane, cadono gli stereotipi e le paure, diventano inattuali riserbo e vergogna equindi i racconti si riaprono provocando domande pubbliche che spingono la ri-cerca a spiegare lo scarto interpretativo con più chiare e precise dimostrazioni ocon nuove tesi storiche. Così si riaprono i racconti.

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Riferimenti bibliograficiEvitando la bibliografia generale sulla seconda Guerra Mondiale, le indicazioni bibliografiche riguardano eslusivamenteopere con diretto riferimento alla storia regionale e delle comunità lepine o dei comuni della valle dell’Amaseno:Gabriella Gribaudi, Guerra totale. Tra bombe alleate e violenze naziste. Napoli e il fronte meridionale 1940-44, BollatiBoringhieri, Torino 2005;Gabriella Gribaudi, Le memorie plurali e il racconto pubblico della guerra. Il ruolo delle fonti orali nella riflessionestoriografica sul secondo conflitto mondiale, in Italia contemporanea, n. 275, 2014;Gabriella Gribaudi, Terra bruciata: le stragi naziste sul fronte meridionale: per un atlante delle stragi naziste in Italia,Napoli, 2003.Per il riferimento agli scritti di Autori britannici, francesi o riferiti al C.E.F., statunitensi e germanici si rimanda ahttp://www.dalvolturnoacassino.it/risorse/book_list.asp?n=3;Folchi Annibale, La fine di Littoria. 1943-1945, a cura della Regione Lazio, 1995-Ristampa 1999;Sottoriva Pier Giacomo, Cronache da due fronti, Editrice Il Gabbiano, Latina 2004;Id., I giorni della guerra in Provincia di Littoria. Luglio 1943-Maggio 1944, Cipes, Latina 1974;Regione Lazio, Quaderni della Resistenza laziale, Vol. VI, Stilgraf, Roma 1976;Angelini Edmondo, Gli anni della guerra a Priverno (1940-1945). Documenti dell’Archivio storico di Priverno, suComune di Maenza. Bombardamenti del 14 e 27 marzo 1944, Atti del Convegno 24-25 aprile 1999;Berti Antonio, Terracina 4 settembre 1943 ore 16.30. Il primo bombardamento aereo della provincia di Littoria, GrafichePd, Fondi 1996;Billone Pietro, La bonifica dei campi minati ed altri ordigni bellici in Italia dal 1944 al 1948, Bologna 1984;Bove Cesare, 8 ottobre 1943: un giorno da ricordare, su Città Comprensorio, Priverno;Caporossi Franco, Monti Lepini 1943-45, Occupazione, resistenza, liberazione, a cura dell'Associaz. Artisti Lepini, Tip.Centenari, Roma 1981;GozzerTito, Verso Roma con gli Alleati, corrispondenze sul quotidiano Il Tempo, su La Resistenza a Norma e nei MontiLepini (v.), Editrice Il Gabbiano, Latina 2004;Il Lazio in guerra. 1943-1944, a cura di Armando Ravaglioli (con diversi contributi), Newton & Compton, Roma 1997;Maraffino Donato, 1943: l’operazione sabotaggio della bonifica, tra bioguerra e tattica militare, su Contemporaneitàpontina. Rivista di storia, cultura ed eventi civili del Liceo Scientifico G.B. Grassi di Latina, Anno I, n. 0,Novembre 2003;Marafini Luigi, Quando la guerra si accanì su Cori, su Il Messaggero di Latina, del 27 gennaio 1984;Parisella Antonio, Comitati di liberazione, prefetti e sindaci nella provincia di Latina (1944-1946), su AA.VV.,L’altro dopoguerra Roma e il Sud 1943-1945, a cura di N. Gallerano, F. Angeli, Milano 1985;Zaccheo Luigi, La guerra vissuta a Sezze, su Il Lazio in guerra. 1943-1944, a cura di Armando Ravaglioli, Newton &Compton, Roma 1997;Fabrizio Carloni, Il Corpo di Spedizione Francese in Italia 1943-1944, Ed. Mursia 2006;http://www.biografiadiunabomba.it/bombardamenti_seconda.php;Storia partecipata http://wordpressprov.altervista.org/;http://www.sonnino.info/Sonnino/guerra/menug2.html;Claudia Baldoli, I bombardamenti sull’Italia nella Seconda Guerra Mondiale. Strategia anglo-americana e propagandarivolta alla popolazione civile, inhttp://humanities.exeter.ac.uk/history/research/centres/warstateandsociety/projects/bombing/;Aga-Rossi, Elena, Una nazione allo sbando. L'armistizio italiano del settembre 1943, Il Mulino, 1993;(English ed: A Nation Collapses: the Italian Surrender of September 1943 ,1999 and 2006);Baldoli, Claudia and Fincardi, Marco, ‘Italian Society under Allied Bombs: Propaganda,Experience, and Legend, 1940-1945, The Historical Journal, 2009;Baris, Tommaso, Tra due fuochi. Esperienza e memoria della guerra lungo la linea Gustav (Roma-Bari: Laterza, 2004- 1st. ed 2003);M. Gioannini-G. Massobrio, Bombardate l’Italia. Storia della guerra di distruzione aerea, 1940-45,Rizzoli, Milano 2007.

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ASCOLTARE, DIALOGARE, CONDIVIDEREI dilemmi dell’intervista in antropologia

di Alessandra Broccolini

Oggi, dopo quaranta anni di lavoro, mi accorgo come sia difficile sapere, prima delle risposte,

anche quale sia esattamente la natura e il ruolo della domanda.(Danilo Dolci, Nel tema di struttura creativa, 1987)

1. IntroduzioneNell'agosto del 2005 mi trovavo in un piccolo paese della Valle dell'Aniene

dove stavo facendo una ricerca promossa dalla Regione Lazio sui culti popolarilocali finalizzata alla catalogazione di "beni demoetnoantropologici immate-riali"1. Per questo io e altri colleghi "raccoglievamo"2 in diversi paesi della pro-vincia narrazioni di miracoli e leggende di fondazione di culti locali. Quel giornoavevo appuntamento con una anziana donna di settantacinque anni che avevoconosciuto qualche settimana prima in paese tramite il parroco, per farle una in-tervista. Avevo sentito la donna al telefono per prendere un appuntamento e piùvolte -di fronte ad un certo spaesamento da lei manifestato alla mia richiesta diintervista- avevo cercato di rassicurarla dicendole che ciò che le avrei chiesto diraccontare apparteneva alle sue esperienze di vita e a storie che liberamenteavrebbe deciso se raccontare o meno, senza particolari formalità.

L'antropologo che lavora con le interviste ha come vocazione l'ascolto dellevoci degli altri3. L'antropologo che lavora con le interviste ha come vocazionel'ascolto delle voci degli altri e cerca una sua modalità ideale per ascoltare questevoci, scegliendo di volta in volta nella pratica un proprio modo per arrivarci.Negli anni mi sono convinta di preferire un tipo di ascolto libero basato su uncolloquio che definirei "confessionale"4, cioè faccia a faccia, con tempi lunghi ela scelta di luoghi possibilmente silenziosi dedicati alla narrazione. Per questomotivo, pur non potendo dire apertamente ai miei interlocutori di farsi trovareda soli, ho sempre cercato di favorire un tipo di intervista di questo tipo. Sull'ap-proccio che ho definito "confessionale", rispetto all'intervista collettiva, dirò piùavanti, ma ora torniamo al paese nella Valle dell'Aniene.

Quando finalmente trovai la casa della donna e suonai alla porta, la porta siaprì, ma di donne, anziché una ne trovai quattro. La signora aveva invitato tredonne anziane come lei, le quali mi accoglievano sorridendomi. Immaginandouna intervista molto rumorosa e difficile da gestire (nonché da trascrivere), in-

Alessandra Broccolini è antropologa e ricercatrice dal 2008 presso il Dipartimento di Scienze Sociali ed Economiche della SapienzaUniversità di Roma dove insegna Antropologia Culturale. Si occupa di feste e rituali, beni demoetnoantropologici, patrimonio culturaleimmateriale e politiche dell'identità. Ha svolto numerosi lavori di catalogazione e documentazione in beni DEA per enti pubblici e percandidature UNESCO. Tra le sue ricerche recenti: politiche dell’identità e turismo a Napoli, artigianato del presepe, feste e rituali inambito urbano e rurale, candidature UNESCO e partecipazione comunitaria, pesca tradizionale nel Lago di Bolsena, periferie urbane,immigrazione ed ecomusei.Tra gli altri ricordiamo “Folclore, beni demoetnoantropologici e patrimonio immateriale in alcuni contestiregionali, in Mariuccia Salvati e Loredana Sciolla (a cura di), L’Italia e le sue regioni, vol. III Culture, Roma, Istituto della EnciclopediaItaliana Treccani, 2015b, pp. 175-188 e Santi, pantasime e signori: feste della Bassa Sabina, Roma, Espera, 2013.

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goiai silenziosamente il rospo e mi accomodai. La casa era modesta, ma c'era unsalotto dove la padrona di casa aveva allestito un piccolo rinfresco con caffè, bi-scottini e quant'altro; sembrava che tutte e quattro le donne mi stessero aspet-tando. Così, tirai fuori il registratore, mi presentai cercando di fare sentire ledonne a loro agio (ma mi accorsi presto che a doversi mettere a proprio agio eroio), spiegai le ragioni della mia visita e iniziai a farle parlare, cominciando perragioni di cortesia dalla padrona di casa. Ma prima chiesi alle donne di non so-vrapporre troppo le loro voci, perché nel riascoltare la conversazione avrei ri-schiato di non riconoscere più il parlato. All'inizio le donne furono moltodisciplinate; iniziò la prima, poi una seconda e via via le altre; sembrava che lemie interlocutrici si dessero i turni nel parlato raccontando ciascuna le propriememorie e storie di miracoli, esperienze di pellegrinaggi, storie familiari e leg-gende di fondazione. L'intervista nel suo complesso fu quindi molto interessanteper la ricchezza delle testimonianze. Tuttavia, ben presto mi accorsi di un aspettogenerale interessante del quale avrei fatto esperienza più volte negli anni se-guenti; ebbi chiara la percezione che quando si lavora con le fonti orali, l'inter-vista costruisce un setting di dialogo tra intervistatore e interlocutori, che cometale può cambiare più volte nel corso dell'intervista stessa. Ad un certo momento,infatti, il clima inizialmente solenne e un po' formale dei primi racconti si am-morbidì e le donne iniziarono a parlare tra loro, a raccontarsi storie di paese ri-dendo e schiamazzando come delle giovani ragazze in gita scolastica, in uncrescendo sempre più rumoroso. La cosa si protrasse per diverso tempo, fino adoccupare ad un certo momento l'intera conversazione. Sembrava quasi che questedonne avessero colto l'occasione dell'intervista da me sollecitata per incontrarsitutte insieme in uno spazio di libertà amicale nel quale fare delle chiacchiere inprivato, ed era difficile tenere loro testa riportandole ai loro "doveri" confessio-nali, perché in fondo erano quattro contro uno. Non solo, ma ad un certo mo-mento inserirono anche me nel "loro" spazio di libertà, assegnandomi il ruoloche effettivamente mio malgrado avevo, quello di essere una donna provenienteda Roma della quale loro non sapevano nulla e alla quale quindi, chiedere tutto.Infatti, un terzo setting, imprevisto e ancora più lontano dal modello "confessio-nale" che cercavo di adottare, si produsse quando mi accorsi che le quattro si-gnore, oltre a parlare tra loro usando me come transfer, si erano fisicamentedisposte a corona intorno a me ed avevano iniziato ad "intervistarmi". Quasisenza accorgermene iniziai così a raccontargli pezzi della mia vita: i miei studi,la ricerca che stavo facendo nell'area, poi il mio matrimonio, il figlio, la soffe-renza di una separazione, la precarietà economica, il viaggio che avevo fatto perarrivare là, le condizioni della mia macchina, la mamma.... un vero e proprio mo-mento "confessionale" all'inverso e non previsto, che si interruppe solo quandouna delle intervistate iniziò a raccontare una storia familiare che fece calare il si-lenzio nella stanza. La donna era l'unica sopravvissuta di una strage familiareprovocata alla fine degli anni Quaranta da una intossicazione da funghi. Congrande capacità narrativa e solenne scansione temporale la donna, occupandoquasi metà dell'intera intervista, raccontò tutte le fasi dell'intossicazione, indi-cando già dalle settimane precedenti tutti i segni nefasti che facevano presagire

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l'evento e come uno ad uno nel corso di diversi giorni e dopo atroci sofferenze,morirono tutti i componenti della sua famiglia. Un racconto terribile, imprevistoanche questo che fece nuovamente cambiare il clima, le relazioni ed i rispettiviruoli dentro l'intervista.

In una "vera" intervista individuale -mi domandai quando uscii dalla casa-tutto questo sarebbe accaduto ? Questa intervista era stata un successo o era statainsoddisfacente ? Se l'intervistato o gli intervistati fossero stati tutti uomini, o sela composizione fosse stata mista sarebbe accaduto lo stesso? E se l'intervista sifosse svolta in un contesto familiare alla presenza di più generazioni (nonni, in-sieme a figli e nipoti) che setting si sarebbe prodotto?

Quando si producono delle interviste antropologiche è frequente fare espe-rienza di situazioni come quella raccontata, anche se le varianti possono essereinfinite. Tuttavia, le dinamiche che abbiamo visto sembrano non rientrare in nes-suna delle tipologie che normalmente leggiamo sui manuali di metodologia dellescienze sociali. Benché ogni intervista parta in teoria da una concezione "lineare"-la coppia domanda-risposta- nella quale, anche in presenza di più soggetti, c'èsempre una persona che fa le domande e una persona che risponde5, spesso lecose si complicano e assumono sfumature uniche. L'antropologo che intervistae lavora con le fonti orali (come anche lo storico) va spesso incontro a contestieterogenei che sembrano anomali rispetto ad una idea cristallina e manualisticadi intervista, ma queste apparenti anomalie altro non sono che le "normali" ano-malie delle storie della vita delle persone che si incontrano, date dalle infinitepossibilità dei vissuti, delle memorie e dei diversi contesti in cui l'intervista sicala. In questa "anomalia" sta forse il senso dell'intervista "antropologica"; nonsolo perché le domande che rivolgiamo ai nostri interlocutori sono orientate cul-turalmente o vanno nella profondità di un tempo che è più lungo, rispetto ad altritipi di interviste, ma perché coinvolgono le vite, nostre e delle persone che inter-vistiamo, in un modo che non rientra nelle tipologie indicate dai manuali discienze sociali. E la classificazione operata dalla manualistica non riesce ad in-capsulare le esperienze multiformi che questa straordinaria occasione di con-fronto umano produce. L'intervista alle quattro anziane signore (e alla sottoscritta)in che tipo di intervista poteva essere classificata? Strutturata, semistrutturata,libera o focus group?

L'anno successivo a quella intervista (e alle molte altre che vennero), sempread agosto, mi trovai in un setting completamente diverso, che voglio raccontarecome paragone per riflettere sull'intervista antropologica e sulle sue implicazioni.Ero insieme ad alcuni colleghi, ad Esperia, paese della provincia di Frosinonesui Monti Aurunci, dove stavamo lavorando ad una ricerca sulle fonti orali pro-mossa dal Museo della Pietra di Ausonia dedicata alla memoria della guerra6. Inparticolare si lavorava sulla memoria delle violenze subite dalla popolazione ci-vile per opera delle truppe alleate nel famoso maggio del 1944, delle quali si ri-cordano soprattutto quelle perpetrate dai goumiers, truppe marocchine al seguitodell'esercito francese7. Tra le persone, soprattutto donne, che incontrammo inquesto breve ma intenso lavoro di ricerca, ci fu un uomo di quasi settant'anni,che all'epoca dei fatti aveva sei anni. Anche in questo caso, quando lo andammo

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ad intervistare nella campagna di Esperia, si aprì la porta della casa alla qualeeravamo stati indirizzati, e ci si presentò davanti una piccola folla di persone chemi fece subito immaginare un esito rumoroso come quello già raccontato. E in-vece, questa volta l'intervista andò in una direzione completamente diversa ri-spetto alla precedente. Nessun altro, oltre al nostro intervistato, in quelpomeriggio parlò. Perché questa differenza rispetto al caso raccontato in prece-denza ? Sicuramente le motivazioni del nostro essere lì erano molto diverse per-ché l'intervista che dovevamo realizzare riguardava un momento preciso (einciso) nella memoria locale; non eravamo lì per effettuare una survey generalistaEravamo anche tre ricercatori a condurre l'intervista (e tra questi un uomo), masoprattutto perché l'autorevolezza del testimone della memoria era tale da im-pregnare l'intera intervista e impedire agli altri di intervenire. Ci trovavamo infattidentro un setting familiare, con la moglie dell'uomo, una figlia, e proprio nellacasa nella quale l'uomo aveva vissuto i mesi, i giorni e le ore che avevano segnatol'arrivo delle truppe alleate e dalla quale partirono i suoi racconti. Fummo accoltinel grande soggiorno cucina della casa, ci presentammo, ci sedemmo tutti a co-rona intorno all'uomo e accendemmo il registratore. Quando l'uomo iniziò a rac-contare, ed aveva un grande desiderio di farlo perché -come apprendemmo dopo-non aveva mai raccontato pubblicamente quelle memorie, ci fu il silenzio asso-luto e per due ore esatte nessuno, né noi né i familiari dell'uomo, parlò. L'uomoanziano in quel momento tornò bambino, un bambino di sei anni che ricordavae restituiva con lucidità impressionante i mesi, i giorni e le ore vissute dentro efuori la casa, in montagna, nei boschi, in fuga per sopravvivere, che ricostruiva(e ridefiniva) con precisione persone, incontri, visi, rumori di artiglieria. Di frontea questo racconto, di fronte alla memoria scolpita e riattivata di questo bambinoche stava "riannodando" momento per momento, quasi centimetro per centime-tro, quelle giornate, tutti noi rimanemmo in silenzio. L'uomo ci faceva vederevisivamente cosa era accaduto in quei boschi; mentre parlava lo vedevamo cor-

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rere nel bosco, fare la spola tra la casa e il rifugio. In quel momento il suo esseretestimone di un momento storico importante che aveva segnato lui bambino e lacomunità più ampia, lo aveva trasformato in una sorta di medium tra assi tem-porali e generazioni diverse; per questo l'intervista assunse il ritmo e la forza diun rituale di rielaborazione della memoria traumatica, del quale noi eravamoparte.

2. Tra conoscenza, dialogo e documentazione Ho sempre una certa ansia quando devo fare un'intervista. Forse perché nes-

suno mi ha mai insegnato direttamente come si fa (il cosiddetto know how) equello che so, ho dovuto costruirmelo sull'esperienza e gli errori piuttosto chesulla teoria. Che la ricerca sul campo non si apprende sui libri è opinione piuttostocondivisa tra gli antropologi. Come ha osservato Olivier de Sardan, in antropo-logia l'atto dell'intervistare è qualcosa che non si apprende nei manuali, ma ha ache fare piuttosto con una forma di apprendistato8. Questo carattere un po' arti-gianale e quasi di "improvvisazione", insieme all'idea che la stessa ricerca sulcampo sia una questione di abilità e di intuizione, lascia in ombra la questionedelle competenze e quindi della formazione, che pure hanno avuto largo spazionella manualistica. Soprattutto in ambito anglosassone, esiste una consistenteproduzione di manuali relativi alla ethnographic interview9, che è considerevol-mente cresciuta nel corso della storia dell'antropologia stessa.

In genere, per tornare all'intervista, cerco di prepararne il setting in luoghi ilpiù possibile silenziosi e facendo in modo che le persone siano sufficientementededicate, libere da impegni e a loro agio. Tuttavia, lo stato d'animo che provonei momenti che precedono l'incontro con la persona, che andrò ad intervistareè sempre di spaesamento e di emozione, simile a quello che negli anni passatiprovavo prima di un esame. C'è una imprevedibilità, una indefinitezza nell'in-tervista di vita, che non ci permette di poterne prevedere l'esito e l'immagine chepiù evoca questo momento è quella di un perdersi e del dover trovare una via.Non sappiamo infatti chi ci troveremo di fronte, quali difficoltà prenderà la con-duzione dell'intervista, quali parti di noi dovremo condividere, quali celare, chemutamenti di passo dovremo operare a seconda delle fluttuazioni del dialogo.Un esito incerto che non è dato solo dai fattori ambientali o soggettivi, di trovarsidi fronte a persone particolarmente chiuse o al contrario logorroiche, ma è l'in-certezza di una relazione umana che produce comunque un coinvolgimento per-sonale reciproco, dalle implicazioni forti, che non si esaurisce in un semplice"prelievo" di informazioni, ma produce anche un disvelamento di sé di fronte achi stiamo intervistando. L'intervista è infatti un dialogo, anche quando sembraun monologo, ed è unica, evento irripetibile e significativo, anche quando cimette in difficoltà o non ne siamo soddisfatti.

Eppure, questa consapevolezza della natura dialogica dell'intervista, è arrivatain antropologia solo in tempi relativamente recenti. O forse sarebbe più giustodire che è stata riconosciuta tardi nella storia disciplina l'importanza che la rela-zione umana prodotta dall'intervista ha nel conoscere antropologico. Il modo diintendere l'intervista è infatti andato incontro a diverse fasi che hanno coinciso

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con i mutamenti del suo statuto epistemologico. Fatta eccezione per la prima an-tropologia comparativa, che non ne conosceva la pratica, quasi tutte le tradizionisuccessive, da quelle documentarie comparative (es. la folkloristica ottocentesca,gli studi demologici) a quelle sistemiche etnografiche (funzionalismo, struttura-lismo, etc.) si sono misurate prima con la trascrizione di miti, canti, linguaggi,fiabe e poesie popolari e in seguito con la registrazione di testimonianze dirette,avvicinandosi così a definire una pratica di intervista. Tuttavia, diversamente daaltre discipline, come la sociologia, dove è utilizzata come metodologia auto-noma, è soprattutto nel fieldwork, nella ricerca sul campo, che l'intervista ha gua-dagnato in antropologia un suo statuto metodologico come strumento diconoscenza connesso ad una permanenza sul campo e all'osservazione esperien-ziale di un determinato contesto di vita. In questo senso l'intervista è calata nel-l'osservazione “etnografica”, dunque connessa al contesto di vita e finalizzata aconoscere il punto di vista degli attori. Come osserva Olivier de Sardan, benchéaffini per alcuni aspetti, antropologia e sociologia, sembrano infatti distinguersi‘malgrado tutto’ per le forme di indagine empirica che ciascuna di esse privile-gia". Ovvero l'inchiesta con questionari per la sociologia e il campo per l'antro-pologia, anche se tale distinzione non è così netta e si danno molte varietà diforme intermedie10.

Nella tradizione antropologica si possono distinguere due fasi che hanno ca-ratterizzato il modo di intendere l'intervista etnografica, la prima coincide con lasua fase positivistica e la seconda con la cosiddetta "svolta ermeneutica" o ri-flessiva. L'antropologia classica che ha promosso il fieldwork come pratica fon-dante della disciplina concepiva l’intervista etnografica e la ricerca sul camposecondo una epistemologia positivista, la quale presumeva che i cosiddetti "in-formatori" fossero depositari di un sapere oggettivo sulla propria cultura (pratichenorme, credenze, ecc.), che andava "prelevato" attraverso una metodologia. Que-sta metodologia era appunto l’intervista, combinata ad altre tecniche, come l'"os-servazione partecipante", la ricostruzione di genealogie o di sistemi di parentela,grafici, disegni e altro tipo di documentazione. Lo sforzo metodologico dell'et-nografo, insieme a quello esperienziale relativo all'osservare e al partecipare allavita sociale, era quello di produrre e affinare strategie affinché si potesse cono-scere la "cultura" nativa (secondo i differenti approcci, funzionalista, strutturali-sta, ecc.), nel modo più giusto sul piano etico e più utile sul piano scientifico.

Benché questo modo di intendere la ricerca sul campo abbia prodotto in an-tropologia una mole consistente di riflessioni sugli aspetti etici e scientifici rela-tivi al conoscere antropologico, al rapporto con gli informatori e all'uso dei dati,il modello di conoscenza aveva come fine sistemico quello di conoscere la "cul-tura" attraverso l'informatore, inteso come depositario di conoscenze, visioni delmondo e pratiche rappresentative. Nelle etnografie classiche, infatti, sia l'inter-vista che il rapporto con gli informatori, sono in genere poco visibili come partedel processo di produzione del sapere, proprio perché si dava per scontata la tra-sferibilità del sapere11. Anche quando a partire dagli anni Settanta, con lo sviluppodi un'antropologia sempre più attenta alle categorie linguistiche indigene, l'in-tervista viene avvicinata agli "eventi linguistici" (speech event), il suo fine è sem-

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pre quello di ricavare un sapere, per arrivare a possedere dei "dati" sulla "cultura"indigena che si intende studiare.

Se prendiamo come esempio The Ethnographic Interview un testo classicosull'intervista etnografica scritto negli anni Settanta dall'antropologo americanoJames Spradley e usato negli anni da generazioni di studenti, vediamo quelli chein antropologia sono stati i canoni dell’intervista etnografica. In questo manualeil primo elemento fondamentale indicato per poter svolgere un'intervista etno-grafica è il linguaggio, cioè la competenza linguistica da parte dell’etnografodella lingua dell’informatore; quindi il divieto di usare interpreti e mediatori lin-guistici. Il secondo elemento è l'enfasi sull’informatore come figura dai contornimolto chiari, che l’etnografo quando è sul campo deve scovare e "sedurre", af-finché questi sia disposto a collaborare. L'etnografo deve quindi individuare ilbuon informatore, il personaggio più rappresentativo e più calato nella realtà chesi deve esplorare. Il terzo elemento fondamentale, infine è dato dagli aspetti eticidella ricerca sul campo e dell'intervista. Problematica che ha portato nel 1971l’American Anthropological Association a stilare una serie di principi guida ditipo etico per gli etnografi che conducono interviste, soprattutto in situazioni sen-sibili e conflittuali. Tra questi: 1) Proteggere l'informatore: l'antropologo ha laresponsabilità di proteggere la sua salute fisica, morale e sociale, rispettare lasua dignità e salvaguardare i suoi diritti ed interessi; 2) Comunicare gli obiettividi ricerca: gli informatori hanno il diritto di conoscere gli scopi dell’etnografo edi ricevere una spiegazione adeguata circa le finalità del lavoro dell’etnografo;3) Proteggere la privacy dell’informatore: gli informatori hanno il diritto di ri-manere anonimi. Questo diritto deve essere rispettato anche se non ci sono ac-cordi diretti con l’informatore. Proteggere la privacy degli informatori va benoltre cambiare nomi, luoghi o altri tratti che permettono di identificare la persona;4) Non sfruttare gli informatori; 5) Comunicare agli informatori i propri rapportidi ricerca.

La manualistica antropologica ha definito negli anni anche le caratteristichedell''intervista etnografica rispetto ai molti altri tipi di conversazione nelle qualici si trova impegnati durante una ricerca sul campo. Prendendo il già citato ma-nuale di Spradley, la prima di queste è la "proposta esplicita": l’etnografo devespiegare chiaramente in quale direzione l’intervista andrà. Senza essere autori-tario, egli gradualmente deve prendere il controllo del discorso dirigendolo inquei canali che portano a scoprire la conoscenza culturale dell’informatore. Laseconda peculiarità è data dalle spiegazioni etnografiche: fin dal primo incontroe in ogni occasione possibile, l’etnografo deve ripetutamente offrire spiegazioniall’informatore, sul progetto di ricerca (che vanno tradotte in un linguaggio com-prensibile per l’informatore); sulla registrazione; sulla lingua nativa, incorag-giando l’informatore a parlare nel corso dell'intervista nella sua lingua nativa perevitare che questi traduca nella lingua del ricercatore; e spiegazioni sul tipo diintervista che si intende fare di volta in volta. La terza caratteristica è infine datadalla modalità di porre le domande "etnografiche" che nel manuale in questionevengono elencate e divise in grandi categorie, tra ad esempio: a) domande de-scrittive (es: "potresti dirmi cosa fai in ufficio?”); b) domande strutturali che

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hanno lo scopo di isolare dei “domini” e di scoprire come gli informatori hannoorganizzato la loro conoscenza (es: "quali sono i diversi tipi di piante che raccogli?”); c) domande di contrasto finalizzate a capire cosa intende l’informatorequando usa determinati termini (es. “Che differenza c’è tra un X e un Y ?”).

A partire dagli anni Settanta del Novecento questi modelli di conoscenza, cheper decenni hanno caratterizzato la ricerca antropologica, sono entrati in crisinelle scienze sociali; è mutato profondamente il modo di intendere il conoscereantropologico e dunque anche le sue metodologie. Inizia ad essere messo in di-scussione il paradigma verità/falsità che per anni ha caratterizzato il conoscerescientifico e insieme ad esso l'esistenza di verità oggettive da elicitare attraversouna specifica metodologia. Sempre più ci si rende conto che l’antropologo sulcampo non va a "cogliere" informazioni e dati oggettivi o "estrarre dati” comeuna miniera12, equipaggiandosi metodologicamente per portare a termine il suocompito, ma che il sapere (e la cultura) li va a "costruire" insieme all’informatorenell'atto stesso dell'interazione che avviene nel corso dell'intervista o nell'osser-vazione stessa, attraverso l'incontro tra il vissuto (suo e dei suoi interlocutori) eil proprio background culturale e personale. "In tutti i casi -scrive Olivier de Sar-dan- il colloquio di ricerca è un'interazione: il suo svolgimento dipende eviden-temente sia dalle strategie dei due (o più) partner dell'interazione, e dalle lororisorse cognitive, sia dal contesto in cui essa si situa"13. Ci si rende conto, quindi,che il sapere antropologico è sempre costruito, contestuale e situato e i cosiddetti"dati" esprimono il prodotto di una interazione tra due o più persone, ciascunacon il proprio retroterra culturale, linguistico ed esperienziale. Non tenere contodi questa dimensione ci fa cadere in quella che è stata definita un'"illusione rea-lista", o "falsa coscienza d oggettività"14. Questa presa di coscienza nel processoconoscitivo è ciò che in antropologia viene chiamata "riflessività", che ha carat-terizzato l'orientamento principale dell'antropologia cosiddetta postmoderna15.Di conseguenza, l'intervista sempre più viene concepita come un momento per-formativo che coinvolge l'interlocutore e il suo intervistatore, dove insieme al-l'applicazione di una metodologia specifica, che rimane come guida ed elementocaratterizzante una competenza disciplinare, è presente anche una consapevo-lezza da parte dell’etnografo della storicità e della contestualità dei parametri delconoscere scientifico. Il prodotto dell'intervista (testi, dati, informazioni) non vadunque a definire un sapere oggettivo in sé, ma è il risultato di un incontro tradue o più soggettività, che spesso si trovano in una posizione tra loro asimmetricaper via del ruolo "egemone" esercitato dall'intervistatore. In questo senso il sapereantropologico viene sempre più concepito come prodotto di uno scambio erme-neutico, di un dialogo prodotto dall'incontro, diventando multiforme e polise-mico. Questa apertura dell'intervista e del conoscere antropologicoall'ermeneutica fa entrare in primo piano nell'intervista la relazione umana. Nonpiù "tecnica" di servizio, al servizio del sapere scientifico, e non più solo "evento"linguistico prodotto dall'intervistato dal quale ricavare le categorie di pensieronative, l'intervista diventa un dialogo tra soggetti e per questo si mostra sfuggente,imprevedibile, riflessiva.

Va ricordato tuttavia che la dimensione dialogica dell'intervista, come osservagiustamente Olivier de Sardan, non è solo una "istanza ideologica" dell'antropo-

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logia postmoderna, ma anche e soprattutto una "costrizione metodologica", inquanto per poter ascoltare il nostro informatore, la postura dialogante dell'antro-pologo si rende necessaria affinché l'intervista non si trasformi in "interrogato-rio", ma assuma una forma di colloquio il più possibile vicina alle forme dicomunicazione locale16. Infatti, il grado di informalità che l'antropologo concedeall'intervista etnografica, lasciando fare all'interlocutore le digressioni che crede,ma anche le ripetizioni, le contraddizioni e tutto ciò che sembra allontanare dal-l'argomento della ricerca in senso stretto, è degno di nota per l'antropologo perchéapre nuove domande ed esprime forme di interpretazione e di rappresentazionedel sé o di confini culturali, che si offrono ad uno sguardo d'insieme. Entro l'am-pia casistica che caratterizza le forme di intervista praticate dalle scienze sociali,l'intervista etnografica si colloca dunque ad un estremo che l'avvicina alla con-versazione libera (intervista libera) mediata da un canovaccio di domande, lad-dove il questionario o l'intervista strutturata pone le domande in modostandardizzato e rigido (intervista strutturata) lasciando all'intervistato poco spa-zio di libertà17.

In Italia, nell'ambito delle discipline demoetnoantropologiche l'intervista ini-zialmente non appare come pratica di un fieldwork esperienziale di tradizioneanglosassone, quindi come metodologia etnografica tout court (approccio che inItalia è stato in passato minoritario). Ma è connessa soprattutto all'ambito demo-logico dove si è orientata verso la documentazione dei fenomeni folklorici, primacon l'uso di questionari e successivamente, nel clima di impegno politico-cultu-rale verso la cultura popolare del secondo dopoguerra, nelle inchieste demologi-che dove è stata usata come strumento per il "rilevamento" dei fatti folklorici18.Parallelamente essa è stata lo strumento primario nella ricerca sulle fonti orali,le storie di vita e nella documentazione dei beni culturali "demoetnoantropolo-gici", dove è stata ed è tuttora usata come strumento di ricerca nelle pratiche dicatalogazione19. Nell'ambito della ricerca etnoantropologica, l'intervista è statadunque fondamentale nella creazione di apparati documentali e di archivi chehanno contribuito, nel dialogo con gli storici orali, al riconoscimento professio-nale del profilo demoetnoantropologico, archivi nei quali le diverse soggettivitàtestimoniali hanno costituito la materia prima del conoscere e del sapere, oltreche base di riflessione dialogica. In questo senso l'intervista permette di arrivareal valore documentale e di testimonianza più che alla "cultura" sistemica toutcourt, alla "fonte" testimoniale, sia storica che demoantropologica, produttricedi "documenti" rivelatori di saperi, memorie, modalità narrative, performative,mnemoniche e identitarie legate alla cultura popolare. Dove al centro, come hascritto di recente Pietro Clemente, è "l'altro, non tanto come oggetto di indagine,ma come produttore di fonti"20. Lo stesso Alberto Cirese, pur collocando l'inter-vista demologica entro il paradigma della documentazione, distingueva già moltianni fa tra l'approccio demologico all'intervista e quello sociologico, attribuendoal primo una empatia tra osservatore e osservato e la necessità di una relazioneumana che non apparterrebbe alle metodologie sociologiche. Scrive Cirese: "vacomunque ricordato che l'inchiesta è un rapporto tra uomini e non tra uomini eoggetti o documenti"21. In ambito etnologico e antropologico-culturale l'intervista

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ha invece seguito in Italia strade diverse, ora in direzione della pratica etnogra-fica, collegandosi al panorama antropologico più ampio22, ora avvicinandosi allatradizione sociologica23.

3. Il dilemma delle voci: "L'antropologo che intervista"Nel suo recente saggio L'antropologo che intervista. Le storie della vita24,

Pietro Clemente sottolinea il dilemma che caratterizza la pratica dell'intervistain antropologia, in bilico tra conoscenza, dialogo ed esercizio di potere. Se infattiè stata riconosciuta l'importanza degli aspetti dialogici che si producono nell'in-tervista, che hanno messo in crisi il tradizionale modo positivista del conoscereantropologico (l'intervista come "prelievo", o "miniera" per l'"estrazione" di in-formazioni)25, dalla stessa antropologia sono scaturite le critiche che hanno sot-tolineato la dimensione di potere che questa esprimerebbe, come strumento inpossesso delle classi dominanti, le quali la utilizzerebbero "per soddisfare i propribisogni intellettuali"26. Secondo l'antropologo e linguista Charles Briggs:

"Per i membri dei settori egemonici della società, intervistare finisce col di-ventare parte di una pratica linguistica di buon senso; anche per questo chi som-ministra interviste può mostrarsi restio a sottoporre questo strumento ad unacritica troppo approfondita, vista la sua efficacia come mezzo per impregnaredi autorità i discorsi delle scienze sociali"27.

La questione centrale appare così ruotare intorno alla rappresentanza delle"voci" che si esprimono nell'intervista. Voci da "ascoltare" (qualcuno ha definitol'antropologia come una vocazione ad "ascoltare" le voci e a tradurle)28, da "dare"(il "dare voce" a gruppi minoritari e oppressi), o da "prendere" al posto di altriche non possono fare sentire la propria (la questione dell'advocacy in antropolo-gia). In questo senso la intendeva lo stesso Ernesto De Martino, che nelle Notelucane sottolineava il valore politico testimoniale del dire e del rendere pubblichele storie dei patimenti dei ceti subalterni, cui si è ispirata la ricerca sulle fontiorali tra demologia, storia e antropologia.29 Ma che non vedeva nell'intervistauno strumento di potere celato dietro una pratica apparentemente restitutiva dellealtrui soggettività e storie umane. E' sempre l'antropologo infatti ad avviare e ge-stire la registrazione. Inoltre, come sottolinea Briggs:

"Il discorso dell’intervista, sia per la sua forma che per il suo contenuto, èconcepito esplicitamente per essere ricontestualizzato il più possibile all’internodei testi creati in anticipo dal ricercatore; in questo processo, agli intervistativengono concessi pochissimi diritti"30.

Per questo oggi l'intervista appare una pratica nella quale si esprimono tuttequeste tensioni, etiche, politiche ed epistemologiche, tra conoscenza e una praticadi ascolto e restituzione delle voci dalle forti implicazioni etiche e politiche.

Sempre Clemente sottolinea quanto sia fondamentale quella che lui chiamala "domanda ulteriore", quella imprevista, che nasce dall'ascolto del contesto eche avvicina l'antropologo alla pratica "volpina" della quale parlava Geertz, cioèduttile e mutevole. Così come è fondamentale considerare l'ampia gamma di ruoliche si possono produrre nell'intervista, da quello "testimoniale" di un soggettocosciente del proprio ruolo storico di testimone epocale di mondi inabissati, che

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vuole raccontare ed essere ascoltato (il nostro testimone di Esperia) al ruolo"confidenziale" amicale che si può produrre tra interlocutori della stessa età egenere (quando ad esempio mi è accaduto di intervistare in solitaria donne dellamia stessa età "di mezzo"), o anche ruoli al contrario "materni" (come nel casodell'intervista che le anziane signore hanno rivolto alla sottoscritta).

La riflessione sulla dimensione generazionale che caratterizza il rapporto traintervistatore e intervistato è importante e ci porta a considerare i diversi posi-zionamenti di ruolo e di genere che in essa si producono. Al di là della volontàtestimoniale dell'intervistato, può risultare infatti fondamentale la distanza ge-nerazionale tra gli interlocutori.

Nella mia esperienza mi è capitato di intervistare soprattutto persone di etàavanzata, uomini e donne anziane nei cui confronti mi sono posta con il rispettoe il feeling che si può avere con i propri nonni. In questi casi la conversazione, èstato influenzato dal mio sentirmi ed essere percepita nel ruolo di una nipote. Unruolo destinato a cambiare: come saranno le interviste che rivolgerò ad anzianiquando la mia età sarà via via uguale o maggiore rispetto a quella degli intervi-stati e quando la relazione generazionale sarà forse paritaria o invertita? Lo stessopuò dirsi delle differenze di genere, tema ampio, sul quale si potrebbe sviluppareuna riflessione dedicata. L'influenza che l'età e il genere esercitano nella relazionetra intervistatore e intervistato ci ricorda che porre delle domande ad un interlo-cutore dobbiamo leggerlo entro la pratica delle relazioni interpersonali e socialie dimostra la natura fortemente empatica dell'intervista.

Un'altra bella espressione che Clemente dedica all'intervista antropologicacontrappone la routine dell'intervista strutturata o giornalistica all'"evento" su-scitato dall'intervista antropologica, soprattutto quando al centro è la vita stessadel soggetto. "L'evento è irripetibile -scrive Clemente- e le nostre registrazionie trascrizioni recano traccia dell'irripetibilità. Per questo ci interrogano. Puòsuccedere che l'incontro ti cambi"31. Solo l'intervista antropologica e quella distoria orale, infatti, portano con sé un'etica di profondo rispetto e di giusta di-stanza che si contrappone con decisione all'uso televisivo del dolore e delle vitealtrui che vediamo quotidianamente nelle interviste giornalistiche e negli spetta-coli televisivi. L'intervista come evento significa che l'"altro" è individuo, sog-getto, testimone e non contenitore/produttore di dati, né spettacolo o messa inscena.

Presa tra il conoscere e il dare la voce, l'intervista antropologica esprime dun-que una natura fortemente dilemmatica in bilico tra riflessività e produzione diconoscenza testimoniale, ma che forte della sua etica ossimorica della profonditànella giusta distanza, appare uno dei pochi mezzi che ci permettono di poteresplorare non solo le altrui soggettività, ma come osserva ancora Clemente: "l'og-gettività della soggettività e la soggettività dell'oggettività"32. Che più che essereun gioco di parole, sta ad indicare la possibilità di poter leggere culture, alteritàe diversità culturali, nelle esperienze dei soggetti, nelle rappresentazioni dellepratiche e nelle loro restituzioni narrative.

Sulla natura dilemmatica dell'intervista antropologica, anche Olivier de Sar-dan ci ricorda altri aspetti, come quello del cosiddetto "doppio legame" (doublebind), espressione introdotta da Gregory Bateson, che indica un rapporto di co-

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municazione nel quale il livello esplicito del parlato e quello implicito non ver-bale sono tra loro in contraddizione. Nel corso di un'intervista infatti, ciò chel'interlocutore esprime a parole -i contenuti del parlato- potrebbe non corrispon-dere alle sue intenzioni o stato d'animo (ad esempio mettersi in evidenza pertrarre qualche vantaggio, occultare, oppure compiacere l'intervistatore dicendogliquello che lui pensa l'intervistatore voglia, ecc.)33. C'è poi il dilemma di fare an-dare d'accordo il livello di attenzione critica che il ricercatore deve avere nei con-fronti di ciò che gli viene detto dall'intervistato (non prendere per oro colato tuttociò che dice) e la necessità invece di prendere le sue parole sul serio, perché èl'orizzonte di senso dell'intervistato che interessa l'antropologo che ascolta le"voci" degli altri, facendo attenzione però a non confondere la realtà con i discorsisu di essa. "Ecco un vero dilemma. Come mettere insieme -si domanda Olivierde Sardan- empatia e distanza, rispetto e diffidenza? Come per ogni dilemmanon v'è una soluzione radicale"34

4. Pratiche dell'intervista antropologicaBenché sia piuttosto diffusa l'idea -non solo da noi in Italia- che ciò che ha a

che fare con la ricerca antropologica non si impara nei manuali ma sia una que-stione di esperienza e competenza nell'ascolto e nello sguardo35, pensare agli er-rori, agli insuccessi o ai casi che consideriamo esemplari, ci permette di definireun know how che nella ampiezza delle scelte e delle possibilità, possiamo vederecome caratterizzato da qualche denominatore comune, come il modo di scegliere(o di farsi scegliere) dagli interlocutori, l'approccio da adottare tra intervista divita e intervista tematica, le domande da porre, o l'alternarsi tra le domande el'ascolto. Pensare l'intervista antropologica come performance, o come eventoirripetibile, significa avvicinare questa ad una pratica di improvvisazione36 cheforse è stata sempre peculiare all'antropologia, anche nella sua fase positivistica,ma che la "svolta riflessiva" ha permesso di definire meglio rispetto al passatocon maggiore consapevolezza riguardo ai suoi effetti conoscitivi. D'altra partelo stesso Alberto Cirese, già molti anni fa notava che: "gli accorgimenti relativial colloquio, le conoscenze preliminari sulla situazione socio-politica [...], ecc.non servirebbero a gran cosa se l'impianto della ricerca non recasse in sé stessole condizioni per stabilire un rapporto di reale comunicazione con gli uomini ele donne con cui si intende aprire il colloquio"37.

Tuttavia è importante considerare le molte variabili che si aprono a secondase l'intervista si colloca nell'ambito di una etnografia classica -cioè di un'espe-rienza di immersione totale esperienziale in un vissuto "altro"- o nell'ambito diuna campagna di documentazione, indipendentemente se si tratti di intervista divita o tematica, se non altro perché può essere molto diverso il ruolo che assu-miamo nei confronti dei nostri interlocutori e viceversa, con conseguenze sulladisponibilità di questi a farsi interviste. Senza considerare le variabili di genereed età che abbiamo già detto.

Quali interlocutori ? La prima questione che si presenta per chi fa ricerca sulcampo utilizzando l'intervista è come scegliere i propri interlocutori e individuarele persone adatte. Ferma restando la necessità di un'etica di rispetto e di traspa-

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renza nei confronti delle persone che incontriamo (che vanno sempre informatecirca la finalità del nostro lavoro), non esiste un vero e proprio metodo o formuleche possano essere insegnate, ma solo suggerimenti utili ed anche qui è fonda-mentale il ruolo che occupiamo nel contesto, se come etnografi "partecipanti", ocome ricercatori di documentazione. Spesso, specie in collettività ristrette, coloroche "sanno" vengono indicati come informatrici/ori privilegiati e il ricercatoreche viene da fuori è possibile che venga indirizzato verso queste persone. E sonoindicazioni che a volte si rivelano esatte. In un paese della Valle dell'Aniene, Ge-rano, dove all'inizio del 2000 ho lavorato per la Regione Lazio sulla festa e ilculto di S. Anatolia, ricordo che chiesi più volte indicazioni in giro su chi potessenarrarmi testimonianze e racconti di miracoli o storie legate alla santa, e tutte lepersone interpellate mi indicarono un uomo anziano che era conosciuto in paeseper essere un grande narratore di storie e di memorie. Avevano ragione. Infatti,benché abbia fatto una certa fatica a prendere appuntamento con l'uomo, in questocaso incontrai una persona -insieme alla moglie- che mi ha donato quella che perme ancora oggi rappresenta l'esperienza più bella e coinvolgente che io abbiamai fatto nel campo della narrazione; sia l'uomo che la moglie avevano una ca-pacità narrativa e performativa molto forte e una grande disponibilità al dialogo,che in seguito non è stato più così facile incontrare.

Bisogna tuttavia, anche seguire delle precauzioni, che possono incidere nonpoco sull'esito complessivo della ricerca, come quello di stare attenti al rapportocon le autorità civili e religiose, che va curato -esiste una letteratura antropologicasu questo aspetto- ma facendo attenzione alla posizione che assumiamo dentroqueste relazioni. “Giungere in un paese di braccianti maltrattati -scriveva Ciresenel 1971- con la presentazione del signorotto locale, esoso e malvisto, precludela comunicazione e condanna l'inchiesta al fallimento”38. Ma si danno anche casiinversi. Nella mia esperienza recente ricordo di un piccolo paese della bassa Sa-bina di appena un centinaio di abitanti, dove ho fatto ricerca sui fenomeni fe-stivi39. Qui per le interviste individuai una serie di persone dentro la confraternitalocale -l'unica esistente nel paese- e mi appoggiai ai confratelli per individuarealtre persone che potessero rappresentare una memoria del territorio. Non inter-vistai il parroco -persona piuttosto contestata localmente- perché mi era apparsauna voce estranea alla comunità e quindi non particolarmente densa dal punto divista della memoria locale. Ma la scelta si rivelò errata dal punto di vista dell'eticadelle relazioni da tenere sul terreno, perché dopo la pubblicazione del volumededicato alle feste nell'area, che volemmo restituire pubblicamente alla comunità,il parroco manifestò apertamente il suo dissenso nei confronti del nostro lavoro,mettendoci in chiara difficoltà semmai nel futuro avessimo voluto mantenerecontatti in quel territorio.

Nel dilemma che caratterizza ogni avvio di ricerca e i modi di relazionarsi alcontesto, gioca un ruolo importante la posizione che abbiamo nella comunità. Lanon-neutralità della nostra presenza è evidente se consideriamo quanto cambiail nostro fare domande se il nostro interlocutore ci conosce come persona vicinao interna ad un determinato contesto. Intervistare un parente, ad esempio, è espe-rienza molto delicata, che richiede un gioco di intese implicite, in quanto molte

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delle cose, eventi o persone che appartengono al vissuto di chi intervistiamo,specie se si tratta di una intervista di vita, forse già le conosciamo, ma in quelmomento l'intervista per potersi attuare deve fare scattare un accordo implicitotra i due interlocutori, del tipo: "io so che tu sai, ma mi comporto come se tu nonsapessi" e l'intervista può diventare un momento denso di scambio reciproco, diricordi e memorie familiari, anche inattese, che di fronte ad un intervistatoreesterno forse non emergerebbero con la stessa intensità. Ma può anche accadereche il nostro parente o amico si senta scarsamente motivato ad essere ascoltato,o addirittura essere reticente a causa del timore che il suo racconto possa esseredivulgato nella cerchia amicale o parentale.

Quali domande? Al di là della griglia di domande che la manualistica sugge-risce come imprescindibili nella strutturazione di un'intervista, è sempre moltodifficile scegliere le domande da rivolgere perché non conoscendo il soggettoche abbiamo davanti e non conoscendone spesso il mondo di riferimento nonpossiamo conoscere a priori quali domande sarebbe più opportuno formulare.Poiché l'antropologia preferisce in genere interviste libere (prive di una grigliadi domande) o al più semi-strutturate (con un canovaccio di temi da trattare), ledomande vengono elaborate per lo più al momento, avendo però in mente i temisui quali si intende intervistare ed ascoltare la persona. Può capitare, se si lavoraad esempio con le narrazioni di leggende, o con le memorie relative a particolarimomenti come possono essere le memorie della guerra, che l'intervistato già siapreparato a narrare quelle storie perché lo ha già fatto altre volte e che non ci sianeppure bisogno di formulare particolari domande. Ciò capita soprattutto quandoè la comunità che indica questa o quella persona come "colui che sa". In altricasi la formulazione delle domande è necessaria, ma procede a vista a secondadella disponibilità dell'intervistato a parlare. Un campo particolarmente difficilesul quale formulare domande è quello relativo ai saperi, tecnici e naturalistici,ad esempio nel campo dell'artigianato popolare, o di alcune attività di lavoro tra-dizionali. In questi casi, non solo è necessario avere una base di preparazione sulmondo di riferimento dell'intervistato, su come si svolge (o svolgeva) quella de-terminata attività, ma si tratta spesso di saperi che non sono stati appresi dai libri,ma dall'esperienza e quindi mai formulati verbalmente.

Lavorando attualmente sulla pesca tradizionale nell'area dell'alto Lazio, sullago di Bolsena, mi capita spesso di intervistare pescatori di lago per documentarei loro saperi tecnici e naturalistici, le tecniche di pesca e le conoscenze naturali-stiche relative a correnti, fondali, stagioni, venti, ecc. La pesca di lago, comemolte attività tradizionali popolari, è un mestiere che nei secoli ha sviluppato unlessico tecnico e conoscenze relative all'ambente naturale che non si trovano suilibri, ma che è difficile far verbalizzare nel corso di una intervista, a meno chenon si documentino direttamente con il video nella pratica. Rivedendo le primeinterviste video che ho realizzato anni fa ad alcuni di questi pescatori, mi rendoconto dell'ingenuità contenuta nelle mie domande e dello sforzo che i miei inter-locutori facevano per rispondere. Non conoscendo nulla della pesca tradizionale,all'inizio le mie domande navigavano a vista, ma erano totalmente generiche eprive dei riferimenti necessari -ora me ne rendo conto- per permettere ai miei in-

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terlocutori di comunicare a me i loro saperi. Essi finivano così per darmi dellerisposte generiche e superficiali, anche a volte prendendomi sottilmente in giro.In questi casi può essere molto utile far dialogare due intervistati “di mestiere”,in modo da far emergere le diverse interpretazioni relative al loro “saper fare”.Essendo questa forma di pesca, come qualsiasi forma di artigianato popolare,frutto dell'esperienza, ogni pescatore ha elaborato un suo modo di interagire conil lago che, messo a confronto con altri modi, può dar luogo ad interessanti di-scussioni “a contrasto”.

Pregiudizi confessionali e invadenze linguistiche. Se devo pensare ad erroricommessi o in agguato quando lavoriamo con le interviste, penso soprattutto aderrori pregiudiziali che è facile commettere e dei quali a volte non ci rendiamoconto. Per ricollegarci alla questione precedente delle domande, un errore fre-quente, che in genere si fa alle prima armi, è quello di formulare le domandesenza considerare il mondo di riferimento, linguistico e cognitivo, del nostro in-terlocutore. Per una sorta di "ansia da prestazione" all'inverso, chi intervista spe-cie se molto giovane, spesso finisce per formulare domande astratte, complicate,piene di frasi incidentali e subordinate, molto aderenti ad una cultura scritta, lad-dove la persona che abbiamo davanti può invece essere legata più a forme di co-municazione orale e non cogliere o addirittura evitare domande troppo astruse.Ma i pregiudizi a volte ci fanno commettere l'errore contrario, quando presu-miamo che il nostro interlocutore non capisce un linguaggio troppo astratto e ap-piattiamo il discorso su domande semplificate e banali. Ci sono poi errori legatiall'uso di domande retoriche nelle quali è già implicita la risposta, con quel"vero?" retorico, con il quale a volte finiscono le domande che presumono giàuna risposta. E' un errore molto frequente nell'intervista giornalistica, improntataad altre sintesi e temporalità, ma può caratterizzare anche l'intervista antropolo-gica. Ricordo in un video antropologico dedicato al tema della memoria realiz-zato alcuni anni fa da un ente locale, una delle intervistatrici faceva domandesulla guerra ad un uomo anziano ed ha esordito chiedendo: "era brutta la guerra,vero?". Non stupisce che l'uomo abbia risposto mestamente che la guerra effet-tivamente era brutta. Si tratta di errori che tutti prima o poi commettiamo o ab-biamo commesso nel corso di un'intervista con domande generiche, interruzionie risposte implicite già contenute nelle domande.

La tendenza ad interrompere il nostro interlocutore è considerata un erroredi metodo nella conduzione di un'intervista antropologica, intesa come praticadell'ascolto. Più in generale a dover essere evitati sono una certa invadenza lin-guistica e la tendenza (spesso dei più giovani) a coprire con il nostro parlato i si-lenzi dell'intervistato. Soprattutto se ci troviamo di fronte a soggettivitàstoricamente deboli e subalterne, come persone anziane con un basso grado diistruzione, è probabile essere percepiti come una presenza “egemone” e che lanostra interruzione sia letta come una "correzione", o una indicazione da partedell'intervistatore (il ricercatore dell'Università, il funzionario della Regione,ecc.) a dire le cose in un certo modo. In un simile contesto è facile che l'interlo-cutore finisca per ripetere ciò che noi suggeriamo nelle domande, cercando divenire incontro alle nostre aspettative per compiacerci. Nel corso di un'intervista,invece, per seguire Clemente, dovremmo farci piccoli come un bambino e una

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volta fatta la domanda restare ad ascoltare e fare le domande che servono a pro-seguire il racconto, senza darci delle arie40.

Tuttavia, sulla definizione dei ritmi del parlato tra intervistatore e intervistatosi gioca una questione epistemologica più che metodologica di grande rilievo.Infatti, nel ripensamento dei fondamenti conoscitivi dell'antropologia, l'intervistaè stata sempre più letta come una pratica di costruzione dialogica del sapere an-tropologico, più che di prelievo (il “dato” qualitativo), con la conseguenza chela presenza soggettiva dell'antropologo diventa sempre più rilevante e non si li-mita al solo ruolo del porre le domande. Visto come momento di interazione tradue soggettività, l'intervista può quindi non comportare necessariamente la totaleinvisibilità dell'intervistato, ma al contrario essere caratterizzata da dibattiti, con-traddittori e a volte anche conflittualità. Tutto ciò può variare in relazione ai sin-goli e ci sono certamente dei soggetti che non si lasciano interrompere facilmente.Ad esempio, il testimone di Esperia del quale ho parlato in apertura, aveva unaconsapevolezza del proprio ruolo di testimone e una personalità tale da chiudereogni spazio possibile alle altre voci, in uno scenario di intervistatori molto affol-lato.

Vorrei riportare a questo proposito una testimonianza di Nuto Revelli che rac-conta il rapporto con i suoi interlocutori nel corso di una intervista:

“Come entro in una casa contadina -dopo il solito rituale dei convenevoli-espongo il disegno della mia ricerca e dialogo il più possibile con il mio inter-locutore. E il momento in cui tento di conoscere la persona che ho di fronte, e difarmi conoscere. Poi suggerisco al testimone di dare un ordine cronologico alsuo racconta. E se ascolta il mio suggerimento tanto meglio. Se invece privilegiail discorso che più gli sta a cuore non lo interrompo, non lo richiamo all'ordine.Lascio che parli a ruota libera. Nel corso della testimonianza dialogo con lapersona che ho di fronte: cioè partecipo, vivo emotivamente il racconto cheascolto. Non resto lì muto come il magnetofono. Sono però attento a non influen-zare il testimone, a non interromperlo, a non sviare il filo del suo discorso. Nonlo tempesto di domande, non riduco la testimonianza in un verbale di interroga-torio”41.

Bisogna quindi saper dosare al momento la propria presenza nell'intervista,cercando di ascoltare e assecondare l'intervistato, almeno fino a quando questinon ci chiama in causa chiedendoci opinioni, giudizi, o suscitando una nostrareazione. In fondo, anche un intervistatore eccessivamente silenzioso può incu-tere timore e non facilitare la conversazione, come accade con una presenza alcontrario troppo invadente.

Mimesi o distacco? Una questione che più volte mi sono posta -strettamentelegata all'intervista- è quella dell'opportunità del distacco o al contrario della mi-mesi dell'antropologo nel contesto che si va ad esplorare. Le etnografie intensivesono le esperienze migliori per mettere alla prova questo dilemma. Negli anniNovanta, ad esempio, per il mio dottorato di ricerca ho svolto una etnografiaclassica in un quartiere popolare napoletano, incentrata sulle retoriche e le rap-presentazioni della napoletanità, vivendo per alcuni anni in un “basso” del quar-tiere popolare che avevo scelto42. Nelle mie relazioni con i residenti del quartierepartivo da un'idea che nel corso della ricerca si rivelò sbagliata, e cioè che nella

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ricerca sul campo per capire il punto di vista della gente dovevo camuffarmi,farmi "nativa", dovevo cioè non rendere troppo visibile la mia presenza di ricer-catrice. Ecco allora che passavo molte delle mie giornate fuori dal basso cheavevo preso in affitto a parlare con le vicine di casa, a farmele amiche, scam-biarmi favori e piccole solidarietà di vicinato, cercare di partecipare ai loro sva-ghi. Avevo informato le mie vicine del tipo di ricerca che stavo facendo su diloro, ma nella pratica cercavo il più possibile di vivere come loro. Pensavo chequesta mimesi mi avrebbe dato l’accesso ad una sorta di “verità” sul loro puntodi vista che in un secondo momento mi avrebbe facilitato la possibilità di realiz-zare delle interviste. Forse ciò valeva per l'empatia nei confronti del punto divista locale, ma non valeva per l'intervista. Infatti, nel momento in cui a questedonne o famiglie con le quali avevo stabilito una relazione amicale, andavo achiedere la disponibilità per una intervista di tipo "confessionale" (in un luogochiuso, da sole, ecc.) si creavano diversi problemi. O ricevevo dei rifiuti camuf-fati, cioè i soggetti non rifiutavano apertamente, ma diventavano evasivi e si ren-devano indisponibili all'incontro adottando strategie retoriche varie43. Oppureaccettavano, ma il loro impegno nell'intervista era molto scarso. Cercai di capirela causa di questi insuccessi e mi resi conto che avendo costruito con questedonne un rapporto amicale basato sulla vita di vicinato, non potevo con loro cam-biare facilmente ruolo e diventare improvvisamente la ricercatrice con registra-tore che chiede di fare l’intervista. In quella esperienza napoletana le intervistemigliori le feci, infatti, alle persone con le quali non condividevo la vita quoti-diana, che abitavano nel quartiere ma non nel mio vicinato. Erano persone chemi venivano presentate da altri e alle quali io apparivo dal primo momento comeuna “ricercatrice” esterna a quel contesto.

Responsabilizzare gli informatori. Questa esperienza, che ho voluto riportare,chiama in causa la questione della responsabilizzazione degli informatori. Sullecause del mio insuccesso feci molte ipotesi: forse le mie vicine non si impegna-vano nell'intervista perché probabilmente si trovavano impreparate a gestire uncambiamento di ruolo rispetto al rapporto che avevano con me quotidianamente,ma anche forse perché davano per scontato che io certe cose le sapessi già aven-dole vissute in parte con loro. I mesi passati insieme a parlare, mangiare, giocaree a scherzare con loro, evidentemente le avevano portate a pensare che, anche seper loro ero una estranea a quel contesto (mi soprannominavano “a romana” equando parlavano con me traducevano spesso in italiano il dialetto stretto, im-maginando che io non lo capissi), ero comunque diventata parte di un settingcondividendo la loro vita quotidiana di vicinato. Inoltre, mi percepivano anchedi una condizione economica precaria forse vicina alla loro; spesso mi doman-davano quanto venivo pagata per fare il dottorato, quanto pagavo di affitto,quanto mi rimaneva per mangiare e più di una volta mi portarono -senza che iolo avessi chiesto- generi alimentari e vestiti usati che prendevano in parrocchiaper le famiglie indigenti. Una seconda motivazione da non sottovalutare è lapaura del registratore, che in quel contesto profondamente segnato dalla piccoladelinquenza, sicuramente poteva essere percepito come uno strumento intrusivoe sospetto44.

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Essere invece "presentati" da qualcuno interno a quel contesto e recarsi adun appuntamento per fare un'intervista, ci identifica come ricercatori autorevolie nello stesso tempo responsabilizza gli interlocutori45. A volte l'autorevolezzadell'intervistatore può inibire, indurre paure, reticenze e finanche rifiuti, che sonofrequenti laddove l'interlocutore si percepisce fortemente subalterno al mondodella ricerca. Ma può anche produrre una responsabilizzazione e una presa di co-scienza del suo ruolo di "testimone" chiamato ad impegnarsi nella conversazione;e che a volte desidera essere ascoltato. Già negli anni Ottanta del NovecentoNuto Revelli faceva queste considerazioni quando diceva che: “Il magnetofononon intimidisce l'interlocutore, lo reponsabilizza”46. Molto significativa a questoproposito è anche la riflessione che ci ha lasciato Clara Gallini all'inizio deglianni Ottanta, nella lunga intervista a Maria, contadina di Tonara paese dell'en-troterra della Sardegna, donna dalla grande capacità critica e analitica della pro-pria e altrui condizione sociale, economica e femminile. Anche Maria, nonostantela sua condizione storicamente subalterna, di fronte al registratore assume il ruolopubblico e consapevole di testimone:

“Maria è davanti al registratore e ci parla con voce solenne, che sembra ve-nire da remote distanze [...]. Mari sapeva che le sue parole erano destinate adessere trasmesse per radio, come voce guida di una serie di quindici trasmissioniper la Rai-Terza Rete .... Accettò dunque di assumere un ruolo pubblico. E ebbela straordinaria capacità di trasformarsi in quel tipo di personaggio che, a suoavvio, meglio si addiceva a chi non dovesse parlare solo a titolo privato: di quiil suo eloquio solenne [...] Aveva da esporre una sua testimonianza di vita e unasua visione del mondo e lo fece con la grande dignità di chi, stando sulla vettadi un monte, dopo aver compiuto un lungo cammino, ne ripercorre i sentieri se-guendoli giù giù fino a valle, al villaggio d'origine”47

Ma nella casistica delle relazioni finalizzate all'intervista si possono incon-trare anche casi inversi, di persone che più che voler essere ascoltate in veste ditestimoni, pretendono una priorità nell'essere intervistati rispetto agli altri per ra-gioni di visibilità dentro la loro rete di relazioni. Sempre in un paese della valledell'Aniene a pochi chilometri da Roma, un giorno conobbi un gruppo di donnealle quali chiesi pubblicamente i numeri di telefono per fissare con ciascuna diloro un appuntamento per un'intervista sui culti locali. Per puro caso accadde chela donna che segnai per prima la chiamai per ultima; un dettaglio che per me eraquasi irrilevante, che invece la donna venne a sapere e -quasi risentita- mi fecenotare più volte il giorno del nostro incontro.

Stili comunicativi dell'intervista: confessionale o collettiva? C’è poi un altrofattore che ha a che fare con le mie aspettative di intervista e lo definirei “stilecomunicativo”. Solo dopo essermi trovata di fronte alla difficoltà di fare intervistea Napoli mi resi conto che in quella esperienza mi ero recata sul campo con unmodello rigido (l'intervista a due in luogo silenzioso e dedicato) che non si con-faceva al contesto. Partivo dall’idea che l’intervista -come una sorta di sedutapsicoanalitica- dovesse tirare fuori la parte intima, nascosta del sé di una persona;la stessa "memoria" la vedevo come qualcosa che per "uscire fuori" aveva biso-gno di un rapporto faccia a faccia dedicato. Mi sbagliavo. Non solo perché non

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è questo l’unico setting favorevole per stabilire un dialogo con un interlocutore,ma soprattutto perché mi accorsi che le mie interlocutrici facevano fatica ad adat-tarsi al modello di intervista al quale le invitavo ad aderire. Per persone che vi-vono in spazi estremamente ristretti e abituate ad una vita di vicinato intensa,caratterizzata da continui movimenti dentro e fuori della casa (in un basso lostesso confine che segna l'interno e l'esterno della casa è problematico da se-gnare), lo stare da sole a parlare e confidarsi con un’altra persona, in un luogosilenzioso, chiuso, è qualcosa di inusuale e difficile da immaginare, non solo perun fattore di abitudine, ma anche a causa dell'osservazione continua del vicinato,dove già il chiudere la porta può assumere un significato del quale si deve rendereconto allo spazio vicinale. Più in generale, capii che lo "stile comunicativo" dellemie interlocutrici era poco incline ai rapporti solitari. Le donne che volevo in-tervistare erano quasi sempre in compagnia di altri e quando finalmente riuscivoad organizzare un’intervista, arrivavano all'appuntamento con molte persone, op-pure nelle case trovavo spesso figli, sorelle, mariti, cognate, nonni, con le con-seguenze che abbiamo visto. Il modello di intervista confessionale che avevo inmente conteneva quindi un implicito egemonico, che il contesto ha messo in crisiinsegnandomi a leggere -e ad adattarmi- a quello che ho imparato essere lo stilelocale di stabilire relazioni con gli altri.

Ci sono, come abbiamo anticipato, aspetti positivi e negativi nell'intervistacollettiva (che in sociologia è definita focus group, o gruppo di discussione). Ilproblema più rilevante è il difficile controllo del gruppo da parte dell'intervista-tore con il rischio di una sovrapposizione totale delle voci e dei contenuti. Il se-condo problema connesso al primo può essere una difficoltà di trascrizione delparlato, mentre un terzo problema può essere dato dall'innescarsi di logiche digruppo imprevedibili, quindi gerarchie, conflittualità, con l'immancabile premi-nenza di personalità più esuberanti rispetto ad altre che nel corso dell'intervistapossono rimanere in ombra e silenziose. Ricordo un’intervista collettiva che feciad un gruppo di ex operai di una fabbrica di un paese del basso viterbese, Gallese;erano in cinque e tra loro uno parlava sempre, mentre un altro, la cui storia di

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vita mi era sembrata molto interessante, non riuscì mai a prendere la parola eogni volta che ci provava veniva azzittito dagli altri con battute e scherzi vari.Quell'uomo aveva avuto un passato da mezzadro, veniva da una famiglia di mez-zadri ed era successivamente diventato operaio della locale fabbrica di binari fer-roviari, ma era un uomo molto timido. In quella occasione collettiva non parlòquasi mai; impiegai mesi per convincerlo ad incontrarci da soli e solo con unaintervista "confessionale", che facemmo in un secondo momento, riuscì a rac-contarmi la sua storia di vita e di lavoro. Un altro aspetto problematico dell'in-tervista collettiva è il rischio di una deresponsabilizzazione del gruppo, che sipuò innescare -come nel primo caso delle anziane signore della Valle dell'Aniene-lasciando spazio a forme di comunicazione che lasciano in secondo piano l'og-getto dell'intervista stessa. Ma ci sono anche molti vantaggi che sono quelli checonsideriamo importanti nei focus group; l’intervista di gruppo, infatti, al con-trario dell'intervista al singolo, riesce fa venire alla luce dinamiche locali, rela-zioni, opinioni, conflitti, che possono essere utilissimi per capire il significatoche le persone danno a fatti e ad eventi passati. In un gruppo le persone sono piùpropense a parlare perché la conversazione procede nel loro linguaggio non inquello dell’etnografo; il ritmo dell'intervista è decentrato e policentrico rispettoall'autorialità tradizionale dell'intervistatore.

5. Oltre “noi” e “loro”: l'intervista antropologica ai tempi della condivisioneCome riflessione conclusiva conviene a questo punto domandarsi che fine

fanno le interviste che realizziamo e non è una domanda irrilevante. Distinguiamoperò tra l'intervista intesa come supporto e l'uso che facciamo dei suoi contenuti.Se si lavora individualmente è probabile che ciò che abbiamo registrato in unfieldwork classico ce lo teniamo ben stretto e forse ce lo portiamo anche nellatomba, rivelandolo un po' alla volta nelle nostre scritture. C'è in alcuni di noi unacerta gelosia e anche un po' di possessività, nei confronti delle "nostre" cassetteregistrate, dove è stipata memoria di tutte le relazioni che abbiamo avuto con lepersone incontrate nel corso della nostra vita di antropologi. I supporti audiovisivi(oggi anche i files) possono diventare -così è stato per me- degli "oggetti di af-fezione"48, difficili da condividere e mettere al servizio degli altri, nonostante laconsapevolezza del loro rappresentare un "bene comune". Se si lavora però peruna istituzione, un ente locale e in squadra, è probabile che faccia parte delle pre-messe della ricerca la consegna all'istituzione del materiale registrato e quindiuna loro perdita di “possesso”. Infatti, prima che arrivassero i mezzi digitali, fa-cevo sempre delle copie “materiali” di tutte le registrazioni che effettuavo perconto di enti locali e istituzioni, non solo perché avrebbero potuto servire in fu-turo in futuro per l'analisi, ma per mantenere memoria delle relazioni con il ter-reno. In passato era però piuttosto complicato duplicare i supporti audio e video,comportava un enorme quantità di lavoro e di denaro. Per questo motivo, è par-ticolarmente rilevante il luogo fisico nel quale questi sono conservati; gli archiviaudiovisivi sono luoghi di conoscenza, di memoria e di esercizio di un bene co-mune. Con la documentazione più recente questa sacralità dell'archivio è venuta

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meno; oggi teoricamente si possono creare contemporaneamente più cloni degliarchivi audiovisivi e lo stesso supporto sta perdendo la sua consistenza materiale.Basti pensare ai sistemi a “nuvola” di cloud computing, che permettono di ar-chiviare quantità enormi di materiali in un "altrove" virtuale dove non esistonopiù la cassetta o la bobina e non esiste neppure un hard disk di casa nostra dovepoter immaginare che siano archiviate tutte le nostre interviste.

Se pensiamo però agli usi che facciamo delle interviste, forse dobbiamo tor-nare a riflettere sui processi di mutamento che si stanno verificando a più livellinella ricerca antropologica e che riguardano anche la questione dei supporti e illoro uso. Sia che la intendiamo come conoscenza, che come ascolto, scambiodialogico, o nell'etica del dare la voce, in tutte le sue forme conosciute, forse l'in-tervista fino ad oggi è “servita” principalmente a noi (ai nostri “bisogni intellet-tuali” come aveva scritto Charles Briggs) e non a "loro", ai soggetti, alle comunitàcon le quali abbiamo interagito. Chi sono insomma i destinatari delle nostre in-terviste ? A cosa queste devono servire ? Devono essere solo al servizio della co-noscenza o della conservazione di testimonianze per l'umanità futura?

In generale in questo caso si parla di "restituzione" degli esiti della ricercaetnografica o delle interviste stesse ai nostri interlocutori, ed è una questione cheapparteneva già in passato ad un codice etico dell'antropologo, ma appare oggigià superata e deve fare i conti con la “svolta partecipativa” che sta caratteriz-zando i nuovi orizzonti della ricerca territoriale anche nell'ambito demoetnoan-tropologico del patrimonio culturale49. Ricordiamo che i maggiori strumentirecenti di legislazione internazionale sul patrimonio culturale, come la Conven-zione UNESCO per la Salvaguardia del Patrimonio Culturale Immateriale del2003 o la Convenzione di Faro del Consiglio d'Europa del 200550, enfatizzanoentrambe il ruolo attivo svolto dalle comunità “di eredità” nella definizione enella “gestione” del patrimonio culturale. Sempre più si fa strada una visione delpatrimonio non più legata alle sole competenze o ad un uso esclusivamente scien-tifico-disciplinare, o istituzionale, ma al contrario partecipata (o condivisa) daparte delle comunità e dei soggetti protagonisti. Le interviste fanno parte di que-sto scenario. Restituire localmente i propri materiali di ricerca o le pubblicazionirealizzate a seguito di una ricerca non è la stessa cosa di "condividere" il lavorodi ricerca con i propri interlocutori, perché l'atto del restituire implica comunqueuna separazione tra il ricercatore e il suo oggetto di ricerca e un ruolo egemonicodell'antropologo. Oggi tale postura nel dibattito internazionale è fortemente con-testata mentre è promossa una diversa prospettiva che mette in discussione lostesso primato delle competenze scientifiche e disciplinari, con prevedibili con-seguenze per ruoli, profili, autorità e nuovi vincoli per l'antropologo, sempre piùimpegnato a condividere la ricerca con i propri interlocutori. La stessa "ricerca"sta mutando di senso, uscendo da un ambito prettamente scientifico, per diventaresempre più militante, engaged e piegata alla condivisione di finalità e bisogni disoggetti e comunità, dunque un ruolo dell'antropologo più vicino a quello dellamediazione51.

In Italia, nelle politiche dei beni culturali e nell'attuale legislazione non è pre-visto che lo Stato o gli enti locali si facciano carico di condividere con le comu-nità “di eredità” e con i soggetti protagonisti, finalità e obiettivi della ricerca.

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Questo vale ad esempio per la catalogazione scientifica dei beni demoetnoantro-pologici, dove è il catalogatore antropologo che dirige la ricerca e le interviste,ma neppure è prevista la restituzione dei supporti audiovisivi (quindi anche delleinterviste) nelle comunità dove si è fatta ricerca demoetnoantropologica, a menoche le comunità ne facciano espressamente richiesta. La pratica della condivi-sione, o partecipazione, sta entrando lentamente insieme al paradigma dell'in-tangible heritage attraverso l'esperienza internazionale (la Convenzione Unesco).Ma è un modello che nel nostro paese incontra modalità precedenti di dialogocon i territori legate a stagioni di militanza politico-culturale che hanno portatoad un attivismo dal basso dei territori e ad una pratica diffusa di ricerca locale,attraverso associazioni, musei, archivi e sensibilità di singoli, dove partecipazionee condivisione sono implicite perché appartengono alle finalità stesse della ri-cerca.

Chi lavora per enti locali e istituzioni centrali sa, invece, che le interviste e illavoro sul campo che deve svolgere non saranno caratterizzati da una condivi-sione con i territori e con i soggetti dai quali si è "prelevato" il bene-testimo-nianza-documentazione (secondo la concezione che è stata definita "mineraria"dell'intervista); sa che i destinatari della ricerca non sono i soggetti/oggetti dellaricerca stessa (salvo la presentazione locale di questo o quel volume a lavoro giàsvolto) e che i materiali prodotti rimarranno chiusi, come notava il museologoHugues de Varine, nei cassetti delle istituzioni o in archivi elettronici52, che nelmigliore dei casi si avrà la fortuna di vedere in rete. Al contrario, la ricerca en-gaged, o partecipativa, confondendo oggetto e soggetto della ricerca richiede unforte ripensamento anche della pratica dell'intervista, che in questo nuovo sce-nario può aprirsi a nuove modalità di realizzazione, ruoli e usi locali ancora inparte da esplorare.

Saper ascoltare, affinché le creature possano conquistare nell'esprimersi, è solo da specialisti, o problema di ognuno?(Danilo Dolci, Nel tema di struttura creativa, 1987)

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Note1 L'espressione "beni demoetnoantropologici" (o "beni etnoantropologici") esiste solo in Italia e definisce un ambitodei beni culturali che rappresenta l'evoluzione degli studi di tradizioni popolari o sulla cultura popolare folklorica,così come definito dall'attuale Codice dei Beni Culturali e del Paesaggio (2004). Uno dei campi istituzionali di in-tervento sui beni demoetnoantropologici è quello della catalogazione, degli aspetti materiali e immateriali, operataattraverso l'ICCD anche dalle Regioni, con specifiche schede ministeriali. Sui beni demoetnoantropologici imma-teriali è in uso la scheda BDI (Beni demoetnoantropologici immateriali);Cfr. P. Clemente e I. Candeloro (2000); G.L. Bravo e R. Tucci (2006); 2 Questo è il verbo che comunemente viene usato per definire l'azione che caratterizza le ricerche etnoantropologichedi documentazione, insieme a quello di "registrare" e "documentare", che presumono un approccio di "prelievo".3 L'invito a guardare all'antropologia come ad una professione dedita all'ascolto di voci viene dall'antropologo ame-ricano James Fernandez (1990), cit. in Schultz e Lavenda (2010, p. 6);4 L'aggettivo "confessionale" definisce nel dibattito antropologico sull'etnografia un tipo di scrittura contrappostaalle scritture "realiste", nella quale più che un oggetto esterno da descrivere o interpretare (la cultura del gruppo chesi intende studiare) vi è la forte riflessività dell'etnografo che nella scrittura riflette sul suo rapporto con il campo;Clifford Geertz ha definito questo approccio "confessionalismo"(Geertz, 1988[1990:154]), mentre Van Maaen haparlato di resoconto confessionale (confessional tale) riferito al resoconto dell'etnografo, come contrapposto al re-soconto realista (realist tale); Van Maaen (1988). In questo saggio uso invece l'aggettivo "confessionale" con un si-gnificato diverso, e sicuramente autoironico, riferito non alla scrittura dell'etnografo, ma ad una "postura" nel rapportotra intervistatore e intervistato, dunque all''intervista individuale realizzata in luoghi dedicati, contrapposta alle in-terviste strutturate con domande standardizzate rivolte a gruppi, o ai cosiddetti focus group, che sono più utilizzatiin sociologia (Tusini, 2006);5 Briggs (2001, p. 192);6 Sulla ricerca si veda: Riccio (2008); 7 Baris (2003); Riccio (2008);8 Olivier de Sardan (2009, p. 30);9 Dal punto di vista metodologico l'inchiesta antropologica è legata inizialmente all'approccio dei Notes and Querieson anthropology di tradizione anglosassone a partire dal 1874, veri e propri repertori di domande relative allo studiosistemico della cultura, pubblicati in varie edizioni (es. 1892; 1912; 1929; 1951). Successivamente la manualisticaha assunto approcci più articolati in merito all'intervista etnografica: es. Spradley (1979); Werner & Schoepfle (1987);Bernard, H.R., (1988); Skinner (2012), o i due volumi Sistematic Fieldwork editi da Werner e Schoepfle nel 1987.10 Olivier de Sardan (2009, p. 27);11 Casagrande (1960[1966]);12 Metafora suggerita da Olivier de Sardan (2009, p. 37);13 Olivier de Sardan (2009, p. 37);14 Briggs (1986), cit. in Olivier de Sardan (2009, p. 37);15 A partire dagli anni '70 del Novecento il dibattito sulla "svolta interpretativa" dell'antropologia e sulla riflessivitàè stato molto ampio. Per alcuni riferimenti di base sugli approcci testuali: Geertz (1973[1987]); Rabinow (1977);Ruby (1982); Gubrium & Holstein (2003); cfr. Schultz e Lavenda (2a ed. it. 2010, p. 43ss); Fabietti, Malighetti,Matera (2002, pp. 73ss.). Sulle politiche del campo, molto utile il saggio di Olivier de Sardan (2009); 16 Olivier de Sardan (2009, p. 38);17 Olivier de Sardan op. cit., p. 39);18 Cirese (1971[1973, p. 237ss. e249ss.]);19 L'intervista, sia solo sonora che audiovisiva, è ampiamente utilizzata come supporto di documentazione nelleschede ministeriali BDI (Beni Demoetnoantropologici Immateriali) sviluppate e utilizzate dall'Istituto Centrale peril Catalogo e la Documentazione e dagli Enti Locali. Sulle schede BDI nell'ambito dei beni demoetnoantropologici,si veda: Bravo e Tucci (2006); Tucci (2002);20 Clemente (2013, p. 5);21 Cirese (1971[1973, p. 250]);22 Anche se con un certo ritardo rispetto al contesto internazionale;23 Es. Tentori (1990, p. 169ss). Anche in Italia sono stati prodotti testi guida importanti dedicati alla metodologia et-noantropologica. I primi, di taglio manualistico e documentario, risalgono agli anni Settanta e Ottanta ed hanno for-mato in Italia diverse generazioni di studenti. Mi riferisco in ordine cronologico ai capitoli contenuti in: Cirese(1971[1973, p. 237ss.); a Delitala (1978) e a C. Bianco (1988, pp.161ss.). Il volume del 1987 L'intervista strumentodi documentazione. Giornalismo-antropologia-storia orale, che raccoglie gli Atti del convegno di Roma promossodal Ministero per i Beni culturali e ambientali, rappresenta una apertura al dibattito italiano sull'intervista, nel con-

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fronto con gli storici orali. Tuttavia, la riflessione critica sull'intervista è emersa più di recente nella connessionedell'antropologia italiana (demologica ed etnologica) con il dibattito internazionale più ampio relativo all'etnografiae alla svolta testuale e riflessiva dell'antropologia. E' della fine degli anni Novanta, ad esempio, il testo edito da UgoFabietti (1998) incentrato su etnografia, informatori e ricerca sul campo, riletti alla luce di una epistemologia rinno-vata che riflette sulle condizioni di produzione del sapere antropologico e sulle dimensioni ermeneutiche che carat-terizzano la relazione tra antropologi ed informatori, nella quale l'intervista prende corpo; 24 Clemente (2010);25 Olivier de Sardan (2009, p. 37);26 Briggs (2001, p. 194), cit. in Clemente (2010, p. 65);27 Briggs, (2001, p. 192); cfr. Briggs (1986);28 Fernandez (1990), cit. in Schultz e Lavenda (2010, p. 6);29 De Martino (1962), cit. in Clemente (2010, p. 65); 30 Briggs (2001, p. 194). Briggs parla a questo proposito di una "gerarchia di autorità discorsiva" innescata dall'in-tervista, alla quale gli intervistati tenterebbero addirittura di opporsi;31 Clemente, 2010, pp.71-72;32 Clemente, ivi, p. 83;33 Olivier de Sardan (2009, p. 40);34 Olivier de Sardan op. cit., p. 41;35 Olivier de Sardan op. cit., p. 29;36 Clemente, ivi, p. 66;37 Cirese (1971[1973, p. 251]);38 Cirese (1971[1973, p. 250]);39 Si tratta di una ricerca dedicata alle feste nella Bassa Sabina nella provincia di Rieti, promossa tra il 2011 e il 2012dalla Regione Lazio e condotta dall'Associazione Eolo. Etnolaboratorio per il Patrimonio Culturale Immateriale;Cfr. Broccolini e Migliorini (2013);40 Clemente (2010, p. 74);41 Revelli (1987, p.126);42 Broccolini, A., Poetiche della napoletanità. Turismo, folklore e politiche dell'identità al borgo di Santa Lucia,Tesi di dottorato IX ciclo, discussa nell'anno 1999, tutor di tesi prof. Pietro Clemente;43 Ad esempio dicendomi che mi avrebbero suonato loro alla porta per farsi intervistare mentre puntualmente non sipresentavano; cioè si negavano, anche se mantenevano con me un rapporto amichevole;44 Anche Thomas Belmonte fa considerazioni analoghe a proposito dei sospetti nei confronti del registratore, nellasua celebre etnografia The Broken Fountain (La fontana rotta. Vite napoletane 1974;1983), frutto di un lungo fiel-dwork in un quartiere popolare a Napoli negli anni '70 del Novecento (Belmonte, 1997); 45 Un ruolo che ho sentito di avere nei lavori che ho svolto negli anni seguenti per la Regione Lazio - questa voltadi documentazione e non etnografici - dove mi presentavo alle persone nel ruolo di ricercatrice inviata da un entelocale e non più come studente, anche se gli esiti, abbiamo visto, sono stati eterogenei;46 Revelli (1985), cit. in Clemente (2010, p. 73); 47 Gallini (1981, p. 79-80);48 L'espressione "oggetti d'affezione" la devo agli scritti di Pietro Clemente (1999, pp. 151ss.);49 Clemente (2013-2014); Broccolini (2015a;2015b); Broccolini & Ballacchino (2015); Zingari (2015); ASPACI(2011; 2013); cfr. Bortolotto (2008);50 www.unesco.beniculturali.it/getFile.php?id=48; Ferracuti (2009);51 Broccolini & Ballacchino (2015);52 De Varine (2005, p. 31ss.);53 La messa in rete dei supporti audiovisivi delle ricerche in ambito demoetnoantropologico, da alcuni salutata comeesempio di apertura alla partecipazione delle comunità e alla condivisione, pone diverse questioni. La prima è quelladella tutela della privacy, che in Italia nel nostro ambito è ancora poco discussa. Ma soprattutto, la divulgazione online dei supporti audiovisivi (spesso frutto di interviste) sembra contenere a volte una confusione/sovrapposizionetra la figura dell'utente (studioso o curioso che sia), che naviga nella rete, al quale è destinata la messa in rete e quelladei protagonisti dei supporti stessi, spesso lasciati ai margini dei processi decisionali che portano alla messa in retee neppure informati della divulgazione di tali supporti.

Alessandra Broccolini

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QUESTIONI DI EQUILIBRIO: RICORDARE/DIMENTICARE Riflessione per immagini intorno al tema della memoria

di Giovanni Raponi

“La retata più grave in assoluto dellaShoah italiana fu quella di Roma: 1259fermati il 16 ottobre, e (dopo la verifica

della situazione di ciascuno, attuata dai tedeschi in base alle proprie procedure)1023 deportati ad Auschwitz il 18 ottobre,

compreso un piccolo nato subito dopo l’arresto della madre.”

Michele Sarfatti

Molti anni dopo, di fronte al plotone di esecuzione, il colonnello AurelianoBuendìa si sarebbe ricordato di quel remoto pomeriggio in cui suo padre lo avevacondotto a conoscere il ghiaccio. Macondo era allora un villaggio di venti casedi argilla e di canna selvatica costruito sulla riva di un fiume dalle acque diafaneche rovinavano per un letto di pietre levigate, bianche ed enormi come uova prei-storiche. Il mondo era così recente, che molte cose erano prive di nome, e percitarle bisognava indicarle col dito. (G.G. Marquez)

Perché solo allora (ma si potrebbe osservare: anche allora) di fronte al plotonedi esecuzione il colonnello Aureliano Buendìa ricordi di quando suo padre glifece conoscere il ghiaccio - doveva avere circa cinque anni si scopre un po’ dipagine più avanti nel romanzo -, Marquez non lo dice. E’ però certo che la cosadoveva avere una certa importanza visto che torna alla memoria nel momento incui la vita stanno per toglierla al colonnello Aureliano Buendìa… Quasi che lafaccenda del ghiaccio valga come punto di inizio, vera nascita, di quell’Ego chesta per abbandonarla la vita: di fronte al plotone di esecuzione, in prossimità dellafine, torna alla mente del colonnello un passato remoto, e tanto remoto per con-trobilanciare il tema della fine, un passato, quindi, che tanto più funzionerà comecontrappeso, tanto più sul piatto della bilancia si approssimerà all’inizio, all’ori-gine della vita, alla vera nascita del soggetto, della dramatis persona AurelianoBuendìa. La bilancia, appunto. Cosa curiosa: ci piace Garcia Marquez, ma nonavevamo ancora capito perché ci tenessimo tanto ad iniziare queste pagine conle prime righe del romanzo Cent’anni di solitudine, con la storia del colonnelloAureliano Buendia, con la storia del suo ricordare davanti al plotone d’esecu-zione, poco prima di essere fucilato. Poi abbiamo scritto la parola bilancia e alloraabbiamo capito. Chi non lo sa: la bilancia è per eccellenza simbolo della Giusti-zia… e l’atto del ricordare è qualcosa che si lega strettamente al tema della Giu-stizia.

Giovanni Raponi è docente di storia e filosofia nei licei. Oltre che esperto di editoria scolastica, di storia e filosofia, ha svolto ricerchesulla storia della Valle Pontina in età moderna e contemporanea. In ambito scolastico ha guidato numerose raccolte di fonti orali e, peresse, la costituzione di specifici Archivi. Per il Comune di Pontinia ha curato dal punto di vista storico la realizzazione del MuseoAgro Pontino; per il Comune di Bassiano ha realizzato una raccolta di fonti orali sull’uso del territorio denominato Quarto di San Do-nato - già feudo Caetani - in età antecedente la bonifica mussoliniana.

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Dopo vent’anni torna nella sua Itaca Odisseo, aiutato da Atena e reso irrico-noscibile, perché possa portare a compimento la sua vendetta contro coloro chehanno invaso la sua reggia. Lacero nelle vesti, all’apparenza debole e canuto,nessuno lo riconosce… nessun umano, sarebbe meglio dire: perché in verità ilsuo vecchio cane, Argo, che ora giace nel letame, prossimo alla morte, imme-diatamente batte la coda percependo accanto a sé il padrone, colui che aspettavada venti anni è tornato e la lunga attesa può avere fine: le sofferenze patite dal-l’animale negli ultimi anni della sua vita trovano ora il premio, Odisseo è tornatoe Argo, che mai ha dimenticato il suo padrone, poco prima di spirare, ha potutoricevere la sua’ultima carezza. Giustizia è fatta. Il cerchio si compie. Ancora unavolta: la fine reclama l’inizio.

Ma è pure possibile che sia l’inizio già presago della fine. E’ l’impressioneche si ricava a guardare la Madonna sistina di Raffaello. Il Bambino Gesù tenutotra le braccia della Vergine Madre guarda di fronte a sé con uno sguardo che svelala totale coscienza della propria condanna, nella consapevolezza piena della ne-cessità del proprio sacrificio. E altrettanto ribadisce la Vergine: nel suo sguardosi concentra tutto il dolore di una madre consapevole dell’innocenza del propriofiglio, di un figlio destinato al sacrificio proprio perché innocente: autentico caproespiatorio. Nella primavera del 1955 a vedere il quadro, che di lì a poco il go-verno dell’Unione Sovietica avrebbe restituito alla città di Dresda, andrà ancheVasilj Grossman (il grande scrittore russo, autore del romanzo Vita e Destino).Quel Vasilj Grossman che in qualità di giornalista aveva seguito l’avanzata del-l’armata rossa verso Berlino, dall’inverno del 1943, e che era stato tra i primi te-stimoni della tragedia dei lager… E che, poco dopo l’incontro con l’opera diRaffaello scriverà a proposito della Vergine e del Bambino: Il ricordo di Treblinkaera riaffiorato nel mio cuore senza che me ne rendessi conto “(…) Era lei a cal-pestare scalza, leggera,la terra tremante di Treblinka, lei a percorrere il tragittoda dove il convoglio veniva scaricato fino alla camera a gas. La riconosco dal-l’espressione che ha sul viso, negli occhi. Guardo suo figlio e riconosco anchelui dall’espressione adulta, strana. Così dovevano essere madre e figli quandoscorgevano le pareti bianche delle camere a gas di Treblinka sullo sfondo verdescuro dei pini, così era la loro anima.” Un archetipo… Ecco cosa diventa l’im-magine rappresentata nel quadro di Raffaello secondo Grossman: nel campo disterminio si è ripetuta, per innumerevoli volte, la vicenda di Maria e Gesù, ilcampo ha riprodotto in forma seriale il sacrificio dell’innocente. Punto. Non c’èaltro che si possa aggiungere. In una sola immagine l’arte è riuscita ad illuminare(profeticamente, circa quattrocentocinquanta anni prima che nascessero i lager)la realtà: la Madonna sistina basta da sola, attraverso il suo semplice apparire, aspiegare l’inspiegabile. Quello che miliardi di parole non riuscirebbero a dire lodice un’immagine, un’icona. L’essere si fa tempo, l’essere è tempo: l’immaginedell’eterno capace di rendere evidente l’abisso più profondo del tempo, della sto-ria.

Ma c’è di più. Proviamo a rileggere Primo Levi, proviamo a sfogliare, perl’ennesima volta, le pagine di Se questo è un uomo e cerchiamo tra le righe diquesto viaggio nel mondo infero (l’allusione a Dante non è casuale, lo vedremo

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Giovanni Raponi

tra poco) le chiavi della sopravvivenza, le strutture della resistenza al male, lerisorse dell’umano di fronte alla violenza che reifica la vita, che rende oggetto ilvivente annullandone il valore di essere senziente e cosciente. Apriamolo il librosul famoso frontespizio, là dove, subito sotto il titolo, possiamo leggere quellaspecie di preghiera laica rivolta ad ogni uomo, di ogni credo, affinché quanto èaccaduto non avvenga più… E mai più dimenticato: nulla può testimoniarequanto queste parole il legame tra Ricordo e Giustizia:

Voi che vivete sicuri/Nelle vostre tiepide case,/Voi che trovate tornando asera/Il cibo caldo e visi amici:/Considerate se questo è un uomo/che lavora nelfango/Che non conosce pace/Che lotta per mezzo pane/Che muore per un si oper un no./Considerate se questa è una donna,/Senza capelli e senza nome/Senzapiù forza di ricordare/Vuoti gli occhi e freddo il grembo/Come una rana d’in-verno./Meditate che questo è stato:/Vi comando queste parole,/Scolpitele nel vo-stro cuore/Stando in casa andando per via/Coricandovi alzandovi;/Ripetetele aivostri figli/O vi si sfaccia la casa,/La malattia vi impedisca,/I vostri nati torcanoil viso da voi.

Invettiva, monito, memento o esortazione morale in forma poetica, com’èche lo si voglia classificare, il testo di Primo Levi è qualcosa che porta in sé, al-meno dal nostro punto di vista, un implicito politico-sociale: la Shoah, viene sot-tolineato, è stato un evento di tale portata storica che pretende una suaelaborazione in forma di Luogo della memoria, ossia di evento capace, attraversouna continua sua riattualizzazione, di rifondare l’identità collettiva della co-scienza dell’uomo (almeno di quello occidentale, figlio del connubio culturaletra Atene e Gerusalemme). La Shoah, insomma, la memoria individuale dellevittime innocenti che essa richiama, deve orientare con forza palingenetica laconvivenza umana futura… Se ciò non accadrà, se il ricordo delle vittime dellaShoah non verrà accolto e vissuto nella coscienza collettiva come nuova liturgia,vera e propria forma della religione civile occidentale, le vittime innocenti schiac-ciate sotto il tallone di ferro nazi-fascista moriranno ancora, e per sempre. E laShoah stessa, da tragico evento quale realmente è stata, assumerà nella percezionecollettiva solo la forma e la consistenza di qualcosa che disturba la coscienza, laquiete interiore, dei benpensanti. Insomma, per dirla in altro modo: Levi affidaalla memoria attiva, vissuta, della Shoah il ruolo di fondamento laico per un afutura percezione della convivenza umana dal punto di vista axiologico, valoriale.Questo, ci sembra di capire, l’auspicio implicito presente nel testo di PrimoLevi… Auspicio che pretendeva, dopo il fumo dei forni crematori, il sorgere diun mondo più giusto, un mondo pervaso da una Giustizia (con la G maiuscola,appunto) che trovava linfa, metteva radici, nell’orrore dei campi di sterminio per-ché ciò che era stato non tornasse mai più. Ma le cose non sarebbero andate pro-prio così. L’auspicata nuova religione civile dell’agnostico Primo Levi avrebbefaticato assai ad imporsi: impedita da tutte le forme di negazionismo possibili,sia storiografiche che politiche. Il fatto è che la Giustizia qui, sulla terra, è dav-vero merce assai rara! E in nome della convivenza sociale, spesso, quella Giu-stizia tanto necessaria di fronte all’assurdo dell’assassinio dell’innocente, delCapro espiatorio, della Vittima sacrificale, viene sacrificata a sua volta. Come

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dire: si può rilevare una specie di corto circuito nel testo di Primo Levi, per cuiquella che è l’esortazione ad una memoria laica, tenue e razionale, esatta comepuò essere una formula chimica, è espressa, assumendone la forza e i toni, comeun’invettiva biblica, quasi fosse la profezia di un sapiente dell’Antico Testa-mento, un monito per fuggire la catastrofe, l’Apocalisse. Quasi che la Katàbasi,la discesa da persona viva al mondo infero (il campo di sterminio) suggerisca in-consciamente allo scienziato Primo Levi di affermare la verità in maniera incon-trovertibile (come avrebbe fatto un Ebreo ultraortodosso): il dolore, la verità deldolore provato, subito, autorizza la vittima, il sopravvissuto, ad urlare la dispe-razione per ciò di cui è stato testimone… E con disperazione, il testimone chiedeche venga la Giustizia di Dio, fino alla vendetta per coloro, tutti coloro, che di-menticheranno ciò che è stato. Non ci sia pietà per chi cadrà nella notte dell’oblio,quella notte in cui tutte le vacche sono nere, parafrasando Hegel, la notte dovenon si riesce più a distinguere il bene dal male. Insomma, l’agnostico Primo Levi,auspicando il costituirsi di una nuova religione civile, mite e laica, fondata sulprincipio della razionalità, si scopre ad invocare la Giustizia divina, l’agire di unessere ultraterreno che ha deposto ogni considerazione compassionevole nei con-fronti dell’umanità.

Ma la città terrena pretende dell’altro, la città terrena sacrifica (e sembra chenon possa farne a meno) la Giustizia (e con essa il ricordo, la memoria) alla pa-cificazione, alla convivenza. Per dire meglio: la città degli uomini, proprio percontinuare a definirsi Città (Polis) pretende l’estinguersi del conflitto, dellaGuerra (Polemòs), della guerra al suo interno, e pertanto pretende che la Giustiziasubisca una metamorfosi in Perdono. Il Ricordare, allora, deve essere aiutato,giustificato fino alla condiscendenza e alla comprensione della costitutiva fragi-lità, imperfezione, dell’umano (anche del carnefice), nella terribile consapevo-lezza che la morte dell’Innocente non troverà, mai, un risarcimento capace dibilanciare la pena subita, che non ci sarà mai un completo risarcimento (almenonon qui, qui sulla terra). A meno che, sotto il segno dell’emergenza, non inter-venga la scrittura della storia nel tentativo di colmare il vuoto di senso che ilmale produce colpendo, fino a dilaniare, il corpo e l’anima della vittima. E pro-prio sul tema del Perdono e del lavoro storiografico come discorso pubblico at-traverso cui si allevia la sofferenza della Vittima sacrificale, sulla domanda diquell’amore difficile che è rappresentato dal perdonare dovremo tornare alla finedi questa riflessione ad alta voce, obbligati ad integrare il tema della Giustiziaterrena con quello dell’immagine di una imprescindibile escatologia a cui il temadel Perdono necessariamente rimanda.

Malgrado l’invocazione della palingenesi, insomma, si ripeterà quello che ègià accaduto tante e tante volte nella storia: dopo l’orrore, per riprendere il cam-mino, si cercherà un nuovo patto sociale, un patto che per lo Stato del secolo XXcoinciderà con un atto legislativo definito Amnistia, un atto che è orientato adun unico scopo: produrre oblio, favorire l’amnesia! Scurdamoce ‘o passato! Sem-bra questo l’invito che promuove il Decreto presidenziale 22 giugno 1946 n. 4,meglio noto come Amnistia Togliatti. Atto legislativo rivolto alla pacificazionedel paese Italia dopo i mesi della Guerra civile, 8 settembre 1943 – 25 aprile

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Giovanni Raponi

1945. Atto legislativo che è tra i primissimi prodotti (se il buongiorno si vededal mattino!) della neonata Repubblica italiana. Storia imbarazzante per lo stessoPartito comunista italiano che, dopo aver preteso che gli si riconoscesse di averdiretto la lotta di liberazione contro il nazi-fascismo ora vedeva il suo capo cari-smatico, Palmiro Togliatti (il Migliore), nelle vesti di Ministro di Grazia e Giu-stizia, farsi firmatario di una legge che cancellava, per sempre, innumerevoli reatiprodotti non solo da umili esecutori di comandi che provenivano dall’alto maanche da importanti dirigenti del Partito nazionale fascista, poi Partito nazionalerepubblicano. Delitti orrendi, la cui amnistia destò l’indignazione di non pochisostenitori dello stesso Partito comunista, il che obbligò i dirigenti del medesimoa costruire una tesi assolutoria nei confronti dello stesso Togliatti (che lascerà lacarica di Guardasigilli poco dopo la promulgazione dell’amnistia, al suo postosiederà il comunista Gullo, già Ministro dell’agricoltura). A metà giugno del 1946primo Levi era a casa, a Torino. Certo non deve aver prodotto in lui del buonumore venire a conoscenza dell’amnistia, anche perché per coloro che si mac-chiarono della persecuzione del popolo ebraico l’amnistia fu davvero di manicalarga! E lo fu sia per i teorici, gli accademici, della persecuzione razzista sia percoloro che con atti amministrativi avallarono, nelle tragiche sue conseguenze (ladeportazione nel campo di sterminio), la persecuzione ebraica. Insomma, grazieall’amnistia fu possibile che le cronache nazionali raccontassero cose come que-sta: mentre il Prefetto di Milano, Mario Bassi (che si era reso responsabile nonsolo della cattura e deportazione verso i campi di sterminio di numerosi ebrei maanche della persecuzione contro coloro che tentarono di occultare l’identità dipotenziali perseguitati), mentre Mario Bassi, dicevamo, veniva amnistiato e la-sciato in libertà dalla sentenza di un tribunale della neonata Repubblica italiana(tra gli applausi di suoi sostenitori presenti in aula), poco distante da lui, unadonna, anche lei tra il pubblico al momento della lettura della sentenza nonchémadre di un deportato in campo di sterminio, si allontanò dalla folla, raggiunseun angolo appartato del tribunale e lì pianse le sue lacrime: ancora offesa, offesanella memoria del figlio. Davvero autentica mater dolorosa! Proprio così, per levittime della persecuzione ebraica l’amnistia funzionò come un totale colpo dispugna. Lo storico Mimmo Franzinelli ha scritto: “Teorici del razzismo, arteficidella legislazione antisemita del 1938, cittadini responsabili di delazioni dall’esitofatale, militari e funzionari della RSI [Repubblica Sociale Italiana] solerti colla-boratori dei nazisti nella soluzione finale godettero nel dopoguerra di una gene-rosità davvero straordinaria”. A Palmiro Togliatti, il 12 luglio 1946, sarebbearrivata, tra le tante, anche la lettera del ragioniere Mario Perin, da Venezia… Ilquale si diceva scandalizzato per gli esiti morali e civili prodotti dall’amnistia ecommentava: Tutti erano convinti che ci potesse essere un condono, anche largo,ma un’amnistia di tal fatta, perdio, è una cosa obbrobriosa. La lettera, quindi,così concludeva: Se fosse possibile, lo scrivente farebbe una sola proposta: che,d’ora in poi, il Ministero di Grazia e Giustizia si chiamasse semplicemente “Mi-nistero di Grazia”! E non si sarebbe potuto dire meglio. Troviamo nelle paroleappena citate quello che rappresenta l’intreccio inestricabile tra Giustizia, Ri-cordo e Perdono: La grazia, l’amnistia, necessariamente oscurerà la giustizia

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(cosa da scongiurare perdio, attraverso Dio, in un aldilà) sostituendo ad essa ilperdono, cosa terribile da accettare per chi è stato vittima eppure quanto c’è dipiù necessario perché si ricomponga il tessuto sociale.

Ad Atene, ancora alla fine del V secolo a.C., in prossimità del tempio di ZeusPolieus (della Polis), si svolgeva un arcaica celebrazione attinente alla festivitàdelle Dipolie, celebrazione che trovava nel sacrificio di un bue (Boufonie), nellasua uccisione sull’acropoli, il suo atto centrale. Si ricordava in tal modo che ilprimo sacrificio era stato un sacrilegio, che ogni sacrificio era da considerarsitale, soprattutto se la Vittima sacrificale era il bue, il bue da lavoro per il quale,antiche tradizioni, imponevano il rispetto come animale sacro (rispetto mantenutoanche dal cristianesimo). Per questo il sacerdote munito di ascia, che attendevadavanti al tempio di Giove che l’animale si avvicinasse a mangiare i cereali ap-positamente sistemati in offerta al dio, non appena sferrava il colpo mortale sul-l’animale scappava via lasciando cadere lo strumento di morte. E per lo stessomotivo, dopo che la comunità cittadina aveva simulato un processo, il sacerdotestesso finiva per essere graziato dalla colpa, assolto dalla colpa, colpa che venivaassunta dall’intera comunità, in un primo momento, e successivamente fatta ri-cadere unicamente sullo strumento di morte: l’ascia, condannata e gettata al difuori del territorio cittadino, dichiarata apolide. Ancora una volta, dunque, anzi:sin dalla prima volta, nessuna Giustizia per la Vittima sacrificale. L’assassiniosacrificale non ha colpevoli. E’ per questo che il Capro espiatorio non conosceràGiustizia terrena, la sua funzione è quella di fondare, proprio attraverso il suosacrificio, il rapporto tra terra e cielo: la religione (Karl Josef Silberbauer, 1911-1972, l’ufficiale austriaco della Gestapo che, dopo delazione, arrestò Anne Franke la sua famiglia, dopo la guerra tornò un Austria e nel 1954 entrò nella polizia.Pur essendo stato individuato dal cacciatore di nazisti Simon Wiesenthal nel1963, non venne mai incriminato). Infine, un ultima osservazione: se è vero cheLe parole sono pietre (dal titolo del libro di Carlo Levi) si provi a ricordare perquanto tempo lo sterminio del popolo ebraico è stato indicato con il termine Olo-causto (sacrificio nel quale la vittima era arsa completamente), -quasi che chi cimorì nel campo di sterminio lo volesse, lo accettasse come una necessità inap-pellabile-, prima che si adoperasse il termine Shoah (distruzione), proprio perimpedire ogni ulteriore possibile contaminazione, e confusione, tra l’assassinato(che pretende Giustizia terrena) e il sacrificato (che troverà, se la troverà, Giu-stizia solo nel regno dei cieli). Quando l’atrocità del delitto è incommensurabile,evidentemente la coscienza umana preferisce giocare con le parole, cercando dialleggerire le proprie responsabilità, la propria colpa.

Eppure, a ben guardare, lo stesso Primo Levi offre, in Se questo è un uomo eanche altrove, una fenomenologia più mite dell’atto del ricordare, sottolinean-done questa volta non il legame col tema della Giustizia (e quindi il rapportodell’individuo con la società) quanto, piuttosto, il legame con il tema dell’Iden-tità, dell’autocoscienza della persona. Un ricordare, insomma, che viene a coin-cidere con l’autorappresentazione del soggetto, nel cui ambito può classificarsinon solo la volontà dell’Io narrante (il soggetto consapevole, autocosciente) maanche quanto appartiene alla sfera dell’involontario, e in questo senso anche il

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riemergere alla memoria di quanto è proprio del soggetto in forma in-consape-vole, inconscia. Un riemergere del ricordo che può anche assumere una funzioneconsolatoria se non, addirittura, quella della definizione dell’intera personalitàdell’individuo, come accade in alcune pagine (quelle dedicate alla condizionedell’intellettuale nel campo di sterminio) di un altro grande libro di Primo Levi:I sommersi e i salvati. In queste pagine, dove Levi tenta un commento all’operadi un altro grande e terribile testimone delle grammatiche del sistema concen-trazionario nazista: Jean Améry (pseudonimo del filosofo viennese HansMayer)… In queste pagine troviamo, per ben due volte, un riferimento al ricor-dare come aspetto dell’affermazione dell’identità profonda dell’individuo: unaprima volta nell’ammettere l’incapacità che Levi avvertì nel campo di sterminiodi opporsi ai colpi, alle percosse ricevute da altri internati senza motivazione al-cuna, con altrettanta brutalità; incapacità che veniva così giustificata: io sonoquale sono stato costruito dal mio passato, e non mi è più possibile cambiarmi,facendo quindi riferimento proprio ad un agire della persona condizionato quasida una stratificazione di atteggiamenti culturali così sedimentati da dare l’ideadi qualcosa condizionato da leggi necessarie, fisiologiche, e, in quanto tali, in-volontarie. Una seconda volta, invece, troviamo Primo Levi fare riferimento alsollievo goduto nel lager grazie al riemergere alla mente, improvviso, imprevisto,in-volontario, di alcuni brandelli del canto XXVI dell’Inferno di Dante: Il cantodi Ulisse, come si intitola uno dei capitoli centrali di Se questo è un uomo.Quando, nel 1986, trentanove anni dopo la prima edizione della sua opera piùfamosa, Levi torna a raccontare Auschwitz-Monowitz con I sommersi e i salvatinon ha più perplessità ad ammettere che il ricordare, e soprattutto il ricordarequanto delle precedenti sue esperienze culturali aveva amato (Dante e/o il Nu-mero di Avogadro) ora, là nel campo di sterminio valeva, rendeva più respirabilel’aria che lo circondava. Pertanto scriverà: [quelle cose già tanto amate] permet-tevano di ristabilire un legame col passato, salvandolo dall’oblio e fortificandola mia identità. Mi convincevano che la mia mente, benché stretta dalle necessitàquotidiane, non aveva cessato di funzionare. Mi promuovevano ai miei occhi eda quelli del mio interlocutore. Mi concedevano una vacanza effimera ma nonebete, anzi liberatoria e differenziale: un modo insomma di ritrovare me stesso.Ritrovare se stesso, ecco cosa consente a Levi il rammemorare poche terzine delXXVI canto de l’Inferno. Nel 1986 l’urlo della vittima sacrificale, che diventamaledizione augurata per chi dimenticherà ciò che è stato, ormai è scemato. Alsuo posto una pacata considerazione sull’esperienza personale rappresentata dalcampo di sterminio dove (per incanto!) erano tornate parole da un altro mondo:le parole che Ulisse rivolge a Dante. Un dono meraviglioso, un aprirsi del tempointeriore al presente: in mezzo al campo di sterminio, tra dannati e diavoli infer-nali (è proprio il caso di dirlo), in un tempo psicologico ormai dimentico di ciòche era già stato e senza alcuna speranza per ciò che poteva ancora essere, eccoche l’attimo presente si arrestava, ed era possibile percepire il suo fermarsi e di-latarsi attraverso il riemergere dal profondo dell’anima di parole già conosciutema che, poi, sembravano aver perso ogni significato… E invece, ecco che quelleparole, emerse da un porto sepolto, sono capaci di portare all’Io energia, forza,

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orgoglio, gioia, desiderio di vita, speranza: sono capaci di farsi presente, di fer-mare lo scorrere inarrestabile del tempo e di rendere nuovamente umano l’Io delsoggetto, un Io ancora capace di progettare, di proiettare nel futuro l’esistenzapropria, di donare senso all’esistenza: anche lì, nel campo di sterminio. Ulisse eDante sono un premio che l’inconscio di Primo Levi si concede, un premio dav-vero meritato, come può esserlo una vacanza dopo aver discusso la propria tesidi laurea e conseguito il massimo dei voti e la lode! Del resto poco prima che leterzine tornino alla memoria, come racconta nel capitolo che precede quello de-dicato ad Ulisse, Primo Levi aveva sostenuto un esame, un vero esame, quelloche gli avrebbe consentito di salvarsi la vita, permettendogli di svolgere mansionimeno gravose nel campo di sterminio. Di fronte al Doktor Pannwitz del repartoPolimerizzazione della fabbrica di Buna-Moniwitz, annessa ad Auschwitz, PrimoLevi aveva certificato, rispondendo alle domande che gli venivano rivolte, dipoter svolgere la mansione di chimico di laboratorio, potendo così disimpegnarsidalle mansioni, più faticose, di manovale. E proprio la percezione del successoconseguito aveva permesso al numero 174517 (quello di Primo Levi nel campodi sterminio) di vivere un momento di sollievo dall’oppressione del mondo chelo circondava: la sua anima trovava un po’ di leggerezza, fuggiva la coazione,l’angoscia dell’eterno ritorno dell’uguale, tornava in contatto con la felicità, laconsapevolezza, cioè, della riuscita della creatività umana. Ed ecco che scen-dendo le scale per tornare in baracca, dopo aver sostenuto l’esame, già Dante facapolino: Alex, il Kapo, che l’accompagna, l’ottuso e bruto controllore, viene de-scritto leggero sui piedi come i diavoli di Malebolge. Segue, quindi, la felice, maanche affannosa, rincorsa della memoria alle terzine del canto XXVI. Difficilerincorsa, dovuta sia alla costitutiva debolezza della memoria sia agli scherzi che,ancora una volta, produce l’inconscio. Ma se è vero che anche Primo Levi subìl’azione censoria del Super-Io (facendo riferimento alla classica topica frudiana),fino al punto di non riuscire a ricordare buona parte del canto, è vero altresì chei versi che egli ricordò meritavano la massima considerazione per persone che,come lui, erano cadute vittime del sistema concentrazionario: l’immagine dellanave di Ulisse che, varcate le colonne d’Ercole, raggiunge, dopo aver navigatoper il mare aperto, la grande montagna del Purgatorio per poi inabissarsi per sem-pre nel profondo del mare… Questa immagine di montagna come meta da rag-giungere, porto di salvezza tanto desiderato, così come l’idea del viaggiare, deldesiderio di rendere degna la vita di essere vissuta, sono temi che tornano allamemoria di Primo Levi con facilità, quasi facendosi testimoni del più profondodesiderio della propria persona, ora rinchiusa dentro le Colonne d’Ercole delcampo di sterminio, senza poter sperare che i cancelli del Lager potessero aprirsiper permettere di raggiungere una terra lontana, che rendesse degna la vita di es-sere vissuta.

Signora Auschwitz! Anche questo può capitare a chi decide di spendere lapropria vita, l’intera vita, nel ruolo di testimone. Può capitare che, dimenticandoil tuo nome e cognome, dei bambini, in una scuola, ti chiamino così: SignoraAuschwitz. E’ quello che racconta di sé la scrittrice, nonché ex internata in campodi sterminio, Edith Bruck. Certo, lì per lì l’espressione fa un po’ sorridere: si av-

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verte come un’approssimazione equivoca, l’accostamento denotativo confondela persona sopravvissuta con il luogo dove ha subito la violenza, come se l’essereindividuale si risolvesse nel luogo che più o meglio lo rappresenta. Per una donna,una signora, scampata al campo di sterminio: Auschwitz. Ma poi, a guardar me-glio, si scoprono strani fenomeni. Intanto che la parola si confonde con la cosa,non solo ne veicola il senso ma, pure, sembra capace di renderla tangibile, tridi-mensionale: il suono della parola costruisce la cosa, il nome da un’astratta im-magine della mente riesce a rendere la pesantezza della cosa stessa… Così comedoveva essere per le cose nel momento della loro creazione, nel momento delloro venire all’esistenza subito dopo l’atto della creazione. In quello stessoistante, cioè, in cui il nome, il suono del nome, era la cosa e la cosa portava giàin sé, nella denotazione, le qualità e i significati più profondi rispetto all’interosistema del creato. E ancora: dire Signora Auschwitz è praticare l’arte, il mestiere,del traduttore: è qualcosa che attiene alla pratica del tradurre. E così, come accadespesso (sempre! malgrado l’impegno, la promessa, di fedeltà al testo fatta impli-citamente al suo autore) nelle traduzioni, le parole di una nuova lingua finiscono

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per dire qualcosa d’altro, per tradire, ciò che si dice nella lingua altra. Ma, inquesto caso, questo altro che è l’espressione Signora Auschwitz è capace di diredi più del semplice nome e cognome (Edith Bruck), è capace di dire come, per-dendo quel nome personale, si ritrovi la verità più profonda che esso rappresenta,si ritrova cioè lo scopo a cui la persona Edith Bruck ha dedicato tutta la sua esi-stenza, perché si capisce che l’esperienza del lager una volta vissuta non ti ab-bandona più, non ti lascia, governa la tua vita, quello che ti resta da vivere,agendo dentro di te. Che tu te ne accorga o no, non ha importanza. Insomma,dire Signora Auschwitz è un ottimo esempio del tanto abusato concetto hegelianodi Aufhebung, ovvero dell’atto di conservare nel concetto (nel nome) quanto ap-partiene all’oggetto dal punto di vista logico superandolo, ossia trovando unatraduzione più ricca in quanto razionalmente più prossima all’intero del sistemadi senso di cui è parte. C’è, insomma, nell’espressione Signora Auschwitz qual-cosa che rinvia alla verità profonda che vive chi spende la sua vita nel testimo-niare. Deve essere per questo che Edith Bruck ha scelto questa espressione perintitolare il suo più recente lavoro di scrittrice. Del resto, non si potrebbe usareespressione migliore volendo indicare il destino di chi, scampato al campo disterminio, non riesce più a liberarsi da quel vissuto, dalla memoria di queglieventi, tanto da vivere la propria intera esistenza in funzione della testimonianzadel dolore subito (soprattutto da chi nel lager morì), pur consapevole che Chi haAuschwitz come coinquilino devastatore dentro di sé, scrivendone e parlandonenon lo partorirà mai. Il libro in effetti, pubblicato alla fine del 2014, è un reso-conto dell’angoscia provata nel non riuscire più a sostenere il peso doloroso deltestimone della Shoah oltre che del tentativo, fallito, di liberarsi, per sempre, delcampo di sterminio, disimpegnando la propria persona da ogni presente e futuroimpegno didattico nelle scuole. Con tutte le sue forze Edith Bruck vorrebbe ri-spondere Preferirei di no, a chi la prega di continuare la sua missione pedagogicadi testimone, di sopravvissuta. Proprio così, come fa nell’omonimo racconto diHerman Melville Bartleby lo scrivano, il quale: dopo soli tre giorni dall’assun-zione, quando il suo datore di lavoro, un avvocato, gli chiede di svolgere insiemeuna mansione particolarmente delicata, per la quale riceve in quell’ufficio lo sti-pendio, in a singularly mild, firm voice, replied: - I would prefer not to. Dunque,con voce dolce ma ferma, Bartleby risponde, replica: Preferirei di no. E’ l’inizio,com’è noto, di una lunga e sempre discreta ritirata dell’Io nei meandri più pro-fondi della psiche, l’epifania di un irreversibile viaggio verso il nulla, la consa-pevolezza del non senso dell’esistenza che si concretizza in una continuaopposizione ad ogni azione che la vita può pretendere; un viaggio che finirà solocon l’abbandono della vita terrena. Solo dopo morto apprendiamo dalla voce nar-rante del racconto che lo scrivano aveva lavorato in precedenza presso l’Ufficiodelle lettere smarrite di Washington (the Dead Letter Office at Washington, scri-veva Melville), dove aveva il compito di dare alle fiamme tutte quelle missiveche non erano giunte a destinazione, singolari testimonianze della precarietàdell’esistenza, della sua fragilità: capace di cambiare completamente per una let-tera ricevuta o per una lettera mai consegnata. Anche Edith Bruck, dicevamo,avrebbe voluto dire, finalmente, Preferirei di no, ma non ci riesce. E non ci riesce

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perché comprende (qualcuna l’aiuta a comprendere) che la sua missione è dav-vero quella di continuare a cercare mittente e destinatario delle lettere inviatedall’inferno perché non si perda la memoria di ciò che è stato. Capisce, insomma,Edith Bruck, che in lei si compie una concreta fusione tra la dimensione del ri-cordare in funzione della Giustizia e quella del ricordare in funzione dell’Identitàdella persona: che la sua semplice presenza, di donna cosciente del male assoluto,porta, là dove ella compare, la Giustizia (almeno questa fu l’impressione che lasua persona fece a noi che scriviamo incontrandola molti anni fa, durante unaconferenza). Edith Bruck ha il dono di tenere in equilibrio i bracci della bilancia,la sua immagine, la sua voce, la sua opera di scrittrice parlano con la stessa forzacon cui potrebbe parlare un’immagine votiva. Anzi di più: rievoca il momentotragico dell’arresto di Gesù nel Vangelo di Marco (cronologicamente il primodei canonici), quando si ricorda che, mentre tutti abbandonavano Gesù, circon-dato dalle guardie, un ragazzo rimase a lui prossimo, costretto poco dopo a scap-pare: Allora tutti lo abbandonarono e fuggirono. Lo seguiva però un ragazzo, cheaveva addosso soltanto un lenzuolo, e lo afferrarono. Ma egli, lasciato cadere illenzuolo, fuggì via nudo. Così come Marco l’evangelista, che era là, là mentrearrestavano Gesù per condurlo verso la condanna a morte, Edith era là, nel campodi sterminio. E così come quello non ha potuto fare a meno di scrivere il suoVangelo, Edith non ha potuto fare a meno, non può fare a meno, di raccontare ildolore dei sommersi.

Autunno-inverno 1943-44, monti Aurunci. Il soldato italiano DomenicoBranco, sbandato come migliaia di altri soldati italiani dopo l’armistizio dell’8settembre, cerca di tornare al suo paese natale, Cancello Arnone, in Campania.E’ partito da Brescia ed ora si trova davanti la Linea Gustav, il vallo che i tedeschioppongono all’avanzata delle truppe alleate. Lo accompagnano due altri soldati,sbandati anch’essi, che come lui vogliono raggiungere le loro case: MicheleEsposito è di Aversa, Filippo Buonincontro è di San Severino Rota, nella pro-vincia di Salerno. Nel diario che porta con sé, Branco annota i tristi eventi diquel tragico momento. Scrive delle razzie compiute dai militari tedeschi sia adanno dei civili che contro i soldati sbandati come lui. I Tedeschi uccidono i sol-dati italiani che tentano di tornare a casa, i loro corpi vengono lasciati in terra,senza sepoltura e, alcune volte, privi di ogni documento di riconoscimento, ilche impedisce di comunicare la notizia del decesso alle autorità competenti e,attraverso di loro, alle famiglie: sono, insomma, corpi senza nome, spesso accoltiin fosse comuni. L’ostinata resistenza dei Tedeschi agli Alleati obbliga Branco aprolungare il soggiorno tra i monti e i paesi a nord della Linea Gustav. A febbraio,con un numeroso numero di abitanti di Castelforte, tenta ancora di passare lalinea del fronte. Civili e soldati sbandati sono alla fame. Non ne possono più etentano una disperata sortita. Andrà male. Un gruppo di circa venti persone, perfuggire alle fucilate dei Tedeschi, finisce su di un campo minato: sono quasi tuttimorti e pochi salvati si ricongiungono a noi, scriveva Branco, e aggiungeva:“Una donna del luogo ha perduto una figlioletta di un paio d’anni, un fior dibimba, sulle mine. Non ha esitato a buttarsi sul campo minato a recuperare ilcadaverino che si è caricato sulle spalle ed a raggiungerci accodandosi a noi”.

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Pur nello strazio per quanto appena accaduto, il gruppo dei superstiti avanza an-cora e riesce a raggiungere i primi avamposti delle forze armate alleate. Brancocosì terminava il resoconto di quei fatti tanto tragici: “Agli alleati ha fatto moltaimpressione il nostro ordine e la scena della mamma con la bimba morta li hacommossi”. E commuove, a più di settanta anni di distanza, anche noi. Com-muove fino al punto di voler conoscere il nome della bambina (e della madre) eil luogo della sepoltura per raggiungerlo ed offrire un fiore e la promessa chequello che le è accaduto non lo dimenticheremo, mai, e lo racconteremo e rac-conteremo affinché tutti lo sappiano, oggi e nel futuro: perché di lei non si perdatraccia, memoria. Così come non si perda per ogni vittima innocente, della qualeè nostro auspicio che attraverso la scrittura della storia venga riconosciuto il va-lore esemplare, un valore cioè capace di rovesciare la memoria, il passato, inprogetto per il futuro. Ha scritto la storica Gabriella Gribaudi: “Il compito dellostudioso è quello di contribuire all’elaborazione collettiva del lutto facendo va-lere il suo lavoro di ricerca della verità nello spazio pubblico. Michel de Certeaupresenta lo storico come colui che si pone ai limiti, su quella frontiera fra i mortie i vivi su cui si erano situati Dante e Virgilio: egli cerca di entrare nel regno deimorti, cerca di comprendere questo regno, che costituisce anche alterità, e nellostesso tempo tende a “placare i morti che incombono ancora sul presente e a of-frir loro delle tombe scritturali”. Le ombre dei morti tornano “meno tristi nelleloro tombe. Il discorso ve le riconduce. Esso è deposizione. Ne fa dei separati.Le onora con un rituale che mancava loro”. E non può non tornare alla menteAntigone, l’eroina della omonima tragedia di Sofocle, che vuole rendere degnasepoltura al fratello Polinice: caduto sul campo di battaglia combattendo dallaparte sbagliata, quella degli sconfitti, contro suo zio Creonte. Polinice non puòessere sepolto, la legge lo vieta! Non ne ha diritto, per cui deve il suo corporidursi a pasto per le belve. Come Antigone, lo storico sembra chiamato a chinarsiverso il corpo morto per curarne la ricomposizione: non sarà per caso che la no-stra lingua conosce come sinonimo di Ricordare (ripassare per il cuore), Ram-mentare (ripassare per la mente) ma anche Rimenbrare (ripassare per le membra,per il corpo). Prima che la Giustizia di un qualche aldilà faccia il suo corso, dun-que, spetta allo storico il compito di raccontare dell’innocente affinché quel con-tinuo raccontare lo riporti a vivere… Se non altro come immagine, icona,esempio rivolto a frenare l’azione degli uomini nel presente, sperando che possamitigare (non potendo annullarla) la forza distruttrice della violenza dell’umano.Il racconto storiografico come bilanciamento (certo imperfetto!) della violenzasubita dalla vittima sacrificale. Di più: il fare, l’agire dello storico come quellapratica che chiede, a nome del carnefice, il perdono della vittima, secondo quellache il filosofo Paul Ricoeur definisce equazione verticale, in alto il quasi miracolodel perdono (l’amore difficile della vittima) in basso la richiesta di perdono daparte del carnefice. Lo storico, dunque, come mediatore che attraverso la narra-zione, narrazione necessariamente pubblica (che passa di bocca in bocca) cercadi ricondurre l’opposizione tra Ricordare e Dimenticare, tra Memoria ed Oblio,ad una possibile sintesi. Una sintesi, però, che può farsi concreta solo attraversol’atto del Perdonare prodotto dalla vittima stessa, la sola azione capace di aprire

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il presente ad una Memoria Felice, Pacificata. Perché, per citare ancora Ricoeur,Il perdono, se ha un senso e se esiste, costituisce l’orizzonte comune della me-moria, della storia e dell’oblio. Il che, detto in altro modo, starebbe a dire cheanche il presente volume, volume che raccoglie memorie legate alla violenza ealla sopraffazione subita da vittime innocenti, si rivolge a quegli innocenti perchériescano a perdonare ai loro aguzzini. Anche questo lavoro storiografico, dunque,attraverso la dimensione pubblica che assume, chiede a chi fu vittima di conce-dere il perdono, l’amore difficile, a chi fu carnefice. Chiede di perdonare, oggi,per quanto subirono ieri: perdonare in nome di una memoria felice, pacificata.Lo chiede in prima persona alle Vittime e non per delega: lo chiede attraverso illavoro delle singole persone che si sono impegnate nella ricerca, persone che ab-biamo avuto il piacere di conoscere ed apprezzare e che ringraziamo per avercifatto condividere un’esperienza tanto significativa, esperienza umana e non soloesperienza di ricerca.

Riferimenti bibliograficiG.G. Marquéz, Cent’anni di solitudine, Mondadori, 1983; L’epigrafe del testo è tratta da: La Shoah italiana. La persecuzione degli ebrei sotto il fascismo,di Michele Sarfatti, Einaudi, 2005; Vasilij Grossman, La madonna sistina, in Il bene sia con voi! Adelphi, 2014; Primo Levi, Se questo è un uomo, Einaudi, 1989; Primo Levi, I sommersi e i salvati, Einaudi, 1994; Primo Levi, La tregua, Einaudi, 2014; Louis Gernet, Antropologia della Grecia antica, Arnoldo Mondadori Editore, 1983; Henri-Charles Puech, Le religioni nel mondo classico, Editori Laterza, 1987;La vicenda del nazista Silberbauer in quotidiano Corriere della Sera del 27 luglio 2015; Jan Assmann, La memoria culturale. Scrittura, ricordo e identità politica nelle grandi civiltà antiche,Einaudi, 1997; Mimmo Franzinelli, L’Amnistia Togliatti, Mondadori, 2006; Edith Bruck: Signora Auschwitz, Marsilio, 2014; Herman Melville, Bartleby lo scrivano, Einaudi, 2006; Le vicende del soldato Domenico Branco sono tratte dal volume di Gabriella Gribaudi,Guerra totale. Fra bombe alleate e violenze naziste Napoli e il fronte meridionale 1940-44,Bollati Boringhieri, 2014; dall’Introduzione al volume appena ricordato abbiamo tratto la citazione; Rick Atkinson, Il giorno della battaglia. Gli alleati in Italia 1943-1944, Mondadori, 2008; Annibale Folchi, Cronache di guerra. Littoria 1940-1945, D’Arco edizioni, 2010, Annibale Folchi, La fine di Littoria 1943-1945, Regione Lazio, 1996;Paul Ricoeur, La storia, la memoria, l’oblio, Raffaello Cortina Editore, 2003.

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GLI EROI SILENZIOSI DELL’ALTRA RESISTENZAGli internati militari italiani attraverso il Diario clandestino

di Padre Luca Maria Airoldi

di Elvira Picozza

PremessaLa memoria delle deportazioni, della prigionia nei campi di concentramento,

degli eccidi, è stata coltivata da poeti e scrittori ai quali nel tempo si è aggiuntauna nuova categoria di “scrittori – testimoni” con una copiosa produzione di diariclandestini, autobiografie, manoscritti, corrispondenze, interviste. Questo insiemedi documenti scritti e di memorie è stato prodotto parallelamente ad una storio-grafia spesso silenziosa che, per lungo tempo non ha ritenuto le memorie deilager degne del riconoscimento di fonte e di essere analizzate con gli strumentidella ricerca scientifica, confermando un contemporaneo processo di rimozionecollettiva, che si è realizzato dal secondo dopoguerra fino alla fine degli anni’70.

Questa memorialistica è stata considerata per decenni un genere “minore”della comunicazione storica, declassata al massimo topos letterario, tanto chenella maggior parte dei casi furono prodotte stampe da editori minori, il più dellevolte realizzate a spese degli autori stessi.

Da circa un ventennio la storiografia e la critica letteraria stanno tentando direcuperare il terreno perduto, mentre la memorialistica, con grande vigore, con-tinua ad offrire una serie di voci straordinarie, al fine di scongiurare da una parte,l’insorgere di forme di revisionismo e negazionismo del fascismo e del nazismo,e dall’altra il silenzio su fenomeni che non si possono identificare con ideal - tipistorici e sociali consolidati.

E’ in questo contesto che si colloca il diario clandestino “Zeithain campo dimorte!” scritto dal cappellano militare Padre Luca Maria Airoldi durante i ventimesi di prigionia trascorsi in Germania all’indomani dell’8 settembre del 1943.“Ho aspettato tanto a pubblicare queste note di Diario nella speranza che qual-cun altro, più autorevole se non più qualificato, mi precedesse nel ricordare iMartiri di Zeithain. A tutt’oggi però, per quanto mi consta, nessuno l’ha fatto eperciò m’accingo a farlo io (…). Avevo sì promesso ai miei Morti che se mi fosseriuscito di scampare da quella bolgia infernale che ha inghiottito invece la lorofiorente giovinezza e stroncato le speranze, avrei tanto parlato del loro immensosacrificio compiuto con lucida consapevolezza (…)”.1

In queste poche righe tratte dalla premessa al libro, sono racchiuse le moti-

Elvira Picozza Svolge dal 1977 il ruolo di docente nella Scuola Primaria, presso l’Istituto Comprensivo Statale “San Tommasod’Aquino” di Priverno. Presso la Facoltà di Scienze della Formazione dell’Università Statale “Roma TRE” ha portato a termine nel2005 il Corso di Laurea triennale in “Formazione e sviluppo delle Risorse Umane”. Ha conseguito successivamente il diploma diLaurea Magistrale in “Scienze dell’Educazione degli Adulti e Formazione Continua”. L’esperienza lavorativa nel settore scolastico eil suo percorso formativo le hanno consentito di affrontare con motivazione e impegno il ruolo di Consigliera Comunale nella città diPriverno dall’anno 1994 al 1998 con delega alla Tutela e Valorizzazione dei Beni Culturali e di svolgere quello di Assessore allaCultura e alla Pubblica Istruzione dal 1998 al 2003 e dal maggio 2013 al febbraio 2015.

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vazioni che hanno portato P.Luca Airoldi a scrivere il diario con il forte desideriodi onorare quel debito nei confronti dei tanti giovani militari italiani i quali, pre-ferirono andare incontro alla morte piuttosto che rinnegare il giuramento di fe-deltà alla Patria, dichiarando implicitamente che il fascismo, sicuramente quellodi Salò, nel 1944 – 1945 non rappresentava più né la Patria né il popolo. Durantela prigionia egli traspose sulle pagine del diario clandestino la propria esperienzadi cappellano, impegnato ad assistere sia materialmente che spiritualmente i gio-vani militari italiani internati nel campo di Zeithain. Fedele alla promessa fattaai “suoi Morti” descrisse, anche attraverso immagini fotografiche, gli eventi, iluoghi, il grande dolore e raccontò le forme in cui si consumò la loro consapevoletragedia, affinchè rimanesse per sempre testimonianza di quanto accaduto.

Deluso e rassegnato al suo rientro in Italia, per il clima di indifferenza riscon-trato verso le tristi vicende degli internati militari italiani (IMI), si fece caricopersonalmente di stampare il diario e di inviarne una copia per ogni famiglia dei900 giovani militari morti tra stenti e malattie nel Reserve Lazaret (KGF) (Pri-gionieri di guerra) di Zeithain.

E’ forse in questo sentimento di umanità che accomuna e fa crescere quelsenso di comprensione e solidarietà tra i protagonisti di questa immensa tragediache è riposto il profondo significato di questo Diario, di contro ad un’opinionepubblica che non riconosce il debito storico e umano verso questa schiera di “eroisilenziosi” che ha sopportato le conseguenze di scelte militari e politiche sba-gliate.

Prigionieri, internati e lavoratori coatti: le acrobazie linguistiche delloschiavismo militare

Con l’Armistizio di Cassibile, proclamato l’8 settembre 1943, lo Stato Italianoruppe l’alleanza con la Germania e si ritirò (giuridicamente cambiò alleanza di-venendo cobelligerante anglo-americano) dal secondo conflitto mondiale. La fe-roce reazione dell’ex alleato non si fece attendere: “il comando Supremo dellaWerhmarcht diede le direttive speciali riguardo ai comportamenti da assumerenei confronti degli Italiani e impartì degli ordini contrari alle norme del DirittoInternazionale. Tali ordini su cui si fondò la reazione tedesca all’Armistizio dell’8settembre, trovarono riscontro in una serie di crimini di guerra che possono essereannoverati tra le più infami atrocità del secondo conflitto mondiale”2.

«In pochi giorni i tedeschi disarmarono e catturarono 1.007.000 militari ita-liani, su un totale approssimativo di circa 2.000.000 effettivamente sotto le armi.Di questi, 196.000 scamparono alla deportazione dandosi alla fuga o grazie agliaccordi presi al momento della capitolazione di Roma. Dei rimanenti 810.000circa (di cui 58.000 catturati in Francia, 321.000 in Italia e 430.000 nei Balcani),oltre 13.000 persero la vita durante il brutale trasporto dalle isole greche alla ter-raferma. 94.000, tra cui la quasi totalità delle Camicie Nere, decisero immedia-tamente di passare con i tedeschi. Al netto delle vittime, dei fuggiaschi e degliaderenti della prima ora, nei campi di concentramento del Terzo Reich vennerodunque deportati circa 710.000 militari italiani. Entro la primavera del 1944, altri103.000 si dichiararono disponibili a prestare servizio per la Germania o la Re-

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pubblica Sociale Italiana (RSI), come combattenti o come ausiliari lavoratori. Intotale, quindi, tra i 600.000 e i 650.000 militari italiani si rifiutarono di continuarela guerra al fianco dei tedeschi e furono rinchiusi in numerosi campi di prigioniain Germania e nei territori occupati”3.

Iniziò così il dramma dei militari italiani, che durò fino al termine del con-flitto, i quali per aver detto NO furono deportati nei campi di prigionia della Wer-hmacht, nei territori del Terzo Reich e sottoposti alle peggiori umiliazioni esofferenze fino alla morte.

La prigionia degli italiani nei campi di concentramento tedeschi fu una pri-gionia anomala in quanto, a differenza di tutti gli altri prigionieri militari cadutiin mano tedesca, ad eccezione dei russi (l'Unione Sovietica non aveva aderitoalla Convenzione di Ginevra del 27 luglio 1929 sul trattamento dei prigionieridi guerra), non godevano delle condizioni previste dagli accordi internazionali.Catturati con la falsa promessa del rientro in Patria, vennero subito defraudatidel loro status naturale di prigionieri di guerra e delle conseguenti tutele. A partiredal 24 settembre 1943, per ordine esplicito di Hitler, vennero infatti, arbitraria-mente classificati come Internati Militari Italiani(IMI), una qualifica non previstadalle convenzioni internazionali e considerati falsamente come disertori bado-gliani e potenziali soldati del duce, in attesa di ravvedimento e impiego.4

Il principale obiettivo dei tedeschi era quello di utilizzare il maggior numeropossibile di italiani nell’industria bellica, a fianco o in sostituzione di soldati russiche avevano un’alta mortalità, per sopperire ad una carenza di manodopera,anche se la Convenzione di Ginevra vietava espressamente l’utilizzo di prigio-nieri nel lavoro per cui, la specifica denominazione IMI, serviva ad aggirarel’ostacolo.

Gli internati, rinchiusi nei lager con scarsa nutrizione, privi di assistenza,erano obbligati arbitrariamente e unilateralmente al lavoro forzato (servizi ailager, manovalanza ne lavori edili, nello sgombero macerie, nelle miniere, inagricoltura o come ferrovieri, genieri, sia al servizio diretto della Wehrmacht edella Luftwaffe, sia presso imprenditori e contadini).

Non essendo destinati a morte, anche al fine di un loro recupero politico elavorativo nella Repubblica Sociale Italiana, potevano scegliere in ogni istantetra la “libertà con disonore” o la “schiavitù con dolore”. In 613.000 (l’86%)scelsero quest’ultima opzione, coerenti con la loro coscienza e con i “valori” difedeltà alla Patria, nonostante fossero sottoposti a continue vessazioni, sotto mi-nacce e violenze, sia da parte dei Tedeschi che dei fascisti della Repubblica diSalò.

Successivamente, con l’accordo del 20 luglio 1944 tra Hitler e Mussolini, gliinternati vennero smilitarizzati d’autorità dalla Repubblica Sociale Italiana e “ci-vilizzati”, cioè gestiti come lavoratori liberi civili. La soluzione consentì ai te-deschi di sentirsi autorizzati ad usare ogni forma di costrizione per far uscire imilitari italiani dai Lager e impiegarli nelle industrie, comprese quelle belliche.

Di fronte all’ostinata resistenza dei «badogliani», i tedeschi non si arrestaronoe gli internati, ufficiali compresi, vennero inviati al lavoro coatto sotto la sorve-glianza della polizia tedesca, mentre i più ribelli furono trasferiti negli orrendi

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«campi di rieducazione al lavoro », trasformati in veri e propri “schiavi del re-gime nazista” gestiti dalle S.S.! Solo gli ammalati più gravi vennero concentratinei Lazarettlager (i campi della morte) dove, dopo vane promesse di rimpatrio,attesero tra la vita e la morte e senza alcun miglioramento dell'ordinario tratta-mento, la fine della guerra che in molti non riuscirono a vedere.

Il viaggio da Atene a Zeithain di P. Luca AiroldiPadre Luca Maria Airoldi nasce a Cornate (Milano) il 10 ottobre 1910 da

una famiglia di agricoltori benestanti. A dodici anni entra in un convento dell’or-dine dei Frati francescani dove, qualche anno dopo, viene consacrato sacerdote.Con lo scoppio della seconda guerra mondiale viene arruolato come cappellanomilitare nella gloriosa Divisione Acqui con destinazione Cefalonia in Grecia.Dopo la firma dell’armistizio dellʼ8 settembre 1943 fu imprigionato dai tedeschinel campo di concentramento di Goudì (Atene), dove contrasse la malaria. Perciòvenne ricoverato nell’ospedale da campo ad Atene, che lasciò, insieme ad alcunicompagni, per tentare di raggiungere l’Italia con qualsiasi mezzo. Il 13 novembre1943 salirono su un treno senza destinazione, ma anziché essere rimpatriati, fu-rono deportati dai nazisti, assieme a molti altri prigionieri, nel lager lazzaretto diZeithain. Il treno era in realtà una tradotta di carri-bestiame nei quali erano am-massati centinaia di prigionieri, alcune brandine di legno, poca paglia e molti in-setti. I carri erano sigillati dall’esterno e venivano aperti soltanto per svuotare ilsecchio, sempre colmo, che fungeva da servizio igienico. Nei tredici giorni dimassacrante trasbordo i prigionieri ebbero due soli ranci, consistenti in una pap-pina bianca e appiccicosa e alcune zollette di zucchero. La loro destinazione ini-ziale era Dachau, racconta il superstite Remo Dordolo, ma alla stazione si sentìgridare: "Proseguite per Zeithain: qui è tutto esaurito".5

Il Reserve Lazzaret Kgf 6 di ZeithainIl Reserve Lazzaret Kgf di Zeithain era un Lager tedesco tra Dresda e Lipsia,

posto sulla riva orientale dell’Elbe, a 10 Km. circa dalla cittadina di Riesa e di-pendente dal lager IV B di Muhlberg/Elbe di cui doveva essere un’appendice oforse anche un’infermeria.

Istituito nel 1941 sul campo di esercitazioni militari di Zeithain, fu inizial-mente destinato ad accogliere prigionieri di guerra sovietici. A partire dal 1943fu adibito anche a lazzaretto di riserva per prigionieri di guerra di altre naziona-lità, Polacchi, Serbi, Francesi, Inglesi, Americani, Indiani e moltissimi InternatiMilitari Italiani (IMI) che dopo l'8 settembre 1943 avevano rifiutato di collabo-rare con il regime nazifascista.

Ufficialmente classificato come ospedale, era in realtà un campo dove venivanoinviati quei prigionieri che, per le fatiche, la fame, il freddo, le sevizie, non eranopiù idonei al lavoro. Condizioni disumane, mancanza di igiene, denutrizione, as-sistenza medica insufficiente e lavoro coatto facilitarono il diffondersi di epidemiee gravi malattie, soprattutto tubercolosi, determinando la morte di decine di mi-gliaia di prigionieri. Ogni nazionalità aveva il proprio reparto all’interno delcampo, separato dagli altri attraverso una rete di filo spinato alta tre metri.

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Le 78 baracche riservate agli Italiani, lunghe 25 metri e larghe 7, umide e su-peraffollate erano distinte in tre settori destinati rispettivamente alla Medicina(stipate da malarici), alla Chirurgia e alle Malattie infettive (soprattutto Tuber-colosi). I servizi igienici, nascosti da quattro assi, erano costituiti da due bidoniscoperchiati e quasi sempre pieni. Per riscaldarsi una rudimentale stufa di latta eper dormire letti a castello affastellati tra loro, con sacconi di paglia fradicia sullaquale insetti di ogni tipo passeggiavano giorno e notte. Un solo rancio al giornocostituito da tre patate, 150 grammi di pane nero e una mezza gavetta di rape ocrauti. Le condizioni di vita nelle baracche sprovviste dell' indispensabile e levessazioni inflitte prima dai tedeschi e poi dai russi, portarono alla morte decinedi migliaia di prigionieri tra cui 900 militari italiani, di cui narra Padre LucaMaria Airoldi. Questi oscuri eroi furono sepolti in un cimitero di guerra volutodal Cappellano Don Ezio Ghidini e sistemato poi da Padre Luca Airoldi, dove iCaduti, muniti del piastrino di riconoscimento, ebbero la loro tomba numerata eregistrata in una regolare piantina onde permetterne facilmente la riesumazionee l'identificazione in qualsiasi momento. Il campo fu liberato dall'Armata Rossail 23 aprile 1945. Degli IMI superstiti, tra cui molti gravemente ammalati, alcunimorirono sulla via del rientro e furono sepolti a Praga. Dopo la fine della guerra,il territorio del lager e del cimitero italiano fu adibito a zona di esercitazioni mi-litari sovietica e rimase per decenni inaccessibile. In seguito alla caduta del murodi Berlino, grazie all'instancabile opera di ricerca di alcuni reduci di Zeithain,primi fra tutti Padre Luca Maria Airoldi, che aveva annotato nel suo diario tuttii nominativi e i dati relativi agli IMI deceduti nel lazzaretto di Zeithain, fu final-mente possibile nel 1991 localizzare il cimitero militare italiano, riesumare erimpatriare le spoglie di quasi tutti i caduti italiani.

Resistenza non collaborativaLe insostenibili condizioni di vita all’interno del campo di prigionia erano

rese ancora più drammatiche dalle frequenti visite dei repubblichini e degli uffi-ciali italiani collaborazionisti i quali, esaltando il fascismo e il duce, invitavanoi militari italiani a combattere nelle fila della Repubblica di Salò, a fianco dei“camerati tedeschi”, promettendo in cambio cibo e rientro immediato in Italia.Dalla lettura di tanti diari clandestini, emerge in maniera chiara come la sceltadegli IMI fu una scelta sofferta, una scelta di resistenza. Quegli uomini potevanorientrare a casa, dalle loro famiglie, smetterla di soffrire la fame, il freddo le ma-lattie, sottrarsi al rischio di bombardamento o di sottoporsi al lavoro coatto, sesolo avessero firmato una dichiarazione di adesione all’esercito della RSI. Laloro resistenza silenziosa, senza armi nota come l’altra resistenza7, si attuò a ri-schio di morte con il sabotaggio, la non collaborazione e il lavoro rallentato finoanche a metà o un terzo della norma dell’operaio tedesco e, indirettamente, con-sumando risorse e distogliendo per venti mesi dai fronti, per custodia, più di60.000 soldati tedeschi. Per questo la resistenza degli IMI non fu inerme, né mo-ralmente meno eroica di quella armata.8

Essa assunse il valore di una scelta di natura politica che non nasceva daun’adesione alla rinascita dei partiti politici e alla formazione delle brigate par-tigiane, tale decisione, assunta da una gran parte delle forze armate italiane, di

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NON schierarsi con la neonata RSI, inevitabilmente assunse il peso di un rifiutoforte da parte dell’esercito italiano verso quella guerra voluta e condotta da unregime che, sia pure rinato dopo la destituzione di Mussolini il 25 luglio, nonveniva più riconosciuto dalle forze armate, ma soprattutto da tanti giovani cheerano nati e cresciuti sotto quel regime, nel clima culturale voluto da quel regime.

Per questi motivi, in quanto IMI, oltre a non beneficiare degli aiuti della CRI,i soldati italiani nei lager subirono le peggiori vessazioni degli aguzzini tedeschiche li consideravano “traditori badogliani”, e le odiose pressioni dei Repubbli-chini che speravano di recuperarli alla causa fascista ma, nonostante tutto, in650.000 decisero di non aderire alla RSI. Alcuni di loro avevano già una co-scienza politica e in alcuni casi anche idee antifasciste, di conseguenza la loroscelta di dire NO fu una scelta immediatamente di natura politica. Per la granparte degli altri invece, soprattutto giovani militari mai andati fuori dai loro Co-muni di nascita, analfabeti, provenienti perfino dalla Barbagia, dalle Madonie edall’Aspromonte, abituati da secoli a dire sissignore, fu la prima volta in cui siritrovarono, per via della guerra, a maturare una scelta personale e collettiva diribellione e di contestazione ideologica. Fu quindi una scelta politica di rifiutodel Fascismo, fu un contributo al riscatto italiano e al ritorno della Democrazianel nostro Paese. Identità e sofferenza: comunitarismo della condizione estrema

Durante la prigionia in Germania si innescarono meccanismi di solidarietàtra gli internati: la partecipazione alla sofferenza altrui fu un modo per sopperirealla privazione di una parte di sé. “La lontananza dalla Patria, la mancanza dinotizie dei propri cari, le miserevoli condizioni di vita, anziché fiaccare, acuironoil nostro spirito di corpo, la nostra fraternità, il bisogno di vederci, di aiutarcinel possibile, di scambiarci pensieri e speranze, gioie e dolori”9. E’ proprio al-l’interno dei Lager, infatti, che i militari Italiani trovarono le energie necessariea portare fino in fondo la propria scelta, rinsaldata da una crescente consapevo-lezza antifascista che aveva venature e provenienze diverse. E’ nei Lager che na-scono quelle particolarissime comunità che Giovanni Guareschi definirà “CittàDemocratiche”,10 primi germi di democrazia con cui vennero a contatto tanti gio-vani cresciuti tra Fasci Littori e adunate di Balilla e Avanguardisti che, trovandosinel luogo più impensato e terribile, si ritrovano a discutere di libera scelta indi-viduale.

Nell’ambito del contributo alla resistenza, l’attività dei cappellani militari in-ternati occupa un posto di rilievo. La loro prigionia assunse un carattere di vo-lontarietà, pertanto si configurò come una scelta la quale, pur fondandosiessenzialmente su ideali umanitari e religiosi, venne ad assumere un senso poli-tico. “[...] le cerimonie e i riti della religione divennero occasione di mobilita-zione delle coscienze contro il nazismo e il fascismo, e l’opera di consolazione,di conforto, di speranza dei sacerdoti giovò senza dubbio a rafforzare le volontà,a dare fiducia nella giustezza di quel sacrificio che gli italiani subivano e accet-tavano.”11 Dalla documentazione esistente risulta che molti di questi cappellaniseppero fornire un valido contributo di forza, di esempio morale e di volontà diresistere. La presenza religiosa fu spesso una presenza attiva, i cappellani non silimitarono ad amministrare sacramenti, a celebrare messe, a guidare le preghiere

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comuni, a benedire i defunti; essi furono punti di riferimento ed elementi di coe-sione in una situazione storica (lo sfacelo seguito all’8 settembre) e di vita (“lasocietà dei Lager”) nella quale molti ideali e valori attraversavano una forte crisio venivano messi in discussione. L’infima qualità di vita dei campi di prigioniatedeschi appariva agli antipodi di una concezione cristiana di valorizzazione erispetto della persona e della dignità umana. Un “vero cristiano” non poteva nonopporsi a regimi totalitari e violenti, che spegnevano la naturale ed intima nobiltàdell’uomo, “immagine di Dio” (concetti ricorrenti per esempio nel pensiero diGiuseppe Lazzati)12. Il cappellano rappresentava un polo di aggregazione, egliera in grado di catalizzare l’attenzione dei militari italiani internati che avverti-vano lo smarrimento e il senso di abbandono da parte delle autorità costituite.Ciò era particolarmente sentito nei campi di prigionia per soldati e sottufficiali,dove la popolazione militare era costituita da giovani provenienti da ceti popolari,i quali trascorrevano una giornata di lavoro dura ed estenuante, il fatto di trovarela sera il cappellano, di poter conversare con lui era motivo di sollievo: egli rap-presentava il fratello maggiore, forse il genitore o proprio la figura del parroco,che essi avevano tra i ricordi dell’Italia lontana. Il constatare che egli condividevain tutto e per tutto la loro sorte, faceva sentire la Chiesa più vicina e la loro con-dizione lievemente più sopportabile. In generale si può affermare che i cappellanifurono accolti positivamente dai prigionieri. Anche coloro che erano piuttosto“tiepidi” religiosamente, coloro che non erano cattolici ferventi hanno constatatoe spesso sperimentato personalmente l’assistenza morale e, quando possibile,anche materiale dei cappellani. Per questo i preti spesso erano temuti e controllatidai tedeschi; la memorialistica dei cappellani riporta controlli d’ogni genere ef-fettuati nelle camere e agli “effetti personali”, proibizioni di intrattenere rapporticonfidenziali con i militari laici, ma soprattutto con la truppa, considerata più

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debole ideologicamente, più facilmente manipolabile.13 Un’azione altrettantomeritoria la svolsero le Crocerossine, anch’esse prigioniere internate in tantiCampi di concentramento dove si dedicarono alla cura e all’assistenza dei piùbisognosi, impegnate nei laboratori, nelle sale operatorie, nella cucina, nel rat-toppare i poveri indumenti dei militari.

La tragedia umana del soldato Francesco Roccatani a ZeithainFrancesco Roccatani, classe 1914, era il secondo di sette figli, sei maschi e

una femmina, nati da Pietro e Giuliana Salvucci. Le sue origini erano di naturacontadina e come tanti altri ragazzi della sua generazione, iniziò presto a contri-buire al sostentamento familiare aiutando il padre nell’attività agricola e nellacura del bestiame. Come per molti suoi coetanei, la prima occasione di allonta-namento dalla famiglia e dal suo paese, Priverno in provincia di Littoria, fu lachiamata al servizio di leva che si concluse nell’anno 1937. Al suo ritorno, ripresel’attività agricola familiare e, durante il periodo della mietitura fu conquistatodal canto di Giuliana, una giovane contadina di cui ben presto s’innamorò. Siunirono in matrimonio nel mese di ottobre 1938 e Francesco, acquistata una bi-cicletta, si recava tutti i giorni a Caronti, per lavorare per alla bonifica dell’AgroPontino, mentre Giuliana incrementava il reddito familiare lavorando “a gior-nata” in campagna. Il 14 settembre del 1939 Francesco venne richiamato allearmi e arruolato al 58° Artiglieria di “Legnano” fino al 23 marzo del 1940. Dopoappena tre mesi di congedo, venne di nuovo richiamato per un periodo di cinquemesi, e quindi di nuovo in licenza straordinaria fino al 19 luglio 1941. Fu l’ultimalicenza di Francesco, che richiamato alle armi partì per non fare più ritorno.Venne arruolato nel 151° reggimento Artiglieria di stanza a Foligno e successi-vamente, a settembre dello stesso anno, inviato nei territori in stato di guerra. Il10 dicembre 1941 partì per la Dalmazia imbarcandosi a Bari alla volta di Spalatoche raggiungerà due giorni dopo. Intanto Giuliana, rimasta sola, combatteva lasua battaglia quotidiana per provvedere al sostentamento suo e dei due piccoliAssunta e Eugenio, i doni più preziosi lasciati a lei da Francesco. Sbarcava illunario lavorando nei campi e spesso si fermava a pensare quanto fosse stata par-simoniosa la sorte nel dispensarle quei pochi momenti di felicità: “sommando ipochi mesi dopo le nozze alle brevi licenze di Francesco, abbiamo condivisopoco più di un anno di vita insieme!” sono le parole che ritornano nella mentedi Assunta, sua figlia.

Eppure la forza di quell’assenza/presenza e l’incisività del suo ricordo, co-stantemente alimentato da Giuliana nella memoria dei suoi figli, fanno in modoche ancora oggi l’immagine di quel giovane padre sia straordinariamente viva epresente. Lo testimonia un episodio raccontato da Assunta, di quando adole-scente, incaricata dalla madre di attingere quotidianamente l’acqua presso la fon-tana di S. Chiara, veniva regolarmente ricacciata in coda alla fila da qualchedonna più matura. Un giorno, all’ennesimo tentativo di riempire il suo piccolo“concone”14 venne bruscamente apostrofata con l’espressione popolare:- te poz-zen’accite a tì, patto i mammeta!!15 –. Assunta non ci pensò due volte e, afferratoun sasso, lo scagliò con tutta la sua rabbia verso la donna che l’aveva offesa negli

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affetti più cari, colpendo però un’altra donna, vittima inconsapevole del bruttoepisodio.

A seguito degli eventi sopraggiunti con l’armistizio dell’8 settembre del 1943,Francesco venne deportato in Germania presso l’Arb. K.do di Amburgo, dovelavorò fino al 14 agosto 1944. Il giorno dopo, per grave deperimento organico,fu ricoverato nell’ospedale di Sandbostel da dove, tre mesi dopo, venne trasferitonel Reserve Lazzaret (Prigionieri di guerra) di Zeithain. Qui condivise la tristesorte di altri 900 compagni internati, vittime della fame, del freddo e delle ma-lattie, condizioni disumane volutamente determinate e utilizzate da Hitler e Mus-solini per indurre i militari Italiani al “ravvedimento” che avrebbe comportatol’adesione alla Repubblica Sociale Italiana. In pochi cedettero all’ignobile ricattoe Francesco non fu tra questi.

Avendo contratto la TBC polmonare, le condizioni di salute di Francesco siaggravarono di giorno in giorno e quando i tedeschi si ritirarono il 23 aprile, seb-bene molto provato e febbricitante, tentò la fuga verso l’Italia. Vagò per 10 giorni,ma resosi conto della gravità delle sue condizioni di salute, tornò indietro, rag-giungendo disfatto e febbricitante il Campo di Zeithain. Padre Luca Airoldi chenon si era mosso dal Campo avendo deciso di rimanere accanto ai gravissimi chenon erano in condizioni di fuggire, lo curò e lo assistette per circa 30 giorni, rac-colse le sue ultime parole e con il conforto dei sacramenti, lo accompagnò nel-l’ultimo viaggio. Sepolto nel cimitero italiano del Campo, i suoi resti mortalivennero esumati, insieme a quelli di altri 400 caduti italiani e, il 19 settembredel 1991 rientrarono in Italia, trasferiti presso il Sacrario di Redipuglia, dove ri-cevettero gli onori militari e civili delle più alte cariche dello Stato. Il 31 gennaiodel 1992, i resti di Francesco, per volontà dei familiari, giunsero a Priverno, doveriposano nel cimitero cittadino, accanto a quelli della sua amata Giuliana.

L’indifferenza e il silenzio che reprime il ricordoA settant’anni di distanza, sono in molti ancora a chiedersi quali siano i motivi

per cui la storia degli Internati Militari Italiani sia stata trascurata dagli storicidel dopoguerra, dimenticata dall’opinione pubblica ed esclusa dalle celebrazionidella guerra di liberazione. A guerra finita i 560.000 IMI superstiti (il 91%), ci-vilizzati e militari, (compresi 11.000 prigionieri dei tedeschi e poi dei russi), te-stimoni imbarazzati dell’8 Settembre, furono accolti con diffidenza o indifferenzadagli italiani. Gli IMI erano troppi, si sommavano ad altrettanti prigionieri degliAlleati e non facevano notizia come i partigiani, l’olocausto e l’A.R.M.I.R. Cosìil rimpatrio degli IMI non venne sollecitato nel 1945 e si svolse in parte per ini-ziative del Vaticano e in parte grazie all’impegno individuale dei primi reduci.

Poi ci fu la guerra fredda e per decenni i nostri governi imbavagliarono lastoria perché non riaffiorassero le colpe dei tedeschi, diventati nel frattempo no-stri partners nella N.A.T.O. e in Europa e, nel primo dopoguerra, la Germaniadivenuta mèta dei nostri emigranti. Così dal 1946, traumatizzati, delusi e offesi,gli IMI si rinchiusero in se stessi anche in famiglia e in molti rimossero la me-moria dei Lager e della loro scelta ritenuta forse inutile o sbagliata.

Più di 5.000 diari clandestini, per lo più annotati a futura memoria, scritti da

Elvira Picozza

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ufficiali, cappellani, soldati e crocerossine, rischiosamente salvati, ingiallirononei cassetti dei ricordi rifiutati dalla editoria commerciale. Se si prescinde daibestseller autobiografici di Giovannino Guareschi e Primo Levi e antologici diGiulio Bedeschi, venduti in libreria a un vasto pubblico, dal 1945 sono state pub-blicate solo 400 memorie e antologie di testimonianze di reduci, per lo più editein proprio e fuori commercio. Alessandro Natta, che poi divenne segretario delPCI, anch’egli un IMI, si vide rifiutata la pubblicazione del suo libro “l’altra re-sistenza”, non da un editore di destra ma da Editori Riuniti, la casa editrice delPCI che riteneva inopportuna la pubblicazione di quella storia. La vicenda deimilitari italiani è stata quindi una verità negata per tanto tempo e a quella rimo-zione ha contribuito anche chi ha detenuto per tanti anni il primato della resi-stenza.

Sul piano morale, ciò che per lungo tempo non è stato riconosciuto agli IMI,è stato il valore di autentica resistenza che la loro scelta ebbe. Questo aspetto èmesso in risalto attraverso una fonte che spesso è stata trascurata dalla storiogra-fia, quella rappresentata dai diari clandestini e dalle lettere. Attraverso di essi, lastoria viene raccontata direttamente dai protagonisti che l’hanno vissuta, con leloro parole e non attraverso memorie successive. Essi ci restituiscono una sortadi storia dal vivo, una storia in presa diretta che giorno per giorno ci fa riviverequello che realmente accadde. Attualmente è in corso un processo di recuperodella memoria riguardante la terribile tragedia degli IMI da parte della ricercastoriografica, sollecitata e promossa anche dalle associazioni dei deportati e deipartigiani.

La storia del dopoguerra è stata segnata dalle mille difficoltà nel ricordare ifatti per quello che furono, ancora oggi il revisionismo storico cerca di cambiarele carte in tavola, ponendo sullo stesso piano le vittime e i carnefici. I tentatividi dimenticare il ventennio fascista e la fine della libertà di opinione, l’iniziodelle legge razziali che ebbero una forte matrice italiana fin da subito, le stragiverso la fine della guerra messe in atto non solo dai nazisti ma dai repubblichini,sono tutte cose che non dovrebbero lasciare dubbi sulle verità storiche. Eppure,ci sono verità che emergono con difficoltà e fanno fatica ad affermarsi.

Quella degli IMI è una storia che va recuperata per fare chiarezza sul nostropassato, perché fino a quando esisteranno zone d’ombra e verità scomode ci saràil rischio che qualcuno possa approfittarne per confondere il ruolo di chi ha com-battuto per la libertà, con quello di chi ha combattuto per il fascismo e la ditta-tura.

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Note1 Padre Luca Maria Airoldi, ZEITHAIN campo di morte, p.7 Premessa. Scuola Tipografica ARTIGIANELLI -PAVIA;2 Gerhard Schreiber, I militari italiani internati nei campi di concentramento del Terzo Reich 1943-1945, StatoMaggiore dell’esercito, Roma, 1997, p. 13;3 Marco Palmieri e Mario Avagliano, Breve storia dell’internamento militare italiano in Germania, Dati fatti e con-siderazioni, p.37;4 Claudio Sommaruga, Internati Militari Italiani (I.M.I) nei lager nazisti (1943-1945), fonte Comune di Cinisello;5 Corriere della Sera, Archivio, LAGER Il diario clandestino di un frate, ……;6 LAGER Sanatorio per prigionieri di guerra. In tali strutture venivano trasferiti i prigionieri ormai non più incondizioni di lavorare a causa delle malattie contratte per la denutrizione per il freddo e la fatica subiti;7 A. Natta, L’altra Resistenza. I militari italiani internati in Germania, Einaudi, Torino 1996;8 A. Natta, L’altra Resistenza. I militari italiani internati in Germania, Einaudi, Torino 1996;ANEI, Resistenza senz’armi. Un capitolo di storia italiana (1943-1945) dalle testimonianze di militari toscani in-ternati nei Lager nazisti, Le Monnier, Firenze 1984;C. Sommaruga, NO! 1943-1945. Anatomia di una resistenza, ANRP, Roma 2003;9 P. Luca Airoldi Zeithain Campo di morte, p.27;10 G. Guareschi, Diario Clandestino, Milano, Rizzoli, 2 aed. 1950, p XIV. Con queste parole Guareschi definì l'epo-pea resistenziale sua e dei compagni di prigionia nei lager del terzo Reich: "Non abbiamo vissuto come bruti: co-struimmo noi, con niente, la Città Democratica". Guareschi, ufficiale d'artiglieria catturato dopo l'8 settembre 1943,(Imi) fu attivissimo promotore culturale nei campi di prigionia di Czestochowa, Benjaminow, Sandbostel e Wiet-zendorf, ed ebbe parte preponderante nell'animare la cosiddetta "resistenza senz'armi";11 A. Natta, L’altra Resistenza. I militari italiani internati in Germania, Einaudi, Torino 1996, p. 73;12 Luca Frigerio, NOI nei LAGER, testimonianze di militari italiani internati nei campi nazisti, p. 233;XVII Giuseppe Lazzati, Ricostruire la Città dell’uomo sulle macerie delle dittature. Sulla necessità del rifiuto delnazifascismo e di ogni logica totalitaria, Lazzati non ebbe mai ripensamenti né dubbi: “Quel No stabiliva, per chidi noi lo pronunciava, il senso religioso di una scelta politica”;13 Antonella De Bernardis, Cappellani militari italiani internati nei Lager nazisti, p.46 - 47;14 Recipiente in rame utilizzato dalle donne per provvedere all’approvvigionamento di acqua potabile dalle fontanepubbliche;15 Espressione dialettale “potessi morire ammazzatatu, tuo padre e tua madre”.

Riferimenti bibliograficiPadre Luca Maria Airoldi, ZEITHAIN campo di morte. Scuola Tipografica ARTIGIANELLI – PAVIA;Gerhard Schreiber, I militari italiani internati nei campi di concentramento del Terzo Reich 1943–1945,Stato Maggiore dell’esercito, Roma, 1997;Marco Palmieri e Mario Avagliano, Breve storia dell’internamento militare italiano in Germania, Dati fattie considerazioni;Claudio Sommaruga, Internati Militari Italiani (I.M.I) nei lager nazisti (1943-1945), Comune di Cinisello;Corriere della Sera, Archivio. LAGER, Il diario clandestino di un frate;A. Natta, L’altra Resistenza. I militari italiani internati in Germania, Einaudi, Torino 1996;Anei, Resistenza senz’armi. Un capitolo di storia italiana (1943-1945) dalle testimonianze di militari toscaniinternati nei Lager nazisti, Le Monnier, Firenze 1984;C. Sommaruga, NO! 1943-1945. Anatomia di una resistenza, ANRP, Roma 2003;G. Guareschi, Diario Clandestino, Milano, Rizzoli, 2 aed. 1950;Luca Frigerio, NOI nei LAGER, testimonianze di militari italiani internati nei campi nazisti;Giuseppe Lazzati, Ricostruire la Città dell’uomo sulle macerie delle dittature;Antonella De Bernardis, Cappellani militari italiani internati nei Lager nazisti.

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Elvira Picozza

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ZEITHAINCampo di morte ove 900 nostri invocano ancora: Italia!

di Padre Luca Maria Airoldi*

PremessaHo aspettato tanto a pubblicare queste note di diario nella speranza che qualcun altro,

più autorevole se non più qualificato, mi precedesse nel ricordare i Martiri di Zeithain. Atutt’oggi però, per quanto mi consta, nessuno l’ha fatto e perciò m'accingo a farlo io, chie-dendo subito scusa se sarò costretto a raccontare anche un po' di me.

Avevo sì promesso ai miei Morti che se mi fosse riuscito di scampare da quella bolgiainfernale che ha inghiottito invece la loro fiorente giovinezza e stroncato le speranze, avreitanto parlato del loro immenso sacrificio compiuto con lucida consapevolezza, ma poi,rientrato in Patria e trovatala ancora in preda all’esacerbale, per portare anch’io il miopiccolo contributo alla pacificazione degli animi, ho sempre procrastinato nonostante lemolte e autorevoli sollecitazioni.

Ora però che si è detto tutto o quasi di tanti eroi dell’ultima guerra, ora che i restimortali di gran parte di essi hanno avuto la sorte felice di ritornare in patria ohi con glionori che si meritavano, val la pena che si dica e si sappia anche dei caduti di Zeithain...che si faccia anche per essi quanto ottimamente si è fatto per gli altri caduti sui diversisettori, e ciò tanto più solennemente quanto più lungamente sono stati ignorati dal pub-blico.

Quante volte, leggendo con commozione dell’arrivo o dello sbarco di salme di nostricaduti, mi son chiesto e con me certamente centinaia di famiglie, perchè uguale sorte nonsia riserbata anche ai caduti di Zeithain.

Il Commissariato Generale Onoranze ai Caduti di Guerra ha trattenuto per oltre dueanni il mio Diario nell’immediato dopo guerra, assicurandomi che gli era necessario perl’esumazione e la traslazione delle loro salme.

La Croce Rossa da me interpellata e sollecitata più volte, mi diede le stesse assicura-zioni. Ma a tutt'oggi sto ancora aspettando e con me di certo molte madri, spose e figliche mi tempestano di angosciosi perchè ! E giustamente, dopo quasi vent’anni di attesa!Ed io non so più che rispondere !. Se si trattasse di doverli rintracciare fra le steppe russe,o nel deserto africano, pazienza !. ma i morti di Zeithain sono allineati, in bell’ordine,uno dopo l’altro, in luogo ben determinato e relativamente vicino all’Italia. Che se tuttele difficoltà vengono dalla Democratica Repubblica Tedesca di Pankow nel cui territorioè sito il cimitero, è bene che tutti sappiano chi, nel secolo della libertà e della democrazia,si permette di irridere al più elementare senso di umanità e calpestare il più naturale degliaffetti famigliari.

Intanto mi permetto di render pubblico quel ricordo ch’io ho quotidiano di questinostri caduti, che conobbi, che amai, che vidi giacere sotto i mei occhi in quel supremoanelito, in quel supremo lamento che non si scorda più, e chiedo per essi un pensiero af-fettuoso e per i loro cari, che ne attendono sempre i resti mortali, un gesto di fraterna, so-lidale comprensione.

ZEITHAIN Campo di morte ove 900 nostri invocano ancora: Italia!di Padre Luca Maria Airoldi* Scuola Tipografica Artigianelli - Pavia*

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RES. LAZZ. (KGF) ZEITHA1N (Prigionieri di guerra) Zeithain Reserve Lazzaret

Era una località situata sulla destra del fiume Elbe, a 10 km. a Nord della cittadina diRiesa, e a circa altrettanta distanza a Sud dello Stammlager IV B. di Muhlberg/ Elbe, dicui Zeithain doveva essere un’appendice o forse anche un’infermeria, giacché ufficial-mente si chiamava: Reserve Lazzaret (Kgf = prigionieri di guerra). Benché là abbia pas-sato i miei due anni di prigionia, non saprei dire se vi fosse un centro abitato, mentre soche a poco più di un tiro di sasso dai reticolati che ci rinserravano, v’era il paese di Ja-cobstall che visitai per primo dopo la liberazione.

Su di un grande spiazzo sito in mezzo a folti boschi di abeti e pini, circondato da untriplice reticolato intercalato da spinosi cavalli di frisia, erano costruite le baracche in cuialloggiavano i prigionieri ammalati. Il gruppo più consistente era quello dei Russi, valutatia 6.000 circa. V’erano poi Polacchi, Serbi, qualche centinaio di Francesi, Inglesi, Ameri-cani e persino una cinquantina di Indiani. Ogni nazionalità aveva il proprio reparto, sepa-rato all’interno del grande reticolato, da una rete di filo spinato alta 3 metri circa. Il settoreriserbato a noi Italiani, comprendeva 78 baracche suddivise in tre serie: quelle destinatealla medicina (in prevalenza stipate da malarici); quelle destinate alla chirurgia e infinequelle del cosiddetto campo « C » riserbato agli Infettivi e specialmente ai T.B.C.

Un vero Ospedale!., penseràqualcuno, e teoricamente lo era, maquanto diversa la realtà!... Se le barac-che rigurgitavano di ammalati, anzi neerano addirittura strapiene, e se ognibaracca aveva il suo medico curante edue infermieri, mancava assoluta-mente tutto il resto. Un ospedalebeffa! quindi, e tutto lo provava!

Le baraccheEran costruzioni di legno che da-

tavano dal 1940, quando le prime sac-che in territorio sovietico procuraronoai tedeschi una quantità di prigionieri,ai quali si aggiunsero una non minorquantità di deportati civili. Lunghe 25

metri e larghe 7, potevano contenere, secondo la loro cubatura di aria e il minimo di igiene,da 40 a 50 persone al massimo. Invece per dare un posticino a tutti si dovettero sopraffol-lare con 60 70 ed anche 75 individui. Sui castelli anch'essi di legno, a due piani, copertida sacconi di paglia polverizzata, forse mai cambiata dal ’40 in poi, dovevano prendereposto 4 persone, due sotto e due sopra. Quei di sotto non potevano star seduti perchè im-pediti dal piano superiore, e quei di sopra perchè impediti dal soffitto. Il passaggio tra uncastello e l’altro era di 40 - 50 i centimetri, per cui bisognava entrarci di fianco, e persalire sul piano superiore occorrevano muscoli ben saldi nelle braccia che permettesserodi spiccare il salto acrobatico necessario, se non c’era qualcuno disposto a dar una manosollevando per il di sotto! Gli insetti schifosi e molesti non era necessario cercarli col lan-ternino o nelle fessure!, camminavano da padroni giorno e notte, su e giù, a vista d occhio!e ogni tentativo per distruggerli, sembrava ottenesse solo di renderli più aggressivi e rab-biosi.

Le otto piccole finestre che davan luce in ogni baracca, avevano vetri tenuti insiemeda cerotti o carte gommate, con sensibile riduzione di luce, e nessuna porta si poteva chiu-dere perfettamente, neanche quella dei servizi che erano nascosti tra quattro assi e costituiti

Padre Luca Maria Airoldi

Un gruppo di ammalati che si riscalda al sole

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da due bidoni scoperchiati e quasi semprepieni!

Quelli esterni, ai quali si poteva acce-dere soltanto di giorno, erano troppo lontaniper la maggior parte degli ammalati, e perdi più pericolosi per chi, a causa della feb-bre o della debolezza, barcollava un po'.

Al centro d’ogni baracca, v’era unastufa rudimentale di latta, che serviva per lasterilizzazione delle siringhe. A questoscopo ci venivano forniti ogni mattina, ottomattoni di polvere di carbone impastata,che durante le giornate umide e fredde do-vevano servire anche per il riscaldamento.

Infine vi era un tavolo su cui si facevano le divisioni del rancio e al quale qualcuno si se-deva per consumare la sua sbobba o per giocarsi un solitario. Due panche e una quindicinadi sgabelli completavano l’arredamento di quel nostro regno!

Nell’impossibilità di poterle scopare per l’intasamento e forse per non sollevare pol-vere, o anche per mancanza di scope, le baracche venivano lavate ogni giorno, con ab-bondanti bidoni di acqua che scolava poi attraverso le fessure e talvolta gli squarci delpavimento, alto sopra il suolo una decina di centimetri. Perciò apparivano sempre pulitea chi non sapeva che erano invece sempre umide e fradice. Eppure, col tempo anche traquelle poche assi sconnesse, quanta fiduciosa serenità, quanta forza di sopportazione,quanto eroismo sarebbe venuto ad albergare!... Meraviglioso conforto della Religione!...Benefica, divina potenza della fede!...

Da Atene a ZeithainIn seguito ad un forte attacco di malaria, dal campo di concentramento di Goudì in

Atene, ove ero arrivato da pochi giorni, il 20 Ottobre 1943, venni trasferito al 537 ospedaleda campo che funzionava in un grande palazzo nei pressi del Pireo.

Là ritrovai parecchi compagni di reparto e prima nostra idea fu di raccoglierci insieme,giacché più o meno soffrivano tutti dello stesso male, contratto a Porto Edda durante lacampagna d’Albania, e insieme andar incontro al domani. Ma in seguito, venuti a saperedel trattamento di rigore che i Tedeschi riserbavano ai superstiti dell’eroica Divisione«Acqui», immolatasi gloriosamente nelle isole di Cefalonia e Corfù, e noi eravamo tali,decidemmo di disperderci e di toglierci persino le mostrine!... i gradi!...

Il caos completo che regnava in quell’ospedale, rendeva impossibile ogni cura. Lafebbre persisteva alta, le forze venivano a mancare sempre più, l'uso dell’« Atebrin » insostituzione del « Chinino », ci aveva resi gialli come itterici all’ultimo stadio, per cui io,il Tenente di Amministrazione Melici ed il Tenente Medico Adamo, decidemmo di partiredi là al più presto possibile col primo mezzo che ci fosse capitato. Difatti il 12 Novembre,imbrogliando, riuscimmo a farci includere tra coloro che l’indomani sarebbero partiti perdestinazione ignota, sul Treno ospedale!!! ed era invece una comunissima tradotta di carri-bestiame in ognuno dei quali erano state sistemate alcune brandine di legno con poca pa-glia e molti insetti che ci resero più penoso il lunghissimo viaggio. Chiusi dentrodall’esterno, ci si apriva il portone scorrevole soltanto allorché il treno si fermava in apertacampagna, o quando noi si bussava con tutta la forza dei nostri pugni e si urlava: « Dasabort ist full »! e cioè quando il secchio che ci fungeva da servizio era colmo!.. Solo unavolta ci fu concesso di mettere piede a terra e fu in Ungheria, durante una delle solite sostein aperta campagna. Naturalmente ne approfittammo per sgranchirci le gambe e per re-golarizzare un po’ meglio il nostro... ministero degli interni!... L’umiliante azione piacqueinvece moltissimo ai nostri accompagnatori che la fotografarono in tutti i suoi particolari.

Ben 13 giorni durò quel martirio! durante i quali avemmo due soli ranci consistenti

I servizi diurni dei quali però ben pochi si servivano, sia per-chè scomodi, sia perché ventilatissimi

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in una pappina bianca appiccicosa e al-cune zollette di zucchero. Per fortunas’aveva ancora qualcosa delle provvistefatte ad Atene prima della partenza!

Eppure l’allegria non mancava!...tanto è vero che a Budapest, mentre siattraversava il Danubio, da tutta la tra-dotta si levò altissimo il canto della can-zone. « Là sul Danubio bleu!... ecc. Incambio però avevamo ottenuto che ilportone ci fosse lasciato aperto.

Finalmente il 25 Novembre 1943arrivammo a destinazione: una stazion-cina sperduta tra i boschi... in mezzoalla neve... e un freddo da cani!...Prima però d’essere immessi nelcampo che scorgevamo a 500 metri

circa, dovemmo sottoporci a delle operazioni preliminari di cui avremmo fatto a menovolentieri, nelle nostre condizioni, rapatura... bagno... disinfestazione degli indumenti ecoperte, rivista allo zaino!...

Contro la rapatura si levò un coro di proteste, specialmente da parte degli Ufficiali,ma i Tedeschi furono inflessibili e già una cinquantina, quasi a viva forza, erano stati tosatiben bene dalla macchinetta elettrica. Bisognava rassegnarsi!

Quando a un Capitano venne l’idea di promettere 100 lire a chi avesse fatto scomparirel’attrezzo. Detto, fatto! Non appena il soldato Tedesco che la manovrava si fermò unistante a riposarsi e a fumarsi una sigaretta, la macchina scomparve per incanto! Successeun finimondo! Tutto fu messo a soqquadro!... Ci fecero rovesciare gli zaini e le tasche...spintoni, pugni e calci ci furono somministrati in abbondanza... ci si lasciò, per punizione,senza rancio anche quel giorno! ...Ma nessuno fiatò e la macchinetta non fu ritrovata. Delresto noi stessi non si sapeva chi fosse stato così ardito e così svelto! Neanche il Capitanoche aveva promesso le 100 lire! La ritrovai io parecchi mesi dopo facendo lo spoglio deglioggetti appartenuti a uno dei miei tanti morti. La nascosi ben bene anch’io, come fosseuna reliquia e fu una delle poche cose che mi riuscì di portare con me rimpatriando.

Scongiurato così il pericolo della rapatura, completamente nudi, passammo nello stan-zone del bagno.

Nessuna vasca, nessuna doccia in vista!... D’un tratto dal soffitto, ecco uno scrosciodi acqua quasi bollente. Ma non si era ancora aperta la bocca al grido di dolore provocatoda quella scottatura, che un’altro scroscio di acqua fredda ci investì!... Per venti minutipassammo così dal caldo al freddo e dal freddo al caldo con una precisione matematica.Tutti ansimavamo come tori feriti!

Usciti dal bagno per lasciar posto al secondo scaglione, dovemmo rimanere ancoraignudi per parecchio tempo, in attesa che ci venissero restituiti, disinfettati, gli indumenti.E quando ce li riconsegnarono erano, naturalmente, fradici! Ma ci convenne indossarli lostesso, per avere almeno l’impressione d’essere al riparo dell’aria gelida.

Finalmente verso le 17 del pomeriggio, l’operazione pulizia era finita! Quanti, comeme, battevano rumorosamente i denti per la febbre! Ciononostante ci restava ancora a su-bire la rivista dello zaino e delle valigie-cassette. Fu quanto mai minuziosa e pignola!Fummo privati di molte cose che, pur non essendo proibite ai prigionieri, facevano co-modo o gola ai nostri aguzzini. Avendo visto che al Tenente Posca veniva sequestrata lamacchina fotografica, io pensai di salvare la mia scomponendola e consegnando i varipezzi ai più fidati compagni. Mi trattenni solo la camera oscura, nella quale posi il rosarioe due pezzetti di candela, come fosse un oggetto dell’altarino da campo, e così, proprio

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Due baracche tra le meno sconquassate del campo.

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perchè considerata tale, mi venne lasciata. In seguito potei ricomporre la mitica macchina.Forse fui l’unico del campo che riuscì a scattare qualche foto nonostante la pesante e con-tinua sorveglianza tedesca!

Ultimata anche questa faccenda della rivista, ci caricammo il nostro zaino alleggeritoe, incolonnati a quattro a quattro, calpestando rabbiosamente la neve perchè non ci si at-taccasse, facemmo il nostro ingresso nel campo vero e proprio. Io e gli altri pochi Ufficiali,tra cui i Tn.ti Malia e Adamo, fummo assegnati alla baracca «52» dove trovammo altriUfficiali che già erano sul posto da tre mesi circa e sapevano ormai tutto della vita delcampo. Ce ne informarono subito: un solo rancio al giorno che veniva distribuito verso le13 e che generalmente consisteva in tre patate più o meno grosse - 150 grammi di panenero e umido - un cucchiaio rasato di zucchero o di carne in scatola, o un pezzetto di for-maggio puzzolente - poi una mezza gavetta di rape o crauti che una volta alla settimanavenivano sostituiti con una minestra di orzo, e un’altra da certa roba che chiamavamo«Giuliana» e in realtà non erano che pezzetti di rape da cui era stata spremuta la partezuccherina. Sembrava di mangiare carbone bell’e buono! e quanto si sputava!... Al mattinomezzo litro di acqua tiepida e colorata che dicevano essere thè (!) e che doveva servirciper la sete di tutto il giorno, giacché l'acqua che davano le pompe del campo non era po-tabile.

Il capo-baracca, ch’era il Comandante Azzi, di cui avrò ancora motivo di parlare, ciassegnò poi il posto, lasciandoci però la libertà di scelta e raccomandandoci caldamentedi non sprimacciare il giaciglio per non sollevare un polverone che avrebbe stizzito tuttiquanti. Io e i miei amici ci sistemammo in un angolo. Ogni castello comportava quattrooccupanti, spalla a spalla, due sotto e due sopra. Come già detto, per salire al posto supe-riore era necessario uno sforzo non indifferente ed io in quel tempo non ne avevo di forze!.,perciò mi dovetti rassegnare a coricarmi sotto, a fianco del Ten. Corbini. La paura che ilTen. Mella che mi stava sopra, mi sprofondasse addosso e soprattutto la febbre che nonsi decideva a lasciarmi, non mi permisero di chiudere occhio per tutta la notte, nonostantela stanchezza. Però non ero il solo sveglio!... a giudicare dal parlottare sommesso di tantie al muoversi continuo degli altri !...

Il tenente cappellano Monsignor Ghidini e le crocerossineIl giorno dopo ebbi finalmente una gradita sorpresa. Mi venne a dare il benvenuto il

Cappellano della Marina Mons. Ghidini, che per essere stato il primo arrivato là dentro,fu il solo riconosciuto tale dai Tedeschi.

Alto di persona, forbito parlatore, dignitoso in ogni suo gesto, affabile con tutti, vestitod’una impeccabile talare, s'era guadagnata già la simpatia del Comando e la stima di tutti.La veste che indossava e che portava come una bandiera, dava a tutti noi straccioni, unsenso di protezione. Alla sua diplomazia si deve se in seguito potemmo avere una ba-racca-cappella e un cimitero tutto nostro, e se ci fu possibile organizzare feste e funzionireligiose od anche qualche trattenimento culturale e ricreativo. Dopo aver ascoltato la miapietosa odissea, mi disse tutto di sè.

Cappellano della Nave-Ospedale «Gradisca», assieme a tutti gli Ufficiali, era statofatto prigioniero nel porto del Pireo, subito dopo l’otto settembre 1943 e inviato in Ger-mania, a Zeithain, dove aveva trovato un gruppo di nostre Crocerossine provenienti dallaCroazia.

Mi parlò di quanto aveva già fatto ed ottenuto per rendere meno disagevole e più me-ritoria la penosa vita del «campo»... di quanto aveva intenzione di fare ancora, e mi chiesecollaborazione per quando, naturalmente, sarei stato in grado di muovermi. - Riposassiintanto e seguissi a puntino la dieta (!) e la cura che mi avrebbe prescritto il Col. Med.Rizzo, Comandante di tutto il Campo-Ospedale Italiano, col quale sarebbe tornato pocodopo.

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E difatti, i miei compagni di castello avevano appena finito di rassettarmi un po’ lecoperte, ed ecco di ritorno Mons. Ghidini col Colonnello e il Capitano Medico De Lucia,incaricato della baracca. Dopo una visita generale meticolosa e sentito che la malaria misi era incarnata nel sangue fin dal febbraio '41 con attacchi regolari di febbre alta ogni15-20 giorni, sentenziò: malaria perniciosa in soggetto debilitato! Nulla di nuovo per meche già non sapessi e difatti anche l’esame del vetrino confermò la diagnosi. Forse perconsolarmi, lasciandomi, il Colonnello mi disse che m’avrebbe affidato, per la cura, allemani di fata delle Crocerossine. Lo ringraziai e attesi fiducioso. Ma dovetti aspettare cin-que giorni e intanto la febbre continuava!... Le pastiglie di Atbetrin mi ingiallivano semprepiù e mi rendevano intollerabile ogni cosa, non solo le rape, ma anche quelle piccole lec-cornie, ultimi avanzi delle provviste fatte ad Atene, che gli Ufficiali amici mi sforzavanoa prendere. Finalmente ecco le nostre meravigliose Sorelle della C.R.I.Le guidava la capogruppo, sor. Sofia Novellis, tanto buona e intraprendente quanto delicata e nobile! Nono-stante il loro desiderio grande e le molte richieste di Mons. Ghidini, il comando tedesconon aveva ancora concesso il nulla-osta a che prestassero la loro opera di sollievo e dicura nelle baracche dei più bisognosi. Lo poterono solo verso la fine del gennaio ‘44quando anch’io, che nel frattempo mi ero alquanto rimesso, grazie proprio alle loro pre-mure, mi ero dedicato già da un mesetto circa, all’assistenza dei nostri Tubercolosi cheormai cominciavano a crollare.E là, nel reparto «C», mi vennero ad aiutare in modo sta-bile: sorella Menghini e sorella Maria Salvo Gubitosi, mentre le altre, impegnate nei la-boratori, nelle sale operatorie, nella cucina, nel rattoppare i nostri cenci, nell’assistere ipiù gravi dei reparti «A» e «B», accorrevano, non appena le avessi richieste, a darmi unamano. E ogni volta comparivano, col loro sorriso luminoso, operavano miracoli! Se per iTedeschi fu un delitto imperdonabile l’aver gettato quelle povere donne in situazioni cosìinumane, per noi fu un tratto di squisita bontà da parte di Dio, l’averle avute, per ottomesi, al nostro fianco. Inadeguata ogni parola a dire e ogni penna a scrivere del bene chetutti avemmo da quegli Angeli bianco-azzurri.

Il Campo «C»Superata anche quella volta la fase acuta del male che da tre anni mi affliggeva perio-

dicamente, senza però impedirmi mai di espletare il mio compito, sia pure con qualchedifficoltà, mi diedi tutto all’assistenza dei ricoverati del Campo «C», che occupavano lebaracche 71 e 72 - 74 e 75 - 52 e 56 - 68 e 78 - più due baracche riservate ai polacchi e aiserbi, ed altre due ad altri infettivi.

Il campo C era stato aperto ufficialmente il 2-12-1943 e la direzione affidata dal Col.Medico Rizzo al Cap. Carlo Caccese che conserva ancora, come una reliquia, 1’ordinericevuto.

Padre Luca Maria Airoldi

Mons. Ghidini Padre Luca Don Guido

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Guerra, racconto e memoria

Ottenni di trasferirmi «loco e foco» tra quei poveretti e così coi medici che già ci sta-vano: Capitano Moschini e Corrado, i Ten.ti Med. Sanfilippo e Fantelli, gli InfermieriFerrero, Caviglia, Cioni, Buongiorno, Favalli, Giampieri, Villani e il Serg. Magg. Chiap-pini che fungeva da Capo-Campo, formammo una piccola repubblica autonoma, indipen-dente. Gli altri ufficiali medici che completavano il servizio del Campo C e precisamentei Ten.ti Mazzoni e Zani, Simonetti e Filosa, Negri e Dal Bosco, e il Direttore Cap. Caccese,per varie ragioni erano rimasti in forza al campo A, ma ogni giorno venivano puntualmenteper il loro servizio. I Tedeschi che della TBC avevano un sacrosanto terrore, come delresto anche dei bombardamenti, non avrebbero voluto che quei degli altri campi A e Bbazzicassero tra noi, ma chi poteva tener separati soldati dello stesso reparto, o concitta-dini, o paesani? La lontananza dalla Patria, la mancanza di notizie dei propri cari, le mi-serevoli condizioni di vita, anziché fiaccare, acuirono il nostro spirito di corpo, la nostrafraternità, il bisogno di vederci, di aiutarci nel possibile, di scambiarci pensieri e speranze,gioie e dolori.

Per cui di visite ne avemmo tutti i giorni, e quando la presenza di qualche aguzzinozelante, impediva le comunicazioni per le vie diritte, ci si serviva di quelle storte!., e cioèsi passava sotto o attraverso gli squarci praticati abbondantemente nel reticolato sempliceche ci divideva dagli altri reparti Italiani, anche a costo d’esser presi di mira dal fuciledella sentinella che vigilava sulla torretta di osservazione.

Il 22 Luglio 1944 verso le cinque pomeridiane era suonato l'allarme, e finché durava,tutti dovevano restare rigorosamente nella propria baracca, pena la prigione.

Il moribondo che stavo assistendo, ed era il quinto di quel giorno! mi espresse il de-siderio di ricevere ancora una volta la S. Comunione. Volli accontentarlo! ma dovevo re-carmi nella baracca-cappella a prendere il Santissimo. Lo feci per viam breviorem, per lastrada più breve cioè, ch'era quella del reticolato interno. Mentre un soldato teneva solle-vata la rete, io, strisciando, stavo passandoci sotto, quando una fucilata ci raggiunse! Lapeggio toccò al soldato ch’ebbe le quattro dita della mano sinistra completamente asportatee buona parte del palmo, mentre io fui toccato solo leggermente e di striscio alla gambadestra. Il poveretto sanguinando e urlando per il dolore, scappò mollando così la rete chemi cadde sulla schiena. Temendo un secondo colpo, con un balzo fui anch’io in piedi dal-l’altra parte e di corsa, tenendomi curvo, raggiunsi e mi nascosi nella baracca più vicina,la 46. Sotto il filo spinato però avevo lasciato parecchi brandelli di camicia e di pelle.Cessato l’allarme e indossata una camicia imprestatami, perchè i Tedeschi non mi rico-noscessero, compii la mia missione appena in tempo. Quando uscii dalla baracca 75, dopoaver chiuso gli occhi al soldato Dell’Osa Pietro ch’era morto felice d'essere in compagniadi Gesù, le guardie stavano già cercando i due indisciplinati che durante l’allarme avevanotentato di attraversare il reticolato. Fui anch’io interrogato, ma finsi di non capire!.,

Reticolati interni che dividevano i vari settori del campo

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l’omertà degli altri fu generale e così l’avventura non ebbe altre conseguenze. Il soldatoferito invece dovè sottostare anche alla punizione che però tutti d’accordo gli rendemmopiacevole e breve.

Vita religiosa del campoChe il bisogno, la disgrazia, il dolore siano mezzi efficaci e potenti in mano di Dio

per ricondurre o stringere maggiormente a Sè le anime mediante i Sacramenti, è un fattoindiscutibile. Può esserci, al principio della sofferenza, un atto di ribellione o anche di di-sperazione, ma se il patire s’allunga, finisce per rendere più pensosi gli uomini e più af-finate le anime. Così avvenne anche a Zeithain. Caduta l'illusione d'un rimpatrio a brevescadenza, (i Tedeschi ci avevano fatto credere che per il Natale del ’43 tutto sarebbe finitoe noi saremmo stati liberati!) e persa la fiducia negli uomini, ci rivolgemmo a Dio chetiene in mano le sorti dell’universo. Dire del rigoglio di Sacramenti, di preghiere e funzionisvariatissime che si cominciarono coll’inizio del 1944, sarebbe lungo e per alcuni incre-dibile. Già Mons. Ghidini, colla sua diplomazia aveva ottenuto che una baracca fungesseda Cappella.

Alcuni soldati-artigiani, pur senza attrezzi adatti e usando tavolette di legno sottrattea qualche pagliariccio, avevano ricavato candelieri e persino un ostensorio. Le Sorelledella C.R.I. da parte loro avevano rimediato alle tovaglie e un Ufficiale pittore aveva de-corato un po’ tutto l'altare. Là dentro, ogni mattino venivano celebrate due Sante Messefrequentatissime, giacché era arrivato nel Marzo, un altro Cappellano, Don Guido San-martino, proveniente da un campo in Polonia. Era giovane di anni e di servizio militare,ma tanto, tanto buono e paziente. Monsignore lo aveva incaricato dell’accompagnamentodei nostri morti al cimitero, perciò lo si chiamava affettuosamente il « galoppino ! » sem-pre affamato al ritorno! Non se ne offendeva, anzi rideva compiaciuto, perchè: « — è laverità! — » diceva. Qualunque piacere gli si chiedesse si faceva in due per accontentare,purché non importasse rischi di nessuna sorte! Il coraggio non sapeva che fosse! E forseper questa sua timidità gli si voleva un gran bene.

Ogni sera nella stessa baracca-cappella, dopo il Rosario seguito spesso spesso da unapredichina, solenne Benedizione Eucaristica. La bella preghiera del prigioniero alla Ma-donna, dettata da Mons. Ghidini che riuscì anche a farla indulgenziare dall’Arciv. di Go-rizia e, che ormai tutti sapevano a memoria, recitata a gran voce, chiudeva la giornata.

Eccola: — O Vergine Madre, o benigna consolatrice dei mesti, accogli pietosa le no-stre voci di preghiera. Tu sei la Madre della misericordia; impetraci dal Tuo Figlio Gesùperdono delle nostre colpe, e, con il tuo potente aiuto, ottieni a noi fermezza e perseveranzanel bene.

Tu sei l’ausilio dei Cristiani! Sul mondo riarso di odio, straziato da feroci discordie,

Padre Luca Maria Airoldi

Una delle tante garitte con mitragliatrice e faro girante! da dove i Tedeschi vigilavano per impedire fughe

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che espia nella sofferenza e nella angoscia, nellutto e nel sangue, il delitto dell'apostasia dal-l'Amore Divino, volgi il tuo sguardo materno,piovi le tue grazie celesti, affinchè gli uomini ri-trovino le vie delle pacifiche intese, la forza del-l’abbraccio fraterno. O regina della Pace!... ottienialle Genti, con la tua validissima intercessione, lapace vera, giusta, duratura.

Tu sei la Consolatrice dei Mesti, o Maria!Volgi dunque a noi gli occhi tuoi dolci! Vedi?, oStella Mattutina?, ogni nostro giorno ha la suapena, ogni anima il suo tormento. Non disdegnare,o Madre, chi ti affida ogni lacrima, più che degli,occhi, del cuore, e pietosa abbreviaci i giornidell’espiazione e della prova, riportaci in quelladolce Patria di cui Tu sei l’inclita Castellana.

Con i nostri cari, nei devoti tuoi templi, can-teremo le tue Misericordie, o Madre Clementis-sima, o unica speranza nostra. Così sia».

Naturalmente gli ammalati del Campo «C»non potevano partecipare alle preghiere e allefunzioni che si tenevano nella Cappella posta trail Campo « A » e « B ». Oltre alla distanza, c’era

il fatto che per recarvicisi bisognava proprio passare davanti agli Uffici dove i Tedeschierano più numerosi e se si fossero accorti, sarebbero stati guai. Per cui, onde non essereda meno dei nostri compagni degli altri reparti, anche noi del campo «C» ci organizzammocosì: — Ogni giorno la Messa che andavo a celebrare or nell’una, or nell’altra baracca aturno e a secondo del bisogno, alla quale però potevano partecipare tutti quelli che vole-vano e potevano. La sera immancabilmente in quasi tutte le baracche la recita del S. Ro-sario e della preghiera del prigioniero. Passando dall'una all’altra per assicurarmi che tuttofosse fatto con devozione, una sera mi capitò di sentire, per la prima volta, anche un’AveMaria singolare, quella del Popolo!... Terminata la preghiera ufficiale e ricevuta la miabenedizione come al solito, l’infermiere della baracca 75, Cioni Alberto, fiorentino purosangue e tipo spassosissimo, mi chiese: — Padre, sa come in Italia recitano ora l’AveMaria?.. Senta!..

Richiesto ed ottenuto il silenzio da parte di tutti, declamò a voce spiegata:Ave Maria, di grazia piena! fa che non suoni più la sirena! fa che non vengan più gli

areoplani, fammi dormire fino a domani. Se una bomba cade giù, Madonnina, salvamiTu!

Santa Vergine che tutto vedi, fa che i miei muri restino in piedi!Ma se la casa dovesse crollare, fammi la grazia di me salvare.E Tu sai, buona Madonnina, che tutte le notti si va in cantina?O mio caro e buon Gesù, anche in Italia si dorme più!Se San Giuseppe è tra i richiamati, anche gli Angeli saran mobilitati!E se l’asino è a Roma e il bue a Berlino, come faremo a riscaldar Gesù Bambino?Nell’insalata ci vuole l’olio, come per vincere ci vuol Badoglio!Il Papa veglia e spera e prega, ma Mussolini se ne frega!Per colpa sua dobbiamo soffrire! o Padre eterno; fallo morire!Giacché tutto vedi, o buon Gesù, porta il Duce con Te lassù!Porta pure Hitler in sua compagnia!Fammi sta grazia e così sia!Un fragoroso: Bene!.. Bella!.. Bravo!., accolse l'innocente parodia. Tutti ne reclama-

L’altare della Baracca-Cappella costruito ingegno-samente e interamente con pezzi e pezzetti di legnoreperiti nei modi più svariati.

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rono una copia ed io la promisi loro eavutone il testo l’andai a recitare nellealtre baracche suscitando ovunque altret-tanta ilarità e consensi.

Ma torniamo alle pratiche religioseche si compivano nel campo «C». Alladomenica, tre erano le S. Messe che ce-lebravo: la prima nella baracca dei gravich'era la «71», chiamata anche la baraccadei morti, perchè chi vi entrava difficil-mente ne usciva coi propri piedi!., la se-conda nella baracca del personale; laterza, tempo permettendolo, all'apertoper tutto il campo. A questa Messa par-tecipavano anche non pochi dei nostri

ospiti, Serbi e Polacchi, e financo qualche tedesco!Al termine non mancava mai la canzoncina popolare, dopo di che era di obbligo fa-

cessi il consuntivo della settimana trascorsa e le previsioni per quella che s’incominciava.Naturalmente da principio non facevo che riassumere le notizie circolanti nei vari

campi e chissà da quali fonti venute!.. Giornali non se n’avevano... I Tedeschi non si sbot-tonavano... eppure eran tante e quasi sempre ottimistiche!.. Riflettevano senz'altro il nostrostato d’animo, le nostre aspirazioni più profonde, i nostri desideri più ardenti. Però nonmancavano gli sfiduciati che andavano ripetendo: — Vinca chi vuole, purché noi si escada questo inferno che comincia a voler vittime sempre più numerose! Ed era purtroppo laverità!...

Di una cosa però eravamo certi: i massicci bombardamenti notturni e diurni andavanoaumentando sempre più e le facce corrucciate dei nostri aguzzini, ci dicevano chiaramenteche dovevano essere efficaci. Lo potevamo del resto immaginare.

Quelle formidabili formazioni di fortezze volanti, valutate a migliaia, accompagnatee protette da centinaia di Spitfire che sembravano foglie d’argento trasportate dal vento,giunte sul nostro campo, si dividevano e prendevano di solito tre direzioni: quella di Ber-lino, a Nord e a poco più di 100 km., quella di Lipsia, ad Ovest a circa 70 km. — quelladi Dresda, a sud-est a 60 km.

Spettacoloso il fuoco di sbarramento antiaereo! ma i boati fragorosi che ci giungevanodistintissimi e che facevano traballare le nostre già sconquassate baracche, provavano chegli obiettivi non venivano mancati. Per vedere e possibilmente contare gli apparecchi, ipiù coraggiosi di noi, trasgredendo l’ordine severissimo di restare in baracca durante gliallarmi, se ne stavano invece supini per terra fino a bombardamento ultimato correndo ilpericolo d’essere fatti bersaglio delle sentinelle.

Una volta sola assistemmo a un duello aereo tra caccia tedeschi e alleati. La peggio,è vero, l'ebbero i Messersmit, inferiori per numero e per agilità, ma anche due Spitfirefurono abbattuti.

Un pilota alleato riuscì a gettarsi col paracadute, ma toccando terra nel campicelloche ci stava dinnanzi oltre i reticolati, fu fatto barbaramente fuori da alcuni contadini!...

Ne ebbi la prova la sera stessa, quando venni chiamato per accompagnarne la salmaal cimitero e firmare l'atto di morte da trasmettere alla Croce Rossa. Qualche giorno dopoquella salma fu trasferita, e non seppi mai dove. Il perchè però mi era chiarissimo!

Gli allarmi e i bombardamenti non erano i soli fatti che rompevano il grigiore e lamonotonia delle nostre giornate. C’erano anche e soprattutto le feste che celebravamosempre con la maggior solennità possibile. Venuto in possesso di una fisarmonica, im-piantai subito una piccola schola cantorum! Finché rimasero con noi le crocerossine, nefurono i pilastri. Ma anche quando rimpatriarono, si continuò ad imparare canzoncine,

Padre Luca Maria Airoldi

Cappellano di Zeithain impartisce l’ultima Assoluzione! dopo di chei soldati del l'ii'Sldlo

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mottettini e persino le parti brevi della Messa «Te Deum» del Perosi.Mons. Ghidini, che la sapeva a memoria, me ne dettò le voci, io v’aggiunsi una specie

di accompagnamento e fu imparata così bene che, in seguito, quand’io non potevo ac-compagnarla perchè impegnato all’altare, veniva cantata a voci scoperte!... sotto la dire-zione del Ten. Med. Fantelli che di musica se ne intendeva parecchio. C’era sì un virtuosodella fisarmonica, che portavo quando mi riusciva agganciarlo, nelle varie baracche a ral-legrare un po’ gli allettati, ma era inspiegabilmente negato per la musica sacra!

Fu così che anche i pochissimi, rimasti fino allora quasi sempre assenti, tornaronoalle funzioni sacre. Il che importò come primo risultato positivo, un progressivo e continuoaumento di frequenza ai SS. Sacramenti, specialmente nel mio campo «C» dove contavogià Soldati e Ufficiali che si comunicavano quotidianamente. Il necessario per tante Co-munioni e Messe ci veniva inviato dalla Croce Rossa Svizzera.

L’avvio a codesta intensa vita spirituale, venne da una memorabile funzione religiosache celebrammo nel giorno anniversario dell’Apparizione di Lourdes e cioè l’11febbraio1944.

Lascio la parola a Sorella Novellis che ne fu la magna pars e che la descrisse per unarivista quando rientrò in Italia, dando però un titolo che non condivido perchè abbiamosempre potuto fare ogni nostra funzione senza intralci da parte dei Tedeschi: «Cristo proi-bito a Zeithain- Muhlberg/Elbe ».

«Grigia solitudine tra le baracche e i reticolati che si estendevano all’infinito. Oppres-sione dello spirito nella ricerca d’una vita senza domani. Ansia d'una notizia che non sa-rebbe mai giunta. Così vivevano, nel lontano 1944, i nostri soldati, il fiore della gioventùd’Italia, nel campo di concentramento ove si è svolto il fatto più commovente e signifi-cativo della mia lunga esperienza di Crocerossina. Eravamo ventun sorelle provenientida Ospedaletti della Grecia e della Croazia, riunite nel vastissimo campo di Zeithain-Mu-hlberg/Elbe (Sassonia) diviso in tre zone: A - B - C.

Ciò che vi descriverò si è svolto nel Campo « C », quello dei Tubercolosi. E' difficilerendere colla penna ciò che gli occhi hanno visto, e soprattutto ciò che lo spirito ha patito.Dirò qualcosa che nulla è in confronto della realtà, ma sarà sempre qualcosa che potrà te-stimoniare quanto la fede possa aiutare a sopportare e a superare le più tremende diffi-coltà.

Si avvicinava la festa della Madonna di Lourdes e volevamo, in quella occasione,dare ai nostri cari soldati il conforto della Benedizione Eucaristica. Dopo aver insistito esupplicato parecchio, ottenemmo dal Comando Tedesco il permesso di celebrare la festadella Nostra Mamma Celeste. Si trattava di organizzare tutto dalle piccole alle grandicose. Le baracche erano miserabili... i malati posti in giacigli quadriposto, due sotto e duesopra... formati da poche assicelle e un po’ di paglia ormai tritata, infestati da insetti ditutti i tipi. Volevamo dimostrare anche esteriormente che gli sporchi Italiani ci sapevanofare. Trovammo modo di rimediare delle lenzuola e degli indumenti per i nostri soldatidegenti... barattammo, con i pochi oggetti che ancora avevamo, del sapone per mettere insesto le nostre divise duramente provate dai lunghi mesi di prigionia.

I soldati, dal canto loro, si diedero d'attorno per allestire l'altare, l’Ostensorio, i can-delieri ed una infinità di altri oggetti.

Tutto questo spirito di iniziativa e con mezzi veramente sorprendenti! L'Ostensorioper esempio era stato ricavato da una scatola di carne a cui erano stati tolti il coperchio eil fondo. La raggiera era stata realizzata con ritagli di lamiera e il manico con un pezzo dilegno sottratto a uno dei sei piccoli supporti che sostenevano i pagliericci... e anzi tuttiavevamo ridotto di una le nostre assicelle per costituire una riserva segreta di questa pre-ziosa materia prima.

Curata così alla meglio la parte materiale, i Cappellani provvidero a preparare spiri-tualmente i soldati.

Si fece una novena nella nostra baracca-cappella ove era stato eretto l'altare che potete

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osservare nella fotografia. Garze e compresse colorate avevano avuto il magico potere direndere suggestivo e vivo l’Altare in mezzo al freddo squallore della baracca. Sin daiprimi giorni della novena, la Madonna si mostrò contenta di questo nostro sforzo e ci pre-miò facendo venire alle nostre funzioni serali tante e tante anime che da gran tempo sierano allontanate dalla fede.

Voi non potete immaginare quanto sia commovente vedere un alto Ufficiale, cono-sciuto da tutti per il suo disprezzo per la religione, piegare le ginocchia e piangere!... Ep-pure tanti hanno fatto così!

Quello era il coronamento di una lunga serie di sofferenze sopportate e offerte eroi-camente da oscuri soldati per la conversione di quelle anime. Quante volte chinandomisopra qualcuno di quei meravigliosi ragazzi, mi sentivo ripetere: — Sorella, quando tor-neremo in Italia?, oppure — Sorella, non rivedrò più i miei bambini?... la mia mamma?...Sorella, aiutatemi!...

Abbassavo la fronte e con l’angoscia nel cuore, dicevo loro: — Figliolo, offri questosacrificio per la salvezza dell’anima di...». — Subito il loro volto si illuminava!... la pos-sibilità di essere ancor utili a qualcosa, donava loro una forza ch’era del tutto sopranna-turale. E morivano contenti che la loro morte, offerta come olocausto, potesse trasformarsiin istrumento di salvezza per altri.

Molto tempo più tardi, quando eravamo già rientrate in Italia, un Generale si è messoa piangere quando ha saputo che dei soldati avevano offerto la loro vita per la sua con-versione.

In mezzo a tanto eroismo, non c’era bisogno di preparare gli animi. La Benedizionedell’ 11 febbraio, sarebbe stata per molti la visita, in anticipo, di quel Dio che presto avreb-bero raggiunto per sempre.

Alle 14 iniziò la processione. Lungo il passaggio del Santissimo erano schierati, ri-verenti e commossi, i nostri prigionieri.

Tutto intorno, la neve aveva coperto del suo bianco manto le sozzure della terra, e lagiornata serena, benché rigidissima, conferiva a quel tetro scenario, un senso di purezza.

Nel Campo « C » si unirono i soldati che potevano ancora camminare. Così con questaguardia d’onore, sporca, affamata, ma tanto eroica, Gesù entrò nella baracca dei morenti.Chi è stato a Lourdes può capire che cosa abbiamo provato in quel momento!

Erano anime che, serene, consce della loro prossima fine, orgogliose d’essere Italiane,attendevano che Gesù dicesse loro: — Oggi sarai meco in Paradiso! —.

Quasi a testimoniare la realtà di questa frase, un giovane si avviò, nell’istante stessoin cui riceveva la Benedizione, per il cammino dell’eternità. Aveva chiuso gli occhi difronte all’Ostia Santa, per aprire quelli dello spirito alla visione di Cristo Risorto!

E così di letto in letto, di baracca in baracca, Gesù si fermava presso tutti e per tutti,nel muto colloquio aveva parole di conforto e di speranza!

Abbiamo pregato!... abbiamo cantato!... ma soprattutto abbiamo pianto!... e forsequella è stata la preghiera più bella - (Sofia Novellis).

E un Tenente Colonnello, rimpatriato coll’unico Treno Ospedale partito da Zeithain,annunciandomi il felice arrivo in Italia, mi pregava di salutare per conto suo e dei fortunaticompagni, tutti i poveretti rimasti con me e di assicurarli che: — La Fede riacquistata nelfebbraio in occasione dell’indimenticabile festa Lourdiana, l’avrebbe in seguito impiegatasempre nello scongiurare la Vergine per la nostra incolumità! —.

Il treno ospedaleFu l’unico che arrivò in due anni, e già così stracarico che ben pochi in confronto del

bisogno, ebbero la fortuna di salirvi. Infatti su 2.000 ammalati circa che erano ricoveratinei tre campi Italiani di Zeithain, soltanto 150 poterono rimpatriare e di questi solo 50 deimiei del campo C ch'erano 520 e tutti estremamente bisognosi. Da più di due mesi se neparlava e ogni giorno la lista dei partenti doveva essere aggiornata perchè ogni giorno

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Padre Luca Maria Airoldi

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qualcuno dei prescelti partiva inesorabilmente per ben altra destinazione.Quale criterio di preferenza adottare nella scelta?.. Individui recuperabili! — fu l’im-

perativo categorico ricevuto dai medici delle varie baracche. Personalmente non condivi-devo l’idea, e non solo perchè i miei poveri T.B.C. sarebbero stati danneggiati, come difatti lo furono, ma anche perchè in tal modo si correva il rischio di recare una specie diaiuto alla cosiddetta Repubblica Sociale, alla quale mai nessuno di noi aveva voluto ade-rire, nonostante le periodiche, frequenti sollecitazioni che ci venivano fatte colla promessad’un rimpatrio immediato. E tali pressioni e promesse non ci venivano soltanto dai Tede-schi, ma purtroppo anche da certe Commissioni Italiane che di quando in quando venivanoda noi a quest’unico scopo, ma che immancabilmente ripartivano con le pive nel sacco.

« Piuttosto la morte d’inedia!... ma non la libertà traditrice!» era il nostro slogan co-sciente di allora. Tuttavia molti, anzi tutti i miei erano sostenuti in questa fermezza, anchedalla speranza del Treno-Ospedale. Lo sognavano ad occhi aperti! ne parlavano persinoin sogno e mi scongiuravano ogni giorno o perchè facessi il possibile per includerli nelfatidico elenco, o perchè controllassi che c’erano.

D’accordo coi medici, assicuravo pietosamente tutti dell’inclusione. E del resto nonera una bugia! perchè il comando Tedesco non ci aveva rivelato il numero dei posti a noiriserbati, anzi ci aveva detto chiaro e più volte, che i bisognosi di rimpatrio che non aves-sero potuto partire col primo treno-ospedale, sarebbero partiti senz’altro col successivo,atteso per pochi giorni dopo, ma che in realtà non giunse mai.

Quale l’intenzione tedesca nel farci di continuo tante ampie promesse che poi non siavveravano?... Sostenere il nostro morale o beffarci crudelmente?... Finalmente il 10 giu-gno, ecco il sospirato convoglio! E’ facile immaginare la dolorosa sorpresa di tutti quandosapemmo del limitatissimo numero di posti riserbatici. Chi preferire tra i moltissimi bi-sognosi e già sicuri della partenza?.

Col pretesto di andare a vedere come si sarebbero potuti sistemare in treno, lasciail’ingrato compito della scelta ai medici. Quando tornai, tutto era stato combinato. Chipiangeva di gioia, chi di disperazione, chi di rabbia impotente!... Sorreggendosi a vicenda,i più in gamba raggiunsero da soli la piccola stazione che non distava un gran che, ma lamaggior parte dovemmo portarla o in barella o in spalla.

Ottenni, dopo infinite preghiere, che almeno i miei non fossero sottoposti al bagnopregai i partenti dei campi A e B che usassero i maggiori riguardi possibili verso i com-pagni del campo C e mi assecondarono in una gara di generosità commovente.

Quando tutti furono a posto, diedi loro la mia ultima benedizione augurale e a mol-tissimi il bacio richiesto. La commozione, la stanchezza, e la solita maledetta febbre, mi

Militari di Modena recano le cassette al luogo dell’inumazione definitiva

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avevano sfinito!... prostrato!... Ciononostante ritornai tra i rimasti portandomi tra le bracciail carissimo cap.le Frosi Ernesto che, aggravatosi improvvisamente alla stazione, non sicredè opportuno lasciar partire.

Infatti spirò il mattino del giorno seguente alle ore 7,30, dopo aver accettato eroica-mente di offrire la sua giovanissima vita per il buon viaggio e la fortuna dei compagnipartiti. I quali arrivarono sì felicemente in Patria, ma purtroppo fuori tempo utile.

Infatti nonostante siano stati circondati d’ogni premura e curati con ogni mezzo pos-sibile nell’Ospedale Militare di Modena, pure anch’essi, per la maggior parte, non pote-rono evitare l’abbraccio di sorella morte!

Ce lo scrissero le Crocerossine che erano rimpatriate anch’ esse una decina di giorniprima, e che in seguito li visitarono spesso. Del resto 10 anni dopo, e precisamente nelsettembre 1954, se ne fece la riesumazione alla quale fui presente io pure. L’idea di ri-consegnare alle famiglie che le avessero richieste, le salme dei loro caduti per la Patria edi riunire in un unico e più degno luogo quelle che sarebbero rimaste nel cimitero di Mo-dena, 1’ebbe la sorella Alma Gioia di Milano.

Ma quante difficoltà e incomprensioni non dovè superare per poterla realizzare!...Temprata però a fatiche ben più pesanti, non esitò persino a ricorrere alle autorità diRoma!... per averne 1’autorizzazione e la partecipazione ufficiale. Aiutata poi dal CapitanoFarmacista Venturelli, altro glorioso superstite di Zeithain, rintracciò e invitò alla cerimo-nia quanti più potè dei superstiti, ammalati e sani, e di coloro ch'erano stati almeno di pas-saggio dal campo nostro.

Certamente tanta fatica avrebbe dovuto meritare maggior apprezzamento da partedei Modenesi, che invece rimasero inspiegabilmente freddi e assenti! Tuttavia la funzioneriuscì quanto mai solenne e suggestiva, per la presenza di molti famigliari dei caduti,d’una nutrita compagnia di soldati in armi, d'un buon gruppo di Accademisti e delle mag-giori autorità civili e militari della città. Il Ministero della Difesa era rappresentato dalComandante dell’Accademia Militare di Modena.

Riporto qui a conferma e a completamento di quanto già scrissi, il discorsetto cheebbi occasione di tenere in quella circostanza.

«... Coi Reduci dalla prigionia di Zeithain, che certamente portano ancora nel cuorela fiamma del sacrificio io compiuto per la Patria, commosso e reverente, saluto Voi com-pagni nostri, umili nelle piccole cassette che vi racchiudono, ma grandi come i Martiri diCristo!

Mai come in questo momento ho desiderato di aver al posto del cuore, una cetra ar-moniosa ripiena di recondite armonie, e una mano maestra che la facesse vibrare in modoineffabile onde rievocare in mezzo a quanti i vi stanno d’attorno, la vostra figura, o vittimedella più dura prigionia! e tutti spingere a suffragare davanti a Dio le vostre anime im-mortali.

Sono ormai passati parecchi anni da quel triste 8 Settembre 1943, giorno in cui inco-minciò il nostro Calvario, lungo il quale ben 900 dei nostri si accasciarono per non risol-levarsi più, là nel Res. Laz. di Zeithain!

Ma il vostro e il loro ricordo non può tramontare!... e noi superstiti, noi miracolosa-mente scampati, risparmiati dalla falce cruenta, abbiamo oggi per voi e per quelli rimastilà nel Cimitero di Zeithain, che attendono di ritornare in Patria per il riposo definitivo, unpensiero nostalgico. Vi conoscemmo!... vi amammo riamati!... vi vedemmo giacere al no-stro fianco, in quel supremo anelito, in quel supremo lamento che non si scorda più!...

Cari miei Morti di Zeithain!... vi rivedo uno per uno!... perchè oltre che nel cuore, viho scolpiti bene nella mente! Potrei ricordarvi il giorno, l’ora del sereno, cristiano vostrotrapasso, che avveniva sempre preceduto dai Sacramenti della Chiesa che voi stessi, moltevolte, sollecitavate anzitempo.

Posso assicurarvi che le vostre confidenze, i vostri desideri, le vostre ultime parolecoi saluti ai cari lontani, sono riuscito a farli giungere a destinazione. Tengo tuttora come

Padre Luca Maria Airoldi

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preziosa reliquia quei fogli su cui scrissi tutto quanto vi riguarda e che voi tante voltem’avete visto tra le mani. Anche il Ministero della Difesa li volle vedere e dopo attentalettura mi assicurò che voi pure, un giorno o l'altro, rientrerete e sarete onorati, come oggilo sono questi vostri compagni che vi hanno preceduto.

E ne avete ben diritto! Il vostro sacrificio fu per la Patria e uguale, anzi superiore perla lunga, lenta agonia dolorosa da cui fu preceduto, a quello di coloro che lo compironosui campi di battaglia coll’arma in pugno o al piede.

E pensare che molti di voi avrebbero potuto evitarlo, volendolo!... con una sempli-cissima firma di adesione alla Repubblica Sociale tante volte richiestaci!... con una solaparola di ritrattazione! Invece, ed ecco il meraviglioso, tutti preferiste il reticolato alla li-bertà traditrice, e la morte d’inedia pur di mantenere fede alla vostra divisa e al vostrogiuramento. Soltanto tre furono deboli e passarono di là!...

Ho detto morte d’inedia! ed è la pura verità, anche se sulle vostre cartelle clinichescrivevano, come causa della vostra morte, solo la conseguenza ultima della gran famepatita: — T.B.C. polmonare, il terribile male che non perdona! E tutti voi foste vittima diquel male o perchè troppo giovani, e quindi in pieno sviluppo (per esempio Pezzucchi,Buratti, Giovanardi, Conti, Fabris, Cozzi e tanti altri che avevano appena o non ancoracompiuti i 20 anni) o perchè troppo robusti, e quindi bisognosi di maggior nutrimento,come Querzè, Valtolina, Ardigò, Rozzi, Benasciutti, Battistioli e tanti altri pezzi d’uo-mini!

L'unico rancio quotidiano era assolutamente insufficiente sia come quantità, sia comequalità! Senza dire poi della mancanza assoluta di medicinali, che avrebbero potuto per-mettervi qualche cura, o almeno recarvi qualche sollievo, e delle baracche sconquassatein cui giacevate ammucchiati su poca paglia trita in polvere, baracche che sembravanofatte apposta per farci sentire il rigore del lungo, interminabile inverno, e il soffoco delbreve, ma cocentissimo estate!

E la sete allora, accresciuta dalla febbre continua, vi tormentava!... e chiedevate acquaal padre!... ed acqua potabile non c’era nel campo!... Ricordate come ce la cavammo nel-l’estate del ’44?... Grazie alla gentilezza, alla comprensione, e, diciamolo pure, al coraggiodel Cap. Farm. Venturelli, che senza buono di scarico mi passò parecchie scatole di steri-drolo, io tutte le sere passavo al letto di ciascuno di voi, e col gavettino vi versavo nellabocca riarsa quel sorso d'acqua sterilizzata, invocata disperatamente da tante ore!

E quante altre tristezze che non voglio ricordare perchè mi strapperebbero ancora lelagrime!... Del resto i superstiti già le conoscono, e gli altri che non hanno visto e provato,non le potrebbero credere possibili!Eppure mentre tutto intorno sembrava desolazione emorte, e non solo sembrava, ma lo era di fatto, voi conservaste sempre altissimo il morale,viva la speranza, profonda la fede!..

Anzi, quanto più si ischeletriva il corpo, altrettanto si affinava lo spirito vostro!... Ericordate con quanta fiducia recitavate ogni sera il Santo Rosario?... Ricordate lo spetta-colo di pietà che deste l’ll Febbraio 1944, quando ad imitazione di Lourdes, Gesù in Sa-cramento passò accanto al misero vostro giaciglio a benedire, a confortare, a sostenere?...Piangevate di commozione voi, ma piangevano anche i medici, gli infermieri, i cappellani,e soprattutto quei bianchi angeli, le Crocerossine nostre, che avevano preparato queltrionfo con indicibili fatiche e trovate geniali.

E questa vostra religiosità non era l’effetto del terrore o delle estreme sofferenze, mail frutto della vostra profonda convinzione! Potrei provarlo a chiunque. E quando nel Mag-gio, dopo otto mesi di dura prigionia, le Crocerossine furono finalmente rimpatriate, ri-cordate che sconforto, che vuoto lasciarono in voi che ormai eravate abituati a vederleogni giorno, indaffarate dalla mattina alla sera, a rassettare le vostre cucce, a pulirvi, aimboccarvi?... Partirono anch’esse con lo strazio nel cuore, ma con la soddisfazione diportare con sè un fascio di messaggi alle famiglie vostre e gran parte del vostro cuore!

Infatti non dimenticaste mai i loro insegnamenti... le loro raccomandazioni... e fu

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facile al cappellano di continuare a mietere copiosi frutti di bene, anzi ad aumentare ilvostro entusiasmo religioso. E così vennero altre devozioni oltre al Rosario! Per esempiola « Preghiera del Prigioniero » composta da Mons. Ghidini, la preghiera del Fidanzato...le canzoncine imparate e cantate durante le Messe che vi venivo a celebrare nelle barac-che... ecc.

Che meraviglia se dopo tanto bene, arrivavate al passo estremo perfettamente rasse-gnati alla dura, misteriosa volontà di Dio?... se nessuno di voi partì per il grande viaggio,senza i conforti religiosi?...Da tutto ciò la mia profonda convinzione che già siete in pos-sesso del Premio che il Signore concede agli Eroi della Patria!... e siate diventati i protet-tori naturali delle vostre famiglie desolate!...

Quant’altro potrei dire di voi e ricordare del campo di Zeithain!... ma la convenienzavuole basti così.

Da tutto ciò la mia profonda convinzione che già siate giustamente attribuito e lo scri-veste con un ferro rovente sull’assito che nella baracca 71 separava i più gravi dagli altriche ancora potevano arrangiarsi da soli. Nessuno che sappia, può mettere in dubbio la ve-rità di questo titolo!... Perciò io, alle molte raccomandazioni fattevi allora e da voi sempreascoltate, oggi che siete trasmutati e potete molto, vi faccio anche questa: Continuate adassistere e proteggere, oltre ai vostri cari di casa, anche i vostri compagni che, pur essendotornati in Patria, hanno recato seco il sigillo del campo C di Zeithain e sono costretti apassare dall’uno all’altro medico, dall’uno all’altro Sanatorio. Ben pochi ormai ancorasopravvivono! Ricordatevi delle buone Sorelle della C.R.I. e specialmente delle SorelleNovellis, Gubitosi-Salvo, Menghini, quella piccola, meravigliosa creatura cui un vero esacro ardore infondeva una forza sovrumana anche fisica! ...e poi sorella Pessina e Helgche anche dall’Italia, vi inviarono pacchi e vi trovarono amici, e tutte le altre!... che in unmodo o nell’altro, vi hanno alleviato un po’ le sofferenze.

Continuate ad apprezzare la buona volontà almeno dei medici che vi assistettero, iquali pur senza mezzi, v’hanno circondati di premure davvero fraterne, premure che cer-tamente han lenito le vostre pene: il Capitano Moschini e Corrado, i Tenenti Sanfilippo eFantelli, Neri e Filosa, Simonetti e Zani e tanti altri che sarebbe troppo lungo nominare.Non erano sempre in mezzo a voi con la parola del conforto e della speranza?...

E tra le visite che vi facevano gli amici e compaesani del campo A e B non potrete di-menticare quelle frequentissime d’una certa persona, alta, austera, ma oltremodo paternache chiamavamo con rispetto: il Comandante Azzi e che oggi è l’Ammiraglio AzziMario!... Venendo nel nostro campo C recava quasi sempre con se un cartoccino con den-tro qualcosa da mangiare e mi pregava l’accompagnassi dal più bisognoso, dal più affa-mato! e anche voi restavate conquistati da quella figura della bontà personificata!..

Infine chiedo la vostra protezione e assistenza per tutti i reduci del campo A, B e C di

Padre Luca Maria Airoldi

Modena: Alcuni superstiti di Zeithain intervenuti alla cerimonia

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Zeithain che in qualsiasi modo vi hanno fatto del bene perchè vi hanno voluto bene!Per me nulla vi chiedo!... Ho già tutto da voi!... sento d’avervi in compagnia conti-

nua!... e se sono riuscito a tornare e a restare in qualche modo in piedi, lo devo proprio edunicamente a voi, e in particolare a quei non pochi di voi, che hanno incontrato la morteper la mia incolumità!... Da ciò constato come il poco che vi ho potuto dare, voi me l’ab-biate reso centuplicato.

Grazie quindi per me e per tutti coloro che vi ho raccomandati. Sono sicurissimo cheubbidirete al vostro Padre come sempre da quando ci incontrammo in quello inferno. Pervoi ora la nostra preghiera ».

ArrangiarsiL avvenuta partenza dei nostri 50 compagni dal campo C e le notizie che dì quando

in quando ci davano a mezzo delle Crocerossine e qualcuno anche direttamente dalloOspedale di Modena, contribuirono non poco a sostenerci il morale, ma soprattutto a farcisperare nella promessa successiva tradotta-ospedale. Intanto i giorni passavano lenti e ri-pieni di notizie contraddittorie, chissà da quali cervelli inventate!... Eppure tutte le si rac-coglievano, passando così da stati d animo euforici a stati di profonda prostrazione.

Benché diminuiti temporaneamente di numero, il rancio non subì miglioramento al-cuno, nè in quantità, nè in qualità. Però ci avevamo fatto il gusto ormai a quella robacciae, pur di procurarcene, si ricorreva ad ogni mezzo. Esauriti nel barattamento i pochi oggettipersonali, orologi, penne stilografiche, catenine d oro, e persino capi di vestiario, comemaglioni, calzettoni, scarpe e stivali, bisognava pur fare o trovare qualche cosa che ci ser-visse a procurare qualche razione di pane o di patate o di rape, da coloro che di ciò nonabbisognavano perchè in possesso di meglio, grazie ai pacchi della Croce Rossa Interna-zionale. Ed erano tutti gli altri prigionieri, eccetto i Russi che, come noi, non ricevevano.

Proprio così!... Noi e i Russi non godevamo della C.R. ...Perchè?... Ne seppi la ragionequando abbordai i rappresentanti della benefica e provvidenziale istituzione, venuti a con-trollare la distribuzione dei pacchi e li scongiurai che ci venissero in aiuto. « Muoionoanche i miei di fame! — gridai loro con vera disperazione — Non è giusto che sianotrattati con discriminazione ! » Mi sentii rispondere freddamente: — Mussolini ha avocatoa sè il compito di assistere gli Italiani!... Perciò vi chiamate internati e non prigionieri! Cidispiace immensamente, ma non possiamo proprio far nulla per soccorrervi, come nonpossiamo far nulla per i Russi che non riconoscono la nostra organizzazione Internazio-nale. Se a voi e a loro facessimo pervenire qualcosa per vie indirette, certamente non vigiungerebbe e servirebbe soltanto ai Tedeschi per prolungare la guerra! —.

Facile immaginare la rabbiosa reazione che suscitò in tutti questa dichiarazione. Servìperò a metterci il cuore in pace per quanto riguardava l’aiuto sperato dalla C.R. e a dirci

I gingilli che sapevano ricavare i nostri artigiani dell’alluminio e la mia gavetta tutta arabescata

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una volta di più chi era l’unico e vero responsabile di tutte le nostre disgrazie.I Russi potevano almeno rimediare in parte al bisogno, rubando a man salva nei ma-

gazzini di viveri di cui, come prigionieri di più vecchia data, avevano la custodia. Delresto anche quei pochi Italiani che erano riusciti ad intrufolarsi in qualche servizio del ge-nere, non facevano diversamente, anche se con ciò rischiavano di danneggiare i propricompagni. La maggior parte di noi però, e specialmente tutti quelli del campo C, dovevanoscervellarsi per trovare un modo qualunque per tacitare i crampi dello stomaco.

E’ vero che in Giugno si cominciò a ricevere qualche pacco da casa, ma troppo pochiin confronto del bisogno!.. vere gocce d’acqua in gurgite vasto!.. Poi quando si riceveva,come non farne parte agli altri e specialmente a quei del centro e sud Italia che non rice-vevano nemmeno la corrispondenza e che erano, tra di noi, i più?... Per cui la sera delgiorno dell'arrivo del pacco, anche il più voluminoso, non restava che la carta involucro!!!

In compenso, su chi l’aveva inviato, scendeva quella sera, certamente copiosa la be-nedizione di Dio invocata fervorosamente da coloro che l’avevano assaggiato. Sappianoquesto le Crocerossine e le buone persone che dietro loro esortazione, inviarono a me pac-chi per i più bisognosi del campo C. Le posso ancora nominare perchè il loro ricordo èsempre ben vivo nel mio cuore!

Sono precisamente:Sorella Maria Gubitosi Salvo Gè Pegli Sorella Guglielmina Helg Cadegliano (Varese);

- Sorella Pessina di Saronno e, certamente, grazie a Lei, le Sorelline Trotti, piazza G.Pasta, 23 Saronno, le Sorelle Tacca, piazza Venezia, 7 Saronno; il Sotto Comitato CRI diSaronno; la Famiglia Merlo Giuseppe, Cascina Velzina Fenegrò; la Famiglia Cozzi aicompagni del loro def Cozzi Ernesto;la Sig.na Emma Righini Cadegliano (Varese); il Sa-cerdote Egidio Trezzi Via Varè, 15 Milano, la Famiglia Benzoni, Via Leopardi, 6 Saronno,il Collegio S. Carlo, Corso Magenta, 71 Milano.

Benché abbia già fatto il mio dovere a suo tempo, rinnovo anche qui il mio ringrazia-mento cordialissimo alle suddette persone che forse con sacrifici enormi, hanno compiutoverso di noi un’opera di misericordia tra le più meritorie della loro vita!

Oltre a questi pacchi dall’Italia, avevamo altre briciole che, di quando in quando, cicadevano dall’interno del campo. E ciò grazie a Mons. Ghidini che rimediava semprequalcosa, non so come nè da chi, e al Capp. di Muhlberg/Elbe, P Marcolini, che ogni tantoveniva a trovarci e ci recava quanto aveva questuato tra gli Inglesi, Francesi e Americanidel suo campo.

Queste piccole attenzioni, per quanto materialmente insufficienti, ci davano la grandegioia di sentire che non eravamo dei dimenticati e ci facevano felici. Il compito però prin-cipale di saziare la nostra fame, restava pur sempre all’ingegnosità dei singoli. E quantebelle, geniali trovate fiorirono! Ci fu chi si diede alla fabbricazione dei portasigarette ealtri gingilli di metallo. La materia prima era fornita dalle gavette dei nostri poveri morti,ch’io invece di consegnare ai tedeschi, passavo nascostamente a questi artigiani. I loroattrezzi di lavoro erano ben ridotti!.. Eppure che gioiellini sapevano cavarne!

Gli altri prigionieri, specialmente i Serbi, ne erano entusiasti!.. ne richiedevano a nonfinire e in cambio davano di media, dieci razioni di pane! Cogli artigiani dell’alluminio,guidati dall autiere Tola Antonio, facevano società i cesellatori, coloro cioè che, dopo averdisegnato simboli, fiori, figure, ecc., colla punta della forbice o di un chiodo, le incidevanosul molle metallo.

In occasione del mio onomastico di quell anno 1944 ebbi in dono, dai miei ammalati,una gavetta tutta cesellata che tuttora conservo gelosamente, con altri oggettini ricordi diprigionia che formano la meraviglia di coloro ai quali posso mostrarli. So chi ebbe quellagentile idea! ... so chi la tradusse in opera!... ricordo benissimo chi venne, a nome di tutti,a consegnarmela il 18 ottobre, piena zeppa di fettuccine di patate!... Tutti morti purtroppo... In seguito altre gavette ebbero a cesellare per conto di Ufficiali e perfino di Tedeschi.

Ci fu un gruppo di pittori, che sotto la direzione del Serg. Magg. Battistioli Sergio,

Padre Luca Maria Airoldi

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studente di Belle Arti alla Accademia di Venezia, su fogli di carta qualunque o tavolettedi legno, facevano quadrettini in bianco e nero che i falegnami poi s’arrangiavano ad in-corniciare. Anche questi lavoretti erano ricercati e ben pagati!... specialmente quandoarieggiavano figure femminili!... Prima però di essere messi in commercio dovevano avereil mio Gepruft, ossia dovevano passare sotto la mia censura, e non poche volte ho dovutobiasimare e far correggere, per rispetto al pudore!... Gli artisti non protestavano, anzi benvolentieri ritoccavano i loro lavori, perchè sapevano ch’io stesso poi avrei piazzati i qua-dretti ai migliori offerenti.

C’erano anche i sarti!... che rabberciavano o adattavano pantaloni e giacche! Ma esau-riti i pochi rocchetti di filo lasciatici dalle Crocerossine, il loro mestiere cessò e tuttifummo costretti a tenere insieme i nostri stracci con spago e persino con filo di ferro!...Proprio cosi! perchè dai Tedeschi, in due anni di prigionia non avemmo nemmeno un bot-tone. Per questo anch’io che avevo l’obbligo di elencare gli oggetti personali e di vestiarioappartenuti a morti e tutto consegnare al Comando Tedesco, quando nello spoglio trovavoalcunché di buono (camicie, pantaloni - giacche asciugatoi scarpe, ecc.), lo passavo inveceai più malandati e nel sacco che consegnavo, racchiudevo solo stracci inservibili. Non dirado mi riusciva di far scomparire delle coperte che servivano, poi ai cappellai per fab-bricare berettoni a foggia dei kolbak Russi, molto in voga tra i prigionieri, e coi ritagli, afar lanciere, fasce da gambe, solette per pianelle e pantofole il mancanza di cuoio.

E non mancavano i poeti!... Ma i loro versi non ebbero mai fortuna! non trovaronomai acquirenti!... dopo averli letti e fatti leggere a qualche Ufficiale, li riponevo nella cas-setta dei ricordi.

L’unico cantastorie che avevamo in campo invece, passando di baracca in baracca,assieme al fisarmonicista, colle sue filastrocche alle volte felicissime, riusciva nel doppiointento di rallegrare gli uditori e racimolare per sè qualche misero avanzo di rancio. In-somma in tutte le baracche, eccetto la 71, c'era gente che lavorava, che s’industriava inmille modi per sfamarsi. E quei che non potevano o perchè già allettati, o perchè privi dimateriale, davano consigli, suggerivano idee, cercavano compratori, facevano da mediatorio da garzoni. Di modo che tutto quell'arrangiarsi tornava a vantaggio di tutto il campo.

Radio clandestinaTra i molti incomodi che rendono tanto odiosa la vita del campo di concentramento,

ci sono, senza dubbio, le frequenti, improvvise perquisizioni. Anche noi quindi le do-vemmo subire nonostante la spogliazione fattaci al momento del nostro ingresso nelcampo. E purtroppo qualcuno ci rimetteva sempre qualcosa!... non perchè fosse proibita,ma perchè faceva comodo al perquisitore.

Ebbene, in barba a ciò, noi riuscimmo ad avere e a conservare nel nostro campo C,ben due radioline a galena che servivano magnificamente a darci tutti i giorni il comuni-cato tedesco delle 14,30 e non di rado quello inglese delle 22,30!...

Naturalmente erano ben pochi coloro che sapevano ch'io ed il Cap. Moschini, ave-vamo queste due prodigiose scatolette, in tutto dieci persone e fidatissime. Il rischio chesi correva era grande ... pure ci andò sempre benissimo! Tra le due quella che funzionavameglio era la mia. Me 1 aveva lasciata in tutta segretezza il S. Ten. Emilio Romeo primadi rientrare in Italia col treno ospedale. Da ottimo radiotecnico qual era, trovata una pie-trina di galena, gli fu facile rimediare al resto con mezzi di fortuna.

La miracolosa radiolina tascabile che ci tenne il morale sempre alto!Un tubetto di vetro aperto alle due estremità... un ago di siringa, una bobina di sottile

filo di rame, una calamita racchiusa in una mezza scatoletta di lucido, poco più di unmetro di filo elettrico, il tutto contenuto in una scatoletta di legno di 8 x 12 cm., ecco lostraordinario apparecchio che, dalla metà di Giugno 44 fino alla liberazione mi permisedi sostenere le speranze di tutto il campo, gli stranieri compresi! Infatti anche a loro sipassavano le notizie captate, e a captare era il S. Ten. Roberto De Bernardinis che cono-

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sceva il Tedesco alla perfezione.L'operazione avveniva ogni

giorno dalle due alle tre pomeridiane,nel buco che serviva di sacristia nellabaracca - cappella. Mentre l’Ufficialericeveva, trascriveva e in seguito tra-duceva, io facevo da palo fuori, af-finchè nessuno dei nostri entrasse,neppure per pregare ma specialmenteper seguire i movimenti dei tedeschiaddetti alla sorveglianza. In caso dipericolo, un fischio era il segnaleconvenuto per sospendere e ritor-nare in circolazione colla massima

indifferenza. Finita la bisogna, mi rimettevo in saccoccia la mia scatoletta e tranquilla-mente rientravo nel mio campo C. Là coi Cap. Moschini e Corrado e coi Ten. Sanfìlippoe Fantelli si controllavano le notizie sulla carta geografica, dopo di che si mettevano cau-tamente in giro come confidenze ricevute da soldati tedeschi anch'essi stanchi della guerra.

Dapprima non ci si credeva!... chi non sapeva, pensava fossero mie pietose invenzioniper tener alto il morale!... ma quando gli avvenimenti cominciarono a precipitare, tantoche se n’aveva la conferma dagli stessi tedeschi, tutti le prendevano come oro di coppellae ne erano insaziabili!... e ne avrebbero voluto ad ogni momento!... Quante domande in-torno alla sorgente di quelle notizie!... quante supposizioni sballatissime ed anche ridicole!« Lo saprete un giorno non lontano! — rispondevo io a chi mi interrogava al riguardo —e allora ringrazierete chi di dovere! ».

Personalmente però passavo delle giornate d'incubo con quell’arnese in dosso!Quando poi m’accorsi che i Tedeschi, forse avendo subodorato qualcosa, cominciarono apedinarmi con più insistenza, a perquisirmi anche sulla persona ogni volta m’imbattessiin loro, tentai di affidare a qualche altro la grave responsabilità. Ma ne fui dissuaso dagliamici che sapevano. D’altra parte, la gran voglia che avevo anch’io di aver notizie tra jprimi, e la certezza che avrei messo in grave pericolo l’incolumità di un altro, mi deciseroa continuare a correre il rischio. E mi andò sempre bene.

Alle volte, palpato dappertutto, alle volte costretto persino a calar le brache, non mifu mai trovata la radiolina! Eppure l’avevo sempre in tasca come in luogo il più sicuro.L’avessi infatti lasciata nascosta tra le mie cosette in baracca, chissà quante volte mel’avrebbero scoperta!... con le prevedibili conseguenze dolorose per il detentore!... Invecemi bastò solo un po’ di prudenza. Così: evitavo il più possibile di incontrarmi da solo conun tedesco... tenevo sempre a portata di mano un oggetto del mio ministero, o l’asperges,o la scatola delle particole, o il vasetto dell’Olio Santo, e se ciò non bastava a risparmiarmiil palpamento requisitorio, facevo scorrere l’aggeggio ricercato lungo la gamba del pan-talone fino all'estremità ch’era chiusa... alla zuava!

Sommamente ingenui o sommamente tonti i tedeschi?.. Non so!... ma è certo che intal modo mi riuscì salvare la radiolina ch’era ormai diventata la vita del campo.

Quando finalmente ogni pericolo di essere scoperto cessò, e tutte le preoccupazionidivennero inutili perchè i Tedeschi, ormai agli sgoccioli, avevano ben altro cui pensare, enon ci guardavano più dall’alto in basso, ma con lunghe occhiate imploranti, quasi temes-sero una nostra rappresaglia, tirai fuori la misteriosa radiolina per mostrarla a tutti.

Fu una festa!... tutti vollero toccarla, osservarla attentamente, baciarla, portarla intrionfo!... Qualcuno ci fu che propose le si costruisse subito un monumento! Cessato al-quanto quella specie di delirio, chiesero che dimostrassi loro come era possibile che quel-l’arnese così rudimentale e così lontano dall’assomiglianza ad una radio, potessefunzionare e ricevere. Li accontentai e grazie all’ubicazione favorevole del nostro campo,

Padre Luca Maria Airoldi

La miracolosa radiolina tascabile che ci tenne il morale sempre alto!

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posto in mezzo a tre potenti antenne trasmittenti, quella di Berlino, di Lipsia e di Dresda,intercettai quasi subito musica che feci sentire ai più increduli passando loro il piccoloauricolare racchiuso nella mezza scatola vuota di lucido.

Quindici giorni dopo la potevamo sostituire con un vero e grande apparecchio Tele-funken ch'io avevo asportato da un non lontano ospedale tedesco ormai disabitato. I nostrivecchi padroni se n erano andati!., e quelli nuovi ancora non avevano organizzato il co-mando!

La liberazioneOrmai da più di un mese la sentivamo vicina!., e precisamente da subito dopo il vio-

lento, massiccio bombardamento di Dresda del 22 febbraio '45, al quale, ci si disse, ave-vano partecipato ben 5.000 apparecchi che sganciarono tonnellate a non finire di fosforoe benzina, di spezzoni incendiari e bombe, causando in poco più di mezz’ora centinaia dimigliaia di morti e riducendo la città giardino, un immenso rogo che bruciò per diversigiorni.

Il capitano Steichkel che comandava il nostro campo di Zeithain, ebbe distrutta inquella circostanza, l'intera famiglia!.. Lo vedemmo piangere! e ne fummo commossi!..ma non potevamo non rallegrarci di quella tremenda lezione che per noi significava unpasso decisivo verso la fine dei nostri guai.

Inoltre dalla nostra radiolina avevamo appreso che gli alleati avevan di già occupatoLipsia! Nessuna meraviglia quindi se noi, lontani appena 70 Km. li attendessimo da unmomento all'altro. Invece era scritto che saremmo stati liberati dai Russi, il cui esercito,in quei giorni distava ancora oltre 200 Km.!!! E tutto ce lo diceva. gli aerei dal musorosso, mai visti prima d’allora, che ininterrottamente volteggiavano sui dintorni mitra-gliando,.. i tedeschi accigliatissimi e indaffaratissimi tanto da disinteressarsi del tutto dinoi, i gruppi di donne, bambini e vecchi carichi di masserizie che vedevamo passare incontinuità al di là dei nostri reticolati, incamminati verso gli alleati per non cadere prigio-nieri dei Russi di i cui avevano un sacrosanto terrore;... e infine i colpi di cannone chetuonavano sempre più vicini.

L’attesa così non ci parve lunga, anzi ci mancava il tempo al commento di quanto ve-devamo accaderci sotto gli occhi. La paura d’essere anche noi in qualche modo coinvoltidagli avvenimenti, l’avemmo il 16 aprile, quando d’intorno al campo, cominciarono asaltare i depositi sotterranei di munizioni che noi non si immaginava neanche lontana-mente esistessero. Per quasi due giorni interi fu come un cannoneggiamento ravvicinato!...ogni 15-20 mimiti, un cupo boato faceva tremare la terra e le baracche, e per aria nuvoledi polvere e sassi che ricadevano poi rumorosamente. Per evitare ammaccature, bisognòtenerci al riparo, dentro le baracche. In tre soltanto fummo alquanto pesti da quell’originalegragnuola, io, l’infermiere Caviglia e il morto che trasportavamo all’obitorio.

Intanto i gruppi dei profughi dell est che ci passavano dinnanzi, s’erano infittiti sì daformare una interminabile colonna. Camminavano curvi sotto i loro fardelli e in perfettosilenzio! Non ci degnavano d’uno sguardo e sopportavano i rari nostri frizzi con faresprezzante!... anzi alcuni bimbi, che sospingevano carrozzelle con dentro forse un fratel-lino o una sorellina, sostavano un istante e irrigidendosi sull'attenti, protendevano il brac-cio nel saluto: Heil Hitler! e facevano l’atto di sputarci addosso! Fanatici fino alla cecitàassurda! La sera del 22 aprile '45 di ritorno dall’aver amministrato l’Estrema Unzione alsoldato Panzarasa Mario, vengo avvicinato dal cap. magg. tedesco che comandava la squa-dra dei nostri aguzzini e pregato di riconsegnargli il petromax che mi serviva di notte al-lorché veniva a mancare la corrente elettrica, e capitava spessissimo, per la sistemazionedei miei che fossero morti, in quel frattempo. Gli risposi che avrei potuto averne bisognoda un momento all'altro perchè i gravissimi erano parecchi e che quindi lo rivolevo al piùpresto. Glielo consegnai e ne ebbi un ringraziamento così caloroso e insieme umile chemi insospettì.

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A che gli sarebbe servito il Petromax?... Quale lavoro era quello che mi disse d’avera fare nella baracca 82?... Là dentro non c’era che materiale sanitario e l’apparecchio ra-dioscopico. Che volesse smontarlo?... Corsi ad avvisare il Cap. Moschini... discutemmoalquanto sul da farsi e poi insieme, con un pretesto qualunque, entrammo nella baracca.Non mi ero sbagliato! Alcuni soldati tedeschi, al lume del mio Petromax, già stavanosmontando l’attrezzo. Anziché seccarsi del nostro arrivo e rimandarci col solito. Raus! cipregarono di dar loro una mano. Il Cap. Moschini, che se ne intendeva benissimo, ne ap-profittò per compiere un sabotaggio. — « Nè noi nè loro! — mi bisbigliò. Che cosa abbiapoi fatto, non so, ma mi disse che aveva reso inservibile l’apparecchio. I tedeschi ci rin-graziarono... mi riconsegnarono il Petromax, e sotto voce ci dissero: — « Alle quattro noipartire! per l’Ovest! Non dire nessuno!... Ciao!... —

Il che fu impossibile! Troppa la nostra gioia!... Impossibile contenerla senza scop-piare!... Perciò in men che non si dica, tutti seppero dell'imminente partenza dei Tedeschi.Il campo cominciò a ribollire come una pentola!... Tuttavia sporadiche fucilate ci consi-gliarono a tenerci ritirati e attendere che venissero le 4 e l’alba facesse un po’ di luce.

Ne approfittai per celebrare una Messa solenne di ringraziamento alla presenza diquanti potei radunare. Durante il rito si cantò e pregò come forse non mai ci era capitatodi fare.

Terminata la funzione uscimmo all’aperto di tedeschi più nemmeno l’ombra!... Eranoscomparsi dagli uffici, dalle torrette di sorveglianza e di controllo, dai magazzini, dallacircolazione interna e persino se n'erano andati anche i pochi borghesi della stanzioncinaferroviaria distante da noi un tiro di sasso.

Allora quanto tenevamo faticosamente compresso, ebbe libero sfogo!... e furono ab-bracci, baci, lagrime di consolazione, urli di gioia!... Tutti impazziti!...

Certo che nel nostro campo C l’esplosione dell allegrezza non fu così rumorosa comenegli altri due campi A e B, ove era già in atto una vera baraonda!... Pure tutti anche imiei vi parteciparono di cuore, quelli compresi, ed erano parecchi, ai quali nessun van-taggio avrebbe recato la nuova situazione, essendo la loro sorte ormai segnata.

Ma che pena indicibile vedere lo sforzo sovrumano di quelle povere larve per parte-cipare al comune giubilo, pur avendo già la morte in cuore!

Rimasi al loro fianco più che potei, ma poi, edotto dall esperienza fatta l’otto settembre'43, pensai che dovevo pure affiancare 1’opera degli Ufficiali per il ristabilimento di queltanto di disciplina indispensabile alla preparazione del rimpatrio e all’ordinato trascorreredei giorni d attesa. Abituati ormai a vedere gli Ufficiali trattati dai tedeschi come e peggiodei semplici soldati, anche nei nostri ricoverati s'era allentato parecchio il sentimento dellasubordinazione e dell’obbedienza! Per cui ci volle, in seguito, tutta l’opera di persuasionedi noi Cappellani, per ottenere almeno un po’ di disciplina.

Per quel primo giorno però di libertà, tutto fu tentato invano. preghiere, minacce, rac-comandazioni, promesse, ecc...

Prima ancora che fossero resi noti i nomi di quegli Ufficiali che da quel momento as-sumevano il Comando dei reparti Italiani e che poi avrebbero dovuto trattare per noi coiComandi Alleati, non appena fossero giunti, moltissimi, aperte larghe brecce nei reticolati,incuranti dei pericoli, cui si esponevano, erano già usciti alla ricerca di viveri nei paesivicini. Tornarono qualche ora dopo, trionfanti e carichi d ogni ben di Dio!... Ne diederogenerosamente anche a me per i miei del campo C. Prima di accettare però volli saperese, per aver tutta quella roba, avessero commesso angherie, soprusi o violenze. No! padre,assolutamente no! — mi risposero e aggiunsero: Non c’è più anima viva in quei paesi!...Tutti scappati per non cadere sotto i Russi! —

Qualche giorno dopo 1’avrei constatato anch’io coi miei occhi. Intanto il campo siandava trasformando in un immenso mercato e tutte le baracche in altrettante cucine fu-manti. Canti scomposti, complimenti e inviti a squarciagola, vociare generale, incrociarsicontinuo di gente indaffarata e frettolosa che recava legna, carbone, acqua e tavoli grandi

Padre Luca Maria Airoldi

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e piccoli asportati dai magazzini... ecco una pallida idea di quanto avvenne in quel me-morabile 23 Aprile 1945.

Ma purtroppo ben presto doveva finire tutto bruscamente e quasi tragicamente!...Infatti verso le 18,30, entrò nel campo una macchina preceduta e seguita da due carri

armati leggeri. Ne scesero alcuni Ufficiali russi che chiesero di parlare subito col nostroComando. La molta fretta che avevano, non ci lasciò nemmeno il tempo di radunarci tutti.Perciò trasmisero gli ordini a quei pochi dei nostri che s’eran potuti raccogliere.

« — Pericolosa la vostra situazione!... Si salvi chi può!... Sgomberare immediatamenteil campo!... Prendere la via dell'Est evitando al massimo i boschi che sono infestati dafranchi tiratori!... » —

Ecco in sostanza quanto ci dissero quegli Ufficiali Russi che poi ripartirono veloce-mente. In un baleno tutto il campo seppe del pericolo incombente e dell’ordine di sgom-bero. Non ci fu bisogno di comunicazione ufficiale!... ognuno pensò e agì per proprioconto. Se all’annuncio della liberazione fu uno scoppio di gioia pazza, a quello del — Sisalvi chi può! — si diffuse in tutti, ufficiali compresi, un senso di paura folle!... Per cui,in breve, fu un fuggi fuggi generale e disordinatissimo.

Persino ammalati del mio campo C, che si reggevano a mala pena e che cercai di trat-tenere anche con la forza, se ne andarono facendosi sorreggere da qualche compagno.

Ben presto nel campo A e B non restarono che i 40 mutilati degli arti inferiori e ilCapp. D Guido Sammartino coll’attendente, ancora incerti sul da farsi. Nel mio inveceben 140 non si poterono assolutamente muovere perchè gravi o addirittura gravissimi.Personalmente non ebbi un attimo di esitazione: il mio dovere era di restare con loro! esoltanto così promettendo mi riuscì di placare alquanto il loro terrore.

Volevo però che con me restassero almeno 4 medici e una ventina di infermieri. Lodissi al Cap. Moschini ch’era divenuto l’aiutante maggiore del Col. Med. Rizzo coman-dante in capo dei reparti Italiani, e agli altri Ufficiali chiamati a rapporto. Subito i Ten.Fantelli e Sanfilippo mi si misero al fianco, decisi come me a seguire la sorte dei nostriammalati. Gli altri dottori, che volevano affidata alla sorte la designazione dei sacrificandi,visto ciò e nonostante le mie rampogne e insistenze, se ne andarono, non prima però diaverci complimentati e abbracciati.

Intanto il cannoneggiamento era diventato furioso e pericoloso, perchè incrociato. In-fatti i Russi sparavano sui Tedeschi in ritirata, questi, per rallentarne la pressione e per-mettere al grosso dell’Armata il passaggio del fiume Elbe col minor danno possibile,rispondevano non meno rabbiosamente: gli aerei a ondate successive passavano a bassaquota mitragliando... e noi si era in mezzo a quel cataclisma pauroso, in quale stato danimo è facile immaginare.

Gli ammalati rimasti, erano letteralmente terrorizzati, e urlavano chiedendomi chenon li lasciassi a far la morte del topo!... Cercai di rincuorarli... feci recitare una preghiera...diedi a tutti 1’assoluzione collettiva, e poi, mentre i proiettili ci fischiavano sul capo equalcuno ci cadeva fragorosamente ai margini del campo, insieme ai due medici e agliotto infermieri fermatisi anch’essi volontariamente, cominciammo a portarli fuori dallebaracche e a sistemarli nel trincerone anticarro che attraversava tutto il campo e che davauna certa garanzia di sicurezza.

Ma quando, madidi di sudore e ansimanti, si stava per ultimare l’opera, ecco che in-comincia a piovere!...Bisognò rassegnarsi a riportarli al coperto. Ne approfittammo perriunirli tutti in due baracche contigue, così che il servirli sarebbe stato meno difficoltosoe pericoloso.

A tentoni, perchè la corrente elettrica era venuta a mancare già da parecchi giorni, sipraticarono iniezioni adatte ai più agitati, e dopo una più calorosa raccomandazione allacalma e alla fiducia, ci sistemammo anche noi in una specie di rifugio che l’infermiereVillani aveva preparato da tempo a fianco della sua baracca 72.

Forse la pioggia che continuava a cadere, certamente il buio che s'era fatto pesto, fece

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sospendere il cannoneggiamento dall’una e dall'altra parte. Sporadici colpi però s’udironoper tutta la notte, sicché, nessuno potè chiudere occhio. Passammo quelle lunghe, inter-minabili ore parlottando sotto voce di quanto avvenuto, di quanto poteva ancora accaderci,e soprattutto della sorte che sarebbe toccata ai nostri compagni fuggiti.

Verso le quattro del mattino, i boati del cannone cessarono, sostituiti dal cantarelliodelle mitraglie, mentre tutt’intorno cresceva un brusio confuso. Più che la paura potè lacuriosità!... Pian piano uscimmo dal nostro buco e carponi raggiungemmo il reticolato.Qualcuno di buona vista. — La Cavalleria Russa!... I Cosacchi!... — gridò. Scattammoin piedi guardando all’est. In lontananza, di mezzo a un nembo di polvere, già si distin-guevano le sagome dei cavalli che galoppavano verso di noi. Ritirarci?... Restare?... Men-tre se ne discuteva, i primi cavalieri, forse le avanguardie, ci guizzarono dinnanzi comefrecce. Allora pazzi di gioia, cominciammo ad applaudire freneticamente e a salutare allavoce. Tutti rispondevano al nostro saluto agitando una specie di piccola vanga, o il fru-stino, o la pistola. Uno anzi, probabilmente un Ufficiale, si fermò, scese da cavallo e av-vicinatosi al reticolato, fece l’atto di tagliarne i fili spinati, pronunciando parole a noiincomprensibili, ma che ritenemmo significassero: — Vittoria!... Libertà!

Per dimostrare che avevamo capito, ci demmo ad abbattere con bastoni e travetti ilreticolato. Intanto il Mugolo dei cavalieri era passato e il giorno era sorto. Comparvero icarri armati che procedevano in fila indiana. Erano mastodontici!... e benché all’esternoapparissero ancora grezzi, erano perfettamente e paurosamente funzionanti!

Attorno alla torretta, 12 soldati, 6 per parte, tenevano In mano una bottiglia Molotov,mentre altre due ne tenevano nelle ampie tasche della tuta speciale che indossavano. Po-temmo osservarli bene e spingere il nostro sguardo fin nell’interno del carro perchè, fer-matasi la colonna, gli ultimi ci stavano proprio a portata di mano.

Passati anche quelle bestione, ecco le autoblindo stracariche e armatissime, infine lafiumana della fanteria. Ci fece però una magra impressione! Vestiti nelle fogge più sva-riate, con lineamenti che indicavano razze diverse, quei soldati di ogni statura, procede-vano senza un minimo d'ordine, come un gregge sospinto alla rinfusa.

Per tutto il giorno fu un passare continuo di uomini e di mezzi, ma per quanto lo spet-tacolo ci attraesse, bisognava pure pensassimo alla nostra sistemazione. Mandammo a ve-dere quanti erano rimasti negli altri due reparti A e B e mentre i due Ufficiali medici sirecavano dal comando Polacco, il più vicino a noi, per sapere il da farsi, io accostai unoper uno i miei ammalati, complimentandoli per il coraggio dimostrato e assicurandoli che,in seguito, sarebbero stati assai meglio per ogni verso.

Infatti i decessi cominciarono tosto a diminuire sensibilmente, sia perchè il numerodei malati si era assottigliato, ma soprattutto perchè il trattamento che ci si poteva usareera di molto migliorato come quantità e qualità. Solo uno, in quel pauroso frangente, siera aggravato in modo preoccupante, il sold. Schivardi Paolo, che però avevo già sacra-mentato e che spirò qualche ora dopo dicendosi contento d’aver visto almeno arrivatal’ora della giustizia.

Non sapendo che decisione avesse presa D. Guido, (Mons. Ghidini era partito insiemeagli altri) l’andai a cercare e con mia somma gioia, lo trovai coi suoi mutilati. L’abbracciaicon tanto trasporto, come un fratello che non vedessi da anni! poi insieme a Sanfiiippo eFantelli, che nel frattempo erano tornati dal comando Polacco, decidemmo di trasferircinelle baracche 62 e 64, 45 e 46, situate vicino alla Cappella e alle cucine centrali.

Ecco il prospetto degli Italiani presenti nel Res. Laz. di Zeithain il 24-4- 1945:Ammalati n. 190 di cui 12 Ufficiali.Medici n. 2 - Infermieri n. 9.Cappellani n. 2 - Totale n. 203.Presentandolo al Comando Polacco che ci prendeva in forza, facemmo presente il bi-

sogno estremo che avevamo di aiuto. Ci fu promesso, ma ci venne dato solo una settimanapiù tardi. Intanto dovemmo sbrigare ogni cosa da soli e rassegnarci a far di tutto. Trasfe-

Padre Luca Maria Airoldi

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rimmo nelle suddette baracche gli ammalati, parte sorreggendoli in due, parte caricandolisu di un lungo carro agricolo, e parte portandoli addirittura sulle spalle.

Prima però provvedemmo a dimezzare i castelli, segandoli a metà, così che tutti po-tessero respirare meglio e muoversi con più agio. Dalle baracche rimaste vuote aspor-tammo tutto quello che poteva tornarci utile per una più confortevole sistemazione. Fuuna specie di spedizione quanto mai fruttuosa. Tutto o quasi quel ben di Dio, razziato ilgiorno prima nei paesi circonvicini, comprese tre biciclette, i nostri compagni ch’eranfuggiti dal campo, l’avevano dovuto abbandonare a noi rimasti. Ne approfittammo! e perun bel po' ne avemmo in abbondanza. Finalmente potevamo farci anche un po’ di cena lasera!...

I russiI Russi li potemmo conoscere bene soltanto dopo la liberazione. Mentre durava la

guerra avemmo soltanto pochi, isolati e fuggevoli contatti con loro, durante i quali si con-trattavano gli oggetti che noi si voleva cedere in cambio di pane, o patate, zucchero omargarina.

E codesti affari, di solito, si combinavano la sera quando i Tedeschi si ritiravano, la-sciandoci alla custodia delle sentinelle che dalle garitte sopraelevate, dotate di fari e dimitragliatrici e distanziate luna dall’altra di cento metri circa, vigilavano su tutto il campo.Ben poco però le si temevano, e nonostante la circolazione fosse proibita di notte, anchenell ambito del proprio reparto, assai spesso era un andirivieni continuo dall’uno all’altrocampo. I Russi specialmente erano attivi in questo senso. Essendo i più anziani tra i pri-gionieri, avevano in mano, come titolari, le cucine e tutti i magazzini da dove asportavanotutto quanto potevano per il così detto mercato nero.

Venuta la liberazione, cessò anche ogni limitazione di movimento, almeno all’internodel campo, per cui ci fu più facile accostare i Russi, chiedere, sentire, discutere con loro.Per conoscere però con esattezza il pensiero, era necessario interrogarli separatamente.Quand’erano in due o tre, diffìcilmente si sbottonavano! sembrava si temessero a vicenda!Quando tuttavia lo potevano fare, parlavano assai volentieri e con tanta sincerità, espri-mendosi in tedesco, lingua che, poco o tanto, i Russi riuscivano a masticare, dopo cinqueanni di prigionia. La maggior parte di noi però li conobbe dai fatti che ci dimostrarono laloro fondamentale bontà di animo e una generosità di cuore tale che, per essere sconfinatacome il mare, finiva alle volte di sommergere.

Infatti quando, per esempio, volevano si partecipasse a qualche loro scorpacciata obrindisi, guai non accettare!... si offendevano e offendevano! E bisognava mangiare obere quant'essi volevano, anche a costo di star male. Tutto questo ci colpì simpaticamente,ma dovemmo anche strabiliare dinnanzi alla loro ignoranza.

E’ vero, venivano da tutte le parti dell'immensa santa RUSSIA: dal Caucaso... dallaMongolia... dalla Siberia ecc... ma possibile non sapessero, per esempio, che un orologioo una sveglia per funzionare dovevano essere caricati?... che i bottoni delle nostre divised’ordinanza erano di ottone e non d’oro?... che un tram elettrico poteva muoversi anchesenza far fumo?... che un water non era un lavandino?... che chi portava gli stivali nonera un capitalista?... Eppure era così per una grandissima parte di loro!

« — C’è anche di peggio! — ci assicurava un capitano dell’Ucraina che si esprimevain buon francese —. Al di fuori delle città, oltre un certo raggio, il nostro popolo è rimastoalle idee e alle conoscenze di cent’anni fa! E di questo una parte di colpa ricade su di voioccidentali! Avete fatto le Crociate per liberare i Luoghi santi e i sassi di S Giovanni dAcri, e non avete mosso un dito solo, nè sembra n’abbiate l’intenzione, per liberare, aiutareil nostro popolo che pur abita lo stesso vostro continente. Un giorno vi mangerete forsele unghie! quando cioè il nostro regime busserà alle vostre porte. Ma forse sarà troppotardi!.. — »

Di fronte a tanto candore restammo perplessi, pensierosi! ma non era il tempo di me-

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ditare allora. In seguito quanti di coloro che sentirono con me quelle parole del capitanorusso, le avran ripensate? Personalmente sì, e trovo che furono profetiche! Di chi lacolpa?...

I funeraliTutti i nostri funerali vennero celebrati con la maggior solennità possibile, perchè

chiunque poteva parteciparvi, non mancava di accompagnare al cimitero i poveri compa-gni deceduti. Anzi c’era qualcuno che spesso sapeva provvedere alle corone! In mancanzadi fiori venivano intrecciate con ramoscelli di abeti, di pini e di altre piante, disposti cosìsapientemente da dare la impressione dei vari colori attraverso le varie sfumature delverde. Anche in questo eccelleva l’ingegno dei nostri! Precedeva il piccolo corteo, il Cap-pellano tra due Ufficiali o graduati che dapprincipio venivano comandati a turno; seguivail carro su cui erano poste le bare: 4 o 6 per volta, seguiva il gruppo, più o meno nutrito,dei soldati che rispondevano coralmente alle preghiere del celebrante. Al Cimitero, c’eraimmancabilmente ad attenderci un picchetto armato tedesco che rendeva poi gli onori mi-litari al momento dell’inumazione delle salme scaricando in aria i fucili. E questo, per laverità, i Tedeschi lo fecero sempre finchè restarono con noi nostri padroni. Altrettantoperò avveniva anche per i pochi Polacchi e Serbi che fui chiamato ad assistere al momentodel trapasso perchè anch’essi cattolici. Mentre per i poveri Russi nulla! E ne morivanoparecchi! se ogni giorno un vagoncino di Decauville li recava alla rinfusa, senza cassa, alloro cimitero ove venivano sepolti in qualche modo in una immensa fossa comune!

Subito dopo la guerra, un giornale pubblicò che nel Campo di Zeithain, erano decedutinon meno di 200.000 prigionieri Russi! Nè la notizia mi meravigliò, avendo constatatocom’essi ci tenessero così poco alla vita e i morti contassero proprio nulla, per cui se nedisinteressavano affatto. Noi dobbiamo a Mons. Ghidini se potemmo avere tutte questecerimonie religiose e militari ad onore dei nostri morti, e soprattutto se una piccola squadradi soldati validi, sotto la direzione del capitano Gaggino, potè curare la manutenzione delsacro luogo fino a renderlo, l'ordine, la pulizia e la simmetria un cimitero degno dei nostripiù grossi centri, tanto che gli altri prigionieri ce lo invidiavano e gli stessi borghesi nonmancavano di visitarlo.

Tra coloro che lavorarono di più per l'abbellimento del cimitero, ricordo i tre che nefurono, si può dire, i fondatori il veronese Trevisan Ignazio, di Torrerossa di Roncà, il vi-centino Levratti Osvaldo di Lonigo, e il beneventano Bergantino Vincenzo.

Indimenticabile il devoto pellegrinaggio che tutto il campo di Zeithain, stranieri com-presi, fece il 2 novembre 1944 alla tomba dei nostri morti.

Solo i moribondi restarono nelle baracche; e là su quel grande spiazzo, dominato daun alta Croce, dinnanzi a quelle lunghe file di tombe ben allineate, dopo le commosse ecommoventi parole di Mons. Ghidini e i patetici canti funebri della nostra schola canto-rum, nessuno potè più trattenere le lacrime! e tutti tornammo silenziosi e meditabondi alcampo.

Che ne sarà ora di quel caro cimitero?... Quante volte ho cercato di poterlo almeno ri-vedere e sempre mi fu risposto: — Impossibile! — E non sarebbe poi tempo di provvedereal rimpatrio anche di quei caduti nostri, come la Patria ha già fatto ottimamente per tantialtri caduti altrove?...

Il 1° Maggio 1945Fummo invitati due giorni prima a prepararci per la celebrazione del 1° Maggio che

quell’anno avrebbe assunto una importanza tutta particolare, benché la guerra non fosseancora finita, come ci ricordavano certi boati che ancora di quando in quando fendevanol’aria, scuotevano le baracche, ci trattenevano il respiro « — Per noi invece è finita o perlo meno è molto lontana! — dicevano i Russi, nostri nuovi padroni, dandosi un gran daf-fare per pulire e abbellire il campo con stracci di ogni colore e dimostrandosi, anche con

Padre Luca Maria Airoldi

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noi, d’una generosità esagerata. Se si fossero ascoltati loro, accettando di mangiare e berequanto pretendevano facessimo, saremmo scoppiati come altrettanti palloni gonfiati.

Del resto anche noi avevamo le nostre piccole scorte, razziate un po’ qua e là neigiorni precedenti, e la prima grande fame, lunga di quasi due anni, era ormai abbastanzasaziata! E poi il nostro stomaco, fattosi piccolo piccolo per tanta inattività, non esigevamolto per sentirsi a posto.

Un’attenzione tutta particolare invece si aveva per ogni bevanda che non fosse l’acquasterilizzata o bollita delle nostre fontane. E ben a ragione! Avevamo visto infatti ben 72poveri Russi morire avvelenati per aver bevuto altra roba. Il fatto andò così.

Il pomeriggio del 28 Aprile si era usciti insieme per una delle solite razzie. Mentrenoi, nelle vuote case del paese raggiunto, si cercava quanto di buono avrebbe potuto ser-virci, essi non davano la caccia che alle bottiglie e ai fiaschi che portavano indiscrimina-tamente alla bocca. Le conseguenze le constatai il mattino dopo quando fui chiamato adirigere l’opera del loro trasporto al cimitero. Tutti e 72 eran morti e chissà dopo qualiatroci dolori!

Chiamai parecchi dei miei perchè vedessero e imparassero! Quei disgraziati erano an-cora vestiti e nelle più strane posizioni, chi seduto e chinato innanzi... chi sdraiato conbraccia in croce e gambe divaricate... chi aggrappato al posto superiore del castello e latesta chiusa tra le braccia... e tutti stecchiti come legni secchi!..

Su di un solo carro agricolo, per quanto ampio sarebbe stato un problema sistemarlitutti. Eppure doveva essere così, secondo l’ordine. Assistemmo allora a una scena davverobarbara: le braccia e le gambe di quei poveri morti che non tornavano nella loro posizionenaturale, venivano inesorabilmente spezzate o addirittura stroncate!.. Solo così, d’altraparte, fu possibile trasportarli con un solo viaggio.

E proprio per non fare una simile fine, d’allora in poi rifiutammo sempre, sia puregentilmente, ogni bevanda ci si offrisse dai Russi, anche a costo di sentirci tacciare di «—Fasiski! — » Ma bastava rispondere. « — Nein, nein! — » agitando il pugno chiuso, per-chè il russo o la russa con un: «—gutttttt! — » che non finiva mai, se ne andassero ridendoe lasciandoci in pace.

Approfittammo invece di quel loro stato euforico per Ottenere con tutta facilità di faruna visita all’Ospedale militare tedesco abbandonato. Pensavamo di trovar ancora del ma-teriale farmaceutico che potesse servirci e di fatti fu così. Non ricordo più di quanti deinostri fu composta la spedizione. Ci faceva da guida il sold. Ciaranfi, un tipo veramentein gamba. Lo si poteva dire l'onnipresente e l’onnipotente! In quei pochi giorni di libertà,da solo o in compagnia, aveva perlustrato tutti i dintorni e portato nel campo una quantitàdi roba utile.

Quando s’aveva bisogno di qualcosa, bastava dirlo a lui e subito si era a posto! Io,per esempio, avendogli dimostrato come mi sarebbe stato difficile aver sempre a tempoopportuno dai Russi i mezzi per recare al Cimitero i nostri poveri morti, mi sentii rispon-dere: — Ci penso io! Padre—. Lasci che si faccia un po’ scuro e in quattro e quattr’ottole porto, cavallo e carretto! — E fu proprio così.

Ebbene lui che c’era già stato altre volte, ci condusse al detto Ospedale e là trovammodavvero di che caricarci le spalle. E prendemmo felici la via del ritorno. Ci si imbatteva,ad ogni piè sospinto, in qualche Russo isolato, ma sempre armato di parabellum, mai nes-suno però ci aveva detto qualcosa fino allora. Non fu così quel giorno.

Un giovincello di 15-16 anni, col suo bell’arnese a tracollo, rivolto colla canna all’in-giù, fermatosi sul ciglio della strada, ci osservava con intensità ad uno ad uno. Noi si cam-minava quasi in fila indiana, perchè ad evitare sorprese, avevamo preferito un sentiero dicampagna alla strada maestra. Passandogli davanti lo salutavamo, come fosse uno Zuckoved egli rispondeva con sussiego, ma si capiva che cercava su di noi qualcosa. Ed ecco cheall arrivo del Ten. Tosi, gli scatta addosso, gli prende il braccio sinistro col quale l’Ufficialereggeva sulle spalle non ricordo più cosa, e comincia a urlare nella sua lingua che nessuno

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di noi comprendeva.Tutti ci fermiamo, ci facciam d’attorno, e alla fine comprendiamo che il ragazzo-sol-

dato vuole l’orologio d’oro che il nostro Tosi reca al polso. Invano il povero Ufficialetenta resistergli, adducendo mille pretesti e ragioni; invano qualcuno di noi gli mostra lasua patacca e si dichiara disposto a cedergliela senz’altro; invano qualche altro tira inballo il fatto dell’alleanza, della comune vittoria sui tedeschi, della prigionia forse trascorsaassieme, ecc... quel disgraziatello non vuol saperne di niente!., vuol soltanto quell’orolo-gio!... e per dirci a che prezzo intende averlo, fa qualche passo indietro, imbraccia il suoparabellum, lo spiana, e minaccia di farci fuori tutti!..

Allora, implorato anche da noi, il povero Ten. Tosi, gli stende il braccio perche se loprenda; lascia cadere quanto portava, e piangendo esclama: — Mi sono buscato la T.B.C.pur di non vendere l’orologio datomi dalla mia fidanzata, ed ecco che me lo frega un ma-scalzoncello di Russo! Disgraziato! —

Quel brutto incontro mise a tutti le ali ai piedi, e in breve fummo al campo, ove tro-vammo la nostra famiglia cresciuta di qualche unità per il ritorno di una ventina dei mieidel reparto C ch’erano fuggiti febbricitanti la sera famosa del 23 aprile. Dopo aver tentato,in tutti quei giorni, di tener dietro agli altri, incamminati verso non si sapeva quale localitàall est, non facendocela più, avevano pensato bene di tornare sui propri passi.

E spunta 1’alba del 1° Maggio! la seconda festa più solenne dell’anno per i Russi.Trasmesse da altoparlanti disseminati un po' dappertutto, marce militari, canzoni popolaried altre musichette non meglio identificate, da tutti loro ballate più o meno artisticamente,ci assordarono per tutto il giorno. Noi per non essere travolti in quella baraonda, ce nestemmo a rispettosa distanza a guardare. Per la verità fu doppio il rancio quel giorno e dibuona fattura anche per noi e, a nostro modo, partecipammo alla pazza gioia dei nostripadroni. Ma purtroppo ci fu giocoforza partecipare anche alla Commemorazione ufficiale!e nel più gran numero possibile! raccomandava il biglietto d’invito che dovemmo farciinterpretare dai Polacchi essendo scritto in caratteri cirillici. Chi poteva andarci?... Qual-cuno bisognava pur restasse con gli ammalati!... E allora, fatti i conti, trovammo che, almassimo, in sette si poteva andar a rappresentare l’Italia a quel grande consesso.

E all’ora stabilita, fummo puntuali alla baracca 47 luogo prescelto per i discorsi com-memorativi. Per l’occasione era stata svuotata di tutti i castelli, ripulita ben bene, imban-dierata e persino profumata! ma di benzina! Forse volevano, facendoci respirare per 3 orequell’odore, abituare la nostra gola a quello che sarebbe stato l’atto finale della cerimo-nia.

Padre Luca Maria Airoldi

Come si poterono sistemare gli ammalati dopo la liberazione. Sen/.a il piano superiore potevamo almeno respirare

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In capo a quella specie di salone, eran posti due tavoli accostati e sopraelevati, per 1autorità e per gli oratori. Quando entrammo noi, eran già al loro posto dietro il tavolo: unmaggiore al centro, e due capitani ai lati. I preposti all’ordine ci fecero accomodare proprioin prima fila! Ci sedemmo sul nostro pancone, senza però prender parte al gran vociareche si faceva alle nostre spalle da Russi e Polacchi, che tra loro si intendevano benissimo.

La baracca era ormai stipatissima, eppure non si cominciava ancora! Che si atten-deva?... — L arrivo del rinfresco! — ci sussurrò in francese un polacco che ci stava allespalle. Nell’attesa i tre dietro il tavolo, per ingannar il tempo, si diedero a far qualcosa: ilmaggiore, toltosi di tasca un pettinino, cominciò a ravviarsi i capelli, il capitano che glistava a sinistra e che i polacchi dicevano essere il commissario politico, si diede a fabbri-carsi una lunga e grossa sigaretta, servendosi di carta di giornale (!), il capitano di destrainvece, non avendo a far altro, scostò alquanto indietro la sedia, e poggiate le gambe cal-zate di stivali sull’orlo del tavolo, socchiuse gli occhi mostrando a tutti le sue suole chio-date!!! Dovemmo morderci ben bene le labbra per non ridere a quello spettacolo! ma cosìvoleva anche il dovere dell’ospitalità soprattutto il rispetto al vincitore!...

Fantelli però, toccandomi col gomito, e chinandosi verso di me, mi bisbigliò: — PregaDio che finisca presto questa situazione, perchè non so se mi riuscirà contenermi! —

Finalmente, ecco 4 ragazze-soldato, piccolette, e tarchiate, con altrettanti bidonciniche disposero per terra lungo la predella. Allora, dopo essersi consultati tra di loro, il capodei tre dietro il tavolo, alzatosi, dichiarò aperta la cerimonia.

Naturalmente il primo pensiero fu rivolto a Stalin, poi all'Armata Rossa invincibile,poi ai suoi Capi nominati singolarmente, e ad ogni nome, seguiva un frenetico battimani,e un triplice, formidabile Urrà! da parte di tutti i convenuti ai quali, logicamente, noi pureci si associava. Terminata questa specie di litania, com’ebbe a chiamarla giustamente ildott. Sanfìlippo, ebbero inizio i tre lunghi discorsi, interrotti spesso da applausi. Noi nonne capimmo un’acca!... o meglio, solo qualche nome: Polski - Germanski - Fasiski -...Pronunciando quest’ultimo termine gli oratori ci sogguardavano di traverso, come fossimonoi sette stremenziti i fondatori del fascismo!...

Insomma avemmo la netta impressione che per quei signori, assai poco intelligentibisogna dire, Italiani e Fascisti fossero la stessa cosa! Eppure non solo non si potè prote-stare, ma per tante ragioni, e non di convenienza soltanto, bisognò unirci agli applausidegli altri.

Quando a Dio piacque, quel picchiare di pugni sul tavolo, quell’abbaiare rabbioso,quel frastuono di folla selvaggia, ebbe termine e si passò al brindisi. Parecchie ragazze indivisa militare, si diedero un gran daffare per questo! Posero davanti agli Ufficiali-oratori,che sembravano esausti per la fatica sostenuta, altrettante caraffine di vetro e una bottigliaappena dissigillata, diedero a noi una specie di gavettino, e poiché tutti gli altri, russi epolacchi, pratici del costume, erano venuti alla commemorazione già muniti del propriorecipiente, procedettero alla distribuzione del contenuto nei quattro bidoncini.

— Carburante! — disse quello di noi che fu servito per il primo... e allora tutti non neaccettammo più di un dito. Si sapeva che ciò era possibile facessero i Russi, avendolivisti, e non poche volte, a bere roba del genere. Quando tutti ebbero la loro porzione, i treUfficiali si alzarono e, impugnate le loro caraffine ben colme, le innalzarono. Tutti feceroaltrettanto. Il maggiore disse ancora qualcosa cui risposero altri Urrà! e pestamento dipiedi, poi giù!...

Fu allora che noi potemmo esaminare un po’ quello che si doveva bere!... Era effet-tivamente benzina! almeno dall odore. Ci guardammo in faccia e restammo perplessi! Ildott. Fantelli, voltandosi indietro, chiese a un polacco come si chiamasse il liquido che sidoveva bere. Ci sentimmo rispondere: — Buona wodka mescolata a benzolino! — Ot-tima!.. Non fa male!.. Bevete!... — Bisognava decidersi per non insospettire o sembrarescortesi!... tanto più ch’eravamo osservati in modo particolare, io specialmente della crocesul petto, dai tre dietro il tavolo.

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Allora, preso il coraggio a due mani, e tenendo il più a lungo possibile il respiro, indue sorsate, io trangugiai la mia parte. Gli altri quanto non poterono mandar giù. riuscironoa versare sul pavimento di legno.

Non avevamo ancora finito di complimentarci del coraggio dimostrato, ed ecco cheviene una ragazza ad offrircene dell’altra! Ci fu facile però rifiutare adducendo la pocasalute, ed ella non insistè, ma volle che ne portassimo agli altri ammalati perchè anch essibrindassero al 1°Maggio e alla grande Russia Bolscevica!

Ci chiese di cantare una nostra canzone!... o almeno di ballare una tarantella!... Machi di noi lo sapeva fare?... Forse Sanfìlippo eh era Siciliano!... gli altri no di certo! E poici si reggeva a mala pena in piedi!.. Se ne andò quella ragazza-soldato, ma per tornare dilì a poco con due gavette ripiene di quella wodka benzina! Le presi io colla scusa d’andara brindare coi nostri ammalati, salutammo i tre Ufficiali e ce ne andammo a raccontareagli altri nostri la grande avventura.

A chi ne dubitava non avevo che a dargli a bere un cucchiaio solo di quanto contene-vasi nelle due gavette. Nessuno però, dopo averlo fiutato, si sentiva la voglia di assag-giarne!... Nei giorni successivi provammo a far bollire con molto zucchero e a filtrar quellarobaccia! Ma l’odore e il sapore della benzina restava pur sempre quello! Eppure non unagoccia andò persa!.. Incredibile a dirsi! Tutta fu consumata!...

A conclusione di quel 1° Maggio, che non dimenticheremo tanto facilmente, fu pro-iettato per tutti del campo un lungometraggio cui potemmo far assistere anche parecchidei nostri ammalati, data la vicinanza, anzi la contiguità della baracca la cui parete servivada schermo. Era la documentazione degli orrori, delle distruzioni, delle nefandezze com-piute dai Tedeschi durante e dopo l'occupazione dell'Ucraina. Per quanto orribili le scenefilmate, nulla ci appresero di nuovo che già non si sapesse, almeno da parte mia che avevovisto ben altro.

Dopo la proiezione, riprese furibondo il baccano e l’orgia che si protrasse fino alleore piccole, fino a quando, cioè, diceva in seguito D Guido, i Russi ebbero fiato in gola eforza nelle gambe!... E noi nelle nostre tane, al buio, a sentire, a commentare, e qualcunoa imprecare!...

Il giorno dopo, 2 maggio, sicuri che nessuno o ben pochi Russi ci avrebbero attraver-sato la strada, di buon mattino tornammo in cinque o sei all'ospedale militare tedesco aprendere gli altri medicinali che già avevamo messo da parte, e tutto quello che avremmogiudicato utile. Poche ore dopo tornavamo al campo stracarichi!... E fu una fortuna ! per-chè da quel giorno, la libertà di movimento veniva abolita e per uscire, in seguito, sarebbestato necessario ottenerne il permesso scritto! In parole povere: si tornava prigionieri!...tra i reticolati!... dopo dieci giorni appena dalla liberazione!...

Veramente a noi poco o nulla importò quell ordine, tanto che non protestammo nep-pure. Piuttosto dove andare e a chi rivolgersi per ottenere, per esempio, ch’io o D. Guidopotessimo recarci al Cimitero per scavare le fosse e recarvi i morti?... Andammo assiemedai Cappellani polacchi, ma anch’essi ne sapevano quanto noi. Ci recammo allora al Co-mando Polacco e ci rispose: — Bisogna attendere l’arrivo di chi comanderà il Presidio!— Eppure era indispensabile che noi si portassero al camposanto i quattro nostri mortiche da giorni attendevano d’essere sistemati una buona volta. Provammo a presentarcialle guardie russe che custodivano l’unico varco aperto per l’entrata e l’uscita del campo,e D. Guido che portava sempre la giacca con la Croce sul petto, (io in quel momento erosenza) presentandosi e aiutandosi con parole italiane, tedesche e napoletane, ma soprattuttocon gesti, cercò di far comprendere loro quanto noi si voleva. Inutilmente!... L’aiutai an-ch’io come meglio potei, ma niente da fare!

Si tornò a riferire la cosa a Fantelli e Sanfìlippo, ma anch’essi non seppero che dirci.Si decise allora di procedere al funerale anche senza il permesso scritto. Raccolti i 7 o 8uomini che potevano accompagnarmi, dopo le preghiere liturgiche alle quali parteciparonotutti quelli che erano in piedi, caricammo le bare sul carretto procuratoci da Giaranfi, le

Padre Luca Maria Airoldi

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coprimmo col solito tricolore e via!Le sentinelle non solo non ci impedirono d’uscire, ma, pur senza presentare le armi,

si irrigidirono sull’attenti al nostro passaggio, con nostra grande meraviglia.In seguito fu poi sempre così. Però non appena fu costituito il presidio regolare, e

questo avvenne subito dopo l’armistizio dell’otto maggio, ci procurammo il necessariopermesso. Ci sarebbe stato utile anche per i vivi!

Infatti oltre alla possibilità di andare innanzi e indietro dal cimitero per preparare lefosse e riassestare le altre, avrebbe servito ai nostri soldati a ciò deputati, per compiere leloro scorrerie in qualche campo di frutta o verdura, ed eventualmente in qualche pollaio.Sì, perchè nonostante la generosità con cui i Russi ci avevano aumentato di molto la quo-tidiana razione di pane e patate, sentivamo il bisogno di qualcosa di più leggero e sostan-zioso, specialmente per i gravi.

Muhlberg/ElbeVerso la metà di Maggio venne a trovarci, col solito mezzo di trasporto, il carrettino,

il Cappellano del campo-madre, Miihlberg/Elbe, P Marcolini. Fu una graditissima sor-presa, perchè pensavamo che anche quel campo fosse stato sfollato in occasione del duellod'artiglieria tra Russi e Tedeschi in ritirata, del 23-4-’45.

Invece no!... I nostri compagni di là si accorsero del passaggio dallo stato di prigionieria quello di liberi cittadini, soltanto per la scomparsa delle sentinelle tedesche e per la ba-raonda che anche là dentro ne seguì E tra noi e loro non c'erano che 8 o 9 km. di distanzaal massimo.

Consegnataci la befana che ci aveva portato, come sempre per l’addietro, e fatta unarapida visita agli ammalati nostri che sollevò con le sue battute spiritosissime, P Marcolinici disse il vero perchè della sua visita, a giorni tutto il campo di Muhlberg/Elbe si sarebbemosso alla volta di Spremberg, e là avrebbe atteso il giorno del rimpatrio. Ma aveva al-quanti ammalati che non sarebbero potuti partire, date le loro condizioni, e che perciò ve-niva ad affidare alle nostre cure.

Lo rassicurammo senz’altro, ed io gli promisi che l’indomani sarei andato a prendervisione del campo e a portare al Col. Toscano Bruno quanto mi aveva chiesto con bigliettoa parte, e cioè: il mio diario dei morti di Zeithain, di cui avrebbe voluto una copia perchèci fosse maggior garanzia che tale documento prezioso nei riguardi delle famiglie dei no-stri caduti potesse giungere sicuramente in Patria!

E P Marcolini se ne andò dopo averci abbracciati e salutandoci anche da lontano conquel suo modo così ridicolo e originale che ci faceva sempre sbellicare dalle risa. Prov-vedemmo subito al necessario permesso recandoci io e Fantelli al Comando Presidio, as-sieme ad un Polacco che ci avrebbe fatto da interprete.

Incontrammo così per la prima volta il Comandante Russo di tutto il settore, Magg.Leontieff, il quale si era sistemato in quella che fino a pochi giorni prima, era stata la ba-racca dei traduttori delle cartelle cliniche. Trovammo l’Ufficiale dietro un tavolo caricodi scartoffie, con tra le labbra la solita sigaretta accartocciata con carta di giornale. Risposeal nostro saluto senza alzarsi, mentre al polacco diede la mano.

Saputo di che si trattava, non fece obbiezione alcuna, prese un pezzettino di carta, vitracciò sopra alcuni geroglifici, tali almeno per noi, sotto i quali scrisse invece, con unacerta cura, il suo nome, v'appose un timbro e consegnandocelo ci disse — riferitemi seper istrada qualcuno dei miei vi molesterà! — e ci congedò.

— Meraviglioso! — pensammo io e Fantelli uscendo veramente soddisfatti. Il per-messo ottenuto valeva per due persone. Ma nè l’uno nè l’altro dei medici volle accompa-gnarmi, per cui l’indomani, appena chiaro, partii solo alla volta di Miihlberg, in bicicleta,naturalmente non senza qualche preoccupazione. Invece arrivai felicemente e senza in-contrare anima viva. Là non mi fu difficile rintracciare P. Marcolini. — E’ famoso in tuttoil campo! — mi disse quando chiesi di lui.

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Mi aveva preparato una buona e abbondante colazione cui feci onore, mentre Eglisfogliava compiaciuto il mio Diario che andò poi a mostrare al Col. Toscano. Intanto io,accompagnato dal fiduciario, potei far visita prima agli ammalati. 23 italiani, di cui unograve; 5 olandesi, 2 francesi e 1 inglese; poi a tutto il campo vastissimo che conteneva opoteva contenere oltre 25.000 prigionieri, e infine al grande cimitero nel quale erano statiseppelliti anche i primi morti di Zeithain, quando ancora non s'aveva ottenuto d’avere ilnostro.

Al ritorno nel campo, m’aspettava il Col. Toscano e altri Ufficiali che mi tempestaronodi domande circa l’accaduto a Zeithain in tutto quel tempo. E’ stato davvero il campodella morte! — concluse P. Marcolini, agitando il mio quaderno e a me non restò che an-nuire.

Ricevuti i complimenti e saluti da portare a tutti di Zeithain, abbracciati il Cappellanoe il Colonnello, presi la via del ritorno pigiando gioiosamente sui pedali.

Mi sembrava di mancar da un anno dai miei! Ero già in vista del campo, quando aduna svolta ecco due Russi che mi fermano e pretendono la mia bicicletta.

Cavo di tasca il mio permesso e lo mostro loro!... leggono o fingono di leggere!... liassicuro che il Magg. Leontieff è mio amico- Chi è Leontieff?... Mai sentito nominare!— mi rispondono e se ne vanno con la mia bicicletta. Per fortuna la strada che mi separavadal campo era breve e in cinque minuti fui tra i miei. — Quanto temevo t’è proprio capi-tato! — disse D Guido vedendomi appiedato e gli altri a ridere di cuore e a chiedermicome fosse andata la cosa.

Raccontai e — Mai più solo tornerò a Muhlberg d’ora innanzi, visto e consideratoche questi mascalzoni non conoscono o non vogliono riconoscere neanche il loro supe-riore! — conchiusi abbastanza rabbiosamente.

Ma non sa, Padre, che i Russi per una bicicletta venderebbero l’anima?... E non sannoassolutamente andarci sopra - saltò sua dire Ciaranfì, l’onniscente! Difatti una settimanadopo, tornando coll attendente a Muhlberg per una S Messa e per sapere quanti erano re-stati dopo la partenza del grosso, mi capitò di ritrovare la mia bicicletta in mezzo a moltealtre abbandonate nel fosso fiancheggiante la strada perchè ormai inservibili. Celebratala Messa, mi intrattenni un po’ nell’infermeria con tutti gli ammalati rimasti, una quaran-tina in tutto,di cui uno solo era in condizioni preoccupanti, il nostro Capobianco! Lo con-fessai, gli diedi la Comunione e gli promisi che sarei presto tornato a rivederlo. Mi recaiquindi da coloro che si eran fermati per lavorare- una decina, al comando d’un sergentemaggiore. Stavano mettendo in capaci casse di legno tutte le pratiche riguardanti gli Ita-liani del settore, Zeithain compreso.

E difatti la più parte del materiale era costituita dalle cartelle cliniche di quanti eranstati ricoverati nel nostro Ospedale. Tentai di rintracciare la mia cartella, ma di mezzo aquella faraggine mi fu impossibile. — Il tutto sarà spedito in Italia, al più presto, per viadiplomatica! — Così rispose il serg. magg. alla mia preoccupazione circa la sorte di queidocumenti che per molti sarebbero stati di capitale importanza ai fini della pensione.

Mi mostrò poi quanto avevano messo da parte per non patire più la fame e dovetticomplimentarli, sia per la quantità che per la qualità della roba accantonata. Accettai direcare ai miei più gravi due scatole di biscotti profumatissimi e, raccomandati i compagniammalati, specialmente il più grave, salutai e insieme all attendente, ripresi la via del ri-torno. Durante quella mia breve assenza, eran passati da Zeithain due diversi gruppi dinostri soldati, incamminati verso l’Italia a piedi. Avevan chiesto del pane ed eran stati ac-contentati. Ma alla proposta di fermarsi ad aiutare, coll assicurazione del rimpatrio sutreno ospedale, preferirono camminare!..

Dovetti tornare a Muhlberg qualche giorno dopo per amministrare gli ultimi Sacra-menti al povero Capobianco che li aveva chiesti con insistenza. Benché assai grave nondimostrava di doversene andare così presto. L'accontentai, e compii le cerimonie in formasolenne, alla presenza di tutti gli altri ammalati, stranieri compresi, e dei pochi Italiani ri-

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masti. Sopravvisse ancora sei giorni. Il pomeriggio del 10 giugno venne a chiamarmi d’ur-genza l’infermiere di Muhlberg: — Capobianco vuol salutarla, padre, perchè dice che sene va! e ha ancora qualcosa da dirle — Mi recai di corsa dal moribondo insieme all’infer-miere. Mi riconobbe e sorrise; gli sedei al fianco, ma non gli permisi di parlare.

Due ore dopo e precisamente alle 20,30 si spegneva come si erano spenti tutti gli altridel campo C di Zeithain, e cioè serenamente, come un lumicino cui venga a mancarel’olio. Lo composi per bene e coll’aiuto dell’infermiere lo trasportai all’obitorio. L’indo-mani si fecero i funerali. I Russi, ai quali comunicai il decesso avvenuto e chiesi il neces-sario per l’inumazione mi dissero che avendo già preparata la fossa per tre di loro, avreifatto bene a seppellire anche il mio assieme. Sapendo però, per esperienza ormai, che pro-testare sarebbe stato del tutto inutile, risposi di sì. Portammo al cimitero la salma e là tro-vammo già allineati nell’ampia fossa, i tre Russi, senza cassa! Noi, per quanto povera edisadorna, la cassa 1’avevamo costruita per il nostro Capobianco e ben solida! Ad evitarequindi possibile mescolanza di resti per 1’avvenire, ci togliemmo la giacca, scostammoi tre Russi da un lato, e sul fondo della fossa grande scavammo, più profondo e orizzon-talmente, un loculo tutto per il nostro morto. Depostovelo, lo coprimmo ben bene con pie-tre. Rimaneva così perfettamente isolato. Ricollocati i tre Russi nella loro posizioneverticale, benché non spettasse a noi, ma affinchè più nessuno mutasse il nostro operato,colmammo colla terra smossa la grande tomba. Tra gli altri pochi presenti a codesta lu-gubre bisogna, ricordo — Ruscitti Vincenzo di Antrosano (L’Aquila), cugino o fratellodel secondo morto ch’io avevo assistito poco meno di due anni prima, e pur egli seppellitolì a Muhlberg.

Ultimi giorni di ZeithainCome già detto, la prima cosa di cui mi preoccupai appena avvenuta la liberazione,

fu di sostituire la mia piccola e preziosa radiolina, che tuttora conservo come un caro ri-cordo, con una più potente che potessero ascoltare tutti del campo. Fu così che la secondavolta che mi permisi di uscire dal reticolato, lasciai agli altri il compito di cercare e portaredentro i rifornimenti alimentari, personalmente cercai e portai al campo un grosso appa-recchio radio Telefunken trovato intatto e ben funzionante nella sala ritrovo dell’ospedaletedesco disabitato. Captava benissimo anche le stazioni Italiane e tutti ne furono felici.

A sistemarla in luogo sicuro, perchè qualche Russo non ce la portasse via, ci pensò ilmarinaio Uberti, 1attendente di D Guido. Così dal 16 maggio 1945, ogni giorno potemmosentire quanto avveniva in Italia. Eppure, passato il primo entusiasmo, in capo a 5 o 6giorni, tutti, Ufficiali compresi, non vollero dalla radio altro che musica e tra i vari notiziariquello solo della sera che spesso ci diceva quanti prigionieri erano rimpatriati, come ave-vano potuto rimpatriare e da dove erano rimpatriati. Il fatto si spiega benissimo- quantoveniva trasmesso allora che non fosse musica, a noi riusciva assolutamente incomprensi-bile e quindi noioso. Dopo due anni di lontananza e perfetta segregazione, che potevamosapere noi di partigiani, di nuovi uomini politici, di partiti, di borsa nera, di oro di Tongo,di Pontificia, di Post bellica ecc… ecc..? Insomma tutto quanto ci poneva un grande puntointerrogativo: - Chi è costui, o chi sono costoro? Perchè così o perché cosà?...

E siccome nessuno poteva rispondere ai nostri interrogativi, ai nostri perchè, si preferìche la radio non ce li facesse insorgere. E quando le stazioni nostre chiacchieravano sol-tanto e magari ostinatamente, si andava a cercar musica altrove. E la potente Telefunkence ne dava ad ogni ora del giorno e della notte!

Una sera qualche notizia speciale o a noi favorevole deve averci fatto impazzire dallagioia, se essa scoppiò tanto rumorosa da richiamare l’attenzione di una dottoressa Russain divisa di Tenente, che si credè in dovere d'entrare a raccomandarci moderazione, penail ritiro dell’apparecchio. Restammo allibiti!... anche per lo scampato pericolo, ma soprat-tutto per la grande meraviglia di sentire una Russa parlare molto bene la nostra lingua. Cidiventò subito simpaticissima e quante domande avremmo voluto rivolgerle!... Ma ella si

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scusò gentilmente adducendo ragioni di ser-vizio... ci salutò militarmente e poi, dallaporta socchiusa, togliendosi la bustina, conun chiaro — Buona notte! — Sapemmo inseguito ch’era stata qualche tempo in Italiaper specializzarsi in tisiologia.

Intanto col passare dei giorni, tutto nelcampo si andava organizzando sempre me-glio: il Comando, le cucine, lo ordine gene-rale, la pulizia, i servizi. Man mano che iTedeschi rientravano nei loro paesi deva-stati, oltre che dal passaggio della guerra,anche dalla nostra furia distruttrice durante

i pochi giorni di libertà concessici, (nessuna porta, nessun cassetto aveva potuto resisterci!)venivano in parte reclutati per il riattamento del campo e delle baracche rimaste vuote eper il servizio agli ammalati.

Fu così che anche a noi vennero assegnate 5 ragazze: 2 Polacche e 3 Tedesche, per lapulizia. Essendo però pochi i nostri infermieri, in confronto degli ammalati che aumenta-vano quasi quotidianamente per qualche ritorno o per qualche nuovo arrivo, domandammoloro anche certi lavori che sarebbe stato cavalleresco facessimo noi. Non se ne lamenta-vano però, anzi ci dovevano essere ancora grate per il trattamento che usavamo loro, benpiù umano di quello riserbato alle loro compagne addette nei servizio dei Russi e dei Po-lacchi.

Mi fu possibile così costituire un gruppetto di quattro volonterosi che, per qualcheora ogni giorno, venissero con me al Cimitero a riassettare certe tombe alquanto in disor-dine e a rendere sempre più belle le altre. Una brutta mattina ebbi la dolorosa sorpresa diconstatare la sparizione di molte croci. Già non tutte le fòsse ne erano munite, perchè nonsi era fatto in tempo a costruirle, ma che si asportassero quelle che c'erano, mi sembravadelittuoso! Per cui, al ritorno, mi recai tosto al Comando per protestare. Il Magg. Leontieffera assente per servizio. Perciò le mie rimostranze le dovetti presentare al suo aiutante eagli altri impiegati di cui era stipato l’Ufficio. Sorrisero come d’una puerilità, ma poi mirisposero:

Certamente il fatto non è da imputarsi a nessuno dei militari del presidio! E del restoil Cimitero Italiano è il più bello di tutti! Anzi è fin troppo bello per nascondere delle ca-rogne!?! Vai a vedere quello dei nostri e poi avrai di chi consolarti — Agghiacciai!... edevo forse ai miei morti se mi seppi trattenere dal commettere una sciocchezza! Uscii,ma col feroce proposito di scoprire i sacrileghi e dar loro possibilmente, una severa le-zione. Raccontai soltanto a D. Guido la cosa, per non sentirmi frenare dalla eccesiva pru-denza di Fantelli e San filippo. La sera stessa, con una scusa qualunque, tornai al Cimiteroe scoprii... Eran donne e bambini, russi e polacchi, che per non perdere tempo o rispar-miarsi la fatica di cercare nel bosco, si servivano delle croci del nostro cimitero per ac-cendersi il fuoco e cuocersi la cena!!! Mi venne da ridere e da piangere insieme dinnanzia tanta incoscienza e irreligione, ma riposi le mie ire per altra occasione. Chi erano quelledonne e quei bambini?... Da giorni ormai vedevamo passare colonne interminabili di bor-ghesi incamminati verso 1’est, che si portavano fagotti in ispalla e valige in mano, cheerano preceduti e seguiti da carri stracarichi di masserizie e da mandrie di bestie di ognigenere. Erano intere famiglie Russe e Polacche che i Tedeschi, al tempo delle loro sacchefamose e avanzate vittoriose, avevano trasferito di sana pianta in Germania, e che ora tor-navano alle loro case, cercando di portarsi quanto avevano avuto distrutto dalle operazionidi guerra e dalla feroce libidine umana.

Solitamente sostavano nei paesi durante la notte, ma quella volta invece, e chissà per-chè, sostarono presso il nostro Cimitero che non offriva loro se non croci di legno secco,

Padre Luca Maria Airoldi

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stagionato! Pazienza! Non restava che riparare l'oltraggio ai nostri morti ricordandoli piùintensamente e suffragandoli più fervorosamente. Il che facemmo fin da quella sera ri-prendendo la pia pratica del Rosario che gli avvenimenti ci avevano fatto interrompere.E pregavamo anche perchè i Russi si decidessero una buona volta a mandarci in Italia.Dalla radio sentivamo quasi ogni sera del ritorno di tanti altri prigionieri, certamente menobisognosi di noi, e di altri molti che erano per lo meno in movimento. Da noi invece nessunsegno, nessuna parola che ci facesse sperare in un prossimo rimpatrio. Anzi, tutto sem-brava contro di noi.

Poco oltre il campo correva una ferrovia secondaria che allacciava i paesi e le cittadinedella bassa Sassonia con la grande Chemnitz. Su di essa era stato bloccato, in uno degliultimi bombardamenti, un treno merci carico di bombe d’aviazione, di paracadute, di au-tomobili nuove fiammanti, di piccoli carri armati, di cannoncini anticarro e antiaerei e ditante altre cosette belliche. Che aspettavano i Russi a ricuperare tutto quel materiale pre-zioso e riattivare così la ferrovia?... Temevano un — sabotage — un inganno! e avevanpaura!... Eppure ci avevano visti sopra a frugare, a rovistare, a muovere, a toccare,tutto colla massima confidenza! Mah!... Un bel giorno ci avvisarono che l’avrebbero fattosaltare e che quindi dovevamo tenerci al riparo e preparati alla esplosione. Fu davverospettacolosa!... Mai durante tutta la guerra avevamo sentito qualcosa di simile! Per lungotratto, gli alberi delle pinete in mezzo a cui si trovava bloccato il convoglio, furono tagliatia metà.

I.a linea era così libera e se davvero non avevano benzina, come affermavano i Russiper non trasportarci in macchina, avrebbero potuto trasferirci a mezzo ferrovia, pensavamonoi giustamente. Invece cominciarono subito a smontare i binari!!!... Fu una doccia freddache congelò tutte le nostre speranze. La sera del 12 giugno, dopo aver pregato S Antonioche serbasse per noi almeno una delle sue tredici grazie quotidiane, discutevamo circa ilmodo di metterci in comunicazione con la Croce Rossa Internazionale. Scrivere era inutile!mandar di persona qualcuno era difficile per non dire impossibile, e allora — Affrontaredirettamente Leontieff e cantargliele chiare! — disse qualcuno. E un altro — Se ci fossequi il mio capitano, saprebbe ben lui fare qualcosa! e noi andremmo a morire almeno inItalia! — Non volli neanche individuare quegli che aveva detto questo, tanto la sua sferzatami era giunta inaspettata e pungente! « — Ebbene! domani lo farò! — » dissi io e diedi atutti la benedizione della buona notte. Andai a parlarne agli Ufficiali, alcuni approvaronola mia decisione, altri no! giudicandola pericolosa almeno per me. «—Tentar non nuoce!— »soggiunsi « —Vedremo con chi abbiamo a che fare!., o dentro o fuori!— »

Confesso che passai la notte scervellandomi per trovare parole che fossero o tantoeloquenti da commuovere, o tanto innocue da non provocare risentimenti.

La mattina, dopo la S. Messa, scongiurai Fantelli ad accompagnarmi, ma preferì re-stare tra le quinte, perchè, secondo il suo modo di vedere, era bene non destare il can chedorme! Assieme al solito polacco interprete mi recai al presidio e fui introdotto abbastanzapresto alla presenza del Magg. Leontieff. Fu lui stesso a cominciare il discorso chieden-domi di tutto un po’, persino del numero degli abitanti di Venezia! Alla fine mi domandòse gli Italiani del campo, sani e ammalati, erano contenti dei Russi.

« — Contentissimi! Sig. Maggiore! — » risposi subito « — Davvero hanno un cuord’oro nei nostri riguardi, anche se non sempre la nostra mentalità coincide — ».

Poi attaccai il discorsetto preparato: — Creda, sig. Maggiore, è appunto per questoche ho domandato udienza: ringraziarla di cuore a nome di tutti gli Italiani di qui e pregarlaad essere buono con noi fino in fondo, rimpatriandoci o permettendoci di metterci in re-lazione con la Croce Rossa internazionale — Sfido chiunque a trovare in queste parolealcunché di irriverente o provocatorio. Eppure Leontieff ce lo trovò!!

Infatti scattò in piedi come una molla e battendo i pugni sul tavolo e urlando come unistrione, mi fece sapere «sia la prima ed ultima volta che mi parlate di Croce Rossa! Inquanto al rimpatrio lo farete via Odessa e col tempo! Non dimenticate, voi Italiani, che

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soltanto dieci mesi addietro, eravate ancora sul Don a insidiare le nostre ragazze! Doveteesserci grati perciò e baciare la terra che noi calpestiamo, se ancora non vi abbiamo im-piccati tutti! N’est ce pas? non è forse così?» conchiuse in francese, forse ripetendo leuniche parole che conosceva, e sedè sbuffando. Col volto infiammato per l’offesa ricevutae tremante di sdegno, gli volsi le spalle e concitatamente dissi all’interprete polacco: «Ri-sponda per mio conto al Maggiore così. — Nessuno degli Italiani qui presenti fu mai inRussia! Ma se anche ci fossero stati per il passato, ora sono ammalati e come tali han di-ritto a tutta l'assistenza, secondo le leggi internazionali della Croce Rossa. Li faccianoguarire prima i Russi, se ne sono capaci, e poi li impicchino pure! — Salutai e uscii senzaattendere la traduzione. Al campo nostro ove mi si attendeva con ansia, riferii a tutti ilcolloquio avuto parola per parola, e anche questa volta ci furono i contenti e i malcontentidisposti a imputarmi dell eventuale prolungarsi della prigionia. A por fine alle discussioni,meno di due ore dopo, giunse un soldato Russo con un ordine del Comando Presidio: unrettangolo carta rosa lungo 20 cm. alto 5, dattiloscritto, ma in caratteri cirillici, debitamentefirmato e timbrato e che conservo ancora. Riusciti vani i nostri sforzi per decifrarlo, ci fugiocoforza richiedere l’aiuto dei Polacchi. Ogni volta tutti avrebbero voluto accompa-gnarmi ma volli recarmici solo. Il Colonnello Polacco, gran buono uomo, un vero cristia-none, presa visione del contenuto di quel cencio di carta che gli avevo porto, mi chiese seavessi offeso qualche Russo, e al mio diniego, continuò

« — Come mai allora quest’ordine ? Sai ? ti si comanda di partire immediatamentealla volta di Muhlberg, accompagnato ! Questo è scritto qui — » disse riconsegnandomiil foglietto. Impallidii, barcollai e piansi! « — Coraggio ! — riprese il Col. battendomiamichevolmente la mano sulla spalla, — Va a sentire come ti suggeriscono di fare i tuoi,e poi torna da me. Ti voglio aiutare — ».

Mi ricomposi un po’ e quindi, con la morte in cuore, tornai dai miei. Avevano già ca-pito, vedendomi da lontano, che qualche brutta notizia dovevo recar loro, ma certo mai sisarebbero aspettata quella delle mia partenza.

Appena seppero, tutti allibirono ! Non tentarono nemmeno di consolarmi, perchè essistessi avevano bisogno d’esserlo. « — Bene ! dissi compiendo uno sforzo sovrumano perrompere quella specie d’incantesimo doloroso che ci attanagliava. « — Ora pensateci benee poi mi direte sinceramente quale, secondo voi, devo fare di questa tre cose: Ubbidire eandare! — Restare sia pure nascosto! — Partire per tutt’altra destinazione ! — E quelloche vado a discutere coi dottori e con D Guido —» Li feci infatti chiamare, e in quel pic-colo angolo della baracca-cappella che un tempo era stato sacristia ed ora la nostra mensa,ci sedemmo ed affrontammo il mio grosso problema.

Due parole suscitavano le nostre apprensioni, quell’immediatamente ! e quell’ accom-pagnato! — A Muhlberg si sapeva che c’eran non più di trenta soldati Italiani e tutti ormaiin buone condizioni fisiche dopo la morte del povero Capobianco, quindi nessun bisognodi assistenza spirituale.

I due Ufficiali Medici e i due Cappellani rimasti volontariamente coi gravissimi chenon poterono scappare la famosa sera del 23 ottobre 1944. Finalmente seduti a tavola constoviglie, posate e pasta asciutta! Il tutto razziato nei dintorni rimasti disabitati.

E poi proprio i Russi dovevano preoccuparsi di questo ? E perchè proprio io e non DGuido ? Accompagnato! da chi ? perchè ? L’avevo pur fatta parecchie volte quella strada,no ? E allora ?

« — Che ti ha suggerito il Colonnello Polacco ?» — mi chiese Fantelli. « — Di deci-sivo ancora nulla! mi ha detto che tornassi da lui che mi avrebbe aiutato! Anche a luipuzza quell’accompagnato ! — » gli risposi.

« — Beh! andiamoci assieme e vediamo. Non c’è tempo da perdere! Intanto voi due,Sanfilippo e D Guido, sentite un po’ come la pensano gli ammalati delle tre baracche especialmente gli Ufficiali— ». Dieci minuti dopo io e Fantelli eravamo seduti davanti al

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Col. polacco che con voce discreta e quasi sillabando diceva. — Conosco bene i Russi eso per esperienza che quando danno un ordine per iscritto, è loro intenzione fare il con-trario ! Perciò, caro Padre, tu dovresti raggiungere Muhlberg, ma in realtà chissà in qualealtra località ti porteranno ! Te lo prova il fatto dell’accompagnamento. Ammesso che nonti si faccia di peggio, dovrai peregrinare non so fino a quando. Vuoi il mio parere ? è que-sto, giacché te ne devi andare e al più presto, tenta d’andare verso l’Italia ! — ».

« — E’ una parola sig. Colonnello ! — dissi io — Come passare inosservato tra tantiRussi che circolano e quasi sempre ubriachi ? Come poi trovare la strada che non son maiuscito dal campo ? E poi da solo di notte ! No ! no, non mi sento di tentare questa avven-tura ! — ».

« — Non far le cose più difficili e più brutte di quel che sono ! Padre mio ! — ripreseil Colonnello con più vivacità, poi subito con voce sommessa. «— Ve lo dico in un orec-chio e vi scongiuro che vi teniate la cosa per voi. Ogni notte gruppi dei miei che non in-tendono sottostare ai Russi, tagliano la corda varcando il confine, la linea di demarcazioneche dista da qui una trentina di Km. Una volta giunti tra gli Anglo-Americani, sono liberidi muoversi in tutte le direzioni. E Lipsia non è lontana.

Difficile piuttosto passare di là e se va male, è un grosso guaio perchè un bando pub-blicato proprio giorni fa, commina pene severissime contro chi tenterà il passaggio senzaautorizzazione che, d altra parte vien concessa, previo interrogatorio, soltanto a Francesi,Inglesi, Belgi, Olandesi, Americani, ecc. Gli Italiani, i Polacchi e i Serbi e qualche altrosono nominativamente esclusi. I miei si sono fatti tutti francesi e finora son sempre riuscitia passare impunemente. Non potresti fare altrettanto anche Tu? » — «Ottima idea! sig.Col — ». Saltò su a dire Fantelli, poi volgendosi a me, continuò. « — Ma non sai che seti riesce di raggiungere Lipsia puoi esserci utile più di quanto ci sei stato finora? Pensapotresti vedere la Croce Rossa o qualche grosso nostro Comando e raccontare loro la no-stra situazione magari seccarli fino a che non si decidono a venirci in soccorso Non tipare? Sarebbe la cosa pi i meravigliosa che tu abbia mai fatto e tanti di noi ti sarebberodebitori della vita —».

L’idea di lasciare i miei, ma per andare a trattare ancora di loro, a lavorare ancora perloro, a incontrare forse pericoli estremi perchè loro fossero contenti, mi entusiasmò. « —Sig. Colonnello! dissi scattando in piedi, — Ho deciso ! La prego di includermi coi suoiche partiranno primi. Di questo favore non mi dimenticherò mai e avrà sempre e tutta lanostra riconoscenza! — ».

« — Benissimo! padre mio. Sei in gamba! Preparati per le sei del mattino di dopodo-mani e intanto evita di circolare per il campo. Portati il meno possibile perchè dovrai forsecamminare molto a piedi. Cerca di trasformarti un po’ negli abiti e in bocca al lupo! — »

Io e Fantelli ringraziammo calorosamente e tornammo di corsa al nostro reparto percomunicare agli ammalati la decisione presa. Volli prima sentire però quale soluzionedelle tre proposte mi avrebbe consigliato la maggioranza. Pochi — ubbidire e partire! —Molti, restare, sia pure nascosto! — Moltissimi — partire, ma per ben altra destinazione!— Senza saperlo questi moltissimi eran d’accordo con quanto avevo stabilito di fare.

Lasciai al dott. Fantelli il compito di spiegare per filo e per segno quanto deciso dietrosuggerimento del Col. Polacco. Andai a coricarmi perchè le forti emozioni della giornatam’avevamo messo in dosso un febbrone da cavallo e tremavo come una foglia. Mi sentivosfinito Eppure avevo solo un giorno per prepararmi. Pregai Sanfilippo a propinarmi tuttoquanto aveva a disposizione per sfebbrarmi e farmi dormire almeno qualche ora. Ci riuscìin parte.

Al mattino, assai per tempo e nonostante la febbre che ancora persisteva, celebrainella baracca dov’era il maggior numero di ammalati e dissi loro che forse S. Antonio ciaveva fatto davvero la grazia. Quello che sul principio tutti reputavamo un castigo, unadisgrazia, poteva diventare invece un grande bene per tutti del campo. E sarebbe statoproprio cosi! ma non sapendolo noi allora, pregammo con fervore affinchè la mia fuga

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riuscisse. Dopo di che, aiutato da qualche ammalato, misi un po’ d’ordine negli oggettiricordo che avevo conservato di ogni nostro morto e chiuso il tutto nella mia cassetta diferro d’ordinanza, la consegnai a D. Guido raccomandandogli. — « Son riuscito perico-losamente a sottrarre tutto ciò all’ingordigia tedesca. Tu devi riuscire a portarlo in Italia.Perciò se vuoi, la testa tua, ma non un filo di quanto sta qui dentro» — A parte gli lasciaianche i miei paramenti sacri e alcune cosette personali o di altri soldati che avevano soloun valore affettivo e delle quali non doveva preoccuparsi un gran che. Ogni più piccoloincomodo l’avrebbe autorizzato a disfarsene.

Stavo eliminando ciò che non reputavo indispensabile per alleggerire lo zaino, quan-d’ecco i Tenenti Pampuro e Tosi che chiedono di parlarmi in camera charitatis! Segreta-mente. Lascio tutto per ascoltarli. « — Se permette, padre, noi due eTenenti Tamburini eCalvi, vorremmo esserle compagni nella fuga —» mi dicono subito. Ebbi un momento digioia e di commozione vedendo fino a qual punto i nostri vincoli di fraternità fosserosaldi, ma pensando ai pericoli e alla fatica cui si esponevano, risposi loro: « — Vi ringraziodel vostro attaccamento! Non posso però assumermi la responsabilità di mettere a repen-taglio la vostra incolumità. E poi, benché felicissimo di poter godere della vostra compa-gnia, non dipende da me il permettervelo, ma dai nostri medici prima e dal Col. Polaccopoi» — In quanto a questo, Padre, lei non si preoccupi! Ci pensiamo noi. Grazie. Andiamoa prepararci. — Tornai al mio zaino. Ormai non conteneva che poca biancheria indispen-sabile e la mia bella divisa diagonale, indossata ben poche volte. Ed era necessario la ce-dessi in cambio di qualcosa d altro di meno Italiano! L'indomani avrei dovuto esserefrancese! Incaricai della sostituzione il sold. Ciaranfi, 1’onnipotente, e in meno di unaora, eccolo con una divisa cachi, forse più bella della mia e che sembrava fatta sulla miamisura! Insieme provvedemmo a nascondere tra le suole degli stivali i negativi delle fo-tografie scattate nel campo prima e dopo la liberazione. Il mio prezioso Diario l’avrei por-tato indosso. Mi restava di trovare una bandierina francese da applicarmi sul petto e aquesto provvide il sergente pittore torinese ritagliando e colorando di rosso e bleu un pez-zettino di asciugatoio. Ero pronto per la grande avventura! Passai il resto della giornata asentir pareri e consigli circa quello che avrei dovuto dire e fare se fossi arrivato a Lipsia,presso la Croce Rossa e i nostri Comandi o quelli degli Alleati, a notare indirizzi e mes-saggi da trasmettere ai famigliari dei miei ammalati che restavano. Ogni tanto venivanoa interpellarmi or l'uno or l’altro dei quattro Ufficiali che avevano deciso di condividerecon me i rischi della fuga. Erano raggianti! Dovevano perciò aver ottenuto di far partedella colonna polacca, e da Fantelli e Sanfilippo il benestare. Non tutti gli altri Ufficialivedevano di buon occhio che quei quattro mi accompagnassero e avrebbero voluto chepartissi solo per due motivi specialmente; primo perchè da solo più facilmente sarei pas-sato inosservato; secondo- perchè se si fossero sentiti male, m’avrebbero impedito di com-piere la mia missione e fors'anche coinvolto in qualche guaio! — « — Non abbia paura,padre, che i suoi compagni di viaggio si sentano male! Han provveduto a farsi le ossadure in questi ultimi giorni, mangiandosi trippa a due palmenti! — saltò su a dire tuttod’un fiato il ten. Daccò meravigliando non poco tutti perchè ben di rado partecipava allediscussioni e i suoi interventi si riducevano quasi sempre a monosillabi, sì! no! —

E diceva il vero! perchè anch’io avevo visto e non una volta sola, i ten.ti Tosi, Calvie Pampuro, intenti a pulire quella roba che i Russi scartavano e lasciavano abbandonatadopo la macellazione di qualche bestia.

E venne l’ora dei saluti e delle lagrime 1’ora più pesante della mia vita, 1’ora il cuiricordo mi inumidisce sempre le ciglia! Abbracci lunghi a non finire baci sonanti e senzanumero sospiri profondi e pianti sommessi ringraziamenti e auguri infiniti mi fecero crol-lare prima d aver accostato tutti. Era tornato il febbrone della sera precedente! e ci vollerotutte le fraterne premure di Sanfilippo e Fantelli per mettermi in condizione di riposarmiun po’. Alle 4,30 eran già tutti pronti per ascoltare l’ultima mia Messa di Zeithain. DonGuido m’aveva preparato 1 altarino nella baracca degli Ufficiali e là s’erano dato conve-

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gno anche gli altri ammalati che potevano reggersi. Iddio ci benedisse davvero in queipochi momenti che passammo stretti attorno al suo altare e tra noi in devota preghiera. Ifatti successivi ce lo avrebbero provato. Terminato il sacro Rito, durante il quale parecchivollero la Comunione, passai di castello in castello a salutare gli Ufficiali.

Tutti vollero dirmi ancora qualcosa, oltre che a darmi l’abbraccio augurale e il bacioaffettuoso.

Il cap. Maccabruni sempre lepido- — Le 40 bottiglie che ho nascoste alla mia par-tenza, saranno per te se io non tornassi —

Il Ten. Magagnin piangendo, Vi bacio intendendo baciare un ultima volta Albertina eLeda che non vedrò più! —

Il cap. Pitzoi. — Che la fortuna che ti ha assistito sin qui, t’accompagni sempre —Il ten. Treccioni. — Se riuscirai a farci tornare, in Italia ti darò quelle soddisfazioni

che ti ho negate qui, in questo inferno. —Il Ten. Daccò- Mi conceda anche l’ultima benedizione nel nome della nostra Madon-

nina! —Il Coman. Di Scala. — Quanto mi dispiace che te ne vada ! Buona fortuna! —Il Ten. Laganà. — Un ultimo favore! padre! Fate giungere ai miei questo foglio! e

molte grazie di tutto. — Il ten. Bonarelli, il più giovane e tanto fiducioso: — Maledizioneai nostri barbari padroni e benedizione a voi padre carissimo. —

Puntualissimo, alle sei comparve il sold. polacco che doveva guidarci. I quattro Uffi-ciali che venivan con me, s’eran camuffati veramente in modo perfetto, e se non si vede-vano in faccia o non se ne sentiva la voce si sarebbero detti di tutte le nazionalità fuorchédell’Italia. Colla guida essi uscirono per vie traverse, mentre io col mio pezzo di carta inmano, potevo affrontare anche le sentinelle. Perciò mi potei permettere di tornare un’ul-tima volta nelle altre baracche e salutare ancora i soldati. Fantelli, Sanfilippo e Don Guidom’accompagnarono fino ai reticolati e là furono gli ultimi abbracci. « — Da quanto sapraifare, si parrà la tua nobilitade ! — » mi disse scherzosamente Fantelli.

Poco oltre le pinete che circondavano il nostro Cimitero c’era pronto un carretto sucui già avevan preso posto una mezza dozzina di donne, tra le quali brillava per loquacitàe brio, una certa Maria, conosciuta anche dai miei quattro accompagnatori! C’era ancoraposto per altre sei persone. Quegli che sembrava il capo del gruppo, fece salire noi cinqueItaliani e due altri polacchi tra i molti che stavano aspettando e diede l'ordine di partire alpiccolo trotto.

Le avventure e disavventure che incontrammo poi, non riguardano più Zeithain e per-ciò non credo necessario nè opportuno inserirle tra queste pagine, che vorrei chiamaresacre ! Del resto sono uguali a quelle di tanti altri fuggiaschi che come noi furono perfinocostretti a cambiar divisa, nazionalità e talvolta perfino la coscienza, per riuscire a porretra sè e il paradiso sovietico, il maggior numero possibile di Km. di distanza.

Strada facendo, seduto accanto al responsabile della colonna, chiesi dettagliate infor-mazioni intorno al modo di comportarci all arrivo. Fu con me d’una gentilezza fraterna ed’una chiarezza solare! Durante l’interrogatorio, avremmo dovuto sostenere, anche a costodi buscarcele, la nostra nazionalità francese ! Perciò: tenere pronto un cognome e un in-dirizzo come meta che si intendeva raggiungere, al collo e ben in vista il piastrino di pri-gionia e nessun altro documento nè in tasca nè nello zaino, che potesse comprometterci !

« — Vi andrà bene certamente, mi disse concludendo, perchè tutti quelli che ho aiutatonella fuga, e l’attuale è il diciottesimo viaggio che compio, ce l’hanno sempre fatta ! —« — Come dimostreremo la nostra riconoscenza al Colonnello e a voi ? — gli chiesi. Edegli. — Al Col. non so ! ma a me basta mi facciate il gran favore di recare i miei saluti aun mio carissimo amico che si trova a Roma e gli diciate quello che sto facendo per laPatria del cielo e della terra ! — E mi porse un cartoncino su cui era stampato il suo nome:— Casimiro Augustowski — e scritto in matita. — saluta l'amico P Casimiro KucharskiS J Gesuita !

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Mentre l’assicuravo che ben volentieri avrei compiuto la missione affidatami, giun-gemmo in vista del Mulbe un fiume che scorreva profondamente incassato tra le duesponde e che, allora, serviva di linea di demarcazione tra Russi e Alleati. Tutti scendemmodal carretto che invertì tosto la rotta per tornare a Zeithain. Salutati i nostri compagni diviaggio, ci caricammo lo zaino sulle spalle e per altra strada raggiungemmo il luogo del-l’attraversamento. Erano le ore 13 del giorno 15 giugno 1945 e la sinistra del fiume bru-licava di soldati che, come noi attendeva di correre verso la libertà!

Mi resta a dire di quello che ci fu possibile fare a Lipsia in favore dei nostri rimasti aZeithain. Trovato un punto d’appoggio presso un campo di raccolta per Italiani in attesadi rimpatrio, ci demmo d’attorno per trovare ov’io potessi alloggiare, perchè, ci disse ilSer. Maggiore che comandava il centro, non era conveniente che un cappellano restassedi notte in mezzo a soldati che volevano divertirsi un po’! Compresi di che si trattava ene ebbi schifo ! Avrei voluto alzar la voce, ma come ospite mi convenne tacere e accettaredi dormire per terra presso una famiglia privata, composta da due vecchi coniugi, i Sigg.Konrad Lange Reihe Leipsig, che avevano un figlio, Ufficiale di Marina, prigioniero inAmerica.

Presso di loro deposi il mio meschino bagaglio, e mentre i quattro Ufficiali, miei com-pagni, e cioè Tamburini, Tosi, Pampuro e Calvi, si mettevano alla ricerca di un mezzoqualsiasi che ci portasse verso l’Italia, io invece cercai della Croce Rossa. Grazie a undottore italiano che incontrai per caso, il Sig. Angelini, riuscii ben presto nel mio intento.Fui subito accolto con grande cordialità e simpatia, e il mio caso interessò moltissimo.Presero appunti, individuarono su di una carta geografica la località, ne computarono ladistanza e mi assicurarono che quanto prima avrebbero mandato una commissione a con-trollare la verità di quanto avevo detto.

Felice come una pasqua, tornai al mio alloggio, ove trovai i quattro Ufficiali ad atten-dermi. Erano alquanto sfiduciati perchè non avevano trovato quanto desideravano.

Dalla stazione ferroviaria treni non ne partivano- sulle strade gli automezzi erano li-mitatissimi e quelli militari non si fermavano macchine private non se ne trovavano: met-tersi in viaggio a piedi era semplicemente pazzesco, e allora ? « Pazienza! giovanotti, dicoloro, lasciate che mi faccia qualche amico presso la Croce Rossa e vedrete che in Italiaarriveremo. Intanto fate i turisti, visitate la città anche se è tutto un cumulo di rovine. Ilgiardino zoologico è intatto, mi si disse, e c’è dell’interessante da vedere, magari un Russoche si diverte a cacciare gli orsi bianchi e bruni nei loro recinti! —

Qualche giorno dopo tornai alla C. R. e mi dissero che le cose stavan proprio come leavevo descritte; che avevan chiesto di parlare coi nostri senza riuscirvi, che l’autocarrettache doveva recar là i pacchi da me sollecitati, era stata fermata al Mùlde e rimandata.

« — Dev'essere un duro il comandante di quel Presidio! Ne conosce lei, padre, ilnome? — mi chiese quegli che occupava il centro del tavolo dinnanzi al quale mi si erafatto accomodare. « — Leontieff, Maggiore Leontieff — risposi quasi gridando. « — Civorrà del tempo e molta tattica per ammansirlo codesto Signore. Ma piegheremo anchelui! a costo di spaccargli la testa — Ringraziai quei signori e in cuor mio il vero Signoreche m’aveva fatto incontrare persone così comprensive e decise. In seguito tornai da loroparecchie altre volte, anzi quasi ogni giorno finché rimasi a Lipsia. Trovavo sempre unperchè!... una volta per consegnare dei messaggi, un’altra per firmare delle dichiarazioni,un’altra ancora per mostrare la pianta del cimitero, ma in realtà sempre e sol per saperedei miei di Zeithain e se il loro rimpatrio sarebbe stato possibile.

Intanto, verso la fine di Giugno, cominciò a circolare la voce che la città sarebbe stataevacuata dalle forze Alleate e passata sotto quelle Russe per una rettifica dei confini. Unfulmine a ciel sereno che non ci voleva! Facile immaginare il nostro orgasmo e, diciamolopure, la nostra paura di ricadere sotto quelle pesanti mani da cui, con tanta fatica ci era-vamo sottratti... Il 1° luglio vennero da me i quattro Ufficiali con un foglio in mano e midissero « — Padre, un’altra volta la nostra salvezza è nelle sue mani Avremmo trovato

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chi sarebbe disposto a portarci lontano da qui, ma vuole un prezzo che noi non possiamopagare! Solo lei può.

Dopo quanto ha già fatto per noi la scongiuriamo di fare anche questo sacrificio ecedere a chi ci metterà al sicuro dai Russi, la sua macchina fotografica. Sappiamo quantovalga e come le sia cara sopra ogni altra cosa, ma noi ci impegnamo solennemente a ri-fargliela simile entro tre mesi dal nostro arrivo in Italia. Qui c’è la promessa scritta e de-bitamente firmata da ognuno di noi.» — conclusero porgendomi il foglio. Lessi e stracciaidicendo loro: — Mi basta la vostra parola d’onore. Contate pure sulla mia macchina.

Però la consegnerò soltanto al termine del viaggio ».Il giorno dopo, 2 luglio ’45 a bordo di un camion carico di pezzi di ricambio per mi-

tragliatrici, cannoncini anticarro ecc... lasciammo Lipsia, incrociando le truppe Russe chevi entravano invece. Dall'alto del nostro posto di osservazione, di mezzo a tutta quellaferraglia, salutammo con ampi gesti della mano e — Per sempre ! — gridavano i quattromiei compagni soffregandosi il gomito. Alle 19,30 di quello stesso giorno arrivammo,stanchi morti, a Francoforte sul Meno. Ormai al sicuro dei Russi, chiedemmo d’essere la-sciati giù, decisi ad arrangiarci da soli. Tolto dalla macchina fotografica il film che avevoscattato solo a metà, la consegnai al maresciallo francese cui era stata promessa.

E quello fu davvero un grande sacrificio per me !... che però compii volentieri perchèero sicuro che mi avrebbe data la possibilità di raggiungere assai prima l’Italia ove misarei potuto occupare ancora dei miei rimasti a Zeithain. Infatti appena giuntovi, interessaiimmediatamente la nostra Croce Rossa, la Pontificia Commissione d’Assistenza e la PostBellica della loro situazione che mi sforzai di dipingere coi colori più neri e provare conla presentazione del lungo elenco dei morti da me composti nel sonno eterno.

— Se non ci si muove, e al più presto anche quei 200 e più che ho lasciati là, ci rimet-teranno la pelle ! — con queste parole conchiudevo sempre le mie esposizioni che ripetevoa chiunque mi sembrava potesse aiutarmi. Avrei voluto ricorrere anche alla stampa perguadagnare alla mia causa l’opinione pubblica, ma in quei tempi essa era troppo impegnatanella glorificazione dei Partigiani veri e falsi e delle loro gesta più o meno lodevoli.

Sicuro d’aver fatto quanto era nelle mie possibilità, attesi fiducioso d essere avvisatoda un momento all’altro dell’arrivo di quei cari che mi vedevo sempre dinnanzi.

Nel frattempo cominciarono a venirmi a trovare i familiari di parecchi morti da meassistiti, per sentire dalla viva voce il racconto delle circostanze che avevano accompa-gnato e seguito il decesso dei loro cari. Ed erano tutti insaziabili!... nonostante lo strazioche arrecava loro il mio dire forse troppo crudo. Ma non facevo che leggere gli appuntiche di ognuno avevo presi a suo tempo, e che m’accingo a trascrivere qui. « — Vi consoli,potevo dir loro con tutta verità, sapere che il vostro caro è spirato cristianamente, e manifraterne e pietose ne hanno composto la salma e ornata la tomba ! — ».

Verso la metà di agosto ebbi la gioia di sapere dalla C.R.I. che gli ammalati di Zeithain,cui nel frattempo s’erano uniti quelli di Muhlberg/Elbe, sarebbero stati quanto prima tra-sferiti al Sanatorio di Praga-Podoli. Quel mattino avrei abbracciato e baciato tutti gli im-piegati presenti nell’Ufficio ove avevo ricevuta la grande notizia … — Finalmente,pensavo, presto avrebbero cominciato a muoversi quei poveretti !... Si sarebbero prestotrovati in ambienti in muratura e forse puliti !... e con certe comodità mai avute nè sognatetra i boschi di Zeithain!...

Con Praga si poteva facilmente comunicare sia per istrade comuni che per ferrovia!... Dovevano perciò essere felici e sicuri ormai di raggiungere presto la tanto sospirataItalia. « — Tutto questo, andavo ripetendomi, li farà resuscitare! —» E fu così anche seancora quattro di loro, forse per lo strapazzo del lungo viaggio, dovettero soccombere neiprimi giorni successivi al loro arrivo nella capitale Cecoslovacca, alla vigilia, si può bendire, del rimpatrio definitivo, che avvenne ai primi dell’ottobre 1945 con treno ospedale,e dopo due anni di prigionia ! e quale prigionia!!!».

Impossibile dire della festa che ci facemmo allorché ci si incontrò all ospedale di Biz-

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zozzero presso Varese. Durò finché non avvenne la dispersione nei vari sanatori dellamaggior parte di loro, bisognosi ancora di lunghe cure.

Ormai di Zeithain non ci restava che il triste ricordo e il cocente rimpianto degli 850nostri compagni rimasti là ad attendere che noi, come più volte promettemmo loro, si tornia riprenderli o almeno a visitarli in pio pellegrinaggio. Il paziente lettore giudicherà daquanto segue, se noi si esagera allorché affermiamo che il reparto C del campo di Zeithainper il numero delle vittime ingoiate può paragonarsi a un Dacau o a un Mathausen senzaforni crematori o camere a gas.

Ce n’era forse di bisogno ?.

I mortiN.B. Per comprendere quanto segue è necessario tener presente:1) i morti sottonotati sono quelli che ho accostati personalmente per gli ultimi conforti

religiosi dal giorno in cui i medici mi permisero di muovermi. Quindi quei pochi che mo-rirono prima del mio arrivo a Zeithain e durante la mia malattia, furono assistiti da Mons.Ezio Ghidini unico Cappellano del Campo riconosciuto dai Tedeschi. Così pure queglialtri pochi che decedettero in seguito nei reparti A e B ebbero l’assistenza o dello stessoMons. Ghidini o del Rev.mo D Guido Sammartino, sopraggiunto nel campo verso la finedel marzo1944. Perciò qualche numero vuoto nella successione delle tombe.

2) Verso la fine del 43 e sul principio del 44 si credeva imminente la fine del conflittocome ci cantava in tutti i toni la propaganda tedesca, allora unica fonte delle nostre infor-mazioni. Da qui il perchè dei primi morti ho registrato solo i dati anagrafici. Pensavo dipoter facilmente ricordare le altre notizie che i famigliari avrebbero avuto il piacere disentire.

3) Prima che Mons. Ghidini ottenesse di costruire il Cimitero degli Italiani di Zeithain,le salme dei nostri morti, poste completamente nude in un sacco di carta, per mancanzadi casse, venivano portate al Cimitero di Muhlberg/Elbe. Col Cimitero a due passi venneropoi anche le casse. Benché sempre ignudi, i nostri morti vennero sepolti con al collo unametà del loro piastrino di prigionia recante il numero d'immatricolazione di ciascuno.L’altra metà andava al comando Tedesco.

4) Trascrivendo dal mio diario ho creduto opportuno omettere certe notizie di caratteretroppo confidenziale.

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Padre Luca Maria Airoldi

I più validi tra gli ammalati preparavano le fosse

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Guerra, racconto e memoria

Elenco dei cadutiSecondo l’ordine cronologico del decesso1

L’elenco comprende i nomi dei 900 caduti italiani nel Lager di Zeithain provenienti dalle varie regioni italiane, per ognuno deiquali Padre Airoldi riporta completi dati anagrafici, una fotografia e le ultime volonta'. Si riportano, estrapolati dal lunghissimoelenco, i nomi dei militari originari dei Monti Lepini: Francesco Roccatani, Giovanni Gianfelici e Alfonso Miccinilli.

(…) 17–3–1944 alle ore 4.30 carab. MICCINILLI ALFONSO di Tommaso.nato il 10 – 10 – 1923 a Prossedi (Littoria) ivi domic. – n. prig. 232123 IV/B.t.b.c. - tomba n. 45Tanto buono e affezionato ! Le notizie che attendeva, purtroppo giunsero dopo !Rassegnato. A me diede foto.

22- 8-1944 alle ore 22.35 sold. GIANFELICI GIOVANNI di Antonio e di IppolitiAngela.nato il 4-5-1922 a Sonnino (latina) ivi domic. - appart. 331 Rg\ Fant. - n. prig. 1822 IV/F.t.b.c. - tomba n. 372Arrivato il 4-5-44 dall'Arb. K.do di Bitterfeld. Sembrava essersi rimesso col pneuma edurò a lungo. Improvvisamente precipitò! Mi fece chiamare e volle i Sacramenti.Cosciente fino all'ultimo. « Poveri miei cari!. . . » disse spirando.

29 - 5 - 1945 alle ore 5.30 sold. ROCCATANI FRANCESCO di Giuliano.nato il 11-11-1914 a Priverno (Latina) ivi domic, in via Francesco Abbondanza 13 •appart. 151 Rgt. Art. - n. di prig. 100034 Vl/C.t.b.c. - tomba n. 813il 14-8-44 dall'Arb. K.do di Amburgo all'ospedale di Sandbostesl, da dove qui il 20-11-44. Gioviale e abbastanza praticante. S'accendeva ogni volta discorreva!… La famosasera del « si salvi chi può! » 23 apr. anche lui scappò, nonostante i miei schiaffi! Ritornòdieci giorni dopo disfatto, con febbre altissima eafono completamente! Si pentì dell'im-prudenza e mi chiese scusa! Mi raccomandò i suoi due bambini e la moglie Giuliana acui trasmettere due sue foto su cui ultimi baci. Ho spedito a suo tempo.

La grande croce che proteggeva il sonno dei nostri morti

Abbreviazioni: Arb.K.do. = Comando campo di Lavoro – Kr.Rev. = Infermeria – Qui = arrivato qui a Zeithain – App. = Appartenente -Btg. = Battaglione – Regt. = Reggimento – n. prig. = numero di prigionia.

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ConclusioneCari morti di Zeithain! Come vedete vi ho ricordati tutti, e facendolo ho rivissuto

quasi fisicamente quegli indimenticabili, terribili giorni dei nostri ultimi addìi: ho ripro-vato, come allora, la gioia di vedervi partire ben preparati al grande viaggio, il dolore diperdere la vostra compagnia tanto cara, la soddisfazione di aver fatto il possibile per rendermeno penosa la vostra dipartita. Ebbi allora la vostra riconoscenza, oggi ho la vostra pro-tezione. Perciò, nonostante il fluire del tempo, sono ancora con voi, e il vostro esempioluminoso mi è di norma contro tutte le storture che vorrebbero impedire la realizzazionedei vostri ultimi desideri e della mia solenne promessa. Sono ancora e sempre il vostroPadre !

Pianta del cimitero Italiano di Zeithain (1945-46). Comune della Sassonia in Germania

Padre Luca Maria Airoldi

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DA SONNINO AI CAMPI DI PRIGIONIA JUGOSLAVIIL DIARIO DI INNOCENZIO PENNACCHIA1

di Rosina Floris

Domenica 15 ottobre 1944“Un giovincello partigiano ancora imberbe ad un certo punto fa sostare la

colonna, si reca dal russo e denunzia uno di quei serbi nazionalisti per quale ra-gione non capisco. Ci fanno sedere al margine della strada. Chiamano il poveromalcapitato, lo portano sul prato sottostante dall’altra banda della strada, loobbligano a spogliarsi, a levarsi le scarpe, tutto insomma, poi uno di loro, mes-sogli la canna del fucile dietro la nuca alla distanza d’un palmo, lo obbliga adiscendere verso il declivo della collina.Ahi! orribil vista. Un colpo a bruciapelo dietro la nuca e quell’uomo non è più.[...] qui ognuno è giudice ed ha il potere di vita o di morte a seconda del propriocapriccio”.

Momenti come questo, collocabili tutti nell'anno più tragico della Secondaguerra mondiale, il 1944, non sono eventi isolati, eccezioni nella lunga prigioniache Innocenzo Pennacchia racconta nel suo diario, rappresentano la quotidianità,in una guerra, quale fu quella dei Balcani, complessa e brutale che molti storiciconsiderano la pagina "nera" della guerra italiana2, altri "una guerra a parte"3,per anni oggetto di rimozione dalla memoria storica italiana, un momento bellicoda dimenticare per l'efferatezza degli atti compiuti da tutte le parti in guerra,senza esclusione di colpa.

Il diario di Innocenzo Pennacchiasi sviluppa in un arco cronologico cheva dal 28 gennaio 1942, giorno dellachiamata alle armi, al 7 maggio 1945,quando apprende della definitiva capi-tolazione della Germania.

È un diario di sofferenze e distenti, vissuti nella zona centro-orien-tale della Serbia come prigioniero diguerra sia nei lager tedeschi che neicampi di concentramento titini.

E' l'opera di una persona di cultura che ha piena consapevolezza delle conse-guenze che i grandi eventi producono sulla sua vita da prigioniero, per cui la nar-razione spesso procede in modo scarno e rapido, quasi nel tentativo di prenderele distanze da ciò che accade; in altri momenti la drammaticità degli avvenimenti

Rosina Floris è docente di lettere presso l'Istituto comprensivo Leonardo da Vinci di Sonnino; ha svolto attività diricerca nell'ambito della Topografia antica con una tesi di dottorato sugli insediamenti romani nella valle dell'Ama-seno. Ultimamente svolge attività di comprensione e catalogazione delle memorie comunitarie e familiari del ‘900.

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è tale che il coinvolgimento emotivo è pro-fondo, la narrazione si arricchisce di escla-mazioni e di invocazioni disperate, in questimomenti la fede religiosa risulta esserel'unico conforto, il solo appiglio sicuro. Sonoqueste le pagine più intense del diario.

Vicissitudini italiane nel territoriojugoslavo tra la Grande Storia e lamicrostoria.

Nel diario di Pennacchia è evidente comela "Storia" entri spesso nel suo vissuto di pri-gioniero attraverso le fonti più disparate e oc-casionali: le radio scarpa dette anche radiofante oppure il più tradizionale mezzo del-l'epoca ossia l'apparecchio radio "[...] Circo-lano migliaia di radio-scarpa checomunicano le più importanti notizie" (Mar-tedì 29 agosto 1944), quindi si è cercato diorganizzare questa nota storica facendo inmodo che la micro-storia di Pennacchia, lasua esperienza di vita entrasse nella Macro-Storia, che l'aveva generata e la cui eccezio-nalità ne era stata la musa ispiratrice, in unrapporto di integrazione reciproca.

L'occupazione del territorio jugoslavo daparte delle truppe italiane, insieme a quelle

tedesche, iniziò il 6 aprile 1941, dopo che il re Pietro II, rifiutando l'alleanza conHitler, era fuggito in esilio a Londra.

L'occupazione balcanica fu fortemente voluta dal regime fascista dal mo-mento che costituiva l'unico successo concreto della sua politica espansionistica,oltre a rappresentare, nel progetto mussoliniano della costruzione del grande im-pero mediterraneo, una prova delle effettive capacità italiane di affermare il pro-prio dominio su vasti territori conquistati con grande spiegamento di forze4.

Al momento della spartizione del territorio il nostro paese rivendicò l'italianitàdel Montenegro, affermando lo stretto legame dinastico che lo univa all'Italia5.Pennacchia così racconta nel diario:

"[...] verso sera siamo a Njeguši. Entriamo in una bella villetta e la bella cu-stode ci ospita con piacere perché - dice - siamo soldati della regina che nacqueappunto in questa villetta" (Lunedì 13 settembre 1943).

Tuttavia, al di là delle erronee convinzioni di Mussolini, la politica fascistadi italianizzazione forzata dei Balcani non poteva che provocare una crescentereazione da parte delle forze interne. A guerra quasi conclusa Pennacchia narra:

"Verso le nove adunata delle due compagnie di lavoratori serbi, di una com-pagnia di fucilieri e di noi prigionieri. Il comandante di battaglione presenta la

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Rosina Floris

forza al commissario politico il quale, giunto al centro, grida col pugno sullafronte “smrt fašismu” (morte al fascismo) a cui fa eco un coro “sloboda naroda”(libertà del popolo). (Martedì 1 maggio 1945).

Le difficoltà di questa guerra sono da ricondurre al fatto che venne condottacome una guerra imperialistica, coloniale6, nella quale la storia dei militari italianisi intrecciò e si scontrò continuamente con la nascita dei gruppi partigiani e so-prattutto con l'affermazione del movimento comunista giudato da Tito, che malsopportava le ingerenze degli occupanti.

La Resistenza sia in Serbia che nel Montenegro contro le truppe di occupa-zione si articolò in due schieramenti: uno capeggiato dal maresciallo Tito, di ori-gine croata, segretario del Partito Comunista, appoggiato dal Cremlino, chelottava per la liberazione della Jugoslavia; il secondo rappresentato dai Cetnici,un esercito guerrigliero quasi interamente composto da serbi monarchico-nazio-nalisti, guidato dal colonnello Draža Mihajlovic e sostenuto dal sovrano in esilioPietro II; i Cetnici assunsero spesso atteggiamenti ambigui e opportunistici neiconfronti delle forze occupanti, divenendo per questo nemici dichiarati dei par-tigiani di Tito e alleati occasionali dei tedeschi come degli italiani7:

"Ore dodici i cetnici con un automezzo tedesco portano via tutti i tedeschiche hanno disarmato nel campo. [...] Verso le sedici torna lo stesso autocarrocon tre cetnici in cabina e il Lagerführer tedesco il quale con voce ancora auto-revole dice: italiani! Zaino e pronti per Žagubica." (Martedì 29 agosto 1944).

Il sopraggiungere dell'8 settembre 1943, giorno della proclamazione dell'Ar-mistizio, complicò ulteriormente la situazione: le truppe alleate tedesche, stan-ziate in Serbia ma presenti anche nel Montenegro con il pretesto di costituire leforze di appoggio dei soldati italiani8, divennero i loro peggiori avversari:

"I tedeschi si sono impossessati di gran parte dei nostri posti di blocco edautomezzi e sono così quasi padroni del campo. [...] Verso sera bombardamentoe mitragliamento aereo tedesco sulla divisione Taurinense" (16 settembre 1943).

L'incertezza della situazione è evidente nelle parole di Pennacchia:“A sera: sensazionale, tremenda notizia: l’armistizio [...] I nostri comandanti

sono sconcertati e taciturni. [...] Giorni tremendi, senza ideali, senza bandierastaccati dalla patria e da ogni affetto caro” (8,10,15 settembre 1943).

I soldati italiani, nel totale disorientamento, abbandonati dagli ufficiali e brac-cati dai tedeschi presero strade diverse: ci fu chi preferì collaborare con le bandepartigiane9 con i tedeschi, chi invece si arrese, cadendo prigioniero nelle manidegli avversari:

"Disarmo. Questo è il più brutto giorno per un soldato, giorno vituperevole[...] Abbiamo obbedito ciecamente, abbiamo effettuato questo ciclo di marcesempre ai loro ordini docili - secondo quanto ci avevano raccomandato - maquesta era la sorpresa che ci era riservata. Arrivare qui in perfetta disciplinaper gettare le armi e sottomettersi ai tedeschi" (Lunedì 4 ottobre 1943).

I soldati che si arresero vennero condotti nei vari campi di smistamento delpaese, da qui trasferiti nei lager serbi dove vennero utilizzati per il lavoro coatto.

Sin dal momento della cattura agli italiani fu chiesto di collaborare: per al-lettarli i tedeschi offrivano migliori trattamenti, soprattutto nel vitto, oltre a ga-rantire la libertà ed alimentare l'illusione del rimpatrio al fine di frenare ogni

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impulso a reagire; molti soldati italiani, tra cui Pennacchia, fedeli alla Patria,piuttosto che rinnegare i propri ideali, preferirono la prigionia nei campi di con-centramento:

"Tre sono le vie: il concentramento, il volontariato al lavoro, il volontariatoalla guerra. I volontari al lavoro e alla guerra vengono trattati come il soldatotedesco con tutte le spettanze e i diritti più hanno la libertà. Pochi scelgono peril volontariato al lavoro e quello della guerra la quasi totalità sceglie per la pri-gionia. Anch'io con alcuni sinceri amici opto per il campo di concentramento.Quelli che hanno aderito hanno già preso varie mansioni: scritturali, magazzi-nieri, eccetera eccetera, ci passano davanti - consigliati dai tedeschi - con bellepagnotte di pane, burro, marmellata e anche ben vestiti. Noi non si mangia maanzi a mezzogiorno - senza rancio - veniamo inquadrati e condotti al lavoro. Vo-gliono piegare le nostre volontà ricorrendo al vile stratagemma della fame. Manoi si resta fermi nella decisione presa tanto, anche aderendo, sempre dei tradi-tori siamo considerati dal tedesco. Meglio essere prigionieri piuttosto che ade-renti. Il tedesco noterà più coerenza e forza di carattere in noi che negli aderentiche si sono venduti per la pagnotta e per la vita comoda” (Martedì 19 ottobre1943).

Nei lager tedeschi i prigionieri, dopo aver ricevuto un numero identificativo,erano ricoverati in baracche di legno infestate da cimici, vestiti di stracci pienidi pidocchi già al momento della consegna e dotati di zoccoli "antifuga", eranosoggetti ad interminabili adunate sotto la pioggia battente visto le frequenti fughee dunque le numerose conte, oltre alle lunghe file, tra spintoni e calci reciproci,per ricevere un po' d'acqua calda da trangugiare. Inoltre i continui spostamentida un campo all'altro avevano lo scopo di smembrare le truppe italiane, così daimpedire l'organizzazione di ogni forma di sommossa.

La posizione topografica dei lager nazisti rispondeva ad una calcolata logicadi controllo e di fruttamento del territorio tant'è che la maggior parte di essi eraubicata nella zona orientale della Serbia, molto ricca di miniere di rame in cuimolti internati venivano impiegati nei lavori di manovalanza oppure utilizzatinella costruzione di opere infrastrutturali che favorivano la smistamento delle ri-sorse minerarie verso le zone occupate10:

"[...] arriviamo finalmente a Bor città industriale ricca di miniere, ove tantinostri fratelli gettano sangue sino a 900 metri sottoterra" (Giovedì 31 agosto1944).

Durante le continue ed estenuanti marce molti tentarono la fuga favoriti dagliattacchi dei partigiani, però caddero nelle mani di questi ultimi che, inizialmente,gli italiani videro come loro liberatori, ma che in verità, pieni di rancore e memoridelle efferatezze compiute nei loro confronti dagli italiani nei mesi dell'occupa-zione, li sottoposero a continue angherie tanto che alcuni testimoni, dopo il rim-patrio, denunciarono le peggiori condizioni di vita nei campi di Tito rispetto aquelle dei lager tedeschi11.

I campi di prigionia jugoslavi non furono molto diversi dai lager tedeschi perquel che riguarda il trattamento riservato ai prigionieri: percosse, maltrattamenti,fame, lavori pesanti, interminabili adunate, pessimi alloggi e abbigliamento ri-dotto al minimo; i partigiani, non avendo di che rifornirsi, erano soliti spogliare

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i prigionieri di ogni loro avere:" [...] spogliano (i tedeschi) della bella divisa e danno loro in cambio lunghi

camici carichi di pidocchi che obbligano i malcapitati di stare continuamente agrattarsi. Incontriamo partigiani e partigiane armati scalzi che marciano versoNiš e ci guardano con un riso di scherno. Per rivestirli e calzarli ci fermano, citolgono di dosso quanto di meglio ci è rimasto. Mi tolgono la bella giubba che,per essere arrangiata, dicono: ofizirski vero vestito da ufficiale. Ma le scarpevisto che sotto hanno il legno me le restituiscono. In un comando provvisorio,per uno, ci fanno una minuta rivista allo zaino e ci tolgono quasi tutto" (Sabato14 ottobre 1944).

Spesso per umiliare maggiormente i prigionieri, li costringevano a sfilare perle strade delle città serbe davanti alla gente sghignazzante o piena di pietà e inquell'occasione i partigiani, come anche i loro alleati russi, regalavano pugni ecalci con estrema ferocia.

L'unica fortuna per molti soldati italiani fu essere impiegati in mansioni agri-cole presso i civili, da cui ebbero più vitto e migliore alloggio.

Con la fine della guerra e la liberazione della Jugoslavia da parte dei partigianititini il rimpatrio dei soldati italiani rappresentò un'altra odissea12: Tito li trattenneancora, considerandoli un'importante merce di scambio13. I prigionieri rimastivennero inseriti nei cosiddetti "battaglioni lavoratori" (in Serbia ve ne erano circa20) in cui a determinare il rimpatrio era il giudizio politico (antifascista buono,mediocre ecc) espresso dal Comitato Antifascista del campo14. Innocenzo Pen-nacchia farà parte di questo gruppo: era stato inserito nel XX battaglione Ćuprijain Serbia e fece ritorno in patria solo il 29 novembre 1946 insieme ad altri reduciitaliani, al canto di "Bandiera rossa"15 come imposto dai titini con la minaccia didure repressioni nei confronti degli italiani rimasti in Jugoslavia.

Il valore negato a quel "no"Quando ho iniziato a lavorare al diario qualcuno ci tenne a sottolineare che

pubblicando le memorie di Pennacchia si andava contro la sua volontà. Ho con-tinuato a pensare a ciò e a lungo mi sono chiesta perchè non se ne fosse occupato,considerando che non gli mancavano le competenze per farlo e soprattutto te-nendo conto che si trattava di memorie "preziose" alla luce della carenza di operememorialistiche, relative all'area jugoslava, lamentata da molti studiosi fino aqualche anno fa.

In realtà solo approfondendo la conoscenza della sorte toccata agli internatimilitari italiani una volta rimpatriati, ho compreso il motivo della sua scelta e amaggior ragione ritengo che oggi sia questa un'ottima e imperdibile occasioneper restituire ai patimenti da lui vissuti quel valore che è stato negato loro peranni.

Il 19 ottobre 1943 Pennacchia, messo davanti ad un bivio dai suoi carcerieritedeschi, nella più assoluta consapevolezza degli effetti derivanti dalla sua deci-sione, insieme ad altri amici, scelse la via più ardua, ma anche la più dignitosa,quella della prigionia, che venne vissuta non come un momento di frattura delladisavventura bellica ma come la sua unica prosecuzione.

Nonostante le sofferenze fisiche e i traumi psicologici subiti, quel "no" lo

Rosina Floris

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fece sentire un Uomo, capace di tenerefede ai propri ideali patriottici e di instau-rare profondi rapporti di amicizia e di so-lidarietà non solo con i suoi compagni masoprattutto con la popolazione civile jugo-slava contro ogni logica bellica. Fu questoil suo modo audace e coraggioso di op-porsi ai nemici e a quello che essi rappre-sentavano; fu un atto di Resistenzadisarmata, compiuta in terra straniera e per

questo ancora più valorosa; fu "l'altra Resistenza", come l'ha definita AlessandroNatta16, che contribuì a gettare le basi della futura Italia libera e democratica e acui, però, non venne dato il giusto riconoscimento dalla Patria.

Quel "no" segnò profondamente sia la sua vita di prigioniero ma anche la suaesistenza futura: venne considerato badogliano dai tedeschi, traditore dai fascisti,anticomunista dai partigiani di Tito; una volta tornato in Italia, fu costretto al si-lenzio da una Patria che, nella fase di ricostruzione postbellica, voleva rimuoverelo"shock del reticolato" che, invece, tutti gli internati, anche solo con la loro pre-senza fisica, ricordavano.

Una volta rimpatriato, assumendo un proprio ruolo sociale all'interno dellacomunità sonninese, cercò di ricostruirsi quell'identità che gli era stata annullatail 25 ottobre 1943 nel lager Westfalen, quando il suo nome era stato sostituito daun numero identificativo inciso su una piastrina metallica.

Le sue memorie costrette nei recessi della sua anima, ma mai dimenticate,riemersero pubblicamente e solo in parte nel 1993 con l'edizione di "Fiori amari",una raccolta di poesie scritte durante la prigionia; forse solo qualche compaesanoo familiare fu messo a parte di alcuni suoi ricordi, ma l'esperienza militare, nellasua totalità e complessità, rimase segregata nella sua scrivania dove, solo dopola sua morte, per caso la scoprì il figlio Tommaso.

E' giunto ora il momento di ridare il dovuto valore a quel "no".

Il diario di Pennacchia:la documentazione conservata e la struttura del diarioSulla prigionia di Pennacchia è stato possibile raccogliere, oltre al diario, una

ricca documentazione fotografica, scritta e materiale: si conservano circa 53 fotorelative al periodo del suo addestramento a Bari e nel Montenegro fino all'8 set-tembre 1943; una copia del suo foglio matricolare da cui è stato possibile desu-mere molte notizie assenti nel diario, che hanno permesso di restituire la storiadella sua prigionia in modo quasi completo; la piastrina di metallo che vennedata ad Innocenzo nel campo Westfalen, il primo campo tedesco in cui vennefatto prigioniero con il numero identificativo "O.T. 02365"; oltre ad alcune lettereinviate dal fronte jugoslavo che hanno consentito di ricostruire le sue vicende divita a guerra conclusa.

Il diario si compone di 125 pagine manoscritte in ottimo stato di conserva-zione, è scritto su un vecchio registro contabile, di forma rettangolare (misuracm. 13x25), con copertina rigida di cartone marrone scuro, di cui è stata tagliata

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la parte superiore dove molto probabilmente era l'intestazione; anche l'interno èben conservato: le pagine ingiallite sono integre e non presentano cancellaturedi alcun tipo; la grafia è ordinata e facilmente leggibile.

Esso è articolato secondo un ordine cronologico in quattro parti:1) dalla chiamata alle armi, il 28 gennaio 1942, al giorno dell'imbarco a Bari, il21 giugno 1942. Questa parte è composta soltanto da due pagine manoscritte acui fanno seguito 106 pagine bianche;2) dall'armistizio, l’8 settembre 1943, al 25 ottobre 1943 relativa alla prigioniapresso tre lager tedeschi;3) dal 28 agosto 1944, con l'occupazione del lager Izvarica da parte dei cetnici,fino al venerdì 10 novembre 1944, con la prigionia presso i partigiani di Tito e irussi. Si tratta del momento più duro e pieno di sofferenze;4) dal 25 gennaio 1945 fino al 7 maggio 1945, quando viene a sapere della scon-fitta definitiva della Germania. E' questo il periodo di lavoro presso i civili serbi,durante il quale strinse rapporti di amicizia con la popolazione locale.

Nel diario vi è un vuoto cronologico di circa 14 mesi relativo al periodo cheva dal 21 giugno 1942 all'8 settembre 1943, in parte colmato dalla documenta-zione fotografica e dalle informazioni desunte dal foglio matricolare. Vi è poi unvuoto cronologico, non altrimenti colmabile, di 9 mesi, dal 25 ottobre 1943 al28 agosto 1944, relativo al periodo di prigionia nei lager tedeschi.

I luoghi della prigioniaLa scansione cronologica del diario e la precisione con cui vengono elencati

i numerosi luoghi attraversati e di soggiorno permettono di ricostruire l'itinerariodegli spostamenti effettuati nei vari lager:• Il 28 gennaio 1942 Pennacchia venne chiamato alle armi e partì dalla stazioneferroviaria di Littoria (Latina) per raggiungere Bari dove fu arruolato nel 48°Reggimento di Fanteria “Ferrara”, nel XIV corpo d'armata.• Dopo circa cinque mesi di addestramento si imbarcò per il Montenegro, il 21giugno 1942, per sbarcare, il giorno successivo, presso le Bocche di Cattaro, nelMontenegro (1).• Il 24 giugno 1942 con il suo reggimento fu di stanza a Nikšić dove vi era il co-mando generale delle truppe italiane (2). In seguito la divisione Ferrara si stabilìa Cettigne17 (3).• L'8 settembre 1943 con l'armistizio il suo reggimento si arrese ai tedeschi, Pen-nacchia venne condotto ad Uroševac, in Serbia, in un campo di smistamento dovevi erano anche altri italiani (4) e da qui spedito verso Belgrado in treno.• Il 18 ottobre 1943 giunse nel campo di concentramento gestito dall'Organizza-zione Todt18 nei pressi di Zemun, un sobborgo di Belgrado (5). Qui Pennacchiascelse la via della prigionia.• Il 25 ottobre 1943 arrivò nei pressi della città di Bor, nel campo Westfalen dovevenne registrato, gli fu consegnata la piastrina metallica con il numero identifi-cativo e fu usato come forza lavoro dall'Organizzazione Todt (6).• Nel 1944 rimase a lungo nel campo di Izvarica, presso Žagubica, nella zonacentro-orientale della Serbia (7); questo lager, il 28 agosto 1944, venne occupato,per brevissimo tempo, dai Cetnici che poi lo rimisero nelle mani dei tedeschi.

Rosina Floris

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Da qui Pennacchia fu poi trasferito nel lager Dresden presso Zaječar (8).• Il 14 ottobre 1944, dopo la fuga dalle file tedesche, cadde nelle mani dei parti-giani di Tito e dei loro collaboratori russi vicino alla città di Niš (9). Qui visse imomenti più tragici della sua prigionia, subendo frequenti maltrattamenti soprat-tutto da parte dei russi, memori dell'alleanza degli italiani con i tedeschi. Nelcampo di concentramento rimase poco perché i titini preferivano impiegare i pri-gionieri presso i civili, piuttosto che sfamarli gratuitamente.• Sotto il controllo partigiano soggiornò ad Aleksinac (10), sistemato in alloggidi fortuna: presso le aule di un ginnasio o in una vecchia caserma russa oppurenel centro abitato della città in un vecchio caffè, stringendo amicizia con la gentelocale: con Slobodan, un bambino serbo e Vladimir che faceva parte delle schierepartigiane ed era innamorato dell'Italia.• Il 31 marzo 1945 venne assegnato ad un civile serbo, Ilja Ristic, presso il qualelavorò come bracciante agricolo a Matevac, ma il lavoro agricolo non si confa-ceva alle attitudini di Pennacchia che il 3 aprile 1945 venne riassegnato al co-mando per lavori di disfacimento di un torrione e per lo sminamento del campodi aviazione di Niš.• Il 7 maggio 1945 apprese della capitolazione della Germania, ma nulla sapevaancora della sua liberazione.• L'11 agosto 1946 inviò una lettera alla famiglia dal XX battaglione Ćuprijanella Serbia centro-orientale (11).• Il 29 novembre 1946 fece ritorno in patria presso il porto di Ancona.

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BiografiaInnocenzo Pennacchia nacque a Sonnino (LT) il 2 aprile 1919, da Francesco Pennacchia e Maria Musilli,una famiglia di origine contadina, che sacrificò i propri averi per pagargli gli studi presso il collegio deiMissionari del preziosissimo sangue ad Albano nel 1938, dove iniziò a studiare per prendere gli ordini sa-cerdotali. Successivamente si trasferì nel collegio di Alatri e poi di Veroli, dove per mantenersi agli studisvolse il ruolo di prefetto, aiutando gli alunni nelle attività scolastiche. Il 28 gennaio 1942 venne chiamatoalle armi, all'età di 23 anni, dopo aver effettuato due rinvii militari per motivi di studio19; venne arruolatoforse nella compagnia del genio pontieri20 e a giugno dello stesso anno partì per il Montenegro, dove rimasefino al giorno dell'armistizio. Conseguì il diploma magistrale mentre era di leva nel Montenegro, in seguitoad un periodo di licenza, dal 13 gennaio 1943 al 5 aprile 194321. Dopo l'8 settembre 1943 si arrese ai tedeschicon tutto il suo reggimento e da qui ebbe inizio la sua odissea come prigioniero. Dopo il rimpatrio nel 1946,divenne docente presso la scuola primaria di Sonnino. Nel 1947 si sposò con Italia Sacchetti da cui ebbe,l'11 giugno 1954, il figlio Tommaso Pennacchia. Fu incaricato della direzione del Centro di lettura di Son-nino dal provveditorato agli studi dal 1954 fino agli anni '70, quando si ritirò a vita privata. Nel 1962 in oc-casione della venuta a Sonnino della Radio-Squadra scrisse un'opera dialettale dal titolo "Alla fontana".Pubblicò nel 1993 una raccolta di poesie scritte durante gli anni di prigionia in Jugoslavia dal titolo "Fioriamari", per la quale ottenne un premio letterario. La sua ultima opera fu la raccolta di poesie "Sonnino aprimavera", pubblicata nel 2003. Morì il 28 agosto 2008.

Note1 Un sentito ringraziamento va a Tommaso Pennacchia, figlio di Innocenzo, che ha messo a disposizione tutto ilmateriale documentario e fotografico che il padre aveva gelosamente conservato; sono grata alla maestra BenedettaFiorillo che ha reso possibile la scoperta di questo diario; inoltre la mia gratitudine va ad Enrico Dei Giudici chesi è occupato della trascrizione integrale del diario. Infine ringrazio il prof. Donato Maraffino per i preziosi sugge-rimenti;2 ROCHAT G., Le guerre italiane 1935-1943. Dall'impero d'Etiopia alla disfatta, Einaudi, Trento 2008, p. 360.3 AGA ROSSI E.– GIUSTI M.T., Una guerra a parte. I militari italiani nei Balcani (1940-1945), il Mulino, Bologna2011, p. 9;4 Su 65 divisioni disponibili in Italia nel 1941, la metà fu destinata ai Balcani, più di quante ne restarono in patrianel 1943 per fronteggiare gli anglo-americani e i tedeschi. ROCHAT G., op. cit., pp. 363, 364 tabella 45;5 La regina Elena del Montenegro, figlia dell'ultimo sovrano del Montenegro, Nicola Petrović-Njegoš, aveva sposatoil re Vittorio Emanuele III. AGA ROSSI E. – GIUSTI M.T., op. cit., p. 41;6 RODOGNO D., Il nuovo ordine mediterraneo. Le politiche di occupazione dell'Italia fascista (1940-1943), BollatiBoringhieri, Torino 2003, pp. 88 sgg;7 DI SANTE C., Nei campi di Tito. Soldati, deportati e prigionieri di guerra italiani in Jugoslavia (1941-1952),Ombre corte, Verona 2007, p. 37;8 I tedeschi già prima dell'8 settembre 1943 sospettavano un tradimento da parte italiana, infatti avevano occupatoalcune zone del Montenegro, quali Podgorica, oltre ad aumentare il numero delle divisioni da otto a diciotto invista di eventuali sbarchi angloamericani. AGA ROSSI E.– GIUSTI M.T., op. cit., pp. 89, 94 e 172;9 Nota è la costituzione alla fine del 1943 della divisione italiana partigiana Garibaldi, nata dalla fusione della di-visione Venezia e Taurinense, che combattè per diciotto mesi nei Balcani al fianco dei partigiani titini. Sui rapportitra la divisione Garibaldi e le forze partigiane si veda EAEDEM, pp. 190-195;10 Sull'ubicazione di questi campi si veda DI SANTE C., op. cit., pp. 54-55, 231 nota 2;11 IDEM, pp. 59-61, il quale sottolinea che molte testimonianze furono soggette al vaglio dell'ufficio dello StatoMaggiore dell'Esercito e classificate in base alla loro attendibilità, risultarono comunque preziose per dimostraregli abusi commessi dai partigiani e contrapporle alle accuse di crimini di guerra rivolte contro gli italiani;12 Si stima che nel 1947 in Jugoslavia vi fossero ancora circa 16.000 reduci da rimpatriare. IDEM, pp. 84-87;13 Voleva ottenere in cambio: la consegna dei responsabili dei crimini di guerra commessi in Jugoslavia; il rimpatriodei reduci jugoslavi presenti nei campi di prigionia italiani e poi concludere l'annosa "questione di Trieste". IDEM,pp.140-143;14 BALLARINI A. - SOBOLEVSKI M. (a cura di) Le vittime di nazionalità italiana a Fiume e dintorni (1939-1947) in Pubblicazioni degli Archivi di Stato, Sussidi 12, 2002, pp. 209-210;15 Così titolava il giornale L'Unità n. 281, 29 novembre 1946 "Al canto di "Bandiera rossa". Festoso arrivo dei3.000 dalla Jugoslavia”. AGA ROSSI E.– GIUSTI M.T., op. cit, p. 598 nota 74;16 A. NATTA, L'altra Resistenza. I militari italiani in Germania, Torino, Einaudi 1996;17 DI SANTE C., op. cit., p. 223 nota 4;18 Una grande impresa che si occupò, nella Germania nazista e nei paesi occupati dalla Wehrmacht, della costruzionedi opere infrastrutturali (ponti, strade ecc.) e difensive come la Linea Gustav e la Linea Gotica, utilizzando anchei prigionieri di guerra nel lavoro coatto. http://www. it.m.wikipedia.org/wiki/Organizzazione_Todt;19 Notizie tratte dal foglio matricolare;20 Notizia avuta dal figlio di Pennacchia e documentata da alcune fotografie;21 Dal foglio matricolare.

Rosina Floris

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IL DIARIO DI INNOCENZO PENNACCHIA22

Dalla chiamata alle armi 28-1-42 al giorno dell’imbarco 21-6-42

Mercoledì 28 gennaio 1942 Mi presento al Distretto Militare di Littoria. Nella mat-tinata equipaggiamento e consumazione del rancio. Nel pomeriggio nominato capo drap-pello, mi reco con una decina di compagni alla stazione per attendere il treno che giungesolo a tarda sera. Appoggiato al finestrino, guardo la luna che gioca tra gli alberi rincor-rentisi in una pazza fuga.

Un acuto fischio fende l'aria e rompe la quiete della notte richiamando la mia atten-zione. Siamo alla stazione di Priverno Fossanova. Ma il treno non ferma e fugge rapido.Il mio occhio si posa sui cari monti illuminati dalla chiara luna, con il pensiero corro alpaesello nascosto tra di essi e alle persone care, un nodo mi stringe la gola, ingoio una la-crima e mi abbandono sul sedile. Un secondo sibilo più prolungato echeggia e poi buiocompleto. Il treno ha già imboccato la lunga galleria di Montorso.

Non riesco a chiudere occhio perché la mente è assorta in vari pensieri. Solo a Napoli,dopo aver cambiato treno, prendo sonno.

Giovedì 29 gennaio 1942 Mi sveglio nelle vicinanze di Bari. Giunto alla stazione diBari, in fila con i compagni, vengo condotto al deposito del “48º Regg.to Fanteria “Fer-rara”.

Dall'8 settembre 1943 data dell'Armistizio al 25 ottobre 1943 data della tremenda pri-gionia tedesca.

Mercoledì 8 settembre 1943 Pomeriggio: una compagnia di artisti Italiani ci dà ilpiacere di risentire canzoni e musiche nazionali. A sera: sensazionale, tremenda notizia:l’armistizio.

Giovedì 9 settembre 1943 Commenti sul terribile evento. Sconforto e delusione sulvolto di tutti. A sera mi viene ordinato di recarmi, armato ed equipaggiato, al carcere mi-litare di guardia con il carissimo Sergio.

Venerdì 10 settembre 1943 Giunge a Budua23 l comando di un battaglione CC.NN.che provvede per il cambio alle carceri e verso le 13 smonto. A sera una banda di ribelliviene segnalata a qualche km dal posto di blocco di Budua. I nostri comandanti sono scon-certati e taciturni. Questi momenti di inattività pesano e sono più tremendi delle ore difuoco infernale di una azione di guerra. Tristi previsioni. Agitazione continua, sconforto,caos24.

Domenica 12 settembre 1943 Partenza da Budua. Faticosissima salita verso Marti-nović. Non resisto al peso dello zaino e dò gran parte degli oggetti di corredo ad alcunimontenegrini di passaggio per alleggerire lo zaino. Il buon Cireneo Sergio il carissimoamico si carica del mio zaino. Sul castello di Martinović comunisti che cantano. Qualcunoci saluta portando il pugno vicino alla fronte.

Sosta per il rancio. Riprendiamo il cammino e verso sera siamo a Cettigne. Rizziamole tende al chiar di luna.

22La trascrizione integrale del diario si deve a Enrico Dei Giudici. Di seguito si riporta il diario nella sua totalità in-serendo in nota i giorni poco significativi.23 Sulla costa meridionale del Montenegro.24 Sabato 11 settembre 1943: Montenegrini liberati, brucia una polveriera.

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Lunedì 13 settembre 1943 Partendo da Cettigne rivedo il caro Mario De Monte eRicci insieme al quale ultimo faccio il viaggio in automezzo. In autocarro conosco unpaesano: De Petris. A Cekanje si riprende la via a piedi. Sono visibili ancora copiosissimemacchie di sangue sulla scala esterna d’una casina al margine della strada e tra grossi ciot-toli della via e sull’erba vicina a un cespuglio. Qualche giorno prima uno spezzone mici-diale lanciato da una cicogna tedesca ha fatto varie vittime tra i nostri soldati presidiantiquell’altura. A Bukovika, sede del comando tattico del 48° Ftr, sosta per il rancio, Si ri-prende quindi il cammino e verso sera siamo a Njeguši. Entriamo in una bella villetta ela bella custode ci ospita con piacere perché - dice - siamo soldati della regina25 che nacqueappunto in questa villetta.

Martedì 14 settembre 1943 Dalle ore due dopo mezzanotte alle cinque e mezza delmattino sono di guardia. Durante l'ultima mezz'oretta, aerei tedeschi passano a bassa quotadirigendosi verso le creste dei monti circostanti la cittadina di Cattaro ed effettuano unforte bombardamento durato circa tre quarti d’ora. Presidiano Cattaro dalle alture di quellazona, i soldati della divisione “Emilia” che rispondono all’attacco. Nuovo breve sposta-mento e sistemazione in un piazzale adiacente la costruzione d’un acquedotto e tra leombre d’un boschetto.

Mercoledì 15 settembre 1943 Caos completo. Nostri automezzi in mano ai tedeschiscorazzano continuamente per tutto il giorno sempre carichi di materiali. Giorni tremendi,senza ideali, senza bandiera staccati dalla patria e da ogni affetto caro. A sera aerei tedeschibombardano nuovamente Cattaro e le posizioni dell’”Emilia”.

Giovedì 16 settembre 1943 I tedeschi si sono impossessati di gran parte dei nostriposti di blocco ed automezzi e sono così quasi padroni del campo. Si dice che il Coman-dante il Gruppo Armate Est S.E. Gen. Rosi26 e S.E. Gen. Roncaglia27Comandante il XIVC.A. siano stati portati in Germania. Verso sera bombardamento e mitragliamento aereotedesco sulla divisione Taurinense e su alcune formazioni di ribelli.

Venerdì 17 settembre 1943 Nella mattinata lunga colonna di mezzi corazzati tedeschiscende verso Cattaro. Pomeriggio: partenza alla volta di Cettigne28.

Domenica 19 settembre 1943 Viaggio nuovamente in automezzo fino a Podgorica.Attendamento sulla sponda sinistra del fiume nei pressi del posto di blocco.

Lunedì 20 settembre 1943Pomeriggio partenza. Una donna montenegrina ci saluta e ci augura un buon viaggio

e un felice ritorno in Patria tra le braccia della mamma. Anche lei attende il ritorno di unfiglio deportato in Italia. In automezzo rivedo il lago di Scutari e la natura ribelle che locontorna. A sera siamo a Scutari ove si vedono vari minareti e templi di musulmani.

Martedì 21 settembre 1943Mercoledì 22 settembre 1943 In una grossa caserma di Scutari. Il cappellano distri-

buisce alcuni moduli per messaggi e scrivo tramite la Croce Rossa per dar notizia ai carilontani.

25 Si veda nota n. 5.26 Generale Ezio Rosi comandante del "Gruppo Armate Est, con sede a Tirana. DI SANTE C., op. cit., pp. 30-31.27 Generale Ercole Roncaglia comandante del XIV corpo d'armata. IDEM.28 Sabato 18 settembre 1943: ripresa della marcia e sosta a Ricka.

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Giovedì 23 settembre 1943 Da oggi inizia una serie di marce per raggiungere la fer-rovia. Tredici tappe in tutto. La prima tappa, la odierna la facciamo a Vandes sul letto d'unfiume. Faccio il bagno e lavo alcuni capi di biancheria. Fin qui anche l'Albania presentaun rilievo quasi uguale a quello montenegrino29.

Lunedì 4 ottobre 1943 Marcia e sosta a Prizren. Lavori per le tende... Disarmo.Questo è il più brutto giorno per un soldato, giorno vituperevole, ma più che per il

soldato per i comandanti. Abbiamo obbedito ciecamente, abbiamo effettuato questo ciclodi marce sempre ai loro ordini docili - secondo quanto ci avevano raccomandato - maquesta era la sorpresa che ci era riservata. Arrivare qui in perfetta disciplina per gettare learmi e sottomettersi ai tedeschi. A notte mentre sono di guardia piove.30

Venerdì 8 ottobre 1943 Santa messa celebrata in un'aula scolastica, pomeriggio par-tenza. A sera tarda si giunge a Uroševac ove c'è un grosso campo di smistamento e dovetroviamo tanti altri italiani di tutti i vari corpi. Cielo pesantemente nero simile a una cappadi piombo. Lampeggia sinistramente. E’ freddo. Era questa una grande caserma nostraporta il nome di “Duca d’Aosta”. Si rizzano le tende all’oscuro.31

Martedì 12 ottobre 1943 Piccone badile per tutto il giorno. Un lavoro faticoso esenza tregua. Si accomoda allargandola e livellandola una strada interna all'accampamentoe si fanno delle buche per i fusti di benzina.

Razione ridotta: due gallette in tre. Parte il secondo Battaglione del mio 48° e la se-conda e terza compagnia del 1°/48.32

Sabato 16 ottobre 1943 Da quando mi sono svegliato mi sono messo al finestrino.Località incontrate: Kosovska Mitrovica - Zvečan - Žitkovac - Slatina - Leposavić - Paska- Bojana - Mataruška Banja. Si sosta a notte.

Domenica 17 ottobre 1943 Ancora a Mataruška. Messa all'aperto alla quale parteci-pano anche borghesi nostri connazionali scesi anch'essi dal convoglio.

Pomeriggio ripresa del viaggio. Stazioni КРАЉВО (Kraljevo): grande centro ferro-viario e importante cittadina. Popolazione cordiale. Costumi molto fini non dissimili dainostri. Si passa una grande galleria. Sopravviene la notte.

La luna rossastra si erge dai monti - nostalgia, ricordi lontani. Dalle luci che risplen-dono per un'ampia distesa e da alcuni palazzi e monumenti visibili dal treno, penso sitratti di un altro grande centro.

Lunedì 18 ottobre 1943 Altre località: Kruscojevac - Mala - Ivanca . Lipe. Dedinja- Jorkder - Zemun

In questa località si scende. Gli ufficiali no: si vocifera che proseguano diretti per laGermania. Inquadrati e scortati da elementi della Organizzazione Todt arriviamo a ungrosso campo di concentramento circondato da alte torrette di vedetta. Il campo sorgeproprio su una sponda del Danubio. Dirimpetto Belgrado la capitale.

Tenda sulla sabbia. A notte alta vento impetuoso che innalza la sabbia, allarme not-turno. Alle dipendenze dei soldati tedeschi non ci si poteva lamentare. Alle dipendenzedella Todt la passeremo scomoda. Non sono soldati provati al fronte e a tutte le fatiche e

Innocenzo Pennacchia

29 24 settembre-3 ottobre: Marce e soste in aperta campagna in Kossovo.30 5-7 ottobre: arrivo a Suareka e a Sktemje.31 9-10-11 ottobre: maltempo.32 13-14-15 ottobre: riposo per malattia.

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i disagi della guerra e ciò basta. Non sono comprensivi come i soldati e poi basti dire chequesti sono un'accozzaglia di tutte le nazionalità cechi, ungheresi, romeni, magiari e slavi.

Martedì 19 ottobre 1943 Smistamento. Il comandante del campo parla e poi invitaun soldato austriaco a spiegare in italiano. Il soldato spallocca grossolanamente e ci facapire quello che i tedeschi vogliono. Tre sono le vie: il concentramento, il volontariatoal lavoro, il volontariato alla guerra. I volontari al lavoro e alla guerra vengono trattaticome il soldato tedesco con tutte le spettanze e i diritti più hanno la libertà. Pochi scelgonoper il volontariato al lavoro e quello della guerra la quasi totalità sceglie per la prigionia.Anch'io con alcuni sinceri amici opto per il campo di concentramento. Quelli che hannoaderito hanno già preso varie mansioni: scritturali, magazzinieri, eccetera eccetera, ci pas-sano davanti - consigliati dai tedeschi - con belle pagnotte di pane, burro, marmellata eanche ben vestiti. Noi non si mangia ma anzi a mezzogiorno -senza rancio- veniamo in-quadrati e condotti al lavoro. Vogliono piegare le nostre volontà ricorrendo al vile strata-gemma della fame. Ma noi si resta fermi nella decisione presa tanto, anche aderendo,sempre dei traditori siamo considerati dal tedesco. Meglio essere prigionieri piuttosto cheaderenti. Il tedesco noterà più coerenza e forza di carattere in noi che negli aderenti chesi sono venduti per la pagnotta e per la vita comoda. Dal predellino di un tram fermo, unastudentessa con altre amiche formanti un gruppo delizioso, con una minuscola fisarmo-nichetta a bocca suona: “Vieni con me o bella bimba bruna”. Quella musica nostra in terrastraniera, quella bocca di fanciulla sorridente, solleva alquanto il mio spirito e mi portaun po' di profumo della terra lontana e un lembo del nostro cielo azzurro. Grazie bam-bina.

Stazione ferroviaria di Belgrado - grosso e pesante badile. Addetti allo scarico di carridi carbone. A sera sono nero con un tizzo e ho la gola ingombra di nera polvere. Calli -cinque mezza fine-Rancio: acqua fredda con qualche acino d'orzo un pane in cinque unpo' di marmellata e un po' di grasso.

Mercoledì 20 ottobre 1943 Di nuovo alla stazione solito lavoro per tutto il giorno.Ore 16 al campo.

Rancio: solita acqua. Adunata: appello. In baracca. Di nuovo appello. Non ti lascianoun momento in pace dopo il lavoro snervante della giornata. Perdo la pazienza e quasi lafede. Impreco e bestemmio33.

Venerdì 22 ottobre 1943 Mattinata lavoro. Adunata. Ordine di partenza. Per qualedestinazione? Saluti, abbracci, distacchi da tanti cari amici. In treno. Ho l'impressione ditornare indietro. Località: Ripanj - Klenje - Ripanj Tunel - Ralja - Durinci - Glibovac -Jagenjlj. Velika Plana - Markovac - Lapovo Varoš - Lapovo- Notte. Sosta. Si riparte versol’una di notte. Prendo sonno34.

Domenica 24 ottobre 1943 Verso le nove partenza. Si attraversa una bella zona col-linosa coltivata a vigneti e frutta. Nobiltà d'animo della popolazione: ci gettano grappolid'uva ai finestrini e ci salutano sventolando il fazzoletto. Località: Granaia Pegoste - AudreJevac. Anche in queste ultime località popolazione affabilissima. Ci aspettano alla stazionecon ceste piene di mele, uva e pane fettato. Anche un prete è venuto con molta gente aduna di queste stazioni portando ogni ben di Dio. Buonissima impressione. Ne serberòsempre un caro ricordo. Altre località: Mali Zrvor - Grlian. Poi una grande stazione Za-

33 21 ottobre 1943: trasporto di pietre e adunata.34 23 ottobre 1943: Fermi alla stazione ferroviaria.

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ječar. Si scende per il cambio -treno merci- più di 40 in un carro chiuso. Scendono leprime ombre della sera. Piccolo raggio di luce attraversa i ferri del finestrino. Mi rizzocoi piedi sullo zaino per giungere al finestrino e osservo. Un treno viaggiatori entra instazione e ferma. Tra i tanti viaggiatori scende una fanciulla diciassettenne e spingendol'occhio verso il finestrino incontra il mio sguardo, tra lo schermo dei ferri. Afferra il brac-cio d'un ferroviere che regge una lanterna e lo solleva per vedere meglio. Dice qualcheparola che non capisco. Ci guardiamo e sorridiamo entrambi. Il suo occhio, pieno di sognoe di promessa, riluce d’un dolce e pio bagliore.

Le domando -tra il serbo e l’italiano- se la sua è una sfacciata curiosità o pietà per chisoffre. “Pietà” risponde. “Io capire poco italiano” soggiunge “io studente. Venire in Italiafinito guerra”. Un borghese che non ha afferrato il senso del nostro discorso domanda: “tiItaljanko?” Io rispondo affermativamente. Al che quegli estratto un pacchetto di sigarette,me ne porge una dicendo “oti puši” (tieni fuma).

Mentre ringraziando accendo, la voce rabbiosa di una guardia ordina ai civili di al-lontanarsi e arrivato sotto al carro al mio indirizzo dice tante cose che non capisco poi colcalcio del fucile batte contro il carro dicendo “sacramenti”. Italien fanfluch. La fanciullacon una mossettina sbarazzina della testolina ricciuta si volta a riguardare, saluta collamano e si perde nell’ombra. Mi siedo sullo zaino. Russano i compagni di sventura. Qual-cuno impreca al crudo tedesco che inumano non permette un po' di libertà per i bisognipiù urgenti dell’organismo. Fetore. Poi silenzio fondo. Tento di stendermi, ma è impossi-bile. Resto col dorso poggiato alla parete del carro e i piedi li distendo pian piano tra latesta di uno e le spalle d’un altro. Dal finestrino vedo una stella fulgida tremolare.

Penso alla realtà cui vado incontro, muore ogni illusione vagheggiata, la sigaretta sispegne e una profonda nostalgia mi pervade tutto. Penso al babbo, alla mamma, alla fan-ciulla amata, un nodo mi sale alla gola pensando alla triste via della prigionia. Triste oscuroviaggio.

Arrivo a Bor. Lunga fila per il bagno e la disinfezione delle robe. Verso la mattina fi-nalmente un po' di riposo.

Lunedì 25 ottobre1943 Pomeriggio partenza in automezzo. Viaggio tra montagneboscose e paurose.

Nel tragitto si incontrano altri sventurati connazionali già rinchiusi in vari campi diconcentramento. Tendono le mani verso di noi, domandano da quale fronte veniamo, diquale divisione siamo anche noi domandiamo, ma le domande si incrociano senza risposta.La colonna degli automezzi fugge.

Finalmente dopo tanto salire si arriva. Grossi reticolati fiancheggiano la strada e sidistendono a perdita d’occhio.

“Lager Westfalen” c'è scritto su un cancello centrale. Scendiamo ed entriamo in quelrecinto. Il sangue si gela, un brivido serpeggia per tutta la vita. Addio libertà… Una squa-dra di brutti ceffi armati si avanza ai nostri lati tutti portanti al braccio una fascia con lacroce uncinata e la scritta "Organizatio Todt”.

Appare il Lagerführer (comandante di campo) ci mettono in fila per quattro e rico-mincia la conta. Poi uno per uno si passa in una baracchetta che costituisce l'ufficio, adare le proprie generalità. Vieni il mio turno. Entro. C’è dentro un ingegnere allampanatocon gli occhiali, rozzo, e al tavolo lo scritturale lo riconosco, è un caro compagno dellaCC di reggimento è Cammillo Vittorio Studente. Ci salutiamo riponendo a poi le confi-denze. Mi viene dato un piastrino di ferro, con l'incisione O.T. n. 02365. È questo il mionome nuovo, sono stato ribattezzato. Questo piastrino porta la stessa scritta ripetuta duevolte e la ragione é questa: Il piastrino deve venir spezzato: Il primo prezzo va cucito suinostri indumenti e l’altro va inchiodato al posto ove si dorme. Entro in baracca e mi si-stemo vicino a Sergio, Baracchetti, Ricci. Conoscenza con altri del 48º Serg. Magg. Car-

Innocenzo Pennacchia

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damone Sante. Niente ufficiali, solo graduati e sottufficiali sono con noi. Un maresciallodei Carabinieri, uno della Marina, il maresciallo con tutta la banda reggimentale del 48º.I sottufficiali non dovrebbero lavorare. Alcuni si sono attaccati al braccio i gradi da ser-gente per poter rientrare nel numero dei beneficiati. Il campo sorge su una collinetta chenella parte più alta ha una baracchetta coperta con una buca profonda delle dimensionidella larghezza e lunghezza della baracca sulla cui buca il pavimento con 4 scompartimentiporta vari fori e funziona da gabinetto. Scendendo più in giù due grosse baracche con piùdi 500 posti l’una per dormire. Viene poi la baracca adibita ad ufficio, quella del coman-dante e delle guardie e più in sotto un’altra adibita a cucina con gli sportelli per la distri-buzione.

L'acqua è a un paio di 100 metri fuori dal reticolato, giù in basso in un piccolo fossatotra la nostra collinetta e la montagna adiacente: un solo piccolo rubinetto.

Vengono formati due gruppi di lavoratori alle dipendenze di due ditte.Io invece provvisoriamente vengo assegnato nel numero dei 150 uomini disponibili

per il Lager e il compito è quello di pulire, portare legna in cucina, spaccar legna troncarei grossi alberi del bosco per fornire continuamente nuova legna. A notte stanco riposo esogno.

Dal 28 agosto 1944 - occupazione del Lager Izvarica da parte dei Cetnici a ve-nerdì 10 novembre 1944

Lunedì 28 agosto 1944 Circa mezza giornata di lavoro. Pomeriggio elementi del par-tito Cetnico entrano nel comando tedesco del campo. Disarmano e derubano il maresciallocomandante il campo e il maresciallo comandante i lavori. Gli assistenti vengono pureessi disarmati. Grande sorpresa e disorientamento in tutti. Mille strane supposizioni sifanno nel campo, commentando l'accaduto. Verso sera qualche camionetta militare passaper il paese con sopra tre o quattro ceffi con una lunga barba e capelli alla Nazarena, conequipaggiamento americano.

Martedì 29 agosto 1944 Primo giorno senza lavoro. Bordello, caos. Circolano mi-gliaia di radio-scarpa che comunicano le più importanti notizie. Ore dodici i cetnici conun automezzo tedesco portano via tutti i tedeschi che hanno disarmato nel campo. In talmodo rimaniamo in balia dei liberatori. Si vocifera che tutti i campi di prigionia da Žagu-bica a Petrovac sono stati allo stesso modo liberati. Ma l'entusiasmo dura poco. Verso lesedici torna lo stesso autocarro con tre cetnici in cabina e il Lagerführer tedesco il qualecon voce ancora autorevole disse: italiani! Zaino e pronti per Žagubica. Ci guardiamo infaccia trasecolati ma eseguiamo l'ordine. Affardellati dei nostri stracci muoviamo allavolta di Žagubica ove giungiamo a sera tarda, chi zoppo, chi lontano isolato per il cam-mino. Ma ecco venirci incontro come belve una squadra di tedeschi col calcio del fucile"Los Los fanfluc”. Il cappellano ci avverte di essere docili e che l'indomani si parte perBor. Notte nel campo di Žagubica. Momenti terribili e incerti inspiegabile situazione.

Mercoledì 30 agosto 1944 I cetnici più non si vedono. Siamo di nuovo sotto i tede-schi. Di prima mattina marcia verso Bor. Faticosissima ascesa. Passiamo di nuovo dinanzial primo campo di concentramento il Westfalen. Sergente Cardamone Sante da buon Ci-reneo mi aiuta nel trasporto dello zaino. Tappa al Lager Bayer ove ritiriamo altri italiani.Ci attendono fuori dai reticolati.

Giovedì 31 agosto 1944 Appena chiaro siamo già in marcia. Attraversiamo una zonaorrenda, boscosissima e perciò pericolosa e piena di agguati. Ad un certo punto una scarica

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di fucileria ci sorprende a più lati. I proiettili si incrociano sulla strada fischiando rabbio-samente. Sbandamento generale. Hanno sparato non per noi ma per colpire il tedesco cheabbiamo al lato. Passiamo davanti a qualche lager già abbandonato e deserto, e arriviamofinalmente a Bor città industriale ricca di miniere, ove tanti nostri fratelli gettano sanguesino a 900 metri sottoterra35.

2 - 3 - 4 settembre 1944 Giorni tutti uguali. Mi portano lontano a lavorare, e al rientroun po' di acqua calda, se basta per tutti e niente più. La fame, che brutta cosa!

I primi si accalcano vicino alla porta della baracca per arrivare primi agli sportellidella distribuzione, ma oh! che orrendo spettacolo! succede un parapiglia, si azzuffano,le gavette volano, si tirano pugni e calci, si gettano il brodo addosso mentre le sentinelletirano calci e bastonate per riportare l’ordine. Ne escono fuori malconci contusi e in tre,o quattro senza più le gavette che si sono smarrite o malconciate dal vergognoso bordello36.

Domenica 10 settembre 1944 Senza pane. Siamo bloccati. Si dice che i tedeschi sonostati cacciati da Zaječar e quindi i grandi magazzini di viveri sono nelle mani degli occu-panti che portano il tutto in montagna. Quelli che escono al lavoro, stanno livellando,spianando ed allargando il terreno di un campo aereo di fortuna nelle vicinanze. A seratrimotori e qualche cicogna. Notte calma.

Lunedì 11 settembre 1944 Arrivi e partenze di aerei. Giorno vuoto insignificante.Vento verso sera. Per la moltitudine stragrande dei prigionieri e anche perché dal frontesono arrivati molti feriti tedeschi, abbiamo dovuto sloggiare per lasciare le baracche a di-sposizioni di quest’ultimi. Dormiamo all'aperto, fuori del campo addossati al reticolato.Verso mezzanotte sono svegliato da una pioggia leggera. Ci carichiamo gli stracci sullespalle colla speranza di cercar rifugio nelle baracche all'interno. Ma siamo respinti da unaguardia. Non ci eravamo ancora distesi che una nuova ondata di pioggia ci sovrasta e que-sta volta non scherza. Un baccano indiavolato. Una corsa di stracciaroli, chi scalzi, chicon gli zoccoli a tracollo, chi borbotta, chi bestemmia, chi impreca ai responsabili dellaguerra, chi strilla furibondo per aver battuto contro la testa di un compagno più dura dellasua. Anch'io ho aggiunto a queste voci la mia per aver nella pazza corsa perduto uno zoc-colo in mezzo al fango. A volte simili situazioni hanno del comico e ti costringerebberoa ridere a crepapelle, se non ti distogliessero da tal proposito l'aspetto tragico e le soffe-renze che sono scritte nel volto e nei lineamenti di tutti.

In baracca: oscurità, tormento dei cimici. Aspetto impaziente le prime luci del giorno37.

Mercoledì 13 settembre 1944 Tutti i giorni così. Levata a primissima ora. Si passain fila per acquistare al cancello un biglietto (tessera annonaria) quindi si entra nel campoe di nuovo in fila in attesa della distribuzione di quel po' di caldo, noiosissima che si pro-trae fino verso le 10 ore. Alle 11 di nuovo fila che termina dopo un tre ore. E così altret-tanto verso la sera. Quando finirà questo strazio della fila delle spinte e gomitate?

Questa sera, a causa della pioggia, parecchi han fatto pressioni per entrare a ripararsima il comandante, fatto un cenno a due guardie, li fa bastonare barbaramente.

Giovedì 14 settembre 1944 Preoccupazione unica di questa quindicina ultima è l’as-sillante pensiero del vivere. La fame è tanta, il vitto limitatissimo: un quarto della razionegiornaliera di una volta costituisce oggi tutto l'alimento. Si patisce.

Innocenzo Pennacchia

35 1 settembre 1944: rivede gli amici.36 5 settembre 1944: riposo fino al 9 settembre.37 12 settembre 1944: pioggia, in fila per un po' di acqua.

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I giorni scorrono sempre più tristi. A notte avanzata razzi luminosi lanciati da unaereo38.

Lunedì 18 settembre 1944 Verso sera parte un contingente di uomini. Perdo Carda-mone - Di Stefano - Lapacciano ed altri carissimi coi quali abbiamo condiviso le soffe-renze e il pane39.

Mercoledì 20 settembre 1944 Anch'io sono nel numero d'un nuovo contingente inpartenza. Saluto Sergio e Mario. Sono in compagnia di Menguccio Veltri l'unico amicorimastomi. Lunga attesa fuori del reticolato. Rancio. Pane. Notte al Lager Brünn.

Giovedì 21 settembre 1944 Di nuovo al Lager Dresden fuori dal reticolato allo stessoposto di ieri. Il sergente Pacieri -cuoco- mi passa una gavetta piena. Ringrazio e saluto.La sbafiamo insieme con Menguccio. Alla stazione. Nove e mezza partenza. Col treno sipassa nuovamente davanti al Dresden. Salutiamo tutti i compagni aggrappati ai reticolati,e poi di corsa finché perdiamo di vista gli ultimi fumaioli della cittadina industriale diBor.

Fermata a Metovnica. Alla stazione di Zvezdan situata nella gola di due monti boscosiun aereo bombarda. Scendiamo tutti: macchinista, tedeschi compresi e ci gettiamo sottogli alberi circostanti, col cuore alla gola.

Nel pomeriggio siamo a Zaječar, Desolazione, tremendo abbandono, case malconce,porte scardinate, finestre sgangherate e senza vetri non si vede un'anima viva. Pare il paesedella paura. Notte movimentata. Sparatorie a varie riprese macchine in movimento. Pane,salame, sigarette.

Martedì 26 settembre 1944 Facciamo postazioni tra le piante di granoturco su unacollina. Il lavoro non è troppo pesante ma per me non troppo avvezzo, debole e deperitoe denutrito è molto. Sento dolori per tutta la vita e una grande fiacchezza specie perchépioviggina sino al mezzodì. Verso l'una pioggia a dirotta che abbiamo parata tra le impre-cazioni per più di tre ore. Nella notte si verificano alcune evasioni.

Giovedì 28 settembre 1944 Lavo gli stracci e mi faccio un mezzo bagno. Continuopassaggio di salmerie e automezzi. Delle salmerie sono addetti nostri compagni che eranoal Dresden che, secondo quanto ci riferiscono passando, sono stati obbligati dai tedeschia farlo. Aerei bulgari scorrazzano continuamente. Nella notte piove. Evasione in massa(diciamo così)

Venerdì 29 settembre 1944 Per queste continue evasioni dobbiamo subire varie adu-nate nella giornata per essere contati non solo ma non ci danno le sigarette per rappresagliae restringono i freni. Piove con ritmo uguale come una giornata d'inverno. Ho tre giornidi servizio interno. Verso sera vengono sparati più di una decina di colpi verso la partenord del campo. Nella notte mi sveglio di soprassalto per lo scoppio di una bomba a manoe alcune raffiche di mitraglia. Qualche ferito portato da due soldati, poi più niente. Calmaè la notte si sente solo lo scrosciare continuo della pioggia che cade ininterrottamente pertutta la notte.

Sabato 30 settembre 1944 Ancora servizio interno. Verso le 10 ore adunata. Qualcheoretta dopo, mentre ero nella mia baracca, sento grida che paiono urli di bestie e latrati di

38 15-17 settembre 1944: pioggia. Niente pane. Durante la messa fa la comunione.39 19 settembre 1944: nuova partenza.

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cani arrabbiati misti a grida di dolore. Solo più tardi vengo a sapere che i tedeschi hannobastonato in un modo inumano alcuni nostri compagni che si erano rifiutati di fare un la-voretto adducendo come ragione di essere malati. Dio ce ne guardi dalla rabbia tedesca!Ricordo che al lager di Dresden, per quale ragione mi sfugge, fecero spogliare due italianie due guardie con due grossi bastoni regalarono sul sedere dei due malcapitati ben 25 ba-stonate e poi dovettero ricoverarli all'ospedale più morti che vivi. Le voci strazianti chetra le bastonate invocavano “mamma” avrebbero intenerito anche i macigni più duri equei due ceffi niente. Barbari! Cani! Strada deserta. Niente colonne oggi40.

Lunedì 2 ottobre 1944 Sulle prime ore del mattino fitta nebbia poi il cielo pare pro-mettere bene. Cogli attrezzi di lavoro in spalla, moviamo. Una colonna di uomini e qua-drupedi imponente è ferma sulla strada, mentre automezzi sfilano in direzione opposta.Lavoro ora col picco ora col badile ma si fatica tanto perché la terra è zuppa di acqua e siattacca al badile. Verso sera finiamo il cottimo che è stato preso per fare grandi trinceeper la protezione stradale. Ancora autocolonna ritorna in giù. Si nota un po' di disorienta-mento nei tedeschi che si fanno più taciturni consci della loro fine. Ecco perché pure varievolte si comportano come belve nei nostri riguardi. Poveretti. Noi siamo all'oscuro di tantecose, ma loro no e il continuo andirivieni delle colonne li innervosisce. Mai ordini precisi.Ordini e contrordini si succedono continuamente. Mangio granturco abbrustolito. Rancio:caffè. Oggi ci danno anche i viveri per domani: burro, salame, due sigarette, pane. Oggiil cannone non sosta. Verso sera aerei.

Martedì 3 ottobre 1944 Apro gli occhi al rumore di fuoco lontano. Piove, cessa, riat-tacca ancora dopo il rancio. Cielo plumbeo e pesante, poi nebbia bassa. Piove poi si dirada.Un fischio e una voce rabbiosa rintrona nella camerata “Los los arbeiten”. Pioggerella.Sul lavoro il cielo si fa più buio e poi giù acqua. Il bagno è fatto. Con tutto ciò il coman-dante ci tiene impalati e non accenna a volerci far rientrare anzi con alta voce e con il cal-cio del fucile minaccia tremendamente. È questo il triste destino del prigioniero: tra glistenti, sofferenze malvestito, scalzo, in mezzo al fango e sotto una pioggia torrenziale co-stretto a lavorare. Ahi! Pazienza di Giobbe! Non sempre si riesce ad averla ed a fermarsi.La rassegnazione il più delle volte degenera in furia rabbiosa e in imprecazioni contro ilcrudele oppressore che ha un sasso al posto del cuore. Sospiri e intenso pianto. Sarà ancoralontana la vetta del nostro calvario la cui ascesa iniziò or fa un anno preciso? Una mac-china si ferma. Ritorna alla caserma. Sereno, sole forte da spaccare le pietre. Verso il mez-zodì nuvolo ancora. Adunata e al lavoro. Passano tante carrette trainate da muli e cavallidi ogni razza. Gli uomini addetti sono tutti italiani in maggioranza. Il cielo ci regala unsecondo bagno. Quella colonna di uomini e carrette ripassa indietro. Bagnato fradicioprendo il rancio e stanco mi addormento41.

Giovedì 5 ottobre 1944 Bel tempo, sole gagliardo. Va al lavoro dapprima una com-pagnia, più tardi un’altra. Vendo la macchinetta e tutti gli attrezzi per la barba, tanto sonosenza lamette ed ho una barba da far paura. Ci fanno spostare verso il vicino paese e paresi esercitino a fare i tiri. Noi ai margini di una strada alberata nell'interno della cittadinadi КЊАЗЕВЦ42sul marciapiedi sinistro. Qualche aereo. Atti di umana prodigalità da partedella popolazione. Ho anch'io un tozzo di pane. Compro due pagnotte e ne consumo una.Pietà d'una donna. Di nuovo al campo. Ordine di approntar tutto per la partenza. Attesa

Innocenzo Pennacchia

40 1 ottobre 1944: pulizia della baracca.41 4 ottobre 1944: anniversario del funesto disarmo.42 Città di Knjaževac.

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in fila. Due si son fatti volontari all'ultimo momento. Per questa ragione ci fanno fare“zaino a terra”. Rivista del corredo. Mi viene tolta una camicia di flanella che avevo cer-cato di conservare in buono stato e la giubba che pure per la cura da me tenuta è senzauno strappo. La camicia l'ha indossata uno dei due e la giubba mi viene restituita perchémolto stretta per quei due rinnegati. Anche ad altri vengono sottratti capi di robe. Dopoun anno di stenti e di duri sacrifici, invece di ricevere qualcosa per ricoprirci, la grandeGermania ce lo toglie, ci spoglia di quel po' di meglio che si è cercato di conservare inprevisione di momenti peggiori e lo passa a quei due disgraziati che hanno tutto vendutoper sfamarsi e riempire la loro ingorda èpa43 insaziabile. Giorno scolpito a grossi caratterinel mio cuore il cui ricordo rimane indelebile per la vita. Sfiliamo per la città, stanchi, la-ceri e colla barba incolta. Si legge nel volto di chi ci guarda una visibile pietà. Qualchedonna piange. La nostra figura e i lineamenti patiti diranno alla donna il tragico stato diqualche figlio deportato lontano. Notte nelle aule d’un grosso edificio scolastico44.

Sabato 7 ottobre 1944 Partono tutti gli elementi della Todt e regalano una ventina dipagnotte. Che parapiglia sempre sfortunato! Arrivo troppo tardi. In mezzo a questa con-fusione prendono un contingente di uomini e io me la squaglio. Ma ad una seconda retatavengo preso e condotto a far postazioni su una collina posteriore al paese. Nebbia fittissimae bassa. Fucilate distanziate ma ininterrotte per tutta la mattinata. Verso le 11 si dirada lanebbia. Autocolonna direzione Niš. Poco dopo ritorna. Aerei. Colpi di artiglieria e mortaio,dapprima radi e poi più frequenti. Ci concedono un po' di riposo all'ombra di un albero eper la fame e stanchezza prendo sonno. Ma dura poco. I colpi si sono intensificati e pro-vengono da varie direzioni. Alcuni si sono fatti molto più vicini. Di tanto in tanto siamocostretti a gettarci nelle buche pancia a terra. Invoco spesso la Misericordia Divina e mipongo interamente nelle mani del Dio Provvido e Buono. Ma la sparatoria intensifica, lemitraglie cantano si vedono bombe di mortaio esplodere a poca distanza, una centra inpieno una casa vicino al comando. Anche i tedeschi ormai rispondono. Il fuoco si incrociae le armi di ogni calibro sono entrate in azione. Ci gettiamo di corsa nella vallata, costeg-giamo il fiume, attraversiamo un ponte col cuore alla gola ed entriamo nella città. Desertodue armati, maschera ed elmetto scorazzano per il corso con una macchina. I civili sonotutti spariti. Rientriamo tra gli altri. Aerei. Si prevede un attacco decisivo. Sarà sull'im-brunire? Durante la notte o nelle prime ore del mattino?

Domenica 8 ottobre 1944 Niente di tutto questo. La notte fu calma, soltanto tristisogni mi turbarono nella notte e mi fanno prevedere e congetturare avvenimenti poco pia-cevoli. Solo la preghiera mi solleva in questi duri momenti. I tedeschi fanno varie adunate,ma noi non si vuole uscire neppure per il rancio perché sappiamo che ci prendono e ciportano a lavorare in momenti così terribili, proprio in linea con loro. Ma essi hanno al-meno il fucile che li incoraggia, noi poveri inermi stringiamo solo un attrezzo di lavoroche non può far paura non solo, ma non ha la potenza di offendere a distanza. Stufi di en-trare e di uscire per le aule per tirar fuori gli uomini - pensare che dopo tanto affaticarsisono riusciti a radunarne in cortile una ottantina - entrano tutti infuriati e col calcio delfucile e con malo modo fanno il giro di tutte le aule e gridando forte " Los Los " ci radu-nano tutti in un cortile e stanno formando delle compagnie di 100 uomini l’una, quan-d’ecco 15 caccia su nel cielo portano il panico e il cortile resta deserto mentre la contraereaentra in azione. Cessato appena il fuoco vengo preso nel numero dei 200 uomini presceltia formare due compagnie. Si dice che queste due compagnie ci tocchi restare con loro,mentre gli altri verranno avviati alla volta di Niš. C’è chi dice l'ipotesi opposta. Non si

43 Pancia.44 6 ottobre 1944: su una collina a fare postazioni.

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capisce più nulla. Verso l'ora del rancio grossi colpi di artiglieria cadono nella cerchiadella città con rabbia infernale. Mai come questi giorni ho sentito il bisogno di pregare.

Lunedì 9 ottobre 1944 Adunata prima compagnia lavoratori. Ci sono anch'io. At-trezzo: una scure. Con tutti i nostri attrezzi di lavoro ci fanno abbattere il granoturco conuna tale velocità che pare ci abbiano dato il cottimo. Al di là e al di qua del fiume abbat-tiamo gli alti pioppi. Ci spingiamo verso il muro che cinge la città e che serve come lineaal tedesco. Si rivede lontana nella campagna la caserma ove fummo per vari giorni. Vicinoa questo muro vari soldati dormono stanchi in varie pose profondamente, mentre all’ertaa poca distanza gli uni dagli altri dietro il lungo muro vi sono le sentinelle. Ci fanno ol-trepassare quel muro passando sotto un piccolo tunnel scavato da altri nostri compagni eci mandano al di là a gettare a terra tutto il granturco antistante che impediva la vista. In-tanto giungono colpi di fucile alla stanca da varie direzioni. Qualche aereo passa ad altis-sima quota. Ci fanno tagliare tutto ciò che ingombra compresi dei cespugli sparsi qua elà. Poi ci ordinano di prendere i tronchi dei pioppi e formiamo una baracchetta lunga ecomoda che deve servire per quelli che riposano dopo il servizio di linea. Questa barac-chetta è sotto l'ombra degli alberi e ce la fanno ricoprire di fusti di granoturco e poi perarginare la caduta della terra ci fanno mettere i tronchi dei pioppi alla volta e alle paretidel breve tunnel. Ogni tanto colpi di mortaio e di artiglieria sempre più vicini. Sentinellae prigioniero su una stessa linea la prima armata, il secondo coll'attrezzo di lavoro. Alletre siamo all'edificio scolastico dove tutti gli altri sono già pronti per partire. Zaino ispallaanche noi partenza. Siamo sulla strada che porta a Niš. I colpi d'artiglieria più frequenticadono nella città che abbiamo alle spalle. Poi breve silenzio che fa presentire qualcosadi tragico. Alcuni proiettili di fucile passano sulle nostre teste e fischiano paurosamente.Ci gettiamo ai margini della strada ma i tedeschi ci rimettono in colonna e via. Sulle cresteun colpo di artiglieria parte in direzione della città e si sprofonda tra l'abitato. È il segnaledell'attacco. I tedeschi rispondono. Il fuoco si incrocia. Le mitraglie cantano senza posae i pezzi di artiglieria vomitano dalle loro canne in continuità. Le prime ombre sono di-scese e mentre facciamo la faticosa salita si può osservare quel pauroso spettacolo di fuocoinfernale ingaggiatosi alle nostre spalle. Si vedono i proiettili segnare scie luminose inentrambi le direzioni e sentiamo lo schianto orrendo e spaventoso che i colpi di artiglieriatedesca indirizza senza posa su quella quota attaccante che cozzano e si infrangono rab-biosi contro le rocce generando fiammate sinistre. Che musica infernale! Faticosissimaascesa. I piedi mi sanguinano. Strada in alcuni punti minata. Un’autocolonna ferma sullastrada. Alcuni comandanti osservano col binocolo. Ad ogni sosta, mi abbandono collaschiena sullo zaino senza togliermelo e tale è la stanchezza che prendo sonno. Prendo inmano il rosario e prego, quando si riprende il cammino. Mezzanotte nebbia, vento gelato.Siamo alti. Quasi ad ogni fermata, favoriti dalle tenebre, parecchi scivolando ai marginidella strada, si gettano per la china in cerca di libertà. Anch'io propongo tra un momentoe l'altro di abbandonare la colonna se non voglio fare la morte del topo col tedesco padronesolo della rotabile, con ogni via di scampo preclusa e il fuoco da ogni parte. Sul far delgiorno arriviamo in un paese e dormo sui tappeti di una casa civile ove noto una bibliotecae tra i libri trovo con piacere il "Cuore" di De Amicis tradotto in serbo. Siamo a 26 km daKnjaževac. Sono contento di aver reso l'ultimo servizio a quei poveri tedeschi nella mat-tinata lavorando in linea. Che sarà ora di loro? Sono in prima linea. Saranno massacratidi già. Lo sapevano però che erano destinati alla morte e dovevano arginare l'avanzata,per proteggere le nostre spalle.

Martedì 10 ottobre 1944 Ho dormito sino al mezzodì che la stanchezza mi opprime.Compro una pagnotta. Cinque aerei sorvolano il cielo, tedeschi provenienti da Niš. È quasisera. Si dovrebbe partire domani. Mi accingo a mangiare, ma c'è ordine di adunata. È già

Innocenzo Pennacchia

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calato il sole. Partenza verso Niš 29 Km marcia sempre di corsa faticosissima. Non mireggo più. Nella notte sono tentato di scappare ma me ne manca la lena e le circostanzefavorevoli. I piedi quasi mi sanguinano, mi viene voglia di piangere mi pare di impazzirema poi chiedo perdono e aiuto al Martire del Golgota e forza per sopportare. Gli occhistanchi mi si chiudono e ad ogni tappa cado addormentato. Ma si vedono al fine le primeluci. Siamo alla periferia di Niš città pure importante. Sul far del giorno siamo alle casermetedesche, ci sdraiamo all'aperto e dormiamo45.

Giovedì 12 ottobre 1944 Quattro pomeridiane, veniamo incolonnati e mandati fuoridi città sulla Niš - Belgrado.

Nella mattinata sono passati tanti automezzi, salmerie e uomini e verso mezzogiornosono ripassate per altra direzione. Si dice che i tedeschi stiano cercando di aprirsi un varcoper uscire dalla Serbia. Hanno tentato verso la Macedonia per ricongiungersi così colletruppe dislocate in Grecia, ma hanno trovato sbarrata la strada. Hanno tentato raggiungerela Croazia, ma altrettanto colla Bulgaria sono in rotta, ormai. Tutte le strade sono precluse.Ora pare vogliano tentare di raggiungere Belgrado.

Lunga attesa sui margini della strada. Sfilano intanto macchine, pezzi di artiglieria,carrette, salmerie, e carri trainati da buoi condotti dai contadini serbi. Al lato sinistro edestro della strada, sempre allargandosi a forma di V, si stendono due lunghi bracci di fer-rovia sui quali innumerevoli carri merci carichi di materiali sono pronti per voltare. Siamozuppi d'acqua come pulcini e diguazziamo nel fango. Nebbia bassa e pioggia ininterrotta.Verso le nove dopo che tutta la colonna è passata ci fanno accodare ad essa. Incomincianole detonazioni una dopo l'altra al di qua e aldilà della rotabile seguite da grosse fiammate.Sono i carri che saltano per aria mentre tutto il materiale brucia tra un denso fumo rossa-stro. Ad una svolta guardo indietro: si vede Niš in lontananza avvolta in una fitta nebbiae tra quel fumo e quelle fiamme d'inferno. Che visione tetra e raccapricciante e che sen-sazione lascia nel cuore di chi riguarda. Svoltiamo, la pioggia cade più forte. Buio pesto.Ogni tanto si odono ancora le esplosioni. Per la pioggia torrenziale ci fermiamo, forseuna ventina in una casa sperduta, mi getto su una mangiatoia sul fieno. Ci sono muli e uncavallo e buoi.

Venerdì 13 ottobre 1944 Mi sveglio molto tardi. Mi ritrovo nella stessa posizionedella notte. Sono ancora fracido d'acqua. Sento dai compagni che il grosso della colonnadi italiani prigionieri ha fatto ritorno a Niš durante le prime ore del mattino. Esco un po'al cancello e vedo di tanto in tanto passare qualche automezzo tedesco carico di soldatiche tornano a Niš. Ci guardano ma non hanno più quella boria di prima. Poveri anch'essi,forse invidiano la nostra sorte. Si nota disorganizzazione e disorientamento nei tedeschi.La situazione è grave hanno trovato ostruito il passaggio anche per Belgrado. Ora li ve-diamo disfarsi di tutto. Ci incamminiamo anche noi verso Niš e nelle cunette delle stradevediamo, tubetti di dentifricio, spazzolini, pettini, cofani con lettere ben lucidate, scatolepiene di tabacco, pacchetti di sigarette, vestiario in buono stato, scarpe, stivali appenausati teli da tenda, latte per benzina, fotografie in pezzi.

Si capisce. Come gli accattoni raccogliamo qualcosa che ci può essere utile. Io rac-colgo un giubbetto di tela cerata bello con chiusura lampo. Ma ecco nelle vicinanze diNiš ci imbattiamo nella autocolonna ferma che si sta riorganizzando. “Alò raus italien,los los arbeiten”. A quella voce imperiosa ci accostiamo. Ci fanno caricare varie lattine dibenzina e altro materiale poi tutto il superfluo lo spezzano e cosparsa una buona dose di

45 11 ottobre 1944: sistemazione di una baracca.

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benzina lo bruciano. L'autocolonna si muove i soldati nelle macchine tengono la testanelle mani, tutti pensierosi consci forse della situazione grave, dell'ora tragica che pesasullo loro capo. Sanno di essere in trappola come il topo e forse tentano di sfondare versola Macedonia a giudicare dalla direzione ove muovono. Rivedo i carri sulle rotaie rove-sciati ancora fumanti. Quanto materiale! Maledetta guerra Niš è tutta piena di tedeschiancora. Anziché passare il fiume al seguito della colonna, decidiamo (siamo una trentina)di aspettare la notte e l'indomani si penserà sul da farsi. Serata agitata. Ancora esplosionicontinue. Spesso nell'interno della città si ode sparare. L'autocolonna ormai è tutta passata.Sono rimasti solo uomini appiedati per eseguire le ultime consegne: far saltare tutto e poiporsi in salvo se possibile. Sull'esempio dei civili sul far della sera ci rechiamo tutti a unmagazzino viveri tedesco e portiamo via pane, gallette, biscotti e scatolame di vario genereed ogni ben di Dio e il tutto lo trasportiamo in una casina sulla destra a una cinquantinadi metri da un grosso ponte in ferro sul fiume. Mangiamo e ci sdraiamo per non esserevisti e presi dai tedeschi rimasti. Ancora altre detonazioni poi più nulla. Solo si sente unordine secco e perentorio “Alò allea los los”. Il cuore mi batte come per uscire dalla gola,e mi rannicchio ancora più sotto pregando fervidamente e con me i compagni di sventura.E’ da notare che la nostra paura è data da questo fatto: le finestre scardinate e senza vetrisono bassissime e se un soldato dal di fuori passasse sul marciapiede potrebbe vedercinon solo, ma allungando il braccio potrebbe toccarci. Ma niente paura. I tedeschi pensanoanch'essi alla pelle. Si sente infatti un'intera compagnia di uomini passare a passo caden-zato, poi silenzio. Ma non sono scorsi cinque minuti che una fortissima detonazione ci fasaltare tutti a sedere. Poi un crepitar sulle tegole e pezzi di calcinaccio sulla testa. È ilponte che i tedeschi, dopo passati, han fatto saltare. Silenzio profondo; notte calma.

Sabato 14 ottobre 1944 La mattina si vede il corpo del tedesco che ha fatto saltare ilponte. Pensiamo che i tedeschi di qua non tornino più ormai, però ci stiamo rintanati an-cora aspettando il momento propizio per presentarci ai liberatori. Verso le 10 di mattina,forte detonazione ci costringe a correre in un sotterraneo. È l'altro ponte che salta, ci diceun bambino della vicina casa. Facciamo per uscire e invece quella detonazione è statacome un segnale, la scintilla del fuoco. Colpi di mortaio, di artiglieria, di cannone, raffichedi mitraglia e fucilate nell'interno della città. Anche dall'interno si sente rispondere in con-tinuità ma gli attaccanti sparano e fanno fuoco da ogni direzione. Ecco pure gli aerei chegirano sulla città e riempiono l’aria del loro rombo pauroso e sganciano bombe senzapietà. Insomma una bufera di fuoco spaventoso. La sparatoria nell’interno dell’abitato sifa sempre più intensa e vicinissima e verso le 12 nell’imboccatura del sotterraneo due ar-mati: uno russo e un partigiano di Tito tengono impugnato un fucile con un rotolo a tam-buro. Noi gialli e tremanti leviamo in alto le braccia e gridiamo: “Italiani zarobljenici ”46.Uno di loro allora abbassato il fucile grida con una voce cavernosa “Napolje, napolje”(significa: se siete italiani prigionieri fuori). Usciamo. Il russo cercava armi: “Pistolj, pi-stolj”. Noi diciamo di non averle perché prigionieri. Allora ci viene in aiuto qualche civile,e spiega tutto.

Ci mettono allora in fila e ci spogliano degli indumenti migliori e tolgono scarpe estivali a chi li possiede. Ci fanno muovere e via via escono altri nostri compagni che sierano rifugiati la notte precedente nella capanna e nelle casette dei poderi civili ai latidella strada. Insomma camminando formiamo una colonna di 168 italiani. Alla testa peròdella nostra colonna hanno messo sette nazionalisti serbi presi a fianco ai tedeschi e quattrotedeschi innanzi a tutti, che si sono arresi. Per strada pugni e calci ai tedeschi tra cui un

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46 Prigionieri italiani

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maggiore e un capitano. Li spogliano della bella divisa e danno loro in cambio lunghi ca-mici carichi di pidocchi che obbligano i malcapitati di stare continuamente a grattarsi. In-contriamo partigiani e partigiane armati scalzi che marciano verso Niš e ci guardano conun riso di scherno. Per rivestirli e calzarli ci fermano, ci tolgono di dosso quanto di meglioci è rimasto. Mi tolgono la bella giubba che, per essere arrangiata, dicono: ofizirski verovestito da ufficiale. Ma le scarpe visto che sotto hanno il legno me le restituiscono. In uncomando provvisorio, per uno, ci fanno una minuta rivista allo zaino e ci tolgono quasitutto. Notte in una stalla pigiati come sarde.

Domenica 15 ottobre 1944 Un russo a cavallo guida la nostra colonna, diretta adAleksinac ove risiede il comando, e ai fianchi vari partigiani ci scortano.

Un giovincello partigiano ancora imberbe ad un certo punto fa sostare la colonna sireca dal russo e denunzia uno di quei serbi nazionalisti per quale ragione non capisco. Cifanno sedere al margine della strada. Chiamano il povero malcapitato, lo portano sul pratosottostante dall’altra banda della strada, lo obbligano a spogliarsi, a levarsi le scarpe, tuttoinsomma, poi uno di loro, messogli la canna del fucile dietro la nuca alla distanza di unpalmo, lo obbliga a discendere verso il declivio della collina. Ahi! orribil vista. Un colpoa bruciapelo dietro la nuca e quell'uomo non è più. Oh come mi si gela il sangue a talvista. E in che conto tengono questi barbari la vita di un uomo? Alla pari di un coniglio.Oh! Che brutto viso e che occhi mostra quell’esecutore di quella fucilazione. Oh! Conquanta freddezza si condanna a morte. E perché non hanno condotto quell'uomo al co-mando perché decidesse? ah! Capisco qui ognuno è giudice e ha il potere di vita o dimorte a seconda il proprio capriccio. Dopo lungo cammino arriviamo alle porte di Alek-sinac il cui corso da lontano appare tutto imbandierato. Ma ecco che da una altura scen-dono russi di corsa, con occhio truce e con pugni chiusi serrati alzandoli verso noi in attodi minaccia e borbottando chissà quali improperi al nostro indirizzo. Giunti sulla stradaincominciano a regalar pugni a dritta e a manca con una tale ferocia che non si può de-scrivere. Passiamo sui ferri del ponte fatto saltare dai tedeschi che unisce la strada colcorso principale della città. Un via vai di donne e armati sui due marciapiedi e un rideree uno spudorato sghignazzare che ci demoralizza. Nessuno ci difende neppure quelli checi accompagnano e sanno quello che noi siamo. Ci gettano alle carceri civili. Catenaccisu catenacci ci oscurano il cuore col loro fracasso. Siamo sistemati in più di 20 dentroogni celletta tutti rannicchiati. Verso sera chiamano i quattro tedeschi, li portano via. Nonrientrano più. Fucilati. Per noi non si sa ancora la condanna.

Lunedì 16 ottobre 1944 Mi conducono con parecchi altri al ginnasio. Pulizia alleaule. Vedo un pianoforte nel teatrino e sento un desiderio e una tentazione di fare quattronote. Oh! Come mi spasserei un po’ e mi sentirei più sollevato. Nelle carceri consumiamoil rancio. Ho la barba lunga più di un mese e sembro uno spauracchio. I partigiani poi nonvogliono vederci così perché dicono che somigliamo ai cetnici e allora spariscono ancheparecchi bei pizzi curati da alcuni compagni. Al lavoro nel pomeriggio vengono presisono 15. Quando rientrano tremano come foglie perché un russo ubriaco con la pistolaspianata li ha fermati, poi preso di mira un Trentino che era rosso di carnagione non soloma aveva una capigliatura rossa accesa, incominciò a complimentarlo con schiaffi, pugni,calci dicendogli: tu sei tedesco, canaglia d’un nazista tieni per te e per il tuo Hitler. I par-tigiani di scorta non intervengono mai a chiarire e il povero malcapitato non può parlaree non sa spiegarsi. Il russo gli prende il portafogli e guarda tutto quanto è dentro strap-pando fotografie ed altri ricordi cari poi lo riprende a schiaffeggiare e mette di nuovomano alla pistola. In questo frattempo il coraggio e la prontezza d'un cuore italiano cambiail fatto. Un giovane tenente italiano da un angolo di strada ha assistito a tutto e quando siaccorge della brutta intenzione del barcollante soldato esce furibondo. In un salto è vicino

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al russo, con in pugno una bomba a mano tedesca e grida: “druže ja sam italijanski parti-zan; mi smo drugovi; pusti gnu je, nemački, ili italijanski (ratni) zarobljenik47. Il russoseguita ancora a fare atti insolenti, allora il tenente per non destare troppo allarme, dice atutti i 15 di fuggire cercando di imboccare la prima traversa, e poi da un forte spintone alrusso che va a finire in mezzo a un cespuglio rotolante quindi si mette in salvo anche lui.Non è dunque solo il pizzo pericoloso a portarsi, bensì anche, e più pericoloso, è l’esserefulvo di capigliatura perché il russo giudica il fulvo di razza tedesca48.

Giovedì 19 ottobre 1944 Nuovamente con gli zaini all'edificio scolastico. Pare chesi rimanga qui, così non andremo più girando una sera per parte come tanti zingari. Versole otto arriva il comando di una nuova brigata. Un russo con la baionetta innestata, entrae ci mette tutti in fuga tra grida e urla. Ci mette tutti in fila nella strada e ci scorta sino aduna grossa caserma russa. Viene chiamato un italiano Quattrino da Frosinone che facevada interprete e gli dicono che dobbiamo deporre tutto ad un angolo, Zaini pastrani tutto.La voce di Quattrino trema mentre si diffonde un forte pallore nel suo viso. Qualcosa digrave sta per succedere. Domandiamo, e lui a parole mozze ci fa capire le brutte intenzionidei russi: ci tolgono tutto -egli dice- vogliono fucilarci. Il sangue si gela. Comincia untremito per tutte le membra. Lo spettro della morte si presenta nero e tetro ai nostri occhi.Qualcuno comincia a chiamare la mamma, altri si raccomandano, altri imprecano. Io nonho più una parola. Gettiamo le nostre robe mentre una pioggerella fina scende giù e unanebbia sempre più fitta si stende per tutto. Passiamo uno per uno in un ampio cortile ret-tangolare della caserma che è situata alla falde di una collina boscosa. In fila per uno. Cipassano davanti ufficiali russi sghignazzanti, donne russe vestite da soldati e armate edonne serbe e partigiani arrivati con la nuova brigata. Tutti ci deridono, tutti offendono ilcaro il dolce nome della nostra patria, tutti ci minacciano, tutti imprecano a Mussolini eognuno che ci passa davanti ci dice la triste parola “strelija” fucilazione e accompagnanola parola con il gesto della mano come per dire sarete fucilati tutti con una raffica. Ognitanto soldati russi ubriachi ci passano davanti e ci minacciano col pugno chiuso e borbot-tano chissà quali tristi auguri e imprecazioni contro di noi inermi; e si legge nel loro voltola gioia satanica che già pregustano al pensiero di vederci fra breve tutti in posizione oriz-zontale. In questo frattempo poco discosto da noi ci agghiaccia una lunga raffica di mi-traglia. Ben 72 tedeschi, in fila sulla svolta di una strada vengono falciati. I loro corpicadono riversi al margine scosceso della strada. C’è chi piange come un bambino. Ci pas-sano davanti uno per uno e ci tolgono tutto ciò che di buono ci è ormai rimasto. Rima-niamo seminudi, scalzi alcuni proprio con le vergogne di fuori e spogli e ci stringiamo gliuni agli altri per sentire il calore del corpo vicino. La pioggia sempre uguale a tratti cessae allora spira un vento così gelato che ci ghiaccia tutte le membra. Sono riuscito a salvarela mia corona. Chiusa nel pugno della mano, prego ma così caldamente come certo nonho pregato mai in vita mia. Sono questi gli istanti più lunghi e orrendi vissuti da me, mo-menti terribili e tremendi che tormentano il cuore che pulsa ineguale nel petto. Sono questigli istanti durante i quali ho guardato la morte faccia a faccia, ho avuto paura del giudiziodi Dio, ho trascorso un lungo e martoriato colloquio colla morte. Ore di agonia tremenda.Ogni tanto insulti e derisioni. Si sente spesso invocare il nome di mamma, si sente anchepiangere.

Io, invece, la corona sempre chiusa in pugno come un’arma, non ho un lamento, nonuna lacrima, non penso più tanto ai cari lontani, solo sono preoccupato del giudizio di

Innocenzo Pennacchia

47 Io sono un partigiano italiano; siamo la seconda; andiamo, tedesco o italiano (guerra) prigionieri.48 17-18 ottobre 1944: pulizia di alcune aule di ginnasio.

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Dio che vedo imminente e come estraneo già alla terra prego prego e chiedo perdono aDio Misericordioso per tutti i miei falli facendogli l’offerta della mia vita e scongiurandoloche accetti l’effusione prossima del mio sangue, come espiazione e lavacro delle miecolpe. Se non piango non è perché sono più forte e coraggioso degli altri; non so perché.Forse il sangue si è talmente arrestato, la mente è talmente rimasta scossa, da farmi dive-nire come un ebete. In questa tremenda attesa, in continua conversazione colla mortesiamo rimasti fino verso le 2 pomeridiane, ora in cui la scena cambia aspetto. Giunge uncommissario partigiano e dice: Italijani, aide. Noi pensiamo di muovere verso il luogodel supplizio e chi si mostra restio e chi piange. Ma il commissario si avvicina e con vocerassicurante dice: zašto plačite? Nećemo više da vi strelijati (perché piangete, non vo-gliamo più fucilarvi, noi siamo fratelli, noi soldati, voi lavoratori l’abbiamo detto noi airussi che voi siete buoni italiani. Presi intanto una decina di nazionalisti serbi, li legano eli uccidono.

Veniamo condotti ad un’aula del ginnasio. Siamo 168 tutti muti e fuori di noi. Il com-missario dice: su italiani, cantate, non più morire. E allora, per accontentarlo, abbiamoaperto le nostre bocche, trangugiando qualche lacrima cantando la canzone richiestaci:Mamma son tanto felice.

Oh! quanta forza ci siamo dovuta imporre per pronunciare quelle parole Mamma sontanto felice in una situazione così tragica. Oh! Dio misericordioso, quanto ti sono gratoper tale segnalato favore. Hai vegliato sul debole innocente che era per essere immolatodopo aver sofferto tanti stenti, privazioni e tanti pericoli in mezzo al fuoco. Ora fai ri-splendere nuovamente il sole della vita. Seminudi riposiamo tutta la notte e dormiamod’un sonno profondo quasi letargico. Piove forte fino al mattino49.

Domenica 22 ottobre 1944 Mezza giornata lavoro. Si cambia locale per dormire. Iltenente qualche volta ci fa visita. (Non è egli un tenente - a dire di alcuni che lo conobbero,mi pare a Rodi - ma è un marinaio, o sottufficiale di marina, scappato dal lager tedesco ecombattente con i partigiani). E’ libero e porta i gradi sul nostro grigioverde.

Lunedì 23 ottobre 1944 Lavoro a sfangare quella strada per il passaggio degli auto-mezzi russi. Ci viene offerto un po' di pane, uva e sigarette. Con un bravo giovane e unaguardia, col permesso del Comando Mesta, vado di casa in casa chiedendo un po' di pietà.Tutti mi guardano compassionandomi e mi danno un po' di oggetti di scarto che devonoservire per rivestirci tutti. A sera ci visitano due buone ragazze studentesse che portanoqualcosa e promettono di interessarsi presso i civili a nostro beneficio. Verso mezzanotteentra un russo ci caccia fuori di corsa per farci spingere con le spalle i tanti automezziche cercano di passare per quella strada che andiamo accomodando la quale è molto irtae fangosa e gli automezzi rimangono ingolfati a più di mezza ruota nel fango.

Martedì 24 ottobre 1944 Lavoriamo adesso per la costruzione di un ponte in legnoa fianco a quello in ferro sprofondato nelle acque. Dalla mattinata al tramonto senza treguacol badile, col picco, lavori pesantissimi. Rimuoviamo pesanti pietre, grossi travi che ser-vono in mezzo all’acqua, ed altri tronchi di alberi lontani li trasportiamo ispalla. Una piog-gerella fina e insistente ci accompagna tutta la giornata. Sento per la prima volta qualcheparola buona dalla bocca dei soldati russi; Karašo italiansko - italiano buono lavoratore.Giornata nera. A sera tarda sono sfinito e stanco.

Mercoledì 25 ottobre 1944 Sulla strada ancora a sfangarla e gettarle breccia. Lavoropiù leggero in confronto a quello di ieri. Siamo distribuiti in gruppi di 3 o 4 persone distanti

49 20-21 ottobre 1944: lavori per l'allargamento di una strada.

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gli uni dagli altri. In qua e in là ci sono cancellate e case civili di campagna. Una donnaci offre un cotogno: lo dividiamo. Una signorina tra la stecconata ci saluta e si ferma inascolto perché si sta canticchiando una canzonetta. Arrivano altre sue amiche e diconoche piace loro tanto la musica italiana e desidererebbero sentire una canzone. Profittandoche la guardia è un po' lontana le teniamo contente. Facciamo conoscenza, una suona ilviolino. Rientrano un momento ma riescono subito: hanno preparato un complimento. Ciportano pane a sufficienza e formaggio che spartiamo tutto fra noi da buoni fratelli e man-giamo. Poi ci portano anche grappa e beviamo. Nel partire ci domandano se nel pomerig-gio torniamo lassù a lavorare. Rispondiamo che forse con ogni probabilità. Invece nelpomeriggio non torno lassù50.

Martedì 31 ottobre 1944 Di nuovo al solito lavoro, ma per l’altro capo della stradavicino al cimitero. Alcune donne, di ritorno da un rito funerario, dispensano a me e com-pagni pane, cotogno, uva e un bicchierino di grappa. La grande fame mi ha spinto ad ac-cettare, ma in altri tempi non avrei toccato nulla perché quelli sono gli avanzi del pranzoche questa gente ha fatto proprio sulla tomba del defunto. Vladimir quel caro e bravo gio-vane che assieme ad una guardia ha girato con me la prima sera per raccogliere un po' distracci per rivestirci che tutto il dì lavorava al comando, vuole condurmi a casa. Mi pre-senta alla fidanzata e famiglia e imbandiscono una grande cena: peperoni e carne tritata,patate e carne di maiale, insalata vino e grappa. Hanno ammazzato oggi stesso il maiale.Che buona famiglia. Che bravo giovane Vladimir, non perché oggi mi ha complimentato,ma perché molto si prodiga per il bene di tutti noi italiani. Dice che quando sposa verràin Italia a fare il viaggio di nozze. Gli dico che sarà per me un grande piacere se potrò ri-cambiare le tante gentilezze di cui mi fanno segno.

Tornano i 26 italiani rimasti in quel paese ove stavamo sabato per montare pali51.

Giovedì 2 novembre 1944 Vladimir mi compra un paio di scarpe col legno sotto.Sono confuso davanti a tanta bontà e gli dico, tra i ringraziamenti, che mi sentivo onoratodi poter ricambiare della sua magnanimità quando verrà in Italia. Nel pomeriggio sman-tellamento di alcune baracche tedesche. Vladimir mi conduce in un circolo femminile ovec’è un armonium e suono. Complimenti e presentazioni.

Ieri ed oggi giorni ricordevoli: i Santi e i morti. Accorata nostalgia.

Venerdì 3 novembre 1944 Il comando vuole le generalità di tutti gli italiani. Per me-rito di Vladimir vengo incaricato io a compilare le liste.

Sabato 4 novembre 1944 Finalmente ho pulito ben bene uno stretto stanzino e hocostituito un ufficiuolo. Mi par di rinascere perché dopo di aver provato tutti gli attrezzidi lavoro finalmente mi applico ad uno più confacente alle mie condizioni e al mio generedi vita52.

Lunedì 6 novembre 1944 Nulla che meriti rilievo. Qualche mormorazione contro dime, a torto e per invidia. Il tenente che si è fatto vedere, prende le mie difese spiegandoche il Comando Mesta mi ha nominato. Questo mi basta e mi rincuora. L’ignoranza e l’in-vidia aizzano le questioni.

Innocenzo Pennacchia

50 26-30 ottobre 1944: per il cattivo tempo e il pessimo abbigliamento è malato. Presso Aleksinac riceve da mangiaredalla popolazione locale.51 1 novembre 1944: niente di rilevante.52 5, 8, 9, 10 novembre 1944: idem.

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Martedì 7 novembre 1944 Grande festa per l’esercito russo. Non si lavora. Colonnadi Partigiani serbi sfilano cantando. Aerei di stampo inglese sorvolano Aleksinac e mitra-gliano una colonna russa su una strada fuori città. Gli apparecchi pare che siano pilotatida tedeschi che li avevano catturati. Così si dice anche perché a Niš è stato abbattuto unodi essi e l’equipaggio è tedesco. Si crede quindi che tutti sono pilotati da tedeschi.

Dal 25 gennaio 1945 al ... 53

Venerdì 2 febbraio 1945 Visita alla casa del carissimo Slobodan

Venerdì 3 febbraio 1945 Slobodan viene nel campo a visitarmi, poiché è amico d’unaguardia, e mi invita a casa sua per la sera. Ma mi è impossibile54.

Lunedì 5 febbraio 1945 Di nuovo il piccolo amico Slobodan penetra nel campo.Conversiamo. Prometto di recarmi da lui a casa verso sera, ma non mantengo la promessa.

Martedì 6 febbraio 1945 Dalla famiglia amica. Slobodan non vuol perdonarmi peraver mancato alla promessa, ma il papà e la mamma lo ammoniscono perché han com-preso che il mio mancare alla promessa non è mai volontario o per negligenza ma dipendeda cause ben più diverse: la mancanza di libertà. Conversazioni di italiano con le due ge-melle sorelle di Slobodan studentesse che amano l'Italia e desiderano studiare la lingua,e io parlo con piacere della mia lingua. Soliti amici.

Mercoledì 7 febbraio 1945 Lieta notizia: rimpatrio55

Sabato 10 febbraio 1945Verso sera torna Slobodan che al mattino non l'hanno fattopassare. Mi fa cenno dalla finestra, scendo. Che sollievo mi porta quel caro ragazzo. Midice perché non vado a casa la sera. Gli prometto per l'indomani. Mi lascia un pacchettodi tabacco e ci separiamo con l'abituale stretta di mano.

Il mio cuore è commosso. Sul mio giaciglio, prima di chiudere gli occhi, penso conriconoscenza a quel bambino gracile che ha un cuore d'oro e grande tanto, come grandiha gli occhi che mi fissano spesso nella loro languidezza ingenua e ringrazio con affettola Provvidenza che ha voluto rischiarare il duro cammino della prigionia con questa affa-bile creatura che mi ama come un fratello e che io ho battezzato così: “Il piccolo amicodel prigioniero”.

Domenica 11 febbraio 1945 Si lavora come tutti gli altri giorni, senza respiro, senzarispetto ai giorni festivi. Dopo mezzodì al bagno. A sera da Slobodan. Mi intrattengo unbel po' giocando con la piccolissima Gordana e con Vera. Verso le 6 e 30 torno al campo56.

Martedì 13 febbraio 1945 Il piccolo Slobodan in una breve visita mi avverte chel'indomani parte per la Bulgaria. Gli prometto di recarmi a casa sua verso sera. E vado.Mi trattengo molto poco, anzi mi affretto a tornare pregando il piccolo a tenermi compa-gnia. Ci separiamo con una più forte stretta di mano dopo ed un bacio fraterno.

Mercoledì 14 febbraio 1945 Passa una scolaresca e l’accompagna qualche inse-gnante. Una mano fa un cenno di saluto col fazzoletto. Mi precipito per raggiungere la

53 25 gennaio -1 febbraio 1945: neve.54 4 febbraio 1945: a casa di Slobodan con gli amici.55 8-9 febbraio 1945: persiste la notizia del rimpatrio.56 12 febbraio 1945: nulla di rilevante.

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strada e mi fermo al riparo dei cespugli. Un ragazzo esce dalle file e mi chiama”Enzo" misi accosta mi prende la mano e la bacia. È Slobodan, il fanciullo sparuto, è Slobodan daigrandi occhi ingenui, è il piccolo amico del prigioniero che parte. Il piccolo “Libero”(questo significato ha l’aggettivo slobodan) saluta il prigioniero. Ci baciamo ancora comesi bacerebbe un fratello e il piccolo amico fugge tra le file forse per trattenere un nodoche lo preme alla gola, per non palesare e non tradire qualche momento di commozione.

Il suo gesto però commuove me che - dopo averlo perso di vista - rientro con le lacrimeagli occhi. Ripenso con affetto al momento in cui, lasciata la fila, mi ha baciato la mano.

Addio, mio piccolo “Libero” addio, affettuoso bambino, che rischiarasti il mio cuorein un breve periodo della mia oscura vita. Forse non ti rivedrò più piccolo e caro amicodi prigionia, ma il tuo ricordo puro, lo conserverò scolpito nel cuore per sempre57.

Lunedì 19 febbraio 1945 Domenico Veltri mi ha fatto capire che la famiglia amicaè spiacente che io non mi faccio vedere e pensano anzi che il piccolo Slobodan non miabbia salutato. Recandomi in casa io invece mi scuso perché non mi fu possibile e riguardoal loro caro figliolo li rassicuro che nei miei riguardi ha agito più che un fratello. Mi trat-tengo poi con Ljubica e Ljubinka le sorelle del piccolo, in una piacevole conversazionesulla lingua italiana per più di un’ora, svagando la mia mente e sentendomi come in casamia. Quando rientro però ripiombo nella cruda realtà.

Martedì 20 febbraio 1945 Rileggo varie lettere della fidanzata. Come mi commuo-vono quelle frasi dolci se pure di altri tempi. Mi par di risentire la voce calda e melodiosadella cara Italia, come quando era a me tanto vicina. Ma è più di un anno e mezzo chequella voce tace. Tormento del cuore! nostalgia d’amore!

(Perché questa desolante attesa? perché non permettono la corrispondenza, unica con-solazione nel buio di questa vita?) Cane di un governo inumano!

Riallacciamento a grosse linee di circa un mese di diario e cioè dal 22 febbraio al23 marzo 1945

In questo periodo di tempo sono stati ritirati i lavoratori presso civili ma solo per Alek-sinac. Dal locale, situato nel corso di Aleksinac, che un tempo era un caffè, ove ci hannoportato per un breve periodo ci spostiamo di nuovo fuori dell’abitato in quella vecchiacaserma dove eravamo tempo fa quando il piccolo Slobodan visitava il campo. Dopo ap-pena otto giorni abbiamo subito questo nuovo spostamento. Siamo come gli zingari, sem-pre in giro con quei quattro stracci e senza mai una dimora fissa. Con tutta la loro gelosiaspinta sino al parossismo, si sono decisi a rimuoverci dal detto caffè. Ma che colpa nehanno gli italiani (sia pure prigionieri) di essere belli e amati? Il fatto è questo infatti. Ledonne, che simpatizzano fortemente per gli italiani, prima passeggiavano indifferente-mente sui due marciapiedi. Ma sin dalla prima sera che abitavamo nel caffè, han comin-ciato a passeggiar sull’altro ove eravamo noi che guardavamo delle vetrine e, passando,spingevano i loro sguardi curiosi, ma pietosi al tempo stesso e, dopo che le prime si reseroconto che in quel caffè erano stati sistemati gli italiani in vetrina e ben guardati - cometanti leoni destinati a star nel serraglio per timore che seminino strage - si son riversatetutte sull’adiacente marciapiede stabilendo così il passaggio soltanto da una parte. Quantisorrisi! quanti sguardi, quanti saluti, quanti atti e cenni di promesse e sospiri!

Ma il rigore è tremendo: guai a chi è colto a salutare una donna per via: c’è la prigionee i lavori forzati della miniera. Si son verificate molte evasioni e, in massa, si son verificate

Innocenzo Pennacchia

57 15-18 febbraio 1945: nulla di importante. Lavori di pulizia.

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verso la fine quando son rientrati quelli che lavoravano nei paesetti dipendenti del Co-mando Mesta di Aleksinac. La vita è insopportabile. E dicono di trattarci come amici.

Venerdì 23 marzo 1945 Da due giorni vengono raccolte le generalità di tutti noi ita-liani. Questa sera il lavoro delle liste deve essere ultimato. Mi reco a salutare le due fa-miglie amiche: quella di Vladimir e quella di Slobodan. Anzi la famiglia di quest’ultimomi invita per la sera, ma per timore non ho potuto ottemperare all’invito e so che in speciele due sorelle gemelle assenti al mattino sono rimaste molto spiacenti.

Circa le liste delle generalità ed anche il ritiro di tutti i nostri connazionali residentipresso civili, corrono molti voci, e anzi le guardie sono molto chiare nel parlare: (salvopoi la finzione) dicono che ci rimpatrieranno.

Non nascondo che io e la maggior parte dei compagni siamo piuttosto scettici, peròuna piccola speranza si accende in cuore. Certo che un fatto nuovo ci deve essere. Maiinfatti prima d’oggi sono stati ritirati tutti gli italiani: tornano i lavoratori della miniera equelli presso civili e i lavoratori addetti a compiti fissi nella città come fornai, barbieri,tipografo, addetti nei magazzini e presso i comandi, tutti insomma. Ciò lascia adito a unacerta speranza. Non mi illudo troppo, ma mi abbandono volentieri dietro a fantasticherieseguendo la mente e il cuore e mi par già d’essere nella cara terra d’Italia.

Sabato 24 marzo 1945 Sveglia, affardellamento dei quattro stracci, in fila nel corsoassorto ancora nel sonno e nel silenzio più profondo. Nell’attesa del “via” ma una cosastrana mi opprime. Quantunque ci sian voci e notizie che dovrebbero rallegrarci, non soperché il mio cuore è triste. Ci danno il “via” e la colonna dei poveri straccioni e zingari,scortata di tutto punto, si muove e la cadenza fatta di scarponi, scarpe di legno e zoccoli,rompe il silenzio della notte. Si lascia Aleksinac. Lascio alle spalle la caserma russa ovevissi ore tremende quel giorno di triste memoria del 19 ottobre 1944 in colloquio collamorte; lascio quell’orrendo carcere che ci accolse nero e squallido e sinistro le prime seredel soggiorno di Aleksinac; a destra uscendo, lascio quell’orrenda prima abitazione checi accolse dopo il triste giorno della mancata fucilazione, luogo ove sobbalzammo di notteall’imperioso e pauroso richiamo dello scarpone o del fucile d’un soldato russo che a qua-lunque ora della notte veniva a tirarci fuori senza tener conto del lavoro snervante delgiorno, per portarci ancora a spingere colle nude spalle gli autocarri carichi di materialeincagliati nel fango e nella neve; passo sul ponte ormai ricostruito con tante nostre fatichee saluto il fiume che scorre calmo; e, fuori ormai dalla città, rivedo a destra la casermaove soggiornammo per un lungo periodo e dove ebbi la consolazione di conoscere, esserevisitato ed infine abbandonato dal caro Slobodan l’amico pietoso e confidente del miospirito; e lascio pure a sinistra tra gli alberi il primo triste ricordo dei pugni e dei calci ri-cevuti dagli ubriachi soldati russi al mio primo arrivo ad Aleksinac. Insomma dietro dime lascio ricordi amari e volti e famiglie pietose di amici sinceri.

Camminando, quindi, tra il silenzio mi spiego perché il mio cuore è triste.In primo luogo, dovunque si vada credo, faccia su tutti un tremendo effetto il distacco.Ad Aleksinac, tolti i ricordi tristi, ci siamo abituati già ad un certo tenore di vita, men-

tre ora, se son false le voci che circolano si va incontro a nuovi destini.Spiace lasciare Aleksinac, perché se pure un giorno fummo barbaramente spogliati,

maltrattati e lasciati sotto le intemperie per oltre mezza giornata e a colloquio con la mortein procinto di essere senza colpa falciati dalla mitraglia, sorsero però nel periodo di 5 mesie più, persone di nobili sentimenti e dal cuore magnanimo che assolsero ad un altissimoatto di umanità: quello di interessarsi per noi poveri scampati dalla morte e ridotti in con-dizioni miserevoli spogli, laceri scalzi e senza conforto, sorsero dico delle donne che ciportarono il sorriso e il caldo palpito delle sorelle e della mamma portando nel campo ciòche la pietà dei civili dava loro. Il cuore, si capisce, si è sentito in dovere di esternare la

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propria riconoscenza ed è sorto anche per alcuni casi particolari il caldo palpito dell'amoreinevitabile.

Ma assorto in questi pensieri profondi siamo arrivati ad una stazione ferroviaria chia-mata Žitkovac. Verso le ore 8 partenza.

A mezzogiorno, siamo a Niš. Di nuovo in quella città che lasciammo una sera tra icupi bagliori delle fiamme al seguito di un esercito; che rivedemmo poi il giorno seguentetutta deserta e con magazzini saltati per aria e con vagoni, che carichi di merci, erano statidistrutti anch'essi per non lasciare nulla al nemico; di nuovo in quella città ove ci nascon-demmo per non subire la stessa fine del topo, toccata ai tedeschi in ritirata; nuovamentein quella città ove presentatoci ai russi creduti liberatori, ebbe invece inizio quella orrendaodissea di più di cinque mesi e che oggi dovrebbe avere il suo epilogo col felice rimpa-trio.

Ma no! Una nuova e più dura fase ci attende, ce lo dicono le frasi mozze e il riso bef-fardo delle sentinelle e i grandi reticolati che ci si parano dinanzi e le prime e sconsolatevoci dei nostri connazionali, rinchiusi dentro quei reticolati.

Di nuovo nel grande concentramento, tra fame, malattie, sozzume, pidocchi ed ognialtra sorte di insetti e parassiti schifosi. Di nuovo tra i reticolati, come i leoni in gabbia,senza saper nulla di sodo, tra mille voci e ipotesi sballate, sfiduciati, stanchi e demoraliz-zati sempre in attesa che il sole risplenda sereno.

Ma tra le tante voci ce n'è una che pare di una certa importanza e diventa poi sicuris-sima dal mutato e cattivo trattamento dei nostri ignoranti padroni. Si dice che a Romahanno dimostrato contro l'ambasciata jugoslava per Trieste e hanno persino lanciato unabomba contro tale ambasciata. Difatti li sentiamo gridare “Trieste è nostra” e sentiamodire al nostro indirizzo “taljanski fascisti”.

Era questa la causa del nuovo spostamento. Altro che rimpatrio, concentramento58.

Venerdì 30 marzo 1945 Addio alle notizie lusinghiere carezzate, addio rimpatrio!A primissima mattina sveglia, ordine di far lo zaino, e fuori dalle baracche. Ci fanno

sedere all'aperto sugli zaini posizione che teniamo per tutta la giornata. Leggono alcuneliste di nomi, li mettono in fila e via; per dove? non sappiamo. Le guardie ancora si burlanodi noi; ridendo, infatti, ci dicono: “alla stazione, per l’Italia" invece la verità è questa: tor-nano a smistarci perché non intendono darci da mangiare così senza far nulla tra i reticolatidel grosso concentramento. Saremo nuovamente sparsi dappertutto, presso civili e duecontingenti vengono avviati nei duri lavori di miniera. A me quale sorte sarà riservata?Quest'oggi infatti hanno sospeso quel penoso lavoro di chiamare l'appello per numerocome se fossimo delle bestie. Scrivo questa giornata di memorie e tornando colla menteal momento della sveglia mi par di non ricordarlo, tanto mi par lontano quel momentoperché la giornata quando è pesante e noiosa sembra lunga, lunghissima anzi intermina-bile. E poi quanto dolorosa! Nella baracca quasi totalmente buia infatti quanti vuoti!Quanti compagni mancano! Ripenso al distacco che durante la giornata mi ha portato viaamici carissimi che avevano passato con me quelle ore di tremenda prova del 19 ottobrequando la morte, con la sua ala nera, fece sentire il gelido brivido alle nostre spalle, allenostre anime e si fermò in quel colloquio straziante.

Rivedo nell'insonnia tutto quanto è avvenuto nella giornata: quante strette di mano!Quanti abbracci! Ci siamo persino baciati come fratelli anzi più che fratelli. Quanto ètriste il distacco, specie quando si va incontro a nuovi e forse più duri destini.

Durante il giorno, per rancio, pochi fagioli sconditi e la sera una abbondante razionedi čaj (sarebbe il tè cioè acqua colorata) e niente più.

Innocenzo Pennacchia

58 25-29 marzo 1945: donne locali visitano i prigionieri. Pulizia personale.

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Guerra, racconto e memoria

Sabato 31 marzo 1945 Sin da ieri sera fui incluso in un gruppo di circa una ventinadi connazionali. Alla mattina ne aggiungono altrettanti e ci conducono allo Sres. Non restapiù nessuno al campo. Al comando Sres ha luogo il mercato degli italiani.

Esco con un altro amico: Bruno e vengo tosto da lui accompagnato, anzi lo vedo subitopartire su un calessino. Io vengo condotto in un ufficio - che a mio parere - è un centralinotelefonico ed al telefono siede il mio compratore Ilja Ristic’ quello che sarà il mio padroneda oggi a sino che Dio Vorrà.

Un buon uomo in verità, ride poco, attempato sulla cinquantina, penso. Mi offre pa-recchie volte tabacco e cartine, mi fa mangiare con lui in ufficio ove resto fino verso lecinque di sera. Durante questo periodo di tempo è entrato un tale che, dando la mano atutti, ha stretto anche la mia e, accortosi che sono italiano, mi ha fatto subito il grato epiacevole complemento di dirmi “fascista” al che tutti hanno riso e sghignazzato. A quellaparola ed ai frizzi di scherno fatti al mio indirizzo, ho sentito una forza interiore che mispingeva a protestare energicamente, a ribellarmi, ho stretto le mascelle guardando il vileschernitore, ho sentito tutto il sangue ribollire, ma la situazione e l’impotenza mi hannoconsigliato alla prudenza ed alla calma. Ho sentito un fuoco rovente per tutto il viso di-ventato rosso per la mal repressa rabbia. Vigliacchi, ignoranti montanari solo avvezzi trat-tar colle pecore e andar con le “ciocie”.

Verso il tramonto, col padrone si prende la strada per Matevac ove arriviamo versol’imbrunire. Faccio conoscenza colla famiglia, buona gente. Però le offese alla Patria o alnostro passato politico, mi fa trascurare e non apprezzare anche atti di gentilezza che qual-che persona mi fa, sol perché di questa terra incivile e retrograda.

Mi viene offerto subito della rakia (grappa). Mi portan acqua per lavarmi i piedi e lemani; mi danno un paio di calze. Ceniamo cavoli e fagioli conditi, secondo il costumecon molta “paprika” (peperone). Si parla e, nel discorso, mi domandano cosa faccio dacivile. Faccio presente che la mia professione è ben diversa e che di campagna non me neintendo affatto però sono tutto animato di buona volontà. Al che rispondono “è ciò chebasta”. Prima di andare a dormire mi danno una camicia e mi ritirano tutto ciò che ho indosso per timore che non abbia pidocchi per poterlo lavare l’indomani.

Domenica 1 aprile 1945 Oggi è la Pasqua. A questa parola mi si stringe il cuore e misale un nodo alla gola. Ma bisogna rassegnarsi e reprimere il pianto perché ormai possoconsiderarmi sempre più uomo sia per i vari disagi e le durezze e le ore di prova dellapresente vita, sia perché domani compirò il 26esimo anno di età. Non è più bello ormaiavere un cuore da donnicciola dopo tutto quello che si è passato e sperimentato sino adoggi e chissà ancora. A prima mattina, vado a far la conoscenza con la stalla: hanno duebuoi e circa una decina di pecore. Mi viene spiegato e comprendo appieno il lavoro gior-naliero nella stalla. A prima mattina tocca pulire, strigliare e mettere del granoturco nellamangiatoia. Verso le nove, fasci di fusti di granoturco ancora. Dopo qualche oretta farel’abbeverata e dare ancora qualche fascina di fusti di granoturco. Verso le tre i buoi hanfinito di dormire e allora occorre portare un po' di fieno e paglia. La sera abbeverata. Que-sto è quanto mi è stato raccomandato all’inizio di questa giornata. Verso le otto di mattinatornando dalla stalla ho fatto conoscenza con la scure. Ho spaccato un po' di legna per lacucina e le ho portate sopra a bracciate in varie riprese. Poi ho levato la scopa di manoalla vecchia che è la mamma del padrone e la vecchia nonna di molti. L’ho chiamata“baba” (nonna) e lei sorridente mi ha lasciato fare con grande soddisfazione. Verso le 10ho mangiato un po' di fagioli e un uovo. Come trattamento non posso lamentarmi e, daparte mia, io sono tutto animato di farmi voler bene. Faccio conoscenza con alcuni altriconnazionali che lavorano in questo stesso paese. I paesani sulla strada litigano a causadegli italiani perché dopo la retata dei giorni scorsi non hanno potuto riavere quegli ele-menti che avevano avuto durante l’inverno.

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Verso le ore tre faccio per andare alla stalla insieme ad un amico di nome Giovanni.Ma il padrone mi dice di andare coi miei compagni a passeggio, oggi, perché è la nostraPasqua. Sosto a bere in qualche casa, e poi giro in compagnia dei connazionali. Verso seravado ad attendere ai lavori della stalla a governare gli animali.

La notte dormo insieme ad Antonio un brindisino che ha lavorato presso questa fami-glia per sei mesi.

Lunedì 2 aprile 1945 Giorno del mio compleanno. All’aprirsi della mia 26esima miaprimavera, curvo la mia schiena alla terra, prendo gli strumenti di lavoro e rivolto moltaterra colla zappa, la quale - in una giornata così lunga - non solo mi ha fatto i calli sullemani, ma li ha persino rotti. Le vene sono tese, i muscoli delle braccia sono fiaccati, lespalle mi dolgono e anche i reni mi fanno tanto male che quando mi drizzo, non posso re-spirare. Oh! che giornata intensa. Oh, che giorno memorabile nella mia vita! Povero miobabbo! e come ha potuto durante tutta la mia vita stringere questo duro strumento di la-voro? Oh! caro babbo, ora solo comprendo appieno i tuoi sudori e sacrifici per creare ame un avvenire migliore. Da che ho aperto gli occhi sino all’ora del riposo così si è svoltaquesta mia prima giornata di lavoro di zappatura alla vigna del padrone.

Era ancora buio completo e sono stato svegliato per accudire alla stalla. In compagniadelle donne poi mi sono avviato verso la vigna ove siamo arrivati, dopo un lungo cam-mino, prima ancora della levata del sole. Il padrone è tornato a Niš al Comando ove credoavrà una mansione da svolgere. Immediatamente abbiamo iniziato e, si capisce, ogni tantoun consiglio nuovo dalle donne: “Vedi, Enzo, si fa così” ed io: “si, va bene, starò più at-tento”. Quello che non potevo proprio mandare giù era il fatto che, colla zappa, dovevomandare la terra sul piede prima di andare avanti e in questo modo le “ciocie” erano sem-pre piene di terra la quale si mescolava col sudore dei piedi e mi dava fastidio.

Forse saranno state le ore 10 e abbiamo mangiato un po' fugacemente per riprendereil lavoro. Mi sono studiato a fare come dicevano e mi sono anche sforzato di tener dietroalle gonne delle donne che, bisogna riconoscerlo erano abilissime e lavorano come sefosse un gioco. E questo sino a verso le ore 14, penso, ora in cui abbiamo pranzato. Nuo-vamente abbiamo ripreso il lavoro ed io con sempre maggiore sforzo, sì da ricevere glielogi delle stesse donne le quali erano contente di me ché, quale studente, facevo molto edavo l’impressione che in seguito avrei fatto sempre di più e meglio.

Ma io ero proprio sfinito e non vedevo l’ora della fine e sospiravo continuamente ilcalare del sole. Ma questo mi sembrava sempre alto a mezzo cielo tanto che alla fine misono seduto, ho tirato via le “ciocie”, le ho liberate della terra che c’era dentro ed ho con-fessato che proprio non potevo durare a simile vita e a sì presente lavoro. “Una settimanacosì - ho detto - mi ridurrà in fin di vita, voglio parlare col padrone e dirgli che, con tuttala mia buona volontà, non posso fare questa vita e a voi serve d’altro canto un operaioche sia avvezzo a tutto e che vi renda molto”. Loro approvano e resta fissato che l’indo-mani tornerò a Niš dal padrone al comando, per dirgli che si trovi un italiano che gli rendadi più e che sia più avvezzo a tutto come quello che avevano durante l’invernata, quando,però, il lavoro si riduceva a spaccar legna per il fuoco ed accudire alla stalla. Ora inveceche c’era da lavorare veramente avevano avuto uno studente.

Questa giornata per me è sembrata lunga come tre interi giorni di lavoro. Ad ogni fer-mata (alle 10 cioè e alle 2) mi pareva un giorno di lavoro e dalle due alla sera un altro.

Martedì 3 aprile 1945 Tutta la famiglia si reca nella vicinissima Niš dove ha terreni.La moglie del padrone ed io facciamo un’altra strada, arriviamo a Niš, parliamo col pa-drone, mi scuso con tanta gentilezza e sottomissione, gli bacio la mano e lui rimane anzimolto soddisfatto perché, dice, gli sono stato sincero avendogli detto le mie condizionisin dal primo momento. Un altro mi prende per un baratto, un cambio.

Innocenzo Pennacchia

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Guerra, racconto e memoria

Avendo infatti saputo che al campo di aviazione di Niš è stato destinato un italianoche, nell’invernata, lavorava da lui, mi accompagna colà e chiede al comandante di ce-dergli l’italiano, lasciando me in cambio. Il comandante risponde non essere ciò di suacompetenza e il mio accompagnatore se ne va, lasciandomi così, ed io, stanco coi piedirotti, vado al lavoro con gli altri 17 connazionali che vennero destinati qui dopo lo smi-stamento del Lager di Niš.

Mercoledì 4 aprile 1945 Lavoro per il disfacimento di un torrione di fortezza e difesafatto di pali e tavole e il tutto ripieno di terra. Sono con me 5 italiani tra cui un romano,molto allegro e corpulento: Lino Caioli. Come lavoro non è pesante. Verso le 11 sono se-duto e il sole mi gradisce perché sento dei brividi per la vita. Poi si leva un vento impe-tuosissimo che solleva un grosso polverone. Mangio un po' e mi getto a terra. Il ventoseguita a fischiare. Nel pomeriggio i compagni fanno ritorno al lavoro, ma io non possoalzarmi, sento un malessere generale. Verso sera un compagno mi porta la gavetta col ran-cio che io divoro avidamente e poi mi stendo avvolgendomi nei miei pochi stracci comese fossi in gennaio. Un aereo atterra59.

Sabato 14 aprile 1945 Fino al mezzodì lavoro e sudo molto. Dopo pranzo, libertà.Bagno. Lavo qualche straccio; quindi accomodo le scarpe, metto qualche punto sugli in-dumenti laceri, mi cambio. Figure di donne: mamme, figlie, sorelle, spose di partigiani,sedute sul prato parlano coi loro congiunti che sono venuti a visitare. Nostalgia della fa-miglia lontana o desiderio inappagato di vivere qualche istante coi propri cari, con unamore di sposetta e di vivere un’ora spensierata tra il conforto d’un sorriso e d’una dolceparola amica. Ma quando sarà? Quando avrà termine questa vita di sospiri, senza calore,senza incanto?60

Giovedì 19 aprile 1945 Rastrellamento del campo d’aviazione. Lo percorriamo puntoper punto con grande cautela perché si può saltare in aria di momento in momento. Lo li-beriamo dei numerosi spezzoni che sono disseminati un po' dovunque e interrati, di moltemunizioni consistenti in caricatori per ogni genere di arma e cartucce gettate alla rinfusacoperte dall’erba. Molte spolette manomesse e pezzi di grandi bombe ancora ripiene ditritolo.

Un lavoro pericolosissimo. Trasportiamo molto materiale ingombrante, dentro i grossicapannoni rimasti ancora illesi, vari pezzi di aerei ed ali dalla cui tela ricaviamo interi go-mitoli di filo resistentissimo, che serve per rattoppare il nostro corredo di stracci. Rimirolo scheletro di un nostro aereo “Caproni” giacente nell’immobilità desolante. Molti pen-sieri turbano la mente. Penso la sorte di quell’aereo e sento in me esserci una profondaanalogia perché prigioniero come lui senza speranza. Una lacrima riluce sul mio ciglio enasce l’idea di scrivere alcuni versi che intitolo “Ali spezzate”61.

Sabato 21 aprile 1945 Rastrellamento delle infinite bombe inesplose. Interi grappoligiacciono infossate. Le liberiamo con picchi, zappe e vanghe, le isoliamo con circospe-zione, le tiriamo su e le lasciamo lì perché verranno raccolte da un’altra squadra di italianie caricate su un carro agricolo trainato da buoi e poi depositate lontano ai margini delcampo d’aviazione, dentro i camminamenti preparati un tempo dai tedeschi. Ivi, prima di

59 5-13 aprile 1945: in servizio presso la stanza dell'ufficiale partigiano. Maltempo.60 15-18 aprile 1945: idem.61 20 aprile 1945: Maltempo. Non si lavora.

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andare a mangiare al mezzogiorno e lo stesso alla sera, vengono caricate le mine e ven-gono fatte brillare più di duecento ed anche trecento per volta, tra un assordante fini-mondo.

Domenica 22 aprile 1945 Sentivamo da tempo il bisogno di dar pace allo spirito as-setato di Dio. Poiché, non lontano da Niš su una ridente collinetta visibile anche dalcampo, s’erge una chiesetta cattolica, abbiamo fatto chiedere al comandante il permessodi farci accompagnare dalle guardie in quella chiesa per adempiere al precetto pasquale.“Non ci andiamo noi, non si permette neanche a loro”. Questa fu la risposta. Rispostedegne di questa gente... Cosa si può desiderare di più, cosa si può sperare da questa geniadi persone fatte solo di materia? Vivere come bestie, ecco la teoria e la pratica del Comu-nismo che trionfa e impererà sull’Europa tutta in questo dopoguerra. Sia fatto il voleredell’Altissimo! Stesso lavoro di rastrellamento e, nel tempo libero della sera, mi dedicoad arrangiarmi qualche indumento. Da un vecchio pigiama, che mi fu dato ad Aleksinac,ricavo un paio di mutande dalla parte superiore e, dalle due estremità tagliate, mi sforzoa ritrarne fuori un altro paio. Fuori intanto si è scatenato un vento d’inferno che fischiafuribondo agli angoli del caseggiato facendo dondolare i grossi blocchi di cemento armatorimasti appesi dopo la furia della guerra mentre la pioggia batte ai vetri con violenza62.

Mercoledì 25 aprile 1945 Solito lavoro, vento e pioggia. In baracca. Verso le diecidi nuovo al lavoro tra un vento che ci trasporta. Rancio.

Dopo mezzodì rastrelliamo tante bombe che facciamo saltare in aria in tre riprese. Inlontananza si vedono nugoli di fumo e polvere e schegge infuocate, mentre la terra è tuttascossa tra un assordante rumore infernale. Notizie apprese da un apparecchio radio nel-l’ufficio del comandante: Conferenza di S. Francisco. Per circa tre quarti Berlino è caduta.In Italia si è oltrepassata la città di Ferrara. Le forze alleate e i patrioti italiani procedonobene.

Giovedì 26 aprile 1945 A prima mattina un nostro connazionale, dal Comando dellacittà, viene a rilevare le nostre generalità esatte dicendo che presto si dovrebbe partire allavolta di Belgrado per essere rimpatriati. Ci dice pure che Padova è caduta in mano ai pa-trioti. Lavo al vicino fiume gli stracci e ne rammendo altri. Notizie: Reggio Emilia, Man-tova, Genova e Milano sono in mano dei patrioti italiani e presto anche Torino.

Venerdì 27 aprile 1945 Forte e pesante lavoro per lo sgombero d’un capannone.Notizie dai fronti: si ribadisce la voce che circa tre quarti di Berlino sono in mano

degli alleati. Mussolini, Graziani e Pavolini arrestati.

Sabato 28 aprile 1945 L'intero giorno piove ed io profitto per il solito lavoro di ram-mendi al corredo dei cenci. Notizie alla radio: pare che la Germania abbia chiesto l'armi-stizio meno però alla Russia.

Domenica 29 aprile 1945 Riposo. Vento e pioggia. Un aereo atterra. La radio diceche Mussolini è stato giustiziato dal popolo.

Lunedì 30 aprile 1945 L’aereo tedesco atterrato ieri con a bordo personale Bulgaroriparte sulle prime ore del mattino. La salma di Mussolini e collaboratori è stata espostaa Milano e poi portata alla sepoltura senza onori. Fuochi accesi su tutte le alture, all’im-

62 23-24 aprile 1945: idem.

Innocenzo Pennacchia

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brunire sparatoria da tutti i lati con pallottole traccianti e razzi luminosi. E’ la vigilia del1° maggio, la festa del Comunismo.

Martedì 1 maggio 1945 Verso le nove adunata delle due compagnie di lavoratoriserbi, di una compagnia di fucilieri e di noi prigionieri. Il comandante di battaglione pre-senta la forza al commissario politico il quale, giunto al centro, grida col pugno sullafronte “smrt fašismu”63 a cui fa eco un coro “sloboda naroda”654. Cede il posto poi ad unoratore che commemora la data. Segue la sfilata, dopodiché la manifestazione ha termine.Rancio: brodo, pezzo di carne, 9 sigarette.

Nel pomeriggio ancora conferenza, puerili recite e musica con balli primitivi. Hannoinvitato, al proposito, tante ragazze e “drugarice” (compagne) che sono intervenute nu-merose e ballano, ridono, schiamazzano e si abbandonano spensierate sui prati. Tutti tap-pezzati dalla fantasmagoria delle loro vesti multicolori. E continuano fino a tarda ora,sempre schiamazzando tra il calore della grappa mentre il silenzio della sera è rotto dallecontinue sparatorie e l’oscurità del cielo reiteratamente viene solcata da razzi illuminanti.

Città italiane liberate: Treviso, Udine, Venezia, Alessandria ed altre. Nel periodo d’unadecina di giorni i patrioti italiani hanno liberato più di un centinaio di città apportando ungrande contributo alle forze alleate, fatto questo posto in rilievo dal colonnello Stivensnel commento ai fatti del giorno. Questo contributo, dice anzi farà sì che si tratti l’Italiacon molta benevolenza nella soluzione di alcuni problemi nel dopoguerra.

Mercoledì 2 maggio 1945 Giornata comune, ma alla sera ci consola una calorosa no-tizia: la nostra Italia è alfine completamente libera. Le forze tedesche, presidianti l’Italiasettentrionale e il meridione Austriaco (22 divisioni tedesche e 6 italiane) si sono arresesenza condizioni. Contentezza per la notizia, ma d’altro canto il cuore non è, e non puòessere soddisfatto appieno, finché non avrà le risposte agli interrogativi che attraversanola mente: quando si spezzeranno queste disgraziate catene?… Quando anche noi saremofinalmente liberi nella libera Italia?…

Si ha notizia della fine di Hitler e della capitale della Germania che è ormai all’ultimaora di vita. Anzi mi sono appena adagiato quando nuovi spari tutt’intorno, voci confuse ebaldoria si sentono accompagnati dal fischio di tante sirene mentre il cielo di tanto in tantoè solcato da numerosi razzi illuminanti. Baldoria e danze fino a tarda sera.

Giovedì 3 maggio 1945 Ancora fischi prolungati delle sirene. Solito lavoro. Altreforze si arrendono. Trieste in mano a forze neozelandesi.

Venerdì 4 maggio 1945 Sego, spacco e trasporto legna alla cucina. Un milione di pri-gionieri in Olanda e Danimarca che hanno capitolato. Due tradotte di soldati serbi vannoverso il nord. Questa è una mossa tattica. Penso vengano avviati verso Trieste. Recito ilrosario prima di dormire.

Sabato 5 maggio 1945 Mezza giornata di lavoro e l’altra metà mi faccio il bagno elavo qualche indumento.

La radio dà notizia di tutta la gravezza nei rapporti politici tra Italia e Iugoslavia perla questione di Trieste. Questa notizia accascia. Quando crediamo quasi tutto finito e vi-cino il giorno della liberazione, altre questioni sorgono.

63 Morte al fascismo.64 Libertà del popolo.

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Domenica 6 maggio 1945 Pasqua serba. Freddezza spirituale e apatia e noia. Mi sentomolto indisposto e non ho appetito. Per radio ancora la questione di Trieste.

Lunedì 7 maggio 1945 Mi viene riconosciuto il riposo per oggi. Molte donne fannovisita ai loro congiunti, soldati o civili del battaglione lavoratori, portando ogni bene nelleloro ceste. Verso le tre si apprende che la Germania ha capitolato su tutti i fronti. Le sirenelanciano i loro fischi assordanti, prolungati e pateticamente melanconici che s’incrocianomentre si spara a salve da ogni dove, tutt’intorno.

E’ finita la guerra…Il cuore ha brividi di pianto e di gioia perché sembrava che quest’ora non dovesse

giungere mai. Ma ancora la nostra gioia non è una gioia piena. Quando finirà per noi ilpresente stato di cose?

Quanti avvenimenti, quante novità sorprendenti si sono succedute nel breve periododi pochi giorni, ma a tutte il prigioniero, ormai stanco e sfiduciato, dà poco peso e rispondecon un sorriso pieno di amarezza sempre triste e scettico.

Ancora non ha risuonato quella agognata e lacrimata notizia della bella e dolce libe-razione. Ancora attende, il povero prigioniero la voce lontana della cara Patria quella solae cara voce che potrà ridare la gioia vera, potrà far sorridere il cuore del prigioniero d’unsorriso sentito, spontaneo e caldo nel pacato e sereno miraggio della pace spirituale.

Martedì 8 maggio 1945(Annotazioni non svolte)

Innocenzo Pennacchia

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LA MEMORIA SI RACCONTA

di Alessia Patanè

«Quando la memoria va a raccogliere i rami secchi,torna con il fascio di legna che preferisce».

Proverbio africano

Perché, nel territorio di Priverno, esiste una memoria pubblica dei tedeschima non dei marocchini? Perché intorno a questo evento della storia non si è for-mata alcuna memoria ufficiale? E Com’è possibile che la maggior parte degli in-tervistati pur rievocando razzie e rastrellamenti giunge a concludere, quasisempre, che i tedeschi “a noi ci volevano bene”?

Sono i quesiti a cui ho cercato di dare una risposta attraverso un lavoro di in-terpretazione dei contenuti delle interviste raccolte tra il 2007 e il 2009.

Attraverso l’uso delle fonti orali, la ricerca condotta si è posta l’obiettivo direcuperare la memoria storica degli eventi locali della seconda guerra mondiale,prestando particolare attenzione alla percezione e alla rappresentazione dei com-portamenti dei soldati tedeschi e marocchini elaborate dalla popolazione di Pri-verno nel corso degli ultimi sessant’anni.

Il contenuto emerso dalle interviste è vasto e vario: si va da descrizioni diavvenimenti a resoconti sull’esperienza personale a rievocazioni nostalgiche, iltutto raccontato in dialetto perché è in questa lingua che i ricordi si esprimonopiù facilmente e con maggiore spontaneità.

Nel trascriverle ho conservato la forma dialettale per mantenere una maggiorefedeltà al testo orale registrato; spesso troverete dei punti di sospensione a sot-tolineare cose non dette o sottintese; e se pause e i silenzi nella forma scritta sitraducono con un insieme di simboli grafici, nella forma orale contengono emo-zioni, imbarazzi, esitazioni; esprimono l’atteggiamento del soggetto verso quelfatto.

Altro aspetto interessante è la gestualità che accompagna il racconto, a spe-cifici argomenti corrispondono altrettanti specifici gesti: le mani tra i capelli neldescrivere i bombardamenti, stringersi il busto tra le mani nel parlare delle vio-lenze delle truppe marocchine.

In questa opera riportiamo 7 interviste rappresentative delle 15 (13 donne e2 uomini) previste dal progetto originario.

I soggetti della ricerca appartengono ad una rete di conoscenze dirette e me-diate: sono donne e uomini di età compresa tra i 70 e gli 80 anni quindi i racconti

Alessia Patanè. Laureata alla Facoltà si Sociologia in Analisi dei processi culturali, interculturali edella comunicazione. Impegnata nel campo dell' iimmigrazione per una cultura dell'accoglienza edella solidarietà a tutela dei diritti umani.

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dell’occupazione e della liberazione vengono a coincidere con quelli dell’infanziae dell’adolescenza generando un intreccio tra eventi pubblici ed eventi privati.

Il lavoro di interpretazione delle testimonianze ha consentito di mettere inluce anche il rapporto tra le memorie autobiografiche individuali e le trasforma-zioni socio-politiche del quale il testimone è protagonista.

La memoria non è quindi la semplice riproduzione del passato ma un processodinamico di rielaborazione del vissuto: una storia ogni qualvolta che viene narrataassume significati diversi sulla base delle esperienze, degli interessi e del saperepresenti del soggetto che è divenuto altro rispetto al passato ed è in questo spaziotemporale che si plasma il senso del proprio vissuto.

Un elemento comune e ricorrente che emerge nei racconti dei protagonisti diqueste interviste è l’immagine del “soldato buono”; il tedesco che aiuta la popo-lazione per la sopravvivenza, che rispetta le donne e i bambini è una rappresen-tazione largamente condivisa solo in parte veritiera ma non è necessariamenteun racconto falso:

“…non so’ se hanno trattato male qualchedun’altro ma a noi ci volevanobene […] ecco erano cattivi se tu li trattavi male […] anzi ci portavano la mi-nestra…”.

La presenza prolungata dei tedeschi nel paese aveva instaurato un clima diconvivenza apparentemente amichevole: “…ci dovevi pure anda’ d’accordo” equesto aveva fatto si che qualsiasi atto di violenza avesse carattere episodico fa-cilitando l’attribuzione di momenti di massimo scontro ai reparti speciali: “…erano i più cattivi le SS, erano chigli che proprio t’accidevano tanto che conti”.

La maggiore violenza esercitata dalle SS contribuisce alla creazione fittiziadel tedesco buono che capisce “le esigenze della popolazione” mentre “le SSquelli no, quelli erano terribili”.

L’abitare accanto agli alloggi dei tedeschi sembra creare addirittura rapportidi vicinato, di condivisione del pane:

Gruppo di Goumiers della legione francese

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“Le SS - racconta M. - erano un po’ cattivi però ti dirò che chigli tedeschiche stavano sotto quando facevano da magnà, tenevano ca pezzo de pane, eraniro, issi li chiamavano glio prot allora abbussavano “mamma mamma” ci di-cevano a matroma: “la bimba la bimba”…”;

La rappresentazione del tedesco buono viene meno nel momento in cui si di-stingue all’interno della Wehrmacht la presenza di soldati di nazionalità diversa:“…erano cattivi i tedeschi erano cattivi, invece gli austriaci erano bonacci…”,racconta Oliva. E’ l’austriaco che stabilisce un contatto con la popolazione at-traverso il dialogo:

“…gl’austriaco te capisceva, quando ci dicivi ca cosa isso veneva a fatica acapi’ peò t’aresponneva” invece “glio tedesco no’ te capisceva”,

La creazione fittizia del tedesco buono si dissolve anche nel confronto con ilsoldato americano la cui immagine torna alla mente sempre connessa alla dispo-nibilità dei beni materiali, alla sensazione di potersi finalmente liberare dal pen-siero della fame:

“perché i tedeschi ci’anno fatto mancà ‘ il pane i tedeschi ci’anno fattomanca’ tutto e quando ao arrivati gl’americani ‘a arrivato tutto per noi, ‘a co-minciato arriva’ la farina, i vestiti, ‘a cominciato ‘a arriva’ le scarpe, ‘a comin-ciato ‘a arriva’ tutto…”.

Sugli americani si concentrano attese e speranze ma la liberazione tanto attesasi trasforma presto in un incubo.

“Quando pensavamo che la guerra era finita per noi no per noi era la clau-sura fino a che i marocchini non sono andati via” racconta Luisa.

Con l’arrivo delle truppe d’occupazione si viene a contatto con il diverso, lostraniero. Ma in questo caso la scoperta della diversità è stata drammatica.

Nei racconti le donne si soffermano sulle trecce, il colore della pelle, i copri-capo dei marocchini. “Erano bruuutti co’ chelle trecce co’ chigli turbanti ‘n capo,de chigli teneva paura”.

Questi elementi evidenziano la stranezza e allo stesso tempo l’alterità delletruppe marocchine. L’altro è l’inconoscibile: “niri brutti, d’estate tenevanofriddo, tutti alloco alla Porta(Romana), a glio sole”.

Il diverso è l’incarnazione di tutto ciò che è vergognoso, ripugnante, i ma-rocchini erano ‘cattivi’, ‘disgraziati’, ‘assassini’; i marocchini “erano…bestie”,mentre:

“i tedeschi ci steva cauduno pure malamente ma steva pure la gente bravaperché i boni e li cattivi stavo da pe’tutto. Era la guera e quando è guera è gueran’ci sta niente da fa…”

“N’ao acchiappato mai nisciuna dentro la casa, ao fatto glio dovere se’ den-tro Piperno dopo agl’atri posti no’ le saccio”.

Se le azioni dei tedeschi sono quelle chi ci si aspetta da un esercito in guerra: “…era la guerra fi’ se no’ m’accidi tu te tengo t’accide io a ti…”, le intervi-

state concordano nel sottolineare l’eccesso di violenza gratuita praticata dai gou-miers che riporta alla mente immagini apocalittiche: “ao fatto la strage degliinnocenti”, “chigli ao fatto strage ando’ passavano” conferma un’altra intervi-

Alessia Patanè

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stata, “ando’ passavano chisti ao distrutto tutto”Vennero stabilite anche delle parole in codice quale “rozzolo” per avvertire

le ragazze della presenza dei marocchini e avere così il tempo di nascondersi.Reti di solidarietà femminile, generazionale e familiari sono state strumento didifesa per proteggersi dalle violenze. Se prima erano gli uomini a doversi na-scondere sulle soffitte o nelle “tracerne” per sfuggire alle retate dei tedeschi, orai ruoli sono rovesciati, sono le donne a doversi nascondere e gli uomini proteg-gerle. Una guerra che si è svolta per tutti i protagonisti al di fuori della loro com-prensione “…nsomma ne saccio neanch’i’ che guerra era chesta…”, continuaStella, e l’immagine che mi restituiscono è quello di un quotidiano che esponecostantemente al pericolo al quale si è cercato di sopravvivere mettendo in attoforme di solidarietà e strategie impensate.

In molti racconti emerge la percezione di una parallela guerra ai civili accantoa quella combattuta tra gli eserciti in cui la popolazione si ritrova tra due fuochi:“…’nsomma era la guera fi’, semo stati meso a du’ fochi…”.

L’incomprensione di allora si è trasformata nella consapevolezza di oggi cheun qualsiasi conflitto non porta con sé alcune soluzione perché “se fai la guerradevi esse già pronto col muso duro” ed è impossibile trovare ragioni sensate allaviolenza: “le guerre non se devono fare […] non ci’à ragione ne uno ne l’altro,quando combattono sbagliano tutti e due”.

La memoria del passato si traduce così in un rifiuto della guerra. La ricerca non vuole essere un punto d’arrivo ma l’inizio di un working in

progress perché se “l’evento vissuto è finito”, “l’evento ricordato è senza limite”.Le interviste sicuramente offrono lo spunto per ulteriori analisi ed interpre-

tazioni. Sarebbe interessante approfondire la memoria della guerra dal punto divista femminile perché il secondo conflitto mondiale è stata una guerra che havisto come protagonisti gli uomini come anche le donne, impegnate ad attivarestrategie di solidarietà e di protezione per i propri uomini; donne protagoniste diuna violenza tale che la memoria ha preferito affidare all’oblio, una memoriaferma lì, nel tempo, ma pronta a riemergere se sollecitata.

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Intervista

Loreta De Bonis classe 1921

Loreta: Dopo che se ne ao iti da ecco ao iti agl’iatto de Cassino, Frosinone,alloco ao fatto i macegli. I teneva la gente che veneva a raccoglie le spighequando se mieteva, erano forestiere, l’hanno dopo ne venero bia dova, “e comeva chessatre (le altre), che ao fatto?”, “figlia” ‘na vecchietta “l’ao smadrate” haditto (alza il tono della voce), “pe’ denanzi, pe’ detre” (davanti, dietro), l’accide-rono: giovani, vecchie, tutto.

Però ha ditto ca uno disse: “L’Italia ha rovinato, dentro gio paese” la Francia,che era?! ha detto: “cattiviiii”, sai che facevano? dice che devono foco alle fra-sche, prima ievano, se divertevani gli italiani, ‘na vota ‘na nonna vecchia, lamadre e du’ figlie tutte ‘n cima a chelle (quelle) cariche de legna, dice che aofatto tante cattiverie, disse chiglio e mo’ ao portato chisti assasini pe’ fagli divertì.

Ce stava ‘namicizia pare che eravamo frati e sore, li pianti, quando i facevala pasta all’ova ne faceva più tanta «t’arecordi zì Lorè come magnavamo, ‘nci(non ci) stavo più porelle». Prò dice che gl’italiani ao fatto i macegli alloco. Nuistavamo a mete mai la Marittima chisti portavano de giugno no vestito marone,pesante, lo cappuccino, allora Cosa che teneva le vacche vicino alle terre de zìVincenzo, mo’ no’ me recordo come se chiama dice: «costì (Agostino) ma faipassà moglieta mai la via co’ si diliquenti», io portava a magnà, a beve, eravamo‘na decina de metitori, ma i me la pigliava alla leggera, ma i camion tutti co’ logabbione, chiusi. Allora uno voleva ‘scì (uscire), allora uno de Piperno dice :«costì vacci co’ lo soricchio in faccia che ao paura», allora scerono tutti co’ losoricchio e scapparono.

Luisa: Si perché papà diceva che avevano paura dell’arma bianca.Loreta: Allora ‘no vecchiotto disse: «tu facivi acchiappà moglieta, la facevi

arovinà da st’assassini, tutti ‘sti sacrifici de guerra che semo passati».Alessia: Cos’è l’arma bianca?Luisa: è il falcetto, ha la lama bianca, (mi mostra l’oggetto che ha sul camino

insieme agli altri ricordi del padre), questo quando l’arrotavano diventava colorferro chiaro, un grigio chiaro quindi loro avevano paura di questo perché lorousavano fucili e pistole.

Loreta: ce lo disse ‘no pipernese se vede che era stato da chelle parti«curi(corri) costì co’ glio soricchio ca moglieta ‘nci guarda più».

Luisa: però io ho un ricordo buono degli americani, dei tedeschi avevo pauraperché, non lo so, o era l’abbigliamento, il loro modo di fare sempre violenti conla voce «Raus» mentre l’arrivo degli americani non è stato così. Io mi ricordostavo sfollata, no’ con lei, con papà, mamma, le cugine a Valle Cagnana, giù allavalle, prima era campagna, poi c’era un lungo fosso di acqua, oltre il fosso sta-vamo noi, mi ricordo mio padre, una mattina, le cannonate, mamma mia, da Cas-sino, tra tedeschi e americani era una musica notte e giorno e…quando mio padrevidde un’ aereo a forma…lui la chiamava la cicogna, mio padre aveva combattutola guerra del 15-18 quindi sapeva e allora mi disse: «Luisa gli americani sonovicini», «magari!!!» feci io, «magari, non tengo più le scarpe, non tengo piùniente» perché mi erano rimaste un paio di scarpe di gomma, si erano tagliate eilacci non ce l’avevo, avevo messo il fil di ferro al posto dei lacci, non riuscivo

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più a camminare bene, allora papà disse «prepariamoci», allora c’avevamo ilmulo, carichiamo tutto quanto, attraversiamo San d’Avino, sotto le cannonate escendiamo alla ripa, mesà che la troviamo gli americani!! Io portavo una creatu-rina, una nipotina figlia di una cugina che stava con noi, le avevo dato la mano,andavamo verso san martino e in mezzo al sentiero io che non vedevo l’ora divedere gli americani perché…mio padre dice: « camminiamo camminiamo cheora arrivano gli americani», vedo un cristone (un uomo alto e grosso) per terracon la mimetica, io non sapevo, lo so oggi che è la mimetica militare, con l’el-metto con la rete, allungato (espressione di stupore), io appena lo vidi feci:«oddio, oddio papààà» e tornai indietro co’ sta creatura, a momenti mi cadeva,lui si alzò, mi disse: «american, american», mi si avvicinò, mi fece una carezzaproprio per dire non aver paura, tutti avevamo paura, allora lui ci portò più avantie cominciò a dare un sacco di roba, scatolame ‘ste cose così e ognuno di noiprendeva quello che poteva e io dissi che volevo un paio di scarpe e lui mi disseche le sue non potava darmele (sorride) perché erano grandi per il mio piede, in-fatti lui era alto, era un bel giovane e insomma a piedi, paino piano arrivammodove stava lei (la sorella), vicino da Ottaviani oggi, a piedi, ma gli americani ciavrebbero dato, se noi non stavamo attenti ci avrebbero rotto pure la testa perchédalle macchine buttavano viveri a tutto spiano: mia nonna la caricarono di roba;noi ragazzi, tra i 15-16 anni tutti mano la strada e loro buttavano il ben di Dio,per esempio il pane di riso, io non conoscevo il pane di riso, bianco bello, pa-gnottine, una fettina fina fina la mettevi in una tazza di latte ma buono, buonobuono e non ci sembrava vero perché noi grazie a Dio avevamo da che vivereinsomma ma tanta gente soffriva la fame. Sai il marito di Claudia che mi ha rac-contato, io non lo sapevo, stavamo sfollati, giù a Valle Cagnana e io avevo panee prosciutto perché grazie a Dio papà aveva provveduto, aveva nascosto perchéaveva fatto la guerra quindi capiva e ci avevo pane e prosciutto, allora io non lovolevo, Giovanni stava mangiando la crusca cotta nell’acqua, nel tegame, ma selui me lo avesse detto, io io non lo sapevo, io pensavo che quello era il mangiareper le galline, per il maiale, capito, dico io te lo avrei dato, ma come me dici oggime lo potevi dire ieri quando stavamo sfollati, vicini.

Pensa che io davo il pane ad Ermete Saputo, la mamma aveva solo morta-della, salame, ma pane non ne avevano, farina non ce l’avevano porella, allorami ricordo era compagno mio, la mamma lo chiamò: «Ermete, Ermete ve’ chemamma te da’ la mortadella», «no ma voglio tutto pano», la mamma dice: «manon le tengo, che te donco (dare)».

Loreta: Momenti brutti.Luisa: Allora venni a prendere il pane e glielo portai e io mangiai la morta-

della con gusto, con una fetta di pane e lui quando vide il pane, porello, c’è genteche ha sofferto. Quando vidi l’americano disteso lungo il sentiero del bosco, ioi brutti negri li vidi, non so, quelli erano come le bestie, e ci portò dove erano gliamericani dove erano gli interpreti italiani più avanti e allora l’interprete disse anoi: «non alzate gli occhi, guardate a terra», ma sai la curiosità è femmina e iocon la coda dell’occhio mamma, un gabbione, le belve!

Alessia: Ma erano i marocchini?Luisa: Negri, negri. Però la strage i marocchini l’hanno fatta verso Giuliano,

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Intervista

Valle corsa, da quelle parti lì, sui monti Ausoni, lì c’è stata la strage.Loreta: Omini, femmene…Mamma stava alla vigna perché scappao?! S’ao

approfittato pure degli omini. Ci stava Zucchero, li macellarono, era ome, vec-chio, capito?! Se trovava mamma che succedeva…Padremo co’ matroma ci dissea chiglio “cammina”, “eh che me fao”. Padremo stava a dà l’acqua ramata e ma-droma a scraponà ma padremo era ‘no tipo sveglio dice “arevevo, arevevo aecco,teo capo brutto e infatti….

Luisa De Bonis (maestra), classe 1929

Luisa: Quando giunse la notizia che l’otto settembre ci fu l’armistizio tutticredevano che la guerra era finita: «è finita la guerra, è finita la guerra» invecela guerra cominciava allora, la guerra civile perché con le truppe americane,truppe francese che portavano soprattutto marocchini perché il Marocco era unacolonia francese, il comando francese si stabilì a Priverno e controllavano i ma-rocchini e le donne marocchine perché avevano portato donne marocchine persoddisfare i marocchini perché erano violenti bastava che vedevano una donnaitaliana, subito no, quindi erano tenuti a freno dai francesi e si erano stabiliti aPriverno al vecchio carcere dove adesso c’è l’ufficio per l’igiene e i servizi am-bientali (ex usl-portaromana) e sotto al garage sulla via che porta alla stazionec’erano le stanze dei marocchini e delle marocchine questo io lo so perché alloraavevo quindici anni, mi ricordo che papà venne a casa esterrefatto, sbalorditouna mattina perché avevamo una rimessa oggi si dice garage mentre stava pre-parando il carretto e il cavallo ad un certo momento: «ho visto tre…» non sapevache erano donne «tre personaggi alti con delle tuniche» quindi queste tre eranodonne marocchine che entrarono subito nella rimessa dove papà stava preparandoil carretto e il cavallo, si tirarono fuori, avevano un camice, mio padre ebbe paurama nello stesso tempo non fece in tempo ad avere paura che un comandante fran-cese le raggiunse e a voce (alza la voce e farfuglia) le riportò nel garage dovequeste dormivano, avevano i letti, e poi papà non le ha viste più.

Alessia: e queste donne cosa volevano?Luisa: Come i marocchini cercavano donne italiane così le marocchine vole-

vano uomini italiani evidentemente. E quindi quando si diceva che l’otto settem-bre la guerra era finita invece con l’arrivo dei marocchini noi eravamo tutti dentrocasa , nessuno potava uscire più. Proprio una cosa tremenda, tutti avevano pauradei marocchini perché avevano già una nomea dice sai questi sono selvaggi ec-cetera poi però a Priverno non è che è successo niente di., non hanno dato fastidioanche perché c’era il comando francese che controllava la situazione ma se questiriuscivano a scappare, ad allontanasi, a farla ai francesi, danneggiavano le donneche incontravano in una maniera bestiale soprattutto su a Roccasecca sai dove?Verso la Lucerna, loro andavano per le montagne, per le case isolate. A Privernosolo un caso, a Ceriara, che io ricordo perché nel 1948-1950 io esercitavo l’atti-vità di assistente sociale dello Onarmo perché non si facevano supplenze, io feciun corso di assistente sociale a Roma e quindi mi chiamarono come assistentesociale prima dello Pontificio Assistenza e poi dello Onarmo e praticamente io

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assistevo persone povere che avevano bisogno di farsi fare pratiche all’Inps ec-cetera.

Un giorno stavo in ufficio e questo nel ’51 entrò una signora che camminavatuta dritta, impalata ecco muoveva le gambe però il busto, il corpo rimaneva tesoe mi disse: «sai signora io ho bisogno tanto perché io ho sofferto tanto», «madimmi, dimmi tutto quello…», «io devo fare una pratica a Latina per la malattiache ho avuto», dico: «raccontami no», dice: «oddio signorì» mi disse: «mi ver-gogno a direterlo, si’ ragazza», «ma dimmi, dimmi, raccontami tutto» e mi rac-contò che lei era una marocchinata, abitava a Ceriara in una casa di campagna,allora Ceriara non era popolata come adesso, c’erano casette sparse, vivevanonella miseria, due marocchini entrarono dentro casa, lei stava sola col maritoe...violenti, allora legarono prima il marito lo bavagliorono e uno gli teneva lapistola proprio sulla tempia mentre l’altro violentava la moglie in presenza delmarito, questo me lo raccontò lei con le lacrime e lei cercava di reagire ma chila sentiva con quella violenza ha detto: «io non mi potevo muovere ero impalata,non sapevo quello che accadeva vedevo solo gli occhi di mio marito che mi guar-davano…spaventati proprio», terminato, lui prese la pistola al compagno e ilcompagno continuò a violentarla in una maniera bestiale fino a che questa «hoavuto una emorragia e mi hanno lasciato, so’ scappati, mio marito è riuscito asciogliersi, è stato lui perché io ero spaventata, non capivo più niente no, e mi ri-trovai al policlinico a Roma, mi avevano perforato l’intestino e mi stava venendol’asetticimia e non lo so come sono viva però ecco come sono rimasta». Terro-rizzata, terrorizzata, dice: «signorì, tu si’ signorina non te le voglio dì però questo,questo e questo m’hanno fatto». Una cosa tremenda, tremenda, tremenda….

Le mamme non ci facevano uscire li vedavamo dai vetri della finestra delbalcone di mia nonna, vedavamo passare questi marocchini con una tunica arighe, quelle stoffe rigate marrone, marrone più chiaro, più chiaro ancora, lunghee il cappuccio dietro e loro erano magri, magri e il colorito olivastro non proprionegri, quel colorito scuro, magri, molto magri, io me li ricordo così.

Quando il comando francese portò via i marocchini allora noi cominciammoad uscire, ma i francesi erano molto gentili con noi, si, mi ricordo che…io houna sorella suora no, lavorava al Celio, l’ospedale militare, e non sapevamo no-tizie più durante i bombardamenti, la guerra eccetera, l‘arrivo degli americani,non sapevamo più dove mia sorella stesse, perché il Celio era stato trasferito inun altro edificio di Roma e lì si erano stabiliti gli americani, e allora mio padresempre in questo periodo delle marocchine, di marocchini eccetera, conoscendoquesto non so’ sarà stato un comandante, qualcuno, un graduato perché per rin-correre le marocchine era a guardia di queste marocchine, allora mio padre co-nobbe questo francese gli disse: «senta dice io ho una figlia così e cosi però nonriesco ad avere notizie, che fate, andate qualche volta voi a Roma, dice: «si, si»,«però no voi marocchini quando andate voi francesi, insomma, allora fu moltogentile, portò mio padre al Celio, al Celio dissero dove erano le suore del Celiocon i malati nostri italiani e lo accompagnò lì e mio padre rivide mia sorella poigli diede un appuntamento e lo riportò a Priverno, fu di una gentilezza squisitaproprio, però questo è il ricordo che noi non potevamo assolutamente uscire,niente, solo gli uomini, i ragazzi ma noi no.

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Intervista

Quando pensavamo che la guerra era finita per noi no, per noi era la clausurafino a che i marocchini non sono andati via.

Maria Cipriani e M.*(*L’intervistato/a ha chiesto l’anonimato nella pubblicazione)

M. Cipriani. : Nel ’43 à venuto sto battaglione della Piave e nel frattempo cistevano pure i tedeschi e hanno fatto le razzie, se prendevano gli uomini.

M. : à visto via Zaccaleone, tutti seduti pe’ ttera e gli cammi stevano a eccoalla porta, dopo ao cominciato a fa’ la razzia, chesto me ce so’ trovata io lo possodire, steva glio padre de Tina Coletta: Miliuccio, teneva glio camice bianco, eravisto tutti sti cammi, co’ ‘na botta, alloco meso alla porta(romana) ao scappatitutti ‘ste tedeschi e ao tuti tutti gli omini che ao trovato pe’ la via, chi le sapeva,isso à aremasto, oh mari’ me l’arecordo accome mo’, ‘no begl’ome, aremasto‘mpalato, ci à venuta la tubercolosi.

M. C. : s’à salvato perché portava glio camice bianco, isso teneva glio mulinoando sta’ mo’ la parrucchiera sotto da ti’, steva glio mulino che macinava gliograno, isso ‘a visto tutta sta confusione e s’à ito ‘nforma che steva a succede etra tanti pure isso volevano sequestra’, ci à ita be’ ‘nsomma, à ditto: “me vado atogliere il camice, chiudo le macchine e vengo”, co’ chella grande agitaziones’ammalato. Allora tutti gli omini dopo ao ‘ncominciato a scappa’ alle montagne,se n’ascondevano sopra alle soffitte

M. : alle tracerne, perchè ‘n cima alle soffitte ci azzecavano pure. Alessia: che so’ le tracerne?M. : Tra ‘na casa e n’atra, se tu passi aecco aglio vicolo de Baboto ci stavo le

tracerne che erano larghe accosì (indica la larghezza con le mani)Alessia: e’ tipo ‘na fessura?M.C. : pe’ no’ f’appicica’ ‘no’ muro co’ gli atroM. : e se mettevano meso a chelle cose, anguattati , chi gli eva aretrova alloco,

ievano alle soffitte, entravano alle case, manco agli cani mamma mea M.C. : a Piperno acchiapparono parecchia gente, acchiapparono glio medico

Raniero Oliva, gli D’Alessio, erano ragazzi a chell’epoca e gli portarono tutti. M. : a Cassino M. C. : perché a Cassino ci steva M. C. : la guera, gl’ao portati pe’ falli’ lavora’, carichi de piducchi ao areve-

nuti, già li tenevano tutti, mo’ te dicemo, li tenevano tutti perché l’acqua era pocaM. C. : era come ‘nepidemia, li semo tenuti tutti. M. : ao arevenuti pizzicati de tutti chigli piducchi che tenevano addosso, ao

stati ‘nsaccio quanti giorni mino male, ma gli atri che no’ s’ao salvati…doposempre s’apparecchi Mari’

M. C. : ogni tanto bombardavano da pe’ttuttoM. : Ale’ ci facevano la spia perché ao venuti a bombarda’ a Largo Cellini,

perché alloco ci stevano gli tedeschi, ao iti a bombarda’ da Bucciarelli perché daOliva ci stevano i tedeschi, alloco ‘nfaccia tutti accampati, ao iti a glio Buciodella Pallina perché stevano accampati pure la’, erano spie chelle.

M. C. : nui tenavamo glio fronte de Cassino vicino

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Guerra, racconto e memoria

M. : ao iti a Roccagorga, mari’ a dicci’M. C. : allora a Priverno ogni tanto ittavano ‘ste bombe, spezzoni… M. : però a Roccagorga à successo prima che sfollavemo, oh so ita i’

agli’ospedale Mari’ co’ Suor Maria, feresca meo, so ita à ’nfascia gli uttri , n’t’arecordi bombarderono la scola de Roccagorga?

M. C. : no chesto no’ me l’arecordoM. : tutti bambini, alla piazza de Roccagorga, io le so visto da ecco, steva

pure nonna mea aecco, nonna mea fece: “oddiooo ch’è chello oddio ch’e chello”no’ se conoscevano gli apparecchi, essa terrorizzata a chella finestra a vede’ st’ap-parecchio che ittava…e tutto foco, proprio a ‘na scuola de bambini, ao venutichi s’era stoccato ‘no braccio chi ‘na mano…

M. C. : be’ ittavano le bombe ma non vedevano ando’.M. : erano dengerose sta roba, se ‘n te’ medecavano be’ te s’accoglieva, la

carne s’enfracicava. M. C. : nui eravamo circondati de tedeschi e allora gli americani bombarda-

vano.M. : bombardavano, ‘mbhe’.M. C. : bombe più grosse, spezzoni più piccoli, granate. M. : diooo, mammaM. C. : è stata ‘na continuazione, dopo a nui glio bombardamento più grosso

è stato il 31 gennaio quando ao bombardato a Largo Cellini, la prima ondata astata aglio canceglio: sotto da Bucciarelli, a Sant’Antoni, ‘nsomma alla primaondata sparpaglierono ‘npo’ de bombe così, ‘n cima a San giovanni

A: pure a San giovanni stavano i tedeschi?M. : l’ittavano ando’ vedevano lo largo, le ittavano. M. C. : il 31 gennaio la prima ondata, verso le due, fecero ‘sti spezzoni dopo

verso le tre, tre e mezzo allora l’ao propria ittata a Largo Cellini e a casomaM. : ‘no bottooo M. C. : eravamo più de ‘n’aventina de persone tutte a ‘sto negozio che tengo

mo’ i’ sotto casa, ci sta la scala e la scala è aperta, mentre che se sentevano gliapparecchi vola’ ao entrate de corsa ‘ste du’ signore che venevano a venne losale.

M. : no’ se trovava niente, farina, sale, pano, ‘n tenevano niente, tu ci divi‘na cosa esse te devono lo sale, ci divi n’atra cosa e te devano lo pane, chi le po-teva fa’, chi no’ le poteva fa’ s’ammorta de fame.

M. C. : ste signore “facetece entra’ pe’ piacere, hanno sganciato le bombe”,chelle romane le capivano le bombe perché stevano abita’ a San Lorenzo, a Romavicino glio cimitero e erano assistito a vari bombardamenti, quindi gli capivanoi fischi, quando buttavano le bombe se senteva ‘no fischio, e semo visto tuttobuio, casa mia à crollata tutta, nui stavemo rifugiati sotto la scala, tutti strittistritti, papà a ‘nangolo della porta e ‘no signore de Terracina agli atro quindi àcrollato primo e secondo piano e tutto buio è diventato, tutto buio, tutta polveretutto amaro cattivo ‘nbocca, allora glio padre de Anna à cominciato a chiamaccia uno a uno, dietro alla parete ando’ s’era appoggiato papà tutte schegge.

M. : Verso le quattro dalla finestra me’ so visti issi tutti impolverati, cammi-navano accome senza posto ando’ tenevano i’.

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Intervista

M. C. : eravomo accome ebete, stravolti…dopo la guerra s’à fatta più ‘ntensa‘nfatti tutti sfollati pe’ le montagne stavamo, a ‘no certo momento la guera s’àfinita, ao arrivati finalmente gli americani, tu pensa co’ ‘na mitraglietta i tedeschi‘n cima da nui, furbi, la spostavano in continuazione, gli americani erano arrivatia largo San Giovanni co’ tutta la truppa de francesi, militari inglesi tra cui i ma-rocchini, mannavano annanzi gli marocchini.

M. : mamma mea M. C. : fortuna ca a Priverno na’ successo niente. M. : povera gente! M. C. : però pe’ la Rocca, Maenza ao fatto la strage degli innocenti, ao vio-

lentato la gente, l’ao accise M. : a Cassino ch’ao fatto!!!M. C. : ‘no macello, nui ci semo salvati, Dio te ringrazio…e quando gli te-

deschi ao scappati nui stavemo alloco ‘n cima sfollati e gli omini erano fatto ‘natrincea sotto tera.

M. : perché i bombardamenti venevano sempre, ecco era largo accosì, ci cam-minavemo ‘ngobbati, sotto la tera glio friddo te se magnava.

M. C. : e proprio vicino a nu’ le mitraglie ao acciso du’ persone de Priverno.A: le mitragliate americane?M. C. : tra i tedeschi e gli americani. M. : nui stavemo meso.M. C. : perché tutti gl’americani avanzati stevano sotto largo San giovanni e

nu’ stavemo ‘n cima e ‘sti tedeschi erano scappati, chigli che erano aremasti co’‘sta mitragliatetta facevano vede’, i padri nostri che t’ao fatto, co’ le mano alzateao iti ‘ncontro a ‘st’americani e ci ao detto: “guarda che i tedeschi so’ andati viacercate d’avanza’ perché n’ci stao più, ci ‘sta solo ‘na pattuglia, sembra che cene stanno tanti però n’ é vero” e no’ ci volevano crede allora co’ gli fucili spianatiaddosso, tutti i padri nostri annanzi e issi tutti aretre s’ao venuti accertà che i te-deschi ‘n ci stevano più. Quando il 22 maggio ci a’ stato glio bombardamentopiù grosso de tutti allora tutto Piperno s’ariversato ‘n cima, semo ospitato tuttigli amici, i parenti che venevano, tutti rannicchiati dentro la capanna.

M. : ma dimme tu mari’, ma quando tenavemo da urina’…oddiooM. C. : dopo l’acqua a venuta a manca’ e venavemo nu’ a Piperno co’ glio

concone.M. : Da Boschetto èA. : Co’ tutti i bombardamenti partivate da boschetto pe’ veni’ a Priverno? n’

tenavete paura?M. : e ‘ntenavemo paura, ci potavamo mori’ ma n’ ci potevamo sciacqua’ gli

piducchi addosso te se magnavano. M. C.: ci stevano pure gli sfollati de gli dintorni de Cassino, gli tedeschi se

t’acchiapavano, ‘no famigliare era magari capitato a ‘na parte uno a ‘natraM. : come gli vidi ai filmi, chella scappa, chella chiama chiglio allosì era al-

lora ecco, quando vidi li film, i’ tengo paura, i’ ni posso vede’ i tedeschi M. C. : quante tragedie semo passate M. : Ale’, Luisa ieva pe’ gli boschi raccoglieva i pezzi de legno, co’ glio sasso

gl’arrotava ‘n po’ e co’ l’accetta le tagliava, dopo co’ glio cappeglio de glio padre

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Guerra, racconto e memoria

tagliava tutte strisce, ci faceva du’ croci accosi e ci faceva gli zoccoletti. Allora quando ci ao mannato pure a nui ‘n cima patremo a’ aremasto pe’

cerca’ de pote’ toglie ‘n pò de panni pe’ porta ‘n cima. La sera se steva a dormi’,dice “aremango, me ne vado, aremango, me ne vado”. Mentre steva addormito,erano le due de notte, Sant’Antonio steva proprio a chigl’angolo ( indica l’angolodove sta la televisione), lui si è sentito chiamare da Sant’Antonio “Vincenzo,Vincenzo vattene”, padremo à ‘scito e ao bombardato a essi, a glio bucio dellapallina. Oh Mari’ a visto la pallina come è grosso, stava ‘no burone dico io se cisteva ‘na creatura alloco sotto se ne ieva e chi gli araccoglieva! ma profondo malargo, i’ quando le so visto so’ aremasta.

M. C. : i’ chesso no’ me l’arecordo perché ero ‘na paurosa tremenda, i’ soaremasta scioccata, sento ‘no rumore pe’ strada e me agito è più forte de mì

M. : ma tante sofferenze, sa’M. C. : si tante, eravamo sconvolti tutti, la gente quando sa finita la guerra…M. : no’ la conoscivi piùM. C. : dicivi “ma chella è la tale?” perché eccole (indica la magrezza con il

mignolo) nui ringraziando Dio non tenavamo la grascia ma tutto razionato pe’fallo dura’ tanto e dopo tenavamo lo latte.

M. : accidevano tutte le mucche pe’ no’ falle toglie a gli tedeschi e tutti gligiorni glio brodo, glio brodo co’ chella carne bia, glio pane poco….e che te vo-levo di’ pure? ’n’atra cosa…Mari’ che t’arecordi tu?

M. C. : dopo de gli tedeschi quando ao entrati gli americani, che era versomaggio?

M. : era callo, Mari’ M. C. : e semo aremasti ancora tutti n’cima alla montagna, dopo invece ao

alle colonnette, ando’ sta mo’ Ins (supermercato), ci steva glio comando ameri-cano, a ecco sotto invece da Visca ci stevano tutti negri, tenevano i magazzinipieni de roba: munizioni, roba de mangia’, però a Piperno i negri n’ao fatto nienteperché ci steva glio comando

A: pe’ negri tu dici i marocchini?M. C. : si i marocchini, invece passato Piperno! M. : figlia meaM. C. : la Rocca, Maenza, Carpineto, ao fatto la strage de’ gl’innocenti, alle

fammene, alle ragazze, l’ao stuprate, ‘nfaccia ‘nfaccia agli genitori se gli genitoris’arebellavano gl’ao accisi, allora i genitori nostri quando ao sentito accosì dice“ahime’ venessero tante vote pure a ecco ‘n cima alla montagna accome facemo,è megli che ci avvicinamo più a glio paese e semo arecalati tutti dalla montagna,nui femmene meso e gli omini co’ gli bastuni a de qua e de là, quando sti maroc-chini ao visto sta sfilata veni’ dalla montagna

M. : sariano voluto però no, n’ao toccati, nisciuno, però ch’ao ditto agl’aradio,t’arecordi, i’ m’arecordo, agl’aradio dissero che nessuno assolutamente faceva‘sci le mogli e i figli, non dovevano uscire fuori perché questi erano pericolosi equando ao fatto la razzia ‘ndovina ando’ ao misso tutti chigli ch’ao acchiappati?‘nfaccia a casta, da Champagna, tutti alloco dentro, t’arecordi mari’. Ale’ io mescordo tutto ma de chello no’ me le scordo

M. C. : gli urli, gli urli, gli urli, Madonna

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Intervista

M. : ecco, quando vedo li tedeschi, gli sparariaM. C. : si, si, terrorizzati eravamoM. : Ale’, issi meso tutti attaccati, ‘no tedesco acchiappava glio fucile a ecco

e uno alloco(indica che un tedesco prendeva il fucile a un’estremità e unaltro al-l’altra estremità) ’scevano d’alloco e ievano a Santa Nicola, da santa Nicola allaporta pe’ metteli ‘n cima..,

M. C. : agli cammi, li portavano al fronte. M. : ‘li pianti, gli urli, guardavano le mogli, guardavani i figli e piagnevano,

tutte la famiglie urlavano come i matti, io quello no’ me lo dimentico mai. Tedico ao sofferto da morire, à venuto Angelino te gli arecordi Mari’? Angelinoglio carceriere, era n’ome grosso accosì, la moglie dopo s’ammorta subito, ilgrande deperimento l’à fatta subito

M. C. : se nutrivano de lupini e la semola. La borsa nera, tanti s’ao arriccati M. : pe’ venne la roba da magna’. Arrivavo ‘sto poro cristiano e madroma ce

disse ”ma tu che vo’?” ‘nsomma Mari’ no‘ gli areconoscemmo, isso ce disse“Nazzare’ ma no’ me stai areconosce”

M. C. : la gente era stravisata pe’ la fameM. : era sicco accome ‘no cane, teneva i capigli tutti arizzati, ricci, isso era

bianco ed era ‘n’ome bianco e ruscio, ci disse “nazzare’ damme ‘na cica de pane”,no’ fece a tempo a i dentro a toglie ca cosa pe’ magna’ se ne cadio alloco pe’ttera,i’ no’ me lo scordo mai

M. C. : la gente à sofferto tantoM. : à sofferto da mori’ la gente, Ale’ quando ievano de corpo erano tutte cose

larghe, tutta semola, non se vedeva che era cacca, era cacca però no’ se vedeva,figlia la gente ha sofferto.

M. C. : sorma co’ glio concone ‘n capo M. : ma Mari’ a fa’ tutta chella via m’accome faciavemo? Chella via era ma-

lamente. M. C. : accome sentivi i mitragliamenti tatatata te tenivi abbassa’ e glio con-

cone te pure sboccava. M. : tu pensa a porta’ chiglio concone ‘n capo da ecco a boschetto, e che ci

facivi co’ no concone d’acqua?A: potevate mori’ sotto le bombe e sete calate lo stesso? M. C. : si si si M. : e come faciavemo? chessa teneva le creature…M. C. : quando facivi la verdura scroccava quando te la magnavi perché no’

la potivi sciacqua’ bene, si capito i’ ‘nsaccio addavero come…mo’ dicci i piduc-chi, mari’.

M. : mo’ la doccia tutti li giorni, ma i piducchi s’ao magnati a nui. M. C. : a glio prato tu ci ivi a fa’ i bisogni e co’ l’acqua delle pozzanghere ci

cucinavi, te la bivivi e tuttoM. : uhhhhhhM. C. : te ‘mmagini Ale’… i’ m’arecordo, de ragazze ce ne stavemo tante al-

loco ‘n cima, iesse erano tutte coraggiose, la più paurosa ero io, io e Franca Car-fagna, Franca poraccia c’era preso ‘na nerbina: quando senteva gli apparecchi,glio trauma che uno ha subito, a chi ci steva vicino gli accideva de botte, ma

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Guerra, racconto e memoria

mica gli accideva de botte perché se l’accorgeva…a iesse ci piaceva da vedenequando gli apparecchi ittavano le bombe.

M. : quando bombardavano chigli du’ vaguni nu’ li vedavemo sempre. (ride)A: tenavete paura però stavate a guarda’?M. : stavamo a glio sicuro però, anguattati meso agli alberi, se te vedevano,

che si matta, ando’ vedevano la gente bombardavano. M. : mari’ m’accome semo fatto?M. C. : ma che ne sacc’ì accome semo fatto?! M. : ma t’arecordi quando te veneva chella roba, Gesù Cristo meo, n’te potivi

sciacqua’. M. C. : quante sofferenze, a recordarle sembra ‘mpossibileM. : ecco mo’ tu pensaci, immaginate tu a senti’ ste cose come te senti den-

tro…pora gente.M. : però momenti, nui che eravemo ragazze, li semo passati pure beneM. : mbhe’ ridavemo sempre come le matte, sempre a canta’ la sera A: quando stavate sopra?M. : la sera a racconta’ le barzellette, a ride, a canta’, facevamo certi cori…

ma pe’ dessa’ se sentevano certe cose…ah i’ ieva sempre agli ospedale co’ le mo-nache, quando porterono ‘na ragazza Mari’, sventrata Mari’ dagli marocchini,da Giuliano de Roma

M. C.: le proprio…leM. : pe’ drete, denanzi, in sei, sette, co’ disprezzoM. : co’ brutalitàM. : ao cercato de vede’, de fa’ invece la sera s’ammorta. L ‘hanno sventrata,

dentro l’ao distrutta ecco, erano certi pezzi de marocchini A: erano grossi?M. : ammazzali…ch’erano grossi, portavano certe femmene cesche balorde,

m’arecordo s’erano accampatiM.C. : i’ le femmene no’ me l’arecordoM. : feresca mari’…sotto da za’ Ludovica a chigli garage stevano ficcati al-

loco, co’ chelle cesche, allargate senza mutanna, pe’ttera assese, cesche balordeproprio cesche, t’ immagini s’avvicina uno de chigli che te po’ fa’.

M. C. : chesso no’ me le proprio arecordo i’.M. : I’ me gli arecordo accome li frati portavano le tuneche marrone, ‘no ve-

stito longo marrone e le femmene portavano la gonnella e la camicetta ‘n cima,co’ le gonnelle larghe larghe stevano sempre assese, sempre a fa’ l’amore. Ma i’me n’arecordo uno Mari’ grosso, co’ ‘na faccia grossa, te guardava co’ chigliocchi fissi, e chiglio no’ mi so scordato mai, i’ chiglio marocchino li tengo sempredenanzi Mari’, grossi brutti balurdi ceschi zuzzi e accome facevano sempre a stape’ tera, pure chigli pori tedeschi Mari’

M. C. : chigli che stevano sotto a gli magazzini no’ stevano vestiti accosì,erano normali co’ le divise, erano scure, nere. Siccome Vincenzo da piccolo eromoro, moro gli chiamavano “marocchino, marocchino vieni” e sorma la paura‘nvece ci volevano be’, ci devano le caramelle, ci devono le cioccolate, capito’

M. : però le dicevano, perché ci steva glio comando M. C. : si, si

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Intervista

M. : e l’atro? Du’ tedeschi s’erano ‘mbriacati e ierono alla casa de una chest’abita’ alla salita, alla porta appresso a chella degli ospedale, era ‘na casa sotto,come ‘na cantina e ci abitava glio padre,’na sore e ‘no frate e la volevano vio-lenta’, chella, Mari’, che se veneva sempre a fa’ i capigli da mi’, essa me l’a’ rac-contato be’

M. C. : Aresu?M. : a ditto che erano entrati chissi pe’ violenta’ tutte e dova e glio frate teneva

‘na pistola e ci sparao però non è che gli acciso, gl’a’ ferito a ‘no braccio e allorase ne ierono quando ao iti a glio comando l’ao ditto, la mattina venerono gli carriarmati a glio bucio de Santo Marco, perché erano sparato a ‘no tedesco ce dove-vano morì 40 persone, venne, m’arecordo glio sindaco, se ce raccomannao tanto“è perché isso l’a’ ite a molestane”, invece isso, Marine, a sparato e glio frate gliacciso, glio frate a sparato e gl’a ferito invece isso a sparato e gli acciso. A fattochello che ca voluto e dopo se n’aito e dopo volevano pure accide 40 persone.Di fatti essa, quando veneva è come se s’era ‘npò dontita, perché la sore è ‘notipo più fregna, menefreghista invece chella era ‘na ragazza vili vili, ‘npò più si-gnorile

A: se so sposate dopo?M. : s’è sposata una bia, chesta più fregna però le sapevano tutti, chella però

era remasta scioccata, ‘npò infelice de tutto daglio capo a glio pede. A ditto“maria che terrore, come m’a trattata”. La guera è male, è male in tutte le tere,in tutte le nazioni.

M. : i’ tengo tante visioni M. C. : i’ pure li film de guera mica li posso vede’M. . : i’ ni vido, alloco ‘no sacco de persone s’ao morte A: ando’?M. : da BucciarelliM. C. : glio giorno de Santa Rita, nui stavemo ‘n cima alla montagna peròM. : quando sentevano gli apparecchi tutti sotto le volte, se cadeva chella

volta morevano tutti, ma che n’ao successe poco. Che perdizione che era chigliogiorno co’ i tedeschi, gli urli, chello no’ me lo scordo proprio, poracci forse issitenevano fa’ la guerra però…oh Ale’ co’ chiglio friddo se spogliavano e se ievanoa lava’ a Santa Nicola, a carne nuda, dice che no’ se sentevano friddo e nui cimoravemo, d’inverno, nudi, senza maglietta se sciacquavano ma come facevano?co’ chell’acqua gelata? però stevano addormiti pe’ ttera la notte, poracci, ao sof-ferto però erano crudi, i tedeschi so’ crudi dimme chello che te para però so’crudi, i’ ni posso vede’ ecco

M. C. : padremo pure era terrorizzato perché era fatta la guerra del 15-18, erastato 15 mesi alle trincee, prigioniero, se nutrivano co’ le patate.

M. : padremo raccontava sempre che alla guerra del ‘15-‘18 stava in primalinea e ‘no giorno vidde ‘no pezzo de pane pe’ ttera fatto de grasso e l’aracco-glivo, gl’ao fatto sta 5 giorni senza magna’, no’ se le scordava mai

M. C. : i padri nostri erano terrorizzati perché erano passata già violenze allaguerra del 15- 18 e sapevano la cattiveria de ‘sti tedeschi

M. : quanti partigiani aecco, accidevano tutti, comannavano issi dopo de laguera, dopo de la guera ci mancavano pure issi, n’ao fatte poche, partigiani e fa-

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Guerra, racconto e memoria

scisti s’erano aggregati e n’ao fatte passa poche, pora gente. La gente no’ scevapiù perché teneva paura, chi ci vidivi pe’ la via, nisciuno, bia issi. Ne ao fattopure issi de danno.

M. C. : gl’italiani stessi ecco M. : i pipernisi, tutta sa ghengaM. C. : però no’ come gli straveri c’ao fatto pe’ d’essa’. Nui grazie a dio piano

piano ci semo aremessi suM. : se ci fai caso ca vota che vidi ca film tutti quanti co’ gl’aradio piccolo,

zitti, a senti’ che steva a succede, la guera accome ieva, sempre ‘mpaurite t’are-cordi?

A: Quando so’ arrivati gli americani…M. : ao portata ‘no sacco de roba, ao cominciato à da’ a magna M. C. : gli americani diciamo che stavano mischiati co’ le truppe francesi,

co’ ‘sti marocchini capito non è che erano soli loro.M. : però la roba l’ao portata Mari’, appena ch’ao arrivati ao ittato sto pane,

tutti a core perché se sentevano fame, tutti a core. Nino ci ieva a fa’ i capigli agliamericani quando stevano accampati a ecco alle colonnette, la roba che ci de-vano…vidi però mari’ tra l’italiano, gli americano, glio francese, tu vidi ‘no te-desco, t’è proprio l’imponenza (e batte il pugno sul tavolo) è l’imponenza chegli fa’ sembra’ cattivo accome Hitler, Hitler li potesse mette a ‘na croce attaccatoa levacci ‘no pezzo de carne a glio giorno, io ce lo farei, Hitler no’ li pozzo pro-prio scerne, quando li vido ci dico sempre “te pozzeno accide” sempre, ce lodico, sempre, che me frega a mi’ che s’ammorto, è cattivo è cattivo ed è cattivo,ni pozzo scerne…e che vo’ fa’ figlia

M. C. : mo’ se te semo aiutata Ale’ ne saccioM. : chesta è la verità che te semo ditta, guarda che se ve’ la guerra mo’, ve

morete tutti, ve morete tutti pe’ accome sete abituati, se morono Mari’, che cam-pano? co’ le sofferenze che semo fatte nui issi ‘nso boni propria. Mo’ so semprestanchi, n’ce ne t’è da fa niente, vo’o bia gli quatrini.

M*(*L’intervistato/a ha chiesto l’anonimato nella pubblicazione)

M.: I’ tenava tanto paura de i tedeschi, semo state sfollate pe’ la montagna,quando passavano i tedeschi le granate te passavano sopra, nui stavamo a ‘nofosso ficcati, i’ teneva Carla sorma, co’ chelle granate difatti ci stava un signorenon so se faceva Bacchetta de cognome o ci dicevano de soprannome, ci tagliaoproprio la capoccia là do’ stavamo noi, come se chiama chiglio punto? Che ci aofatto tutti ‘sti palazzi mo’?

Alessia: A Boschetto dici tu?M. : A Boschetto, stavamo là sfollati, tutti a ‘na capanna, eravamo 23 persone,

alla capanna ‘torno ‘torno ci stavano tutti vimini, ci mettavamo ‘na coperta e ciallungavamo e in mezzo ci stava ‘no foco sempre acceso durante che arrivavanogl’americani? ‘No giorno so venuti le guardie forestali, siccome ca tagliavanogl’alberi perché co’ che gli facivi glio foco? La fame e pure de friddo te tenivimorì? E ‘sto Battocci venne a glio capanno m’arecordo ca voleva…ci stava ‘no

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Intervista

zio mio acchiappao non so’ se era l’accetta o la ronca, “vattenne che te le faccioa ti le lena” ci disse “vattenne” via chiglio se ne ivo, ma la gente steva a pensa’a le piante? A gli muri de Priverno ci ao scritto dopo ‘a morte a Battocci’ ci scri-vevano, tutte ‘ste cose, i’ ero ragazzina. I’ non so’ mai calata dalla montagna ma-troma si, zi’ Elda, chella n’teneva paura de niente, matroma niente, niente. ‘Navota so’ calata i’ e Delia e pe’ la via giusto giusto n’ci stevano i tedeschi? Li ste-vano a mitraglia’ e nui la paura, eravamo du’ ragazzette c’eravamo messe n’capo,c’era fatto ‘no bastone ‘no ragazzo, tutto ricamato, ‘ntagliato, e nui portavamochiglio bastone…e n’atra vota, ‘na notte sotto ando’ stavamo abita’ ci stavano itedeschi alloggiati e allora ‘na notte bu bu bu, bussarono a casa perché la portaè vicina e matroma non teneva paura, io me ficcava sotto a glio letto, tremavatutta difatti so’ rimasta scossa dalla guerra io, teneva paura de tutto de tutto detutto, de tutto, tremava tremava e dopo ‘na vota m’ao uscite tutte bolle nere allemani, m’era venuta ‘n’intossicazione dalla paura, dalla paura, allora s’affacciaomatroma ci disse: “che cazzo” proprio così matroma, “camerate camerate”, “ca-merate n’ci stao qua stao aessi, che te puzzi cieca’” matroma n’teneva paura, tevoglio di’ quanta agitazione, n’atra vota du’ tedeschi n’saretrovavano e metterono‘no cannone dapeti glio vicolo dicevano che se non s’aretravavano accidevanodieci persone.

Alessia: Cos’è che faceva paura del tedesco?M. : Le SS erano un po’ cattivi però ti dirò che chigli tedeschi che stavano

sotto quando facevano da magnà, tenevano ca pezzo de pane, era niro, issi li chia-mavano glio prot allora abbussavano “mamma mamma” ci dicevano a matroma,“la bimba la bimba” perché sorma era del ’43 quant’anni teneva?

Alessia: Neanche un’ anno.Milena: Era piccoluccia la portavamo ‘n braccio, la guerra sa comensata nel

’40 però.Alessia: Però i tedeschi so’ arrivati dopo?M. : Si dopo, tutto chesso ‘nsomma ‘a stato brutto, dopo ao venuti a bom-

barda’ tutte se cose magari te l’avranno raccontate hanno bombardato qua a LargoCellini.

Alessia: Chi è venuto a bombarda’?M. : I tedeschi, sempre i tedeschi e quando se n’ao iti m’arecordo io ero ra-

gazzetta uno, perchè andavano a glio fronte a ‘Monte Casino’ dicevano issi in-vece a Cassino allora uno che portava l’orologio d’oro, non so se gl’era fregatose era glio seo, stavo i’ e matroma alloco abbocca, dice: “questo regalare a Maria”che era io ma i’ teneva paura non li votte me dicerono chelle “ma stupida togli-tiglio”, i’ tenava paura ero terrorizzata dopo venerono certi marocchini oddioooofiglia mea so cresciuta co’ sa paura accossine e so aremasta sempre agitata, sem-pre, me fa ‘mpressione tutto e se una ca sta male me sento male io, se vedo unapiagne, se vedo ‘na comunione piagno se vedo ‘no matrimonio piagno ma medico “te pozzeno accide Mile’ ma po campa’ accosì”.

Alessia: Ma perché sei ‘na persona sensibile. M. : Ci so’ nata accosì e ci moro.Alessia: Com’erano i rapporti tra voi popolazione e i tedeschi?M. : Era buono ci dovevi pure anda’ d’accordo, però non è che

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Guerra, racconto e memoria

Alessia: Ve trattavano male i tedeschi?M. : Non no anzi te sto a di’ che stavano là, e a noi per dire, non so’ se hanno

trattato male qualchedun’altro ma a noi ci volevano bene solo chella vota sbagliaobè po’ darsi chi lo sa però si tedeschi non…ecco erano cattivi se tu li trattavimale per esempio non s’aretrovavano chigli du’ soldati, chesso succede, succededa pe’ tutto però co’ nui…anzi abbussavano ci portavano la minestra, i’ m’are-cordo ‘na vota tu si piccola, sotto là prima da icci i tedeschi c’erano misso ‘nobaretto, coso Pongelli, faceva ‘n po’ de caffè, se cose, glio vecchio Pongelli,allora ci stevano du’ tedeschi, e ci steva Belli “togliete glio caffè te pozzeno ac-cide a ti a chella puttana de mammeta e a chi t’aportato a ecco” ci diceva e chigliofaceva “ia ia”, “te pozzeno accide a ti a chi va portato” che ci diceva e chigliodiceva “ia ia”, “togliete ‘sto caffè te storzassi” oh figlia mea era ‘n’anghetto,certe vote te pure dispiaceva ma te veneva pure da ride a senti’ chiglio, era ‘namacchietta…so stati momenti brutti però erano begli perché n’ ci steva tutta sadelinquenza nui c’addormevemo pe’ la via, accome te posso di’ nisciuno tenevai cancegli, le porte aroperte, mo’ stemo male mo’ stemo male, dopo la guerra cisteva lo benessere mo ‘a venuta la crisi, sta troppa delinquenza pure chissi chevevo portano le malattie diciarai…no no i’ tengo lo core…ma non lo so quandoso’ troppo so’ troppo e mo’ nui, io tengo paura se tengo itta’ la monnezze la sera,non ci vada ci so ditto a ‘no vigile i’ ci vado a mezzo di’ “facete be’” me disse,perché ‘ncontri tutti chissi, tutti chissi, no’ stai più tranquilla perciò non se vivibe’ figlia, stai sempre agitata tu cammini a glio vicolo te senti uno drete già teagiti oddio chi po’ esse, chi è?

Alessia: I marocchini invece quando so’ arrivati?M. : Dopo che se n’ao iti…quando ao venuti gl’americani dopo ao venuti i

marocchini e gl’americani, ne dissero perché ci steva uno che parlava italianoma era francese non era italiano se chiamava Carlino Giacchetti se chiamava,forse era pure de origine italiana e ne disse, ci disse a matroma che ce ne iavamoperché venevano i marocchini chigli erano delinquenti erano cattivi portavano‘no coso a ecco figlia mea (voce di disgusto per indicare qualcosa in testa) biache gli vedevi ‘i n’ci pozzo a repensa’, ‘na vota so visto uno veni’ dalla piazza i’me so ficcata a glio portone de Carfagna e so’ chiusa la porta forte chiglio chi losa, quante cosa sa misso a dine tutututu e chi gli’a capito, come se se fosse offesoma i’ ero ragazzotta teneva paura, tutte ‘ste paure m’ao aremaste internata a mi’e so’ agitata sempre sempre, sempre fino alla fine, fino a che me moro sarai accosìperché glio carettere è chisso.

Alessia: Di che millesimo sei Mile’?M. : Ventinove ecco mo’ no veramente saria del ventotto ecco mo’ il 22 di-

cembre faria ottant’anni ma in grazia a Dio! Alessia: E stavano proprio a Priverno i marocchini?

M. : Si stavano alla Porta(Romana), m’arecordo che ‘a visto a Purgatorio lachiesa ci sta ‘na piccola cosetta mo’ ci sta glio presepe prima ci steva Gaetanogl’orologiaro se chiamava, aggiustava gli ‘rologi allora ‘no marocchino ‘a portatogl’orologio aggiusta’ chisto ce gl’aggiustato, quel mentre, dopo c’a giorno a ito‘n’atro marocchino, n’era chiglio e se gl’aretuto allora chiglio gl’a ito a retoglie

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Intervista

e invece, m’arecordo accome mo’, che succedio, li bordelli pe’ glio vicolo, liti-gherono ‘sti du’ marocchini, questo me ricordo bene e allora una teneva paura,vidi pure tra issi se tradivano, chiglio ch’à ito a frega’ gl’orologio però chigliogl’areconosciuto, Gaetano gl’orologiaro se chiamava.

Alessia: E voi donne uscivate quando ci stavano i marocchini? M. : Tenavamo paura, eh ao fregata più de cauduna!Alessia: Pure qua a Priverno?M. : Eh, pure una che mo’ se n’aita, steva abita’ pe’ Santa Lucia, se la porte-

rono porella, ‘sta signora dopo se n’ aita dalla sore perché era de Castro, s’erasposato ‘no pipernese.

Alessia: ‘Sta signora era sposta quando i marocchini l’hanno presa?M. : Noooo se la porterono era giovanotta, a glio paese se’ se la porterono la

rovinerono dopo se l’a’ sposta chisto, se l’a’ tota embhè, ci devano ’na bella pen-sione, chigli erano disgraziati.

Alessia: Peggio dei tedeschi?M. : Si si si si erano…bestie, i tedeschi ci steva cauduno pure malamente ma

steva pure la gente brava perché i boni e li cattivi stavo da pe’ tutto. Era la guerae quando è guera è guera n’ci sta niente da fa’. Alloco a Santa Nicola, ao messomo’ l’anagrafe, là stevano tutti, i soldati della Divisione Piave ci stevano, eranoitaliani chigli èh, erano bravi tutti alt’italiani, begli m’arecordo me divevano:“Mirella” quando passavo “sei sempre più bella” ogni vota che passavo ne tro-vavano una “Mirella non vuoi mica stare zitella” ogni parola…

Alessia: Te facevano i complimenti!M. : Si si dopo fecerono la canzona privernesina, la fecero a glio teatro dopoAlessia: Ah si? E come fa?M. : Uhm, del paese sei la graziosa la tua bellezza è degna di pittura, hai la

freschezza di una bella rosa sei graziosa come creatura.Alessia: Chi la scrisse ‘sta canzone?M. : La Divisione Piave, quando sto vicino a te sto per passare non possa fare

a meno di cantare “privernesina sei come ‘na goccia d’acqua marina privernesinatu m’apparisti come madonnina” ma belle parole, vidi quante cose, dopo chellade Mussolini cantavano “la Petacci co’ l’intreccio della furia dei tuoi capriccinon pensavi ai pasticci ma soltanto che all’amor, Claretta dolce del mio giardincogliesti tu quel piccolo fiorellin, tu che pensavi a diverti’ ma tutto il popol stavaa soffri’” ma è lunga.

Alessia: E ‘sta canzone era referita a Mussolini?M. : la Petacci era l’amante no, ci sta ‘na statua a Roma i’ la so vista al Verano,

ed era de Prossedi. Alessia: E sempre i soldati della Divisione Piave avevano inventato ‘sta can-

zone?M. : Chesta non lo so’ e si…era durante la guera e si, de Mussolini chi parlava

male? Allora era tutta ‘na guera “Mussolini ci creasti tu in un brutto sistema dinon mangiare più, la borsa nera…ognuno la pietà, tu fosti l’inventore infame etraditore” ma tante brutte parole non se l’arecordava nisciuno?

Alessia: Infatti non me l’a raccontato nessuno, è la prima volta che la sento.M. : Ma i’ la tengo tutta a mente, tutta se la volesse ca che d’uno…si si si,

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Guerra, racconto e memoria

chella della pipernesina è ‘na bella canzona “bella privernesina innamorata cheincontro ogni mattina per la via…occhioni grossi e bocca vellutata…quando vi-cino a te sto per passare non posso fare a meno di cantare” i’ tengo sempre laraucedine sennò me piaceva da canta’ poi ci steva a Santa Nicola glio capitanoPallina m’arecordo sempre, de cognome faceva Pallina, ‘no maggiore era, allorame diceva a mi che me faceva studia’ isso, io essere pianista “ti faccio studiareio” era alt’italiano, ogni tanto ne ‘sceva caud’una, ‘n’atro me voleva pe’ figlia,n’teneva i figli, de Piperno era, abbussava da matroma, de chigli tempi seccedevachesso, dopo i’ ero ‘na bella uttra, tutta caruccia semplice, quando ievo a gl’asilem’arecordo me giocavano a palla…che te pozzo di’ de più? uhm che mo pozzoarecorda’? boh.

Oliva

Oliva: Pe’ dice quando gl’ao acchiappati si dice razziati nui accosì diciavemonon lo so se è giusto vui s’ete studiato.

Alessia: Si facevano le razzie.Oliva: Si facevano le razzie a tutti gli omini che ‘ncontravano e se li portavano

a ‘sto granaio, ci stava ‘no granaio grande e allora gli portavano là, portavanochigli e mettevano gli altri capito, non è che ci lassavano solo quelli diciamo chese ne acchiappavano 10 dopo chigli dieci li portavano via e prendevano gli atriche era razziati, e allora quando prendevano ‘sti omini li portavano a ‘sto granaioe tutte le forestiere de Sonnino, de Maenza, de Roccagorga venevano a porta’ lopane agli pori mariti e allora da fore aglio cortile ando’ ci stevano ‘sti tedeschiperò non ci stevano i tedeschi steva l’austriaco a guarda’, glio tedesco steva den-tro, l’austriaco stava da fore a guarda’ pe’ no’ fa entra’, faceva entra’ solo a nuiche ce abitavamo perché dopo issi vedenne’ oggi, domani, ce conoscevano no, eallora fino a che non se li portavano via dopo quando se li portavano via facevano‘na specie de passamano coi fucili, ci facevano la gabbia praticamente de qua dela’ se devano la mano uno co’ gli altro, acchiappavano chi a la coda de ‘io fucilee chi a la punta e facevano sta cosa e se li portavano e nui non li vedavamo piùe (sorride) ‘na vota ao acchiappato coso, accome se chiama…Valariano, ao ac-chiappato Valariano, Valariano la pensata be’, sa’ cavato ‘no dente prima che glievano a retoglia pe’ portarsi, sa cavato no dente e le sai ando’ gli ao lassato ha’visto alloco agli arco ando’ se saleno le scale pe’ ì ‘ncima a glio granaio tutti al-loco gli portavano, tutti alloco ‘nfatti quando venivano gli apparecchi, gli appa-recchi entravano dentro ‘io cortile se ittavano in picchiata cosine, ci ievano dentroe dopo s’arizzavano, i muri erano tutti mitragliati prima dopo gl’ao otturati ibuchi però stevano tutti buchi de mitraglia ‘che sapevano che alloco stevano itedeschi, chissi teo le spie, capito. I tedeschi quando facevano le incursioni semettevano meso a glio cortile, facevano due file, glio cortile è beglio largo, àvisto prima steva chella terrazza, ce stevano le colonne.

Alessia: Si me l’à recordo.Oliva: Allora issi quando sentevano gli apparechi da lontano mica facevano

confusione, facevano ‘no passo, issi stevano a du’ file a du’ file facevano così e

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Intervista

se ficcavano sotto senza fa’ nisciuno rumore, senza fa…dicemo chi se move ade qua chi a della’ diventa ‘no maceglio invece issi facevano ‘no passo pe’ tu eentravano sotto le colonne, alloco no’ gli vedevano, però le bombe l’ao buttatesopra a là, quando ao cadute sopra a Largo Cellini, ao cadute sopra a San Gio-vanni l’ao ittate dentro glio cortile le semo proprita viste, le semo viste quandol’ao sganciate però ‘io vento se la portate…diciarai à ita accide l’atra pora genteperché n’cima a San Giovanni ‘na famiglia ‘ntera: padre madre e quatto figli,tutti quanti se morerono e…dopo piano piano i tedeschi è arrivata l’ora che sene ao iti, se ne ao iti, dicevano che arrivavano a Cassino “caput”, dicevano “ar-rivare a Cassino, caput”, divevano a nui e allora se ne ao iti e dopo n’po’ ao ar-rivati gli americani.

Quando ao arrivati gli americani era ‘na cosa, è stata bella perché ci ao liberatidai tedeschi però chisti marocchini facevano le stragi, le stragi delle ragazze, al-lora le ragazze se tenevano nasconde mentre nui le più piccole a fa’ la guardia equando…da qua sopra se vedevano quando venevano, ‘che ne venevano sempreda qua sopra i marocchini, allora nui dicevamo: “esso ‘io rozzolooo”.

Alessia: Che significa?Oliva: No, era ‘na parola pe’ fa capì a le ragazze cha arrivavano i marocchini

allora se ievano a nasconde. Alloco da Martellucci ci steva ‘no nascondiglio chesta sotto, sai ando’ sta’? à visto ‘io granale ando’ teneva nonna tea teneva le gal-line?

Alessia: Si me ricordo.Oliva: Appena che s’entrava a glio portone grosso ci steva ‘na botola, steva

proprio a pian terreno, chella cosa ieva sotto, ci steva ‘no nascondiglio nessunol’avrebbe pensato poi ci teneva ‘na porta de legno e ci tenevano tanta lena sopra,si capito? A tempo sempre de guera, perché alloco ci tenevano nascosta la roba‘nfatti ‘na notte ci ao iti a ruba’, ci ao rubato lo grano ci ao rubato roba de magna’.

Alessia: Chi ha rubato?Oliva: e che ne sapemo nu’, i soldi no ce gl’ao rubati, ’chè dopo se gli ac-

chiappavano che erano toto da magna n’ci facevano niente invece se erano tuti isoldi li condannavano capito? Allora issi toglievano solo roba da mangia’.

Alessia: Ma i marocchini dici tu?Oliva: No, gli italiani però a chella botola se ci ievano a ficca’ le ragazze

quando che diciavamo ‘io rozzolo, se ficcavano alloco dentro, quando venivanono’ vidivi manco ‘na gatta, che è ‘na gatta? Manco la vidivi e no perché le ra-gazze non potevano ì in giro, perché se ievano in giro ca marocchino se le por-tava, perché issi dicerono che erano fatto i patti co’ gli americani, ca tenevanofa’ chesso, ci à ditto “nui ce venemo à aiutarvi però volemo le ragazze” capito?Chigli tenevano carta bianca co’ gli americani.

Pe’ esempio nui tenemo ‘na fotograia de ‘io socero me, ‘io socero me era cit-tadino americano, allora sa’ morto nel ’53 però perché dice che ci ao menatotanto che se credevano che era ‘na spia americana capito? I fascisti, perché secredevano che era ‘na spia americana e ci ao dato tante botte. Allora steva ‘staguerra in corso, isso ci à ditto alla moglie tu quando veo gli americani presentaci‘sta fotografia ca te caricano de’ roba ‘nfatti la roba che ci devano, la farina chellabona, faceva certo pane la socera mea, certo pane bianco, capito? Perché isso

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era cittadino americano, però a iecco ci dicevano che era spia invece chiglio po-raccio, la moglie no’ c’era voluta ì all’America. ‘Na vota semo ite all’alberitoco’ madroma, meno male, perché pe’ la torretta era pino de marocchini, americani, ci stevano tutti cammi dalla parte de sotto de la via. Invece chella vota che semoite nui n’ci stevano, n’ci steva più nisciuno però quando semo arrivate alloco cisteva sto signore co’ glio bastone, ‘nsegnava ‘n’albero, era ‘n’albero de fichi mai fichi de chigli tempi n’ci stevano, nui eravamo ite pe’ raccoglie du’ pomodori,ca poca ‘nsalata ‘ntanto tenemo ca’ cosa invece semo scappate come i fulmini.Quando a successo c’ao sparato a chiglio aglio bucio?!

Alessia: A chi?Oliva: Chiglio a sparato co’ ‘na pistola tedesca, ha sparato a ‘no tedesco,

erano fatto ‘no gruppo de partigiani e ci steva de meso chisto, la pistola ne saccioda ando’ ‘a ‘scita, ‘a sparato, ‘a sparato a ‘no tedesco e s’ammorto e chigli,quando sparano agli tedeschi…10 italiani ogni tedesco, ‘io bucio era pino, pinode’ tedeschi, sai chi ci à ita, c’a ita Teresa, si gl’à misso sotto braccio e gl’à portatoagl’ospedale, dopo ao iti i tedeschi ao sbordellato la casa, comunque quando aoiti s’era morto non c’ao potuto fa’ niente, s’era morto già, Teresa gl’à trascinatofino alloco agli ospedale pe’ ni fa trovà, chella vota succedivo ‘no maceglio, sechiglio no’ s’era morto già erano razziati tanti omini, gli accidevano tutti, tuttigli accidevano, glio tedesco era cattivo. La bonanema de padremo me dicevasempre che isso era stato prigioniero, me l’à raccontato tutto padremo sta cosaperò ‘io paese andò a stato no’ mi so’ potuto arecordà, à ditto che la sera de Natalei tedeschi ci ao dato tante de chelle botte, tante tante, la sera della vigilia, ‘nfattiisso la vigilia de Natale diceva sempre: “eh nui stamo a ride, i’ quando stavo pri-gioniero a che st’ora me stevano attrippa de botte”, à ditto ch’erano cattivi, ‘nfattiquando che se portavano gli omini, chiglio tedesco ‘no pezzo d’ome, ‘no tedescogrosso, chiglio era proprita tedesco, “raus raus”, (alza la voce) co’ la pistola ‘nmaite se presentava ‘nanzi , nui che eravamo mammoccie , eravamo bambine che cipotavamo fa’, tenivi chiudi la porta tu ‘ntenivi guarda’, te tenivi chiudi dentro ete tenivi sta’, quando se ‘nerano iti potivi ‘sci’, capito? Erano cattivi i tedeschierano cattivi invece gli austriaci erano bonacci, matroma ci voleva da’ l’uva nassaca ci piaceva ma issi però sapevano ca matrona n’ci teneva nisciuno ‘n cima al-loco perché n’a’ vedeva portacci a magna’. Però parecchi ao scappati, tu t’are-cordi, da ‘io granale pe’ ì a glio bagno le sai ando’ tenevano i’? tenevano i’agl’angolo della terrazza che ci steva, tenevano ‘sci da chella porta, tenevano i’alloco agli angolo, dopo se calavano le scali, le scali ci stavo ancora mo’, ci stava‘na porta ando’ abitava Spasiona n’so se te l’arecordi.

Alessia: No, non me l’arecordo.Oliva: Quando ci ievano ‘n tanti più de cauduno s’enfilava dentro da Tuta

Mastrogiorgio, se metteva i panni da femmena, calava le scali se ficcava a casomae da cosoma ‘nzombava alla parte dellà, a via Volpe, capito? Parecchi n’ao scap-pati però quando se n’ao accorti ca gli omini diventavano sempre demeno ci aostati più addosso, no’ gl’ao fatti scappà più e dopo se gl’ao proprio portati, dopoci ao stai chigli della Piave, chigli dormevano a glio granale, tenevano la pagliache te cridi che tenevano. La guerra è brutta è meglio n‘apassa’, è brutta, ‘navota, ero piccola, matroma me disse : va’ a piglia’ l’acqua aglio bucio” co’ ‘no

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Intervista

piatto smaltato, teneva i manici a de qua e de la, era come ‘na bagnoroletta, m’àditto va a mette l’acqua, i’ so’ ita a glio bucio a mette l’acqua e alloco i’ da solaa mettemela ‘n capo n’ero bona perché no’ ce la faceva, teneva ‘spetta caudunoche passava che m’aiutava a mette n’capo, ‘nfatti à passata ‘na persona che ciso’ ditto ca pe’ piacere…m’era fatta la groglia, ‘sta persona manco m’arecordochi era, ero troppo piccola, me so messa a cammina’ quando so’ arrivata de frontea via Volpe, alloco c’erano fatta ‘na cannonata, quando so’ arrivata alloco so’ co-minciato a sentì ‘n’apparecchio lontano ma gli apparecchi arrivano lesto allorai’ me so messa de corsa e chella cosa me delluzzava ma quando so’ arrivata a ca-soma gli apparecchi stevano già dentro glio portone allora me so’ messa drete a‘n’angolo e dicevo “levateme sta cosa ‘n capo levateme sta cosa ‘n capo” e ni-sciuno m’à levato sta cosa ‘n capo, allutemo za’ Linda che te fa’ acchiappa mel’anfrocia denanzi, tutto ‘no bagno, era d’inverno, portava ‘no zinaletto bia, chedici ca portavi la maglia assotto e dopo gli apparecchi ao trigato a issene e quandose ne ao iti arevenevano continuamente e chello ‘nfusso me le so’ tenuto finchèn’sa’ assutto però i’ da grossa le so’ pagato perché i malanni ao cominciato a venìe iesso, erano cose accosì, chella vota so’ tenuto proprio paura, ‘nfatti me s’am-malao ‘na ‘recchia, la paura no, sta ‘recchia la tengo sempre ‘n pò… ci sentopoco, dopo tenavamo tanti animali attorno, lassa perde, cimici, piducchi, eravamopiene, matroma metteva a bolle i panni, li coceva, quando gli cacciava ‘scevanopiù piducchi de prima, perché ci stevano le nuvole pe’ l’aria dopo gli americaniao ittata la roba, sennò…tanto li tenavamo tutti, non se ne salvava una.

Fratemo stava tutti i giorni con le reti a dacci foco però ce ne stevano più deprima, ando’ ‘scevano chigli cosi no’ se sa’.

Guarda ch’è brutta lassa perde, ne possa passa mai, no’ fosse mai il Signoreche fa areveni’ la guera perché chisti de mo…nui eravamo abituati ‘n pò alla mi-seria ma chisti de mo’ accome fao, accome farinno a tenesse tutta chella sporcizia,io bia che ci penso me s’aggrifa la pelle, bia che ci penso pe’ la sporcizia che te-navemo, pe’ gli animali, n’era sporcizia perché nui ci lavavemo toglievamo l’ac-qua aglio puzzo e ci sciacquavemo, l’acqua de ‘io puzzo era pulita.

Che atro vo sapè’? de i marocchini le semo ditto, dei tedeschi le semo ditto,i tedeschi erano cattivi e padremo se gli era pure misso uno dentro.

Alessia: Dentro casa?Oliva: Allora padremo, quando issi tenevano partì pe’ Cassino, perché dice a

cassino fare caput, allora padremo stava a dà l’indirizzo a ‘no austriaco perchéaccome te so ditto gli austriaci erano bonacci.

Alessia: Come riconoscevate i tedeschi dagli austriaci?Oliva: Eee s’areconoscevano, s’areconoscevano pure da ‘io parlà, ca issi te

capiscevano invece ‘io tedesco no’ te capisceva.Alessia: La divisa era sempre la stessa?Oliva: Credo da ‘io colore della pelle gli areconescevamo, i’ mo’ preciso pre-

ciso no’ m’arecordo però la divisa sempre tedesca era, però gli areconoscevamoda ‘io colore della pella ma mesa’ che la divisa la portavano diversa perché ‘iotedesco la portava ‘na specie d’azzurrino, mo preciso preciso manco m’arecordocomunque t’era esse accosi. Però s’areconosceva pure perché gli austriaco te ca-pisceva, quando ci dicivi ca’ cosa isso veneva a fatica a capì però t’aresponneva.

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Allora padremo gl’à fatti ‘mbriacà, ci à cacciato tanto vino, ci à dato da beve atutti. Chisto ragazzo che c’era dato l’indirizzo se ne stava a i’, se metteva ‘iozaino da ‘na parte e ci cadeva dall’atra, me steva a fa quasi pena pori uttri perchéquando te dicono andare a fare caput anche che ci sta la guerra sempre ‘no cri-stiano è, te dispiace; allora padremo ci divo gl’indirizzo e ci à ditto “se te troviin difficoltà, se te salvi torna qua, ci à ditto padremo. ‘No tedesco, figlio de put-tana, o ce gl’à tuto perché chisto s’ammorto o se gl’à scritto mentre che padremoli stava a da’ a chiglio, à venuto co’ glio ‘ndirizzo. Quando à venuto a dimannennea dimannenne “Tomeucci Angelo Tomeucci Angelo” ci’à aretrovati.

Alessia: questo è accaduto dopo la guerra o in quei giorni?Oliva: Sempre che ci steva la guerra però dopo i tedeschi se ne tenevano i’

perché erano arrivati gli americani allora dopo ao ittato glio banno : chi teneva itedeschi dentro casa li teneva caccià perché sennò ci fucilavano tutta la famiglia.

Alessia: Chi l’aveva ordinato? gli americani?Oliva: Che ne saccio chi l’era ditto se gli americani o gl’taliani però era ‘na

legge, era ‘scita sta legge, chi teneva i tedeschi dentro li teneva caccia’.Alessia: Pure le altre famiglie tenevano i tedeschi in casa?Oliva: Però mica tutti i’ mo no’ le saccio, padremo come t’arepeto forse

‘st’austriaco forse ci piaceva, ci faceva pena e ci disse se te salvi torna qua. Dopoquanno ao ittato ‘sto banno padremo c’à ditto “adesso andare via”, ce l’a fattocapì senno nui ci passavamo li guai, e isso ci’à ditto…li chiamava papà, ci dicivo:“papà no’ m’abbandoni”.

Alessia: Quando ‘sto tedesco è venuto al posto dell’austriaco non li s’ete are-conosciuto che non era isso?

Olina: Padremo gli era areconusciuto che n’era chiglio.Alessia: E gl’à fatto entra’ lo stesso?Oliva: Chiglio ‘a venuto co’ chiglio biglietto ‘nmai che ci ivi a di’? c’à stato

ca mese a casoma, sai ando s’assedeva sempre co’ la sedia? A glio muro tra Mar-gherita e Anna, isso se toglieva la sedia e se ieva assede alloco, ci steva ‘io sole,perché era d’inverno e allora quando vedeva ca’ guardia isso piano piano se fic-cava dentro. Ca’ mese ‘a stato a casoma e nui ce ne semo dovute i’, ci semo itea dormi’ da za’ Stella nui femmine. Doppo ‘no mese itterono ‘sto banno dicechi te’ i tedeschi in casa li t’era caccia’ sennò ci fucilano tutta la famiglia e allorapadremo ci spiegao che isso li portava a dessa’ ‘n cima a Boschetto e isso c’aditto “papà portare da mangia’”, “si, si” ci’à ditto padremo invece ‘nsemo saputopiù niente .

Alessia: Tuo padre lo chiamava papà?Oliva: Si, si li chiamava papà, pure madroma chiamava mamma… madroma

pensava sempre a fratemo, ‘nfatti fratemo a certe lettere dice che isso steva presso‘na famiglia russa, steva a 30 km dalla battaglia allora la sera isso quando erafatta la battaglia se se salvava arieva alloco da chella famiglia, ‘a ditto che ‘nafetta de pano la spartevano, ‘no pezzo pe’ tu, le diceva sempre isso, alle letterele diceva, diceva “‘no pezzetto de pane le spartono, no’ ci so cattivi”, à ditto irussi ‘nc’erano cattivi, fratemo accosì diceva alla lettera e accosì te stongo a dice.Nui le semo trovate tutte dopo che s’ammorto padremo prima padremo no’ n’à

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Intervista

fatte vede’. Quando s’ammorto semo trovate ‘ste lettere le semo lette quantipianti ci semo fatti.

Stella Romagnoli

Stella: Quando Mussolini, l’8 settembre, quando vide che bombarderonoRoma, a cimitero ‘na signora portao ‘no bambino morto davanti a Mussolini eMussolini…era commovente, smittio la guerra diede le dimissioni ma Hitler no’voleva allora nui italiani ci credavemo che era finita la guerra invece s’empos-seserono i tedeschi e i tedeschi comannavano pure ‘n cima de nui, steva la guerrapure pe’ nui, nui stavemo in guerra co’ Hitler perché ne chiamava traditori. Dopovennero i tedeschi, a Piperno s’empio de tedeschi. L’8 settembre Mussolini no’voleva combatte più poro uttro, s’era avvilito de vede’ tutti chigli morti, dopovennero i tedeschi, a via Rose, i’ abitavo a via Paolina n.1, a via rose ci steva ilcomando tedesco, m’arecordo quando venevano i tedeschi, se mettevano in fila,nui eravemo curiose tenavemo 15-16 anni stavemo sempre meso a senti’, a vede’infatti ci steva ‘n’americano che era venuto dall’America dalla moglie e ci di-cemmo se capisce ca cosa, “ca ditto?”, à ditto guai a chella persona che ve’ a gliocomando, che commette ca cosa, passate li guai perche no’ tenete tocca’ nisciuno.

Alessia: Nessun tedesco?Stella: No, ci disse chesto allora nu’ iavemo a mette l’acqua a Santa Nicola

comodamente alle 9 alle 10 e le sentinelle stevano a de qua e de là, nui le tena-vemo vicino, quando veneva lo pane pe’ gli tedeschi veneva proprio di fronte acasa mea, venevano i cammi grossi co’ lo pane, lo pane era fatto a du’ pagnottelle,i’ m’arecordo ‘na vota ce ne cadio una sotto glio cammio, fratemo, i’ ci vado 4anni prima, guardao bene bene se ficcao sotto chiglio cammio e rubao chigliocoso, chella cica de pano e gl’iemmo a mette meso a glio letto, meso agli scar-tocci che se le trovavano ne fucilavano a tutti quanti, dici mo’ la guera, nui sta-vemo proprio in prima linea, de qua sotto ando’ stemo abita’ nui ci facevano lafrontiere, accome se chiamano… facevano scava’…

Alessia: Facevano le trincee?Stella: Facevano le trincee pe’ vede’ quando passavano gli apparecchi che ci

mitragliavano, de qua sotto era pieno de trincere, issi nascosti alloco sotto, ‘navota ‘nfatti accoglierono una, nui stavemo aglio bucio ma che ne capisciavemofratemo teneva 12-13 anni i’ 16-17, stavemo a glio bucio a godecci chesto manon pensavemo che se chella cosa se ieva accosì accideva a nui, n’ci pensavamoalla morte fi’, st’apparecchio americano ieva a sbatte, co’ tutto lo foco a glio culo,a perciò me piace vede’ la storia perché la semo passata fi’, ieva a sbatte ‘nfacciaa Roccasecca subito tutte le camionette pe’ aretrova’ glio paracadutista chisàando’ gli erano anguattato , pe’ glio stabbio, i roccaseccani, no’ gli aretroveronoperò issi s’addannavano che gli volevano proprio aretrova’. Dopo, ‘no giorno il31 gennaio, nui stavemo de qua sotto perché de qua sotto ‘n ci steva nisciunacasa e ci ieva sempre gl’io sole allora ognuno se portava la maglia da fa’o dacuci’ o ‘reppezza’, prima rappezzavamo gli panni fi’, e ci stavemo fino verso le2, le 3, il 31 gennaio era ‘na giornata come d’estate, bella, dopo mentre che arez-

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Guerra, racconto e memoria

zezecchemo ci fermemmo a glio bucio, eravamo tante sa’, quando vedimmospunta’ quattro apparecchi come chi da Terracina, siccome meso a nui ci steva‘no soldato della Piave che n’se ne potte i’ alla casa perché le ferrovie erano tutterotte, isso abitava a Treviso n’se ne potte i’, aremanio in Italia anzi me volevapure a mi’, faceva l’amore co’ meco, allora ci steva pure sto’ soldato meso checapisceva la guera accom’era, ognuno fi’ s’abbassava e mitragliava, si visto ando’venneva la frutta Occhialona?

Alessia: Si.Stella: Ci ficchemmo tutti alloco eravamo ‘na sessantina, mino male che chi-

glio coso steva aroperto perché ci lavorava uno che faceva glio ferraio: Ferdi-nando Stivali era, ‘ntremmo alloco quando Mario glio soldato della Piave videsgancia’ la bomba, sopra come a che stava alla stazione, isso già sapeva glio spo-stamento d’aria, era la nostra era de glio bucio della pallina perché aglio buciodella pallina ci steva Romolo glio fagocchio, ci teneva da fa’ i favori pe’ forzachiglio agli tedeschi, pe’ogni cosa ievano alloco.

Alessia: ‘Sto signore ci faceva i favori?Stella: E si senno t’accidevano co’ glio fucile, accosì stevano, e chglio ce li

faceva Alessia: E che tipo de favori ci faceva sto’ Romolo?Stella: Romolo era glio padre de Dario chiglio che t’è glio bare a Sant’Antoni,

che s’ammorto, faceva glio fagocchio Alessia: Che è glio fagocchio?Stella: Glio fagocchio è chi aggiustava le cose de legname.Alessia: Tipo falegname?Stella: Si, faceva le rote ai caretti. ‘Na sera venne ‘na macchina grossa grossa

drete la porta nostra, aglio bucio della pallina, erano in due, uno steva de guardiauno s’addormeva dopo faceva chiglio de guardia e uno s’addormeva allora nuivicine de casa che eravamo gli facemmo addormi’ aglio letto, chisti erano po-lacchi che ievano contro li tedeschi. Abbussarono sti du’ polacchi, ma nui figliaeravamo piccole eravamo contenti, drete casoma tenaveno i’ no’ gli sacciochiama’, ‘no coso grosso grosso .

Alessia: Ma ‘no carro armato ?Stella: Come ‘no carro armato, era grosso. Venne ‘no ragazzo a bussenne a

nu’ e gli facemmo entra’ poro uttro, chisto a ditto era della Polonia era ito in li-cenza e era arentrato pochi giorni prima a glio comando e s’era portato le ficosecche uguali a chelle nostre, gli aranci, dopo n’saccio che se fece arescalla’ agliofoco, isso era pigliata n’affezzione, allora ce disse ‘no vicino de casa “addormeteaglio letto meo che i’ m’addormo alla branda”.

Alessia: Ma n’ tenavate paura Stella: Noo chisti erano polacchi, erano a favore a nui. Ma n’te so raccontato

quando ao fatto glio rastrellamento, de ottobre fecero glio rastrellamento, era ‘namattina d’ottobre n’saccio glio giorno, era d’ottobre quando vedemmo azzecca’pe’ tutte le vie tutti tedeschi co’ i fucili, “te’” facemmo “che volarao?!” era demattina verso le sette, sette e mezza, ‘nfatti chiapperono pure patremo che eraito alla campagna e se li porterono, ievano casa pe’casa. Vicino casa mea s’eramorta ‘na criatura piccola, però erano rispettosi, senti (voce più bassa quasi in-

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Intervista

credula), alloco dentro figlia quanta gente ci steva, quanta gente ha salvata chellacriatura, era entrata tanta gente, “eee” dice “stavo a fa’ glio rastrellamento”, allorachi s’era svegliato cercava de refugiarse siccome sta signora teneva ‘na soffitta‘n cima ‘n tutto ‘n tutto, ce ne ierono tanti, commare Tomassina poraccia mettioglio morto vicino alla porta allora quando passavano alloco vedevano glio morto(voce più bassa), ‘sti tedeschi se levavano glio cappeglio…come ‘no rispetto aglio morto infatti passavano tutti quanti e tutti co’ glio cappeglio levato, ‘nfattichella creatura salvao tanti pipernisi, chiapperono glio medico Oliva, i vecchi,‘io socero meo e li porterono da Champagna e mi dicerono che erano acchiap-pato pure patremo, nui eravamo piccoli ma no’ capisciavemo la morte stavemosempre a ride, dopo alloco le pori mogli, le pore madri uno li facerono ‘scì, cimettevano glio fazzoletto ‘n capo co’ le gonnelle, perché dopo chi scappava no’le sapevano issi, ‘nsomma ne saccio neanch’i’ che guerra era chesta, parecchiscapparono, basta che se mettevano glio fazzoletto ‘n capo co’ ‘na gonnella, gliiavemo a trova nui, te devano glio diritto de i’ a trovagli e cercavamo de faglitravestì’ da femmena, dopo li porterono a Cassino, arriverono de notte e li met-terono dentro a ‘na caserma che già era stata bombardata, à ditto padremo “lanotte che passemmo”, allora à ditto s’abbraccierono tutti quanti, chi chiamava laMadonna della Stella, chi chiamava Sant’Antonio, dopo ‘a ditto ‘na ondata fini-sceva e ‘n’atra ne veneva, una finisceva e ‘n’atra ne veneva e la doma’ aroprevanoglio canceglio e picco e pala pe’ i’ a fa’ le trincere, pe’ mettese issi quando bom-bardavano gli americani ma patremo era contadino sapeva mania’ tutto, era ca-pitato co’ uno che no’ sapeva niente de chesto, era capitato co’, ma tu no’ tegl’arecordi figlia perché i’ tengo 84 anni, la so’ passata tutta la guerra, teneva ‘naradio la vicina de casa e nel ’39 disse stemo in guera: “te’” facemmo” stemo‘nguera, che è la guera?” dissi i’, eravamo piccoli. Ando’ so’ arrivata fi’?

Alessia: Che tuo padre mentre stava a Cassino à capitato co’ uno che no’ sa-peva usa’ ne’ la pala ne’ glio picco...co’ uno che no’ sapeva fa’ le trincee.

Stella: Dopo tenevano acchiappa le traverse delle ferrovie e le tenevano porta’pe’ fa’ le trincee pe’ issi quando venevano a bombarda’. Patremo stava co’ unoche non ce la faceva allora patremo chiappao ‘no tedesco ci disse: “guardaci lemani, chisto non ha lavorato mai” (voce bassa) chiglio tedesco se l’incollao issoa glio posto de chiglio ‘nsembra co’ patremo, perché ci stevano i boni e gli cattivisa’ fi’, ‘nte crede che erano tutti cattivi gli tedeschi, se l’incollao isso, ci d’io gliofiasco e ci disse da i a mette l’acqua, ci disse padremo: “cerca de’ scappa’ chechissi no’ t’aremanneno” invece chiglio, ‘nocente arevenne ‘natra vota.

Erano acchiappato pure ‘no frate de patremo, i pianti che se facevano tutti edova tutta la notte i bombardamenti degli americani e s’abbracciavano tuttiquanti. Ah dopo gli atro bombardamento li fecero il 22 maggio glio giorno deSanta Rita, stavano a fa’ la supplica, ‘no bombardamento che acchiappò LargoCellini, acchiappò vicino da Minotti e alloco se morio ‘no sacco de gente,‘nsomma ittarono du’ tre bombe allora ne cominciò a entrà la paura vedivi i feritiche li portavano co’ le sedie agli ospedale e la notte siccome che casoma mel’erano bombardata quando itterono la bomba aglio bucio della pallina ci iemmoa dormi’ a ‘na stalla, a sta stalla ci steva la finestra ma era bia la ferraglia ‘n cisteva ne’ vetro ne’ niente, quando la notte, nu’ che no’ le capisciavemo, se veda-

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vemo ‘no foco che veneva de chesto e ‘no foco che veneva de chesto, feci i’ “chesarà che sarà”, ‘n cima tenavemo glio soldato della Piave che me voleva a mi’ epadremo addormiti, calerono chisti subito “facemo i fagotti e spariscemo perchéstao a fa’ le cannonate”, gli americani agli tedeschi e gli tedeschi agli americani,stavemo al centro nui, ci n’iemmo de là pe’ le montagne, senz’acqua senza panesenza niente niente niente, portemmo ca pochi stracci accosì, ‘n ci potavamosciacqua glio musso l’acqua na’ tenavemo, ‘ntenavemo niente, chi s’arifugiavaa ‘no posto chi a n’atro, nui ch’ella notte scappemmo, i’ portava ca meso quintale‘n capo era piccola no’ me le manco accorgeva pe’ la paura, pe’ scappa’ e stemmoparecchi giorni alloco fi’, ‘npotivi stenne ‘no fazzoletto, pure si li lavavi agliopuzzo perché dopo se vedevano ‘no fazzoletto bianco chissà che se credevano ene sariano accisi e ‘nsomma tenavemo gli tedeschi vicini, passa uno co’ ‘no ba-stone, dice: “ma ancora a ecco stete” “perché?” facemo nu’, dice “de là pe’ gliocampo stavo già gli americani vui passate a ecco, iate alla montagna, calate agliCricigli e trovate gli americani, “tè” ci dicemmo nu’ “ma ecco i tedeschi e allocostavo gli americani?!”, “camminate, iatevinne, portate chello che potete che stavogli americani” ‘nfatti facemmo i fagotti e ci n’iemmo, (voce bassa) gli americanicoricati pe’ ttera camminavano, no’ pe’ l’aria co’ glio fucile perché avevano paurafi’, ‘nfaccia a nu’ prima d’allontanacci ci stevano 4 tedeschi ma erano mammoccifi’, “oddio” so’ fatto i’, ma ero mammoccia, ci voleva quasi i a di’ “iatevinni camo’ arivano gli americani”, forse erano fatto ‘no consultorio o se voleva arendeo se volevano spoglià chisà, s’erano riuniti tutti e quattro e stevano a parla’ fraissi, sentavemo parla’ ma ‘ncapisciavemo chello che dicevano, ‘nfatti nu’ calenneaccosi quando vedavemo gli americani, chi spuntava a de qua chi spuntava a delà e ni dicevano “ stavo i tedeschi?” “si, li semo lassati, stavo 4 ragazzetti, no’gli accidete, so 4 uttri” ci dissi io, chigli forse se stevano a decide d’arrendese,perché già sapevano che gli americani stevano vicini, e s’erano riuniti tutti equattro e forse se dicevano “arendemoci stao gli americani aiecco che ne’ po’ofa’” che se gli acchiappavano gli americani addavero ci sariano dato da magna’da beve e la pensione pure, chisà che fecerono, nui ce le dicemmo che ci stevano4 tedeschi ma erano mammocci ci dicemmo nui, basta. Dopo chi ne deva le ca-ramelle chi ne deva le cioccolate a mi me diedero ‘na bella saponetta da mo’ cheno’ vedavemo ‘na saponetta “ a famme addora’, a famme addora’”, a famme ad-dora e no’ m’arevenne più mai’(sorride),eravamo tanta gente fi’, m’arecordosempre ca ittavano le caramelle, i dolci pe’ le vie romane gli americani, ‘no ut-tareglio pe’ raccoglie ‘no dolce gli acciaccherono, poracci ci aremanevano malepure issi, calerono da glio cammio pe’ salvagli invece ‘nci steva più niente dafa’…pe’ raccoglie ca caramella, perché semo sofferto fi’, e mo’ chisti soffrono‘na cica pe’ de la’ e stao arempi’ l’Italia, nui ci semo magnata la biata passataco’ glio macinino, semo fatta la polente, quando ivi de’ corpo tirava glio ventoco’ ‘na botta se la portava…semo stati senza magna’ senza sale, ‘no zio de gliomeo ieva a mette co’ le botticella l’acqua a glio mare perchè era salata e ci facevaa magna’, ‘ntenavemo sale ‘ntenavemo niente fi’ e a perciò me dico io “ma chistiè possibile che stao peggio de nui?” ‘ntenavamo glio pane ‘ntenavamo niente,niente ‘ntenavamo e chisti quando veo fao pure ‘li prepotenti.

Alessia: Co’ chi ce l’ai?

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Intervista

Stella: Chissi che mo’ veo da tutte se’ nazioni, ne’ stai a vede’ che stao a fa’?ma nui semo iti a ca posto co’ tutto chello che semo passato? Dopo la notte figliaera tutta ‘na notte de fochi fra gli americani e gli tedeschi, nui eravemo giovani,alla morte ‘n ci credavamo stavamo a gustacci ste’ girandole de qua de là de quade là. Dopo nel ’45 se finiscio la guerra, oh me s’arefece l’anema figlia. ‘Na votaentrao ‘no tedesco dentro casoma, figlia co’ glio fucile ‘nmai, forse era bevutoca cica sennò no’ le saria fatto, perchè sennò uno de nui sceva, ieva a glio co-mando e chiglio chessa che passava ‘li potevano pure accide, e ‘no zio degliome’ teneva già ‘no cortelluccio aroperto dopo madroma me d’io la fede e me lafece mette a mi’ fece i’ “so’ sposata chisto è maritemo, è mio marito” ci dissi i’,dopo mettio chiglio fucile sotto glio cammino ca voleva spara’, ma quanta pauraci semo magnata! quando chiglio stava a fa ‘ accosì co’ glio cammino i’ scappao,me ne ieva dentro la camera, ando’ teneva da i, le paure ce ne semo magnatetante fi’, era la guerra, stavemo al centro della guerra. Dopo so sentuso racconta’ma ne’ saccio se è vero, dice che chigli 4 apparecchi che tenevano veni’ a di-strugge Piperno perché stevano troppi tedeschi, ao venuti all’Italia e ao venuti aecco a Piperno ao iti a magna’ a ‘na trattoria, da Romoletto.

Alessia: Chi ‘a venuto a magna’?Stella: ‘Sti quattro americani che tenevano veni’ a bombarda’ Piperno, ma

caspita pe’ chigli tedeschi accidavete pure a nui?! Tenevano gl’ordine, à dittoche ci dicerono chigli americani: “ma chi santo tenete a Piperno?”, ci disse Ro-moletto, m’o chiglio s’ammorto, ci disse: “ecco tenemo la Madonna de Mezza-gosto”.

Alessia: Aspetta famme capi’ meglio.Stella: ‘Sti quattro tedeschi erano venuti pe’ bombarda’.Alessia: Tedeschi o americani?Stella: Gli americani, invece dice che de fronte a glio vetro stevano ‘no sacco

de moschitti, no’ capiscevano più niente ando’ stevano, se telefonavano uno co’gli altro “me sta’ a succede pure a mi e allora aretornamoci”, s’aretornerono eno’ li poterono bombarda’ più Piperno. Allora chisti s’ao missi d’accordo pe’veni’ a vede’ a Piperno chello che era succeso. Dice:” guarda nui eravamo co-mandati de veni’ a distrugge Piperno perché ci stevano troppi tedeschi ma a ‘nocerto punti s’ao pini li vetri de moschitti che ‘nsemo potuto cammina più”, cidisse “chi sa’ che va’ protetti a tutti quanti a Piperno”, “tenemo la Madonne deMezzagosto, sta’ alla campagna”, chesto no’ le so visto me l’ao raccontato peròmentre che se dice se vede ch’è vero, che grazia che ci a fatta la Madonna e nuino’ la trattamo pe’ niente, figlia semo passate tante cose che no’ me l’arecordo,tante cose brutte, tenivi paura e ando’ ao passato chigli marocchini figlia che ciao fatto alle ragazze figlia, che ci ao fatte…

Alessia: A Priverno ci so’ stati i marocchini?Stella: No a Piperno no, ao passati dalla parte de Frosinone, più ‘n cima, certa

pora gioventù ao remaste ‘ncinta, certe l’ao mannate ai matti, dopo chissi chi sada quando no’ vedono ‘na femmena dopo so’ chigli cosi brutti che mettono paurapure alla faccia, ca se fossero italiani ci pure guardi alla faccia…e chisti, dice-vano, venevano proprio volontari a favore a gli tedeschi, ma dice che facevanole stragi.

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Guerra, racconto e memoria

Alessia: A favore o contro i tedeschi?Stella: No’ le saccio se erano a favore, o stevano co’ gli tedeschi o co’ gli

americani, chesto no’ le saccio ma ando’ ao passati chisti ao distrutto tutto, chiap-pavano le figlie, le mogli ci facevano ‘nfaccia a tutti quanti, le sfreggiavano,mamma mea…dimme tu ‘na pora ragazzetta, piccoluccia…apperciò chisti chevevo, dico io, ma possibile che glio governo loro…ma nu’ accome stemo acampa’ mo’?! a mi me davo 500 euro a glio mese fi’, bia de medicine e se ci pa-gassi la pigione accome ci potaria resci’? e chissi perché veo tutti all’Italia? Emo’ 300 e mo’ 500, l’Italia ormai è tutta la loro, l’Italia o se la vinneno o, n’atracica l’Italia ‘nci sta più, se chiamerà de n’atro nome vedrai tu.

Quando viveva Mussolini, non era isso che era cattivo, era glio contorno, per-ché isso mettio glio sabato fascista, da facci pagà pure la mesa giornata agli ope-raio, mettio la pensione perché n’ci steva niusciuna pensione invece isso asessant’anni mettio la pensione agli operai, Mussolini era bono era ‘io vicinato,‘io contorno ma c’io contro pure ‘io genero, à visto gli fece accide però, accome‘no traditore gl’à fucilato, perché isso(Mussolini) era troppo onesto.

Quando iavemo alla scola la maestra raccontava ch’era figlio de contadiniquando alla sera la madre ‘ntneva niente isso se coceva le petata sotto glio foco,l’arebbelava , quando erano cotte se le magnava, veneva da pora gente a pperciocapisceva li poveri, Mussolini era ‘na brava, i’ pe’ conto me’ era ‘na brava per-sona. Quando stavemo alla scola ci mannava li medici, a chi ci serveva l’olio demerluzzo a chi ci serveva la mistura.

Alessia: Che è la mistura?Stella: La mistura era ‘na cosa…quando si emica… emica tu le capisci

quando te poco sangoAlessia: Anemica?Stella: Anemica, i’ ne’ saccio manco chiama’, a mi me devano la mistura fi’,

ci mannava gli medici. Mussolini era proprita…se ci steva Mussolini mo’ no’stavemo accosì, tu lassavi la casa aroperta ‘ntrava nisciuno, quando metteva ’iocarcerato che te cridi che ci deva la televisione? dormivi a glio tavolato e pan’ac-qua tutti li giorni accosì se pentevano de chello ch’erano fatto, invece mo acci-dono glio padre, la madre, visto mo’ chiglio esce, vidi mo’ la droga che te fa fa’,chellatra co’ glio spositto acciderono la madre co’ glio frate, ma che sarà stadroga?!e quando comensano no’ poterao finisce più. Prima stavemo male perché‘mpotavemo magna’ ma mo’ se sta peggio. Dopo dice che in Italia i figli ni fao,ma vao alle discoteche, alle droghe, che li fao a fa’ i figli, te tera mette a piagneda quanno che nasce? Alle discoteche ci voria che no’ci esse nisciuno, no’ iate,nu’ ballavamo prima però casarecci, fra case e dopo che balli so’ chigli inveceprima erano glio valzer, t’abbracciavi co’ nome…

No’se sta be’ più a sto munno fi’, stavemo più be’ prima quando patisciavemola fame, tutte le case aroperte…

Alessia: Prima si raccontato che quando à venuto glio tedesco a casa ti simessa la fede de mamma tua…

Stella: Pe’ dicci che i’ ero sposata. Alessia: Perché le donne sposate no’ le toccavano?Stella: Be’ sa ‘na ragazzetta era più desiderata po’ darsi, così matroma se le-

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Intervista

vavo la fede e me la mettio a mi’ e giusto giusto ci steva glio soldate della Piave…perché le ragazzette so’ più desiderate...i’ ne manco capiscevo chesso, semo avutotanta paura fi’,e gli tedeschi li tenavemo sempre denanzi a casoma perché porta-vano tutti i giorni lo pano, nui le guardavamo bia, ma che era bono o era la famefi’ o era la fame, ch’era bono chello pane.

Alessia: Incidenti forti tra tedeschi e la gente non ci so’ stati?Stella: N’ao acchiappato mai nisciuna dentro la casa, ao fatto glio dovere se’

dentro Piperno dopo agl’atri posti no’ le saccio, una sola ci rubao glio filone maforse perché isso la voleva ci corio appresso ca ci voleva spara’. Era la guerra fi’se no’ m’accidi tu te tengo d’accide io a ti, ma è beglio chesto? no’ ci conoscemoe ci tenemo d’accide, che semo fatto de male, se m’accide a mi piagne ch’ellapora madre mea se t’accido io a ti piagne ch’ella pora madre tea e issi co’ le palle‘n cima le sedie a governa’ ma è beglio chesto?! Ma se venesse ca guerra mo’,chici va alla guerra? Ci vao si drogati? Mo’ la guerra no’ la po’o proprita fa più per-ché so tutti drogati. Le guerre manco a ‘no cane figlia però dice che la lassateGesù Cristo le guere, la fame, la peste perchè semo troppo cattivi fi’, ‘nsommaera la guera fi’, semo stati meso a du’ fochi, il signore n’aiutato me dispiace pe’chigli poracci che s’ao morti che potemo da fa’ figlia.

Maria L.

Maria: nui stavamo abità a glio bucio della pallina, arrivavano i carri, i camiondei tedeschi, co’ gli carri armati e venivano a bussà pure a casa pe’ alloggià, lorofacevano il cambio ogni ora smontava uno e attaccava l’altro, c’avevano la radiotrasmittente, comunicavano co’ gl’altri forse che stavano agli altri paesi, mo’ nonso’ e venivano, gentilmente loro bussavano a casa chiamavano quello in tedesco,usciva e se mettio a dormì lui un’oretta.

Alessia: dormivano proprio dentro le case vostre?Maria: proprio dentro casa mia.Alessia: e voi restavate là o vi cacciavano?Maria: Stavamo là ma come te mettevi a dormì? La casa era tanto piccola

non c’entravamo tutti, dopo lui portava da mangià, portavano le scatolette, se lecucinavano da loro e se le mangiavano e ce le offrivano pure a noi se le volevamo,dice domani mattina ve porto i panni da sciacquà, da lavà insomma, la camicia,ci dicio a mamma, invece la notte alle tre loro bussavano alla camera dove dor-miva papà: noi partire, una chiamata urgente da Cassino, se noi vivi tornare quafacevano, se non tornare dice morti, invece li bombardarono proprio quando ie-vano a Cassino, bombardarono qua a Mezzagosto, alla strada che andavi versoFrosinone, verso Cassino e morirono tutti dopo i’ me ricordo pure il camion daBelmonte, andavano là a cucinà’, facevano il pane infatti ‘na ragazza de Priverno,no’ me ricordo come se chiamava, ‘sta ragazza prese un filone, se lo mise sottoil cappotto che portava.

Alessia: Ma l’aveva rubato?Maria: Rubao, un tedesco la vide e ci sparò, a quella ragazza.Alessia: Ed è stata uccisa?

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Guerra, racconto e memoria

Maria: No la ferio andò all’ospedale, ma il comando quel tedesco lo mandòal fronte.

Alessia: Cioè venne mandato al fronte perché aveva fatto questa cosa?Maria: Si perché ha ditto pure che lei aveva rubato lui non ci doveva spara’

ecco, la riprendevano ce lo prendevano insomma, pe’ l’azione che aveva fatta,capito? Dopo nui abitavamo proprio qua a glio buco della pallina, qua buttarono‘na bomba, nu’ stavamo tutti sotto… ci stava un garage co’ la volta e stavamotutti là sotto ma basta che spostava de poco che ci prendeva tutti e faceva un mas-sacro invece fece proprio la buca pe’ chello è chiamato glio buco della pallinaperché ci steva talmente ‘no buco grosso che fece sta bomba, la buttarono là e labuttarono a largo Cellini, insomma i morti non ci so’ stati.

Alessia: E queste bombe che venivano sganciate erano americane o tedesche?Maria: E si americane, i tedeschi io me ricordo andavano casa pe’ casa, ve-

devano se ci stavano gli uomini pe’ fa’ la razzia, facevano la razzia, ci stava ‘nacasa la vicino da me era pieno pieno de omini nascosti però ci stavano du’ ra-gazzini gemelli erano nati e s’erano morti, allora stavano morti alla sala dentrola culla allora issi entravano ma la padrona de casa ci diceva vedi che stanno imorti e loro se ne andarono e se salvarono tutte ‘ste persone, capito? me ricordoquando stavano giù a la caciara, stavano a glio stabilimento de Gatti, co’ gli carriarmati, i camion, c’ao stati tanto tempo là però ao spariti quasi tutti quando a co-minciato ‘io fronte a Cassino, so’ andati tutti là a Cassino e chi a’revenuto? n’are-venuto nisciuno perché là ao fatto i macelli proprio, i’ tante cose no’ mel’arecordo non è che ero tanto grossa.

Alessia: Di che millesimo è?Maria: Del ’33, ‘ste cose me le ricordo perché stavo co’ papà, n’è che ero

grande e me ne andavo in giro e allora vedevi le cose.Alessia: E come avete vissuto la presenza dei tedeschi, avevate paura?Maria: Nui all’età che c’avevamo non avevamo paura, dopo quando semo

sfollato ce ne semo iti a glio campo, nui andavamo tutti sfollati dellà perché ste-vano i tedeschi, tenevano paura gli uomini, stavamo poi co’ tutte l’atre famiglieriunite, ci stavano i fratelli, dopo stevano la femmene, le sorelle mie erano gio-vanotte, se le pigliavano se le portavano, papà allora sempre a nascondele, invecedopo che iavemo più in là de glio campo cominciammo a ‘ncontrà’ gli americani,ci davano le caramelle, dicevano se ci ci stevano i tedeschi, ma tutti che corre-vano, scappavano i tedeschi, cauduno che ‘ncontravi non cercava da pigliatte,cercavano da butta la roba, buttavano zaini, cose così e correvano, scappavanodicevano bia caput caput e se n’ievano.

Alessia: ‘Sta parola è rimasta impressa a tutti. Maria: Caput caput.Teodoro: Perché avevano rotto il fronte a Cassino.Maria: Ao spariti tutti quando a comenzato Cassino, ao spariti se n’ievano,

chisti che stevano ‘n’cima a glio bucio della pallina ogni ora carri armati ‘nfattidicevano che quando hanno buttato la bomba a noi perché stevano gli tedeschi,chisà chi a stato a mannagli, ma i tedeschi se n’erano iti, se n’ao iti alle tre denotte, ao scappati tutti quanti, co’ ‘no momento ao spariti, c’ao lassata pure laroba a noi, ‘n po’ de scatolette.

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Intervista

Teodoro: E quello de Largo Cellini te lo ricordi?Maria: De Largo Cellini glio bombardamento so ditto, a chiglio n’ci stevano

i tedeschi, era ‘no bombardamento de gl’americani, bombardarono alloco e daBucciarelli.

Teodoro: Alloco è chiamato proprio bombardamento.Maria: Sempre pe’ sentito di’ perché nui sole ando’ iavamo eravamo troppo

piccole invece steva ‘sta sorella mia che è morta chella se ricordava perché quellaandava da pe’tutto basta che sapeva che steva ‘no camion de tedeschi “iamo avede se me da ca’ cosa” invece a nu’ piccoli n’ci mandavano sempre pe’ paurache ci perdavamo o che ci prendevano capito?

Alessia: Co’ l’arrivo degli americani sono arrivate anche l’altre truppe comei marocchini?

Maria: Siii, m’arecordo che erano bruuutti co’ chelle trecce co’ chigli turbanti‘n capo, de chigli teneva paura, scappava io perché dicevano ca’ chigli se piglia-vano le ragazze, le donne e allora scappava m’arecordo nui tenavemo certi ziinostri che stevano al cimitero, facevano glio custode al cimitero e c’avevano lefiglie femmine, ragazze, chisti ierono alloco, i marocchini, volevano le signorine.Glio giorno erano iti, ao guardato e la sera erano iti ca’ volevano le signorine,m’arecordo chiglio zio de glio me’ le pigliao tutte dova, loro erano pratici dedellà, vicino steva ‘na tomba aperta e ce le buttò dentro, le figlie.

Teodoro: Pe’ nasconderle. Maria: Pe’ nascondele senno le pigliavano.Alessia: Si ho saputo che alcuni hanno murato le figlie per non farle prendere

dai marocchini.Maria: Senno se le pigliavano perché chigli no’ volevano gl’omini chigli ie-

vano cerchenne le femmene, i marocchini, m’arecordo e come no’ me gl’arecordope’ glio fontanino prima c’arrivi…vicino alla banca, me gl’arecordo tutti chissi.

Alessia: Ce ne stavano tanti allora.Maria: Eeeee ce ne stavano tanti si, ce ne stavano tanti, bruuutti già a vedelli

chigli te mettevano paura, bia quando vedavamo gli americani ‘nsomma, gl’ame-ricani te devano le gomme le caramelle nui iavemo pe’ le gomme e le caramellenon pensavamo all’atro che ne poteva accide, dopo i’ teneva ‘na casa che bia ipasserotti s’appoggiavano ‘n cima e già se sfonnava e venevano a da’ guai tuttichigli tedeschi.

Maria: Dellà ao fatto danno i marocchini a de qua…perlomeno non s’a sen-tuso c’ao acchiappato le femmene, magari ao rastrellati i tedeschi gli uominima…andò stavo abita io n’ao passati tanti de tedeschi perchè venivano dalla Ca-ciara, azzeccavano co’ gli carri armati ma quanti se ne fermerono a ecco a gliobucio, tanti tutto pieno era.

Teodoro: E poi?Maria: Non m’arecordo atro non è che… Alessia: Ma va bene signora, quello che mi ha detto è interessante.Maria: Ero piccola, tengo 75 anni mo’, ao passati tanti anni magari una s’are-

corda perché no’ le vedavamo mai chelle cose.Teodoro: Solamente di Priverno ti interessa a te?

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Guerra, racconto e memoria

Alessia: Bè la tesi è su Priverno, perché lei di che parte è?Teodoro: Io so’ di Collepardo, in provincia di Frosinone.Alessia: Collepardo non era molto distante dal fronte gli ha vissuti da vicino

quei momenti, le va di raccontarmeli? Teodoro: No niente io mi ricordo solamente che quando si ritiravano che ave-

vano sfondato il fronte di Cassino che bombardarono, io c’avevo otto anni, bom-bardarono lungo la strada bombardarono i carri co’ tutti i cavalli e c’avevanoquei cavalli grandi noi praticamente andavamo a taglia’ la carne de cavallo pe’magnarcela, solamente questo…e gli americani bombardarono e noi eravamopiccoli stavamo a guarda’ mentre bombardavano col pericolo che c’acchiappa-vano pure a noi, i tedeschi praticamente venivano al paese mio appunto pe’ rifu-giarse, per riposarsi per poi andare al fronte di Cassino come praticamente purequa perché tutta ‘sta zona, il medio e basso Lazio si riposavano per poi andare aCassino, poi arrivarono gli americani, i marocchini, arrivarono i polacchi.

Alessia: C’erano diverse truppe addirittura maori e neozelandesi. Teodoro: I neozelandesi si si ma più che altro polacchi e marocchini da queste

parti infatti a Cassino ci sta un cimitero apposta pe’ i polacchi, con i cingoli diun carro armato hanno fatto una croce e l’hanno piazzata a sto cimitero ‘do stannosepolti tutti i polacchi.

Maria: ce ne stao tanti seppelliti a Cassino, alloco ao fatto stragi propria, ‘nopaesetto, Patrica, prima che se va a Frosinone m’arecordo le sentio racconta’ cheli tedeschi pigliarono du’ ragazze chello che ci fecero, dice che se so levate demente chelle ragazze pe’ chello che facevano, no i tedeschi chigli…

Alessia: I marocchini?Maria: I marocchini!Teodoro: Be’ Priverno l’hanno un po’ massacrato pure èh.Maria: E si, chisti che se fermerono a ecco ‘n cima glio bucio se ierono a ri-

fugia da Pipetto ‘nsomma. Teodoro: A via Leone Leo, qua sopra.Maria: Ci steva ‘no stabilimento, era grosso, se rifugiavano alloco i tedeschi

però non te cacciavano èh, padremo diceva iateve a mette a glio letto vu’ ca cipenso i’, allora era giovane papà, steva sveglio non s’addormeva a vede chistiche montavano e smontavano, se facevano a magnà se scallavano la carne.

Teodoro: A me me punturano il fucile in fronte.Alessia: Chi? I tedeschi?Teodoro: Si perché io, noi co’ altri amici c’andavamo a ruba’ le munizioni

allora a un certo momento ci scoprirono, a me me punturano il fucile, n’attimoche lui se rigirò io girai l’angolo e scappai, c’avevo otto anni, lo facevamo ap-posta pure, pe’ facci i dispetti lo facevamo, poi facevamo il fuoco e sentivamoschioppettà tutte quelle pallottole. Ad esempio quando venivano i tedeschi perfare gli uomini da portare a Cassino noi che eravamo ragazzini li vedevamo i te-deschi arrivare allora quando vedavamo i tedeschi arrivare con i camion avver-tivamo tutto il paese in modo che tutti gli uomini scappavano infatti molti se sosalvati appunto per questo. Poi da noi c’erano parecchi sfollati perché da Frosi-none ecc. venivano tutti a rifugiarse a Collepardo.

Alessia: Come da noi arrivavano da Terracina, da Minturno.

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Teodoro: Infatti loro hanno ospitato ‘na famiglia de Minturno e so rimasti inamicizia poi non s’è saputo più niente perché se so’ morti i genitori ed finito lì.

Maria: Stevano le sorelle ch’erano più grosse chelle s’arecordavano tantecose perchè basta c’arrivava ’na… già esse stevano sul posto a vede’ chi eranope’ farse da’ lo pane, pe’ farse da’ le scatolette.

Alessia: La paura per il tedesco da cosa era scatenata, i rapporti con la popo-lazione erano conflittuali cioè c’erano contrasti tra tedeschi e i cittadini di Pri-verno?

Maria: No.Teodoro: La cosa principale pe’ gli uomini, per portare gli uomini a Cassino,

infatti io mi ricordo che Ugo Onorati, tu non te lo ricordi, prima c’era la societàromana elettricità dopo è diventata Enel, e ‘sto Ugo Onorati che comandava lasocietà romana elettricità lo presero, Raniero Oliva, lo stesso, lo portarono a Cas-sino.

Maria: Glio padre de Stella.Teodoro: Il padre de Stella Coccia, sarebbe il nonno de Angela Romagnoli,

li portarono a Cassino, li portarono a scavare le trincee principalmente e poi ancheper sparare.

Alessia: Da quello che ho capito il danno lo hanno fatto più gli americani.Teodoro: Si è logico con i bombardamenti che hanno fatto gli americani

hanno fatto più danno.Maria: Loro dicevano che facevano chigli bombardamenti pe’ acchiappa i te-

deschi però i tedeschi scappavano ma acchiappavano i civili perché i tedeschic’arrivava ‘na soffiata e issi scappavano.

Teodoro: Il tedesco lì per lì era solamente per prendere gli uomini principal-mente ma i danni c’hanno fatto, i morti so’ stati pe’ gl’americani cioè gl’ameri-cani lo dovevano fare loro dicono perché altrimenti non vincevano la guerra poisi sa che quando uno bombarda prende tutti.

Alessia: Eppure quando sono arrivati eravate contenti gli avete accolti bene.Maria: Si si.Teodoro: Ma pure da noi era lo stesso, gli abbiamo accolti bene perché era

‘na liberazione cioè perché ad un certo momento specialmente per i partigiani èstata ‘na liberazione perché i partigiani andavano contro i tedeschi per vincerela guerra per cui quando so’ entrati gl’americani si c’hanno fatto danno peròhanno liberato l’Italia da questi invasori questa è la cosa principale, però noil’odio l’avevamo di fronte ai tedeschi ma no’ contro gl’americani. L’americanolo doveva fare, se non era per gli americani noi la guerra non la vincevamo, noicome italiani.

Alessia: L’odio quindi era per i tedeschi.Teodoro: E si perché il tedesco era l’invasore, qua non hanno fatto tanto

danno ma quanti ne hanno ammazzati i tedeschi perché quello faceva la spia(alza la voce) oppure andava a favore perché poi gl’americani avevano puremesso delle spie, a Priverno pure l’hanno messe per cui quando i tedeschi sco-privano queste spie le fucilavano oppure i partigiani li prendevano e li fucilavano,là non c’era scampo, li fucilavano i partigiani. Per cui tu vieni a comandare acasa mia…l’odio è per chi è venuto a casa mia a cacciarmi fuori da casa invece

Intervista

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Guerra, racconto e memoria

l’americano viene accolto perché è stato il liberatore. Voi no’ l’avete vissuto manoi l’abbiamo vissuto appunto io l’odio da bambino già lo vedevo l’odio controi tedeschi, per esempio io nel mio piccolo che andavo dal tedesco, passavo sottoil tunnel col pericolo che m’hanno preso, lo facevo pe’ pigliarci le munizioni inmodo che se ne andavano. Poi i tedeschi diciamocelo hanno violentato pure ledonne, ‘nfatti le donne che ci andavano insieme volontariamente ci tagliavano icapelli.

Alessia: A zero? per farle riconoscere? Teodoro: Quando so’ venuti i partigiani prendevano queste donne e gli ta-

gliavano i capelli per punizione a queste ragazze che erano state con i tedeschivolontariamente, mi ricordo una donna si chiamava Clara ci tagliarono i capellia zero i partigiani.

Maria: Quando spararono a Vittoria, così se chiamava? chella che ci sparaoglio tedesco perché c’era rubato ‘no filone de pane, chiglio ci fece alt ma non sefermao e ci sparao, steva a chiedici perdono alla barella iessa no’ ci aresponnioniente ma glio comando li mannao al fronte.

Teodoro: Se tu ci spari solamente per quello allora no…poi che altro bè questonella storia è tanto intendiamoci.

Maria: No’ m’arecordo nient’atro perché no’ le so’ vissute, cheste perché leso’ proprio vissute, chesto che te so’ ditto non è che me l’ao ditto, le so’ vissuteperché stavo co’ papà ma stavano chelle sorelle più grosse chelle ievano pe’tutto,n’ci stavano ma’ a casa ‘ntravano bia la sera, ievano a vede ci diceva patremo:”se ve chiappano ve se portano”.

Teodoro: Da noi un’altra cosa noi per esempio che eravamo bambini, 8-10anni, andavamo dai tedeschi a farci dare pure da mangiare perché c’era qualchetedesco pure bravo, come persona che era brava infatti quando loro ci vedevanoche la fame la soffrivamo da noi ad esempio c’era un tedesco che a me mi chia-mava quando avevano finito de mangia’, dentro la pentola, c’erano quei pentolonigrossi, il tedesco ci faceva rimmediare, specialmente riso e patate.

Alessia: Vi faceva ripulire le pentole?!Teodoro: Ci faceva ripuli’ ‘ste pentole ma intanto c’avevamo da mangia’,

questo me lo ricordo benissimo, c’era pure qualche tedesco non bisogna dire chetutti i tedeschi c’era pure quello che capiva le esigenze della popolazione poiperò quando cominciò a veni’ le SS quelli no, quelli erano terribili, le SS nonguardavano ‘n faccia a nessuno.

Alessia: C’erano quindi squadroni diversi.Teodoro: Le SS portavano la divisa scura, erano terribili, i più cattivi, non

guardano ‘n faccia a nessuno. Da noi se ne so’ visti pochi però a Priverno cen’erano tanti poi tutti ‘sti fascistoni andavano tutti co’ i tedeschi e ci andavanod’accordo.

Maria: Chi ci ieva d’accordo le vidivi, pure che n’te le dicevano ma vidivicome…alla casa tenevano da magna’ invece nui…

Teodoro: Esatto.Maria: Issi tenevano glio pane che se pure sprecava perché chigli ci devano

tutto, issi facevano la spia.Teodoro: Facevano la spia specialmente co’ gli ebrei, i tedeschi andavano là

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e prendevano ‘sti ebrei pure qua a Priverno è successo.Alessia: Anche qua a Priverno c’erano delle famiglie ebree? Voi li conosce-

vate? Maria: Stevano di fronte da Bucciarelli a chiglio vicolo, com’erano chiamati?Teodoro: I giudii.Maria: I giudii.Alessia: E loro so’ stati presi?Teodoro: Qualcuno s’è salvato, c’era pure qualche pipernese che gl’ha portati

a casa sua e gl’ha nascosti gli ebrei.Alessia: Chissà chi(quasi fra me e me).Teodoro: Chi è? Te lo dico subito è Fulvio de Loreta, il marito. Infatti quando

ogni anno che fanno la festa no’ mi ricordo come è chiamata dagli ebrei Fulviolo invitano a Roma ad andare a questa festa, questo è importante.

Alessia: Allora provo a chiamarlo. Voi lo conoscete bene, sa come posso con-tattarlo?

Teodoro: Il numero te lo posso dare io, questo me la detto lui, un giorno lovidi vestito e dici “ando’ vai”, dice “ vado a Roma perché così e così, ho salvatodegli ebrei durante la guerra e m’hanno invitato”, ogni anno lo invitano non miricordo come si chiama questa festa.

Alessia: Anche lei quando so’ arrivati gli americani ha visto i marocchini? Teodoro: Se so’ stati poco, si, insieme co’ i francesi e io mi ricordo, ‘sta fo-

tografia lampante che ciò che io ero ‘no ragazzotto alto così(indica con le maniun’altezza di circa un metro)e me passavano ‘sti carri armati davanti e io ‘mpa-lato, quello m’ha fatto impressione, m’è rimasto sempre ‘mpresso.

Maria: Diceva la mamma che isso era chiglio che portava a casa, n’se aredu-ceva mai.

Teodoro: Quando ammazzarono ‘sti cavalli, quando ci fu la ritirata che ave-vano sfondato il fronte di Cassino io vedevo tutta ‘sta fila de cavalli grossissimi,io proprio dal paese viddi gli aerei che me sfrecciavano da dietro bombardaronoe ‘chiapparono tutti ‘sti cavalli dei tedeschi. Quando viddi tutti ‘sti cavalli dalontano dico mo’ vado a chiama’ mio fratello che era più grande.

Alessia: Adesso se fa festa!Teodoro: E mo’ se magna ‘nfatti tutte quelle cosce de cavallo, porca miseria

me ricordo mio fratello tagliava e io ragazzino che poi era lontano era circa 3-4kilometri, co’ ‘sta carne sopra alle spalle ce ne andavamo a casa. Viddi propriomitragliare tutti ‘sti cavalli…com’è che dèsirèe ha pensato di…?

Maria: Quando ha telefonato so’ pensato che Teodoro era lasciato ca’ cosa infarmacia.

Alessia: Perché le stavo dicendo che dovevo raccogliere altre informazioni epoco prima avevamo parlato di sua nipote e così le è venuto in mente lei e l’ab-biamo chiamata.

Maria: Chello che c’arecordamo come no!Teodoro: Un’altra cosa che io me ricordo pure, me ricordo sempre che le can-

nonate, loro gli americani sparavano da Guarcino vicino Fiuggi e io sentivo ‘stiproiettili de cannone che attraversavano tutto il paese per sparare a distanza aCassino e noi che dormivamo sui tavoli sentivo ‘sti botti de cannone che spara-

Intervista

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Guerra, racconto e memoria

vano verso Cassino.Alessia: Alcune persone m’hanno detto che anche a Priverno si sentivano le

cannonate che provenivano da Anzio quando c’è stato lo sbarco, e Anzio è di-stante da noi.

Maria: Se sentivano si come no, guarda chesta bomba ‘n cima a glio bucio,n’so ci stavano du’ anziani, videro ‘na bomba da ando’ la scagliarono e dice “labomba ne ve’ a colpi’ a nu’ ” e arrivò proprio ‘n cima a glio bucio, perché ‘n po’de giorni prima ci stava ‘no fagocchio ’n cima a ecco a glio bucio.

Teodoro: Sarebbe il nonno di quello che c’a il bar total giù a Sant’Antonio.Alessia: E’ quello che faceva il falegname mi sembra.Teodoro: Faceva le ruote dei carretti.Maria: Allora i tedeschi se ci fermavano pe’ farse fa’ ca’ riparazione, ca’

giorno o gl’atro pe’ Romolo ci bombaradano a nu’ dicevano chigli più anziani e‘nfatti la bomba proprio alloco. Quando la itterono a Largo Cellini la sorella miachella più grossa, ch’è morta non c’è più ando’ a vede’ Largo Cellini, se misesotto braccio ‘na signora e la portao a gli’ospedale a rischio de fasse accide pureessa ma basta che ieva a vede’, bombardarono a glio bucio e dopo, ‘n’atra votafecero da Bucciarelli.

Teodoro: adesso so’ passati tanti anni per cui certe cose, e rimangono impressequelle più eclatanti… ci stanno persone che sanno più di quello che t’abbiamoraccontato noi intendiamoci però uno di questi fatti è Fulvio de Loreta.

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DALL’ALTO, DAL BASSO… ATTRAVERSO

di Giovanni Raponi

Durante la Seconda guerra mondiale la provincia di Littoria, dopo il gennaiodel 1944, fu assediata tra due fronti (Cassino e Anzio) per più di quattro mesi, econobbe il tallone di ferro nazi-fascista per circa otto mesi. La pupilla del Duce,la provincia più cara a Mussolini, soprattutto per le opere che fecero seguito allaBonifica Integrale voluta dal fascismo negli anni Trenta, soffrirà in forme assaicruente gli eventi del Secondo conflitto mondiale fino al maggio del Quaranta-quattro e anche dopo (le violenze subite dalla popolazione civile, soprattutto dalledonne, si protrassero fino al mese di agosto del 1944 e numerose furono le vittimedegli ordigni rinvenuti, più o meno casualmente, nei mesi successivi alla libera-zione portata dagli Alleati). Fra tanto dolore, pubblico e privato, collettivo e in-dividuale, i bambini come se la cavavano? come sopravvivevano alla paura?all’orrore? alla fame? alla perdita della protezione che normalmente ricevevanodagli adulti (troppo impegnati adesso a racimolare quanto serviva alla sopravvi-venza per curarsi di loro con la solita premura)?

L’intervista al signor Cataldo Botticelli, che qui di seguito proponiamo, ri-sponde a buona parte di quelle domande che abbiamo appena elencato. E ri-sponde, secondo noi, più in forma implicita che esplicita. E vogliamo dire che siha l’impressione nel leggere la trascrizione delle parole del signor Cataldo che,al di là degli eventi, dei fatti accaduti, a sostenere la Sua personale Resistenza (eintendiamo il termine nell’accezione storiografica più compiuta, ossia come Lottadi Liberazione)… a sostenere le terribili prove di un bambino che perde la madre,gioca con i residuati bellici, protegge il fratellino dalla fame e dalle violenze…a Sostenere il volto di Medusa, capace di pietrificare, ci sia stata la Fantasia. Ilbambino Cataldo Botticelli, novello Perseo, guarda la realtà riflessa nello scudodella fantasia, e grazie al suo scudo è in grado di non farsi aggredire dal Male. IlMale che lo circonda. Male che non è la povertà, della quale racconta come se sitrattasse di parlare di una vecchia conoscente, quanto piuttosto qualcosa di inde-finibile, indeterminato, un totale non-senso. E’ a questo non-senso che il bambinoCataldo risponde, e risponde immedesimandosi nel ruolo dell’eroe come solopuò fare un bambino, un bambino dotato di una grande Fantasia. Ed ecco, allora,che gli aerei non ti fanno più paura! Anzi, ti diverti a vederli sparare prima dinasconderti sotto un ponte perché non possano ferirti. E se qualcuno dei tuoi cirimane… rimane colpito veramente dalle pallottole: Niente Paura! Tanto se lacava con poco! Quando la realtà è orribile, insostenibile, l’unico rifugio per unbambino è la Fantasia. Chi se lo ricorda il film di Benigni, La vita è bella! Propriocosì. Anche il bambino Cataldo Botticelli, finché ha potuto, ha cercato di pensareche alla fine un carro armato se lo sarebbe portato a casa!

L’intervista al Signor Cataldo Botticelli (nato a Priverno, il 10.05.1935) è stata realizzata, presso l’Istituto“Teodosio Rossi” di Priverno, il 20 dicembre 2014 dal Prof. Giovanni Raponi in collaborazione con gli stu-denti Emanuele Neve e Gaetano Tornese. Ha trascritto l’intervista la Prof.sa Paola Marroni; la Prof.saLoretta Cardarelli ne ha curato la revisione tipografica. L’intervista è stata realizzata con telecamera SonyHandycam 3.0 megapixel. Qui, in volume, riportiamo circa i tre quarti dell’intervista che complessivamenterisulta di 60 minuti primi. Coloro che volessero consultare nella forma audiovisiva, e nella sua interezza,l’intervista possono rivolgersi alle Prof.sse sovra menzionate, docenti presso l’Istituto Teodosio Rossi diPriverno.

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Guerra, racconto e memoria

Torniamo a Cassino. Torniamo alla realtà. A febbraio del 1944 arrivava sottol’abbazia, per sconfiggere i Tedeschi, il neozelandese (come amava autodefinirsi)generale Freyberg. Tocca ai suoi uomini adesso l’assalto. E, il generale ne è con-vinto, l’assalto riuscirà se si toglieranno dalle scatole i Tedeschi sistemati dentrola millenaria abbazia. Inutile ribadire oggi, per allora, che di Tedeschi dentrol’abbazia di Montecassino non ce n’erano. Per il generale c’erano però, e questoè quel che conta. I Tedeschi nella fattispecie erano nella mente del generale Frey-berg, nella sua Fantasia viene voglia di dire! Come si sa, l’abbazia di Montecas-sino venne rasa al suolo a metà febbraio, circa un mese dopo la stessa sortetoccherà alla città di Cassino (la piccola Stalingrado la chiameranno i soldatidella Wehrmacht). Sia la distruzione dell’abbazia che quella della città di Cassinonon permetteranno al generale Freyberg di battere i Tedeschi, piuttosto le macerieprodotte aumenteranno la capacità difensiva dei soldati di Hitler. Perché parliamodi Freyberg allora? Perché abbiamo letto che fu amico di James Matthew Bar-rie… Nome che letto di primo acchito sembra quello di un illustre sconosciutoma che, non appena si rivela essere l’autore di un famosissimo romanzo per ra-gazzi, Peter Pan, si illumina a lettere d’oro. Ecco! Crediamo che se un archetipo,un eroe eponimo, abbia ispirato (consapevolmente o meno non importa) le gestadel bambino Cataldo Botticelli sia proprio Peter Pan (anche se a leggere le cro-nache della battaglia di Montecassino sembra che Peter abbia ispirato anche ilgenerale Freyberg, ma questo non depone certo a suo onore). Come Peter, il bam-bino Cataldo non ha paura! E non ha paura neanche degli uomini, degli adulti!Come Peter, è astuto! Con il fratellino, spinto dalla fame, si avvicina all’accam-pamento dei soldati Tedeschi ma lo avverte che stia lontano, per chiedere aiutose occorre! Come Peter, Cataldo porta sempre con sé un coltellino, è la sua armadi difesa; va in giro con altri bambini come lui che, in quel tragico momento, aragione possono indicarsi come altrettanti bambini smarriti (proprio come chiamai suoi amici del Paese-che-non-c’è Peter Pan). Ma, soprattutto, come Peter Pan,Cataldo non parla mai della sua mamma (del resto a chi avrebbe potuto par-larne?!) e, come Peter, il bambino Cataldo Botticelli sembra non averne bisogno,quasi che le mamme potessero ritenersi persone sopravvalutate (come si può leg-gere nel romanzo di James Barrie). Proprio così: la cosa che di più inquieta, nelpossibile parallelismo tra le vicende di vita del signor Cataldo e quelle dell’autoredel romanzo del bambino che aveva deciso di non crescere più, riguarda proprioil rapporto con la mamma. Il signor Cataldo ci ha narrato del terribile lutto chelo colpì ancora bambino proprio nei mesi terribili della guerra a Littoria e pareche anche James Barrie per più di un anno (dopo la morte dell’amato fratellinoDavid che aveva quattordici anni) rimase al capezzale della madre, incapace diriprendersi dalla grave forma i depressione che la colse. Insomma, quella chepresentiamo qui è una storia terribile e drammatica ma, nello stesso tempo, unastoria a lieto fine. Una storia che registra il successo della vita, della speranza,della fantasia contro la morte, la disperazione, la realtà violenta della guerra. Lastoria di un uomo che porta con sé la coscienza di valori profondi che ha difeso,ancora bambino, dalla terribile violenza degli adulti capaci di offendere l’inno-cenza dell’infanzia da tutti i punti di vista: dall’Alto e dal Basso, grazie allebombe degli Alleati che piovevano dal cielo e grazie alle minacce dei Tedeschicon i quali si era costretti a condividere lo spazio geografico, il suolo del paesenatio. Una vittoria che il bambino Cataldo ha ottenuto passando per il suo tempoattraverso… la fantasia.

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Intervista

Cataldo BotticelliR: Signor Cataldo alla persona che intervisto chiedo sempre se posso dare

del tu. Possiamo darci del tu?B: Sì, come no? Possiamo darci del tu.R: Bene, grazie Cataldo. Io mi chiamo Giovanni. Di solito le interviste le co-

mincio così e faccio così anche con te. Se tu dovessi raccontarci la tua vita. C’èun momento particolare della tua vita da cui, secondo te, si potrebbe cominciarea dire: lì ci sta già Cataldo Botticelli; in quest’evento io già mi vedo consapevolee protagonista e ….

B: Non ho capito bene …

La scuolaR: Rifaccio la domanda, rifaccio la domanda. Da bambino,ti hanno mandato

a scuola? Hai fatto le scuole elementari?B: Sì, io ho fatto la prima, la seconda, la terza e a Ciriara (Ceriara), perché

c’era la scuola quella dell’obbligo e allora, in quel periodo,era solo fino alla terzaelementare, chi voleva fare la quinta come me che volevo andare a fare il cara-biniere doveva venire a Priverno a piedi, a piedi passando per le Quattro Stradeper chi capisce, chi conosce Priverno e non per Madonna delle Grazie, perchéda settembre, ottobre ad aprile pioveva e c’era sempre mezzo metro d’acquaquindi Cataldo a piedi, ripeto, senza cappotto,senza incerata,senza ombrello- chice l’aveva l’ombrello, quarantenni, in quegli anni l’ombrello, non c’avevamol’ombrello, niente quindi manco a me mi prendeva un acquazzone alle QuattroStrade così che io passavo per la Torretta e me ne andavo a scuola a Santa Chiara,quando arrivavo io tutto bagnato, tutto sporco e lercio non era raro prendersiqualche … qualche …. non dico insulto, ma presa in giro dai ragazzi, era com-prensibile … arriva ‘sto straccione, tutto bagnato, tutto zozzo, dice … ma chevai girando

R: Chi era l’insegnante?B: Lattao. Lattao e poi …R: Maestro?B: Maestro Lattao e il maestro Galli. Questi sono stati i mie insegnanti, i

primi che mi hanno insegnato veramente l’interessante perché io ho perso lamamma (china la testa commosso )... (Lunga pausa)

La mammaR: Che età avevi?B: Ho perso mia madre che avevo sette anni ma praticamente mia madre ha

fatto gli ultimi due anni a Ceriara dentro una piccola stanza come questa qua,c’avevamo una cucinetta da un’altra parte, eravamo povera gente, non è chec’avevamo una casa grande e lei non poteva vedere nemmeno la luce, quindi miamadre sveglia …; già a sette anni allora eravamo meno, forse, ripeto,meno sveglidi oggi, però poi quando la mamma è per gli ultimi due anni, prima di morire, èrimasta chiusa al buio perché non poteva vedere la luce, questo almeno mi dice-vano, a me, ragazzo, e quindi mi riportavo qualcosa da mangiare e … (Scuote latesta) … sentivo solo la sua voce, io mi commuovo, adesso sto parlando di questo

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qua però il mio pensiero sta a questa madre no? che sta male, c’ha un figlio disette, ott’anni, sett’anni e mezzo e un altro, sett’anni compiuti e un altro di treanni

R: Più piccolo.B: Più piccolo. Non era da tanto che io non vedevo mia madre, allora quando

io penso a ‘ste cose: la tragedia de questa mamma che dice: “Io forse non riusciròa sopravvivere e questi figli dove andranno, chi se ne prenderà cura?”; mio padre,tra l’altro, era richiamato, stava a Roma per soccorrere qualche bombardamentoperché gli americani- io sono filoamericano- gli americani c’hanno liberato dalladittatura, però gli americani è meglio non averli nemici, quando bombardano,bombardano a casaccio, così, insomma, cioè, a me non m’è piaciuta la storia diMontecassino, per esempio, potevano rimanere là dentro i tedeschi, che facevano.Comunque non entriamo, non travisiamo la cosa dei tedeschi … erano stranieri… molto probabilmente ….

R: Ascolta. C’è questo ricordo molto emozionale della tua vita, no? Addirit-tura fino a commuoversi veramente e narra che tu sei bambino e la tua mammapoverina sta male. Papà tuo … tu di che classe sei? Qual è la tua data di nascita?

B: Sono del 35R: Sei nato nel 1935. Quindi tu c’hai sei - sett’anniB: Io c’ho … io c’ho … a maggio prossimo … il giorno di S. Cataldo … io

sono nato il giorno di S. Cataldo alle 18.30. Mia nonna è entrata col carretto tuttoinfiocchettato. Era andata a Supino, a Supino allora c’era un santuario molto …come la Santissima ...’na volta la Santissima Trinità … ma in quel periodo ancheil Santuario di S. Cataldo a Supino era molto, molto frequentato … io mi ricordoche mia nonna, mia nonna ... non quando sono nato, perché me l’hanno raccon-tato, che lei invece di stare vicino a mia madre, si partoriva in casa con la leva-trice, ora uno muore pure all’ospedale, ma allora era più facile morire in casa,bastava un piccolo problema, un incidente, non c’erano manco i mezzi, né chec’erano le macchine adesso uhm …”prendi quella,non parte quella prendi un’altramacchina ...”, lì non c’era niente, neanche le biciclette, io venivo da scuola apiedi, andavo a scuola a piedi, quindi diamoci una regolata.

R: Quindi questa tua nonna va a San Cataldo …B: Questa mia nonna va a San Cataldo; la sera, quando rientra, -“Evviva San

Cataldo!”-, scendevano dal carretto, come immagino perché io l’ho visto da bam-bino perché questa cosa ha continuato, mi hanno raccontato mia nonna o miazia, nonna era una credente, praticante … invece di stare vicina a tua madre cisono dovuta stare io da Piperno a piedi, lei stava lì ... le solite cose, insommaquand’è arrivata sentivano: “Evviva, San Cataldo!”, quando scendevano dalcarro, no? “Evviva San Cataldo! Evviva San Cataldo!” e quindi quand’è appenaentrata dice: “Questo bambino lo chiameremo Cataldo! E quindi m’hanno chia-mato così.

R: 10 maggio è la data.B: 10 maggio, 10 maggio, il giorno di San Cataldo. Quindi il 10 maggio pros-

simo faccio 80 anni.R: Tanti auguri. B: Grazie

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Intervista

R: Allora … papà tuo, m’ hai detto, è richiamato nell’esercito e … papà comesi chiamava?

B: SilvestroR: E Silvestro che lavoro faceva?B: Mio padre … non aveva un lavoro fisso, lavorava … era un operaio … la-

vorava in campagna …R: Era un bracciante?B: Era un bracciante. Lavorava … all’inizio, da giovane, ha lavorato anche

nell’Opera Pontina R: Ha fatto i canali di bonifica?B: Sì, sì, ha fatto anche i canali di bonifica. Ha fatto pure i lavori di … ha la-

vorato molto. Era un lavoro duro. A suo dire era molto duro, molto pericolosostare in quelle zone, in quel periodo …

R: Senti, te la devo fa’ ‘sta domanda. Papà Silvestro il Duce magari l’ha pureincrociato a Littoria, a Sabaudia …

B: No, non … ma non credo, se l’avesse detto … forse lui faceva dei lavorinelle zone … no, non mi ha mai raccontato, non ha mai raccontato di avere in-contrato. Può darsi pure che l’ha fatto, ma non me l’ha raccontato

R: Da bambino non hai avuto ‘sto racconto. A te bambino non t’è arrivatamai ‘sta narrazione

B: No, no. Mio padre ha detto, quando si parlava, perché poi, quando i tede-schi hanno rotto gli argini, hanno allagato per difendersi la ritirata, hanno man-dato l’acqua, lui allora lui mi diceva - Sai noi abbiamo fatto tanto... - e da quiuscì ‘sta cosa - Noi abbiamo fatto tanto per bonificare, un sacco di lavoro, genteè morta di malaria eccetera e non l’andavano neanche a prendere; questo l’hosaputo anche dopo, che, a un certo punto quando si moriva in quelle zone rima-nevano lì, nessuno li andava a prendere, tant’ è vero che poi si fece una confra-ternita, un’organizzazione di volontariato che andava a raccogliere ‘sti poverimiserabili che morivano magari abbandonati nelle fratti …

R: Confraternite della Buona Morte.B: Eh, esatto.R: Ci stanno ancora.B: Queste cose così, per linea di massima, mi venivano raccontate da mio

padre.

La scuolaR: Allora,Cataldo, ma tu bambino quando vai a scuola a sei anni, quindi nel

41, così, sai che Benito Mussolini, però, è il duce del fascismo. Com’era l’aulascolastica? Ci stava il Re, la Regina … com’era?

B: La scuola, io andavo alla scuola di Ceriara, che io abitavo vicino allachiesa, proprio di fronte alla chiesa, poi lì c’è una stradina, adesso[…], passavala strada che andava dalla 156, vicino alla chiesa, a 200 metri dalla chiesa, c’erauna stradina che andava alla scuola, adesso praticamente poi se l’ha incorporatamio fratello che abita lì, a Ceriara, Gino Botticelli e c’era la scuola, c’è ancora,un bell’edificio molto grande, a due piani molto grande ed era, davanti la scuola,c’erano degli alberi di acacie, nel mese di maggio, in primavera fiorivano bellis-

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simi, fatti, messi a un certo modo, intorno c’era un’aiuola, delle aiuole di gigli diSant’Antonio, con l’infiliate di legno, tutte stecche di legno, ma una perfezionedevo dire, pulito, devo dire un’organizzazione eccezionale, l’aiuole sempre pu-lite, gli alberi sempre potati, le erbacce […], adesso se io vado a prende mio ni-pote a Roma, stiamo all’Eur, una zona un po’ periferica, davanti all’ingresso dellascuola c’è l’erba alta così (indica l’altezza con la mano) e nessuno la taglia,apriamo ‘sta parentesi. Lì era veramente tutto pulito. Un giorno, un giorno, iostavo prendendo un giglio di Sant’Antonio e me sento un calcione nel sedere edera un’insegnante, mi ha detto: “Perché stai prendendo …”, “Lo voglio portarealla tomba di mia mamma”, ma non era vero niente perché cercavo una scusanteplausibile per strappà … per dire ancora come si curava, come si curavano lecose. Il giorno dopo passavano gli aerei e noi ci mettevamo i ragazzi a guardaregli aerei che andavano verso il nord, passavano le fortezze volanti, protette daicaccia che poi arrivavano i tedeschi che volevano fa’ cadè le fortezze, alloraquindi c’erano ‘ste battaglie aeree, no?allo stesso tempo mentre guardavo quellecose io avevo un temperino piccolo, io lo portavo sempre in tasca il temperino,io quand’ero piccolo ‘sto coltellino lo tenevo sempre appresso, purtroppo …

R: Chi te l’aveva regalato?B: Non lo so chi me l’ha regalato.R: Ce l’avevi.B: Io me ritrovo ‘sto coltellino, così (indica la grandezza con le mani),

c’erano, ancora adesso a Ceriara ancora ce n’è rimasto qualcuno lungo la strada[…], c’erano dei pali, allora erano piccoli così, li avevano appena messi, per dirticome funzionava allora … le cose, come si proteggeva la proprietà dello Stato,la proprietà di tutti, della comunità, con un coltellino [levai] la corteccia, e lì n’al-tro calcione nel sedere era … era il guarda strada perché c’era lo stradino conuna fascia nera qua, poi mi sono informato dopo, dopo qualche anno, ma perchéportavano, come i ferrovieri, vicino a Ceriara c’era una ferrovia ‘na volta, sa chec’era una ferrovia per Terracina, e lì addirittura ci stava pure la fermata quandoero piccolo io, dopo la guerra, nel ‘45, anni ’50, e lì c’era un ferroviere, anchelui portava ‘sta cosa, allora un giorno l’ho chiesto, ma perché portano ‘sta fascianera e dice che era un simbolo del regime e questo qua, praticamente, mi dissete lo faccio vedere, erano due, tre giorni ch’era successo il fatto del giglio, m’hadetto.”Ma perché devi levare la corteccia? Non lo sai che la pianta si secca se glilevi la corteccia?”,ora, magari se ce ne levi tanta, però, intanto, la presenza delcontrollore che oggi,forse, manca un pochino, un controllore.

R: Allora ti divertivi a vedere questi aerei che volavano.B: Questi aerei allora, noi praticamente sì, andavamo a scuola, ma studià,

non è che poi c’era qualcuno che te ti diceva studia; adesso io i miei nipoti, ioc’ho ottant’anni, quando vengono i miei nipoti a casa mia li martirio; molte voltenon vogliono venì proprio perché nonno ci fa studià troppo. Quando io venivo aPriverno, appena tornavo a Ceriara, appena tornavo a Ceriara, dovevo andà afare un collare, un collare noi lo chiamavamo era un albero normalmente grossocosì (indica l’ampiezza con le mani), perché siccome lo dovevamo taglià con lasega non è che potevi fa un albero così grande, cioè tagliato e mangiato, l’albero,dovevamo riscaldarci, c’avevamo un camino, non è c’è il gas, la luce, non c’era

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Intervista

nulla, a Ceriara la luce e l’acqua so’ arrivate dopo gli anni ’50 quindi stiamo par-lando … non c’era niente; allora io quando ritornavo da nonna non è che c’eraqualcuno che mi diceva: “Vai a fare i compiti”, no,” Vai a Perone su, sopra pru-neto a fare il collare, il collare non è altro che un albero più o meno così (indical’ampiezza con le mani), che riuscivi a tagliare con una sega che non tagliavaniente, potevi stà lì un quarto d’ora, a un certo punto t’usciva l’anima, una voltafatto fuori lo pulivi, telo mettevi sulle spalle, un ragazzo di quell’età, passandoin mezzo pel pruneto, tutte strade fangose, specialmente d’inverno perché ‘stecose le andavamo a fa’ d’inverno, perché mica le andavamo a fa’ l’estate, no,l’estate non facevamo niente, l’albero lo andavamo a taglià e poi lo mettevamoal foco, immagini, immagini come si bruciava, no? quindi il fumo a rotta di collodentr’a ‘sta stanza e non è che potevi aprì perché se aprivi quel po’ di calore selo portava via, sempre co’ ‘sto fume, sembrava un inferno dantesco e quindi ofacevi quello oppure ti dicevano prendi gliò porco e via a pascolà glio porco aprunella, perché non è che c’è come adesso, vai da Picozza, compri il mangime,compri questo, fai quell’altro, allora dovevi andà a prende delle determinatepiante i lioni, li chiamavamo noi, i lioni, che erano delle piante grasse, che leprendavamo con un po’ di [bucca?]un po’ di cose, si bolliva, si faceva in unapentola, si faceva questo beverone e si dava al maiale dopo che l’avevi portato apascolà, dopo che l’avevi portato a pascolà, quando rientrava lo mettivi dentro ilmandriglio, no? è? io parlo in dialetto pe fattè capì come … sto raccontando lamia vita …

R: Sì, sì.B: Allora gli rimettevi dentro glio mandriglio, mittivi, normalmente toccava

sempre ai ragazzini, pure pe’ altre cose, facevamo bollire quest’acqua, ci mette-vamo ‘sti lioni, ci mettevamo ca cosa de zucca, ca cosa de quando tagliavano icontadini, anche vicini di casa perché ce l’andavi a rubbà, perché adesso l’erbanon la taglia nessuno, ma lì alla strada quando ievano i conigli, per dar da man-giare ai conigli non è che c’avevamo tanti terreni, tante zone a erba medica, chila faceva l’erba medica all’epoca?era erba che nasceva spontanea, un po’ debiava, un po’ de cose, quindi le fosse avanti alla strada, a confine, una volta hannosconfinato mezzo metro a taglià l’erba [il vicino ha detto]:” Oh, questa è l’erbamia, la devo dà ai conigli miei, capito?”. Le fosse sempre pulite, non solo perchéforse credevamo a cert’altri valori che oggi se so’ un po’ persi forse, ma servivapure pe’ fa’ mangià i conigli, perché poi il coniglio è a bono.

R: Tutto serviva e tutto era difficile da realizzare.B: Tutto veniva sfruttato. Noi praticamente, ecco l’assurdità di questo è per-

ché noi andavamo all’orto di casa vicino o molte volte andavo in bicicletta an-davo ai Gricilli, dove mettevano i contadini, quelli che avevano i terreni, c’eranoquando tagliavano il cavolfiore, il cappuccio rimaneva ‘sto gambo, ma non soloprima per i maiali, Cataldo con la fame che aveva prendeva quelli più freschiquando andavi lì li avevano tagliati qualche giorno prima, se erano induriti nonriuscivi a mangiarli, ne potivi fa’ quanti te pare ma quando era sicco era sicco,però se te ritenivi fortunato e andavi lì e li avevano presi la mattinata oppure ilgiorno prima c’erano quei bei cosi che rimanevano attaccati sul gambo dove ave-vano levato il cavolfiore, tu lo pulivi col coltellaccio sempre pronto, sempre

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pronto pe’ mangià qualche cosa, serviva pure pe’ mangia quello, non è pe’ scor-cettare gli alberi e quindi, praticamente, pulivo ‘sto coso e me lo mangiavo;quando m’ero pieno la pancia io, coglio suricchio.

R: Pensavi al maiale …B: Coglio suricchio, tagliavo, riempivo la cosa, mettevo sopra la bicicletta,

da Ceriara andavo io ai paludi,n’è che dici, e quella roba insieme a … insieme a…. facevamo il beverone pe’ glio porco perchè glio porco era, era una salvezza.Non è ch’andavi ... la macelleria non c’era. A Ceriara c’era solo la dispensa dilegno, quella di Mazzon, prima abitavano proprio affianco, affianco alla chiesa,c’era ‘na baracca di legno a due piani, bella fatta bene, era carina, peccato chel’hanno … non so’, io quando so’ andato a fa’il carabiniere ancora stava lì, nel‘54 ancora stava lì, poi stà di fatto che non c’è più ...e c’era un genere alimentari,punto, vendeva qualche cosa, n’è che c’era tutto. Andavo lì. E quindi ecco …queste sono …

R: Raccontaci questa tua vita di bambino che guarda le battaglie aeree …B: Ecco, praticamente quando pomeriggio stavamo, eravamo sempre tredici,

quattordici, n’è … eravamo parecchi perché allora Ceriara … adesso s’è allargata,saranno duemila abitanti, sono venuti da fuori, tutti benvenuti, ma lì ci vivono lefamiglie quelle classiche, Fiore, noi, Sbrigoli erano …. era il centro storico, di-ciamo, però c’erano un sacco di bambini, eravamo sempre sette,otto bambini,eravamo in mezzo alla strada e vedevamo queste fortezze volanti che andavanoverso il Nord, andavano nel nord Italia, andavano in Germania in modo partico-lare,a Dresda, che poi, col senno di poi, ho capito, gli americani, come ho dettoprima, non li voglio come nemici, ma amico sì perché finché ci stanno gli ame-ricani forse anche la nostra libertà forse, ci sarà ancora comunque questa è la miaopinione, può darsi pure che mi sbaglio. Ma gli americani io non li vorrei comenemici, ho saputo che Dresda poi è stata anche bombardata pure dopo … lei melo può confermare, anche dopo che la Germania s’è dimessa continuavano a bom-bardarla non ho capito perché e allora noi vedevamo ‘ste fortezze, queste non semovono, queste so’ cariche di bombe, non è che se potevano difendere, poi hosaputo, quando ho fatto il militare che queste fortezze avevano normalmente unmitragliere però quello sta lì, se l’aereo va dall’altra parte, n’è che se po’ girà lì,[guarda l’attacco, da ‘no bocchettone], quelli che li difendono erano i caccia,erano gli aerei molto piccoli, veloci, rapidi, i tedeschi avevano dei caccia gli ame-ricani non erano da meno, ma naturalmente i due aerei erano veloci, manovrieri… vedevi delle picchiate, se rincorrevano uno dietro l’altro, allora noi scappa-vamo-Questi ci vengono addosso!- invece riprendevano. Tutte queste evoluzionici vedevamo e loro si sentivano il crepitio delle mitragliatrici, noi stavamo lì,stavamo lì, spesso capitava che, quando c’era la battaglia, di notte vedevamoMontecassino, la battaglia di Montecassino, ma prima che Cassino lo distrug-gessero le notti, le notti, durante la notte noi sentavamo dei rumori, proprio ibombardamenti: era tutto un bagliore. Sai, tutta la notte verso Frosinone, se ve-deva una luce, una luce, proprio dei bagliori e dei colpi che arrivavano attutitidelle bombe che scoppiavano. Durante i giorni, quando noi stavamo lì, moltevolte venivano dei caccia americani, no tedeschi, perché i tedeschi umm … nor-malmente si vedevano, gli unici aerei tedeschi che si vedevano nelle battaglie

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Intervista

aeree per difendere cioè, che il caccia tedesco voleva abbattere la fortezza equello americano voleva salvarla, voleva difenderla, mentre spesso, molto vo-lentieri dalle Quattro Strade verso Mezzagosto, a un certo punto noi vedevamodegli caccia, degli caccia americani che si mettevano a bassa quota e mitraglia-vano lungo la strada. Noi praticamente una volta, mi ricordo io, c’era ‘na madredi uno … Sergio, si chiamava, si chiama, ancora è vivo, praticamente c’era unponte, noi praticamente stavamo sempre a giocà lì, quando c’erano queste cosequello che aveva paura s’andava a mette lì, io guardavo, ero sconsiderato e guar-davo, molti avevano paura e s’andavano a mette sott’al ponte, ci ficcavamo sott’alponte. Dopo che erano passati, ci rimettavamo a giocare, allora ho detto: “Oh,l’aereo, il caccia, il caccia” tutti sotto e uno è rimasto lì fuori a guardare quelloche … per sentì l’aereo che mitragliava lungo la strada.

R: Tutti i bambini.B: Noi, i bambini: eravamo quattro, cinque, di solito tre, quattro, cinque. Pra-

ticamente noi c’infilavamo sotto il ponte proprio all’ultimo momento perché vo-levamo vedè st’aereo sott’al ponte non vedi niente. Capito la cosa? Allora noiche eravamo lì fuori, guardavamo fuori così, passava st’aereo così, vuuuuum,mitragliando. Bastava che vedesse un carretto, ‘na cosa e mitragliavano tutto,non è che stavano a guardà e un giorno, purtroppo, una ragazza che non ha fattoin tempo a ficcarsi sotto al punto, Lisa, adesso sta in Canadà, ha preso una pal-lottola qui, al polpaccio della gamba sinistra, gli l’ha passata a parte a parte, l’hapresa … non ha fatto in tempo a ficcarsi sott’al ponte.

R: E poi che succede a ‘sta ragazzina?B: Niente, poi l’hanno portata … è stata soccorsa, l’abbiamo portata ... che

abitava a cento metri da dove stavamo giocando, i genitori l’hanno soccorsa, iparenti, chi era, adesso non ricordo, sta di fatto che si è salvata, la ragazza, doposette,otto anni i familiari sono andati in Canadà ... so che è ancora viva, ha l’etàmia, insomma, ha l’età mia.

R: Il cognome ce lo puoi dire?B: Pagliaroli. Credo che si chiamasse … della famiglia Pagliaroli, sono pa-

renti di questi che c’hanno il genere alimentari. Pagliaroli, lei era figlia di AlfonsoPagliaroli, sì, Lisa Pagliaroli.

I giochiR: E che giochi facevate, oltre a guardare gli aerei?B: I giochi, i giochi, te puoi scordà i giochi di oggi. Adesso vado da mia figlia

e non riesco a fa’ io de solito passo sempre al seminterrato, ci stanno cinque- seibiciclette, ci stanno dei giocattoli de tutti i generi, mia figlia:” Devo aggiustà[?”]. “Virgì, tu non devi aggiustà, ‘sse cose, devi acchiappà tutto, perché ‘ssosempre gli stessi e stanno sempre lì, chiappa tutta ‘sta roba, portala da qualcheparte, prima o poi finirà. Allora non c’erano i giocattoli, non c’era niente. Allorail nostro gioco veniva prendere, andare a prendere i fichi d’india, cercare i fichid’india perché ci sono dei fichi d’india allora che non avevano le spine. Noi pren-davamo una foglia di fico d’india senza le spine, poi prendavamo un’altra fogliadi cose e facevamo le ruote: infilavamo da una parte all’atra dei pezzi delle canneoppure andavamo a prendere dei vimini che stanno, di quei certi cosi di rame,

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Guerra, racconto e memoria

cioè facevamo l’asse, lo infilavamo da una parte all’altra, le ruote erano sempredoc, doc di fichi d’india, quattro ruote, co ‘no laccio, oppure la stramma, perchéil laccio, i lacci non era facile, perché se trovavo ‘no laccio e nonnema vedevache steva ‘no laccio attaccato a ‘nna parte … il laccio pe tirà la carrozzella, mefaceva osservazioni. Stiamo parlando di miseria, di miseria.

R: La carrozzella …B: Quindi entravamo colla stramma, perché ‘ste cose poi servivano oppure

la ginestra, materiale che noi lavoravamo quando si legava la vigna, non è cheadesso vai da Picozza prendi quei cosetti, ticchete, no? O colla stramma o con laginestra però non è che … a mettevi là, se seccava, c’era un sistema, mezz’al-l’acqua, se faceva e poi diventavano bone, quindi, noi queste cose, usavamo que-ste cose qui per giocare, giocavamo con queste cose qui oppure per giocareadesso ci stanno le frecce, le cose, noi la chiamavamo la mazzafionda, la maz-zafionda era un pezzo de cosa co’ due cose, le tagliavamo, co’ ‘no coso, mette lamano, co’ due elastici, adesso vedi copertoni da tutte le parti, ma allora se trovavi‘na camera d’aria c’accidevamo perché co’ ‘nna camera d’aria de bicicletta chela riparavano, me ricordo ‘na volta avevo bucato io, c’erano settanta pezze, per-ché non è che bucavi e la buttavi, adesso magari, dopo che l’hanno riparata unpaio di volte, la buttano, se la riparano. Allora praticamente era talmente tuttapiena di cose che praticamente non era bona come elastico perché ci stavano tuttepezze attaccate, perché quel poco che rimaneva allora ce lo dividevamo, quindiper fare mettavamo un oggetto da ‘na parte, un barattolo, normalmente, metta-vamo un barattolo e scoprivamo chi era più bravo; erano sempre più bravi di me,io non c’ho mai preso, no, non ero molto bravo.

R: Eri coraggioso …B: Non ero coraggioso. Sì, più che coraggioso ero ... sì, coraggioso lo sono

stato, perché andavamo, l’estate andavamo alla fiumetta ai Gricigli, c’era unafiumetta d’acqua zolfa, adesso c’è ancora, per un certo periodo s’era prosciugata.Adesso ho visto, ci so’ andato l’anno scorso per...”Fammi vedere dove andavamoa farci il bagno, d’estate?” C’era un laghetto, quindi questo era un emissario diquesto lago e andavamo lì a farci il bagno, lì uno studente si stava affogando, iopoi sapevo nuoticchiare così, ma, nuotamme per salvare me; so’ andato lì, maappena so’ andato ma ficcato sotto, perché quello che se stà affogà questo fa, duevolte m’ha capitato, anche da carabiniere: ‘sto ragazzo se stà affogà alla fiumetta,vado là e quello me ficca sotto, se non pigliavo mio cugino, Botticelli, che ancoraabita al ponte de Ceriara, se non veniva pure lui in soccorso, quello me ficcavasotto, me faceva affogà a me, lui se salvava e a me m’affogava. E n’altra voltam’è successo da carabiniere: ero fidanzato, stavo a Foce Verde dalla mia fidan-zata, a un certo punto c’erano delle persone che sene stavano andando troppoverso gli scogli, io gliel’ho detto, ma forse loro non m’hanno sentito:” Non andatetroppo verso gli scogli!”, perché visto le onde come fanno? Le onde fanno così(gesto della mano), e scavano, quindi, l’acqua c’arivava qua (gesto della mano),ma se vai verso gli scogli, io l’ho premunito, gliel’ho detto, però forse non m’-hanno sentito. Sta di fatto, c’erano tre donne che se stavano affogà, tre, so’ andatolì e n’ho chiappata una, e quella pure me se stava a ficcà sotto, allora ormai eropiù robusto, avevo fatto il corso si salvamento, allora sapevo che fare, gli ho dato

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Intervista

un cazzottone capo, l’ho acchiappata e l’ho portata fuori; poi [ ]ho chiamato altriragazzi, se so’ buttati, tutti, guarda, non se n’era accorto nessuno, poi ho comin-ciato a urlare e questa me stava a ficca sotto veramente, mia moglie me lo rac-conta:” tu sei stato sempre ‘no spregiudicato”, (Cataldo risponde)” Sì, vabbèerano tre donne che se stavano affogà, almeno una la potevo salvà”, però mestava a ficcà sotto, gli ho dato un cazzottone in testa, s’ha stordita, perché pra-ticamente erano arrivati già agli scogli, lì più andavi vicino agli scogli, più eraprofondo e affoghi. Perché poi lì …

R: Senti a sentirti raccontare, sembra la tua infanzia una vita di un bambinoavventuroso, cioè tra prati ...

B: Sìììì! Facevamo pure, anche, perché poi, tra l’altro, ho fatto pure un corso,ci siamo iscritti all’accademia, io e un altro paio di amici

R: E quanti anni avevi?B: Quindic’anni, sedic’anni. R: Un ragazzino!B: Un ragazzino. Abbiamo scritto, praticamente c’ho messo pure il telefono

sull’indirizzo, pensa, sull’indirizzo. “Accademia, Roma”, no? Corso per attori,volevo fa’ l’attore.

R: Tu volevi fa’ l’attore.B: Io volevo fa’ l’attore. Io e n’altro, volevo fa’ l’attore. Allora abbiamo scritto

all’accademia e…via e …telefono ... ci ho messo pure il telefono (ride), me ri-cordo sempre, ma che scemo …

R: Accademia di arte drammatica.B: Sì, era una scuola che faceva corsi per corrispondenza per attori. Poi siamo

andati un paio di volte lì, ch’anno fatto:”Andate, andate a Ceriara!”. R: Io adesso … è’ bellissimo quello che ci racconti. Però ti devo far fare un

passo indietro: perché m’impressionò molto l’anno scorso, quando ce l’hai rac-contato … l’anno scorso, a maggio, quando l’hai raccontato … m’hai detto: “Poimamma purtroppo è morta”, no? e l’avete accompagnata al camposanto.

B: Ecco, allora è successo che mia madre, come dicevo, mia madre stavasempre chiusa, per anni è stata sempre chiusa dentro una stanza come questa qua,al buio, c’era solo la finestra, sempre chiusa, non c’era corrente, non c’era luce,avevamo qualche candela; i più fortunati a Ceriara avevano la centilena col car-buro, ma non se la potevano permette tutti ‘sta centilena, perché il carburo co-stava. A casa mia non ce la siamo potuta permette quindi avevamo i lumi colgasolio, co’ questi prodotti che puzzavano, maledizione!, ma la notte, quando tisvegliavi, era un putiferio, un freddo da cane, e l’illuminazione a casa mia eracoll’olio di oliva, mettevamo degli oli , delle cose ... e questa era la mia illumi-nazione: quando andavo da mia madre a portarci qualcosa io cercavo di vederla,lei si nascondeva, può darsi … non lo so … io, gli ultimi anni, non ho mai potutovedere mia madre in faccia, io la volevo vedere com’era. Quando proprio stavamorendo, e meno male che è morta di malattia … ma è morta perché non l’hannocurata, perché i medici non c’erano a Priverno, l’ospedale … ci sarà stato qual-cuno che sapeva … ma …

R: C’era un medico condotto, magari passava un medico, ti ricordi?B: A casa mia, dei ricordi che c’ho io, non è mai venuto nessuno a visitare

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mia madre, mai, mai, mai (gesto perentorio con la mano). Veniva la levatrice chepoi faceva tutto, c’erano le donne, c’era Assunta ... in questo casello ci abitavauna certa Assunta, Assunta Desideri...che avevano … i Desideri so’ quelli chehanno pure … il coso adesso … Ernesto, come si chiama questo qui che adessoporta sempre il bastone?

R: Vabbè, non lo so, però …B: Comunque c’era una famiglia Desideri, la famiglia Desideri, che abitavano

in questo, in questo casello, lui era ferroviere, la moglie, […] tanto è vero che dapiccolo soffrivo di dolori di orecchie, ma dolori terribili, io andavo da lei e leidiceva a mia madre: “Vai da Tizia e Caio, fatti da’ un po’ di latte del bambino ece lo fai mette dentro”, era un toccasana; a me mi si passava l’orecchio. Pratica-mente io soffrivo maledettamente di dolori d’orecchi quand’ero piccolo, nove -diec’anni, adesso non mi ricordo bene, nooo, era viva mia madre quindi avevosette anni, otto, sett’anni, sett’anni e mezzo, praticamente mi curavano il dolord’orecchio con il latte delle lattanti, delle mamme, insomma, che davano il latteai bambini. Queste donne facevano un po’ tutto, ecco,qualche volta, venivanoqualche persona, portavano qualche cosa pe’ misericordia, ma i dottori non li homai visti. Quando, evidentemente, non ce la faceva più, un giorno è venuto unoche abitava al palazzo della Paura, non so se lo sapete qual è il palazzo dellaPaura, adesso è abbandonato, allora era una zona fiorente, quando prima lei …tu m’hai fatto la domanda che cosa faceva mio padre, mio padre maggior partedel tempo di lavoro lo faceva in quella zona là, perché c’erano uliveti, c’eranovigne, prima si zappavano le vigne, prima si zappavano le olive, era una cosapregiata; adesso le olive per la Torretta stanno abbandonate; l’anno scorso m’hadetto uno: “Se te voi andà a fa du’ ‘live”, ma erano cariche de’ ‘live buttate lì, lespine che arrivano di sopra all’ultima … cioè le ‘live … tutto abbandonato. Maprima le zappavano. Mio padre - t’ho detto - era un bracciante e zappava le olive,zappava le viti, zappavano altre cose e poi (fine primo dischetto).

R: Una cosa che io ho trovato terribilmente toccante dal tuo racconto di tuamadre nel portare a camposanto ‘sta pora donna e poi ch’è successo?

B: E’ successo questo; intanto torniamo a qualche giorno prima, è stata unpaio di giorni all’ospedale, cioè a un certo punto mia madre si è aggravata, eragià grave, secondo me, si è aggravata e quindi praticamente per portarla non èche c’erano le macchine, c’erano i cosi, mia madre è stata caricata su un carretto,questo carretto, il proprietario abitava a Palazzo della Paura, dove mio padre la-vorava, zappava le vigne, zappava le olive eccetera, dove io andavo a mezzo-giorno, naturalmente, quando all’ora di pranzo mi scappava un bel piatto diminestra, pasta e fagioli con le cotiche con una fetta de pane sotto e stavi apposto,finiva lì, non è che c’era l’antipasto, la cosa, i bambini adesso ... lasciamo perde’.

R: Come si chiamava il proprietario del palazzo?B: Il proprietario del palazzo sinceramente non mi ricordo come si chiamava,

comunque erano di Frosinone: erano due famiglie, non erano parenti, però eracome una famiglia perché se scambiavano ‘na pagnotta de pane, andavano avantie ‘ndietro, facevano tutto lì, non me lo ricordo come si chiamavano, ma dellepersone veramente di cuore, allora questo qua col carretto, naturalmente lavoravalì con loro, era un loro dipendente, tra virgolette, saltuariamente e venne co ‘sto

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Intervista

carretto, me ricordo mia madre avvolta in una coperta, neanche lì in questa oc-casione sono riuscito a vederla, l’hanno messa su ‘sto carretto e l’hanno portataall’ospedale, dove non mi hanno mai portato e questo lo avuto sempre con la so-rella mia zia Adele che abitava qui a Santa Chiara e con un altro mio zio’, Gidio,buonanima, è andato in Francia, è morto nelle miniere perché è morto a quaran-t’anni, quindi doveva andà all’azione eccetera, a questi gli ho sempre rimprove-rato:”Perché non m’avete mai fatto vedere mia madre, all’ospedale mica eracoperta, all’spedale magari era scoperta e quindi volevo ricordare bene il viso dimia madre. Niente! a via Pergola, qui a Priverno, a via Pergola è ‘una laterale divia Zaccaleoni per arrivare all’ospedale, a via Pergola lì sulla destra ci abitava lamia bisnonna, una centinaia, è morta perché è caduta, s’è rotto un braccio sennò‘nse moriva più ,ancora era viva. Praticamente io dai Carabinieri la prima visitache faceva in Caserma a firmà, firmava in uniforme, firmavi quando arrivavi equando partivi, te tenevano sotto controllo, il Comandante doveva sapè che ar-rivavano tutti e doveva controllà, penso era per questo e la [prima visita?]la fa-cevo a questa mia bisnonna perché anche lei nella sua miseria, nella sua cosa,mi regalava i fichi secchi, aveva tutte le cose sfiziose, ‘ste cose sfiziose le avevatutte quante lei, arance, perché c’aveva il secondo marito, eh?, ne ha sepolti due,l’ultimo, praticamente gli portava sempre le arance, le cose … le arance adessose perdono, no?io c’ho le olive sotto il cavalcavia, quando vado io non c’honiente, l’ho piantate io ‘mpo de piante ma ancora so’ piccole, ma prima ch’arrivolì ci stanno tre- quattro piante di limoni e tre- quattro piante di arance carichecosì; l’altro giorno n’ho portato mezza cassetta, mia moglie ha cominciato a fa’‘una lagna:” E tu, da accattone …” “Ma quale accattone, ci stanno le piante, staope’ tera, stanno un quintale tutte pe’ tera!”, N’ho presa mezza cassetta, adessomi faccio la spremuta, e me le bevo, ma qual è il problema? Stanno lì per terra,lì pe’ terra, vicino la strada, semmai me devi di’: “Non prende ‘ste cose che c’èlo smog, che te fanno male!”. Il padrone sta lì, sta mezzo quintale pe’terra, trequintali sopra, se stanno a perde’. Allora gli aranci erano ‘na cosa preziosa, erano‘na cosa preziosa, quando io andavo a Priverno che andavo a scuola, passavo danonna, pe’ salutalla, la mia bisnonna pe’ salutalla e tutto, andavo lì pure collasperanza, non lo nascondo, di avere qualche arancio e lei mi dava sempre qualchearancio, mi dava i fichi secchi, mi dava i lupini, i lupini e io me li metteva in sac-coccia, non è come mò, ‘ssi capito? “T’è, mitti ‘n saccoccia”, chiaramente ba-gnato, ma tanto era sempre bagnato dall’acqua, da altre cose, sporco da altre cosee quindi ecco questa è la mia fanciullezza. Quando io stavo lì’a via Pergola agiocare, mia madre stava all’ospedale e allora dato che stava all’ospedale, alloraso’ stato due giorni da questa mia nonna, dormivo e mangiavo lì da lei, a un certopunto mia madre è morta e l’hanno portata lì all’ospedale e noi stavamo lì a gio-care co’… Del Frate ancora è vivo anche lui, ha fatto pure lui il carabiniere, stavoa giocà a pallina,visto stavano i selci per terra, allora facevamo chi arrivava a uncerto punto passando dentro le cose, co ‘na pallina, ‘na pallina di terracotta era,mi sembra e passa questo … passano tre - quattro persone, quattro - cinque per-sone co ‘sta cosa; quando l’ho vista ho pensato: ”Quella è mia madre” e Del Frateha detto … Io non l’avevo manco vista, me s’era annebbiata la vista, quando ioho vista ‘sta cosa, perché io stavo sempre a pensà che mia madre poteva morì,

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Guerra, racconto e memoria

potevo rimanere solo, ero terrorizzato, quindi quando l’ho visto, guardavo solola bara, ho guardato, no?e non me so’ reso conto che dietro ci venivano mio padre,mio zio, mia zia e un’altro paio di persone, erano quattro -cinque persone equando ho detto: “E mo è morta mia madre e non me l’hanno fatta manco rivedè”e questa è una cosa che mi ha dato sempre molto fastidio. Mio padre mi ha rac-contato che sono arrivati a via Torretta Rocchigiana prima del cimitero, c’è ‘nacona, a un certo punto arrivano i soliti americani co’ ‘sti caccia che bombarda-vano a vista e allora hanno mitragliato sulla strada, hanno abbandonato la cassadella morta sulla strada e loro si sono rifugiati dentro questa cona di pietra, persalvarsi da eventuali … colpi di mitraglia, capito? Poi, per quanto riguarda il miofuturo, l’ho detto, ho fatto tutti i mestieri, andavo a coglie i pomodori …

R: Tu te li ricordi gli americani quando arrivarono?B: Sì, quando so’ arrivati gli americani … sì hai fatto bene a farmi questa do-

manda perché quando sono arrivati gli americani, a parte che mio padre poi èscappato quando c’è stato l’8 settembre mio padre è andato via, chi è scappatoda una via,chi da una parte chi dall’altra; quindi, mio padre non dormiva mai incasa, andava a dormì in un canneto a cento metri, figurati quant’ era furbo perchése arrivavano i tedeschi non lo beccavano! Perché poi i tedeschi venivano, pren-devano e se i portavano via e mio padre dormiva dentro un canneto a cento metrida casa in mezzo a un’altra proprietà, la notte non dormiva mai: era un cacasottoterribile! Aveva paura mio padre, era un fifone! E forse se preoccupava pure,dice,questi non c’hanno la mamma , questi qua perdono pure me, rimangono in mezzoalla strada, forse pure questo, comunque mio padre non era un grande … io eropiù che coraggioso spregiudicato so’ stato io e mi ricordo ecco che, siccome i te-deschi si erano un po’ incattiviti, perché tengo presente, voglio dire una cosa, iodei tedeschi, quando so’ stati da noi non posso che dire del bene, contrariamenteagli americani, gli americani, quando so’ arrivati i marocchini, no gli americanio i francesi, ma quelli che portavano dietro, ricordiamoci Campo di Mele, Cas-sino, lo sapete ragazzi che disastro, allora questi qua hanno lasciato il segno purea Ceriara, a Ceriara, quando so’ arrivati gli americani, un paio di negri hannostuprato una signora di Ceriara, non mi ricordo com’è, io la conoscevo questafamiglia, va bene?subito dopo si parlò di questa cosa qua, quindi si so’ comportatimale, diciamo, i marocchini, gli americani, non è che lo facevano gli americani,gli americani erano più civili, più cose … però questi dicevano, si dicevano, nonso se era vero, che quando facevano all’arma bianca qui verso Frosinone, gli di-cevano ai marocchini:”Fate la cosa e dopo fate quello …, gli davano carta bianca,questo si diceva, però visto i misfatti che hanno fatto a Campo di Mele, in quellezone, a Pontecorvo, da quelle parti là devo dire che molto probabilmente moltecose sono vere. Ecco, ritornando alla cosa, gli americani …. ah! un’altra cosa èimportante dei tedeschi: io abitavo vicino alla scuola, quando so’arrivati i tede-schi, lì c’è stato un campo dei tedeschi, quindi io avevo a cento metri da casa …c’era un campo tedesco co’ ‘na cucina; faceva da mangiare a tutti i tedeschi chestavano [controllando] i vari punti, forse pure quelli di Fossanova, non so’ sicuro,sicuramente a Fossanova erano autonomi, molti di quelli di Fossanova, comun-que c’era una cucina, allora io vi dico questo: la fame era la fame; allora io an-davo lì, ai bordi della cosa ando’ c’era …, ho detto ancora la scuola era tutta

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Intervista

recintata, allora la tenevano tutta bella pulita, era molto ordinata e tutte ‘ste cosequa, allora un tedesco una volta m’ha chiamato, m’ha fatto così (gesto dellamano). Ero terrorizzato” Che mi fa questo, se vado là dentro?”. M’ha detto: mifece così:”Vuoi mangiare?”. C’ero io e mio fratello, ho detto: “Vieni pure tu”.Lui non voleva venire Natalino. “No! Andiamo tutti e due così almeno se ci fannoqualcosa tu scappi e ce lo vai a di’ che c’hanno fatto del male, no?”. Siamo andatilì. Questo tedesco m’ha dato … “Tu vuoi mangiare?” , c’hanno fatto mangiaredel riso: riso era riso in bianco condito con lo zucchero, dolce! Me ne so mangiato‘na cosa così. Poi parlavano in tedesco, non si capivano, m’ha detto: ”Porta do-mani, tu domani vieni, porta i cosi, noi ti diamo …”. Io non ho capito, ho capito“domani”, “domani”, forse ci ridanno un’altra volta qualcosa. Il giorno appressosiamo andati senza niente perché so non c’era un piatto, qualche cosa, non è cheandavamo in giro col piatto, non me ricordo nemmeno se ce l’avevamo i piatti,sono andato lì, questo … praticamente ‘sto tedesco m’ha dato ‘na gavetta, quellad’alluminio, ‘na gavetta d’alluminio, me l’ha ripiena colma; prima mangiavanoloro ovviamente, non è che … comunque a me m’ha dato ‘na gavetta! Per diversigiorni io andavo lì, andavamo io e mio fratello sempre in due, ci dicevo: “Appename toccheno a me tu scappa e vai avvertì”, invece questi c’hanno trattato bene,io questo posso dire.

R: Per giorni tu …B: Per diversi giorni, per parecchio periodo, forse un mese, adesso non me

ricordo, io andavo lì colla gavetta che m’avevano dato loro, loro me la riempi-vano quasi sempre, quasi sempre o patate … tutto a base de patate, le patate tuttii giorni c’erano, pure se te davano il riso poi sopra sopra ci mettevano tre – quat-tro patate tagliate, fatte in un modo … ma le patate stavano sempre in mezzo eil riso bollito, bianco, con lo zucchero, tant’è vero che l’ho detto a mia moglie,l’altro giorno quando stavamo parlando de ‘sta cosa, gli ho detto, :”Sai, gli devoraccontà al professore ‘sto fatto delle cose, me devi fa’, Lina, mi devi fare unpiacere: me devi prende un chilo di riso, lo devi bollire e ci metti due etti di zuc-chero, me ne voglio fa’ ‘na magnata”. “Ma vedi ‘mpo’ che devi fa’”. ‘Sta disgra-pata ancora non me l’ha fatto, ancora non me l’ha fatto, però …

R: Per ricordare questo bravo tedesco …B: Questo riso tedesco condito bianco, bollito per me, quello che ricordo io

era bollito nell’acqua e poi messo lo zucchero.R: Catà, te voglio fa’ ‘na domanda, perché sennò me perdo. Mamma in che

mese morì? In che anno e in che mese?B: Mia madre morì il tredici dicembre del ….(esitazione) tredici dicembre

del ‘42, ‘42R: Poi ci pensiamo. Tu te lo ricordi quando sbarcarono gli americani nel gen-

naio del ’44 ad Anzio?B: Io non mi ricordo degli americani, ma mi ricordo questo, che noi, dicevo

prima, stavamo lì, affianco ai tedeschi,quindi mio padre disse, stavano arrivandogli americani da Perone, stavano sopra a Perone, tant’è vero che i tedeschi, poil’ho scoperto dopo, alla scuola c’era la parete che dava verso la montagna, ave-vano fatto un buco, circa di un diametro di un metro,no? poi abbiamo saputo chelì c’era una mitragliatrice che serviva solo per tenere fermi perché venivano da

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Perone, venivano gli americani, allora stava lì, come ‘n’altro stava pure da Greci,dove c’è il negozio, sulla 148, c’è Greci; 100 metri più avanti, lì c’era una piccolagaritta e lì li hanno lasciati, perché loro, quando indietreggiavano, lasciavanosempre tre – quattro persone che erano destinate praticamente nove volte su diecia morire, alla scuola no, perché sennò’ l’avrei saputo, ma lì però gli americanihanno buttato una bomba, pare che l’hanno fatti fuori tutti e tre, perché agli ame-ricani gli avranno detto: “Guarda che ci stanno, c’è ‘na mitragliatrice sulla 156”per dirci, infatti poi noi siamo andati a vedere là, quando passavamo che anda-vamo al cinema, allora a 17 anni andavamo al cinema, quando passavamo lì, pas-savamo di corsa perché dicevano che uscivano gli spiriti perché lì c’erano tretedeschi che erano stati ammazzati da ‘sta bomba, si parlava di questo qua, questodopo … dopo la guerra. Ma quando ai tedeschi è successa ‘sta cosa qua, noisiamo andati alla banca, non so se lo sa dov’è, dove ci sono le cave, giù al pontedi Ceriara, sul confine co’ Sezze, c’è ‘na montagna sulla sinistra, c’è una banca,un fabbricato grandissimo, anche lì durante la guerra era sempre gente sfollata,che stavano lì … prima di arrivare a questa cosa lì dopo, dove stanno le primacave c’era ‘na grotta, ‘na grotta molto profonda e noi siamo stati lì una notte in-tera ficcati là dentro, quando ci stava la ritirata; era un momento brutto perché itedeschi erano diventati cattivi a quel punto, quindi potevano ammazzare: nonhanno fatto niente però tutti dicevamo: “ tedeschi sono arrabbiati dobbiamo scap-pare da casa, ci siamo infilati là sotto. Tieni presente che mio fratello, Natalino,tutte le notti a un certo punto se metteva a cantà e questa cosa era risaputa dai vi-cini di casa. Quando noi siamo andati là dentro, quando siamo andati dentro a‘sta grotta, qualcuno ha detto: “Guarda che il figlio più piccolo di Silvestro cantala notte” … allora …

R: Invece era sonnambulo?B: Ma non lo so, cantava … faceva eh … eh … eh …(intona una cantilena),

faceva così, cantava. Di notte, nel sonno cantava, cantava. Allora tu capisci, dice:“Ma noi stavamo lì sotto”, però a 100 metri, a 200 metri più sotto c’era ‘na stradache veniva dalla montagna e c’erano gli ultimi tedeschi che passavano: noi sen-tivamo, erano centinaia, trenta , quaranta alla botta, passavano e andavano dietroal Monte … Colle Rotondo, sai al ponte di Ceriara c’è quel monte là, loro face-vano, si mettevano tutti dietro quel monte lì, io poi una mattina l’ho notato ‘stofatto qui quando siamo … poi so’ arrivati gli americani e stavano sopra, loro, du-rante la notte, passavano e se ne andavano là, quelli che non hanno fatto in tempo,perché che facevano, se mettevano dietro dentro questo monte poi dal montec’era un fosso, c’è quel fosso lì al confine con Sezze, c’è un fosso, questo fossoda dietro al monte a forza de fa’, saranno trecento metri, loro li facevano di corsa,questo poi l’ho capito dopo quando facevo il carabiniere, dicevo io: “Ma perchénon s’abbassano?”, allora andavano dritti, correvano dritti, no’, ma guarda chefesso, perché c’erano le mitragliatrici che, gli americani che da sopra con le mi-tragliatrici gli sparavano, loro dovevano fare quel pezzo libero il più presto pos-sibile, allora noi da ragazzini dicevamo. “Ma perché non s’abbassano?”. Quandoho fatto l’addestramento al combattimento me l’hanno spiegato che in guerra,quando tu stai allo scoperto, se c’è un pezzo scoperto lo devi fare, devi correre ebasta, non te devi abbassà perché se t’abbassi corri de meno oppure inciampi e

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cadi e te fanno, te fanno secco, quindi allora ho capito … perciò quelli correvanoforte col mitra, portavano il mitra in mano così con lo zaino se vedevano checorrevano, se sentiva il crepitio della mitragliatrice che faceva le cose, non hovisto nessuno cadere, grazie a Dio, erano figli di mamma pure loro, ecco ho vistoqueste cose qua, della guerra, vera e propria, mi ricordo … questi sono i ricordi:del riso tedesco che mi hanno sfornato per parecchio tempo, queste battaglieaeree, queste fortezze volanti che andavano verso il Nord, tredici, quattordici, avolte quindici, venti cariche di esplosivi e questi caccia che cercavano quelli diproteggere gli altri di far cadere qualcosa, non ho mai visto cadere una fortezza,mai niente,neanche aerei però ecco, questi aerei che mitragliavano lungo lestrade, qualsiasi cosa che vedevano pensavano fosse … tant’è vero ‘sta ragazzinaera alta così (gesto con la mano) avrà avuto otto -nove anni … questi sono i ri-cordi della guerra.

R: Ascolta, arrivano a maggio del ’44 gli americani, no? tu un pezzo di cioc-colata …

B: Gli americani, ecco gli americani poi noi siamo rimasti sempre lì, ho dettoche stavano sopra, che mitragliavano, quindi i poveri tedeschi cercavano di an-dare dentro al fosso, poi dal fosso andà pe’Suso, quindi il fosso era ‘na prote-zione, andavano sotto dentro il fosso, la mattina so’arrivati gli americani e siamoandati su, gli americani ci hanno dato delle pagnotte, portavano del pane bianco,mai visto il pane così bianco, delle pagnotte di pane così (gesto con le mani),anche gli americani c’hanno portato pure la roba, eh? Gli americani però, ai negrinon te ci potevi avvicinà, erano schivi, anche perché non comandavano nienteloro, tutto stava in mano agli americani infatti siamo andati lì, burro, scatolettedi carne … ci davano le scatolette di carne piene di ... mica a me, purea tutti, cidavano la roba, io il primo pane, quello che facevamo noi pe’ fare presto, gliocollare serviva pe’ riscalda’, poi faceva la brace, pulivamo bene sotto perché sottoc’era il mattone, prendevamo la farina, di solito di mais, grano era … lo tenevanoi ricchi, pure noi lo avevamo, ma finiva dopo quattro- cinque mesi, c’era la molaqua, a via Cellini c’era glio mulino, che macinava sia il grano, il granturco sia ilgrano, però il grano era poco, dopo un po’ finiva, invece il granturco ce l’ave-vamo perché avevamo del granturco alto così, quello d’agosto, ci facevamo purele “signòre”, come si chiamano ... il granturco che te mangi al cinema …

R: Ah, i popcorn …B:Ah sì, le popcorn.R: Così le chiami, le signòre ... È bellissimo!B: Noi le chiamavamo le signòre! Questo granturco d’agosto, non è che

c’erano le irrigazioni, c’è tutta una motivazione, perché non le chiamano maisper esempio? Poi ai Gricilli l’abbiamo avuto, dopo la guerra so’ stati espropriatie noi c’avevamo un terreno, lo davano a questi più poveri e noi pe’ tanti annimettevamo il granturco, ma quello non era buono a fa’ le signore, le popcorn,capito? Lì manco l’innaffiavamo, c’era tutt’acqua ai Gricilli, quindi facevamo ilgranturco così, praticamente poi pigliavamo ‘sto granturco e l’andavamo a portàal coso quando a un certo punto pulivamo, facevamo ‘sta farina di mais, face-vamo la pizza, ci mettevamo un testo sopra, prendevamo ‘sta cosa e facevamola pizza, quella era la cosa più … l’alimentazione principale era quella, la polenta,

Intervista

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la polenta co’ ‘no pezzo de maiale, poi voglio dì ‘n’altra cosa del maiale. Il maialeera ‘na ricchezza perché lì meno i peli, che poi c’era chi usava pure i peli pe ‘faaltre cose, ma noi meno i peli ci magnavamo tutto: zampe, zampette, orecchi, gliorecchi erano boni pe’ fa’la cotica coi fagioli, la minestra, bone sa?, il maiale simangia tutto: meno i denti, meno l’ossa il resto te mangi tutto, era ‘na ricchezzachi aveva il maiale, quindi praticamente questo maiale durava quasi tutto l’anno,noi facevamo i prosciutti e lì, quando mio padre diceva ...”Papà, quando man-giamo il prosciutto?”, “Quando glio cuculo … quando canta glio cuculo glio pro-sciutto è bono crudo”, diceva mio padre e ‘sto cuculo non cantava mai, noivedavamo ‘sto prosciutto che stava lì, lardo, tutti pezzi di lardo…cose…salcicce,allora facevamo la polenta, ‘na spasella perché eravamo quattro - cinque a mangiànaturalmente era solo quello non è che poi c’era la verdura, le verdure le piantavi,poi alla fine era solo la polenta, se mettevano due- tre piatti [ al centro ] poi pe’mangià la carne dovevi andà a fa’ il buco pe’ arrivà, te facevi ‘na pancia così pe’mangià un pezzo de salciccia, ecco il maiale, un’altra cosa che mi devo ricordareio sì so’ stato un po’ di tempo qui a Priverno quando mia madre è morte ma nor-malmente da bambino dopo che è morta mia madre, stavo da mia nonna paterna,che stava lì vicino alla chiesa e lì c’avevamo un maiale e andavamo sempre fa-cendo la solita storia pe’ campà sto’ maiale, lo dovevamo fa’ grande, grasso, bello,più era grasso e meglio era, mò più è magro è meglio, invece prima più era grassoe meglio era perché così uscivano certi pezzi di lardo, abbiamo accudito io, l’altremie cugine che poi sono andate sono andate tutte ... i Serapiglia, una decina dicugini sono tutti emigrati, da piccoli, adesso c’hanno tutti la casa, ch’hanno i ni-poti, insomma ch’anno l’età mia. Allora praticamente c’avevamo ‘sto maiale, tuttiaspettà ‘sto maiale, tutti quanti ad aspettà ‘sto maiale, ‘na sera arrivano tre - quat-tro persone all’imbrunire, se prendono ‘sto maiale e se lo portano via.

R: Hanno rubato i porci però … B: C’hanno rubato. So’ venuti. A mia nonna l’hanno minacciata con un pu-

gnale, mia nonna s’ha inginocchiata, s’è messa a piange: “Mò come, mo a questiqua che ci faccio mangià”. Oltre a me e a mio fratello c’erano tutti sti cugini mieiche i genitori erano andati a..., a lavorà alle miniere, tutti a urlare, a implorare ec’avevano detto che erano degli sbandati. Ma ‘sta di fatto che è stata ‘na disgrazia,questo maiale, se so’ portati via questo maiale. Mia nonna in ginocchio, col pu-gnale, poi uno ch’aveva messo il pugnale: “Stai zitta! Se non la smetti di urlare tiscannamo”. Noi tutti terrorizzati, praticamente un anno a dà a magnà a ‘sto maiale,era ormai bello grosso così se lo so’ venti a prende; non è che lo tenavamo inmezzo la strada, a fallo vedè, nascosto, eh, però evidentemente i soliti informa-tori.

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Settant’anni dalla Guerra:percorsi nella memoria

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Guerra, racconto e memoria

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UN PROGETTO PER LA RIFLESSIONEE LA CONSAPEVOLEZZA

di Luisella Fanelli

Il progetto ”Settant’anni dopo. La memoria della seconda guerra mondialesul territorio della Regione Lazio” ci è stato proposto dall’allora Assessore allaCultura e Pubblica Istruzione del Comune di Priverno: Elvira Picozza. Vi ab-biamo subito aderito con entusiasmo per vari motivi, intanto perché da semprela nostra scuola “Istituto Comprensivo S. Tommaso d’Aquino” è stata attiva nelricercare metodologie, approcci diversi all’insegnamento della storia, per megliocoinvolgere i giovani con riflessioni sul problema delle motivazioni, della dispo-nibilità e delle condizioni che favoriscano l’apprendimento. Inoltre perchè siamoconvinti che la scuola debba essere un centro propulsore di cultura e quindi aprirsial territorio e che la partecipazione al progetto dei comuni in rete di Priverno,Sonnino, Roccasecca e Prossedi si muoveva nella direzione di ritrovare il sensodi appartenenza ad un territorio e alle sue comunità. Infine il progetto poteva es-sere un momento di riflessione su eventi della seconda guerra mondiale a 70 annidalla sua conclusione. Ricordare non doveva essere una semplice celebrazione,come ritualità ma un modo per ricostruire pezzi di storia del proprio territorio,con l’obiettivo di avvicinare i giovani alla conoscenza della storia contemporaneae acquisire consapevolezza. Particolare attenzione si è rivolta alla storia localecon ricerche utilizzando fonti scritte come diari, lettere, autobiografie, ma so-prattutto con un approccio alle fonti orali con interviste a chi quel periodo lo havissuto. E’ importante fissare la memoria per non correre il rischio che vada di-spersa. Grazie all’incontro con i nonni, con gli anziani, si sono ricostruite mi-crostorie spesso sconosciute, non riportate nella storia ufficiale; quella che sistudia sui libri di testo parla per lo più di grandi avvenimenti politici, militari,degli eroi, dei grandi statisti ma non viene ricordato il soldato con le sue paure,sofferenze o le donne che pure hanno avuto un ruolo sociale fondamentale poichèhanno dovuto sostituire completamente gli uomini chiamati al fronte. Infiniti glispunti da cui i ragazzi hanno tratto storie, poi presentate in uno spettacolo teatrale,ordito dalle classi della scuola primaria di Madonna del Calle e dalle classi primee terze della scuola media di Sonnino e Priverno. Intensa è stata la giornata del26 maggio, quando tutti i ragazzi si sono ritrovati in piazza, per assistere ad unmonologo desunto dalle infinite storie di “donne in guerra”. Sul piano didattico

Luisella Fanelli è nata ad Urbino dove si è laureata in materie letterarie presso l’Università “Carlo Bo”. Docente di lettere nella scuolamedia, prima a Trento poi dall’anno scolastico 1981 nella scuola S.Tommaso di Priverno. E’ passata di ruolo nelle scuole superiorinel 1999 all’ ISISS “Teodosio Rossi” di Priverno. Nell’anno 2005 ha avuto incarico di presidenza e dal 2007 nominata Dirigente Sco-lastico presso l’Ist. Comprensivo “S.Tommaso d’Aquino” a Priverno. Ha avuto esperienza come amministratore locale per il Comunedi Priverno come delegata alla Pubblica Istruzione. Assessore del Consiglio di Amministrazione del Consorzio delle Biblioteche deiMonti Lepini con funzione di promozione culturale nel campo delle biblioteche, archivi storici, musei a livello intercomprensoriale.Consulente e direttore del laboratorio di Democrazia Partecipata per il Comune di Priverno. Responsabile tecnico e progettuale per leattività della locale ludiche e ricreative per minori. Dal corrente anno scolastico 2015-16 in pensione.

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lo studio della storia locale è stato uno strumento di integrazione ed ampliamentodi quella nazionale ed è servito per uscire da una visione astratta rendendo lostudio del passato una realtà viva, verificabile, un viaggio nel passato per munirsidi strumenti mentali capaci di orientare nel presente.

Per conservare la memoria dei racconti mantenendone l’immediatezza e lavivacità si è deciso di riportarli in una trasposizione teatrale. Come non ricordarel’emozione provata quel pomeriggio quando si è aperto il sipario dello spettacolo:in prima fila i testimoni commossi, alle loro spalle famiglie in attesa… sul palcoi giovani, che hanno raccolto le storie e che, per questo, le hanno adeguatamenterappresentate. Partendo dai materiali raccolti, dalle suggestioni e argomentazionisvolte in classe sono state realizzate trasposizioni dei racconti in chiave teatrale,realizzando così” la memoria in scena”. Gli alunni nel loro Giornalino “Voci dicorridoio” nell’ultimo numero di chiusura dell’anno scolastico, hanno riportatodelle considerazioni sulla loro partecipazione che mi fa piacere trascrivere:“Anche se è calato il sipario, resta nel nostro cuore e nella nostra mente il ri-cordo di un progetto che ci ha fatto conoscere momenti della storia dei nostrinonni e delle loro lacrime e fatiche. Momenti legati al triste periodo della guerraquando -nulla era sicuro, neanche la vita-”. Esprimo la mia soddisfazione per ilpercorso didattico fatto, nella convinzione che questa esperienza rimarrà nelcuore dei nostri alunni. Speriamo di aver dato loro l’amore per lo studio, per laricerca, per la riflessione e la consapevolezza che conoscere il nostro passato èimportante per conoscere il presente, evitare gli errori e costruire un mondo mi-gliore.

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LA MEMORIA SI FA STORIA

di Soledad Agresti e Benedetto Supino

‘La memoria si fa storia’, inserito all’interno del progetto sulla storia che hacoinvolto i comuni di Prossedi, Roccasecca dei Volsci, Sonnino e Priverno, e idiversi gradi di scuola, dalla primaria alla scuola secondaria di primo grado, èuno spettacolo teatrale che prende vita dai ricordi di uomini e donne della valledell’Amaseno. E dai loro ricordi raccontati sul palco prendono vita le varie sceneche sono vita vera, reale, pezzi di storia. Di quella microstoria che spesso è sco-nosciuta, scritta tra lacrime e povertà, che non troveremo mai sui libri di storia,ma che è la storia che ognuno porta dentro. Il lavoro teatrale è nato dall’esigenzadi raccontare e far conoscere alle nuove generazioni quali siano state le atrocivicende vissute dai loro parenti e vicini durante il secondo conflitto mondiale.Attraverso la raccolta e lo studio di testimonianze, diari personali, e materialefotografico si è arrivati alla stesura di una sceneggiatura, che ha fatto rivivereagli studenti – attori, e spettatori - i momenti cruciali del conflitto, in modo par-ticolare dalla firma dell’armistizio, quando i tedeschi da alleati si sono trasfor-mati in nemici, fino all’arrivo degli alleati, e quindi alla fine del conflittomondiale. Ampio spazio è stato dato alla donna, figura spesso poco ricordata,ma che ha svolto un compito essenziale. I racconti delle donne hanno quindi aiu-tato a conoscere altri aspetti della guerra: non quella combattuta al fronte tra uo-mini, ma di quella piccola, quotidiana e terribile guerra da affrontare nei mercati,nei rifugi, nelle cucine. Una guerra fatta di fame, paura di perdere i propri affettie terrore per le violenze subite… donne che si sono trasformate in un esercito si-lenzioso e generoso con il compito di nascondere e proteggere non solo i proprifamiliari dai continui rastrellamenti, ma anche i ricercati, rivestendo soldati esfamando gli sbandati. Voci femminili che, con la delicatezza del loro sguardo ela lucidità dei loro ricordi, ci hanno fatto rivivere le distruzioni della guerra, iltormento per le restrizioni alimentari, l’orrore della perdita dei propri cari ed ildramma estremo delle violenze subite.

*Soledad Agresti è un'artista poliedrica: lo scopo di ogni sua azione artistica è volto alla comunicazioni, alla rappresentazione di statiemozionali e concetti che tocchino le corde più intime dell'anima. Nasce come pittrice/scultrice: espone a Roma, Napoli, Milano, Spo-leto, Torino, Prato, Alatri ed altre. Ben presto sente il richiamo della scena e, dopo alcuni anni di attività attoriale, è una delle fondatricidella Compagnia Imprevisti e Probabilità per la quale cura anche costumi e scene. Grande rilievo assume anche la sua carriera dram-maturgica che nel 2010 la conta quale vincitrice del premio internazionale "La scrittura della/e differenza/e" col testo "La gamba diSarah Bernhardt" portato in scena con enorme successo dalla compagnia cubana "Macuba Teatro" per quattro anni consecutivi.

* Benedetto Supino, docente di Lettere, ha esordito come attore nella compagnia “Costellazioni” e “Teatrarte”. Membro della com-pagnia teatrale “Imprevisti e probabilità” ha recitato in vari spettacoli della compagnia che tramite le sue capacità di adattamento aivari ruoli ha avuto modo si calcare le scene in ruoli comici e drammatici. Di questi ultimi mesi è la sfida per cui unisce alla scritturadrammaturgica la regia dei testi prodotti.

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L’ESPERIENZA EDUCATIVA

di Donato Maraffino

Riportiamo alcuni riferimenti delle tappe del percorso di ricerca e rielabora-zione storica, finanziate dalla Regione Lazio (in base alla determinazione n.G03172 del 17/03/2014 ) che si sono snodate nelle attività dall’ottobre 2014 finoa ottobre 2015, con un ultimo incontro sul presente volume.

MotivazioneIl percorso ha portato alla definizione di forme di ricomposizione della me-

moria, sia nella sua circolarità trasmissiva ed empatica nella raccolta di testimo-nianze che nella loro rielaborazione documentaria e teatrale.

L’intero lavoro è stato scandito anche dalla partecipazione di eminenti stu-diosi di storia contemporanea, antropologi e ricercatori (di cui alleghiamo le lo-candine degli incontri pubblici come quello del 13 giugno 2015 sui Campi diPrigionia e Memorie di guerra) oltre che lo spettacolo ed il monologo teatrali(Quando la memoria va in scena del Martedì 19 e 26 Maggio 2015 e La vocedelle donne del 26 Maggio 2015). Inoltre dal 26 maggio al 2 giugno 2015 neiPortici del Palazzo Comunale di Priverno (LT) si è tenuta la mostra: Reperti eimmagini della II Guerra Mondiale.

Finalità, argomento e metodiLe direzioni di ricerca e analisi sono state le seguenti:• la prima (eventi e ricerche della memoria) ha inteso promuovere attività

educative di un uso della storia e delle memorie della guerra: corrispondenze trasoldati e famiglie; la memoria dei profughi e dei rastrellamenti, dei bombarda-menti, delle condizioni alimentari, delle violenze e delle immagini. Tale percorsoscandito diversamente per scuole dei quattro comuni, (come richiede il bandoregionale negli art. 1-2-3) ha inteso coniugare modalità laboratoriale coordinatadai docenti, incontri di approfondimento, partecipazione degli anziani (memoriaorale) e presenza di tutti i soggetti agli incontri specifici (di ogni scuola o co-mune). Le tematiche e le attività sono state scelte dai docenti e allievi , in colla-borazione con le associazioni;

• la seconda (eventi della memoria) ha inteso sottolineare alcuni momenti dirilievo e importanti (profughi illustri/ eccidi di guerra/ distruzione della bonifica/che hanno anche loro alimentato la memoria collettiva. In questi eventi si è fa-vorita la partecipazione, il dialogo, il confronto tra la memoria consolidata, quellaframmentata e le riflessioni su alcuni quesiti aperti, circa il senso del ritorno dalladimensione retorica della guerra alla realtà della società con il suo disorienta-mento e i suoi dolori ma anche le speranze circa la futura democrazia italiana.

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Argomenti rilevanti: • la violenza dei fronti di guerra, i campi di prigionia e la ricaduta dei feno-

meni bellici (1940-1944) sulle comunità locali;• il vissuto diretto e la vita quotidiana e gli eventi dopo lo spostamento del

fronte militare dal sud pontino ai Monti Lepini;Obiettivi-avvicinare i giovani alla conoscenza della storia contemporanea al fine di

acquisire consapevolezza e non disperdere la memoria;-sviluppo dell’idea che la storia locale è parte della storia generale;-far ricostruire ai giovani studenti un pezzo di storia che rischia di essere di-

menticato, attraverso l’ascolto di lezioni didattiche – storiche e visite guidate ailuoghi della memoria;

-ritrovare le origini e l’identità della propria comunità per progettare insiemeun futuro migliore;

riuscire a far interagire i giovani con gli anziani attraverso la memoria con-divisa (racconti, testimonianze familiari etc

Localizzazione degli interventiScuole Medie e superiori dei quattro Comuni della Rete, Centri anziani dei

Comuni, Musei e archivi comunali, luoghi della memoria collettiva.

IdeazioneDonato Maraffino, Elvira Picozza, Pierina Carfagna.

OrganizzazioneIl gruppo che ha condiviso l’ipotesi progettuale è composto da docenti che

operano in scuole diverse (primaria, secondaria di primo grado e superiori) deiquattro comuni della rete. Gli alunni interessati e coinvolti sono stati oltre 150,divisi per classi nei diversi comuni. La fase iniziale del progetto ha visto il teamimpegnato in attività di aggiornamento e approfondimento incentrate sulle fontiscritte, audiovisive e orali della memoria territoriale (vedi sito http://wordpres-sprov.altervista.org/ ). La seconda fase ha visto l’inizio delle attività di consulta-zione e ricerca attraverso:

• Testimonianze orali• Reperimento fonti fotografiche, visive e audio;• Fonti archivistiche comunali e provinciali• Approfondimenti tematici su punti storiografici rilevanti.I prodotti finali sono stati: documentazioni in mostra, testimonianze orali e

immagini, spettacolo teatrale, pubblicazione; sito web

Referenti didattici e organizzativi• Responsabile amministrativo: Dott.ssa Carla Carletti • coordinatore di rete e Coordinatore storico-scientifico e didattico:prof. Donato Maraffino• Referente sito web (in costruzione) Luigi Teodonio

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• Referente Teatrale: prof Benedetto Supino• I Dirigenti scolastici: Luisella Fanelli e Anna Maria Bilancia

Docenti referenti:• ISISS "Teodosio Rossi" di Priverno: Loretta Cardarelli, Giovanni Rapone,

Marroni Paola Carla• Scuola secondaria di primo grado "Leonardo da Vinci" Sonnino-Roccasecca

dei Volsci: Katia Zuccaro, Sabrina Gatti, Floris Rosina;• I. C. "San Tommaso d'Aquino" di Priverno: Di Giorgio Arnalda, Elvira Pi-

cozza; Santelia Melina, Anna rita Mattarolo e Pina Caradonna • I. C. "San Tommaso d'Aquino" Prossedi: Rita Reali

Al progetto hanno preso parte nelle fasi programmatorie e degli eventi i rap-presentanti dei Comuni della Rete:

• Priverno (Responsabile amministrativo: fino al febbraio 2015 Elvira Picozzapoi Dott.ssa Carla Carletti)

• Roccasecca (referente Giuseppe Papi)• Prossedi (referente Franco Greco)• Sonnino (referente Maurizia De Angelis)

Adesioni• Il Centro Anziani del Comune di Priverno• Associazione Combattenti di Prverno• Associazione dei Carabinieri di Priverno• Croce Rossa di Priverno• Museo della Terra di Sonnino• Associazione Culturale Ricercatori Militaria Priverno

Fasi operative1. Attivazione progetto: settembre 2014 /incontri aggiornamento e prepara-

zione percorsi con docenti, centri anziani ed associazioni;2. Prima fase: ottobre-febbraio 2014-2015attività didattiche e scambi della memoria/ attivazione laboratori della me-

moria nelle classi degli alunni dei Comuni della rete; Attivazione sito web;Incontri con anziani, registrazioni e schedatura delle memorie e degli eventi;

rielaborazione; visite museali o percorsi documentari;3. Seconda fase: marzo 2015 –aprile 2015combinazioni fonti archivistiche e bibliografiche e memoria; interpretazioni

eventi della memoria diffusa e tradizione storiografica4. Terza fase: maggio-settembre 2015 sistemazione e comunicazione con video, teatro mostre e pubblicazione del

volume Guerra, Racconto e Memoria.

Donato Maraffino

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Il progetto è finanziato dalla Regione Lazio (in base alla determinazione n. G03172 del 17/03/2014)

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Fonti delle immagini:

Si riporta l’elenco delle fonti delle immagini, chiedendo comprensione per qualchepossibile errore. Si ringraziano gli autori, gli enti depositari o proprietari.

Copertina: Bundesarchiv_Bild_101I-177-1459-32,_Korfu,_italienische_Soldatenhttps://commons.wikimedia.org/wiki/File:Bundesarchiv_Bild_101I-177-1459-32, _Korfu,_italienische_Soldaten.jpgPag 6. Arrivo degli americani a Pisterzo, immagine in uso del team di progetto,gentilmente concessa dalla signora Troini Rosina (Prossedi);Pag 10 Robert Capa e l’incontro con Matteo a Radicosahttp://www.dalvolturnoacassino.it/asp/doc.asp?id=296;Pag 15 Entrata degli americani a Cisterna; http://digilander.libero.it/historia_mili-taria/attaccofinale2.htm;Pag 24 i resti di Itri,http://digilander.libero.it/historia_militaria/attaccofinale2.htm;Pag 43 Prigionieri tedeschi vengono convogliati ai campi di detenzione, nelle re-trovie;della testa di sbarcohttps://it.wikipedia.org/wiki/Sbarco_di_Anzio#/media/File:PrigionieriPag 50 Un pasto freddo per questo soldato tedesco della 65ª divisione di fanteriasul fronte di Anzio-Nettuno, http://digilander.libero.it/historiatris/anzio6.htm;Pag 59 Sfollati in val di sangro 2 guerra, http://www.sansalvo.net/notizie/tradi-zioni/;Pag 64 Prigionieri tedeschi vengono convogliati ai campi di detenzione, nelleretrovie della testa di sbarcohttps://it.wikipedia.org/wiki/Sbarco_di_Anzio#/media/;Pag 157 Sowjetische Kriegsgefangene in Marschkolonne, unbek. Ort und Datum,Archiv der Gedenkstätte Ehrenhain Zeithain;Pag 158 La guerra a Frosinone, http://www.cronachecittadine.it/liberazione-fro-sinone;Pag 160 https://it.wikipedia.org/wiki/Marocchinate#Dati_sulle_violenze;Pag 216 Donne durante la guerra a Fondi, http://digilander.libero.it/historia_mili-taria/;Pag 220 Verso Roccasecca dei Volsci,http://www.dalvolturnoacassino.it/asp/doc.asp?id=296;

Le altre foto o immagini sono contenute o allegate alle opere pubblicate.

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Finito di stamparenel mese di Ottobre 2015

TipolitografiaLATINAGRAFICA SRLVia A. Colette, 22/24

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