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Agricoltura
Conoscere gli aspetti ambientali e sociali
legati alla produzione e al consumo di beni agricoli
Progetto EAT:ING – Educare alla Responsabilità Agroalimentare nel Territorio:
Inchieste, Natura, Giornalismo
Un’iniziativa di educazione ambientale rivolta alle scuole secondarie di primo e secondo
grado e caratterizzata da un focus sulla sostenibilità alimentare.
Un progetto finanziato da Fondazione Cariplo e sviluppato da Fondazione Eni Enrico Mattei
in collaborazione con il Centro di Studi per la Storia dell’Editoria e del Giornalismo.
Tutti i materiali realizzati a supporto della didattica sono disponibili sul sito del progetto
www.eat-ing.net
Questo capitolo è stato realizzato dai ricercatori della Fondazione Mattei
Settembre 2008
Agricoltura
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Indice
Introduzione ............................................................................................................. 5 Un po’ di storia ...................................................................................................... 5 La rivoluzione verde ............................................................................................... 6 L’agricoltura moderna ............................................................................................. 8 Lavoro nei campi e macchinari ................................................................................. 9 Diritti umani ........................................................................................................ 10 Quanto, cosa e dove si produce ............................................................................. 11
Impatti ambientali ................................................................................................... 15 Il clima del pianeta sta cambiando: come l’agricoltura ne è influenzata? ..................... 16 L’agricoltura agisce sui cambiamenti climatici?......................................................... 17 Coltivare adattandosi a nuovi climi ......................................................................... 18 Quanta acqua per coltivare.................................................................................... 18 Sovrasfruttamento e sprechi di acqua ..................................................................... 20 Acque dolci troppo “salate”: la salinizzazione ........................................................... 21 Desertificazione e inondazioni ................................................................................ 21 Pesticidi e fertilizzanti: l’inquinamento di suolo e acque............................................. 22 “agrobiodiversità”................................................................................................. 25 Le serre e… l’effetto serra...................................................................................... 28
Le biotecnologie ...................................................................................................... 31 La “rivoluzione genetica” ....................................................................................... 31 Gli ogm in agricoltura ........................................................................................... 34 “brevettare” un organismo vivente ......................................................................... 36 Ogm e paesi in via di sviluppo ............................................................................... 37
L’agricoltura sostenibile............................................................................................ 38 Agricoltura biologica ............................................................................................. 38 Agricoltura integrata............................................................................................. 41 Agricoltura conservativa........................................................................................ 41 Agricoltura biodinamica......................................................................................... 42
L’arte di conservare ................................................................................................. 43
A tavola e’ estate tutto l’anno – food miles ................................................................. 45
Consumi sostenibili .................................................................................................. 46 Scegli verdura non imballata ................................................................................. 47 Scegli prodotti dell’agricoltura sostenibile ................................................................ 48 Evita sprechi di cibo.............................................................................................. 48 Scegli prodotti di stagione ..................................................................................... 49 Scegli prodotti locali o prodotti equi........................................................................ 49
Il pomodoro............................................................................................................ 50 Una vita senza pomodoro? .................................................................................... 50 Quanti tipi di pomodoro esistono? .......................................................................... 50 Pomodori a effetto serra ....................................................................................... 50 Profumo di pomodoro ........................................................................................... 51 Pomodori d’estate e passata d’inverno .................................................................... 51 Pomodori di scarto ............................................................................................... 52 Conserve di pomodoro .......................................................................................... 52
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Schiavi del pomodoro ........................................................................................... 53 Lo sapevate? ....................................................................................................... 53
Bibliografia ............................................................................................................. 55
Sitografia ............................................................................................................... 56
NOTA
Le parole sottolineate sono spiegate nel Glossario, scaricabile dal sito www.eat-ing.net nella
sezione Multimedia - Pdf scaricabili.
Agricoltura
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INTRODUZIONE
Quando si parla di agricoltura si fa riferimento a molte attività, come la cura e la raccolta
delle piante coltivate, l’allevamento del bestiame e la silvicoltura. In questa sede
affronteremo soltanto l’aspetto legato alla coltivazione delle piante e ci soffermeremo
principalmente su quelle colture da cui si ottengono prodotti utili per l’alimentazione:
sorvoleremo, quindi, su coltivazioni come, ad esempio, le piantagioni di cotone e di tabacco,
per soffermarci, invece, sulle produzioni di alimenti destinate al consumo diretto per l’uomo
e su quelle necessarie a nutrire gli animali da allevamento. Per quanto riguarda nello
specifico l’allevamento del bestiame rimandiamo al capitolo interamente dedicato alla
zootecnia.
Un po’ di storia
Prima di inventare l’agricoltura l’uomo era per lo più un cacciatore-raccoglitore. La sua
esistenza, anziché basarsi sulla stanzialità, cioè sulla tendenza a vivere nel solito luogo per
tempi molto lunghi, dipendeva dall’incessante spostamento da un luogo a un altro per poter
disporre continuamente di nuove fonti di cibo.
Infatti, fino a 10.000 anni fa, gli alimenti non venivano prodotti con l’agricoltura, così come
si fa oggi, ma venivano cercati e prelevati in mezzo alle tante risorse fornite
spontaneamente dall’ambiente. Le tribù nomadi si cibavano di prodotti selvatici commestibili
come radici, frutti, foglie, bacche, semi, uova e piccoli animali, inoltre cacciavano la
selvaggina.
Il passaggio dal nomadismo a uno stile di vita sedentario si verificò grazie alla cosiddetta
“rivoluzione agricola”, grazie alla quale alcune popolazioni si affrancarono dalle risorse
spontanee della natura e fondarono le prime economie basate sullo sfruttamento della terra.
Molti studiosi ritengono che nella storia dell’umanità questa fase di transizione sia
cominciata oltre 10.000 anni fa in una regione precisa: la Mezzaluna Fertile, una fascia di
territorio ricca di corsi d’acqua che si trova fra Palestina, Iraq, Siria e Turchia.
Sono state fatte alcune ipotesi su come potrebbe avere avuto origine la coltivazione delle
piante in quest’area del Medio Oriente; una delle più diffuse sostiene che il “caso” abbia
giocato un ruolo chiave. È molto probabile che qualche popolazione mediterranea del
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Neolitico abbia scoperto, per pura coincidenza, che nei punti in cui venivano lasciati cadere i
semi di una pianta selvatica commestibile, come per esempio un cereale, si potevano
rigenerare piante dello stesso tipo.
Da qui alla presa di coscienza delle potenzialità dei semi probabilmente non dovette passare
molto tempo. Presto i nostri progenitori si resero conto che piantando i semi dei vegetali
commestibili si potevano ottenere piante con le stesse caratteristiche, e, a volte, perfino con
caratteristiche migliori. Gli uomini selezionarono tra le piante le più produttive e nutrienti e
ogni area del mondo ebbe il suo cereale d’elezione: il grano nei paesi mediterranei, il sorgo
nel continente africano, il riso in Asia e il mais in America. Attorno a queste piante, definite
da Fernand Braudel “piante di civiltà”, si organizzò l’intera vita di quelle civiltà1.
Il risultato fu un mutamento progressivo e radicale sia del sistema di vita dell’umanità sia
del suo modo di interagire con la natura, da cui ebbe inizio la storia dell’agricoltura.
La rivoluzione verde
Quaranta anni fa il mondo cominciò a temere che a distanza di poco non ci sarebbe stato
cibo a sufficienza per tutti: si prevedeva, infatti, un raddoppio della popolazione nel giro di
una generazione e si temeva che miliardi di persone sarebbero morte di fame vista
l’incapacità della terra di produrre il cibo necessario.
Queste previsioni apocalittiche non trovarono riscontro nella realtà; infatti, nonostante un
effettivo incremento della popolazione, la produzione di cibo tenne il passo2, grazie anche al
lavoro di alcuni scienziati che svilupparono delle nuove varietà di riso, mais e grano ad alto
rendimento.
Nei primi anni Sessanta iniziò pertanto a dare i suoi frutti la “rivoluzione verde”, un termine
usato per descrivere il fenomenale aumento della produttività agricola mondiale: in Asia, ad
esempio, la produzione di cereali è duplicata in 25 anni, dal 1970 al 1995; anche in Sud
America si sono ottenuti buoni risultati, mentre nell’Africa Sub Sahariana i miglioramenti
sono stati molto modesti.
1 M. MONTANARI, Il cibo come cultura, Laterza, Bari, 2004, p. 8
2 F. PEARCE, Un pianeta senz’acqua, Il Saggiatore, Milano, 2006, pp. 41-42
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Con la rivoluzione verde sono state introdotte nuove varietà di piante, dette “ibride”, più
ricettive ai nutrienti, più veloci nella maturazione e in grado di crescere in ogni stagione,
permettendo così più raccolti nell’arco dell’anno. Inoltre ha fatto il suo ingresso un massiccio
impiego di fertilizzanti chimici e di pesticidi (diserbanti e antiparassitari) e un aumento
nell’utilizzo di macchinari pesanti in agricoltura.
Oltre ai benefici legati all’aumento della produttività agricola, la rivoluzione verde ha avuto
anche degli effetti negativi3. Innanzitutto la coltivazione delle nuove varietà migliorate e
l’allevamento di nuove razze di bestiame hanno provocato l’abbandono e l’estinzione di
molte varietà locali e tradizionali: la conseguenza di questo è stata una riduzione notevole di
biodiversità agricola.
In secondo luogo, l’utilizzo massiccio di pesticidi e fertilizzanti chimici ha causato un serio
degrado ambientale e ha minacciato la salute delle persone impiegate in agricoltura.
Inoltre, ha gravemente intaccato le risorse idriche mondiali. Infatti, le nuove varietà di
colture, introdotte con la rivoluzione verde, sono altamente efficienti in termini di resa per
ettaro ma inefficienti rispetto all’utilizzo dell’acqua: ne necessitano enormi quantità. Nel
corso degli anni si è dato avvio a imponenti lavori di ingegneria idraulica che hanno portato
al miglioramento dell’irrigazione dei campi.
Oggi, circa il 70% di tutta l’acqua prelevata dai fiumi e dalle riserve idriche sotterranee
viene sparso sui 270 milioni di ettari di campi coltivati che producono complessivamente un
terzo del fabbisogno alimentare mondiale4.
Infine, malgrado la maggiore produttività agricola, la fame è ancora diffusa. La rivoluzione
verde, infatti, ha offerto i propri benefici ai contadini che avevano del denaro da investire e
sufficienti risorse come terra e acqua. I contadini poveri che non avevano né l’uno né l’altro
sono stati esclusi da questo processo di crescita, molti, addirittura, sono diventati ancora
più poveri e sono stati espropriati delle proprie terre.
3 FAO, http://www.fao.org/kids/it/revolution.html
4 FAO, The state of food and agriculture 2007, Roma, 2007, p. 153
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L’agricoltura moderna
Il passaggio dalla “vecchia agricoltura” all’ “agricoltura moderna” è segnato dalla seconda
rivoluzione agricola ossia dalla rivoluzione verde.
All’inizio del XIX secolo, in Europa e nei paesi dal clima temperato, erano predominanti dei
sistemi agricoli basati sulla diversificazione delle colture e sull’allevamento degli animali
senza il ricorso al maggese, cioè quella parte di un campo lasciata a riposo o a pascolo.
La policoltura, cioè la produzione di una larga varietà di prodotti agricoli, aveva lo scopo
principale di soddisfare direttamente i bisogni della popolazione agricola: ogni azienda
agricola cercava di coltivare grano, patate, frutta e verdura, di crescere maiali, polli e quindi
di ottenere uova e latte, e infine cercava di produrre il proprio vino, il burro, il formaggio, il
pane. Insomma si cercava di produrre tutto il necessario per un’alimentazione completa. Il
surplus confluiva nei mercati locali dove veniva venduto.
Oggi invece le aziende agricole sono specializzate nella produzione di un ridotto numero di
colture, prodotte in grandi quantità in modo da avere un’eccedenza consistente da vendere
non solo ai mercati locali ma anche a livello internazionale.
Si è affermata dunque la monocoltura, ossia la coltivazione intensiva di un’unica specie
vegetale. Il bisogno di sussistenza dell’azienda agricola è passato quindi in secondo piano,
perché lo scopo principale dell’azienda agricola è quello della vendita dei propri prodotti.
L’agricoltura moderna, in quanto figlia della rivoluzione verde, è pertanto caratterizzata dai
seguenti fattori5:
� Meccanizzazione: grazie all’impiego di macchinari in agricoltura la produzione è
aumentata moltissimo. Oggi un agricoltore può lavorare da solo più di 200 ettari (pari a
2 Km quadrati), mentre quando l’agricoltura era totalmente manuale ogni contadino
riusciva a lavorare solo 1 ettaro di terra!
� Uso di fertilizzanti: grazie ai fertilizzanti anche la produttività è aumentata, passando dai
10 quintali di grano per ettaro dei campi a coltivazione manuale, agli oltre 50 quintali
per ettaro dell’agricoltura meccanizzata che usa sostanze chimiche di sintesi per
aumentare la velocità di crescita delle piante.
5 M. MAZOYER, L. ROUDART, A history of world agriculture, Earthscan, London, 2006, pp. 379 - 395
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� Selezione delle piante coltivate: l’uso di fertilizzanti chimici da solo non è sufficiente! Per
rendere il loro utilizzo profittevole, è necessario infatti coltivare varietà di piante che
siano in grado di assorbire le aumentate quantità di minerali fornite dai nuovi
fertilizzanti: ecco perché sono state selezionate piante sempre più produttive e capaci di
assorbire crescenti quantità di fertilizzanti.
� Selezione degli animali domestici: meccanizzazione e fertilizzanti hanno reso disponibili
grandi quantità di nutrimenti per gli animali: sono state quindi selezionate specie animali
in grado di consumare quantità crescenti di mangime e di trasformarli efficientemente in
carne, latte e prodotti derivati.
� Protezione dei raccolti: le spese per i macchinari, per la benzina e per i fertilizzanti sono
piuttosto elevate, tanto da rappresentare circa la metà del valore dei guadagni ottenuti
con il raccolto; gli agricoltori fanno il possibile oggi per evitare che il raccolto vada perso,
per non sprecare le risorse investite! Per impedire che proliferino insetti dannosi per le
coltivazioni, funghi, batteri o virus, gli agricoltori fanno uso di pesticidi e diserbanti.
� Specializzazione delle aree: oggi nel mondo determinate aree sono specializzate nella
produzione di alcuni prodotti: cereali, bestiame, vite, frutta e verdura. Questo è stato
reso possibile, da un lato, dalle potenzialità offerte dai mezzi di trasporto moderni, che
consentono alle imprese agricole di non preoccuparsi di produrre tutto ciò che serve alla
comunità, visto che è possibile reperirla sul mercato! Dall’altro lato l’utilizzo di pesticidi
ha permesso agli agricoltori di smettere di praticare la rotazione delle colture (un
metodo che consente di migliorare le proprietà del suolo e di evitare la proliferazione di
organismi nocivi per le piante).
Lavoro nei campi e macchinari
La terra dei campi è la fonte principale sia di cibo che di reddito per quasi metà della
popolazione mondiale. Il numero di persone che nel mondo lavorano in agricoltura è in
continuo aumento. Tra il 1950 e il 2000 si è passati, infatti, da 809 milioni di persone
impiegate in agricoltura a oltre un miliardo (1.319 milioni)6! Tuttavia, la forza lavoro del
6 E. MILLSTONE, T. LANG, The Atlas of food, Earthscan, London, 2003, p. 48
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settore agricolo è cresciuta molto meno negli ultimi anni rispetto a quella degli altri settori
produttivi.
Nei paesi industrializzati, la maggior parte del lavoro agricolo è svolto dalle macchine, per
questo i lavoratori agricoli sono diminuiti drasticamente nel corso del XX secolo.
In Italia, ad esempio, dal 1979 al 2004 i lavoratori agricoli sono diminuiti moltissimo,
passando da circa 7 milioni a 2,5 milioni di unità7 e oggi rappresentano meno del 5% della
forza lavoro complessiva; in Francia, nell’arco di un secolo, i lavoratori agricoli sono passati
dal 50 % della forza lavoro complessiva a solo il 3%! L’agricoltura, infatti, è ormai
meccanizzata, fa ricorso cioè a una serie di macchinari, come ad esempio i trattori, la
mietitrebbiatrice, la seminatrice di precisione, che rendono più efficiente il lavoro nei campi.
La meccanizzazione dell’agricoltura è iniziata all’inizio del XIX secolo, ma la vera svolta è
avvenuta un secolo dopo, con l’invenzione del motore a combustione interna che ha reso
possibile la rapida diffusione dei trattori agricoli. Oggi, in alcuni paesi del mondo, come gli
USA, il Canada e alcuni paesi d’Europa, il numero di trattori è talmente alto che supera il
numero complessivo dei lavoratori agricoli8!
Nei paesi in via di sviluppo, invece, dove la meccanizzazione dell’agricoltura è ancora
lontana, il lavoro degli uomini, aiutati da una modesta attrezzatura e dagli animali, è la
principale risorsa, anche in termini energetici, per produrre cibo.
Non bisogna poi dimenticare tutte quelle persone che non lavorano la terra, ma “lavorano
per la terra”: si tratta di coloro che producono fertilizzanti e pesticidi, macchinari agricoli e
via dicendo.
Diritti umani
Il settore agricolo alimenta a livello mondiale situazioni di scarsa tutela dei diritti umani. Le
persone emigrate, in paesi come l’Italia, ad esempio, spesso lavorano senza regolare
7 FAO, The state of food and agriculture 2007, Roma, 2007, p. 141
8 E. MILLSTONE, T. LANG, The Atlas of food, Earthscan, London,2003, p. 32
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contratto e senza alcuna tutela giuridica in termini di retribuzione, di infortuni sui luoghi di
lavoro e di previdenza sociale.
Il mancato rispetto dei diritti umani di questi lavoratori agricoli, spesso stagionali, è un tema
di estrema attualità in Italia, soprattutto a seguito dell’inchiesta shock di Fabrizio Gatti9 e
del rapporto pubblicato da Medici Senza Frontiere10, in cui vengono documentate le pessime
condizioni di vita a cui sono costretti diverse migliaia di stranieri impiegati nei campi e nelle
serre in diverse località del Sud Italia.
Anche la violazione dei diritti dei minori è un aspetto scottante della produzione agricola. Di
quasi 128 milioni di bambini vittime dello sfruttamento del lavoro minorile, in tutto il
mondo, il 69%, circa 150 milioni, lavorano in agricoltura. I bambini lavorano per molte ore
sotto il sole cocente, sono esposti ai pesticidi tossici e spesso si feriscono con taglienti lame
e altri pericolosi strumenti agricoli11. Il lavoro estenuante nei campi viola il loro diritto alla
salute, all’educazione e alla protezione dallo sfruttamento e da lavori pericolosi.
Quanto, cosa e dove si produce
Essendo l’agricoltura la prima attività dell’uomo, i paesaggi agrari sono diffusi in tutti i
continenti e in tutte le popolazioni. L’agricoltura ha da sempre disegnato il paesaggio con i
colori delle diverse coltivazioni e con le forme che esse assumono a seconda della
morfologia dei luoghi. Pensate alle distese di terrazzamenti della Liguria, ad esempio,
oppure alle risaie che si estendono a perdita d’occhio nella Pianura Padana e al grano che
colora di “giallo oro” i campi estivi del Centro e Sud Italia.
Così come per le industrie, anche la distribuzione delle attività agricole è disuguale tra i
paesi sviluppati e quelli in via di sviluppo il mondo.
In America del Nord e in Europa sono ampiamente diffusi paesaggi rurali, dove
l’agricoltura ha carattere intensivo. In queste zone, vasti terreni sono soggetti ad una
coltivazione continua; in questo modo, facendo uso anche di moderni macchinari, si
9 F. GATTI, Io schiavo in Puglia, L’Espresso, 2006, http://espresso.repubblica.it 10 MEDICI SENZA FRONTIERE, Una stagione all’inferno, Roma, 2007 http://www.medicisenzafrontiere.it
11 HUMAN RIGHTS WATCH, http://www.hrw.org/
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producono enormi quantità di merce destinata all’esportazione e alla produzione
industriale.
Viceversa, nella maggior parte delle nazioni africane, asiatiche e dell’America Latina,
l’agricoltura rappresenta ancora un’attività di sussistenza. La produzione agricola, ottenuta
con tecniche tradizionali, serve solo a soddisfare i bisogni di poche persone. Oltretutto, in
queste regioni è molto diffusa l’agricoltura itinerante, un’attività molto precaria e
soprattutto dannosa per il paesaggio. Essa consiste nel disboscamento di superfici più o
meno ampie, dopo che la vegetazione è stata incendiata. La terra viene quindi messa a
coltura, ma, non essendo né curata, né concimata, viene resa sterile e abbandonata. In
questi stati è, inoltre, molto diffusa la monocoltura. Estesi territori vengono coltivati con
un determinato tipo di pianta, generalmente quella più richiesta per le esportazioni.
Questo, chiaramente, impoverisce l’eterogeneità del paesaggio.
Ma cosa viene coltivato e dove?
Nel 2004, i 270 milioni di ettari di campi coltivati nel mondo, hanno prodotto più di 2
miliardi di tonnellate di cereali e 1,3 miliardi di tonnellate di frutta e verdura12!
Figura 1 – Produzione mondiale di cereali. Fonte FAO
Produzione mondiale di cereali (2004)
49%
3%
3%
17%10%
18%
Cina India Stati uniti d'America
Francia Ex Unione sovietica Altri 180 paesi
12 FAOSTAT, http://faostat.fao.org/default.aspx
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Figura 2 – Produzione mondiale di frutta e verdura. Fonte FAO
Produzione mondiale di frutta e verdura (2004)
3%
5%
9%37%
44%
2%
Cina India Stati Uniti d'America
Brasile Italia Altri 180 paesi
Paesi come Cina, India, Stati Uniti d’America, Italia, Francia, Brasile ed ex-Unione Sovietica,
da soli, contribuiscono alla produzione di oltre la metà di queste quantità di cereali, frutta e
verdura; mentre tutti gli altri 180 paesi del mondo, insieme, ne producono poco meno della
metà!
Per avere un’idea della diffusione nel mondo dei terreni coltivati e della loro produttività può
essere utile osservare la cartina sottostante (Figura 3).
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Figura 3 – Estensione delle coltivazioni nel mondo, 2001. Fonte: Rapporto FAO 2006
La domanda mondiale di cereali sta registrando negli ultimi decenni una costante crescita,
sia per l’incremento demografico sia per l’aumento dei redditi che ha portato ad un aumento
nei consumi di prodotti di origine animale13: agli animali infatti è destinata una quota
notevole di cereali, basti pensare che solo negli Stati Uniti agli allevamenti è destinato il
70% della produzione di mais, a livello mondiale invece finisce negli allevamenti l’80% della
produzione di soia14.
13 WORLDWATCH INSTITUTE, State of the world 2006: focus Cina e India, Edizioni Ambiente, Milano, 2006, p. 57 14 Ibidem, p. 84
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IMPATTI AMBIENTALI
Coltivare la terra e nutrirsi dei suoi prodotti è da sempre un’attività che l’uomo svolge
tenendo in considerazione le condizioni climatiche e ambientali tipiche del territorio. Con il
progresso e le moderne tecnologie l’uomo ha pian piano superato i limiti imposti
dall’ambiente, aumentando così le pressioni sull’ambiente stesso.
L’uomo, quindi, ha modificato il paesaggio per renderlo più produttivo, trasformando il suolo
in campi coltivati, bonificando zone umide, terrazzando pendii, convertendo le foreste in
pascoli. L’agricoltura ha un’influenza sull’ambiente nella misura in cui ne utilizza le risorse e
produce sostanze - naturali e chimiche - che vengono poi immesse nei diversi comparti
ambientali, suolo, acqua e atmosfera.
Per coltivare, ad esempio, un campo di mais, oltre all’energia proveniente dal sole, occorre il
suolo con i suoi sali minerali e le sostanze nutritive, servono i concimi, l’acqua per irrigare, il
fertilizzante chimico per sostenere la crescita delle piante; serve, poi, che il mais sia
protetto dagli attacchi di insetti, funghi e parassiti, cosa che in natura avviene grazie alla
presenza di altri organismi animali e vegetali che si nutrono di questi insetti. L’uomo spesso,
però, interviene per evitare che la coltivazione venga attaccata e mangiata dai parassiti con
sostanze chimiche molto potenti, ma altrettanto nocive e pericolose per tutto l’ambiente e
per l’uomo.
L’immissione di queste sostanze nell’ambiente e l’utilizzo delle risorse naturali alterano gli
equilibri naturali e rendono fragile l’ambiente, che cerca di compensare gli effetti
determinati dall’attività agricola, così come gli effetti prodotti da ogni attività antropica.
Qualora si verifichino, però, delle condizioni di forti cambiamenti climatici, soprattutto a
scala mondiale, siano essi causati da eccessivi input da parte dell’attività dell’uomo, o siano
conseguenza di una naturale evoluzione del pianeta, i sistemi agricoli diventano incapaci di
mantenere gli alti livelli di produzione richiesti, poiché dipendono direttamente dalle
condizioni del suolo, dell’atmosfera e dell’acqua.
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Il clima del pianeta sta cambiando: come l’agricoltura ne è influenzata?
Il clima della Terra sta cambiando e di ciò vi è oggi evidenza scientifica. La temperatura
media del pianeta è aumentata di 0,8 °C nell’ultimo secolo (in Europa è aumentata di 1 °C).
Alcuni gas sono stati da tempo individuati come responsabili del surriscaldamento globale e
del cosiddetto “effetto serra”, in particolare l’anidride carbonica (CO2), il metano (CH4) e il
protossido d’azoto (N2O). Queste sostanze sono presenti naturalmente in atmosfera, ma
vengono prodotte in concentrazioni molto elevate dalle attività dell’uomo (uso di
combustibili fossili per trasporti e per attività industriali, cambio di uso del suolo e
deforestazione).
Le condizioni climatiche generali sono diventate maggiormente variabili. Le precipitazioni
sono aumentate nelle regioni dell’Europa settentrionale, uragani e tempeste sono sempre
più frequenti, mentre al sud si verifica un calo delle precipitazioni e un aumento della
siccità.
Analisi statistiche mostrano che il rischio che si verifichino eventi catastrofici in futuro è
sempre più alto e con esso i possibili danni economici correlati.
L’Europa meridionale e il bacino del Mar Mediterraneo, in particolare, sono tra le zone a
maggiore rischio di siccità, mentre le aree montuose, come le Alpi, rischiano di subire
profonde alterazioni dell’assetto dei propri ghiacciai e dei corsi d’acqua, a causa
dell’aumento della temperatura.
Nei prossimi decenni le coltivazioni subiranno probabilmente degli sfasamenti temporali, i
raccolti dovranno essere anticipati dall’estate alla primavera e sarà necessario applicare una
rotazione delle colture introducendo varietà che richiedono meno acqua rispetto al mais e
alle altre poche coltivazioni oggi selezionate.
Alla luce dei vasti effetti che i cambiamenti climatici stanno esercitando sull’intero pianeta
nel medio e lungo periodo, il contesto delle politiche con cui i Paesi regolano e orientano le
proprie azioni nel settore dell’agricoltura è destinato a prendere in considerazione una
duplice sfida: da un lato la necessità di ridurre le emissioni atmosferiche dei “gas serra”
(GHG) (mitigazione), dall’altro l’esigenza di adattare le attività antropiche alle nuove
condizioni climatiche allo scopo di ridurne gli effetti negativi sull’uomo (adattamento).
In particolare l’agricoltura ha grandi possibilità di contribuire alla mitigazione dei
cambiamenti climatici, visti i notevoli impatti che esercita sull’ambiente: essa può, infatti,
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ridurre le elevate emissioni di metano e protossido d’azoto (provenienti dai concimi utilizzati
per fertilizzare e dalle attività zootecniche collegate), aumentare la capacità dei suoli agricoli
di assorbire anidride carbonica dall’atmosfera, fornire materie prime utili a generare fonti
energetiche rinnovabili.
L’agricoltura agisce sui cambiamenti climatici?
L’agricoltura rappresenta il terzo settore più importante nell’emissione di gas serra, infatti
produce, in stretta correlazione con il settore dell’allevamento, il 9% del totale dei GHG
emessi in atmosfera da attività antropiche.
Il contributo maggiore dell’agricoltura è dato dalle emissioni di protossido d’azoto (N2O)
derivanti dall’applicazione di fertilizzanti organici e inorganici sui suoli da coltivare (5%),
seguito dalle emissioni di metano (CH4) provenienti dal concime e dai processi digestivi dei
ruminanti.
Il ruolo dell’agricoltura nelle emissioni atmosferiche dipende, infatti, dal tipo di aziende
agricole presenti sul territorio e dalle forme di allevamento intensivo o estensivo a cui esse
si dedicano.
Vi è inoltre da considerare che le emissioni di gas serra provenienti da quelle attività
agricole che richiedono l’uso di energia (ad esempio, il carburante per i macchinari, l’energia
elettrica per illuminare e per svolgere le attività all’interno degli stabilimenti, etc.) non
vengono calcolate15 all’interno delle emissioni prodotte dal settore agricolo, ma sono
attribuite al settore energetico.
Lo stesso discorso può essere fatto per quantificare il carbonio che il suolo può
naturalmente assorbire (fenomeno detto “carbon sequestration”) aiutando così a ridurre
l’anidride carbonica in eccesso in atmosfera: questo tipo di contributo non viene attribuito al
settore agricolo, ma conteggiato in relazione all’uso del suolo e ai cambiamenti di uso del
suolo.
Per questi motivi, misurare gli effetti dell’agricoltura sui cambiamenti climatici è più
complesso che per altri settori come quello industriale, poiché i calcoli sulle emissioni di gas
15 Secondo quanto prevede la Politica Comunitaria Europea
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serra prodotte dai sistemi agricoli devono considerare anche i complessi processi biologici ed
ecologici coinvolti.
Coltivare adattandosi a nuovi climi
Affinché l’agricoltura possa continuare ad essere un settore produttivo occorre applicare
soluzioni che adattino i vecchi sistemi agricoli alle nuove condizioni climatiche. L’obiettivo è
ridurre la vulnerabilità delle coltivazioni e aumentare la resilienza delle aree rurali sia dal
punto di vista ambientale, sia economico, ossia aumentare la capacità delle attività agricole
di recuperare la produttività dopo eventi catastrofici, come siccità, uragani, alluvioni.
Le aziende agricole, per adattarsi alle diverse disponibilità di risorse, possono modificare la
rotazione delle colture per fare un uso migliore dell’acqua, regolare i periodi di semina in
funzione di temperature e precipitazioni, utilizzare varietà di coltivazioni maggiormente
resilienti a ondate di caldo e di siccità e ripristinare siepi, filari di piante e aree cespugliose
tra un’area coltivata e l’altra per ridurre la perdita di acqua dal terreno e dalle coltivazioni
(aumentando le zone di ombra e riducendo l’evapotraspirazione delle piante).
In Europa, alcuni degli Stati Membri (Finlandia, Spagna, Francia, Regno Unito) stanno già
implementando azioni volte ad adattare le attività produttive agricole alle nuove condizioni
climatiche e, parallelamente, conducono studi e ricerche per valutare gli impatti dei
cambiamenti climatici sull’agricoltura. In particolare le misure adattative riguardano la
capacità di prevenire eventi estremi correlati al clima come inondazioni, uragani o siccità e
di limitare gli effetti derivanti dall’innalzamento delle temperature e dall’intensificazione
delle variazioni climatiche.
In Germania, ad esempio, il periodo di semina di mais e zucchero è stato anticipato di 10
giorni, nella Francia meridionale addirittura di 20 giorni. In alcuni casi l’adattamento richiede
forme di investimento in macchinari ed infrastrutture per migliorare, ad esempio, il sistema
di irrigazione.
Quanta acqua per coltivare
L’agricoltura consuma il 70% dell’acqua prelevata in tutto il mondo da fiumi, laghi e falde
sotterranee; in particolare, i paesi in via di sviluppo sono responsabili del 95% dell’acqua
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complessivamente destinata all’agricoltura, soprattutto per dell’applicazione delle tecniche di
agricoltura irrigua applicate principalmente in Cina, India e Pakistan.
Nonostante il consumo pro capite di acqua sia diminuito dal 1980 passando da 700 a 600
metri cubi all’anno, l’uso di acqua per coltivare è aumentato del 100% tra il 1961 e il 2001 e
la previsione è che aumenti esponenzialmente negli anni, anche in vista della crescita
demografica continua, dell’espansione delle aree urbane e della crescente industrializzazione
dei paesi emergenti.
Anche la superficie di terreni irrigui in Europa è in aumento, con conseguente
impoverimento delle risorse idriche e peggioramento della qualità delle acque, con fenomeni
di salinizzazione e di degrado dei suoli.
Attualmente, circa il 30-40% delle disponibilità di prodotti agricoli a livello mondiale
derivano dal 16% di superficie agricola irrigata e si stima che nei prossimi anni il contributo
dato dall’agricoltura irrigua alla produzione alimentare tenderà ad aumentare.
L’Italia dedica a scopi irrigui circa il 60% dei circa 56 miliardi di metri cubi annui di acqua
dolce consumata ed è al primo posto in Europa sia per i consumi di acqua per abitante, sia
per la maggiore estensione agricola irrigata, pari a 4,5 milioni di ettari.
L’irrigazione è praticata con modalità diverse a seconda delle aree geografiche e delle zone
climatiche, con vari gradi di sofisticazione e di tecnologia: irrigare è utile per stabilizzare la
produttività delle colture e, nei paesi tropicali, per garantire più produzioni nello stesso
anno, nonché rese più elevate. L’irrigazione è importante anche in zone aride o semi-aride,
che altrimenti sarebbero inadatte a sostenere alcune colture.
Oggi più di 1,2 miliardi di persone vive in aree di scarsità idrica ed entro il 2025, secondo il
Programma delle Nazioni Unite per lo Sviluppo (UNDP), più di 3 miliardi di persone
conosceranno la condizione di stress idrico16.
Da un lato, quindi, l’irrigazione rappresenta uno strumento di sempre maggior rilevanza ai
fini delle disponibilità alimentari, dall’altro costituisce la principale forma di consumo delle
risorse idriche a livello mondiale.
16 UNITED NATIONS DEVELOPMENT PROGRAMME, Human Development Report, 2006
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Sovrasfruttamento e sprechi di acqua
Il divario tra il rifornimento idrico e la domanda di acqua sta aumentando in molte parti del
mondo: in quelle aree che già oggi soffrono di carenza di acqua, la crescente siccità sarà il
maggior vincolo alla crescita e allo sviluppo agricolo, con conseguenze sulla sicurezza
alimentare.
Le alterazioni del clima determineranno soprattutto un decremento della disponibilità idrica
annua in molte parti del mondo.
In Europa, soprattutto nelle aree meridionali e centrali dell’Europa, diminuirà sempre più la
disponibilità di acqua, a causa di una continua diminuzione delle precipitazioni estive e a
fronte di elevate richieste idriche per le coltivazioni. Pensate che la quantità di acqua
sufficiente ad irrigare un ettaro di risiera è la stessa che serve ai bisogni di 100 nomadi con
450 capi di bestiame in tre anni, o a 100 famiglie urbane nell’arco di due anni.
Inoltre, nei Paesi del Sud del mondo, l’acqua utilizzata per l’irrigazione rappresenta ben il
91% del consumo idrico (rispetto al 39% dei Paesi ad alto reddito), ma la produzione
agricola è pari ad un terzo di quella dei paesi industrializzati, poiché metà dell’acqua
destinata all’irrigazione evapora per le elevate temperature, oppure si perde per strada a
causa di perdite lungo le reti idriche che distribuiscono l’acqua. Per risolvere il problema
degli sprechi occorre introdurre tecnologie più moderne come l’irrigazione a goccia e
rinnovare le reti, ma spesso gravi problemi finanziari e politici limitano queste scelte.
L’uomo preleva per irrigare molta più acqua di quanta il pianeta possa rifornire: i prelievi
per usi irrigui superano, infatti, in molte zone la capacità di apporto dei corsi d’acqua, delle
piogge e quella di ricostituzione delle riserve naturali.
Per questi squilibri, ogni volta che le piogge tardano a venire, rispetto ai cicli naturali,
scoppiano ad esempio carestie, come quella che ha colpito qualche anno fa alcune regione
dell’Africa sub-sahariana, oppure senza che si verifichino eventi catastrofici lentamente si
consumano le riserve idriche fino ad esaurirle: si calcola che in Giordania tra 35 anni le
riserve acquifere sotterranee saranno completamente esaurite e che, per ricostituirle,
occorreranno migliaia d’anni.
Negli Stati Uniti il fiume Colorado, già dal 1960, non arriva più al mare, se non in anni di
precipitazioni eccezionali, poiché si prelevano ingenti quantità di acqua lungo il suo corso
prima che giunga nell’Oceano Pacifico. Nella regione africana del Sahel, sia a causa di una
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prolungata siccità, che del diminuito afflusso dei fiumi, le cui acque sono state deviate per
usi irrigui, il lago Chad si è ridotto del 75% negli ultimi 30 anni. Ma la vicenda più esemplare
è la morte del lago Aral (che era il 4° lago più grande del mondo), nel cuore dei deserti
dell’Asia Centrale. Alcune repubbliche asiatiche dell’ex Unione Sovietica hanno deviato il
corso dei due fiumi che rifornivano il lago, per coltivare riso e cotone, due coltivazioni
estremamente bisognose d’acqua soprattutto se coltivate in terreni aridissimi. Questa scelta
ha ridotto la superficie del Lago Aral del 70%; ciò ha provocato un ulteriore aumento della
concentrazione di sali nelle sue acque – già salate in passato ma ricche di pesce – aggravata
dalla presenza di inquinanti e pesticidi che, convogliati per anni nello lago dai fiumi o drenati
dai campi di cotone, sono oggi concentrati ai livelli massimi. L’inquinamento sta generando,
oltre alla distruzione dell’ecosistema lacustre, anche problemi sanitari gravissimi alle
popolazioni locali: anemia, mortalità infantile, artriti reumatoidi, reazioni allergiche.
Acque dolci troppo “salate”: la salinizzazione
Coltivare in climi aridi, oltre ai problemi che derivano dalla necessità di reperire grandi
quantità d’acqua e di “intrappolarla” con dighe e invasi artificiali, ha portato l’uomo a
scoprire il fenomeno della salinizzazione. Questo fenomeno naturale consiste nel progressivo
aumento di sali minerali nel terreno, fino a renderlo non più adatto alla coltivazione.
Questo avviene in concomitanza di due situazioni: cattivo drenaggio del terreno e forte
evaporazione delle aree irrigate. L’acqua che il terreno non è in grado di assorbire subito
evapora e cede al suolo il suo contenuto minerale.
Desertificazione e inondazioni
I cambiamenti climatici, la distruzione delle foreste temperate e tropicali, le pratiche
agricole intensive, il dissesto idrogeologico sono tra le cause che portano a desertificazioni e
inondazioni.
Già nel 1992, durante il Summit mondiale delle Nazioni Unite su Ambiente e Sviluppo di Rio
de Janeiro, si affermava che la desertificazione è il "degrado delle terre aride, semi-aride e
sub-umide secche, attribuibile a varie cause, fra le quali variazioni climatiche ed attività
umane".
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La desertificazione si concretizza con la progressiva riduzione dello strato superficiale del
suolo e della sua capacità riproduttiva ed è un fenomeno ben più vasto dell’espansione dei
deserti sabbiosi. La desertificazione è una delle più gravi emergenze ambientali e oggi
minaccia circa 1,3 miliardi di persone in oltre 100 Paesi e in un quarto delle terre del pianeta
(venti anni fa erano 57 milioni, nel 1984 erano saliti a 135 milioni), di cui 800 milioni sono
gravemente denutriti. La situazione è particolarmente drammatica in Africa, ma vi sono
vaste aree inaridite o minacciate anche in Asia, in America Latina, nel Nord del
Mediterraneo, e anche in Italia (27% del territorio).
Le inondazioni sono invece fenomeni dei quali abbiamo sicuramente maggiore percezione,
se non altro perché ci riguardano da vicino. Il 2002 è stato l’anno record per il numero e la
gravità di alluvioni nel mondo. Ben 190 da gennaio ad agosto. Il numero più alto negli ultimi
18 anni. Danni stimati per almeno 1.300 miliardi di euro che hanno colpito prevalentemente
Brasile, Australia, Cina, Russia, Afghanistan e Europa.
Il sovrasfruttamento delle risorse idriche comporterà, quindi, possibili conflitti per l’uso
dell’acqua in agricoltura rispetto ad altre destinazioni, a cui è indispensabile che il settore
agricolo risponda, sviluppando piani di gestione della risorsa idrica per ridurre gli sprechi e
per aumentare l’efficienza d’irrigazione attraverso l’uso di colture adatte alla specifica
situazione meteoclimatica, sociale ed economica, il riuso per l’irrigazione delle acque reflue
depurate, l’uso di sistemi di irrigazione di dimensioni ridotte e di sistemi di drenaggio
artificiale che permettano di evitare il fenomeno della salinizzazione.
Pesticidi e fertilizzanti: l’inquinamento di suolo e acque
I pesticidi sono sostanze utilizzate in agricoltura per garantire raccolti abbondanti e di buona
qualità a discapito sia di erbe spontanee che sottraggono spazio e risorse alla crescita delle
piante coltivate, sia di insetti e funghi che si nutrono delle parti più nutrienti delle
coltivazioni stesse.
I pesticidi, in base all’organismo vivente che attaccano, si dividono in insetticidi, fungicidi ed
erbicidi (anche detti fitofarmaci o prodotti fitosanitari): sono sostanze chimiche sintetizzate
in laboratorio distribuite sui campi coltivati spesso attraverso dei nebulizzatori insieme
all’acqua e, per questo, si depositano non solo sulle piante e sui frutti che poi mangiamo,
ma anche sul terreno e nell’acqua piovana che si ricongiunge poi ai fiumi, ai laghi fino al
mare. Alcuni pesticidi possono anche infiltrarsi nel suolo profondo e arrivare a contaminare
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le acque sotterranee di falda, riducendo la loro qualità per l’uso potabile. La salute umana
viene, quindi, messa a rischio dai pesticidi non solo perché questi contaminano gli alimenti
vegetali e animali che consumiamo, ma anche perché possono trovarsi nell’acqua che
beviamo.
Si calcola che ogni anno vengano immesse nella biosfera 250 milioni di tonnellate di prodotti
organici di sintesi, tra cui 2 milioni di tonnellate di pesticidi (300 mila tonnellate nella sola
Unione Europea).
In Italia, i prodotti fitosanitari sono distribuiti su circa il 70% della Superficie Agricola
Utilizzata (SAU). Negli anni si è registrato un calo delle quantità dei principi attivi contenuti
nei prodotti fitosanitari distribuiti per uso agricolo (76,3 milioni di kg nel 2001, 10% in meno
rispetto al 1997), ma è aumentata la concentrazione, ossia è stata aumentata la quantità
distribuita per ogni ettaro di superficie trattabile (8,3 kg/ha nel 2001, 52,6% in più rispetto
al 1997).
I pesticidi, oltre a essere tossici per i parassiti contro cui vengono utilizzati, hanno effetti
nocivi e letali per la stragrande maggioranza degli organismi viventi e dei sistemi biologici.
Un pesticida è, quindi, molto dannoso per la biodiversità, poiché è tossico per tutti gli
organismi e riduce la varietà delle specie animali e vegetali che naturalmente vivrebbero
nelle zone limitrofe alle coltivazioni. Inoltre, i pesticidi uccidono anche quegli animali e
quelle piante che potrebbero aiutare l’agricoltore, come ad esempio un insetto impollinatore.
Molte di queste sostanze sintetizzate artificialmente dall’uomo vengono definite dagli
scienziati “xenobiotici”, proprio perché, essendo totalmente sconosciute ai processi naturali
degli ecosistemi (xeno = diverso; biotico = vivente), non possono essere rimosse
dall’ambiente attraverso la normale degradazione chimica effettuata dai microrganismi. Gli
animali che assumono accidentalmente pesticidi, non potendo degradare queste sostanze, si
difendono “accumulando” le molecole tossiche nel proprio organismo per non farle più
circolare. Questo fenomeno è noto come bioaccumulo e ha degli effetti negativi esponenziali
via via che si risale la catena alimentare fino all’uomo. Per questa ragione, un pesticida, che
a causa del dilavamento del terreno o attraverso uno scarico agricolo finisce in un corpo
idrico (come un fiume o un lago), può entrare nella catena alimentare acquatica fino ad
arrivare all’organismo umano, per esempio attraverso il consumo di pesce.
Date le loro caratteristiche xenobiotiche e il loro potere di bioaccumulo, i pesticidi sono
anche molto persistenti nell’ambiente. Il DDT, un noto pesticida largamente impiegato in
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agricoltura durante il dopoguerra, a partire dagli anni ’70 è stato vietato in tutti i paesi
avanzati per la sua elevata tossicità nei confronti dell’uomo e di tutti gli altri animali.
Nonostante ciò, a distanza di 30 anni, la sua presenza viene ancora rilevata nei gusci delle
uova e nei tessuti di molte specie animali, soprattutto quelle che vivono a stretto contatto
con l’acqua.
Negli anni una serie di direttive comunitarie sono state emanate al fine di ridurre i rischi
derivanti dall’uso dei fitofarmaci, definendo una serie di limiti alle loro concentrazioni nella
frutta e nei vegetali, nei cereali e nei prodotti di origine animale.
I fertilizzanti sono, invece, sostanze contenenti azoto (N) e fosforo (P) utilizzate in
agricoltura per incrementare la crescita delle piante. Esistono fertilizzanti naturali, come il
concime derivante dagli animali allevati, e fertilizzanti sintetici, prodotti in laboratorio.
Negli ultimi 40 anni l’uso dei fertilizzanti sintetici è cresciuto di quasi otto volte, nel tentativo
di velocizzare la crescita delle coltivazioni e quindi di aumentare la produzione agricola
annua. Tuttavia, la somministrazione di così elevate quantità di fertilizzanti non garantisce
una crescita proporzionale: infatti, circa la metà dei fertilizzanti che oggi vengono applicati
alle colture resta sui terreni e poi finisce nelle acque sotterranee e superficiali, poiché le
piante coltivate non possono assorbire nei propri tessuti più di una certa quantità.
Se una larga percentuale dei fertilizzanti si disperde nell’ambiente si producono due tipi di
danno: ambientale e per la salute umana.
Una volta disciolti nelle acque superficiali, questi composti persistono, a volte cambiando la
propria struttura molecolare, ma continuando a costituire dei nutrienti per le piante e le
alghe, siano essi in un fiume, in un lago o in mare. I corpi idrici sono abitati da molti tipi di
alghe e di piante acquatiche che, avendo a disposizione grandi quantitativi di nutrienti,
crescono molto velocemente, causando le cosiddette “esplosioni algali”. I pesci e altri
organismi si nutrono delle alghe senza però riuscire a consumarle interamente. Le alghe in
eccesso muoiono e vengono decomposte dai microrganismi utilizzando grandi quantità di
ossigeno disciolto in acqua, lo stesso ossigeno che serve a tutti gli organismi acquatici per
respirare. L’acqua povera di ossigeno porta alla morte molti animali, piante e
microrganismi: questo fenomeno è detto “eutrofizzazione” e nella maggior parte dei casi è
causato proprio dalla presenza di fertilizzanti in eccesso, anche se talvolta può dipendere da
altri fattori.
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Oltre che nei fiumi, nei laghi e nei mari, i fertilizzanti possono raggiungere le falde acquifere
dove scorrono le acque sotterranee teoricamente assolutamente potabili, ma
potenzialmente inquinate dall’azoto presente nei fertilizzanti (oltre che da altri
microinquinanti organici).
La presenza di nitrati (composti dell’azoto) nelle falde acquifere è misurata e controllata da
normative europee e nazionali, ma in molti casi supera i limiti imposti dalla legge. In Italia
l’area più colpita è la Pianura Padana, ma anche gli abitanti di altre zone dell’Italia centrale,
come la media e bassa valle del Metauro, a causa dell’alta concentrazione di nitrati (sopra i
50 mg/lt) non possono bere l’acqua di falda, se non miscelata con altra acqua a più basso
contenuto di nitrati (spesso acqua superficiale depurata). Non esiste a tutt’oggi un metodo
economicamente ragionevole per rimuovere i nitrati dall’acqua. Solo dopo anni di pratiche
agricole sostenibili si può sperare di assistere ad un abbassamento dei valori dei nitrati.
“Agrobiodiversità”
Gli scienziati hanno finora identificato circa 1,4 milioni di specie animali e vegetali sulla terra
e quasi ogni giorno una nuova specie si aggiunge alla lista.
Questa varietà di vita è essenziale per gli esseri umani. Dipendiamo da essa per il cibo, per
le sostanze curative, per l’acqua, per l’energia e per molto altro.
La biodiversità è, tuttavia, sempre più minacciata dalla pressione esercitata dall’uomo, la cui
popolazione mondiale è in continua espansione, e dal degrado degli ecosistemi naturali
determinato dalle attività antropiche.
Le specie selvatiche rischiano l’estinzione se gli habitat in cui vivono vengono insidiati da
inquinamento, urbanizzazione, deforestazione. Questo processo distruttivo può essere
accelerato da una cattiva gestione dell’agricoltura, delle foreste e delle risorse ittiche.
La biodiversità agricola è rappresentata da una quantità innumerevole di piante e animali
che servono a nutrire e curare gli esseri umani. La si trova nelle varietà di colture con
caratteristiche nutrizionali specifiche, nelle razze di bestiame che si sono adattate ad
ambienti ostili, negli insetti che impollinano i campi, nei microrganismi che rigenerano il
suolo agricolo.
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Anche in agricoltura la biodiversità è in pericolo. Gli esseri umani per il cibo dipendono
infatti da un numero sempre più ridotto di prodotti agricoli e questo riduce la possibilità che
alcune delle piante coltivate e degli animali allevati sappia adattarsi a cambiamenti
ambientali drastici.
Circa 10 mila anni fa, gli esseri umani, a partire dalla biodiversità che esisteva in natura,
hanno iniziato a raccogliere semi e piante selvatiche e a coltivarle, scegliendo le varietà più
produttive o quelle più resistenti ad avverse condizioni climatiche. Più o meno nella stessa
epoca, hanno cominciato ad addomesticare anche gli animali, sfruttando la loro forza,
mangiandone la carne e bevendone il latte.
Anche oggi la diversità genetica rimane essenziale affinché la produzione agricola mondiale
possa continuare ad essere sostenibile.
Contadini ed agronomi ne hanno, infatti, bisogno per adattare le piante alle mutevoli
condizioni di vita o per espandere la produzione in nuove aree non coltivate in precedenza.
La diversità genetica delle piante (diversità fitogenetica) è fondamentale per migliorare i
rendimenti ed avere colture che producano più cibo e con più alto valore nutrizionale.
Oggi, quattro specie – grano, mais, riso e patate – forniscono da sole più della metà delle
calorie vegetali della dieta umana, mentre circa una dozzina di specie animali fornisce il
90% del consumo mondiale di proteine animali.
Oltre alla varietà di specie usate a scopo alimentare, è fondamentale che sia mantenuta la
diversità genetica all’interno delle diverse specie: molti agricoltori hanno adottato qualità
uniformi di piante e animali ad alto rendimento, ma quando si abbandona la diversità, le
varietà e le razze possono estinguersi, così come i loro tratti specifici.
La spinta per un aumento della produzione agricola e dei profitti ha, infatti, orientato la
scelta su un numero limitato di varietà di piante e di razze animali ad alto rendimento.
Questo è un altro retaggio della “rivoluzione verde”: molti agricoltori, invece di coltivare
un’ampia varietà di piante come nel passato, si sono concentrati su un’unica coltura da
reddito, chiamata monocoltura, che ha ridotto sensibilmente la biodiversità agricola nel
mondo. Le piante da monocoltura sono spesso varietà ibride di una specie tradizionale. Una
migliore varietà produce di più, così il contadino non si preoccupa di piantare la varietà più
vecchia, che lentamente sparisce. Con l’agricoltura tradizionale, i contadini tendevano a
coltivare una vasta varietà di piante e spesso allevavano anche il bestiame. Con l’avvento
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della monocoltura, le pratiche agricole tradizionali sono state in gran parte abbandonate. Un
gran numero di varietà di piante e razze di animali sono silenziosamente scomparse. Questa
sparizione è conosciuta come “estinzione”, ed è irreversibile.
L’agricoltura sta, quindi, perdendo la capacità di adattarsi ai cambiamenti ambientali, come
il riscaldamento globale o nuovi insetti nocivi e malattie. Se le attuali disponibilità alimentari
non riescono ad adattarsi ai mutamenti dell’ambiente, ci potremmo trovare veramente in
grave difficoltà. È estremamente importante proteggere queste risorse e assicurarsi che
siano usate in modo sostenibile. Gli agricoltori, come custodi della biodiversità del pianeta,
hanno la possibilità di coltivare e mantenere le piante e gli alberi locali e di riprodurre gli
animali autoctoni, assicurandone così la sopravvivenza.
Ma la perdita di biodiversità non riguarda solo l’agricoltura. Le foreste sono forse il più
importante deposito di diversità biologica, ma ogni anno perdiamo migliaia di ettari di
copertura forestale. Gli oceani, i laghi e i fiumi del pianeta brulicano di vita, ma lo
sfruttamento eccessivo e metodi di pesca dannosi per l’ambiente minacciano la biodiversità
acquatica.
Gli esperti sono seriamente preoccupati per questa rapida diminuzione delle riserve
genetiche. Disporre di una vasta gamma di caratteristiche uniche permette di selezionare
piante ed animali in grado di rispondere a mutamenti di condizione. Ciò fornisce, inoltre, agli
scienziati la materia prima di cui hanno bisogno per sviluppare varietà di colture e di razze
più produttive e resistenti.
Per i contadini poveri, la biodiversità può essere davvero la migliore difesa contro la fame:
infatti, nelle regioni del mondo dove i livelli di sottonutrizione sono i più alti, i contadini
hanno bisogno di colture che crescano bene in condizioni climatiche difficili avverse,
piuttosto che di varietà con un buon rendimento in condizioni favorevoli, o di animali di
taglia più piccola ma più resistenti alle malattie.
Anche i consumatori, sia dei paesi sviluppati che di quelli in via di sviluppo, traggono
beneficio dal disporre di un’ampia varietà di piante ed animali, perché ciò contribuisce in
modo decisivo ad una dieta nutriente: spesso le comunità rurali hanno un accesso limitato
ai mercati e diventa indispensabile la disponibilità della più ampia gamma di alimenti locali.
Preservare le piante, gli animali ed il loro ambiente vuol dire, infine, salvaguardare una serie
di funzioni essenziali che la natura fornisce: il suolo, grazie al lavoro silenzioso e continuo di
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insetti, batteri, funghi, vermi, diventa fertile e gli agricoltori possono coltivare gli alimenti; il
bestiame, i funghi ed i microrganismi scompongono il materiale organico, trasferendo gli
elementi nutritivi al terreno; formiche ed altri insetti tengono sotto controllo i parassiti; api,
farfalle, uccelli e pipistrelli impollinano gli alberi da frutta; le paludi e gli stagni filtrano gli
agenti inquinanti; le foreste ostacolano le inondazioni e limitano l’erosione; ecosistemi
integri negli oceani aiutano a mantenere stabili ed in buona salute le risorse ittiche,
garantendo, quindi, anche alle generazioni future la possibilità di continuare a pescare.
L’impegno internazionale affinché siano conservati piante ed animali nelle banche genetiche
e nei giardini botanici e zoologici è di vitale importanza. Per difendere questo prezioso
patrimonio è stato adottato il Trattato Internazionale sulle Risorse Fitogenetiche per
l’Alimentazione e l’Agricoltura, entrato in vigore il 29 giugno 2004.
Le serre e… l’effetto serra
Le coltivazioni effettuate in serra si dicono anche “colture protette”, poiché la produzione di
frutta e ortaggi, si esegue appunto in un ambiente protetto, influendo sul controllo dei
fattori ambientali che condizionano la crescita della pianta.
Nel sistema agro-industriale italiano, le serre rivestono una notevole importanza economica
sia per la loro estensione, oltre 40 mila ettari, sia per la produzione di prodotti ortfrutticoli
freschi a largo consumo e di prodotti floricoli.
In questi ultimi anni, in misura sempre crescente, la coltivazione in serra è stata oggetto di
un complesso processo evolutivo condotto attraverso l'ammodernamento tecnologico della
fase produttiva degli alimenti.
La coltivazione in serra, sebbene trovi nelle aree mediterranee condizioni climatiche più
favorevoli, deve risolvere problemi di ordine tecnico, ambientale ed energetico, poichè, per
definizione, deve contrastare i fattori ambientali naturali, come la temperatura, l’acqua e il
nutrimento tipici di un clima.
Le ”protezioni” impiegate per creare una serra vanno dal semplice tunnel in plastica, posto
sulla singola fila di colture, alle barriere antivento, ai tunnel in film plastico, fino alle serre in
in ferro od in alluminio, con coperture in vetro o in plastica, materiale, quest’ultimo, che ha
portato ad un crescente sviluppo delle serre negli ultimi decenni.
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Le colture protette interessano prevalentemente le colture orticole (circa 23 mila ettari), in
cui prevalgono ortaggi come i pomodori e i peperoni (appartenenti alla famiglia delle
solanacee) e come le zucchine, il cocomero, il melone, il cetriolo, la melanzana (della
famiglia delle cucurbitacee), oltre alle varietà floricole (coltivate per oltre 4 mila ettari) e in
misura minore alle coltivazioni arboree da frutto.
La serra è un sistema agricolo molto complesso, in cui l’impiego delle diverse tecnologie
innovative disponibili cerca di risolvere il contrasto esistente tra l’esigenza di far crescere le
colture, da un lato, e la necessità di limitare gli impatti di tipo energetico, ambientale ed
economico, dall’altro.
Tra le funzioni di controllo dei fattori ambientali più importanti, vi sono il riscaldamento del
terreno, il riscaldamento o raffreddamento dell’aria, l’aerazione, l’ombreggiamento con
schermature, l’illuminazione e, ovviamente, l’irrigazione con aggiunta di fertilizzanti.
Le potenzialità della coltivazione in serra sono notevoli: in media una serra consente di
aumentare di molte volte il valore della produzione ottenibile per unità di superficie nel
corso di un anno. Il problema delle serre è, però, energetico: questa è, infatti, la voce che
incide maggiormente nel costo di produzione delle colture in serra, oltre che costituire un
grave impatto a livello ambientale.
In Italia il “condizionamento”, ossia la regolazione dei fattori ambientali, riguarda circa il
30% delle serre e considera come fattori principali da controllare la temperatura, l’umidità,
il contenuto d’anidride carbonica dell’aria, la temperatura del terreno, l’intensità e durata
della luce. Circa il 20-30% delle serre italiane sono dotate d’impianti di riscaldamento.
Si calcola che per la sola climatizzazione il consumo diretto di energia rappresenta circa il
95% dell’energia globalmente necessaria alla produzione, con una incidenza sul costo totale
di produzione del 20-30%.
A ciò vanno sommati i consumi energetici indiretti, relativi ai materiali di struttura e
copertura in vetro e, soprattutto, in plastica: per le colture protette, in Italia, ogni anno, si
consumano circa 80 mila tonnellate di plastica, con notevoli problemi legati alla gestione del
materiale di scarto.
Anche se la serra pare un sistema svincolato dal territorio, i fattori esterni come il clima
locale, l’esposizione, la pendenza del terreno, l’altitudine e la ventosità influenzano
enormemente il bilancio energetico della serra.
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È per tale motivo che l’attenzione della ricerca si rivolge necessariamente sia verso una
tipologia di serra a “climatizzazione passiva o spontanea”, detta serra ”bio-climatica”,
oppure verso soluzioni di tipo industriale che ottimizzino il clima interno con sistemi
automatici molto efficienti.
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LE BIOTECNOLOGIE
La “rivoluzione genetica”
Alla luce della crisi alimentare attuale, per aumentare la produzione agricola a livello
mondiale è possibile espandere la superficie coltivata, ma le aree ad oggi disponibili sono
sempre meno: in Asia, ad esempio, il suolo coltivabile è già tutto utilizzato.
In ogni caso, l’estensione di aree coltivabili consentirebbe un incremento della produzione
agricola solo del 20%, con impatti ambientali sulle risorse naturali sempre più significativi.
In alternativa sarebbe possibile intensificare la produzione stessa, introducendo tecniche
ancora più invasive di quelle attualmente adottate, ma ciò porterebbe ad un aumento non
superiore al 10%.
Il contributo più significativo all’aumento della disponibilità dei prodotti agricoli sembra
derivare, invece, dal miglioramento delle tecnologie: questo determinerebbe il 70% in più di
produzione agricola mondiale.
Le biotecnologie, così come definite dalla Convenzione sulla Diversità Biologica nel 1992,
non riguardano solo gli Organismi Geneticamente Modificati (OGM), ma un insieme di
prodotti come i vaccini, le varietà migliorate, le piante micropropagate (ossia libere da
virus).
L’applicazione delle tecnologie all’agricoltura deve avere come scopo principale la risoluzione
dei problemi di fame e povertà nei paesi in via di sviluppo, consentendo di incrementare la
produzione dei piccoli agricoltori locali, e deve rispondere a rigidi criteri legati alla
biosicurezza, ossia alla salute dell’uomo, alla tutela della biodiversità e alla sostenibilità
ecologica.
Il Brasile, l’India e la Cina, paesi ad alto tasso di crescita, stanno attualmente ottenendo
risultati avanzati nel campo delle biotecnologie agricole Tra i paesi in via di sviluppo, invece,
23 paesi sono capaci di applicare le biotecnologie attraverso progetti di sviluppo; 14
sviluppano e applicano alcune biotecnologie.
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Grazie all’introduzione di varietà di colture ad alto rendimento, di prodotti chimici e di nuove
tecniche di irrigazione, la cosiddetta Rivoluzione Verde degli anni ’60 e ’70 ha incrementato
la produttività dei raccolti e ha aiutato milioni di persone a combattere fame e povertà.
Oggi però molti piccoli coltivatori non riescono ad andare oltre un’agricoltura di sussistenza
e ogni giorno più di 854 milioni di persone, secondo le ultime stime della FAO, non hanno
abbastanza da mangiare. Sono miliardi coloro che soffrono di carenze di oligoelementi, una
forma insidiosa di malnutrizione dovuta ad una dieta squilibrata. E nei prossimi trent’anni ci
saranno altri due miliardi di persone al mondo da nutrire - mentre le risorse naturali da cui
dipende l’agricoltura diventano sempre più fragili.
L’uso delle biotecnologie in agricoltura, la “Rivoluzione Genetica”, può dare una risposta a
questi problemi? Esistono due scuole di pensiero al riguardo che portano avanti negli ultimi
decenni un dibattito a livello mondiale.
La modificazione biologica ad opera dell’uomo si perde nella notte dei tempi e può
probabilmente farsi risalire a quando i nostri antenati hanno cominciato ad usare
microrganismi per fare il pane, il vino e il formaggio. La moderna biotecnologia è stata resa
possibile grazie all’applicazione di tecniche di biologia molecolare, che consistono nel
“tagliare e incollare” i geni da una cellula all’altra.
Gli OGM – Organismi geneticamente modificati, sono unnuovo tipo di ingegneria genetica ,
oggi al centro di una polemica in corso.
I suoi sostenitori affermano che è essenziale per combattere l’insicurezza alimentare e la
malnutrizione nei paesi in via di sviluppo. Gli oppositori replicano che rischia di causare
gravi danni all’ambiente, di aumentare la fame e la povertà e di aprire la strada al totale
controllo delle grandi multinazionali sull’agricoltura tradizionale e sulla produzione
alimentare.
Da un lato, ci sono valide argomentazioni a favore della modifica della composizione
genetica delle colture alimentari.
Una produttività agricola intensificata e una minore variazione stagionale delle scorte,
ottenuta dalle coltivazioni OGM, potrebbero far incrementare la quantità e la varietà dei
prodotti alimentari a disposizione. Non solo, ma grazie gli OGM si potrebbero ottenere
colture resistenti ai parassiti e alla siccità e ridurre così il rischio di perdere i raccolti a causa
delle scarse precipitazioni e delle malattie. Si potrebbero migliorare le varietà vegetali con
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l’aggiunta di maggiori elementi nutritivi e vitamine per combattere le carenze alimentari che
colpiscono così tanti poveri nel mondo. Si potrebbero coltivare le terre marginali,
aumentando la produzione alimentare complessiva.
La biotecnologia potrebbe inoltre consentire di ridurre l’uso di pesticidi tossici e di migliorare
l’efficacia dei fertilizzanti e di altri correttori della composizione del suolo.
Dall’altro lato, però, la valutazione scientifica degli effetti che l’ingegneria genetica applicata
alle colture potrebbe avere sull’ambiente e sulla salute umana è ancora agli inizi e dovrà
essere condotta caso per caso.
La FAO, l’Organizzazione delle Nazioni Unite per l’alimentazione e l’agricoltura, sottolinea la
necessità di garantire che gli eventuali vantaggi della biotecnologia in agricoltura siano
condivisi da tutti, e non solo da pochi eletti. Gli agricoltori e i consumatori poveri dei paesi
in via di sviluppo potrebbero trarne grandi benefici, ma finora, tranne in alcuni casi, nello
sviluppo del settore biotech pare che i problemi dei poveri siano ignorati, a favore delle
multinazionali.
Contrariamente alla “rivoluzione verde”, introdotta con un programma internazionale di
ricerca agricola pubblica avente lo scopo specifico di creare e trasferire tecnologie al mondo
in via di sviluppo come beni pubblici gratuiti, la “rivoluzione genetica” è principalmente
condotta dal settore privato, che punta allo sviluppo di prodotti commerciali destinati ad un
vasto mercato.
Attualmente sono in atto programmi di ricerca biotech, sia privati che pubblici, su oltre 40
colture, ma esistono pochi grandi programmi pubblici, o privati, che affrontino i problemi dei
piccoli agricoltori dei paesi poveri e, soprattutto, che investano in modo significativo nelle
nuove tecnologie genetiche per le cosiddette “colture orfane”, ad esempio il fagiolo
dell’occhio, il miglio, il sorgo, che sono invece decisive per l’alimentazione e le condizioni di
vita dei più poveri del mondo.
Sono state trascurate anche le colture alimentari basilari per le popolazioni povere - grano,
riso, mais bianco, patata e manioca. Si presta, inoltre, poca attenzione a caratteristiche
delle coltivazioni biotech che potrebbero aiutare queste popolazioni - tolleranza alla siccità e
alla salinità, resistenza alle malattie, maggiore valore nutritivo, per concentrarsi
maggiormente sulla resistenza agli erbicidi.
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Le biotecnologie possono decisamente avere un grande potenziale nella lotta alla fame, ma
ancora troppe questioni rimangono senza risposta.
Come rendere disponibili per il maggior numero di agricoltori nel maggior numero di paesi le
tecnologie della Rivoluzione Genetica? Seguendo quale direzione di ricerca le biotecnologie
potrebbero rappresentare un beneficio diretto per i poveri e chi metterà a punto nuove
tecniche per la maggioranza dei paesi in via di sviluppo, troppo piccoli in termini di
potenzialità di mercato per attrarre grossi investimenti privati e troppo deboli dal punto di
vista delle capacità scientifiche per sviluppare innovazioni proprie? Come possiamo facilitare
lo sviluppo e la diffusione internazionale di organismi transgenici sicuri e promuovere la
condivisione della loro proprietà intellettuale per il bene pubblico?
Un’altra questione importante: come assicurare che i paesi, in particolare quelli in via di
sviluppo con difficoltà finanziarie, riescano ad istituire adeguati sistemi di valutazione dei
rischi per l’ambiente e la salute umana, sia prima che durante l’impiego delle biotecnologie?
Gli OGM in agricoltura
Gli Organismi Geneticamente Modificati (OGM) rappresentano una delle più discusse
biotecnologie ad oggi utilizzate in agricoltura per aumentare la produzione.
Dal 1997 al 2007 la superficie mondiale coltivata con OGM si è decuplicata, passando da 11
a 114 milioni di ettari.
Le piante oggetto di modificazioni genetiche sono soprattutto mais, soia, colza, papaia,
zucca e cotone.
Tra i principali Paesi in cui vengono coltivati OGM, gli Stati Uniti sono in testa, con il 50%
della superficie globale coltivata ad OGM, seguiti da Argentina, Brasile e Canada. In Italia la
coltivazione di OGM a scopi commerciali non è consentita, tuttavia l’Italia importa dall’estero
OGM per soddisfare il proprio fabbisogno interno, come ad esempio dagli Stati Uniti, da cui
provengono soia e mais transgenici che confluiscono nel 60% del nostro cibo.
Uno degli obiettivi delle coltivazioni GM (Geneticamente Modificate) è rappresentato dalla
capacità della pianta GM di essere resistente agli erbicidi utilizzati per eliminare le piante
infestanti, in modo tale che l’agricoltore possa applicare in modo diffuso il diserbante con la
garanzia di non eliminare la propria coltura.
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Gli OGM più diffusi nel 2006 sono stati soprattutto soia (57%), mais (25%), cotone (13%) e
colza (5%). Per la prima volta, sempre nel 2006, è stata coltivata negli USA l’erba medica
(su circa 80 mila ettari).
L’intervento dell'ingegneria genetica ha permesso di modificare queste colture per conferire
loro principalmente due caratteristiche: la resistenza agli erbicidi e la resistenza agli insetti.
Il 68% degli OGM coltivati sono stati “costruiti” in modo che siano in grado di sopravvivere
all’irrorazione degli erbicidi, mentre il 19% determina la morte di quegli insetti che si
nutrono della pianta stessa (“esprimendo” la proteina Bt, che attacca l’apparato digerente
dei parassiti e ne determina la morte).
Infine, il 13% è composto da piante che presentano entrambi i caratteri di resistenza ad un
erbicida o di resistenza ad insetti.
La tendenza attuale della ricerca internazionale sembra essere maggiormente orientata
verso la creazione di OGM resistenti a organismi patogeni, come i virus, più che agli erbicidi,
e verso l’individuazione di geni portatori di qualità e resistenti a stress ambientali.
Già prima dell’arrivo degli OGM, le principali industrie sementiere selezionavano, con metodi
tradizionali (cioè per incroci successivi), le piante più adatte ad assorbire fertilizzanti o più
resistenti ai pesticidi. Con l’avvento dell’ingegneria genetica, le multinazionali
dell’agrochimica che producono fertilizzanti e pesticidi, come Bayer, Monsanto, Syngenta,
BASF e Dupont, hanno esteso le loro attività anche alla produzione sementiera con
l’obiettivo di creare coltivazioni OGM funzionali all'uso di input chimici. In questo modo si
vendono semi transgenici corredati di prodotti che aumentano la produttività delle
coltivazioni, come gli erbicidi, senza danneggiare le colture.
L’esempio più noto è quello della Monsanto, multinazionale agrochimica che ha investito
nella ricerca biotecnologica per sviluppare sementi che resistessero al suo principale
prodotto: l’erbicida Round Up. Il brevetto sul suo principio attivo, il glifosato, era scaduto
nel 2000 esponendo la Monsanto alla concorrenza di altre aziende. La risposta della
multinazionale sarebbe dovuta essere quella di ridurre il prezzo del Round Up e di rinunciare
ad una parte dei profitti, per continuare a garantirsi un livello alto di vendite. Gli Ogm
“Round Up Ready” (resistenti al glifosato) sono stati una soluzione ottimale: chi avrebbe
acquistato le sementi Monsanto sarebbe stato vincolato all’utilizzo dell’erbicida “abbinato”.
In questo modo la concorrenza non avrebbe trovato spazi di mercato da occupare.
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“Brevettare” un organismo vivente
Le leggi di molti Paesi permettono di brevettare i semi GM trasformandoli, quindi, in un
prodotto di proprietà dell’azienda.
L’azienda che vende agli agricoltori i pacchetti “OGM-pesticida” guadagna, quindi, in tre
passaggi diversi: nella vendita del pesticida, nella vendita della coltura transgenica
resistente al pesticida e nell’applicazione dei diritti sul brevetto (royalties), che si
concretizza con un sovrapprezzo rispetto alle sementi tradizionali. In particolare, l'azienda
può esigere che gli agricoltori ricomprino i semi ogni anno, o che paghino i diritti sulla
tecnologia della semente transgenica quando utilizzano una parte del raccolto precedente
per la nuova semina.
D’altro canto i contadini non sono convinti che sia giusto riconoscere questi diritti speciali
alle aziende che vendono i semi GM: è vero che esse hanno messo a punto delle
caratteristiche nuove nei loro prodotti, ma è anche vero che la materia prima di partenza, il
DNA delle specie viventi, è un patrimonio comune, frutto di centinaia di milioni di anni di
evoluzione naturale e interazioni anche con l’uomo, specialmente con gli allevatori e i
contadini di migliaia di generazioni.
Da quando la Corte Suprema degli Stati Uniti , con una sentenza della del 1980, ha stabilito
che un microrganismo che “mangiava il petrolio” poteva essere brevettato (il brevetto
appartiene all’industriale Chakrabarty), come se fosse stato un ritrovato tecnologico “frutto
dell’ingegno umano” e non un essere vivente, tutte le aziende sementiere, e poi
agrochimiche, hanno cominciato a rivendicare diritti sulle piante ottenute in laboratorio,
come se fossero semplici manufatti.
Fino all'arrivo degli OGM ogni contadino poteva conservare una parte del raccolto per
riseminare alla stagione successiva senza dover niente a nessuno. Invece, da quando
comincia a produrre coi semi “inventati” e brevettati dai biotecnologi di un'industria, ad ogni
semina dovrà pagare una quota, anche se l'industria non fa più nessuno sforzo. Un po' come
comprare una mucca, curarla ed alimentarla a proprie spese e dover pagare una tassa a chi
ce l'ha venduta tutte le volte che la mungiamo.
In Europa non esiste una posizione di divieto alla coltivazione di OGM e gli Stati Membri
possono decidere se destinare parte della propria produzione agricola agli OGM. La Direttiva
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2001/18/CE stabilisce, quindi, le procedure di valutazione, valide all’interno dell’Unione
Europea, a cui devono essere sottoposte le sementi per poter essere classificate nel
Catalogo Comunitario e successivamente commercializzate all’interno dell’Unione Europea.
La Spagna è al primo posto tra i paesi europei per la coltivazione di OGM, con 75 mila ettari
di organismi geneticamente modificati, seguito dalla Francia con 22 mila ettari.
In Italia, la coltivazione di OGM è destinata ai soli scopi di ricerca – e non commerciali – con
particolare attenzione al mais (sperimentazione riprodotta nel 98% dei casi), seguito da
pomodoro (48%), barbabietola (39%), melanzana e cicoria (10%).
Tuttavia, la crescente domanda alimentare e il mancato investimento dell’Italia in ricerca e
sviluppo di varietà di mais più produttive e più adatte alle esigenze italiane fanno sì che
l’Italia diventi sempre meno autosufficiente per l’approvvigionamento di mais e soia,
alimenti che vengono, quindi, importati da paesi produttori di OGM, con conseguente rincaro
dei costi per il consumatore.
OGM e paesi in via di sviluppo
Per attenuare il diffusissimo problema della denutrizione le coltivazioni di OGM dovrebbero
raggiungere soprattutto i paesi in via di sviluppo, dove, però, gli investimenti in
biotecnologie agricole riguardano solo il 4% dei complessivi 3 miliardi di dollari investiti dalle
10 principali multinazionali nel mondo17.
I paesi in via di sviluppo dovrebbero dunque avere la possibilità di acquisire conoscenza e
sviluppare autonomamente strumenti per utilizzare gli OGM a proprio vantaggio (e non a
vantaggio del mercato dei paesi occidentali).
Ma per fare ciò occorre la volontà politica, affinché l’1% del PIL agricolo dei paesi in via di
sviluppo (e non l’attuale 0,1%) sia investito in ricerca per sviluppare OGM specifici per l’area
geografica in esame.
17 FAO, www.fao.org
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L’AGRICOLTURA SOSTENIBILE
L’agricoltura sostenibile nasce in risposta ai problemi ambientali provocati dalla “rivoluzione
verde” e dai suoi metodi produttivi ad alto impatto ambientale (intenso utilizzo di acqua, di
pesticidi e fertilizzanti chimici).
Proprio per evidenziare il contrasto tra questi due metodi produttivi, il movimento mondiale
verso l’agricoltura sostenibile è stato definito “la vera rivoluzione verde”.
Coltivare in modo sostenibile significa promuovere la biodiversità, tutelare l’ambiente,
prediligere le produzioni locali, garantire il rispetto dei diritti umani dei lavoratori, tutelare le
comunità e assicurare la sostenibilità economica del sistema agricolo senza dimenticare i
piccoli produttori.
Per poter arginare gli impatti ambientali delle moderne produzioni agricole e per poter
quindi rendere l’agricoltura più sostenibile, una delle soluzioni adottate è il ritorno ai
tradizionali metodi di coltivazione del passato, come, ad esempio, l’agricoltura biologica o
quella conservativa. Allo stesso tempo, l’incontro tra saperi tradizionali e nuove filosofie, in
un’ottica sostenibile, ha dato vita a nuove tecniche come l’agricoltura integrata e
l’agricoltura biodinamica.
Agricoltura biologica
Esistono vari metodi per poter coltivare in modo sostenibile e l’agricoltura biologica è uno di
questi: si tratta di un metodo di produzione definito e disciplinato a livello comunitario dal
Regolamento CEE 2092/9118 e a livello internazionale dall’International Federation of
Organic Agricolture Movements - IFOAM19
Il metodo di produzione biologico rispetta l’ambiente perché non ricorre a prodotti chimici di
sintesi, come pesticidi e fertilizzanti; contro i parassiti, usa invece prodotti di origine
naturale (rame, zolfo, estratti di piante) e, per fertilizzare il terreno, utilizza concimi
naturali. I prodotti dell’agricoltura biologica non sono, però, totalmente privi di residui di
prodotti chimici di sintesi, a causa della presenza nel suolo e nelle acque di inquinanti
provenienti dai campi dove queste sostanze vengono utilizzate.
18 REGOLAMENTO CEE 2092/91, http://europa.eu/ 19IFOAM, http://www.ifoam.org/
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Inoltre, l’uso di elementi presenti in natura, come il rame e i concimi, non esclude che vi sia
danno per l’ambiente, ma almeno garantisce che le sostanze introdotte siano riconosciute
dai microrganismi e biodegradate nel tempo: in natura, infatti, praticamente tutte le
sostanze possono provocare un danno ad organismi viventi, ma quello che permette di
identificare una sostanza come tossica è la dose che provoca effetti dannosi. Come diceva
Paracelso “È la dose che fa il veleno” e, finché sostanze tossiche introdotte nell’ambiente
possono essere smaltite e metabolizzate dagli organismi presenti, l’inquinamento resta
contenuto.
Altre caratteristiche proprie dell’agricoltura biologica riguardano:
� la rotazione delle colture, in questo modo, da un lato si impedisce ai parassiti di trovare
l'ambiente favorevole al loro proliferare, e dall'altro si utilizzano in modo più razionale e
meno intensivo le sostanze nutrienti del terreno;
� l’aratura superficiale;
� l’utilizzo di insetti utili per contrastare gli insetti dannosi per le coltivazioni;
� la presenza di siepi divisorie e alberi che danno ospitalità ai predatori naturali dei
parassiti e fungono da barriera fisica a possibili inquinamenti esterni;
� il ricorso ad energia proveniente da fonti rinnovabili;
� l’assenza di OGM – Organismi Geneticamente Modificati;
� la coltivazione contemporanea di piante diverse, l'una sgradita ai parassiti dell'altra.
L’agricoltura biologica non è un sistema innovativo, infatti, prima dell’invenzione dei
pesticidi e dei fertilizzanti chimici, era l’unica tipologia di coltivazione utilizzata al mondo! In
molti dei paesi del mondo in cui la “rivoluzione verde” degli anni ‘60 non è arrivata, ancora
oggi si coltiva in modo del tutto biologico! Basti pensare che l’80% dei coltivatori dei paesi
in via di sviluppo non dovrebbero cambiare in alcun modo i loro sistemi di produzione se
decidessero di essere certificati “biologici”20! Oltre che in questi paesi, che producono
biologico senza certificazione, l’agricoltura biologica a livello mondiale è praticata in oltre
20 E. MILLSTONE, T. LANG, The Atlas of food, Earthscan, London,2003, p. 56
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120 nazioni! Secondo le più recenti indagini, sono attualmente coltivati a biologico circa 31
milioni di ettari da oltre 634 mila aziende agricole.
Il continente con l’estensione maggiore di superfici coltivate a biologico, pari al 39% del
totale mondiale, è l’Oceania; al secondo posto si colloca l’Europa (23%) seguita dall’America
Latina (19%); in Asia, Nord America e Africa le superfici coltivate a biologico non sono
molto diffuse.
Le nazioni con maggiori superfici destinate al biologico sono l’Australia (con poco meno di
12 milioni di ettari), l’Argentina (3,1 milioni), la Cina (2,3 milioni), gli Stati Uniti (1,6
milioni) e l’Italia (1,07 milioni).21
Distribuzione percentuale delle produzioni biologiche per continente nel 2005
39%
23%
19%
9%
7%3%
Oceania Europa America Latina Asia Nord America Africa
Fonte: Fibl - IFOAM
21 ISMEA, Il mercato dei prodotti biologici, tendenze generali nelle principali filiere, 2007, p. 10
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Agricoltura integrata
L’agricoltura integrata si propone di garantire un minor impatto ambientale, di tutelare la
biodiversità e di ridurre i rischi per la salute dei lavoratori agricoli e dei consumatori,
riducendo al minimo l’utilizzo di sostanze chimiche di sintesi (come pesticidi e fertilizzanti) e
prediligendo, al loro posto, prodotti naturali.
Si utilizza il sistema della lotta integrata, che prevede l’utilizzo di strumenti molteplici e
combinati sapientemente fra di loro per combattere gli attacchi parassitari: metodi che
valorizzano le risorse naturali oltre che i meccanismi di regolazione degli ecosistemi e
metodi chimici sono accuratamente equilibrati. Il risultato è una riduzione (rispetto al
massimo ammesso per legge) del residuo di fitofarmaci sul prodotto che mangiamo,
assicurando un maggiore rispetto ambientale e riducendo le fonti attuali di inquinamento
agricolo dell'ambiente.
Inoltre questo sistema cerca di utilizzare l’acqua in modo razionale, previene i fenomeni
erosivi e garantisce la fertilità del suolo, praticando l’avvicendamento colturale oltre che la
pratica “sovescio” che consiste nell'interramento di apposite colture allo scopo di mantenere
o aumentare la fertilità del terreno.
Agricoltura conservativa
L'agricoltura conservativa consiste in una serie di pratiche agronomiche che permettono una
migliore gestione del suolo, limitano gli effetti negativi sulla sua composizione e struttura,
sul contenuto di sostanza organica e sul processo di erosione e conseguente degradazione.
L’agricoltura conservativa si distingue per l’utilizzo di alcune tecniche, come, ad esempio, la
semina diretta sul terreno non lavorato o lavorato al minimo e l’assenza di bruciatura o
interramento dei residui delle colture.
I vantaggi di questo sistema produttivo sono molteplici: si passa dalla riduzione del
consumo di energia, dovuto al modesto impiego di macchine agricole, alla conseguente
riduzione di emissioni di CO2 in atmosfera. Inoltre altri benefici consistono nella riduzione
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dei costi di produzione e, in un ottica etica, nella salvaguardia dell'ambiente e delle risorse
naturali per le generazioni future.22
Agricoltura biodinamica
L’agricoltura biodinamica, ispirata all’ ”antroposofia” di R. Steiner, si basa sul presupposto
che l’azienda agricola è un vero e proprio organismo vivente autosufficiente, inserito nel più
grande organismo vivente cosmico, alle cui influenze soggiace. I ritmi cosmici influenzano i
calendari di semina, coltivazione e raccolta. Le tecniche più utilizzate sono le rotazioni
agricole, i preparati biodinamici, il compostaggio, le lavorazioni non distruttive del terreno e
la concimazione di qualità attraverso i sovesci e le concimazione con compost biodinamici.
22 EUROPEAN CONSERVATION AGRICULTURE FEDERATION (ECAF), http://www.ecaf.org/
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L’ARTE DI CONSERVARE
Forse è banale ricordarlo, ma i succhi di frutta, la pasta, la marmellata, gli spinaci “4 salti in
padella”, la passata di pomodoro e i carciofini sott’olio che mettiamo nel nostro toast farcito
sono tutti prodotti agricoli che subiscono un processo di trasformazione alimentare. Alcuni di
questi prodotti vengono processati solo per essere conservati a lungo, altri subiscono un
processo di trasformazione che produce un alimento differente (dal grano alla pasta o al
pane), altri ancora invece vengono cucinati per essere facilmente preparati dal consumatore
frettoloso che non ha tempo da perdere in cucina.
L’arte della conservazione degli alimenti ha origini molto lontane: da sempre l’uomo ha
dovuto relazionarsi con la stagionalità dei prodotti alimentari e con i ritmi annuali di crescita
delle piante; da sempre ha cercato di modificare e contrastare i tempi naturali della
produzione agricola, da un lato differenziando le colture in modo da poter avere tutto l’anno
prodotti commestibili (pomodori d’inverno e cavoli d’estate), dall’altro elaborando metodi
efficaci di conservazione dei prodotti vegetali, per poterli utilizzare tutto l’anno.
Aristotele consigliava di avvolgere le mele in uno strato d’argilla per isolarle dall’aria e
quindi per farle durare più a lungo; ma nei secoli i metodi di conservazione più usati furono
quelli dell’essiccazione al sole (es. fichi o pomodori secchi), della salatura (es. capperi), e
della affumicatura con l’ausilio del fumo (tecnica utilizzata maggiormente per carne e
pesce). Altri procedimenti furono quelli a base di aceto (es. cetrioli sott’aceto) e di olio (es.
carciofi sott’olio) oppure di zucchero (es. marmellate di frutta).
Altre tecniche, come quella della fermentazione, consentirono all’uomo di inventare prodotti
come la birra o di conservare verdure come il cavolo (es. crauti)23. Non dimentichiamo poi i
frigoriferi e congelatori! Con la nascita dell’industria del freddo, che mise a disposizione i
primi frigoriferi, si ebbe la svolta decisiva nel campo della conservazione degli alimenti, che
oggi si mantengono a lungo senza che il loro sapore venga alterato.
La lavorazione del cibo, insomma, è un processo antico, ma solo con l’industrializzazione del
XIX sec, grazie ai nuovi processi tecnologici e con l’avvento dei consumi di massa, hanno
iniziato ad emergere le grandi imprese di trasformazione alimentare. Oggi sono numerose,
23 M. MONTANARI, Il cibo come cultura, Laterza, Bari, 2004, pp. 17-22
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in Italia e nel mondo, le grandi aziende dell’industria alimentare che producono pasta, pane,
biscotti, conserve e via dicendo.
Tutti i passaggi e le fasi della produzione e trasformazione industriale sono da tenere in
considerazione se si vuole avere un’idea completa degli impatti ambientali e sociali causati
dalla filiera agroalimentare nel suo insieme.
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A TAVOLA E’ ESTATE TUTTO L’ANNO – FOOD MILES
La frutta e la verdura che mangiamo ogni giorno proviene spesso da molto lontano anche se
non ne siamo consapevoli. Mangiamo meloni provenienti dal Brasile, arance provenienti
dalla Spagna, banane e ananas provenienti dal sud America.
La distanza tra il produttore e il consumatore si è estesa notevolmente da quando il
commercio mondiale di cibo è cresciuto. Il risultato è che oggi le catene di fornitura sono
lunghe e molto complesse e di conseguenza noi consumatori spesso non conosciamo la
provenienza dei cibi che mangiamo, né tanto meno gli impatti ambientali generati dal
trasporto di cibo sulle lunghe distanze. Lo sapevate che un mazzo di lattuga prodotta in
California e spedita via aereo a Londra emette circa 5 chilogrammi di anidride carbonica?
Il trasporto aereo è di sicuro il più inquinante, ogni tonnellata di prodotti trasportata via
aerea emette infatti 799 grammi di CO2 al chilometro; il trasporto via gomma ne emette
98,6 mentre quello via mare solo 13 grammi24!
Sulle nostre tavole è estate tutto l’anno, pomodori, zucchine e fragole sono prodotti
tipicamente estivi, ma noi li mangiamo anche d’inverno: li importiamo dall’altro emisfero
terrestre, dove è estate mentre da noi è inverno. Tonnellate su tonnellate di gas serra
vengono emesse indirettamente ogni anno dal consumo di frutta e verdura fuori stagione! Vi
basti pensare che la frutta e la verdura importate che una sola famiglia consuma in una
settimana percorre complessivamente distanze tali che, se sommate, equivarrebbero a
numerosi viaggi intorno all’equatore! Fate voi il calcolo!
Un chilo di.. .. trasportato in aereo.. .. emette
Lattuga Dalla California a Londra 5 kg di CO2
Asparagi Dal Cile a New York 4,7 kg di CO2
Carote Dal Sudafrica a Londra 5,5 kg di CO2
24 E. MILLSTONE, T. LANG, The Atlas of food, Earthscan, London,2003, pp. 66 - 67
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CONSUMI SOSTENIBILI
Pasta, pane, olio, caffè, tè , zucchero, conserve, frutta fresca e verdura sono tutti prodotti
agricoli che non mancano sulle nostre tavole.
In Italia i derivati dei cerali (pane e pasta), frutta e verdura, zucchero, caffè, the e olio
pesano complessivamente per circa il 38% su tutti gli acquisti agroalimentari delle
famiglie25.
Composizione della spesa domestica nazionale di prodotti agro-alimentari nel 2006
23,4%
18,2%
16,8%
14,8%
8,9%
5,7%
5,5%
3,9%2,8%
Carne, salumi, uova Latte e derivati Ortofrutta
Derivati dei cereali Ittici Bevande analcoliche
Bevande alcoliche Olio e grassi Zucchero, sale, caffè, the
Fonte: elaborazione su dati ISMEA – ACNielsen Homescan
Gli italiani sono i maggiori consumatori di pasta a livello mondiale: ognuno di noi ne
consuma in media 27 chili all'anno (il triplo rispetto agli Usa e agli altri Paesi europei); sono
invece 66 i chilogrammi di pane consumati per persona in un anno26.
25 ISMEA, Gli acquisti alimentari in Italia: tendenze recenti e nuovi profili di consumo, 2007, p. 12 26 COLDIRETTI, www.coldiretti.it
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La maggior parte del pane (55,5%) viene acquistato presso i punti della grande
distribuzione, in prevalenza nei supermercati; solo il 28% del pane viene acquistato dal
panettiere!
Anche frutta e verdura vengono acquistate prevalentemente nei supermercati,
rispettivamente il 54% e il 49%; dai fruttivendoli viene acquistato circa il 20% della frutta e
della verdura, così come al mercato, dove si acquista il 18% della frutta e il 20% della
verdura.
Il modo per rendere questi consumi più sostenibili è semplice: si tratta di piccoli
accorgimenti che possono diminuire il nostro impatto ambientale sull’ambiente. Vediamo
come.
Scegli verdura non imballata
Avete idea di quanti imballaggi alimentari finiscono nella spazzatura ogni giorno?
Provate a prestare attenzione a tutte le vaschette di frutta e verdura che buttate dopo aver
riposto il loro contenuto nel frigorifero, oppure ai sacchetti di plastica, a quelli di carta, alle
confezioni di cartone che contengono la pasta e così via.
Al supermercato, la frutta e la verdura sono spesso imballate in vaschette a volte più
voluminose e pesanti di quello che contengono! Uno spreco di risorse, in termini di energia e
materia prima, impiegate per produrre gli imballaggi che, una volta diventati rifiuto, si
trasformano in un problema da smaltire.
Provate a scegliere la verdura e la frutta meno imballate, in molti supermercati è ancora
possibile farlo, altrimenti nei mercati rionali o dal fruttivendolo potete scegliere ciò che
volete e riporlo in sacchetti di carta, evitando così di dover buttare via vaschette di plastica.
Poi, in pochi supermercati, ancora per il momento, è poi possibile acquistare prodotti sfusi,
caffè, cereali, pasta, riso, legumi, spezie, frutta secca. Ciò consente di ridurre sensibilmente
l’impatto ambientale, che oggi in Italia è generato da circa 11 milioni di tonnellate all’anno
di imballaggi destinate in gran parte a trasformarsi in rifiuti, di cui solo una parte può essere
riciclata, a patto che noi consumatori differenziamo gli imballaggi!
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Scegli prodotti dell’agricoltura sostenibile
Come abbiamo visto l’agricoltura industriale ha impatti negativi sull’ambiente: scegliere
prodotti provenienti dall’agricoltura biologica certificata, dall’agricoltura integrata,
biodinamica o conservativa è un gesto che consente di diminuire notevolmente il proprio
contributo all’inquinamento del pianeta. Se, poi, abitate in zone circondate dalle campagne,
è molto probabile che la cascina vicino a casa venda una parte di carne e ortaggi, di
produzione propria, che eccedono rispetto al fabbisogno della cascina stessa.
Evita sprechi di cibo
Ogni giorno finiscono nelle discariche italiane 4 mila tonnellate di alimenti che gli italiani
acquistano ma non consumano: il 15% del pane e della pasta e il 12% della verdura e della
frutta. Ognuno di noi in un anno butta in pattumiera circa 27 Kg di cibo commestibile e,
insieme ad esso, butta via anche più di 500 euro di spesa.
D’estate, poi, aumenta la deperibilità degli alimenti: secondo la Coldiretti un frutto su
quattro rischia di essere sprecato! Per ottimizzare la spesa e non buttare via niente, la
Coldiretti ha elaborato un vademecum con i consigli da seguire per mantenere la freschezza
della frutta e verdura acquistata dal campo, al banco del rivenditore fino alla tavola dei
consumatori.
1. Nel punto di vendita effettuate acquisti ridotti e ripetuti nel tempo e scegliete i frutti
con il giusto grado di maturazione, non appassiti; verificate l'etichettatura e preferire
le produzioni e le varietà locali che non essendo soggette a lunghi tempi di trasporto
garantiscono maggiore freschezza; preferite varietà di stagione che hanno tempi di
maturazione naturali.
2. Per quanto riguarda il trasporto, fate la spesa poco prima di recarvi a casa ed evitate
di lasciare troppo a lungo la frutta e verdura dove il sole e le alte temperature
favoriscono i processi di maturazione. Mantenete separate le confezioni delle diverse
varietà di frutta e verdura acquistate, quindi riponetele in contenitori di carta
piuttosto che in buste di plastica.
3. Tra le mura domestiche, mantenete separata la frutta e verdura che si intende
consumare a breve da quella che si intende conservare più a lungo: la prima può
essere messa in un portafrutta al buio eventualmente coperta da un tovagliolo e
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comunque lontano dai raggi del sole, mentre la seconda va posta in frigorifero, ma
lontano dalle pareti refrigeranti.
Scegli prodotti di stagione
Frutta e verdura fuori stagione sono presenti tutto l’anno sulle nostre tavole, provengono
dalle coltivazioni in serra o dall’estero: scegliere di mangiare prodotti di stagione significa
diminuire l’inquinamento prodotto dal trasporto di questi beni sulle lunghe distanze ma
anche evitare il costo energetico delle produzioni in serra.
Scegli prodotti locali o prodotti equi
I prodotti della terra che vengono da lontano, come abbiamo visto, emettono molti gas
effetto serra a causa del trasporto aereo o su gomma. Del cibo prodotto all’estero spesso
non si hanno nemmeno informazioni certe sulle condizioni dei lavoratori o sul rispetto dei
loro diritti umani: in molti casi si verificano abusi, anche qui in Italia.
Per avere garanzie sulla tutela dei diritti delle persone che, nel mondo, producono cibo
basta prediligere gli alimenti del commercio equo e solidale (Ctm Altromercato, Fair trade),
prodotti e messi in commercio nel rispetto dei diritti umani e volti ad aiutare lo sviluppo
delle comunità.
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IL POMODORO
Una vita senza pomodoro?
In Italia è ben difficile immaginare di vivere senza pomodoro! Sulla pizza, sulla pasta,
nell’insalata.. in molti dei piatti della nostra tradizione culinaria figura il pomodoro, un
vegetale appartenente alla famiglia delle Solanacee, che matura in estate e ama i climi
temperati. Il suo valore alimentare è scarso mentre è elevato il suo valore vitaminico. Infatti
il colore rosso vivace è indice della presenza del licopene e del beta carotene, precursore
della vitamina A. Il pomodoro è anche ricco in vitamina C, acido citrico e acido malico. La
coltivazione di questo ortaggio rosso, che riveste un ruolo così importante nella nostra dieta,
ha una lunga tradizione in Italia: oggi il nostro Paese figura al terzo posto nella graduatoria
mondiale per la produzione e l'esportazione.
Quanti tipi di pomodoro esistono?
Pomodori di Pachino, San Marzano, “cuore di bue”, “ciliegino”… quanti tipi di pomodoro
esistono? In Italia sono registrate 300 varietà di pomodori, mentre quelle registrate nel
mondo sono più di 1700. Solo 60 di queste sono però le tipologie commercializzate.
Pomodori a effetto serra
Come riusciamo a mangiare pomodori tutto l’anno? Semplice: li coltiviamo in serre che
simulano le condizioni di temperatura e luce della stagione estiva!
Le serre servivano un tempo per proteggere i prodotti invernali più delicati dalle gelate, ma
oggi vengono utilizzate principalmente per produrre al di là delle stagioni, le zucchine, i
fagiolini verdi e i pomodori, rendendo così possibile la loro presenza sui banchi del
supermercato tutti i giorni dell’anno! Per coltivare in serra viene utilizzata una notevole
quantità di energia per riscaldare, irrigare, illuminare e areare artificialmente. Tutte queste
azioni sono necessarie per creare le condizioni ideali per la crescita del pomodoro fuori
stagione, condizioni che in natura si verificano, d’estate, senza tutto questo spreco di
energia!
Inoltre, le serre hanno un notevole impatto sull’ambiente: considerate ad esempio le
emissioni di gas serra derivanti dai combustibili utilizzati per il riscaldamento, soprattutto
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nelle regioni del Nord, dove i consumi raggiungono valori di 40 kg/m2/anno di gasolio per
una serra utilizzata tutto l’anno.
Profumo di pomodoro
Avete mai provato ad annusare ad occhi chiusi prima un pomodoro comprato al
supermercato, magari d’inverno, e poi uno del mercato rionale o del mercato dei contadini,
acquistato nel periodo estivo? Di sicuro, nel primo caso, non avrete sentito il tipico profumo
di pomodoro che invece vi avrà colpito annusando il pomodoro estivo raccolto pochi giorni
prima! I pomodori che troviamo al supermercato, d’inverno soprattutto, vengono raccolti
ancora verdi, nelle serre dove vengono coltivati fuori stagione ( il pomodoro è un ortaggio
estivo): vengono raccolti non ancora maturi perché prima di arrivare sul banco del
supermercato devono affrontare un viaggio abbastanza lungo con diverse tappe, si parla per
questo di “catena lunga di fornitura”. Durante i giorni di viaggio, spesso su ruote, e durante
quelli di stoccaggio e distribuzione, i pomodori fanno in tempo a maturare.. e ad emettere
un sacco di CO2! I pomodori che troviamo al mercato dei contadini o al mercato rionale,
invece, sono stati raccolti d’estate, pochi giorni prima della vendita, quindi già maturi, rossi
e profumati: non hanno nemmeno affrontato un lungo viaggio perché provengono dai campi
nelle vicinanze – in questo caso si parla di “catena corta”.
Pomodori d’estate e passata d’inverno
Mangiare pomodori freschi d’inverno non è una buona idea perché non fa bene all’ambiente,
non apporta nessun beneficio alla salute e non procura nemmeno soddisfazione al palato!
Mangiare pomodori d’inverno, come abbiamo visto, significa nutrirsi di verdura fuori
stagione prodotta nelle serre che consumano molta energia ed emettono notevoli quantità
di gas serra. Mangiare pomodori fa bene alla salute perché questi ortaggi contengono una
particolare sostanza, il licopene, che combatte i radicali liberi. Ma uno studio effettuato dal
centro di scienze dell’invecchiamento dell’Università di Chieti ha dimostrato che la quantità
di licopene presente nei pomodori raccolti ancora verdi è nettamente inferiore alla quantità
della stessa sostanza presente nei pomodori cresciuti al sole e raccolti maturi! Quindi per
beneficiare delle proprietà antiossidanti del pomodoro è preferibile mangiarne d’estate!
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E d’inverno per condire la pasta usate la passata di pomodoro. Il pomodoro è un prodotto
dell’estate, il suo sapore e il suo profumo sono massimi al momento della maturazione: è
per questo che le aziende che producono la passata di pomodoro, acquistabile tutto l’anno,
utilizzano i pomodori raccolti d’estate!
Pomodori di scarto
Il pomodoro è prodotto in tutta Italia, ma in pieno campo è coltivato soprattutto in Puglia,
Campania, Emilia-Romagna, Calabria e Sicilia.
I pomodori prodotti in serra vengono raccolti quando sono poco maturi, in pratica ancora
verdi, così che, al loro arrivo sui banchi del supermercato, saranno quasi maturi e quindi
pronti alla vendita. Il consumatore è contento di trovare al supermercato il pomodoro tutti i
giorni dell’anno, anche se questo comporta meno sapore, meno bontà e meno benefici per
la salute. Quello che conta è l’aspetto, i pomodori devono essere tutti belli e quelli che non
lo sono vengono scartati. Pensate che ne vengono buttati via circa il 10% perché non adatti
a essere commercializzati. Uno spreco inutile di cibo, al quale poi bisogna aggiungere il dato
più sconvolgente: un altro 15% di pomodori non viene nemmeno raccolto perché il prezzo di
vendita è troppo basso e quindi non conviene nemmeno raccoglierli!
Conserve di pomodoro
Per avere il pomodoro a disposizione tutto l’anno, preparare delle conserve di pomodoro è
sempre stata una soluzione perfetta: come si fa ancora oggi in molte delle case italiane, si
comprano i pomodori ben maturi e, a seconda della tradizione familiare, si conservano in
vasetti di vetro interi, a pezzetti oppure dopo averli passati, stando molto attenti alla
sterilizzazione delle conserve!
A livello industriale si è iniziato a produrre concentrati, passate e pelati dopo la metà
dell’ottocento. Molte delle industrie conserviere oggi utilizzano pomodori coltivati seguendo i
principi della produzione integrata, che prevede un impiego limitato di sostanze chimiche di
sintesi, come pesticidi e fertilizzanti, che inquinano le falde acquifere e impoveriscono il
suolo.
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Schiavi del pomodoro
Un paio di anni fa venne pubblicata l’inchiesta shock del giornalista Fabrizio Gatti27 sui
braccianti stagionali in provincia di Foggia: “Sono almeno cinquemila. Forse settemila.
Nessuno ha mai fatto un censimento preciso. Tutti stranieri. Tutti sfruttati in nero.”
Il pezzo denunciava la violazione dei diritti umani di questi immigrati che lavorano nella
raccolta dei pomodori: “..è la stagione dell'oro rosso: la raccolta dei pomodori. La provincia
di Foggia è il serbatoio di quasi tutte le industrie della trasformazione di Salerno, Napoli e
Caserta. I perini cresciuti qui diventano pelati in scatola. Diventano passata. E, i meno
maturi, pomodori da insalata. Partono dal triangolo degli schiavi e finiscono nei piatti di
tutta Italia e di mezza Europa. Poi ci sono i pomodori a grappolo per la pizza.”
Sottopagati, sfruttati, picchiati, alloggiati in tuguri senza acqua e servizi igienici migliaia di
lavoratori extracomunitari lavorano in nero e nella piena violazione dei diritti umani per
raccogliere i pomodori e la verdura che mangiamo ogni giorno : “Alloggiano i loro braccianti in tuguri pericolanti, dove nemmeno i cani randagi vanno più a dormire. Senza acqua, né
luce, né igiene. Li fanno lavorare dalle sei del mattino alle dieci di sera. E li pagano, quando
pagano, quindici, venti euro al giorno. Chi protesta viene zittito a colpi di spranga.”
La manodopera immigrata è di vitale importanza per il settore agricolo, non solo in Puglia,
ma in tutta Italia, come nella provincia di Mantova, ad esempio, dove vengono prodotti i
meloni. Troppo spesso i lavoratori extracomunitari vengono fatti lavorare in nero, perché al
produttore costa molto meno: i lavoratori in questo modo non sono tutelati e spesso la
fatica nei campi, dove gli straordinari sono la regola, è causa di incidenti gravi
Lo sapevate?
• Il pomodoro è una pianta originaria dell'America e fu importata in Europa dagli spagnoli
nel secolo XVI, ma in un primo tempo fu utilizzata come pianta ornamentale da giardino,
infatti si credeva che il pomodoro fosse un frutto velenoso! Nel secolo XVIII il pomodoro
iniziò ad essere apprezzato come alimento e si diffuse nelle cucine: quando poi il
27 F. GATTI, Io schiavo in Puglia, in “L’Espresso”, 2006, www.espresso.repubblica.it
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progresso tecnologico lo permise, si iniziò la sua trasformazione e conservazione su scala
industriale.
• Dai residui della lavorazione del pomodoro è possibile ottenere materiale plastico
biodegradabile. Lo sostiene una ricerca dell' Icb-Cnr (Istituto di chimica biomolecolare-
Consiglio nazionale delle ricerche) e Itpc-Cnr (Istituto di chimica e tecnologie dei
polimeri) entrambi di Pozzuoli. Si tratta di una buona opportunità, anche in termini
ambientali, pensate a quante bucce di pomodoro vengono scartate ogni anno a seguito
della trasformazione del pomodoro fresco in passata! Per averne un’idea basta sapere
che uno stabilimento di medie dimensioni, in Italia, trasforma in una stagione, 110 mila
quintali di pomodoro fresco producendo almeno 2500 quintali di scarti (bucce e semi)!
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BIBLIOGRAFIA
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www.fao.org
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E. MILLSTONE, T. LANG, The Atlas of food, Earthscan, London, 2003
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EUROPEAN CONSERVATION AGRICULTURE FEDERATION (ECAF)
http://www.ecaf.org/italia/italiano.htm
ASSOCIAZIONE PER L’AGRICOLTURA BIODINAMICA
http://www.rudolfsteiner.it/biodinamica/agricoltura/index.html