Achab_Piasere_Cos'è_un_campo

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 Rivista di Antropologia 2006 numero VIII Università degli Studi di Milano-Bicocca

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Rivista di Antropologia2006 numero VIII

Universit degli Studi di Milano-Bicocca

AChAB - Rivista di AntropologiaNumero VIII -giugno 2006

Direttore Responsabile Matteo Scanni Direzione editoriale Lorenzo D'Angelo, Antonio De Lauri, Michele Parodi Redazione Paolo Borghi, Lorenzo D'Angelo, Antonio De Lauri, Michele Parodi, Fabio Vicini Progetto Grafico Lorenzo D'Angelo Referente del sito Antonio De Lauri Tiratura: 500 copiePubblicazione realizzata con il finanziamento del Bando "1000 lire", Universit degli Studi di Milano Bicocca Autorizzazione del Tribunale di Milano n. 697 - 27 settembre 2005 Non siamo riusciti a rintracciare i titolari del dominio di alcune immagini qui pubblicate. Gli autori sono invitati a contattarci. * Immagine in copertina di Anna Sambo - Djougou, Benin - novembre 2005

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In questo numero...

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Il flogisto dei diritti umaniCulture, pratiche, ideologie, mitologie e wishful thinking

di Valerio Fusi 8 Che cos' un campo nomadi? di Leonardo Piasere Bisogna difendere la metropoli milaneseBiopolitica di uno sgombero

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di Lorenzo DAngelo 24 Lo spazio umanitarioIl caso dei campi di rifugiati palestinesi in Giordania

di Luigi Achilli 32 Il beduino e la tenda: un'associazione fataleEsplorazioni di protesta e potere intorno ad un nuovo insediamento in Israele

di Alexander Koensler 37 Agency e femminismoIl caso dellIran

di Serena Felicia Morabito 44 Il movimento di Fethullah GlenUn progetto "islamico" in uno stato "secolare"?

di Fabio Vicini 53 I marabutti della Muriddyya, mediatori tra cielo e terraIl ruolo politico della confraternita senegalese per la creazione di un Islam sociale

di Susanna Ripamonti

Altrevoci60 Lettera dal Nepal di Oscar Avogadri

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Il flogisto dei diritti umaniCulture, pratiche, ideologie, mitologie e wishful thinkingdi Valerio Fusi

Preliminarmente, come sempre, c' un problema di definizione. L'espressione 'diritti umani' delimita un concetto troppo connotato per essere utilizzato senza problemi in un contesto antropo-logico. Connotato il sostantivo, che giunge a noi come il punto terminale di una lunga e complessa elaborazione culturale, ed ormai definito in un ambito di formalismi giuridici e politici organicamente intrinseci alla forma di vita degli uomini occidentali contemporanei. Connotato - seppure in modo diverso l'aggettivo, che ha assunto per noi una profondit storica, una valenza scientifica, ed una dimensione biologica senza precedenti e corrispondenti in altre culture. E connotata l'associazione dei due termini, che produce un campo semantico autonomo e incommensurabile. Prima allora di domandarci quanto della nostra idea di 'diritti umani' sia possibile rintracciare nella esperienza delle civilt classiche, e delle culture aliene contemporanee, potrebbe essere utile tentare un qualche esercizio di igiene linguistica, che si riprometta di ripulire dalle incrostazioni et-nocentriche, per quanto possibile, il lessico di cui facciamo uso. Anche cos il meglio a cui possia-mo aspirare, naturalmente, soltanto di ridurre in misura ragionevole il grado di fallacia del nostro ragionamento. La verit, qualunque cosa sia, non un obiettivo alla portata degli antropologi (e for-se neanche particolarmente interessante). La natura dell'antropologia essenzialmente comparativa: ci che percepisce, ci che ricono-sce, ci che pretende di descrivere, pu essere descritto, riconosciuto e percepito solo attraverso (all'interno, e nei termini ed alle condizioni di) un linguaggio (un gioco linguistico) le cui regole strutturano nel profondo la cultura dell'antropologo, conferiscono significato alla sua esperienza e definiscono i limiti e le aspettative della sua percezione e conoscenza del mondo (e sono - ovvia-mente - infondate e relative). Questo linguaggio abilitato a trattare solo concetti che gi conosce, o che sia in grado di rico-noscere in termini di analogia ed isomorfismo con quelli che gli sono noti. Persino il concetto di 'concetto' fa parte gi, in qualche modo, della sua grammatica (uno strumento di lavoro piuttosto che una precondizione cognitiva universale). Di fatto anche l'antropologo che scrupolosamente re-gistra e indaga concetti che sono assenti nella sua propria cultura (e non semplicemente differenti), cerca ancora soltanto concetti, pensa ancora, comunque, in termini di 'concetti', vale a dire di un tipo di astrazione specializzata che nella nostra cultura struttura la vita mentale, l'esperienza e la rappresentazione

della realt in modo molto definito e specifico. Ma forse proprio la nostra idea di concetto ad essere diversa da quelle delle altre culture, se pure ne hanno una. Chi pu dirlo? E allora chi pu dire se la comunicazione tra le culture, a dispetto della loro apparente traducibilit, non na-sconda invece un insuperabile equivoco ermeneutico che preclude ontologicamente la reciproca intelligibilit? Non sono considerazioni particolarmente originali. Willard Quine ha detto su questo tutto quel-lo che c'era da dire. Ma sorprendente scoprire ogni volta come studiosi e accademici anche molto avvertiti ignorino (o preferiscano nascondersi) la complessit dei problemi che ne derivano, e le pe-santi ipoteche che questi pongono sul rigore e - potenzialmente - sulla verosimiglianza delle loro indagini. Progresso E' necessario chiarire quindi sin dall'inizio di che cosa si parla quando si parla di diritti umani, e da dove se ne parla, da quale punto della storia, e da quale luogo fisico. Cos facendo ci accorgiamo ben presto di quanto sia diffusa anche in ambienti epistemologica-mente avveduti - la convinzione (o pi propriamente l'implicito, irriflesso e viscerale affidamento) che la nostra idea dei diritti umani si collochi al vertice di un cono temporale, ed al centro di una circonferenza spaziale, rispetto ai quali rappresenti il punto di convergenza di quanto di meglio la storia umana abbia mai prodotto. Che rappresenti cio uno stadio evoluto - e in un certo senso definitivo e apicale - di forme pi primitive di gestione dei principi e delle modalit di convivenza in-traspecifica della specie homo. Si tratta di un approccio (un atteggiamento, una attitudine) abbastanza sorprendente e solitario nell'ambito del dibattito epistemologico moderno, che da tempo ha rinunciato per manifesta impra-ticabilit alle ottimistiche visioni totalizzanti del progresso umano, senza peraltro aver trovato qual-cosa di meglio da sostituirvi. Una prospettiva cos candidamente evoluzionista suona immediata-mente come una essenziale ingenuit (o una ipocrisia essenziale), e anche gli studiosi pi fonda-mentalisti sono comprensibilmente riluttanti a professarla esplicitamente. E tuttavia in questo particolare caso le cose si fanno pi complicate, perch quando si discute di diritti umani, delle nostre precondizioni etiche, dei nostri principi (leggi, pregiudizi, imperativi) etici, dei nostri valori che discutiamo, e si sa che l'etica un conversatore assai poco amabile e de-mocratico, che non tollera di essere messo in discussione se non alle sue proprie

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condizioni. Discutere di diritti umani senza etica produce allora uno scandalo intollerabile. Viceversa in-trodurre esplicitamente una discriminante etica rende inutile la discussione, la rende anzi impossibi-le, perch accetta come precondizione proprio quello che vorrebbe dimostrare. Nessuno oggi ha pi il coraggio di professare una scelta integralmente universalista (gli univer-salisti hanno ormai una meritata - reputazione di ingenui rozzi e intolleranti), ma per un altro verso anche gli epistemologi pi problematici sono costretti prima o poi a venire a patti con il proprio lin-guaggio, a porre un termine, e ad aggrapparsi in qualche modo a un valore infondato, irrelato ed in-giustificato. Altrimenti (come nelle classiche argomentazioni antirelativiste) finisce che 'tutto pu andar bene', e questa una eventualit che terrorizza anche i pi pluralisti e tolleranti (se tutto pu andar bene l'antropologo non ha di che giustificare il suo lavoro e la sua esistenza, ma anche l'uomo comune non saprebbe dove poggiare i piedi). Un trucco Insomma: non c' una soluzione convincente a questo dilemma, ma poich si deve pur vivere, tanto vale disporre almeno di una soluzione poco convincente, che stia l a riempire il vuoto di quella risposta praticabile che al momento non si trova, ma che deve pur esserci. Nella fattispecie, la soluzione pi praticata rappresentata dal vecchio trucco di Wittgenstein. Ricordate? "A un certo punto le spiegazioni si devono interrompere". Sar pur vero, se l'ha detto Wittgenstein. E allora in quale punto dovremo interrompere le nostre spiegazioni? In quale punto dovremo collocare la nostra roccia tetragona, "quell'immortale centro senza nome - come dice Au-den - da cui i nostri punti di definizione e morte sono tutti equidistanti"? 'A un certo punto' ci si deve fermare, ma quel punto sembra essere definito soltanto da una soggettiva capacit di resistenza. C' un momento repulsivo in cui qualcosa ci diviene inaccettabile, la sentiamo come non tollerabile. L collochiamo il nostro punto. Ma nel momento in cui lo faccia-mo, credendo di aver individuato una legge della natura, una traccia di quel centro immortale e senza nome, non facciamo invece altro che riproporre una elementare tautologia, nella quale le nostre premesse e le nostre conclusioni vengono fatte forzosamente coincidere. Fino a un certo punto. Ecco il problema. Dire cos significa porre dei confini, collocare un ter-mine rispetto al quale ci sia un al di qua praticabile, e un al di l intollerabile. Porre confini significa definire, individuare, classificare. Porre confini quello che fanno le culture. In un certo senso la cultura pu essere considerata come l'attivit di porre confini. Ammesso (per carit epistemologica) che il mondo che percepiamo sia lo stesso per tutti, quello che percepiamo comunque un flusso, una totalit nella quale le culture ritagliano aree di senso e definiscono limiti cognitivi. E ammesso (ancora per carit epistemologica) che tutte le culture individuino allo stesso modo i punti focali delle realt che percepiscono (come si dice che avvenga per determinati

settori dello spettro lumino-so) ogni cultura definisce se stessa e le sue caratteristiche ponendo confini all'interno di questo flus-so, confini che separano realt, oggetti significanti, concetti diversi. Si tratta ovviamente di una scelta arbitraria (i confini non fanno parte della realt - qualunque cosa essa sia - nonostante ogni cultura si convinca del contrario). Arbitraria in quanto non fondata. Eppure tutt'altro che casuale o capricciosa: c' un metodo, una cogenza, una inerzia che fanno s che una cultura opti per una solu-zione piuttosto che un'altra, o almeno per un gruppo di soluzioni che ritiene praticabili piuttosto che un altro. E' quello che avviene nel caso dei 'diritti umani'. E' quello che avviene, prima ancora, con il termine 'umano', con l'idea, il concetto, il lemma, il campo semantico di 'umano'. Che cosa signi-fica essere 'umano', in cosa consiste l'umanit dell'uomo, come la si misura e come la si apprezza? Fino a quale punto distinguiamo ci che essenzialmente, irriducibilmente umano da ci che non lo ? C' davvero un umano, una costante umana che persiste al di l di diverse accezioni e risposte culturali? C' un nucleo dell'umano all'interno del quale tutti gli umani possano ragionevolmente aspettarsi di trovare le stesse cose? A prima vista sembrerebbe una domanda facile: non dovrebbe essere impossibile, discutendone tra gentiluomini, trovare una risposta condivisa. Geni e gambe Personalmente sarei piuttosto pessimista in proposito. Ho l'impressione che, come tutti gli altri, e non meno di tutti gli altri, 'umano', 'umanit', 'natura umana' siano concetti fondati culturalmen-te, che hanno un valore, ed un ambito di legittimit, una legalit semantica solo all'interno di una specifica realt sociale e culturale. Certo, tutti ci aspettiamo che il possesso di determinati requisiti fisici ci definisca sufficiente-mente. Ma quali requisiti siamo disposti ad ammettere come fondamentali, e quali respingeremo come accessori o superflui? Ci interessa che corrisponda il numero dei geni, o quello delle gambe? E' qui che sta il problema insolubile: accettiamo pure il principio logico che gli uguali non possono non essere uguali anche sul piano dei diritti, ma quando cerchiamo di definire cos' uguale ci ac-corgiamo che l'identit non un concetto praticabile per i nostri scopi, perch sempre assolutamen-te relativo ad un punto di vista, ad una segmentazione arbitraria e variabile di aspetti atomici della realt, che vengono poi associati o disgiunti per costruire identit. C' sempre una scelta a monte, la definizione di un set culturale di caratteristiche che ne esclude ogni altra possibile configurazione. Quello che accettiamo come uguale a noi stessi, non pu essere, non mai stato lo stesso per nessun altro. E perch poi questa unit fisica (comunque individuata) dovrebbe costituire la base di un dirit-to? Per quale legge universale le cose uguali dovrebbero avere diritti uguali, e le diverse diritti di-versi? Il pollice opponibile essere pi garantito del piede fesso? Perch i primati dovrebbero avere minori diritti di noi, e i mammiferi? Il diritto alla vita: ecco un principio che potrebbe ambire ad un fondamento universale di qualche genere (ma chiss?).

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Rispondere a questa ulteriore domanda sul diritto alla vita degli esseri viventi (e non dei soli umani) pu forse aiutare a comprendere meglio su cosa si basino i diritti degli umani in quanto u-mani. Il rispetto universale del vivente trova il suo limite nella paradossale necessit che la vita si ge-neri e si conservi solo mediante la soppressione di altra vita. Perch ci sia tollerabile uccidere e nu-trirci di altri esseri viventi, abbiamo deciso che (gran parte de)gli altri esseri viventi non sono uguali a noi (in primo luogo) e soprattutto sono inferiori a noi (in secondo). In tal modo la repulsione natu-rale della vita a sopprimere la vita viene temperata e resa tollerabile all'interno di un ordine superio-re di necessit. Le eccezioni confermano la regola: il porco, la vacca sacra, l'irace sono s percepiti come diversi dalle rispettive religioni, ma collocati su un piano di sacralit (o di pericolo) che non riconosciuto ad altre specie animali e garantisce loro un diritto speciale alla vita. Dio li fa e poi li accoppia Questo elementare meccanismo si riproduce allo stesso modo nell'ambito dell'umano: i nostri simili umani sono tanto meno umani di noi, quanto meno sono riconoscibili come simili, e quanto pi sia necessario compiere su di loro operazioni ed atti che non accetteremmo fossero compiuti su di noi. Per questo se il loro quantum di umanit non uguale al nostro, il loro essere umani dovr avere confini pi ristretti del nostro, e i loro diritti non potranno essere quelli che riconosciamo a noi stessi: non perch ne abbiano meno, ma perch hanno meno umanit. Tanto meno simili, quanto meno umani; utile legare questa minorazione ad una differenza percepibile: una pigmentazione diversa dell'epidermide, un linguaggio oscuro che ci sembri balbettante e barbarico, la devianza da regole che riteniamo naturali, una qualche visibile minorit. Cos, volta per volta, per i neri, i sel-vaggi, le donne, i bambini, i feti, i disabili. Ma non davvero necessario che la differenza sia perce-pibile 'fisicamente': nella lista c' posto ancora per gli ebrei, i comunisti, gli infedeli, gli extraco-munitari, i poveri. Certo, molti di noi sentono questo tipo di liste come vergognose e intollerabili, ma forse sarebbero disposti ad accettarne altre meno grossolanamente offensive del senso comune in cui si riconoscono gli abitanti della nostra regione in questo periodo storico. Per molti di noi i feti hanno un diritto relativo e condizionato. Per molti altri (persone rispettabili e, cos pare, assoluta-mente uguali a noi) no. Per altri ancora si deve invece porre una distinzione ulteriore, un'altra scala graduata, e allora alcuni feti saranno ammessi alla condizione umana, e altri no, a seconda della loro et. L'et diviene quindi una discriminante di umanit, e a rigore il feto giovane e quello anziano dovrebbero ricevere denominazioni diverse. L'opposizione similarit/differenza, vicino/distante modella e d senso alle percezioni, ai com-portamenti ed alla consapevolezza di s, e si struttura per coppie di preferenza: prima il figlio del fratello, prima il fratello che l'amico, prima l'amico del vicino, prima il vicino che lo straniero; l'italiano piuttosto che l'inglese, e l'inglese piuttosto che l'islamico. In ciascuno di questi passaggi va

persa una frazione minima di umanit, e con quella anche un poco della nostra inclinazione a ri-conoscere uguaglianza, e la misura corrispondente di diritti. E a un certo punto lungo la linea ecco: il diritto umano si affievolisce (come anche nella terminologia giuridica) e perdono efficacia i tab e il senso comune da cui presidiato. E' dal punto in cui si collocati su questa linea che si pu de-cidere, come dice Geertz, fino a quale profondit riteniamo di poter affondare i denti. Disgustoso Perch poi dovrei rifiutare altre visioni per le quali il riconoscimento di tratti fisici, o somatici, o genetici comuni non sia una condizione sufficiente per riconoscere anche una natura comune, un identico grado di umanit? Dovremmo guardarci dall'intromissione dei nostri propri presupposti e-tici nel valutare le connotazioni che il principio umano ha assunto presso altre culture, proprio per-ch qui si annida la visione forte ed epistemologicamente impraticabile dell'idea evoluzionistica di progresso. Il fatto che oggi le vedove non si immolino sulla pira del marito, o le ancelle e i servi non vengano sepolti vivi con il re insieme ai suoi cavalli, che i neonati femmine, i disabili, e i vecchi non vengano soppressi, che i neri non siano schiavi, che i prigionieri di guerra non vengano sacrifi-cati a Tlaloc, o serviti come carne da banchetto non dipende da una provvidenziale e benigna evolu-zione che ha finalmente fatto coincidere il senso del mondo con un principio universale di giustizia. Significa che il tipo di cultura in cui viviamo non pu permettersi di segmentare e classificare l'umanit secondo quei principi. Seppure non vogliamo nemmeno per un istante giustificare, n tol-lerare quei sistemi di vita e di valori, seppure essi ci ripugnino nel modo pi viscerale, non possia-mo, a rigore, guardare indietro a quelle esperienze culturali come ad un percorso faticoso che ab-biamo compiuto per giungere a questa confortante vetta. Il nostro disgusto, che io stesso sperimento e in ragione del quale accetto che altre culture possano essere combattute (ed eventualmente distrut-te), un disgusto culturale, un disgusto che nasce da quello che la nostra cultura ci insegna essere disgustoso. Davvero crediamo che i nostri antenati, o le altre culture, siano state cos perverse, cos depravate, da concedersi per puro difetto di luce interiore, di quella ricchezza morale che contraddi-stingue noi, alle pratiche bestiali e inumane che ci compiacciamo di condannare? Inumane, appunto: qui anche noi poniamo un confine, e chiamiamo - seppure con altri fini - non umani quelli che le adottano. Ladders/adders Ancora una volta, c' un punto da individuare su una scala graduata, ma ancora una volta non c' nessuno che pu dirci dove. Ma porre quel punto indispensabile, perch quel punto segna il confine di ci che giusto. Giusto: ecco una possibile definizione naturale del diritto, precedente all'ambito giuridico e culturale: la percezione che qualcosa sia giusta; una condizione di agio del pensiero che riconosce e accetta uno stato ed una configurazione della realt

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perch li percepisce come parte di un ordine na-turale e necessitato, introiettato nella consapevolezza degli umani e incardinato al meccanismo del mondo. Se definiamo l'umano non abbiamo, a rigore, bisogno di definirne i diritti. In un certo senso il diritto di una cosa non altro che il riconoscimento della sua inviolabilit in quanto cosa, l'aspettativa che la sua pi propria natura e identit non vengano minacciate, messe in discussione, ristrette o condizionate in alcun modo, la sua pretesa all'integrit, come attesa naturale della persi-stenza delle caratteristiche che la definiscono. Ogni azione che si proponga di limitare questa prete-sa offende il suo proprio diritto, e insieme lo scopre e lo fonda come diritto. Allora intendiamoci: a chi riconosceremo, e in che forma, in che modo, in quale quantit, la condizione di 'essere umano'? A chi riconosceremo i diritti che sono propri all'essere umano? Per noi il diritto dell'uomo un attributo personale, individuale, legato all'individuo cos come lo riconosciamo nella civilt occidentale: una personalit unica, i cui confini concettuali e fisici si arrestano alla persona ed ai suoi attributi. I diritti della 'persona' umana. La persona, appunto, l'individuo: c' un intero campo semantico che si costruito intorno a questo significato congiunto di unicit, individuazione, personalit. Non c' niente di pi connotato culturalmente di tutto que-sto. L'identit individuale, come set di qualit inalienabili e distintive, autonome, una prerogativa della nostra cultura. Altre societ, altre culture nella storia e sulla faccia della terra non conoscono, non applicano questa distinzione. Non nei termini, almeno, che ci sono familiari. Non che hanno scelto di non praticarla: pi semplicemente la loro storia andata in un'altra direzione, e la nostra esperienza se solo possono concepirla e finanche percepirla - non pu che stimolare il loro disgu-sto e la loro repulsione - come accade a noi con la loro - in nome di un'etica altrettanto solida e fon-data di quella alla quale noi riteniamo di doverci affidare. In questo senso potrebbe essere istruttivo rileggere gli scritti di Jean Paul Vernant e di Eric Ha-velock sul concetto di identit personale (e la sua correlazione con la semantica dell'ontologia e con l'idea e la pratica della giustizia) nella Grecia antica, insieme ad un altro gruppo di interessanti la-vori sull'idea di persona in Polinesia (Pritz Johansen) e tra gli antichi scandinavi (Gronbeck). Tutta questa tradizione di studio insiste nel ricordarci come la rappresentazione della persona umana deb-ba inevitabilmente essere relativizzata all'ambito culturale e sociale nel quale si esprime e si mani-festa l'azione dell'uomo, alla sua capacit - ed interesse - di produrre mutamenti nell'ambiente cir-costante, al grado e all'intenzionalit del suo intervento sulla natura. E anche, di conseguenza, alla percezione che gli uomini hanno del proprio rapporto con la specie, la trib, la famiglia, il gruppo a cui appartengono, dei confini anche fisici e persino temporali che tracciano intorno alla propria per-sona. Si danno identit che assumono senso e si strutturano esclusivamente in un ambito tribale, i-dentit per le quali - anche a livello linguistico - impossibile districare la percezione e la rappre-sentazione di individualit dal contesto della vita associata e dei legami di sangue. Le societ di caccia e raccolta dell'Africa, le culture

ergative di Australia e Siberia, le incomprensibili psicologie indigene che continuamente ci ripropone la ricerca e l'aneddotica antropologica, tutta quella serie di bizzarri comportamenti umani che ce la rendono cos godibile, affascinante ed inquietante. Le cose allora sono alquanto pi complicate di come potrebbe sembrare a prima vista. E anche quello che ci pare pi ovvio e naturale (anzi, soprattutto quello che ci pare pi ovvio e naturale) non in grado di garantire condizioni accettabili di fondatezza e veridicit, a dispetto della ingannevole ed insidiosa presunzione di universalit con cui ci si offre. Quello che ci sorprende e ci turba, quando pensiamo - per esempio - alle societ schiaviste del-la storia, ma in generale a tutte le societ in cui si praticano discriminazioni e violenze su soggetti che noi consideriamo a tutti gli effetti umani, che questi soggetti in genere non si ribellano, non lottano - come a noi sembrerebbe naturale e come noi forse faremmo nelle loro condizioni - per af-fermare i propri 'diritti'. E se mai lo fanno, questo accade solo in circostanze storiche straordina-riamente complesse e travagliate di transizione, e mai comunque nell'ambito di un processo roman-ticamente rivoluzionario di rivendicazione di uguaglianza e diritti. I sistemi schiavistici non potreb-bero reggersi solo sulla coercizione e sulla violenza, non lo hanno mai fatto. Come tutte la societ della storia, anche la societ schiavista deve rappresentare un sistema condiviso, un ordine, una struttura mentale ed etica in cui tutti i membri della societ possano riconoscersi, indipendentemen-te dal posto che occupano in essa. Lo schiavo, l'ilota, il meteco, il taurekareka conosce e riconosce se stesso solo come schiavo, e in questa condizione - per quanto disagevole e 'inumana' - sperimen-ta quell'agio mentale che alimenta la percezione di uno stato di giustizia. La sua cultura gli assegna un ruolo al quale in condizione di associare una identit sociale, culturale e individuale, e al di fuori della quale non avverte senso alcuno, n desiderio alcuno di possedere diritti che sono asse-gnati alle altre forme umane che dividono con lui il suo stesso spazio culturale. C' tutta una lettera-tura sullo sconcerto provato degli schiavi negri liberati - loro malgrado, o con la loro indifferenza - dopo la guerra di secessione, e sugli effetti rovinosi che quella liberazione produsse sull'organizzazione della vita sociale e privata nelle comunit nere degli stati del Sud. Mio bisnonno - che stato mezzadro per tutta la vita - trovava disdicevole che la sua famiglia mangiasse pollo la domenica, perch quello era il cibo dei padroni, ed sempre stato fiero di essere servo e di saper stare al proprio posto. Stereotipi Nel mondo contemporaneo la complessa interazione di relazioni sociali, strutture economiche, campi di forza culturali, sistemi di comunicazione, forme di organizzazione del lavoro e dinamiche del mercato, equilibri politici internazionali (e anche, ovviamente, la variabile rappresentata dalle etiche culturali) ha finito per configurare un modello statistico alquanto aperto e comprensivo dei 'diritti umani' Cos, per ragioni che molto probabilmente non hanno granch a

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che vedere con l'etica, siamo stati posti nella condizione di estendere il nostro riconoscimento di umanit e (potenzialmente) di uguaglianza a tipologie dell'umano che mai avrebbero potuto ottenerlo dai nostri antenati, o perfino dai nostri padri. E nonostante questo, a guardar bene, anche noi in fondo non rinunciamo a porre confini attorno al nostro territorio umano, e vi ammettiamo solo alcuni a pieno titolo, riservando ad altri solamente uno stentato permesso di soggiorno. Altri ancora non vorremo proprio vederceli intorno. Certo, in una cultura che non ha altra possibilit di accertare l'umano se non nei termini della sua apparte-nenza filogenetica, nessuno ha il coraggio di sostenere (talvolta persino di confessare a se stesso) che certi umani possano essere meno umani di altri. Valutiamo per senza ipocrisie le nostre personali reazioni ai pregiudizi razziali: con quale gra-do di repulsione vi sentireste di reagire all'affermazione che i negri sono sporchi? Allo stesso modo in cui reagireste sentendo dire che gli ebrei sono avidi? Non percepite in questo secondo caso qual-cosa di pi inquietante e sinistro, qualcosa di imperdonabile? Al contrario, molti sono disposti sen-za troppi patemi d'animo a sottoscrivere l'affermazione che gli albanesi sono violenti, molti di quel-li che non direbbero mai che gli ebrei sono avidi e che i negri sono sporchi. E gli zingari: sul fatto che siano ladri c' pressoch unanimit (un universale?), come a proposito dell'idea che gli islamici siano fanatici e infingardi. Molti di noi che sentono intollerabili le dichiarazioni antisemite (ma non tutte le dichiarazioni antisemite: soltanto quelle che riguardano gli ebrei) reagiscono con tolleranza, ironia, e finanche blando consenso a stereotipi razziali che contengono la stessa esatta misura di pregiudizio, discriminazione e ostilit. Anche in questo caso c' una scala graduata, e un punto oltre il quale le cose non sono pi le stesse, un punto oltre il quale lo stereotipo razziale si trasforma in razzismo: semplice, vecchio, tradizionale razzismo. E' improbabile che tutto questo sia privo di conseguenze sulla nostra disponibilit a riconoscere diritti. Davvero potremmo accettare che perso-ne sporche, avide, violente, ladre, fanatiche e infingarde abitassero il nostro mondo, traslocassero nella casa accanto, o sposassero nostra sorella? Frequentassero le scuole dei nostri figli, bevessero alla stessa tazza? Tenerli a bada Come ci si pu illudere di conciliare le diversit in un'impraticabile e ipocrita utopia di crescita e di reciproco scambio tra visioni del mondo che di fatto strutturano interessi e spazi di potere in-conciliabili? La sfida politica e di civilt dei nostri tempi, al contrario, consiste piuttosto nel tenere a bada all'interno di uno stesso ambito normativo persone e gruppi tendenzialmente ostili e poten-zialmente aggressivi. Questa l'utopia democratica a cui possiamo pur pessimisticamente affidarci: la semplicit che difficile a farsi, come si diceva una volta. Detta cos, sembrerebbe una banalit disarmante: la democrazia la condizione di uguaglianza giuridica e politica dei diversi. E' quello che ci sentiamo ripetere da svariate centinaia di anni, il principio primordiale e fondante della nostra civilt.

Ma come per le persone, sarebbe davvero ingenuo pretendere di giudicare una cultura solo dal-le sue dichiarazioni di principio, o dall'idea che ritiene di avere di se stessa. Sono invece le pratiche, i comportamenti, la cruda preponderanza del reale a contare veramente. E le nostre pratiche e i no-stri comportamenti tutti ci dicono che ad un asserito, nuncupativo e universale riconoscimento dell'uguaglianza di tutti i membri della specie (di cui si fa diuturna propaganda nelle parrocchie e sui banchi delle scuole elementari, e nei patetici telegiornali della sera) corrisponde di fatto una pra-tica molto complessa e diversificata di segmentazione e gradazione di diritti, che condizionata da pi sotterranee e radicate configurazioni culturali: derive, vestigia, ma anche il richiamo primordiale e viscerale della ineliminabile territorialit insediata nel profondo di ogni essere umano. Il fatto stesso che una parte di noi senta di dover proteggere, difendere i diritti umani testimonia di quanto essi siano costantemente violati, e insieme questa costante violazione testimonia che non esiste fondamento alla universalit di questo diritto, nessun imperativo morale in base al quale i comportamenti devianti gridino vendetta al cospetto di dio: qualcosa, per esempio, che sia altrettan-to cogente dell'amore materno, del tab dell'incesto, o del desiderio sessuale. Tutto ci dice che il diritto umano comunque - anche nell'ambito della cultura che lo professa, lo teorizza e lo difende - un diritto condizionato e relativo, e per questo fragile ed esposto permanentemente alle violazioni. E' bene prendere atto consapevolmente persino dell'impossibilit logica di essere all'altezza delle nostre dichiarazioni di principio, della distanza tra la nostra asserita eticit e la cruda gestione degli affari umani in cui siamo immersi. Riconoscere senza tante storie quanto la nostra civilt (compresi molti strenui sostenitori dei diritti umani) sia ben disposta, a determinate condizioni, a negare i diritti umani di alcuni in nome di quelli di altri. I generosi democratici dell'occidente hanno sterminato centinaia di afgani innocenti (senza particolare sensibilit per i loro diritti umani, cos pare) ma pur vero che hanno garantito alle loro donne il diritto di essere libere dal burka (bench ostinatamente si rifiutino di approfittarne). I palestinesi hanno gli stessi diritti umani di noi, certa-mente, ma dovrebbero avere il buon gusto di non mettere alla prova la nostra coerenza, pretendendo cos insistentemente che vengano rispettati (anche armi alla mano, ovviamente, come avviene da che mondo mondo). Etica? L'etica. In fondo vediamo che non difficile aggirare le proibizioni etiche, purch se ne sap-piano manipolare adeguatamente i contesti, o allestire un rituale convincente di esclusione e inclu-sione. Con espedienti del genere, anche dare la morte diviene accettabile, e cos la tortura, il rapi-mento, le violenze di ogni tipo: Guantanamo, Abu Grahib, appunto, e persino i buoni italiani in Li-bia e a Nassirya. Come hanno dimostrato gli esperimenti di Stanley Milgram, persone comuni e normalissime possono trasformarsi in freddi torturatori e omicidi se viene loro offerta la possibilit di esserlo in un contesto di

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legittimit, ed in nome di un principio qualsiasi di autorit e di ordine. Insomma, il riconoscimento solo teorico e sentimentale di una essenziale unit ed universalit dell'umano soverchiato dalla forza di interessi e dinamiche ben pi potenti e spaventosamente u-niversali. E di fronte alle terrificanti tragedie del nostro tempo, quando sia privo di consapevolezza politica e realismo, rischia di risolversi ancora soltanto in vuote dichiarazioni di principio, sostenute al pi da una traccia di inquietudine: una indignata ripulsa intellettuale e qualche patetico sanguina-re di cuori. Ma non si ha idea di quanto il cuore possa sanguinare senza nuocere alle altre funzioni vitali. Flogisti Come nel detto di S.Agostino sul tempo, ognuno di noi convinto in cuor suo di sapere perfetta-mente bene che cosa siano i diritti

umani, ma quando tentiamo si sottoporre le nostre convinzioni ad un esame pi approfondito, ci rendiamo conto di quanto poco ne sappiamo veramente. Purtroppo, bench ognuno di noi se ne sentirebbe rassicurato, i diritti umani non possono fondarsi su una legge universale, su un imperativo costituitosi al di fuori del tempo e dello spazio, una voce corrusca e indiscutibile che tuona dall'alto dei cieli. Non c' niente di tutto questo, neanche quel poco, come i pi laici di noi desidererebbero, che possa garantire un nucleo essenziale, un livello minimo di verit al quale affidare la nostra condotta. Il massimo a cui possiamo ambire qualcosa di simile alla teoria del flogisto, una spiegazione con-venzionale e irrimediabilmente falsa che ci consenta tuttavia di camminare sul vuoto finch sia pos-sibile. Solvitur ambulando, direbbe ancora S.Agostino, ma ogni giorno di pi ci accorgiamo di quanto sia arduo - e tragico questo cammino.

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Che cos' un campo nomadi?1di Leonardo Piasere

Briciole di cronaca Venerd 22 agosto 2003, il Presidente della Commissione Europea, Romano Prodi e il Cancelliere della Repubblica Federale Tedesca, Gerhard Schroeder, accompagnati dal Sindaco della citt e Presidente della Fondazione Arena, Paolo Zanotto, assistono all'arena di Verona alla rappresentazione della Carmen di Bizet. Il Presidente del Consiglio italiano, Silvio Berlusconi, ufficialmente invitato dal sindaco, diserter all'ultimo momento per timore di contestazioni e arriver a Verona solo il giorno dopo per un breve summit con Schroeder. La pice che mette in scena la famosa gitana di Siviglia un concentrato di cosmopolitismo: il regista e scenografo l'italiano Franco Zeffirelli, il direttore dell'orchestra il francese Alain Lombard, l'interprete di Carmen l'ucraina Irina Mishura, principale ballerina la spagnola Luca Real, che accompagna i ballerini di flamenco di El Camborio. Nei giorni precedenti il giornale locale, L'Arena, dedica ampio spazio all'avvenimento con articoli sui rapporti bilaterali Italia-Germania da ricucire dopo una delle tante gaffes di Berlusconi, sul ruolo storico di Verona con la Germania nei secoli, sull'impegno organizzativo del Comune e in particolare dell'Assessore ai Rapporti con l'estero, sulla presenza di giornalisti "da tutto il mondo", sulla viabilit del centro citt (da qualche anno diventato "Patrimonio dell'umanit") che per l'occasione sar chiuso, ripulito, liberato dei cassonetti delle immondizie e addobbato di fiori fatti arrivare appositamente dalla riviera ligure, sui mugugni dei "no global" locali che non potranno avvicinarsi, sul cerimoniale dell'incontro, ricco di suggestioni da sangue blu: Prodi, Schroeder e Berlusconi in questa successione arriveranno in municipio tra le 19 e le 20 di venerd sera, accompagnati dal loro seguito. Il sindaco Paolo Zanotto li aspetter sulla scalinata di piazza Bra e li accompagner in una breve visita del piano nobile [] Dopo una cena nella Sala Arazzi [] il trasferimento in Arena per assistere alla rappresentazione di "Carmen" dal palco reale (L'Arena, 19/8/2003, p. 13; corsivi aggiunti). Vi appaiono anche diversi richiami al capolavoro di Bizet: Carmen la seconda opera pi rappresentata nell'anfiteatro, e quindi la seconda "pi amata" dai veronesi, superata solo dall'Aida di Verdi, e quella del 22 agosto 2003 sar esattamente la centosessantesima rappresentazione dal suo debutto veronese nel 1914. L'allestimento di Zeffirelli, poi, gi in scena negli anni precedenti, considerato dalla critica "uno spettacolo perfetto per il grande spazio areniano" (L'Arena, 20/8/2003). "La bella gitana", lei, viene presentata come una "donna passionale e animata dalla continua ricerca della libert" (ibidem). Nel frattempo, dal 18 al 26 agosto, tutti i giorni dalle ore 11 alle 18,

"sotto il mitico balcone" della Giulietta shakespeariana vengono rappresentati brevi spettacoli teatrali gratuiti "ispirati all'amore", nell'ambito di una iniziativa dell'Assessorato al Turismo intitolata "Benvenuti a Verona". Gli antagonistici amore-e-morte di Giulietta e di Carmen vengono celebrati in contemporanea nel centro di una citt che ama autorappresentarsi spesso come "la citt dell'amore". Il 22 agosto, giorno della rappresentazione e del "disgelo tra Italia e Germania", L'Arena esce anche con un paginone dedicato ai "popoli nomadi dell'Africa e dell'Asia", con un'intervista al geografo Stefano Turri. L'edizione del giorno successivo alla rappresentazione in buona parte dedicata alla serata areniana. Lo spettacolo, avvenuto di fronte a quattordicimila spettatori e con un parterre di personalit, nella sua usuale cornice con annunci che rimbombano dagli altoparlanti dell'anfiteatro in perfetto tedesco, inglese e francese, oltre che in italiano, viene giudicato "Bello oltre ogni attesa": ma, se il soprano ucraino ha una voce "emozionante", il tenore italiano che interpreta don Jos colto lui stesso da emozione e "stecca" durante la romanza con Micaela del "Souvenir d'autre fois" (L'Arena, 23/8/2003, p. 3) Altri articoli sull'evento seguono nei giorni 24, 25 e 26 agosto con echi via via sfumati, finch il 27 agosto, anche in sincronia col termine delle rappresentazioni di "Benvenuti a Verona" che hanno lasciato "stregati" i turisti (L'Arena, 18/8/2005), i veronesi sono richiamati alla realt extra-areniana ed extra-shakespeariana: si annuncia lo sgombero di un campo nomadi della periferia. I "nomadi" sono dei cittadini romeni, ma essi non sono oggetto di interessamento n da parte dell'Assessorato ai Rapporti con l'estero, n da parte dell'attivo Assessorato al turismo, bens sono gi da alcuni mesi un target group dell'Assessorato ai Servizi sociali. Arrivate in zona alcune famiglie gi nella seconda met degli anni Novanta, il loro numero andato via via aumentando; si baraccano in spiazzi marginali, inoccupati, spesso seminascosti della periferia, ma sono ben visibili, specie le donne e i bambini, ai semafori delle circonvallazioni e del centro citt, dove si offrono come lavavetri a volte invadenti o chiedono l'elemosina. Sono romeni di cultura rom e provengono dai quartieri popolari di Turnu Severin e dai villaggi limitrofi, in Oltenia. Sono catalogati come "zingari", ovviamente, ma per certi versi sono zingari atipici: gi nel 2001, col sostegno dei membri di un "coordinamento antirazzista" cittadino, il Cesar K, occupano un'ala disabitata del seminario diocesano: da quando in qua gli zingari occupano le case? E anche ora che, dopo varie vicissitudini nel frattempo intercorse, vengono allontanati dall'ultimo spiazzo concesso, c' chi osa resistere. L'Assessorato ai Servizi sociali, infatti, annuncia che circa 120 di loro saranno spostati in un altro campo nomadi e potranno restare nel Comune:

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hanno figli in et di scuola dell'obbligo, nei mesi precedenti hanno rispettato i "patti" di collaborare in un "progetto di integrazione", che ora deve continuare, in sintonia con la certezza dell'assessore che "questo un popolo profondamente ignorante" (L'Arena, 28/8/2003); una sessantina, invece, che non vogliono entrare nel progetto o non hanno "rispettato i patti", se ne vanno prima dello sgombero; ma un'altra sessantina non ci sta: non hanno figli in et scolare, sono quindi "espunti" dal progetto, ma vogliono restare lo stesso: il giorno dopo, un'ordinanza del sindaco fa tagliare acqua e luce ai "resistenti", fra i quali 27 bambini e 9 donne incinte, i quali alla fine vengono alloggiati in una scuola dismessa, pericolosamente vicina al centro citt. Caos: il quartiere insorge appoggiato dai neonazisti2 , i rom resistono barricati dentro e appoggiati da esponenti del coordinamento antirazzista. Si decide allora di individuare un secondo campo in cui mandare questi "nomadi" che proprio non vogliono nomadizzare. A parte qualche famiglia "collocata" in altri punti della citt, per tutto il 2004 e fino all'agosto 2005 il grosso degli emigranti romeni, passati nel frattempo nel campo d'intervento dell'Assessorato alle Pari Opportunit e Cultura delle Differenze, resta diviso in due gruppi, cio due campi, "gestiti" - persone e campi - da due diverse organizzazioni: la prima un grande ente specializzato nell'inserimento nel mondo del lavoro di persone con handicap, con un antenato fondatore beatificato da Giovanni Paolo II, la seconda un'associazione, fondata da un prete che oggi spopola nei media, nata per il recupero dei tossicodipendenti. Fra gli addetti ai lavori si parla di una montante competizione tra le due organizzazioni per la "gestione dei nomadi". Carmen continua ad essere rappresentata nella stagione lirica del 2004, mentre i gitani andalusi vengono sostituiti dagli zingari del Trovatore in quella del 2005, quando va in scena anche la Bohme di Puccini. Alla ziganit melodrammatica si affiancano i melodrammi cittadini: la sezione penale del Tribunale di Verona il 2 dicembre 2004 condanna sei esponenti della Lega Nord a sei mesi di reclusione (con la condizionale) in base alla legge 205/1993 contro il razzismo, avendo essi promosso nel settembre 2001 una raccolta di firme per "mandare via gli zingari" da Verona3 . La Lega Nord era parte della coalizione di centro-destra che aveva governato la citt fino al 2002, e la condanna dei suoi esponenti rinfocola l'azione dell'Amministrazione di centrosinistra che l'aveva sostituita: i campi dei rom romeni diventano un esempio del discrimine politico esistente tra la deziganizzazione del territorio caldeggiata dalla destra e l'integrazione portata avanti dalla sinistra. Ma passano pochi mesi e la situazione precipita da un'altra parte: alla fine di giugno 2005 le forze dell'ordine fanno scattare l'"Operazione gagio", che porta in carcere rom e gag accusati di favoreggiamento e sfruttamento della prostituzione pedofila. L'accusa parla di ragazzini rom dei campi del "progetto di integrazione" preda di pedofili con l'assenso di alcuni rom del campo. Accusato di pedofilia anche un consulente dell'Assessore ai Servizi sociali, con una precedente condanna per lo stesso reato. Contemporaneamente i responsabili delle due associazioni del "progetto di integrazione" vengono pure messi agli arresti domiciliari con l'accusa di concussione: si

sarebbero fatti pagare da qualche rom che desiderava essere ammesso nel "progetto". La destra insorge, l'assessore che aveva in un primo memento "gestito" i rom e amico del pedofilo costretto alle dimissioni, il centro-sinistra si mobilita a favore delle due associazioni, che ricevono solidariet a palate. Nel frattempo si costruisce un nuovo campo che deve riunire i due gruppi. Alla fine di agosto si divulga la notizia che vi potranno entrare solo le persone in regola con i documenti e la normativa vigente, e il destino di tanti ridiventa incerto. Alcune famiglie non ci stanno e, con l'aiuto di aderenti a gruppi antirazzisti, occupano una chiesa nel centro citt. La chiesa famosa per ospitare l'organo in cui Mozart suon in una sua visita a Verona: rom e musica continuano ad intrecciarsi L'eco dell'avvenimento enorme. Questi sans-papiers veronesi, come vengono subito battezzati, sembrano vincere la battaglia: vengono regolarizzati quasi tutti dagli uffici di polizia locali e possono restare. Si chiedono, da destra e da sinistra, le dimissioni dell'Assessore alle Pari Opportunit e Cultura della Differenza, accusata di non aver saputo gestire la regolarizzazione dei rom, mentre il partito dell'interessata, di sinistra, arriva a chiedere una pi puntuale applicazione della legge vigente sull'immigrazione, emanata dall'attuale governo di centro-destra In settembre, infine, un primo gruppo viene istallato nel nuovo campo. Il pomeriggio del 22 settembre 2005 tento una visita assieme a mia moglie, insegnante di alcuni ragazzi del campo stesso. Amici ci danno informazioni abbastanza precise su come arrivarvi: "Quando la strada sembra finita, continuate, continuate, continuate". Continuiamo, continuiamo, infatti, e alla fine arriviamo. Il campo recintato e davanti al cancello staziona una pattuglia dei vigili urbani che ci informa che nessuno pu entrare se non si inclusi in una lista di persone predisposta dall'Amministrazione comunale. Non insisto; mia moglie ci prova in quanto insegnante: i vigili telefonano in municipio: niente da fare, permesso negato! Intanto escono gli alunni di mia moglie, escono delle mamme, dei fratelli, ci invitano a casa loro a prendere il caff: impossibile, non si pu proprio entrare in questo carcere alla rovescia in cui kafkianamente i reclusi sembriamo noi; il bar pi vicino a tre chilometri e lasciamo perdere il caff Chiacchieriamo un po' e ce ne andiamo. Altre persone in visita hanno la stessa esperienza: c' chi, come noi, constata, tace e se ne va; c' chi scatena un putiferio dal giornale locale, dove l'Assessore alla Pari Opportunit e Differenza culturale conferma che "pu entrare chi chiede l'autorizzazione all'assessorato" (L'Arena, 23/9/2005). Qualche giorno dopo mi si dice che se avessi chiesto alla persona giusta, avrei ottenuto il permesso di entrare: in tanti anni che ho a che fare col mondo rom la prima volta che mi si prospetta il bisogno di una raccomandazione politica per poter entrare in un "campo nomadi"! Breve storia dei campi nomadi Nella storia dei "campi" che la modernit ha creato, che posto occupano quelli che in Italia passano sotto il nome di "campi nomadi"? Da un lato, hanno un rapporto con i campi di sterminio, i campi di concentramento, i campi di detenzione, i campi

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profughi, i campi di presenza temporanea (CPT), ecc., ossia con tutti quei tipi di campi che possiamo includere in quello che stato chiamato l'universo concentrazionario? Cos, perch in Kosovo un campo abitato da ashkalija sfollati si chiama campo profughi (Rahola 2003), mentre in Italia tanti ashkalija rifugiati a causa della stessa guerra abitano un campo nomadi (Sigona 2004)? Ancora, perch i rom che partono dalla Romania, in Spagna li ritroviamo che abitano in case (Beduschi Fabeni 2004), mentre in Italia, come nel caso di Verona, li ritroviamo nei campi nomadi? Dall'altro, che rapporto hanno con i campi che potremmo chiamare dell'"universo naturistico", come i camping, i campi nudisti o anche i villaggi turistici, ossia quei luoghi in cui prevale l'ideologia della vita a stretto contatto con la natura, che pu ben comprendere anche i vari tipi di riserve naturali? E che articolazioni sono state costruite tra i due tipi di "universi", quello concentrazionario e quello naturistico? In Italia, oggi, possiamo individuare grosso modo questi tipi di campi nomadi: a) dei campi autogestiti, collocati in aree marginali delle citt, formatisi per arrivi successivi di famiglie che si baraccano creandovi una bidonville, la quale esiste finch non viene smantellata dalle autorit locali. L'occupazione del suolo abusiva e il campo nomadi vi pi o meno tollerato; la sua vita altamente congiunturale; pu essere oggetto di intervento sociale. b) dei campi autogestiti, dotati di servizi, situati in localit individuate dalle autorit locali; c) dei campi pure situati in localit individuate dalle autorit, dotati di servizi essenziali, ma non autogestiti: possono avere un "regolamento" stabilito a livello comunale (a volte scritto anche in romanes) che gli utenti devono rispettare, un "comitato" o una cooperativa sociale o altro ente o organismo esterno che li "gestisce"; la gestione, allora, pu essere pi o meno rispettosa, pi o meno invadente, pi o meno asfissiante. In uno di tali campi regolamentati sono state contate fino a otto associazioni che se ne occupavano (Tomasi 1999). d) Dei campi che, pur eterogestiti, si sono piano piano organizzati come dei paesi, col bar, il barbiere, i negozi, ecc. Ci sarebbero, poi, dei campi molto provvisori, composti da famiglie di sinti e rom che continuano a praticare una relativa mobilit sul territorio; sono completamente autogestiti dagli interessati; questi accampamenti, che sarebbero i veri "campi nomadi", in realt non sono chiamati cos, nel senso che sono cos fuggevoli e cos poco visibili che, semplicemente, non sono chiamati. Il nuovo campo di Verona, dal canto suo, rappresenta un nuovo tipo di campo nomadi, ma per comprendere a fondo la novit che esso comporta devo brevemente richiamare la storia dei campi nomadi italiani (v. anche Sigona 2005). I primi nascono nella prima met degli anni settanta in alcune citt dell'Italia centro-settentrionale (il pi meridionale era a Lucca), all'interno di un movimento di rivendicazione al "diritto alla sosta", portato avanti essenzialmente da attivisti non zingari, contro l'uso che allora i Comuni avevano di innalzare cartelli di "Divieto di sosta agli zingari". Il modello di campo pensato era pi o meno come quello che si diceva essere stato allora realizzato

in Inghilterra e in Francia, come un campo per "nomadi in transito", in sintonia con la figura di uno zingaro immaginato che nomadizza con la regolarit di un uccello di passo. Questi tipi di campi venivano realizzati ai margini delle citt, certo, e tendenzialmente in zone difficilmente recuperabili, o provvisoriamente non recuperabili all'edilizia, ma da sottolineare che nei Piani Regolatori erano classificati come "verde attrezzato", come lo sono i parchi, i giardini pubblici o i parco-giochi per bambini. Pur frequentati con assiduit da insegnanti, vigili, assistenti sociali e religiosi, questi campi non avevano di solito dei "gestori" fissi, n cancelli e recinzioni, e la vita interna restava e, dove ci sono ancora resta, ampiamente autogestita. Essi rappresentavano uno dei primi momenti di incontro/scontro tra le comunit sinte e rom e le amministrazioni pubbliche, incontro/scontro costruito su un malinteso continuo e una contrattazione tutta da inventare. Questi campi nomadi erano pensati dagli Uffici tecnici comunali come una sorta di "camping etnici". Certo, non si poteva offrire un camping con tutti i crismi, ma il modello era quello: un camping per persone che, rimaste pi vicine alla natura, in fin dei conti non hanno bisogno di tutti i servizi che un normale camping offre ai villeggianti. E' forse per questo che ho visto qualche volta due tipi di segnali stradali: un cartello indicava il "campo nomadi" in una direzione e un altro il "camping" giusto nell'altra direzione. Nonostante questo, la socialit che si pensava si instaurasse nel campo nomadi tra "nomadi" era pensata uguale a quella che si instaura in un camping turistico tra turisti: una famiglia di "nomadi" arriva, colloca la sua roulotte in uno spiazzo libero, resta una notte, qualche giorno o qualche settimana, usa i servizi costruiti in un monoblocco in una qualche parte del campo, magari con i lavandini all'aria aperta come nei camping pi "nature", fa pi o meno amicizia coi vicini, riparte per un altro campo nomadi. E' sulla base di questa immaginazione che tanti campi furono allora allestiti, i quali, lungi dall'essere dei luoghi "naturali" e in sintonia con la "natura dei nomadi", erano delle costruzioni altamente artificiali. In tempi in cui l'espressione "politiche interculturali" ancora non esisteva, essi costituivano la realizzazione concreta di politiche interculturali altamente sbilanciate, in cui un'immaginazione al potere non lasciava alcuno spazio di contrattazione a richieste concrete di persone del tutto senza potere e considerati quindi come "ininterpellabili" (v. Piasere 1984). I rom e i sinti che finirono in quei campi si trovarono spesso riuniti contro la loro volont, con famiglie da cui li potevano dividere storie decennali di conflitti, in cui la socialit quotidiana era tutta da ricostruire; finirono in una nuova forma di insediamento che favor l'innalzamento, invece che l'abbassamento, dell'attrito con i non zingari locali, una maggiore visibilit in negativo nei media cos come nelle scuole locali, una maggiore esotizzazione grazie ai reportage di fotografi che potevano visitarli pi facilmente4, e una pi radicata percezione della loro esclusione. Non si pu ben comprendere il prosieguo della storia se non si d la dovuta importanza a questi campi pensati (e, pur pensati, in tante citt mai di fatto realizzati, o solo abbozzati) per, diciamo cos, zingari "alla Carmen", zingari

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considerati dei banditi ma in fondo perfettibili, sporchi ma dotati di una passionalit alla Domenico Modugno che fa pur sempre venire i brividi al cuore; zingari-Carmen da salvaguardare quindi, ma da civilizzare contemporaneamente. Queste erano le politiche pi progressiste, ma gli allontanamenti restavano l'alternativa pi seguita: "civilizzare o bandire", diceva Daniel Bizeul (1989). Inoltre, le dinamiche interne fecero diventare quei campi non dei campi di transito, ma dei campi che, essendo la possibilit di sosta un bene che diventava sempre pi raro, venivano privatizzati dalla rete di famiglie che prendeva l'egemonia. I conflitti interfamiliari aumentarono e ben presto tanti campi vennero abbandonati o evitati dai sinti e dai rom, tanti dei quali preferivano prendere in affitto o comprare uno spiazzo in cui potersi istallare autonomamente con le roulotte. Tutto questo avveniva in un momento cruciale. Della loro storia (che anche la nostra): tra gli anni sessanta e gli anni ottanta tutti i gruppi del Nord Italia definiscono il loro definitivo passaggio all'uso dei mezzi motorizzati di spostamento in un territorio che, sempre pi controllato e perimetrato, vedr stravolte le loro modalit di mobilit che per un cinquantennio (fatta eccezione per il periodo della guerra) erano rimaste pi o meno stabili. Della nostra storia (che anche la loro): tra il 1975 e il 1985 siamo in quello che Zygmunt Bauman ha chiamato "il decennio che ha separato i 'trent'anni gloriosi' della ricostruzione del dopoguerra" (2005: 84), il periodo in cui avviene "il passaggio da un modello di comunit inclusiva, ispirato allo 'Stato sociale', a uno Stato esclusivo, ispirato alla 'giustizia penale' o al 'controllo della criminalit'" (ibidem). E' in quest'era di post-Grande Trasformazione che cominciano ad arrivare dalla Iugoslavia di allora le famiglie di xoraxan e dassikan rom, arrivi in sordina prima, un'onda sempre pi avanzante tra gli anni settanta e ottanta poi, fino a diventare una marea in seguito alle guerre iugoslave. Arrivano in Italia, come in altri Paesi, nel momento in cui sta andando in crisi l'ordine post-Seconda guerra mondiale, ma anche nel momento in cui varie Regioni italiane, a partire dal 1984, hanno cominciato ad emanare leggi che incentivano la costruzione di campi nomadi. Il risultato stato che quei campi nomadi che si costruivano pensando a "zingari-Carmen", abbandonati o rifiutati o appena tollerati dai sinti e rom locali5, furono occupati sempre pi dai rom iugoslavi, il 99% dei quali non aveva mai vissuto prima n in un campo n in una roulotte! Campi nomadi di tutti i tipi furono allestiti negli anni novanta per rom profughi che cercavano di ricostruirvi una socialit simile a quella dei quartieri rom da cui provenivano, con tanto di bar, moschea, locale per le prove di musica, ecc. E' in questi campi nomadi che cominciano a vedersi nei primi anni novanta nuovi tipi di abitazioni: se costruite dai rom stessi, si trattava di case in legno, a volte a due piani, spesso costruite con materiali di risulta, e spesso su una base rialzata da terra per proteggersi dai topi (Gulli 1995; Massimello 2004). Se di provenienza esterna, invece, le costruzioni erano dei container. Non sono sicuro, ma mi pare di ricordare che i container siano stati usati per la prima volta in un campo nomadi a Firenze nei primi anni novanta. L'arrivo dei container segna una svolta decisiva. Il container, "contenitore" per

uomini e merci nell'accezione italiana, la nuova abitazione dei "campi", e il passaggio dalla roulotte al container confina definitivamente il "nomade" nel novero delle "persone in eccesso" della tarda modernit. Provenienti qualche volta da stock di container dismessi e gi usati dai terremotati, endemici nel nostro Paese, essi ricostruiscono, spesso ai confini di un paesaggio di capannoni industriali, un paesaggio tipico da "zone definitivamente temporanee" di cui parla qualche sociologo (Rahola 2003, Bauman 2005, ecc.). Il container marca non la prima emergenza, ma la transitoriet di lunga durata e, a differenza anche della casa autocostruita (Massimello 2004), l'indicatore di una "non appartenenza", di una cittadinanza assente o difettosa: chi vi abita ha qualcosa che non va. I campi nomadi, da camping etnici per nomadi-nature nostrani si sono trasformati in campi di duratura emergenza per zingari d'altrove, target privilegiati dei progetti di integrazione. I rom sono entrati per una loro via nella sterminata periferia postcoloniale che abita le nostre citt. Ma i campi restano, pur tuttavia, dei "campi nomadi", e se il novecento stato chiamato "il secolo dei campi" (Kotek e Rigoulot 2001), per la presenza massiccia di campi nomadi sul territorio l'Italia stata chiamata Campland, il Paese dei campi (European Roma Rights Center 2000). Del campo e della riserva In uno schema binario, si potrebbe dire che in Italia, come altrove in Europa, la destra spinge per una espulsione generalizzata degli "zingari" dalle citt, la sinistra per l'integrazione. Ma alla fine, in un modo o nell'altro, sia l'amministrazione di una citt di destra o di sinistra, i rom finiscono nei campi, e a volte, come nel caso di Verona, la sinistra si trova a creare campi che la destra avrebbe a stento osato costruire, se non altro per non dar adito alle accuse di razzismo. Ci troviamo proprio di fronte alla situazione denunciata da Michel Agier (2002: 55), per cui l'odio e la solidariet si sposano in un abbraccio mortale dall'esito condiviso: si prendono le distanze, si tiene a distanza. Qualche anno fa Giorgio Agamben (1996: 30-41) si chiedeva: "che cos' un campo?". In una riflessione che poi perfezioner (v. Agamben 2003) e che partiva dai campi di sterminio nazisti, egli sottolineava come un campo non fosse altro che un luogo che nasce dallo stato di eccezione, un luogo in cui la legge sospende se stessa: "un pezzo di territorio che viene posto fuori dell'ordinamento giuridico normale", ma anche "uno spazio che si apre quando lo stato di eccezione comincia a diventare la regola" (1996: 37, 36). E continuava: Se questo vero, se l'essenza del campo consiste nella materializzazione dello stato di eccezione e nella conseguente creazione di uno spazio per la nuda vita come tale, dovremmo ammettere allora, che ci troviamo virtualmente in presenza di un campo ogni volta che viene creata una tale struttura, indipendentemente dall'entit dei crimini che vi sono commessi e qualunque ne siano la denominazione e la specifica topografia (1996: 38).

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E' in questo luogo dell'eccezione giuridica che viene confinata per tutto il Novecento la "gente in eccesso", quella che Hannah Arendt gi nel 1951 chiamava la "schiuma della terra", - apolidi, minoranze, profughi - quelle persone che erano state espulse dai meccanismi della formazione degli Stati-nazione e alle quali non restava che il campo come luogo di territorializzazione. E' per questo che il campo, una forma nata nelle colonie alla fine dell'Ottocento e poi importata in Europa, diventa nel Novecento il quarto pilastro della modernit assieme alla trinit Stato-nazioneterritorio. La variet odierna dei campi nomadi italiani il risultato di pi storie che si incrociano: i piccoli accampamenti autogestiti andrebbero veramente incontro alle richieste di quei sinti e rom che vorrebbero continuare a vivere in abitazioni mobili, i quali, se interpellati, si permetterebbero di indicare ai tecnici comunali come dovrebbe essere veramente un insediamento per le loro roulotte, come ha dimostrato Gertrud Tauber (2005). Ma essi, i pochi che esistono, costituiscono una rara sopravvivenza di politiche timidamente abbozzate trent'anni fa e mai implementate, poich il dialogo con i rom pensato impossibile. Se vero che i diritti umani veramente fondamentali sono il diritto di parola (l'essere presi in considerazione) e il diritto di azione, come diceva Hannah Arendt, allora vero che i sinti e i rom tali diritti non li hanno mai goduti, n li godono attualmente. Tutti gli altri tipi di campi, invece, sono luoghi dell'eccezione alla Agamben, luoghi in cui l'eccezione costruita in modo peculiare, pi che per via normativa, per via amministrativa. Prendiamo il campo di Verona da dove l'abbiamo lasciato: con un semplice ordine di servizio interno all'assessorato, senza il bisogno nemmeno di un'ordinanza del sindaco, io posso far s che la polizia municipale lasci entrare nel campo solo certe persone e non altre; con un'altra ordinanza per motivi tecnici (la vicinanza di un aeroporto militare), io recingo il campo con filo spinato. Da un punto di vista strettamente giuridico, in Italia non contemplato il regime dello stato di eccezione, ma lo si costruisce di fatto con una somma di disposizioni amministrative, appunto. Dopo di che, io posso benissimo gridare che non si tratta di un lager, ma sta di fatto che sono i rom romeni che ora ci abitano, e non l'assessore alle Pari opportunit e Differenza culturale. Nei campi ci abitano sempre gli altri: mai quelli che li istituiscono, mai quelli che li gestiscono. I "campologi", gli studiosi dei campi, ci insegnano che si pu distinguere almeno fra due tipi: i campi di distruzione e quelli di protezione. Ma la distinzione potrebbe non essere cos netta, poich un campo di distruzione pu essere visto come un campo che ha la finalit di proteggere chi non vi viene rinchiuso. La protezione, infatti, pu avere due direzioni: verso l'esterno o verso l'interno. I lager nazisti, ci spiega Agamben (1996: 36), non erano basati sul diritto comune, ma sulla Schutzhaft, sulla "custodia protettiva", un istituto di derivazione prussiana, una sorta di misura preventiva applicabile indipendentemente da comportamenti di rilevanza penale. A loro modo, con macabra ironia, erano dei campi di protezione. Diversa la situazione di altri campi, quelli istituiti per proteggere gli interni dagli esterni.

Nel primo tipo di campo, il personale vieta di uscire agli internati e vieta di entrare agli esterni senza permesso; nel secondo il personale si limita a vietare di entrare agli esterni senza permesso. E' questo il caso di tanti campi profughi situati in zone di conflitto (v. Rahola 2002), ma questo anche il caso delle riserve amerindiane. Se prendiamo ad esempio il caso del Brasile (v. Pacheco de Oliveira 1999), noi abbiamo la situazione per cui qualsiasi persona che non faccia parte di staff ben individuati, non pu entrare nel territorio dell'area indigena senza una preliminare e dettagliata richiesta agli uffici competenti. La filosofia politica sottostante recita che gli indigeni devono essere protetti e tutelati dai nemici esterni (specie chi vuole impossessarsi delle loro terre) e al contempo godere di certi servizi differenziati. Chi c' stato sa che cartelli ben evidenti indicano l'entrata nella riserva e il divieto di entrata senza permessi. Un campo nomadi come quello di Verona, allora, potrebbe essere una sorta di riserva che protegge i rom. Protegge da chi, visto che qui non ci sono terre da usurpare (ma neanche risorse di cui vivere)? Dai razzisti, certo; dai pedofili, assolutamente; dai rom che non fanno "parte del progetto" e che si possono infiltrare di nascosto nel campo, ovvio. Dai curiosi "verso gente che sta cercando una normalit di vita", spiega l'assessore (L'Arena, 23/9/2005). Ma anche da quelli che si sono dimostrati essere dei veri e propri alleati politici: gli attivisti dei centri antirazzisti. Questi rom, a differenza di tanti altri, hanno dimostrato di essere capaci di azioni politiche di protesta anche eclatanti; ora, agli "zingari" si sempre rinfacciato di non essere capaci di azione politica, ma nel momento in cui alcuni dimostrano il contrario, si rinfaccia loro di essere al guinzaglio degli "estremisti": possono essere cos chiamati gli "altermondisti" di estrazione diversa che danno loro aiuto contro le espulsioni (evitabili). Il diritto all'azione di Hannah Arendt non loro concesso, o concesso ma allora sotto tutela. D'altra parte, non era questa la funzione dei primi campi della storia, quelli costruiti dagli spagnoli a Cuba nel 1896, cio quella di tenere isolati gli insorti dalla popolazione che li poteva appoggiare? I campi, possiamo notare, tutti i campi, siano essi puntiformi come un campo nomadi o di centinaia o migliaia di ettari come una riserva brasiliana, siano di detenzione o di protezione, hanno un'unica logica: quella di porre un confine tra chi vi abita e la societ circostante. Marcano una discontinuit, sono delle ferite, degli strappi, all'interno del territorio dello Stato-nazione. Un "progetto di integrazione" tramite la costruzione di un campo apparentemente una contraddizione in termini. Ma, vista l'architettura del mondo contemporaneo, esso assolutamente logico: quella relazione di eccezione "che include qualcosa unicamente attraverso la sua esclusione" (Agamben, 2005: 22). Il nuovo campo di Verona per certi versi l'esito atteso della storia dei campi nomadi, cio la loro trasformazione in riserve (senza risorse6) e se mi vi soffermo perch il suo esempio rischia di essere copiato altrove (di solito le amministrazioni "copiano" quello che fanno le altre, invece che studiarne gli effetti): da un lato, con un unico grande campo eterogestito piuttosto che tanti e piccoli autogestiti si fronteggiano le ire antizingare di un solo quartiere e non di tutta la citt (si "protegge" la citt: da questo

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punto di vista un campo la cui filosofia si avvicina a quella della Schutzhaf), dall'altro, la gente che vi abita protetta e vi riceve servizi ad hoc. Anche qui come nelle riserve brasiliane e nei campi profughi balcanici, la distinzione tra chi "gestisce" e chi " gestito" marca l'enorme divario di potere esistente. Come classica "soluzione locale a problemi globali" (a prescindere dall'impegno e dalla buona fede dei cosiddetti "mediatori culturali": una figura della nuova organizzazione del lavoro neo-con, basato sul precariato eterno e quindi sul ricatto perenne), la nascita di veri e propri "Rambo del sociale" in costante ricerca di "accreditamento" nel nuovo mercato nazionale e internazionale dell'assistenza, segnala le lacerazioni enormi che esistono, ma anche l'ideologia che sottosta a quelle lacerazioni. Come dice Bauman (2005), "in principio fu il progetto": la mente moderna convinta che l'umanit cos com' non vada mai bene, specie l'umanit degli altri, da aggiungere, poich "loro sono sempre troppi" (2005: 45), perch "ogni altro occupa troppo posto", dicevano gi Horkheimer e Adorno (1966: 197), per cui ecco la corsa ai "progetti" (sugli altri). E ai fondi. "Quando si tratta della progettazione delle forme della comunit umana - dice Bauman gli scarti sono esseri umani" (2005: 39). Essere scartato da un progetto che gi riguarda degli "scarti", pu allora scatenare la reazione imprevista di rom che, pur odiando il campo e pur odiando o essendo indifferenti al "progetto", rivendicano il diritto di abitare il campo e di far parte del "progetto", applicando contemporaneamente l'unico potere a loro disposizione: il potere di resistenza, di ironia o di defilarsi: dopo riunioni su riunioni di insegnanti e mediatori per migliorare la sua "integrazione scolastica", F., una romn di 14 anni che gi aveva ottenuto di poter stare a casa da scuola il luned, mercoled e sabato (!), pianta tutti e se ne va con la famiglia: in Belgio, dal fidanzato! Ha altre cose a cui pensare, lei Ora, come dice Rahola (2003: 30), ovvio che ci possa essere bisogno d'aiuto, "meno che quel tipo di aiuto sia esattamente ci che vogliono. Ma anche ammettendo che coincida con la loro necessit immediata, che accettino di essere internati in campi, proprio la dimensione di campo come destino, come luogo privo di alternative che finisce cos per affermarsi e 'fare la differenza'". Della riserva e del bando Voglio riprendere una citazione di Henriette Asso (v. anche Piasere 1991: 214): Vi sono dei popoli che sono rivelatori dello Stato nella sua essenza, non perch si trovino ai margini dello Stato stesso, ma perch assicurano un rapporto di trasparenza di coloro che stanno al centro rispetto alla periferia. Tali popoli o tali gruppi non hanno una vocazione egemone, senza per questo essere dei gruppi subalterni. Non sono gli elementi passivi di una storia dello Stato che si svolga come attraverso di essi. Essi danno impulso ad un processo per mezzo della loro stessa esistenza, attraverso la loro perennit. Lo Stato si ricorda di loro in congiunture storiche particolari e ne fa un uso che va ben al di l della produzione giuridica di uno statuto (1989: 124).

Noi sappiamo che nella storia d'antico regime questo rapporto di trasparenza tra centro e periferia nelle societ occidentali stato esplicitato essenzialmente tramite il bando e, per quello che ne sappiamo, l'Italia di antico regime stata la maggiore produttrice di bandi anti-zingari in assoluto (Piasere 2004), stato il "Paese dei bandi". Lo Stato della Chiesa eccelleva in questa gara, proprio in quello Stato in cui fra le rappresentazioni teatrali pi amate e ricercate vi erano le zingaresche, commedie e farse in cui la protagonista era una zingara (Piasere 2006). Possiamo dire che in quell'Italia, come mi suggerisce Benedetto Fassanelli, lo spazio degli zingari era nel bando e nel teatro. Sempre Giorgio Agamben ci mostra come l'inclusione esclusiva che nel Novecento affidata ai campi, luoghi di "eccezione" e quindi produttori di "nuda vita", nel Medioevo e nell'Antico regime essa era coniugata attraverso il bando. Il bandito, fratello dell'homo sacer degli antichi Romani, era colui che in certe fonti subisce un processo di animalizzazione e diventa un uomo-lupo: "Quello che doveva restare nell'inconscio collettivo come un ibrido mostro tra umano e ferino, diviso tra la selva e la citt - il lupo mannaro - dunque in origine la figura di colui che stato bandito dalla comunit" (Agamben, 1995: 117). Ma allora, il bando diventa "la forza, insieme attrattiva e repulsiva, che lega i due poli dell'eccezione sovrana: la nuda vita e il potere" (1995: 123). Scopriamo allora che chi vuole bandire e chi crea i campi compie un unico atto: il legame trasparente tra potere e periferia di cui parla Asso non altro che la "relazione politica originaria", "l'inclusione esclusiva della nuda vita nello Stato" di Agamben (1995: 119), che pu storicamente subire metamorfosi tanto diverse da realizzarsi in figure cos apparentemente opposte come un bando e un campo. Bauman dice che nell'era dell'eccesso il campo sta ai rifiuti umani come la discarica sta ai rifiuti materiali. E a volte i due fenomeni coincidono: i popoli delle discariche7. Ma si potrebbe anche dire che il campo ci che sostituisce o tenta di sostituire il bando nell'era dell'eccesso. Abbiamo tutti gli elementi, allora, per capire perch l'assessore alle Pari Opportunit e Differenza Culturale abbia potuto dichiarare che, con la riunione dei rom romeni in un unico campo, l'Amministrazione veronese "ha dato una soluzione, con capacit e competenza, a due situazioni provvisorie presenti sul territorio" (L'Arena, 14 0ttobre 2005), situazioni createsi nell'agosto 2003, come si ricorder. Che cosa era successo, allora, in quel torrido agosto? L'ara sacrificale E' successo che andato in scena un grandioso rituale dell'antiziganismo. E l'antiziganismo ha uno schema rigido solo nelle sue connotazioni pi grezzamente razziste, ma per il resto uno schema articolato e processuale in cui l'aspetto rappresentazionale, qui nel duplice significato di rappresentazione teatrale (e quindi mimetica) e di rappresentazione mentale, gioca un ruolo fondamentale. In un anfiteatro romano fra i pi prestigiosi, nei locali "nobili" del municipio, in un centro storico "patrimonio dell'umanit" che il sindaco per l'occasione trasforma in una "riserva d'elezione"

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guardata a vista, i grandi delle democrazie europee celebrano se stessi. Si incontrano per ristabilire una sintonia incrinata fra governanti di Stati-nazione che, con l'Unione Europea, tentano una riconfigurazione dell'idea stessa di Stato-nazione. A quest'incontro invitata Carmen8: la Carmen di Bizet, la gitana tardoromantica dalle emozioni forti, l'emblema della libert selvaggia che va contro ogni ordinamento, della femme fatale, dell'amore passionale velenoso che attrae e distrugge, la Carmen alter ego di quella Giulietta che invece la dea dell'amore fedele9, la mitica patrona di Verona, citt dell'amore I grandi d'Europa, dal palco "reale" di un anfiteatro che un grande patibolo in cui ogni estate vengono sacrificati eroi ed eroine melodrammatici, celebrano se stessi e l'assetto politico del mondo che essi rappresentano assistendo al sacrificio della gitana. La morte di Carmen, grumo di orientalismo e meridianismo (ecco come potremo intendere il senso della pagina dell'Arena dedicata il giorno stesso della rappresentazione ai nomadi dell'Asia e dell'Africa), essenza dell'esotismo zingaro, proiezione fantasmatica dell'erotismo maschilista europeo, la catarsi contro la passione che distrugge i singoli e le nazioni. Incarnazione del disordine nell'amore, essa l'allegoria del disordine emozionale dei popoli di natura che si contrappongono alla civilt: un esempio da non seguire, certezza condivisa da tutti, come lo stesso ambiente cosmopolita sembra simbolizzare. La partecipazione allo spettacolo zeffirelliano diventa un'educazione sentimentale di prevenzione e il sacrificio finale una catarsi: "Bello oltre ogni attesa"! Alla riserva d'elezione dagli odorosi fiori (il potere sovrano) in cui i grandi si trincerano, fa da pendant la riserva (la nuda vita) che si sta preparando in periferia. Che alcuni rom debbano essere banditi e altri rinchiusi nel campo, ora lo sappiamo, dal punto di vista dei rapporti di potere, fa poca differenza. Diventa un diacritico: se preferisci l'espulsione sei di destra, se il campo, di sinistra (ma allora solo se il campo viene isolato con una sorta di cordone sanitario, di mediatori che parlano a nome d'altri, di Rambo del sociale dal progetto facile, che lo circondano come gli anticorpi sono pronti a gettarsi sul batterio estraneo che penetrato in noi). I rapporti dialogici sono inesistenti. Il fatto che a decidere non sono mai gli interessati; gli "inappellabili", "coloro a cui non si chiede", infatti, sono quelli che non hanno il diritto di avere diritti, come diceva Hannah Arendt. I nomadi "nature" per camping etnici di un tempo, moderni lupi mannari che si aggirano negli spazi incostruiti delle nostre citt e che magari ci rubano i bambini, i nomadi da container dell'era dell'eccesso, loro, sono nel frattempo stati talmente "culturalizzati" che la stessa distinzione tra cittadino e straniero per loro pensata non valere. Sono zingari, sono nomadi! Romeni o bosniaci o kosovari o italiani questo con loro non c'entra. In una ricerca condotta a livello nazionale fra gli insegnanti con alunni "zingari", risultato che la maggioranza sapeva a quale gruppo appartenessero i propri alunni (se rom, sinti o camminanti), ma solo un numero molto pi basso conosceva la loro nazionalit (Sorani 2004).

Concretamente, non sono n cittadini n non-cittadini (stranieri), li potremmo chiamare i campodini: la denazionalizzazione di fatto e la contemporanea iper-culturalizzazione li hanno resi una figura a parte. Ecco perch un campo nomadi ha sempre un qualcosa che lo smarca da altri tipi di campi della tarda modernit. E' un campo in cui viene rinchiuso dell'"eccesso", della "gente in pi", dei consumatori scassati, certo, ma anche uno spazio in cui si territorializza l'antiziganismo strutturale che gli Stati-nazione hanno incorporato e che quello italiano ha particolarmente sublimato: il Paese dei campi! D'accordo, strettamente parlando non un lager, se questo che disturba (v. anche Brunello 1996): il sacrificio delocalizzato sul piano simbolico e su are sacrificali pi prestigiose. Pi difficile dire che non si avvicini ad un campo di concentramento. "Possono uscire", si dir: ma anche nel campo di concentramento fascista di Prignano sulla Secchia i sinti ivi rinchiusi potevano uscire per andare a carit (Torre et alii 2005). "Ma c' un servizio scolastico", si argomenter: ma anche nei campi di concentramento fascisti i bambini andavano a scuola: ad Agnone i piccoli rom ne avevano una tutta per loro (Bravi 2005), quasi come la "scuola paterna" del progetto di integrazione veronese, verrebbe da ironizzare, ma meglio di no; a Prignano i bambini sinti frequentavano quella del paese; andavano a scuola persino i sinti del campo di Marzahn, forse il primo "campo nomadi" della storia, quello creato dai nazisti nel 1936 a Berlino (Rosenberg 2000). Il campo nomadi, riserva che odora oggi da campo di concentramento quanto odorava qualche decennio fa da riserva naturistica, area che si colloca decisamente all'interno del grande continuum della "forma-campo" che ha invaso il Novecento e la tarda modernit, resta una bolla politica in cui si isolano integrandoli i disobbedienti espulsi storicamente dalla costruzione degli Stati-nazione. E' il costo della democrazia, del potere della maggioranza, ci si dice. Ma i rom conoscono da sempre quello che Bauman chiama il bluff del modello inclusivo degli Stati-nazione, che dura fin quando non vengono smascherate le finzioni delle categorie su cui si basa. E' pi facile mettere d'accordo Berlusconi e Schroeder, che in quelle finzioni navigano, che risolvere il "problema dei nomadi": noi al campo ci andiamo, noi, veri cosmopoliti che possiamo essere gi stati in Germania, Francia, Belgio, Norvegia, Irlanda al progetto di integrazione, come no?, partecipiamo; ma diversamente da altri profughi, da altra schiuma della terra, conosciamo da secoli il vostro bluff, e abbiamo la sfrontatezza di chiedervi in ogni istante di vedere le vostre carte. Terrore Epilogo 17 ottobre 2005: il campo ormai completato, tutti i rom vi sono stati trasferiti da giorni. Mia moglie ancora non riuscita ad entrare; io non c'ho pi provato, anche se potrei essere raccomandato Ma, titola L'Arena, "Tornano i lavavetri senza paura di multa. Gli zingari danno generalit e domicili inventati"

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Note Titolo originale: "Qu'est-ce qu'un campo nomadi?", comunicazione presentata al convegno internazionale "Les Tsiganes en Europe: questions sur la reprsentation et l'action politique", The British Academy / CNRS - Laboratoire d'Anthropologie des Institutions et des Organisations Sociales, Parigi, Maison des Sciences de l'Homme, 24 e 25 ottobre 200 2 Sulla vitalit dei movimenti di estrema destra a Verona, v. Del Medico (2004). 3 Sentenza n. 2203/04, Tribunale di Verona, Sezione Penale; depositata il 24 febbraio 2005. 4 Emblematici sono i tre volumi curati in quegli anni da un'quipe di pubblicisti, il Gruppo ARCA, con foto che in gran parte provenivano dai campi di Milano. 5 La critica pi lucida circa gli effetti di quei campi nomadi espressa nel numero del 1989, p. 39, di Rom, allora rivista annuale dei missionari cattolici fra gli zingari. 6 E' Irne Bellier, che ringrazio, che attira la mia attenzione sul fatto che, per lo meno, le riserve amerindiane prevedono lo sfruttamento delle risorse all'interno dell'area recintata; ma ci non sempre ci avviene, devo aggiungere, dal momento che i terreni scelti e "offerti" agli indigeni possono essere a volte praticamente sterili. 7 O dei cassonetti: sempre a Verona, nel maggio 2004 Joan Suciu, un immigrato romeno, muore stritolato nel camion che raccoglie le immondizie: probabilmente dormiva in un cassonetto e vi stato inavvertitamente gettato dentro (Vinco 2005). Sui "rapporti" romdiscariche, oltre a Piasere (1991: 181-221), si veda il caso esemplare di Giugliano (NA) negli illuminanti contributi riuniti da Ciro Tarantino ( 2005). 8 Certo, se i grandi fossero venuti il giorno prima avrebbero potuto assistere al Nabucco di Verdi, il giorno dopo al Rigoletto. Ma un fatto che a Carmen che assistono! L'antropologia insegna che quello che sembra un caso nei grandi rituali pubblici, burocraticamente, e quindi agentivamente, preparato pi di quanto gli spettatori non percepiscano (v. Herzfeld 2006). 9 E' un caso che Verona Fedele sia il nome del giornale diocesano locale?1

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Bisogna difendere la metropoli milaneseBiopolitica di uno sgombero di Lorenzo D AngeloGli aspetti per noi pi importanti delle cose sono nascosti dalla loro semplicit e quotidianit. (Non ce ne possiamo accorgere, - perch li abbiamo sotto gli occhi.) (L. Wittgenstein, Ricerche filosofiche, Einaudi, 1967, 129)

Qualche tempo fa, sfogliando un giornale che viene distribuito gratuitamente nella citt in cui vivo, mi sono imbattuto in un trafiletto in prima pagina quantomeno allarmante: CASI DI TUBERCOLOSI NELLE AREE FALCK Il rischio di epidemia esiste: sulle aree ex Falck, dove vivono centinaia di stranieri, perlopi clandestini, sono stati certificati dai sanitari due casi di tubercolosi. Le stesse forze dell'ordine, in queste condizioni di rischio, fanno fatica a intervenire durante gli sgomberi per allontanare gli abusivi dagli insediamenti industriali. La popolazione allarmata e preoccupata. L'igiene pubblica va salvaguardata e i responsabili comunali devono incominciare a mobilitarsi, per ridare certezze ai residenti che pagano le tasse e chiedono una citt vivibile e sicura (La Gazzetta del Nord Milano, 14 aprile 20041). Rileggiamolo. "Centinaia di stranieri" minacciano, con la loro semplice presenza, la salute pubblica dei "residenti che pagano le tasse". Le forze dell'ordine che dovrebbero tutelare la "popolazione" (allarmata e preoccupata, ovviamente) si trovano in difficolt: "allontanare" gli abusivi un rischio (per la loro salute, si intende). Non solo la popolazione residente dunque, ma anche chi dovrebbe garantirne la sicurezza e la salute - il suo ordine - , a sua volta, minacciato. Un pericolo, da cui nessuno immune, incombe: nemmeno quegli anti-corpi che dovrebbero difendere la societ dai suoi nemici, espellendoli, sono al sicuro. Una criminalit patogena, virulenta, insomma, e delle peggiori. L'articolo sopra citato esce il 14 aprile 2004. Non un caso. Appena due settimane prima, per l'esattezza il 1 aprile, a Milano2, in via Adda, stato sgomberato un edificio occupato abusivamente da stranieri con e senza regolare permesso di soggiorno, in prevalenza romeni rom. L'evento, ad un paio di mesi dalle elezioni provinciali ed europee di giugno 2004, fu seguito con una certa enfasi sia dalla stampa locale sia da quella nazionale. Torneremo su questa vicenda per pi avanti. Alla luce di questo fatto, non sorprender pi di tanto che, in una pagina interna dello stesso fascicolo sopra menzionato, siano riportati altri due articoli strettamente correlati:

SESTO, VERGOGNA. I ROM ARRIVATI DA VIA ADDA Quando la polizia ha varcato l'ingresso di via Trento e girato all'interno degli ex stabilimenti vulcano, tra i rovi e i rifiuti non ha trovato le solite baracche. Ma un vero e proprio villaggio, fatto di uomini, donne bambini. In mezzo, per l'ora della colazione, un centinaio di rom, molti dei quali arrivati nei giorni scorsi da via Adda a Milano [...]. Da tempo terra di nessuno, e ormai pi grande campo nomadi di Milano. Un luogo in cui non vi sono regole, n legge, a parte quella della mala. Un posto dimenticato da Dio ... (La Gazzetta del Nord Milano, 14 aprile 2004) IL CAMPO NOMADI C'E' Ecco la prova che il campo nomadi, a Sesto San Giovanni esiste. Lo ha "certificato" l'ospedale cittadino, scrivendo sulla busta contenente alcune radiografie, oltre al nome e cognome della paziente, anche l'indirizzo: "campo nomadi di Sesto". Che i sanitari siano pi info