Affinchè tutto abbia fine

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Anna Maria Sdraffa, giallo È l’inverno del ‘53 e ci si appresta a trascorrere il Natale in un piccolo albergo di montagna, al confine con la Svizzera francese. Ma la mattina della vigilia, quando una bufera di neve ha isolato completamente la struttura e interrotto la linea telefonica, una donna viene ritrovata poco distante in un’auto, bloccata dalle difficili condizioni atmosferiche, semi assiderata e senza memoria,. Tutti affermano di non riconoscerla, ma qualcuno mente. La mattina di Natale la sconosciuta viene trovata morta, con la gola tagliata da parte a parte. Le indagini, condotte da un poliziotto in pensione ospite dell'albergo, scaveranno nella vita dei presenti e nei loro più intimi segreti, facendo emergere una dolorosa verità.

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In uscita il 31/3/2016 (15,50 euro)

Versione ebook in uscita tra fine aprile e inizio maggio 2016

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ANNA MARIA SDRAFFA

AFFINCHÉ TUTTO ABBIA FINE

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AFFINCHÉ TUTTO ABBIA FINE Copyright © 2016 Zerounoundici Edizioni

ISBN: 978-88-6307-973-9 Copertina: immagine Shutterstock.com

Prima edizione Marzo 2016 Stampato da

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Dedicato ai miei figli, Francesco e Giulia, inesauribile fonte di orgoglio.

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CAPITOLO I 23 dicembre 1953 – ore 14 «Credo che oggi nevicherà di nuovo» disse la signora Lentini sollevando il capo dal lavoro a maglia e sbirciando fuori dalla finestra del soggiorno. Il cielo era fitto di nubi grigie e gonfie, che si addensavano minacciose con-tro la cima del Gran San Bernardo, e una pallida luce si diffondeva sulle di-stese innevate. Milena Bergonzi annuì distrattamente, continuando a sfogliare, con aria an-noiata, la rivista che teneva sulle ginocchia. Era una bella donna bionda ed elegante, il cui aspetto contrastava con quello più dimesso e casalingo delle altre ospiti dell’albergo. «Un’altra giornata chiusa qui dentro» brontolò. «Non so proprio perché mi sono fatta convincere da mio marito a venirmi a seppellire qui, per le vacan-ze di Natale». Il signor Cojana sorrise bonariamente. Sprofondato nella poltrona accanto al camino, stava assaporando placido il fumo del suo sigaro. «Andiamo, signora, il posto non mi sembra poi così male!» commentò. «Avremo un bellissimo Natale sotto la neve!» cinguettò la signora Lentini, e, continuando a sferruzzare, alzò rapidamente gli occhi sull’albero scintil-lante che troneggiava nel soggiorno. La signora Treves, la proprietaria dell’albergo, aveva dato il meglio di sé nell’addobbare l’imponente abete. Un trionfo di sfere multicolori sfavillava al chiarore del caminetto, tra una cascata di fili d’oro e di minuscole, lucenti candeline. La signora Bergonzi non parve convinta. Girò nervosamente una pagina e protestò con voce querula. «Io domani sera voglio andare alla Messa di mezzanotte! Non è che reste-remo bloccati dalla neve?». «Speriamo di no, signora, tutti vogliamo andarci!». Era stata la signora Cojana a parlare, e suo marito si schiarì nervosamente la voce. Sembrava che non lo allettasse per nulla l’idea di uscire nel ghiaccio, la notte successiva, per raggiungere la chiesa in paese. Tuttavia non se la

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sentì di contraddire la moglie: Irene non gli avrebbe certo perdonato un’assenza alla Messa di Natale! Aspirò il fumo e lo fece uscire con un profondo respiro, sotto lo sguardo se-vero della signora Cojana. «Paolo! Non è che stai affumicando le signore?» «Ma per carità, lo lasci fumare! Lo sa come sono gli uomini…» intervenne affabile la signora Lentini. Con uno stizzoso colpo di tosse la signora Bergonzi sottolineò di non condi-videre tanta indulgenza, e Irene Cojana fulminò il marito con lo sguardo. «Voi pensate di uscire nel pomeriggio?» proseguì Olga Lentini. «Sì, sono d’accordo con la signorina Pons per andare a visitare la chiesina di San Sebastiano a Montrouge. Risale all’anno mille, e ci hanno detto che è veramente deliziosa». Irene Cojana era una gentile signora di mezza età, vestita in modo semplice ma curato, con gli occhi perennemente tristi e un mite sorriso sempre stam-pato sulle labbra. Gli altri ospiti la sorprendevano spesso a scrutare con aria assorta al di là dei vetri del soggiorno, verso le montagne, con lo sguardo perso oltre le loro ardue cime scintillanti di neve. Non parve allarmarsi quando suo marito le si rivolse preoccupato. «Ma, Irene, con questo tempo… Io pensavo proprio di starmene in albergo, oggi…». «Ma certamente, Paolo. Non è il caso che venga anche tu. Andremo io e Flora». La signora Lentini si intromise bloccando per tempo la protesta del signor Cojana. «Pensate di passare da Valpelline?» chiese. «Se facciamo in tempo» rispose Irene con aria un po’ evasiva. «Mi piacerebbe leggere qualcosa sulle antiche leggende di questa valle. La signora Beatrice mi ha detto che c’è un bel libro alla Biblioteca Comunale, giù in paese». «Leggende?!». «Sì, si tramandano molte storie di stregoneria, nei dintorni. Oh, interessan-tissime…». Un’impercettibile ironia trapelò dal sorriso della signora Cojana. Le pareva impossibile che quella gentile e scialba signora Olga fosse così interessata ai racconti di magia nera, tuttavia si offrì cortesemente di accontentarla. «Se passiamo da Valpelline, al ritorno da Montrouge, le prenderemo sicu-ramente il libro» promise, ma suo marito la interruppe protestando. «Perdiana! Come pensate di raggiungere Montrouge?». «Con la corriera naturalmente».

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«Ma non se ne parla neppure!» La neve, che era caduta abbondante fin dalla notte precedente, era già parec-chio alta, anche se il signor Treves era riuscito mantenere pulita la strada fuori, e il cielo non prometteva nulla di buono. Le previsioni trasmesse alla radio annunciavano un peggioramento per le ore successive. La signora Lentini, per quanto a malincuore, non poté che concordare. «Beh, in fondo suo marito ha ragione, signora. Non mi sembra prudente u-scire. Guardi che nuvole! E fa molto freddo» osservò un po’ delusa per il suo libro. «Ma sono soltanto le due. Prima delle sei saremo di ritorno in albergo». «Santo cielo, Irene! Ci fermiamo qui ancora per due settimane, avrai ben il tempo di andare a visitare quella dannata chiesa!». Il signor Cojana, masticando nervosamente il suo sigaro, continuò a bronto-lare contro l’insensatezza delle donne, ma sua moglie non intendeva prose-guire quella discussione. «I vostri mariti sono usciti?» chiese ancora con la sua consueta gentilezza, ma con la ferma intenzione di cambiare discorso. La signora Bergonzi abbozzò un sorriso a denti stretti. «E certo! Guido non sta fermo neppure a legarlo. Ha detto che andava a fare una passeggiata. Chissà dov’è ora…». «Che fortuna signora, avere un marito così dinamico» osservò Olga Lentini. «Il mio è in camera a dormire. Non fa che dormire, da quando siamo arriva-ti». «Beato lui» commentò il signor Cojana. Da un angolo del soggiorno si levò la vocetta un po’ infantile della timida signora Sivori: «Sapete se ci siano problemi con le linee telefoniche da queste parti? Avrei voluto telefonare a mio figlio, oggi, ma non è stato possibile». Il marito, il commissario di polizia in pensione Corrado Sivori, sollevò ap-pena il viso dal giornale nella cui lettura era sprofondato, e le si rivolse con un tono un po’ spazientito. «Ma stai tranquilla, Matilde! Chiameremo più tardi». «Lo abbiamo sentito solo una volta dopo il nostro arrivo e vorrei sapere co-me se la cava senza di noi». «Ma se la caverà benissimo» sbuffò l’ex poliziotto. Sua moglie si strinse nelle spalle. «Non lo lasciamo mai solo» si giustificò ansiosamente. «È un maschio, non sa cucinare, non sa far nulla in casa». La signora Bergonzi parlò senza alzare gli occhi dalla sua rivista.

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«Oh, certo, bisognerebbe insegnare anche ai maschi a sbrogliarsela un po’…» brontolò con voce annoiata. «Lei ha figli, signora Milena?» chiese educatamente la signora Lentini «Sì, ho un ragazzo di quindici anni che non ha voluto assolutamente seguirci fin qui, ha preferito restare a Bologna con i nonni. E sapeva quel che face-va» aggiunse con asprezza. Quindi, per pura formalità, chiese: «E lei?». La voce della signora Lentini risuonò lievemente imbarazzata. «Oh no! Noi ci siamo sposati molto tardi … Soltanto cinque anni fa». La signora Milena stava per rivolgersi a Irene Cojana, ma proprio in quel momento la signorina Pons entrò nel soggiorno coperta da capo a piedi co-me un esquimese. La signorina Pons era una donna sulla cinquantina, alta, magra e con una gran massa di capelli ancora castani. Gli occhi, verdi e dal taglio molto par-ticolare, illuminavano un volto non bello ma certo non comune. Quel giorno, a dispetto dello sguardo palesemente inquieto, sembrava alle-gra e quasi eccitata all’idea di quella piccola gita alla chiesina medioevale. Si rivolse alla signora Cojana con un largo sorriso. «È pronta Irene?». Flora Pons aveva una certa autorevolezza nei modi, che discendeva proba-bilmente dalla sua lunga esperienza come maestra elementare. E infatti la signora Cojana scattò in piedi come una scolaretta. «Eccomi qua» disse. «Mi dia solo un minuto per andare a mettere qualcosa di pesante». La signora Lentini, quando quella sera riferì al marito l’episodio, commentò che quelle due dovevano essere proprio senza cervello, e che il signor Coja-na era un santo con quella moglie che sembrava così svampita. Certo che lì per lì parve seccato. «Ma benedette donne! Dove volete andare con una giornata del genere?!» brontolò «È solo una gitarella, saremo di ritorno fra due o tre ore…» tentò di tranquil-lizzarlo la signorina Pons. «Ma non è la giornata adatta per una gitarella! Ho sentito le previsioni del tempo alla radio, è in arrivo una bufera di neve!». «Via, Paolo, non andiamo mica in capo al mondo! Prendiamo la corriera e…». «La corriera, la corriera… C’è un bel pezzo di strada prima di arrivare alla fermata della corriera». La signorina Pons cercò garbatamente di replicare, ma l’uomo ignorò la sua interruzione.

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«E poi la corriera non vi porta fino a Montrouge!» osservò ancora, nel tenta-tivo di convincerle. «Dopo che scendete dovete ancora proseguire per un po’… E se vi sorprende la burrasca quando siete per strada?». La signora Lentini, come riferì al marito, tentò timidamente di intromettersi. «Veramente, signore, penso che il signor Cojana abbia proprio ragione. È già caduta parecchia neve e se ne aspetta ancora. Mi sembra imprudente…» Poi, siccome le due donne si erano scambiate un’occhiata impaziente, ag-giunse: «Potremmo farci una partita a canasta, non è vero signora Milena?». «Potremmo farlo prima di cena, signora Olga» accondiscese educatamente la signorina Pons. «Ma ora è veramente meglio metterci in moto, se non vo-gliamo fare tardi». Il signor Cojana si arrese. Alzò gli occhi al cielo e sospirò. «Fate con calma» disse rassegnato. «Vi accompagno in macchina». La signora Lentini raccontò poi al marito che in quel momento le era parso di notare un nervoso sguardo d’intesa fra Irene Cojana e la signorina Pons. «Ma non è proprio il caso!» protestò la prima, e anche Flora tentò debol-mente di opporsi. «Non se ne parla neppure» tagliò corto il signor Cojana dirigendosi deciso verso la scala. Apparve un’espressione seccata sul volto della signorina Pons, e la signora Lentini si domandò perché mai quel passaggio in auto pareva infastidirla tanto, anziché farle piacere. Irene Cojana abbozzò un sorrisetto quasi di scusa. «Mio marito è un gran testone» disse rivolta all’amica. «Mi spiace Flora, ma non posso proprio permettere che Paolo esca. So quanto gli seccherebbe con una giornata come questa…» concluse scuotendo il capo con aria rassegna-ta. Olga Lentini si fermò di sferruzzare e rivolse loro un sorriso compiaciuto. «Vedo che siete ragionevoli, alla fine!» commentò. La signorina Pons rimase in silenzio per qualche istante. Sembrava molto delusa, ma poi sorrise a sua volta. «E va bene. Vorrà dire che andremo dopo Natale». Irene Cojana riprese posto sul divano, e la signora Lentini riabbassò gli oc-chi sul suo lavoro a maglia. Per qualche istante nessuno parlò, e si sentì solo il ticchettio dei ferri da calza e l’indolente fruscio delle pagine che Milena Bergonzi continuava a sfogliare. Tuttavia si avvertì, nella stanza, il gelido imbarazzo della signorina Pons, che ancora con sciarpa, berretto e giacca a vento, era rimasta stranamente immobile.

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«Io vado a fare una passeggiata» disse infine. «Ma cara Flora…». «Oh, non preoccupatevi» ribatté l’altra con rigida gentilezza. «Resterò nei paraggi e rientrerò ai primi fiocchi di neve». 23 dicembre 1953 – ore 23 Beatrice Treves si stava guardando allo specchio. Aveva sciolto la crocchia di capelli e se li stava spazzolando pigramente, prima di infilarsi finalmente a letto. Diego era ancora al piano di sotto, sperò che salisse presto in camera anche lui, aveva lavorato come un mulo quel giorno. Beatrice vide riflesse profonde occhiaie di stanchezza e sentì che le palpebre faticavano a restar su, ma tutto sommato si sentiva soddisfatta. Il suo piccolo albergo era abbastanza pieno e, da quando lei e Diego lo ave-vano aperto, tre anni prima, finalmente avevano prenotazioni per tutto il pe-riodo invernale. Sì, era molto faticoso. Per risparmiare avevano assunto sol-tanto una persona di servizio, oltre al vecchio Enea che si occupava dei lavo-ri più pesanti e che comunque andava solo per qualche ora al giorno. Per il resto, si occupavano di tutto personalmente lei e Diego. A Beatrice piaceva molto cucinare, e gli ospiti della pensione sembravano apprezzare le sue doti culinarie. Per le pulizie aveva assunto la giovane Pau-lette, una stagionale originaria dell’altra parte della Valle, da dove, del resto, ne venivano anche lei e Diego. Non era un granché sveglia, ma era pulita e laboriosa. Aveva perso i genitori da poco, e a Beatrice ricordava quell’altra se stessa, la ragazza che era andata a servizio in un albergo, proprio come Paulette, sentendosi sola al mondo pur senza esserlo veramente. Ma forse ora ce l’aveva davvero fatta. Lei e Diego avevano aperto “La Gen-zianella”, e quell’alberghetto tutto loro era persino al di sopra di quelle che erano state le sue più rosee speranze. Data la capacità dell’albergo, il nume-ro dei clienti era soddisfacente. Restavano libere quattro stanze, ma se tutto fosse andato per il meglio era certa che l’anno successivo sarebbe stato completo Cercò di respingere la sottile angoscia che provava nel pensare a qualcuno dei suoi ospiti. Quel napoletano, per esempio. Diceva di chiamarsi Rocco Scialò, e la preno-tazione era stata fatta con quel nome. Ma poi lui si era presentato, quella se-ra stessa, senza documenti. Glieli avevano rubati in treno aveva detto, e ave-va esibito la denuncia fatta ai carabinieri, alla stazione ferroviaria. Beh, non è comunque bello ospitare qualcuno senza documenti, cosa ne sapeva lei che si trattasse proprio di Rocco Scialò? Ma non poteva neppure rifiutarsi di o-

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spitarlo, con una serata come quella, e dopo che si era arrampicato fin lassù con l’ultima corriera. E poi c’erano i Lentini, la coppia di Ivrea. Una spina nel fianco. Lei stessa li aveva registrati al loro arrivo, ma poi, per timore che lui facesse storie, non aveva riferito a Diego quel che aveva scoperto. Certamente per Beatrice la cosa era irrilevante: lei pure si era mossa controcorrente, tanti anni fa, e ne portava ancora le cicatrici nell’anima. No, non era indignazione quello che provava, ma piuttosto una vaga paura. Non voleva avere grane, ecco, non ora che le cose sembravano andare per il verso giusto. Gli altri ospiti sembravano tutti regolari. Anche se… Sentì un brivido nella schiena, ma si sforzò di reagire. Non doveva pensarci, non ora, non in quelle vacanze di Natale così importanti per il futuro della loro attività. Si costrinse a pensare che quella parte della sua vita era chiusa, morta e sepolta, non esi-steva più. Eppure istintivamente portò la mano al collo, e come sempre pro-vò lo stesso insopportabile, disperato senso di vuoto. Cercò di cacciar via i pensieri concentrandosi sulla personalità dei suoi ospi-ti. La coppia di Genova, per esempio, i Cojana. Lui ingegnere in pensione, lei una quieta, amabile casalinga dagli occhi tristi. Eppure, nonostante quel tangibile fondo di infelicità, la moglie sembrava entusiasta del posto e da quando era arrivata, due giorni prima, non faceva che informarsi su tutto. Chiedeva il nome di ogni cima, di ogni paesino dei dintorni, di ogni chieset-ta. Il marito, invece, sembrava averla accompagnata fin lì solo per compia-cerla, non dimostrava interesse per nulla se non per il caminetto del soggior-no, e dal momento in cui era arrivato pareva che non vedesse l’ora di andar-sene. Irene Cojana aveva stretto subito amicizia con la signorina Pons, una mae-stra torinese che era arrivata il loro stesso giorno. Una zitellina, educata e discreta. A Beatrice pareva persino strana quella confidenza immediata che si era instaurata fra lei e la signora Cojana, perché a prima vista la signorina Pons non pareva incline alle amicizie. Ma non poté reprimere un piccolo moto d’orgoglio nel pensare di avere creato nel suo hotel un’atmosfera ac-cogliente e confortevole, nella quale era facile fraternizzare. E poi c’era la coppia bolognese, i Bergonzi. Lui medico, lei una bellissima, inutile creatura. Oh, un po’ stagionata, certo, ma non si poteva negare che la signora Bergonzi conservasse un discreto fascino nonostante l’età. Tuttavia nella loro coppia si intravedeva uno schema abbastanza consueto: uno dei due, in questo caso lei, gelosissimo, ancora innamorato, sempre preoccupato di non staccarsi mai dal compagno. L’altro sfuggente, e quasi infastidito da tante attenzioni.

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E infine c’era il dottor Sivori con la moglie. Beh, certamente lui le dava molta tranquillità. Era un commissario di polizia in pensione, un tipo pacifi-co, con grossi baffi su un faccione rotondo, ma dava l’idea di essere molto per bene e aveva lo sguardo scaltro e perspicace. Beatrice si domandò se non fosse il caso di chiedere consiglio a lui per la questione dei Lentini. Rifletté un istante, ma poi sentì che la cosa le ripugnava. In fondo le pareva di mette-re in piazza faccende non sue. O almeno sperava che non fossero anche su-e… Staccò dallo specchio gli occhi imbambolati dal sonno. Posò la spazzola sul tavolino da toeletta e si infilò a letto. Sperò di essere profondamente addor-mentata, quando Diego fosse salito…

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CAPITOLO II 24 dicembre 1953 – ore 9 Come previsto la neve iniziò a cadere copiosamente da metà pomeriggio del 23 dicembre, proseguì per tutta la notte e in mattinata non accennava ancora a fermarsi. Quella vigilia di Natale Diego Treves provò a uscire dall’albergo e trovò il vialetto sepolto da una pesante, candida coltre. Dovette entrare nel capanno degli attrezzi passando da una porta interna all’albergo e si munì di pala, ma dopo pochi minuti trascorsi a spalare si ritrovò trasformato in un pupazzo di neve. “Non c’è niente da fare” pensò sconsolato, “finché non smette non riuscirò a liberare il viale”. Le cime delle montagne si fondevano con il cielo in un grigio antracite che opprimeva il cuore, e si era levato il vento. I fiocchi turbinavano nell’aria, e i muretti che cintavano l’albergo erano spariti sotto il manto gelato. Gli abeti intorno sembravano affondati nella neve, e alcuni rami, carichi e bianchi, parevano sul punto di spezzarsi. Diego rientrò nell’albergo e si imbatté nel dottor Bergonzi. «Nevicata eccezionale» commentò il dottore. «Eh sì. Certo non si può proprio andare da nessuna parte!». «Voglio vedere se anche oggi riesci a fare la tua passeggiatina» lo sfidò aci-da la signora Bergonzi che si era materializzata dietro al marito. Il dottore si allungò pigramente sulla poltrona più comoda del soggiorno. «Non capisco proprio perché la cosa ti urti così tanto» brontolò prendendo un giornale e immergendosi nella lettura. La signora Lentini era già al suo posto di vedetta, accanto alla finestra, con gli immancabili ferri da calza in mano. «E così anche oggi mio marito dormirà per buona parte del pomeriggio!» sospirò. «Mia cara signora, suo marito ha ragione di essere stanco, con tutto quello che lavora!» commentò bonariamente Paolo Cojana. E aggiunse, ammiccan-do: «Non come me, che sono in pensione e non faccio nulla dalla mattina

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alla sera… Eppure sono così pigro che non metterei piede fuori dall’albergo!». La signora Lentini stava per controbattere, quando una bella voce squillante si introdusse fra i due. «Neppure io sono in pensione, ma non mi sento stanco per nulla. Mi sarebbe proprio piaciuto andare a sciare, stamattina». Era entrato un uomo, che si esprimeva con uno spiccato accento meridiona-le. Un bel tipo dalla corporatura robusta, con i capelli brizzolati e la carna-gione scura. «Lei è uno sciatore?» chiese cortesemente la signora Lentini. «Eccome! Mi sono fatto quasi mille chilometri per venire fin quassù e go-dermi qualche giorno di sci. Vengo da Napoli». «Da Napoli. Perbacco!». «È arrivato ieri sera, non è vero?» s’informò cortesemente la signora Lenti-ni. «Mi sembra di averla vista a cena». «Sì, sono arrivato sul tardi. Ho avuto una brutta avventura». «Oh, mi dispiace!». «È venuto su in macchina?» chiese il dottor Bergonzi. «Non mi pare di aver visto un’altra auto in cortile…». «No no, sono arrivato fino ad Aosta in treno, e poi fin qua con la corriera. Un viaggio lunghissimo… Ho dovuto cambiare a Roma e a Torino». «Veramente un viaggio disagiato» osservò la signora Lentini concentrata sul suo lavoro a maglia. Milena Bergonzi arricciò l’aristocratico nasetto. «Quasi incredibile pensare che abbia sopportato un viaggio così lungo per arrivare in questo posto dimenticato da Dio». «Questo posto lo trovo fantastico signora» disse gentilmente l’uomo con l’accento meridionale. «Può sembrare strano che un napoletano ami tanto la montagna, ma vede, mio padre era un carabiniere, ed era di stanza a pochi chilometri da qui, proprio al confine con la Svizzera, quando io ero bambi-no. In questi luoghi ci ho vissuto fino ai vent’anni di età». «Ma tu pensa…». «A proposito, non mi sono presentato. Mi chiamo Rocco Scialò». «Tanto piacere» dissero a turno i presenti porgendogli la mano. La signora Bergonzi sbirciò nel cestino delle riviste, ne prese distrattamente una, ma la posò poco dopo rivolgendosi al nuovo arrivato con curiosità: «Ha avuto una brutta avventura, ha detto?». «Milena!» la rimproverò il marito «Oh che c’è di male? Ne ha parlato lui stesso». Rocco Scialò sorrise.

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«Ma certo, certo… Beh, è stato molto spiacevole. Mi hanno rubato i docu-menti in treno. Li avevo nella tasca interna della giacca, e quando sono sce-so non c’erano più». «Nella tasca interna?! E come hanno fatto a prenderli dalla tasca interna?» s’intromise Olga Lentini. «Avevo appeso la giacca nello scompartimento, e durante il percorso mi so-no assentato più di una volta. In una di questa occasione devono aver agito i ladri». «C’era anche del denaro?» s’informò la signora Bergonzi preoccupata. «Non molto fortunatamente, solo quello che pensavo mi servisse durante il viaggio. Il resto era meglio custodito». «Per fortuna!». «Certo che è una grossa seccatura» chiosò il dottor Bergonzi rituffandosi nella lettura del suo giornale. La signora Cojana e Flora Pons entrarono in quel momento provenendo dal-la sala della colazione, e il signor Cojana si alzò galantemente per presentare loro il nuovo arrivato. «Abbiamo un nuovo ospite nell’albergo, il signor Rocco Scialò. Signor Scia-lò, questa è mia moglie Irene, e questa è la signorina Flora Pons, viene da Torino. Noi, come sentirà dall’accento, siamo di Genova» concluse sorri-dendo. «Oh, per carità, solo una leggera inflessione!» si schermì cortesemente il si-gnor Scialò. Fece un lievissimo baciamano a Irene, quindi si rivolse alla si-gnorina Pons. «Noi ci siamo già conosciuti, mi pare!» osservò abbozzando un inchino. Un gesto brusco di Flora fece capire che fosse contrariata per quell’accenno. Ebbe un attimo di esitazione, poi si andò a sedere accanto al fuoco. «Eh già» si limitò a dire frettolosamente. La signora Cojana sgranò gli occhi. «Vi siete già conosciuti?! E quando?». «Ieri sera, all’arrivo del signor Scialò» tagliò corto Flora. La nevicata non accennava a smettere, e il vento neppure. Dai vetri del sog-giorno si vedevano i fiocchi di neve mulinare vorticosamente, e si percepi-vano da lontano i fischi sinistri del vento. «Meno male che l’albergo è ben riscaldato» commentò un po’ mestamente la signora Cojana, osservando le nubi cariche e nere che incombevano sulle montagne. Beatrice Treves si affacciò alla porta del soggiorno. «Va tutto bene, signori?» chiese sorridendo. «Tutto bene. Nonostante questo tempo da lupi» sospirò la signora Lentini.

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«Gradite ancora del caffè?». «Grazie cara, volentieri». «Vado subito a prepararlo». «Veramente gentili, i Treves» commentò Irene Cojana. La signora Lentini stese il braccio per valutare la lunghezza del suo lavoro a maglia. Quindi brontolò scontenta: «Noi siamo al secondo caffè, e mio mari-to non è ancora sceso per la colazione». «Beh, neppure i Sivori, se è per quello!» notò Milena. «No, i Sivori sono nella saletta di lettura. Li ho visti prima». «Non legano molto con gli altri» commentò la signorina Pons. «Sono un po’ altezzosi» disse la signora Bergonzi, altezzosamente a sua vol-ta. «Ma no» osservò bonariamente Irene Cojana. «Mi sembra solo che la signo-ra Sivori sia molto timida». La signora Lentini si strinse nelle spalle. «Resta il fatto che mio marito, come al solito, è il più dormiglione». «Via, signora, sono solo le nove e mezza, e il signor Giovanni è in ferie, in fondo in fondo». Ma il signor Giovanni, in quel momento, spuntò con il suo faccione ancora assonnato dalla porta del soggiorno. «Buona giornata a tutti!» disse ignorando lo sguardo di rimprovero che la moglie gli rivolgeva. «Alla buonora» osservò lei con sarcasmo, ma gli altri ospiti lo accolsero fe-stosamente. «È arrivato proprio in tempo. La signora Beatrice ci sta preparando un buon caffè». «Ci vuole» concordò il signor Lentini. «E poi ci vuole anche una bella cola-zione». «Mangia poco che è già tardi» gli intimò brusca la moglie. «Sì, sì…» borbottò lui. E poi, con preoccupazione: «Ma avete visto che ne-vicata?». Guardò fuori, e pareva non capacitarsi che le condizioni atmosferiche fosse-ro tanto peggiorate dal giorno prima. «Eh già. Un tempo spaventoso, veramente…». «Ce la faremo ad andare alla messa di mezzanotte?» chiese ansiosamente la signora Bergonzi. «Ma come puoi pensarlo?» esclamò il marito, mentre Irene Cojana osservò cortesemente che sarebbe stato ben difficile riuscire a raggiungere il paese, quel giorno.

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Milena Bergonzi mise il solito broncio, e la signora Cojana pensò che, pro-babilmente, la messa di mezzanotte, in quella località sperduta, era per lei l’unica occasione che assomigliasse vagamente a un evento mondano. Il signor Giovanni continuava a fissare fuori: «Tutto bianco e bianco» disse. «E di qua non si vede neppure la macchina». Pareva un po’ stranito. «Quale macchina?» chiese sorpreso il dottore. «C’è una macchina in fondo al sentiero, sulla strada provinciale». «Una macchina?!». «Eh già. Di qua non si vede, ma dalla finestra della nostra camera sì». Gli altri si scambiarono un’occhiata perplessa. «Una macchina ferma?» chiese un po’ stupidamente il signor Cojana. «Sì sì, ferma in fondo alla strada e bloccata dalla neve. L’ho vista poco fa, quando mi sono alzato e ho aperto il balcone». «Ieri sera non ricordo di aver visto nessuna macchina, quando ho chiuso gli infissi» osservò sua moglie. Rocco Scialò corse alla finestra, ma come aveva detto il signor Giovanni, da quella prospettiva non si vedeva assolutamente nulla. «Potrebbe essere qualcuno in panne» disse preoccupato. «Sì, la neve ha bloccato completamente la strada» mormorò il dottore. «Salgo in camera mia per vedere» si offrì la signorina Pons. «La mia stanza è proprio accanto alla vostra». Ridiscese dopo pochi minuti e confermò. «Sì, l’ho vista anch’io, c’è una macchina scura, anche se ormai è semicoper-ta dalla neve». «Dobbiamo andare a vedere» disse il signor Cojana. «Sì, ma come usciamo di qui?». «Vai a chiamare il signor Diego, Paolo» propose Irene. Si era diffusa tra i presenti una palese agitazione. La presenza di quella mac-china preoccupava un po’ tutti. Sapevano benissimo che la sera precedente non c’era nessuna auto in fondo al viale, e non capivano come qualcuno a-vesse potuto avventurarsi fin su, lungo la strada impervia che portava alla Genzianella, con un tempo simile. Quando il commissario in pensione Sivori, al fianco della moglie, si affacciò al soggiorno, lo informarono con una certa ansia. «C’è un’auto ferma in fondo alla strada, sulla provinciale…». «Non lo trova strano?». «Ieri sera non c’era». «È un’auto che è rimasta bloccata dalla neve» sentenziò laconica la signori-na Pons. «Ma il conducente potrebbe vedersela proprio brutta, con questo freddo».

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«Non capisco. Avrebbe potuto risalire a piedi fino all’albergo». «Si affonda nella neve» osservò ancora con sufficienza la signorina Pons. «Beh, mio marito è andato a chiamare il signor Diego. Cercheranno di rag-giungere l’auto» concluse sbrigativamente la signora Cojana. Fu in quel momento che mancò la luce. Beatrice arrivò in soggiorno un po’ affannata, con le guance rosse. «Sono così spiacente» disse come se fosse colpa sua. «Non si preoccupi, possiamo farne a meno!» la consolò la signora Lentini. La proprietaria mormorò ancora qualche parola di scusa, prima di scompari-re nuovamente verso la cucina imprecando contro quella bufera di neve. «Maledetto tempaccio» brontolò il dottore. Paolo Cojana tornò dopo poco in compagnia di Diego Treves. Anche lui sembrava preoccupato. «Non so per quale ragione una macchina si sia arrampicata fin quassù, ma temo proprio che qualcuno sia nei guai» affermò con una certa apprensione. «È strano però che non si veda nessuno vicino all’auto. Non vi pare che se è in panne il conducente dovrebbe essere sceso per cercare aiuto?» domandò il signor Giovanni. «Beh, dobbiamo per forza andare a vedere» decise Diego. Il signor Cojana si alzò a malincuore. «Vengo con lei» disse. «Anch’io» aggiunse il dottore. «No, no, signori» intervenne Rocco Scialò con decisione. «Accompagno io il signor Treves. Voi restate qua, è inutile andare in troppi». Giovanni Lentini, che stava timidamente per proporsi, si fermò soddisfatto, mentre gli altri uomini avanzarono qualche debole protesta. Fu il commissario Sivori a decidere per tutti. «Andremo io e il signore qua presente con il signor Treves. Signor…?» fece rivolto a Rocco Scialò con aria interrogativa. L’altro si presentò e accondiscese. «Giustissimo. Andremo noi tre». 24 dicembre 1953 – ore 10.30 Fu molto difficile raggiungere l’auto. I tre uomini si erano muniti di pale, ma affondavano fino alle ginocchia, e la nevicata non accennava a smettere. Diego Treves affermava di non avere mai visto una simile bufera, e dire che lui fra quelle montagne c’era nato!

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Il commissario avanzava in silenzio. Era il più anziano dei tre, e si vedeva che aveva più difficoltà a procedere. Gli altri, ognuno fra sé, si chiesero più volte se fosse stata una buona idea accettare che li accompagnasse. Rocco Scialò cercava di minimizzare, ostentando un ottimismo di cui forse non era neppure convinto. Spalava con foga e cercava di incoraggiare i due compagni, ma era lui stesso molto affaticato. Il sentiero era parecchio in discesa, e, nonostante gli scarponi, più volte ri-schiarono di scivolare. Ci misero un bel po’ per aprirsi un varco nella neve e percorrere qualche centinaia di metri, ma alla fine arrivarono fino all’incrocio con la provinciale. L’auto era lì, ormai quasi completamente ricoperta da una spessa coltre, e con le ruote affondate. I tre uomini si guardarono intorno, ma non videro nessuno. Senza parlare si misero a ripulire i vetri per poter guardare dentro, e, quando riuscirono fi-nalmente a vedere oltre il finestrino, a tutti e tre sfuggì un gridò soffocato: nell’abitacolo c’era una donna. Quando ne parlarono più tardi, confermarono di aver avuto tutti la stessa impressione, e cioè che la poveretta fosse morta assiderata. Era seduta al po-sto di guida, immobile e con gli occhi sbarrati. Era avvolta in un plaid, di quelli scozzesi che si usava tenere nelle auto negli anni ’50, ma non aveva giacca a vento né cappotto, soltanto un maglione e sopra un grembiulone di tela grezza. Quando vide i tre uomini si scosse leggermente, posando su di loro uno sguardo vuoto. Lo sportello dell’auto fortunatamente non era stato bloccato dall’interno, e riuscirono facilmente ad aprirlo. Diego tirò fuori la donna, che si accasciò come un sacco fra le sue braccia. I tre uomini non scambiarono alcuna parola. Rocco Scialò si tolse la giacca a vento e Diego la sciarpa e la ricoprirono alla meglio, poi Diego la sollevò e portandola in braccio tornò verso il viale. La salita fu più veloce poiché il sentiero era stato ripulito, ma altrettanto dif-ficoltosa per il rischio di scivolare. Avanzarono lentamente, e a metà strada Scialò offrì a Treves di portare egli stesso la sconosciuta per l’ultimo tratto. Il commissario Sivori procedeva davanti a loro, in un silenzio irreale, tra i fiocchi di neve che turbinavano in-cessantemente, e il vento che tagliava loro la faccia. Nonostante la relativa brevità del percorso, quando entrarono nella hall dell’albergo erano stremati.

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Gli altri corsero loro incontro e Beatrice, con la sua consueta praticità, si precipitò in cucina a prendere del te caldo che aveva già opportunamente preparato. La sconosciuta venne fatta stendere su un divano, e tutti le si accalcarono attorno. Il dottore assunse immediatamente il suo ruolo. Ordinò agli altri di allonta-narsi e a sua moglie di andare a prendere delle coperte. La donna aveva le pupille dilatate e la pelle secca, ed era in uno stato di se-mi-incoscienza. Il dottore le coprì il capo con un berretto di lana, quindi le misurò la temperatura corporea. Il normale termometro non si mosse, e que-sto fece dedurre che fosse ben al di sotto dei 34°. Del resto l’assenza di bri-vidi faceva ipotizzare una temperatura addirittura inferiore ai 32°. Guido si rivolse a Beatrice: «Bisogna chiamare un’ambulanza. È uno stato di ipotermia». «Un’ambulanza non riuscirà ad arrivare fin qui» osservò Diego. «Preferirei tentare» insistette il dottore. «Temo complicazioni cardiache». Mentre Flora accompagnava la signora Bergonzi a recuperare coperte e piumini per scaldare la sconosciuta, Beatrice si diresse all’unico telefono dell’albergo, nell’ufficio. Ma tornò dopo pochi istanti sconsolata. «Non c’è linea» annunciò. «La tempesta deve averla interrotta». Il dottore alzò gli occhi al cielo. Coprì la donna con tutte le coperte che gli furono portate e le mise ancora una sciarpa intorno al collo, stando tuttavia ben attento a non coprirle il volto. «Non posso fare nient’altro» disse. Si oppose a che venisse trasportata accanto al caminetto perché un riscalda-mento troppo rapido poteva causare aritmie, e anche che le venisse strofinata la pelle. Cercò solo di procurarle un innalzamento graduale della temperatu-ra e, soltanto quando la donna ebbe riacquistato un grado maggiore di co-scienza, le fece somministrare del latte caldo. Dopo un po’ si attenuò finalmente la rigidità delle membra della sconosciuta e, per quanto lo sguardo restasse assente, perse quella completa, inquietante vacuità che aveva mantenuto fino a quel momento. Gli ospiti dell’albergo la fissavano ammutoliti. Si erano tenuti a debita di-stanza, così come richiesto dal dottore, pur restando pronti a dare una mano se necessario. Ora scrutavano ansiosamente la donna, in attesa di un cenno che spiegasse loro come aveva potuto trovarsi vicino all’albergo e dentro a quell’auto. Diego Treves, che l’aveva soccorsa per primo, sembrava ora svuotato da ogni energia. Spiegò poi che aveva temuto che la donna morisse, e forse per questo aveva gli occhi stralunati e un notevole pallore che si intravedeva sot-

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to la barba rada. Sua moglie gli prese la mano e gliela strinse, ma la sentì fredda e inerme. Quando la sconosciuta sbatté finalmente le palpebre, qualcuno si lasciò an-dare a un’esclamazione di sollievo. Tutti la osservarono con curiosità, cercando in lei qualche tratto familiare. Era una donna sui quarantacinque anni, snella, dai lineamenti un po’ sciupati che rivelavano tuttavia tracce di una passata bellezza. Si domandarono l’un l’altro se qualcuno la riconoscesse, ma pareva che a nessuno di loro ricordasse nulla. «Neppure voi la conoscete?» chiesero ai proprietari dell’albergo. Diego scosse il capo. «No. Non è del paese, non mi pare». «E poi noi non siamo di queste parti. Siamo arrivati soltanto tre anni fa» ag-giunse Beatrice. La donna muoveva gli occhi tuttora vuoti posandoli sull’uno e sull’altro. Non pareva completamente in sé e pronunciò, con un tono di voce bassissi-mo, alcune frasi incomprensibili. Il dottore si chinò su di lei nel tentativo di afferrare qualche parola, ma poi scosse la testa e si volse verso Beatrice. «Mi sembra patois valdostano» disse. I proprietari dell’albergo si avvicinarono ulteriormente e confermarono la sensazione del dottore. «Sì, è patois» disse Diego. «Ma non mi è chiaro quello che sta dicendo». «Da un paese all’altro ci sono grosse differenze nel nostro dialetto» spiegò Beatrice. «Mi sembra solo che stia chiedendo aiuto. Questo sì». La sconosciuta sgranò gli occhi. Li aveva grandi e azzurri, come quelli di una bambola di porcellana. Sembrò mettere a fuoco solo in quel momento le facce delle persone che la circondavano, perché lo sguardo divenne più at-tento, concentrato, salvo poi assumere un’espressione impaurita. Fu allora che deglutì, lanciò un’occhiata inquieta tutt’attorno e pronunciò ancora qualcosa di incomprensibile. Ma poi disse distintamente: «Berti». E contemporaneamente grosse lacrime iniziarono a solcarle le guance screpo-late. «Berti?». «Ha detto Berti?». «Sì, Berti. Non sta dicendo nient’altro». Beatrice si sedette accanto a lei e le domandò quale fosse il suo nome. La donna fece un gesto sconsolato e ripeté con voce accorata: «Berti». «Il suo cognome è Berti, signora? E il suo nome?». La sconosciuta scosse ancora il capo.

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La signora Sivori, che fino a quel momento era rimasta silenziosamente ac-canto al marito, si avvicinò alla donna e le accarezzò una mano con delica-tezza. «Non vuole dirci come si chiama, signora? E come è capitata fin qui?». E l’altra pronunciò finalmente la sua prima frase completa in italiano: «Io non lo so» mormorò con voce angosciata. «Io non so come mi chiamo». Quindi, mentre lo sguardo sofferente si posava dall’uno all’altro, lanciò un grido strozzato: «Perché sono qui? Chi siete voi?». «Che facciamo?» chiese Diego sconsolatamente. Beatrice si strinse nelle spalle. «Che vuoi fare? Il telefono è isolato, la strada interrotta dalla neve. Le dia-mo una camera e la mettiamo a letto». «Mi sembra un’ottima idea» approvò il commissario. «Non aveva una borsa?» chiese la signora Lentini. «Non abbiamo proprio pensato a guardarci» ammise Rocco Scialò. «L’importante in quel momento era trarla in salvo». L’espressione del commissario era mortificata. «Non abbiamo neppure cercato se nella macchina ci fossero dei documenti» si scusò con rammarico. «D’altra parte ha ragione il signor Scialò. Avevamo altro a cui pensare, in quel momento». «Possiamo sempre tornare giù quando smette di nevicare» osservò il signor Cojana, e gli altri annuirono. «Ma è inutile farlo ora. Anche se riuscissimo a individuare chi sia questa donna non siamo in grado di avvisare nessuno». «Speriamo che si sbrighino a riparare la linea telefonica». «Ne dubito. Con questo tempo chi vuole che mandino?». Si ricordarono in quel momento che era mancata anche la luce, e in monta-gna, d’inverno, il buio scende presto. La signora Bergonzi ebbe un brivido: «Senza telefono e senza luce» mormo-rò. «Vado a prendere delle candele, così le abbiamo pronte» disse Beatrice diri-gendosi verso la dispensa. La sconosciuta era ancora stesa sul divano, e il suo sguardo vagava da un lato all’altro della stanza. Non era più vuoto, ma piuttosto spaventato. La signora Cojana se ne accorse e si sedette accanto a lei prendendole una mano. «Poverina!» esclamò. «Non si preoccupi cara, sicuramente questa amnesia è temporanea, non è vero dottore?». Bergonzi annuì con un cenno, confermando che l’ipotesi era plausibile.

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«Certo si è spaventata. Trovarsi in mezzo alla neve, forse di notte … Questo spiegherebbe lo stato di choc e la conseguente perdita della memoria». «Ma chissà cosa ci faceva sola, in un’auto, e perché è venuta fin quassù? Cosa ne pensa Flora?». «Non ne ho la più pallida idea» rispose la signorina Pons. «E lei, signora Olga?». Solo allora si accorsero della strana espressione dipinta sul volto della signo-ra Lentini. Fissava la sconosciuta come se fosse lei stessa in trance. «Signora Olga?». La signora Lentini sembrò scuotersi: «Prego?». «Dicevo: secondo lei cos’è successo? Questa povera signora che capita fin qui, la vigilia di Natale, con abiti da casa…?». «Non saprei proprio» rispose con aria assorta. Ma poi si rivolse a suo mari-to: «E tu, Giovanni, hai qualche idea?». Il signor Lentini allargò le braccia in segno di impotenza. «Nessuna» ammise desolato. «Ma tu la conosci questa donna?» insistette sua moglie. «Io?! Ma come ti viene in mente che possa conoscerla? Siamo qua da tre giorni e non sono quasi uscito dall’albergo!». «Pare proprio che nessuno l’abbia mai vista» sospirò Beatrice che rientrava in quel momento con una scatola di candele in mano. Quindi si rivolse alla cameriera che aveva fatto capolino in quel momento. «E a te, Paulette, ricorda nulla?» domandò. La ragazza avanzò di qualche passo all’interno del soggiorno, guardandoli sbalordita, e poi fissò la sconosciuta stesa sul divano. «E chi è quella signora?». «L’abbiamo trovata sulla strada, appena fuori dal sentiero. Era semiassidera-ta» spiegò brevemente Beatrice. «Oh mio Dio» mormorò la ragazza Beatrice insistette: «Ma tu la conosci? Guardala bene. Ha perso la memo-ria». Paulette era impallidita: «No. Non mi pare. Lei sa che non sono di queste parti, signora». «Bene» concluse l’altra. «Hai finito di fare le camere?». «Proprio ora». «Allora vai su e guarda se la 19 è in ordine. Le daremo una stanza. Per ora non possiamo fare altro».

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24 dicembre 1953 – ore 15 La giornata proseguì in un’atmosfera surreale. Beatrice era riuscita a mettere insieme un buon pasto nonostante gli avvenimenti della giornata, ma quasi tutti mangiarono poco e malvolentieri. La vicenda della sconosciuta senza memoria pareva assorbirli completamente. Dopo il pranzo si riunirono di nuovo in soggiorno. La neve cadeva ancora incessantemente, ma il vento era calato e un silenzio innaturale avvolgeva il paesaggio. Il mondo esterno sembrava sprofondare in quella candida distesa gelata. La signora Lentini aveva ripreso il suo eterno lavoro a maglia, e anche la si-gnora Cojana aveva tirato furi dalla borsa lana e uncinetto. Il signor Cojana si era acceso il solito sigaro che fumava come di consueto accanto al cami-no. Appariva molto pallido e scosso. «Tutto bene signor Cojana?» chiese la mite signora Sivori sorseggiando il suo caffè. «Oh sì, certo» fece lui con scarsa convinzione. «Questa storia ci ha sconvolti un po’ tutti» osservò il dottore. «È una gran seccatura!». La signora Cojana gli gettò un’occhiata malevola accennando alla scono-sciuta, che se ne stava nuovamente stesa sul divano a fissare gli altri con i suoi soliti occhi inquieti. Aveva bevuto un po’ di brodo e stava lentamente tornando alla normalità per quanto riguardava lo stato fisico, ma nulla pareva ancora emergere dalla sua memoria. Beatrice le aveva proposto di coricarsi nella stanza che le aveva assegnato, ma lei sembrava spaventatissima all’idea di restare da sola. Flora Pons si era portata in soggiorno un libro, ma ora giaceva sulle sue gi-nocchia e pareva che non avesse alcuna intenzione di leggerlo. Sembrava piuttosto persa in una miriade di pensieri. Soltanto il signor Scialò cercava, con scarso successo, di tenere viva la conversazione con qualche argomento di attualità, ma era chiaro che gli altri compivano un grosso sforzo nel tenta-tivo di intervenire per quel minimo che la buona educazione esigeva. «Almeno ci fosse un po’ di radio!» sbottò a un tratto la signora Bergonzi. «Sai che è mancata la luce» brontolò il dottore. «Dio mio, non mi ci far pensare. Fra un’ora è buio. Che bella vigilia di Nata-le!» e lanciò uno sguardo rammaricato al grosso albero in un angolo del soggiorno, che era destinato a rimanere tristemente spento. Come se avesse percepito le paure della signora Bergonzi, Beatrice compar-ve nel salone di lì a pochi minuti. Aveva in mano un cestino con alcune bu-gie portacandele. «Cominciamo ad attrezzarci» annunciò con forzata allegria.

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Si avvicinò alla mensola del caminetto, dove prima di pranzo aveva posato una scatola di candele, e ne mise due in un candelabro. Poi si diresse verso un piccolo tavolino accanto al divano dove era stesa la sconosciuta, con l’evidente intenzione di piazzare anche lì una bugia. Ma mentre era china sul tavolino, qualcosa la bloccò. «Ha caldo?» chiese bruscamente alla donna. Le sue gote si erano infatti improvvisamente arrossate, e Beatrice vide che si era sbottonata i bottoni più in alto del maglione. Il dottore credette di capire. «È una reazione abbastanza normale» spiegò. «Spesso, dopo uno stato di i-potermia, interviene un rossore al volto e una sensazione di caldo». Beatrice si avvicinò ancor di più alla sconosciuta, e si chinò su di lei. Pareva fortemente interessata al decolté della donna, che era emerso, vagamente chiazzato di rosso, dallo scollo del maglione. Allungò una mano per prendere qualcosa. «E questo cos’è?» domandò L’altra si portò essa stessa la mano al collo. «Io … io non lo so». Milena si avvicinò curiosa. «Una catenina con un ciondolo» osservò. Beatrice fissava il monile d’oro con una strana curiosità. «Sono due lettere intrecciate» disse ancora la signora Bergonzi. «Sembrano una C e una B». «Una C e una B» ripeté la signora Lentini con aria assorta. «Forse sono le sue iniziali» fece speranzosa la signora Cojana. Rocco Scialò si rivolse gentilmente alla sconosciuta. «Sono le sue iniziali, signora?» le chiese, ma l’altra pareva più che mai con-fusa. «Io… non lo so» ripeté desolata. Il commissario si avvicinò e si sedette accanto a lei. «Faccia un tentativo per ricordare, signora» la esortò pazientemente. «C e B. Non le dicono nulla?». Il dottore intervenne con una certa veemenza. «Non la tormentate! È perfettamente inutile…». La donna sollevò su di lui uno sguardo angosciato. La fronte si aggrottò lie-vemente, come nello sforzo di mettere a fuoco i pensieri, ma poi l’espressione tornò mesta e vuota. «Berti» ripeté ancora una volta «È il suo cognome!» esplose la signora Lentini con insolita veemenza. Il marito le lanciò un’occhiata di traverso.

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«È il suo cognome, cara?» provò la signora Sivori. La sconosciuta scosse il capo. «Non lo so» mormorò appena. «E allora perché continua a ripetere Berti? Che vuol dire Berti?» insistette pacatamente la signora Cojana. «Non lo so» ripeté la donna sul punto di piangere. «So solo che è un ricordo che tenta di affiorare e non ci riesce. A tratti mi sembra di acchiapparlo, ma poi è nuovamente inghiottito dal buio». Deglutì per trattenere un singhiozzo, quindi proseguì con voce affievolita: «Provo solo paura e confusione. È doloroso, molto doloroso». La signorina Pons si alzò di scatto dalla sua sedia e il libro cadde a terra. «Lasciatela in pace!» esclamò quasi con violenza. Poi parve riprendersi e proseguì con calma: «Non ricorda nulla. Non sa nulla. È inutile. Domani forse recupererà la memoria». «È possibile» ammise il dottore. Ma in quel momento la sconosciuta alzò gli occhi, quindi portò le mani sul volto a coprirlo, lanciando un piccolo grido. Il dottore fu accanto a lei in un attimo. «Che c’è? Allora?». «Non lo so. Non lo so!» urlò la donna, e poi fu scossa da un irrefrenabile pianto. Il tranquillo signor Lentini le si avvicinò con fare amichevole. «Stia calma, signora! Non c’è motivo…». Si sedette accanto alla donna e stava per prenderle una mano, ma in quell’attimo si udì un gridolino di disappunto e un lieve tintinnio. Tutti si voltarono verso la signora Lentini. Le era caduto il lavoro a maglia e lei pareva disperata. «Ho perso i punti!» disse con stizza. «Posso aiutarla?» si offrì la signorina Pons. Suo marito reagì con insolita irritazione. «Ma che t’importa dei punti! Sempre attaccata a quei dannati ferri…». Olga sembrava sul punto di piangere. Inghiottì il groppo che le chiudeva la gola e si rivolse alla signorina Pons. «Guardi» disse desolata mostrandole il lavoro a maglia. «Qui si è impigliato nel ferro, e guardi come è andato giù». «Lo tireremo su con l’uncinetto» suggerì Flora. «Può imprestarcelo Irene?». Beatrice era rimasta immobile accanto al tavolino, e continuava a fissare il collo della sconosciuta. Il dottore si accorse della sua espressione attenta. «Riconosce quel ciondolo, signora Beatrice?».

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Non ottenendo risposta si chinò egli stesso sulla collanina e la prese tra le mani. «È molto particolare» osservò. Qualcuno ebbe la netta impressione che un lampo di sorpresa gli attraversasse lo sguardo. «Sì» gli fece eco sua moglie. «Ti dice nulla?». Il dottore esaminò con cura il piccolo gioiello, trattenendolo a lungo fra le dita. «Lo hai già visto?» ripeté Milena. Guido sollevò il capo, restò pensieroso per qualche istante, ma poi lasciò andare il ciondolo che ricadde sul seno della sconosciuta. «No. No. Mi pare di no» mormorò infine.

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CAPITOLO III 25 dicembre 1953 – ore 3 I vecchi cardini cedettero per la violenta spallata, e la porta si aprì all’improvviso. Entrò con loro un vento gelido. Si esprimevano in una lin-gua dura che lei non capiva, ma ogni parola suonava come una terrificante minaccia. Non le chiesero nulla, ma con un calcio la cacciarono a terra e si diressero decisi verso la scala che conduceva in cantina. Lei ne vedeva solo i grossi stivali di cuoio: quanti erano? In quanti erano arrivati? I loro passi, pesanti e cadenzati, scanditi dal loro ignoto e spaventoso parlare, si ripercuotevano contro il legno morbido degli scalini. Nelle sue orecchie echeggiò un breve pianto, e poi un urlo agghiacciante… Flora Pons spalancò gli occhi. Tremava, e un sudore ghiacciato le imperlava il volto e le appiccicava la camicia da notte alla pelle. Per un attimo restò sospesa tra il sogno e la realtà, consapevole di essere sveglia ma non di gia-cere al sicuro nel letto. La paura si era trasformata in dolore fisico, come se mille aghi le penetrassero la carne. Infine fu del tutto cosciente. Ancora quel maledetto incubo! Quando se ne sarebbe liberata? 25 dicembre 1953 – ore 5 Beatrice Treves desiderava che nulla rovinasse il suo pranzo di Natale. Ci aveva lavorato parecchio, ma ancora molto restava da fare. Doveva essere un capolavoro della tradizione valdostana, con qualche omaggio alle regioni di provenienza degli ospiti. Antipasto di mocetta con crostini al miele, lardo con castagne caramellate, fonduta con tartufo, zuppa valdostana, salsiccia, carbonata e caffè alle mandorle. Ma anche lingua in salsa verde, cappelletti in brodo, pandolce genovese e struffoli alla napoletana. Questi ultimi erano stati i più difficili per lei, ma sapendo di avere un ospite napoletano si era data ben daffare a cercare la ricetta, e alla fine l’aveva tro-vata su una rivista di cucina.

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Era un po’ dispiaciuta perché il signor Scialò aveva detto che dalle sue parti il cenone si fa alla vigilia di Natale. Lei a dire il vero avrebbe avuto in pro-gramma qualcosa di speciale anche per la vigilia, ma quella storia della sco-nosciuta senza memoria e quelle disastrose condizioni atmosferiche avevano fatto saltare ogni suo piano. La cena della sera precedente era stata un po’ sottotono, per quanto proprio quel buon signor Scialò si fosse sforzato in ogni modo per tenere alto il mo-rale. Beatrice si vergognava persino di aver dubitato di lui quando si era pre-sentato senza documenti. Pensò di essersi sbagliata, si trattava di un vero si-gnore. In quanto al resto… Insomma, la storia della sconosciuta era incredibile, ma quella del ciondolo era veramente pazzesca, non c’era altro modo per defi-nirla. Beatrice sentì ancora la dolorosa fitta al cuore che la coglieva ogni volta che pensava a Carlo. Perché non riusciva a dimenticare? Perché? Provava quasi rabbia con se stessa. Erano passati diciotto anni! Basta, si disse. Devo pensare al mio pranzo. Allungò una mano per svegliare suo marito, ma si rese conto in quel momento che il posto accanto a lei era vuoto. Povero Diego che era già al lavoro! Tirò istintivamente la pera della luce che penzolava nel mezzo della tastiera del letto. Nulla. Aveva dimenticato che non c’era elettricità, e chissà quando l’avrebbero ripristinata. Per non parlare della linea telefonica. Ci voleva tutta che ci arrivassero, i fili del telefono, fra quelle montagne sperdute! Beatrice buttò le gambe fuori dal letto, e un freddo pungente l’aggredì. Si avvolse in uno scialle di lana e aprì la finestra per spingere gli scuri. Il buio era fitto, ma si vedeva bene che stava ancora nevicando copiosamente. Un senso di angoscia la colse: erano completamente isolati. 25 dicembre 1953 – ore 8.30 La signora Cojana imburrò con cura la fetta di pane di segale prima di ad-dentarla delicatamente. «Allora Flora, non mi ha ancora detto cosa pensa di tutta questa storia». «Non ho veramente alcuna idea». «Come può averne, Irene?» intervenne il signor Cojana. «Nessuno sa chi sia quella donna». «Ma perché sarà arrivata proprio qui?» insistette la signora Cojana sorseg-giando il suo caffelatte.

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«La cosa più triste è che qualcuno in questo momento la starà cercando. E noi non siamo in grado di avvisare nessuno» osservò mestamente il signor Scialò. La signora Lentini coprì abbondantemente di marmellata la sua fetta di pane e la tuffò quasi rabbiosamente nel latte. «Io non credo che qualcuno la cerchi» dichiarò con un pizzico di cattiveria. «E come fai a dirlo?» chiese sorpreso il signor Lentini. «Non lo so» rispose sua moglie col tono di chi invece sa benissimo quel che dice. «Lei ha idea di chi possa essere quella donna?» domandò con un certo stu-pore il dottor Bergonzi. «No. Ma mi sembra una che è meglio perderla che trovarla!». La signora Cojana non nascose un moto di sorpresa. «Ma signora Olga, a me sembra una donna così… così semplice, così spa-ventata… Lei pensa che abbia fatto qualcosa di male?». «Ma non lo pensa assolutamente!» sbottò il signor Lentini. «Mia moglie è sempre talmente umorale!» aggiunse rivolgendosi agli altri con un sorrisino volto a sdrammatizzare. Milena Bergonzi alzò sugli altri la sua vocetta un po’ stridula. «Io invece credo che la signora Olga abbia ragione. Che strana donna, an-darsene così, in macchina, da sola, la vigilia di Natale! E senza neppure un cappotto addosso…». «Forse stava scappando… forse è stata aggredita…» suggerì il signor Scialò. «Una donna che guida l’auto…» brontolò disgustata la signora Lentini. «Più che altro è piuttosto strano, in queste valli». «È vero, anche se diverse donne hanno imparato a guidare in tempo di guer-ra. Specie nei posti dove non è semplice muoversi da un paese l’altro» os-servò Guido. La signora Cojana annuì, con tono gentile e con il suo solito sguardo triste. «A me sembra solo una povera donna sfortunata. Speriamo che si ripren-da!». «L’apparenza a volte inganna, cara Irene». Era stata la signorina Pons a parlare. La sua voce era quieta e incolore, ma gli altri la guardarono sorpresi. «Allora lei ha una sua opinione in proposito, signorina Pons» osservò quasi divertito il signor Scialò, ma Flora Pons aveva ripreso la sua aria controllata e sicura di sé. «Assolutamente no» affermò decisa. «Ho solo detto che non si può giudicare dalle apparenze».

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La signora Bergonzi si inserì enfaticamente: «Io non so quali siano le vostre opinioni. La mia è che dobbiamo andarcene da qui. È una vacanza disastro-sa. Non fa che nevicare, la strada è interrotta e non si riesce neppure a uscire dalla porta d’ingresso, stiamo facendo colazione a lume di candela, la linea telefonica è caduta e abbiamo una pazza in albergo!». «Milena, ti prego» intervenne seccato il dottore. «Che terribile Natale! Io voglio tornarmene a Bologna!». «Non sarebbe possibile neppure volendo» osservò il marito controllando la propria ira. «Non ho ancora capito perché sei voluto venire qui, quest’anno». «Ma lo sai, che diamine! Ho lavorato qui tanti anni fa, e mi faceva piacere tornare». La signora Cojana colse la palla al balzo per stemperare la tensione. «Lei ha lavorato qui, dottore?». «Sì. Beh, non in questa valle. A una cinquantina di chilometri. Ero laureato da poco, e mi hanno dato una condotta da queste parti». «Davvero?!». «Sì. Me ne sono andato diciotto anni fa. E non ero più tornato in Val d’Aosta da allora». «Ed era meglio continuare a non tornarci» commentò acida sua moglie. Il signor Cojana posò il tovagliolo sul tavolo e si alzò, con gesti lenti. «Io la penso come la signora Milena. Era meglio non tornarci, da queste par-ti». Cercò nella tasca la sua scatola di sigari. «Se volete scusarmi…» disse educatamente, e si diresse verso il soggiorno. L’uscita del signor Cojana e il battibecco tra i Bergonzi avevano provocato un lieve imbarazzo fra i presenti, e la signora Irene si sentì in dovere di scu-sarsi. «Ma… non capisco. Probabilmente la vicenda di quella signora lo ha molto turbato» mormorò un po’ confusa. «Forse al signor Cojana non piace la montagna …» accennò garbatamente la signorina Pons. La signora Irene restò un attimo pensierosa. «No, non direi… Mio marito ama molto la montagna. Però è certo che non aveva una gran voglia di venire a passare una vacanza qui. L’ho un po’ co-stretto. Sì, devo ammetterlo. Ho insistito così tanto…». «Beh, signora Irene, lei non poteva certo prevedere questo spiacevole episo-dio» disse gentile la signora Lentini, e suo marito si affrettò ad aggiungere che di sicuro tutto si sarebbe risolto al più presto. Il signor Scialò, come sua abitudine, prese la parola allegramente.

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«Ma l’ospite misteriosa non è ancora scesa, stamattina? Magari è veramente tutto a posto, e lei oggi ricorda perfettamente chi è». «Sì, può essere» convenne Flora Pons. Stava per aggiungere qualcosa, ma in quel momento entrò la signora Beatrice. «Tutto a posto, signori?» domandò sfoderando come al solito un luminoso sorriso. «Ma certamente!» rispose la signora Cojana. «Ci stavamo domandando co-me stesse oggi la nostra sconosciuta». Beatrice parve rabbuiarsi un po’. «Non è ancora scesa» disse. «Mi chiedevo anch’io se non stesse male. Lei potrebbe visitarla, dottore? Per vedere se almeno dal punto di vista fisico si è ristabilita». Il dottore si alzò da tavola. «La visiterò di sicuro. Ma diamole ancora una mezz’ora. Probabilmente ha molto bisogno di dormire». «Tu cosa ne pensi Corrado?». Il commissario Sivori, allungato su una poltrona nella sala di lettura, alzò lo sguardo interrogativo sulla moglie. «Di quella donna». «Ma ne abbiamo già parlato ieri sera, Matilde». «Ma veramente non trovi strana tutta la vicenda?». «Certo che la trovo strana» bofonchiò il commissario con una certa impa-zienza. «Ma non è il caso di scriverci un romanzo sopra!». La signora Matilde scrollò mestamente il capo. «No, no… nessun romanzo! Ma… una donna sola, in questa strada…». «Vuoi conoscere la mia opinione? Si è persa, ecco tutto. La bufera di neve le ha fatto perdere l’orientamento, e ha imboccato la strada sbagliata». «Ma perché senza cappotto?». «Oh… Magari era uscita solo per una commissione. Lo sai come sono da queste parti, sono abituati al freddo. Aveva il grembiule sopra agli abiti, quindi significa che doveva star fuori pochissimo. E poi… poi chissà, maga-ri si è persa perché il malore l’ha colta appena uscita da casa». «Il malore?». «Sì. Il dottore dice che l’amnesia è dovuta allo choc per essersi perduta, ma forse è il contrario. Potrebbe avere avuto una perdita temporanea della me-moria e il fatto di essersi persa ha aggravato le cose». «Dici che è stata fuori tutta la notte?».

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«Ehm… Sì. Temo di sì. Per questo ha rischiato il congelamento. Certo era riparata nell’auto, ma questo non è stato sufficiente a proteggerla, in una nottata come quella di ieri». «Bisogna scendere a prendere i documenti della macchina». Il commissario sorrise e le diede un buffetto. «Ci andrò… ci andrò… Non appena il tempo lo permette. Ma per favore Matilde… sono finalmente in pensione… non farmi vedere gialli dappertut-to!». 25 dicembre 1953 – ore 10.00 Paulette Clery era molto nervosa quella mattina. Non che fosse insoddisfatta della sua sistemazione, sia chiaro. La signora Treves era una brava padrona, il lavoro non era troppo pesante e il salario era decente. Tuttavia, in quel giorno di Natale, Paulette avrebbe voluto essere miglia e miglia lontano da lì. Forse era per quel tempo infernale, forse per la luce che mancava dalla mat-tina della vigilia, o per la strana atmosfera che si era instaurata dopo il ritro-vamento della sconosciuta, ma di fatto la ragazza percepiva una strana tri-stezza, un’inquietudine, come il presagio che qualcosa di brutto stesse per accadere. Ma neppure lei avrebbe immaginato quanto brutto. Mancava qualche minuto alle 10 quando si affacciò in cucina per dire alla signora Treves che aveva terminato le pulizie ai piani superiori. «Brava Paulette!» disse la signora, e poi sbirciò l’orologio. «Ora devi farmi un favore» aggiunse. «Vai alla 19 e sveglia quella donna che abbiamo trova-to ieri». «Non è ancora scesa?» chiese Paulette distrattamente. «No, e sono preoccupata. Non vorrei che si sentisse male. Dopo che l’hai svegliata avverti il dottor Bergonzi che le dia un’occhiata». «Certo signora» rispose docilmente la ragazza, e Beatrice tornò a concen-trarsi sulla sua salsa verde. Giungevano fino alla cucina le voci degli ospiti che chiacchieravano del più e del meno. Beatrice udì con sollievo che i Sivori si erano uniti agli altri. Le piaceva quando i suoi ospiti si amalgamavano, mentre le mettevano ansia i tipi solitari come quella timidissima signora Matilde. Temeva sempre che non trovassero piacevole il soggiorno. Guardò con orgoglio i cibi già pronti. I dolci erano disposti sui vassoi, e quasi tutte le portate parevano a posto, a eccezione naturalmente degli anti-

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pasti, che avrebbe sistemato appena prima di portare in tavola, e di quanto andava cotto all’ultimo momento. La mancanza di luce si sarebbe trasformata in un vantaggio, perché aveva dei magnifici candelabri, acquistati anni prima in un mercatino, che con qualche candela rossa avrebbero creato una perfetta atmosfera natalizia. Sì, ne era certa. Sarebbe stato un fantastico pranzo di Natale. Fu in quel momento che l’urlo straziante di Paulette echeggiò per tutto l’albergo. 25 dicembre 1953 – ore 10.30 Tutto, in quella stanza, pareva stridente e fuori luogo. I mobili di legno grez-zo, le tendine di cretonne a fiori, il soffice tappeto colorato, i quadretti alle pareti che rappresentavano bucolici paesaggi alpini. E sul letto, ancora semicoperto da un’elegante coperta all’uncinetto, il corpo dell’ospite sconosciuta, in un lago di sangue. Il dottor Bergonzi non aveva potuto far altro che constatarne il decesso. Del resto non era certo necessario un medico per accertarlo, visto la profonda ferita che le squarciava la gola da parte a parte. Il corpo giaceva di traverso nel letto. Probabilmente l’assassino l’aveva af-ferrata e tratta contro di sé per agire alle sue spalle. Tuttavia era composto. Il commissario Sivori, osservandola, pensò che la donna, colta nel sonno, non era riuscita a opporre resistenza. Ma negli occhi, attoniti e spalancati, era rimasto il terrore degli ultimi istanti. Nessuna arma, almeno apparentemente, era presente sulla scena. Il catino sul tavolino da toeletta era pieno d’acqua rossastra. L’assassino si era probabilmente lavato le mani sporche di sangue. Era tuttavia improbabi-le che dalla sua posizione si fosse macchiato i vestiti, in quanto, effettuando lo squarcio alla gola dalla posizione ipotizzata dal commissario, il sangue doveva essere schizzato solo in avanti. «Non toccate nulla» aveva detto Corrado Sivori, e poi aveva fatto uscire tut-ti, restando solo con il dottore. «A quando la morte?» gli aveva chiesto. «Non posso dirlo con esattezza, sarebbe necessaria un’autopsia. Ma a giudi-care dal rigor mortis si direbbe che il delitto risalga ad almeno quattro-cinque ore fa. Ma potrebbero essere anche di più». Diego Treves si era precipitato nell’ufficio per cercare di telefonare alla sta-zione dei carabinieri, ma la cornetta era ancora dannatamente muta. Paulette piangeva fra le braccia della signora Treves, la signora Bergonzi era in piena crisi isterica e la signorina Pons cercava inutilmente di calmarla. La

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signora Lentini aveva avuto un malore, e il marito aveva dovuto sorreggerla fino alla loro stanza. Il signor Cojana, abbandonato su una sedia, in soggior-no, si teneva il capo tra le mani. La signora Cojana e la signora Sivori pian-gevano silenziosamente, in un angolo, stringendosi la mano. Il signor Scialò frugava nel bar cercando qualcosa di forte che servisse contro lo choc. Pareva che nessuno capisse, nessuno si desse pace, nessuno volesse ancora crederci. Nessuno. Tranne uno. 25 dicembre 1953 – ore 12.00 «L’assassino è uno di noi». Per quanto tutti ne avessero già la piena consapevolezza, le parole del com-missario Sivori esplosero nella stanza con una deflagrante violenza. Corrado Sivori aveva chiesto a tutti di riunirsi nel soggiorno dell’albergo. La stanza numero 19 era stata chiusa a chiave. Beatrice aveva servito un cordia-le, anche se per la signora Bergonzi era stata necessaria un’iniezione di cal-mante. La signora Lentini era riuscita a trascinarsi dalla camera da letto fino al piano terra, ma sembrava la più provata di tutti i presenti. Paulette non smetteva di piangere. E intanto, fuori, la neve continuava a scendere incessante. Si era nuovamen-te levato il vento, e al di là dei vetri si vedevano turbinare i fiocchi candidi e spessi. Il commissario Sivori aveva parlato con voce tranquilla, ostentando una fermezza che veniva certamente dalla sua lunga esperienza. «Siamo isolati, non abbiamo alcuna possibilità di metterci in contatto con la stazione di polizia più vicina. Dobbiamo mantenere i nervi saldi e non farci vincere dalla paura o dall’ansia. Conto su di voi per gestire al meglio questa situazione incresciosa. Ma non dobbiamo neppure dimenticare il fatto più incredibile di tutta questa vicenda: l’assassino è uno di noi». I singhiozzi di Paulette echeggiarono nella stanza, e la signora Bergonzi lan-ciò un piccolo grido di terrore. La signorina Pons, mortalmente pallida, avanzò un’ipotesi: «Ma commissa-rio, la donna non potrebbe essersi uccisa? Era sconvolta! Magari l’arma è scivolata per terra, è ancora accanto al corpo». «Uno strano modo per uccidersi» commentò con voce rauca il signor Coja-na. Il commissario parlò con tono forte e deciso.

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«No, signorina, nessun coltello, nessun oggetto compatibile con la grave fe-rita inferta è stato trovato accanto al corpo. L’ho cercato io stesso, seppure con tutte le cautele per non alterare la scena del delitto». La signora Cojana scosse mestamente il capo. «Eppure deve esserci una spiegazione…». «Una spiegazione c’è di sicuro signora. E se voi me lo consentite, in attesa di metterci in contatto con la polizia locale, io vorrei portare avanti alcune indagini». Corrado Sivori indugiò appena, nel silenzio generale. «So di non averne il diritto. Ma potrebbe passare ancora del tempo fino al ripristino della linea telefonica, e per la nostra sicurezza sarebbe bene che il colpevole venisse individuato al più presto». Ci fu ancora un lungo, imbarazzato silenzio, rotto solo da alcuni singhiozzi. Poi fu la signora Beatrice a parlare: «Io… io la prego di farlo signor commissario». «Devono essere tutti d’accordo» disse calmo il commissario Sivori. «Ma naturalmente deve occuparsene commissario. Noi siamo… annientati da quello che è accaduto… Ma non abbiamo nulla da temere». Questa volta era stato il signor Lentini a esprimersi. E aggiunse con un filo di voce: «Anch’io la prego di condurre le prime indagini». La signora Lentini emise un gemito. «Indagini? Fra di noi? Ma ne siete certi? Ma… ma non potrebbe essersi in-trufolato qualcuno? Magari qualcuno entrato da una finestra…». Il marito ebbe un gesto di impazienza. «Ma come puoi pensare una cosa del genere? Chi poteva esserci qua fuori, se siamo completamente isolati…». La signora Bergonzi sollevò il viso con un’espressione speranzosa che si tramutò subito in una maschera di terrore. «Ma perché no? Magari qui si nasconde un estraneo… Cosa ne sappiamo noi? Questa è una grande casa… Dio mio, magari qui è nascosto un crimina-le, un evaso dal carcere…». Diego Treves interpretò il pensiero di tutti. «Qui non c’è proprio nessuno, signora» disse a bassa voce. Il commissario intervenne ancora. «Comunque un’ispezione la faremo sicuramente. È doverosa. E ora ditemi se volete che mi occupi del caso». I presenti, uno dopo l’altro, annuirono senza riserve. Il commissario fece un lungo respiro. «Bene. Inizierò subito. Ma prima devo farvi una domanda, signori. A tutti voi. E vi prego, specialmente se non avete nulla da rimproverarvi, di rispon-

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dermi con estrema sincerità: qualcuno di voi conosceva la donna che è stata assassinata?». Le parole del commissario si spensero in un silenzio di gelo. Fine anteprima.Continua...