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a cura di Rossella Cancila e Aurelio Musi

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Feudalesimi nel Mediterraneo moderno

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Collana diretta da Rossella Cancila

21. Orazio Cancila, Nascita di una città. Castelbuono nel secolo XVI, 2013, pp. 90222. Claudio Maddalena, I bastoni del re. I marescialli di Francia durante la

successione spagnola, 2013, pp. 32323. Storia e attualità della Corte dei conti Atti del Convegno di studi Palermo, 29

novembre 2012, 2013, pp. 20024. Rossella Cancila, Autorità sovrana e potere feudale nella Sicilia moderna, 2013,

pp. 306 25. Fabio D’angelo, Caltanissetta: baroni e vassalli in uno stato feudale (secc. XVI-

XVII), 2013, pp. 31826. Jean-André Cancellieri, Vannina Marchi van Cauwelaert (éds), Villes portuaires

de Méditerranée occidentale au Moyen Âge Îles et continents, XIIe-XVe siècles, 2015, pp. 306

27. Rossella Cancila, Aurelio Musi (a cura di), Feudalesimi nel Mediterraneo moderno, 2015, pp. VIII, 608

Collana diretta da Antonino Giuffrida

1. Amelia Crisantino, Vita esemplare di Antonino Rappa comandante dei Militi a cavallo, 2001

2. Aurelio Musi, La storicità del vivente. Lineamenti di storia e metodologia della ricerca storica, 2012

3. Rossella Cancila, Aspetti del dibattito sulle giurisdizioni feudali in Sicilia (1784-1789), 2013

4. Nicola Cusumano, Joseph Sterzinger Aufklärer teatino tra Innsbruck e Palermo (1746-1821), 2013

5. Domenico Ligresti, Le armi dei Siciliani Cavalleria, guerra e moneta nella Sicilia spagnola (secoli XV-XVII), 2013

6. Alessandro Buono, Gianclaudio Civale (a cura di), Battaglie. L’evento, l’individuo, la memoria, 2014

Collana diretta da Orazio Cancila

1. Antonino Marrone, Repertorio della feudalità siciliana (1282-1390), 2006, pp. 5602. Antonino Giuffrida, La Sicilia e l’Ordine di Malta (1529-1550). La centralità della

periferia mediterranea, 2006, pp. 2443. Domenico Ligresti, Sicilia aperta (secoli XV-XVII). Mobilità di uomini e idee nella

Sicilia spagnola, 2006, pp. 4094. Rossella Cancila (a cura di), Mediterraneo in armi (secc. XV-XVIII), 2007, pp. 7145. Matteo Di Figlia, Alfredo Cucco. Storia di un federale, 2007, pp. 2616. Geltrude Macrì, I conti della città. Le carte dei razionali dell’università di Palermo

(secoli XVI-XIX), 2007, pp. 2427. Salvatore Fodale, I Quaterni del Sigillo della Cancelleria del Regno di Sicilia

(1394-1396), 2008, pp. 1638. Fabrizio D’Avenia, Nobiltà allo specchio. Ordine di Malta e mobilità sociale nella

Sicilia moderna, 2009, pp. 4069. Daniele Palermo, Sicilia 1647. Voci, esempi, modelli di rivolta, 2009, pp. 36010. Valentina Favarò, La modernizzazione militare nella Sicilia di Filippo II, 2009, pp. 28811. Henri Bresc, Una stagione in Sicilia, a cura di M. Pacifico, 2010, pp. 79212. Orazio Cancila, Castelbuono medievale e i Ventimiglia, 2010, pp. 28013. Vita Russo, Il fenomeno confraternale a Palermo (secc. XIV-XV), 2010, pp. 33814. Amelia Crisantino, Introduzione agli “Studii su la storia di Sicilia dalla metà del

XVIII secolo al 1820” di Michele Amari, 2010, pp. 36015. Michele Amari, Studii su la storia di Sicilia dalla metà del XVIII secolo al 1820,

2010, pp. 80016. Studi storici dedicati a Orazio Cancila, a cura di A. Giuffrida, F. D’Avenia, D.

Palermo, 2011, pp. XVIII, 162017. Scritti per Laura Sciascia, a cura di M. Pacifico, M.A. Russo, D. Santoro, P.

Sardina, 2011, pp. 91218. Antonino Giuffrida, Le reti del credito nella Sicilia moderna, 2011, pp. 28819. Aurelio Musi, Maria Anna Noto (a cura di), Feudalità laica e feudalità

ecclesiastica nell’Italia meridionale, 2011, pp. 44820. Mario Monaldi, Il tempo avaro ogni cosa fracassa, a cura di R. Staccini, 2012,

pp. 206

I testi sono consultabili (e scaricabili in edizione integrale) nella sezione Quaderni del nostro sito (www.mediterranearicerchestoriche.it)

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a cura di Rossella Cancila e Aurelio Musi

Feudalesimi nel Mediterraneo moderno

TOMO I

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27Quaderni – Mediterranea - ricerche storiche

ISSN 1828-1818

Collana diretta da Rossella Cancila

Comitato scientifico: Walter Barberis, Orazio Cancila, Pietro Corrao, Aurelio Musi, Walter Panciera, Alessandro Pastore, Luis Ribot García, Angelantonio Spagnoletti, Mario Tosti

Feudalesimi nel Mediterraneo moderno /a cura di Rossella Cancila e Aurelio Musi, Palermo : Associazione Mediterranea, 2015. (Quaderni - Mediterranea. Ricerche storiche; 27) ISBN 978-88-99487-00-3 (a stampa)ISBN 978-88-99487-02-7 (online)

Feudalesimo - Mediterraneo - Età moderna.Feudalism - Mediterranean Area - Early Modern Age.

2015 © Associazione no profit “Mediterranea” - Palermo online sul sito www.mediterranearicerchestoriche.it

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INTRODUZIONE

Si deve al medievista Pierre Toubert l’elaborazione della cate-goria di feudalesimo mediterraneo, per definire un sistema di pro-duzione dai tratti comuni diffusosi nei secoli centrali del Medioevo in uno spazio assai ampio, che comprendeva il mondo iberico, la Francia meridionale, l’Italia, gli stati latini d’Oriente. Alla tesi di Toubert furono mossi – com’è noto – non pochi rilievi critici: la di-latazione degli spazi e dei tempi, la sostanziale omogeneità tra tutti i paesi del bacino mediterraneo, la rigidità del modello, l’inerzia o la semi-immobilità in esso rappresentate più che il cambiamento, la visione spesso frammentata in tante microanalisi.

Non per questo la categoria di feudalesimo mediterraneo di-venta inutilizzabile, seppure riconsiderata da profili storiografici diversi, come ha già evidenziato recentemente Aurelio Musi. Tra medioevo ed età moderna in generale nell’intera Spagna, in Fran-cia e Italia si ebbe un radicamento feudale a vari livelli di profon-dità con tratti comuni e caratteristiche differenti. Ne emerge un Mediterraneo complesso: la prospettiva dei curatori intende supe-rare l’idea di una sostanziale omogeneità storica tra tutti i paesi del bacino del Mediterraneo, che invece si presenta come un’area geo-politica complessa e differenziata al suo interno, con caratteri comuni e varianti.

Ben lungi dal proporre modelli o letture definitive, intendiamo con la presente rassegna offrire agli studiosi la possibilità di de-clinare al plurale il feudalesimo mediterraneo, al cui interno pos-sono articolarsi diversi modelli regionali: dal señorío spagnolo alla signoria rurale francese; ma anche la straordinaria varietà di si-tuazioni che si riscontrano nella penisola italiana dal feudalesimo meridionale e insulare al feudalesimo imperiale sino ai feudi di concessione papale; o ancora il timar ottomano e il feudo libanese, che è un’ isola atipica di feudalesimo in seno all’impero ottomano, per citare alcuni casi. Ma in cui al tempo stesso è possibile indivi-duare non poche analogie (ad esempio nel Mezzogiorno peninsu-lare e insulare italiano e in alcune regioni della Spagna). Si è pre-

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VI

ferito perciò il ricorso all’espressione Feudalesimi nel Mediterraneo proprio per rispettare la pluralità dei contesti storici – sulla scala europea ma anche extraeuropea – che insistono sul Mediterraneo. In questo senso particolarmente interessante appare la finestra aperta sulle realtà del Mediterraneo orientale, che pur gravitando attorno all’impero ottomano, rivelano una ricchezza di varianti e specificità regionali.

Occorre specificare che il termine ‘feudalesimo’ è stato dagli autori del presente volume utilizzato per indicare tanto il sistema di produzione quanto le istituzioni feudali, unificando in tal modo i livelli separati da Toubert. Ma è sull’elemento giurisdizionale che si è concentrata in particolare la nostra attenzione. Innanzi tutto sul binomio possesso terriero - giurisdizione, che risulta un tratto comune a tutte le realtà considerate. La giurisdizione si configura veramente come l’elemento cardine attorno al quale ruota la diffe-renziazione tra la condizione di proprietario terriero privato e quel-la di feudatario, costituendo un valore caratterizzante del feudo. Inoltre, il feudalesimo nel Mediterraneo contrassegnò in modo forte l’ordinamento sociale, condizionando in modo rilevante i diversi percorsi verso la modernità e influenzando i processi – anche quelli contemporanei – di crescita sociale, economica e culturale delle diverse realtà che insistono sul Mediterraneo.

Si è ritenuto di organizzare i diversi saggi su due grandi filoni: il primo relativo ai caratteri generali del feudo e del feudalesimo su scala regionale durante l’età moderna con riguardo anche alle questioni che si accompagnarono alla sua abolizione formale; il se-condo incentrato più direttamente sul governo del feudo e sul con-flitto giurisdizionale. I percorsi della ricerca consentono di porre in luce alcuni caratteri comuni e/o distintivi dei feudalesimi nell’area mediterranea in età moderna:

– la discussione sul feudo come concessione e sulla natura del possesso feudale;

– l’essenza del feudo come uno dei più incisivi e rilevanti centri di potere e di giurisdizione dell’antico regime;

– l’importanza dell’esercizio della giurisdizione feudale e le complesse e articolate relazioni, collusive o conflittuali, con la giu-risdizione regia e con quella ecclesiastica;

– la ricca cultura giuridica sottesa ai feudalesimi mediterranei;– la radice feudale della nobiltà, che connota largamente sep-

pur in modo non lineare l’identità dei ceti nobiliari;

Introduzione

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Introduzione VII

– la presenza di precise strategie matrimoniali e relazionali delle famiglie feudali, volte a rafforzare la loro posizione sociale, economica e politica attraverso l’uso del patronage; e di azioni di mantenimento e consolidamento del patrimonio legate al diffuso utilizzo del maggiorascato e del fedecommesso;

– la potenzialità del feudo come strumento di integrazione di-nastica e concreto mezzo per plasmare élite aristocratiche interna-zionali;

– la persistenza della feudalità come pratica sociale del potere anche dopo la sua abolizione formale;

– la presenza di una feudalità ecclesiastica, spesso interessan-te indice dei rapporti tra stati, chiese e ceti feudali, e il ruolo del patronato ecclesiastico interno agli stati feudali (fondazioni di chie-se e conventi, nomine ai benefici, culto e devozioni).

Il tema affrontato si configura insomma come uno straordina-rio snodo della nostra modernità perché è inserito pienamente al suo interno: nei paesi dell’area mediterranea il feudalesimo mo-strò una forte capacità di adattamento alle situazioni locali che lo resero nella lunga durata più resistente e in grado di entrare in simbiosi con i processi della modernità. È auspicabile che l’atten-zione al feudo non solo dal punto di visto economico ma anche da quello istituzionale, giurisdizionale, sociale, culturale contribuisca ad alimentare ulteriormente una concezione del feudo come entità legata, ora in modo collusivo, ora in modo conflittuale, all’articola-to spettro di poteri regi, civili, ecclesiastici che caratterizzavano le diverse realtà politiche e sociali tra Cinque e Settecento. Durante l’età moderna nell’area mediterranea il feudale subisce una pro-fonda trasformazione, che non ne comporta la fine, ma al contrario un arricchimento delle sue tipologie. La possibilità di analizzarle, e nel caso confrontarle, apre campi nuovi di indagine e prospettive in merito alla nostra conoscenza e comprensione dei processi anche contemporanei di crescita sociale, economica e culturale di una parte rilevante del continente europeo e dell’area mediterranea.

Il presente volume prende le mosse dal PRIN 2010-11, non fi-nanziato, che ne portava lo stesso titolo. I coordinatori dei progetti locali e molti dei partecipanti hanno ritenuto opportuno – pur sen-za alcun sostegno finanziario e con scarsi mezzi – procedere ugual-mente nelle ricerche e nella loro pubblicazione. Altri autori si sono intanto aggiunti. A tutti va un sentito ringraziamento. Si tratta del resto di un tema che rappresenta ormai un filone storiografico

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IntroduzioneVIII

maturo e consolidato, ma che continua ad attirare l’attenzione di molti più giovani studiosi: la ricerca storica infatti non si è ferma-ta agli schemi interpretativi tradizionali, ma ha più recentemente rivisitato secondo prospettive nuove temi e problemi, provando a guardare oltre. Gli studi sul feudo, sul feudalesimo, sulla feudalità non sono giunti insomma a un punto morto, ma rivelano forza e vitalità, come d’altra parte testimonia il ricco apparato di citazioni bibliografiche a corredo di ciascun testo.

Va indubbiamente riconosciuto ad Aurelio Musi il merito di avere risollevato dalla stanchezza il filone, riproponendolo all’at-tenzione storiografica in chiave europea nel suo saggio su Il feu-dalesimo nell’Europa moderna, il Mulino, 2007; ma anche il lavoro svolto in seno al PRIN 2007 su Feudalità laica e feudalità eccle-siastica nell’Italia meridionale ha offerto spunti e sollecitazioni per nuove ricerche. Ad Aurelio Musi si deve inoltre più di recente la lettura in prospettiva mediterranea del feudalesimo moderno, pro-posta in un saggio pubblicato tra le pagine di «Mediterranea-ricer-che storiche», n. 24, 2012, e intitolato Feudalesimo mediterraneo e Europa moderna: un problema di storia sociale del potere. Di re-cente pubblicazione è anche il volume di «Ricerche Storiche», nn. 2-3, 2014, dedicato ai Feudalesimi nella Toscana moderna a cura di Stefano Calonaci e Aurora Savelli.

Gli studi e le pubblicazioni sul tema si sono dunque negli ultimi anni moltiplicati, segno di un interesse ancora vivo: questa raccol-ta rappresenta un momento di ulteriore riflessione tra tradizione e innovazione, in una prospettiva, quella mediterranea, che offre al lettore – senza alcuna pretesa di esaustività – elementi di studio e di comparazione per considerare il fenomeno feudale in età moderna nella sua pluralità di forme e manifestazioni. L’invito è quello di ar-ricchire il quadro tracciato, allargando la mappatura ad altre realtà geopolitiche e proponendo nuovi elementi di discussione.

Rossella Cancila

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FEUDALESIMI NEL MEDITERRANEO MODERNO

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Tomo primo

QUADRI REGIONALI

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AbstrAct: Тhis paper deals with the philological evidence of the breakdown of feudalism in the Western Balkans; an accurate picture of the stratification of the Ottoman system present in the Balkans and of the Habsburg system has been preserved for us both by the Serbo-Croatian oral tradition and numerous artistic and historical texts. Thus these texts provide an accurate picture of the feudal system in Serbia where the Turks did not change the timar-sipahi system that they had found in any way, or in northern Croatia, where the feudal system was not formaly abolished until 1848. Every feud had its own laws, known as urbars, which set out the rights and duties of the feudal lords and kmets (serfs). The development of feudalism actually was not a homogeneus process in the Croatian countries, but grew out of a variety of different local circumstances. In comparison with Western Europe, the Western Balkans certainly faced problems that were the consequences of the fragmentation of the Southern Slavic countries and their servitude to different kingdoms. In the period under examination the differences with Western European models include a tendency towards the preservation of feudalism and the nobility, and hence the presence of “incomplete” societies in the Balkans.

Keywords: feudalism, Western Balkans, philological testimonies.

«You, tulip, are wonderful and beautiful, / But you have no scent, even for a remedy». So the oral poet and the singers had been singing for centuries past in the Balkans and so they went on singing during the Tulip Era in the Ottoman Empire, in the peaceful years from 1718 to 1730 that began with the Treaty of Passarowitz (July 21, 1718). It was during this period, when the Ottoman Empire was under the control of the grand vizer Damat Ibrahim Pasha Nevsehir (1666-1730), that an intellectual Renais-sance inspired by the foreign European trends took hold in the Balkans and culture, art and architecture flourished1. The scent-less tulip flowered, decorating Turkish homes and gardens spread-ing the climate of cultural prosperity. In Rumelia, however, things

1 D. Quataert, The Ottoman Empire 1700-1922, Cambridge University Press, Cambridge, 2005, pp. 43-44; D. Sajdi (ed.), Ottoman Tulips, Ottoman Coffee: Leisure and Lifestyle in the Eighteenth Century, Tauris, London, New York, 2014.

Persida Lazarević Di Giacomo

TULIPS HAVE NO SCENT: PHILOLOGICAL TESTIMONIES TO

THE BREAKDOWN OF FEUDALISM IN THE WESTERN BALKANS

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Persida Lazarević Di Giacomo6

stood somewhat differently and it is not therefore surprising that the Serbo-Croatian oral tradition, – which reflects and records the events of past centuries and thus sets a chronology of events and recounts the history of the Southern Slavs –, also noted that people used to pick tulips on St George Day, together with other flowers, and probably tulips played a significant role in romantic court-ship2, but the fact is that the people in this Ottoman province little appreciated those bulbous plants3. Perhaps not simply because of their lack of any scent, but also because of the fact that tulips symbolized the Turkish government, and for the Illyrians who had fallen under the Ottoman rule they marked the gradual entry into the “new era”. This ‘new era’, often referred to as the Tulip Period, was the short span of time between 1718 and 1739 when, after the Treaty of Passarowitz, Serbia became a province of the Habsburg Empire and the Orthodox Illyrians, i.e. ‘Servians’ were able to par-take in the reawakening of cultural life. The official Austrian doc-uments of that time called this territory the Kingdom of Serbia and the Austrian emperor took for himself the title of King of Ser-bia. The administrator of the region was given the title of governor and the administrative area was called Militärkommandatur des Königreichs Servien. The country was then divided into 15 counties administered by the 11 commissioners; the counties were divid-ed into districts, and the districts into villages. Each district was governed by a provizor with the help of a župan, while the villages were governed by knežs. Duties were payable to chamber, since in Serbia the only feudatory was the State. Belgrade had a separate destiny, as it had German and Serbian municipality.

With the new war and the so called Belgrade Peace Treaty (1739), the Ottoman Empire managed to restore a part of the ter-ritory that was previously lost, including all the territory south of the Danube and Sava, as well as Little Wallachia. Local Serbs were affected again by the war, persecution and reprisals. The border

2 V.S. Karadžić, Srpske narodne pjesme, Nolit, Beograd, 1972, I, 315: «Sve drago s dragim zaspalo, / a moja draga nasamo, metnula kamen pod glavu. Zade joj lale za glavu, / metnu joj prsten na ruku, / ljubnu je jednom i drugom. / Utom se draga probudi, pak sama sebe govori: / “Ah, mili bože i dragi! / Tko l’ ovo mene probudi? / Otkud mi lale za glavom?».

3 P. Sofrić Niševljanin, Glavnije bilje u narodnom verovanju i pevanju kod nas Srba po Angelu de Gubernatisu, BIGZ, Beograd, 1990, p. 145; V. Čajkanović, Rečnik srpskih narodnih verovanja o biljkama, Srpska književna zadruga, Beogradski iz-davačko-grafički zavod, Prosveta, Partenon M.A.M., Beograd, 1994, pp. 134-135.

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between the Ottoman and Habsburg empires was restored in Bel-grade, at the confluence of the Sava and Danube. For the Serbs, being back in the Ottoman Empire meant returning to the same Ottoman feudal system4, although the Serbs during the last hun-dred years before the revolt of 1804 “developed rapidly and educa-tional establishment of considerable size and built a cultural life around it”5: the economic and military foundation of the Ottoman empire was based on the timar-sipahi feudal system and the feu-dal social organization was restored in the areas that fell under the rule of the Sultan. The subjects of the Ottoman Empire were divided into asker and raja (people); asker consisted of the Sul-tan’s soldiers, government officials, kadi, muderrises, and some religious officials. The Ottoman state had a strong legal system, to which even the Sultan had to subject himself. Any subject who deemed that a right of his had been violated could appeal directly to the State Council Divan. The head of state was the Sultan, who had unlimited power, and in his name all political, military and administrative affairs were administered by the Grand Vizier and his assistants. The most important political decisions and policies were made by the Divan. The Sultan, the supreme ruler of the state, enjoyed the unlimited right to property. All the lands were considered to be the Sultan’s property and he could allow land to be used by military and civilian officials. This system was based on the property interest called timar, a land asset, granted mainly to soldiers instead of wages, but the assigned timar did not repre-sent the permanent ownership. They collected the revenues in the amount specified for the particular property. The largest number of timars were granted to the horse soldiers, who were called sipa-his, and for this reason the Ottoman feudal system was named the timar-sipahi system. The Ottoman army was composed of two main parts namely a standing army and provincial army. The core of the central troops was made up of janissaries (infantry), while the core

4 See B. Đurđev, O uticaju turske vladavine na razvitak naših naroda, «Go-dišnjak Istoriskog društva Bosne i Hercegovine», 2 (1950), pp. 19-82; B. Đurđev, Prilog pitanju razvitka i karaktera tursko-osmanskog feudalizma timarsko-spahi-jskog uređenja, «Godišnjak Istoriskog društva Bosne i Hercegovine», 1 (1949), pp. 101-167.

5 P.F. Sugar, Southeastern Europe under Ottoman Rule, 1354-1804, University of Washington Press, Washington, 1996, p. 259.

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Persida Lazarević Di Giacomo8

of the provincial army consisted of sipahis. There were also akin-jias (light cavalry assault), derbenjias (guardians of the gorges), mustahfiz (security guards) and other military ranks6.

An accurate picture of the stratification of the Ottoman sys-tem present in the Balkans has been preserved for us by the Ser-bo-Croatian oral tradition, in, for example, the epic poem Banović Strahinja7 in which, the dramatic conflict between small Serbian nobles and powerful Turkish state rulers is described:

No u cara sto hiljada vojskeNekakvoga careva spahije,Što imaju po zemlji timareI što jedu ljeba carevogaI što jašu konje od megdana,Što ne nose po mlogo oruža,Do po jednu o pojasu sablju;U Turčina, u Turskoga cara,Kažu, sine, drugu vojsku silnuOgnjevite janjičare Turke,Što Jedrene drže kuću bilu,Janjičara kažu sto hiljada;Kažu, sine, i govore ljudiU Turčina treću vojsku silnuNekakoga Tuku i Mandžuku,A što huče, a što grdno tuče.U Turčina vojske svakojake,U Turčina jednu kažu silu,Samovoljna Turčin-Vlah-Aliju,Te ne sluša cara čestitoga,Za vezire nikad i ne misli,Za carevu svu ostalu vojskuA koliko mrave po zemljici;Takvu silu u Turčina kažu8.

6 V.J. Parry, The Successors of Sulaimān, 1566-1617, in M.A. Cook (ed.), A His-tory of the Ottoman Empire to 1730, Cambridge University Press, Cambridge, 1976, pp. 103-132; Ch. Wickham, The Uniqueness of the East, in T.J. Byres, H. Mukhia (eds.), Feudalism and Non-European Societies, Frank Cass and Company Limited, London, 1985, p. 180.

7 See R. Pešić, N. Milošević-Đorđević, Narodna književnost, Trebnik, Beograd, 1996, p. 24.

8 V.S. Karadžić, Srpske narodne pjesme, Nolit, Beograd, 1972, II, 43.

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After the Battle of Kosovo, a gradual expansion of the Otto-mans began which went on during the 15th and 16th centuries and which witnessed the formation of administrative units consisting in a number beylerbeyliks (greater administrative-territorial units). The Ottoman Empire was divided into provinces (regions), further divided into the sanjaks, governed by sanjakbey. Lower adminis-trative units were called kadiluks. They were judicial districts. The lowest administrative-territorial unit was nahi. Beginning in 1590 the term eyalet replaced the term beylerbeylik. The Ottoman terri-tories inhabited by the Serbs were divided into Vučitrn or Priština, Prizren, Kruševac, Smederevo and Zvornik sanjaks, and were an-nexed to the Rumelia beylerbeylik. Firstly the territories of Vučitrn or Priština sanjak were formed out of the territories that used to belong to Vuk Branković (who is described in the Serbo-Croation oral tradition as the betrayer par excellence). From the territories conquered in 1458-1459 the Turks formed Smederevo sanjak9, but its boundaries changed over the years: until 1483, some cities in Bosnia, such as Srebrenica and Zvornik, were part of Smederevo sanjak, and by the 16th century Niš also became part of it. In the 15th century, it was composed of the kadiluks Smederevo, Braniče-vo, Brvenik and Srebrenica; the centre was Smederevo, while Bel-grade later became its center from 1521 onwards. Some territories of southern Hungary also became part of the Smederevo sanjak for certain periods: Slovenia was part of it until 1517 and Srem until the creation of Budim beylerbeylik in 1541. The Sanjak of Smederevo was then annexed to the Buda eyelet in 1541 and re-mained within it until the fall of Buda in 1686. The eastern parts of present-day Serbia belonged to the Sofia and Vidin sanjak, while the southern part belonged to Ćustendil. The area of Novi Pazar was part of the Bosnian eyalet, while Šabac, Mačva, Jadar and Rađevina were part of Zvornik sanjak. After 1699, the Smederevo Sanjak was again included in Rumelia paşalik, connected with the

9 E. Miljković-Bojanić, Smederevski sandžak 1476-1560. Zemlja. Naselja, Sta-novništvo, Istorijski institut, Beograd 2004. D. Bojanić, Turski zakoni i zakonski propisi iz XV i XVI veka za smederevsku, kruševačku i vidinsku oblast, Istorijski institut, Beograd, 1974; see R. Samardžić, Rajko L. Veselinović, T. Popović, Isto-rija srpskog naroda, III-1. Srbi pod tuđinskom vlašću 1537-1699, Srpska književna zadruga, Beograd, 2000, pp. 65-81; R. Samardžić, J. Milićević, R. Veselinović, S. Gavrilović, A. Forišković, N. Rakočević, Istorija srpskog naroda, IV-1. Srbi u XVIII veku, Srpska književna zadruga, Beograd, 2000.

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southeastern parts of Srem, or with what remained of the former Srem sanjak. At the end of 18th century Smederevo sanjak was ac-tually divided into 12 districts, which continued to exist until the First Serbian Uprising (1805).

In Belgrade, after the restoration of the Ottoman rule, between 1801-1804 the territory was governed by janissary outlaws, the so-called dahijas, and in the territory of the Sanjak of Smederevo the First and the Second (1815) Serbian Uprising erupted. The First Serbian Uprising is a direct consequence of the events that preceded it. The Sultan could not remain completely faithful to his plan against the janissaries since there was a war with France, he needed the army on that front, so he had to leave the government to the janissaries. In 1800 he finally did away with the janissaries even in Smederevo pašaluk. Four janissary chiefs (Aganlija, Kučuk alija, Mula Jusuf and Mehmed-aga Fočić), or dahijas10 took over the paşalik dividing it among themselves into four parts, and abol-ishing the privileges that Sultan Selim III had granted to the Serbs. Under the regimes of these dahijas tyranny and violence reigned and both the Serbs and the sipahis were provoked into action. The sipahis raised the protest against the janissaries in Constantino-ple, and tried to destroy their power with the bloody rebellion of 1802. After this unsuccessful revolt Mustafa Pasha’s friends tried to prepare the Serbs for an uprising against the dahijas. These events are described in Filip Višnjić’s (1767-1834) work Početak bune protiv dahija (The Beginning of the Revolt against the Dahi-jas)11, and this epic poem by the popular guslar is also first-rate historical document:

Bože mili! Čuda velikoga!Kad se ćaše po zemlji Srbiji,Po Srbiji zemlji da prevrneI da druga postane sudija,Tu knezovi nisu radi kavzi,;Nit’ su radi Turci izjelice,Al’ je rada sirotinja raja,Koja globa davati ne može,Ni trpiti Turskoga zuluma12.

10 V. Ćorović, Istorija srpskog naroda, III, Glas srpski, Ars Libri, Banja Luka, Beograd, 1997, pp. 17-46.

11 See R. Pešić, N. Milošević-Đorđević, Narodna književnost cit., pp. 206-207.12 V.S. Karadžić, Srpske narodne pjesme, Nolit, Beograd, 1972, II, 24; see W.A.

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To forestall their loss of power the dahijas executed all of the Serbian nobility throughout Serbia, an event known as “Seča kne-zova” (The Slaughter of the Knežs)13, which made the rebellion in-evitable. The historical plot present in the poem gives the idea of the social panorama where dahijas, concerned about the rumours of revolt in Smederevo paşalik, gather in Belgrade to decide what to do. The “hundred year old man Fočo”, symbol of wisdom and knowledge, advises the dahijas to use caution, moderation, reduc-tion of violence and an improvement in relations with the Serbian noblemen and priests, but above all he advises tax (harač) cuts:

Nego ovo mene poslušajte;„Da vam carstvo dugovječno bude:„Vi nemojte raji gorki biti,„Veće raji vrlo dobri bud’te;„Nek vam je harač petnaest dinari,„Nek je harač i trideset dinari;„Ne iznos’te globa ni poreza,„Ne iznos’te na raju bijeda14.

And yet we know that the position of the Serbian peasants under the Turks was incomparably better than under the medie-val Nemanjićs, and that the Turkish harač was significantly lower than the vlastela’s imposts, and also that kuluk (forced labor) con-sisted only of two days a year under the Ottomans, compared to more than a month per year under Nemanjićs. We also know that

Morrison, The Revolt of the Serbs against the Turks 1804-1813. Translations from the Serbian National Ballads of the Period, Cambridge University Press, Cambridge, 2011, p. 34: «God in Heaven! The stupendous wonder! / When ‘twas time through-out the land of Serbia / That a mighty change should be accomplished / And new ways of ruling be established, / Then the knezes welcomed not the quarrel, / Neither were the Turkish tyrants joyful; / Only then rejoiced the orphan rayah, / Which could pay no longer fines and taxes, / Neither suffer more the Turkish tyrants».

13 See V.S. Karadžić, Prva godina srpskog vojevanja na daije, «Danica» (1828).14 Id., Srpske narodne pjesme cit., II, 24; see W.A. Morrison, The Revolt of the

Serbs against the Turks 1804-1813 cit., pp. 40, 42: «Listen to my words with great attention: / That the Empire long may be your province, / Never be ye bitter to the rayah, / Be ye rather like kind-hearted parents; / Let the poll-tax be of fifteen di-nars, / Let it at the most be thirty dinars, / Do not grind them down with fines and taxes; / See ye never make their life a burden, / Never meddle with their Christian churches / Nor their laws, nor trample on their honour. / Do not wreak your ven-geance on the raya».

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the Turks did not touch the religious autonomy of the Christian faith, since the violent change of faith or destruction of Christian churches were strictly forbidden. And although the Ottoman Empire was not economically advanced, until the end of the 17th century, when the empire began to collapse, the life of the Christian pop-ulations under the Turks in Rumelia was quite tolerable in every respect. What then was so intollerable that it was leading the people to incite a revolt against dahijas? The fault of the dahijas was to be found in their imposition of high taxes and their lack of respect for the autonomy of Christians. The Serbo-Croatian oral tradition sees only local Turkish feudal lords, renegades from the emperor, who terrorize people in direct contradiction with the principles of “knjige indžijele” (the holy books of Islam), putting Serbia at risk. The oral poet also criticizes the “gluttonous Turks” who are not the dahijas, but the merchants and craftsmen, who were wealthy and who had privileges, so could better stand the dahijas’ confiscatory taxes.

For wealthier people and sipahis existed among the Christian Serbs too, as it is recorded by the old monastery texts and reg-isters15 and as is also noted by the philologist and linguist Vuk Stefanović Karadžić (1787-1864) in his Serbian-German-Latin dic-tionary, Srpski rječnik istumačen njemačkijem i latinskijem rječima (Vienna 1852) under the entry čitluk-sahibija (owner of a čifluk, type of feudal estate), where it says that in Serbia čitluk refers to villages that have sipahis and another master. In Turkish the lord of čitluk is called čitluk-sahibija, while people that are in his čitluk are called his čifčijas or kmets (in Bosnia), and he is their aga or lord. In the villages that did not have čitluk-sahibija, but only si-pahi, the land belonged to peasants and they had to give a 10th of everything they farmed to the sipahi; in the villages that had čitluk-sahibija, the čitluk-sahibija used to say that the land was his, but again everyone knew every peasant’s baština (inheritance; propriety), and he could not actually take anything from it, only if a certain family died out completely:

čitluk se u Srbiji zove ono selo koje osim spahije ima još jednoga gospodara. Gospodar od čitluka zove se Turskom riječi čitluk-sahibija, ljudi koje sjede na njegovu čitluku njegove su čifčije ili (kao što se u Bosni

15 See S. Novaković, Srpski spomenici XV-XVIII veka, Državna štamparija, Beo-grad, 1875.

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govori) kmeti, a on je njigov aga ili gospodar. Koje selo nema čitluk-sa-hibije, do samo spahiju, ondje je zemlja seljačka, od koje su davali spahiji desetak na ono što na njoj rodi; a koje je imalo čitluk-sahibiju, on je gov-orio da je zemlja njegova, ali se opet znala baština svakoga seljaka, a on po pravdi nije mogao ni od jednoga uzeti ništa od nje, već ako kad bi kaka porodica zamrla sa svijem16.

Stojan Novaković (1842-1915), historian, scholar, writer and Prime Minister of the Kingdom of Serbia, pointed out that the data at our disposition confirm that the Turks did not change the sys-tem that they found in any way, but they left the old baštiniks as they were, becoming themselves a part of them, only taking over and parceling out those territories whose owners had died or been killed, or were now considered outlaws. Over time, the Christian baštiniks disappeared, while the Turkish baštiniks continued to multiply, so eventually the vlastela’s baština had passed complete-ly into Turkish hands17. The Turkish Sultan Murat, moreover, in-troduced timar and zaim, which were the practices of renting or assigning property, what was known by the Romans as beneficium; in fact ziamet referred to the command of a military feud with an annual income of at least 2000 aspers, and the holder of such a feud was called zaim; timars and ziamets were, therefore, military propriety interests, fiefdoms of the Turkish empire, and the people who enjoyed those interests were obliged to go to war and were called sipahis18. Novaković19 emphasizes that in the institution of sipahis we can see the last Muslim metamorphosis of the old Ro-man military decrees, and that timars and ziamets are nothing more than the last metamorphosis of the Roman beneficium, of the Western medieval feud and of the Eastern Byzantine pronija (πρόΝοια)20. So the old Byzantine and Serbian pronijars in Turkish times were replaced by the sipahis, and sipahis, just like the proni-jars in the Byzantine period, only had the right to use the land,

16 V.S. Karadžić, Srpski rječnik istumačen njemačkijem i latinskijem riječima, Nolit, Beograd, 1972, p. 826.

17 S. Novaković, Projinari i baštinici (spahije i čitluk-sahibije). Prilog k istoriji nepokretne imovine u Srbiji XIII-XIX veka, Glas Srpske kraljevske akademije, Beograd, 1887, p. 73.

18 Ivi, p. 75.19 Ivi, p. 78.20 Ibidem.

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while čitluk-sahibija was actually baštinik. It is interesting that some villages had both sipahis and čitluk-sahibijas, which would mean that the vlastela’s baština was given as pronija.

Prota Mateja Nenadović (1777-1854), archpriest, writer and leader of the First Serbian Uprising, recorded the popular opinion regarding the čitluks or land owners, and although he is mistaken in thinking that the institution of čitluk-sahibija originates from that of the janissaries, his history shows that the sipahis were also pronijars, thereby confirming that the Turks in Serbia latterly developed a tendency to be not only sipahis or the beneficiaries of an interest in land, but also baštiniks, i.e. owners of the absolute title in the land. Prota Mateja Nenadović explains that when the sipahis were in Serbia, they took all the corn, from every family, and the little things that were grown in the garden; they took also honey, pigs, and wood. After that they became čitluks, and dom-inated the janissaries, who had a great janissary aga in Istanbul and lesser janissary agas in all of the vezir counties. And the son of the emperor called himself aga, took several men with him, went to a village that he liked, and called the villagers and asked them to pay him taxes, in return he would protect them. The peasants did not like it and protested, but nothing helped and so they sold their baštinas to the aga, and then he became the čitluk-sahibija:

Kad su same spaije s carskim beratima u Srbiji bile, uzimali su od svakog žita, krome sitne proje, desetu oku; na oženjenu glavu uzimali sup o jedan groš, i to se zvalo glavnica, i baštenicu 20 para uzimali su za sve sitnice, tj. što se seje u baštama; na jednu košnicu po oku meda ili naplate po što je med bio; na kazan 2 groša; na jedno matoro krme 6 para – i koji je spaija blizu svojih sela, doteraju mu po koja kola drva, i to je bio sav danak spaijama. Osim toga plaćalo se veziru porez na mešćemsku glavu po sto groša, a katkad i poviše, a caru plaćalo se arača po 3 groša i 2 pare. Knezovi krili su glave, pa kad u vilajetu porežu sve danke, dolazilo je po 7 ili najviše po 8 groša na glavu. Posle toga postali su čitluci, i janičari zav-ladaju, koji su imali u Stambolu velikog janičar-agu, a u svakom vezirstvu opet manjega janičar-agu. Onda Turci koji neće da rade, dođu kod svog janičar-age i upišu se u janičare, i to u koju ortu koji voli; i tako nazove se pravi sin carev i aga, a spaije, koji su od starina sa carskim beratima bili, bace za leđa i nazovu ih papurima. Takav aga uzme nekoliko momaka, dođe u selo koje mu se dopadne, sazove seljake i kaže im: “Rajo, ja sam carev sin i aga, dajte, prodajte mi se da ste moji, ja ću vas od svakoga zuluma braniti, i koji nema poreza i arača, ja ću za njega u zajam dava-

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ti.” Seljaci obično mnogo se tome protive, ali to im ništa ne pomagaše; on naturi seljacima po 200-300 groša, pa kaže spaiji te mu napravi temesuć i tapiju da su svi seljaci tome i tome agi prodali sve svoje baštine, i tako ti on onda postane čitluk-sajbija, i koliko god spaija uzima od svog sela, toliko i on, a katkad i više21.

There were frequent rebellions in northern Croatia too, where the feudal system was formaly abolished in 1848 (but the econom-ic and political postfeudal system remained established until the beginning of the 20th century): every feud had its own laws, known as urbars (urbarium), which set out the rights and duties of the feudal lords and kmets (serfs), and a common law for the whole of the Kingdom of Croatia and Slavonia was introduced at the time of Maria Theresa22. Until the urbar regulation of Maria Theresa in the 18th century, the urbars were private-documents, which were mostly written by feudal lords themselves. The development of feu-dalism actually was not a homogeneus process in the Croatian countries, but grew out of a variety of different local circumstanc-es, for instance, the local dynamics that led to the rise of promi-nent members in a županija (county) over the people’s assemblies, the independence of knez’s power, which became hereditary, and the direct or indirect influence of external factors, such as the de-velopments in neighboring feudal countries (Hungary, for example) and the impact of the Dalmatian coastal towns and the Church on social and economic organization. All of these factors accelerated the disintegration of the rural municipalities and the ownership cooperatives. The coming into power of the Habsburgs 1526/27 gave a new impetus to modernization, but for a long time in Croa-tian society the status of kmet was preserved only being abolished in the period between 1848-1853. The feudal system of landown-er-tenant relations was based on the assumption that all land that

21 P.M. Nenadović, Memoari, Državna štamparija Kraljevine Srbije, Beograd, 1893, pp. 18-19.

22 See M. Vezić (ed.), Urbar hrvatsko-slavonski, Pravničko družtvo u Zagrebu, Zagreb, 1882; R. Lopašić (ed.), Urbaria lingua croatica conscripta. Hrvatski urbari, Jugoslavenska akademija znanosti i umjetnosti, Zagreb, 1894. See also H. Kekez, Urbarijalna regulacija, katastarski popisi i veličina kmetskih selišta na vlastelinstvu Ribnik u 18. stoljeću, «Zbornik Odsjeka za povijesne i društvene znanosti Hrvatske akademije znanosti i umjetnosti / Zbornik zavoda za povijesne znanosti IC JAZU / Zbornik Historijskog zavoda JA / Zbornik Historijskog instituta JA», 26 (2009), pp. 165-194.

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was not privately possesed was the property of the ruler who could assign it to individuals or families who had shown certain merits to the crown. The assigned land returned to the Crown in the case of the extinction of the male line of the assignee or in the case of high treason. The system began to develop in Croatia at the time of peo-ple rulers (narodni vladari), and was in force until the abolition of feudal relations. During the reign of Anjou in the 14th century, the former patrimonial system was replaced by a banderial one and so the inheritance rights to proprety extended to daughters, but the right to use the property was conditioned on the military service provided by the family with its own troops (banderij). In addition to the ruler, the right to grant estates could also be exercised by the palatine, the ban and certain nobles.

Regarding the nobility, given that Croatia had been in an al-liance with Hungary for 800 years, it is logical that the genesis of the rights and forms of Croatian and Hungarian nobility were in fact similar, if not identical. Those who had not descended from a branch of Croatian or Hungarian noble family that had rights to an estate could acquire nobility in Croatia and Hungary in five ways: 1. the royal donation (donatio regia), which consisted in an assignement of royal proprety; 2. the granting of a Coat of Arms or grbovnice (litterae Armales) and these litterae Armales were not granted exclusively to those with claims to noble title but were also granted to commoners; 3. prefection: the royal privilege to proclaim that the daughter or sister of the last male descendant of a family had the same rights as a man thereby transmitting noble rights to her and her offspring; 4. adoption – nobility could be transferred to another person only with the consent of the Crown; 5. the solemn indigenous, according to which the foreign nobles were immedi-ately included among the local nobility which could be granted only after the coronation of the King and with the permission of Parliament23. The status of indigenous Croatian nobility was by no means the same as Hungarian nobility, since it could only be obtained in a special way. The real hereditary nobility among the Croats, with the heraldic titles – knez (duke), grof (earl), barun (bar-on) – began only in the early 16th century, i.e. from the reign of the Habsburgs. In Croatia, there were twentytwo noble families,

23 I. Bojničić-Kninski, O plemstvu. S obzirom na hrvatsko plemstvo, Tisak An-tuna Scholza, Zagreb, 1908, pp. 8-15.

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of which only the Draškovićs, Keglevićs, Orsićs and Jelačićs were originally Croats and other noble families had moved to Croatia from other countries24.

Due to the increasing exploitation peasant revolts often broke out and accounts of these peasant uprisings in Croatia were writ-ten by Baltazar Adam Krčelić (Balthasar Adam Kercselich, 1715-1778), Croatian historian, theologian and lawyer, the canon of Za-greb and rector of the Collegium Croaticum Viennense in Vienna. In his Annuae sive historia ab anno inclusive 1748 et subsequis /1767/ ad posteritatis notitiam for the year 1755 he mentions eight revolts and says that this year was “very fatal” for Slavonia. The reasons for the revolt were various: the first rebellion arose as a result of the taking of the census, the second one was caused by the fact that the soldier in the Križevac regiment revolted when the officers imposed taxes on their uniforms and so the rebels killed the officers and a real massacre took place; the third revolt in-volved peasant riots that occurred over a period of time and caused noblemen of Zagorje and Varaždin county to take refuge in Varaž-din. The fourth was a peasant rebellion in lower Slavonia, the fifth rebellion began in the Karlovac generalitas and then spread, the sixth rebellion was that of the ecclesiasticals against Krčelić, and then a provision was made by royal warrant regulating how the landowners are to behave towards their subordinates and those with them.

In this period the main points of the plan were made for making the general urbar for the Croatian Kingdom. At the time of Maria Theresa, Croatia was divided into županijas (counties), and okružjas (districts), as well as minor constituent territorial units. The head of the županija was the župan (supremus comes), and the lower and middle nobility gathered at the county assemblies. One of the first reforms made by Maria Theresa was the reconstruction of three Slavonian counties in 1745. Thus, from this year onwards, besides the already existing Zagreb, Varaždin and Križevac županijas, there were also Virovitica, Srijem and Požega županija and Severin county. The key political authority in Croatia was the Sabor (Parliament) that had a caste system. The head of the Parliament was the ban, the person who had the status of viceroy and represented the major Croatian national institution. Maria

24 Ivi, pp. 18-19.

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Theresa in 1767 formed the Croatian Royal Council, i.e. Hrvatsko kraljevsko vijeće / Kraljevsko vijeće u kraljevinama Dalmaciji, Hrvatskoj i Slavoniji (Consilium Regium)25, which greatly increased the role of Croatia and reduced its dependence on Hungary. Until 1776 the headquarters of the Council was in Varaždin, after which it moved to Zagreb. In 1779 the Empress abolished Vijeće and all its powers were transferred to the Hungarian Regency Council, which made Croatia subject to the Hungarian government bodies.

The economic reforms of Maria Theresa were primarily aimed at reorganizing feudal relations. In 1737 her father, Karl VI, had introduced the first laws regarding feudalism which continued in force after the adoption of the Slavonian in 1756, and were also the basis for the Croatian Urbar in 1780. Urbars were decrees that re-duced the tributes that kmets had to pay to their feudal lords and reorganized their mutual relations. The Slavonian urbar of 1756 established better conditions for the kmets, which of course met with the expected protests of the nobility. Actually there was the Carolina urbarialis regulation from 1737, and then the temporary urbar for Croatia in 1755. The oldest urbar is generally considered to be the Vinodolski Akt of 1288, because in addition to regulating the relations between Vinodol villages, it also contains provisions that regulate feudal relationships. However, the first collection of rules that can truly be called the oldest urbar in Croatia is the Statute of the Zagreb chapter, which was compiled in 1334 by Ivan Archdeacon Gorički. Mention should also be made here of the Hungarian urbar (1776) and Croatian and Banat urbar (1780).

In 1755 the so-called Podrava rebellion broke out in reaction to the increase of feudal taxes and harsh enforcement methods. The first revolt took place in Križevac county; Vrbovec and Rakovec were also the scenes of insurrection, as was the area of the Drava – particularly the villages of Veliki and Mali Otok and Imbriovec. A royal commission to investigate the causes of the Peasants’ Revolt was called for and Maria Theresa proclaimed a provisional urbar for Croatia. The Commission decided who would be charged with

25 See I. Horbec, Stvaranje jedne institucije prosvijećenog apsolutizma: Kraljevs-ko vijeće za Kraljevine Dalmaciju, Hrvatsku i Slavoniju, Hrvatska akademija znanosti i umjetnosti, Hrvatski državni arhiv, Pravni fakultet Sveučilišta u Zagrebu, Filozof-ski fakultet Sveučilišta u Zagrebu, Zagreb, 2007; M. Pandžić, Naputak za Hrvatsko kraljevsko vijeće iz 1767. g. i Nadopuna Naputka iz 1770, «Arhivski vijesnik», 19-20 (2014), pp. 185-205.

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violations of the law in each manor. This was the beginning of central government interference in feudal relations between the gentry and the oppressed that had hitherto had a generally private law character.

Fifteen points of the draft of the provisional urbar of 1755, as transmitted by Baltazar Adam Krčelić26, endeavored to estab-lish, in the first place, what the selište (holdings) actually consisted of, namely how many acres of arable land and how many mead-ows, hills, and vineyards; then an examination of the land on each property had to be carried out and the benefits due to each kmet determined. After taking into account all the advantages and dis-advantages, there had to be a determination of whether the kmet had the whole selište, a half or a quarter or only an eighth of the holdings. A determination had to be made of what was expect-ed of the kmet, what his duties were, and specific reasons had to be given about why it was necessary to impose some special tribute or obligation on the kmets. Furthermore, if the landlord had presented urbars or made any contracts regarding the land, those documents were to be considered separately and a reasoned opinion had to be given on whether or not they were legally bind-ing and whether or not the relationships of the parties were to be regulated according to their terms. Moreover, a determination had to be made about the kind of obligation (the so-called pridvorci and gornjaci) that was owed to the landowner for each krčevina, or acre of land. Regarding the vineyards, however, special burdens were not allowed to be imposed. As far as the use of the forests, inves-tigations were needed to determine whether they belonged to the peasants or not, and similarly an accounting had to be given by the kmets of acorns collected in the landlords forests to feed their pigs. When kmets were permitted to drink the wine and brandy produced on the manor was also an aspect of the landlord/kmet relationship that was specifically regulated by law, as was the ob-ligation of the so-called slobodnjaci and decimalisti. Furthermore, the origins of the kmets’ connection to the land had to be clearly stated and their obligations to the landlord had to be specifically and exhaustively listed. Finally the provisional urbar required that all of the details regarding the kmets and their landlords must be listed specifically and in a detailed manner, considering selište, as well as the obligations and duties. Proposals were then to be sub-mitted to the supreme imperial-royal review:

26 S. Krivosić, Baltazar Adam Krčelić (1715-1778), «Rad JAZU», 375 (1978), p. 113.

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U prvome redu ima se ustanoviti, što pripada u sastav jednog selišta, naime koliko jutara oranica, koliko kosaca livada, a ondje, gdje su gorice, koliko motika vinograda. Nadalje, ne moraju li se dodavati druga zemljiš-ta, da se sastavi cijelo selište ili polovica ili četvrtina selišta.

Pošto se sasluša i zemaljski gospodin i kmet, na svakom se posjedu imaju ispitati zemljišta i pogodnosti svakoga kmeta, koje dobiva od vlas-telina. Iza toga napokon, pošto se uzmu u obzir sve pogodnosti i nepogod-nosti, ima se utvrditi, ima li kmet cijelo selište, polovicu ili četvrtinu ili tek osminu selišta.

Kad se to odredi, ima se ustanoviti, kakvu je rabotu kmet sa cijelim selištem, polovicom, četvrtinom ili osminom dužan vršiti svake godine svom zemaljskom gospodaru i koje će druge daće imati da daje, tako da i gospodar može dobiti svoje i kmet živjeti.

Tom prilikom treba navesti i razloge, zbog kojih se smatra potrebnim, da se kmetovima nametne obaveza nekog posebnog podavanja.

Nadalje, ako zemaljska gospoda iznesu urbare ili kakve nagodbe, ti se imaju pretresti te o svakom posebno dati obrazloženo mišljenje, da li se ima smatrati zakonom i da li je potrebno ravnati se prema njemu ili ne.

Isto tako treba ustanoviti, koje su i kakve obaveze pridvoraca i gorn-jaka, s obzirom na to, da je njihov položaj drukčiji.

Osim toga neka se ustanovi, koliko treba davati zemaljskom gospodi-nu od krćevine, naime od jednog jutra zemlje, koje se može zasijati sa dva ili tri požunska kabla sjemena, a tako isto, koliko od jednoga kosca livade.

Na vinograde, koji su ušli u sastav selišta, ne smije se nametati pose-bni teret, pa ni gornica.

Što se tiče upotrebe šume, ima se istražiti, gdje seljacima to pripada, a gdje ne, pa zatim razmisliti, da li bi i kako seljaci mogli to dobiti.

Jednako se ima svratiti pažnja na blagodat žirenja za hranjenje kmet-ske krmadi u vlastelinskim šumama, dok rodi žir, naime kako i na koji način treba to njima dopustiti.

Propis o točenju vina i rakije ima se posvuda između vlastelina i kmeta iznijeti u smislu zakona, naime kada se kmetovima dopušta pravo točenja.

Budući da u ovoj kraljevinki osim kmetova ima i slobodnjaka i t. zv. decimalista, treba i njih posebno saslušati, a zatim ustanoviti, kakve ih obaveze čekaju.

Što se tiče gornice, treba propisati prema požunskoj mjeri, što se i koliko ima davati od jedne motike vinograda.

Nadalje, ako se zbog različitosti kraja, tla i drugih prilika ne mogu u kraljevini općenito odrediti jednake kmetske obaveze, imaju se posebno i opširno navesi uzroci i pobude, zbog kojih je bilo potrebno to uređenje na jednom mjestu urediti ovako, a na drugom onako.

Napokon, pošto se o svemu tome bude vodilo računa, u prijedlogu urbara, koji se ima izraditi, neka bude naveden svaki kmet sa svojim zemljištima i selišnim pripadnostima, koje se moraju posebno i potanko

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naznačiti. Nadalje, kakvo je njegovo selište, da li čitavo ili polovica ili čet-vrtina ili tek osmina, i kakva ga obaveza čeka u vršenju rabote i davan-ju posebnih daća. Osim toga treba navesti što kmetovi imaju davati od krčevina, koje se također moraju pojedinačno pribilježiti. Konačno takav prijedlog treba podastrijeti vrhovnom carsko-kraljevskom pregledu27.

These urbars were significant feudal regulations after the re-treat of the Ottomans from Slavonia, Lika and Dalmatia in the late 17th century. After the Ottoman conquest in the 16th century, Croatia had been reduced to a “reliquiae reliquiarum”. With the retreat of the Ottomans Croatia was both figuratively and literally “alive” again, as was observed by the Habsburg-Croatian writer, historian and linguist Pavao Ritter Vitezović (1652-1713) in his Croatia rediviva (Zagreb 1700), where he expressed the dream of a new Illyricum under the Habsburgs, as a shield against Turks and Venetians28. After more than two hundred years of almost constant warfare with the Ottomans, Croatian countries in the 18th century entered into a period of material and spiritual renewal, and the re-form of Austrian enlightened absolutism significantly affected the further development of the Croatian lands within the Habsburg Monarchy. During that time, Dalmatia and Istria subsisted under Venetian rule and the Croats and other inhabitants of Bosnia and Herzegovina, under Ottoman rule. The Republic of Dubrovnik lived its last century of independence. While Western Europe was being influenced by the Grand Tour and stimulated by the early modern discoveries that would expand human horizons and lead to the gradual decay of classical feudalism, in Eastern Europe contempo-raneously a process of refedualization was renewing and strength-ening peasants’ reliance on medieval feudal lords; this was the so-called second serfdom.

So in the late 17th century major territorial changes in the Cro-atian countries were made and the first attempts to modernize were recorded. There were new crops (corn and potatoes), the modern roads were built (from Karlovac to Rijeka and Senj) and improve-

27 B.A. Krčelić, Annuae ili historija 1748-1767, Jugoslavenska Akademija Zna-nosti i Umjetnosti, Zagreb, 1952, p. 236.

28 See P. Ritter [Vitezović], Croatia rediviva; regnante Leopoldo Magno Caesare, s.n., Zagreb, 1700, p. 31: «Ex adductis Auctorum, superius citatorum sententiis, sub CROATIAE nomine censetur quod triplici Slavoniae Hornius assignat, & quod Romani olim Illyrico attribuerunt [...]».

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ments were made to the rivers (Drava, Sava and Kupa). Trade and the crafts flourished. Manufacturing, ports and shipyards were opened. The freedom of navigation was proclaimed in the Adriatic Sea and Rijeka was declared a free port, where goods could be imported and exported duty-free. For all of the south of Croatia, except Dubrovnik, was under Venetian rule and Venice knew how to rule not with the sword, but with the pen29. In the 15th century Venice introduced the figure of Provveditore Generale in Dalmatia and Albania (at that time the name ‘Albania’ was given to what we now call the Montenegrin coast). This Venetian intervention put a stop to the crises of feudalism which had been undermining the stability of Croatia and Bosnia in the 15th century. In Dalmatia the Venetians introduced a modern centralized state administration, thus ensuring not only trade with the Levant but also opening up new markets in the Balkans. Ivan Pederin30 reports information about noble titles in Dalmatia: after the 15th century magistrates contributed a great deal to improving conditions in Dalmatia and so a Magistrato sopra i feudi was entitled to bestow noble titles, as happened for example in 1682 with regards to the brothers Dam-janović from the island of Vrgada, who obtained the title of conte. Titles of nobility were often given to deserving people like for ex-ample, the patrician Ivan Kažotić who in 1728 was given the title of conte. These titles were entered into the Libro de titolati. Ivan and Jerolim Karalipić, on the contrary, and Tomo Furioso too, lost their noble titles since in 1734 they killed a Provveditore of Omiš for revenge.

In the 17th century Venetian trade was deteriorating, and after the Cretan War the borders with Turkey in Dalmatia were moved a little to the interior. Then the Morlachs escaped to Dalmatia and fought against the Turks, but actually, as Pederin noted31, this was a war of peasants against čitluks, and although seemingly it was not a religious war, Croatia seemed like an antemurale Chris-

29 I. Pederin, Mletačka uprava, privreda i politika u Dalmaciji (1409-1797), Časopis «Dubrovnik», Dubrovnik, 1990, p. 13; see Š. Ljubić, Listine o odnošajih između Južnoga Slavenstva i Mletačke Republike. Monumenta spectantia historiam Slavorum Meridionalium, VII-X, JAZU, Zagreb, 1882-1891; T. Raukar, Venecija i ekonomski razvoj Dalmacije u XV. i XVI. stoljeću, «Radovi Instituta za hrvatsku po-vijest», X (1977).

30 I. Pederin, Mletačka uprava, privreda i politika u Dalmaciji (1409-1797) cit., p. 110.

31 Ivi, p. 64.

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tianitatis because this was a struggle against čitluk feudalism, the struggle of peasants to own a piece of land. Dalmatia then became an unusual mixture of Byzantine, Croatian, Venetian and Islamic culture and ideas. Political, economic and social reference points were now transferred from the city to the countryside, and so in the cities there were more Italians, while villages were inhabited mostly by Croatians32. The nobility lost its significance in the gov-ernance of the cities, but its significance was growing in the gov-ernance of territorial organizations.

In Dalmatia, in the second half of the 18th century the Physio-cratic movement was growing, headed by Hvar bishop Giovanni Domenico Stratico (1732-1799). The Academies were founded and their members were mostly nobles and priests. Venice favored and supported their initiatives, but the Physiocrats, on the contrary considered the Venetian administration obsolete. Split’s patrician Girolamo Bajamonti in his book Sopra i veri mezzi di promuovere l’agricoltura in Dalmazia (Venice 1792) insisted on modern legisla-tion based on scientific grounds, unencumbered real estate, and free trade.

The enlightened reforms of Maria Theresa and Joseph II sig-nificantly affected the further development of the Croatian lands within the Habsburg Monarchy and so the relations between peas-ants and landlords were restored and made subject to Hungarian law, while the Military Frontier was transformed into the Habsburg vojarna and divided into regiments. But Maria Theresa did not just issue urbars that regulated all the obligations of the peasants to-wards the state and the feudal lords. It is true that the Habsburgs were trying to protect the peasants from the feudal aristocracy, but they did not do this in order to abolish feudal exploitation but so they themselves could impose higher taxes on the peasants. They needed revenue to pay the increased costs of the absolutist state and they also needed the peasants for the numerous wars they were fighting in Europe.

Yet at the same time that many Croatian estates were in the hands of foreigners, the Austrian Empire, influenced by the French Physiocrats, was trying to expand the economy, in order to achieve precise political objectives. The intention of Joseph II, who was not by chance called Bauernkaiser, was to liberate the masses of peas-

32 Ivi, p. 80.

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ants from slavery and to turn them into small landowners or to allow them to go to work in the cities. Among the Southern Slavs, however, the implementation of Physiocratic theory did not take place to the same extent or with the same modalities. In Slavonia, for example, where, after the liberation from the Turks there were regressive economic, financial and cultural conditions that needed to be changed as soon as possible, Maria Theresa and Joseph II sought to promote the development of modern agriculture, which was given prioritized role for the progress of the empire. Their policy consisted in, on the one hand the improvement of cattle breeding, with the consequent suppression of extensive livestock production, and on the other hand, the development of manufac-turing, and hence trade, especially trade in grain and animals. In this sense, Maria Theresa’s administration brought some changes: in 1761, for example, a campaign to encourage the cultivation of silkworms began, and seven years later raising sheep was sug-gested as a means to provide wool for export, thus improving the conditions of Austrian and Moravian manufacturing. In 1771, the Empress introduced purebred horses, sheep from Macedonia and between 1778-79, pigs from Bosnia and Serbia into each county of Slavonia. In those years, the trade monopoly on honey, wax and wool was abolished.

The work of the Viennese administration in the areas of military border was aimed at developing the existing sectors of the national economy, as well as introducing new ones. Just as happened in other European countries, in the provinces of the Austrian Empire the experts encouraged the production of essays, pamphlets and books ad hoc, in support of the reform initiatives of the Empress and Emperor. So for the diffusion of the Physiocratic conceptions among the Southern Slavs, especially among the Croats from Slavonia, the numerous translations that appeared almost simultaneously with the originals, mostly in German, were useful. Tomo Matić33 underlines that the state government urged the contemporary writers from Slavonia to cooperate and prepare booklets which could instruct people in rational management. These books about the economy were a way of bringing Physiocracy to northern Croatia, just as it reached southern Croatia via the

33 T. Matić, Prosvjetni i književni rad u Slavoniji prije Preporoda, HAZU, Zagreb, 1945, p. 116.

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Venetian Republic; Physiocratic thought found fertile ground, especially in Dalmatia, “not just because of the very poor state of agriculture and of the economy in general, but also because Dalmatian intellectuals followed all new European trends and adopted them within their appropriate spheres”34. The material and spiritual conditions of Slavonia at that time were exposed in a poem that represents a kind of poetic portrait of the northern Croatian economy at that time: in Matija Antun Reljković’s (1732-1798) narrative poem Satyr illiti divyi csovik (Satir or Savage Man, Dresden 1762), Reljković praises Slavonia with its natural beauty and describes the inhabitants, but accuses Slavonian peasants of having regressed from an economic point of view, as he points out in the section “Fixing Slavonia after the Expelled Turks”:

Posli kako Turke istiraste,Slavoniju opet naseliste,zapuštenu od Turak najdoste,prez uredbe i nauka jošte35.

This Slavonian polymath, officer of the Austrian army, who left indelible marks on Croatian philology and literature, then gives advice on what to do to improve the situation, through the main character and narrator of the poem, Satir, a mythological creature, who offers a whole range of advice on rebuilding and developing the country, in the spirit of the reform in Western Europe:

Ovaj zanat od poljskog oranjapočeo je od svita postanja,i najstariji od svakog zanata,od kakva mu on drago alata.Još ga Adam, naš otac, počeoi svog signa Kaina učio;posli toga u drugomu viku,kad bi potop i svrha čoviku,onda Noje od potopa osta,patrijarka od sviju nas posta

34 D. Božić-Buzančić, Južna Hrvatska u europskom fiziokratskom pokretu, Književni krug, Povijesni arhiv u Splitu, Zavod za hrvatsku povijest Filozofskog fakul-teta u Zagrebu, Split, 1995, p. 300; see also J. Jelaska, Splitsko polje za turskih vre-mena, Logos, Split, 1985; S. Obad, Dalmatinsko selo u prošlosti, Logos, Split, 1990.

35 M.A. Reljković, Satir iliti divji čovik, Zagrebačka stvarnost, Zagreb, 1998, p. 24.

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i nauči zanat od oranja,sad od loze i marve držanja. O! Kako su u stara vrimenajagmili se, mojeg mi imena, tko će bolje zemlju pooratiili marvu i ovce držati;tad orači biše proštimani,i nitko jim ne bijaše mani,a najveći tad se ne stidiše čuvat ovce, kako Pismo piše,pak su od njih izabirali kralje:eno David, što ćeš tražit dalje?36

In the second edition of the book (Osijek 1779), the original 1,938 verses were extended to 3,498, and a forward and several passages of prose were also added: these prose passages dealt, among other things, with keeping the forests and organizing the work of peasants, and in them the figure of a Slavonian appears who answers Satir’s questions and shows him that he has accepted Satir’s advice and improved the peasants’ working and living conditions, and so Satir praises the Slavonian peasant for improving his living conditions and encourages him to constancy and advises him not to lose his patience if something goes wrong since there are lots of things that can be improved. In the poetic form Reljković conveyd the ideas of the French Physiocrats and he observed and recorded the economic conditions of the Slavonian peasants, advising them to improve production and indicating trade route on the Sava river.

Reljković’s Satyr was followed by Adam Tadija Blagojević’s (1745/1746-1797), Khinki nikoi Kokhinkhinezianski Dogagjaî other countries hasnoviti (Vienna 1771), which is a translation of the Ab-bot Gabriel François Coyer’s Chinki, histoire cochinchinoise qui peut servir d’autres pays, published in London in 1768, and translated into German two years later under the title Chinki eine Geschichte Chochinchinesiche, die andern Ländern nützen kann. Aus dem fran-zösischen des abtesam Coyer übersetzt. In this work about the sto-ry of Kinki, a once successful and happy Vietnamese peasant, who

36 Ivi, pp. 84-85. See V. Stipetić, Agrarno-ekonomske poruke u djelima Matije Antuna Reljkovića, in Vrijeme i djelo Matije Antuna Reljkovića, JAZU, Osijek, 1991, pp. 34, 42.

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then collapsed under the weight of taxes and social injustice, the author expounded the Physiocratic idea of enlightened absolutism supported by the Emperor, and criticized at the same time the feu-dal system and the system of corporations, accusing urban society of being obsessed with luxury37. For the physiocrats only agricul-ture was productive and the contraddictions within Physiocracy were summarized by Marx as follows: «One can understand how the feudal appearance of the physiocratic system, similar to the aristocratic garb of the enlightenment, turned the masses of feu-dal lords into sentimental followers and propagandists of a system which in its substance proclaimed the establishment of the bur-geois system of the production on the ruins of feudalism»38.

Maria Theresa and Joseph II, by adopting principles of Phys-iocratic theory and publishing and distributing popular booklets about the economy, tried to bring about the improvement of the economic conditions of life, primarily in Slavonia which, after the wars with the Turks, was in a dire serious condition and in which the practical application of studies on agriculture, sericulture, viti-culture, apiculture, etc. were needed. This, however, cannot be said for the Serbs, for apart from the Enlightenment ideas of a group of intellectuals gathered around Dositej Obradović (1739/42-1811), one cannot discern an active interest in Physiocratic principles among Serbian intellectual circles that is contemporaneous with the Croatian interest.

In comparison with Western Europe, the Western Balkans cer-tainly faced far bigger problems, as a result of historical conditions that saw the fragmentation of the Southern Slavic countries and their servitude to different kingdoms. This fragmentation certainly caused disparities in the development of the various systems, feu-dalism included, which makes it impossible as yet to find a com-mon point among their feudal systems. According to Ivan Berend39 the development of South Eastern Europe is marked by a number of diversions and deviations from Western European models in this

37 See G. Gianelli, La guerre d’argent, in F-G. Coyer, Come il prospero Chinki s’immiserì per la ricchezza della nazione, Sellerio editore, Palermo, 1992, pp. 106-107.

38 H.W. Spiegel (ed.), The Development of Economic Thought, John Wiley and Sons, Inc., New York, 1952, p. 109.

39 I. Berend, History Derailed: Central and Eastern Europe in the Long Ninete-enth Century, University of California Press, Berkeley, Los Angeles, London, 2003, pp. 18-26.

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period including a tendency towards the preservation of feudalism and the nobility, and hence the presence of “incomplete” societies in the Balkans, i.e. largely peasants, without a modern bourgeoi-sie. Incomplete or not, those feudal systems lacked the particu-lar historical “scent” just as those tulips, almost absent from the Oriental coast of the Adriatic Sea and from the hinterlands of the Balkan peninsula, that symbolized the spread of the cultural pros-perity elsewhere.

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AbstrAct: This paper takes European feudalism as its point of departure. After a brief evaluation of the relationship of feudalism to the Mediterranean world, the relevance of the concept for the study of Ottoman social and economic history is surveyed. Feudalism in Mount Lebanon, a province of the Ottoman Empire, is then investigated in greater detail. It is argued that Mount Lebanon contrasted sharply with the Ottoman Empire insofar as it was far more feudal-like. It owed this characteristic to its institution of ikta combined with its reclusive geography. Even so, it is argued that the persistence of feudalism in Mount Lebanon well into the second half of the nineteenth century should not obscure the important fact that its economic foundations were thoroughly transformed while the peasantry was liberated from a prolonged ‘serfdom’ by successive waves of social and political struggle. In this context, the effects of lord, peasant and church interrelationships are explored. If Mount Lebanon seemed ever more feudal in terms of ceremonialism, costume and decorum that struck the travelers and scholars, it became less and less so in terms of substance as the nineteenth century progressed.

Keywords: feudalism, Ottoman Lebanon, Ottoman Empire.

1. European Feudalism as a Point of Departure

The literature on feudalism takes as its point of departure the typical cases of the European heartland. Feudalism as a concept was elaborated with respect to «northern France and zones con-tiguous to it, the homeland of the Carolingian Empire» in Europe1. The concept thus refers to classic feudalism, that is, Medieval Eu-ropean feudalism which is one of the several forms of feudalism. The lands bearing the footprints of the Franks and the times char-acterized as the period from the ninth to the fifteenth century are the spatial and temporal loci classici of feudalism. This is also the least ‘Mediterranean’ phase of European history as succinctly put by the Pirenne Thesis. The Arab conquest of North Africa convert-

1 P. Anderson, Passages from Antiquity to Feudalism, Verso, London, 1978, pp. 154-155.

Eyüp Özveren

SUBSTANCE AND DECORUM IN MEDITERRANEAN FEUDALISM:

THE CASE OF OTTOMAN LEBANON

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Eyüp Özveren30

ed the Mediterranean into a barrier cutting off Europe from the East, thereby enabling Carolingians but especially Charlemagne to respond to this challenge by creating a new form of government2. Feudalism disappeared from what is characterized as Western Eu-rope by the sixteenth century. In contrast, it hang on in Eastern Europe as late as the nineteenth century, a significant symbolic termination date being identified in 1861, in Russia, in the abolish-ment of serfdom that tied peasants to land. Hence it is customary to conceive feudalism as space- and time-bound. Feudalism thus evolved during the protracted disintegration of the rather spectral Carolingian Empire, spectral because it was weak in terms of both a central bureaucracy and a standing army. Feudalism spread outwards from its epicenter with successive waves of conquests and people on the move. As feudalism was thus transmitted, it acquired much local coloring, and became increasingly complex due to its multi-layered institutions and practices3. It is also no coincidence that feudalism overlaps with other concepts like ma-norialism or seigneurialism albeit to different degrees depending on where and when we are concerned with. The greater this coinci-dence, the more classic is the feudalism in question.

Classic feudalism revolves around reciprocal legal and mili-tary obligations that bind lords with their vassals by recourse to fiefs assigned. Lords protected their vassals to whom they assigned lands as fiefs and from whom they expected services in return. This reciprocity defines the basic feudal relationship. There exists a broader conception of feudalism as ‘feudal society’ that incorpo-rates peasantry bound by manorialism and the ecclesiastical es-tates into the picture4. According to this broader conception, the bond that obliged the peasant to provide labor in return for the lord’s protection extended to him was no less feudal than the bond that obliged the vassal to perform military service in exchange for the fief. This latter formulation is more inclusive and more flexible, allowing for variants occupying the grey zone that display a few important, but not necessarily all, attributes of feudalism. In fact, the history of feudalism can also be retold as the history of the fall

2 H. Pirenne, Mohammed and Charlemagne, Barnes & Noble, New York, 1955.3 It is no surprise that even English feudalism is in some ways seen as a de-

viation from the ideal case based on the experience of the European heartland (P. Anderson, Passages from Antiquity to Feudalism cit., p. 160).

4 M. Bloch, Feudal Society, The University of Chicago Press, Chicago, 1961.

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Substance and Decorum in Mediterranean Feudalism 31

into serfdom – and the ultimate rise of peasantry with the emanci-pation from serfdom – within a nexus of overlapping institutional arrangements. In this version, the lord-and-peasant relationship as a more general phenomenon gains importance for the specifi-cation of typologies of transition to modernity5. Inadvertently, the spatial and temporal scope of feudalism expands significantly:

The countryside of Western Europe was inhabited by both landlord and peasant. Consequently it was far from being easy to manipulate. The seigniorial regime died hard everywhere. For a capitalist system of management and economic rationalization of the land to come into be-ing, many pre-conditions would have been necessary: the seigneurial re-gime would have had to be if not abolished, certainly reduced or modified (sometimes from within in which case it was the lord himself, or an en-riched peasant, the local cock of the walk, who played the capitalist); peas-ant liberties would have had to be if not suppressed, at least contained and outmanœuvred (the sensitive question of common lands came under this heading); the whole undertaking would have to be connected to an active long-distance commodity trade: export grain, wool, wood, madder, wine, sugar; some form of ‘rational’ management would have to be intro-duced, governed by a careful policy of crop yields and land enrichment; tried and tested techniques would have to govern investment and instal-lation of fixed capital; and lastly, the system would have to be based on a wage-earning proletariat6.

In short, with «the feudal superstructure [being] a living, re-sistant reality»7, the shift from feudalism to capitalism was neither wholesome nor complete. Nevertheless, if feudalism or its rem-nants such as seigniorial regime persisted in one form or the oth-er, on the other side, peasantry survived against all odds thereby

5 Jr. Barrington Moore, Social Origins of Dictatorship and Democracy: lord and Peasant in the Making of the Modern World, Beacon Press, Boston, 1966; J. Blum, Lord and Peasant in Russia: From the Ninth to the Nineteenth Century, Princeton University Press, Princeton, 1971. This emphasis is also in conformity with the search for origins of capitalism in the class structure of the countryside, hence the so-called Brenner Debate (T.H. Ashton, C.E. Philpin (eds.), The Brenner Debate: Agrarian Class Structure and Economic Development in Pre-industrial Europe, Cam-bridge University Press, Cambridge, 1987.

6 F. Braudel, The Wheels of Commerce, Harper & Row, New York, 1982, p. 251.7 Ivi, p. 252.

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demonstrating even greater resilience8 than that of feudalism or its derivatives such as the ‘second serfdom’ as of the sixteenth centu-ry that befell the lot of East European peasantry:

But it does seem to me that the second serfdom was the counterpart of a merchant capitalism which discovered in the structures of Eastern Europe certain advantages and even in some cases its raison d’être. The great landowner was not a capitalist, but he was a tool and a collaborator in the service of capitalism in Amsterdam and elsewhere. He was part of the system9.

What seemed as ‘feudal’ at first sight was therefore quite dif-ferent in substance. Behind the façade of appearances associated with ancient costume and ceremonialism, an entirely different and novel logic held sway. This forewarns us not to yield to the ease of defining feudalism all too broadly so as to accommodate more than it can. We are thus encouraged to retreat to the original temporal and spatial parameters of feudalism as associated with the Euro-pean Middle Ages10.

Feudalism in its original sense is a relatively decentralized and simple mode of economic, political and legal organization. It is prone to further fragmentation of power rather than a reversal of the trend in favor of centralization. Because of its proclivity to cen-trifugal dynamics and its simplicity associated with a time of deca-dence, feudalism is in some ways conceived as something ‘natural’. A warrior class is summoned to state service by providing soldiers

8 Ivi, p. 255.9 Ivi, p. 271.10 The scaling down of feudalism so as to match it with the Middle Ages, if not the

debunking of the concept of ‘feudalism’ itself as some critics (E. Brown, The Tyranny of a Construct: Feudalism and Historians of Medieval Europe, «American Historical Re-view», 79 (1974), pp. 1063-68; S. Reynolds, Fiefs and Vassals: The Medieval Evidence Reinterpreted, Oxford University Press, Oxford, 1994; R. Abels, The Historiography of a Construct: ‘Feudalism’ and the Medieval Historian, «History Compass», 7, 3 (2009), pp. 1008-31) imply, does not resolve our problems either. According to some, the Middle Ages is rightly not a sheer chronological label. It is in fact a metaphor. As a metaphor it can be more flexibly applied than ‘feudalism’ itself. For example, the recent contours of our common civilization has led one inquisitive mind (A. Minc, Le Nouveau Moyen Aĝe, Gallimard, Paris, 1993) to speak of a return to the Middle Ages by dubbing the times plagued with uncertainty that we are moving through as ‘The New Middle Ages’. The term ‘Middle Ages’ has also taken its share of criticism as an intellectual construct open to vagaries of cultural relativism (N.F. Cantor, Inventing the Middle Ages, Quill-William Morrow, New York, 1991).

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in return for land allocations, the produce of which they use to sustain themselves and the provisional fighting force. We are faced here with an agricultural economy that is subsistence-based and not much monetized. Behind this, one can discern the elements of an archaic yet universally widespread practice of distributing booties and conquered lands to warriors who played an active part in their acquisition in the first place, in order to secure their future services in moments of dire need in a war-ridden world harboring chaos.

2. The Mediterranean and the Ottoman Empire on the Verge of Early Modernity

It is in the above sense that one etymological root of the Euro-pean word ‘fief’ can be traced back to Arabic via South European intermediation11; an entire field of interaction that was extreme-ly marginal to the classic heartland of feudalism yet of immense potential bearing for the making and remaking of Mediterranean feudalism at large. As for manorialism taken as a distinguishing attribute of feudalism, it is also traceable to the villa practices of the equally Mediterranean Roman Empire faced with demographic crisis and security problems in the face of barbarian pressures. Whereas vassalage might have had its historical roots on either side of the Rhine, «The manor on the other hand, certainly derives from the Gallo-Roman fundus or villa, which had no barbarian counterpart: huge, self-contained estates tilled by dependent peas-ant coloni, delivering produce in kind to their magnate landowners, in an obvious adumbration of a domain economy»12. The Carolingi-an Empire, as a landlocked area with minimal long-distance trade and monetization, responded to its isolation from the riches of the Mediterranean with developing a manorial system that took as its point of departure a subsistence economy.

Hence etymological and institutional Mediterranean affinities notwithstanding, feudalism was nevertheless not a Mediterrane-an phenomenon per se, but quite the opposite, in fact, it was a stranger in paradise who learnt to feel quite at home. Feudalism

11 A. Samarrai, The Term ‘Fief’: A Possible Arabic Origin, «Studies in Medieval Culture», 4, 1 (1973), pp. 78-82.

12 P. Anderson, Passages from Antiquity to Feudalism cit., p. 130.

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accommodated itself to Mediterranean circumstances rather well, so much so, that when the hour of departure finally came, it would rather linger on than leave in haste for good.

Within the Mediterranean world, feudalism has usually been measured with respect to its deviation from the European norm as well as being an obstacle in the way of modernity. The paradox is that the Mediterranean world had been a homeland to many ‘modes of production’ including – albeit controversially – capitalism and yet failed to generate a transition of its own from feudalism to capital-ism13. Thanks to this paradox, the Mediterranean world in general, and the Italian peninsula in particular14, offer a valuable counter-case to the so-called once-classic and now much forgotten ‘Transition De-bate’15. In one way, the Mediterranean world was always less then perfectly feudal, yet in another way, it was persistently quasi-feudal; all the more so as one moved along the modern times.

As of the nineteenth century, European travelers and schol-ars who visited or studied Japan were struck with the fact that it looked like a museum of feudalism and what was on display resembled the bygone European feudal past most16. With some ex-aggeration, one could claim that, in order to understand the Eu-ropean feudal epoch, one should observe Japan of the nineteenth century. The difference between the two was reducible to the Med-iterranean-effect on the European Middle Ages, that is, the dual presence of Roman Law and cities inherited from antiquity in the West and their absence in Tokugawa Japan. The fact that whereas Europe experienced a transition-from-within to capitalism Japan did not and begged for external factors, has also been traced back to this difference17.

13 The issue of whether or not a logically consistent internal feudal dynamics leading to capitalism exists has rightly been contested (B. Hindess, P.Q. Hirst, Pre-capi-talist Modes of Production, Routledge & Kegan Paul, London, 1975, pp. 260-307).

14 It has been aptly demonstrated that whereas Italy possessed all the alleged-ly necessary attributes for a successful transition, the transition actually did not come about for a very long period of time (M. Aymard, From Feudalism to Capitalism in Italy: The Case That Doesn’t Fit, «Review. A Journal of Fernand Braudel Center», VI, 2 (1982), pp. 131-208.

15 R. Hilton et al, The Transition from Feudalism to Capitalism, Verso, London, 1978.16 No wonder why many Japanese also took this for granted as the modernist

governments embarked upon a prolonged discourse of waging war against the feu-dal remnants (J.W. Hall, Feudalism in Japan-a Reassessment, «Comparative Stud-ies in Society and History», 5 (1962), pp. 15-51).

17 P. Anderson, Japanese Feudalism, in his Lineages of the Absolutist State,

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The Ottoman Empire played an important role in the Mediter-ranean world as of the conquest of Constantinople in 1453. It is no coincidence that it is one of the two major protagonists of Fernand Braudel’s now classic The Mediterranean. During the long six-teenth century, the Ottoman Empire expanded its domain well into the Middle Mediterranean and sought hegemony over the Mediter-ranean. Even so, it was never a thalassic empire. It was first and foremost land-based. As such its fortunes were determined by the interplay of a primarily vast agricultural economy and the benefits of long-distance trade routes on which it was situated. Because of this fundamental reality, the nature of the Ottoman land system in general, and the timar (the assignment of land in return for provid-ing mounted soldiers in case of war) in particular, have been much discussed with or without reference to archival sources18. As of the 1960s there emerged a debate over whether the Ottoman Empire was feudal or it exemplified the Asiatic mode of production19. Be-tween the two, the Ottoman Empire seemed to approximate more to the Asiatic mode of production. This was because the Sultan held title to all land in principle and therefore the principle of a common ownership of land prevailed.

Perhaps more importantly, the Ottoman Empire was a late-comer on stage and as such, in contrast with Medieval Europe, its economy was highly monetized. Last but not least, the Otto-man Empire was highly centralized whereas Medieval Europe and concomitantly feudalism were essentially decentralized. Ultimately when the advocates of feudalism tried to reconcile Ottoman facts with the theory of feudalism, they were forced to arrive at the con-clusion that it was a ‘centralized feudalism’; that is, an oxymo-ron. As of the 1980s, the rival positions were forced to come to terms with the historical evidence, and a convergence occurred in favor of a differentiated tributary economy combining the attrib-utes of both European and Asiatic social formations. In retrospect,

New Left Books, London, 1974, pp. 435-61. Nevertheless, this thesis fostered by travelogues intrigued by the costumes of samurai has been contested lately (K. Fri-day, The Futile Paradigm: In Quest of Feudalism in Early Medieval Japan, «History Compass», 8, 2 (2010), pp. 179-96).

18 Ö.L. Barkan, Türkiye’de Toprak Meselesi, Gözlem Yayınları, Istanbul, 1980; Ç. Keyder, İ. Huri, Agenda for Ottoman History, «Review. A Journal of the Fernand Braudel Center», 1, 2 (1977), pp. 31-55.

19 S. Divitçioğlu, Asya Üretim Tarzı ve Osmanlı Toplumu, Yapı Kredi Yayınları, Istanbul, 2003.

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leaving aside the controversial characterization as ‘Asiatic mode of production’ that has been discredited because of its ideological uses and abuses it is quite clear that the Ottoman Empire was not an instance of ‘feudalism’20, be that Mediterranean or not. Given that geographical variations were acknowledged, it is natural that it nevertheless contained isolated pockets of feudalism much like the European phenomena, in certain places such as the remote regions of the Balkans and Eastern Anatolia, but also in the Mount Lebanon21. It is thus no coincidence that, whereas hardly a book that bears ‘feudalism’ in its name exists about the Ottoman Em-pire, many scholarly books and references hold up feudalism as a definitive attribute of Mount Lebanon as manifest in their titles22. This sharp contrast begs for a closer scrutiny.

3. Mount Lebanon’s Specificity

In the wake of Napoleon’s Egyptian expedition (1798-1801), travel expanded much more easily and rapidly in the Mediterrane-an and many Europeans were set off for the Holy Land and sites and ruins of Antiquity23. This being the case, they could not help escape Mount Lebanon that appeared to them as different from the rest of the Middle East, as Japan appeared to others as different

20 K. Wittfogel, Oriental Despotism, Yale University Press, New Haven, 1957; G. Sofri, Il Modo di Produzione Asiatico: Storia di una Controversia Marxista, Einaudi, Torino, 1969; L. Krader, The Asiatic Mode of Production, Van Gorcum, Assen, 1975; A.M. Bailey, J.R. Llobera (eds.), The Asiatic Mode of Production, Routledge & Kegan Paul, London, 1981; S.P. Dunn, The Fall and Rise of the Asiatic Mode of Production, Routledge & Kegan Paul, London, 1982.

21 Although Lebanon, Mount Lebanon and the Lebanon are often used in-terchangeably, the latter two mean the same thing and refer to the territory of the mutesarrifate (1860-1914) whereas the former indicates Republic of Lebanon. The most importance single difference being that the former includes Beirut whereas the latter does not.

22 A. Ismail, Histoire du Liban du XVIIe siècle à nos jours. Tome IV: Redresse-ment et déclin du feudalism libanais (1840-1861), Presses Harb Bijjani, Beyrouth, 1958; T. Touma, Paysans et institutions féodales chez les druses et les maronites du Liban du XVIIe siècle à la 1914, Université Libanaise, Beyrouth, 1971; Y.I. Yazbec, Lebanon in the Last Years of Feudalism, 1840-1868: A Contemporary Account by Antun al-Aqiqi and Other Documents, American University of Beirut, Beirut, 1959.

23 J.-M. Carre, Voyageurs et écrivains français en Egypte, Imprimerie de l’Ins-titut Français d’Archéologie Orientale, Cairo, 1956; L. Vaczek, G. Buckland, Travel-lers in Ancient Lands: A Portrait of the Middle East, 1839-1919, New York Graphic Society, Boston, 1981; P.A. Clayton, The Rediscovery of Ancient Egypt: Artists and Travelers in the Nineteenth Century, Thames & Hudson, London 1982.

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from the rest of Orient. This specificity, if not outright uniqueness, was noted by all; many an eyewitness attributed it to the surviving ‘feudalism’ they observed24.

Mount Lebanon consisted of a mountainous terrain cut off from the Mediterranean Sea. It was also deliberately dissected from Bei-rut for the sake of administration. It was not easily accessible. It was protected from attacks that could come from the sea as well as from land. It had always been a safe haven for those who escaped warfare and/or religious persecution. This was so during the Arab conquests, Crusades, under the Egyptian Mamluks and finally un-der the Ottomans. Thanks to its natural endowments and warlike people25, it was hard to subjugate fully and hence those who dom-inated its surroundings sought a modus vivendi with the rulers of the Mountain as a result of which the denizens of the Mountain enjoyed a practical sui generis autonomy under their emirs.

The emirs ruled Lebanon between 1516 and 1842 and be-longed to the houses of the Druze Maanids (six emirs who ruled for 180 years) based in Chouf district and the originally Moslem Shi-habs (eight emirs who ruled for 150 years) based in Wadi-t Taim in Southern Lebanon. Of these, Emir Fakhreddin II (1586-1634) stood out as an enlightened ruler well aware of the Mediterranean politics of his time and who concluded treatises with Italian princ-es and travelled to Toscany, where he lived in exile for five years, in order to forge a strategic alliance with the Grand Duke. It was however already during the reign of Fakhreddin I (1516-1544) that the hereditary rule of emirs was accepted by the Ottomans. The emir could henceforth maintain an army and conclude treatises

24 C. Niebuhr, Entdeckungen im Orient: Reise nach Arabien und anderen Land-ern, 1761-1767, Horst Erdmann Verlag, Tübingen, 1975; C.F. Volney, comte de Chasseboeuf, Voyage en Egypte et en Syrie pendant les années 1783, 1784 et 1785, Parmantier, Paris, 1825; J.L. Burckhardt, Travels in Syria and the Holy Land, AMS Press Reprint, New York, 1983.

25 One traveler noted: «I received from my host some good information respect-ing the people of the mountains, and their power of resisting Mehemet Ali. The chief gave me very plainly to understand that the mountaineers being dependent upon others for bread and gunpowder (the two great necessaries of martial life) could not long hold out against a power occupying the plains and commanding the sea; but he assured me, and that very significantly, that, if this source of weakness were provided against, the mountaineers were to be depended upon. He told me that, in ten or fifteen days, the chiefs could bring together some fifty thousand fighting men» (A.W. Kinglake, Eothen or Traces of Travel Brought Home from the East, E. P. Dutton & Co [1844], New York, 1908, p. 231).

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with foreign states as long as he nominally recognized the Sultan as his chief ruler and sent his annual tribute. The practical inter-nal autonomy of Mount Lebanon was finally put into writing with the Règlement Organique (1861), a co-product of local, regional and international forces, which is noted for having broken for good the power of the old feudal families and tribes and thereby having abolished feudalism26.

As safe haven, Lebanon was densely populated. This meant that its little yet fertile arable land was much contested under strong demographic pressure27. Moreover, its population was eth-nically and religiously diverse. Most notable among these were the Druses and Maronites. The existence of Arabs of Orthodox faith and some Catholics further complicated the picture. The Otto-man conquest of Arab lands had come rather late in comparison with that of the Balkans. Because of this, the Ottomans arrived at a compromise with local forces that were predominantly Mus-lim. In Mount Lebanon lacking a Muslim population, however, the Ottoman conquest played a rather marginal role and remained a passing phenomenon briefly superimposed on an otherwise re-cluse historical dynamics. The Ottoman regime, while not deeply penetrating into Mount Lebanon, served instead to protect it from further outside interventions and potential conquests thereby giv-ing its own dynamics a chance to play itself out. It was only with Napoleon’s expedition and the subsequent revolt of Muhammad Ali Pasha of Egypt (1829-1841) that Mount Lebanon was reopened to foreign influence and interventions. The first half of the nineteenth century witnessed the speeding up of this otherwise internal dy-namics as a result of which the Mountain appeared like a very late latecomer to ‘second serfdom’ struggling with a futile quest to gen-

26 H.H. Jessup, Fifty-Three Years in Syria, Fleming H. Revell Company, New York, 1910, p. 216.

27 During the period, 1830-40, with about a population of 200.000 inhabi-tants and an average of 250 inhabitants per square kilometer of cultivable land, the Mountain had reached the point of demographical saturation (D. Chevallier, La Société du Mont Liban a l’époque de la révolution industrielle en Europe, Librairie Orientaliste Paul Geuthner, Paris, 1971, p. 48). In late nineteenth and early twenti-eth century, Lebanon was distinguished from the rest of geographical Syria (as well as the Ottoman Empire) by its population density. Whereas population density per square kilometer was 9 for the vilayet of Damascus and 13 for the vilayet of Alep-po, it was 65 for the Lebanon (H. Lammens, La Syrie: précis historique, Imprimerie Catholique, Beirut, 1921, p. 200).

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erate an absolutist ‘local’ state from within. Compared to its rivals, this ‘local’ emirate state could only remain embryonic and dissolve. Its social foundation of power, on the other hand, acquired an in-creasingly feudal-looking character, far more so than it was in the sixteenth, seventeenth and eighteenth century. It was feudalism- come-late, moreover, in this specific case, decorum prevailed over substance and impressed, if not misled, the foreign observers.

4. Mount Lebanon’s Persistent Ancien Régime

Before Mount Lebanon came under the influence of European trade and diplomacy by way of the port-city of Beirut in the nine-teenth century, it possessed a primarily rural economic structure. Naturally, this earlier state of things inspired speculation as to how it could be classified in terms of a mode of production28. Arable land was always far from abundant. This aggravated the competi-tion for land. Land tenure was characterized by a superimposition of the iltizam and ikta institutions. Both are extremely complex to start with, not to mention mukataa, which will make the picture even more complicated29. With ancient and Islamic roots, they dis-play enormous variety over time as well as across space. İltizam was the more general Ottoman practice of tax-farming that was spread with the quest of central state for revenues. It was also applied to Arab provinces of which Mount Lebanon formed a small and insignificant part. Ikta is a «term for a form of administrative grant, often (wrongly) translated by the European word ‘fief’»30. Ikta was much more locally conditioned and therefore widespread in Mount Lebanon. Whereas the mültezim of the iltizam acquired the right to collect taxes by virtue of being the highest bidder in an auction, the mukataaji of the ikta system held title to the land rev-

28 A. Scholch, Was there a Feudal System in Ottoman Lebanon and Palestine?, in D. Kushner (ed.), Palestine in the Late Ottoman Period: Political, Social and Eco-nomic Transformation, E.J. Brill, Leiden, 1986, pp. 130-145.

29 C. Cahen, Ikta, «Encyclopedia of Islam», E.J. Brill, Leiden, 1971; H. Gerber, Mukataa, «Encyclopedia of Islam», E.J. Brill, Leiden, 1993.

30 The right of inheritance was given to ikta holders by successors of the Sel-juks in order to secure the loyalty of local troops in their struggle against the Cru-saders: This development has been ascribed to the influence of the Latin Orient, where something like the western hereditary fief had been introduced. While no definite denial of any such influence can be made, it does seem that the same result might have been reached through a natural autonomous development, even with-out the presence of the Latin Orient (C. Cahen, Ikta cit., p. 1088).

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enue on the basis of political appointment as well as his kinship ties to the particular community that worked the land. The ikta practice was therefore relatively more feudal-like. This difference became all the more important as Mount Lebanon was placed in a vacuum of political power due to the decentralization tenden-cy of the seventeenth century, by taking advantage of which, the mukataajis could expand their ‘feudal like’ local authority because of their historical right to surplus as defined by kinship ties31. This expansionary momentum was of greater consequence in mixed districts where, at the end of the road, the religious identities of the mukataaji and the peasants ended up being different. If this differ-ence became all the more important over time, there was another difference across space that was already of great significance. The ikta system emphasized kinship and status and was legitimized as the ‘natural order of things’, in sharp contrast to the traditional Ottoman system of social cohesion where the sovereign-subject re-lations worked through the artificial millet (nation) organization of basically religious communities32.

The feudal-like pyramid in Mount Lebanon can be summarized as follows. At the bottom were the peasants. Above the peasants were the mukataajis. Above them were the emirs. Above the emirs was the Ottoman local administrator (vali) as the representative of the Sultan. The ikta system displayed a complex cosmography of its own where allegiances were shaped differently:

Political allegiance was not based on religious or ethnic considera-tions, and political loyalty cut across sectarian lines. A man’s allegiance was first to his muqati’ji and then to the ruling Emir, whether they were of his religious group or not33.

Even so, where some saw ikta as the dominant status-determin-ing paradigm because it served their aspirations, others identified the more general Ottoman iltizam that suited their interests better. In this sense, the two systems were superimposed and intermingled.

31 S. Khalaf, Lebanon’s Predicament, Columbia University Press, New York, 1987, p. 17.

32 Y.E. Özveren, The Making and Unmaking of an Ottoman Port-City: Nineteenth Century Beirut, Its Hinterland, and the World-Economy, Ph.D. thesis, State Universi-ty of New York at Binghamton, Ann Harbor, U.M.I, 1990, p. 25.

33 I. Harik, Politics and Change in a Traditional Society: Lebanon, 1715-1845, Princeton University Press, Preinceton, 1968, p. 42.

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Source: Polk (1963), a superimposition of the two maps on p. 54 and p. 128

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The iltizam amounted to a dynastic principality only in the minds of the Christian partisans of the Maan and Shihab multazims. The Druzes, even when they did not oppose these multazims, always recognized them for what they really were, and never entertained any illusions of their be-ing reigning princes34.

In any case, the authority of the emirs was little more than ethereal as was the case with feudal kings or overlords in Medieval Europe. The emirate launched an uphill battle to gain strength as of the beginning of nineteenth century but was incomparably weaker than either of its potential rivals, the Ottoman Empire or its Egyp-tian vassal. In any case, the positioning of the emirate vis-à-vis the Druze and Maronite communities changed significantly. During the early modern period, the Druses had monopolized the loose state structure of the emirate which they had nurtured. Thanks to “the predominance of the Druze feudal lords”, Mount Lebanon was originally known as Jabal ad-Duruz that is, the Mount of the Dru-zes35. The Druses held title to land by virtue of their being armed conquerors and they constituted the ruling-class. The demand of Druze landholders for Maronite laborers to work their lands en-couraged the influx in large numbers of Maronite peasants to the Mountain during the zenith of Druze rule, that is, Emir Fakhr al-Din II’s reign (1590-1613 and 1618-1633). During Emir Beshir’s reign (1789-1840), who was a «Christian by baptism, Moslem in matrimony, Druze through convenience rather than conviction»36, the Druze population had further dwindled because of mass Dru-ze migration to Hawran in order to avoid local factional quarrels. Emir Beshir played factions of the mukataajis against one another in order to improve his own standing:

When the amir had destroyed effective rivals in his own family and had confiscated their estates, comprising a large proportion of the income-pro-ducing land of Lebanon, he was obliged, in 1807, to share his spoils with the Janbalat family, who grew considerably richer than the amir37.

34 K. Salibi, A House of Many Mansions: The History of Lebanon Reconsidered, I.B. Tauris & Co., London, 1988, p. 128.

35 A.L. Tibawi, A Modern History of Syria, including Lebanon and Palestine, St. Martin’s Press, New York, 1969, p. 99.

36 P.K. Hitti, Lebanon in History, St. Martin’s Press, New York, 1962, p. 417.37 W.R. Polk, The Opening of South Lebanon, 1788-1840, Harvard University

Press, Cambridge, 1963, p. 19.

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Beshir Janbalat revolted against the emir in 1825. This was a critical historical turning-point:

The fall of Beshir Janbalat was an event of great consequence. By crushing his rich and powerful rival, Beshir II had finally established his position as undisputed master of Lebanon; but he had also destroyed the only effective Druze leadership that remained. The emir, in effect, had dealt a last blow to Druze political dominance in the country; the Druzes never forgave him for it. Weakened and leaderless, they henceforth ceased to cooperate wholeheartedly in the affairs of the Emirate and awaited the opportunity for revenge. The Christian Shihab, it is true, had crushed the Druze Janbalat not because he was a Druze, but because he was a politi-cal rival. The Druzes, however, were to remember the incident differently; and Beshir’s subsequent policy was to make them look upon him more and more as a Christian enemy to their community38.

Not only the Janbalats, but also the Amads and the Abou Na-kads, that is, the three principal Druze families were thus expro-priated and destroyed39. It was as of then that the Maronites could no longer be considered as a «Christian section of the Druze na-tion»40 both because they had improved their lot considerably as well as that the Druses were thoroughly alienated as the fortunes – economic or otherwise – of their enemies steadily improved:

Large scale confiscations of the properties of Druze shaykhs and bur-densome impositions leading to forced sales alienated a great proportion of land owned by Druzes, divested the muqata’ajis of their influence, and impoverished many families, some of whom emigrated to Hawran41.

In the course of time, the emirate dissociated from the Dru-zes thus became an instrument of practical Maronite dominance and autonomy. After the Egyptian occupation ended in 1840, the Shihabi emirate was dissolved in 1842 and two successive polit-ical projects were designed for the Mountain, first the Règlement Shekib Effendi (1842) that introduced the bi-zonal regime of Dou-

38 K. Salibi, The Modern History of Lebanon, Praeger, New York, 1965, p. 27.39 C.H. Churchill, The Druzes and the Maronites: Under the Turkish Rule, from

1842 to 1852, Arno Press Reprint, New York, 1973, p. 36.40 N.M. Abu-Izeddin, The Druzes: A New Study of Their History, Faith, and So-

ciety, E.J. Brill, Leiden, 1984, pp. 209-211.41 Ivi, p. 215.

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ble Kaymakamat (with a northern and a southern district) which recognized the equal status of two rival communities in principle, and second, the Règlement Organique (1861) that shifted the bal-ance in favor of the Maronites and reduced the Druses to the sta-tus of a minority in an otherwise unitary mutesarrifate regime that set up an imperium in imperio where the privileged could enjoy a true privilege. Even so, both projects treated ethno-religious de-nominational communitarian representation as the principal pillar of the political order42. Hence this identity was all the more rein-forced at a time when most other things seemed to be falling apart. The adoption of the principle of political representation at the local level created a window of opportunity for the ruling-class of the ancien régime, the members of which derived their political power from their monopoly over land and their control over the subject peasants who were obliged to work it. Hence the landowners in ancient costume filled the administrative council, district coun-cils and municipal councils and the posts of kaymakams (district administrators) and thereby provided the political cadres of the new regime at a time when their properties came under increasing attack from below43.

5. Church and Peasant in the Making of the Mutesarrifate of Lebanon

The architect of Maronite ascent in the Mountain was the one institution that had its roots in remote history, that is, the Ma-ronite Church. It was originally like the Church in Medieval Eu-rope and survived as such well into the eighteenth century. As of then, it assumed a centralizing and modernizing role vis-à-vis the Maronite community. It thereby gained further power and prestige. Thanks to its newly acquired ‘modern’ substance and function due to contact with the Catholic Church in general and France in par-ticular, this originally ‘feudal’ institution became a strong vehicle of social integration and identity creation. This regional Church

42 M.T. Gökbilgin, 1840’tan 1861’e kadar Cebel-i Lübnan Meselesi ve Dürzil-er, «Belleten», X (1946), pp. 641-703; Y.E. Özveren, La spécificité du Liban Durant le dernier siècle de l’Empire ottoman, in Histoire économique et sociale de l’empire ottoman et de la Turquie (1326-1960), Collection Turcica, vol. VIII, Peeters, Paris, 1995, pp. 680-681.

43 A.A. Khair, Le Mouttacarrifat du Mont-Liban, Université Libanaise, Beirut, 1973, p. 124.

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became an extension of the Church of Rome as of 1736. This con-nection helped the emancipation of the clergy and the Church from mukataaji surveillance and the enhancement of its economic inde-pendence so much so that by the beginning of the nineteenth cen-tury, the Church had become the wealthiest and best-organized institution in Mount Lebanon in the hands of a militant clergy who were themselves of peasant stock. By endorsing Napoleon’s cam-paign, the Maronite Church defied the emir’s authority for the first time. Within a few decades, when the Egyptian forces withdrew in 1840, the Church had replaced the emirate as the most influential and powerful institution in the Mountain. The Church attained and consolidated its positional superiority as a result of the cler-gy’s active involvement in the three successive waves of peasant uprisings in 1820, 1840 and – albeit to a lesser degree – in 1857 that progressively destroyed the land tenure practices, appropria-tion of land rent, and the corresponding political structure44.

The local foundations of the transformation of political institu-tions of the Mountain can be traced back to the rural contestation for power. During the uprising of 1820 against the excessive tax impositions of the emir, endorsed by the mukataajis such as the Khazins and the Abillamas, the Maronite peasants rose up. But the Druze peasants, along with the «Christians of the Druze-dom-inated muqata’ahs of Jabal al Shuf and the iqlims stayed away»45. Hence feudal bonds, though weakened, survived this first test of force. In 1840, the peasant revolt broke out because of an exces-sive tax demand combined with the Egyptian regime’s attempt to enforce general conscription upon the inhabitants of the Moun-tain. Once again, Druze peasants did not go all the way with their Maronite fellowmen, and in the mixed districts, Christians backed off. The patriarch of the Maronite Church gained credibility as the peasant movement acquired an increasingly Maronite character. At the origin of the third and last wave of peasant uprising initiat-ed in 1857 was the demand of mukataajis for increased rents as their welfare was being threatened by prevailing economic circum-stances. The revolt started off in the Maronite district of Kasru-wan in the north, «the richest and most densely populated district» noted for its private landholdings leased to sharecroppers of the

44 Y.E. Özveren, The Making and Unmaking of an Ottoman Port-City cit., pp. 28-31.45 I. Harik, Politics and Change in a Traditional Society cit., p. 221.

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same faith46. The popular hero of the movement, Tanyus Shahin was acting in the name of the ‘Republican Government’ or ‘Peasant Commonwealth’ by 1859. This «first republic of the East» lasted for about a year47. The wealth and property of mukataajis like the Khazins were distributed to the impoverished share-croppers48. No matter how far the movement went, its success found little re-sponse among the Druze in the southern districts. It was only the Maronite peasants of mixed districts who joined the revolt. By so doing, they rose against their Druze overlords. In this way, the peasant movement gained a sectarian character much against the original intent. In the meantime, Church distanced itself from the more radical republican stance and endorsed Yusuf Bey Karam in his attempt to crush down the peasant republic. The peasantry was thus defeated. More importantly, divided, the Maronite com-munity lost. The Church won. On the other side, the Druses closed their ranks behind their sheikhs. Hence, the mukataajis of Druze origin reinforced their power over their land and Druze subjects at a time when the mukataaji power in general was being undermined by both the spread of marketization and the social transformation.

In a nutshell, out of the feudal bondages of the ikta system, an essentially Maronite peasantry was thus emancipated as an agen-cy of major change. At the end, peasantry was defeated politically. Even so, small peasant land ownership spread rapidly amidst a market environment in the third quarter of the nineteenth century at a time when the landowning-class lost its power and preroga-tive49. These peasant uprisings bring us back to the theme of ‘Lord and Peasant’ in the prolonged making of Lebanon. It should be obvious that, in this case, we are faced with a variant, the pro-tagonists of which can be better described as Church and Peas-ant. If the Church replaced the Lord in this critically important

46 D. Chevallier, Aux origins des troubles agraires libanais en 1858, «Annales», 14, 1, 1959, pp. 39, 44.

47 S. Khalaf, Lebanon’s Predicament cit., p. 40.48 T. Touma, Paysans et institutions féodales cit., pp. 259-66, 295.49 An observation about mid-twentieth century helps see the lasting effect:

«While feudalism as an institution was abolished back in 1860, pockets of it in the form of large landholdings remain in scattered parts of Lebanon. Where it persists, the standard of living is low and political maturity is lacking» (M.W. Suleiman, Polit-ical Parties in Lebanon, Cornell University Press, Ithaca, 1967). In Mount Lebanon, there exists nevertheless a strong tradition of private ownership by small independ-ent farmers.

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equation, landlords of the ancien régime filled the posts of local representative politics as notables. In this sense they became even more visible than before. They reinforced their ethnic tribal ties and traditions. Just as the Druses had earlier retreated to their community culture in order to preserve their identity as manifest first and foremost in their distinct costume, the landlords of the ancien régime deliberately reinvigorated the socially-divisive feudal costume, ceremonialism, and decorum of Mount Lebanon. It is af-ter all this façade that served them well in their new political call-ings as a second-best substitute for their once entirely land-based power. The more ‘feudalism’ thus became visible, the more it was actually deprived of its original definitional substance. Far from being eliminated, ‘feudalism’ could thus gain force and survive well into the twentieth century and supply successive civil wars with a raison d’être.

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sommArio: Nel saggio l’autore sostiene che il feudalesimo adriatico si configurò come un fenomeno pieno e persistente non solo nel Mezzogiorno d’Italia, ma anche, benché in misura più sfumata, nelle regioni orientali dello Stato pontificio, in particolare la Marca Anconetana e le Legazioni, e in alcuni ambiti territoriali della Repubblica di Venezia, soprattutto quelli conquistati durante il periodo della espansione della Serenissima sulla terraferma. I modi, i tempi e gli spazi della presenza del feudalesimo adriatico risultarono, quindi, egualmente determinanti nei secoli dell’età moderna. Si trattò, certamente, di un insieme di feudalità diverse, che tuttavia ebbero nel feudo e nella base territoriale e giuridica del possesso feudale il loro tratto unitario e caratterizzante.

PArole chiAve: feudalesimo adriatico, feudo, età moderna.

ADRIATIC FEUDALISM IN THE EARLY MODERN AGE

AbstrAct: In this paper the author argues that the feudalism in the area of the Adriatic took the form of a fully developed and persistent phenomenon, not only in Southern Italy, but also, although in a more nuanced way, in the eastern regions of the Papal States, in particular the Marca Anconetana and legations, and in some territories of the Republic of Venice, especially those established during the period of expansion of Venice into the mainland. The forms of feudalism that developed in the area of the Adriatic at various times and in various places were equally decisive in the centuries of the modern age. Although they were most certainly different forms, they found their common and unifying characteristic in the fief, the territorial and legal basis of feudal possession.

Keywords: Adriatic feudalism, fief, Early Modern Age.

«Fra Medioevo e prima Età moderna, sia pur semplificando, possiamo distinguere un’Italia feudale in senso proprio da un’I-talia feudale in senso residuale. L’Italia feudale in senso proprio comprende le isole della Sardegna e della Sicilia, il Regno di Na-poli, il Lazio meridionale, ma si estende anche in aree settentrio-nali sia ad est (Friuli e Trentino) sia ad ovest (il Piemonte). L’Italia feudale in senso residuale comprende la Lombardia, il Veneto, la Toscana, i territori padani, i ducati pontifici dell’Italia centrale»1.

Abbreviazioni utilizzate: Asv: Archivio di Stato di Venezia.1 A. Musi, Il feudalesimo nell’Europa moderna, il Mulino, Bologna, 2007, p. 73.

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IL FEUDALESIMO ADRIATICO NELL’ETÀ MODERNA

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Così, qualche anno fa, si esprimeva Aurelio Musi nel suo volume Il feudalesimo nell’Europa moderna, nel quale l’Autore rilevava come l’attributo residuale riferito al feudalesimo non fosse da intendersi nel senso di marginale e/o in via di esaurimento, bensì nel senso di sopravvivenza e di trasformazione. Musi individuava nel Ducato di Milano un caso paradigmatico di feudalesimo residuale. I Visconti, infatti, nella prima Età moderna, avevano promosso una politica di «reviviscenza di istituzioni feudali», tanto che alla fine del ’400 lar-ga parte del territorio ducale, in particolare le aree confinanti con gli altri Stati italiani, era segnata da una forte presenza del feudo2.

Nel ricostruire la mappa giurisdizionale dell’Europa mediterra-nea, inoltre, Musi, sulla scorta del Boutrouche, scorgeva la presen-za di aree tipiche del feudalesimo «spontaneo» accanto a aree del feudalesimo «impiantato»3.

Nell’Europa mediterranea (Spagna, Italia e Francia) il feudale-simo, che aveva avuto la sua massima espansione durante il Me-dioevo, si radicò a vari livelli di profondità anche nei secoli dell’Età moderna ed ebbe nel binomio possesso terriero/giurisdizione un elemento unitario. Il seňorío spagnolo, i baroni o signori di vassalli dei Regni di Napoli e di Sicilia e la signoria rurale francese furo-no, infatti, accomunati sia dalle caratteristiche tipiche del feudo, cioè dalle sue proprietà essenziali, naturali ed accessorie, sia dal dominio utile dei diritti connesso alla costituzione stessa del feudo e al suo possesso giuridico. Il godimento di questi diritti fondati

2 G. Chittolini, Signorie rurali e feudi alla fine del Medioevo, in G. Galasso (a cura di), Storia d’Italia, vol. IV, Comuni e Signorie. Istituzioni, società e lotte per l’egemonia, Utet, Torino, 1981, pp. 646-647; Id., Città, comunità e feudi negli Sta-ti dell’Italia centro-settentrionale (secoli XIV-XVII), Unicopli, Milano, 1996; Id., La formazione dello Stato regionale e le istituzioni del contado: secoli XIV-XV, Einaudi, Torino, 1979; E. Fasano Guarini (a cura di), Potere e società negli Stati regionali fra ’500 e ’600, il Mulino, Bologna, 1978; C. Mozzarelli, P. Schiera (a cura di), Pa-triziati e aristocrazie nobiliari. Ceti dominanti e organizzazione del potere nell’Italia centro-settentrionale dal XVI al XVIII secolo, Libera Università degli Studi di Trento, Trento, 1978. Sul feudalesimo nello Stato di Milano cfr. C. Mozzarelli, Antico regime e modernità, Bulzoni, Roma, 2008; F. Cengarle, Immagine di potere e prassi di gover-no. La politica feudale di Francesco Maria Visconti, Viella, Roma, 2006; K. Visconti, Il feudo milanese tra Sei e Settecento: strumento di ascesa sociale e utile presupposto per una carriera politica, in E. Novi Chavarria, V. Fiorelli (a cura di), Baroni e vassal-li. Storie moderne, FrancoAngeli, Milano, 2011, pp. 311-325; utile risulta ancora il lavoro di C. Magni, Il tramonto del feudo lombardo, Giuffrè, Milano, 1937.

3 A. Musi, Il feudalesimo nell’Europa moderna cit., pp. 65-89; R. Boutrouche, Signoria e feudalesimo, tr. it., 2 voll., il Mulino, Bologna, 1971-1974, in particolare vol. II, Signoria rurale e feudo, pp. 275-308.

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sul sistema feudale fece sì che i signori feudali, che adottarono sin dall’inizio una politica tesa a estenderli e a rafforzarli, fruissero, anche nelle zone della Europa mediterranea, dove il regime feuda-le non si realizzò pienamente, di uno status giuridico diverso da quello di semplici proprietari terrieri. In realtà, la fisionomia del feudalesimo mediterraneo nell’Età moderna si fondò sul binomio possesso terriero-giurisdizione4. Ma, prescindendo, per il momen-to, dalla considerazione che l’insieme dei diritti giurisdizionali e proibitivi provenivano ai signori dall’esecuzione del contratto feu-dale, è possibile delineare un quadro della geografia feudale, cioè dei complessi feudali che erano parte integrante degli Stati regio-nali italiani prospicienti l’Adriatico, nei quali il feudalesimo conti-nuò ad essere nei secoli dell’Età moderna un fenomeno persistente sia in senso strutturale che «residuale»? È possibile parlare di un feudalesimo adriatico moderno, come «regime delle terre e degli uomini; insieme di funzioni delegate; fisionomia aziendale; parte di un sistema di poteri concorrenti sul territorio, inteso sia come spa-zio sia come complesso di materie, funzioni»5? A queste domande si cercherà di rispondere nelle pagine che seguono.

Nel periodo compreso fra il XII ed il XIV secolo nel Friuli, che dal 1077 era passato sotto il dominio del patriarca di Aquileia, si assistette ad un marcato processo di incastellamento del territorio, che non fu il risultato soltanto dell’incremento della popolazione, della conseguente messa a coltura di nuovi terreni e della forma-zione di nuovi insediamenti, bensì il frutto della riorganizzazione dei poteri sul territorio dovuto a motivi di natura politica. Attorno ai principi territoriali si formò un’aristocrazia, della quale fecero parte sia esponenti di origine locale, che elementi provenienti da paesi d’oltralpe, tutti legati al signore territoriale da vincoli feudali, che prevedevano la concessione di beni fondiari in cambio della fedeltà e del servizio militare. Si trattava, quindi, di un’aristocrazia di origine essenzialmente militare, che attribuì alla conservazione del castello, che era, di solito, il luogo di residenza, un forte valore simbolico, un motivo identitario della famiglia, un elemento di uni-ficazione per i discendenti e i diversi rami in cui essa si articolava6.

4 A. Musi, Il feudalesimo nell’Europa moderna cit., pp. 65-73 e la bibliografia ivi citata.

5 Id., Introduzione, a A. Musi, M.A. Noto (a cura di), Feudalità laica e feudalità ecclesiastica nell’Italia meridionale, Associazione Mediterranea, Palermo, 2011, p. 7.

6 D. Degrassi, Castelli e feudi in età petrarchina, in L. Cargnelutti (a cura di),

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Sebbene l’aristocrazia friulana, divisa in varie casate, avesse “voce” nel Parlamento della Patria, contasse cioè su una propria rappre-sentanza e sulla possibilità di voto in quella assemblea, e dispo-nesse della proprietà di vasti complessi feudali, anche se le terre possedute dai signori feudali erano distribuite in uno spazio non molto ampio, tuttavia essa non riuscì ad esercitare piene forme di potere basato sul dominio territoriale e sulla “signoria di banno”, fondata – com’è noto – sul potere coercitivo, perché i patriarchi concentrarono nelle loro mani sia l’amministrazione della giustizia sia l’imposizione e la riscossione di tributi fiscali. Nel controllare le principali prerogative di natura pubblica, i patriarchi sottrassero ai signori feudali diritti e funzioni, costringendoli di fatto ad eser-citare un limitato ruolo giurisdizionale e ad imporre tributi solo in alcuni villaggi. Pertanto, per l’epoca del dominio patriarcale non si può parlare di vere e proprie giurisdizioni feudali. E, anche se i patriarchi promossero una nuova forma di beneficiari feudali di carattere militare, i cosiddetti feudatari d’abitanza, che, perlopiù di oscure origini, furono addetti alla custodia di luoghi fortifica-ti ed obbligati a risiedere nell’area castellana, va osservato che a loro non spettavano competenze giurisdizionali7. Esemplare è al riguardo la storia della famiglia dei Mels-Colleredo, le cui vicende furono paradigmatiche dell’aristocrazia friulana di quel periodo. La proprietà fondiaria dei Mels-Colleredo, costituita per gran parte da masi distribuiti su tutto il territorio friulano, era infatti priva di una continuità territoriale e risultava caratterizzata in maniera prevalente da beni patrimoniali rispetto a quelli ottenuti in bene-ficio feudale, per cui l’introito derivante dai diritti feudali era as-sai modesto. È significativo come quella famiglia puntasse durante l’età moderna a consolidare la rendita derivante dalla proprietà fondiaria, anche se nel periodo del predominio veneto mirò soprat-tutto ad espandere il suo potere giurisdizionale. La Serenissima difatti, che, tra il 1418 ed il 1420, aveva esteso il suo dominio al

Feudo e comunità. Il Friuli collinare dall’età medievale all’età napoleonica, Forum, Udi-ne, 2011, pp. 31-43. Sul fenomeno in generale, cfr. P. Toubert, Dalla terra ai castelli. Paesaggi, agricoltura e poteri nell’Italia medievale, tr. it., Einaudi, Torino, 1995.

7 P. Cammarosano, Strutture d’insediamento e società nel Friuli dell’età pe-trarchina, «Metodi e ricerche», 1/1 (1980), pp. 5-22; Id., Studi di storia medievale. Economia, territorio, società, Cerm, Trieste, 2008, pp. 111-133. Sull’assemblea par-lamentare friulana, cfr. P.S. Leicht, Parlamento friulano, 2 voll., Zanichelli, Bologna, 1917-1925 e 1955. Sui cosiddetti “feudi di abitanza”, cfr. C.G. Mor, I “feudi di abi-tanza” in Friuli, «Memorie storico forogiuliesi», 54 (1974), pp. 50-106.

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Friuli nell’ambito della sua politica di espansione sulla terraferma, adottando una politica volta ad incrementare i diritti feudali, con-cesse all’aristocrazia friulana la possibilità di esercitare, in prima e seconda istanza, il diritto nel civile e nel criminale8.

Sotto il dominio marciano l’istituto feudo-vassallatico e la si-gnoria rurale continuarono, quindi, a rappresentare gli elementi costitutivi della Patria friulana. Le prerogative dei signori feudali, che negli ultimi tempi dello Stato patriarcale si erano consolidate, così da tenere sotto controllo l’intera regione, tesero a rafforzarsi maggiormente, tanto che fu loro demandato il compito di eserci-tare molteplici diritti pubblici, compresa l’amministrazione della giustizia civile e penale. In realtà, Venezia, puntando ad assicu-rarsi il pieno dominio del Friuli, in modo da mantenerlo fuori dalla area d’influenza delle potenze straniere, in particolare l’Impero, al fine di assicurarsi il regolare flusso degli scambi mercantili con i paesi del Nord, stabilì una politica di compromesso con i feudatari friulani, che, fondata sul riconoscimento di tutti i centri di potere feudale, concesse ampie autonomie giurisdizionali ai signori feu-dali. Fatta eccezione di Udine, che era l’unica grande città della regione, dove l’esercizio della giurisdizione penale fu affidata ad un luogotenente veneto, quasi tutti i feudatari friulani, infatti, eserci-tavano il merum et mixtum imperium. Ciò nondimeno, i rapporti fra la Serenissima ed alcuni potenti signori feudali friulani rimasero alquanto tesi. La questione della piena sovranità giuridica sui loro antichi possessi fu, ad esempio, alla base dell’accesa controversia che contrappose i conti di Gorizia, intolleranti della loro riduzio-ne al rango di semplici feudatari, a Venezia, che intanto provvide, con l’intento di consolidare – come si è detto – il proprio dominio in Friuli, a confermare e a creare nuove giurisdizioni signorili. La sollevazione di Belgrado a dignità comitale, ad esempio, permise ai Savorgnan della linea del Monte, già signori di Osoppo e di Ca-stelnuovo, di beneficiare di ampie prerogative giurisdizionali, che, però, furono ridotte durante i primi decenni del ‘5009. Pordeno-ne, che era stata infeudata a Bartolomeo d’Alviano, il comandante generale delle truppe veneziane, che la aveva conquistata, e che

8 D. Degrassi, Castelli e feudi in età patriarchina cit., pp. 37-40; P. Cammaro-sano (a cura di), Le campagne friulane nel tardo medioevo: un’analisi dei registri di censi dei grandi proprietari fondiari, Casamassima, Udine, 1985, pp. 4-18.

9 L. Cargnelutti, Feudi patriarchini e feudi “nuovi” in età veneta, in Ead. (a cura di), Feudo e comunità cit., pp. 43-60.

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era stata poi trasmessa in eredità al figlio Livio, dopo la morte di quest’ultimo, rimasto senza eredi maschi, fu invece devoluta allo Stato10. Tuttavia, la Repubblica veneta sferrò a metà ‘500 un duro attacco contro i privilegi goduti dai feudatari liberi friulani in ma-teria di giurisdizione criminale. Ciò non significò però che i poteri feudali dei feudatari friulani fossero messi in discussione; anzi, si registrò un loro ampliamento, che riguardò soprattutto l’ammini-strazione della giustizia, sia relativa ai giudizi di prima che di se-conda istanza11. A partire dalla prima metà del Seicento, Venezia, per far fronte ai pesanti impegni finanziari dovuti alla guerra di Gradisca e a quella di Candia, emanò una serie di provvedimenti sulla concessione del titolo nobiliare – nelle fila della nobiltà vene-ta si poteva accedere mediante la donazione allo Stato di almeno 100mila ducati – e sulla venalità dei feudi in terraferma ed isti-tuì un’apposita magistratura, quella dei Provveditori sopra i feudi, preposta a stabilire il valore e la rendita dei feudi messi in vendita. Venezia decise allora di adottare anche nel Friuli una politica di frazionamento del territorio in piccoli feudi, che, per un verso, per-mise all’erario di ricavare un discreto introito dalla loro vendita, e, per l’altro, sgravò lo Stato dal pesante onere del controllo diretto del territorio, dal quale incamerava un gettito fiscale molto scar-so12. Ad acquistare i nuovi feudi, a coronare la loro ascesa sociale e ad entrare nelle fila della nuova feudalità furono perlopiù i membri di famiglie che avevano fatto fortuna nell’esercizio delle arti liberali o nel commercio, i quali ottennero, accanto ad una serie di privile-gi, il diritto di amministrare la giustizia di prima istanza. Gli Elti, signori di Gemona, le cui fortune erano state legate al commercio

10 L. Cargnelutti, La “difesa” della nobiltà, in I Savorgnan e la Patria del Friuli dal XIII al XVIII secolo, Provincia di Udine, Udine, 1984, pp. 163-168; M. Zacchigna, L’espansione fondiaria (sec. XIII-XIV), ivi, pp. 97-100. Sulle origini della famiglia Savorgnan, cfr. L. Cargnelutti, I Savorgnan: note sull’origine e sulla storia della fa-miglia, ivi, pp. 43-47.

11 S. Zamperetti, I piccoli principi. Signorie locali, feudi e comunità soggette nello Stato regionale veneto dall’espansione territoriale ai primi decenni del ‘600, il Cardo, Venezia, 1991, pp. 187-205. Per il periodo precedente e per un’area regionale più estesa, cfr. B. Castiglioni, L’altro feudalesimo. Vassallaggio, servizio e selezione so-ciale in area veneta nei secoli XI-XIII, Deputazione, Venezia, 2010.

12 L. Cargnelutti, Feudi patriarchini e feudi “nuovi” in età veneta cit., p. 53; M. Marcarelli, L’amministrazione della giustizia nelle giurisdizioni feudali friulane tra il XVI e il XVII secolo, «Geschichte und Region/ Storia e Regione», a. XVI, n. 1 (2007), pp. 11-29; A. Stefanutti, Giureconsulti friulani tra giurisdizionalismo veneziano e tradizione feudale, «Archivio Veneto», V serie, n. 142, a. CVII (1976), pp. 75-93.

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del ferro con i paesi tedeschi, comprarono il feudo di Rodeano; i Mi-coli acquistarono i feudi di Silvella, Cisterna, Coseano, Nogaredo di Corno e San Marco con il titolo comitale; i Valentinis si assicuraro-no il feudo di Tricesimo con l’esercizio del giudizio civile e criminale su alcune ville vicine; gli Antonini e i Caimo di Udine ed i Pianese di Tolmezzo acquistarono invece la gastaldia di Fagagna con il titolo comitale; i Pittiani, arricchitisi con il commercio delle biade, e i Bel-trame di San Daniele comprarono il feudo di Carpacco; i Monaco di Spilimbergo inglobarono nel loro vasto dominio feudale il feudo di Vidulis; infine, i conti Ronchi di San Daniele acquistarono, agli inizi del ‘700, il feudo di Pozzalis13. La feudalità di nuova formazio-ne, con l’intento di mostrare lo status acquisito, diede inizio ad una sorta di ciclo edilizio, che si espresse nella costruzione di numerosi palazzi signorili, mentre l’antica feudalità di spada provvide alla trasformazione dei castelli in moderne residenze, che conservaro-no alcuni elementi tipici delle dimore fortificate. Ai nuovi nobili fu tuttavia precluso l’ingresso nel Parlamento della Patria, che rimase sotto il pieno controllo della vecchia feudalità14.

13 L. Cargnelutti, Riflessi della guerra di Candia in Friuli: vecchia e nuova nobiltà, in G. Bergamini, P. Goi (a cura di), Antonio Carneo (1637-1692), Città di Portogruaro, Portogruaro, 1995, pp. 11-22. Per una dettagliata ricostruzione della vendita dei feudi nel Friuli della seconda metà del Seicento, cfr. Asv, Provveditori sopra feudi, reg. 776, Registro investiture dei feudi nuovi, 1646-1692, cc. 44v-47r; L. Casella, Dalla città al feudo. I Caimo e altre famiglie udinesi (secoli XVI-XVII), in E. Novi Chavarria, V. Fiorelli (a cura di), Baroni e vassalli cit., pp. 342-366.

14 F. Bianco, Le terre del Friuli, Astrea-Cierre, Mantova-Verona, 1994. L. Car-gnelutti, Feudi patriarchini e feudi “nuovi” in età veneta cit., p. 56. Nell’agosto del 1635, la Repubblica volle effettuare un dettagliato censimento dei feudi alienabili nel Friuli, in modo da porre fine alle «diverse fraudi commesse in grave pregiudi-zio della Signoria Nostra». Ai possessori dei feudi fu ingiunto di presentare, entro tre mesi, al Luogotenente di Udine una puntuale nota dei «beni feudali, semplici, censuali e livellari da essi in qualunque modo posseduti, colla intera quantità, qua-lità, confini, aggravi e ogni altro particolare». In realtà, la Repubblica mirava ad assicurarsi il controllo della vendita dei feudi, che per legge doveva avvenire alla presenza del Luogotenente, e ad incamerare l’introito del laudemio, la tassa dovuta dal compratore all’atto dell’acquisto del feudo, che ascendeva al 10% del valore del bene. La norma prescriveva che ogni alienazione doveva essere obbligatoriamente registrata nel catasto «col nome del venditore e compratore e colla quantità de’ beni, del prezzo, notaro, giorno e anno, insieme col decreto del Rettore» e soprattutto ingiungeva al nuovo signore l’obbligo di presentare ogni dieci anni la domanda di investitura del feudo, pena la perdita del possesso e l’alienazione dello stesso allo Stato. Cfr. 1635, 14 agosto in Pregadi, Estratto del codice feudale della Repubblica veneta, in J.-P.F. von Heinke, Manuale di gius feudale comune ed austriaco, tr. it., Gattei, Venezia, 1843, pp. 231-236. Sul fisco veneziano cfr. in particolare G. Borelli, P. Lanaro, F. Vecchiato (a cura di), Il sistema fiscale veneto, problemi e aspetti, XV-X-

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Rispetto al Friuli, dove – come si è visto – il regime feudale con-servò un ruolo rilevante, nel Padovano e nel Trevigiano conquistati insieme con il Veronese agli inizi del secolo XV, il governo centrale veneziano esercitò il suo potere con maggiore fermezza. Nella Mar-ca trevigiana Venezia fu impegnata a sostenere una difficile prova non tanto contro la città di Treviso quanto contro l’antico feudata-rio imperiale, il vescovo di Ceneda, e contro alcune casate signorili. La politica di compromesso perseguita dai vescovi di Ceneda con la Dominante portò alla convenzione del 1493, nella quale i poteri del vescovo si configurarono come quelli di un semplice feudatario; ma con l’ascesa, agli inizi del ‘500, di Marino Grimani, esponente di una delle più potenti e ricche famiglie veneziane, alla cattedra ve-scovile del centro trevigiano, il Senato veneto fu di fatto costretto ad accogliere nei propri ordinamenti il ruolo e il potere feudale di quel signore. Analogamente Venezia finì per accettare i domini locorum, che già esercitavano i loro poteri prima dell’instaurarsi del suo do-minio e che potevano opporre al governo centrale una discreta po-sizione di forza. Fra questi signori si distinsero soprattutto i conti di Collalto, che furono ridotti nel 1481 dalla Repubblica al rango di propri feudatari, ottenendo in cambio il pieno esercizio del merum et mixtum imperium e la fruizione di una serie di privilegi già otte-nuti dall’Impero15. Né va omesso di ricordare che lo Stato regionale veneto donò nel 1489 alla regina di Cipro Caterina Cornaro il feudo di Asolo con tutte le prerogative giuridiche, a patto che il feudo fos-se restituito alla Repubblica dopo la sua morte, ed attribuì il feudo di Zumelle con gli iuria regalia agli Zorzi, salvo poi a rivendicarlo alla morte di Giacomo, con il quale si estinse la famiglia. L’acquisto della gastaldia giurisdizionale di San Donà per ben 10mila ducati d’oro da parte dei Trevisan permise alla famiglia patrizia veneziana

VIII secolo, Libreria Universitaria Editrice, Verona, 1982. Sul Parlamento friulano cfr. L. Casella (a cura di), Rappresentanze e territori. Parlamento friulano e istituzioni rappresentative territoriali nell’Europa moderna, Forum, Udine, 2003. Per un qua-dro d’insieme, cfr. soprattutto G. Trebbi, Il Friuli dal 1420 al 1797. La storia politica e sociale, Casamassima, Udine, 1998.

15 S. Zamperetti, I piccoli principi cit., pp. 51-93. Sui Collalto, conti di Treviso e rappresentanti imperiali, cfr. O. Battistella, I conti di Collalto e San Salvatore e la Marca Trevigiana, Arti grafiche Longo & Zoppelli, Treviso, 1929. Sui feudi imperiali in Italia, cfr. C. Cremonini, Impero e feudi italiani tra Cinque e Settecento, Bulzoni, Roma, 2004; C. Cremonini, R. Musso (a cura di), I feudi imperiali in Italia tra XIV e XVIII secolo, Bulzoni, Roma, 2010; B.A. Raviola, L’Europa dei piccoli stati. Dalla prima età moderna al declino dell’Antico regime, Carocci, Roma, 2008.

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di godere del pieno esercizio dei diritti pubblici sulla popolazione della circoscrizione16. Nel Padovano la conquista marciana diede origine ad un controllo più incisivo del territorio, che risultò di gran lunga maggiore rispetto a quello che lo Stato regionale veneto esercitò nelle altre sue province. Tuttavia, Venezia consentì che alcune famiglie signorili padovane, come i Forzatè, i Borromeo e i Malombra, conservassero la titolarità dei feudi che possedevano in zone lontane dalla loro residenza, fuori cioè dal territorio pado-vano. Ciò nonostante lo Stato veneziano concesse al luogotenente generale Roberto Sanseverino il feudo di Cittadella con piena giu-risdizione, che fu poi assegnato, nel 1503, a Pandolfo Malatesta in cambio della cessione di Rimini alla Repubblica17. Qualche anno più tardi il Malatesta cedette, a sua volta, il feudo di Sant’Anna con il merum et mixtum imperium et omnimodam iurisdictionem civilem et criminalem al patrizio veneziano Pietro Morosini18. Sebbene con-tiguo al territorio trevigiano, il Vicentino si caratterizzò, sin dall’in-sediamento del governo veneto, come un’area nella quale Venezia cedette, in particolare alla fedelissima Vicenza, ampie prerogative, che riconoscevano di fatto l’esistenza dei nuclei di potere locale precedenti, a patto della loro subordinazione allo Stato marciano. Vicenza fruì, infatti, di un ampio controllo su tutto il suo distret-to, anche se alcune aree giurisdizionali periferiche ad influenza marcatamente signorile continuarono a caratterizzare il quadro di fondo del suo territorio. In realtà, la politica di pressione esercitata nel periodo precedente da Vicenza sul territorio distrettuale ave-va determinato, con l’assunzione da parte del Comune di tutte le facoltà giurisdizionali, una forte contrazione del potere feudale lo-cale, senza però sminuire il potere socio-economico della aristocra-zia signorile. All’avvento del dominio veneziano si registrarono da

16 S. Zamperetti, I piccoli principi cit., pp. 63-91. Per il periodo precedente cfr. M. Knapton, Venezia e Treviso nel Trecento: proposte per una ricerca sul primo domi-nio veneziano a Treviso, in Tommaso da Modena e il suo tempo, s.e., Treviso, 1980, pp. 41-78; A. Castagnetti, L’ordinamento del territorio trevigiano nei secoli XII-XIV, ivi, pp. 79-87; Id., La Marca veronese-trevigiana (secoli XI-XIV), in Storia d’Italia, diretta da G. Galasso, vol. VII, t. 1, Comuni e signorie nell’Italia nord-orientale e cen-trale: Veneto, Emilia-Romagna e Toscana, Utet, Torino, 1999, pp. 161-357.

17 S. Zamperetti, I piccoli principi cit., pp. 109-120; M. Knapton, I rapporti fisca-li tra Venezia e la terraferma: il caso padovano nel secondo ’400, «Archivio Veneto», s. V, a. CXVII (1981), pp. 5-65.

18 P. J. Jones, The Malatesta of Rimini and the Papal State. A Political History, Cambridge University Press, London, 1974; J. Larner, Signorie di Romagna. La so-cietà romagnola e l’origine delle Signorie, tr. it., il Mulino, Bologna, 1972.

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parte della Dominante talune mirate concessioni di beni fondiari iure feudi, che non modificarono significativamente il quadro poli-tico-giurisdizionale del territorio vicentino. L’unica signoria feudale a godere di ampi poteri rimase quella dei dal Verme su Bagnolo, che, confiscata da Venezia e messa all’asta nel 1442, fu acquistata dai Nogarola, i quali ottennero la sua elevazione a contea. A metà degli anni Venti del ‘500, la contea fu poi acquistata per 12mila ducati dalla famiglia patrizia dei Pisani19. Se – come si è visto – nel Vicentino e nel Padovano le organizzazioni e le istituzioni feudali ebbero un peso relativamente scarso, nel Veronese invece numero-se furono le famiglie che esercitarono nel contado poteri signorili. La signoria scaligera, che aveva assunto nel ‘300 il pieno controllo giurisdizionale del territorio distrettuale, aveva demandato l’eserci-zio di una serie di privilegi ad alcune fedeli famiglie cortigiane, ma con la conquista veneta l’assetto istituzionale del Veronese mutò e, grazie all’adozione di una politica che attribuì a numerosi titolari la pratica dei diritti pubblici delle varie circoscrizioni, la Repubblica impose la propria volontà al Comune scaligero, che oppose una vana resistenza. Venezia, infatti, procedette alla vendita di tutti i vicariati del territorio veronese e conservò per sé l’esercizio del merum et mixtum imperium. L’unica signoria rurale del Veronese di una certa consistenza rimase quella di Sanguinetto e di Sustinen-za appartenente ai dal Verme. Nel 1502, i Giusti, signori di Gazzo, chiesero ed ottennero da Venezia la dignità comitale; qualche anno più tardi, nel 1509, la Repubblica concesse ai Pompei, che si erano distinti in campo militare, il feudo di Illasi20.

La politica di espansione sulla terraferma perseguita da Ve-nezia portò sul finire degli anni Venti del secolo XV alla conquista del Bresciano e del Bergamasco, che entrarono a far parte dello

19 S. Zamperetti, I piccoli principi cit., pp. 93-109. Sulla storia di Vicenza e del suo territorio, cfr. S. Castellini, Storia della città di Vicenza, 14 voll., per Francesco Vendramini Mosca, Vicenza, 1783-1822; G. Maccà, Storia del territorio vicentino, 14 voll., presso Gio. Battista Menegatti, Caldogno, 1812-1816.

20 S. Zamperetti, I piccoli principi cit., pp. 121-148; G. Borelli, Un patriziato del-la Terraferma veneta tra XVII e XVIII secolo. Ricerche sulla nobiltà veronese, Giuffrè, Milano, 1974; M. Berengo, Patriziato e nobiltà, «Rivista Storica Italiana», a. LXXXVII (1975), pp. 493-517; G.M. Varanini (a cura di), Gli Scaligeri. 1277-1387, A. Monda-dori, Verona, 1988; J.E. Law, La caduta degli Scaligeri, in G. Ortalli, M. Knapton (a cura di), Istituzioni, società e potere nella Marca trevigiana e veronese (secoli XII-XIV). Sulle tracce di G.B. Verci, Istituto Storico Italiano per il Medio Evo, Roma, 1988, pp. 83-98. Sui Pompei, cfr. F. Vecchiato, Una signoria rurale nella Repubblica veneta. I Pompei d’Illasi, Libreria Universitaria Editrice, Verona, 1986.

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Stato regionale veneto, che invero aveva già esercitato durante la signoria di Pandolfo Malatesta una sorta di protettorato sui due territori. Brescia e Bergamo erano, del resto, punti strategici trop-po importanti per il sistema dei traffici mercantili veneziani con la Lombardia, la Svizzera e le Fiandre. Seguendo la tradizionale politica improntata alla moderazione, Venezia accettò le giurisdi-zioni signorili presenti in quel territorio, che si erano moltiplicate durante il periodo visconteo, fra le quali si distinguevano i com-plessi feudali degli Avogadro, signori di Lumezzane, dei Gambara, feudatari di Milzano, Pralboino e Verolalghise, e dei Martinengo, titolari dei feudi di Paternello, Barco, Vallechiara e Urago d’Oglio. Ai Martinengo, distintisi in campo militare, furono infeudate pure Orzivecchi e Calci. Si trattava di tre importanti casate, di origine urbana e signorile, che durante il dominio marciano videro am-pliate le loro giurisdizioni private. Altri complessi feudali bresciani appartenevano ai Pulluselli, signori di Cellatica, ai Belacati di Po-diano, ai Maggi, ai Luzzago e ai Federici, che fruivano di privilegi imperiali. Né va sottaciuta la rilevante funzione militare assolta dai conti di Lodrone, i cui possedimenti feudali, dislocati ai confini del territorio veneto, svolsero un importante ruolo difensivo21. Nel Bergamasco, dove i nuclei feudali costituivano una forza tutt’al-tro che secondaria, si distinsero in particolare i Soardi, signori di un grande complesso feudale, che opposero un’accanita resisten-za al dominio veneziano. Altre famiglie feudali (Lanci e Trussar-di), invece, sostenendo la causa della Serenissima, ottennero in cambio una serie di privilegi. Le aspirazioni signorili di Bartolomeo Colleoni si realizzarono con la formazione di una vasta compagi-ne feudale, che, estesa a gran parte della pianura meridionale del Bergamasco, assunse i connotati di un piccolo stato indipendente, destinato tuttavia a sfaldarsi alla morte del condottiero, avvenuta agli inizi di dicembre del 147522. Estesa nuovamente la sovranità a tutta la terraferma dopo la sconfitta di Agnadello, Venezia strinse di fatto un tacito accordo con i principali nuclei di potere (patriziati urbani e signorie feudali) esistenti sul suo territorio, e diede origine

21 S. Zamperetti, I piccoli principi cit., pp. 149-174; J.M. Ferraro, Proprietà ter-riera e potere nello Stato veneto: la nobiltà bresciana del ’400 e ’500, in G. Cracco, M. Knapton (a cura di), Dentro lo “Stado italico”. Venezia e la Terraferma tra Quattro e Seicento, Gruppo Culturale Civis, Trento, 1984, pp. 159-182.

22 S. Zamperetti, I piccoli principi cit., pp. 174-187; B. Belotti, Storia di Berga-mo e dei Bergamaschi, 3 voll., Ceschina, Milano, 1940.

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ad una politica fondata sulla creazione di nuove giurisdizioni sepa-rate, anche se alla formazione di nuove signorie si opposero gli altri ceti privilegiati. Gli Avogadro e i Gambara, ad esempio, ampliaro-no il loro patrimonio feudale; analogamente i Pompei estesero il loro complesso feudale nel Veronese; i Savorgnan invece, a causa del loro tiepido lealismo, subirono un ridimensionamento del loro ruolo. Il feudo di Pordenone degli Alviano dopo la scomparsa di Livio – come si è fatto cenno – fu devoluto allo Stato. In altri casi Venezia confermò la precedente situazione istituzionale ed assegnò i feudi vacanti a fedelissime famiglie nobiliari. Alla morte di Felice Pelliza il feudo di San Odorico fu infatti assegnato ai Porcia, anche se la materia criminale fu esclusa da quella attribuzione. Le giu-risdizioni feudali friulane furono quasi tutte confermate; alcune di esse, anzi, ottennero più ampi benefici, nonostante la politica antimagnatizia perseguita dalla città di Udine. Anche nel Trevigia-no Venezia, piuttosto che comprimere le prerogative dei feudatari, adottò una politica di conferma dei privilegi signorili; di modo che, nei territori dello Stato regionale veneto i complessi e le giurisdizio-ni feudali continuarono a ricoprire un posto di particolare rilievo23. Il vincolo feudo-vassallatico si fondò quindi sul patto sancito tra il superiore potere veneziano, rappresentato dal doge, dalla signoria e dai consigli, e i signori feudali, ai quali fu concesso il dominio utile dei feudi. Non va tuttavia dimenticato che alcune signorie venete furono detenute da importanti famiglie del patriziato vene-ziano, che nei loro feudi agirono come veri e propri domini. I piccoli signori feudali preferirono invece scegliere la strada della «pacifi-ca concordia con la propria Repubblica»24. Tuttavia, la maturazio-ne nel patriziato veneziano del concetto di sovranità statale portò alla promulgazione della legge del 13 dicembre 1586, che rivestì un’importanza decisiva in materia di giurisdizioni e beni feudali, sebbene all’origine della legge vi fossero motivi essenzialmente eco-nomico-finanziari, legati ai passaggi di proprietà, più che ragioni di natura giurisdizionale. La legge disciplinava comunque la natura dei feudi, la distinzione fra feudi giurisdizionali e feudi non giuri-sdizionali e l’obbligo per i feudatari di presentare le investiture ai

23 G. Cozzi, Repubblica di Venezia e Stati italiani. Politica e giustizia dal secolo XVI al secolo XVIII, Einaudi, Torino, 1982; F. Gilbert, Venice in the Crisis of the League of Cambrai, in J.R. Hale (a cura di), Renaissance Venice, Faber & Faber, London, 1973, pp. 274-296.

24 S. Zamperetti, I piccoli principi cit., p. 277.

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rettori. La legge conteneva anche disposizioni relative all’esazione dei censi e al divieto di ricovero di banditi. Le leggi feudali dell’11 marzo e del 29 aprile 1625 e quella del 14 agosto 1635 distinse-ro poi i feudi friulani in feudi censuali, semplici e giurisdizionali. Mentre l’investitura dei primi spettava al luogotenente o ai rettori, l’investitura dei feudi semplici e di quelli giurisdizionali toccava invece al Provveditore sui feudi, il cui istituto era stato fondato nel 1588. Per i feudi giurisdizionali e per quelli semplici le leggi sta-bilirono norme sulla loro inalienabilità e reversibilità; per i feudi censuali fu prescritto il rinnovo delle investiture ogni dieci anni. Con la legge dell’11 febbraio 1650 i feudi censuali non furono più trasmissibili agli eredi. Particolarmente complessa fu inoltre la re-golamentazione dei feudi ecclesiastici, i cui titolari erano i vescovi di Ceneda, Verona, Treviso, Vicenza, Adria, Concordia, Belluno e Feltre. Con le leggi del 7 ottobre 1634 e del 14 febbraio 1702 la Si-gnoria veneta abilitò i vescovi a concedere investiture, riservandosi la reversibilità. Nel novero dei feudi ecclesiastici non figuravano quelli concessi dal Patriarcato di Aquileia prima della aggregazione del Friuli alla Serenissima. Il panorama veneziano continuò, quin-di, anche in pieno Settecento a caratterizzarsi per la presenza ac-canto a feudi antichi, perlopiù di origine imperiale, di nuovi feudi, istituiti o confermati dal potere marciano, sui quali Venezia tentò – come si è detto – di estendere la sua piena sovranità, mirando a disciplinare le prerogative e i poteri dei signori feudali, cercando, insomma, di porre la feudalità sotto il diretto controllo dello Sta-to25. Durante la guerra di Candia (1645-69) il governo veneziano, pressato da esigenze economiche, decise di mettere in vendita i cosiddetti feudi oblati. Si trattava di beni allodiali che, converti-ti in veri e propri feudi con diritto di reversibilità, furono messi all’asta, consentendo allo Stato di introitare cospicui capitali. Il maggior numero di queste investiture interessò ancora una volta il territorio friulano, dove alcuni feudi oblati furono acquistati per ragguardevoli somme, che raggiunsero anche gli 8mila ducati26. Va comunque osservato che nel patrimonio del patriziato veneto il feudo non occupava un ruolo primario; né i suoi componenti ma-nifestarono invero uno spiccato interesse per i titoli nobiliari. Tra il

25 J.-P.F. von Heinke, Manuale di gius feudale comune e austriaco cit., pp. 195-200; 211-215; 215-217; 231-236; 245-246; 262-263.

26 S. Zamperetti, I piccoli principi cit., pp. 225-377.

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1662 e il 1728, appena tre famiglie patrizie su ventidue residenti a Venezia chiesero l’iscrizione al libro dei titolati: i Benzon, i Pisani, titolari del vasto feudo di Stanghella, Solesino, Boara e Vescovana nella bassa padovana, ed i Manzoni27.

Contrariamente a quanto di primo acchito si possa credere, durante il dominio veneziano il sistema feudale attecchì in Istria, sebbene l’origine di numerosi feudi laici ed ecclesiastici, consolida-tisi durante il Patriarcato di Aquileia (1209-1420), risalisse all’epo-ca del marchesato d’Istria (952-1040). Con la conquista veneta le undici signorie, che occupavano gran parte del territorio istriano, conservarono i loro diritti in materia di giurisdizione criminale e civile e continuarono a riscuotere le decime sulle rendite dei beni privati. I signori feudali introdussero allora, ricorrendo alla forza, numerosi aggravi: testatico personale, tassa sui focolari, tassa sui vitelli, pedaggi sulle strade ecc. Fra le signorie maggiori v’era il marchesato di Pietrapelosa, che fu l’ultima signoria petrarchina ad essere occupata nel 1422 da Venezia. I Gravisi, signori del mar-chesato, che con Vanto avevano stroncato la congiura ordita con-tro Venezia da alcuni padovani che volevano consegnare Padova a Marsilio da Carrara, detenevano l’esercizio del merum et mixtum imperium. La più antica signoria feudale istriana era però quel-la di San Giovanni della Cornetta dei conti Verzi28. Gli altri feudi più importanti erano: quello di Piemonte, acquistato dai Contarini nel 1530 per circa 3.750 ducati; quello di Momiano, venduto nel 1548 ai Rota, che lo conservarono fino alla fine del feudalesimo; la contea di S. Andrea di Calisedo, che, appartenuta già ai Giroldo, fu acquistata dai conti Califfi di Rovigno nel secolo XVIII; la signo-ria di Racizze, feudo imperiale dei conti di Walderstein; quelli di Visinada e di San Vincenti entrambi feudi dei Grimani; la contea di Fontane appartenente ai conti Borisi; la signoria di Barbana e Castelnuovo d’Arsa, venduta ai Loredan e ai Pisani e poi acquistata dai Zustian Lolin, ed infine la contea di Lema e Fratte appartenente

27 G. Gullino, I patrizi veneziani di fronte alla proprietà feudale (secoli XVI-X-VIII). Materiale per una ricerca, «Quaderni Storici», 43 (1980), pp. 162-193; Id., Un problema aperto: Venezia e il tardo feudalesimo, «Studi veneziani», n. s., VII (1983), pp. 183-193; G. Fasoli, Lineamenti di politica e di legislazione feudale veneziana in Terraferma, «Rivista di storia del diritto italiano», a. XXV (1952), pp. 61-94.

28 G. De Totto, Feudi e feudatari nell’Istria veneta, in Atti e Memorie della Società istriana di Archeologia e Storia Patria, vol. LI-LII, a. LVI-LVII (1939-1940), pp. 55-107. Utili risultano le informazioni sulle località feudali, sulle famiglie signorili, sui feudi ecclesiastici e sui feudi appartenenti ai comuni dell’Istria veneta riportate in Appendice.

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ai Coletti. A queste undici signorie vanno aggiunti i feudi di San Pietro dell’Amata, possesso dei Vittori sin dalla metà del ‘400; la contea di S. Giovanni di Daila che appartenne ai Sabini fino al 1736 e fu poi ere-ditata dai conti Grisoni, che nel 1841 la donarono ai Benedettini; la signoria di Castelvenere che la Serenissima cedette ai Furegoni con la giurisdizione civile e criminale. Il feudo di Novacco e Zumesco appar-teneva invece ai marchesi Polesini. Vi erano infine altri feudi come: il marchesato di Albona e Fianona alienato da Venezia al cavaliere Manzini, e la contea di Sipar dei Bratti, che passò successivamente ai Rota di Bergamo29. Né vanno dimenticati i feudi ecclesiastici come quello di Orsera dei vescovi di Parenzo. I vescovi di Cittanova avevano concesso in feudo alcune località di loro pertinenza: Gradina, Sterna, S. Giorgio in Laymis30. Analogamente, non va sottaciuto il fatto che anche alcuni Comuni istriani possedevano feudi, che conservarono fino alla caduta della Serenissima. Il caso più noto fu quello del co-mune di Capodistria, che ebbe piena giurisdizione fino alla caduta della Repubblica sul feudo i Due Castelli, dove inviava come podestà un proprio rappresentante. Accanto a questi feudi vi erano altri feudi minori, sui quali i signori esercitavano piena giurisdizione e dai quali traevano consistenti decime. Ma ciò che più conta osservare è che la Repubblica veneta concesse numerosi titoli feudali ai signori istriani. Accanto ai titoli marchionali dei Gravisi di Capodistria, dei Polesini di Parenzo e dei Manzini di Albona, Venezia attribuì ai Caldana di Pirano, ai Sabini e ai Tarsia di Capodistria, ai Verzi di S. Giovanni della Cornetta il titolo di conti. Nel corso del secolo XVIII il governo veneziano sollevò alla dignità di conti ben ventiquattro famiglie, che si erano distinte per meriti militari (Bratti, Furegoni, Borisi, Rigo, Griso-ni, Balbi, Battiala, Bocchina ecc.)31. Di modo che nella sola Istria ve-neta esistevano circa cento feudi, che, appartenenti anche ad alcune famiglie del patriziato veneziano, segnarono la geografia signorile fino alla fine della Repubblica. Certo, l’oligarchia veneziana considerava le sopravvivenze feudali soltanto sul piano economico; tuttavia, la po-litica di espansione sulla terraferma spinse Venezia ad adottare nei confronti del feudo «un atteggiamento del tutto consono con la sua prassi politico-ideologica: lasciare le cose come stavano»32.

29 Ivi, pp. 74-82.30 Ivi, pp. 83-98.31 Ivi, pp. 99-100.32 G. Gullino, I patrizi veneziani di fronte alla proprietà feudale (secoli XVI-XVIII)

cit., p. 163.

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Venezia, quindi, accettando la tradizione e conformandosi ad essa, cercò di adattarla alla propria. Il patriziato veneziano, del re-sto, non avendo radici nell’antica nobiltà cavalleresca, considerava l’esercizio del potere feudale come una mera fonte di reddito. Ciò che per esso contava era l’iscrizione all’albo d’oro e la disponibilità di grandi ricchezze. È però indubbio che la Serenissima fosse co-stretta a confrontarsi, a partire dal secolo XV fino alla fine del ‘700, con una realtà che continuò ad essere segnata profondamente da strutture feudali radicate non solo nelle province lombarde e nella Marca trevigiana quanto soprattutto – come si è visto – nel Friuli. E, l’istituzione della magistratura dei Provveditori sopra i feudi fu la riprova eloquente per far fronte a quella realtà, nella quale la presenza del feudo continuò a ricoprire un posto rilevante. Resta comunque il fatto che già a metà del ‘600, rispetto ai minori pro-fitti derivanti dal possesso del feudo e dalla proprietà fondiaria, gli investitori rivolsero, per così dire, la loro attenzione a settori molto più remunerativi del feudo come il traffico degli uffici, le specula-zioni finanziarie e l’acquisto di quote del debito pubblico33.

Analogamente a come aveva fatto Venezia, il papato in Roma-gna accettò le realtà politiche esistenti e, constatata l’inefficienza del governo dei suoi rettori, legittimò il potere dei capitani, che, sollevati alla dignità di vicari, assunsero i connotati di veri e propri signori. L’impotenza del potere papale di assicurarsi il controllo territoriale della Romagna e la concessione del vicariato apostolico consolidarono così le posizioni della feudalità. A Forlì si affermò la potente famiglia degli Ordelaffi, i quali riuscirono a rafforzare la loro potenza territoriale, che con Francesco si estese a Forlim-popoli e Cesena. Non è il caso qui di ripercorrere la storia di que-sta famiglia che con alterne fortune oppose una dura resistenza al cardinale Albornoz, che, in qualità di legato pontificio, fu – come è noto – impegnato nella difficile riconquista degli stati della Chiesa; conta piuttosto ricordare come Forlì nella seconda metà del ‘400, dopo essere passata ai Riario e ai Borgia, tornasse sotto la signoria di Antonio Maria Ordelaffi, la cui dinastia si estinse nel 1504 con la morte del fratello Ludovico. A Faenza, invece, i Manfredi estesero le loro proprietà fondiarie all’intero contado ed ottennero da Filippo

33 Ivi, p. 175. Cfr. inoltre J.E. Law, The Venetian Mainland State in the Fifteenth Century, in Transactions of the Royal Historical Society, Sixth Series, vol. II (1992), pp. 153-174; utili notizie sono pure in V. Lazzarini, Proprietà e feudi, offizi, garzoni, carce-rati in antiche leggi veneziane, Edizioni di Storia e Letteratura, Roma, 1960, pp. 9-46.

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Maria Visconti anche la signoria di Imola. Tuttavia, le lotte inte-stine alla famiglia ridussero il potere dei Manfredi, che nel 1501 furono spodestati da Cesare Borgia. A Ravenna si affermarono i da Polenta, che con Guido Minore avevano ottenuto sin dal 1282 la signoria della città. L’oscillante politica seguita dalla famiglia nei confronti dei legati pontifici rese però incerta la conservazio-ne del potere signorile, che si estinse con Ostasio III, deposto e relegato a Candia da Venezia nel 1441. A Rimini i Malatesta, che nella seconda metà del secolo XIII si erano assicurati il dominio sulla città, ampliarono il loro potere su altre terre della Romagna e delle Marche. Cesena, Pesaro, Fano e Senigallia passarono sotto la loro signoria, ma le rivalità interne alla famiglia resero precari i loro possessi. Nel 1503, Pandolfo Malatesta, minacciato da Cesa-re Borgia, fu costretto a cedere Rimini a Venezia, mentre gli altri Malatesta accettarono dopo la lega di Cambrai di passare sotto la dominazione pontificia. A Imola, infine, gli Alidosi, grazie alla loro politica filopapale, si assicurarono il potere. Nominato vicario pontificio da Benedetto XII, Lippo Alidosi ottenne la signoria della città, che nel 1384 divenne ereditaria. Nel 1424, tuttavia gli Alidosi furono costretti a cedere la loro signoria a Filippo Maria Visconti, che – come si è detto – cedette Imola ai Manfredi34. A facilitare l’a-scesa di queste famiglie concorse certamente la debolezza del go-verno della Chiesa, che lasciò ampi spazi di penetrazione, in modo da consentire ad esse il pieno esercizio dei diritti signorili. Con la concessione da parte del papato in feudo di numerose signorie e del merum et mixtum imperii et gladii potestatem i signori feudali ottennero la giurisdizione civile e criminale, mentre la giurisdizione in appello e quella per i crimini di eresia furono riservate al governo del papa. La più salda tutela giuridica ottenuta dai signori feudali favorì l’estensione e la legittimazione dei loro possessi35. In realtà, sin dall’età di Innocenzo III, lo Stato pontificio aveva assunto una

34 C. Casanova, Comunità e governo pontificio in Romagna in età moderna, Clueb, Bologna, 1981; Ead., Le mediazioni del privilegio. Economia e poteri nelle Le-gazioni pontificie del ’700, il Mulino, Bologna, 1984; J. Larner, Signorie di Romagna. La società romagnola e l’origine delle Signorie cit.; cfr., inoltre, M. Frenquellucci, La progenie degli Onesti tra Romagna, Marche e Umbria. Alle origini della feudalità feretrana, «Studi montefeltrani», 28 (2006), pp. 7-66.

35 G. Chittolini, Stati regionali e istituzioni ecclesiastiche nell’Italia centroset-tentrionale del Quattrocento, in Storia d’Italia, Annali 9, La Chiesa e il potere politico dal Medioevo all’età contemporanea, a cura di G. Chittolini e G. Miccoli, Einaudi, Torino, 1986, pp. 149-193.

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forma atipica, «a metà via fra uno stato feudale e un’unione di vas-sallaggio»36. La Sede Apostolica difatti avocava a sé il demaneum, che comprendeva la giurisdizione in appello e la facoltà di imporre tributi, e concedeva ai baroni e alle comunità il dominium. Nelle Marche, accanto alla nobiltà titolata, si formò a partire dalla fine del secolo XVI, come si evince dalla ricca legislazione statutaria del tempo, una nobiltà di reggimento, cioè una nobiltà civica chiusa, che, rendendo vitalizie una serie di cariche, si assicurò il controllo dei principali organi della macchina amministrativa e diede forti connotati patrizi non solo alle grandi «terre», ma anche a quelle medie e minori. Ma ciò che più conta rilevare è che la componente feudale svolse in questo processo un ruolo centrale, anche se va tenuto presente che l’esiguità numerica delle famiglie che potevano vantare un’antica origine feudale pose la necessità di un’integra-zione con le famiglie emergenti della nobiltà non feudale, che si realizzò pienamente nel Cinquecento sulla base del sistema dei va-lori tipici della feudalità37. A favorire la formazione della nobiltà di reggimento nelle «terre» delle Marche concorsero più fattori: l’inci-denza della feudalità, la carriera ecclesiastica, la milizia, l’esercizio del diritto e della medicina, che fu praticato anche da numerosi membri appartenenti alle antiche famiglie feudali. I Brancadoro, ad esempio, conti palatini del Sacro Romano Impero e signori di Fano, si distinsero nel campo del diritto. I Giberti, nobili ascolani, marchesi di San Costanzo e Cerreto, occuparono posti di rilievo nell’alta gerarchia ecclesiastica. I Bianchi, feudatari di Rosora dal 1249, eccelsero nella milizia e nel diritto. I Tarugi, signori feudali di Monte, acquistarono prestigio nel campo della medicina38. Il pa-triziato cittadino si identificò quindi con l’alta nobiltà e si distinse dalla nobiltà semplice. Ad Ancona l’alta nobiltà o patriziato della città comprendeva gli Anziani, i Regolatori, i Conservatori delle leg-gi ed i Deputati ai negozi; la nobiltà semplice era invece costituita dai Consiglieri e dai Magistrati39. Sia il patriziato che la nobiltà

36 B.G. Zenobi, Ceti e poteri nella Marca pontificia. Formazione e organizzazione della piccola nobiltà fra ’500 e ’700, il Mulino, Bologna, 1976, p. 145.

37 Ivi, pp. 31-75.38 Ivi, pp. 93-160 e pp. 241-261.39 Ivi, pp. 161-239. Id., La separazione di ceto in una «terra» della Marca, «Qua-

derni Storici delle Marche», 6 (1967), pp. 508-535; Id., La classe dirigente delle «terre» della Marca e la sua organizzazione istituzionale nel secolo XVIII, «Annali della Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Macerata», III-IV (1970-1971), pp. 579-612; Id., La classe dirigente della Marca alla vigilia della caduta dell’antico regi-

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erano titoli ereditari; i beni e gli stessi offici cittadini divennero così trasmissibili di generazione in generazione. La nobiltà marchigiana era considerata una «nobiltà generosa», la cui munificenza derivava dal genus, cioè dal sangue. Né va dimenticato inoltre che nello Stato pontificio, per salvare il nome ed il patrimonio delle famiglie signorili in via di estinzione, divenne frequente il ricorso all’istituto della sur-rogazione, che prevedeva la sostituzione di una famiglia con quella che era sul punto di estinguersi, della quale la prima assumeva oltre al cognome e ai titoli, lo stemma e soprattutto i beni40. La svolta pro-mossa da Sisto IV e Paolo III che, tra la fine del ‘400 e la prima metà del secolo XVI, vollero estendere a tutto lo Stato pontificio le costi-tuzioni emanate per la Marca Anconitana dal cardinale Albornoz; la crisi del senato cardinalizio e l’istituzione di nuovi organi centrali del governo (Segreteria di Stato) della Chiesa furono tutti elementi che, sebbene tesi a realizzare una politica assoluta da parte dei pontefici, non misero in discussione la feudalità, il principio della territorializ-zazione del potere signorile e le sue specifiche funzioni (controllo fi-scale e giuridico dei beni e delle comunità), anche se il feudo assunse a poco a poco una marcata forma enfiteutica e connotati allodiali41. Di particolare interesse al riguardo fu il caso della devoluzione di Ferrara registratosi alla fine del Cinquecento. La designazione da parte di Alfonso II d’Este di un suo erede, mancando un successore legittimo, sollevò infatti un vivace dibattito nella Curia romana, che portò alla decisione della Chiesa di ricuperare il feudo, nonostante il duro scontro avutosi tra il papa Gregorio XIV, favorevole all’inve-stitura del candidato designato, e il consiglio cardinalizio, contrario invece a quella designazione ed orientato a riacquistare il feudo42.

me, «Studi maceratesi», 8 (1974), pp. 8-84. La storia della Marca pontificia conferma la tesi secondo la quale feudalità e patriziato non furono affatto «due termini anti-tetici ed escludentisi a vicenda», cfr. A. Spagnoletti, Stato, aristocrazie e Ordine di Malta nell’Italia moderna, Ecole française de Rome, Roma, 1988, p. 166.

40 Ivi, pp. 45-51.41 P. Prodi, Il «sovrano pontefice», in Storia d’Italia, Annali 9, La Chiesa e il

potere politico dal Medioevo all’età contemporanea cit., pp. 197-216; Id., Il sovrano pontefice. Un corpo e due anime: la monarchia papale nella prima Età moderna, il Mulino, Bologna, 1982; J. Delumeau, Les progrès de la centralisation dans l’Etat pontifical au XVIe siècle, «Revue historique», t. CCXXVI (1961), pp. 399-410.

42 M.T. Fattori, Diritto e rafforzamento dello Stato territoriale nella devoluzione di Ferrara alla fine del Cinquecento, «Annali di Storia Moderna e Contemporanea», a. XV (2009), pp. 231-248. L. Marini, Lo Stato estense, in Storia d’Italia, diretta da G. Galasso, vol. XVII, I ducati padani. Trento e Trieste, Utet, Torino, 1979, pp. 3-211.

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Prima della promulgazione della bolla papale De non infeudan-dis il feudo era stato considerato un mezzo finalizzato, per un verso, all’organizzazione dello spazio politico-territoriale e, per l’altro verso, alla copertura giuridica di alienazioni dovute a motivi nepotistici o a ragioni di tipo finanziario. Dopo la bolla di Pio V Admonet nos i dirit-ti feudali furono equiparati invece ai diritti giurisdizionali e ai diritti di immunità ecclesiastica. Si trattò di un mutamento che espresse appieno l’affermarsi del sistema di potere della monarchia papale43. Al contrasto insorto tra il papa ed il consiglio cardinalizio non furo-no estranei motivi di politica internazionale (guerra contro il Turco e sostegno all’imperatore; guerre di religione in Francia e appoggio alla Lega cattolica; applicazione della Riforma tridentina nei regni euro-pei) e considerazioni di opportunità relative all’equilibrio politico della penisola, che fu alterato proprio dal dominio papale su Ferrara, né furono estranee ragioni relative all’autenticità del legame feudale di Ferrara con lo Stato pontificio. La decisione di recuperare il feudo di Ferrara si configurò pertanto non solo come un’operazione di conqui-sta territoriale, ma anche come un’azione simbolica, con la quale lo Stato della Chiesa intese mostrare di essere pronto a difendere con le armi la giurisdizione ecclesiastica. Con l’istituzione della Congre-gazione super baronibus Status ecclesiastici (maggio 1596) la Corte pontificia assestò un duro colpo al sistema feudale, dal momento che ai creditori dei feudatari indebitati fu garantito il sequestro dei feudi, in deroga all’istituto del fedecommesso. Con il decreto concistoriale del luglio 1601, che vietava ai principi stranieri di acquistare feudi nel territorio pontificio, il papato portò poi a compimento la sua strategia volta a ridurre se non a eliminare la pluralità dei centri di potere inter-ni e a consolidare lo Stato territoriale della Chiesa44. In realtà, già con la bolla emanata da papa Pio V era stato sancito che lo Stato non po-teva essere infeudato e che non potevano essere vendute o trasmesse a terzi parti del territorio pontificio; del resto, il papa non aveva una dinastia che ereditava il trono e pertanto non aveva il diritto concreto di alienazione. Il recupero del feudo ferrarese e la politica del domi-nium directum del papa sullo stato di Ferrara, perseguita fermamen-te da papa Aldobrandini, non significarono tuttavia l’affermazione di uno Stato centralizzatore in grado di estendere il suo potere su tutto il territorio pontificio. In una prospettiva di lungo periodo si assistette

43 Ivi, pp. 240-243.44 Ivi, pp. 244-247.

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infatti a frequenti ritorni feudali, per cui «il rapporto controverso dei feudi all’interno dello Stato territoriale non (fu) risolto, (tanto che ri-masero numerose) isole di autonomia feudale»45.

L’articolazione del nuovo apparato statale e gli organi che rap-presentavano il governo centrale in periferia continuarono a sorreg-gersi attraverso gli antichi feudatari, che erano stati gli interlocutori privilegiati del potere pontificio, e la feudalità minore, che soprattut-to nella Marca e nella Romagna si posero come il referente dell’eser-cizio del potere giurisdizionale e fiscale46. Né si deve dimenticare la devoluzione allo Stato della Chiesa del ducato di Urbino avvenuta nel 1631, che pose fine al dominio dei Della Rovere iniziato nel 1508. Nel 1474, i Montefeltro, che su concessione imperiale possedevano in feudo comitale Urbino dal 1213, ottennero da papa Sisto IV il tito-lo di duchi. Nel ducato urbinate fu avviata un’intensa opera di cen-tralizzazione, che si concretizzò nell’estensione del potere del signore a tutto il territorio ducale, senza tuttavia che le principali città fosse-ro private dei loro antichi ordinamenti locali, anche se questi ultimi furono in parte svuotati delle loro funzioni e dei loro privilegi. Esteso fra la Romagna e i territori di Assisi e Perugia, il ducato, che aveva una rilevante funzione strategica, fu allora assoggettato all’autorità assoluta di Federico da Montefeltro mediante un processo di ac-centramento burocratico-amministrativo, fiscale e giudiziario con-dotto in modo non dissimile da quanto si era verificato e si stava realizzando negli Stati regionali peninsulari, ma con tratti originali, nel senso che quel processo fu attuato con una certa circospezione, come si evince dai capitoli concessi da Federico di Montefeltro al Comune di Urbino o da quelli stipulati dal duca con i Comuni di Gubbio, Pesaro e Fossombrone (gli statuti erano applicati anche nei comitati cittadini che comprendevano numerosi castelli e ville)47. Il

45 Ivi, pp. 248.46 B.G. Zenobi, Feudalità e patriziati cittadini nel governo della «periferia» ponti-

ficia del Cinque-Seicento, in M.A. Visceglia, Signori, patrizi, cavalieri nell’Età moder-na, Laterza, Roma-Bari, 1992, pp. 94-107.

47 T. Damiani, L’assetto territoriale del Ducato d’Urbino nei primi secoli dell’età moderna, Quattroventi, Urbino, 1997, pp. 5-31; G. Luzzatto, Comune e Principato in Urbino nei secoli XV e XVI, «Le Marche», a. V (1905), fasc. IV-V, pp. 190-197; P. Partner, The Papal State under Martin V. The administration and government of the temporal power in the early fifteenth century, British School at Rome, London, 1958. Su Federico da Montefeltro, cfr. soprattutto B. Roeck, A. Tönnesmann, Federico da Montefeltro. Arte, stato e mestiere delle armi, tr. it., Einaudi, Torino, 2009; G. Cerbo-ni Baiardi, G. Chittolini, P. Floriani (a cura di), Federico da Montefeltro. Lo Stato - Le Arti - La Cultura, 3 voll., Bulzoni, Roma, 1986.

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matrimonio di Giovanni della Rovere, signore di Senigallia e duca di Sora, con Giovanna di Montefeltro, figlia del duca Federico, consentì – come è noto – ai Della Rovere di succedere sul trono del ducato di Urbino. Dopo la morte di Guidobaldo I, infatti, Francesco Maria, fi-glio di Giovanni e di Giovanna da Montefeltro si assicurò il trono. La dominazione dei Della Rovere cessò nel 1631, quando papa Urbano VIII pretese la devoluzione del ducato allo Stato della Chiesa48.

Si è soliti ritenere che la fine della presentazione dell’atto di omaggio della chinea, che era stata al centro della controversia giuridica tra Roma e Napoli, nel porre fine alla pretesa del domi-nium directum del papa sul Regno di Napoli, segnasse nel 1788 il crollo del sistema feudale nello Stato pontificio. Il rapporto tra la Santa Sede ed il Regno di Napoli si era da sempre configurato come un rapporto di diritto feudale tra il papa, in qualità di feudatario, e il re napoletano, quale vassallo. È significativo che da parte papale si agitasse il ricorso alla scomunica, come era già avvenuto per Ferrara, al fine di ottenere il censo stabilito. Non è il caso di sof-fermarsi qui sulla intricata vicenda, conta piuttosto rimarcare che la controversia giuridica tra Roma e Napoli determinò, con la fine del cerimoniale, la messa in discussione del principio gerarchico tra dominus directus e vassallo. Alla fine dell’ancien régime venne, dunque, meno il punto di forza del sistema feudale pontificio, che nei secoli precedenti si era fondato sulla amalgama del potere spiri-tuale con quello temporale. Con l’anomalia del rapporto feudale tra i due Stati, furono spazzati via gli elementi gerarchici, che a lungo erano prevalsi nel sistema europeo degli Stati moderni. Con la Ri-voluzione Francese e Napoleone scomparvero poi gli ultimi residui della monarchia universale pontificia e con essi anche quelli degli Stati imperiali e dei vassalli del Sacro Romano Impero49. Va tenuto presente che alla vigilia di quella trasformazione la popolazione in-feudata nello Stato pontificio toccava percentuali di poco inferiori a quelle della popolazione del Regno di Napoli. Nelle Marche, ad esempio, superava il 32%, mentre nel territorio dell’ex ducato di Urbino scendeva al 6%. Nelle Legazioni pontificie significative era-

48 M. Caravale, A. Caracciolo, Lo Stato pontificio da Martino V a Pio IX, in Storia d’Italia, diretta da G. Galasso, vol. XIV, Utet, Torino, 1978; G. Manfredi, G. Moretti, Nobiltà e potere amministrativo a Senigallia nei secoli XVII e XVIII, «Quaderni Storici delle Marche», 12 (1969), pp. 485-509.

49 M. Schnettger, La fine della presentazione della chinea e il crollo del sistema feu-dale pontificio, «Annali di Storia Moderna e Contemporanea», XV (2009), pp. 251-269.

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no le percentuali di Ferrara e soprattutto di Ravenna, mentre più bassa era la percentuale della Legazione di Bologna, dove i centri infeudati erano ormai residuali. Con i suoi 6.500 abitanti Civitano-va era il feudo più popoloso delle Marche. La feudalità marchigiana si concentrava nelle zone appenniniche più povere e marginali dal punto di vista economico. Il fenomeno della cosiddetta «ponentiz-zazione» della feudalità concentrò tuttavia gran parte dei comples-si signorili appartenenti alle grandi famiglie della nobiltà romana di origine medievale o di ascendenza pontificia (Caetani, Colonna, Barberini, Doria Pamphili, Borghese e Chigi) nell’Agro romano e nel Lazio meridionale, al confine con il Regno di Napoli, dove la per-centuale dei terreni posseduti dai feudatari raggiungeva addirittu-ra il 50% del totale. A caratterizzare il peso dei baroni in quelle aree fu il dominio fondiario più che quello dei diritti feudali50. Sebbene la politica pontificia di ridimensionamento della nobiltà, avviata nel Quattrocento e seguita da vari pontefici con una serie di misure mirate (bolla Admonet nos del 1567 di Pio V; creazione della Con-gregazione dei baroni, che consentiva ai creditori di rifarsi sui beni feudali dei signori insolventi; bolla Pro commissa del 1592, che as-segnava alla Congregazione del buon governo la supervisione delle finanze delle comunità baronali; provvedimenti adottati da papa Clemente XI che imponevano ai baroni il pagamento delle impo-ste camerali), svuotasse gradualmente il potere politico e giuridico della feudalità, quest’ultima conservò il sostanziale controllo delle giurisdizioni, dei poteri locali e un notevole margine di autonomia nelle cause criminali, nonostante il diritto di appello ai tribunali di grado superiore delle sentenze baronali, per non dire poi delle positive ricadute economiche derivanti dal controllo della vita del feudo (si pensi, ad esempio, alla pratica dei grandi affitti)51. Anche durante il periodo repubblicano il prestigio dei baroni rimase molto forte nei feudi, e non v’è dubbio che se alcune comunità feudali si mostrarono fedeli alla Repubblica, altre divennero i principali focolai dell’insorgenza romana. All’indomani della Repubblica, le giurisdizio-ni feudali furono ripristinate insieme con i relativi diritti, ma la domi-

50 D. Armando, La feudalità nello Stato pontificio alla fine del Settecento, «Studi Storici», a. 45, fasc. 3 (2004), pp. 751-784. La popolazione delle Marche ascendeva alla fine del Settecento a circa il 25% di quella dello Stato pontificio.

51 Ivi, pp. 755-764. Cfr. G. Pescosolido, Terra e nobiltà. I Borghese (secoli XVIII-XIX), Jouvence, Roma, 1979; L. Alonzi, Famiglia, patrimonio e finanze nobiliari. I Boncompagni (secoli XVI-XVIII), Lacaita, Manduria-Bari-Roma, 2003.

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nazione napoleonica portò a una nuova abolizione. Bisognò attendere la seconda Restaurazione, perché le prerogative feudali fossero resti-tuite ai baroni, ma con il motu proprio del luglio 1816 Pio VI abolì la maggior parte dei diritti feudali e impose ai baroni, che opposero una tenace resistenza, di rinunciare alla giurisdizione feudale52.

Nel Regno di Napoli il feudalesimo si configurò come un feno-meno di lunga durata. Negli ultimi decenni del Settecento, la feu-dalità continuava infatti a detenere un posto centrale nella società meridionale, condizionandone la vita giuridica ed economico-so-ciale. Circa i 2/3 della popolazione delle province regnicole erano sottoposti a vincoli feudali. Nel Regno esistevano 1.300 giurisdizio-ni baronali e civili; la feudalità pagava meno del 7% delle tasse, pur ricavando dal suo patrimonio fondiario il 20% del reddito annuo dell’intero paese53. Questi dati confermano appieno come il feu-dalesimo continuasse ad essere l’asse portante del Regno; come il feudo con le sue basi giuridiche fosse ancora un importante mezzo di ricchezza, di potere e di status; come il feudalesimo meridionale fosse un elemento costitutivo e caratterizzante del feudalesimo me-diterraneo54. Certo, la feudalità meridionale era stata costretta sin dalla fine del secolo XV, per il nuovo rapporto di forze tra Corona e baronaggio, a rinunziare al suo potere politico, rivelando di fronte a principi potenti come Ferdinando il Cattolico e Carlo V la sua sostanziale debolezza. Tuttavia, la feudalità rimase un autorevole ceto privilegiato di signori, detentori di grandi proprietà fondiarie, percettori di cospicui redditi, derivanti dal potenziamento delle loro attività economiche agrario-pastorali, e fruitori di imposte, cen-si, diritti giurisdizionali e diritti proibitivi legati al possesso giu-ridico del feudo. Non è il caso qui di soffermarsi sui cambiamenti registratisi nella mappa della geografia feudale delle «provincie» adriatiche del Regno, derivati da legittime successioni, da motivi

52 Ivi, pp. 773-784; M. Caffiero, Tradizione o innovazione? Ideologie e comportamenti della nobiltà romana in tempo di crisi, in M.A. Visceglia (a cura di), Signori, patrizi, cavalieri nell’Età moderna cit., pp. 369-389. Nello Stato pontificio i territori di Patrimonio, Campa-gna, Marittima e Sabina furono le zone in cui la presenza feudale fu più diffusa.

53 G. Brancaccio (a cura di), Il feudalesimo nel Mezzogiorno moderno. Gli Abruz-zi e il Molise (secoli XV-XVIII), Biblion, Milano, 2011, pp. 7-13.

54 Ivi, pp. 7-8. Sulla centralità del feudo nel sistema costituzionale e ammi-nistrativo del Regno, cfr. soprattutto A. Cernigliaro, Sovranità e feudo nel Regno di Napoli (1505-1557), 2 voll., Jovene, Napoli, 1984; Id., Giurisdizione baronale e prassi delle avocazioni nel Cinquecento napoletano, «Archivio storico per le province napoletane», CIV (1986), pp. 177-241.

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politici di sicurezza, cioè di controllo militare del territorio, con-nessi alla fedeltà o all’antagonismo dei baroni nei confronti della dinastia regia, e, quindi, all’estromissione delle famiglie nobiliari che assunsero posizioni antitetiche alla Corona, o viceversa all’in-serimento nelle maglie del baronaggio meridionale di nuovi nuclei feudali di provata lealtà, perlopiù di origine iberica, e dovuti in mi-sura maggiore all’intensificarsi della prassi della venalità dei feudi, sostenuta dalla monarchia ispanica; conta piuttosto sottolineare come, relativamente alla dislocazione territoriale e alla dimensione del possesso feudale, mentre la struttura feudale del Contado di Molise fu caratterizzata da una «indiscussa prevalenza di piccole signorie», quella dei due Abruzzi, invece, si rivelò molto più varia e disomogenea, per la presenza, accanto ad un elevato numero di microsignorie, di grandi stati feudali, formatisi grazie all’aggre-gazione di feudi limitrofi al nucleo originario55. Ciò non significò tuttavia che nel Molise mancassero grandi complessi feudali, come quello dei de Capua, che si estendeva fra il Biferno ed il Fortore e si proiettava da Campobasso, che ne costitutiva il fulcro, fino al mare, inglobando anche alcuni centri della Capitanata settentrio-nale. Anche il complesso feudale dei Caracciolo era particolarmen-te vasto; da Venafro esso si irradiava infatti lungo due principali direttrici: la prima si spingeva verso l’alta valle del Volturno, per in-dirizzarsi verso l’Appennino sannita in direzione di Pietrabbondan-te; la seconda puntava su Macchiagodena e sul territorio compreso fra il Trigno ed il Biferno, a sud del quale i Caracciolo possedevano i feudi di Bonefro e Casacalenda. E, d’altra parte altre grandi fami-glie signorili (Orsini, Carafa, de Gennaro e di Sangro) possedevano numerosi feudi in Molise e tesero ad acquistarne nuovi anche du-rante la crisi del Seicento56. La commercializzazione del feudo, la messa in valore della terra, il rilievo assunto dall’allevamento del bestiame ovino e l’accresciuto peso delle componenti giurisdiziona-li furono motivi decisivi nella scelta operata dai mercanti stranieri, soprattutto genovesi (de Mari, Ravaschieri, Ceva Grimaldi, Spino-la, Centurione), che, sin dagli inizi del ‘500, acquistarono numerosi

55 G. Brancaccio, Aspetti e problemi della feudalità abruzzese e molisana nell’Età moderna (secoli XV-XVII), in Id. (a cura di), Il feudalesimo nel Mezzogiorno moderno cit., pp. 17-94 e la bibliografia ivi citata.

56 G. Brancaccio, Il Molise medievale e moderno. Storia di uno spazio regionale, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli, 2005.

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feudi nel Molise57. Nei due Abruzzi la geografia feudale fu invece se-gnata dalla presenza «ingombrante» degli Acquaviva d’Atri, signori di un esteso complesso feudale, che furono un punto di riferimento della grande feudalità regionale e regnicola sino alla fine del Sette-cento, quando, per la estinzione della famiglia, lo Stato procedette alla devoluzione dei loro beni58. Rilevante fu pure il ruolo occupato dai d’Avalos imparentati con i d’Aquino, il cui stato feudale, che comprendeva 22 terre in Abruzzo Citra, si estendeva dal conta-do di Loreto fino a Vasto, occupando l’intera striscia costiera del medio Adriatico. Gli Orsini, che dominavano la vasta contea dei Marsi, i Cantelmo, conti di Popoli, i Colonna, feudatari del vasto territorio compreso fra i fiumi Orta e Orfento, i de Lannoy, signori di Sulmona e Venafro, e i Caracciolo di Santobuono, che control-lavano la zona dei grandi altipiani, furono i principali feudatari abruzzesi. Il feudalesimo abruzzese presentava in realtà due volti: quello dell’interno, che trovò il suo asse fondamentale nel sistema pastorale del quale si sforzò di preservare le caratteristiche, e quel-lo marittimo-adriatico, che ebbe il difficile compito di mediare con le forze socio-politiche delle città e delle diocesi e che si espresse in una sorta di paternalismo sociale. Prima dei moti masanelliani, l’ingrandimento del complesso feudale dei Colonna, che si estese anche ai feudi dell’alto e del medio Aterno e al Cicolano; l’acquisto di Sulmona da parte dei Borghese e quello di Caramanico, avuto-si nel 1642, da parte di Bartolomeo d’Aquino, che due anni dopo ottenne il titolo principesco; il coevo acquisto di Chieti da parte di Ferrante Caracciolo e la vendita di Lanciano al marchese del Va-

57 Ivi, pp. 147-158. Sui mercanti-banchieri genovesi a Napoli e nel Regno, cfr. A. Musi, Mercanti genovesi nel Regno di Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane, Napo-li, 1996; G. Brancaccio, «Nazione genovese». Consoli e colonia nella Napoli moderna, Guida, Napoli, 2001; R. Colapietra, I Genovesi a Napoli nel primo Cinquecento, «Sto-ria e Politica», a. VII (1968), fasc. III, pp. 386-425; Id., Genovesi in Puglia nel Cinque e Seicento, «Quaderni dell’Archivio Storico Pugliese», n. 25 (1983), pp. 5-48; Id., Ge-novesi in Calabria nel Cinque e Seicento, «Rivista storica calabrese», a. II (1981), pp. 15-89; A. Calabria, Finanzieri genovesi nel Regno di Napoli nel Cinquecento, «Rivista Storica Italiana», a. CI (1989), fasc. III, pp. 580-637.

58 G. Brancaccio, In Provincia. Strutture e dinamiche storiche di Abruzzo Citra in Età moderna, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli, 2001. Sugli Acquaviva d’Atri cfr. G. Sodano, Beni burgensatici e cultura materiale di una grande famiglia feudale: gli Acquaviva d’Atri attraverso gli inventari della devoluzione (1760-1770), in G. Bran-caccio (a cura di), Il feudalesimo nel Mezzogiorno moderno cit., 95-182; G. Sodano, Da baroni del Regno a Grandi di Spagna. Gli Acquaviva d’Atri: vita aristocratica e ambizioni politiche, Guida, Napoli, 2012.

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sto per 90mila ducati da parte dei Pallavicino mostrarono quanto fosse forte la capacità di protagonismo della grande feudalità nelle due province abruzzesi59. A metà del Cinquecento la distribuzione del possesso feudale nelle «provincie» adriatiche del Regno era la seguente: nel Contado di Molise il numero delle signorie ascendeva a 60, mentre il numero delle terre e dei villaggi infeudati era pari a 104, per complessivi 12.980 fuochi.

In Abruzzo alle 49 signorie e ai 165 villaggi dell’Abruzzo Citra, per un totale di 19.527 fuochi, corrispondevano le 81 signorie e i 279 villaggi dell’Abruzzo Ultra, che con quasi 38mila fuochi confer-mavano il forte radicamento del feudalesimo nelle aree interne60. Anche il quadro delle «provincie» pugliesi confermava la robusta presenza del feudalesimo. Le 92 signorie e i 164 villaggi assogget-tati al regime feudale, mostravano come il fenomeno feudale fosse particolarmente radicato in Terra d’Otranto, dove i fuochi soggetti al vassallaggio feudale sfioravano le 30mila unità. In Capitanata, dove esistevano 41 signorie e 66 villaggi con 14.382 fuochi di vas-salli, e in Terra di Bari, dove vi erano 32 signorie, 46 villaggi e 27.415 fuochi di vassalli, il feudalesimo era ugualmente molto dif-fuso. Mentre in Capitanata vi era una indiscussa prevalenza delle piccole signorie, nella Terra d’Otranto prevalevano invece le medie signorie, anche se il piccolo baronaggio appariva comunque molto radicato. Nella Terra di Bari erano concentrate le grandi signorie (ducati di Bari e Gravina), le cui eccedenze cerealicole, collocate sul mercato, erano indirizzate ai porti ubicati lungo la costa61. A mani-festare una fisionomia terriera e granaria fu tutta la feudalità me-ridionale, anche se la terra non fu l’esclusiva fonte della ricchezza feudale, come mostrarono i cospicui investimenti della nobiltà nel

59 G. Brancaccio, Aspetti e problemi della feudalità abruzzese e molisana nell’età moderna (secoli XV-XVII) cit., pp. 29-37; N. Cortese, Feudi e feudatari napoletani della prima metà del Cinquecento. Da documenti dell’Archivo General de Simancas, Società Napoletana di Storia Patria, Napoli, 1931; R. Colapietra, Abruzzo Citeriore, Abruzzo Ulteriore, Molise, in Storia del Mezzogiorno, diretta da G. Galasso e R. Romeo, vol. VI, Le Province del Mezzogiorno, Edizioni del Sole, Roma, 1986, pp. 74-117.

60 M.A. Visceglia, Dislocazione territoriale e dimensione del possesso feudale nel Regno di Napoli a metà Cinquecento, in Ead. (a cura di), Signori, patrizi, cavalieri nell’Età moderna cit., pp. 31-75.

61 Ibidem; G. Cirillo, La cartografia della feudalità del Regno di Napoli nell’età moderna: dai grandi stati feudali al piccolo baronaggio, in A. Musi, M.A. Noto (a cura di), Feudalità laica e feudalità ecclesiastica cit., pp. 17-54; Id., Spazi contesi. Came-ra della Sommaria, baronaggio, città e costruzione dell’apparato territoriale del Regno (secc. XV-XVIII), 2 voll., Guerini, Milano, 2011.

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debito pubblico dello Stato e delle comunità62. Nella Capitanata la grande feudalità fu rappresentata dai Di Sangro, che furono inter-preti di una lungimirante strategia feudale, che diede i suoi frutti con l’acquisto dei feudi di Lucera e Orta; dai Doria, principi di Mel-fi, che divennero signori di un grande complesso feudale fondato sulla pastorizia e sulla cerealicoltura, che si estendeva dalla Basi-licata alle imponenti difese e masserie di Candela e Canestrello; dai Pignatelli, principi di Minervino e marchesi di Spinazzola, signori di uno «stato» feudale di oltre 17mila ettari, affittato alla Dogana di Foggia in cambio di un altissimo censo annuo63; dagli Imperiali, principi di Sant’Angelo dei Lombardi, che con l’acquisto dei feudi di Lesina e Poggio Imperiale formarono un vasto aggregato feudale che dall’Alta Irpinia giungeva fino alle coste adriatiche del Garga-no; e dagli Egmont Fuentes, che a metà del Settecento possedeva-no 1.700 ettari di terreno, adibiti perlopiù alla coltivazione cereali-cola, ma anche dell’orzo, dell’avena e delle fave e all’allevamento del bestiame, con un patrimonio ovino superiore ai 7mila capi64. In Terra di Bari, accanto alla dimensione urbana e mercantile dei centri costieri, nei quali era fiorente l’attività delle colonie dei mer-canti forestieri, esisteva una feudalità molto aggressiva, che tentò di infeudare alcune città. Monopoli, per evitare l’infeudamento, fu infatti costretta a versare alle casse regie 40mila ducati; Bisceglie fu invece infeudata ai Ram. Fra le nuove casate fedeli alla Spagna figuravano quelle del Gran Capitano, Consalvo de Cordova, che ottenne i feudi di Andria e Bitonto, dei Grimaldi, dei Farnese, dei

62 A. Lepre, Storia del Mezzogiorno d’Italia, vol. I, La lunga durata e la crisi (1500-1656), Liguori, Napoli, 1986, pp. 183-268; G. Galasso, La feudalità nel secolo XVI, in Id., Alla periferia dell’Impero. Il Regno di Napoli nel periodo spagnolo (secoli XVI-XVII), Einaudi, Torino, 1994, pp. 103-120; Id., Il Regno di Napoli. Il Mezzogiorno (1266-1494), in Storia d’Italia diretta dallo stesso Autore, vol. XV, t. 1°, Utet, Torino, 1992; Id., Il Regno di Napoli. Il Mezzogiorno spagnolo (1494-1622), ivi, vol. XV, t. 2, Utet, Torino, 2005; Id., Il Regno di Napoli. Il Mezzogiorno spagnolo e austriaco, ivi, vol. XV, t. 3, Utet, Torino, 2006; Id., Il Regno di Napoli. Il Mezzogiorno borbonico e napoleonico (1734-1815), ivi, vol. XV, t. 4, Utet, Torino, 2007; Id., Il Regno di Napoli. Il Mezzogiorno borbonico e risorgimentale (1815-1860), ivi, vol. XV, t. 5, Utet, Torino, 2007; Il Regno di Napoli. Società e cultura del Mezzogiorno moderno, ivi, vol. XV, t. 6, Utet, Torino, 2011.

63 R. Colapietra, Capitanata, in Storia del Mezzogiorno, diretta da G. Galasso, vol. VII, Le Province, Edizioni del Sole, Roma, 1986, pp. 11-94 e la bibliografia ivi citata; A. Massafra, Note sulla geografia feudale della Capitanata in Età moderna, in S. Russo (a cura di), La Capitanata in Età moderna. Ricerche, Grenzi, Foggia, 2004, pp. 17-48.

64 F. Barra, Lo “stato” feudale degli Imperiale di Sant’Angelo, in A. Musi, M.A. Noto (a cura di), Feudalità laica e feudalità ecclesiastica cit., pp. 55-84; M. Vespa-siano, Placido Imperiale, principe di Sant’Angelo dei Lombardi, «Civiltà Altirpina», n. s., a. I (2006), pp. 125-171.

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de Capua-Gonzaga e dei Loffredo. Ai de Capua, duchi di Termoli, furono infeudate città di antica tradizione demaniale come Molfetta e Giovinazzo. In città come Bari e Altamura, dove forti erano state le spinte per il passaggio sotto il dominio feudale, il rapporto fra la nobiltà cittadina e la signoria feudale fu molto contrastato, anche se il patriziato cittadino partecipò al fenomeno della compravendi-ta dei feudi, senza riuscire tuttavia ad innalzarsi ai livelli alti della struttura gerarchica feudale65. È significativo comunque che in quasi tutti i centri urbani si assistesse alla «serrata» in senso oli-garchico degli statuti, cioè ad una chiusura aristocratica del gover-no delle università; nei centri minori il potere feudale era tanto forte che i signori sceglievano gli amministratori locali. Ciò nono-stante, durante l’Età moderna in Terra di Bari vi fu una discreta presenza di città e terre demaniali, maggiore di quella delle altre due province pugliesi e destinata a crescere nel corso del Settecen-to (Mola, ad esempio, si affrancò dal dominio dei Vaaz; Terlizzi e Giovinazzo si riscattarono al demanio regio dai del Giudice). Di modo che, alla fine del secolo XVIII, mentre la fascia costiera si presentava quasi completamente acquisita al demanio regio, le zone interne continuavano a essere infeudate66. I complessi feuda-li più estesi, che erano situati nell’entroterra delle Murge, apparte-nevano ai Carafa di Andria, agli Acquaviva di Conversano, ai Filo-marino della Rocca e ai Farnese di Altamura67. Le piccole signorie, addensate nel territorio a ridosso di Bari, appartenevano perlopiù ad esponenti della nobiltà cittadina barese o a patrizi di altre città vicine68. In Terra d’Otranto, i del Balzo dalla loro signoria di Ugen-to, Castro e Tricase, che garantiva una compattezza territoriale a tutto il Salento meridionale, ricavavano una rendita feudale di ol-tre 2mila ducati annui. Nel Salento centro-meridionale i feudatari maggiori erano i d’Aiello, i Castriota-Scanderbeg e i Paladini. Sul versante jonico gli Acquaviva d’Aragona possedevano la vasta si-gnoria di Nardò. Ad est di Taranto le signorie più importanti erano

65 A. Massafra, Terra di Bari 1500-1600, in Storia del Mezzogiorno, diretta da G. Galasso, vol. VII, Le Province cit., pp. 538-552.

66 Ivi, pp. 539-540; E. Papagna, Il baronaggio pugliese sulla scena della Monar-quía hispánica, in E. Novi Chavarria, V. Fiorelli (a cura di), Baroni e vassalli cit., pp. 181-227 e la bibliografia ivi citata.

67 Ivi, pp. 541-547; M.L. Capograssi, Due secoli di successioni feudali registrati nei Cedolari di Terra di Bari, «Rivista araldica», LXIII (1965), pp. 161-210.

68 Ivi, pp. 548-552; A. Spagnoletti, “L’incostanza delle umane cose”. Il patrizia-to in Terra di Bari tra egemonia e crisi (secc. XV-XVIII), Edizioni dal Sud, Bari, 1981.

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quelle dei Bonifacio con Oria, Francavilla e Casalnuovo, dei Carac-ciolo che possedevano i feudi di Martina e di Castellaneta, e dei Sanseverino feudatari di Mottola69. A metà del ‘500, la feudalità provinciale registrò un profondo cambiamento per l’inserimento nei suoi ranghi del primo nucleo di mercanti-banchieri genovesi70. Gli Adorno, i Doria, i Pinelli e gli Squarciafico si assicurarono, in-fatti, importanti feudi, come quello di Ginosa acquistato dai Doria nel 1556. Nel corso del secolo seguente, i genovesi consolidarono le loro posizioni feudali. Gli Spinola comprarono il feudo di Andrano e le terre di S. Pietro in Galatina e di Soleto; gli Imperiale che già possedevano il marchesato d’Oria, acquisirono i feudi di Casalnuo-vo, Francavilla Fontana, Avetrana, Latiano e Massafra, costituen-do il più grosso complesso feudale della provincia, in un’area che faceva da cerniera tra il Tarantino e il Brindisino; i de Mari si assi-curarono l’importante feudo di Castellaneta. Nel Settecento, la no-biltà salentina presentava dunque una stratificazione interna che comprendeva, accanto alla grande nobiltà regnicola, il gruppo dei feudatari genovesi e la feudalità provinciale. Nonostante la presen-za di famiglie della grande feudalità, in Terra d’Otranto prevaleva la media e piccola feudalità, che in taluni casi era anche una «feu-dalità povera»71. Al di là delle differenze interne, la feudalità adria-tica del Regno, sia quella pugliese che quella abruzzese-molisana, trovò nel possesso terriero l’elemento in grado non solo di accre-scere il reddito signorile, ma anche di svolgere una funzione unifi-catrice. Infatti, la nobiltà meridionale oltre alle entrate derivanti dai diritti giurisdizionali e proibitivi, trasse dall’uso diretto della terra, dai terraggi, dagli erbaggi e dalle concessioni enfiteutiche le entrate maggiori. Per i piccoli feudi invece la voce principale fu quella derivante dai diritti giurisdizionali e monopolistici72. La cen-

69 M.A. Visceglia, Territorio, feudo e potere locale. Terra d’Otranto tra Medioevo ed Età moderna, con la Prefazione di M. Aymard, Guida, Napoli, 1988, pp. 221-304.

70 Ivi, pp. 221-258.71 Ivi, pp. 258-304.72 G. Brancaccio, Economia e rendita feudale negli Abruzzi e nel Molise (secoli

XVI-XVII), in A. Musi, M.A. Noto (a cura di), Feudalità laica e feudalità ecclesiastica cit., pp. 85-102; M.A. Visceglia, Rendita feudale ed agricoltura in Puglia nell’età mo-derna, «Società e Storia», n. 9 (1980), pp. 527-560; A. Spagnoletti, Il governo del feu-do. Aspetti della giurisdizione baronale nelle università meridionali del XVIII secolo, «Società e Storia», n. 55 (1992), pp. 61-79; E. Papagna, Grano e mercati nella Puglia del Seicento, Edipuglia, Bari, 1990; S. Russo, Grano, pascolo e bosco in Capitanata tra Sette e Ottocento, Edipuglia, Bari, 1990; A. Lepre, Feudi e masserie. Problemi della società meridionale nel ’600 e nel ’700, Guida, Napoli, 1973.

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tralità della terra e del suo sfruttamento, la commercializzazione del feudo e la relativa conseguente mobilità sociale, pur svolgendo una funzione aggregante interna alla feudalità, non permisero tuttavia alla feudalità medesima di assumere connotati mercantili, di mette-re in moto un processo di modernizzazione delle strutture agrarie e di favorire la liberalizzazione del mercato della terra73. La feudalità, del resto, continuò a godere, sulla base del legame terra/diritti si-gnorili/poteri pubblici delegati, un ampio dominio giuridico in tutto il Regno e continuò a detenere un notevole peso economico e socia-le74. E, non v’è dubbio che la feudalità e il feudo, al cui organismo giuridico furono largamente interessati gli stessi togati e i forensi, nonostante la loro sferzante critica contro l’istituto feudale, rima-nessero elementi strutturali, costitutivi della realtà del Mezzogiorno continentale fino al 1806, quando Giuseppe Bonaparte decise di promulgare la legge sulla eversione della feudalità medesima75 .

Si è visto come il feudalesimo esistente negli Stati italiani si presentasse in misura assai differenziata e come la nobiltà dei vari paesi peninsulari fosse caratterizzata da connotati diversi, che talvolta variavano anche in relazione alle distinte aree regionali. Tuttavia, è indubbio che si possa parlare della esistenza di un feu-dalesimo adriatico, che non riconduce anche per quanto concerne la sezione centro-settentrionale dell’area geografica peninsulare ad un fenomeno residuale o addirittura «estraneo» alla sua formazio-ne. Qui si vuol dire che a configurarsi come un fenomeno pieno e persistente non fu soltanto il feudalesimo meridionale, ma anche, sebbene in misura più sfumata, il feudalesimo pontificio, che sul versante adriatico interessò il territorio della Marca e quello delle Legazioni, e il feudalesimo veneziano, che non fu circoscritto al solo Friuli, ma riguardò anche – come si è visto – altre aree provin-ciali della Repubblica, in particolare i territori conquistati duran-te il periodo dell’espansionismo sulla terraferma. La presenza e la consistenza della feudalità che certamente nella vita politica e so-cio-economica del Regno di Napoli furono molto più incisive, tanto

73 A. Musi, Il feudalesimo nell’Europa moderna cit., pp. 123-181.74 G. Muto, Problemi di stratificazione nobiliare nell’Italia spagnola, in A. Musi (a

cura di), Dimenticare Croce? Studi e orientamenti di storia del Mezzogiorno, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli, 1991, pp. 73-111; Id., La feudalità meridionale tra crisi economica e ripresa politica, «Studi Storici Simeoni», vol. XXXVI (1986), pp. 29-55.

75 A.M. Rao, Morte e resurrezione della feudalità: un problema storiografico, in A. Musi (a cura di), Dimenticare Croce? cit., pp. 113-136.

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da rendere nel corso del Settecento il giogo feudale sempre più pesante, non furono quindi elementi secondari o marginali della storia dello Stato pontificio e della Repubblica di Venezia. I modi, i tempi e gli spazi della presenza del feudalesimo anche in questi ul-timi due Stati risultarono infatti egualmente persistenti e determi-nanti nei secoli dell’Età moderna. Insomma, il feudalesimo rimase parte integrante della formazione politica, sociale ed economica del moderno Stato veneziano, non solo nella delicata fase di passag-gio dal «Comune» alla «Signoria», ma anche dopo, come apparve evidente dall’istituzione della specifica magistratura Provveditori sopra i feudi, esclusivamente preposta alla materia feudale, e dello Stato pontificio, che nel processo di consolidamento del suo domi-nio fu segnato dallo accentramento statale e da un’azione politica tesa a svuotare la feudalità del suo potere politico e giurisdizionale, anche se a metà del secolo XVII la storia del declino della feudalità – come ha osservato Paolo Prodi – era ancora «tutta da fare»76. Si trattò, certo, di un insieme di feudalità diverse, che avevano però nel feudo il loro tratto unitario. Tutto il feudalesimo adriatico ebbe infatti, lì dove continuò ad esistere, il suo elemento di riferimento nella base territoriale e giuridica del possesso feudale, che consen-tì ai signori di concentrare nelle loro mani un insieme di diritti co-attivi sul feudo, il potere giurisdizionale e quello amministrativo, il potere di imporre tasse e l’esercizio del merum et mixtum imperium, la cui giurisdizione, in quanto delegata dal potere regio, da quello papale e da quello della Repubblica marciana, rimase comunque sempre delimitata e distinta rispetto alla giurisdizione «pubblica», dal momento che nel potere signorile risiedeva solo l’utile dominio del feudo77. Ma ciò su cui bisogna maggiormente insistere è che l’acquisto o il possesso di feudi costituì un elemento non trascura-bile “dell’essere nobile”, una forma tipica del vivere nobiliare in tutta la penisola. A prescindere dalla redditività economica e sociale, l’in-vestitura e il possesso feudale continuarono infatti ad esercitare a lungo una forte carica di attrazione in tutte le diverse situazioni nel-le quali l’aristocrazia ebbe modo di manifestarsi e di perpetuarsi78.

76 P. Prodi, Il sovrano pontefice. Un corpo e due anime: la monarchia papale nella prima Età moderna cit., p. 152. Sugli abusi feudali, cfr. D. Winspeare, Storia degli abusi feudali, rist. anast., Forni, Bologna, 1967.

77 A. Musi, Il feudalesimo nell’Europa moderna cit., pp. 75-76; Id., Feudalesimo mediterraneo e Europa moderna, «Mediterranea - ricerche storiche», 24 (2012), pp. 20-22.

78 A. Spagnoletti, Stato, aristocrazie e Ordine di Malta nell’Italia moderna cit., p. 166; C. Mozzarelli (a cura di), L’antico regime in villa, Bulzoni, Roma, 2004, p. 11.

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resume: Les fiefs de Corfou instaurés depuis le temps de la domination angevine sur l’île, voire byzantine, ont eu la vie longue par la suite, sous les différents pouvoirs qui se sont vus succéder sur l’île. Ils ne sont définitivement abolis qu’en 1894, par une loi spéciale du royaume de Grèce. Par cette contribution, fondée sur des documents d’archives inédits, il est proposé de voir l’histoire administrative de chaque fief, d’identifier les personnes qui en ont eu la jouissance mais aussi de proposer quelques vues sur leur importance sociale et politique.

mots cles: féodalité moderne, fief, Levant vénitien.

THE CORFU FIEFS DURING THE MODERN AGE

AbstrAct: Fiefs and their holders constitute a perpetual aspect of medieval and modern Corfu. The people involved in the possession and management of fiefs were transformed into a social class that we can follow to the end of the nineteenth century. Their very presence and evolution is a requisite in order to study feudalism and conceptualise it as part of a prolonged medieval period.

Keywords: feudalism, fief, Venetian Levant.

1. Le fief et la baronnie

Phénomène de longue durée de la vie économique et sociale autant d’ailleurs que politique, les «fiefs» et les «baronnies» des îles Ioniennes et plus précisément de Corfou, dont il sera question ici, se conservèrent sous différentes formes jusqu’au milieu de la dé-cennie 1890 et dans certains cas beaucoup plus tard, contraire-ment même à ce qu’ont écrit d’éminents historiens qui ont considé-ré que leur fin coïncide avec la domination française de 17971. Leur

Traduction Danielle Morichon.Abréviations utilisées: Asv: Archivio di Stato di Venezia; Gak: Genika Arhia tu

Kratus – [Archives générales de l’état]; Ank: Arhia N. Kerkiras – [Archives du départe-ment de Corfou]; Aed: Arhio enhoriu diahiriseos – [Archives de l’Administration des biens municipaux], dossier 1705, cité ici Gak-Ank, Aed, 1705, suivi du numéro de la page.

1 Sp.I. Asdrachas, N.E. Karapidakis, The political conditions of the economy. The conquest and their economic rationale, in Sp. I. Asdrachas (dir.), Greek Economic History

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LES FIEFS DE CORFOU AU COURS DES TEMPS MODERNES

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existence, parallèlement à d’autres formes de propriété terrienne, alimenta une ardente discussion sur leur caractère, discussion qui atteignit son point culminant entre 1864 et la décennie 18902. Cette controverse vit les possesseurs des fiefs et leurs défenseurs s’opposer à ceux qui soutenaient le caractère public de leur origine et par conséquent la possibilité de leur aliénation. Mais en au-cun cas nous ne devons oublier que les terres cultivées de Corfou n’appartenaient pas dans leur totalité aux fiefs et n’étaient pas des baronnies, mais qu’une grande partie appartenait à d’autres archontes (seigneurs) en tant que terre dont ils jouissaient de la libre possession à titre privé, ainsi qu’à de très nombreux paysans. Nous sommes moins bien renseignés sur la catégorie de ces terres «libres» des archontes (seigneurs), tout au moins en ce qui concerne leurs dimensions, puisqu’elle ne fut jamais systématiquement en-registrée par les services publics. Les éléments qui les concernent sont épars et souvent douteux pour l’étude. Les propriétaires des terres féodales étaient les feudatarii, ou bien les baroni, la diffé-rence de sens de ces termes n’ayant néanmoins jamais été étudiée. Une première étude lexicale que nous avons menée nous conduit à proposer que le mot feudum (φέουδο) est souvent utilisé pour désigner un ensemble initial de biens rangé par le fisc dans la ca-tégorie des «fiefs», tandis que le mot baronie (βαρονία en grec) ne désigne qu’une partie de ces biens. Le fief, feudum – le xixe préférait le mot grec d’origine byzantine timar (τιμάριο) – est la partie d’un ensemble de biens publics cédée en récompense à des particuliers, principalement pour rétribuer un service armé, ou bien à des éta-blissements monastiques. Si cette différence est toujours présente dans les textes officiels, elle perd du terrain dans la langue cou-rante, où les deux mots ont tendance à devenir synonymes.

15th-19th centuries, Piraeus Group Bank Cultural Association, Athènes, 2007, vol. I, pp. 262-270. Sp.I. Asdrachas, Feudaliki prosodos e geoposodos stin Kerkira tis epohis tis venetokratias – [Rente féodale et rente foncière à Corfou sous la domination vénitienne], in «Ta Istorica», t. 2, fasc. 4 (1985), pp. 371-386. N. Karapidakis, Ta feuda tis Kerkiras ton 19o a = [Les fiefs de Corfou au XIXe s], in A. Nikiforou (ed.), Praktika Praktika tu 9ou Pan-ioniu Sinedriu – [Actes du IXe congrès d’études ioniennes], Paxi, 2014, t. 1. pp. 269-298.

2 N.I. Pantazopoulos, Timariotismos ke epimortos agrolipsia en Eptaniso epi Enetokratias – [Timariotisme et fermages des terres dans l’Héptanèse durant la domination vénitienne], in Praktika tu Tritu Panioniu Sinedriu, – [Actes du troisième congès d’études héptanésiennes, Athènes, 1969], Athènes, 1969, p. 163. O. Pahi, O Polihronios B. Konstantas ke I politiki zoi stin Kerkira ton 19o eona – [Polihronios Konstantas et la vie politque à Corfou au XIXe siècle], Apostrofos Corfou, 2009.

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Nous devons aussi garder à l’esprit que la situation sociale façonnée par la propriété terrienne à Corfou n’a pas comme seul facteur les fiefs et leurs feudataires. Les autres propriétaires ter-riens, fort nombreux, ainsi que l’Église3 et l’État vénitien, exercent leur pouvoir social par l’intermédiaire des terres et de ceux qui la cultivent. Ces quatre facteurs du pouvoir sont souvent en compé-tition même si leurs intérêts de dominants ne sont pas communs.

2. Histoire et origine de l’institution

L’origine des fiefs est bien sûre byzantine, dans la mesure où ils sont en rapport avec les πρόνοιες byzantines (cessions viagères de terres ou de revenus de l’État) mais cet élément initial se com-bina et s’assimila à la tradition féodale franque, puisque l’admi-nistration angevine du xiiie et du xive siècle octroya des revenus publics à de puissantes personnes privées afin de les rétribuer de leurs services et de les maintenir à leur côté par le biais d’un système de loyalisme personnel4. Quel était donc le pouvoir exercé par les féodaux sur ceux qui cultivaient leurs terres? Dans quelle mesure l’origine de l’institution a-t-elle affaire avec les réalités qui formèrent son contexte ultérieur?

Le rôle politique exact, les fonctions sociales et les straté-gies des baroni de la période de la domination angevine à Corfou nous sont connus jusqu’à un certain point. Pourrions-nous dire de même de la période vénitienne qui suivit (1386-1797)? Leur fonction sociale se retrouve toute dans le terme «service féodal»: mise à disposition d’une galère5, par exemple, service de chevaux (dans le même document), ainsi que nous le voyons faire coup sur coup par Angellinus di Trano. Mais service dont nous igno-rons les normes. D’un témoignage du début du xvie siècle qui nous

3 Sur les propriétés ecclésiastiques voir V. Diagoma, I diahirisi mias megalis feudalikis periousias. To paradigma tis «embarunias» ton Latinon stin Kerkira (16os-19os ai) – [L’administration d’une grande propriété féodale: l’exemple de la «baronie» de l’église latine XVIe-XIXe s.], Vicariatum Thessalonicense - Analecta Historica 5, Salonique, 2011.

4 Sp. I. Asdrachas, Ek. Asdrachas, Paratirisis gia ti feudaliki prosodo – [Ob-servations sur la rente féodale], in Sp.I. Asdrachas, Zitimata Istorias – [Questions d’histoire], Thémélio, Athènes, 1983, pp. 51-64. Sp.N. Asonitis, Kerkira ke ta Ipiro-tika paralia sta teli tu meseona (1362-1462) – [Corfou et les côtes d’Epire à la fin du Moyen-Âge (1362-1462)], University Studio Press, Salonique, 2009, pp. 478-490. Id., Andigaviki Kerkira (13o-14o ai.), – [Corfou angevine aux XIIIe et XIVe siècles], Apostrofos, Corfou, 1999.

5 S. Asonitis, Kerkira kai ta ipirotika paralia cit., p. 473.

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est conservé par le chroniqueur Marino Sanudo6, nous savons qu’à cette période et à l’occasion de la guerre de Venise en Italie du Sud, nombre de baroni corfiotes s’arment de leur propre initiative et se rendent en Italie sur leurs propres vaisseaux afin de participer aux opérations. Par conséquent, à cette époque, leur groupe conserve encore son caractère médiéval et justifie le titre de barono. Mais par-mi les gens de Corfou qui s’empressent de leur propre mouvement d’offrir un renfort à la guerre les baroni ne sont pas majoritaires, bien au contraire. Sur soixante-dix-neuf participants, seulement neuf peuvent être considérés comme étant des baroni, si l’on en juge par leur titre, dominus, et si l’on associe leurs noms à ceux conte-nus dans la prosopographie des baroni: Digotti, Suvlaki, Anezin, De Paris, Kaïtanos (Gaïtanos), Petretin, Tocho, Dontos (Dondi), Buffa mais, pourtant, deux d’entre eux, Alexandro Digotti et Agostino Pe-tretin, apportent une contribution de vingt hommes, nombre bien plus grand que les deux-trois hommes constituant la participation des autres. Nous nous trouvons donc en présence de deux phéno-mènes: la qualité de barono contribuant à la guerre est conservée, mais elle a pour rivale la présence nombreuse d’autres propriétaires terriens parmis lesquels les membres des conseils des citoyens7. Au cours du xve siècle, nombre de ceux appartenant au groupe des ba-roni sont aussi membres du Conseil des citoyens de la ville, ils y occupent même une place éminente, et sont donc membres de sa puissance politique8. Lorsque, plus tard, en 1542, la ville de Corfou va exposer à Venise ses hauts faits, elle va se référer à des prouesses guerrières du xve siècle auxquelles avaient aussi pris part les baroni. Ainsi, ces derniers constituaient une part vive de la mémoire de la ville au moins jusqu’à la moitié du xvie siècle, et, si l’on en juge par leurs participations à son Conseil, de nombreuses familles de baroni continuent à en être membres au cours des périodes ultérieures. Mentionnons à cet égard la présence au Conseil aux xve et xvie siècles des Petrétin, des Fiomacho, des Altavilla apparentés aux Petretin, des Habitaculo (jusqu’en 1432), des Digoti, des Dondi, des San Ipo-lito, des Midei, des Skalioti, des Avloniti.

6 M. Sanudo, I Diarii, F. Stefani, G. Berchet, N. Barozzi (édit.), Venezia, t. XVI, 610 [1513].

7 Sur cette classe d’hommes, les cittadini de Corfou, voir N.E. Karapidakis, Ci-vis fidelis: l’avènement et l’affirmation de la citoyenneté corfiote (XVIe-XVIIe s.), Peter Lang, Paris-Frankfurt-New York, 1992.

8 N.E. Karapidakis, Les livres du conseil des citoyens de Corfou 1432-1490: pro-sopographie et groupes familiaux, «Mediterranean Chronicle», 3 (2013), pp. 109-144.

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3. Le fief au cours de la domination vénitienne et les stratégies féodales

L’administration vénitienne avait donc bien conservé les fiefs, ainsi que toute autre sorte de propriété datant de la période pré-cédente, mais elle les avait aussi commercialisés – en tant qu’en-semble de rentes foncières – puisque très tôt elle permit qu’ils soient mis publiquement à l’encan du moins dans les cas où l’héri-tier venait à faire défaut (1405, 1407, 1451)9. L’un des plus grands fiefs de Corfou d’ailleurs, la baronnie du conte de Martina, est in-corporé à la fortune des Digotti par son rachat au xve siècle, après avoir été racheté antérieurement par les membres d’une famille vénitienne, les Raimondini. L’installation de nombreux Vénitiens à Corfou, en quête de fortune ou de carrière, avait fait de ces re-venus, associés à d’autres activités, des objets de convoitise. Nous mentionnerons deux cas, celui du noble vénitien Pietro Malipiero et de Donato Raimondini, dont nous savons que les familles en-tretenaient un rapport avec les fiefs de l’île, tandis qu’eux-mêmes avaient aussi servi à des postes du mécanisme fiscal de Venise sur l’île en tant que capitani dell’isola (avant 1553)10. D’un autre côté, le système de succession à l’héritage finalement en vigueur pour la plupart des fiefs et qui était fondé sur les «Assises de Romanie» permettait leur transfert aux parents collatéraux et aux femmes et, par leur intermédiaire, à leurs époux (uxorio nomine), laissant ainsi ouverte l’éventualité qu’une baronnie soit acquise par un parent relativement éloigné de la branche initiale ou bien qu’un fief re-tourne à une famille après un long laps de temps11. Leurs posses-seurs étaient tenus de prêter un serment d’allégeance à Venise qui confirmait au fond le caractère public des biens dont ils jouissaient et les engageait jusqu’à un certain point quant à l’usage qu’ils lui réservaient, en exigeant d’eux en échange certaines obligations et l’entretien d’un ou deux destriers et d’un petit nombre de gens d’armes suivant la dimension du fief, conservant ainsi l’obligation traditionnelle du barono12.

9 G. Pojaco, Le Leggi municipali delle Isole Jonie, Tipografia del Governo, Cor-fou, 1847, p. 64-65. S. Asonitis, I Kerkira ke ta Ipirotika paralia cit., p. 479.

10 G. Pojaco, Le Leggi municipali delle Isole Jonie cit. 11 S. Asonitis, I Kerkira ke ta ipirotika paralia cit., pp. 483-490. D. Jacoby, La

féodalité en Grèce médiévale. Les “assises de Romanie” sources, application, et dif-fusion, Le Mouton, Paris-La Haye, 1971.

12 Codice feudale della Serenissima Repubblica di Venezia, Venezia [1779], p. 42, à la date du 13 décembre de 1586.

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Nombre de ces propriétaires de biens, les capitalisant, les louèrent contre une rente forfaitaire à des intendants qui se char-geaient de leur exploitation et par conséquent de l’encaissement des redevances et de l’exécution des corvées auprès des cultiva-teurs ainsi que l’exploitation de la terre (par sa mise à disposi-tion) non cultivée qui était inscrite à leur bail. Sur cette dernière catégorie, nous sommes moins bien informés dans la mesure où notre source principale, les «inventaires» ou anagrafi (αναγραφές), enregistrent seulement les cultivateurs et les domaines soumis au versement de la contribution légale au fief13. Ces gens, les in-termédiaires, les affituali, étaient en règle générale des archontes corfiotes, de telle sorte que lorsque le feudataire était étranger et demeurait à Venise, ils devenaient les véritables seigneurs des fiefs puisqu’ils jouissaient de tous les droits de la terre qu’ils adminis-traient14. Outre les dimensions économiques que comprenait cette relation (contrats de mise en valeur de la terre), elle posait aussi un problème d’ordre politique qui échappe en grande partie encore aujourd’hui aux historiens.

4. Les feudataires en tant que groupe social

À qui appartenaient les gens qui cultivaient une terre qualifiée de féodale? Appartenaient-ils au feudataire et à son représentant, ou étaient-ils libres et par conséquent soumis aux plus larges obli-gations envers le service public? Mais quelle était aussi la par-ticipation des féodaux eux-mêmes aux obligations qui pesaient sur les habitants et même sur les autres classes d’insulaires? Le problème n’est pas simple et sa réponse – qui n’a pas encore été donnée – résoudrait une question plus générale sur le caractère du pouvoir vénitien à Corfou. Afin de fournir une illustration du problème, nous allons rapporter l’exemple de l’enceinte murale de la ville de Corfou. Les membres du Conseil de la ville devaient contribuer aux travaux de construction. Les féodaux et les Églises

13 Sp.I. Asdrachas I anagrafes ke o kosmos tous – [Les régistres féodaux et leur monde], in E. Concina, Aliki Nikiforou (ed.), Kerkira: Istoria, astiki zoi kai arhitekto-niki – [Corfou, histoire, vie urbaine et architecture], Kerkira, 1985.

14 V. Kuri, Morfes kiriotitas kai diaheirisis ton varonion sti Notia Kerkira apo ton 15° eos ton 19° eona – [Formes de propriété et administration des baronies dans le sud de Corfou entre le XVe et le XIXe siècle], in A. Nikiforu (ed.), Praktika tu 9ou Panioniu Sinedriu cit., pp. 67-81.

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qui étaient détentrices de biens féodaux refusèrent leur partici-pation et on rechercha une solution en justice (1578) qui s’avéra en faveur des membres du Conseil de Corfou et au détriment des feudataires15. Mais le problème demeura ouvert car vint s’y ajouter la question de la levée des gardes-côtes ou des rameurs des navires de guerre: de hauts dignitaires vénitiens rapportent que nombre de villageois préféraient s’inscrire comme gens appartenant aux baroni plutôt que de contribuer aux obligations du service public, le résultat étant que ce dernier n’avait plus personne sur qui exer-cer son autorité16. Ainsi, auprès de la fonction rénovée du barono, celle du serviteur fidèle et dévoué du seigneur qui l’a favorisé en lui confiant un fief, nous devons estimer aussi son comportement «transgressif» qui le conduit à échapper à ses obligations, geste qui fait de lui, de façon quoique limitée, un individu désobéissant ou insoumis. Il est besoin d’une analyse très détaillée des rapports des hauts dignitaires vénitiens adressés au sénat de Venise ainsi que d’autres sources afin de suivre la trace des tensions présentes dans les relations entre État et feudataires jusqu’à la fin de la do-mination vénitienne. En 1711, le barono des Athigganoï Zuanne Prossalendi obtient que les gens de sa baronnie soient exemptés du recensement de la population, et donc de leur obligation de ser-vir dans les gardes cotières.

Mais l’attitude des possesseurs de terres féodales face aux cultivateurs des terres posait aussi certains problèmes de relation avec l’État, introduisant aussi une autre forme de transgressivi-té. L’outrepassement de leurs exigences instituées au détriment des cultivateurs, le mécontentement et l’asphyxie provoqués parmi ces derniers, conduisirent les autorités vénitiennes à émettre des ordonnances à ce sujet: l’une d’entre elles, en 1689, interdisait le droit de perception sur toute terre féodale de «tout autre taxe que la dîme et le cens». La dîme, donc, seule, et un droit de «re-connaissance» sur le caractère féodal de la terre cultivée. De telles ordonnances avaient déjà été émises, comme par exemple en 1607, en 1614, 1618 et 1622. La seconde ordonnance de cette liste dé-fend aux représentants et aux possesseurs des terres féodales de l’Église catholique dans la région du village de Péritheia de perce-

15 G. Pojaco, Le Leggi municipali delle Isole Jonie cit., à la date de 1584, 10 aprile.16 Asv, Senato Dispacci, Proveditori da terra e mar, b. 998, dispaccio 84, 1755,

8 marzo.

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voir d’autres droits que la dîme17. Le dernier interdit aux baroni de grever de davantage d’obligations leurs cultivateurs. Le fait que les feudataires ou leurs représentants prêtaient à des taux usuraires aux cultivateurs de façon à ce que, les dettes s’accumulant, ils puissent s’emparer de leurs terres est confirmé par un édit de 1641 qui leur impose de collecter leurs droits lorsque les villageois sont en mesure de les verser et de ne pas laisser les dettes s’amonceler18.

La terre féodale elle-même, qui appartenait théoriquement à l’État, n’était pas toujours (si ce fut jamais le cas) exactement connue des mécanismes de contrôle eux-mêmes. Elle subissait d’ailleurs des aliénations importantes si l’on en juge du moins par les ordres fréquemment répétés de recensement de ces biens fon-ciers. Outre le fait que ces terres féodales constituaient déjà une perte évidente en biens publics, leurs possesseurs échappaient aussi de cette façon à leurs obligations envers le service public. La question n’a pas été étudiée jusque dans ses détails mais on peut d’ores et déjà se demander qui usurpait et aliénait, et pourquoi, les domaines féodaux. Leurs administrateurs? Leurs cultivateurs? Leurs possesseurs eux-mêmes? Ces ordonnances de recensement, quoi qu’il en soit, sont suffisamment nombreuses: 1586, 1621, 1625, 1660, 1667, 1725, 173619.

5. Prestige social et titres

L’interprétation des éléments exposés plus haut nous conduit à proposer quelques conclusions. D’abord, l’importance évidente des fiefs, à savoir des revenus qu’en tiraient des particuliers en tant que possesseurs, suivant un type d’économie principalement fondé sur la redevance et partiellement sur les charges supplémen-taires imposées par le feudataire. Ensuite, l’existence, autour de la

17 G. Pojaco, Le Leggi municipali delle Isole Jonie cit., pp. 116, 161.18 Ivi; M. Michelon, Travagli legislativi di un contratto agrario nelle Isole Ionie

(sec. XVI-sec. XIV), Atti dell’Istituto Veneto di Scienze, Lettere ed Arti, CL (1991-1992), pp. 365-398. F. Karlafti-Muratidi, I diki ton prostihion: Nikolaos Theotokis, Karusades, 17os e. – [Le procès des prosctichi: Nikolaos Theotokis et le village de Karusades au XVIIe s.], in A. Nikiforu (ed.), Praktika tu 9ou Panioniu Sinedriu cit., pp. 163-195. Th. Moshu, Periousies ke ikogenies horikon, Kerkira, 18os e. – [Patri-moine et familles de paysans de Corfou, XVIIIe s.], in A. Nikiforu (ed.), Praktika tu 9ou Panioniu Sinedriu cit., pp. 123-135.

19 Codice feudale cit., pp. 4, 42. G. Pojaco, Le Leggi municipali delle Isole Jonie cit., t. II, p. 13.

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possession des fiefs et des baronnies, d’un groupe social qui, en tant que possesseurs directs ou qu’affermeurs-intermédiaires, en tirent des revenus, puisant simultanément en eux richesse et pres-tige puisque, à ce qu’il paraît, la possession d’une terre baronniale conférait en puissance un titre de noblesse. L’importance du titre et les droits de préséance sociale qu’il entraînait sont démontrés par le phénomène des feudi oblati. En 1647, le sénat vénitien, dans le cadre d’une politique fiscale, décréta l’érection en fiefs accompa-gnés de titre de noblesse des terres privées qui seraient cédées à l’État. Mais l’érection d’une propriété privée en propriété féodale ne conférait pas seulement un titre de noblesse, elle octroyait aussi des attributions judiciaires aux nouveaux feudataires. Ainsi:

19 septembre 1647. Sur les oblati. Au Sénat,Eu égard à la nécessité de réunir de l’argent, les cinq contrôleurs des

Finances ont mentionné l’érection d’apanages particuliers, de comtés ou d’autres […] distinctions […] les cinq contrôleurs des Finances sont tenus de publier la proclamation de l’accord de notre conseil […] et d’inviter tous ceux qui désirent acquérir un titre honorifique ou ériger en quelconque apanage, comté ou autres grades honorifiques plus élevés, domaines vil-lages ou biens, […] de venir ou d’envoyer […] une demande écrite ainsi qu’une offre et de traiter avec eux […] les termes dans lesquels ils pourront aussi obtenir une autorité judiciaire jusqu’à un certain point et en outre une rente annuelle tirée de quelque caisse fiscale locale […] afin que ces distinctions honorifiques soient éminentes […]20.

Le fief n’est donc pas seulement une relation de fermage entre un propriétaire terrien et un cultivateur mais aussi une domina-tion, bien que limitée, du feudataire sur ses cultivateurs. En termes féodaux, il s’agit d’un dominium qui confère, entre autres, du pres-tige. Cette relation de domination des baroni sur leurs cultivateurs nous est peu connue, et de façon seulement indirecte, puisqu’au-cune source écrite ne nous est parvenue. Le fait est qu’au cours du xixe siècle les possesseurs de terres féodales ont survécu des chan-gements politiques et de des différentes dominations, et consti-tuent un groupe social puissant, nonobstant la classe sociale à laquelle ils appartiennent, celle des nobles, des bourgeois ou des

20 Codice feudale cit., p. 11.

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paysans, groupe en mesure de négocier tout au long du siècle les termes de conservation de ses terres qui étaient en fait des terres publiques, renforçant ainsi l’image d’autorité qui l’entoure. Son in-sistance vis-à-vis de la possession de ses terres fit d’elle un facteur à part dans la lutte entre propriétaires terriens (généralement) et paysans lors des tentatives de réformes agraires de ce siècle.

6. Les fiefs et leur historique

Quels étaient donc les fiefs? À qui appartenaient-ils? On ne peut répondre à cette question que de manière limitée en ce qui concerne le xve et le xvie siècle. Les transferts, dans la mesure où il existe des informations, n’ont pas encore été étudiés en détail, ni même les termes suivant lesquels les fiefs ont été transmis de famille à famille ni dans quelle mesure ils ont été répartis entre les héritiers. Même si les fiefs paraissent être les capitaux intacts et non aliénés d’un ayant-droit final, il n’en reste pas moins qu’il s’agit d’une vue théorique. En effet, un fief pouvait être réparti entre de nombreux ayant-droits qui par le jeu des successions transféraient leurs droits.

La commission qui, en 1894, fut chargée de leur suppression, de la restitution de la terre aux cultivateurs et du dédommagement des ayant-droits aux revenus féodaux contribua à une œuvre re-marquable de collecte et de vérification des titres qui fondaient ces droits féodaux, et établit le bilan de leurs recettes et du capi-tal entier qu’ils représentaient sur la base des revenus des quinze dernières années précédant 1894. Les archives de cette commis-sion, nommée Commission spéciale conformément21 à la loi 2283 de 1894, sont conservées aux Archives Générales de l’État du dé-partement (nome) de Corfou. Les propriétaires de droits féodaux devaient apporter, outre les registres consignant leurs revenus, les titres qui prouvaient leur autorité légitime sur ce type de bien fon-cier. La Commission Spéciale pouvait aussi, ainsi qu’elle le fit d’ail-leurs, recourir aux archives de la République des îles ioniennes (1800-1807) qui conservait un dossier sur chaque fief ou baronnie

21 Sur l’historique de ce service, agissant dans le cadre de l’Administration des biens municipaux, cfr. N. Karapidakis, M. Kamonahu, To arhio tis enhoriu diaxiri-seos sto istoriko arhio Kerkiras – [Les archives de l’adminstration des biens muni-cipaux conservées aux archives historiques de Corfou], «Ta Istorika», t. 3, fasc. 6 (1986), pp. 438-446.

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où étaient réunies les certifications déposées à compter de 1804 dans le but de fonder les droits féodaux22. La collecte de ce matériel (qui n’a pas été encore étudié dans son ensemble) nous autorise une connaissance rétrospective, de 1894 et en amont jusqu’au xviie

siècle, de la situation des fiefs de Corfou. Suivons-en le cours.Le fief Kormarina qui autrefois appartenait à la famille Pierris

(Iakovos et Nikolaos) n’existait plus en 1894. Si l’on se fonde sur un inventaire plus ancien, Iakovos Pierris offrit en 1801 ses terres sises dans la région de Korakiana afin qu’elles soient créées en fief, sur la base d’un inventaire plus ancien. Le sénat ionien donna son accord à cette érection en 1804, ainsi qu’au titre de comte qui allait avec le fief. La succession du fief se faisait par droit de primogéni-ture mâle. En 1817, le fief passa à Lavrentios Pierris. Conformé-ment à une déclaration de 1825, le fief n’avait pas de cultivateurs et était composé de 214 oliviers. En 1894, au cours de la procédure de clarification des droits féodaux, Kormarina, à savoir 214 oliviers sis dans la région de Krévatsoula de Korakiana, était passé en la possession de Yioryios Métallinos après une mise aux enchères publiques23. Le fief de Haghios Georgios Soronios créé comme obla-tum en 1752 sur la base d’une offre en terres de 12 500 ducats appartenait encore en 1894 aux descendants de son fondateur, Ioannis Vaptistis Sordinas, et de son successeur et neveu Ioannis Vaptistis fils de Petros. Les ayant-droits de 1894 étaient Thémis-toklis Sordinas et, en partie, Onorini Skrintzi Sordina. Lors de sa création en 1752 en avait été défini le mode de succession: «aux enfants mâles en ligne agnate directe ou collatérale» et les biens initiaux pouvait être augmentés grâce à de nouvelles offres qui ont en effet eu lieu en 175324. Sur l’ancien fief des Athigganoï ou Habi-taculo – les sources rapportent cette variante du nom depuis le xive

siècle – les droits furent successivement détenus par un membre de la famille des Digotti (Dei Gotti ou Delligoti), Viktor Digoti, en

22 Les documents concernant les fiefs et provenant des archives de la Répu-blique des Sept Îles, ont été intégrées dans les archives de l’Administration des biens municipaux, et sont regroupés dans le carton n. 1701, cité ici, Gak-Ank, Aed, 1701 suivi du numéro d’ordre du document.

23 Gak-Ank, Aed, 1705, pp. 1-2, et 1701, fliza 921. 7: Giacomo Pieri, possiede in feudo proprio oblato con successione di primogenitura la baronia denominata Cor-marina nel territorio della villa Corachiana. La rendita annua è di zare oglio lampante 9è zare come risulta dalla comparsa 10 novembre 1804, prodotta nell’illmo Tribunale urbano di Corfù dagli affituali della baronia... il feudo porta il titolo di conte.

24 Ivi, 1705, pp. 2-3.

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1516, et un membre de la famille des Gianellos entre 1516 et 1541, date à laquelle le fief fut octroyé à Antonios Eparhos. En 1616, c’est un Nikolaos Eparchos qui en est le seigneur, et par la suite, par voie de succession féminine, le fief passe à Iakovos Kouartanos (Giacomo Quartano) en 1667, et comme bien dotal à Panayiotis Prosalentis (Prossalendi) en 1748. Spyridon (Spiridion) Prosalen-tis, fils de Théodoros, le reconnaît à sa faveur grâce à un décret de la République des îles ioniennes, en 1804. Le fief demeure dans cette famille jusqu’en 1863, date à laquelle il est transféré en tant que bien dotal à Théodoros Trivolis (Trivoli), époux de Ioulia Prosa-lenti et, en 1865, de la même façon, à Friderikos Koskinas, époux d’Antonia Trivoli. Après 1870, il est démembré, par le biais d’un transfert partiel et de deux emphytéoses, à trois ayant-droits diffé-rents, Théodoros Kontos, Nikolaos Makris et un certain Yorgou-las25. Le fief Méma, qui appartenait aussi aux Digotti, puissante et large famille de baroni d’origine provençale, et plus précisément à Guglielmo Digotti26, passe en 1616 aux mains des frères vénitiens Petro et Gasparo Memo, et à leur mort, vers 1645, il devient l’objet d’une longue bataille judiciaire entre Stamatéla Skaliti (les archives de la Commission Spéciale la mentionnent sous le nom de Stama-télos Skalitis) et Nikolaos Kapodistrias qui, grâce à sa mère Marina Midéi, fille d’une descendante des Digoti, gagne le procès (1682) en tant que plus proche parente des Digoti. Notons que les informa-tions dont nous disposons sur les successions de ce fief au cours du xvie siècle sont confuses. Elles indiquent que ce dernier va de-meurer dans la succession de Nikolaos, Iéronymos, Frangiskos, Spyridon Kapodistrias (1807) et au cours du xixe siècle, dans la succession des Kapodistrias-Soufi qui semble perpétuer dans les transmissions patrimoniales, on ne sait comment, la précédente

25 Ivi, 1705, pp. 4-11; d’après une reconstitution des différentes successions depuis la fin du Moyen Âge, fondée sur des documents disparus aujourd’hui et opérée par Ioannis Romanos au XIXème siècle, les possesseurs du fief étaient dans l’order chronologique les: Aloysius de Citro, Adam de Sant’Ippolito, Janello dei Ha-bitaculi (1453), Jacomo Dondi, Michel Delligoti (1464), Alessandro Delligoti, Victor Delligoti, Antonio Eparcho (1540), Nichiforo Eparcho (1573), Ioannikio Eparcho (1598), Jacomo Quartano (1616), Jeronimo Morello (1624), Jacomo Quartano, petit fils du précédent (1667), Zanetto Prossalendi (1711), le fief restant dans la famille des Prossalendi jusqu’au 1799.

26 A. Mustoxidi, Delle cose corciresi, Corfou, 1848, p. 695. S.N. Asonitis, Ne-otera genealogika stihia ton kerkiraïkon ikogenion Deligoti ke Altavila – [Nouvelles informations pour les familles corfiotes Deligoti et Altavilla], «Deltion tis Eraldikis ke Genealogikis Eterias tis Ellados», 10 (1996), pp. 375-401.

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branche des Kapodistrias. Les ayant-droits principaux, en 1894, sont Iéronymos et Yioryios Kapodistrias-Soufi. Un ayant-droit par-tiel de ce fief était en 1845, en raison de la dot apportée par sa femme Ioanna Kapodistria, Pavlos Mavillis fils de Lavrentios. Une autre partie du fief avait passé, pour dettes, entre les mains d’un prêteur nommé Stamatélos Patsalis et de sa femme Aikatérini Mar-tinengo, laquelle le loue à son ayant-droit principal, Yoryios Soufi. Une autre partie du fief située à Kato Loggos à Vato faisait partie de l’«héritage» du chevalier Kokkinis en tant que dépendant du fief, et par ce biais fut divisée entre les membres de la famille Tzorzis Théotokis et les frères Iakovos et Nektarios Halikiopoulaioï27. Le fief Kamari appartenait depuis 1541 à Avgoustinos Barbatis (Agostino Barbati)28 en vertu d’un décret du sénat vénitien comportant la clause spéciale que ses ayant-droits en recueillent les revenus sans pouvoir les vendre ou les aliéner. En mai 1685, le comte Iako-vos Barbatis (Jacobo Barbati) renouvelle l’investiture du fief (dans les archives de la République des îles ioniennes est également mentionnée une investiture de 1788) lequel demeure dans la fa-mille jusqu’en 1869, grâce à la succession du comte Yorgios Bar-batis fils de Nikolaos (1804) et de Iakovos Barbatis fils de Yorgios (1866). En 1869, il fut transmis à Maria Yéranou fille de Photios et à Photios Yéranos fils de Spyridon29. Le fief Mésoggis Prinilla Braga-niotika, créé le 22 mars 1770 grâce à une offre de Eléni Loukani (Elena Lucani), épouse de Vénédiktos Trivolis (Benetto Trivoli), parvint plus tard en la possession de la famille Trivolis. Cette offre concernait un bien qui lui venait d’un héritage reçu en 1765, et qu’elle avait partagé avec Alexandros Ouggaros. Eléni Loukani avait demandé en faisant son offre que son fief soit soumis aux règles des «Assises de Romanie». Ses quatre fils Ioannis, Iakovos, Dimitrios et Alagatoras, fils de Vénédiktos, acquirent le titre de comte. Le sénat ionien, lors des reconnaissances qu’il fit en 1804, reconnut en tant qu’ayant-droits principaux Ioannis et Vénédiktos Trivolis. Au xixe siècle le fief est réparti par voie de succession do-

27 Gak-Ank, Aed, 1701, 912. 12. Ivi, 1705, pp. 6-11.28 K. Korre, Misthoforiki ipiresia, egios idioktisia ke klironomiki diadohi. I Stra-

dioti, ke i ktisis tu Ioniu – [Service de mercenaire, propriété foncière et succession. Les stradioti et les possessions ioniennes], in A. Nikiforu (ed.), Praktika tu 9ou Panioniu Sinedriu cit., pp. 199-225 et surtout p. 235.

29 Gak-Ank, Aed, 1705, pp. 2-3, 12-14; et 1701, 921.7 5 (investitures de 1788 et 1804).

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tale ou de disposition testamentaire entre les Koskinas, Anna Ka-simati et Nikolaos, Spyridon et Dimitrios Trivolis30. Le fief Bragadi-na, quant à lui, fut racheté en 1748, suivant les actes de la Commission Spéciale, par Antonios Marmoras et, en 1804, grâce aux reconnaissances de la République des îles ioniennes31, il passa entre les mains de Spyridon Marmoras. Les archives de la Répu-blique des îles ioniennes indiquent que le fief comportait le titre de comte, et se transmettait par droit de primogéniture mâle. Notons que le nom de Marmoras paraît aussi avoir été celui d’un intendant de fiefs (partie du fief Martina) dès le xvie siècle. En ce qui concerne la variante Bragadin du nom, il provient d’Andréas Bragadin, véni-tien, possesseur du fief en 1616. Par le biais de ventes par lots mais aussi de rachats, le fief parvint au xixe siècle entre les mains de douze ayant-droits dont nous ne rapporterons pas ici les noms, hormis celui de l’acheteur principal Yioryios Ventouras, fils de Ioannis Vaptistis32. Le fief Darmer appartenait en 1894 par voie d’héritage à une famille italienne, celle de Luggio Gravini Broglio. Le fief paraît avoir appartenu au xvie siècle à Daniel Darmer et à sa sœur, qui épouse le Vénitien Giovanni Querini (Ioannis Kouerinis). La famille Darmer était comprise dans les familles puissantes de l’île depuis le xve siècle. Un autre possesseur du fief, apparemment l’époux de la fille Kouerini, Alvise Maria Dona, le transféra à sa fille Orsola Dona Broglio en 1785. De celle-ci, à la faveur de mariages successifs, le fief parvint entre les mains des héritiers de Joseph Gravinski et de ceux de son fils Herrico (1879)33. Le fief Gritta, Al-tavilla, Donado ou Petretina fut confirmé en la possession de son ayant-droit légal, Jeronimo (Iéronymos) Petretis, en 1804, puis, par l’intermédiaire de sa femme, il revint aux Andréas et Stylianos Doria Prossalendi de Marco Antonio. Aux successions du fief sont impliqués, outre la vieille famille des Altavilla et des Petretin, Gio-vanni Battista Erizzo (1516), Giuglio Donato, Vicenzo Gritti avant 1616 et Alvise Erizzo (1616) en commun avec Vicenzo Gritti. Les informations fournies au sujet des xviie et xviiie siècles sont confuses: la baronnie est mentionnée en 1748 comme étant venue en la pos-

30 Ivi, 1705, pp. 15-19.31 Ivi, 1701, 922.11: Marmora Spiridion qm Andrea, possiede la baronia Bra-

gadina in feudo conceduto improprio col titolo di conte, progressibile di primogenito in primogenito leggitimo. Ha prodotto 4 investiture originali de 29 aprile 1687, 15 settembre 1686, 18 decembre 1725, 4 luglio 1781.

32 Ivi, 1705, pp. 19-28.33 Ivi, 1705, pp. 29-42.

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session du Corfiote Andréas Halikiopoulos, en 1760 de Frangiskos Kapodistrias, tandis qu’un certain Nikolaos Kapodistrias est impli-qué en tant que successeur en 168934. Le fief Fiomacho, qui tire son nom d’une vieille famille de l’île35 qui le possède encore en 1748 (investitures intermédiaires de Ioannis Fiomacho 1515, Iako-vos Fiomaho 1616, Frangiskos Fiomahos 1748, passe en 1811 à Markos Antonios Halikiopoulos et, en 1848, par testament, à Mi-haïl Polylas tandis qu’une partie va à ses sœurs et aux ayant-droits partiels Vasilios Métallinos, Yioryios Sperantzas (époux d’une Alexaki) et Andréas Markopoulos36. Le fief Tron est confirmé en la possession de Michele Tron en 1616, issu d’une famille qui le pos-sède déjà avant cette date ou qui l’acquiert de Pieros Malipieros. Par l’intermédiaire d’Evgénia Tron-Veronezi, qui en a la possession légale en 1804, et de ses héritiers, le fief passe à la société de né-goce Dimas Kantonis et Cie. Après la dissolution de la compagnie, ses biens fonciers vont à Yioryios Théotokis, époux d’Amalia Dima, et à Aristidis Koyevinas, également héritier de la compagnie Dimas Kantonis. Pourtant, c’est la famille Tron qui en est le principal pos-sesseur aux xviie et xviiie siècles: Michele 1616, Francesco 1642, Andrea 1748, Michele 176037. Le grand fief Marcello Viara fut re-connu comme appartenant principalement à Angelos Marcello; il provient de l’héritage de Giorgio Digoti avant 1516, de Fantinos Viaro (1516), de Marinos Marcello (1616) et de Vittore Marcello en 1748. En 1894, il avait huit principaux ayant-droits et treize ayant-droits partiels, certains d’entre eux soutenant que les terres qui leur appartenaient provenaient du plus ancien fief Bafo, portion du fief Marcello, qui était passé entre les mains du Corfiote Gallo Mo-rello38. Le fief Vitturi revint au Vénitien Giovanni Battista Veronese en 1595 et en 1804 à Kornilia Vitouri Veronezi, et à ses fils Karolos et Vartholomaios en 1837. Ses fils affermèrent ses revenus à Anto-nios Anemoyannis fils d’Anastasios pour le compte de Mihaïl Saou-lis fils de Dimitris et en vendirent une partie à Ilias Vasilakis fils de Nikolaos39. Ce fief semble être la continuation du vieux fief angévin

34 Ivi, 1705, pp. 42-47, et 1701, 912. 5.35 S. Asdrachas, Feudaliki prosodos cit., pp. 308-309.36 Gak-Ank, Ead, 1705, pp. 48-54; et 1701, dossier «timarion Polilla».37 Ivi, 1705, pp. 55-61. N. Karapidakis, Ta feuda cit., p. 290.38 Gak-Ank, Ead, 1705, pp. 61-75.39 Probablement le directeur de la Banque Ionienne, branche de Corfou, cfr.

P.L. Cottrell, The Ionian Bank. An imperial institution 1839-1864, Alpha Bank Histo-rical Archives, Athènes, 2007, p. 291.

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San Ippolito, si l’on en juge d’après un témoignage de 174840. Le fief Duodo, quant à lui, appartient à la famille Duodo, et à Gherar-do Duodo depuis 1616. Il appartenait précédemment à Pierro Ma-lipiero et il doit être une continuation du plus ancien fief Caraccio-lo. En 1740 et 1750, il appartient à Petro Duodo fils de Gherardo et demeure dans la famille en 1804, mais le domaine a été loué à Panayiotis Halikias et à Antonios Arvanitakis. Le successeur de Duodo, Vertoniko Valvis Valier, en 1835, continue à le louer après en avoir vendu une partie à la famille Kolas, et par l’intermédiaire de cette dernière une partie du fief revient à la famille Alvanas41. Le fief Gotis, Digottis, Midei, qui ne comportait pas de titre de no-blesse, provenait de l’héritage Digoti, et aboutit entre les mains de Nicolo Midéi en 1616, mais il devait avoir été précédemment dé-membré car une partie vint en tant que baronnie Vrounelis entre les mains d’Alvise Erizzo, et à une Canale, épouse Volanis. Ce fief revient au Corfiote Ioannis Kapadohas (1664, 1669) et en 1729 à son fils Pavlos Kapadohas: il demeurera dans la famille en 1804 en la personne de Ioannis Kapadohas fils de Domenikos ou Dimitrios (suivant les archives de la République des îles ioniennes). Il y eut des reconnaissances intermédiaires entre 1729 et 1804, à savoir celles de 1765 et 1800. Par la suite, le fief fut compris dans la dot d’Athénaïs Moulatsani, fille de Ioannis, et vendu à Spyridon Toma-zis fils de Lavrentios en 1869. L’héritage Tomazis le répartit entre Aikaterini Seremeti, Eleni Guelmou Tomazi et Eleni Eÿscardou Grimvouo. Au cours du xixe siècle, outre les héritiers cités plus haut, il est démembré entre de nombreux ayant-droits partiels tels que Nikolaos Ventouras fils de Vaptistis, Tilémahos Kaloyéropoulos, qui reçoivent une partie déjà démembrée au xviiie siècle, et Alkinoos Zervos, lui aussi héritier d’un démembrement du xviiie siècle, et al42. Le fief Erizzo, Syniais Peritheia: la Commission Spéciale de 1894, bien que prévoyant une page blanche pour enregistrer la discus-sion au sujet du fief Eritsos, ne s’en est pas occupée. Néanmoins, en 1516, c’est Giovanni Battista Erizzo qui est mentionné comme héritier de Francesco Altavila (les Altavila étaient des feudataires datant de la période angevine), et, en 1616, Alessandro Erizzo ap-paraît comme possesseur du fief San Ippolito, en tant qu’héritier

40 Gak-Ank, Ead, 1705, pp. 76-83. 41 Ivi, 1705, pp. 83-96.42 Ivi, 1705, pp. 97-105.

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de Nicolò Altavila. Ce fief avait été divisé et l’une de ses parts était allée à une certaine Canale, épouse Volanis43. Le fief Corner, Batta-gia ou Sakkomani, anciennement Canal, Malipiero: suivant les in-formations de la Commission Spéciale, les témoignages concernant ce fief se fondent sur les inventaires de 1574, 1632, 1638, 1661 et 1743. Le feudataire lors de cette dernière date était Jeronimo Cor-ner fils de Paruta. Le fief paraît appartenir à Pierro Malipiero en 1516 et, conformément aux informations de 1616, alors qu’il ap-partient à Jacomo Malipiero, il semble que Orsa, fille de Paulo Ca-nale et épouse de Bortolo Paruta, ait des droits sur lui. En 1660, son possesseur principal paraît être dame Petretina Paruta. En 1805, le fief est reconnu comme possession d’Eleni Capello Batag-gia Beloni Morozini, et il revient par la suite à Louiggia épouse de Iosif Sakkomanis. Pendant tout le xviiie siècle, le fief est réparti entre six ayant-droits italiens et six autres corfiotes. Appartenaient aussi à ce fief, concédé par Charles iii de Sicile à Théodoros Skalitis en 1383, les îles Vido, Ereikousa, Mathraki et Haghios Stéphanos. L’île Vido, conformément à des renseignements fournis par les ar-chives de la République des îles ionniennes, avait été donnée in colonia à Benettos Piero fils de Christodulo, lequel parvient à l’usurper lors des reconnaissances de 1804 après un procès contre Elena Capello, Bataggia Morozini44. Le fief Bafo, Linarda, De Marti-no, est une partie du fief Marcello, anciennement baronnie De Mar-tina. En 1692 et 1693, on se livre à un inventaire en faveur du comte Ludovico Baffo, et au cours du xixe siècle le fief aboutit entre les mains de Marinos Stamoulis, habitant du village de Péléka45. Le fief Ralli Frangoni appartenait suivant un inventaire de 1757 à Ma-rina Varvaro, fille de Francesco, et il passe en 1789 à Nikolaos Politis fils de Ioannis. En 1894, il appartient à Yioryios Rouvas et à Maria Vlaïkou, veuve de Spyridon, et aux Martinengo, Koyevina, Tsirigotou, Anastasios Damaskinos et au prêtre Poulis ainsi qu’au prêtre Karydis. Le fief appartenait à Jacomo Ralli en 1516, et, sui-vant un renseignement, provenait de la famille Souvlaki, vieille fa-mille d’«archontès» de Corfou dont on retrouve des témoignages la concernant dès le xve siècle46.

43 N. Karapidakis, Ta feuda cit., p. 291.44 Gak-Ank, Aed, 1705, pp. 19-118; et 1701, 912.8.45 Ivi, 1705, pp. 119-121; A. Mustoxidi, Delle cose corciresi cit., p. 695.46 Gak-Ank, Aed, 1705, 125-135.

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Quelles conclusions pouvons-nous donc émettre de l’étude des éléments exposés plus haut?

Les vieilles familles de la période angevine tels que les Digotti, les Altavilla, les Darmer, les Skaliti, sont en recul. Au cours du xvie

siècle, la plupart des fiefs de Corfou passent dans leur majorité à des familles vénitiennes par épigamie ou d’autres modes d’alliance ou de transfert, mais aussi au moins à une famille grecque, celle des Eparchoï. Cette période du xvie siècle est la moins connue en ce qui concerne les successions et les transferts de fiefs. Ces familles vénitiennes étaient néanmoins représentées par des membres de familles telles que les Malipiero, les Morosini, les Erizzo, Corner, Canal, Vituri, Duodo, Tron. Cette tendance semble se renverser aux xviie et xviiie siècles, au cours desquels, de diverses façons, de nombreux fiefs aboutissent entre les mains de représentants de la classe des archontes corfiotes. Une tendance qui se renforce au xixe

siècle, qui voit la terre féodale démembrée par le jeu des succes-sions et des concessions entre de nombreux ayant-droits partiels, faisant de nombreux Corfiotes, même des paysans, des seigneurs de terres supplémentaires. Au cours des siècles de la domination vénitienne, les familles d’archontes ne participent pas toutes (nous pouvons en dénombrer autour de cent cinquante) à la distribution des terres féodales, seulement quelques familles telles que les Ca-podistria et les Prossalendi. Les familles Sordina et Trivoli parti-cipent à leur intégration aux nombre des feudataires par des offres de même nature, tandis que les Marmora, dont un ancêtre avait débuté comme intendant, finissent par acquérir un fief.

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resumen: La definición de las principales características del mayorazgo en el Reino de Valencia conforma el objetivo del presente artículo. Nuestra fuente documental es la obra publicada en el s. XVII por Francisco Jerónimo de León, un magistrado valenciano quien compiló cientos de sentencias de la Real Audiencia. Centramos nuestra atención principalmente en dos materias; la prueba de la fundación de una primogenitura ante un tribunal de justicia y el orden de suceder en el mayorazgo regular.

PAlAbrAs clAve: mayorazgo, Reino de Valencia, siglo XVII.

ENTAILED PROPERTY IN SEVENTEENTH CENTURY VALENCIA

AbstrAct: The aim of this paper is to define the main features of the entail in the Kingdom of Valencia. Our source is the work published in the seventeenth century by Francisco Jerónimo de León, a Valencian judge who collected hundreds of sentences of the Royal Audience. We focus on two main issues; how to prove in court the foundation of a primogeniture and the succession line in a regular entail.

Keywords: entail, Kingdom of Valencia, seventeenth century.

1. Introducción

En el ámbito valenciano no disponemos de una monografía so-bre el mayorazgo en la época foral comparable a la escrita por Bar-tolomé Clavero en relación a la Corona de Castilla1; sin embargo, sí contamos con aportaciones muy valiosas sobre esta temática. Un estudio pionero fue publicado por Joan Brines y Carmen Pérez Aparicio a finales de los años ochenta. Su análisis del vínculo de Guillem Ramón Anglesola incorporaba una reflexión general so-bre la vinculación de la tierra en el Reino de Valencia2. En fechas

1 B. Clavero, Mayorazgo. Propiedad feudal en Castilla (1369-1836), s. XXI de España, Madrid, 1974.

2 J. Brines, C. Pérez Aparicio, La vinculació al País Valencià: origen, transmissió i dissolució dels vincles d’en Guillen Ramon Anglesola, in Homenatge al dr. Sebastià García Martínez, vol. II, Universitat de València, Valencia, 1988, pp. 229-252.

Nuria Verdet Martínez

LA PROPIEDAD VINCULADA EN LA VALENCIA DEL SIGLO XVII

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más próximas, el profesor Pascual Marzal ha perfilado en profun-didad las características del mayorazgo valenciano mediante un complejo análisis de la legislación, la doctrina y la jurisprudencia valencianas3. Un amplio número de pleitos sobre la posesión de vínculos sustanciados ante la Audiencia de Valencia constituye el sólido soporte documental del artículo publicado recientemente por el profesor Catalá Sanz donde subraya las contradicciones de los mayorazgos en la época moderna4.

Bartolomé Clavero en su definición de esta institución puso el acento en la dimensión del mayorazgo como un tipo de propie-dad privilegiada. Desde este punto de vista, los historiadores han encontrado notables divergencias entre el modelo castellano y el valenciano. Mientras en la Corona de Castilla el mayorazgo y la enfiteusis resultaban incompatibles, en el Reino de Valencia am-bas instituciones podían concurrir sobre una misma propiedad. La autorización judicial era el único requisito necesario para fundar un mayorazgo o para enajenar patrimonio vinculado en el Reino de Valencia donde5, además, los límites impuestos por los derechos legitimarios a la voluntad del causante eran menores que en Cas-tilla6. No menos importante resulta el hecho de que en el territorio valenciano a diferencia del castellano cualquier persona pudiera establecer un vínculo, si bien este fue un recurso utilizado princi-palmente por la nobleza7.

Los juristas de la edad moderna, tanto castellanos como va-lencianos, sin embargo, entendieron el mayorazgo como una figura de derecho sucesorio especial. La definición propuesta por el gran mayorazguista castellano, Luis de Molina, lo perfilaba como el de-recho de suceder en los bienes dejados por el fundador para que se conservasen íntegros perpetuamente en la familia y se transmi-tiesen al inmediato primogénito por orden sucesivo. La institución se caracterizaba, por tanto, por un orden de suceder que privile-giaba la sucesión singular de un heredero frente a llamamientos

3 P. Marzal Rodríguez, Una visión jurídica de los mayorazgos valencianos entre la época foral y la Nueva Planta, «Anuario de Historia del Derecho Español», LXVI (1996), pp. 229-364.

4 J.A. Catalá Sanz, Integridad patrimonial, perpetuidad, memoria. Contradiccio-nes de los mayorazgos valencianos en la época moderna, «Studia Historica. Historia Moderna», 33 (2011), pp. 61-95.

5 P. Marzal Rodríguez, Una visión jurídica cit., p. 231.6 J.A. Catalá Sanz, Integridad patrimonial cit., p. 64.7 J. Brines, C. Pérez Aparicio, La vinculació al País Valencià cit., p. 231.

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hereditarios plurales. El causante gozaba de plena libertad para determinar los llamamientos y su voluntad era considerada ley en la sucesión vincular. Con todo, los criterios aplicados en el acceso a la corona castellana, es decir, la primogenitura y la masculini-dad, fueron contemplados en la mayor parte de los mayorazgos. La prohibición de enajenar las propiedades amayorazgadas a fin de conservarlas perpetuamente en la familia era otro de los rasgos de la institución8.

La gran variedad e imprecisión terminológica manejada para hacer referencia a esta figura de derecho sucesorio especial cons-tituye una importante dificultad para su estudio en la Valencia foral. Los conceptos mayorazgo, vínculo y fideicomiso perpetuo o infinito eran empleados como sinónimos tanto por los litigantes y los jueces valencianos, como por la doctrina. El uso ambivalente de estas expresiones podría confundir al lector actual ya que en-tre estas instituciones se evidencian diferencias relativas a los dos rasgos característicos del mayorazgo, esto es, la sucesión singular y la perpetuidad de gravamen. El término vínculo venía definido por el derecho foral valenciano como la carga o el gravamen de restitución, pero no necesariamente perpetua. Sin embargo, la uti-lización indistinta de las palabras vínculo o mayorazgo rara vez provocó problemas de interpretación. Por otro lado, la anexión del adjetivo perpetuo o infinito al sustantivo fideicomiso no solo en la literatura forense sino también en la práctica fundacional permitía asimilar un fideicomiso al mayorazgo, distinguiéndolo de una sus-titución fideicomisaria temporal. Con todo, en no pocas ocasiones el concepto fideicomiso era equiparado al de mayorazgo, incluso sin añadirle epíteto alguno9.

A ese primer inconveniente deberíamos añadir la deficiencia nor-mativa existente en el Reino de Valencia respeto a la institución del mayorazgo. Esta situación contrasta con la realidad jurídica de la Corona de Castilla donde las Leyes de Toro regularon su funciona-miento con precisión. El profesor Marzal ha indicado que la doctrina tampoco atendió esta cuestión de manera prioritaria; por el contrario, fue la jurisprudencia quien trató de suplir las carencias legislativas ante la abundancia de pleitos relacionados con los vínculos. Juris-tas como Francisco Jerónimo de León, Crespí de Valdaura o Mateu y

8 P. Marzal Rodríguez, Una visión jurídica cit., pp. 232-235.9 Ivi, pp. 236-238.

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Sanz trataron de dar respuesta a problemas concretos planteados en la práctica forense cotidiana. La carencia legislativa y doctrinal sobre la materia propició el empleo por parte de estos autores valencianos de argumentos procedentes de la doctrina del derecho común, sobre todo, castellana e italiana, circunstancia que propiciaría la asimila-ción de los criterios castellanos también difundidos por Italia10.

La obra jurisprudencial del primer práctico valenciano inte-resado en esta materia, Francisco Jerónimo de León, conforma la fuente documental manejada para elaborar nuestra modesta apor-tación al conocimiento del mayorazgo valenciano11. La recopilación de sentencias de la Real Audiencia compuesta por de León, titula-da Decisiones Sacrae Regiae Audientiae Valentinae, fue impresa en dos volúmenes en 1620 y 1625, respectivamente. En 1645 publi-caría póstumamente un tercer tomo, dedicado a la glosa de fallos pronunciados por el Consejo de Aragón12. Nuestro análisis se cen-tra en dos aspectos distintos del mayorazgo, donde resulta eviden-te la influencia del modelo castellano. En primer lugar, estudiamos dos decisiones donde el autor comentaba sendos pleitos sobre la fundación de un vínculo. El letrado nos presenta las conjeturas necesarias para demostrar en sede judicial el establecimiento de un fideicomiso perpetuo sobre determinados bienes. Analizamos, en segundo término, distintas decisiones donde de León glosaba litigios en torno al orden de suceder en el mayorazgo. El jurista trataba de apuntalar el derecho de representación del primogénito por su hijo y la admisión de las hembras, principales puntos de novedad del orden sucesorio de la institución.

2. ¿Bienes libres o vinculados? Mecanismos probatorios de la fundación de un fideicomiso perpetuo o mayorazgo

El interrogante planteado hace referencia a los mecanismos probatorios de un mayorazgo ante un tribunal de justicia. Con el objetivo de abordar este asunto nos centramos en dos decisiones

10 Ivi, p. 230.11 La temática del presente artículo ha sido abordada con mayor profundidad en

mi tesis doctoral. N. Verdet Martínez, Francisco Jerónimo de León. Cultura política y práctica administrativa en la Valencia de los Austrias menores, Tesis doctoral inédita, Universitat de València, Facultat de Geografia i Història, Valencia, 2014, pp. 321-411.

12 F.J. De León, Decisiones Sacrae Regiae Audientiae Valentinae, vol. I-II-III, Madrid-Orihuela-Valencia, 1620-1625-1646.

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donde de León reflexionaba sobre el carácter perpetuo o temporal de los fideicomisos establecidos sobre sendos señoríos. La asimila-ción del fideicomiso perpetuo con el mayorazgo revela que el tema no era otro más que determinar la sujeción de aquellos señoríos a un vínculo o, por el contrario, su permanencia como bienes libres. En la decisio 60 del primer volumen de su obra, el autor comentaba una sentencia pronunciada por la Audiencia de Valencia el día 22 de junio de 1609. Esta calificaba de temporal el fideicomiso creado en 1503 por doña Beatriz de Borja y Arenós, hermana del papa Alejandro VI, sobre la baronía de Castellnou. En el responsum iuris del segundo tomo de sus Decisiones, el letrado, en cambio, justi-ficaba el carácter perpetuo del fideicomiso dispuesto en 1517 por don Juan Tallada sobre los lugares de Manuel, Roseta y Rafalet. Las diferencias existentes entre ambos planteamientos nos ofrecen las claves para definir los requisitos considerados indispensables por de León para demostrar la fundación de un mayorazgo.

Nuestro jurista organizaba su decisio 60 a modo de respues-ta a un consilium de Giacomo Menochio. Este aconsejó determi-nar el carácter perpetuo del fideicomiso creado por doña Beatriz de Borja; no obstante, la Audiencia valenciana finalmente falló en sentido contrario. El consiliator de Pavía consideraba que el tes-tamento de la fundadora presentaba gran parte de los indicios de la existencia de un mayorazgo, definidos como tales por Luis de Molina. La condición nobiliaria de la testadora13 y la cualidad de los bienes legados conformaban dos de las conjeturas menciona-das por Menochio14. La invocación por parte de doña Beatriz de los hijos varones de don Rodrigo – su hijo primogénito – evidenciaba que esta respetó la cualidad de la masculinidad. La imposición del gravamen de la delación del nombre y de las armas de la familia a aquellos era, así mismo, considerada como otro indicio15. La última de las conjeturas sugeridas era la contemplación de varios grados de sustitución. Doña Beatriz no había llamado explícitamente a los descendientes de su primer heredero. Sin embargo, Menochio afirmaba que la llamada a los hijos, según el derecho común, no solo comprendía a los hijos de primer grado sino también a los nie-

13 Ivi, vol. I, dec. 60, n. 13-14.14 Ivi, vol. I, dec. 60, n. 11.15 Ivi, vol. I, dec. 60, n. 4-5.

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tos, a los bisnietos y al resto de descendientes16. Cada una de las conjeturas descritas por separado – admitía Menochio – no podría satisfacer en modo alguno al juez. Todas unidas al mismo tiempo, en cambio, – recordaba el jurista italiano invocando la doctrina de Luis de Molina – posibilitaban la deducción de la configuración de un mayorazgo17.

La demostración de la constitución de un fideicomiso perpe-tuo tan solo mediante la concurrencia de los referidos indicios, no obstante, era debatida por Francisco Jerónimo de León quien también trataba de impugnar el valor de algunos de ellos. En con-creto, nuestro autor cuestionaba que la causante hubiera obser-vado varios grados de sustitución. De León reconocía la máxima enunciada por Menochio, según la cual la llamada a los herederos normalmente no solo comprendía al primero sino también a los sucesivos. Sin embargo, la doctrina de Pierre Rebuffe era resca-tada por nuestro letrado para manifestar que esta norma general cesaba cuando el testador llamó al hijo de alguien como sucesor en la herencia. Esa había sido justamente la fórmula empleada por doña Beatriz al citar a los hijos de don Rodrigo. Por el mismo moti-vo, remarcaba de León, la institutora solo contempló la cualidad de la masculinidad e impuso la obligación de la delación del nombre y de las armas de la familia a los hijos varones de primer grado de don Rodrigo, pero no a todos sus descendientes18.

Con todo, el argumento más fuerte empleado por de León con-sistía en discutir la fuerza asignada por Menochio a los indicios en la prueba de la existencia de un vínculo. El jurista no estimaba las conjeturas suficientes para colegir un fideicomiso perpetuo si estas no fueran necesarias o muy probables19. En caso de produ-cirse un conflicto entre conjeturas debían prevalecer aquellas que aconsejaban la exclusión del fideicomiso20. De manera coherente con estas ideas, de León – siguiendo a Marco Antonio Pellegrini- proponía en caso de duda resolver en contra de la vinculación y a favor de la libertad de los bienes. Las disposiciones del derecho romano que calificaban al fideicomiso como una carga justificaban las referidas observaciones. La literatura forense había señalado,

16 Ivi, vol. I, dec. 60, n. 7-10.17 Ivi, vol. I, dec. 60, n. 15.18 Ivi, vol. I, dec. 60, n. 37.19 Ivi, vol. I, dec. 60, n. 17.20 Ivi, vol. I, dec. 60, n. 32.

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además, la presunción a favor del heredero, esto es, de que aquel no había sido gravado por el testador. A partir de estas premisas de León concluía que una sustitución mejor se presumía directa que fideicomisaria. En último lugar, corroboraba la aplicación de estos planteamientos en la jurisprudencia valenciana21.

¿Cómo demostró entonces nuestro letrado el carácter perpetuo del fideicomiso fundado por don Juan Tallada sobre los lugares de Manuel, Roseta y Rafalet? La estrategia argumental empleada por de León no difería en absoluto de la desplegada por Giacomo Me-nochio en el caso estudiado anteriormente. Nuestro autor centraba sus esfuerzos en documentar en el fideicomiso establecido por don Juan Tallada la concurrencia de las conjeturas consideradas por Luis de Molina como necesarias para atestiguar la existencia de un mayorazgo. En esta ocasión, no hacía mención alguna a la califi-cación del fideicomiso como una carga, ni a la necesidad de contar con conjeturas necesarias y muy probables. Con todo, cabría pen-sar que los indicios enumerados a continuación le merecían esa estimación, pues con ellos trataba de justificar el establecimiento de un fideicomiso perpetuo.

Entre las conjeturas apuntadas por de León encontramos al-gunas coincidentes con las sugeridas por Giacomo Menochio para el caso de la baronía de Castellnou. Aludía a la condición nobiliaria de don Juan Tallada, así como a la cualidad de los bienes reca-yentes en el vínculo creado por aquel22. La contemplación de la cualidad de la masculinidad en el testamento del causante era, así mismo, invocada como otro indicio de la constitución de un mayo-razgo. El gravamen de la delación del nombre y de las armas de la familia impuesto por don Juan Tallada a sus herederos también había sido destacado por de León23.

No obstante, nuestro letrado agregaba otras conjeturas que constituían la clave de su argumentación. En concreto, hacía refe-rencia a la voluntad del testador de conservar sus bienes perpetua-mente en su familia, evidenciada con las fórmulas no ixca ne puixa eixir de nom de Tallada o sempre reste y estiga en nom de Tallada. El autor apelaba a la erudición de Luis de Molina para aclarar que las expresiones semper y perpetuo eran adecuadas para colegir la

21 Ivi, vol. I, dec. 60, n. 22-29.22 Ivi, vol. II, responsum iuris, n. 30-31.23 Ivi, vol. II, responsum iuris, n. 25-26.

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presencia de un mayorazgo24. La contemplación de varios grados de sustitución era alegada por de León como otra muestra de la fundación de un mayorazgo25. El orden de suceder prescrito por el causante también era significativo; en efecto, don Juan Tallada llamó a su primer heredero, don Juan, y, en caso de óbito de este sin descendencia, invocó a un segundo heredero, mandando que se siguiese así de uno a otro hasta la muerte del último, modo de suceder definido por Luis de Molina como peculiar del mayorazgo. La percepción de esta circunstancia como un indicio de fideicomi-so perpetuo había sido sancionada, así mismo, en una sentencia pronunciada por la Audiencia valenciana, recordaba de León26. Ce-rraba el discurso rescatando las palabras de Luis de Molina sobre la posibilidad de probar el mayorazgo con la unión de todas estas conjeturas al mismo tiempo27.

A modo de síntesis convendría hacer hincapié en las diferen-cias manifestadas entre los indicios sobre la constitución de un mayorazgo que Giacomo Menochio pudo reconocer en el caso de la baronía de Castellnou y las halladas por de León en los lugares de Manuel, Roseta y Rafalet. Ambos juristas recalcaban la cualidad de los bienes y de las personas, la contemplación de la masculinidad, la delación del nombre y de las armas, así como la consideración de varios grados de sustitución. De León, sin embargo, denunciaba la insuficiencia de todas estas conjeturas en la prueba de la exis-tencia de un fideicomiso perpetuo. De manera coherente con esta tesis, añadía otros testimonios dirigidos a justificar la vinculación de los lugares de Manuel, Roseta y Rafalet. En concreto, destacaba las expresiones relativas a la voluntad del testador de conservar sus bienes perpetuamente en su agnación, por un lado, y el esta-blecimiento del orden de suceder propio del mayorazgo, por otro. No sorprende que las ideas clave de su alegato hiciesen referencia, precisamente, a las principales divergencias entre el mayorazgo y el fideicomiso.

El análisis realizado evidencia el profundo rigor de Francisco Jerónimo de León en la exigencia de conjeturas adecuadas para demostrar un mayorazgo. En efecto, los indicios valorados por Me-nochio como suficientes para determinar el carácter perpetuo del

24 Ivi, vol. II, responsum iuris, n. 24.25 Ivi, vol. II, responsum iuris, n. 32.26 Ivi, vol. II, responsum iuris, n. 27-29.27 Ivi, vol. II, responsum iuris, n. 33.

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fideicomiso conformado por doña Beatriz de Borja sobre la baronía de Castellnou no recibieron esa estimación por parte de nuestro autor. Este rigor derivaba de la clasificación de aquella institución como una carga, circunstancia que conducía a de León a requerir a las conjeturas aportadas para su prueba gozar de la condición de muy probables y necesarias. En esa misma línea, el jurista aconse-jaba fallar a favor de la libertad de los bienes en caso de duda. Esta postura se revelaba congruente con el sentir de la literatura foren-se valenciana que atribuía a la vinculación el carácter de odioso, consideración con consecuencias prácticas idénticas a la realizada por de León28. Las fuentes empleadas para fundamentar su escrito tampoco diferían de las manejadas por el resto de jurisconsultos valencianos, ya que su argumentación quedaba cimentada en la doctrina del ius commune, sobre todo, la castellana y la italiana.

3. El orden sucesorio del mayorazgo regular y de agnación

El orden sucesorio del mayorazgo regular se caracterizaba por la atención al criterio codificado para el acceso a la corona castella-na en la ley de Partidas 2, 15, 2, donde se estableció la observancia del orden de primogenitura con derecho de representación. Esta norma –recogida en las Leyes de Toro- implicaba que a la muerte del causante no sucedería el mayor de sus hijos vivos, sino el des-cendiente mayor de la línea de primogenitura. Luis de Molina sis-tematizó las cuatro condiciones que debían ser contempladas para definir el acceso a la sucesión en un mayorazgo regular. Se debía considerar, en primer lugar, la línea; en segundo, el grado; en ter-cero, el sexo y, en último, la edad. De acuerdo con esta regla, la línea del último poseedor del mayorazgo no podía ser abandonada mientras no resultase extinguida y dentro de la línea de primoge-nitura se prefería al pariente de grado más cercano al más remo-to. El varón se anteponía a la hembra de la misma línea y grado, mientras dentro del mismo sexo se aventajaba el de mayor edad29.

Bartolomé Clavero ha subrayado que la ciencia jurídica se ocupó ampliamente en reflexionar sobre los puntos novedosos del derecho sucesorio del mayorazgo regular respecto a la sucesión feudal clásica. El derecho de representación o prelación del sobri-

28 P. Marzal Rodríguez, Una visión jurídica cit., p. 232.29 B. Clavero, Mayorazgo. Propiedad feudal en Castilla cit., pp. 212-213.

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no de mejor línea frente al tío de grado más próximo, y la admisión de las hembras en la sucesión vincular fueron los temas más re-currentes. No solo la literatura forense volvía una y otra vez sobre estos dos asuntos, sino también la propia legislación castellana. Si bien el orden de suceder en el mayorazgo ya había sido instituido por las Leyes de Toro, en el s. XVII la monarquía continuaba pro-mulgando normativa relativa a esta cuestión, signo posiblemente de las dificultades con las que se tropezó para garantizar su cum-plimiento. En ese sentido, convendría recordar la promulgación de dos pragmáticas reales el día 5 de abril de 1615, donde se insistía en la aplicación del derecho de representación, por un lado, y en la admisión de la mujer en la sucesión al mayorazgo, por otro30.

En el Reino de Valencia la carencia de una legislación dirigida a regular el mayorazgo, análoga a las Leyes de Toro de la Corona de Castilla, complicaba todavía más el escenario31. La frecuencia con la que conflictos sobre la interpretación del orden de suceder en los vínculos llegaban ante los tribunales de justicia urgía la fijación de un criterio para su resolución32. De León, gran conocer de los entresijos de la práctica forense cotidiana, consagraba varias de sus decisiones a reparar este vacío legal. Su interés por justificar la vigencia tanto del derecho de representación como de la admisión de las hembras en la sucesión vincular revela la enorme influencia del derecho y de la doctrina castellana.

3.1 El derecho de representación

La decisio 109 del primer volumen de su obra era escogida por de León para defender la sucesión en el mayorazgo del sobrino de mejor línea frente al tío de grado más próximo. El principal argu-mento esgrimido para tal fin era el llamado derecho de represen-tación del padre por el hijo. El autor manifestaba que, de acuerdo con la doctrina del ius commune, el primogénito y su padre eran reputados como una sola persona, una sola carne, una sola voz y uno parte del otro33. La estimación del progenitor y de su hijo como una misma persona implicaba la asunción por parte del hijo, tanto

30 Ivi, pp. 213 y 240-241.31 J. Brines, C. Pérez Aparicio, La vinculació al País Valencià cit., p. 238.

P. Marzal Rodríguez, Una visión jurídica cit., p. 229.32 J.A. Catalá Sanz, Integridad patrimonial cit., pp. 97-119.33 F.J. De León, Decisiones cit., vol. I, dec. 109, n. 10.

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del grado de su padre, como del efecto de la edad y de la primoge-nitura. En una sucesión donde se priorizara el grado y la edad, el hijo segundogénito del causante, por tanto, podía ser excluido por su sobrino invocando el derecho de representación34.

El orden sucesorio respetado en la corona real era argüido como modelo que debía ser reproducido en los mayorazgos, tal y como sucedía en Castilla. En la sucesión al trono castellano era preferido el nieto del soberano, hijo del primogénito premuerto, en perjuicio de su tío, hijo segundogénito del rey. Esta gradación era contemplada por imitación en los mayorazgos de la Corona de Castilla. En el Reinos de Aragón y Valencia – resaltaba de León – desde tiempo inmemorial los monarcas también optaron por este orden de suceder. En el ámbito valenciano, por tanto, debía apli-carse esa misma pauta en el acceso al patrimonio legado por vía de primogenitura, siempre y cuando otra norma no fuese dispuesta por el testador35.

La jurisprudencia de los tribunales europeos, donde se había fallado a favor del sobrino y contra el tío en distintos conflictos sucesorios, era rescatada por de León con la intención de afian-zar la tesis expuesta. Demostraba la aplicación de este principio en el Sacro Consejo Napolitano con dos citas de las Decisiones de Tommaso Grammatico y de Francesco Vivio. La vigencia de esta práctica en la Rota Romana, en cambio, era atestiguada con una referencia a las Decisiones de Juan Mohedano. La obra de Gaspa-re Antonio Tesauro le permitía verificar la admisión de esta reso-lución en el Senado de Saboya, mientras la de Niccolò Intriglioli recordaba la observancia de este criterio en el Reino de Sicilia. El dictamen, además, había sido sancionado – insistía de León – en la Audiencia valenciana36.

Convendría subrayar, a modo de conclusión, que el funda-mento del discurso de Francisco Jerónimo de León encaminado a justificar la precedencia del sobrino de mejor línea frente al tío de grado más próximo en la sucesión vincular radicaba en el llamado derecho de representación. De acuerdo con este principio, el pri-mogénito era representado por su propio hijo primogénito a quien transmitía su grado y su edad, circunstancia que le permitía aven-

34 Ivi, vol. I, dec. 109, n. 17-18.35 Ivi, vol. I, dec. 109, n. 11-12.36 Ivi, vol. I, dec. 109, n. 13-16.

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tajar al tío segundogénito en la sucesión. La congruencia del orden sucesorio descrito con el empleado en el acceso a la corona real era alegada para reforzar la idea señalada. La aplicación de esta máxima en numerosos tribunales europeos era traída a colación, en último término, con idéntico objetivo.

3.2 La admisión de las mujeres en el mayorazgo regular

En la Corona de Castilla, la admisión de la hembra en la suce-sión vincular había sido sistematizada por la legislación y justifi-cada por la doctrina. Con todo, tanto en Castilla como en Valencia siempre se reconoció la libertad del causante para establecer un orden de suceder distinto al regular. Los teóricos castellanos, de hecho, admitían la existencia de numerosas modalidades de ma-yorazgos considerados irregulares, entre los cuales destacaba el de agnación. Los sistemas agnaticios, tanto o más frecuentes en la práctica fundacional valenciana que los regulares, se caracteri-zaban precisamente por la perpetua exclusión de la mujer37. Esta realidad posiblemente explica la abundancia de pleitos sobre la sucesión vincular entre mujeres de mejor línea y grado frente a varones más remotos, situación quizás más evidente en el Reino de Valencia debido a las lagunas normativas sobre esta materia. No resulta extraño que la estrategia empleada ante los tribunales de justicia por los varones interesados en preceder a una hembra de mejor línea y grado radicara en demostrar el perfil agnaticio del mayorazgo disputado.

De León comentaba uno de estos litigios en la primera decisio del tercer tomo de su obra, donde reflexionaba sobre el mayorazgo fundado en 1448 por don Pedro Maza sobre los lugares de Moixent, Novelda y Castillo de la Mola. El letrado pretendía avalar la prefe-rencia de la mujer de mejor línea y grado frente al varón más remoto en la sucesión de un mayorazgo regular; sin embargo, comenzaba su exposición presentando los planteamientos esgrimidos por quie-nes participaban de la idea contraria. Estos rescataban, en primer lugar, la norma de los usibus feudorum que vetaba la sucesión de la mujer al feudo mientras existiese un hombre. Apelaban, por otra parte, a la misma exposición de motivos del mayorazgo, al recordar

37 P. Marzal Rodríguez, Una visión jurídica cit., p. 246. J.A. Catalá Sanz, Inte-gridad patrimonial cit., p. 74.

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que la voluntad del causante era la conservación del esplendor de su linaje, de su apellido y de sus armas con el fin de perpetuar la familia eternamente. Esta aspiración era considerada incompatible con la sucesión de la mujer ya que esta transformaba el nombre de su familia38. Optaban, en último lugar, por demostrar el carácter agnaticio del mayorazgo instituido por don Pedro Maza, haciendo alusiones a algunas locuciones contenidas en su testamento. Des-tacaba en este sentido la expresión multiplicada de la masculinidad o el gravamen de la delación de las armas, del nombre y del apellido del fundador a los sucesores por línea femenina39.

La argumentación diseñada por de León dejaba sin valor cada una de las tesis señaladas. El jurista rechazaba, en primer lugar, la equiparación del orden sucesorio del feudo y del mayorazgo40. En los feudos el varón descendiente del investido en primer lugar sí aventajaba a la primogénita del último poseedor; en un mayoraz-go, en cambio, la mujer nunca era precedida por los varones más remotos41. Las mujeres, continuaba el letrado, sí podían gozar del apellido y de las armas de la familia, así como perpetuar la memoria de la misma y, por tanto, sí podían acceder a la sucesión vincular. De hecho, recordaba de León, tanto en Castilla como en Cataluña y Valencia estas sucedían en los mayorazgos, aunque fuese con la carga de la delación del apellido y de las armas de la agnación42. En último término, demostraba que el mayorazgo instituido por don Pedro Maza no era de agnación. La doctrina castellana e italiana era argüida con la intención de poner de relieve que la voluntad de conservar la agnación tan solo se inducía cuando la mujer hubiera sido siempre excluida y en ningún caso admitida en el testamento del fundador, circunstancia no respetada en este caso43.

La evidencia de que el fideicomiso instituido por don Pedro Maza no era de agnación permitía exigir la observancia de la regla del mayorazgo regular para determinar el orden de suceder en el mismo. De León alegaba la doctrina castellana e italiana con el fin de exponer el orden sucesorio del mayorazgo regular. Este no era otro que la contemplación, en primer lugar, de la línea, en segundo

38 F.J. De León, Decisiones cit., vol. III, dec. 1, n. 24-30.39 Ivi, vol. III, dec. 1, n. 37-41 y 45.40 Ivi, vol. III, dec. 1, n. 112.41 Ivi, vol. III, dec. 1, n. 107-108.42 Ivi, vol. III, dec. 1, n. 115.43 Ivi, vol. III, dec. 1, n. 78, 83 y 118.

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lugar, del grado, en tercero, del sexo y, en cuarto, de la edad. De León sostenía que en una primogenitura el varón era preferido a la hembra tan solo cuando ambos pertenecían a la misma línea y gra-do. La hija del último poseedor aventajaba, por tanto, al varón de una línea más lejana en una sucesión de primogenitura, incluso si existiesen cláusulas dirigidas a excluir la sucesión de la mujer. En ese sentido, de León aclaraba que la presencia de la fórmula quod masculis stantibus faeminae no succedant solo debía entenderse entre hombres y mujeres del mismo grado. El autor remarcaba, además, la aplicación de este criterio tanto en la Sacro Real Con-sejo de Nápoles como en el Senado de Portugal44.

El quid de su razonamiento consistía, por tanto, en demostrar de acuerdo con los criterios de la doctrina del ius commune que aquel mayorazgo no era de agnación. La llamada a la mujer en el testamento de don Pedro Maza verificaba que el causante no había instituido un sistema agnaticio. Constatada esta realidad, de León no hacía más que recordar el orden sucesorio propio del mayoraz-go regular difundido por la literatura forense y aplicada en diversos tribunales de estos ámbitos geográficos. De acuerdo con el mismo, el varón solo era preferido a la hembra en caso de pertenecer a la misma línea y grado que aquella. En ese sentido, el jurista había insistido en la capacidad de la mujer de conservar el apellido y la memoria de la familia y, por tanto, de suceder en un vínculo en perjuicio de un hombre de línea y grado más remoto. La preferen-cia del varón frente a la hembra establecida en el derecho feudal, en consecuencia, no debía ser observada en el mayorazgo.

3.3 La exclusión de las mujeres en el mayorazgo de agnación

La decisión precedente ha evidenciado que la doctrina y la práctica forense valenciana asumió y aplicó el orden sucesorio del mayorazgo regular castellano. Sin embargo, ya hemos adelantado que en Valencia como en Castilla siempre se admitió la libertad del testador para disponer un orden de suceder distinto al regu-lar. Los varones más remotos, a fin de justificar la exclusión de la mujer de mejor línea ante los tribunales de justicia, buscaron, en consecuencia, demostrar la fundación de sistemas agnaticios. Los planteamientos ofrecidos con este propósito en la decisión anterior

44 Ivi, vol. III, dec. 1, n. 69-75 y 79.

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se revelaron insuficientes. No obstante, de León abordaba de nue-vo esta cuestión en el ya mencionado responsum iuris, que versaba sobre el vínculo establecido en 1517 por don Juan Tallada sobre los lugares de Manuel, Roseta y Rafalet. En este escrito, así como en la decisio 170 del segundo volumen de su obra – centrada en este mismo pleito – el autor presentaba los mecanismos adecuados para probar en un fideicomiso su condición de agnaticio y lograr, por tanto, la exclusión de la mujer.

Las expresiones relativas a la permanencia del nombre de la familia contenidas en el testamento del causante resultaban rele-vantes en este sentido. La fórmula No salgan ni puedan salir los bienes del nombre de Tallada, o la llamada, en caso de ausencia de nietos varones o hijos varones de las nietas, de quien primero se encuentre en mi familia de nombre Tallada, conformaban los ejemplos más destacados. De León explicaba que la voz nomen se refería solo a los agnados quienes eran capaces de preservar el apellido del difunto y, por tanto, la memoria de este. La expresión de mi nombre no salga era equivalente, por tanto, a de mi agnación no salga. Por la misma razón, la llamada a los de nombre Tallada significaba convocar a los agnados. La jurisprudencia valenciana era rescatada por nuestro autor con la intención de atestiguar la aplicación de este criterio en los tribunales reales45.

El otro pilar de la argumentación dirigida a atestiguar la pre-sencia de la razón de la conservación de la agnación en el creador del mayorazgo hacía referencia a la perpetua exclusión de la mu-jer. De León sostenía esta tesis en la doctrina de Marco Antonio Pe-llegrini, según el cual se inducía la voluntad de preservar la agna-ción cuando la hembra en ningún caso hubiese sido admitida. Las palabras de Luis de Molina también eran argüidas por el letrado para corroborar esta teoría. El mayorazguista castellano conside-raba que la constitución de un fideicomiso temporal entre varones podía deberse a distintas razones; sin embargo, la institución de un mayorazgo a favor de los hombres de manera perpetua solo pudo ser acometida verosímilmente con el objetivo de conservar la agnación. De León, en último término, revalidaba esta reflexión con una alusión a una sentencia pronunciada por la Audiencia valenciana46.

45 Ivi, vol. II, dec. 170, n. 4-8 y responsum iuris, n. 37.46 Ivi, vol. II, dec. 170, n. 8 y responsum iuris, n. 39-41.

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Documentado el carácter agnaticio del fideicomiso instituido por Juan Tallada, el jurista insistía en la exclusión de la mujer de la llamada genérica a los hijos en esta tipología vincular. La obra de distintos juristas ponía de relieve la vigencia de este principio en distintos tribunales europeos. Luis de Molina refrendaba su ob-servancia en el Consejo de Castilla, mientras Prospero Farinacci y Luis Mansi certificaban su seguimiento en la Rota Romana. De León hacía referencia, así mismo, a un fallo del Consejo de Ara-gón47. La imposibilidad de las mujeres de preservar la agnación, sostenida por la doctrina del ius commune, explicaba su exclusión de la invocación general a los hijos cuando el testador había reve-lado su intención de perpetuar la agnación48. Esta misma argu-mentación le permitió defender, así mismo, que la llamada a los hijos y descendientes varones tampoco incluía a aquellos hombres descendientes de mujeres. Apoyaba esta tesis no solo en la eru-dición de Luis de Molina, sino también en la jurisprudencia del Consejo de Aragón49.

En síntesis, podríamos remarcar que los cimientos de la de-mostración de la constitución de un mayorazgo agnaticio fueron las expresiones del testamento dirigidas a mostrar la voluntad del causante de perpetuar eternamente su nombre y su agnación, así como, sobre todo, la completa exclusión de la hembra de los llama-mientos sucesorios. Probada la fundación de un sistema agnaticio, el autor había recalcado que no solo la mujer, sino también el va-rón descendiente de línea femenina, estaba excluido de la sucesión vincular. Sus argumentos se basaban en la doctrina castellana e italiana, así como en la jurisprudencia, sobre todo, del propio Rei-no de Valencia.

4. Conclusiones

Convendría destacar la amplia atención prestada por Francis-co Jerónimo de León al tema del mayorazgo en sus Decisiones. La trascendencia política, económica y social de la institución podría explicar esta situación. La ausencia tanto de legislación como de

47 Ivi, vol. II, responsum iuris, n. 42-45.48 Ivi, vol. II, dec. 170, n. 11-16.49 Ivi, vol. II, responsum iuris, n. 46-49.

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doctrina valenciana que regulara su funcionamiento tampoco de-bió ser ajena a la misma. La preocupación del autor por suplir es-tos vacíos normativos y teóricos le animaría a tratar de solucionar las controversias jurídicas relacionadas con esta cuestión que se planteaban en la práctica forense cotidiana. Es importante hacer hincapié, por tanto, en el carácter pionero de la obra de Francisco Jerónimo de León en el tratamiento de la vinculación dentro del ámbito valenciano. La doctrina del ius commune, fundamentalmen-te castellana e italiana, conformaría, en consecuencia, el principal soporte argumental empleado para justificar sus planteamientos.

Los mecanismos adecuados para probar la existencia de un fideicomiso perpetuo o mayorazgo eran perfilados por de León en el primer grupo de decisiones. Nuestro autor clasificaba esta institu-ción como una carga. Esta apreciación le conducía a requerir que los indicios aportados para demostrar su presencia fuesen muy probables y necesarios. De manera coherente con esta exigencia, el magistrado aconsejaba fallar a favor de la libertad de los bienes en caso de duda sobre su posible vinculación. En relación al orden de suceder en el mayorazgo, el jurista también va a propiciar la asimilación de criterios castellanos. De León reflexionó y justificó los dos principales puntos de novedad del mayorazgo respecto a la sucesión feudal clásica, es decir, el derecho de representación del padre por su hijo primogénito y la preferencia de las hembras de mejor línea y grado frente a los varones más remotos. No obs-tante, reconoció la libertad del causante para establecer un orden de acceso a la sucesión vincular distinto al regular. Nuestro autor establecía, siguiendo la tradición castellana, el modo correcto de probar la creación de un sistema agnaticio ante los tribunales de justicia a fin de descartar la sucesión de las hembras.

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sommArio: Pur essendo presenti in Sardegna forme avanzate di signoria fondiaria fin dall’età giudicale e pisano-genovese, l’isola sperimentò il vero feudalesimo solo dopo la conquista aragonese (1323). Esso fu brutalmente imposto manu militari ad una società che si andava aprendo al libero movimento di cose e uomini. Fino alla definitiva sconfitta del giudicato di Arborea (1410) le ricorrenti ribellioni e la resistenza delle popolazioni impedirono a tale sistema (fondato su una miriade di micro feudi concessi iuxta morem italicum) di consolidarsi. Dopo tale fallimentare esperienza la monarchia aragonese affidò in allodio il governo del territorio a feudatari che estesero il loro potere su decine di villaggi. Esercitando funzioni statuali proprie del princeps, coinvolgendo le élites locali e contrattando con le comunità franchigie e esenzioni essi diedero avvio a un sistema feudale tipico dell’area mediterranea – basato sul reciproco interesse e su periodici aggiustamenti e compromessi con gli altri attori sociali – che diede vitalità e forza al feudalesimo sardo fino alla sua abolizione (1838).

PArole chiAve: feudo, nobiltà, Sardegna, Spagna.

FIEF AND NOBILITY IN SPANISH SARDINIA1

AbstrAct: Although some advanced forms of landlordship were present in Sardinia since the time of the Giudicati and the Pisan-Genoan influence, this island experienced the true feudalism only after the Aragonese conquest (1323). It was brutally imposed with military aid on a society which was opening up to the free movement of goods and persons. Until the final defeat of the Giudicato of Arborea (1410), the frequent rebellions and the resistance of the populations prevented the consolidation of this system (based on countless small fiefs granted according to the Italian customs and usage). After this failed experience, the Aragonese monarchy entrusted the territorial government as an allodial land to the landowners who then extended their power over dozens of villages. By exerting the state functions of princeps, involving the local inner circles and negotiating allowances and exemptions with those communities, they set in motion a feudal system typical of the Mediterranean region – based on mutual interest, periodic adjustments and compromises with other social actors – which gave vitality and strength to the Sardinian feudalism until its abolition (1838).

Keywords: fief, nobility, Spanish Sardinia.

Abbreviazioni utilizzate: Asca: Archivio di Stato di Cagliari.

Gianfranco Tore

FEUDO E NOBILTÀ NELLA SARDEGNA SPAGNOLA

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1. Le controverse origini. Eredità bizantine, stato giudicale e feudalità

Nei primi decenni del Novecento la pubblicazione di alcuni in-novativi studi sulla Sardegna medievale da parte di due autorevoli storici del diritto aprì un acceso dibattito sulla presenza di istitu-zioni feudali nella Sardegna prearagonese1. Il Bonazzi, il Solmi, il Del Giudice e, successivamente, il Di Tucci, sottolineando i rap-porti di subordinazione esistenti tra il dominus e i suoi servi, le im-munità che vescovi, abati e potenti gruppi familiari erano riusciti ad ottenere dai Giudici, ritenevano che si fossero radicate forme di potere signorile potenzialmente in grado di generare una società feudale anche nell’isola sarda2. A tal fine il Solmi, influenzato dalla tradizione giuridica germanista, sottolineava la presenza di un ceto di magnati, legati al giudice da vincoli parentali o di fedeltà, che amministravano (in beneficium o in commendatio) diversi villaggi o interi distretti o curatorie, collettavano le rendite fiscali, presiede-vano le corti di giustizia3. Nel corso del XIII secolo anche vescovi ed abati, unitamente alle concessioni di terre e servi, per gestire il loro patrimonio senza l’intromissione ricorrente degli ufficiali giudicali, avrebbero ricevuto benefici e immunità giurisdizionali4.

Nel primo dopoguerra queste tesi vennero riprese e ampliate da Raffaele Di Tucci il quale, richiamando l’attenzione sulle fun-zioni politiche e giudiziarie svolte dal curatore nel suo districtus (o curatoria) e sul fatto che esse venissero cedute dal giudice (depo-sitario del diritto di sovranità) in cambio di fedeltà e servizi, indivi-duava in tale atto forme feudali protovassallatiche5.

Enrico Besta, attenendosi alle interpretazioni tracciate dal Ta-massia ed alla definizione che il Del Giudice e il Ciccaglione aveva-no dato qualche anno prima delle istituzioni feudali radicatesi nel-la penisola italiana, respinse nettamente queste tesi, sottolineando

1 E. Besta, La Sardegna Medioevale, Reber, Palermo, 1908-1909; A. Solmi, Sulla origine e sulla natura del feudo in Sardegna, «Rivista italiana di sociologia», fasc. I (1906); Id., Studi Storici sulle istituzioni della Sardegna nel Medio Evo, Società Storica Sarda, Cagliari, 1917.

2 Ritroviamo un’ampia raccolta dei testi relativi a tale dibattito in A. Boscolo, Il feudalesimo in Sardegna. Testi e documenti per la storia della Questione sarda, t. IV, Fossataro, Cagliari, 1967.

3 A. Solmi, Sulla origine e sulla natura del feudo in Sardegna cit., ora riedito in A. Boscolo, Il feudalesimo in Sardegna cit., pp. 171-173.

4 A. Solmi, Le carte volgari dell’Archivio Arcivescovile di Cagliari, «Archivio Sto-rico Italiano», t. XXV (1905), doc. 1.

5 R. Di Tucci, L’origine del feudo sardo in rapporto con l’origine del feudo nell’Eu-ropa occidentale, Società Editrice Italiana, Cagliari, 1927, pp. 55-60.

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la continuità del potere romano-bizantino e la conseguente netta distinzione che (in tutto il Mezzogiorno e nella stessa Sardegna) sussisteva tra sovranità e possesso territoriale6. Egli sosteneva che la struttura politica, amministrativa e fiscale dello Stato giudica-le, mutuata dall’impero bizantino, avrebbe impedito (almeno fino al XIII secolo) la sovrapposizione tra pubblico e privato, potestas, giurisdizione e signoria fondiaria. Nell’ordinamento politico vigente in Sardegna perfino il patrimonio personale del giudice-princeps veniva nettamente distinto da quello del demanio7. Negli stessi anni anche il Mondolfo assunse posizioni antigermaniste rigettan-do come improprio e fuorviante il parallelo tra latifondo, signoria terriera e feudo8.

Quando March Bloch negli anni ’30 cercò di delineare la geo-grafia del feudalesimo europeo (utilizzando come parametri politici e istituzionali la fedeltà e i vincoli di vassallaggio, il frazionamento del potere, le tenures-servizio etc.), esaminando il caso sardo at-traverso le opere di Arrigo Solmi ed Enrico Besta, ritenne di dover escludere la Sardegna dei giudicati (IX-XI sec.) dalle aree in cui il feudalesimo si era radicato precocemente9. Per lo storico francese, in assenza del beneficium, le terre curtensi che i magnati sardi possedevano e facevano coltivare dai loro servi non potevano es-sere considerate feudi, ma chefferies rurales. Confermando le ar-gomentazioni del suo maestro anche Robert Boutruche considerò l’isola come un’eccezione, un esempio emblematico di permanenze fondiarie risalenti all’età romana conservatasi attraverso i secoli in una isolata enclave mediterranea. Per Boutruche esse erano in-somma delle signorie rurali prive di quei poteri bannali che in tutti gli stati giudicali sardi erano ancora in mano al giudice-princeps10.

Il dibattito storiografico tra i fautori della tesi germanista e chi, richiamando la lunga vitalità delle istituzioni romano-bizantine, negava l’esistenza di forme protofeudali nella Sardegna prearago-nese riprese vigore negli anni ‘60 con la pubblicazione da parte

6 P. Del Giudice, Feudo, «Il Digesto italiano», vol. XI, t. II, Utet, Torino, 1892-98, pp. 100-133; F. Ciccaglione, Feudalità, «Enciclopedia giuridica», Società Editrice Libraria, Milano, 1903, pp. 72-73.

7 E. Besta, Sardegna feudale, «Annuario della Regia Università degli Studi di Sassari», Dessì, Sassari, 1900, ora in A. Boscolo, Il feudalesimo in Sardegna cit., pp. 185 sgg.

8 U.G. Mondolfo, Gli elementi del feudo in Sardegna prima della conquista ara-gonese, Bocca, Torino, 1902, pp. 31 sgg.

9 M. Bloch, La società feudale, Einaudi, Torino, 1987, pp. 95-96; 279, 442.10 R. Boutruche, Signoria e feudalesimo, il Mulino, Bologna, 1971-74, pp. 206 sgg.

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di Alberto Boscolo di una ricca antologia di studi sulla questione feudale, che richiamò l’attenzione della più attenta storiografia na-zionale.

Marco Tangheroni, quando le tesi “mutazioniste” del Poly e del Boumard iniziarono ad essere estese anche alla signoria feudale in area mediterranea11, partendo dalle ricerche del Tabacco nell’Italia Comunale, del Toubert sul Lazio del Bonnassie sulla Catalogna12 cercò di chiarire l’intera problematica dedicandogli un denso e lun-go saggio13. Dopo aver valutato con attenzione le precedenti pubbli-cazioni e vagliato le nuove fonti emerse dall’Archivio d’Aragona, lo studioso pisano concludeva la sua attenta disamina ribadendo l’as-senza nella Sardegna prearagonese di diffuse forme di feudalità14.

Dalle approfondite ricerche condotte in quest’ultimo decen-nio sulla gestione delle signorie territoriali e sulla riorganizzazione produttiva e l’incastellamento, emerge un quadro politico-giuridico che si sovrappone a quello preesistente senza introdurre radicali innovazioni15. Anche le concessioni di privilegi, fatte in terra sarda dai giudici e dai comuni di Pisa e Genova alla nobiltà ligure e tosca-na, pur costituendo indubitabili segni delle trasformazioni in atto, non diedero luogo ad un vero e proprio sistema perché i beneficiari (dai Massa, ai Visconti, ai Malaspina, ai Doria) cercarono di legit-timare il loro potere sul territorio come parenti e delegati-sostituti del giudice nella riscossione delle tasse, nell’amministrazione della

11 E. Boumarzel, J.P. Poly, La mutation féodale (Xe-XIIe siècles), P.U.F., Paris, 1980.12 G. Tabacco, Il sistema della fedeltà e delle signorie nell’area mediterranea,

«Studi Medioevali», vol. XXX (1979); Id., Il feudalesimo, in Storia delle idee politiche, economiche e sociali, t. II, vol. 2, Utet, Torino, 1983; P. Toubert, Les structures du Latium médiéval. Le Latium méridional et la Sabine (IX-XII siècle), École Française de Rome, Paris-Rome, 1973; P. Bonnassie, La Catalogne du milieu du X à la fin du XI siècle. Croissance et mutation d’une société, Université de Toulouse, Toulouse, 1975.

13 M. Tangheroni, La Sardegna prearagonese: una società senza feudalesimo?, In Structures féodales et féodalisme dans l’Occident méditerranéen X-XII siècles. Bi-lan et perspectives de recherche, École Français de Rome, Rome, 1980.

14 M. Tangheroni, Strutture curtensi, signorie, feudalesimo nella Sardegna me-dioevale, in A. Spicciani, C. Violante (a cura di), La signoria rurale nel Medio Evo italiano, ETS edizioni, Pisa, 1999, vol. II, pp. 63-85.

15 Sull’assetto territoriale assunto dalle signorie costituite dalla nobiltà italiana nell’isola di Sardegna e sulle loro specificità cfr. A. Soddu, I Malaspina e la Sarde-gna. Documenti e testi dei secoli XII-XIV, Istituto Filologico Sardo, Cagliari, 2005; Id., La signoria dei Doria e l’origine di Castelgenovese in A. Mattone, A. Soddu (a cura di), Castelsardo. Novecento anni di storia, Carocci, Roma, 2007, pp. 235-268; G. Floris, Signoria, incastellamento e riorganizzazione di un territorio nel tardo Me-dio evo: il caso della Gallura, tesi di laurea discussa nell’Università di Barcellona, nell’anno accademico 2012-2013; M. Tamponi, Nino Visconti, Viella, Roma, 2010.

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giustizia, nella difesa e nel mantenimento dell’ordine pubblico. In una fase di rapida decadenza dello stato giudicale essi tentarono di consolidare la loro influenza presentandosi come garanti dell’an-tico ius loci.

Perfino i comuni di Pisa e di Genova, che sottrassero ai giudi-cati di Torres, Cagliari e Gallura estese porzioni di territorio, pur dotando alcune città di nuovi statuti (Cagliari, Sassari, Iglesias, Terranova), nelle aree rurali preferirono non innovare e per ottene-re il consenso dei magnati utilizzarono la legislazione e la fiscalità preesistente16.

2. La conquista aragonese e la militarizzazione del territorio tra mos italicus e microfeudi

I processi di incastellamento e di riorganizzazione territoriale in corso nell’isola sarda agli inizi del Trecento mutarono di natura e si-gnificato quando la corona aragonese (alla quale il Regno era stato concesso da papa Bonifacio VIII sulla base della donazione di Costan-tino) riuscì a conquistare la Sardegna. Lo sviluppo di liberi comu-ni e di campagne aperte orientati verso una economia fondata sullo sfruttamento delle saline, delle miniere, del commercio del grano e dei prodotti dell’allevamento fu bruscamente interrotto e sostituito da concessioni feudali codificate in forme giuridicamente mature17.

Per ripagare la fedeltà militare dimostrata dalla feudalità ca-talano-aragonese ed il sostegno finanziario offerto dalle oligarchie mercantili, la corona ripartì il regno in tanti piccoli feudi18. I tito-lari dei benefici, con le loro rendite, avrebbero dovuto garantire sia il governo del territorio sia la sua difesa. Le crescenti difficoltà e la resistenza della popolazione a tale iniquo regime indussero la monarchia ad estendere ulteriormente il feudo per rafforzare il controllo militare sul territorio. In questa prima fase d’impianto,

16 J. Day, La Sardegna sotto la dominazione pisano-genovese, in B. Anatra, J. Day, L. Scaraffia, La Sardegna medioevale e moderna, vol. X della Storia d’Italia, Utet, Torino, 1984, pp. 40 sgg.; S. Petrucci, Re in Sardegna e a Pisa cittadini, Cap-pelli, Pisa, 1988.

17 Per un esaustivo e ponderato quadro sull’intera vicenda si veda G.G. Ortu, La Sardegna dei giudici, Il Maestrale, Nuoro, 2005.

18 Sul numero e sulle modalità di concessione M. Tangheroni, Il feudalesimo in Sardegna, Edizioni Della Torre, Cagliari, 1982; F. Floris, Feudi e Feudatari in Sarde-gna cit., vol. I, pp. 40 sgg.; G.G. Ortu, La Sardegna dei giudici cit.

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la feudalità catalano-aragonese controllò con tale sistema quasi un terzo dell’isola. Un altro terzo restò nelle salde mani del giudice d’Arborea ed il restante in quello di alcune casate locali ed italiane.

Tra il 1324 e il 1353 vennero infatti concessi 145 benefici, iu-xta morem italicum (e tre soli allodi a parenti stretti della regina). Ad indurre l’infante d’Aragona, ad abbandonare il mos Cataluniae e ad utilizzare tale forma di concessione – che riservava al sovrano il dominium eminems e l’alta giustizia – contribuirono non solo i consigli di Castruccio Castracani ma anche le ricorrenti infedel-tà nobiliari che la monarchia aragonese andava sperimentando in Catalogna, in Sicilia e nel Regno di Napoli19.

La modalità con cui avvenne la conquista condizionarono non solo la riorganizzazione del territorio in feudi ma anche la riparti-zione tra barons catalani (157 dei quali contribuirono con uomini e mezzi alla fortunata spedizione) e alleati sardi20. Ugone di Bas, giudice d’Arborea e grande alleato dell’infante Alfonso beneficiò per primo (1323) della grazia sovrana. Egli si vide confermare in feudo iuxta morem italicum, (e non in allodio come sperava) gli estesi ter-ritori che già possedeva. Anche le casate dei Malaspina, dei Doria e degli altri signori italiani che avevano combattuto contro le armi pisane ottennero l’investitura regia sui loro possessi. Gli estesi ter-ritori amministrati un tempo dal Comune di Pisa furono parcelliz-zati in numerosi feudi e assegnati a uomini d’arme e imprenditori catalani, aragonesi, valenzani, maiorchini21.

Essi erano tenuti a risiedere permanentemente nel Regno, a difendere il territorio fornendo alla corona uno o più cavalli armati, a trasmettere il beneficio esclusivamente per successione maschi-le, a venderlo solo a sudditi catalano-aragonesi o sardi fideles. Un altro elemento che caratterizza l’impianto del feudo in Sardegna è l’assenza di concessioni al clero e agli ordini monastici perché essi

19 M. Tangheroni, Una lezione di diritto di Castruccio Castracani all’infante Al-fonso d’Aragona e il feudalesimo secondo il mos Italiae nella Sardegna aragonese, in Società, istituzioni, spiritualità. Studi in onore di Cinzio Violante, Fondazione Cisam, Spoleto, 1994, vol. II, pp. 931-942.

20 Per una puntuale cronaca della conquista si veda A. Arribas Palau, La con-quista de Cerdeña per Jaime II de Aragón, Instituto de Estudios Mediterraneos, Barcelona, 1952, pp. 382 sgg.

21 Come rileva B. Anatra il 52% dei feudatari erano di nazionalità catalana, il 25% di origine valenzana, il 7% di provenienza maiorchina e aragonese. Il restante 23% fu ripartito tra nobili sardi e italiani. Cfr. B. Anatra, Prefazione a F. Floris, Feudi e Feudatari in Sardegna cit., p. 12.

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parteggiavano in gran parte per Pisa. L’affidamento della gestione a soldati e amministratori di provenienza iberica, che consideravano lecita l’applicazione dei malos usos, la pretesa di ottenere con la forza, da comunità demograficamente impoverite, le floride rendite stabilite dal censimento fiscale pisano del 1320-22, spinse alla fuga e al trasferimento nel giudicato d’Arborea o nei domini dei Visconti e dei Doria molti vassalli. A seguito di tale politica, nelle pianure cere-alicole scomparvero infatti quasi la metà dei villaggi22. La feudalità, alle prese con un cinquantennio di guerre (1353-1410) che resero problematica non solo la riscossione delle loro rendite ma perfino la permanenza fisica del signore nei villaggi ottenuti, cercò di vendere il beneficio alla prima occasione. Il lungo conflitto, la peste nera, la fuga, la morte in battaglia di molti vassalli sardi resistenti impediro-no insomma al primo feudalesimo aragonese di porre radici.

La monarchia, in questo tormentato periodo (1323-1410), cer-cherà di difendere e tutelare anche i sudditi sardi, ma il suo inter-vento appare privo di reale efficacia. Nel parlamento del 1355 esso si manifesta con la disponibilità a rivedere i pesi fiscali assegnati ai singoli villaggi, la conferma degli statuti e della legislazione ci-vile e penale preesistente, la tutela delle terre comuni e demaniali sulle quali le comunità esercitavano il legnatico e il pascolo23. Il re d’Aragona, che era subentrato agli antichi giudici come fonte del diritto, cercò di rispettare la tradizione giuridica preesistente e ad essa fece riferimento nei diplomi di infeudazione24 e nella esten-sione della antica Carta de Logu giudicale all’intera popolazione di etnia sarda (1421)25. Anche in relazione alla fiscalità feudale cambiò poco: il datum, corrisposto al giudice da tutti i sudditi in

22 Nel corso del XIV secolo scomparvero quasi 800 piccoli insediamenti. Sulla entità del fenomeno e sulle sue conseguenze economiche e demografiche. Cfr. A. Terrosu Asole, L’insediamento umano medioevale e i centri abbandonati tra il XIV ed il secolo XVII, in Atlante della Sardegna, fasc. II, Roma, 1984; J. Day, Villaggi ab-bandonati in Sardegna dal Trecento al Settecento: inventario, CNRS, Paris, 1973; C. Livi, La popolazione della Sardegna nel periodo aragonese, «Archivio Storico Sardo», vol. XXXIV (1984), pp. 23-130.

23 G. Murgia, Il Parlamento di Pietro IV il Cerimonioso (1355): la Sardegna all’in-domani della prima fase della conquista aragonese, «Aragón en la Edad Media», XXI (2009), pp. 169-196.

24 F. Loddo Canepa, Ricerche e osservazioni sul feudalesimo sardo dalla domina-zione aragonese, «Archivio Storico Sardo», vol. VI (1910), pp. 49 sgg.; G.G. Ortu, Vil-laggio e poteri signorili in Sardegna, Laterza, Bari, 1996; C. Ferrante, A. Mattone, Le comunità rurali nella Sardegna Medioevale (secoli XI-XV), «Diritto e Storia», n. 3 (2004).

25 I. Birocchi, A. Mattone, La Carta de Logu d’Arborea nella storia del diritto medioevale e moderno, Laterza, Roma-Bari, 2004.

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rapporto alle terre arate fu confermato e versato al re d’Aragona. Unitamente alle corvè individuali e collettive anche il feu, tributo personale gravante sui vassalli in rapporto ai beni posseduti, entrò a far parte dei diritti signorili. Come stabilito nella Carta de Logu, ogni villaggio (cap. VI e VII) continuerà ad essere governato da un maiore (trasformato in un ufficiale feudale); unitamente ad un cer-to numero di collaboratori, egli era tenuto a difendere e sorvegliare lo spazio agrario, vigilare sui pascoli e il bestiame, provvedere alle esazioni fiscali, presiedere la corte di bassa giustizia chiamata a giudicare gli autori di eventuali reati. Il feudatario, collocandosi al vertice di tale struttura, modificò solo parzialmente l’assetto pree-sistente. Egli assume infatti i poteri e le funzioni svolte un tempo dal curatore giudicale e, sulla base di una terna eletta dalla comu-nità, sceglie il maiore (diventato ufficiale di giustizia) e i collabora-tori da esso dipendenti. In età aragonese a sconvolgere la struttura istituzionale e produttiva furono invece gli ampi privilegi giuridici ed etnici riconosciuti ai cittadini di origine iberica26. Per garantire alcune piazzeforti Pietro IV (1357) obbliga un rilevante numero di ville infeudate a fornire alle città le riserve annonarie necessarie a fronteggiare un lungo assedio e a portare a Cagliari e in alcuni altri porti caricatori le merci che si intendeva esportare27.

Tra il 1323 e il 1410 il feudo iuxta morem italicum si insinua nella struttura politica e amministrativa della Sardegna innestan-dosi sull’assetto preesistente. Condizionato da guerre e pestilenze e soffocato dal ruolo economico monopolista svolto dalle città esso appare privo di vitalità e dinamismo. Come accade a Valenza e in Aragona, cavalieri e piccoli nobili titolari di microfeudi, non poten-do far fronte alle necessità familiari e agli obblighi militari ipoteca-no a censo o vendono i loro beni.

26 Sui privilegi della capitale del Regno alla quale vengono concessi gli statuti della città catalana di Barcellona. Cfr. F. Loddo Canepa, Note sulle condizioni econo-miche e giuridiche degli abitanti di Cagliari dal secolo XI al secolo XIX, Studi Sassa-resi, X-XI, (1950-51), pp. 228-336; R. Di Tucci, Il Libro verde della città di Cagliari, Società Editoriale Italiana, Cagliari, 1925 e soprattutto G.G. Ortu, Il sistema delle città regie nella Sardegna aragonese, in L. Guia Marín, M.G.R. Mele, G. Tore (a cura di), Identità e frontiere. Politica, economia e società nel Mediterraneo, FrancoAngeli, Milano, 2014, pp. 106-114.

27 Per una ponderata analisi del problema Cfr. C. Zedda, Sardegna e spazi economici nel Medioevo: una rilettura problematica, in A. Sesma Muñoz (a cura di), La Corona de Aragón en el centro de su historia (1208-1458). Aspectos económicos y sociales, Gobierno de Aragón, Zaragoza, 2010; G.G. Ortu, Ager et urbs: trame di luogo nella Sardegna Medioevale e moderna, CUEC, Cagliari, 2014.

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Agli inizi del Quattrocento il fallimento del progetto ideato da Alfonso d’Aragona di fondare l’organizzazione politica e militare del Regno su un gran numero di piccoli feudi era ormai evidente.

3. Il secondo sistema feudale: allodio e grandi stati feudali

Quando nel 1409 Martino il Giovane, re si Sicilia, sconfisse a Sanluri le truppe del visconte di Narbona (erede delle fortune del-la casata d’Arborea) la monarchia aragonese pensò di consolidare il suo dominio impiantando un sistema feudale che si ispirava a quelli consolidati e maturi28. Gli elementi più significativi che ca-ratterizzano le investiture concesse nel primo Quattrocento riguar-dano:

– l’ampia estensione del feudo che aggrega talvolta decine di villaggi e migliaia di vassalli senza tenere conto dei confini ammi-nistrativi delle antiche curatorie giudicali;

– la concessione in allodio (mos Cataluniae). I privilegi e le pre-rogative che la corona trasferisce al barone comprendono ora an-che l’alta giustizia (merum et mixtum imperium);

– la corona rinuncia spesso al laudemio e al servizio del cavalli armati;

– ai grandi feudatari viene concesso anche il privilegio di suc-cessione per via femminile, il diritto di dividere il beneficio tra i figli o di venderlo in tutto o in parte29;

– ufficiali regi, mercanti e oligarchie urbane investono nell’ac-quisto di feudi una parte consistente dei loro capitali realizzando un importante ricambio cetuale.

Con la trasformazione del feudo in allodio la possibilità di ri-corso delle comunità ai ministri regi fu drasticamente ridotta e il baronato ebbe la possibilità di introdurre nuovi tributi e corvées30. In una situazione post-bellica di generale povertà, ad impedire che

28 F. Floris, Feudi e Feudatari in Sardegna cit., vol. I, p. 59 sgg.; F. Manconi, La Sardegna al tempo degli Asburgo. Secoli XVI-XVII, Il Maestrale, Nuoro, 2010, pp. 45 sgg.

29 U.G. Mondolfo, Il regime giuridico del feudo in Sardegna, «Archivio Giuridico Filippo Serafini», vol. III, Pisa, 1905; F. Loddo Canepa, Ricerche e osservazioni sul feudalesimo dalla dominazione aragonese, «Archivio Storico Sardo», vol. VI (1910), fasc. 1-3; F. Floris, Feudi e Feudatari in Sardegna cit., pp. 60 sgg.

30 F. Loddo Canepa, Rapporti tra feudatari e vassalli in Sardegna, in Fra il passato e l’avvenire: saggi storici sull’agricoltura sarda, Cedam, Padova, 1965, pp. 270 sgg.

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i malos usos potessero determinare anche in Sardegna una situa-zione di tensione sociale simile a quella che si andava configuran-do in Catalogna, più che l’azione dissuasiva svolta dalla corona, contribuì l’interesse personale dei feudatari. Per accrescere le loro rendite essi iniziarono infatti a contendersi i vassalli, ad attrarli nel loro dominio con la concessione di terre, franchigie, privilegi o con la conferma dei diritti acquisiti dalle comunità in età giudicale.

A Bernardo Centelles, che aveva sostenuto con i suoi armati il re Martino nella guerra contro il visconte di Narbona (ultimo pretendente del giudicato di Arborea) e difeso i diritti di Fernando de Antequera contro il duca di Urgel vennero concessi in allodio 39 villaggi sardi31. L’estesissimo feudo doveva costituire un solido antemurale nei confronti dei Doria e delle infide città di Alghero e Bosa. Per dare man forte ai Centelles in tale gravoso compito furo-no riassegnati a fedeli partitari di tale famiglia anche i feudi di Plo-aghe e del Montiferru (concessi a Serafino e Guglielmo Montañans) e di Bosa e della Panargia (a Ramón Moncada). Nel 1636 l’infido feudo dei Doria venne infine occupato e ripartito tra i nobili che ne avevano finanziato l’impresa.

Nel nuovo sistema feudale il controllo militare della Sardegna centrale venne affidato a Leonardo Cubello. Imparentato con i giu-dici di Arborea, dopo la sconfitta del visconte di Narbona, egli aveva dichiarato la propria fedeltà alla monarchia aragonese ottenendo in cambio il marchesato di Oristano. Nel corso di un cinquanten-nio, con un’abile politica matrimoniale, di acquisti di feudi e di prestiti alla corona il suo esteso stato feudale divenne la più red-ditizia signoria dell’isola. Abilmente gestita, rispettosa dei patti e delle tradizioni giudicali essa finì con comprender l’intero territorio del vecchio giudicato.

Nella Sardegna meridionale ad accrescere la loro forza economi-ca e politica furono soprattutto i due rami della famiglia Carroç. Gli eredi di Berengario, titolare della estesissima contea di Quirra, die-dero continuità territoriale alle originarie concessioni incorporando le curatorie cerealicole arborensi di Monreale, della Marmilla, Usel-lus e Nora. Il secondo ramo, della casata dominò sulla incontrada di

31 Bernardo Centelles verrà insignito dal re Fernando de Antequera del titolo di mariscal della Corona; Alfonso il Magnanimo lo nominerà Capità general dei suoi eserciti, conte del Goceano e viceré di Sardegna cfr. F. Floris, I Centelles, signori del Monteacuto, «Quaderni Bolotanesi», a. XIV (1988).

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Mandas, la baronia di Posada e la Gallura settentrionale. Quando Violante Carroz sposò il cugino Dalmazio, signore di Mandas, i due stati signorili aggregarono sotto il medesimo braccio ben 77 villaggi.

Nel 1478 la rivalità fra la casata dei Carroç e quella dei Cubel-lo-Arborea, nata da pretese successorie e matrimoniali, portò ad uno scontro armato che vide soccombere con l’accusa di alto tra-dimento la famiglia Cubello- Alagon-Arborea. Sconfitto in battaglia e condannato a morte il marchese di Oristano finì i suoi giorni nel castello valenzano di Xativa: Fernando II d’Aragona, per porre fine alle ricorrenti ribellioni arborensi e stabilizzare definitivamente il governo dell’isola, incorporò tra i beni inalienabili della corona il marchesato di Oristano e la contea del Goceano e divise tra i suoi fedeli i restanti feudi degli Alagon-Cubello e dei loro alleati.

4. Signori e vassalli tra resistenza e collaborazione

Quando alla fine del Quattrocento (1479) la corona spartì con la feudalità le estese spoglie dei feudi posseduti dagli Alagón-Arborea il secondo sistema feudale sardo si consolidò definitivamente ed assun-se l’assetto che lo caratterizzerà fino alla sua abolizione. Gran parte delle rendite (88%) finì nelle mani del piccolo nucleo di grandi feu-datari (che costituivano il 35% del ceto feudale); i medi feudatari (1/3 del totale) si divise il 10% delle rendite e il piccolo baronato dovette accontentarsi del 2% della fiscalità complessiva32.

Anche se durante il regno di Carlo V, le famiglie di alcuni gran-di feudatari (Centelles, Erill, De Sena), per gli impegni finanziari e militari assunti, vendettero i loro feudi a mercanti e ministri regi, l’impianto istituzionale e le funzioni politiche e amministrative af-fidate alla feudalità non mutarono33. Durante il regno di Fernando il Cattolico e Carlo V, con la concessione dell’allodio e del mero et mixto imperio essa riuscì a radicarsi sul territorio e ad affermare la sua egemonia sia in ambito amministrativo che giurisdizionale e fiscale. I grandi feudi vanno insomma configurandosi anche in Sardegna come dei veri e propri piccoli stati, che rigettano i malos usos e con generose concessioni cercano e trovano il consenso dei vassalli e delle comunità. Tracce evidenti di queste trattative emer-

32 B. Anatra, Prefazione a F. Floris, Feudi e Feudatari in Sardegna cit., p. 13.33 Su questa complessa vicenda e sul ricambio feudale cfr. F. Manconi, La

Sardegna al tempo degli Asburgo cit., pp. 45 sgg.

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gono dallo studio delle signorie dei Cubello Alagón, dei Doria, dei Malaspina e della stessa corona. Nella curatoria di Monreale, com-posta da 16 villaggi, il governatore regio Pietro Torrellas, nel 1409, convoca i rappresentanti delle comunità (maiores de villa) e redige, in contraddittorio con loro, un elenco dei tributi che essi avevano versato negli anni precedenti al giudice d’Arborea e conferma con atto notarile l’entità dell’imposizione (350 quintali di grano)34. Negli stessi anni (1416) Berengario Carroç, titolare della estesa contea di Quirra e della baronia di San Michele, per favorire il ripopolamento dei villaggi cerealicoli a lui appartenenti, vieta ai propri vassalli il trasferimento in altre aree (minacciando la confisca dei beni e la pena di morte) ma in cambio concede franchigie, esenzioni, terre da coltivare e pascoli35. Il conte si mostra ancora più generoso nei confronti dei riottosi villaggi pastorali dell’Ogliastra dove, da tem-po, le collette fiscali erano diventate un problema. Le comunità, ricorrendo al sovrano con una supplica, erano riuscite a far inter-venire il viceré che, per porre fine alle sistematiche estorsioni degli appaltatori delle rendite feudali, aveva imposto la revisione degli accordi tra signore e vassalli. Qualche anno dopo, per l’aiuto mi-litare offerto contro gli Alagón e il pagamento di un donativo stra-ordinario in denaro essi ottennero l’esenzione dal pagamento del tributo del feu, il diritto di pascolo e legnatico e il libero domicilio e la libertà di commercio all’interno della estesa contea36.

Anche nella Sardegna del XV secolo le comunità sarde, attra-verso i loro rappresentanti, continuarono dunque a svolgere quel ruolo politico e istituzionale che le aveva caratterizzate in età giu-dicale. Tale processo appare incoraggiato e sostenuto dalla stessa monarchia che intende evitare l’insorgere di nuovi focolai di rivolta ed emana a tal fine diversi provvedimenti che estende a tutti i regni.

Nelle corti catalane del 1448 la regina Maria di Castiglia (per far fronte alle spese per la guerra d’Italia) aveva ottenuto dai 25 mila vassalli che pagavano remensa un donativo di 64 mila lire a

34 Per la fuga, i massacri e la morte in battaglia di una parte dei vassalli il tributo fu successivamente ridotto a 200 quintali di grano e 200 d’orzo cfr. Asca, Antico Archivio Regio, Procurazione reale, BC3 cc. 20r-25v.; BC3 cc. 15r e 15v.

35 R. Di Tucci, La proprietà fondiaria in Sardegna dall’alto medioevo ai nostri giorni, Tip. Ledda, Cagliari, 1928, pp. 134 sgg.

36 Su questo accordo e sui successivi capitoli di grazia cfr. Libro de todas las gracias, concesiones y capitulos concedidos y aprobados por los muy illustres Mar-queses, condes y condesas de Quirra de feliz memoria al Judicado de Ollastre, villas, lugares y vasallos de aquel, Caller 1738 ora in «Studi Ogliastrini», vol. IV (1997).

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condizione che il re Alfonso abolisse i malos usos. Due anni dopo il sovrano autorizzò i pagesos catalani a nominare dei delegati per contrattare con i loro baroni nuove condizioni e nel 1558 abolì del tutto per decreto tale odiose imposizioni37. In quegli stessi anni, spinti dai malos usos e dai contratti mercantili usurai i contadini erano insorti con violenza anche nelle isole Baleari aprendo con la nobiltà una fase di lotta armata38.

Questa situazione spiega e giustifica l’attivo intervento della corona anche nel Regno di Sardegna. Nel Parlamento sardo del 1446, quando alcuni rappresentanti delle città e della feudalità più titolata giustificarono con l’estrema povertà dei vassalli e il pericolo di nuove rivolte il rifiuto di un donativo straordinario al sovrano, il viceré ricordò loro che all’origine di essa vi era non la tenue fiscali-tà regia ma le angherie, l’usura mercantile e l’avidità dei feudatari e per porvi rimedio sancì con decreto il diritto dei sudditi a spostare liberamente la loro residenza da un feudo all’altro39. Sei anni dopo (1452) Alfonso il Magnanimo confermò tale privilegio ed invitò i feudatari più fedeli a dare l’esempio ampliando tali franchigie40.

In tale clima sociale e politico si inseriscono i capitoli di gra-zia concessi dal nobile sardo Gonario Gambella ai vassalli della Romangia, quelli di Aldonça de Besora agli abitanti del villaggio di Serramanna, i nuovi patti (dopo quelli siglati nel 1416) sottoscritti da Giacomo Carroç con le comunità di villaggio dell’Ogliastra, gli accordi tra la corona e le popolazioni del marchesato di Oristano dopo la sua incorporazione tra i beni inalienabili della corona e quelli relativi agli abitanti della Barbagia di Belvì (1486), redatti a seguito del processo per malos usos al feudatario e del passaggio della baronia all’ amministrazione regia41.

37 J. Vicens Vives, Historia de los remensas en el siglo XV, Institut Vicens Vives, Barcelona, 1978, pp. 30 sgg.

38 E. Pascual Ramos, Consideraciones sobre la revuelta foránea de Mallorca (1450-1452) y las insurreciones campesinas en la península durante la segunda mitad del siglo XV, «Mayurca», n. 28 (2002), pp. 271-285.

39 A. Boscolo, I Parlamenti di Alfonso di Magnanimo (1421-1452), Giuffrè. Mila-no, 1953, pp. 47 sgg.

40 Libro de todas las gracias cit., pp. 21 sgg.41 Sulla Romangia cfr. V. Amat di San Filippo, Carte di franchigia nella Sarde-

gna aragonese, «Medioevo. Saggi e Rassegne», n. 5 (1980), pp. 141-150; per Serra-manna si rinvia ancora una volta a R. Di Tucci, Serramanna e le sue franchigie del 1405 (1455), Tipografia Industriale, Cagliari, 1947; sul giudicato di Ogliastra: Libro de todas las gracias cit., pp. 20 sgg.; sul processo e la destituzione del titolare della Barbagia di Belvì cfr. F. Floris, Feudi e Feudatari in Sardegna cit., p. 75.

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Tra i protagonisti dei nuovi accordi e delle trattative troviamo sempre quelle élites locali che un tempo avevano gestito le strut-ture amministrative dello stato giudicale svolgendo funzioni di cu-radores, maiorales, probiviri, giudici locali. Dopo aver servito Pisa, Genova, gli Arborea, i Doria o i Malaspina, questi ceto rurale, per il prestigio di cui godeva, continuò a svolgere funzioni di vigilanza militare, fiscale, di intermediazione commerciale al servizio della feudalità aragonese. Quando nel 1421 Alfonso il Magnanimo este-se a tutti i sudditi di origine sarda la Carta de Logu (codice giuri-dico che raccoglieva un insieme di norme di diritto civile, penale e agrario) il loro ruolo di intermediazione finì con l’esser considerato necessario anche dai feudatari aragonesi42.

Il Codice, diventato fuero del Regno, confermava infatti forme e mo-dalità acostumats per eleggere in ogni villaggio un majore o sindaco e i probi homines incaricati di amministrare la giustizia, collettare tributi, vigilare sul territorio per impedire furti e delitti. In un recente saggio, Italo Bussa ha cercato di valutare il peso e la consistenza che queste élites, prive di titolo nobiliare, avevano all’interno del feudo. Relativa-mente alla contea di Oliva, nel decennio 1519-1532, su 3472 fuochi fiscali censiti ben 611 risultavano ascrivibili al ceto dei donnos43. Sul piano giuridico tale titolo non aveva valenza alcuna ma a livello di co-munità esso indicava il riconoscimento di uno status eminens.

Il Bussa sottolinea il fatto che i contribuenti elencati con il titolo di ‘donnu’ (dominus), pur non risultando fiscalmente esenti:

– erano possessori di gioghi di buoi, vigne e terreni, greggi di pecore e mandrie di porci;

– una parte di essi svolgeva (in alternanza con altri) funzioni amministrative (maiore de villa) o ricopriva altri incarichi nella ge-stione del feudo;

– tra il XV e il XVI secolo diversi personaggi appartenenti a tale ceto consolidarono il loro patrimonio e la loro posizione sociale svolgendo funzioni militari per conto della corona e del loro signore o utilizzando l’eredità di qualche prelato per emergere socialmente.

Questa situazione è confermata anche dall’analisi dei fondi no-tarili e dalle carte relative alle amministrazioni feudali del primo Cinquecento. Da esse emerge con chiarezza sia il ruolo di tutela

42 Sull’estensione della Carta de Logu cfr. A. Boscolo, I Parlamenti di Alfonso cit., pp. 76 sgg.

43 I. Bussa, I resti della nobiltà giudicale nei feudi sardi dei conti di Oliva (sec. XVI), «Quaderni Bolotanesi», n. 39 (2013), pp. 107-133.

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degli interessi delle comunità svolto da costoro, sia le alleanze e i conflitti sorti tra le famiglie più influenti per gestire gli uffici feudali e le cariche più prestigiose (maiore de villa, ufficiale di giustizia, collettore fiscale, giurato etc.)44.

5. Baroni e comunità: verso una feudalità mediterranea?

Nel corso del XV secolo (1410-1480) dalle suppliche alla coro-na, dalla permanente conflittualità e dalla strisciante resistenza delle popolazioni rurali vediamo emergere una struttura feudale molto più duttile e pervasiva. Coinvolgendo le nuove e le vecchie élites di villaggio il baronato riesce ad adattare il feudo all’ habitat e alla struttura agro-pastorale del territorio e a riorganizzare l’intera economia dell’isola sfruttando la vocazione cerealicola delle pianu-re e supplendo con l’espansione della pastorizia alle carenze demo-grafiche ed alla povertà del suolo delle aree collinari e montuose45.

Tra Quattrocento e Cinquecento, questi processi determinaro-no infatti:

– l’abbandono di forme di insediamento disperso e la riaggre-gazione della popolazione in villaggi demograficamente accorpati;

– la riorganizzazione degli spazi agrari in base a norme che per salvaguardare un maggiore equilibrio tra agricoltura e allevamento costringono i contadini a frequenti e lunghi spostamenti e alla par-cellizzazione dell’arativo in più luoghi;

– il progressivo consolidamento di strutture familiari mononu-cleari favorite dal fatto che il baronato, nei capitoli di grazia pattuiti con le comunità, assegna gratuitamente ad ogni nuovo nucleo le terre aratorie e le pertinenze demaniali (pascolo e legnatico) neces-sarie al suo sostentamento46.

44 Al riguardo cfr. Asca, Antico Archivio Regio, Arrendamenti, e infeudazioni (1414-1717); Rendite di diversi villaggi (1574-1802); Capibreviazioni (secc. XIV-X-VIII); Archivio Aymerich, Pergamene laiche. Per la gestione di alcuni grandi feudi si veda inoltre la ricchissima documentazione conservata nell’ Archivio Historico Na-cional, Sección Nobleza, (Toledo), Ducados de Segorbe y Gandia, Condado de Oliva e nell’ Archivo ducal de Hijar (Zaragoza).

45 Su questi aspetti cf. G.G. Ortu, Il corpo umano e il corpo naturale, costruzio-ne dello spazio agrario e pretese sulla terra nella Sardegna medioevale e moderna, «Quaderni Storici», n. 27 (1992), pp. 654-685; Id., Costruzione del paesaggio pasto-rale nella Sardegna medioevale e moderna, in A. Mattone, P. Simbula (a cura di), La pastorizia mediterranea: Storia e diritto (secoli XI-XX), Carocci, Roma, 2011, pp. 94-110.

46 Per un esaustivo studio sui capitoli di grazia e sui rapporti tra feudatari e

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Nel feudo la famiglia costituisce infatti l’unità fiscale e pro-duttiva di base ed essa utilizza a proprio vantaggio una quota del dominio utile di pertinenza del villaggio47.

Un altro elemento che caratterizza la mediterraneità della struttura è il ruolo di mediazione delle comunità che:

– trattano col feudatario la concessione di esenzioni e franchigie;– attraverso dei rappresentanti eletti dalla prima classe dei

contribuenti fiscali tutelano i diritti collettivi acquisiti;– quando si verificano violazioni degli accordi possono ricorrere

per via di supplica alla magistratura regia;– offrono al baronato e alla corona servizi militari per impedire

incursioni e razzie barbaresche, per arrestare banditi e malfattori, per combattere i nemici della monarchia;

– pattuiscono con il signore del luogo offerte straordinarie in denaro (per il pagamento di debiti, doti, spese successorie) al fine di ottenere ulteriori benefici (terre da coltivare, esenzioni tributa-rie, franchigie).

A metà Cinquecento, quando Carlo V estende ai regni arago-nesi il sistema di governo dei Consejos e coinvolge l’aristocrazia feudale sarda nella difesa del fronte mediterraneo, la monarchia considererà la feudalità come parte integrante dello stato monar-chico48. Sia Fernando il Cattolico (dopo la scomparsa di Isabella e la controversa reggenza della figlia Giovanna) sia Carlo V (alle prese in Spagna con la rivolta delle comunidades e delle germanias e in Italia con l’ingombrante presenza francese) delegano alla nobiltà il con-trollo del territorio. Come è stato recentemente rilevato, nel primo Cinquecento la aristocrazia amplia la sua giurisdizione, sottrae pre-rogative ai ministri regi, in un intreccio costante tra legalità e abuso, afferma la propria indiscussa egemonia su vassalli e comunità49.

Anche in Sardegna il feudo diventa una delle strutture portanti della organizzazione amministrativa e giurisdizionale del Regno. Esso viene gestito come un vero e proprio stato, coinvolge una va-

vassalli si veda G. Murgia, Comunità e baroni. La Sardegna spagnola (secoli XV-X-VIII), Carocci, Roma, 2000; G.G. Ortu, Villaggio e poteri signorili cit., pp. 102 sgg.

47 Sul ruolo economico della famiglia cfr. G.G. Ortu, Villaggio e poteri signorili cit., pp. 53-67.

48 Sul modello spagnolo di señorío e sulla sua diffusione in Italia cfr. A. Musi, Il feudalesimo nell’Europa moderna, il Mulino, Bologna, 2007, pp. 97 sgg.; A. Musi, M.A. Noto (a cura di), Feudalità laica e feudalità ecclesiastica nell’Italia meridionale, Associazione Mediterranea, Palermo, 2011.

49 A. Musi, Feudalesimo mediterraneo e Europa moderna: un problema di storia sociale del potere, «Mediterranea - ricerche storiche», 24 (2012), p. 15.

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Feudo e nobiltà nella Sardegna spagnola 133

sta platea di beneficiari e consente loro di trarre profitto dalla ge-stione delle attività produttive, dei diritti fiscale e giurisdizionali e del commercio50.

Gli stati signorili più estesi (in mano a Carroç, ai Centelles, ai Borgia, ai Maça) si riorganizzano sulla base del modello iberico, isti-tuiscono un regidor (con funzioni di sovrintendente generale) che nomina e controlla la gestione delle rendite e quella di ministri e ap-paltatori. Selezionato dal feudatario all’interno del suo entourage di fiducia o della piccola corte familiare egli sceglieva (sulla base di una terna proposta dalle comunità) gli ufficiali di giustizia che operavano in ogni singolo villaggio, appaltava le entrate in natura (grano, pelli, formaggio, capi di bestiame) e quelle giurisdizionali51.

L’amministratore presiedeva o affidava ad un letrado la curia major, in cui si discutevano le cause criminali e quelle in ultima istanza. Nel corso del XVI secolo, anche nell’isola sarda i grandi e piccoli feudi posseduti dalla nobiltà sardo-spagnola tendono in-somma a svolgere per conto dello stato monarchico funzioni dele-gate di carattere economico, militare, fiscale e giurisdizionale che vengono considerate come elementi caratterizzanti del feudalesimo mediterraneo52.

Durante il lungo regno di Filippo II gli ampi poteri ottenuti dai feudatari con l’allodio e il mero e mixto imperio furono contenuti dall’introduzione di normative che, pur confermando la competen-za delle curie baronali nei due gradi di giudizio, sancirono il diritto dei vassalli a ricorrere alla giustizia regia come tribunale di ultima istanza53. Nel 1569, la istituzione della Reale Udienza e il sistematico

50 Su questi aspetti, F. Floris, Feudi e Feudatari in Sardegna cit., pp. 65 sgg.; G.G. Ortu, Città chiusa e campagna aperta cit., pp. 85-91.

51 Per alcuni significativi esempi di amministrazione feudale si veda J.J. Chiner Gimeno, Don José Vallés, sequestrario regio della contea di Oliva e gli stati sardi del-la famiglia Centelles (1590-1594), «Quaderni Bolotanesi», n. 17, 1991, e soprattutto I. Bussa, Il rendiconto di Johan Carigua, ricevitore negli stati sardi di Oliva (1502-1504), «Quaderni Bolotanesi», n. 25 (1989); Id., Problemi giurisdizionali, incarichi e concessioni, allevamento di cavalli nello stato sardo di Oliva, «Quaderni Bolotanesi», n. 22 (1996); Id., Istruzioni del feudatario al reggitore Olomar per il governo degli stati sardi di Oliva (1632), n. 27, 2001; G. Tore, Feudalità e ceti sociali nel marchesato di Orani, «Studi e Ricerche», IV (2011), pp. 117-135.

52 B. Figliuolo, Il feudalesimo mediterraneo: un nuovo modello?, «Archivio Stori-co per le Province Napoletane», IC (1981), pp. 169-176, e soprattutto A. Musi, Feu-dalesimo mediterraneo e Europa moderna: un problema di storia sociale del potere cit., pp. 9-21.

53 Per un confronto con la situazione esistente nell’altra grande isola mediter-ranea, cfr. R. Cancila, Merum et mixtum imperium nella Sicilia feudale, «Mediterra-nea - ricerche storiche», 14 (2008), pp. 469 sgg.

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intervento dei magistrati regi nei processi nobiliari per delitti di san-gue, liti successorie, devoluzioni al demanio, ricorsi delle comunità aggravate limiterà ulteriormente il potere della feudalità senza però intaccarne la egemonia territoriale e il suo ruolo politico54.

Negli ultimi decenni del ‘500, all’ombra dei ministri e dei magi-strati della Audiencia, delle rendite e delle prebende ecclesiastiche, degli appalti demaniali, feudali e delle città vanno emergendo delle elités assai composite. Nelle campagne esse vantano discendenza da quelle gerarchie militari e amministrative di lontana origine giudica-le che, dopo secoli, cercano di trarre vantaggi dagli spiragli di aper-tura sociale che l’istruzione e le competenze professionali aprono nella gerarchia dell’onore e della fede55. Esse favoriscono anche una maggior incisività delle reti clientelari operanti nel feudo.

Nella Sardegna settentrionale essa viene facilitata dagli stret-ti contatti che vassalli e piccoli feudatari hanno con l’aristocrazia ispanica, titolare dei grandi feudi e di prestigiosi incarichi a corte, sia dalla maggiore disponibilità di denaro che consente alle élites territoriali di avviare agli studi i loro figli56.

Le ricerche condotte dal Floris e dal Serra sulle genealogie no-biliari hanno messo in luce anche la rilevanza che assumono le strategie matrimoniali nel favorire il rafforzamento delle consorte-rie familiari finalizzate al controllo degli uffici feudali ed alla nobi-litazione del casato.

Un esteso sondaggio sulle fonti parlamentari fornisce al ri-guardo dati significativi57. Nel XVII secolo, l’inflazione dei titoli no-biliari, determinata dall’indebitamento crescente dell’aristocrazia

54 Al riguardo cfr. G. Tore, Potere monarchico ed élites territoriali. Tra collabora-zione e resistenza, in R.F. Benavent, F. Andrés Robres, R. Benítez Sanchez-Blanco (a cura di), Cambios y resistencias sociales en la Edad Moderna, Silex, Madrid, 2014, pp. 515-523.

55 Al riguardo si veda R. Turtas, Scuola e Università in Sardegna tra ‘500 e ‘600. L’organizzazione dell’istruzione durante i decenni formativi dell’università di Sassari (1562-1635), Centro interdisciplinare per la storia dell’Università di Sassa-ri, Sassari, 1995; Id., Studiare, istruire, governare: la formazione dei letrados nella Sardegna spagnola, Edes, Sassari, 2001.

56 R. Turtas, Amministrazioni civiche e istruzione scolastica nella Sardegna del Cinquecento, in La Sardegna nel mondo Mediterraneo, IV, Sassari, 1985-86, pp. 83-101.

57 B. Anatra, Corona e ceti privilegiati nella Sardegna spagnola, in B. Anatra, R. Pud-du, G. Serri, Problemi di storia della Sardegna spagnola, Edes, Cagliari, 1975, pp. 15-60.

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Feudo e nobiltà nella Sardegna spagnola 135

feudale (e dal conseguente frazionamento dei suoi stati) e dalle esi-genze finanziarie della monarchia ispanica impegnata nella guerra dei Trent’anni, è un fenomeno macroscopico che investe anche il Regno di Sardegna58. Per i ceti urbani e rurali intermedi un primo rilevante spiraglio di accesso alla nobiltà si aprì nel Regno durante il parlamento celebrato dal viceré d’Elda nel 1603. Nella delicata fase di trapasso del potere Filippo III e il duca di Llerma cercarono infatti di rafforzare il consenso alla Corona, ampliando generosa-mente i ranghi del cavalierato e della nobiltà. La seconda signi-ficativa opportunità si realizza quando l’Olivares introduce come criterio di selezione cetuale la fedeltà al Valído e alla sua politica di restauración monarchica. In tale contesto, il viceré Vives, nel 1624, per neutralizzare l’astensionismo della feudalità cagliaritana alle corti che si stavano celebrando, ammise ai lavori diverse deci-ne di generosos, ufficiali feudali, parenti di ecclesiastici, possidenti di armenti. Essi militavano nella fazione sassarese capeggiata da Francisco de Vico reggente d’ Aragona59.

Le guerre e la fiscalità del primo Seicento accentuarono ulte-riormente anche in Sardegna i caratteri mediterranei dello stato signorile. Per tutelare il suo primato e mantenere quelle funzioni di centro di potere amministrativo, giudiziario, economico e fiscale cui la nobiltà feudale legava la autonomia e i privilegi di ceto, essa si mostrò sempre più disponibile al compromesso ed alla contrat-tazione. A tal fine, in un ‒‒ gioco di collusione e collisione ‒ non esitò a rivendicare per il feudo ruoli giurisdizionali e di interesse pubblico, a partecipare ai progetti monarchici di guerra per la dife-sa della fede o per il contenimento dell’impero ottomano e perfino a coinvolgere nel governo dei suoi stati le élites locali che esercita-vano una forte influenza egemonica sulle comunità.

58 Sulle corti del 1626 cfr. G. Tore (a cura di), Acta Curiarum Regni Sardiniae. Il Parlamento straordinario del viceré Gerolamo Pimentel, marchese di Bayona, Con-siglio Regionale della Sardegna, Sassari, 1999; Id., Il regno di Sardegna nell’età di Filippo IV. Centralismo monarchico, guerra e consenso sociale (1621-1630), Franco-Angeli, Milano, 1996.

59 F. Manconi, Un letrado sassarese al servizio della monarchia ispanica. Ap-punti per la biografia di Francisco Ángel Vico y Artea, in B. Anatra, G. Murgia (a cura di), Sardegna, Spagna e Mediterraneo dai Re Cattolici al Secolo d’oro, Carocci, Roma, 2004, pp. 291-333.

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A seguito di tale politica ebbero accesso al cavalierato e/o alla nobiltà un rilevante numero di agiati possidenti e intermediari rura-li che vivevano “nobilmente” senza averne il titolo. Anche due anni dopo (1626) per garantire il successo del Parlamento che approva la Unión de Armas la Corona di mostra assai generosa. Tra il 1620 e il 1640 la magnanimità regia stimola e accelera le dinamiche so-ciali in atto modificando notevolmente i rapporti di forza all’inter-no dei corpi rappresentativi60. Durante la lunga guerra mercanti, asientisti, appaltatori e collettori di rendite feudali speculano sulla miseria altrui e con prestiti usurai si arricchiscono rapidamente Anche nelle campagne la mobilità sociale appare assai marcata. La feudalità è costretta a mobilitare i propri vassalli, a guidarli sui veri fronti di guerra, a chiedere loro tributi straordinari promettendo in cambio uffici, concessioni, terre. In questo tormentato periodo il baronato deve sottoscrivere con i vassalli nuovi patti che estendo-no l’utilizzo gratuito di terre e pascoli e riducono multe e processi. Ad avvantaggiarsi sono soprattutto le famiglie che controllano le comunità e gestiscono le cariche feudali. Esse si impegnano in col-lette fiscali, incette di grano, prestiti straordinari al feudatario. In tal modo acquisiscono agli occhi del barone meriti indiscussi che consentono loro di entrare a far parte della vasta rete di alleanze e clientele del loro signore e di ottenere concessioni straordinarie di terre, esenzioni fiscali, titoli di cavalierato.

Rappresentanti del corpo militare

Parlamento Deputati %1614 3031641 451 + 67,18

Tra i protagonisti della rapidissima scalata sociale troviamo ancora una volta, gli appaltatori, i collettori di rendite, e l’agia-ta possidenza rurale. Essi controllano ormai la vita economica e amministrativa dei villaggi feudali e per le esenzioni fiscali di cui

60 Sulle reti clientelari e le attività di patronazgo durante la Guerra dei Trent’anni si veda F. Manconi, L’invasione di Oristano nel 1637: un’occasione di pa-tronazgo real nel quadro della guerra ispanico francese, «Società e storia», 84 (1999), pp. 253-279.

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Feudo e nobiltà nella Sardegna spagnola 137

godono, il denaro di cui dispongono, il potere che esercitano nel territorio emergono definitivamente come ceto rurale egemone di-stinguendosi dalle altre categorie di sudditi. A metà Seicento per alleanze di fazione, parentela o interesse finiscono dunque col sal-darsi in un ampio fronte cetuale le aspirazioni e le strategie delle famiglie di hidalgos e generosos inviate a fine ‘500 in Sardegna dalle grandi casate dell’aristocrazia ispanica per amministrare i loro beni in qualità di regidores; dei ceti rurali di antica ascen-denza giudicale che si sono inseriti nell’amministrazione feudale ottenendo il cavalierato o la nobiltà (Tola, De Thori, Delogu, Adcen o Athen); di possidenti che all’ombra di parenti prelati hanno ac-cumulato ricchezza e potere (Sini, Satta, Delitala, Sotgiu, Cardia). Legate tra loro da complessi intrecci matrimoniali o divise da odi e rancori che sfociano spesso in sanguinose faide esse riescono a controllare progressivamente parti significative della struttura so-ciale ed economica del Regno.

Dopo la fine della guerra dei Trent’anni, l’epidemia di peste che travaglia il Regno tra il 1652 e il 1656 falcidiandone la popolazione, l’assassinio del viceré di Camarassa (1668) e i processi e la condan-na a morte o l’esilio e l’emarginazione dei più autorevoli rappresen-tanti della vecchia nobiltà feudale del Regno creano una situazione ancora più favorevole al rafforzamento dell’influenza e del potere esercitato nei villaggi feudali dal cavalierato, dalla piccola nobiltà ru-rale e da quel ceto di mediatori che gestisce e controlla la produzione cerealicola e l’allevamento. A causa dell’alta mortalità urbana, la for-za delle oligarchie si riduce e la presa mercantile usuraia sulle cam-pagne si attenua. Nelle aree rurali il decesso dei vassalli determina una contrazione delle terre coltivate e la caduta (-30%) delle rendite ecclesiastiche e baronali. La feudalità, alle prese con un crescente indebitamento, è costretta a fare ulteriori concessioni alle comunità ed ai ceti che al loro interno esercitano influenze e potere. A dettare le condizioni che avvantaggiano il cavalierato rurale nei confronti del feudatario è ora quella parte del parentado che conseguita la laurea esercita in città e nei villaggi funzioni di notaio, avvocato, letrado, e in tale veste difende nei tribunali regi gli interessi della famiglia di origine e della comunità di appartenenza61.

61 G. Murgia, Comunità e baroni. La Sardegna spagnola cit.; Id., Il Parlamento Avellano nella Sardegna di Filippo IV, Grafica del Parteolla, Dolianova, 2000.

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All’interno del feudo l’interessata gestione dei regidores, l’ap-palto delle rendite in natura, delle scrivanie e dell’amministrazione della giustizia ad avidi uomini d’affari, il subaffitto delle cariche ed uffici ai notabili di villaggio più influenti lascia spazio ad aggravi e soprusi ed alimenta una permanente conflittualità fra baroni e vas-salli che viene ricomposta periodicamente con la stesura di nuovi accordi o capitoli di grazia. Giovanni Murgia nel suo saggio in questo volume traccia un ampio quadro dei problemi che la gestione degli uffici, l’utilizzo dello spazio agrario, il controllo della terra, la ricerca di uno stabile equilibrio tra pastorizia e allevamento aprì all’interno del feudo, innestando quelle micro dinamiche sociali mediterranee e familistiche, che anche in Sardegna caratterizzarono la gestione del potere feudale fino alla sua definitiva abolizione62.

62 Cfr. nel presente volume il saggio di G. Murgia, Comunità e baroni tra Cinque e Seicento nella Sardegna spagnola.

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sommArio: La riflessione sulla feudalità lombarda nel passaggio cruciale tra Sette e Ottocento, tema poco praticato dagli storici di quel periodo, intende evidenziare non solo la peculiarità del feudo lombardo, ma anche gli effetti che alcune mancate scelte giuridiche e politiche dell’età napoleonica ebbero sulla sua persistenza, nonostante le riforme messe in atto nell’età precedente dagli Asburgo d’Austria. Infatti l’abolizione del feudo in Francia e l’annullamento del contratto feudale in tutte le sue componenti e effetti dal punto di vista giuridico furono più veloci della distruzione della feudalità intesa come pratica sociale del potere. La riflessione sulla feudalità in quel frangente storico può essere una delle lenti attraverso cui leggere il cammino a velocità differenziate della società di antico regime verso quella modernità sancita dalla Rivoluzione francese che continuò ad avere nel mondo della terra il suo principale fulcro e nella proprietà terriera e immobiliare lo strumento principale con cui le élites, anche post rivoluzionarie, sempre cercarono di mantenere e trasformare le proprie posizioni sociali e materiali.

PArole chiAve: feudalità lombarda, Asburgo, Napoleone.

THE PERSISTENCE OF FEUDALISM IN LOMBARDY BETWEEN THE 18TH AND 19TH CENTURIES1

AbstrAct: Historians have shown insufficient interest in studying the Lombard feudalism in the late Old Regime. However it proves to be particularly interesting to analyze the history of feudalism between the eighteenth and nineteenth century. Although one of the most important achievements of the French Revolution was the suppression of those political institutions commonly described as feudal, the disintegration of that system proceeded slowly, at least in Lombardy. The legal abolition of the fief was faster than the demise of feudalism, conceived as a social practice of power. Before Napoleon conquered the North of Italy, the Habsburg had reformed the economic profile of the fief throughout the second half of the eighteenth century. In any case, after 1796 the new governments imposed on Lombardy by Napoleon were not able to legislate to delete some feudal related to the land tenure. The landownership continued to be the main tool with which the elites mantained and transformed their social rule.

Keywords: Lombard feudalism, Habsburg, Napoleon.

Il saggio si inserisce nell’ambito del D.1 Progetti di Ricerca sedi Padane 2013.Abbreviazioni utilizzate: Asmi: Archivio di Stato di Milano; p.a.: parte antica.

Elena Riva

LA 'RESISTENZA' DEL FEUDO IN LOMBARDIA

TRA SETTE E OTTOCENTO

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«S’Ella è mente sovrana, che gli originari diritti feudali abbiano a rimanere nella primiera loro attività»1. Così si rivolgeva un gruppo di nobili lombardi a Leopoldo II, appena eletto imperatore dopo la morte del fratello Giuseppe II nel febbraio del 1790, chiedendogli, in qualità di nuovo sovrano della Monarchia asburgica, di rivedere quei provvedimenti decisi dal suo predecessore in materia feudale che avevano pesantemente danneggiato i feudatari in una delle loro prerogative fondamentali, e tra le poche loro rimaste, ossia quella della gestione della giustizia2. L’imperatore non riuscì mai a esaudire le richieste, perché morì prematuramente nel marzo del 1792; nondimeno ciò che colpisce nel documento è l’identificazione della funzione del sovrano con il mantenimento dei diritti feudali, un principe che per avere una ‘mente’ da monarca non doveva, in sostanza, dimenticare il rapporto con i suoi vassalli, i quali erano uno dei pilastri della società di ordini.

Tuttavia, quando i nobili lombardi firmarono questa petizione rivolta a Leopoldo II, il feudo lombardo aveva già subito profonde modifiche, soprattutto nel suo profilo giuridico, ed era stato svuo-tato anche di gran parte delle sue prerogative economiche.

Queste pagine vogliono essere lo spunto per avviare una ri-flessione sulla feudalità lombarda nel passaggio cruciale tra Sette e Ottocento, tema poco praticato dagli storici di quel periodo se si esclude il lavoro di Cesare Magni, Il tramonto del feudo lombardo, pubblicato però nel lontano 19373. Tale mancanza di attenzione è certamente dovuta allo scarso appeal di un tema come la feudalità che, richiamando spesso nei dibattiti storiografici l’idea di Antico Regime, mal si concilia con una prospettiva interpretativa natural-

1 Asmi, Feudi Camerali, p. a., cart. 10, Risposte ai vari quesiti sulle materie feudali, 1790.

2 La materia del contendere riguardava i proventi derivanti dalla gestione delle preture che per legge Giuseppe II aveva imposto di versare nelle casse regie, nono-stante le preture feudali fossero state equiparate a quelle regie dallo stesso impera-tore; in tal modo – scrivevano i richiedenti – i feudatari avevano «solo il danno e non il compenso dell’esercizio della giustizia» e il patto convenzionale sulle stesse. La petizione era firmata dal principe Alberico di Belgiojoso d’Este, dal marchese Pom-peo Litta Visconti Arese, dal conte Giberto Borromeo Arese, dal marchese Egidio Gregorio Orsini di Roma, dal conte Carlo Ercole di Castelbarco Visconti, dal conte Francesco Bolognini e dal conte Giangiacomo Bolognini, tutti membri della più alta aristocrazia milanese, fatta eccezione per il marchese Orsini.

3 C. Magni, Il tramonto del feudo lombardo, A. Giuffré, Milano, 1937. Sul ver-sante storico-giuridico lo studio di Magni è per certi versi ancora insuperato e co-stituisce, quindi, sempre un punto di partenza fondamentale per lo studio della feudalità in Lombardia nell’età a cavallo tra Sette e Ottocento.

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La ‘resistenza’ del feudo in Lombardia 141

mente tesa a mettere in luce gli aspetti modernizzanti e innovativi della politica asburgica tardo settecentesca e soprattutto dell’im-patto della Rivoluzione francese con tutti i sistemi culturali, sociali e politici europei, piuttosto che evidenziare le resistenze del mondo ‘antico’ perdurate anche dopo la frattura rivoluzionaria.

La ricerca sul feudo lombardo ha vissuto invece un importante rinnovamento per ciò che concerne l’età spagnola, grazie soprattut-to ai lavori di Cinzia Cremonini sulla feudalità imperiale4 e a quelli di Katia Visconti su quella camerale5. Lo studio di Magni aveva già chiarito in molte sue parti la peculiarità del feudo lombardo e le sue vicende nel passaggio tra Sette e Ottocento, evidenziando le implicazioni di alcune ‘mancate’ scelte giuridiche da parte del governo della Repubblica italiana e del Regno d’Italia napoleonici nell’età della Restaurazione. Tuttavia oggi, a molti decenni di di-stanza dalla pubblicazione di questo fondamentale studio, appare interessante e utile riprendere le fila del discorso da lui tracciato, non solo per continuare una riflessione che si snoda lungo tutto l’Antico regime e lo oltrepassa, ma per inquadrarlo all’interno di un più aggiornato discorso storiografico che, nel tempo, si è arricchito di numerose sfumature e interpretazioni.

Scopo di queste brevi pagine è, infatti, quello di mettere in evidenza la ‘resistenza’ di questo istituto che rappresenta una delle principali chiavi di lettura dell’antico regime6, sulla scorta anche

4 C. Cremonini, Impero e feudi italiani tra Cinque e Settecento, Bulzoni, Roma, 2004 (E-book, ed. 2012); Ead., Per sopravvivere all’oblio e pungolare i “grandi”: i feudi imperiali in Italia tra interessi locali e reti nazionali, in E. Novi Chavarria, V. Fiorelli (a cura di), Baroni e vassalli. Storie moderne, Franco Angeli, Milano, 2011, pp. 326-341; Ead., R. Musso (a cura di), Feudi imperiali in Italia tra XV e XVIII se-colo. Atti del Convegno di studi, Albenga-Finale Ligure-Loano, 27-29 maggio 2004, Bulzoni, Roma, 2010. Per l’area lombarda è il caso discusso in questo volume da M. Cavallera, Maccagno imperiale nella politica e nell’economia milanese (secoli XVI-X-VII), pp. 389-414, ivi, pp. 389-414.

5 K. Visconti, Il commercio dell’onore. Un’indagine prosopografica della feudalità nel Milanese di età moderna, CUEM, Milano, 2008 e Ead., Il feudo milanese tra Sei e Settecento: strumento di ascesa sociale e utile presupposto per una carriera politica, in E. Novi Chavarria, V. Fiorelli (a cura di), Baroni e vassalli cit., pp. 311-325. Interessanti sono anche le considerazioni di A. Annoni, Fisco, regalie e feudi tra Cinque e Seicen-to, in Rapporti tra città e campagna dal Medioevo all’età moderna, a cura dell’Istituto Lombardo di Scienze e Lettere, Milano, 1988, pp. 63-102. Per una sintesi dei principali lavori usciti sul tema della feudalità nelle sue implicazioni economico-sociali in Lom-bardia rimando a G. Maifreda, La feudalità lombarda in età spagnola: recenti studi di storia economica, «Studi storici Luigi Simeoni», vol. LXIII (2013), pp. 75-86.

6 Peculiare è stato il volume di R. Ago, La feudalità in età moderna, Laterza, Roma-Bari, 1994.

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delle considerazioni espresse a più riprese da Aurelio Musi nei suoi studi, il quale legge la feudalità italiana come un processo di lungo periodo per nulla in antitesi con l’affermazione di uno stato ‘moderno’7. La riflessione sulla resistenza del feudo va esattamente in questa direzione, nella convinzione che la feudalità possa essere una delle lenti attraverso cui leggere il cammino a velocità differenziate della società di Antico Regime verso quella modernità sancita dalla Rivoluzione francese che continuò ad avere nel mondo della terra il suo principale fulcro e nella proprietà terriera e immobiliare lo strumento principale con cui le élites, anche post rivoluzionarie, sempre cercarono di mantenere e trasformare le proprie posizioni sociali e materiali. Infatti l’abolizione del feudo in Francia e l’annullamento del contratto feudale in tutte le sue componenti e effetti dal punto di vista giuridico fu più veloce della distruzione della feudalità intesa “come pratica sociale del potere”, per cui, ad esempio, alcune pratiche dell’aristocrazia, non solo feudale, che lungamente avevano regolato le strategie successione e di trasmissione della proprietà come il fedecommesso, trovarono spazi di sopravvivenza prima di essere abolite definitivamente.

Tuttavia per meglio comprendere la persistenza di residui feu-dali nella Lombardia a cavallo tra Sette e Ottocento occorre fare qualche passo indietro verso l’età spagnola.

Il dominio degli Asburgo di Spagna in Lombardia si era carat-terizzato per l’intensificazione del fenomeno feudale, acuitosi so-prattutto intorno a metà del secolo come uno dei principali effetti del bisogno di denaro della Monarchia cattolica8. La refutazione si era diffusa come nuova prassi di alienazione feudale e i risultati erano stati non solo un’estrema parcellizzazione dei feudi esistenti, ma anche un’elevata mobilità sociale che aveva consentito l’ascesa di nuove famiglie; tale prassi, infatti, aveva velocizzato i passag-gi di proprietà e aperto a numerose famiglie la via della terra e del titolo. Una pratica, questa, continuata incessantemente anche

7 A. Musi, Il feudalesimo nell’Europa moderna, il Mulino, Bologna, 2007; Id., Feudalesimo medievale e Europa moderna: un problema di storia sociale del potere, «Mediterranea - ricerche storiche», 24 (2012), pp. 9-22. Fondamentali anche le ri-flessioni di G. Galasso, La parabola del feudalesimo, «Rivista Storia Italiana», vol. CXX (2008), fasc. III, pp. 1130-1141.

8 Sul tema si consideri il lavoro di K. Visconti, Il commercio dell’onore cit.; e Ead., Il feudo milanese tra Sei e Settecento: strumento di ascesa sociale e utile pre-supposto per una carriera politica cit.

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dagli Asburgo d’Austria, tanto che come puntualizza Claudio Do-nati, Carlo VI aveva superato gli spagnoli, concedendo tra il 1707 e il 1740 ben 124 nuovi titoli9. Tuttavia, come chiarì a suo tempo Cesare Mozzarelli10, in Lombardia l’acquisto di un feudo rappresen-tò un momento di passaggio per l’ascesa del patriziato, piuttosto che un punto di arrivo come nel Regno di Napoli11; inoltre spesso accadeva che il titolo nobiliare venisse acquistato prima del feudo stesso o che addirittura vi fossero famiglie di semplici feudatari che potevano acquisire il titolo in un secondo momento o anche evitare di farlo12. La via delle cariche civiche e regie fu ad esempio un’al-tra delle strade preferite percorse dalla nobiltà per distinguersi e ascendere nella gerarchia sociale, in particolare dal patriziato mi-lanese. A partire poi dagli anni Settanta del XVII secolo la venalità degli uffici aprì altri e ampi spazi per l’ascesa di nuove famiglie13.

9 C. Donati, L’idea di nobiltà in Italia. Secoli XIV-XVIII, Laterza, Roma-Bari, 1988, p. 346. Tuttavia, come già osservava Domenico Sella ne’ L’economia lombarda durante la dominazione spagnola, il Mulino, Bologna, 1979, pp. 250-251) non bi-sogna credere che gli spagnoli avessero moltiplicato a dismisura i feudi, perché già nell’età di Carlo V essi erano numerosissimi, anche grazie all’eredità della politica visconteo-sforzesca. In tal senso cfr. G. Chittolini, La formazione dello Stato regio-nale e le istituzioni del contado. Secoli XIV e XV, Einaudi, Torino, 1979 e Id., Città, comunità e feudi negli Stati dell’Italia centro-settentrionale (secoli XIV-XVI), Unicopli, Milano, 1996; più di recente anche F. Cengarle, G. Chittolini, G.M. Varanini (a cura di), Poteri signorili e feudali nelle campagne dell’Itali settentrionale fra Tre e Quat-trocento: fondamentali di legittimità e forme di esercizio, Firenze University Press, Firenze, 2005. Sulla politica feudale dei Visconti si consideri F. Cengarle, Immagine di potere e prassi di governo. La politica feudale di Francesco Maria Visconti, Viella, Roma, 2006. A completamento della storia dello Stato visconteo si consideri anche F. Pagnoni, Brescia Viscontea (1337-1403). Organizzazione Territoriale, identità cit-tadina e politiche di governo negli anni della prima dominazione milanese, Unicopli, Milano, 2013.

10 C. Mozzarelli, Strutture sociali e formazioni statali a Milano e a Napoli tra Cinque e Settecento, «Società e Storia», 3 (1978), pp. 431-463. Un quadro articola-to del patriziato milanese è stato tracciato da C. Cremonini, Il «Gran Teatro» della nobiltà. L’aristocrazia milanese tra Cinque e Settecento, in Ead. (a cura di), Teatro genealogico delle famiglie nobili milanesi, Arcari, Mantova, 2003, vol. I, pp. 11-48. Di recente anche Ead., Le vie della distinzione. Società, potere e cultura a Milano tra XV e XVIII secolo, EDUCatt, Milano, 20152 e in particolare le pagine dedicate all’ascesa della famiglia Durini feudataria di Monza che ben spiegano i meccanismi della refutazione. Importanti riflessioni sono contenute anche in Ead. Lo Stato di Milano nel Settecento. Il lento tramonto dell’antico regime, in Storia dell’Ambrosiana. Il Settecento, Laterza, Milano, 2000, pp. 1-53.

11 G. Cirillo, Spazi contesi. Camera della Sommaria, baronaggio, città e costru-zione dell’apparato territoriale del Regno di Napoli (secoli XV-XVIII), t. I, Università e feudi, Guerini e Associati, Milano, 2011.

12 C. Cremonini, Il «Gran Teatro» della nobiltà cit., p. 16.13 Sul tema cfr. A. Álvarez-Ossorio Alvariño, La república de las parentelas. El

Estado de Milán en la monarquía de Carlos II, Arcari, Mantova, 2002.

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La riforma del Censo, a partire dall’età di Carlo VI, fu uno dei primi colpi assestati al mondo feudale, proprio nel suo tentativo di riclassificare i ceti sulla base della proprietà, tanto che anche i governi delle città periferiche si aprirono a un nuovo ceto ‘politico’ che identificava nella proprietà terriera la propria base sociale di potere. Carlo VI impose un altro cambiamento epocale che avreb-be mutato per sempre il rapporto tra la Monarchia asburgica e la Lombardia. Nel 1738 egli decise infatti di abolire il Consiglio di Spagna, sostituendolo con il Consiglio d’Italia, e di mutare il nome dello Stato in “Lombardia austriaca” che divenne quindi una pro-vincia dei domini diretti degli Asburgo, ponendo così fine allo sta-tus di feudo imperiale di Milano14. Cominciò in quel momento una storia differente nel legame tra il sovrano e i ceti locali.

Le riforme degli anni Sessanta del Settecento portarono alla ribalta nuovi ceti di governo e misero in crisi i vecchi ceti dirigenti, feriti anche dall’istituzione nel 1766 del Tribunale Araldico, organi-smo preposto alla valutazione delle richieste di coloro che deside-ravano accedere alla nobiltà15. Una boccata d’ossigeno alla nobil-tà venne offerta da Vienna con la creazione della corte arciducale di Ferdinando, figlio dell’imperatrice Maria Teresa, che nel 1771 giunse a Milano e con la moglie Maria Beatrice Ricciarda d’Este co-struì una corte, nella quale la nobiltà, vecchia e nuova, poté trova-re una rinnovata ragione d’essere16. L’arciduca ebbe anche il ruolo di bilanciare il vero centro di potere della Monarchia che a Milano ruotava attorno alla figura del ministro plenipotenziario17. Il regno di Giuseppe II, che governò da solo dal 1780 al 1790, non fece al-tro che spingere sull’acceleratore delle riforme iniziate dalla madre Maria Teresa, complice anche una realtà internazionale di relativa pace che rendeva salde nelle mani degli Asburgo le terre italiane e che gli consentì un’attività riformatrice più incisiva e razionale.

14 C. Cremonini, Le vie della distinzione cit., pp. 41-42.15 C. Mozzarelli, Impero e città. La riforma della nobiltà nella Lombardia del Se-

tetcento, in Id., G. Venturi, L’Europa delle corti alla fine dell’antico regime, Bulzoni, Roma, 1991, pp. 495-538.

16 Mi permetto di rimandare al mio La corte dell’arciduca Ferdinando Asburgo Lorena, governatore di Milano (1771-1796). Appunti per una ricerca, in A. Cascetta, G. Zanlonghi (a cura di), IL teatro a Milano nel Settecento, I, I contesti, Vita e Pensie-ro, Milano, 2008, pp. 71-93.

17 Le due figure di riferimento del periodo furono il conte trentino Carlo Giu-seppe conte di Firmian e il boemo Joseph Maria Wilczeck.

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Dal punto di vista della feudalità l’azione riformatrice di Maria Teresa prima e del figlio Giuseppe II poi si orientò verso alcune precise direzioni. In primis verso i feudi imperiali, i quali subirono una drastica diminuzione, tanto che a fine Settecento i soli feudi imperiali presenti in Lombardia erano quelli di Limonta, Civenna e Campione, quello di Maccagno inferiore e il marchesato di Gazoldo. La riduzione era stata ottenuta mediante accordi con i feudatari o sfruttando le devoluzione. Altri sforzi riformistici furono concen-trati verso i feudi delle istituzioni religiose, i quali vennero in gran parte incamerati dopo le soppressioni degli enti stessi. Tuttavia la principale azione riformista del governo asburgico fu rivolta, negli anni Settanta, al sistema di redenzione delle regalie annesse ai feu-di, ampiamente analizzata dalla storiografia degli ultimi decenni, cui si rimanda per ogni approfondimento18.

Di fatto, tra il 1780 e il 1790 venne portata a termine dal Go-verno la redenzione delle regalie annesse ai feudi, non senza l’oppo-sizione di molti feudatari che non accettavano di perdere i proventi derivanti da antichi diritti19. Inizialmente le istruzioni di Governo del 1 giugno 1780 stabilirono la possibilità che il capitale versato ai feudatari per la redenzione delle regalie potesse essere reinvestito in beni immobili, ma ciò avrebbe finito per rendere incoerente la ri-forma stessa, per cui Giuseppe II decretò invece la conversione de-gli immobili vincolati a feudo in capitali mobiliari depositati presso il Monte di S. Teresa e impose che ai casi di redenzione delle regalie feudali si applicassero le norme dell’Editto del 12 aprile 1786 sui fedecommessi20. L’intento del sovrano era quello di svincolare il più possibile i beni stabili e certamente si trattò di un provvedimento

18 Fondamentali sono sempre i lavori di C. Capra, Riforme finanziarie e muta-mento istituzionale nello Stato di Milano: gli anni Sessanta del secolo XVIII, «Rivista Storica Italiana», XCI (1979), pp. 313-368; Id., La Lombardia austriaca nell’età delle riforme (1706-1796), Utet, Torino, 1987. Sul ruolo giocato da Pietro Verri cfr. Id., I progressi della ragione, il Mulino, Bologna, 2010, pp. 277 sgg.: e P. Verri, Scritti di economia, finanza e amministrazione, a cura di G. Bognetti, 2 voll., Storia e lettera-tura, Roma, 2006-2007. A livello comparativo è interessante anche il caso siciliano analizzato da R. Cancila, La questione dei diritti signorili in Sicilia alla fine Settecen-to, «Mediterranea - ricerche storiche», 26 (2012), pp. 445-460.

19 Si ricordano ad esempio i casi dei Durini e dei Litta, cfr. C. Magni, Il tramon-to del feudo lombardo cit., pp. 319-320. In realtà pochi sono i dati a disposizione sulla reazione nobiliare a questi provvedimenti e utile sarebbe una ricerca che po-tesse chiarirne alcune dinamiche, almeno per le famiglie più importanti.

20 L’editto favorì lo smantellamento del fedecommesso sui beni immobili per-ché ne autorizzava la vendita senza l’accordo dei successori, a condizione che i proventi ottenuti fossero investiti sul Monte di S. Teresa.

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per certi versi rivoluzionario per il futuro del feudo, nel senso che equiparò, dal punto di vista della convertibilità, il feudo al fede-commesso; sul piano economico-sociale, invece, favorì lo svincolo dei beni immobili e la loro commercializzazione: il capitale deposi-tato sul Monte di S. Teresa veniva vincolato a fedecommesso, men-tre la proprietà fondiaria era svincolata e diventava così liberà21. La ‘confusione’ del feudo con il fedecommesso avrebbe provocato, però, non pochi problemi in età napoleonica. Qualche anno dopo, nel 1785, Giuseppe II sottrasse ai feudatari anche parte della giu-risdizione sull’amministrazione della giustizia, ottenendo maggiore incisività a ciò che la madre Maria Teresa aveva già formalizzato nel 1774, quando le giurisdizioni feudali non erano state abolite, ma si era imposto il controllo delle preture regie, aumentate di nu-mero, su quelle feudali. I proventi della giurisdizione erano rimasti nelle mani dei feudatari così come la nomina del giudice in qualità di regalie straordinarie, a loro carico rimanevano invece le spese per mantenere la curia feudale come ad esempio il mantenimento delle carceri, dei detenuti e gli stipendi dei giudici feudali e delle guardie. Unitamente alla scelta di un giudice feudale, si stabilì l’obbligo di nomina di un luogotenente o sindaco fiscale che avreb-be potuto sostituire il giudice in caso di necessità, sia in campo civile che penale; inoltre, l’irregolare residenza del giudice feudale nel feudo di competenza avrebbe provocato la devoluzione della causa al pretore regio, il quale avrebbe comunque potuto libera-mente avocare il giudizio a sé nel caso di un processo penale. I pro-prietari di più feudi, inoltre, avrebbero avuto la libertà di nominare un solo podestà e un solo fiscale, purché essi non fossero distanti tra loro più di sette miglia. Come evidenzia Magni22, Maria Teresa cercò di razionalizzare e riordinare le circoscrizioni giudiziarie feu-dali che soprattutto nelle campagne erano cresciute a dismisura e

21 A. Padoa Schioppa, Sul fedecommesso nella Lombardia teresiana, in A. De Maddalena, E. Rotella, G. Barbarisi (a cura di), Economia, istituzioni, cultura in Lom-bardia nell’età di Maria Teresa, vol. III: Istituzioni e società, il Mulino, Bologna, 1982, pp. 807-826. M.C. Zorzoli, Della famiglia e del suo patrimonio: riflessi sull’uso del fedecommesso in Lombardia tra Cinque e Seicento, «Archivio Storico Lombardo», CXV (1989), pp. 91-148. Sul tema interessante è il volume di S. Calonaci, Dietro lo scudo incantato: i fedecommessi di famiglia e il trionfo della borghesia fiorentina (1400ca-1750), Le Monnier, Firenze, 2005 e i saggi contenuti in Fidécommis. Procédés et pra-tiques sociales (Italie-Europe, Bas Moyen Âge-XVIIIe siècle), «Mélanges de l’École fran-çaise de Rome - Italie et Méditerranée modernes et contemporaines», 124 (2012), 2.

22 C. Magni, Il tramonto del feudo lombardo cit., pp. 325-328.

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in maniera disordinata, senza però utilizzare i mezzi coercitivi che avrebbe invece imposto il figlio Giuseppe II. Quest’ultimo, all’in-terno della sua riforma dell’amministrazione giudiziaria del 1786, stabilì regole ben precise e insindacabili per la giurisdizione dei feudi23: le preture feudali mantenevano le stesse funzioni di quelle regie nelle cause civili, ma l’autorità di queste ultime era superiore in tutto il resto. Nondimeno, le spese per il mantenimento delle curie feudali erano tutte a carico del feudatario, con il rischio di aggravare eccessivamente i piccoli feudi e rendere difficoltosa l’am-ministrazione della giustizia24. Le riforme dell’imperatore ‘filosofo’, oltre a un certo conflitto di competenze tra i dicasteri25, suscita-rono un interessante carteggio tra Milano e Vienna che mise in luce le innumerevoli difficoltà che due decenni di riforme avevano cagionato alla materia feudale26 e il cui effetto principale era stato quello di togliere ogni attrattiva ai feudi, tanto da lasciare spesso invenduti quelli derivanti da devoluzioni; numerosi erano infatti i casi di nuovi titolati che, nonostante l’obbligo di poggiare il titolo di nuova acquisizione al feudo, risultavano morosi. A tutto ciò si ag-giungevano i disordini all’interno delle preture feudali, dei piccoli feudi in particolare, provocati dalla mancanza di denaro necessario per amministrare nel giusto modo la giustizia. La situazione ap-pariva così difficile che all’interno del Consiglio di Governo si va-lutò addirittura la possibilità di abolire le giurisdizioni feudali e di non concedere più l’investitura dei feudi che rimanevano vacanti27. All’interno del dibattito, si fece ovviamente sentire anche la voce autorevole del cancelliere Kaunitz28, il quale il 27 luglio 1786 scris-se al plenipotenziario a Milano Wilczeck un’interessante lettera piena di riflessioni in proposito. Kaunitz riconosceva che la situa-

23 Asmi, Atti di governo, Feudi Camerali, p.a., cart. 9, Da osservarsi nel regola-mento de’ feudi.

24 Una delle principali voci di spesa era quella del personale di funzionamento della curia feudale: un giudice, un luogotenente, un attuaro, tre fanti e il custode delle carceri, oltre al palazzo pretorio e a tre carceri, ivi.

25 Ivi. Fu lo stesso arciduca Ferdinando a rilevare la necessità di avere chia-rimenti in merito sulle contraddizioni derivanti da un conflitto di competenze tra il governo, i dicasteri politici e il Tribunale di giustizia, al quale, a suo avviso, avrebbe dovuto rimanere solo il compito di dirimere eventuali contenziosi.

26 Ivi. 27 Asmi, Atti di governo, Feudi Camerali, p. a., cart. 9.28 Su questa straordinaria figura cfr. G. Klingenstein, L’ascesa di casa Kau-

nitz. Studi sulla formazione del cancelliere Wenzel Anton Kaunitz e le trasformazioni dell’aristocrazia imperiale, Bulzoni, Roma, 1993.

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zione della Lombardia austriaca presentava molte incongruenze in materia di feudalità: diceva di non comprendere come mai la gran parte dei feudi rimanesse invenduta, nonostante «l’odierna mania di acquistare titoli», tanto più che a Milano, anche il semplice pos-sesso di un feudo senza titolo concedeva «gli onori della Corte»; af-fermava che obbligare i nuovi titolati al rispetto delle leggi facendo appoggiare il titolo a un feudo, pena il «privarne i contumaci», così come si proponeva da Milano, sarebbe stato giustissimo, tuttavia osservava che già in passato il Magistrato camerale e il Governo, pur nella consapevolezza degli abusi, avevano evitato di insistere su questo obbligo che sarebbe apparso «cosa troppo odiosa» alla società lombarda. Inoltre non gli pareva saggio consigliare al sovra-no di non concedere più l’investitura dei feudi vacanti favorendo la loro successiva abolizione, perché ciò avrebbe tolto «alla Regia Camera una regalia tenuta sempre in pregio» e al sovrano «un mez-zo di poter senza aggravio del suo Erario beneficiare ed illustrare quelle persone e famiglie che per servizi prestati se ne mostrassero particolarmente meritevoli».

I suggerimenti di Kaunitz evidenziavano ancora una volta quello che era stato sempre l’atteggiamento della Monarchia nei confronti del Milanese basato sulla strategie del compromesso e del tempo sospeso. In Lombardia e soprattutto dopo le riforme te-resiane e giuseppine, il feudo non costituiva un elemento di di-stinzione sociale, certamente non per il patriziato di Milano che aveva sempre cercato anche altre vie, e di questo il cancelliere era certamente consapevole, ma il suo possesso poteva sempre rap-presentare un punto di partenza per costruire una fortuna perso-nale per altri nobili. Nondimeno potevano accedere a corte anche i semplice titolati, per cui il feudo non rappresentava più nemmeno un momento di passaggio per la costruzione di carriere personali, e il suo acquisto non era più appetibile perché svuotato di ogni rendita economica e prerogativa di onore. Inoltre egli sapeva be-nissimo che obbligare i titolati che non l’avevano fatto a notificare i propri feudi avrebbe fatto emergere una situazione di abuso che in parte gli stessi Asburgo avevano in qualche modo favorito nel corso del tempo e per questa ragione nessun governo aveva scelto la via dell’imposizione in materia. A suo avviso, non era nemmeno consigliabile togliere la giurisdizione feudale perché era rimasta, di fatto, l’unico diritto del feudatario atto a giustificare il patto feu-dale; eliminarlo avrebbe significato far morire l’istituto stesso. In

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merito proponeva quindi di dividere in due qualità i feudi: quelli di più estesa giurisdizione che potessero garantire al pretore loca-le «un sufficiente distretto», e quelli di estensione più piccola. Nel primo caso si sarebbe potuto garantire ai nuovi acquirenti «l’antico diritto solito concedersi nell’investitura de’ feudi, di poter nomi-nare il podestà, giacché in tal caso non si dovrebbero temere in-convenienti, quando a tali nuovi feudatari, che saranno in picciol numero, s’imporrà l’obbligo di montare le loro curie a norma delle sovrane prescrizioni per le Regie Curie e che si proibirà qualunque esazione a titolo di patente». Nel secondo caso, si sarebbe accor-dato al feudatario «quello che si accostumava da prima, ma eccet-tuare il diritto di nominare il suo giusdicente». Da questo punto di vista, il cancelliere era cosciente che senza il diritto di nominare il podestà, difficilmente si sarebbero trovati potenziali acquirenti per questi feudi, ma confidava sul fatto che i titolari avessero comun-que l’obbligo di procurarsi un feudo per appoggiarvi il proprio titolo e che non sarebbero mancate persone «che per incominciare ad illustrare le loro famiglie» si sarebbero «accomodate alla suddetta condizione». Anche il procuratore generale del Supremo Tribunale di Giustizia, Giacomo Bovara, espresse la sua opinione in materia, osservando che per «assicurare il buon esito della cosa e riparare ai gravi disordini» gli sembrava vitale «ridurre li feudatari ai primitivi loro obblighi e uniformare più che sia fattibile la montatura delle curie feudali a quella delle curie regie»29, così come aveva imposto ai feudatari il Tribunale d’Appello e nel pieno rispetto della volon-tà del sovrano, il quale, «in qualità di supremo giudice e tutore dei suoi sudditi» poteva decidere ogni mezzo necessario alla buona amministrazione della giustizia. Secondo Bovara, inoltre, visto che molte preture regie erano state erette per supplire alla mancanza di quelle feudali, una volta che queste ultime fossero state bene or-ganizzate, si sarebbe potuto procedere con l’abolizione delle regie, sgravando così l’erario del loro mantenimento.

Il problema della mancata notificazione dei feudi era emerso ancora nel 1790 dalle «risposte a vari quesiti in materia feudale»30 basate sulla relazione del segretario direttore degli archivi Sanbru-

29 Ivi, 6 dicembre 1786.30 Asmi, Atti di governo, Feudi Camerali, p.a., cart. 9. I quesiti erano cinque:

se le carte riguardanti i feudi che erano precedentemente conservate presso l’ormai abolito Senato e il Magistrato Straordinario fossero state riunite nell’Archivio di deposito; in che misura i vassalli avessero nel corso del tempo omesso o trascurato «la pratica delle notificazioni» ogni volta che mutava il padrone nel possesso sul

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nico e indirizzate al cancelliere dell’Impero principe Wenzel Anton von Kaunitz. Esse erano state realizzate in occasione della salita al trono del nuovo imperatore Leopoldo II e evidenziavano le proble-matiche di sempre, in particolare l’enorme confusione delle «prati-che di notificazione da parte dei vassalli dei loro feudi»31, a riprova che si trattava di una prassi ampiamente diffusa e accettata.

La relazione di Sanbrunico metteva immediatamente in evi-denza l’estremo disordine in cui versavano le carte negli Archivi dei vecchi magistrati Camerali ordinario e straordinario, non solo perché «maltrattate dagli incendi», ma anche perché numerosi do-cumenti erano fuori posto, in quanto collocati presso l’archivio del Senato ormai abolito o addirittura presso gli archivi privati. I ripe-tuti richiami del Governo e della Corte a mettere ordine negli ar-chivi erano stati puntualmente disattesi32. La relazione evidenziava anche come la pratica di vassallaggio ossia di giuramento che ogni vassallo doveva prestare nei confronti del sovrano, il padrone diretto del feudo, si era sostanzialmente interrotta con l’età spagnola. Egli, infatti, rimarcava come, fossero mancati, da parte dei vassalli del-la Lombardia austriaca, quei «segni della divozione ed osservanza dovuta al Padrone del diretto con quegli ossequi di ricognizione e rinnovazione dei giuramenti» che, in virtù delle Costituzioni Feudali tutti i feudatari erano obbligati a prestare, soprattutto in occasione della successione di un nuovo sovrano. Questo essenziale «obbligo di un vassallo verso il suo Re e Signore» non risultava essere acca-duto né con Carlo VI, né con la figlia Maria Teresa e né con l’appena defunto Giuseppe II. L’età degli Asburgo di Spagna aveva invece vi-sto esprimere atti di omaggio da parte dei vassalli a ogni cambio di sovrano, allorché accanto al giuramento di fedeltà si procedeva an-che con la notificazione dei beni e delle rendite feudali. La procedura era addirittura continuata sino al regno di Filippo V.

Anche il sistema dei trapassi evidenziava alcuni abusi, in par-ticolare quello della refutazione, vietata senza il permesso del Prin-cipe e previo pagamento di una somma alla Camera regia; anche

feudo; se nelle pratiche dei trapassi fossero stati negletti il rinnovo dell’investitura e le denunce da parte dei vassalli, e da ultimo motivare il più possibile i chiarimenti che venivano richiesti dalla corte di Vienna.

31 Ivi, cart. 9.32 Ivi, una lettera del governo del 16 marzo 1782 imponeva che l’archivio del

Senato rendesse a quello camerale tutte le carte dei vecchi magistrati antecedenti il 1771 e mantenesse in un archivio separato le carte sulle materie fiscali stilate dopo il Piano del 31 dicembre 1771.

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il sistema delle notificazioni appariva confuso e si voleva evitare l’abuso di «nascondere i beni di pertinenza feudale o farli sup-porre allodiali» nel momento in cui veniva a mancare la linea di successione diretta. Nel 1708 un dispaccio regio aveva imposto il giuramento ai feudatari e la notifica precisa delle investiture dei loro feudi all’interno di un registro che non era mai stato realiz-zato. Il primo fu quello del 1714 di Giuseppe Benaglio33, nel quale però erano citati solo i nomi e cognomi dei primi concessionari, ma mancavano le descrizioni dei beni e le «ragioni di spettanza di cadaun feudo»; mentre quello più recente di Enrico Casanova del 176934 era ritenuto impreciso per aver preso qualche sostanziale equivoco». Sanbrunico suggeriva quindi di raccogliere tutte le car-te camerali in un solo luogo, obbligando ministri, ufficiali, eredi di ministri o privati che avessero nelle loro case documenti originali di natura feudale di restituirli alla Camera regia. Lo scopo era quello ar-rivare finalmente a «formare uno stato sicuro del vero sistema di am-ministrazione e di regolamento e darne prospetti utili ed invariabili».

I suggerimenti proposti da Sanbrunico furono riferiti da Giu-seppe Pecis al Consiglio di Governo; egli prospettò non solo la pos-sibilità di riordinare le carte per conservarle in un solo luogo, ma anche l’obbligo imposto a ogni feudatario di notificare la propria investitura originale allo scopo di verificare l’esattezza del possesso e l’integrità del feudo, rinnovando, se necessario, il giuramento di fedeltà. Alla stessa notificazione avrebbero dovuto sottoporsi an-che i titolati. Sulla base della relazione di Sanbrunico e di Pecis, il Consiglio di Governo cercò di fare il punto della situazione della materia feudale: le carte che riguardavano i feudi camerali prove-nienti dal Senato erano conservate presso il Tribunale di giustizia, mentre nell’ufficio fiscale erano raccolte le notificazioni delle re-galie feudali, ma non quelle dei fondi. Un elenco dei feudatari era

33 Si consideri l’opera di Giuseppe Benaglio, Elenchus familiarum in Mediolani dominio feudis, jurisdictionibus, titulisque insignum, Mediolani, in curia regia typis Marci Antonii Pandulphi Malatestae, Kal. Aprilis 1714, oggi in ristampa anastatica a cura dell’editore Orsini de Marzo e edita nel 2009. Di un certo interesse anche Id., La Verità Smascherata: dignità e venture di 398 famiglie nobili lombarde, ticinesi e d’altre terre e città d’Italia nei ranghi del patriziato milanese tra XIV e XVIII secolo se-condo il manoscritto del 1716-19, trascrizione a cura di R. Bellosta, Verbania, 2009.

34 E. Casanova, Dizionario feudale delle province componenti l’antico Stato di Milano all’epoca della cessazione del sistema feudale (1796). Ducato di Milano, Prin-cipato di Pavia di qua del Po, Contado di Como, Contado di Cremona, Contado di Lodi, Edizioni Orsini De Marzo, Milano, 1930 (rist. anast.).

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in quel momento conservato presso l’Ufficio generale delle tasse, compilato nel 1783 da Giuseppe Gerenzani, controllore dell’ufficio. Si trattava, però, di un documento imperfetto e parziale; lo stesso Gerenzani redasse anche un elenco di feudatari che a suo avviso, pur avendo acquistato il feudo dalla Regia Camera, non ne avevano preso possesso formalmente35.

Nel gennaio del 1791 il Governo di Milano espresse il suo pa-rere in merito alla necessità di produrre un elenco completo dei feudi e delle ragioni feudali di tutta la Lombardia austriaca. Pur riconoscendone l’estrema necessità per mettere ordine in un set-tore «non poco trascurato ne’ tempi passati», appariva poco oppor-tuno introdurre nella Lombardia austriaca la richiesta prospettata dal Consiglio governativo di chiedere il rinnovo dell’investitura dei feudi mediante il giuramento di vassallaggio a ogni cambio di so-vrano o di vassallo. Ciò avrebbe, infatti, creato molti malumori e proteste, perché avvertito come una “novità odiosa”. Era preferibile limitarsi a compilare un elenco di tutti i feudi e dei loro proprie-tari, senza esigere per il momento «la giustificazione dei titoli di concessione primordiale e della loro legittima discendenza dal pri-mo investito«, perché ciò sarebbe stato avvertito come «una troppo clamorosa inquisizione». Anche il cancelliere Kaunitz si pronunciò nel medesimo modo, consigliando di soprassedere per il momento da un’azione che sarebbe stata giudicata dalla nobiltà un sopruso, aspettando «un tempo più opportuno»36, tanto più che i nobili inse-riti nell’elenco del controllore Gerenzani tra coloro che pur essendo titolari di feudo non ne avevano preso formalmente possesso erano stati muniti del relativo diploma e avevano anche pagato le tasse, per cui – consigliava il cancelliere – era preferibile «prescindere da certe formalità» per i casi passati e auspicare invece il rispetto. delle regole per quelli futuri. Da rilevare che tra coloro che risulta-vano inadempienti secondo l’elenco di Gerenzani risultava anche il conte Antonio Greppi37, ex fermiere, grande amico e benefattore di Kaunitz, nonché uno dei principali finanzieri della Monarchia

35 Tra questi figuravano il marchese Girolamo Arrigoni con il feudo di Priolo nel Lodigiano, il conte Antonio Greppi con il feudo di Cornegliano, il conte Andrea Lucini Passalacqua con il feudo di Rovello e il conte Giovanni Battista Meda con i feudi di Galliano, Penzano, Vignarca con Corneno.

36 Ivi, Lettera del 23 febbraio 1791.37 Sui rapporti tra la famiglia Greppi e la corte di Vienna mi permetto di ri-

mandare al mio Vicino alla fonte di tutte le grazie. I rapporti tra la corte di Vienna e la famiglia di Antonio Greppi nella seconda metà del Settecento, «Archivio Storico Lombardo», CXXIV (1998), pp. 355-401.

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asburgica38 al quale non sembrava opportuno chiedere ulteriori ‘formalità’. Le parole del cancelliere non facevano altro che confer-mare non solo una pratica diffusa nella concessione di terre e titoli, ma anche la particolare natura del legame tra il governo di Vienna e l’aristocrazia della Lombardia austriaca. Già nel 1720, nel mo-mento in cui si erano avviate le pratiche del Catasto teresiano c’era stato il tentativo di formare un catalogo dei titolati dello Stato che potesse mettere ordine nella materia feudale e chiarisse meglio il rapporto tra feudi, titoli e nobiltà; il principe di Colloredo, infatti, aveva emanato una grida in merito39, ma, come già accaduto in precedenza, il governo di Vienna aveva preferito soprassedere per evitare che un ‘catalogo ufficiale’ di titolati mettesse tutte le fa-miglie aristocratiche, soprattutto quelle più antiche e prestigiose, sullo stesso piano di quelle di più recente nomina, le quali avevano magari appoggiato il loro titolo al feudo. Ad esempio, proprio sulla nobilitazione del parvenu Antonio Greppi le malevoli voci del ‘gran mondo’ si erano fatte sentire fino alla corte di Vienna40.

L’idea era quella di prendere tempo e lasciare la situazione in sospeso, proprio per non alterare una prassi ormai consolidatasi nel corso di lunghi decenni. Il tentativo di creare un catalogo dei titolati era stato avviato più volte nel corso del tempo, ma senza succes-so, ma proprio per la natura della nobiltà lombarda, in particolare milanese, perché la vendita dei titoli e delle terre era stata favorita da tutte le dominazioni degli Asburgo, sia madrilena che viennese, come strumento non solo finanziaria, ma anche di governo all’inse-gna di un rapporto fra principe e ceti che, fatta eccezione per l’età di Giuseppe II, si era sempre svolto all’insegna della gradualità nell’im-posizione di riforme per evitare fratture drammatiche e del compro-messo nella raccolta dei risultati dell’attività riformista.

Era stato lo stesso governo di Vienna a facilitare tale operazio-ne: la mobilitazione sociale assicurava il continuo consenso alla monarchia e denaro nelle casse dello stato, al tempo stesso l’ob-bligo di appoggiare il titolo su un feudo garantiva una distinzione sociale a chi ne aveva bisogno.

38 G. Gregorini, Il frutto della gabella. La Ferma generale a Milano nel cuore del Settecento economico lombardo, Vita e Pensiero, Milano, 2003.

39 C. Donati, L’idea di nobiltà cit., p. 345.40 Mi permetto di rinviare al mio Da negoziante e gentiluomo. La formazione di

Paolo Greppi tra commercio, finanza e diplomazia, in M. Mafrici (a cura di), Rappor-ti diplomatici e scambi commerciali nel Mediterraneo moderno, Rubbettino, Soveria Mannelli, 2005, pp. 379-444.

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Tuttavia l’estrema mobilità sociale della nobiltà che aveva ca-ratterizzato gli anni 1680-1720, se non aveva messo in discussione il vincolo feudale dal punto di vista giuridico, aveva certamente reso più caotico quello della prassi feudale legato proprio al ri-spetto delle regole. In virtù di questo, in una successiva lettera al plenipotenziario a Milano Wilczeck, sempre Kaunitz ribadiva come “ben si scorge essere in Italia, o ignorandosi o trascurate, ovvero passate in disuso le Costituzioni, consuetudini e pratiche del Jus feudale che si osservano con regolarità in altri paesi come lo sono le rinnovazioni delle investiture di caso in caso, le denunzie, notifi-cazioni e reversali de’ vassalli”. Il bisogno di denaro aveva spinto le corti di Madrid e di Vienna all’incessante compravendita dei titoli e accettato la refutazione, ma se tale prassi aveva reso possibile una certa mobilità sociale e l’ascesa di famiglie nuove, essa aveva in qualche modo indebolito il legame feudale tra principe e ceti pro-prio in una delle principali caratteristiche della feudalità: il legame vassallatico e il giuramento di fedeltà, rendendo da questo punto di vista la feudalità milanese peculiare. E se a ciò si aggiungo-no i pesanti contraccolpi che la politica riformatrice degli Asburgo d’Austria aveva assestato alla proprietà fondiaria a partire dall’or-ganizzazione del Catasto, si capisce come il legame feudale nella sua primitiva accezione si fosse ulteriormente indebolito e il feudo si fosse progressivamente svuotato delle sue principali prerogative.

Gli effetti che le riforme di Giuseppe II ebbero in materia feuda-le apparvero con evidenza dopo la sua morte, quando un gruppo di nobili feudatari scrisse una supplica al nuovo imperatore Leopoldo II, già citata in precedenza41. Approfittando delle aperture che il nuovo sovrano sembrava avere accordato alla nobiltà, essi cerca-rono di ribadire il mancato rispetto dei loro diritti di feudatari in materia giurisdizionale. Su indicazione di quanto stabiliva l’editto dell’11 febbraio 1786 che chiedeva di confermare entro l’agosto di quell’anno la scelta di mantenere l’attività della pretura feudale all’interno del feudo secondo i nuovi obblighi, molti dei feudatari accettarono, nonostante gli elevati costi sostenuti per mettere in funzione le preture, perché erano convinti di poter equilibrare gli investimenti con i proventi delle tasse ‘dei diversi rami giudiziari’, allettati anche dalla parificazione delle preture feudali con le re-gie. Ad un tratto, però, scrivevano i petenti, i pretori feudali erano

41 Ivi, cart. 10, Giugno 1791 supplica dei feudatari della Lombardia austriaca al nuovo imperatore Leopoldo II.

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stati costretti a versare nelle regie casse tutte le tasse percepite nel quinquennio. I feudatari non sapevano spiegarsi a che titolo ciò avvenisse, anche perché così facendo veniva a mancare quel corrispettivo per cui erano stati invitati dal governo ad accettare le preture e chiedevano pertanto di bloccare quello che considera-vano un sopruso nei loro confronti42. Ma la questione più spinosa e che toccava nel merito le prerogative dei feudatari non riguardava tanto i cinque anni di proventi da versare nelle casse regie, quanto quella del patto convenzionale elettivo del foro che aveva stabilito l’E-ditto del febbraio 1786, in base al quale in caso di controversie vi era la libertà di eleggere il tribunale in cui far giudicare la causa. Come sottolineavano i petenti, i proprietari delle terre più ricchi, risiedevano per lo più in città e nei borghi dove erano collocate le preture regie e si era quindi «reso famigliare il costume di obbligare le persone passive ne’ contratti ad assoggettarsi all’altrui foro». La conseguenza era stata una vistosa diminuzione delle cause più lucrose per i pretori feudali, un loro mancato guadagno e ovviamente minori proventi anche per il feudatario, rendendo così l’amministrazione della giustizia più un costo che un guadagno per il possessore del feudo.

Dopo diverse consultazioni del Magistrato Politico Camerale, del Governo e del Supremo Tribunale di Giustizia, le rispose che i richiedenti ricevettero furono negative.

Il 13 agosto 1792 la Conferenza governativa comunicò che per meglio tutelare i diritti della Camera Regia stimava opportuno che il Tribunale d’Appello non approvasse alcun giusdicente nomina-to dai feudatari se «da questi non venga giustificato il legittimo

42 L’erogazione di questa tassa alla regia camera è «uguale che spogliare i feuda-tari di parte della prerogativa feudale e voler rendere incomoda anzi dannosa tale pre-rogativa. Se le tasse, si chiedono, sono anche per le preture regie il mezzo per man-tenersi, perché non avviene la stessa cosa per le feudali? Perché i feudatari e i loro giudici devono avere solo il danno e non il compenso dell’esercizio della giustizia? […]Tanto meno sembra ragionevole tale devoluzione, quanto che li pretori feudali sono risponsali e sottoposti a qualunque ammenda pecuniaria per tutti gli errori ne’ quali possano inciampare nella trattativa e cognizione di tali materie. Una responsabilità senza corrispettivo sembra cozzare colla sana ragione, talché li giusdicenti feudali oltre dell’incomodo di giudicare gratuitamente gli affari di dispense e di affrancazioni, non altro avrebbero per sé che il rischio di soggiacere ad una riprensione del tribuna-le e ad una rifusione di spese e danni»… I petenti riconoscono che anche le preture regine sottostanno alla stessa legge e sotto le stesse tariffe, ma si salvano perché i loro giudici godono «di un soldo fisso, non soffrono alcun pregiudizio e versandosi nella Regia Cassa le tasse delle dispense e delle affrancazioni, il Sovrano gioisce di un mezzo al mantenimento di essi giudici, ciò che per nissun modo si verificherebbe ne’ Feudatari, qualora ad essi venissero tolti glia cennati prodotti» (ivi).

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trapasso del feudo e del titolo che vi possa essere annesso con il pagamento della mezz’annata». Vi era un chiaro avvertimento ai feudatari sotteso a questo ordine impartito dalla Conferenza gover-nativa: la notifica del titolo e del relativo feudo avrebbe messo in seria difficoltà molti di loro che, come è già stato rilevato, avevano nel corso del tempo ampiamente disatteso l’obbligo stabilito dalle leggi e avrebbero avuto serie difficoltà a dover dimostrare ciò che non sempre era documentabile. Un abuso che in qualche modo era sempre stato favorito dalla corte all’interno delle dinamiche dei suoi rapporti con i ceti lombardi a vantaggio di entrambi, in quel momento si trasformava in uno strumento con cui colpire i ceti e bloccare ogni loro rimostranza43.

Il 29 gennaio 1793 giunse anche la risposta del Governo a nome del Regio Tribunale d’Appello di Milano, in base alla quale il nuovo imperatore Francesco II considerava prematuro ogni cambiamento alle preture feudali perché si stava per approntare un nuovo rego-lamento giudiziario, riguardante soprattutto il patto convenzionale, che per il momento rimaneva così come era stato stabilito da Giu-seppe II. Inoltre, veniva sottolineato come il Regio Erario non potes-se perdere un provento che gli spettava per legge e che a lungo era stato usurpato dalle curie feudali contro la chiara disposizione di un editto. Come unica consolazione per i feudatari vi fu il riconoscimen-to del loro il diritto a poter trattenere qualche tassa44.

Quando nel maggio del 1796 i francesi entrarono a Milano e venne instaurato un governo provvisorio, i feudatari lombardi ave-vano già perso quindi gran parte delle loro prerogative fondamen-tali. Appena un mese dopo l’ingresso del generale Bonaparte a Mi-lano la legge del 22 Pratile dell’anno IV della Repubblica (10 giugno 1796) insieme con i titoli nobiliari, abolì «ogni autorità feudale e ogni caccia riservata»45. La successiva legge del VI termidoro anno VI abolì i fedecommessi per il «motivo che non era consentaneo ai principii di un ben regolato governo il tollerare que’ vincoli che impediscono la libera trattazione dei fondi e che importano l’ine-guaglianza di fortuna tra i figli di uno stesso padre»46.

43 Ibidem.44 Ibidem.45 Raccolta degli ordini ed avvisi stati pubblicati dopo il cessato governo austria-

co, Milano, presso Luigi Veladini, 1796-1799, tomo I, foglio 40.46 Ivi, tomo IV-V.

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Le leggi della Repubblica francese avevano abolito il feudo in Francia e annullato il contratto feudale in tutte le sue componenti e effetti47, ma tale legislazione non fu mai estesa integralmente al territorio italiano occupato da Napoleone.

Nella Repubblica Cisalpina erano stati effettivamente aboliti i titoli nobiliari e i feudi, ma le leggi francesi intendevano colpire i diritti signorili del feudatario intesi nella loro natura pubblica, non avevano affatto l’intenzione di sopprimere la sua natura di pro-prietario, in quanto il rispetto della proprietà privata dell’individuo era uno dei principi sacri e inviolabili della Rivoluzione. Era l’ari-stocrazia il vero obiettivo di questi provvedimenti e il cittadino che usciva dal nuovo modello politico non si contrapponeva allo stra-niero, ma all’aristocratico48. In realtà la questione della proprietà ebbe un rapporto fondamentale con la Rivoluzione francese, ma altrettanto ambiguo49. Da un lato i rivoluzionari la consideravano sacra e i diritti del proprietario erano ritenuti inviolabili; dall’altro i nemici della Rivoluzione ebbero gioco facile a denunciare alcuni provvedimenti politici come attentati alla proprietà stessa, tra que-sti vi furono anche i diritti feudali aboliti. Stretto è il legame tra la definizione di proprietà e il dibattito sull’abolizione della feudalità e le rendite fondiarie che si intreccia con la questione della vendita dei beni nazionali e la nazionalizzazione dei beni ecclesiastici che provocarono profondi cambiamenti sull’assetto della proprietà fon-diaria, anche perché si trasformarono in grossi affari economici per i francesi e, in questo caso specifico, gli italiani. Da questo quadro complesso, emersero numerose tipologie di proprietari, spesso in contrapposizione gli uni con gli altri, ad esempio gli antichi signori contro le comunità che si impossessarono di beni ex- feudali oppu-

47 Qui si fa riferimento a quelle del 4 agosto 1789, del 15 marzo 1790, dell’8 aprile 1791, del 17 luglio 1793.

48 Sulla cittadinanza nella Repubblica Cisalpina mi permetto di rinviare al mio «La Repubblica penserà a tutto». Rivoluzione francese e cittadinanza. Il caso della Repubblica cisalpina, in I. Botteri, E. Riva, A. Scotto di Luzio (a cura di), Fare il cit-tadino. La formazione di un nuovo soggetto sociale nell’Europa tra XIX e XX secolo, Rubbettino, Soveria Mannelli, 2012, pp. 35-68.

49 Sul tema del dibattitto in Francia sulle rendite fondiarie e la proprietà, molto interessante è l’articolo di R. Blaufarb, Propriété, politique et délimitation des grou-pes sociaux: le débat sur les rentes foncieères, 1789-1811, «Annales Historiques de la Révolution française», 359 (2010), pp. 119-140. A livello comparativo in Italia si veda A. Zanini, Strategie politiche ed economia feudale ai confini della Repubblica di Genova (secoli XVI-XVIII). Un buon negozio con qualche contrarietà, Centro di Studi e documentazione di Storia economica Archivio Doria, Genova, 2005.

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re gli ex feudatari contro i nuovi proprietari acquirenti dei beni na-zionali, spesso cittadini ‘stranieri’ che acquisirono la cittadinanza comprando i beni espropriati agli antichi possessori e crearono im-mense fortune personali. Il caso del veneziano Vincenzo Dandolo, il quale riuscì ad assicurarsi importanti possedimenti a Varese50, è da questo punto di vista emblematico, così come quello del nego-ziante milanese Giuseppe Manara che, acquistando i beni rustici del Collegio Germanico di Pavia, si accaparrò da solo oltre il 50% delle terre vendute nel Dipartimento dell’Olona51. Oltre ai numerosi contenziosi sorti tra vecchi e nuovi proprietari, a tutto ciò si deve anche aggiungere la politica finanziaria che di volta in volta i fran-cesi applicarono ai domini conquistati, determinando un comples-so mosaico di politiche finanziarie volte non solo a consolidare il proprio potere, ma anche a costruire lo Stato e che spesso dovette confrontarsi con sistemi pre-esistenti, talvolta già ben organizza-ti, come quello della Lombardia austriaca52. La ricerca su questi importanti temi si è oggi un po’ affievolita53, complice l’apertura

50 La vicenda di Dandolo è stata analizzata da A. Cova, La vendita dei beni nazionali in Lombardia durante la prima e la seconda repubblica Cisalpina (1796-1802), «Economia e storia», X (1963), 3, pp. 355-412; 4, pp. 557-581. In una lettera a Ferdinando Marescalchi inviato a Parigi del 14 ottobre 1802, il vice-presidente della Repubblica italiana Francesco Melzi scrive su Dandolo che «non si è tanto perso nelle scienze da non essersi acquistato un’entrata di ventiquattro o venticin-que mille lire in uno de’ più ameni nostri paesi, com’è Varese» (C. Zaghi (a cura di), I carteggi di Francesco Melzi d’Eril duca di Lodi. La vice-presidenza della Repubblica Italiana, Museo del Risorgimento e Raccolte Storiche del Comune di Milano, Milano, 1958-1966, vol. III, p. 451). Su Dandolo e la sua famiglia cfr. I. Pederzani, I Dandolo. Dall’Italia dei lumi al Risorgimento, Franco Angeli, Milano, 2014.

51 U. Marcelli, La vendita dei beni nazionali nella Repubblica Cisalpina, Patron, Bologna, 1967, p. 104. Sui cambiamenti della proprietà fondiaria in età napoleo-nica cfr. A. Cova, Proprietà ecclesiastica, proprietà nobiliare, proprietà borghese: i cambiamenti tra il 1796 e il 1814, in S. Zaninelli (a cura di), La proprietà fondiaria in Lombardia dal Catasto teresiano all’età napoleonica, Vita e Pensiero, Milano, 1986, vol. V, pp. 147-263. Cfr. anche F. Arese, Patrizi, nobili e ricchi borghesi del Dipar-timento d’Olona secondo il fisco della I Repubblica Cisalpina 1797-1798, «Archivio Storico Lombardo», CI (1975), pp. 93-159.

52 A. De Francesco, L’Italia di Bonaparte. Politica, statualità e nazione nella penisola tra due rivoluzioni, 1796-1821, Utet, Torino, 2011. Imprescindibile per la l’Italia napoleonica è C. Zaghi, L’Italia di Napoleone dalla Cisalpina al Regno, Utet, Torino, 1986. Sulla Repubblica italiana si consideri il volume collectaneo La forma-zione del primo Stato italiano e Milano capitale, 1802-1814, LED Edizioni Universita-rie, Milano, 2006; E. Pagano, Enti locali e Stato in Italia sotto Napoleone. Repubblica e Regno d’Italia (1802-1814), Carocci, Roma, 2007.

53 Da questo punto di vista, anche in Francia il dibattito su questi temi è piut-tosto datato, come rileva B. Bodinier, La Révolution françaises et question agraire. Un bilan national en 2010, «Histoire et Sociétés Rurales», 33 (2010), 1, pp. 7-47.

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di altre piste di ricerca che hanno riguardato la Rivoluzione fran-cese, tanto che i lavori in tal senso sono piuttosto datati, almeno per quanto concerne la Lombardia54. Il tema meriterebbe, invece, una più approfondita analisi, soprattutto di singoli casi, al fine di comprendere come si formarono i nuovi ‘ceti emergenti’, spesso trasformatisi in ceti dirigenti e come personaggi saliti alla ribalta nel Triennio giacobino seppero costruirsi immense fortune, sfrut-tando la vendita dei beni nazionali. La proprietà fondiaria tornò ad essere, pur in termini nuovi, la principale via per costruire un per-corso di distinzione sociale e il motore primo dell’acquisizione di un nuovo ‘privilegio’ sociale e politico: quello della cittadinanza. Come era accaduto anche per le fasi cruciali dei domini degli Asburgo di Spagna e Austria nei momenti di crisi dinastiche epocali, come ad esempio la transizione tra Sei e Settecento, anche nel crinale tra Sette e Ottocento il movimento della proprietà terriera si rivelò un importante strumento di mobilità sociale e quindi un efficace strumento politico ad uso e consumo del potere, in primis, e dei vecchi e nuovi ceti che nel possesso della terra identificarono il loro percorso di distinzione.

La legislazione della Cisalpina rimase imperfetta in riferimento alla condizione dei beni feudali: non vennero dichiarati in modo chiaro né l’allodializzazione né la soppressione dei vincoli lineari, per cui rimase sempre il dubbio se quei vincoli fossero stati sop-pressi dalla legge sui fedecommessi e poi dal Codice napoleone o fossero rimasti.

Si cercò di estendere la legge dell’abolizione del fedecommesso anche all’abolizione del feudo, ma poi l’argomento non venne preso in considerazioni, complice una forte ignoranza sulla giurispru-denza precedente che non considerò, nella sostanza, quanto aveva già fatto Giuseppe II in materia55, oltre al fatto che le differenze tra feudo e fedecommesso rimasero sempre. Nei confronti del feuda-tario le leggi della Cisalpina agirono in maniera confusa: vennero sequestrati abusivamente dei beni che sarebbero dovuti rimanere nelle mani del possessore, come ad esempio il castello o il palaz-zo feudale, i quali vennero spesso posti sotto sequestro arbitrario.

54 I riferimenti sono sempre ai lavori di A. Cova, La vendita dei beni nazionali in Lombardia cit.; Id., Proprietà ecclesiastica, proprietà nobiliare, proprietà borghese cit.; S. Zaninelli, La proprietà fondiaria in Lombardia cit.

55 C. Magni, Il tramonto del feudo lombardo cit., pp. 345-346.

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I beni feudali vennero sovente confusi con quelli nazionali e, al tempo stesso, anche i feudatari, convinti che i beni fossero piena-mente allodializzati, li vendettero senza il consenso dello Stato. La confusione regnò sovrana: si realizzarono molte alienazioni di beni a persone diverse dalle linee dei chiamati secondo le investiture originali malgrado non fossero ancora estinte e ciò avvenne sia per colpa dello Stato che dei privati. Risultò difficile intervenire in seguito, quando ci si rese conto che i primi governi provvisori ave-vano creato molti casi equivoci in materia e avevano inizialmente agito senza un piano ben organizzato. Da questo punto di vista sono interessanti le considerazioni di Paolo Greppi, figlio dell’anti-co fermiere Antonio e amico fraterno di Francesco Melzi, il quale, presente a Milano nel giugno del 1796 per tutelare gli interessi di famiglia, scrisse al padre che i primi prestiti forzosi stabiliti dal governo provvisorio della nuova municipalità e i primi espropri erano stati «calcolati sulla possidenza territoriale, ma solo sull’o-pinione della ricchezza e del credito» e non su una reale verifica delle situazioni patrimoniali, determinando così solo una grande confusione56. Dello stesso avviso furono i dibattiti che a partire dal gennaio del 179857 si svilupparono all’interno del Gran Consiglio della Repubblica Cisalpina a proposito delle alienazioni di molti fondi nazionali. Cominciò Giovanni Bovara, futuro ministro per il culto, introducendo un discorso riguardante le alienazioni di pro-prietà provenienti dal Fondi di Religione, con il quale evidenziava i «vizi di queste alienazioni fatte sopra dati erronei e regolate dai raggiri e dal privato interesse piuttosto che dal pubblico bene»58, dimostrando che quei contratti avrebbero dovuto essere annullati per vizi di forma. Proponeva quindi una mozione affinché si invi-tasse il Direttorio a trasmettere al Gran Consiglio le specifiche di tutti i beni nazionali «sotto qualunque denominazione essi siano» per rivedere i contratti. Tale richiesta provocò un vivace dibattito, tra chi considerava ciò che era avvenuto perfettamente legale e chi dichiarava che i contratti cui faceva riferimento Bovara avrebbero dovuto essere recisi in virtù di una legge, mai abrogata, in base alla quale le alienazioni avrebbero dovuto essere fatte ad asta pubblica.

56 Asmi, Greppi, cart. 390, lettera dell’8 giugno 1796 al padre.57 C. Montalcini, A. Alberti (a cura di), Assemblee della Repubblica Cisalpina,

Zanichelli, Bologna, 1917, vol. I,2, pp. 689-690.58 Ivi, p. 689.

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Fu il consigliere Mozzini a richiamare tutti i membri del Consiglio a considerare la questione da un punto di vista più articolato e più «in grande», evidenziando così difficoltà insuperabili ad accettare la proposta di Bovara. Molti di quei contratti, infatti, erano stati siglati dai governi provvisori «in un tempo in cui le circostanze li costringevano a trovare danaro a qualunque costo». Come si pote-va ora annullare quei contratti, si chiedeva Mozzini? Occorreva in-vece considerarli come «prodotti dalla violenza delle circostanze»59. La mozione di Bovara venne approvata, ma di fatto, nonostante i numerosi dibattiti all’interno del Consiglio, vero laboratorio di cit-tadinanza partecipata, non fu possibile intervenire più di tanto, in quanto le vendite dei beni nazionali alienati irregolarmente ave-vano creato una nuova classe di proprietari, la quale non avrebbe mai rinunciato a quei beni che le avevano garantito un certo sta-tus e la cittadinanza. Togliere ai nuovi proprietari ciò che avevano acquistato regolarmente avrebbe generato proteste infinite60. Quel che è certo, è che nel corso dei primi tempi dell’occupazione france-se e della Repubblica Cisalpina erano stati compiuti degli eccessi, in base ai quali erano stati sequestrai e poi dichiarati nazionali beni degli enti ecclesiastici e anche beni allodiali ritenuti feudali.

Il vice-presidente della Repubblica italiana Francesco Melzi cercò di sanare gli abusi attraverso il decreto del 23 agosto 1803 che ordinava la restituzione dei beni allodiali eventualmente se-questrati ai feudatari61. Il decreto legge generò immediatamente delle controversie perché vi era molta confusione interpretativa, nel senso che non si capiva se gli ex feudatari avrebbero avuto diritto alla restituzione dei beni allodiali o anche dei beni patrimo-niali soggetti in passato a vincoli feudali, ma che ormai, considera-ta l’abolizione dei diritti giurisdizionali e signorili, potevano essere considerati come allodiali. Chi richiedeva i beni, doveva produrre prove che giustificassero tale richiesta. I dubbi generati dal decreto legge erano numerosi e furono evidenziati dal ministro della Giu-

59 Ivi, p. 690.60 Asmi, Atti di governo, Feudi Camerali, cart. 9. Una petizione dei cittadini

Gherardini di Venezia, titolari di alcuni feudi nel Reggiano e nel Modenese, indi-rizzata nel 1802 al vice-presidente della Repubblica italiana Francesco Melzi, ben chiarisce questo clima di confusione in cui avevano agito le prime amministrazioni dei governi provvisori della Cispadana e della Cisalpina.

61 Ivi, cart. 14. Cfr. anche C. Magni, Il tramonto del feudo lombardo cit. pp. 348 sgg.

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stizia Spannocchi, oltre che dalle richieste che alcuni ex feudatari fecero affinché venissero loro restituiti i beni. Tra le problematiche si comprese che la legge che aveva abolito i feudi non poteva essere applicata ai beni feudali, i quali non potevano quindi essere equi-parati ai beni allodiali, ma avrebbero conservato i vincoli lineari. Tutto ciò indusse Melzi a preparare un nuovo progetto legislativo che venne ulteriormente rallentato dalla consapevolezza che ormai gran parte dei beni che gli ex feudatari avrebbero potuto richiedere non era più nelle mani dello Stato, ma era stata venduta a terzi, per cui la loro restituzione avrebbe generato solo enormi proble-mi62. Il progetto di legge fu comunque preparato e inviato a Napo-leone; tuttavia le circostanze storiche che provocarono la fine della Repubblica italiana ne bloccarono l’iter successivo. Gli anni della Repubblica italiana, di fatto, furono anche un grande laboratorio progettuale di tutto ciò che girava attorno alla proprietà della terra e ai suoi antichi diritti, come ad esempio il problema della gestione delle acque pubbliche e private e la formazione di un nuovo catasto prediale63 e su cui la ricerca avrebbe ancora molto da dire.

La trasformazione della Repubblica in Impero traghettò però Napoleone verso l’idea imperiale: non solo venne creata una nuo-va nobiltà, ma nel 1806 egli volle addirittura fondare delle specie di feudi imperiali con il titolo di duca e trasmissibili attraverso la primogenitura maschile, ma del tutto privi di potere pubblico, di giurisdizione e di regalie64. A Milano si formò un nuovo ceto ari-stocratico, molto variegato al suo interno per la fusione di famiglie provenienti dal vecchio patriziato lombardo con la nuova élite pro-prietaria, in gran parte ancora da studiare, promossa dai francesi. I nuovi ceti dirigenti abbandonarono l’antica identità cittadina per abbracciare quella di proprietari fondiari65.

Durante la Cisalpina si credette che il feudo fosse stato abolito totalmente, in realtà se è vero che vi fu una notevole dispersione dei beni feudali, la confusione della legge e le esitazioni del gover-

62 Asmi, Consiglio legislativo, cartt. 605-606.63 In tal senso molto interessanti i dibattiti contenuti in Asmi, Consiglio legi-

slativo, cart. 598-606. 64 Asmi, Atti di governo, Feudi Camerali, p. m. cart. 19.65 Mi permetto di rinviare al mio Carlo Verri, patrizio, prefetto e possidente,

Guerini e Associati, Milano, 2006. Sul tema delle élites e dei notabili napoleonici si dispone ora del quadro di insieme di S. Levati, Notabili ed élites nell’Italia napoleo-nica: acquisizioni storiografiche e prospettive di ricerca, «Società e storia», 100-101 (2003), pp. 387-405.

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La ‘resistenza’ del feudo in Lombardia 163

no, determinate da interessi fiscali, impedirono la sua totale liqui-dazione e anche durante il Regno d’Italia una parte dell’istituto del feudo sfuggì alla soppressione, rendendo possibile quindi la continuazione dei vincoli feudali sui beni (inalienabilità e inseque-strabilità, vincoli lineari, reversibilità). Il decreto del 12 gennaio 1807 impose l’obbligo di notifica a tutti coloro che possedevano dei beni e redditi feudali o che pensavano di avere il diritto di po-ter recuperare beni conservati presso lo Stato o presso i comuni. Cesare Magni afferma che gran parte degli antichi possessori no-tificò i propri beni66, ma li dichiarò come allodiali, forse anche per paura di eventuali ritorsioni economiche. Ci furono altri progetti nel 1808, nel 1811 e nel 1813 per svincolare i beni feudali, anche per l’incompatibilità dei vincoli col Codice Napoleone che ormai era in vigore in tutte le province dell’Impero, ma le vicende storiche impedirono ogni realizzazione. Di capitale importanza fu l’incarico affidato a Gian Domenico Romagnosi da parte del Ministero della Giustizia per la compilazione di un progetto per la soppressione dei vincoli lineari e l’allodializzazione dei beni feudali, studiato in parte da Magni, ma che meriterebbe oggi un ulteriore approfondimento di scavo archivistico e interpretativo, soprattutto in virtù degli ef-fetti che il pensiero di Romagnosi ebbe su tutta la giurisprudenza italiana nella prima metà dell’Ottocento67.

L’agonia del feudo continuò per tutta la Restaurazione e nei decenni precedenti l’Unità, allorché rimase una controversia da sciogliere, e cioè se le leggi francesi avessero abolito il contratto feudale in tutte le sue parti o lo avessero lasciato sopravvivere nel campo del diritto privato, cioè se si fosse arrivati alla completa allo-dializzazione (piena proprietà privata) dei beni feudali e fosse stata decretata sia la libera commercializzazione e sequestrabilità dei beni feudali, sia la soppressione del diritto di devoluzione spettante allo Stato nel momento in cui fosse terminata la linea dei chiamati alla successione feudale. La lunga storia del feudo si concluse di fatto solo nel 1861, nell’Italia unita.

66 Cesare Magni sostiene che tra Veneto e Lombardia vennero denunciati 2116 feudi, cfr. C. Magni, Il tramonto del feudo lombardo cit., p. 368.

67 Pochi sono gli studi dedicati al ruolo svolto da Romagnosi nell’amministra-zione napoleonica in qualità di pensatore politico; fra questi si ricordino R. Ghirin-ghelli, Gian Domenico Romagnosi e il pensiero politico del Regno d’Italia napoleonico, in Studi in memoria di Cesare Mozzarelli, Vita e Pensiero, Milano, 2008, vol. II, pp. 1033-1044 e L. Mannori, Uno Stato per Romagnosi, vol. II, La scoperta del diritto amministrativo, Giuffrè, Milano, 1987.

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sommArio: Il saggio esamina l’evoluzione legislativa e le trasformazioni culturali in materia di nobiltà feudale introdotte nel Granducato di Toscana tra la seconda metà del Settecento e i primi anni dell’Ottocento. Lo studio dei più significativi aspetti di tipo istituzionale e sociale in materia consente di comprendere la capacità di adattamento delle élite toscane così come il modificarsi del loro complesso sistema di valori. In particolare, si è posto l’accento sul modo in cui l’azione riformatrice della dinastia dei nuovi granduchi Asburgo-Lorena interferì, più o meno direttamente, con lo status, il ruolo, e le modalità di auto-rappresentazione della nobiltà feudale toscana.

PArole chiAve: nobiltà, granducato di Toscana, feudalesimo, privilegi sociali ed economici.

THE FEUDAL NOBILITY IN THE GRAND DUCHY OF TUSCANY OF 18TH AND 19TH CENTURIES: RULES, CHARACTERISTICS AND REPRESENTATION

AbstrAct: The paper deals with the development of laws and cultural transformations related to the feudal issues from the mid 18th century until the beginning of the 19th century. Institutional and social perspectives are bound together in order to reconsider the adaptation of the local élites to a different system of values over the course of the eighteenth century. More specifically, the essay highlights how the reformist actions of the Habsburg-Lorraine dynasty interfered, directly and indirectly, with the status, the role, and the self-representation of the Tuscan feudal nobility.

Keywords: nobility, Grand Duchy of Tuscany, feudalism, social and economic

privileges.

1. Introduzione1

Appare oramai indiscusso il legame esistente tra il feudalesi-mo, nelle sue differenti forme e composite modalità di costituzione, e il potere statuale così come si caratterizzò prima nel dominio

Abbreviazioni utilizzate: Asfi: Archivio di Stato di Firenze; Aspi: Archivio di Stato di Pisa; Hhsaw: Haus-, Hof-, und Staatsarchiv in Wien, Austria; Agsi: Archivo General de Simancas, Spagna.

Marcella Aglietti

LA NOBILTÀ FEUDALE NEL GRANDUCATO DI TOSCANA TRA

SETTE E OTTOCENTO: NORME, CARATTERI, RAPPRESENTAZIONE

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Marcella Aglietti166

fiorentino e, poi, in età granducale1. Il sistema di governo dei Me-dici si consolidò favorendo l’affermarsi di élite territoriali periferi-che legate alla dinastia grazie anche alla creazione di nuovi vincoli feudali, che andarono a sovrapporsi a quelli imperiali di più antica fondazione. Proprio l’utilizzo della concessione di titoli feudali a fini onorifici consentì una trasformazione molto significativa nell’iden-tità dei patriziati toscani e, in minor misura, delle caratteristiche del territorio. La feudalità toscana fu infatti, soprattutto, un feno-meno di rilevanza politica, con modeste ricadute sulle dinamiche economiche2, come confermano anche più recenti studi dedicati alla tarda età medicea e alla prima età lorenese3. Lo illustrava già con chiarezza, nel 1801, un esperto osservatore della realtà eco-nomica come Sismondi, il quale così ricostruiva una evoluzione istituzionale dalle caratteristiche prevalentemente sociali:

Non furono i lavori pubblici dei Medici e gli incentivi che dettero ai contadini che contribuirono ai progressi dell’agricoltura, quanto piuttosto la loro previdenza e la loro politica: decisero di creare una nobiltà terrie-ra, ostentarono disprezzo per il commercio e i commercianti che tennero in molto minore considerazione dei proprietari terrieri, e con misure in cui il benessere del popolo non entrava affatto e che miravano solamente

1 Sul tema, si rimanda a S. Calonaci, Giurisdizione e fedeltà: poteri feudali dentro lo Stato mediceo, «Ricerche Storiche», a. XLIV, n. 2-3 (2014), pp. 179-207, e alla bibliografia ivi citata. Ancora utile G. Pansini, Per una storia del feudalesimo nel Granducato di Toscana durante il periodo mediceo, «Quaderni storici», VII (1972), pp. 131-186; G. Chittolini, La formazione dello Stato regionale e le istituzioni del contado: ricerche sull’ordinamento territoriale del dominio fiorentino agli inizi del sec. XV, in Egemonia fiorentina ed autonomie locali nella Toscana Nord-Occidentale del primo Rinascimento: vita, arte, cultura, Centro Italiano di Studi di storia di Pistoia, Pistoia, 1978, pp. 17-70.

2 I. Polverini Fosi, Un programma di politica economica: le infeudazioni nel Se-nese durante il principato mediceo, «Critica storica», XIII (1976), pp. 76-88; C. Vivoli, Una fonte per la storia del territorio della Toscana nel Settecento: le piante dei feudi, in Istituzioni e società in Toscana nell’Età Moderna, Ministero per i Beni Culturali e Ambientali-Ufficio Centrale per i Beni Archivistici, Roma, 1994, pp. 337-364.

3 E. Fasano Guarini, F. Bonatti (a cura di), Feudi di Lunigiana tra Impero, Spagna e Stati italiani (XV-XVIII secolo), «Memorie della Accademia Lunigianese di Scienze “Giovanni Cappellini”», LXXVIII (2008); A. Savelli, «Presso al confine alieno»: il caso di Camporsevoli, «Ricerche Storiche», a. XLIV, n. 2-3 (2014), pp. 255-270. Di grande utilità anche la tesi dottorale di Silvio Pucci, Il feudo in Toscana nell’età lo-renese: profilo giuridico-istituzionale, discussa per il corso di Dottorato in Storia del diritto, delle istituzioni e della cultura giuridica medievale, moderna e contempora-nea presso l’Università di Siena, nel 1997. Vedasi anche S. Pucci, Nobiltà feudale e riforma comunitativa nel Senese, in L’Ordine di Santo Stefano e la nobiltà toscana nelle riforme municipali settecentesche, Edizioni ETS, Pisa, 1995, pp. 141-164.

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La nobiltà feudale nel Granducato di Toscana 167

all’affermazione del loro potere, salvarono senza difficoltà lo Stato in cui volevano consolidare la loro autorità. Cosimo I, quando fondava l’Ordine di S. Stefano, e i suoi successori quando lo arricchivano, distribuivano nuovi titoli di nobiltà, creavano nuovi feudi, non pensavano che a rinsaldare la loro autorità, servendosi di quella di un Corpo intermedio tra il popolo e il principe e ad accrescere lo splendore della loro corte con i titoli pomposi di cui i loro servitori venivano insigniti [...].

I Capponi, i Pazzi, gli Strozzi, i Corsini e tutti gli altri nobili fiorenti-ni – che erano allora ricchi commercianti – desiderarono trasformarsi in marchesi, comprarono terre e si servirono dei loro immensi capitali per coltivarle […]4.

Agli occhi di Sismondi, solo l’età leopoldina, grazie alle misure adottate in ambito agricolo, aveva saputo far rinascere la ricchezza di quelle terre e l’antica prosperità di Toscana, altrimenti condan-nata alla decadenza. Anche in altri scritti della prima metà dell’Ot-tocento, l’istituto feudale compare ormai come superato, oggetto di tanti e tali interventi durante la seconda metà del secolo preceden-te da risultare grandemente ridimensionato non solo rispetto alle antiche autonomie giurisdizionali, ma anche in termini di prestigio sociale5. Ciò è senz’altro vero, almeno in parte.

Con l’avvento della Reggenza lorenese, il granduca Francesco Stefano – impegnato a Vienna nel suo ruolo d’imperatore – e il gruppo di uomini di sua fiducia a capo del granducato intesero imporre subito una forma di organizzazione amministrativa più efficiente e centralizzata. Un proposito che non poteva coesistere con i troppi diritti giurisdizionali vigenti nelle realtà soggette a vin-colo feudale, dotate di prerogative risultate difficilmente definibili e, spesso, persino d’incerta attribuzione. L’idea di sovranità cui si faceva portatore il nuovo granduca non contemplava più quella forma di delega composita che aveva caratterizzato il potere dei Medici suoi predecessori, e gli spazi di autonomia potestativa con-nessi alle giurisdizioni feudali furono oggetto di specifici interventi. Non parrebbe invece rivelarsi in alcun momento l’intento espresso di ridurre il prestigio sociale che il possesso di un titolo feudale procurava. La nobiltà feudale vide anzi formalmente confermata

4 J.C.L. Simonde de Sismondi, Quadro dell’agricoltura toscana, Edizioni ETS, Pisa, 1995, p. 161 [ed. originale Tableau de l’agriculture toscane, J.J. Paschoud, Genève, 1801].

5 G. Sacchetti, Dizionario legale, 1825, Stamperia Granducale, Firenze, 1825, vol. I, 270-271.

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la legittimità del proprio status privilegiato. Anche Pietro Leopoldo Asburgo-Lorena, granduca dal 1765 al 1790, mirò piuttosto a ri-muovere la permanenza dei vincoli che il rapporto feudale consen-tiva e che si contrapponevano al progetto di promozione dell’eco-nomia agricola e di circolazione delle terre, oltre che a un maggior controllo della fiscalità.

Si trattò, insomma, di una prudente attività riformatrice che non aspirò mai all’abolizione dell’istituto feudale in quanto costi-tutivo di status, bensì mosse nella prospettiva di ridimensionar-ne aspetti e funzioni che ostacolavano una compiuta affermazione dell’autorità statuale. Così, se al chiudersi del XVIII secolo pareva essersi già consunto il credito sociale dei titoli feudali fino a di-venire una mera decorazione onorifica, ciò si dovette a un cam-biamento della mentalità diffusa e all’affermazione di una diversa rappresentazione delle oligarchie locali, accreditate e legittimate in virtù di altre qualità.

Oggetto principale di questo saggio è dunque quello di verifica-re in che modo gli interventi della dinastia lorenese interferirono, tanto direttamente quanto indirettamente, sull’autorappresenta-zione e sulla raffigurazione sociale di quella parte di nobiltà tosca-na in possesso di un titolo feudale6.

2. Questione di sovranità: gli interventi sul piano normativo

Il Granducato di Toscana fu tra i più precoci Stati ove si affer-mò un nuovo sistema amministrativo nel quale gli antichi diritti della feudalità lasciavano spazio a differenti forme di gestione del territorio sotto l’indiscusso controllo del sovrano. L’estrema ete-rogeneità delle prerogative giurisdizionali e fiscali, delle formule d’investitura7, delle qualità territoriali dei possedimenti e delle ef-

6 I primi risultati di queste ricerche sono già apparsi in M. Aglietti, La legge del 1750 e i suoi effetti sulle nobiltà feudali del Granducato di Toscana, «Ricerche Stori-che», a. XLIV, n. 2-3 (2014), pp. 41-55 e, a breve, in Ead., Forme della cittadinanza. Pratiche, norme e rappresentazione nella Toscana dei Lorena, FrancoAngeli, Milano, in corso di stampa.

7 Tra le diverse iniziative di riforma della fine degli anni Quaranta del Settecen-to, un aspetto centrale assunse anche lo studio di una nuova formula, omologata ed uguale per tutti, da adottare nei diplomi d’investitura dei feudi del Granducato: «Sarà un lavoro di poche ore, doppo pubblicata la legge dei feudi ed il regolamento dei tribunali dello Stato, respettare questa confusione dei diplomi e ridurgli in una più breve e chiara forma, l’istessa per tuto il granducato», si scriveva da Firenze all’imperatore, riducendo il testo a solo tre sintetici articoli: il primo con le regole

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La nobiltà feudale nel Granducato di Toscana 169

fettive modalità di esercizio dell’autorità signorile sulle comunità di pertinenza, parvero subito ai nuovi governanti e, in particolare, al ministro lorenese a capo del consiglio di Reggenza Emmanuel de Nay conte di Richecourt, materia delicatissima sulla quale interve-nire con certa urgenza8.

Non era la prima volta che, da Vienna, si era tentato di mette-re ordine alla complessa realtà della mappa dei territori infeudati presenti nel granducato9, tanto più in mancanza di un registro affidabile cui fare riferimento che consentisse di verificare la legit-timità sia dei titoli posseduti, sia dei passaggi ereditari effettuati10. Si trattava, in primo luogo, di riconfigurare nella giusta prospetti-va il principio di sovranità sul quale fondare ogni forma di potere legittimo sul territorio toscano. È evidente come l’alienazione di diritti regali intrinseca alla stipula di un contratto feudale, con la

per la successione, il secondo ove si disciplinava la giurisdizione del feudatario, e il terzo «con gli obblighi del medesimo rispetto agli uomini del feudo», tutto in Hhsaw, Lothringischen Hausarchiv, K 192, cc. 263r-270r, Memoria sopra il nuovo diploma da farsi per l’investitura dei feudi del granducato.

8 Il conte di Richecourt fece espressamente riferimento a una «confusion in-finie» nel descrivere la realtà toscana, in Asfi, Consiglio di Reggenza, 236, cc. nn.

9 Dalla documentazione viennese, i feudi che i Medici avevano acquistato da vassalli italiani dell’Impero erano addirittura sessanta, dei quali però solo dieci ri-sultavano effettivamente conferiti: la Contea di Pitigliano e Sorano acquistata dagli Orsini; Pontremoli, con la sua ampia giurisdizione, venduto al duca Ferdinando da Filippo IV di Spagna; il feudo di Filaterra, lasciato da Manfredo Malaspina al granduca Francesco nel 1574; la Rocca Valsusolina, acquistata da Cosimo I nel 1546 al conte Naietti; Terra Rossa, acquistata da Cosimo II nel 1617 al marchese Fabrizio Malaspina; Lusolo, che il granduca Francesco ebbe da Ercole Malaspina nel 1574; Recco; Lusana, Carolago e Groppoli, tutti e tre feudi acquistati dai Mala-spina nel 1566, nel 1551 e nel 1557 (tutto in Hhsaw, Staatenabteilungen, Toscana, 36, cc. 195r-v). Una ulteriore nota dei feudi imperiali posseduti dal granduca di Toscana, ma per la maggior parte «senza investiture e verun titolo», fu elaborata dalla cancelleria imperiale nel febbraio 1713. Vi si contavano circa 50 località, in Hhsaw, Staatenabteilungen, Toscana, 6, c. 926 r-v. Nel 1747 si elaborò una nuova, accurata classificazione dei feudi esistenti sul territorio granducale, distinguen-doli in tre gruppi principali: imperiali, granducali, e misti (cioè legati a un atto di accomandigia). Quanto ai feudi imperiali, solo nello Stato senese se ne contarono addirittura 27, in stragrande maggioranza istituiti nella prima metà del Seicento e tutti, o quasi, confermati nel 1738, in Hhsaw, Lothringischen Hausarchiv, K 192, cc. 259r – 260r e K. 207, ins. 772, cc. 218-223.

10 Il contratto d’investitura feudale conteneva generalmente l’indicazione delle linee vocate a succedere in caso di estinzione di quella principale o inizialmente indicata. In alcuni casi, ad esempio, vigeva la regola della primogenitura, o anche dell’inalienabilità in caso di estinzione dei chiamati alla successione e, se ciò acca-deva, il territorio infeudato era devoluto all’autorità statuale e poteva essere riasse-gnato o, piuttosto, venduto al miglior offerente.

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cessione da parte del sovrano di autorità giurisdizionale e di esa-zione dei tributi diretti, contrastava con la volontà di istituire uno Stato forte e ben compaginato.

In un memoriale al granduca del 18 marzo 1749, non autogra-fato ma attribuibile al Richecourt, tra le priorità legate alla riforma del sistema feudale appare proprio l’esigenza di affermare l’unicità del principio di sovranità. Non andava per altro dimenticato che il granducato era frutto della mera unione personale di due Stati, quello fiorentino o «Stato Vecchio», e quello senese o «Stato nuovo», formalmente ancora feudo dell’Impero, tra loro autonomi e dotati di indipendenti apparati giuridici e di governo. La felice coinciden-za nella stessa persona del titolo granducale e di quello imperiale pareva offrire l’occasione per trasferire la titolarità di tutte le inve-stiture feudali imperiali al granduca:

Il se trouve un nombre de biens nobles dans le grand duché de Tos-cane dont le possesseurs prétendent être exemptes de la juridiction du grand Duc et la pluspart se regardent comme de petit souverains et in-dépendants de qui que ce soit. Le grand duché tel qu’il est aujourd’hui, avec ses dépendances et appartenances, a été décidé et reconnû incontes-tablement fief de l’Empire, il a été conféré comme tel, avec tous les droits, appartenances et dépendances à SMI grand Duc d’aujourd’hui, qui en a pris possession en vertu de l’investiture éventuelle de sorte que, de droit, tous ces prétendus petits souverains dans ses Etats, comme ses autres vassaux, doivent nécessairement relever de lui. Cette thèse souffre ses exceptions en ceux qui se servient maintenus jusqu’ici dans l’immédiateté de l’Empire, mais s’ils ont négligé dans le tems de faire renouveler leurs in-vestitures, SMI est en droit de les en déclarer déchus et les peut assujettir vassaux immédiats du grand Duché11.

L’intervento riformistico del Richecourt rivolse in più occasioni la propria attenzione alla nobiltà toscana, ma l’oggetto dei diversi provvedimenti adottati non fu quasi mai quella di origine feudale, evidentemente perché ritenuta compatibile con l’idea di una mo-narchia assoluta e centralizzata. Si evince già dalla legge per rego-lamento del privilegio di istituire fidecommessi e primogeniture del 22 giugno 174712. Al paragrafo XXVI, infatti, i feudi erano esclusi

11 Hhsaw, Lothringischen Hausarchiv, k. 192, ins. 247, cc. 271r-272r, 1749: Mémoire importante a examiner.

12 Legge sopra i fidecommissi, e primogeniture da osservarsi nel Granducato di Toscana del di 22 giugno 1747, in L. Cantini, Legislazione Toscana raccolta e illu-

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La nobiltà feudale nel Granducato di Toscana 171

dagli effetti della legge e restavano soggetti a quanto sancito nei documenti d’investitura, così come dalle «leggi e regolamenti» sta-biliti dai precedenti sovrani «ed altri che giudicheremo Noi a pro-posito di fare», stabilendo cioè una eccezione valida non solo per il passato ma anche per il futuro. Si riconoscevano, invece, i diritti dei creditori del feudatario, i quali avrebbero potuto rivalersi sui frutti dei beni infeudati. Anche in occasione dell’elaborazione della legge dedicata alla disciplina dei feudi del 21 aprile 1749, l’azione riformatrice non colpì l’identità e il rango sociale collegati al titolo feudale, bensì mirò a ridurre la sfera della giurisdizione riportan-dola sotto il fermo controllo dello Stato13. Ancora nel 1808, così scriveva il giurista Lorenzo Cantini nella sua monumentale opera di edizione della legislazione toscana:

Questa legge [del 1749] ha per oggetto di liberare i popoli di quei paesi concessi in feudo a qualche Grande, dalla prepotenza de’ feudatari, fra’ quali era possibile che si trovasse alcuno che non curando l’equità, e la giustizia, si abusasse del suo potere, ed è ancora diretta a diminuire l’au-torità di essi feudatari, e riunirla al Sommo Imperante14.

Insomma, il provvedimento era volto a mitigare gli abusi e le prepotenze dei feudatari, non a colpire il ceto feudale in toto, sep-pur si dimostrò senz’altro capace di ridurne «l’autorità». Ancor più esplicito fu Girolamo Poggi, auditore del Magistrato Supremo di Firenze, il quale si riferì alla legge del 1749 come al più efficace strumento per ridurre «ai minimi termini» gli «abusi della vecchia e della nuova feudalità» toscana, limitandone le prerogative rispetto «all’ordine politico», oltre che a quello civile15. La norma, in vero, non sortì a pieno gli effetti sperati, e restò in buona misura inos-servata, ma dovette suscitare nella nobiltà feudale toscana più di qualche preoccupazione. Il console spagnolo de Silva di stanza a Livorno, sensibile cronista degli umori che circolavano tra la popo-

strata, Stamperia Albizziniana, Firenze, 1800-1808, vol. XXV (1806), pp. 362-366.13 Legge sopra i feudi e i feudatari pubblicata in Firenze il dì 21 aprile 1749 ab

incarnatione, in L. Cantini, Legislazione Toscana cit., vol. XXVI (1808), pp. 141-147. Per un maggiore esame di questa legge, si rimanda a F. Diaz, I Lorena in Toscana. La Reggenza, Utet, Torino, 1988, pp. 155-156.

14 L. Cantini, Legislazione Toscana cit., vol. XXVI (1808), p. 147. 15 G. Poggi, Saggio di un trattato teorico-pratico sul sistema livellare secondo la

legislazione e giurisprudenza toscana, Tipografia Bonducciana, Firenze, 1829, t. I, pp. 224-228.

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Marcella Aglietti172

lazione, scrisse in più occasioni della «poca soddisfazione» che si registrava a Firenze, e tra i feudatari, rispetto a quella disposizio-ne16.

La prospettiva non cambia con la legge per regolamento della nobiltà e la cittadinanza, promulgata a Vienna il 31 luglio 1750. Nell’intento di elaborare un diritto nobiliare che trovasse nell’auto-rità del sovrano l’unica fonte costitutiva, la validità del titolo feu-dale fu confermata, individuando piuttosto in altre modalità di no-bilitazione, pur formalmente contemplate, l’elemento problematico cui porre mano17. In particolare, si mirò a colpire la nobiltà civica, basata sulla corrispondenza tra l’accesso al rango privilegiato e il diritto di esercitare le prime cariche pubbliche cittadine, espressio-ne del potere di cooptazione da secoli esercitato dai ceti dirigenti municipali toscani18. Nella capitale dello Stato Nuovo, Siena, ove la legge fu pubblicata il 7 ottobre (sei giorni dopo l’uscita a Firenze), si istituì addirittura solo la classe nobiliare, divisa in patriziato e nobiltà semplice, e non anche quella della cittadinanza come nel resto del Granducato. Secondo l’analisi del nobile Giovanni An-tonio Pecci, poi ripresa da Claudio Donati che ha letto in questa norma la vittoria della «visione gerarchico-feudale del Richecour-t»19, la Reggenza tentò di cancellare con un tratto di penna l’eredità delle antiche istituzioni repubblicane senesi20. I cronisti dell’epoca

16 Agsi, Estado, 5393, lettera informativa inviata al console Odoardo de Silva da Firenze, e da questi a Madrid, in data 26 aprile 1749.

17 La legge fu sottoscritta dal granduca Francesco Stefano di Lorena a Vienna il 31 luglio 1750 e poi pubblicata a Firenze il primo ottobre successivo. Il testo, e l’Istruzione emanata per la sua corretta applicazione, si trovano in L. Cantini, Le-gislazione Toscana cit., vol. XXVI (1806), pp. 231-241. Per un generale studio della norma, il dibattito relativo alla sua elaborazione e ulteriori considerazioni specifiche si rimanda almeno a: M. Verga, Da “cittadini” a “nobili”, lotta politica e riforma delle istituzioni nella Toscana di Francesco Stefano, Giuffrè, Milano, 1990; M. Aglietti, Le tre nobiltà. La legislazione nobiliare del Granducato di toscana (1750) tra magistra-ture civiche, Ordine di Santo Stefano e diplomi del principe, Edizioni ETS, Pisa, 2000 e, più recentemente, C. Rossi, Nobili, patrizi e cavalieri. Contributi alla storia dei ceti dirigenti toscani nel Settecento, Edizioni ETS, Pisa, 2011.

18 D. Marrara, Le giustificazioni della nobiltà civica in alcuni autori italiani dei secoli XIV-XVIII, «Rivista di storia del diritto italiano», LXII (1989), pp. 15-38.

19 C. Donati, L’idea di nobiltà in Italia. Secoli XIV-XVIII, Laterza, Roma-Bari, 1988, pp. 326-332.

20 G.A. Pecci, Lettera sull’antica e moderna derivazione delle famiglie nobili di Siena, s.e., Galipoli, 1764, citato in C. Donati, L’idea di nobiltà in Italia cit., pp. 330-331. Sul Pecci, vedasi anche C. Rossi, Giovanni Antonio Pecci (1693-1768): le vicende familiari, la presenza nell’Ordine di Santo Stefano e il pensiero sulla nobiltà di un intellettuale senese, Edizioni ETS, Pisa, 2003.

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narrano addirittura che a Firenze si era sparso il timore che la nor-ma celasse la volontà di una vera e propria epurazione21. Anche il rappresentante spagnolo a Firenze, Ranieri Vernaccini, riferiva che alla pubblicazione dell’editto aveva fatto seguito tra i nobili confu-sione e sgomento, ogni giorno maggiore22. Altri ancora, decenni più tardi, ribadirono come la prammatica mirasse a smantellare quella «superiorità di fatto» che i nobili feudatari si arrogavano sopra tutti gli altri23. In realtà, nel testo legislativo non vi era nulla di tutto questo. Al contrario, i dati dimostrano una sostanziale corrispon-denza numerica tra i nobili esistenti prima del 1750 e quanti furo-no riconosciuti tali a norma della legge. Ben altra fu evidentemente l’impressione che se ne ebbe al tempo, e gli effetti a livello sociale superarono quelli previsti dalla norma. Su quest’aspetto tornere-mo più avanti.

Il governo intraprese in seguito interventi più incisivi, che ri-guardarono per lo più misure di tipo poliziesco volte a mitigare gli eccessi ai quali si lasciavano andare i responsabili dei domini signorili, provvedendo con maggiore solerzia qualora tali compor-tamenti eversivi avvenissero apertamente contro le autorità statali.

Pietro Leopoldo definì ulteriormente gli effetti delle precedenti normative attraverso numerose circolari e disposizioni, tutte intro-dotte durante gli anni Ottanta e volte a far tacere i così detti «diritti civili» dei feudatari, quali i diritti di pascolo, legnatico e di caccia che ancora si esigevano sui territori dei vassalli, e i vincoli di macinare il grano e frangere le olive nei mulini e frantoi appartenenti al feudata-rio24. Il granduca intervenne, con grande pragmatismo e prudenza, anche tramite disposizioni specifiche volte a correggere, caso per caso, i residui di giurisdizione feudale che ancora sopravvivevano. Così, ad esempio, col rescritto del 27 marzo del 1781 tentò di elimi-nare molti degli abusi esercitati illegittimamente dal casato Giugni

21 G.M. Mecatti, Storia genealogica della nobiltà e cittadinanza di Firenze, s.e., Napoli, 1753-54.

22 Agsi, Estado, 7749, lettera di Ranieri Vernaccini da Firenze a Madrid, in data 10 ottobre 1750.

23 A. Zobi, Storia civile della Toscana dal MDCCXXXVII al MDCCCXLVIII, presso Luigi Molini, Firenze, 1850, vol. I, libro III, pp. 299-300, 304.

24 Si ricordano almeno le circolari emanate il 24 febbraio 1786 (regolamen-tando giurisdizione, requisiti e sindacato dei ministri e dei vicari feudali) e il primo settembre 1787 (poi ripresa dal suo successore con la circolare del 27 dicembre 1794 in materia di giurisdizione nelle cause esistenti tra feudatario e vassalli). La circolare del primo luglio 1788 disciplinò invece la materia dei diritti del feudatario rispetto alle multe e emolumenti giurisdizionali provenienti dal Tribunale Feudale.

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sul territorio del feudo marchionale di Camporsevoli25. Finalmente, con la legge del 23 febbraio 1789, furono soppresse tutte le disposi-zioni che gravavano sui beni feudali e sulla possibilità di disporne. Le riforme leopoldine volgevano all’abolizione di ogni forma di ser-vitù che ostacolasse lo sviluppo delle attività produttive agricole e, seppur la gradualità dell’applicazione non consentì di realizzare una completa affrancazione del territorio, il mondo feudale ricevette un colpo mortale al proprio funzionamento26. È ancora il Poggi a dare la sintesi più efficace dell’azione leopoldina:

Leopoldo, seguendo le orme paterne, fu sollecito sempre più dal can-to suo di diminuire gradatamente e insensibilmente il potere che restava ai feudatari, ora coll’abolire, in occasione della promulgazione dei nuovi regola-menti comunitativi, diverse tasse da cui le Comunità feudali restavano tutt’o-ra gravate in favore dei feudatari, ora col procurare mediante un’amichevole compra e transazione dai Signori stessi, la cessione di tutte le ragioni e diritti feudali ai medesimi competenti, e consolidare così la piena sovranità di queste piccole frazioni del territorio granducale; ora finalmente coll’estender sempre più le prerogative della corona rispetto all’amministrazione della giustizia27.

Anche Lorenzo Magnani, estensore di un saggio non privo di toni encomiastici sui provvedimenti economici introdotti dai gran-duchi lorenesi, scriveva:

In quanto ai feudi, se [Pietro Leopoldo] non abolì interamente i diritti signoriali, li circoscrisse però talmente che i vassalli trovarono sempre nel principe un protettore contro le avanìe dei tirannetti feudali. Era riserba-to ad altri fare scomparire dal corpo sociale questa instituzione nata nei tempo della barbarie28.

Nel maggio del 1808 vi fu l’annessione napoleonica e l’inte-grazione della Toscana, già Regno d’Etruria, all’Impero francese. Il governo a capo dei tre Dipartimenti nei quali fu suddivisa la

25 Decisione VI del Supremo Consiglio di Giustizia nella causa Costantini e Giu-gni, Siena, 29 settembre 1819, in pp. 27-47.

26 Così anche C. Vivoli, Una fonte per la storia del territorio della Toscana cit., p. 343.27 G. Poggi, Saggio di un trattato teorico-pratico cit., p. 229. Lo stesso Poggi ci

ricorda che il granduca acquistò le ragioni del feudo d’Urbech posseduto dai mar-chesi Ginori, il feudo di Chitignano dei conti Ubertini, e i feudi di Calice, Madrigna-no e Ventignano.

28 L. Magnani, Cenni sui provvedimenti economici dei principi lorenesi in Tosca-na, Tipografia Galileiana, Firenze, 1852, p. 32.

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Toscana constatò fin da subito l’esistenza di una oligarchia locale, ancora caratterizzata da una forte identità collettiva, e che traeva le proprie radici dalla proprietà fondiaria29, tutt’altro che scevra dai vincoli di antichi costumi feudali oltre che dall’esercizio del pote-re politico pubblico cittadino30. Non diversamente da chi li aveva preceduti, per portare a termine il complesso piano riorganizzativo amministrativo cui si fecero promotori, anche i francesi ricorse-ro alla collaborazione delle élite locali, contando peraltro sulla so-stanziale accettazione del nuovo corso da parte delle grandi fami-glie aristocratiche31. Infatti, nonostante gran parte dei funzionari scelti dal regime tra le più influenti famiglie toscane annoverasse titoli feudali32, non si registrarono manifestazioni di particolare op-posizione nemmeno a fronte dell’introduzione del Codice napoleo-nico, effettuato fin dal maggio 1808, che aboliva la nobiltà feudale e liberò i beni immobili dai residui vincoli feudali, commendali e fidecommissori.

La misura ottenne al contrario anche il plauso del restaurato granduca il quale, pur abrogando il Code col motuproprio del 15 novembre 1814, al paragrafo 4 ne conservava la soppressione della feudalità in ogni sua forma. In cambio, i granduchi lorenesi esco-gitarono nuovi istituti capaci di rafforzare la centralità dell’autorità regia tramite la concessione di privilegi specifici, dotati di evidente prestigio sociale e, in molti casi, ancora legati alla proprietà terrie-

29 A giudicare dalle fonti dei censimenti effettuati a Firenze durante l’età na-poleonica, quasi la metà degli appartenenti il ceto abbiente si qualificava come «possidente», cioè proprietario terriero, confermando la sostanziale sopravvivenza al vertice della società dell’antica aristocrazia fondiaria fiorentina. Cfr. G. Gozzini, Le cento famiglie: patrizi e notabili fiorentini sotto Napoleone, «Studi storici», n. 2 (1985), pp. 389-410, e in particolare p. 399.

30 J.P. Filippini, Ralliement et opposition des notables toscans à l’Empire Français, «Annuario dell’Istituto storico italiano per l’età moderna e contempora-nea», XXIII-XXIV (1971-71), pp. 331-356. D’interesse, sulle reazioni delle oligarchie italiane e toscane al governo francese, il più recente A. Beaurepaire-Hernandez, 1796-1815: Les élites italiennes entre repli et adaptation au régime français, in S. Guillaume, L. Coste (dir.), Élites et crises du XVIe au XXIe siècle. Europe et Outre-mer, A. Colin, Paris, 2014, pp. 141-151.

31 G. Pansini, I mutamenti nell’amministrazione della Toscana durante la domi-nazione napoleonica, in I. Tognarini (a cura di), La Toscana nell’età rivoluzionaria e napoleonica, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli, 1994, pp. 553-579.

32 Emblematico il caso del consiglio generale del dipartimento del Mediterra-neo ove, di 20 membri, ben 17 erano nobili, molti dei quali di origine feudale, in D. Barsanti, Pisa in età napoleonica. La nascita della nuova mairie, la soppressione dell’Ordine di S. Stefano, la sopravvivenza della vecchia classe dirigente, Edizioni ETS, Pisa, 1999, pp. 19-20.

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ra. Il ricorso alle commende di padronato dell’Ordine dei cavalieri di Santo Stefano, e poi allo strumento delle commende di grazia33, rappresentò per Ferdinando III, e ancor più per Leopoldo II, uno stratagemma efficacissimo per legare a sé i soggetti dimostratisi più fedeli alla dinastia tramite il conferimento diretto di un bene-ficio dotato di più o meno estesi privilegi fiscali34. Talvolta si trattò di vere e proprie promozioni sociali, ma anche i più antichi casati toscani seppero approfittarne sostituendo il titolo feudale con più moderne attribuzioni35.

3. Questione di status: la rappresentazione sociale dei feudatari

Se la legge per regolamento del sistema feudale del 1749 mirò a colpire il particolarismo normativo concorrente al primato gran-ducale, la legge per regolamento della nobiltà del 1750 confermò senza incertezze la legittimità della nobiltà fondata su un titolo feudale, purché si fosse in grado di documentarlo. Del resto, al pari della nobiltà seguita all’ammissione per giustizia nell’Ordine militare di Santo Stefano36, anche quella feudale traeva la propria origine dall’autorità del sovrano. La legge individuò quali «veri no-bili», in primo luogo, «quelli che posseggono o hanno posseduto

33 Sull’istituto delle commende stefaniane restano imprescindibili gli studi di D. Barsanti, Le commende dell’Ordine di S. Stefano nella cartografia antica, Edizioni ETS, Pisa, 1991 e Id., Introduzione storica sulle commende dell’Ordine di Santo Ste-fano, «Quaderni Stefaniani», XVI (1997), Supplemento, pp. 117-129.

34 A. Volpi, La politica privata dei granduchi. Commende di grazia nell’Ottocen-to, in La commenda di grazia dell’Ordine di Santo Stefano nell’Ottocento, Edizioni ETS, Pisa, 2003, pp. 35-53.

35 Suggestivo, sulla capacità delle nobiltà toscane di conservare il proprio pro-tagonismo sulla scena politica a dispetto del riformismo lorenese, T. Kroll, Die Re-volte des Patriziats. Der toskanische Adelsliberalismus in Risorgimento, Niemeyer, Tübingen, 1999.

36 Quanto alla nobiltà cavalleresca, si ricorda che il gran maestro della Religio-ne stefaniana coincideva da sempre con la persona del granduca. Inoltre, l’attenta opera di revisione effettuata nel 1746 sugli statuti, alla quale fecero seguito una innumerevole serie di rescritti correttivi sulle modalità di funzionamento dell’Ordi-ne, aveva riportato saldamente il processo di ammissione sotto il controllo sovrano riducendo, quasi fino ad abolirla del tutto, ogni autonomia decisionale da parte de-gli organi stefaniani. Sui comuni intenti riformistici che produssero, in un intreccio difficilmente scindibile, da un lato la riforma dell’Ordine e dall’altro la redazione della legge per regolamento della nobiltà toscana del 1750, vedasi C. Rossi, Nobili, Patrizi e Cavalieri cit., pp. 9-20, 101-122. Vedasi anche A. Zampieri, Gli statuti dell’Ordine de’ Cavalieri di S. Stefano. Note bibliografiche sulle edizioni a stampa, in Le imprese e i simboli. Contributi alla storia del Sacro Militare Ordine di Santo Stefano P. M. (sec. XVI-XIX), Giardini, Pisa, 1989, pp. 23-38.

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feudi nobili», solo secondariamente menzionava quanti avevano «ottenuto la nobiltà pei diplomi nostri o de’ nostri antecessori» e, in ultimo, coloro che fossero assurti al rango privilegiato attraverso il cursus honorum delle cariche pubbliche cittadine37. Non vi era dunque alcun sovvertimento gerarchico nei confronti della nobiltà feudale, seppur non si riconoscesse alcuna preminenza rispetto alle altre, nemmeno quella, meramente onorifica e giuridicamente irrilevante, della nobiltà patrizia, per acquisire la quale valeva per tutti l’obbligo di dimostrare il godimento di almeno 200 anni inin-terrotti di nobiltà.

Persino l’atteggiamento delle autorità governative nell’applica-zione della legge, che trovò prevalente espressione nei lavori della Deputazione sopra la nobiltà e la cittadinanza incaricata di passare al vaglio i fascicoli presentati da quanti aspiravano all’approvazio-ne della propria condizione38, mostrò tutto l’interesse nel preserva-re i vantaggi che il rapporto feudale offriva nel consolidamento del legame con alcune tra le più antiche famiglie nobili toscane, pur-ché ciò avvenisse nel rispetto di date condizioni. Offre un esem-pio esplicativo il caso dei Suterman. La loro richiesta di ascrizione al patriziato fiorentino si basava sul diploma imperiale col quale, nel 1624, l’imperatore Ferdinando II d’Asburgo aveva dichiarato un avo del comparente, coi suoi discendenti, «capace di feudi». Il casato era però stato aggregato alla cittadinanza fiorentina solo dal 1642, con abilità a risiedere nelle maggiori magistrature dal 1658. La Deputazione si trovò perciò in difficoltà nel riconoscere la ‘nobiltà generosa’, o patrizia, non essendoci il requisito temporale dei 200 anni di anzianità. Pur di non deludere le aspettative dei comparenti, i deputati valutarono di ricorrere all’ascrizione in virtù dell’articolo 22 della legge, che normava le modalità di equiparazio-ne della nobiltà straniera a quella granducale, oppure di parificare il diploma imperiale a quelli medicei visto che si trattava di un diretto antecessore dell’attuale granduca. Alla fine, il conferimento del titolo patrizio fu possibile grazie alle ammissioni alla nobiltà militare del Sacro Romano Impero e dell’Ordine di Malta39.

37 Legge per regolamento della nobiltà e cittadinanza cit., art. I. 38 Cfr. A. Labardi, Un’istituzione della Toscana lorenese: la Deputazione sopra

la nobiltà e la cittadinanza, in «Le Carte e la Storia», 1 (2013), pp. 39-63.39 Asfi, Deputazione sopra la nobiltà e la cittadinanza, 4, ins. 13, cc. nn.

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La documentazione evidenzia fino a che punto gli effetti dell’in-tervento lorenese determinarono una trasformazione in termini di rappresentazione della nobiltà feudale che andò ben al di là delle intenzioni del legislatore. La reazione delle élite toscane si evince dalle modalità con le quali queste risposero all’obbligo di sottoporsi all’esame probatorio del proprio status sulla base dei titoli ritenuti più utili allo scopo. Non vi è qui spazio per entrare nell’analisi mi-nuziosa degli oltre mille fascicoli che furono presentati tra il 1751 e il 1807, basti dire che nella stragrande maggioranza dei casi i nobili toscani preferirono avvalersi di prove diverse dall’investitura feudale ogni qual volta possibile40. Ferma una diffusa resistenza ad adempiere a quanto imposto da una disposizione percepita come vessatoria, e alla comprensibile preferenza a ricorrere a testimo-nianze di più facile reperimento (e più a buon mercato di quanto non fosse produrre un diploma feudale in copia autentica), ci pare comunque plausibile dedurre che tale scelta fu motivata anche dal-la convinzione che quella feudale fosse una componente problema-tica. Ciò forse per due ordini di motivi: il primo di natura politica, ritenendo, a torto o a ragione, che rappresentasse una documen-tazione sempre passibile di contestazioni da parte del governo fio-rentino, soprattutto quando se ne conoscevano le origini incerte o addirittura impossibili da dimostrare (salvo produrre diplomi falsi, come avvenne in qualche caso). Il secondo motivo potrebbe invece trovarsi nella convinzione che quella prova fosse meno rilevante rispetto ad altri elementi identitari e costitutivi di status.

Il fatto che il titolo feudale fosse una modalità residuale tra i percorsi di accesso alla nobiltà toscana era stato già sostenuto da Pompeo Neri fin dai lavori preparatori alla legge del 1750, cui aveva collaborato attivamente. Neri aveva classificato quel «metodo» di aggregazione al ceto nobiliare come proveniente «dalle nazioni set-tentrionali che inondarono in diversi tempi le provincie dell’Imperio Romano e [che], conquistandole, vi stabilirono una forma di gover-no totalmente differente da quello che vi trovarono». L’affermarsi

40 Dall’entrata in vigore della legge, la raccolta e l’analisi dei documenti di attestazione di ceto proseguì senza sosta da parte della Deputazione fino all’interru-zione napoleonica, nel 1807. I lavori ripresero con la Restaurazione e fino all’Unità, ma l’indagine effettuata è stata condotta in maniera esaustiva solo per il primo pe-riodo. A questo proposito, mi sia però consentito di rimandare ai risultati offerti in M. Aglietti, Le tre nobiltà cit., e più recentemente, in Ead., La legge del 1750 e i suoi effetti sulle nobiltà feudali del Granducato di Toscana cit.

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di questo tipo di nobiltà aveva contemplato, per Neri, il dispotismo dei conquistatori sui vinti, con i signori che avevano occupato le campagne e sostituito, sopraffacendoli, gli antichi nobili abitanti le città sconfitte41.

Una qualche alterità della nobiltà feudale rispetto a quella au-toctona si ritrova, alla fine del 1765, anche negli scritti di Pio dal Borgo, patrizio pisano e cavaliere dell’Ordine di Santo Stefano, ove rivestì l’incarico di vice-cancelliere42. Fin dalla loro originaria for-mulazione del 1590, gli statuti stefaniani individuavano un lungo elenco di requisiti da addurre a prova della propria nobiltà e, se la residenza nelle maggiori magistrature cittadine era chiaramen-te menzionata, il possesso di un feudo non appariva affatto. Vi era solo un generico rimando per i cavalieri «oltramontani» a poter «fare le provanze loro secondo che in quei Paesi, di dove traggono l’origine i loro quarti, si fanno», purché fossero riconosciute dagli Statuti dell’Ordine di Malta43. Così, quando dal Borgo si trovò a dover stendere le nuove Istruzioni relative al metodo col quale am-mettere per giustizia gli stranieri, e in particolare gli oltramontani e i tedeschi, annotava:

Sicché in sostanza, fra gl’Italiani e gli Oltramontani non so vedere su questo proposito altra differenza se non che in Italia si prova la nobiltà per lo più con le fedi dei godimenti dei primi onori estratte da’ libri pubblici delle città, perché in Italia suol esservi la nobiltà scritta; là dove dagli Ol-tramontani suol provarsi la nobiltà con altri equivalenti documenti come sono godimento di feudi, impieghi nobili, posti di molto riguardo nelle corti e nel militare e simili44.

41 P. Neri, Discorso sopra lo stato antico e moderno della nobiltà di Toscana, scritto l’anno 1748, in Jo.B. Neri Badia, Decisiones et Responsa Juris, Ex Typo-graphia Allegrini, Pisoni et Soc., Florentiae, 1769-1776, vol. II, pp. 550-643 e ripub-blicato in M. Verga, Da “cittadini” a “nobili” cit., pp. 405-465. Le citazioni sono tratte da quest’ultima edizione, alle pp. 427 e 429.

42 Su Pio dal Borgo, S. Silicani, Il patrizio pisano Pio dal Borgo, Avvocato e Vi-ce-Cancelliere dell’Ordine dei Cavalieri di Santo Stefano, «Quaderni Stefaniani», XI (1992), pp. 23-41; D. Barsanti, M. Fanucci Lovitch, I dal Borgo di Pisa tra XIV e XIX secolo, Edizioni ETS, Pisa, 2003 e C. Rossi, La famiglia dal Borgo di Pisa nell’Ordine di Santo Stefano (1641-1859), Edizioni ETS, Pisa, 2009.

43 Statuti dell’Ordine dei Cavalieri di Santo Stefano ristampati con l’Addizioni in tempo de’ Serenissimi Cosimo II e Ferdinando II e della Sacra Cesarea Maestà dell’Imperatore Francesco I Granduchi di Toscana e Gran Maestri, C. Bindi, Pisa, 1746, p. 104.

44 Asfi, Consiglio di Reggenza, 698, ins. 2, fogli riguardanti la Religione di San-to Stefano, «Provanze di nobiltà che devon fare gli Oltramontani specialmente Tede-

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Questa coincidenza tra la caratterizzazione nobiliare di origine feudale e l’appartenenza geografica non toscana parrebbe confer-mata, ad esempio, dal fatto che tutti i cavalieri boemi che vestirono al tempo dei granduchi Pietro Leopoldo e Ferdinando III giustifica-rono la propria nobiltà in virtù del possesso di un diploma feudale imperiale, suscitando le perplessità dell’Auditore per la anomalia di tali prove rispetto a quelle consuete45. Insomma, anche tra i cavalieri stefaniani, l’esistenza di un titolo feudale rappresentava una eccezione, e se negli statuti vi si trovava qualche riferimento, lo si doveva alle disposizioni più antiche e, spesso, modificate già nel corso del XVII secolo. Così, se il giuramento «che i feudatari […] prestano a’ loro Principi» era l’unico tipo di vincolo consentito a un cavaliere senza necessità di una espressa licenza del gran maestro46, dalla prima alla seconda stesura statutaria si era rifor-mata una norma che riguardava i feudatari e che lascia intuire un maggior rigore e, insieme, una minor considerazione verso i titolati di nobiltà feudale. La modifica riguardava il divieto di ammettere figli illegittimi: nella versione cosimiana si prevedeva una eccezione per i discendenti «d’alcun signore di titolo, come sono duchi, prin-cipi, marchesi o conti di grande Stato», o foss’anche «d’altri signori, ancor che habbino giurisdizione», invece nelle seconde addizioni, volute da Ferdinando II Medici nel 1665, tale possibilità fu elimi-nata e ridotta ai soli figli di «Principi supremi, o del loro sangue»47.

L’esame della rappresentazione della nobiltà feudale toscana non risulterebbe completa senza almeno un cenno alla sua com-ponente femminile. Sulla base della documentazione inviata alla Deputazione granducale ex lege del 1750, l’istituzione feudale ap-pare però come una realtà esclusivamente maschile. Non si men-zionano donne, si registrano solo alcuni sporadici riferimenti in merito a passate modalità di trasmissione dei beni infeudati e dei

schi per esser ammessi all’Ordine di Malta e di S. Stefano». Vi si acclude una lettera di Pio dal Borgo del 13 dicembre 1765 al cavalier Francesco Siminetti, segretario del consiglio di Stato e dell’Ordine stefaniano, relativa al metodo e prove che sogliono richiedersi agli oltramontani pretendenti l’abito stefaniano per giustizia (Istruzione relativa al metodo da osservarsi quando gli oltramontani e specialmente i tedeschi desiderano d’essere ammessi all’abito di Santo Stefano per giustizia).

45 D. Barsanti, Fra Pisa e Praga. L’Ordine di S. Stefano in Boemia, in La Boemia e l’Ordine di Santo Stefano, Edizioni ETS, Pisa, 2005, pp. 31-59 e Aspi, Ordine di Santo Stefano, 2096, cc. 14-15, dalle osservazioni dell’auditore stefaniano Giovanni Neri datate 29 dicembre 1785.

46 Statuti dell’Ordine dei Cavalieri di Santo Stefano cit., p. 310.47 Ivi, pp. 91 e 93.

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titoli connessi. Un’assenza che merita senz’altro qualche conside-razione, in quanto nella storia del Granducato le occasioni nelle quali anche le donne avevano avuto accesso, in qualità di titolari o di supplenti, al sistema feudale, non erano certo mancate48. Non troppo diversamente da altre realtà italiane, il pluralismo giuridico caratterizzato da fenomeni di compenetrazione tra potere pubblico e privato aveva reso spesso indispensabile ricorrere alle donne per conservare intatti patrimoni familiari e sfere d’influenza49. Eppure, ferma la capacità femminile di modellare i processi di successione, negoziando e modificando i percorsi di accesso alla nobiltà alla luce dei meccanismi di maternage50, la preoccupazione di affer-mare la legittimità di status da parte del patriziato fiorentino – ove maggiore era la presenza di titoli feudali – parrebbe aver messo a tacere tale eventualità, accentuando una situazione di subalterni-tà comune a tutte le esponenti della nobiltà toscana51. La nobiltà della marchesa Eleonora Capponi non era altro che il pallido ri-flesso di quella del marito, il defunto marchese Francesco Cap-poni, e la donna ottenne di provare la propria condizione solo per

48 Non era insolito, in Toscana, trovare feudi trasmissibili anche a soggetti estranei al cespite familiare designato così come, seppur con minor frequenza, a linee femminili.

49 Sul tema, vedasi L. Arcangeli, S. Peyronel (a cura di), Donne di potere nel Ri-nascimento, Viella, Roma, 2002; M.T. Guerra Medici, Donne di governo nell’Europa moderna, Viella, Roma, 2005, e F. Cantù (a cura di), I linguaggi del potere nell’età barocca, Viella, Roma, 2009, vol. 2, Donne e sfera pubblica. Oltremodo utile, in ter-mini comparativi, E. Novi Chavarria, Donne, gestione e valorizzazione del feudo. Una prospettiva di genere nella storia del feudalesimo moderno, «Mediterranea - ricerche storiche», 31 (2014), pp. 349-364. Tra gli abbondanti studi dedicati al caso toscano, si ricordino almeno i più recenti G. Calvi, R. Spinelli (a cura di), Le donne Medici nel sistema europeo delle Corti. Atti del convegno internazionale, Firenze-San Dome-nico di Fiesole, 6-8 ottobre 2005, Edizioni Polistampa, Firenze, 2008, voll. 2, e i due saggi F. Angiolini, Donne e potere nella Toscana medicea. Alcune considerazioni, e A. Savelli, Tra interessi dinastici e equilibri locali. Caterina Medici Gonzaga governa-trice dello Stato Nuovo (1627-1629), entrambi in M. Aglietti (a cura di), Nobildonne, monache e cavaliere dell’Ordine di Santo Stefano. Modelli e strategie femminili nella vita pubblica della Toscana granducale, Edizioni ETS, Pisa, 2009, rispettivamente alle pp. 15-32 e 35-56.

50 M.T. Guerra Medici, Potere e poteri femminili tra fonti normative e prassi po-litica, in G. Calci, R. Spinelli (a cura di), Le donne Medici nel sistema europeo delle Corti cit., pp. 35-50, e A. Franganillo Álvarez, Diplomacia formal e informal: noticias y regalos en torno a la princesa Isabel de Borbón (1615-1621), in C. Bravo Lozano, R. Quirós Rosado (eds.), En tierras de confluencias. Italia y la Monarquía de España (siglos XVI-XVIII), Albatros Editores, Valencia, 2013, pp. 129-141.

51 M. Aglietti, Un’illusione per status. L’inferiore nobiltà delle donne nella Tosca-na dei Lorena, in M. Aglietti (a cura di), Nobildonne, monache e cavaliere dell’Ordine di Santo Stefano cit., pp. 99-120.

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aver in comune col coniuge lo stipite agnatizio52. Ancora, persino quando i comparenti adducevano tra le prove del proprio lignaggio benefici feudali, per le componenti femminili della famiglia l’occa-sione della distinzione, evidente sintomo della vicinanza alla Corte e al principe, rivestiva forme diverse. Così, di Maddalena Suares, moglie del marchese Ruberto Capponi e dama dell’arciduchessa, si menzionavano i doni conferitile dal Medici consistenti in 2000 scudi di dote e in un podere trasmissibile ai discendenti; mentre di Lucrezia, figlia del conte Ugo della Gherardesca, si ricordava il pre-mio dotale di mille scudi in donativi ed abiti ricevuti dall’elettrice palatina53. Una interessante eccezione, forse meritevole di ulteriori ricerche, è rappresentata dal caso di Joseph-Etienne De Poirot, che ottenne dalla Deputazione il riconoscimento del titolo feudale di Belmont, in Lorena, eretto nel 1736 dalla duchessa reggente di Lorena e di Bar, Elisabeth-Charlotte, niente meno che la madre del granduca54. Quella di Poirot fu però una procedura davvero ano-mala: segretario della legazione di Lorena a Vienna, già nobilitato per grazia da Leopoldo di Lorena, fu ammesso alla nobiltà semplice fiorentina, assieme alla moglie, con l’opzione riservata alla nobiltà straniera, di fatto una equipollenza di status graziosamente con-cessa per quei lorenesi che, legati alla Corte da rapporti privilegiati, desideravano fissare il proprio domicilio in Toscana.

4. Qualche considerazione conclusiva

L’attività riformatrice della seconda metà del Settecento non procedette verso una diretta abolizione dell’istituto feudale ma, con una serie di interventi prudenti, ottenne l’effetto di ridimen-sionarne il ruolo e il significato, rendendo i titoli nobiliari feudali meno prestigiosi, socialmente ritratti con caratteristiche quali la «prepotenza», l’inefficienza e il sopruso del diritto. La diversa orga-nizzazione amministrativa dello Stato, affermatasi soprattutto con

52 Asfi, Deputazione sopra la nobiltà e la cittadinanza, 2, ins. 3. Per altro, fu ri-conosciuta nobile gentilizia in virtù di un avo riseduto quale gonfaloniere per giusti-zia. In caso di vedovanza, colei che, senza discendenti legittimi, non fosse provenuta da un casato paterno di nobile lignaggio, avrebbe perso ogni privilegio di status, cfr. M. Aglietti, Un’illusione per status cit., pp. 106-109.

53 Asfi, Deputazione sopra la nobiltà e la cittadinanza, 2, ins. 3 bis. I Capponi erano marchesi di Mompeo (nello Stato della Chiesa) e di Magliano (nel senese); ai della Gherardesca apparteneva la contea di Castagneto, Bolgheri e Donoratico.

54 Asfi, Deputazione sopra la nobiltà e la cittadinanza, 20, ins. 24.

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La nobiltà feudale nel Granducato di Toscana 183

l’età leopoldina, finì per spostare altrove il valore pubblico e il rico-noscimento sociale che era stato del feudatario. Costui, un tempo rispettato in quanto funzionale a un certo tipo di contesto istituzio-nale, fu in breve tempo sostituito con altre tipologie di soggetti che più rispondevano alle nuove forme nelle quali l’autorità statuale si articolava. L’operazione fu tale da far sì che, pur senza scalfire il valore encomiastico di un titolo divenuto meramente onorifico, le nobiltà feudali, quando non convertite in più moderne forme sim-boliche di appartenenza all’oligarchia, finirono per esser sempre meno legate all’esercizio politico e di governo del territorio.

Questa impostazione ci pare nella realtà delle cose già nel 1797. A seguito della riforma delle Comunità voluta da Pietro Leopoldo55, i magistrati cittadini si videro riconosciuta la facoltà di ammettere al primo ceto nuovi soggetti, purché al solo effetto «dei godimenti co-munitativi e non mai ai rapporti della nobiltà del Granducato e delle prerogative che l’accompagnano»56. Le Comunità, cioè, potevano co-stituire nobiltà cittadine i cui privilegi e diritti politici restavano rigi-damente vincolati al contesto urbano di riferimento. Quanto invece ai nobili titolari di feudo, chiariva la Deputazione da Firenze con una apposita informazione, erano da considerarsi un gruppo a sé, nient’affatto assimilabile a queste élite dirigenti. Così, se si assicura-va ai feudatari una condizione di appartenenza al rango privilegiato, gli si precludeva l’accesso alla nobiltà civica, e quindi all’esercizio dei diritti politici, in tutte le città del granducato57. Non si metteva in discussione la sopravvivenza del privilegio feudale, ma l’attività pubblica e l’esercizio del potere politico si spostavano altrove.

Per meglio comprendere quanto fosse cambiato sia l’atteggia-mento dell’autorità centrale rispetto alla disciplina di riconosci-mento, sia la percezione che le popolazioni locali avevano assunto nei confronti di quel tipo di élite, concludiamo con un ultimo caso,

55 In estrema sintesi, questa riforma amministrativa modificava il governo del territorio affidandone l’esercizio ai possessori di beni stabili, aprendo il monopolio delle attività politiche locali ai proprietari fondiari e grandi contributori, anche se non nobili. Si trattò di un processo di adattamento avviato nel 1772 e proseguito, comunità dopo comunità, fino al 1786. Sul tema, vedasi B. Sordi, L’amministrazio-ne illuminata. Riforma delle comunità e progetti di costituzione nella Toscana leopol-dina, Giuffré, Milano, 1991.

56 Asfi, Deputazione sopra la nobiltà e la cittadinanza, 124, cc. 1v-2r, A. R. a di 7 settembre 1797. Per schiarimento della legge del 1750 per l’ammissione alla nobil-tà. Risoluta favorevolmente sotto dì 15 detto.

57 Dal parere della deputazione del 25 febbraio 1804 in merito all’ammissione della famiglia Salucci, in Asfi, Deputazione sopra la nobiltà e la cittadinanza, 72, ins. 7.

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quello dei baroni Nicola e Carlo Comhaire de Sprimont, e della loro sorella Teresa. I tre fratelli, originari di Liegi in Belgio, richiesero l’ascrizione alla nobiltà di Colle Val d’Elsa tra la fine del 1845 e l’inizio del 1846. Si presentarono alla Cancelleria della Comunità colligiana pretendendo, oltre allo status nobiliare, anche il ricono-scimento del titolo baronale. Le autorità toscane ammisero la no-biltà, ma rifiutarono il titolo per la mancanza del diploma sovrano provante il reintegro in tale condizione dopo l’abolizione, avvenuta in Francia come in Toscana, di dette onorificenze. I Comhaire, tra-mite il proprio emissario, comunicarono che, stando così le cose, consideravano la propria domanda respinta in toto, rifiutandosi di pagare i diritti dovuti alla Comunità di Colle per l’aggregazione. La tensione crebbe anche tra la cancelleria colligiana, che premeva per acquisire tra i propri contribuenti soggetti tanto illustri (e so-prattutto benestanti), e la Deputazione sopra la nobiltà che, inve-ce, temporeggiava, allarmata dalla delicatezza della questione. Una cosa era concedere un riconoscimento di nobiltà in mancanza di documentazione esaustiva, si replicava da Firenze, ma «non può obbligarsi il principe ad accordare un titolo nel modo che uno desi-dera», valutando persino l’ipotesi di ricorrere alle autorità diploma-tiche francesi per chiedere maggiori delucidazioni sulle origini dei comparenti. L’affare si trascinò per alcuni mesi finché i Comhaire, sotto minaccia di esser denunciati per insolvenza e temendo il dan-no di reputazione che sarebbe seguito a un pubblico rifiuto del ti-tolo, nel novembre del 1846 pagarono quanto dovuto al Magistrato di Colle senza altro pretendere58.

Il modo in cui le autorità toscane risolsero l’affare, e la natura delle motivazioni che si celano dietro lo scontro tra Comunità e Deputazione, lasciano intendere quanto, pur nella superiore os-servanza della sovranità del principe cui restava l’ultima parola in materia, questo tipo di titoli risultasse oramai irreversibilmente anacronistico.

58 Asfi, Deputazione sopra la nobiltà e la cittadinanza, 106, ins. 15.

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sommArio: Il rapporto tra conservazione e innovazione è un tema oggetto delle più recenti ricerche sulle feudalità nel Mezzogiorno moderno. Il concetto di Feudalesimo mediterraneo può trovare un’utile applicazione nel Mezzogiorno moderno. In questo saggio sono rappresentati i seguenti elementi di questo concetto: 1) lo stato feudale territoriale; 2) il binomio possesso terriero - giurisdizione; 3) la sociologia del feudo; 4) il rapporto tra stato e feudalità.

PArole chiAve: conservazione, innovazione, feudalesimo mediterraneo.

BETWEEN TRADITION AND INNOVATION: THE LAST RESEARCHES ABOUT THE FEUDALITY IN EARLY MODERN “MEZZOGIORNO”

AstrAct: The relationship between tradition and innovation is a topic of the latest researches about feudalities in the Early Modern “Mezzogiorno”. The concept of Mediterranean Feudalism can find an useful application in the Early Modern “Mezzogiorno”. In this article the following elements of this concept are represented: 1) the “Stato Feudale Territoriale”; 2) the relationship between the land property and the jurisdiction; 3) the sociology of the “modern” feudality; 4) the relationship between modern State and feudality.

Keywords: tradition, innovation, Mediterranean feudalism.

1. L’oscillazione del pendolo

A che cosa può alludere l’uso dei concetti di conservazione e innovazione in storiografia? E soprattutto è possibile l’opzione esclu-siva per uno dei due in qualsiasi pratica di ricerca scientifica? Sono le domande che mi sono posto nell’introdurre alcune riflessioni sullo stato attuale degli studi sulla feudalità nel Mezzogiorno moderno.

Ho già avuto modo di osservare che questo tema ha goduto di fortuna assai altalenante negli ultimi decenni1. Una lunga stagione di studi tra gli anni Cinquanta e gli anni Settanta del secolo scorso,

1 A. Musi, Introduzione a A. Musi, M.A. Noto (a cura di), Feudalità laica e feudalità ecclesiastica nell’Italia meridionale, Associazione Mediterranea, Palermo, 2011, pp. 11-12.

Aurelio Musi

TRA CONSERVAZIONE E INNOVAZIONE: STUDI RECENTI SULLA

FEUDALITÀ NEL MEZZOGIORNO MODERNO

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ispirata da una forte motivazione etico-politica e dal primato della storia economico-sociale, non poteva non collocare al centro della sua attenzione la questione feudale nel Mezzogiorno come variabile decisiva del rapporto sviluppo-sottosviluppo: la “questione feuda-le” faceva tutt’uno con la “questione meridionale”. È soprattutto a questa stagione di studi che si deve il progresso straordinario delle conoscenze sui meccanismi di produzione, sulle aziende agrarie, sui bilanci feudali, sulla composizione della rendita, sui rapporti tra reddito giurisdizionale e reddito proveniente dalle voci di più proprio sfruttamento agricolo, sui rapporti tra baronaggio e comu-nità locali, sulle forme della rivolta antifeudale nella campagne del Mezzogiorno. Venivano alla luce e utilizzati fonti di straordinario interesse come i relevi. Negli stessi anni venivano pubblicate anche le prime ricerche di storia regionale e di storia di grandi famiglie dell’aristocrazia, nelle quali capitoli rilevanti erano costituiti dalla geografia feudale, dal paesaggio agrario, dalle stratificazioni sociali interne al baronaggio, dalle dinamiche tra vecchi nuclei e nuovi ingressi nelle sue file: il dibattito su “rifeudalizzazione” o “nuovo equilibrio feudale” tra Giuseppe Galasso e Rosario Villari fu sicu-ramente un momento altamente rappresentativo sia del livello de-gli studi sul tema sia dei suoi motivi ispiratori2. Successivamente il venir meno della tensione etico-politica sul Mezzogiorno come questione nazionale e il successo di certo revisionismo tendente ad affermare il carattere desueto della questione meridionale, con-siderata come un’invenzione, quasi una figura retorica non corri-spondente alla realtà storica, a contestare la sostanziale unità del Mezzogiorno come un’area a forte dislivello di sviluppo rispetto al Settentrione, negando in sostanza il divario economico tra Nord e Sud, a rivendicare in contrapposizione al cosiddetto “meridiona-lismo classico” l’esistenza di molti Sud, caratterizzati da un’eco-nomia fortemente differenziata, hanno provocato di conseguenza il venir meno dell’interesse della storiografia per il tema feudalità, considerato da qualcuno solo un fantasma ideologico immagina-rio. La pubblicazione nel 2011 del volume Feudalità laica e feuda-lità ecclesiastica nell’Italia meridionale, a conclusione di un Prin omonimo da me coordinato, ha ravvivato il dibattito storiografico e provocato nuove ricerche, di cui si dà conto in questa introduzione

2 Per una più approfondita analisi di questa congiuntura storiografica, cfr. A. Musi, Il feudalesimo nell’Europa moderna, il Mulino, Bologna, 2007.

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Tra conservazione e innovazione: studi recenti sulla feudalità 187

e nei saggi contenuti nel volume. Oggi possiamo fermare l’oscilla-zione del pendolo tra centralità e marginalità del tema feudalità nel Mezzogiorno d’età moderna, ragionando proprio sull’esigenza di ri-costituire il nesso tra tradizione-conservazione e innovazione. Non bisogna distruggere una gloriosa tradizione di studi sulla storia del-la feudalità né avvertiamo l’esigenza, dopo aver fatto tabula rasa, di rifondare alcunché: secondo una moda che sta affermandosi anche presso giovani e meno giovani ricercatori, assai generosi nel coltivare la pars destruens della storiografia cosiddetta tradiziona-le, ma assai deludenti nel proporre la pars costruens alternativa a tutto ciò che si vuol distruggere. Abbiamo piuttosto bisogno di storicizzare quella tradizione, comprenderla nei suoi termini e nelle sue fasi differenti, collegarla allo spirito del tempo. Quella tradi-zione così intesa sta in rapporto di endiadi con l’innovazione, che riguarda fonti, domande, oggetti, prospettive di ricerca.

Due esempi, due libri recenti possono spiegare meglio i diversi modi di intendere il rapporto tra conservazione e innovazione in tema di feudalità del Mezzogiorno. Il primo è il libro di Luca Covino sul governo del feudo3, che prenderò in considerazione più avanti. Qui invece voglio riferirmi in particolare alla prefazione di Anna Maria Rao. La sua autrice tende a radicalizzare la distanza tra l’or-mai classica opera di Galasso sulla Calabria del Cinquecento4 e la ricerca di Covino. Le radicali novità, cioè le innovazioni, sarebbero per la Rao: l’attenzione per gli orientamenti, i linguaggi, le pratiche delle famiglie feudali; lo sforzo di andare oltre l’immagine assen-teista tradizionale del baronaggio meridionale; la sottolineatura del ruolo della giustizia come artefice della composizione dei conflitti; lo studio della tenuta degli archivi feudali per il governo del territorio. La Rao lamenta infine l’assenza, anche negli studi recenti, di ricer-che sull’attività giudiziaria dei tribunali feudali5. Un maggiore equi-librio tra conservazione e innovazione avrebbe consentito all’autrice della prefazione di valorizzare gli apporti dello studio di Covino non in contrapposizione ma in continuità con gli indirizzi della ricerca avviata proprio dal libro di Galasso del 1967: insomma il problema non è “dimenticare Galasso”, ma “storicizzare Galasso”.

3 L. Covino, Governare il feudo. Quadri territoriali, amministrazione, giustizia. Calabria Citra (1650-1800), FrancoAngeli, Milano, 2013.

4 G. Galasso, Economia e società nella Calabria del Cinquecento, Guida, Na-poli, 1967.

5 A.M. Rao, Prefazione a L. Covino, Governare il feudo cit., pp. 14-16.

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L’altro esempio è il volume curato da Elisa Novi Chavarria e Vittoria Fiorelli6 che, fin dal titolo, Baroni e vassalli. Storie moder-ne, allude a un altro modo di intendere il rapporto tra conservazio-ne e innovazione storiografica. Alcuni decenni fa il titolo del libro sarebbe stato: Proprietari e contadini, con allusione alla centralità del feudalesimo nella storia di lunga durata della questione meri-dionale. Oggi, sollecitati da domande, fonti, categorie, prospetti-ve differenti, la titolazione rinvia a tutte le questioni che, come si vedrà nel seguito di questa introduzione e nei contributi del pre-sente volume, non mettono radicalmente in discussione la tradi-zione storiografica, ma la valorizzano entro un contesto differente e plurale, come si evince dall’altra articolazione del titolo Storie mo-derne. Il pluralismo e la differenziazione nella prospettiva italiana, ad esempio, trovano un riscontro nella tripartizione, proposta nel volume e che riprende un mio suggerimento, tra un feudalesimo proprio, residuale ed esaurito.

Dai risultati e dal dibattito, suscitato dal Prin del 2007, sia-mo poi pervenuti alla formulazione della categoria di feudalesimo mediterraneo o, più precisamente per riprendere il titolo di questo volume, feudalesimi nel Mediterraneo. Il concetto è nato nella sto-riografia medievistica come indicatore dei caratteri comuni a un sistema di produzione. L’applicabilità di questo concetto ai secoli dell’Europa moderna7 vuole cercare di definire non tanto un siste-ma di produzione «quanto i tratti distintivi di una storia sociale del potere che, nella lunga durata della giurisdizione feudale, nono-stante le sue profonde trasformazioni rispetto ai secoli del Medio-evo, ha avuto una variabile importantissima e fortemente condi-zionante le vie della modernità di una parte consistente del nostro continente»8 e di altre aree che affacciano sul Mediterraneo. Gli studi più recenti hanno cercato di approfondire le articolazioni più importanti del concetto di feudalesimo mediterraneo che possono essere così schematizzate:

– lo stato feudale territoriale, un insieme cioè che presenta ca-ratteristiche abbastanza comuni e ricorrenti come la sostanziale unità del complexum feudale garantita dalla titolarità di un lignag-

6 E. Novi Chavarria, V. Fiorelli (a cura di), Baroni e vassalli. Storie moderne, FrancoAngeli, Milano, 2011.

7 Cfr. A. Musi, Feudalesimo mediterraneo e Europa moderna: un problema di storia sociale del potere, «Mediterranea - ricerche storiche», 24 (2012), pp. 9-22.

8 Ivi, p. 9.

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gio, l’aspirazione del feudatario ad imitare fisionomia, funzione e prassi dell’amministrazione pubblica, la gestione aziendale e am-ministrativa del territorio;

– il binomio possesso terriero-giurisdizione, che forma la fisio-nomia “moderna” del feudalesimo mediterraneo, «tiene insieme il señorío spagnolo, i baroni o signori di vassalli dei regni di Napoli, Sicilia e Sardegna, la signoria rurale francese», altre forme di feuda-lità mediterranea non europea e «si afferma come un vero e proprio regime delle terre e degli uomini, con una diffusione straordinaria del merum et mixtum imperium, un insieme di funzioni delegate da parte del sovrano e di funzioni di natura amministrativa e fiscale»9;

– una particolare sociologia della feudalità ricostruibile tra la fine del Quattrocento e il Settecento, secolo della “grande trasfor-mazione”;

– un rapporto tra Stato e feudalità, che è identificabile come un altro tratto comune del feudalesimo mediterraneo, e che può essere definito come la via del compromesso tra soggetti ed enti eserci-tanti poteri e funzioni analoghe sullo stesso territorio: la dinamica del compromesso comporta momenti di collusione e momenti di collisione nella misura in cui non si è ancora realizzato il primato del potere pubblico sugli altri poteri della società (siamo nell’epoca dello Stato giurisdizionale).

2. Lo stato feudale territoriale

Giuseppe Cirillo, nel ricostruire la mappa degli stati feudali territoriali dal Cinque al Settecento nel Regno di Napoli, ne ha in-dividuati oltre 80, collocati prevalentemente nelle due province ca-labresi, nelle province campane, in quelle abruzzesi e in parte della Basilicata10. Le fonti inquadrano questi aggregati, composti da una o più università, come stati territoriali, dotati di un corpo consisten-te di comunità e di territori, con città, terre e casali dalla diversa tipologia. Essi svolgono funzioni giurisdizionali, il barone titolare coordina una vasta rete di suffeudi, stimola nuove forme di ter-ritorializzazione, garantisce l’unità del territorio attraverso l’unità delle competenze giurisdizionali delle corti di giustizia, gerarchizza

9 Ivi, p. 15.10 Cfr. G. Cirillo, Spazi contesi. Camera della Sommaria, baronaggio, città e

costruzione dell’apparato territoriale nel Regno di Napoli (secc. XV-XVIII), Guerini, Milano, 2011, t. I, pp. 83 sgg.

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i centri compresi nello stato e tale gerarchia è riconosciuta dal po-tere centrale. Anche la vita economica di queste realtà va studiata nell’ottica e nella dimensione dello stato feudale territoriale.

Gli studi recenti hanno arricchito il quadro complessivo con ricerche e spunti originali. Lo stato feudale dei Carafa di Maddalo-ni è stato studiato da Francesco Dandolo e Gaetano Sabatini11. Al centro del ducato è Maddaloni, che è anche la testa amministrativa dello stato territoriale. Analizzando la struttura economica della giurisdizione, gli autori osservano che tra gli anni Venti e gli anni Settanta del Seicento, come riflesso della congiuntura negativa, le rendite provenienti dai diritti signorili superano quelle agricole. Nel Settecento avranno un peso minore. Tranne che nei periodi di crisi e dopo la rivolta del 1647-48, è possibile registrare l’alta incidenza delle rendite provenienti da fabbricati. Ancora: il processo di terri-torializzazione induce a rilevare la marginalità dei feudi periferici anche per l’erosione della rendita e la centralità dell’area pianeg-giante collocata a nord di Napoli12.

Giulio Sodano, ponendo al centro della sua ricerca lo stato feudale degli Acquaviva d’Atri13, rileva che in esso la ricchezza bur-gensatica è generata dalla ricchezza feudale che trasferisce sulla prima le attività economiche più redditizie, l’allevamento, il valore del palazzo napoletano, degli arredi e dei libri. L’opzione degli Ac-quaviva per l’armentizia è anche dettata dall’ascesa dei prezzi della lana e dall’alto costo della manodopera agricola.

Assai interessante dal punto di vista dei processi di territoria-lizzazione è il caso dello stato di Caserta studiato da Maria Anna Noto14. Si tratta di quella che in un mio lavoro ho chiamato “cit-tà di casali”. A caratterizzarla sono la scarsa prevalenza politica, urbanistica e demografica del centro urbano rispetto ai casali; la gestione dell’universitas da parte dei rappresentanti dei casali; l’in-

11 F. Dandolo, G. Sabatini, Lo stato feudale dei Carafa di Maddaloni. Genesi e amministrazione di un ducato nel Regno di Napoli (secc. XV-XVIII), Giannini, Napoli, 2009, II ed. Napoli 2010.

12 Cfr. pure Idd. (a cura di), I Carafa di Maddaloni e la feudalità napoletana nel Mezzogiorno spagnolo, Edizioni Saletta dell’Uva, Caserta, 2013.

13 G. Sodano, Da baroni del Regno a Grandi di Spagna. Gli Acquaviva d’Atri: vita aristocratica e ambizioni politiche, Guida, Napoli, 2012.

14 M.A. Noto, Dal principe al re. Lo “stato” di Caserta da feudo a Villa Reale, (xecc. XVI-XVIII), Ministero per i Beni e le Attività Culturali - Direzione Generale per gli Archivi, Roma, 2012.

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Tra conservazione e innovazione: studi recenti sulla feudalità 191

terdipendenza economica, produttiva tra di essi; la formazione di quartieri di lignaggio; i fitti circuiti di patronage delle élite; la preva-lenza di sistemi oligarchici.

Il passaggio dall’egemonia prima reggina, poi feudale, alla for-mazione comunale è analizzato da Giuseppe Caridi15. Il dominio feu-dale dei Carafa sui territori calabresi di Gallico e Sambatello, che subentrano a metà Seicento al possesso di Reggio, dura fino all’e-versione della feudalità nel 1806: da casali di Reggio, dunque, a ba-ronia dei Carafa. Ma, in linea con gli studi di Cirillo, Caridi dimostra come le formazioni comunali di Gallico e Sambatello agli inizi del XIX secolo non siano il risultato di un processo esterno alle dinami-che territoriali degli stati feudali o in opposizione ad essi.

La prospettiva della lunga durata degli stati feudali territoriali è in grado di offrire risposte anche per capire meglio il rapporto passato-presente delle diverse realtà del Mezzogiorno d’Italia. Un esempio fra i tanti, suggerito dalle ricerche coordinate da Giovanni Brancaccio16. Ancora oggi è possibile riconoscere negli assetti ter-ritoriali l’eredità storica di due regioni limitrofe, ma tra loro assai differenti: gli Abruzzi, che tra XV e XVIII secolo hanno visto la pre-valenza di stati feudali di notevoli dimensioni, e il Molise che, nello stesso periodo, ha visto la prevalenza di microsignorie.

3. Possesso terriero e giurisdizione

Nel volume di Rossella Cancila, Autorità sovrana e potere feu-dale nella Sicilia moderna17, l’autrice riflette sulla lunga durata dell’ordinamento cetuale in Sicilia: anche lo Stato amministrati-vo tra XVIII e XIX secolo ne è condizionato. La storia della giuri-sdizione feudale in una prospettiva diacronica consente di meglio analizzare il rapporto tra il potere pubblico e il baronaggio. Il ruolo di Alfonso il Magnanimo costituisce, ancora nel corso del Sette-cento, un punto di rifermento. Nell’epoca spagnola, poi, il rappor-to tra Stato e feudalità è caratterizzato dall’equilibrio difficile tra collisione e collusione: la Cancila adotta qui una prospettiva da

15 G. Caridi, Ai margini della città. Dall’egemonia reggina e feudale ai comuni di Gallico e Sambatello (XV-inizi XIX secolo), Falzea, Reggio Calabria, 2010.

16 G. Brancaccio (a cura di), Il feudalesimo nel Mezzogiorno moderno. Gli Abruz-zi e il Molise (secoli XV-XVIII), Biblion, Milano, 2011.

17 R. Cancila, Autorità sovrana e potere feudale nella Sicilia moderna, Associa-zione Mediterranea, Palermo, 2013.

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me suggerita in uno studio complessivo sul feudalesimo nell’Europa moderna. Lo ius siculum e la storia costituzionale siciliana di chiara matrice baronale e antiregalistica si differenzia dalla tradizione giuri-dica napoletana che, fin dal primo Cinquecento, ha teso a difendere le prerogative del potere pubblico e a limitare i poteri baronali. Nel 1740 il giurista siciliano Carlo Di Napoli sostiene che la giurisdizione feu-dale è un diritto originale e fondamentale. Solo col viceré Caracciolo si ebbe una svolta. Il Caracciolo dové misurarsi con la contraddizione interna allo schema politico-istituzionale dell’isola, fondato sul dua-lismo fra i poteri accentrati nel viceré e una macchina statale divisa fra organi istituzionali e giunte rappresentative cetuali: una struttu-ra policefala, che avrebbe assai condizionato gli sviluppi successivi. Le decisioni politiche più importanti avevano bisogno del consenso e del sostegno della Giunta di Sicilia, egemonizzata dal baronaggio. Nel 1782 la Giunta si pronunciò per la soppressione del S. Uffizio, consi-derando che il rito segreto era in contraddizione con la “civile libertà” dei sudditi, e rese possibile il decreto abolitivo del 16 marzo 1782. Due anni dopo la stessa Giunta rigettò il progetto del catasto. Qua-le fu dunque il rapporto fra Caracciolo e il baronaggio siciliano? Si trattò del momento più alto della collisione tra baronaggio e Corona. La giurisdizione baronale sempre più veniva considerata come un’u-surpazione dei diritti della sovranità: era necessario rimuoverla. Ma il baronaggio serrava le fila: argomentava contro opponendo alla visione conflittuale della polemica regalista una visione collaborativa, in cui i feudatari venivano presentati come braccia della sovranità e dunque al suo servizio. A questa ambigua dialettica fra collisione e collusione faceva in realtà riscontro, su un piano più generale, una visione as-solutamente opposta del potere: agli occhi di Caracciolo, come risulta dalle sue lettere ad Acton, le ragioni dello Stato dovevano decisamente prevalere su quelle di assemblee di privati; agli occhi dei baroni sici-liani, erano piuttosto in gioco gli interessi della nazione rappresentata contro il dispotismo vicereale. Caracciolo guardava all’Europa: la ri-forma delle comunità feudali e i decreti contro la giurisdizione feudale si ispiravano al modello di Giuseppe II; la riforma municipale, ispirata all’equilibrio tra poteri locali e poteri statali, al modello di Leopoldo di Toscana. Lo stesso decreto abolitivo del S.Uffizio si inseriva nel qua-dro della politica asburgica: nel 1774 erano stati soppressi i tribunali inquisitoriali di rito romano nel ducato di Milano e nel 1782 Pietro Leopoldo di Toscana aveva assunto un analogo provvedimento.

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Con il viceré Caramanico (1786-1795) parve che anche in Si-cilia si attuasse l’aspirazione di Gaetano Filangieri: la “filosofia in soccorso de’ governi”. Già con Caracciolo il pensiero riformatore aveva avuto un nuovo impulso: Rosario Di Gregorio e Francesco Paolo Di Blasi erano stati preziosi sostegni al nuovo assolutismo. Nei primi anni del viceregno Caramanico la tendenza continuò: Balsamo fu chiamato alla cattedra di Economia agraria, Di Gre-gorio a quella di diritto pubblico, al De Cosmi fu affidata la ri-organizzazione scolastica. Sulla scia dell’impulso riformatore del Caracciolo, continuò il censimento dei demani comunali, nel 1788 furono abrogati i diritti privativi dei baroni e, estendendo alla Sici-lia la normativa napoletana, fu stabilita la devoluzione al fisco dei feudi senza eredi. Ma il progetto di riforma della Giunta di Sicilia fallì e, come scrisse Valsecchi, «il piano del catasto fu seppellito» in coincidenza con una rilevante ripresa baronale.

Anche nel caso del Regno di Napoli ricerche recenti gettano luce sulla storia della giurisdizione feudale. Covino si concentra su tre famiglie feudali: i Serra, i Firrao e i Pignatelli. Studia l’organigram-ma feudale, le forme di azione politica del signore sul territorio, l’attività di un tribunale baronale, attraverso atti giudiziari, sup-pliche, ecc. Di particolare interesse sono le istanze dei signori per «il buon governo politico ed economico dello stato». Regole scritte, formalizzate impongono la dipendenza dell’apparato di governo dal signore. Rigide gerarchie e controlli incrociati interessano l’agente generale del barone. Covino mette pure in evidenza le difficoltà nel reclutamento del personale feudale. Ancora nel Settecento il feu-datario domina sulle comunità soggette: è il principale referente giudiziario e cura la rappresentazione simbolica del suo potere.

Al governo del feudo nel Mezzogiorno continentale tra XVI e XVIII secolo dedica una ricerca Antonio Di Falco18. Ponendo al centro del suo studio la categoria di Stato giurisdizionale, ossia la considerazione della coesistenza di una pluralità di poteri che interagiscono sullo stesso territorio e sulle medesime competenze, in condizioni di alternanza e/o di coesistenza tra conflitto e colla-borazione, l’autore non vede opposizione, ma integrazione tra Stato e feudalità nel Regno di Napoli: il personale di governo dei feudi si colloca all’intersezione dei due mondi. A differenza della Francia e

18 A. Di Falco, Il governo del feudo nel Mezzogiorno moderno (secc.XVI-XVIII), Terebinto edizioni, Avellino, 2012.

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della sua più importante carica periferica, gli Intendenti, nel Regno meridionale Di Falco rileva l’assenza di coordinamento del governo pubblico della periferia. Il controllo politico della periferia è affida-to al barone e ai suoi governatori. Lo straordinario potere locale del baronaggio, fondato sull’ampliamento della giurisdizione come contropartita della cessione del potere politico alla monarchia, non ha consentito la creazione e lo sviluppo di un organo istituziona-le come quello degli Intendenti in Francia, capace di svolgere un ruolo decisivo nel rapporto tra centro e periferia e di coordinare le funzioni politico-amministrative. E nemmeno le Udienze provin-ciali sono state in grado di svolgere questa funzione. Bisognerà attendere il decennio napoleonico, vero spartiacque nella storia del Regno di Napoli, perché la situazione muti sensibilmente rispetto al passato. La Corona spagnola promosse a Napoli un processo di trasformazione del baronaggio, tale da assegnargli la funzione de-legata di amministrazione della giustizia in periferia e di principale mediazione tra il sovrano e la vita locale delle comunità. A partire da queste premesse, l’indagine di Di Falco affronta le questioni legate al governo del feudo: il funzionamento delle corti feudali, i meccanismi di reclutamento del personale, il confronto tra Regno di Napoli, Regno di Sicilia, Stato pontificio, Spagna nell’esercizio della giurisdizione, le carriere di alcune famiglie del Regno di Napo-li particolarmente legate al governo del feudo. La prassi dei proces-si civili e criminali nelle corti feudali segue largamente la pratica della composizione e transazione pecuniaria. È questo un ulteriore strumento nelle mani del baronaggio per intensificare la patrimo-nializzazione del feudo, spingere l’acceleratore sulla rendita da giu-risdizione piuttosto che su quella proveniente dallo sfruttamento della terra. Il controllo politico della periferia da parte del signore si svolge soprattutto attraverso il mercato delle patenti che carat-terizza la politica di reclutamento del personale feudale. Ma su questo terreno entrano in gioco altri elementi: la politica di patro-nage, l’alleanza con esponenti di primo piano dell’amministrazione centrale che favoriscono le carriere di governatori e altri ufficiali delle corti feudali. Dalla prospettiva comparativa “mediterranea” emergono altri caratteri. Il caso dello Stato della Chiesa è partico-lare: qui, ovviamente, i legami tra Curia Pontificia e curia baronale erano stretti. Per il Regno di Napoli, come hanno dimostrato gli studi di Aurelio Cernigliaro, la distinzione tra titolarità ed eserci-

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zio effettivo di poteri giurisdizionali si precisa anche all’interno del feudo. Nell’età carolina si diffonde il principio: “Barones dicuntur regii officiales”. Da un lato la feudalità si adopera ad introdursi nella struttura centrale dello Stato e la Corona favorisce tale in-serimento per attuare una politica centripeta; dall’altro la stessa amministrazione periferica subisce un processo di assimilazione e di adattamento ai criteri dell’accentramento e dei controlli sovra-ni. Anche in Spagna l’alta nobiltà era la candidata naturale alle funzioni statali di governo e il suo potere territoriale ne faceva un organismo privilegiato per una migliore penetrazione delle istitu-zioni statali. Ma in Spagna la conflittualità tra señorío e comunità è più accentuata che altrove19. Per la Sicilia, secondo le ricerche di Rossella Cancila, sono più ampie le concessioni alla feudalità del merum et mixtum imperium: il giustiziere locale, il capitano, sot-trae di fatto la baronia alle prerogative del giustiziere provinciale di nomina regia, l’appello alla Magna Regia Curia resta solo per i reati più gravi. L’ultimo capitolo del libro di Di Falco è dedicato alle carriere. L’area di riferimento è costituita dalle province di Princi-pato Citra e Ultra. I percorsi sono assai differenti e articolati. La famiglia Del Mercato di Laureana oscilla tra la pratica commerciale e la pratica burocratica. I Bruni di Bagnoli Irpino sono patrizi in città e governatori nel Regno. La famiglia cilentana dei Cecchi uti-lizza gli spazi dell’amministrazione del feudo per entrare nelle file del baronaggio. Dalla piccola nobiltà urbana al governo baronale è il percorso della famiglia Pisacane di Angri. I De Clario di Eboli annoverano nella loro famiglia patrizi e dottori in legge. Sono qui descritte le vicende che preparano l’ascesa di quella particolare borghesia ottocentesca, formatasi all’ombra del feudo e destinata a pesare non poco sulle modalità del passaggio al capitalismo nel Mezzogiorno d’Italia.

19 Per un’analisi della storiografia spagnola sul señorío rinvio ad A. Musi, Il feudalesimo nell’Europa moderna cit. Si veda inoltre D. García Hernán, El gobierno señorial en la Castilla Moderna. La presión y concesión nobiliaria en sus documentos (siglos XVI-XVIII), Biblioteca Nueva, Madrid, 2010. L’autore analizza in particolare il ruolo delle istruzioni e delle ordinanze di governo, le concrete competenze del governo signorile, il rapporto tra istituzioni e incarichi di governo dell’amministra-zione signorile, i destinatari dell’azione dei signori, il profilo dell’assistenza sociale e la cura ad essa assegnata nelle ordinanze e istruzioni per il “buon governo”. Di particolare interesse è la sottolineatura della mescolanza di competenze pubbliche e private che si rispecchia nell’ambigua terminologia e nella contraddittoria nomen-clatura documentaria.

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4. Sociologia del feudo

Come già ho scritto altrove20, per sociologia del feudo intendo il contesto sociale entro cui si iscrive il fenomeno feudale: l’origine, la composizione e le dinamiche del baronaggio, le sue strategie fami-liari, il sistema di valori, rappresentazioni e stili di vita, resistenze e conflitti. Nelle aree che possiamo comprendere nella categoria di feudalesimo mediterraneo sono riscontrabili alcun tratti comuni di sociologia feudale: «la genesi e la formazione di grandi signorie tra il Trecento e il Quattrocento; la progressiva estensione della giurisdizione; la pratica dell’abusivismo; l’equilibrio tra continuità e ricambio sociale; la fondamentale omogeneità nei comportamen-ti economici e nei rapporti tra signori e comunità, riscontrabile sia nel nucleo storico sia nei nuovi arrivati al titolo; il feudo come obiettivo, aspirazione e culmine esistenziale sia per i ceti di origi-ne nobile sia per quelli di origine non nobile; l’essenza dello stato signorile territoriale come centro di potere, sede di funzioni ammi-nistrative dirette e indirette, dotato di un articolato indotto econo-mico e sociale»21. E ancora: l’adozione di un sistema di successione ereditaria che garantisse la continuità della grande proprietà nobi-liare di generazione in generazione.

Alcuni di questi tratti sono confermati in studi recenti. L’origi-ne, la composizione e le dinamiche sociali dei titolari di feudo sono stati oggetto in particolare delle indagini di Elena Papagna sulla Terra di Bari22, di Giuseppe Galasso23, di Aurelio Musi24 e di Luca Covino25 sulla Calabria spagnola.

In Terra di Bari a metà Quattrocento è abbastanza esiguo il numero di famiglie feudali, prevalentemente formate da nobiltà di origine guerriera. Alla metà del Cinquecento il panorama appare assai più articolato: alla nobiltà guerriera si aggiungono la nobiltà

20 A. Musi, Il feudalesimo nell’Europa moderna cit.21 Ivi, p. 195.22 E. Papagna, Organizzazione del territorio e trama nominativa della feudalità

in Terra di Bari (secoli XV-XVIII), in B. Salvemini, A. Spagnoletti (a cura di), Territori, poteri, rappresentazioni nell’Italia di età moderna. Studi in onore di Angelo Massafra, Edipuglia, Bari, 2012, pp. 69-112.

23 G. Galasso, Economia e società cit.; Id., La Calabria spagnola, Rubbettino, Soveria Mannelli, 2012.

24 A. Musi, Il Regno di Napoli e le nobiltà calabresi nella prima età moderna, in A. Anselmi (a cura di), Collezionismo e politica culturale nella Calabria vicereale, borbonica e postunitaria, Gangemi editore, Roma, 2012, pp. 35-46.

25 L. Covino, Governare il feudo cit.

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di servizio, mercanti e affaristi. Si accentua altresì il legame fra baronaggio e patriziati cittadini. Nel corso del Seicento più intensa è la presenza di mercanti e speculatori soprattutto genovesi. La Papagna conferma l’equilibrio tra stabilità e novità del possesso signorile, già segnalato da Galasso nel suo volume sulla Calabria del Cinquecento. Per il Settecento Papagna parla di una nuova so-ciologia della feudalità a ridosso di Bari, caratterizzata dalla fitta presenza di ingressi nelle sue file di commercianti locali e ammini-stratori cittadini, ricchi imprenditori esterni alla provincia.

Sulle persistenze e le trasformazioni della feudalità calabrese ritorna Giuseppe Galasso in un volume recente26. I fenomeni più importanti, riscontrati dall’autore per il XVI secolo, sono la mer-cantilizzazione e la frammentazione del feudo, l’intensificazione dell’acquisizione venale dei titoli, la presenza massiccia di spagnoli e forestieri, la reintegra e l’ampliamento delle competenze feudali, il superamento della crisi finanziaria di fine secolo27. Vecchio e nuovo coesistono nella struttura, nelle dinamiche e nei comportamenti del baronaggio calabrese, che consolida, a volte amplia il suo potere, passa dalla gestione diretta alla gestione indiretta dei patrimoni, af-fidandola spesso a mercanti e stranieri, estende il ricorso all’affitto e realizza un maggiore equilibrio tra entrate giurisdizionali e entrate agrarie, mercantili e manifatturiere. Il tutto è ottenuto attraverso una maggiore pressione feudale sulla base sociale28.

Ho affrontato questi stessi temi in un mio studio sulle nobiltà calabresi. Anche le province calabresi sono segnate dall’impatto dell’insediamento feudale angioino e nella prima età moderna dal dominio di una grande casata, i Sanseverino di Bisignano. Feudali-tà e città costituiscono i due protagonisti della storia calabrese tra Quattro e Cinquecento. Le conseguenze delle capitolazioni di Atri-palda per l’economia e la società calabresi furono assai rilevanti: la restituzione delle terre al nucleo storico dell’aristocrazia feudale napoletana; l’equilibrio fra restituzioni e compensazioni; la reinte-gra alla Corona di alcune città; la concessione di mercedi e grazie al personale spagnolo29. In sostanza, tra Quattro e Cinquecento, i

26 G. Galasso, La Calabria spagnola cit.27 Ivi, pp. 46 sgg.28 Ivi, pp. 56-57.29 Cfr. N. Cortese, Feudi e feudatari napoletani della prima metà del Cinquecen-

to, Società Napoletana di Storia Patria, Napoli, 1931.

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motivi di continuità prevalgono su quelli di discontinuità sia nel rapporto tra Monarchia e feudalità sia nella sociologia del baro-naggio calabrese. Il peso anche politico della feudalità calabrese è confermato dalla presenza nel 1507 di esponenti di primo piano nel Consiglio Collaterale come Andrea Carafa, conte di Santa Seve-rina, Ettore Pignatelli, duca di Monteleone e Giambattista Spinelli, principe di Cariati30. Il consolidamento delle posizioni del baronag-gio è appena scalfito dall’integrazione di personale amministrativo spagnolo nelle file della feudalità. Le capitolazioni di Atripalda co-stituiscono così un ottimo punto di visuale per gettare lo sguardo sia retrospettivamente sugli ultimi decenni del Quattrocento sia sul “lungo Cinquecento” calabrese. Rispetto ad altre province del Regno di Napoli quelle calabresi mostrano una più solida continu-ità del potere feudale che dal Quattrocento, periodo di formazione dei grandi stati, giunge fino all’eversione del 1806. Agli inizi dell’Ot-tocento città regie erano Cosenza, Scigliano, Amantea, Catanzaro, Taverna, Tropea, Stilo e Reggio, con i relativi casali. Tutto il resto, e cioè l’83% del territorio calabrese, era in mano alla feudalità che era titolare di giurisdizioni nelle stesse città regie La geografia feu-dale, puntualmente ricostruita da Galasso per la fine del Quat-trocento e i primi decenni del Cinquecento e integrata con alcune messe a punto dagli studi più recenti, consente di riflettere su al-cuni elementi non sempre tenuti in considerazione dalla storiogra-fia. Analizzando i blocchi degli stati feudali calabresi tra Quattro e Cinquecento, Galasso osservava come le università riuscissero ad incrinarne la compattezza, amministrando e controllando alcuni cespiti di entrate feudali. I signori compensavano quasi sempre tali perdite, costituendo vere e proprie enclaves feudali in territorio demaniale e controllando cespiti delle università31: e basti pensare all’esempio di Reggio32. Strategie complesse, dunque, quelle atti-vate per la conservazione e il consolidamento degli stati feudali in Calabria. Così, se diversi rami di una stessa famiglia insistono sul medesimo territorio come i Caracciolo tra le signorie della Calabria

30 G. Caridi, La Calabria nei secoli XVI e XVII: politica, territorio e società, in A. Anselmi (a cura di), La Calabria del viceregno spagnolo: storia arte architettura urbanistica, Gangemi editore, Roma, 2010, p. 56.

31 G. Galasso, Economia e società cit., pp. 3-4.32 Ivi, p. 36.

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meridionale33, un’altra importante famiglia, titolare di un grande stato in altra provincia del Regno come i Carafa duchi di Nocera, possiede la contea di Soriano in Calabria34.

Lo stato feudale diventa sempre più una vera e propria rete, un sistema. La sua origine si colloca tra il Quattro e il Cinquecento. Si tratta di una tendenza da me studiata in un’area del Principato Citeriore, lo stato di Mercato San Severino35. Anche in Calabria la rete di suffeudi consente certo l’ingresso di nuovi gruppi nell’uni-verso feudale. E, tuttavia, i suffeudi non sono un limite al pote-re della feudalità storica calabrese. Essi consentono piuttosto la costruzione di una costellazione di fedeltà in grado di garantire il controllo economico-sociale del territorio feudale attraverso la partecipazione alla sua gestione di piccola nobiltà e ceto civile lo-cale. Così in Calabria «come suffeudatari e amministratori delle maggiori casate feudali i nobili di città appaiono assai spesso come satelliti della feudalità»36.

Galasso ha scritto che lo sgretolamento dello stato dei Bisigna-no nella seconda metà del Cinquecento «non è un paradigma della storia sociale di quel periodo»37. Questo giudizio è in parte vero se si osserva che importanti famiglie del baronaggio calabrese non solo non subiscono contrazioni patrimoniali, ma crescono e dimo-strano una sorprendente stabilità fino al 1806 e oltre. Ha ragione dunque Galasso a scrivere che tra il XV e il XVI secolo si consoli-da «il nerbo della vecchia aristocrazia storica calabrese, destinata, fino alla soppressione del regime feudale nel 1806, a conservare titoli e prerogative e a restar presente tra i grandi nomi della so-cietà meridionale anche dopo quella data»38. Basta elencarli questi nomi: i diversi rami dei Caracciolo e dei Carafa, alcuni rami dei Sanseverino, i Pignatelli, i Belmonte, i d’Avalos d’Aquino, ecc. Tut-tavia è altresì vero che la vicenda dei Sanseverino di Bisignano non è un unicum nella storia del Regno: basti ricordare il caso di altri Sanseverino, principi di Salerno, e la fine del loro stato a metà del Cinquecento che provoca una sensibile ristrutturazione della ge-

33 Ibidem.34 Ivi, p. 33.35 A. Musi, Mercato San Severino. L’età moderna, Plectica, Salerno, 2004.36 G. Galasso, Economia e società cit., p. 82.37 Ivi, p. 83.38 Ivi, p. 43.

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ografia feudale soprattutto nella provincia di Principato Citeriore. La crisi e lo sgretolamento del patrimonio dei Bisignano non han-no significato un sostanziale ricambio della feudalità. Il baronag-gio di più antico lignaggio e maggiormente radicato nel territorio della regione da più lunga durata convive con un baronaggio più recente, formato da personale spagnolo, operatori finanziari indi-geni e, soprattutto, stranieri, personaggi provenienti dall’apparato centrale e periferico dello Stato, famiglie di più recente nobilitazio-ne. E la carta feudale della Calabria Ulteriore, cioè meridionale, conferma il dato. Si tratta di una «feudalità mista in cui, tuttavia, la parte della vecchia nobiltà feudale è ancora di gran lunga pre-ponderante e in cui la vecchia nobiltà deve bensì adattarsi ad un generale ridimensionamento della sua posizione politico-sociale, ma lo compensa con una intensificata affermazione delle proprie possibilità nella sfera che resta libera ad essa e che è tale da sol-lecitare mercanti e principi forestieri a procurarsi i suoi stessi ti-toli (…) L’essenziale è comunque che resti ben chiara la necessità di non estendere meccanicamente al terreno economico-sociale la sconfitta che, con l’avvento degli Asburgo nel dominio del Regno, indubbiamente toccò alla feudalità sul terreno politico; di scorgere e mettere in tutta la sua evidenza la permanente sfasatura tra la vita delle province e l’azione di governo promanante dalla capitale; di intendere la continuità del primato sociale della feudalità; di ri-conoscere la straordinaria opportunità che la rivoluzione dei prezzi offre in una regione a struttura agraria dominante, esportatrice di prodotti alimentari e di materie prime, ai detentori dei maggiori patrimoni fondiari; di individuare la logica del processo per cui, in una lunga fase di espansione dell’economia feudale, i maggiori profittatori della crisi di singole famiglie feudali e dell’immigrazio-ne del baronaggio dalla periferia (e quindi dal diretto governo dei suoi patrimoni) nella capitale, con tutte le conseguenze che esso comporta, saranno piuttosto mercanti e affaristi forestieri che ope-ratori locali»39. Soprattutto i complessi feudali della Calabria Ultra entrano prepotentemente nel mercato tra la metà del Seicento e l’eversione della feudalità. Il fenomeno interessa ben 22 “stati” feu-dali su 59. In Calabria Citra 28 su 65. Dei 124 complessi feudali regionali a metà Seicento, il 40% è soggetto a trasformazioni deri-vanti dalla commercializzazione, che consentono l’ingresso di nuo-

39 Ivi, p. 34.

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vi gruppi regnicoli e stranieri nelle file della feudalità40. Il fenomeno, tuttavia, non investe le più importanti famiglie feudali: in alcuni casi la commercializzazione investe solo una sezione marginale del patrimonio feudale. Sono soprattutto i piccoli aggregati feudali della Calabria Ultra ad essere investiti dal mercato. È possibile ricostruire una sociologia dei nuovi acquirenti? La ricerca è stata compiuta da Fausto Cozzetto. Un consistente gruppo è costituito da importanti e note famiglie del patriziato cosentino, quasi tutte ascritte al patri-ziato nella seconda metà del Cinquecento. È soprattutto il ceto dei dottori protagonista del fenomeno. Ad attirare le famiglie cosentine sono quasi esclusivamente i feudi collocati sul Tirreno e sulle zone collinari della valle del Crati: le stesse controllate dalla grande feu-dalità. Ma, secondo un gioco delle parti e una tacita divisione degli interessi, lo scontro è evitato perché il nucleo storico dell’aristocra-zia feudale calabrese non partecipa al mercato.

Oggi riusciamo a inquadrare meglio il problema delle feudalità calabresi in età moderna perché disponiamo da quasi mezzo secolo dell’opera di Giuseppe Galasso, Economia e società nella Calabria del Cinquecento: un vero modello di storia regionale che rilancia in Italia con originalità una fortunata stagione del dibattito storiogra-fico degli anni Sessanta del secolo scorso. Come ha scritto Maurice Aymard41, Galasso legge, sulla scala provinciale del Mezzogiorno, fenomeni di straordinario respiro storico e storiografico: il forte au-mento, a partire dagli anni 1550, del prezzo del grano e le difficol-tà di approvvigionamento non soltanto delle popolazioni urbane (le più documentate), ma anche delle masse contadine costrette a comprare almeno una parte del loro pane; i limiti di un modello di sviluppo centrato su un’agricoltura specializzata che produce per l’esportazione, più ancora che per il mercato locale, seta, zucche-ro, olio, vino e frutta; la mediazione commerciale di mercanti per la maggior parte stranieri (genovesi, milanesi, toscani, veneziani, spagnoli), che condividono con i baroni e l’oligarchia municipale il credito, codificato dal sistema della voce, ai produttori e control-lano tutti i circuiti della commercializzazione; la debolezza delle manifatture locali per la trasformazione dei prodotti, e il ricorso

40 Ricavo questi dati da F. Cozzetto, Problemi e tendenze della feudalità ca-labrese nel XVII e XVIII secolo, in A. Musi, M.A. Noto (a cura di), Feudalità laica e feudalità ecclesiastica cit., pp. 411 sgg.

41 Mi riferisco a M. Aymard, Rileggendo la Calabria, in A. Musi, L. Mascilli Migliorini (a cura di), L’Europa e l’altra Europa. I libri di Giuseppe Galasso, Guida, Napoli, 2011, pp. 43-50.

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all’importazione per i tessuti di alta e media qualità, gli oggetti di metallo, la carta, il vetro, ecc; il peso crescente delle richieste finanziarie della Corona destinate alle spese militari per la difesa contro gli ottomani prima, e poi della guerra dei Trent’anni, che spingono la Monarchia ad alienare beni demaniali, diritti di giusti-zia, titoli nobiliari, concessioni varie e pure il reddito delle imposte esistenti o nuove, e che obbligano le amministrazioni delle univer-sità ad accumulare i debiti e ad alienare tutto o parte del loro pa-trimonio fondiario e delle loro gabelle; l’impoverimento di una parte crescente del ceto rurale e la crisi dei massari. È in questo ampio contesto, caratterizzato da un complesso considerevole di variabili, che Galasso colloca la vittoria finale dei baroni, dei loro alleati, che condividono il controllo della terra e della sua gestione, del potere locale e del mercato finanziario in Calabria. È a partire da questo modello, e dai successivi studi di Augusto Placanica, che sono sta-te possibili le ricerche regionali sulle famiglie feudali calabresi di Giuseppe Caridi, Fausto Cozzetto ed altri.

In sintesi si può ora meglio configurare la dimensione plurale delle feudalità calabresi durante la prima età moderna. Una so-ciologia del baronaggio regionale, sicuramente rappresentativa di tipologie e linee di tendenza che investono l’intero Mezzogior-no d’Italia, ci presenta quattro categorie. La prima è costituita dai grandi stati territoriali appartenenti al nucleo storico della feuda-lità calabrese (Bisignano, Caracciolo, Carafa, Pignatelli, Belmonte, d’Avalos d’Aquino, ecc.): indebitamento e crisi finanziaria a fine Cinquecento investono solo una minima parte di questa categoria che, in larga maggioranza, supera la congiuntura negativa. Solo in qualche caso la crisi finanziaria colpisce in misura irreversibile i patrimoni feudali. Generalmente il baronaggio attiva una serie di strumenti che consentono il superamento, variabile per quantità e qualità, della crisi: il ricorso al fedecommesso e al altre strategie patrimoniali e matrimoniali; ecc. Altro effetto del ricorso all’indebi-tamento è l’integrazione dei genovesi nella vita feudale del Regno di Napoli. La seconda categoria è formata da personale feudale di origine spagnola di più recente formazione. La terza categoria è quella degli operatori finanziari stranieri, soprattutto genovesi. La storiografia sul Mezzogiorno moderno, le storie regionali e di fa-miglie baronali sono abbastanza convergenti sulla periodizzazione della tendenza genovese all’infeudamento. Intorno alla metà del Cinquecento la penetrazione feudale non è ancora diretta, ma in-

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diretta per così dire. La speculazione dell’internazionale genove-se investe soprattutto sia la privatizzazione delle imposte dirette dello Stato (i “fiscali” in particolare) sia la possibilità di entrare nell’universo feudale attraverso la commercializzazione di alcune entrate baronali, di funzioni e di diritti come dogane, pesi e misure, portolanie, fondaci, mastrodattie, ecc. Tra il XVI e il XVII secolo si verifica l’ingresso massiccio di figure mercantili genovesi nel mon-do feudale delle province del Mezzogiorno. A metà Seicento poi il consolidamento dei patrimoni feudali, di veri e propri stati e, in alcuni casi, il coronamento dell’integrazione nella società di ordini del Regno di Napoli attraverso l’ascrizione ad uno dei seggi nobili della Capitale. Partecipano a questo processo non solo famiglie del-la nobiltà genovese vecchia come i Grimaldi, i Doria, di de Mari, gli Spinola, ecc., ma anche le principali casate nuove come quelle dei Balbi, dei Saluzzo, dei Durazzo, ecc. Si producono alcune modifi-che nella geografia feudale del Mezzogiorno. Giuseppe Galasso lo ha documentato per la Calabria42 con l’ingresso nelle file della feudalità regionale di Marcello Pignone del Carretto, Raffaele de Mari, i Rava-schieri, gli Adorno, gli Spinelli, i Pinelli, i del Negro. Il complesso di maggiore entità è quello di Gioia, Terranova e Gerace: acquistato nel 1574 per 280mila ducati, un capitale enorme, da Battista Grimaldi, dal 1609 fu riconosciuto alla famiglia il titolo principesco. Anche lo stato di Aiello, studiato da Fausto Cozzetto43, con i Cybo Malaspina è destinato ad entrare nella sfera genovese. La quarta categoria è for-mata dalla rete dei suffeudatari (nobili di città, ceto civile, “satelliti della feudalità”) che, soprattutto a partire dalla metà del Seicento, partecipando al processo di commercializzazione, potranno entrare a pieno titolo nelle file del baronaggio calabrese.

Ancora alla Calabria Citra è dedicata la ricerca di Covino. Come in Terra di Bari, anche in questa provincia il Settecento è il secolo del rinnovamento della piccola feudalità, grazie all’ingresso nelle sue file di membri del patriziato urbano.

Sulle strategie successorie e matrimoniali contributi di note-vole rilievo sono stati offerti dalle ricerche di Gerad Delille e Maria Antonietta Visceglia, Giulio Sodano, Maria Anna Noto e Maria Con-cetta Calabrese.

42 G. Galasso, Economia e società cit., passim.43 F. Cozzetto, Lo Stato di Aiello. Feudo, istituzioni e società nel Mezzogiorno

moderno, Editoriale Scientifica, Napoli, 2001.

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Attraverso la rappresentazione della nobiltà napoletana nella re-lazione del fiammingo Leclerc, servitore di Carlo V, Delille e Visceglia44 sottolineano il ruolo delle donne come possibili eredi del patrimonio di famiglia: i passaggi attraverso le donne consentono la circolazione dei beni feudali. Il controllo ferreo della famiglia sulle ereditiere è realizza-to anche attraverso la pratica dei doppi matrimoni nella stessa fami-glia. La strategia complessiva è quella di attivare tutti i mezzi possibili per realizzare un equilibrio tra la divisione e la fusione del patrimonio.

Moltiplicare i rami familiari, consolidare il patrimonio, redistri-buire su più fronti le fedeltà politiche: è questa una strategia co-mune a molte casate feudali. L’apogeo del casato degli Acquaviva di Caserta si realizza con Andrea Matteo alla fine del Cinquecen-to grazie alle relazioni con la Corona e all’integrazione dinastica, le strategie matrimoniali, l’ascrizione ai Seggi napoletani, la creazione e lo sviluppo di una corte feudale di rilievo internazionale45. Anche l’epopea dei Ruffo di Sicilia, studiata da Maria Concetta Calabrese46, si fonda sulle strategie familiari di Antonia Spatafora, moglie di Car-lo Ruffo duca di Bagnara47, su una diversificata attività economica da parte soprattutto di Antonio Ruffo (palazzi, ville, feudi, seta, rap-porti commerciali con gli uomini d’affari genovesi), su mecenatismo e passione per l’arte, sulla differenziata distribuzione delle fedeltà politiche. Il doppio percorso tra localismo e internazionalismo carat-terizza anche gli Acquaviva d’Atri, studiati da Sodano: il “barone in campagna”, cioè il suo radicamento provinciale, può convivere con la vocazione guerriera della famiglia e col titolo di Grande di Spagna.

5. Il compromesso tra monarchia e feudalità

La Calabria del XVI secolo, secondo Galasso, è il teatro del compromesso storico tra monarchia spagnola e feudalità, fondato sul rispetto reciproco, di obblighi, limiti, interessi e sullo scambio tra fedeltà politico-dinastica dell’aristocrazia e riconoscimento so-vrano di prerogative e privilegi, rivendicati dalla nobiltà48. Ho cercato

44 G. Delille, M.A. Visceglia, La rappresentazione della nobiltà napoletana nella relazione di un servitore fiammingo di Carlo V, in B. Salvemini, A. Spagnoletti (a cura di), Territori, poteri, rappresentazioni nell’Italia di età moderna cit., pp. 19-39.

45 Cfr. G. Sodano, Da baroni del Regno a Grandi di Spagna cit.46 M.C. Calabrese, L’epopea dei Ruffo di Sicilia, Laterza, Roma-Bari, 2014.47 Ivi, pp. 237-238.48 G. Galasso, La Calabria spagnola cit., p. 46.

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di identificare un “modello mediterraneo” di questo compromesso nel rapporto tra Stato, politica e amministrazione, nelle forme del pote-re, nelle formazioni politiche, nel rapporto tra potere politico e poteri territoriali. Il fondamento è il patto tra sovrano e sudditi, da cui di-scende anche il rapporto di partnership tra monarchia e feudalità. La politica del compromesso tra monarchia e ceti indigeni consente di gestire senza traumi e crisi laceranti rapporti difficili come quello con la feudalità, con la città capitale, con la Chiesa, e di governare materie delicatissime come quella fiscale, giudiziaria e militare.

Uno studio come quello di Dandolo e Sabatini sullo stato feuda-le dei Carafa di Maddaloni49 conferma il quadro di riferimento da me proposto. Fedeltà politica, duttili strategie e impegno nelle magistra-ture della capitale, una attenta rete di relazioni caratterizza la storia di lunga durata di questa famiglia. La fedeltà dei Carafa agli spagno-li si attua nelle forme del soccorso diretto e finanziario della famiglia alla dinastia «in cambio della prosecuzione della gestione del ducato in regime di sostanziale autonomia»50. I percorsi dei singoli esponen-ti della famiglia rientrano, anche nel corso del Settecento, «in uno stabile e collaudato itinerario, che trascendeva le singole persone»51.

6. Le prospettive di ricerca

A conclusione di queste note vorrei indicare tre prospettive di ricerca che mi appaiono particolarmente feconde. La prima è pro-posta nei saggi contenuti in questo stesso volume: la possibilità, cioè, di utilizzare una visione comparativa nello studio del fenome-no feudale, di considerarlo nella sua pluralità di forme e di sviluppi entro il mondo mediterraneo.

La seconda prospettiva è quella della feudalità ecclesiastica: sia le ricerche condotte entro il Prin più volte ricordato, sia il vo-lume curato da Vittoria Fiorelli ed Elisa Novi offrono già alcune indicazioni suscettibili di ulteriori sviluppi. Particolarmente utili a tale riguardo sono suggerimenti e osservazioni proposti da Mario Rosa52. Egli sottolinea come lo sviluppo della feudalità ecclesiastica

49 F. Dandolo, G. Sabatini, Lo stato feudale dei Carafa cit.50 Ivi, p. 52.51 Ivi, p. 85.52 M. Rosa, Vescovi e feudi nel Mezzogiorno moderno: note per una discussione

aperta, in B. Salvemini, A. Spagnoletti (a cura di), Territori, poteri, rappresentazioni nell’Italia di età moderna cit., pp. 141-152.

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nel Mezzogiorno scorra in parallelo con quello della “nuova” feuda-lità laica nel Seicento. Rosa invita poi a distinguere tra feudalità ecclesiastica in senso lato (istituzioni abbaziali, ordini religiosi, enti ecclesiastici) e feudalità vescovile. Contesta la tesi di Antonio Cesta-ro per il quale la feudalità ecclesiastica svolse nel Mezzogiorno mo-derno una funzione di tutela e di pacificazione. Infine invita «a ricon-siderare la storia della feudalità ecclesiastica nel Mezzogiorno; ed è un invito che cade peraltro in un momento in cui sembra riaprirsi una discussione sul tema più generale della feudalità meridionale, un tema assai ricco e produttivo sul piano storiografico nei decenni trascorsi, ma che, via via attenuatosi, ha finito con lo sparire di fatto dagli interessi degli studiosi e dai quadri delle ricerche»53.

Infine – ed è la terza prospettiva – le ricerche recenti sulla feuda-lità meridionale ripropongono all’attenzione del dibattito storiografico il problema della periodizzazione e delle forme della crisi del Seicento. Covino, studiando la Calabria Citra, identifica negli anni Cinquanta la fase più negativa della congiuntura, con l’estensione dell’incolto, l’abbandono di vite e gelso, fallimenti e vendite, leadership di grandi famiglie e ascesa di nuovi nobili nella seconda metà del secolo, ripresa e crescita economica di contadini e massari al principio del Sette-cento: una conferma del quadro generale della crisi, come è emerso ed emerge anche da altri studi. Effetti della crisi del Seicento sono anche i comportamenti feudali degli Acquaviva d’Atri, studiati da So-dano, che trasferiscono le attività più redditizie sul patrimonio allo-diale. L’inasprimento dello ius prohibendi e dei diritti giurisdizionali caratterizza la realtà feudale di Terra d’Otranto studiata da Salvatore Barbagallo54. Le esazioni decimali in natura proteggono i baroni dalla congiuntura negativa al riparo dai processi di sgretolamento del si-stema feudale. Anche in questa provincia si conferma la capacità di adattamento e di ristrutturazione della feudalità55.

Anche attraverso questa prospettiva, dunque, esce confermata l’esigenza di stabilire un giusto equilibrio tra conservazione e inno-vazione: quell’equilibrio che forse manca a chi si affretta ad abban-donare, a considerare “implausibile” un concetto conservativo, per così dire, come quello di crisi generale del Seicento. Una lezione di metodo storico, dunque, che sarebbe bene sempre tener presente.

53 Ivi, pp. 151-152.54 S. Barbagallo, Agricoltura e società rurale in Terra d’Otranto tra XVIII e XIX

secolo, Congedo editore, Bari, 2013, p. 166.55 Ivi, p. 166.

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sommArio: A partire dal dibattito giuridico che si sviluppò nel tardo Settecento, quando gli abusi feudali furono più che mai messi in discussione, il presente saggio intende delineare le caratteristiche del feudo siciliano in età moderna: concessioni, natura, forma. La discussione si sviluppò principalmente sull’interpretazione dei capitoli Si aliquem (1286) e Volentes (1296), ma in ultima analisi la posta in gioco riguardava il rapporto tra il potere sovrano e la giurisdizione feudale. Le differenti opinioni sul piano giuridico non trovarono però una definitiva formulazione e così la questione risulta ancora aperta.

PArole chiAve: feudo siciliano, dibattito giuridico, età moderna.

THE SICILIAN FIEF IN THE LATE EIGHTEENTH CENTURY JURIDICAL CONCEPTION: CONCESSIONS, NATURE, FORM

AbstrAct: Starting from the juridical debate in the late 18th century, when feudal abuses were more contrasted than ever, the present essay aims to outline the characteristics of the Sicilian fief in the Early Modern Age: concessions, nature, form. The discussion was mainly developed regarding the interpretation of the chapters Si aliquem (1286) and Volentes (1296), but ultimately the issue at stake concerned the relationship between the sovereign authority and feudal jurisdiction. The different legal opinions haven’t found a definitive formulation and so the question is still open.

Keywords: Sicilian fief, juridical debate, Early Modern Age.1

L’anonimo autore di una Rimostranza a stampa presentata dai baroni del Regno, dal titolo Della conservazione de’ dritti i quali in Sicilia chiamansi baronali (1789), nel perorare la difesa dei dirit-ti baronali sui vassalli, che i provvedimenti assunti da Caracciolo stavano ormai smantellando, ripercorreva la storia delle conces-sioni feudali in Sicilia, riconducendole a tre classi, e procedeva

Il saggio si inserisce nell’ambito del Progetto di Ateneo FFR 2012/2013 (2012-ATE-0067 Università di Palermo) coordinato dalla prof. R. Cancila.

Abbreviazioni utilizzate: Asp: Archivio di Stato di Palermo; Bcp: Biblioteca Co-munale di Palermo.

Rossella Cancila

IL FEUDO SICILIANO NELLA COSCIENZA GIURIDICA

TARDO-SETTECENTESCA: CONCESSIONI, NATURA, FORMA

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poi a «visitare i titoli di possedere» di cui erano forniti i baroni di ciascuna di esse1.

Alla prima classe appartenevano i feudi delle più illustri e an-tiche famiglie di Sicilia, che avevano ricevuto la concessione diret-tamente dai sovrani, ma che per le note vicende della storia del Regno (l’incendio del Palazzo reale sotto Guglielmo I e il caos deter-minatosi alla morte di Martino) non potevano più essere riprodotte.

La seconda classe era quella dei feudi cosiddetti emtizi, o per-mutati o donati, posti in commercio dopo l’emanazione del capitolo Volentes di re Federico d’Aragona (1296), e posseduti da molte fa-miglie trasferitesi in Sicilia «o all’occasione de’ Re delle varie razze che l’an comandato, o per effetto delle rivoluzioni d’Italia, o che si sono nella stessa Sicilia ingrandite».

La terza classe infine comprendeva «i feudi delle novelle popo-lazioni», ossia quelli di nuova fondazione, feudi per lo più rustici in seguito popolati, assai numerosi nel Regno, per i quali non esisteva una primitiva concessione, come per i feudi della prima classe, né un atto civile come per i secondi, «ma è stata tutta l’industria di quei baroni, che ànno ottenuta la tal facoltà di popolare quel feudo rustico, che era prima con mero e misto, o senza».

A partire da questa classificazione si cercherà di delineare in sin-tesi i caratteri del feudo siciliano nei secoli dell’età moderna – seppure nell’ottica tardo settecentesca – nel tentativo di penetrarne la pluralità di significati, tenendo conto del dibattito che si sviluppò su alcune questioni rilevanti soprattutto nel Settecento, quando più che mai si tentò di colpire gli abusi della feudalità, riportando l’istituto feudale nei termini della legalità. Occorre comunque tener ben presente che i fondamenti della legislazione feudale siciliana rimasero sempre le Co-stituzioni di Federico II, il capitolo Si aliquem di re Giacomo (1286) e il capitolo Volentes di Federico III: le diverse interpretazioni non fecero altro che piegare questi testi legislativi «a nuove esigenze, o a nuove volontà di potenti, sì da farceli apparire come dei prismi di cui sia stata vista, volta per volta, solo una faccia»2.

1 Della conservazione de’ dritti i quali in Sicilia chiamansi baronali, Napoli il 15 marzo 1789, in Asp, Real Segreteria, Incartamenti, vol. 5488. Per un esame più approfondito della questione rinvio a R. Cancila, La questione dei diritti signorili in Sicilia a fine Settecento, «Mediterranea - ricerche storiche», 26 (2012), pp. 445-460 (on line sul sito http://www.storiamediterranea.it/).

2 E. Mazzarese Fardella, Osservazioni sul suffeudo in Sicilia, «Rivista di Storia del diritto italiano», vol. XXXIV (1961), p. 160.

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Il feudo siciliano nella coscienza giuridica tardo-settecentesca 209

1. Il tema delle origini

Innanzi tutto occorre accennare al tema dell’origine, tardiva e legata all’insediamento dei Normanni nell’isola, che introdussero il feudalesimo in Sicilia, superata ormai qualsiasi altra ipotesi che la faceva risalire agli arabi se non addirittura ai bizantini3. Indubbia-mente suggestiva, e destinata a pesare sul piano giuridico e politi-co, fu la nota tesi dell’avvocato di Traina Carlo Di Napoli, che negli anni Quaranta del Settecento in un clima politico surriscaldato da una serie di riforme istituzionali, sostenne che la giurisdizione baronale si configurava non come potere delegato del sovrano, ma come un diritto originario e fondamentale. Nel contesto istituziona-le siciliano monarchia e baronaggio sarebbero nati contestualmen-te e in modo «consustanziale» all’epoca della conquista normanna, quando si instaurò «l’originario rapporto sinallagmatico fra Rug-gero e i suoi milites», di cui il Parlamento divenne l’originario de-positario4. Obiettivo del giurista era quello di affermare il principio che i feudi godevano della stessa qualità e dignità del patrimonio reale e non traevano origine dal demanio del principe: nessun feu-do poteva pertanto cambiare la sua natura, il re poteva disporre del suo patrimonio, ma non dei beni dei feudatari. Tanto più che il «corpo baronale» era rappresentato dagli stessi componenti che all’origine lo costituirono, mantenendosi esso nel corso dei secoli «sempre intatto e permanente», «onde e per legge di rappresentanza e per vincolo di supplezione ha ritenuto nel possesso de’ feudi e delle terre le stesse ragioni che nell’acquisto originario resero in-violabile il diritto dei conquistatori»5. Carlo Di Napoli si richiamava all’autorità del feudista messinese Pietro De Gregorio che nei primi

3 P. De Gregorio, De concessione feudi tractatus, Panormi, 1598, q. 1. Indicò invece gli arabi come introduttori del sistema feudale in Sicilia G. Dragonetti, Origi-ne dei feudi nei Regni di Napoli e Sicilia, in Raccolta di opere riguardanti la feudalità di Sicilia, Palermo, 1842, p. 92. Rimane aperto il dibattito relativo alla presenza di forme di signoria preesistenti all’arrivo dei Normanni nell’Italia meridionale. Sull’ar-gomento e per una rassegna storiografica con riferimento alla sottile distinzione tra signoria e feudo, cfr. G. Piccinni, Regimi signorili e conduzione delle terre nel Mezzogiorno continentale, in R. Licinio, F. Violante (a cura di), I caratteri originari della conquista normanna: diversità e identità nel Mezzogiorno (1030-1130), edizioni Dedalo, Bari, 2006, pp. 181-215.

4 D. Novarese, Introduzione a C. Di Napoli, Concordia tra’ diritti demaniali e baronali, ristampa anastatica dell’edizione di Palermo, appresso Angelo Felicella, 1744, a cura di A. Romano e con una Introduzione di D. Novarese, Sicania, Messi-na, 2002, pp. XXXIV, XXXVII.

5 G. Dragonetti, Origine dei feudi nei regni di Napoli e Sicilia cit., pp. 296, 315.

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decenni del ‘500 aveva sostenuto che il sovrano non poteva ridurre al demanio una terra feudale, né liberare i vassalli del barone dai servigi personali e reali ai quali essi erano tenuti6. La tesi, avallata dal Tribunale del Real Patrimonio, consentì al Di Napoli la vittoria contro le pretese di Sortino di ritornare al demanio, ma fu però successivamente contestata da Giacinto Dragonetti, che ne dimo-strò l’inconsistenza storica, affermando i diritti della corona7.

È ormai accertato che i Normanni non vollero istituire in Sici-lia uno stato feudale sul tipo di quello dell’Italia meridionale, ma vi fondarono una monarchia retta da un sovrano tale per oblatio divina e titolare di ogni potere pubblico8. La monarchia norman-no-sveva si caratterizzò del resto, sin dalle origini, per la volontà di costruire uno stato in cui l’affermazione dell’autorità sovrana fosse incontrastata e il sistema feudale dipendesse dalla volontà regia in funzione del superamento della disgregazione feudale9. Le prime due contee sarebbero state quelle di Siracusa e di Paternò anche se sul valore del termine contea loro attribuito permangono delle incertezze10. Certa risulta invece l’esistenza di diverse contee all’e-poca di Enrico IV mentre i soli conti siciliani su cui si abbiano fon-date notizie nell’età di Federico II sono quelli di Butera, di Paternò, di Petralia, di Collesano, di Geraci, anche se nessuno di loro deve

6 P. De Gregorio, De concessione feudi tractatus cit., p. 29 (p. 1, q. 10, n. 3).7 G. Dragonetti, Origine dei feudi nei regni di Napoli e Sicilia cit., pp. 98 sgg. 8 Cfr. la sintesi di E. Mazzarese Fardella, Aspetti dell’organizzazione ammini-

strativa nello Stato normanno e svevo, Milano, 1966, pp. 14 sgg. Sull’argomento cfr. anche A. Baviera Albanese, Diritto pubblico e istituzioni amministrative in Sicilia. Le fonti, Roma, 1974, pp. 7-8; M. Caravale, Il Regno Normanno di Sicilia, Giuffrè, Mila-no, 1991 (prima edizione 1966), pp. 297-303, 317.

9 M. Caravale, Il Regno Normanno di Sicilia cit., pp. 322-324.10 Cfr. le diverse opinioni di C. Cahen, Le régime féodal de l’Italie Normande,

Geuthner, Paris, 1940, pp. 49-50; e di I. Peri, Città e campagna in Sicilia, «Atti dell’Accademia di Scienze Lettere ed Arti di Palermo», s. IV, XIII, fasc. IV, 1956, p. 137, che invece ne individua cinque-sette; e le considerazioni di E. Mazzarese Far-della, I feudi comitali di Sicilia dai Normanni agli Aragonesi, Giuffrè, Milano, 1974, pp. 9-18, che giunge alla conclusione che soltanto durante il breve regno di Gugliel-mo III in Sicilia si riscontra effettivamente documentato il titolo di conte (ivi, p. 18). Sull’argomento cfr. anche M. Caravale, La feudalità della Sicilia normanna, in Atti del Congresso internazionale di studi sulla Sicilia normanna (Palermo 4-8 dicembre 1972), Istituto di storia medievale, Palermo, 1973, pp. 21-50. Per una sintesi delle posizioni, cfr. anche E.I. Mineo, Nobiltà di stato. Famiglie e identità aristocratiche nel tardo Medioevo. La Sicilia, Donzelli, Roma, 2001, pp. 28-32. Una mappatura delle infeudazioni territoriali in Sicilia negli anni di Ruggero I è in S. Tramontana, Popo-lazione, distribuzione della terra e classi sociali nella Sicilia di Ruggero il Gran Conte, in Ruggero il Gran Conte e l’inizio dello Stato normanno. Relazioni e comunicazioni nelle seconde Giornate normanno-sveve (Bari, maggio 1975), Il Centro di ricerca editore, Roma, 1977, pp. 213-270.

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il suo titolo all’iniziativa del sovrano svevo né esistono documenti che attestino concessioni comitali nell’isola da parte dell’imperato-re Federico11.

Rimase però aperta la questione delle concessioni più antiche e delle formule di investitura, tanto più che la ricostruzione delle condizioni feudali in epoca normanna è ancora piuttosto incerta per la scarsità di documentazione, che rende ardua anche una ricognizione per il periodo svevo. Diversamente invece nell’età an-gioina prima, e aragonese poi, si verificò una maggiore disponibi-lità alla concessione di feudi e della dignità comitale: disperse le concessioni di Carlo I d’Angiò, all’età aragonese risalgono invece quelle meglio documentate. Tutto il periodo compreso tra il regno di Federico III a partire dal 1296, e il 1416, quando cominciò a re-gnare Alfonso il Magnanimo, fu caratterizzato da continue guerre e sedizioni interne, soprattutto durante l’epoca dei Martini, e nu-merose furono le confische e devoluzioni per fellonia, mentre d’altra parte furono frequenti le infeudazioni del demanio. Furono anni in cui si determinarono nuove concessioni e passaggi di mano che ar-ricchirono il tessuto feudale, accrescendone la potenza, ma al tempo stesso complicarono il quadro di riferimento. Inoltre molti beni del patrimonio regio furono usurpati a danno del fisco, e buona parte dei feudatari poté disporre illegittimamente di terre e diritti acquisiti nei periodi più torbidi del recente passato. A ragione si può dire che in Sicilia proprio nell’età aragonese il feudalesimo assunse i suoi caratteri specifici, connotandosi come un esempio di feudalesimo “tardivo” rispetto al suo coevo svolgimento nel resto dell’Europa.

2. Il dibattito sulle concessioni

Quello delle concessioni e della loro esibizione era perciò un tema assai delicato, che suscitava tensioni e malumori. Così era accaduto all’epoca di Alfonso il Magnanimo che, conquistato il Re-gno, per affermare l’autorità della corona preservandone i diritti, coerentemente con quanto stabilito dalle costituzioni federiciane del 1220, aveva intimato ai titolari di feudi e di giurisdizioni di presentare gli atti relativi alle loro concessioni per richiederne con-ferma al fine di ricevere una nuova investitura dei beni, pena la revoca della concessione e dei titoli dei quali non era provata la va-

11 E. Mazzarese Fardella, I feudi comitali di Sicilia cit., p. 34.

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lidità giuridica (capitolo 387). Evidentemente dietro la richiesta del sovrano c’era la volontà di attuare una ricognizione dei feudi esi-stenti nel Regno, revisionare i privilegi di concessione attestandone la legittimità, recuperare cespiti e proventi fiscali di cui i possessori non avevano titolo. Le proteste del parlamento del 1446 tentarono di rendere inefficace il provvedimento. Re Alfonso allora per fron-teggiare la contestazione esentò i baroni di feudi senza popolazione né castelli, cioé di feudi minori che davano solamente diritto alla qualifica di miles, ma confermò l’editto per tutti gli altri. E i baroni ubbidirono, esibendo negli anni 1453-1454 i titoli richiesti, anche perché nel frattempo il sovrano in occasione del parlamento del 1452 aveva emanato nuovi capitoli, che nei fatti consentivano di sanare situazioni di incertezza del possesso12. Grazie a uno di essi, ad esempio, Alfonso confermò e concesse de novo in forma stretta con la clausola iure francorum i feudi anche a quei feudatari che, non disponendo più di documenti o privilegi di concessione per averli smarriti o per non essersi curati di conservarli, dichiarassero di esserne possessori da almeno trent’anni13.

Diversi, circa trecento, furono i feudatari che dichiararono di non possedere alcun titolo o di averlo perduto e non pochi di loro poterono legittimare gli acquisti feudali avvenuti nel tempo, regola-rizzando la propria posizione14. In verità, successivamente re Gio-vanni, in considerazione del depauperamento del patrimonio regio per le continue concessioni fatte dai sovrani di Sicilia, soprattutto nell’età di Alfonso, le revocò e annullò. Ma il suo provvedimento fu destinato a rimanere lettera morta15.

Di tali conferme esistevano ancora nel Settecento nella Can-celleria del Regno quattro libri, denominati Liber Confirmationum e un grosso registro nella Conservatoria16, come ebbe a notare il con-

12 Cfr. A. Costa, L’ira del re e la fedeltà dei sudditi. Un quaternus di fideomagi della metà del Quattrocento, Fonti e documenti, Associazione Mediterranea, Paler-mo, 2013, pp. 58-69 (on line sul sito http://www.storiamediterranea.it/).

13 F. Testa (a cura di), Capitula Regni Siciliae, voll. 2, Palermo 1741-1743 (ora in ristampa anastatica a cura di A. Romano, Rubbettino, Soveria Mannelli, 1999), cap. CDLVI di re Alfonso, I, pp. 382-383.

14 Cfr. A. Costa, L’ira del re e la fedeltà dei sudditi cit., p. 49.15 La revoca delle concessioni sine causa era considerata un abuso da parte

del principe (cfr. G. de Perno, Domini Guilielmi de Perno 24 consilia pheudalia et in medio de principe, de rege, deque regina tractatus atque pheudorum non nulla nota-bilia, rist. anast. dell’ed. di Messina 1537 con una introduzione di Andrea Romano, Rubbettino, Soveria Mannelli, 1995, f. XXVIIIv).

16 I registri (Asp, Real Cancelleria, voll. 91-94), noti a Diego Orlando (D. Or-

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sultore Francesco Saverio D’Andrea in merito alle concessioni dei diritti proibitivi, di cui il viceré Caracciolo pretendeva l’esibizione. Attingendo proprio ai volumi della Real Cancelleria, Gioan Luca Barberi già agli inizi del Cinquecento aveva con scrupolo condotto per conto di Ferdinando il Cattolico la sua indagine conoscitiva su tutti i feudi siciliani e sugli atti di investitura per verificarne la legittimità del possesso17. Il tema nel Settecento non era più tanto questo, quanto la verifica della legittimità dell’esercizio dei poteri giu-risdizionali da parte dei feudatari, che abusavano della loro posizione nei confronti dei vassalli, vantando diritti spesso non documentabili.

L’anonimo autore della Rimostranza del 1789 – dalla quale sia-mo partiti – sosteneva l’impossibilità di riprodurre ormai nel XVIII secolo – relativamente almeno ai feudi della prima classe – le con-cessioni originali con i relativi diritti, e portava ad esempio proprio quanto accaduto già nel XV secolo all’epoca di Alfonso, quando le stesse non si erano potute esibire. E comunque – egli notava – il formulario utilizzato nelle concessioni, che si trovano «per avven-tura trasportate nelle ulteriori conferme, o siano rinnovazioni de’ sovrani, che son succeduti a coloro che prima aveano conceduto», riproduceva espressioni sintetiche, «tutte per ordinario scritte con termini precisi, sterili e secchi, secondo l’uso de’ tempi», sicché «s’ignora e s’ignorerà sempre» quali siano stati i diritti di pertinenza della Regia Corte, e quali quelli donati in concessione. Le conces-sioni inoltre dei feudi della seconda classe, quelli emtizi, rimanda-vano a un formulario generico, che faceva riferimento «alla ragione e alla maniera che li possedevano» i precedenti baroni, «tam de consuetudine quam omni alio meliori modo».

Particolarmente interessanti appaiono le considerazioni dell’a-nomino a proposito dei feudi rustici, quelli cioé di nuova fondazione la cui espansione aveva caratterizzato la storia feudale in Sicilia tra

lando, Il feudalesimo in Sicilia. Storia e diritto pubblico, Palermo, 1847, pp.122-123), sono stati individuati e utilizzati da Antonina Costa (A. Costa, L’ira del re e la fedeltà dei sudditi cit., pp. 69, 105-135), che li ha integrati col volume n. 33 del Conser-vatore del Real Patrimonio, coi volumi nn. 44 e 45 del Protonotaro del regno e col volume n. 1 della Camera della regina, conservati nell’Archivio di Stato di Palermo. Ai privilegi contenuti nella Cancelleria fece costantemente riferimento Giovan Luca Barberi nei suoi Capibrevi.

17 Cfr. anche G.L. Barberi, Il Magnum capibrevium dei feudi maggiori, a cura di G. Stalteri Ragusa, Società Siciliana per la Storia Patria, Palermo, 1993. Per la ric-chezza delle formule di investitura nel Regno di Napoli, cfr. A. Cernigliaro, Sovranità e feudo nel Regno di Napoli 1505-1557, 2 voll., Jovene, Napoli, 1983, I, pp. 238 sgg.

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la fine del Cinquecento e il Seicento. In questi, «per l’addietro vuoto terreno», il barone aveva chiesto e ottenuto un’apposita licenza per il loro popolamento. La licentia populandi non conteneva però alcu-na concessione di diritti, «che doveano venire coll’occasione di una unione di uomini, che non esistevano ancora, perché le popolazioni non isbucciano che lentamente, e nella loro cuna anno compagne le dolcezza, e le carezze, e non comincia né si può cominciare dalle prestazioni e dalla servitù». Per tale ragione le prestazioni e le ser-vitù in questi feudi «sono nate e adottate dai vassalli a pro del loro barone, o per espresse convenzioni ... o sull’esempio di altri baroni ... mercé la consuetudine»: in ogni caso si tratterebbe di titoli legit-timi «e sagri nella ragion civile di possedere», sottoposti alle regole della giurisprudenza comune, ossia patto e convenzione, oppure usanza e consuetudine antica, comunque originati da «rapporti ed uffici amichevoli e fraterni del barone col vassallo»18.

Si tratta di un motivo evidentemente ricorrente nella pubblici-stica di parte baronale, che fu utilizzato anche dall’anonimo autore della Memoria ragionata in favore dei baroni del Regno di Sicilia per le novità fattesi dai Tribunali della Regia Gran Corte e del Real Patrimo-nio negli anni 1784, 1785 e 1786 sulla legislazione del Regno e con-tro le giurisdizioni baronali, che contestava anch’egli la possibilità di produrre le concessioni regie dalle quali si sarebbero dovute espres-samente evincere le facoltà giurisdizionali, che i baroni del Regno esercitavano correntemente nei propri feudi (ad esempio quella di eleggere ufficiali di giustizia e municipali), e che le riforme del viceré Caracciolo negli anni 1784-1786 avevano considerato illegittime proprio perché spesso non supportate da una esplicita concessione, non trattandosi di peculiarità connaturate all’istituto feudale19.

È cosa troppo nota che la Real Cancellaria e l’archivii de’ Tribunali del Regno di Sicilia sono mancantissimi per le varie accadute vicende, e solo dall’anno 1520 in poi trovasi in essi una mediocre coordinazione di

18 Della conservazione de’ dritti i quali in Sicilia chiamansi baronali cit. Qui è chiaro il riferimento ai capitoli stipulati tra le parti, che stabilivano prerogative e doveri dei nuovi abitanti.

19 Sui questi temi rinvio a R. Cancila, Autorità sovrana e potere feudale nella Sicilia moderna, Associazione Mediterranea, Palermo, 2013, pp. 42-47, e passim (on line sul sito http://www.storiamediterranea.it/). Cfr. anche Bcp, Dispacci, t. LX H11, doc. 112 (10 gennaio 1785), Si vieta ai Baroni di eleggere giurati, e sindaci delle università della rispettiva terra e luogo baronale di loro pertinenza; e se qualcuno di essi pretendesse aver espressa concessione produca nel riferito Tribunale la conces-sione suddetta in forma autenticata per darsi le dovute provvidenze.

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registri. E l’archivi particolari dei baroni sono in stato peggiore per le varie successioni di diverse famiglie accadute nei feudi, talché le carte originali de’ loro privilegii e concessioni sono affatto o perdute o poste in oblio, o possedute in oggi da persone che non vi hanno interesse20.

Nella percezione dei feudatari i diritti da essi esercitati deriva-vano «dai due più puri fonti, quali sono quelli della real concessio-ne e del possessorio immemorabile»: là dove non era possibile di-mostrare il primo, si poteva sempre ricorrere al secondo. Dal punto di vista baronale tutti i diritti feudali, di qualunque specie essi fos-sero, dovevano regolarsi «con la giurisprudenza comune, ossia col patto e colla convenzione che tra barone e vassallo sia interceduta; o coll’usanza e consuetudine antica», considerandola alla stregua del titolo di concessione. Si trattava insomma non di abusi, ma di accordi consuetudinari antichi, non supportati perciò da una concessione, e nati dal consenso delle parti, che avevano garantito attraverso i secoli quella «reciproca armonia tra tutti gl’ordini dello stato», la crescita della popolazione, l’avanzare dell’agricoltura, le rendite del regio erario: perciò «qualunque innovazione che farsi voglia a stabilimenti cotanto antichi e che la lunga esperienza ha fatto conoscere utili e profittevoli deve immancabilmente portare un totale rovescio a tutto l’ordine delle cose»21.

Non era certo questa l’opinione dei riformatori, del Caracciolo in particolare, la cui azione fu orientata all’affermazione dell’auto-rità regia sulla giurisdizione feudale, superando la consuetudine su cui il sistema per secoli si era retto e chiarendo quali fossero i limiti e i contenuti della stessa giurisdizione feudale. I baroni in-fatti col pretesto del mero e misto imperio «spingono contro le leggi la loro autorità fuori d’ogni limite nei rispettivi feudi» e, «ignorando forse le leggi e i limiti della lor facoltà», si ingerivano in questioni, che andavano al di là delle loro competenze e attribuzioni, come nel caso delle carcerazioni disposte con la formula per motivi a noi ben visti, senza motivarne la causa, che il viceré vietò22, oppure della elezione degli ufficiali politici ed economici delle università.

20 Cit. in R. Cancila, Aspetti del dibattito sulle giurisdizioni feudali in Sicilia (1784-1789), E-book, Associazione Mediterranea, Palermo, 2013, p. 88 (on line sul sito http://www.storiamediterranea.it/).

21 Ivi, p. 100.22 Il testo della circolare del 15 dicembre 1784 è riportato da F.M. Emanuele e

Gaetani, marchese di Villabianca, Diario palermitano, «Biblioteca storica e letteraria di Sicilia», vol. XIX (1886), pp. 330-332.

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Inoltre, Caracciolo sottrasse ai baroni che «non ne abbiano special concessione o privilegio» anche la funzione di maestri giurati23 in virtù della quale essi agivano da revisori dei conti, avvalendosi del-la facoltà di controllare l’amministrazione delle rendite delle loro università (22 dicembre 1785)24. Riguardo poi alla questione dei di-ritti privativi e proibitivi, il consultore Francesco Saverio D’Andrea concluse che in tutte le concessioni dei primi sovrani aragonesi e nelle successive conferme non compariva mai a differenza del Re-gno di Napoli la formula cum iure prohibendi, e pertanto l’esercizio di tali diritti proibitivi e le prestazioni angariche furono introdotti dall’uso, dalla consuetudine, dal patto senza una espressa appro-vazione da parte del sovrano, «un effetto del sistema feudale man-tenuto in questo Regno in tutto il suo vigore sino a giorni nostri», come ebbe a precisare più tardi nel suo Ristoro25. E riteneva che l’acquiescenza dei vassalli fosse solamente una conseguenza del fortissimo potere detenuto da feudatari resi più forti dall’assenza dei sovrani dall’isola per ben tre secoli.

Una vittoria però i detentori di feudi la ottennero, e fu sul fron-te della revisione dei conti, quando riuscirono a dimostrare che la funzione di maestri giurati delle proprie terre feudali prescindeva da un’esplicita concessione26. Ai maestri giurati spettava infatti di

23 I feudatari «erano maestri giurati delle università de’ feudi loro, con tal ca-rattere eleggevano e rimuoveano i giurati e gli ufficiali di economia, essi discutevano i conti, imponevano dazi e gabelle, disponevano del patrimonio universale. Essi per dir tutto in poco, si prendevan i sopravanzi» (così il consultore D’Andrea in Asp, Real Segreteria, Incartamenti, vol. 5488, 29 giugno 1798).

24 Bcp, Dispacci, t. LX H11, doc. n. 139 (22 dicembre 1785), S’incarica a tutti i giurati delle università baronali del Regno di astenersi affatto da indi innanzi di rendere al proprio barone o a qualunque suo officiale li conti dell’amministrazione del patrimonio dell’università, e che tali conti dar si dovessero al Tribunale. Si veda anche l’ordine del 7 gennaio 1786 (Bcp, Dispacci, t. LX H12, doc. 2).

25 L’incartamento contiene anche un parere richiesto dal viceré a Michele Per-remuto, datato 25 maggio 1789 (Asp, Real Segreteria, Incartamenti, vol. 5488). Francesco Saverio D’Andrea ritornò poi sull’argomento nella sua opera Il ristoro del-la Sicilia, dove fece espressamente riferimento alla sua «consulta per confutazione della scrittura intitolata Conservazione de’ dritti baronali in Sicilia» (F.S. D’Andrea, Il ristoro della Sicilia, in R. Ajello, I. Del Bagno, F. Palladino (a cura di), Stato e feu-dalità in Sicilia. Economia e diritto in un dibattito di fine Settecento, Jovene, Napoli, 1992, pp. 359, 365).

26 Per questa questione rinvio a R. Cancila, Aspetti del dibattito sulle giurisdi-zioni feudali in Sicilia cit., pp. 43-46. Sulla revisione dei conti in Sicilia, cfr. Ead., La revisione dei conti in Sicilia (secc. XVI-XVIII), in Storia e attualità della Corte dei conti. Atti del Convegno di studi, Palermo, 29 novembre 2012, Associazione Mediterranea, Palermo, 2013, pp. 47-76.

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norma la revisione dei conti civici, ma solamente nelle università demaniali, mentre la facoltà dei baroni si connaturava come un diritto originario. Già re Giacomo nel capitolo 37 aveva ordinato che nelle terre baronali non si potesse nominare alcun maestro giurato, cioé alcun regio ufficiale al quale i giurati dovessero ren-dere i conti. Successivamente, re Alfonso nel dare le istruzioni ai maestri giurati aveva stabilito che la loro sfera d’intervento dovesse limitarsi solamente alle università demaniali; e ancora nel capitolo 60 lo stesso sovrano ordinava che il maestro giurato ogni anno dovesse avistare le università demaniali. Così fu ribadito anche nel capitolo 16 di re Giovanni e nel capitolo 117 di re Ferdinando. La loro vittoria non fu però di lunga durata: nel settembre del 1786, il Caramanico dettò le istruzioni cui i giurati delle università baro-nali dovevano attenersi per la presentazione dei conti27, poi estese nel 1796 anche alle università demaniali, dove intanto erano state abolite le visite dei maestri giurati28.

3. Natura e forma del feudo

Il diritto feudale siciliano distingueva tra natura e forma del feudo. Per natura un feudo poteva essere alienabile o inalienabile. Normanni e svevi proibirono qualunque contratto di alienazione, permuta, transazione, arbitramento che riguardasse i feudi, che invece il capitolo Volentes di Federico III introdusse, correggendo quanto stabilito da re Ruggero II con l’assisa Scire volumus (1142) e dall’imperatore Federico II nel terzo libro delle Costituzioni di Melfi (1231). Esso decretava che

comes, baro, nobilis, seu feudatarius quilibet, feuda tenens a Curia nostra, seu quandam partem feudi, absque permissione, seu licentia celsitudinis nostrae, feudum suum integrum, seu quotam partem praedictam possit pignorare, vendere, donare, permutare, et in ultimis voluntatis relinquere, seu legare, et quolibet alienationis titulo transferre in unam tantum, ean-demque personam digniorem, vel aeque dignam, seu nobilem […]29.

27 Bcp, Dispacci, t. LX H12, doc. n. 15, cc. 86-89, 11 settembre 1786.28 Ivi, doc. n. 153, 26 giugno 1796, Perché nella formazione dei conti delle uni-

versità demaniali, e baronali debbano regolarsi a tenore dell’acchiusa formola, e si prescrivono le istruzioni da osservarsi dai deputati, che debbono giusta l’inserto Real Ordine rivedere li cennati conti.

29 F. Testa (a cura di), Capitula Regni Siciliae cit., cap. XXVIII di re Federico, I, pp. 60-61.

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Perché una alienazione fosse lecita era necessario dunque che essa riguardasse un feudo integrum, vendibile a una sola persona soltanto; che essa procedesse in favore di persona dignior o aeque digna con esclusione delle chiese e soggetti ecclesiastici; che fosse pagata al fisco la decima parte del prezzo di vendita; che entro un anno il nuovo concessionario prestasse omaggio e giuramento di fedeltà al sovrano, il quale comunque si riservava la prelazione entro un mese30. Attraverso le alienazioni la feudalità, spinta dalla volontà di monetizzare, finì col frazionare e smantellare i grandi patrimoni che si erano concentrati nelle sue mani, anche perché così col sistema delle dispense riusciva a vendere i singoli feudi separatamente31. Sulla scorta delle conclusioni di Mazzarese Far-della, è possibile rilevare che in età medievale si determinarono due tipi di smembramento: per ‘gemmazione’ (donazione), quando da una contea si istituiva in uno dei suoi feudi un’altra contea, generalmente a vantaggio di un familiare dello stesso lignaggio dell’antico feudatario; oppure in seguito a una vendita, e questo fu comunque il sistema di alienazione più praticato32.

La giurisprudenza siciliana si arrovellò per secoli sull’interpre-tazione del capitolo Volentes, incerta se esso avesse determinato o meno una alterazione della natura dei feudi, trasformandoli con l’alienabilità senza il preventivo assenso regio in allodi (almeno sul piano della successione) ed eliminando di conseguenza la possi-bilità che fossero reversibili al fisco per mancanza di successo-ri legittimi. Non era dunque in discussione soltanto il tema della natura dei feudi, ma anche il problema della successione. E di conseguenza entravano in gioco pure i diritti del fisco in caso di reversibilità per mancanza di eredi: la vendita per esempio poteva essere un escamotage per aggirarne la devoluzione33. Sul piatto si intrecciavano dunque due questioni: quello della forma della con-

30 Cfr. E. Mazzarese Fardella, I feudi comitali di Sicilia cit., p. 67.31 Sull’apertura del mercato del feudo cfr. E.I. Mineo, Nobiltà di stato cit., pp.

112-114. Mazzarese Fardella chiarisce che le dispense erano di due tipi e riguarda-vano l’eguale dignità dell’acquirente e l’integrità immutabile del feudo (E. Mazzarese Fardella, I feudi comitali di Sicilia cit., p. 69).

32 E. Mazzarese Fardella, I feudi comitali di Sicilia cit., p. 82 e gli esempi ripor-tati, ivi, pp. 82-90.

33 Affronta le tematiche relative al diritto di devoluzione nel Regno di Napoli con riferimento al dibattito istituzionale e giuridico A.M. Rao, L’ «amaro della feu-dalità». La devoluzione di Arnone e la questione feudale a Napoli alla fine del ’700, Guida Editori, Napoli, 1984.

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cessione, che regolava la successione; e quello della devoluzione al fisco da parte del sovrano. La forma della concessione poneva dei limiti all’alienabilità del feudo? Il feudatario poteva disporre a suo piacimento del feudo estendendo a chiunque la successione? Era-no ammessi estranei oltre gli eredi legittimi? Era concesso al feu-datario in difetto di eredi legittimi di disporre in vita o in morte del feudo? In quali casi scattava la reversione al fisco? In questo senso la lettura del capitolo Volentes doveva essere congiunta con quella del precedente capitolo Si aliquem di re Giacomo, perché l’uno non poteva confliggere con l’altro, ma anche con la costituzione Ut de successionibus, con cui Federico II aveva regolato in prima istanza la successione feudale.

Prima di questa infatti nel Regno non vi era uniformità di com-portamento: per esempio le donne in alcuni luoghi erano escluse dalla successione e in altri invece no. L’imperatore svevo le abilitò a succedere in mancanza di eredi maschi, obbligando in caso con-trario a dotarle di paraggio34. Inoltre, stabilì che nella linea discen-dente maschile il diritto di successione fosse all’infinito con prefe-renza del maschio sulla femmina e del maggiore sul minore nello stesso grado, secondo il costume dei franchi. Nella linea collaterale la successione si determinava solamente tra fratelli e sorelle se il feudo era nuovo; mentre se era antico o paterno si estendeva an-che ai figli dei fratelli. Il capitolo Si aliquem allargò poi la successio-ne usque ad trinepotem (dal terzo al sesto grado, ma limitatamente ai congiunti collaterali che discendevano dal primo detentore del feudo)35. Veniva inoltre ribadito il principio della prevalenza dell’e-rede più anziano e della precedenza di genere. Il campo successo-rio subì insomma una dilatazione tale da annullare nei fatti ogni limitazione. Il diritto di devoluzione al fisco non fu certo eliminato,

34 Cfr. la consulta di Saverio Simonetti: Rimostranza del caporuota e consultore D. Saverio Simonetti sulla reversione dei feudi di Sicilia al regio fisco nel caso della mancanza dei feudatari senza legittimi successori in grado, 20 luglio 1786, in C. Pecchia, Supplemento alla storia civile e politica del Regno di Napoli, Napoli, 1869, vol. IV, pp. 44-105 (anche in Raccolta di opere riguardanti la feudalità di Sicilia, onli-ne sul sito http://books.google.it). Saverio Simonetti riprese le sue considerazioni anche nella successiva consulta del 6 maggio 1788, Sulla dichiarazione del capitolo Volentes rispetto ai feudi della Sicilia, ivi, pp. 24-36, in cui discusse alcune proposte interpretative sul capitolo Volentes avanzate dalla Giunta di Sicilia.

35 Su questa questione, cfr. anche il Voto per la successione obliqua nei feudi della Sicilia, di Saverio Simonetti, in C. Pecchia, Supplemento alla storia civile e po-litica del Regno di Napoli cit., pp. 262-276.

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ma indubbiamente subì delle restrizioni36. La feudistica finì così coll’accreditare l’opinione che tale regola successoria avesse valore solamente nella successione legittima (“intestata” o ab intestato), considerato che sulla base del capitolo Volentes il feudatario po-teva ormai «disporre a suo piacimento del feudo o con atti tra vivi o di ultima volontà, o che abbia congiunti in grado»: in tal modo i feudi si erano trasformati in allodii o beni burgensatici, cambiando la propria natura. Occorreva inoltre capire se il capitolo Volentes avesse inciso anche sul contenuto del capitolo Si aliquem che rego-lava la successione.

Simonetti chiarì che il capitolo Volentes aveva soltanto con-cesso facoltà ai baroni di alienare i feudi senza il permesso del sovrano sia in vita sia in ultima volontà, ma non ne aveva però alterato la natura né il modo di regolare la successione, né limitato la reversione al fisco, qualunque fosse la forma della concessio-ne37. La forma del feudo stabilita con la concessione, e dunque la successione, non era infatti modificabile senza l’assenso specifico del sovrano, che ne rimaneva sempre il legittimo proprietario. Que-sta precisazione assume un’importanza fondamentale in quanto sottolinea come la fonte del feudo sia sempre la concessione e l’in-vestitura da parte del sovrano. Alienabilità non significava allodia-lità del feudo38. D’altra parte il capitolo non alterava la disciplina successoria. Insomma, tutti i feudi sulla base del capitolo Volentes diventarono alienabili sia in vita sia in ultima volontà, purché non si andasse contro il patto di concessione, o non si allargassero i gradi di successione oltre il sesto, e non si arrecasse danno al regio fisco: la successione al feudo non «può estendersi a chiunque si voglia colle disposizioni de’ feudatari»; i gradi erano limitati e, oltre quelli, la reversione era innegabile39. Non era pertanto ammissibile

36 «Le devoluzioni dei feudi in questo Regno sono lontanissime, e forse non mai verificate dal tempo del Re Alfonso», notava il consultore D’Andrea (Asp, Real Segre-teria, Incartamenti, vol. 5488, 29 giugno 1798). Si veda lo schema elaborato da E.I. Mineo, Nobiltà di stato cit., p. 105.

37 Rimostranza del caporuota e consultore D. Saverio Simonetti sulla reversione dei feudi di Sicilia cit., pp. 64-68. Per la lettura di Dragonetti, cfr. G.L. Ianni, Gia-cinto Dragonetti e l’interpretazione del capitolo Volentes nel suo trattato sull’Origine dei feudi, in P. Maffei, G.M. Varanini (a cura di), Honos alit artes. Studi per il settan-tesimo compleanno di Mario Ascheri, IV. L’età moderna e contemporanea. Giuristi e istituzioni tra Europa e America, Reti Medievali - Firenze University Press, Firenze, 2014, pp. 39-48 (http://www.rm.unina.it/rmebook/dwnld/Ascheri_4.pdf).

38 Su questi aspetti, si veda anche il saggio di Luigi Alonzi nel presente volume.39 Rimostranza del caporuota e consultore D. Saverio Simonetti sulla reversione

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che il feudatario privo di discendenza in sesto grado alienasse il proprio feudo eludendo la reversione al fisco, come la scuola fo-rense siciliana aveva cercato di affermare, perché questa sarebbe stata un’operazione fraudolenta. «E ciò – puntualizzava Simonetti – non solo ha luogo negli atti tra vivi, ma anche nelle disposizioni di ultima volontà, perché tanto nell’uno quanto nell’altro caso regge la stessa ragione»40.

Come si è detto, il tema della natura del feudo era strettamente connesso con quello della forma della concessione che ne regolava la successione. La distinzione più rilevante era quella tra i feudi concessi in forma stretta e quelli concessi in forma larga su cui si sviluppò nel Settecento un dibattito a livello istituzionale proprio a partire dalle questioni sollevate da Simonetti. Da una parte, i so-stenitori della reversibilità ritenevano che tutti i feudi, di qualun-que forma essi fossero, derivavano dalla corona e ad essa dovevano ritornare in quanto, mancando la successione in grado, la linea del feudatario doveva ritenersi esaurita. Dall’altra invece alcuni giuri-sti ripresero la distinzione dei feudi in forma stretta (o pazionati, ex pacto et providentia, trasmissibili solo a discendenti ex corpore con esclusione dei collaterali, che rappresentavano in Sicilia la quasi totalità dei feudi) e in forma larga (o ereditarii), operata per la pri-ma volta dal giurista Bernardo de Medico (detto Saccurafa) a metà Trecento, e poi sviluppata nel Quattrocento da Guglielmo de Perno in una versione più favorevole alla feudalità41.

L’interpretazione di Bernardo è da considerarsi come l’espres-sione più favorevole al fisco – e per questo considerata con una cer-ta attenzione nel Settecento dai sostenitori delle riforme di Carac-ciolo e Caramanico42: il giurista affermava che nei feudi in forma stretta erano chiamati a succedere solo i discendenti legittimi ex corpore, con esclusione dei collaterali (dunque, neppure il fratello

dei feudi di Sicilia cit., p. 85.40 Ivi, p. 60.41 G. Dragonetti, Origine dei feudi nei regni di Napoli e Sicilia cit., pp. 273-274;

279. G. de Perno, Domini Guilielmi de Perno 24 consilia pheudalia cit. Il volume si conclude con la celebre super capitulo Volentes interpretatio di Berardo Medico, detto Saccurafa, il più antico dei feudisti siciliani. In realtà – nota Romano – la posizione di Berardo era meno favorevole agli interessi baronali di quanto non lo fosse quella di Perno che, fautore delle ragioni dei feudatari, ne contestò le posizioni prendendone le distanze (A. Romano, Introduzione a G. de Perno, Domini Guilielmi de Perno 24 consilia pheudalia cit., p. 25).

42 «Ridusse a’ veri termini la materia» (Rimostranza del caporuota e consultore D. Saverio Simonetti sulla reversione dei feudi di Sicilia cit., p. 62).

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del barone morto senza figli) e che i feudi alienati da baroni dece-duti senza discendenza diretta si sarebbero dovuti avocare al fisco, in quanto «capitulum non tollit formam concessionis»43. Nei feudi invece concessi in forma larga il barone poteva alienare o trasferire per testamento il suo feudo etiam extraneo. Se invece la successio-ne era legittima (ab intestato) in questi feudi si sarebbero applicate le norme di ius francorum (preferenza del primogenito, prevalenza di maschio sulla femmina e della nubile sulla maritata, nonché dei discendenti sui collaterali con esclusione degli ascendenti): nel caso di morte di un figlio senza eredi discendenti o collaterali, il feudo sarebbe pertanto ritornato al fisco44. Insomma, nei feudi in forma stretta le alienazioni non erano possibili, malgrado il capi-tolo Volentes, mentre erano consentite in quelli in forma larga. In entrambi i casi i diritti del fisco rimanevano in vigore.

La successiva lettura di Perno – che appare però non sempre coerente – ampliò il numero di feudi che rientravano nella catego-ria dei feudi concessi in forma larga, considerandoli alla stregua di allodi, e obiettò che non si dovesse per questi procedere alla reversione a favore del fisco, in quanto il vocabolo heredes dopo l’emanazione del capitolo Volentes si era connotato di un’accezione più ampia sino ad includere anche gli estranei (il vocabolo “erede” è verificabile in qualunque successore), e dunque tali feudi erano assimilabili ai «beni burgensatici e pagani»45. Da qui poi la massi-ma che tutti i feudi del Regno fossero alla stregua di beni allodiali, assai diffusa già nel Cinquecento.

43 A. Romano, Introduzione cit., p. 25; ma anche Id., Giuristi siciliani dell’età aragonese, Giuffrè, Milano, 1979, pp. 16-17.

44 Id., Giuristi siciliani dell’età aragonese cit., pp. 18-19. Bernardo Medico in-troduceva anche una terza forma che comprendeva i feudi concessi «baroni et filii suiis vel liberis eius in perpetuum» per i quali escludeva qualsiasi possibilità di trasferimento a persone diverse dai figli, e comunque una eventuale alienazione avrebbe avuto solamente la durata della vita del feudatario, dal momento che «post mortem vero filius potest vendicare sua». Per la distinzione nel Regno di Napoli, cfr. G. Vallone, Istituzioni feudali dell’Italia meridionale tra Medioevo ed antico regime. L’area salentina, Viella, Roma, 1999.

45 Per Simonetti invece «nella ragion feudale la parola eredi non comprende altri se non che i successori ed eredi di sangue», escludendo dunque estranei o congiunti collaterali oltre il sesto grado (Rimostranza del caporuota e consultore D. Saverio Simonetti sulla reversione dei feudi di Sicilia cit., p. 67). Cfr. anche G. Dragonetti, Origine dei feudi nei regni di Napoli e Sicilia cit., pp. 280-284. La tesi di Perno era stata contestata già nel Cinquecento dal giurista Giovanni Antonio Can-nizzo (Cannezio). Su Guglielmo de Perno, cfr. A. Romano, Giuristi siciliani dell’età

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Il feudo siciliano nella coscienza giuridica tardo-settecentesca 223

Questa impostazione, contestata da Simonetti e da Dragonet-ti, ebbe largo seguito nella feudistica siciliana e ancora nell’Ot-tocento vantava i suoi sostenitori pur con ulteriori distinguo e precisazioni. I consiglieri della Giunta di Sicilia chiamata dal so-vrano nel 1787 a esprimersi in merito considerarono feudi in for-ma stretta

quelli conceduti colla clausola pro se, filiis, et descendentibus, o pure pro se, suisque haeredibus et successoribus ex corpore, ita quod vivant jure francorum, o pure pro se, suisque haeredibus, ita quod vivant jure franco-rum; o pure pro se, suisque haeredibus cum clausula juris francorum, e che ben anche pazionati e di forma stretta si abbiano pure a reputare quelli conceduti prima del 25 marzo del 1296, ancorché sotto la formola pro se et haeredibus, siccome ancora fossero di forma stretta in virtù dei capitoli 454 e 456 del re Alfonso quelle baronie, delle quali non esistessero le inve-stiture per essersi disperse, o per altra causa46.

E feudi in forma larga quelli

l’investitura de’ quali fosse concepita sotto la forma pro se, et haeredibus quibuscumque o pure pro se, et haeredibus in perpetuum, o pro te, et cui dederis, e per quegli altri conceduti dopo il suddetto giorno del 25 marzo dell’anno 1290 sotto la forma pro se, et haeredibus47.

Sulla base di questa distinzione i feudi in forma stretta erano ritenuti comunque reversibili «quando non vi siano successori in grado, nel qual caso i baroni non possano disporne né tra vivi, né per ultima volontà». Per i feudi concessi in forma larga invece fu sostenuta la tesi che

i baroni, ancorchè destituti di speranza di prole, e perciò mancanti de’ successori in grado, potessero liberamente disporne, né il fisco in virtù delle loro disposizioni potesse aver reversione, eccetto però quando i baro-ni pria di morire non ne avessero disposto, nel qual caso si aprissero alla corona per non avere i feudatari pria di trapassare fatto uso della formola quibus dederis, con cui era concepita la concessione48.

aragonese cit., pp. 35 sgg. Per una sintesi sulle diverse interpretazioni del capitolo Volentes, cfr. ivi, pp. 150-151; 158-159.

46 Cfr. G. Dragonetti, Origine dei feudi nei regni di Napoli e Sicilia cit., p. 12.47 Ibidem.48 Ivi, p. 13.

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La distinzione dunque ancora a fine Settecento mostrava tutta la sua vitalità, e costituiva comunque un punto di riferimento su cui si articolava il dibattito sul feudo. Uno dei punti più dibattuti riguardava la possibilità per il feudatario senza figli di potere di-sporre del feudo al fine di evitarne la reversione al fisco.

Il consultore Simonetti – come ho detto – vi si oppose ferma-mente notando tra l’altro che i feudi in forma larga erano ben pochi nel Regno e, dunque, accettare questi ragionamenti in riferimento ai feudi in forma stretta avrebbe significato considerare nulle mol-te delle alienazioni fatte sino ad allora: per lui tutti i feudi erano alienabili a condizione di rispettare i limiti imposti dal capitolo Vo-lentes. Il testo della prammatica del 14 novembre 1788 – smen-tendo in modo inequivocabile la delibera del Tribunale del Real Patrimonio del 174049 – accolse l’impostazione del consultore. Essa determinò infatti a favore della tesi che difendeva la legittimità del-la devoluzione al fisco quale che fosse la forma del feudo, stretta, larga, mista, ereditaria, semplice o di qualunque altra maniera e clausola concepita; e rigettò l’interpretazione in base alla quale la distinzione dei feudi in forma stretta e in forma larga consentiva di considerare questi ultimi alla stregua di allodi e beni burgensatici, permettendo in tal modo al feudatario senza successori in grado di poterne disporre anche in favore di estranei a suo arbitrio prima di morire (eludendo in tal modo la reversione al fisco)50. La pramma-tica chiariva che tutti i feudi dovevano essere reversibili al fisco «in ogni qual volta accade la morte del feudatario o testata o intestata senza legittimi successori in grado» e che il feudatario senza figli e privo di successori in grado «non possa né anche con atti tra vivi alienare il feudo» quale che fosse la sua forma di concessione.

Se ne differì però sine die l’applicazione, in attesa dell’interpreta-zione ufficiale del capitolo Si aliquem che in realtà non si ebbe mai51.

49 Cfr. Ivi, p. 296. Si tratta della delibera con cui il Tribunale del Real Patrimo-nio ratificava la natura allodiale dei feudi siciliani, dando sostanzialmente ragione alle tesi esposte dall’avvocato Carlo Di Napoli nella causa di Sortino. Essa fu ripresa dal canonico Francesco Testa nell’edizione da lui curata dei Capitoli del Regno.

50 Cfr. la prammatica del 14 novembre 1788, Prammatica Sanzione per cui S. M. dichiara che la disposizione del capitolo Volentes del Re Federico d’Aragona non ha alte-rato la Forma dei Feudi, né ha elargato li Gradi della Successione, né ha estinto il Diritto di Revisione dei Feudi di qualunque natura, e sotto qualsivoglia forma concessi, che per l’estinzione della linea, e dei legittimi successori in grado se li appartiene, con alcuni Regolamenti all’istesso oggetto, come in essa in Bcp, Dispacci, t. LX H12, ma anche in C. Pecchia, Supplemento alla storia civile e politica del Regno di Napoli cit., pp. 37-43.

51 Va segnalato un ulteriore intervento del Simonetti nel 1788 (Voto per la suc-cessione obliqua nei feudi della Sicilia [1788], in C. Pecchia, Supplemento alla storia

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Il feudo siciliano nella coscienza giuridica tardo-settecentesca 225

Appare comunque significativo che ancora a metà Ottocento, e malgrado le precisazioni di Simonetti e Dragonetti, l’impostazione tradizionale continuasse a essere tenuta in grande considerazione, evidentemente perché più favorevole alla feudalità, come dimostra-no gli esiti della causa apertasi tra i successori dell’ammiraglio Orazio Nelson alla contea di Bronte (1838-1847)52. I giurisperiti consultati in qualità di «testimoni giurati» dalla Gran Cancelleria d’In-ghilterra fondarono le loro conclusioni sulla giurisprudenza in vigore nel Regno prima delle riforme del 1818 e sui trattati di diritto feudale risalenti per lo più alla fine del XVI secolo. Essi, pur tenendo presenti le conclusioni della prammatica del 1788, lasciarono in piedi la pos-sibilità («la quistione al piu potea farsi») che i feudatari potessero di-sporre prima di morire anche a favore di estranei dei «feudi ereditari, che erano quelli con la clausola “concedimus tibi et quibuscumque heredibus”», ossia per l’appunto i feudi in forma larga, sottraendoli in tal modo al fisco; ma esclusero ogni possibilità di interpretazione differente per i feudi in forma stretta ex pacto et providentia Principis nei quali la legge di successione è scritta nella concessione53.

Questi feudi infatti, «in mancanza di espressi poteri o clausole all’uopo nella concessione di tal feudo», erano inalienabili proprio per tutelarne i successori, la indivisibilità e la eventuale reversione a vantaggio del sovrano. Si tratta infatti dei cosiddetti feudi pazio-nati di forma stretta iure francorum, che di per sé non potevano essere ereditarii semplici:

il possessore, in mancanza di espressi poteri e clausole all’uopo nella concessione di tal feudo, non avea potere legale di cambiarne la natura e l’ordine di successione, né alienare tale feudo, a pregiudizio dei suoi eredi. L’ordine di successione incidente al feudum ex pacto et providentia Princi-pis era sempre regolato dalla legge dei Franchi54.

civile e politica del Regno di Napoli cit., pp. 262-276). Cfr. anche i successivi provve-dimenti Bcp, Dispacci, t. LX H12, 22 febbraio 1789, Si ordina di pubblicare il Bando disposto in seguito della Prammatica del 14 novembre 1788 per tutto ciò, che devesi praticare da ogni successore di beni, delli quali se ne deve prendere l’investitura; e ivi, 28 febbraio 1789, Bando per tutto ciò che devesi praticare da ogni successore di beni, delli quali se ne deve prendere l’investitura.

52 D. Palermo, Dal feudo alla proprietà: il caso della ducea di Bronte, Studi e ricerche, Associazione Mediterranea, Palermo, 2012 (on line sul sito http://www.storiamediterranea.it/).

53 Risposte dei «testimoni giurati» ai quesiti posti durante la causa Nelson contro Bridport (Asp, Archivio della ducea di Bronte, b. 284, cc. nn.), cit. in D. Palermo, Dal feudo alla proprietà cit., pp. 85-88.

54 Ivi, p. 102.

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I giurisperiti della causa Nelson introdussero inoltre un ulte-riore elemento di classificazione, il feudum emptitium, cioè quello acquistato col denaro, al quale peraltro – come si è già detto – face-va riferimento anche l’autore della Rimostranza da cui siamo par-titi, e che era stato particolarmente diffuso in età moderna. Esso era della stessa natura dei feudi della prima classe se aveva avuto origine da una concessione sovrana. Se invece il suo possesso era derivato da una vendita mediante un contratto civile, in questo caso attraverso i secoli col feudo si erano messi in commercio tutti quei diritti che la consuetudine e l’osservanza avevano «consagrati» o che erano stati espressamente trasferiti nella stessa vendita: «il possessore ne potea disporre in quel modo che le piacea e potea a suo piacere cambiare la natura dello stato e l’ordine di successio-ne, potendolo alienare a pregiudizio dei suoi eredi»55.

Il feudo emtizio infatti si acquistava «mediante una somma di denaro o per servizii prestati, i quali meritavano giuridicamente un compenso», e in questo senso rientrava nella categoria dei beni allodiali, sottoposti pertanto alle leggi ordinarie e a quelle relative al contratto di compravendita56.

Il feudo emptitium sentiva della natura dell’allodiale e si reputava an-nesso ai beni dell’acquirente, formante parte del patrimonio di lui; epperò, in esso non si succedea ex natura feudi ma ex natura contractus e di esso si giudicava come di tutt’altri beni che il figlio riceveva dal padre; quindi il feudo acquistato titulo emptitionis si dicea piuttosto contratto di com-pra che gratuita donazione. Nessuna differenza passa tra i beni allodiali acquistati dal padre de’ quali può disporre ad libitum ed i beni feudali ad enfiteutici, quesita re et pecunia, se non rispetto al dominio diretto, benché cessa quando la cosa non esclude coloro che compresi sono nella investitura. Così Boscolo, apud De Luca, loco citato, e tutti gli scrittori dal medesimo rapportati57.

Insomma, tale spiegazione consentiva di risolvere molti pro-blemi, trattandosi di una tipologia di feudo assai diffusa, e apriva le porte all’allodialità in modo più concreto, anche se ancora non privo di ambiguità.

55 Ivi, p. 101.56 Ivi, p. 88. 57 Ivi, pp. 88-89.

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Il feudo siciliano nella coscienza giuridica tardo-settecentesca 227

A giudicare dall’attività del Tribunale Civile Internazionale di Lugano, organo permanente della Corte Europea di Giustizia Ar-bitrale di Ragusa, le cui deliberazioni – se ottengono l’exequatur dall’autorità giudiziaria della Repubblica Italiana – hanno efficacia esecutiva, la questione è ancora di una qualche attualità. Nel 2006 tale Tribunale ha osservato che:

Sembrerebbero ostare a questo regime il capitolo “Si aliquem” di Re Giacomo d’Aragona e le prammatiche di Ferdinando I di Borbone 3 ottobre 1786 e 14 novembre 1788; e tuttavia questo Tribunale ritiene che, avendo il capitolo “Volentes” consentito non solo la vendita del feudo e del relativo titolo, ma anche la successione testata a favore di persona non parente, i feudatari siano rimasti liberi di disporre testamentariamente di feudo e titolo a loro piacimento, dovendosi intendere che tanto la costituzione “Si aliquem” di Re Giacomo, quanto le due indicate prammatiche di Ferdinan-do I delle Due Sicilie abbiano avuto a loro oggetto la successione legittima e non già quella testata58.

Secondo l’interpretazione della corte arbitrale il capitolo Si ali-quem e le due prammatiche di Ferdinando I di Borbone concer-nano esclusivamente le successioni ex lege (si applicano cioè solo allorché il titolare non abbia disposto per testamento del feudo e del relativo titolo) mentre rimane ferma – in forza del capitolo Vo-lentes, che ha consentito sia la vendita del feudo e del titolo, sia la successione testamentaria negli stessi – la facoltà del titolare di disporre a piacimento di entrambi (feudo e titolo) per testamento. Il lodo arbitrale sembra riprendere insomma l’interpretazione di Guglielmo Perno relativamente al valore da attribuire al vocabolo heredes riferendolo anche a persona non parente (estraneo), ma fa piazza pulita della distinzione introdotta da Bernardo Medico tra feudi in forma stretta e feudi in forma larga che tanto aveva appassionato la feudistica sino all’Ottocento, e di cui in effetti nel capitolo Volentes non si faceva alcuna menzione (e che le stesse prammatiche settecentesche avevano del resto rigettato). Richiama inoltre la distinzione tra successione legittima e successione testa-ta, contestando le interpretazioni istituzionali del capitolo Volen-

58 Sentenza pronunciata il 30 ottobre 2006 n. 1/06, resa esecutiva nel territo-rio della Repubblica Italiana con decreto del Presidente del Tribunale Ordinario di Ragusa in data 25-01-2007, rep. n. 147. Il testo riportato è ripreso on line sul sito http://www.studionobiliare.com/titoli_feudali.html.

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tes. In verità, come si è visto, il feudatario senza successori in gra-do non avrebbe potuto sulla base delle prammatiche (che ritengo interpretino bene il dettato del capitolo) né allargare la successione legittima oltre il sesto grado né disporre per testamento a favore di estranei. D’altra parte una interpretazione ufficiale del capitolo Si aliquem – almeno per quanto ne sappiamo – non si ebbe mai.

Al di là del caso singolo, occasione della sentenza, che in que-sta sede non interessa analizzare, risulta evidente come la materia sia delicata. Sebbene gli arbitrati non possano avere per oggetto l’accertamento delle spettanze nobiliari in via principale, tuttavia «si ammette la possibilità di arbitrato per le controversie patrimo-niali consequenziali, ad eccezione di quelle relative agli alimenti»59, vale a dire che l’azione principale deve essere diretta a riconoscere alla parte un diritto patrimoniale o di altra natura condizionato al possesso di uno status nobiliare, il cui accertamento viene com-piuto così «incidentur tantum».

59 G. Verde, La convenzione di arbitrato, in Id. (a cura di), Diritto dell’Arbitrato Rituale, Giappichelli editore, Torino, 2000, p. 59.

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sommArio: Il XVIII secolo nell’intera Europa si caratterizzò per un ampio dibattito sulla feudalità, che interessò in modo profondo anche il Regno di Napoli e il Regno di Sici-lia. Si trattò di un serrato e talvolta drammatico confronto a cui parteciparono uomini politici, filosofi, economisti e gli stessi baroni.

PArole chiAve: feudo, Napoli, Sicilia.

BETWEEN ECONOMY, POLITICS AND SOCIETY: THE “QUESTIONE FEUDALE” IN THE KINGDOMS OF NAPLES AND SICILY IN THE 18TH CENTURY

AbstrAct: The eighteenth century throughout Europe was characterized by a broad debate on the feudalism that profoundly interested the Kingdom of Naples and the Kingdom of Sicily. It was a tight and sometimes dramatic controversy among politi-cians, philosophers, economists and even the barons.

Keywords: fief, Naples, Sicily.

Durante il ‘700, nel mondo della cultura, del diritto e dell’eco-nomia del “vecchio continente” la “questione feudale” diventò uno dei volti della crisi della “società di ordini”. Si trattò di un «proces-so» – di importanza tale da contraddistinguere pressoché l’intero secolo – che, secondo Aurelio Musi, non fu «né lineare, né prevedi-bile nei suoi sviluppi, né definito»1.

In Inghilterra, dove la società da tempo si era liberata da ogni sopravvivenza feudale, si dibatté «soprattutto sul rapporto tra svi-luppo economico e libera costituzione politica». Nel resto d’Europa,

Il saggio si inserisce nell’ambito del Progetto di Ateneo FFR 2012/2013 (2012-ATE-0067 Università di Palermo) coordinato dalla prof. R. Cancila.

1 A. Musi, Il feudalesimo nell’Europa moderna, il Mulino, Bologna, 2007, p. 244. Una datata ma preziosissima testimonianza del dibattito fra storici sull’abo-lizione della feudalità in Europa in L’abolition de la féodalité dans le monde oc-cidental, Colloques internationaux du Centre national del recherche scientifique, Tolouse 12-16 novembre 1968, 2 voll., Editions du centre national de la recherche scientifique, Paris, 1971.

Daniele Palermo

TRA ECONOMIA, POLITICA E SOCIETÀ: LA “QUESTIONE

FEUDALE” NEI REGNI DI NAPOLI E DI SICILIA NEL XVIII SECOLO

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a fronte di diffuse posizioni favorevoli all’abolizione della giurisdi-zione feudale, vi furono opinioni diverse sull’identificazione delle nuove «forze motrici» dello sviluppo2.

Si sarebbe giunti alla rivoluzione francese dall’indubbio «carat-tere antifeudale», tuttavia, «il passaggio da una struttura antica a una nuova» fu «complesso, ambiguo, differenziato nel tempo e nello spazio, anche per i processi di trasformazione interna che avevano interessato gli ordini privilegiati»3.

1. Feudo e società nel Regno di Napoli: verso la “questione feudale”

Nel Regno di Napoli il dibattito sulla feudalità, sviluppatosi in particolare nella seconda metà del XVIII secolo, fu particolarmente articolato e non fu fine a sé stesso e isolato, poiché fu inquadrato «nel problema di un generale riassetto di tutto l’ordinamento della proprietà e in quello dello sviluppo economico e sociale del paese» e connesso «con le questioni successorie, i fidecommessi, l’imposi-zione dei tributi, la politica economica»4.

Nel XVII secolo, secondo Aurelio Musi, nel Mezzogiorno «mor-te e risurrezione … coesistono»: rimane forte il legame fra «poteri pubblici delegati» e terra, ma «il processo di sviluppo che investe pure le campagne del Regno di Napoli … sollecita sia una più in-tensa e diffusa commercializzazione sia fattori di mobilità sociale di rilevanza maggiore rispetto ai secoli precedenti»; questi due ultimi elementi «avrebbero potuto mettere radicalmente in discussione la base della feudalità»5. Frattanto, gli esperti di diritto feudale co-minciavano a elaborare un’articolata casistica sulla successione, tesa a dare fondamento giuridico alla privatizzazione del feudo6.

Sin dagli anni ’80 del XVII secolo, si era avviata poi un’intensa dialettica tra baroni e togati al cui centro era la giurisdizione feu-dale, tacciata di essere un ostacolo all’affermazione di un diretto rapporto stato-sudditi e, sin dai primi anni del secolo successivo, si era cominciato a ritenere la giurisdizione baronale «strumento di

2 A. Musi, Il feudalesimo nell’Europa moderna cit., pp. 244-246.3 Ivi, p. 274.4 G. Galasso, “La filosofia in soccorso de’governi”. La cultura napoletana del

Settecento, Guida, Napoli, 1989, p. 634.5 A. Musi, Il feudalesimo nell’Europa moderna cit., p. 240.6 A.M. Rao, L’ «amaro della feudalità». La devoluzione di Arnone e la questione

feudale a Napoli alla fine del ’700, Guida, Napoli, 1984, pp. 13-16.

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Tra economia, politica e società: la “questione feudale” 231

oppressione locale da un lato, di contrapposizione politica al pote-re centrale dall’altro»: era la logica conclusione delle formulazioni regalistiche, in particolare di Vincenzo D’Ippolito e Nicola Capas-so7, che avevano trovato espressione alla fine del ‘600 nelle lezioni tenute presso l’Accademia Palatina di Medinacoeli8.

Già negli anni austriaci, in particolare durante il mandato del viceré Althann, erano falliti alcuni tentativi di limitare i poteri feu-dali. Le supreme magistrature del regno si disinteressavano poi dei problemi connessi alla giurisdizione feudale, mentre i tribunali e l’ampio mondo forense si schieravano per lo più a sostegno dei privilegi del baronaggio9.

Tratto comune della prima fase del regno borbonico fu la vo-lontà di non colpire direttamente la feudalità ma di correggerne gli “abusi” – categoria questa utilizzata per sottolineare deformazioni e patologie di un istituto considerato invece connaturato alla mo-narchia –; l’obiettivo era di «ricondurlo rigorosamente alla volontà politica del principe»10. Si inaugurò così la prassi di non emanare provvedimenti generali e sistematici volti ad arginare lo strapotere dei feudatari ma di attuare, di volta in volta, decisioni che facevano seguito a singole denuncie di “abusi”11. Questo metodo d’azione, costantemente utilizzato, coincise negli anni 1736-1742 con il falli-mentare tentativo di affrontare in modo più complessivo, attraverso una riforma dei tribunali, il problema della giurisdizione feudale12.

I tratti caratteristici di questa fase possono essere individuati nel primo periodo di esercizio del ministero da parte di Tanucci; tuttavia, la sua azione nei confronti del baronaggio non fu incisiva come sul fronte giurisdizionalista o nel rapporto con gli “uffici”13. La feudalità riuscì a vanificare gli effetti principali degli atti più importanti: ad esempio, nel 1746 le competenze del Supremo ma-

7 Ivi, p. 41; cfr. anche Ead., Nel Settecento napoletano: la questione feudale, in R. Pasta (a cura di), Cultura, intellettuali e circolazione delle idee nel ‘700, Feltrinelli, Milano, 1990, pp. 51-106.

8 A. Musi, Il feudalesimo nell’Europa moderna cit., p. 246.9 A.M. Rao, Il Regno di Napoli nel Settecento, Guida, Napoli, 1984, pp. 48-50.10 Ead., L’ «amaro della feudalità» cit., p. 41; cfr. anche Ead, Nel Settecento

napoletano: la questione feudale cit., pp. 74 ssg; A. Musi, Il feudalesimo nell’Europa moderna cit., p. 246.

11 A.M. Rao, L’ «amaro della feudalità» cit., p. 42.12 Ead., Il Regno di Napoli nel Settecento cit., pp. 69-71.13 G. Galasso, Storia del Regno di Napoli, vol. IV, Il Mezzogiorno borbonico e

napoleonico (1734-1815), Utet, Torino, 2007, pp. 439-441.

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gistrato del commercio, che aveva ridotto la giurisdizione civile dei baroni, furono ridimensionate in cambio di un donativo di 300.000 ducati.

Secondo Pasquale Villani, bisognerà aspettare la seconda metà del XVIII secolo perché «il problema della feudalità sia considerato in maniera più complessa e il sistema sia denunziato, dapprima con impliciti accenni, poi con sempre maggiore chiarezza, come residuo di un’età di barbarie, come limite inammissibile alla so-vranità dello stato, come impedimento allo sviluppo economico e al progresso civile»14.

Carlo VII nel 1759 emanò un provvedimento di grande incisi-vità in un contesto in cui la critica alla feudalità veniva enucleata ancora attraverso la categoria degli “abusi”: l’esercizio illegittimo di un diritto non lo legalizza. Al contempo si tornò a considerare indi-spensabile l’“assenso regio” per porre i beni feudali a garanzia dei prestiti contratti: si invalidarono i debiti feudali senza “assenso” e si coinvolsero i creditori nel rispetto della norma15. A partire dal 1762 iniziò la pluridecennale opposizione dei feudatari all’abolizio-ne dei dazi doganali interni, poiché su questi godevano di introiti16.

In conseguenza della crisi alimentare della capitale del 1764, nel corso di un biennio che rappresentò un importante snodo nella storia d’Europa, si inaugurò da parte del Tanucci una politica più chiaramente antibaronale17: si impegnò a sostenere con decisione le rivendicazioni delle università che chiedevano di passare al de-manio regio, a limitare le vendite di nuovi feudi e a mantenere nel demanio quelli devoluti; «si trattava di misure modeste, significati-ve del suo impegno antibaronale ma anche della mancanza di forze adeguate a sostenere una politica più radicale»18.

Questa presa di coscienza fu indubbiamente favorita dall’azio-ne degli illuministi napoletani che inaugurarono un «nuovo meto-do di approccio alla realtà feudale»: utilizzavano l’analisi sociale e quella economica per individuare l’incidenza dell’istituto feudale sulla realtà meridionale. Pur non contenendo espliciti e diretti at-tacchi al baronaggio, già il pensiero illuminista genovesiano aveva

14 P. Villani, Mezzogiorno tra riforme e rivoluzione, Laterza, Roma-Bari, 1974², pp 155-159, 163-164.

15 G. Galasso, Storia del Regno di Napoli cit., pp. 444-448.16 Ivi, pp. 596-600. Sul biennio 1764-1765, cfr. D. Carpanetto, G. Ricuperati,

L’Italia del ‘700, Laterza, Roma-Bari, pp. 261-275.17 A.M. Rao, L’ «amaro della feudalità» cit., pp. 39-40.18 Ead., Il Regno di Napoli nel Settecento cit., p. 104; cfr. anche pp. 98-102.

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indubbio contenuto antifeudale19 e conseguenze radicali: il libero commercio di tutte le terre – e ciò avrebbe impedito che continuas-sero a vigere fedecommessi, manomorte e inalienabilità –, l’aboli-zione dei privilegi feudali e, anche se solo implicitamente richiesta, quella della giurisdizione baronale20. Nei decenni seguenti, proprio a partire dalla sua analisi, si sarebbe articolata la polemica anti-feudale; sarebbe stato soprattutto Gaetano Filangieri a sviluppare in modo organico e sistematico gli spunti genovesiani21. Secondo Anna Maria Rao, fu dunque la crisi del 1759-65 a fornire un impul-so determinante al movimento riformatore napoletano: in quella difficile congiuntura assunse nuovo vigore la polemica antifeuda-le, ebbero origine le denuncie di Galanti e più mediatamente le idee filangieriane22 e, proprio negli anni successivi alla carestia, la propagazione delle idee fisiocratiche rese antifiscale il programma antifeudale dei riformatori23.

A partire dagli anni ‘70, con l’arrivo di Maria Carolina, si con-solidò attorno ai sovrani «una cerchia nobiliare che ne condiziona-va variamente il pensare e l’agire», inoltre fronteggiare l’aristocrazia era reso più arduo «dalla carenza di forze sociali realmente alter-native»24. Perdippiù, dopo l’allontanamento di Tanucci dal potere, nel 1776, la situazione politica divenne ancor più complessa per l’«ambiguità» della politica feudale del ministero del marchese della Sambuca, che segnò un’«inversione di rotta»25. Tuttavia, proprio in quel decennio, si fece più intensa la polemica storica, politica e giuridica contro il privilegio feudale e, nei suoi ultimi anni, l’obiet-tivo dei riformatori non fu più la correzione degli abusi ma l’ever-sione del sistema26.

2. La questione feudale a Napoli

Gli anni ’70 furono necessaria preparazione del decennio suc-cessivo caratterizzato proprio dalla “questione feudale”, nel quale a segnare l’attività di governo che accompagnò il dibattito furono

19 A. Musi, Il feudalesimo nell’Europa moderna cit., pp. 246-247.20 P. Villani, Mezzogiorno tra riforme e rivoluzione cit., pp. 164-165.21 A. Musi, Il feudalesimo nell’Europa moderna cit., pp. 246-247; A.M. Rao, Il

Regno di Napoli nel Settecento cit., pp. 98-99.22 A.M. Rao, Il Regno di Napoli nel Settecento cit., p. 98.23 Ead., L’ «amaro della feudalità» cit., pp. 60-61.24 G. Galasso, Storia del Regno di Napoli cit., pp. 448-451.25 A.M. Rao, L’ «amaro della feudalità» cit., pp. 51-52.26 G. Galasso, Storia del Regno di Napoli cit., pp. 596-600.

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soprattutto «le iniziative e le discussioni sulla terra e sui problemi della produzione agricola e della proprietà fondiaria». Lo strumento delle riforme fu il Supremo consiglio delle finanze, istituito nell’ot-tobre 1782, che in parte esautorava la Camera della Sommaria; di-ventò «quasi il simbolo della concreta collaborazione fra illuministi e governo»: negli anni successivi vi entrarono fra gli altri Domenico Grimaldi, Gaetano Filangieri, Giuseppe Palmieri e il duca di Can-talupo, Domenico Di Gennaro.

Il vero iniziatore della «battaglia» antifeudale può essere con-siderato Gaetano Filangieri – la sua opera principale, la Scienza della legislazione, fu pubblicata tra il 1780 e 1791–, la cui polemi-ca non ha come unico obiettivo quello di indicare la giurisdizione feudale come ostacolo alla sovranità dello Stato ma implica un «più complessivo progetto di riorganizzazione della società e dell’ammi-nistrazione e di separazione fra Stato ed economia … definitiva-mente contestando, con Galanti e Delfico, e contro Montesquieu, che non potessero esistere monarchie senza feudi, né senza vir-tù»27. L’attacco filangieriano alla feudalità è portato alle estreme conseguenze da Galanti, «integrato con la minuta descrizione della condizione di vita nelle campagne, del sistema tributario e fiscale, dell’ordinamento giudiziario ed amministrativo»28. Nella Descrizio-ne del Regno – il cui primo tomo fu pubblicato nel 1786 –, ritenuta da Galasso il suo «opus maximum», il tema feudale era uno dei più trattati29. L’opposizione a Filangieri – in particolare all’abolizione di maggioraschi e primogeniture e all’individuazione del feudo come non necessario alla corretta costituzionalità di una monarchia – non venne dal «baronaggio come ceto» ma da coloro che si richia-mavano a Montesquieu, in particolare da Grippa, in uno scritto del 1782, la Lettera al signor cavaliere d. Gaetano Filangieri sull’esame di alcuni suoi progetti politici 30.

Nel prosieguo del decennio, le politiche governative seguirono un triplice indirizzo: dapprima «si tende … a concentrare in pochi e decisivi provvedimenti normativi gli interventi che negli anni prece-denti erano diluiti in una serie di misure particolari, poi ad eserci-tare sul baronaggio una pressione fiscale crescente che più o meno

27 A.M. Rao, Nel Settecento napoletano: la questione feudale cit., p. 99.28 A. Musi, Il feudalesimo nell’Europa moderna cit., pp. 247-249.29 Cfr. G. Galasso, La filosofia in soccorso de’governi. La cultura napoletana del

Settecento cit., pp. 485-497.30 P. Villani, Mezzogiorno tra riforme e rivoluzione cit., pp. 166-167, 170-171.

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programmaticamente portava a ridurre l’area del privilegio e delle franchigie feudali»; infine, si pratica una politica di censuazione e assegnazione delle terre del vasto demanio statale31.

Nonostante gli eventi che mutarono la posizione internazionale del Regno di Napoli, negli anni successivi all’avvio della rivoluzione francese non si arrestò l’attività riformatrice32, anzi questa para-dossalmente trasse alimento dagli eventi transalpini, non solo per-ché risolvere la “questione feudale” avrebbe significato «anche al-lontanare lo spettro della rivoluzione»33; ma anche perché, in quella complessa e straordinaria congiuntura, «il movimento riformatore, sostenuto dall’esempio di Francia, dove proprio alla resistenza ari-stocratica si metteva in conto la deriva rivoluzionaria, lanciò un ultimo assalto al privilegio feudale, inteso ormai come un mero strumento di potere nelle campagne e individuato pertanto come un drammatico freno agli sviluppi della statualità»34. Al contempo, il campo riformista si divise sulla questione della venalità e com-merciabilità del feudo35.

I provvedimenti adottati da Ferdinando IV fino all’inizio degli anni ’90 furono in continuità con quelli di Carlo36, al contempo si presentavano favorevoli ai riformatori i mutamenti ai vertici del-lo Stato, indirizzati e sostenuti dai ministri Caracciolo, Acton, De Marco e, dal 1791, Simonetti37. In particolare, un vero e proprio successo per il “partito riformatore” fu la nomina nel 1790 di Do-menico di Gennaro, duca di Cantalupo, “liberista” e sostenitore dei diritti di proprietà, alla testa della neoistituita Intendenza degli al-lodiali. Nello stesso anno Delfico presentò a Maria Carolina lo scrit-to Sull’importanza di abolire la giurisdizione feudale, e sul modo, in cui sottolineava la sua abusività, anche rispetto ai caratteri ori-ginari della feudalità, denunciava il conseguente smembramento della sovranità e la moltiplicazione della litigiosità; ne proponeva dunque l’abolizione con indennizzo38.

31 G. Galasso, Storia del Regno di Napoli cit., p. 598.32 Cfr. Ivi, pp. 713-715.33 A.M. Rao, Il Regno di Napoli nel Settecento cit., pp. 121-123.34 A. De Francesco, 1799: una storia d’Italia, Guerini e associati, Milano, 2004, p. 24.35 G. Galasso, Storia del Regno di Napoli cit., pp. 720-730; cfr. anche A.M. Rao,

L’ «amaro della feudalità» cit., p. 52.36 G. Galasso, Storia del Regno di Napoli cit., pp. 597-598.37 A.M. Rao, Il Regno di Napoli nel Settecento cit., p. 113.38 Ead., L’ «amaro della feudalità» cit., pp. 67-69.

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3. Il dibattito sulla vendita dei feudi devoluti

Rilevante parte della scena politica tra la fine degli anni ’80 e l’inizio degli anni ’90 fu occupata da una dura polemica sulla prammatica sulla vendita in allodio dei feudi devoluti. Le contro-versie di lunghissima durata tra fisco e baroni sulla devoluzione dei feudi ricorrevano frequentemente nel Regno di Napoli ed erano «espressione di una dinamica feudale sempre viva, nella quale di-ritto pubblico, diritto feudale, diritto privato, venivano di volta in volta invocati l’uno contro l’altro o l’uno accanto all’altro in difesa del processo di commercializzazione e privatizzazione del feudo ma al tempo stesso dell’integrità dei suoi diritti e dei profili giuspubbli-cistici che ne garantivano privilegi e funzioni»39.

In una fase di «debolezza del privilegio feudale»40, proprio la questione delle devoluzioni era divenuta «un elemento decisivo di crisi nella politica borbonica, intorno al quale sarebbero emerse in pieno le contraddizioni del sistema amministrativo, economico e sociale del Regno, e si sarebbero scontrati in maniera irrecon-ciliabile vecchie e nuove forze, vecchi e nuovi schemi mentali e culturali»41. Secondo Anna Maria Rao, la tendenza prevalente del dibattito culturale non era di segno positivo: non predominavano le posizioni abolizioniste ma, attraverso la riaffermazione della de-voluzione al fisco dei feudi, quelle di coloro che non prendevano in considerazione l’eversione della feudalità come naturale corona-mento delle riforme modernizzatrici. In quella stessa fase però i ri-formatori cominciavano a ritenere l’eversione «il mezzo più idoneo» per giungere all’«estinzione del sistema feudale»42.

Il progetto di vendere in allodio e senza giurisdizione i feudi tornati alla Corona fu concretamente formulato e sottoposto al so-vrano da Melchiorre Delfico nei primi mesi del 178843. Contrario al Delfico fu Dragonetti, la cui impostazione aveva l’effetto di rendere

39 Ivi, pp. 12-13.40 Si tratta di «debolezza politica degli eletti di Napoli, sconfitti negli anni della

carestia e limitati nella loro capacità di pressione contrattuale dal mancato ricorso ai donativi; debolezza nei rapporti con le università, a seguito della politica di soste-gno a queste ultime incentivata dal Tanucci; debolezza del possesso feudale stesso, i cui elementi di “precarietà” venivano sottolineati dal susseguirsi di devoluzioni dal 1760 in poi» (Ivi, pp. 43-50).

41 Ivi, p. 43.42 Ivi, pp. 53-54.43 Ivi, pp. 54-60. Su Delfico, cfr. anche P. Villani, Mezzogiorno tra riforme e

rivoluzione cit., pp. 176-182.

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«in assoluto inconcepibile ed anzi lesivo della fondamentale “costi-tuzione politica della Nazione” qualsiasi attentato al diritto di devo-luzione»44. Il 30 maggio 1791 il sovrano si pronunciò sulla questio-ne: tutti i feudi devoluti si sarebbero dovuti vendere come allodio, anche frazionati. Si trattava di un compromesso tra progetto dei riformatori e intenzioni del governo: giurisdizione e devoluzione furono soppresse ma solo per i feudi tornati al demanio. L’appli-cazione del provvedimento fu complicata dalla dura opposizione delle tradizionali magistrature del Regno e dall’idea di finalizzare le vendite in allodio al recupero delle rendite pubbliche45.

Tra il 1792 e il 1818 si sviluppò la controversia sulla devoluzio-ne del feudo di Arnone46, il cui protagonista fu l’avvocato del Real Patrimonio Vivenzio; la sua nomina da parte del governo era stata di carattere chiaramente antibaronale47. Nell’ambito del contenzioso, tanto i baroni quanto i riformatori mostrarono di condividere l’intento di ridurre il feudo a un «mero fantasma», e anche un’ambigua conce-zione privatistica di questo: i feudatari sostenevano che «le origini del feudo nulla avessero a che vedere con le moderne monarchie e con le società “civili”»48 e i riformatori che, «fra pubblicizzazione e privatiz-zazione del feudo, la via era una sola, quella della sua abolizione»49.

La questione della vendita dei feudi devoluti radicalizzò il con-flitto tra la via “politica” – che legava la risoluzione della “questio-ne feudale” alla riorganizzazione dello stato e dell’economia e alla trasformazione dei criteri organizzatori della società – e la «via fo-rense» – mirata alla difesa dell’esistente. Perdippiù il movimento ri-formatore apparve visibilmente solcato da una netta divisione che ruotava intorno allo sbocco da dare ai feudi: trasformarli in allodio e fare del grande proprietario la «figura dominante del nuovo asset-to politico-sociale» o mirare alla creazione di una società di piccoli proprietari sul modello americano50?

44 A.M. Rao, L’ «amaro della feudalità» cit. pp. 56-58; cfr. anche P. Villani, Mez-zogiorno riforme e rivoluzione cit., pp. 172-176.

45 A.M. Rao, L’ «amaro della feudalità» cit., pp. 70-121.46 Ivi, pp. 11-18, pp. 187 sgg.47 Ivi, pp. 238-271. Secondo Winspeare - autore della classica opera Storia

degli abusi feudali e «il maggiore ispiratore» delle leggi eversive del 1806 (Cfr. G. Galasso, David Winspeare: il feudo come abuso e la storia come bipolarità, «Archivio di storia della cultura», I (1988), pp. 179-217) - si trattava del primo personaggio ad avere combattutto gli abusi baronali; sicuramente fu tra gli uomini più rappresen-tativi della politica di riforme (A.M. Rao, L’ «amaro della feudalità» cit., pp. 238-271).

48 Ivi, pp. 291-293.49 Ivi, pp. 328-334.50 Ivi, pp. 121-126.

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4. Cambiamenti di prospettiva: gli effetti della “grande rivoluzione”

Posizioni ed equilibri all’interno del fronte riformatore erano dun-que mutati soprattutto per le conseguenze della Rivoluzione francese e si era arrivati anche a vere e proprie fratture. Inoltre, la complicata e non lineare abolizione della giurisdizione dei feudi ecclesiastici e la farraginosa e contraddittoria riforma della giustizia, operate nella prima metà degli anni ’90, avevano determinato ulteriore confusione nelle politiche di ridimensionamento del feudo51. A partire dal 1796, si rafforzarono le argomentazioni dei sostenitori della trasformazione dei feudatari in “proprietari borghesi”, anche per il continuo ridursi della rilevanza politica, economica, giurisdizionale del feudo. Si trattava di un altro segmento di un lungo e articolato dibattito sulla costituzione cetuale del Regno e sul ruolo della nobiltà52.

La rivoluzione del 1799 impresse una notevole accelerazione al processo di abolizione della feudalità53, tuttavia, dall’ampio e ma-turo confronto iniziato decenni prima ci si sarebbe aspettata una rapida e decisa «riforma del sistema feudale», invece anche la sem-plice formulazione legislativa dei provvedimenti si rivelò «più diffi-cile di quanto si era pensato». Inoltre, su questioni la cui soluzione era univocamente invocata lo schieramento rivoluzionario fu capa-ce di dividersi in modo tale da realizzare l’approvazione della legge abolitiva quando ormai era trascorso il momento opportuno54. La questione feudale era affrontata poi non solo in un contesto di cesura politica con gli anni precedenti, ma soprattutto da uomini nuovi: una diversa generazione succeduta a quella dei grandi pro-tagonisti del riformismo, scomparsi fra il 1780 e il 179055.

Il 25 gennaio 1799, nelle more dell’impetuoso sviluppo del «pro-cesso di democratizzazione», fu varata la legge di abolizione dei fede-commessi; e il 10 febbraio successivo con un’ulteriore legge, frutto di un compromesso conseguente a un aspro confronto sulla questione che coinvolse anche i francesi, si precisò che per patrimoni non anco-ra trasmessi in eredità la successione sarebbe spettata al figlio mag-giore, con la concessione di modesti rimborsi finanziari agli altri56.

51 Ivi, pp. 121-153.52 Ivi, pp. 160-186, 272-289.53 A. De Francesco, 1799. Una storia d’Italia cit., p. 12; A.M. Rao, Il Regno di

Napoli nel Settecento cit., pp. 134-135.54 G. Galasso, La filosofia in soccorso de’governi. La cultura napoletana del

Settecento cit., p. 635.55 A.M. Rao, Il Regno di Napoli nel Settecento cit., p. 135.56 A. De Francesco, 1799. Una storia d’Italia cit., pp. 81-83; cfr. anche G. Ga-

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Il dibattito sulla legge abolitiva della feudalità, al pari del testo finale, fu influenzato dalla consapevolezza diffusa tra i “patrioti” «che sulla soluzione data al problema della terra si sarebbero gio-cate le sorti della rivoluzione, perché da lì passava la costruzione di nuovi equilibri sociali attorno ai quali … la nazione napoleta-na procedesse alla propria rifondazione»57. Inoltre, la questione fu strettamente legata a quella della formulazione di un nuovo ordi-namento costituzionale «garante dei diritti dell’uomo» a cui si rite-neva si opponesse il sistema feudale58.

La discussione si presentò complicata per il coesistere di due proposte quella di Forges Davanzati, totalmente abolitiva, e quella di Pagano, che prevedeva alcune limitazioni per ciò che riguardava le decime. Si trattava della contrapposizione, in particolare in seno all’e-secutivo, di un gruppo «radicale», molto vicino a Championnet, che sosteneva un deciso intervento abolitivo – ciò avrebbe consentito alla «nazione» di recuperare le ricchezze sottrattele dai feudatari «median-te il privilegio» – ad uno che sosteneva una «linea più morbida» – que-sto si sarebbe fatto scudo del nuovo comandante militare Macdonald – «che permettesse di recuperarne una parte almeno, a sostegno del nuovo ordine». Il serrato dibattito si interruppe per contrasti nel fron-te repubblicano e per la sostituzione di Championnett con Macdo-nald59; questi privilegiava soluzioni non radicali, interessato in modo quasi esclusivo a garantire l’afflusso a Parigi della contribuzione e a preservare allo stesso fine i beni dichiarati “nazionali”60. Alla ripresa della discussione, il suo asse principale restò la contrapposizione tra coloro che ritenevano che l’eversione della feudalità «fosse operazione preliminare per instaurare ogni nuovo ordine» e coloro che ancora cercavano per la repubblica «il sostegno di una nobiltà trasformata in nuovo soggetto sociale (e politico) di proprietari»61.

Dopo il varo di un primo più radicale testo – più favorevole agli ex feudatari che sostanzialmente venivano incoraggiati a «trasfor-marsi in un ceto proprietario» –, non sanzionato da Macdonald62,

lasso, Storia del Regno di Napoli cit., pp. 820-821.57 A. De Francesco, 1799. Una storia d’Italia cit., pp. 86-87.58 A.M. Rao, Il Regno di Napoli nel Settecento cit., pp. 135-136.59 G. Galasso, Storia del Regno di Napoli cit., pp. 821-823. Cfr. anche Id., La fi-

losofia in soccorso de’governi. La cultura napoletana del Settecento cit., pp. 646-660.60 Ivi, p. 657.61 A. De Francesco, 1799. Una storia d’Italia cit., pp. 87-88; cfr. anche, G. Ga-

lasso, Storia del Regno di Napoli cit., p. 851; cfr. anche Id., La filosofia in soccorso de’governi. La cultura napoletana del Settecento cit., pp. 646-660.

62 A. De Francesco, 1799. Una storia d’Italia cit., pp. 88-89; cfr. anche G.

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un’ulteriore ripresa del dibattito63 e numerosi rivolgimenti politici, la “legge feudale” fu sanzionata il 25 aprile 1799, dopo una nuova approvazione, da Abrial64. Il testo presentava qualche significativa differenziazione rispetto al precedente: tra l’altro, alle università venivano attribuiti per intero i demani feudali e non per ¾, come nella prima versione. Si trattava indubbiamente del frutto di una mediazione, «ma è evidente pure lo spostamento complessivo della legge in senso più radicale, benché non estremistico»65.

La controrivoluzione sanfedista bloccò il processo, tuttavia, dopo il 1799, nelle campagne la pressione popolare non permise un totale ritorno al passato66. Dopo la seconda invasione francese, il 2 agosto 1806, Giuseppe Bonaparte emanò il decreto di abolizio-ne del feudo. La relazione che aveva accompagnato il testo sottopo-sto all’esame del Consiglio di Stato era semplice ed esplicita: non si trattava di parte integrante della struttura monarchica dello Stato ma di un ostacolo alla sua “rigenerazione”; i feudatari da semplici autorità intermedie dotate dal re di giurisidizione avevano incarna-to poteri che svuotavano quello del sovrano; il ceto feudale era la causa principale dell’arretratezza economica del Regno67.

La legge avviava

una serie di procedure che ci si illuse di sbrigare nel giro di un anno per la divisione di demani, la risoluzione delle liti tra ex baroni e comuni o terzi, il riconoscimento della qualità feudale autentica dei beni e dei diritti in questione e, insomma, per la sistemazione di tutta l’enorme serie dei pro-blemi che la liquidazione di un mondo sociale e giuridico così complesso e di plurisecolare stratificazione come era quello feudale doveva inevitabil-mente porre68.

Galasso, Storia del Regno di Napoli cit., pp. 851-853; Id., La filosofia in soccorso de’governi. La cultura napoletana del Settecento cit., pp. 646-660.

63 G. Galasso, Storia del Regno di Napoli cit., pp. 851-853; cfr. anche Id., La fi-losofia in soccorso de’governi. La cultura napoletana del Settecento cit., pp. 646-660.

64 G. Galasso, Storia del Regno di Napoli cit., p. 875. 65 Ibidem. Furono abolite giurisdizioni, concessioni feudali, titoli, “diritti di

servizio personale”, decime, monopoli, diritti di “passo”, “zecca” e “misura”, terraggi, “fida”, “laudemi”; furono escusi dal provvedimento solo censi ed enfiteusi di cui esi-stessero documenti che attestassero l’effettiva concessione (A. Musi, Il feudalesimo nell’Europa moderna cit., p. 276).

66 G. Galasso, Storia del Regno di Napoli cit., p. 941.67 Ivi, p. 1053-1055; cfr. anche A. Musi, Il feudalesimo nell’Europa moderma

cit., pp. 276-278.68 G. Galasso, Storia del Regno di Napoli cit., pp. 1054-1055.

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La già difficile applicazione della riforma fu ancor più compli-cata dal suo iniziale affidamento ai tribunali ordinari. Le difficoltà indussero il sovrano, nel novembre 1807, ad assegnare le com-petenze a due commissioni: quella “feudale”, che avrebbe opera-to fino all’agosto 1810, presieduta da Dragonetti e col Winspeare come procuratore generale, e avrebbe dovuto dirimere le contro-versie relative all’applicazione della legge, e un’altra, presieduta da Vivenzio, incaricata di esaminare la legittimità dei diritti suscetti-bili di indennizzo69. Il 15 marzo 1807, dopo un’accesa discussione in Consiglio di Stato, fu emanata una nuova legge abolitiva dei fedecommessi, fatta salva la riserva per il re di concedere la costi-tuzione di “maggiorascati” 70.

Secondo Galasso, l’operazione di eversione della feudalità nel Regno di Napoli, «nonostante tutti i suoi limiti, politici e normativi, economici e sociali», non fu «di portata così ristretta come spesso si è detto». Se sommata all’indebitamento, alla crisi finanziaria e a quella di prestigio, si trattò di un «colpo» letale per il baronaggio; «certo gli eredi di esso, i galantuomini, la grande borghesia fondia-ria ed agraria, insieme con le terre erano destinati ad ereditare una parte dello spirito feudale, e alcuni dei vincoli feudali, allora non interamente recisi, poterono essere un ostacolo ad una più rapida ascesa e modernizzazione del Mezzogiorno»71.

5. Alle origini della “questione feudale” in Sicilia

Secondo Ajello, la “questione feudale” siciliana, «poiché ha mani-festato clamorosamente gli ultimi segni di sopravvivenza dell’antico regime ed ha comportato una sorta di collaudo pratico dell’illumini-smo meridionale, quando esso era nella sua fase di massimo svilup-po, è da considerare l’episodio più importante dell’intera vita politi-ca meridionale nei decenni precedenti il tragico epilogo del 1799»72. Inoltre, in Sicilia, come nel resto d’Europa, la “questione feudale” si intrecciò con quella fiscale, in un rapporto tra «economia, finanza, politica, identità dei sudditi, forme e poteri della rappresentanza»73.

69 Ivi, pp. 1056-1057; 1142-1143; 1148-1149.70 Ivi, p. 1058.71 Ivi, pp. 1156-1157.72 R. Ajello, I. Del Bagno, F. Palladino (a cura di), Stato e feudalità in Sicilia:

economia e diritto in un dibattito di fine Settecento, Jovene, Napoli, 1992, p. 5.73 A. Musi, Il feudalesimo nell’Europa moderna cit., p. 253.

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Già nei primi decenni del XVIII secolo, si avviò un articola-to dibattito che possiamo considerare preliminare alla “questio-ne feudale”, anche se sicuramente più convulso. Un importante e più circoscritto antecedente della questione può essere però in-dividuato nell’annosa controversia tra l’università di Sortino, che voleva demanializzarsi, e il suo feudatario Pietro Gaetani, principe di Cassaro; essa nel 1744 aveva data luogo all’intervento di Carlo di Napoli, Concordia tra’diritti demaniali e baronali74. Sullo stesso terreno percorso dal Di Napoli, quello del diritto pubblico e della storia costituzionale, si sarebbe sviluppato il dibattito politico sul feudo siciliano75. Qualche anno più tardi, nel 1749, uscì la ristam-pa promossa dalla Deputazione del Regno della raccolta Parlamenti generali del Regno di Sicilia, già pubblicata da Antonio Mongitore e data alle fiamme nel 1717 per ordine di Vittorio Amedeo II di Savoia, che la considerava lesiva dei diritti della Corona76; assieme alla Concordia, costituì la parte più importante dell’armamentario ideologico del baronaggio siciliano77.

Il contesto grazie al quale la “questione feudale” diventò cen-trale può essere identificato anche in Sicilia col biennio 1763-1764, fortemente condizionato dall’«impatto politico-culturale della guer-ra dei sette anni» e dall’«ultima grave crisi annonaria dell’antico regime»78. Proprio dall’analisi delle implicazioni della crisi sociale nelle campagne muovono i primi dibattiti della grande “questio-ne feudale”; il punto di riferimento è ancora una volta Genovesi. Tanucci sfrutterà quanto consentito dall’espulsione dei Gesuiti e dall’incameramento del loro patrimonio e proprio l“Azienda gesuiti-ca” diverrà la sede in cui si affermò come prassi «l’esame dei diritti

74 R. Ajello, I. Del Bagno, F. Palladino (a cura di), Stato e feudalità in Sicilia cit., p. 5; G. Giarrizzo, Cultura e economia nella Sicilia del ‘700, Salvatore Sciascia Editore, Caltanissetta-Roma, 1992, pp. 32-33; R. Cancila, Lo scudo infranto. Uso e abuso della giurisdizione feudale siciliana a fine Settecento, in A. Musi, M. Noto (a cura di), Feudalità laica e feudalità ecclesiastica nell’Italia meridionale, Associazione Mediterranea, Palermo, 2011, pp.186-187.

75 R. Ajello, I. Del Bagno, F. Palladino (a cura di), Stato e feudalità in Sicilia cit., pp. 115-119.

76 R. Cancila, Aspetti del dibattito sulle giurisdizioni feudali in Sicilia (1784-1789), E-book, Associazione Mediterranea, Palermo, 2013, p. 26.

77 Ead., Lo scudo infranto cit., pp. 188-189.78 G. Giarrizzo, Cultura e economia nella Sicilia del ‘700 cit., pp. 61-62; cfr.

anche F. Renda, Bernardo Tanucci e i beni dei Gesuiti in Sicilia, Edizioni di Storia e Letteratura, Roma, 1974; S. Laudani, «Quegli strani accadimenti». La rivolta paler-mitana del 1773, Viella, Roma, 2005, pp. 109-110.

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baronali e delle loro limitazioni»79. Tuttavia, in Sicilia il filogesu-itismo e la vicinanza alla grande aristocrazia del viceré Fogliani trasformarono una potenziale occasione di redistribuzione della proprietà e di creazione di un ceto di piccoli e medi proprietari in un’ennesima opportunità di «appropriazione e di concentrazione terriera»80.

La rivolta palermitana del 1773 imprimette un’accelerazione alla riflessione sulla liberalizzazione del sistema annonario e sulla rimozione dei vincoli commerciali sul grano81, anche se «non riesce a dargli corpo e consistenza politico-amministrativa»82.

6. Viceré riformatori: Caracciolo

Secondo Rossella Cancila, fino all’avvento di Domenico Carac-ciolo, marchese di Villamarina, alla carica di viceré di Sicilia, «il terreno su cui Stato e feudalità» avevano giocato «la loro partita» era stato «piuttosto quello della dialettica dei principi che non quel-lo della prassi politica». Solo con i viceré Caracciolo e Caramanico e con lo stesso marchese di Villamarina primo ministro a Napoli «si determinò uno scontro tra Stato e feudalità capace di tradursi in reale azione politica e amministrativa». Tutto ciò «spinse il baro-naggio a serrare le fila … delineando in modo più netto i caratteri di un’identità che, costruita attraverso i secoli, necessariamente ormai doveva però scoprire nuovi percorsi, doveva mostrarsi ca-pace di elaborare nuove proposte, inventarsi progetti alternativi»83.

A quanto connesso con l’ordinamento feudale dello Stato Ca-racciolo oppose «bruscamente il moderno criterio fisiocratico della libertà di produzione come di scambio … che serviva anche a cor-rodere il regime politico vigente»84; tutto ciò si saldò con l’attacco

79 G. Giarrizzo, Cultura e economia nella Sicilia del ‘700 cit., pp. 62-64; cfr. anche M. Verga, La Sicilia dei grani. Gestione dei feudi e cultura economica fra Sei e Settecento, Olschki, Firenze, 1993, pp. 186-187.

80 S. Laudani, «Quegli strani accadimenti» cit., p. 108; cfr. anche M. Verga, La Sicilia dei grani. Gestione dei feudi e cultura economica fra Sei e Settecento cit., pp. 186-187.

81 G. Giarrizzo, Cultura e economia nella Sicilia del ‘700 cit., pp. 72-77. 82 S. Laudani, «Quegli strani accadimenti» cit., pp. 156-166.83 R. Cancila, Lo scudo infranto cit., pp. 184-185. Sull’attività di Domenico

Caracciolo, cfr. anche F. Renda, La grande impresa. Domenico Caracciolo viceré e primo ministro tra Palermo e Napoli, Sellerio, Palermo, 2010.

84 E. Pontieri, Il Riformismo borbonico nella Sicilia del Sette e dell’Ottocento, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli, 1965², pp. 196-197.

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alla grande proprietà e al grande possesso feudale85. Il conflitto si estese a parecchi versanti, tanto da contrassegnare il viceregno del marchese di Villamarina e da far affermare a Giuseppe Giarrizzo che, «comunque giudicato, l’impatto personale e politico di Carac-ciolo fu di rara potenza ed efficacia: esso valse non solo ad impri-mere una violenta accelerazione a processi culturali già avviati, ma indicò con forza la centralità della “questione feudale” come osta-colo ad ogni progresso e allo sviluppo del paese»86. Caracciolo, da viceré prima e da primo ministro poi, cercò di restituire credibilità allo Stato e lo fece proprio nel conflitto con la feudalità che fu di na-tura prevalentemente politica, tuttavia le operazioni «si presentaro-no lungo due linee, una giuridica ed una fiscale»87, sullo sfondo del più generale tentativo di privare il Parlamento e la Deputazione del Regno del «potere cetuale e “costituzionale” di imporre e ripartire i tributi»88. La direttiva giuridica era volta a contrastare la pretesa dei detentori di disporre liberamente dei propri feudi e comportò una lunga serie di discussioni e contrasti sul modo di interpretare i testi legislativi; quella fiscale è rappresentata dal “Piano dimostra-tivo di tutti li pesi del regno di Sicilia …”, finalizzato a una qualche forma di perequazione tributaria89.

Nel primo Parlamento del mandato caraccioliano, nel 1782, fu proposto un nuovo rivelo di anime e “facoltà”, per una più equa distribuzione del donativo90, tuttavia, il progetto si arenò91. Carac-ciolo e il “consultore” Saverio Simonetti, in occasione delle artico-late discussioni sulla proposta, utilizzarono efficaci retoriche per indirizzare verso il futuro l’attenzione dell’opinione pubblica: era presentata come frutto dell’intenzione di ritornare ai tempi ante-riori ad Alfonso d’Aragona e a imposte basate sulle “facoltà”, pri-vando il Parlamento e la Deputazione del Regno, considerata uno

85 O. Cancila, Problemi e progetti economici nella Sicilia del riformismo, Sciascia, Caltanissetta-Roma, 1977, pp. 46-49.

86 G. Giarrizzo, La Sicilia dal Cinquecento all’Unità, in V. D’Alessandro, G. Giar-rizzo, La Sicilia dal Vespro all’Unità d’Italia, Utet, Torino, 1989, p. 565.

87 R. Ajello, I. Del Bagno, F. Palladino (a cura di), Stato e feudalità in Sicilia cit., pp. 51-56.

88 A. Musi, Il feudalesimo nell’Europa moderna cit., p. 252.89 R. Ajello, I. Del Bagno, F. Palladino (a cura di), Stato e feudalità in Sicilia

cit., pp. 51-56.90 G. Giarrizzo, Cultura e economia nella Sicilia del ‘700 cit., pp. 183-184; cfr.

anche F. Brancato, Il Caracciolo e il suo tentativo di riforme in Sicilia, Palumbo, Pa-lermo, 1946, pp. 104-105.

91 G. Giarrizzo, Cultura e economia nella Sicilia del ‘700 cit., pp. 183-184.

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strumento del baronaggio, di ogni attribuzione in materia finanzia-ria92. Poco prima di quella sessione parlamentare, Saverio Simo-netti aveva redatto, per ordine del viceré, una consulta indirizzata al sovrano in cui si evidenziava l’inadeguatezza del sistema fiscale del Regno di Sicilia, alla base di un gettito notevolmente inferiore rispetto alle potenzialità93. La decisa volontà del viceré di effettuare il censimento, come gran parte dei suoi obiettivi e delle sue azioni, era finalizzata al progetto, ritenuto da Verga «assai debole», di una crescita dell’economia siciliana che costituisse fattore per l’ascesa politica ed economica della “classe intermedia”94; ma soprattutto si trattava di una battaglia contro l’edificio culturale rappresentato dal diritto feudale siciliano95. Sin dall’inizio dunque, per eliminare privilegi e immunità, Caracciolo aveva scelto «la strada» del cata-sto, indice dello stretto legame tra la “questione feudale” e quella “fiscale”96. Il reale significato politico della sua azione era quello di eliminare la possibilità dei baroni di condizionare il potere centra-le97; un obiettivo sicuramente ambizioso e prioritario, tanto che il fallimento, tra il 1783 e il 1784, del “piano” rappresentò uno spar-tiacque nel viceregno del marchese di Villamarina.

Più pragmatica e ancor più illuminista fu la seconda fase del mandato di Caracciolo, successiva al fallimento del “piano”98. In un contesto di crisi – e in un clima in cui «la tattica migliore era sempre di sterilizzare lo scontro politico, presentandolo quale pro-blema meramente tecnico … con la differenza che ora l’aspetto eco-nomico appariva più accattivante ed utile del vecchio strumentario giuridico»99 – Domenico Caracciolo colse la carestia del 1784 come una straordinaria occasione per riprendere l’attacco alla feudali-tà100. Tutti i provvedimenti adottati nel biennio 1784-1785 furono finalizzati in particolare a rimuovere alcune delle cause che aveva-

92 E. Pontieri, Il tramonto del baronaggio siciliano cit., pp. 228-239.93 F. Brancato, Il Caracciolo e il suo tentativo di riforme in Sicilia cit., p. 103.94 M. Verga, La Sicilia dei grani cit., pp. 205-207.95 E. Pontieri, Il tramonto del baronaggio siciliano, Sansoni, Firenze, 1943, pp.

191-192.96 A. Musi, Il feudalesimo nell’Europa moderna cit., p. 252.97 R. Ajello, I. Del Bagno, F. Palladino (a cura di), Stato e feudalità in Sicilia cit., p. 88.98 Ivi, pp. 48-50, 182-190.99 Ivi, pp. 123-125.100 G. Giarrizzo, La Sicilia dal ‘500 all’Unità cit., pp. 569-572; R. Cancila, Lo

scudo infranto cit., pp. 193-194; Ead, Aspetti del dibattito sulle giurisdizioni feudali in Sicilia (1784-1789) cit., pp. 39-41.

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no indotto il fallimento del “piano”, poiché senza escludere i baroni dall’«esercizio del potere locale» non si sarebbe potuto affrontare il delicato nodo del «controllo del territorio»101 e dunque non si sareb-be potuto effettuare nessun censimento102. In poco più di quattro anni, «i baroni videro sparire buona parte di quell’armatura giu-ridica che nel corso degli ultimi secoli si era formata intorno al privilegio feudale»103.

Le istanze del baronaggio contro i provvedimenti di riforma – presentate al sovrano nel marzo del 1785 dai principi di Trabia e Pantelleria ed esaminate non dalla Giunta di Sicilia ma dai tribu-nali della Regia gran corte e del Real patrimonio e dalla Giunta di presidenti e consultore – non furono accolte104. In seguito le ragioni dei feudatari furono affidate alla Memoria in favore dei baroni del Regno di Sicilia per le novità fattesi dai tribunali della Regia Gran Corte e del Real Patrimonio negli anni 1784, 1785 e 1786 sulla legi-slazione del Regno e contro le giurisdizioni baronali105. Il terreno che il baronaggio prescelse fu quello di rappresentare i propri privilegi come «diritti della “nazione”, con l’assunzione esplicita di una ca-pacità di rappresentanza e difesa di questi … attraverso l’istituto parlamentare e la Deputazione del Regno»106.

Nel 1785, per intervento diretto di Maria Carolina, Caracciolo fu nominato primo ministro del Regno di Napoli, succedendo al Sambuca, e nel gennaio 1786 lasciò la Sicilia. Si trattò di una svol-ta per le vicende di entrambi i regni borbonici: dopo anni caratte-rizzati dalla linea “filobaronale” di Sambuca, si ritornò all’indirizzo tanucciano e a un nuovo riformismo agrario107.

101 Ead., Uso e abuso della giurisdizione feudale siciliana a fine Settecento cit., pp. 192-193; cfr. anche Ead., Aspetti del dibattito sulle giurisdizioni feudali in Sicilia (1784-1789) cit., pp. 9-17.

102 R. Ajello, I. Del Bagno, F. Palladino (a cura di), Stato e feudalità in Sicilia cit., pp. 200-203; cfr. anche R. Cancila, Aspetti del dibattito sulle giurisdizioni feuda-li in Sicilia (1784-1789) cit., pp. 7-9; Ead., “Per la retta amministrazione della giusti-tia”. La giustizia dei baroni nella Sicilia moderna, «Mediterranea - ricerche storiche», 16 (2009), pp. 316-317.

103 R. Romeo, Il Risorgimento in Sicilia, Laterza, Roma-Bari, 20115, pp. 62-63; cfr. anche E. Pontieri, Il tramonto del baronaggio siciliano cit., pp. 220-223, 282-283.

104 Ivi, pp. 280-281; O. Cancila, Problemi e progetti economici nella Sicilia del riformismo cit., pp. 56-57.

105 Il testo in R. Cancila, Aspetti del dibattito sulle giurisdizioni feudali in Sicilia (1784-1789) cit., pp. 59-112.

106 G. Giarrizzo, La Sicilia dal ‘500 all’Unità cit., p. 564.107 F. Renda, Baroni e riformatori in Sicilia sotto il ministero Caracciolo (1786-

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L’opera dei viceré riformatori fu costantemente accompagnata da un serrato dibattito, al quale parteciparono anche giuristi na-poletani, vertente attorno a un’articolata critica del feudalesimo siciliano, e in particolare all’interpretazione di alcune antiche nor-me del diritto isolano. Proprio durante gli anni caraccioliani, fece spicco la critica di Simonetti all’interpretazione estensiva di una parte importante del diritto pubblico siciliano, i capitoli Volentes e Si aliquem; e ancora, nel 1786, la Rimostranza compilata dallo stesso Simonetti su mandato dell’ex viceré rese nuovamente cen-trale la secolare controversia sui due capitoli, che avrebbe domi-nato la scena politica e culturale fino al 1790108. Attraverso la “via forense”, ovvero la «“retta intelligenza” della legge»109, Simonetti e Caracciolo intendevano dunque reintrodurre in Sicilia la devolu-zione dei feudi110. Tuttavia, il metodo utilizzato era molto prudente: si trattava solo di individuare la corretta interpretazione di una norma e non di produrne di nuove, tanto da indurre forti critiche da parte dei sostenitori della completa abolizione del feudo111.

Il dibattito successivo deve essere inquadrato nella frattura che interessava il fronte riformatore napoletano, tra la linea di Pal-mieri, che auspicava la trasformazione degli stati feudali in grande proprietà, e quella di Filangieri, che sosteneva la diffusione della piccola proprietà contadina; si trattava di un dilemma vissuto da tutti i governi d’Europa112. Sulle posizioni di Simonetti si schiera-rono Giacinto Dragonetti, Marino Guarani, Angelo Masci, tutti na-poletani, e Francesco Rossi, che «cercavano di estendere alla Sicilia principi giuridici napoletani, come quello, di vasta portata, che i diritti dei cittadini sul territorio non possono venire pregiudicati dalla forma giuridica di cui questo viene rivestito dallo Stato; nega-vano che la legislazione restrittiva dell’autonomia feudale emanata nel periodo normanno-svevo fosse stata abrogata dalle successive disposizioni dei re aragonesi»113. Che si stesse attraversando un

1789), La libra, Messina, 1974, pp. 27-36.108 G. Giarrizzo, La Sicilia dal ‘500 all’Unità cit., p. 586-590; cfr. anche Id, Cul-

tura e economia nella Sicilia del ‘700 cit., pp. 131-132.109 F. Renda, Baroni e riformatori cit., pp. 116-118.110 R. Ajello, I. Del Bagno, F. Palladino (a cura di), Stato e feudalità in Sicilia

cit., pp. 60-66.111 Ivi, p. 80-84.112 G. Giarrizzo, La Sicilia dal Cinquecento all’Unità cit., p. 586-590; Id. Cultura

e economia nella Sicilia del ‘700 cit., pp. 134-135, 220-222.113 R. Romeo, Il Risorgimento in Sicilia cit., pp. 85-87; E. Pontieri, Il riformismo

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momento particolare lo dimostra anche una «tensione intellettuale … così alta da accendere a Napoli come in Sicilia l’immaginazione storica, sino a travolgere tutti gli argini di prudenza metodologica». Nell’isola, a partire dall’operazione Vella-Airoldi, si individuò una radice prenormanna degli «istituti positivi della monarchia meri-dionale»114.

Le argomentazioni dei sostenitori di Simonetti e, negli anni successivi, quanto teorizzato da Dragonetti, divennero il palinse-sto delle rivendicazioni avanzate nei tribunali dalle università feu-dali contro i loro baroni e circolarono intensamente nell’opinione pubblica115. Anche per questo motivo, il baronaggio siciliano agì in modo immediato e violento e la spinosa questione fu affidata alla Real Camera di Santa Chiara nel gennaio 1787116. I lavori furo-no lunghi e molto complicati117 e la forma adottata per il pronun-ciamento – una prammatica interpretativa di vecchie norme, che riguardava anche il capitolo Si aliquem, emanata il 24 settembre 1788 –, «consentiva di imporre, senza scandalose forzature, sul piano giuridico, gli effetti retroattivi. È da notare che essi sarebbero stati ingigantiti da un particolare arcaico tipico del diritto napole-tano: la giurisprudenza, ispirandosi al diritto canonico, era ostile a considerare che il possesso prolungato nel tempo fosse sostitutivo del titolo invalido»118. Si affermava che il capitolo non autorizzava il feudatario «privo di eredi legittimi nel grado ammesso alla suc-cessione (sesto)» a trasmettere il feudo ad altri; con questo prov-vedimento, oltre a ribadire i vincoli, «veniva limitata l’onnipotenza dei concessionari, e aperte nuove possibilità di emancipazione alle popolazioni vassalle»119. La prammatica si poneva, dunque, contro

borbonico nella Sicilia del Sette e Ottocento cit., pp. 9-20.114 G. Giarrizzo, La Sicilia dal Cinquecento all’Unità cit., p. 586-590; cfr. anche

Id. Cultura e economia nella Sicilia del ‘700 cit., pp. 134-135, 220-222; O. Cancila, Storia dell’unversità di Palermo. Dalle origini al 1860, Laterza, Roma-Bari, 2006, pp. 108-111; A. Baviera Albanese, Il problema dell’arabica impostura dell’abate Vella, «Nuovi Quaderni del Meridione», 4 (1963), pp. 395-428.

115 R. Romeo, Il risorgimento in Sicilia cit., pp. 85-87; E. Pontieri, Il riformismo borbonico nella Sicilia del Sette e Ottocento cit., pp. 9-20; Id. Il tramonto baronaggio siciliano cit., pp. 319-320.

116 G. Giarrizzo, La Sicilia dal Cinquecento all’Unità cit., pp. 586-590.117 F. Renda, Baroni e riformatori cit., pp. 118-123; cfr. anche O. Cancila, Pro-

blemi e progetti economici nella Sicilia del riformismo cit., pp. 92-94.118 R. Ajello, I. Del Bagno, F. Palladino (a cura di), Stato e feudalità in Sicilia

cit., pp. 64-66.119 R. Romeo, Il Risorgimento in Sicilia cit., pp. 73-74; cfr. anche E. Pontieri, Il

tramonto del baronaggio siciliano cit., pp. 340-343.

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le tesi del baronaggio siciliano, in nome della purezza di un dirit-to feudale comune tra Sicilia e Napoli; ma, al contempo, la sua emanazione metteva in grave crisi le prospettive eversive e rivelava come si fosse deciso di adottare strumenti che non ponessero in discussione il sistema feudale nel suo complesso120.

Contemporaneamente usciva l’opera di Dragonetti Sull’origine dei feudi121. Il testo era stato ispirato dal governo napoletano, con l’intento di appoggiare le teorie antibaronali di Simonetti, ed era in linea con la concezione del feudo elaborata un secolo prima da Francesco D’Andrea122.

Le conseguenze dell’interpretazione restrittiva di Volentes adottata nella prammatica e della normativa sul possesso dei feu-di sarebbero state principalmente l’invalidazione di numerosi pos-sessi antichi e l’attribuzione di una funzione centrale ai tribunali, con tutti i problemi relativi alla dipendenza del ceto forense e dei magistrati siciliani dal baronaggio123. L’operazione iniziò in modo contenuto e limitato: vennero interessati due feudi tra quelli per cui si riteneva non vi fosse stato il “regio assenso” per la concessio-ne in enfiteusi, Prizzi e Palazzo Adriano – posseduti da due espo-nenti della grande aristocrazia, il principe della Cattolica e il duca di Villarosa124 –, incamerati dallo Stato e fatti confluire nella Real Commenda della Magione125. L’intervento si sarebbe dovuto poi estendere a grandi feudi come la Contea di Modica, per la quale si riuscì a dimostrare però la legittimità del possesso126. In questo contesto si verificarono contrasti dentro il “ministero” sull’esten-sione da dare alla rivendicazione dei beni da parte del demanio, in particolare il governo napoletano premeva per un intervento di ampia estensione127.

120 A.M. Rao, L’ «amaro della feudalità» cit., pp. 62-67.121 E. Pontieri, Il tramonto del baronaggio siciliano cit., pp. 300-310.122 A.M. Rao, L’ «amaro della feudalità» cit., pp. 56-58; cfr. anche F. Renda,

Baroni e riformatori cit., pp. 39-45.123 R. Ajello, I. Del Bagno, F. Palladino (a cura di), Stato e feudalità in Sicilia

cit., pp. 64-67.124 Ivi, pp. 64-67; O. Cancila, Problemi e progetti economici nella Sicilia del

riformismo cit., pp. 97-98.125 F. Renda, Baroni e riformatori cit., pp. 102-103.126 M. Verga, La Sicilia dei grani. Gestione dei feudi e cultura economica fra Sei

e Settecento cit., p. 213.127 F. Renda, Baroni e riformatori cit., pp. 104-105.

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7. Il dibattito sulla feudalità

Gli anni della presenza di Domenico Caracciolo in Sicilia furo-no caratterizzati da un intenso dibattito sulla feudalità che andò oltre i conflitti sui provvedimenti del viceré e l’articolata discussio-ne sull’interpretazione dei capitoli federiciani. Infatti, il processo di svuotamento ideologico e culturale dello “statuto” della feudalità ebbe una tappa importante anche nella predisposizione di raccolte di leggi siciliane, che, segno di un processo di «riordinamento e chiarificazione», comparvero a partire dal 1782128. «Un logico pro-lungamento» delle critiche dei giuristi napoletani al diritto feudale fu poi rappresentato dagli attacchi alla «costituzione isolana».

A dimostrazione di come facesse sentire i suoi effetti sulla cultura siciliana «l’aumentato interesse … per i problemi pratici e concreti», il viceregno di Caracciolo valse a sollecitare e incorag-giare, specialmente tra il 1785 e il 1800, posizioni antibaronali che si sostanziavano nella «critica dell’aspetto economico del sistema feudale»129, e in generale fu ricco di «memorie e progetti economi-ci», parte dei quali redatti su sollecitazione del governo130. Si avviò dunque un grande dibattito sull’agricoltura, il cui oggetto era in re-altà la feudalità, articolato attorno al quesito sulle cause delle po-vertà131. Si trattò di libertà di commercio, mettendo in discussione le mete e i vincoli interni, di condizioni dell’attività agricola e di in-frastrutture132; «in tal modo il pensiero siciliano, che prima del 1780 aveva appena osato proporre qualche timida riforma, penetrava ora nel vivo del sistema feudale isolano, ne additava gli inconvenienti e giungeva a chiederne esplicitamente la totale soppressione»133.

Sulla scia di Filangieri, Costanzo criticò gli istituti della pri-mogenitura e del fedecommesso, sperando che la sua abolizione inducesse i feudatari a concedere terre in enfiteusi ai contadini. De Cosmi attaccò la grande proprietà e l’eccessiva gravosità dei patti

128 R. Romeo, Il Risorgimento in Sicilia cit., pp. 86-87. L’autore si riferisce a F. Candini, Codex juris siculi, Palermo, 1798; Id., Codex juris publici siculi, Palermo, 1782-1807; G.B. Rocchetti, Diritto feudale, comune, siculo, Palermo, 1807; Pragma-ticae Sanctiones Regni Siciliae, Palermo, 1791-1793.

129 R. Romeo, Il Risorgimento in Sicilia cit., pp. 87-89.130 O. Cancila, Problemi e progetti economici nella Sicilia del riformismo cit., p. 10.131 R. Ajello, I. Del Bagno, F. Palladino (a cura di), Stato e feudalità in Sicilia

cit., pp. 123-125.132 R. Romeo, Il Risorgimento in Sicilia cit., p. 95.133 R. Ajello, I. Del Bagno, F. Palladino (a cura di), Stato e feudalità in Sicilia

cit., pp. 123-125.

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agrari, sostenne anch’egli forme di enfiteusi a famiglie di contadini e non considerò questi processi disgiunti dalla strutturazione di un efficace sistema educativo. Anche La Loggia si schierò contro la grande proprietà e il grande affitto e ne auspicò la suddivisione134.

Parallelamente alle posizioni dei riformatori che si ponevano in opposizione al baronaggio, per i quali il problema della cattiva distribuzione della terra e della popolazione si sarebbe potuto risol-vere solo con l’abbattimento o il forte ridimensionamento dei pri-vilegi feudali135, emerse una vera e propria linea politica elaborata dai feudatari, secondo Renda una vera e propria ideologia di forza di opposizione136. Essa si ispirava certamente a idee medievali ma rappresentava anche qualcosa di originale:

in realtà il baronaggio difendeva al meglio possibile i suoi interessi, camuffandoli ed aggiornando la loro immagine per renderli plausibili me-diante una vernice tecnologica intinta nelle opere di Domenico Grimaldi e di Giuseppe Palmieri e forse con qualche venatura delle esperienze fi-siocratiche francesi e dell’agrarismo younghiano, diffuso in Italia grazie alla traduzione francese del Freville. Questi ultimi collegamenti culturali divennero poi più solidi e sicuri solo dopo il ritorno di Paolo Balsamo dal suo viaggio inglese.

Gli «avvocati dei baroni» non si limitarono alla difesa ma for-mularono progetti alternativi per battere Caracciolo sul piano del-le riforme137. Proposte di stampo illuministico giunsero anche di-rettamente dai feudatari; esse non dimostravano solo la capacità di «impadronirsi di alcuni temi della pubblicistica e della cultura economica dei “riformatori”» ma anche «la debolezza intrinseca … di molte posizioni teoriche dei “riformatori” meridionali». L’ampia partecipazione della parte «più avvertita e culturalmente e politica-mente più aperta» del baronaggio testimonia dunque la sua «capa-cità di resistenza» di fronte alle proposte di Caracciolo138.

134 R. Romeo, Il Risorgimento in Sicilia cit., pp. 90-93; cfr. anche E. Pontieri, Il tramonto del baronaggio siciliano cit., pp. 321-326, 336; F. Brancato, Il Caracciolo e il suo tentativo di riforme in Sicilia cit., p. 165; O. Cancila, Problemi e progetti econo-mici nella Sicilia del riformismo cit., pp. 52-53.

135 O. Cancila, Problemi e progetti economici nella Sicilia del riformismo cit., pp. 55-56.

136 F. Renda, Baroni e riformatori cit., pp. 88-89.137 O. Cancila, Problemi e progetti economici nella Sicilia del riformismo cit., pp. 56-57.138 M. Verga, La Sicilia dei grani. Gestione dei feudi e cultura economica fra Sei

e Settecento cit., pp. 183-185.

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Protagonista del dibattito fu una nuova generazione di intellet-tuali – Vittorio Emanuele Sergio, Rosario Gregorio, Tommaso Natale e i principi di Pantelleria e di Trabia –, che negli anni ’60 e ’70 aveva preso il posto di quella che a metà secolo «aveva garantito e assicu-rato il passaggio dalla cultura muratoriana del Buon Gusto ai nuovi interessi e temi della cultura europea». Secondo Verga, alcuni di loro non rigettarono le idee genovesiane, anzi ne accolsero «il debole fon-damento teorico “popolazionista”, a condizione però di riportarlo, an-cora per tutti gli anni Ottanta del secolo, ... nell’ambito di un “sistema economico agricolo” che si riteneva talmente consolidato da non do-ver essere messo in discussione neppure dal governo napoletano»139.

Francesco Requesenz, principe di Pantelleria, nel 1784, in uno scritto dal titolo La popolazione della Sicilia sviluppata relativamen-te agli interessi di tutte le classi, trascurando i dibattiti in corso su censimento ed esenzioni fiscali140, aveva affrontato «il problema chiave di tutta la politica neo-mercantilista», e in particolare l’a-spetto ricorrentemente sottolineato da parte baronale della spro-porzione tra l’estensione delle terre e la forza lavoro disponibile141. Di tutt’altra importanza è l’opera del 1786 di Pietro Lanza, principe di Trabia – uno dei leader dell’opposizione baronale a Caracciolo – Memoria sulla decadenza dell’agricoltura nella Sicilia e il modo di rimediarvi142. Contestava le considerazioni dell’ex viceré in ma-teria di economia e società, considerava l’unica forma di ricchezza quanto prodotto dalla terra e riteneva che proprio per far progredi-re e modernizzare l’agricoltura avrebbero dovuto essere impiegate le migliori intelligenze del Regno. Riteneva però che l’ineludibile progresso nelle attività produttive non dovesse presupporre muta-menti nell’ordine politico e nella gerachia sociale143.

Furono proprio le linee delineate da Lanza e ampiamente riprese dalla pubblicistica negli anni ’80 e nei primi anni ’90 a definire le condizioni, superato il conflitto sul catasto, per una collaborazione

139 Ivi, pp. 190-193.140 Ivi, p. 208.141 G. Giarrizzo, Cultura e economia nella Sicilia del ‘700 cit., p. 242; cfr. anche F.

Brancato, Il Caracciolo e il suo tentativo di riforme in Sicilia cit., p. 164; O. Cancila, Pro-blemi e progetti economici nella Sicilia del riformismo cit., pp. 57-67; M. Verga, La Sicilia dei grani. Gestione dei feudi e cultura economica fra Sei e Settecento cit., pp. 207-212.

142 Ivi, p. 213. 143 G. Giarrizzo, La Sicilia dal Cinquecento all’Unità cit., pp. 572-574; cfr anche

Id., Cultura e economia nella Sicilia del ‘700 cit., p. 244; M. Verga, La Sicilia dei grani. Gestione dei feudi e cultura economica fra Sei e Settecento cit., pp. 213-214; F. Renda, Baroni e riformatori cit., pp. 56-97.

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tra baronaggio e ministero napoletano: abolizione degli usi civici, censuazione delle terre comuni e di quelle appartenenti agli ordini religiosi, «accettazione di un “modello” di messa a coltura e sfrutta-mento delle terre uguale sia per le terre baronali che per le “popola-zioni” che si volevano ora costituire sotto la direzione del governo»144.

Con Lanza fu «la società civile a far premio sullo Stato»; ma la risposta di quest’ultimo fu degna di credito e venne dallo stesso Caracciolo che nelle Riflessioni su l’economia e l’estrazione dei fru-menti, scritte in occasione della crisi annonaria del 1784-85, affer-mò essere compito del governo ridurre la sperequazione sociale145, si trattava dunque di promuovere forze sociali nuove146.

Un piano di radicale rinnovamento sociale fu invece tracciato da Francesco Paolo Di Blasi: «pur restando attaccato alla distin-zione dei ceti, egli voleva darle una base puramente economica, … e, per conseguenza, tutti dovevano essere colpiti in proporzione dei loro guadagni dalla nuova “tassa testatica”»147. Di Blasi cercò di realizzare una mediazione fra l’illuminismo italiano ed europeo e gli ambienti culturali isolani e proprio a lui fu affidata dal viceré Caramanico la compilazione della raccolta delle prammatiche, nel 1786, e, nel 1787, di quella delle Sicule sanzioni, ritenuta da Pon-tieri una «pietra miliare» nel rafforzamento del potere monarchico nei confronti del baronaggio148.

Nonostante la gran parte degli scrittori siciliani non abbrac-ciasse teorie così avanzate come quelle di Di Blasi e si dedicas-se invece alla critica di «particolari aspetti del sistema feudale», erano stati compiuti notevoli passi avanti rispetto all’epoca ca-raccioliana149. Lo stato della “questione feudale” è efficacemente rappresentato da un dibattito, svoltosi tra il 1788 e il 1790, tra due «ministri e magistrati»: il siciliano Giuseppe Maria Guggino e

144 Ci si riferisce agli scritti «di ampio respiro genovesiano» di Rosario Gregorio, a quelli «più angustamente filobaronali» di Domenico Maria Giarrizzo o alle memorie del 1790-1791 di Emanuele Dolce e Vincenzo Vinci (M. Verga, La Sicilia dei grani. Gestione dei feudi e cultura economica fra Sei e Settecento cit., pp. 214-216).

145 G. Giarrizzo, La Sicilia dal Cinquecento all’Unità d’Italia cit., p. 576-582; cfr. anche. Id., Cultura e economia nella Sicilia del ‘700 cit., pp. 184-193; E. Pontieri, Il riformismo borbonico nella Sicilia del Sette e Ottocento cit., pp. 199-202; cfr. Id., Il tramonto del baronaggio siciliano cit., pp. 201-202.

146 F. Renda, Baroni e riformatori cit., pp. 38-44; cfr. anche E. Pontieri, Il tra-monto del baronaggio siciliano cit., pp. 284-285.

147 R. Romeo, Il Risorgimento in Sicilia cit., pp. 93-95.148 E. Pontieri, Il tramonto del baronaggio siciliano cit., p. 319.149 R. Romeo, Il Risorgimento in Sicilia cit., p. 95.

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il napoletano Francesco Saverio D’Andrea, a lungo residente a Pa-lermo. Entrambi si ispiravano alla scuola economica di Genovesi ma ne interpretavano due diverse dimensioni: Guggino incarnava l’espressione colta delle correnti filobaronali, prevalenti nella giuri-sprudenza siciliana; D’Andrea era parte importante del gruppo dei collaboratori del Caracciolo prima e del Caramanico poi. Entrambi i testi espressione del dibattito – Istruzioni e regolamenti dell’Ac-cademia Agraria ed economica da stabilirsi nel Regno di Sicilia di Guggino e Il ristoro della Sicilia di D’Andrea – risentono pienamente dell’Illuminismo. Guggino, oppositore di Caracciolo e Caramanico, prendeva le mosse dalla «più aggiornata strategia feudale» espressa da Lanza: «sviare le critiche contro il baronaggio, diagnosticando un’origine meramente tecnica dei problemi giuridici, economici e dell’agricoltura». Il memoriale di D’Andrea nacque chiaramente in polemica con questa diagnosi e con la relativa cura: dimostrò che gli antichi malanni avevano origine politica, giuridica, economica, istituzionale; insistere su rimedi culturali significava voler eludere il problema150.

8. Viceré riformatori: Caramanico

A Caracciolo successe il principe di Caramanico, «leader del partito nazionalistico e della corrente massonica a esso collegata», sostenuto dalla nobiltà e dall’opinione pubblica napoletana, gradi-to a Maria Carolina e inviso ad Acton151. La sua nomina fu parte del progetto riformatore del nuovo primo ministro152 e il neoviceré «seppe giovarsi abilmente di coloro che in Sicilia vagheggiavano riforme»: affidò a Di Blasi l’incarico di raccogliere le prammatiche, a De Cosmi il progetto di istituzione delle “scuole normali”, «diede forza di legge» alle proposte di censuazione delle terre demaniali del Natale. Pur condividendo gli stessi «principi fondamentali» che avevano ispirato l’azione di Caracciolo, evitò lo scontro con l’aristo-crazia e cercò invece, «con una lenta ed abile opera di erosione, di

150 R. Ajello, I. Del Bagno, F. Palladino (a cura di), Stato e feudalità in Sicilia cit., pp. 3-4; 10-12, 17-39; cfr anche F. Palladino, Introduzione a G. M. Guggino, Istruzioni e regolamenti dell’Accademia agraria ed economica da stabilirsi nel Regno di Sicilia, ivi, pp. 229-249.

151 R. Romeo, Il Risorgimento in Sicilia cit., pp. 51-52.152 F. Renda, Baroni e riformatori cit., pp. 42-44.

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disintegrarne la compagine, attraendone a sé alcuni elementi con favori e promesse … evitando ogni gesto che potesse urtare le altrui suscettibilità e convinzioni».

Gli anni del mandato di Caramanico furono caratterizzati dun-que da concretezza nella notevole azione di governo, condotta con «moderazione e accortezza»153: ci si dedicò «a studiare criticamente il diritto pubblico siciliano e si andarono ricercando e vagliando, con spirito nuovo, le fonti storiche e giuridiche su cui si fondavano le prerogative dei baroni e le istituzioni basilari del Regno154». Te-stimonianza di questo lavoro di rivisitazione di tradizioni storiche e politiche è la designazione nel 1789 di Rosario Gregorio alla neoi-stituita cattedra di Diritto pubblico siciliano a Palermo, contestua-le a quella di Francesco Rossi a quella anologa e altrettanto nuova dell’ateneo di Catania155; si trattava di cattedre prestigiose, i cui docenti non erano scelti per concorso, ma direttamente dal sovra-no, poiché si riteneva che dovessero occuparsi delle leggi fondanti la “costituzione siciliana”156.

Poco dopo l’insediamento, presentò al Parlamento la richie-sta, approvata all’unanimità e confermata nel 1790, di nuovi nu-merazione e catasto, «nel quadro di una proposta che affida alla Deputazione del Regno il compito di un progetto complessivo per “distruggere le cause spopolatrici del genere umano”, facilitare il commercio, promuovere l’agricoltura, introdurre le arti»157. Inoltre, risulta importante l’unificazione nel 1787 delle procedure per le cause feudali con quelle per le cause allodiali158.

Ancora nel biennio 1786-1787, molte università, forti delle concessioni di Caracciolo, si riscattavano o «impugnavano la giuri-sdizione» e gabelle, dogane, dazi introdotti dai feudatari. Tra que-ste numerose controversie, notevole interesse e dibattito suscitò

153 R. Romeo, Il Risorgimento in Sicilia cit., pp. 71-73.154 E. Pontieri, Il tramonto del baronaggio siciliano cit., pp. 298-299.155 Ivi, pp. 299-319.156 Il Gregorio (1753-1809) era persona gradita al Caracciolo, che nel 1783 ne

aveva favorito la nomina a canonico della Cattedrale di Palermo (O. Cancila, Storia dell’Università di Palermo. Dalle origini al 1860 cit., pp. 101-104).

157 G. Giarrizzo, La Sicilia dal Cinquecento all’Unità d’Italia cit., p. 587; cfr. anche R. Romeo, Il Risorgimento in Sicilia cit., pp. 73-74.

158 R. Ajello, I. Del Bagno, F. Palladino (a cura di), Stato e feudalità in Sicilia cit., p. 206; cfr. anche E. Pontieri, Il tramonto del baronaggio siciliano cit., pp. 41-42, 340-343.

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quella tra i cittadini di Motta d’Affermo e il principe di Torremuz-za, Gabriele Lancillotto Castelli, sul “diritto proibitivo” dei trappeti che indusse anche quelli di alcuni comuni vicini a muovere cause per l’abolizione di questo e di altri diritti. Da questa questione, che «sconfinò dal campo giuridico in quello politico», fu originato il di-spaccio dell’8 novembre 1788159, che, anche per rendere esecutivi passate sentenze e analoghi provvedimenti, estese alla Sicilia quan-to già stabilito per il continente: erano fortemente ridimensionati i diritti feudali sui vassalli. Inoltre, altre notevoli limitazioni furono stabilite nel 1789 con le Sovrane disposizioni relative alle prestazioni e diritti proibitivi e privativi di trappeti, molini, forni ed altri simili, che esercitano quei baroni nei loro feudi sopra i propri vassalli; infine, questi diritti furono completamente aboliti nel 1790, con l’obbligo per le università feudali di corrispondere un compenso equivalente a quanto soppresso, se si fosse dimostrato che era legittimamente detenuto. La risposta del baronaggio fu affidata a un testo di ano-nimo autore, Della conservazione de’dritti i quali in Sicilia chiamansi baronali, pubblicato nel marzo 1789160, in cui si denunziava che le università avevano dato ai provvedimenti un’«interpretazione tanto estesa» da mettere a rischio anche i diritti legittimamente detenuti, quando, come affermato dall’estensore, la gran parte delle preroga-tive erano legate al diritto consuetudinario e ad «accordi e tutele che vincolavano reciprocamente servi e padroni»161.

Contro Caramanico «non si scatenò la tempestosa reazione che aveva ostacolato il riformismo caraccioliano», tuttavia il ba-ronaggio non aveva rinunciato ai suoi «propositi di resistenza»162. Protagonista del dibattito sulla feudalità continuò a essere Saverio Simonetti, che tra il 1786 e il 1789 ricoprì le cariche di “consulto-re del governo” in Sicilia e amministratore della Real Commenda della Magione: sono gli anni della sua attività di riformatore, che si

159 E. Pontieri, Il tramonto del baronaggio siciliano cit., pp. 339-340; cfr. R. Romeo, Il Risorgimento in Sicilia cit., pp. 73-74; R. Cancila, La questione dei diritti signorili in Sicilia a fine Settecento cit., pp. 452-455. «Da parte governativa si rile-vava … come l’esercizio di tali diritti ledesse “non solo la suprema regalia, ma ben anco è d’impedimento alla industria, alla coltura ed al commercio”, tanto che già nel passato ne era stata dichiarata la illegittimità a meno di una specifica concessione fatta dal fisco unitamente col feudo. Ancora una volta si faceva notare come il potere dei baroni pretendesse di andare ben oltre gli stessi limiti che persino la sovranità si era imposta» (Ivi, pp. 454-455).

160 Ivi, pp. 451-452.161 Ivi, pp. 455-457.162 R. Romeo, Il Risorgimento in Sicilia cit., pp. 76-77.

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sostanziò in una serie di veri e propri «atti di governo»163. Allorché esercitò le funzioni di amministratore della Magione, in due rela-zioni sui feudi di Prizzi e Palazzo Adriano descrisse efficacemente la complessità del contrasto con il baronaggio: una «guerra ma-novrata», dove le posizioni sono vicine o «avvicinabili»164. Lasciò la Sicilia per Napoli nel 1791, in seguito alla nomina a segretario alla Giustizia165.

9. La censuazione dei demani comunali

In un quadro caratterizzato da una grande quantità di usurpa-zioni e “strasatti” di terre demaniali e comunali ad opera del baro-naggio e, sin da metà secolo, di altrettante cause pendenti davanti ai tribunali per ottenere il pieno possesso di terre comuni166, maggiore successo incontrò un’altra direttrice di intervento dei viceré riforma-tori, quella sui “demani comunali”167. È proprio sul versante delle censuazioni delle terre comuni delle città demaniali che i «due fronti del riformismo», governativo e baronale, si incontrarono, con l’obiet-tivo di «realizzare le riforme che il dibattito in corso prospettava, ma all’interno di un sistema istituzionale e sociale che si voleva in ogni caso preservare»168. Pertanto, l’iter del relativo provvedimento, ispi-rato da una supplica al viceré dell’avvocato corleonese Pomar Naselli e avviato da Caramanico nell’agosto 1787, fu rapido.

La procedura fu affidata al Tribunale del real patrimonio e, per sovrintendere a questa, fu nominato alla carica di avvocato fiscale Grassellini, un uomo di Caracciolo169. Una Giunta delle censua-zioni, presieduta da Tommaso Natale – figura di grande rilievo nel panorama politico e culturale siciliano e «uno dei principali inter-preti di quella politica di riforme, promossa dalla monarchia bor-bonica, finalizzata ad un rilancio economico e sociale dell’isola»170,

163 F. Renda, Baroni e riformatori cit., pp. 27-31. 164 Ivi, pp. 55-57; cfr. anche il testo di Simonetti, ivi.165 E. Pontieri, Il tramonto del baronaggio siciliano cit., pp. 342-345.166 Ivi, pp. 69-71.167 F. Renda, Baroni e riformatori cit., pp. 125-128.168 R. Cancila, Lo scudo infranto cit., p. 199. Sull’operazione di censuazione,

cfr. O. Sabato, La censuazione delle terre demaniali nel Regno di Sicilia alla fine del XVIII secolo, tesi di dottorato di ricerca in Storia dell’Europa mediterranea, Univer-sità degli Studi di Palermo, XIX ciclo, tutor prof. Orazio Cancila.

169 Ivi, pp. 29-34; cfr anche F. Renda, Baroni e riformatori cit., pp. 125-128.170 O. Sabato, La censuazione delle terre demaniali nel Regno di Sicilia alla fine

del XVIII secolo cit., pp. 37-55.

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fu incaricata di procedere alla suddivisione dei demani comunali; si sperava così di «creare una piccola proprietà di coltivatori diret-ti, dando la preferenza nelle assegnazioni, per quanto possibile, a coloro che avevano goduto dei soppressi usi civici»171. Tuttavia, fin dall’inizio, il baronaggio, come ai tempi dell’alienazione dei beni della Compagnia di Gesù, tentò di approfittare dell’operazione per acquisire nuove terre: già nel dibattito sulle direttive e sulla rego-lamentazione della censuazione, fu proposto di includere tra i be-neficiari anche esponenti della feudalità e di suddividere le terre in porzioni ampie. Le richieste, seppur parzialmente e sotto forma di eccezioni, furono accolte nelle “istruzioni prudenziali” del maggio 1789, normativa che avrebbe regolamentato le operazioni172.

Paolo Balsamo – che nei suoi scritti inglesi aveva mostrato notevoli riserve su ogni forma di intervento del potere centrale nella vita econo-mica e obiezioni sulla piccola proprietà contadina e sulle concessioni enfiteutiche173 –, coinvolto da Tommaso Natale nelle operazioni, eviden-ziò l’inutilità o addirittura la nocività per lo sviluppo dell’economia del frazionamento delle terre in piccole unità produttive174.

Le operazioni iniziarono in alcune università175 ma le difficol-tà economiche dei contadini e gli ostacoli frapposti da elementi delle élite cittadine misero in crisi tutto il processo. Nonostante il sostanziale fallimento, la censuazione delle terre demaniali è con-siderata da Giarrizzo «il tratto più rilevante dell’intervento statale nella struttura agraria dell’isola»176.

10. Giri di boa: il 1789

Nella prima parte del 1789 il progetto di censuazione prose-guiva con regolarità e «la politica del governo procedeva – dun-que – lungo una direttiva corrispondente alle idee caraccioliane»177.

171 R. Romeo, Il Risorgimento in Sicilia cit., pp. 74-75.172 O. Sabato, La censuazione delle terre demaniali nel Regno di Sicilia alla fine

del XVIII secolo cit., p. 225.173 G. Giarrizzo, Cultura e economia nella Sicilia del ‘700 cit., pp. 278-279.174 O. Sabato, La censuazione delle terre demaniali nel Regno di Sicilia alla fine

del XVIII secolo cit., pp. 84-99.175 R. Romeo, Il Risorgimento in Sicilia cit., pp. 74-75. Sull’iter di assegnazione

delle terre, cfr. O. Sabato, La censuazione delle terre demaniali nel Regno di Sicilia alla fine del XVIII secolo cit., pp. 68-69; sui casi di Monte San Giuliano e Caltagiro-ne, cfr ivi, pp. 122-224.

176 G. Giarrizzo, Cultura e economia nella Sicilia del ‘700 cit., pp. 278-279.177 F. Renda, Baroni e riformatori cit., pp. 141-150.

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Inoltre, in quello stesso anno la “questione feudale” segnava altri punti a favore dello schieramento antibaronale, come la nomina di Giacinto Dragonetti alla carica di conservatore. Tuttavia, «nella lotta contro il governo … il baronaggio di Sicilia, diversamente da quello di Napoli», continuava «a disporre di una larga fetta del pote-re politico» e se ne serviva anche ai fini di una battaglia culturale. Il Parlamento, la Deputazione del Regno, la Deputazione degli studi, il Senato e la Pretura di Palermo «si rivelano strumenti essenziali di persuasione, di conquista e anche di programmazione per il lancio di “proposte” ideologiche così a breve come a lungo termine. Non è dunque solo il governo che ha il suo esercito di riserva fra gli intel-lettuali»: Balsamo, aldilà del suo antivincolismo, era comunque un «sostenitore dell’egemonia baronale» e Vittorio Emanuele Sergio, «genovesiano di vecchia scuola», si era schierato con i baroni178. Tra gli intellettuali riformatori il più vicino alle posizioni caraccio-liane continuava ad essere sicuramente Simonetti che però rispet-to ai destinatari della censuazione mostrava grande cautela179.

L’inizio della Rivoluzione francese aprì una fase decisamente nuova: unì «tutti gli elementi conservatori … in uno sforzo di rea-zione … a tutta la politica e al moto di cultura e d’opinione dell’ulti-mo decennio». Al contempo, vi fu un significativo mutamento della politica borbonica: si rinnegò il riformismo, ponendo fine anche alle censuazioni, e, mentre si ruppero i rapporti con gli intellettuali napoletani, divennero conflittuali quelli con l’aristocrazia siciliana, che mal tollerava le crescenti richieste di donativi per finanziare la guerra e le politiche repressive e pertanto condannava il «gret-to fiscalismo» della dinastia. Tuttavia, secondo Romeo, il suo at-teggiamento non è esclusivamente connotato da “reazione”, anche perché manteneva «forza e vitalità» culturale, politica ed economica che le permise «di respingere l’assalto delle forze avversarie e di as-sorbire e volgere a proprio vantaggio alcuni elementi della cultura moderna, e specialmente le dottrine costituzionali britanniche»180.

Durante il conflitto con la Corona conseguente all’inizio della Rivoluzione francese, l’aristocrazia affinò dunque le sue concezioni ed emersero altri propositi di riforma sul terreno economico e su quello giuridico. Taluni di questi determinarono tendenze antifeu-

178 Ivi, pp. 130-138. Su Vittorio Emanuele Sergio (1740-1810), cfr. O. Cancila, Storia dell’Università di Palermo. Dalle origini al 1860 cit., pp. 61-64.

179 F. Renda, Baroni e riformatori cit., pp. 130-138.180 R. Romeo, Il Risorgimento in Sicilia cit., pp. 105-108.

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dali, che in qualche modo avevano a che fare anche con la grave crisi finanziaria del baronaggio. Questo aveva necessità infatti di compiere parziali alienazioni del patrimonio, impedite dai vincoli a cui il feudo era sottoposto, che si erano irrigiditi grazie alla riforme borboniche, soprattutto all’interpretazione restrittiva del capitolo Volentes. Emergevano dunque interessi che spingevano la nobiltà a prendere in considerazione la rinuncia ai privilegi feudali – anche se non la spiegano interamente – che «non si sono ancora precisati in concrete e particolari soluzioni: essi rimangono piuttosto allo stato di generica disposizione o tendenza».

Negli anni immediatamente successivi alla “grande rivoluzio-ne”, parallelamente alla critica del sistema politico e giuridico, si snodava quella al vincolismo proprio dell’economia feudale, che vide in Paolo Balsamo l’esponente più prestigioso181. I «termini di riferimento sul piano politico-sociale» sono rimasti gli stessi del-la riflessione di Lanza, ma la posizione di Balsamo già nel 1790, quando era appena ventiquattrenne e neocattedratico di Agricoltu-ra all’Accademia degli studi di Palermo, è «già più matura, e aspira a realizzare un’interna coerenza tra le riforme consigliate … attac-care la piccola proprietà contadina non significa certo in Sicilia vo-lere la consolidation of small farms, ma piuttosto il mantenimento della grande proprietà feudale»182. Il professore di Agricoltura, tra il 1791 e il 1792, avrebbe intrapreso un viaggio attraverso l’isola e dall’osservazione diretta sarebbe conseguito il suo giudizio sulle condizioni dell’agricoltura siciliana, nettamente sfavorevoli rispetto a quelle del continente. Come cause individuò l’arretratezza tecni-ca, in particolare per ciò che riguarda i sistemi colturali e i metodi di allevamento, ma soprattutto la «struttura della proprietà», man-cante di ogni gradazione; situazione ancor più aggravata dall’as-senteismo dei proprietari183.

I contraccolpi della rivoluzione si sostanziarono anche nel ten-tativo di vanificare i precedenti provvedimenti antibaronali; ne è ef-ficace dimostrazione l’inatteso atto del 1790 che rese inutile quello precedente sui “diritti privativi”. Nel Parlamento dello stesso anno ricomparve poi una forte opposizione alla realizzazione del cata-

181 Ivi, pp. 111-119; cfr. G. Giarrizzo, La Sicilia dal Cinquecento all’Unità cit., pp. 593-597.

182 Id., Cultura e economia nella Sicilia del ‘700 cit., p. 262.183 Ivi, pp. 273-276.

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sto184 e si insistette sulla necessità, contestata da Caramanico, che l’assemblea e la Deputazione, la cui nomina dal 1786 era avocata al sovrano, venissero consultate sulle principali decisioni politiche. La guerra con la Francia avrebbe infine indotto la Corona a mette-re definitivamente da parte il progetto di catasto per ottenere più denaro possibile dal Parlamento. L’assise del 1794 avrebbe con-cesso un donativo di più ridotta entità; avrebbe così avuto inizio lo scontro Corona-baronaggio culminato nel Parlamento del 1812, che avrebbe abolito la feudalità185.

Con la scomparsa del Caramanico e con la «violenta reazio-ne antigiacobina», inaugurata dalla scoperta della congiura del Di Blasi, nel 1795, «anche gli ultimi bagliori di riformismo illuministi-co si estinguono … ogni proposito riformatore di limitare privilegi e prerogative feudali nel nuovo clima ha come perduto senso e scopo»186.

L’abolizione delle feudalità sarà deliberata, su richiesta di una qualificata componente del baronaggio, dal Parlamento costituente del 1812, durante gli anni del sostanziale protettorato britannico sull’isola e del duro conflitto tra Corona e aristocrazia, in un com-plesso e non sempre palese intreccio di dialettiche – talvolta violen-te – economiche, politiche, istituzionali, culturali187.

184 E. Pontieri, Il tramonto del baronaggio siciliano cit., pp. 342-350; R. Cancila, Lo scudo infranto cit., p. 202.

185 E. Pontieri, Il tramonto del baronaggio siciliano cit., pp. 346-352.186 G. Giarrizzo, Cultura e economia nella Sicilia del ‘700 cit., p. 279.187 In questa sede mi pare opportuno citare solo alcuni lavori. Innanzitutto,

G. Giarrizzo, La Sicilia dal Cinquecento all’Unità d’Italia cit., pp. 611-666; inoltre, F. Renda, La Sicilia del 1812, Sciascia, Caltanissetta-Roma, 1963; C.R. Ricotti, Il co-stituzionalismo britannico nel Mediterraneo (1794-1818). III. Alle origini del “modello siciliano”, «Clio», 1 (1995), pp. 5-63; A. De Francesco, La Sicilia negli anni rivoluzio-nari e napoleonici: una prospettiva di ricerca, in Id., Saggi sul democratismo politico nell’Italia napoleonica 1796-1821, Esi, Napoli, 1996, pp. 91-126; A. Romano, Intro-duzione alla Costituzione di Sicilia stabilita nel generale straordinario parlamento del 1812, Rubbettino, Soveria Mannelli, 2000; J. Rosselli, Bentinck e l’occupazione britannica in Sicilia. 1811-1814, Sellerio, Palermo, 2003; A. Romano, F. Vergara Caffarelli (a cura di), 1812 tra Cadice e Palermo e Palermo-entre Cadiz y Palermo. Nazione, rivoluzione e costituzione. Rappresentanza politica, libertà garantite, auto-nomie, Palermo, 2012. Sul contesto politico isolano nella prima metà del XIX secolo, si veda il recente saggio di A. Blando, La guerra rivoluzionaria di Sicilia. Costituzione, controrivoluzione, nazione. 1799-1848, «Meridiana», 81 (2014), pp. 67-84.

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sommArio: Attraverso la riconsiderazione di due proposte interpretative avanzate da Anna Maria Rao e da Giuseppe Giarrizzo (con Francesco Renda), l’articolo prende in esame la questione relativa alla trasformazione dei feudi in allodi e intende mettere in luce la problematicità di una lettura unitaria della questione feudale nei regni di Napoli e di Sicilia. Come si cerca di evidenziare, la concezione del feudo elaborata dalla storiografia economico-giuridica napoletana nella seconda metà dell’Ottocento approdò a risultati diametralmente opposti rispetto alla “teoria dei commilitoni” fatta propria da buona parte del baronaggio siciliano nella seconda metà del Settecento, pur concordando paradossalmente nell’idea di una tendenziale trasformazione dei feudi in allodi avvenuta fra Medioevo ed Età moderna; dietro queste idiosincrasie vi era lo scontro fra baronaggio siciliano e Corte borbonica, nel corso del quale ebbero modo di emergere sistemi istituzionali e concezioni politiche fondamentalmente differenti, che portarono ad una riconfigurazione storiografica contrastata delle vicende dei due regni.

PArole chiAve: allodialità, feudalità, storia costituzionale.

FIEF AND ALLODIAL LAND IN THE KINGDOMS OF NAPLES AND SICILY

AbstrAct: Starting from the two historiographical interpretations given by Anna Maria Rao and Giuseppe Giarrizzo (with Francesco Renda), the article examines the question of the transformation from fiefs into allodial lands and intends to highlight the difficulty of a unitary interpretation of the feudal matter in the Kingdoms of Naples and Sicily. The conception of the fief, interpreted by the Neapolitan economic and legal historians in the second half of the Nineteenth century, was completely different from the “theory of fellow soldiers” endorsed by the Sicilian barons in the second half of the Eighteenth century, although they paradoxically agreed with the transformation of the fiefs into allodial lands which occurred between the Middle Ages and the Early Modern Age. At the root of these problems there was the conflict between the Sicilian barons and the Bourbon court; at that time different institutional systems and political conceptions emerged, leading to contrasting narratives on the history of the two Kingdoms of Naples and Sicily.

Keywords: allodial land, feudalism, constitutional history.1

Il saggio si inserisce nell’ambito del Progetto di Ateneo FFR 2012/2013 (2012-ATE-0067 Università di Palermo) coordinato dalla prof. R. Cancila.

Luigi Alonzi

ALLODIALITÀ E FEUDALITÀ NEI REGNI DI NAPOLI E DI SICILIA

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Nei primi anni Venti del Novecento, raccogliendo e rimeditan-do alcune fondamentali istanze critiche e metodologiche maturate durante la prima guerra mondiale, Benedetto Croce pubblicò a più riprese su «La critica» i vari capitoli raccolti poi in volume nel 1924 sotto il titolo Storia del Regno di Napoli; la scelta del titolo, che sa-rebbe potuta apparire pretenziosa, dava invece un senso preciso alla svolta metodologica che Croce voleva dare agli studi storici, da intendersi non più come mera ricostruzione annalistica e crona-chistica degli avvenimenti, ma come più alta sintesi concettuale e riflessione sul passato, che trovavano soprattutto espressione non tanto negli assetti economico-giuridici, quanto piuttosto nella sto-ria etico-politica dei ceti dirigenti. Con la sua straordinaria capa-cità di coniugare storia e storiografia, propria delle personalità più consapevoli della cultura storicistica, il Croce apriva la storia del Regno di Napoli con una lunga introduzione in cui rievocando la fi-gura di Enrico Cenni, e con essa il clima culturale della storiografia napoletana della seconda metà dell’Ottocento, individuava i limiti delle precedenti ricostruzioni economico-giuridiche, sul piano me-todologico e contenutistico; il volume del Cenni1, pur con un suo obiettivo immediato di corto respiro, essendo pubblicato nel 1870 in «occasione della contesa tra il comune di Napoli ed i proprietari danneggiati per la rifazione delle vie pubbliche», rappresentava un significativo trait d’union tra gli studi tradizionali di diritto pubbli-co e le ricerche economico-giuridiche che a cavaliere tra XIX e XX secolo avrebbero investito la realtà istituzionale del Mezzogiorno d’Italia.

La visione storica avanzata dal Cenni e criticata dal Croce era racchiusa nell’idea che il Regno di Napoli a partire dall’età nor-manno-sveva si fondasse su una “monarchia civile” che presentava fin dagli inizi le caratteristiche principali di uno Stato moderno ed era riuscita a contenere entro i propri limiti la feudalità, grazie soprattutto ad un’avanzata elaborazione giuridica del concetto di iura civitatis, fondata sulla intangibilità del pubblico demanio. La

1 E. Cenni, Studi di diritto pubblico ad occasione della contesa tra il comune di Napoli ed i proprietari danneggiati per la rifazione delle vie pubbliche, Stab. tip. dei fratelli de Angelis, Napoli, 1870. Al giobertiano e vichiano Cenni è dedicata la voce a cura di F. Tessitore in Dizionario Biografico degli Italiani, 23, Istituto dell’Enciclopedia Italiana, Roma, 1979; ma si veda anche, più ampiamente, per il contesto di queste pagine, Tradizione vichiana e storicismo giuridico in Id., Contributi alla storia e alla teoria dello storicismo, III, Edizioni di Storia e Letteratura, Roma, 1997, pp. 189-206.

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critica di Croce era radicale e partiva dalle origini stesse della ri-costruzione del Cenni, ovvero da quella monarchia normanno-sve-va che non poteva essere legittimamente collocata a fondamento della successiva storia politico-costituzionale del Regno di Napoli, poiché quella monarchia non solo era più ampia ed articolata del Mezzogiorno peninsulare, ma aveva il suo centro nevralgico in Si-cilia; nell’ottica di Croce, poi, le glorie di quella storia andavano piuttosto ascritte alle rispettive dinastie (normanna e sveva) e non ai ceti dirigenti meridionali, che non riuscirono ad integrarsi nel quadro di un’entità politica che fosse veramente espressione della nazione napoletana. Nello stesso torno di tempo si collocava un altro importante lavoro che rappresentava un ancor più signifi-cativo ponte di passaggio fra studi di diritto pubblico e ricerche economico-giuridiche, quello di Nicola Santamaria, il quale non riconosceva alla monarchia normanna quel ruolo primario nella fondazione dello Stato moderno, che invece abbiamo ritrovato nella linea storiografica tracciata dal Cenni; ne faceva le veci, come mo-dello di moderno diritto e moderna statualità, l’Impero romano di cui avrebbe raccolto in parte l’eredità Federico II2.

Il Santamaria rispetto al Cenni si muoveva su una linea d’in-dagine contigua ma ben distinta, più versata sul lato dell’allodia-lità che non su quello della demanialità, sempre puntando a sta-bilire la progressiva affermazione della sovranità regia rispetto alla feudalità, ma attraverso differenti fasi e modalità; la monarchia sveva, ad esempio, veniva collocata nel cuore di quella congiuntu-ra storica che dai Normanni giungeva agli Angioini, caratterizzata dalla prevalenza di un linguaggio feudale, in cui «i nomi e le nor-me del feudo, aveva[no] direi quasi feudalizzato il demanio regio»3; il processo di affermazione dello Stato moderno sarebbe avvenu-to dunque lentamente nel corso del viceregno spagnolo, a seguito della trasformazione del sistema feudale dovuta all’introduzione dell’adoa e, dunque, all’abolizione del servizio militare che era stato fino ad allora caratteristica precipua delle funzioni del feudatario.

La trasformazione del sistema feudale, che ebbe origine prima del Mille, si sarebbe realizzata in tre fasi: nella prima fase, quella del pieno sviluppo del sistema feudale, il feudatario prestava il ser-

2 N. Santamaria, La società napoletana dei tempi viceregnali studiata e descrit-ta, vol. 1 «La scienza economica dei governanti e le sue applicazioni», Dalla tipogra-fia dicesinia, Napoli, 1861; Id., La società napoletana dei tempi viceregnali studiata e descritta, vol. 2 «La feudalità», Dalla tipografia dicesinia, Napoli, 1863.

3 Ivi, p. 59.

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vizio militare ed era parte integrante e fondante della monarchia; nella seconda fase, tra il periodo angioino ed il viceregno spagnolo, i feudatari sostituirono lentamente il servizio militare con il paga-mento dell’adoa; nella terza ed ultima fase, il feudatario cercò di «esimersi dalla medesima prestazione pecuniaria ed a tenere le ter-re concedute quasi come allodio»4, il che si badi rappresentò nello stesso tempo un indebolimento della sua posizione nei confronti della monarchia, che cominciava ad assumere il profilo di uno Sta-to moderno. A questo punto il discorso di Santamaria si ricollegava più direttamente al dibattito acceso nella seconda metà del XVIII secolo sulla questione feudale, sottolineando che la disputa circa i limiti della successione feudale venne collegata logicamente alla questione delle origini del feudo e quindi della definizione della sua essenza e natura.

In vero, circa l’origine del feudo, il Santamaria si limitava a ripetere vagamente che la sua prima «larva si trova nelle foreste della Germania» e che il feudo sarebbe stato espressione della rude forza e della violenta barbarie di quelle popolazioni che invasero i civili territori dell’Impero romano; le difficoltà di definizione della natura ed essenza del feudo erano dovute alla ragione che i tentati-vi di interpretazione giuridica di questo mero fatto furono compiuti utilizzando le tecniche ed i concetti del diritto romano, traducendo spesso artatamente il linguaggio barbaro della società feudale con il linguaggio civile del vecchio Impero latino (qui, come altrove, il Santamaria riprendeva o criticava le argomentazioni di Giacinto Dragonetti nell’opera che questi aveva dedicato all’origine dei feu-di, senza farne la dovuta menzione). Così il Du Fresne era sicura-mente in errore quando utilizzava il concetto romano di «dominio» per interpretare l’espressione feudale tenere in demanium, poiché il dominio aveva un’essenza completamente diversa da quella del feudo, dato che il feudatario non aveva la piena disponibilità della proprietà che gli era stata concessa, altrimenti si sarebbe in pre-senza di una figura giuridica aberrante come il «feudo allodio».

Noi abbiamo esaminato se il feudatario poteva dirsi pieno padrone della cosa, e non trovando in lui quella potenza di disposizione, il cui con-cetto è incarnato nella parola dominio, abbiamo conchiuso che egli non era un vero ed assoluto proprietario: ora fino a quando non sarà posta sotto i nostri occhi la immagine di un feudo alienabile, non riversibile, né

4 Ivi, p. 63.

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soggetto a servizi e doveri, di un feudo allodio, noi persisteremo nell’idea che l’espressioni tenere in demanio ritrovate nelle carte feudali del tempo dei Normanni o non accennano ad una piena proprietà della cosa posse-duta, o sono usate in contraddizione della idea che vogliono indicare per una perdonabile inesattezza di linguaggio5.

Altrettanto incongruente risultava l’applicazione al linguaggio feudale di figure giuridiche del diritto romano come l’usufrutto e l’enfiteusi. Un’attenzione particolare era inoltre riservata ad un’ipo-tesi avanzata da alcuni feudisti siciliani, secondo cui «i feudi costitu-issero un condominio, una direi quasi consovranità tra il capo dello Stato e i baroni»6, la quale – osservava il Santamaria – si sarebbe potuta benissimo applicare anche al Regno di Napoli, visto che le modalità di occupazione del suolo da parte dei Normanni furono le stesse. Al di là di questo aspetto, sul quale ritorneremo fra breve, interessa qui sottolineare che nella ricostruzione del Santamaria ca-ratteristica fondamentale del feudo era sempre la concessione, che nobilitava il concessionario e rendeva il proprietario feudale per sua natura ed essenza diverso dall’ignobile proprietario allodiale:

E chi sosteneva di avere un feudo per proprio diritto, dal proprio valore, non accorgevasi che con questa pretensione avrebbe dovuto uscire dalla so-cietà dei signori ed entrare in quella dei proprietari burgensatici ed allodiali: cosa la quale sarebbe in quei tempi poco piaciuta, poiché allora la proprietà allodiale, tuttoché liberissima e trasmissibile e trasferibile, era la proprietà ignobile e faceva rimanere nella classe dei vinti, mentre la feudale, soggetta al vincolo del vassallaggio, alla ipotesi della devoluzione, ai precetti della inalienabilità, alle restrizioni nella successione, apriva il campo agli onori e alle dignità, e dava perfino in forza del semplice possesso di essa una parte della sovranità nello imporre i tributi e nella giurisdizione7.

Per queste stesse ragioni non poteva essere dunque accetta-ta l’altra «repugnante» ipotesi secondo cui «i feudi fossero stati da principio una piena proprietà»8, mutilata con il tempo dalle sempre più vigorose monarchie con l’imposizione di servigi e doveri feuda-li; la disamina di questo punto veniva condotta ancora una volta attraverso l’analisi giuridica di istituti del diritto romano come il beneficio ed il precarium, per giungere ad una confutazione della

5 Ivi, p. 103.6 Ivi, p. 105.7 Ivi, p. 110.8 Ivi, p. 112.

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teoria delle quattro fasi nella evoluzione del feudo elaborata da Montesquieu, Robertson e Mably, che si concludeva con una det-tagliata illustrazione delle funzioni del relevio e del quindennio, necessaria ad una corretta qualificazione storico-giuridica del con-tratto feudale. Il Santamaria tendeva ad assimilare terre demania-li e terre allodiali come prerogative sovrane, in un movimento di progressiva espansione della libertà (nel suo senso ottocentesco) coincidente con il processo di affermazione dello Stato moderno, che si sarebbe imposto fronteggiando le resistenze e limitando le oppressioni rappresentate dal mondo feudale. Allodialità (e dema-nialità) come espressione delle prerogative sovrane, si potrebbe dire «allodialità statale», e non «allodialità baronale» come invece si era configurata nella Sicilia del XVIII secolo.

L’uso di queste etichette vuole essere esso stesso un indice delle situazioni paradossali e delle confusioni concettuali che hanno con-trassegnato spesso le ricostruzioni delle distinte vicende feudali dei regni di Napoli e di Sicilia, sulle quali qui si intende portare l’atten-zione. Come vedremo meglio fra breve, nella seconda metà del XVIII secolo, i feudisti siciliani elaborarono una dottrina storico-costitu-zionale favorevole al baronaggio, fondata sulla tendenziale assimila-zione del feudo all’allodio; la tendenziale allodialità, secondo questa dottrina, avrebbe rafforzato la posizione dei feudatari nei confronti della Corona. Ad ogni modo, ciò che interessa sottolineare fin da ora, è che nella storiografia napoletana sulla feudalità della seconda metà del XIX secolo, pur nella diversità di vedute su aspetti di in-terpretazione generale, vi era un punto sul quale si era creata una sostanziale convergenza, ben riassunto nelle parole di Santamaria: la situazione di allodialità, cioè di libera disponibilità dei beni, rap-presentava un motivo di debolezza da parte dei feudatari, e non un motivo di forza, come avrebbero voluto i feudisti siciliani.

Una concezione storiografica, dunque, che sul piano metodologi-co era in larga misura partecipe della tradizione vichiana napoletana, facendo proprie le istanze dello storicismo giuridico, nutrito peraltro da quelle manichee narrative fondate sul binomio civiltà/barbarie che avevano avuto un’intensa ed ampia elaborazione nel corso del XVIII secolo, laddove la civiltà era rappresentata dall’Impero romano, dalla libertà personale, dai diritti individuali, mentre la barbarie trovava espressione nelle angarie, nella divisione della sovranità ed in tutte le altre negatività prodotte dal sistema feudale; nello stesso tempo la metodologia storiografica del Santamaria mostrava, soprattutto nella

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seconda parte9, segni di apertura verso la successiva fase di studi economico-giuridici, che si concentrarono sempre più sugli aspetti tecnici e formali delle concessioni, dei formulari, delle investiture.

La revisione condotta da Croce nei confronti di questa tenden-za storiografica si focalizzava dunque sue due aspetti: 1) il Vespro siciliano come spartiacque delle successive vicende politico-costi-tuzionali dei regni di Napoli e di Sicilia; 2) l’analisi del rapporto Sta-to-feudalità come cardine della storia del Regno di Napoli. E non a caso, verso la fine della sua introduzione Croce tornava su quella concezione «mite» del feudalesimo allora elaborata, che contem-plava fra l’altro la costante difesa dei «diritti del comune, la libertà sempre mantenuta dalle persone, verso il possessore del feudo, la mitezza della nostra costituzione feudale, la tendenza a fare pre-valere sul diritto feudale il diritto civile, la concezione del feudo come bene pubblico concesso per servigi, le lotte giurisdizionali con Roma, il rifiuto dell’Inquisizione, il ricorso ai mezzi legali nelle rivoluzioni, i lumi sparsi dai nostri scrittori d’economia civile, e si-mili»10. Beninteso, lo stesso Croce ammetteva che i feudatari napo-letani alla fine del Settecento fossero stati costretti a vedersi ridotti i loro poteri politici e giurisdizionali, ma non accettava una visione della storia del Regno di Napoli anticipatrice in materia di diritti civili e non entrava nel merito delle implicazioni relative all’assimi-lazione dei feudi ai beni allodiali, limitandosi ad osservare:

Sarà che il feudo nostro avesse tendenza a cangiarsi in allodio, sebbe-ne questa tendenza si manifestasse quasi dappertutto dove fu feudalismo, e da noi venisse contrastata dai sovrani che più forte mantennero la so-vranità e l’interesse dello stato, e favorita o non contrastata dagli altri più

9 Il secondo volume dell’opera citata venne ristampato nel 1881 a Napoli, per i tipi R. Marghieri di Gius., con il titolo, I feudi, il diritto feudale e la loro storia nell’Italia meridionale; lettura che venne ampliata e variamente articolata da successivi studi di N. Teti, Il regime feudale e la sua abolizione, Stabilimento tipografico sociale, Napoli, 1886; F. Ciccaglione, La feudalità studiata nelle sue origini, nel suo sviluppo e nella sua decadenza, Dott. Leonardo Vallardi Edit., Milano, 1888; A. Perrella, L’eversione della feudalità nel napoletano. Dottrine che vi prelusero, storia, legislazione e giurispru-denza, Tipografia e cartoleria De Gaglia e Nebbia, Campobasso, 1909 (rist. an. Forni editore, Sala Bolognese, 1974); R. Trifone, Feudi e demani. L’eversione della feudalità nell’Italia meridionale, Società editrice libraria, Milano, 1909; M. Palumbo, I comuni meridionali prima e dopo le leggi eversive della feudalità, Stab. Tip. L’Unione, Monte-corvino, 1910-1916 (rist. an. Forni editore, Sala Bolognese, 1979); F. Lauria, Demani e feudi nell’Italia meridionale, Tipografia degli artigianelli, Napoli, 1923.

10 Si cita da B. Croce, Storia del Regno di Napoli, a cura di G. Galasso, Adelphi edizioni, Milano, 1992, p. 50.

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deboli; onde alla costituzione Scire volumus di Ruggiero contro il dividere e suddividere i feudi fanno malinconico riscontro quella Volentes del re di Sicilia Federico d’Aragona, che li ridusse quasi a corpi venali, e le varie ampliazioni successorie concesse dagli Angioni e dai Durazzeschi11.

Anche in questo caso, dunque, il rapporto allodialità-feudalità appare paradossale: laddove il Santamaria (fra gli altri) affermava che una situazione di tendenziale allodialità del feudo avrebbe co-stituito una forma di debolezza del proprietario nei confronti della Corona, il Croce per converso riteneva che i sovrani più avveduti (fra cui Ruggiero II) furono impegnati a limitare questa tenden-za verso l’allodialità del feudo per affermare le prerogative regie. Questo paradosso istituzionale è rimasto negli anni successivi nell’ombra, poiché gli interessi storiografici si sono spostati sem-pre di più dai profili formali alla storia etico-politica e alle pratiche economico-sociali; come osservava subito dopo Benedetto Croce «dalle ricordate leggi e ordinamenti e concetti giuridici malamente si trarrebbe la conseguenza che le condizioni dell’Italia meridionale fossero migliori nel fatto di quelle della Francia, della Germania o di altra parte d’Europa; altro è l’astratta forma giuridica, la lex sine moribus, e altro la realtà effettiva; e, guardando a questa, l’Italia meridionale ci si mostra, nelle storie, nelle cronache, nei docu-menti, per secoli, un paese in preda alle usurpazioni e prepotenze baronali […] Ma fosse anche effettiva, come certamente non è, la privilegiata storia economico-giuridica, ossia sociale dell’Italia me-ridionale, essa non sarebbe mai la sostanza vera della storia di un popolo, di quella che conta, della storia per eccellenza, che è sola-mente quella etica o morale e, in alto senso, politica»12.

Considerazioni queste che prefiguravano la successiva evolu-zione storiografica, indicata da Anna Maria Rao con la suggestiva immagine della «morte e resurrezione della feudalità»13: alla visione

11 Ivi, p. 52. Per cogliere ancora più pienamente il contrasto fra questa imposta-zione data dal Croce alla storia feudale napoletana e quella del feudalesimo «mite», si potrebbero leggere in parallelo alla pagina riportata nel testo le ultime pagine dei capi-toli settimo e ottavo del secondo volume del Santamaria, al quale quest’ultimo diede i seguenti titoli: «Il progresso della trasmissione feudale non è un segno di progresso del feudo, ma di decadenza» e «Le aspirazioni del feudo alla mobilità della terra allodiale sono i preludii della sua morte»; in quest’ultimo capitolo il Santamaria ha peraltro dato un’interpretazione della costituzione Scire volumus molto più chiaroscurale rispetto a quella del Croce, che vi vedeva un segno sicuro dell’affermazione della sovranità statale.

12 Ivi, p. 53.13 A.M. Rao, Nel Settecento napoletano: la questione feudale, in R. Pasta (a cura

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prevalente fra Otto e Novecento di una feudalità napoletana «mite», in cui i feudatari si sarebbero progressivamente ridotti alla condi-zione di meri proprietari allodiali, succedeva la visione di una feu-dalità napoletana «forte», radicata nel territorio e ancora dominan-te con i suoi poteri di fatto nel corso del lungo Ottocento. Queste due visioni erano evidentemente espressione di un profondo mu-tamento dei contesti politici e dei modelli storiografici, per cui dai dubbi e dalle critiche sollevati dalla storia etico-politica crociana si sarebbe passati nel secondo dopoguerra ad una netta affermazione della questione contadina nel quadro di una riflessione meridio-nalistica sollecitata da ricerche sulla distribuzione della proprietà, sul ruolo e le dimensioni delle aziende agrarie, sul profilo ed il peso politico-economico della borghesia, approdando infine ad una serie di monografie sulla gestione dei patrimoni nobiliari14.

Negli anni Settanta e Ottanta del Novecento l’immagine di una feudalità «forte», in ragione dei suoi articolati poteri politici ed econo-mici, variamente elaborata attraverso le precedenti ricerche di Rosa-rio Villari, di Giuseppe Galasso e di Pasquale Villani, è stata inserita in un quadro più articolato e frammentato, ove spesso le categorie analitiche della transizione dal feudalesimo al capitalismo sono sta-te sostituite da indagini più attente alla dimensione antropologica ed alla lenta trasformazione e riconversione degli assetti socio-eco-nomici e politico-istituzionali, con la individuazione di nuovi e diver-si canoni storiografici: dalla «postilla sui feudi» di Domenico Sella al «capitalismo signorile» di Pier Luigi Rovito, dall’approccio «familiare» di Gerard Delille a quello giuridico-istituzionale di Raffaele Ajello e Aurelio Cernigliaro fino alla «via napoletana allo Stato moderno» di Aurelio Musi, per citarne solo alcuni fra i più importanti15.

di), Cultura, intellettuali e circolazione delle idee nel ‘700 (Quaderni della Fondazione Feltrinelli, 38), FrancoAngeli, Milano, 1990, pp. 51-106; parzialmente ripubblicato con il titolo Morte e resurrezione della feudalità: un problema storiografico, in A. Musi (a cura di), Dimenticare Croce? Studi e orientamenti di storia del Mezzogiorno, Esi, Napoli, 1991, pp. 113-136. L’immagine di una feudalità che alla fine del Settecento sembrava «alternativamente caduta e vicina a risorgere» era stata largamente dif-fusa nel Regno di Napoli nel corso dell’Ottocento, a seguito della pubblicazione del notissimo lavoro di D. Winspeare, Storia degli abusi feudali, Presso Angelo Trani, in Napoli, 1811, p. 86.

14 Lo studio dei patrimoni nobiliari ha poi assunto un carattere autonomo e duraturo, con un ampio rinnovamento metodologico ed euristico: vedi L. Alonzi, Famiglia, patrimonio e finanze nobiliari in età moderna. Il rinnovamento della storio-grafia (1992-2001), «L’Acropoli», IV, n. 3 (2003), pp. 379-408.

15 Per un quadro relativo alla feudalità siciliana e napoletana in età moder-

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Nella seconda parte del suo saggio, Anna Maria Rao ha riper-corso le tappe fondamentali della questione feudale napoletana nel corso del Settecento, a partire dalle guerre di successione fino alla fine del secolo, ribadendo un’acquisizione storiografica che vedeva negli anni ’60 un momento di frattura fondamentale, in cui dalla critica degli «abusi» feudali si sarebbe passati alla ricerca di mo-delli politici e sociali radicalmente alternativi; in questa seconda congiuntura, che si giovava in parte delle riflessioni e degli sviluppi precedenti, uno dei momenti di più forte precipitazione dei rap-porti fra la feudalità e la Corona fu rappresentato dalla questione della reversione dei feudi a seguito della «raffica di devoluzioni per estinzione della linea di successione feudale che investì una serie di grandi famiglie negli anni ’60 e ’70»16, le quali aprivano la stra-da ad un riaccendersi della questione demaniale, in cui il governo borbonico era posto di fronte alla necessità di sciogliere il dilemma ormai improcrastinabile di affidarsi ad una rinnovata nobiltà, che conservava comunque le sue prerogative politiche e sociali, o di elaborare una diversa linea politica che facesse più largo spazio ai nuovi ceti emergenti nel governo del territorio. E qui per la pri-ma volta, non a caso, la lettura politica tutta interna alla vicenda feudale napoletana tracciata dalla Rao, chiamava in causa anche la questione feudale siciliana, facendo un significativo riferimento alla Memoria ragionata in favore dei Baroni del Regno di Sicilia, che rappresentava la reazione dei feudatari siciliani alla politica rifor-matrice condotta in quegli anni dal viceré Domenico Caracciolo17.

E non è un caso, altresì, che soprattutto a partire da queste stesse vicende, negli anni precedenti Giuseppe Giarrizzo e Fran-cesco Renda avevano denunciato la sostanziale separazione delle ricostruzioni storiografiche relative ai regni di Napoli e di Sicilia,

na si vedano: G. Brancaccio (a cura di), Il feudalesimo nel Mezzogiorno moderno. Gli Abruzzi e il Molise (secoli XV-XVIII), Biblion, Milano, 2011; A. Musi, M. Noto (a cura di), Feudalità laica e feudalità ecclesiastica nell’Italia meridionale, Associazione Mediterranea, Palermo, 2011; E. Novi Chavarria, V. Fiorelli (a cura di), Baroni e vassalli. Storie moderne, FrancoAngeli, Milano, 2011.

16 A.M. Rao, Nel Settecento napoletano cit., p. 100.17 La Memoria ragionata è stata ampiamente utilizzata dagli storici ed è ora

integralmente leggibile in appendice al volume di R. Cancila, Aspetti del dibattito sulle giurisdizioni feudali in Sicilia (1784-1789), Associazione Mediterranea, Paler-mo, 2013, pp. 59-112. Sulla questione feudale nei regni di Napoli e di Sicilia sono sempre fondamentali gli studi di E. Pontieri, C. Trasselli, R. Romeo, P. Villani, G. Galasso, G. Giarrizzo, F. Renda, M. Aymard, O. Cancila.

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richiamando l’opportunità di elaborare una lettura «unitaria» della storia del Mezzogiorno18. Ma proprio gli attriti e le divaricazioni su-scitate dalla questione feudale nei due regni mostrano la difficoltà di recepire una tale proposta storiografica, che avrebbe necessitato di essere meglio precisata e puntualizzata nei suoi aspetti, per non rimanere fra i desiderata e le petizioni di principio. Particolarmente efficace, da questo punto di vista, è la vicenda ruotante attorno alla «retta interpretazione del capitolo Volentes», che sfociò in interpre-tazioni storiche ed istanze politiche apparentemente paradossali. Infatti, come vedremo fra breve, la linea politico-giuridica espressa da Saverio Simonetti, da Francesco Saverio D’Andrea e da Giacin-to Dragonetti, tesa a suffragare il diritto di reversione dei feudi da parte della Corona, si trovò a fronteggiare nei regni di Napoli e di Sicilia due azioni politiche paradossalmente convergenti: se i ba-roni siciliani ritenevano che i loro corpi feudali avessero fin dalle origini un’anima allodiale, alcuni riformatori napoletani (Filangieri, Galanti, Delfico), sostenevano comunque la necessità di trasfor-mare i feudi in allodi, per rendere tutti i proprietari uguali davanti alla legge. Convergenza senza dubbio solo apparente, ma che è co-munque indicativa delle numerosissime variazioni sul tema della trasformazione giuridico-istituzionale dei regni di Napoli e di Sicilia e che occorre tenere presente per comprendere il significato delle storie del diritto pubblico prodotte nel corso dell’Ottocento (da Ro-sario Gregorio ad Enrico Cenni, e oltre).

Come si è detto, l’azione politica svolta da Domenico Caraccio-lo negli anni ’80 del Settecento rappresentò uno dei momenti di più aspro confronto fra il baronaggio siciliano ed il governo borbonico,

18 Si possono ricordare qui, fra i documenti più significativi di questa «denun-cia», l’editoriale dell’«Archivio Storico per la Sicilia Orientale», LXXIII, fasc. I-II (1977), pp. 5-6, firmato La redazione (ma dovuto evidentemente a Giarrizzo), intitolato La sto-ria della Sicilia come storia del Mezzogiorno, ove si parla di un «indirizzo interpretativo che da almeno un decennio informa la nostra rivista», sulla base della seguente do-manda: «A quali risultati storiografici porterebbe una prospettiva che Napoli volesse assumere come capitale non solo del “suo” regno ma dell’intero Mezzogiorno in tutta l’età moderna?»; in questa prospettiva si muove l’importante articolo di F. Renda, Il dibattito sulla questione feudale nel Mezzogiorno (1786-1787), pp. 253-288, contenuto all’interno di questo numero della rivista. Si può ricordare anche, in anni più recen-ti, il bilancio storiografico posto da G. Giarrizzo a conclusione del volume Cultura e economia nella Sicilia del Settecento, Salvatore Sciascia editore, Caltanissetta-Roma, 1992, pp. 351-372, dedicato ancora una volta alla seconda metà del Settecento e alla questione feudale, a partire dalla «consapevolezza del carattere unitario della storia meridionale in età moderna».

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che mai prima di allora era intervenuto in maniera così decisa e con una manovra politico-amministrativa di così ampio respiro nel tentativo di regolare gli interessi e di modificare le strutture del Regno «ultra Faro»19. Tuttavia, come spesso accade nel momento in cui vengono innescati dei conflitti, proprio questo intervento av-viò un processo di ristrutturazione identitaria sia dalla parte del baronaggio siciliano che dalla parte degli esponenti del governo borbonico, che portò non solo ad una ridefinizione delle rispettive strategie politiche ma anche ad una riscrittura delle rispettive sto-rie «costituzionali», con una diversa configurazione storiografica e una ridislocazione della memoria storica. L’autore della Memoria ragionata, cui si è fatto cenno, apriva infatti il suo discorso proprio con un significativo richiamo alla memoria storica ed alla legisla-zione della nazione siciliana, che sarebbero stati duramente colpiti e sovvertiti dall’azione politica di Domenico Caracciolo:

Gli effetti di pestilenze desolatrici, di terremoti spaventosi, di eruzioni di fiumi di fuoco dai vulcani, di carestie non previste, ed altri simili flagelli afflittivi dell’umana condizione, de’ quali si tiene memoria nelle storie della Sicilia, han sempre trovato nella costante permanenza della legislazione, e nella puntuale esecuzione di essa rimedii tali da fare in poco tempo scordare i mali accaduti, e rimettere il tutto nello stato primiero di buon ordine e sicurezza. Le novità però fattesi da tre anni a questa parte a tutto il sistema di legislazione della Nazione, lo rovesciamento totale di tutti gli usi, e consuetudini e lo sconcerto generale di tutti i sistemi coi quali per tanti e tanti secoli si è vissuto, han cagionato convulsioni tali ed un tale disordine in tutti gl’ordini dello Stato, che ormai di un paese ben regolato qual’era la Sicilia altro non è divenuto che un ammasso di confusione, e di disordine20.

Il marchese Caracciolo era giunto in Sicilia per svolgere le fun-zioni di viceré nel 1781 ed in cinque anni aveva condotto un vasto programma di riforma fiscale, giudiziaria ed amministrativa che aveva un obiettivo politico ben preciso: ridurre il potere politico ed

19 Sull’azione politica di Domenico Caracciolo, con un chiaro intento politi-co-storiografico, è ritornato in uno dei suoi ultimi lavori F. Renda, La grande impre-sa. Domenico Caracciolo viceré e primo ministro tra Palermo e Napoli, Sellerio editore, Palermo, 2010; per il contesto generale si rinvia alla recente analisi di R. Cancila, Autorità sovrana e potere feudale nella Sicilia moderna, Associazione Mediterranea, Palermo, 2013.

20 R. Cancila, Aspetti del dibattito cit., pp. 59-60.

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economico dei baroni a livello locale e legare più direttamente i mu-nicipi e le comunità all’amministrazione statale. Nel gennaio 1786, quando il Caracciolo fu chiamato a dirigere il governo a Napoli, questo programma fu ripreso e portato avanti dal viceré France-sco d’Aquino, principe di Caramanico, che si giovava del supporto del Consultore della Monarchia di Sicilia, Saverio Simonetti, coa-diuvato da Francesco Saverio d’Andrea, nominato l’8 marzo 1786 Conservatore generale d’Azienda del Regno di Sicilia. Quest’ultimo, a conclusione della sua esperienza siciliana, aveva ben sintetizzato lo scopo dell’azione di governo in Sicilia:

se si sistemano le Università demaniali, le quali sono tutte comode, anzi alcune ricche di patrimonio, ma assassinate da Giurati ed altri ammi-nistratori, io ardisco dire ancora che la Sicilia cambierà ben presto aspetto. Se l’Università demaniali, e moltissime delle baronali, saranno bene ammi-nistrate, esse colli soli loro demanj pagheranno le pubbliche imposte ed i pesi comunitativi, ed i cittadini resteranno scaricati di tante gravosissime gabelle, che pagano. E questi non iscorticati potranno attendere ad una mi-glior coltura, giacché è negligentissima quella che qui si pratica, e potranno migliorare i fondi, che ora nella massima parte sono, o seminatorj, o erbosi nelle due valli di Mazzara e di Noto, quando potrebbero popolarsi di alberi di ulivi, di mandorle e di altri frutti, che nel secondo delli due valli suddetti sono scarsissimi, e potrebbero crescere i vigneti e altre industrie21.

Con questa efficacia e sicurezza di giudizio, il d’Andrea mostra-va la sua contrarietà non solo verso le proposte di riforme prove-nienti dalle file del baronaggio, ma anche nei confronti della politi-ca di censuazioni e distribuzione delle terre intrapresa dal governo. Che senso aveva distribuire la terra ai «burgesi» se questi versava-no in una «estrema miseria» e, dunque, non avevano i mezzi per coltivarla? La risposta data dal d’Andrea seguiva coerentemente la premessa, e la rafforzava:

21 Sotto il titolo di Ristoro della Sicilia, Ileana del Bagno ha pubblicato un ma-noscritto di Francesco Saverio d’Andrea dal titolo Mezzi per migliorare l’agricoltura in Sicilia, integrato con un altro manoscritto dello stesso Autore, più ampio, intito-lato Relazione del mio ministero in Sicilia. In effetti quest’ultimo titolo rappresenta meglio il senso dei due manoscritti stilati da Francesco Saverio d’Andrea, che così raccoglieva le sue riflessioni sull’esperienza siciliana, iniziata nel 1786, come mem-bro della Giunta dell’amministrazione delle Dogane, e conclusa nell’estate del 1791, come Consultore della Monarchia: vedi R. Ajello, I. Del Bagno, F. Palladino (a cura di), Stato e feudalità in Sicilia. Economia e diritto in un dibattito di fine Settecento, Jovene, Napoli, 1992 (la citazione è alle pp. 358-359).

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e per intendere questo ed il male, che quindi ne deriva, uopo è di sapere che la Sicilia è divisa tra baroni, Chiese e prelati, ed Università demaniali. Questi tre corpi sono i grandi proprietari di questo Regno. Il frutto vitalizio de’ prelati e de’ ministri delle Chiese non fa sperare se-condo il presente sistema migliorazione di coltura ne’ loro fondi. La cat-tiva amministrazione delle Università demaniali fa pensare lo stesso de’ loro fondi. Il provvido governo ha pensato alla censuazione de’ fondi di tutte le mani morte, ma l’opera non può venire a capo se i burgesi non acquistano qualche comodità, perché censuare in grosso non conviene, per non aumentare il patrimonio de’ grandi proprietari, e perché dai lati-fondi posseduti da pochi neppur è sperabile una notabile migliorazione; censuare in poca quantità è lo stesso che perdere il frutto, e malamente i fondi, perché tutti li burgesi sono tutti miserabilissimi […] Lo stesso deve dirsi della censuazione de’ demaniali delle Università, e di qualche Università baronale, la quale abbia vasto patrimonio. Sicché a migliorar la coltura delle terre ecclesiastiche e demaniali è inutil cosa il pensarci, se i particolari non si sollevano; e questo non puol ottenersi se non con una vegliante e continua cura del Tribunale del Patrimonio, come innanzi ho avvertito. Amministrandosi bene i patrimonj delle Università, i particolari e soprattutto i burgesi si sgravano, e sgravati dalle imposte che soffrono, si metteranno in stato di qualche comodità, onde verrà la migliorazione della coltura, della industria, il commercio interno, e tutti quelli vantaggi, i quali sono necessaria conseguenza della comodità e dell’allontanamento dell’indigenza e della miseria22.

Queste considerazioni del d’Andrea scaturivano dal grande di-battito apertosi in quegli anni per la riforma dei regni di Napoli e di Sicilia, che aveva al suo cuore la questione della proprietà e che, come si è detto, portò ad una riconfigurazione delle strategie poli-tiche e ad una ridislocazione degli schieramenti ideologici, che in alcuni casi si potevano risolvere in parziali ed inaspettate conver-genze. La linea politica governativa ispirata dal segretario di Stato Domenico Caracciolo e dal viceré di Sicilia, Francesco d’Aquino, trovò in larga parte attuazione attraverso una triade formata da Saverio Simonetti, da Francesco Saverio d’Andrea e da Giacinto Dragonetti; quest’azione di governo, però, dovette fronteggiare non solo l’opposizione del baronaggio siciliano, ma anche l’altra linea riformatrice (minoritaria), portata avanti fra gli altri da Gaetano Filangieri, da Giuseppe Maria Galanti, e da Melchiorre Delfico, fa-vorevole all’abolizione del diritto di devoluzione (o reversione) e alla

22 Ivi, pp. 369-370.

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trasformazione dei feudi in allodi. Da questo punto di vista la linea politica governativa fu resa esplicita dalla Rimostranza di Saverio Simonetti del 20 luglio 178623; in estrema sintesi, il Consultore della Monarchia di Sicilia condannava fermamente l’uso invalso fra i baroni siciliani di vendere i loro beni feudali in mancanza di successori legittimi entro il sesto grado, rifacendosi ad un’errata interpretazione del capitolo Volentes emanato da Federico III d’A-ragona nel 129624.

Questa consuetudine veniva considerata lesiva dei diritti del regio fisco ed implicava una concezione distorta della costituzione feudale, in base alla quale i feudi avrebbero perso la loro tradi-zionale natura e funzioni per trasformarsi in meri allodi, ovvero in libere proprietà come tutte le altre. Le discussioni in materia provocarono laceranti contrasti e divisioni all’interno delle magi-strature siculo-napoletane, fra coloro che limitavano l’applicazione

23 Venne pubblicata nello stesso anno a Palermo con il titolo Rimostranza del caporuota e consultore D. Saverio Simonetti sulla reversione dei feudi in Sicilia al regio fisco nel caso della mancanza dei feudatari senza legittimi successori in grado. Ampia documentazione, in proposito, è nella Storia civile e politica del Regno di Na-poli di Carlo Pecchia da servire di supplemento a quella di Pietro Giannone, tomo IV ossia supplemento alle opere del Pecchia che contiene diverse Consulte e Rappresen-tanze dell’Illustre Marchese Signor D. Saverio Simonetti, oggi Segretario di S. M. pel ripartimento di Grazia e Giustizia, fatte in tempo ch’egli era Consultore in Sicilia su diverse Materie Feudali di quel Regno, e raccolte dal Pecchia, Nella Stamperia di Fi-lippo Raimondi, Napoli, MDCCXCVI; curatrice del testo è una non meglio precisata erede del Pecchia, che dedica il volume a Saverio Simonetti. Prima della stessa de-dica, il volume reca il titolo: Sulla dichiarazione del capitolo Volentes rispetto ai feudi della Sicilia. Nella dedica, tra gli altri meriti del Simonetti, insieme alla rivendica dei feudi di Prizzi e Casamari, si ricorda l’estirpazione dell’abuso «introdotto in Sicilia, per una male intesa interpretazione di una certa legge», che avrebbe «messo a soq-quadro la natura dei Feudi medesimi, sicché, sebbene stati fossero mere liberalità, e concessioni de’ Sovrani, ne avessero poi perduto in tutto e per tutto il dominio. Ecco rovesciato il sistema dello Stato, quando i possessori dei Feudi stati fossero liberi dispositori di essi, e perduta si fosse dal Padrone diretto il diritto della rever-sibilità per beneficarne altrui». Per quanto riguarda la gestione dei feudi di Prizzi e di Palazzo Adriano da parte di Saverio Simonetti, si veda l’ampia documentazione prodotta nella seconda parte del volume di F. Renda, Baroni e riformatori in Sicilia sotto il ministero Caracciolo (1786-1789), La libra, Messina, 1974, pp. 151-354.

24 Questa interpretazione scaturiva dal combinato disposto dei capitoli Volen-tes e Si aliquem, quest’ultimo emanato da Giacomo II d’Aragona nel 1286; la loro interpretazione congiunta risale già alla prima metà del XIV secolo, come segna-lato da A. Romano, Giuristi siciliani dell’Età Aragonese. Berardo Medico, Guglielmo Perno, Gualtiero Paternò, Pietro Pitrolo, Dott. A. Giuffrè editore, Milano, 1974; vedi anche I. Mineo, Nobiltà di Stato: famiglie e identità aristocratiche del tardo Medioevo. La Sicilia, Donzelli editore, Roma, 2001, p. 104.

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del diritto di devoluzione solo ai feudi di forma stretta e coloro che invece sostenevano la sua estensione anche ai feudi di forma larga, risolte ancora una volta con un colpo di mano da parte del governo che modificò la composizione dell’organo consultivo chiamato a di-scuterne in senso favorevole alla linea governativa; per chiarire la retta interpretazione del capitolo Volentes, il giurista aquilano Gia-cinto Dragonetti, succeduto poi per le sue benemerenze a Saverio Simonetti e a Francesco Saverio d’Andrea come Consultore della Monarchia di Sicilia, mise mano alla sua vasta opera sulla Origine dei feudi nei regni di Napoli e di Sicilia, pubblicata nel 178825.

Come si è detto, le riflessioni suscitate dalla controversia porta-rono non solo ad enucleare opinioni politiche radicalmente alternati-ve circa la trasformazione del rapporto Stato-feudalità, ma anche ad elaborare differenti ricostruzioni della storia “costituzionale” dei regni di Napoli e di Sicilia. Opinioni politiche ed opzioni storiografiche che trovarono espressione nello stesso 1788 nella Memoria per la vendita de’ beni dello Stato d’Atri di Melchiorre Delfico; lo scrittore teramano, già entrato in conflitto con il Dragonetti per diversi motivi, ribadiva la necessità di uscire definitivamente dall’orbita della monarchia feu-dale, poiché la perdita delle prerogative fiscali da parte della Corona legate al vecchio assetto costituzionale sarebbero state ampiamente ricompensate dalla crescita economica dell’intera nazione26.

25 La prima edizione del 1788, stampata a Napoli «nella stamperia regale», recava il seguente titolo Origine de’ feudi ne’ regni di Napoli, e Sicilia loro usi, e leggi feudali Relative alla Prammatica emanata dall’Augusto Ferdinando IV per la retta interpretazione del capitolo Volentes. Dissertazione del consigliere Giacinto Drago-netti. Ho in preparazione un saggio su quest’opera di Dragonetti; per il momento mi limito a segnalare sul Dragonetti i seguenti lavori: S. Zamagni, Perché ritornare a Giacinto Dragonetti in G. Dragonetti, Trattato delle virtù e de’ premi, a cura di Mi-chele Giovannetti, Carocci editore, Roma, 2012, pp. 13-22; L. Bruni, On virtues and awards: Giacinto Dragonetti and the Tradition of Economia civile in Enlightenment Italy in «Journal of the History of Economic Thought», XXV, 4, 2013, pp. 517-535; L.G. Ianni, Giacinto Dragonetti illuminista e giureconsulto aquilano in «Teoria e storia del diritto privato», VI, 2013, pp. 1-35; Ead., Giacinto Dragonetti e l’interpretazione del capitolo Volentes nel suo trattato sull’Origine dei feudi in P. Maffei, G.M. Varanini (a cura di), Honos alit artes. Studi per il settantesimo compleanno di Mario Ascheri, IV. L’età moderna e contemporanea. Giuristi e istituzioni tra Europa e America, Reti Medievali - Firenze University Press, Firenze, 2014, pp. 39-48.

26 La Memoria fu poi ripresa in parte nelle Riflessioni su la vendita de’ feudi del 1790 ed è stata pubblicata in appendice al lavoro di A.M. Rao, L’ «amaro della feudalità». La devoluzione di Arnone e la questione feudale alla fine del ‘700, Guida editori, Napoli, 1984, pp. 347-367; vedi anche C. Maiello, Melchiorre Delfico e la questione della vendita dei feudi devoluti (pdf on line: www.delpt.unina.it/stof/3_lu-glio_dicembre1999/Maiello3.pdf).

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Le novità introdotte dal dibattito in questione sul piano della storia “costituzionale”, diedero luogo inoltre al “primo impegno sto-riografico di deciso rilievo politico”27 del noto abate palermitano, poi storiografo regio, Rosario Gregorio, che nel corso del 1787 preparò una “memoria defensionale” dal titolo Comento sopra l’intelligenza dei capitoli XXXIII Si aliquem … del re Giacomo e XXVII Volentes … del re Federigo delle costituzioni del regno, rappresentato al governo il dì 6 maggio 1788; questo importante scritto del Gregorio, che at-tende ancora una compiuta contestualizzazione, costituiva una du-rissima replica alla Rimostranza di Saverio Simonetti, sia sul piano scientifico che su quello politico, e sembrava avallare una conver-genza fra le tesi considerate retrive del baronaggio siciliano e quelle della parte più avanzata del gruppo riformistico napoletano28.

In realtà, la convergenza era solo apparente e nascondeva vi-sioni storiche e politiche diametralmente opposte: laddove la linea «statalista» minoritaria Filangieri – Galanti – Delfico, puntava a tra-sformare i feudi in allodi per rafforzare la posizione della sovranità regia, la linea del baronaggio siciliano vedeva nella trasformazione dei feudi in senso allodiale il fondamento della costituzione feuda-le siciliana, fin dalle sue origini normanne. Quest’ultima linea di lettura era stata recentemente suffragata dall’avvocato di Troina, Carlo Di Napoli29, che nella sua difesa dei diritti feudali del principe di Cassaro aveva rispolverato e dato nuova coerenza ad una lunga tradizione giuridica e politico-costituzionale.

Ad ogni modo, l’attribuzione a Carlo Di Napoli della tesi secondo la quale i feudi siciliani si sarebbero trasformati in allodi, potrebbe risultare non solo generica ma anche fuorviante; ma vi è da dire che

27 L’autorevole giudizio è di G. Giarrizzo, Cultura e economia cit., p. 223.28 Il Comento è stato pubblicato per la prima volta nelle Opere scelte del cano-

nico Rosario Gregorio, Garofalo, Palermo, 1845, pp. 603-655, con varie imprecisioni segnalate da G. Giarrizzo, Cultura e economia cit., p. 238, ed è stato riprodotto anche in appendice a R. Gregorio, Considerazioni sopra la storia di Sicilia dai tempi normanni sino ai presenti, introduzione di A. Saitta, ed. della Regione Siciliana, Pa-lermo, 1972, vol. III, pp. 275-356.

29 C. Di Napoli, Concordia tra’ diritti demaniali e baronali trattata in difesa del signor D. Pietro Gaetano Bologna Strozzi e Ventimiglia, principe di Cassaro, marchese di Sortino, barone delli feudi di Bamina, Casalotto, S. Andrea e Monisteri, gentiluomo di Camera di S.R.M. nella causa della pretesa riduzione al demanio della terra di Sor-tino, dal signor D. Carlo Di Napoli, patrizio palermitano, già del Sacro consiglio di S.M. e giudice ne’ supremi tribunali della Regia gran corte Criminale, del Concistoro e della G.C. civile, attual diputato nel Regio supremo magistrato della General diputazione di sanità di questo Regno, appresso A. Felicella, Palermo, 1744.

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la stessa formulazione del Di Napoli si prestava ad essere interpre-tata in maniera ambigua ed estensiva. Infatti, dopo aver brevemente richiamato i capitoli Si aliquem e Volentes, il Di Napoli affermava:

Quel savio Principe [Federico III d’Aragona] avendo sperimentato la fedeltà de’ suoi Baroni, che gli avevano sostenuto il Diadema su’l capo in quelle atrocissime guerre, nelle quali tutte le gran potenze di Europa eran-si impegnate a conquiderlo, pensò generosamente corrispondere alla lor fedeltà, con accordargli perpetuamente l’uso libero de’ feudi, e la facoltà di poterli sempre alienare, derogando al divieto, che nelle antiche leggi del Re Ruggieri, e dell’Imperador Federico si era fatto. Ridusse intanto le Baronie in allodj, sol ritenendosi sulle medesime i servigj, l’omaggio, e l’obbliga-zione di mantenerle intere, ed individue; avendo con ciò rinunziato alle devoluzioni, e ristretto i termini della prelazione nel brevissimo periodo di un mese, tuttochè dalle leggi feudali in un anno si estendeva30.

Benché le parole del Di Napoli fossero ambigue e si prestassero ad una interpretazione estensiva, la riduzione dei feudi in allodi ve-niva richiamata nello specifico per quanto riguardava la normativa successoria e la possibilità di alienare i feudi. Secondo il Di Napoli le due leggi fondamentali del Regno di Sicilia erano «quella del Re Fiderico nel Capitolo Volentes, e l’altra di Martino, che fu prodotta nel Parlamento di Siracusa. La prima dà il pieno arbitrio de’ feudi a’ Baroni, a’ quali conferisce una perpetua sicurezza di non potersi il lor possesso per nessun pretesto rivocare dal Fisco. La seconda impose al Demanio, ed alle Baronie i confini, assicurando in tal guisa il perpetuo possesso de’ feudi a que’ Baroni, che o lo avevano da se stessi acquistato, o pur ereditato da’ suoi Maggiori. Dalla prima proviene una perenne sorgente all’Erario, perché le Decime, e l’altre feudali esigenze rapporta. Dalla seconda il Real Patrimonio fu costituito colla reintegrazione di molt’altre Città, che il Demanio compongono, ed oggi in esso si conservano; sicché dalla loro pub-blicazione senza la minor contesa fin’oggi osservate si ravvisano, non avendo mai nessun Principe pensato derogarle, o riformarle»31.

Com’è evidente, la questione affrontata dal Di Napoli non ri-guardava in maniera diretta il rapporto fra beni feudali e beni al-lodiali; infatti, il riferimento ai capitoli Si aliquem e Volentes occu-

30 Si cita dall’edizione della Concordia a cura di Andrea Romano, con introduzio-ne di Daniela Novarese, Sicania, Messina, 2002, p. 255, (p. 243, edizione Felicella).

31 Vedi pp. 273-274 dell’edizione Felicella (1744); pp. 285-286 dell’edizione Sicania (2002).

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pava uno spazio ben circoscritto e molto meno esteso di quello che assunse quarant’anni dopo, quando divenne il cuore della que-stione relativa alla devoluzione dei feudi al Fisco. Tutto il discorso del Di Napoli era invece diretto a mostrare la diversa natura dei beni feudali e dei beni demaniali, come base della costituzione mo-narchico-feudale incardinata sul ruolo dei tre bracci del Parlamen-to e come fondamento della configurazione territoriale del Regno, che avrebbe imposto la imprescrittibilità e la intangibilità di quei beni, quindi l’impossibilità che questi beni cambiassero natura e che i beni feudali potessero essere trasformati in beni demaniali. Nello stesso tempo, l’idea che i beni feudali si fossero trasformati in beni allodiali sicuramente non apparteneva al Di Napoli e sarebbe in contraddizione con tutto il resto del suo discorso, basato appunto sull’idea che i beni feudali, appartenenti ai baroni per diritto proprio ed originario fin dalla fondazione del Regno di Sicilia, non potessero cambiare natura32. Questo era il quadro di riferimento concettuale della Concordia tra’ diritti demaniali e baronali, ma nel contesto del-la cultura siciliana della seconda metà del Settecento fu giocoforza collocarla nell’ambito di una tradizione giuridica che partiva dalla Chronica medievale nota come Historia liberationis Messanae per co-mitem Rogerium e dalla elaborazione di Guglielmo Perno (m. 1452), il quale rifacendosi al capitolo Si aliquem poneva sullo stesso piano beni feudali e beni allodiali in materia di successione.

La dottrina «costituzionale» siciliana favorevole al ceto baro-nale aveva avuto uno snodo fondamentale nel De concessione feu-di tractatus del giurista messinese Pietro De Gregorio (morto nel 1533), che si ricollegava alla sistemazione di Guglielmo Perno (m. 1452) e soprattutto alla chronica medievale nota come Historia li-berationis Messanae per comitum Rogerium; era stata poi svilup-pata da Mario Muta (m. 1636), nei suoi commentari ai Capitula Regni, e da Garsia Mastrilli (m. 1620). Nel Settecento gli appro-di più significativi, prima della Concordia del Di Napoli, furono le Memorie storiche premesse da Antonino Mongitore alla sua edi-zione del 1717 dei Parlamenti generali e la moderna edizione dei Capitula Regni Siciliae di Francesco Testa (1741-1743). Tuttavia,

32 Come opportunamente osservato da G. Giarrizzo, Cultura e economia cit., p. 38: «Dei sovrani aragonesi il Di Napoli ricorderà i capitoli Si aliquem e Volentes, che autorizzarono la alienabilità volontaria dei feudi (e non l’allodialità del feudo, che non muta per l’alienazione la propria natura!)».

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questa tradizione non postulava una trasformazione dei feudi in allodi, anzi reclamava la specificità e la dignità del diritto feudale come parte integrante della costituzione siciliana, che prevedeva appunto un’organizzazione dello Stato fondata sul rapporto patti-zio fra Corona e Parlamento, composto dal braccio feudale, insieme a quello ecclesiastico e demaniale33.

Il riemergere del combinato disposto dei capitoli Volentes e Si aliquem nel quadro delle discussioni sul diritto di devoluzione ave-va un suo preciso significato ed era alla base della sottile e quasi impercettibile estensione della trasformazione dei feudi in senso allodiale dall’ambito specifico del diritto di succedere ed alienare ad un piano più generale; si voleva infatti che il diritto di alie-nare i feudi senza l’assenso regio, stabilito dal capitolo Volentes, si estendesse anche ai casi di mancanza di successione legittima entro il sesto grado, limite fissato dal capitolo Si aliquem. A questa situazione faceva riferimento Giacinto Dragonetti nella sua decisa confutazione dell’opera del Di Napoli, il quale «soprattutto mag-giormente estese il suo ragionamento circa la interpretazione data al capitolo volentes, col quale sebbene altro non accordasse il re Federigo di Aragona, autore del medesimo, che la facoltà ai baroni di poter alienare i feudi senza l’obbligo del preventivo sovrano per-messo, pure per opinione colà inveterata si era da molti creduto, che per effetto di tal legge i feudi rispetto alla successione si fossero ridotti a meri allodi, e che in caso di mancanza dei successori si potessero liberamente tramandare agli estranei»34.

In realtà, ad una lettura attenta non deve sfuggire che i capitoli Si aliquem e Volentes nella ricostruzione del Di Napoli occupavano uno spazio molto più circoscritto rispetto a quanto indicato dal Dragonetti, e ciò oltre che per i motivi che si sono detti, forse anche per una ragione più di fondo, poiché serviva a celare l’interna con-traddizione che avrebbe investito l’intero impianto ricostruttivo. Si potrebbe dire, infatti, che la Concordia coniugava surrettiziamente una lettura politico-costituzionale della storia del Regno di Sicilia (la «teoria dei commilitoni»), con una lettura giuridico-istituziona-le, fondata sul valore delle prammatiche aragonesi. A ben vedere,

33 Si vedano inoltre le interessanti osservazioni nell’introduzione alla Concor-dia di D. Novarese, pp. XXXII-XXXVI.

34 Cito dall’edizione della tipografia di Francesco Lao, Palermo, 1842, p. 9, disponibile on line sul sito www.mediterranearicerchestoriche.it.

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questa seconda lettura faceva di fatto cadere la prima: se i baroni erano in possesso di un diritto originario, non avrebbero avuto bisogno delle prammatiche regie per vedersi garantite le loro pre-rogative. Ad ogni modo, queste cautele interpretative riguardanti l’opera dell’avvocato di Troina, la quale come si è detto si rivolgeva soprattutto al rapporto feudalità-demanialità, non ebbero alcuna rilevanza nella seconda metà del Settecento e cedettero il passo a quella compiuta concettualizzazione della trasformazione dei feudi siciliani in allodi alla quale faceva riferimento Giacinto Dragonetti nel passo citato e che trovò piena espressione nel Comento di Rosa-rio Gregorio; il giudizio storiografico dell’abate palermitano in favo-re della trasformazione dei feudi siciliani in senso allodiale operata dal capitolo Volentes era perentorio e non lasciava adito a dubbi.

Posta ora la chiarissima intelligenza della legge, e l’uniforme consenso de’ comentatori, egli è incontrastabile, che per dritto feudale siciliano la natura de’ feudi si è mutata, che i feudi per la loro alienabilità si debbono considerare come allodii […] Cose tutte ripugnanti al comune ed antico di-ritto feudale, ed ora conveniente ai feudi siciliani per lo Capitolo Volentes: in maniera ché è egli stabilito come un principio fondamentale del nostro dritto, che i feudi considerati come i feudi, ed avuto riguardo alla loro na-tura, sono in qualsivoglia maniera alienabili. E chiunque certamente dee meravigliarsi, come su questo articolo abbia osato il Simonetti assumere un tono tanto legislativo e dogmatico, e sopra le teorie generali abbia de-ciso, che la massima di esser qui divenuti i feudi come allodii è capricciosa ed illegale, e che non vi ha legge nel regno, per la quale tra gli eredi si pos-sano ancora comprender gli estranei. La massima che i feudi sono divenuti come allodi, è tirata apertamente dal Capitolo, ove ne’ feudi si concedono tutte quelle maniere di alienazione, che sono convenienti agli allodii. E dalla chiara disposizione del Capitolo hanno uniformemente dedotta que-sta massima tutti quanti sono i feudisti di Sicilia35.

Ad ogni modo, pur criticando le riserve espresse dal Simonetti nei confronti di Carlo Di Napoli, la storia del diritto pubblico sici-liano elaborata da Rosario Gregorio non si fondava sulla “teoria dei commilitoni”, ma faceva perno nel caso specifico sul valore fondan-te del capitolo Volentes, che mutò la natura dei feudi siciliani per quanto riguardava le alienazioni, distinguendo così in maniera du-ratura il diritto feudale siculo dal diritto feudale comune. Si badi,

35 Opere scelte del canonico Rosario Gregorio, p. 629.

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il mutamento non inficiava la natura dei beni feudali in generale, ma solo in relazione alla possibilità di alienare i feudi, come preci-sa ancora più chiaramente il Gregorio rispetto alla distinzione fra feudi di forma larga e feudi di forma stretta:

Poste le quali cose e cambiate le teorie coi fatti e le leggi con l’osservan-za, si vede che esse hanno camminato del pari, e che per lo corso di cinque secoli il Capitolo Volentes è stato inteso ed osservato in maniera che i feu-datarii possono disporre dei loro feudi in tutti quei varii modi che il Capitolo accenna, e che all’uso e commercio di ogni altro paganico patrimonio si convengono. Che quando questi sono in forma ereditaria e larga, possano essi alienarsi anche in pregiudizio de’ discendenti del quesitore; che quando sono in forma stretta e pazionata, possono soltanto alienarsi, quando i gradi successibili sono mancati, e la riversione al fisco non si può in verun conto verificare, quando esiste la disposizione dell’ultimo feudatario36.

Bisogna intendere bene il senso del discorso sul carattere allo-diale assunto dalla feudalità fra Medioevo ed Età Moderna, sollevato in Sicilia nella seconda metà del XVIII secolo e poi riconfigurato dal-la storiografia giuridica napoletana fra Otto e Novecento, nel segno di un recupero della tradizione storica del Regno di Napoli, altrimen-ti si rischia di incorrere in non pochi equivoci e confusioni. Che cosa intendevano dire dunque, nel XVIII secolo, i sostenitori del carattere allodiale della feudalità siciliana? Secondo costoro, i baroni erano liberi di trattare i beni feudali come beni propri, nel senso che essi potevano essere venduti come un cespite patrimoniale avente uno spe-cifico valore di mercato, superiore a quello dei beni allodiali. Cioè a dire,

36 Ivi, p. 654. Non vi è dubbio che il Comento del Gregorio, pur con una diversa impostazione rispetto alla “teoria dei commilitoni”, andasse in quel momento pie-namente incontro alle richieste del baronaggio siciliano e che solo con le successive Considerazioni sopra la storia di Sicilia la sua ricostruzione storica abbia assunto un profilo più marcatamente filo-monarchico, come rilevato fra gli altri da Niccolò Palmeri nel suo Saggio storico e politico sulla costituzione del Regno di Sicilia infino al 1816: con un’appendice sulla rivoluzione del 1820, S. Bonamici e Compagni tipo-grafi-editori, Losanna, 1847, p. 7: «È ben da dolersi, che le sue considerazioni sulla storia di Sicilia non siano state recate a compimento; ma è anche più da dolersi, che l’autore, stretto dalla necessità, e non iscevro forse di ambizione, si sia studiato d’in-censare il potere, di favorire la prerogativa sovrana, e dipingere il governo siciliano come una monarchia assoluta». Secondo G. Giarrizzo, Cultura e economia cit., p. 133, la posizione del Gregorio non era riconducibile ad una delle due parti in campo, ma era da considerarsi «mediana tra il fiscalismo di Simonetti e la reazione baronale in-terpretata dal marchese di Giarratana»; nel complesso, ho l’impressione che Giarrizzo tenda a piegare la lettura del Comento sotto la lente delle successive Considerazioni.

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nessuno si sognava di assimilare beni allodiali e beni feudali, talmente ovvia era la differenza fra i due titoli giuridici. I beni feudali infatti erano ricevuti attraverso l’investitura del sovrano, dopo aver prestato l’omag-gio e il giuramento di fedeltà, ed implicavano una serie di diritti e doveri che ne costituivano la specifica essenza e natura; i feudatari erano ob-bligati a difendere il Re militarmente ed a soccorrerlo finanziariamen-te, dovevano mostrarsi deferenti e rimanere fedeli, altrimenti potevano essere imputati del reato di fellonia, mentre per converso avevano il diritto di esercitare una serie di poteri giurisdizionali e di privative sui vassalli. I beni feudali, fra l’altro, a differenza dei beni allodiali, erano soggetti all’adoa, tassa imposta in sostituzione del servizio militare, ed alle tasse di successione, ovvero al relevio ed al quindennio.

Quale era allora il motivo del contendere?Quando si sottolineava il carattere allodiale assunto dai beni

feudali ci si riferiva specificamente alla possibilità di alienare que-sti beni alla stregua di qualsiasi altro bene allodiale. La linea po-litico-giuridica che difendeva il carattere allodiale della feudalità non voleva cioè una trasformazione dei feudi in allodio, come a volte genericamente si è ripetuto. Se ne sarebbe ben guardata! Vo-leva invece che i beni feudali fossero nella piena disponibilità dei baroni, come i beni allodiali ma in quanto beni feudali, con il loro valore aggiunto di giurisdizioni e di privative, senza che la Corona potesse intromettersi nella loro gestione e nel loro sfruttamento. Questa concezione politico-costituzionale e giuridico-istituzionale, fatta propria da buona parte dei feudisti e dei baroni siciliani, fu riferita molto bene da Saverio Simonetti a Ferdinando IV nella sua memoria per la riforma del diritto processuale feudale:

Le massime di questo Foro [siciliano] spesso si veggono dirette a favorire gl’ottimati in danno dell’erario, o del resto della Nazione; e chi riflette al siste-ma della Magistratura del Regno, ben si accorge, che sia un miracolo quando ciò non accade. Senza dipartirmi dalla materia presente, e per conoscere tal verità, basta solo riflettere, che qui, nell’istesso tempo, che voleasi essere i feudi divenuti allodj, si sosteneva, che le Cause in qualunque maniera relati-ve a’ Feudi, fossero feudali. Consideravano i Feudi come allodj, acciò non fos-sero riversibili al fisco, e le Cause come feudali acciò fossero interminabili37.

37 S. Simonetti, Per riformare la processura delle cause feudali abusivamente introdotta in Sicilia, in Storia civile e politica del Regno di Napoli di Carlo Pecchia cit., p. CCCXXI; sul supporto fornito da Saverio Simonetti alla politica caraccioliana e sulla «tesi realista» sostenuta nelle sue consulte, vedi anche R. De Mattei, Un’opera

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Non si poteva essere più chiari: i baroni siciliani volevano ab-binare le prerogative feudali con i vantaggi della proprietà allodiale. Entro questa cornice, dunque, si comprendono meglio anche le dif-ferenze e le apparenti convergenze fra la linea del baronaggio sici-liano, che si riconosceva nella tendenziale trasformazione dei feudi in allodi, e la linea economica, che puntava ad abolire il diritto di devoluzione e ad una definitiva trasformazione dei feudi in allodi. Per questi ultimi, infatti, la trasformazioni dei feudi in allodi do-veva essere effettiva, doveva cioè avvenire attraverso le cosiddette vendite «in burgensatico», che avrebbero spogliato i feudatari delle loro prerogative patrimoniali e giurisdizionali, facendo diventare i feudi delle proprietà libere, soggette alla tassazione come gli altri beni.

L’azione svolta da Domenico Caracciolo in Sicilia, in qualità di viceré, diede dunque luogo ad un dibattito politico-costituzionale che si riverberò sulla storia dei regni di Napoli e di Sicilia, con le variazioni e gli adattamenti resi necessari dalle differenti tradizioni giuridico-istituzionali: in ambedue i casi era chiamata in causa nientemeno che la definizione dei requisiti formali della feudalità e dell’allodialità, con una serie di conseguenze molto concrete sul piano politico ed economico. In Sicilia, la «teoria dei commilitoni» da una lato ed il richiamo ai capitoli Si aliquem e Volentes, dall’al-tro, avevano suffragato una consistente dottrina giuridica che nel XVIII secolo aveva trovato coerenza ideologica attraverso i lavori di Mongitore, di Testa, e soprattutto con la Concordia dell’avvocato Carlo Di Napoli, la quale permetteva al baronaggio di fondare il proprio primato su una specifica costituzione monarchico-feudale «siciliana»; nel Regno di Napoli, invece, la tradizione giuridica era molto più frammentata e le tendenze alla patrimonializzazione ed alla commercializzazione dei feudi, pur operanti nel corso dell’età moderna38, non diedero luogo ad un’altrettanto coriacea ricostru-zione della storia del Regno di Napoli, che peraltro non poteva con-tare su un istituto parlamentare come quello siciliano.

polemica sulle istituzioni siciliane, in Id., Il pensiero politico siciliano fra il Sette e l’Ottocento, Tip. C. Galatola, Catania, 1927, pp. 68-77.

38 Per quanto riguarda la frammentarietà e i contrasti che incontrarono le tendenze alla patrimonializzazione dei diritti feudali nel Regno di Napoli, si veda A. Cernigliaro, L’obbligazione reale di garanzia: aperture e resistenze alla patrimonia-lizzazione del feudo nel Regno di Napoli, in E. Cortese (a cura di), La proprietà e le proprietà, Giuffrè, Milano, 1988, pp. 353-456, il quale segnala a p. 355 che esse nel

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Allodialità e feudalità nei regni di Napoli e di Sicilia 287

La dottrina politico-costituzionale del baronaggio siciliano, pur apparentemente confluente, era in realtà diametralmente op-posta a quella storico-giuridica dei Cenni e dei Santamaria. Per i primi la rivendicazione del carattere allodiale della feudalità era parte di un’ideologia e di un programma politico che intendevano puntellare l’indipendenza e la forza dei baroni nei confronti della Corona, la linea di lettura dei secondi era invece tesa a sminui-re il potere feudale dei baroni, che vedevano peraltro limitate le proprie prerogative dagli iura communia ed erano politicamente subordinati all’autorità regia; di conseguenza, mentre le ricerche economico-giuridiche elaborate tra XIX e XX secolo vedevano nel-la trasformazione del feudo in allodio un motivo di debolezza del feudalesimo, la tradizione feudistica siciliana richiamata nel XVIII secolo postulava la libera disposizione dei beni (non la loro allodia-lizzazione) come motivo di forza dei feudatari.

Da questo punto di vista, si comprende anche come le ricerche economico-giuridiche della seconda metà del XIX secolo, relative al Regno di Napoli, si ricollegassero per quanto riguarda il rapporto feudalità-allodialità alla linea Filangieri-Galanti-Delfico, e per quan-to concerne il rapporto feudalità-demanialità alla linea Simonet-ti-D’Andrea-Dragonetti, come testimoniato per quest’ultimo aspetto da David Winspeare che ha riconosciuto all’avvocato fiscale Nicola Vivenzio di aver «trattato i diritti dei comuni come il primo fra tut-ti gl’interessi del Sovrano, e l’avere agli altri additato il medesimo cammino»39; pertanto, l’ideologia del baronaggio siciliano, lo «spirito fiscale» della linea Simonetti-D’Andrea-Dragonetti, lo «spirito di eco-nomia» della linea Filangieri-Galanti-Delfico, esprimevano concezio-ni diverse della feudalità e dell’allodialità, che implicavano differenti vedute sulla storia e sul futuro dei regni di Napoli e di Sicilia.

«regno citra pharum furono ancora limitate ad aspetti prevalentemente privatistici [che] possono apparire a prima vista di mera tecnica giuridica: da parte del debi-tore, l’offerta in garanzia di beni feudali e la costituzione di obblighi, pesi, ipoteche sui feudi; da parte del creditore, il rapporto di priorità fra beni allodiali e feudali nel soddisfare i debiti».

39 Traggo la citazione da A.M. Rao, L’ «amaro della feudalità» cit., p. 253, la quale nota opportunamente che «l’attività in difesa degli iura civitatis» svolta da Nicola Vi-venzio fu poi il terreno d’elezione della «considerazione apologetica» di Enrico Cenni.

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Sommario: La Costituzione del 1812 trasformò i feudi in allodi ed eliminò le giurisdizioni feudali. L’obiettivo, già auspicato da Caracciolo e Caramanico, fu raggiunto solamente in un momento particolare della storia siciliana e grazie all’intervento del plenipotenziario inglese Sir Bentinck l’istituto giuridico fu abolito. Tuttavia la rappresentazione della nobiltà come categoria non scomparve e rimase saldamente presente nell’immaginario collettivo. Il titolo nobiliare e l’onore ad esso collegato, costituirono l’elemento sociologico-strutturale sul quale si assestò la politica di difesa cetuale del baronaggio. Alcuni esempi di come si costruisce l’onore di un casato, completano questo primo approccio al tema del culto degli onori.

Parole chiave: Costituzione del 1812, nobiltà siciliana, onore.

THE ABOLITION OF THE FEUDAL SYSTEM AND THE CULT OF HONORS IN SICILY OF 1812

abStract: The Constitution of 1812 dissolved the feudal ties and eliminated the feudal courts. The objective which Caracciolo and Caramanico aspired to was only reached at a particular time in the history of Sicily and thanks to the intervention of the British plenipotentiary Sir Bentinck the legal institution was then abolished. However, the representation of the nobility as a class did not disappear and remained firmly in the collective imagery. The title of nobility and the honor attached to it constituted the sociological structural element on which the defense policy of the barony was based. Some examples of the creation of the lineage’s honor complete this first approach to the subject of the cult of honors.

KeywordS: Constitution of 1812, Sicilian nobility, honor.1

1. Il tavolo rovesciato

«Non ci saranno più feudi, e tutte le Terre si possederanno in Sicilia come in allodi … Cesseranno ancora le giurisdizioni baronali

Il saggio si inserisce nell’ambito del Progetto di Ateneo FFR 2012/2013 (2012-ATE-0067 Università di Palermo) coordinato dalla prof. R. Cancila.

Abbreviazioni utilizzate: Asp: Archivio di Stato di Palermo; Bcp: Biblioteca Co-munale di Palermo.

Antonino Giuffrida

L’ABOLIZIONE DELLA FEUDALITÀ E IL CULTO DEGLI ONORI

NELLA SICILIA DEL 1812

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Antonino Giuffrida290

e quindi i baroni saranno esenti da tutti i pesi a cui finora sono sta-ti soggetti per tali diritti feudali. Si aboliranno le investiture, rilevj, devoluzioni al fisco ed ogni altro peso inerente ai feudi…». L’articolo XI delle “basi” della Costituzione siciliana del 1812 chiuse la lunga stagione di un istituto giuridico che condizionò profondamente, dal momento dell’insediamento normanno, la storia politica, sociale ed economica del Regno di Sicilia.

Una determinazione che travolse un caposaldo politico e isti-tuzionale della struttura costituzionale del Regno e segnò una profonda inversione culturale delle posizioni dell’aristocrazia nei confronti di quei principi che erano considerati fondamentali per l’esistenza stessa di una società articolata su ceti. Francesco Ren-da, nelle sue riflessioni su “la Sicilia nel 1812”, sottolinea come la predetta deliberazione fu il frutto di un sofferto dibattito cultu-rale all’interno della stessa aristocrazia nel cui contesto maturò la convinzione che per la rinascita anche economica della Sicilia sarebbe stato necessario liberarsi dal sistema feudale. La riforma era imprescindibile per affrancare «la proprietà e gli individui dai ceppi più ingombranti del passato, introducendo una profonda ri-forma che mettesse l’isola al passo dei tempi, e ne segnasse in pari tempo la rinascita politica e morale»1. Il dibattito sulla opportuni-tà di approvare l’abolizione della feudalità fu molto articolato e se ne percepisce l’asprezza e la complessità dal modo in cui i bracci parlamentari si espressero su la predetta riforma. In particolare Renda ricorda che

i procuratori demaniali avevano respinto tutta quella parte della costitu-zione che riguardava l’abolizione della feudalità e la affermata inalienabi-lità dei beni ecclesiastici non che l’ordinamento dell’istituto parlamentare che attribuiva ai pari una legale preminenza nella direzione dello Stato. I baroni parlamentari, a loro volta avevano votato contro l’abrogazione del fedecommesso, l’abrogazione del mero e misto imperio, l’ordinamento delle magistrature e l’attribuzione di competenze ai magistrati ordinari nell’esame dei diritti signorili e degli usi civici2.

In realtà le deliberazioni non erano contradditorie in quanto ogni ceto nell’affrontare il voto sull’abolizione della feudalità aveva un proprio retropensiero e attribuiva un significato diverso all’o-

1 F. Renda, La Sicilia nel 1812, Salvatore Sciascia editore, Caltanissetta-Roma, 1963, p. 22.

2 Ivi, p. 279.

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biettivo politico designato come abolizione della feudalità. Le po-sizioni espresse sono lo specchio dei multiformi orientamenti che caratterizzarono l’approccio delle diverse parti al problema politico. I baroni non si preoccuparono della trasformazione del feudo in allodio bensì dell’abolizione del fedecommesso e della modifiche sulla giurisdizione: con l’abolizione del mero e misto imperio e con l’affermazione del principio della preminenza della giurisdizione or-dinaria nei confronti delle controversie relative ai diritti signorili e agli usi civici, diventava impossibile controllare e gestire in regime di monopolio i comuni feudali.

Il voto del Parlamento, secondo i contemporanei, testimoniò il fatto che si era consolidata un’opinione pubblica, uno “spirito pubblico” che riteneva i baroni e «i diritti loro … come di cose pesti-lenziali alla società che li suppongono già fuori di usanza e aboli-ti»3. La convinzione era che la circolazione delle idee illuministiche avesse costruito una diversa consapevolezza politica nel cui conte-sto sia maturata anche l’abolizione della feudalità. Francesco Ren-da, pur consapevole del ruolo importante giocato dagli intellettuali in questo frangente della storia siciliana, ritiene che il processo di disgregazione del sistema feudale siciliano fu il frutto di profondi cambiamenti strutturali legati al nuovo ruolo che i baroni assun-sero nel governo dell’economia siciliana4.

3 Francesco Pasqualino, Memoria sulla nazionalità dei siciliani (Bcp, ms. ai se-gni 2 Qq G 106). Il marchese Pasqualino è avvocato fiscale della Gran Corte e dedica nella sua Memoria alcune riflessioni sull’abolizione della feudalità ritenendo che il ruolo del Caracciolo nell’innescare il processo di revisione dell’Istituto sia stato im-portante (cfr. F. Renda, La Sicilia cit., pp. 22-23).

4 F. Renda, La Sicilia cit., pp. 37-51. L’A. sostiene che l’abolizione della feudali-tà non abbia comportato la crisi del baronaggio ma, semplicemente, una trasforma-zione e un adattamento alla nuova realtà e, nello specifico, all’economia capitalisti-ca. In particolare afferma: «Ma quello che negli ambienti della corte borbonica non si arriva a comprendere era che la crisi del feudalesimo in Sicilia non si identificava con la crisi del baronaggio; cioè, non si coglieva quel che vi era di nuovo in movi-mento nella società siciliana, attardandosi nella rappresentazione di un baronaggio che era di tempi passati. … La trasformazione dei baroni non provocava ricambi so-stanziali dei tradizionali sistemi produttivi, nella tecnica, nei rapporti sociali, nella cultura e nello stesso modo di vivere isolano. La nobiltà rimaneva padrona delle leve fondamentali della ricchezza isolana: teneva saldamente in mano la terra, che co-stituiva la principale fonte di lavoro di produzione; possedeva il monopolio dello zol-fo, la nuova tipica industria isolana, riscuotendo una cospicua rendita mineraria; esercitava una forte influenza anche nell’industria tessile, soprattutto a Catania; non pochi baroni direttamente o indirettamente agivano al contempo come grandi produttori agricoli e come grandi mercanti mentre le cariche di annona a Palermo, a Catania, a Messina, nei piccoli e nei grossi centri erano tenute da nobili o da perso-

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In realtà il tavolo, sul quale erano collocati i principi sacrali del feudalesimo, fu rovesciato per le contingenti situazioni politiche nelle quali la Sicilia si trovava nel 1812. L’influenza inglese con-dizionò in modo determinante il dibattito parlamentare e le scelte politiche che stavano alla base delle più significative determinazio-ni assembleari. Sir Bentinck voleva che la Sicilia avesse una sua carta costituzionale alternativa a quelle europee costruite sul mo-dello giacobino e napoleonico5. Gli inglesi si determinarono, quin-di, ad appoggiare quei gruppi politici che in modo deciso volevano che il Parlamento siciliano approvasse una Carta costituzionale i cui contenuti erano dei veri e propri manifesti programmatici. Le “basi” dello Statuto erano dirompenti per gli equilibri siciliani introducendo principi quali: la libertà di stampa; l’abolizione della feudalità e dei fedecommessi; una nuova organizzazione politica e amministrativa degli enti locali; statuizione dei diritti e doveri dei cittadini; introduzione del principio della divisione dei poteri (esecutivo, legislativo e giudiziario) secondo i modelli elaborati da Montesquieu6.

Il dibattito che si svolse nella seduta della Camera dei Comuni il 21 giugno 1821, per discutere su una mozione relativa agli affari di Sicilia, è indicativo dei percorsi politici seguiti dal Bentinck per fare approvare la Costituzione del 1812. La Camera dei Comuni pose all’ordine del giorno la discussione della mozione a seguito della rivolta di Palermo del 1820 e delle ripercussioni che essa ebbe sia nel Regno delle due Sicilie sia nelle Cancellerie europee7. Bentinck, nel presentare la mozione, auspicava che l’Inghilterra mettesse in atto un intervento diplomatico per costringere il re

ne di loro fiducia. Perciò, il capitalismo non vestiva i panni borghesi, ma era allogato nel palazzo dei signori ed aveva per insegna il blasone e la livrea.

5 E. Pelleriti, La Costituzione siciliana dal 1812 fra mito e realtà, in M. Anda-loro, G. Tomasello (a cura di), Sicilia 1812: laboratorio costituzionale: la società la cultura le arti, ARS, Palermo, 2012, p. 44.

6 Ivi, p. 47. 7 R. Romeo, Il Risorgimento in Sicilia, Laterza, Roma-Bari, 1982, pp. 168-170.

L’analisi che Romeo fa delle matrici economiche, sociali e politiche della rivolta evidenzia la peculiarità della stessa e i motivi del suo fallimento. Il ruolo delle mae-stranze palermitane fu, ad esempio, deleterio per l’immagine stessa della rivolta nei confronti delle altre città capovalli che avevano il timore che Palermo riprendesse il suo ruolo egemone perduto con le riforme del 1816-1817. Questa rivoluzione, inoltre, trovò la netta opposizione della maggior parte dei siciliani soprattutto per «l’interesse della nuova borghesia, che nell’insurrezione separatista palermitana vide il pericolo d’una interruzione del suo processo di ascesa con l’appoggio della monarchia» (ivi, p. 168).

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del Regno delle due Sicilie a ripristinare gli equilibri costituzionali consacrati nella Carta del 1812, e, soprattutto, a ridare la dignità di regno alla Sicilia. Il dibattito fu molto articolato e intervennero oltre al Bentinck, il marchese di Londonderry che espresse il suo dissenso a qualsiasi intervento inglese nella questione, e Ser Gio-vanni Mackintosh che era favorevole ad un’azione per ripristinare gli equilibri costituzionali turbati. Il voto della maggioranza gover-nativa respinse qualsiasi possibilità di intervento nelle questioni interne del Regno delle due Sicilie ma il dibattito, molto articolato, fa percepire il ruolo svolto dal rappresentante inglese nei processi politici che legarono insieme l’approvazione della Costituzione del 1812 e l’abolizione della feudalità. Queste due realtà per Bentinck erano connesse tra loro e nel suo intervento evidenziò questo lega-me, affermando che

nel 1812 le tre Camere del Parlamento adottarono ad unanimità le basi d’una nuova Costituzione: e allora i baroni siciliani diedero un de’ più glo-riosi spettacoli che il mondo abbia giammai contemplato o di cui la Storia abbia serbato la rimembranza, essi rinunziarono volontariamente ai dirit-ti feudali. Si determinò nello stesso tempo di prendersi per modello, per quanto era possibile, la Costituzione inglese. Le tre camere del Parlamento furono ridotti a due; i Pari spirituali e temporali formarono la prima; i Co-muni la seconda8.

Bentinck riprese il predetto concetto nella conclusione del suo intervento ribadendo l’esistenza di un “contratto” tra i baroni e il sovrano. Infatti, affermò che

ne deve obliarsi che i baroni stessi avevano liberamente rinunziato a’ loro dritti feudali. Però con quale scopo fecero essi questa rinunzia? Essi la fecero a condizione che il Re rinunzierebbe anch’egli ad alcune sue prero-gative: tale fu il contratto intervenuto tra le due parti, ed io lo dimando, i diritti de’ baroni erano forse meno sacri di quelli del Principe?9

8 G. Aceto, Della Sicilia e dei suoi rapporti coll’Inghilterra all’epoca della costi-tuzione del 1812, ossia, Memorie storiche sui principali avvenimenti di quel tempo, colla confutazione della Storia d’Italia di Botta per quelle parti, che hanno rapporto agli stessi avvenimenti, Palermo, 1848, p. 274. I tre bracci sono rappresentati al Parlamento inglese come tre Camere distinte rappresentanti di tre ceti diversi.

9 Ivi p. 279.

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Un vero e proprio di patto di onore, tra i baroni e il sovrano con il quale ciascuno delle parti aveva rinunciato ad alcuni diritti in nome di una Costituzione. Un contratto disatteso da un sovrano che aveva calpestato nel 1816 i diritti e i privilegi dei Siciliani con un Decreto legislativo che è definito dagli oratori come “Costituzio-ne”. La mozione proponeva al governo di Sua Maestà di ripristinare il precedente stato di diritto in quanto l’Inghilterra si era impegna-ta, nel momento in cui smobilitò dalla Sicilia, di non permettere «alcun cambiamento violento o arbitrario della vigente Costituzio-ne»10. La scelta di Ferdinando di costituire nel 1816 un Regno delle due Sicilie fu per il Bentinck un tradimento in quanto «quest’atto di unione non solo violava la Costituzione, ma la rovesciò di fatto tutta intera: esso annientò i diritti, i privilegi del popolo e fece della Sicilia una provincia di Napoli! Ecco come fu trattata la Sicilia!»11.

Il dibattito alla Camera dei Comuni, al di là delle intemperanze ver-bali degli oratori, fa leggere in controluce il ruolo che l’Inghilterra svolse nei processi di trasformazione politica e costituzionale che caratteriz-zarono la Sicilia nel passaggio cruciale del 1812. Tre elezioni politiche generali e tre amministrative si susseguirono tra il 1812 e il 1814 e contribuirono a formare una nuova classe dirigente. Questo ceto

ragionava di Bills e Budget, che parlava di agricoltura e industria, legifera-va su un nuovo diritto amministrativo, sognava diritti e doveri universali. Inoltre, il decennio inglese vedeva affacciarsi un nuovo ceto di mercanti e di finanzieri che, recisi i legami con la Francia e Marsiglia, indirizzavano l’economia dell’isola verso nuovi prodotti come il vino, lo zolfo e gli agrumi12.

Il Medici si affidò a questa «nuova classe dirigente, sprigionata-si negli anni inglesi e forgiatasi in un’infuocata fucina sociale» per sconfiggere baroni e clero13.

Il Parlamento siciliano votò un’affermazione di principio, ma fu il governo che ne disegnò il percorso attuativo con il decreto «Della feudalità diritti e pesi feudali». L’articolo 1 del capitolo I del decreto infatti ribadì che «gli abitanti di qualunque comune saranno consi-derati di ugual diritto, e condizione, e tutte le popolazioni del Regno

10 Ivi, p. 275.11 Ivi p. 276.12 A. Blando, La guerra rivoluzionaria di Sicilia. Costituzione, controrivoluzione,

nazione 1799-1848, «Meridiana», n. 81 (2014), p. 77. 13 Ivi, p. 78.

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saranno governate colla stessa legge comune del Regno». Questo principio smantella tutta la complessa impalcatura giurisdizionale sulla quale si reggeva il governo del “feudo”: l’articolo 2 del capitolo primo statuì che «cesseranno tutte le giurisdizioni baronali» con la conseguente abolizione dell’esercizio del mero e misto imperio; l’ar-ticolo 3 prevedeva che i baroni non fossero più responsabili della tenuta dell’ordine pubblico nei loro feudi; l’articolo 4, infine, destrut-turò tutto il governo amministrativo dei comuni posti sotto la giuri-sdizione baronale, deliberando che «cesseranno in conseguenza ne’ baroni gli uffizi di maestro-Notaro di corte, di bajulo, di catapano, ed altri provenienti dalla giurisdizione signorile»14. La deliberazione del parlamento e il susseguente decreto attuativo chiusero un conflitto apertosi negli anni ’80 del ‘700 con il viceré Caracciolo e proseguito con alterne fortune per trent’anni sino al 1812.

Una battaglia antifeudale che si colloca, come sottolinea Rossella Cancila, in un «filone che percorre anche in Sicilia con diversa in-tensità tutto il settecento» e che raggiunge il suo apice con l’azione politica di Caracciolo e di Caramanico15. Un confronto che aveva come

14 Costituzione del Regno di Sicilia stabilita dal Parlamento dell’anno 1812 Pri-ma edizione napolitana impressa sulla settima palermitana pubblicata nel 1813, Na-poli, 1848. Ho utilizzato la predetta edizione in quanto in essa sono raccolti tutti i decreti attuativi delle “basi” della costituzione grazie ai quali si può ricostruire il complesso normativo con il quale si smantella la struttura giuridico-istituzionale sulla quale si regge il governo della cittadina feudale. Il comma 2 del capitolo II pre-vede che «le angherie e perangherie introdotte soltanto dalla prerogativa signorile, restano abolite senza indennizzazione. E quindi cesseranno le corrispondenze di galline, di testatico, di fumo, di vetture, le obbligazioni a trasportare in preferenza i generi del barone, di vendere con prelazione i prodotti allo stesso, e tutte le opere personali, e prestazioni servili provenienti dalla condizione di vassallo a signore». Non solo si aboliscono i servizi obbligatori che devono essere forniti al barone ma, soprattutto, si rompono tutti i monopoli che garantiscono una posizione dominante al signore feudale e si apre il sistema economico alla concorrenza. Infatti il comma 3 prevede che «sono ugualmente aboliti senza indennizzazione i diritti privativi e proibitivi per non molire i cittadini in altri trappeti, o mulini, fuori che in quelli dell’ in avanti barone, di non cuocere pane, se non ne’ forni dello stesso, di non condursi altrove, che non ne’ di lui alberghi fondachi, ed osterie; i diritti di zagato per non vendere commestibili e potabili in altro luogo, che nella taverna baronale, e simili, qualora fossero stabiliti sulla semplice prerogativa signorile, e forza baronale». Gli effetti delle predette norme saranno dirompenti sugli assetti delle comunità e da-ranno origine a complessi e annosi contenziosi presso il giudice ordinario. Un con-flitto alimentato dalla clausola di salvaguardia inserita nel comma 4 del predetto capitolo II con la quale si prevede la possibilità di compensazioni sui predetti diritti signorili «qualora siano provenienti da una convenzione corrispettiva tra li baroni e comune, o singoli, o da un giudicato».

15 R. Cancila, Aspetti del dibattito sulle giurisdizioni feudali in Sicilia (1784-

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cardini operativi la Regia Gran Corte e il Tribunale del Real Patrimo-nio e che mirava a demolire il reticolo relazionale e di governo grazie al quale il feudatario controllava politicamente ed economicamente il funzionamento del comune feudale. La scelta del viceré è politica: eliminare la giurisdizione baronale per il tramite di un riformismo autoritario e centralizzatore mirando alla destrutturazione di tutto il sistema di governo dell’università che fa capo agli uomini del barone.

La norma costituzionale costruisce le fondamenta sulle quali il riformismo borbonico attivò un processo di trasformazione del-la classe dirigente per il governo dei comuni. Una selezione com-pletamente diversa da quella antecedente al 1812 che prevedeva la predisposizione delle liste degli eleggibili con il meccanismo degli “squittini”16. Il regio decreto dell’11 dicembre 1817, con il quale si estese alla Sicilia il sistema amministrativo già in vigore nel Regno di Napoli con la legge 12 dicembre 1816, attivò processi amministrativi grazie ai quali si demolì una società strutturata per ceti e si costruì una classe dirigente nuova, per il tramite delle liste degli eleggibili selezionati in base al censo, alla quale si affidò l’autogoverno dei comuni17. I Borbone, pur rifiutandosi di concedere spazi di rappre-sentanza politica alla società dopo la restaurazione del 1815, atti-varono un processo di trasformazione del governo degli enti locali assicurando una amministrazione civile efficiente e soggetta a regole uniformi per tutto il Regno. Paolo Pezzino ha messo in rilievo come

il fine perseguito era quello di superare definitivamente privilegi nobiliari e disgregazione feudale, modellando la società su un ordinamento omo-geneamente diffuso in tutto il Regno, fondato su una classe di possidenti onesti e probi, che divenisse strumento e nello stesso tempo presupposto delle riforme successive18.

1789), E-book, Associazione Mediterranea, Palermo, 2013 (on line sul sito http://www.storiamediterranea.it/).

16 Ead., Autorità sovrana e potere feudale nella Sicilia moderna, Associazione Mediterranea, Palermo, 2013, pp. 68-72 (on line sul sito http://www.storiamedi-terranea.it/): «In quei comuni feudali nei quali, in casi assai rari in verità, l’elezione degli ufficiali non era stata affidata espressamente al barone, si procedeva – secon-do un uso ormai generalmente consolidato nelle città demaniali – alla compilazione di elenchi ristretti di eleggibili, le mastre (o scrutinio, squittini), che comprendevano i nominativi di coloro che erano ritenuti idonei a ricoprire l’ufficio, in pratica i mem-bri delle famiglie più in vista del luogo».

17 P. Pezzino, L’intendente e le scimmie. Autonomia e accentramento nella Sicilia di primo Ottocento, «Meridiana», n. 4 (1988), p. 25.

18 Ibidem.

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Scelte irreversibili che, come sottolinea Enrico Iachello, saran-no uno dei motori della trasformazione della società siciliana:

lo scontro politico abbandona così le polemiche settecentesche sulla natura dei privilegi nobiliari per rivolgersi ad una moderna definizione dei rapporti fra pro-società, Stato e poteri locali. L’abolizione della feudalità, base della nuova situazione, sposta la partita sul terreno dei poteri locali, liberati dalla “tutela” baronale19.

Il 1817 segna una svolta epocale: il Parlamento fu abolito; le sette città capovalli furono affidate al governo degli Intendenti che controllavano il governo dei comuni grazie anche al nuovo sistema elettorale; s’introdusse un nuovo codice penale e civile che stravol-se l’intera macchina giudiziaria e impose ai giudici e agli avvocati una riconversione culturale e giurisprudenziale epocale20.

2. Salvare l’onore

I baroni erano consapevoli delle ricadute che queste determi-nazioni avrebbero avuto sull’assetto non solo del loro patrimonio ma, soprattutto sugli equilibri sociali e cetuali della realtà sicilia-na? L’abolizione della feudalità per Renda risponde ad un preciso progetto dei baroni, recepito anche nell’assetto costituzionale del Regno delle Due Sicilie senza colpo ferire. Maurice Aymard concor-da su questa lettura nel saggio su “l’abolition de la féodalité”, den-so di suggestioni e di spunti di ricerca, che apre numerosi punti di domanda su questo snodo della storia siciliana21. L’articolo XI delle “basi” della Costituzione del 1812 per Aymard è il punto di arrivo di un processo secolare di evoluzione che non può essere classifi-cato nelle categorie dell’immobilismo o del declino della feudalità, è la stessa feudalità a maturare al proprio interno un processo di trasformazione e di adattamento. Con questa scelta i baroni si liberarono dal dibattito alimentato delle dispute giuridiche degli

19 E. Iachello, La riforma dei poteri locali del primo Ottocento, in F. Benigno, G. Giarrizzo (a cura di), Storia della Sicilia. 2. Dal Seicento a oggi, Laterza, Roma-Bari, 2003, p. 17.

20 A. Blando, La guerra rivoluzionaria di Sicilia cit., p. 79.21 M. Aymard, L’abolition de la féodalité en Sicile: le sens d’une réforme, «An-

nuario dell’Istituto Storico Italiano per l’età moderna e contemporanea», voll. XXIII.XXIV (1971-1972).

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anni 1780-9022, e, nello stesso tempo, disinnescarono la minaccia di un riformismo autoritario e centralizzatore già sperimentato da Caracciolo e Caramanico23. La riforma del 1812 abolì i diritti sugli uomini e i monopoli ma non mise in discussione i diritti sulla terra cioè i censi in natura o in denaro24, permise di non pagare più la decima e tarì sulle vendite dei feudi, abolì di fatto l’anacronistica tassa dovuta per il non espletamento del servizio militare25.

Lo scenario politico nel quale si inserì l’abolizione della feuda-lità si consolidò con la creazione nel 1816 del nuovo Regno delle Due Sicilie. L’impianto della carta costituzionale del Regno era pro-fondamente intrisa dei principi dell’assolutismo riformistico fra i quali campeggiava l’abolizione della feudalità e la destrutturazione della sua influenza sul governo degli enti locali. I Borbone fecero la scelta di lasciare in vita nel Regno delle Due Sicilie

ciò che era più maturo e già apparecchiato ad essere accolto dal grado di sviluppo delle strutture economiche e civili isolane. Rimase innanzitut-to l’abolizione della feudalità nella forma voluta dai baroni, e la riforma dell’ordinamento amministrativo locale, a cui i Borbone diedero una forma sistematica e centralizzata secondo i principi napoleonici26.

Tuttavia la rappresentazione della nobiltà come categoria non scomparve ma rimase saldamente presente nell’immaginario col-lettivo. Il titolo nobiliare e l’onore ad esso collegato, costituivano l’elemento sociologico-strutturale sul quale si assestò la politica di difesa cetuale dei “baroni”. Non è casuale, quindi, la scelta di specificare nel decreto esecutivo della soppressione della feudalità il principio che i baroni conservassero “i titoli e gli onori” sia quelli connessi alla concessione feudale, sia quelli dei quali, per qualsiasi origine, risultassero detentori27. I titoli sono facilmente individua-

22 Ivi, p. 70.23 Ibidem.24 Ibidem.25 Decreto Della feudalità diritti e pesi feudali, Capitolo I, art. 5. Non vi saranno

più gli attributi feudali di servizio militare, d’investiture, di relevio, di devoluzione a favore del fisco, di decima e tarì feudale, di diritti di grazia e di mezz’annata e di altri di qualunque denominazione inerente ai feudi.

26 F. Renda, La Sicilia cit., p. 546.27 Decreto Della feudalità diritti e pesi feudali, Capitolo I, art. 7 Conserverà ognu-

no i titoli ed onori, che sinora sono stati annessi agli in avanti feudi, e de’ quali ha go-duto, trasferibili questi ai suoi successori. Nel placet il sovrano amplia questo concetto Placet con che si intenda ancora per quei titoli non inerenti ai di già aboliti feudi.

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bili, anche graficamente, con i cartigli, vera e propria sintesi grafica della storia di una famiglia, ma è ben più difficile delimitare la cate-goria degli onori e, soprattutto, il modo come si costruiscono, come si manifestano, come si proiettano nel contesto sociale e come pos-sono essere graduati. L’onore è l’espressione concreta della digni-tà ed è ritenuto «come primario valore cetuale della nobiltà» e su questi temi si sviluppa una trattatistica interdisciplinare alla cui costruzione contribuiscono non solo i giuristi ma, anche, filosofi, letterati e cortigiani28. L’educazione del nobile nella prima metà del settecento era incentrato intorno all’onore: «quale siano le virtù che lo procurino, quali i vizi o le vicende che lo ledano, quali strumenti che lo restaurino. Si tratta di spiegare al gentiluomo come conser-vare il proprio status dinnanzi al tribunale dell’opinione»29.

3. La costruzione dell’onore

L’onore ha, quindi, la necessità di essere costruito attraverso una grammatica strutturata su “segni” d’onore e di disonore. Ales-sandro Barbero sottolinea che la costruzione della categoria degli onori affonda le sue radici nel medioevo e che si costruisce anche una contabilità degli onori e che la stessa è graduata e regolamen-tata dai cerimoniali

il cui svolgimento è sotto molti aspetti prescritto dalle consuetudini, c’è però sempre nell’organizzazione d’un rituale un margine di iniziativa, an-che piuttosto ampio, che si traduce nella possibilità di fare più o meno onore. Si può dire anzi che ogni cerimoniale è attraversato dalla tensione fra le aspettative degli spettatori, commisurate all’usanza, e la possibilità lasciata agli organizzatori di superare oppure deludere quelle aspettative, in base al calibro del proprio investimento30.

Il costo di un cerimoniale, la sua fastosità, lo spreco della ric-chezza diventava testimonianza del valore della posta in gioco per interloquire con la comunità e per confrontarsi anche con i propri vassalli. Ovviamente tutto doveva essere commisurato alle consue-

28 M. Cavina, L’educazione all’onore nella trattatistica nobiliare del settecento, in G. Tortorelli (a cura di), Educare la nobiltà, Atti del Convegno nazionale di studi, Perugia, Palazzo Sorbello, 18-19 giugno 2004, Pendragon, Bologna, 2005, p. 43.

29 Ivi, p. 51.30 A. Barbero, Rituali e onore nobiliare a Saluzzo fra quattro e cinquecento, «So-

cietà e Storia», fasc. 19 (2001).

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tudini e al contesto sociale al quale si apparteneva. Giacché, in ultima analisi, era la spesa a determinare l’onore; con l’interessan-te conseguenza che l’onore non soltanto si potesse misurare, ma sarebbe stato addirittura possibile tenerne una contabilità. L’onore non doveva essere soltanto rappresentato ma era necessario man-tenerne la memoria e consolidarlo nell’immaginario collettivo sia dei propri vassalli sia del proprio ceto. Il dettato costituzionale del 1812 se da un lato chiuse definitivamente il problema dei trasferi-menti a titolo oneroso della proprietà dei feudi disinnescando, nel contempo, i numerosi conflitti giurisdizionali legati alle cessioni avvenute nel corso degli anni precedenti, dall’altro mantenne inal-terata, con la intangibilità dei titoli e degli onori, l’immagine stessa della dignità e della legittimazione del ceto nei confronti dell’intero contesto sociale che era in fase di profonda trasformazione. Il titolo di barone e il suo “onore” connesso, sono ambiti anche dalla classe emergente siciliana dei gabelloti che hanno acquistato i feudi e che contribuiranno in modo determinante alla costruzione del nuovo Regno d’Italia31.

Anche in Sicilia i processi di costruzione e di contabilizzazione degli onori per una famiglia feudale affondano le loro radici nell’età basso medievale e si consolidano nel sec. XVI secondo modelli che caratterizzano fenomeni analoghi in Europa32. Tra la seconda metà del ‘500 e fine del ‘600 la nobiltà siciliana, ampiamente rinsan-guata dall’ingresso di nuovi ceti, adottò modelli comportamentali analoghi a quelli della nobiltà europea e ispanica33. Il barone nel suo insediamento feudale, nella sua cittadina costruisce il suo “ca-

31 L’importanza che la società attribuisce all’onore legato al titolo nobiliare è così radicato nell’imaginario collettivo che si perpetua per tutto il ‘900. Non per nulla Giuseppe Tomasi mette in bocca a Calogero Sedara, nel momento in cui si confronta con il Principe di Lampedusa e tratta il matrimonio della figlia, l’affermazione che anche lui sta diventando barone del biscotto e gli manca solo un “attacco”. Il principe sorride e gli dà una pacca sulla spalla: l’onore dei Lampedusa ha livelli incommensu-rabili, irraggiungibili per un gabelloto che ha accumulato la ricchezza ma non l’onore.

32 I. Beceiro Pita, La imagen del poder feudal en las tomas de posesion bajome-dievales castellanas, «Studia Historica. Historia Medieval», n. 2 (1984). L’A. analizza lo sfondo ideologico e la rappresentazione della ritualità connessa alla presa di pos-sesso di un comune feudale da parte del signore che ne ha ricevuto l’investitura. Il cerimoniale è complesso e si articola su diversi livelli: dal baciamano, al giuramento dei vassalli di fedeltà nei confronti del signore, alla conferma da parte dei quest’ul-timo al rispetto delle consuetudini.

33 D. Ligresti, Le piccole corti aristocratiche nella Sicilia ‘spagnola’, in Jesús Bravo (ed.), Espacios de poder: cortes, ciudades y villas (sec. XVI-XVIII), vol. I, Uni-versidad Autonoma, Madrid, 2002, p. 231.

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stello” che, non solo dominava urbanisticamente il centro abitato ma anche accoglieva una corte dove confluiva un microcosmo rap-presentativo delle professionalità necessarie per fare funzionare un apparato amministrativo e culturale che onorevolmente suppor-tasse sia l’azione di governo sia la rappresentazione di un modo di vita in cui si manifestasse l’onore del barone e del suo casato. Gli esempi sono molteplici: i Ventimiglia fecero di Castelbuono il centro di una complessa rete culturale; Isabella de Vega pose la sua corte a Bivona; Aloisia de Luna e Vega creò a Caltanissetta una corte affollata di letterati, di pittori e di raffinati artigiani34. Il teatro, la galleria di quadri, la libreria diventavano i simboli con i quali misurare l’onore della corte baronale35.

4. I cerimoniali e il buon governo di un centro feudale

Gli esempi da potersi fare per la ricostruzione di questi per-corsi di costruzione dell’onore sono molteplici ma ho concentrato l’attenzione sull’archivio delle famiglie Amato – De Spuches. Una felice sintesi tra libri di famiglia ed archivi riorganizzati, anche ai fini della conservazione della memoria della casata, che si presta molto bene ad analizzare i meccanismi utilizzati per costruire il consenso con i vassalli e promuovere l’onore della famiglia36.

La storia della famiglia Amato è ricostruita nella «Giuliana del-la filiazione in specie della famiglia Amato principe di Galati»37, ma l’apporto alla costruzione dell’onore della famiglia e del governo della cittadina feudale di Caccamo (XVII-XIX sec.) può essere rico-

34 Ivi, pp. 236-237. Sui Ventimiglia e Castelbuono fondamentale è la lettura dei lavori di Orazio Cancila, e in particolare O. Cancila, Nascita di una città. Castel-buono nel secolo XVI, Associazione Mediterranea, Palermo, 2013; Id., Castelbuono medievale e i Ventimiglia, Associazione Mediterranea, Palermo, 2010 (entrambi con-sultabili on line sul sito www.mediterranearicerchestoriche.it).

35 A. Morreale, La vite e il leone. Storia della Bagaria. Secc. XII-XIX, Ciranna, Roma-Palermo,1998, p. 233.

36 La ricostruzione della storia della famiglia e la pubblicazione dell’inventario dell’archivio si deve a Liboria Salamone la quale evidenzia che l’archivio è stato ri-ordinato, con un’ottica di supporto ad un libro di famiglia, su impulso di Giuseppe Amato Corvino principe di Galati e duca di Caccamo che morirà nel 1813 senza eredi legittimi. Cfr. L. Salamone, L’archivio privato gentilizio Amato De Spuches, «Archivio storico messinese», 91/92 (2010-2011).

37 Asp, Archivio De Spuches, reg. 749, ff. 3r-26v. La Salamone descrive il simbolo araldico della famiglia Amato acquarellato e incollato nel registro nel quale ci sono gli espliciti richiami alle famiglie di riferimento degli Amato: i Corvino, i Settimo, i Filingeri.

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struito per il tramite della lettura della «Raccolta d’istruzioni dati dalli duchi di Caccamo alli suoi officiali per il buon regolamento»38. Una fonte normativa di estremo interesse in quanto si interfaccia tra il sistema delle prammatiche, architrave della legge del re, e la consuetudine sulla quale si regge il governo del comune feudale39. Regolamenti che scandiscono non solo il funzionamento dei prin-cipali organi di governo del comune ma, anche, la gestione dell’am-ministrazione oppure la tenuta dei registri contabili o il modo di esercitare la giustizia40. La raccolta delle istruzioni comprende an-che diversi cerimoniali che cadenzano la vita della comunità di Caccamo e del suo centro focale rappresentato dal castello. Un edi-ficio simbolo del potere esercitato dal signore feudale nei confronti della cittadina: nel suo baglio si esercitava la ritualità dell’appli-cazione delle pene di alta giustizia (tortura ed esecuzioni)41; nelle

38 Asp, Archivio De Spuches, reg. 150. Cfr anche il reg. 151 che contiene rego-lamenti aggiuntivi alla raccolta citata e che porta la rubrica «Soggiunta all’istruzioni date dal Duca di Caccamo alli suoi officiali». Sul tema del funzionamento dell’am-ministrazione di un comune feudale cfr. R. Cancila, Gli occhi del principe Castelve-trano: uno stato feudale nella Sicilia moderna, Viella, Roma, 2007.

39 Asp, Archivio De Spuches, Istruzioni del Segreto della città di Caccamo, a c. 17 r (comma 51) si fa un esplicito riferimento al terzo capitulo della consuetudine di Caccamo a folio 17 nel libro rosso per disciplinare la concessione da parte del Segre-to di terre e comuni dell’Università, pagando il terraggio alla Segrezia.

40 Ibidem. La procedura per rendere esecutive le “istruttioni”, veri e propri regolamenti, comporta una procedura nella quale è fondamentale la formale accet-tazione dell’atto da parte dei singoli giurati. Ad esempio, per rendere esecutive le istruzioni che debbono essere osservate dai Giurati e dal Luogotenente di Capitano si deve procedere ad una notifica nominale (di sedia in sedia) da parte del Maestro notaro della città ai giurati la quale deve essere conservata nella segreteria del prin-cipe mio signore. Il riferimento alla fonte normativa dalla quale trae legittimazione lo specifico regolamento, è molto generico: i privilegi legati alla concessione feudale e alla concessione del mero e misto imperio.

41 Ivi, cc. 46r -47v, Modo della giustizia che dovrà eseguirsi agosto 1678. Il ce-rimoniale è minuzioso e scandisce ogni momento della complessa rappresentazione che si concluderà con l’impiccagione e con l’esposizione del corpo del condannato penzolante dalla forca per alcuni giorni. Il corteo è aperto da un banditore munito di tromba che pronunzia ad alta voce questa giustizia si fa d’ordine dell’eccellentissimo signor Principe padrone per havere derubbato et ammazzato in campagna a Giorgio di Porto e cui tale fa tale paga. Quindi la giustizia si amministra non in nome del re ma del principe padrone. Molto particolareggiate le istruzioni da seguire per l’atto finale dell’impiccagione scandito dalle preghiere che segnano i tempi delle diverse fasi: confessione, recita del Credo, invito al condannato a salire le scale del patibolo nel momento in cui il sacerdote pronunci la parola “ascendit”. La salita verso il cappio è scandita da orazioni con le quali si rimette il reo alla misericordia divina: Maria mater gratie, in manus tuas Domine, Deus propitius. Dopo l’invocazione Jesus

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sue stanze si ospitavano le personalità di alto lignaggio che tran-sitavano da Caccamo42; nei suoi saloni si svolgeva la vita di corte; nel suo teatro, dotato di scenografie, di vestiti di scena e di pupi, si rappresentavano «le comedie»43. Una struttura edilizia, simbolo dell’onore e del potere feudale, che si trasformava per adeguarlo ai nuovi standard estetici e di comodità che si imponevano nel coevo gusto architettonico e superavano il concetto di un castello conce-pito come un luogo di difesa, aprendolo verso il territorio.

Antonio Amato, principe di Galati, padrone e signore della città di Caccamo, fece eseguire nel 1664 numerosi lavori nel castello per rimodernarlo: si realizzò «una stanzietta per servizio del loco comu-ni», un gabinetto che scaricava in una fossa in modo da eliminare pitali e maleodoranti “gabinetti portatili”; si aprirono ampi fine-stroni squarciando le aperture piccole per fare entrare la luce e per potere proiettarsi verso la visione del mare e della “terra vecchia”; si ricavò un’apertura a tramontana «per potere trasere et nescere il fresco»; si allargò il portone di ingresso del castello in modo «che possa scapolare la rota della carrozza»44.

Il castello, trasformatosi da fortezza in dimora signorile, era, anche, lo snodo amministrativo per il governo del complesso dei feudi e della cittadina. Un compito che richiedeva esperienza ed

si toglie la scala e la vita al condannato. Ovviamente tutto ciò presuppone una com-partecipazione del condannato al cerimoniale in caso contrario il Principe ordina che il boia l’affoghi al piè della scala.

42 Ivi, cc. 113r-115r, Istruttioni per il Segreto di Caccamo nella venuta in detta città di alcuno magnate o Vicario generale. Il Principe in 30 punti sintetizza cosa si deve fare per rendere onore all’ospite che sarà ospitato nel castello dove dormirà.

43 Asp, Archivio De Spuches, reg. 164. Nel registro sono inseriti: un inventario di tutti li pupi che servino per le comedie (cc. 96r-96v) e due giuliane delle cose di scena (cc. 100r-101v e 278r-v). I dati contenuti in questi elenchi aprono uno squarcio su questi teatri di corte e ci danno un’idea del tipo di “comedie” che vi erano rappresen-tate. Le scenografie sono costituite da carri con elefanti, aquile, scenari di giardini, mare di cartone, fontane, portoni di carceri. I costumi di scena disponibili sono: divise di soldati; costumi di Pulcinella, di Travaglino (maschera popolare palermitana), di Coviello (altra maschera della commedia dell’arte diffusa in area centro meridionale); vestiti d’uomo nudo, di demoni, di angeli con le ali, di leone con la testa, quattro piedi e cuda. Barbe, parrucche, armi di scena e altri numerosi accessori sono disponibili per le compagnie che si esibiscono nel teatro del castello di Caccamo.

44 Ivi, cc. 275r-277v, Relatione di tutto quello che si ha da fare al castello di Caccamo dall’eccellentissimo signore don Antonio Amato, principe di Galati, pa-drone e signore della città di Caccamo, per servizio di costare e reformare diversi aperturi et altri conforme qui sotto distintamente appare oggi li 20 di luglio 2 indi-cionis 1664.

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equilibrio politico in quanto nella realtà di una cittadina feudale la legge del re, si sovrapponeva e si intersecava con la legge del baro-ne e si innestava sul substrato delle antiche consuetudini dell’u-niversità.

La corte, i cerimoniali e il buon governo della terra feudale, co-stituirono le pietre angolari per la costruzione dell’edificio dell’ono-re: diventarono un mezzo di comunicazione politica, di trasmissio-ne di messaggi e d’idee e non già un vuoto contenitore di ritualità vacue o di vincoli politici e amministrativi45.

Demolire questa rocciosa costruzione non sarà facile e richie-derà tempo e soprattutto percorsi politici e culturali articolati. Bi-sognerà spiegare ai cittadini di Caccamo che “il principe padrone” non amministrava più la giustizia e non condannava alla forca i banditi scandendo con uno specifico cerimoniale le diverse fasi dell’esecuzione sino al momento finale quando si toglieva la scala sulla quale si era arrampicato il condannato nel preciso momento in cui il sacerdote, terminata la recita di una sequenza di giaculato-rie, pronunciava la formula sacramentale Jesus. Improvvisamente il barone non poteva imporre servizi obbligatori oppure il monopo-lio delle sue strutture di servizio come il mulino o il fondaco.

I fattori che contribuirono al processo di demolizione della rappresentazione cetuale della nobiltà sono molteplici ma certa-mente due hanno avuto un peso specifico rilevante: la formazione «di un ceto di nobiltà minore che, dopo l’eversione della feudalità del 1812, aveva rafforzato le sue posizioni all’interno dell’élite»46; l’immissione nel mercato di circa 340.000 ettari di terreno grazie alle due censuazioni dei beni ecclesiastici47. Queste scelte che ac-celerarono il processo di redistribuzione della proprietà fondiaria non fecero venir meno il fascino che esercitava l’onore connesso ad un titolo. Gli emergenti, acquisita la proprietà della terra, furono spinti ad acquisire lo status di nobile. Il supporto dello studioso di araldica diventò importante e gli si chiedeva di ricostruire tutti gli attacchi che dimostrassero la legittimità del possesso di un certo titolo e di disegnare lo stemma con i quattro quarti di nobiltà.

45 D. Sola Garcia, Cerimonial i pràctica de govern a la cort dels virreis de Nàpols al segle XVII, «Pedralbes: revista d’història moderna», 32 (2012), p. 266.

46 P. Di Gregorio, Nobiltà e nobilitazione in Sicilia nel lungo ottocento, «Meridia-na», n. 19 (1994), p. 106.

47 Ivi, p. 107. La prima censuazione è del 1838 la seconda del 1866.

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Il monumento alla memoria dell’onore feudale e al culto del ti-tolo è l’opera di Francesco San Martino De Spuches sulla storia dei feudi e dei titoli nobiliari48 nella quale, utilizzando documenti e atti ufficiali come specifica nel sottotitolo, si ricostruisce il complesso e articolato reticolo della storia araldica delle famiglie feudali si-ciliane. Un mausoleo all’onore feudale ma anche uno strumento essenziale per la storia della Sicilia.

48 F. San Martino de Spucches, La storia dei feudi e dei titoli nobiliari di Sicilia dalla loro origine ai nostri giorni (1923): Lavoro compilato su documenti ed atti ufficiali e legali, Scuola Tip. Boccone Del Povero, 1924.

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INDICE

Introduzione di Rossella Cancila V

Tomo primo QUADRI REGIONALI

Tulips Have no Scent: Philological Testimonies to the Breakdown of Feudalism in the Western Balkansdi Persida Lazarević Di Giacomo 5

Substance and Decorum in Mediterranean Feudalism: The Case of Ottoman Lebanondi Eyüp Özveren 29

Il feudalesimo adriatico nell’età moderna di Giovanni Brancaccio 49

Les fiefs de Corfou au cours des Temps Modernes di Νikos Ε. Κarapidakis 81

La propiedad vinculada en la Valencia del siglo XVIIdi Nuria Verdet Martínez 99

Feudo e nobiltà nella Sardegna spagnoladi Gianfranco Tore 117

La ‘resistenza’ del feudo in Lombardia tra Sette e Ottocento di Elena Riva 139

La nobiltà feudale nel Granducato di Toscana tra Sette e Ottocento: norme, caratteri, rappresentazionedi Marcella Aglietti 165

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Tra conservazione e innovazione: studi recenti sulla feudalità nel Mezzogiorno modernodi Aurelio Musi 185

Il feudo siciliano nella coscienza giuridica tardo-settecentesca: concessioni, natura, formadi Rossella Cancila 207

Tra economia, politica e società: la “questione feudale” nei regni di Napoli e di Sicilia nel XVIII secolodi Daniele Palermo 229

Allodialità e feudalità nei regni di Napoli e di Siciliadi Luigi Alonzi 263

L’abolizione della feudalità e il culto degli onori nella Sicilia del 1812di Antonino Giuffrida 289

Tomo secondo FEUDI E GIURISDIZIONI

Feudalismo, gobierno y señorío en la Castilla modernadi David García Hernán 319

Señorío eclesiástico y jurisdicción en la Corona de Castilla(siglos XVI-XVIII) di María López Díaz 351

Feudi e giurisdizioni nell’Italia di mezzo: Legazioni dello Stato della Chiesa e Granducato di Toscanadi Stefano Calonaci 381

Comunità e baroni tra Cinque e Seicento nella Sardegna spagnola di Giovanni Murgia 415

Le Regie Udienze provinciali nel Regno di Napoli dalle riforme del conte di Lemos alla fine dell’antico regimedi Giuseppe Cirillo 437

Indice308

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Tiranni e cervelli torbidi. Contestazioni della giurisdizione feudale nel Regno di Napoli tra XVII e XVIII secolodi Domenico Cecere 469

Il ruolo delle nobildonne nelle dinamiche feudali tra XVI e XVII secolo nel principato di Casertadi Maria Anna Noto 487

«Vegliare a vantaggio de’ comuni». Il contenzioso ecclesiastico nella documentazione della Commissione delle cause feudalidi Vittoria Fiorelli 521

Per una storia della feudalità ecclesiastica nell’area del Mediterraneo occidentale: studi recenti e prospettive di Elisa Novi Chavarria 535

Conflitti giurisdizionali nel Regno di Napoli in età moderna: l’università di Mesagne contro il marchese Barrettadi Angelo Di Falco 551

Un feudo ecclesiastico in Principato Ultra: l’abbazia del Goletodi Carla Pedicino 581

Gli Autori 597

Indice 309

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per conto di New Digital FrontiersGiugno 2015