A. DIOTTI - S. DOSSI - F. SIGNORACCI LECTIO - SEI Editrice · di risonanza nella chiusa cerchia...

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LETTERATURA ANTOLOGIA AUTORI LATINI A. DIOTTI - S. DOSSI - F. SIGNORACCI LECTIO VOLUME UNICO

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LETTERATURAANTOLOGIA

AUTORI LATINI

A. DIOTTI - S. DOSSI - F. SIGNORACCI

LECTIOVOLUME UNICO

Società Editrice Internazionale© 2009 by

Insegna Storia del teatro rinascimentale presso il DAMS dell’Università di Torino. Specialista di Ibsen e Pirandello, su cui ha scrittodiversi libri, ha pubblicato anche volumi su Goldoni, Alfieri, D’Annunzio, il teatrodell’Ottocento, la regia del Novecento. Ha diretto, insieme con G. Davico Bonino, i quattro volumi della Storia del teatro moderno econtemporaneo, Torino, Einaudi, 2000-2003. È inoltre autore di un pamphlet intitolato Asini calzati e vestiti. Lo sfascio della scuola edell’università dal ’68 a oggi, Torino, UTET, 2005.

Roberto Alonge

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Roma oltre Roma

La riscLa riscoperterta a di un pdi un patrimoniotrimonioanticanticoLa cultura classica (intesa in senso ampio,greca e latina) gioca un ruolo fondamen-tale nella grande svolta della civiltà rina-scimentale, che si sviluppa in Italia fraQuattro e Cinquecento. Pochi sono perògli intellettuali che leggono la lingua greca,e dunque, in pratica, si deve parlare di unapermanenza della cultura latina, che ha co-munque assimilato preliminarmente il nu-cleo vitale della civiltà greca. Si tratta di unimponente processo di riscoperta del pa-trimonio antico, ad opera dei cosiddettiumanisti, che percorrono le bibliotechedei conventi religiosi (in cui quel patri-monio è stato per così dire conservato e se-polto al tempo stesso, nel corso del Me-dioevo). I testi antichi (e, ovviamente an-che quelli teatrali) sono ripubblicati – an-che alla luce dei nuovi metodi della filo-logia – e fatti circolare. Le Accademie e leUniversità sono i primi centri di rielabo-razione di questo enorme tesoro. Ab-biamo documenti che mostrano come sindal primo trentennio del Quattrocento ladrammaturgia latina venga acquisita den-tro i programmi dei maestri di grammatica

e di retorica. Soprattutto Terenzio (che, adifferenza di Plauto, evita licenze sessualie frizzi impertinenti, aprendo a situazionidi grande compostezza morale) viene for-temente valorizzato, proprio per la suapossibilità di contribuire a un discorsopedagogicamente orientato. Studenti edocenti non solo analizzano, ma mettonoanche in scena tragedie e commedie, ini-zialmente persino in lingua latina (ma pre-sto in volgarizzamenti italiani). Celebre re-sta l’Accademia di Pomponio Leto, attivaa Roma, che cura l’allestimento di com-medie di Plauto e Terenzio e delle tragediedi Seneca.

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Il teatro

L’invenzione L’invenzione del teadel teatrotroLe Accademie costituiscono però la puntaavanzata di un movimento ampio e con-sistente, rappresentato dalle corti princi-pesche diffuse nell’Italia centro-setten-trionale (dalla Ferrara degli Este alla Man-tova dei Gonzaga, dalla Urbino dei Mon-tefeltro alla Roma dei Papi). È dentro que-ste corti che si determina quella che è statachiamata – con una bella espressione me-taforica – l’invenzione del teatro. Da inten-dersi nel senso etimologico, inventio comeritrovamento, appunto, della smarrita tra-dizione teatrale classica. Una funzione de-cisiva è svolta, in questo senso, dalla cortedi Ferrara dove, a partire dal carnevale del1486, con il volgarizzamento dei Menae-chmi di Plauto, si avvia la pratica di veri e

propri festival di teatro comico latino, legatialla ricorrenza periodica festiva del carne-vale. Anche altre opportunità festive nonperiodiche, che si hanno nel corso dell’anno(matrimoni e nascite di potenti, passaggioin città di sovrani, alti ecclesiastici, ecc.),sono occasione di spettacoli classici, pre-valentemente comici.

Il pIl palazzo e la cittàalazzo e la cittàVa notato un particolare spesso trascu-rato, che è invece della massima impor-tanza: il teatro allestito nel Palazzo del Prin-cipe (per usare un’altra immagine riassun-tivamente felice), per un pubblico di élite,cioè di invitati dal Principe stesso, nonsoppianta subito il teatro religioso delle sa-cre rappresentazioni medievali, che con-tinuano a svolgersi nelle piazze delle città.C’è come una sorta di doppio binario: la

Fig. 1 Teatro romano diMerida con un riccofrontescena ornato distatue, I secolo a.C.

Fig. 2 Sostrata calma ilmarito Cremete adirato conil figlio. Codice VaticanoLatino 3868, Terenzio,Heautontimorúmenos.

Fig. 3 Il procedimentodella sacrarappresentazione si puòaffiancare alla iconografiadelle passiones tanto del Cristo quanto dei santi,organizzate per quadrisuccessivi (quasi comescene): AmbrogioLorenzetti, Quattro scenedella vita di san Nicola,1327-1332.

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Roma oltre Roma

cultura in volgare, la cosiddetta cultura ro-manza, che coinvolge gli strati popolari; ela cultura classicista, che ha il suo ambitodi risonanza nella chiusa cerchia delle cortie dei loro abitanti privilegiati. Ci vorrannodecenni perché la tradizione religiosa me-dievale scompaia anche dall’orizzonte del-l’intera comunità cittadina. Abbiamo quiuna caratteristica fondamentale della per-manenza della cultura latina, che resta se-gno e contrassegno di un’aristocrazia in-tellettuale, di una superiorità culturale. Ècome se il possesso (e l’esibizione) della ci-viltà latina funzionasse quale status symbol:al popolo le sacre rappresentazioni reli-giose della tradizione medievale, ai circolicortigiani il teatro di Plauto e Terenzio.Dove, paradossalmente, la modernità è ladivisa di chi ha riscoperto e assimilatol’antico.

Il luogo teaIl luogo teatraletraleIl senso di questa differenza di classe, diquesta volontà a posizionarsi in manieragerarchica emerge bene da una contrad-dizione curiosa che si realizza fra intel-lettuali e corti aristocratiche. Gli uma-nisti non ripropongono solo gli autoriteatrali classici, ma fanno conoscere e pub-blicano anche i libri sull’arte per edificarei teatri. Il De Architectura dell’ingegnere earchitetto latino Vitruvio (che descrive ilmodello ideale dell’edificio teatrale, ispi-randosi ovviamente al teatro greco) è untrattato intensamente edito a partire dalQuattrocento, sia in lingua originale siain traduzione italiana, ed è fittamentecommentato, ma, per quanto facciano,gli intellettuali italiani non riescono aconvincere i Prìncipi della necessità dicostruire edifici teatrali. Sorgono infatti

Fig. 4 CesareCesariano,sovrapposizionedegli ordini delteatro secondo ilmodellovitruviano, 1521.

Fig. 5 AndreaPalladio, internodel TeatroOlimpico diVicenza, 1580-1585.

Fig. 6 VincenzoScamozzo, internodel TeatroOlimpico diSabbioneta, 1588.

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solo dalla fine del Cinquecento i dueteatri che ancora oggi ammiriamo comefrutto della riflessione teorica del Rina-scimento in ambito architettonico: il Tea-tro Olimpico di Vicenza, progettato daAndrea Palladio poco prima della suamorte, iniziato nel 1580 e inauguratonel 1585, e il Teatro Olimpico di Sab-bioneta (vicino a Mantova), costruitonel 1588 da Vincenzo Scamozzi, lostesso che ha portato a termine l’Olim-pico di Vicenza. Insomma, gli umanistiriscoprono il valore fondante del teatro,cemento della comunità (in verità più inGrecia che a Roma), e chiedono pertantola creazione di teatri stabili cittadini, ingrado di accogliere e ricomporre la so-cietà degli uomini liberi. Ma i Prìncipi –che pure accettano e promuovono i mo-delli teatrali della classicità – rifiutano

l’idea di un teatro come legame dell’in-tera comunità e imprimono un forte ac-cento di classe alla pratica del teatro, pre-ferendo fare spettacoli all’interno dei cor-tili o dei saloni del Palazzo del Potere. IlPrìncipe respinge cioè l’edificio teatrale econtinua a conservare gelosamente laprassi del luogo teatrale, cioè di uno spaziodestinato solo occasionalmente all’esibi-zione rappresentativa, ristretta a 500-1000 invitati. Il teatro moderno nascenel cuore del Rinascimento italiano, manasce con questo marchio, di spettacoloriservato a un pubblico ristretto. Anchequando, nel corso dei secoli, tra Sei e Ot-tocento, ci saranno edifici teatrali, si trat-terà comunque sempre di edifici costruitiper accogliere 1000-2000 persone, non i15 000 spettatori di certi teatri dell’anti-chità classica.

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L’Euro’Europa e il tea e il teatro tro nel Cinquecentonel CinquecentoC’è dunque una forbice che si deter-mina e che vale però non solo all’in-terno dell’Italia, ma si estende anche alrapporto fra l’Italia e il resto dell’Eu-ropa. Mentre cioè in Italia si consuma unasorta di rottura, uno strappo drastico ri-spetto alla tradizione teatrale medievale(abbiamo già detto: nelle piazze italianeil popolo spettatore continua ad assi-stere a spettacoli religiosi, all’interno deipalazzi del Principe un pubblico elitarioe signorile si dedica alla fruizione di spet-tacoli laici, costruiti sui principi dellateatralità classica), negli altri grandi paesieuropei (Inghilterra, Spagna, ma anche

Germania) la storia teatrale va in un’al-tra direzione: prosegue – se così pos-siamo dire – la tradizione del teatro me-dievale. Naturalmente si impone co-munque una mentalità moderna, e icontenuti religiosi del teatro perdonoterreno rispetto ai nuovi contenuti laicidella spettacolarità cinque-secentesca,ma l’impianto generale non muta. Sha-kespeare tratta di conflitti di potere, dieventi della recente storia inglese, di vi-cende d’amore, ma organizza i suoi in-trecci ignorando assolutamente le unitàdi tempo e di luogo che si rifanno allaPoetica di Aristotele e ai suoi commen-tatori cinquecenteschi. Continua cioètranquillamente a utilizzare la libertàspazio-temporale che caratterizza il tea-tro sacro medievale. E la stessa mesco-lanza dei generi, cioè la contaminazionefra tragico e comico, che accompagna lospettacolo religioso medievale, si ritrovapuntualmente in Shakespeare. Nelle suetragedie (ad esempio nell’Amleto, nel-l’Otello, nel Macbeth, per non citare chetre celeberrime) non mancano scene e si-tuazioni di gusto francamente comico-buffonesco e persino allusioni sessualispesso volgari.

Fig. 7 Pittore Fiorentino,decorazione di spallieranota come «Tavolaprospettica di Urbino»,seconda metà del secolo XV.

Fig. 8 Baldassarre Peruzzi,Prospettiva teatrale,disegno a penna, post1514.

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Gli uGli umanisti e glimanisti e glispettspettacacoli clali classicissiciNaturalmente questo non significa chenon ci siano delle élites di intellettuali alcorrente delle elaborazioni classicisticheitaliane. In Spagna, a Salamanca, gli statutidel 1538 prevedono che nei collegi digrammatica ci siano recite annuali di com-medie di Plauto e Terenzio; e recite dicommedie terenziane a Cambridge sonodocumentate nel 1510-1511 e nel 1516-1517, a conferma dell’intreccio virtuosofra spettacolo classico e pedagogia umani-stica. Si tratta, però, di realtà intellettualiminoritarie. Il teatro – in Spagna e in In-ghilterra – è un fenomeno che resta salda-mente di massa, per un pubblico popolar-borghese e i drammaturghi non guardanoagli uomini di teatro della classicità, anchese spesso li conoscono. Shakespeare è ingrado di leggere il latino, ma segue i gustipiù semplici del suo pubblico e adatta,semmai, a quello le suggestioni della cul-tura classica. Piace il tragico Seneca (piut-tosto dei tragici greci), perché l’orrido e ilmacabro delle tragedie senecane piaccionomolto agli spettatori popolari dell’Inghil-terra del tempo. E, comunque, è un Senecaopportunamente adattato: le efferatezzesanguinolente sono soltanto raccontate inSeneca, mentre invece sono esibite, mo-strate, sui teatri inglesi. D’altra parte la setedi divertimento fa parte della vita di unametropoli viva e dinamica, ansiosa e tuttaprotesa nei traffici e nell’arricchimento,come è la Londra di fine Cinquecento. Al-l’inizio del Seicento la capitale può giàcontare quasi 200 000 abitanti ed è statocalcolato che un 10% (se non un 15%)della popolazione frequenta i teatri unavolta alla settimana. Siamo cioè di frontea un mercato di 20 000/30 000 persone.Non è provocatorio dire che il ruolo delteatro è, a quell’epoca, simile a quello dellatelevisione oggi. E chi scriveva per il teatroaveva giustappunto l’atteggiamento di chioggi scrive per la televisione: produzionecommerciale, che viene commissionata, cheviene elaborata in tempi accelerati (perquesto, spesso, a più mani, per fare più in

fretta), e di cui l’autore per primo si disin-teressa, una volta che ne ha tratto il gua-dagno pattuito. Shakespeare si preoccupadi stampare i suoi poemetti poetici, che ri-flettono peraltro l’influsso della culturaclassica (Venere e Adone, Lo stupro di Lucre-zia), ma abbandona i copioni teatrali alloro destino.

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Fig. 9 Rappresentazione diuna scena tratta dal Falstaffdi Shakespeare, incisionedel XVII secolo.

Fig. 10 Shakespeare, La bisbetica domata, regia di F. Enriquez,Produzione Compagnia dei Quattro, 1962-1963,scene e costumi di E. Luzzati, foto E. Bisazza.

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Fa eccezione la Francia di Corneille, Ra-cine, Molière, che subisce fortemente – an-che per ragioni di maggiore vicinanza geo-grafica – l’influsso del classicismo italiano.Non per nulla il Seicento francese, secoloaureo, corrisponde in qualche modo alCinquecento italiano, egualmente secolod’oro dell’espressività artistica.Per l’Italia e per la Francia il patrimonioclassico (e latino in particolare) resta es-senziale. Soprattutto la commedia risultaimpensabile senza l’apporto del teatrodi Plauto e Terenzio. Piace maggiormentePlauto, per la vivacità della sua lingua, peri frizzi dei suoi dialoghi, per le scoperte al-lusività sessuali dei suoi personaggi. Dilui vengono riprese le figure del servus cal-lidus, dell’adulescens sottomesso all’auto-rità del padre, del vecchio genitore avaroe restio a concedere mano libera al figlio.Questa tipologia comica trapassa sponta-neamente, sin dal primo Cinquecento,nelle commedie di Ariosto, nella Calan-dria del Bibbiena, in quelle di Machia-velli, ma prosegue per tutto il Cinque-cento e arriva al Seicento, anche in moltecommedie di Molière, e poi oltre, fino alSettecento. L’Aulularia di Plauto è ripresa

in maniera consapevole proprio dell’Avarodi Molière. La Casina è per metà tradottanella Clizia di Machiavelli. I Menaechmi(che Plauto costruisce sull’invenzione didue gemelli presi in iscambio) fondano unprototipo lungamente riecheggiato (dallacitata Calandria fino a I due gemelli vene-ziani di Goldoni).

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Fig. 11 Plauto, Aulularia, Peppino de Filippo interpreta Euclione, regia G. Pacuvio, produzione

Compagnia di Prosa Italiana, 1956, foto Taraborrelli.

Figg. 12, 13 Molière, L’avaro, regia di M. Missiroli, produzione Plexus T,

interprete di Arpagone è Ugo Tognazzi, foto E. Bono.

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ReinventReinventare are i clai classicissiciS’intende che il teatro rinascimentale nonsi limita a recuperare Plauto (e Terenzio),ma opera piuttosto una sintesi nuova eoriginale, inserendo la tradizione boccac-ciana sull’innesto latino. Il Decameron diBoccaccio presenta infatti una società piùaperta, in cui la beffa e la licenza sessualesono portate avanti in prima persona anchedalla donna e non solo dal maschio, comenella chiusa società patriarcale romana. Si-gnificativamente i Menaechmi di Plauto di-ventano la Calandria di Bibbiena, così in-titolata dal personaggio di Messer Calan-dro, vecchio beffato e cornificato, che ri-manda ovviamente al personaggio boc-cacciano di Calandrino, prototipo dellostupido. Al Bibbiena basta una trovatasemplicissima per creare un’atmosfera di-versa, più trasgressiva, più licenziosa: men-tre in Plauto i due gemelli presi in scambiosono entrambi maschi, in Bibbiena sonouno maschio e l’altro femmina (che va ingiro però vestito da uomo). Accade dun-que che la moglie di Calandro si porti aletto il gemello femmina, credendo trattarsidel gemello maschio, che è il suo amanteconsueto, e questo determina ovviamentecontraccolpi assai arditi e divertenti. Ma cisono anche altri esempi di come la culturarinascimentale pieghi diversamente glispunti originari di Plauto. Nei Menaechmisi dice che un gemello è da lunghi anni allaricerca del gemello perduto, ma tutto siesaurisce in questo accento di intenso sen-timento fraterno. In Bibbiena ritorna ilmotivo della ricerca accanita ma, trattan-dosi di coppia eterosessuale, il motivo si ca-rica di significati più vasti, rinviando almito di Androgine, di cui parla Platone nelSimposio. C’è un essere originariamente bi-sessuale, che viene mutilato, diviso, dalladivinità, per punirlo del suo tentativo didare la scalata al cielo, di assaltare la stessadivinità. Di qui la ricerca che ognuna delledue metà conduce dell’altra, dell’anima ge-mella. L’amore non ha come fine la pro-creazione, ma piuttosto la riconquista del-l’unità perduta. Di qui, ancora, una sottile

trama esoterica che si riversa nella culturarinascimentale e che – dagli Asolani delBembo al Cortegiano del Castiglione al fi-losofo Leone Ebreo – allude costante-mente alla esaltazione neoplatonica del-l’Androgine, letto come immagine numi-nosa (da numen, divina) della coincidentia op-positorum. Che è quanto ritroviamo ap-punto nella Calandria, dove i due gemellinon sono guidati da nessun fantasma in-cestuoso, nemmeno inconscio, ma solodal desiderio di ricostituire la condizioneprimigenia dell’essere unitario bisessuale.

Il teatro

Fig. 14 Frontespizio di un volume che raccogliele commedie del Bibbiena,edito nel 1806.

Figg. 18, 16 Bibbiena,Calandria, regia di G. De Lullo, produzioneCompagnia De Lullo-Falk-Valli-Albani, 1965-1966,foto di Giacomelli, per concessione del Centro Studi TST.

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Ruzante: Ruzante: tra invenzione tra invenzione e tradizie tradizioneoneLa lezione del nuovo teatro rinascimentaleè dunque questa: tradizione e innovazione,senza rotture e rovesciamenti. La dram-maturgia di Plauto e Terenzio permanecentrale, anche se, ovviamente, ci sono ca-denze nuove, accenti diversi, che integranoe modificano parzialmente il sostrato ori-ginario. La conferma di questo assunto civiene dalla produzione teatrale di AngeloBeolco detto Ruzante, che è il massimo au-tore di teatro del Cinquecento italiano, eche pure fonda la propria originalità suuna scelta di violenta contrapposizionealla cultura classicista: i suoi personaggisono contadini che parlano in dialetto pa-vano (Pava è il nome di Padova in dia-

letto); i suoi capolavori (Parlamento e Bi-lora) sono atti unici, estranei alla tradizioneclassicista dell’opera in cinque atti. Eb-bene, anche Ruzante, arrivato al terminedella sua stagione creativa, cede al fascinodell’antico. Due delle ultime sue comme-die, Piovana (1532) e Vaccaria (1533), nonsono nient’altro che parziali traduzioni indialetto rispettivamente del Rudens e del-l’Asinaria di Plauto. Nel prologo della Pio-vana è detto, con molto gusto, che la com-media «l’è fata de legname vegio», ma pro-prio per questo risulterà ben fatta, perché«el vegio è pí seguro», come accade allamoneta vecchia che è meglio della nuova,e al vino vecchio che è meglio del nuovo,«e in conclusion, pur che el vegio non sa-pia da granzo [di rancido], l’è megio te-gnirse a elo», è meglio tenersi ad esso.

Figg. 17-19 Dal Codicetto Bottacindel Museo Civico di Padova,miniature a tempera, illustrazioni delteatro di Ruzante: contadina, signoracon servetta, contadina e cacciatore.

Figg. 20-23 Illustrazioni tratte da un’edizione francese delle opereteatrali di Corneille (1870), con acqueforti di V. Foulquier dallaCinna (figg. 20-21) e dall’Orazio(figg. 22-23).

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La tragedia La tragedia e le lo St StatoAccanto alla commedia, anche la tragedianon è comprensibile senza l’apporto de-terminante del patrimonio latino. Leclassi dirigenti italiane del primo Cin-quecento sono molto laiche, edonistiche,amano il piacere e apprezzano dunquel’impianto giocoso delle commedie, men-tre risultano invece più estranee e indif-ferenti alle tragedie, che quindi sono rap-presentate raramente nelle corti princi-pesche. Ma il lavoro di intensa rielabora-zione letteraria dei modelli antichi, effet-tuato dagli intellettuali italiani, si tra-smette in eredità alla cultura francese, chemostra un diverso senso dello Stato, eche non disprezza pertanto di interro-garsi sul significato politico, che è semprealla base della riflessione tragica. Cor-neille e Racine riprendono motivi e si-tuazioni della cultura latina e della ro-manità. A differenza di quella greca, la ci-viltà latina è per forza di cose imperiale,più giuridico-organizzativa e un po’ menoartistico-creativa. Là dove c’è uno Statomoderno, forte, centralizzato (come inFrancia o nell’Impero asburgico), diventafondamentale l’utilizzo dell’impiantoideologico desunto dal mondo romano.Corneille ricorre ampiamente (in moltesue tragedie, dai titoli rivelatori: Cinna,Orazio, La morte di Pompeo, Nicomede, Ser-torio), Racine un po’ meno (Britannicus,

Bérénice, Mitridate) all’immaginario ro-mano per mettere a fuoco il conflitto fradovere e passione, fra pubblico e privato, frala volontà del personaggio che rappre-senta l’istituzione e le spinte sentimentalidel singolo individuo.

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Il tragicIl tragico borgheseo borgheseNell’area dominata dall’egemonia cultu-rale italo-francese, per tre lunghi secoli –dal Cinque a tutto il Settecento – sisvolge dunque un processo unitario, bi-lanciato sulle due grandi strutture dellatradizione, la commedia e la tragedia, checonservano le loro peculiarità originarie.La tragedia porta in scena personaggi dialto livello (sovrani nobili condottieriecc.) e il finale funebre contrassegna unoscontro conflittuale fra il protagonista e ilresto del mondo. La commedia porta inscena personaggi socialmente di livellomedio-basso e il finale lieto conclude unaconflittualità che generalmente contrap-pone padri e figli, vecchi e giovani, in-torno alla conquista di una donna, convittoria finale del giovane. Naturalmentetre secoli non passano invano e in Europasono secoli che pesano, che accompa-gnano la crescita progressiva della bor-ghesia la quale, arrivata all’ultimo, nonpuò riconoscersi nel vestito troppo stretto deipersonaggi della commedia, ma non puònemmeno riconoscersi nel vestito troppolargo dei personaggi della tragedia. In al-cuni voci della Enciclopedia (grandiosostrumento che, a metà Settecento, sta afondamento della cultura della civiltà bor-ghese) si riconosce chiaramente che non

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Fig. 24 P.A. Novelli,Gl’innamorati di C. Goldoni,

incisione dall’edizionePasquali, Venezia, 1761.

Fig. 25 C. Goldoni, Le avventure

della villeggiatura, regia di M. Castri, 1995-

1996, produzione del T.S. dell’Umbria e Teatro

Metastasio, foto di T. Le Pera.

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è possibile «mettere in scena il tragico bor-ghese o, che è la stessa cosa, soggetti noneroici». Si ammette, insomma, onesta-mente che tragedia e borghesia sono con-cetti antitetici, inconciliabili. Nell’attesaperò che nasca la nuova forma deldramma (o dramma borghese, come anchesi dice) gli autori borghesi del Settecentocontinuano a sottotitolare le loro operecome commedie, anche se spesso i toni egli accenti sono davvero più da drammaborghese che da commedia (si pensi ai ca-polavori goldoniani della Trilogia della vil-leggiatura, dei Rusteghi, de La casa nova, incui affiorano gli accenti drammatici delleproblematiche economiche di una bor-ghesia asfittica, che ha perso slancio di-namico e capacità produttiva).

Una linea spezzaUna linea spezzataVa però osservato con attenzione che ilproblema della permanenza della culturalatina, oltre il termine naturale del tardoantico, più ancora che questione di conte-nuti (tematiche, personaggi, ecc. che so-pravvivono nel Cinque-Settecento), èuna questione di metodo, di attitudine con-cettuale, che noi facciamo tuttavia faticaa comprendere, perché siamo ormai tuttifigli del Romanticismo. Il grande lascitoche la civiltà latina affida in eredità al-l’epoca moderna è infatti il concetto ditradizione, che viene però violentementesmantellato e abbattuto all’inizio del-l’Ottocento dalla rivoluzione romantica,la quale ha esaltato in modo fortissimo,persino eccessivo, il valore dell’indivi-dualità, dell’originalità. Dal Romantici-smo in poi ciò che conta è l’Io, irriduci-bile nel suo opporsi a ogni legame, aogni dipendenza. Il valore, il merito, laqualità stanno solo nell’assoluta, totale,radicale novità. Ben diversamente nellacultura classica. Per la quale il valore, ilmerito, la qualità stanno invece – tutt’alcontrario – nella capacità di collocarsi en-tro una linea di continuità, nella disponi-bilità a porsi come anello di una catenalunga. L’anello è solido, ma perché si in-nesta in una catena solidissima.

La La FedraFedra di Racinedi RacineRacine scrive con la Fedra il suo capola-voro, ma Racine non ha nessun bisognodi inventarsi il soggetto. È uno dei po-chissimi artisti in grado di leggere ancheil greco, oltre che il latino (preziose le sueannotazioni a testi di Euripide). La suaFedra è e vuole essere, prima di tutto, unasfida all’Ippolito di Euripide e alla Fedra diSeneca.

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Fig. 26 Interno del Teatrola Fenice, Venezia, progettodi Antonino Selva, 1792.

Fig 27 Manzoni, Adelchi,regia di V. Gassman,produzione del TeatroPopolare italiano, 1959-1960.

Fig. 28 Racine, Fedra, regiadi L. Ronconi, produzioneTST, 1983-1984(Annamaria Guarnieri,Paola Cannoni), fotoNorberth, per concessionedel Centro Studi TST.

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La La MirraMirra di Alfieridi AlfieriLa stessa cosa vale anche per l’opera tra-gica del nostro Vittorio Alfieri, quasi tuttaimbevuta di personaggi del teatro classico(di provenienza sia greca che romana),che scrive la sua Mirra proprio tenendopresente la Fedra di Racine, di cui arrivaa riprendere qualche battuta, con sco-perta evidenza. Dice Fedra alla proprianutrice: «Io morivo questa mattina degnadi essere pianta; / ho seguito i tuoi con-sigli, io muoio disonorata». E Mirra pa-rimenti alla propria nutrice: «Quand’io...tel... chiesi, ... / darmi... allora, ... Euricléa,dovevi il ferro... / io moriva... innocente;... empia... ora... muojo...». Sembra qua-si un plagio, ma, invece, è unicamente la spia della serena accettazione della ca-tena della tradizione. Alfieri si sente ungrande tragico perché si inserisce (e sisente inserito) nella catena dei grandi tra-gici che l’hanno preceduto. Appropriarsidi qualche verso di Racine è solo unmodo di certificare la propria apparte-nenza a quella catena. Ma la continuitànon impedisce la sfida. Il piacere narcisi-stico dello scrittore è di misurare e diconfrontarsi con dei modelli consideratieccellenti. Il contenuto della Mirra siconfigura infatti come una variante più

trasgressiva del mito di Fedra (nonl’amore semi-incestuoso di una matrignaper il figliastro, ma l’amore pienamenteincestuoso della giovane principessa Mirraper il proprio padre Ciniro, re di Cipro,attinto a un episodio delle Metamorfosi diOvidio). Tutta la produzione teatralegreco-latina e quella classicista italo-fran-cese fra Cinque e Settecento rielaboranocontinuamente vicende del patrimoniooriginario della cultura antica, ma nes-suno ha osato, in duemila anni di storiadel teatro, mettere in scena la vicenda diMirra, considerata giustamente tropposcabrosa. È come se Alfieri si proponesse– sorta di giocatore di poker – di rilanciarela posta in gioco, assumendo una situa-zione più trasgressiva (l’incesto figlia-pa-dre è più grave, ovviamente, dell’incestomatrigna-figliastro). La scommessa davincere consiste nel dimostrare che sipuò scegliere anche un argomento mo-ralmente pericoloso, riuscendo egualmentea creare un testo moralmente accettabile. Ilteatro ha la caratteristica di presupporreun pubblico in carne e ossa, anzi, unamoltitudine di persone; la poesia si ri-volge invece a un lettore isolato. Ciò cheavviene in pubblico è sempre più coinvol-gente, potenzialmente più scandaloso,di ciò che avviene nell’interiorità di un

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Il teatro

individuo. Ovidio si può permettere diraccontare di una figlia che, con uno stra-tagemma, va a letto con il padre, con re-ciproco piacere (sebbene il padre nonsappia che sia sua figlia, avvenendo gli in-contri nel buio più assoluto della notte).La stessa vicenda, portata sulle scene, su-sciterebbe reazioni di disgusto. La sfida diAlfieri risulta vincente proprio nella mi-sura in cui riesce a quadrare il cerchio,con una serie di abili accorgimenti. Ilnostro tragico rifiuta prima di tutto lasoddisfazione della pulsione incestuosaimmaginata da Ovidio, con qualche evi-dente compiacimento morboso ditroppo da parte del poeta latino. La Mirradi Alfieri muore senza essere riuscita astrappare nemmeno un bacio al propriopadre. Ma soprattutto questa Mirra sipresenta come una paradossale figura divergine dell’incesto (come è stata definita daun brillante critico teatrale francese del-l’Ottocento, Jules Janin), perché per cin-que atti il personaggio non confessa maila sua passione tremenda. Per cinque attiMirra parla e parla (da sola, con la nu-trice, con il fidanzato, con i genitori),parla e piange, ma nessuno (e tanto menolo spettatore) riesce a capire il motivodella sua sofferenza, tanto più inesplica-bile perché tutto avviene alla vigilia dellenozze con un giovane principe scelto dalei (e non già dai genitori). Solo all’ultimascena dell’ultimo atto Mirra si apre a unamezza confessione con il padre, ma, su-bito dopo, con prontezza fulminea,strappa il pugnale al padre e si suicida,punendosi dunque del proprio selvaggioamore.

Un giocUn gioco di rimandio di rimandiCi siamo soffermati sul caso Alfieri-Ra-cine, ma gli esempi che testimoniano diquesta pratica sono infiniti. Nel prologodella Mandragola di Machiavelli vienepresentato al pubblico “l’apparato”, cioèil fondo scenografico che rappresenta lacittà di Firenze, dove è ambientata lacommedia: «Vedete l’apparato, / qualora vi si dimostra: / questa è Firenze vo-

stra; / un’altra volta sarà Roma o Pisa, /cosa da smascellarsi per le risa». Vuoldire che la stessa scenografia – rappre-sentante uno spicchio di città astratta,non realistica – potrà servire in altre oc-casioni come fondale di commedie am-bientate a Roma o a Pisa. Non è altro cheuna citazione del prologo dei Meaechmiplautini: «Questa città è Epidamno, al-meno finché si rappresenterà questacommedia; / quando se ne dovrà rap-presentare un’altra, diventerà un’altracittà».

Figg. 29-30 Alfieri, Mirra,incisioni da un testo del1870 illustrato da G. Gonin.

Fig. 31 Costruzione di modelli scenici tratti da N. Sabbatini, Pratiquepour fabriquer scenes et machines de théâtre, Parigi, 1942.

Fig. 32 Machiavelli,Mandragola, regia di M. Missiroli, ProduzioneTST, 1983-1984, fotoBuscarini, per concessione del Centro Studi TST.

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Roma oltre Roma

Bibliografia essenzialeM. Baratto, La commedia del Cinquecento (aspetti e problemi), Vicenza, Neri Pozza, 1977.R. Alonge, La riscoperta rinascimentale del teatro, in AA. VV., Storia del teatro moderno e

contemporaneo, diretta da R. Alonge e G. Davico Bonino, Torino, Einaudi, 2000, vol. I, pp. 5-118.

R. Alonge-R. Tessari, Manuale di storia del teatro, Torino, UTET Libreria, 2001.R. Alonge, Mirra l’incestuosa. Ovidio Alfieri Ristori Ronconi, Roma, Carocci, 2005.R. Alonge, Goldoni. Dalla commedia dell’arte al dramma borghese, Milano, Garzanti, 2004.G. Paduano, Shakespeare e l’alienazione dell’io. Quattro letture, Roma, Editori Riuniti, 2007.

Un orizzonte Un orizzonte perdutoperdutoNaturalmente può apprezzare questogioco di rimandi, di citazioni indirette,solo uno spettatore (e un lettore) raffinato,che conosca bene l’intero orizzonte cultu-rale (il ventaglio Ovidio/Racine/Alfieri oquello Plauto/Machiavelli, nei due esempiavanzati) e che sappia cogliere il senso delrinvio, dell’allusione. Ma questo è il signi-ficato profondo della permanenza della cul-tura latina, che è cioè, da un lato, soddi-sfatta collocazione all’interno di una tra-dizione alta, sentita come elitaria e, dal-l’altro lato, compiaciuto gusto a mostrarela propria originalità in un confronto con-tinuo e serrato con la tradizione stessa. Pertutto questo, in verità, non sembra essercipossibilità di sopravvivenza dentro la cor-nice del mondo contemporaneo del No-vecento e tanto più in quello attuale delDuemila. Certo, non mancano talune te-stimonianze in controtendenza (ad esem-pio la diseguale ma suggestiva Fedra cheD’Annunzio compone nel 1909, in fic-

cante emulazione con la nobile tradizioneEuripide/Seneca/Racine), ma sono feno-meni residuali, assolutamente minoritari.Peggio ancora quando il grande composi-tore russo Stravinskij crea nel 1927 l’opera-oratorio Œdipus rex e chiede a Cocteau, inquella occasione, di stendere il libretto inversi latini. È la pura testimonianza di unmodello linguistico-culturale percepito (edesibito) proprio come cristallizzato, freddo,morto, perduto per sempre. D’altra parte èindubbio che siamo ormai dentro una cul-tura di massa (e non più una cultura di élite),in cui prevale la semplificazione, la bana-lità, la divulgazione; in cui tutto è gridato,esasperato dai mezzi di comunicazione,dai media, dai giornali, dalle televisioni (eoggi soprattutto da Internet). Si è perso ir-rimediabilmente il senso del testo, dello scavonel testo, del gioco a variare il modello te-stuale. Si è perso addirittura il senso della pro-prietà intellettuale del testo. Internet è unasorta di grande supermercato di prodotticulturali e artistici, in cui chiunque entra esi appropria di ciò che vuole, grazie alla ne-fasta trinità del copia/taglia/incolla.

Fig. 33 Molière,Misantropo,

regia di G. Lavia,1999-2000,produzione

del TST, foto Le Pera, per

concessione delCentro Studi TST.

Le immagini tratte

da spettacoliteatrali

provengonodall’archivio

del CentroStudi del Teatro

Stabile diTorino. L’Editore

ringrazia per la sua

collaborazione la dottoressa Anna Peyron.

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