A VOLTE SI ABBANDONA DA GIOVANI! MOTIVAZIONALI E ... · A VOLTE SI ABBANDONA DA ... lo sport, in...

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1 A VOLTE SI ABBANDONA DA GIOVANI! PROCESSI MOTIVAZIONALI E PREVENZIONE DELL’ABBANDONO NELLO SPORT GIOVANILE: INDAGINE NELLA PROVINCIA DI TRENTO. A cura di Francesca Vitali, Laura Bortoli, Antonella Bellutti, Claudio Robazza e Federico Schena Ottobre 2013

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A VOLTE SI ABBANDONA DA GIOVANI!  

PROCESSI MOTIVAZIONALI E PREVENZIONE DELL’ABBANDONO NELLO SPORT GIOVANILE:  

INDAGINE NELLA PROVINCIA DI TRENTO.    

A cura di  

Francesca Vitali, Laura Bortoli, Antonella Bellutti, Claudio Robazza e Federico Schena                                   

Ottobre 2013 

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INDICE         

Introduzione pp. 04

Le motivazioni allo sport pp. 05

Il clima motivazionale pp. 08

Il ruolo degli allenatori pp. 08

Il ruolo dei genitori pp. 10

Il ruolo dei compagni pp. 13

Il burnout nello sport giovanile pp. 15

La resilienza pp. 19

La ricerca pp. 21

Obiettivi della ricerca pp. 22

Metodo pp. 23

I partecipanti pp. 23

Gli strumenti pp. 24

Procedura pp. 26

Analisi dei dati e risultati pp. 26

Discussione pp. 28

Sostenere la motivazione nello sport giovanile pp. 30

Prevenire o contrastare il burnout nello sport giovanile pp. 32

Lo sport educativo: una formazione per la vita pp. 35

Bibliografia pp. 41

Appendice pp. 45

   

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Introduzione      

La  pratica  di  attività  sportive  in  età  giovanile  viene  in  genere  valorizzata per  il  contributo 

positivo  che  può  dare  alla  crescita  ed  alla maturazione  personale  di  ragazze  e  ragazzi. Quando 

gestito  in  modo  educativo  dagli  adulti,  lo  sport  rappresenta  un  contesto  in  cui  si  possono 

apprendere  nuove  abilità,  diventare  autonomi  e  consapevoli  delle  proprie  capacità, mettersi  in 

gioco affrontando difficoltà ed esperienze di competizione,  imparare a collaborare con gli altri, a 

rispettare le regole, ad accettare le decisioni di arbitri e giudici. 

Nonostante  questi  aspetti  positivi,  vi  è  una  diminuzione  della  pratica  sportiva  già  in  età  

evolutiva,  soprattutto  per  quanto  riguarda  le  ragazze  (la  cui  presenza  nelle  attività motorie  e 

sportive è  comunque  sempre  inferiore a quella dei  ragazzi).  I dati  Istat‐Coni del 2011 mostrano 

come nella fascia di età 11‐14 anni il 66% dei ragazzi pratichino sport, contro il 48% delle ragazze; 

ma queste percentuali  sono già  scese  rispettivamente al 56% e 39% nella  fascia 15‐17 anni, per 

diminuire ancora al 46% e 27% nella  fascia 18‐19 anni. Differenze regionali evidenziano un netto 

svantaggio del Sud, rispetto al Centro ed al Nord. 

Nello  sport, alcuni  ragazzi abbandonano prima ancora di  iniziare una vera carriera atletica: 

taluni  lasciano  una  disciplina  sportiva  per  intraprenderne  una  diversa,  altri  abbandonano  la 

dimensione  agonistica  per  passare  ad  attività  motorie  diversificate  e  non  agonistiche,  magari 

effettuate  in  modo  autonomo;  altri  ancora,  infine,  lasciano  lo  sport,  ma  con  esso  anche  la 

dimensione motoria  in  genere, e  fanno  scelte  completamente diverse  (spesso  sedentarie) per  il 

proprio tempo libero. Conoscere i motivi che spingono i ragazzi ad abbandonare la pratica sportiva 

può allora essere utile per chi organizza e gestisce  lo sport giovanile, ma anche per coloro che si 

occupano di politiche legate alla salute. 

In  genere viene definito  come  “dropout”  l’abbandono prematuro di una carriera  sportiva,  

prima,   cioè,   che   un   atleta   abbia   potuto   esprimere   completamente   il   proprio   potenziale  

(Bussmann, 2004). Ovviamente, non  c’è  un  unico motivo  per  abbandonare  lo  sport,  in  quanto 

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questa  scelta  può  essere  condizionata  da  combinazioni  di  diversi  fattori,  sia  personali  che 

situazionali  (cfr.  Molinero,  2006).  Ad  esempio,  la  difficoltà  a  conciliare  scuola  e  sport  viene 

evidenziata dai ragazzi come causa frequente di abbandono; del resto, il tempo in cui nello sport ci 

si  comincia  ad  impegnare  in modo  sistematico  ed  intenso  coincide  in  genere  con  gli  anni  della 

scuola  superiore,  e  talvolta  la  difficoltà  nel  gestire  tempi  di  studio  e  di  allenamento  non  viene 

facilmente  superata.  Altri  motivi  di  abbandono  dichiarati  riguardano  anche  disaccordo  con 

l’allenatore, mancanza  di  divertimento,  presenza  di  infortuni,  scarsa  percezione  di  competenza, 

influenza di altre persone (genitori o compagni), scarse opportunità di successo (Martin, 1997). 

   

 Le motivazioni allo sport 

   

L’abbandono  dell’attività  sportiva  viene  in  genere  collegato  ai  processi  motivazionali, 

considerando il calo (o la perdita) di motivazione come determinante per l asciare l’attività, a volte 

anche con una diminuzione della fiducia nelle proprie capacità e quasi con un  senso di fallimento 

personale. 

La  teoria  dell’autodeterminazione  (Self  Determination  Theory;  Ryan  e  Deci,  2000) mostra 

come   la  motivazione  a  praticare   sport  derivi  da  due  possibili   fonti:   ragioni   intrinseche  o 

estrinseche.  Quando  gli  atleti  sono motivati  in  modo  intrinseco,  partecipano  per  libera  scelta 

personale,  per  proprio  interesse  e  piacere;  se,  invece,  sono  motivati  in  modo  estrinseco,  il 

coinvolgimento  sportivo  è  dovuto  a  ragioni  esterne  (ad  esempio,  riconoscimenti  sociali  o 

economici): lo sport, in questo caso, rappresenta un mezzo per ottenere qualcosa che si desidera o 

evitare qualcosa che non si vuole. In realtà, la teoria si sviluppa in modo più complesso e prevede 

che  i processi motivazionali si muovano  lungo un continuum  in relazione all’autodeterminazione. 

Al  livello  più  basso,  si  trova  l’assenza  di motivazione  (amotivation):  questi  sono  atleti  che  non 

percepiscono  un  senso  di  controllo  rispetto  al  proprio  coinvolgimento  sportivo  e  non  vedono 

ragioni  (né  intrinseche,  né  estrinseche) per  praticare;  come  è  ovvio, questi  atleti  hanno  un’alta 

probabilità di abbandonare precocemente  l’attività sportiva. Lungo  il continuum, poi, si collocano 

altre forme di   motivazione    estrinseca:    la    prima,    fa    riferimento    a    fattori    esterni    (external 

regulation), quando un dato  comportamento viene messo  in  atto  solo per  ragioni  strumentali e 

ottenere un vantaggio esterno (es. “Oggi cerco di allenarmi bene perché ci sono osservatori di una 

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squadra  superiore”);  la  seconda,  (introjected  regulation)  è  ancora  una  forma  di  motivazione 

estrinseca, ma  il  controllo  è diventato  interno  (es.  “Oggi mi  alleno, perché  se non  lo  facessi mi 

sentirei  in  colpa”);  con  il  terzo  tipo  di  motivazione  estrinseca  (identified  regulation)  il 

comportamento   è   autodeterminato,   ma   l’attività   è   vista   come   un   mezzo   per   ottenere 

qualcos’altro  e  non  è  ancora  considerata  divertente  di  per  sé  (es.  “La  preparazione  fisica  è 

pesante, ma devo  impegnarmi altrimenti  l’allenatore non mi farà giocare”);  infine, nel continuum 

si  trova  la  forma più  autonoma di motivazione  estrinseca  (integrated  regulation),  per  la quale  i 

comportamenti risultano congruenti con  i valori e  i bisogni  individuali e  la motivazione è  in parte 

già  intrinseca, ma  ancora mancano  interesse e piacere per  l’attività  in  sé  (es.  “La preprarazione 

fisica  è  faticosa  e  pesante,  ma  indispensabile”).  Al  livello  più  elevato  del  continuum 

dell’autodeterminazione  si  trova  la motivazione  intrinseca: gli atleti partecipano all’attività per  il 

piacere di farlo, per  l’appagamento e  la soddisfazione che ne derivano. Quest’ultima rappresenta 

la forma di motivazione ideale per chiunque, ma in realtà lo sport competitivo, da quello giovanile 

a  quello  olimpico,  è  dominato  da  rinforzi  esterni  (classifiche,  trofei,  notorietà,  denaro). 

Ciononostante,  soprattutto  con  i  più  giovani  sarebbe  importante  considerare  tre  aspetti  che 

possono  favorire  processi  di  autodeterminazione  e  quindi  di  motivazione  intrinseca.  Il  primo, 

riguarda  la  buona  qualità  delle  relazioni  interpersonali:  inizialmente  l’educazione  dei  bambini  si 

fonda anche su processi di modellamento, ovvero utilizzando rinforzi esterni, con i comportamenti 

che poi  vengono valutati e  rinforzati da adulti percepiti  affettivamente  importanti e  significativi; 

buone relazioni, senso di appartenenza e legami affettivi con gli altri sono fattori determinanti per 

i  processi  di  interiorizzazione  e,  dunque,  di  autodeterminazione.  Il  secondo,  fa  riferimento  alla 

percezione di competenza, poiché è probabile che  le persone scelgano  le attività che sentono di 

poter  padroneggiare:  bambini  e  ragazzi  andrebbero,  perciò,  sostenuti  nella  costruzione  della 

competenza  personale.  Infine,  il  terzo  si  riferisce  all’autonomia:  andrebbero  favorite  tutte  le 

esperienze  che  vanno  in  tal  senso, nel quadro di un  ambiente  che  sostenga ed  incoraggi  anche 

scelte autonome. 

Un secondo approccio teorico fra  i più utilizzati nello studio dei processi motivazionali nello 

sport giovanile è la teoria dell’orientamento motivazionale (Achievement Goal Theory), fondata sul 

contributo  teorico  di  Nicholls  (1992)  (cfr.  Bortoli  e  Robazza,  2003).  Tale  teoria  pone  l’accento 

sull’interazione  fra  fattori  individuali  ed  ambiente,  e  considera  in  questo modo  la  possibilit à  di 

agire all’interno del contesto didattico per favorire aspetti motivazionali. 

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Dal punto di vista  individuale,  la  teoria pone molta  importanza ai criteri soggettivi utilizzati 

per definire cosa siano successo e fallimento, come significato person ale attribuito a tali concetti. 

Quando   la  valutazione  della  propria  prestazione  è  basata  su   standard  normativi,  ossia  sul 

confronto con gli altri,  la persona  si  sente competente  se  riesce a vincere, a  superare gli altri, a 

fare meglio (oppure a fare come gli altri ma con meno sforzo): si determina allora quello che viene 

definito “orientamento sull’io” (ego orientation). Quando,  invece,  la valutazione della prestazione 

è  autoriferita,  la  percezione  di  competenza  si  fonda  su  criteri  di miglioramento  personale  e  di 

apprendimento, e  l’impegno viene considerato principale  fattore di successo:  si determina allora 

un “orientamento sul compito” (task orientation). 

L’orientamento  motivazionale  è  visto,  però,  non  come  un  “tratto”  rigido  di  personalità, 

quanto  piuttosto  come  uno  schema  cognitivo  che  viene  usato  di  preferenza per  affrontare una 

situazione prestativa;  tale  schema può  anche modificarsi  in  relazione a  come un  certo  contesto 

viene  percepito,  e  le  caratteristiche  dell’ambiente  possono  orientare  la  percezione  (Rober ts, 

2001). Ad esempio, in allenamento è sicuramente più funzionale essere orientati sui miglioramenti  

personali  (e quindi  sul  compito), mentre  in gara anche un orientamento  sulla  competizione può 

essere  utile.  In  genere,  negli  atleti  questi  due  orientamenti  coesistono  con  diversi  gradi  di 

combinazione, ma la prevalenza di uno o dell’altro determina fattori comportamentali, cognitivi ed 

emozionali qualitativamente diversi. Numerosi studi mostrano come un orientamento prevalente 

sul  compito  risulta  maggiormente  funzionale,  con  ricadute  positive  su  diversi  aspetti 

dell’esperienza sportiva  (cfr. Bortoli e Robazza, 2003). Ad esempio, ad esso si associa un maggior 

coinvolgimento ed  investimento emotivo,  con emozioni e  sentimenti positivi;  inoltre,  impegno e 

sforzo  vengono  considerati  decisivi  per  la  riuscita  e  viene  attribuito maggior  valore  ad  aspetti 

sociali e cooperativi. 

In relazione all’orientamento motivazionale, risulta molto importante anche la percezione di 

competenza.  Quando  l’atleta  è  prevalentemente  orientato  sul  compito  (e  quindi  attento 

soprattutto ai propri miglioramenti), i suoi pensieri, le sue azioni e le sue emozioni condizionano in 

modo  positivo motivazione  ed  impegno,  indipendentemente  da  quanto  egli  si  senta  abile.  Se, 

invece,  è  orientato  sull’io  (e  quindi  centrato  sul  confronto  con  gli  altri),  vi  potrà  essere  un 

atteggiamento motivazionale  positivo,  con  elevato  impegno  e  persistenza  nel  compito,  solo  se 

l’atleta  è  effettivamente  sicuro  di  possedere  un  elevato  livello  di  abilità  e  non  teme  quindi, 

realisticamente,  il  confronto  con  gli  altri;  se  invece  si  percepisce poco  competente,  si  possono 

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facilmente determinare difficoltà motivazionali  (Biddle, 2001). È  importante  sottolineare  come  il 

riferimento  non  sia  alla  competenza  reale  della  persona  (ossia  al  livello  oggettivo  di  capacità 

motorie od abilità), ma alla percezione soggettiva di competenza, cioè al fatto di percepirsi, in una 

determinata situazione, più o meno competente.  Infatti,  la percezione di competenza può anche 

variare nel tempo  in base alla situazione che  l’atleta sta vivendo: ad esempio, dopo un  infortunio 

anche un atleta con elevate abilità può non sentirsi del tutto sicuro dei propri mezzi; o anche,  in 

una squadra di buon  livello un ragazzo dotato che viene lasciato spesso  in panc hina può avere la 

sensazione di non possedere un livello adeguato di abilità. 

   

 Il clima motivazionale 

     Il ruolo degli allenatori 

   

L’orientamento    motivazionale    viene,    comunque,    considerato    come    risultato    di 

caratteristiche sia individuali, sia situazionali, valorizzando così l’interazione fra fattori personali ed 

ambiente.   A   tale   proposito,   l’allenatore   può   sicuramente   giocare   un   ruolo   attivo   nel 

coinvolgimento  motivazionale,  costruendo  un  certo  clima  educativo  ed  indirizzando  così  la 

percezione degli allievi. Quando un allenatore  interagisce con gli allievi, sia  in allenamento che  in 

gara,  mette  in  atto  i  comportamenti  che  ritiene  più  adeguati  ed  utilizza  un  certo  tipo  di 

comunicazione;  ad  esempio,  può  valorizzare  e  dare  importanza  soprattutto  ai  ragazzi m igliori, 

innervosirsi  con  chi  sbaglia,  sottolineare  i  miglioramenti  individuali,  incoraggiare  chi  vede  in 

difficoltà,  utilizzare  spesso  la  competizione  fra  compagni  per  stimolare  l’impegno,  organizzare 

gruppi di  lavoro prevalentemente per  livello di abilità,  reagire  in modo pacato o bruscamente di 

fronte  ad  un  insuccesso  o  ad  una  sconfitta  in  gara,  in  uno  sport  di  squadra  far  giocare  tutti  o 

soprattutto  i  migliori.  A  volte  tali  comportamenti  vengono  attuati  in  modo  istintivo,  secondo 

convinzioni personali o anche, semplicemente, senza  riflettere eccessivamente su di essi; eppure 

divengono  determinanti,  poiché  contribuiscono  alla  costruzione  di  uno  specifico  clima 

motivazionale. 

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Possono essere  individuate due  tipologie di  clima motivazionale: un  “clima orient ato  sulla 

competenza”  (mastery  climate),  quando  l’attenzione  è  posta  sullo  sviluppo  di  abilità  e  sui 

miglioramenti,con  l’allenatore che pone obiettivi  individualizzati, riconosce  l’impegno, sottolinea  i 

progressi,  in  una  squadra  valorizza  il  contributo  di  ciascun  atleta  e  la  collaborazione  con   i 

compagni; oppure, un “clima orientato sulla prestazione” (performance climate), dove  l’accento è 

posto  sulla  competizione,  con  l’allenatore  che  dedica  maggiore  attenzione  agli  atleti  migliori, 

rimprovera per  gli  errori e per una prestazione  scadente,  stimola  spesso  la  competizione anche 

all’interno del gruppo (cfr. Bortoli e Robazza, 2004). 

Il  clima  motivazionale  agisce  stimolando  il  coinvolgimento  più  sul  compito  o  sull’io,  a 

seconda della maggiore o minore rilevanza degli stimoli in una delle due direzioni; infatti, come si 

è  detto,  la  percezione  di  un  certo  clima  influenza  l’atteggiamento  individuale,  poiché  i  ragazzi 

capiscono quali  sono gli obiettivi e gli aspetti che assumono valore  in quel contesto. Soprattutto 

con  i bambini, quando  l’orientamento motivazionale non è ancora pienamente sviluppato, il clima 

motivazionale  creato  dagli  adulti  significativi  nei  diversi  contesti  prestativi  (nello  sport,  dagli 

allenatori) sembra essere  l’elemento più influente, ovvero quello che condiziona maggiormente le 

risposte  cognitive,  affettive  e  comportamentali  e  tende  a  fissare  nel  tempo  la  predisposizione 

individuale  (Treasure,  2001).  La  ricerca  ha  ampiamente  dimostrato  gli  effetti  maggiormente 

funzionali, per  i processi motivazionali, della percezione di un  clima orientato  sulla  competenza, 

risultato positivamente correlato a maggior divertimento ed  interesse nell’attività, più alto  livello 

di autostima ed un maggior senso di valore personale. 

Una  ricaduta  educativa  importante  del  clima motivazionale  riguarda  gli  aspetti  legati  alle 

convinzioni e ai comportamenti morali, cioè alla “sportività”,  intesa come rispetto degli avversari, 

delle regole, degli arbitri e delle convenzioni sociali nello sport (ad esempio, congratularsi co n gli 

avversari quando vincono o aiutare un avversario a rialzarsi dopo una caduta). Parecchi studi sono 

stati  effettuati  su  questa  tematica,  riferiti  in  particolare  a  sport  quali  calcio,  basket,  rugby, 

pallamano,  nei  quali  il  contatto  fisico  con  gli  avversari  durante  il  gioco  determina  anche  scelte 

legate al controllo ed alla gestione di atteggiamenti e comportamenti potenzialmente dannosi per 

gli  atleti  (cfr. Bortoli, Messina, Zorba e Robazza, 2006).  La percezione di un  clima motivazionale 

orientato  sulla  competenza  si  collegava  a  capacità  di  pensiero  e  valutazioni morali  più mature, 

minor  disponibilità   verso   comportamenti   scorretti  ed   anche  migliori   relazioni   con   i  propri 

compagni di squadra. Viceversa, la percezione di un clima fortemente orientato sulla prestazione 

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determinava minori capacità di valutazione morale, più disponibilità ad azioni scorrette (anche con 

possibili conseguenze fisiche sugli avversari) e a comportamenti anti ‐sociali, relazioni più scadenti, 

e  a  volte  conflitto  con  i  propri  compagni  di  squadra.  Del  resto,  quando  il  fine  è  sconfiggere 

l’avversario  a  tutti  i  costi,  quest’ultimo  è  visto  come  un  ostacolo  ai  propri  obiettivi,  e  come 

conseguenza di una moralità egocentrica è  facile  che  vengano  suscitati  sentimen ti di ostilità ed 

aggressività. 

In questi studi viene sottolineata anche l’importanza di quella che viene definita “atmosfera  

morale” di una squadra, poiché essa condiziona  le valutazioni morali dei singoli giocatori: quando 

gli atleti percepiscono  che  l’ambiente di  squadra approva,  pur di  vincere, anche comportamenti 

scorretti,  o  che  l’allenatore  incoraggia  provocazioni  verbali  o  fisiche,  tenderanno  a  considerare 

appropriati  tali  comportamenti  ed  aumenterà  la  probabilità  di  una  loro  maggiore  frequenza. 

Invece,  con  un  clima  orientato  sulla  competenza  (dove  l’attenzione  è  posta  sull’impegno  e  sui 

miglioramenti  personali),  è  più  facile  considerare  gli  avversari  come  co‐attori,  e  quindi  come 

componente determinante di un’esperienza che aiuta a mettere alla prova i propri limiti e a dare  il 

massimo: questo  significa giocare non “contro”, ma “con” gli avversari, con un maggior  livello di 

empatia e di attenzione agli altri. Naturalmente, al  centro di queste  riflessione  si pone  la  figura 

dell’allenatore,  che  nel  contesto  specifico  della  società  sportiva  risulta  determinante  nella 

costruzione  (e  quindi  nella  percezione  da  parte  dei  giocatori)  di  un  certo  clima motivazionale; 

viene, così, evidenziato anche il suo ruolo fondamentale in riferimento ad aspetti di etica sportiva. 

   

 Il ruolo dei genitori 

   

Affrontando  il  tema della motivazione è, comunque, necessario  fare delle  riflessioni anche 

sul ruolo dei genitori, che incidono fortemente sul modo in cui i ragazzi interpretano le esperienze 

che si trovano a vivere.  I genitori sono determinanti dal punto di vista motivazionale, poiché, nei 

diversi  contesti  (scolastici  e  sportivi, ma  non  solo)  trasmettono  ai  figli  la  propria  concezione  di 

successo, favorendone un orientamento generale di base sul compito o sull’io. 

La  teoria dell’orientamento motivazionale, che è applicata ampiamente nel contesto dello  

sport, è stata comunque sviluppata da Ames (1992) con riferimento alla scuola. Anche a scuola ai 

bambini  e  ai  ragazzi  sono  richieste  delle  prestazioni  (in  questo  caso,  cognitive)  ed  essi  sono 

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coinvolti in attività ritenute significative, che prevedono anche una valutazione formale con criteri 

normativi. Le prestazioni avvengono di fronte ai compagni e in diverse occasioni gli allievi vengono 

raggruppati sulla base del  loro  livello di abilità, tanto che  il valore personale è spesso collegato al 

confronto con gli altri  (“Guarda  i tuoi compagni come sono attenti!”). Anche a scuola,  il successo 

può  essere  valutato  in  termini  di miglioramenti  e  progressi  individuali,  oppure  in  relazione  al 

confronto  interpersonale  e  a  standard  normativi.  I  ragazzi  possono,  dunque,  porre  l’attenzione 

sullo  sviluppo  delle  proprie  capacità  e  sull’apprendimento,  oppure  sul  dimostrare  le  proprie 

capacità cercando di fare meglio degli altri. Questa teoria è poi stata applicata al l’ambito sportivo, 

in quanto prestazione e competizione sono due elementi specifici e fondamentali di quella che è la 

definizione del concetto di sport. 

La  tipologia  prevalente  di  orientamento motivazionale  è  determinata  innanzitutto  proprio 

dai processi di socializzazione: vi è corrispondenza fra il grado individuale di orientamento sull’io e 

sul  compito  e  la  percezione  dell’orientamento  delle  persone  ritenute  importanti  (genitori, 

insegnanti, allenatori).  In particolare con riguardo ai genitori, vi è relazione  fra  il modo  in cui essi 

definiscono  il  successo  per  i  propri  figli  e  le  caratteristiche motivazionali  individuali  che  i  figli 

sviluppano. Purtroppo, con gli attuali modelli culturali trasmessi dai mass media, è oggi abbastanza 

frequente incontrare genitori che esortano i propri figli non tanto a fare del proprio meglio, magari 

accettandone anche qualche limite o difficoltà, ma soprattutto a fare meglio d egli altri, a superare 

un  amico, un  compagno,  in un  confronto  continuo  con qualcun  altro  (a  volte un  fra tello o una 

sorella!). 

Nello sport, ad esempio, il modo in cui i genitori reagiscono a vittorie e sconfitte manda forti 

messaggi ai ragazzi sul valore attribuito non solo all’esperienza sportiva, ma anche al figlio stesso 

come persona. Frasi del tipo “Allora, hai vinto?” oppure “Ti sei divertito?” rivolte al figlio di ritorno 

da una gara o da una partita fanno capire al ragazzo a che cosa i propri genitori diano importanza 

rispetto allo sport; ma una domanda come “Hai perso, come al solito?” manda al ragazz o anche un 

forte segnale di svalorizzazione e di sfiducia nelle proprie capacità. 

I genitori devono, poi, cercare di distinguere chiaramente tra le proprie motivazioni e quelle 

dei  figli. Ci  sono molte  ragioni per  cui  ai genitori  fa piacere  che  i  figli pratichino uno  sport, per 

esempio perché loro stessi sono stati atleti e desiderano che anche i propri figli vivano esperienze 

di questo tipo. Essi, però, dovrebbero considerare che la motivazione è individuale e che la propria 

può non  coincidere con quella dei  figli: alcuni  ragazzi  fanno  sport perché vogliono competere e 

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vincere, altri perché si divertono con gli amici, altri ancora  semplicemente perché hanno piacere 

nel muoversi. Tutte queste sono valide ragioni per praticare uno sport. È importante che i ge nitori 

capiscano quali sono  i motivi della partecipazione, per esempio parlando con i figli dell’esperienza 

sportiva, e anche ponendo loro domande come: “Perché vuoi giocare a basket?”, “Perché ti piace 

nuotare?”. È scontato che a  tutti piaccia vincere, ma gareggiare e vincere possono non essere  la 

priorità per  i ragazzi. Va considerato,  inoltre, come  la motivazione possa cambiare nel tempo: un 

ragazzo può  iniziare  a praticare  sport essendo molto  competitivo, ma poi  può  smorzare questo 

interesse, o viceversa può, col progredire degli allenamenti e dello sviluppo di abilità, desiderare di 

competere ad un livello più alto. 

Infine,  i genitori dovrebbero essere consapevoli che anche nello sport, come  in tutti gli altri 

contesti  della  vita,  essi  rappresentano  modelli  di  ruolo  e  di  comportamento;  spesso  viene 

sottovalutato  (o meglio,  non  tenuto  chiaramente  presente)  l’impatto  che  i  comportamenti  dei 

genitori  hanno  sui  figli  dal  punto  di  vista  educativo.  Nel  processo  educativo  un  aspetto 

fondamentale  è  la  coerenza  fra  quello  che  gli  adulti  chiedono  ai  ragazzi  ed  i  loro  propri 

comportamenti:   se   c’è   coerenza,   il  messaggio  educativo  passa   in  modo   forte,  ma   se   c’è 

discordanza  fra  ciò  che  si  dice  e  come  ci  si  comporta,  allora  è  l’aspetto  comportamentale  che 

diviene  predominante!  Nello  sport  i  genitori  rappresentano,  in  particolare,  modelli  di 

comportamenti critici, ad esempio quelli  legati all’autocontrollo, alla gestione della frustrazione o 

ad aspetti di etica sportiva. Se è vero che lo sport contribuisce a sviluppare ca ratteristiche positive 

(come  impegno,  costanza,  tolleranza alla  fatica,  lealtà,  socializzazione, etc.), è  anche  vero  che  a 

volte  può  avere  invece  effetti  negativi,  ridurre  i  comportamenti  pro‐sociali  e  promuovere 

comportamenti  anti‐sociali  (cfr.  Miller,  Roberts  e  Ommundsen,  2004).  Una  ricerca  nel  basket 

giovanile  (Arthur‐Banning  et  al.,  2009),  in  cui  un  gruppo  di  genitori  aveva  ricevuto  una  breve 

formazione  sull’importanza  della  sportività  e  sui  comportamenti  che  ne  derivano  (come  ad 

esempio,  applaudire una  bella  azione  di  un  avversario o  incoraggiare un  avversario  a  terra), ha 

evidenziato che i comportamenti positivi degli adulti erano predittivi di comportamenti positivi dei 

ragazzi: ogni quattro interventi positivi di un genitore si evidenziava un comport amento positivo in 

più  dei  ragazzi.  L’influenza  dei  genitori,  in  questo  aspetto,  si  è  rivelata maggiore di quella degli 

allenatori. 

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Il ruolo dei compagni    

Se, come si è visto, dal punto di vista motivazionale genitori ed allenatori giocano un ruolo 

determinante,  non  va  trascurata  nemmeno  l’influenza  che  compagni  ed  amici  possono  avere  a 

questo proposito. Durante  gli  allenamenti e  le  competizioni,  i  ragazzi e  le  ragazze  interagiscono 

molto con  i coetanei, vivono relazioni significative alla pari, rispetto alle relazioni con gli adulti, e 

anche dal confronto con i compagni ricavano informazioni importanti sul proprio livello di abilità e 

competenza.  Inoltre, man mano  che  i  ragazzi  crescono, passando  dall’infanzia  all’adolescenza,  il 

giudizio  dei  compagni  acquista  progressivamente maggior  valore  e  peso  nella  valutazione  di 

aspetti di sé, quale, ad esempio, la competenza motoria. All’interno dell’Achievement Goal Theory 

è stato pertanto considerato anche  il clima motivazionale creato dai compagni. Caratteristic he di 

coinvolgimento sulla competenza  sono presenti quando  i compagni valorizzano  i miglioramenti e 

sono  collaborativi, quando  ciascuno  sente  di  avere  un  proprio  ruolo  nel  gruppo  e  non  si  fanno 

preferenze  fra  i  compagni,  quando  vi  è  accettazione  reciproca   e  supporto  affettivo,  quando  i 

ragazzi fra di  loro si  incoraggiano nei momenti di  impegno e di fatica. Al contrario, caratteristiche 

di coinvolgimento sulla prestazione sono  legate all’essere  in competizione con  i propri compagni, 

ad un continuo confronto sui livelli di abilità, alla considerazione solo dei propri compagni migliori; 

durante  le  competizioni,  poi,  possono  essere  presenti  critiche  e  atteggiamenti  ostili  in  caso  si 

errore, e lamentele ed accuse dopo le sconfitte. 

È,  dunque,  importante  che  anche  i  ragazzi  acquisiscano  consapevolezza  del’impatto  che  i 

propri  atteggiamenti  e  comportamenti  possono  avere  sui  compagni,  riflettano  sulle  proprie 

reazioni nei momenti emotivamente carichi e  sugli effetti  che  commenti e osservazioni possono 

avere  sugli altri, apprendano  in  allenamento  comportamenti che possano non  solo  risultare utili 

dal punto di vista del clima di gruppo, ma anche avere ricadute positive sulla prestazione stessa. 

Uno studio su circa 500 giovani atleti, sia ragazzi che ragazze, ha messo  lu ce  le ricadute positive 

derivate  dalla  percezione  di  un  clima  motivazionale  orientato  sulla  competenza  attribuito 

all’allenatore e ai compagni (Vazou, Ntoumanis eDuda, 2006). Nella percezione di autostima fisica i 

compagni  sono  risultati  determinanti,  per  l’impegno  lo  era  invece  l’allenatore,  ai  fini  del 

divertimento risultavano significativi sia l’allenatore che i compagni. 

Jõesaar,   Hein   e   Hagger   (2011,   2012)   hanno   mostrato   come   il   clima  motivazionale 

determinato  dalle  relazioni  con  i  compagni  influenza  non  solo  il  modo  di  vivere  l’esperienza 

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sportiva,  ma  anche  la  permanenza  stessa  nello  sport  o  il  possibile  abbandono.  Un  clima 

motivazionale  di  gruppo  orientato  sulla  competenza  ha  un  impatto  positivo  sulla  motivazione 

intrinseca allo sport, ossia su una esperienza sportiva vissuta con piacere e soddisfazione.  Il clima 

motivazionale  resta  stabile  nell’arco  di  una  stagione  agonistica,  e  quando  i  ragazzi  trovano  nel 

gruppo dei pari  risposta ad alcuni bisogni psicologici  fondamentali  (quali  senso di appartenenz a, 

buone   relazioni   interpersonali,   autonomia   e   percezione   di   competenza)   vivono   in   modo 

gratificante la pratica sportiva e di conseguenza diminuiscono le percentuali di abbandono. 

   

 Il burnout nello sport giovanile 

   

Un ulteriore aspetto collegato all’abbandono dello sport anche in età giovanile è il fenomeno 

del burnout, ossia una situazione psicologica che rende l’esperienza sportiva faticosa da sostenere, 

sia  in  termini  fisici che emotivi, e predispone pertanto all’abbandono.  In modo più  specifico, per 

burnout  si  intende  una  condizione  psicologica  associata  con  sensazioni  di  esaurimento  fisico  ed 

emozionale,  ridotto  senso di  realizzazione  personale,  svalorizzazione dello  sport e  dell’ambiente 

sportivo (Raedeke, 1997). Il burnout può essere una causa di abbandono, anche se non sempre lo 

è, ma non è certamente  l’unica causa possibile; come si è visto precedentemente, sono diversi  i 

motivi per i quali un ragazzo decide di lasciare lo sport. In ogni caso, conoscere i diversi aspetti del 

burnout può essere  importante, per  identificare precocemente i fattori che possono essere causa 

di abbandono ed intervenire con atteggiamenti e comportamenti adeguati. 

Una  situazione di burnout può essere  la  conseguenza di  stress  indotto  sia da allenamenti  

troppo intensi e pesanti, sia da altri fattori non legati di per sé all’allenamento, come, ad esempio, 

la  relazione  con  l’allenatore  o  con  i  compagni. Ovviamente,  in  questo  caso  possono  entrare  in 

gioco caratteristiche individuali (anche in termini di atteggiamenti e caratteristiche di personalità), 

oppure aspetti situazionali e ambientali, come, ad esempio, un’eccessiva pressione sui risultati da 

parte di genitori od allenatore. 

In genere il burnout è un fenomeno che si presenta in atleti che si allenano da molto tempo 

e con impegno ad alta intensità, ma la ricerca ha messo in evidenza come il burnout possa divenire 

una  problematica  anche  di  atleti  giovani,  soprattutto  di  quelli  di  talento  che  sono  coinvolti 

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precocemente in una  intensa partecipazione sportiva. Alcuni studi sul burnout,  infatti, sono stati 

realizzati anche nel contesto dello sport giovanile. 

Per  esempio,  Gustafsson,  Kenttä,  Hassmén  e  Lundqvist  (2007),  in  un’ampia  ricerca  sulla 

presenza  di  segnali  di  burnout  in  giovani  atleti  svedesi di  élite  (più  di  1.200,  dai  16  ai  20  anni, 

praticanti sport individuali o di squadra), hanno riscontrato come tra il 2% e il 6% dei maschi e tra 

l’1% e  il 9% delle ragazze presentassero sintomi  importanti di burnout. Tali percentuali non sono 

elevate, ma  se  si  considera  che  il  burnout  è  legato  a  situazioni  sportive molto  impegnative  e 

stressanti, questi dati devono comunque suscitare una riflessione. Gli autori avevano  inizialmente 

ipotizzato  che  una  situazione  problematica  fosse  presente  soprattutto  fra  gli  atleti  di  sport 

individuali, per il rilevante impegno che viene richiesto al singolo atleta sia come quantità di lavoro 

che di  tempo da dedicare ad allenamenti e  gare;  ritenevano,  inoltre,  che negli  sport di  squadra 

l’aspetto del gruppo, che crea maggiore comunicazione e condivisione d i emozioni, potesse essere 

un  fattore  protettivo.  Queste  ipotesi,  però,  non  hanno  trovato  conferma.  In  generale,  non  è 

nemmeno emersa una relazione fra burnout e quantità ed intensità dei carichi di allenamento, che 

di solito vengono considerati un aspetto importante dello stress. Fattori non legati all’allenamento 

sembrerebbero, dunque,  in questo  studio, avere peso maggiore nel  creare  situazioni di  stress, e 

questi risultati hanno sollecitato linee di ricerca in altre direzioni. 

Dubuc  e  collaboratori  (2010)  hanno  analizzato  in  modo  approfondito  l’esperienza  di  tre 

ragazze  praticanti  ginnastica  artistica,  una  disciplina  nella  quale  le  attività  agonistiche,  e  di 

conseguenza i carichi di allenamento, iniziano molto precocemente. Le tre ginnaste considerate, di 

età compresa fra gli 11 e  i 16 anni, erano coinvolte  in attività agonistica a buon  livello almeno da 

quattro anni, ma praticavano  la ginnastica artistica da quando erano molto piccole (minimo dai 7 

anni di età). Furono scelte per  lo studio  in quanto  in una ricerca preliminare avevano evidenziato 

alti punteggi  in un questionario sul burnout. Con  le ragazze venne, quindi, realizzata un’intervista 

approfondita  per meglio  comprendere  il modo  in  cui  vivevano  la  propria  esperienza  sportiva. 

Assieme  a  loro,  però,  furono  coinvolti  nello  studio  anche  i  propri  allenatori  ed  uno  dei  loro 

genitori;  per  una  delle  ragazze,  furono  coinvolti  entrambi  i  genitori,  che  chiesero  essi  stessi  di 

poter  partecipare  entrambi.  In  questo modo  era  possibile  prendere  in  considerazione  non  solo 

l’esperienza delle ragazze, ma anche  il ruolo che avevano alcuni degli adulti significativi attorno a 

loro.  Le  interviste  risultarono avere alcuni elementi  in  comune, evidenziati  sia  dalle  ragazze  che 

dagli adulti. Per prima cosa, emergeva la difficoltà a conciliare  l’impegno sportivo con  la scuola, 

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con  le  relazioni  con  gli  amici  e  con  altre  attività,  e  questa  difficoltà  veniva  riconosciuta  come 

importante anche dai  genitori e dagli  allenatori.  Le  ragazze  ritenevano, poi,  la propria disciplina 

molto  impegnativa  sul  piano  fisico,  con  infortuni  frequenti  che  condizionavano  la  propria 

esperienza sportiva.  Infine, ammettevano di aver avuto  in alcuni momenti cali motivazionali, che 

comunque  erano  stati  notati  anche  dai  genitori  e  dagli  allenatori.  Dalle  interviste,  inoltre, 

emergevano  elementi  di  diversità  nel modo  di  vivere  l’esperienza  da  parte  dei  diversi  soggetti 

coinvolti:  ad  esempio,  gli  adulti  (anche  i  genitori)  sottovalutavano  la  paura  degli  infortuni  delle 

ragazze.  Inoltre,  sottovalutavano anche  la  loro esigenza di avere  tempo per gli amici,  ritenendo, 

erroneamente,  che  l’ambiente  della  palestra  potesse  garantire  adeguate  esperienze  di 

socializzazione ed amicizia. Nella sintesi della ricerca viene messo in evidenza come per tutte le tre 

atlete, nonostante  la  loro  giovane età,  in  alcuni momenti  siano  stati  presenti  tutti  i  sintomi del 

burnout  riscontrati  di  solito  in  atleti  adulti:  fatica,  frustrazione,  riduzione  della  motivazione, 

irritabilità.  Due  delle  ragazze  ritenevano,  comunque,  che  il  supporto,  l’attenzione  e  gli 

incoraggiamenti dei  genitori e degli  allenatori  fossero  stati determinanti per  aiutarle  a  superare 

quei  momenti  di  difficoltà.  Gli  autori  dello  studio  mettono  così  in  evidenza  che  non 

necessariamente  il  burnout  porta  all’abbandono  dell’attività  sportiva:  ci  sono  sfumature  diverse 

nell’esperienza  individuale,  e  con  adeguato  supporto  sociale  ed  acquisizione di  strategie efficaci 

per affrontare  le difficoltà ed  i problemi, gli atleti possono evitare di entrare nella  fase  finale di 

burnout e continuare il proprio impegno attivo nello sport. 

Il contesto sociale sembra, dunque,  rappresentare uno degli elementi che possono  favorire 

situazioni di burnout o, viceversa  in positivo,  contribuire alla prevenzione di  tali  situazioni. Sono 

soprattutto gli allenatori  che hanno un  ruolo  importante: come  si è visto,  i  loro atteggiamenti e 

comportamenti  sono  determinanti  nel  creare  un  clima  psicologico  (motivazionale)  che  incide  in 

modo  significativo  sulla qualità dell’esperienza dei  ragazzi e  sul  loro ben essere. Con  riferimento 

specifico    alla    teoria    dell’orientamento    motivazionale    presentata    precedentemente,    e 

considerando  in  particolare  il  clima motivazionale  determinato  dall’allenatore,  in  uno  studio  su 

adolescenti maschi praticanti sport di squadra, Reinboth e Duda (2004) hanno analizzato una delle 

componenti del burnout  ‐  l’esaurimento  fisico ed emozionale  ‐ assieme alla presenza  recente di 

sintomi  fisici  (come mal  di  testa, mal  di  stomaco,  dolori muscolari). Dallo  studio  è  emersa  una 

relazione significativa fra percezione di clima sulla prestazione ed esaurimento psico ‐fisico. Inoltre, 

è emersa anche la relazione fra percezione di clima sulla prestazione e presenza di sintomi fisici; 

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questo  aspetto  viene  spiegato  con  il  fatto  che  un’attenzione  esagerata  dell’allenatore  sulla 

competizione e sulla vittoria possa determinare nei giovani atleti  il tentativo di fare qualsiasi cosa 

per vincere, compreso il rischio di farsi male. Una frase riportata da Nicholls (1992) per spiegare il 

clima  motivazionale  sulla  prestazione  era  appunto  questa:  “Se  vincere  è  tutto,  tu  devi  fare 

qualsiasi cosa per vincere!”. 

Considerando  i  fattori  legati  al  contesto  sociale,  anche  il  ruolo  dei  compagni  appare 

significativo. È noto come, durante l’adolescenza, la relazione con i coeta nei rappresenti un fattore 

determinante  nei  processi  di  sviluppo  e  socializzazione.  Con  riferimento  specifico  all’ambito 

sportivo, si è visto come l’accettazione da parte dei compagni ed amicizie significative si riflettano 

in  migliore  percezione  della  propria  competenza  motoria  e,  più  in  generale,  dell’autostima, 

maggiore  impegno,  maggior  divertimento,  meno  stress  collegato  all’esperienza  sportiva.  Tutti 

questi aspetti vengono, poi, ad avere un forte impatto dal punto di vista motivazionale (cfr. Smith, 

Ullrich‐French,Walker  II  e  Hurley,  2006).  La  teoria  dell’orientamento motivazionale,  pur  dando 

particolare  evidenza  al   clima   creato  dall’allenatore,   come  è   stato  detto  precedente mente, 

sottolinea anche l’importanza del clima creato dai compagni. Con riferime nto specifico al burnout, 

Smith, Gustafsson e Hassmén  (2010) hanno evidenziato  come percezione di  clima motivazionale 

sulla  prestazione  creato  dai  compagni  e  conflittualità  all’interno  del  gruppo  fossero  correlate  a 

burnout. Questi risultati, però, sono emersi per ragazzi praticanti sport individuali e non per quelli 

praticanti  sport  di  squadra,  contrariamente  all’ipotesi  che  era  stata  suggerita.  Tali  differenze 

vengono  spiegate  dagli  autori  con  il  fatto  che  all’interno  di  una  squadra  vi  sono  comunque 

aspettative, norme e  ruoli ben definiti, che possono  in qualche modo  regolare  la comunicazione 

fra i giocatori e favorire l’attribuzione di una scarsa prestazione ad una situazione di gioco, più che 

ad un singolo atleta, condizionando positivamente comportamenti e situazioni. 

Gli aspetti del burnout sono stati, comunque, collegati anche a caratteristiche  individuali di 

personalità, come, ad esempio, l’ottimismo o il perfezionismo. In contesti in cui gli atleti investono 

impegno ed energia per cercare di raggiungere obiettivi per loro significativi, i tratti di personalità 

contribuiscono  a  creare  una  sorta  di  “lente”  che  modifica  e,  a  volte,  deforma  il  processo  di 

valutazione delle situazioni. Questo potrebbe condizionare  la possibilità per un atleta di vivere o 

meno esperienze di timore o stress. 

Per  quanto  riguarda  l’ottimismo,  le  persone  ottimiste,  a  differenza  di  quelle  pessimiste,  

hanno  aspettative  positive  verso  il  futuro  e  sono  più  fiduciose  di  poter  raggiungere  i  propri 

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obiettivi; è come se vedessero  la vita attraverso una  lente positiva e così  tendono a percepire  la 

realtà  in  genere  come  meno  stressante.  Per  esempio,  Gustafsson  e  Skoog  (2012)  hanno 

evidenziato, in giovani atleti, una relazione negativa fra le tre dimensioni del burnout ed il grado di 

ottimismo,  sottolineando  poi  l’importanza,  dal  punto  di  vista  applicativo,  di  promuovere 

atteggiamenti  ottimistici  come  prevenzione  dello  stress  e  del  burnout.  Un  atteggiamento 

ottimistico è caratterizzato dalla percezione di controllo delle proprie esperienze e di fiducia nelle 

proprie capacità di  raggiungere gli obiettivi che  ciascuno  si pone.  È utile notare come,  su questi 

aspetti,  i  comportamenti  e  gli  atteggiamenti  degli  adulti  abbiano  un  peso  determinante:  in 

positivo,  quando  ai  ragazzi  vengono  mandati  messaggi  di  fiducia  ed   incoraggiamento,  e  al 

contrario  in  negativo,  quando  dalle  parole  e  dagli  atteggiamenti  degli  adulti  traspaiano  giudizi 

negativi e sfiducia. 

Riguardo  al  perfezionismo,  le  ricerche  che  hanno  considerato  questa  caratteristica  in 

relazione  al  burnout  nello  sport  giovanile  hanno  dato  risultati  abbastanza  contraddittori.  Per 

perfezionismo  si  intende,  in  generale,  una  caratteristica  individuale  che  determina  una  spinta 

pressante  (definita “compulsiva”  in  termini psicologici) per raggiungere alti  standard  in ciò che si 

sta facendo e che tende a determinare valutazioni molto critiche di quanto viene realizzato. Anche 

se  in genere si ritiene che le conseguenze del perfezionismo siano negative, alcuni autori pensano 

che questo non sia sempre vero: infatti, se non è presente un’eccessiva autocritica verso ciò che si 

sta  facendo,  il perfezionismo può rappresentare un aspetto motivante nella ricerca di prestazioni 

di  eccellenza. Quando,  però,  il  perfezionismo  richiama  anche  una  forte  autocritica,  uno  stile  di 

pensiero ruminativo  (legato al pensare e ripensare  in modo esagerato e addirittura ossessivo alle 

stesse cose) e l’attenzione sull’inadeguatezza personale ed interpersonale, allora può determinare 

calo motivazionale  e  vulnerabilità  al  burnout  anche  in  atleti  giovani  (cfr.  Hill,  Hall,  Appleton  e 

Kozub, 2008). 

In generale, comunque, si è visto come  le capacità  individuali di affrontare  le difficoltà e  la 

presenza  di  un  forte  supporto  del  contesto  sociale  proteggono  i  giovani  atleti  dai  sintomi  del 

burnout,  anche  quando  i  ragazzi  sono  impegnati  con  carichi  intensi  di  allenamento  (Raedeke  e 

Smith, 2004). 

   

 La resilienza 

19

 Affrontando  il  tema del burnout, un  concetto che può  risultare utile ai  fini di una migliore 

comprensione del  fenomeno è quello di  resilienza, concetto che  sta  ricevendo sempre maggiore 

attenzione nel contesto della psicologia  in generale, ma anche  in  riferimento allo sport. Con  tale 

termine  viene  intesa  la  capacità  di  un  individuo  di  resistere  e  di  proseguire  senza  arrendersi, 

andando  avanti nonostante difficoltà e  avversità. Questo  concetto è  stato proposto proprio per 

cercare di spiegare e comprendere quali variabili, interne ed esterne all’individuo, permettano alle 

persone di affrontare con successo situazioni di crisi (cfr. Vitali e Bo rtoli, 2013). 

Nello  sport,  la  resilienza  viene  vista  come  capacità  di  sostenere  carichi  di  allenamento 

impegnativi,  affrontare  lo  stress  della  competizione,  gestire  stati  emozionali  negativi, ma  anche 

recuperare in modo sicuro e soddisfacente dopo un infortunio. È considerata sia una caratteristica 

personale, sia il risultato di un’interazione dinamica fra individuo e ambiente; quando intesa come 

caratteristica  personale,  è  spesso  associata  ad  altre  qualità,  quali  fiducia  in  sé  e  nelle  proprie 

capacità,  ottimismo,  capacità  di  concentrazione,  impegno,  tolleranza  alla  frustrazione.  L’aspetto 

significativo  è  il  fatto  che  la  resilienza  viene  considerata  non  come  una  caratteristica  statica  e 

stabile, ma come risultato di un processo di  interazione con  il proprio ambiente, con  la possibilità 

quindi di essere acquisita e sviluppata in funzione delle esperienze realizzate. 

Gli   studi   sullo   sviluppo   della   resilienza   che   hanno   riguardato   l’età   evolutiva   hanno  

evidenziato i fattori che possono risultare determinanti a tale proposito (cfr. Labbrozzi, 2004):  

- l’esistenza di un legame significativo con un adulto in grado di sostenere e accompagnare il  

giovane nei momenti di difficoltà (non necessariamente un genitore o un familiare);  

- l’appartenenza  a  un  gruppo  che  fornisca  un  livello  adeguato  di  sostegno  sociale,  anche 

attraverso il riconoscimento di un ruolo e delle relative capacità; 

- la  possibilità  di  cogliere  un  significato  e  una  direzione  nelle  proprie  esperienze,  con  la 

sensazione (e la consapevolezza) di poterle indirizzare, controllare e modificare; 

- la percezione di un senso profondo del valore di sé come persona.  

Questi aspetti coinvolgono naturalmente in primo luogo la famiglia, ma, come si può vedere, 

possono  riguardare  anche  il mondo dello  sport  giovanile:  l’allenatore può  essere un’importante 

figura   adulta   di   riferimento;   la   società   sportiva   può   offrire   senso   di   appartenenza   ed 

identificazione; lo sport è sicuramente attività significativa e coinvolgente; lo sviluppo di capacità e 

l’acquisizione di abilità  contribuiscono  al miglioramento della percezione e dell’immagine di  sé. 

20

Ovviamente, tutto questo non risulta in modo automatico o scontato, ma solo quando  il contesto 

organizzativo  (federazioni  e  società  sportive)  e  soprattutto  gli  adulti  significativi  (allenatori  e 

dirigenti)  decidano  in modo  consapevole  di  assumersi  anche  responsabilità  e  compiti  educativi, 

utilizzando  la pratica sportiva non solo come ricerca di prestazione, ma anche come strumento di 

sviluppo  e  crescita  personale  dei  giovani  atleti.  L’impatto  educativo  passa  attraverso  gli 

atteggiamenti  ed  i  comportamenti  degli  adulti,  in  particolare  degli  allenatori,  nella  quotidianità 

delle  relazioni  durante  gli  allenamenti  e  le  gare:  ciò  significa  essere  presenti  in  termini  di 

autorevolezza,  controllo  e  sostegno,  incoraggiare  e  valorizzare  esperienze  di  apprendimento, 

favorire  il senso di appartenenza ad un gruppo, sollecitare  il  rispetto  fra compagni e modalità di 

comunicazione positive. 

Nello sport, recentemente, alcuni studi hanno  iniziato ad esplorare il  legame fra resilienza e 

burnout,  ipotizzando  un  possibile  ruolo  protettivo  della  resilienza  (Gucciardi,  Jackson,  Coulter  e 

Mallett, 2011; Vitali, Bortoli, Robazza, Bertinato e Schena, 2011). 

   

 La ricerca 

   

Nel  quadro  dei  presupposti  teorici  descritti,  legati  alle  teorie  dell’autodeterminazione  e 

dell’orientamento motivazionale, è  stata  condotta un’indagine  su un ampio  campione di giovani 

atleti  trentini,  che  ha  coinvolto  più  di  settecento  partecipanti.  La  finalità  generale  di  questo 

progetto di  ricerca  era  quella  di  esaminare  i  processi motivazionali,  ed  in  particolare  il  ruolo  di 

alcuni fattori personali (percezione di competenza, resilienza, stati emozionali) e situazionali (clima 

motivazionale generato dagli allenatori) che possono prevenire  il rischio di burnout e, dunque, di 

abbandono sportivo precoce da parte dei giovani atleti.  In particolare,  l’indagine si è posta come 

finalità  fondamentale non  solo quella di  costituire un momento conoscitivo della  realtà  trentina 

dello sport giovanile, ma anche di essere un punto di partenza per  la progettazione di successive 

iniziative di  aggiornamento e  formazione di  tecnici, operatori ed  educatori  sportivi  che operano 

nelle società  trentine su come prevenire concretamente  il  rischio di abbandono e su altri aspetti 

psico‐pedagogici  e  didattico‐metodologici.  Con  l’indagine  qui  presentata,  si  è  inteso,  dunque, 

esaminare il punto di vista dei giovani atleti trentini relativamente al clima motivazionale generato 

dai propri allenatori e della sua influenza sulla qualità della propria esperienza sportiva. 

21

Accanto agli aspetti motivazionali,  sono  stati  considerati altri  fattori  strettamente collegati, 

come  la percezione di  competenza e gli  stati emozionali  che caratterizzano  l’esperienza  sportiva 

dei giovani atleti presi  in esame. La percezione di competenza si riferisce alla valutazione globale 

delle  capacità  che  un  giovane  atleta  sente  di  possedere  nel  proprio  specifico  ambito  sportivo 

(Horn, 2004). La percezione di competenza ha che fare con  l’auto‐efficacia, che però rappresenta 

un  costrutto più  specifico, definito  come  la  convinzione personale di essere  in grado di  svolgere 

con  successo  un  determinato  compito  o  azione  specifica  (ad  esempio,  un  giovane  atleta  può 

possedere  un’auto‐efficacia  positiva  se  si  sente  in  grado  di  correre  per  30 minuti  o  di  sapersi 

organizzare per gestire sia  i compiti scolastici, che gli allenamenti) (Bandura, 1997). Ci sono molte 

evidenze nella letteratura di psicologia dello sport sul fatto che la percezione di competenza svolga 

un’influenza considerevole sugli aspetti motivazionali sia a  livello comportamentale, che cognitivo 

ed  emozionale  (Weiss  e  Ebbeck,  1996; Weiss,  Ebbeck,  e Horn,  1997). Una  buona  percezione  di 

competenza facilita aspettative di successo positive, motivazione intrinseca per l’a ttività motoria e 

sportiva  e  orientamento  al  compito,  che  a  loro  volta  influenzano  positivamente  l’impegno,  la 

persistenza  degli  sforzi  per  raggiungere  i  propri  obiettivi  nonostante  le  difficoltà  e  la  scelta  di 

obiettivi sfidanti (per una rassegna, si veda Roberts, Treasure, e Conroy, 2007). 

Un aspetto  importante della pratica  sportiva  che è  stato  considerato nello  studio ha a che 

fare  con  le  emozioni:  lo  sport  fornisce  occasioni  per  farne  esperienza  e,  al  contempo,  dà 

opportunità agli atleti di acquisire le abilità necessarie per gestire gli effetti che gli stati emozionali 

possono avere sulla prestazione. Un modello teorico che ha permesso di comprendere più a fondo 

il  ruolo  delle  emozioni  nella  pratica  sportiva  è  l’Individual  Zones  of Optimal  Functioning  (IZOF; 

Robazza,  2006):  le  emozioni  possono  essere  per  gli  atleti  che  le  vivono  più  o meno  piacevoli 

(tonalità  edonica)  e  possono  svolgere  un  ruolo  più  o  meno  funzionale  per  la  prestazione 

(funzionalità). Nella ricerca sono state indagate le esperienze emozionali dei giovani atleti rispetto 

allo sport: vivere emozioni più o meno piacevoli può condizionare anche  in modo estremamente 

significativo la propria esperienza sportiva. 

   

 Obiettivi della ricerca 

22

Un primo obiettivo della ricerca era quello di conoscere gli aspetti motivazionali dei giovani 

atleti, anche esaminando  la relazione  fra percezione di competenza, resilienza, stati emozionali e 

percezione  del  clima  motivazionale  generato  dagli  allenatori  sulle  tre  dimensioni  del  burnout 

(esaurimento  psico‐fisico,  svalorizzazione  dello  sport  e  mancata  realizzazione  personale  nello 

sport). Un  secondo obiettivo  riguardava,  invece, quello di approfondire  la conoscenza dei  fattori 

personali  e  situazionali  che  possono  spingere  i  giovani  atleti  ad  abbandonare  precocemente  la 

pratica sportiva o che, viceversa, possono ridurre il rischio che ciò accada. 

In relazione ai due obiettivi principali della ricerca ci si attendeva di riscontrare una relazione 

positiva fra percezione di competenza, resilienza, stati emozionali piacevoli e clima motivazionale 

generato dagli allenatori orientato  sulla  competenza; un ulteriore  ipotesi era  che  l’esperienza di 

stati emozionali piacevoli nella pratica del proprio  sport  aiutasse  i  giovani  atleti  a  contrastare  il 

rischio di burnout;  inoltre,  ci  si  aspettava  che  il  clima motivazionale orientato  sulla  competenza 

riducesse, mentre  il  clima motivazionale orientato  sulla prestazione aumentasse  la condizione di 

burnout  (esaurimento psico‐fisico,  svalorizzazione  dello  sport  e mancata  realizzazione personale 

nello  sport).  Infine,  si  sono  volute  indagare  eventuali  differenze  di  genere,  età,  esperienza  e 

disciplina sportiva praticata per ognuna delle variabili considerate. 

   

 Metodo 

     I partecipanti 

   

Hanno partecipato alla ricerca 723 giovani atleti trentini, maschi e femmine, di età compresa 

fra 12 e 18 anni, praticanti sport individuali o di squadra (Tabella 1). 

Le discipline sportive maggiormente praticate dalle ragazze sono risultate pallavolo (59,4%), 

atletica leggera (25,8%) e nuoto (9,2%), mentre per i ragazzi sono calcio (52,6%), pallavolo (24,6%) 

e  atletica  leggera  (5,5%).  All’indagine  hanno  preso  parte  giovani  atleti  praticanti  molteplici  e 

differenti  discipline  sportive.  Per  rendere  più  semplice  la  lettura  del  testo,  sono  riportate  in 

Appendice tabelle e figure, oltre alle spiegazioni delle analisi condotte (Tabelle 2 e 3). 

23

In media,  l’esperienza sportiva dei giovani atleti che hanno partecipato alla ricerca era di 5  

anni, solitamente con 3 allenamenti settimanali, della durata media di 2 ore, per un totale di circa  

5 ore di allenamento medio alla settimana (Tabella 4).      Tabella 1 – Partecipanti suddivisi per età, genere e tipologia di sport. 

 

Età

Genere Tipologia di sport 12 anni 13 anni 14 anni 15 anni 16 anni 17 anni 18 anni TotaleFemmine Squadra 6 32 53 25 12 4 3 135

Individuale 15 19 11 10 9 7 5 76

Maschi Squadra 57 66 113 99 83 32 8 458

Individuale 3 12 13 14 8 2 2 54

Totale 81 129 190 148 112 45 18 723

I giovani atleti erano  rappresentativi di  tutte  le valli della provincia di Trento, con una più 

significativa  rappresentanza  della  Vallagarina  (38%)  e  della  Valle  dell’Adige  (37%),  rispetto  alle 

altre. 

   

 Gli strumenti 

   

Percezione di competenza  

Per valutare  la percezione di competenza è stata usata una singola domanda  (“Esprimi una 

valutazione  globale  del  tuo  livello  di  abilità  sportiva”)  che  valuta  quanto  globalmente  i  giovani 

atleti si sentissero abili dal punto di vista sportivo:  le risposte erano espresse su una scala da 1 = 

“pessima” a 11 = “eccellente”. Punteggi elevati  indicano una percezione di competenza positiva, 

mentre punteggi bassi sono indicativi di una scarsa o negativa percezione di competenza. 

  

Situational Motivation Scale  

Per misurare la motivazione intrinseca o estrinseca è stata utilizzata la versione italiana della 

Situational  Motivation  Scale  (SiMS;  Guy,  Vallerand  e  Blanchard,  2000),  che  comprende  16 

domande,  quattro  delle  quali  valutano  la  motivazione  intrinseca  (es.  “Partecipo  alle  attività 

24

sportive   perché   trovo   queste   attività   interessanti”),   quattro   la   motivazione   estrinseca   a 

regolazione  interna  (es.  “Partecipo  alle  attività  sportive  perché  ho  scelto  di  farle  per  il  mio 

benessere”), quattro  la motivazione  estrinseca a  regolazione  esterna  (es.  “Partecipo  alle  attività 

sportive  perché  sono  spinto  dagli  altri  a  praticarle”),  quattro  l’assenza  di  motivazione  (es. 

“Potrebbero  esserci  buoni motivi  per  praticare  queste  attività, ma  personalmente non  ne  vedo 

alcuno”) a praticare sport. Le risposte ad ogni affermazione vanno da 1 = “No, per nulla d’accordo” 

a  7  =  “Sì,  totalmente  d’accordo”.  I  punteggi  medi  di  ciascuna  scala  rivelano  la  tipologia  di 

motivazione alla pratica sportiva. 

  

Resilience Scale  

Per valutare quanto i giovani atleti presi in esame si sentissero resilienti nel proprio sport si è 

utilizzata  la  versione  italiana  adattata  della  Resilience  Scale  (RS; Wagnild  e  Young,  1993).  Le  15 

domande concorrono a valutare  il  singolo  fattore della  resilienza nello  sport. Le  risposte ad ogni 

affermazione (es. “Quando mi trovo in una situazione difficile, di solito riesco a trovare il modo di 

uscirne”) vanno da 1 = “No, completamente in disaccordo” a 5 = “Sì, completamente d’accordo”. Il 

punteggio medio complessivo  indica  la percezione di  resilienza nello sport: un punteggio elevato 

indica una positiva  resilienza, mentre un punteggio basso è  indice di una  scarsa  resilienza nello 

sport. 

  

Questionario sugli stati emozionali  

Il questionario  sugli  stati emozionali  (Bortoli e Robazza, 2007) comprende 20  item: ciascun 

item è  composto da  alcuni aggettivi  che descrivono  le emozioni  che di  solito gli atleti  vivono  in 

relazione  alla  propria  pratica  sportiva.  Il  questionario misura  due  dimensioni:  la  prima  è  quella 

relativa  agli  stati  emozionali  piacevoli  (es.  “entusiasta,  fiducioso,  tranquillo,  felice,  gioioso”);  la 

seconda  si  riferisce  agli  stati  emozionali  spiacevoli  (es.  “nervoso,  irrequieto,  scontento, 

insoddisfatto”). Le risposte a ciascun item vanno da 0 = “per nulla” a 4 = “moltissimo”. Il punteggio 

medio  fornisce una misura dell’intensità degli stati emozionali piacevoli e  spiacevoli che di  solito 

sono associati alla propria pratica sportiva. 

  

Perceived Motivational Climate in Sport Questionnaire 

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Il  questionario  sul  clima  motivazionale  (Perceived  Motivational  Climate  in  Sport 

Questionnaire, PCSQ; Bortoli e Robazza, 2004) comprende 12 item: sei appartengono alla scala che 

valuta  il  clima orientato  sulla prestazione  (es.  “In  questo  gruppo,  gli  atleti  vengono  sollecitati  a 

superare i compagni”) ed altri sei alla scala che misura il clima orientato sulla competenza  (es. “ In 

questo  gruppo,  gli  atleti  sono  incoraggiati  a  lavorare  sui  loro  punti  deboli”).  I  punteggi medi di 

ciascuna scala  indicano  il clima motivazionale determinato dall’allenatore e percepito  in relazione 

alla propria esperienza sportiva. 

  

Athlete Burnout Questionnaire  

La versione  italiana dell’Athlete Burnout Questionnaire  (ABQ; Raedeke e Smith, 2001; 2009) 

comprende  15  item:  cinque  valutano  l’esaurimento  psico‐fisico  (es.  “Mi  sento  esaurito  a  causa 

dello  sport”),  cinque  la  svalorizzazione  dello  sport  (es.  “La  mia  prestazione  sportiva  non  mi 

interessa più come una volta”) e gli altri cinque la mancata realizzazione personale nello sport (es. 

“Nonostante tutto il mio impegno, sembra che io non riesca ad andare così bene nello sport come 

dovrei”).  Le  risposte  vengono  fornite  su  una  scala  a  5  punti,  che  va  da  1  =  “quasi mai”  a  5  = 

“sempre”. 

   Procedura 

   

Sono   state   contattate  numerose   società   sportive   trentine,  presentando  a  dirigenti  e 

allenatori  la ricerca e sue finalità, oltre che  le modalità di rilevamento dei dati. I questionari sono 

stati  proposti  da  otto  studenti  della  Facoltà  di  Scienze  Motorie  dell’Università  di  Verona, 

adeguatamente  formati.  I dati  sono  stati  raccolti  in  forma  anonima  ai  giovani  atleti,  suddivisi  in 

piccoli  gruppi  di  non  più  di  dieci  membri,  per  lo  più  prima  o  dopo  gli  allenamenti.  Prima  di 

procedere alla compilazione dei questionari ai giovani atleti sono stati presentati in modo sintetico 

e  semplificato  gli  obiettivi  del  progetto  di  ricerca  ed  è  stata  garantita  la  riservatezza  sulle 

informazioni raccolte. 

   

 Analisi dei dati e risultati 

26

Per  semplificare  la  lettura e  l’interpretazione dei  risultati delle analisi  statistiche  svolte , di 

seguito sono presentati in forma sintetica i risultati di maggiore rilievo. I lettori interessati possono 

trovare in Appendice i risultati maggiormente dettagliati. 

Per  indagare  eventuali  differenze  di  genere,  età,  tipologia  di  sport  per  tutte  le  variabili  

considerate  sono  state  condotte  delle  analisi  della  varianza  (ANOVA).  Per  quanto  riguarda  le 

differenze  di  genere,  l’assenza  di motivazione  per  la  pratica  sportiva  si mostra  più  forte  per  i 

maschi  rispetto  alle  femmine.  Anche  per  due  delle  dimensioni  di  burnout  (esaurimento  psico‐ 

fisico, svalorizzazione per  lo sport)  i maschi riportano punteggi più elevati rispetto alle coetanee. 

Infine,  per  i maschi  l’esperienza  sportiva  si  associa  più  che  per  le  femmine  a  stati  emozionali 

spiacevoli (Figura 2). Differenze in base alla tipologia di sport praticata emergono per la percezione 

di competenza che è più forte per gli atleti che praticano sport individuali. Del resto, però, i giovani 

atleti  impegnati  in  sport  individuali mostrano anche  livelli più elevati di motivazione estrinseca a 

regolazione esterna e di esaurimento psico‐fisico  rispetto ai  coetanei praticanti  sport di  squadra 

(Figura  3).  La  sola  differenze  per  età  che  emerge  si  riferisce  alla  motivazione  estrinseca  a 

regolazione esterna che è più forte per gli atleti più grandi (15‐18 anni) rispetto ai più giovani (12‐ 

14 anni) (Figura 4).  

Inoltre,  i maschi  rispetto alle  femmine percepiscono maggiormente un  clima motivazionale 

orientato sulla prestazione (performance climate), come mostrino livelli più elevati di esaurimento 

psico‐fisico  e  svalorizzazione  per  lo  sport,  e  come  la  propria  pratica  sportiva  si  associ  a  stati 

emozionali  spiacevoli  (Figura  5).  La  tipologia  di  sport  praticato  fa  emergere  differenze  per  la 

percezione di un clima motivazionale orientato  sulla prestazione  (performance climate) più  forte 

per  gli  atleti  praticanti  sport  di  squadra.  Gli  atleti   impegnati   in  sport  di  squadra,   inoltre, 

esperiscono  più  stati  emozionali  piacevoli ma  anche  più  stati  emozionali  spiacevoli  rispetto  agli 

atleti praticanti sport individuali (Figura 6). Infine, numerose sono le differenze per età emerse: gli 

atleti più  giovani  (12‐14 anni) mostrano una maggiore percezione di  competenza  rispetto ai più 

grandi (15‐18 anni);  il clima motivazionale orientato sulla prestazione (performance climate) è più 

forte per gli atleti più grandi  (15‐18 anni)  rispetto ai più piccoli  (12‐14 anni); gli atleti più grandi 

(15‐18  anni)  presentano  più  marcata  svalorizzazione  per   lo   sport  e  mancata   realizzazione 

personale nella pratica sportiva rispetto ai più giovani (12‐14 anni); infine, per gli atleti più giovani 

(12‐14  anni)  la  pratica  sportiva  si  associa maggiormente a  stati  emozionali  piacevoli  rispetto  a 

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quanto  non  accada  per  i  più  grandi  (15‐18  anni),  che  vivono  nello  sport  più  stati  emozionali 

spiacevoli (Figura 7). 

Le  correlazioni  significative  degne  di  interesse  sono  fra  la  percezione  di  competenza  e  la 

resilienza (entrambe di segno positivo): al crescere dell’una, aumenta anche  l’altra. La percezione 

di  competenza,  inoltre,  è  correlata positivamente  con  gli  stati  emozionali  piacevoli.  Invece, una 

correlazione di segno negativo si evince fra percezione di competenza ed una delle dimensioni del 

burnout  (mancata  realizzazione  personale  nello  sport).  La  resilienza  è  correlata  negativamente 

con  tutte  le  tre  dimensioni  del  burnout  (esaurimento  psico‐fisico,  svalorizzazione  per  lo  sport, 

mancata realizzazione personale nello sport).  Infine,  la resilienza è correlata in modo positivo con 

gli stati emozionali piacevoli (Tabella 6). 

Emerge una relazione positiva fra la percezione di competenza e la resilienza. In aggiunta, la 

percezione  di  competenza  è  legata  in  modo  negativo  con  due  delle  dimensioni  del  burnout 

(svalorizzazione  per  lo  sport  e  mancata  realizzazione  personale  nello  sport).  La  percezione  di 

competenza  si  correla  positivamente  con  gli  stati  emozionali  piacevoli  e  negativamente  con  gli 

stati  emozionali  spiacevoli.  La  resilienza  è  correlata  in modo  positivo  con  il  clima motivazionale 

orientato  sulla  competenza  e  in  modo  negativo  con  tutte  le  tre  dimensioni  del  burnout 

(esaurimento  psico‐fisico,  svalorizzazione  per  lo  sport,  mancata  realizzazione  personale  nello 

sport). Infine,  il clima motivazionale orientato sulla competenza è correlato in modo negativo con 

tutte  le  tre dimensioni del  burnout, mentre  il  clima motivazionale orientato  sulla prestazione  si 

correla positivamente con tutte le tre dimensioni del burnout (Tabella 7). 

Le  analisi  hanno  preso  in  esame  quali  variabili  determinino  le  tre  dimensioni  del  burnout 

(esaurimento  psico‐fisico,  svalorizzazione  per  lo  sport,  mancata  realizzazione  personale  nello 

sport).  Dai  risultati  emerge  come  l’esaurimento  psico‐fisico  sia  determinato  da  assenza  di 

motivazione  e  stati  emozionali  spiacevoli;  la  svalorizzazione  per  lo  sport  dipende  da  assenza  di 

motivazione, dalla motivazione estrinseca a regolazione esterna e dagli stati emozionali spiacevoli; 

infine,  la mancata realizzazione personale nello sport è determinata da numerosi fattori: assenza 

di motivazione e  stati emozionali  spiacevoli, ma anche  scarsa percezione di competenza e bassa 

resilienza nello sport. 

Inoltre, i risultati mostrano come l’esaurimento psico‐fisico dipenda da due fattori personali,  

bassa  resilienza  nello  sport  e  stati  emozionali  spiacevoli,  oltre  che  da  un  fattore  situazionale  

determinato dall’allenatore,  il clima motivazionale orientato  sulla prestazione;  la svalorizzazione 

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per  lo  sport  è  determinato  da  stati  emozionali  spiacevoli  e  clima motivazionale  orientato  sulla 

prestazione;  infine,  la mancata  realizzazione  personale  nello  sport  dipende  da  stati  emozionali 

spiacevoli,  bassa  resilienza  nello  sport,  scarsa  percezione  di  competenza  e  clima motivazionale 

orientato sulla prestazione. 

   

 Discussione 

   

Dalla ricerca emergono numerosi aspetti positivi collegati all’esperienza sportiva dei giovani 

atleti  trentini.  La  percezione  di  competenza  di  ragazze  e  ragazzi  si  accompagna  a motivazione 

intrinseca, stati emozionali piacevoli e resilienza nello sport. Al contrario, sono gli stati emozionali 

spiacevoli e  la mancata realizzazione personale nello sport che si accompagnano a scarsi  livelli di 

percezione  di  competenza.  Percepirsi  competenti,  dunque,  aiuta  ad  essere  motivati,  a  vivere 

emozionali  positive  e  piacevoli  associate  allo  sport,  a  sentirsi  in  grado  di  affrontare  anche  le 

difficoltà. Viceversa, percepirsi poco competenti porta a vivere stati emozionali spiacevoli e a non 

sentirsi  realizzati  nello  sport,  con  il  rischio  di  abbandonare  precocemente  l’attività  sportiva.  Se 

ricordiamo  come  nella  percezione  di  competenza  dei  più  giovani  sia  determinante  il  ruolo  di 

allenatori  e  genitori,  è  facile  comprendere  la  responsabilità  educativa  che  gli  adulti  significativi 

rivestono e di cui dovrebbero essere consapevoli. 

Le tre dimensioni del burnout (esaurimento psico‐fisico, svalorizzazione dello sport, mancata 

realizzazione personale nello sport) si associano a stati emozionali spiacevoli ed  in particolare,  la 

mancata realizzazione personale si accompagna ad una percezione di scarsa competenza.  Inoltre, 

vivere stati emozionali piacevoli aiuta i giovani atleti a contrastare il rischio di burnout nello sport; 

viceversa, vivere stati emozionali spiacevoli nello sport ne aumenta il rischio. 

L’importanza del ruolo degli allenatori emerge  in modo molto chiaro: se un allenatore crea 

un  clima motivazionale  orientato  sulla  prestazione  non  solo  aumenta  l’esperienza  di  emozioni 

spiacevoli  da  parte  dei  giovani  atleti, ma  anche  il  rischio  di  burnout  nello  sport.  Al  contrario, 

quando  un  allenatore  determina  un  clima  motivazionale  orientato  sulla  competenza,  allora  i 

giovani atleti hanno più probabilità di vivere emozioni piacevoli associate allo sport, si sentono più 

resilienti e tutte le tre dimensioni del burnout nello sport tendono a ridursi. Per questa ragione, se 

un clima motivazionale orientato sulla prestazione rappresenta un fattore che aumenta il rischio di 

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burnout per i giovani atleti trentini, è altrettanto vero che un clima motivazionale orientato sulla 

competenza ne rappresenta un importante fattore di contrasto. 

   

 Sostenere la motivazione nello sport giovanile 

   

All’interno  delle  situazioni  di  allenamento  e  gara,  naturalmente  il  ruolo  principale  ricade 

sull’allenatore, per quanto riguarda sia la gestione delle attività specifiche, sia la costruzione di un 

clima motivazionale orientato prevalentemente sulla competenza. A tale proposito , risultano utili 

le indicazioni che derivano da un modello didattico che considera i compiti specifici degli allenatori 

(o degli  insegnanti nel contesto scolastico, per  il quale  il modello è stato  inizialmente proposto), 

finalizzandoli appunto allo sviluppo di un clima motivazionale orientato sulla competenza. 

È conosciuto come modello TARGET, acronimo dei vocaboli inglesi Task (compito), Authority 

(presa di decisione), Recognition (riconoscimento), Grouping (organizzazione in gruppi), Evaluation 

(valutazione), Time (tempo) (cfr. Bortoli, Bertollo e Robazza, 2005). 

Per  quanto  riguarda  la  scelta  degli  esercizi  e  dei  compiti  di  apprendimento  (Task),  è 

importante  che  le  proposte  siano  significative,  varie  e  diversificate,  con  un  adeguato  livello  di 

difficoltà  che  consenta  a  ciascun  ragazzo  di  esercitarsi  con  successo,  con  la  sensazione,  cioè, di 

riuscire a controllare  il compito. A volte può essere utile  far  lavorare  i ragazzi, anche a gruppi, su 

compiti diversi, o su aspetti diversi di uno stesso compito; in questo modo , vi è meno opportunità 

di confronto fra compagni, e  la percezione della propria abilità diviene maggiormente centrata su 

parametri di riferimento personali. 

Il  coinvolgimento  degli  allievi  nelle  scelte  didattiche  (Authority)  determina  atteggiamenti 

motivazionali positivi. Per sollecitare  l’autonomia, ad esempio,  l’allenatore può presentare alcuni 

esercizi e poi consentire ai ragazzi di decidere da quali  iniziare o a quali dedicarsi maggiormente. 

La  possibilità  di  scegliere  dovrebbe  essere  percepita  come  opzione  fra  compiti  equivalenti  per 

difficoltà,  e  non  fra  un  compito  facile  ed  uno  difficile,  così  da  non  implicare  immediatamente 

elementi di  confronto valutativo  fra  ragazzi  con diversi  livelli di abilità; è preferibile  la  scelta  fra 

esercitazioni su aspetti diversi della stessa abilità, piuttosto che su uno stesso esercizio con  livelli 

diversi di difficoltà. 

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Apprezzamenti  ed  incoraggiamenti  (Recognition)  hanno  un  ruolo  significativo  a  fini 

motivazionali; per essere efficaci devono essere percepiti come  realistici e veritieri, e non  sentiti 

come  pura  formalità.  Se  l’allenatore  pone  ai  ragazzi obiettivi  individualizzati,  adeguati  ai  diversi 

livelli  di  abilità,  diviene  più  facile  garantire  a  tutti  esperienze  di  successo  ed  elogi  realistici.  Va 

tenuto presente, però, che quando gli elogi sono dati sempre pubblicamente se mbrano sollecitare 

il  confronto  sociale    fra    i  ragazzi;  invece,  se  l’apprezzamento  viene  dato  al  singolo  ragazzo  in 

privato,  i sentimenti di orgoglio e soddisfazione non derivano dal confronto con gli altri ed è più 

probabile che favoriscano la percezione di un clima motivazionale orientato sulla competenza. 

Il  lavoro  in gruppi è spesso utilizzato nello sport giovanile, anche come modalità per meglio 

gestire  la disciplina.  Il modo  in  cui  vengono  costituiti  i  gruppi  (Grouping) e  la  facilità  con  cui un 

allievo  può  passare  da  un  gruppo  ad  un  altro  sono  elementi  significativi  per  le  conseguenze 

motivazionali,  soprattutto, come capita spesso, quando ci  si  trovi di  fronte a  ragazzi con  livelli di 

abilità  molto  diversi  fra  loro.  Se  raggruppare  i  ragazzi  in  base  alle  loro  capacità  sembra 

didatticamente  più  funzionale  dal  punto  di  vista  dell’apprendimento,  dal  punto  di  vista 

motivazionale,  però,  questo  non  risulta  produttivo.  È  utile,  quindi,  alternare  le  esercitazioni  a 

gruppi  omogenei  con  attività  a  gruppi  eterogenei,  variandone  nel  tempo  la  composizione,  e 

sollecitare anche aspetti di collaborazione. 

La  valutazione  (Evaluation)  rappresenta  un  aspetto  importante  della  didattica,  in  quanto 

spesso fornisce non solo indicazioni sui livelli di apprendimento, ma anche info rmazioni dalle quali 

gli allievi ricavano giudizi sul proprio valore personale. La valutazione può avere un valore negativo 

per  gli  allievi,  dal  punto  di  vista motivazionale,  qualora  sia  fondata  prevalentemente  su  criteri 

normativi  e  sul  confronto  sociale.  Invece,  quando  la  valutazione  viene  riferita  soprattutto  ai 

miglioramenti  individuali,  ai  progressi  verso  il  raggiungimento  di  obiettivi  individualizzati,  alla 

partecipazione  ed  all’impegno  è  più  probabile  che  favorisca  un  coinvolgimento  dei  ragazzi  sul 

compito. 

Il  tempo  (Time)  è  un  aspetto  fondamentale  dell’organizzazione  didattica,  strettamente 

associato agli altri elementi. Va ricordato come  i ritmi di apprendimento siano  individuali e come 

alcuni  ragazzi  necessitino  di  tempo maggiore  di  esercitazione  per  apprendere  abilità,  anche  in 

relazione  al  livello  coordinativo  personale.  Pertanto,  a  volte,  vi  può  essere  la  possibilità  di  un 

margine di tempo individuale per rafforzare o perfezionare l’apprendimento, o anche la possibilità 

di  scelta autonoma  su quanto  tempo dedicare per provare ed apprendere un esercizio. A  tutti, 

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comunque,  dovrebbero  essere  forniti  opportunità  e  tempo  per migliorare,  sollecitando  anche  

un’organizzazione autonoma nelle attività.      Prevenire o contrastare il burnout nello sport giovanile 

   

È abbastanza frequente che lo sport dei giovani (e a volte anche dei bambini) risulti gravoso 

sia  come  carico  di  allenamento,  che  come  impegno  agonistico.  Questo  è  particolarmente 

significativo per i ragazzi dotati di talento che entrano presto in situazioni agonistiche impegnative 

anche con un carico di aspettative di successo. Per alcuni ragazzi questa esperienza può portare, 

con  cause  diverse  come  si  è  visto,  a  situazioni  psico‐fisiche  di  burnout,  che  predispongono 

all’abbandono. 

Dalle  ricerche  che  hanno  analizzato  tali  problematiche  sono  emerse  comunque  anche 

indicazioni  applicative  utili  a  prevenire  o  a  contrastare  il  burnout.  Tali  indicazioni  vengono  qui 

riprese  ed  evidenziate,  soprattutto  per  sollecitare  negli  allenatori  che  operano  con  i  giovani  la 

consapevolezza  di  atteggiamenti  e  comportamenti  che  possono  invece  favorire  un’esperienza 

sportiva gratificante, positiva e duratura. 

Innanzitutto è  importante che gli allenatori riconoscano  i segnali che  indicano stanchezza e 

calo  motivazionale.  Alcuni  di  questi  segnali  sono  il  fatto  di  arrivare  spesso  in  ritardo  agli 

allenamenti,  una  riduzione  dell’impegno,  l’aumento  di  errori  esecutivi,  una  prestazione  più 

scadente, cambiamenti nell’atteggiamento verso  le attività di gruppo. A comportamenti di questo 

tipo,  spesso  si  reagisce con  richiami e  sollecitazioni,  talvolta bruschi, con  lo  scopo ovviamente di 

stimolare   i   ragazzi  a   reagire  e   ad   impegnarsi  maggiormente.  Gli   allenatori  de vono,  però, 

considerare anche  la possibilità di una  lettura diversa della  situazione ed attivare una  riflessione 

più ampia sugli atteggiamenti dei ragazzi e su come rispondere ad essi. 

Alcune  indicazioni  utili  alla  prevenzione  del  burnout,  comunque,  prima  ancora  di  aspetti 

psico‐educativi  specifici  riguardano  già  la  programmazione  complessiva  e  l’organizzazione  degli 

allenamenti, che sono componenti fondamentali tra  i compiti dell’allenatore. A tale proposito, ad 

esempio, Smith e Kays (2010) in termini molto applicativi suggeriscono di: 

- distribuire  in maniera organica nella programmazione del  lavoro  (annuale e mensile) sia  le 

giornate di allenamento che quelle di  recupero; qualora ciò non  fosse possibile per motivi 

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organizzativi, è opportuno ridurre i tempi complessivi di lavoro per evitare sovraccarichi non 

compensati bene dai recuperi; 

- evitare  allenamenti  eccessivamente  ripetitivi  e  con  scansione  settimanale  sempre  uguale 

delle proposte  tecniche:  sarebbe bene di  tanto  in  tanto  inserire anche giochi presportivi o 

attività competitive ludiche non specifiche; 

- utilizzare esercitazioni e  situazioni  tecniche variate che aiutano di per sé a mantenere alti  

interesse ed attenzione (è necessario che gli allenatori arricchiscano il più possibile il proprio 

bagaglio di esercitazioni sia tecniche che generali); 

- negli sport di squadra, far apprendere a ciascun atleta anche le abilità tecniche di altri ruoli: 

non solo questo rappresenta un elemento di variabilità (e di arricchimento coordinativo), ma 

aiuta  anche  a  comprendere  i  compiti e  le difficoltà dei  compagni, ed  a  favorire  il  rispetto 

reciproco; 

- prevedere   una   sospensione   reale   degli   allenamenti   al   termine   della   stagione;   se   si  

continuano  gli  allenamenti  lasciando  liberi  gli  atleti  di  parteciparvi,  la  partecipazione deve 

essere lasciata davvero alla scelta di ciascuno e non essere in realtà comunque obbligatoria! 

Lasciare che gli atleti si prendano propri tempi e spazi anche al di  fuori dello sport, così da 

riprendere successivamente la nuova stagione riposati e pronti ai nuovi impegni; 

- soprattutto negli  sport di  squadra  (ma è utile anche nelle  società dove  si praticano  sport  

individuali),  è  importante  costruire  qualche  opportunità  di  coinvolgere  i  ragazzi  in  attività 

non  legate in modo specifico allo sport; ad esempio, tutti  insieme si può andare una volta a 

giocare a bowling, a  fare una camminata  in montagna, ad utilizzare un percorso vita  in un 

parco o a fare una gita in bicicletta. Se poi nella propria società sportiva si ritiene importante 

l’aspetto  educativo  più  generale,  si  può  anche  partecipare  insieme  ad  un’esperienza  di 

volontariato sociale. Vivere insieme situazioni diverse, anche al di fuori dello sport, favorisce 

sicuramente  relazioni  interpersonali maggiormente  significative,  e  da  un  senso molto  più 

ampio all’attività sportiva. 

Dal  punto  di  vista  psico‐pedagogico  più  generale,  l’attività  giovanile  dovrebbe  essere 

innanzitutto  sempre  finalizzata  a  facilitare  esperienze  positive  di  crescita  e  sviluppo  personale. 

Naturalmente,  gli  allenatori  sono  le  figure  più  importanti,  ed  hanno  un  ruolo  determinante nel 

favorire  (o, purtroppo, al  contrario  limitare!)  lo  sviluppo personale dei  ragazzi. Gli allenatori che 

operano  con  i  giovani  dovrebbero,  pertanto,  ricevere  una  formazione  che  fornisca  non  solo 

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competenze tecniche, didattiche e metodologiche specifiche, ma anche competenze pedagogiche 

che consentano una pratica sportiva consapevolmente finalizzata  in primo  luogo ad uno sviluppo 

globale e positivo dei giovani atleti.  In passato, negli anni  ’80‐’90,  il C.O.N.I. aveva  realizzato,  in 

collaborazione con  l’Istituto Enciclopedico  Italiano, un programma specifico (Corpo, movimento e 

prestazione, 1984) pensato proprio per  la formazione degli allenatori giovanili. Tale programma è 

stato  ampiamente  utilizzato,  in  particolare  per  formare  coloro  che  operavano  nei  Centri  di 

Avviamento allo Sport (C.A.S.), ma anche all’interno dei programmi formativi di alcune Federazioni 

Sportive; purtroppo, è stato successivamente abbandonato. 

È assai diffusa  l’opinione che  lo sport possa rappresentare un  importante fattore di crescita 

nei ragazzi, ed il valore educativo dell’attività sportiva è stato effettivamente dimostrato. Si è visto, 

però, che questo non è di per  sé un  fatto automatico e  scontato:  lo  sport agonistico può avere 

anche  effetti  negativi,  sia  sulla  salute,  sia  sul  piano  psico ‐sociale.  Il  fatto  che  lo  sport  dia  un 

contributo positivo o negativo allo sviluppo personale di un atleta non dipende tanto dalla pratica 

sportiva  in  sé,  quanto  piuttosto  dalla  “filosofia”  dell’organizzazione  sportiva  in  cui  l’atleta  è 

inserito,  dagli  atteggiamenti  e  comportamenti  degli  allenatori,  dal  tipo  di  coinvolgimento  dei 

genitori, dalle esperienze e dalle  caratteristiche  individuali  (cfr. Petitpas, Cornelius, Van Raalte e 

Jones,2005). 

Se  le diverse organizzazioni del  sistema  sportivo  vogliono dare un  vero  valore educativo e 

culturale  alla  pratica  sportiva,  soprattutto  giovanile  ma  non  solo,  devono  deciderlo 

intenzionalmente  ed  agire  in  modo  significativo.  Un  aspetto  fondamentale  è  sicuramente  la 

formazione dei  tecnici giovanili. Nelle società sportive sono  soprattutto gli allenatori, ma anche  i 

dirigenti,  che  caratterizzano  il  contesto.  Quando  gli  allenatori  usano  prevalentemente  rinforzi 

positivi  (il rapporto ottimale sarebbe di 4 a 1 rispetto ad osservazioni negative!), danno valore ai 

miglioramenti personali, non ricorrono a punizioni,  i ragazzi stanno meglio nel gruppo, hanno più 

alti  livelli di motivazione e vivono meno ansia ed emozioni negative. Un ambiente dove  i  ragazzi 

trovino un’atmosfera positiva, che dia  importanza anche al proprio sviluppo personale, li valorizzi, 

riconosca  l’impegno  e  fornisca  supporto,  favorisce  la  possibilità  di  vivere  un’esperienza  sportiva 

gratificante e piacevole riducendo la possibilità che si verifichino situazioni di burnout. 

   

 Lo sport educativo: una formazione per la vita 

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 Su come favorire una pratica sportiva davvero formativa, in letteratura sono presenti diverse 

indicazioni,  spesso  derivate  da  ricerche  approfondite  sulle  ricadute  educative  di  modalità  di 

intervento nello  sport  giovanile  (cfr. Camiré,  Forneris,  Trudel  e Bernard, 2011;  Strachan, Cote e 

Deakin, 2009; Watson II, Connole e Kadushin, 2011). Promuovere lo sviluppo personale dei ragazzi 

significa,  ad  esempio,  favorire  lo  sviluppo  di  un’identità  positiva,  della  consapevolezza  di  sé,  di 

aspetti  etici,  di  atteggiamenti  positivi  verso  il  futuro  (ottimismo  e  speranza),  di  comportamenti 

legati alla  salute, della  capacità di adattarsi a diversi ambienti di apprendimento e di  lavoro. Va 

fatta attenzione a non sollecitare lo sviluppo di un’identità atletica troppo rigida, in cui il ragazzo si 

riconosca  soltanto  all’interno  del  ruolo  di  atleta:  lo  sviluppo  personale  deve  essere  ampio  ed 

articolato,  riguardare  sia  le  abilità  fisiche,  che  quelle  psico‐sociali.  I  ragazzi,  inoltre,  dovrebbero 

trovare nello sport spazi e tempi per divertirsi, scoprendo e sperimentando anche altre abilità ed 

altri ruoli. 

Un  aspetto  che  viene  attualmente  molto  enfatizzato  in  letteratura  è  la  possibilità  che  

attraverso  lo sport si possano  insegnare diverse abilità e competenze, utili non solo nel contesto 

sportivo  specifico, ma generalizzabili e  trasferibili  in modo ampio  ad  altri  ambiti della  vita e nel 

futuro (Gould e Carson, 2008; Gould, Collins, Lauer e Chung, 2007). Queste “abilità per la vita” (life 

skills) sono, ad esempio, saper ascoltare e comunicare  in modo efficace con compagni ed adulti, 

porsi degli obiettivi, prendere  iniziative, saper  fare  scelte e prendere decisioni, avere capacità di 

leadership, saper organizzare il proprio tempo, riuscire a controllare le emozioni e gestire lo stress, 

sapersi assumere la responsabilità delle proprie azioni. 

Da   tutti   gli   autori   che   hanno   affrontato   questa   tematica   viene,   comunque,   sempre  

sottolineato come non sia la pratica sportiva di per sé che automaticamente garantisce lo sviluppo 

di  queste  competenze,  come  spesso  si  ritiene.  Già  il  fatto  che  per  definirle  venga  utilizzato  lo 

stesso  termine  (skill:  abilità)  che  si  usa  per  le  abilità  motorie  in  generale  e  per  le  tecniche 

specifiche  evidenzia   la  necessità  che  esse  debbano  essere  apprese  dai   ragazzi,  e  pertanto 

insegnate dagli adulti. Vi deve essere un ambiente che sia adatto a questo scopo (ad esempio, un 

allenatore  che  incoraggia,  la  presenza  di  regole  chiare,  senso  di  responsabilità,  norme  sociali 

positive),  e  l’insegnamento  di  abilità  generalizzabili  va  programmato  in  modo  consapevole  ed 

intenzionale: le abilità devono essere insegnate, allo stesso modo delle abilità tecniche, attraverso 

istruzioni,  dimostrazione ed  esercitazioni.  Lo  sport  è  comunque un  ambiente  favorevole  a  tale 

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scopo, poiché gli è riconosciuto anche un valore sociale: lo sport rappresenta un contesto in cui si 

apprendono  abilità,  i  bambini  ed  i  ragazzi  sono  in  genere  motivati  alla  partecipazione,  i 

miglioramenti  personali  nei  risultati  si  realizzano  grazie  ad   impegno  e  sforzo.  Pertanto,  gli 

allenatori che vogliono  considerare  in modo  serio anche  l’aspetto educativo possono, all’interno 

del proprio piano di  lavoro, programmare in modo  intenzionale strategie per  lo sviluppo di abilità 

personali  significative  per  lo  sport,  ma  generalizzabili  anche  ad  altri  aspetti  della  vita. 

Contribuiscono  in questo modo  a  formare non  solo  atleti, ma  anche  cittadini migliori,  capaci di 

inserirsi più facilmente ed efficacemente in contesti diversi. 

Un modello  di  intervento  per  allenare  le  life  skills  (Figura  1)  è  stato  proposto  da  Gould, 

Collins,  Lauer  e  Chung  (2006),  elaborato  sulla  base  di  interviste  approfondite  ad  allenatori,  in 

particolare  di  calcio,  che  avevano  ottenuto  elevate  percentuali  di  vittorie  e  risultati  sportivi  di 

rilievo, ma ai quali, nello stesso  tempo, veniva riconosciuta  la capacità di  formare gli atleti come 

persone, come cittadini e membri produttivi della società. La maggiore attenzione era ovviamente 

posta  su  come  questi  allenatori  riuscissero  a  raggiungere  contemporaneamente  obiettivi  sia 

sportivi, che  formativi. Sono  stati poi  intervistati anche gli atleti allenati dagli allenatori coinvolti 

nella ricerca, che hanno fornito informazioni congruenti con quanto esposto dai tecnici. Il modello, 

che viene qui presentato,  integrato con  indicazioni  ricavate anche da altri autori, è costituito da 

quattro  elementi:  “filosofia”  dell’allenatore,  relazione  allenatore‐atleta,  strategie  specifiche  per 

sviluppare le life skills, considerazione dell’ambiente ed utilizzo delle risorse. 

I fondamenti filosofici. Per  l’allenatore,  il punto di partenza è ovviamente una riflessione sul 

significato  della  propria  attività  nello  sport,  cercando  di  comprendere  quali  siano  le  proprie 

motivazioni, finalità e scelte anche rispetto ad una “filosofia” di sport: quanto valore viene dato al 

risultato  agonistico? Quanto  alla  crescita  personale  dei  giovani  atleti  anche  oltre  la  dimensione 

sportiva? Quanto alla  formazione del gruppo? Quanto alla  crescita della  stessa  società  sportiva? 

Quale cultura sportiva si vuole creare nel proprio ambiente? Lo sport giovanile è oggi assai diffuso, 

ed  è molto  di più  che  vincere  o perdere!  Rappresenta un  fenomeno  sociale  e  culturale  a  cui  è 

riconosciuta  la  possibilità  di  dare  un  contributo  importante  in  termini  di  salute  e  di  sviluppo 

personale. Sarebbe un peccato non utilizzarne  le potenzialità, ma questa scelta va  fatta  in modo 

consapevole ed  intenzionale.  La  finalità educativa va, però,  sostanziata  con obiettivi adeguati  su 

cui  si deve  intervenire  in maniera sistematica. Ad esempio, uno degli allenato ri  intervistati dava 

molta  importanza alla scuola: a  tale proposito, chiedeva  regolarmente all’atleta  informazioni sui 

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risultati  scolastici,  coinvolgeva  i genitori  in questo processo, ed, essendo  lo  sport  in questo caso 

praticato  a  scuola,  ogni  tanto  incontrava  anche  gli  insegnanti.  La  propria  filosofia  di  sport  va 

condivisa con  i collaboratori, con gli atleti e con  i genitori.  I valori di  fondo vanno  ripetutamente 

enfatizzati, adattati alle diverse situazioni e rinforzati, e non vanno accettate disgression i. Non si 

tratta, comunque,  solo di discorsi  teorici, ma anche di valori e principi  che devono essere parte 

della quotidianità e che devono essere alla base delle decisioni e delle azioni dell’allenatore. 

  Figura 1 – Abilità per la vita. 

   

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La relazione allenatore‐atleta. Un secondo aspetto importante per poter allenare le  life skills 

riguarda la costruzione di una buona relazione con propri atleti. In genere, gli allenatori cercano di 

conoscere  le  caratteristiche  dei  propri  atleti,  le  abilità  che  posseggono,  le  loro  esperienze 

precedenti, gli obiettivi sportivi che  i ragazzi si pongono, e questi elementi sono già di per sé utili 

per  un’adeguata  programmazione  delle  attività  di  allenamento.  Ma  essi  dovrebbero  anche 

possedere  buone  abilità  comunicative,  non  solo  come  trasmissione  di  informazioni, ma  anche 

come capacità di ascolto. È  fondamentale creare un clima positivo di  lavoro, dove vi sia  fiducia e 

rispetto reciproco, fra allenatore ed atleti, ma anche  fra gli atleti stessi, nel quale ciascuno possa 

esprimersi  senza  la  paura  di  essere  continuamente  giudicato,  criticato  o  deriso,  dove  gli  errori 

siano  considerati  parte  del  processo  di  apprendimento.  A  tale  proposito,  ad  esempio,  una 

semplice  indicazione applicativa  riguarda  il  fatto che qualora  sia necessario  fare un’osservazione 

od un rimprovero ad un atleta, l’attenzione venga posta sul comportamento o sulla prestazione, e 

non sull’atleta come persona. 

Le strategie specifiche per sviluppare le life skills. Se una buona relazione con i propri atleti è 

una condizione necessaria, non è però sufficiente per garantire un ricco sviluppo personale. Come 

si  è  detto,  le  abilità  generalizzabili  per  essere  apprese  devono  essere  insegnate  in  modo 

sistematico;  i ragazzi devono conoscerle, sapere a che cosa servono nello sport, e come possano 

essere  importanti  poi  anche  al  di  fuori  e  nella  loro  vita  futura.  Gli  interventi  finalizzati 

all’apprendimento  di  tali  abilità,  comunque,  possono  essere  strettamente  integrati  nel  contesto 

dell’allenamento,  in quanto sono realizzabili attraverso strategie didattiche calate all’interno della 

pratica.  Ad  esempio,  promuovere  la  leadership  significa  creare  opportunità  per  i  ragazzi  di 

esercitarsi  in  ruoli  che  richiedano  controllo  di  una  situazione  e  assunzione  d i  responsabilità.  In 

genere, nelle squadre, è il giocatore scelto come capitano (dall’allenatore o dai compagni) che ha 

l’opportunità di svolgere un ruolo di leader. Sperimentare questo ruolo, però, può essere utile per 

tutti  i  ragazzi,  poiché  rappresenta  un’abilità  trasferibile  a  diversi  contesti  di  vita;  pertanto,  in 

allenamento si possono costruire situazioni che lo consentano. Per esempio, una modalità per fare 

questo  è  quella  di  affidare  a  rotazione  agli  atleti  la  conduzione  di  alcune  parti  della  fase  di 

riscaldamento.  Ciò  non  significa  che  il  ragazzo  che  guida  tale  fase  si  debba  semplicemente 

ricordare una  serie di esercizi, come accade già abbastanza  spesso  in molte società sportive, ma 

invece  dovrebbe   implicare  anche  un  aspetto  di   controllo  e  di   intervento:   l’atleta   che   sta 

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conducendo  l’attività  dovrebbe  sapere  su  cosa  porre  attenzione  affinché  l’esercizio  sia  svolto 

correttamente,  e  su  come  intervenire  con  i  compagni  eventualmente  per  correggerli.  Implica, 

pertanto,  che  l’allenatore  faccia  un  intervento  didattico,  che  risulterà  comunque  utile  per  una 

migliore  comprensione  degli  esercizi  e  della  loro  modalità  di  esecuzione,  e  che  consentirà 

successivamente di  lavorare  in maniera più  rapida ed efficace sia dal punto di vista motorio che 

psico‐pedagogico.   La   strategia   può   essere   utilizzata   nello   stesso   modo   per   la   fase   di 

defaticamento.  Questi  spazi  assegnati  ai  ragazzi  possono  diventare  anche  un  opportunità  per 

l’allenatore di un’osservazione più accurata del gruppo, di un’organizzazione migliore dell’attività, 

dell’utilizzo di questi momenti per uno scambio comunicativo con qualcuno in particolare. 

Un  altro  esempio  di  strategia  può  riguardare  lo  sviluppo  di  autonomia  e  la  capacità  di 

prendere decisioni. Una modalità efficace di  intervento è quella di consentire agli atleti di avere 

qualche  forma  di  controllo  sulle  esercitazioni  di  allenamento:  ad  esempio,  dop o  alcuni  esercizi 

proposti dall’allenatore, può essere consentito ai  ragazzi di  scegliere  l’esercizio  successivo  su  cui 

esercitarsi.  La  scelta  può  essere  data  alla  squadra  (ovviamente  in modo  veloce,  senza  perdere 

troppo  tempo!),  oppure  a  rotazione  fra  gli  atleti,  o  ancora  come  forma  di  gratificazione  ad  un 

ragazzo  che  ha  eseguito  bene  o  con  impegno  un  esercizio  precedente;  può  essere  una  scelta 

libera, o una scelta guidata (per esempio, fra alcuni altri esercizi proposti dall’allenatore). L’aspetto 

dell’autonomia  riguarda  anche  il  processo  di  apprendimento.  È  abbastanza  frequente  che 

nell’insegnamento delle  tecniche  sportive  l’allenatore crei quasi una situazione di dipendenza da 

parte   dei   ragazzi,   abituandoli   ad   avere   continuamente   istruzioni,   feedback   e   commenti 

dall’esterno.  In  questo  modo,  però,  durante  gare  e  partite  i  ragazzi  cercano  continuamente 

indicazioni  o  approvazione  (e  talvolta  perfino  rimproveri!)  da  parte  del  proprio  allenatore.  È 

istintivo e facile per un allenatore evidenziare un errore o dare una correzione, ma a lungo termine 

per  i  ragazzi  è molto  più  produttivo  imparare  a  pensare  e  a  trovare  soluzioni  da  soli.  Pensiero 

autonomo e strategie di problem‐solving possono essere stimolati facendo domande prima di dare 

risposte,  incoraggiando  gli  atleti  a  rilevare  i  propri  errori  o  a  percepire  quando  hanno  eseguito 

correttamente un’azione, sollecitandoli a riflettere e a proporre soluzioni. 

Un ulteriore aspetto delle life skills riguarda quelle che in psicologia dello sport sono definite 

“abilità  mentali”  importanti  per  la  preparazione  e  la  gestione  delle  situazioni  di  gara:  la 

formulazione di obiettivi (goal setting), la modulazione dell’attivazione, la gestione delle emozioni, 

il  controllo  dei  pensieri,  la  concentrazione  (cfr.  Robazza,  Bortoli  e Gramaccioni, 1994). Queste 

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abilità  rientrano  sicuramente  fra  le  life  skills,  in  quanto  risultano  fondamentali  per  affrontare 

qualsiasi tipo di situazione che determina potenzialmente difficoltà e stress. Nel contesto sportivo, 

per poter essere applicate  in condizione di gara, come  le abilità tecniche anche  le abilità mentali 

devono  essere  allenate  durante  le  normali  sessioni  di  preparazione  e  allenamento:  gli  atleti 

devono  sapere  a  cosa  ogni  abilità  mentale  serva  e  dovrebbero  sperimentare  in  allenamento 

situazioni  simili  a  quelle  di  gara  in  cui  possano  provare  ad  utilizzarle.  Ad  esempio,  le  emozioni 

legate alla  competizione determinano  spesso un  incremento della  frequenza  cardiaca  che non è 

invece  presente  in  allenamento,  nemmeno  durante  le  simulazioni  di  gara;  per  esempio, 

un’esercitazione  specifica  è  quella  di  incrementare  la  frequenza  fisica  attraverso  movimenti 

energici (come corsa, saltelli, etc.) e poi chiedere all’atleta di applicare  le tecniche per  il controllo 

della frequenza cardiaca (come respirazioni lente e profonde, fissazione di un punto, rilassamento 

dei muscoli  delle  spalle).  Per  poter,  poi,  essere  generalizzate  ad  altri  contesti,  gli  atleti  vanno 

sollecitati a riflettere non solo su come usare queste strategie durante  le competizioni, ma anche 

su  quando  e  come  applicarle  in  altre  situazioni,  fornendo  loro  magari  qualche  esempio,  ed 

incoraggiandoli a farlo. 

Considerazione dell’ambiente e utilizzo delle  risorse. Rispetto a quanto presentato  finora, è 

ovvio  naturalmente  che  tutto  questo  vada  considerato  in  termini  realistici  ed  applicabili:  gli 

allenatori  hanno  come  compito  specifico  quello  di  preparare  i  ragazzi  per  la  pratica  sportiva,  li 

vedono  in  genere due o  tre  volte  alla  settimana,  quasi  sempre  in  gruppo,  con  tempi  ristretti di 

lavoro  e  con  molti  obiettivi  tecnici  su  cui  lavorare.  Il  tempo,  soprattutto,  non  sembra  mai 

abbastanza!  Inoltre, anche quando  l’allenatore decide di dare  la massima  importanza agli aspetti 

educativi,   in  alcuni  casi   (pochi,  comunque)  non   sempre  si   riescono  ad  ottenere   i   risultati 

desiderati: nella  relazione  incidono,  infatti,  anche  le  caratteristiche  individuali dei  ragazzi, quelle 

delle   famiglie   che  hanno   alle   spalle,  oltre   all’ambiente   in   cui   vivono.  Questi   aspetti  non 

dovrebbero, però,  rappresentare degli  alibi per evitare di prendersi  responsabilità educative. Ad 

esempio, capita con una certa frequenza, nelle società sportive ma anche a scuola, che ci possano 

essere contrasti con  le aspettative e gli atteggiamenti dei genitori, rispetto alla partecipazione ed 

alla  prestazione  sportiva.  La  famiglia  rappresenta  il  contesto  primario  di  educazione  e 

socializzazione dei più  giovani, oltre  che  il nucleo affettivo  fondamentale a partire dalla nascita. 

Per questo,  i genitori sono figure significative anche per quanto riguarda  l’esperienza sportiva dei 

ragazzi, trasmettono i propri modelli culturali, i propri valori ed influenzano in modo determinante 

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motivazione, percezione di competenza, risposte emozionali e divertimento dei figli. Gli allenatori 

e le società sportive che si pongono  in modo chiaro il problema di uno sport realmente formativo 

dovrebbero cercare assolutamente la collaborazione con i genitori, affinché il messaggio educativo 

passi in modo forte e coerente. Ai genitori vanno spiegate le scelte della società e gli obiettivi che 

vengono  ricercati.  Inoltre,  va  tenuto  presente  che,  in  genere,  i  genitori  sono  in  buona  fede  e 

convinti di star facendo  il meglio possibile per aiutare  i propri figli anche nell’esperienza sportiva; 

spesso,  però,  il  loro modello  sportivo  è  quello  degli  atleti  adulti,  conosciuto  attraverso  i mass 

media, nel quale  l’enfasi è posta quasi soltanto  sulla vittoria e dove sono presenti a volte anche 

messaggi diseducativi. 

Per  questo,  le  società  sportive  che  credono  davvero  nei  valori  educativi  dello  sport 

dovrebbero condividere con  i genitori  la propria  filosofia sportiva, considerandoli risorsa critica e 

costruttiva in una discussione sui valori che sia utile ad approfondirne il significato, coinvolgendoli 

dunque  in un confronto continuo che possa divenire educativo anche per gli adulti oltre che per i 

più giovani. 

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45

 

46 

Appendice      Tabella 2 – Partecipanti per genere, età e sport praticato. 

 

Età Genere Sport 12 anni 13 anni 14 anni 15 anni 16 anni 17 anni 18 anni Totale

Femmine arrampicata sportiva ‐‐ ‐‐ ‐‐ 3 ‐‐ ‐‐ ‐‐ 3atletica 10 17 6 5 6 5 5 54calcio ‐‐ ‐‐ ‐‐ 2 ‐‐ ‐‐ ‐ 2frisbee (ultimate) ‐‐ ‐‐ ‐‐ 1 2 1 3 7nuoto 5 2 5 2 3 2 ‐‐ 19pallavolo 6 32 53 22 10 3 ‐‐ 126

Maschi arrampicata sportiva ‐‐ ‐‐ ‐‐ 6 ‐‐ ‐‐ ‐‐ 6atletica 2 5 8 4 6 1 2 28baseball ‐‐ ‐‐ 4 1 5 ‐‐ ‐‐ 10calcio 24 28 54 75 56 29 4 270ciclismo ‐‐ 5 ‐‐ ‐‐ ‐‐ ‐‐ ‐‐ 5frisbee (ultimate) ‐‐ ‐‐ ‐‐ ‐‐ 1 ‐‐ ‐‐ 1hockey su ghiaccio 5 3 9 2 ‐‐ ‐‐ ‐‐ 19hockey su prato ‐‐ 8 1 7 1 ‐‐ ‐‐ 17nuoto ‐‐ ‐‐ 3 2 ‐‐ ‐‐ ‐‐ 5pallamano ‐‐ 4 6 1 1 2 1 15pallavolo 28 23 39 13 19 1 3 126tiro a segno ‐‐ 1 1 2 ‐‐ 1 ‐‐ 5tiro con l'arco 1 1 1 ‐‐ 2 ‐‐ ‐ 5

Totale 81 129 190 148 112 45 18 723

47 

Tabella 3 ‐ Partecipanti per genere e sport praticato.  

Genere Sport N % Femmine pallavolo 126 59,4

atletica 54 25,8

nuoto 19 9,2

frisbee (ultimate) 7 3,3

arrampicata sportiva 3 1,4

calcio 2 0,9 Totale 211 100

calcio 270 52,6 pallavolo 126 24,6 atletica 28 5,5 hockey su ghiaccio 19 3,7 hockey su prato 17 3,3 pallamano 15 2,9 baseball 10 2,0 arrampicata sportiva 6 1,2 ciclismo 5 1,0 nuoto 5 1,0 tiro a segno 5 1,0 tiro con l'arco 5 1,0 frisbee (ultimate) 1 0,2 Totale 512 100

48 

Tabella 4 ‐ Partecipanti per esperienza sportiva e allenamenti.  

Media D.S.

Anni di esperienza di pratica sportiva 5,03 2,75 Numero di allenamenti a settimana 2,75 0,89 Durata in ore di ogni allenamento 1,83 0,32 Durata di allenamento complessivo a settimana 5,1 2,10

Tabella 5 – Coefficienti di affidabilità (coerenza interna) (alpha di Cronbach). 

 

Per ogni  scala dei questionari sono  stati calcolati  i coefficienti di affidabilità  (coerenza  interna)  (alpha di Cronbach).  I  risultati mostrano  livelli accettabili di 

affidabilità degli strumenti. 

Variabili Maschi Femmine

Motivazione intrinseca 0,69 0,70

Motivazione estrinseca a regolazione interna 0,72 0,83

Motivazione estrinseca a regolazione esterna 0,71 0,68 Assenza di motivazione 0,68 0,72 Resilienza 0,77 0,81 Stati emozionali piacevoli 0,83 0,78 Stati emozionali spiacevoli 0,79 0,67 Clima orientato sulla prestazione (performance climate) 0,74 0,73 Clima orientato sulla competenza (mastery climate) 0,72 0,71 Esaurimento psico‐fisico 0,81 0,79 Svalorizzazione dello sport 0,68 0,69 Mancata realizzazione personale nello sport 0,78 0,73

49 

Tabella 6 – Correlazioni fra variabili.  

(1) (2) (3) (4) (5) (6) (7) (8) (9) (10) (11) (1) Percezione competenza

1

(2) Motivazione  Intrinseca

,136* 1

(3) Motivazione estrinseca (regolazione interna)

0,087 ,532** 1

(4) Motivazione estrinseca (regolazione esterna)

0,039 ‐,128* ‐0,059 1

(5) Assenza motivazione

‐0,027 ‐,154** ‐0,068 ,606** 1

(6) Resilienza

,188** ,433** ,391** ‐0,015 ‐,138*

1

(7) Mancata realizzazione personale

‐,299**

‐,210**

‐0,089

,284**

,384**

‐,328**

1

(8) Esaurimento psico‐fisico

‐0,034 ‐0,098 ‐0,037 ,345** ,420**

‐,132* ,519** 1

(9) Svalorizzazione per lo sport

‐0,044 ‐,163** ‐0,028 ,405** ,450**

‐,142** ,576** ,617** 1

(10) Stati emozionali piacevoli

,382**

,399**

,242**

‐0,077

‐,214**

,526**

‐,450**

‐,107*

‐,194**

1

(11) Stati emozionali spiacevoli

‐0,097

‐,211**

‐0,103

,404**

,501**

‐,240**

,462**

,564**

,584**

‐,245**

1

50 

Tabella 7 – Correlazioni fra variabili.  

(1) (2) (3) (4) (5) (6) (7) (8) (9)

(1) Percezione competenza

1

(2) Resilienza

,308** 1

(3) Clima motivazionale Mastery

‐0,007 ,206** 1

(4) Clima motivazionale Performance

‐0,047 ‐0,052 ‐,424** 1

(5) Mancata realizzazione personale

‐,451** ‐,437** ‐,166** ,240**

1

(6) Esaurimento psico‐fisico

‐0,064 ‐,227** ‐,153** ,291**

,343** 1

(7) Svalorizzazione per lo sport

‐,124* ‐,187** ‐,221** ,291**

,510** ,575** 1

(8) Stati emozionali piacevoli

,337** ,487** ,263** ‐,115*

‐,526** ‐,255** ‐,273** 1

(9) Stati emozionali spiacevoli

‐,258** ‐,269** ‐,197** ,287**

,485** ,470** ,584** ‐,350** 1

51 

Figura 2 – Differenze di genere fra variabili.  

52 

Figura 3 – Differenze per tipologia di sport fra variabili.  

53 

Figura 4 – Differenze per età fra variabili.  

54 

Figura 5 – Differenze di genere fra variabili.  

55 

Figura 6 – Differenze per tipologia di sport fra variabili.  

56 

Figura 7 – Differenze per età fra variabili.