A VOLTE SI ABBANDONA DA GIOVANI! MOTIVAZIONALI E ... · A VOLTE SI ABBANDONA DA ... lo sport, in...
Transcript of A VOLTE SI ABBANDONA DA GIOVANI! MOTIVAZIONALI E ... · A VOLTE SI ABBANDONA DA ... lo sport, in...
1
A VOLTE SI ABBANDONA DA GIOVANI!
PROCESSI MOTIVAZIONALI E PREVENZIONE DELL’ABBANDONO NELLO SPORT GIOVANILE:
INDAGINE NELLA PROVINCIA DI TRENTO.
A cura di
Francesca Vitali, Laura Bortoli, Antonella Bellutti, Claudio Robazza e Federico Schena
Ottobre 2013
2
INDICE
Introduzione pp. 04
Le motivazioni allo sport pp. 05
Il clima motivazionale pp. 08
Il ruolo degli allenatori pp. 08
Il ruolo dei genitori pp. 10
Il ruolo dei compagni pp. 13
Il burnout nello sport giovanile pp. 15
La resilienza pp. 19
La ricerca pp. 21
Obiettivi della ricerca pp. 22
Metodo pp. 23
I partecipanti pp. 23
Gli strumenti pp. 24
Procedura pp. 26
Analisi dei dati e risultati pp. 26
Discussione pp. 28
Sostenere la motivazione nello sport giovanile pp. 30
Prevenire o contrastare il burnout nello sport giovanile pp. 32
Lo sport educativo: una formazione per la vita pp. 35
Bibliografia pp. 41
Appendice pp. 45
3
Introduzione
La pratica di attività sportive in età giovanile viene in genere valorizzata per il contributo
positivo che può dare alla crescita ed alla maturazione personale di ragazze e ragazzi. Quando
gestito in modo educativo dagli adulti, lo sport rappresenta un contesto in cui si possono
apprendere nuove abilità, diventare autonomi e consapevoli delle proprie capacità, mettersi in
gioco affrontando difficoltà ed esperienze di competizione, imparare a collaborare con gli altri, a
rispettare le regole, ad accettare le decisioni di arbitri e giudici.
Nonostante questi aspetti positivi, vi è una diminuzione della pratica sportiva già in età
evolutiva, soprattutto per quanto riguarda le ragazze (la cui presenza nelle attività motorie e
sportive è comunque sempre inferiore a quella dei ragazzi). I dati Istat‐Coni del 2011 mostrano
come nella fascia di età 11‐14 anni il 66% dei ragazzi pratichino sport, contro il 48% delle ragazze;
ma queste percentuali sono già scese rispettivamente al 56% e 39% nella fascia 15‐17 anni, per
diminuire ancora al 46% e 27% nella fascia 18‐19 anni. Differenze regionali evidenziano un netto
svantaggio del Sud, rispetto al Centro ed al Nord.
Nello sport, alcuni ragazzi abbandonano prima ancora di iniziare una vera carriera atletica:
taluni lasciano una disciplina sportiva per intraprenderne una diversa, altri abbandonano la
dimensione agonistica per passare ad attività motorie diversificate e non agonistiche, magari
effettuate in modo autonomo; altri ancora, infine, lasciano lo sport, ma con esso anche la
dimensione motoria in genere, e fanno scelte completamente diverse (spesso sedentarie) per il
proprio tempo libero. Conoscere i motivi che spingono i ragazzi ad abbandonare la pratica sportiva
può allora essere utile per chi organizza e gestisce lo sport giovanile, ma anche per coloro che si
occupano di politiche legate alla salute.
In genere viene definito come “dropout” l’abbandono prematuro di una carriera sportiva,
prima, cioè, che un atleta abbia potuto esprimere completamente il proprio potenziale
(Bussmann, 2004). Ovviamente, non c’è un unico motivo per abbandonare lo sport, in quanto
5
questa scelta può essere condizionata da combinazioni di diversi fattori, sia personali che
situazionali (cfr. Molinero, 2006). Ad esempio, la difficoltà a conciliare scuola e sport viene
evidenziata dai ragazzi come causa frequente di abbandono; del resto, il tempo in cui nello sport ci
si comincia ad impegnare in modo sistematico ed intenso coincide in genere con gli anni della
scuola superiore, e talvolta la difficoltà nel gestire tempi di studio e di allenamento non viene
facilmente superata. Altri motivi di abbandono dichiarati riguardano anche disaccordo con
l’allenatore, mancanza di divertimento, presenza di infortuni, scarsa percezione di competenza,
influenza di altre persone (genitori o compagni), scarse opportunità di successo (Martin, 1997).
Le motivazioni allo sport
L’abbandono dell’attività sportiva viene in genere collegato ai processi motivazionali,
considerando il calo (o la perdita) di motivazione come determinante per l asciare l’attività, a volte
anche con una diminuzione della fiducia nelle proprie capacità e quasi con un senso di fallimento
personale.
La teoria dell’autodeterminazione (Self Determination Theory; Ryan e Deci, 2000) mostra
come la motivazione a praticare sport derivi da due possibili fonti: ragioni intrinseche o
estrinseche. Quando gli atleti sono motivati in modo intrinseco, partecipano per libera scelta
personale, per proprio interesse e piacere; se, invece, sono motivati in modo estrinseco, il
coinvolgimento sportivo è dovuto a ragioni esterne (ad esempio, riconoscimenti sociali o
economici): lo sport, in questo caso, rappresenta un mezzo per ottenere qualcosa che si desidera o
evitare qualcosa che non si vuole. In realtà, la teoria si sviluppa in modo più complesso e prevede
che i processi motivazionali si muovano lungo un continuum in relazione all’autodeterminazione.
Al livello più basso, si trova l’assenza di motivazione (amotivation): questi sono atleti che non
percepiscono un senso di controllo rispetto al proprio coinvolgimento sportivo e non vedono
ragioni (né intrinseche, né estrinseche) per praticare; come è ovvio, questi atleti hanno un’alta
probabilità di abbandonare precocemente l’attività sportiva. Lungo il continuum, poi, si collocano
altre forme di motivazione estrinseca: la prima, fa riferimento a fattori esterni (external
regulation), quando un dato comportamento viene messo in atto solo per ragioni strumentali e
ottenere un vantaggio esterno (es. “Oggi cerco di allenarmi bene perché ci sono osservatori di una
6
squadra superiore”); la seconda, (introjected regulation) è ancora una forma di motivazione
estrinseca, ma il controllo è diventato interno (es. “Oggi mi alleno, perché se non lo facessi mi
sentirei in colpa”); con il terzo tipo di motivazione estrinseca (identified regulation) il
comportamento è autodeterminato, ma l’attività è vista come un mezzo per ottenere
qualcos’altro e non è ancora considerata divertente di per sé (es. “La preparazione fisica è
pesante, ma devo impegnarmi altrimenti l’allenatore non mi farà giocare”); infine, nel continuum
si trova la forma più autonoma di motivazione estrinseca (integrated regulation), per la quale i
comportamenti risultano congruenti con i valori e i bisogni individuali e la motivazione è in parte
già intrinseca, ma ancora mancano interesse e piacere per l’attività in sé (es. “La preprarazione
fisica è faticosa e pesante, ma indispensabile”). Al livello più elevato del continuum
dell’autodeterminazione si trova la motivazione intrinseca: gli atleti partecipano all’attività per il
piacere di farlo, per l’appagamento e la soddisfazione che ne derivano. Quest’ultima rappresenta
la forma di motivazione ideale per chiunque, ma in realtà lo sport competitivo, da quello giovanile
a quello olimpico, è dominato da rinforzi esterni (classifiche, trofei, notorietà, denaro).
Ciononostante, soprattutto con i più giovani sarebbe importante considerare tre aspetti che
possono favorire processi di autodeterminazione e quindi di motivazione intrinseca. Il primo,
riguarda la buona qualità delle relazioni interpersonali: inizialmente l’educazione dei bambini si
fonda anche su processi di modellamento, ovvero utilizzando rinforzi esterni, con i comportamenti
che poi vengono valutati e rinforzati da adulti percepiti affettivamente importanti e significativi;
buone relazioni, senso di appartenenza e legami affettivi con gli altri sono fattori determinanti per
i processi di interiorizzazione e, dunque, di autodeterminazione. Il secondo, fa riferimento alla
percezione di competenza, poiché è probabile che le persone scelgano le attività che sentono di
poter padroneggiare: bambini e ragazzi andrebbero, perciò, sostenuti nella costruzione della
competenza personale. Infine, il terzo si riferisce all’autonomia: andrebbero favorite tutte le
esperienze che vanno in tal senso, nel quadro di un ambiente che sostenga ed incoraggi anche
scelte autonome.
Un secondo approccio teorico fra i più utilizzati nello studio dei processi motivazionali nello
sport giovanile è la teoria dell’orientamento motivazionale (Achievement Goal Theory), fondata sul
contributo teorico di Nicholls (1992) (cfr. Bortoli e Robazza, 2003). Tale teoria pone l’accento
sull’interazione fra fattori individuali ed ambiente, e considera in questo modo la possibilit à di
agire all’interno del contesto didattico per favorire aspetti motivazionali.
7
Dal punto di vista individuale, la teoria pone molta importanza ai criteri soggettivi utilizzati
per definire cosa siano successo e fallimento, come significato person ale attribuito a tali concetti.
Quando la valutazione della propria prestazione è basata su standard normativi, ossia sul
confronto con gli altri, la persona si sente competente se riesce a vincere, a superare gli altri, a
fare meglio (oppure a fare come gli altri ma con meno sforzo): si determina allora quello che viene
definito “orientamento sull’io” (ego orientation). Quando, invece, la valutazione della prestazione
è autoriferita, la percezione di competenza si fonda su criteri di miglioramento personale e di
apprendimento, e l’impegno viene considerato principale fattore di successo: si determina allora
un “orientamento sul compito” (task orientation).
L’orientamento motivazionale è visto, però, non come un “tratto” rigido di personalità,
quanto piuttosto come uno schema cognitivo che viene usato di preferenza per affrontare una
situazione prestativa; tale schema può anche modificarsi in relazione a come un certo contesto
viene percepito, e le caratteristiche dell’ambiente possono orientare la percezione (Rober ts,
2001). Ad esempio, in allenamento è sicuramente più funzionale essere orientati sui miglioramenti
personali (e quindi sul compito), mentre in gara anche un orientamento sulla competizione può
essere utile. In genere, negli atleti questi due orientamenti coesistono con diversi gradi di
combinazione, ma la prevalenza di uno o dell’altro determina fattori comportamentali, cognitivi ed
emozionali qualitativamente diversi. Numerosi studi mostrano come un orientamento prevalente
sul compito risulta maggiormente funzionale, con ricadute positive su diversi aspetti
dell’esperienza sportiva (cfr. Bortoli e Robazza, 2003). Ad esempio, ad esso si associa un maggior
coinvolgimento ed investimento emotivo, con emozioni e sentimenti positivi; inoltre, impegno e
sforzo vengono considerati decisivi per la riuscita e viene attribuito maggior valore ad aspetti
sociali e cooperativi.
In relazione all’orientamento motivazionale, risulta molto importante anche la percezione di
competenza. Quando l’atleta è prevalentemente orientato sul compito (e quindi attento
soprattutto ai propri miglioramenti), i suoi pensieri, le sue azioni e le sue emozioni condizionano in
modo positivo motivazione ed impegno, indipendentemente da quanto egli si senta abile. Se,
invece, è orientato sull’io (e quindi centrato sul confronto con gli altri), vi potrà essere un
atteggiamento motivazionale positivo, con elevato impegno e persistenza nel compito, solo se
l’atleta è effettivamente sicuro di possedere un elevato livello di abilità e non teme quindi,
realisticamente, il confronto con gli altri; se invece si percepisce poco competente, si possono
8
facilmente determinare difficoltà motivazionali (Biddle, 2001). È importante sottolineare come il
riferimento non sia alla competenza reale della persona (ossia al livello oggettivo di capacità
motorie od abilità), ma alla percezione soggettiva di competenza, cioè al fatto di percepirsi, in una
determinata situazione, più o meno competente. Infatti, la percezione di competenza può anche
variare nel tempo in base alla situazione che l’atleta sta vivendo: ad esempio, dopo un infortunio
anche un atleta con elevate abilità può non sentirsi del tutto sicuro dei propri mezzi; o anche, in
una squadra di buon livello un ragazzo dotato che viene lasciato spesso in panc hina può avere la
sensazione di non possedere un livello adeguato di abilità.
Il clima motivazionale
Il ruolo degli allenatori
L’orientamento motivazionale viene, comunque, considerato come risultato di
caratteristiche sia individuali, sia situazionali, valorizzando così l’interazione fra fattori personali ed
ambiente. A tale proposito, l’allenatore può sicuramente giocare un ruolo attivo nel
coinvolgimento motivazionale, costruendo un certo clima educativo ed indirizzando così la
percezione degli allievi. Quando un allenatore interagisce con gli allievi, sia in allenamento che in
gara, mette in atto i comportamenti che ritiene più adeguati ed utilizza un certo tipo di
comunicazione; ad esempio, può valorizzare e dare importanza soprattutto ai ragazzi m igliori,
innervosirsi con chi sbaglia, sottolineare i miglioramenti individuali, incoraggiare chi vede in
difficoltà, utilizzare spesso la competizione fra compagni per stimolare l’impegno, organizzare
gruppi di lavoro prevalentemente per livello di abilità, reagire in modo pacato o bruscamente di
fronte ad un insuccesso o ad una sconfitta in gara, in uno sport di squadra far giocare tutti o
soprattutto i migliori. A volte tali comportamenti vengono attuati in modo istintivo, secondo
convinzioni personali o anche, semplicemente, senza riflettere eccessivamente su di essi; eppure
divengono determinanti, poiché contribuiscono alla costruzione di uno specifico clima
motivazionale.
9
Possono essere individuate due tipologie di clima motivazionale: un “clima orient ato sulla
competenza” (mastery climate), quando l’attenzione è posta sullo sviluppo di abilità e sui
miglioramenti,con l’allenatore che pone obiettivi individualizzati, riconosce l’impegno, sottolinea i
progressi, in una squadra valorizza il contributo di ciascun atleta e la collaborazione con i
compagni; oppure, un “clima orientato sulla prestazione” (performance climate), dove l’accento è
posto sulla competizione, con l’allenatore che dedica maggiore attenzione agli atleti migliori,
rimprovera per gli errori e per una prestazione scadente, stimola spesso la competizione anche
all’interno del gruppo (cfr. Bortoli e Robazza, 2004).
Il clima motivazionale agisce stimolando il coinvolgimento più sul compito o sull’io, a
seconda della maggiore o minore rilevanza degli stimoli in una delle due direzioni; infatti, come si
è detto, la percezione di un certo clima influenza l’atteggiamento individuale, poiché i ragazzi
capiscono quali sono gli obiettivi e gli aspetti che assumono valore in quel contesto. Soprattutto
con i bambini, quando l’orientamento motivazionale non è ancora pienamente sviluppato, il clima
motivazionale creato dagli adulti significativi nei diversi contesti prestativi (nello sport, dagli
allenatori) sembra essere l’elemento più influente, ovvero quello che condiziona maggiormente le
risposte cognitive, affettive e comportamentali e tende a fissare nel tempo la predisposizione
individuale (Treasure, 2001). La ricerca ha ampiamente dimostrato gli effetti maggiormente
funzionali, per i processi motivazionali, della percezione di un clima orientato sulla competenza,
risultato positivamente correlato a maggior divertimento ed interesse nell’attività, più alto livello
di autostima ed un maggior senso di valore personale.
Una ricaduta educativa importante del clima motivazionale riguarda gli aspetti legati alle
convinzioni e ai comportamenti morali, cioè alla “sportività”, intesa come rispetto degli avversari,
delle regole, degli arbitri e delle convenzioni sociali nello sport (ad esempio, congratularsi co n gli
avversari quando vincono o aiutare un avversario a rialzarsi dopo una caduta). Parecchi studi sono
stati effettuati su questa tematica, riferiti in particolare a sport quali calcio, basket, rugby,
pallamano, nei quali il contatto fisico con gli avversari durante il gioco determina anche scelte
legate al controllo ed alla gestione di atteggiamenti e comportamenti potenzialmente dannosi per
gli atleti (cfr. Bortoli, Messina, Zorba e Robazza, 2006). La percezione di un clima motivazionale
orientato sulla competenza si collegava a capacità di pensiero e valutazioni morali più mature,
minor disponibilità verso comportamenti scorretti ed anche migliori relazioni con i propri
compagni di squadra. Viceversa, la percezione di un clima fortemente orientato sulla prestazione
10
determinava minori capacità di valutazione morale, più disponibilità ad azioni scorrette (anche con
possibili conseguenze fisiche sugli avversari) e a comportamenti anti ‐sociali, relazioni più scadenti,
e a volte conflitto con i propri compagni di squadra. Del resto, quando il fine è sconfiggere
l’avversario a tutti i costi, quest’ultimo è visto come un ostacolo ai propri obiettivi, e come
conseguenza di una moralità egocentrica è facile che vengano suscitati sentimen ti di ostilità ed
aggressività.
In questi studi viene sottolineata anche l’importanza di quella che viene definita “atmosfera
morale” di una squadra, poiché essa condiziona le valutazioni morali dei singoli giocatori: quando
gli atleti percepiscono che l’ambiente di squadra approva, pur di vincere, anche comportamenti
scorretti, o che l’allenatore incoraggia provocazioni verbali o fisiche, tenderanno a considerare
appropriati tali comportamenti ed aumenterà la probabilità di una loro maggiore frequenza.
Invece, con un clima orientato sulla competenza (dove l’attenzione è posta sull’impegno e sui
miglioramenti personali), è più facile considerare gli avversari come co‐attori, e quindi come
componente determinante di un’esperienza che aiuta a mettere alla prova i propri limiti e a dare il
massimo: questo significa giocare non “contro”, ma “con” gli avversari, con un maggior livello di
empatia e di attenzione agli altri. Naturalmente, al centro di queste riflessione si pone la figura
dell’allenatore, che nel contesto specifico della società sportiva risulta determinante nella
costruzione (e quindi nella percezione da parte dei giocatori) di un certo clima motivazionale;
viene, così, evidenziato anche il suo ruolo fondamentale in riferimento ad aspetti di etica sportiva.
Il ruolo dei genitori
Affrontando il tema della motivazione è, comunque, necessario fare delle riflessioni anche
sul ruolo dei genitori, che incidono fortemente sul modo in cui i ragazzi interpretano le esperienze
che si trovano a vivere. I genitori sono determinanti dal punto di vista motivazionale, poiché, nei
diversi contesti (scolastici e sportivi, ma non solo) trasmettono ai figli la propria concezione di
successo, favorendone un orientamento generale di base sul compito o sull’io.
La teoria dell’orientamento motivazionale, che è applicata ampiamente nel contesto dello
sport, è stata comunque sviluppata da Ames (1992) con riferimento alla scuola. Anche a scuola ai
bambini e ai ragazzi sono richieste delle prestazioni (in questo caso, cognitive) ed essi sono
11
coinvolti in attività ritenute significative, che prevedono anche una valutazione formale con criteri
normativi. Le prestazioni avvengono di fronte ai compagni e in diverse occasioni gli allievi vengono
raggruppati sulla base del loro livello di abilità, tanto che il valore personale è spesso collegato al
confronto con gli altri (“Guarda i tuoi compagni come sono attenti!”). Anche a scuola, il successo
può essere valutato in termini di miglioramenti e progressi individuali, oppure in relazione al
confronto interpersonale e a standard normativi. I ragazzi possono, dunque, porre l’attenzione
sullo sviluppo delle proprie capacità e sull’apprendimento, oppure sul dimostrare le proprie
capacità cercando di fare meglio degli altri. Questa teoria è poi stata applicata al l’ambito sportivo,
in quanto prestazione e competizione sono due elementi specifici e fondamentali di quella che è la
definizione del concetto di sport.
La tipologia prevalente di orientamento motivazionale è determinata innanzitutto proprio
dai processi di socializzazione: vi è corrispondenza fra il grado individuale di orientamento sull’io e
sul compito e la percezione dell’orientamento delle persone ritenute importanti (genitori,
insegnanti, allenatori). In particolare con riguardo ai genitori, vi è relazione fra il modo in cui essi
definiscono il successo per i propri figli e le caratteristiche motivazionali individuali che i figli
sviluppano. Purtroppo, con gli attuali modelli culturali trasmessi dai mass media, è oggi abbastanza
frequente incontrare genitori che esortano i propri figli non tanto a fare del proprio meglio, magari
accettandone anche qualche limite o difficoltà, ma soprattutto a fare meglio d egli altri, a superare
un amico, un compagno, in un confronto continuo con qualcun altro (a volte un fra tello o una
sorella!).
Nello sport, ad esempio, il modo in cui i genitori reagiscono a vittorie e sconfitte manda forti
messaggi ai ragazzi sul valore attribuito non solo all’esperienza sportiva, ma anche al figlio stesso
come persona. Frasi del tipo “Allora, hai vinto?” oppure “Ti sei divertito?” rivolte al figlio di ritorno
da una gara o da una partita fanno capire al ragazzo a che cosa i propri genitori diano importanza
rispetto allo sport; ma una domanda come “Hai perso, come al solito?” manda al ragazz o anche un
forte segnale di svalorizzazione e di sfiducia nelle proprie capacità.
I genitori devono, poi, cercare di distinguere chiaramente tra le proprie motivazioni e quelle
dei figli. Ci sono molte ragioni per cui ai genitori fa piacere che i figli pratichino uno sport, per
esempio perché loro stessi sono stati atleti e desiderano che anche i propri figli vivano esperienze
di questo tipo. Essi, però, dovrebbero considerare che la motivazione è individuale e che la propria
può non coincidere con quella dei figli: alcuni ragazzi fanno sport perché vogliono competere e
12
vincere, altri perché si divertono con gli amici, altri ancora semplicemente perché hanno piacere
nel muoversi. Tutte queste sono valide ragioni per praticare uno sport. È importante che i ge nitori
capiscano quali sono i motivi della partecipazione, per esempio parlando con i figli dell’esperienza
sportiva, e anche ponendo loro domande come: “Perché vuoi giocare a basket?”, “Perché ti piace
nuotare?”. È scontato che a tutti piaccia vincere, ma gareggiare e vincere possono non essere la
priorità per i ragazzi. Va considerato, inoltre, come la motivazione possa cambiare nel tempo: un
ragazzo può iniziare a praticare sport essendo molto competitivo, ma poi può smorzare questo
interesse, o viceversa può, col progredire degli allenamenti e dello sviluppo di abilità, desiderare di
competere ad un livello più alto.
Infine, i genitori dovrebbero essere consapevoli che anche nello sport, come in tutti gli altri
contesti della vita, essi rappresentano modelli di ruolo e di comportamento; spesso viene
sottovalutato (o meglio, non tenuto chiaramente presente) l’impatto che i comportamenti dei
genitori hanno sui figli dal punto di vista educativo. Nel processo educativo un aspetto
fondamentale è la coerenza fra quello che gli adulti chiedono ai ragazzi ed i loro propri
comportamenti: se c’è coerenza, il messaggio educativo passa in modo forte, ma se c’è
discordanza fra ciò che si dice e come ci si comporta, allora è l’aspetto comportamentale che
diviene predominante! Nello sport i genitori rappresentano, in particolare, modelli di
comportamenti critici, ad esempio quelli legati all’autocontrollo, alla gestione della frustrazione o
ad aspetti di etica sportiva. Se è vero che lo sport contribuisce a sviluppare ca ratteristiche positive
(come impegno, costanza, tolleranza alla fatica, lealtà, socializzazione, etc.), è anche vero che a
volte può avere invece effetti negativi, ridurre i comportamenti pro‐sociali e promuovere
comportamenti anti‐sociali (cfr. Miller, Roberts e Ommundsen, 2004). Una ricerca nel basket
giovanile (Arthur‐Banning et al., 2009), in cui un gruppo di genitori aveva ricevuto una breve
formazione sull’importanza della sportività e sui comportamenti che ne derivano (come ad
esempio, applaudire una bella azione di un avversario o incoraggiare un avversario a terra), ha
evidenziato che i comportamenti positivi degli adulti erano predittivi di comportamenti positivi dei
ragazzi: ogni quattro interventi positivi di un genitore si evidenziava un comport amento positivo in
più dei ragazzi. L’influenza dei genitori, in questo aspetto, si è rivelata maggiore di quella degli
allenatori.
13
Il ruolo dei compagni
Se, come si è visto, dal punto di vista motivazionale genitori ed allenatori giocano un ruolo
determinante, non va trascurata nemmeno l’influenza che compagni ed amici possono avere a
questo proposito. Durante gli allenamenti e le competizioni, i ragazzi e le ragazze interagiscono
molto con i coetanei, vivono relazioni significative alla pari, rispetto alle relazioni con gli adulti, e
anche dal confronto con i compagni ricavano informazioni importanti sul proprio livello di abilità e
competenza. Inoltre, man mano che i ragazzi crescono, passando dall’infanzia all’adolescenza, il
giudizio dei compagni acquista progressivamente maggior valore e peso nella valutazione di
aspetti di sé, quale, ad esempio, la competenza motoria. All’interno dell’Achievement Goal Theory
è stato pertanto considerato anche il clima motivazionale creato dai compagni. Caratteristic he di
coinvolgimento sulla competenza sono presenti quando i compagni valorizzano i miglioramenti e
sono collaborativi, quando ciascuno sente di avere un proprio ruolo nel gruppo e non si fanno
preferenze fra i compagni, quando vi è accettazione reciproca e supporto affettivo, quando i
ragazzi fra di loro si incoraggiano nei momenti di impegno e di fatica. Al contrario, caratteristiche
di coinvolgimento sulla prestazione sono legate all’essere in competizione con i propri compagni,
ad un continuo confronto sui livelli di abilità, alla considerazione solo dei propri compagni migliori;
durante le competizioni, poi, possono essere presenti critiche e atteggiamenti ostili in caso si
errore, e lamentele ed accuse dopo le sconfitte.
È, dunque, importante che anche i ragazzi acquisiscano consapevolezza del’impatto che i
propri atteggiamenti e comportamenti possono avere sui compagni, riflettano sulle proprie
reazioni nei momenti emotivamente carichi e sugli effetti che commenti e osservazioni possono
avere sugli altri, apprendano in allenamento comportamenti che possano non solo risultare utili
dal punto di vista del clima di gruppo, ma anche avere ricadute positive sulla prestazione stessa.
Uno studio su circa 500 giovani atleti, sia ragazzi che ragazze, ha messo lu ce le ricadute positive
derivate dalla percezione di un clima motivazionale orientato sulla competenza attribuito
all’allenatore e ai compagni (Vazou, Ntoumanis eDuda, 2006). Nella percezione di autostima fisica i
compagni sono risultati determinanti, per l’impegno lo era invece l’allenatore, ai fini del
divertimento risultavano significativi sia l’allenatore che i compagni.
Jõesaar, Hein e Hagger (2011, 2012) hanno mostrato come il clima motivazionale
determinato dalle relazioni con i compagni influenza non solo il modo di vivere l’esperienza
14
sportiva, ma anche la permanenza stessa nello sport o il possibile abbandono. Un clima
motivazionale di gruppo orientato sulla competenza ha un impatto positivo sulla motivazione
intrinseca allo sport, ossia su una esperienza sportiva vissuta con piacere e soddisfazione. Il clima
motivazionale resta stabile nell’arco di una stagione agonistica, e quando i ragazzi trovano nel
gruppo dei pari risposta ad alcuni bisogni psicologici fondamentali (quali senso di appartenenz a,
buone relazioni interpersonali, autonomia e percezione di competenza) vivono in modo
gratificante la pratica sportiva e di conseguenza diminuiscono le percentuali di abbandono.
Il burnout nello sport giovanile
Un ulteriore aspetto collegato all’abbandono dello sport anche in età giovanile è il fenomeno
del burnout, ossia una situazione psicologica che rende l’esperienza sportiva faticosa da sostenere,
sia in termini fisici che emotivi, e predispone pertanto all’abbandono. In modo più specifico, per
burnout si intende una condizione psicologica associata con sensazioni di esaurimento fisico ed
emozionale, ridotto senso di realizzazione personale, svalorizzazione dello sport e dell’ambiente
sportivo (Raedeke, 1997). Il burnout può essere una causa di abbandono, anche se non sempre lo
è, ma non è certamente l’unica causa possibile; come si è visto precedentemente, sono diversi i
motivi per i quali un ragazzo decide di lasciare lo sport. In ogni caso, conoscere i diversi aspetti del
burnout può essere importante, per identificare precocemente i fattori che possono essere causa
di abbandono ed intervenire con atteggiamenti e comportamenti adeguati.
Una situazione di burnout può essere la conseguenza di stress indotto sia da allenamenti
troppo intensi e pesanti, sia da altri fattori non legati di per sé all’allenamento, come, ad esempio,
la relazione con l’allenatore o con i compagni. Ovviamente, in questo caso possono entrare in
gioco caratteristiche individuali (anche in termini di atteggiamenti e caratteristiche di personalità),
oppure aspetti situazionali e ambientali, come, ad esempio, un’eccessiva pressione sui risultati da
parte di genitori od allenatore.
In genere il burnout è un fenomeno che si presenta in atleti che si allenano da molto tempo
e con impegno ad alta intensità, ma la ricerca ha messo in evidenza come il burnout possa divenire
una problematica anche di atleti giovani, soprattutto di quelli di talento che sono coinvolti
15
precocemente in una intensa partecipazione sportiva. Alcuni studi sul burnout, infatti, sono stati
realizzati anche nel contesto dello sport giovanile.
Per esempio, Gustafsson, Kenttä, Hassmén e Lundqvist (2007), in un’ampia ricerca sulla
presenza di segnali di burnout in giovani atleti svedesi di élite (più di 1.200, dai 16 ai 20 anni,
praticanti sport individuali o di squadra), hanno riscontrato come tra il 2% e il 6% dei maschi e tra
l’1% e il 9% delle ragazze presentassero sintomi importanti di burnout. Tali percentuali non sono
elevate, ma se si considera che il burnout è legato a situazioni sportive molto impegnative e
stressanti, questi dati devono comunque suscitare una riflessione. Gli autori avevano inizialmente
ipotizzato che una situazione problematica fosse presente soprattutto fra gli atleti di sport
individuali, per il rilevante impegno che viene richiesto al singolo atleta sia come quantità di lavoro
che di tempo da dedicare ad allenamenti e gare; ritenevano, inoltre, che negli sport di squadra
l’aspetto del gruppo, che crea maggiore comunicazione e condivisione d i emozioni, potesse essere
un fattore protettivo. Queste ipotesi, però, non hanno trovato conferma. In generale, non è
nemmeno emersa una relazione fra burnout e quantità ed intensità dei carichi di allenamento, che
di solito vengono considerati un aspetto importante dello stress. Fattori non legati all’allenamento
sembrerebbero, dunque, in questo studio, avere peso maggiore nel creare situazioni di stress, e
questi risultati hanno sollecitato linee di ricerca in altre direzioni.
Dubuc e collaboratori (2010) hanno analizzato in modo approfondito l’esperienza di tre
ragazze praticanti ginnastica artistica, una disciplina nella quale le attività agonistiche, e di
conseguenza i carichi di allenamento, iniziano molto precocemente. Le tre ginnaste considerate, di
età compresa fra gli 11 e i 16 anni, erano coinvolte in attività agonistica a buon livello almeno da
quattro anni, ma praticavano la ginnastica artistica da quando erano molto piccole (minimo dai 7
anni di età). Furono scelte per lo studio in quanto in una ricerca preliminare avevano evidenziato
alti punteggi in un questionario sul burnout. Con le ragazze venne, quindi, realizzata un’intervista
approfondita per meglio comprendere il modo in cui vivevano la propria esperienza sportiva.
Assieme a loro, però, furono coinvolti nello studio anche i propri allenatori ed uno dei loro
genitori; per una delle ragazze, furono coinvolti entrambi i genitori, che chiesero essi stessi di
poter partecipare entrambi. In questo modo era possibile prendere in considerazione non solo
l’esperienza delle ragazze, ma anche il ruolo che avevano alcuni degli adulti significativi attorno a
loro. Le interviste risultarono avere alcuni elementi in comune, evidenziati sia dalle ragazze che
dagli adulti. Per prima cosa, emergeva la difficoltà a conciliare l’impegno sportivo con la scuola,
16
con le relazioni con gli amici e con altre attività, e questa difficoltà veniva riconosciuta come
importante anche dai genitori e dagli allenatori. Le ragazze ritenevano, poi, la propria disciplina
molto impegnativa sul piano fisico, con infortuni frequenti che condizionavano la propria
esperienza sportiva. Infine, ammettevano di aver avuto in alcuni momenti cali motivazionali, che
comunque erano stati notati anche dai genitori e dagli allenatori. Dalle interviste, inoltre,
emergevano elementi di diversità nel modo di vivere l’esperienza da parte dei diversi soggetti
coinvolti: ad esempio, gli adulti (anche i genitori) sottovalutavano la paura degli infortuni delle
ragazze. Inoltre, sottovalutavano anche la loro esigenza di avere tempo per gli amici, ritenendo,
erroneamente, che l’ambiente della palestra potesse garantire adeguate esperienze di
socializzazione ed amicizia. Nella sintesi della ricerca viene messo in evidenza come per tutte le tre
atlete, nonostante la loro giovane età, in alcuni momenti siano stati presenti tutti i sintomi del
burnout riscontrati di solito in atleti adulti: fatica, frustrazione, riduzione della motivazione,
irritabilità. Due delle ragazze ritenevano, comunque, che il supporto, l’attenzione e gli
incoraggiamenti dei genitori e degli allenatori fossero stati determinanti per aiutarle a superare
quei momenti di difficoltà. Gli autori dello studio mettono così in evidenza che non
necessariamente il burnout porta all’abbandono dell’attività sportiva: ci sono sfumature diverse
nell’esperienza individuale, e con adeguato supporto sociale ed acquisizione di strategie efficaci
per affrontare le difficoltà ed i problemi, gli atleti possono evitare di entrare nella fase finale di
burnout e continuare il proprio impegno attivo nello sport.
Il contesto sociale sembra, dunque, rappresentare uno degli elementi che possono favorire
situazioni di burnout o, viceversa in positivo, contribuire alla prevenzione di tali situazioni. Sono
soprattutto gli allenatori che hanno un ruolo importante: come si è visto, i loro atteggiamenti e
comportamenti sono determinanti nel creare un clima psicologico (motivazionale) che incide in
modo significativo sulla qualità dell’esperienza dei ragazzi e sul loro ben essere. Con riferimento
specifico alla teoria dell’orientamento motivazionale presentata precedentemente, e
considerando in particolare il clima motivazionale determinato dall’allenatore, in uno studio su
adolescenti maschi praticanti sport di squadra, Reinboth e Duda (2004) hanno analizzato una delle
componenti del burnout ‐ l’esaurimento fisico ed emozionale ‐ assieme alla presenza recente di
sintomi fisici (come mal di testa, mal di stomaco, dolori muscolari). Dallo studio è emersa una
relazione significativa fra percezione di clima sulla prestazione ed esaurimento psico ‐fisico. Inoltre,
è emersa anche la relazione fra percezione di clima sulla prestazione e presenza di sintomi fisici;
17
questo aspetto viene spiegato con il fatto che un’attenzione esagerata dell’allenatore sulla
competizione e sulla vittoria possa determinare nei giovani atleti il tentativo di fare qualsiasi cosa
per vincere, compreso il rischio di farsi male. Una frase riportata da Nicholls (1992) per spiegare il
clima motivazionale sulla prestazione era appunto questa: “Se vincere è tutto, tu devi fare
qualsiasi cosa per vincere!”.
Considerando i fattori legati al contesto sociale, anche il ruolo dei compagni appare
significativo. È noto come, durante l’adolescenza, la relazione con i coeta nei rappresenti un fattore
determinante nei processi di sviluppo e socializzazione. Con riferimento specifico all’ambito
sportivo, si è visto come l’accettazione da parte dei compagni ed amicizie significative si riflettano
in migliore percezione della propria competenza motoria e, più in generale, dell’autostima,
maggiore impegno, maggior divertimento, meno stress collegato all’esperienza sportiva. Tutti
questi aspetti vengono, poi, ad avere un forte impatto dal punto di vista motivazionale (cfr. Smith,
Ullrich‐French,Walker II e Hurley, 2006). La teoria dell’orientamento motivazionale, pur dando
particolare evidenza al clima creato dall’allenatore, come è stato detto precedente mente,
sottolinea anche l’importanza del clima creato dai compagni. Con riferime nto specifico al burnout,
Smith, Gustafsson e Hassmén (2010) hanno evidenziato come percezione di clima motivazionale
sulla prestazione creato dai compagni e conflittualità all’interno del gruppo fossero correlate a
burnout. Questi risultati, però, sono emersi per ragazzi praticanti sport individuali e non per quelli
praticanti sport di squadra, contrariamente all’ipotesi che era stata suggerita. Tali differenze
vengono spiegate dagli autori con il fatto che all’interno di una squadra vi sono comunque
aspettative, norme e ruoli ben definiti, che possono in qualche modo regolare la comunicazione
fra i giocatori e favorire l’attribuzione di una scarsa prestazione ad una situazione di gioco, più che
ad un singolo atleta, condizionando positivamente comportamenti e situazioni.
Gli aspetti del burnout sono stati, comunque, collegati anche a caratteristiche individuali di
personalità, come, ad esempio, l’ottimismo o il perfezionismo. In contesti in cui gli atleti investono
impegno ed energia per cercare di raggiungere obiettivi per loro significativi, i tratti di personalità
contribuiscono a creare una sorta di “lente” che modifica e, a volte, deforma il processo di
valutazione delle situazioni. Questo potrebbe condizionare la possibilità per un atleta di vivere o
meno esperienze di timore o stress.
Per quanto riguarda l’ottimismo, le persone ottimiste, a differenza di quelle pessimiste,
hanno aspettative positive verso il futuro e sono più fiduciose di poter raggiungere i propri
18
obiettivi; è come se vedessero la vita attraverso una lente positiva e così tendono a percepire la
realtà in genere come meno stressante. Per esempio, Gustafsson e Skoog (2012) hanno
evidenziato, in giovani atleti, una relazione negativa fra le tre dimensioni del burnout ed il grado di
ottimismo, sottolineando poi l’importanza, dal punto di vista applicativo, di promuovere
atteggiamenti ottimistici come prevenzione dello stress e del burnout. Un atteggiamento
ottimistico è caratterizzato dalla percezione di controllo delle proprie esperienze e di fiducia nelle
proprie capacità di raggiungere gli obiettivi che ciascuno si pone. È utile notare come, su questi
aspetti, i comportamenti e gli atteggiamenti degli adulti abbiano un peso determinante: in
positivo, quando ai ragazzi vengono mandati messaggi di fiducia ed incoraggiamento, e al
contrario in negativo, quando dalle parole e dagli atteggiamenti degli adulti traspaiano giudizi
negativi e sfiducia.
Riguardo al perfezionismo, le ricerche che hanno considerato questa caratteristica in
relazione al burnout nello sport giovanile hanno dato risultati abbastanza contraddittori. Per
perfezionismo si intende, in generale, una caratteristica individuale che determina una spinta
pressante (definita “compulsiva” in termini psicologici) per raggiungere alti standard in ciò che si
sta facendo e che tende a determinare valutazioni molto critiche di quanto viene realizzato. Anche
se in genere si ritiene che le conseguenze del perfezionismo siano negative, alcuni autori pensano
che questo non sia sempre vero: infatti, se non è presente un’eccessiva autocritica verso ciò che si
sta facendo, il perfezionismo può rappresentare un aspetto motivante nella ricerca di prestazioni
di eccellenza. Quando, però, il perfezionismo richiama anche una forte autocritica, uno stile di
pensiero ruminativo (legato al pensare e ripensare in modo esagerato e addirittura ossessivo alle
stesse cose) e l’attenzione sull’inadeguatezza personale ed interpersonale, allora può determinare
calo motivazionale e vulnerabilità al burnout anche in atleti giovani (cfr. Hill, Hall, Appleton e
Kozub, 2008).
In generale, comunque, si è visto come le capacità individuali di affrontare le difficoltà e la
presenza di un forte supporto del contesto sociale proteggono i giovani atleti dai sintomi del
burnout, anche quando i ragazzi sono impegnati con carichi intensi di allenamento (Raedeke e
Smith, 2004).
La resilienza
19
Affrontando il tema del burnout, un concetto che può risultare utile ai fini di una migliore
comprensione del fenomeno è quello di resilienza, concetto che sta ricevendo sempre maggiore
attenzione nel contesto della psicologia in generale, ma anche in riferimento allo sport. Con tale
termine viene intesa la capacità di un individuo di resistere e di proseguire senza arrendersi,
andando avanti nonostante difficoltà e avversità. Questo concetto è stato proposto proprio per
cercare di spiegare e comprendere quali variabili, interne ed esterne all’individuo, permettano alle
persone di affrontare con successo situazioni di crisi (cfr. Vitali e Bo rtoli, 2013).
Nello sport, la resilienza viene vista come capacità di sostenere carichi di allenamento
impegnativi, affrontare lo stress della competizione, gestire stati emozionali negativi, ma anche
recuperare in modo sicuro e soddisfacente dopo un infortunio. È considerata sia una caratteristica
personale, sia il risultato di un’interazione dinamica fra individuo e ambiente; quando intesa come
caratteristica personale, è spesso associata ad altre qualità, quali fiducia in sé e nelle proprie
capacità, ottimismo, capacità di concentrazione, impegno, tolleranza alla frustrazione. L’aspetto
significativo è il fatto che la resilienza viene considerata non come una caratteristica statica e
stabile, ma come risultato di un processo di interazione con il proprio ambiente, con la possibilità
quindi di essere acquisita e sviluppata in funzione delle esperienze realizzate.
Gli studi sullo sviluppo della resilienza che hanno riguardato l’età evolutiva hanno
evidenziato i fattori che possono risultare determinanti a tale proposito (cfr. Labbrozzi, 2004):
- l’esistenza di un legame significativo con un adulto in grado di sostenere e accompagnare il
giovane nei momenti di difficoltà (non necessariamente un genitore o un familiare);
- l’appartenenza a un gruppo che fornisca un livello adeguato di sostegno sociale, anche
attraverso il riconoscimento di un ruolo e delle relative capacità;
- la possibilità di cogliere un significato e una direzione nelle proprie esperienze, con la
sensazione (e la consapevolezza) di poterle indirizzare, controllare e modificare;
- la percezione di un senso profondo del valore di sé come persona.
Questi aspetti coinvolgono naturalmente in primo luogo la famiglia, ma, come si può vedere,
possono riguardare anche il mondo dello sport giovanile: l’allenatore può essere un’importante
figura adulta di riferimento; la società sportiva può offrire senso di appartenenza ed
identificazione; lo sport è sicuramente attività significativa e coinvolgente; lo sviluppo di capacità e
l’acquisizione di abilità contribuiscono al miglioramento della percezione e dell’immagine di sé.
20
Ovviamente, tutto questo non risulta in modo automatico o scontato, ma solo quando il contesto
organizzativo (federazioni e società sportive) e soprattutto gli adulti significativi (allenatori e
dirigenti) decidano in modo consapevole di assumersi anche responsabilità e compiti educativi,
utilizzando la pratica sportiva non solo come ricerca di prestazione, ma anche come strumento di
sviluppo e crescita personale dei giovani atleti. L’impatto educativo passa attraverso gli
atteggiamenti ed i comportamenti degli adulti, in particolare degli allenatori, nella quotidianità
delle relazioni durante gli allenamenti e le gare: ciò significa essere presenti in termini di
autorevolezza, controllo e sostegno, incoraggiare e valorizzare esperienze di apprendimento,
favorire il senso di appartenenza ad un gruppo, sollecitare il rispetto fra compagni e modalità di
comunicazione positive.
Nello sport, recentemente, alcuni studi hanno iniziato ad esplorare il legame fra resilienza e
burnout, ipotizzando un possibile ruolo protettivo della resilienza (Gucciardi, Jackson, Coulter e
Mallett, 2011; Vitali, Bortoli, Robazza, Bertinato e Schena, 2011).
La ricerca
Nel quadro dei presupposti teorici descritti, legati alle teorie dell’autodeterminazione e
dell’orientamento motivazionale, è stata condotta un’indagine su un ampio campione di giovani
atleti trentini, che ha coinvolto più di settecento partecipanti. La finalità generale di questo
progetto di ricerca era quella di esaminare i processi motivazionali, ed in particolare il ruolo di
alcuni fattori personali (percezione di competenza, resilienza, stati emozionali) e situazionali (clima
motivazionale generato dagli allenatori) che possono prevenire il rischio di burnout e, dunque, di
abbandono sportivo precoce da parte dei giovani atleti. In particolare, l’indagine si è posta come
finalità fondamentale non solo quella di costituire un momento conoscitivo della realtà trentina
dello sport giovanile, ma anche di essere un punto di partenza per la progettazione di successive
iniziative di aggiornamento e formazione di tecnici, operatori ed educatori sportivi che operano
nelle società trentine su come prevenire concretamente il rischio di abbandono e su altri aspetti
psico‐pedagogici e didattico‐metodologici. Con l’indagine qui presentata, si è inteso, dunque,
esaminare il punto di vista dei giovani atleti trentini relativamente al clima motivazionale generato
dai propri allenatori e della sua influenza sulla qualità della propria esperienza sportiva.
21
Accanto agli aspetti motivazionali, sono stati considerati altri fattori strettamente collegati,
come la percezione di competenza e gli stati emozionali che caratterizzano l’esperienza sportiva
dei giovani atleti presi in esame. La percezione di competenza si riferisce alla valutazione globale
delle capacità che un giovane atleta sente di possedere nel proprio specifico ambito sportivo
(Horn, 2004). La percezione di competenza ha che fare con l’auto‐efficacia, che però rappresenta
un costrutto più specifico, definito come la convinzione personale di essere in grado di svolgere
con successo un determinato compito o azione specifica (ad esempio, un giovane atleta può
possedere un’auto‐efficacia positiva se si sente in grado di correre per 30 minuti o di sapersi
organizzare per gestire sia i compiti scolastici, che gli allenamenti) (Bandura, 1997). Ci sono molte
evidenze nella letteratura di psicologia dello sport sul fatto che la percezione di competenza svolga
un’influenza considerevole sugli aspetti motivazionali sia a livello comportamentale, che cognitivo
ed emozionale (Weiss e Ebbeck, 1996; Weiss, Ebbeck, e Horn, 1997). Una buona percezione di
competenza facilita aspettative di successo positive, motivazione intrinseca per l’a ttività motoria e
sportiva e orientamento al compito, che a loro volta influenzano positivamente l’impegno, la
persistenza degli sforzi per raggiungere i propri obiettivi nonostante le difficoltà e la scelta di
obiettivi sfidanti (per una rassegna, si veda Roberts, Treasure, e Conroy, 2007).
Un aspetto importante della pratica sportiva che è stato considerato nello studio ha a che
fare con le emozioni: lo sport fornisce occasioni per farne esperienza e, al contempo, dà
opportunità agli atleti di acquisire le abilità necessarie per gestire gli effetti che gli stati emozionali
possono avere sulla prestazione. Un modello teorico che ha permesso di comprendere più a fondo
il ruolo delle emozioni nella pratica sportiva è l’Individual Zones of Optimal Functioning (IZOF;
Robazza, 2006): le emozioni possono essere per gli atleti che le vivono più o meno piacevoli
(tonalità edonica) e possono svolgere un ruolo più o meno funzionale per la prestazione
(funzionalità). Nella ricerca sono state indagate le esperienze emozionali dei giovani atleti rispetto
allo sport: vivere emozioni più o meno piacevoli può condizionare anche in modo estremamente
significativo la propria esperienza sportiva.
Obiettivi della ricerca
22
Un primo obiettivo della ricerca era quello di conoscere gli aspetti motivazionali dei giovani
atleti, anche esaminando la relazione fra percezione di competenza, resilienza, stati emozionali e
percezione del clima motivazionale generato dagli allenatori sulle tre dimensioni del burnout
(esaurimento psico‐fisico, svalorizzazione dello sport e mancata realizzazione personale nello
sport). Un secondo obiettivo riguardava, invece, quello di approfondire la conoscenza dei fattori
personali e situazionali che possono spingere i giovani atleti ad abbandonare precocemente la
pratica sportiva o che, viceversa, possono ridurre il rischio che ciò accada.
In relazione ai due obiettivi principali della ricerca ci si attendeva di riscontrare una relazione
positiva fra percezione di competenza, resilienza, stati emozionali piacevoli e clima motivazionale
generato dagli allenatori orientato sulla competenza; un ulteriore ipotesi era che l’esperienza di
stati emozionali piacevoli nella pratica del proprio sport aiutasse i giovani atleti a contrastare il
rischio di burnout; inoltre, ci si aspettava che il clima motivazionale orientato sulla competenza
riducesse, mentre il clima motivazionale orientato sulla prestazione aumentasse la condizione di
burnout (esaurimento psico‐fisico, svalorizzazione dello sport e mancata realizzazione personale
nello sport). Infine, si sono volute indagare eventuali differenze di genere, età, esperienza e
disciplina sportiva praticata per ognuna delle variabili considerate.
Metodo
I partecipanti
Hanno partecipato alla ricerca 723 giovani atleti trentini, maschi e femmine, di età compresa
fra 12 e 18 anni, praticanti sport individuali o di squadra (Tabella 1).
Le discipline sportive maggiormente praticate dalle ragazze sono risultate pallavolo (59,4%),
atletica leggera (25,8%) e nuoto (9,2%), mentre per i ragazzi sono calcio (52,6%), pallavolo (24,6%)
e atletica leggera (5,5%). All’indagine hanno preso parte giovani atleti praticanti molteplici e
differenti discipline sportive. Per rendere più semplice la lettura del testo, sono riportate in
Appendice tabelle e figure, oltre alle spiegazioni delle analisi condotte (Tabelle 2 e 3).
23
In media, l’esperienza sportiva dei giovani atleti che hanno partecipato alla ricerca era di 5
anni, solitamente con 3 allenamenti settimanali, della durata media di 2 ore, per un totale di circa
5 ore di allenamento medio alla settimana (Tabella 4). Tabella 1 – Partecipanti suddivisi per età, genere e tipologia di sport.
Età
Genere Tipologia di sport 12 anni 13 anni 14 anni 15 anni 16 anni 17 anni 18 anni TotaleFemmine Squadra 6 32 53 25 12 4 3 135
Individuale 15 19 11 10 9 7 5 76
Maschi Squadra 57 66 113 99 83 32 8 458
Individuale 3 12 13 14 8 2 2 54
Totale 81 129 190 148 112 45 18 723
I giovani atleti erano rappresentativi di tutte le valli della provincia di Trento, con una più
significativa rappresentanza della Vallagarina (38%) e della Valle dell’Adige (37%), rispetto alle
altre.
Gli strumenti
Percezione di competenza
Per valutare la percezione di competenza è stata usata una singola domanda (“Esprimi una
valutazione globale del tuo livello di abilità sportiva”) che valuta quanto globalmente i giovani
atleti si sentissero abili dal punto di vista sportivo: le risposte erano espresse su una scala da 1 =
“pessima” a 11 = “eccellente”. Punteggi elevati indicano una percezione di competenza positiva,
mentre punteggi bassi sono indicativi di una scarsa o negativa percezione di competenza.
Situational Motivation Scale
Per misurare la motivazione intrinseca o estrinseca è stata utilizzata la versione italiana della
Situational Motivation Scale (SiMS; Guy, Vallerand e Blanchard, 2000), che comprende 16
domande, quattro delle quali valutano la motivazione intrinseca (es. “Partecipo alle attività
24
sportive perché trovo queste attività interessanti”), quattro la motivazione estrinseca a
regolazione interna (es. “Partecipo alle attività sportive perché ho scelto di farle per il mio
benessere”), quattro la motivazione estrinseca a regolazione esterna (es. “Partecipo alle attività
sportive perché sono spinto dagli altri a praticarle”), quattro l’assenza di motivazione (es.
“Potrebbero esserci buoni motivi per praticare queste attività, ma personalmente non ne vedo
alcuno”) a praticare sport. Le risposte ad ogni affermazione vanno da 1 = “No, per nulla d’accordo”
a 7 = “Sì, totalmente d’accordo”. I punteggi medi di ciascuna scala rivelano la tipologia di
motivazione alla pratica sportiva.
Resilience Scale
Per valutare quanto i giovani atleti presi in esame si sentissero resilienti nel proprio sport si è
utilizzata la versione italiana adattata della Resilience Scale (RS; Wagnild e Young, 1993). Le 15
domande concorrono a valutare il singolo fattore della resilienza nello sport. Le risposte ad ogni
affermazione (es. “Quando mi trovo in una situazione difficile, di solito riesco a trovare il modo di
uscirne”) vanno da 1 = “No, completamente in disaccordo” a 5 = “Sì, completamente d’accordo”. Il
punteggio medio complessivo indica la percezione di resilienza nello sport: un punteggio elevato
indica una positiva resilienza, mentre un punteggio basso è indice di una scarsa resilienza nello
sport.
Questionario sugli stati emozionali
Il questionario sugli stati emozionali (Bortoli e Robazza, 2007) comprende 20 item: ciascun
item è composto da alcuni aggettivi che descrivono le emozioni che di solito gli atleti vivono in
relazione alla propria pratica sportiva. Il questionario misura due dimensioni: la prima è quella
relativa agli stati emozionali piacevoli (es. “entusiasta, fiducioso, tranquillo, felice, gioioso”); la
seconda si riferisce agli stati emozionali spiacevoli (es. “nervoso, irrequieto, scontento,
insoddisfatto”). Le risposte a ciascun item vanno da 0 = “per nulla” a 4 = “moltissimo”. Il punteggio
medio fornisce una misura dell’intensità degli stati emozionali piacevoli e spiacevoli che di solito
sono associati alla propria pratica sportiva.
Perceived Motivational Climate in Sport Questionnaire
25
Il questionario sul clima motivazionale (Perceived Motivational Climate in Sport
Questionnaire, PCSQ; Bortoli e Robazza, 2004) comprende 12 item: sei appartengono alla scala che
valuta il clima orientato sulla prestazione (es. “In questo gruppo, gli atleti vengono sollecitati a
superare i compagni”) ed altri sei alla scala che misura il clima orientato sulla competenza (es. “ In
questo gruppo, gli atleti sono incoraggiati a lavorare sui loro punti deboli”). I punteggi medi di
ciascuna scala indicano il clima motivazionale determinato dall’allenatore e percepito in relazione
alla propria esperienza sportiva.
Athlete Burnout Questionnaire
La versione italiana dell’Athlete Burnout Questionnaire (ABQ; Raedeke e Smith, 2001; 2009)
comprende 15 item: cinque valutano l’esaurimento psico‐fisico (es. “Mi sento esaurito a causa
dello sport”), cinque la svalorizzazione dello sport (es. “La mia prestazione sportiva non mi
interessa più come una volta”) e gli altri cinque la mancata realizzazione personale nello sport (es.
“Nonostante tutto il mio impegno, sembra che io non riesca ad andare così bene nello sport come
dovrei”). Le risposte vengono fornite su una scala a 5 punti, che va da 1 = “quasi mai” a 5 =
“sempre”.
Procedura
Sono state contattate numerose società sportive trentine, presentando a dirigenti e
allenatori la ricerca e sue finalità, oltre che le modalità di rilevamento dei dati. I questionari sono
stati proposti da otto studenti della Facoltà di Scienze Motorie dell’Università di Verona,
adeguatamente formati. I dati sono stati raccolti in forma anonima ai giovani atleti, suddivisi in
piccoli gruppi di non più di dieci membri, per lo più prima o dopo gli allenamenti. Prima di
procedere alla compilazione dei questionari ai giovani atleti sono stati presentati in modo sintetico
e semplificato gli obiettivi del progetto di ricerca ed è stata garantita la riservatezza sulle
informazioni raccolte.
Analisi dei dati e risultati
26
Per semplificare la lettura e l’interpretazione dei risultati delle analisi statistiche svolte , di
seguito sono presentati in forma sintetica i risultati di maggiore rilievo. I lettori interessati possono
trovare in Appendice i risultati maggiormente dettagliati.
Per indagare eventuali differenze di genere, età, tipologia di sport per tutte le variabili
considerate sono state condotte delle analisi della varianza (ANOVA). Per quanto riguarda le
differenze di genere, l’assenza di motivazione per la pratica sportiva si mostra più forte per i
maschi rispetto alle femmine. Anche per due delle dimensioni di burnout (esaurimento psico‐
fisico, svalorizzazione per lo sport) i maschi riportano punteggi più elevati rispetto alle coetanee.
Infine, per i maschi l’esperienza sportiva si associa più che per le femmine a stati emozionali
spiacevoli (Figura 2). Differenze in base alla tipologia di sport praticata emergono per la percezione
di competenza che è più forte per gli atleti che praticano sport individuali. Del resto, però, i giovani
atleti impegnati in sport individuali mostrano anche livelli più elevati di motivazione estrinseca a
regolazione esterna e di esaurimento psico‐fisico rispetto ai coetanei praticanti sport di squadra
(Figura 3). La sola differenze per età che emerge si riferisce alla motivazione estrinseca a
regolazione esterna che è più forte per gli atleti più grandi (15‐18 anni) rispetto ai più giovani (12‐
14 anni) (Figura 4).
Inoltre, i maschi rispetto alle femmine percepiscono maggiormente un clima motivazionale
orientato sulla prestazione (performance climate), come mostrino livelli più elevati di esaurimento
psico‐fisico e svalorizzazione per lo sport, e come la propria pratica sportiva si associ a stati
emozionali spiacevoli (Figura 5). La tipologia di sport praticato fa emergere differenze per la
percezione di un clima motivazionale orientato sulla prestazione (performance climate) più forte
per gli atleti praticanti sport di squadra. Gli atleti impegnati in sport di squadra, inoltre,
esperiscono più stati emozionali piacevoli ma anche più stati emozionali spiacevoli rispetto agli
atleti praticanti sport individuali (Figura 6). Infine, numerose sono le differenze per età emerse: gli
atleti più giovani (12‐14 anni) mostrano una maggiore percezione di competenza rispetto ai più
grandi (15‐18 anni); il clima motivazionale orientato sulla prestazione (performance climate) è più
forte per gli atleti più grandi (15‐18 anni) rispetto ai più piccoli (12‐14 anni); gli atleti più grandi
(15‐18 anni) presentano più marcata svalorizzazione per lo sport e mancata realizzazione
personale nella pratica sportiva rispetto ai più giovani (12‐14 anni); infine, per gli atleti più giovani
(12‐14 anni) la pratica sportiva si associa maggiormente a stati emozionali piacevoli rispetto a
27
quanto non accada per i più grandi (15‐18 anni), che vivono nello sport più stati emozionali
spiacevoli (Figura 7).
Le correlazioni significative degne di interesse sono fra la percezione di competenza e la
resilienza (entrambe di segno positivo): al crescere dell’una, aumenta anche l’altra. La percezione
di competenza, inoltre, è correlata positivamente con gli stati emozionali piacevoli. Invece, una
correlazione di segno negativo si evince fra percezione di competenza ed una delle dimensioni del
burnout (mancata realizzazione personale nello sport). La resilienza è correlata negativamente
con tutte le tre dimensioni del burnout (esaurimento psico‐fisico, svalorizzazione per lo sport,
mancata realizzazione personale nello sport). Infine, la resilienza è correlata in modo positivo con
gli stati emozionali piacevoli (Tabella 6).
Emerge una relazione positiva fra la percezione di competenza e la resilienza. In aggiunta, la
percezione di competenza è legata in modo negativo con due delle dimensioni del burnout
(svalorizzazione per lo sport e mancata realizzazione personale nello sport). La percezione di
competenza si correla positivamente con gli stati emozionali piacevoli e negativamente con gli
stati emozionali spiacevoli. La resilienza è correlata in modo positivo con il clima motivazionale
orientato sulla competenza e in modo negativo con tutte le tre dimensioni del burnout
(esaurimento psico‐fisico, svalorizzazione per lo sport, mancata realizzazione personale nello
sport). Infine, il clima motivazionale orientato sulla competenza è correlato in modo negativo con
tutte le tre dimensioni del burnout, mentre il clima motivazionale orientato sulla prestazione si
correla positivamente con tutte le tre dimensioni del burnout (Tabella 7).
Le analisi hanno preso in esame quali variabili determinino le tre dimensioni del burnout
(esaurimento psico‐fisico, svalorizzazione per lo sport, mancata realizzazione personale nello
sport). Dai risultati emerge come l’esaurimento psico‐fisico sia determinato da assenza di
motivazione e stati emozionali spiacevoli; la svalorizzazione per lo sport dipende da assenza di
motivazione, dalla motivazione estrinseca a regolazione esterna e dagli stati emozionali spiacevoli;
infine, la mancata realizzazione personale nello sport è determinata da numerosi fattori: assenza
di motivazione e stati emozionali spiacevoli, ma anche scarsa percezione di competenza e bassa
resilienza nello sport.
Inoltre, i risultati mostrano come l’esaurimento psico‐fisico dipenda da due fattori personali,
bassa resilienza nello sport e stati emozionali spiacevoli, oltre che da un fattore situazionale
determinato dall’allenatore, il clima motivazionale orientato sulla prestazione; la svalorizzazione
28
per lo sport è determinato da stati emozionali spiacevoli e clima motivazionale orientato sulla
prestazione; infine, la mancata realizzazione personale nello sport dipende da stati emozionali
spiacevoli, bassa resilienza nello sport, scarsa percezione di competenza e clima motivazionale
orientato sulla prestazione.
Discussione
Dalla ricerca emergono numerosi aspetti positivi collegati all’esperienza sportiva dei giovani
atleti trentini. La percezione di competenza di ragazze e ragazzi si accompagna a motivazione
intrinseca, stati emozionali piacevoli e resilienza nello sport. Al contrario, sono gli stati emozionali
spiacevoli e la mancata realizzazione personale nello sport che si accompagnano a scarsi livelli di
percezione di competenza. Percepirsi competenti, dunque, aiuta ad essere motivati, a vivere
emozionali positive e piacevoli associate allo sport, a sentirsi in grado di affrontare anche le
difficoltà. Viceversa, percepirsi poco competenti porta a vivere stati emozionali spiacevoli e a non
sentirsi realizzati nello sport, con il rischio di abbandonare precocemente l’attività sportiva. Se
ricordiamo come nella percezione di competenza dei più giovani sia determinante il ruolo di
allenatori e genitori, è facile comprendere la responsabilità educativa che gli adulti significativi
rivestono e di cui dovrebbero essere consapevoli.
Le tre dimensioni del burnout (esaurimento psico‐fisico, svalorizzazione dello sport, mancata
realizzazione personale nello sport) si associano a stati emozionali spiacevoli ed in particolare, la
mancata realizzazione personale si accompagna ad una percezione di scarsa competenza. Inoltre,
vivere stati emozionali piacevoli aiuta i giovani atleti a contrastare il rischio di burnout nello sport;
viceversa, vivere stati emozionali spiacevoli nello sport ne aumenta il rischio.
L’importanza del ruolo degli allenatori emerge in modo molto chiaro: se un allenatore crea
un clima motivazionale orientato sulla prestazione non solo aumenta l’esperienza di emozioni
spiacevoli da parte dei giovani atleti, ma anche il rischio di burnout nello sport. Al contrario,
quando un allenatore determina un clima motivazionale orientato sulla competenza, allora i
giovani atleti hanno più probabilità di vivere emozioni piacevoli associate allo sport, si sentono più
resilienti e tutte le tre dimensioni del burnout nello sport tendono a ridursi. Per questa ragione, se
un clima motivazionale orientato sulla prestazione rappresenta un fattore che aumenta il rischio di
29
burnout per i giovani atleti trentini, è altrettanto vero che un clima motivazionale orientato sulla
competenza ne rappresenta un importante fattore di contrasto.
Sostenere la motivazione nello sport giovanile
All’interno delle situazioni di allenamento e gara, naturalmente il ruolo principale ricade
sull’allenatore, per quanto riguarda sia la gestione delle attività specifiche, sia la costruzione di un
clima motivazionale orientato prevalentemente sulla competenza. A tale proposito , risultano utili
le indicazioni che derivano da un modello didattico che considera i compiti specifici degli allenatori
(o degli insegnanti nel contesto scolastico, per il quale il modello è stato inizialmente proposto),
finalizzandoli appunto allo sviluppo di un clima motivazionale orientato sulla competenza.
È conosciuto come modello TARGET, acronimo dei vocaboli inglesi Task (compito), Authority
(presa di decisione), Recognition (riconoscimento), Grouping (organizzazione in gruppi), Evaluation
(valutazione), Time (tempo) (cfr. Bortoli, Bertollo e Robazza, 2005).
Per quanto riguarda la scelta degli esercizi e dei compiti di apprendimento (Task), è
importante che le proposte siano significative, varie e diversificate, con un adeguato livello di
difficoltà che consenta a ciascun ragazzo di esercitarsi con successo, con la sensazione, cioè, di
riuscire a controllare il compito. A volte può essere utile far lavorare i ragazzi, anche a gruppi, su
compiti diversi, o su aspetti diversi di uno stesso compito; in questo modo , vi è meno opportunità
di confronto fra compagni, e la percezione della propria abilità diviene maggiormente centrata su
parametri di riferimento personali.
Il coinvolgimento degli allievi nelle scelte didattiche (Authority) determina atteggiamenti
motivazionali positivi. Per sollecitare l’autonomia, ad esempio, l’allenatore può presentare alcuni
esercizi e poi consentire ai ragazzi di decidere da quali iniziare o a quali dedicarsi maggiormente.
La possibilità di scegliere dovrebbe essere percepita come opzione fra compiti equivalenti per
difficoltà, e non fra un compito facile ed uno difficile, così da non implicare immediatamente
elementi di confronto valutativo fra ragazzi con diversi livelli di abilità; è preferibile la scelta fra
esercitazioni su aspetti diversi della stessa abilità, piuttosto che su uno stesso esercizio con livelli
diversi di difficoltà.
30
Apprezzamenti ed incoraggiamenti (Recognition) hanno un ruolo significativo a fini
motivazionali; per essere efficaci devono essere percepiti come realistici e veritieri, e non sentiti
come pura formalità. Se l’allenatore pone ai ragazzi obiettivi individualizzati, adeguati ai diversi
livelli di abilità, diviene più facile garantire a tutti esperienze di successo ed elogi realistici. Va
tenuto presente, però, che quando gli elogi sono dati sempre pubblicamente se mbrano sollecitare
il confronto sociale fra i ragazzi; invece, se l’apprezzamento viene dato al singolo ragazzo in
privato, i sentimenti di orgoglio e soddisfazione non derivano dal confronto con gli altri ed è più
probabile che favoriscano la percezione di un clima motivazionale orientato sulla competenza.
Il lavoro in gruppi è spesso utilizzato nello sport giovanile, anche come modalità per meglio
gestire la disciplina. Il modo in cui vengono costituiti i gruppi (Grouping) e la facilità con cui un
allievo può passare da un gruppo ad un altro sono elementi significativi per le conseguenze
motivazionali, soprattutto, come capita spesso, quando ci si trovi di fronte a ragazzi con livelli di
abilità molto diversi fra loro. Se raggruppare i ragazzi in base alle loro capacità sembra
didatticamente più funzionale dal punto di vista dell’apprendimento, dal punto di vista
motivazionale, però, questo non risulta produttivo. È utile, quindi, alternare le esercitazioni a
gruppi omogenei con attività a gruppi eterogenei, variandone nel tempo la composizione, e
sollecitare anche aspetti di collaborazione.
La valutazione (Evaluation) rappresenta un aspetto importante della didattica, in quanto
spesso fornisce non solo indicazioni sui livelli di apprendimento, ma anche info rmazioni dalle quali
gli allievi ricavano giudizi sul proprio valore personale. La valutazione può avere un valore negativo
per gli allievi, dal punto di vista motivazionale, qualora sia fondata prevalentemente su criteri
normativi e sul confronto sociale. Invece, quando la valutazione viene riferita soprattutto ai
miglioramenti individuali, ai progressi verso il raggiungimento di obiettivi individualizzati, alla
partecipazione ed all’impegno è più probabile che favorisca un coinvolgimento dei ragazzi sul
compito.
Il tempo (Time) è un aspetto fondamentale dell’organizzazione didattica, strettamente
associato agli altri elementi. Va ricordato come i ritmi di apprendimento siano individuali e come
alcuni ragazzi necessitino di tempo maggiore di esercitazione per apprendere abilità, anche in
relazione al livello coordinativo personale. Pertanto, a volte, vi può essere la possibilità di un
margine di tempo individuale per rafforzare o perfezionare l’apprendimento, o anche la possibilità
di scelta autonoma su quanto tempo dedicare per provare ed apprendere un esercizio. A tutti,
31
comunque, dovrebbero essere forniti opportunità e tempo per migliorare, sollecitando anche
un’organizzazione autonoma nelle attività. Prevenire o contrastare il burnout nello sport giovanile
È abbastanza frequente che lo sport dei giovani (e a volte anche dei bambini) risulti gravoso
sia come carico di allenamento, che come impegno agonistico. Questo è particolarmente
significativo per i ragazzi dotati di talento che entrano presto in situazioni agonistiche impegnative
anche con un carico di aspettative di successo. Per alcuni ragazzi questa esperienza può portare,
con cause diverse come si è visto, a situazioni psico‐fisiche di burnout, che predispongono
all’abbandono.
Dalle ricerche che hanno analizzato tali problematiche sono emerse comunque anche
indicazioni applicative utili a prevenire o a contrastare il burnout. Tali indicazioni vengono qui
riprese ed evidenziate, soprattutto per sollecitare negli allenatori che operano con i giovani la
consapevolezza di atteggiamenti e comportamenti che possono invece favorire un’esperienza
sportiva gratificante, positiva e duratura.
Innanzitutto è importante che gli allenatori riconoscano i segnali che indicano stanchezza e
calo motivazionale. Alcuni di questi segnali sono il fatto di arrivare spesso in ritardo agli
allenamenti, una riduzione dell’impegno, l’aumento di errori esecutivi, una prestazione più
scadente, cambiamenti nell’atteggiamento verso le attività di gruppo. A comportamenti di questo
tipo, spesso si reagisce con richiami e sollecitazioni, talvolta bruschi, con lo scopo ovviamente di
stimolare i ragazzi a reagire e ad impegnarsi maggiormente. Gli allenatori de vono, però,
considerare anche la possibilità di una lettura diversa della situazione ed attivare una riflessione
più ampia sugli atteggiamenti dei ragazzi e su come rispondere ad essi.
Alcune indicazioni utili alla prevenzione del burnout, comunque, prima ancora di aspetti
psico‐educativi specifici riguardano già la programmazione complessiva e l’organizzazione degli
allenamenti, che sono componenti fondamentali tra i compiti dell’allenatore. A tale proposito, ad
esempio, Smith e Kays (2010) in termini molto applicativi suggeriscono di:
- distribuire in maniera organica nella programmazione del lavoro (annuale e mensile) sia le
giornate di allenamento che quelle di recupero; qualora ciò non fosse possibile per motivi
32
organizzativi, è opportuno ridurre i tempi complessivi di lavoro per evitare sovraccarichi non
compensati bene dai recuperi;
- evitare allenamenti eccessivamente ripetitivi e con scansione settimanale sempre uguale
delle proposte tecniche: sarebbe bene di tanto in tanto inserire anche giochi presportivi o
attività competitive ludiche non specifiche;
- utilizzare esercitazioni e situazioni tecniche variate che aiutano di per sé a mantenere alti
interesse ed attenzione (è necessario che gli allenatori arricchiscano il più possibile il proprio
bagaglio di esercitazioni sia tecniche che generali);
- negli sport di squadra, far apprendere a ciascun atleta anche le abilità tecniche di altri ruoli:
non solo questo rappresenta un elemento di variabilità (e di arricchimento coordinativo), ma
aiuta anche a comprendere i compiti e le difficoltà dei compagni, ed a favorire il rispetto
reciproco;
- prevedere una sospensione reale degli allenamenti al termine della stagione; se si
continuano gli allenamenti lasciando liberi gli atleti di parteciparvi, la partecipazione deve
essere lasciata davvero alla scelta di ciascuno e non essere in realtà comunque obbligatoria!
Lasciare che gli atleti si prendano propri tempi e spazi anche al di fuori dello sport, così da
riprendere successivamente la nuova stagione riposati e pronti ai nuovi impegni;
- soprattutto negli sport di squadra (ma è utile anche nelle società dove si praticano sport
individuali), è importante costruire qualche opportunità di coinvolgere i ragazzi in attività
non legate in modo specifico allo sport; ad esempio, tutti insieme si può andare una volta a
giocare a bowling, a fare una camminata in montagna, ad utilizzare un percorso vita in un
parco o a fare una gita in bicicletta. Se poi nella propria società sportiva si ritiene importante
l’aspetto educativo più generale, si può anche partecipare insieme ad un’esperienza di
volontariato sociale. Vivere insieme situazioni diverse, anche al di fuori dello sport, favorisce
sicuramente relazioni interpersonali maggiormente significative, e da un senso molto più
ampio all’attività sportiva.
Dal punto di vista psico‐pedagogico più generale, l’attività giovanile dovrebbe essere
innanzitutto sempre finalizzata a facilitare esperienze positive di crescita e sviluppo personale.
Naturalmente, gli allenatori sono le figure più importanti, ed hanno un ruolo determinante nel
favorire (o, purtroppo, al contrario limitare!) lo sviluppo personale dei ragazzi. Gli allenatori che
operano con i giovani dovrebbero, pertanto, ricevere una formazione che fornisca non solo
33
competenze tecniche, didattiche e metodologiche specifiche, ma anche competenze pedagogiche
che consentano una pratica sportiva consapevolmente finalizzata in primo luogo ad uno sviluppo
globale e positivo dei giovani atleti. In passato, negli anni ’80‐’90, il C.O.N.I. aveva realizzato, in
collaborazione con l’Istituto Enciclopedico Italiano, un programma specifico (Corpo, movimento e
prestazione, 1984) pensato proprio per la formazione degli allenatori giovanili. Tale programma è
stato ampiamente utilizzato, in particolare per formare coloro che operavano nei Centri di
Avviamento allo Sport (C.A.S.), ma anche all’interno dei programmi formativi di alcune Federazioni
Sportive; purtroppo, è stato successivamente abbandonato.
È assai diffusa l’opinione che lo sport possa rappresentare un importante fattore di crescita
nei ragazzi, ed il valore educativo dell’attività sportiva è stato effettivamente dimostrato. Si è visto,
però, che questo non è di per sé un fatto automatico e scontato: lo sport agonistico può avere
anche effetti negativi, sia sulla salute, sia sul piano psico ‐sociale. Il fatto che lo sport dia un
contributo positivo o negativo allo sviluppo personale di un atleta non dipende tanto dalla pratica
sportiva in sé, quanto piuttosto dalla “filosofia” dell’organizzazione sportiva in cui l’atleta è
inserito, dagli atteggiamenti e comportamenti degli allenatori, dal tipo di coinvolgimento dei
genitori, dalle esperienze e dalle caratteristiche individuali (cfr. Petitpas, Cornelius, Van Raalte e
Jones,2005).
Se le diverse organizzazioni del sistema sportivo vogliono dare un vero valore educativo e
culturale alla pratica sportiva, soprattutto giovanile ma non solo, devono deciderlo
intenzionalmente ed agire in modo significativo. Un aspetto fondamentale è sicuramente la
formazione dei tecnici giovanili. Nelle società sportive sono soprattutto gli allenatori, ma anche i
dirigenti, che caratterizzano il contesto. Quando gli allenatori usano prevalentemente rinforzi
positivi (il rapporto ottimale sarebbe di 4 a 1 rispetto ad osservazioni negative!), danno valore ai
miglioramenti personali, non ricorrono a punizioni, i ragazzi stanno meglio nel gruppo, hanno più
alti livelli di motivazione e vivono meno ansia ed emozioni negative. Un ambiente dove i ragazzi
trovino un’atmosfera positiva, che dia importanza anche al proprio sviluppo personale, li valorizzi,
riconosca l’impegno e fornisca supporto, favorisce la possibilità di vivere un’esperienza sportiva
gratificante e piacevole riducendo la possibilità che si verifichino situazioni di burnout.
Lo sport educativo: una formazione per la vita
34
Su come favorire una pratica sportiva davvero formativa, in letteratura sono presenti diverse
indicazioni, spesso derivate da ricerche approfondite sulle ricadute educative di modalità di
intervento nello sport giovanile (cfr. Camiré, Forneris, Trudel e Bernard, 2011; Strachan, Cote e
Deakin, 2009; Watson II, Connole e Kadushin, 2011). Promuovere lo sviluppo personale dei ragazzi
significa, ad esempio, favorire lo sviluppo di un’identità positiva, della consapevolezza di sé, di
aspetti etici, di atteggiamenti positivi verso il futuro (ottimismo e speranza), di comportamenti
legati alla salute, della capacità di adattarsi a diversi ambienti di apprendimento e di lavoro. Va
fatta attenzione a non sollecitare lo sviluppo di un’identità atletica troppo rigida, in cui il ragazzo si
riconosca soltanto all’interno del ruolo di atleta: lo sviluppo personale deve essere ampio ed
articolato, riguardare sia le abilità fisiche, che quelle psico‐sociali. I ragazzi, inoltre, dovrebbero
trovare nello sport spazi e tempi per divertirsi, scoprendo e sperimentando anche altre abilità ed
altri ruoli.
Un aspetto che viene attualmente molto enfatizzato in letteratura è la possibilità che
attraverso lo sport si possano insegnare diverse abilità e competenze, utili non solo nel contesto
sportivo specifico, ma generalizzabili e trasferibili in modo ampio ad altri ambiti della vita e nel
futuro (Gould e Carson, 2008; Gould, Collins, Lauer e Chung, 2007). Queste “abilità per la vita” (life
skills) sono, ad esempio, saper ascoltare e comunicare in modo efficace con compagni ed adulti,
porsi degli obiettivi, prendere iniziative, saper fare scelte e prendere decisioni, avere capacità di
leadership, saper organizzare il proprio tempo, riuscire a controllare le emozioni e gestire lo stress,
sapersi assumere la responsabilità delle proprie azioni.
Da tutti gli autori che hanno affrontato questa tematica viene, comunque, sempre
sottolineato come non sia la pratica sportiva di per sé che automaticamente garantisce lo sviluppo
di queste competenze, come spesso si ritiene. Già il fatto che per definirle venga utilizzato lo
stesso termine (skill: abilità) che si usa per le abilità motorie in generale e per le tecniche
specifiche evidenzia la necessità che esse debbano essere apprese dai ragazzi, e pertanto
insegnate dagli adulti. Vi deve essere un ambiente che sia adatto a questo scopo (ad esempio, un
allenatore che incoraggia, la presenza di regole chiare, senso di responsabilità, norme sociali
positive), e l’insegnamento di abilità generalizzabili va programmato in modo consapevole ed
intenzionale: le abilità devono essere insegnate, allo stesso modo delle abilità tecniche, attraverso
istruzioni, dimostrazione ed esercitazioni. Lo sport è comunque un ambiente favorevole a tale
35
scopo, poiché gli è riconosciuto anche un valore sociale: lo sport rappresenta un contesto in cui si
apprendono abilità, i bambini ed i ragazzi sono in genere motivati alla partecipazione, i
miglioramenti personali nei risultati si realizzano grazie ad impegno e sforzo. Pertanto, gli
allenatori che vogliono considerare in modo serio anche l’aspetto educativo possono, all’interno
del proprio piano di lavoro, programmare in modo intenzionale strategie per lo sviluppo di abilità
personali significative per lo sport, ma generalizzabili anche ad altri aspetti della vita.
Contribuiscono in questo modo a formare non solo atleti, ma anche cittadini migliori, capaci di
inserirsi più facilmente ed efficacemente in contesti diversi.
Un modello di intervento per allenare le life skills (Figura 1) è stato proposto da Gould,
Collins, Lauer e Chung (2006), elaborato sulla base di interviste approfondite ad allenatori, in
particolare di calcio, che avevano ottenuto elevate percentuali di vittorie e risultati sportivi di
rilievo, ma ai quali, nello stesso tempo, veniva riconosciuta la capacità di formare gli atleti come
persone, come cittadini e membri produttivi della società. La maggiore attenzione era ovviamente
posta su come questi allenatori riuscissero a raggiungere contemporaneamente obiettivi sia
sportivi, che formativi. Sono stati poi intervistati anche gli atleti allenati dagli allenatori coinvolti
nella ricerca, che hanno fornito informazioni congruenti con quanto esposto dai tecnici. Il modello,
che viene qui presentato, integrato con indicazioni ricavate anche da altri autori, è costituito da
quattro elementi: “filosofia” dell’allenatore, relazione allenatore‐atleta, strategie specifiche per
sviluppare le life skills, considerazione dell’ambiente ed utilizzo delle risorse.
I fondamenti filosofici. Per l’allenatore, il punto di partenza è ovviamente una riflessione sul
significato della propria attività nello sport, cercando di comprendere quali siano le proprie
motivazioni, finalità e scelte anche rispetto ad una “filosofia” di sport: quanto valore viene dato al
risultato agonistico? Quanto alla crescita personale dei giovani atleti anche oltre la dimensione
sportiva? Quanto alla formazione del gruppo? Quanto alla crescita della stessa società sportiva?
Quale cultura sportiva si vuole creare nel proprio ambiente? Lo sport giovanile è oggi assai diffuso,
ed è molto di più che vincere o perdere! Rappresenta un fenomeno sociale e culturale a cui è
riconosciuta la possibilità di dare un contributo importante in termini di salute e di sviluppo
personale. Sarebbe un peccato non utilizzarne le potenzialità, ma questa scelta va fatta in modo
consapevole ed intenzionale. La finalità educativa va, però, sostanziata con obiettivi adeguati su
cui si deve intervenire in maniera sistematica. Ad esempio, uno degli allenato ri intervistati dava
molta importanza alla scuola: a tale proposito, chiedeva regolarmente all’atleta informazioni sui
36
risultati scolastici, coinvolgeva i genitori in questo processo, ed, essendo lo sport in questo caso
praticato a scuola, ogni tanto incontrava anche gli insegnanti. La propria filosofia di sport va
condivisa con i collaboratori, con gli atleti e con i genitori. I valori di fondo vanno ripetutamente
enfatizzati, adattati alle diverse situazioni e rinforzati, e non vanno accettate disgression i. Non si
tratta, comunque, solo di discorsi teorici, ma anche di valori e principi che devono essere parte
della quotidianità e che devono essere alla base delle decisioni e delle azioni dell’allenatore.
Figura 1 – Abilità per la vita.
37
La relazione allenatore‐atleta. Un secondo aspetto importante per poter allenare le life skills
riguarda la costruzione di una buona relazione con propri atleti. In genere, gli allenatori cercano di
conoscere le caratteristiche dei propri atleti, le abilità che posseggono, le loro esperienze
precedenti, gli obiettivi sportivi che i ragazzi si pongono, e questi elementi sono già di per sé utili
per un’adeguata programmazione delle attività di allenamento. Ma essi dovrebbero anche
possedere buone abilità comunicative, non solo come trasmissione di informazioni, ma anche
come capacità di ascolto. È fondamentale creare un clima positivo di lavoro, dove vi sia fiducia e
rispetto reciproco, fra allenatore ed atleti, ma anche fra gli atleti stessi, nel quale ciascuno possa
esprimersi senza la paura di essere continuamente giudicato, criticato o deriso, dove gli errori
siano considerati parte del processo di apprendimento. A tale proposito, ad esempio, una
semplice indicazione applicativa riguarda il fatto che qualora sia necessario fare un’osservazione
od un rimprovero ad un atleta, l’attenzione venga posta sul comportamento o sulla prestazione, e
non sull’atleta come persona.
Le strategie specifiche per sviluppare le life skills. Se una buona relazione con i propri atleti è
una condizione necessaria, non è però sufficiente per garantire un ricco sviluppo personale. Come
si è detto, le abilità generalizzabili per essere apprese devono essere insegnate in modo
sistematico; i ragazzi devono conoscerle, sapere a che cosa servono nello sport, e come possano
essere importanti poi anche al di fuori e nella loro vita futura. Gli interventi finalizzati
all’apprendimento di tali abilità, comunque, possono essere strettamente integrati nel contesto
dell’allenamento, in quanto sono realizzabili attraverso strategie didattiche calate all’interno della
pratica. Ad esempio, promuovere la leadership significa creare opportunità per i ragazzi di
esercitarsi in ruoli che richiedano controllo di una situazione e assunzione d i responsabilità. In
genere, nelle squadre, è il giocatore scelto come capitano (dall’allenatore o dai compagni) che ha
l’opportunità di svolgere un ruolo di leader. Sperimentare questo ruolo, però, può essere utile per
tutti i ragazzi, poiché rappresenta un’abilità trasferibile a diversi contesti di vita; pertanto, in
allenamento si possono costruire situazioni che lo consentano. Per esempio, una modalità per fare
questo è quella di affidare a rotazione agli atleti la conduzione di alcune parti della fase di
riscaldamento. Ciò non significa che il ragazzo che guida tale fase si debba semplicemente
ricordare una serie di esercizi, come accade già abbastanza spesso in molte società sportive, ma
invece dovrebbe implicare anche un aspetto di controllo e di intervento: l’atleta che sta
38
conducendo l’attività dovrebbe sapere su cosa porre attenzione affinché l’esercizio sia svolto
correttamente, e su come intervenire con i compagni eventualmente per correggerli. Implica,
pertanto, che l’allenatore faccia un intervento didattico, che risulterà comunque utile per una
migliore comprensione degli esercizi e della loro modalità di esecuzione, e che consentirà
successivamente di lavorare in maniera più rapida ed efficace sia dal punto di vista motorio che
psico‐pedagogico. La strategia può essere utilizzata nello stesso modo per la fase di
defaticamento. Questi spazi assegnati ai ragazzi possono diventare anche un opportunità per
l’allenatore di un’osservazione più accurata del gruppo, di un’organizzazione migliore dell’attività,
dell’utilizzo di questi momenti per uno scambio comunicativo con qualcuno in particolare.
Un altro esempio di strategia può riguardare lo sviluppo di autonomia e la capacità di
prendere decisioni. Una modalità efficace di intervento è quella di consentire agli atleti di avere
qualche forma di controllo sulle esercitazioni di allenamento: ad esempio, dop o alcuni esercizi
proposti dall’allenatore, può essere consentito ai ragazzi di scegliere l’esercizio successivo su cui
esercitarsi. La scelta può essere data alla squadra (ovviamente in modo veloce, senza perdere
troppo tempo!), oppure a rotazione fra gli atleti, o ancora come forma di gratificazione ad un
ragazzo che ha eseguito bene o con impegno un esercizio precedente; può essere una scelta
libera, o una scelta guidata (per esempio, fra alcuni altri esercizi proposti dall’allenatore). L’aspetto
dell’autonomia riguarda anche il processo di apprendimento. È abbastanza frequente che
nell’insegnamento delle tecniche sportive l’allenatore crei quasi una situazione di dipendenza da
parte dei ragazzi, abituandoli ad avere continuamente istruzioni, feedback e commenti
dall’esterno. In questo modo, però, durante gare e partite i ragazzi cercano continuamente
indicazioni o approvazione (e talvolta perfino rimproveri!) da parte del proprio allenatore. È
istintivo e facile per un allenatore evidenziare un errore o dare una correzione, ma a lungo termine
per i ragazzi è molto più produttivo imparare a pensare e a trovare soluzioni da soli. Pensiero
autonomo e strategie di problem‐solving possono essere stimolati facendo domande prima di dare
risposte, incoraggiando gli atleti a rilevare i propri errori o a percepire quando hanno eseguito
correttamente un’azione, sollecitandoli a riflettere e a proporre soluzioni.
Un ulteriore aspetto delle life skills riguarda quelle che in psicologia dello sport sono definite
“abilità mentali” importanti per la preparazione e la gestione delle situazioni di gara: la
formulazione di obiettivi (goal setting), la modulazione dell’attivazione, la gestione delle emozioni,
il controllo dei pensieri, la concentrazione (cfr. Robazza, Bortoli e Gramaccioni, 1994). Queste
39
abilità rientrano sicuramente fra le life skills, in quanto risultano fondamentali per affrontare
qualsiasi tipo di situazione che determina potenzialmente difficoltà e stress. Nel contesto sportivo,
per poter essere applicate in condizione di gara, come le abilità tecniche anche le abilità mentali
devono essere allenate durante le normali sessioni di preparazione e allenamento: gli atleti
devono sapere a cosa ogni abilità mentale serva e dovrebbero sperimentare in allenamento
situazioni simili a quelle di gara in cui possano provare ad utilizzarle. Ad esempio, le emozioni
legate alla competizione determinano spesso un incremento della frequenza cardiaca che non è
invece presente in allenamento, nemmeno durante le simulazioni di gara; per esempio,
un’esercitazione specifica è quella di incrementare la frequenza fisica attraverso movimenti
energici (come corsa, saltelli, etc.) e poi chiedere all’atleta di applicare le tecniche per il controllo
della frequenza cardiaca (come respirazioni lente e profonde, fissazione di un punto, rilassamento
dei muscoli delle spalle). Per poter, poi, essere generalizzate ad altri contesti, gli atleti vanno
sollecitati a riflettere non solo su come usare queste strategie durante le competizioni, ma anche
su quando e come applicarle in altre situazioni, fornendo loro magari qualche esempio, ed
incoraggiandoli a farlo.
Considerazione dell’ambiente e utilizzo delle risorse. Rispetto a quanto presentato finora, è
ovvio naturalmente che tutto questo vada considerato in termini realistici ed applicabili: gli
allenatori hanno come compito specifico quello di preparare i ragazzi per la pratica sportiva, li
vedono in genere due o tre volte alla settimana, quasi sempre in gruppo, con tempi ristretti di
lavoro e con molti obiettivi tecnici su cui lavorare. Il tempo, soprattutto, non sembra mai
abbastanza! Inoltre, anche quando l’allenatore decide di dare la massima importanza agli aspetti
educativi, in alcuni casi (pochi, comunque) non sempre si riescono ad ottenere i risultati
desiderati: nella relazione incidono, infatti, anche le caratteristiche individuali dei ragazzi, quelle
delle famiglie che hanno alle spalle, oltre all’ambiente in cui vivono. Questi aspetti non
dovrebbero, però, rappresentare degli alibi per evitare di prendersi responsabilità educative. Ad
esempio, capita con una certa frequenza, nelle società sportive ma anche a scuola, che ci possano
essere contrasti con le aspettative e gli atteggiamenti dei genitori, rispetto alla partecipazione ed
alla prestazione sportiva. La famiglia rappresenta il contesto primario di educazione e
socializzazione dei più giovani, oltre che il nucleo affettivo fondamentale a partire dalla nascita.
Per questo, i genitori sono figure significative anche per quanto riguarda l’esperienza sportiva dei
ragazzi, trasmettono i propri modelli culturali, i propri valori ed influenzano in modo determinante
40
motivazione, percezione di competenza, risposte emozionali e divertimento dei figli. Gli allenatori
e le società sportive che si pongono in modo chiaro il problema di uno sport realmente formativo
dovrebbero cercare assolutamente la collaborazione con i genitori, affinché il messaggio educativo
passi in modo forte e coerente. Ai genitori vanno spiegate le scelte della società e gli obiettivi che
vengono ricercati. Inoltre, va tenuto presente che, in genere, i genitori sono in buona fede e
convinti di star facendo il meglio possibile per aiutare i propri figli anche nell’esperienza sportiva;
spesso, però, il loro modello sportivo è quello degli atleti adulti, conosciuto attraverso i mass
media, nel quale l’enfasi è posta quasi soltanto sulla vittoria e dove sono presenti a volte anche
messaggi diseducativi.
Per questo, le società sportive che credono davvero nei valori educativi dello sport
dovrebbero condividere con i genitori la propria filosofia sportiva, considerandoli risorsa critica e
costruttiva in una discussione sui valori che sia utile ad approfondirne il significato, coinvolgendoli
dunque in un confronto continuo che possa divenire educativo anche per gli adulti oltre che per i
più giovani.
41
Bibliografia
Ames, C. (1992). Achievement goals, motivational climate, and motivational processes. In G. C.
Roberts (Ed.), Motivation in sport and exercise (pp. 161‐176). Champaign, IL: Human Kinetics.
Arthur‐Banning, S., Wells, M. S., Baker, B. L., & Hegreness, R. (2009). Parents behaving badly? The
relationship between the sportsmanship behaviors of adults and athletes in youth basketball
games. Journal of Sport Behavior, 32, 3‐18.
AA.VV. (1984). Corpo, Movimento, Prestazione. Roma: IEI, CONI.
Bandura, A. (1997). Self‐efficacy: The exercise of control. New York, NJ: Freeman. Biddle, S. J. H. (2001). Enhancing motivation in physical education. In G. C. Roberts (Ed.), Advances
in motivation in sport and exercise (pp. 101‐127). Champaign, IL: Human Kinetics.
Bortoli, L., e Robazza, C. (2003). Orientamento motivazionale nello sport. Giornale italiano di
Psicologia dello Sport, 3, 55‐59.
Bortoli, L., e Robazza, C. (2004). Il clima motivazionale nello sport. Giornale italiano di Psicologia
dello Sport, 1, 9‐16.
Bortoli, L., Bertollo, M., e Robazza, C. (2005). Sostenere la motivazione nello sport giovanile: il
modello TARGET. Giornale italiano di Psicologia dello Sport, 3, 69‐72.
Bortoli, L., Messina, G., Zorba, M., e Robazza, C. (2006).Processi motivazionali e aspetti morali nel
calcio giovanile. Giornale Italiano di Psicologia dello Sport, 1, 49‐52.
Bussmann, G. (2004). How to prevent “dropout” in competitive sport.
http://www.coachr.org/dropout.htm.
Camiré, M., Forneris, T., Trudel, P., & Bernard, D. (2011). Strategies for helping coaches fa cilitate
positive youth development through sport. Journal of Sport Psychology in Action, 2, 92‐99.
Dubuc, N. G., Schinke, R. J., Eys, M. A., Battochio, R., & Zaichkowsky, L. (2010). Experiences of
burnout among adolescent female gymnasts: Three case studies. Journal of Clinical Sport
Psychology, 4, 1‐18.
Gould, D., & Carson, S. (2008). Life skills development through sport: Current status and future
directions. International Review of Sport & Exercise Psychology, 1, 58‐78.
Gould, D., Collins, K., Lauer, L., & Chung, Y. (2006).Coaching life skills: A working model. Sport and
Exercise Psychology Review, 2, 4‐12.
42
Gould, D., Collins, K., Lauer, L., & Chung, Y. (2007). Coaching life skills through football: A study of
award winning high school coaches. Journal of Applied Sport Psychology, 19, 16‐37.
Gucciardi, D. F., Jackson, B., Coulter, T. J., & Mallett, C. J. (2011). The Connor‐Davidson Resilience
Scale (CD‐RISC): Dimensionality and age‐related measurement invariance with Australian
cricketers. Psychology of Sport and Exercise, 12, 423‐433.
Gustafsson, H., Kenttä, G., Hassmén, P., & Lundqvist, C. (2007). Prevalence of burnout in
competitive adolescent athletes. The Sport Psychologist, 21, 21‐37.
Gustafsson, H., & Skoog, T. (2012). The mediational role of perceived stress in the relation
between optimism and burnout in competitive athletes. Anxiety, Stress, and Coping, 25, 183‐
199.
Hill, A. P., Hall, H. K., Appleton, P. R., & Kozub, S. A. (2008). Perfectionism and burnout in junior
elite soccer players: The mediating influence of unconditional self‐acceptance. Psychology of
Sport and Exercise, 9, 630‐644.
Horn, T. S. (2004). Developmental perspectives on self‐perceptions in children and adolescents. In
M. R. Weiss (Ed.), Developmental sport and exercise psychology: A lifespan perspective (pp.
101‐143). Morgantown, WV: Fitness Information Technology.
Istat (2007). La pratica sportiva in Italia. Roma: ISTAT.
Jõesaar, H., Hein, V., & Hagger, M. (2011). Peer influence on young need satisfaction, intrinsic
motivation and persistence in sport: A 12‐month prospective study. Psychology of Sport and
Exercise, 12, 500‐508.
Jõesaar, H., Hein, V., & Hagger, M. S. (2012). Youth athletes’ perception of autonomy support from
the coach, peer motivational climate and intrinsic motivation in sport setting: One‐year
effects. Psychology of Sport and Exercise, 13, 257‐262.
Labbrozzi, D. (2004). Un modello educativo dell’adolescenza: il concetto di resilienza. Psicologia,
Psicoterapia e Salute, 10, 79 ‐107.
Martin, D. E. (1997). Interscholastic sport participation: Reasons for maintaining or terminating
participation. Journal of Sport Behavior, 20, Issue 1.
Miller, B. W., Roberts, G. C., & Ommundsen, Y. (2004). Effect of motivational climate on
sportspersonship among competitive youth male and female football players. Scandinavian
Journal of Medicine and Science in Sports, 14, 193‐202.
43
Molinero, O., Salguero, A., Tuero, C., Alvarez, E., & Marquez, S. (2006). Dropout reasons in young
Spanish athletes: Relationship to gender, type of sport and level of competition. Journal of
Sport Behavior, 29, 255‐269.
Nicholls, J. G. (1992). The general and the specific in the development and expression of
achievement motivation. In G.C. Roberts (Ed.), Motivation in sport and exercise (pp. 31‐56).
Champaign, IL: Human Kinetics.
Petitpas, A. J., Cornelius, A. E., Van Raalte, J., & Jones, T. (2005).A framework for planning youth
sport programs that foster psychosocial development. The Sport Psychologist, 19, 63‐80. Raedeke,
T. D. (1997). Is athlete burnout more than just stress? A sport commitment perspective.
Journal of Sport and Exercise Psychology, 19, 396‐417.
Raedeke, T. D., & Smith, A. L. (2004). Coping resources and athlete burnout: An examination of
stress mediated and moderation hypotheses. Journal of Sport and Exercise Psychology, 26,
525‐541.
Reinboth, M., & Duda, J. L. (2004). The motivational climate, perceived ability, and athletes'
psychological and physical well‐being. The Sport Psychologist, 18, 237‐251.
Robazza, C., Bortoli, L., e Gramaccioni, G. (1994). La preparazione mentale nello sport. Roma:
Editore Luigi Pozzi.
Robazza, C. (2006). Emotion in sport: An IZOF perspective. In S. Hanton & S. D. Mellalieu (Eds.),
Literature reviews in sport psychology (pp. 127‐158). New Yoprk, NJ: Nova Science.
Roberts, G. C. (2001). Understanding the dynamics of motivation in physical activity: the influence
of achievement goals on motivational processes. In G. C. Roberts (Ed.), Advances in
motivation in sport and exercise (pp. 1‐50). Champaign, IL: Human Kinetics.
Roberts, G. C., Treasure, D. C., & Conroy, D. E. (2007). Understanding the dynamics of motivation
in sport and physical activity: An achievement goal interpretation. In G. Tenenbaum & R.
Eklund (Eds.), Handbook of sport psychology (3rd ed., pp. 3‐30). Hoboken, NJ: Wiley.
Smith, A. L., Gustafsson, H., & Hassmén, P. (2010). Peer motivational climate and burnout
perceptions of adolescent athletes. Psychology of Sport and Exercise, 11, 453‐460.
Smith, L. H., & Kays, T. M. (2010). Sports psychology for dummies. Mississauga, ON: John Wiley &
Sons Canada.
Smith, A. L., Ullrich‐French, S., Walker II, E., & Hurley, K. S. (2006). Peer relationship profiles and
motivation in youth sport. Journal of Sport and Exercise Psychology, 28, 362‐382.
44
Strachan, L., Cote, J., & Deakin, J. (2009).An evaluation of personal and contextual factors in
competitive youth sport. Journal of Applied Sport Psychology, 21, 340‐355.
Treasure, D. C. (2001). Enhancing young people’s motivation in youth sport: An achievement goal
approach. In G. C. Roberts (Ed.), Advances in motivation in sport and exercise (pp. 79‐100).
Champaign, IL: Human Kinetics.
Vazou, S., Ntoumanis, N., & Duda, J. L. (2005). Peer motivational climate in youth sport: a
qualitative inquiry. Psychology of Sport and Exercise, 6, 497‐516.
Vazou, S., Ntoumanis, N., & Duda, J. L. (2006). Predicting young athletes’ motivational indices as a
function of their perceptions of the coach‐ and peer‐created climate. Psychology of Sport
and Exercise, 7, 215‐233.
Vitali, F., e Bortoli, L. (2013). La resilienza psicologica: una rassegna su studi e ricadute applicative
nello sport. Giornale Italiano di Psicologia dello Sport, 16, 35‐46.
Vitali, F., Bortoli, L., Robazza, C., Bertinato, L., & Schena, F. (2011). The effects of personal and
situational factors on burnout in youth sport. The Journal of Sports Medicine and Physical
Fitness, 51, 19‐20.
Watson II, J. C., Connole, I., & Kadushin, P. (2011).Developing young athletes: A sport psychology
based approach to coaching youth sports. Journal of Sport Psychology in Action, 2, 113‐122.
Weiss, M. R., & Ebbeck, V. (1996). Self‐esteem and perceptions of competence in youth sport:
Theory, research, and enhancement strategies. In O. Bar‐Or (Ed.), The encyclopedia of
sports medicine: The child and adolescent athlete (Vol. 5, pp. 364‐382). Oxford: Blackwell
Scientific.
Weiss, M. R., Ebbeck, V., & Horn, T. S. (1997). Children's self‐perceptions and sources of physical
competence information: A cluster analysis. Journal of Sport and Exercise Psychology, 19,
52‐70.
46
Appendice Tabella 2 – Partecipanti per genere, età e sport praticato.
Età Genere Sport 12 anni 13 anni 14 anni 15 anni 16 anni 17 anni 18 anni Totale
Femmine arrampicata sportiva ‐‐ ‐‐ ‐‐ 3 ‐‐ ‐‐ ‐‐ 3atletica 10 17 6 5 6 5 5 54calcio ‐‐ ‐‐ ‐‐ 2 ‐‐ ‐‐ ‐ 2frisbee (ultimate) ‐‐ ‐‐ ‐‐ 1 2 1 3 7nuoto 5 2 5 2 3 2 ‐‐ 19pallavolo 6 32 53 22 10 3 ‐‐ 126
Maschi arrampicata sportiva ‐‐ ‐‐ ‐‐ 6 ‐‐ ‐‐ ‐‐ 6atletica 2 5 8 4 6 1 2 28baseball ‐‐ ‐‐ 4 1 5 ‐‐ ‐‐ 10calcio 24 28 54 75 56 29 4 270ciclismo ‐‐ 5 ‐‐ ‐‐ ‐‐ ‐‐ ‐‐ 5frisbee (ultimate) ‐‐ ‐‐ ‐‐ ‐‐ 1 ‐‐ ‐‐ 1hockey su ghiaccio 5 3 9 2 ‐‐ ‐‐ ‐‐ 19hockey su prato ‐‐ 8 1 7 1 ‐‐ ‐‐ 17nuoto ‐‐ ‐‐ 3 2 ‐‐ ‐‐ ‐‐ 5pallamano ‐‐ 4 6 1 1 2 1 15pallavolo 28 23 39 13 19 1 3 126tiro a segno ‐‐ 1 1 2 ‐‐ 1 ‐‐ 5tiro con l'arco 1 1 1 ‐‐ 2 ‐‐ ‐ 5
Totale 81 129 190 148 112 45 18 723
47
Tabella 3 ‐ Partecipanti per genere e sport praticato.
Genere Sport N % Femmine pallavolo 126 59,4
atletica 54 25,8
nuoto 19 9,2
frisbee (ultimate) 7 3,3
arrampicata sportiva 3 1,4
calcio 2 0,9 Totale 211 100
calcio 270 52,6 pallavolo 126 24,6 atletica 28 5,5 hockey su ghiaccio 19 3,7 hockey su prato 17 3,3 pallamano 15 2,9 baseball 10 2,0 arrampicata sportiva 6 1,2 ciclismo 5 1,0 nuoto 5 1,0 tiro a segno 5 1,0 tiro con l'arco 5 1,0 frisbee (ultimate) 1 0,2 Totale 512 100
48
Tabella 4 ‐ Partecipanti per esperienza sportiva e allenamenti.
Media D.S.
Anni di esperienza di pratica sportiva 5,03 2,75 Numero di allenamenti a settimana 2,75 0,89 Durata in ore di ogni allenamento 1,83 0,32 Durata di allenamento complessivo a settimana 5,1 2,10
Tabella 5 – Coefficienti di affidabilità (coerenza interna) (alpha di Cronbach).
Per ogni scala dei questionari sono stati calcolati i coefficienti di affidabilità (coerenza interna) (alpha di Cronbach). I risultati mostrano livelli accettabili di
affidabilità degli strumenti.
Variabili Maschi Femmine
Motivazione intrinseca 0,69 0,70
Motivazione estrinseca a regolazione interna 0,72 0,83
Motivazione estrinseca a regolazione esterna 0,71 0,68 Assenza di motivazione 0,68 0,72 Resilienza 0,77 0,81 Stati emozionali piacevoli 0,83 0,78 Stati emozionali spiacevoli 0,79 0,67 Clima orientato sulla prestazione (performance climate) 0,74 0,73 Clima orientato sulla competenza (mastery climate) 0,72 0,71 Esaurimento psico‐fisico 0,81 0,79 Svalorizzazione dello sport 0,68 0,69 Mancata realizzazione personale nello sport 0,78 0,73
49
Tabella 6 – Correlazioni fra variabili.
(1) (2) (3) (4) (5) (6) (7) (8) (9) (10) (11) (1) Percezione competenza
1
(2) Motivazione Intrinseca
,136* 1
(3) Motivazione estrinseca (regolazione interna)
0,087 ,532** 1
(4) Motivazione estrinseca (regolazione esterna)
0,039 ‐,128* ‐0,059 1
(5) Assenza motivazione
‐0,027 ‐,154** ‐0,068 ,606** 1
(6) Resilienza
,188** ,433** ,391** ‐0,015 ‐,138*
1
(7) Mancata realizzazione personale
‐,299**
‐,210**
‐0,089
,284**
,384**
‐,328**
1
(8) Esaurimento psico‐fisico
‐0,034 ‐0,098 ‐0,037 ,345** ,420**
‐,132* ,519** 1
(9) Svalorizzazione per lo sport
‐0,044 ‐,163** ‐0,028 ,405** ,450**
‐,142** ,576** ,617** 1
(10) Stati emozionali piacevoli
,382**
,399**
,242**
‐0,077
‐,214**
,526**
‐,450**
‐,107*
‐,194**
1
(11) Stati emozionali spiacevoli
‐0,097
‐,211**
‐0,103
,404**
,501**
‐,240**
,462**
,564**
,584**
‐,245**
1
50
Tabella 7 – Correlazioni fra variabili.
(1) (2) (3) (4) (5) (6) (7) (8) (9)
(1) Percezione competenza
1
(2) Resilienza
,308** 1
(3) Clima motivazionale Mastery
‐0,007 ,206** 1
(4) Clima motivazionale Performance
‐0,047 ‐0,052 ‐,424** 1
(5) Mancata realizzazione personale
‐,451** ‐,437** ‐,166** ,240**
1
(6) Esaurimento psico‐fisico
‐0,064 ‐,227** ‐,153** ,291**
,343** 1
(7) Svalorizzazione per lo sport
‐,124* ‐,187** ‐,221** ,291**
,510** ,575** 1
(8) Stati emozionali piacevoli
,337** ,487** ,263** ‐,115*
‐,526** ‐,255** ‐,273** 1
(9) Stati emozionali spiacevoli
‐,258** ‐,269** ‐,197** ,287**
,485** ,470** ,584** ‐,350** 1