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FACOLTÀ DI SCIENZE UMANISTICHE

CORSO DI LAUREA IN SAPERI E TECNICHE DELLO SPETTACOLO TEATRALE, CINEMATOGRAFICO E DIGITALE

TESI IN TEORICHE DELL’IMMAGINE ELETTRONICA PER LO SPETTACOLO

FENOMENOLOGIE ATTORIALI NEGLI SPETTACOLI DI PIPPO DELBONO, SOCÌETAS

RAFFAELLO SANZIO, TEATRINO CLANDESTINO E TEATRO VALDOCA

Relatore: Prof. ssa Valentina Valentini

Candidato: Antonino Pirillo

Matr. 733917

Correlatore: Prof. Luciano Mariti

ANNO ACCADEMICO 2008 - 2009

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INDICE

Premessa I

Parte prima:

Attorialità disperse, attorialità ri-cercate 1

In attesa del ritorno dell’attore 1

L’a solo e la paralisi del dialogo 9

Sonorità tattili 15

Lo spettatore “acefalo” responsabilizzato 20

Parte Seconda

Teatro Valdoca 24

Parsifal 25

Gesti e azioni delle singole figure 26

Attori come figure rovesciate del sogno infantile 28

Voci che echeggiano da lontano 30

Lo spazio vuoto diventa pieno rituale 32

Musica en rallenti e “rumori umani” 33

Recensioni 35

Paesaggio con fratello morto 37

Gesti e azioni delle singole figure 38

Residualità attoriali 45

Le voci antiche del dolore 46

Trilogia di luoghi simbolici 47

La musica come reticolato delle azioni 49

Recensioni 52

Conversando con Cesare Ronconi 54

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Socìetas Raffaello Sanzio 64

Amleto 64

Gesti e azioni delle singole figure 66

L’Attore allo spettro 71

Dagli a solo “sgrammaticati” al “Victimae pascalis” 73

Lo spazio: cattedrale dell’inconscio e degli oggetti in rivolta 74

Rumori e silenzi “snervano” lo spettatore 76

Recensioni 78

Orestea 80

Gesti e azioni delle singole figure 81

Figure disumanizzate/animalizzate in “gabbia” 96

Voci che diventano corpo, parole che si vaporizzano 98

Le anime meccaniche della scena 100

Rumori da fabbrica 102

Recensioni 104

Genesi 106

Gesti e azioni delle singole figure 106

Attorialità e animalità 117

Voci “aeree” per un teatro senza dialettica 118

Lo spazio “narrativo” 120

Deframmentizzazioni sonore 122

Recensioni 124

Conversando con Romeo Castellucci 126

Compagnia Pippo Delbono 140

Il silenzio 141

Gesti e azioni delle singole figure 141

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Lo spazio sabbioso della declamazione e delle figurazioni 144

Dalla coralità muta delle figure alla voce dell’assenza 146

Ritualità del posto e luci “ri-animanti” 148

La matericità della musica 149

Recensioni 150

Urlo 152

Gesti e azioni delle singole figure 153

Non attori, attori e figure 157

Le voci off off degli a solo 158

La baraccopoli degli orrori 160

Musiche e “sonorità umane” per uno spettacolo dello shock 162

Recensioni 164

Questo buio feroce 166

Gesti e azioni delle singole figure 167

Più che attori, figure 169

Gli a solo della disperazione 170

Lo spazio della mente 173

Sonorità e musicalità: le note disegnano i corpi 176

Recensioni 178

Conversando con Pippo Delbono 180

Teatrino Clandestino 192

Variazioni su Hedda Gabler 193

Gesti e azioni dei singoli personaggi 194

L’attore ubiquo 197

Le voci off delle solitudini dialoganti 199

Spazi come decostruzioni visive 200

Sonorità e pateticità 202

Recensioni 204

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Madre e Assassina 205

Gesti e azioni dei singoli personaggi 206

I “corpi spettri” del Teatrino Clandestino 209

Le voci off off dei dialoghi e dei monologhi 213

Dalla smaterializzazione dello spazio in video al non luogo del teatro 214

Il suono come “personaggio tuttologo” 216

Recensioni 218

Conversando con Pietro Babina e Fiorenza Menni 220

Recensioni 237

Bibliografia 239

Sitografia 243

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I

Premessa

L’arco cronologico scelto per questa indagine va dal 1992 al 2006. I gruppi e gli

spettacoli scelti come campione sono: la Socìetas Raffaello Sanzio (Amleto, 1992,

Orestea, 1995, Genesi, 1999); la Compagnia Pippo Delbono (Il silenzio, 2000,

Urlo, 2004, Questo buio feroce, 2006); il Teatrino Clandestino (Variazioni su

Hedda Gabler, 2000, Madre e Assassina, 2004); e il Teatro Valdoca (Parsifal,

1999, Paesaggio con fratello rotto, 2005).

Il soggetto della ricerca è stato dettato dalla necessità di ridefinire il ruolo e le

competenze dell’attore nell’ultimo ventennio di produzione teatrale in Italia. I

gruppi campione rappresentano realtà tra loro molto diverse sia per linguaggio che

per risultati estetici, ma proprio per questo è stato stimolante ricercare i motivi

che possano avvicinarli e di contro anche differenze che ne possano sottolineare la

distanza.

Dalla visione degli spettacoli sopramenzionati si evince che la caratteristica

collante tra gli autori/registi scelti come campione è il concretizzarsi di un “rituale

dello smembramento” che avviene a livelli diversi: Pippo Delbono, che tra i

quattro sicuramente è il più “tradizionale”, pratica la scissione tra attore che

racconta e varie altre figure, con una loro storia plateale. La Socìetas Raffaello

Sanzio opera la separazione violenta tra corpo e tutte le sue parti e funzioni, il

Teatrino Clandestino sperimenta la scissione tra corpo, voce, spazio e tempo reale

e spazio e tempi altri: è il caso di Madre e assassina, spettacolo interamente

proiettato su un velino nero durante il quale “dal vivo” succedono solo le voci e i

rumori, insomma un’operazione che tende alla “fictionizzazione” del teatro, a una

sorta di separazione netta tra immagine/voce e montaggio/riassemblaggio non

solo dell’immagine con la voce realizzata attraverso l’uso di display che

riproducono dai primissimi piani a campi lunghi, come in Hedda Gabler, ma

anche alla coesistenza “in scena” di umani e di “umani digitalizzati”, nelle

immagini appunto. La scelta degli spettacoli è dovuta al fatto che permettono una

vasta possibilità di letture, dall’Amleto dei Sanzio che impone una riflessione

obbligata sull’attore e sul suo “gesticolare”, sulla sua incapacità di azione, sul

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II

superamento della parola a teatro sopraffatta dalla “scrittura invisibile” e dalla

“scrittura sui muri”. Parsifal del Teatro Valdoca e Urlo di Delbono pongono

l’accento, tra l’altro, sul rapporto attori professionisti (Danio Manfredini, Umberto

Orsini) e non attori. O ancora Hedda Gabler del Teatrino propone un rapporto

dialettico tra corpo dal vivo e corpo in video.

Gli scritti dei gruppi in questione si riferiscono quasi esclusivamente alla loro

poetica: ne Il teatro della Socìetas Raffaello Sanzio (1992) e in Epopea della

Polvere (2001) dei Sanzio c’è troppo interessamento per la parte

intellettuale/concettuale/filosofica che li sostanzia, ed è da considerarsi giusto,

sacrosanto perché è fondamentale per capire il loro Teatro, ovvero le sorgenti

dalle quali quest’ultimo “sgorghi” per dare origine al suo “senso” o “non senso”.

In Barboni: teatro di Pippo Delbono (1999) si racconta del percorso di vita

nell’arte di Delbono con particolare attenzione alla sua storia personale, sia umana

che professionale. Teatro Valdoca di Dallagiovanna è un percorso monografico

che, attraverso gli spettacoli del gruppo, mette in evidenza soprattutto la loro

poetica. Nessun testo racconta la storia del Teatrino Clandestino, a parte Teatrino

Clendestino: Progetto Milgram di Zamperini che però si occupa solo dello

spettacolo che dà il titolo all’opera. Pochissimo spazio è dedicato al “fare” e

quindi alla figura dell’attore: se ne parla ma sempre in relazione ai suoi

“burattinai”. Va benissimo il discorso relativo alla perdita dell’identità, sociale

prima di tutto e poi sulla scena, e di contro la scelta della coralità che le sintetizza

e le “contiene” e le “protegge”, ma viene da chiedersi perché in teatri molto

attenti alla loro Essenza, piccoli mondi a sé conchiusi nelle loro dissertazioni,

l’attore o comunque l’umano viene considerato come un semplice mezzo? È

sembrato, infatti, che questi Teatri tendano ad un lavoro di

espiazione/svuotamento/purificazione: il rito del pensare che si fa azione come

espiazione attraverso il dolore, la ferita, la perdita, il lutto, la mutilazione e l’attore

come “medium” e figura mediana “rassegnata” tra il disquisire filosofico dei suoi

“geppetto-pensanti” e il loro “fare”. Perché all’attore, perdendo la sua centralità,

viene al massimo lasciata la sua unicità legata alla sua persona e non al suo ruolo?

L’attore è giunto a quel “vuoto” tanto agognato?

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III

Partendo dagli spettacoli scelti, finalità sarebbe quella di indagare circa l’attore

e il suo raggio di azione o di in-azione. La metodologia usata ha come strumenti, i

video degli spettacoli, di cui è difficile definirne la datazione precisa, a parte

quello di Paesaggio (2007) del Valdoca che è stato pubblicato in un apposito

cofanetto, e i copioni, nel caso del Teatrino Clandestino, o dei testi di Mariangela

Gualtieri per quanto riguarda il Parsifal e dei “testi” degli spettacoli estrapolabili

da Epopea dei Sanzio; nel caso di Delbono si è fatto riferimento solo ai video. È

stato un lavoro di osservazione attraverso una visione reiterata dei video a

cominciare da una focalizzazione, millimetrica quasi, sulle singole azioni, gesti

delle figure tendendo poi alla scansione dettagliata, minuziosa di ogni piccolo

movimento. Oggetto di attenzione anche gli elementi sonori, “ascoltati” come

fossero parte a sé rispetto allo spettacolo che li conteneva; grande interesse c’è

stato anche per lo spazio della performance in relazione all’attore stesso, con

particolare attenzione anche all’uso delle luci, dei colori, dei costumi.

E infine una riflessione sulla figura dello spettatore, e ci si è chiesto che

rapporto intercorra tra lo spettatore e lo spettacolo, e le sue parti. Dalla visione

quindi dei video degli spettacolo si è passati alla compilazione di appunti su

schede preventive che potessero essere una traccia indispensabile per il lavoro di

analisi e di sintesi, fino a giungere a conglobare più voci della scheda nei paragrafi

dei vari capitoli. La tesi quindi si sostanzia di due parti: la prima in cui si è

trasversalizzato i risultati della ricerca relativi ai singoli spettacoli dei singoli

gruppi, e si è scelto pertanto come grandi temi “l’attore/figura”, “l’a solo” e “la

voce”, “il sonoro” e “lo spettatore”; e una seconda parte sugli spettacoli: ogni

sezione, dedicata a un singolo gruppo, conterrà l’analisi di ogni spettacolo (tre per

Sanzio e Delbono, due per Teatrino e Valdoca), l’intervista al regista e le

recensioni, per ogni spettacolo, scelte in base a due criteri, ovvero uno legato

all’essere coeve rispetto allo spettacolo cui si riferiscano, e l’altro tematico, in

linea o anche in disaccordo con quelli trattati nella tesi stessa.

Del teatro dell’ultimo ventennio appena passato sarebbe interessante

approfondire, quel rapporto dialettico di identità varie, tra attore e personaggio per

esempio, o comunque quell’abbandono dell’organicità per abbandonarsi allo

smembramento di tutte le sue parti, dal corpo ai corpi (deforme, sonoro, ab-usato,

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IV

bidimensionale), dal testo alla sua profanazione, dalla parola alla sua

“desillabizzazione” e deformazione, dalla voce intima e personale alla non-voce o

alle voci altre che lo “completano”. E tutto questo diventa una ricerca forsennata

di senso a partire dalla negazione del senso stesso, quello risaputo, tradizionale e

pertanto da smantellare per cercarne uno nuovo, il proprio. Risulta quindi

affascinante di questo fare teatro la sua necessità profonda intrinseca

insopprimibile, ovvero che attraverso il suo fare questo Teatro si interroga sulla

sua Essenza. Quindi, accanto a un attore a pezzi, drammaturgia a pezzi, regia dello

s-montaggio, l’altra figura che meriterebbe di essere approfondita è lo spettatore,

destabilizzato e lasciato in solitudine al quale viene negato qualsiasi transfert col

personaggio o la storia, presenti solo negli spettacoli del Teatrino Clandestino.

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Prima Parte

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Attorialità disperse, attorialità ri-cercate

In attesa del ritorno dell’attore Valentina Valentini in Mondi, corpi, materie (2007) si chiede cosa sia successo al

personaggio del teatro del secondo Novecento e quali figure attoriali preveda.

Attraverso una ricostruzione storico-critica fa notare come dal Formalismo e dallo

Strutturalismo in poi, si metta in evidenza la natura “attante” dell’attore, la sua

funzione rispetto alla fabula, piuttosto che i suoi tratti psicologici, in linea con

Aristotele (Poetica) che già assegnava il primato all’azione piuttosto che al

carattere. Questo per dire che l’attore è sempre esistito mentre il personaggio è

comparso a partire dalla metà del Settecento: il personaggio non rappresenta

un’idea universale, come a esempio il tipo fisso della commedia dell’arte, ma

viene definito dalle “battute del testo drammatico”, “dalle azioni che compie”,

“dagli atteggiamenti fisici e vocali” che assume l’attore che lo incorpora

[Valentini, 2007, p. 89]. E se le avanguardie del Novecento tendono a esaltare il

corpo in primis e a potenziare la creatività dell’attore; le neoavanguardie invece

contestano la centralità dell’attore, infatti Richard Schechner (1968) nel primo dei

Six Axioms for an Environmental Theatre afferma un assunto ormai del teatro

contemporaneo, ovvero che “l’attore non è l’elemento più importante della messa

in scena” [Schechner, 1968, p. 61]. A conferma di ciò è il dato di fatto che nella

drammaturgia contemporanea “non accade nulla”, ovvero c’è una riduzione dei

tratti della personalità del personaggio, anzi nei teatri campione della tesi (Teatro

Valdoca, Socìetas Raffaello Sanzio, Compagnia Pippo Delbono e Teatrino

Clandestino), c’è un vero e proprio esonero di questo termine (a eccezione del

Teatrino che porta avanti ancora una discorso sul personaggio in maniera

inaspettatamente convenzionale) e la sua espressione viene affidata solo alle

posture fisiche e vocali. Viene così data particolare attenzione alle abilità

performative (corpo, voce, gesto) dell’“attore”, in particolare dalla Socìetas e dalla

Valdoca. Il corpo si fa scena, spazio, oggetto: il corpo e la voce diventano

protagonisti. I corpi ri-cercati sono soprattutto quelli di non attori, o “attori ready

made”, portati in scena esclusivamente per le loro peculiarità fisiche [Valentini,

2007, p.108]. A tal proposito la definizione che Carla Subrizi dà dell’oggetto

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ready made come “un oggetto ‘già fatto’, preso da un contesto ordinario,

modificato nel suo statuto di oggetto comune con minimi interventi” [Subrizi,

2008, p. 65], riferita ai non attori, andrebbe a interessare quelle persone, che prese

da un contesto ordinario, non artistico, vengono modificate nel loro statuto di

persone comuni, con minimi ma anche grandi interventi. Un esempio potrebbe

essere il ragazzo affetto da sindrome di down che, con corona e abito da re,

“interpreta” Agamennone, in Orestea (Sanzio): oltre la sua fisicità che porta già i

segni evidenti di un’“anormale” bellezza innocente, viene poi a significare con

l’aggiunta, in questo caso minima del costume e di un accessorio, un’“anormale”

bellezza regale innocente. E se l’oggetto diventa opera d’arte, il non attore diventa

oggetto d’arte secondo un punto di vista squisitamente concettuale. Romeo Castellucci della Socìetas sceglie così corpi che “significano” insomma

corpi con una loro storia invalicabile, infatti per una figurazione, o insieme di

figurazioni, sceglie, una persona piuttosto che un’altra in base alla sua fisicità, già

significante a priori, a dimostrare che il corpo deve essere il corrispettivo

materiale/materico del concetto che il regista/autore ha in mente e vuole

comunicare, appunto. Infatti l’attore, o la persona, in questo caso, è prima di tutto

corpo, e quindi non gli si chiede di provare transfert con il personaggio bensì

semplicemente di produrre movimenti e segni che non rimandano ad altro che al

di-segno che la propria fisicità, esplicitamente o meno, mostra. Condizione

necessaria però è che questi corpi debbano possedere una “sapienza tecnica” che

si esprime per esempio “nel saper parlare ebraico” (Lucifero in Genesi della

Sanzio) o comunque di “saper danzare o cantare o stare immobili, stare in

equilibrio su un piede”. Ma in certi casi gli attori sono chiamati per come sono,

invocando la potenza della letteralità: in Orestea, Clitennestra che

etimologicamente significa la grande signora, era una donna di quasi duecento

chili, o in Genesi, Caino con un braccio più corto, per assolverlo dal fratricidio

perché lo compie con la sua “mano bambina”. E seppur Castellucci vuol far

credere che tale scelta la fa in funzione dello spettatore che, in prima istanza,

legge e riconosce, empatizza la forma che gli sta davanti, in realtà tale necessità si

riferisce all’idea/concetto che egli vuole vedere materializzata durante la

performance, e che solo certi corpi possono esprimerla. Non ricorre né alla

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psicologia né ambisce a una tipizzazione che “scadrebbe nella caricatura”,

“fisserebbe una cosa piuttosto che allargarla” [Castellucci R., 2009].

Procedimento analogo anche per Pippo Delbono che utilizza per i suoi spettacoli

figure, “corpi” di luce e di ombra “già personaggi” in scena [Rossi Ghiglione, in I

fuoriscena, 2000, p. 274], insomma corpi con una loro storia imprescindibile.

Delbono sposta però la problematica legata alla diversità di certi corpi da un punto

di vista estetico a un punto di vista polemicamente etico, ovvero si spinge verso la

politicizzazione di questi stessi corpi, o meglio di certe figure che li abitano.

Fare più che interpretare: questo diventa il motto. Bisogna assolutamente

notare che c’è una differenza abissale però rispetto al performer, “atleta mentale”,

di Barberio Corsetti che presuppone un pensiero che “ingloba se stesso e lo

spazio” [Barberio Corsetti, 1992, p. 27]. E se sulla scena degli anni Ottanta,

l’artista era sinteticamente autore, attore, regista (basti pensare a Carmelo Bene,

Leo de Berardinis, Remondi e Caporossi, Giorgio Barberio Corsetti, a Mariangela

Gualtieri, allo stesso Romeo Castellucci) in un’unità saldissima, quanto meno di

intenti; dagli anni Novanta in poi, una frattura interna è stata inevitabile, cioè il

regista è diventato sempre più pensante e l’attore invece ridotto nelle sue funzioni,

defraudato in primis del pensiero, e mostrato come semplice mezzo, corporeo e

non (digitalizzato, come si vedrà nel caso del Teatrino Clandestino). Di fatti le

persone scelte sia da Pippo Delbono che da Romeo Castellucci sembrano del tutto

esonerati dal pensare, risultano pertanto degli esecutori, nel senso che eseguono

sulla scena “compiti” a loro affidati in base a un disegno preventivo molto rigido,

ma con un distinguo doveroso: i primi appaiono come manichini, degli “esili

segni di presenza senza identità” [[Chinzari, Ruffini, 2000, p. 207] che ogni tanto

si ricordano di muoversi, mentre i secondi presentano, seppur soggiogati dalle

indicazioni del regista, un certo “respiro”.

L’aspetto performativo supera quindi quello interpretativo infatti Patrice Pavis

dichiara che “il performer indica anche il cantante, il ballerino e il mimo,

insomma tutto ciò che l’artista occidentale o orientale è in grado di compiere in

scena” [Pavis, 2002, p. 289]. Ma le figure che emergono dagli spettacoli oggetto

di studio della tesi non possono essere definiti performer. Seppur queste figure

portino in scena loro stessi in prima persona e risultino “artisti” a digiuno di

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tecniche e saperi acquisiti tali da poter essere modellati, sia nel corpo che nella

voce, così come il performer che con il suo “l’opera sono io”, riconducibile alla

Body Art [Valentini, 2007, p. 114], non hanno come finalità del processo artistico

l’autoconoscenza che invece è uno scopo precipuo del performer stesso [ivi, p.

117]. E se “il performer è l’attore scisso che si guarda agire, che non può essere

più personaggio ma che non può neanche non esserlo [ivi, p. 118], queste figure

eseguono meccanicamente gesti, movimenti senza ricercare motivazioni profonde.

Gli unici esempi d’eccezione, ma solo dal punto di vista “del guardarsi in scena”,

potrebbero essere dati dallo stesso Pippo Delbono, quando in Questo buio feroce,

appare sulla poltrona durante la macabra sfilata di carnevale che evoca una

Venezia agonizzante (“Venezia sta morendo”), sta seduto, guarda il pubblico, si

osserva da spettatore che impietoso si guarda e si fa guardare nell’impassibilità di

un’accettazione “matura” “saggia” visionaria di un buio che prima o poi ingoierà

anche lui; o da Umberto Orsini, che in Urlo (Delbono), “si guarda”, per tutto lo

spettacolo, sempre seduto, attraverso le figurazioni che si avvicendano.

Restano nella sfera dell’attorialità le figure del Teatro Valdoca, infatti il regista

Cesare Ronconi ci tiene a ribadire che lavora con attori e che il suo fare teatro è

legato ai canoni del teatro orientale che pertanto presuppone una sapienza attoriale

forte. Bisogna chiarire però che quando Ronconi parla di attori non si riferisce ad

attori istituzionali, provenienti dalle Accademie o Scuole di teatro riconosciute,

insomma di attori “formati” ma di persone scelte e addestrate da lui stesso avendo

come priorità il progetto di realizzare uno spettacolo e lo fa attraverso laboratori

mirati. I suoi attori, per esempio quelli di Paesaggio con fratello rotto, hanno

seguito per due anni la sua scuola: erano ragazzi debuttanti che hanno appreso i

segreti del teatro cioè lo spazio, le luci, il proprio corpo, la relazione con i corpi,

lo sguardo, il movimento [Ronconi, 2009].

Ma “dare corpo a un personaggio non è sufficiente per capire l’attore del

secondo Novecento, le cui performance implicano processi di smaterializzazione

(corpo in immagine e voce), di ibridazione (uomo macchina, animale)” [Valentini,

2007, p. 125]. Interessante quando Valentini parla di sperimentazione che l’attore

fa con i dispositivi tecnologici: “il moltiplicarsi istantaneo del proprio corpo e

voce. Vive la scissione, non rappresentando il personaggio, ma il proprio io,

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diviso, la frantumazione dell’identità del soggetto: è contemporaneamente actor e

spectator, ovvero performer” [ivi, p. 112]. Nel caso di Teatrino Clandestino si ha

la supremazia del video rispetto al corpo in scena. Basti pensare a Variazioni su

Hedda Gabler in cui Pietro Babina (regista) sceglie, per questo spettacolo,

l’“ubiquità” per l’attore, in video, vicinissimo allo spettatore e dal vivo,

lontanissimo: questo porta a pensare che se ha trovato un ottimo rapporto

dialogico tra attore in immagine e attore dal vivo, lasciandogli comunque una

parvenza di vita teatrale, sicuramente gli ha sottratto la sua unità. Gli attori in

scena si muovono muti e in video parlano ma fermi, bloccati in primi o primissimi

piani; e anche in questo secondo caso “i personaggi non possono che essere

espulsi dalla scena” [Manzella, da “il manifesto”, 18/09/2000]. Anche Babina ci

tiene a sottolineare che lavora solo con attori, anzi con “attori artisti”, riferendosi

in primis a Fiorenza Menni, attrice nonché suo alter ego artistico: un “attore

artista” è un attore che porta con sé in scena “una complessità e una

consapevolezza dell’uso e dello stare in scena” [Babina, Menni, 2009]. Ma dal

canto suo questi stessi attori, di cui propugna una prioritaria artisticità, vengono

“svestiti” della loro stessa funzione, e ridotti a figure. Si tratta di attori smembrati,

in video e dal vivo, corpo e voce, e il risultato è una segmentazione, concetto tanto

caro al regista, dell’agire attoriale che dà vita a una recitazione da fiction

televisiva, cioè una recitazione sovraccarica di intonazioni, pause, timbri esagerati

e allo stesso tempo vuota nel senso che le parole raccontano ma non si sente

nessun particolare coinvolgimento, quasi come se la teatralità venisse svuotata per

acquisire un senso nuovo, più vicino alla sua cifra poetica.

E tutti i gruppi dichiarano di “fare” un teatro de-psicologizzato e propugnano il

corpo come base della rappresentazione. Valdoca aspira alla spontaneità

dell’animale e dei bambini, Sanzio invece all’animalità come condizione ideale di

pre-espressività, non nel senso barbiano del termine ma inteso come tappa

primigenia di un’evoluzione antropologica che comprende sia il pre-espressivo sia

il pre-logico, e la ricerca attraverso un processo di disumanizzazione delle sue

figure. Ciò che emerge, almeno dagli spettacoli campione, è un’irreversibile

scissione tra azioni e pensiero, tra intenzioni e movimenti. In Orestea (Sanzio) i

movimenti da automa risultano completamente sganciati dall’intenzione:

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interessantissimo come Pilade e Oreste, nelle Coefere, siano lo sdoppiamento tra

le intenzioni (Pilade) e l’azione, sebbene coatta (Oreste), quando Oreste col

braccio meccanico armato di coltello va verso Clitennestra per ucciderla e ha

diversi ripensamenti e Pilade lo induce a “compiere” l’azione. E si perviene così

all’attore “oggetto-cosa”, “oggetto-macchina”: l’attore diventa oggetto perché

“esposto e definito dallo sguardo dell’altro e non del proprio” [Chinzari, Ruffini,

2000, p. 193]. Annalisa Sacchi a tal proposito fa notare che si tende verso una

realizzazione completa dell’assunto di Carmelo Bene, ovvero del “depensamento

della tecnica” che porterebbe alla costruzione della “macchina attoriale”, che si

otterrebbe con il superamento della componente dell’interiorità psicologica in

scena; ovvero nella tecnica l’attore accetta la disciplina e con ciò è esonerato

dall’apportare elementi di creatività personale, e ciò significa ancora che il regista

“non avanza più alcuna pretesa di coscienza individuale del soggetto, e si limita al

suo contributo impersonale e preindividuale” [Sacchi, 2007, pp. 454-455].

Va a questo punto riveduta la posizione di Pavis che afferma che non si può

parlare di scomparsa del personaggio dalla scena contemporanea [Pavis, 2002, p.

295]. Non si può a questo punto invece non concordare con Reza Abdoh secondo

il quale “il personaggio è un’unione di simboli e segni, una cornice psicologica ed

emotiva abitata da una persona piuttosto che da un personaggio che ha un proprio

percorso […] essi sono continuamente smembrati e ci si chiede continuamente chi

è chi, chi è cosa, dove…” [Abdoh in Valentini, 2007, p. 98]. E non si può non

concordare, in ultima istanza, anche con Romeo Castellucci che a proposito di

Amleto, si era espresso asserendo che “Amleto è una figura, non un personaggio

perché un personaggio corrisponde a un discorso che si chiude, un argomento, un

oggetto” [Castellucci in Chinzari, Ruffini, 2000, p. 111]. Risulta necessario

aggiungere che si tratta di un sé dissolto, come fanno notare Chinzari/Ruffini,

secondo i quali l’“io cessa di essere io” e si presenta, inevitabilmente in linea con

l’attualità sociale frammentata, come “distorsione, lacerazione, la malattia

dell’individuo contemporaneo” [Chinzari, Ruffini, 2000, p. 207]. E così l’“attore”

non interpreta più un personaggio ma piuttosto ne accoglie la struttura di

quest’ultimo: è il caso dell’Amleto dei Sanzio che, investito di atteggiamenti

autistici, racconta con il “movimento”. Neppure il Parsifal del Teatro Valdoca,

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che sebbene si riferisca all’opera di Wagner, in realtà non ha nulla del suo

modello. Infatti conferma ne è il fatto che Cesare Ronconi e Mariangela Gualtieri

con questo spettacolo hanno voluto raccontare quella parte in cui Parsifal si perde,

quel “buco” della sua storia di cui non si sa nulla. E il “personaggio” viene

costruito sul corpo di Danio Manfredini, con particolare riferimento alla sua vita,

alla sua sensibilità di artista e di persona. Insomma una costruzione non sul

personaggio di Parsifal ma sulla persona di Danio. E si parteggia così per uno

slittamento del rapporto attore/personaggio, vitalissimo storicamente, in quello di

attore/persona. Risulta indispensabile, in ultima istanza, chiedersi se ancora oggi

sia sufficiente la definizione onnicomprensiva di attore. Sebbene Valentini si sia

posta il problema di come definire la presenza in scena dell’attore della seconda

metà del Novecento e abbia creduto fosse congruo continuare a usare tale termine

che copre una funzione storicamente determinata, quella di interprete di un

personaggio, piuttosto che adottare quello di performer o il termine neutro di

attante, preso dalla semiotica greimasiana, che indica colui che compie l’azione

indipendentemente dal tipo di azione. Pur operando questi distinguo, ha preferito

continuare a usare il termine attore, contestualizzandolo [Valentini, 2007, p.154].

Nonostante questa precisazione, forse sarebbe utile andare ancora oltre, infatti a

proposito dei quattro gruppi teatrali sopracitati, si dovrebbe parlare di figure,

ovvero di ombre interessanti e non, protagonisti di un violento processo di

espiazione/svuotamento/purificazione: l’“attore” come figura mediana rassegnata

tra il disquisire filosofico dei suoi “geppetto-pensanti” e il loro “fare”. Perché

all’“attore”, perdendo la sua centralità, viene al massimo lasciata la sua unicità

legata alla sua persona e non al suo ruolo? L’attore è giunto a quel “vuoto” tanto

agognato? Di sicuro è che la figura supplisce l’attore in attesa del suo ritorno: un

attore nuovo, presente a se stesso, guarito da quella peste che Eleonora Duse gli

aveva augurato. Un attore quindi non più dall’io vivisezionato non più veicolato

ma un artista che al pari del regista e dello spettatore possa portare in scena non

solo il suo corpo ma il suo pensiero canalizzato, e non solo fuori scena, come nel

caso di Fiorenza Menni, anche perché uno spettacolo va valutato non in base alle

intenzioni bensì in base al suo risultato, e l’attore, non deve risultare sbriciolato.

Questa sorte è capitata negli spettacoli di Pippo Delbono anche ad attori con una

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certa storia professionale, come Umberto Orsini e Danio Manfredini. Il primo, in

Urlo, appare come un corpo costantemente privo di voce (fuori campo, registrata),

che poi si materializzerà in scena, seduto su una sedia, grazie alla luce che lo

scopre “lasciandosi recitare” dalla sua stessa voce. Orsini assiste impassibile,

quasi sempre seduto e, da un certo punto in poi con occhiali scuri da sole; a lui

sono concesse solo “camminate” fino all’unica sua azione degna di nota ovvero

quando nel finale libera Bobò dalla camicia di forza e gioca a palla con lui. È

questo il destino di un attore? Aspettare, seduto, e con occhi “bendati”? Non

dissimile è la condizione di Manfredini ne Il silenzio che risulta quasi

esclusivamente una voce cantante, dal vivo ma sempre fuori scena, il cui corpo si

materializza ma solo in un momento preciso ovvero quando riceve da Pippo una

rosa e subito dopo “cammina” a mo’ di danza in un flash da sogno/incubo in cui

sembra che cammini cammini ma va invece va a rilento. Ecco qual è l’immagine

dell’attore, e delle figure, analizzate: la sensazione che egli “faccia” ma in realtà

“non fa”, cioè “si muove” solamente.

Meritano una menzione a parte, lo stesso Manfredini/Parsifal e tutte le altre

figure attoriali della Valdoca. Queste ultime rappresentano un deciso atto di forza

per tornare a “essere” in scena, a vibrare, a sentirsi grumo di una ritualità tutta

umana del teatro. Sempre queste ultime sono la voce di una lotta “spietata”, in

controtendenza, verso la riappropriazione dell’unità dell’attore, del conquistare

quel qualcosa che non sta fuori ma dentro di sé, come quella voce che sa di antico,

di animalesco, che cercata con spasmi e gemiti corporei violenti, sembra non

appartenere al singolo ma è dell’umanità tutta. Questa potrebbe essere la risposta

del Teatro Valdoca rispetto alle proposte e ricerche dei gruppi studiati, per

superare lo smembramento dell’attore (corpo, voce, intenzioni, azioni) avanza la

ricerca verso quell’unità dell’io stesso, difesa dalla coralità: qui avviene il

processo contrario, cioè le singole unità non vengono disperse e dislocate in spazi

e tempi diversi ma vengono “incorporate” nel coro, traslazione dell’individualità

dell’attore.

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L’a solo e la paralisi del dialogo Nessuno di questi gruppi si avvale del dialogo di cui già nel 1989 Valentini ne

denunciava la “scomparsa” nel teatro contemporaneo [Valentini, 1989, p. 83], e

citando Lotman e il suo studio L’asimmetria e il dialogo, definiva che per

realizzare il dialogo urge la presenza di un partner col quale dialogare in modo

diretto, con l’ausilio di una lingua comune che permetta di accogliere l’estraneo

nel proprio mondo contemporaneamente a una necessità di interruzioni che

presuppongono un alternarsi di trasmissione e ricezione [ibidem]. Nessuno di

questi aspetti risulta presente negli spettacoli, oggetto di questa ricerca, tanto che

si può tranquillamente parlare di collasso del dialogo. Anche se forse sarebbe più

corretto parlare in certi casi di “dialogo evaso”, che si svolge fra una figura

parlante e una muta ma anche tra figure parlanti separate temporalmente dal

doppiaggio “registrato” che non fa altro che evidenziare un’assoluta mancanza di

dialogicità e di scambio; si tratterebbe semmai di a solo accompagnati [ivi, p. 91].

In Hedda Gabler infatti ci sono almeno due livelli di dialoghi, uno muto e dal

vivo, ovvero quello delle scene e controscene che avvengono nello spazio scenico

reale del teatro e quello parlato, registrato, delle proiezioni sul velino nero. C’è

una notevole differenza: i dialoghi parlati sembrano a solo nel senso che ogni

figura chiusa nella solitudine del proprio primo o primissimo piano è come se

parlasse con il vuoto che crea un distacco molto deciso delle figure tra loro,

dovuto anche alla registrazione. Oppure quando si fa difficoltà a capire chi parli, è

il caso del parlante e del muto nel Teatro Valdoca, nel finale di Paesaggio in cui

la Geisha recita “Il nemico lo sentiamo di notte” e tutte le altre figure associate a

coppie la “doppiano” o “labiano”, da muti: le due Ballerine, il

Ragazzo/Ricamatrice e il Ragazzo Cane, la Geisha e il Ragazzo Uccello; mentre

le prime due coppie sono vicine fisicamente al loro interno, l’ultima coppia invece

è caratterizzata dalla lontananza fisica e si fa difficoltà a capire da dove provenga

la voce, finché non ci si imbatte nella visione del microfono che amplifica la voce

della Geisha. O ancora quando sembra avvenire un dialogo ma lo intuisce solo lo

spettatore, come nel caso di Urlo (Delbono), l’unico “dialogo” è quello tra

Umberto Orsini (attore) che racconta a Bobò (figura, cerebroleso simbolo ormai

della Compagnia Delbono) delle morti dei re tratto dall’Enrico II di Shakespeare.

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È un dialogo di una tenerezza brutale che spiazza: Orsini parla con le parole di

Shakespeare e Bobò risponde in playback della sua stessa voce. In effetti non

avviene alcun dialogo per almeno due motivi, sebbene Umberto abbia un

interlocutore ben preciso, mancano poi una corrispondenza nel linguaggio e il

fatto che non si va a cambiare nulla rispetto al prima, e ciò viene confermato dal

fatto che le risposte di Bobò sono registrate, sono suoi lamenti ma di un tempo

altro. C’è una parvenza di dialogo ma tacito in Orestea (Sanzio) tra Pilade e

Oreste e tra Il Coniglio Corifeo e i Dodici piccoli conigli di gesso ovvero quando

ripete a memoria la sua lezione sulla Tragedia o quando sente le urla che si ritrae e

si nasconde il viso con le mani e nella penombra cerca di tenere nascosti i suoi

piccoli scolari, proteggendoli da Clitennestra ed Egisto. Appare pertanto del tutto

paradossale, che gli unici due pseudo rapporti dialogici, quello muto tra Egisto e

Oreste si volga verso la meccanicità della macchina, e quello “parlato” tra Il

Coniglio Corifeo e i Dodici piccoli conigli di gesso invece si azzera perché

l’interagire avviene tra un “pupazzo” e dei coniglietti di gesso telecomandati. In

entrambi i casi si perde la peculiarità umana. Quindi non ci può essere “scambio”.

Così pure in Amleto non ci sono dialoghi, ma solo suoi accenni: sono quelli tra

Amleto/Orazio e i vari pupazzi e tra Amleto/Orazio e le voci che fuoriescono dalla

cassa di ferro. Anche qui non si tratta di dialoghi in senso tradizionale ovvero

questi non presuppongono uno scambio di battute e quindi di intenzioni tra le parti

ma sono decisamente slegati al loro interno; potrebbero tranquillamente essere

considerati come parole, frasi dette ad alta voce senza necessità di considerarle

legate tra loro ma piuttosto autonome. In effetti si presentano come a solo

autonomi e paralleli, fatti di piccoli frasi o frammenti di frasi. Pertanto la definizione più interessante di a solo è la seguente: “a solo come

forma di monologo deragliato, perché manifesta una forma ‘egocentrica’ che non

mira al dibattito, a confutare e affermare ‘visioni del mondo’, se non il proprio

esistere tra il flusso verbale-gestuale, avendo il vuoto intorno” [Valentini, 1989, p.

92]. Non si tratta quindi né del monologo interiore letterario che è tentativo di

registrazione del pensiero né di soliloquio che presuppone che il personaggio sia

solo sulla scena e che le sue parole siano udite. Sempre Valentini, citando

Chatman (1978), parla di flusso di coscienza che libera “l’ordinamento casuale dei

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pensieri e delle impressioni”, che dispone gli elementi secondo il principio della

libera associazione, senza tener conto della sintassi [ivi, p. 88]. A tal proposito

esempio più riuscito è quello dell’Amleto dei Sanzio i cui a solo sgrammaticati

sono accompagnati da una gestualità che dà ritmo al dire: più attenzione alle

sillabe che non al senso delle parole, accuratezza nello svisceramento letterale, de-

sillabizzazione, segmentazione delle parole e incomprensibilità, deformazione e

storpiatura. E infatti Valentini afferma ancora che l’a solo contemporaneo mette

in scena un linguaggio fatto in parte da azioni e in parte da parole, che assomiglia

al linguaggio egocentrico dei bambini studiato da Vygotskij (1934), non rivolto a

terzi, un linguaggio per se stessi, che non riguarda prettamente l’ordine del

linguaggio ma un “fare” [ivi, p. 87]. Infatti l’a solo si connota come mescolanza

fra dire e fare, fra verbale e non verbale. Io diviso in scena che, instaurando

dialoghi solipsistici con se stesso con altri da sé che però sono ascoltatori

silenziosi che non attivano un piano di comunicazione [Ivi, p. 90]. Ma pur essendo

diverso dal monologo di ascendenza letteraria anche l’a solo pretende un

ascoltatore che in questo caso non può essere un partner sulla scena ma piuttosto

un partner extrascenico, ovvero lo spettatore: è il caso ancora di Amleto (Sanzio)

che appare come il signore del solipsismo e dell’autoreferenzialità, e la sua

“comunicazione autistica”, avviene, se avviene, soprattutto rispetto a quello che

non dice che non a quello che dice.

Negli anni Ottanta la “crisi del dialogo” è dovuta all’inscrizione del ruolo del

narratore nel testo drammatico che viene a coincidere con la figura dell’autore che

dispone i personaggi, li fa agire e li osserva [ivi, pp. 93-94]. Qui non si può

accettare quest’ultimo assunto anche perché non ci sono più testi scritti che

presentano una certa narratività e logicità tradizionali così come non ci sono

personaggi tout court, pertanto questa crisi potrebbe essere imputata semmai alla

presenza del regista, che sostituendosi all’autore, che assume all’interno della

performance lo stesso ruolo che il narratore aveva nel testo drammatico, e dispone

così delle figure facendole agire, in molti casi non agire, ma le osserva

costantemente.

Le voci che hanno contribuito alla realizzazione di questi spettacoli sono voci

che provengono da dimensioni altre. Sono sia voci materiche, fisiche in Valdoca e

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Sanzio sia voci aeree in Delbono, in Sanzio (Genesi) e Teatrino Clandestino. È

forte e si sente la solitudine nella parola. Mugugni in Sanzio come possibilità di

ri-partire dal pre-linguistico (che ha lo stesso significato del paragrafo

precedente), infatti sia Amleto che Lucifero (Genesi) tendono ad accogliere una

vocalità che nasce nella sfera infantile, nell’uno, e si perfeziona nella

scolarizzazione, nell’altro, con la scansione sillabica. Ma in entrambi i casi si

tende a far diventare carne le singole lettere ma anche e soprattutto le radici di

questi suoni che “accorrono” da una sorgente organica profonda, pubica. Il

risultato è una voce che sa di pianto, di vagito appunto. E nelle figure la

commozione nasce proprio nello scoprire, come fosse la prima volta, un

determinato suono o comunque un determinato costrutto lessicale. Anche per il

Teatro Valdoca si parla di voci in prestito: sono le voci del dolore che grazie a

queste si “tocca”. È uno degli aspetti più feroci che si materializza come parole

ataviche, che trovano ostacolo prima di tutto nella persona che le “genera”, basti

pensare all’ululante brano iniziale del Parsifal recitato da Danio/Parsifal che si

dimena con tutto il corpo “tirato” nel suo “Non ne posso più” e declama rivolto

verso il pubblico con occhi quasi sempre al cielo. Non c’è differenza tra ciò che si

vede e ciò che si sente ma basta poco per sentire che non c’è separazione ma solo

una sublime sintesi poiché il moto nasce nello stesso punto dal quale sgorgano le

parole. Ancora di più in Paesaggio, le figure prima di emettere la loro voce

mugugnano: è come se la cercassero attraverso un ripasso che prima risulta

confusione poi invece materializzazione di un ricordo primordiale, conseguenza

ne è l’albergare una voce che non è propria. In maniera evidentissima l’Oracolo

nella Parte prima e la Geisha e il Ragazzo/Ricamatrice nella Parte seconda

arrivano alla voce solo dopo un lamento disarticolato. Ma rispetto al Parsifal, qui

è come se ci fosse maggiore violenza ai danni della vocalità, nel senso che è netta

“la storpiatura della lingua”. Ma una volta accolta, la voce diventa possibilità di

solidarietà fraterna, condivisione forte, commozione: nel già citato finale di

Paesaggio quando la Geisha recita al microfono il suo “Il nemico lo sentiamo di

notte” e tutti la doppiano. Qui si realizza appieno l’essere detto dell’attore in scena

raffigurato dalla coppia, il muto e il parlante che gli sta dietro e lo doppia, gli dà

voce. Qui si giunge al rovesciamento del paradosso, postulato da Carmelo Bene,

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della coralità a soggetto unico, nel senso che invece si ottiene una coralità

soggetto plurale [Demoulié, Manganaro, Scala, in Sacchi, 2007, p. 367]. È voce

off off per il Teatrino: in Madre e Assassina sono tutte voci fuori scena ma dal

vivo, voci di attori che doppiano le immagini digitalizzate. Gli attori, nascosti,

doppiano tutto, dai dialoghi ai rumori alle voci dei due bambini. Sono anche qui

voci che vengono da lontano; la voce che alla fine compare come l’unico residuo

teatrale perché dal vivo. Queste voci pronunciano “dialoghi” eseguiti tutti con

grande enfasi tanto che in alcuni momenti, se si chiudono gli occhi, sembra di

sentire voci da cartoni animati (per esempio le voci dei bambini emesse da attori

adulti appaiono caricaturali), voci che hanno sonorità irreali, impostate secondo i

canoni propri del linguaggio televisivo. Infine sono voci fuori scena anche per

Delbono: voce da una parte (la sua o quella di Orsini in Urlo) e corpo dall’altro

(quello delle figure). Ne Il silenzio la voce fuori scena di Pippo va a sottolineare le

microazioni che si svolgono in scena così come pure la voce cantante di Danio

Manfredini, quasi a voler essere quell’assenza/presenza che si ripropone anche

sulla scena, ma a livello visivo, con tutte le varie figure che si avvicendano. C’è

infatti una sorta di complementarietà doppia tra le voci fuori campo di Pippo e

Danio e i corpi muti delle figure in scena: le prime rappresentano, o dovrebbero

significare l’assenza (del corpo) e in realtà sono molto più presenti delle figure in

scena, e i corpi delle figure in scena che rappresentano, o dovrebbero

rappresentare la presenza, e invece risultano quasi “mummificati”. Forte anche il

contrasto tra la voce “recitante” di Orsini, quasi sul soffiato, intimistica, e quella

“urlante” delle altre varie figure: c’è qui una netta distinzione tra i

pensieri/riflessione di Orsini e l’orrore gridato a squarciagola dagli altri. La voce

di Delbono si pone sia da una parte che dall’altra, intima quando sta seduto al suo

tavolino e urlante di dolore quando partecipa alle scene di gruppo, a sottolineare il

Pippo “da solo” e il Pippo “pubblico”. Voci, anzi “urli”, che raccontano allo

stesso modo delle immagini; feriscono gli occhi, le orecchie e gli altri sensi.

C’è ancora in tutti gli spettacoli studiati una sorta di lontananza della voce

dalle figure stesse, confermata dall’uso del microfono e dal doppiaggio, come in

Paesaggio (Valdoca), l’Oracolo fa tutti i suoi a solo al microfono ed è come se

parlasse da un’altra dimensione, per cui questo filtro alla voce serve per creare

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una spersonalizzazione, un anonimato, una distanza della figura da tutti gli

elementi della scena a partire da se stessa. Ma anche distorta da particolari

macchinari, e metallica risulta a metà tra l’umano e la macchina: come a esempio

in Questo buio feroce in cui la voce metallica, distorta da una particolare

amplificazione, della Donna che legge gli annunci di persone sole (Gustavo

Giocosa), disperate che cercano compagnia sessuale e non: una figura a metà tra

l’umano e la macchina, tra una voce graffiata e una segreteria telefonica usurata

da quella stessa voce o insieme di voci; o ancora l’a solo dell’Uomo in giacca di

lurex color oro che canta “milioni di uomini ridicolizzati e abbandonati”: parla al

microfono anche lui e la sua voce se all’inizio si comprende poi diventa

completamente distorta. Non è più la sua voce umana, ma diventa la voce di un

qualsiasi annuncio registrato e trasmesso disturbato, come se quella voce non

appartenesse più a lui ma, catturata dal microfono, diventasse la voce di qualsiasi

altra persona, anonima, senza più sfumature né carattere. E pare che, almeno in

riferimento all’esempio sopracitato, non si realizzi il paradosso secondo cui “è

sempre la tecnologia, quella del microfono che permette al meglio di ritrovare la

dimensione corporea e pulsionale del corpo [Pavis, 2004, p. 170].

La voce che viene da un’estraneità, e risulta una parte dell’io, disunito sulla

scena: dissociazione della voce dal corpo del performer. È il caso, in Orestea, de

Il Coniglio Corifeo con la sua voce da castrato, o la voce da trans brasiliano di

Clitennestra: voci “lavorate” dalle macchine per farle risultare meccaniche e

inumane. Non si può essere invece d’accordo con Pavis quando afferma che “la

voce dell’attore non può essere dissociata dal suo corpo, di cui essa è il

prolungamento, e dal testo linguistico che essa incarna o di cui per lo meno è

portatrice” [ivi, p. 165]. Quest’ultimo assunto forse può ancora aver un valore

riferito al teatro tradizionale di cui è zeppo il teatro di cartellone ma nel nostro

caso non può esserci d’aiuto, infatti sono molti gli esempi di dissociazione della

voce dal corpo: il già menzionato lamento di Bobò (Urlo, Delbono) che diventa

leit motiv dello spettacolo, con la presenza o meno del corpo, infatti dall’inizio

alla fine si sentirà questo lamento che imbarazza e solo alla fine lo si farà

coincidere con Bobò, quando nel finale corpo e voce “appaiono” un tutt’uno ma

invece si tratterà di voce registrata e pertanto dissociata, almeno temporalmente,

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dal corpo in questione. In Madre e assassina (Teatrino), tutto lo spettacolo si

sviluppa con una formula cine-televisiva sin dall’inizio, cioè le figure non

esistono in carne e ossa ma solo in video (a eccezione de la Giornalista e nel

finale la Madre, che si materializzeranno in scena svelando l’“inganno” del

video), e al contrario le voci solo dal vivo; avviene un doppiaggio nel qui e ora

dell’evento, e anche qui di scissione si tratta, il corpo registrato e la voce dal vivo.

Sonorità tattili Se Chinzari/Ruffini considerano ancora la suddivisione tra musica e altri effetti

sonori, quali i “rumori, contraccolpi, silenzi, sospiri” [Chinzari, Ruffini, 2000, p.

203], Pavis invece afferma che la “musica”, deve essere intesa più in generale

possibile come “avvenimento sonoro”, vocale, strumentale, di rumore, insomma

di tutto ciò che è udibile sulla scena e in sala. Addirittura fa rientrare anche i testi

parlati o cantati in questa definizione come anche la musica registrata e diffusa

dagli altoparlanti. Insomma la “musica” deve essere intesa come “somma

organizzata” di messaggi sonori che pervengono all’orecchio dello spettatore

[Pavis, 2004, p. 175]. Ma prima ancora, il sonoro deve essere inteso come “una

sintassi ritmica che connota l’aspetto mentale dell’opera”: in effetti i rumori/suoni

hanno una loro autonomia segnica tale da diventare a pieno titolo elementi vivi

della scena. E se tutti gli altri elementi hanno una loro vita indotta, a cominciare

dalle figure stesse, come si è visto precedentemente, i suoni invece si presentano

come sintesi perfetta di idea e materia, perché non hanno fisicità visibile, ancora

una volta questo “nuovo” teatro si ritrova come esempio la “macchina

attoriale”/Carmelo Bene che propone sin dagli anni Sessanta un ripensamento

dell’idea della musica a teatro che troverà poi terreno fertile nel modus operandi

artistico di Romeo Castellucci [Chinzari, Ruffini, 2000, p. 203]. Quest’ultimo,

nonostante l’insita astrattezza della sonorità, riesce a “mettere in scena” per

esempio i rumori grazie all’incontro con un altro artista, Scott Gibbons, il quale

parte da una tecnica della musica che non nasce dai sintetizzatori ma dai

microfoni e capta così i fenomeni del mondo, insomma parte dalla sorgente del

suono anche perché la “radice di ogni suono è aderente alla materia”. Ovvero

“come se il suono producesse l’azione”, o d’altro canto che “sono i movimenti che

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producono il suono”: è il caso in Orestea del braccio meccanico che produce onde

sonore dovute al movimento o della mano meccanica che in Genesi scrivendo e

incidendo il palco, produce rumori [Castellucci, 2009].

Interessante il considerare la performance come “ritmo della messa in scena”

alla Meyerol’d, nel senso di “sentire il tempo sulla scena come lo sentono i

musicisti”. Ma ciò non vuol dire che nello spettacolo “si faccia musica” oppure “si

canti costantemente”, ma piuttosto è uno spettacolo con una “partitura ritmica

precisa, uno spettacolo in cui il tempo è organizzato con rigore” [Pavis, 2004, p.

180]. Questo tipo di approccio è molto vicino a Pietro Babina che non riesce a

svincolarsi “dal pensare lo spettacolo come un’orchestrazione musicale.” E in

maniera molto efficace spiega ancora che “se la scena non suona non funziona”,

nel senso che “è come se la guardasse con le orecchie”. Insomma immagina ogni

elemento dello spettacolo come una nota musicale, che può essere un attore o una

luce che se “non viene suonata in un certo modo, e la scena non suona, tutto va a

scatafascio”: insomma il suo lavoro di regista consisterebbe nel far “suonare”

insieme tutti gli strumenti [Babina, Menni, 2009], o meglio di favorire una

molteplicità stratificata di piani linguistici che prevedono il video, la voce, la voce

off, il corpo in scena, il corpo in video, il sonoro, le luci, i costumi, ect... Tenere

assieme più elementi separati tra loro ma anche gli elementi separati al loro

interno, come in Hedda, in cui il corpo dal vivo, è il controcampo del primo piano

registrato a esso corrispondente. Ma vicino anche a Cesare Ronconi. In Paesaggio

ci sono delle pause molto scandite. A determinarle sono gli strumenti musicali che

seguono i movimenti dei performer e i loro rumori che diventano parte integrante

e determinante dello spettacolo. La musica è la grande protagonista che diventa

presenza tangibile. Nella Parte seconda ha una forza eccezionale che raggiunge

l’apice nella sequenza successiva all’a solo “Annunciare le stelle” della Geisha

che da una frenetica musica strumentale si scioglie in pianto, quello della Geisha e

del Ragazzo/Ricamatrice, che ricorda una musa malata di Schiele. Un suono

soppiantato da un altro suono, quello delle voci o ricordi di voci. C’è un rapporto

di forte e riuscitissima complementarietà tra i suoni e i corpi e le voci delle figure:

i movimenti e l’emissione delle voci infatti sono un tutt’uno con i suoni che li

sostengono, questi ultimi danno ritmo secondo una precisione studiatissima.

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L’esempio più eloquente è dato dalla scena in cui le Ragazze/Animali soffiano

dentro le canne collegate al busto e al sesso del Macellaio: il suono dell’organo

sembra essere il suono emesso dai loro soffi nelle stesse canne. O anche la scena

in cui la Ragazza/Animale con il bastone diventa un soldato e, accompagnata dal

sonoro, procede verso il proscenio “fucilando” con le braccia in avanti e le altre

Ragazze/Animali partecipano a questa marcia con movimenti contratti di dolore.

Anche Parsifal che risulta un’opera decisamente ben amalgamata tra fisicità,

vocalità, musica e “rumori umani”: una sintesi che stordisce i sensi. Tanti i

rumori, soprattutto colpi di tamburi e il “battito” dei piedi sul palco che ricordano

e danno all’evento un aspetto fortemente rituale. E vanno così a scandire un ritmo

molto cadenzato marcando il tempo e presentandolo come un tempo altro, ovvero

un tempo ripulito da qualsiasi forma di arresto, un tempo quasi “ecologico”.

Il sonoro diventa in alcuni casi performativo nel senso che assume

un’autonomia “narrativa” ben precisa, in Madre e Assassina (Teatrino) e in

Questo buio feroce (Delbono). Nel primo caso si tratta di un tappeto musicale che,

parallela alla storia che si racconta, crea una certa suspence e prepara gli animi a

qualcosa di catastrofico, sin dall’inizio dello spettacolo secondo un tipico

procedimento usato nelle soap opera. E nonostante le scene raccontino una

tranquilla e normale quotidianità, la musica non lascia dubbi. C’è un ottimo

mixage tra la musica e le battute degli attori, infatti il suono va a riempire certi

vuoti di parola e viene così sapientemente aumentato o diminuito di volume a

seconda dell’esigenza, secondo un fare propriamente radiofonico. Il sonoro quindi

come sottolineatura non della storia che si racconta ma del suo futuro, ovvero di

quello che succederà di lì in avanti. Il suono, come “personaggio”, è il “deus ex

machina” che tutto sa e che in parallelo al regista “veicola” l’attenzione dello

spettatore. Il sonoro che sfida il “qui e ora” con una continuità temporale

coerentissima: quasi come se con questo spettacolo si volesse superare la

peculiarità base del teatro, il presente. E questo ragionamento potrebbe essere

avvalorato dall’uso del “tutto registrato” e “proiettato”, insomma come se il tempo

e lo spazio registrati, perciò appartenenti al passato, venissero “usati” in un tempo

e uno spazio altri, cioè quello del “qui e ora” dell’evento spettacolare. Nel

secondo caso invece il sonoro non ha una funzione egemonica rispetto al tutto, e

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come tutte le altre componenti lo spettacolo (scena, figure, luce, buio, costumi)

tende a smaterializzarsi e a diventare una tappa impalpabile di un percorso tutto

spirituale o mentale, qualsivoglia. Ad eccezione della struggente My way cantata

dal magrissimo Nelson che recupera matericità: Nelson diventa corpo, per la

prima volta tridimensionale, sonoro, insomma vivo. Ma è solo un’eccezione.

Bisogna altresì considerare l’aspetto più prossimo della fruizione che il sonoro

suggerisce, sia quando “la musica ci rende particolarmente ricettivi alla

rappresentazione” [Pavis, 2004, p. 175], sia quando invece crea un fastidio

insostenibile. Pippo Delbono in Urlo costruisce un medley variegato: dalle

canzoni popolari cantate da Giovanna Marini, alla inflazionatissima “Stessa

spiaggia stesso mare” di Edoardo Vianello a brani di repertorio classico: il

risultato è un pout pourri di sonorità scontate ma scontato risulta soprattutto il loro

missaggio, si passa da una canzone “leggera” a una di repertorio classico o a un a

solo “impegnato”. Insomma una costruzione musicale che “incastra” lo spettatore,

Delbono infatti colpisce la sua sfera affettiva, anzi a essa si aggrappa, e se da una

parte lo avvicina alle sue scene poi lo spiazza con immagini fortemente tese a

sconvolgerlo o comunque a provocare la sua sensibilità. Il risultato è uno shock

assicurato. O anche per Pietro Babina che in Hedda Gabler, utilizza una “musica

emotiva”, creata ad hoc, che come nelle fiction e nelle soap opera, si fa capo di

“una drammaturgia a parte”, ovvero segue un suo racconto mentre le immagini il

proprio, e così va a riempire quei momenti che hanno bisogno di pathos e devono

“inchiodare” lo spettatore allo schermo. Si tratta pertanto di “incidental music”,

ovvero musica giudicata in base “ai servizi resi alla comprensione del testo o della

recitazione” [Pavis, 2004, p. 177] o in questo caso specifico del tempo. Negli

spettacoli della Societas, i rumori assordanti devastano lo spettatore, “infatti

qualcuno si allontana dopo mezz’ora”, così racconta Manzella, a proposito

dell’Amleto [Manzella, in “il manifesto”, 09/02/1992]. Il rumore quindi come

fastidio prodotto volutamente, contro le figure e contro lo spettatore; e seppure

Castellucci consideri il suono come suggerimento drammaturgico, non sempre nei

suoi spettacoli appare come tale. Infatti se nell’Amleto alcuni suoni sono

direttamente estrapolabili dal testo di Shakespeare, cioè solo i colpi di pistola, tutti

gli altri rumori assordanti come quelli dei petardi, rumori di elettrodomestici,

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dell’aspirapolvere, del phon, o infine del rumore insopportabile di pistone che

batte sul pavimento non potrebbero essere compresi se non in relazione a quel

“rendere scenico” il concetto, di suono in questo caso, o meglio a renderlo tattile.

I rumori da fabbrica in Orestea diventano disturbo massimo con il frastuono del

microfono, è come se la tecnologia si ribellasse, quando il ragazzo affetto da

sindrome di down che “interpreta” Agamennone esordisce con un “Romeo non si

sente”. Così pure in Genesi i cui rumori elettromeccanici, rientrano in quel

“rendere scenico” il caos originario, tema dello spettacolo stesso. Quindi un

sonoro come “pezzi di poesia […] pezzi di fantasmi microfonati. […]

Probabilmente alludono alla creazione come al tremendo sforzo muscolare di Dio

nella sua operazione macchinica. I rumori delle macchine registrano in

continuazione la spesa di energia, descrivendo la tautologia dell’operazione

disumana che stanno compiendo” [Castellucci R., 2009].

Infine hanno una sonorità precisa anche i silenzi. In Amleto (Sanzio) in cui “il

silenzio diventava una cassa di risonanza per tutti i minimi rumori” [Castellucci

R. in Santini, 2004, p. 46]: quasi tutto lo spettacolo vive dei silenzi di Amleto che

non sono mai vuoto ma frutto di uno pseudo-pensiero che si riposa per poi

esplodere in un mugugno, in una parola, in urla strazianti, in scatti corporei

violenti o comunque apparentemente illogici, tanto illogici da lasciare basiti.

Questo silenzio imbarazza e costringe ad ascoltare-ascoltarsi, con violenza.

Insomma un silenzio che taglia come una lama. Si passa da un silenzio

paralizzante ad un rumore o insieme di rumori che minano il sistema nervoso per

poi passare di nuovo al silenzio. Ogni volta però il rumore viene rotto da un colpo

di pistola o da una serie di petardi, in ogni caso da un altro rumore più forte e più

secco. In Parsifal, si ritrova qui un sottile gioco, ben orchestrato, tra musiche,

silenzio e parola: quando ci sono movimenti, ovvero danza, per cui mancano le

parole e c’è un silenzio “umano”, a dare voce a questo silenzio sono le musiche

del Parsifal di Wagner (nelle scene orgiastiche, ripetute più volte). Non mancano i

silenzi, In Hedda (Teatrino), anzi si potrebbe dire che durano per tutta la

performance, almeno per quanto riguarda la parte relativa alle scene dal vivo: quei

corpi vivi ma sempre muti riescono a dire più delle stesse parole, le uniche che si

sentono, che sono registrate.

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Lo spettatore “acefalo” responsabilizzato È molto utile partire anche in questo caso dalle considerazioni che Valentini fa a

proposito dello spettatore, a cominciare dall’“opera proiettile”, definita da

Benjamin, e facendo riferimento alla capacità dell’opera stessa che da oggetto

della creazione artistica si è trasformata in soggetto attivo che pertanto si

scaraventa contro lo spettatore. A quest’ultimo viene lasciata una duplice

possibilità/imposizione, ovvero di essere fagocitato dall’opera ma allo stesso

tempo di controllarla, in uno stato di “coscienza in dormiveglia”, con la

responsabilità però di dare senso e coerenza a un’opera ormai dispersa, smembrata

[Valentini, 2007, p. 148]. Dinanzi quindi a un teatro e un attore smembrati, lo

spettatore è costretto a recuperare tutta la sua corporea fisicità, a esercitare tutti i

suoi sensi [Chinzari, Ruffini, 2000, p. 203], nel rifiuto prioritario delle illusioni in

scena [Valentini, 2007, p. 148]. L’anello debole di questo teatro risulta altresì l’attore che, depredato della sua

funzione, della sua unità, della sua autonomia, lascia il posto da protagonista allo

spettatore che, come vorrebbe far credere Castellucci, si innalza fino a diventare il

“dio che crea in una nuova luce figurativa” [Castellucci R., 2009]: non è proprio

così dato che l’unico vero dio onnipotente è il regista, che semmai stabilisce un

dialogo da lui stesso veicolato. Pertanto il vero dialogo quindi non avviene tra

regista e attore, piuttosto tra regista e spettatore: quell’interscambiabilità, che nel

corso del Novecento da Piscator in poi avveniva tra autore e spettatore, qui invece

avviene tra regista e spettatore; e se Brecht considerava quest’ultimo come

“coproduttore” dello spettacolo nel senso che “lo spettatore poteva partecipare

nell’elaborazione dello spettacolo stesso” [Valentini, 2007, p. 148], qui la

partecipazione si rimanda semplicemente e sottilmente a un’elaborazione

esclusivamente “mentale”, sottoposta a un rapporto di violenza forte. Bisogna qui

rivedere la posizione di De Marinis riguardo alla relazione teatrale, focalizzata nel

rapporto tra l’attore e lo spettatore, scardinare “la sua bidimensionalità”, che

presuppone da un lato la “manipolazione dello spettatore da parte dello spettacolo

e in primis dell’attore” e dall’ altra “l’attiva partecipazione dello spettatore, visto

come “sujet agent” (Greimas), o più esattamente come soggetto drammaturgico”.

In effetti si può essere d’accordo finché egli parli dello spettatore come “oggetto

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drammaturgico”, ovvero come “bersaglio” delle drammaturgie che operano nello

spettacolo ma come “soggetto drammaturgico” dello spettacolo, dei suoi

significati [De Marinis, 1999, pp. 25-26] resta solo nelle intenzioni di chi “crea”

lo spettacolo stesso. Urge a questo punto uno spostamento all’interno proprio

della relazione teatrale, e si deve pertanto privilegiare il rapporto regista/spettatore

piuttosto che quello attore/spettatore, essendo ormai l’attore, per tutte le ragioni

enunciate in precedenza, un semplice oggetto e non un soggetto drammaturgico. E

si dovrebbe anche mettere concordare con Franco Ruffini quando parla di

“autonomia creativa parziale” o “relativa” dello spettatore [Ruffini F., 1985, p.35].

Infatti lo spettatore deve così ri-costruire il “racconto sbriciolato e illogico” e

“creare relazioni”, con un procedimento multisensoriale tendente a “reinventare la

visione” [Chinzari, Ruffini, 2000, p. 199], ma lo può fare solo entro un percorso

che il regista costruisce, non solo per l’attore ma anche per lo spettatore,

legittimando un rapporto di potere che si forza del pensiero che avvolge e sostiene

il progetto spettacolare: lo spettatore diventa così testimone responsabilizzato

della performance. In questo rapporto all’insegna del sadismo, obbligatoria risulta

la “distanza” che permette di “interpretare senza imbrigliare il senso”: lo

spettatore infatti deve “installarsi con il proprio immaginario o con il proprio

giudizio” nei vari vuoti di senso [Valentini, 2007, p. 149] che l’opera deve

prevedere. Per Subrizi il semplice “entrare” dello spettatore “materialmente

nell’articolazione-enunciazione messa in atto dall’opera” [Subrizi, 2008, p.131],

presuppone che nello stesso momento in cui quest’ultimo partecipa alla fruizione

dell’opera, fa parte egli stesso dell’opera stessa. Ma in che modo ne fa parte? Lo

spettatore viene maltrattato fino all’offesa dei suoi sensi come nell’inizio di

Questo buio feroce di Delbono in cui il corpo lunghissimo e ossuto di Nelson

rannicchiato in posizione fetale ferisce gli occhi di chi guarda. O anche

Castellucci in Orestea quando fa entrare in scena l’Apollo senza braccia, che

dovrebbe ricordare la bellezza delle statue greche ma sortisce tutt’altro effetto o

ancora nella stessa opera, il bloccare Cassandra grassissima in una teca di

plexiglas che la contiene appena, costretta fisicamente, o come anche il

contorsionista Adamo ugualmente stipato in una teca più piccola che ospita un

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corpo quasi disossato e informe; entrambi producono un fastidio fisico nello

spettatore, simmetrico rispetto a quello che vivono queste figure ingabbiate.

De Marinis sull’esempio del “Lettore modello” di Umberto Eco, parla di

“Spettatore modello”, “come una strategia testuale predeterminata”, “come

percorso ricettivo previsto dal testo spettacolare” [De Marinis, 1999, pp. 26-27],

ma si tratta come egli stesso ribadisce di una categoria ipotetica del

metalinguaggio teatrale. E il passaggio dallo “Spettatore modello” a quello reale,

non è mai molto facile. Una sintesi esemplare è fornita da Castellucci in Genesi

propone un’inquietante immagine dello spettatore attraverso lo Spettatore

meccanico (acefalo) che, seduto in proscenio nello stesso atteggiamento del

pubblico reale che sta in sala, è un robot antropomorfo e filiforme, senza testa, si

alza in piedi e applaude dinanzi alla scena di Adamo, entusiasta, ma poi seppellito

da una badilata di terra, capisce l’ammonimento per cui ritorna a sedere (Atto I,

Scena V) e quando i Bambini si mettono sotto la doccia a ricevere l’acqua mentre

riparte una nuova registrazione di Artaud che ripete solo la parola “Sperme” poi il

sonoro ce lo fa sentire per intero “Vous énnoncez là,…” e l’ultima frase “Je ne

délire pas, je ne suis pas fous” viene ripetuta cento volte. I bambini continuano a

fare la doccia ma da un certo punto in poi si sentirà solo “je ne suis pas… je ne

suis pas… je ne suis pas…”. Qui lo Spettatore meccanico (acefalo) si alza in piedi

solleva le braccia ma non osa applaudire questa volta: è rimasto scioccato da

quella visione, scandalizzato perciò si risiede e sparisce nel buio (Atto II, Scena

III). La presenza dello spettatore “acefalo” seduto in proscenio ribadisce

ulteriormente quanto il vero altro protagonista della performance, in parallelo e

dopo il regista, non sia l’attore, ma lo spettatore. Uno spettatore che non si vuole

per nulla acefalo come è presentato in quest’occasione ma al contrario capace di

tener testa al regista ma in dignitoso silenzio. Castellucci dà in quest’occasione un

vero e proprio prontuario dello Spettatore Modello che non deve mai fare quello

che lo spettatore acefalo ha fatto inizialmente ovvero assentire, ma guidato dal

regista e dalle sue indicazioni portare a termine un percorso esperienziale che si

sostanzia di tutti i sensi.

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Seconda Parte

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Teatro Valdoca

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PARSIFAL (1999) di Teatro Valdoca

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Parsifal racconta dell'ultimo cavaliere di re Artù alla ricerca del Santo Graal. Ad

un certo punto, per interi capitoli del poema di Chrètien De Troyes, il protagonista

scompare per poi tornare, diverso. È proprio questo vuoto di storia e di senso che

il Teatro Valdoca tende a riempire con le immagini che andranno a comporre lo

spettacolo. Non c’è nulla dell’opera originaria, a parte lo spunto di quella

mancanza, o “buco” come lo definisce la drammaturga Mariangela Gualtieri. Non

si è scelto di raccontare semmai di mostrare attraverso i colori e i contorni

un’immaginazione, abitata di corpi, di suoni e di colori.

Parsifal, nelle fattezze di Danio Manfedini appare "un eroe vecchio e sghembo",

“la cui catarsi, la scoperta del Graal, è piena coscienza dell'umanità”. Ma anche di

gioia sfrenata, di festa orgiastica, tra Parsifal e un coro di marionette e figurine

giocose, clown bianchi e fate che danzano, fanno delle acrobazie ed emettono

suoni umani che in alternanza con le musiche rallentate del Parsifal di Richard

Wagner danno ritmo alla festa.

Gesti e azioni delle singole figure 1 Gruppo di saltimbanchi: in semicerchio con palme in mano sono tutti in

posizione di attesa. Bloccati nelle loro posizioni. E così finché Parsifal non finisce

il suo a solo. Appena quest’ultimo finisce, ricominciano a muoversi. Movimenti

ginnici. E subito dopo comincia una scena orgiastica/burattinesca. E poi una

marcia di guerra. Rumore con i piedi. L’orgia continua ma quasi a rallenti. Di

nuovo marcia. Poi tutti fermi, divisi in più gruppi. Alcuni inginocchiati e in fila.

Un performer tiene da dietro la bocca aperta di un’altra. Uno cammina sul

monociclo. Dopo l’a solo de L’Eremita, tutti si ricominciano a muovere ma

spostati verso il fondo della scena. Tutti in movimenti di danza. Mentre una di

loro recita “Signurin dla tera e de zil”, tutti gli altri: l’uno all’altro da dietro tiene

la bocca spalancata. Come se ci fosse una compartecipazione/sbigottimento alle

1 La descrizione dei gesti e delle azioni delle singole figure sono il risultato di un attento e accurato studio che si è basato sulla comparazione tra il video dello spettacolo e il Parsifal (2000) di Mariangela Gualtieri. In questo caso in particolare il testo risultava semplicemente la raccolta letteraria dei vari “pezzi”. Si è cercato inoltre di scarnificare il più possibile i gesti, riducendoli il più delle volte a movimenti.

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parole udite. Poi ricomincia la marcia. E di nuovo tutti bloccati in una posizione,

tranne il Ragazzo dai vestiti orientali che fa la “ruota” più volte. Poi sempre a due

a due, doppiano Kundri mentre fa il suo a solo. Alla fine di questo a solo, il

Ragazzo con il tutù, si avvicina a Parsifal e vi si siede sotto di lui. Mentre la

Madre fa il suo “Fare le cose buone fare il bravo”, gli altri fanno tutta una serie

di numeri circensi: piramidi umane, ecc… Poi “Monologo dell’Amore entusiasta”

di Parsifal, tutti a due a due si tengono per mano, fanno sesso orale (sullo

scoglio). Dopo il “Monologo dell’Amore entusiasta” di Parsifal ricomincia la

marcia. Poi esercizi circensi. Poi a solo di Anfortas,“Ballata della Terra

Desolata”, tutti di spalle se ne vanno verso il fondo della scena, qualcuno si tappa

le orecchie, qualche altro si tappa gli occhi con le mani, altri a faccia in terra, il

Ragazzo con i vestiti orientali riprende la lancia e, come la prima volta, la porge a

Parsifal baciandolo. Ricomincia la scena dell’orgia e di continuo la marcia. Poi

tutti corrono in cerchio in senso antiorario, Parsifal in testa con lancia in mano. Di

nuovo orgia. Marcia sonora. Orgia. Tutti fermi con braccia aperte in aria. Mentre

Anfortas fa il suo “Lamento”, tutti gli altri si chiudono in una fila abbracciati, con

occhi rivolti tutti nella stessa direzione, ovvero verso il basso. Dopo l’a solo,

Anfortas compresa, tutti si accasciano a terra a faccia in aria. Arriva dal fondo

Parsifal e a fatica scavalca i corpi che giacciono a terra e “Monologo del Non so”.

Parsifal: arriva dalla destra ululante e si dimena con tutto il corpo “tirato” e “Non

ne posso più”. Declama rivolto verso il pubblico con occhi quasi sempre al cielo.

Poi si allontana di profilo da dove è entrato con la lancia sacra ma viene coinvolto

nella scena orgiastica. Anche Parsifal partecipa alla marcia. Sul lato estremo

destro della scena che di dimena con la lancia in mano. Poi ritorna in proscenio, al

centro. Mentre Kundri recita il suo “Questo mondo questo strano zoccolo”,

Parsifal sta al centro e una del gruppo lo tocca con la lancia sacra sulla spalla, più

volte. Poi gli si avvicina il Ragazzo con il tutù che si siede sotto di lui. Parsifal

così recita il “Monologo delle tristezze”, sempre rivolto verso il pubblico e con

occhi al cielo. Poi fermo per tutto l’a solo de La Madre. Subito dopo “Monologo

dell’Amore entusiasta”, sempre rivolto verso il pubblico e occhi al cielo, poi si

distende a faccia in aria. Subito dopo la marcia del gruppo, si rialza e il Ragazzo

con abiti orientali gli porge la lancia e gli dà un bacio sulla bocca. Poi va sempre

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verso destra. Grida con la lancia verso il cielo. Poi poggia la lancia al muro e

anche lui in esercizi circensi. Mentre Anfortas fa il suo “Lamento”, si muove sul

fondo della scena con la lancia in mano, in maniera furtiva. Arriva dal fondo e a

fatica scavalca i corpi che giacciono a terra e “Monologo del Non so”, sempre in

proscenio e rivolto al pubblico ma con gli occhi al cielo. Poi si inginocchia e si

accascia anche lui. Faccia in terra.

L’eremita: si stacca dal gruppo. Addita Parsifal che si è seduto al centro del palco

e “Oh sentinella sentinella”. Anche lei parla rivolta al pubblico.

Coro delle bestemmiatrici: anche lei si stacca dal coro e in proscenio recita

“Signurin dla tera e de zil”. E tutti gli altri: l’uno all’altro da dietro tiene la bocca

spalancata. Come se ci fosse una compartecipazione alle parole udite.

L’irsuta Kundri: si stacca dal gruppo e “Questo mondo questo strano zoccolo”.

Prima scena in cui un attore parla e gli altri partecipano “doppiandola”, ovvero

muovendo solo le labbra.

La Madre: si avvicina a Parsifal e prima in ginocchio poi si alza, sempre

accarezzandolo, “Fare le cose buone fare il bravo”.

Anfortas: “Ballata della Terra Desolata”. Anche lei recita in proscenio rivolta

verso il pubblico. Poi partecipa alle evoluzioni corali. Poi si stacca e prima da

seduta, sullo scoglio, fa il suo “Lamento”. Subito dopo si accascia a terra a faccia

in aria. E come lei tutto il gruppo.

Attori come figure rovesciate del sogno infantile Negli spettacoli del Teatro Valdoca non ci sono attori in senso tradizionale così

come non ci sono personaggi. E sebbene Cesare Ronconi ci tenga a ribadire che

lavora con attori, bisogna chiarire però che egli non si riferisce ad attori

istituzionali, provenienti da percorsi accademici riconosciuti, e quindi di attori di

professione, bensì di persone scelte e addestrate da lui stesso durante laboratori

mirati. Ribadisce inoltre che le sue sono figure attoriali, non come le persone

“usate” in scena da Pippo Delbono o Romeo Castellucci. [Ronconi, 2009]. Qui

però oltre che persone scelte ad hoc per lo spettacolo, a dare carne e sangue al

protagonista è un attore di professione, una “macchina attoriale” come lo definisce

Ronconi: Danio Manfredini. E il confronto tra professionismo e non-attorialità

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dichiarata dai membri del gruppo, sia perché si tratti di danzatori acrobati sia

perché si tratti di “attori” alle prime esperienze, appare lampante. Ma in ogni caso

non si può non concordare con Valentina Valentini che parla di perdita della

“fungibilità dell’attore” e della “sua disponibilità a impersonare i ruoli”. Infatti

viene così meno il “gioco del teatro come finzione” e si cerca pertanto un

“contatto con un oltre”,

con una duplice

contrastante forza di

“irraggiungibilità del

divino e della

disintegrazione

dell’umano”. E subentra

così l’uso della

maschera come medium

che permette di far

sostare le figure, quanto

meno per la durata dello spettacolo, in una condizione di liminalità rituale,

anch’essa duplice, ascensionale ma anche discensionale. [Valentini, in

Dallagiovanna, 2003, p. 15-16] E per finire l’uso tipico nel Teatro Valdoca di

“pitturare i corpi”, quasi di “scontornarli” e farli diventare tipici, nel senso di più

vicini a un’idea di umanità universale, a una “trasfigurazione” ricercata e

raggiunta [Gualtieri, in Dallagiovanna, 2003, p. 101]. Si tratta però di figure che

devono presentare una “sapienza attoriale”, o “del corpo” “vicino all’animale e

all’infante”, [ivi, p. 96], attraverso la quale risalire e costruire una tipizzazione

archetipica, appunto. Lo spiega bene la Dallagiovanna che pone la “figura come

struttura essenziale dell’attore, come maschera che ne svela i tratti” e che “al

contrario del personaggio è una forma che l’attore non riveste ma contiene, una

base” [ivi, p. 114]. E si giunge ad affermare, come fa notare Piri, citando

Nietzsche, che “il corpo” è “segno di referenzialità preistoriche e preculturali”.

[Piri, in Gualtieri, 1983] Quindi l’“attore” si trova esonerato da un lavoro di

costruzione tradizionale per “avvicinarsi” al personaggio, che non c’è più, e al

contrario viene costretto a spogliarsi di qualsiasi orpello, sia psicologico che

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caratteriale, per poter raggiungere il suo di-segno primigenio, e agire, una volta

trovato, solo da quello. Ronconi costruisce figure provenienti dal sogno rovesciato

dell’infanzia: pinocchi sinistri, ballerine obese, streghe e fatine. In Parsifal

sembra di essere di fronte ad una compagnia di saltimbanchi. Tutti con cappelli a

punta e lunghi nasi da pinocchio. Corpi colorati alla maniera di Cesare Ronconi:

macchie di colore sul viso, collo, pancia, gambe. Tutti con il cappello a punta

tranne Parsifal, che ha pantaloni bianchi e petto nudo e il Ragazzo con abiti

orientali. Vestiti quindi a metà dai vestiti dipinti che simulano quelli veri, secondo

la tecnica del body painting, e metà dagli abiti reali. E se l’archetipicità delle figure è da considerarsi un punto di inizio, è da lì che

sorgono “azioni slegate dal pensiero logico”: la fisicità viene portata al “limite

dell’atletismo” [Ronconi, in Dallagiovanna, 2000, pp. 147-148]. Infatti tutto

l’“esercizio” fisico appare come il contrasto necessario per smorzare la forza e la

“malvagità” delle parole di Mariangela Gualtieri (di cui si parlerà più avanti), che

trovano nei movimenti forsennati dei performer un alleggerimento salvifico. Si

viene così a creare una lotta forte e permanente tra pensiero/voce e

corpo/movimenti.

E Parsifal, che sebbene si riferisca all’opera di Wagner, in realtà non ha nulla

del suo personaggio originario. Conferma ne è il fatto che Cesare Ronconi e

Mariangela Gualtieri con questo spettacolo abbiano voluto raccontare quella parte

in cui Parsifal si perde, quel “buco” della sua storia di cui non si sa nulla. Ecco

che quindi il risultato sarà assolutamente diverso. Infatti il “personaggio” viene

costruito sul e con il corpo di Manfredini, con particolare riferimento alla sua vita,

alla sua sensibilità di artista e di persona. Insomma una costruzione non sul

personaggio di Parsifal ma sulla persona di Danio.

Voci che echeggiano da lontano La voce, e l’intrinseco dolore che grazie a questa si tocca, è uno degli aspetti più

feroci di questo spettacolo. Ci sono esclusivamente a solo, recitati a se stessi e al

pubblico. Un parola atavica, che trova ostacolo prima di tutto nella persona che la

“genera”, basti pensare all’ululante brano iniziale recitato da Danio/Parsifal che si

dimena con tutto il corpo “tirato” nel suo“Non ne posso più” e declama rivolto

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verso il pubblico con occhi quasi sempre al cielo. Una parola che sa di carne, la

stessa che Danio mostra attraverso il suo petto denudato. Non c’è differenza tra

ciò che si vede e ciò che si sente ma basta poco per sentire che non c’è

separazione ma solo una sublime sintesi poiché il moto nasce nello stesso punto

dal quale sgorgano le parole. L’unico proferire rivolto a un partner della scena è

il“Fare le cose buone fare il bravo” de La Madre, rivolto a Parsifal. La Madre si

avvicina a Parsifal, prima in ginocchio poi si alza,

sempre accarezzandolo. È anche l’unico contatto

“affettivo” dello spettacolo. Sono parole che non

devono e non possono restare sulla scena, che è mera

funzione, ma devono volare in un altrove. Parole che

diventano materiche come pietre che hanno la stessa

consistenza, quando sono emesse, del corpo, perché

da lì nascono. Parole pesanti come piombo. C’è una

grandissima forza nelle parole poetiche scritte da

Mariangela Gualtieri, scritte per l’occasione e quindi

solo per essere dette e non per restare sulle pagine.

Parole che testimoniano una grande energia corporea

prima che vocale. E nonostante ciò, c’è una netta

distinzione tra le parti fisiche, tipiche da circo come

le capriole, le parate, le ruote, e le parole che hanno

una durezza che taglia: intermezzi in cui affiorano clown e acrobati, sudatissimi,

quasi che con i loro “corpi circensi” si voglia demistificare un testo che altrimenti

mieterebbe vittime a dismisura e infatti con le “maschere e i trucchi da circo” si va

a “rovesciare” la tragicità del verbo. Un’aggressività dei corpi che va a livellare

l’aggressività della parola e quindi del pensiero. Ma non c’è disturbo tra l’una e

l’altra componente: entrambe si fondono in una coerenza formale e contenutistica

esemplare [Ronconi, in Dallagiovanna, 2000, p. 151]. Pertanto si tratta di

un’opera corale nella quale di volta in volta si staccano delle unità per dar voce al

loro dire. È interessante come i singoli performer nel momento in cui devono

prendere voce, si distanzino dal gruppo e ritrovino una loro unicità, diventando

medium, ovvero ospitando voci che non sembrano loro ma appartenere a qualcosa

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di lontano, atavico, animalesco. Insomma da una caverna all’altra. Nel momento

in cui gli attori devono parlare c’è quasi una preparazione fisica di

allontanamento, quasi di solitudine nella parola, per trovare quella concentrazione

che secondo Scarpelli è “il massimo di energia che è nella pausa” [Scarpelli, in

Dallagiovanna, 2003, p. 173].

Unicità e coralità sono tipici nei lavori di Cesare Ronconi ma qui il rapporto si

realizza su un doppio livello:

• Singolo e gruppo all’interno del gruppo stesso: i singoli saltimbanchi

che amalgamati nel gruppo ritrovano una loro autonomia solo quando

devono essere albergati da una voce. È il caso di tutti gli a solo

realizzati in proscenio, con viso rivolto verso il pubblico, è il caso di

Anfortas, de L’Eremita, de La Madre, di Kundri.

• Singolo e gruppo dall’esterno del gruppo: Parsifal che risulterebbe

secondo un’idea classica di coro, il corifeo, ma in realtà risulta

un’unità a sé stante, autonoma che però soprattutto nei momenti

orgiastici, ovvero nei momenti di confusione estrema, diventa parte di

quel gruppo. Ma è solo un qualcosa di momentaneo.

Lo spazio vuoto diventa pieno rituale La performance si sviluppa nel cortile di Villa Torlonia a San Mauro di Romagna:

la struttura presenta archi a tutto sesto, realizzata con mattoni a faccia vista.

L’azione si svolge su una piattaforma di legno rettangolare, con ponteggi a vista.

A delimitare lo spazio delle aste a strisce bianche e rosse che si usano nei cantieri

edili e solo sul fondo delle aste con lampadine sempre illuminate. Sulla

pavimentazione c’è un unico “elemento scenografico”, cioè una grossa pietra su

delle rotelle. Insomma una scena semplice ma composita, a metà tra il vero, la

struttura in mattoni, e il posticcio, il palco e i ponteggi a vista. Stesso tipo di

procedimento “costruttivo” Cesare Ronconi lo attua con i costumi (di cui si è

detto prima). E ci si trova pertanto dinanzi a uno spazio che prima dell’inizio dello

spettacolo non c’è: un micromondo che comincia a vedersi solo quando le figure

cominciano ad agire. Uno spazio che diventa “spazio/tempo” assoluto, unico e

irripetibile. Un cantiere aperto nel quale lo spazio si farà, nel futuro. [Attisani, in

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Gualtieri, 1983, p. 9] C’è un ottimo rapporto di appartenenza allo spazio da parte

sia di Danio Manfredini che delle altre figure: uno spazio decisamente neutro che

diviene appunto il posto di un rito, quello teatrale, che assume senso a partire dalle

evoluzioni della performance stessa. Non c’è invece un rapporto attivo tra le

figure e lo spazio che è inanimato. Al massimo le varie figure si defilano verso lo

sfondo ma semplicemente per distanziarsi dal proscenio sul quale viene di volta in

volta proferita parola, è il caso dell’a solo “Ballata della Terra Desolata” di

Anfortas durante il quale tutti di spalle raggiungono il fondo della scena.

Il colore predominante è dato dall’incarnato dorato dei corpi ma anche dal

marrone dorato dei mattoni della struttura del palazzo che vi fa pendant. Sono tre i

colori che Ronconi utilizza per dipingere i corpi ovvero il rosso, il nero e il

bianco: “il bianco del cerone amalgama le carnagioni” cosicché “sembrano tutti

marionette”, il rosso come segno di sangue, sacrificio e vita, e il nero infine come

lutto ma anche come non colore che neutralizza il dolore. [Ronconi C., in

Dallagiovanna, 2003, p. 40]

Non ci sono effetti di luce e di ombra marcatissimi, anzi c’è un continuo

alternarsi di luce e semioscurità. L’illuminazione sempre frontale e a

intermittenza, soprattutto nelle scene orgiastiche. Restano costantemente

illuminate le lampadine delle aste che stanno sul fondo.

Non ci sono invece oggetti in scena a parte la lancia sacra.

Musica en rallenti e “rumori umani” Il Parsifal di Ronconi risulta un’opera decisamente ben amalgamata tra fisicità,

vocalità, musica e “rumori umani”: una sintesi che stordisce i sensi.

Tanti i rumori, soprattutto colpi di tamburi e il “battito” dei piedi sul palco che

ricordano e danno all’evento un aspetto fortemente rituale. E vanno così a

scandire un ritmo molto cadenzato marcando il tempo e presentandolo come un

tempo altro, ovvero un tempo ripulito da qualsiasi forma di arresto, un tempo

quasi “ecologico”. Non mancano le musiche, in particolare tre frammenti

volutamente rallentati del Parsifal di Wagner. Questi intermezzi hanno una

funzione chiara e specifica, di “battere” quindi il tempo all’azione e diventare

materici come l’azione stessa: da notare la parte iniziale in cui Danio/Parsifal

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fluttua nel corpo in una perfetta traslazione materica/corporea della musica. Ma

anche nella scena successiva in cui il Gruppo di saltimbanchi si esprime in

movimenti ginnici che si evolveranno poi nella scena orgiastica/burattinesca e

nella marcia di guerra finché l’orgia non si trasforma ulteriormente in movimenti

en rallenti. Si ritrova qui un sottile gioco, ben orchestrato, tra musiche, silenzio e

parola: quando ci sono movimenti, ovvero danza, per cui mancano le parole e c’è

un silenzio “umano”, a dare voce a questo silenzio sono le musiche del Parsifal di

Wagner (nelle scene orgiastiche, ripetute più volte). Invece le scene di marcia,

ricorrenti, in cui tutti corrono in cerchio in senso antiorario, la sonorità è data da

solo dall’umano: urla e rumori di piedi diventano le sonorità leit motiv associate

alle marce dei danzatori/guerrieri/saltimbanchi.

Anche la recitazione presenta una costruzione ben studiata musicalmente:

pause geometriche, numerose in ogni frase. Anche le parole pertanto vengono

regolate dagli stessi strumenti usati per “canalizzare” l’azione, cioè i rumori

umani, di cui sopra, e le musiche estratte dal Parsifal di Wagner.

Risultato finale è un’opera musicale anche quando la musica non è

direttamente contemplata.

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Recensioni «Parsifal, un fanciullino che assomiglia a Pinocchio» di Franco Cordelli (Corriere della sera, 07/07/1999) “Il «Parzival» della Valdoca, in scena nell’ambito del Festival di Santarcangelo di Romagna, ha una sua potenza assolutamente peculiare. […] Esso è acrobatico, erotico, danzante. Non è mai solo, eppure parla sempre da solo, o sempre di sé (parla con Dio). È un Parsifal puerile, come dice Mariangela Gualtieri, autrice del testo, un Parsifal bambino, fanciullo, fanciullino. Come tutti i suoi compagni di ventura, è vestito di stracci all’ultima moda giovanile, barbarica, e ha quel naso inconfondibile, fondante, favoloso. È un Parsifal-Pinocchio, anzi pinocchietto,. Pronto a tutto, a tutte le bullerie, perfino a mentire, per salvarsi l’anima. Ma il suo problema, incredibile a dirsi, resta proprio quello: l’ultima performance di Danio Manfredini (Parsifal) non è che l’eterno, straziante lamento dell’anima umana, incapace di stare al mondo senza recare dolore, senza riceverlo.” «Parsifal freddo e sublime» di Massimo Marino (Il quaderno del festival, 09/07/1999) “Ripetizione. Corpi smaglianti, segnati di colore, deformati da nasi e conici cappellini da pinocchi o iniziati, addobbati come per un grande circo, mistico e volgare, compongono figure che tornano con ossessione circolare. Tornano le parole, a scavare, a scorticare, a colpire la durezza delle cose per cercare di trasformarsi. Schierati i beffardi clown, in circolo avanzanti su una marcia dirompente, nebulizzati in gruppetti, figure singole, ricomposti, danzanti, parlanti, sotto rombo di tuono o battaglia incombente, formano schermo o fondale a Parsifal, un Danio Manfredini scorticante. La sua voce è il sipario che accoglie il pubblico sulla nuda scena di una villa Torlonia spoglia, in restauro, cantiere di tubi e strutture in vista, paesaggio rovistato e denudato che fa risaltare suoni che introducono una fine stremata. Le parole di Mariangela Gualtieri rovistano più a fondo, smaglianti e sontuose fino alla delicatezza. Poi la parata, l’entrata dirompente dei clown come processione che accoglie con palme il redentore vittima sacrificale. Poi le ripetizioni dello spettacolo, gli eterni stilemi di Cesare Ronconi che, come sempre negli ultimi spettacoli, riescono a tradirti, improvvisamente a straziarti, sorprenderti e rivelarti. Qui è proprio la figura dell’iterazione che conduce nel segreto dell’atto, di una fine sospesa all‘infinito, uno svuotarsi in flash back che rassomiglia in modo feroce alla vita.” «Nel Parsifal privato orge, follie e giochi» di Ugo Volli ( La Repubblica, 10/07/1999) “Il Parsifal dei Valdoca è […] uno spettacolo molto complesso, e strutturato, che usa l’energia dei corpi impegnati strenuamente nell’azione per trasmettere una poetica ricchezza del senso. Su una piattaforma rialzata agiscono una dozzina di giovani attori, in costumi ironicamente confusi. Vi sono nasi di Pinocchio, cappelli di fata, ma anche bikini più da palestra che da spiaggia, pantaloni bianchi, un monociclo, una lunga canna fischiante, una roccia su rotelle. Il gruppo degli attori agisce da coro assai dinamico, muovendosi con ritmica energia su passerelle circolari, un po’ alla maniera di Pina Bausch. Da esso si staccano i solisti, innanzitutto un fortissimo Danio Manfredini, a dire i versi Mariangela Gualtieri, talvolta in dialetto romagnolo, per lo più in italiano, ma sempre spezzati, mossi, terrigni, di grande espressività teatrale. L’azione rappresenta un intervallo nella vita di Parsifal, quel momento in cui l’eroe deve raggiungere l’abbandono, e la purezza che lo porteranno alla ricerca del Graal. L’idea sovversiva rispetto al mito è che questo intervallo sia un momento di immersione nel mondo, do conoscenza carnale, di orge e di follie; e che però questa giostra di sesso e di gioco sia doloroso e violento, per nulla piacevole. si tratta, molto probabilmente di un’immagine del nostro mondo vista attraverso gli occhi di una Parsifal che sta maturando il suo disgusto e la sua volontà di annichilimento. Ma non bisogna pensare ad uno spettacolo moralista o sociologico. Al contrario, l’energia dei giovani attori è bruciante e coinvolgente, vi sono immagine esotiche e ironiche come in un libro delle danze di Barba, e spezzature di livello come in certi lavori di Leo. Ma a tratti tutta questa dispersione grottesca ed energica si rapprende e l’accidentato percorso poetico trova radici nell’intensità di corpi tesi fino al dolore. Allora l’intensità emotiva inchioda lo spettatore insieme al pensiero e alla passione, alla distanza della storia e alla partecipazione.”

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«Parsifal, Orfeo, Edipo Tre istantanee da un festival» di Gianni Manzella (il manifesto, 15/07/1999) “Il piccolo Parsifal è ancora lì. Ragazzo selvaggio coperto da pochi stracci, adorno di simulacri animali. Ma ora un altro Parsifal ha preso il centro della scena. Più vecchio, il corpo segnato dalla vita, però contraffatto in maniera un po’ derisoria da un lungo naso da burattino. Ha imparato a dire le parole del dolore. «Non posso, non voglio, non più posso, non più posso tenere la sopportazione». Il piccolo Parsifal gli si avvicina e lo bacia sulla bocca. Gli consegna una lunga canna, povero simbolo della lotta da sostenere. Quanto tempo passato? C’è un buco vuoto tra il lavoro introduttivo dell’anno scorso e questo Parsifal che il Teatro Valdoca ha presentato al festival di Santarcangelo, sul parco allestito nella corte di villa Torlonia, a San Mauro Pascoli. Fra la radiosa compostezza di un canto rarefatto come un mantra e l’energia erotica e danzante di questa nuova prova, che sembra posata sulla superficie instabile di una terra vulcanica. Parsifal piccolo aveva costruito un’infanzia alle eroe che va alla conquista del Graal. Gli aveva donato un passato. Il passaggio alla maturità impone un nuovo corpo che ha la fisicità genettiana di Danio Manfredini. Ma alle spalle del protagonista si avanza uno strano coro di pinocchietti e fatine turchine, tutti con i nasini lunghi lunghi e i cappellini a cono. Vestiti con parsimonia, in braghette o due pezzi, qualcuno con un tutù di tulle. Tutti colorati di bianco e di rosso, come dipinti per una danza di guerra, ma gioiosa, infantile. Avanzano a lunghi passi di marcia, più da circo che guerriera, su un’onda di musica wagneriana che si spezza nelle canzoni di Kurt Weill con la voce di Ute Lemper, guidati dalla partitura ritmica creata all’istante dal regista Cesare Ronconi. A tratti qualcuno si stacca dal coro per esibirsi in un numero personale, salti e acrobazie commentate da un Manfredini uscito di parte per assumere la veste dell’artefice magico della sarabanda. Oppure diventa, qualcuno, la voce recitante di un personaggio, il re Anfortas, l’irsuta Cundri, la madre. Allora sono i versi di Mariangela Gualtieri a prendere possesso della scena, a imporre la loro forza espressiva che sembra staccarli dai corpi degli interpreti. Parsifal, il Parsifal della Valdoca, vive di questa lotta, fra una parola che reclama autonomia e la vitalità erotica dei corpi danzanti che attraverso l’eccesso di una sessualità esibita con foga animale ci dice disperatamente di un’altra comunicazione possibile. In mezzo ci sta il Graal perso e ritrovato mille volte, come un amore che è anche una guerra.”

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PAESAGGIO CON FRATELLO ROTTO (2005) di Teatro Valdoca

Paesaggio con fratello rotto si presenta come una trilogia scritta da Mariangela

Gualtieri. La prima parte, Fango che diventa luce, è agita da tre figure, l’Oracolo,

il Macellaio e i tre Animali. Questi ultimi

sono attrici con teste di bestia, sono fragili, feriti, ma non sono innocenti,

terrorizzati dal Macellaio, che li vede semplicemente come “carnazza animale”.

Insomma un vero e proprio scollamento dalla natura rappresentato dalla brutalità

dei rapporti segnati dalla violenza. Brutalità che sarà punita dagli stessi Animali

che prenderanno il sopravvento ma solo per poco infatti in ultima istanza il

Macellaio li finirà uno a uno. Insomma si va a scandagliare uno dei temi propri di

questo spettacolo, ovvero il mancato discernimento tra bene e male, tra violenza e

grazia, dell’impossibile unità dell’Io. E non si trova riposo neppure nel secondo

paesaggio, Canto di ferro. Qui ad agitare la scena una “banda” di figure della

paura, la Geisha, il Ragazzo-cane, la Ragazza-uccello, il Ragazzo-Ricamatrice e

le Due Ballerine. Questa parte centrale è onirica in cui aleggia il sonno disturbato

degli incubi senza né logica né narrativa. Si procede piuttosto per visioni

raccapriccianti e violenti. L’ultima, A chi esita (il titolo è rubato a Brecht) è un

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unico pezzo, una sola immagine a sostenere il “getto” delle parole che sgorga in

una meditazione poeticizzata. Una figura deforme (I due gemelli siamesi) chiusa

in uno slabrato abito bianco, sporcato da strisce rosse di sangue, fa emergere due

unità umane, rappresentanti rispettivamente del femminile e del maschile.

La trilogia assume così la struttura di un percorso per nulla agile che ha inizio con

la tremante fragilità degli Animali fino alla possente deformità di quel corpo

doppio, che viene a essere liberato dall’altitudine di una parola, partorita con

fatica e con dolore ma in comunione.

Gesti e azioni delle singole figure 2 Parte Prima: Fango che diventa luce

Organista: entra dal fondo e molto lentamente si va a sedere all’organo che sta

sulla destra della scena. Suona.

Le tre Ragazze/Animali: la prima Ragazza/Animale con il bastone entra sempre

dal fondo la prima poggiandosi su un bastone. Arriva al tavolaccio e vi si mette

sotto. Entra la seconda Ragazza/Animale con il tutù sulle punte delle sue scarpe da

ballerina: ha in una mano un ventaglio e nell’altra un ramo di fiorito di pesco e

sale sul tavolaccio. Dal lato opposto entra la terza Ragazza/Animale con la vipera

che ha una vipera in bocca, appunto, si toglie la giacca e poi sale anche lei sul

tavolaccio. La Ragazza/Animale con il bastone che stava sotto comincia a girare

piegata su se stessa e sbatte la schiena alla base del tavolo (movimento reiterato),

ma la Ragazza/Animale con la vipera da sopra la schiaccia e la fa cadere più volte

e nel frattempo quest’ultima allatta la vipera dal suo seno. Nel frattempo la

Ragazza/Animale con il tutù sta sempre sulle punte. Poi sia Ragazza/Animale con

il tutù che la Ragazza/Animale con la vipera scendono dal tavolo e all’unisono

avanzano e con le mani in segno di offerta innalzano i loro oggetti, il ventaglio e il

ramo fiorito di pesco, seguendo la Ragazza/Animale con il bastone che tremante

2 La descrizione dei gesti e delle azioni delle singole figure sono il risultato di un attento e accurato studio che si è basato sulla comparazione tra il video dello spettacolo e il Paesaggio con fratello rotto (2007) di Mariangela Gualtieri. Anche in questo caso il testo risultava semplicemente la raccolta letteraria dei vari “pezzi”. Si è cercato inoltre di scarnificare il più possibile i gesti, riducendoli il più delle volte a movimenti.

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cammina a quattro zampe e cade più volte. Arrivati in proscenio, lasciano cadere

gli oggetti e si accovacciano in terra, tutte e tre. Dopo che il Macellaio le ha

“seviziate” e le lascia da sole, loro si rialzano e come se spingessero con le mani

verso gli spettatori, “Paura, paura, paura. Vergogna, vergogna, Vergogna. Dolore,

dolore, dolore”, come se volessero sfondare una parete. Poi mentre il Macellaio

dice il suo “Che mi venghi a cercare”, a una a una vanno sul tavolaccio e vi si

dimenano rumorosamente e poi cadono per terra. Mentre l’Oracolo “Il dolore è

questa stretta di ora”, la Ragazza/Animale con il bastone copre il Macellaio con

pezzi di stoffa, la Ragazza/Animale con il tutù sempre sulle punte e il ramo in

mano va avanti e indietro con gli occhi chiusi, la Ragazza/Animale con la vipera

resta seduta di spalle su un altro ceppo tremante. Poi si rialzano e con due canne a

testa, come fossero stampelle, camminano all’indietro verso il fondo, salgono sul

tavolaccio e raggiunte dal Macellaio che vi si stende supino. Le Ragazze soffiano

dentro le canne collegate al busto e al sesso del Macellaio. Le stesse canne

collegate dai loro capezzoli al busto e al sesso dell’uomo. Poi lo spingono fino a

farlo cadere per terra sotto il tavolo e lo picchiano con le canne. (le

Ragazze/Animali si vendicano e anche in questa scena di violenza l’Oracolo si

nasconde gli occhi con le mani/ciondolo dipinte. La violenza continua con delle

torce illuminate che vengono fatte saettare per aria dalla Ragazza/Animale con la

vipera e dalla Ragazza/Animale con il tutù, mentre la Ragazza/Animale con il

bastone spinge in avanti una canna alle cui estremità ci sono due mani dipinte. La

Ragazza/Animale con la vipera si produce dolore mettendosi una sorta di pearcing

che buca il capezzolo e la schiena e viene liberato con un grido lancinante, mentre

le altre due sul tavolo giocano e finiscono per fare “cavalluccio” e le punte delle

scarpe della Ragazza/Animale con il tutù sembrano reggersi su quelle del

Macellaio che sta ancora sotto il tavolo ma con gambe sollevate, i cui piedi

seguono i passi della Ragazza. Ma è una trappola infatti tornerà a bastonarle. Le

Ragazze scendono dal tavolo e comincia una sequenza in cui la Ragazza/Animale

con il tutù diventa un soldato e accompagnata dal sonoro, procede verso il

proscenio “fucilando” con le braccia in avanti e le altre Ragazze/Animali

partecipano a questa marcia con movimenti contratti di dolore, soprattutto la

Ragazza/Animale con la vipera. Poi tutte e tre vanno verso il tavolo e battendovi

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le mani su, recitano “Ma che cosa volete da me” e dopo corrono verso il centro

della scena e si rannicchiano insieme.

Oracolo: entra con grande regalità dal fondo sinistro, con a seguito il Macellaio

che le regge il lungo mantello con cappuccio che le copre anche il viso. Sembra

una sposa che va all’altare del sacrifico e come preannuncio prima le tre

Ragazze/Animali che portano i loro doni sacrificali. Arrivata al microfono con asta

si toglie il cappuccio e comincia il suo monologo “Che cosa diremo a quelli che

nascono ora?”. Ha la bocca serrata da un elastico e recita con gli occhi chiusi ma

dipinti con sfere che rimandano alle pupille. La voce esce sfregata. Poi ad un certo

punto si libera la bocca da quell’elastico. E la lingua riprende la sua azione con

forza. Si toglie il mantello e lo lascia cadere per terra e poi prende le “mani” che

ha appese al collo e le ciondolano addosso e se le mette come una maschera , per

non assistere alla violenza. Dopo l’a solo del Macellaio “Che mi venghi a

cercare”, ritorna a recitare sempre con gli occhi chiusi “Il dolore è questa stretta di

ora”. Mentre c’è la scena di violenza e di vendetta da parte delle Ragazze ai danni

del Macellaio, l’Oracolo si nasconde di nuovo gli occhi con le mani dipinte e si

rimette l’elastico un bocca come a creare un ostacolo alla lingua. E gioca con la

testa di una animale: l’accarezza, la bacia. Dopo l’a solo “Che cosa volete da

me?” delle Ragazze/Animali, l’Oracolo con la torcia elettrica accesa e le illumina.

Arriva il Macellaio che le strangola a una a una. Dopo il Macellaio ha compiuto il

misfatto continua a illuminare le Ragazze, e poi anche il Macellaio. Morto anche

quest’ultimo, l’Oracolo posa la torcia e, tenendosi la testa stretta tra le mani, torna

al microfono e “Chi ci guarderà come si guarda il bambino che dorme”. Poi si

uccide anche lei. Fine.

Macellaio: dopo che ha “scortato” l’Oracolo e mentre questa pronuncia il suo

monologo, va verso le tre Ragazze/Animali e avvicina loro una torcia elettrica con

filo a vista a mo’ di sega elettrica. Prende le Ragazze dal collo e poi le lascia

violentemente. Poi ritorna dietro l’Oracolo e inginocchiato tiene stretto il

mantello in segno di prostrazione. Poi recita il suo “ Che mi venghi a cercare”,

con un coltello in mano. Poi lascia cadere in coltello e si stende con la testa su uno

dei ceppi che stanno in proscenio. Poi va verso il tavolaccio, vi si stende sopra

supino. Poi va verso il fondo e si distende sul tavolaccio. Qui subisce la vendetta

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delle Ragazze che lo scaraventano per terra e da lì “Madre sono il tuo figlio più

brutto più sporco più rotto”. Poi mentre due delle Ragazze/Animali giocano sul

tavolo e finiscono per fare “cavalluccio” e le punte delle scarpe della

Ragazza/Animale con il tutù sembrano reggersi su quelle del Macellaio che sta

ancora sotto il tavolo ma con gambe sollevate, i cui piedi seguono i passi della

Ragazza che tornerà a bastonarle. Mentre le ragazze “marciano”, si alza da sotto il

tavolo, recupera due bastoni lunghi e crea una croce di Sant’Andrea alla quale si

crocifigge. Poi va verso le Ragazze che sono rannicchiate al centro della scena e,

mentre l’Oracolo le illumina, le stragola a una a una. A rendere ancora più

raccapricciante la scena è il sottofondo musicale: la natalizia “Tu scendi dalle

stelle”. Poi va sul tavolo. Una volta salitoci sopra, si copre il viso e lo scopre con

il ventaglio che aveva raccattato da terra e che apparteneva Ragazza/Animale con

il tutù e una borsetta da donna. Spara anche lui con le braccia, con il sonoro. Poi

va in proscenio. Si inginocchia e si mette in testa una busta fino a coprirsi gli

occhi. L’Oracolo lo illumina. Si tiene la testa e poi “Anima mia. Mia prigioniera”

e alla fine si copre tutto il viso e si strangola da solo.

Parte seconda: Canto di ferro

Maestro di Cerimonie: sta sul tavolo sul fondo della scena con una torcia elettrica

in mano e illumina coloro che ne prenderanno parte. Quando la Ricamatrice si

alza per cantare, sempre dal tavolo “fotografa”.

Musicista: entra dal fondo e raggiunge la parte destra della scena dove ci sono

due tamburi, comincia così a suonare. Mentre la Ricamatrice canta “Lilì Marlen”,

suona la fisarmonica e canta anche lui. Mentre la Ragazza Uccello recita “Amore

mio, è difficile da questo fondo”, suona una specie di violino elettrico. Alla fine

quando la Geisha recita “Il nemico lo sentiamo di notte”, ritorna a suonare i

tamburi come all’inizio di questa seconda parte.

Due ballerine: entra la prima che chiamerò la Ballerina con le cuffie al collo e va

verso il proscenio con in mano una scultura, forse lignea, che riproduce un

neonato in un cilindro aperto sul davanti. Lo porge con le mani in alto, come fosse

un dono. Lo poggia per terra e comincia una danza frenetica. Entra la seconda

ballerina, la Ballerina con la fionda e anche lei porta dei doni che poggia in

proscenio: una palla e dei birilli di legno. Anche lei danza frenetica. Danzano

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insieme ma singolarmente per tutta questa seconda parte. La Ballerina con le

cuffie al collo si muove su un dondolo e quel movimento ha un ricordo sessuale,

poi gioca con il Ragazzo Cane che la insegue e la spia mentre fa la “pipì” vicino

ai tamburi. Dopo l’a solo della Geisha “Annunciare le stelle”, la Ballerina con la

fionda si riprende il palo che aveva portato alla Geisha prima dello stesso

monologo e lo rimette al suo posto. Durante l’a solo del Ragazzo Cane in

francese, entrambe da sotto il tavolo strisciano a pancia in aria con una testa

d’animale ognuna tra le gambe fino ad arrivare in proscenio. Una volta lì si alzano

e mettendosi quelle teste di animali a mo’ di maschera ritornano verso il

tavolaccio dove le poggiano. Poi movimenti sul tavolo. E subito dopo l’a solo

della Ragazza Uccello, comincia una danza frenetica alla quale prendono parte

entrambe. Prendono la Geisha e sostituendosi alle sue stampelle, la portano in

proscenio e “Bambina mia. Per te avrei dato tutti i giardini del mio regno”; la

stringono forte, le strappano la parrucca. Poi la lasciano per terra le alzano le

mutande che si fermava all’altezza delle ginocchia, le tolgono le scarpe altissime e

se ne mettono una a testa e vanno verso il fondo.

Ragazzo/Ricamatrice: entra dal fondo anche lui. Cammina lentamente: ha una

sorta di protesi legata al polpaccio che gli fa avere due piedi sinistri con una rosa

che ne fuoriesce e una maschera che riproduce fattezze umane che regge con una

mano e nell’altra porta una statuetta di legno. Poi arriva allo suo sgabello di legno,

si siede, posa la maschera, si mette una parrucca lunghissima e con il telaio in

mano “ricama” e parla al microfono. Sono fonemi indistinti soffiati, emessi in

crescendo. Mentre la Geisha entra in scena, comincia il suo “Tocca a te, ora”.

Dopo un rullo di tamburo, si alza e con dei ventagli che recupera dai suoi slip

comincia a cantare “Lilì Marlen” alzando i ventagli a incorniciare la testa. Poi si

risiede sulla sua panca. E durante l’a solo della Geisha “Annunciare le stelle”,

“labia” anche lei e subito dopo “piange”. Mentre il Ragazzo Cane fa il suo a solo

in francese, sussurra al microfono una risatina che poi diventa lamento lancinante.

Durante la scena di danza frenetica, lui fa da vocalist macabro. Dopo che la

Geisha viene portata in proscenio dalle Ballerine, comincia il suo “C’è splendore

in ogni cosa”. Subito dopo si rialza e si rimette la maschera che aveva quando è

entrata e porta con sé il Ragazzo Cane al guinzaglio.

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Ragazzo Cane: entra e porta sulle spalle la Ragazza/Uccello che lascia e va verso

il Ragazzo/Ricamatrice e si ferma a quattro zampe. Dopo l’a solo della

Ricamatrice “Tocca a te, ora” continua ad “abbaiare” e a camminare a quattro

zampe. Dopo l’a solo della Geisha, riprende la Ragazza Uccello sulle spalle e

comincia il suo a solo in francese “Qui se noie là-dedans?” (Chi affoga là

dentro?). Tutti “labiano” all’inizio questo suo a solo. Lascia scendere la ragazza e

continua il suo a solo a quattro zampe. Poi va verso una testa di legno e

spingendovi la sua prosegue il suo parlare. Durante la scena della danza frenetica,

con una lunga protesi di una mano tocca la Geisha. Poi viene portato al guinzaglio

dal Ragazzo/Ricamatrice e grida.

Ragazza Uccello: entra portata sulle spalle dal Ragazzo Cane che la lascia su uno

sgabello e mentre il Ragazzo/Ricamatrice canta batte con un ferro su un quadro

pensile. E subito dopo il Ragazzo Cane la prende di nuovo sulle spalle e mentre la

Geisha recita il suo “Annunciare le stelle”, la doppia “labiando” l’a solo. Mentre

il Ragazzo Cane dà voce francese al a solo, lei dapprima si fa portare sulle spalle

poi scende e dirigendosi verso il fondo dove si ferma saltella prima di spalle poi

girandosi intorno. Subito dopo va a sedersi in braccio al Ragazzo/Ricamatrice e

recita “Amore mio, è difficile da questo fondo” e viene così da lui “doppiata”.

Dopo l’a solo si alza e comincia una danza frenetica. Poi va sul suo sgabello e

comincia a “scrivere” sul quadro sospeso in aria che le fa da sfondo.

Geisha: entra su delle stampelle, cammina con difficoltà. E mentre la Ricamatrice

fa il suo “Tocca a te, ora”, va a quattro zampe verso un lettino/barella di legno e vi

si sdraia sopra. Poi sdraiata, al microfono, recita con gli occhi chiusi “Annunciare

le stelle”, mentre sorregge un palo in mano che le ha porto la Ballerina con la

fionda e subito “piange”. Mentre il Ragazzo Cane fa il suo a solo in francese,

sussurra al microfono “Mamma”. È straziante questa invocazione. E continua più

volte il suo “Mamma”. Dopo l’a solo del Ragazzo Cane, si alza di scatto dal

lettino/barella e, con le solite stampelle, va in soccorso del Ragazzo. E mentre la

Ragazza Uccello fa il suo “Amore mio, è difficile da questo fondo”, anche ella la

“doppia” e crea un contatto “amoroso” con il Ragazzo Cane. Entrambi

camminano a quattro zampe, fino a che la Geisha non se ne separa e torna sul suo

lettino/barella. Si mette a quattro zampe e il Ragazzo Cane a distanza la tocca

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ripetutamente con una lunga protesi di una mano. Silenzio. Le Ballerine la

prendono e sostituendosi alle sue stampelle, la portano in proscenio e “Bambina

mia. Per te avrei dato tutti i giardini del mio regno”; la stringono forte le strappano

la parrucca. Piange. Poi la lasciano per terra le alzano le mutande che si

fermavano all’altezza delle ginocchia, le tolgono le scarpe altissime e se ne

mettono una a testa e cominciano un’altra danza frenetica. Si rialza e va verso il

fondo dove c’è una porta aperta illuminata e con quest’ultima alle sue spalle

continua a piangere. Poi chiude questa porta e va verso la parte sinistra della

scena e “Il nemico lo sentiamo di notte”. Al microfono. Tutti la doppiano. Tutte le

figure associate a coppie: le due Ballerine, il Ragazzo/Ricamatrice e il Ragazzo

Cane, la Geisha e il Ragazzo Uccello. Mentre le prime due coppie sono vicine

fisicamente al loro interno, l’ultima coppia invece è caratterizzata dalla lontananza

fisica. Fine.

Terza parte: A chi esita

I due gemelli Siamesi: i due siamesi sono contenuti in un vestito da donna che ha

un collo larghissimo dal quale fuoriescono le due teste si reggono su dei rialzi ai

piedi. Recitano “Le impressionate immagini di questo tempo”. Tutta la terza parte

si svilupperà così. Recitano all’unisono. Al microfono.

Entrano Maestro di cerimonia e

il Ragazzo/Ricamatrice (figure

della seconda parte); quest’ultimo

traccia una linea rossa sulle fronti

dei due Siamesi e poi chiude gli

occhi e resta alle loro spalle un po’

rialzato rispetto ai due. Il Maestro

di Cerimonia si volta di spalle. Dai

due lati arrivano a quattro zampe le Ballerine e si poggiano ai piedi dei due

Siamesi. Dal lato destro arriva a quattro zampe anche la Ragazza Uccello che si

stende sul fianco. Finito il monologo i due Siamesi si cercano con le bocche

spalancate. Fine.

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Residualità attoriali Anche qui non si può parlare di personaggio in senso tradizionale ma piuttosto di

una tipizzazione, lontana chiaramente da ogni forma di psicologismo: è il caso

della Ragazza/Uccello e del Ragazzo/Cane ma anche

di tutte le altre figure. Una costruzione che verte come

è già stato appurato più che sul personaggio sulla

persona, ma non in maniera predeterminata dal corpo

autosignificante, come per Delbono e per Castellucci.

E se a proposito degli “attori” di Delbono risulta

obbligatorio parlare di figure, qui invece si potrebbe

parlare di “figure attoriali”, come anche Ronconi

dichiara, ovvero di attori che traslano la propria

persona in nome di una peculiarità oggettiva significante. È l’unico gruppo, tra

quelli scelti a campione per la tesi, nel quale resiste un “lavoro” attoriale

[Ronconi, 2009]. Una costruzione che si realizza quindi attraverso un lavoro di

sintesi tra la persona stessa e l’idea che il regista vuole farle incarnare. Il risultato

è la traslazione della persona verso un’astrazione che poi sulla scena ritorna

concreta grazie ai contorni dell’umano. Ovvero si tratta di un lavoro decisamente

fisico che partendo dallo specifico umano penetra la sua struttura interna con un

processo di destrutturazione dell’umano stesso fino a coglierne piccoli e semplici

tratti che diventano poi la base su cui lavorare per raggiungere quella tipizzazione

tendente all’universale, e al contenimento del particolare da cui si era cominciato. In questa performance in particolare le figure si muovono in un tempo

palesemente musicale, infatti sono i loro gesti e movimenti a scandire il tempo

della musica: il Musicista sia nella Parte prima che nella Parte seconda suona ma

in funzione di essi, ovvero come se invece di seguire lo spartito cartaceo seguisse

uno spartito dal vivo, quello dei gesti degli attori. I corpi dunque suggeriscono i

suoni. C’è rispetto a Parsifal un procedimento inverso, infatti in quest’ultimo i

movimenti erano assolutamente scanditi e “comandati” dalla musica.

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Le voci antiche del dolore Bisogna notare come le figure prima di emettere la loro voce mugugnano. È come

se la cercassero attraverso un ripasso che prima risulta

confusione poi invece materializzazione di un ricordo

primordiale. E quindi ritorna il discorso dell’albergare

una voce che non è propria. In maniera evidentissima

l’Oracolo nella Parte prima e la Geisha e il

Ragazzo/Ricamatrice nella Parte seconda arrivano alla

voce solo dopo un lamento disarticolato. Rispetto al

Parsifal, qui è come se ci fosse maggiore violenza ai

danni della vocalità, nel senso che è netta “la storpiatura

della lingua”, ovvero “la lingua assume quella scompostezza di quando si divora

qualcosa, o la scompostezza di quando uno vomita, o se la fa addosso, o fa

l’amore” [Gualtieri. in Dallagiovanna, 2000, p. 141]. Infatti l’Oracolo arriva al

microfono con asta si toglie il cappuccio e comincia il suo a solo “Che cosa

diremo a quelli che nascono ora?” Ha la bocca serrata da un elastico e recita con

gli occhi chiusi ma dipinti con sfere che rimandano alle pupille. La voce esce

sfregata. Poi ad un certo punto si libera la bocca da quell’elastico e la lingua

riprende la sua azione con forza. Insomma ogni figura “deforma parole assunte sul

proprio corpo, le incarna” [Ronconi, in Dallagiovanna, 2000, p. 148]. L’Oracolo

vi fa tutti i suoi a solo al microfono che appare come segno di lontananza: questi

infatti parla da un’altra dimensione, per cui questo filtro alla voce serve per creare

una spersonalizzazione, un anonimato, una distanza della figura da tutti gli

elementi della scena a partire da se stessa. Non ci sono dialoghi ma rapporti interpersonali molto forti, di grande

solidarietà e di comunione. Nella Parte prima le tre Ragazze/animali agiscono

sempre coralmente sia a livello vocale (quando recitano, rivolte verso il pubblico,

“Paura, paura, paura. Vergogna…” e “Che cosa volete da me?”, rivolto invece

contro il Macellaio) che gestuale (emblematica la scena in cui soffiano attraverso

le canne sul corpo del Macellaio ma anche le scene in cui le Ragazze agiscono

singolarmente e le altre vi partecipano con spasmi corporei).

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Ci sono voci fuori scena nella Parte seconda: sono voci registrate che creano

un rapporto stridente di lontananza e di estraneità rispetto alle voci dal vivo.

Anche nella Parte terza la voce fuori campo di un uomo che si lamenta: non sono

distinguibili le singole parole che dice.

Non c’è racconto, nel senso che non c’è una storia. Il tutto “avviene” sulla

scena attraverso immagini, visioni, incubi. L’unico racconto possibile semmai è

dato dalle azioni e dai gesti che vanno a comporre sequenze illogiche di un

percorso multisensoriale.

La voce invece il più delle volte scollata dai movimenti degli attori sembra

voler portare tutti coloro che ne sono uditori verso l’esperienza dell’umanità

fraterna, la commozione. Le voci degli attori sembrano non appartenere a loro,

sembrano voci in prestito. Voci che sgorgano dall’abisso e quasi strappati

dall’apparato fonatorio. Questo favorisce così una forma di spersonalizzazione e

di allineamento del singolo all’universale, dall’unità alla coralità. Toni alti,

esagerati. Ma se in Parsifal sono voci urlate verso il cielo, voci che sembrano

nascere da caverne, lontane, preistoriche, per giungere in alto, qui invece sono

voci che provengono sempre dallo stesso strappo, dalla stessa difficoltà ma che

non aspirano all’alto e pretendono di restare sulla terra tra le persone. Una grande

forza nell’emissione per trattenerla giù, per solcare i sentimenti di chi l’ascolta.

Paesaggio risulta un’opera dalla costruzione molto particolare da un punto di

vista propriamente corale. Sia nella Parte prima che nella Parte seconda si

realizza appieno la relazione tra unicità e coralità, nel senso che pur rimanendo

un’opera essenzialmente corale spiccano le varie singolarità “invincibili”.

Trilogia di luoghi simbolici Dall’analisi dello spettacolo da un punto di vista puramente spaziale si evincono

tre diversi luoghi, o meglio non luoghi: si comincia dalla macelleria della Parte

prima allo studio di un pittore della Parte seconda per finire con lo spazio ristretto

al proscenio il cui sfondo è un sipario della Parte terza. Questi luoghi danno

un’idea di vuoto ma di un vuoto ritualizzato. Tutto rimanda a tempi altri e spazi

altri.

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Nessun riferimento alla natura la quale semmai diventa un “ricordo”. La natura

fermata nel ricordo di se stessa. Nessuna funzione realistica del paesaggio ma

tutto è essenzialmente simbolico, dal tavolaccio da macelleria della Parte prima

retto da quattro tronchi d’albero a simboleggiare l’altare del sacrificio di Animali

innocenti al lettino/barella della Parte seconda a mo’ di baldacchino di una musa

malata, la Geisha, che ricorda una Paolina Bonaparte sofferente o la Venere

tizianesca ma del dolore.

Non c’è un rapporto particolare delle figure con lo sfondo che è inanimato e

che viene utilizzato semplicemente come passaggio di servizio per la scena. C’è

un rapporto molto sentito invece tra le figure e lo spazio scenico. Come in

Parsifal, anche in Paesaggio, c’è una grande appartenenza e una forte

partecipazione allo spazio stesso; quando le tre Ragazze/Animali si dimenano sul

tavolaccio durante l’a solo del Macellaio “Che mi venghi a cercare”. O quando la

Ragazza/Uccello sale sul seggiolone e con una sbarra di ferro batte su un pannello

d’acciaio sospeso in aria e semovente: quest’azione diventa pertanto un contatto

forte con lo spazio, quasi un dialogo/interrogazione.

C’è inoltre un rapporto viscerale/morboso delle figure con gli oggetti (mancava

del tutto in Parsifal): si nota un rispetto rituale verso oggetti che assumono una

chiara valenza simbolica, oggetti di un rito che sta per compiersi, oggetti che

entrano “morti”, e man mano che “servono” alla scena si animano e acquistano un

peso e una funzione: le stampelle delle Ragazze/Animali che diventano canne per

soffiare “dentro” il corpo del Macellaio o la testa di legno contro la quale il

Ragazzo/Cane spingerà la propria testa o la scultura lignea riproducente un

neonato portato in scena dalla Ballerina con le cuffie al collo. O anche il

coltellaccio del Macellaio. E le torce elettriche che rimandano a una macellazione

meccanizzata.

Interessante l’uso del colore: si comincia nella Parte Prima con il grigio/nero

dell’ambientazione in cui emergono le figure dai colori pastello, tutte sul

rosa/lilla: dal tutù della Ragazza/Animale al grembiule del Macellaio. Ma non

mancano, come di consueto nelle messe in scena di Ronconi, segni rossi e neri sui

visi e sui corpi delle figure che servono a mascherarli e renderli “tipi”. Per passare

poi nella Parte seconda al bianco predominante, dai pannelli ai corpi e visi dei

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performer. Il tutto è sporcato di rosso, pittura ma anche sangue, sacrificio,

immolazione. Il rosso che irrompe in tutti gli elementi della performance, dai

vestiti e i corpi dipinti al ritratto dal collo lungo dello sfondo alla parrucca del

Ragazzo/Ricamatrice. E infine nella Parte terza tutto è colorato di ocra e oro.

Solo il vestito de I due gemelli Siamesi spicca e anche in questo caso non si tratta

di bianco candido ma spruzzato di segni rossi e neri.

Molto più studiati rispetto al Parsifal gli effetti luministici. La penombra

resterà per tutta la Parte prima: le figure sempre ben illuminate spiccano come

fossero figurine ritagliate da uno sfondo nerissimo. La luce è creata da fari a vista

e dalle torce elettriche che di volta in volta le varie figure usano. L’effetto che si

viene a creare è di forte innaturalità. C’è in effetti un contrasto luministico forte

tra lo spazio scenico e la figura, o meglio il suo corpo: spazio in penombra e

figura in piena luce. Si continua per tutta la Parte seconda con la penombra ma

qui gli ingressi delle figure dal fondo sono seguiti dalla luce “occhio di bue”. Lo

sfondo è grigio. Le figure sono talmente illuminate che raggiungono un effetto di

forte abbacinazione, come quando il Ragazzo/Ricamatrice canta “Lilì Marlen”.

Anche nella Parte terza predomina la penombra che viene rotta solo dalla luce a

“occhio di bue”. Le figure si perdono in uno sfondo ravvicinato. Si ottiene una

certa non distinzione tra figure e spazio, nel senso che le figure umane si

confondono nel fondale illuminato da dietro da lampadine. Forse perché si vuole

auspicare con la figura doppia de I due gemelli Siamesi una riconciliazione delle

parti tra loro e di queste ultime con lo spazio.

La musica come reticolato delle azioni Ci sono delle pause molto scandite. A determinarle sono gli strumenti musicali

che seguono i movimenti dei performer e i loro rumori che diventano parte

integrante e determinante dello spettacolo. La musica è la grande protagonista che

diventa presenza tangibile. Nella Parte seconda ha una forza eccezionale che

raggiunge l’apice nella sequenza successiva all’a solo “Annunciare le stelle” della

Geisha che da una frenetica musica strumentale si scioglie in pianto, quello della

Geisha e del Ragazzo/Ricamatrice, che ricorda una musa malata di Schiele. Una

musica soppiantata da un’altra musica, quelle delle voci o ricordi di voci.

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Nella Parte Prima i rulli di tamburo e suoni prolungati di tasti dell’organo

danno l’effetto di sibili di vento. C’è un rapporto di forte e riuscitissima

complementarietà tra la musica/suoni e i corpi e le voci delle figure: i movimenti e

l’emissione delle voci infatti sono un tutt’uno con i suoni che li sostengono, questi

ultimi danno ritmo secondo una precisione studiatissima. Il vero dialogo qui

avviene tra la musica e le azioni e le parole, che hanno una durezza che può essere

sostenuta solo da suoni o rumori procurati dalle figure: è il caso dell’a solo del

Macellaio “Che mi venghi a cercare” durante il quale il ritmo è sostenuto sia

dall’organo che dal rumore ripetuto procurato dalle tre Ragazze/Animali sul

tavolaccio. L’esempio più eloquente è dato dalla scena in cui le stesse Ragazze

soffiano dentro le canne collegate al busto e al sesso del Macellaio: il suono

dell’organo sembra essere il suono emesso dai loro soffi nelle stesse canne. O

anche la scena in cui la Ragazza/Animale con il bastone diventa un soldato e,

accompagnata dal sonoro, procede verso il proscenio “fucilando” con le braccia in

avanti e le altre Ragazze/Animali partecipano a questa

marcia con movimenti contratti di dolore. Non mancano

canzoni del repertorio classico, per citarne una, la

natalizia “Tu scendi dalle stelle” che suonata

dall’Organista fa da sottofondo all’a solo a tre voci “Ma

che cosa volete da me” delle Ragazze/Animali: grande

stridore tra questa musica e le parole. Forse l’unica volta

in cui c’è un rapporto di non sincronia tra la musica e le

parole. Interessante riflettere sulla ritualizzazione del

Macello di questa prima parte. Parole pesanti gravide di dolore che dal dolore

vengono e verso il dolore portano. Una commistione stridula tra i suoni prodotti

dall’organo che riportano senza troppo bisogno di soffermarsi a pensare alla

liturgia ma in questo caso alla liturgia del dolore macellato, al sacrificio di morte

che non risparmia nessuno.

Nella Parte seconda il rullo di tamburi ritorna ma registrato affiancando il

rullo di tamburi dal vivo. Strane associazioni sonore e musicali, dagli effetti

metallici alla classica canzone “Lilì Marlen” cantata dal Ragazzo/Ricamatrice con

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l’accompagnamento della fisarmonica, fino al rumore di metallo sul pannello

semovente appeso in aria e prodotto dalla Ragazza Uccello.

Nella Parte terza invece resta costante la voce fuori campo di un uomo che si

lamenta: non sono distinguibili le singole parole che dice. Ancora rumori metallici

e rulli di tamburi come all’inizio della Parte seconda, infatti in concomitanza

entrano le figure della Parte seconda, cioè il Maestro di cerimonia, il

Ragazzo/Ricamatrice, le Ballerine e infine anche la Ragazza Uccello.

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Recensioni «Oltre le macerie dell’uomo» di Graziano Graziani ( Ladifferenza.org) “«Chiedimi un dono». «Che la felicità non muti, che sia perfetta». Con questo canto di speranza si conclude la trilogia del Teatro Valdoca, «Paesaggio con fratello rotto», probabilmente uno dei migliori spettacoli degli ultimi anni, in grado di toccare temi come lo scollamento dell’uomo dalla natura, quello delle sue azioni dall’etica dell’agire, dalla sua responsabilità universale, senza mai restare impegnato nelle maglie della retorica. Merito dei versi di Mariangela Gualtieri, voce nitida della poesia italiana e autrice dei versi della Valdoca, diretta da Cesare Ronconi. [...] A uno sguardo di insieme, questo paesaggio della modernità umana si rivela un campo di macerie sanguinanti, dove è difficile scorgere una tensione che non conduca alla distruzione. Eppure questo paesaggio è un inno a ciò che ancora arde sotto le ceneri del disastro, a ciò che ci anima e ci muove. […] É la paura che muove la mano dell’uomo, quando si fa autrice di delitti contro i suoi simili. La necessità profonda di avvertire un senso del proprio esistere. Di esistere che «noi non siamo fatti per andare alla morte», come recita la Geisha nel «Canto di Ferro» secondo e più bel riquadro della trilogia. É qui, tra uomini-cane e ragazze-uccello, che si rivela l’anelito di infinito dell’uomo, pur capace di infinita corruzione. La violenza è ancora e ancor di più un filo conduttore, e con essa la sopraffazione, incarnata da una figura femminile sofferente, che entra in scena sorretta da stampelle e con le mutande alle caviglie, “accarezzata” da una mano di legno. Eppure l’uomo, capace di tali crimini sia perpetrati che subiti, è anche e sempre di più la creatura che somiglia «alle distese del cielo», piuttosto che a un tratto di anatomia. Chiude l’invocazione finale dei gemelli siamesi, unione di opposti che gridano all’unisono, come un solo essere, l’invocazione lanciata «A chi esita», affinché egli dello strazio d’ossa del mondo - come di se stesso - colga ciò che c’è oltre. Un oltre che non è da scoprire altrove , ma dentro di sé, un oltre che non è da inventare perché già esiste, è sempre esistito, e fatto dalla natura di cui noi siamo fatti, e per questo ci parla. «C’è in me un me più vecchio di me», viene ripetuto più volte dai siamesi, come monito, speranza, tensione. Prospettiva di riscatto dell’umano, ancora in grado di connettersi a ciò che lo precede, lo sovrasta, lo contiene e forse è persino estensione di se stesso. Ancora in grado di entrare nella sua «eterna danza». É qui che l’apparente funerale si muta finalmente in canto, e l’uomo torna ad assomigliare a ciò che credeva distrutto e perduto.” «Primo atto, fango che diventa luce» di Alessandro Carli (La Voce di Romagna, 11/03/2008) “Fango che diventa luce, una sorta di “primo atto”, si apre su un paradiso poetico instillato da sempre, quasi per germinazione spontanea, nella vis di Mariangella Gualtieri: tre animali, un macellaio. un oracolo ed un cantore: al centro un altare o forse uno scannatoio, una macelleria. Nessun Kursaal di saviniana memoria, bensì un mondo arcaico, semplice, di forza primitiva, sicuramente primordiale. Poi entra in scena un grande organo che suona dal vivo, imponente, espanso: il suo suono è rotto a tratti da sprazzi di musica rock, dalle voci recitanti dai versi degli animali. Il verbo si fa visione, e apre il cuore alle immagini, ruvide, che anticipano il canto del coro. Suoni e fenomeni graffianti ma dolci, che si tingono di amore e speranza, che unghiano la pelle per lasciare, alla fine, il calore di una carezza, una voglia di pioggia, un desiderio di fuga,. Lo spettatore ha accesso al paradiso, ma è solo con gli animali - novello pastore - circondato dai versi della poetessa e vestito di tutto punto dalla regia solida e minuziosa di Cesare Ronconi. Un lavoro originale, di una originalità fatta in primo luogo di costumi, scenografie, volti dipinti di bianco, rosso e rosa, urla di disperazione, azioni convulse, nudità che esprimono la più sincera tra forme del “darsi”, parole biascicate da una bocca legata, teste di animali che coprono i volti, bastoni e sculture di legno, zeppe nere, rami d’alberi in fiore, denti di ferro. Cesare Ronconi e le parole poetiche di Mariangela Gualtieri, insieme ai flessuosi ragazzi del Teatro Valdoca - veri strumenti poetici al servizio della scena - aggiungono un tassello importante alla coerenza estetica della loro ricerca e si sforzano di proporre un teatro che ponga degli interrogativi più che dare risposte, che mostri più che raccontare, un teatro che vuole essere epifania del pensiero che gli artisti della Valdoca hanno sul e del mondo. I corpi dei giovani attori sono corpi offesi, martoriati, la sessualità è indefinita. Il bianco della morte finisce col collimare con il bianco abbacinate di una scena che è un tableu vivant in cui l’occhio dello spettatore si perde affamato di bellezza.”

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«Canto metallico per un paradiso perduto» di Alessandro Carli (La Voce di Romagna, 13/03/2008) “Canto di ferro si apre su uno squarcio di Eden sommerso. I personaggi iniziali erano tre animali, un macellaio, un oracolo e un creatore, ora si aggiungono altri personaggi deformi e violenti ma il nucleo centrale delle parti rimane invariato. É una denuncia dell’indifferenza dell’uomo per l’ambiente, prettamente dichiarata dall’oracolo: potente presenza scenica, strabica, con lenti a contatto gialle, quasi un Tiresia al femminile, con il bacino in avanti, i piedi piantati a terra e la voce effettata, riesce a valorizzare la voce fino a quando è immobile nella sua posizione sbilenca. L’uomo nella sua stupidità è interpretato dal macellaio, mentre la natura sono ovviamente gli animali che paradossalmente celebrano di loro volontà un rito masochista lasciandosi ripetutamente cadere inermi su una lastra di plexiglas, richiamando così alla mente dello spettatore il quotidiano rito di autodistruzione dell’uomo contemporaneo tematica centrale dello spettacolo. Che cosa abbiamo dimenticato? Urla la Gualtieri. Abbiamo dimenticato il rapporto di relazione con l’uomo. Se salta questo rapporto, salta l’uomo, che diventa un buco d’uomo. Ma anche quando il drammaturgo dimentica l’uomo a due dimensioni (materiale e immateriale) e, invece di rappresentarlo, lo descrive e concettualmente lo spiega, salta il rapporto di relazione. Allora l’opera non ama e non possiede l’osservatore. Lo respinge piuttosto. Invece di regalargli emozioni, sentimenti e stupori, lo invita a pensare, a seguire il senso logico delle parole, mortificando le legittime pretese dei sensi. E l’agognata poesia? Finisce per essere un’aurea legata alla superficie del verso. Scaturisce dalla combinazione di belle parole, invece che dal comportamento del poeta rispetto alle cose che racconta. Sono, come sempre, creature antropomorfe. Donne-animali, forse, o relitti disadattati di corpi che erano della specie umana. Si appoggiano su stampelle, hanno bocche distorte, fanno parte di una tribù che ha riti e codici propri. Qui però la passione struggente, la nostalgia di amori perduti, si scontrano con la freddezza glaciale dell’impianto; lo sporco tribale quasi si annienta di fronte alla pulizia del bianco che domina la scena. Non ci sono più le copule sfrenate in questa tribù di solitari, non ci sono più le grida disperate e le voci straziate: resta, semmai, un sottile filo di speranza. Una speranza post atomica, intinta però nella sacralità del divino, un canto metallico, di catene e bastonate, di corpi senza più sessualità, algidi e filiformi, belli, bellissimi, quasi tratteggiati da una penna che disegna, lieve, la vita dell’uomo.”

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CONVERSANDO CON CESARE RONCONI Chi sono le persone che stanno in scena? Si possono chiamare ancora attori?

O performer o attanti? O figure?

In realtà il mio è un lavoro tradizionale. Mi sono accorto di essere legato ai

canoni del teatro orientale. L’attore è dunque una figura che si colloca sempre in

un canone determinato.

Si tratta di una tipizzazione?

Una tipizzazione? In realtà sono figure del dolore umano. Mi viene in mente il

teatro giapponese. Porta sempre delle figure: una giovane, un vecchio, un uomo,

un ragazzo delicato, una geisha. Sono figure per me radicate in un sogno, sono

figure della paura, del sonno, della discordia interna, della veglia. La paura non

si vede ma si fa sentire. E il repertorio delle paure agisce sull’immaginazione. Il

sogno ci dona una conoscenza non razionale.

Vedendo i vari video, non solo quelli relativi ai suoi spettacoli, ma anche

quelli degli altri gruppi (Compagnia Pippo Delbono e Socìetas Raffaello

Sanzio) non riuscivo a parlare di attori bensì di figure.

Io lavoro con attori che hanno una scuola di teatro forte, nel senso che

apprendono una appartenenza all’arte e danno energia all’opera. Non costruirei

mai uno spettacolo a priori senza avere emozioni direttamente dalle prove con gli

attori. Il lavoro dell’attore è sempre in bilico. È come se una persona abitasse il

baratro. Sempre con un piede sospeso, come un equilibrista, un po’ di qua e un

po’ di là, ma il filo è chiaro. Un attore deve aver lavorato molto, deve aver

trovato con cura i suoi punti di abbandono. Gli attori di “Paesaggio con fratello

rotto” hanno fatto una scuola di due anni, dodici mesi in tutto: ragazzi debuttanti,

ma hanno appreso i canoni del teatro: lo spazio, le luci, il corpo, la relazione con

gli altri, lo sguardo, il movimento, il gioco, la rapida capacità metamorfica, la

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trasformazione più veloce della tecnologia. Da ultima la parola. Nel mio caso

epica.

Nei suoi spettacoli c’è sempre una scissione tra azione e discorso, movimento

e voce. Si può parlare di scissione dei vari codici?

Scissione è una parola forte. C’è spesso un aspetto coreutico e non si capisce mai

chi stia parlando e chi stia agendo. Io amo la presenza del coro in scena.

Nell’ultimo lavoro “Lo Spazio della Quiete”, in realtà, la voce esce per tutta la

prima parte da un altoparlante e le attrici “labiano” e solo dopo esce viva da un

attore. Si hanno molte possibilità. A me interessa sempre che non sia troppo

chiaro il punto da cui si parla. È una dimensione assolutamente astratta ma non è

un coro staccato. È un coro vivo, dinamico, atletico. Tutti gli attori sanno tutti i

testi e tutti li labiano. A volte palesemente, a volte sottilmente ma tutti stanno

come in preghiera, in un mantra, dentro una melodia comune. Questo è il

risultato quando funziona. A volte non è così, a volte non funziona bene. In

“Paesaggio” ci siamo riusciti perché c’è stato un lavoro di affiatamento di anni.

Purtroppo adesso i tempi di prova sono contratti e si è in condizioni ristrette.

Comporre in scena è come stare dentro una partitura musicale. Ci sono un

contralto, un soprano, un baritono, un tenore, tutti parlano una lingua diversa

(come inglese, francese, etc.) ma tutti stanno nella partitura uno accanto all’altro.

Una composizione musicale e visiva con più livelli di lavoro. Molto organizzata

anche nel lessico. A volte qualche cosa sfugge, a volte c’è qualche incertezza

dovuta alla forte casualità delle improvvisazioni.

È una scelta?

Io penso che l’umanità sia un corpo unico. Immagino un formicaio in cui ognuno

sia parte di una entità. C’è poca differenza tra una persona e un’altra. La

differenza tra gli esseri umani è minima.

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Questa è la sua poetica?

E’ la magia di far apparire tutto sospeso e strano. Un esser detti dalle cose, un

esser detti dal coro, un esser agiti dal coro. Forse è al fondo il “destino”, che

muove tutte le cose. Poi ci si consegna alla contingenza ed alla necessità. Le

chiavi del lavoro. L’atto contingente permette di rinnovare costantemente le cose.

La casualità in relazione alla contingenza crea una possibilità. La necessità che è

dentro ogni creatura fa parte del suo codice più stretto. Quindi necessità,

casualità e contingenza generano cambiamento. Abbiamo nella mente una

umanità fatta di grandi storie ma invero l’umanità è fatta di micro cambiamenti.

La vita è fatta di continui piccolissimi spostamenti di millimetri che in anni

diventano chilometri.

Ritornando all’argomento della scissione, c’è la perdita dell’io in scena?

Si certo! C’è l’abbandono dell’io. La destituzione dell’io: questo è nodale. Si è

parlati dalle voci. Le voci esistevano prima della storia e della scrittura. Si è

parlati dalle caverne, dagli echi, dai riverberi, dai fulmini. E poi tutto viene

raggrumato nella scrittura. Tutto viene trasferito in una lingua.

Il fatto che lei separa più volte la voce dal corpo è perché ci sia maggiore

presenza nell’attore?

Vorrei che quella voce non fosse emessa da un essere umano ma fosse il suo

pensiero. L’attore labia una voce ma ovviamente si capisce che non esce dalla

sua bocca, che lui sta emettendo una forma di preghiera elaborata da un’altra

parte. È una cosa con molte sfumature, molti punti di vista. A volte tutto diventa

coreutico. Ad esempio nel finale di “Paesaggio” dove tutti parlano al pubblico,

ma uno solo dice davvero. C’è la voce di uno (in quel caso di Silvia Calderoni)

ma tutti sono lì e recitano muti. Creano una compattezza e il destino di un’opera.

Credo che questo fatto assalga molto lo spettatore..........Togliere tutto il

soggettivismo all’azione. Non più l’azione di uno ma di una stirpe, forse di una

specie.

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L’unico teatro “autoriale” possibile oggi è il teatro concettuale. A esempio nel

suo Parsifal mantiene solo la colonna vertebrale di alcuni personaggi.

Insomma del testo di Wagner rimane poco o nulla, anche perché la Gualtieri

lo “riscrive”. In che rapporto si pone rispetto alla riscrittura o ripresa dei

classici?

Della vicenda del “Parsifal” ci sono diverse versioni; c’è un momento in cui

Parsifal si perde e non si sa dove sia. Noi abbiamo scritto tutta quella storia in

quel punto. Lo “sperdimento” di Parsifal: il buco nero. Così ci si libera della

narrazione. Quello che è avvenuto nel “buco nero” si afferra perché non è mai

stato scritto. Di Parsifal ci interessa il suo continuo combattere e farsi domande,

questa immensa voglia di vita e di saggezza, spessore, profondità, purezza.

Wagner musicalmente inserisce tutto questo dono nell’opera. C’è un montaggio

ardito, a volte non completamente riuscito, su un attore straordinario come Danio

Manfredini, che non è attore ma macchina attoriale, qualcosa di così forte, in

grado di generare commozione continua. Danio è figura che impone un passo a

qualunque opera, che trasforma con grande autorevolezza ogni soggettività in

oggettività. La sua poetica emerge sempre con forza.

Rispetto al concetto di personaggio tradizionale, Parsifal-Manfredini e

Parsifal wagneriano, cosa è rimasto di quello?

Il Parsifal wagneriano è un’opera musicale, c’è un rapporto con la natura

forzato, il suo paesaggio è tipico di quella musica. Il nostro Parsifal è

amorosissimo e ha nell’amore la regola della vita. Tutto ciò che è fuori

dall’amore per lui non esiste.

Come l’Amleto nei Sanzio a confronto con l’Amleto shakesperiano...

Per i Sanzio l’Amleto è stata una micidiale riflessione teorica ed esistenziale.

Quando l’ho visto non mi ha convinto, l’ho apprezzato di più nella memoria. Ci

sono delle opere che hanno un effetto postumo. Dopo lo si riprende. È uno

spettacolo talmente irrazionale che è difficile rammentarlo sulla carta, non so

come sia possibile rimetterlo in scena. Una fisiologia del movimento

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assolutamente radicale. Pochissimo di teatrale nel senso stretto, fortemente

sperimentale. Noi partiamo invece dalla poesia. Nel nostro caso la parola è una

forza che si muove e trasforma i corpi.

Il Parsifal è l’unico classico che ho affrontato: mi è apparso vedendo il Parsifal

di Romer. Quel film mi ha colpito perché realizzato in teatro, un interno con luci

e con cavalli vivi. Era bellissimo e folgorante. Adesso stiamo pensando ad un

Caino. C’è poco di scritto su Caino. Funziona come nome. Caino è un nome

bellissimo. Caino è alla base della contemporaneità. Lui non uccide suo fratello,

uccide la parte nomade e contemplativa di se stesso, Caino, ha la

contemporaneità nelle sue mani. Noi siamo Caino.

Lei parla dell’attore come “risuonatore perfetto” che accoglie dentro di sé

una voce molto più antica di lui. Ma come avviene questo processo nella

pratica?

Questo processo avviene nell’attenzione massima e si chiama processo di

attivazione dell’attenzione. Gli scritti poetici o epici impongono uno sguardo

dall’alto. L’attore non può non agire, ma c’è una parte passiva che è in ascolto

del non finito, del non costruito, del non progettato. Quindi c’è una parte

orizzontale del lavoro dell’attore e una parte verticale, richiede nutrimento e

ispirazione.

Ci sono degli esercizi particolari?

La commozione è l’esercizio primario. Io chiedo sempre che l’attore abbia una

commozione molto forte nel lavoro e che induca commozione in chi è dall’altra

parte. Quindi c’è un tremore nell’agire e nel fare.

Quindi l’attore si deve guardare?

Guardare è una parola imprecisa. Molti attori si guardano, hanno il piacere di

essere guardati, una sorta di compiacimento devastante. Per me devono sentirsi

sempre un po’ ridicoli, inadatti al compito, in un inceppo del cuore. È un po’

come un rapporto con la divinità: l’attore nomina una divinità e ci convive.

Percepisce qualcosa che lo guida e gli sta sempre addosso.

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Ha a che fare con la possessione?

No. A livello emotivo bisogna agire. Questo agire mette in circolo energia. In

Paesaggio tutto tende a solarizzarsi. La scena è piena di centri diversi. In Canto

di ferro, dalla seconda parte in poi di Paesaggio, i centri drammaturgici

diventano tre o quattro, contemporaneamente non c’è mai un’unica visione.

Questo è un modo di lavorare che dà libertà all’attore e dinamizza la scena. Poi

magari forse qualcosa si perde in omogeneità, ma va bene così. La lingua unisce

tutto. Se noi non avessimo queste parole tutto ci scapperebbe di mano. Il lavoro,

diverrebbe assolutamente performativo. E’ il testo che incolla, che inchioda

l’azione all’attore, le parole alla mente.

Che vuol dire “scrivere un corpo, tatuare un testo”?

Il testo è tatuato sull’attore. L’attore è una lapide. E il corpo stesso diventa

parola. Mariangela scrive, vedendo le prove degli attori. Io faccio prove

acrobatiche, dinamiche. A volte silenziose, a volte rumorosissime. Qualcuno è

sempre appoggiato a qualcun altro, succede sempre qualcosa, qualcuno viene

portato via, qualcuno viene trattenuto, qualcuno viene lasciato, qualcuno è

osservato. Queste cose danno cominciamento all’attenzione, poi Mariangela

scrive. Il corpo è materia per la scrittura del testo. Il testo diviene ciò che è

tatuato sul corpo. E’ come mettere a fuoco una cosa e poi stampare sopra di essa

il testo. Quando parto con le prove, ho solo “pretesti”, dei piccoli frammenti

poetici, poi entra il lavoro fisico. Ad esempio Caino è vestito di piume di pavone?

o è vestito di ossa? o è nudo? E’ da un’immagine che si scrive qualcosa e si

riporta nell’emozione della scrittura un sottile segreto intravvisto nelle prove.

Adesso ....... parla il sangue di Abele. Com’è fatto? È un animale? È un oggetto?

È un telo rosso sul viso? È una mano che parla. I due piani: Caino e Abele, non

sono separati, sono la stessa figura, i due lati di una medaglia unica.

C’è un conflitto tra testo ed attore. Il conflitto tra testo e lavoro fisico deve

rimanere alto: un combattimento ad altissimo livello senza risparmiare colpi. Più

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l’attore è grande più alto deve essere quel conflitto. Alla fine rimangono

l’immensità dei testi e l’immensità dei corpi.

Lei ha parlato spesso di unicità dell’attore e, grazie a questo, della sua

invincibilità. Come si coniuga questo per esempio alla “negazione del viso” e

allo “sfregiare i corpi” con trucchi violenti?

Sull’unicità dell’attore, mi sembra che non ci siano dubbi. Il fatto di essere unici

porta una sorta di ricchezza comune legata all’unicità del dono che si porge.

Nessun’altra creatura può consegnare in quel modo quel segreto. Lo sfregio non

è lo sfregio dei corpi, è un riportare i corpi al muscolo teso, alla scarnificazione.

Io tengo molto a scarnificare i corpi, devono sembrare dei muscoli insanguinati.

Il viso si trasforma con dei piccoli segni orientali, dei puntini che ricordano

l’India. A me piace che l’attore sia una divinità, adoro il trucco orientale. É

anche un modo meraviglioso di entrare nello spettacolo. L’attore si prepara a un

atto in bilico tra umano e divino, e deve diventare simile ad un dio, deve

incarnare qualcosa di alto. É importante che quel corpo sia santificato da quel

trucco.

Lei chiede all’attore di adottare delle tecniche per arrivare a una maschera.

Di che tecniche si tratta?

Innanzitutto la capacità di accogliere il trucco come un dono rituale forte, un rito,

una forza comune che cura. Poi questa maschera cambia. Non faccio sempre lo

stesso trucco. Varia anche nello spettacolo stesso, di replica in replica: a volte

sono tutte facce maschili a volte tutte femminili, a volte faccio baffi alle figure

femminili. C’è sempre una libertà pittorica. È come un affresco che tutte le sere si

deve fare e non si può più correggere. Così è con lo spettacolo, si deve accettare

un ruolo del destino. A volte lascio scivolare una goccia che diventa un tratto...

L’essere detto dell’attore in scena è raffigurato dalla coppia, il muto e il

parlante che gli sta dietro e lo doppia, gli dà voce. Ci vuole forse comunicare

che l’attore da solo non è autosufficiente?

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Sinceramente dipende da che attore è in scena. Ogni attore ha una sua tecnica nel

rapporto col teatro. Non si deve definire solo cosa fa l’attore, ma cosa fanno gli

attori e cosa di diverso fanno tra loro. Il training di lavoro che ho fatto per

esempio con Manfredini è diverso da quello che ho fatto con altri attori, perché

sono figure che hanno caratteristiche tecniche diverse. La vera capacità è capire

con quali parole e con quali mezzi arrivare a scoprire il cuore del lavoro. Con

Manfredini si arriva subito al centro “animale” della scena, a quel punto di

commozione sopra le cose che allenta la percezione, e stordisce. Con altri attori

devo passare per un percorso più duro; devo sfiancare il loro io. Danio è una

persona umilissima nella vita e nell’arte e se non va bene in scena, proviamo

giorni. Con un giovane attore invece non avviene così perché cerca delle risposte

più razionali e consolatorie. Sono momenti e modi diversi di rapportarsi al

mistero. Parliamo tutti dello stesso mistero, ma lo sguardo è diverso per ognuno.

Il mistero di un attore giovane ha lo stesso tremore di quello di un attore dopo

anni di lavoro durissimo. Quando si è davvero dentro un lavoro non si ricordano

cose che riguardino l’argomento e la durata dell’opera stessa. Si vive in un

presente purissimo.

Tornando al Parsifal. Si tratta di un’opera corale con un corifeo di tutto

rispetto, Danio Manfredini, che però resta una figura a sé stante e si

amalgama nel gruppo solo quando ci sono scene di movimento e danza.

Stessa cosa vale, ma al contrario, per le altre figure, ovvero Anfortas, la

Madre, l’Eremita, l’irsuta Kundri che si staccano dal “branco” solo quando

devono “dire”.

Sicuramente è una situazione ibrida di coro, è un coro che va in due direzioni.

Nel caso di Parsifal, la presenza di Danio Manfredini imponeva una regola di

relazione speciale. Parsifal è sempre al centro della scena. In “Paesaggio”, è

diversissimo, non c’è l’unità tra figura e paesaggio, ci sono molte centralità.

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Nel momento in cui gli attori devono parlare c’è quasi una preparazione

fisica di allontanamento, quasi di solitudine nella parola. Non c’è mai un

dialogo.

In “Fuoco centrale” ogni tanto usciva qualcuno dal coro, avanzava e cominciava

a parlare. Gli altri restavano sul fondo. Questa è una situazione che ho usato

diverse volte perché il gruppo così allargato riempie la scena in modo violento, la

scena si satura. E’ necessario creare solitudine attorno a una figura, al suo

calvario. Questa cosa riesce disarticolando i piani, molto lontano il gruppo e

molto vicino l’attore su cui si focalizza l’attenzione.

Secondo Valentina Valentini non si parla più di monologo ma di a solo. Il

monologo presuppone una sorta di relazione con il gruppo o con i partner

della scena.

La differenza è solo musicale e mi sembra minima.

In un’intervista lei ha dichiarato: “I burattini mi fanno paura: hanno una

profondità e un’introspezione che un attore non ha.” L’idea del doppiare è

legato alle sue origini come lei stesso ricorda, cioè al teatro dei burattini?

La voce per me è un argomento inevitabile per l’attore, al contrario di quello che

pensano molti miei colleghi, che sono più interessati all’aspetto visivo, cromatico.

La voce è la parte più antica del corpo. Sono affascinato sia dai burattini che

dalle maschere, soprattutto quelle orientali. Ma non ne ho mai fatto in scena un

uso lessicale. Ho pensato che la maschera fosse un’idea. È davvero interessante

l’aspetto metamorfico della scena. I grandi eroi erano molto belli perché

indossavano armature e maschere.

Ma la maschera serve pure come “protezione”?

La maschera è un filtro, un gioco, uno dei giochi del teatro. Senza la voce la

maschera non esiste completamente. É la voce che dá forza alla maschera. La

maschera muta rimane sospesa nello spazio. La maschera che parla è

violentissima.

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Nei leoni e nei lupi e in Parsifal, ritornano scene di sesso di gruppo e di lotta.

Restano le uniche possibilità di comunicazione e di interazione in scena?

I luoghi della mia poetica sono tre o quattro: l’orgia come modo illimitato, le

lotte tra animali ed infine una leggerezza ed una tenerezza che scattano

all’improvviso.

Pensando al suo teatro ho scritto “da caverna a caverna”, lei parla delle orge

come primordialità, come promiscuità della voce che viene da un primitivo.

Osceno significa fuori scena. E’ ciò che non si può rappresentare. Mettere in

scena l’osceno è attraente.

Lei parteggia per uno spettatore affetto da “apnea critica” (V. Valentini),

come per l’attore? Uno spettatore deve essere “punto” solo

“emozionalmente”?

Le idee portano ideologie, la commozione porta conoscenza. La commozione è il

passaggio necessario alla conoscenza.

Se non è più possibile il transfert psicologico tra spettatore e attore, che tipo

di fruizione immagina?

Non si può pensare a quello che succede allo spettatore. Con il teatro si vanno a

toccare cose segrete, così forti!! Io lascio al caso. Preferisco che il pubblico sia

eterogeneo, che eserciti il diritto di distanza o di vicinanza.

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Socìetas Raffaello Sanzio

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AMLETO la veemente esteriorità della morte di un mollusco (1992) da William Shakespeare e Saxo Gramaticus di Romeo Castellucci

Amleto. La veemente esteriorità della morte di un mollusco: nonostante le sue

fonti siano Shakespeare e Saxo Grammaticus, non c’è alcun cedimento alla

tradizione, infatti non c’è una sola frase dell’Amleto pronunciata in scena. Ma ciò

non prevede “un lavoro di cancellazione del testo” ma piuttosto un lavoro di scavo

fino al totale riassorbimento della parola stessa, una parola che diventa carne.

Amleto, da secoli prigioniero della domanda (“essere o non essere”), alla quale

non sa dare risposta, è costretto a vivere in una duplice strozzante gabbia, il corpo

dell’attore da una parte, e una stanza vuota. Castellucci porta in scena un attore

che riproduce comportamenti autistici, sulla scia degli studi di Bruno Bettelheim e

della sua Fortezza vuota, per amplificare lo sfuggire di Amleto dalla domanda

“essere o non essere” la quale diventa, per il regista, “essere e non essere” e che

trova unica soddisfazione nello stato della dormizione. Ma dal dormire si passa in

maniera assolutamente brusca a suoni e rumori di elettrici e meccanici ai quali

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Amleto risponde con innumerevoli colpi di pistola: così si realizza l’unico dialogo

possibile, cioè quello tra Amleto e la scena. Amleto è un regredire fino all’utero

materno, perdendosi anche il linguaggio, che sarà poi “recuperato” solo grazie alla

scrittura invisibile nonché alla scrittura sui muri: Amleto riuscirà a scrivere

soltanto “I’m aborto”. Castellucci trova però un’apertura, un “parto”, o meglio un

“autoparto” nell’atto finale, quando canta Victima Pascalis Laude.

Gesti e azioni delle singole figure 1 I stazione: Amleto e il padre con l’Orso di pezza

Amleto cade ripetutamente finché l’ultimo spettatore non si è seduto, poi va a

prendere l’Orso papà e lo calcia, bascula sulle gambe, spara reiteratamente, scrive

con le mani delle parole invisibili, movimenti ondulatori continui della testa, si

inginocchia verso il pubblico, scrive sul suo petto la parola “SON” (figlio, in

inglese), con la bocca provoca bolle di saliva, cancella la “N” di “SON” anche

grazie al suo sputo, movimenti continui con la testa la alza e la rovescia indietro

fino a cadere, abbraccia l’Orso, giri su se stesso, con la mano destra si sfrega tra le

natiche, sale e salta sulle molle del letto, punta l’indice in alto, si schiarisce la

voce, rimbalzi decrescenti che fanno morire la spinta del suo corpo, si distende

supino sotto il letto, si mette faccia a faccia con l’orso che aveva posizionato sul

letto, si sfrega i genitali e muove la lingua in fuori, bacia il volto dell’orso, si

stacca di colpo e ricade a terra, alza la rete del letto e ne fa una ringhiera tra lui e il

pubblico, corsa violenta verso il muro dove si schianta e cade, calcia i il nylon e

aspetta che ritorni immobile come prima di toccarlo e poi alza le mani per recitare

lo stupore, cammina all’indietro, comprime le vene del collo e del volto in apnea

fino a diventare rosso il viso, abbandona il corpo, accende e spegne le luci e le

lampadine, risistema il letto sulle quattro zampe, scambia l’Orso con il pappagallo

di pelouche parlante.

1 La descrizione dei gesti e delle azioni delle singole figure sono il risultato di un attento e accurato studio che si è basato sulla comparazione tra il video dello spettacolo e la partitura dell’Amleto contenuta in Epopea della polvere (2001), di Castellucci C., Castellucci R., Guidi C. Si è cercato inoltre di scarnificare il più possibile i gesti, riducendoli il più delle volte a movimenti.

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II stazione: Amleto e Orazio con il Pappagallo di pezza

Amleto riaccende le luci. Appoggia il pappagallo sulla spalla destra. Con la mano

sinistra si sfrega i capelli, si tira il lobo dell’orecchio, si passa il dito e il dorso

della mano sotto il naso, con il dito medio batte sul suo cuore. Gira su stesso e

solo sul piede sinistro. Rutta. Sfrega con le mani qualcosa sul pavimento e subito

dopo con lo scarpone. Va verso la corsia destra dove è attratto da due anelli: recita

la celebrazione del matrimonio. Fa cadere il guanto a terra. Amleto dà vita di

nuovo alla scrittura invisibile e subito dopo “cancella” quello che ha “scritto”.

Spara per la prima volta impugnando la pistola con due mani, e con lo sparo si

bloccano tutti i rumori elettrici. Dalla tasca estrae una manciata di proiettili e se li

mette in bocca e recita con i proiettili in bocca e poi sputa le cartucce. Lecca la

lampadina poi la spacca col tacco del suo scarpone. Poi si sposta. Recupera una

“A” di ferro alta 20 cm e larga 10. Porta la A al petto e grida verso il pubblico a

squarciagola il nome Orazio. Frastuono massimo della turbina. Con la pistola alla

bocca che funge da megafono grida ancora. Fa cadere la A più volte. Cade anche

lui e si rialza ripetutamente sulle ginocchia. Traccia aste col gesso sul muro. E tra

un asta e l’altra dice “my name is…” Traccia 7 aste e poi le congiunge con una

riga che le attraversa e poi spara contro il muro sulle aste. Poi cade e ricade spara.

Recupera da terra un pezzo di fusaggine e va a scrivere una A. Ad una distanza di

2 metri traccia una O. Poi a sinistra della A una I’. E a sinistra della O a distanza

di mezzo metro traccia una T. Una R tra la A e la T. Poi tra la A e la R BO. Si

legge I’M ABORTO. Spara contro questa scritta e si allontana. Spegne le luci

della terza e quarta fila. Recupera il pappagallo e si avvia verso il suo armadietto

dove avviene lo scambio tra il pappagallo/Orazio e la bambola/Ofelia.

Semioscurità.

III stazione: Amleto e Ofelia con la bambola parlante

Amleto accende la seconda fila di lampade. Poi va verso il muro e abbraccia la

bambola/Ofelia. Recupera altro pezzo di fusaggine e traccia una virgola dopo la O

e poi a capo scrive OFELIA. E si legge I’M ABORTO, OFELIA. Poi si dirige

verso il letto,vi si siede, rivolto alla platea, sopra e sempre con la Bambola al

petto. Poggia la bambola sul letto, si chiude la zip della maglia, incrocia le gambe

e ristringe la bambola al petto e le accarezza i capelli e poi senza interrompersi

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accarezza anche i suoi capelli. La Bambola parla “Ah, ah, ah ancora…” Amleto

cade e ricade a terra. La Bambola non cessa di parlare. Nel rialzarsi per

l’ennesima volta tamburella con la mano in aria. Canta una ninna nanna e con

l’altra mano accenna a suonare una tastiera immaginaria. Poi recupera per terra un

cucchiaino, lo fissa da una parte e dall’altra. Scuote il cucchiaino a destra e

sinistra sempre più frequentemente, battendo anche sulle labbra e sul naso. Inclina

la testa a destra e sinistra e nel frattempo schiocca la lingua con la bocca aperta.

Cucchiaino cade a terra dopo alcuni minuti e cosi il movimento del polso scema.

Allarga le braccia con i palmi volti in alto verso la platea, come segno di offerta,

ed esprime grande stupore e resta in questa posizione per cinque minuti. Col

ginocchio accavallato sull’altro, fa un espressione da coniglio. Dopo circa un

minuto fa una smorfia simile di durata brevissima. Dopo di che si dondola, con un

movimento impercettibile e progressivo del corpo sulla rete. Preghiera di Amleto

“Love […] Love me…” fino a diventare un grido furioso accompagnato dal

rumore delle molle che anch’esso diventa furioso. La voce di Amleto diventa la

voce lancinante di un animale al macello fino allo sfinimento fisico, infatti crolla

all’indietro. Poi si rialza e con voce soffusa recita “I love You”. Recupera il

cucchiaino e ci fa cadere della saliva e con questo imbocca la bambola,

quest’ultima dice “Uhm, buona pappa!”. Riempie altre due volte il cucchiaino e

imbocca la bambola. Poi lascia cadere il cucchiaino e si dirige verso il muro

tenendo la bambola da una gamba e scrive dopo la T una virgola e dopo la O una

F, pertanto si legge “I’M ABORT, OF OFELIA”. Si dirige verso il letto e prima di

stendersi supino raccoglie la pistola da terra poi si distende e guarda verso la

scritta poco prima realizzata. Si rialza e va verso il muro e dopo una serie di

cancellature e aggiunge la scritta “THE PROPHET” e si legge così “I’M AORT

OF ELIA THE PROPHET”. Poi ritorna sul letto guarda la scritta e la ripassa

immaginariamente con l’indice. Batte l’indice sul cuore (l’ha fatto spesso anche

prima!). Poi cancella e aggiunge altre sillabe e si legge ancora “I’ M MORALITY

OF LIABILITY HERO PHANTOM” (Immoralità della responsabilità eroe-

fantasma). Ritorna al letto e questa volta si stende prono. Si rialza va verso il

muro e cancella e inverte le lettere, insomma si legge adesso di nuovo

“ABORTO”. Ritorna sul letto, con una mano “pizzica” alcune molle della rete e

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con l’altra spara. Si alza ritorna verso il muro e cancella tutto tranne la A. Amleto

fa tremolare il tallone che fa rumore. Raccoglie verso il muro una capigliatura

rossa. La pettina la spolvera soffiandoci sopra e nel frattempo recita: “Ophelia…

marry a fool… marry a fool...”. Si avvicina al letto, la capigliatura gli cade e ci

urina sopra, poi china il capo e lo muove qua e là in modo tormentato e recita

“Annegata…”. Dopo raccoglie la parrucca e va verso il muro. Appoggia il piede

destro su quello sinistro (lo fa svariate volte!). Con la capigliatura si fustiga per 5

volte e si dà pugni violenti nello stomaco. Va verso il nylon e lancia contro la

capigliatura poi torna verso il muro e recita “A mouse!). Corre velocemente verso

il nylon recupera la pistola spara e lo buca ci ficca una mano e il nylon cade per

terra. Prende la bambola e va verso l’armadietto e la scambia con il

Canguro/mamma.

IV stazione: Amleto e la madre con il Canguro di pezza

Semioscurità. L’ombra del letto si fa incombente sulla scena. Amleto va a portare

il Canguro sotto la cassa di ferro. Accende le luci della quarta fila di lampade.

Raggiunge la cassa e vi si inginocchia sotto. Prende il canguro e lo mette di fronte

a lui e per una quindicina di volte lo indica e si indica: “Big Kangaroo… little

Kangaroo”. Poi si dà uno schiaffo sul collo e spezza questa sequenza. Continua

poi di nuovo schiaffo, poi si picchia sulla mano che indica. Si alza ma sbatte

violentemente la schiena alla base della cassa e così per altre volte. Lancia così il

canguro verso il letto. Carponi si dirige verso la corsia centrale verso l’unica

lampadina 12 volt accesa. Poi trova un collare di ferro e se lo mette al collo chiuso

da un lucchetto. Amleto si munge con la mano sinistra il seno destro e con la

mano guantata raccoglie l’eventuale fuoriuscita di latte. Non esce nulla e così

colpisce violentemente il seno a pugni. Poi passa all’altro seno ma non esce nulla.

Si pulisce la bocca come soddisfatto. Poi con disgusto allontana da sé la mano

guantata e la pulisce ai suoi vestiti. Poi va a prendere il canguro che sistema

davanti alla lampadina 12 volt e lo schiaccia con le punte dei suoi scarponi.

Amleto si libera delle maniche che ricadono penzoloni dalla maglia che rimane

ancora agganciata alla vita e poi dice “Mamy, have you seen whath I have done?”.

Nega col dito. “No… no… Mamy… no… no…”. Si rimette seduto in ginocchio e

con un telefono immaginario fatto dalle sue dita telefona e chiede “Amleto, have

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you seen whath I have done?” Poi con tacco dello scarpone rompe la lampadina

(gesto che lo fa più volte!) Poi si rialza e va verso il fondo imitando i passi del

canguro. Poi con l’indice batte sul lato destro del naso e dice “I’m a little

kangaroo”. Rifà il canguro e si batte ancora con l’indice sul naso. Va verso il

muro e fa finta di mangiare foglie rubate lì da un albero immaginario. Poi va verso

il rubinetto e beve rumorosamente. Poi appiana nella corsia centrale una collinetta

di terra immaginaria. Poi lancia con un calcio il canguro verso il fondo. Lo

recupera e lo porta sul letto incastrandolo nelle maglie della rete. Fuoriesce solo la

testa e la illumina col faretto e nel frattempo si picchia nel petto. Poi lancia la rete

con un calcio violento verso il muro e ripete l’azione per ben altre tre volte e con

urli strazianti dice “I’m a little kangaroo”. Recupera la pistola e con questa si batte

sul petto freneticamente. Altro calcio al letto. Dalla cassa si sentono voci maschili

potenti che dicono “È”. Poi calcia ancora il letto. Dal marsupio del

Canguro/mamma estrae un canguro piccolo legato alla mamma da un filo che tira

e allo stesso modo si contrae lui, poi lascia cadere il canguro e cade anche lui.

Riporta il letto al centro dove era all’inizio prende una grossa pinza da elettrauto,

che era collegata alle batteria da camion, e la fissa alla gamba del letto. E fa la

stessa cosa con una seconda pinza. Il letto comincia prima a fumare poi diventa

rosso e rovente. Poi si accovaccia dietro il letto e dice “Mamy, have you seen

whath I have done?”. Poi stacca la pinza e il letto ritorna così al suo lato freddo.

Poi porta la torcia verso la cassa di ferro e illumina la fessura dalla quale

fuoriescono 16 dita umane. Le stesse voci ripropongono “È”. Amleto va verso

l’armadietto e nasconde cosi il canguro.

V stazione: Amleto e la sua morte

Dall’armadietto prende una candela che accende e la sistema accanto a sé, sul

pavimento. Prende un water per bambini e con le spalle alle pubblico si abbassa i

pantaloni e vi si accovaccia sopra. Qui le voci della cassa gridano “Amleto”.

Dopo la defecazione, Amleto spegne la candela e va ad accendere la seconda fila

di lampade. Qui le voci riprendono “È”. Amleto prende il vasino e con la cacca

scrive sul muro “SO”. Recupera la pistola e poi alza la mano imbrattato in segno

di giuramento. Si passa la mano sporca lungo la faccia. Dopo si va a lavare le

mani nel lavandino. Rialza la mano pulita questa volta e prende la pistola e se la

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punta alla tempia e stramazza al suolo. Le voci ricominciano a gridare. Amleto

abbandona la pistola e prende un biberon e fa tutto il percorso del perimetro

bevendo. Dopo il primo giro asperge come fosse acqua benedetta il pavimento e il

suo corpo. Tutti i rumori insieme e le voci che fuoriescono dalla cassa si

contendono. Rumore assoluto. Amleto prende la candela ancora accesa e la porta

con sé lungo tutto il cammino. Con il biberon prima beve poi traccia un cerchio e

asperge il pavimento e spegne la candela. Getta la candela e riprende il cammino.

Dopo qualche giro depone anche il biberon. Con una mano si segna verticalmente

la linea che separa il petto e con l’altra nella posizione di chi cerca l’elemosina.

Poi in ginocchio, a mani giunte con la pistola e chinando il capo al biberon, recita

tutta l’intera sequenza della Domenica della Resurrezione “Victimae pascalis…”

Subito stacca l’unica fila di lampade accese. Buio. Si alza e si va a nascondere

dietro il suo armadietto.

Si accendono le luci del locale che illuminano la platea. Amleto non si alzerà a

ricevere li eventuali applausi e rimarrà rannicchiato dietro l’armadietto finché

l’ultimo spettatore non avrà abbandonato la sala.

L’Attore allo spettro L’Amleto della Socìetas Raffaello Sanzio non è il principe di Danimarca della

celeberrima tragedia shakespeariana ma semplicemente l’attore Paolo Tonti, in

maglia e pantaloncini corti, neri con la mano destra coperta da un guanto di

gomma nera e scarponi ortopedici enormi.

Grazie a Paolo Tonti, che si presta con una

generosità estrema alla Cieslack, nel senso che si

prostra “nudo” dinanzi allo spettatore senza riserve, è

possibile rinvenire e studiare con accuratezza le varie

sfere del lavoro dell’attore/Tonti, ma anche

dell’attore in generale, ovvero è come vedere scisse le

varie fasi: dall’intenzione al movimento, dal silenzio

soffocato alla voce, dalla sillabizzazione alla parola,

dall’inazione ai raptus gestuali che restano comunque

azioni “abortite”. Insomma con quest’opera si va a

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produrre una spettrografia di un agire, quello dell’attore, paradossalmente a

prescindere dalla “messa in scena” stessa. E se il testo shakespeariano è terreno

fertile per indagare circa l’attore e il teatro, il testo di Bettelheim diventa

l’approfondimento, attraverso il fare autistico, del fare dell’attore: in una

situazione di solitudine, attraverso la riproposizione reiterata di gesti, versi,

microscopici e impercettibili ma precisi e ossessivi, si va così a scandagliare la

filigrana delle singole azioni: “Amleto cade ripetutamente”, “spara

reiteratamente”, fa “movimenti ondulatori continui della testa”. Insomma si va

con la ripetizione continua e martellante a sfaldare l’azione in ogni suo frammento

di movimento che viene così a essere sezionato ed “esperito” e “spiato” in

maniera scientificamente dettagliata.

Si deve comunque ribadire, come lo stesso Castellucci ci tiene a precisare, che

“non si tratta, dunque, di una rappresentazione sull’autismo, così come non è una

rappresentazione sull’Amleto. […] ma sull’attore” ovvero “di stare nell’attore”

[Castellucci, 2001, p. 42] in cui il testo diventa l’aggancio per poter sostenere una

riflessione sullo “statuto dell’attore, condotta sul ‘Libro’ per eccellenza del

‘Teatro’” [Casi, in “l’Unità, 01/02/1992]. E in effetti uno studio completo

sull’attore o, ancora meglio nell’attore e attraverso l’attore viene realizzato.

Bisogna infatti necessariamente soffermarsi sul termine “stare”: è proprio questo

l’elemento di base di questa ricerca finalizzata alla comprensione completa

dell’essere, dello stare appunto, dell’attore. E l’autismo, malattia di cui il regista

coglie i segni esteriori, un sostegno pratico, in questo caso, alla teoria. L’attore

pertanto non interpreta un personaggio ma piuttosto ne accoglie la struttura

interna di quest’ultimo: nel caso specifico, gli atteggiamenti autistici, e racconta

pertanto attraverso il “movimento”. Si tratta quindi di uno spettacolo di quasi

esclusiva “presenza fisica”, di “corpo votato a una vertiginosa passione fisica”, i

cui movimenti sconnessi, da essere umano invertebrato come suggerisce il titolo

stesso, sono l’unico appiglio per poter seguire la performance [ibidem]. Non si

può parlare quindi di “autorappresentazione del personaggio” come fa notare

Franco Quadri [Quadri in “la Repubblica”, 11/02/1992], bensì di

autorappresentazione dell’attore, la cui caratteristica peculiare è un gesticolare a

volte sensato a volte insensato ma in tutti i casi testimone dell’azione, o meglio

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dell’in-azione di Amleto/Tonti. Il risultato è una figura totalmente chiusa in se

stessa, che urla, si dimena, si trasforma, urina, defeca: tutte azioni che risultano

tratti tipici dell’universo infantile verso il quale Amleto retrocede. Insomma

questo Amleto è il signore dell’autoreferenzialità e della ripetizione (fine a se

stessa?) che diventa la cifra indagatrice del fare attoriale: vittima del solipsismo e

della solitudine, teso a fare e rifare le stesse azioni fino a “consumarsi”, dalla

“scrittura invisibile” in aria ai continui e molesti spari di pistola, ai calci sul nylon.

Un lavoro che nasce dal corpo e nel corpo si “abortisce”.

Dagli a solo “sgrammaticati” al “Victimae pascalis” L’azione è iniziata da un tempo imprecisato quando gli spettatori entrano. È un

tempo qualsiasi: c’è una espansione esasperata del tempo, infatti azioni e

microazioni riempiono un tempo che sfiora un presente talmente presente che

azzera ogni possibilità di resistenza tanto che alla fine ci si lascia imprigionare in

un blocco non molto dissimile da quello di Tonti.

È l’opera delle reiterazioni, della replica, del ricalco: emblema ne è

sicuramente la scrittura da parte di Amleto sul muro e sul suo stesso corpo

(quando nella I stazione: Amleto e il padre con l’Orso di pezza, Amleto scrive sul

suo petto la parola “SON”, figlio, in inglese, con la bocca provoca bolle di saliva,

cancella la “N” di “SON” anche grazie al suo sputo), quasi che quel calcare

infinite volte servisse a fissare e a circoscrivere un tempo altrimenti troppo

espanso per essere gestito. E questo presente presente, o “presente infinito”

[Valentini, 2000, p. 131], è riempito, non da frasi articolate o parole, ma da

mugugni, “No” ripetuti accompagnati dal gesto della testa, versi contratti e

gutturali, versi muti, singulti, grida a squarciagola: si assiste alla castrazione

dell’attore Paolo Tonti, costretto a non “pensare”, a non fare, a non dire, infatti

nessuna parola fuoriesce dalla sua bocca se non storpiata.

Non ci sono dialoghi, ma solo suoi accenni: sono quelli tra Amleto/Orazio e i

vari pupazzi e tra Amleto/Orazio e le voci che fuoriescono dalla cassa di ferro.

Bisogna infatti precisare che non si tratta di dialoghi in senso tradizionale ovvero

questi non presuppongono uno scambio di battute e quindi di intenzioni tra le parti

ma sono decisamente slegati al loro interno; potrebbero tranquillamente essere

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considerati come parole, frasi dette ad alta voce senza necessità di considerarle

legate tra loro ma piuttosto autonome. Pertanto non si può usare la parola

monologo ma sarebbe più consona quella di a solo. In effetti si presentano come a

solo autonomi e paralleli, fatti di piccoli frasi o frammenti di frasi. Oltre agli a

solo, di cui si è detto prima, possono essere menzionati più tipologie:

• quelli legati alla scrittura immaginaria con la quale

Amleto/Orazio prolunga i pensieri fendendo l’aria e

cancellandoli o alla scrittura sul proprio corpo o sul fondo della

scena;

• quelli muti o al massimo resi in mugugni di Amleto/Orazio;

• quello in cui Amleto/Orazio recita tutta l’intera sequenza della

Domenica della Resurrezione “Victimae pascalis”, che risulta

quello più articolato di tutti: l’unico a solo che presuppone una

certa logicità della parola.

Una menzione a parte meritano le voci (fuori scena) dei pupazzi e le voci che

provengono dalla grande cassa di ferro. Interessante notare come sia ormai una

caratteristica dei Sanzio, ma anche degli altri gruppi presi a campione per la tesi,

dissociare la voce dal corpo del performer, mandandola registrata, o nel caso

specifico dissociandola perfino dall’uomo/performer per assemblarla a dei

pupazzi/performer: l’Orsacchiotto/papà, il Pappagallo/Orazio, la Bambola

parlante/Ofelia, il Canguro/mamma.

Lo spazio: cattedrale dell’inconscio e degli oggetti in rivolta È uno spazio qualunque, lo spazio del collasso fisico di Amleto/Tonti: diviso in tre

corsie, o navate, create da file di batterie di auto collegate tra loro da cavi di rame

e da morsetti di piombo. Il tutto crea un sistema di difesa militare (dagli

spettatori?).

Spazio dell’isolamento anche energetico: la scena si autoalimenta con le

batterie stesse. È uno spazio-fortezza-prigione in cui la corsia, o navata centrale, è

occupata da una letto senza materasso e in ognuna di quelle laterali è appesa una

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tenda di nylon leggero e semitrasparente. Sparse sul pavimento quattro pistole e

due rivoltelle. Nell’angolo anteriore destro un grande cubo “parlante” di ferro.

È lo spazio dell’incomunicabilità tra Amleto e il pubblico. Amleto è l’unica

figura che si muove in un ambiente

assolutamente immobile, asettico,

“morto”: è il signore di quel sistema

isolato. Lo sfondo inanimato si anima

grazie all’intervento del protagonista

che con la scrittura o gli spari

“vibra”. Amleto/Orazio è, appunto, il

signore dello spazio scenico, anzi il

dio che fa e disfà. Infatti essendo la scena il suo mondo isolato autosufficiente,

egli domina interamente il suo spazio, accende e spegne le luci, “stupra” i muri

con il carboncino e con le sue stesse feci.

È anche lo spazio della “cerimonia indegna” dell’ inconscio in cui si realizza

appieno la “rivolta degli oggetti elettromagnetici”, oggetti reali eppure

smaterializzati da una concettualità che li scarnifica e li mostra semplicemente

come idee: in particolare il letto, che senza materasso, diventa prigione, riparo,

anche letto di tortura, quasi un sepolcro. Insomma oggetto di un rito, alla fine,

senza corpo [Manzella, in “il manifesto”, 09/02/1992].

Amleto ha un rapporto morboso con tutti gli oggetti coi quali interagisce.

Sembrerà paradossale ma riesce a comunicare solo ed esclusivamente con tutto

ciò che è inanimato e “morto”. Dalle pistole che diventano il prolungamento delle

sue intenzioni ai pupazzi che diventano la madre, l’amico, Ofelia. Ne è conferma

l’affermazione di Leo Kammer in Psichiatria infantile riguardo al rapporto del

bambino autistico con gli oggetti, “Quando il bambino è con gli oggetti, ha un

senso di gratificazione, di potenza, e un controllo indiscusso” [Valentini, 2007].

Sono oggetti a metà tra il bio-oggetto kantoriano e l’oggetto rady made

duchampiano. Le pistole con i loro continui spari tendono a scandire il tempo

morto della performance e a infastidire lo spettatore, ma possono fungere anche da

megafono, per esempio quando Amleto grida “Orazio”. O anche i due armadietti

di cui uno funge da guardaroba di Amleto, l’altro da cassa di risonanza dei petardi.

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I teli di nylon sono usati come trappole placentari, la cassa di ferro invece con i

suoi due coni montati in basso ricordano un seno geometricamente stilizzato e

infine il biberon viene utilizzato prima per cibare Ofelia poi per aspergere

l’ambiente, secondo un rito tutto umano di desacralizzazione dello spazio.

Altro aspetto di rilievo è dato dall’uso del colore. Si può parlare di bicromia,

ovvero di effetto quasi chiaroscurale. Tutto è giocato sui colori del nero e del

seppia. Sembra di guardare un vecchia pellicola ingiallita dal tempo e interrotta in

piccoli frammenti che si ripetono. Insomma forse che l’unica storia che si può

raccontare, in questo caso da Orazio/Amleto, è quella ingiallita dal

racconto/ricordo. L’unica nota coloristica rossastra è data dal lettino che una volta

collegato da Amleto ai cavi elettrici diventa rovente e produce scintille: è l’unico

momento in cui esplode il “dramma”, ma è solo un falso allarme. Il gioco è

continuamente tra la luce, l’ombra, la semioscurità e in molti frammenti il buio

pesto. In tutti i casi la luce è sempre volutamente artificiale che va a gelare o

scaldare il corpo e lo spazio di Amleto quasi fosse un voler sempre svelare e dis-

velare.

Rumori e silenzi “snervano” lo spettatore Altro grande protagonista di questa performance assordante è il rumore, anzi i

rumori che devastano lo spettatore, “infatti qualcuno si allontana dopo mezz’ora”

[Manzella, in “il manifesto”, 09/02/1992]. Ma ancor prima bisogna ragionare sul

fatto che la visione e comprensione di questo spettacolo risultano abbastanza

difficili (come pure di altre performance dei Sanzio). Infatti leggendo il titolo si

resta di sicuro fuorviati. Non basta conoscere l’Amleto di Shakespeare per

“godere” dello spettacolo. Non basta affatto. È indispensabile invece l’aiuto del

suo ideatore, in questo caso il regista, che a mo’ di “libretto” dovrebbe canalizzare

se non proprio la comprensione di quello che si andrà a vedere quanto meno il

giusto modo di accostarvisi. E questo il regista non lo fa. Lo spettatore si trova

pertanto “spiazzato” e nonostante ciò lo si continua a bombardare

ininterrottamente con colpi di pistola e rivoltelle, petardi, rumori di

elettrodomestici (compressore che si carica, aspirapolvere, phon, ecc), versi del

pappagallo che ripete e doppia Amleto, rutti autoprocuratisi di quest’ultimo, voci

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maschili che fuoriescono dalla cassa di ferro fino al rumore insopportabile di

pistone che batte sul pavimento per finire con il riso e il pianto delle voci nella

cassa. Non mancano i silenzi: quasi tutto lo spettacolo vive dei silenzi di Amleto che

non sono mai vuoto ma frutto di uno pseudo-pensiero che si riposa per poi

esplodere in un mugugno, in una parola, in urla strazianti, in scatti corporei

violenti o comunque apparentemente illogici, tanto illogici da lasciare basiti.

Questo silenzio imbarazza e costringe ad ascoltare-ascoltarsi, con violenza.

Insomma un silenzio che taglia come una lama. Si passa da un silenzio

paralizzante ad un rumore o insieme di rumori che minano il sistema nervoso per

poi passare di nuovo al silenzio. Ogni volta però il rumore viene rotto da un colpo

di pistola o da una serie di petardi, in ogni caso da un altro rumore più forte e più

secco.

Il ritmo che si ottiene è sempre molto labile. La pause infatti hanno una

funzione specifica in questa performance, ovvero servono come stop all’azione,

quasi a farla abortire di volta in volta, e farla risultare come in-azione: sono pause

funzionali alla diegesi, o mancata diegesi sarebbe più corretto. Alla fine c’è una

forte coerenza tra il riposo di Amleto e l’azione che viene costretta a riposarsi con

lui.

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Recensioni «Il replicante Amleto prigioniero nello zoo di pezza» di Stefano Casi (l’Unità, 01/02/1992) “Non c’è il principe di Danimarca sulla scena dell’Amleto della Societas Raffaello Sanzio. C’è Orazio, colui che, secondo le ultime volontà di Amleto, dovrà riferire la ben nota tragica storia. Reduce da numerose riletture delle antiche mitologie mesopotamiche e persiane, la compagnia ha affrontato, per la prima volta nella sua decennale storia, un testo vero e proprio. […] naturalmente, ben poco rimane di Shakespeare in questo Amleto - La veemente esteriorità della morte di un mollusco. Castellucci ha proceduto lavorando non sul testo, ma sulle sue premesse mitiche, destrutturando l’intera vicenda in cinque quadri. […] Ma, dicevamo, in scena non c’è Amleto: c’è, invece, qualcuno che dice di essere Orazio. Un replicante, un testimone dell’antica tragedia: un attore. Ecco, allora, che l’Amleto della Raffaello Sanzio nasconde in realtà una riflessione sullo statuto dell’attore, condotta sul «Libro» per eccellenza del «Teatro», e scarnificata del suo elemento-base del corpo umano. Non ci si stupirà, così, di assistere a due ore di pura «presenza» fisica di un attore unico (il bravissimo Paolo Tonti), dal corpo votato ad una vertiginosa passione fisica e dalla flebile voce che a tratti recupera pochi stracci di parole. […] Una fenomenologia del comportamento autistico, impressionante e ulteriormente violentata da freddi rumori meccanici, accompagnati da colpi di pistola che squassano il pubblico con cadenza aritmica.” «L’oggetto Amleto» di Gianni Manzella (Il manifesto, 09/02/1992) “Brutto. Noioso. Questo «Amleto» fa schifo. L’autodiffamazione con cui quelli della Societas Raffaello Sanzio presentano in locandina il loro spettacolo non è una pura maniera. Sgradevole lo è per davvero, questo «Amleto». […] Un «Amleto» per un solo attore, Paolo Tonti, che per un paio d’ore è in scena in preda a una torva follia, ad una allucinante ebetitudine. Lo sguardo sempre un po’ perso nel vuoto, il volto fissato in una maschera inespressiva, le spalle ricurve. Privo di scheletro, nel rifiuto di qualsiasi rigida impalcatura, fuori e dentro di sé. Chiuso invece in un suo guscio molle. Un bambino autistico. Va avanti e indietro strisciando contro la parete della sala. Abbraccia un orso di pezza, lo butta via, lo prende a calci. Mormora qualcosa di incomprensibile. Si inginocchia. Si scopre il petto e vi scrive sopra «son», figlio, con un pennarello: prima traccia della malattia, il disturbato contatto affettivo della psicosi. Si siede sulla rete al centro e richiama la dimensione notturna della rappresentazione, quel dormire ove si rifugia il bambino Amleto. Possibile risposta al suo oscillare tra «essere» e «non essere», capace di mettere d’accordo i due stremi del problema. La rivolta degli oggetti elettro-meccanici è il naturale complemento di un mondo amleticamente uscito dai cardini. La malattia che prevede lo spettacolo si rivela malattia del linguaggio innanzi tutto. Che solo la parola può guarire. Una parola da reinventare, come prima sul corpo stesso, o trasformando in una lavagna il muro di fondo. Una lettera alla volta. Faticosamente. Fino a creare una parola, una elementare frase. «I’m aborto». Poi cancellando e aggiungendo altre lettere, per formare frasi sempre diverse. E tornare alla fine a quell’«aborto» che porta a galla la forte implicazione della madre. Nucleo bruciante di un grumo di irrisolti rapporti familiari. Un canguro farà allora la madre, come prima il vilipeso orsacchiotto era il padre. E una bambola parlante, ma capace solo di dire «buona pappa», farà la parte di Ofelia, ulteriormente ridotta, più oltre, ad una treccia di capelli che annega in un lago di urina, ai piedi del protagonista. […] La rappresentazione non tratta di un Amleto né del bambino autistico infantile, ma di quelle domande che sono di Amleto e del bambino autistico e che attraversano l’arte dell’attore. La cerimonia del linguaggio riguarda dunque il teatro, le sue inesauste capacità di scandalo. Cerimonia indegna, perché in questione vi è proprio la dignità. […] Può non piacere questo universo sporco e cattivo. Può disturbare questo muoversi ai limiti tra realtà e finzione. Si può non essere d’accordo con un teatro che si manifesta nell’autopunizione dell’attore. Ma superata questa soglia resta un teatro che, con Artuad, tenta di organizzare l’anarchia, per dar voce ad un «orrendo prodigio di dolore». Brutto. Noioso. Sgradevole. Questo Amleto è anche uno spettacolo da non consumare in fretta.” «Tra pupazzi di peluche Amleto si autodistrugge» di Franco Quadri (la Repubblica, 11/02/1992) “Solo in una stanza della tortura o d’un avveniristico ospedale ridotto a laboratorio tecnologico, l’ultimo Amleto si dibatte in una crisi senza soluzione, senza più nemmeno l’arma della parola, perché gli è consentito balbettare unicamente ripetitive frasi che concernono il suo stato e imparare

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faticosamente a scriversele sul petto o sul muro, in un meccanico inglese che non appartiene né a lui né a Shakespeare. […] Lui non è più neppure se stesso: ma il suo doppio, Orazio, al quale è stato commissionato di raccontare la storia ai posteri, e ora si sforza come un attore d’immedesimarsi in quel destino di non essere. Il protagonista abdica alla propria umanità già nel titolo, Amleto, la veemente esteriorità della morte di un mollusco, parzialmente strappata a un suggerimento di Benjamin. […] Questo Amleto “è” qui e ora, mera presenza corporale. […] Allo stesso tempo, all’attore - Paolo Tonti, capace di un’adesione totale spinta a masochismi da body art - si richiede una discesa nel profondo che investa la sua fisicità fino a una documentazione da caso clinico [...] Gli interlocutori in peluche consentono all’attore si rendere palpabile una dimostrazione, e al personaggio di agire la sua autorappresentazione, dal rifiuto del genitore alla propria dequalificazione ad aborto, dal gioco del matrimonio con l’amico alla catatonia e agli automatismi masturbatori davanti alla bambola infida, sostituito prescelto della madre; con quest’ultima scatta lo choc dell'incesto, e le parole recuperate fino allora mediante la scrittura sul corpo e sul muro si trasformano in inarticolato ansito, al quale rispondono solo altri gridi umani della serata. É il momento traumatico: Amleto, dopo essersi imprigionato come in una gogna dentro un colletto metallico, si autoallatta, avanza con saltelloni da canguro, opera il contatto elettrico che provocherà la fusione della grata incandescente, il letto del sonno e del sogno. nudo dall’inizio al centro dello spazio. Poi non gli resta che piombare nell’estrema fase sadico-anale, seduto sul vasino infantile, tra il biberon e le feci con cui si lorda il viso o verga su una parete l’ultima sillaba, per rattrappirsi finalmente in terra in posizione fetale, come Artuad quando fu trovato cadavere. Ma questa postura, già più volte prefigurata, ci riconduce anche a un’immagine di Ryszard Cieslak nel Principe Costante; e alla secchezza dell’iconografia grotowskiana fa anche pensare la disposizione scenica, coi due settori laterali - attorno al giaciglio del tormento - isolati da due effimere tende di plastica, tra impianti dominati da conduttori di elettricità, vicini all’arte di Beuys, fonti di un’illuminazione segnata dai più e dai meno dei poli positivi e negativi.”

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ORESTEA (1995) (una commedia organica?) di Romeo Castellucci da Eschilo

Orestea di Eschilo è una trilogia formata dalle tragedie Agamennone, Coefore,

Eumenidi le quali rappresentano un'unica storia suddivisa in tre episodi, le cui

radici affondano nella tradizione mitica dell'antica Grecia: l'assassinio di

Agamennone da parte della moglie Clitennestra, la vendetta del loro figlio Oreste,

che uccide la madre, la persecuzione del matricida da parte delle Erinni e la sua

assoluzione finale ad opera del tribunale dell'Areopago. Ma il regista Romeo

Castellucci di questa trama sceglie solo certi aspetti e certi “personaggi”. La prima

tragedia narra di come Agamennone, “interpretato” qui da un ragazzo affetto da

sindrome di down, di ritorno dalla guerra, venga ucciso a colpi di scure insieme

alla principessa troiana Cassandra (portata in Grecia come schiava) dalla moglie

Clitennestra, con l'aiuto di Egisto. Nella performance però gli omicidi avvengono

in tutt’altra maniera: Agamennone esce di scena accompagnato da Egisto e dalla

visione del portale aperto ma imbrattato di sangue, che è lo stesso del I Atto, si

intuisce che c’è stato un rientro sanguinoso, quello di Agamennone uccisa; di

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Cassandra viene privilegiato la “prigionia” che qui si manifesta in un blocco del

suo corpo in una teca di plexiglas: morirà anche lei ma “annegata” nel sangue. La

seconda tragedia prende il nome dalle Coefore, le portatrici di libagioni per i

morti, che si recano sulla tomba di Agamennone. È il racconto di come Oreste

porta a compimento la propria vendetta, dando la morte alla propria madre ed al

suo amante: mentre il matricidio avviene in scena, seppur dietro un paravento,

con l’aiuto del fato che dall’alto fornisce a Egisto un braccio meccanico assassino,

quello dell’amante non viene proprio preso in considerazione. La terza tragedia

della trilogia prende il nome dalle Erinni, le quali erano chiamate anche Eumenidi

quando erano in atteggiamento benevolo (o anche quando erano malvagie, per

eufemismo). In questa terza parte dell’Orestea viene narrata la persecuzione delle

Erinni nei confronti di Oreste e la sua definitiva assoluzione dal tribunale

dell’Areopago: qui Castellucci sceglie come coro delle Erinnni un branco di

scimmie e come simbolo dell’assoluzione di Egisto, un Apollo a mo’ di statua

greca, senza braccia ma granitico nell’aspetto.

Gesti e azioni delle singole figure 2

Atto I: Agamennone

La Scolta: Sagoma prima eretta, poi in continuo movimento su una sedia. Apre

l’ombrello, lentamente. Sembra perdere l’equilibrio perché si inclina da una parte

all’altra. Assume posizioni estreme, ben aldilà di ogni umana possibilità statica.

Insomma il suo corpo è come un’asta basculante che non cade mai. È svelato poi

tutto perché la Scolta è aiutata da un filo d’acciaio e ciò non viene nascosto al

pubblico. Poi si muove con l’ombrello aperto e appare come un pipistrello che

viola l’iconografia classica, ovvero non sta a testa in giù. Recita così con voce

metallica il prologo “Dèi, vi chiedo sollievo da questo mio soffrire...”. La Scolta

dopo di che scende, chiude l’ombrello e retrocede carponi verso il fondo nero

della scena.

2 La descrizione dei gesti e delle azioni delle singole figure sono il risultato di un attento e accurato studio che si è basato sulla comparazione tra il video dello spettacolo e la partitura dell’Orestea contenuta in Epopea della polvere (2001), di Castellucci C., Castellucci R., Guidi C. Si è cercato inoltre di scarnificare il più possibile i gesti, riducendoli il più delle volte a movimenti.

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Il Coniglio Corifeo: Da sinistra della scena entra, ricurvo porta un bastone da

anziano per sorreggersi. Andatura lenta ma frenetica. Arriva sotto un distributore

di energia elettrica e, quasi di nascosto, prende un paio di pinze elettriche che

penzolano e le connette alle sue orecchie, come se volesse ricevere energia e

corrente. Poi fa il gesto di controllare un orologio da taschino inesistente e “È

tardi…”. Alza il bastone verso il cielo “come se si aspettasse un’ epifania dal

cielo, che arrivi direttamente alla terra, passando attraverso la sua conduttività

elettrica.” Poi si gira in avanti e mima l’atto di camminare sul posto. Con il

bastone sulla testa dei discenti più indisciplinati. Ripete da ottimo “attore-

ripetitore” la sua lezione sulla Tragedia. Va verso la sedia girevole e prende un

tubo floscio di gomma pneumatica all’altezza dell’inguine. Appena gonfio il tubo

scoppia e il Coniglio lo lascia andare. Urla reali e registrate: il coniglio si ritrae e

si nasconde il viso con le mani. Nella penombra Il corifeo cerca di tenere nascosti

i suoi piccoli scolari. Scoperto da Clitennestra… Egisto lo afferra dalle orecchie e

lo costringe a stare piegato e a mettersi a terra e lo copre insieme ai suoi

coniglietti allievi sotto una pezza di stoffa bianca. Dal gruppo coperto dei conigli

fuoriesce il Corifeo che agita il suo piede quasi a dare dei segnali al Re che non lo

nota. Il Corifeo nel frattempo era riuscito ad alzarsi buio e a conquistarsi un posto

sul lato destro del palco, dove trovata una sedia si era accomodato

compostamente. Commenta le parole della profetessa “La ragazza ha bisogno di

un interprete accorto…” “Taci stronza…” Quindi si alza il bordo della sua tunica

e con questo si nasconde tutta la testa. Ignorando Cassandra, lascia la sedia e si

dirige verso il fondo lasciandola al suo destino. Poi ritorna in scena e ripone un

ramoscello d’alloro sulla cassa di Cassandra, a indicare simbolicamente il

sacrificio. Poi continua a imprecare contro Cassandra: “…stai zitta …vaffanculo”

Dopo la scena dell’orgasmo della Signora, il Corifeo riappare e alla vista del

corpo senza vita di Agamennone abbandonato, piange. Cammina a quattro zampe

tutt’intorno alla circonferenza della pozza di sangue. Poi quando Egisto lo

appende al paranco della sedia come un animale in macelleria, annaspa e raspa la

terra con le punte dei piedi. Prima di uscire di scena , Egisto lo libera e lo lascia

solo in scena. La chiusa spetta a lui. Si prepara seduto sulla sedia di sinistra e

prova col polpastrello così come aveva fatto Agamennone. La partenza è

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abbastanza imbarazzante “quand’ecco…quand’ecco che…”. È sconvolto confuso

e si massacra con le mani la veste sulle ginocchia e poi “Quand’ecco che d’un

tratto le passò accanto un coniglio bianco dagli occhi rosa…”. Il coniglio viene da

un altro libro Alice nel paese delle meraviglie. Di tanto in tanto il Coniglio perde

l’equilibrio e tra i denti si lascia scappare un “…Vaffanculo…”. Viene esortato

dal Capocomico a ritirarsi perché sta sbagliando tutto. ma lui non coglie e

continua il suo racconto “…e bruciando di curiosità lo inseguì di corsa nel

campo…”. Poi nota la sedia che gira come se fosse la prima volta e dice “…Ma

che cazzo ha da girare quella sedia lì?” La sedia così si ferma. Un ronzio disturba

il suo racconto tanto che si sente lui che dice “…Cosa devo dire?”. Poi continua il

racconto fino a recitare la poesia che Alice legge allo specchio al rovescio, ovvero

il jabberwocky. Il coniglio ha un capogiro. E di nuovo “Che devo dire...” e si

percuote le tempia ripetutamente con tutte le dita della mano. E a sentire un coro

di voci monotone ne resta ipnotizzato. Pronuncia la continuazione del

jabberwocky, ma nella traduzione privata che Artaud fece a Rodez. Il testo ormai

è completamente deragliato dal Testo. Poi da seduto precipita a terra e chiede

scusa nel frangente prima di toccare il pavimento con la testa ad Antonin. Cade

definitivamente a terra. Si alza così il sipario nero ma da terra.

Dodici piccoli conigli di gesso: sbucano da destra, disposti su due file da sei.

Gridolini e risatine isteriche. Sono il coro. Nella scena di Clitennestra restano

nascosti in fondo alla scena nella semioscurità e quando lei li scopre… volano tre

teste di tre coniglietti. Ritornano sulla scena per assistere alla tortura che subirà il

loro maestro ma nel frattempo le teste dei coniglietti superstiti volano anch’esse in

aria.

Egisto: dal taglio mediano della tenda nera emerge questo corpo. Si incornicia con

le mani il sedere. Poi scompare ma con solo la mano visibile saluta,

esageratamente. Sporgono dopo le sue braccia con una pompa da bicicletta e

incominciano a pompare il tubo del Coniglio Corifeo che diventa rigido e vibrante

ad ogni colpo. È Egisto (amante di Clitennestra): si aggira nervoso sul palco.

Gironzola intorno al letto di lei in mezzo a tubi che penzolano dal soffitto. Si

muove tanto ma non si sa dove portino questi movimenti. La luce fa vedere che

lui porta questi boccagli alla bocca di lei che attraverso questi respira. Nel fondo

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del palco armeggia con alcune strutture metalliche. Poi va ai piedi di lei e le porta

una grande ruota di bicicletta su una lunga staffa. Dopo una pausa, con un colpo

di mano, imprime una forte rotazione alla ruota davanti a lei, e per lei. Dopo il

“No” di lei, esce e ritorna con una nuova ruota più piccola e anche questa volta

riceve un nuovo “No”. Esce di nuovo. Ritorna con un terza ruota più piccola delle

precedenti. La fa ruotare e questa volta la donna apprezza “…È questa che mi fa

godere!”. Corre verso i coniglietti sorpresi dalla donna e mentre sta per

avvicinarcisi tre teste dei coniglietti volano. Poi raggiunge il Corifeo e lo afferra

dalle orecchie e lo costringe a stare piegato e a mettersi a terra. Copre il Corifeo e

i coniglietti con una pezza di stoffa bianca. Continua poi a lavorare nella

semioscurità: sta dispiegando una lunga fettuccia di raso rosso che parte dal fondo

e arriva fino alla sedia del Re. Continua ad apparecchiare il palco riponendo la

sedia girevole sulla sezione aurea del palco. Poi prende sottobraccio il Re e lo

conduce verso il portale di fondo e lo invita ad entrare nella reggia. E chiude le

ante trasparenti del portale di vetro. Poi quando Cassandra non risponde al

richiamo di Clitennestra, lui salta addosso alla cassa che contiene la prima come

una fiera sulla sua preda. Poi percuote col manganello il tetto della cassa. Poi salta

dalla cassa e scompare nel buio. Rientra e depone vicino alla cassa di Cassandra

un tubo di ferro con un cilindro al suo interno. Fa sforzo perché è pesante. Appena

Cassandra viene sommersa di sangue. E i rumori scemano, lui che era già in scena

va e sistema la sedia girevole di Agamennone al posto del pistone, che allontana.

Poi appena riappare Clitennestra sulla sedia girevole, di spalle al pubblico, le

sistema lo stesso microfono che usava Agamennone e scompare per riapparire

dopo un po’ dal fondo del palco che trascina un cadavere dai piedi. Il cadavere ha

la tunica e la corona di Agamennone. Dopo la lamentazione del Corifeo, Egisto

trascina pesantemente dai piedi il corpo di Agamennone e lo porta fuori scena. Poi

rientra e butta il Corifeo nella pozza di sangue. Lo prende a manganellate. Il

manganello appare elettrificato. Fa scendere la sedia della Scolta, toglie il gancio

per assicurare al paranco le orecchie del Coniglio. Lo appende come si usa fare in

macelleria con le mezze pecore. Egisto va verso il lato destro della scena e reca

con sé una grande pelliccia. La indossa lentissimamente. E poi tenta di mettersi

anche una corona da re di metallo ma ha dei tentennamenti. Perciò lascia cadere la

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garza nera che divideva il pubblico dalla rappresentazione. Tutto tace, come se lui

avesse infranto il tabù della rappresentazione, facendo cadere il velo.

Spegnimento temporaneo della rappresentazione. Dormizione forzata degli

elementi. Tutto fermo tranne la sedia che continua a girare senza fare rumori.

Egisto si autoproclama Re. Poi saluta alzando l’avambraccio destro e compie il

gesto imperiale del dito sollevato. Poi compie una serie di giri su se stesso, si

pavoneggia insomma. Si fa un giro anche sulla sedia girevole. Poi esordisce con

una voce in falsetto per fare il verso al Corifeo “…Ma tu sei una femmina…” e

poi ritorna a parlare con la sua voce “Coniglio del cazzo…”. Tutto questo avviene

in proscenio ma si leva la corona prima di rientrare nello spazio della

rappresentazione, ovvero al di là della garza nera. Appena dentro appende la

corona in aria che penzola, sistema la sedia che era piovuta dal cielo sulla sinistra

e le piazza davanti il microfono poi libera il coniglio dal paranco e lo lascia libero.

Esce definitivamente di scena.

Clitennestra: La donna ride con voce virile. Assiste allo “spettacolo” della

sodomia allestito apposta per il suo divertimento che continua fino a che uno dei

due, inerme, viene trascinato via dai piedi. Respira attraverso i tubi che penzolano

dal soffitto. Intima Egisto affinché la smetta con quella ruota. Lo intima di nuovo.

Poi respira affannosamente e rumorosamente attraverso i boccagli. Mentre Egisto

pesta il Corifeo, lei e il suo triclinio scompaiono nelle stanze buie e remote del

palazzo. Riappare sul suo triclinio e ha a che fare con il cubo trasparente che

contiene Cassandra. Le parla ma quest’ultima non la degna di risposta.

Clitennestra ostenta una tranquillità poi la sua voce rimbomba come un tuono:

“Cassandra sei una vacca!” poi comincia a ridere sguaiatamente. Ride con una

voce di un operato ai genitali. Scompare nel buio. Riappare dopo la bellissima

scena della secchiata di sangue sul portale di vetro e dopo che la sedia girevole

vuota gira vorticosamente su se stessa più volte. Si vede un’ombra che scivola da

destra a sinistra per più volte, all’altezza della sedia vuota. In penombra si vedrà

che a essere seduta su quella sedia è Clitennestra. Sta seduta da Venere neolitica,

imperturbabile. La sedia non si vede perché la sua stazza copre tutto. Ha i capelli

sciolti e una specie di struttura metallica sul viso. Dopo che Egisto porta il

cadavere di Agamennone ai suoi piedi, lei comincia a parlare con il morto

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“Questo scontro da molto tempo aspettavo. La mia vittoria... ritardò, ma venne”. E

parla con voce suadente. Muove delicatamente le sue mani e i suoi avambracci.

Continua a parlare ma una musica corale la copre. Lei continua. Poi comincia a

essere invasa da gocce di sangue che cadono dall’alto fino a quando non diventa

un vero e proprio scroscio su di lei che diventa così un’improbabile vergine

scorticata che bestemmia il suo dio “Merda…”. La Regina grida, si spalma il

sangue passando le mani sul volto tra le cosce nei capelli ne ha la bocca piena:

diventa quello sperma rosso del marito che ha atteso per dieci anni. Orgasmo della

Signora. Senza bisogno di muoversi si ritrova dal centro della scena al suo lato

sinistro.

Agamennone: appare dal fondo illuminato in un rettangolo di luce. Avanza verso

la sedia girevole: il suo passo non è solenne ma appare scanzonato. Arrivato si

siede ma ha difficoltà perché c’è poco spazio tra la sedia e il microfono. Testa il

microfono con un colpo di polpastrello. Poi canta una melodia personale bitonale

e siccome il microfono dà problemi, Agamennone lo chiede direttamente a Romeo

Castellucci. Poi va verso il centro del palco. Fa piroette facendo rumore con le

scarpe. Il Re danza e danza perdendo spesso l’equilibrio. Agamennone non nota i

segnali che il Corifeo gli fa con il piede. E accompagnato da Egisto si dirige verso

il palazzo regio ma prima saluta con un sorriso il pubblico.

Cassandra: appare in un cubo trasparente. È completamente nuda. Si muove

come a voler guadagnarsi un po’ di ossigeno. Ma la cassa e’ fatta a sua misura per

cui riesce a muoversi a mala pena. Cassandra al richiamo di Clitennestra si muove

con fremiti ma non le risponde. Il cubo prima assalito dal manganello di Egisto

poi si muove da solo. È una cassa di luce. Cassandra colpisce violentemente a

pugni le pareti del cubo. Poi comincia a emettere parole senza senso logico, più

fonemi sparsi che parole. La cassa si gonfia. È tutto sul limite della morte. Infine

riesce a parlare: “Ah! Apollo, che segni la mia vita, che mi annienti… in quale

casa?” Nonostante il Corifeo le consigli di non parlare più, lei non ascolta e

prosegue movendosi dentro la cassa. Piange ma nessuno l’ascolta. Dopo la breve

“passeggiata” dei cavalli sul fondo, continua a predire lutti. “Femmina, uomo

uccide…” “Di Agamennone, questo ti dico, vedrai la morte.” “La mia ora è qui.”

“Ebbene, io vado io vado anche tra i morti a piangere la mia morte e quella di

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Agamennone.” Dopo la profezia la sua voce ritorna ad essere indistinta. Solo urli

e suoni fragorosi. Urla ma c’è troppo rumore in scena per cui la sua voce viene

coperta. Urla ancora e i vetri della teca diventano rosso sangue. Si vedono le

strisce delle dita sul vetro sporco di sangue come zampate di animale ormai

braccato. Man mano che si sente poca voce ci sarà anche poca luce.

Capocomico: interviene quando il Coniglio Corifeo deve fare la chiusa

dell’Agamennone e invece racconta la favola intrecciata ma coerente di

Alice/Ifigenia. Lo esorta così a ritirarsi e lo chiama col cognome dell’attore che lo

sta interpretando. Il coniglio non coglie e continua il suo racconto.

Atto II: Coefere

Il Coniglio Corifeo: con un ramoscello di oleandro in mano, con l’altra indica a

qualcuno di avvicinarsi. I due, una volta entrati, li invita a proseguire verso il

davanti del palco. Poi esce di scena.

Oreste e Pilade: entrano uno davanti all’altro. Oreste sempre davanti a Pilade che

lo segue. Camminano con lenta e sincronizzata regolarità. Si avvicinano verso il

davanti del palcoscenico e appena passano illuminano gli spazi che “toccano”.

Pilade tiene stretto il guinzaglio che Oreste ha al collo che ha l’indice destro in su.

I due avanzano, con trasognata andatura meccanica, fino ad arrivare al sarcofago.

Si fermano. Oreste descrive un ampio semicerchio e sposta l’indice su di sé come

per segnare se stesso. Pausa. Pilade lo scuote il guinzaglio come fosse un

cocchiere e poi il duo riparte verso il fondo. Una volta lì Pilade toglie il guinzaglio

a Oreste e questi si inginocchia frontalmente rispetto alla platea. Pilade si

inginocchia dietro di lui afferra un maschera giapponese del teatro nō e la fissa

sul volto di Oreste, poi ne prende un’altra identica e la indossa lui. Poi costringe

Oreste a camminare in ginocchio e lo stesso fa lui fino alla testa del sarcofago

dove cade con la faccia e il torso: la farina insonorizza il colpo. Pilade si toglie la

maschera del nō, si rialza e con passi ampi va verso la parete destra nella quale

infila la mano con la quale reggeva la maschera e quando la estrae al posto della

maschera ha una pistola. Poi si avvicina ad Oreste, depone la pistola gli toglie la

maschera nō per metterla ai piedi del sarcofago, si rialza e lo aiuta a rimettersi in

piedi. Poi si inginocchia di nuovo al suo fianco, gli prende il piede destro e gli

toglie la scarpa. Poi infila il grilletto della pistola in un dito del piede di Oreste e si

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allontana per salire sulla sedia, di spalle alla platea. Oreste impugnando col piede

la pistola rimane sollevato sulla tomba poi ricade all’indietro col piede e la pistola

appoggiati sul coperchio. Pilade imita il verso acuto della gallina, senza ironia

“Cococococococococodè”, poi depone un uovo di struzzo sulla sedia che era

nascosto dietro la spalliera della sedia ridiscende poi in piedi si mette nella

posizione ottocentesca del “pensatore”. Poi prende la sedia dalla spalliera e fa

scivolare l’uovo sull’addome di Oreste. Poi con passetti ridicoli corre con la sedia

in mano e la sistema di profilo verso la garza di mezzo. (Questi due personaggi

giocati molto di profilo, e di conseguenza anche le loro azioni e gli oggetti che

usano). Poi con la stessa clownesca camminata di prima raggiunge Pilade e lo

aiuta a rialzarsi. Stanno in piedi un po’ uno dietro l’altro, quindi Pilade alza il suo

lungo braccio osseo all’indietro e con l’indice puntato. Poi abbassa il braccio e lo

poggia sulle spalle di Oreste e gli fa cenno che devono lasciare il posto. Insieme

raggiungono il lato destro della scena. Appena si avvicina, infilano le loro teste in

due tagli a croce sulla carta della parete destra e continuano continuamente a

oscillare: il tentativo di nascondersi uguale in tutto e per tutto alla politica degli

struzzi. Quando Elettra chiama Oreste, quest’ultimo tira fuori la testa dalla carta

del muro e, dato che Elettra non si accorge di nulla, nasconde di nuovo la testa.

Poi quando Elettra retrocede verso il fondo della scena, Oreste e Pilade tirano

fuori le teste dalla carta e rimangono fermi sul posto di spalle al pubblico e

oscillano. Mentre Elettra “ascolta” l’uovo di struzzo, Oreste sussurra “Oreste!” e

insieme a Pilade si volta verso Elettra inginocchiandosi di profilo. Mentre Elettra

si inginocchia davanti a Oreste, Pilade va a recuperare la pistola. Calma e silenzio

sulla scena. Punta la pistola verso la tempia di Elettra e pronuncia con voce

vellutata “Pum. Pum.”. Oreste prende in mano l’uovo che le cede la sorella e poi

abbassa il busto e Pilade di nuovo “Pum. Pum.”. Pilade consegna la pistola a

Elettra che la mette fra le scapole di Oreste. Pilade segue Elettra a mani giunte.

Anche Oreste la segue ma fa la processione in ginocchio con la schiena piegata

per non far cadere la pistola ma poi quest’ultima cade. Pilade va lentamente verso

Oreste passando dietro al sarcofago, gli prende la mano lo aiuta ad alzarsi e

insieme vanno verso la destra. Oreste rimane fermo verso la platea e Pilade va a

recuperare un mazzo di fettucce di piombo che si trovano sotto il letto. Pilade va

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dietro Oreste e lo libera della cinghia e gli passa una fettuccia di piombo con la

quale Oreste si cinge il collo, mentre cessa di oscillare. Da questo momento in poi

Oreste aprirà le braccia. (Oscillazione dei corpi è stata una caratteristica ricorrente

e fondamentale dei tre: Pilade, Oreste, Elettra). Poi gliene passa un’altra che la

penzolare in verticale dal collare e poi un’altra ancora alla vita in modo che penda

sopra la coscia sinistra. Poi altra fettuccia per l’altra coscia. Poi altra fettuccia

Pilade gliela cinge da dietro. Mentre Elettra declama, Pilade va a prendere un’altra

fettuccia e sempre da dietro la cinge sul costato di Oreste. Ora Oreste abbassa le

braccia. Poi Pilade cinge entrambe le braccia e le gambe con le fettucce di

piombo. E aiutato da Pilade indossa la pelliccia e la corona. Pilade prima però gli

aveva tolto la maschera bianca. Poi alza e mantiene il polso di Pilade con l’indice

in alto. Entrambi cominciano ad oscillare, come un metronomo. Oreste si siede

sulla sedia e abbassa il braccio. Pilade si dirige verso il letto e recupera un rotolo

di tubi per aria compressa e va con questo verso la capra. Pilade passa ad Elettra i

tubi dell’aria compressa poi va verso la parete destra e infila la mano in un taglio

della carta per estrarre un altro tubo di circonferenza maggiore rispetto ai primi e

passa anche questo a Elettra. Pilade le passa due tubi e lei li inserisce in due ugelli

di un meccanismo idraulico posto all’interno del costato dell’animale. Poi prende

un altro tubo di circonferenza maggiore che gli aveva passato Pilade e ne fissa un

capo dentro la capra e invece Pilade porge l’altro capo a Oreste, che se lo infila in

bocca. Pilade indica insieme ad Elettra il capro che viene alzato ancora più in alto,

poi va a mettersi in piedi dietro Oreste che continua a respirare nel tubo che

impugna. E da qui continua ad indicare col dito il corpo stesso del capro che

respira. Oreste poi si alza in piedi molto lentamente. Pilade allarga le braccia,

toglie la corona dal capo di Oreste e gli sfila la pelliccia che va riporre ai piedi del

letto, poi gli mette di nuovo la maschera sugli occhi e poi lo accompagna per

mano sul lato della scena. Insieme scompaiono. Dopo viene spinta da una fessura

una valigia bianca. Subito dopo entrano in scena, Pilade e Oreste, carponi: il

primo porta un cappello bianco a forma di cono e due grandi orecchie ; il secondo

un naso bianco da clown. Nessuno dei due indossa più maschere ma sono

entrambi truccati da “Augusto”. Dopo un breve avanzamento si alzano insieme e

mano nella mano con Oreste che sorregge la valigia. Oscillano all’unisono come

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sempre. Poi Pilade appoggia la valigia e Oreste fa un movimento alla Charlot

(sollevazione esterna delle ginocchia e col polso che imita la roteazione di un

bastone. Anche la testa rotea lentamente). Breve gag comica interrotta da un

calcione che Oreste dà nel sedere a Pilade che fa un sobbalzo non appena lo

riceve. Oreste si sposta verso il letto. Pilade si toglie il cappello e lo regge

capovolto in una mano, con l’altra raccoglie l’uovo di struzzo e lo getta

enfaticamente nel cappello, vi sputa dentro e poi come un impeccabile barman lo

mixa. Poi va verso il letto, velocemente poggia il cappello sul letto, lascia l’uovo e

si rimette il cappello con le mani sulla testa va verso la valigia. Oreste sale con i

piedi sul letto, poi con le spalle al pubblico si accovaccia con il sedere proprio

sull’uovo. Ha le braccia raccolte sulla testa china. Pilade afferra la valigia con una

man, mentre l’altra rimane in alto, si dirige verso la parte sinistra verso la garza di

mezzo, appoggia la valigia. Poi con una camminata da formica rapidissima, va

verso Oreste al quale dà una piccola spinta sulla testa e quest’ultimo comincia a

oscillare. Poi gli canta “Fai la nanna, Orestino”. Oreste gli obbedisce e Pilade gli

sfila l’uovo da sotto per porgerglielo sul palmo della mano. Oreste si distende sul

fianco tenendo l’uovo in mano e Pilade lo ricopre con pezzi di carta incrostata di

gesso come fa una buona madre , le sere d’inverno, con il proprio bambino. Poi

Pilade si sposta verso sinistra muovendo soltanto i talloni e le punte dei piedi, si

inginocchia dietro la valigia e vi appoggia sopra le due braccia incrociate e recita

in modo stereotipato “Un… due… tre… quattro… e… cinque!”. Pilade guarda

verso Oreste che gli restituisce lo sguardo. Poi Oreste si alza dal letto e vi si siede

con le gambe penzoloni e le mani raccolte tra le ginocchia. Pilade apre la valigia

ed estrae un guanto di gomma nero e un’armatura tubolare da braccio (una sorta di

manica metallica, sormontata da un meccanismo): con questi oggetti si dirige

verso Oreste. Pilade mette alla mano destra di Oreste il guanto nero e allo stesso

braccio l’armatura e gli mette in mano un coltello. Poi Pilade svolge una lunga

matassa di tubo da aria compressa e ne infila un capo in un augello dell’armatura;

poi apre il rubinetto dell’aria e la manica comincia ad aprirsi e richiudersi

ritmicamente costringendo Oreste alla flessione reiterata del braccio, che

cristallizza il gesto di una pugnalata. Poi Pilade chiude il rubinetto dell’aria, così

che Oreste si ferma con il braccio alzato. Poi gli sussurra nell’orecchio “Orestino,

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funziona bene la pugnalata? Ho fatto un buon lavoro?” Pilade accosta la sua

guancia a quella di Oreste e gli accarezza il viso per tre volte. Poi Oreste si alza e

va alla sinistra di Pilade e con l’indice imbrattato di nero scrive sul petto

dell’amico una “p” infantile; poi porge l’indice a Pilade che, impugnandolo, lo

rivolge contro il petto di Oreste per scriverci una “o” infantile. Poi si distanziano

e oscillano sul posto a capo chino. Poi Oreste prende sottobraccio. Alla domanda

reiterata di Egisto “Chi sei?”, Pilade si copre il petto con una mano e Oreste

risponde sottovoce “Oreste è morto.” Poi entrambi girano su se stessi e restano di

spalle rispetto alla platea. Quando Egisto nel proprio movimento gli mostra le

spalle, Pilade fa una smorfia mostruosa verso il cielo e va a recuperare il siparietto

adagiato vicino alla tomba, lo alza e lo trasporta vicino a Oreste ed Egisto che

continuano ad oscillare di spalle. Pilade dispiega il sipario e nascondendovisi

dietro raggiunge gli altri. Ora sono visibili solo le gambe di tutti e tre, quelle di

Egisto e Oreste ritornano frontali. Dopo l’“impiccagione” di Egisto, Oreste prende

la corona in mano va verso la tomba, la alza in alto e poi la butta come se fosse

niente. Poi discende nella tomba fino a scomparire. Poi si rialza ed esce dalla

tomba. La capra-Agamennone comincia a “respirare”. Pilade estrae dalla valigia

un grosso orologio bianco da clown e se lo mette al polso poi attacca allo stesso

gancio che teneva appeso Egisto un altro frammento della Guernica di Picasso:

quello del toro. Qualcuno dalle quinte lo alza sopra al siparietto. Oreste con

l’indice puntato in alto va verso la parte destra della scena si siede su una gamba

ripiegata e da un altro recipiente intinge nuovamente il dito in una pasta nera per

colorarsi tutto il collo. Poi raccoglie le aste del siparietto e le trasporta. Poi rimette

l’armatura meccanica al braccio di Oreste e recupera il coltello e glielo rimette in

mano. Oreste comincia lentamente ad avanzare verso Clitennestra alzando via via

il braccio armato e lo sguardo basso e giunto al triclinio volge lo sguardo a Pilade.

Pilade distacca il rubinetto dell’aria dalla tastiera del letto e prosegue verso il

centro della scena. Poi si ferma e guarda Oreste che va verso Clitennestra alzando

via via il braccio armato ma senza sapersi decidere. Poi Oreste ritorna curvo su se

stesso verso Pilade e vi si appoggia al suo petto ma quest’ultimo lo respinge verso

la madre. Oreste rifà la stessa azione di prima. Pilade riapre il rubinetto dell’aria e

il braccio d Oreste si muove adesso inesorabile. Oreste rimane immobile di profilo

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con il solo movimento del braccio. Pilade monta il siparietto davanti al triclinio di

Clitennestra. Poi si mette dietro ad Orazio, controlla l’orologio e dice “È ora”, poi

sospinge lo sospinge verso la madre dietro il sipario come chi vuol incoraggiare a

fare qualcosa che si deve fare. Da dietro il siparietto si vedono solo le gambe di

Oreste che va su e giù. Poi si dirige verso il letto e si stende col braccio penzoloni

che continua a muoversi meccanicamente. La sua mano il braccio e il pugnale

grondano di sangue. Pilade porta fuori scena il triclinio con il corpo di

Clitennestra, poi anche quello di Egisto dopo la garza mediana, recupera il sedile

girevole di Agamennone e lo colloca al centro perfetto della scena. Poi Oreste si

toglie il braccio meccanico (che continua a girare all’impazzata per terra) va verso

la sedia girevole. Spossato si siede sul sedile. Uno spruzzo di sangue arterioso

scroscia sul corpo inconsapevole di Oreste. Trema come un torturato. Pilade

recupera il braccio meccanico e lo appende ad un gancio che pende dall’alto e

continua a muoversi, poi esce di scena. Oreste solo sulla scena. Il pavimento

comincia a muoversi come terremoto. Tutti gli oggetti crollano per terra persino la

poltrona e Oreste a faccia in terra. Pilade invece passa di schiena al pubblico sul

boccascena indifferente rispetto a quello che è successo. Oreste avanzando sui

gomiti raggiunge il boccascena.

Elettra: dal fondo tra il pulviscolo latteo si intravvede una donna. Tonda e bassa,

completamente nuda. Ricoperta di polvere su tutto il corpo. Oscillando da un

piede all’altro, avanza con le mani sull’addome e tiene due scarpine bianche da

neonato. Avanza verso, superando a destra il sepolcro, si ferma frontalmente,

avvicina le due scarpine alla bocca e sottovoce chiama “Oreste!”. Siccome Oreste

non risponde, lei va verso la sedia si siede e cerca invano di calzare le scarpine.

Riesce a calzarle in parte infilandole negli alluci. Poi si alza e in punta di piedi

avanza e cammina come chi cammina su un asse di equilibrio molto stretta.

Pronuncia diverse volte e freddamente il verso del neonato “nghè… nghè…”. Poi

avanza ancora alzando e abbassando le braccia. Una volta arrivata davanti si

ferma, si toglie le scarpine che adagia sul petto e storpiando il linguaggio

infantile, cantilena: “Io potto le cappine di Olette”. Poi retrocede camminando

all’indietro poi si volta verso sinistra a recuperare l’uovo di struzzo caduto. Lo

avvicina all’orecchio e come una grossa conchiglia, si dondola. Quando si accorge

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della presenza del fratello e dell’amico, non prova alcuna sorpresa. Poi si

inginocchia davanti a Oreste. Cede l’uovo a Oreste e lo accarezza e poi lo chiama

e lui risponde “Sono tornato”. Sequenza ripetuta per altre due volte. Poi spinge

con una carezza il volto di Oreste a terra e lo chiama come prima. Poi prende la

pistola che le consegna Pilade e la mette fra le scapole del fratello. Poi si alza e dà

il via ad una processione attorno alla tomba e Oreste e Pilade la seguono. Elettra

volge il capo verso la platea e dà inizio ad una sonora sequenza di respiri, cui

subito si aggiungono gli altri. Tutti smettono di respirare quando vedono la capra

scuoiata. Elettra volge il capo verso la capra. Poi recupera una ciotola nascosta

dietro il cippo e si dirige verso il fondo dove c’è Ermes con gli asini e comincia

così a mungere un’asina. Poi torna in avanti, alla sinistra della capra, tenendo tra

le mani la ciotola piena di latte e strappa via il cappuccio sulla testa dell’animale.

Poi avvicina la testa della capra scuoiata alla sua mammella sinistra come se

questa dovesse attaccarsi al capezzolo (somiglianza del vecchio con la giovane

nelle Sette opere di misericordia di Caravaggio). Rovescia il latte sul seno, in

modo che il rimbalzo arrivi alla bocca scuoiata del capro. Fa colare il latte sul

muso della capra e sottovoce recita “Bevi il mio latte, papà!”. Poi getta via la

ciotola e recita ancora “Oh, dolce pupilla….” Dopo di che corre a recuperare la

pelliccia di Egisto e la corona e fa in modo che Oreste li indossa. Poi prende la

sedia che depone dietro ad Oreste e poi la pistola che tiene per sé. Poi

minacciosamente retrocede verso sinistra impugnando la pistola. Va verso l’area

di Ermes. Elettra si volta e sempre con la pistola puntata va verso il sarcofago.

Non appena oltrepassa la garza nera, la zona di Ermes si oscura. Si ritrova così

alla sinistra della capra che viene alzata di altri cinquanta centimetri. Elettra indica

così il capro e sottovoce dice “Re Agamennone è vivo”. Poi si dirige verso la

pelliccia che Pilade aveva poggiato ai piedi del letto, sferra il frustino da tutù e

picchia colpi violenti sulla pelliccia e sottovoce finge si gridare prima “Cattiva!”,

poi “Puttana!” poi “Mi hai rovinato il numero” e tra queste parole sempre più

colpi sulla pelliccia. Continua a batterla e a imprecare e camminando la trascina e

con essa sparisce di scena. Mentre Pilade conta sulla valigia, spunta una mano da

un buco nella parete: è la mano di Elettra che saluta aprendo e chiudendo “Ciao!”.

Poi ritira la mano e comincia a sghignazzare e ridere sguaiatamente entrando in

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scena di schiena e coprendosi il viso con le mani, come fanno i bambini, sbircia

verso Pilade e Oreste cercando invano di reprimere il riso. Poi si siede di profilo e

si masturba il fallo finto e ride, cercando di non ridere e ride di più. Elettra si alza

e continua a ridere coprendosi la bocca e sbirciando alle sue spalle. Alla vista di

Egisto, Elettra cessa di ridere ed esce di scena.

Ermes: conduce con sé al pascolo due asini bianchi albini e si appoggia al cippo

con grande calma. La sua zona si oscura mentre Elettra Esce insieme agli asini.

Egisto: dall’area del portale che si illumina compare, nudo, cosparso di caolino

bianco, con indosso la pelliccia e la corona ferrea e una piccola maschera nera che

gli copre il viso. Oscilla lentamente sul posto. Chiede imperiosamente sottovoce

“Chi sei?” Poi fa prende spazio tra Pilade e Oreste e oscilla anche lui.

Sottobraccio a Oreste piega il braccio tenuto verso Pilade indicandogli il petto e

chiedendo sottovoce “Chi sei?” e di nuovo “Chi sei?” Dietro il siparietto che

Pilade aveva montato, Egisto viene spogliato della pelliccia e si vedono le sue

gambe sollevarsi e penzolare come quelle di un impiccato. Poco dopo si vedono le

sue gambe e i suoi piedi grondare di sangue. Poi il suo cadavere crolla di peso da

dietro il siparietto.

Clitennestra: entra dal taglio della carta di sinistra il maestoso triclinio con

Clitennestra nuda adagiata su come la Danae di Tiziano. Ha il volto nascosto da

un cappuccio bianco, e sotto la mammella , con la mano regge un coltello. Con

voce cristallina e lamentosa, da bambina quasi e dice “Figlio”. Poi si toglie dal

volto il cappuccio che le rimane sul capo e continua a supplicare “Figlio mio…” E

ripete questo fino a quando non verrà nascosta alla vista dal siparietto bianco da

parte di Pilade. Dopo che Pilade sospinge Oreste dietro al siparietto… il siparietto

diventa chiazzato di sangue e pompa come un cuore.

Coniglio Corifeo: si accende nuovamente l’area del portale e compare il Coniglio.

Si toglie la maschera e dopo un po’ esce di scena.

Atto III: Eumenidi

Oreste e Pilade: dopo che la Pizia dice “Ora posso…”, Oreste sul boccascena,

appare con una coperta militare sulle spalle e su una piccola sedia in piedi. Pilade

si mette di profilo alla destra di Oreste. Oreste gli consegna il collare e Pilade se

lo mette e imita così i movimenti di un cane. Poi Oreste scende dalla sedia, toglie

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il guinzaglio a Pilade e si siede sulla sedia. Pilade si alza e raggiunge Apollo e poi

ritorna verso Oreste. Fa la spola tra l’uno e l’altro. Oreste estrae l’uovo di struzzo:

lo tiene davanti a sé senza guardarlo e poi lo poggia sul grembo. Oreste

accompagnato mano per mano da Hermes esce di scena. Pilade continua la sua

spola da destra a sinistra e viceversa. Oreste entra nella gabbia delle scimmie e vi

si siede sulla sua seggiolina. Mentre apollo

si rivolge alle Erinni, Oreste compostamente

si ottura le orecchie con batuffoli di cotone e

nelle narici e si mette una pallina da tennis

in bocca e si benda gli occhi con una stretta

fascia adesiva. Si finge pazzo. Poi comincia

a contorcersi e assomiglia alle scimmie,

sopra di lui. Dopo l’apparizione di Atena, Oreste esce dalla gabbia con la sua

sedia. Al suo posto entra Pilade che indossa ancora il cappello a cono e poggiando

i palmi delle mani sul vetro si affaccia per vedere chi c’è aldilà: il pubblico.

Rimane solo Pilade che brucia tra le fiamme e il braccio che si muove.

Apollo: entra dal lato destro della scena. Non ha bisogno di camminare. È

interpretato da un attore privo di braccia. Sta in piedi su un piedistallo nero di

quaranta centimetri. Declama con voce amplificata “Non ti abbandonerò: sta

certo!...” Poi continua: “Fuggi, perciò, senza mai angosciarti…”. Poi dopo

l’entrata di Hermes. Ricordati: non prevalga la paura sul tuo animo”. Poi si

rivolge a Hermes che gli ricambia lo sguardo e continua “E tu, oh fratello di

sangue… oh Hermes…” Dopo l’apparizione di Clitennestra, Apollo sparisce.

Dopo che Oreste è fatto entrare nella gabbia delle scimmie, Clitennestra viene

adombrata e Ritorna Apollo nella sua bellezza spezzata. Apollo alle Erinni “Fuori

da questo sacrario: ve lo ordino…”

Ermes: entra molto lentamente col caduceo in mano e si mette alla destra di

Apollo; gli appoggia l’altra mano sul fianco e incrocia le gambe. Poi se ne

distacca e va verso Oreste e come si fa coi bambini lo aiuta ad alzarsi. Poi strappa

un pezzo centrale del sipario rivelando un buco tondo largo quattro metri. Poi

conduce per mano Oreste fuori scena. Alla fine del discorso di Apollo, Hermes lo

raggiunge da dietro e gli sfila la maschera di cuoio. Poi entrambi oscurati

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dall’ombra. Riappare solo Ermes non dice nulla non fa nulla. E guarda al di là

della gabbia come fa il pubblico. Poi di nuovo buio e scompare.

Clitennestra: nuda e maestosa appare in piedi. (Davanti a lei dentro una gabbia di

vetro saltano 5 scimmie macaco che si rincorrono: sono le Erinni). Con un coltello

in mano recita furiosa “Ah voi dormite, dormite pure.” E continua “E così anche

tra i morti voi mi offendete…” dal fondo appare Clitennestra con il suo triclinio e

con in braccio Oreste a mo’ di Pietà di Michelangelo. Lo dondola per

addormentarlo. In questo istante il braccio meccanico riprende a muoversi e en il

triclinio viene spostato indietro e la luce ad adombrarlo.

Coniglio Corifeo: dopo che sparisce Ermes, appare Il Coniglio e di vede che si

agita per riuscire a vedere cosa c’è aldilà del vetro; poi buio che lascia di nuovo

spazio alle fiamme.

Atena: dopo che sparisce il Coniglio Corifeo, appare lei dietro la gabbia oscilla e

recita con una voce frantumata in più pezzi “Bandisci il bando, Araldo…”.

Continua a parlare “Empi del tuo fiato la tomba tirrenica…” Poi inghiottita dal

buio.

Figure disumanizzate/animalizzate in “gabbia” Il lavoro che Romeo Castellucci fa con l’“attore” è di tipo corporeo, non parte né

vuole giungere a nessuna sorta di tipizzazione, alla quale per esempio assurge

Cesare Ronconi della Valdoca. Non richiede professionalità - questo è una

peculiarità di tutti i gruppi/campione della tesi, tranne che per il Teatrino

Clendestino - alle persone che incontra e che faranno parte dei suoi spettacoli,

anche perché la professionalità la si acquisisce: nulla viene lasciato al caso e alla

spontaneità e pertanto non sceglie attori bensì persone che “diventano”

professionisti [Marranca – Valentini, 2006, p. 247]. Dov’è finito l’attore? Questo è il quesito che ci si pone in seguito alla visione

degli spettacoli della Socìetas. Se nell’Amleto il lavoro attoriale nasceva dal corpo

e nel corpo si “abortiva”, pur lasciando una minima, labile libertà, di movimenti,

all’attore Paolo Tonti qui invece sembra che si sia saltato, o superato, un

passaggio: infatti i movimenti da automa risultano completamente sganciati

dall’intenzione, (interessantissimo come Pilade e Oreste, nelle Coefere, siano lo

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sdoppiamento tra le intenzioni (Pilade) e l’azione, sebbene coatta (Oreste),

quando Oreste col braccio meccanico armato di coltello va verso Clitennestra per

ucciderla e ha diversi ripensamenti e Pilade lo induce a

“compiere” l’azione), e se Tonti, da autistico, ha ancora

una certa autonomia, ugualmente prestabilita dal

regista, qui gli attori, anzi le figure, seguono un

percorso sì indotto e irremovibile ma più burattinesco.

Si ha come la sensazione che queste figure, che rispetto

a quelle di Pippo Delbono, hanno un respiro e un corpo,

provengano da un mondo altro, fatto di bestialità, forse

verso quella “meta, irraggiungibile, […] della stupidità

animale”? Ma ci si potrebbe ancora spingere più in là,

considerando che oltre al protendersi verso la pre-espressività animale si giunge a

un “corpo occluso, immobile e muto”. Punto di partenza quindi, ma anche di

arrivo, è un corpo astruso da qualsiasi orpello psicologico, più vicino all’animale.

Insomma una sorta di autopunizione dell’attore, costretto a discendere al suo stato

primordiale, animalesco: una punizione che presuppone il percorso di espiazione

che l’Attore deve fare in un Teatro ormai obsoleto e fine a se stesso? Per poter

ridare fiducia all’Attore, alla sue capacità, è indispensabile questo percorso di

dolore, realizzato attraverso la chiusura di tutti gli orefizi, bocca, narici, orecchie e

occhi? [Valentini, 1997, p.37-38]. E nella pratica scenica si vengono così a creare

figure assolutamente in pericolo: Clitennestra, incollata al suo baldacchino,

costretta a respirare attraverso i tubi; Cassandra inscritta in un parallelepipedo di

plexiglas che la contiene a mala pena; il Coniglio Corifeo che per “azionarsi” ha

bisogno di collegare le sue orecchie a dei cavi di corrente; fino all’espropriazione

dell’umano nel coro il quale prima è costituito dai coniglietti di gesso,

nell’Agamennone, e poi dalle scimmie, nelle Eumenidi.

Se con l’Amleto si giunge al “superamento dell’attore” con l’Orestea al

superamento sia dell’attore che dell’umano a teatro: infatti tutte le figure, ombre

dei personaggi eschilei, rasentano o animali (la balena Clitennestra, l’ippopotamo

Cassandra), o pupazzi (il Coniglio Corifeo e la bambola tarchiata Elettra) o

macchine (Oreste ed Egisto che nelle Coefere perdono ogni peculiarità umana e si

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muovono all’unisono come pezzi di un unico “motore”, confermato dal braccio

meccanico matricida). Risulta infatti altresì indicativo che Castellucci parli di

“persone del dramma” e non di personaggi [Castellucci C., Castellucci R., Guidi

C., 2001, p. 94]. E in effetti non si può parlare neppure qui di personaggi nel

senso tradizionale del termine perché non c’è alcun rapporto tra

persona/personaggio ma si resta, anzi si giunge, semplicemente alla persona. Nel

caso specifico, nessun lavoro psicologico ma dei personaggi eschilei si salva solo

il concetto che: si può perciò essere concordi con Claudia Castellucci che parla di

“personificazioni, incarnazioni di concetti, simboli” [Patalogo 25, 2002, p. 243].

Voci che diventano corpo, parole che si vaporizzano

Uno degli aspetti più interessanti di questa performance è dato dalla parola, dal

suo utilizzo, dal suo dispiegamento. Parole che seppur si auspichi diventino

invisibili, come la scrittura, e si fa di tutto per distruggerle, deformandole,

assumono una forza inusitata che si sostanzia proprio della loro stessa de-

costruzione e de-sillabizzazione.

Risultano pertanto voci che perdono consistenza aerea ma assumono come

caratteristica principale un aspetto decisamente “fisico”. Voci che sembrano

scaraventate in scena come pesanti macigni: in primis la voce da trans brasiliano

di Clitennestra in Agamennone ed Eumenidi che solo nelle Coefere si trasformerà

in una voce cristallina, quasi da bambina; poi la voce profetica, sfasata, animale di

Cassandra che diventa comprensibile durante la profezia ma poi ridiventa

indistinta. La voce di Cassandra diventa corpo e paradossalmente ella smette di

avere un corpo che diventa massa informe ma pulsante. Il processo che segue la

voce di Nicoletta Magalotti, colei che interpreta Cassandra, nasce dalle viscere,

infatti sembra non provenire dal palcoscenico bensì da un posto altro, lontano. Fa

uno sforzo immenso a rendere comprensibile le sue parole, aiutandosi con la

segmentazione in sillabe, ma ottiene l’effetto contrario, ovvero le parole appaiono

incomprensibili: soprattutto quando la voce risulta frammentata, rotta dal pianto e

dal singhiozzo. Ci si chiede addirittura se la voce provenga dal corpo stesso

oppure sia il frutto del doppiaggio, invece poi il respiro che appanna il

parallelepipedo di plexiglas che la imprigiona, ci fa ricredere . O anche la voce de

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La Scolta: il suo urlo iniziale sembra che nasca da un tempo e da un luogo

imprecisati, quasi come se quell’urlo preesistesse: ciò ricorda Cesare Ronconi e il

suo discorso circa il fatto che il corpo debba albergare una voce altra. E infine Il

Coniglio Corifeo con la sua voce da castrato, da codardo, una voce emessa in

falsetto per risollevare la tragedia dalla sua stessa gravità. Non è la sua voce ma

una voce di bimbo sapientemente “lavorata” e doppiata. Due sono gli aspetti che

riguardano direttamente Il Coniglio Corifeo: la voce che non è la sua e il fatto che

è un personaggio di una favola che si intrufola in un'altra opera per raccontare la

“storia”. La sua è la voce della commedia, quella voce inorganica, che racconta e

permette così quella catarsi che la sola tragedia non porta a compimento, come fa

notare Castellucci, citando Benjamin, “è la commedia la sua unica catarsi”

[Castellucci C., Castellucci R., Guidi C., 2001, p. 158].

Non ci sono dialoghi: tutte le figure parlano come fossero da sole. È infatti

l’allestimento del “solipsismo indifferente” e della solitudine e non della

“dialettica” in cui “ogni attore non

conosce altro che il proprio respiro”

[ivi, p. 148]. Unico rapporto

interpersonale di rilievo è quello tra

Pilade e Oreste anche se non si tratta

di due corpi bensì di uno unico

sdoppiato. Perciò non si tende a

negare ogni forma di scambio

vicendevole, c’è piuttosto tra i due un rapporto masochistico che non si invertirà

mai: Pilade/carnefice e Oreste/vittima. Un altro rapporto che sembrerebbe

presupporre una certa corrispondenza è rappresentato nell’Agamennone da Il

Coniglio Corifeo con i Dodici piccoli conigli di gesso, ovvero quando ripete a

memoria la sua lezione sulla Tragedia o quando sente le urla che si ritrae e si

nasconde il viso con le mani e nella penombra cerca di tenere nascosti i suoi

piccoli scolari, proteggendoli da Clitennestra ed Egisto. Appare pertanto del tutto

paradossale, che gli unici due pseudo rapporti dialogici, quello muto tra Egisto e

Oreste si volga verso la meccanicità della macchina, e quello “parlato” tra Il

Coniglio Corifeo e i Dodici piccoli conigli di gesso invece si azzera perché

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l’interagire avviene tra un “pupazzo” e dei coniglietti di gesso telecomandati. In

entrambi i casi si perde la peculiarità umana. Quindi non ci può essere “scambio”.

E soprattutto nel secondo esempio non si può assolutamente parlare di dialogo

bensì di a solo.

Le anime meccaniche della scena La scena dell’Orestea si presenta secondo tre visioni spaziali, completamente

differenti, una per ogni atto. Ma il fil rouge che le unisce è da imputarsi ad una

concezione animistica che le sottende: ci si trova dinanzi a spazi che offrono

ospitalità a oggetti apparentemente senza vita propria e in realtà questi ultimi

hanno un loro organismo ben preciso, e una loro funzione oltre che simbolica

anche fattuale. La sedia di Agamennone che gira vorticosamente su se stessa

indica sia l’assenza del re ma nasconde anche un meccanismo che la fa muovere

da sola.

Ci si trova dinanzi a un teatro che se fosse un corpo umano sarebbe senza

pelle: si mostrano tutti i meccanismi utilizzati, che non è una novità nella storia

del teatro, ma in questa scena in particolare i meccanismi mostrati sono

meccanizzati. Il risultato è un teatro rivoltato, messo a fuoco dal suo “di dentro”.

Le tre scene disturbano e realizzano appieno una loro “funzione

disumanizzante”, mettendo in difficoltà le figure ma anche lo spettatore che viene

bombardato di rumori fastidiosissimi [Marranca – Valentini, 2006, p. 249]. In tutti

e tre casi si tratta di spazi vuoti, l’Agamennone dominato da un distributore di

energia elettrica che serve a ricaricare Il Coniglio Corifeo, la sedia di cui sopra.

Poi il triclinio/utero di Clitennestra: la donna resta piantata a questo letto. E infine

la cassa trasparente che contiene Cassandra: Cassandra e la sua teca, così come il

punto in cui Egisto lascia la scena, alza la garza nera e passa dalla parte del

pubblico, in proscenio e la scena si ferma così come anche la “storia” si blocca e

tutte le figure al suo interno restano raggelate in un’immobilità che riprende solo

quando Egisto rientra in scena). Nelle Coefere invece tutto è bianco. Lo stesso

portale del I Atto aperto ma imbrattato di sangue a simboleggiare un rientro

sanguinoso, quello di Agamennone ucciso. Sempre la sedia girevole. Un lettino

bianco da ospedale strettissimo. Farina ovunque. La tomba di Agamennone. Nelle

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Eumenidi, infine, tutto è spaventosamente onirico dominato dal nero. E dai

drappi/incubo nascono man mano rivelati dalla luce altri “personaggi” come

Apollo, Atena, ecc

Non c’è una distinzione di valore tra le figure, gli oggetti, i rumori, le luci, e gli

altri elementi dello spettacolo: tutti conservano una loro autonomia e una propria

ragion d’essere senza nessuna necessità di subordinazioni. Solo certe figure hanno

un rapporto di “dipendenza” con lo spazio, ovvero si muovono come le lumache

sempre con il loro guscio, come Clitennestra con il suo baldacchino, Cassandra

nella sua teca: si viene a creare un rapporto di filiazione morbosa con lo spazio,

una forma di possesso molto potente e imprescindibile.

Rispetto ad Amleto e a Genesi non c’è invece un rapporto morboso delle figure

con gli oggetti, ovvero gli oggetti hanno una “vita” propria ma possono anche

porsi a servizio delle figure stesse: la

tenda che Pilade, nelle Coefere, porta

innanzi a Clitennestra, a coprirla, prima

del suo assassinio ha la funzione di

nascondere un atto criminoso, in regola

con i dettami aristotelici riguardo a

quello che si può far vedere o non far

vedere in scena ma Castellucci sposa questa regola a metà infatti se è vero che

nasconde l’azione dell’uccidere alla visione dello spettatore nello stesso tempo ne

fa vedere il risultato, ovvero il “sangue” che sporca il rivestimento del triclinio

che “ospita” la vittima. O anche le ruote di bicicletta su lunghe staffe, succedanei

masturbatori compensatori che servono a creare piacere a Clitennestra. O ancora

la lastra enorme di marmo sporco e spezzato, dove ci sono una serie di scritte

enormi scolpite in caratteri romani a sufggerire che l’unica parola comprensibile è

quella scritta.

Interessanti i motivi coloristici domanti dei tre atti, si passa dal nero e seppia

dell’Agamennone, al bianco gessoso delle Coefere per tornare al nero mostruoso

delle Eumenidi. Ma nonostante ciò resta la performance del rosso: il rosso come

colore leit motiv. Questo colore si insinua piano piano a partire dal tappeto che

aspetta il rientro di Agamennone, alla teca esplodente di rosso di Cassandra al

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rivolo di sangue che insozza il triclinio di Clitennestra. Rosso come preannuncio

di morte, anzi di vita.

Altro grande protagonista è la luce che compie “un lavoro poliziesco di

ricerca”. Nel I atto si passa da una luce smorta a una luce intensa che va a

disegnare ogni parte della scena che era rimasta insospettata. La luce perlustrante

in fasci violenti rivela delle trasparenze su veli sintetici che dapprima erano

sembrate pesantezze. Oppure diventa il luogo d’azione de Il Coniglio Corifeo

sempre tracciato dall’occhio di bue che incornicia le sue “lezioni”. Per passare poi

nel II Atto alla luce talmente sparata che dà a tutto l’ambiente una certa

rarefazione. La luce che smaterializza la scena e la riporta ad una visione lontana

di sogno. Infine nel III Atto il sogno di prima si tramuta in incubo, ombre paurose

vengono svelate da una luce impazzita che spoglia di volta in volta oggetti e

figure diverse. Quasi che questi fossero materia informe che con la luce si

“realizza”.

Rumori da fabbrica Dall’analisi attenta dei suoni utilizzati da Romeo Castellucci in Orestea, a parte

una musica da cartoni animati e il preludio wagneriano del Tristano e Isotta,

emerge che non possono essere rinvenuti altri suoni, da poter rientrare in ambito

musicale. Per il resto si tratta solo di rumori, dal battito sordo di un cuore

dell’inizio (collegato a Clitennestra), ai rumori di guerra (contraerea, colpi di

cannone, aerei), ai rumori dell’industria pesante (magli delle fabbriche), ancora al

rumore del distributore di energia elettrica. Insomma solo rumori assordanti che

creano tensione, una delle tante difficoltà volute, sia nelle figure che “agiscono”

sulla scena sia negli spettatori che “partecipano” all’evento, basti pensare al pianto

di Cassandra che viene disturbato da quello di un bambino che vi si sovrappone.

Una lotta senza pari di suoni che esplode in un rumore caotico ma studiatissimo

Sembra di trovarsi in una fabbrica e assistere a un concerto di rumori meccanici

fastidiosissimi.

Interessanti sono anche quelli riferiti agli umani, dal citato pianto di Cassandra

al respiro affannoso ma regolare di Clitennestra; il tutto poi viene a essere

celebrato con risate collettive registrate di un pubblico, finte come quelle che nei

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programmi televisivi americani inducono poi quelle vere. E questo tipo di effetto

si riproporrà anche in Genesi, con la materializzazione del robot antropomorfo e

filiforme, senza testa, lo Spettatore meccanico (acefalo) che seduto in proscenio

nello stesso atteggiamento del pubblico reale che sta in sala, si alza e applaude. Di

natura fortemente simbolico è l’ululato che segna l’ingresso di Agamennone:

vittima sacrificale che diventerà il capro che Elettra farà salire in alto con un

congegno. E diventerà artificialissimo il rumore del respiro della

“capra”/Agamennone che in maniera meccanica e ritmica collega movimento del

respiro al suo corrispettivo suono: di natura completamente diverso rispetto a

quello di Clitennestra che resta il motivo leit motiv della performance.

E infine il frastuono di microfono che lancia dei larsen devastanti, nella scena

del discorso incomprensibile di Agamennone: qui è la tecnologia che si ribella al

destino stesso, quello della tragedia e quella scena in atto tanto che la figura che

interpreta il re, chiede dichiaratamente aiuto a Romeo: “Romeo non si sente”.

Particolarmente significativo è sembrato il rumore del manganello di Egisto sul

tetto della cassa di Cassandra che risuona amplificato dal microfono interno:

manganello come violenza che viene trasmessa amplificata da un rumore che non

dà scampo.

E quindi si potrebbe concludere dicendo che questi rumori/suoni hanno una

loro autonomia segnica tale da diventare a pieno titolo elementi vivi della scena. E

se tutti gli altri elementi hanno una loro vita indotta, a cominciare dalle figure

stesse, i suoni invece si presentano come sintesi perfetta di idea e materia, perché

non hanno fisicità visibile.

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Recensioni «Oreste entra come Alice nel paese delle meraviglie» di Franco Quadri (La Repubblica, 13/04/1995) “Nell’Orestea della Societas Raffaello Sanzio, Eschilo si incontra con Lewis Carroll. Nella prime delle tre tragedie, il corifeo appare nei panni d’un coniglione bianco e al momento più drammatico, alla presa di potere di Egisto che ha eliminato Agamennone, entra con il suo racconto nel Paese delle meraviglie, sostituendo il nome di Ifigenia a quello di Alice, mentre un suggeritore lo richiama all’ordine con un tormentone alla Carmelo Bene. Non è uno scherzo gratuito questo trasferimento nel nonsense, quando si tratterebbe di tirar le fila della favole crudele cui abbiamo assistito e che il personaggio ha mostrato a una schiera di coniglietti di gesso: a questo punto anche questi giocattoli scoppiano a uno a uno per effetto di un meccanismo terroristico del nuovo tiranno... C’era una volta un incubo da storia gotica, reso simili alla realtà dall’esasperata fisicizzazione e dai segni provocatori di violenza che costellano questo spettacolo-choc. la sentinella che spia l’annuncio di fuoco della caduta di Troia è vampirescamente rattrappita sotto le ali nere d’un ombrello; la regina Clitemnestra è una saraghina nuda, enorme mammifero abbandonato su un giaciglio a rotelle come un simbolo rinascimentale dell’amor profano; il suo amante Egisto è un sicario in pantaloncino sadomaso di pelle nera con finestrella posteriore, intento a preparare gli attrezzi di tortura e a collegare i diversi corpi ai fili e ai pistoni che rigano il cielo di questa specie di Bosnia. Non è finita. Agamennone, re impotente e invincibile, è un mongoloide incoronato con una vestina bianca che lancia il suo grido modulato al microfoni prima di venire incaprettato e rinnova con la sua presenza, anche se gli intenti divergono, il gesto di De Dominicis a una lontana Biennale. Accanto, chiusa come un feto in un trasparente contenitore che la soffocherà in un’agonia impressionante, Cassandra, dolente montagna di carne, eleva come gli altri il suo solitario delirio, acusticamente deformato. Il coreuta-coniglio reca una croce rossa da infermiere sul camicie bianco, ma il sangue straborda incontenibile e dalle macchie minacciose riprese dalla pittura di Bacon degenera sul flusso delle performance di Nitsch, che scorre da una doccia sugli assassini di turno. nella scena suddivisa da pesanti teli materici, che un velo isola dal pubblico, la concettualità di altre citazioni pittoriche (per esempio dei frammenti penduli del Guernica) si scontra con una documentazione di anomalie corporali degne della fotografia di Diane Arbus. La carcassa insanguinata di un capretto, con un motorino che ritmicamente la spalanca, domina dall’alto la lunga sequenza visiva delle Coefore, che nel biancore lunare d’un sogno, coi ritmi appena accennati ma ripetitivi di danza, insegue immediatezze infantili. Obesa bambinaccia in tutù, Elettra contrappone la sua fisicità a quelle magrissime e adolescenziali di Oreste e Pilade, il quale guida il suo amico verso il suo fato di giustiziere e imponendogli un bracciale automatico da accoltellatore. Al suo delitto seguirà uno scotimento della terra scenica, preludio a un terzo cambio di stile per l’ultima parte della trilogia. ecco infatti, davanti al sipario chiuso da cui provengono le voci delle Erinni, gli eroi ridotti a stanche immagini plastiche di una sacra rappresentazione, vegliati da Apollo, ovvero un angelo dalle ali nere raffigurato da un uomo dal torso nudo e privo di braccia, come un’antica scultura. Al centro del tendone s’aprirà poi un amniotico oblò dove scorgere, come alla lanterna magica, tra le pieghe del processo a Oreste, l’ombra infernale di Clitemnestra che accoglie tra le sue braccia il figlio non redento. E il suo braccio meccanico di morte continuerà da solo ad agitare la sua sonora minaccia come un metronomo. Sopra a Oreste ballonzolano delle scimmie, come il martirio di Cassandra era sottolineato da un passaggio di cavalli e due bianchi asini sardi brucavano pascoli lunari guidati da un alato Ermes albino, durante la preparazione del matricidio. La naturalità della vita, testimoniata anche nelle sue deformità, fa da controcanto costante a una finzione essenzializzata al massimo e attenta ai valori simbolici, secondo una tematica che si rifà ai capisaldi della sperimentazione italiana degli anni settanta, secondo una ricorrente nella scena internazionale. Ma la libertà di lettura di Romeo Castellucci nell’appropiarsi della cosmologia eschilea, superato il gelo dell’approccio barbarico, approda alla formalizzazione di un trittico visionario di grande impatto emozionale, unitario al di là della dialettica degli stili, a riprova del sottotitolo interrogativo («una commedia organica?»), che cita Benjamin.”

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«Oreste nel paese di Alice» di Paolo Ruffini (Liberazione, 13/04/1995) “Una commedia organica’ così sottolinea il regista Romeo castellucci il lavoro sulla tragedia eschilea, circa tre ora di fibrillazione emotiva che attraverso le ambiguità del silenzio fa commedia e deforma il corpo della parola dentro una scena priva di riferimenti, se non quella della “paradossale” bellezza degli interpreti. Gli attori “usano” a incastro lo spazio facendosi a loro volta usare, nella dimensione più soddisfacente al loro esaurimento e a quello degli oggetti, delle macchinerie sceniche, così rigorose e elementari, esplicitanti di una metafora che non rimanda a qualcos’altro, ma presa alla lettera. Una lingua di fuoco è il segnale convenuto di Agamennone per Clitemnestra al suo rientro in patria; proiettata sul sipario trasparente vomitato sul pubblico, avverte lo spettatore del viaggio iniziatico verso gli inferi che si sta per intraprendere. Risucchiato da un vortice, lo spettatore viene catapultato nella scena rimanendo privo di difese, come accade all’Alice di Lewis Carroll, inseguendo il coniglio bianco. É appunto un enorme coniglio bianco, che ci attende all’ingresso di questo non luogo della tragedia, incarnazione del coro, si intromette fastidiosamente a smitizzare le parti del testo dove «suona più alto il vecchio trombone della poesia»: enormi orecchie e croci rosse sul petto sono ricordo di quel roditore caro a Beuys. Si presta quindi al gioco ironico e crudele di una rappresentazione che ha anche Artuad come spirito guido. Attraverso la favola, la tragedia non si ricompone negli schemi di un’attenzione filologica non si ricompone negli schemi di un’attenzione filologica né attraverso lo sguardo contemporaneo. Il rovesciamento sta proprio nel narrare utilizzando una parola estrema, distorta, che «nella solitudine silenziosa del tragico» è solo una delle forme possibili; per il resto si costruisce e decostruisce una scena quasi fosse un cantiere, comprensorio di guaine, microfoni, molle ad aria compressa, protesi ortopediche appese, animali veri e deflagrazioni incessanti di una guerra mai risolta, come ricorda la «Guernica» picassiana che penzola dal soffitto. Se la parola è azione, anche il corpo non può aderire alla significazione di puro “peso”; è corpo il ragazzo “down” interprete di Agamennone; Oreste e Pilade clown drammatici, completamente nudi e impiastricciati, che sembrano usciti da una tela del periodo blu di Picasso. Sono corpi, infine, il trono, una sedia da ufficio, che gira vuoto e Cassandra agonizzante, avviluppata dentro una scatola di vetro opaco che è ancora una delle possibili immagini deformi di questa Orestea, colore violento dal preciso riferimento a Bacon. Nella sua complessità, lo spettacolo sorprende per come si riesce a recuperare nei segni della vicenda quando smonta la tragedia nella psicopatologie “comiche” dei personaggi, che si riconoscono in una ulteriore interpretazione.” «Una “scandalosa” Orestea di Massimo Marino (l’Unità, 31/01/1996) “Nell’”Orestea” della Societas Raffaello Sanzio le immagini si sovrappongono, i riferimenti, le emozioni; i paesaggi, i corpi degli attori cambiano di intensità, di dimensione, man mano che si snoda la saga degli Atridi, dall’assassino del padre fino alla vendetta, all’arrivo di Oreste in uno scenario di polverosità lunare, clown magrissimo, macilento, col suo consimile Pilade; fino al gesto matricida, reiterato da un braccio meccanico armato di pugnale, fino al giudizio degli dei contro il figlio assassino nel tribunale di Atene, tra le ombre inquietanti delle infere vendicatrici Erinni incarnate in alcuni babbuini, un Apollo attore senza le braccia (nero e luminoso), e la madre, la gigantesca madre, che ritorna, in un’inquadratura che ricorda l’utero, il luogo dell’origine, del riposo amniotico. É un atto teatrale totale, eccessivo, violento, scandaloso. Che usa la violenza come scandalo, come insidia del pensiero e della percezione addomesticati dall’abitudine. Come l’Alice di Carroll supero lo specchio del testo, del quale riamane solo la corazza o il cuore pulsante. Respinge o affascina, attingendo l’ombra, scandagliando ogni eccesso dell’esibizione di shock, di immagini, e soprattutto di corpi, corpi smisurati, corpi diafani, corpi animali, corpi diversi, mutilati. Perché, scrive il regista Romeo Castellucci: “Teatro significa creare, partorire demonicamente un corpo, prima di tutto come cosa, peso, grumo da far vedere per un soldo, baraccone in sé”.

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GENESI From the museum of sleep (1999) di Romeo Castellucci

Gesti e azioni delle singole figure 3 Atto I: In principio (Berêsit)

Scena I: Lucifero nel laboratorio di Madame Curie

Gruppo di borghesi/scienziati: addossati alla parete. Uno di loro indica a Mme

Curie il lato destro della scena.

Madame Curie: tra i borghesi di cui sopra. Apre la porta. Accoglie Lucifero e lo

conduce verso un tavolino dove c’è poggiato un vecchio microscopio. Si siedono.

Dopo che Lucifero ha aperto il cassetto dal quale fuoriesce una lama di luce e un

3 La descrizione dei gesti e delle azioni delle singole figure sono il risultato di un attento e accurato studio che si è basato sulla comparazione tra il video dello spettacolo e la partitura di Genesi contenuta in Epopea della polvere (2001), di Castellucci C., Castellucci R., Guidi C. Si è cercato inoltre di scarnificare il più possibile i gesti, riducendoli il più delle volte a movimenti.

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suono sinistro, lei raggiunge verso il fondo il resto dei borghesi che non sono altro

che scienziati a un convegno scientifico, alle prese con una scoperta sconvolgente.

Lucifero: entra e segue Mme Curie che lo porta verso un tavolino. Si siede con

lei. Apre appena un po’ il cassetto del tavolo. Si sfila i guanti e poi soglia il libro

come a cercare il punto per cominciare a parlare: probabilmente si tratta di una

relazione scientifica per informare gli scienziati a convegno. Dopo le prime parole

ci si rende conto che si tratta dell’inizio della Bibbia: lo recita con tono kaddish

(lamentazione funebre ebraica). Dopo la relazione, Lucifero applaudito, si dirige

verso il fuori scena ma Mme Curie lo ferma e gli indica di andare verso il

proscenio. Pausa. Lucifero va verso il proscenio.

Scena II: La porta stretta (lo spettacolo video parte da questo punto in poi)

Lucifero: costretto a passare tra due sbarre. Si spoglia, nella semioscurità, dei suoi

vestiti. Rimane completamente nudo e poi prova a passare tra le due sbarre

strettissime. Ce la fa e subito dopo grida “Vaiiòmer elohìm!”. Poi continua a

recitare il suo dolore e il suo caos sempre nelle parole dell’ebraico biblico

“Ischretzù…”

Scena III: Il nucleo

Lucifero: compie ampi gesti scomposti come di un ragno caduto nella tela di un

altro. Urla come chi sta per annegare ma non può fare più nulla. Poi crolla a terra

e continua a lamentarsi; viene poi inghiottito dall’oscurità.

Dio: nel letto. Si alza sollevando le coperte. Si stira. Si avvicina a una parete

bianca e stancamente vi si appoggia con la mano con la quale si reggeva la testa.

Dalla sua mano nasce dal nulla un alone nero fino a colare e divenire un’aureola

nera che comprende tutto il corpo. Si vede una testa appoggiata su una panca

nera, è la testa d’oro di Dio. Sdraiato con i piedi verso il fondo. Poi soffia sulla

sua mano dalla quale si vede una nube bianca, soffia più volte. Il respiro mette in

moto qualcosa, è una grossa teca con un pastore tedesco dentro imbalsamato che

si masturba. E dopo la pioggia di terra sul letto che si ferma, Dio pianta carote

nella terra stessa. Poi tira una nastro nero lucido che pende da un registratore a

bobine sospeso in aria. Dio lo raccoglie lo arrotola al collo e alla braccia: il nastro

fa ascoltare il contenuto che aveva impresso ma in maniera assolutamente

disturbata.

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Scena IV: La spada di Gabriele

Angelo Bianco: appare sul fondo della scena, con un lungo abito bianco.

Comincia a ruotare su se stesso sempre più velocemente. È come un vaso al

tornio. Sopra di lui una grossa teca che contiene delle ali che battono tra loro

come se volessero volare ma il corpo non c’è. Poi appare raddoppiato nella sua

immagine da una video proiezione posta immediatamente dietro di lui che lo

riprende a grandezza naturale ma in negativo, dentro una bolla di luce circolare.

Quando appare l’Angelo Nero che avanza verso Dio, anche lui va verso Dio

tenendo teso il braccio verso la spada sospesa davanti a lui. L’afferra. La spada

diventa rovente e produce una fiammata rossissima. Sicuramente si tratta della

cacciata di Adamo ed Eva dal Giardino dell’Eden. Ciò è confermato

iconograficamente dalla posizione dell’altra mano.

Dio: raccoglie la polvere bianca da un contenitore sotto i suoi piedi e con questa si

cosparge tutto il corpo. Poi si piega sul lato sinistro fino ad una posa impossibile:

ci sono dei cavetti d’acciaio invisibili al pubblico che lo sorreggono. Si poggia su

uno sgabello e dopo che l’Angelo Nero gli ha sfilato il calzino, lui si toglie la

calotta d’oro e poi si volta verso il pubblico e sorride. Poi si alza dallo sgabello e

si corica direttamente sul palco e si copre con un panno nero, come per coricarsi.

Ma tiene ancora un lembo di nastro nero tra le mani.

Angelo Nero: appare inaspettatamente dietro il telo su cui si stava proiettando

l’angelo bianco. Avanza tenendo in mano la maschera bianca e ghignante della

commedia della Commedia greca. Si avvicina a Dio. Si inginocchia. Mette la

maschera della Commedia sotto la pianta del piede di Dio e gli sfila il calzino

dalla gamba. Lo alza e ne sfila una zampa di gallina che impugna come uno

scettro. In una mano il calzino, nell’altra lo scettro. Poi si alza per incontrare

l’Angelo Bianco. Si abbracciano dando le spalle al pubblico. Poi si avvicina al

proscenio. L’acquario si illumina e sotto questa luce fa scorrere sul tulle tutte le

unghie della zampa di pollo. Poi dietro il tulle fa scendere il suo naso fino a terra e

prende così un lembo della garza dal basso per lanciare verso il pubblico il calzino

di Dio con la zampa di gallina dentro. Poi il naso dell’Angelo risale così come era

sceso dietro la garza per sparire nell’oscurità. (questa parte sarebbe l’inizio del

video)

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Scena V: Adamo

Adamo: all’interno di una teca, appare una massa carnosa confusa e tremante. Si

muove. È un contorsionista alla continua ricerca di una posizione. Continua a

tendere le sue ossa. Nel frattempo dietro di lui illuminato passa uno stendardo con

il grande mascherone dal volto ghignante tratto dalle Fiestas di Goya. Poi la sua

teca viene a essere coperta da badilate di terre ma Adamo continua a muoversi. Le

badilate di terra lo seppelliscono.

Spettatore meccanico (acefalo)(non compare in video): seduto in proscenio nello

stesso atteggiamento del pubblico reale che sta in sala in questo momento. È un

robot antropomorfo e filiforme, senza testa. Si alza in piedi e applaude dinanzi

alla scena di Adamo. Entusiasta. Anche lui viene poi seppellito da una badilata di

terra. Capisce l’ammonimento per cui ritorna a sedere.

Scena VI: Eva

Eva: appare in una lunga teca. A fatica esce. È stanca. Sembra risvegliarsi da un

lungo sonno. Anziana. Tiene sempre la bocca aperta fino allo spasmo. Non esce

voce ma solo stupore per ritrovarsi di nuovo viva. Avanza verso il centro e una

volta lì, prende da terra un filo bianco e se lo porta alla bocca per poi

dimenticarsene, infatti si porta le mani alle tempie si stringe la testa per trovare il

punto da dove nasce il dolore e siccome i capelli si impigliano nelle mani, li lascia

cadere per terra. Eva è vecchia e calva. Mastectomizzata, ovvero ha una sola

mammella. Poi appare dall’alto la stessa spada e la stessa mano che scacciarono

Adamo dall’ Eden e scacciano anche Eva. La donna si accuccia pian piano sino a

mettersi prona come qualcuno che non ce la fa ad andare oltre. Poi degli organi

umani scendono dall’alto attaccati a dei fili e lei quando questi toccano il suo

corpo ferito li abbraccia e li raccoglie. I fili e le vene uniscono idealmente Eva e il

coccodrillo. Quando tutti gli organi sono finiti di scendere, Eva si accascia di

nuovo per riposarsi e si lascia guidare dal respiro del palco (respiro tellurico del

teatro). Altra dissolvenza luminosa tra il coccodrillo e la teca nucleare che

ricomincia a ribollire schiumosa.

Lucifero: rientra inaspettatamente col suo soprabito di velluto nero. Si accorge del

calzino bianco che l’Angelo Nero aveva lasciato cadere a terra. Si guarda intorno

per accertarsi che non ci sia nessuno perché vuole sbirciare cosa ci sia nel calzino.

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Si china e raccoglie il calzino. Non si sorprende per quello che vi trova, anzi

prende la zampa e la mette nella sua tasca poi furtivamente esce di scena.

Atto II: Auschwitz

Scena I: La genetica del non-uomo

Bambini: un bambino fuoriesce dalla montagnola di piume si alza e si allontana,

si trascina la coperta bianca che lo copriva; un altro fuoriesce dal fondo del

cumulo di piume e sembra che cammini in un corridoio di luce ma in realtà non

cammina perché è solo l’effetto di una luce rapsodica, il suo incedere è

accompagnato da movimenti simmetrici delle braccia. Poi arrivano altri quattro

bambini. Si muovono tutti con un’esattezza che deriva da una qualche forma di

disciplina aliena. Compiono tutti diversi movimenti e gesti. Tra quelli più degni di

nota vanno ricordati: un bambino deposita vicino al mucchio di piume una

pedaliera da grancassa e poi cade a terra e finge di aver perduto i sensi; un altro

bambino recupera vicino il mucchietto di piume una corona della stessa materia

poi defeca in un vasino bianco e dietro il pannello semitrasparente scrive “I

SLEEP” che il pubblico può leggere solo al rovescio forse perché è riferito a

qualcun altro che sta aldilà del pannello; un altro bambino dorme; una bambina

che faceva segni incomprensibili al pubblico si va a sedere su una poltrona

neoclassica e poi è seguita da altri due bambini che anch’essi si seggono. La sedia

su cui i bambini sono seduti non appena il Cappellaio Matto li invita a bere il the

comincia a vibrare.

Cappellaio Matto (piccolo ebreo): Poi arriva un bambino/capotreno che guida un

trenino con locomotiva e due vagoni annessi. Fa il giro della scena poi si ferma al

centro si ferma scende e si spolvera i pantaloni di seta. Si volta con le spalle verso

il pubblico. E comincia a fare movimenti con le gambe a mo’ di rana e pernacchie

“penose” con la bocca a mo’ di clown inconcludente. Poi va verso il comò e là

sopra trova appeso ad una struttura circolare che gli divarica ben bene l’imbocco

un calzino bianco (sarà quello di Dio?). Poi maneggia una tazzina di ceramica e

una teiera vuota e dice “Volete un the anche voi? Questa è la festa del non

compleanno.” Poi raggiunge gli altri bimbi sulla poltrona che aveva cominciato a

vibrare.

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Scena II: Il corpo senza organi

Coniglio Grande: apre il rubinetto posto su un tubicino che proviene da un

sacchetto per fleboclisi gonfio di un altro liquido trasparente. E mischiandosi i due

liquidi si ottiene un colore rosso. Anche il Coniglio per riflesso diventa rosso. Poi

il coniglio va verso il centro della scena aiutandosi con un bastone da vecchi e

porta in mano un feto umano di circa sette mesi che ha ancora il cordone

ombelicale attaccato. Si nasconde con una mano gli occhi e poi si mette dietro il

trenino e guarda in alto. Dopo l’entrata del secondo Coniglio pronuncia alcune

frasi “These are my lungs which were taken away from me in 1857”. Quando dal

soffitto scende a mezz’aria un paio di polmoni, lui li indica con il bastone e poi

“This is my wich was taken away from me in 1903” e poi scendono un fegato e

un cuore umani e “ This is may womb with the ovaries, which was taken away

from me in 1938”. Poi si copre il volto con le mani spaventato da un singhiozzo

molto sommesso. Indica ancora il soffitto con il bastone. E poi “This is may heart

which was taken away from me in 1944”. Poi si era spostato vicino al feto a testa

in giù. Durante questa scena l’unico colore è quello rosso della croce che sta ad

altezza degli occhi dei bambini. Stacca il feto dal filo e dice “This is me, in

Marseille, in 1896: Have you understood?”. Porta con sé il feto sul comò

neoclassico e gli fa la respirazione bocca a bocca. Poi immerge il feto, a testa in

giù, in un barattolo di liquido paglierino. Poi si mette anche di lui di spalle al

pubblico. Poi prende il sacchetto di stoffa che gli porta il Coniglio più piccolo e lo

infila sulla testa del bambino con il grembiule, dopo averlo liberato del collare

ortopedico. Poi afferra un grosso coltello da cucina e lo passa sul collo dello

stesso bambino.

Coniglio Piccolo: identico al Coniglio Grande ma in miniatura. Questo secondo

coniglio interseca la scena lanciata a caso su un biliardo come una pallina

impazzita senza ostacoli. Si muove nelle cose e tra le cose con l’innocenza

dell’inconsapevolezza. Poi si sdraia al centro del triangolo di luce contornato dagli

altri tre bambini. Poi si alza recupera un sacchetto di stoffa bianca al Coniglio

Grande.

Cappellaio Matto: si stacca dagli altri bimbi e va verso il trenino e vi mette dentro

tutti gli organi appesi. Poi costringe il bambino con il grembiule ad andare verso il

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comò e di inginocchiarsi sotto il calzino appeso. Assiste alla scena dello

sgozzamento da parte del Coniglio più grande ai danni del bambino con il

grembiule. Poi estrae dal taschino la zampa di gallina dal primo atto e con falsa

consolazione il volto incappucciato del bambino col grembiule poi consegna la

zampa al bambino “rinato”.

Bambini: dopo che il Coniglio Grande fa la respirazione bocca a bocca al feto, i

bambini come se si fossero svegliati dal letargo si mettono sull’attenti di spalle al

pubblico. In controluce le sagome dei bimbi. Dopo che appare la scritta

“ANIMAL”, i bambini rompono la simmetria tranne tre che si dispongono a

triangolo ai bordi di una luce molto forte che li illumina dal basso e ne fa tre

figure spettrali. Il bambino con il grembiule costretto dal Cappellaio Matto va

verso il comò e, controvoglia, si inginocchia sotto il calzino appeso. Dopo lo

sgozzamento, il sangue gli scola sul petto e reagisce con il gesto del saluto

femminista. Poi dà vita ad una serie di vagiti. Allarga le mani che simulano i

genitali femminili e con la pressione del viso che vuole uscire fuori proprio da lì.

Come un secondo parto. Il bambino rinato afferra con avidità la zampa di gallina

dal Cappellaio Matto. La bambina più grande si avvicina alla croce di vetro con il

liquido rosso e apre il rubinetto di un’altra sacca per fleboclisi e altro liquido va

ad aggiungersi a quello rosso nella croce e per un’altra reazione chimica

quest’ultimo ridiventa trasparente. Il bambino con il grembiule e il sacchetto in

testa alza una gamba. La tiene alzata per un po’ e poi all’improvviso la fa cascare.

Dopo il grido lacerante di Artaud, i bimbi corrono all’impazzata rincorsi

dall’incappucciato. Confusione generale. Un bambino percuote violentemente un

cilindro metallico con un tubo rigido. Tempesta di luce e di sonorità. Il bambino

incappucciato si toglie il cappuccio. Allunga il braccio e lo lascia cadere. Si

avvicina timoroso al calzino appeso. Lo tocca attraverso la zampa di gallina. Dopo

vari tentativi mette la zampa nel calzino, tenuto aperto dal divaricatore circolare.

Poi lo stacca dal supporto e lo porta con sé sul fondo della scena.

Scena III: Latte di Nadir

Coniglio Grande: si avvicina al comò. Poi accosta ai propri capezzoli due tubi

che terminano con una specie di tettarelle di plastica nera che aveva

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precedentemente staccato da una macchina posta a terra, e in conseguenza di ciò

la macchina si mette in moto.

Bambini: si mettono sotto la doccia a ricevere l’acqua mentre riparte una nuova

registrazione di Artaud che ripete solo la parola “Sperme” poi il sonoro ce lo fa

sentire per intero “Vous énnoncez là,…” e l’ultima frase “Je ne délire pas, je ne

suis pas fous” viene ripetuta cento volte. I bambini continuano a fare la doccia ma

da un certo punto in poi si sentirà solo “je ne suis pas… je ne suis pas… je ne suis

pas…” Poi i bambini vengono inghiottiti dal buio a uno a uno. Resta solo la

bambina più grande che resta pietrificata sul fondo. Anche lei dopo un po’

scompare nel buio.

Spettatore meccanico: si alza in piedi solleva le braccia ma non osa applaudire

questa volta. È rimasto scioccato da quella visione. È scandalizzato. Poi si risiede

e sparisce anche lui nel buio.

Atto III: Caino e Abele

Scena I: Amore

Abele: si volta di spalle rispetto al pubblico, preso dalla presenza del muro di

fondo. Con la mano ambigua, guantata vi si appoggia. Tiene la mano alta e

abbassa la testa in cerca di concentrazione o devozione. Abbassa la mano guantata

e con quella sistema i capelli, come volesse pettinarsi con le dita, lo fa con calma.

Si distacca da un passo dal muro. Poi si toglie il guanto, lo rovescia e lo appende

al muro dove aveva appoggiato la mano. Fa ancora qualche passo e sempre

guardando il muro ma di spalle. Si avvicina verso il centro del palco prima di

schiena poi si gira. Si gira e guarda il punto dove ha attaccato il guanto. Ve verso

il boccascena e si accorge di avere uno spino conficcato nel piede si china per

cercarlo e una volta trovato se lo conficca nella testa. Abele non si cura del

fratello perché non l’hai mai considerato. Al centro del palco si china per

raccogliere il cerchio di ferro. Lo alza e lo tiene facendoci ricordare l’uomo

leonardesco ma quest’equilibrio formale è disturbato (dai cani o da Caino). Poi fa

girare il cerchio su se stesso. Prima che il cerchio finisce di roteare, va a mettersi

in ginocchio di spalle al pubblico come a contemplare la perfezione dei suoi giri.

Si rialza e fa la stessa identica cosa: allora si tratta di una preghiera! Ancora una

terza volta va verso il cerchio e lo attacca a una corda che scende dal soffitto: il

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cerchio resta sollevato come fermato nel suo movimento. Poi va verso il

boccascena e cade addormentato in piedi.

Caino: a sinistra del palco, nell’ombra, osserva il fratello a distanza. Continua ad

osservare il fratello a distanza. Guarda Abele che guarda il cerchio. Poi alza il

braccio destro verso il fratello come a dire “Ma cosa stai facendo?”. Quando

Abele cade, Caino si avvicina verso il fratello e lo raggiunge al centro del palco.

Fianco a fianco, anche lui si addormenta. Dormono ma il loro sonno appare

agitato, come quello dei bambini. Sembra che dormano davvero ma poi Caino

alza il suo braccio destro con il pugno chiuso e va a sfiorare il braccio sinistro del

fratello. Il braccio sinistro di Caino è più piccolo dell’altro, come appartenesse a

un bambino. Un altro bambino dentro Caino.

Scena II: Crimen

Abele: non si accorge di nulla. Apre gli occhi solo dopo che Caino lo strozza. Si

sente la registrazione di un singhiozzo da neonato.

Caino: si mette di profilo e appoggia la fronte sulla spalla sinistra di Abele. Fa un

passo indietro e gli si mette di spalle. Alza lentamente il piccolo braccio sinistro e

lo avvicina al collo di Abele. Gli stringe il collo. Avviene il primo omicidio.

Commesso da un bambino? Può considerarsi un omicidio? Lo adagia per terra gli

guarda la pancia poi girovaga come i cani in scena senza meta. Buio. Continua a

brancolare. Poi si ritrova nella stessa posizione del fratello all’inizio dell’atto,

ovvero dove Abele si sfilò il guanto. Alza il braccio omicida verso l’alto, tenendo

la testa abbassata. Poi alza la testa verso l’alto. Poi si gira verso il pubblico in

penombra si ferma e si sistema i capelli con l’altra mano a mo’ di pettine.

Dall’alto scende un nastro. Caino se ne accorge solo quando il nastro gli cade

sulla spalla. Fa un gesto bizzarro raccoglie con la mano una manciata di nastro e

se lo mette tra la spalla e la mandibola, come a voler abbracciare quel nastro

divino. Poi si siede di spalle sul corpo del fratello morto, come se fosse una

panchina e non fa nulla. Protagonisti sono rumori che si disturbano a vicenda. Poi

si sovrappone sul corpo del fratello, duplicandone esattamente la figura, in

maniera assolutamente simmetrica: uno vivo, uno morto; insomma la vita e la

morte come due segmenti sulla terra, sono il segno dell’uguale. Caino alza il

braccio bambino e recupera il braccio sottostante del fratello e se lo solleva sopra

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il suo petto e lo stesso fa con l’altro. È il vivo che ha bisogno di protezione, che ha

bisogno di una coperta. Poi rimette a posto le braccia come si fa con le lenzuola e

si rialza lentamente. Si mette in ginocchio, di fianco al fratello, sollevando il

braccio destro vicino al suo volto. Trema e lo guarda fisso negli occhi per la prima

volta. Trema fino a che non dà uno schiaffo in faccia al morto. Silenzio. Poi fa un

massaggio cardiaco al morto secondo le regole moderne del pronto soccorso. Poi

si getta e si rialza più e più volte con la testa sul petto di Abele. Caino spossato. Si

alza dà un calcio nel fianco del morto gli sputa addosso. Poi ci ripensa e quasi si

fosse pentito ripete lo stesso gesto col piede nel fianco del morto ma con dolcezza

questa volta. Poi va verso il lato destro della scena dove qualcuno da dietro il

telone sta spingendo con la punta la stoffa verso il centro. Appoggia la testa su

questa punta. Poi Caino si volta verso il boccascena. C’è qualcuno che lo aspetta.

Prende un panno bianco sotto i ciottoli. Si tratta del calzino di Dio. Caino lo

solleva in alto. Non capisce la cosa ma quel calzino è lì per lui. Estrae dall’interno

del calzino la zampa di gallina che se la porta agli occhi e poi la lancia con

disprezzo verso il muro di fondo. Gli resta il calzino e decide di indossarlo ma

deve essere completamente nudo. Si spoglia e indossa il calzino. Non si accorge

della presenza dell’angelo nero. Poi roda la camminata con calzino e sparisce nel

buio. Poi una lingua di luce lo stana e ce lo fa vedere accoccolato al muro di

fondo. Si alza in piedi. Sembra un’altra persona. La sua schiena tocca la terra

rossa del fondo. Una terza mano che sorge dal telone si insinua tra il suo fianco e

il gomito ripiegato del lato sinistro. Quella lunga mano che ricorda quella dello

scienziato del primo atto si appoggia su Caino e gli disegna un cerchio nero sulla

pancia. Caino non si accorge di nulla. Lui invece viene attratto dalla sinistra del

boccascena e punta il braccio verso quella parte. Solleva dalla polvere rossa quello

che lo aveva attratto: le uova. Forse sono le uova dei cani, unici viventi intorno a

lui. Le infila nel calzino. Quasi a voler portare a compimento la generazione. Poi

ha un’altra sconcertante scoperta: la consapevolezza. Viene attratto da qualcosa

che poi scopre: siamo “noi”, il pubblico. Guarda verso di noi con la mano sulla

fronte come a focalizzare. Mentre lui ci osserva, e noi siamo stati scoperti nel

nostro esercizio più vergognoso una piccola luce sul fondo fa intravvedere una

figura femminile che conosciamo: Eva.

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Angelo Nero: dal fondo emerge. Raccoglie la zampa e la porta vicino al corpo di

Caino perché deve permearlo con la sua radiazione. Getta così la zampa vicino a

Caino e poi sparisce nel buio.

Scena III: Amen

Eva: guarda il figlio, anche da dietro. Poi prende una corona d’oro da re che aveva

sul ventre e la alza ad altezza di una testa davanti a lei che non ancora non c’è.

Non guarda il figlio ma è chiaro che quella corona spetta a lui. Resterà tutto il

tempo sul fondo a guardare Caino e le sue azioni.

Caino: vorrebbe nascondersi e prende dai ciottoli un disco nero che maschera una

fetta della visione. Ora non vuole più farsi vedere nelle azioni che ora sente

capitali per la propria esistenza e di cui coglie la minaccia del loro divenire

leggenda. Non vuole essere visto perché non vuole essere il primo uomo reale. E

il disco nero rende ancora più tragico il suo nascondersi. E lega così la caviglia al

fratello con un cordino bianco e fa scorrere l’altro capo all’interno di un’asola

saldata alla sommità del cerchio di ferro, lo scuote come per farlo muovere, come

si fa con i burattini. Caino tira il cordino fino allo sfinimento delle forze. Si rende

conto che è tutto inutile, che non può tornare indietro, per fermare e negare l’atto

che già ha compiuto. È stremato. Osserva la scena ansimando. Dopo aver visto la

madre per la prima volta va verso di lei, si inginocchia perché ha capito la sua

intenzione e si inginocchia di fronte il solo seno della madre. Caino accetta la

corona regale dalla madre. Alza la mano destra come singolo del potere (ricorda il

Platone dipinto da Raffaello nelle Stanze). Avanza verso la parte della scena dove

aveva accarezzato il nastro magnetico. Qui non riesce a mantenere il braccio in

alto che gli crolla sul petto. Dopo un po’ di tentativi va a nascondersi di nuovo

dietro il disco nero/occhio. Si vedono solo le sue gambe. Comincia a girare su se

stesso. Poi dopo che viene raggiunto dal fratello lascia il disco, che sale in soffitta

e si stende nel posto dov’era giaciuto il fratello. Respiro tellurico del pavimento

come per Eva precedentemente. Fine.

Abele: era sempre stato al centro della scena come cadavere. Dopo che il fratello

incoronato dalla madre va dietro il disco nero, lo raggiunge come niente fosse

successo e gira anche lui assieme al fratello stesso. Poi raggiunge la madre ed

entrambi assistono a quello che fa il fratello/figlio.

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Attorialità e animalità Gli “attori” e gli animali, vivi (Atto III) e morti nelle teche (Atto I), sono i

protagonisti di Genesi: “l’animale come simbolo chiaro che guida l’attore” verso

una “presenza oggettiva e imprevedibile” [Paternoster, 2000, p. 101]. Non c’è

alcuna differenza tra l’umano e l’animale sulla

scena della Socìetas. Così come i cani (Atto III),

anche le altre figure attoriali sono già “pronte” e

“perfette”. Castellucci crede che ogni corpo esprima

qualcosa, e tende così alla scelta di una certa

persona piuttosto che un’altra in base a

caratteristiche fisiche/espressive che risultano più

importanti della sua stessa professionalità. Esempi eloquenti sono la scelta di

“presenze oggettive” come un contorsionista per interpretare Adamo (Atto I) o

anche di un uomo con un braccio più corto

che interpreta Caino come a celebrare il

perdono per il fratricidio di cui si è macchiato

proprio perché l’ha compiuto con il suo

braccio bambino (Atto III). Ma se le sue

figure, non riescono a raggiungere

quell’animalità, sinonimo di oggettività, quale può essere il rischio? Che si resti

semplicemente sulla soglia dell’esteriorità fisica? E quindi ci si fermi solo a

determinate persone che per le loro fattezze sono autosignificanti? E il lavoro

dell’attore? Il risultato è la paralisi dell’attore che fa pendant con la paralisi degli

animali imprigionati nelle teche (Atto I): gli animali, quelli, imbalsamati, si

muovono azionati da congegni, compiendo delle azioni meccaniche (un cane si

masturba, due pecore simulano un atto sessuale) che riportano attraverso la

reiterazione convulsiva all’azione teatrale ritualizzata. Qui subentra il

masochismo/SADISMO di Romeo Castellucci che costringe le sue figure a un

disagio forzato sulla scena per cui gli stessi animali “morti”, ridotti a manichini

pelosi che meccanizzati risultano l’esempio di un’“agire” studiatissimo e pertanto

formalmente perfetto. L’unica figura per la quale si può fare un distinguo è

l’“attrice” che interpreta Eva, che esteriormente ricorda “Eva di Masaccio” ed

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espressivamente l’“urlo di Munch”, che segue un percorso attoriale “classico”

infatti, oltre a una fisicità offesa, presenta anche un alito di vita, un agire sostenuto

da un’intenzione profonda. Eva è vecchia e calva, mastectomizzata, ovvero ha una

sola mammella: il suo passaggio, associato a un respiro lacerante, appare come un

percorso di dolore insopportabile.

Ma pur essendo l’unica opera della raccolta Epopea, in cui si parla di

personaggi e non di persone, non si può concordare con tale affermazione di

Romeo Castellucci, infatti non basta. Anche perché il risultato che raggiunge si

avvicina alle figure di Pippo Delbono, e se anche hanno una fisicità possente, non

hanno però la pienezza che invece aveva avuto Paolo Tonti/Amleto.

Voci “aeree” per un teatro senza dialettica Non ci sono dialoghi giocati: il teatro della Socìetas si riconferma ancora una

volta come il teatro dell’incomunicabilità, dell’autoreferenzialità, della solitudine,

soprattutto linguistica, del solipsimo: e non ci sono neppure monologhi, bensì a

solo. Emblematico l’a solo iniziale: nell’Atto I: In principio (Berêsit), Lucifero

recita i versetti iniziali della Bibbia con tono kaddish (lamentazione funebre

ebraica) ma si avvale anche di un’altra tecnica liturgica, la “cantillazione” che

consiste in un’accentuazione melodica del ritornello. Dallo studio del

copione/partitura si evince che il testo in ebraico è trascritto nell’ebraico parlato:

attenzione quindi più alle sonorità che al significato. Qui avviene una forma di

smembramento tra significato e significante: non è fondamentale quello che si

dice ma come si dice, insomma ritorna “vivo” il discorso tanto battuto dagli inizi

del Novecento in poi sulla negazione della letterarietà del teatro, sull’importanza

peculiare insita nel teatro stesso di fare teatro e non di dire teatro, e se proprio si

deve accettare una qualsiasi forma di dire si tende allo svisceramento letterale.

Ecco perché le parole vengono vivisezionate, urlate, strappate dall’apparato

fonatorio, per restituire loro una necessità profonda originaria di vita. E si giunge

a un altro eccesso, in questo spettacolo in particolare, ovvero alla de-

sillabizzazione nella de-desillabizzazione: pause lunghissime non tra una parola e

l’altra, bensì tra un fonema e l’altro, quasi a voler confermare una volontà

profonda di tornare a un’ origine, strutturale oltre che tematica. E se in Orestea le

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voci erano accolte come qualcosa di esterno alle varie figure, qui sembra avvenga

l’effetto contrario, cioè le voci sembrano abbandonare i corpi. Risultano pertanto

voci prive di corpo, appunto. Ma la voce priva di corpo per eccellenza è la

censurata voce (fuori scena) di Antonin Artaud registrata per la radio francese.4

Con questa perfomance, la Socìetas realizza appieno una delle sue necessità

profonde, cioè “uscire dalla sfera linguistica”

[Castellucci C., Castellucci R., Guidi C., 2001, p. 271].

È una registrazione che sta molto a cuore a Romeo

Castellucci: sceglie non a caso in uno spettacolo

sull’origine dell’UOMO,

dell’UOMO/CORPO/MATERIA un teatrante

visionario, profetico: quasi come se volesse cambiare il

destino “deviato di un’assenza”, di “un grido strozzato sulla carta bollata della

norma” a cui era stata costretta questa “voce” scomoda. Ma se per Artaud

significò “sperimentazione”, come hanno fatto notare Gilles Deleuze e Felix

Guatteri, dalla forte radice biologica e politica, tendente alla creazione di un

“linguaggio comune”, corporeo e vocale (grazie all’uso dello “xilofonie”), “un

linguaggio che qualsiasi cantoniere o manovale avrebbe compreso, attraverso il

quale trasmettere le più alte verità metafisiche” [Dotti, 2001, pp. 9-10]. Per

Castellucci invece significò realizzare appieno quella che lui stesso ha definito “la

parola come caduta” [Castellucci C., Castellucci R., Guidi C., 2001, p. 273],

insomma “usare” il progetto vocale/radiofonico di un uomo come Artaud per

celebrare sia l’assenza/pregnanza della parola, sia la vaporizzazione della voce

accompagnata da un bellissimo effetto visivo: i bambini in movimento che, nel II

Atto (Auschwitz) sembrano carte veline, suggeriscono la stessa inconsistenza di

quelle voci, che però emozionano.

Non c’è alcun rapporto interpersonale a buon fine: nel III Atto (Abele e

Caino), Caino che strozza Abele o quando Caino cerca un contatto con il fratello

4 La trasmissione fu registrata tra il 22 e il 29 novembre 1947 per la radio francese. Oltre alla voce di Artaud anche quelle di Maria Casarès, Roger Blin e Paule Thévenin. Furono utilizzati strumenti come xilofoni, gong, percussioni, timpani. Nonostante il parere favorevole di quaranta intellettuali riuniti per l’occasione, il direttore generale Wladimir Porché , bloccò alla vigilia la trasmissione [Dotti M., 2001, p. 9-10].

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ma solo dopo che è morto. O quando Eva dà la corona a Caino: forse è l’unico

momento di contatto condiviso, che presuppone una certa comunanza tra la madre

e il figlio, entrambi macchiati di peccato.

Da notare la propensione dei Sanzio, ma anche di Pippo Delbono, al Track to

writing: ogni loro opera è sempre il frutto di un cocktail di altre opere teatrali e

non, che risultano ad un primo colpo d’occhio assolutamente disparate

(nell’Orestea, l’Orestea di Eschilo e Alice di…), oppure nell’Amleto l’Amleto di

Shakespeare e La fortezza vuota di Bettelheim e in Genesi passi tratti dalla Bibbia,

testi di Artaud). Non risultano mai elementi giustapposti, anzi, trovano sempre

con lo svolgimento degli spettacoli una loro coerenza, concettuale innanzitutto.

Sono i tasselli di un progetto intellettuale forte che, forte di questa sua forza,

lavora poi su tutti i sensi dello spettatore che è chiamato a immolare se stesso

come le figure stesse durante la performance: gli si richiede grande generosità

ripagata con uno shock dell’emozione.

Lo spazio “narrativo” Per quanto riguarda la scena della Genesi Castellucci parla di “macchina […]

molto simile ad un organismo vivente”, e questa volta crea una vera e propria

macchina autosufficiente [Paternoster, 2000, p 112]. In effetti se nell’Orestea, lo

spazio era abitato da esseri, vivi o morti poco importa, ma “animati” che davano

“corpo” alla scena. Qui invece si va ancora oltre, ovvero è la scena che diventa un

motore monolitico. Una scena dal respiro tellurico che si realizza visivamente, e

non solo metaforicamente, quando Eva si accuccia pian piano sino a mettersi

prona come qualcuno che non ce la fa ad andare oltre, e sotto di lei il pavimento

comincia a muoversi e diventa un tutt’uno con il respiro di lei (Atto I, Scena VI,

Eva). O quando anche la sedia neoclassica sulla quale sono seduti i bambini,

nell’Atto II, comincia a tremare. E identico movimento avviene nel finale (Atto III,

Scena III, Amen) quando Caino si stende nel posto dov’era giaciuto il fratello.

Dunque lo spazio ha un senso fortemente “narrativo”, anche se risulta improprio

l’uso di questo termine nel teatro della Socìetas, infatti nella performance si pone

a mo’ di museo/deposito che conserva tutte le creature e le mantiene il più

possibile lontane dalla vita scenica, o sarebbe più corretto dire dall’azione. Uno

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spazio che attraverso una serie di tulle, dal nero degli Atti I e III a quello bianco

del II, lungo tutto il boccascena che divide la sala dal palco, portano in una

dimensione di rarefazione onirica tendente all’inconsistente, quasi che la materia

fosse scarnificata del suo peso e perdesse quindi consistenza. Non perde invece forza, sulla scia del braccio meccanico di Oreste

nell’Orestea, un grande braccio di bronzo (e una grande mano da gigante) che sul

pavimento ritratto nell’azione dello scrivere si muove e, dato che la penna è

anch’essa di bronzo, incide il pavimento: in entrambi i casi sempre di destino che

sentenzia si tratta, ma se nel primo caso il braccio discende dall’alto come

funzione dell’irreparabile destino umano, nel secondo invece la mano meccanica

si trova in terra e tende a segnare l’inizio di una Storia, sporcata da peccati

reiterati, da quello di Adamo ed Eva a quello di Caino.

Non c’è traccia alcuna di natura, semmai della sua traslazione o

simbolizzazione in almeno due filoni: il variegato mondo animale morto (Atto I) e

il mondo animale dei cani vivi (Atto III). Il concetto di natura è sempre giocato tra

i due grandi temi del fare teatro, ovvero la vita e la morte, tra l’essere e il non-

essere. Infatti il fare teatro nasce proprio da un’esigenza di non rassegnarsi alla

morte, o sarebbe più corretto alle morti. Attraverso quindi questi animali

“incorniciati” nelle teche come nel museo della rivitalizzazione: un museo questo

che vuole dare ancora un respiro alle forme morte imbalsamate. Di fatti

l’imbalsamazione è la tecnica per “liofilizzare” la vita, per fermarla, per

mantenerla ancora tiepida, e si ottiene pertanto un’apparenza di vita negli animali

imbalsamati nelle varie teche dislocate nello spazio, dal pastore tedesco che si

masturba ossessivamente, al paio di ali di un grosso uccello che sbattono tra loro

come se volessero volare ma il corpo non c’è, alle due pecore che riproducono

meccanicamente un atto sessuale, all’infinito, al coccodrillo gemellato con la

figura di Eva. L’unico paesaggio visibile agli occhi dello spettatore è presentato

sempre in frammenti (le teche con animali imbalsamati, morti ma in movimento)

aiutati nel farsi vedere dalle luci che anche in questo spettacolo come nell’Orestea

hanno una funzione documentaria/disvelatrice. Protagonisti sono gli animali,

appunto, ma animali morti attraverso i quali Castellucci ha voluto riprendere un

discorso a lui molto caro, ovvero dell’animalità come radice propria dello

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spettacolo, alla base del pre-tragico. E quindi proseguire a rifondare il suo teatro a

partire proprio dalla “preistoria” della performance stessa, quasi a negare secoli di

teatro.

Restano comunque residui di umanità ma mutilata: è il caso di Adamo costretto

a movimenti contorsionistici in una teca che lo contiene appena ed Eva,

mastectomizzata, che combatte per mantenere un alito di vita che si confonderà,

come si diceva prima, con il respiro affannoso del pavimento. E ancora polmoni

umani che scendono dal soffitto e si fermano a mezz’aria, un fegato e un cuore

umani che invece scendono fino al pavimento: organi che forse appartengono a

un’umanità senza vita, senza corpi. Tutto ciò avviene in un passaggio coloristico

canonico per gli spettacoli della Sanzio, infatti dal buio atmosferico dei tulle neri e

grigi (Atto I) si passa alla luce lattiginosa/spermatica (Atto II) ottenuta da veli

semitrasparenti che cadono in volute dall’alto per finire con il colore dominante

dell’Atto III, il rosso, dove tutto è infuocato. Rosso come il crimine che fa iniziare

la Storia dell’Umanità.

Infine, lo sfondo è inanimato e viene utilizzato due o tre volte come confine,

come punto di margine, di osservazione delle figure stesse: nel finale, sia Eva sia

Abele sostano sullo sfondo come “attori” e non più come “personaggi”, nel senso

che restano lì fermi a guardare cosa succede in scena, da spettatori defilati.

Deframmentizzazioni sonore Mai come in questa performance il rumore è in linea con il suo tema: il rumore,

caotico, come “l’inizio del tutto”, si manifesta a inizio spettacolo con la variazione

attraverso una dissolvenza incrociata che fa succedere al brusìo di pubblico

registrato un brusìo da mercato [Castellucci C., Castellucci R., Guidi C., 2001, p.

262]. A parte la musica di Scott Gibbons e il sonoro polveroso di un ritornello di

una vecchia canzonetta spiritosa che va a spegnersi nel fruscio (Atto I), la musica

leggera degli anni quaranta che sembra provenire da un’altra stanza e una musica

dolce sempre anni quaranta (Atto II) e il coro di Górecki (Atto III), non ci sono

altri suoni che possano essere annoverati come musicali.

Anche per quanto concerne i suoni e i rumori, si tende ad una segmentazione,

che se con le parole si porta fino alla loro scarnificazione in fonemi, per i suoni

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invece in note, fino a riportarle all’origine. È un processo che avviene per

sottrazione, portato ai minimi termini: il risultato è proteso verso il dentro delle

cose, verso le “viscere”.

Non mancano voci umane, sebbene sempre registrate, come nel caso delle urla

di dolore di Lucifero che diventano il suono di una chitarra elettrica o il respiro

affannoso e doloroso di una donna, associato ad Eva (Atto I). Evocativa la voce

registrata di Antonin Artaud e il suo successivo lacerante grido accompagnato da

percussioni selvagge che insieme al respiro dei bambini e i vagiti e il singhiozzo

di neonato (associato alla morte di Abele) vanno a comporre, tra i tanti, la parte

sonora dell’Atto II, e trovano picchi grevi nei rutti autoprocurati dal Cappellaio

Matto. Sempre rumori umani ma tendenti al riprodurre un animale, il maiale, sono

quelli prodotti da Caino che vengono a essere soppiantati dal coro finale di voci

soavi che ripetono Amen, ripetutamente (Atto III).

Pochi i rumori metallici, tantissimi nell’Orestea, immancabili, come i rumori

di disturbi elettromagnetici ed elettrici, o il suono violento di interferenza radio, o

i più fastidiosi rumori di compressione, di sbuffi d’aria compressa fino al fischio

stridulo di un treno. O ancora i rumori legati alle registrazioni, dal messaggio

proveniente da una bobina a nastro, al rumore trascinato proveniente dalle bobine

stesse, per finire al rumore meccanico di registrazione su nastro magnetico. Ma in

tutti questi ultimi casi, in coerenza con il “linguaggio” pre-linguistico della

Genesi, si tende a svelare le componenti essenziali e smembrate, ma

imprescindibili della composizione linguistica stessa.

Menzione a parte meritano i rumori degli animali: in particolare il guaito di

cani che, nell’Atto III, ha la funzione di “doppiare” i cani veramente presenti in

scena che gironzolano liberamente, tra i corpi dei due fratelli, Caino e Abele.

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Recensioni «Le origini dell’Uomo fra Dio e il suo doppio» di Franco Quadri (la Repubblica, 08/06/1999) “Dopo Eschilo e Shakespeare, stavolta l’autore è Dio. Ma, data la maturità raggiunta da Romeo Castellucci e dalla Socìetas Raffaello Sanzio, affrontando gli abissi teatrali della sofferenza umana, non si può non accusare di superbia provocatoria questi incontri con la Genesi allo scoccare del terzo millennio. […] Prima di tutto perché questa Genesi (sottotitolo: “Dal museo del sonno”) gli interrogativi e i problemi dell’origine, immersi nell’assoluto dalle immagini visionarie e dal gioco di sonorità e di disarmonie che limitano al massimo l’uso della parola, li vive con la consapevolezza contemporanea e sincera con cui si accosta al mistero. Non si vuole mettere in scena un’azione ma introdurci alla visita di un museo di reperti, preceduti dagli applausi sarcastici di un cadaverino robotizzato. Il primo brano della Bibbia, dedicato ai sette giorni della creazione, viene pronunciato in ebraico. Ma a dirlo è un professore ai margini del laboratorio in cui Madame Curie scopriva il radio, sostanza che emana luce, avviando la rivoluzione della fisica in questo secolo. Il personaggio, che ha il fisico ascetico e incavato di Franco Pistoni, è Lucifero, portatore come dice il suo nome di luce qui è un dolente interprete della condanna a incarnare il male […] Anche più in alto trova il proprio modello il tormento del regista che deve creare questa Creazione, in nome di un’arte dell’imitazione, soggetta a simbologie a volte non limpidissime. Un gigante nero e nudo, che vediamo per lo più di spalle (Lamine N’Diaye) è l’immagine di Dio che esce dalle tenebre, fiammeggia ammonitrice la spada di Gabriele, i contenitori di acqua in ebollizione ci propongono i progressi della scienza, mentre in una teca laboratoriale appare Adamo, ed Eva, esce dalla propria teca e si abbandona sul morbido letto dell’Eden... […] Il secondo tempo, tutto bianco, come nell’Orestea, di veli, costumi e fiocchi di neve e popolato solo di bambini (i sei figli del regista-scenografo) che vagano e giocano sulle orme di Alice, si intitola infatti ad Auschwitz, che della Genesi è il negativo punto di arrivo. E che usò prima di tutto cavie infantili. Fa da spia gracidante a questa ambientazione la voce dell’ultima apparizione pubblica di Artuad, che racconta le vessazioni subite dal proprio corpo in manicomio; e poi ecco un’improvvisa pioggia che insanguina le schiene dei bambini, e il calare dall’alto di facsimili di organi umani, nel tornare del sensurround e dei lamenti. Auschwitz è l’altra faccia di Dio, quella dell’assenza e della negatività affibbiata in carico a due vittime, il Lucifero che abbiamo visto e Caino, protagonista della terza parte. Il primo omicida della storia è lì a guardare il fratello che gioca e lo vediamo manifestare per lui il proprio affetto con uno slancio esagerato stringendolo col braccio della mano ritorta fino a farlo cadere; segue allora il tentativo di svegliarlo in tutti i modi, gli si stende sopra, gli apre le braccia a croce e poi esplode lo stupore, la rabbia, la vergogna, anche se la madre lo premierà con la corona del potere. Non gli resterà infine che sdragliarsi al posto del cadavere del fratello dove Eva nel primo atto si era abbandonata alla natura. Un pezzo memorabile per la sua forza e per la pietà verso l’uomo che chiude degnamente questa grande prova espressiva da elogiare in blocco, dal cast alla cura formale, al collage sonoro [...].” «Lucifero, in arte Blade Runner» di Franco Cordelli (Corriere della sera, 16/06/1999) [...] Il problema di tutte le arti della visione è produrre un’immagine nuova (un po’ meno il cinema, che di queste arti è la più narrativa e ha quindi altri problemi). Il nostro teatro sembra essersi arreso alla letteratura o, se si vuole, agli attori. Castellucci non solo non si è arreso ma, rispetto ai suoi colleghi, è all’avanguardia. […] Il primo è intitolato «At de beginning» ed è diviso in varie fasi: dall’apparizione di Lucifero nel laboratorio di Madame Curie alla nascita di Adamo ed Eva. L’impressione globale è quella di una fucina, di una tragica baldoria, di un caos turpe e solenne. C’è qualcosa di «Odissea 2001» e qualcosa di «Blade Runner»: ma questo lo dico solo per appoggiarmi a una stampella. Vi è una colonna sonora possente, con stridori di officina e, in lontananza, rumori di strada, un tumulto di voci; e vi è, lancinante, la nascita di un’Eva rubensiana (da una teca) che si rivela donna nei fianchi opulenti e amazzone in quel seno perduto: un’immagine che non dimenticheremo. Il secondo atto è intitolato «Auschwitz» ed è un sogno bianco, una nursery metafisica, cullata da una musica celeste e invasa da macchine celibi, o surreali, o patafisiche. Vi si muovono sei bambini, dai tre agli otto anni. Due flebo riempieno di sangue una croce (greca), un trenino-giocattolo corre impazzito, un braccio meccanico scatta (più tardi applaudirà), dall’alto calano gli organi separati di un corpo umano non-umano, all’improvviso tutto urla, tutti fuggono, scoppia l’orrore. Il terzo atto è «Abel and Cain». Si svolge in una specie di grotta di Lascaux, vi vagano due cani, vi entrano due uomini seminudi, un cerchio di ferro cade dall’alto, Abele lo impugna e lo fa oscillare. É l’uomo che scopre il mondo e pensa di

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governarlo. Poi Caino, che ha un braccio mal formato, proprio con quel braccio strozza Abele. Se ne dispererà troppo tardi. Egli resta solo, con i cani: sommerso da un frastuono di canti arcaici che precipitano in suoni inarticolati, macchine che friggono. Il procedimento compositivo di Castellucci è chiaro (lo è da molto tempo). É il procedimento dell’avanguardia: antifrastico, per sintesi vertiginose e spostamenti inconcepibili. Ma l’effetto che produce non è il mero stupore. Ormai non siamo di fronte a una maturità dolente e a una complessa e catartica capacità di visione: senza riscontro altrove, né in Italia né fuori d’Italia.” «Una “Genesi” oscura» di Antonio Audino (Il Sole 24 ore, 09/01/2000) “É certo un’operazione complessa e affascinante quella tentata dalla Societas Raffaello Sanzio con quest’ultimo spettacolo Genesi. E davvero l’azione scenica costruisce una cosmogonia di immagini, simboli, metafore di grande complessità. La compagnia ormai apprezzata in tutto il mondo come uno dei vertici più avanzati della ricerca teatrale usa il palcoscenico come un luogo di creazione pura, uno spazio dove si fa concreta un’immagineria fantastica, dove la scena si dispone come un vero e proprio luogo della creazione. Dunque appare interessante e curioso un ragionamento sull’origine del mondo attuato attraverso gli strumenti della creatività teatrale, in questo caso attraverso l’illimitata visionarietà scenica di Romeo e Claudia Castellucci e di Chiara Guidi che campeggiano la formazione. Divisa in tre tempi di un’ora ciascuno la rappresentazione si apre nello studio dei coniugi Curie alle prese con la scoperta del radio, una nuova luce, e una vera genesi per la scienza moderna, ma nello spazio nero della scena, cosmo ancora informe, appaiono figure inquietanti. Si sa che questa compagnia pone al centro del suo lavoro proprio l’uso del corpo, spesso deforme, mutilato, o comunque irregolare, insomma un corpo vistosamente percepibile nella sua fisicità, facendo entrare questo elemento nella sintassi della scena. Dunque Adamo è un contorsionista che piega e annoda i suoi arti in maniera inverosimile, davvero come un corpo che si fa o che studia le sue possibilità, ancora plasmabile e articolabile. Ma Eva è invece un fisico fatto e mutilato di un seno, mentre un potente Dio nero appare di spalle e Lucifero, scarnificato e nudo, attraversa due strette sbarre, segnando così la sua nascita e la sua caduta. Ma questo spettacolo rappresenta anche una progressione, lascia intendere i nuovi indirizzi della ricerca della Societas. Così ci appare il secondo quadro intitolato Auschwitz, pensando al campo di concentramento come a un punto zero della creazione, negazione assoluta dell’essere umano, morte e distruzione, orchestrata da un delirio di potenza divina. Una stanza bianca con bambini vestiti di bianco e con una tranquillizzante colonna sonora di canzoni anni Trenta, provenienti come da una radio lontana. La raffinatezza dell’impianto visivo e la cupa inquietudine dell’immagini si scontrano però con una forzatura ermetica, con un accumulo di segni non percepibili, con rimandi carichi di relazioni per i creatori dello spettacolo ma che per lo spettatore rimangono soltanto come segni di un estenuato estetismo. Così è per le citazioni da Alice nel paese delle meraviglie o per la voce di Artuad che dovrebbe fornire il senso del quadro. Così come nel recente “Concerto” tratto da Viaggio al termine della notte di Celine, appare la tentazione di non tener presente una sia pur minima leggibilità del senso, contando solo su una trasmissione intuitiva, cercando una concentrazione sintetica in un suono o in un’immagine. Forse la vera forza della creatività di questo gruppo è invece nello stabilire una dimensione estetica di potente impatto visivo, ma dove appaiono evidenti e immediate le intenzioni e i significati, seppur circondati da un più ombrato alone di inquietudine. Così è per il terzo quadro in rosso, con quel Caino dal braccio deforme che strangola il fratello proprio con quell’arto irregolare e con un gesto che sembra fatto anche di affetto e di gioco.”

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CONVERSANDO CON ROMEO CASTELLUCCI

Chi sono le persone che stanno in scena? Si possono chiamare ancora attori?

O performer o attanti? O Figure?

Immagini. Immagini, direi. Immagini in mezzo ad altre immagini. Pulsazioni,

masse di energia, corpi in mezzo ad altri corpi. Forme a bassa definizione,

pressioni che si ergono in un avanzamento drammatico verso lo spettatore. Il

ruolo dell’attore è in un certo senso più complicato, non è più colui che deve farsi

carico del personaggio, ma dei personaggi e delle forze. Piuttosto, una figura

completamente allargata, con i confini che escono da ogni forma di

determinazione, necessità, intenzionalità. Gli attori non sono là per oggettivare

una figura, per giustificarla, ma risultano piuttosto come dei richiami.

Quindi dell’attore tradizionale non è rimasto nulla?

È rimasta sicuramente l’assioma, l’aspetto, la superficie. Ma questa superficie è

diventata enormemente più complicata, dal mio punto di vista: la superficie che

parla come un tutto-comunicabile, un puro-comunicabile potenziale; da un corpo

così com’è, di quello che è già. In questo caso, queste persone, questi attori,

salgono sul palcoscenico con il loro “soma-sema”: il loro aspetto, quanto

pesano, le loro esperienze di vita, che età hanno, il giro-vita, se hanno una

cicatrice oppure no, la loro capacità tecnica, il loro grado di stupore, il numero

di scarpe, se sono felici o depressi.

Cosa intende per capacità tecnica?

Sapere, per esempio, parlare ebraico o sapere danzare o cantare o stare

immobili, stare in equilibrio su un piede, dislocare le articolazioni, fare piangere

e piangere, essere buffi; non tutti sono capaci o se sono capaci ci sono delle

differenze e queste differenze fanno la differenza rispetto alla drammaturgia che,

in quel momento, risuona. In alcuni casi gli attori sono chiamati per come sono,

invocando la potenza della letteralità della forma che riposa in sé stessa. Per fare

un esempio pratico, quando ho messo in scena l’Orestea, Clitennestra, che

etimologicamente significa “la grande signora”, era interpretata da una donna di

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duecento chili; ecco, questo rapporto brutale, onesto e oggettivo intendo per

scelta letterale.

Quindi già dei corpi che “significano”?

Necessariamente. Ma cosa significano non sta a me deciderlo. Io avanzo dei

sospetti e delle ipotesi. Significano molto, troppo, eccedono il significato,

annullandolo.

Il primo dato per lei è quello?

Non per me, ma per lo spettatore: è la corteccia del cervello che, in prima

istanza, legge e riconosce, empatizza la forma, il bagliore di qualcuno che ci sta

davanti; tutto ciò appartiene alla nostra struttura sociale, alla parte che struttura

la nostra percezione dell’ambiente al minimo grado; come succede anche agli

animali che sono immediatamente in grado di capire se hanno davanti un

predatore o una preda in base al riconoscimento di corna, artigli, macchie sulla

pelliccia, etc.. etc…

Però non sono dei “tipi”, così mi è sembrato di leggere in qualche sua

intervista.

No per carità! Quelli sono i “personaggi”. La tipizzazione scade nella

bidimensionalità di un carattere privo di avanzamento drammatico, fissa una

cosa piuttosto che allargarla. Il tipo, inteso come personaggio, veicola al

sentimento. Il sentimento, in una sala di teatro, io non lo posso sopportare. È

sempre condiscendente e stereotipato. Chi rappresenta i sentimenti sulla scena

tradisce il peggiore dei difetti; l’ingenuità. Altra cosa sono le sensazioni e le

emozioni. Il teatro che mi interessa è un’epifania intima dello spettatore. Sapere

come un’immagine, un corpo, un suono, vengano letti, questo, potrei dire, non è

un mio problema.

Nei suoi spettacoli c’è sempre una scissione tra intenzione e azione.

Nell’Orestea, Pilade e Oreste, sono lo sdoppiamento tra le intenzioni (Pilade) e

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l’azione, sebbene coatta (Oreste). Si può parlare di scissione dei vari codici? E

ciò presuppone una perdita dell’io?

Direi che a questo punto si deve fare un piccolo discorso sul concetto del tragico,

della visione della Tragedia Attica; dove l’io esplode in continuazione; con il

movimento dell’esplosione occupa tutti gli angoli dello spazio. È un io pervasivo,

antibiografico e universale. L’attore, insieme agli altri elementi della scena,

produce l’onda emotiva dello spettacolo, frammentando il sè affinché queste

schegge possano raggiungere e penetrare il corpo dello spettatore in profondità.

Possiamo parlare di una crisi dell’io e di un sostanziale scisma del sé. Per la

verità, quando l’eroe tragico monta sul palcoscenico non sa chi è, non sa perché

è lì, non sa che tempo è, se è fuori o dentro dal tempo. Rosenzweig parla dell’arte

tragica come dell’arte della solitudine, della parola che “produce” silenzio e uno

spazio vuoto e che questa mancanza sostanziale è ciò che forma la città. Anche

Amleto non sa chi è, Oreste non sa chi è, sono esseri perduti, scissi, separati

dall’io. C’è la dimensione sostanziale della perdita. È una perdita ma, al tempo

stesso, suona come una affermazione. Oreste è come se venisse condotto a un

gesto che neppure sapeva esistesse: uccidere la madre. Gli viene suggerito, viene

condotto a un’azione fuori da lui.

Anche perché viene “soccorso” dal braccio meccanico…

Esatto. Indossa un’azione, come si indossa un costume. Questa, è evidente, è la

scena di una crisi. Il teatro tragico, che è la radice dell’arte occidentale, mostra

in continuazione questo scisma, che divide l’eroe da ciò che fa e da ciò che è, e lo

pone continuamente sul baratro del vuoto, della perdita; ma questo è il paradosso

tipico della tragedia, fa tutto il contrario perché ciò avvenga. Più si muove e più

parla più si inoltra in questa aporia dell’essere, che è la Bellezza Tragica per il

greco.

Quindi questa perdita dell’io è tipica del Teatro o è più legata ai giorni

nostri?

É legata anche ai giorni nostri, direi. La tragedia ha inventato tutto. Non c’è

niente di più forte della tragedia, è tutto lì. Anche il futuro.

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Grazie a Paolo Tonti/Amleto, che si presta con una generosità estrema, è

possibile studiare con accuratezza le varie sfere del lavoro dell’attore/Tonti,

ma anche dell’attore in generale, ovvero è come vedere scisse le varie fasi:

dall’intenzione al movimento, dal silenzio soffocato alla voce, dalla

sillabizzazione alla parola, dall’inazione ai raptus gestuali che restano

comunque azioni “abortite”. Si trova d’accordo sul fatto che risulta un lavoro

che nasce dal corpo e nel corpo si “abortisce”?

Si nasce dal corpo anche se il corpo di Amleto è in divenire un fantasma. Il

fantasma del padre gli appare in corpore, la cosa curiosa è che si chiama come

lui: Amleto. Dal quel momento in poi è un contagio contratto dallo spettro. A sua

volta Amleto comincia a comportarsi da fantasma, comincia ad assumere diverse

personalità. Abbiamo parlato del sé, che sembra all’opera più per la distruzione

che per la ricerca di una coerenza. La cosa strana, ancora una volta il paradosso

della tragedia, è che tutta questa distruzione è in realtà un’affermazione. Oreste e

Amleto nella distruzione sono persone che affermano nell’iperbole di un doppio

“no”; sono figure a venire. C’è un’affermazione, che non afferma niente di

visibile, non c’è niente da vedere in realtà, lavorano per produrre del vuoto. Sono

produttori di vuoto. Ma questo vuoto è un nuovissimo ambito di pensiero, di

collocazione di un nuovo sé. Probabilmente queste persone vogliono rinascere.

L’Amleto sarebbe stato un lavoro impossibile da fare con un’ altra persona che

non fosse stata Paolo Tonti; con lui ho fatto un lavoro profondo sulla forma e

sull’amnesia, durato alcuni mesi. Abbiamo provato delle cose che nascevano da

un’interpretazione scabrosamente letterale: per esempio, quando Fortebraccio

saluta il cadavere di Amleto, fa sparare dei colpi in aria a salve, come saluto

estremo alla nobiltà di spirito del principe; questi colpi a salve sono dispersi per

tutto lo spettacolo. I colpi di pistola sono colpi di pistola dall’inizio alla fine, è un

saluto continuo allo spirito di Amleto. Alcune scelte drammaturgiche

fondamentali sono state prese proprio a partire dai caratteri corporei di Paolo

Tonti e dalla concezione del tempo che era già contenuta nel suo modo di essere.

Ciascun attore vive il tempo in un certo modo e lo comunica sostanzialmente

attraverso i movimenti e le pause tra i gesti. È una cosa scontata ma bisogna

riuscire a vederla. E per me è stato straordinario scoprire come Paolo Tonti

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avesse questa capacità peculiare di far colare il tempo attraverso le membra, i

passi, la bocca aperta, il suo sentire il palcoscenico, lavorando sull’estensione

fino al punto di rottura: poteva tenere una scena sino a un punto esasperato di

rottura e soltanto lui lo poteva fare e lo rendeva possibile. Attraverso di lui la mia

biografia, in quanto spettatore, veniva assorbita.

Lei ha dichiarato che l’attore ha come “meta, irraggiungibile, la stupidità

animale”. Perché non ci riuscirebbe?

Perché se ci riuscisse cesserebbe di colpo di essere un attore. L’animalità è

sempre presente, l’animale è quello che è, non può che essere quello che è sempre

stato. È un dono chiuso nella perfezione della forma (un cavallo, un cane, un

caprone) ma aperto sul cancello che apre un passaggio sull’Olimpo degli dei. Il

corpo muto dell’animale rappresenta il sacrificio, nel contesto della tragedia

greca. Ma è un sacrificio che la tragedia ha sostituito in tronco con il dramma

mutacico dell’eroe. Gli dei sono tutti morti. Questa è la novità e, direi, la buona

notizia. L’animale è l’ombra, il sogno e la minaccia per l’attore. Gli dei sono

morti, gli animali da sacrificare sono scomparsi. Rimane la presenza dell’attore-

eroe, davanti al nulla.

Una presenza oggettiva?

Si una presenza oggettiva; riposa in se stesso. L’attore é un animale ma allo

stesso tempo è anche una macchina. È quello che è, con il suo corpo fisico, ma è

anche chiamato a una funzione come una macchina. In qualche modo fuoriesce

sia dal basso che dall’alto dalla rappresentazione dell’uomo. Questa tensione mi

interessa perché è presa tra la polarità di forme disumanizzate: si esce

dall’umano dal basso, verso il corpo esteso dell’animale, e dall’alto, verso la

macchina in quanto pura funzione. Soltanto facendo un passo fuori dall’umano si

può richiamarlo, o addirittura vederlo. Vederlo negli occhi, intendo. L’animale

non pensa ma è, la macchina non pensa ma fa.

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Come sempre il regista ha un piano, un’idea che realizza grazie anche alle

figure che richiamano le cose. Ma queste ultime che livello di autonomia

hanno?

Di autonomia l’attore ne ha poca (ma che senso ha la libertà a teatro?... ) o

meglio, deve continuamente combattere per ricavarsi un suo nuovo ambito di

azione; ma lo deve fare entro certi confini, entro certe leggi. L’attore deve essere

cattivo. La cattiveria di chi taglia, taglia per penetrare, per entrare. L’attore, in

questo senso, è l’invasore. L’attore ha dei limiti, ma questa è la sua possibilità;

come, se vogliamo, il pittore di icone che trovava la libertà esattamente nel rigore

del canone che doveva rispettare.

Quindi una struttura rigida che dà il testo, o nel suo caso la regia. Non è

cambiato nulla rispetto alla tradizione, solo è che nei suoi spettacoli anziché

di azioni si parla di movimenti. L’azione è completa se c’è un’intenzione e un

espletamento di quell’intenzione.

Sì è proprio così. In questo caso l’azione potrebbe togliere informazioni piuttosto

che darle. Potrebbe esserci anche questo tipo di strategia. Comporre uno

spettacolo non significa risolvere una cosa. Molto spesso, come si sa, succede il

contrario.

Questo va bene, se si intende il progetto complessivo dello spettacolo ma a

livello dell’individuo? Amleto manteneva una certa organicità. Oreste invece

sta lì, cammina, indossa “il braccio”, volendo scarnificare il discorso…

Sì, direi ridotto all’osso. Sembra quasi che Oreste sia chiamato solo per quello,

per indossare finalmente questo braccio (che era una sorta di manica meccanica

azionata da pistoni ad aria compressa ) che, tra le altre cose, avrebbe potuto

funzionare anche senza di lui. Ma nel caso di Oreste era il gesto (direi la storia

universale di quel gesto: una pugnalata ) a occupare e a abitare il suo corpo.

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Quindi Oreste diventa il mezzo?

In un certo senso si. Qui si ritorna alla stupidità della pure funzione della

macchina. È come se non ci fosse coscienza in quel gesto, né scelta. È una

macchina e allo stesso tempo l’artiglio di un predatore.

Se con l’Amleto si giunge al “superamento dell’attore” con Genesi al

superamento sia dell’attore che dell’umano a teatro. Che ne pensa?

Sì, per me si tratta esattamente di questo. Si tratta di tecnologie diverse, da una

parte la tecnologia del sé, dall’altra quella del “noi”. Una genesi che ci riguarda

tutti perché la Genesi è il libro per antonomasia. Nella Genesi l’uomo viene

creato dal nulla. La Genesi è composta da parole che hanno avuto il potere

fattuale di formare le cose. Nello spettacolo la parola che crea viene associata a

un’altra parola che ne significa il suo più estremo rovescio: “Auschwitz”. Sin

dalla creazione del mondo la parola Auschwitz era già lì, nel fango, accanto

all’uomo, dentro di lui.

Il fatto del superamento dell’umano è che comunque ci si arriva all’osso delle

azioni per cui non c’è bisogno di nessuna motivazione interna per fare i

movimenti.

Motivazione psicologica, intendi? In questo caso no. Gli attori di Genesi, sono

molti più vicini a un concetto di forme universali riconoscibili e che appartengono

a ciascuno di noi. Se, ancora una volta, Amleto poteva significare un viaggio

individuale di un certo eroe, in Genesi, invece, questo fatto è disperso in tutta

l’umanità. Ci sono delle icone riconoscibili: Adamo è un corpo confuso, che si

deve ancora inventare, che non si sa ancora che forma avrà e che è interpretato

da un contorsionista di professione; Eva, la madre asimmetrica, è interpretata da

una anziana attrice mastectomizzata; la rappresentazione umana di Dio è affidata

a un uomo di colore gigantesco e che dà sempre le spalle al pubblico; Caino,

Abele, gli angeli, ciascuno con la propria forma; i bambini nel campo di

concentramento. Sono figure che, al di là delle scelte di regia, appartengono a

tutti noi ancora prima di ogni possibile teatro. Non sono favole. Non sono

racconti. Sono immagini impresse nella coscienza di ciascun spettatore.

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Secondo Valentina Valentini nel teatro attuale non c’è monologo né dialoghi

ma a solo. Il monologo presuppone una sorta di relazione con il gruppo o con

i partner della scena, che nei suoi lavori non c’è quasi mai. Cosa distingue l’a

solo, secondo lei.

Il monologo ha ancora una struttura fortemente letteraria, molto legata alla

struttura narrativa e illustrativa. Nel monologo inevitabilmente si allude alla

presenza dell’autore, dello scrittore. È lui che parla in realtà. Noi dobbiamo solo

ascoltare e ricevere. Due posizioni. A e B. Un “solo”, un assolo, invece, può

esprimere una solitudine gigantesca. Penso agli assoli sfrenati di Carmelo Bene,

per fare un esempio a tutti noto. Carmelo Bene eccedeva il concetto di monologo

per via omeopatica. Era l’attore a occupare il posto dell’autore. Ragione per cui

Bene poteva recitare Manzoni, Dante o Shakespeare che rimaneva sempre e

comunque lui, l’attore. Ora, in questa epoca, il ruolo fondamentale ce l’ha lo

spettatore. L’attore può essere solo, nel suo assolo, davanti a un singolo gesto,

per esempio. Si può tacere e guardare lo spettatore e spezzare lo specchio del

teatro e non capire più che guarda e chi è guardato. Un assolo più difficilmente

può scadere in una lezione morale proprio perché condivide – o nasce da – la

stessa solitudine dello spettatore.

Lei fa di tutto per distruggere le parole, deformandole, invece assumono una

forza inusitata che si sostanzia proprio della loro stessa de-costruzione e de-

sillabizzazione. È il caso dell’a solo di Lucifero in Genesi.

Beh sì. Ma non voglio distruggere niente. Non è un modo automatico, ma avendo

io un grande rispetto per le parole e anche una grande paura, cerco di trattarle

come le bombe, con tutta la prudenza e la circospezione di un artificiere. Ciò che

rimane, che viene pronunciato è l’osso duro, il nucleo di quello che non si può

non dire in un’economia della sopravvivenza. Soltanto in questo modo le parole

possono avere potenza radiante, senza appartenere alla confezione del discorso

di un autore.

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Non sono legate al testo?

Non necessariamente perché le parole prima di tutto rappresentano la voce

annunciando il corpo.

Mi ricordo che, in Orestea, il ragazzo affetto da sindrome di down che

“interpreta” Agamennone esordisce con un “Romeo non si sente”…

Quella era una parte non voluta. Era una parte che egli stesso si era scritto. Era

un momento di assoluta monarchia-anarchia. Era perfetto!

Come nel caso di Lucifero… abbiamo parlato nell’Amleto di tempo dilatato e

questo vale anche per le parole?

Le parole sono le sopravvissute di un incendio. Devono arrivare da una regione

al calor bianco, più profonda. Hanno conseguenze. Non sono bocconi zuccherosi.

Non comunicano. Sono.

E se in Orestea le voci erano accolte come qualcosa di esterno alle varie

figure, in Genesi invece sembra avvenga l’effetto contrario, cioè le voci

sembrano abbandonare i corpi. Come ha lavorato con gli “attori”?

Nell’Orestea ho utilizzato alcune macchine per sintetizzare le voci. Le voci

vengono deformate proprio perché sono gli spiriti che parlano: la voce di Atena è

la sommatoria della voce di bambino, di una donna e di un vecchio. La voce del

Coniglio Corifeo è quella di un eunuco e quella di Clitennestra resa mascolina

con la correzione drastica del pitch. Il processo che seguo è il seguente: la voce si

stacca dal corpo per divenire corpo, massa.

Il suo teatro se fosse un corpo umano sarebbe senza pelle, un teatro rivoltato,

messo a fuoco dal suo “di dentro”.

È un’immagine icastica se non rimane solo un’immagine figurata. La sola volta

che mi è capitato di rappresentarla letteralmente lo è stata nel “Giulio Cesare”.

Un attore, attraverso una sonda endoscopica perlustrava in tempo reale

l’apparato fonatorio in piena funzione. Quella era la prima immagine che si

mostrava dello spettacolo: un attore visto da dentro, le sue mucose, l’origine

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della voce nelle corde vocali che vibravano sotto gli occhi di tutti. Un attore

rovesciato come un calzino. Vivente e operante.

E come se lei volesse far vedere non tanto il teatro ma quello che c’è dentro,

ovvero la sua struttura. Procedimento non nuovissimo ma interessante

perché ciò che lei vi aggiunge è il disvelamento della meccanica.

Struttura. La struttura è la parola fondamentale, la parola chiave. E come può

essere nuovissima visto che è antica come il linguaggio dell’uomo?

Quindi il suo teatro può essere definito strutturale o strutturalista?

Strutturalista. Si. Non ho paura di questa parola ora. Lo strutturalismo secondo

me è stato grande. Era uno studio coraggioso, onesto, artistico, perché ha

mostrato le menzogne necessarie del linguaggio e delle comunità umane

rendendole trasparenti e rivelandole in un’ulteriore struttura. Lo strutturalista

può leggere tutti i fenomeni attraverso un prisma di cristallo in grado di

moltiplicare le facce delle cose da intendere. Moltiplica all’infinito la superficie.

È anche teatro concettuale?

Sì, concettuale, ma non c’è bisogno di riconoscerlo.

Infatti non servono etichette però lei sceglie una particolare caratteristica di

un personaggio, per esempio Amleto, e poi attraverso quel concetto lo

materializza a livello corporeo, attraverso le figure, sulla scena.

È un lavoro classico, sul concetto di rappresentazione classica.

I rumori/suoni hanno una loro autonomia segnica tale da diventare a pieno

titolo elementi vivi della scena. E se tutti gli altri elementi hanno una loro vita

indotta, a cominciare dalle figure stesse, i suoni invece si presentano come

sintesi perfetta di idea e materia, perché non hanno fisicità visibile?

Non hanno fisicità visibile, ma i suoni modificano il voltaggio dell’aria,

promuovono una certa azione, la veicolano, la accordano, la preparano o

eventualmente la distruggono, come se il suono producesse l’azione. Sono i

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movimenti che producono il suono: è il caso in Orestea del braccio meccanico

che produce onde sonore dovute al movimento o della mano meccanica che in

Genesi scrivendo e incidendo il palco, produce rumori. E ho potuto “mettere in

scena” questi rumori grazie all’incontro con un grande artista: Scott Gibbons.

Lui parte da una tecnica della musica che non nasce dai sintetizzatori ma dai

microfoni; capta i fenomeni del mondo. Esterni e ambientali o da quelli

dell’interno, come il defluire del sangue, il rumore delle ossa, o i rumori di

un’autopsia. O le rocce, il fuoco, la carta, il metallo… Parte dalla sorgente del

suono. La radice di ogni suono è aderente alla materia. Sono onde sonore che

trovano dei punti comuni con la luce. Di può illuminare una cosa o un gesto con

un suono. Ma anche metterlo in ombra.

Poi c’è anche il fatto che il suono è sempre identico a se stesso per cui più

vicino all’universale…

Il suono è la via più breve per raggiungere una sensazione. Il suono è una cosa

oggettiva, persino apodittica nella sua mancanza di argomenti. C’è. Si manifesta.

Colpisce o sfiora. Entra e svuota prima di ogni barriera critica, prima di ogni

difesa. Il suono è cattivo.

Il suono può essere vero ma soprattutto reale…

Sì reale. È la parola più giusta.

I rumori assordanti devastano lo spettatore, “infatti qualcuno si allontana

dopo mezz’ora”, così racconta Manzella a proposito dell’Amleto.

Si, succedeva.

Ma il rumore è un fastidio che lei produce volutamente, contro le figure e

contro lo spettatore?

L’uso che faccio del rumore nei miei spettacoli non ha alcuna intenzione. Punto e

basta. In rapporto al suono si può cogliere tutta l’urgenza di un dramma in atto

senza neppure riuscire a vederlo, o a comprenderlo del tutto. È questo che

probabilmente può spaventare.

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Se si riferisce ad Amleto, come diceva prima, i suoni sono direttamente

suggeriti dal testo di Shakespeare ma in Genesi i rumori di aspirapolvere e di

elettrodomestici vari come li giustifica?

In quel caso sono le macchine reali che producono i rumori per quello che sono.

Sono pezzi di poesia, sono pezzi di fantasmi microfonati. Cosa ci vogliono dire?

Probabilmente alludono alla creazione come al tremendo sforzo muscolare di Dio

nella sua operazione macchinica. I rumori delle macchine registrano in

continuazione la spesa di energia, descrivendo la tautologia dell’operazione

disumana che stanno compiendo.

Le macchine, i suoni... tutti hanno pari vita, quindi l’umano ha una minima

parte?

È solo una parte. Le macchine producono rumore e nel loro furore

(le macchine sono, tout-court, tutte fredde e furiose, senza intervalli) si

rapportano metaforicamente alla presenza-assenza dell’uomo.

Questo è chiaro. Però è un disagio in più che si dà alle figure: già che il

contorsionista Adamo, in Genesi, o Cassandra, in Orestea, debbano stare

schiacciati in una teca.

Secondo me sono forme di disagio che corrispondono a una forma di vera

bellezza apodittica.

Lei parteggia per uno spettatore affetto da “apnea critica” (V. Valentini),

come per l’attore? Uno spettatore deve essere “punto” solo

“emozionalmente”?

Deve assentarsi, nel raccoglimento. È una forma di rapimento della

contemplazione. E cosa si contempla? Io credo che la rivelazione sia proprio

quella dello spettatore che si vede vedere. Strano, no? Vedersi le spalle e vedersi

davanti a quello spettacolo. Crearlo. Vedersi crearlo. L’arte di quest’epoca è la

creazione dello spettatore. Lo spettatore è dio che crea in una nuova luce

figurativa.

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Se non è più possibile il transfert psicologico tra spettatore e attore, che tipo

di fruizione immagina? Gli spettatori sono conigli impagliati?

Quella era un’immagine poetica degli spettatori nello spettacolo Br.#03. Ce

n’erano 650, grandi come persone e occupavano l’intera platea dei teatri in cui

dava quello spettacolo. No. Io credo nella potenza creatrice dello spettatore.

Direi che è la figura più nuova e straordinaria. L’ho detto, per me è dio. La sua

urgenza supera persino quella dell’artista che invece dovrebbe diventare

trasparente, anzi io la vedo come una forma di necessità: sparire nell’opera.

L’arte di quest’epoca è la creazione dello spettatore. Io credo in una certa forma

psicologica…o forse psichica…

Psicologia che appartiene solo alla vita e non alla scena?

Solo nella vita dello spettatore, certo! Che c’entra la mia psiche? A chi può

interessare? Quando parlo di psiche mi riferisco a quella del vero artista: lo

spettatore. Che è potentemente anonimo.

Comunque quando parlo di transfert mi riferisco al processo di

immedesimazione.

A me succede solo nel cinema o nei libri. Io credo nel transfert, nel senso che ci

casco dentro puntualmente se un film o un libro è ben fatto. E quando succede,

devo ammetterlo, è una bellissima sensazione liberatoria. Apprezzo anche il

lavoro dell’attore tradizionalista a teatro, ma solo da un punto di vista

storiografico, come vedere un bel quadro del passato. Il teatro di finzione

tradizionalista purtroppo mi risulta spesso come un tentativo maldestro e

abbastanza disperato di attirare la mia attenzione a tal punto che mi è totalmente

impossibile immedesimarmi. Per ora posso solo immaginare di andare al teatro

di finzione tradizionalista come si va in un museo, ma francamente qui ci posso

trovare Caravaggio… e questa è la ragione per cui mi capita di frequentare molto

di più i musei. Voglio dire, davanti a un Caravaggio avviene il transfert, come lo

chiama lei, con il personaggio dipinto o addirittura con il pittore. Sto lì, davanti a

un quadro e sono così sopraffatto e così senza parole, così spossato dalla bellezza

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e così stupido che sento di averlo fatto io. Lo so a memoria anche se lo vedo per

la prima volta. Nel nostro caso: transfert vuol forse dire essere registi dello

spettacolo. Troppo semplice?

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Compagnia Pippo Delbono

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IL SILENZIO (2000) di Pippo Delbono

Il silenzio partendo da un disastro naturale come il terremoto di Gibellina del

1968, Delbono riflette sui momenti in cui, come in quel caso, l’uomo si trova di

fronte ad un bilico dove stabilisce una forte e diretta relazione con la morte ma

anche al bisogno di sopravvivenza, di ricominciare. E tutto questo viene mostrato

attraverso immagini che suggeriscono sentimenti di paura ma anche di solidarietà,

di distruzione ma anche di speranza, di vecchiaia ma anche di giovinezza,

attraverso le parole di Ungaretti e le canzoni di Danio Manfredini, i brani musicali

composti insieme ai musicisti in scena, alcuni pezzi rielaborati e alcuni originali

di Kobaleswki, Chick Corea, Beethoven, Bartòk.

Gesti e azioni delle singole figure 1 I musicisti: rastrellano la sabbia e preparano ritualmente il luogo della scena.

1 La descrizione dei gesti e delle azioni delle singole figure sono il risultato di un attento e accurato studio che si è basato esclusivamente sul video dello spettacolo. Si è cercato altresì di scarnificare il più possibile i gesti, riducendoli il più delle volte a movimenti.

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Un uomo che legge: ha dei fogli in mano e legge il bollettino del terremoto di

Gibellina.

Un uomo in impermeabile: gira sulla scena vuota alla ricerca di gente e grida più

volte “C’è qualcuno?”. Poi esce di scena. Rientra dopo la “camminata” di Danio.

Recita muovendosi in circolo in scena. Poi si stende a terra a dormire. Si gira e

rigira. Si sveglia e comincia scena felliniana.

Prima Scena di gruppo: matrimonio/corteo. In fila a due a due, coppie a

braccetto. Le figure camminano con un ritmo ben scandito e all’unisono, come

soldatini ben addestrati. Si viene così a creare un girotondo. Diversi giri, da piano

a veloce. Il girotondo si rompe e le figure corrono all’impazzata in diverse parti

fino a uscire di scena.

Ragazzo claudicante: gioca a pallone nella scena vuota e silente. Ogni tanto si

ferma e guarda il pubblico e sorride. Poi sin ferma e chiama “Gianluca!”. Anche

lui dopo che Gianluca esce di scena cercandoloe si sentira’ a lungo che chiama

“Gianlucaaaaaa”.

Gianluca (ragazzo down): arriva e gioca a pallone con il Ragazzo Claudicante.

Poi va via perdendosi nella fessura/passaggio segreto che divide la scena.

Bobò (cerebroleso e sordomuto): fermo al centro della scena. “forse i musicisti?”

portano a vista due tavolini e sedie ecc… Si siede e una ragazza gli apparecchia il

tavolo. Quando finisce di mangiare alza la mano (ricorda il gesto dei

vecchietti/alunni de La classe Morta di Kantor, c’è la stessa richiesta di “aiuto”)

senza voltarsi e la Cameriera continua col servirlo. Ritorna, a parte che nelle

scene di gruppo, nella scena della Ragazza con la bottiglia. Ha un cappello e un

naso e trucco da clown. Le porta un elefantino pelouche e lo posa a fianco della

sedia dove lei è seduta. Quasi le vuole dare conforto. Le scioglie i capelli. La

pettina con le mani. Poi si mette sul lato di lei. E le gira intorno con movimenti

clowneschi. Fa diversi giri intorno alla Ragazza.

Ragazza/cameriera: alterna il servire il pasto a Bobò e sedersi e leggere una

rivista. Quando Bobò ha finito, lascia la scena. Quando Pippo e Bobò spariscono,

ritorna in scena e si risiede. Pensierosa. Il suo pensiero si materializza perché gli

appare l’innamorato e lei gli va incontro. Abbraccio. Indossa il giubbotto che lui

le regala. Poi la collana. Al rombo del terremoto, scappa con lui.

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Pippo Delbono: con i fogli in mano si va a sedere al posto della cameriera e legge

un testo di Beethoven. Sordità di Beethoven e di Bobò. Poi va da Bobò gli prende

la mano e anche loro spariscono nella fessura. Dopo la scena della coppia

“innamorata”, rumori di terremoto, Pippo entra in scena e “fa il terremoto”: butta

via le sedie i tavoli. Gira intorno in senso orario e antiorario e spossato, ansima e

poi legge “Sventura[…] ecco la fine arriva su di te…”. Poi danza sempre in

circolo con le mani che si aprono e chiudono verso l’alto. Porta in scena la Donna

con il passeggino e l’accompagna per sdraiarsi “come morta”. Poi va a prendere il

passeggino e lo scaraventa a terra. Poi sale sul pendio della scena e continua a

leggere. Poi riscende e… dopo che Il Ragazzo/Prostituta entra e si sistema, lui

gli/le gira intorno e con una pila le illumina il pube scoperto, il viso e tutto il resto

del corpo. Pippo continua a girare a vuoto sulla scena con la pila in mano. Poi

esce. Rientra quando Pepe ha finito la sua lettura su Mendoza. Va verso il gruppo

musicale e dà una rosa a Danio. Si gira intorno sulla scena. Quando comincia la

Scena felliniana, da come un forsennato istruzioni alle varie figure in scena e ai

gruppi di figure

Un ragazzo innamorato (della Cameriera): porta regali all’innamorata. Un

cappotto. Poi la collana. La prende in braccio e la fa ruotare. Poi si accovacciano a

terra. Al rombo del terremoto, scappano.

Donna con il passeggino: entra portata da Pippo e si sdraia a mo’ di morta per

terra. Resterà per terra fino alla lettura di Pepe Robledo.

Ragazzo/Prostituta: entra con valigia e si siede su una valigia che porta con sé. E’

nudo/a. Fuma. Poi lascia la scena.

Seconda scena di gruppo: scena del banchetto. Mentre Pippo ancora si gira

intorno sulla scena con la pila in mano, le figure si vanno a sedere ad un tavolo

lunghissimo, in penombra. Poi illuminati tutti all’unisono a mangiare. Tutti alzano

il cucchiaio con la mano destra. Suono di un campanellino. Bobò/sindaco? si alza

e “fa un discorso”: si tratta di un lamento senza parole, di un silenzio lamentoso.

Toccante. I commensali applaudono. Poi si sente altro campanellino e si alza

l’Uomo in divisa, anch’egli fa un discorso muto con un bicchiere in mano, aiutato

da una serie di gesti che ricordano il fascismo. Poi tutti a brindare, molto

lentamente bevono (altro riferimento kantoriano, Il grande brindisi). Si alzano e

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prendono cucchiaio e bicchiere e in fila ordinata spariscono nella fessura anche

loro. Resta solo l’Uomo in divisa, seduto.

Pepe Robledo: in piedi con petto nudo e alle sue spalle la Donna con la

carrozzina per terra e l’Uomo in divisa seduto. Poi si mette in gilet che portava

raccolto in mano e poi si mette seduto. Guarda lontano.

Danio Manfredini: riceve da Pippo una rosa e poi “cammina” a mo’ di danza.

Una camminata da sogno/incubo: sembra che cammina cammina ma va a rilento.

(nel frattempo viene portato via il tavolone della scena precedente).

Un uomo con bandiera: sbandiera mentre Danio “cammina” poi si perde nella

parte alta della scena.

Terza scena di gruppo: parade felliniana. Un clown che fa i numeri sulla sedia e

un giocoliere con le palle. Entra la Banda, Bambola umana. Le Majorettes, la

Madonna con i trampoli. Una vespa che porta un pupazzo. Tutti girano in cerchio

in senso antiorario.

Ragazza con la bottiglia: si gira anche lei intorno con la

bottiglia in mano e grida “Tutti stiamo morendo…”. E

beve e gira su se stessa. “Quando sei qui fai silenzio,

quando vai via di qui non fare silenzio”. Poi si siede. E si

accascia su di sé. Nonostante Bobò rimane impassibile e

dentro il suo dolore. Poi si alza e balla con Bobò. A

distanza si vede un’altra coppia che aveva però

cominciato a ballare prima di loro. Poi mano nella mano

spariscono anche loro inghiottiti dal buio.

Lo spazio sabbioso della declamazione e delle figurazioni Accanto all’ormai collaudato carrozzone dei suoi non attori, Pippo Delbono, per

questo spettacolo, sceglie di lavorare con Danio Manfredini, attore di professione

molto apprezzato, che però non vi lavora come attore bensì come voce cantante,

fuori scena. Tralasciando per adesso la figura di Manfredini, una netta differenza

c’è tra la funzione di Pippo e quella delle altre figure. Se Pippo è qui

performer/declamatore che legge su fogli stralci di testi di autori diversi, i suoi

non attori contemporaneamente danno “corpo” a scenette molto semplici che però,

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rispetto a Barboni, conquistano una loro autonomia di senso: in Barboni infatti

Pippo declama e le altre figure mimano e c’è quindi una certa coerenza tra le sue

parole e i movimenti di quest’ultimi, secondo i canoni propri della pantomima.

Ma la partecipazione di Pippo non si riduce solo alle sue letture, anzi risulta molto

più “efficace”, violenta quando è in scena fisicamente: quando “fa il terremoto”

che butta via le sedie e i tavoli, quando porta in scena la Donna con il passeggino

e l’accompagna per sdraiarsi “come morta” e va a prendere il passeggino e lo

scaraventa a terra, quando al Ragazzo/Prostituta gli/le gira intorno e con una pila

gli/le illumina il pube scoperto, il viso e tutto il resto del corpo. O quando, da

forsennato, va verso la banda musicale e dà istruzioni alle varie figure in scena e

ai gruppi di figure (Terza scena di gruppo: parade felliniana), qui Delbono appare

come un vero e proprio burattinaio che “comanda a bacchetta” le sue figurazioni

gridando a squarciagola.

In tutti i casi, né Pippo né le altre figure assurgono a personaggio, anzi sulla

scena mantengono le loro caratteristiche personali: Pippo fa sempre se stesso,

vestito come nella vita di tutti giorni, mentre le altre figure pur “travestendosi”

non vanno oltre il vestito che portano. Infatti prendendo a esempio Bobò, che

Delbono ha scelto come emblema del suo fare attoriale, nella scena con la

Ragazza/cameriera, sta seduto al tavolo e consuma il pasto, fuma e fa tutto da

automa; infatti si avverte come un vuoto abissale in quel corpo e in quella mente.

Bobò si muove, “fa”, assolve a dei compiti con spontanea meccanicità e

leggerezza, ma il risultato è comunque molto vicino alla sua disumanizzazione e

trova un corrispettivo nelle marionette. Dovrebbe far riflettere il vuoto che si

legge in Bobò: forse è ciò che fa si che Delbono ne parli come “attore” da

esempio? Ma può essere esemplare questo vuoto inconsapevole? L’attore,

semmai, non dovrebbe giungere a una condizione di vuoto interno, ma in maniera

assolutamente consapevole? O meglio a uno “sradicamento” del proprio io, ma

con una tecnica cosciente? Cosa significa quindi essere attore? Fare delle cose in

scena o come farle?

Le stesse figure nello spazio grandissimo del Cretto di Gibellina appaiono

piccolissime. Lo spazio sembra essere una lastra gelida sulla quale si andranno a

imprimere di volta in volta le varie storielline “raccontate” da Delbono e lì, i

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pochi oggetti utilizzati, una sedia, dei tavolini, delle panche, appaiono anche essi

come miniature. Si viene a creare un rapporto strano tra lo spazio scenico, le

figure che vi interagiscono e gli oggetti che vi sono contenuti, nel senso che sia le

figure sia gli oggetti sembrano essere i residui di una naturalità violata, forse dal

terremoto? La sensazione di fronte a una natura deserta dove l’unica possibilità di

esistenza è data dall’eco e dai resti di una storia sepolta.

Dalla coralità muta delle figure alla voce dell’assenza In questo spettacolo non c’è coro nel senso greco del termine, ma solo scene

corali. Figure che agiscono, o meglio “si muovono” insieme, in alcuni casi

all’unisono, nella Prima Scena di gruppo: Matrimonio/corteo (in fila a due a due,

coppie a braccetto, le figure camminano con un ritmo ben scandito e all’unisono,

come soldatini ben addestrati venendosi così a creare un girotondo) e nella

Seconda Scena di gruppo: Scena del Banchetto (le figure si vanno a sedere ad un

tavolo lunghissimo, in penombra). Poi illuminati tutti all’unisono mangiano: tutti

alzano il cucchiaio con la mano destra, tutti brindano e molto lentamente bevono -

riferimento kantoriano, Il grande brindisi - Si alzano e prendono cucchiaio e

bicchiere e in fila ordinata spariscono nella fessura), o invece pur occupando lo

stesso spazio scenico ogni figura o ogni gruppo di figure si muovono come

fossero parti a sé stanti, a esempio Terza Scena di gruppo: Scena felliniana (un

clown fa i numeri sulla sedia e un giocoliere con le palle, poi entra la banda, la

“bambola umana”, le majorettes, la Madonna con i trampoli e tutti girano in

cerchio in senso antiorario).

Non ci sono dialoghi “parlati”. Solo tentativi di contatto non sempre riusciti

come a esempio la scena del Ragazzo Claudicante che chiama il ragazzo affetto

da sindrome di down, Gianluca, il quale accorre gioca con lui a palla ma poi

sparisce. Si potrebbe dire che si tratta dello spettacolo dei contatti mancati, cercati

ma mai realizzati fino in fondo. Forse solo nel finale c’è una speranzosa

possibilità ma che verrà inghiottita nel buio pesto (del silenzio?) infatti nella scena

della Ragazza con la bottiglia e Bobò, la Ragazza con la bottiglia beve e gira su

se stessa gridando “Quando sei qui fai silenzio, quando vai via di qui non fare

silenzio”, poi si siede e si accascia su di sé e nonostante la presenza di Bobò

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rimane impassibile dentro il suo dolore. Poi si alza e balla con lui. Mano nella

mano spariscono inghiottiti dal buio.

Gli a solo, invece, in alcuni casi letti (quelli di Pippo e dell’Uomo che legge)

hanno la funzione dichiarata di separazione/smembramento della vista dal

“sentire”, lontananza da ogni forma di recitazione psicologica, e l’uso del copione

a vista lo conferma. Ma significa anche ogni forma di distanza dalla

rappresentazione, infatti Delbono vuole “mostrare” più che rappresentare. Qui si

potrebbe parlare di Performer/declamatore: un performer che è innanzitutto voce

quando usa la parola. Gli altri a solo, quello nostalgico di Pepe e quello

cantilenante dell’Uomo in impermeabile sono detti direttamente al pubblico,

secondo i canoni del classico monologo.

La voce fuori scena di Pippo Delbono va a sottolineare le microazioni che si

svolgono in scena così come pure la voce cantante di Danio Manfredini, quasi a

voler essere quell’assenza/presenza che si ripropone anche sulla scena, ma a

livello visivo, con tutte le varie figure che si avvicendano. C’è infatti una sorta di

complementarietà doppia tra le voci fuori campo di Pippo e Danio e i corpi muti

delle figure in scena: le prime rappresentano, o dovrebbero significare l’assenza

(del corpo) e in realtà sono molto più presenti delle figure in scena, e i corpi delle

figure in scena che rappresentano, o dovrebbero rappresentare la presenza, e

invece risultano quasi “mummificati”. Queste figure sembrano manichini che ogni

tanto si ricordano che devono muoversi. Molte volte infatti danno davvero la

sensazione di essere come “richiamati dall’esterno” e posseduti da una vita che

non è loro.

Non c’è racconto verbale negli spettacoli di Pippo Delbono ma le parole dette

o cantate servono a creare un’emozione che diventa incontrollabile incollata alle

immagini che Delbono crea. Quasi che le parole vogliano favorire l’espansione

dell’emozionabilità, commozione, fruizione dello spettatore che, attraversato dalla

musica, accoglie meglio e con maggiore generosità il racconto che invece avviene

per gesti, azioni, immagini per l’appunto.

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Ritualità del posto e luci “ri-animanti” Un luogo aperto: il Labirinto-cretto di Burri, a Gibellina. Tutto completamente

bianco e grande. Sabbia sulla quale gli attori ma anche gli spettatori lasceranno

l’impronta dei propri piedi. Si sente una ritualità del posto, sin dall’inizio dello

spettacolo in cui i musicisti, che dal vivo produrranno la musica, colonna sonora

dello spettacolo, rastrellano la sabbia e preparano, ritualmente appunto, il luogo

della scena. Grande spiazzo quindi con un’apertura, un passaggio segreto, sulla

sinistra, quasi come fosse un entrare e uscire dalla Terra, un passaggio segreto.

Entrare per “esserci” e uscire per “perdersi” e quindi morire abbandonarsi alla vita

della terra stessa. C’è quindi un rapporto molto particolare con lo sfondo

inanimato: la fessura che si apre tra i due blocchi bianchi in pendio a

rappresentare una vena della terra che inghiotte tutti quelli che vi entrano e infatti

tutte le figure vengono lì inghiottite, anche più volte. E come se dalla terra si

ritornasse alla terra.

Per quanto riguarda i colori Delbono ha usato un climax ascendente, partendo

dal bianco abbacinante dello spazio scenico messo a punto, alla vista degli

spettatori, dai Musicisti/spazzini di inizio spettacolo ai colori vivacissimi

dell’arcobaleno dell’ultima scena (Bobò e la Ragazza con la bottiglia) passando

per il colore seppiato di scene di mezzo, come la Scena del matrimonio/corteo o la

Scena del Ragazzo/Prostituta. Ma l’effetto più evocativo è quello della sabbia che

illuminata dà al contesto scenico una certa lunarità.

La luce ha inoltre una funzione poetica, intimistica, volta a dare a quelle

immagini uno spessore che altrimenti i suoi fantocci “vuoti” da soli non

renderebbero al completo, insomma una luce che va a “rianimare” quelle stesse

figure altrimenti “bidimensionali” e piatte. Insomma la luce ha una sua

autonomia, una sua forza che erompe nelle immagini tanto care a Delbono

Anche il buio, però, ha una sua forza. In particolare nella scena del

Ragazzo/Prostituta: qui è tutto completamente al buio tranne che per una sirena

messa al centro della scena che illumina con intermittenza il ragazzo che vende il

suo corpo. Altro elemento luministico è dato da Pippo che con una torcia va a

illuminare, quindi sempre parzialmente, piccole zone del corpo seminudo dello

stesso ragazzo. C’è una traslazione tra la sirena che illumina il tutto e la torcia il

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particolare. È interessante il rapporto tra buio pesto e la luce che, seppur a

intermittenza, va a “risvegliare” e quindi “rianimare” la scena.

La matericità della musica La musica riesce più di tutti gli altri elementi dello spettacolo a essere la sintesi

perfetta del tema Assenza/Presenza: la voce cantante fuori campo di Danio

Manfredini rappresenta il corpo sonoro della performance, un corpo che quasi si

tocca per la sua matericità e che si materializza per la prima e ultima volta in

scena quando Danio riceve da Pippo una rosa e poi “cammina” a mo’ di danza.

Una camminata da sogno/incubo: sembra che cammini cammini ma va a rilento.

Le canzoni scelte appartengono al dna culturale di ognuno di noi: musiche di

Battisti, Fossati, Bertè, Antonacci, Mina, Dalida. Queste musiche vanno a

rappresentare l’inconscio collettivo di un pubblico medio. La commozione è

assicurata perché Delbono sa quali corde toccare.

Bisogna notare la costruzione di questo spettacolo, nel caso specifico del

rapporto tra canzoni/musiche e immagini, ovvero non c’è mai una coincidenza

precisa tra canzone e scena ma una singola canzone comprende sempre la fine di

una scena e l’inizio della seguente, e cosi via. È la musica il vero collante

attraverso un montaggio della contiguità scena/canzone o viceversa.

Non ci sono rumori di importanza tranne l’iniziale rombo del terremoto che

segna l’inizio dello spettacolo e richiama l’attenzione di chi assiste, o come

ricordo del terremoto del 1968 a Gibellina, luogo dove si consuma l’opera.

Molte sono le pause e anche lunghe. Dei veri silenzi che fanno pendant con il

bianco rilucente della scena quando è illuminata e allo stesso modo con il buio.

Un silenzio che ovatta e sospende o gravido di attesa

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Recensioni «Il "prima" e il "dopo" del grande terremoto»» di Rodolfo Di Giammarco (La Repubblica, 30/07/2000) “L'ispiratissimo impegno di un teatrante che da anni si confronta con gli spazi del dolore ha dato luogo, ai Ruderi , di fronte al labirinto-cretto in cemento di Burri,a un evento di lirismo e di intenso impatto basato sulla quiete del dopo-caos, sulle espressioni mute dei vecchi, sul mondo senza suoni dei non udenti. Delbono monta un'ampia fantasmagoria di culture popolari abbinate agli attimi che precedono o seguono una qualche Apocalisse, evocando la spossata naturalezza di vittime ignare. Ecco perché il silenzio sfoggia anche l'impagabile malinconia canora di un attore indipendente come Danio Manfredini, il cui contributo allo spettacolo si svela essere fatto della stessa stoffa dei sogni di tanta musica di culto: seduto in disparte, a suo agio con una chitarra quest'artista della nuova drammaturgia coglie ancora nel segno dando voce sentita (e da sentirsi) a brani di Battisti, Fossati, Bertè, Antonacci e Mina. […] E' uno spettacolo, questo di Delbono, di ossessioni contrappuntate e di relazioni tra amore e morte, di durezza di orecchio beethoveniana e di frammenti di Dalida, con versi di Ungaretti,con moniti da Olocausto, e con un corteo liberatorio conclusivo capitanato da una Madonna da processione in mezzo a una folla di clowns, majorettes e maschere in Vespa.E i trenta componenti della compagnia, tra cui lo stesso regista in scena, il citato Bobò,la prodiga Lucia Della Ferrera, Gustavo Giacosa, Pepe Robledo e Nelson, tutti animano un universo di gente che vive morendo. Tutto ciò afferra il pubblico per i polsi e educa la coscienza,regalandoci anche una sorridente formula di teatro a perdere,adatta a tragedie in cui c'è tutto da perdere.” ««Il terremoto di Delbono scuote Gibellina» di Luca Doninelli (Avvenire, 26/06/2001) “ […] è un bellissimo spettacolo di Pippo Delbono, il silenzio. Forse il suo capolavoro poetico. Concepito sul luogo e per il luogo in cui è stato rappresentato: il Cretto, l’immensa colata di cemento percorsa dalle antiche vie di Gibellina come da tante crepe, realizzata dal non meno immenso Alberto Burri a coprire gran parte delle rovine del vecchio paese. Un’impressione indimenticabile. E qui chapeau!, l’arte compie interamente il suo scopo. Come lo compie nello spettacolo di Delbono. Ne Il silenzio, Delbono conduce la propria singolarissima compagnia e l’oggetto poetico -la Distruzione- a incontrarsi nel punto più alto possibile […]. L’uso di voci, suoni e canzoni – dalla memoria pompeiana dei Pink Floyd a Battisti, Fossati e De Andrè, ma anche a Ungaretti – attualizza il dramma, lo porta a noi, lo porge a noi, con discrezione e fermezza. Perno tematico è a nostro avviso la Bibbia, che dalla constatazione delle umane disgrazie trae l’ammonimento a non ritenerci signori e padroni della nostra vita. Ma proprio da questa lezione di disincanto risorge la vita, la sua positività indomabile. Risorgono bellezza, poesia e energia. Gli attori di Delbono sono tutti borderline, o comunque rappresentanti di un’estremità della condizione umana: e non solo Bobò il sordomuto o Luca o Gustavo, ma anche la bella Lucia , la cui bellezza viene trattata anch’essa come una menomazione, come un segmento della grande povertà, del grande bisogno in cui viviamo immersi (ed è qui il segreto del successo di Delbono al di là degli addetti ai lavori). Il silenzio è, in questo senso, anche l’autobiografia ragionata di questo eccezionale ensemble […] Ma non bisogna dimenticare che Delbono , allievo di Pina Bausch, è anche un eccellente conoscitore della tecnica teatrale e della sua economia: non uno spillo, non il più piccolo gesto che non siano elementi necessari al tutto […].” «Artisti di confine di Gianfranco Capitta» (Alias, supplemento settimanale de ‘il manifesto’, 07/07/2001) “[…] Certo da Barboni in poi l’artista ha conquistato un tale livello di pregnanza espressiva che ogni sua immagine di scena gronda e inonda lo spettatore di cchianto e rrisatte rrisate e cchianto, come diceva la vecchia canzone napoletana. Nella costruzione quasi elementare, volutamente semplicissima, di ogni gesto di ogni parola di ogni relazione tra i personaggi, si travasa una esperienza antica e sapiente della vita e del mondo, dell’uomo piccolo piccolo, nel quale batte un cuore grande grande, anche se è un uomo qualunque o magari talvolta crudele e perfino assassino. […]. Tutto il bene e tutto il male sono dentro di noi, sembra voler dire l’attore, e a tutto bisogna tendere orecchio e cuore. Non c’è mai moralismo in lui e neanche alcuna pretesa di voler spiegare o insegnare qualcosa: le cose parlano da sole, basta saper stare in ascolto. E’ per questo che le biografie di alcuni dei suoi attori, spesso dolorose e qualche volta tragiche, non sono mai “ricattatorie” per lo spettatore. Questi si può semmai commuovere nello scoprire in quelle

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esistenze la capacità, il possesso e la naturale predisposizione alla “tecnica” teatrale, per cui ad esempio il brano del Godot beckettiano interpretato dallo stesso Pippo insieme a Bobò (65 anni di cui quaranta passati nel manicomio di Aversa perché microcefalo e sordomuto), sia tra i più intensi e strazianti tra quelli mai visti su una scena. […] Lo spettacolo parla del momento fatale che segue a un terremoto,quel silenzio di morte ma anche di strenua speranza che viene dopo il fragore del boato della distruzione, e che lascia ognuno solo con se stesso e con le proprie visioni, estreme certo, e luttuose, ma anche quelle da cui d’incanto può ripartire una esistenza nuova. […] Nelle forme del musical e del grande spettacolo (35 persone in scena), sbattuti tra il solletico roco delle voci di Brigitte Bardot e di Dalida (Je vais mourir en scene) e le canzoni italiane degli anni settanta e ottanta reinventate dal teatro mutante di Danio Manfredini, mentre scorrono come diapo al calor bianco di matrimoni straccioni e di feste di regime, di deliri erotici oltre ogni genere e di incontri impossibili tra infelicità che sono sempre in punto di suturarsi e ogni volta si rigenerano moltiplicate. E’ il calendario, ovvero lo spettacolo, della vita. E non solamente per Pippo Delbono.”

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URLO (2004) di Pippo Delbono

Urlo, giocato prevalentemente sul piano gestuale e visivo, con una voce fuori

campo (quella di Umberto Orsini) che accompagna, introducendoli, i vari

momenti, sul palcoscenico si presentano diversi soggetti rappresentanti ciascuno

una piaga della società, dalla ricca donna che si abbuffa nella propria ricchezza

alla gioventù che brucia il proprio tempo nei futili divertimenti da spiaggia con un

sorriso ebete sul volto all’appiattimento socioculturale di intere generazioni

davanti ai teleschermi. E ancora: la denuncia contro un mondo politico ed

ecclesiale, un mondo in cui non c’è posto per Cristo ma solo per la Chiesa che

farà il suo ingresso su un tappeto di porpora, distribuendo benedizioni. Non manca

la speranza che nell’uomo non tutto sia malvagio, che ci sia posto per la

solidarietà tra esseri umani.

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Gesti e azioni delle singole figure 2 Bobò: vestito con corona e mantello regale, scortato da due Uomini/guardie del

corpo in smoking. Prima viene lasciato da solo, poi portano un trono/seggiolone

di velluto rosso e lo siedono sopra. Bobò resta impassibile. Dopo lo fanno

retrocedere sulla seggiola all’indietro. Tutti e tre inghiottiti dal buio. Quando

Giovanna Marini (Cantante) siciliana canta, Bobò entra con una pecora vera in

mano e un biberon e si va a sedere alla sedia al centro della scena e l’“allatta”.

Durante l’a solo di Pippo “Il mondo è santo. L’animo è santo…”, Bobò entra

vestito da sposa.

Prima scena di gruppo (Banchetto/orgia): intorno ad un tavolo tutti uomini e

donne vestiti con vestiti da sera. Le donne, già bendate, bendano gli uomini.

Restano senza benda solo due donne, di spalle, e un uomo di profilo. Tutti

bevono. Si toccano. Orgia. Ridono. Ci sono due camerieri, anche loro senza

benda: uno riempie i calici, l’altro sta impalato a sorvegliare il banchetto. Le

donne con dei cucchiaini imboccano i maschi che con le bocche aperte “cercano”.

Umberto Orsini: prima voce fuori campo poi si materializza in scena, seduto su

una sedia, grazie alla luce che lo scopre e recita “Io non so dire se è giusto o

ingiusto…”. (Ripete lo stesso a solo, subito dopo la Scena felliniana, in piedi

questa volta). Assiste impassibile sempre seduto a tutta la scena della Ragazza

bulimica e poi da un certo punto in poi con occhiali scuri da sole: è troppo l’orrore

e bisogna proteggere lo sguardo.

Donna bulimica: seduta ad un tavolo imbandito di ogni ben di dio. A fianco c’è

Umberto. Assistita dagli stessi due Uomini in smoking della scena di Bobò.

Vestita di nero: sembra un corvo e si muove con le mani aperte nel gesto di lavarsi

le mani (i due uomini le porgono due recipienti nelle quali si sciacqua solo le dita

e loro le asciugano le mani: movimento ripetuto più volte) come spinta dal

bisogno del volo. Un boccone e piange. Un pianto lancinante. Poi si guarda ad

uno specchietto da borsetta, si trucca e piange. Climax ascendente nel pianto. Nel

frattempo si vede arrivare da dietro una donna con formosità imbottite, la

2 La descrizione dei gesti e delle azioni delle singole figure sono il risultato di un attento e accurato studio che si è basato esclusivamente sul video dello spettacolo. Si è cercato altresì di scarnificare il più possibile i gesti, riducendoli il più delle volte a movimenti.

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Cantante lirica, e si scopre che lei stava cantando la canzone lirica che era da

sottofondo alla scena (stessa costruzione della scena precedente con voce fuori

campo della cantante lirica come prima la voce di Orsini). La cantante canta e

saluta in maniera molto teatrale. Nel frattempo la Donna bulimica esce di scena.

Poi rientra spettinatissima e la si risente gridare. Si strappa la collana di perle e la

getta in terra. Corre come un’ossessa, con delle pietre in mano, aggressivissima

verso il pubblico come a volerle scaraventare contro di esso ma poi si rigira e

corre e le scaraventa contro lo sfondo: gesto ripetuto più volte. Poi arriva una

Donna/mistresse che fumando ha un’aria minacciosa ma molto caricaturale, tutta

di nero vestita e va a raccattare da dietro le quinte l’Uomo/schiavo che porta

pantaloni di pelle nere ed è a petto nudo, lo trascina e lo scaraventa per terra e

controlla mentre va verso lo sfondo dove c’è ferma la Ragazza bulimica che

quest’ultimo non si muova da terra (gesto ripetuto più volte). L’Uomo/schiavo si

rialza, in proscenio, e la Donna/mistresse va verso di lui lo prende dal pearcing

che ha al capezzolo e stringendolo glielo fa sanguinare. Da lì riprende l’urlo

lancinante della Ragazza bulimica, attaccata allo sfondo con mani a mo’ di ali. Poi

si dimena per tutta la scena e comincia a sfregiarsi il viso con un rossetto e ogni

volta che si colora sembra che si ferisce con una lama. Si dimena e grida con gli

occhi sbarrati. Fa pensare ad una scena di violenza sessuale. E il sangue del

pearcing ne dà conferma. Arriva la Donna vestita a lutto che piange sangue e

porta in mano dei fiori, dei garofani blu: cammina piano piano e tremolante, poi

poggia i fiori in proscenio. Nel frattempo la Donna bulimica esce di scena.

Seconda scena di gruppo (Racconto della storia del prete): Pippo “Mi ricordo di

un prete, quand’ero piccolo, che dormiva…” (a solo sulla pedofilia).

Parla/racconta al microfono seduto ad un tavolino. Dopo le parole di Pippo, si

vede il tappeto rosso da cerimoniale e sopra vi cammina prima l’Uomo con

paramenti liturgici che, come un nano, saluta meccanicamente cerimonioso.

Arriva poi l’Uomo/caricatura di un barbone (con maschera e capelli finti e

bastone) che impreca contro il quadro di Napoleone (rappresentato da un uomo

vero incorniciato): non si capisce quello che dice perché è volutamente disturbato.

Si rivolge anche a delle Donne/Suore che sono di spalle al pubblico. E a questa

scena assiste l’Uomo in maschera veneziana, tutto nero, che ride (la risata è

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doppiata). Cantante rock in tuta lurex e chitarra elettrica che canta… attorno a lui

tutte Ragazze/fans impazzite che ballano e urlano alla vista del loro idolo.

Parallelamente Pippo comincia a spogliarsi e fa finta di suonare la chitarra. Ma le

Ragazze si rapportano solo con il cantante: i loro movimenti sono sempre gli

stessi. Pippo continua a ballare, fa lo stesso gesto del volare della Ragazza

bulimica ma lo fa di spalle e si avvicina allo sfondo. Resta da solo in scena.

Occhio di bue su di lui che lo segue e si sente la voce al telefono di una Ragazza

al telefono che dice “Hallo hallo…”.

Ragazza al telefono: Pippo esce di scena ed viene illuminata la ragazza:

reiterazione della telefonata. Poi telefonata erotica in francese. “Hallo hallo…”.

Poi altra telefonata.

Pippo: Pippo “Mi ricordo di un prete, quand’ero piccolo, che dormiva…” (ricordo

della pedofilia). Parla/racconta al microfono seduto ad un tavolino. Appare con

maschera di topolino e balla. Su una sedia con movimenti pelvici. Poi sotto a un

tavolo. Si toglie la maschera, la tiene in mano, e urla anche lui. Anche in platea

corre e urla. Poi sorpreso da l’Insegnante seduta al tavolo dove lui aveva fatto le

sue “marachelle”, resta fermo. Dopo la Scena felliniana e dopo che Umberto ha

rifatto l’a solo iniziale, Pippo di nuovo seduto al microfono: “Non è il cibo che in

carcere ci assilla…” Mentre la Giovanna Marini canta lui va da Bobò, prende il

biberon e “allatta” anche lui la pecorella. Poi prende Bobò per mano ed escono di

scena. Nella scena della spiaggia con una bottiglia bagna tutti. Dopo la scena della

spiaggia ritorna con un monologo seduto al tavolino con il microfono “Ho visto le

menti migliori della mia generazione…”. Dopo la scena della processione di

nuovo altro suo soliloquio al microfono.

Terza scena di gruppo (Scena felliniana): l’Insegnante seduta al tavolo grida,

ulula anzi, e con le unghie graffia ripetutamente il tavolo stesso. Si dimena si alza

e si risiede. Ha il microfono attaccato con un cerotto alla gola. E appare

l’immancabile Banda musicale, di ricordo felliniano, che in questo spettacolo è

ferma e diretta da un Maestro. Si avvicendano una serie di figure: la Suora che si

fa ripetutamente il segno della croce, una Coppia che balla, Bobò vestito come un

burattino che si muove come Totò, un uomo con maschera e divisa da soldato che

spara con un bastone fatto di legno (dopo se ne aggiungerà un altro), Umberto che

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porta al guinzaglio tre Ragazze in intimo, il Domatore che porta al guinzaglio una

Figura mezza umana/mezza scimmia, il Clown, la Donna/mistresse con la faccia

dipinta da clown. Ognuno ripete continuamente lo stesso gesto, ognuno il proprio.

(Nel frattempo degli assistenti di scena cambiano la scena a vista).

Giovanna Marini: dopo l’a solo di Pippo “Non è il cibo che in carcere ci

assilla…”. Tutta vestita di nero canta, in testa alla Banda di musica popolare di

Testaccio.

Quarta scena di gruppo (Scena della spiaggia): Una Ragazz/animatrice in

costume da bagno entra mentre Pippo, Bobò e la pecorella escono di scena, fa un

annuncio in francese. Poi entrano altri in costume da mare e tutti fanno

balletto/ginnastica. Anche Bobò vestito da Topolino. Pippo bagna tutti con una

bottiglia d’acqua e balla in platea. Poi con microfono copre la voce della

Ragazza/animatrice e fa annunci opposti a quelli di lei: “fate attenzione alle

meduse…” e incita a gridare tutti che gridano sempre “più forte”. Dopo che Pippo

“Ho visto le menti migliori della mia generazione…”, tra i bagnanti appare un

Uomo “Squamato, bruciato” che si dimena, senza volto, “sfigurato nella mente e

nel corpo”. Si dimena e lascia pezzi di pelle sul pavimento. Si alza. Cade. Trema.

Appare una donna di spalle con vestito rosso pomposo: si tratta del Ragazzo

down. Poi un Uomo/cavallo di pelouche e un ragazzo a petto nudo (Ragazzo con

le mani sporche) con le mani sporche di rosso (di sangue?) e le mostra al pubblico

come segno di “scusa”. Lo sfigurato va via in punta di

piedi.

Quinta scena di gruppo (Scena della Processione): a

solo di Orsini “Quando osservo la mano del tempo…”.

Il Ragazzo con le mani sporche ritorna vestito da donna

con coroncina rossa con sigaretta e fuma. Guarda il

pubblico e ride. Si sente prima in lontananza una

processione poi vicina. Si vede un “Cristo” pelato in guepiere e sanguinante con

un bastone che funge da croce. Cade e ricade. Naturalmente banda musicale.

Pippo ci canta con ghigno sopra. Escono tutti. Appare un vero e proprio “Cristo”

con tanto di capelli lunghi, corona di spine e rivoli si sangue che si siede. Pippo

“Il mondo è santo. L’animo è santo…”. Va via Gesù e arriva Bobò vestito da

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sposa. Ritorna la processione guidata da Pippo che poi legge su dei fogli “Santo è

il deserto…”. Poi da indicazioni al tecnico alle luci “Più luce”. Tutti abbacinati

dalla luce. Strappa quei fogli e dirige un’orchestra immaginaria: in realtà è un

disco registrato (raccordo tra orchestra vera e quella registrata).

Sesta scena di gruppo (La mascherata): Scena mostruosa. Su un baldacchino una

Cantante che produce dei “versi”, un Uomo in divisa che dirige la musica

“registrata”, un Uomo mascherato con una bottiglia d’alcool in mano, un altro

Uomo con un pupazzo, i due Ballerini di prima con corona e con la faccia dipinta,

un Coro di donne mascherate che simulano di cantare ma in realtà fanno solo

gioco con le lingue che entrano ed escono dalle bocche. Tutti su delle cartacce che

si contendono e stracciano e buttano in aria. La scena piena di cartacce (anche qui

ricordo kantoriano).

Corteo liturgico: tutti camminano in ginocchio dal Vescovo alle Suorine, tra cui

Bobò che porta la croce. Solo un gigante c’è: il Papa, altissimo. Tutti vengono

verso il proscenio per poi ritornare da dove sono usciti e seguiti dalla banda.

Finale: Chitarrista a vista. Pippo “Ho visto le menti migliori della mia

generazione…”. Entra Bobò con “camicia di forza” e si siede su una cassetta di

plastica, mangia un panino e tiene il tempo con i piedi e con le mani, batte le

mani. Canzone di Giovanna Marini “Mutu Carme’…”. Poi entra Orsini insieme a

Bobò: si siedono e Orsini gli recita l’Enrico II di Shakespeare: “Raccontiamoci la

triste storia della morte dei re…” e si sente la voce di Bobò registrata: un lamento,

quello che si è sentito per tutto lo spettacolo. (Unico momento di dialogo dello

spettacolo). Poi Orsini libera Bobò dalla camicia di forza e si toglie anche lui la

giacca: giocano a palla. Ritorna Pippo con il suo “Forse quel rete in quei giorni di

giugno. Giovanna Marini che era rimasta sempre seduta in scena canta “…Viva il

coraggio…”. Pippo di spalle. Buio.

Non attori, attori e figure In questo spettacolo oltre agli “attori”, anzi ai “non attori” della Compagnia Pippo

Delbono, ci sono un attore, Umberto Orsini e una cantante, Giovanna Marini,

entrambi professionisti.

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Rispetto a Il Silenzio e a Questo buio feroce, i non attori coinvolti da Delbono

appaiono con una parvenza di attorialità ma solo in certi casi circoscritti, basti

pensare alla Ragazza bulimica e alla sua performance. Quest’ultima ricorda le

figure della Socìetas Raffaello Sanzio, nel senso che oltre un’immagine corporea

si avverte che c’è un “alito di vita” che travalica il tipico movimento

marionettistico delboniano, e fa sentire una sua anima pulsante: piange e urla per

tutto il tempo della scena in cui prima si “abbuffa” di cibo poi rientra

spettinatissima, si strappa la collana di perle e la getta in terra, corre come

un’ossessa, con delle pietre in mano, aggressivissima verso il pubblico come a

volerle scaraventare contro di esso ma poi si rigira e corre e le scaraventa contro

lo sfondo. Insomma un delirio, tutto corporeo e vocale, realizzato con movimenti

sconnessi ma efficaci. L’attore Umberto Orsini invece “resta se stesso” e si

osserva attraverso le visioni che vengono a materializzarsi sulla scena: questo è

possibile infatti solo per Pippo Delbono e, per Orsini che non interpreta nessun

personaggio bensì dà voce alla sua visionarietà. Insomma non più un attore che si

perde in un personaggio o viceversa ma un attore che si osserva, la cui dimensione

spettatoriale gli viene sottratta come azione ma gli viene restituita come visione.

Insomma l’attore vive una dimensione autoriflessiva, per cui non c’è né

travestimento, né immedesimazione o proiezione nel personaggio [Valentini,

2007]. Tutte le altre figure infine appaiano come manichini “telecomandati”: si

muovono, camminano, danno corpo a delle voci che li doppiano; è il caso della

Ragazza al telefono che viene così doppiata in una sorte di reiterazione della

telefonate erotica in francese, o anche al Cantante rock in tuta lurex e chitarra

elettrica che balla ma canta in playback.

Le voci off off degli a solo Tutto lo spettacolo è un a solo a due voci: quella di Orsini e quella di Delbono. A

volte si replicano, ovvero fanno lo stesso pezzo, e anche più di una volta (“Ho

visto le menti migliori della mia generazione…”). Ma ci sono delle sottili e

importanti differenze, Orsini interpreta e Delbono declama, dà voce “politica” alle

parole e lo fa con l’espediente della lettura, infatti ha dei fogli in mano e legge e

grida e sussurra; legge al tavolino con lampada da studio, dà voce alle parole

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morte nei testi degli autori che di volta in volta sceglie e dà loro una nuova

energia, una nuova possibilità. È un lavoro di incastro. Una riscrittura come atto di

violenza, di manomissione, di fedeltà o infedeltà al testo, questo poco importa; ciò

che importa è restare fedeli al proprio progetto di regista.

Pippo racconta spesso nelle sue letture dei ricordi del passato, piccoli cenni a

storie solo “suggerite”, le sue, e riprese da un a solo all’altro, come la storia del

prete ecc. In ogni modo storie slegate, almeno apparentemente, nelle scene

plastico-visive che contemporaneamente prendono corpo sulla scena. Si tratta di

binari paralleli. Invece gli a soli di Umberto Orsini sono pensieri espansi cui lui dà

voce e le figure dello spettacolo danno corpo: una sorta di collage tra

pensiero/voce di Orsini e l’azione/corpo di tutte le altre figurazioni.

Molte sono le voci fuori campo, quelle di Umberto e di Pippo, ma anche il

lamento bambino/agnello al macello di Bobò che si sentirà sin dall’inizio dello

spettacolo fino al finale, diventandone un leit motiv sonoro. La funzione della

voce fuori scena sta a indicare la scissione

tra corpo e voce, tra vedere e ascoltare, tra

il racconto verbale e le azioni. È una forma

di distanza.

Forte dunque il contrasto tra la voce

“recitante” di Orsini, quasi sul soffiato,

intimistica, e quella “urlante” delle altre

varie figure: c’è qui una netta distinzione

tra i pensieri/riflessione di Orsini e l’orrore gridato a squarciagola dagli altri. La

voce di Pippo si pone sia da una parte che dall’altra, intima quando sta seduto al

suo tavolino e urlante di dolore quando partecipa alle scene di gruppo, a

sottolineare il Pippo “da solo” e il Pippo “pubblico”. Voci, anzi “urli”, che

raccontano allo stesso modo delle immagini; feriscono gli occhi, le orecchie e gli

altri sensi.

Non ci sono dialoghi a parte quello tra Orsini e Bobò nel finale che si conclude

con il gioco della palla: Umberto Orsini racconta a Bobò delle morti dei re tratto

dall’Enrico II di Shakespeare. Lo racconta proprio a Bobò, il re degli straccioni

dell’inizio, lo racconta a lui ma in realtà e come se lo confidasse a se stesso o

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comunque a quella parte genuina di sé. È un dialogo di una tenerezza brutale che

spiazza: Orsini parla, con le parole di Shakespeare, parole di una bellezza e di una

raffinatezza sublimi, e Bobò risponde in playback della sua stessa voce, un

lamento reiterato che commuove. È da ritenersi il punto cruciale dello spettacolo

da un punto di vista meramente riflessivo sul fare teatro di Pippo Delbono, ma

potrebbe esserlo anche per altri gruppi che lavorano con attori e non attori: due

mondi a confronto quindi, da una parte l’attore di tradizione, di professione

dall’altra Bobò, una persona, che è l’emblema del teatro di Delbono, colui che non

ha scelto il teatro, ma è stato scelto dal teatro. È fondamentale osservare come ci

possa essere una convivenza felice tra il mestiere e la semplice possibilità di

essere sul palco, seppur trasparenti il più delle volte, ovvero mere presenze in

scena, ombre della propria esistenza.

C’è una forte disincrasia tra racconto e azione. C’è un rapporto di

complementarietà: il racconto evoca delle visioni materiche e queste ultime a loro

volta danno uno spessore/dilatazione alle parole che altrimenti da sole

resterebbero mozzate, nel senso che rinvierebbero ad immagini personali per ogni

spettatore diverse ma che invece con la costruzione registica viene costretto a

seguire quel percorso, a vedere quelle cose che altrimenti potrebbero restare buie.

La baraccopoli degli orrori Si tratta di un luogo aperto che riproduce una baraccopoli: i resti del terremoto di

Gibellina (infatti come Il silenzio di quattro anni prima debutta a Gibellina nel

Cretto/labirinto di Burri), ma in generale i resti di una civiltà in declino. Dalla

baraccopoli brulica azione, da lì fluttuano orrori, incubi all’insegna del macabro.

Tanto sangue che sgorga dal pearcing del capezzolo del Travestito crocifisso, alle

lacrime di sangue della Vedova che depone i garofani blu in proscenio, al Cristo

seduto, al tavolo che è attraversato da rivoli. C’è sempre uno svelamento di una

parte dello spazio a cura della luce, ma prima che dalla luce, in questo spettacolo

in particolare, dal racconto di Umberto Orsini che va con la parola a svelare degli

squarci di palcoscenico, quasi come se le sue visioni, fatte parole, trovino poi una

compensazione all’astrazione della voce appunto nelle immagini, pregnanti

dilatazioni del dire.

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Baraccopoli che ha una doppia valenza: baracche fatte con materiali veri come

nella realtà e simbolicamente come ciò che è rimasto dell’umanità, brandelli di

case ma anche brandelli di storie orrorifiche. Lo sfondo qui è rappresentato quindi

dalle baracche: inanimato che contiene le varie figure che si avvicendano in scena

e quando lasciano la scena le inghiotte e le contiene.

Anche in questo spettacolo gli oggetti non hanno potenza energetica ed

espressiva. Sono oggetti di scena, funzionali alla messa in scena senza nessuna

specifica autonomia di senso: i bicchieri e i cucchiaini nella Prima scena di

gruppo (Banchetto/orgia) con cui le donne imboccano i maschi, o anche il

biberon con il quale Bobò “allatta” una pecorella. Il bastone che il “Cristo” pelato

in guepiere usa e che funge da croce nella Quinta scena di gruppo (Scena della

Processione) è l’oggetto che più di tutti ha un valore fortemente simbolico, come

anche il pupazzo nelle mani del pupazzo umano, Nelson, nella Sesta scena di

gruppo (La mascherata).

È lo spettacolo del buio, tutto buio come se il grido dovesse nascere

necessariamente da un abisso, in un percorso dal non colore al colore e trovare

man mano con la sua sillabizzazione le proprie sfumature. L’uso del contrasto

luce/buio è fortemente drammatico e simbolico. È il buio che di volta in volta si

schiarisce per dare voce al bisogno di dire qualcosa, di esserci. E diventa, in una

scena in particolare (Scena della processione in cui Pippo dà indicazioni al

tecnico alle luci “Più luce”), luce abbacinante che fa perdere i contorni a tutte le

figure in scena, smaterializzandole e ne diventa simbolo Bobò vestito da sposa,

bianchissimo anche lui, traslucido nell’impassibilità del suo volto. Il buio è

previsto soprattutto con le parole, quando “monologano” Pippo o Umberto: qui il

buio ritaglia le parole e dà loro una consistenza inusitata.

Gli unici due colori che spiccano sono il nero e il rosso. Tutta la performance

infatti è giocata tra il buio (nero) e il rosso che ritorna sempre: dal tappeto di

rappresentanza al sangue, nelle sue varie manifestazioni. Poi ci sono esplosioni di

colore come nella Terza scena di gruppo (Scena felliniana) e ritornano a sfaldarsi

nella Quinta scena di gruppo (Scena della Processione) in un Gesù Cristo con

capelli lunghi, corona di spine e rivoli di sangue, secondo una perfetta iconografia

classica che ricorda un Gesù a metà tra quello del Vogliamo Barabba di Daumier

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e uno dei tanti Cristo dipinti dall’ultimo Caravaggio, sfaldato nei colori, corroso

nei contorni e “sfatto” dal dolore.

Musiche e “sonorità umane” per uno spettacolo dello shock Le musiche (nel caso di Delbono è ancora plausibile di parlare di musica più che

di suono) hanno una funzione precisa, di punteggiatura delle azioni ma rispetto a

queste ultime mantengono una loro autonomia drammaturgica. Si ha la sensazione

di assistere a due spettacoli distinti tra loro, quello musicale e quello delle scene

plastico-visive di gruppo già descritte all’inizio di questo capitolo. Entrambi

raccontano. Delbono costruisce un medley variegato, dalle canzoni popolari

cantate da Giovanna Marini alla inflazionatissima “Stessa spiaggia stesso mare” di

Edoardo Vianello a brani di repertorio classico: il risultato è un pout pourri di

sonorità scontate, ma soprattutto per il loro missaggio: si passa da una canzone

“leggera” a una di repertorio classico o a un a solo “impegnato”. Insomma una

costruzione musicale che incastra, come in quasi tutti gli spettacoli di Delbono,

canzoni e musiche che hanno facile presa sullo spettatore. Delbono infatti colpisce

dapprima colpisce la sfera affettiva dello spettatore, anzi a essa si aggrappa: lo

avvicina alle sue scene poi lo spiazza con immagini fortemente tese a

sconvolgerlo o comunque a provocare la sua sensibilità. Il risultato è uno shock

assicurato.

Ma oltre la musica c’è un suono umano che strazia dall’inizio alla fine dello

spettacolo, ossia il lamento, registrato, di

Bobò che ne diventa il leit motiv sonoro. Un

parvenza di urlo, a metà tra l’umano e

l’animale, che testimonia la traccia tangibile

del dolore, della mancata comunicazione,

del sacrificio di un essere “indifeso”. È il

primo spettacolo in cui Bobò dà “voce” alla

sua “condizione”. Riesce a farsi “sentire”

seppur rimanendo incomprensibilmente

recluso nella sua solitudine di essere “sfortunato”. Come appendice a questo

suono, un altro urlo, quello della Donna bulimica che ha una matrice di follia e

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disperazione, accompagnati da un dimenarsi e truccarsi il viso “a casaccio” e con

violenza. O anche nella Seconda scena di gruppo (Racconto della storia del prete)

in cui dell’Uomo/caricatura di un barbone (con maschera e capelli finti e bastone)

non si capisce ciò che dice perché la sua vocalità è volutamente disturbata. O

sempre nella stessa scena gli urletti delle Ragazze/fans impazzite che ballano e

urlano alla vista del loro idolo, il Cantante rock in tuta lurex e chitarra elettrica.

Infine gli urli di Pippo, immancabili.

Dove dovrebbero finire quindi gli occhi e le orecchie di chi va a vedere uno

spettacolo di Pippo Delbono? Cosa può imporsi di non vedere uno spettatore? Di

certo non ci si può sottrarre dall’invasione di certe visioni: Bobò/suora,

Bobò/Totò, Bobò/sposa. E si resta sempre su una linea che vira dal dispiacere alla

pietà. Questo spettacolo in particolare non può che lasciare una certa rabbia. Si

passa continuamente da un momento di commozione sincera a un atteggiamento

di antipatia fortissima; quando per esempio Bobò “allatta” in scena una pecorella

vera e Giovanna Marini canta e il tutto viene “spezzato” dalla presenza di Pippo

che entra, fa gesto a Bobò di alzarsi e poi lo accompagna fuori scena. Lo

spettatore si trova quindi spiazzato da un sovraccarico di immagini. Non fa in

tempo a “smaltire” un’immagine che ne arriva un’altra e così a seguire. E si tratta

di “quadri” sempre ridondanti che tendono a portarlo in un vortice di emozioni, a

volte sopportabili a volte insopportabili.

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Recensioni «Urlo» di Enrico Fiore (IL MATTINO, 13/07/2004) “[…] La sequenza iniziale accumula, nell'ordine, il risuonare nel buio di versi che stanno fra i lamenti di un neonato e i rantoli d'una bestia, Bobò che vien messo in trono con la corona e il mantello di un improbabile monarca e la voce preziosa di Orsini che recita brani della «Ballata del carcere di Reading» di Oscar Wilde. […] Il re, per l'appunto, può essere solo Bobò, nonostante i simboli persistenti del trono, della corona e del mantello. E dunque l'«urlo» è il nostro tempo, il nostro mondo, il nostro perenne smarrimento fra lacerti di sogni e fragori di guerre, nell'impietosa discesa dall'olimpo dei miti e delle ideologie all'inferno dell'evasione consumistica e televisiva. Ecco, allora, che nella cornice figurativa di una féerie barocca e sfilacciata insieme, e di volta in volta potente o tenera, si susseguono - poniamo - una donna in abito da sera che s'abbuffa mentre piange a dirotto, una cantante lirica debitamente pettoruta e culona, torturati e crocifissi sanguinanti, un rocker da copertina, un Napoleone prigioniero della sua brava cornice Impero, un'altissima e allampanata maschera nera che sembra arrivare dritta da un Carnevale veneziano da incubo, la ragazza di un telefono erotico, Topolini vari, clown, suorine, vescovi sui trampoli... fino a un Pinocchio (ancora Bobò) che attraversa lo spazio scenico con la stessa camminata che fu di Totò. L'ossimoro programmatico si esalta, infine, nella sequenza che contrappone al coloratissimo twist di «Stessa spiaggia, stesso mare» l'urlo del titolo (è anche quello dell'omonima e celeberrima poesia di Ginsberg, più volte citata) e, soprattutto, un alto e solenne corale di Tomàs Luis De Victoria, con le parole dello spagnolo ch'è la lingua per parlare con Dio. Mentre l'acme drammaturgico si tocca con il «dialogo» fra Orsini che recita il «Riccardo II» e Bobò che replica con i suoi suoni gutturali disarticolati. Sullo spettacolo s'imprime, nell'ultima scena, il segno decisivo della Marini che, dopo i clangori della banda della Scuola Popolare di Musica del Testaccio, intona sulla chitarra il canto anarchico toscano «Batton l'otto»: gli accordi cadono lenti e severi come rintocchi di campana, la voce - con calma rabbiosa, l'ossimoro estremo - parla del pane negato dall'«infame società». «Urlo» chiuderà, dall'11 al 22 maggio, la stagione del Mercadante. Non so che cosa diventerà al chiuso, ma so che, prendendolo, lo Stabile di Napoli ha centrato un bersaglio notevole.” «Prego, siate i benvenuti nel carnevale degli orrori» di Franco Quadri (LA REPUBBLICA, 05/07/2004) “Evidentemente Gibellina a Pippo Delbono ricorda Fellini: con meno poesia e una quantità di clamorosi effetti in più, L’urlo continua la via tracciata qui anni fa dal Silenzio. Davanti alle baracche rizzate sotto il Cretto di Burri, reso argenteo dal plenilunio, è di scena una sorte di carnevale d’orrori, in cui il travestimento si sposa alla violenza, coinvolgendo tra i segni del potere gli emblemi della Chiesa, da enormi prelati a suore a culo nudo, alle file di crocifissi, mentre una collezione di torture fa sanguinare tra l’altro giganti mori, che perdono il colore insieme al finto sangue, nello scatenarsi sadomaso. Siamo tutti prigionieri, maledetti e santi, come ci ricorda il regista urlando un po’ alla rinfusa versi sottratti alla ballata carceraria di Oscar Wilde o ai lamenti generazionali di Allen Ginsberg, mentre la contorsione dei corpi sconfina nella danza, la corsa all’accumulo di eccessi cerca la spettacolarizzazione nel volume apocalittico di un mix musicale dove si alterna l’opera al rock, l’organo alle trombe della Banda del Testaccio o alla chitarra di Giovanna Marini. Era molto atteso a questo appuntamento inconsueto Umberto Orsini e bisogna ammirare la modestia rispettosa con cui, trovatosi in un ridondante mare in piena, questo attore di alta scuola s’è contentato di brevi e rari interventi, a volte in playback o non pronunciati in scena come avviene invece, per esempio, per il desolato brano sulla regalità tratto da Riccardo II. Il suo resta l’omaggio di un dicitore di stile al protagonista che non parla, il sordomuto Bobò, il quale siede in trono incoronato ed esibisce molti cambi d’identità, camminando verso il pubblico di volta in volta re, vittima e carnefice nel contesto di caratterizzazione fulminee operate pure dai numerosi compagni della troupe. Solo alla conclusione, Bobò e Orsini trovano una comunicazione scambiandosi a calci un pallone. E si risente allora il grido che dà il titolo alla serata, lamento bianco, a volte modulato che Bobò aveva lanciato all’inizio e ripetuto più volte in varie tonalità, richiamo di un lupo perduto, vagito straziante, esplosione di gioia: l’invenzione poetica di una presenza misteriosa condannata dalla vita a chiudersi in se stessa e che ha trovato in teatro, grazie al suo regista mentore, una via di comunicazione.”

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«Urlo di un mondo dolente» di Gianni Manzella (IL MANIFESTO, 04/07/2004) “L'urlo di Bobò, nella notte. Così simile a un rantolo, a un lamento, come il dolore dell'animale di cui parlava Rosa Luxemburg. Eppure capace di contenere altro in sé, anche richieste opposte, la rivolta e il bisogno di comunicazione. Il viso di Bobò, immobile come una maschera orientale, mentre il piccolo uomo si fa avanti regale e viene sollevato su un trono. Sono le prime immagini, […]. Dopo l'urlo , incipit e insieme richiamo che risuona ripetutamente nel corso dello spettacolo, una voce da parole al grido di ribellione. E' Oscar Wilde dal carcere de Reading: dicono le parole che ogni carcere è costruito con mattoni di vergogna, muri che l'uomo ha eretto per tenere nascosto l'inferno che vi ha rinchiuso. Una figura solitaria avanza nel buio e va a sedersi al centro dello spazio scenico, vasta spianata sabbiosa chiusa sul fondo da un semicerchio di casupole, stentata baraccopoli che è anche rifugio degli attori. […] All’origine dello spettacolo c’è il tema del potere, il dominio dell’uomo sull’uomo in tutte le sue forme. Quello politico e religioso in primo luogo, con la sfilata su un tappeto rosso di re penitenti o danzanti, di pontefici benedicenti fra nugoli di suorine. Ma non solo. Ecco la maitresse cattivissima che ha sguardi da diva del cinema muto e strappa sanguinosamente il piercing dal petto del ragazzo che ha già più volte sbattuto per terra. L’umiliazione del prigioniero legato a un palo con derisori elementi femminili, associato all’immagine di un Cristo in croce. Un altro iconografico Cristo con la corona di spine contrapposto all’artefice urlante la santità del mondo e delle cose, citando Allen Ginsberg di cui a più riprese si erano già ascoltati i versi rielaborati da un altro poetico Urlo ‘Ho visto le menti migliori della mia generazione’. Mentre un ballo di spiaggia finisce in un stravolto gridare. E’ che l’orrore della storia irrompe costantemente dentro un universo privato, personale dell’artista, che ci pare intravedere bruciare attraverso le fiamme. E’ però proprio per questo capace di parlarci con più forza. Di toccarci in qualcosa di intimo. In questo grumo di immagini spesso terribili, di una cupezza significativamente poco aperta a spiragli liberatori , s’inserisce il percorso che compie all’interno dello spettacolo Umberto Orsini, chiamato a portare nel lavoro l’esperienza di un’altra diversità fra le tante amalgamate nella compagnia di Delbono, ovvero la tradizione dell’attore. Un percorso solitario ma nient‘affatto isolato, anzi perfettamente coerente con il lavoro sia che incarni con la sola presenza una muta figura paterna sia con Shakespeare evochi a beneficio di Bobò le tristi storie delle morte dei re, per poi liberarlo dalla camicia di forza che lo tratteneva davanti a un televisore (lui che nel manicomio c’è stato per davvero una quarantina d’anni, prima di essere liberato dal teatro) e giocare insieme una partitella di pallone. Potrebbe essere un’immagine finale bella e facile. Delbono preferisce lasciarci con l’anarchica canzone che riconsegna a una figura materna il grido della rivolta contro l’ingiustizia. Quando te ne andrai da qui non fare silenzio, diceva in chiusura Il silenzio con parole scritte a Buchenwald. Urlo è un grido contro il silenzio.”

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QUESTO BUIO FEROCE (2006) di Pippo Delbono

Questo buio feroce nasce dalla lettura di un romanzo, trovato per caso, in cui

l’attore ha ritrovato il proprio viaggio, la propria storia. L’autore del libro, Harold

Brodkey, racconta di come scopre di essere malato di Aids e di essere condannato

a morte. Nella trasposizione teatrale dell’attore-regista ligure c’è la volontà di

superare, attraverso una serie di espedienti simbolico-surreali, la semplice

raffigurazione di un isolamento o l’ingenua incapacità di comunicare con gli

uomini. La spiazzante naturalezza delle brutture fisiche si manifesta con

un’agghiacciante normalità. Le diverse figure si perdono continuamente tra

racconti esasperati, canzoni o semplice silenzio.

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Gesti e azioni delle singole figure 3 Nelson Lariccia: rannicchiato in posizione fetale, fermo. Poi cammina a quattro

zampe fino in proscenio. Si alza va a destra a sinistra e poi si siede a mo’ di

indiano e si rimette sdraiato come prima. Ha una maschera neutra, bianca.

Prima scena di gruppo (sala d’attesa dell’ospedale della morte): mentre Nelson

è ancora a terra, entra una Donna in sedia a rotelle senza gambe, tutta rossa,

anche la parrucca. Nel frattempo due Inservienti/servi di scena in tuta bianca e

mascherina anticontagio sistemano le sedie sul fondo e poi uno di loro va a

prendere la Donna sulla sedia a rotelle e la conduce a fianco delle altre sedie.

Entra l’Infermiera con una sedia in mano che sistema al centro del proscenio e vi

si siede di spalle. Nelson si alza e retrocede verso il fondo ed esce di scena.

L’Inserviente conduce fuori scena anche la Donna sulla sedia a rotelle.

L’Infermiera comincia a chiamare e in conformità alla legge della privacy dice

solo numeri fino a gridarli esasperata. Entra la schiera di “malati”: un Uomo in

vestaglia con la testa fasciata, Bobò seguito dalla moglie incinta, una Ragazza

dall’aria sommessa, Nelson in mutande, una Donna claudicante e altissima. Tutti

si siedono. Quando l’Infermiera comincia a gridare i numeri, i due Inservienti la

portano via. Vanno via tutti tranne Nelson che resta seduto. Entra anche Pippo e si

siede anche lui. Poi Pippo si alza e va in proscenio danza la “danza del prelievo”:

struggente nel suo impeto. Poi la danza si spegne e si ferma e sta in piedi in

proscenio. Nelson resta seduto. Entra un Uomo in mutande bendato dal taglio

della scena frontale al pubblico. Entrano i due Inservienti con delle corde che

srotolano sulla scena. L’Uomo in mutande bendato viene in avanti e i due

Inservienti gli annodano le gambe con le corde, staccano le borse di sangue che

erano scese dall’“alto” e attaccano anche le braccia all’Uomo che lo fanno salire e

scendere in aria. L’Uomo respira con difficoltà. I due Inservienti lo slegano,

riattaccano le borse del sangue ai cavi che fanno risalire in alto. L’Uomo retrocede

di spalle e disparisce dove era apparso. Portano una poltrona stile Ottocento e

portano via le altre sedie. Nelson si va a sedere sulla poltrona, in proscenio. Poi

3 La descrizione dei gesti e delle azioni delle singole figure sono il risultato di un attento e accurato studio che si è basato esclusivamente sul video dello spettacolo. Si è cercato altresì di scarnificare il più possibile i gesti, riducendoli il più delle volte a movimenti.

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Nelson canta, al centro del proscenio, al microfono May way: scende in platea,

gioca con il filo del microfono, si siede in proscenio. Arriva un una Ragazza con il

mazzo di fiori come a porgere un omaggio all’ospite d’onore della serata. Egli

riceve i fiori, a uno a uno li lancia al pubblico. Esce con la ragazza.

Seconda scena di gruppo (scena degli a solo): Scena quasi completamente al

buio. Si fa difficoltà a vedere: entra una Ragazza in pelliccia: si toglie pelliccia e

scarpe che lascia cadere per terra. Si siede poi si accascia. Entra la Ragazza

italo/americana. Si siede sulla poltrona. Racconta della sua famiglia, dei “fattacci

terribili” della sua famiglia e piange. Lo racconta prima in italiano poi in

americano: replica se stessa. Tutto al microfono. Dopo la seconda volta in inglese

corre piangendo. Entra dal taglio della scena frontale al pubblico invece un Uomo

in giacca di lurex color oro: parla al microfono al centro della scena. La sua voce

man mano che parla viene resa metallica e incomprensibile. Poi esce di scena.

Entra Pippo che si siede sulla poltrona in proscenio, guarda il pubblico e si sente

la sua voce registrata. Inizia sfilata in abiti di carnevale. Abiti colorati abiti

bianchi abiti neri: una sfilata macabra, la sfilata del dolore che sfocia nel

grottesco. Dolore e suo esorcizzazione. Ci si riesce solo quando arrivano i due

Arlecchini, Bobò e Gianluca, il ragazzo down, le figure simbolo della Compagnia

Pippo Delbono. Poi si Pippo si alza ed esce di scena. Entra Gianluca, si siede alla

poltrona. Poi corre verso il fondo e va a recuperare Bobò. Giocano a

“nascondino”. Si muovono seguendo linee dritte. Fanno sorridere. Poi i proscenio

mano nella mano. Fanno movimenti uguali: sincronizzati. Momento poetico.

Giocano a specchiarsi l’uno nell’altro, nei movimenti. Poi Bobò lo segue

muovendosi alla Totò. Mano nella mano escono di scena. Entra una Donna si

siede alla poltrona, poi prende il microfono in mano e va a sedersi in proscenio.

Parla con voce disturbata che “legge annunci di persone sole che cercano

compagno o compagna o di coppie “troppo vacca” ecc… poi esce di scena.

Terza scena di gruppo (demistificazione della favola di Cenerentola): le

Sorellastre in abiti d’epoca provano la scarpetta e dato che né a loro né alla madre

calza, gridano quando invece vedono che invece a Cenerentola calza perfetta e la

viene a prendere il Principe/manichino e la fa ballare, loro impazziscono gridano

e prima corrono ossesse e poi si buttano per terra a gambe all’aria. Nel frattempo

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entrano altri due servi di scena in smoking e portano una tavola con tovaglia

bianca e vi posizionano due candele sopra. Il Principe e Cenerentola spariscono

nel taglio della scenografia. Entra Pippo con il microfono in mano. Le Sorellastre

e la Matrigna escono di scena. Altra scena al buio. Di profilo Pippo parla al

microfono “Sono stanco dei re della parola”. E si corica per terra a pancia in aria

quasi come preannuncio della morte, o meglio della posizione della morte del

corpo. Entrano dal lato destro della scena un gruppo di figure vestite di nero che

avanzano come fossero un unico corpo, un corpo polimorfico ricorda i

Vecchietti/bambini de La Classe

Morta di Kantor. Pippo si alza da

terra e il gruppo di figure esce di

scena. Pippo va verso lo sfondo, si

siede sulla poltrona. Si alza, va

verso il tavolo e si spoglia, resta in

mutande. Toglie i candelabri e li

mette dietro il tavolo. Si spoglia. Al

centro della scena comincia la sua danza che diventa frenesia, di vivere o di

morire?

Più che attori, figure

Non si può non constatare, alla luce di uno studio attento degli spettacoli di Pippo

Delbono, un’incoerenza di fondo del suo fare teatro. Seppur parli a proposito

dell’attore di “coscienza del corpo, dei suoi suoni, della sua voce, dello spazio che

occupa” [in Manzella, art’o, autunno, 2206 (21)], porta invece in scena non attori

come Bobò (cerebroleso), Gianluca (ragazzo affetto da sindrome di down), ecc…

E se questa consapevolezza dovrebbe essere il frutto di un’autoconoscenza dovuta

a uno studio accurato su se stesso e delle tecniche che a teatro fanno si che un

gesto, una parola diventino la radice di un’esperienza, come si può accettare che il

teatro di Pippo Delbono sia teatro, se di “atto e lavoro cosciente” resta solo il suo

bisogno di rendere centrale l’emarginazione?

Nonostante questa premessa il teatro di Pippo Delbono, dall’esperienza di

Barboni in poi è diventato come lui stesso ha dichiarato un “incontro di due

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gruppi di barboni”, quelli della compagnia (Pippo, Pepe, Gustavo, Lucia, Pierino,

Elena, Simone, persone che lavorano assieme da anni) e i “barboni” che ha

incontrato (Bobò, Sergio, Mr Puma, Armando). [in Patalogo Venti, 1991, p. 175]

E così questo teatro si è popolato di figure “anomale”, non attori ma figure e, di

contro, gli stessi attori della compagnia sono divenuti anch’essi figure. Infatti per

una “figurazione”, o insieme di “figurazioni”, viene scelto da Delbono una

persona piuttosto che un’altra in base alla sua fisicità, già significante a priori, a

dimostrare che il corpo deve essere il corrispettivo materiale/materico del concetto

che il regista/autore ha in mente e vuole comunicare, appunto. Infatti l’attore, o la

persona, in questo caso, è prima di tutto corpo, e quindi non gli si chiede di

provare transfert con il personaggio bensì semplicemente di produrre movimenti e

segni che non rimandano ad altro che a se stesso. Ma bisogna necessariamente

soffermarsi su un particolare essenziale, ovvero se l’attore è il personaggio non si

può che accettare che non c’è più separazione tra i due ma se, come nel caso di

questo teatro, non esiste la figura dell’“attore”, sì può ancora parlare di

personaggio? Di certo è che non ci sono attori di professione, attori che

provengono da una formazione canonica bensì sono tutte persone recuperate da un

loro significativo vissuto. E così come non ci sono attori di professione allo stesso

modo non c’è un lavoro sul personaggio. Anzi tutte queste persone vanno a

“vestire” i panni di figure senza la minima “presenza”, diventano manichini

semoventi in vetrina, e risultano incollate nello spazio della scena.

Gli a solo della disperazione È lo spettacolo delle scene corali. Figure che agiscono, anzi sarebbe più corretto

dire “si muovono” insieme; in alcuni casi all’unisono o invece, pur occupando lo

stesso spazio scenico, ogni figura o ogni gruppo di figure si muovono come

fossero parti a sé stanti.

Non ci sono dialoghi parlati ma solo a solo, disperati, ironici ma di quella

ironia che è come il sale sulle ferite brulicanti di sangue e di vermi. Come a

esempio la voce metallica, distorta da una particolare amplificazione, della Donna

che legge gli annunci di persone sole (Gustavo Giocosa), disperate che cercano

compagnia sessuale e non: una figura a metà tra l’umano e la macchina, tra una

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voce graffiata e una segreteria telefonica usurata da quella stessa voce o insieme

di voci. Insomma come quando l’umano perde la sua peculiarità e diventa

meccanismo reiterato fino all’abbrutimento totale e irreversibile. Oppure l’a solo

recitato prima in italiano e poi in inglese dalla Ragazza Italo/americana: un

crescendo di belle emozioni, ricordi fino ai “fattacci terribili” della sua famiglia.

Interessante la ripetizione: forse per prenderne le distanze? Forse che la

ripetizione, come anche l’uso del microfono, servisse a distanziarsi come attrice

da quello che stava raccontando, a creare una lontananza? Forse che la ripetizione

servisse a creare nel pubblico una violenza doppia, perpetrata, ovvero ad un

“ripasso” di quello che aveva subito, come a dire mi è successo questo dramma,

ma essendo troppo feroce da crederci, ve lo ripeto di nuovo perché il vostro udito

abbia il tempo di trasmetterlo al vostro sentire per un’elaborazione necessaria? O

ancora l’a solo dell’Uomo in giacca di lurex color oro che canta “milioni di

uomini ridicolizzati e abbandonati”: parla al microfono anche lui e la sua voce se

all’inizio si comprende poi diventa completamente distorta. Non è più la sua voce

umana, ma diventa la voce di un qualsiasi annuncio registrato e trasmesso

disturbato, come se quella voce non appartenesse più a lui ma, catturata dal

microfono, diventasse la voce di qualsiasi altra persona, anonima, senza più

sfumature né carattere.

Tutta la perfomance quindi è un racconto a più voci da quella registrata di

Pippo a quella della Ragazza Italo/americana, a quella disturbata dell’Uomo con

la giacca di lurex color oro, a quella della Donna che legge annunci di persone

sole, a quella dal vivo di Pippo che viene trasmessa quasi come fosse la voce del

ricordo, della voce che senza mediazione del microfono non ha consistenza né

necessità di farsi sentire. Anche qui, l’uso del microfono come possibilità di

separazione dall’io che ha vissuto, dall’io che ha sofferto talmente tanto che

adesso può solo osservarsi e ascoltarsi ma solo tramite la protezione/mediazione

di un apparecchio amplificante e spersonalizzante e di riuscita lontananza dal

proprio “sentire”.

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È lo spettacolo dell’assenza di Pippo (stessa funzione ha avuto Danio

Manfredini ne Il Silenzio): c’è poco visivamente in scena e anche quando c’è la

sua presenza è comunque presenza a metà, ovvero per la prima volta nei suoi

spettacoli anche lui diventa una figura come Bobò, Gianluca, Nelson, e tutti gli

altri. Si assiste a un Pippo sdoppiato totalmente,

la voce da una parte, registrata, e il suo corpo

dall’altra: anche quando appare per esempio sulla

poltrona durante la macabra sfilata di carnevale

che evoca una Venezia agonizzante (“Venezia sta

morendo”), sta seduto, guarda il pubblico, si

osserva da spettatore che impietoso si guarda e si

fa guardare nell’impassibilità di un’accettazione

“matura” “saggia” visionaria di un buio che

prima o poi ingoierà lui. Bisogna ribadirlo: qui

Pippo crea una contrapposizione concettuale forte

tra la vita e la morte, l’unica cosa viva di lui resta

la voce ma nel passato, perché registrata, mentre il suo corpo sta morendo, infatti

il suo “Guardate: scompaio. Guardate: scompaio…” Pippo/voce come vita,

Pippo/corpo/manichino come morte.

Tra i tre spettacoli analizzati di Delbono

questo, seppur di impianto corale, è lo

spettacolo delle solitudini in scena: tutte le

figure si avvicendano l’uno con l’altro senza

il minimo contatto, nella Scena della sfilata

macabra ognuno sfila ma per conto suo

oppure nella Scena degli a solo, in cui ognuno si esibisce da solo. Uniche due

scene in cui c’è un minimo di interazione sono la Scena dei due arlecchini, Bobò e

Gianluca, e quella della Demistificazione della favola di Cenerentola: la prima,

che poi resta l’unica scena in cui un rapporto, seppur “anormale”, si realizza

appieno, è la scena della tenerezza e del doppio, quasi una metafora del teatro, non

a caso fatta da due arlecchini che si specchiano l’uno nell’altro e si fondono

attraverso passetti, giochi di simmetrie, rincorse, l’uno si placa quando trova

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nell’altro il proprio sé riflesso; la seconda invece è l’unica scena in cui ci sia una

parvenza di racconto, sempre attraverso movimenti e gesti, tipico del narrare

delboniano. Ma poi è lo spettacolo della morte, o se si vuole delle morti, per cui

nessun contatto poteva essere consentito.

La voce, in questo caso, è quasi solo quella di Pippo (a parte la voce

dell’Infermiera) registrata, tranne che nella parte finale che

la si ascolta attraverso il microfono, dal vivo. La sua voce

qui pacata, intima, che se in Urlo graffiava i cuori di chi

ascoltava e vedeva e “sentiva”, qui invece li sconquassa

poi li “rabbonisce” fino a conciliarli con la danza goffa del

finale. Questa danza ritorna costante nei suoi spettacoli: a

significare cosa? Forse a ricordarci che ha studiato con

Pina Bäuch? Di fatti non c’è alcun legame né coerente né

incoerente con l’economia dello spettacolo: rappresenta quel di più che non

aggiunge nulla al tutto.

Lo spazio della mente Spazio bianco, vuoto, cubico con spesse mura, che si apre e si chiude frontalmente

in un taglio verticale: è lo spazio della mente, della coscienza azzerata dalla morte

che da un momento all’altro arriva, come testimoniano le parole del suggestivo a

solo finale di Pippo “io vedo la morte e la morte vede me”. Insomma quella

fessura come il varco che segna il passaggio obbligato dalla vita alla morte, quello

stesso varco che rende libere le paure più atroci che dinanzi alla morte sfilano

mascherate per esorcizzarla.

Particolare e fortemente significativo il rapporto delle figure con lo sfondo che

è inanimato ma mobile: un pannello bianco spesso che si apre al suo centro

attraverso un taglio che sputa fuori e/o risucchia tutte le figure della performance

(tranne Pippo e Nelson), un taglio come quelli che Fontana infondeva nelle sue

tele. Taglio come la ferita del mondo dei malati i quali come vermi vi strisciano

invertebrati, senza vergogna e senza possibilità. Anche ne Il Silenzio, il taglio

c’era ma spostato sul lato sinistro della scena: lì nel Cretto di Burri le figure

venivano inghiottite fino a perdersi (infatti da quella fessura non riusciva a tornare

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indietro più nessuno una volta entrato) come se quella fessura fosse la crepa aperta

dal terremoto che nel 1968 devastò Gibellina. In entrambi i casi sempre di ferita si

parla.

C’è uno scollamento tra i vari corpi e lo spazio che li ospita. Ovvero non si

tratta di un spazio organico, vivo ma asettico, sterile, una lavagna lucida sulla

quale di volta in volta vengono impresse delle immagini, talmente ben delineate

che emergono dal biancore della scena come figurine, prive della terza

dimensione. Così come non c’è un rapporto vivo tra le figure e gli oggetti. Gli

oggetti hanno qui la funzione di supporto alle varie scene ma non hanno

“un’anima” come negli spettacoli della Socìetas. In questo spettacolo in

particolare, non ci sono oggetti di scena ma la significazione semmai viene

affidata ai costumi che hanno un ruolo significativo, ovvero vanno a “vestire” una

drammaturgia dello spazio che altrimenti sarebbe rimasta spoglia. Nessuna vita

propria agli oggetti di scena: delle sedie, una poltrona e un tavolo/altare/tomba. Le

sedie e la poltrona sottolineano l’attesa ma anche il bisogno di dare un sostegno a

corpi decentrati e mutilati dall’assenza da se stessi e dal dolore che li rende leggeri

ed evanescenti. Il tavolo invece nel finale dello spettacolo dà a quella stanza vuota

una parvenza di spazio del culto, tutto umano, della morte.

Non c’è nessun riferimento alla natura. Tutto asettico e artificiale, come il

pensiero che si prepara alla morte. Più che di spettacolo della natura si potrebbe

parlare di spettacolo della e nella mente. Infatti non c’è nessuna funzione realistica

del paesaggio. Né simbolico perché non c’è un paesaggio ma la scena è uno

spazio vuoto, squadrato e rigidamente inglobante i vari sensi che va ad assumere

nei diversi momenti della messa in scena. Da sala di attesa di un ospedale diventa

una camera di sedute psicologiche fino al finale che diventa il campo di morte, di

battaglia tra Pippo e il gruppo polimorfico, tra la vita e la morte.

Delbono utilizza tanti colori che esplodono nella scena della sfilata macabra di

carnevale: vestiti bianchi, neri, rossi, fino a quelli coloratissimi. Eppure i colori

non sanno di colori ma di macchie, di macchie che non suggeriscono nulla di

buono. Questi colori infatti fanno pensare alla ferita, alla solitudine del

mascheramento identitario e conseguentemente sociale, alla ribellione morta come

quei vestiti che sanno di naftalina e polvere, di un passato morto per sempre che

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non si può fare a meno di celebrare in un ricordo che non produce altro che

sofferenza e sconfitta. Un passato per vincere l’attesa e per giungere a un’altra

morte, quella definitiva e sprofondare in un vero e irreversibile non essere. Queste

macchie invece recuperano i contorni in due abiti, quelli degli Arlecchini, Bobò e

Gianluca: loro chiudono la sfilata dell’orrido e sembra che la ferita per un attimo

si rimargini grazie al loro giocoso “nascondino”. La loro presenza proprio alla

fine della sfilata suggerisce un voler stemperare gli anni, i nostri, della decadenza,

della perdita della bellezza, del perdono impossibile. Ma a loro è consentito tutto

perché sono senza colpa, perché sono diversi, “anormali”, e riportano perciò con

la loro “genuinità” alla salvezza e alla riconciliazione con l’altro, al solidale

prendersi per mano, senza sovrastrutture, senza tattiche ma solo con la spontaneità

di chi non ha malizia e non vede il male.

Questo buio feroce in opposizione al suo stesso titolo è lo spettacolo della luce,

come ci fa notare Pier Luigi Ferro [Pier Luigi Ferro in Il Ponte, 01/01/2007]. Luce

abbacinante, da lastra, che scolora e scarnifica ogni figura facendone vedere le

“ossa”, quelle di Nelson. Il suo corpo infatti illuminato si perde nel biancore della

scena e si vedono emergere solo i capelli. Una parvenza di vita. Quello che resta

dei morti, in questo caso dei morti in vita? I capelli, anche dopo decenni dalla loro

assenza. Le scene più abbacinate sono quella dell’a solo dell’Uomo con la giacca

di lurex di colore oro: si parte dalla semioscurità e da una voce umana seppure

amplificata ad una luce smaterializzante e ad una voce assolutamente “rovinata”

da un effetto metallico. Tutto illuminatissimo perché Delbono vuole con violenza,

la sua solita eccessiva, far vedere senza ombre quel buio nel quale le varie figure

sopravvivono, dolorosamente e asetticamente. Solo due scene completamente al

buio: la Seconda scena di gruppo (scena degli a solo) in cui si ha fastidio agli

occhi perché non si riesce a scorgere bene le figure soprattutto quando entra la

Ragazza con la pelliccia e il finale della performance in cui di profilo Pippo parla

al microfono “Sono stanco dei re della parola”, poi si corica per terra a pancia in

aria quasi come preannuncio della morte, o meglio della posizione della morte del

corpo. Entrano dal lato destro della scena un gruppo di figure vestite di nero che

avanzano come fossero un unico corpo, un corpo polimorfico che ricorda, anche

se lontanamente, i Vecchietti/bambini de La Classe Morta di Kantor. Pippo si

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alza da terra e il gruppo di figure esce di scena. Pippo va verso lo sfondo, si siede

sulla poltrona. Si alza, va verso il tavolo e si spoglia, resta in mutande. Toglie i

candelabri e li mette dietro il tavolo. Si spoglia. Al centro della scena comincia la

sua danza che diventa frenesia, di vivere o di morire? E tutto completamente al

buio.

Sonorità e musicalità: le note disegnano i corpi Il tessuto musicale è veramente notevole. Sono musiche create ad hoc, musiche di

una forte valenza drammatica, volutamente finalizzate a emozionare: l’utilizzo

che Delbono ne fa è sempre creato per facilitare certi percorsi di commozione. Se

in questo spettacolo non usa il suo collaudatissimo repertorio di musica leggera,

riesce comunque a veicolare il processo di emozionabilità dello spettatore. E se

qui la musica non è “materica” e preponderante e non ha una funzione egemonica

rispetto al tutto, come tutte le altre componenti lo spettacolo (scena, figure, luce,

buio, costumi) tende a smaterializzarsi e a diventare una tappa “impalpabile” di un

percorso tutto spirituale o mentale, qualsivoglia. Ad eccezione della struggente

My way cantata dal magrissimo Nelson che recupera una matericità: Nelson

diventa corpo, tridimensionale, sonoro, insomma vivo. Ma è solo un’eccezione.

Assistere a uno spettacolo di Pippo Delbono significa prepararsi ad azzerare

ogni facoltà critica: entrare a teatro essendo pronti a essere violentati sia a livello

visivo che sonoro/vocale per riuscire a “goderne”. Se si riesce in questo, si può

anche riuscire ad apprezzare e seppur, il più delle volte, se ne esce indignati,

offesi, “rabbiosi”, di certo nel frattempo ci si può trovare sadicamente un certo

compiacimento e autocompiacimento perché in scena si vedono materializzate

certe paure, certi dolori, certe cecità, certi limiti che non si riescono, o non si

vogliono, affrontare. E tutto ciò funziona finché però la “violenza” a cui Pippo

obbliga non sia inutile e gratuita infatti quando diventa facile provocazione non si

può a fare a meno di prendere una posizione netta, contro di lui, contro la sua

operazione “artistica”. È altresì necessario ribadire che a teatro la violenza non

spaventa affatto se ha come sostrato una necessità pura, genuina che tende verso

un’acquisizione di senso o comunque di esperienza.

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Quando si legge del Teatro di Pippo Delbono, due sono gli aspetti che

emergono inevitabilmente: l’autobiografismo e la politicità. In ogni intervento,

spettacolo interviste o conferenze, del regista-attore, non si fa altro che parlare

della sua storia personale segnata dall’omosessualità e dall’aids e della comunità

di persone “deviate” che popolano la sua Compagnia e conseguentemente del suo

interesse a “difenderne” il loro status. È sufficiente portare in scena degli

“handicappati” per poter etichettare questo teatro come politico o comunque

impegnato? Non risulta un po’ troppo facile esporre la diversità, violentemente il

più delle volte, per poter imporre un “messaggio”? I neorealisti usavano persone

comuni come attori, raccontando storie quotidiane, giungendo però a una loro

trasfigurazione, se così si può dire. Delbono invece dove arriva? All’esibizione da

circo e attraverso le sue parades incornicia la diversità, proponendola come

normalità, ma la riconferma come diversità, e ancora peggio come diversità

ritualizzata. Non so se si potrebbe essere d’accordo con Ricœur secondo il quale,

il ritorno all’autobiografismo è dettato da una perdita del soggetto e da una

volontà compensativa di ricostruirlo [in Porcheddu, “Patalogo” 26, 2003] ma di

sicuro non si può e non si dovrebbe accettare di considerare il teatro di Pippo

Delbono come teatro politico, semmai circoscriverlo nel suo tentativo strumentale

di politicizzazione. E non si può essere neppure concordi con Mariangela Arcieri

che ha parlato di questo teatro come “teatro che non ruota intorno a un’idea o a

una teoria, ma all’essere umano in carne e ossa”: infatti Delbono si ferma solo “al

carne e ossa”, ovvero utilizza di queste persone solo il loro involucro corporeo

tralasciandone l’identità. Persone che significano a priori perché affette da un

handicap fisico o mentale [Arcieri, in Biblioteca Teatrale 71-72, 2004, p. 293].

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Recensioni «Il Carnevale della malattia»» di Gianni Manzella (IL MANIFESTO, 08/10/2006) “[…] Ed ecco infatti un'umanità spaiata che va a occupare silenziosamente una fila di sedie disposte sul fondo, contro la parete. Corpi malati. Costretti a una spaesata passività dentro questo mondo ordinato da una norma esteriore, dove tuttavia si insinua un soffio di follia. La donna in camice bianco che scandisce i numeri perde il controllo, si fa sempre più scomposta, fino a che non viene portata via. La malattia confina con la tortura, ci dice l'uomo bendato appeso in croce da quegli stessi uomini vestiti di bianco, e una canzone sudamericana risveglia fantasmi non riconciliati di violenze e dittature, in un moltiplicarsi dei piani di lettura. […] Per Delbono, certo, questo viaggio si tinge anche di una dimensione spirituale, tanto più forte in quanto si rispecchia in un mondo di visioni sceniche anche disperate, di fiori che nascono dal letame. […] Nel nudo spazio bianco si insedia da un lato una poltrona di stile ottocentesco, come una sorta di confessionale in cui a turno si accomodano diversi personaggi, campioni di un'umanità a molte dimensioni. […] lo stesso artefice vestito di quel bianco che è colore di lutto nell'oriente e dove tuttavia l'idea stessa della morte si avvicina piuttosto a quell'entrare nella natura che per Brodkey è «buio feroce». Pippo Delbono smette qui i panni di gran cerimoniere dell'evento scenico vestiti d'abitudine nei suoi lavori e si ritaglia un ruolo più appartato, e allo stesso tempo più calato dentro una verità anche personale a cui sa di non poter sfuggire. Lascia che sia la sua voce registrata a commentare l'azione ma si distende a terra per cantare un lamento che ha parole antiche. Si rialza per danzare una danza solitaria di controllata sfrenatezza, la propria uscita di scena. Si arresta a fronteggiare immobile il luttuoso gruppo in nero raccolto sul fondo. Vita contro morte. In un'immagine bellissima che lascia sospeso il finale sulle note di una canzone di Charles Aznavour che dice di cieli del nord.” «La lotta di Delbono contro il dolore» di Franco Quadri (LA REPUBBLICA, 09/10/2006) “Si apre nel bianco assoluto della scena Questo buio feroce, lo spettacolo con cui Pippo Delbono ha aperto la stagione del Teatro di Roma, prendendo titolo ed ispirazione dall'ultimo libro scritto da Harold Brodkey come introduzione ad una morte per Aids. E nel bianco, che nei paesi d'oriente è segno di lutto, subito appare e si trascina, come già nello Studio presentato in luglio a Torino, il corpo scheletrito di Nelson Lariccia , che tornerà di li a poco per darci una toccante interpretazione di "My way". E' sconvolgente l'inizio di tutta la prima parte per l'essenzialità nel rendere astratta una realtà che va da una sala d'attesa d'ospedale a una curiosa sfilata di uomini in guepière, da numeri di costume alla demistificazione di Cenerentola, per non dire del dolce rincorrersi di Bobò e Gianluca Ballarè, le due star di una troupe così diversa dai soliti clichè. Ora la genialità espressive di queste scene, il tipo di approccio, i tempi e le sonorità, impressiona anche se fa a meno stavolta dei consueti interventi del regista e autore, che qui si limita a qualche intervento registrato.” «Delbono, la ferocia in una stanza» di Rita Sala (IL MESSAGGERO, 14/10/2006). “Ci parla, Pippo, di un artista diseredato e offeso, e del contagio che lo ha consumato. Ma non solo, o non tanto. Nella camera bianca, spietatamente vuota, in cui ambienta l’Incubo, ci sono tutti i maledetti della terra, gente di ieri, oggi e domani alla quale “ordina” di rappresentare il proprio dolore. Ci sono universi alfabetizzati e mondi animali, personaggi di fantasia e citazioni illustri, Artaud e Pasolini, Emily Dickinson e la voce di Joan Baez, violenze, soprusi, abusi, perversioni. La coscienza tace. Tutto si agita in uno shaker di forme abnormi e, insieme, domestiche, riconoscibili, maledicibili. Nello smarrimento di questi fantasmi, che non sanno riconoscere un luogo di degna sopravvivenza, il regista versa il proprio bisogno primario: sbattere in primo piano la disarmonia, denunciare il non equo, il non ammissibile, il non umano. Nella sua scatola candida, abbacinante, i sogni hanno persino una fisicità ed appaiono in tre dimensioni, ma solo per spezzarsi, subito, dentro la fiaba di Cenerentola e del suo principe, o in seno alla sweet sweet family made in Usa. Manichini, marionette, pupazzi. L’eleganza degli abiti si sfalda sotto il martello dell’insoddisfazione di chi li indossa. Corpi e cose ballano una danza macabra, estenuante. Il senso è abolito, non serve. I fatti sono superati dalle apparizioni. E l’assenza scientifica di cronologia rende il sabba una lama larga che lo spettatore è costretto a prendere in petto.”

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«L'ultimo stadio» di Marcello Garbato (Giudizio Universale, 20/10/2006) “[…] Uno dei pochi in giro che è in grado di dare sensazioni forti, perché non rimane sulla superficie, è Pippo Delbono, e il suo ultimo lavoro, Questo buio feroce, non fa eccezione: si tratta di un vero e proprio pugno nello stomaco, e la sensazione finale assomiglia al sollievo di quando, passato il dolore, si torna a riprendere il fiato, a riassaporare il proprio respiro: a sentirsi vivi. Sarà forse il montaggio musicale serrato e sparato, sarà la perfetta concatenazione di scene flash solo apparentemente slegate, sarà forse il coraggio di Delbono e della sua compagnia di attori “ai margini” nell’affrontare il tema tabù della morte con un coraggio quasi incosciente: ma se perfino le classiche spettatrici della domenica pomeriggio - le anziane signore innamorate di Goldoni e Pirandello, di Shakespeare e di Molière - applaudono con tifo da stadio ed entusiasmo da ragazzine ai concerti rock, come è successo al Teatro Argentina di Roma, beh, significa che questo teatro riesce a parlare veramente a tutti, o quasi. Se ne è accorto anche Gianni Riotta, e il Tg1 ha dedicato al regista-attore ligure un servizio con intervista. Al debutto del 4 ottobre, 10 minuti di applausi. […] Quello che Delbono porta sul palcoscenico senza paura è il dolore degli umani, sbattendo in faccia al pubblico benpensante e pieno di malcelati sensi di colpa la concatenazione di causa effetto fra il proprio benessere e la povertà di tutti gli altri: “Milioni di persone muoiono per rendervi liberi e felici… Isolati nei vostri appartamenti con l’aria condizionata voi siete liberi e felici”, dice la sua voce amplificata. A emozionare è tutto l’insieme, certo, ma forse sono più di tutto, come sempre, i suoi straordinari “attori non attori” reclutati on the road (tra cui un down, un poliomielitico, un barbone, un sordomuto), una compagnia improbabile e colorata, le facce segnate dalla sofferenza e dalla vita, i corpi quasi scarnificati eppure pieni di un’energia che si fa movimento e comunicazione con gli spettatori. Nella successione delle scene - accompagnate da un tappeto sonoro fatto di musiche tratte dai film di Almodovar e dalle canzoni di Joan Baez, di elettronica e di valzer - c’è un gusto quasi pittorico per le immagini che si stagliano sul fortissimo bianco di base, e questa sensibilità visiva raffinata è uno degli elementi che più continua a frullare nella testa una volta che si è usciti da teatro, insieme ai movimenti e ai gesti, goffi e belli allo stesso tempo, compiuti da Delbono sulle tracce di Pina Bausch: una danza che esprime la vita, senza escluderne le parti meno piacevoli e presentabili, una danza liberatoria che è di nuovo vita perché ha toccato il fondo e ha incontrato la morte.”

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CONVERSANDO CON PIPPO DELBONO

Chi sono le persone che stanno in scena? Si possono ancora oggi chiamare

attori? O performer, attanti, figure?

Credo che in questi anni ci sia stata una rivoluzione importante nell’arte di cui

ancora non ci si è resi conto. Non si sono resi conto soprattutto coloro che questo

teatro dovrebbero programmarlo, comprarlo e scriverne. In effetti ci sono stati

dei cambiamenti inevitabili che hanno modificato il senso della rappresentazione.

Il teatro è un territorio che rimane però sempre più indietro rispetto a tutte le

altre arti, se pensiamo alla musica contemporanea la quale è stata protagonista

di grandi movimenti di innovazione; al cubismo per che ha trasformato un modo

di vedere. Il teatro invece non ha grandi movimenti innovativi e in teatro

trasformazione vuol dire trasformazione di tutte le sue componenti. Come lo

trasformi il teatro? Come il cubismo la trasformazione sta nella composizione,

invece il teatro rimane in alcuni suoi elementi assolutamente vecchio: le scuole,

la formazione, l’impostazione, il rapporto con il corpo, , cosa si insegna a scuola,

cioè si fa un po’ di corpo, un po’ di mimo, un po’ di danza, un po’ di studio del

testo, un po’ di psicodramma. E in effetti non sì è mai contaminato di tutti quegli

elementi che poi sono stati fondamentali in questo secolo, la danza, il teatro

danza di Pina Baush. Io mi considero figlio di quell’innovazione anche se in

effetti non c’è un movimento in cui questa danza sia entrata influenzandone il

linguaggio, l’immagine: c’è la musica, c’è tutto quello che avrebbe dovuto

contaminare la rappresentazione.

Ma rispetto all’attorialità?

Anche l’attorialità cambia valore? Io sono all’antica. C’è un mestiere d’attore,

c’è qualcuno che sulla scena si fa tramite di un’esperienza. Quindi in qualche

modo credo molto nella forza del mio lavoro.

E a che tipo di lavoro si riferisce?

Politico. Non mi piace proprio il rapporto concettuale. Mi piace il teatro che

nasce dall’attore. Avere una bella idea e metterla in scena è sempre un bel

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rischio anche se l’arte contemporanea va in quella zone. L’ultimo mio spettacolo

La menzogna è oggettivamente lo spettacolo che sta più lontano dal concetto di

attore. Qualche volta c’è una rappresentazione quasi una forma di installazione.

Però c’è una grande differenza…Io ti posso spiegare ogni principio, ogni

passaggio che hanno a che fare con una storia del teatro molto antica. La mia

formazione attinge dall’Odin Teatret, che a sua volta ha attinto dal teatro

orientale, a tutti i principi della forza drammatica che sta in uno stop. Tu non

puoi innovare qualcosa se non ti porti dietro l’esperienza dei maestri. Non puoi

innovare se produci un sistema vecchio. La vera rivoluzione è nel linguaggio.

Comunque è cambiato, deve cambiare il senso di essere attore…

Deve comunque scegliere una definizione tra attore, performer, attante o

figura…

Attore… performer non mi piace… attante che vuol dire?

Attante è che lui che “fa” senza una motivazione psicologica (Greimas).

No. Oppure?

Figura.

No allora scelgo “attore”. L’attore è una cosa diversa…

In che senso?

È diverso. È un attore che prende un po’ di tutte queste cose.

Si però c’è differenza all’interno della sua stessa compagnia tra lei, che ha

una formazione attoriale, e le altre persone che non si possono chiamare

attori, ma che presentano invece un’esperienza diversa.

Ognuno mette nell’atto creativo la propria esperienza, la propria storia però poi

è chiaro che il segno che ognuno porta dentro è un segno che diventa in qualche

modo performativo, diventa una lucidità. Non c’è un percorso psicologico.

Nessuno dei miei attori entra in un personaggio. È la persona che entra ed esce

da un gioco. Non c’è tanta differenza tra me e il Sig Nelson: quest’ultimo ne La

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menzogna si mette a terra, rappresenta l’operaio morto e poi nell’intervallo

vende i quadri, cioè gioca con il gioco del teatro. Bobò che si veste elegante

rappresenta un maestro di cerimonia ma allo stesso tempo ritorna Bobò.

Trasformisti quindi?

Trasformisti senza un percorso di personaggio. Non mi interessa il personaggio.

«Il personaggio» dichiara Reza Abdoh «per me è un’unione di simboli e

segni, una cornice psicologica ed emotiva abitata da una persona piuttosto

che da un personaggio che ha un proprio percorso…. Che fine ha fatto il

personaggio nel teatro del secondo Novecento?

Il personaggio esiste ancora nel teatro del duemila. Non vedo soluzioni diverse

nel teatro classico.

Comunque il personaggio è sempre legato al testo…

Certo è legato al testo, all’interpretazione delle parole. Per esempio quando

“faccio” Enrico V, uso le parole di Shakespeare per emettere suoni, colori, e uso

un corpo, un modo di correre, di camminare, ma c’è sempre una persona, una

risata che è la mia.

Insomma più attento alla forma che al contenuto.

Il contenuto è una questione di forma poi; il contenuto è più profondo e si disegna

con delle linee come in un quadro stilizzato giapponese. Non si può dire che non

ci sia contenuto…

Ma è secondario?

Però non parte dall’emozione perché l’emozione è anche molto banale. È troppo

facile l’emozione. Come nel cinema, basti pensare in Bergman in cui c’è tutto un

rapporto con il segno, lo sguardo, le direzioni. C’è sempre un modo di

dipingere. È scientifico.

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Si riferisce alla tecnica?

C’è una tecnica. L’anima viene fuori dopo. Se si ha qualcosa da dire, la propria

storia personale poi viene fuori ma non si parte da quell’esperienza personale per

lavorare. Per esempio anch’io che faccio teatro autobiografico, la mia esperienza

personale è assolutamente segno: in Racconti di giugno, un monologo che

sembrerebbe una seduta psichiatrica e invece anche lì sono chiari le pause, i

ritmi; anche se è la propria vita, ancora di più, allora l’attenzione non è a tirare

fuori ma piuttosto a far diventare politico il privato. È importante non perché si

voglia raccontare i fatti propri ma perché ci si guarda come occhio esterno, cioè

ci si guarda dentro e fuori di sé. E infatti oggi Franco Quadri ha scritto su la

Repubblica a proposito de La menzogna che con il tempo quest’autobiografia è

divenuta sincerità. E quindi la propria storia non è più la propria storia e la metti

così a disposizione degli altri perché è diventata un segno. Invece la messa in

scena di testi è sempre stata noiosa per me. È il nostro vecchio teatro.

Nei suoi spettacoli c’è sempre una separazione tra attore che racconta e varie

altre figure, corpi “di luce e di ombra” già personaggi in scena, insomma

corpi con una loro storia. Si può parlare di scissione dei vari codici? E ciò

presuppone una perdita dell’io?

A me sembra molto importante la scissione. È nella scissione che si trova una

nuova verità.

Perché?

Perché altrimenti si cade nel naturalismo. Per esempio nel mio spettacolo dico

più volte “dimmi che mi ami” come un suono, una nota. Il mio corpo, il mio

sguardo lavorano in un’altra direzione, forse opposta, la mia mente sta in

un’altra zona e questa scissione non naturalistica fa trovare qualcosa che

secondo me è molto più forte del naturalismo e c’entra di più con la verità. Trovo

che ognuna di queste cose viaggi su binari diversi, messe assieme dal montaggio.

L’io come un tutt’uno lo trovo poco interessante. Anna Magnani che corre verso

il figlio morto piangendo e grida “Francesco” è un pezzo di cinema

straordinario ma noi non siamo più frutto di quel linguaggio. La pateticità in

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questo tempo è estremamente pericolosa: i politici che vanno piangendo in visita

ai terremotati dell’Abruzzo. Preferisco far vedere da una parte la faccia di un

politico dall’altra le parole di un altro politico da un’altra ancora il terremoto.

Smembrare gli elementi e rimontarli in un altro modo. Smontando la realtà si

riesce a comprenderla meglio. È lo stesso procedimento che avviene nel cinema.

Ultimamente mi sono avvicinato al cinema perché mi interessa molto lo

smontaggio e il montaggio. Una musica che contraddice o che può anche

agevolare. Tutti gli elementi sono indipendenti ma poi si innescano. Ed è che così

che si possono vedere le cose nuove nonché più interessanti e più vere. Alla fine

paradossalmente nel non voler raccontare e anche nel non voler capire, si

capiscono le cose più profonde, attraverso quindi quella scomposizione che mi

ricorda Picasso e il cubismo.

Alcune figure mute dei suoi spettacoli sembrano manichini che ogni tanto si

ricordano che devono muoversi. Spesso infatti danno davvero la sensazione

di essere come “richiamati dall’esterno” e posseduti da una vita che non è

loro. Vorrebbe commentare?

Penso che nei miei spettacoli tutto è vero e tutto è costruito. Io posso decidere di

indicare la strada a Bobò ma lui sa esattamente dove deve andare. Fa quello che

vuole lui. E poi c’è una finta ideologia, democrazia, comunismo che fa si che crea

i valori del “poverino”. È una visione un po’ “borghesina”: “perché se questa

persona non parla forse non sarà cosciente”. È una banale analisi buonista.

Quando hai scelto come protagonisti persone che la società in qualche modo li ha

considerati nulli e che invece tu consideri straordinarie, geniali, tutto il resto non

conta. È un problema solo borghese, di chi va una volta alla settimana a fare

beneficienza ma non per chi ci vive.

Questo buio feroce è lo spettacolo della sua assenza (stessa funzione ha avuto

Danio Manfredini ne Il Silenzio): c’è poco visivamente in scena, per la prima

volta anche lei diventa una figura come Bobò, Gianluca, Nelson. Si assiste a

un Pippo sdoppiato totalmente, la voce da una parte, registrata, e il corpo

dall’altra: anche quando appare per esempio sulla poltrona durante la

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macabra sfilata di carnevale che evoca una Venezia agonizzante “Venezia sta

morendo”, sta seduto, guarda il pubblico, si osserva da spettatore. Si trova

d’accordo con il fatto che l’attore oggi debba essere spettatore di se stesso?

L’attore che si guarda… beh io sono molto legato alla tradizione dell’attore

sciamanico. I dervishi che sono completamente perduti ma nello stesso tempo si

guardano, hanno per esempio un’attenzione a non cadere. Uno sdoppiamento

totale. Questo sdoppiamento su di me come attore è quell’essere dentro perduto, è

quell’essere dentro guardandoti. Ti lasci perdere, ti lasci guardare per cui sei

incosciente psicologicamente ma cosciente totalmente. E questo è il fatto più

importante che appartiene alla mia esperienza, alla nostra e che fa differenza

rispetto ad altre esperienze che presuppongono un modo molto particolare di

essere attori e di stare sulla scena.

Questo distacco a cosa sarebbe legato?

C’è un distacco e c’è un essere. C’è un corpo, un grande rapporto con la

presenza fisica.

Che è governata dalla mente?

Sì, è un rapporto che si può vivere solo se si è in uno stato straordinario che è

difficile spiegare; si può solo vivere: due persone camminano di spalle e si

fermano nello stesso momento ma non si stanno vedendo, ovvero vivono

l’esperienza dello stare assieme non psicologica ma energetica, in cui alleni le

tue attenzioni. Questo stato è legato a una tradizione sicuramente non

dell’Occidente, lo yoga per esempio. Nell’Occidente può capitare, anche se si

resta legati all’aspetto psicologico-interpretativo. Si arriva anche a quello

straordinario ma il percorso è molto più lungo.

Ma se lei e i suoi “attori” non interpretate, che fate in scena?

È quello stato molto speciale che io ho raggiunto per una serie di coincidenze

della vita anche casuali. Da una parte c’è stata un grande lavoro per una tecnica

che mi ha fatto superare certi limiti sulla coscienza, a esempio in Danimarca

lavoravo con un training molto duro, strano, folklorico ma di grande sapienza;

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per me era difficilissimo quel lavoro ma sono stato uno di quelli che vi si è buttato

a capofitto e alla fine il training l’ha assimilato tanto che quando Eugenio Barba

è venuto a vedere il mio Enrico V mi ha detto “il training ti è entrato dentro, ti ha

posseduto”. In effetti Barba ha ragione che il training sta tutto dentro ma nel

frattempo c’è stato un corpo ferito, le gambe che non potevano più camminare, la

malattia, la follia. Tutto questo fa si che questo tipo di attore è uno che non parla

più nessuno e si crea un grande silenzio. Io mi sento più vicino a Umberto Orsini

perché almeno con lui mi posso confrontare con una tecnica. Invece c’è una

generazione di teatranti che ha avuto belle idee che ha fatto bei spettacoli ma che

non è interessata al lavoro dell’attore. Io non contesto ma devo invece dire che

per me risulta indispensabile.

Nel teatro attuale non c’è monologo né dialoghi ma a solo. Il monologo

presuppone una sorta di relazione con il gruppo o con i partner della scena,

che nei suoi lavori non c’è quasi mai. Cosa distingue l’a solo, secondo lei.

Non capisco. Non trovo sia una domanda intelligente. Per me non c’è differenza.

Non ci sono dialoghi nei suoi spettacoli, a esempio in Urlo, l’unico dialogo è

quello tra Umberto Orsini che racconta a Bobò delle morti dei re tratto

dall’Enrico II di Shakespeare. È un dialogo di una tenerezza brutale che

spiazza: Orsini parla con le parole di Shakespeare e Bobò risponde in

playback della sua stessa voce. Ritengo che sia il punto cruciale dello

spettacolo da un punto di vista meramente riflessivo sul suo fare teatro ma

anche sul fare teatro di altri gruppi che lavorano con attori e non attori: due

mondi a confronto quindi, da una parte l’attore di tradizione, di professione

dall’altra Bobò, una persona. Come supera questa differenza sostanziale a

livello proprio di lavoro per la scena.

Con Orsini, che aveva un grande desiderio di mettersi in discussione, è stato un

rapporto molto interessante. Chiaramente lui si portava dietro una struttura

molto forte, “un modo di…” e nonostante ciò è stato molto generoso a “restare

lì”. Ma un attore di tradizione resta in piedi, non deve fare visivamente nulla e mi

chiede “ma Pippo che devo fare qui in piedi” e io gli rispondo “beh puoi

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benissimo stare lì perché tu sei assolutamente tutto”. Se uno ha una storia

formativa come la mia può tranquillamente stare fermo e lavorare tantissimo,

con gli sguardi per esempio. Se uno invece viene da un’altra formazione trova

invece la difficoltà. Sono stato l’unico a mettere Umberto Orsini seduto. È stata

un’esperienza non facile.

Ma a livello scenico?

Erano due storie che si confrontavano: c’era una vicinanza rispetto all’uso della

voce, entrambi facevamo duetti di testi. Diversa è l’impostazione. Per me la voce

è musicale, molto diversa dalla sua, quasi all’opposto. Lui è molto ronconiano

per quanto riguarda l’impostazione. Io invece sono per la musicalità. Io so che

quando dico le parole di Oscar Wilde ho un rapporto diverso. Con le parole ho

uno strano rapporto, infatti quando le pronuncio sono la mia vita. C’è

qualcos’altro, c’è una storia diversa che ha fatto si che quando dico le parole di

Wilde ma anche di Shakespeare la gente pensa che siano parole mie. È un’altra

storia.

L’uso del microfono come possibilità di separazione dall’io (a esempio in

Questo buio feroce i monologhi della Ragazza Italo/americana o dell’Uomo in

giacca di lurex color oro), spersonalizzante, di riuscita lontananza dal proprio

“sentire”. Che significato ha per lei parlare di spersonalizzazione in scena se

poi invece ha scelto come compagni di viaggio persone con una loro storia

personale invalicabile?

La storia invalicabile ce l’hanno tutti solo che se la dimenticano. Innanzitutto

partiamo da lì. Bobò ha avuto una storia particolare per cui soffre di più,

piuttosto ha avuto una storia come l’ha avuta Umberto Orsini. Non c’è differenza.

Bobò ha la fortuna che essendo stato in certe zone ha più lucidità da artista. Per

me l’artista è colui che sta sempre in quelle zone lì. Gli altri non è che non ci

siano, solo che gli altri si annebbiano di più. Per me Bobò è più fortunato, è più

lucido; come Nelson è più felice. Per me le persone “realizzate” hanno una

grande sofferenza. Io la sento più in Berlusconi che in Nelson. Berlusconi fa quasi

pena, Nelson no. Ma la società non la pensa così e dirà che Berlusconi è un

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“arrivato” e Nelson no. Lo sguardo è quello. Ma Nelson è libero, è lucido, come

anche Bobò. Sono persone che come il lupo ancora guardano la foresta. Per me

sono degli artisti.

Ma circa il microfono?

Ma il microfono è un altro tema. Non mi piace il teatro che spesso obbliga a

usare la voce forte per arrivare fino alle ultime file. O si grida ma il grido è

musica, nel grido non c’è psicologia. Quando invece si forza spesso si tocca una

leggera pateticità della voce e non ci si può ascoltare, non si può usare la voce

come pensiero, non si può entrare in quel linguaggio cinematografico che a me

piace molto. Il microfono permette paradossalmente di non esibirsi, di non dover

arrivare alla signora dell’ultima fila come ci hanno insegnato a scuola. La voce

esce se deve uscire ma alcune volte può anche non uscire, pertanto bisogna

vincere quella retorica che vuole che la voce esca a tutti i costi. Non mi piace lo

stereotipo. L’avvicinare e l’allontanare il microfono presuppone una coscienza,

una lucidità. Nell’Enrico V prendo finalmente il microfono e leggo, anche il

leggere ha la stessa funzione: guardo, leggo ma non sono più io quello che dico.

Mi sembra più giusto. Leggo anche parole che ho scritto di cui non ricordo più,

però in quel leggere io emergo come persona che dice quelle parole che vede. Ci

sono piani diversi e poi la verità viene più fuori. Il teatro deve essere sobrio.

In ogni suo spettacolo c’è sempre una danza o un accenno di danza, che

sembra nascere in maniera immotivata. Perché?

Un accenno di danza? In maniera immotivata?

Beh sì, in Questo buio feroce, lei a petto nudo nel finale…

Ma quello non è un accenno di danza.

E che cos’è?

Come l’ha definito la Bentivoglio, che è la più grande studiosa contemporanea di

danza, è un assolo di danza. Certo se come danza intendi il balletto… se invece

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danza vuol dire raccontare con il corpo la forza, la fragilità, la possibilità,

l’impossibilità, la morte con il corpo, allora è assolo di danza.

La critica lo definisce un attore-regista politico. Come esprime la dimensione

politica nei suoi spettacoli?

Per me politico è diverso da partitico, anche Shakespeare era politico. Anche il

teatro greco. Il teatro è polis. Secondo me il teatro è fatto di persone che si

riuniscono per confrontarsi su un fatto. C’è un senso politico. Già che delle

persone decidano di riunirsi in una sala e stanno insieme, come dice Bergman che

a me piace molto, è un incontro tra esseri umani e il resto non conta. L’incontro

tra esseri umani è già un fatto politico.

E il successo di critica e di pubblico unanime, nazionale e internazionale, a

cosa è dovuto secondo lei?

Il successo di critica non è poi così unanime. C’è Renato Palazzi che mi detesta.

Palazzi dice che faccio teatro con gli handicappati senza tetto. Io non mi sento

mai arrivato. Io da buon ligure sono come mia madre infatti quando le chiedo

“mamma va bene?”, lei mi risponde “guarda Pippo che non è tutto lì”. E allo

stesso modo quando lei mi chiede “va bene Pippo?”, io “non lo so, non tanto

bene” e lei “ ma dai hai fatto anche un film”. C’è sempre un aspetto negativo e

uno positivo in tutte le cose. Quando mi hanno dato il premio Europa e c’erano

tutti a vedermi tranne il teatro di Savona… È un modo per stare sempre a

combattere. La figlia di Kantor, che segue i nostri lavori da anni, è intervenuta in

occasione del premio e ha detto una cosa molto bella, cioè che da quando è morto

il padre ha trovato in me un fratello. E ha aggiunto ancora che Kantor e io

abbiamo una cosa in comune ovvero che entrambi facciamo del teatro una forma

per combattere la morte.

Lei parteggia per uno spettatore affetto da “apnea critica”, come l’attore?

Uno spettatore deve essere “punto emozionalmente”? Che ne pensa?

L’emozione è una parola che può essere pericolosa. L’emozione è una

contraddizione. L’emozione che più resta, che segna, è un’emozione più profonda,

cioè non presuppone la pateticità. Posso vedere uno sceneggiato televisivo

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orribile e può anche venirmi da piangere. C’è invece l’emozione che rimane

incisa. Ieri ho visto Boccioni che faceva vedere la madre. E io ho rivisto la mia, di

madre. A un certo punto l’emozione è stata così forte che non riuscivo a vedere

più lui con sua madre. L’emozione quand’è forte ti segna e ti confronta con altro

da te e va a toccare delle zone assolutamente non comprensibili.

Se non è possibile il transfert psicologico tra spettatore e attore. Che tipo di

fruizione suggerisce? Gli spettatori sono conigli impagliati?

Rituale. C’è un fatto che succede, c’è un contatto di corpi. Per esempio in

occasione de La Menzogna, nella circolarità della scena del Piccolo Teatro

studio, la gente sta dritta con i corpi e sento che c’è una danza collettiva dei

corpi. C’è un corpo rispettoso dello spazio. C’è un silenzio. C’è una tosse che

finisce. E questo crea quell’attenzione che è profonda, non è psicologica. Siamo

tutti lucidi. Siamo tutti in quella dimensione di ascolto. Per esempio l’altra sera

c’era una signora che, durante la scena in cui Gianluca era nudo e faceva “miao

miao”, leggeva il programma di sala e io ero contento così durante l’intervallo

avrei potuto dire a Gianluca, senza indicarla, di rivestirsi che c’era già stata una

signora che stava guardando il programma di sala e tutti a ridere, meno che lei.

È assurdo. Non ho problemi a fare denuncia. C’è un ragazzo down che corre

nudo, è un momento in cui non si sa cosa succederà e la signora legge il

programma di sala per capire cosa sta succedendo.

Ma magari la signora era semplicemente imbarazzata…

Beh, però a questo punto uno si deve chiedere cosa stia succedendo in teatro.

Però è interessante che una signora durante lo spettacolo vada a leggere il

programma di sala, come a dire che dal teatro non ci si deve più aspettare nulla

che sconvolga. Ovvero che si vuole restare in una zona di tranquillità culturale. E

questo tipo di fruizione non mi interessa. Mi preoccupa di più vedere gente che

guarda l’orologio, che si annoia, che fa sorrisi carini, piuttosto preferisco che la

gente vada via.

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È comunque una presa di posizione…

Assolutamente sì, è una linea di forza. È un corpo che decide di andarsene e

quello diventa danza, diventa un ritmo.

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Teatrino Clandestino

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VARIAZIONI SU HEDDA GABLER (2000) di Teatrino Clandestino

Hedda Gabler è un dramma in quattro atti dello scrittore e drammaturgo

norvegese Henrik Ibsen, ed è considerato uno dei suoi maggiori successi. Hedda

ha 29 anni e si unisce in matrimonio con un uomo che non ama, per delle ragioni

puramente economiche. Quando il rivale storico di suo marito, l'alcolista Lovborg

riappare, dichiarando di aver finalmente scritto la sua opera migliore, che gli

permetterebbe di diventare professore all'università, e quindi di soffiare via il

posto destinato al marito, Hedda è presa da forte gelosia. Infatti una sera, ubriaco,

Lovborg smarrisce il manoscritto che avrebbe dovuto condurlo al successo. A

trovarlo è Tesman, il marito di Hedda. Quando Lovborg disperato confessa ad

Hedda di aver perso il manoscritto, quest'ultima non gli dice che suo marito l'ha

trovato ma al contrario lo incoraggia a suicidarsi fornendogli una pistola e poi

brucia il manoscritto. Suo marito e un'altra donna, intima di Lovborg, cercano di

ricostruire, basandosi sulla memoria, il contenuto dell'opera. Hedda è sorpresa

nello scoprire che Lovborg sia morto in un bordello e che probabilmente la sua

morte sia stata frutto di un incidente e non della volontà di suicidarsi. Per di più il

giudice Brack è a conoscenza del fatto che è stata Hedda a dare la pistola a

Lovborg e la minaccia di divulgare questa informazione, se lei non accetta le sue

avances. Hedda sceglierà di suicidarsi.

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Nella versione del Teatrino Clandestino dell’omonima opera di Ibsen viene

mantenuta inalterata la trama sopra descritta così come pure la divisione in quattro

atti ma il testo è stato interamente riscritto. La drammaturgia di Pietro Babina si

avvale principalmente di due elementi: la forma dialogica e il video. Nei dialoghi

registrati, interamente riscritti, si riflette ancora una certa parvenza dei personaggi.

L’immagine video, al contempo elemento drammaturgico e scenografico, diventa

imprescindibile contraltare alle azioni agite dagli attori dal vivo sullo sfondo della

scena. Ma il vero dialogo è quello che avviene tra i primi piani degli attori sullo

schermo e i rispettivi corpi sulla scena che dà vita a una traslazione, sintetizzata

da una dissolvenza permanente, tra il detto e non detto, tra l’espressione del volto

e l’espressione corporea, in un proficuo rapporto tra vicino e lontano, piccolo e

grande. Se da un lato il velo separa, dall’altro consente invece di andare oltre, nel

fondo scena dove ci sono i corpi dal vivo.

Gesti e azioni dei singoli personaggi 1

Giornalista del TG: sullo schermo legge, ma non si sente, la notizia

dell’“inspiegabile suicidio Gabler”. Sottofondo musicale. Didascalia. Hedda: dal primo piano della giornalista si passa a quello di Hedda che fa le

“prove” con la pistola, puntandola in diversi punti del viso, dalla bocca al centro

della fronte. Nel frattempo si vede un’altra Hedda, la Hedda dal vivo, in piedi

sulla pedana grande in fondo alla scena.

Atto I

Dialogo I: Tesman (“Che cosa guardi?”) e Hedda (“Nulla, le foglie sono già

gialle”): si vedono i primi piani dei due negli schermi e sempre loro due dal vivo

sulla pedana grande e sulla pedana piccola verso il proscenio c’è Thea che si

raccoglie i capelli come per uscire. Si vedono passare da un lato all’altro dello

spazio scenico sia Lovborg sia Brack.

1 La descrizione dei gesti e delle azioni dei singoli personaggi sono il risultato di un attento e accurato studio che si è basato sulla comparazione tra il video dello spettacolo e il copione corrispondente. Si è cercato inoltre di scarnificare il più possibile i gesti, riducendoli il più delle volte a movimenti.

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Dialogo II: Tesman (“Sei arrivata da molto?”), Thea (“Sono arrivata ieri

pomeriggio…”) e Hedda (Disperata? Perché che è successo?): Thea in un doppio

primo piano sia sullo schermo di destra che su quello di sinistra che parla con

Hedda e Tesman, le cui voci sono fuori scena. Nel frattempo Thea resta sulla

pedana di destra ma si gira di spalle rispetto allo spettatore. Il gesto è giustificato

dal fatto che Thea dal vivo si rivolge ai due che sono sempre sulla pedana grande.

Ancora passaggi sulla scena di Lovborg. Invece sullo schermo in dissolvenza con

i primi piani di Thea scene in esterno con Lovborg e Brack che lo segue, questi

ultimi separatamente. Poi Thea dalla pedana piccola va verso la pedana grande e

dà a Tesman un bigliettino con il numero di telefono di Lovborg.

Dialogo III: Hedda (“bene… dimmi!”) e Thea (“cosa”): non c’è la scena nel

video.

Dialogo V: Tesman (“Hedda!”) e Hedda (“dimmi!”): sempre nei loro primi piani

ma anche fisicamente sulla pedana centrale. Nel frattempo avanza Brack dal

fondo verso la pedana piccola che viene illuminato.

Atto II

Dialogo I: Brack (“Buongiorno signora. No no non punti su di me”) e Hedda (“e

se le sparassi Brack”): entrambi in video in primo piano e sulla pedana grande dal

vivo che comunicano a gesti. Passa Lovborg da un lato all’altro della scena, come

vagando.

Dialogo III: Tesman (“siediti fa come se fossi a casa tua…”) e Lovborg (“si”):

soliti primi piani degli attori che dialogano e sempre dal vivo gli stessi sulla

pedana centrale con soliti dialoghi muti. Arriva anche Thea e si va sulla pedana

piccola. Voce fuori campo di Thea. In video Lovborg che beve più bicchieri di

liquore. Poi lascia la pedana grande ed esce. Subito dopo, in video, la scena del

“festino”.

Atto III

Dialogo II: Tesman (“Sei ancora sveglia?”) e Hedda (“No mi sono svegliata

presto”): loro due in primo piano e sempre loro due sulla pedana grande, dal vivo,

in piedi. In fondo invece Thea e Brack che corrono come a cercare qualcuno,

Lovborg. Si sente il lamento di un uomo che piange: è Lovborg che ha perso

l’unica copia del suo libro.

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Dialogo III: Brack (“Tesman?”) e Hedda (“Sta dormendo…”):

Dialogo IV: Lettera di Lovborg a Thea: non c’è nel video.

Dialogo V: Hedda (“non so cosa sia successa questa notte…”) e Lovborg (“Il

fatto è che non…”): Hedda e Lovborg in video in primo piano. Nel frattempo

scorrono immagini registrate: prima macchie poi si vedono passi che camminano

affannosi di uomini in fila. Sulla pedana centrale loro dal vivo. Si sente bussare.

Brack sul fondo che li osserva. Lovborg esce dal fondo. Hedda resta sola in piedi.

In video il manoscritto che brucia e in sequenza il primo piano di Hedda: ha gli

occhi rivolti verso l’alto, da invasata.

Atto IV

Dialogo I: Hedda (“Che cos’hai?”) e Tesman (“Sono preoccupato per Lovborg”):

in video Tesman corre dietro a Hedda che di spalle percorre una strada lunga e

dritta, la stessa del finale. Percorrono tutta la strada, l’una a destra l’altro a sinistra

della linea spartitraffico. Poi li insegue Thea. Contemporaneamente dal vivo corre

verso la pedana dove c’è Hedda da sola. È interessantissima questa scena perché

per la prima volta c’è uno sdoppiamento simmetrico tra la scena in video e la

stessa scena dal vivo: un campo e un controcampo presentati

contemporaneamente attraverso una dissolvenza.

Dialogo II: Thea (“Scusatemi se vi disturbo ancora”) e Hedda (“Che c’è Thea?”):

questa scena non è nel video. Ma sicuramente è la prosecuzione della precedente e

comincerebbe forse quando si vede in video Thea che rincorre Hedda e Tesman.

Dialogo III: Hedda (“Che liberazione la morte di Lovborg”) e Brack (“Per lui

sicuramente”): Dal vivo, Tesman e Thea sono sul fondo della scena, Brack e

Hedda sulla pedana grande (che è lo spazio di tutti i “dialoghi muti”). In video,

sempre di spalle, i primi due sul lato destro della strada comunque più avanti dei

secondi due che camminano, anche loro di spalle, ma sul lato sinistro. Dopo aver

parlato con Brack, Hedda ritorna indietro raccatta la pistola da terra e se la

nasconde dietro, nella cinta della gonna: fa la stessa cosa anche nello spazio dal

vivo, poi esce di scena. Finale: Brack, Tesman, Thea e Lovborg camminano

ancora sulla strada ma vengono ripresi frontalmente e lasciati sempre più lontani

dalla telecamera fino a farli diventare piccoli sempre più piccoli.

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L’attore ubiquo

In questo spettacolo, protagonista è l’“ubiquità” per l’attore, in video, vicinissimo

allo spettatore e dal vivo, lontanissimo: nell’Atto I , di Tesman (“Che cosa

guardi?”) e di Hedda (“Nulla, le foglie sono già gialle”) si vedono i loro primi

piani negli schermi e dal vivo sulla pedana grande, le loro sagome in moto.

Questo porta a pensare che se Pietro Babina, regista e drammaturgo del Teatrino

Clandestino, ha trovato un ottimo rapporto dialogico tra attore in immagine e

attore dal vivo, lasciandogli comunque una parvenza di vita teatrale, sicuramente

gli ha sottratto la sua unità. Gli attori in scena si muovono muti e in video parlano

ma fermi, bloccati in primi o primissimi piani; e anche in questo secondo caso “i

personaggi non possono che essere espulsi dalla scena” [Gianni Manzella, da “il

manifesto”, 18/09/2000]. C’è quindi un lavoro sull’attore per sottrazione tant’è

che Renato Palazzi giustamente osserva che c’è una “semplificazione di intenzioni

e sentimenti dei personaggi” [Renato Palazzi, da “Il Sole 24Ore”, 17/09/2000] e

Masolino D’Amico parla “di azioni contenutissime” e “gesti appena accennati”

[Masolino D’Amico, da “La Stampa”, 13/09/2000]. Infatti dalla scansione

dettagliata di tutte le singole azioni di tutte le figure risulta, qui, più che in Madre

e Assassina come si vedrà più avanti, molto utile per capire il fare teatro del

Teatrino che non utilizza azioni complesse, cioè azioni che hanno una loro

effettiva realizzazione, dall’intenzione al movimento con una finalità precisa e

concreta. Queste figure si “muovono” e per certi versi le loro azioni si esauriscono

nei loro movimenti stessi: basti osservare attentamente come le loro azioni dal

vivo siano scandite da un ritmo gestuale esterno. Piccoli movimenti che vanno a

costituire una partitura fisica ben esplorata nel corso delle prove e portata “pari

pari” in scena. Prendendo a esempio la descrizione dettagliata delle varie scene ci

si potrà rendere conto di come ai gesti, che poi diventano i “soliti gesti” dal vivo

non ci sia alcuna implicazione legata alla diegesi dello spettacolo ma diventano

così delle espressioni corporee “libere” pur avendo comunque una matrice legata

al testo ma che con il proseguire dell’opera viene a essere superata: Tesman (“Sei

ancora sveglia?”) e Hedda (“No mi sono svegliata presto”) sulla pedana grande,

dal vivo, in piedi che “rifanno” i movimenti “scoperti” durante le improvvisazioni

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completamente slegati dal pensiero, suggerito dal testo, e Thea e Brack che

corrono come a cercare qualcuno, cioè Lovborg (Atto III). La recitazione ottenuta con questo processo di scissione è da un punto di vista

vocale molto fastidiosa con le sue intonazioni da “annunciatrici televisive”,

assolutamente monocordi e di circostanza, e similarmente anche dal punto di vista

visivo con i suoi volti troppo carichi di smorfie che sottolineano, anzi in alcuni

casi anticipano, le parole che andranno a pronunciare. Babina parla di particolari

capacità dell’attore? Ma a quali si riferisce? A quelle che li fanno risultare

bambolotti telecomandati? O a quelle che invece permettono loro di arrivare a

un’esteriorizzazione così forte fino alla creazione di maschere? Come ci fa notare

Silvia Fanti, pare che il regista abbia scelto la seconda possibilità ovvero che da

Hedda Gabler in poi sia cominciato il lavoro su quello che il Teatrino stesso ha

chiamato il “super-attore”. In questo caso la realizzazione e la conseguente

proiezione di immagini sono state realizzate ai fini della costruzione di maschere,

con la funzione di potenziare la capacità dell’attore di arrivare al pubblico [Silvia

Fanti, art’o autunno, 2002 (12), p. 67]. Quasi che l’immagine dovesse completare

i corpi dal vivo spingendosi non oltre una complementarietà solo concettuale.

Infatti non si perviene al “Super-attore” o “Grand-attore” ma semplicemente,

semmai, al superamento dell’attore in quello di “figurina bidimensionale”, o

silouette priva di “gola” e di “cuore”.

Interessante l’ambiguo rapporto che intercorre tra l’attore e personaggio. Il

lavoro sul personaggio trapela solo nei primi piani registrati e parallelamente un

“contro lavoro”, che è possibile “spiare” attraverso il tulle, nelle scene mute sulle

pedane, per superarlo. Se attraverso i dialoghi si riesce così a mantenere una certa

coerenza drammaturgica rispetto alla tradizione, nel senso che solo attraverso le

parole è possibile “seguire” lo svolgimento dello spettacolo le cui scene mute

invece vanno nella direzione opposta rispetto al racconto giungendo

inevitabilmente al suo rovesciamento. Infatti nulla di quello che gli attori “fanno”

sulle pedane è riportabile a un lavoro psico-logico-analitico, legato al testo e

quindi alle dinamiche che lo sottendono. Particolare risulta altresì il tipo di

approccio al personaggio, che resta saldo come in Madre e Assassina solo nelle

prove e quindi nel testo scritto, ma differentemente, qui, come si diceva prima, il

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materiale creatosi e “montato” viene portato “interamente” sulla scena: le

improvvisazioni mute tendenti alla stilizzazione astratta del gesto. Si ha quindi

l’impressione che gli attori abbiano lavorato “fisicamente” su “movimenti” i cui

pretesti intenzionali siano estrapolabili dalle parole stesse del testo, ma di certo

“lavorate” a parte e quindi non associabili tra loro. Basti fare attenzione ai singoli

gesti silenziosi tendenti a un forte e reale contatto, l’unico, che si realizzerà solo

nelle azioni mute, in scena appunto. Se invece si prova a dimenticare questa

scissione facendo lavorare l’immaginazione sintetica di chi guarda, il corpo in

lontananza, il viso vicinissimo e la voce off risultano gli elementi “autonomi” di

una frammentazione irrecuperabile di cui l’unità dell’attore e, conseguentemente,

del personaggio sono da ritenersi impossibili. Si dovrà così accettare che il Teatro,

quello del Teatrino e non solo, non auspica più nessuna forma di saldezza

organica né dell’unità psicofisica dell’attore né dello spazio che ormai a pieno

titolo raggiunge un’autonomia drammaturgica propria.

Le voci off delle solitudini dialoganti Il dialogo, in questo spettacolo, è il nodo cruciale della ricerca di Babina. Ci sono

almeno due livelli di dialoghi: uno muto e dal vivo, ovvero quello delle scene e

controscene che avvengono nello spazio scenico reale del teatro e quello parlato,

registrato, delle proiezioni sul velino nero. C’è una notevole differenza: i dialoghi

parlati sembrano degli a solo nel senso che ogni attore chiuso nella solitudine del

proprio primo o primissimo piano è come se parlasse con il vuoto. Pertanto si

viene così a creare un distacco molto deciso delle figure tra loro, dovuto anche

alla registrazione. Quei gesti muti appaiono il risultato di una ricerca che deve

portare alle parole ma se le parole sono registrate in un momento diverso dallo

spettacolo stesso che si sta “compiendo”, ciò significa ulteriormente che in scena

si possono portare solo parti di un io disunito? Come in questo caso: l’identità

appare frantumata in corpo dal vivo, corpo nel video, voce registrata, intenzioni

legate alle parole ma slegate dai gesti.

Il dialogo ibseniano è riportato ma riscritto, reso con un linguaggio che appare

discorsivo, quotidiano, come fa notare Palazzi, fino all’iperrealismo che va

“scarnificando non senza una certa ruvidezza lo spiritualismo nordico” risultando

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“un po’ acerbo nell’analisi del testo” [Renato Palazzi, da “Il Sole 24Ore”,

17/09/2000]. Ma se un linguaggio è poco teatrale rispetto ai canoni propri del

teatro tradizionale, è in perfetta linea invece in rapporto al nostro tempo, e si

ottiene così un prodotto più vicino alla televisione che al teatro. I veri rapporti di

scambio però ci sono nelle scene dal vivo e mute: si realizzano su una pedana

nera. Nessuna parola ma tanti gesti per nulla quotidiani, rallentati quasi fossero

l’espressione di un mondo interno che non si può, e non si deve, più esprimere a

teatro con le parole. Qui si può riscontrare una separazione netta tra il viso e la

parola da una parte, nel video, e il corpo e il movimento, dall’altra, dal vivo. Non

ci sono parole dal vivo infatti tutti i dialoghi sono registrati e montati con primi

piani separati tra loro e proiettati su due schermi. Sono dialoghi da fiction,

“esteriori” ed esagerati. C’è una fissità nelle smorfie dei visi bloccati negli

schermi e una recitazione che, il più delle volte, appare come una lettura ad alta

voce.

Ma nonostante la meccanicità dei dialoghi, la cifra drammaturgica propria del

Teatrino Clandestino si conferma nel racconto sostenuto dalle parole o dalle

immagini registrate. Emblema ne diventa la scena finale, “un’interminabile

carrellata all’Angelopoulos di persone che camminano lungo la strada asfaltata

senza auto, in mezzo alla campagna emiliana”: Hedda e Brack, ripresi di spalle, e

con loro anche gli altri personaggi, “raccontano” dell’omicidio/suicidio di

Lovborg. Le scene dal vivo invece sono la traslazione del racconto che si sviluppa

sul video, una particolare appendice delle immagini in video, una loro particolare

dilatazione che porta necessariamente a una “teatralizzazzione” dei movimenti.

Un contrasto forte quindi tra l’immagine gigante, ravvicinata e “realistica” dei

primi piani in video e i corpi piccoli, in lontananza e astratti. Insomma una

sperimentazione su un linguaggio doppio, quello televisivo e quello teatrale,

portati avanti separatamente secondo i criteri consoni ad ognuna delle due

discipline.

Spazi come decostruzioni visive Ci sono almeno tre spazi che “dialogano” tra loro grazie a una plurima

dissolvenza. Lo spazio scenico reale (architettonico), lo spazio registrato, quello

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degli esterni, che scorre dietro all’ultimo spazio, cioè quello che fa da sfondo ai

primi piani anch’essi registrati. Da segnalare è la scena del Atto IV : in video

Tesman corre dietro a Hedda che di spalle percorre una strada lunga e dritta,

insieme la percorrono tutta, l’una a destra l’altro a sinistra della linea

spartitraffico; contemporaneamente, dal vivo, Tesman corre verso la pedana dove

c’è Hedda da sola. È interessantissima questa scena perché per la prima volta c’è

uno sdoppiamento simmetrico tra la scena in video e la stessa scena dal vivo: un

campo, dal vivo, e un controcampo, in video, presentati contemporaneamente. Il

luogo reale è quello del Teatro delle Tese a Venezia che presenta una serie di

arcate di ampie dimensioni. Al suo interno la scena realizzata con delle sagome

astratte di casette bianche, anzi dei muri di case, volutamente finte con delle

aperture, le finestre, trasparenze illuminate dalle luci. Insomma una città di

cartone come fosse il disegnino di un bambino. C’è poi una strada, il corridoio

centrale che è il luogo abitato dagli attori in carne e ossa. Poi ancora due pedane

mobili sulle quali recitano gli attori, una più grande verso il fondo e una più

piccola verso il “proscenio”. Il tutto è incorniciato da un tulle nero. Lo spazio

scenico in immagine invece è di almeno due tipologie che sono rispettivamente:

gli interni dalla “borghesissima” e verdastra carta da parete che fanno da sfondo ai

primi o primissimi piani delle figure e gli esterni dei dintorni di Bologna, o meglio

della campagna circostante che incornicia le scene che presuppongono le figure

intere.

La figure hanno con lo spazio, o in questo caso specifico occorrerebbe parlare

di spazi, un atteggiamento diversificato. E se lo smembramento dà vita a una

traslazione multipla dello spazio, parallelamente si ha una traslazione multipla

delle figure. E di conseguenza ci sono altrettanti approcci delle figure con gli

spazi stessi, per cui “il lavoro sulla partitura fisica degli attori” portata in “una

profondità [spaziale] estrema”, quella dello spazio architettonico del Teatro

veneziano delle Tese, dà alla figua una dimensione del “muoversi” decisamente

diversa per esempio rispetto a quella utilizzata nei video, sia nei primi e

primissimi piani che nei campi lunghi girati in esterna [in Silvia Fanti, art’o

autunno, 2002 (12), p. 67]. E di sicuro si ottiene un dialogo tra le “parti” che

risulta più interessante nel suo complesso che nelle loro singolarità, ovvero è

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molto più interessante osservare i rapporti che intercorrono tra i vari spazi,

piuttosto che nel considerarli nella loro autonomia di senso.

Il rapporto delle figure con gli oggetti è decisamente meno stimolante infatti

sono pochissimi gli oggetti da loro usati . L’unica eccezione rilevante è data dalla

copia dattiloscritta del romanzo che Lovborg perde e che non riuscirà a

pubblicare. Questo romanzo in effetti non esiste se non in video, prima arrotolato

nella tasca di Lovborg poi che brucia a opera di Hedda. E la pistola di Hedda.

Anch’essa è un oggetto virtuale che però con “un passaggio di pistole”, appunto,

porterà fino “ai” suicidi finali [Paolo Ruffini, Primafila, 11/2000]. Hedda ha un

rapporto viscerale con la sua pistola, quasi fosse un prolungamento delle sue

intenzioni. Ricorda un po’ il braccio meccanico di Oreste nell’Orestea dei Sanzio,

ma solo a un livello concettuale.

I colori usati sono quelli che vanno dal nero al verde al beige. Non c’è una

funzione particolare ma il risultato forse vuole essere quello di dar vita a una

situazione coloristica piuttosto quotidiana, confermata anche dalle riprese di

interni borghesi che scorrono dietro i primi piani degli attori: per esempio la carta

da parati a fantasia verde che scorre dietro il primo piano di Hedda.

Lo spettacolo dal vivo invece si dipana in piena penombra, illuminato appena

attraverso le finestre delle casine finte: gli attori sono un po’ più illuminati sulle

pedane. In video invece sono quasi sempre al buio, quando si tratta di mostrare i

primi piani che dialogano. Quando si mostrano gli esterni ci sono colori sempre

spenti tranne quelli vivacissimi quasi artificiali della scena finale che riproduce

piano sequenza nella campagna del bolognese e quelli accesissimi ma sfocati della

scena del “festino” a cui partecipa Lovborg.

Sonorità e pateticità

Il sonoro diventa un altro filone della scissione dei codici che viene realizzata

appieno: il sonoro è un elemento che insieme alle immagini, e certe volte più delle

immagini, “racconta” in un’autonomia assolutamente libera. E qui la sensazione

che si ha è che però non assolve a questa funzione ma tende più

semplicisticamente a sottolineare le situazioni più che crearle, diventando così il

leit motiv di tutta la costruzione. Il sonoro ricorda il suono

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dell’elettrocardiografia, la macchina che registra i battiti del cuore, in tutto lo

spettacolo e in maniera più accentuata nella parte finale come se si stesse

cercando di salvare una vita, quella di Hedda che, nonostante l’“aiuto” di Brack,

sceglierà di suicidarsi. La musica in questa scena in particolare ha una forte

valenza simbolica: la musica che pulsa come un cuore che sta per morire e così

facendo attiva nello spettatore un’attenzione su più livelli sensoriali. Si tratta di

sonorità create ad hoc che come nelle fiction e nelle soap opera vanno a riempire

quei momenti che hanno bisogno di pathos e devono tenere “inchiodato” lo

spettatore allo schermo a eccezione della canzone che fa da sottofondo alla scena

registrata del “festino” al quale Lovborg partecipa solo dopo che Hedda è riuscita

a convincerlo. In questa scena avviene una mescolanza riuscitissima tra colori,

movimento, quello della camera, e la musica che si fondono in un racconto puro:

il “perdersi” di Lovborg è reso magnificamente.

Non mancano i silenzi, anzi si potrebbe dire che durano per tutta la

performance, almeno per quanto riguarda la parte relativa alle scene dal vivo: quei

corpi vivi ma sempre muti riescono a dire più delle stesse parole, le uniche che si

sentono, che sono registrate.

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Recensioni «Giovani, eroici alle prese col teatro» di Gianni Manzella (Il Manifesto, 16/09/2000) “Ma è dramma tutto interiore quello di Hedda Gabler che la regia di Pietro Babina spoglia anche visivamente di qualsiasi azione fisica, oltre che di qualsiasi richiamo naturalistico. (...) Il divanetto su cui si consuma la sua noia è un elegante strumento di tortura, uno sgabello che l’obbliga a un’inutile ginnastica. Ben distante insomma, almeno all’apparenza, dall’ingenuo furore di quell’altra sognatrice che è la (sempre ibseniana) Nora di “Casa di Bambola”, capace persino di andarsene di casa. Azione è la parola, o meglio la forma che essa assume nel dramma, il dialogo che lo imprigiona, favola mascherata da ragionamento, scandito dal rintocco delle musiche pianistiche dello stesso Babina, che solo per un attimo si perdono nella fuga onirica di altre immagini e della musica di Recoil. Resta alla fine l’immagine (buneliana appunto) di quell’infinito camminare in gruppo lungo una strada deserta e senza orizzonte. In silenzio, senza più parole.” « Sguardo su Hedda Gabler secondo il Teatrino Clandestino» (Primafila, 11/ 2000)

“Hedda gabler, spettacolo maturo e di grande impatto visivo […] non solo un esercizio di stile tra immagine riprodotta e la corrispondenza “reale" nelle scene con attori in carne e ossa, ma un riuscitissimo e personale percorso d’arte dal carattere sempre in movimento di un acuto regista sostenuto dalla carismatica presenza di Fiorenza Menni, attrice alter ego di Babina. Sulla costante dei sentimenti di Hedda prendono corpo le relazioni e le vicende incrociate dei protagonisti per poi frantumarsi inesorabilmente nelle solitudini di ognuno, trovando in ognuna la giusta dose di volgare inettitudine da rendere come scarto da sé all’altro; così il legame come un assente ed ardito marito, o la dipendenza di lei dall’amico, mentre dal passato tornano gli incubi e le lettere che descrivono un’Hedda che non è più. Un passaggio di pistole, una vita che si consuma nell’anonimato, il desiderio di fuga che sottende l’apparente quiete bolognese sono scanditi dal tempo di una tesa e bella partitura musicale per pianoforte scritta dallo stesso regista, un’ossessione in note che restituisce alla drammaturgia un retrogusto da suspense cinematografica e ha l’andamento dell’eterno ritorno di una progressiva attesa.”

«Hedda Gabler come al cinema» di Alan Dreyfus (Liberation, 13/05/2001) “Teatrino Clandestino recita in un suo proprio senso su due piani. I protagonisti, presi in una prospettiva in fuga sono ridotti alla taglia e al mutismo di marionette. Essi non sono visibili che in trasparenza per strade di una città stilizzata, spazio fantasmatico, dove essi si muovono come una folla di insetti che si sbatte contro il vetro. L’autentico, il palpabile si inscrive invece nella proiezione cinematografica in primo piano. Testimone di ciò questa scena dove Hedda Gabler, ripresa in primo piano, mima il suo suicidio alla roulette russa con un ballo difficile da sostenere con una pistola, dove lei tritura il grilletto, si infila la canna nella tempia, poi in bocca, in gola nell’orecchio o dentro l’occhio. Sullo schermo raramente inutilizzato, l’immagine si divide in due per delle lunghe corse in spazi attraverso spaccati di realtà. la stessa cesura per i dialoghi, dove nessuno guarda il proprio interlocutore e dove i visi sono rivolti verso gli spettatori. Questo procedimento crea un effetto loupe, i visi immensi sono come prelevati da ciò che accade sulla scena in secondo piano, dove gli attori-marionette agiscono sia in sincrono sia fuori sincrono rispetto a ciò che viene detto. Maniera efficace emozionante per puntualizzare il movimento dei pensieri che stanno dietro all’ipocrisia e della mediocrità borghese che denuncia Ibsen.”

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MADRE E ASSASSINA (2004) di Teatrino Clandestino

Madre e Assassina, spettacolo, scritto, diretto e musicato da Pietro Babina narra

di una famigliola anni Cinquanta. L’ambientazione è una campagna invernale di

periferia che porta nel paese dalle casette disegnate su carta bianca, il municipio,

la scuola, la maternità. Qui tutto è permeato dalla normalità: nascono i bambini, e

i genitori tornano a casa, felici. Ma la felicità misteriosamente viene messa in

crisi: un’amica parla alla madre dei fumi che minacciano il mondo di distruzione.

E così questa rivelazione rimbomba nella testa della madre finché di fronte al

solito tavolo della colazione, le voci dei bambini diventano per lei insopportabili e

così ridotta a ombra su uno sfondo rosso, li uccide a coltellate: grida

insopportabili sono accompagnati da rumori stridenti. E qui comincia il processo

“televisivo” alla madre: un’implacabile Giornalista, in proscenio, in carne e ossa,

dà vita a un reality show del pietoso che ha come vittima di turno una figuretta

dolce col grembiule insanguinato tra piante e fiori autunnali. La madre

insanguinata apparirà poi in scena, dal vivo per il suo atto di difesa.

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Gesti e azioni dei singoli personaggi 2 Sequenza I (in cui viene mostrato il luogo geografico dell’azione): Nessun attore

presente nel video in cui viene presentato il paesino della provincia di Bologna,

luogo del dramma che si consumerà.

Sequenza II (Maddalena partorisce): Maddalena, sul lettino da partoriente, sta

per dare la luce alla sua seconda figlia “Sara”, urla “Muoio… muoio”. Mentre da

una vetrata che si affaccia sulla sala parto si intravvede il marito, il Sig. Sacher,

che cerca di vedere qualcosa. Il Ginecologo estrae la neonata, taglia il cordone

ombelicale poi l’Ostetrica la mostra al padre e la porge alla mamma. Maddalena

manda baci e saluta al marito il quale corrisponde.

Sequenza III (Maddalena e il marito portano a casa Sara): Arrivano verso la

macchina Maddalena, il marito, Luca, il figlio maggiore, e la neonata; ridono. Il

Sig Sacher fa salire in macchina i figli, la moglie, chiude lo sportello e poi si

mette alla guida. Partono. Dissolvenza incrociata della macchina (il figlio si

affaccia al vetro retrovisore) con l’esterno del paesino. Arrivano a casa. Il Sig

Sacher li fa scendere. Si fermano tutti in posa, vicini, come in un fermo

fotogramma: la famiglia Sacher al completo.

Sequenza IV (Sono passati alcuni anni, i due figli Luca e Sara sono cresciuti.

La famiglia Sacher, Maddalena i due figli e il marito, fa colazione): Maddalena

apparecchia il tavolo per la colazione. Arriva il marito e le dà un bacio e poi va a

vedere a che punto sono i bambini. Arriva Luca che si siede. Si siede anche

Maddalena. Arriva il Sig Sacher con Sara in braccio e si siedono anche loro.

Fanno colazione e nel frattempo parlano, schiamazzano e poi ridono. Maddalena

va a prendere la medicina per i figli. Ritorna. I bimbi prendono la medicina. I

bimbi salutano la mamma con un bacio poi escono di scena. Restano i coniugi

Sacher che si mettono d’accordo sulla giornata. Lui si alza bacia la moglie e poi

esce. Si alza anche lei e sparecchia.

Sequenza V (Maddalena, si dedica al giardino, sua passione personale):

Maddalena fa giardinaggio. Canticchia. Posa dei ferri sul tavolo. Toglie le foglie 2 La descrizione dei gesti e delle azioni dei singoli personaggi sono il risultato di un attento e accurato studio che si è basato su una comparazione tra il video dello spettacolo e il copione corrispondente. Si è cercato inoltre di scarnificare il più possibile i gesti, riducendoli il più delle volte a movimenti.

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secche. Spazza. Corre ad aprire la porta alla quale stavano suonando. È Livia.

Entrano in giardino. Maddalena prosegue con lo spazzare. Poi sollecitata da Livia

la saluta e l’abbraccia e si rimette a spazzare. Livia si siede sulla sedia. Si siede

anche lei. Livia si siede sul tavolo. Maddalena si rialza esce di scena per andarsi a

cambiare. Livia si accende una sigaretta. Poi si rialza ed esce anche lei.

Sequenza VI (Maddalena e Livia sono sull’auto di Maddalena): Maddalena e

Livia in macchina: la prima guida, la seconda guarda indolente fuori dal

finestrino. Altra dissolvenza tra macchina e la ripresa di una strada compresa di

linee spartitraffico. Le due parlano. Livia chiede a Maddalena di fermarsi.

Scendono. Livia fotografa il paesaggio industriale circostante. Maddalena si mette

il cappotto sulle spalle. Parlano della crisi economica. Maddalena rimane

impressionata e allarmata dai discorsi di Livia. Poi risalgono in macchina e

ripartono. Stessa dissolvenza di prima. Riparlano. Arrivate in città. Parcheggiano.

Scendono dalla macchina. Escono si scena.

Sequenza VII (Piccoli eventi attorno all’auto di Maddalena): Resta in scena solo

la macchina sulla quale viene lanciata diverse volte la palla. A fianco ci sono dei

bambini che giocano ma non si vedono. Dissolvenza tra i primi piani di

Maddalena in bianco e nero (preoccupata e pensierosa) e la scena a colori dei due

Fidanzatini che si appoggiano alla macchina, si baciano e poi entrano in macchina

per fare l’amore. Lo stesso pallone di prima va a finire sotto la macchina. Un

bambino si avvicina per raccattarlo, si accorge che la macchina si muove e spia

dal finestrino. I due vedono il bambino, si ricompongono ed escono dalla

macchina. Maddalena e Livia tornano all’auto, hanno borse di negozi perché

hanno fatto spese. Poi si salutano e si baciano. Maddalena sale in macchina. Poi

con una retromarcia esce di scena.

Sequenza VIII (Maddalena guida verso casa, ha un pensiero): Maddalena

guida. Dissolvenza: filmati da archivio di fabbriche, di bambini che piangono, di

uomini in guerra, di cadaveri.

Sequenza IX (È sera, e tutta la famiglia Sacher si ricompone attorno alla tavola

per la cena): la famiglia Sacher tutta riunita alla sera intorno al tavolo. Cena.

Maddalena entra ed esce di scena portando pietanze, poi si siede. Nel frattempo i

bambini raccontano di quello che hanno fatto a merenda dalla zia. Maddalena è

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“assente”. Il marito la coinvolge nel dialogo ma lei si altera soprattutto quando i

figli diventano vivaci. I bambini escono. Restano in scena marito e moglie: lei

racconta del suo turbamento dovuto alla rivelazione di Livia e nel frattempo

sparecchia. Si muove da un parte all’altra. Il marito la rassicura ma lei non si dà

pace. Il Sig Sacher fa per andarsene poi ritorna verso la moglie e le ribadisce di

non credere a Livia ma soprattutto di non raccontare nulla in giro, poi esce.

Maddalena resta da sola seduta al tavolo. Uno dei figli lo chiama. Lei risponde

“Arrivo” ma non si muove.

Sequenza X (Il mattino seguente. Maddalena prepara la colazione ai bambini):

Maddalena apparecchia la tavola ma prima odora un vaso di fiori gialli e poi lo

toglie. Chiama i figli. Arriva Sara e le dice di andare a chiamare il fratello che è

tardi. Sara e Luca arrivano e si siedono. Maddalena versa il latte a tutti e due, poi

prepara pane e marmellata per tutti. Sara racconta alla madre che il fratello ha

sognato che la madre lo uccideva. La madre si alza e si mette dietro di lui e si fa

raccontare il sogno. Maddalena si allontana e si mette di profilo. Sara sale in piedi

sulla sedia. Maddalena prende un coltello in mano. La bambina urla in maniera

agghiacciante, tappandosi le orecchie. Buio.

Sequenza XI (Maddalena uccide i figli”): . Insomma succede tutto nei precisi

dettagli come nel sogno di Luca. Su uno sfondo rosso l’ombra della madre con un

coltello in mano. Fiamme in dissolvenza con l’ombra della donna.

Sequenza XII (Maddalena beve un tè): Maddalena seduta di lato al tavolo con le

gambe aperte e tutta sporca di sangue. Ferma con il coltello in mano che poi lascia

cadere sul tavolo, zucchera un tè e dopo lo beve. Questa scena avviene con una

lentezza da incubo, forse è la più agghiacciante dello spettacolo nella quale si

passa dal matricidio efferato alla normalità della quotidianità. Le fiamme

diventano violacee da rosse che erano.

Sequenza XIII (Una trasmissione televisiva): sigla musicale del programma

televisivo di cronaca nera, “Pagina Nera”. La Giornalista, conduttrice, l’unico

personaggio dal vivo dello spettacolo che in questo momento si capirà essere una

proiezione video. Fa il suo “lancio” poi sul lato destro dello schermo appare il

giardino di casa Sacher: entra Maddalena Sacher con l’innaffiatoio per le piante e

vestita da giardinaggio, ancora imbrattata di sangue.

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Sequenza XIV (L’intervista a Maddalena Sacher): la Giornalista si volta verso

Maddalena e intervista Mamma Sacher che risponde alle domande e nel frattempo

annaffia, toglie le foglie, ecc… Maddalena racconta della sua infanzia. Poi va

verso il fondo. Poi risponde alle domande su suo marito. Trapianta i fiori da un

vaso all’altro. Poi risponde alle domande sui figli.

Sequenza XV (La giornalista annuncia l’ascolto della registrazione audio della

strage): la Giornalista si rivolge la pubblico e annuncia che da lì a poco si potrà

ascoltare il “fattaccio”, insieme a Maddalena “per aiutarla a ricordare”: esiste una

registrazione video.

Sequenza XVI (Ascolto della registrazione): Parte il contenuto sonoro del

matricidio. La giornalista resta in scena ma in semibuio. Maddalena resta

illuminata in giardino che a ogni coltellata ascoltata ha degli spasmi e piange

contemporaneamente al pianto della registrazione.

Sequenza XVII (Riprende l’Intervista): la Giornalista di nuovo in luce riprende

l’intervista. Maddalena continua a rispondere a tutte le domande, piangendo.

Racconta tutto. Piange sempre più disperatamente. La Giornalista al buio.

Sequenza XVIII (Maddalena si dissolve): anche Maddalena si dissolve,

inghiottita dal buio. Buio pesto.

Sequenza XIX (Epilogo): Maddalena riappare con un’ombra e recita il suo

“Anche se cercassi di spiegarmi non potrei”. In penombra. Si sente come parlasse

da lontano lontano.

I “corpi spettri” del Teatrino Clandestino “Quelli” del Teatrino Clandestino affermano che “Madre e Assassina è una storia

che emerge dal buio […] È il cinema dell’inconscio, abitato da larve, esseri umani

trasfigurati. Madre e Assassina è una vera e propria fantasmagoria in cui

assistiamo alla coreografia di corpi scarnificati, di più, smaterializzati” [Patalogo

27, Teatrino Clandestino, 2004]. E in effetti dalla visione dello spettacolo ci si

rende conto subito dell’impalpabilità dell’umano, della poca “carne viva” in un

fuoco tutto di intenzioni, quelle del regista, Pietro Babina, che restano molto

spesso “in potenza”. Anzi per una questione di onestà occorre una precisazione

doverosa: lo spettacolo ha qualità come impianto tecnologico/digitale, come

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traslazione fattuale della fantasmagoria nelle immagini video proiettate e delle

dissolvenze, come possibilità di un vero e proprio interrogarsi sulla funzione dello

spazio e del tempo e quindi dei tempi e degli spazi paralleli e sincronicamente

sovrapposti. Ma anche sulla possibilità di rarefazione dell’umano a teatro per

raggiungere quella “leggerezza” e quella ambiguità proprie del teatro dei burattini.

Ma perché sacrificare il fare attoriale? Perché smaterializzare l’attore facendone

un oggetto? Perché parlare ancora di teatro se di teatrale ne resta semplicemente la

tecnica di ripresa che nega i visi, e quindi i soggetti, confondendoli nelle silouttes

degli attori intrappolati in campi lunghi che mantengono le distanze proprie della

fruizione visiva a teatro? Continuano: “in Madre e Assassina e in tutto quello che

è stato il progetto Madri assassine, lo spostamento formale ci dimostra quanto

l’immagine, che nella sua potenza si è sostituita totalmente alla presenza, possa

essere ricondotta a una condizione di presenza […] di immagini antropomorfe,

non esseri umani in carne e ossa, che fanno agitare la macchina più spettrale mai

concepita, il Teatro. E in questo si vede anche come distillata, o meglio estrusa, la

tanto inseguita presenza scenica come in una possibile foto dell’anima. Quello

che la cultura dell’immagine ci ha tolto, il teatro ce lo restituisce nella sua sola

grande regola del qui e ora, ma trasfigurato, SPETTRO” [ibidem].

Forse si dovrebbe parlare di complementarietà di “Presenza” e “Assenza”?

Infatti laddove manca l’uno può tranquillamente sopperire l’altro: il “corpo in

video” privo di voce sostenuto dalla “voce dal vivo” e questa sintesi è ottenuta

attraverso il doppiaggio “in diretta”. Forse che si potrebbe così passare da una

concettualità ossimorica, propria della poetica del Teatrino Clandestino, a una

sintetica compartecipazione degli opposti? In questo teatro “de-psicologgizzato”

non si dovrebbe più parlare di azioni compiute, cioè tese a una finalità precisa, ma

di azioni meccaniche, da burattini. Gli attori non “fanno” ma “eseguono” le

azioni: il termine eseguire lo si riferisce in questo caso all’accogliere un ordine, un

compito e portarlo fino in fondo con una precisione matematica, infatti un passo

in più o in meno potrebbe comprometterne la riuscita. Prendendo a esempio la

descrizione dettagliata della Sequenza II (Maddalena partorisce), si può notare

come ci sia una pluralità di azioni che presuppongono tutti un movimento esterno

ben preciso “il ginecologo estrae la neonata, taglia il cordone”, “Maddalena

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manda baci e saluti al marito il quale corrisponde”. Si giunge così a un teatro che

priva gli attori delle loro intenzioni più profonde e perciò questi accettano un

nuovo ruolo, quello di “esecutori coatti”.

Gli attori si presentano in questo spettacolo almeno sotto tre forme: in

immagine (tutti tranne la Giornalista, per tutto il “suo” tempo e Maddalena, solo

nel finale), in voce (tutti in doppiaggio) e in carne e ossa (solo la Giornalista e

Maddalena). Infatti quando si parla degli attori del Teatrino Clandestino bisogna

sempre e necessariamente parlare di “reale e immaginario”, “di presenza e

assenza”, insomma di “spettralità del corpo” [Branduardi S., Bottani S., 2007, p.

43]. Facendo riferimento nello specifico a Madre e Assassina, questo tema trova il

suo pieno compimento di sperimentazione, già a un buon punto in Hedda Gabler.

Renato Palazzi definisce la figura attoriale, inventata da Pietro Babina per la

“messa in scena” di Madre e Assassina, “una specie di ‘supermarionetta’

digitale”, ovvero “una creatura elettronica che non avrà la sacralità sovrumana

teorizzata da Gordon Craig ma per l’intera durata dello spettacolo non si può fare

a meno di chiedersi se si tratti di una presenza in carne e ossa o di un puro

fantasma tecnologico” [Renato Palazzi, L’assassina digitale, Il Sole 24ORE”,

29/02/2004]. E la fantasmagoria sarebbe stata riuscitissima, aiutata dalla

sospensione dell’incredulità degli spettatori, se dalla Sequenza XIII (Una

trasmissione televisiva) non si fosse materializzata la Giornalista. Prima di questa

scena, tutte le figure erano state proiettate su un velo di tulle nero. Ecco che

quindi il confronto tra il corpo “vivo” e il “corpo spettro” [Branduardi S., Bottani

S., 2007, p. 43] smaterializzato appare obbligatorio, soprattutto a partire dalla

sequenza seguente Sequenza XIV (L’intervista a Maddalena Sacher) in poi, in cui

il “quadro scenico” ospita le due “realtà”, quella digitale delle figure in video

(Maddalena Sacher nel suo verde giardino che si fa intervistare), e quella reale

rappresentata dalla Giornalista in carne e ossa. Se nel primo caso si tratta di

“figurette, carnalissime illusioni ottiche” [Massimo Marino, da “l’Unità”,

27/03/2004] anche nel secondo caso “il carne e ossa” dell’attrice non basta a

colmare una meccanicità recitativa, dalla voce ai gesti. La Giornalista è l’unica

attrice, oltre che Maddalena nel finale, che recita dal vivo, nell’unità di corpo e

voce, ma nonostante ciò resta anche lei una “figuretta”: gesticola così tanto che si

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fa difficoltà a credere che ci sia una certa organicità tra pensiero e gesto, e il

risultato è un corpo in vita ma robotico. E se Fiorenza Menni ottiene una “falsità

un po’ meccanica del suo esprimersi vocale nei colloqui coi familiari” [Franco

Quadri, da “La Repubblica”, 16/02/2004], lo stesso appunto andrebbe riferito a

tutti gli attori di Madre e Assassina dato che si esprimono tutti meccanicamente.

Usano voci, toni e timbri tendenti all’enfasi e alla ridondanza, voci da cartoni

animati. Rispetto a Hedda, per esempio, nella quale le voci usate erano più

quotidiane, seppur monocordi, qui invece c’è un uso della voce più “colorato” ma

pieno di pause, intonazioni sempre esagerate e vuote. La stessa Menni si esprime

in termini di “super presenza” o “super esistenza” [Adriano Zamperini, 2008, p.]:

quale? Quella assente dei video? O quella presente in carne e ossa? Forse non

sarebbe meglio dire che la “presenza” è invece un ricordo lontano? Ovvero che

l’attore del Clandestino sia invece l’ombra, interessante, dell’attore?

Babina dichiara “io credo nella presenza

dell’attore in forma di fantasma. O meglio,

non è tanto l’attore a essere fantasma quanto

il personaggio” [Branduardi S., Bottani S.,

(2007), p. 48]. E questo si raggiunge con il

semplice fatto dell’eliminazione della

dimensione psicologica. Avviene perciò una scissione definitiva e insanabile tra il

fare e il dire dell’attore dove non c’è più posto per il pensare e si può essere

pertanto concordi con Patrice Pavis nel parlare di “problema della divisione della

coscienza psicologica e sociale”, di “demolizione del soggetto” [Valentini, 2007,

p. 96]. Ma nonostante ciò il personaggio, fantasma o meno, appare e si rivela, in

video o in carne e ossa, ma con la perdita ulteriore della terza dimensione. Qui il

lavoro sul personaggio resta saldo, forse, solo nelle prove: risulta un qualcosa di

ibrido dovuto al fatto che l’attore che lo interpreta è chiamato a farlo in due fasi

diverse, ovvero per la registrazione delle azioni e per il doppiaggio dal vivo

durante lo spettacolo? La cosa certa è che viene così a mancare un rapporto diretto

tra il pensiero/intenzione e il conseguente gesto/azione. Viene così a perdersi

l’unità psicofisica dell’attore e di conseguenza del personaggio che viene

sostituito dalla persona.

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Le voci off off dei dialoghi e dei monologhi Sono tutte voci fuori scena, voci dal vivo di attori che doppiano immagini

digitalizzate. Gli attori, nascosti, doppiano tutto, dai dialoghi ai rumori alle voci

dei due bambini. Sono voci che vengono da lontano.

La voce è uno degli aspetti più interessanti di questo lavoro, la voce che alla

fine compare come l’unico residuo teatrale perché dal vivo. Mentre in Hedda era

successo il contrario cioè il residuo teatrale era stato rappresentato dai corpi muti

degli attori, dal vivo. Queste voci pronunciano dialoghi eseguiti tutti con grande

enfasi tanto che in alcuni momenti, se si chiudono gli occhi, sembra di sentire voci

da cartoni animati (per esempio le voci dei bambini emesse da attori adulti

appaiono caricaturali), voci che hanno sonorità irreali, impostate secondo i canoni

propri del linguaggio televisivo. Sono dialoghi che raccontano e portano avanti da

soli la storia: le parole quotidiane seppur prive di spessore “umano” restano

l’unica possibilità che si dà allo spettatore di poter entrare nel racconto.

I monologhi, più che a solo, invece sono tutti recitati dal vivo: tre in tutto. I

primi due dalla Giornalista che sembra vogliano comunicare come molte volte la

finzione e in questo caso la televisione sia più vera della realtà. C’è qui una

trasposizione forte tra il reale della vita di Maddalena in video e il lavoro nella tv

spazzatura della Giornalista dal vivo. Il terzo monologo lo interpreta Maddalena

che si materializzerà sulla scena, nel finale, con la sua lettera di autoaccusa. Sono

monologhi che hanno come destinatari diretti gli spettatori del teatro che

diventano almeno per la durata dello spettacolo spettatori “televisivi”. La loro

struttura resta comunque tradizionale, cioè viene rivolto al pubblico ovvero che ha

un suo referente preciso.

Il linguaggio adoperato è un linguaggio, come direbbe lo scrittore Aldo Nove,

quotidiano quotidiano: gergo, frasi semplici, luoghi comuni, modi di dire che se

non possono essere considerati una forma di azzeramento della parola sicuramente

sono una modalità per renderla il più reale possibile.

In questo spettacolo l’aspetto diegetico più importante non è dato dalle azioni

bensì dai racconti, i gesti diventano accessori e le voci off off il vero collante del

tutto. Tanti sono i racconti che avvengono sempre intorno al tavolo domestico,

come il sogno raccontato da Luca alla madre e alla sorella nella Sequenza X (Il

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mattino seguente. Maddalena prepara

la colazione ai bambini): il sogno

dell’uccisione della madre ai danni

dei due figli. O anche il racconto di

Maddalena al marito nella Sequenza

IX (È sera, e tutta la famiglia Sacher

si ricompone attorno alla tavola per

la cena) a proposito della rivelazione

che le ha fatto l’amica Livia. Il racconto di Sara e Luca ai genitori del pomeriggio

trascorso a casa della zia nella Sequenza IX (È sera, e tutta la famiglia Sacher si

ricompone attorno alla tavola per la cena). E infine il più doloroso di tutti, quello

di Maddalena alla Giornalista durante la trasmissione televisiva nella Sequenza

IX (È sera, e tutta la famiglia Sacher si ricompone attorno alla tavola per la

cena). Anche quando si racconta si raggiunge un grado di “artificialità” molto

alto.

E molto spesso non c’è coincidenza tra racconto e azione: si fa in scena ma il

più delle volte per raccontare di ciò che è accaduto o dovrà accadere. Si tratta

perciò di azioni quotidiane, come l’apparecchiare di Maddalena o il mangiare

della famiglia Sacher o il viaggiare in macchina di Maddalena e della sua amica

Livia: nel dispiegarsi di questi piccoli atti si dipana la trama dell’opera. I tempi

del racconto quindi tendono a subordinare i tempi dell’azione: avviene così

un’economizzazione del tempo dell’azione e una dilatazione del tempo del

racconto.

Dalla smaterializzazione dello spazio in video al non luogo del

teatro Il luogo, anzi i luoghi che “compaiono” in questo spettacolo sono di due tipi:

l’esterno di un paesino del bolognese, l’interno di un luogo teatrale anonimo e

neutro. Nel primo caso, seppur si tratti di uno spazio reale, per il semplice fatto

che viene “ripreso”, e soprattutto per come viene ripreso, cessa di esserlo e

diventa lo spazio del sogno, dell’immagine trasfigurante e non

l’immagine/documento di un luogo realmente esistente. Per quanto invece

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concerne il secondo tipo, si tratta di un luogo qualunque, tutto nero, dal quale le

figure si stagliano per prendere a vivere. Si tratta di un perfetto non luogo nel

quale i personaggi emergono da un abisso; ci sono due sfondi entrambi video, uno

animato, degli esterni, e l’altro inanimato, nero, degli interni rispetto ai quali non

c’è un rapporto particolare tra le figure e gli sfondi.

Non c’è paesaggio se non quello che si vede nella sequenza iniziale. La natura

infatti appare “di sguincio” nei video registrati del paesino del bolognese, luogo in

cui si realizza il dramma “inscenato”, ma anche, seppur “sintetica”, nel giardino

verdissimo di casa Sacher. Nessuna funzione

realistica. Il paese che il video propone

potrebbe essere un paese qualsiasi: la nebbia e

la musica favoriscono una smaterializzazione

del reale che viene accentuata da una

dissolvenza tra l’immagine delle case vere e

l’immagine delle case disegnate, entrambe proiettate.

Gli interni di casa Sacher sono tipici da soap opera: tutto così artefatto,

studiato, abbinato. Gli oggetti ricordano gli ambienti delle case delle bambole

della Mattel, dove ogni singolo dettaglio, anche il più piccolo, è curato talmente

tanto che appare più vero della realtà stessa. Tutto immobile, asettico e “morto” -

basti pensare al vaso di fiori “giallissimo” nella Sequenza X (Il mattino seguente.

Maddalena prepara la colazione ai bambini) - come se dovessero avere a che fare

con esseri inanimati e non con persone in carne e ossa.

Nessun particolare rapporto di affezione tra gli attori/personaggi e i tanti

oggetti utilizzati, che restano tali senza alcuna implicazione simbolica. Sono

oggetti legati alla vita casalinga, dalle tazze per la colazione alla scopa al coltello

che vi assumerà un ruolo fondamentale. Il coltello che sarà l’arma del delitto. Il

coltello che nella Sequenza XI (“Maddalena uccide i figli”) diventa grandissimo

insieme all’ombra della protagonista: l’atto in sé del “figlicidio”, la sua

efferatezza viene disumanizzata con l’ombra dell’assassina.

È lo spettacolo del nero. Tutto emerge dal nero per giungere alla penombra del

finale, Sequenza XIX (Epilogo), nella quale si riconosce la sagoma di Maddalena

che recita il suo “Anche se cercassi di spiegarmi non potrei”. Il nero come sfondo.

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Il nero funzionale alla storia che si racconta. Il nero come vuoto dello spazio

scenico che inghiotte gli attori quando

escono e quando li fa emergere per

prendere parte alla scena. C’è solo una

scena in cui tutto si colora di rosso in un

ardito e riuscitissimo passaggio di

immagini, dalle “coltellate giganti” della

madre grondanti di sangue nella Sequenza

XI (Maddalena uccide i figli) alle fiamme nelle quali la stessa “brucia” nella

Sequenza XII (Maddalena beve un tè).

Interessanti le scene in bianco e nero tendenti al verdastro: i primissimi piani di

Maddalena in dissolvenza con la scena dei “Fidanzatini” nella Sequenza VII

(Piccoli eventi attorno all’auto

di Maddalena): sono gli unici

primi piani dello spettacolo,

forse per confondere lo

spettatore? Ovvero per fargli

credere che si sta svolgendo

tutto dal vivo e che l’unica

proiezione, oltre la sequenza

iniziale, siano questi primi piani

giganti? Dal buio pesto affiorano illuminate solo le situazioni che di volta in volta

avvengono sulla scena. Si viene così a creare un tipo di immagine/video che segue

i canoni propri del linguaggio teatrale: infatti sembra di vedere il teatro in

televisione. Gli spazi e i tempi restano dunque teatrali: in particolare nella

Sequenza XII (Maddalena beve un tè) in cui la madre dopo aver ucciso a coltellate

i suoi due figli beve il tè con una espansione temporale impressionante e con gesti

talmente dilatati che ne amplificano la teatralità.

Il suono come “personaggio tuttologo” Anche qui come in Hedda Gabler c’è una musica/leit motiv creata apposta. Si

tratta di un tappeto musicale che, parallela alla storia che si racconta, crea una

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certa suspence che prepara gli animi a qualcosa di brutto, sin dall’inizio dello

spettacolo. Tipico procedimento usato nelle soap opera. E nonostante le scene

raccontino una tranquilla e normale quotidianità, la musica non lascia dubbi. C’è

un ottimo mixage tra la musica e le battute degli attori: la musica va a riempire

certi vuoti di parola e viene così sapientemente aumentata o diminuita di volume a

seconda dell’esigenza, secondo un fare propriamente radiofonico. La musica, o

sarebbe più corretto dire il “suono”, quindi è reiterazione: il riconoscibilissimo

ritornello diventa una forma di affezione per chi sta assistendo alla “messa in

scena”, una forma di partecipazione e di familiarità con il dramma. La musica

come sottolineatura non della storia che si racconta ma del suo futuro, ovvero di

quello che succederà di lì in avanti. Il suono, come “personaggio”, è il “deus ex

machina” che tutto sa e che in parallelo al regista “veicola” l’attenzione dello

spettatore. La musica che sfida il “qui e ora” con una continuità temporale

coerentissima: quasi come se con questo spettacolo si volesse superare la

peculiarità base del teatro, il “presente”. E questa tesi potrebbe essere avvalorata

da un altro aspetto non trascurabile cioè che dal “tutto registrato” e “proiettato”:

un tempo e uno spazio “usati” in un tempo e uno spazio altri.

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Recensioni «Il grembiule insanguinato della madre assassina» di Franco Quadri (la Repubblica, 16/02/2004) “Partito da un tema tramandato dal mito di Medea e ritrovato nelle odierne cronache, Madre e Assassina si radica su due precedenti studi del Teatrino Clandestino: un video che coglieva il centro tematico della storia e un episodio scenico che, a Santarcangelo, vi aggiungeva delle ipotesi interpretative. Il risultato, oggi, completa il racconta e lo consegna a una perfezione visiva che esige un superamento del fatto teatrale: la presenza degli interpreti nell’azione risulta diretta ma allo stesso tempo cristallizzata da procedimenti tecnici che isolano e danno la sensazione di una ripresa cinetica che non c’è, trasferendoci nella dimensione del sogno.” «Se l’attore scompare nel film» di Gianni Manzella (il manifesto, 22/02/2004) “Cosa resta, e togliamo al teatro la sua riconoscibile essenza, il corpo dell’attore, è questione su cui torna a interrogarci il Teatrino Clandestino. Da tempo il gruppo emiliano ha indirizzato la propria ricerca verso l’approfondimento dell’intreccio fra la dimensione umana della presenza scenica e quella puramente virtuale dell’immagine riprodotta, e tocca un esito importante con questo nuovo spettacolo che nasce da una lunga fase preparatoria, sfociata in due studi intermedi, intorno a un tema di per sé angoscioso. […] In realtà, anche queste ultime sono scene filmate, proiettate su un fondale nero che dà una credibile tridimensionalità all’azione. Doppiate però dal vivo dagli interpreti, così da restituire all’evento la qualità essenziale del «qui e ora». Tutta la prima parte è un succedersi di apparizioni a sorpresa, immagini di assoluta perfezione formale che slittano dall’interno domestico a un giardino verdeggiante alla corsa immobile di una grossa automobile. Fino a riflettersi di nuovo sullo schermo, nel primo piano della protagonista Fiorenza Menni dal bel volto antico che richiama l’ambientazione anni 50 dell’azione. C’è un deliberato parallelismo, istituito dall’autore e regista Pietro Babina, fra la madre che un mattino uccide i suoi due bambini e una ricerca artistica che uccidi gli attori e li sostituisce con i loro fantasmi, corpi smaterializzati.” «L’assassina digitale» di Renato Palazzi (Il Sole 24 ORE, 29/02/2004) !Chissà se sarebbe piaciuta a Materlinck, che già nel 1980 vagheggiava un teatro in cui l’essere umano fosse sostituito da «un’ombra, un riflesso, una proiezione di forme simboliche». Chissà se sarebbe piaciuta a Gordon Graig, questa specie di “supermarionetta” digitale inventata da Pietro Babina per la nuova proposta del Teatrino Clandestino, Madre e assassina: la sua creatura elettronica non avrà la sacralità sovrumana teorizzata dall’artista inglese, ma per l’intera durata dello spettacolo non si può fare a meno di chiedersi se si tratti di una presenza in carne e ossa o di un puro fantasma tecnologico. […] Babina non adotta un espediente a effetto, ma trova una soluzione interessante anche dal punto di vista drammaturgico: quel suo modo incorporeo si adatta infatti a incarnare un modello di vita irreale, destinato a crollare in un attimo senza vera ragione se non per l’impossibilità della sua irraggiungibile perfezione, ed è il sinistro riflesso di una personalità del tutto inconsistente, che nell’infanticidio si dissolve per l’impossibilità di darsi una qualunque spiegazione. L’efficacia dell’illusione è comunque impressionante: la scena dell’intervista — l’unica in cui l’attrice immateriale interagisce con una figura umana — suggerirebbe anzi di introdurre ulteriori giochi di specchi tra verità e apparenza, per preservare meglio la natura teatrale dell’operazione.” «Ritratto di famiglia anni 50 con infanticidio» di Massimo Marino (l’Unita, 27/03/2004) “Lo spettacolo, scritto, diretto e musicato da Pietro Babina, è affilato come un rasoio, durissimo. Narra con compiaciuto realismo cinematografico di una felice famigliola anni Cinquanta. […] Gli attori si muovono tra le proiezioni: è difficile distinguere ciò che è vero da ciò che è evocazione elettronica. […] Il Teatrino Clandestino è riuscito a materializzare incubi individuali e sociali con ombre evanescenti. Ma ci ha anche fornito una lucida dichiarazione d’intenti, per un teatro vivificato da altri linguaggi, contemporanei. Questo lavoro, come le precedenti creazioni da Shakespeare, da Ibsen e dall’Iliade, cerca strade per andare oltre il teatro di «prosa». La tecnologia per Babina non è un fine, ma un mezzo per indagare a fondo i testi, per liberarli dalla polvere, per mettere in moto l’immaginazione, la passione, il pensiero dello spettatore.”

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«Madre e assassina colpisce al cuore» di Magda Poli (Corriere della sera, 03/02/2005) “[…] Per raccontare questa tragedia di una donna semplice che uscita dalla propria vita non sa più come rientrarvi, Pietro Babina con la compagnia del Teatrino Clandestino, sceglie in «Madre e assassina» una via di straordinario impatto visivo in bilico tra realtà e finzione, da immagini tridimensionali, proiettate che sembrano assolutamente realtà e realtà che si ammanta di finzione. Uno spettacolo frutto di una affascinante e interessante ricerca tra la verità del corpo dell’attore sulla scena e il virtuale dell’immagine riprodotta. […] tutto scorre veloce, in un’atmosfera onirica, sospesa e minacciosa, in uno spettacolo aspro e teso che denuncia anche la volgarità della televisione che si accaparra del «fatto di sangue» per promuoverlo in un reality show e il gioco tra verità e finzione si moltiplica ulteriormente in modo ancora più subdolo e crudele. Le ombre del Teatrino Clandestino sono incubi reali fatti vivere con bravura da tutti gli attori a partire dalla protagonista Fiorenza Menni.”

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CONVERSANDO CON PIETRO BABINA E FIORENZA MENNI Chi sono le persone che stanno in scena? Si possono ancora oggi chiamare

attori? O performer, attanti, figure? O nel vostro caso supermarionette

digitali (Renato Palazzi)?

Fiorenza. Se le persone riconoscono in alcuni esseri umani il concetto e la parola

attore, questi ultimi verranno sempre chiamati attori. Non è una cosa che viene

imposta. Può esistere invece il fatto di pensare e osservare come questi esseri

umani che vengono definiti attori possano aggiungere continuamente delle

particolarità. È sempre una questione di sovrapposizione perché il primo gesto

che un essere umano fa quando sceglie di entrare in scena o mettersi davanti a

una telecamera o cinepresa è di aggiungere qualcosa a se stesso. E

quest’aggiunta è infinita così come lo è la concezione che gli esseri umani

possono avere e infinite sono le direzioni. Si possono, quindi, sovrapporre a un

individuo infinite azioni, infiniti oggetti, infiniti abiti, infiniti altri individui.

C’è differenza per esempio tra te e le figure di Pippo Delbono?

F. In scena non c’è nessuna differenza. Dall’esterno sì, perché ci sono diverse

tipologie di indicazioni. La scelta deve essere però libera da entrambe le parti. Se

così non fosse, allora non si può parlare di attore. Ho capito cosa vuoi dire ma

non sono convinta che ci sia una differenza.

Quindi per essere attori è sufficiente il semplice fatto di essere in scena ed

essere guardati?

F. Il fatto che l’attore abbia scelto di mettersi in una posizione diversa dal

pubblico presuppone l’essere guardati ma anche l’essere ascoltati, percepiti,

sentiti perché, come Madre e Assassina dimostra, la percezione dell’attore non è

univoca. La differenza è nella quantità di sovrapposizioni.

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Che intendi per sovrapposizioni?

F. Le indicazioni che mi vengono date che possono essere di tipo narrativo,

psicologico, sentimentale, filosofico, estetico, ritmico, contestuale, inerenti al

costume; la consapevolezza che, insieme a chi è fuori, tu hai fatto verso quella

figura che verrà ascoltata, guardata, percepita e così via…

Ecco perché facevo il confronto tra te e le figure di Delbono, in effetti era per

evidenziare più che lo stare in scena la consapevolezza dello starci…

F. Sicuramente avremo una consapevolezza diversa. La questione dell’attore è un

fatto semplicissimo; é il livello di complicazione che può diversificare ma non ha

a che fare con la qualità. La complessità non è necessariamente una qualità. C’è

però un piano di stratificazione in cui siamo la stessa cosa, poi ovviamente le

stratificazioni, i lucidi aggiunti possono essere completamente diversi.

Pietro. Se si può fare una differenza è che c’è un attore che è un artista e un altro

che non lo è. Fiorenza è un’attrice che è un’artista mentre un altro attore per

esempio in scena porta in sé, pur nella consapevolezza di essere lì, nella scelta di

esserlo, un sapere che appartiene a qualcun altro. In un’attrice stratificata come

Fiorenza c’è una complessità e una consapevolezza dell’uso e dello stare che è

completamente differente, cioè è altro.

Quindi sono tutti attori…

F. Certo che lo sono. Poi è la violenza che si fa su questo concetto che può essere

interessante. La questione dell’attore è una questione sociale, è un problema che

appartiene alla società, a quel collettivo strano che pone la possibilità di creare

questa figura, di innalzare un essere umano a questo statuto leggermente

differente.

In base a cosa scegliete gli attori dei vostri spettacoli, cioè devono avere una

formazione ben definita o create dei laboratori?

F. Dipende dagli spettacoli. La drammaturgia in questo è sempre molto precisa,

infatti se è chiara ti indica subito verso che tipo di collaboratore ti devi dirigere.

In base a questo poi opererai delle scelte. Solitamente preferiamo avere al fianco

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persone che sappiano dove si trovano, che possano avere la possibilità di

condividere tutto il percorso e sappiano dove si vuole arrivare. Si instaura così un

rapporto di tipo etico, politico.

Avete mai scelto persone che non avevano mai avuto esperienze teatrali?

F. Sì, certo.

P. È stata data prima una formazione che ci permettesse di instaurare un dialogo

affinché la persona, come diceva prima Fiorenza, avesse la consapevolezza di

dove si trovasse. Se in quell’occasione la figura ci interessava perché aveva una

sua fisicità specifica, è stata nostra premura di non usarla così com’era ma di

formarla. Chiamare una persona al teatro è anche una responsabilità. Lasciare

un segno su quella persona molto forte e darle degli strumenti che una volta

uscita da quell’esperienza avesse qualcosa di spendibile nel lavoro, come

professionalità.

F. Lo si capisce subito se una persona ha una motivazione profonda o se lo fa per

impaiettarsi. E a quel punto è veramente interessante un essere umano, al di là

del talento che forse nemmeno esiste.

Nei vostri spettacoli c’è sempre una separazione tra il corpo in lontananza (in

video o dal vivo), il viso vicinissimo (Variazioni su Hedda Gabler) o

lontanissimo (Madre e Assassina) e le voci off che risultano gli elementi

“autonomi” della frammentazione irrecuperabile dell’unità dell’attore. Si

può parlare di scissione dei vari codici? E ciò presuppone una perdita dell’io?

P. Ci sono due punti di vista diversi, quello dell’attore in scena che porta queste

incombenze sulle spalle e quello di chi gliel’ha proposto.

F. Un attore per essere tale deve funzionare insieme alla drammaturgia. Per

quanto mi riguarda un attore non deve avere limiti rispetto alla drammaturgia se

non i propri limiti fisici quali l’altezza, la qualità vocale che può essere elaborata

in tante maniere. I limiti dell’attore possono essere modificati sia dalla tecnica

personale dell’attore che dalla tecnica esterna. Quindi sono limiti che possono

essere spostati.

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In Madre e Assassina voi vi doppiate dal vivo e le intenzioni delle azioni nelle

immagini registrate appartengono a un tempo diverso rispetto a quello

dell’emissione della voce…

F. È chiarissimo. L’attore ha assoluta elasticità filosofica e tecnica per riuscire

ad avere utilità all’interno di questa necessità che è drammaturgica. La necessità

dell’attore all’interno del Teatrino Clandestino è in relazione a quello che è lo

stato del teatro: io non posso entrare in scena in quella maniera perché non

pertiene più a una necessità ritmica condivisibile con il pubblico. Ma questo è

anche un privilegio, cioè poter avere un dialogo con la drammaturgia tale che i

risultati si sposino e abbiano la possibilità di avere un dialogo in entrambe le

direzioni. L’attore può avere consapevolezza della sua presenza nel

contemporaneo e quindi riconoscere, riconoscersi in determinate azioni non più

utili al pubblico e forzare in qualche modo la drammaturgia in una determinata

direzione; al tempo stesso ciò viene richiesto non solo all’attore ma anche alla

drammaturgia, alla regia, alla scenografia, alla musica, a tutti gli elementi

insomma che sono necessari per lo spettacolo. L’attore poi in risposta deve avere

lo stesso tipo di agilità, di abilità in primis mentale e poi tecnica.

Quindi per l’attore si realizza una sorta di visionarietà, infatti in Madre e

Assassina, vi vedete agire in video.

F. Sì certo, è un’altra delle bellissime possibilità che si hanno in teatro. Io mentre

lavoro non ho nessuna relazione con me stessa, nel senso che non devo uscire da

me. So che quell’io in quel momento può giocare e può avere quell’altitudine di

spezzatura che mi evito fuori scena, cioè nella vita. Tecnicamente in Madre e

Assassina è, o meglio è stato fantastico, perché secondo me è molto lontana come

fase di ricerca, come il fatto dello spezzamento potesse produrre

un’amplificazione assoluta dei personaggi. Lo spezzare diventa una necessità

drammaturgica. Ci sono delle necessità forti di pensiero che sostanzialmente

facciamo passare attraverso la vita: se tu hai un concetto e lo fai passare

attraverso la vita il risultato solitamente può essere una drammaturgia. E questa

è esperienza, è per questo che può avere un senso con il pubblico e un senso

narrativo anche se la forma può negare una narrazione di tipo classico. Però

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questo passaggio nella vita è fondamentale perché poi probabilmente puoi

arrivare a uno spettacolo. Quindi non arriva il concetto nello spettacolo ma

arriva la sua discesa nel pianeta.

Da un punto di vista propriamente registico la frammentazione è legata alla

perdita dell’io?

P. L’idea di fondo non è proprio la perdita dell’io perché se c’è una cosa che è

rimasta sempre fuori dal nostro lavoro è proprio l’aspetto psicologico-

psicanalitico del mondo e della persona e dell’attore. Da un lato sono delle

potenzialità: io quando ho fatto certe proposte agli attori, a esempio per Hedda

Gabler, parlavo loro di super maschere. La maschera è uno degli oggetti più

antichi che venivano usati nel teatro, le maschere greche sappiamo benissimo che

aumentavano le dimensioni del volto e le potenzialità vocali perché c’era bisogno

che l’attore arrivasse lontano dove tutti guardavano. In sostanza è una forma

tecnicamente diversa di fare una cosa che in teatro è sempre stata fatta. Quindi

l’attore si è sempre perduto, almeno così si narra. Secondo me non è una

differenza importante il fatto che poi abbia la maschera attaccata al volto invece

di avere una distanza sul tulle.

Però se si va a vedere uno spettacolo di tipo tradizionale si ha l’impressione

che ci sia una certa saldezza di voce, corpo verso quell’organicità che mi

sembra ormai superata…

P. Quell’avvicinamento del volto partiva proprio da questo problema, per

riportarti quell’organicità, quell’intimità che potevi avere con la persona. Quindi

è un potenziamento dell’io non un depotenziamento. Il problema è che sulla scena

ci sono i personaggi e non le persone in sé con le loro vite quotidiane: l’attore

quando entra in scena sa di essere una cosa differente ma non per questo perde la

sua personalità anzila mantiene e anche in maniera forte.

F. Ecco perché parlavo di aggiunte.

In Hedda Gabler, si ha come l’impressione che gli attori abbiano lavorato

“fisicamente” su “movimenti” i cui pretesti intenzionali siano estrapolabili

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dalle parole stesse del testo, ma di certo “lavorate” a parte e quindi non

associabili tra loro. Tutto ciò è un procedere verso un superamento del

personaggio a partire dal personaggio stesso?

P. Non è esattamente un superamento del personaggio. Quel lavoro partiva da

varie motivazioni… È abbastanza complesso, quello che dici è assolutamente

vero.

Nel registrato vedevo i personaggi e nel dal vivo invece vedevo qualcosa che

veniva prima delle parole, prima delle azioni, quasi il grumo di quello che poi

si realizzava in immagine…

P. Questo fa parte del nostro lavoro quasi senza pensarlo, in forme diverse.

Questa stratificazione è tornata in cui ogni parte è legata alla drammaturgia:

ogni parte svolge in modo sezionato tutte le singole parti che non vengono perciò

riportate a un unico livello. Anche in questo senso c’è un potenziamento delle

possibilità, infatti l’attore doveva fare prima un lavoro con le espressioni davanti

alla telecamera, poi eseguire tutta una partitura fisica specifica che

presupponeva un dialogo fatto solo di gesti, trovato nelle improvvisazioni. Questo

per potenziare le possibilità del corpo nel momento in cui si sceglie di fare dei

dialoghi durante i quali i corpi scelgono la necessità dei dialoghi, per dare una

possibilità al corpo di svincolarsi dalla tirannia della parola che avrebbe

costretto il corpo nelle sue posture a fare ciò che il testo prevedeva si facesse.

Mentre il corpo da solo poteva dire tante altre cose in più. Fare le due cose

contemporaneamente per un attore sarebbe stato un esercizio quasi folle, sadico.

Quindi in questo caso all’attore si dava la possibilità di lavorare sulla voce che,

essendo estrapolata ed essendo quindi su un altro livello, permetteva di occuparsi

del significato delle parole; sulla parte espressiva del volto davanti alla

telecamera e sulla parte espressiva del proprio corpo, conservando così una

presenza fisica forte. Si danno così all’attore molte più possibilità e al

personaggio molto più sviluppo. Poi è stato compito della regia orchestrare

questi tre livelli. Tutti questi tre livelli danno la possibilità drammaturgicamente

usati di tre narrazioni contemporanee che convergono in quella che noi

chiamiamo la storia ma che separatamente sviluppano tutte le altre possibilità

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narrative. Il volto ha delle possibilità narrative incredibili al di là delle parole

che sta dicendo, il corpo potrebbe dire tante altre cose e così anche la parola.

Questo distaccare i tre livelli, e non incorporarli, dà all’attore l’opportunità di

lavorare su tre livelli differenti e dal punto di vista della costruzione del

personaggio ha tre vie anziché una. Era una questione di portare l’attore, e il

personaggio soprattutto, a un livello di potenza tale che fosse interessante per lo

spettatore. Io credo che nel rapporto tra drammaturgia e regia l’attore non sia

ridotto come marionetta anzi al contrario. Nella parola marionetta c’è sempre

l’aspetto di essere agiti, come se il meccanismo agisse, invece c’è uno sviluppo

dell’attore che deve lavorare su tecniche differenti e quindi essere molto più

bravo, ovvero deve avere molta più arte.

F. Non esiste uno spettacolo di Teatrino Clandestino che non abbia nel suo

risultato drammaturgico-registico una necessità che viene da una proposizione o

un rifiuto di una modalità storica dello stare in scena. È molto strano come

questi aspetti non vengano colti perché la definizione di marionetta appare a volte

una negazione politica di un’esistenza.

Non mi sembra che Craig definendo la supermarionetta abbia pensato a

un’accezione negativa, semmai si augurava che l’attore dimenticasse la

propria esistenza quotidiana in scena…

P. È anche vero che non esiste una marionetta senza un marionettista.

Infatti ci deve essere un marionettista che ha un progetto ben preciso

altrimenti si produce un teatro dello sbaraglio…

P. Dipende dal progetto.

F. Ma no, questa è la seconda metà del Novecento! Questo concetto è una

possibilità. È una dichiarazione di potere, è una presa di posizione di potere

terrificante che ha mandato allo sbaraglio tante persone che hanno scelto di fare

gli attori. E storicamente è brevissima questa fase. Non confondiamo la regia con

la libertà del lavoro dell’attore.

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Io non intendevo che il regista dà indicazioni dittatoriali però comunque crea

un percorso all’attore, una struttura, che ci deve essere, entro la quale

l’attore deve poi trovare una sua libertà.

F. Non è necessariamente della regia la struttura. È minimizzante pensare che la

regia costruisca la struttura. Semmai è la drammaturgia che ti dà una struttura. Il

fatto della relazione, il work in progress è più interessante del teatro di regia.

Non prendere in considerazione le qualità che ognuno ha nel proprio ruolo che di

fatto gestiscono la drammaturgia finale significa perdere un’opportunità

d’analisi.

Questo è assodato. Il regista deve coordinare in un unicum gli attori, la

scenografia (quando c’è), le musiche… e poi è scontato che ognuno debba

trovare una proprio senso nel suo ambito.

F. La storia del Teatro Clandestino non prevede questo.

P. È ovvio che poi c’è un lavoro organizzativo, c’è la figura che sta fuori, che

guarda, che coagula tutto, che coordina.

F. Ma è minimizzante pensare che sia un coordinamento di materiali…

Ma non a livello tecnico è soprattutto a livello di pensiero che poi come dicevi

prima si materializza per gli attori nella vita e per il regista nella tecnicità

dello spettacolo…

F. Questa non è la mia esperienza. Tu stai parlando di qualcosa che io non

conosco.

Sicuramente non sei solo un’attrice, ma un’“attrice pensante” perché porti

avanti un discorso estetico ed etico…

F. Ma il fatto che tu mi definisca un’attrice pensante significa che stai

semplicemente sposando un luogo comune talmente mortificante per chi ha scelto

di essere attrice… tanti registi parlano così. Io non sono un’attrice pensante e chi

è un’attrice non pensante?

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Un’attrice a cui si versano i contributi enpals, le viene riconosciuta la diaria,

“fa” lo spettacolo, va in tournèe…

F. È interessantissimo, chiarissimo e verissimo quello che vuoi dire. Ma prova a

riflettere storicamente se quest’aspetto ha una validità assoluta. O piuttosto ha a

che fare con la storia del secondo Novecento. La differenza tra attore pensante e

non pensante non è reale è soltanto aver costruito all’interno di alcune pratiche,

procedure assolutamente creative, artistiche di un certo tipo, una posizione di

potere che è una sfasatura politica, tra regista e attore e attore addirittura non

pensante. Perché il regista pensa…

Non si può negare che l’attore diventi a volte una funzione…

P. Il teatro di regia assume su di sé tutto un potere che porta ad avere una

masnada di caproni. Ma questa focalizzazione potente sulla regia non succede

solo nella tradizione.

In Madre e Assassina avviene uno spostamento formale teso a dimostrare

quanto l’immagine, più potente della presenza, si sia sostituita totalmente alla

presenza stessa, tranne nei casi de La Giornalista e de La Madre nel finale.

Perché questa scelta? Perché “fictionizzare” il teatro?

P. Durante tutto lo spettacolo, la gente sta immobile davanti alle immagini e

l’unico momento in cui viene colta dal terrore è quando La Madre si materializza

fisicamente sulla scena: questa madre assassina che uccide i figli che si è vista

solo in immagine, distante, che non ti tocca mai, nel finale appare; è proprio in

quel momento che è nato il personaggio. Ovvero il pubblico è stato tenuto in

quella distanza tutto il tempo e quando si ritrova davanti alla persona fisica che

viene fuori da dietro la quinta, beh lì c’è il terrore. E quindi questa de-corporalità

del personaggio per tutto il tempo non parla di se stesso, non è tautologico, non è

quello il problema. Il problema è quello ultimo: adesso ti faccio vedere la

differenza, arrivo lì e sono davanti a te.

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Ma la presenza fisica è potente in questo caso perché è stata potente

l’immagine.

P. Certo anche in questo caso è un potenziamento dell’attore e del lavoro sul

personaggio. Uso un mezzo che può apparire che scinde l’io ma in realtà lo sta

potenziando. Infatti quando La madre entra è più presente che mai. Se invece

fosse stata esposta tutto il tempo la presenza dell’attore, quel momento sarebbe

stato sicuramente più debole. Si tratta drammaturgicamente di dar più potenza

possibile al personaggio perché quest’ultimo deve essere interessante. Il pubblico

quando esce da teatro deve dire che ha vissuto qualcosa.

Quindi la “fictionizzazione” è legata alla drammaturgia…

P. Certo e comunque a mettersi in relazione con il mondo in cui stiamo vivendo.

Cioè noi siamo in una relazione continua e continuativa con un certo tipo di

fiction in cui il teatro da questo punto di vista gioca una partita minoritaria, se il

suo problema fosse la fiction in se stessa, per raccontare una storia e basta. Il

problema quindi non è il raccontare una storia originale ma piuttosto il come

raccontarla.

Nel teatro attuale non c’è monologo né dialoghi ma a solo. In Hedda, i

pseudo-dialoghi “parlati” sembrano degli a solo nel senso che ogni attore

chiuso nella solitudine del proprio primo o primissimo piano è come se

parlasse con il vuoto.

F. Sì, tecnicamente è il controcampo del dialogo, cosa molta cara a Ibsen. Credo

che la nostra Hedda Gabler abbia una fortissima adesione alla proposta

ibseniana. La mancanza di monologhi è perché Ibsen stesso si allontana in

maniera modernissima dal monologo. E va così in maniera profondissima dentro

al dialogo. Il controcampo del dialogo è forse secondo me una cosa che forse gli

era sfuggita come mezzo forse per questioni tempistiche perché il controcampo

era qualcosa che lui non poteva utilizzare ed è una cosa che nel dialogo è

fondamentale a livello emotivo. Il controcampo, come nel cinema, è di una

potenza pazzesca. Tutto quello che dici, che vivi come negazione sono di fatto dei

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percorsi per andare a precisare esattamente la cosa. Il monologo in Hedda non

c’è ma non c’è rispetto alla grande innovazione di Ibsen.

P. Noi abbiamo lavorato molto sul dialogo. È stato un nostro grande punto di

ricerca.

F. Ancora adesso. Una cosa molto interessante è che tutti i mezzi possibili sono a

disposizione, ci sono mezzi scaduti ma non è in assoluto che il monologo per

esempio non possa avere una sua vita. Il monologo è un ritmo lungo di una

battuta, il ritmo lungo di una presenza umana.

P. Secondo me il monologo è un escamotage drammaturgico. E la drammaturgia

che punta all’efficacia. Il monologo è sempre rivolto al pubblico che poi con la

storicizzazione del teatro è diventato il punto di bravura dell’attore. È un altro

scivolamento che da necessità drammaturgica è diventato l’isteria del pubblico.

Ma il pezzo di bravura porta fuori il pubblico dal personaggio e questo è un

tradimento della drammaturgia. E se quando nasce nella testa del drammaturgo

funziona come puntualizzazione del personaggio, a un certo punto diventa affare

del grande attore. Teatralmente è un errore enorme perché sei lì per

rappresentare. E siccome il monologo ha in sé quest’isteria dell’ascolto, tu lo

devi mettere nel cassetto finché un giorno lo spettatore ascolterà il monologo

detto dal personaggio e non dall’attore. Così come il dialogo per certe

avanguardie era inutilizzabile. La drammaturgia è l’unica padrona cui bisogna

rendere conto.

Forse non sono stato molto chiaro… anche quando c’è un monologo viene

detto come a solo e lo stesso vale per i dialoghi , in Hedda ogni attore ha

registrato singolarmente?

P. No contemporaneamente. Gli attori hanno recitato i dialoghi uno di fronte

all’altro con due telecamere. Per aumentare il senso di intimità che permettesse

di penetrare nell’intimità del dialogo, l’idea era di mettere lo spettatore nel mezzo

del dialogo stesso. Avevamo messo due camere frontali: gli attori guardavano il

pubblico ma in realtà si stavano guardando l’un l’altro e il pubblico aveva così

l’opportunità di trovarsi in mezzo al loro sguardo e nel mezzo del dialogo. Quindi

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non stavano monologando in modo separato ma stavano proprio dialogando e

nella realtà…

Nella realtà. Però quello che si evince dalla visione non dà l’impressione di

dialogo.

P. Gli attori guardando in camera si rivolgevano direttamente al pubblico che era

il mezzo attraverso cui passava questo dialogo. Questo aveva un significato per

noi: il pubblico era il tramite del dialogo ovvero doveva portare il dialogo da una

parte all’altra. Questa stratificazione dei livelli, anche visivi, corrispondeva:

sovrapposizioni di livelli che potevi vedere contemporaneamente ma allo stesso

tempo erano separati tra di loro.

F. Una scomposizione che è poi un procedimento tipico dell’arte contemporanea.

Cioè tutto a pezzi da ricomporre.

In Madre e Assassina le voci compaiono come l’unico residuo teatrale perché

dal vivo. Ma sono comunque voci che vengono da lontano.

F. Le voci vengono dal fondo scena, da dietro le figure. Non è l’unico residuo.

Madre e Assassina è uno spettacolo tradizionale nel rispetto delle persone che

hanno costruito, pensato e immaginato a livello architettonico la possibilità di

incastonare in quel luogo, in quello spazio qualcosa che il pubblico possa vedere.

Non è il fatto della contrapposizione tra voce viva e video: sono la stessa cosa. È

solo una questione di rispetto nei confronti della propria epoca, che sia un video

o non sia un video. Noi ci siamo sempre brutalmente detti che a livello ritmico il

video risponde alla necessità di togliere per esempio un tavolo dalla scena che ti

fa perdere del tempo: questa modalità non funziona più a teatro.

Il linguaggio che lei adopera è un linguaggio, per dirla con lo scrittore Aldo

Nove, quotidiano quotidiano: gergo, frasi semplici, luoghi comuni, modi di

dire che se non possono essere considerati una forma di azzeramento della

parola sicuramente sono una modalità per renderla il più reale possibile.

F. Sono d’accordo.

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Nel vostro teatro c’è sempre una contrapposizione forte tra il video, che è

realistico, e i corpi dal vivo, che tendono verso la stilizzazione (Hedda Gabler).

Quindi anche attraverso il linguaggio è come se voleste comunicare a tutti e

lo fate in maniera diretta, secondo una modalità tipicamente televisiva, quasi

da talk show.

P. L’idea è di creare un’osmosi tra i vari livelli e le stratificazioni estetiche,

linguistiche. Per esempio nel nostro Otello c’era questa stratificazione. Da una

parte il seguire fedelmente la storia di Otello dal vivo e nel video gli stessi attori

colti nel loro agire quotidiano: per esempio Fiorenza avviava la lavatrice, andava

a fare la spesa, andava a fare l’aperitivo in posti alla moda; insomma vedevi gli

attori vivere la loro vita in un’apparenza bella e superficiale. Dietro nello sfondo

della scena vedevi gli stessi attori vivere la bestia: grugnivano, ruttavano,

facevano sesso, insomma tutti rapporti molto fisici; le parole attraverso una serie

di dialoghi apparentemente banali smontavano e rimontavano l’Otello di

Shakespeare e così la sua grande parola veniva portata sulla strada…

Uno Shakespeare quotidiano quotidiano…

P. Sì, quotidiano quotidiano ma nello stesso tempo l’attore nel fondo scena ti

faceva vedere che cosa c’è dietro quel quotidiano, quale bestia c’è sotto, dietro il

velo. Quindi queste stratificazioni sono ancora una volta di tipo drammaturgico,

cioè nella stratificazione dei livelli c’è una potenzialità narrativa enorme che dà

la possibilità di portare in scena anche tre contenuti contemporaneamente senza

mandarli in conflitto, e questo importante nella nostra ricerca. Il video non lo

usiamo più come schermo anzi dal progetto Milgram in poi è diventato un

personaggio, cioè è passato da oggetto a uno dei soggetti dello spettacolo. Il

video c’è ma da elemento drammaturgico è diventato un attore in scena, e ha così

un valore completamente differente infatti non ci sono più i tulle, non diventa

scenografico perché ci sono motivi contenutistici che l’hanno riportato dentro il

suo schermo, piccolo…

Dentro il televisore?

P. Sì dentro il televisore, anche dentro il televisore.

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Lei ha dichiarato di aver sempre concepito la costruzione degli spettacoli

come un problema sonoro. In che senso?

P. Questo è il mio sguardo. Quando lavoro ciò che da sempre mi ha guidato, mi

guida e penso mi guiderà è il fatto che non riesco a uscire dal pensare lo

spettacolo come un’orchestrazione musicale. Sembra assurdo ma se la scena non

suona non funziona. È come se la guardassi con le orecchie. È uno spostamento

ritmico che associo alla musica, alla mia esperienza musicale e sento che se

quella nota, che può essere un attore o una luce, non viene suonata in un certo

modo, e la scena non suona, tutto va a scatafascio. Il mio lavoro sostanziale è

quello di far suonare insieme tutti gli strumenti. Dopo di che questo dà una

capacità di ascolto, di visione. Ci sono volte in cui la scena non suona e non si

riesce a risolvere il problema, ma questo esiste anche nella composizione

musicale infatti ci sono parti di un brano che ti fanno volare e parti che le accetti

di più perché sono interessanti per altri aspetti e quando riesci a mettere assieme

le due cose allora è un grande risultato.

Questo come idea globale della costruzione dello spettacolo e dell’apporto

registico, ma rispetto alle sonorità che utilizzate? Per esempio in Hedda la

musica era di sottolineatura, il suono che soprattutto nel finale ricordava

l’elettrocardiografo che simbolicamente è come se si volesse salvare una vita

che poi non si salverà.

P. Questa è la bellezza dell’evocatività. Sì, in effetti c’è un suono che può evocare

un elettrocardiogramma. Sì, ritmicamente sì. Questa per esempio è una musica

emotiva. È proprio una drammaturgia a parte. Anche lì si tratta di una

stratificazione, infatti la musica racconta una cosa, le immagini un’altra, ed

entrambe viaggiano assieme. Se c’è un aspetto che chi studia il nostro lavoro

dovrebbe cogliere è questa stratificazione. In quel caso la musica mi dava

l’opportunità di segnare quel tempo che la performance non dava. Quella musica

lì dura un’ora ma non dura realmente un’ora ma tutta una vita mentre la

performance dura poco. Era l’ultimo episodio di Hedda Gabler. Lo sviluppo

temporale è affidato alla musica.

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Invece in Madre e Assassina il sonoro come sottolineatura non della storia che

si racconta ma del suo futuro, ovvero di quello che succederà di lì in avanti,

secondo un tipico procedimento usato nelle soap opera.

P. L’analisi riguardo alla musica da soap opera mi sembra molto interessante, mi

affascina. Io non avevo mai fatto questo raffronto perché ho visto qualche soap

opera ma non sono un frequentatore.

È una musica performativa. Si può dire?

P. E in questo caso fa da personaggio. Lo spostamento di ruolo all’interno della

drammaturgia, come prima dicevo per il video, avviene anche per la musica. In

altri casi invece la musica faceva altri tipi di spostamento, per esempio in

Sinfonia Majakovskijana, diventava scenografia. Avevo preso l’idea musicale e

l’avevo spostata di ruolo. Infatti c’era stato un annullamento quasi completo della

scenografia e l’ambientazione dell’azione invece veniva affidata alla musica.

Tutti questi scivolamenti sono un ulteriore ribadimento che affidare a un aspetto

un unico ruolo e fissarlo è un errore, è una perdita di ricchezza.

Voi parteggiate per uno spettatore affetto da “apnea critica”, come l’attore?

Uno spettatore deve essere “punto emozionalmente”? Che ne pensate?

P. Io non ho pregiudiziali. Io non mi occupo di questo problema.

F. Il pubblico in questo momento va preso per mano. Prendere per mano il

pubblico significa non lasciargli un vuoto di senso. Il nostro intento sarà di non

lasciargli un vuoto di senso piuttosto sarà la sua vita, la sua motivazione

personale che lo ha spinto a venire a teatro a fargli gestire la fruizione in senso

emozionale, in senso critico, o in qualsiasi altra maniera. E questo non per

buonismo da parte nostra ma per lo stesso motivo forse per cui qualche decennio

fa il pubblico doveva essere scosso, preso a calci. Ora, in un contesto socio-

politico-culturale come il nostro, solo la mano gli va tesa. Poi chiaramente per

ogni spettacolo ci poniamo sempre una questione che è drammaturgica, per

esempio in Madre e Assassina avevamo degli obiettivi precisi di relazione, ovvero

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di tenerlo attaccato attraverso il terrore all’evento spettacolare, ma non al

terrore tout court.

Però vi aspettate una reazione…

F. Sì ma a livello drammaturgico. L’obiettivo è avere sempre un dialogo. Se vuoi

far percepire che il teatro può ammettere un video di cinquanta minuti, a favore

di una presenza di pochi minuti, che però ti riconduce a ciò che significa essere

animali vicino, si può parlare di tragedia che ha qualcosa a che fare con il tuo

rapporto con l’essere animale, il sangue versato attraverso un tuo gesto, cioè la

tragedia. Questo era il percorso di Madre e Assassina, la nostra Medea, quello

che a noi interessava della Medea. Per cui la paura è sicuramente un’emozione

necessaria per poter stare in questo discorso, e non perché la gente debba uscire

impaurita.

P. Teatralmente parlando, per Madre e Assassina l’idea era quella di avere paura

assieme e non di avere paura da soli perché il terrorismo vero, quello che

subiamo tutti i giorni, è quello di essere messi davanti a un oggetto terrorizzante,

senza possibilità di condividere questa paura se non nell’atto isterico del

raccontare. L’idea è di ribaltare tutto questo. Tutti hanno riscontrato una certa

similitudine con la tragedia di Cogne che stava terrorizzando tutto il paese:

portare questa tematica in teatro significava riumanizzare il mostro, grazie al

mettere in rapporto quest’ultimo con gli uomini-spettatori che in una posizione di

vantaggio dovuta al poterlo guardare in faccia vincendo così l’annichilimento che

per esempio la tv produce. Il teatro ti dà quest’opportunità, attraverso la catarsi,

si crea un rapporto con lo spettatore.

È ancora possibile oggi il transfert psicologico tra spettatore e attore. Che

tipo di fruizione suggerite? Gli spettatori sono conigli impagliati?

P. Per me gli spettatori non sono conigli impagliati.

F. Come dicevo prima lo spettatore va preso per mano.

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Ma rispetto al transfert? Cioè voi avete detto che non fate un lavoro

psicologico per cui se non c’è transfert tra attore e personaggio non ci

dovrebbe esserci neppure tra spettatore e attore?

P. Non sono temi che abbiamo mai affrontato. Nel senso che non rientrano nelle

nostre intenzioni. Anche perché la psicanalisi è finita, e non lo dico io.

Castellucci ha risposto che riesce a immedesimarsi solo al cinema e mai a

teatro.

P. Non so. Per me è un problema superato. Io non la ritrovo nemmeno al cinema.

F. Io invece mi immedesimo al cinema. È divertente. È emozionale. È una giostra.

P. Io trovo l’immedesimazione sia il livello più basso della fruizione.

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Recensioni1 Teatro Valdoca Parsifal «Parsifal, un fanciullino che assomiglia a Pinocchio» di Franco Cordelli (Corriere della sera,

07/07/1999)

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15/07/1999)

Paesaggio con fratello rotto

«Oltre le macerie dell’uomo» di Graziano Graziani ( Ladifferenza.org)

«Primo atto, fango che diventa luce» di Alessandro Carli (La Voce di Romagna, 11/03/2008)

«Canto metallico per un paradiso perduto» di Alessandro Carli (La Voce di Romagna, 13/03/2008)

Socìetas Raffaello Sanzio Amleto «Il replicante Amleto prigioniero nello zoo di pezza» di Stefano Casi (l’Unità, 01/02/1992) «L’oggetto Amleto» di Gianni Manzella (Il manifesto, 09/02/1992) «Tra pupazzi di peluche Amleto si autodistrugge» di Franco Quadri (la Repubblica, 11/02/1992 Orestea «Oreste entra come Alice nel paese delle meraviglie» di Franco Quadri (La Repubblica, 13/04/1995) «Oreste nel paese di Alice» di Paolo Ruffini (Liberazione, 13/04/1995) «Una “scandalosa” Orestea di Massimo Marino (l’Unità, 31/01/1996) Genesi «Le origini dell’Uomo fra Dio e il suo doppio» di Franco Quadri (la Repubblica, 08/06/1999) «Lucifero, in arte Blade Runner» di Franco Cordelli (Corriere della sera, 16/06/1999) «Una “Genesi” oscura» di Antonio Audino (Il Sole 24 ore, 09/01/2000) 1 Le recensioni sono state scelte in base a due criteri, ovvero uno legato all’essere coeve rispetto allo spettacolo cui si riferiscano, e l’altro tematico, in linea o anche in disaccordo con quelli trattati nella tesi stessa.

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Compagnia Pippo Delbono Il silenzio «Il "prima" e il "dopo" del grande terremoto» di Rodolfo Di Giammarco (La Repubblica, 30/07/2000) «Il terremoto di Delbono scuote Gibellina» di Luca Doninelli (Avvenire, 26/06/2001) «Artisti di confine» di Gianfranco Capitta (Alias, supplemento settimanale de ‘il manifesto’, 07/07/2001) Urlo «Urlo» di Enrico Fiore (IL MATTINO, 13/07/2004) «Prego, siate i benvenuti nel carnevale degli orrori» di Franco Quadri (LA REPUBBLICA, 05/07/2004) «Urlo di un mondo dolente» di Gianni Manzella (IL MANIFESTO, 04/07/2004) Questo buio feroce «Il Carnevale della malattia» di Gianni Manzella (IL MANIFESTO, 08/10/2006) «La lotta di Delbono contro il dolore» di Franco Quadri (LA REPUBBLICA, 09/10/2006) «Delbono, la ferocia in una stanza» di Rita Sala (IL MESSAGGERO, 14/10/2006) «L'ultimo stadio» di Marcello Garbato (Giudizio Universale, 20/10/2006) Teatrino Clandestino Variazioni su Hedda Gabler (2000) «Giovani, eroici alle prese col teatro» di Gianni Manzella (Il Manifesto, 16/09/2000) « Sguardo su Hedda Gabler secondo il Teatrino Clandestino» (Primafila, 11/ 2000)

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Grazie a Valentina Valentini per l’immensa pazienza, disponibilità e affetto; a Cesare Ronconi, Romeo Castellucci, Pippo Delbono, Pietro Babina e Fiorenza Menni per avermi incontrato; alle mie sorelle Maria Teresa e Pina, ai miei nipotini Maria Chiara e Francesco, ai miei genitori perché sono i miei affetti indiscutibili; a mia cugina Maria per essermi vicina da sempre; a Natale, mio cognato-amico; a Zia Rosa e Zio Tonino per la loro grande considerazione che hanno avuto di me; ad Antonella per essere stata la mia costante e viva energia positiva; a Noemi, Flavia, Francesca R. e Maria C. per la stima che mi mostrano costantemente; a Rosina per l’amicizia profonda; a Luca che, pur conoscendolo da poco, è entrato subito nella mia cerchia di affetti; a Umberto, Simonetta, Nicoletta, Enzo,Giovanni e Christian, Francesco e Tiziana per il grande affetto e amicizia che ci lega; a Etusiana per la sua grande capacità di ascolto; a Monica per essere la mia “amora”; a Linda, Gianfranco, Mirella e Costanza, miei grandi amici da una vita; a Giorgio C. per la sua tenerezza di amico-fratellino; a Daniele e Vittorio E. per bei momenti insieme; a Francesco R. per avermi spronato a “continuare”…; a Filomena e Vittorio per la vecchissima amicizia che ci ha sempre fatti ritrovare; a Ciro F. per l’amicizia, ma anche per il valido aiuto nel montaggio-video; e a Giorgio A. per sapermi ascoltare e consigliare, insomma per la sua capacità straordinaria di esserci; e, infine, a me stesso, alla mia piccola grande forza.