Abracadabra ALP -...

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Abracadabra di Heinz Mariacher (pubblicato su ALP n. 2, giugno 1985) Un tempo per me, come dettava la tradizione, arrampicare significava esclusivamente montagna. Ogni estate si andava in Dolomiti, cercando di ripetere le vie più difficili. Dopo averle fatte tutte, non vedemmo altre possibilità di miglioramento che arrampicare con il cronometro e fare più vie nello stesso giorno. Avevamo già sentito parlare del free-climbing, ma non l’avevamo preso sul serio, perché veniva praticato solo in palestra. Heinz Mariacher sulla via Cassin, parete nord della Cima Ovest di Lavaredo, 1978. Foto di Almo Giambisi Fu Pete Livesey, proveniente dalla scuola inglese dedita all’arrampicata libera, che nel 1979 durante un giro in Dolomiti ci mostrò che un alto livello nell’arrampicata rappresentava un notevole vantaggio anche in montagna: in breve tempo ripeté il Pilastro della Tofana per la via Costantini interamente in libera (rotpunkt, cioè da capo cordata, senza attaccarsi o riposarsi sui chiodi e senza voli). Fece poi la Lacedelli alla Cima Scotoni sempre in libera, ma con un riposo su un chiodo, e superò lavia Buhl alla Roda di Vael con soli 6 chiodi di progressione. Fu un esempio concreto e affascinante, che rappresentava un chiaro metro di paragone con il quale confrontarmi senza dover scendere a valle. Tentai il Pilastro della Tofana senza riuscire a passare, perché mi mancava la forza negli strapiombi. Mi convinsi che era necessario un allenamento specifico, da affiancare all’arrampicata in montagna, per raggiungere simili livelli in arrampicata libera. Senza ancora interpretare l’arrampicata in bassa montagna come un fatto determinante o addirittura fine a se stesso, ho così cominciato a frequentare anche un po’ le palestre, al fine di ripetere le prestazioni di Livesey. Nel frattempo, in Dolomiti, ho continuato la mia ricerca delle massime difficoltà, indirizzando la maggior parte delle mie energie sulla splendida parete sud della Marmolada.

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Abracadabra

di Heinz Mariacher (pubblicato su ALP n. 2, giugno 1985)

Un tempo per me, come dettava la tradizione, arrampicare significava esclusivamente montagna.

Ogni estate si andava in Dolomiti, cercando di ripetere le vie più difficili. Dopo averle fatte tutte,

non vedemmo altre possibilità di miglioramento che arrampicare con il cronometro e fare più vie

nello stesso giorno. Avevamo già sentito parlare del free-climbing, ma non l’avevamo preso sul

serio, perché veniva praticato solo in palestra.

Heinz Mariacher sulla via Cassin, parete nord della Cima Ovest di Lavaredo, 1978. Foto di Almo

Giambisi

Fu Pete Livesey, proveniente dalla

scuola inglese dedita

all’arrampicata libera, che nel

1979 durante un giro in Dolomiti

ci mostrò che un alto livello

nell’arrampicata rappresentava

un notevole vantaggio anche in

montagna: in breve tempo ripeté

il Pilastro della Tofana per la via

Costantini interamente in libera

(rotpunkt, cioè da capo cordata,

senza attaccarsi o riposarsi sui

chiodi e senza voli). Fece poi la

Lacedelli alla Cima Scotoni

sempre in libera, ma con un

riposo su un chiodo, e superò

lavia Buhl alla Roda di Vael con

soli 6 chiodi di progressione.

Fu un esempio concreto e

affascinante, che rappresentava

un chiaro metro di paragone con

il quale confrontarmi senza dover

scendere a valle. Tentai il Pilastro

della Tofana senza riuscire a

passare, perché mi mancava la

forza negli strapiombi. Mi

convinsi che era necessario un

allenamento specifico, da

affiancare all’arrampicata in

montagna, per raggiungere simili

livelli in arrampicata libera. Senza

ancora interpretare l’arrampicata in bassa montagna come un fatto determinante o addirittura

fine a se stesso, ho così cominciato a frequentare anche un po’ le palestre, al fine di ripetere le

prestazioni di Livesey. Nel frattempo, in Dolomiti, ho continuato la mia ricerca delle massime

difficoltà, indirizzando la maggior parte delle mie energie sulla splendida parete sud della

Marmolada.

La conoscevo fin dal 1975 e vi avevo aperto anche 10 vie nuove, con difficoltà fino al sesto grado

superiore. Il nostro gioco seguiva regole ben precise: pochi chiodi, niente artificiale, niente chiodi

a pressione o spit, niente bivacchi… E ora volevo fare di più. La sfida che sentivo nei confronti

dell’arrampicata non si realizzava più sui soliti itinerari classici, che mi apparivano tutti uguali

l’uno all’altro. Così nel 1980 ho aperto lavia Abracadabra, la prima via della Marmolada nell’ordine

del VII grado, e oltretutto assai più pericolosa delle altre per la roccia friabile che non permette

buone possibilità di assicurazione.

Ogni stagione mi sentivo più sicuro delle mie possibilità e, nell’estate del 1982, ho affrontato il

confronto diretto con le prestazioni di Livesey alla Roda di Vael: sono passato sulla via

Buhl interamente in arrampicata libera (rotpunkt). Un anno prima Guellich e Albert erano riusciti

a passare con due soli punti di riposo e avevano dichiarato difficoltà di VIII+. Forse lavia Buhl in

libera resta ancora oggi la più difficile arrampicata delle Dolomiti. Già allora arrampicavo sempre

con Luisa Jovane. Lo stesso anno abbiamo sfiorato l’ottavo grado sulla Sud della Marmolada,

aprendo dal basso e senza nessun chiodo a pressione la via Moderne Zeiten (via dei Tempi

moderni). È stato il massimo livello che ho raggiunto prima di dedicarmi sistematicamente al

freeclimbing, allenandomi principalmente a casa e preparandomi fisicamente prima dell’estate.

Uno dei motivi che mi hanno spinto ad abbandonare in parte la mia parete preferita, la Sud della

Marmolada, è stato l’arrivo di arrampicatori che non stavano alle nostre regole del gioco e che

con l’artificiale e con i chiodi a pressione superavano i problemi che noi avevamo cercato di

risolvere in libera. A partire dal 1983 abbiamo cominciato a frequentare Arco e la Valle del Sarca,

aprendo nuovi itinerari accanto a quelli classici ormai superati. Abbiamo iniziato ad arrampicare

in tutte le stagioni, escluso l’inverno, utilizzando anche gli spit per protezione: il calcare della

Valle del Sarca è buono soprattutto sulle placche compatte e non fessurate. Così è cresciuto

ancora notevolmente il livello delle difficoltà e, progressivamente, mi sono specializzato

nell’arrampicata a bassa quota: talvolta in montagna cammini per delle ore e arrampichi per

tutta una giornata sugli sfasciumi, per poi superare solamente pochi metri veramente

paragonabili alle arrampicate estreme di Arco.

Luisa Iovane e Heinz Mariacher, agosto 1982, Agordo

L’estate scorsa (1984) ho realizzato solo tre o quattro salite in Dolomiti, fra cui il Pilastro di

Mezzo al Sasso della Croce con un cliente e la via Maestri alla Roda di Vael, dove non sono riuscito

ancora a fare completamente in libera l’ultimo tiro. Inoltre abbiamo ripetuto la temutissima via

del Pesce sulla Marmolada (via Koller-Šustr): c’è un passaggio in libera eccezionalmente difficile

(VII+) con un chiodo molto cattivo come unica sicurezza lontano sette metri, tanto che viene da

pensare che Šustr, di appena diciassette anni, non fosse del tutto a posto quando è passato per

primo. Una simile difficoltà superata in questo stile, secondo me, è stato un vero passo avanti

nella storia dell’arrampicata libera.

Alla luce di tutta questa esperienza, penso che arrampicare a pochi metri dall’auto non sia

certamente un semplice sport o una pura ginnastica come molti alpinisti classici sostengono. Al

contrario, richiede un’eccezionale forza psichica, almeno quanto in montagna. Ad Arco tento il

tutto per tutto, spesso superando il limite del volo, per raggiungere le massime difficoltà; in

Dolomiti, al contrario, mantengo sempre una buona riserva, perché diversamente sarei un pazzo.

Mentre in palestra si vola sul serio, in montagna nessuno considera davvero la possibilità di

cadere: la paura nel primo caso è molto più reale, anche se i voli non sono necessariamente

pericolosi.

L’avventura esiste ovunque, sia in palestra sia in montagna; ognuno è libero di cercarsi

l’avventura che desidera, non dipende dall’altezza della parete. Comunque, nonostante tutto,

credo che in futuro svolgerò gran parte della mia attività in montagna, perché lì lo sviluppo

dell’arrampicata libera è ancora molto limitato e l’ottavo e il nono grado in stile classico

rappresentano una grande sfida aperta (per stile classico intendo l’apertura delle vie dal basso,

senza artificiale).

Mi riferisco però al vero ottavo e nono grado, non a quello che molti oggi sostengono di superare:

è un problema di correttezza di valutazione, dato che in montagna si tende sempre a

sopravvalutare. In generale il rischio come fattore di difficoltà assumerà sempre maggiore

importanza e, anche a bassa quota, ci si dovrà abituare a una chiodatura sempre più scarsa.

Oggi molti considerano l’arrampicata come uno sport, ma non essendoci per ora gare che

permettano confronti diretti (l’intervista è stata condotta prima dell’ufficializzazione delle gare di

Bardonecchia, NdR) un fattore determinante rimane l’onestà verso se stessi e verso gli altri.

Purtroppo c’è sempre qualcuno che vende le proprie fantasie come grossi risultati sportivi.

Una volta, quando arrampicavo solo in montagna, era tutto più facile. Oggi l’arrampicata di alto

livello richiede una preparazione sempre più intensa e la rinuncia a molti piaceri della vita.

Col dei Bous (Fedaia), parete ovest, tentativo di prima ascensione. Heinz Mariacher sulla seconda

lunghezza, 29 luglio 1986

Heinz Mariacher

Nato nel 1955 a Wörgl, in Tirolo, è

attualmente uno dei più forti

arrampicatori a livello europeo.

La sua attività di alpinista ha

avuto inizio in giovanissima età,

verso i tredici anni, quando ha

ripetuto in solitaria — nel

Kaisergebirge — il suo primo

itinerario di V grado. In

pochissimi anni ha percorso tutte

le più difficili vie del Kaiser e, nel

1974, si è distinto ripetendo in

appena sei ore, da rifugio a

rifugio, le vie Comici e Cassin

sulle pareti nord delle Cime di

Lavaredo. L’estate successiva ha

salito da solo la via Lacedelli alla

Cima Scotoni e la Vinatzer alla

Sud della Marmolada.

Poi è iniziata una fase di

riflessione e di ripensamento,

volta alla ricerca di un rapporto

essenziale con la natura che

avrebbe dovuto sfociare in

un’esperienza come trapper in

Alaska. Ma infine l’arrampicata

ha di nuovo preso il sopravvento,

unitamente alla conoscenza di

Luisa Jovane, compagna di Heinz

nella vita e in montagna. È seguita una campagna assai efficace in Yosemite, con veloci ripetizioni

della via del Nose e dellaSalathé al Capitan, e poi un viaggio in Hoggar con la realizzazione di

numerose vie nuove.

Le successive ripetizioni e prime salite in Dolomiti, tutte in stile rotpunkt e cioè secondo un’etica

di severa purezza stilistica, costituiscono un elenco eccezionale: vie Soldà e Vinatzer-Messner alla

Marmolada, Pilastro di Mezzo al Sasso della Croce, Bellenzier alla Torre d’Alleghe, Pilastro della

Tofana (via Costantini), Carlesso alla Torre di Valgrande, Gogna alla Marmolada, Buhl alla Roda di

Vael. In solitaria assoluta, cioè senza corda né assicurazioni, ha percorso quasi tutte vie del Piz

Ciavazes e la Fessura Conforto alla Marmolada.

Tra tutte le realizzazioni di Mariacher (più di 40 itinerari di estrema difficoltà) spiccano

nettamente per continuità e per impegno i 12 percorsi sulla Sud della Marmolada, la parete

preferita da Heinz e compagni. Le vie nuove sulla Marmolada sono state sempre effettuate in

giornata, esclusa Tempi Moderni. Parallelamente a questo eccezionale terreno d’azione, Heinz ha

individuato un campo di arrampicata privilegiato nella Valle del Sarca, agibile in tutti i mesi

dell’anno. Qui, in compagnia di Luisa, di Manolo e di Roberto Bassi, Mariacher ha raggiunto forse

i massimi limiti in arrampicata libera delle palestre italiane (paragonabili a pochi altri centri del

territorio nazionale), aprendo un gran numero di itinerari in stile rigorosamente “pulito” (niente

assicurazioni dall’alto, niente attrezzatura preventiva della via, resting o simili) e mantenendo un

metro di valutazione estremamente severo applicato alla scala aperta UIAA.

Mariacher scopre la parete sud della Marmolada da solo, nel 1976, salendo la via Vinatzer lungo

l’itinerario originale del grande arrampicatore gardenese.

Gli anni successivi sono tutto un susseguirsi di prime salite sulla grande muraglia, in stile

elegante e pulito: dodici vie in tutto senza un bivacco e senza un solo chiodo a pressione. Nel

1978 Mariacher apre con Ludwig Rieser e Reinhard Schiestl lavia Hatschi Bratschi alla Marmolada

d’Ombretta, un itinerario di gran classe comparabile alla via Don Quixote dell’anno successivo. Nel

1979 è la volta del Nuovo Pilastro Sud alla Punta Penia (con Luisa Jovane, Franz Kroll e Peter

Brandstätter), e poi della Wogelwild e della Zulum Babalu. Mariacher e i suoi giovani compagni

lasciano sbalordito l’ambiente alpinistico tradizionale per la rapidità con la quale aprono itinerari

di 600-1000 metri d’altezza, su una parete dalla fama severissima, simbolo incontrastato (con la

Nord-ovest della Civetta) del grande alpinismo dolomitico.

Heinz Mariacher al punto più alto del tentativo al Col de Bous, 29 luglio 1986. La foto divenne poi la

copertina di Sentieri Verticali

Nel 1979, en passant, Mariacher

sale da solo (senza nessuna

attrezzaura appresso, neanche la

corda) la fessura Conforto e poi

dà inizio alle prime grandi

ripetizioni in completa

arrampicata libera come la

Vinatzer-Messner (con Luisa) e la

Soldà (con Luisa e con Almo

Giambisi): i chiodi non si toccano,

neanche per riposare, e il primo

sale a vista, senza nessuna

assicurazione preventiva. Il 1980

è l’anno delle nuove vieSancho

Pansa e Abracadabra, itinerari di

grande impegno e di concezione

moderna ed evoluta, come pure

la via della Manchaaperta da

Heinz e Luisa l’anno successivo.

Nel febbraio del 1982 Mariacher

ritorna sulla Marmolada in pieno

inverno, con Rieser, e traccia un

altro difficile itinerario, la via

dell’Ombrello. Poi in primavera

riesce a salire in libera la via Ezio

Polo e apre uno dei più

spettacolari itinerari della parete,

la Moderne Zeiten, tra la via Gogna

e la variante Messner alla

Vinatzer.

Nel 1981 i cecoslovacchi Koller e

Šustr superano, con manovre rocambolesche, la paurosa placconata compatta a destra dellavia

dell’Ideale. Mariacher e compagni sono i primi ripetitori della via del Pesce nell’estate 1984, dove

riscontrano difficoltà eccezionali, con un passaggio ai limiti dell’allucinazione, data la quasi totale

impossibilità di proteggersi.