Afghanistan, un giorno per caso di Luigina De Simone

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Io, che almeno due volte a settimana ho dormito sotto i bunker per proteggermi dai razzi lanciati in base dai criminali afghani, non posso parlare di missione di pace soprattutto perchè, a questi razzi, c'era una risposta con l'invio di mangusta, gli aerei da guerra! Io, che sono stata nelle trincee da dove si spara e si viene sparati, non posso parlare di solo missione umanitaria! Io, che ho visto quei soldati morire, non posso pensare che un colpo di fucile sia pacifico. Il vero dramma è che nessun soldato che parte sa dove va e cosa va a fare...

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LUIGINA DE SIMONE

AFGHANISTAN un giorno per caso.

Diario da Herat

ISBN eBook 978-88-6660-005-3

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Copyright © 2011 CIESSE Edizioni Design di copertina © 2011 CIESSE Edizioni Foto interno volume © 2011 Luigina De Si-mone Afghanistan, un giorno per caso. Diario da Herat di Luigina De Simone Tutti i diritti sono riservati. È vietata ogni ri-produzione, anche parziale. Le richieste per la pubblicazione e/o l’utilizzo della presente opera o di parte di essa, in un contesto che non sia la sola lettura privata, devono essere inviate a: CIESSE Edizioni Servizi editoriali Via Conselvana 151/E 35020 Maserà di Padova (PD) Telefono 049 7897910 | Fax 049 2108830 E-Mail [email protected] P.E.C. [email protected] ISBN eBook 978-88-6660-005-3 Collana LE NOSTRE GUERRE http://www.ciessedizioni.it NOTE DELL’EDITORE Quanto descritto in quest’opera corrisponde al-la realtà vissuta direttamente dall’autrice du-

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rante la sua permanenza a Herat quale soldato italiano in missione. Le zone indicate sono quel-le effettivamente esistenti. Solo i nomi, dei per-sonaggi descritti, sono da considerarsi di fanta-sia per ragioni di privacy. Ma, questo insignifi-cante particolare, nulla toglie alla reale portata dei fatti narrati.

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Dedico questo mio lavoro alle persone più im-portanti della mia vita, a loro lascio un mes-saggio d’amore e infinita gratitudine. Queste persone meravigliose sono la mia famiglia: Agata, donna instancabile e paziente, mamma amorevole e premurosa; Alfonso uomo di sani principi, stimato da tutti, papà attento e pro-tettivo; Luigi uomo forte e determinato, un fiume in piena di idee e nuove risorse, invidia-bile il suo senso creativo, fratello adorato; Me-lina donna meravigliosa, sorella e mamma che dona se stessa senza alcuna riserva; Simone e Serena i miei nipotini, Antonino il loro papà; Euplio uomo intelligente e dall’animo nobile, compagno affettuoso e comprensivo, a lui tutto il mio amore; Luigi, Domenica, Giuseppina e Alfonso i nonni.

La mia vita è bella perché ci siete tutti voi, la vostra presenza mi dona ricchezza,

il vostro esempio è il mio viaggio lungo sentieri sicuri,

mi nutro del vostro affetto e non mi sazierò mai!

Grazie! Vi voglio bene.

Ciao nonno Luigi

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BIOGRAFIA DELL’AUTORE Luigina De Simone nasce a Sant’Agata De’Goti (BN) il 31 Marzo 1980. Vive tra Bologna e Sant’Agata de’ Goti, laureata in Scienze interna-zionali e Diplomatiche il 16 Marzo 2004 con tesi in Diritto Internazionale. Nel 2005 consegue il master in sviluppo e risorse umane e nello stes-so anno parte per la scuola di reclute di Ascoli Piceno. Finito il corso verrà inviata in servizio presso la Brigata paracadutista “Folgore” a Le-gnago (VR). Viene trasferita a Bologna presso la Brigata Aeromobile e nel 2008 partecipa alla Missione ISAF in Afghanistan come addetta al Front Office, rimarrà ad Herat sei mesi. Nel 2010 decide di congedarsi e di dedicarsi alla composizione di questo libro. BIBLIOGRAFIA 2011, Afghanistan, un giorno per caso. Di-ario da Herat, CIESSE Edizioni

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Prefazione

Leggi la realtà afghana attraverso gli occhi di

una ragazza dolce e sincera, vestita di coraggio e durezza, immagina di prendere un angelo cre-sciuto nella sicurezza degli affetti più forti e ca-tapultarlo nell'inferno di un'oscura paura, avrai una rappresentazione di un mondo irreale non molto lontano dalle nostre case affettuose, ma inimmaginabilmente diverso.

La semplicità del racconto ti incanterà e ti farà emozionare come non mai, attraverso un viag-gio che pochi temerari accetterebbero di fare, in un mondo che impari ad amare.

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I ricordi, siamo noi che decidiamo quali con-servare, sono parte della nostra vita e a volte viene la voglia di scriverli in un libro, per condi-viderli con tutti, quasi si alleggerisse il peso del-la loro importanza.

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Premessa Ho raccolto pagine sparse, scritte con colori

forti e proprio quei colori hanno destato la mia attenzione, mi sono chinata e ho iniziato a rac-cogliere qualche pagina. Ne ho letta una a caso e mi ha fatto sorridere, che cosa dicesse il mio sorriso non saprei descriverlo né raccontarlo. Incuriosita, le ho raccolte tutte, o meglio tutte quelle che ho visto e le ho spillate insieme quasi a farne un libro. Le ho sfogliate infinite volte, le ho lette e rilette tanto da consumare la carta, sono stata costretta a riscriverle, non volevo che quelle storie tanto incredibili andassero perse. Storie che venivano da tanto lontano, da un luogo molto lontano da noi sia geograficamente sia culturalmente, leggevo di un popolo dalle abitudini strane, quasi inconcepibili per noi e per me stessa, ma io posso capire perché ci sono stata e ho visto. Non ho tralasciato alcun parti-colare e ora chissà quante altre persone si per-deranno tra queste righe.

Quelle pagine sono i miei pensieri e i colori forti sono le tracce indelebili nella mia mente di Herat, dell’Afghanistan, di Khadija, di tutte le bambine e donne di quella terra.

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Capitolo 1

Un quadro generale Erano le undici del mattino e ci trovavamo in

caserma Mameli dove il convoglio costituito da uomini e donne adeguatamente equipaggiati era ormai pronto a partire, destinazione Afghani-stan, città di Herat, Camp Arena. Partimmo dall’aeroporto di Bologna che per l’occasione era direttamente comunicante con la caserma Orione. L’aero civile ci lasciò negli Emirati Ara-bi ad Al Dhafra, da qui ripartimmo dopo qual-che ora e fummo trasportati con un aero milita-re il C130 pronto per l’esfiltrazione in zona ope-rativa.

Erano le 10.30 locali afghane ma il mio orolo-gio segnava le 07.00 bisognava adeguarlo al fu-so orario e portare le lancette due ore e mezza avanti. Bisognava adeguare anche il nostro oro-logio biologico, fisico e mentale di secoli indie-tro.

Sbarcammo all’aeroporto di Herat il giorno 18 aprile del 2008. Le prime operazioni da fare ri-guardarono la sistemazione del proprio posto alloggiativo, la sistemazione del materiale per-sonale e di quello in dotazione, ma soprattutto

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la familiarizzazione con il proprio posto di lavo-ro. I primi giorni servirono, dunque, per am-bientarsi al clima, al fuso orario e ai nuovi colle-ghi con i quali avremmo trascorso tutto il tem-po, sia quello lavorativo sia quello di riposo. In territorio operativo vengono concessi solo mo-menti di riposo, non si è mai disimpegnati, il li-vello di guardia è sempre alto. Si richiede un pronto impiego di tutto il personale, a livelli e con mansioni diverse, ma tutti partecipano alla protezione della base e di chi potrebbe aver bi-sogno di supporto.

Il giorno 22 aprile 2008 ci fu il cambio del comandante di RCW (Regional Command West)1, della regione ovest dell’Afghanistan, la cerimonia formalizzava il nostro mandato di sei mesi a comando della base in Herat. Un co-mando italiano, come già detto, ma la base era ed è un melting pot di nazioni: spagnoli, ameri-cani, lituani, sloveni e albanesi. All’ingresso del-la struttura sede del comando si trova, infatti, la scritta: “One Mission, Many Nations!” A indica-re proprio la cooperazione tra più nazioni, una cooperazione volta al raggiungimento di un uni-co obiettivo che è la realizzazione di una certa 1 Il territorio è diviso in cinque regioni affidate a nazioni diverse. RCN Regional Command

North affidata alla Germania la cui base si trova a Mazara e Sharif ed è formata da cinque

Provincial reconstruction team: RCW affidata all’Italia, si trova ad Herat e ha quattro PRT;

RCC Regional command capital che si trova a Kabul sotto il comando francese, non ha PRT;

RCS regional command South con i Paesi Bassi , si trova Kandahar ed ha quattro PRT; RCE

regional command east con gli USA, si trova a Bagram ed ha tredici PRT.

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stabilità in questa terra dilaniata da un conflitto silenzioso, ma che lascia dietro di sé vittime in-nocenti e fa vivere questo popolo nella povertà e nel terrore. Un obiettivo non facile da raggiun-gere, date le profonde radici che le frange e-stremiste hanno piantato in questa terra. Si tratta di un potere consolidato e gestito attra-verso forme di violenze nuove e imprevedibili alle quali gli eserciti di tutto il mondo si devono adeguare. Il nuovo VTLM (veicolo tattico legge-ro e multiruolo), per esempio, sostituisce il vec-chio VM (veicolo militare) non più un mezzo va-lido rispetto al territorio e alle nuove minacce. Il Lince è stato costruito proprio per l’impiego in ambienti desertici e per far fronte ai pericoli connessi a questo tipo di territorio. Un territo-rio caratterizzato anche dalla forte presenza dei cosiddetti IED (improvised explosive device), ordigni esplosivi improvvisati costruiti in modo rudimentale ma efficaci, anzi, possono essere anche mortali, contro ai quali il Lince si è dimo-strato un mezzo validissimo, in un primo mo-mento. Tali congegni esplosivi possono essere di vario tipo, uno di questi è il piatto di pressio-ne, ossia un innesco attivato dall’automezzo stesso se non individuato e, dunque, evitato. Il Lince monta nella parte inferiore una piastra metallica con la funzione di attenuare gli effetti dell’esplosione, la sua affidabilità è ulteriormen-

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te garantita dalla cabina realizzata in modo tale da assicurare il più possibile la protezione del personale a bordo; essa, infatti, è chiamata ca-bina salvavita. I militari chiamavano affettuo-samente il blindato “san lince” proprio perché tante volte ha salvato loro la vita, infatti, gli or-digni usati per gli attentati hanno reso inutiliz-zabile il mezzo senza conseguenze per i ragazzi al suo interno.

Si legge in un quotidiano: “Il primo attentato va in scena poco prima di

mezzanotte vicino a Pusht Rod, 20 chilometri a nord di Farah. Stavamo conducendo un'opera-zione di controllo del territorio congiunta: 11 mezzi italiani e tre dell'Ana, l'esercito afghano. L'esplosione è avvenuta mentre l'ottavo mezzo del convoglio affrontava una curva: il Lince però ha retto bene e non ci sono stati feriti. Non è ancora chiara la natura dell'ordigno, se si è trattato di una mina anticarro su cui è finita una ruota del mezzo, oppure di un Ied, un or-digno improvvisato azionato a distanza.”

Le cose però oggi sembrano cambiate vi è sta-

ta un’evoluzione forse nella progettazione degli ordigni dato che le testate giornalistiche si pre-sentano così:

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“AFGHANISTAN, IL BLINDATO LINCE NON LI HA PROTETTI. Nuovo attentato contro i soldati italiani. Uccisi quattro alpini nella zona di Farah. I militari sono caduti in un'imbosca-ta: spari dai guerriglieri dopo l'esplosione di un ordigno artigianale.”

L'imboscata fu compiuta facendo esplodere

un ordigno improvvisato, Ied, a cui seguì un at-tacco a colpi di armi da fuoco da parte di guer-riglieri. Le truppe che scortavano il convoglio reagirono all'attacco mettendo in fuga gli atten-tatori ma questo non servì ad evitare che ci fos-sero vittime, per i ragazzi a bordo del blindato “Lince”saltato in aria, non ci fu speranza di sal-vezza.

Al nove ottobre 2010 il bilancio dei militari i-taliani morti in Afghanistan, dall'inizio della missione Isaf del 2004, sale a trentaquattro e la maggior parte di loro era in un Lince saltato su di un ordigno.

Dal 23 aprile 2008 il comando di questa re-gione dell’Afghanistan passò al generale della mia Brigata, la cerimonia avvenne in presenza di personaggi importanti, autorità nazionali e locali afghane. Con il nostro arrivo iniziò, dun-que, un nuovo periodo caratterizzato sia dal proseguimento delle attività già in atto sia dalla

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programmazione di nuove e incisive attività vol-te alla difesa e al sostegno della popolazione.

La Regione RCW era formata, e lo ancora tutt’oggi, da quattro PRT (provincial recostru-tion team) quello di HERAT a comando italia-no, il PRT di FARAH a conduzione americana e qui sentì dire che sarebbe stata costruita un’altra base italiana a integrazione di quella statunitense. I lituani si trovano con il loro PRT a Chaghcharan e, infine, Qala i Naw il PRT spa-gnolo2. Oltre a queste basi, dove la presenza del-le varie nazioni nel 2008 era già consolidata, fu-rono compiute, invece, significative operazioni nella zona di Delaram nel periodo di mia per-manenza lì in Afghanistan. Si ritenne di inter-venire con un azione più incisiva in quella zona in seguito all’intensificarsi dell’azione violenta dei talebani. Inoltre Delaram rappresentava an-cora un punto strategico non controllato dalle forze ISAF, infatti a Nordest al confine con l’Iran c’è Herat dove è stata posta una base di presidio, più a sud c’è Farah, anche qui è stata creata una base e poi ancora più a sud troviamo Delaram, questi sono i tre punti cruciali per il passaggio da e per l’Iran. A ovest ai confini con il Pakistan troviamo a sud Kandahar e a nord Kabul con la sua base principale Headquarter

2 Vedi foto

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della missione ISAF. Le nostre truppe dovreb-bero supportare la popolazione e fungere da de-terrente contro azioni estreme messe in atto da criminali in queste zone cruciali ma non solo. Dico dovrebbero perché negli scontri a fuoco vengono coinvolti anche i civili, gente che, oltre a dover continuare a sottostare ai talebani, si trova anche coinvolta in una guerra che, come non è pienamente compresa da noi, non lo è nemmeno per loro. Il territorio di Delaram, co-me la maggior parte del territorio afghano, è ca-ratterizzato da lunghi tratti di deserto e da im-pervie montagne di colore nero e senza vegeta-zione, ottimi nascondigli e rifugi per i talebani. Erano frequenti, infatti, gli attacchi e le cosid-dette imboscate che venivano proprio dalle montagne. La descrizione dei paesaggi mi viene facile dato che spesso ci spostavamo in elicotte-ro il Ch-47 (elicottero da trasporto pesante in dotazione all’esercito a partire dagli anni 70) i-taliano o spagnolo e da lassù erano evidenti tut-ti i tratti particolari e pericolosi del territorio che per questi e altri motivi diventava di difficile gestione da parte delle nostre TF (task force). Le task force sono una compagnia di militari fuci-lieri che presidiano i villaggi lontani dalla base di Herat e hanno un nome dato dai ragazzi che le compongono. Ricordo le TF Demoni, Aquila e Diavoli, loro operavano cambio alternandosi nei

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territori di Bala Morghab, Shindand, Farah e Delaram. Sostavano delle settimane intere in questi posti e lì la situazione era davvero dura. Erano costretti a sistemarsi ruderi trasformati in giacigli, non c’era l’acqua per lavarsi o per cu-cinare, la sicurezza era inesistente. Capitava di accamparsi in qualche ex caserma russa dove poco era rimasto ancora in piedi. In questi vil-laggi, infatti, tra le operazioni da portare avanti c’erano anche quelle di creare delle infrastruttu-re sia per una maggiore libertà di movimento, per creare più sicurezza per i soldati stessi ma anche per un miglioramento della vita degli abi-tanti e proprio a Bala Morghab fu avviato il pro-getto per la costruzione di un ponte, un progetto che necessitava l’approvazione dei capi villaggio e le trattative con i cosiddetti Helders furono lunghe e faticose. Questi richiedevano una somma di denaro per concedere il permesso di avviare i lavori, in altre parole, grazie a questi soldi avrebbero garantito la sicurezza al mo-mento della realizzazione del ponte. Un’altra condizione riguardava l’esclusivo utilizzo di manodopera afghana, dunque altri soldi da pa-gare. L’iniziativa di investire in questa direzione nasceva dal fatto che, in tutta la regione ovest del territorio afghano, le vie di comunicazione erano e sono scarsissime, di bassa percorribili-tà. Ricordo un'unica strada asfaltata, la cosid-

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detta Ring Road, il nome sta proprio a indicare il suo percorso ad anello intorno alla regione. La funzione dell’esercito, dunque, non fu e non è solo quella di cuscinetto tra la popolazione e gli estremisti, ma anche di una vera e propria azio-ne umanitaria perché, oltre a impegnarsi in queste opere di costruzione, portò avanti azioni umanitarie attraverso la donazione di cibo, ac-qua, vestiti per bambini, medicinali e attrezza-ture ospedaliere. Al Burn Center, per esempio, furono donate apparecchiature per effettuare analisi. Ricordo anche la donazione di un trat-tore per incentivare l’agricoltura sensibilizzando alla semina dei terreni fertili, portammo un scuolabus per i bambini di un orfanotrofio della città di Herat. Tutto questo rappresentava in quel momento sicuramente solo una goccia nel mare ma, comunque, un passo avanti non tra-scurabile e chissà che in futuro grazie a queste piccole azioni le cose non cambino. Una goccia nel mare sarà parsa anche l’azione del PRT di Herat verso la popolazione, ma vitale per la pic-cola Nazifa a cui i dottori del PRT diagnostica-rono un tumore alla gola che richiedeva un in-tervento urgente. Grazie all’azione congiunta della forza armata e del comune di Bologna la piccola fu portata in Italia per essere curata. Rimase a lungo a Bologna ma attraverso delle video conferenze i parenti potevano vederla e la

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piccola riusciva a essere più serena. Al mio rien-tro in Italia ho fatto visita a Nazifa, l’ho seguita per un po’, ma oggi non so dove si trovi. Nazifa rappresenta l’impegno per garantire un futuro migliore ai bambini di quella parte del mondo. Ne ricordo tanti altri che versavano in condizio-ni gravi; come potrò mai dimenticare il viso di un bimbo che non ha nemmeno più la forza di lamentarsi per la sua sofferenza? Ogni giorno mi chiedo cosa posso fare, se non raccontarlo.

Ricordo di un ulteriore impegno che gravava su di noi ed era quello di supporto alla ricostru-zione dell’Esercito Afghano attraverso gli Ope-rational Mentoring Liaison Teams (OMLT), os-sia italiani affiancati al Comando del 207° Cor-po d’Armata dell’Afghan National Army (ANA), al Comando e ai Kandak (battaglioni) della 1ª e della 2ª Brigata del 207° Corpo con il compito, appunto, di addestrare e assistere le unità dell’Esercito Afgano. Lo stesso personale della missione ISAF veniva coinvolto in corsi volti a migliorare le nostre prestazioni, si trattava di corsi per il riconoscimento degli EOD, corsi per il primo soccorso (basic life support) e corsi per l’abilitazione del Lince.

Tutti corsi a cui ho partecipato acquisendo l’attestato ma, soprattutto, le conoscenze neces-sarie per la salvaguardia della mia vita e di quel-la degli altri e per essere compiutamente pronta

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a tutto. Il lavoro condotto dall’esercito, nel peri-odo in cui ci sono stata anch’io e quello che sta proseguendo tuttora, è un duro ma efficace la-voro di peacekeeping, che nel tempo darà i suoi frutti. Farà onore a tutti, alle troppe famiglie italiane e non, che hanno sacrificato i propri fi-gli per la pace in quella terra. Questa è la spe-ranza di tutti per far sì che quei ragazzi non se ne siano andati inutilmente.

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Capitolo II

Riflessioni del 19/04/08 ore 23.00 locali In Italia sono le nove e trenta, mamma e papà

saranno già a letto o ci andranno fra pochi mi-nuti, Luigi sarà uscito con la sua ragazza, i non-ni dormono sicuramente o forse il nonno sarà ancora seduto sul balcone in una posizione che gli consenta di essere vicino a sua moglie.

Nonna è da parecchio che non sta bene, anzi, sta tanto male.

Suo marito, nonno Luigi, si dedica a lei con la tenerezza che si prova verso un bimbo, con la gioia con cui si cura la rosa più bella del giardi-no e con l’amore di chi ha vissuto una vita in-sieme.

Mi rattrista il pensiero che questo periodo così lungo che trascorrerò qui potrebbe comportare il non rivedere più nonna perché il suo male la consuma ogni giorno. (Nonna è morta il 03 marzo 2009 e il nonno il 16/01/2011)

Melina e Simone giocano nel cortile, mi man-cano così tanto che se provo a chiudere gli occhi posso vederli. Melina è mia sorella, la chiamia-mo così, ma in realtà il suo nome di battesimo è

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Domenica come la nonna paterna, Simone è il suo figlioletto di 2 anni fatti a Maggio.

Il mio piccolo principe è anche una piccola peste e la sera va a dormire tardi per questo, nonostante l’orario, le 20.30 italiane circa, lo immagino ancora intento nei suoi giochi.

È un bimbo vivacissimo, bellissimo e intelli-gente, con i suoi occhi azzurri sa incantare chi-unque e con la sua dolcezza ti ruba il cuore.

Quando fa certe cose, come sfogliare il libro leccandosi le dita, fa impazzire, lo ha visto fare al nonno! Sa riconoscere quasi tutti gli animali, il primo animale a entrare nelle sue grazie è sta-to il pesciolino, prima di partire gliene ho com-prato uno di quelli rossi.

Appena lo ha visto avrebbe voluto prenderlo con le manine, è stata una gioia per me il suo stupore nel vedere il pesciolino nuotare nell’acqua, gli è piaciuto così tanto che ha inizia-to a baciarlo attraverso il vetro.

Era piccolissimo quando ha imparato a dare baci, è una della prime cose che ha fatto, ne ha sempre uno per tutti e lo fa con la tenerezza di un uomo.

La mia cara sorellina la immagino in cortile ad appellarsi alle sue ultime forze per tener testa a Simo con le sue esigenze e i suoi capricci. Provo con il pensiero a mandarle un po’ della mia for-za.

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Euplio3 sarà impegnato al computer o sarà davanti alla tele, in ogni caso qualcosa di tecno-logico gli starà facendo compagnia. So che è an-cora a lavoro, sta svolgendo il servizio notturno ed è una fortuna così è stato possibile sentirci via sotrin con tranquillità.

È stato emozionante sentire le sue sensazioni al momento della mia partenza, mi ha racconta-to che tornare a casa è stato triste come lo è sta-to rivedere le mie cose ogni giorno per sei mesi. Mi ha confessato che lasciarmi sulla rampa dell’aereo è stato tanto doloroso da fargli versa-re qualche lacrima. Lacrime che mi dimostrano il suo attaccamento, ma che sono state anche una ferita al cuore.

Mai avrei voluto procurare dolore alle persone a me care ma, purtroppo, con le mie scelte lo faccio spesso, la mia unica consolazione è di po-ter un giorno compensare in qualche modo.

3 Euplio è il mio compagno e il suo nome ha origine greca ma di incerta interpretazione

potrebbe, infatti, significare pieno di bene da eu + pleo oppure buon navigatore, da eu + plio, ci

tenevo a mettere questa nota perchè è stato il modo con cui ha scelto di approcciare con me.

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Capitolo III

Oscuramento totale! 18/08/08 Era buio pesto! La voce al megafono, che ci avrebbe fatto

compagnia per tutto il nostro periodo qui, dice-va che per questioni di sicurezza vigeva l’oscuramento totale.

La voce ci aveva avvisato dell’oscuramento, ma io durante il tragitto per arrivare in stanza qualcosa lo avevo già capito.

Le prime sere non riuscivo a trovare la strada per ritornare all’alloggio.

Rischiai più volte di scontrarmi con qualcuno e più volte ricordo di aver inciampato tra i sassi.

Abituarsi ai sassi fu dura! facevo una gran fa-tica a camminare, soffrii per giorni di mal di gambe fino a farci l’abitudine e non sentire più dolore.

Solo in un secondo momento capii che i sasso-lini erano indispensabili per contenere il solle-varsi della polvere, un’assidua compagnia per tutto il tempo trascorso in Camp arena, Herat, RCW, Afghanistan.