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M A U R O O R S A T T I I L C A N T O D E L L A G I O I A LA LETTERA DI PAOLO AI FILIPPESI

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M A U R O O R S A T T I

I L C A N T O

D E L L A

G I O I A

LA LETTERA DI PAOLO AI FILIPPESI

EDIZIONI PRO SANCTITATEROMA 2004

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Ai nipotiCamilla, Giulia, Filippo

e ai pronipotiChiara, Tommaso,

con l'augurio che la gioia nativa dell'infanziapermanga come stabile possesso nella crescita,

frutto anche di quotidiana conquistae occasione di contagioso irraggiamento

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PREFAZIONE

Il presente lavoro è un modesto contributo alla ricca biblioteca che raccoglie commenti e studi sulla Lettera di Paolo alla comunità di Filippi. Con un po' di enfasi, potrebbe valere anche per questo scritto paolino l'espressione latina numquam satis, nel senso che la profondità di un testo biblico non è mai sufficientemente sondata e la sua ricchezza mai definitivamente posseduta. Rimane sempre spazio alla ricerca e all’approfondimento.

Questo commentario è pensato per essere un agile strumento di lettura e di consultazione. Non si è voluto perciò entrare nel dettaglio di problemi aperti, né indugiare troppo su questioni poco interessanti per il lettore non specialista. Esistono buoni commentari che possono egregiamente soddisfare le attese di lettori molto esigenti.

Il taglio è sostanzialmente esegetico-spirituale: dalla base di un'informazione seria e fondata, si dipartono spunti che dovrebbero illuminare la mente, riscaldare il cuore, interrogare la propria coscienza di uomini e di cristiani.

È possibile una duplice lettura, quella del solo testo e quella integrata dalle note. Chi vuole seguire il filo conduttore, sarà interessato soprattutto al testo che offre una panoramica completa della lettera. Chi invece volesse qualche approfondimento, può riferirsi alle note che servono, sia a documentare il pensiero espresso nel testo, sia a rimandare ad una bibliografia più vasta e spesso specializzata.

Sono debitore a molti delle idee qui espresse. In primo luogo agli autori, citati nelle note, che hanno ispirato o addirittura guidato il mio pensiero. Senza di loro il presente scritto non avrebbe mai visto la luce. In secondo luogo, sono debitore ai miei studenti della Facoltà di Teologia di Lugano (Svizzera), primi destinatari di queste note. Con la loro intelligente presenza e con le loro pertinenti domande hanno stimolato il chiarimento e l'approfondimento. Agli uni e agli altri, vada il mio grazie riconoscente.

Nella provvisorietà delle nostre modeste conclusioni potremo gioire di aver esplorato insieme un frammento di eternità e di esserci inoltrati un poco di più nel sentiero della ricerca teologica, nella viva speranza di trovarci iscritti «nel libro della vita» (Fil 4,3).

Ora il manoscritto lascia gli ambiti ristretti nei quali è sorto e passa ad un pubblico più ampio e più vario. Cambiano i destinatari, non cambia lo scopo. Esso rimane, sostanzialmente, quello di familiarizzare sempre più il popolo di Dio con il sacro testo, rispondendo, almeno in parte, all'auspicio conciliare: «Il santo concilio esorta con forza e insistenza tutti i fedeli, soprattutto i religiosi, ad apprendere "la sublime scienza di Gesù Cristo" (Fil 3,8) con la frequente lettura delle divine scritture. "L'ignoranza delle scritture, infatti, è ignoranza di Cristo". […] Si ricordino però che la lettura

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della sacra scrittura deve essere accompagnata dalla preghiera, affinché possa svolgersi il colloquio tra Dio e l'uomo; poiché "gli parliamo quando preghiamo e lo ascoltiamo quanto leggiamo gli oracoli divini"» (Dei verbum, n. 25).

Mauro Orsatti25 marzo 1999Festa del gioioso annuncio a Maria della nascita di Gesù

Nota alla seconda edizioneEsaurita la prima edizione, l’Editrice mi chiese di riproporre il testo in una nuova collana. Ho provveduto ad aggiornare la bibliografia, apportando qualche modifica e ampliando alcuni punti, senza però alterare il carattere di commento esegetico-spirituale.

Mauro Orsatti

15 agosto 2004Solennità dell’Assunzione della beata Vergine Maria

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ABBREVIAZIONI E SIGLE

ABBREVIAZIONI

art. articolo (di rivista o dizionario)AT Antico Testamentocap./capp. capitolo/capitolicf confronta (rimando ad autore o opera)cit. citato (opera o articolo già citato per esteso)ed./edd. editore/editori (o curatori di un'opera)n./nn. numero/numeriNT Nuovo Testamentop./pp. pagina/paginepar. parallelis./ss. seguente/seguentiv./vv. versetto/versetti

SIGLE (riviste, documenti, collane, opere)

CCC Catechismo della Chiesa CattolicaCD Documento di Damasco (testo della Genizà del Cairo)CEI Conferenza Episcopale Italiana

(versione italiana della Bibbia)DBS Dictionnaire de la Bible, SupplémentGLNT Grande Lessico del Nuovo Testamento, I-XVI,

Paideia, Brescia 1963ss. (edizione italiana del Theologisches Wörterbuch zum Neuen Testament)

HTR Harvard Theological ReviewLXX Settanta (traduzione greca dell'AT)NRT Nouvelle Revue ThéologiqueNT Novum TestamentumNTS New Testament StudiesPG Patrologia Graeca, J.P. MignePL Patrologia Latina, J.P. MignePSV Parole Spirito VitaRB Revue BibliqueRivBibIt Rivista Biblica ItalianaRSR Recherches de Science ReligieuseSB H.L. Strack – P. Billerbeck, Kommentar zum Neuen

Testament aus Talmud und Midrasch, I-V, Beck, München 61974

TM Testo Masoretico (testo ebraico dell'AT)

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BIBLIOGRAFIA

BARBAGLIO G., Alla comunità di Filippi, in: BARBAGLIO G. - FABRIS R., Le lettere di Paolo, II, Roma 21990.BARBAGLIO G., La teologia di Paolo. Abbozzi in forma epistolare, EDB, Bologna 1999.BRUCE F.F., Philippians, Hendrickson, Peabody 1989.EDARD J.B., L’épître aux Philippiens. Rhétorique et composition stylistique, Gabalda, Paris 2002 (EB 45).ERNST J., Lettera ai Filippesi, a Filemone, ai Colossesi, agli Efesini, Morcelliana, Brescia 1986 (Il Nuovo Testamento commentato) [or. ted.].FABRIS R., Lettera ai Filippesi, EDB, Bologna 1983 (Lettura pastorale della Bibbia, 15).FABRIS R., Lettera ai Filippesi. Lettera a Filemone, EDB, Bologna 2000(Scritti delle origini cristiane, 11).FEE G.D., Paul's Letter to the Philippians, Eerdmans, Grand Rapids 1995(NICNT).FRIEDRICH G., La lettera ai Filippesi, in: AA.VV., Le lettere minori di Paolo, Paideia, Brescia 1980, pagg. 177-245 (Nuovo Testamento, 8) [or. ted.].GNILKA J., La lettera ai Filippesi, Paideia, Brescia 1972(Commentario teologico del NT, X/3) [or. ted.].MARSHALL H., The Epistle to the Philippians, Epworth, London 1992.MASINI M., Filippesi, Colossesi, Efesini, Filemone. Lettere della prigionia, Queriniana, Brescia 1987 (LoB, 2.9).MURPHY O'CONNOR J., Philippiens (Épître aux), DBS, VII, Paris 1966, pagg. 1211-1233.O'BRIEN P. T., The Epistle to the Philippians. A Commentary on the Greek Text, Eerdmans, Grand Rapids 1991 (NIGTC).OSIEK C., Philippians, Philemon, Abingdon Press, Nashville 2000 (Abingdon NT Comm.).PENNA R., Lettera ai Filippesi. Lettera a Filemone, Città Nuova, Roma 2002 (NT – Commento esegetico e spirituale).PERETTO E., Lettere dalla prigionia, Paoline, Roma 1972 (Nuovissima Versione della Bibbia, 41).SCHLIER H., La lettera ai Filippesi, Jaca Book, Milano 1996 [or.ted.].SILVA M., Philippians, Baker, Grand Rapids 1992 (Baker Exegetical Comm. NT).STAAB K., Lettera ai Filippesi, in: STAAB K. - FREUNDORFER J., Le lettere ai Tessalonicesi e della cattività e pastorali, Morcelliana, Brescia 1961 (Il Nuovo Testamento commentato) [or. ted.].WALTER N., Die Briefe an die Philipper, Thessaloniker und Philemon, Vandenhoeck & Ruprecht, Göttingen 1998 (NTD 8/2).

NOTA BENE. I commentari saranno citati con il solo cognome dell'Autore e il numero della o delle pagine. I due commentari di Fabris saranno citati secondo l’anno: Fabris (1983) e Fabris (2000).

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INTRODUZIONE

La lettera di Paolo ai Filippesi è uno scritto relativamente breve, composto da solo quattro capitoli1, che non eguaglia il valore teologico delle grandi lettere come Romani, 1-2 Corinti e Galati, né offre interminabili problematiche di autore e di composizione come le lettere ai Colossesi e agli Efesini. Occupa comunque uno spazio di tutto rispetto, sia per il contenuto, sia per il tono caldo e appassionato della presentazione. La lettera emana un delicato profumo cristologico che conquista subito il lettore: basti pensare al mirabile inno del cap. 2, un capolavoro letterario e teologico. Ma la fragranza investe anche la vita del cristiano, invitato a valorizzare tutta la sua esistenza nella scia di Cristo. Abbiamo già sufficienti motivi per applicarci con passione e con interesse allo studio, promettendo che l'approfondimento riserverà piacevoli sorprese.

È quasi d'obbligo, all'inizio di un libro biblico, fornire un quadro di riferimento generale, come la contestualizzazione della lettera nell’epistolario paolino, alcuni richiami storico-geografici, i rapporti di Paolo con la comunità. Seguono quindi alcune indicazioni generali che servono come strumentazione di base per muoversi con libertà e competenza all'interno del testo: si tratta delle questioni introduttorie, tra cui quelle relative alla composizione della lettera, all’autore, allo scopo, alla data.

La bibliografia, collocata all’inizio, permette uno sguardo ad alcuni dei numerosi commentari esistenti, orientando il lettore interessato a ulteriori approfondimenti.

Come premessa, accenniamo alla questione se sia lecito o no collocare lo scritto alla comunità di Filippi, nel gruppo delle lettere della prigionia.

1. LETTERA DELLA PRIGIONIA?Nell'universo letterario paolino si distingue un gruppo formato da quattro lettere - Filippesi, Efesini, Colossesi e Filemone - conosciute come 'lettere della prigionia', perché in esse Paolo si presenta come prigioniero. Le espressioni variano nella formulazione: l'apostolo è «in catene per Cristo» (Fil 1,13), «prigioniero per Cristo Gesù» (Fm 9), suo «ambasciatore in catene» (Ef 6,20) e, comunque, si trova in carcere (cf Col 4,10). Pur nella diversità di espressione, tutte concordano nel presentare la condizione di prigionia di Paolo. La molteplicità 1 Un totale di 104 versetti, così distribuiti: 30 per il primo capitolo, 30 per il secondo, 21 per il terzo e 23 per il quarto. L’estensione è molto simile a quella della Prima Lettera di Giovanni, composta da 105 versetti. Nell’edizione del Nestle, il testo greco di Filippesi totalizza 1629 parole, impiegando 448 vocaboli.

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delle espressioni e la lucida chiarezza del contesto non lasciano dubbi che siamo davanti ad una situazione reale, non allegorica, né iperbolica2.

Ci sentiamo meno sicuri nell'identificare il luogo di prigionia e nel fissare, sia pure indicativamente, il tempo. Nella seconda lettera ai Corinti si allude a 'prigioni' (cf 6,5) e a 'prigionie' (cf 11,23), lasciando intendere che Paolo fu privato più volte della sua libertà. Anche se non possiamo sottoscrivere con assoluta tranquillità i sette imprigionamenti di cui parla Clemente Romano3, sappiamo dal libro degli Atti che Paolo conobbe la prigione a Filippi, sia pure per il breve spazio di una notte (cf At 16,23-40), a Gerusalemme, pure per un periodo ristretto (cf At 21,33 - 23,30), quindi a Cesarea per circa due anni (cf At 23,33 - 26,32) e, infine, a Roma, dove rimase in libertà vigilata per altri due anni (cf At 28,16-30).

Per molto tempo si pensava al carcere romano come la fucina dalla quale provenivano gli scritti paolini della prigionia. Dalla fine del secolo scorso si prospettò anche l'ipotesi di Cesarea, e poi anche una terza, Efeso. Di fatto oggi le certezze di un tempo si sono appannate e altre si sono fatte strada. Un’accurata analisi, sia letteraria sia teologica, invita ad una prudenza circa l'accorpamento delle quattro lettere e la loro comune origine.

Quella che si distacca vistosamente dalle altre è il breve scritto a Filemone, poco più di un biglietto da visita. In esso non troviamo elementi teologici di spicco, se non una preziosa informazione biografica e psicologica di Paolo. Scrivendo al ricco Filemone di Colossi che si era visto fuggire lo schiavo Onesimo, Paolo parla anche di se stesso, indicando la sua età, la sua condizione sociale, la sua attività apostolica; inoltre, dimostra di conoscere bene le corde del sentimento e di saperle far vibrare, allorché ricorda a Filemone diritti e doveri. Il tutto è condito con fine sensibilità psicologica.

Per quanto concerne Colossesi e Efesini, molto affini perché la prima sarebbe una stesura 'in brutta copia' della seconda, la critica oggi tende a slegarle da una dipendenza diretta dell'Apostolo. Proprio perché affini, sono accomunate nel non felice destino di essere non propriamente paoline. La convinzione non ha ancora raggiunto tutti gli studiosi, però obbliga a scorporare le due lettere da un blocco omogeneo4.

Infine, la lettera ai Filippesi gode il vantaggio di presentarsi come una vera lettera e di essere unanimemente riconosciuta

2 Si può dire: «mi sento in prigione», «sono prigioniero di…», nel senso di ristrettezza o di dipendenza da qualcuno, senza per questo trovarsi 'dietro le sbarre' di una prigione. 3 Cf 1 Clemente 5,5.4 Sono classificate 'deuteropaoline' da FABRIS R., La tradizione paolina, EDB, Bologna 1995, 50-54.

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come paolina. Abbiamo, perciò, seri motivi per distinguerla dalle altre.

Possiamo concludere ricordando che la formulazione 'lettere della prigionia' risulta inesatta perché accorpa scritti per nulla omogenei, né per autenticità, né per affinità teologica, né per comune luogo di origine. Meglio quindi abbandonare la formula, perché si rivela inesatta e causa di suggerimenti non del tutto pertinenti5.

2. LA CITTÀ DI FILIPPIIl turista che si reca oggi in Grecia ha l'opportunità di arrivare fino al sito archeologico dell'antica Filippi, di cui restano le vestigia di un passato glorioso. I resti sono eloquente testimonianza dell'importanza ricoperta un tempo dalla città6.

La futura Filippi era all'inizio il modesto villaggio di Crenides, collocato in posizione strategica nella pianura bonificata del fiume Angites, in Macedonia, ai confini con la Tracia. Lo sviluppo fu favorito dalla vicinanza ai famosi giacimenti auriferi del monte Pangeo e soprattutto dall'intervento di Filippo II, padre di Alessandro Magno, che verso il 360 a.C. trasformò Crenides in città, denominandola Filippi.

Con la conquista della Macedonia nel 148 a.C. da parte di Roma, la città fu resa provincia romana, favorendo ulteriormente la sua importanza. Un sostanzioso accrescimento di popolazione si verificò allorché nel 42 a.C., dopo la vittoria militare di Antonio e Ottaviano contro Bruto e Cassio7, molti soldati, conclusa la guerra, si stanziarono nella città. Fu proprio Ottaviano a concederle l'ambito titolo di Colonia Julia Augusta Philippensis con il godimento dello jus italicum che esonerava i cittadini dal pagamento delle tasse. Tale privilegio favorì la proprietà e incrementò gli scambi, tanto più che la città era attraversata dalla via Egnatia, la grande arteria imperiale che collegava l'Oriente con l'Occidente. Filippi si trasformò in una piccola Roma: i magistrati si chiamavano pretori, l'amministrazione era

5 Significativo il titolo di ERNST J., Ai Filippesi, a Filemone, ai Colossesi, agli Efesini, Morcelliana, Brescia 1986. È facile notare che non compare l'abituale dicitura 'lettere della prigionia', e l'ordine segue una probabile traiettoria cronologica. Questo non significa che il richiamo alla prigionia sia intrinsecamente errato, perché trova ancora impiego, cf MASINI M., Filippesi, Colossesi, Efesini, Filemone. Le lettere della prigionia, Queriniana, Brescia 1987.6 Si può vedere il foro del II secolo, una vasta piazza lastricata in marmo, delimitata da portici e inquadrata da due templi. Ancora visibile l'antico decumanus e segni lasciati dal passaggio delle ruote dei carri. Oltre a basiliche cristiane che risalgano al V-VI secolo, si nota pure il teatro del IV secolo a.C., rimaneggiato in epoca romana, cf VESCO J.L., In viaggio con san Paolo, Morcelliana, Brescia 1974, 96-97.7 In questa occasione nasce il detto «ci rivedremo a Filippi».

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modellata su quella romana (cf At 16,21) e il latino fu assunto come lingua ufficiale.

La popolazione indigena dei primi tempi andò sempre più assimilandosi ai nuovi venuti che finirono per diventare la maggioranza: tra locali, orientali e occidentali, si distinguevano per numero quelli di origine latina. Alla diversità etnica faceva riscontro la molteplicità delle religioni, da quella imperiale con il culto alla triade capitolina Giove, Giunone e Minerva, a quella locale che venerava Dionisio, a quella importata dal lontano Egitto con Iside o dalla vicina Anatolia con Cibele. Anche la comunità ebraica era presente, pensiamo in quantità modesta, perché sprovvista di sinagoga e costretta a riunirsi presso il fiume, fuori dalla città. Proprio là Paolo incontrerà i suoi correligionari di un tempo (cf At 16,13).

3. PAOLO A FILIPPIPaolo arrivò a Filippi durante il secondo viaggio missionario, verso l'anno 50-51. La scelta di questa città è quindi strategica, data la sua importanza politica e commerciale. Con Sila e Timoteo, l'Apostolo fondò una comunità cristiana, la prima in territorio europeo8. Forse avrebbe esitato ad avventurarsi in quel mondo, se non vi fosse stato indirizzato da una precisa volontà divina che in visione gli indicò la necessità di entrare nel continente europeo (cf At 16,9-10). Con tale decisione il Vangelo compiva il gran balzo dal mondo semitico a quello greco-romano: un passaggio di pochi chilometri, in termini geografici, diventava in realtà un salto enorme, addirittura planetario per i parametri del tempo, perché permetteva al Vangelo una inculturazione diversa e la sua internazionalizzazione.

Per quel che ne sappiamo dagli Atti degli Apostoli, Paolo rimase a Filippi per un periodo molto limitato, costretto poi da circostanze avverse a riparare altrove (cf At 16,11-40). Vi ritornò altre due volte, nel viaggio di andata da Efeso a Corinto nell'autunno del 57 (cf At 20,1-2), e in quello di ritorno da Efeso, nella Pasqua del 58 (cf At 20,3-6).

La comunità di Filippi constava con tutta probabilità di numerosi membri e per di più con buone risorse economiche, perché in seguito potranno intervenire più volte a sovvenzionare l'Apostolo (cf Fil 4,16; 2Cor 11,9).

4. LA LETTERA4.1 Occasione e scopo

8 «Filippi costituisce per la storia del cristianesimo una pietra miliare, perché entro le sue mura si formò la più antica comunità cristiana su suolo europeo», GNILKA, 41.

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Le lettere paoline sono scritti occasionali che rispondono di volta in volta a situazioni particolari. Paolo scrive la lettera ai Galati per chiarire e risolvere un grave problema teologico che si era presentato; scrive la prima lettera ai Corinzi per rispondere ad alcuni quesiti; scrive la lettera ai Romani per presentare il contenuto della sua fede e il suo programma apostolico.

Nel caso presente, non emerge chiaramente il motivo dello scritto9. Paolo parla della sua attività di annunciatore del Vangelo, invita la comunità a vivere nella gioia di Cristo, rimprovera alcuni predicatori che sembrano allontanarsi dal solco della genuina tradizione. Quest'ultimo motivo, presente soprattutto in 3,2-3.18-19, fa pensare alla presenza di predicatori giudeo-cristiani ancora eccessivamente dipendenti dalle pratiche giudaiche. Si tratta quindi di motivi eterogenei che, presi singolarmente, non giustificano l'esistenza della lettera.

Si deve concludere di essere in presenza di un insieme composito, dal tono prevalentemente familiare, talora decisamente affettuoso, anche se non privo di richiami forti e non sempre indolori.

4.2. Luogo e dataSecondo la testimonianza di alcuni manoscritti, provenienti tutti dalla stessa fonte, dopo 4,23 si incontra l'aggiunta: «Scritta a Roma per mezzo di Epafrodito». Se il testo valesse, sapremmo dove la lettera fu composta, il suo estensore e, approssimativamente, anche la data. Purtroppo non possiamo accettare tale aggiunta, perché priva del supporto della critica testuale.

Almeno sul luogo, fino alla fine del 1700, non esistevano dubbi: durante la prigionia romana, durata circa due anni (cf At 28,30), Paolo avrebbe scritto la lettera. A suffragio di questa opinione valevano le indicazioni del «pretorio» (1,13) e della «casa di Cesare» (4,22). Oggi tale certezza si è incrinata e tende a sbiadire. Un'accurata indagine ha fatto sapere che in diverse città dell'impero esistevano sia il pretorio, inteso come luogo dove alloggiavano le guarnigioni dei pretoriani, sia la casa di Cesare, intesa come l'abitazione di coloro che curavano gli interessi dell'imperatore (Cesare). Inoltre, accettando Roma come luogo di composizione, diventerebbero difficili, perfino problematici, quei continui scambi che la lettera suppone tra Paolo, prigioniero a Roma, e la comunità: la tratta Roma-Filippi si

9 Qualcuno vorrebbe individuare uno scopo preciso: «La preoccupazione fondamentale di Paolo in questa lettera è l’unità dei cristiani di Filippi […]. Ciò risulta dalle ripetute raccomandazioni all'unità dello spirito e dell’anima, a sentire allo stesso modo, ad essere concordi», CASALINI N., Le lettere di Paolo, Franciscan Printing Press, Jerusalem 2001, 119. Rimane uno scopo ‘ricavato’ dal testo, quindi opinabile, perché non chiaramente espresso da Paolo, come in altri casi, per esempio in Rm 1,13.

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percorreva in almeno cinque settimane e ciò avrebbe richiesto tempi lunghi per lo scambio di comunicazioni e per il trasferimento delle persone.

Oggi non sono pochi coloro che preferiscono ritenere Efeso la città di composizione della lettera. Paolo soggiornò in questa città dal 53 al 56. È vero che non abbiamo nessuna documentazione di una incarcerazione ad Efeso, però sappiamo che Paolo fu prigioniero più volte (cf 2Cor 11,23). Sulla scorta dei riferimenti di 1Cor 15,32 e 2Cor 1,8-9, possiamo indicare Efeso come probabile luogo di detenzione, durante il terzo viaggio missionario. La località e la cronologia spiegano meglio le visite delle persone che vanno e vengono da Colossi, distante 8-10 giorni. In questa città sono comprensibili le specificazioni di «pretorio» e di «casa di Cesare». Si spiegherebbe allora anche la maggior vicinanza dello scritto ai Filippesi alle grandi lettere e a 1-2 Ts, più che alle lettere della prigionia. Accettando tutto questo, Paolo non sarebbe 'vecchio', ma nel pieno vigore delle sue forze.

Dando credito e concretezza all'ipotesi di Efeso, allora la data di composizione si anticipa verso l'anno 53-54 o, non più tardi del 56-5710.

4.3. Autenticità ed unità della letteraNessuno mette seriamente in dubbio la paternità paolina della lettera ai Filippesi, ritenuta unanimemente autentica.

Perplessità nascono invece sull'integrità. Si tratta di un solo scritto o di più biglietti (due o tre), inviati alla comunità di Filippi in diverse occasioni, e poi raccolti così da formare la presente lettera? Le perplessità iniziarono sul finire del 1600 e si fondano su motivi letterari. Mentre con 3,1a si ha l'impressione di essere in fase conclusiva, con 3,1b il discorso riprende tono, introducendo un argomento nuovo, polemico, e privo del tema della gioia che attraversa tutta la lettera. Analogamente 4,1 lascia presagire una conclusione che in realtà non arriva neppure a 4,8, che ha nuovamente l'aria dell'ultima battuta. Nell'ipotesi più semplice, si ravvisano due lettere: una di ringraziamento (1,1-3,1a; 4,10-23), e una polemica (3,1b-21; 4,1-9). Le argomentazioni a favore della molteplicità non sono decisive, anche se non trascurabili.

Ancor meno probante è il richiamo all’antica testimonianza di Policarpo che parla di «lettere» inviate ai Filippesi, perché un’ampia documentazione mostra l’uso del plurale, anche quando si tratta di un solo scritto11.10 Sugli anni 53-54, o al massimo 54-55, concorda PENNA, 12. Invece per gli anni 55-57 propende GNILKA, 74-75.11 Cf POLICARPO, Ai Filippesi, III,2. Usano il plurale con evidente valore di singolare: GIUSEPPE FLAVIO, Ant.12,4,10; TUCIDIDE, Hist. 8,51. Per ulteriore informazione, cf FABRIS (2000), 25.

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Noi pensiamo che il carattere epistolare, con la sua immediatezza e occasionalità, potrebbe almeno in parte spiegare la ripresa degli argomenti. A livello di vocabolario, poi, alcuni termini ricorrono e strutturano tutta la lettera: si pensi al verbo fronein ( ‘ritenere’, ‘pensare’), presente in tutti i quattro capitoli, o al tema della comunione (1,5; 2,1; 3,10; 4,13.15).

Anche sulla scorta di recenti e autorevoli posizioni, possiamo ritenere sufficientemente accettabile l'unità della composizione12.

4.4. Divisione e strutturaLa struttura di un libro è sempre un tema molto controverso, tanto più nella presente lettera, dove manca un preciso sviluppo contenutistico. Come sempre accade, il moltiplicarsi dei tentativi denota l'intrinseca fragilità di ogni proposta13. Senza entrare nel merito di questioni complesse e articolate, come una lettura chiastica di tutto il testo14, proponiamo in via sperimentale una semplice divisione:

A cuore aperto: 1,1-11Ricordi personali e confidenze: 1,12-26Esortazioni alla comunità: 1,27-2,18I collaboratori della missione: 2,19-30L’esperienza di Cristo: 3,1-4,1Una manciata di raccomandazioni: 4,2-9Il profumo della riconoscenza: 4,10-23

5. IL MESSAGGIO

12 «The presumption of the letter's literary integrity is probably correct», FITZGERALD J.T., Philippians (Epistle to the), Anchor Bible Dictionary, V, Doubleday, New York 1992, 322. Cf con argomentazioni dettagliate GARLAND D., The Composition and Unity of Philippians. Some Neglected Literary Factors, NT 27 (1985) 141-173. La tematica sarà ripresa più avanti, all'inizio del commento a 3,1ss.13 A titolo esemplificativo riportiamo due divisioni. La prima è di SACCHI P., Alla Chiesa di Filippi, in: IDEM (ed.), Lettere paoline e altre lettere (Logos, 6), LDC, Leumann (TO) 1996,137-138: Prescritto e ringraziamento (1,1-11), confidenze ed esortazioni (1,12-2,18), intermezzo (2,19-30), nuove confidenze ed esortazioni (3,1-4,9), ringraziamento per gli aiuti ricevuti (4,10-20), postscritto (4,21-23). Il secondo esempio di divisione è di BARBAGLIO G., La teologia di Paolo, EDB, Bologna 1999, 323-328: Prologo (1,1-2) e ringraziamento (1,3-11), corpo della lettera in tre parti (1,12-2,30; 3,1-4,1; 4,2-20), conclusione epistolare (4,21-23).14 Cf LUTER A.B. - LEE M.V., Philippians as Chiasmus: Key to the Structure, Unity and Theme Questions, NTS 41 (1995) 89-101; cf lo schema a pagina 92. Al di là della proposta che può piacere o meno, viene riconosciuta l'integrità della lettera.

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Sarà necessario percorrere l'intero tracciato della lettera per comprendere e apprezzare la densità del contenuto. Ci limitiamo, a questo punto, ad alcune osservazioni generali.

Non balza evidente un impianto teologico di fondo, anche perché la lettera non deve rispondere a quesiti o a problemi teologici. Eppure si avverte subito il ricco contenuto15. Due sono i principali poli di aggregazione del pensiero: la centralità di Cristo e la dimensione ecclesiale.

Tutto muove da una relazione vitale con Cristo, asse portante della intera vita del credente16. Da lui fluisce la vita che va ad irrorare il tessuto del vivere quotidiano. Non è casuale che al centro della breve lettera si trovi quel prezioso gioiello che è l'inno cristologico: il comportamento di Cristo diventa modello ispiratore del vivere dei credenti. Occorre «sentire» con Cristo, condividere gli stessi sentimenti, dare alla vita lo stesso orientamento. Solo così la comunità cristiana si edifica nella gioia.

Iniziata la vicenda cristiana nel tempo, essa tende all'eternità. Si respira nel testo un'aria celestiale che trasporta il credente nella sfera del divino, senza nulla togliere alla serietà di un impegno che diventa vera incarnazione. Insomma, siamo davanti a un corposo messaggio, capace di valorizzare tutti gli aspetti della vita, orientando verso una pienezza che ha già il suo gustoso sapore nella gioia cui è chiamata, oggi, la comunità.

15 «Nel dialogo epistolare con i filippesi Paolo mette a fuoco anche alcuni aspetti fondamentali dell’esperienza di fede cristiana: l’iniziativa libera e gratuita di Dio, la figura e il ruolo di Gesù Cristo, lo stile di vita dei cristiani», FABRIS (2000), 35.16 L'espressione «in Cristo Gesù» si trova sette volte nella nostra lettera, su un totale di 14 nel NT.

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A CUORE APERTO

Testo di Filippesi 1,1-11

Fin dalle prime battute si percepisce l'andamento semplice e colloquiale che attraversa tutta la lettera, conferendole un tono di calda familiarità. Non è dato trovare altro scritto in cui Paolo si esprima 'a cuore aperto', salvo un poco, ma in tono minore, con la prima lettera ai Tessalonicesi. Abbozzando un’ipotesi, potremmo pensare a questa spiegazione: Filippi e Tessalonica sono state le prime città in Europa a ricevere il messaggio dell'Apostolo. La loro generosa disponibilità ad accogliere il vangelo ha favorito l’instaurarsi di un rapporto franco e cordiale che si è mantenuto anche dopo la partenza di Paolo. Egli, di fatto, accetterà sovvenzioni economiche solo da queste comunità, sicuro che l'aiuto non gli verrà mai rinfacciato.

L'inizio della lettera ha i due generi letterari abituali: l'esordio (vv. 1-2) e il ringraziamento (vv. 3-11).

1. ESORDIO (vv. 1-2)L'esordio è la parte iniziale della lettera che contiene gli elementi classici dello stile epistolare. Fin dalle prime battute del suo scritto, Paolo insegna una cosa tanto elementare quanto preziosa: anche le cose semplici e ordinarie di tutti i giorni, quelle che noi spesso in modo sbrigativo e insipiente classifichiamo come 'banali', possono assurgere a messaggio profondo e stimolante. Il suggerimento viene leggendo il titolo della lettera contenente i tre elementi necessari ad ogni inizio: mittente, indirizzo e saluto in apertura. Paolo avrebbe potuto iniziare così: «Paolo alla comunità di Filippi. Saluti». Invece no. Inserisce elementi che danno un tocco di novità, a tal punto da rendere originale un inizio del tutto feriale. Il suo non è un intento letterario che per gusto estetico o puramente formale ricorre a varianti. Egli pensa sempre e solo in termini teologici, che variano secondo le esigenze e le situazioni delle comunità a cui scrive. Quindi, è una teologia applicata, - si direbbe quasi una teologia pastorale - incarnata nel tessuto di comunità concrete e vive. Da qui la necessità di registrare le varianti per comprendere il rapporto dell'Apostolo con i suoi cristiani.

Il primo termine che si incontra è il nome proprio di Paolo. Non esiste nelle lettere una denominazione diversa da questa; solo gli Atti degli Apostoli ricordano nella prima parte l'altro nome, quello di Saulo17. Poiché quest'ultimo è il nome giudaico, la scelta 17 Il nome Saulo (ebraico Shaùl) significa 'invocato con preghiere', 'desiderato'. Altri esempi di doppio nome o di soprannome: Giovanni Marco (At 12,12;

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del nome greco-romano di Paolo può essere un primo, timido indizio della coscienza e della missione internazionale che ha ricevuto.

Subito viene associato Timoteo, il più fedele e il meglio conosciuto dei collaboratori di Paolo. Il primo motivo della menzione, è la sua presenza nella fondazione della comunità di Filippi, al tempo del secondo viaggio missionario (cf At 16,1ss). Egli è spesso vicino a Paolo e incaricato di delicate missioni; ricordiamo, tra l'altro, le visite alle comunità di Tessalonica e di Corinto. I legami di stima e di valida testimonianza sono mantenuti e valorizzati nel tempo, tanto da essere additato dallo stesso Apostolo come luminoso esempio18. Esiste poi un motivo più profondo che spiega la presenza del suo nome all'inizio della lettera. Paolo ha una coscienza ecclesiale dell'apostolato e della missione, considerati sempre un'opera di comunione e mai un lavoro strettamente individuale. Come si percepisce bene dal Libro degli Atti, al di là delle singole figure che agiscono, è la chiesa tutta, animata dallo Spirito, a compiere l'opera di evangelizzazione.

I due missionari ricevono il titolo di «servi di Cristo Gesù». Il termine «servo» può esprimere la condizione di dipendenza e di sudditanza e assumere valore pesantemente negativo, diventando sinonimo di 'schiavo'. È però risaputo che nella Bibbia diventa per tanti personaggi un titolo onorifico, perché include l'idea di scelta da parte di Dio: senza perdere il senso di inferiorità e di dipendenza, il servo ha la convinzione di entrare in modo più stretto a far parte dei progetti divini. Furono servi di Dio coloro che ebbero un ruolo importante nella storia della salvezza, come Abramo, Mosè, Davide, i profeti, l'enigmatico servo di JHWH; sono ora servi di Gesù coloro che continuano la stessa storia, scritta sul rigo del Nuovo Testamento.

Paolo e Timoteo hanno viva coscienza di rispondere ad una precisa vocazione divina e la esprimono con questo titolo che, nelle lettere, a volte accompagna, e nel nostro caso sostituisce, quello di 'apostolo'19. Il termine quindi ha valore funzionale e carismatico: se, in linea generale, tutti i cristiani sono servi di Gesù in quanto da lui dipendenti, non va dimenticato che Paolo «lo riserva per determinati uomini, incaricati di una funzione particolare (ad es. Col 4,12)»20. Poiché quelli che un tempo erano i servi di Dio sono oggi i servi di Gesù, balza subito all'occhio il passaggio, che è altresì una precisa equivalenza, tra Dio e Gesù.

15,37), Giuseppe Barsabba Giusto (At 1,23), Simeone Niger (At 13,1), Tabità Gazzella (At 9,36).18 Cf più avanti il commento a 2,19-24.19 Quello di apostolo è il titolo più ricorrente: 9 volte (1-2 Cor; Rm; Gal; Col; Ef; 1-2 Tm; Tt); in 2 casi è associato con quello di 'servo' (Rm; Tt); solo in Fm troviamo «prigioniero»; manca qualsiasi titolo in 1-2 Ts.20 GNILKA, 83.

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Se i mittenti sono schiavi di Cristo Gesù, i destinatari sono «tutti i santi in Cristo Gesù». Esiste anche per loro un intimo legame con Gesù. Proprio da questa relazione si spiega l'aggettivo 'santo' che forse può far sorgere qualche perplessità nel lettore moderno. In Paolo con «santi» si intende tutta la comunità, resa tale perché inserita in Cristo Gesù. È lui l'origine della santità, prima ancora che si accenni ad una risposta positiva da parte degli interessati. Tale designazione rimarrà fino alla crisi montanista del secondo secolo, quando incominciò a scomparire lasciando aperta la porta alle specificazioni del tipo 'i santi martiri' o 'i santi asceti'. Si perse la dimensione globale, privilegiando quella personale; si lasciò in ombra la causa della santità, mettendo in luce la risposta generosa della persona. Santo significa separato, non nel senso dell'isolamento spirituale o, peggio, del ghetto, bensì nel delineare un altro stile di vita, radicato in Gesù e aperto ai fratelli.

Fin dalle prime battute si respira subito un'aria non solo cristiana, ma addirittura cristologica; nel breve spazio di due versetti si cita due volte «Cristo Gesù» e una volta «Gesù Cristo». È lui a fondare e a garantire quella santità che Paolo considera nella sua origine e non nel suo punto terminale, come facciamo noi oggi quando parliamo di 'santi'. In tale senso tutti i cristiani sono 'santi', titolo che Paolo riserva anche a comunità, come quella di Corinto (cf 1Cor 1,2), che pure mostra tante crepe nell'edificio della santità.

Destinatari sono dunque i santi, cioè la comunità nel suo insieme, poi indicata nei suoi capi «con i vescovi e i diaconi». Sembra prematuro leggere in questa specificazione una precisa gerarchia ecclesiastica, formulata con chiarezza solo all'inizio del secondo secolo con Ignazio di Antiochia21. Già le lettere pastorali conoscono il vescovo (cf 1Tm 3,2), sebbene non sia ancora una figura ben delineata22. Anche il Libro degli Atti parla dei vescovi (cf At 20,28), definendo così coloro che poco prima aveva chiamato «presbiteri» (cf At 20,17), segno che la terminologia vive ancora allo stato fluido. La parola episcopos () viene dalla grecità per indicare un funzionario con compito ispettivo o amministrativo, sia nell'ambiente politico, sia in quello religioso; si tratta quindi di una pubblica carica di autorità con il significato di 'sorvegliante', 'soprintendente'. Troviamo qualcosa di simile a Qumran dove il suo equivalente ebraico, mebaqqer, fa riferimento ad una carica all'interno della comunità essenica23. Il cristianesimo 21 Cf Ad Magn. 6,1; 13,1.22 Il termine «vescovo», usato 5 volte nel NT, «fa riferimento prima di tutto a Dio, sentito come il vescovo del suo popolo. Difficile dunque poter inseguire qui tracce di un episcopato monarchico», MARCHESELLI CASALE C., Le lettere pastorali, EDB, Bologna 1995, 212.23 Cf CD, 13. Il riferimento vale per mostrare che esisteva la comune tendenza ad affidare ad una persona la responsabilità della comunità; non sembra tuttavia che il meqqaber sia all'origine della tradizione cristiana: lo dimostra la

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ha preso dall'uso profano solo il nome, trasformandolo radicalmente. I vescovi, anche in questa fase di sviluppo, sono comunque persone che rivestono autorità. Proprio per non ingenerare una confusione, qualcuno preferisce tradurre il termine greco con 'episcopo', anziché con 'vescovo'.

Più noto e più frequente è il titolo di «diacono» che richiama, in genere, l'idea di un servitore, di un collaboratore. Paolo lo usa spesso per indicare l'annunciatore del vangelo (cf 1Cor 3,5): così è chiamato Timoteo in 1Ts 3,2, o Febe, una donna della comunità di Cencre, in Rm 16,1. Nel nostro caso, l'attività più probabile dei diaconi di Filippi deve essere stata l'assistenza ai poveri e la predicazione.

È l'unico caso in cui Paolo menzioni, nell’indirizzo, altre persone che non siano i fedeli stessi della comunità. Tenendo presente che uno scopo della lettera è anche il ringraziamento per gli aiuti ricevuti24, si può spiegare la menzione dei vescovi e dei diaconi poiché sarebbero coloro che hanno provveduto alla raccolta e all'invio degli aiuti. In tale contesto, si capisce allora la loro funzione amministrativa e caritativa, ma non ancora gerarchica in senso stretto.

La lettera presenta la prima documentazione di questi uffici, forse già assegnati per designazione o per elezione. Si delinea una comunità strutturata, con i primi responsabili che sono i «servi» Paolo e Timoteo e poi con altre persone che svolgono la funzione di «vescovi» e di «diaconi» a beneficio di tutti i «santi».

L'esordio si conclude con l'augurio «grazia a voi e pace», il binomio che Paolo adotta in tutte le sue lettere, perché capace di esprimere in forma succinta, ma complessiva, quanto di meglio si può augurare ad una comunità cristiana. Che si tratti di realtà squisitamente divina che si ottiene in dono con la preghiera, lo si capisce dall'aggiunta «da Dio, Padre nostro, e dal Signore Gesù Cristo». La restaurata relazione dell'umanità con Dio (grazia) nel Cristo morto e risorto (Signore) permette la risposta di amore (pace) della comunità, abilitata anche in questa risposta dall'iniziativa divina. È un gruppo che inizia in Cristo, trova senso in lui e opera per mezzo di lui: proprio una comunità 'cristiana', come lascia ben intendere il termine «Cristo Gesù» (o «Gesù Cristo»), ripetuto tre volte per indirizzare chiaramente il lettore.

2. RINGRAZIAMENTO (vv. 3-11)Siamo in presenza del proemio, il più lungo delle lettere paoline. Qui Paolo mostra l'abilità di associare lo stile epistolare, semplice e familiare, ad alcune note di insolita profondità teologica. Secondo un'abitudine paolina collaudata, le prime parole sono un combinazione vescovi-diaconi della nostra lettera che non ha riscontro nella comunità essena, cf GNILKA, 93-94.24 Cf più avanti 4,10-20.

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ringraziamento a Dio per le meraviglie che compie nella comunità25. Il brano infatti si apre con una preghiera che assume l'andamento di un ringraziamento prima e di una domanda poi. Esso risulta infatti diviso in due parti, strutturato da un «ringrazio» al v. 3 e da un «prego» al v. 9; Dio compare all'inizio e alla fine, mentre all'interno un ripetuto richiamo a «tutti» denota che la comunità nel suo insieme è destinataria della preghiera dell'apostolo.

Paolo afferma che il ricordo per la comunità si fa cantico di ringraziamento al Signore e sorgente di gioia. Il ricordo interessa tutto l'essere e passa per il 'cuore', come si percepisce dalla composizione del verbo 'ri+cord+are'. Al centro della parola italiana sta la radice 'cord' che proviene dal latino cor-cordis e che significa appunto, cuore26. Nell'antropologia biblica il cuore significa il centro della vita interiore, spirituale; è quindi l'io profondo. Il ricordo, allora, non è più solo un fatto di memoria, ma è un far passare dal cuore, cioè da tutta la persona. La preghiera di Paolo prende spessore notevole perché investe la storia, comprende intelligenza e affettività.

La preghiera, inoltre, è fatta «con gioia». Compare per la prima volta questa piacevole nota che attraversa e lega tutta la lettera. La statistica informa che il sostantivo o il verbo vi ricorre ben 16 volte. Una bella frequenza, in un testo relativamente breve27.

La preghiera gioiosa fiorisce abbastanza spontanea quando si considera la collaborazione della comunità alla diffusione del vangelo. Il termine «cooperazione» traduce il greco koinonía () che esprime la comunione profonda dei credenti che condividono la stessa fede e lo stesso progetto di vita. Esiste un'intesa che li lega a Cristo (dimensione verticale), e nello stesso tempo li unisce tra di loro (dimensione orizzontale). Da tale relazione profonda nasce una condivisione profonda che diventa autentica collaborazione28, l'impegno della comunità a diffondere il 25 Fanno eccezione poche lettere, tra cui quella ai Galati. Il tono polemico che la caratterizza e il bisogno di entrare subito nel vivo dell'argomento possono forse spiegarne l'assenza.26 Il richiamo al cuore è evidente anche in due espressioni idiomatiche, quella francese par coeur e quella inglese by heart, che esprimono l'apprendimento 'a memoria'.27 Tanto più sorprendente è il numero elevato nella lettera, se consideriamo il totale di 50 ricorrenze in tutto l'epistolario paolino.28 L'intesa diventa così profonda da interessare anche i beni materiali, come dimostra l'aiuto offerto dalla comunità, cf 4,10ss. Abbiamo una vistosa analogia con la situazione descritta nel Libro degli Atti degli Apostoli: «Tenevano ogni cosa in comune; chi aveva proprietà e sostanze le vendeva e ne faceva parte a tutti, secondo il bisogno di ciascuno» (2,44-45). Si tratta di un'esperienza di comunione globale che, partendo da legami spirituali profondi, interessava anche la vita esteriore, compresi i beni materiali. Non sarebbe comprensibile né logica tale disponibilità, senza una previa condivisione dei beni spirituali. Sull'argomento cf BORI P.C., L'idea di

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vangelo. Annunciare il vangelo è diventato per lei quasi una necessità, visto che Dio stesso ha iniziato quest'opera e sarà ancora lui - è convincimento di Paolo - che la porterà a compimento. L'annuncio del vangelo traccia quindi le fasi storiche del passato, delinea il presente e orienta verso il futuro, rappresentato nel «giorno di Cristo Gesù»29. Con l'ultima annotazione Paolo educa a guardare avanti, verso la meta finale, che è l'incontro pieno e definitivo con il Signore. Lo sguardo al termine ultimo stimola ulteriormente le energie della comunità e motiva meglio il suo impegno.

L'attiva e responsabile partecipazione dei Filippesi alla diffusione del vangelo diventa motivo del dichiarato affetto di Paolo per la comunità. Non è facile trovare altrove, nelle lettere paoline, espressioni tanto calorose come quelle che si incontrano ai vv. 7-8: «Vi porto nel cuore... Dio mi è testimonio del profondo affetto che ho per tutti voi nell'amore di Cristo Gesù». Sono qui registrati i punti essenziali che costruiscono una sana affettività apostolica: serena libertà di dichiarare il proprio affetto agli altri, amore aperto a tutti, senza alcuna esclusione, radicamento in Cristo. Ancora una volta si constata che l'amore autentico a Cristo dilata il cuore, rendendolo capace di accogliere tutti i fratelli. Amando Cristo si bandisce ogni forma di emarginazione, si supera la visione particolaristica, si educa il cuore ad allargare i propri orizzonti in prospettiva 'cattolica', cioè, universale.

Ai sentimenti di Paolo deve corrispondere la risposta della comunità, chiamata ad essere partecipe della «grazia» (v. 7). Di quale grazia si tratta? Del vangelo di cui si è parlato al v. 5. Come Paolo è l'apostolo intrepido del vangelo, sebbene si trovi in catene, così la comunità è associata alla testimonianza generosa che non deve bloccarsi, nonostante l'arresto dell'Apostolo.

Quanto profonda e intensa sia l'unità creatasi tra la comunità e il suo padre fondatore, lo dichiara il v. 8 che chiama Dio a testimone. Usando un frasario dell'AT30, Paolo garantisce l'autenticità delle sue parole. L'amore raggiunge «tutti» e trova la sua scaturigine in Cristo31.

Il v. 9 cambia un poco il registro della preghiera. Se finora era ringraziamento, ora la supplica di Paolo prende la tonalità dell'intercessione e chiede a Dio qualcosa per la comunità. Il contenuto della richiesta si trova ai vv. 9-11; dal suo esame siamo informati su ciò che Paolo ha maggiormente a cuore per la sua comunità. Svariate sono le necessità dei Filippesi, tanto più che

comunione nell'ecclesiologia recente e del Nuovo Testamento, Paideia, Brescia 1972.29 Ancora una volta assistiamo al trasferimento di una proprietà divina: il 'giorno di JHWH' diventa il 'giorno di Cristo Gesù'.30 Cf per esempio Gn 31,34; 1Sam 20,23.42; 1Mac 2,37:31 Il testo greco usa la plastica espressione

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sono diventati cristiani da poco e sono ancora inesperti nel campo della vita cristiana. È quindi importante di individuare le priorità.

Paolo chiede prima di tutto un accrescimento della carità: «L'amore è il movente indispensabile per fare scelte durature, per maturare nella vita sotto il tocco dello Spirito di Cristo» 32. Come in 1Cor 13 la carità (o amore), intesa come virtù teologale che ha in Dio la sua sorgente e il suo modello, merita la priorità su tutti i carismi, così nel nostro caso Paolo domanda nella preghiera uno sviluppo di questa virtù, definita altrove «pieno compimento della legge» (Rm 13,10). Paolo non manca di precisare le direttrici dell'amore, per non lasciarlo un termine troppo generico. L'amore deve crescere in «conoscenza» (), che potrebbe essere l'intuizione, e in «discernimento» (), che potrebbe equivalere alla sensibilità33. I due termini trovano spiegazione nella frase che segue: «perché possiate distinguere sempre il meglio ed essere integri e irreprensibili per il giorno di Cristo, ricolmi di quei frutti di giustizia che si ottengono per mezzo di Gesù Cristo, a gloria e lode di Dio» (vv. 10-11). Con queste due caratteristiche la carità è in grado di individuare e perseguire «il meglio» (), concetto che troviamo anche nella filosofia morale ellenistica.

Abbiamo il tracciato di un impegnativo, ma pure esaltante, progetto spirituale. Occorre prima di tutto la sapienza interiore che aiuti a discernere il meglio per potere vivere con coerenza il vangelo ricevuto. In perfetta consonanza con la volontà divina si potranno produrre quei «frutti di giustizia» (v. 10) che esprimono l'impegno di una vita generosa e costruttrice di pace (cf Gc 3,18). La vita cristiana, che si caratterizza come una continua crescita, stimola a non sentirsi mai degli arrivati e a incentivare il cammino di maturazione. Tale sviluppo avviene con la mediazione di Cristo ed ha come fine la gloria e la lode di Dio. Sono queste le due direzioni complementari che orientano la vita cristiana. Con «giorno di Cristo» viene conferito al cristiano il dinamismo della speranza nella linea orizzontale dell'attesa escatologica; con «gloria e lode di Dio» il cristiano è innalzato nel senso verticale di un costante riferimento a Dio (cf 1Cor 10,31)34.

Con questa nota liturgica e dossologica, un piccolo gioiello di viva spiritualità, si conclude la preghiera d'inizio.

CONCLUSIONECon la presente pagina Paolo educa ad uno stile nuovo di preghiera, nel quale si fondono formule tradizionali ed accenti personali. Se per ogni credente pregare è «pensare a Dio 32 PERETTO, 37.33 Così per BARBAGLIO, 553.34 Cf PENNA R., Lettera ai Filippesi, in: AA.VV., Le lettere di Paolo, Marietti 1820, Genova 21996, 165-166.

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amandolo» (C. De Foucauld), per l'Apostolo la preghiera serve anche a creare un ponte di collegamento tra l'azione di Dio e la situazione della comunità. Ne viene una 'storia salvifica' che fa sbocciare un toccante ringraziamento, collocato in apertura di lettera. Ma c'è di più.

Tale prospettiva unifica la vita perché scardina la dicotomia sacro-profano: tutta l'esistenza celebra la gloria di Dio, come dimostra il concreto impegno dei Filippesi a vantaggio del vangelo. L'esistenza cristiana trova validi e vigorosi motivi per svilupparsi e per maturare. Alla comunità è richiesto fin dall'inizio un concreto impegno. E questo fiorisce prodigiosamente. Allora Paolo non teme di dichiarare apertamente, senza complessi o reticenze, il suo affetto che, attinto da Cristo, riversa con nobile passione sulla comunità. Si crea una comunione triangolare – Paolo, Cristo, comunità – che favorisce il cammino verso la meta, il giorno del Signore. E tutto a lode e gloria di Dio.

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RICORDI PERSONALI E CONFIDENZE

Testo di Filippesi 1,12-26

Con il v. 12 inizia una parte che potremmo definire di 'comunicazioni personali', perché Paolo si abbandona ai ricordi e alle confidenze. Dato il tono colloquiale della lettera, non sorprende di incontrare, qui più che altrove, squarci sulla sua vita intima35. Non per questo viene meno il vero soggetto di questi ricordi, il vangelo, per presentare il quale l'Apostolo deve fare ricorso a situazioni personali, essendo la sua vita indissolubilmente legata alla causa dell'annuncio, cioè a Cristo stesso. La presenza dei verbi «annunziare», «predicare» (vv. 14.15.18) testimonia che l'interesse verte proprio sul vangelo e sulla sua presentazione alla comunità.

Sull'asse tematica del 'vangelo' ruotano i due temi che strutturano la nostra pericope, che scomponiamo in due parti:- vv. 12-20: l'annuncio del vangelo è prioritario alla stima o disistima che il predicatore può nutrire nei confronti di Paolo: costui trarrà comunque vantaggio dall'annuncio, perché Cristo è fatto conoscere e le persone possono incontrarlo;- vv. 21-26: la possibilità di continuare e di perfezionare nella comunità il servizio apostolico dell'annuncio rimane il criterio ultimo della decisione di Paolo.

1. IL PRIMATO DEL VANGELO (vv. 12-20)Dal brano affiora con sorprendente lucidità l'intento apostolico di Paolo, il cui principale ed esclusivo interesse si identifica con il vangelo, con il suo annuncio e il suo radicamento nella comunità. Egli sa che il vangelo è, in ultima analisi, la persona stessa di Cristo che entra nella vita degli uomini, rivoluzionandola e immettendola sui binari della santità. Partendo da questa premessa si può comprendere meglio il senso delle parole.

Il momento non doveva risultare favorevole a Paolo, a causa della presenza di alcuni predicatori che approfittavano del loro ministero per denigrare l'Apostolo. Costui, proprio perché in carcere, appariva in situazione di inferiorità e addirittura perdente, se giudicato con parametri umani. Proprio per evitare una falsa impostazione del problema, Paolo inizia ricordando: «le mie vicende si sono volte piuttosto a vantaggio del vangelo» (v. 12). Egli dà una lettura totalmente diversa degli avvenimenti, ribaltando la sua posizione di perdente in quella di vincente. Cita

35 «Common as a word like this is for Greco-Roman letters, however, this passage is striking for its uniqueness in the Pauline corpus», FEE, 106. Si noti anche solo l'ampio uso del pronome di prima persona singolare.

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come testimoni il mondo pagano («il pretorio»36) e il mondo circostante, sia esso giudeo o giudeo cristiano («ovunque si sa»). In pratica, tutti sanno che Paolo si trova «in catene per Cristo». Le catene indicano uno stato di detenzione e hanno tutto il sapore dell'infamia, ma la causa («per Cristo») trasforma sostanzialmente il dato di partenza da negativo in positivo.

Poiché legato a Cristo, centro ideale del discorso, Paolo può affermare di trovarsi in situazione privilegiata, di essere portatore di una «grazia», come già aveva definito la sua posizione al v. 7. Ricordando esplicitamente di essere prigioniero a causa di Cristo, egli libera il campo da equivoci che potrebbero gettare ombra di discredito sull'integrità morale della sua persona e del suo operato. Egli non è quindi passibile di qualche reato umano, bensì 'colpevole' solo di essere cristiano. Che poi non si tratti di una colpa, lo dimostra il fatto che la cosa diventa produttrice di un bene, quello di conferire ardore e rinnovato coraggio alla comunità. Qualcuno, infatti, ha tratto dalla prigionia di Paolo slancio per un rinnovato impegno apostolico, quello di «annunciare la parola (di Dio)»37. Di questo Paolo gioisce perché vede la possibilità che Cristo sia conosciuto da un più elevato numero di persone, quelle appunto raggiunte dalla predicazione di cristiani maggiormente infervorati. Paolo si dimostra grande, perché sa leggere il bene che scaturisce anche dal male, qual è appunto la sua ingiusta condanna. Egli non accusa nessuno, né recrimina qualcosa: dimostra invece la lucidità spirituale di vedere oltre le pareti dell'umano.

Con sano realismo Paolo ricorda che la sua vicenda si presta anche ad un'altra lettura. Un secondo gruppo, con tutta probabilità numericamente ridotto, approfitta dello stato carcerario dell'Apostolo per muovergli contro una propaganda denigratoria. Degli avversari si parla più diffusamente che degli amici. I rivali di Paolo, si presuppone, sono coloro che, ancora legati e perfino dipendenti dal giudaismo, non erano stati capaci di un taglio netto con il mondo di un tempo. Pur aderendo a Cristo con il battesimo, avevano mantenuto il cordone ombelicale con il giudaismo dal quale temevano a staccarsi. Ciò che complicava la situazione, era il loro modo di pensare e di agire, che veniva trasfuso ai nuovi convertiti. Non siamo in grado di dare un volto o una precisazione storica a queste persone. Possiamo ritenere che si tratti di cristiani con il compito di annunciatori del vangelo 38; la loro dissonanza non è dottrinale, perché in questo caso 36 Il termine può indicare tanto la guardia che aveva in custodia l'Apostolo, quanto la residenza di un funzionario imperiale, sia a Roma, sia in altre parti dell'impero. Forse è meglio intendere il secondo significato: si tratterebbe, allora, di coloro che abitavano nell'edificio dove momentaneamente era custodito Paolo, cf ERNST, 62-63.37 Secondo la critica testuale, rimane molto incerto se adottare la lezione più breve (riportato da P46). oppure quella più lunga di autorevoli manoscritti (S,A,B,...).

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l'intervento dell'apostolo avrebbe un altro tenore39. È gente in contrasto con Paolo per divergenze personali e non di contenuto, come attestato dalla sfilata di termini impiegati per definirla: gente che predica «per invidia e spirito di contesa... con spirito di rivalità, con intenzioni non pure» (vv. 15.17). Può darsi che la forte personalità di Paolo abbia messo in ombra alcune persone, interessate più a costruire il loro prestigio personale che a servire con abnegazione la causa del vangelo. In risposta alla loro posizione di svantaggio, adottano la vile tattica di attaccare e di infirmare la persona di Paolo, approfittando della sua incarcerazione.

La reazione di Paolo è nobile e magnanima, squisitamente pastorale. Egli non ne fa una questione personale, né adduce motivi per discolparsi o per giustificare il proprio operato. Egli vede il vantaggio teologico che deriva dalla predicazione dei suoi avversari i quali, in fondo, predicano Cristo, sia pure con alcune venature di giudaismo. Cristo annunciato è premessa e condizione perché sia conosciuto; una volta conosciuto e accettato, diventa causa di salvezza. Questo è l'implicito ragionamento che soggiace all'approvazione di Paolo per la loro predicazione. In fondo, è l'annuncio cristiano a trarne vantaggio e questo a Paolo basta, dimentico della sua situazione personale o del suo 'onore'. Leggiamo in questo atteggiamento una nobiltà di sentimenti e una grandezza d'animo che eleva Paolo al di sopra di tutti i meschini pettegolezzi della gente comune. Quando si è animati da grandi ideali, quando si lavora con rettitudine, si ha la forza morale di volare alto, sorvolando il mondo paludoso delle miopie personali, dei meschini arrivismi e dei giochi di potere.

La grandezza morale di Paolo è condensata nella frase «Ma questo che importa? Purché in ogni maniera, per ipocrisia o per sincerità, Cristo venga annunziato, io me ne rallegro e continuerò a rallegrarmene» (v. 18). Sono parole che fanno spavento perché racchiudono una forza straordinaria, perché fanno balenare lo sfavillio di un mondo diverso. Sono insegnamenti di una miracolosa bellezza. Qui l'interesse per se stesso scompare, lasciando spazio solo a un fertile annullamento, alieno da effervescenti protagonismi. Protagonista infatti è uno solo: Cristo redentore, l'unica realtà che veramente conta e che deve trionfare. Essere pronti a rinnegarsi fino a scomparire, per

38 Le interpretazioni variano molto: giudaizzanti, membri di un movimento gnostico di matrice giudaica, predicatori carismatici cristiani di estrazione giudeo-ellenistica, gruppi diversi di oppositori: «In definitiva sembra probabile che a Filippi vi fosse un unico gruppo di oppositori, i quali, qualunque fosse la loro estrazione, predicavano un cristianesimo ancora legato al giudaismo, con una forte caratterizzazione in senso carismatico ed entusiasta», SACCHI P., Alla Chiesa di Filippi, cit., 145.39 Si confronti il tono duro e perfino virulento di Gal 1,6-9.

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lasciare il cammino aperto al vangelo, è segno di eccezionale grandezza morale40 e di integrazione totale con la causa di Cristo.

Un tale disinteresse causa la gioia che, comparsa già al v. 3, incomincia a delinearsi con tratti più precisi. La gioia differisce da quella intesa comunemente e spesso identificata con il gaudio spensierato e, forse, anche irresponsabile. No, quella di Paolo affonda le sue radici nel legame con Cristo e coinvolge tutta la vita. Nella proclamazione del messaggio salvifico di Cristo sta il segreto della possente gioia paolina, possibile ad ogni cristiano. Paolo gioisce perché vede che tutto si ricollega con la salvezza, destino ultimo e definitivo del suo impegno, e dice: «So infatti che tutto questo servirà alla mia salvezza» (v. 19a), citando una frase di Giobbe41. La sua comunione con Cristo lo lega intimamente alla comunità della quale sente il prezioso apporto fatto di preghiera.

La sua è una certezza, sostanziata nella biblica espressione di 'non restare confuso' (cf v. 20a): la confusione definisce la condizione di colui che ha posto la sua fiducia su una realtà che, alla verifica del bisogno, si è rivelata inconsistente e fallace, una vera e propria trappola; questo augura il salmista ai suoi nemici: «Arrossiscano e tremino i miei nemici, confusi, indietreggino all'istante» (Sal 6,11; cf 25,3; 69,7). Coloro che non riponevano in Dio il loro appoggio e la loro fiducia, certi delle loro risorse umane, saranno in stato di confusione che si manifesta all'esterno con la vergogna e con il rossore del volto. L'augurio negativo del salmista viene da una consolidata esperienza che così finiscono coloro che sono lontani da Dio. Al contrario, colui che ha in Dio la sua forza e la sua fiducia non teme di patire confusione.

In altre parole, si tratta di una bella professione di fede, come indica la seconda metà del versetto che riprende il concetto, ribaltandolo al positivo: «Anzi, nella piena fiducia che, come sempre, anche ora Cristo sarà glorificato nel mio corpo, sia che io viva sia che io muoia» (v. 20b). Ancora una volta, chi deve conseguire e mantenere il primato è Cristo e solo lui; la vicenda di Paolo rimane del tutto secondaria e dipendente dalla supremazia di lui. L'idea della morte conclude il pensiero in corso e prepara quello successivo, che mette più direttamente in relazione il rapporto Cristo-Paolo con la comunità.

40 GREGORIO MAGNO, Commento sul libro di Giobbe, 3, 40, PL 75, 620, così parla di Paolo: «Sdegna in sé le ferite del corpo, e cura negli altri le ferite del cuore. I grandi infatti hanno questo di particolare che, trovandosi nel dolore della propria tribolazione, non cessano di occuparsi dell'utilità altrui; e, mentre soffrono in se stessi sopportando le proprie tribolazioni, provvedono agli altri, consigliando loro quanto abbisogna. Sono come dei medici eroici, colpiti da malattia: sopportano le ferite del proprio male e provvedono gli altri di cure e di medicine per la guarigione».41 Cf Gb 13,16 secondo la traduzione greca dei LXX.

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2. IL VANGELO COME CRITERIO DI DISCERNIMENTO (vv. 21-26)Il testo precedente aveva riscaldato teologicamente l'animo, mostrando un uomo totalmente al servizio della causa cui il Signore lo aveva chiamato. Ora è pronto il campo per un'impennata teologica, affidata ad una di quelle frasi che marcano la storia della mistica cristiana.

La ragione di tanta serenità spirituale è condensata nella breve formula: «Per me vivere è il Cristo e il morire un guadagno» (v. 21). Siamo in presenza di una poderosa sintesi della spiritualità paolina, come ha bene inteso l'artista che l'ha voluta scolpire sul frontone della confessione di Paolo nella sua basilica a Roma. La sua parola prende la temperatura del fuoco: è il fuoco in cui egli arde, il fuoco divino che lo trasforma e gli partecipa la propria natura. Cristo è per lui un ideale punto geometrico e un reale punto nel quale convergono e dal quale si irraggiano vita e morte. La frase fa unità di tutto ciò che leggiamo e ne dà la spiegazione ultima. Sembra che Paolo non possieda una gloria personale, una felicità propria, e neppure una vita che gli appartenga: la sua vita è Cristo, e in lui sono immedesimati gioia, gloria, desiderio: tutto l'essere42. La stessa morte cessa di essere il temuto fantasma, perché mette in condizione di incontrare e di possedere definitivamente Cristo; essa diviene 'una bella morte'.

«Per me infatti il vivere è Cristo e il morire un guadagno» è una frase che si scolpisce a fuoco nel cuore del lettore e del credente. Dall'analisi delle parole, si capisce che «vivere» è il soggetto, e «Cristo» il predicato: l'accento è posto sul predicato e si vuol dire che Cristo è già la vita, anche se ancora in modo imperfetto; morire è un «guadagno»43, nel senso che permette di entrare nella pienezza della sua vita. La realtà umana è vista da Paolo permeata da Cristo, al punto che non costituisce più un'entità autonoma, un valore che abbia in sé significato compiuto. La morte, normalmente la massima disgrazia, perde il tono negativo dei pensatori antichi44, perché è inserita nella visione cristiana del necessario passaggio per arrivare al possesso pieno e definitivo, che è comunione con Cristo.

Il seguito del pensiero completa il quadro e aiuta a capire rettamente: lungi dal disprezzare la sua condizione di uomo mortale, Paolo asserisce vigorosamente la sua voglia di vivere la pienezza dell'esistenza, possibile, però, solo in Cristo. È in riferimento a Lui che l'Apostolo distingue tra il vivere nel corpo e

42 «Paul asserts that living () has no meaning apart from Christ; he is the object, motive, inspiration, and goal of all that the apostle does (cf. Gal 2:20)», O'BRIEN, 120.43 Il verbo e il sostantivo sono assenti nei LXX; il sostantivo, compare solo tre volte nel NT e sempre negli scritti paolini: oltre al nostro testo, ancora in Fil 3,7 e poi in Tt 1,11.44 Cf PLATONE, Apol. 40; GIUSEPPE FLAVIO, Ant. XV,5,5 § 158.

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il morire. L'idea della morte viene espressa al v. 23 con il verbo greco analysai () che sottende l'idea dello sciogliere gli ormeggi o del levare le tende45, un elegante eufemismo che toglie alla morte il carattere tetro che di solito l'accompagna. Lasciato al suo desiderio, Paolo sceglierebbe la morte, intesa come anticamera della vera vita, viaggio che approda alla pienezza di comunione.

Non occorre però che scelga perché per lui, servo di Cristo, la decisione è già stata presa. Al di sopra del suo desiderio personale sta il servizio al vangelo, modo sacramentale con cui si espleta il suo amore a Cristo e alla comunità. Sia nella prima ipotesi, sia nella seconda, quello che decide è l'amore: «d'altra parte, è più necessario per voi che io rimanga nella carne» (v. 24). Vivere e morire assumono ai suoi occhi un nuovo senso 46, non essendo, né un cocciuto attaccamento alla vita, né uno sprofondare nel nulla. Vivere e morire sono relazionati a Cristo, nome che ricorre nove volte in questo brano, a confermare, anche letterariamente il primato di Cristo.

La convinzione di Paolo circa la sua futura sorte si radica nella fede, e non in una presunta chiaroveggenza, né, tanto meno, in una baldanzosa scommessa. Egli ignora il futuro, enigmatico per ogni uomo, anche se la luce della fede lo autorizza ad avanzare previsioni. Il servizio alla comunità postula una sua presenza, finalizzata a far progredire la fede. Si noti la particolarità che la fede è inserita nel contesto della gioia: «per il progresso e la gioia della vostra fede» (v. 25). È bella questa caratteristica della gioia che si coniuga con la fede! Dovrebbe tenerne conto di più la nostra pastorale, che forse troppe volte si dimentica di richiamare la necessità di una presentazione gioiosa della fede.

La nuova presenza di Paolo, una volta liberato dal carcere e ritornato tra i suoi, procurerà alla comunità un motivo di vanto in Cristo, l'unico vanto ammesso47.

45 L'espressione non contiene l'idea della separazione dell'anima dal corpo, come sembra suggerire la traduzione italiana ufficiale (CEI), ma l'abbandono di questa terra che avrà luogo alla fine della vita individuale, cf PENNA R., Vivere con Cristo dopo la morte (2 Cor 5,1-10; Fil 1,23) PSV 8 (1983) 133-145.46 «Egli trova la soluzione del problema nel compito che gli è assegnato», GNILKA, 150.47 Esiste un vero e un falso gloriarsi; il riconoscimento dell'opera di Dio, anche per mezzo dell'Apostolo, produce un salutare vanto nella comunità, convinta che la propria fede progredirà, cf BULTMANN R., , GLNT, V, 289-311.

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ESORTAZIONI ALLA COMUNITÀ

Testo di Filippesi 1,27-2,18

La parte di lettera che ora inizia porta un marcato carattere esortativo, intonato dall'imperativo «comportatevi». La comunità ha continuo bisogno del richiamo di Paolo per trovare la giusta strada che la porta ad essere autentica comunità cristiana; una volta trovata la strada, occorre rimanervi, anche se forze contrarie o avverse tentano di allontanare.

All'interno della sezione troviamo diversi segmenti esortativi, disposti attorno al cuore teologico, costituito dall'inno cristologico. Ne viene lo schema seguente:- Esortazione a lottare per la fede: 1,27-30.- Esortazione a mantenere l'unità nell'umiltà: 2,1-5.- Inno cristologico: 2,6-11.- Esortazione a lavorare per la salvezza: 2,12-18.

1. ESORTAZIONE A LOTTARE PER LA FEDE (1,27-30)Con uno scattante vocabolario atletico-militare48, Paolo esorta a lottare per il vangelo e offre le motivazioni.

Indipendentemente dalla presenza o meno dell'Apostolo, i Filippesi devono comportarsi da «cittadini degni del vangelo». Il verbo greco politeyo () indica la dignità di appartenenza a una polis (), nella quale il cittadino esercitava diritti e doveri. Per i cristiani, la costituzione di questa cittadinanza ideale è il vangelo che ora garantisce la nuova identità, specifica la nuova appartenenza, orienta verso una nuova cittadinanza. L'ideale è alto e Paolo non nasconde le difficoltà e i pericoli che minacciano i neoconvertiti di Filippi. Senza allarmismi, ma pure senza facili illusioni, egli li educa ad assumere le proprie responsabilità, per rispondere, in forma operativa, al dono di cui sono portatori. Se ora possiedono un nuovo statuto di cittadini, devono pur farlo vedere in qualche modo. Uno di questi è la capacità di lottare mantenendo la compattezza. Quella che è una elementare regola di uno schieramento militare, deve essere assunta come principio irrinunciabile dei cristiani.

Perciò il discorso si fissa sulla comunità, i cui doveri si concretizzano nell'impegno all'unità e nella lotta: l'unità fa parte dell'essenza della chiesa (cf At 4,32; 1Cor 12,4); il coraggio, che si manifesta nella lotta, si vede nella difesa del vangelo, un bene

48 Troviamo i termini ('stare saldi'), ('combattere insieme'), ('lotta'), ('avversari'). Oltre alla dimestichezza di Paolo con la terminologia militare (cf Ef 6,13-17), non si dimentichi la professione di soldato svolta da molti Filippesi.

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per il quale si deve essere disposti a tutto. Per mantenere tale unità occorre combattere unanimi, affrontando gli avversari che, come li descrive il v. 28, si presentano minacciosi: hanno, infatti, la capacità di intimidire. Nel presente caso, a differenza di 1,15-17, i nemici sono da intendere persone al di fuori della comunità cristiana, probabilmente concittadini pagani49. Lo schieramento è impari, a deciso vantaggio di coloro che stanno con il vangelo, perché ad essi è garantita la salvezza divina; gli altri, invece, hanno come prospettiva solo la perdizione.

Paolo non si limita ad appelli di mobilitazione spirituale, mira a creare nei destinatari anche una lucida coscienza cristiana pronta ad affrontare le difficoltà. Perciò prospetta la situazione con sano realismo, tingendolo però di positiva certezza: si deve soffrire, ma questa sofferenza è chiamata «grazia» (v. 29), cioè 'dono'. Il patire, si continua a ripetere nel NT, fa parte della vita del cristiano (cf At 5,41). Paolo parla per diretta esperienza, perché proprio a Filippi ebbe modo di sperimentare una ingiusta persecuzione e anche il carcere. Di ciò abbiamo testimonianza negli Atti degli Apostoli (cf At 16,16-40) e nel diretto ricordo dell'Apostolo, quando scrisse la sua prima lettera, quella alla comunità di Tessalonica: «Dopo aver prima sofferto e subito oltraggi a Filippi, come ben sapete, abbiamo avuto il coraggio nel nostro Dio di annunziarvi il vangelo di Dio in mezzo a molte lotte» (1Ts 2,2). La mobilitazione della comunità ad affrontare anche un duro impegno è accompagnata dal vivo esempio di Paolo stesso, così come si presenta al v. 30. Egli non intende gloriarsi, ma solo mostrare che l'ideale proposto è possibile, perché da lui stesso concretizzato. Egli parla per diretta esperienza. Solo seguendo questa linea si potrà essere cittadini degni del vangelo.

Prima di Paolo, il riferimento deve essere al modello per eccellenza, Gesù Cristo, al quale la comunità è intimamente legata. La frase del v. 29 appartiene alla sublime storia della mistica cristiana: «A voi è stata concessa la grazia non solo di credere in Cristo, ma anche di soffrire per lui». Il legame a Cristo si verifica nella fede e nella sofferenza. Le due cose sono intimamente connesse: non si dà la seconda, se manca la prima. Paolo parla di «grazia» cioè di 'dono' del patire, ribaltando l'opinione comune e l'esperienza universale che vedono nella sofferenza solo una negatività. Eppure, a certe condizioni e legati a Cristo, è possibile una valutazione diversa: «Solo nella fede, che è grazia, si può apprezzare il patimento come dono»50. Al di fuori di tale contesto, ogni forma di dolore, sia pure minimo, rimane un non senso che suscita istintivamente una reazione di rifiuto.

Tutto ciò che accade risponde ad un progetto divino, e nulla deve essere scambiato per fatalità o per disgrazia. Alla luce di questo principio, Paolo ripropone una verità che affonda le sue 49 «Si tratta senz'altro di nemici esterni», BARBAGLIO, 562.50 GNILKA, 186.

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radici nella remota tradizione biblica. Forse davanti ai suoi occhi scorre l'ideale del martire, già delineato dall'AT. Pensiamo, ad esempio, alla rivolta maccabaica e ai princìpi che fiorirono in quel tempo, quando lottare era espressione della propria fede: «La voce di Mattatia tuonò nella città: 'Chiunque ha zelo per la legge e vuole difendere l'alleanza mi segua!'» (1Mac 2,27). Dopo quel grido, insieme religioso e patriottico, viene dato inizio alla resistenza attiva.

La combinazione fede-lotta, con l'inevitabile dose di sofferenza, viene ripresa dal NT e condensata nella frase di Gesù: «Chi vorrà salvare la propria vita, la perderà; ma chi perderà la propria vita a causa mia e del vangelo, la salverà» (Mc 8,35). Con queste battute la figura del martire è già tratteggiata. Il primo martire a cui fare riferimento è lo stesso Cristo; chi vorrà seguirlo, non potrà illudersi di ottenere sconti su questo punto: «La fede ottiene nella sofferenza una struttura concreta, e la sofferenza raggiunge nella fede una nuova interpretazione. Essa non è semplicemente destino o perdizione, ma il segno dell'esistenza cristiana. Perciò non ci si può meravigliare se si è colpiti dalla sofferenza, perché essa significa comprova per la fede, essa è 'soffrire per lui'»51. In questa prospettiva, la sofferenza diventa un particolare modo di restare in contatto con la passione di Cristo: «Soffrire significa diventare particolarmente suscettibili, particolarmente sensibili all'opera delle forze salvifiche di Dio offerte all'umanità in Cristo»52.

La sofferenza resta per l'uomo un problema, ma un problema che dopo Cristo trova in se stesso la soluzione. La vita di molti cristiani e di tutti coloro che sono stati proclamati santi 53

conferma che essa è diventata 'grazia', come ricorda Paolo.

2. ESORTAZIONE A CONSERVARE L'UNITÀ NELL'UMILTÀ (2,1-5)51 ERNST, 84.52 Giovanni Paolo II, Salvifici Doloris, n. 23 (Lettera apostolica dell'11.02.1984).53 Non esiste biografia di beato o di santo che non riporti ampia documentazione sulle prove fisiche e spirituali, sopportate per amore di Cristo. Più note sono quelle di persone molto conosciute, come Padre Pio o il santo curato d'Ars. Richiamiamo, a titolo esemplificativo, alcune sofferenze fisiche ricercate e sopportate con spirito ascetico da santa Benedetta Cambiagio Frassinello, fondatrice delle Suore Benedettine della Provvidenza: «Come già a Pavia, Benedetta trascorre frequentemente tutta la notte in preghiera, inginocchiata sul pavimento. Oppure dorme in terra. Del valore della penitenza corporale ella è convinta sin dalla giovinezza e continua a far penitenza diuturnamente. Il digiuno è ricorrente […]. Dal confessore, don Semino, si fa rinnovare il permesso di portare, almeno in alcuni giorni della settimana, il cilicio […]. Sovente, nelle più rigide giornate d'inverno, si reca alla chiesa parrocchiale di prima mattina, quand'è ancora buio e nessuno può notarla, scalza sulla neve», VENTURINI G., Una moglie-suora a servizio della società, San Paolo, Cinisello Balsamo 2001, 96.

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Sempre continuando la parte esortativa, questi versetti celebrano il valore dell'unità ecclesiale. L'inizio, particolarmente solenne, ha una movenza ritmica e prepara il celebre inno che seguirà.

Se esternamente la comunità deve presentarsi come un fronte compatto capace di resistere agli assalti, all'interno essa deve godere di una profonda concordia. Il pensiero di partenza (cf v. 1) è affidato a 4 esemplificazioni di uguale costruzione, senza verbo, quasi a volere impressionare di più. La traduzione «Se c'è pertanto qualche consolazione in Cristo...» potrebbe essere resa così: «Com'è vero che sperimentate la consolazione in Cristo...». «Consolazione» e «conforto», traducendo rispettivamente paráklesis () e paramythion (), fanno parte del vocabolario pastorale di Paolo (cf 1Ts 2,11-12; 5,14): il primo termine indica l'appello accorato e insistente nella preghiera, il secondo oscilla tra 'consiglio' e 'incoraggiamento', 'conforto'. Segue poi la koinonía () che, grazie alla specificazione «dello spirito», esprime chiaramente la sua origine interiore e profonda, essendo la comunione intima che si instaura tra persone che condividono lo stesso ideale. Perciò, la vera unità tra le persone della stessa comunità non deriva dalla perfetta organizzazione, ma dall'impegno di ciascuno a configurare la propria vita a Cristo. I termini che seguono valgono come conseguenza e coronamento del lavoro precedente, perché presentano una comunità sorretta dall'amore. L'idea di affetto profondo è affidata ai due termini, splanghna () e oiktirmói ().

La tensione accumulata con la lunga lista di termini che crea una certa suspense nel lettore, viene scaricata nell'imperativo del v. 2: «Rendete piena la mia gioia con l'unione dei vostri spiriti, con la stessa carità, con i medesimi sentimenti». Paolo chiede di rendere piena54 la sua gioia. Questa, già attiva per il serio impegno dei Filippesi, abbisogna di un completamento o perfezionamento. Sussiste sempre la possibilità di creare una sempre più perfetta intesa nella carità. Paolo invoca quel 'comune sentire', in greco reso con il verbo fronein (), che, usato con insistenza, rimane un po' sbiadito nella traduzione55. Avere gli stessi sentimenti non è omologare le persone sulla stessa misura, ma chiedere ad esse una condivisione profonda.

Stando alla formulazione del testo, non possiamo dedurre che la comunità avesse su questo punto smagliature tali da richiedere l'intervento dell'Apostolo. Sappiamo che egli sa intervenire, e anche duramente, quando si presentano situazioni

54 Nel verbo pleróo () è inclusa l'idea di un compimento, di una soddisfazione piena. È il verbo usato da Gesù per indicare il suo rapporto nei confronti della legge (cf Mt 5,17). Cf DELLING G., , GLNT, X, 641-674.55 Il testo greco lo colloca là dove la traduzione CEI rende «con l'unione dei vostri spiriti» () e «con i medesimi sentimenti» ().

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di disordine e di lacerazione. La prima lettera ai Corinzi lo documenta con chiarezza. Non si può comunque escludere che Paolo intenda correggere qualche intemperanza56. In ogni caso, anche se non esiste nulla di particolarmente grave, né di allarmante, prevenire è sempre meglio che reprimere. Viene invocato quel 'sentire' che unisce e affratella. Certamente la perfezione non è mai raggiunta e quindi, indipendentemente da riferimenti a situazioni reali, il richiamo risulta sempre pertinente.

In caso contrario, la mancanza di amore si manifesta come spirito di parte e autoaffermazione, indicati come «rivalità» () e «vanagloria» (57). La prima esprime una presunzione che porta a urtarsi con gli altri; la seconda un'eccessiva stima di sé a tal punto da falsare la realtà. È, in fondo, la ricerca smodata di se stessi, a danno degli altri. Ne viene una lacerazione all'unità. A fronte delle possibili o effettive forze che lacerano il tessuto comunitario, Paolo indica come efficace terapia l'umiltà, di cui viene data una traccia per un autentico cammino ascetico: «Ciascuno di voi, con tutta umiltà, consideri gli altri superiori a se stesso, senza cercare il proprio interesse, ma anche quello degli altri» (vv. 3b-4). Invertendo la logica istintiva, al primo posto va collocata, sia la stima per gli altri, sia la ricerca del loro bene.

Perciò Paolo si appella all'umiltà. La parola godeva di totale disistima nel mondo greco, essendo quasi sinonimo di servilismo, abiezione, incapacità, adulazione; l'uomo libero cercava di tenersene lontano il più possibile. Ma il cristiano è educato ad un'altra dimensione. L'umiltà non suscita in lui l'immagine del 'cane bastonato', ma una realtà che ha in Dio il suo modello esemplare. Il raro vocabolo tapeinofrosyne ( = 'sentire in modo umile'), usato per lo più negli scritti paolini58, scioglie l'ambiguità contenuta nel termine abituale tapéinosis (). Mentre quest'ultimo può indicare anche un'umiltà oggettiva59, il termine paolino pone l'accento sull'umiltà interiore, o del cuore, cioè quella che cataloghiamo come virtù.

Se è virtù, deve avere la sua radice in Dio, e in lui anche il modello perfetto. Come può Dio essere umile? Per rispondere dobbiamo prima chiarire il concetto di umiltà. Essa è la delicata attenzione prestata all'esistenza altrui. Ora Dio è colui che, in Cristo, presta tanta attenzione all'uomo, da essere disposto a dare tutto, anche la vita del Figlio. Umiltà diventa così una virtù divina, prima di essere umana. Per questo Gesù può dire:

56 «Non sono presi di mira insegnamenti aberranti, ma lievi incrinature, delle quali il comportamento di Evodia e Sintiche (4,2) è un sintomo», PERETTO, 45.57 Hapax del NT. Presente in Sap 14,14.58 Ricorre 7 volte nel NT e 5 volte nelle lettere di Paolo (Fil 2,3; Ef 4,2; Col 2,18.23; 3,12); altrove, in At 20,19 e 1Pt 5,5. 59 L’aggettivo e sostantivo italiano ‘tapino’, chiaramente derivato dal greco, equivale a ‘misero’, ‘infelice’.

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«Imparate da me che sono mite e umile di cuore» (Mt 11,29). Rimane pur vero il senso classico che l'Imitazione di Cristo ha codificato: «Non credere di aver fatto alcun progresso se non ti ritieni inferiore a tutti»60. Ma in termini più profondi e radicali essa è «decentramento da se stessi che permette di apprezzare sinceramente gli altri»61. Ne deriva la nuova etica: convertire l'egoismo in altruismo, uscire dal privato e prestare attenzione alle esigenze altrui. Questo nuovo sentire ha il suo criterio in Cristo Gesù.

Umiltà è riconoscere i doni ricevuti, e poiché Dio è magnanimo con tutti, è saper apprezzare i doni che ognuno porta in sé: «Non valutatevi più di quanto è conveniente, ma valutatevi in maniera di avere di voi un giusto concetto, ciascuno secondo la misura di fede che Dio gli ha dato. Perché, come in un solo corpo abbiamo molte membra e queste membra non hanno tutte le medesime funzioni, così anche noi, pur essendo molti, siamo un solo corpo in Cristo e ciascuno per la sua parte siamo membra gli uni degli altri. Abbiamo pertanto doni diversi secondo la grazia data a ciascuno di noi» (Rm 12,3-6). Umiltà è riconoscere e compiacersi di questi doni che Dio, nella sua Provvidenza, ha elargito a tutti. L'umile è pronto a compiere con gioia ogni servizio, anche il più modesto, ma non per questo evita i compiti impegnativi. Chi ha imparato a servire veramente, quando è chiamato a comandare, non sarà spinto dall'orgoglio o dall'interesse, ma dall'amore. L'umile è pronto a tornare ultimo, se un altro è chiamato a servire come primo, perché ha di mira il bene altrui e non il proprio tornaconto.

Il v. 5 funge da cerniera tra il discorso avviato e l'inno cristologico che segue62. Alla comunità viene chiesto e raccomandato: «Abbiate in voi gli stessi sentimenti che furono in Cristo Gesù» (v. 5). Il testo greco, touto fronéite en hymin (), colloca in modo enfatico il verbo, già comparso due volte al v. 2, per indicare i corretti atteggiamenti della comunità. Essa, a questo punto, ha la singolare opportunità 60 Libro II, 2. L'Imitazione di Cristo (De imitatione Christi) è un'opera ascetica medievale che si compone di quattro libri o trattati. Essa è una tipica opera monastica, scritta da un monaco per monaci (cf I,17-20.25). Ancora oggi rimane molto discussa la paternità dello scritto, attribuito a diversi autori, ma esso, con tutta probabilità, fu pubblicato anonimo. Tre sono i punti cardini della sua spiritualità: mortificazione, pratica delle virtù cristiane, unione costante con Gesù Cristo. Fu per molto tempo il testo più letto e meditato, dopo il Vangelo: ne fa fede, tra l'altro, l'elevato numero di manoscritti rimasti (circa 400).61 FABRIS (1983), 62.62 «Da una parte riprende il contenuto essenziale delle esortazioni di Fil 1,27-30: state saldi in un solo spirito per la fede del Vangelo, e di Fil 2,1-4: concordi nell'unità dell'amore e dei sentimenti; dall'altra, fa avanzare le due esortazioni dando ad esse il fondamento dell'esempio di Cristo», BUSCEMI A.M., Una sinfonia. Gli inni di Paolo a Cristo Signore, Franciscan Printing Press, Jerusalem 2000, 18.

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di entrare, mediante la meditazione dell'inno cristologico, nel mondo interiore che ha guidato le scelte e la vita di Gesù. I cristiani possono trarre, dalla contemplazione del modello Gesù, sicura ispirazione per la loro vita di comunione e di comunità. Nello stesso tempo, Gesù è il principio ispiratore della loro nuova vita, cosicché il modello diventa il prototipo che permette, a coloro che sono inseriti in lui, di comportarsi in modo analogo63.

Siamo ai vertici dell'autentica 'imitazione di Cristo'.

3. INNO CRISTOLOGICO (2,6-11)Con il testo presente arriviamo al cuore teologico della lettera. Il brano si presenta ben inserito nel contesto, giungendo come chiarimento di 2,1-5: dopo aver esortato la comunità all'unità e alla forma più disinteressata di altruismo, Paolo presenta Gesù, causa e modello della comunità. Dato lo spessore teologico dell'inno, sorge spontaneo l'interrogativo circa la sua origine, la sua struttura, il suo contenuto. Si entra nel vivo di una complessa problematica letteraria. Sarà questo il nostro primo approccio, dopo un breve cenno alla storia dell'esegesi, per passare in seguito a considerarne il contenuto.

3.1. Cenni alla storia dell'esegesiViene proposto un testo di grande fascino, ritenuto una delle più vigorose espressioni dell'imitazione di Cristo che ha reso la morale cristiana una realtà ben diversa da un astratto codice di comportamento. Il presente testo ha stimolato lo studio e pure la fantasia degli esegeti, facendo lievitare sensibilmente la quantità di materiale prodotto64. Ci limitiamo ad accennare alle principali problematiche.

Non è pacifico che l'inno sia opera di Paolo. Predomina la tesi che nega la sua paternità. Impresa rischiosa è quella che tenta di ritrovare il punto di partenza o l'origine dell'inno, prima del suo utilizzo nella lettera paolina. Diamo un sommario quadro, 63 Il senso viene dal duplice significato che si dà all'espressione «in Cristo Gesù»: o metro morale di azione, o principio attivo della nuova esistenza; nel secondo caso, seguendo la preferenza di BARBAGLIO, 560, la traduzione più pertinente sarebbe: «Comportatevi tra voi come si addice a quelli che sono in Gesù Cristo». Le due interpretazioni, lungi dal presentarsi antitetiche, possono benissimo essere complementari.64 FEUILLET A., Christologie paulinienne et tradition biblique, Desclée de Brouwer, Paris 1973, 83 cita una frase di C. Guignebert: «Il demeure la crux interpretum du Nouveau Testament, et la seule histoire de son eségèse suffit à remplir un livre considérable». Tra la bibliografia più nota, ricordiamo: DUPONT J., Jésus Christ dans son abaissement et son exaltation d’après Phil. II,6-11, RSR 37 (1950) 500-514; FEUILLET A., L’Hymne christologique de l’épître aux Philippiens (II,6-11), RB 72 (1965) 352-380. 481-507; HOOVER R.W., The Harpagmos Enigma. A Philological Solution, HTR 64 (1971) 95-119; MARCHESELLI CASALE C., Cristo Gesù Signore, Servo di Iahvé o giusto abbassato-esaltato?, Asprenas 25 (1978) 361-379; MURPHY O’CONNOR J., Christological Anthropoly in Phil II,6-11, RB 83 (1976) 25-50.

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quasi fosse un necessario tributo alla storia dell'esegesi, e poi proponiamo alcuni criteri.

I vari tentativi65 sono da distinguere in extrabiblici, subito da scartare, e biblici. Anche per quest'ultimi il ventaglio si apre in un'ampia varietà di ipotesi. Non mancano riferimenti alla Sapienza e al giusto sofferente, all'antitesi Adamo-Cristo, il primo orgoglioso e ribelle, il secondo umile e sottomesso. A livello di storia va notato con interesse che i Padri della Chiesa hanno unanimemente letto un legame tra il Servo di JHWH cantato da Isaia e il nostro inno di Filippesi66. I Padri partono dal Servo per citare Filippesi, ma non sembrano leggere Fil 2 come una documentazione delle profezie del Servo. Sono gli autori moderni che hanno capovolto la relazione, pensando che Fil 2 sia stato costruito sul calco dei canti del Servo (citiamo Lohmeyer, Cerfaux, Jeremias). Esiste altresì una nutrita schiera di esegeti che negano qualsiasi relazione (Dupont, Gnilka), soprattutto perché l'inno non dice mai che la morte o la sofferenza di Gesù sia collegata con il peccato degli uomini.

Feuillet ritiene invece legittimo il collegamento, perché vede spesso nella Bibbia il tema della gloria che succede a quello dell'umiliazione67. Nei nostri due testi – Isaia e Filippesi - l'umiliazione è volontaria e vale come docile sottomissione al piano divino della salvezza; inoltre, la esaltazione che segue è la diretta conseguenza, anch'essa voluta da Dio68. Esistono collegamenti o riferimenti alla cristologia dei primi capitolo degli Atti degli Apostoli. Nei discorsi il richiamo alla Passione è frequente (cf At 2,23-24; 4,10), il collegamento con il Servo viene fatto direttamente (cf 3,13.26; 4,27.30), come pure la teologia del Nome, sia quello di Dio che quello di Gesù.

Fin qui l'accenno alla storia dell'esegesi.

3.2. Origine e aspetti letterariSenza la pretesa di risolvere un problema che rimane complesso 69, per non lasciare tutto nel vago, proponiamo due criteri classici per indagare l'origine dell'inno: l'analisi del vocabolario e il contenuto.

Il vocabolario dell'inno mostra alcune affinità con quello paolino e parecchie divergenze. Tra le affinità registriamo la formula «Signore Gesù Cristo» che si incontra soprattutto in apertura e in conclusione delle lettere70. A livello di diversità, notiamo le parole proprie dell'inno, che non hanno riscontro in 65 GNILKA ne recensisce sei.66 Cf ORIGENE, PG 14, 85; GIROLAMO, PL 24, 421; AGOSTINO, PL 41, 707; CIRILLO D'ALESSANDRIA, PG 70, 853.67 Cf FEUILLET A., Christologie paulinienne, cit., 92ss.68 Ildi Fil 2,9 segna il capovolgimento operato da Dio e trova il suo corrispondente nell'ebraico laken () di Is 53,12.69 Cf ERNST, 99-106.70 Cf Rm 1,7; 13,14; 1 Cor 1,3.

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altri testi paolini. L'indagine dà come risultato che sono presenti ben 5 hapax: morphé (), isos (), harpagmós () (v. 6), hyperypsóo () (v. 9), katakthoníos () (v. 10). Una tale abbondanza, in un testo relativamente breve, fa concludere che il vocabolario presenta una certa anomalia rispetto a quello paolino.

Analizzando ora il contenuto, verifichiamo un allontanamento dalle abituali idee paoline. L'inno è costruito sul binomio umiliazione-esaltazione, anziché su quello abituale di crocifissione/morte e vita. Non si incontra l'idea del Cristo «morto per noi».

La conclusione gioca a favore di un'origine pre-paolina dell'inno, preso e adottato dall'Apostolo che lo ha integrato bene nel suo pensiero. Con tutta probabilità l'origine è da ricercare nel cristianesimo giudeo-ellenistico, perché la seconda parte è costruita sulla citazione del testo greco di Is 45,23. L'ambiente che può aver favorito la composizione e la trasmissione dell'inno è il mondo liturgico, forse eucaristico o anche battesimale. Possiamo pertanto affermare che gli esegeti sono abbastanza concordi nel ritenere che il presente inno venga dalla tradizione liturgica della comunità primitiva71.

Il suo valore è riconosciuto e amplificato anche dalla nostra liturgia che lo propone ogni settimana come cantico dei primi vespri della domenica.

Di fatto il lettore incontra nel testo greco un brano minuscolo, formato da 75 termini, ridotti a 52, se presi una volta sola. Volendo entrare nel dettaglio della statistica, individuiamo, computandoli una volta sola, 14 sostantivi, 12 verbi e 4 avverbi, oltre ai nomi propri di Dio, Gesù e Gesù Cristo. Emerge dall'analisi una ricchezza verbale, che possiamo specificare in un infinito, 5 participi (due aoristi e tre presenti), e 7 aoristi (di cui due congiuntivi). Il termine che ricorre più frequentemente è Dio, due volte riferito al Padre (vv. 9.11) e due volte con riferimento al Figlio.

Sempre a livello di vocabolario, abbiamo una presenza di umanità e di divinità che si intersecano. Sul versante dell'umanità troviamo due volte il termine «uomo», quindi «servo», «obbediente», «morte», «croce» e soprattutto il verbo della libera scelta di tale abbassamento «si umiliò», «si spogliò». Sul versante della divinità, troviamo il concetto di «forma divina», 71 «Le plus vieil exemple connu de la prière hymnique dans le judéo-christianisme primitif», SCHMITT J., art. Résurrection, DBS, X, 517. Scrive GIOVANNI PAOLO II nella catechesi di mercoledì 19 novembre 2003: «Il Cantico è ritenuto espressione della liturgia cristiana delle origini»; ritornando a trattare dello stesso inno, scrive nella catechesi di mercoledì 4 agosto 2004: «È una vera e propria confessione di fede cristologica, che ben riflette il pensiero di san Paolo, ma che può anche echeggiare la voce della comunità giudeo-cristiana anteriore all’Apostolo».

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«uguaglianza con Dio» e, soprattutto, il titolo «Signore» che viene proclamato per Gesù da tutto il creato in atteggiamento riverente.

La composizione si lascia facilmente scomporre in due strofe, 6-8 e 9-11, in base al tema di abbassamento-innalzamento.

Riproduciamo il testo con maggiore aderenza all'originale greco, distaccandoci quindi un poco dalla traduzione ufficiale:

v. 6 Lui che era IN FORMA DI DIOnon ritenne una predal'essere uguale a DIO

v. 7a ma svuotò se stessoavendo assunto una FORMA di SCHIAVO

7b diventando simile agli uomini7c ed essendo trovato per aspetto

come un uomo

v. 8 si abbassò lui stessodiventando obbediente fino alla mortee alla morte di croce.

v. 9 Perciò Dio lo ha superesaltatoe gli ha conferito un Nome che è al di sopra di ogni

nome,

v. 10 affinché nel Nome di Gesùogni ginocchio si pieghinei cieli, sulla terra e sotto la terra,

v. 11 e ogni lingua riconoscache il Signore è Gesù Cristo,a gloria di Dio Padre.

3.3. CommentoL'avvio propone Cristo nella sua condizione divina, e riferisce qualcosa della sua misteriosa relazione con Dio. L'espressione «pur essendo di natura divina» (v. 6) traduce il greco en morphé theou (); il primo termine significa 'forma', e indica la realtà profonda, il concretizzarsi e il manifestarsi di una realtà; nell'uso dei LXX diventa sinonimo di eikon, 'immagine'. La frase d'inizio, in forma participiale, intende sottolineare la dimensione divina di Gesù per aggiungere subito che non è stata conservata gelosamente. Quest'idea è affidata alla rara parola harpagmós () che, nel significato profano, indica qualcosa che viene ritenuto o trattenuto come fonte di vantaggio. Qualcuno lo

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traduce come condizione 'invidiabile' (Grelot, Murphy O'Connor), di cui Gesù non approfitta, scegliendo piuttosto la condizione comune degli uomini72. Gesù, in quanto Dio, poteva esercitare dignità e potere che gli competevano, cosa che non ha fatto. Insomma, Gesù Cristo, pur essendo per statuto originario nella sua condizione divina, non considerò come occasione da sfruttare la dignità e il potere di Dio.

Dopo la formulazione negativa - quello che Gesù non ha fatto - viene presentata la sua scelta. Il v. 7 inizia per l'appunto con un «ma» avversativo per introdurre l'inusitata metodologia adottata da Gesù. Incontriamo il verbo «spogliò se stesso», letteralmente «si svuotò» (), prendendo la forma di schiavo. Il greco propone lo stesso termine «forma», prima usato per la divinità, ora per indicare l'umanità. Segue una serie di termini per specificare che proprio si è fatto uomo. L'accenno è all'incarnazione, non presentata però in termini positivi, come nel prologo giovanneo, bensì come totale privazione della condizione divina. Un testo che potrebbe commentare il nostro è il pensiero di 2Cor 8,9: «Conoscete infatti la grazia del Signore nostro Gesù Cristo: da ricco che era si è fatto povero per voi...». Egli è il Servo che si addossa le nostre iniquità, come profetizzato da Isaia73.

Con il v. 8, il tema dell'abbassamento, già vistosamente presente nei versi precedenti, raggiunge il suo punto estremo. C'è una totale obbedienza che è disponibilità fino al dono supremo di sé nella consegna alla più infamante delle pene, la morte di croce74. Il suo essere uomo è marcato da una sostanziale diversità che lo rende l'obbediente per eccellenza, mostrando in lui i segni di un'umanità diversa, premessa e condizione di un'umanità nuova che da lui sorgerà. Egli è l'uomo incorruttibile del progetto divino, che però ha solidarizzato con i peccatori, facendo propria la più vergognosa delle morti. «Alla morte in croce» sembra un'aggiunta paolina che prolunga e specifica la prospettiva cristologica dell'inno. «L'obbediente è diventato il crocifisso»75

assumendo il ruolo di maledetto da Dio (cf Gal 3,13).Toccato il fondo dell'annientamento, si conclude la prima

strofa dell'inno.

72 Cf poco più avanti l'excursus sul termine harpagmós.73 «Le assonanze con l'inno del servo di Dio che soffre e muore nonostante alcune giustificate riserve non possono essere contestate», ERNST, 93. Pensiero già visto sopra, e proposto da Feuillet, cf 3.1.74 Quanto fosse vergognoso questo supplizio, lo documentano alcune citazioni riportate da BLINZER J., Il processo di Gesù, Paideia, Brescia 1966, 327: «Pena di morte degli schiavi» (Tacito); «Il nome stesso di croce deve restare lontano non solo dal corpo dei cittadini romani, ma anche dai loro pensieri, dai loro occhi e dal loro orecchio» (Cicerone); «Il più miserando fra tutti i generi di morte» (Giuseppe Flavio).75 BARBAGLIO, 573.

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La seconda strofa (vv. 9-11) presenta la «intronizzazione dell'Obbediente» (Käsemann). Il ribaltamento di situazione non era sconosciuto all'AT, perché era risaputo che sono glorificati da Dio coloro che stanno dalla sua parte, anche se agli occhi degli uomini subiscono pene e tormenti. Lo ricorda il mirabile ritratto del giusto sofferente: «Le anime dei giusti sono nelle mani di Dio, nessun tormento le toccherà. Agli occhi degli stolti parve che morissero, la loro fine fu ritenuta una sciagura, la loro partenza da noi una rovina, ma essi sono nella pace. Anche se agli occhi degli uomini subiscono castighi, la loro speranza è piena di immortalità» (Sap 3,1-4). Sarà soprattutto la figura del Servo di JHWH a codificare un radicale cambiamento di situazione, mostrando il passaggio dalla morte all'esaltazione (cf Is 53,11-12). Esiste quindi un filone che prepara l'iter del nostro inno.

L'obbedienza del Figlio di Dio che l'ha portato ad accogliere, per amore, una morte ignominiosa, contiene un carattere di eccezionalità, espressa come 'superesaltazione' accordata da Dio. L'idea non spicca subito per il lettore italiano che, leggendo «per questo Dio lo ha esaltato», non percepisce la sottigliezza del testo greco. Qui si usa il verbo «superesaltato» () che sottolinea il carattere superlativo della gloria che Dio tributa al figlio obbediente. Quindi, non solo esaltazione, ma 'superesaltazione'. Sarà utile richiamare che tale idea di superlativo è usata nell'AT per Dio stesso, come celebra il salmo 96,9 nella versione greca dei LXX: «Tu sei eccelso sopra tutti gli dei»76. Il lessico, comune per Dio (Padre) e per il Figlio, lascia intendere una condivisione di dignità e di eccellenza.

Il resto dell'inno, fino alla frase finale, non fa altro che esplicitare tale esaltazione. Si inizia al v. 9b dicendo che il Padre ha dato al Figlio obbediente un Nome incomparabile77. Conoscendo la teologia del Nome nel mondo biblico, non è difficile stabilire un'equivalenza tra «nome» e persona stessa. Per i Semiti, infatti, il nome significa quello che una persona è, la sua natura, la sua dignità. Il nome superiore indica la dignità che eccelle sopra tutte le altre, proponendosi come dignità divina. Con una solenne scenografia, che richiama un'intronizzazione regale, tutta la creazione è chiamata a riconoscere e a proclamare la signoria di Gesù Cristo, riconoscendogli il titolo proprio di Dio, quello di «Signore».

Due elementi concorrono a rendere solenne la scena: l'adorazione e la totalità. L'atto dell'inginocchiarsi, espressione di somma riverenza, rimanda a Is 45,23: «Davanti a me si piegherà ogni ginocchio». L'adorazione che l'AT riservava a Dio viene ora tributata a Gesù. Inoltre a tale gesto sono associati tutti gli esseri, qui rappresentati nella divisione tripartita di «nei cieli, sulla terra 76 In greco: 77 Letteralmente: «gli ha fatto grazia» (); è l'unico testo del NT in cui si parla di una 'grazia' data a Cristo.

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e sotto terra». È quindi evidente la totalità dell'adorazione, espressa con «ogni ginocchio» e «ogni lingua».

La frase finale, «a gloria di Dio Padre», mostra la meta di ogni azione, il traguardo ultimo della storia, «quando l'attuale liturgia ecclesiale si trasformerà in liturgia cosmica, e tutti faranno propria la confessione di fede cristiana: 'Gesù Cristo è il Signore'»78. La proclamazione della Signoria di Gesù Cristo ha come ultimo destinatario Dio stesso, il Padre del Signore nostro Gesù Cristo. Letta alla luce di 1Cor 15,20-28, tale dossologia ripropone un'idea cara a Paolo: «la 'gloria del Padre' è la finalità ultima di tutto l'evento salvifico stabilito dal Padre e portato a compimento dall'obbedienza umile di Gesù, il culmine verso cui tutta l'esistenza di Gesù è orientata»79.

La comunità cristiana ha davvero davanti agli occhi un mirabile esempio cui ispirarsi per impostare correttamente e con impegno la propria vita cristiana. Inoltre, ha una preziosa opportunità per celebrare Cristo: «L'inno, pertanto, diviene contemplazione in primo luogo del mistero di Cristo, ma anche canto a Colui che per amor nostro sacrificò se stesso e lode al Padre che lo ha innalzato quale Signore del nostro vivere e sentire»80.

EXCURSUS: Il significato di harpagmós ()Pur nella sua brevità, l'inno presenta un vocabolario complesso. Tra i termini più discussi compare quello di harpagmós al quale vogliamo riservare un supplemento di attenzione81.

Secondo lo studio di W. Jaeger, l'uso del termine, con il doppio accusativo, si ritrova in numerose formule greche e non vi è presente il senso di furto o di appropriazione violenta. Il senso sarebbe quello di una opportunità insperata. Ma altri studi, tra cui quello di J. Labourt, vi legge il senso di usurpazione, proprio come l'hanno inteso quasi tutti i Padri latini, e quello di oggetto prezioso che va conservato, come hanno inteso quasi tutti i Padri greci. Ne risulta che il senso, data la presenza della negazione, sarebbe quello di un bene non usurpato, cioè posseduto legittimamente. Il termine indicherebbe un tesoro che Cristo non intende sfruttare.

A livello di storia dell'esegesi va ricordata l'interpretazione di Ambrogio, che si ritrova in Agostino e in Tommaso, e quindi, da considerare tradizionale: Cristo, poiché di natura divina, non ha considerato un bene male acquistato il suo essere uguale a Dio.

Tale interpretazione non ha trovato seguito presso i moderni esegeti che l'hanno pressoché abbandonata, per motivi 78 BARBAGLIO, 574.79 BUSCEMI A.M., Una sinfonia. Gli inni di Paolo a Cristo Signore, cit., 35.80 Ibidem, 36.81 Cf FEUILLET A., Christologie paulinienne, cit., 112-132.

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letterari e dottrinali. La prima è una difficoltà letteraria, perché l'antitesi sembra contrapporre nella prima parte ciò che Cristo non ha voluto fare e ciò che poi ha voluto fare, cioè umiliarsi. La rivendicazione della prima parte sembra dunque resa impossibile dalla seconda frase. Il problema si potrebbe risolvere con una diversa traduzione proposta da J. Carmignac : «Egli ha ritenuto che il fatto di essere uguale a Dio fosse, da parte sua, una non-usurpazione». Ma non sembra del tutto pertinente. Feuillet preferisce leggervi l'idea di prendere (non nel senso di conservare gelosamente, ma di avere vantaggio da una situazione acquisita). Il senso va inteso nella linea di Paolo che rinuncia ai suoi privilegi: Il discepolo segue il Maestro, anche se resta molto lontano dal modello.

Questo risulta, in definitiva, il significato da attribuire all'enigmatico termine greco harpagmós : «Cristo, il primo, non ha considerato come un bene prezioso, da trattenere, l'essere considerato sulla terra alla stregua di Dio, né un vantaggio da sfruttare l'essere per natura uguale a Dio»82.

ConclusioneNon solo l'inno è altamente poetico e come percorso da un fiotto di commozione, ma è soprattutto di eccezionale importanza teologica. Vi si affermano la preesistenza del Verbo e la sua divinità, l’incarnazione e la morte in croce, la glorificazione e il dominio universale di Cristo 83. Dal punto di vista ascetico è di grande importanza la lezione di umiltà e di obbedienza che viene proposta a tutti i credenti.

È difficile sottrarsi ad un'impressione di immensità, dopo la meditata lettura dell'inno. Immensità di un amore che lascia le sicurezze divine per assumere tutte le incertezze umane, immensità di un disegno che accetta la negatività della morte e della croce, trasformandola in positività di donazione.

La comunità di Filippi, tentata come tutte le nostre comunità e pure come tutte le nostre persone di lasciarsi irretire dalle forze centripete dell'orgoglio, ha bisogno di richiamarsi al modello Gesù per imparare come vivere la propria dimensione di donazione. Egli è modello, causa e principio di un'umanità nuova che, alla logica della prepotenza e della sopraffazione, oppone la logica del dono, fino all'offerta della vita per il bene altrui.

Tali sono i sentimenti che la comunità deve coltivare per vivere l'umiltà che Gesù ha proclamato con la sua esistenza, per

82 «Le Christ, le premier, n'avait pas regardé comme un bien précieux à saisir d'être traité sur la terre à légal de Dieu, ou encore comme un avantage à exploiter d'être par nature égal à Dieu», Ibidem, 132.83 Per il suo alto valore cristologico, cf CAPIZZI N., L'uso di Fil 2,6-11 nella cristologia contemporanea (1963-1993), Gregoriana, Roma 1997.

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ricercare l'unità che egli ha costruito con il suo legame con Dio e con gli uomini: «L'unità è definita nei termini di convergenza delle aspirazioni e degli intenti verso quello che è essenziale. In una parola, si può dire che il progetto di comunità cristiana ideale è prospettato in termini di relazioni interpersonali. Come Gesù Cristo si rivela nella sua identità tramite la relazione con Dio, il Padre, e con gli uomini, così anche la comunità dei credenti, che sono convocati nel suo nome, si costruisce e si va attuando come comunità di relazioni»84.

Il nostro inno attraversa i secoli come preghiera della Chiesa, giungendo a noi nella sua luminosa bellezza. Lo sottolinea il Papa in una sua catechesi: «è una gioia per la nostra generazione potersi associare, a distanza di due millenni, alla preghiera della Chiesa apostolica»85.

84 FABRIS (1983), 74.85 GIOVANNI PAOLO II, catechesi di mercoledì 19 novembre 2003.

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4. ESORTAZIONE A LAVORARE PER LA SALVEZZA (2,12-18)

Il brano del capitolo secondo che comprende i vv. 12-18 conclude la sezione esortativa, iniziata a 1,27. Mostra una sua unità letteraria, compresa tra il «miei cari» del v. 12, e il riferimento personale del v. 18. Inoltre, il «quindi» iniziale () collega il presente brano con l'inno cristologico e con tutto il discorso precedente. L'obbedienza di Cristo diventa il nuovo e decisivo riferimento teologico per l'obbedienza della comunità. Si tratta quindi di raccogliere e poi di formalizzare l'insegnamento scaturito da quanto Paolo è venuto dicendo finora. Da qui l'importanza di questi versetti che hanno la funzione di condensare l'appello esortativo di Paolo.

La sollecitazione «attendendo alla vostra salvezza» sembra ignorare o sorvolare la concretezza storica della comunità, sollecitata a costruire la comunione nell'unità e nell'umiltà, così come era stato magistralmente esposto dall'inno. Se la prima impressione è di genericità, ad un più attento esame notiamo che il termine «salvezza» svolge la funzione di raccogliere e di sintetizzare il discorso precedente sulla vita ecclesiale. Una comunità si costruisce nella comunione al vangelo portato dall'Apostolo: così Paolo ama definire l'adesione di fede86. Per questo ammonisce: «obbedendo come sempre, non solo come quando ero presente, ma molto di più ora che sono lontano». Da tale adesione si arriva alla salvezza che ne è il traguardo ultimo e che, abbiamo detto sopra, vale come sintesi di tutto il discorso.

Alla salvezza si deve attendere «con timore e tremore». La terminologia, se non rettamente intesa, evoca i fantasmi di un terrorismo psicologico di certi tempi passati. Non possiamo far equivalere il timore alla paura, perché «nell'amore non c'è timore, al contrario l'amore perfetto scaccia il timore, perché il timore suppone un castigo e chi teme non è perfetto nell'amore» (1Gv 4,18). Siamo in presenza di una tipica espressione biblica87

che esprime la trepidante fiducia. Il rapporto dell'uomo con Dio si costruisce sulla docilità dell'amore, senza dimenticare l'abissale distanza che separa la creatura dal Creatore: ecco perché si parla di timore e di tremore. Possiamo leggere il termine 'timore' alla luce positiva di tutta la tradizione sapienziale che stabilisce: Initium sapientiae timor Domini. In tale contesto è da leggere il 'santo timore di Dio', tanto caro alle generazioni passate, e valido ancora oggi.

L'impegno richiesto alla comunità va convogliato nel flusso operativo di Dio che mantiene la direzione di ogni sviluppo. È quanto afferma il v. 13 che riporta tutto a Dio, considerato come 86 «Per mezzo di lui abbiamo ricevuto la grazia dell'apostolato per ottenere l'obbedienza alla fede, da parte di tutte le genti, a gloria del suo nome» Rm 1,5; cf Rm 10,16; 15,18.87 Cf Es 15,16; Dt 2,25; Is 19,16.

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la fonte di ogni agire buono. Paolo è ben cosciente di questo: «La paradossale affermazione 'Agite perché Dio agisce tra voi' non fa che esprimere l'esatto rapporto, tipico della sua teologia, tra l'indicativo che afferma l'evento di grazia e l'imperativo che fa valere un impegno etico corrispondente: il primo rende possibile il secondo»88.

Stabilita la priorità divina, ecco al v. 14 la collaborazione degli uomini, affidata all'imperativo «Fate tutto senza mormorazioni e senza critiche». Il lettore moderno è istintivamente portato a interpretare la richiesta di Paolo come un invito ad evitare le critiche e i pettegolezzi, che così spesso inquinano i rapporti umani. Ma non si tratta di questo. Innanzitutto, si parla del rapporto tra la comunità e Dio: la mormorazione è quindi nei confronti di Dio e non degli uomini; in secondo luogo, la critica fa riferimento a quell'atteggiamento di sfiducia in Dio e di poco abbandono alla sua volontà, come tante volte dimostrato nel cammino del popolo verso la Terra Promessa89: di tali atteggiamenti abbiamo numerosi esempi in Es 15-17 e in Nm 14-17. Ad una comunità capricciosa e ribelle, incapace di assoggettarsi alle disposizioni divine, come poteva essere il popolo nel deserto, Paolo oppone una comunità obbediente a Dio90, docile alla sua volontà, che è sempre di bene (cf i «benevoli disegni» del v. 13).

Si comprende allora perché tale comunità svolga una funzione illuminatrice all'interno del consorzio umano. L'idea di risplendere come astri nel mondo richiama la situazione dei giusti e dei beati che, simili a Dio «Rivestito di maestà e di splendore, avvolto di luce come di un manto» (Sal 104,2), sono destinati a riflettere lo stesso fulgore. Il pensiero di essere tuffati in un bagno di luce che caratterizzava l'apocalittica giudaica91, ha evidenti 88 BARBAGLIO, 576.89 Cf GNILKA, 25; di parere diverso BARBAGLIO, 577 che preferisce leggervi un invito a migliorare i rapporti all'interno della comunità.90 La docilità a Dio si manifesta anche nell'evitare lamentele sul proprio tempo, riconoscendo come Provvidenza la chiamata a vivere nel tempo in cui ci troviamo. Uno sguardo nostalgico al passato e un disprezzo del presente è atteggiamento abituale degli uomini senza fede. Su questo punto, già AGOSTINO richiamava i suoi fedeli: «Non lamentiamoci e non mormoriamo. o fratelli. […] Che cosa di nuovo e di insolito, o fratelli, patisce ai nostri tempi il genere umano, che non abbiano patito i nostri padri? Anzi possiamo noi affermare di soffrire tanto e tanti guai quali dovettero soffrire loro? Eppure troverai degli uomini che si lamentano dei loro tempi, convinti che solo i tempi passati siano stati belli. Ma si può essere sicuri che se costoro potessero riportarsi all'epoca degli antenati, non mancherebbero di lamentarsi ugualmente. Se, infatti, tu trovi buoni quei tempi che furono, è appunto perché quei tempi non sono più i tuoi. […] Perciò abbiamo piuttosto motivo di rallegrarci, che di lamentarci dei nostri tempi», Discorso Caillou-Saint- Yves 2, 92, PLS 2, 441-442.91 Numerosi testi lo riferiscono. Ne riportiamo due: Enoc 38,4: «D'ora in poi, coloro che possiedono la terra, non saranno più potenti, non potranno più guardare il volto dei santi, perché il Signore farà risplendere la sua luce sul

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riscontri biblici come il passo di Dn 12,3, e risponde ad un categorico comando di Gesù: «Così risplenda la vostra luce davanti agli uomini [...]» (Mt 5,16)92.

Paolo non si limita ad una mobilitazione generale, né a un generico richiamo, preferendo indicare concretamente come rimanere autentici figli di Dio in un mondo anche ostile: «tenendo alta la parola di vita». Si potrebbe tradurre anche «rimanendo fermi nella parola di vita», intendendo il vangelo come il punto di aggancio dell'intera vita cristiana. Per essere degni figli di Dio, occorre prestare attenzione alla sua volontà, e questa si rivela principalmente nella sua parola, chiamata qui - unico caso - «parola di vita».

La risposta pronta e generosa della comunità fonda e motiva il vanto di Paolo che pensa sempre in termini 'pastorali'. Utilizzando il linguaggio sportivo della corsa, ritiene che la crescita armonica della comunità sia un vanto per lui, l'unico autorizzato. È, in fondo, il vanto della marcia trionfale del vangelo che si innerva nelle persone, generando uomini nuovi. La vita di Paolo è orientata alla comunità, ma anche la sua morte, nel caso che alla detenzione in prigione segua la condanna a morte, ha di mira il bene ecclesiale. A questo punto con un linguaggio cultuale, Paolo pensa alla sua morte violenta («sangue») come ad un profumo che viene versato sull'offerta per renderla più gradita93. La morte di Paolo, allora, impreziosirebbe la fede dei credenti (cf l'«offerta» del v. 17); anche in questa ipotesi violenta, Paolo eserciterebbe il suo servizio pastorale. Veramente egli non riesce a pensarsi senza la sua comunità.

Il pensiero fa scaturire tanta gioia, a tal punto che assistiamo ad un'esplosione del verbo 'gioire'. Dapprima Paolo esprime la sua soddisfazione di essere tutto per la comunità, anche nell'ipotesi del suo martirio; quindi sollecita tutti a condividere il sentimento di gioia che il testo greco esprime con il verbo semplice e il suo composto94, ma che la traduzione italiana non riesce a rendere bene. La traslitterazione del greco aiuta e cogliere la differenza: alla fine del v. 17, Paolo scrive: «sono contento e ne godo con tutti voi» (cháiro kai synkáiro pasin hymin); al v. 18 esorta tutti: «allo stesso modo anche voi godetene e rallegratevi con me» (to de auto kai hymeis cháirete

volto dei santi», e Apocalisse di Baruc 51,3: «Anche la gloriosa apparizione di coloro che ora hanno agito secondo la mia legge, il cui splendore apparirà in diverse forme e il cui aspetto si trasformerà in bellezza radiosa [...]». Per ulteriore documentazione, cf SB, I, 752-753.92 Possiamo leggere un'eco anche nell'episodio della trasfigurazione di Gesù, cf Mt 19,2 e paralleli.93 Si noti l'eco in questo testo : «La mia vita è offerta in sacrificio per voi, non soltanto ora, ma anche quando avrò raggiunto Dio», IGNAZIO DI ANTIOCHIA, Lettera ai cristiani di Tralle, 13,3.94 Cf CONZELMANN H., , GLNT XV, 493-527.

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kai synkáirete moi)95. Nell'ultima manciata di parole, ritorna ben quattro volte (syn)cháiro, l'esplosivo verbo della gioia che caratterizza Paolo e la sua comunità: «Considerata sotto molteplici aspetti, la 'gioia' viene ad assumere, in Filippesi, una propria configurazione teologica. Mai essa è una contentezza paga di se medesima; sempre essa sorge in Paolo da motivazioni legate all'opera apostolica»96.

Con il vibrante tema della gioia Paolo dà l'ultima pennellata a questo quadro esortativo, iniziato a 1,27; la comunità ha ulteriormente appreso come vivere la civiltà del vangelo, modellata su Cristo ed esemplificata nella vita dell'Apostolo. Non le resta che attuare le direttive ricevute, per vivere a far progredire la salvezza ricevuta in dono.

95 Cf e 96 MASINI, 100.

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I COLLABORATORI NELLA MISSIONE

Testo di Filippesi 2,19-30

Il presente brano occupa un posto particolare nel mondo variegato dei generi letterari, perché parla dei collaboratori e dei progetti pastorali dell'Apostolo. È risaputo che Paolo non ama muoversi come un navigatore solitario, e anche se è lui a dare le direttive, associa spesso e volentieri nel lavoro e nella responsabilità altre persone. Ne fa fede l'indirizzo della nostra lettera e di molte altre97. In generale, troviamo non pochi richiami ai collaboratori98. Costoro, impegnati nell'annuncio del vangelo o in altri servizi a favore della comunità, ricevono più volte un'attenzione degna di nota da parte di Paolo che non solo li cita, ma pure li esalta. Ne deriva una gratificazione per loro e, ben più, un richiamo per noi, sollecitati a riflettere su questo tema.

Il brano parla di due collaboratori, Timoteo (vv. 19-24) ed Epafrodito (vv. 25-30): del primo Paolo auspica l'invio al più presto; il secondo viene restituito alla comunità, munito delle 'credenziali' dell'Apostolo.

1. TIMOTEOSeguiamo dapprima un ideale tracciato biografico che prepariamo con i dati a nostra disposizione, poi ci soffermiamo sul nostro testo.

1.1. La carta d'identità di TimoteoStando alle statistiche, dovremmo subito dire che siamo in presenza del collaboratore per eccellenza, citato più volte99. I numerosi riferimenti autorizzano la ricostruzione di una carta d'identità che lo classifica subito come un uomo fidato e affidabile100.

97 Uno o più collaboratori sono citati in 8 lettere (1-2Ts, 1-2Cor, Gal, Fil, Fm, Col): di solito è indicato il nome, salvo Gal 1,2 dove, in modo generico, sono citati «tutti i fratelli che sono con me».98 La più ricca su questo tema è la Seconda Lettera ai Corinti, cf ORSATTI M., Armonia e tensioni nella comunità. La Seconda Lettera ai Corinti, EDB, Bologna 1999, 89-99.99 Timoteo è citato in ben 10 lettere paoline. Se comprendiamo anche gli Atti degli Apostoli e la Lettera agli Ebrei, il suo nome ricorre 24 volte nel NT: 6 volte in Atti, 17 nelle lettere paoline e 1 volta in Ebrei. Rispettivamente: At 16,1; 17,14.15: 18,5; 19,22; 20,4; Romani (1 volta: 16,21), 1Corinti (2 volte: 4,17; 16,10), 2Corinti (2 volte: 1,1.19), Filippesi (2 volte: 1,1; 2,19), Colossesi (1 volta: 1,1), 1Tessalonicesi (3 volte: 1,1; 3,2.6), 2Tessalonicesi (1 volta: 1,1), 1Timoteo (3 volte: 1,2.18; 6,20), 2Timoteo (1 volta: 1,2), Filemone (1 volta: v. 1). Come si può constatare, nelle lettere paoline manca in Efesini, Galati, Tito. Va invece aggiunto Eb 13,23.

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Paolo incontra Timoteo a Listra in occasione del suo secondo viaggio missionario (cf At 16,1). Eccezionalmente conosciamo anche qualcosa della sua famiglia: era figlio di padre greco e di madre giudea, di nome Eunice. Siamo informati perfino del nome della nonna, Loide101. Possiamo allora dire che la fede di Timoteo ha avuto degli esempi già all'interno della famiglia. Secondo il diritto ebraico, poiché figlio di donna ebrea, Timoteo era tenuto ad essere circonciso. Effettivamente Paolo lo farà circoncidere, affinché possa diventare suo collaboratore, senza offrire agli ebrei occasione di critica o di rifiuto (cf At 16,3).

Timoteo e Sila diventano nel secondo viaggio missionario i più stretti collaboratori di Paolo. Insieme attraversano l'Asia Minore102 e arrivano in Macedonia. Quando Paolo, costretto dalle circostanze, deve lasciare in tutta fretta la Macedonia e riparare ad Atene, lascia indietro Timoteo e Sila che lo raggiungono poi ad Atene (cf At 17,14; 18,5). Di nuovo Timoteo è inviato a Tessalonica (cf 1Ts 3,1s) con compiti di fiducia. Ovviamente egli godeva della stima non solo di Paolo, ma anche della comunità: solo così possiamo spiegare il suo ruolo di mediatore. Troviamo poi Timoteo a Corinto come stabile collaboratore dell'Apostolo. Da questa città sono inviate le due lettere ai Tessalonicesi, e Timoteo figura tra i mittenti.

Durante il terzo viaggio missionario Timoteo si trova ancora al fianco di Paolo. A lui l'Apostolo affida una missione a Corinto, allorché egli rimane ad Efeso (cf 1Cor 4,17; 16,10; At 19,22). Non siamo in grado di documentare con certezza che effettivamente egli sia arrivato a Corinto e che abbia potuto svolgere la missione affidatagli. Non abbiamo infatti nessun risultato di tale missione. Con certezza possiamo invece dire che Paolo lo ha atteso in Macedonia, dove ha scritto 2Cor; Timoteo figura infatti tra i mittenti. Gli Atti nominano ancora Timoteo di ritorno dalla Macedonia verso Gerusalemme (cf At 20,4). Forse non è arrivato nella città santa. Con tutta probabilità si è fermato ad Efeso, dove assumerà un ruolo organizzativo della comunità (cf 1Tm 1,3).

Timoteo non compie con Paolo il viaggio della prigionia verso Roma (cf At 27,2), ma arriva nella capitale più tardi, restando poi accanto a Paolo, come si evince da Col 1,1; Fm 1 (cf anche Fil 1,1; 2,19).

Il seguito rimane oscuro. Poco o nulla sappiamo delle vicende di Paolo dopo la liberazione e della presenza o meno di Timoteo103. Costui si trova ad Efeso, giovane capo della comunità 100 Cf le indicazioni biografiche di RIENECKER F. - MAIER G., Lexikon zur Bibel, Brockhaus, Wuppertal-Zürich 1994, 1591-1592.101 Leggiamo in 2Tm 1,5: «Mi ricordo infatti della tua fede schietta, fede che fu prima nella tua nonna Lòide, poi in tua madre Eunice e ora, ne sono certo, anche in te».102 Corrispondente all'attuale Turchia.103 Facciamo riferimento alle lettere pastorali di 1-2 Tm attribuendole a Paolo e, quindi, utilizzandole per una ricostruzione storico-geografica di Timoteo.

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e con non pochi problemi da affrontare (cf 1Tm 4,12). Durante la seconda prigionia romana di Paolo, viene richiamato a Roma dall'Apostolo (cf 2Tm 4,9.21).

Timoteo ha il compito di evangelizzare (cf 2Tm 4,5), e lo svolge in molteplici località. A questo servizio è stato deputato, potremmo dire 'consacrato' (cf 1Tm 1,18; 4,14), e perciò appare dotato di carismi particolari (cf 2Tm 1,6), quando riceve l'imposizione delle mani da parte di Paolo e degli Anziani. Ha familiarità con le Scritture fin dalla giovinezza, avendo potuto attingere tale sensibilità nell'ambiente familiare, essendo madre e nonna già cristiane, come ricordato sopra. Su tale solido fondamento, Paolo ha modo di costruire un vero apostolo.

1.2. Timoteo nel testo di Fil 2,19-24Forse nessun testo appare così esuberante sulla persona di Timoteo come il nostro passo. Paolo, impossibilitato dalle catene, manda alla comunità Timoteo in veste di delegato apostolico: «Qui troviamo gli inizi dell’organizzazione e amministrazione ecclesiale»104. Per lui viene tessuto uno dei più lusinghieri giudizi: «Non ho nessuno d'animo uguale al suo e che sappia occuparsi così di cuore delle cose vostre». Effettivamente Timoteo è l'uomo di fiducia, che ha dimostrato, in più occasioni, di avere un autentico animo apostolico, proteso al bene altrui e al servizio disinteressato del vangelo. Infatti Paolo, per fondare l'elogio del suo collaboratore, dà la seguente motivazione: «Tutti cercano i propri interessi, non quelli di Gesù Cristo. Ma voi conoscete la buona prova da lui data, poiché ha servito il vangelo con me, come un figlio serve il padre». Alla luce dei fatti, si comprende il caloroso elogio, fondando, del resto, sull’esperienza stessa dei Filippesi che hanno conosciuto direttamente la dedizione di Timoteo. Questi si recherà nella comunità, non appena si sarà fatta chiarezza sulla sorte di Paolo, cioè alla fine del processo.

Il v. 24 lascia trapelare l'umanità di Paolo, così intensamente legato alla comunità da essere convinto di incontrarla. Non possiamo certo pensare che giochino fattori puramente umani di simpatia o di affetto, ma è certo che l'amore a Cristo non solo non spegne, ma addirittura esalta l'amicizia e il rapporto con gli altri.

Può essere utile osservare che il brano inizia con «ho speranza nel Signore» e termina con «ho la convinzione nel Signore». Speranza di fede e convinzione di fede stanno attorno alle più semplici comunicazioni dell’Apostolo.

Sappiamo della complessa problematica circa l'autenticità di queste lettere, che molti oggi non attribuiscono più direttamente a Paolo, cf il già citato FABRIS R., La tradizione paolina, EDB, Bologna 1995. Consci di questo limite, ci serviamo ugualmente di tali scritti per una biografia di Timoteo.104 SCHLIER, 43.

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2. EPAFRODITO (2,25-30; cf 4,18)Il secondo collaboratore menzionato, Epafrodito105, non gode di tanti dati che ci permettano la ricostruzione di una soddisfacente carta di identità. Di lui possiamo solo dare le scarne informazioni che recuperiamo nel nostro passo e, più avanti, in 4,18.

In attesa di inviare Timoteo, Paolo ritiene opportuno rimandare Epafrodito, abitante di Filippi e probabile latore della presente lettera. La sua è una piccola vicenda pasquale, fatta di morte e di risurrezione. Infatti, inviato dalla comunità per alleviare le sofferenze dell'Apostolo, si è ben presto ammalato, divenendo a sua volta bisognoso di aiuto. Paolo avrebbe potuto lagnarsi di un collaboratore che non gli è servito a nulla. Invece no. Con molta delicatezza rimanda Epafrodito, senza fargli sentire il fallimento della sua missione. Lo esalta con i titoli di «nostro fratello» e di «mio compagno di lavoro e di lotta», e ricorda il motivo per cui era stato inviato.

Epafrodito ha qualche timore nel ritornare alla comunità che lo aveva inviato, temendo critiche o rampogne per lo scarso aiuto dato a Paolo. In fondo, gli è stato quasi più di aggravio che di aiuto. Nelle parole di Paolo non affiora nessun lamento, anzi, egli descrive il suo amico quasi aureolandolo di meriti, affinché possa essere degnamente accolto dalla comunità. Da un lato, lo scagiona da ogni eventuale colpa, dall'altro, parla positivamente di lui, richiamando il suo grande desiderio di vedere la comunità che lo aveva inviato. Paolo cita la sofferenza del suo collaboratore per tesserne l'elogio e per presentarlo in luce nuova agli occhi della comunità. Ne fa quasi un martire, sicuramente un eroe: «Ha rasentato la morte per causa di Cristo, rischiando la vita, per sostituirvi nel servizio presso di me».

Grazie alla presentazione di Paolo, la comunità è convenientemente educata ad accogliere bene il suo membro. Ed Epafrodito può bandire ogni titubanza e ritornare sereno tra i suoi.

CONCLUSIONEEmerge subito l'interesse di Paolo per i suoi collaboratori che cita con abbondanza, perché associati nel ministero apostolico. Il servizio al vangelo si esprime in modo comunitario, nell'esercizio di un'autorità che, lungi dall'essere vuota superiorità, diventa capacità di riconoscere e apprezzare i meriti altrui. I ministri sono deputati al servizio della Parola, sono votati all'evangelizzazione e 105 Il nome significa 'amabile' ed è la forma lunga di Epafra: entrambi ricorrono con una certa frequenza nelle iscrizioni classiche. Non esistono ragioni per identificare Epafrodito con Epafra, il fondatore della comunità di Colossi, e citato in Col 1,7; 4,12 e Fm 23. Sono, perciò, due persone diverse, cf Enciclopedia della Bibbia, 2, LDC, Leumann (TO) 1969, 1338.

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cooperano con Dio e con Cristo alla riconciliazione degli uomini. Sono loro i primi a diffondere il buon odore di Cristo. Svolgono un ruolo per molti aspetti simile a quello di Paolo e, soprattutto, condividono la stessa passione missionaria. Il titolo ricorrente con il quale sono designati i collaboratori è quello di «fratello»106.

Appare la stima reciproca, l'aiuto vicendevole, la solidarietà tra i colleghi annunciatori del vangelo. Non ci sono accenni a screzi, critiche, denigrazioni o disapprovazioni tra di loro107. Davanti alle difficoltà o ai fallimenti, nessuno viene colpevolizzato. Epafrodito non ha potuto rendere nessun servizio a Paolo, ma non viene accusato o criticato, bensì difeso e perfino lodato. Ovviamente l'insuccesso non è imputabile a cattiva volontà.

La stima non rimane alla periferia dei sentimenti, ma vi entra profondamente diventando affetto sincero e dichiarato. Titoli di affetto e di fiducia sono presenti per Timoteo e per Epafrodito, ma possiamo dire che appartengano allo stile apostolico di Paolo108. Siamo in presenza di una vera pedagogia pastorale che può e deve far riflettere sul nostro modo di essere chiesa, sul nostro modo di rapportarci ai nostri collaboratori, siano essi superiori o inferiori. Essi collaborano al grande disegno della salvezza e devono essere aiutati a svolgere il loro compito con la comprensione, l'incoraggiamento, la stima e, quando è necessaria, la critica costruttiva109.

106 Cf per Epafrodito al v. 25. Il titolo non compare per Timoteo, ma lo troviamo in tanti altri passi, per esempio 2Cor 1,1. Si veda ancora il titolo di fratello per Tito (2Cor 2,13) e per i due anonimi collaboratori citati in 2Cor 8,18.22.107 Sappiamo di un dissapore sorto tra Paolo e Barnaba a proposito di Marco, cf At 13,13-14; 15,36-40, poi ricomposto, cf 2Tm 4,11. Nulla di tutto questo trapela nella nostra lettera.108 Cf il pensiero dell'Apostolo in occasione della colletta in 2Cor 8,6; 8,16-17 e pure quando si parla di Tito, 2Cor 8,23-24.109 Vale per loro l'osservazione a proposito dei sacerdoti di GREGORIO MAGNO: «Chiunque accede al sacerdozio, si assume l'incarico di araldo, e avanza gridando prima dell'arrivo del giudice che lo seguirà con aspetto terribile. Ma se il sacerdote non sa compiere il ministero della predicazione, egli, araldo muto qual è, come farà sentire la sua voce? Per questo lo Spirito Santo si posò sui primi pastori sotto forma di lingue, e rese subito capaci di annunziarlo a coloro che egli aveva riempito», Regola Pastorale, lib. 2,4, PL 77, 31.

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L'ESPERIENZA DI CRISTO

Testo di Filippesi 3,1-4,1

È risaputo che la lettera di Paolo ai Filippesi non conosce problemi circa l'autenticità, ma ne crea parecchi circa l'integrità. Al punto in cui ci troviamo con la nostra presentazione, esattamente all'inizio del terzo capitolo, inizia il valzer delle opinioni. Si assiste ad un frenetico impegno nell'uso di forbici e di colla, per tagliare e combinare i diversi pezzi. Qualcuno lega 3,1a alla sezione precedente e unisce 3,1b a quella seguente110, fino al v. 14. C'è chi, unendo 3,1a con 4,2-7 dove legge una serie di raccomandazioni, isola la parte 3,1b-4,1.8-9 e la identifica come una «lettera polemica», da considerare come elemento staccato111. C'è chi riconosce un'unica lettera, ma con strati diversi, come si nota fin dall'inizio, passando da una parola di gioia ad una parola dura112. C'è chi registra il fatto della diversità tra 3,1a e 3,1b, ma poi procede nella lettura continua113. E c'è, infine, chi considera alcuni elementi letterari che legano 3,1-4,1, senza per questo negligere la conoscenza della problematica sottesa114.

Come sempre accade in casi analoghi, la molteplicità interpretativa denuncia la fragilità di ogni scelta. E poiché bisogna decidersi, sembra che l'accoglienza del testo, così come si presenta, sia la strada da privilegiare. Tale è la nostra scelta, proposta già nell'introduzione115. Accettiamo quindi di considerare unitariamente il blocco 3,1-4,1, perché letterariamente incorniciato dall'iniziale «Per il resto, fratelli miei», e dal conclusivo «Perciò, fratelli miei carissimi», che ne segnano i limiti. Sono due esortazioni che racchiudono il 'corpo' del brano. Esso, in base all'uso prevalente dei pronomi, potrebbe essere distinto in due parti: nella prima predomina il pronome 'io' (vv. 1b-14), nella seconda i pronomi 'noi-voi' (vv. 15-21). A livello di contenuto, 110 «I segni della mutazione sono più d’uno e hanno carattere sia formale sia contenutistico», PENNA, 77.111 Di questa opinione sono, per esempio, GNILKA e BARBAGLIO.112 «Piuttosto che di lettere diverse meglio si dovrebbe parlare di strati di pensiero, che cozzano invero l'uno contro l'altro, ma in un quadro parenetico complessivo sono vicendevolmente conciliabili», ERNST, 122.113 Così PERETTO, 57.114 Cf FABRIS (2000), 184-185.115 Cf 4.3. Autenticità e unità della lettera, soprattutto la nota 12 con la citazione di Fitzgerald. Esistono opinioni che vanno nella direzione opposta, come quella di CUVILLIER E., L'intégrité de l'épître aux Philippiens, in: ACFEB, Paul de Tarse, Cerf, Paris 1996, 65-77; l'autore conclude la sua rassegna con questa convinzione: «De quelque manière qu'on l'explique, il existe une rupture de ton entre 3,1 et 3,2. L'hypothèse de la compilation demeure donc une solution envisageable», 77.

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nella prima parte Paolo ci fa dono di uno stupendo squarcio autobiografico sulla sua vita intima, nella seconda esorta ad una coerente vita incentrata su Cristo. Ne viene un grandioso affresco teologico, con Cristo in primo piano. Schematicamente:

- Esortazione iniziale: 3,1a- Cristo al centro: 3,1b-14- Cristo come meta: 3,15-21

- Esortazione conclusiva: 4,1

Prima di considerare il materiale centrale, presentiamo le due esortazioni che lo incorniciano, rispettivamente 3,1a e 4,1.

Il capitolo terzo si apre con l'esortazione «Per il resto, fratelli miei, state lieti nel Signore» (3,1a) che potrebbe suonare come una conclusione. Ciò sarebbe giustificato da esempi analoghi, come 2Cor 13,11: «Per il resto, fratelli, state lieti» che effettivamente si trova alla fine della lettera, prima delle raccomandazioni finali e dei saluti116. Inoltre, il tema della gioia potrebbe richiamare e concludere pensieri espressi precedentemente, in particolare in 2,17-18. Ma l'andamento saltellante di una lettera, affidato spesso alle impennate dello spirito, soprattutto di quello focoso di Paolo, ammette e giustifica che ad una frase con sapore conclusivo segua poi altro materiale. È, di fatto, il caso di 2Ts 3,1: «Per il resto, fratelli, pregare per noi», costruita allo stesso modo: «Per il resto» (), seguito dal nome «fratelli», e quindi dal verbo all'imperativo. Paolo, anziché congedarsi dalla comunità di Tessalonica, come si poteva presumere dalle sue parole, riprende il discorso e tratta della vita disordinata di alcuni oziosi (cf 2Ts 3,6-15). Confortati da questo parallelo, possiamo ritenere che anche Fil 3,1a sia una conclusione che non preclude, tuttavia, la partenza di un nuovo pensiero. A livello di contenuto, Paolo esorta la comunità, chiamata teneramente «fratelli miei», a vivere quella gioia che ha la sua radice «nel Signore». La precisazione è importante per orientare correttamente il senso della gioia.

Un'esortazione è pure reperibile in 4,1: «Perciò, fratelli miei carissimi e tanto desiderati, mia gioia e mia corona, perseverate così nel Signore, carissimi»117. Il «perciò» () conferisce alla frase un manifesto sapore conclusivo; segue il vocativo «fratelli miei»118, arricchito da una profusione di termini che mostrano l'intenso affetto di Paolo per la comunità. Li chiama due volte «carissimi» (), aggiunge «desiderati» (), e li qualifica sua «gioia» e «corona», due termini fortemente evocatori. Il primo indica un sentimento che si prova nell'intimo, il 116 L'uso di di 4,8 ha veramente valore conclusivo.117 Il testo greco è reso in modo ridondante dalla traduzione CEI: «Rimanete saldi nel Signore, così come avete imparato».118 La formula compare, in tutta la lettera, solo qui e a 3,1.

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secondo un oggetto visibile. La corona, infatti, era portata da persone importanti che la tenevano ben in vista: il sacerdote che officiava il culto, il vincitore di una gara, il sovrano in visita. Paolo considera la corona nel significato metaforico di 'gloria' che gli viene dal suo apostolato, soprattutto quando una comunità risponde con fattivo entusiasmo alla proposta di vita cristiana. Del resto in 2, 16 aveva già prospettato la possibilità del suo vanto alla fine della vita, proprio dovuto alla risposta della comunità. Tutto questo serve da coreografia all'esortazione «così perseverate nel Signore»: l'imperativo chiede la fedeltà a tutto quanto Paolo ha insegnato.

Esaminate le due esortazioni che incorniciano il nostro brano, passiamo ora ad analizzare le sue due parti costitutive, che collocano Cristo al centro della vita di Paolo e della vita dei Filippesi.

1. CRISTO AL CENTRO (3,1b-14)Paolo esordisce ricordando il suo 'ministero della penna', come diremmo noi oggi, cioè la sua attività letteraria; egli la considera uno dei mezzi per mantenere il contatto con le comunità e per continuare la catechesi, troppe volte ridotta nel tempo119. Lo scritto non necessariamente propone nuove idee o aspetti inediti della dottrina. Qui vale il principio latino repetita juvant (giova ripetere le cose), come lascia capire lo stesso Apostolo: «a me non pesa e a voi è utile che vi scriva le stesse cose» (v. 1b).

A questo punto inizia un breve passaggio dal tono molto duro. In apertura incontriamo un triplice «guardatevi», verbo che spesso richiama il contesto di crisi, e quindi postula un supplemento di vigile attenzione120. Lo stesso verbo () regge un triplice accusativo: «cani», «cattivi operai» e «mutilazione» (traduzione CEI: «quelli che si fanno circoncidere»). Se accettiamo di leggere sullo stesso piano i tre accusativi, otteniamo come risultato l'identità di coloro dai quali i cristiani devono stare in guardia: sono dei giudaizzanti121.

Infatti, il termine che li contraddistingue è quello di «mutilazione», forma spregiativa con la quale si designa la circoncisione122. In greco il gioco lessicale risulta più evidente, 119 Tale è il caso, per esempio, di Tessalonica, dove Paolo rimase due o tre settimane e poi fu costretto, per circostanze avverse, a fuggire; il suo ardente desiderio di tornare era motivato, tra l'altro, dalla volontà di «completare ciò che ancora manca alla vostra fede», 1Ts 3,10.120 Due esempi: «Guardate () che nessuno vi inganni» (Mc 13,5); «Ma voi badate () a voi stessi! Vi consegneranno ai sinedri...» (Mc 13,9).121 «Non c'è dubbio che quelli a cui sta pensando Paolo appartenevano al partito giudaizzante», BARRETT C.K., La teologia di san Paolo, San Paolo, Cinisello Balsamo (MI) 1996, 64.122 La circoncisione (in ebraico milah) è l'asportazione del prepuzio, cioè della cute che ricopre l'estremità del pene, organo genitale maschile. Di uso

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passando da «circoncisione» (peritomé, ) a «mutilazione» (katatomé, ). Questo termine sembra essere stato inventato da Paolo123 per ridicolizzare tutte le persone che fanno un uso quasi idolatrico di tale pratica. C'è una buona dose di sarcasmo contro una pratica che, un tempo segno di appartenenza al popolo ebraico e motivo di vero vanto, è diventata un pretesto classista, per dividere e per disprezzare. Questi giudei sono con tutta probabilità anche dei catechisti. Lo deduciamo dalla classificazione «operai», termine usato spesso per indicare coloro che nella comunità hanno compiti di evangelizzazione (cf Mt 9,38; 10,10). La formulazione è però pesantemente negativa, perché si parla di «cattivi operai». Non possiamo precisare la ragione di tale negatività, da collegare, comunque, con l'attività apostolica di tali persone. Costoro potrebbero richiamare la situazione degli «operai fraudolenti» di 2Cor 11,13.

A conferma che si tratta di persone di provenienza giudaica sta anche il primo titolo della serie, quello di «cani». È un termine dispregiativo, usato spesso per designare i popoli pagani124, o i grandi peccatori (cf Ap 22,15). Ora Paolo, per ritorsione, chiama così alcuni membri della comunità cristiana, la cui scorretta dipendenza dal giudaismo disorienta la comunità. Perciò Paolo lancia l'imperioso triplice «guardatevi».

Il v. 3 conferma l'identificazione proposta, perché si attarda a parlare della vera circoncisione. Il tema attiene direttamente al mondo giudaico. Paolo porta a termine un processo di spiritualizzazione già avviato dalla predicazione profetica e deuteronomica che richiedeva un'appartenenza a Dio che non fosse puramente esteriore. I richiami erano perentori e chiari: «Circoncidetevi per il Signore, circoncidete il vostro cuore» (Ger 4,4); «Circoncidete dunque il vostro cuore ostinato e non indurite più la vostra nuca» (Dt 10,16). Nella stessa linea Paolo scrive: «Giudeo è colui che lo è interiormente e la circoncisione è quella del cuore, nello spirito e non nella lettera» (Rm 2,29).

A questo punto possiamo inserire la frase mozzafiato che, tradotta letteralmente dal greco, suona: «Noi infatti siamo la circoncisione» () (v. 3a), resa un po' sbiadita dalla traduzione: «Siamo infatti noi i veri circoncisi». L'idea è meglio illuminata dall'affermazione conclusiva dello stesso versetto: «senza avere fiducia nella carne», che relativizza il valore della circoncisione fisica a vantaggio di quella spirituale. antichissimo perché praticata in Egitto già nel III millennio a.C. e conosciuta da molti popoli (Moabiti, Ammoniti, Arabi), aveva assunto in Israele un significato religioso di appartenenza al popolo eletto; il testo di riferimento è Abramo in Gn 17,9-27. Cf la voce Circoncisione in: Dizionario enciclopedico della Bibbia, Borla-Città Nuova, Roma 1995, 345-346.123 Hapax del NT, non compare né nei LXX, né in scrittori greci prima dell'era cristiana.124 Cf Mt 15,26 però nella forma del diminutivo «cagnolino» ().

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Questa si trova nel culto ad opera dello Spirito Santo e nella fiducia posta in Gesù: «noi che rendiamo il culto mossi dallo Spirito di Dio e ci gloriamo in Cristo Gesù» (v. 3b).

Paolo parla ora della «carne», intesa come l'elemento umano sul quale poggiare il proprio vanto. Essa prende forma nei sette titoli di credito, che vengono sciorinati ai vv. 5-6, e che possiamo distinguere in 4 originali, perché posseduti senza averli meritati, e 3 acquisiti, perché frutto di sforzo e impegno personale.

Paolo ricorda prima di tutto di essere stato circonciso l'ottavo giorno, secondo la più rigorosa osservanza giudaica125. Quindi, di essere vero giudeo, «della stirpe di Israele»126, e, per di più, di appartenere alla gloriosa tribù di Beniamino. Questa può vantare, sia di aver dato i natali a Saul, il primo re di Israele, sia di aver salvaguardato la fedeltà all'alleanza. Infatti, sarà sempre fedele, insieme alla tribù di Giuda, alla più pura tradizione biblica. Le due tribù formeranno il regno del sud, distinto dal regno del nord, scismatico, comprendente le altre dieci. Il quarto titolo fa di Paolo un membro di famiglia rigidamente ebraica, anche se stanziata all'estero: «ebreo da Ebrei»127. Ciò comporta, tra l'altro, la perfetta conoscenza della lingua ebraica, la lingua dei padri, che Paolo usava perfettamente (cf At 21,40), perché abituato a parlarla in casa128.

Fin qui i quattro titoli di vanto che Paolo possiede grazie alla sua famiglia, e non per merito personale. La seconda serie enumera i tre titoli che sono frutto del suo impegno.

Paolo si dichiara «fariseo quanto alla legge», cioè parte viva di quella corrente che esaltava la legge al di sopra di tutto, perché centro e cuore della vita religiosa: «La Legge (Torah) doveva essere considerata come una specie di costituzione, come tale, e soprattutto, perché donata da Dio a Mosè, doveva essere presa alla lettera. Ecco perciò il lavoro di interpretazione inteso come "adattamento alla vita, rispettando la lettera". Solo una fedeltà profonda alla Legge di Dio può spiegare questo modo

125 Cf Lv 12,3: «L'ottavo giorno si circonciderà il bambino»; cf Gn 17,10-12. La legge è osservata scrupolosamente anche da Giuseppe e da Maria che fanno circoncidere Gesù l'ottavo giorno, come leggiamo in Lc 2,21: «Quando furono passati gli otto giorni prescritti per la circoncisione…».126 «Il nome 'israelita' al tempo di Paolo ha una speciale risonanza. Diversamente dal termine 'giudeo' ('ebreo') usato spesso dai pagani in senso spregiativo, esso accentua l'alta rivendicazione religiosa», ERNST, 127.127 «Si manteneva fedele al giudaismo e viveva secondo la fede e i costumi dei suoi padri. Nella diaspora (a Tarso) il nome ‘ebrei’ si usava per designare in particolare quegli ebrei che praticavano nella vita quotidiana le usanze ebraico-palestinesi avite», SCHLIER, 52.128 Nella vita pubblica Paolo parlava il greco; era quindi perfettamente bilingue e possedeva l'ebraico e il greco come lingue materne.

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giuridico di procedere»129. All'interno del gruppo dei farisei130, Paolo si distingueva ulteriormente per singolare dedizione: «quanto a zelo, persecutore della Chiesa». Infatti, il Libro degli Atti lo presenta dapprima partecipe passivo al martirio di Stefano (cf At 8,1), poi, attivo nel ricercare i cristiani per imprigionarli (cf At 9,2). Ancora più eloquente è la documentazione autobiografica: «Voi avete certamente sentito parlare della mia condotta di un tempo nel giudaismo, come io perseguitassi fieramente la Chiesa di Dio e la devastassi, superando nel giudaismo la maggior parte dei miei coetanei e connazionali, accanito com'ero nel sostenere le tradizioni dei padri» (Gal 1,13-14).

Paolo conclude l'elenco dei 'meriti' con il più importante: «irreprensibile quanto alla giustizia che deriva dall'osservanza della legge». Da buon fariseo, riteneva di costruire il suo rapporto con Dio con la scrupolosa osservanza delle varie prescrizioni. Il punto di partenza era buono, come riconosciuto dalla migliore tradizione giudaica: «Osservare la legge era fonte di merito (Abot 6,11). Questa concezione spingeva inevitabilmente a presentare il fariseo in modo caricaturale e a rinfacciargli l'accusa, in parte fondata, di legalismo. [...]. Si dimentica troppo in fretta che alla base di tutto questo movimento, che ha saputo meritare il rispetto e l'amore del popolo, vi era l'amore della legge. 'Chi osserva un solo precetto con fede, merita che lo Spirito Santo riposi su di lui', afferma la Mekilta de.Rabbi Ismael, Es 14,31»131. C'è quindi un giusto zelo, però orientato in senso unico, e perfino estremizzato.

Il dettagliato elenco serve a Paolo per indicare il suo vanto secondo la 'carne', cioè da un punto di vista umano. Poi, improvvisamente, sopraggiunge una specie di rivoluzione copernicana nel suo universo teologico: l'esperienza di Cristo. Paolo ne parla usando la categoria di «conoscenza», da intendere come una relazione, e perfino come un possesso132.

Dalla conoscenza si passa al «guadagno» paradossale, da qui al mistero pasquale e quindi si procede per una conoscenza interminabile133. È l'itinerario dei vv. 7-11.

Ciò che prima contava, era motivo di vanto e costituiva il baricentro della vita, perde inesorabilmente tutto il suo valore, trasformandosi in negatività: «Ma quello che poteva essere per me un guadagno, l'ho considerato una perdita a motivo di Cristo» (v. 7). Privilegi e meriti, titoli familiari e acquisiti, tutto ciò che 129 SEGALLA G., Panorama storico del Nuovo Testamento, Queriniana, Brescia 31992, 93.130 In epoca neotestamentaria erano circa 6.000.131 MANNS F., Il giudaismo, EDB, Bologna 1994, 162.132 Paolo parla di «conoscenza» che potrebbe essere intesa «una relazione personale col Cristo, sotto tutti i punti di vista, che comporta una trasformazione radicale, una autentica 'metanoia'», PERETTO, 61.133 Cf PITTA A., La fede e la «conoscenza di Cristo» (Fil 3,7-11), PSV 30 (1994) 171-182.

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poteva essere catalogato come «guadagno»134, si trasforma in «perdita»135. Usando il linguaggio commerciale136, Paolo esprime il ribaltamento di valori che ha sperimentato nella sua vita, da quando ha incontrato Cristo. Infatti, occorre sottolineare che il peso gravitazionale sta tutto alla fine della frase, quando viene indicata la causa: la scoperta di Cristo. A partire da questo momento, tutto sembra sbiadire, diventare evanescente, fino quasi a scomparire. È l'attualizzazione della parabola della perla preziosa, trovata la quale, si è disposti a fare pazzie pur di entrarne in possesso (cf Mt 13,45-46).

Il v. 8 riprende l'idea appena espressa e la radicalizza. Il «Cristo» del versetto precedente diventa ora «Cristo Gesù, mio Signore», una concentrazione di titoli soffusa di intensa carica affettiva. Paolo rivendica un'esperienza profonda - «sublimità della conoscenza» - che non ammette dubbi o tentennamenti: quando si incontra Gesù, come ha fatto lui sulla via di Damasco, davvero tutto il resto si scolora fino a diventare «spazzatura». Il termine greco skybalon () potrebbe essere reso in forma ancora più forte e tradotto «letame»137.

Il v. 9 propone in mirabile sintesi il pensiero paolino sulla salvezza, fondata esclusivamente sull'abbandono fiducioso in Cristo, e per nulla sul valore delle proprie opere. È qui davvero irriconoscibile il fariseo del v. 6, che vantava di essere «irreprensibile quanto alla giustizia che deriva dall'osservanza della legge». Il v. 9 è la liofilizzazione della lettera ai Galati e più ancora di quella ai Romani, in cui Paolo espone con dovizia il suo pensiero138.134 Il sostantivo è raro; non compare mai nei LXX; nel NT si trova tre volte soltanto: nel nostro passo, in Fil 1,21 e in Tt 1,11.135 Anche ricorre poche volte, quattro in tutto: in Fil 3,7.8 e in At 27,10.21.136 «Nella lingua commerciale e nella s'oppongono di norma al guadagno e al profitto, ossia Ora, il Signore ha utilizzato metaforicamente l'esempio di un rovinoso bilancio, per mostrare che il guadagno di tutto l'universo a nulla varrebbe, se l'uomo perdesse se stesso (Mt 16,26; Mc 8,36); assioma di cui san Paolo, alludendo alla via di Damasco, fa uso», SPICQ C., Note di lessicografia neotestamentaria, I, Paideia, Brescia 1988, 732.137 Ricorre solo qui in tutto il NT e non compare mai nei LXX. Nella grecità può significare 'avanzo', 'residuo', ma anche 'letame', 'immondezza' e anche 'escremento': «Si tratta, comunque sia, di qualcosa di cui ci si deve liberare [...]. Per rendere la crudezza del greco, non v'è che la locuzione francese: C'est de la crotte», SPICQ C., Note di lessicografia neotestamentaria, II, Paideia, Brescia 1994, 548.138 Lo si vede raccolto in Rm 1,16-17, tema della lettera. Paolo vuole chiarire fin dall'inizio il senso e il cuore del Vangelo che intende portare a Roma e lo fa con due frasi ad altissimo voltaggio teologico, come documentano i termini 'vangelo', 'potenza di Dio', 'salvezza', 'fede', 'credere', 'rivelare', 'giustizia', 'vita'. Pur nella densità dei termini, il messaggio è scarno nella sua essenzialità: il Vangelo di Dio (cf v. 1), che è Gesù Cristo (cf vv. 2-4), raggiunge tutti gli uomini che si aprono a lui nella fede. Paolo dice di non vergognarsi del Vangelo, opponendosi a qualcuno che invece si vergogna. Il messaggio di

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Il legame con Cristo mediante la fede rende possibile il travaso del mistero pasquale da Cristo stesso al credente. L'esperienza di Cristo viene partecipata a Paolo: «E questo perché io possa conoscere lui, la potenza della sua risurrezione, la partecipazione alle sue sofferenze, diventandogli conforme nella morte, con la speranza di giungere alla risurrezione dai morti» (vv. 10-11). È un processo di 'cristificazione', che rinnega totalmente il valore salvifico delle proprie opere. Scaduta ogni pretesa meritocratica, rimane solo un amoroso abbraccio al Crocifisso139 per partecipare con lui alla gloria della risurrezione. Questa, allora, «non rappresenta un'eredità universale, valida per tutti gli uomini, bensì soltanto la speranza di coloro che credono in lui»140.

Ora è posto il fondamento per la nuova giustizia, quella che viene da Dio per mezzo della fede in Cristo. Essa consiste fondamentalmente nella comunione vitale con lui, è capace di creare una relazione che matura nel tempo e sfocia nell'incontro salvifico finale. La meta è chiara davanti agli occhi, ma non ancora raggiunta. Nel v. 12 Paolo si dichiara homo viator, cioè pellegrino sulla strada della perfezione, che può percorrere perché Cristo ve lo ha immesso: «mi sforzo di correre per conquistare il premio, perché anch'io sono stato conquistato141 da [Gesù]142 Cristo». Gesù suona come scandalo per i Giudei che attendevano un Messia rivestito di gloria, e come assurdità per i Greci che sentivano ferita la loro dignità intellettuale. Esistevano quindi motivi di vergogna. Positivamente Paolo afferma che il Vangelo è potenza di Dio: è la forza di Dio che fa vivere, come attesta 2Cor 13,4: «Egli fu crocifisso per la sua debolezza ma vive per la potenza di Dio». In questa vita nuova, che sprizza dal mistero pasquale, sta la salvezza. Destinatari sono tutti, espressi però nell'ordine che rispetta la volontà divina che si è rivelata dapprima al popolo ebraico con le promesse ai patriarchi. Quindi, viene prima il Giudeo, poi il Greco (= pagano). Si trattava di una fase storica della storia della salvezza, scandita da tempi e da modalità precise. La fase successiva, quella attuale, è un superamento della antiche barriere e delle esclusioni.

Nel Vangelo si rivela la giustizia di Dio. È nel Vangelo, cioè in Cristo, che impariamo a conoscere il Padre, il suo amore e i modi del suo intervento. È da lui che proviene ogni bene. Con lui ci si regola secondo un unico criterio, quello della fede. In altri termini, il rapporto con Dio non si costruisce sulla partita doppia del dare e dell'avere, ma su quella della gratuità del suo amore che si riceve con animo riconoscente e disposto a conservarlo: è la fede. Questo significa la citazione di Ab 2,4: «Il giusto vivrà per mezzo della fede». Qualcuno preferisce tradurre «Chi è giusto per la fede, vivrà», in quanto il Vangelo è rivelazione della giustizia di Dio per la salvezza del credente. In entrambi i casi si sottolinea che la vita viene dalla libera e amorosa iniziativa divina a cui l'uomo risponde con la fede.139 Fortemente suggestiva è la formulazione greca .140 PITTA A., La fede e «la conoscenza di Cristo», cit., 181.141 Si potrebbe tradurre in modo più forte con «afferrato». Il testo è richiamato nel titolo del libro Afferrati da Cristo, frutto degli esercizi spirituali che Mariano Magrassi predicò in Vaticano alla presenza di Paolo VI e della curia romana.142 La critica testuale tende a lasciare solo «Cristo».

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Al v. 13 Paolo apre il suo cuore ai fratelli di fede con una confidenza ricca di umiltà: «Fratelli, io non ritengo ancora di esservi giunto...». Può essere utile ricordare che in greco troviamo il verbo katalambano (), lo stesso già impiegato due volte al v. 12; quindi, si dovrebbe rendere: «Fratelli, io non ritengo ancora di essere stato conquistato...», nel senso che non è mai conclusa l'opera di assimilazione a Cristo. Da qui la voglia di continuare la corsa fino ad «arrivare al premio che Dio ci chiama a ricevere lassù, in Cristo Gesù» (v. 14). Paolo è mosso da un intenso desiderio che lo stimola incessantemente a proseguire il cammino intrapreso143.

Il paradiso, esperienza di comunione divina, è la meta cui Paolo tende, dopo che Cristo lo ha messo in pista: «La corsa verso il traguardo non esprime uno sforzo frenetico, con cui ci si illuda di potercela fare da soli, né una paura preoccupata solo di se stessa, ma la reazione all'opera di Cristo Gesù e da questi motivata»144.

Con la soave nota escatologica, Paolo conclude questo squarcio autobiografico che ha permesso di sbirciare nella sua vita intima e di capire che cosa abbia significato per lui aver incontrato Cristo: «Quello che sconvolse Saulo sulla via di Damasco non fu tanto la forza che lo colse dall'alto e lo gettò a terra come una folgore e come lo strappo improvviso di una corda, prima allentata, poi tirata per domare un cavallo, ma la scoperta di un amore nuovo, dolcissimo. Il persecutore costretto ad amare il perseguitato, a predicare l'amore per lui a tutti. Lui, il Nazareno, era il vincitore, perché aveva voluto vincere ad ogni costo»145.

2. CRISTO COME META (3,15-21)L'idea della meta, già presente nella parte appena presentata, è radicalizzata nel nuovo segmento del discorso. Se prima Cristo era stato visto soprattutto come il centro propulsore della vita di Paolo, l'asse attorno a cui far ruotare l'intera esistenza, ora egli è considerato maggiormente come la meta ultima, il fine verso cui tendere e per il quale concentrare tutti gli sforzi146. Veramente Cristo è per Paolo l'Alfa e l'Omega, il Primo e l'Ultimo, il principio 143 Sant’Agostino ha dedicato pagine memorabili al ‘desiderio’, come, ad esempio, la seguente: «L’intera vita del fervente cristiano è un santo desiderio. Ciò che poi desideri, ancora non lo vedi, ma vivendo di sante aspirazioni ti rendi capace di esser riempito quando arriverà il tempo della visione. […] Cerchiamo, quindi, di vivere in un clima di desiderio perché dobbiamo essere riempiti. Considerate l’apostolo Paolo che dilata il suo animo, per poter ricevere ciò che verrà. Dice infatti: “Fratelli, io non ritengo ancora di esservi giunto” (Fil 3,13)», Trattati sulla Prima Lettera di Giovanni, Trat. 4, PL 35, 2009.144 GNILKA, 327-328.145 CREMONA C., San Paolo, Rusconi, Milano 1993, 36.

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e la fine (cf Ap 2,13). Il discorso, finora strettamente personale perché caratterizzato dalla prima persona singolare, si apre adesso al 'noi' comunitario e, poi, al 'voi' esortativo: cambiano i pronomi, varia leggermente la grammatica, ma la prospettiva rimane sostanzialmente la stessa. Possiamo dire che il pensiero procede senza soluzione di continuità.

Dopo la presentazione autobiografica, Paolo esorta i lettori del suo scritto ad incanalarsi nella medesima prospettiva che ha guidato le sue scelte (cf vv. 15-17). Egli si presenta come modello da imitare, creando una catena che ha in Cristo l'archetipo e che, passando attraverso l'Apostolo, lega insieme i cristiani. Nessuna millanteria in tutto questo, nessuna gloria umana, ma solo l'umile convinzione di offrire alla comunità un modello concreto da imitare, rimandando sempre alla fonte che è Cristo. Il migliore testo per illustrare bene il pensiero paolino è reperibile in 1Cor 11,1: «Fatevi miei imitatori, come io lo sono di Cristo»147. Forse nella linea della vera sequela di Cristo, verso cui Paolo aveva detto di correre (cf v. 14), è da leggere e interpretare il «Quanti dunque siamo perfetti» che apre il v. 15. Infatti troviamo, sia un «dunque» () che richiama quanto detto in precedenza, sia il verbo «avere gli stessi sentimenti» (), che era stato il 'pezzo forte' nell'invito a imitare Cristo (cf 2,5). Alla luce dell'imitazione di Cristo e della sua sequela, la perfezione a cui si accenna non è di ordine morale. Paolo ha appena affermato di essere in cammino e di non avere ancora raggiunto la meta. La perfezione allora è la coscienza di essere sulla strada giusta. Perfetti sono coloro che, spiritualmente maturi e veramente saggi, conoscono il senso, lo scopo e il compito della vita cristiana148. Cristo è il loro maestro e modello. Paolo ha il non piccolo merito di additare la strada giusta e di essere lui stesso incamminato su di essa. Proprio qui sta la 'perfezione'.

Il cristiano 'pellegrino' (homo viator) smentisce tutti coloro che, come pseudoprofeti, predicano un perfezionamento già raggiunto in questo mondo. Chi si considera 'un arrivato', arresta la corsa, si blocca, non raggiungendo mai Cristo che sta sempre al di là dei limitati sforzi compiuti. Il discorso si tinge di

146 «Paolo si vede come un corridore, nella speranza di giungere alla meta per ricevere il giusto premio, rappresentato da Cristo stesso; nessuna olimpiade ha mai pensato di mettere tra i trofei dei vincitori Gesù Cristo!», PITTA A., Lettera ai Filippesi, in: La Bibbia Piemme, Piemme, Casale Monferrato (AL) 1995, 2848.147 Cf anche 1Cor 4,16; 1Ts 1,6.148 «Perfetti, nel senso che siamo in movimento verso Cristo, la nostra meta, e che ci lasciamo dietro e dimentichiamo ciò che sta alle nostre spalle», SCHLIER, 59. C’è la possibilità di una duplice lettura: «Il vocabolo 'perfetti' può essere preso seriamente oppure in senso ironico; nel primo caso, verrebbe riconosciuta una certa maturità, se non a tutta la comunità, almeno ad alcuni suoi membri [...]. Nel secondo senso, il termine sarebbe la parola d'ordine dei propagandisti e di quanti danno loro una mano», PERETTO, 65.

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impopolarità perché, se l'esistenza cristiana viene caratterizzata come pellegrinante, l'uomo percepisce la precarietà dell'universo. Non c'è nulla di definitivo, finché non si arriva a Cristo e in Cristo; ecco perché Paolo sollecita a imitare lui e tutti coloro che si comportano come lui. Da qui l'esortazione del v. 16: «Intanto, dal punto in cui siamo arrivati, continuiamo ad avanzare sulla stessa linea»149.

I vv. 18-19 contengono una rovente polemica contro nemici, non meglio identificati. Non è escluso che si tratti delle stesse persone menzionate in 1,15-17; certamente sono dei cristiani. Considerati a questo punto del discorso, possiamo pensare che siano persone che si oppongono risolutamente alla sequela di Paolo, e, in definitiva, all'imitazione di Gesù. Sono infatti caratterizzati come «nemici della croce di Cristo». La frase connota persone che propagandano una via di accesso a Cristo, diversa dalla Via Crucis. Pura illusione: non ci sarà mai il radioso mattino di Pasqua senza le tenebre del venerdì santo. Eppure, poiché la sofferenza e la rinuncia ripugnano istintivamente all'animo umano, si vogliono collaudare strade più comode, asfaltate di piaceri e vellutate di comodità. Paolo qualifica questi cristiani come persone dedite alla vita gaudente, che «hanno come dio il loro ventre». Il ventre sarebbe per qualche autore «una parola castigata per indicare cupidigie sensuali senza complessi, crapule e godimenti sfrenati»150. Altri preferiscono leggere tutta l'espressione come «una forma religiosa diametralmente opposta non solo a quella del cristiano, ma anche a quella del giudeo»151. Comunque si voglia interpretare, la frase le classifica come persone totalmente ripiegate su se stesse, incapaci di sollevarsi oltre l'angusto orizzonte del loro egoismo, destinate a una fine misera. Questa è la «perdizione» () del v. 19 che coincide con il giudizio finale, decisamente sfavorevole152, e che non ammetterà nessun appello. Sono persone che hanno fallito totalmente la meta. La loro corsa è terminata nel baratro della perdizione.

Tutt'altra aria si respira con i vv. 20-21 che additano il vero traguardo della vita cristiana. Abbiamo qui, forse, il frammento di 149 La frase è molto sintetica e quindi un po' oscura; la critica testuale enumera diversi tentativi per illuminarla, soprattutto con l'inserimento del verbo (S corretto, K, P, D, 1881, 81, 104... e scrittori come Crisostomo, Teodoro, Giovanni Damasceno...).150 FRIEDRICH, 231-232.151 DE LORENZI L., «Il nostro 'políteuma' è nei cieli» Fil 3,20a, PSV 28 (1993) 163; cf tutto l'articolo 135-181.152 «Il sostantivo assume un senso nettamente più profondo quando riguarda la rovina definitiva che l'uomo si procura per propria colpa (Mt 7,13; qui il concetto opposto è 'vita': 7,14), specialmente in Paolo (Rom 9,22; Fil 1,28; qui il contrario è 'salvezza': Fil 3,18). Gli uomini che sono caduti in questo stato sono detti 'figli della perdizione' (2 Tes 2,3; cfr Gv 17,12; 18,9 e Qumran)», KRETZER A., , in: BALZ H. - SCHNEIDER G. (edd.), Dizionario esegetico del Nuovo Testamento, I, Paideia, Brescia 1995, 361-362.

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un inno153. Dapprima si parla di una realtà «nei cieli». Qui la geografia non serve. L'uomo ha bisogno di concretezza e a questo mira il riferimento spaziale. L'espressione è quindi un tributo da pagare al modo di esprimersi umano e al bisogno di localizzazione. La sostanza del messaggio incomincia a chiarificarsi con la precisazione del termine «patria» (políteuma,154, da intendere come «la nostra costituzione e governo (che) è nei cieli»155. Abbiamo una cittadinanza che ci onora e ci nobilita, perché ci rende familiari con Cristo. Egli, presentato nella pienezza dei suoi titoli: «salvatore, Signore Gesù Cristo», è l'oggetto della speranza di Paolo e di tutta la comunità.

Dicendo che noi l'attendiamo «di là», lascia intendere che la sua condizione gloriosa sarà un giorno partecipata alla comunità. Il v. 21 spiega in che cosa consista la funzione salvatrice di Cristo. Sarà, sostanzialmente, una trasfigurazione, intesa come trasformazione radicale di tutto il nostro essere, corpo compreso, conformato a Cristo, e, più precisamente: «al corpo della sua gloria» (traduzione CEI: «al suo corpo glorioso»). Tale espressione «è un tentativo linguistico per significare il tipo di esistenza gloriosa proprio di Gesù dopo la sua morte»156. La piena assimilazione a Cristo: era questo il segreto desiderio di Paolo, che anelava a seguire Cristo nella morte per seguirlo pure nella risurrezione (cf vv. 10-11).

Paolo travasa le sue convinzioni e le sue aspettative nella comunità, ricordando la gloriosa meta di ogni uomo. Cristo non è solo l'agognata meta della fine della vita, ma colui che già oggi ci attrae a sé, trasfigurandoci ogni giorno e favorendo la nostra assimilazione a Lui.

CONCLUSIONEPaolo, che potremmo sportivamente chiamare 'l'atleta di Cristo', è in vena di confidenze e parla alla comunità di Filippi della sua 'corsa' spirituale. Lui, un tempo giudeo osservante fino allo scrupolo, avrebbe potuto trarre dalla sua posizione motivo di vanto e di gloria; invece, ritiene tutto spazzatura da quando ha incontrato Cristo. E si è messo a seguire solamente lui.

153 È l'opinione di REUMANN J., Philippians 3.20-21 - a Hymnic Fragment?, NTS 30 (1984) 593-609, dove, tra l'altro, si afferma: «It appears possible to us therefore that 3.20-21 is a non-Pauline hymn, written prior to his use of it here, preserved pretty much intact», 605. Di parere contrario, in quanto non lo ritiene un inno preesistente, DE LORENZI L., «Il nostro 'políteuma' è nei cieli» Fil 3,20a, cit., 144.154 Il sostantivo è un hapax di tutto il NT; nell'AT ricorre solo in 2Mac 12,7.155 Questo è il tentativo di tradurre il fonema greco cf DE LORENZI L., «Il nostro 'políteuma' è nei cieli» Fil 3,20a, cit., 135.156 PENNA, 121.

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Ha accettato una radicale trasformazione del cuore, perché, dimentico di tutto, si protende verso l'unica cosa capace di inglobare tutte le altre: la conoscenza di Cristo, cioè l'esperienza profonda della sua persona. È in lui che ha scorto la vera novità di vita, l'unum necessarium, che merita di essere ricercato sempre e ad ogni costo. Lo aveva detto ripetutamente, ma ancora una volta Paolo sente il bisogno di ripeterlo e quasi di gridarlo: la sua vita è Cristo. Egli è l'unica, l'ultima realtà.

Non per questo Paolo si sente arrivato. Sa essere stato afferrato da Cristo e di continuare a correre verso una meta che non si raggiunge mai nel tempo. Egli è sospinto dalla speranza di raggiungere la comunione con Cristo. Fermarsi per compiacersi delle proprie virtù, sarebbe come uno che si fermasse per sapere se corre! La fede non la si possiede, ma si è posseduti, o meglio, si è afferrati da Qualcuno.

Paolo sa bene che la sua scoperta non deve restare un tesoro da proteggere o da custodire gelosamente. Perciò scrive alla comunità, comunica la sua passione di apostolo e di innamorato di Cristo, sollecitando perché la sua esperienza sia partecipata e condivisa. Dalle parole e dal comportamento dell'Apostolo, i Filippesi apprendono che la vita non è semplicemente l'adempimento di una norma, ma, molto di più, la pienezza di un incontro: «Il cristiano non deve realizzare un ideale di perfezione morale, egli vive nell'amore una sua unione, anzi, una sua assimilazione, una trasformazione sempre più intima e vera nel Cristo»157.

157 BARSOTTI D., Meditazione sulla lettera ai Filippesi, Queriniana, Brescia 1990, 63.

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UNA MANCIATA DI RACCOMANDAZIONI

Testo di Filippesi 4,2-9

La lettera sta volgendo al termine. Pur nella sua brevità, ha fatto esplodere gli argini della riservatezza, aprendo il cuore di Paolo alla sua cara comunità di Filippi. Al momento di concludere, è utile lasciare ancora alcuni consigli sotto forma di raccomandazione. Il carattere esortativo del piccolo brano si impone con solare evidenza, anche solo dopo il computo numerico degli imperativi che lo corredano: ben otto in otto versetti. Paolo lascia quindi una manciata di raccomandazioni.

A livello organizzativo del materiale, possiamo distinguere due parti:- Esortazione a persone nominate esplicitamente: vv. 2-3- Esortazione alla comunità in generale: vv. 4-9

1. ESORTAZIONE A PERSONE NOMINATE (vv. 2-3)La prima esortazione è rivolta a due donne, Evodia e Sintiche, di cui non conosciamo nulla, al di fuori delle indicazioni fornite in questi due versetti. Il testo greco conferisce loro un vistoso rilievo perché colloca il nome prima del verbo, ripetuto per ciascuna di loro («Evodia esorto e Sintiche esorto» ). La ripetizione esprime forse un'urgenza, tralasciata dalla traduzione italiana. Questa rende il testo greco così: «esorto ad andare d'accordo nel Signore», come se si trattasse di una bega personale o di un'ostilità più radicata. Sono interpretazioni possibili, e proposte da alcuni autori158. In questo caso, la sollecitazione rivolta al fedele collaboratore del v. 3 ha il valore di aiutare a ricomporre la lite tra le due donne.

Ma si dà anche un'interpretazione 'più mitigata' che, lungi dal vedervi un rimprovero, trova un'esortazione a continuare sulla strada del bene. Fondiamo questa lettura sul testo greco. Qui si incontra il verbo fronein (), tradotto con «andare d'accordo». Lo stesso verbo era comparso in 2,5 e, in quel contesto, era stato tradotto «abbiate gli stessi sentimenti». Sulla scia di questa traduzione possiamo leggere così il nostro passo: «esorto Evodia e Sintiche ad avere un comune sentire nel Signore»159. In questo caso, l'aiuto dato alle due donne consiste 158 GNILKA, 281: «Il loro disaccordo è stato più di un fatto puramente personale, perché si parla poi della loro attiva partecipazione alla vita della comunità. Anche se cose personali le possono dividere, la loro divergenza pesa tanto più sulla comunità per quella loro eminenza avuta nel passato». Cf anche BARBAGLIO, 587 e SCHLIER, 64-65.159 La Traduzione interconfessionale interpreta così: «Raccomando molto ad Evodia e Sintiche di vivere in pieno accordo tra di loro secondo la volontà del Signore».

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nel favorire lo sviluppo della loro intesa, già esistente. Preferiamo e privilegiamo questa lettura.

Un altro piccolo problema interpretativo è dato da quel «mio fedele collaboratore». L'ultima parola, in greco syzyghe (), si potrebbe leggere come un nome proprio, Sizigo, che significa appunto «collega», «compagno». La traduzione del testo sarebbe «e prego anche te, fedele Sizigo»160. Decisamente ne guadagna il senso, perché Paolo si indirizza ad una persona precisa, cui raccomanda le due donne. In caso contrario, resta un generico appello ad uno sconosciuto, difficilmente identificabile dalla comunità che riceve la lettera, se non vogliamo leggervi il pezzetto di una delle diverse lettere che secondo alcuni autori formano l'attuale lettera ai Filippesi. A questo punto le ipotesi si sprecano, e noi non intendiamo inseguirle correndo il rischio di perderci nel labirinto delle ricostruzioni più o meno fantasiose. Ci fermiamo, contenti di aver proposto le due possibilità, mostrando però la nostra preferenza per leggervi il nome proprio di una persona, Sizigo161.

Più interessante dare un'occhiata alla comunità. Sono presenti delle collaboratrici che svolgono un ruolo certamente non secondario. Forse hanno preparato la strada ai missionari. Donne intraprendenti, dunque, al pari della loro concittadina Lidia, di cui riferiscono At 16,14-15. Di loro si dice che «hanno combattuto per il vangelo» insieme a Paolo e ad altri collaboratori, tra cui un certo Clemente. Per quanto concerne questa persona, ancora una volta confessiamo la nostra ignoranza storica: nonostante qualche tentativo di identificazione162, dobbiamo rinunciare a precisare l'identità. Il contributo dato dalle due donne al tempo della presenza di Paolo, diventa la causa perché ora si intervenga a loro favore. Ancora una volta l'Apostolo dimostra la sua sensibilità e la sua finezza d'animo, mettendo a frutto la virtù, non troppo diffusa, della riconoscenza. È un apprezzabile modo per dire loro: «grazie!».

L'attenzione e la riconoscenza sono estese ora a tutti i collaboratori che non possono essere nominati, forse perché troppi, e più probabilmente perché non direttamente conosciuti, 160 Così interpreta la Bible de Jérusalem; è pure la posizione di STAAB, 263-264: «qui si tratta sicuramente di un nome proprio, poiché la preghiera è diretta a una persona determinata». Analogo pensiero in GNILKA, 283 che tenta anche una precisazione: «E probabilmente abbiamo a che fare con uno degli episcopi e diaconi della comunità». Invece FABRIS (2000), 246 e PENNA, 124 conservano il valore di «compagno».161 Non ha molto importanza, ai fini dell'interpretazione, sapere che il nome significa 'compagno', 'collega' e letteralmente 'unito allo stesso giogo'.162 Autori antichi come Origene, Epifanio e Girolamo lo hanno identificato con Clemente Romano, il terzo successore di san Pietro come vescovo di Roma. Non abbiamo documenti storici per provarlo e quindi preferiamo lasciarlo indeterminato: «Clemente, nome di persona molto comune, non è identificabile con s. Clemente Romano», PERETTO, 69; così anche GNILKA, 284.

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per i quali si garantisce che sono registrati «nel libro della vita». La medesima espressione e altre analoghe compaiono più volte nella Bibbia, di solito con prospettiva escatologica, per indicare coloro che sono destinati alla comunione con Dio163.

2. ESORTAZIONE ALLA COMUNITÀ (vv. 4-9)Il discorso si allarga, dai singoli alla comunità. Questa riceve l'esortazione alla gioia, tema più volte incontrato e che attraversa tutta la lettera. Prima erano individuati motivi concreti che causavano la gioia (cf 1,18; 2,17-18), ora l'appello è generale e insistito.

La gioia ha tre aspetti: una radice interiore, un'espressione esterna e una causa ben precisa. La radice è il Signore. Sempre si tratta di gioia «nel Signore» (), per distinguerla nettamente da realtà che portano lo stesso nome, ma che hanno contenuto diverso. Paolo si preoccupa di bloccare le imitazioni. La gioia che invade l'intimo dell'individuo e della comunità, investe pure l'esterno, tutti gli altri, sotto forma di «affabilità» 164. Infine, viene indicata la causa, consistente nell'avvicinarsi del Signore. Questa precisazione orienta e determina il contenuto della gioia cristiana: è la presenza di Cristo a garantire e ad assicurare una condizione di benessere per sé e per gli altri: «L'attesa della parusia è per l'apostolo un motivo parenetico centrale»165.

La vicinanza del Signore, già reale presenza per molti aspetti, funge da deterrente contro ansie incontrollate: «Chi lascia operare nella propria vita la semplice parola 'il Signore è vicino', esperimenta già ora la pace di Dio. Paolo non pensa tanto alla pace tra gli uomini, ma alla calma interiore del cuore, che ha il suo fondamento nelle promesse di Dio»166. Il cristiano che organizza la propria esistenza alla luce di Cristo, non si lascia 163 Cf Ap 3,5; 20,15; Es 32,32-33; Is 4,3; Ger 17,1; Ml 3,16; Sal 40,8; 56,9; 69,29; Dn 12,1. Il motivo compare anche nella letteratura giudaica, come il Documento di Damasco (20,19), L'Ascensione di Isaia (9,22-23) e 2Enoc (13,10); conosce pure degli sviluppi: «I giudeo-cristiani moralizzano questo Libro della vita che conterrà i nomi dei giusti non più in base a una predestinazione da parte di Dio (come nelle 'tavolette celesti'), ma dopo essersene resi degni, mentre i cattivi ne saranno cancellati per essere iscritti nel libro dei colpevoli», TESTA E., La fede della chiesa madre di Gerusalemme, Dehoniane, Roma 1995, 308.164 In greco troviamo il neutro sostantivato () che ha lo stesso valore del sostantivo (). I dizionari propongono i significati di 'clemenza', 'benevolenza', 'moderazione' 'equità', 'dolcezza'; i traduttori dei testi biblici impiegano di più i significati di 'mansuetudine', 'clemenza'', 'indulgenza'. La scelta del vocabolo dipende molto dal contesto. Nell'AT è un attributo della giustizia (cf Sap 12,18) e del governo di Dio (cf 2Mac 2,22), il quale tratta gli uomini con misericordia. Nel NT il termine significa «non soltanto moderazione e misura, ma anche bontà, cortesia, generosità. Ancor di più essa evoca una particolare affabilità, un certo garbo», SPICQ C., Note di lessicografia neotestamentaria, I, cit., 605.165 ERNST, 155.166 Ibidem.

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irretire da lacci che frenano il suo impegno, o che smorzano la sua serenità di fondo. Anche sotto questo punto si comprende il precedente invito alla gioia. Paolo non fa mistero circa le reali e spesso dure difficoltà dell'esistenza cristiana; su questo punto era stato chiaro, fin dall'inizio dello scritto, alludendo alle sue catene (cf 1,13). Ma è altrettanto convinto che non giova lasciarsi prendere da ansiose inquietudini167 che bloccano e rendono improduttivi.

Positivamente, tutto prende senso e valore nella comunione con Cristo/Dio, di cui la «pace» del v. 7 è il segno visibile e documentabile168. La fiducia in Dio si concretizza nel manifestare a Lui la nostra situazione, attraverso «preghiere, suppliche e ringraziamenti». Non è certo un 'far conoscere' qualcosa che non sa, ma è il modo per l'uomo di mantenere il filo diretto con Dio, nel dialogo di amore, nel sereno abbandono alla Sua volontà, nella fiduciosa attesa davanti a Lui. Colui che è capace di pregare e di ringraziare, depone il suo affanno in Dio. Potrebbero sembrare belle parole di circostanza, se non venissero dalla vita stessa di Paolo che ha dimostrato di leggere tutto, persecuzione compresa, con gli occhi illuminati dalla luce della Provvidenza (cf 1,15-20).

La formula «in conclusione» () del v. 8 intende raccogliere un insieme di ammonimenti che appartenevano alla sapienza classica. Passiamo ora, dopo le pennellate teologiche, ad affreschi di tutto rispetto, ma nell'ordine della feriale quotidianità. E questo non dispiace. Il cristiano non è pensato come un abitante della stratosfera dello spirito, ma come un essere incarnato che, partendo dalle virtù umane, risponde agli impulsi dello spirito per tendere alla perfezione169. Non ci sarà santità di vita senza una piattaforma di sana 'normalità'. Perciò un elenco di otto virtù invita a ricercare e a perseguire «tutto quello che è vero, nobile, giusto, puro, amabile, onorato, tutto quello che è virtù e merita lode». Le prime quattro indicano valori etici e spirituali, le altre quattro, a due a due, sottolineano di più l'aspetto pubblico e sociale170.

Più che sulle singole virtù, conviene considerare il quadro complessivo, come saggiamente suggerito da questo invito: «Il discorso esortativo di Paolo non fa leva solo sul significato dei singoli termini, che può variare secondo i diversi ambienti e 167 Il verbo merimnáo () del v. 6 è lo stesso di Mt 6,25.31.34 dove si invita al sereno abbandono alla Provvidenza divina.168 Raccomanda la Imitazione di Cristo, Libro II, 3: «Mantieni anzitutto in pace te stesso e così potrai pacificare gli altri. L'uomo operatore di pace giova più dell'uomo dotto […]. L'uomo buono e sereno volge tutto a bene».169 Il mondo cristiano sta accanto a quello pagano, con rispetto, ma anche aiutandolo a guardare oltre, cf POPKES W., Philipper 4.4-7: Aussage und situativer Hintergrund, NTS 50 (2004) 246-256.170 Il catalogo, insieme a termini comuni, ne contiene tre che ricorrono solo in Paolo: amabile, quello che è virtù e merita lode ().

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contesti, ma sull’insieme dell’elenco. L’accumulazione e l’accostamento degli otto vocaboli evoca un sistema di valori comunemente apprezzati e accettati»171. Il cristiano è capace di valorizzare tutto, di integrare i valori proposti dai pagani 172 e dai giudei, e di inserirli in una sintesi superiore.

Esistono di fatto tanti valori offerti e proposti anche da non credenti e da non cristiani173. È stato il dialogo con il mondo una delle grandi acquisizioni del Concilio Vaticano II. Disse Paolo VI al termine del Concilio: «Una simpatia immensa ha pervaso il Concilio. La scoperta dei bisogni umani ha assorbito l'attenzione del Concilio. Invece di deprimenti diagnosi, incoraggianti rimedi; invece di funesti presagi, messaggi di fiducia sono partiti dal Concilio verso il mondo. I suoi valori sono stati non solo rispettati, ma onorati; i suoi sforzi sostenuti, le sue aspirazioni purificate e benedette. La Chiesa è scesa a dialogo con il mondo»174.

Paolo rimanda ancora al proprio esempio, viva applicazione di vita cristiana alla quale i Filippesi possono ispirarsi perché l'hanno, almeno in parte, sperimentata personalmente175. Per loro Paolo, in quanto apostolo, rimane il collegamento diretto e sicuro con Cristo.

Con la promessa benedicente «il Dio della pace sarà con tutti voi», si conclude il presente brano, carico di esortazioni. La frase potrebbe valere come conclusione di tutta la lettera, ma a Paolo preme aggiungere ancora una parola per esprimere il proprio ringraziamento alla comunità che si era dimostrata tanto generosa e disponibile nei suoi confronti. Sarà il tema dell'ultimo segmento della lettera.

171 FABRIS (2000), 255.172 Possiamo prendere, ad esempio, questo testo di CICERONE: «Che c'è di meglio di un animo avveduto e buono? Di questo bene dunque dobbiamo godere, se vogliamo essere felici; ma il bene dell'animo è la virtù… Perciò tutto ciò che è bello, onesto, nobile… è pieno di gioia» (Tusculane 5,23,67: Omnia quae pulchra, honesta, praeclara sunt… plena gaudiorum sunt), citato da PENNA, 135.173 La valorizzazione del vero e del bene, per quanto presenti in forma minimale, è stata recepita dal Concilio Vaticano II che così conclude la rassegna della varie religioni: «Poiché tutto ciò che di buono e di vero si trova in loro (= coloro che non conoscono Dio), è ritenuto dalla Chiesa come una preparazione al Vangelo, e come dato da Colui che illumina ogni uomo, affinché abbia finalmente la vita» (Lumen gentium, n. 16).174 Si leggano anche i nn. 4-10 della Gaudium er spes e, estensivamente, tutto il documento. Il dialogo con il mondo era uno dei punti programmatici di Paolo VI, espresso all'inizio del pontificato nella sua prima enciclica: «La Chiesa deve venire a dialogo con il mondo in cui si trova a vivere. La Chiesa si fa parola. La Chiesa si fa messaggio. La Chiesa si fa colloquio» (Ecclesiam suam, n. 38).175 «Secondo la tradizione giudaica un discepolo apprende non solo per mezzo dell'insegnamento trasmesso con autorità, ma nel contatto personale e comunanza di vita con il maestro: egli deve poter ascoltare e vedere», FABRIS (1983), 119.

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Excursus: LE VIRTÙ UMANE

Il v. 8 presenta un breve elenco di virtù che non possiamo dire propriamente o esclusivamente cristiane. Sono piuttosto virtù umane176. Esse conservano un valore che merita una parola supplementare. È il significato di questa riflessione che amplia l'orizzonte anche su virtù non registrate da Paolo, ma che il cristiano dovrebbe possedere, come corredo della propria personalità.

Valorizzare le virtù umane significa valorizzare la natura umana, riconoscere che è buona, e che svolge un importante ruolo nella crescita complessiva della persona. Nulla di più illusorio che voler costruire una spiritualità disincarnata, propugnare un utopistico quanto impossibile 'angelismo'177. Partiamo dal tacito presupposto che la natura umana è buona, perché creata da Dio, e che ha poi conosciuto l'amara esperienza del peccato. Perciò, non si trova più allo stato originale. Di conseguenza, la sua bontà non è più 'naturale', ma frutto di sforzo e di impegno personale, non disgiunto dall'aiuto che il Signore riserva sempre.

Perché coltivare le virtù umane? Perché apprezzarne la funzione? Anzitutto per valorizzare l'opera di Dio e per dare a Lui gloria. Pensiamo al corpo, alla salute, alla psiche, all'affettività, alla cultura, alla formazione intellettuale. Inoltre le virtù umane sono il ponte che ci permette di trasmettere il vangelo, di manifestarlo come Buona Notizia. Esse costituiscono il campo

176 Il CCC, al numero 1804, riporta: «Le virtù umane sono attitudini ferme, disposizioni stabili, perfezioni abituali dell’intelligenza e della volontà che regolano i nostri atti, ordinano le nostre passioni e guidano la nostra condotta secondo la ragione e la fede. Esse procurano facilità, padronanza di sé e gioia per condurre una vita moralmente buona. L’uomo virtuoso è colui che liberamente pratica il bene». E poco sopra, al n. 1803, il discorso sulle virtù era partito con la citazione del nostro passo, Fil 4,8.177 Con questo termine intendiamo stigmatizzare l'atteggiamento di coloro che dimenticano di avere un corpo o meglio, di essere corpo. Questo ha legittime esigenze che devono essere soddisfatte (per esempio quella di mangiare, bere, riposarsi). L'antropologia biblica e teologica sono chiare al riguardo. Citiamo il n. 14 della Gaudium et spes: «Unità di anima e di corpo, l'uomo sintetizza in sé, per la sua stessa condizione corporale, gli elementi del mondo materiale, così che questi attraverso di lui toccano il loro vertice e prendono voce per lodare il Creatore. Allora, non è lecito all'uomo disprezzare la vita corporale; egli anzi è tenuto a considerare buono e degno di onore il proprio corpo, appunto perché creato da Dio e destinato alla risurrezione nell'ultimo giorno. E tuttavia, ferito dal peccato, l'uomo sperimenta le ribellioni del corpo. Perciò è la dignità stessa dell'uomo che postula che egli glorifichi Dio nel proprio corpo e che non permetta che esso si renda schiavo delle perverse inclinazioni del cuore». Il documento conciliare si muove con saggezza tra un doveroso riconoscimento del valore del corpo (contro alcune forme ascetiche ed educative del passato, decisamente inaccettabili) e un oculato controllo del medesimo (contro un facile e comodo permissivismo tipico del nostro tempo).

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comune, nel quale ci troviamo con tutti gli altri uomini, indipendentemente dalla loro fede e dal loro credo religioso.

Quali virtù valorizzare? A titolo esemplificativo offriamo due serie, la prima riguarda noi stessi, mentre la seconda di più il nostro rapporto con gli altri.

1. Virtù che riguardano noi stessi.1.1. UNITÀ. È l'armonia con noi stessi e con tutte le parti che compongono la nostra persona: corpo, anima, psiche. Come nel mosaico, ogni tessera reclama il suo posto, così. nella vita, ogni elemento deve trovare la sua giusta collocazione. Non si dia per scontata tale unità interiore: tanti nervosismi o irritazioni che esplodono all'esterno, hanno all'interno il loro detonatore. Siamo arrabbiati con noi stessi, non c'è chiarezza dentro di noi, ed ecco la parola brusca, il tono aggressivo, la non disponibilità verso gli altri. Dobbiamo quindi operare una continua verifica per stabilire l'unità interiore, la pace del cuore, la riconciliazione tra corpo e spirito, tra psiche e vita spirituale, tra vita di preghiera e occupazioni quotidiane. L'unità si crea con l'accettazione di se stessi, del proprio corpo con i suoi acciacchi e le sue intemperanze, della propria età, del proprio ruolo e condizione. Dobbiamo leggere tutto con gli occhi della Provvidenza che tutto dispone per il nostro bene.

1.2. EQUILIBRIO. La possiamo chiamare una virtù, ma anche la somma di tante virtù. È la capacità di saper ben dosare tutte le dimensioni della vita: regolare il tempo, avere la giusta misura nel lavoro e nel riposo, controllare gli umori, sia quelli in entrata che quelli in uscita. Sono perciò interessate le virtù classiche della temperanza e della fortezza. Una persona equilibrata si riconosce dalla capacità di proporsi sfide ragionevoli, non mete velleitarie. L'equilibrio si manifesta anche nella vita spirituale, dosando con intelligenza una coraggiosa programmazione di santità, sposandola felicemente con una concreta e fattiva possibilità di realizzazione. Con questa virtù evitiamo sia il peccato di ‘angelismo’, che ci fa dimenticare la nostra incarnazione, sia il peccato di scoraggiamento, che ci impedisce di guardare serenamente in avanti. Dalla navigazione è venuta quell'idea paradossale secondo cui, per sapere dove ci si trova, occorre guardare il cielo; quindi, cielo e terra sono entrambi necessari.

1.3. UMORISMO. Forse suona strano classificarla tra le virtù, eppure occupa un posto non trascurabile178. L'umorismo ha 178 Cf LARIVERA L., Natura e necessità dell’umorismo, La Civiltà Cattolica, quaderno 3698 (17 luglio 2004) 130-142. Il tema è stato studiato anche nella Bibbia, cf POUDRIER R., L'umorismo nella Bibbia, San Paolo, Cinisello Balsamo (MI) 1996; BLOCH P., Der fröhliche Jesus. Die Entdeckung seines Humors in den Evangelien, Quell, Stuttgart 1999.

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un'analogia con un atto di fede, perché relativizza la realtà di questo mondo provvisorio e coltiva il senso dell'assoluto. Dobbiamo saper sorridere e anche ridere, di noi come degli altri. Diceva lo scrittore inglese Chesterton che, se sappiamo ridere di noi stessi, non cesseremo mai di divertirci per tutta la vita. Incominciamo a ridere di noi e dei nostri difetti, abbattendo il muro della permalosità, del risentimento. Stiamo al gioco, quando altri ci prendono in giro o sottolineano un nostro difetto: sarà un buon esercizio di umiltà, virtù che è, prima di tutto, verità e accettazione del reale179. Evitiamo però di ridere alle spalle altrui e di prendere in giro, per un elementare principio di carità. Sappiamo invece ridere di certe situazioni. I santi e gli uomini di Dio sono sempre degli umoristi180.

2. Virtù che riguardano gli altri.2.1. SOCIEVOLEZZA. È la capacità di stare con gli altri. Se l'uomo è per definizione e per natura 'animale socievole', dobbiamo purtroppo riconoscere che tante volte alcuni meccanismi inceppano la nostra naturale tendenza e diventiamo introversi, freddi, scontrosi, antipatici, misantropi. Qui si inserisce lo sforzo e l'impegno per recuperare la natura umana nelle sue spinte più genuine. A questa sfera appartengono la comunicabilità e il dialogo. Quante volte si crea un corto circuito che, anziché far passare energia e vita, fa passare isolamento e distruzione. Anche l'amicizia appartiene a questo mondo della socievolezza. Il discorso apre una finestra infinita sul mondo delle relazioni che animano la nostra vita.

2.2. TOLLERANZA. Questa rara virtù, nonostante sia sbandierata da tutte le parti, permette e favorisce una sottile distinzione che separa il peccato dal peccatore: il primo è da denunciare e da condannare, il secondo è da capire e da accogliere, affinché non ritorni più a commettere l'errore. Questa virtù è all'incrocio tra verità e carità, entrambe valorizzate nella giusta misura. La sola verità potrebbe essere, secondo il detto di Pascal, pura crudeltà; la sola carità, che non tenesse conto della verità, risulterebbe una copertura galeotta. La tolleranza è l'arte di offrire sempre e a tutti un futuro, un appello o un postappello; è una ciambella di salvataggio nel mare dell'intolleranza.179 «L’umorismo è proprio di chi, superato l’amore narcisistico di sé, sa apprezzare realisticamente ciò che gli è, tollerando anche la percezione del proprio negativo; anzi, è capace di integrarlo», LARIVERA L., Natura e necessità dell’umorismo, cit., 138.180 «Padre Pio è un conversatore formidabile, un narratore di straordinaria efficacia, un umorista irresistibile. Sfodera, al momento giusto, la battuta folgorante, il commento imprevedibile, l’osservazione scherzosa. Sa contare storielle e barzellette, dosando gli effetti, con un’abilità di attore consumato. Il dialetto fa il resto», PRONZATO A., Padre Pio. Mistero Gaudioso, Gribaudi, Milano 1998, 119.

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2.3. PRUDENZA. Anche questa virtù, alla pari di tutte le altre, è un'arte. Essa individua e decide quando è tempo di parlare e quando invece di tacere, di agire o di attendere, di andare incontro o di restare al proprio posto, di essere dolci o di essere duri. Potremmo chiamarla anche 'discernimento'. Con questa virtù affermiamo che non esistono ricette universali, valide per tutti gli uomini e per tutti i luoghi. Il buon Dio non ci ha programmato per l'eternità, come ha fatto con le piante e con gli animali, ma ci ha dato il computer dell'intelligenza e del cuore, perché possiamo trovare, di volta in volta, la giusta ricetta.

A conclusione, possiamo dire che anche il discorso sulle virtù non va enfatizzato, perché l'eccesso della virtù diventa un vizio, un difetto. L'unico Assoluto è Dio e Lui è AMORE. Solo l'amore è il parametro con cui verificare tutte le altre virtù.

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IL PROFUMO DELLA RICONOSCENZA

Testo di Filippesi 4,10-23

Stiamo per concludere la lettura dello scritto inviato da Paolo alla comunità di Filippi. Prima del congedo, Paolo lascia emanare il profumo delicato di una virtù rara, quella della riconoscenza.

Il brano consta di due parti ben distinte:- Ringraziamento per gli aiuti ricevuti: vv. 10-20- Congedo, composto da saluti e da augurio finale: vv. 21-23

1. RINGRAZIAMENTO (vv. 10-20)Il brano è una continua altalena tra un sano senso di autosufficienza e un doveroso senso di riconoscenza. Paolo vuole dire grazie alla comunità che ha mostrato ben presto attenzione nei suoi confronti, e nello stesso tempo vuole utilizzare questo momento per una preziosa catechesi. La comunità deve sapere che l'aiuto non ha raggiunto principalmente la persona di Paolo, ma è stato un beneficio agli stessi donatori, oltre che contributo alla causa del vangelo. Su questo doppio registro si sviluppa il pensiero dell'Apostolo.

La parte precedente, conclusasi al v. 9, aveva un manifesto sapore di fine. Eppure Paolo ritiene di avere ancora qualcosa di importante da scrivere, continuando un 'magistero' che ha impregnato tutta la lettera. Ciò che ora va dicendo, sembrerebbe appartenere alle regole del galateo o delle 'buone maniere', in quanto ringrazia la comunità per gli aiuti ricevuti181. Tutto potrebbe essere sbrigato con un semplice, anche se sincero e affettuoso, 'grazie!'. Invece Paolo insegna che anche da un 'semplice grazie' è capace di tirar fuori note di finissima teologia pastorale, educando la comunità a valorizzare ogni piccola cosa. Egli mostra aspetti inediti, non limitandosi a considerare la sua situazione di vantaggio, ma pure il bene che ne è venuto alla comunità. Cosicché, si potrebbe dedurre, non esistono 'cose banali', perché la sensibilità d'animo e la finezza del cuore aiutano a rendere tutto molto grande.

Il pensiero inizia in modo saltellante, accennando ancora una volta alla gioia che ha attraversato tutta la lettera, formandone un'ideale ossatura182. Prima del ringraziamento vero e 181 «Un ringraziamento senza grazie», ERNST, 158, perché il termine non compare mai. Però è stato recentemente dimostrato che Paolo si attiene alle abitudini sociali in atto, cf PETERMAN G.W., Paul’s Gift from Philippi. Convention of Gift Exchange and Christian Giving, University Press, Cambridge 1997.182 A differenza della traduzione CEI, secondo cui 'gioia' è sostantivo («ho provato grande gioia»), il testo greco riporta il verbo: , «ho gioito», la nona e ultima ricorrenza della lettera (1,18.18; 2,17.18.28; 3,1; 4,4.4.10),

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proprio, Paolo mostra l'incidenza positiva della buona azione compiuta nei suoi confronti. Come dire che, prima di mettere in luce il vantaggio che ha avuto dai contributi (probabilmente in denaro), aiuta a capire il vantaggio che ne è venuto alla comunità stessa: «Ho provato grande gioia nel Signore, perché finalmente avete fatto rifiorire i vostri sentimenti nei miei riguardi» (v. 10a). La gioia di Paolo è più per i nobili sentimenti dei donatori che per i doni. La situazione di bisogno di Paolo, non meglio precisata, ha fatto scattare la solidarietà degli amici di Filippi che si sono attivati per soccorrere l'indigenza dell'Apostolo. C'è sempre bisogno di una scintilla per accendere il fuoco; così nella vita esistono circostanze che pongono in atto una serie di azioni che, altrimenti, non vedrebbero la luce. Il bisogno di Paolo ha fatto emergere i sentimenti che la comunità custodiva nel suo cuore, come di fatto viene riconosciuto: «in realtà li avevate anche prima, ma non ne avete avuta l'occasione» (v. 10b).

Questo pensiero, letto affrettatamente con quello successivo: «Non dico questo per bisogno, perché ho imparato a bastare a me stesso in ogni occasione» (v. 11), sembra inquinare il sentimento di gratitudine, quasi che Paolo abbia paura a dire un grazie chiaro. La verità è che egli intende educare la comunità a capire fino in fondo il valore del gesto compiuto. Si tratta di una fine analisi psicologica, di cui egli è consumato maestro, per aiutare a capire i sottili meccanismi che regolano l'animo umano183.

I vv. 11-13 esprimono l'autosufficienza paolina. Il termine rischia di essere frainteso e male interpretato, se prima non è un poco spiegato. Esso è rettamente compreso, solo se collocato nel contesto della missione apostolica, cui si dedica tempo pieno e totale disinteresse.

Anche in altre occasioni Paolo aveva rivendicato la totale estraneità a compromessi, o anche solo ad azioni che avrebbero potuto inquinare, o gettare ombra di discredito sul suo operato. Può essere richiamato, ad esempio, il capitolo secondo della Prima Lettera ai Tessalonicesi. Sarà opportuno chiarire anche che il vangelo, e non Paolo, è il centro d'interesse, anche se l'Apostolo è direttamente chiamato in causa, in quanto annunciatore e missionario. Su questo centro convergono diverse affermazioni, espresse talora in forma positiva e talora in forma negativa, miranti sempre a ribadire l'originalità e la genuinità dell'annuncio184. Ciò che sta a cuore a Paolo è la purezza del vangelo, la sua integrità. Stabilita questa piattaforma, possiamo passare a comprendere l'autosufficienza paolina.

undicesima se computiamo il composto (2,17.18).183 Si veda, a proposito, lo studio di THEISSEN G., Psychological Aspects of Pauline Theology, Clark, Edinburgh 1987 (originale tedesco: Psychologische Aspekte paulinischer Theologie, Vandenhoeck & Ruprecht, Göttingen 1983).184 Cf ORSATTI M., 1-2 Tessalonicesi, Queriniana, Brescia 1996, 46.

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Tale autosufficienza è espressa, tra l'altro, al v. 11 con l'aggettivo autárkes () che compare solo qui in tutto il NT185. Siamo a contatto di un vocabolo che, conosciuto anche dalla filosofia morale stoica, designa «la grande virtù da acquisire perché la persona possa essere interiormente libera»186. La vera spiegazione giunge da Paolo stesso al v. 12: «ho imparato ad essere povero e ad essere ricco; sono iniziato a tutto in ogni maniera: alla sazietà e alla fame, all'abbondanza e all'indigenza». Paolo si trova a suo agio in ogni situazione e ha raggiunto l'arte di 'sapersi arrangiare', che è frutto di una lunga maturazione («ho imparato»). Egli intende dire che tutto diventa relativo e secondario, rispetto al compito primario che è la risposta alla sua vocazione di Apostolo dei pagani. Quello che conta è servire Cristo annunciando il vangelo. Avere tanto o poco non riveste grande importanza, le situazioni esterne sono tutte transitorie e non meritano eccessiva attenzione: quel tanto che basta per andare avanti. Paolo ha dato ampiamente prova di essere in grado di sostenere le situazioni più avverse, senza demordere dal suo intento. Per essere convinti, sarà sufficiente leggere 2Cor 11,21-29, una stupenda pagina autobiografica.

Le affermazioni di Paolo celebrano la sua autonomia dai bisogni e dalle cose. Non per questo egli si presenta come un superman, né intende fare sfoggio di meriti che non possiede. L'importante v. 13 rimanda all'invisibile energia che fonda e motiva il suo comportamento: «Tutto posso in colui che mi dà la forza». È la forza di Cristo ad innalzarlo al di sopra delle circostanze187. È quindi Cristo la ragione ultima della sua autarchia: proteso all'annuncio infaticabile e disinteressato del vangelo e sorretto da Lui, considera secondario tutto il resto, non degno di grande attenzione.

Precisato che l'aiuto recatogli ha fatto bene soprattutto ai donatori e che, rigorosamente parlando, poteva anche farne a meno, Paolo passa ora alla considerazione più positiva. Il v. 14 introduce la forma delicata del ringraziamento, anche se non compare mai il verbo 'ringraziare': «Avete fatto bene tuttavia a prendere parte alla mia tribolazione». «Prendere parte a» traduce il greco sygkoinonéo () che esprime la condivisione della comunità che partecipa come può (con gli aiuti materiali) ad alleviare la sofferenza dell'Apostolo. Quindi, richiamando alla memoria il dato che solo con le chiese della Macedonia accettò uno scambio di aiuti, Paolo attinge al linguaggio commerciale per dire che l'aiuto è stato accettato nel segno della comunione e

185 Il sostantivo autárkeia () compare solo due volte, 2Cor 9,8 e 1Tm 6,6. Cf KITTEL G., , GLNT, I, 1243-1246.186 BARBAGLIO, 620.187 «Paolo non si richiama, dunque, come gli stoici, alla propria forza morale [...] qui mostra di nuovo quanto egli dia un nuovo contenuto ai concetti che assume dalla filosofia del tempo», ERNST, 160.

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dello scambio. Parla, infatti, di «dare e avere», alludendo alla 'partita doppia' dei calcoli commerciali. La sua gratitudine diventa manifesta al v. 16, perché menziona espressamente: «anche a Tessalonica mi avete inviato per due volte il necessario». Paolo ricorda, e con affetto: la riconoscenza è la memoria del cuore.

Teme, comunque, di essere scambiato per uno dei tanti filosofi - a volte solo parolai - che si incrociavano con frequenza sulle strade della Grecia, predicatori itineranti che vendevano parole per sopravvivere (cf 2Cor 2,17). Paolo vuole distinguersi nettamente da loro e quindi non annuncia il vangelo in cambio di sostentamento materiale. Perciò ribadisce che non ricerca il dono dei Filippesi, ma che gioisce dell'affetto che la comunità esprime, attraverso quanto gli ha offerto. Egli dunque ricerca «il frutto che ridonda a vostro vantaggio» (v. 17).

Chiarita ancora una volta la sua libertà dalle cose, ed eliminato ogni possibile equivoco188, torna a ricordare il benessere che gli è venuto dalla collaborazione dei cristiani di Filippi. Ad Epafrodito, che il lettore già conosce da 2,25-30, venne affidato il compito di far pervenire i doni all'Apostolo. Il v. 18b dà al dono un valore cultuale, chiamandolo «profumo di soave odore, un sacrificio accetto e gradito a Dio»: è qui utilizzato il linguaggio stereotipo dell'AT, quale incontriamo, ad esempio, in Es 29,18.25 e Lv 1,9.13. Si vuole esprimere, utilizzando un antropomorfismo, la soddisfazione che Dio trova nell'offerta che gli viene fatta. Similmente, il dono della comunità è senz'altro accetto e rientra nel contributo che essa dà all'annuncio del vangelo.

Così si spiega il v. 19 che chiama in causa direttamente Dio a ricompensare la comunità. Sembrerebbe un corto circuito nella logica del discorso: che cosa c'entra Dio con il vantaggio di Paolo dal ricevere l'aiuto della comunità? Eppure, seguendo il filo del discorso, la logica non fa una grinza, perché Paolo ha più volte ribadito che non aveva bisogno di sovvenzioni. Ha accettato volentieri ed è riconoscente, perché i Filippesi collaborano in questo modo alla causa del vangelo, e dimostrano concretamente come viverlo. Da qui la certezza che la munifica generosità di Dio raggiungerà la comunità, attraverso Cristo, unico ed eterno mediatore tra il Padre e gli uomini.

La comunione che si è instaurata tra Paolo e la comunità sprigiona la piccola dossologia finale: «Al Dio e Padre nostro sia gloria nei secoli dei secoli. Amen» (v. 20), espressione di un animo finemente spirituale che non tralascia occasione per lodare e ringraziare (cf 1,3).

188 «Paolo vuol far capire che i veri beneficiari del dono che ha ricevuto sono i filippesi stessi perché non solo esso è ‘frutto’ della loro fede matura, ma nello stesso tempo è pegno di quello che Dio dispone per il loro bene finale», FABRIS (2000), 264. Nello stesso tempo, Paolo intende eliminare il rapporto ambiguo tra religione e denaro che rende sospetta l'esperienza religiosa.

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2. CONGEDO (vv. 21-23)I versetti sono il commiato con lo schema triadico abituale, comprensivo dei saluti da trasmettere («salutate» v. 21), dei saluti trasmessi («vi salutano» v. 22), dell'augurio conclusivo (v. 23).

La prima parte riguarda i saluti da trasmettere. Non sono elencate persone determinate, e il saluto raggiunge tutti, raccolti in quel «ogni santo»189 che indica ogni cristiano preso singolarmente. Sembra che Paolo voglia salutare ciascuno, in forma quasi personalizzata. I santi, come già ricordato all'inizio della lettera (cf 1,1), sono coloro che hanno ricevuto il battesimo e quindi appartengono a Cristo190; lo documenta bene quel «in Cristo Gesù» che segue.

Poi vengono i saluti inviati dai cristiani tramite la lettera. I primi ad essere menzionati sono «i fratelli che sono con me»; si presume siano persone che stanno con l'Apostolo o che, forse, si trovano da lui in visita191. Quindi, troviamo una formula onnicomprensiva che intende raggruppare tutti, senza la minima ombra di esclusione: «vi salutano tutti i santi». Infine, all'interno del gruppo, si fa menzione particolare di «quelli della casa di Cesare». Da questa espressione qualche autore aveva concluso che Paolo si trovasse prigioniero a Roma192. Oggi sappiamo che la formulazione «quelli della casa di Cesare» intendeva raccogliere la numerosa 'famiglia' comprendente le migliaia di persone che si trovavano al servizio dell'imperatore («Cesare»), a partire dal più alto ufficiale, fino all'ultimo schiavo. Sappiamo che tale 'casa' o 'famiglia' era presente non solo a Roma, dove risiedeva l'imperatore, ma anche in altre città dell'impero, certamente nelle più importanti193. Accettando Efeso come luogo della prigionia di Paolo e punto di partenza della lettera, non è impossibile pensare che Paolo abbia mietuto alcune belle conversioni presso qualche dipendente dell'imperatore che si trovava ad Efeso. Il rimarcare i loro saluti era un messaggio in codice per la comunità di Filippi di non essere troppo in apprensione per la vicenda di Paolo: egli aveva buoni amici che lo avrebbero aiutato nella sua prigionia.

Lo scambio di saluti esprime la comunione della comune fede, che unisce persone geograficamente lontane. È un'espressione dell'unità e della universalità della Chiesa.189 La traduzione CEI rende «ciascuno dei santi».190 Quella di «santo» era diventata un'espressione abituale per indicare i cristiani. Così si esprime Anania: «Signore, riguardo a quest'uomo ho udito da molti tutto il male che ha fatto ai tuoi santi (CEI: fedeli) in Gerusalemme» (At 9,13).191 «Il fatto che quei fratelli siano con Paolo non significa che ne condividano la prigionia, ma solo che gli fanno visita al momento in cui sta per spedire la lettera», GNILKA, 303.192 Per questo problema, rimandiamo alle note introduttive.193 Cf GNILKA, 304.

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Il saluto finale appartiene allo stereotipo del congedo: sempre Paolo augura che la «grazia», dono e vita divina, dimori nelle persone, perché ha ravvisato in essa la somma di beni, cioè il massimo che si possa desiderare per gli altri. Le ultime parole «con il vostro spirito» equivalgono alla conclusione più abituale «con voi», e richiamano da vicino la conclusione della lettera ai Galati (6,18). Forse, proprio da questa affinità si spiega l'«amen» aggiunto da qualche copista; se esso è ben attestato per Galati, crea qualche sospetto per la nostra lettera. È meglio, perciò, tralasciarlo194.

UN PO' DI PROFUMO...Di questo brano conclusivo intendiamo mettere a fuoco l'aspetto della riconoscenza che, come buon profumo, spande la sua fragranza su tutto il testo. Sappiamo quanto sia difficile dire grazie, a Dio prima di tutto, e poi agli uomini. Quante volte bisogna insegnare al bambino a ringraziare, prima che questa diventi in lui una civile abitudine. Paolo, pur non usando mai il termine, ci educa al senso della gratitudine: indirizzata a Dio, diventa dossologia; indirizzata agli uomini, diventa memoria e riconoscenza per il bene ricevuto. Quanto sia di valore, lo ricordava già il Siracide: «Chi serba riconoscenza offre fior di farina» (Sir 35,2). La gratitudine è il sentimento di chi riconosce di essere debitore e intende rimanerlo per sempre. Non ha la pretesa di estinguere il debito con un assegno, con una mancia o con altro. La gratitudine è una restituzione che continua, è un contraccambiare senza pretendere di raggiungere il pareggio, è accettare, gioiosamente, che la propria vita sia legata ad un Altro e a tanti altri. Paolo insegna, noi impariamo.

194 Esso compare in P46, S, A, D,.... La sua presenza viene così spiegata: «appears to have been added by copysts in accord with liturgical practice; if it had been present originally, it would be difficult to account for its omission in B F G...», METZGER B.M., A Textual Commentary on the Greek New Testament, UBS, London - New York 1971, 617.

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NOTE TEOLOGICHE

Nel corso del nostro breve commento, appena concluso, non sono mancate note teologiche, capaci di far sprizzare dal testo bagliori di vivida spiritualità. Paolo, quando scrive, lascia trasparire l'ardore del suo animo, la profondità della sua esperienza, l'amore che nutre per Cristo e per la comunità alla quale è inviato. Il testo scritto non si riduce mai a 'lettera morta', perché risente del suo temperamento, capace di essere, all'occorrenza, focoso e mite, superimpegnato e contemplativo. Lo scritto, occasionale e confidenziale, è regolato, nello stile e nel contenuto, più dalla logica del cuore, che da quella della mente.

I temi teologici emergenti sono numerosi. Potremmo elencare pagine memorabili e dalla fortissima carica cristologica, in particolare l'inno (cf 2,6-11), e la scelta preferenziale per Cristo che eccelle a tal punto, da far impallidire tutti gli altri titoli di merito o di vanto, fino a confinarli nella zona rarefatta del nulla (cf 3,3-14). La cristologia viene così a orientare tutta la vita cristiana, proponendole un altissimo punto di riferimento e di conformazione, secondo un incessante processo di morte e di risurrezione (cf 1,29; 3,10-17). Anche l'escatologia ne risulta avvantaggiata, perché presentata con un forte e attrattivo contenuto195 che vivacizza l'esistenza cristiana caricandola di speranza (cf 1,6.10; 2,16; 3,20-21; 4,5). Poi, lo scenario si popola di personaggi diversi. Accanto a persone infami che non meritano neppure di essere nominate (cf lo spregiativo «cani» di 3,2 o il generico «alcuni» di 1,15), si stagliano figure limpidissime per altruismo e dedizione, come Timoteo ed Epafrodito. Per loro, Paolo non lesina parole di encomio, additandole come esempio da imitare (cf 2,19-30): sono 'missionari a tempo pieno' che testimoniano come si incarna e si vive il Vangelo. Ma è soprattutto la figura di Paolo ad occupare la scena, un Paolo non ipotizzabile, se disgiunto da Cristo. Presentandosi e presentando la sua opera di apostolo, non fa altro che far brillare la figura di Cristo, nel suo statuto pasquale di morto e risorto, di vivente che diviene senso e causa della esistenza autentica.

195 Incontriamo espressioni originali come quella di 1,23: «il desiderio di essere sciolto dal corpo per essere con Cristo» che, secondo PERETTO, 27: «è l'unico testo che accenna alla vita dell'oltretomba senza che sia collegata con la Parusia del Signore. Esiste un periodo di tempo, che precede la seconda venuta del Signore, durante il quale il cristiano deceduto vive col Signore». Il testo mostra un sostanziale progresso rispetto ad altri, per esempio 1Ts 4,13-14, perché, per godere la comunione con Cristo, non è necessario attendere il giudizio finale. Cf anche O'BRIEN, 135 secondo cui l'espressione: «fits naturally enough into the group of future references with their emphasis on belonging to Christ and personally sharing in his destiny».

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Nell’impossibilità di passare in rassegna tutti i temi che insieme formano l'ossatura teologica della lettera, raccogliamo ora, un po' come sintesi e un po' come richiamo, alcuni punti salienti. Mettiamo a fuoco tre aspetti. Iniziamo da Paolo, grande innamorato di Cristo; mentre parliamo di lui, diamo risalto al centro ideale e teologico di tutta la lettera che è Cristo stesso (cristologia). Lo scritto è destinato ad una comunità cristiana e, quindi, serve a dire qualcosa del suo rapporto con l'Apostolo e con Cristo (ecclesiologia). Infine, sostiamo sul tema della gioia che corre come un leitmotiv e che ha ispirato il titolo di queste pagine: "Il canto della gioia".

1. PAOLO, UN GRANDE INNAMORATO DI CRISTOIl lettore percepisce fin dalle prime battute che Paolo è un grande innamorato di Cristo. In lui scattano meccanismi che la psicologia conosce abbastanza bene. Ne elenchiamo due: il totale assorbimento in Cristo e la capacità contemplativa. La prima caratteristica di ogni stato amoroso è il coinvolgimento totale del soggetto nella direzione dell'amato: «L'innamorato 'in-tende' tutto se stesso solo nella direzione dell'amato. È davvero una occupazione totale, ma che aderisce così intimamente e naturalmente all'Io da non impedirlo in nessuna delle sue funzioni: entra in lui, cresce con lui, esaltandolo di nuove possibilità»196. In continuazione e come approfondimento del precedente meccanismo, incontriamo quello della contemplazione: «Ciò che contraddistingue il momento della contemplazione da qualsiasi altro momento è proprio questo restare davanti all'oggetto amato nella posizione di totale nudità, sguarnita di qualsiasi difesa: 'lui' è davvero tutto per noi e, per noi, non c'è altro fuorché lui. 'Lui', in quel momento è davvero il padrone assoluto di noi che non possiamo vivere senza di lui: allora lo si guarda come il datore della linfa vitale, con il quale però si può ritornare a tutte le altre occupazioni di sempre con vigore e motivazione»197.

I rilievi psicologici appena esposti trovano ampio riscontro in Paolo. Basti pensare al suo 'rinnegarsi', tralasciando la sua 'autorealizzazione', che oggi si invoca spesso come ragione ultima di ogni decisione. Davanti a persone che lo denigrano o che interpretano malignamente la sua condizione di prigioniero, egli supera le contingenze o i personalismi e punta diritto a ciò che gli preme in assoluto: «Ma questo che importa? Purché in ogni maniera, per ipocrisia o per sincerità, Cristo venga annunziato, io me ne rallegro e continuerò a rallegrarmene» 196 BALESTRO P., Parlare l'amore. La terapia delle coccole, San Paolo, Cinisello Balsamo (MI) 1993, 17.197 Ibidem, 37.

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(1,18). La sua gigantesca statura morale ha provocato inevitabili gelosie, ma egli supera tutto puntando alto, da grande198.

Quanto Cristo abbia invaso la vita di Paolo, riempiendola e valorizzandola in ogni particolare, lo vediamo anche nell'uso, frequente e singolare, di una formula.

Il valore della formula: «IN CRISTO GESÙ»Nella Lettera ai Filippesi incontriamo 8 volte la formula «in Cristo Gesù», 8 volte «nel Signore», e 5 volte formule analoghe o miste. Il significato non risulta unanime in tutti i casi e, di volta in volta, deve essere specificato. Tra l'altro, «in» può valere come indicazione di comunione con Cristo, oppure come mediazione; i due significati non sono in opposizione e possono essere combinati nel senso: 'per mezzo di Gesù si arriva alla comunione con Lui'.

I seguenti due punti aiuteranno a meglio comprendere lo spessore teologico della formula «in Cristo Gesù»:- Il significato è primariamente escatologico, perché ha una prospettiva grandiosa e complessiva, con carattere definitivo. In Cristo si manifesta l'azione salvifica di Dio, il cui amore e la cui vita giungono a noi proprio per mezzo di Gesù. Se noi siamo intimamente legati a Lui, sperimentiamo una radicale trasformazione. Con Cristo, infatti, iniziano la nuova creazione e la nuova umanità, l'una e l'altra definitive. Perciò Paolo è pronto a lasciare tutto, anche ciò che prima costituiva il motivo del suo vanto e la radice del suo orgoglio religioso.- Esiste poi un senso mistico. «Essere in Cristo Gesù» significa la comunione con Gesù Crocifisso e Risorto (cf 3,9).

Mentre «in Cristo Gesù» descrive primariamente ciò che Dio compie negli uomini una volta che appartengono alla nuova situazione, la formula paolina «nel Signore» indica per lo più l'opera del cristiano che vive ancora nel tempo, ma appartiene ormai all'eternità. Parlare, pensare, agire, tutto avviene nel Signore, «il quale determina tutta la vita del cristiano fino nei dettagli della vita quotidiana. Colui che è in Cristo compie tutto ciò che fa, in base a questa comunione con il Signore»199.

Alla luce di Cristo, vita e morte diventano grandezze relative e non più assolute. Paolo ha chiara coscienza di questo e può liberamente dire: «Per me il vivere è Cristo e il morire un guadagno. Ma se il vivere nel corpo significa lavorare con frutto, 198 «I 'grandi' anche nella Chiesa non hanno facile riconoscimento, ma veri grandi non sono coloro che hanno doni di intelligenza o capacità di governo, sono piuttosto coloro che non cercano se stessi e vivono un tale amore per Cristo e per la loro missione, da non provare alcuna amarezza o risentimento per l'ingiustizia patita. Essi non vivono per sé: il loro cuore è altrove», BARSOTTI D., Meditazione sulla lettera ai Filippesi, cit., 21. Per una lettura psicologica di tutto il pensiero paolino cf il già citato THEISSEN G., Psychological Aspects of Pauline Theology, Clark, Edinburgh 1987.199 FRIEDRICH, 240.

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non so davvero che cosa debba scegliere» (1,21-22). Egli, sulla scia del Maestro, ripropone una via che sarà seguita da tanti altri che, nel corso della storia, non avranno paura, né di vivere, né di morire, attenti solo ad adempiere la volontà divina. La stessa morte perde il suo carattere funereo e viene vista come passaggio per l'eternità, come attestato dalla lirica espressione di Ignazio di Antiochia: «È bello tramontare al mondo per risorgere nell'aurora di Dio»200.

Da un cuore ardente e traboccante di amore per Cristo non può venire che un canto gioioso: «Il senso della profonda e realistica presenza del Cristo, che emana dall'inno, come da tutta la lettera, genera nel credente un clima di esaltante gioia spirituale, che si accompagna all'essere con Cristo»201. Questa spiega l'ampio spazio riservato al tema della gioia nella Lettera ai Filippesi.

2. LA VITALITÀ DI UNA COMUNITÀLa Lettera ai Filippesi denota la condizione di un uomo maturo che ha lottato strenuamente, che ha svolto con impegno assoluto il proprio compito, che può guardare la realtà dalla prospettiva di pienezza: «I sentimenti che dominano sono la benevolenza, la gratitudine e una gioia filtrata e depurata che ormai ha oltrepassato la rassegnazione e sembra aver raggiunto una dimensione di incorruttibile eternità»202.

La cordialità della lettera e le confidenze affettuose di Paolo si spiegano tenendo presente una comunità che ha risposto positivamente e con generosità alla sollecitazione apostolica.

2.1. Una comunità dinamicaLa vita spirituale, al pari di quella fisica, conosce una partenza e uno sviluppo. A differenza di quest'ultima, però, la prima sperimenta una conclusione che non è la morte, ma l'abbraccio amoroso ed eterno di Dio in noi. La comunità di Filippi ha seguito le tappe della vita spirituale, non della vita fisica.

Fin dall'inizio Paolo riconosce che i fratelli di Filippi hanno collaborato «alla diffusione del vangelo dal primo giorno fino al presente» (1,5). È, quindi, una comunità viva. Non si è trattato di un contributo occasionale ed estemporaneo, quasi di una emergenza che si conclude appena passato il pericolo, bensì di un impegno che ha invaso la mente e la vita della comunità. È una crescita di cui si conosce l'inizio, ma di cui si ignora la fine; o meglio, una crescita che punta diritto al suo teologico 200 IGNAZIO DI ANTIOCHIA, Lettera ai Romani 2,2.201 PERETTO, 26.202 CIRIGNANO G. - MONTUSCHI F., La personalità di Paolo. Un approccio psicologico alle lettere paoline, EDB, Bologna 1996, 184.

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compimento che è altresì escatologico: «sono persuaso che colui che ha iniziato in voi quest'opera buona, la porterà a compimento fino al giorno di Cristo Gesù» (1,6). Perché tale cammino possa di fatto essere effettuato, Paolo rivolge a Dio una preghiera di intercessione: «Perciò prego che la vostra carità si arricchisca sempre più...» (1,9). La crescita è sempre possibile, fino a sfociare nell'oceano infinito dell'amore trinitario. A questo punto lo sviluppo sarà concluso, restando però il dinamismo della comunione.

Alla fine della lettera abbiamo incontrato il ringraziamento di Paolo per il contributo della comunità al servizio del vangelo, reso concretamente con l'aiuto materiale (probabilmente economico) all'Apostolo. Il dinamismo di un gruppo si commisura anche dalla sua sensibilità nel partecipare i suoi beni a chi si trova nel bisogno, soprattutto nel contribuire perché il vangelo possa diffondersi. In questo i Filippesi sono gli antesignani di tutti quei cristiani che, in mille forme, collaborano con le missioni, investendo preghiera, tempo, denaro, lavoro203.

2.2. Una comunità attraversata dalla scossa del peccatoL'esortazione di Paolo a lottare (cf 1,27-30) lascia capire che la vita della comunità cristiana di Filippi non è facile. Ricordiamo che il gruppo cristiano costituiva un’esigua minoranza all'interno della città, potremmo quasi dire ‘un’isola cristiana nel mare del paganesimo’. Di conseguenza, era abituale il confronto con persone che vivevano un'altra impostazione di vita. Quello che più affliggeva la comunità, però, non erano tanto gli avversari esterni, quanto quelli interni, cominciando da sedicenti profeti che proponevano direttive diverse da quelle di Paolo. Da 3,2-3 possiamo inferire che qualcuno volesse riportare in auge la circoncisione, obbligando i pagani di un tempo a sottoporsi a pratiche giudaiche. La situazione non ha ancora raggiunto il livello di guardia, perché l'intervento di Paolo appare moderato, soprattutto se confrontato con quello, durissimo, della Lettera ai Galati. Tuttavia non mancano avvisaglie che richiedono un richiamo di Paolo e una precisazione sul significato spirituale della circoncisione.

Se su questo punto, forse, solo pochi erano direttamente interessati, tutti possono ritrovarsi nell'esortazione all'unità e al comune sentire con Cristo che troviamo all’inizio del cap. 2, e che sarà illustrata dal mirabile esempio di Cristo, icasticamente rappresentato nell'inno di 2,6-11. Non abbiamo dati precisi che ci

203 Davvero notevole è il contributo che ogni anno viene dato alle missioni. Nessuna documentazione riuscirà mai a recensire con precisione tutti gli aiuti. Questi giungono sotto forma di denaro e in tanti altri modi. Si pensi anche solo alla forma moderna del volontariato, allorché ci sono persone che impiegano le loro ferie per il servizio alle missioni, ovviamente prestando gratuitamente la loro opera e perfino pagandosi le spese di viaggio.

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permettano di ‘monitorare’ le relazioni all’interno della comunità. Abbiamo già richiamato sopra che non dobbiamo necessariamente pensare a rovinose lacerazioni. Anche in situazione di normalità, Paolo può invitare all'unità e alla concordia: richiami e incoraggiamenti sono sempre validi. Infatti, nessuna comunità ha mai raggiunto un grado di intesa tale, da non aver bisogno di una raccomandazione o di un’esortazione su questo punto. Quindi, senza conoscere i dettagli, pensiamo che la comunità debba compiere dei progressi in fatto di intesa tra i suoi membri. Non va dimenticata l'opera rovinosa del peccato che continua la sua azione disgregatrice, anche tra soggetti che hanno fatto l'esperienza del battesimo.

Il cammino di perfezione non deve conoscere soste, né esclusioni. La menzione delle virtù umane in 4,8 ricorda l’attenzione da porre anche al ‘corredo’ umano, affinché a crescere sia l’uomo integrale. Paolo ha una sana ed equilibrata visione ‘olistica’, cioè complessiva, dell’uomo. Eventuali deficienze o anche solo difetti nella sfera dell’umano, rallentano o bloccano il progresso.

In queste esortazioni dell'Apostolo leggiamo la cura pastorale nei confronti della comunità che deve ricordarsi di essere strutturalmente fragile, che non deve mai considerarsi 'arrivata', e quindi incrementare quel senso di sano progresso e di continuo sviluppo che accompagna e determina ogni crescita regolare.

2.3. Una comunità chiamata a seguire il CrocifissoProprio perché la sofferenza è parte integrante del mistero pasquale, non può mancare nel nostro scritto: «La Lettera ai Filippesi è l'esempio grandioso di una prossimità a Cristo esperita nelle sofferenze personali»204.

Nel momento in cui esorta la comunità alla lotta e la prepara ad affrontare la sofferenza, Paolo, da buon psicologo, offre il suo esempio e, più ancora, quello di Cristo. Dalla meditata riflessione sull'inno, la comunità potrà seguire e comprendere l'opera di Cristo che ha rinunciato ai suoi privilegi divini per vivere fino in fondo la spoliazione dell'incarnazione. Solo dopo arrivano la gloria e il riconoscimento che lo intronizzano «Signore». Con un linguaggio diverso, è qui abbozzato l’iter pasquale di morte-risurrezione, che sarà esemplare per ogni esistenza 'cristica'.

La via tracciata dal Maestro è subito percorsa da Paolo. Per lui, lotta e difficoltà non appartengono al vocabolario della negatività, perché esse sono strumento di partecipazione alla passione di Cristo, condizione per poter partecipare alla sua risurrezione. Egli prega che Cristo sia glorificato nel suo corpo, sia che egli viva, sia che egli muoia (cf 1,20); parlerà di «tribolazione» (4,14), mentre prima aveva accennato al dolore 204 ERNST, 31.

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che si aggiungeva alla sofferenza di essere imprigionato (cf 1,17). Niente di lusinghiero, eppure tutta questa 'passione' riceve un'interpretazione cultuale, perché viene intesa come un'offerta sacra (cf 1,17) che provoca non solo 'rassegnazione', ma autentica gioia. Egli vive in conformità con Gesù, anzi, è Lui la sua stessa vita.

La comunità ha imparato da Paolo come vivere e valorizzare la sofferenza, e così essere in sintonia con Cristo. Ha constatato, in diverse occasioni, che Paolo ha impegnato tutta la sua vita al servizio del vangelo, senza lesinare fatiche e rinunce. Attratti e stimolati dal suo esempio, i cristiani di Filippi imparano un po’ alla volta che la sofferenza per Cristo è un valore da far fruttare205. Paolo lo ricorda in una frase lapidaria: «a voi è stata concessa la grazia non solo di credere in Cristo, ma anche di soffrire per lui, sostenendo la stessa lotta che mi avete veduto sostenere e che ora sentite dire che io sostengo» (1,29-30).

La comunità attinge dalla lettera sostanziosi motivi per stampare nella sua esistenza un più marcato segno pasquale.

2.4. Una comunità con molteplicità di funzioni e unità di intentiNessuno che legge la presente lettera avrà l'impressione di una comunità amorfa o scomposta. Essa si presenta ben organizzata. C'è prima di tutto l'Apostolo che sta davanti come esempio storico, quasi incarnazione vivente del vangelo. Per questo può richiedere il perentorio «Fatevi miei imitatori, fratelli» (3,17). A lui spetta di dare le indicazioni teologico-morali, come pure le direttive disciplinari.

Incontriamo, poi, persone con ruoli di responsabilità. Sono nominati i collaboratori Timoteo (1,1; 2,19-23) ed Epafrodito (2,25-30; 4,18), ai quali sono riservate parole di encomio, per il loro servizio premuroso e disinteressato alla causa dell’evangelizzazione.

Sono menzionati i «i vescovi e i diaconi» (1,1), persone che non siamo in grado di specificare, se non in modo molto generico: non possono equivalere esattamente a quanto significano per noi i due termini; sono comunque persone che svolgono un particolare ruolo nella comunità, dato che Paolo sente la necessità di citarli espressamente. Poco conosciute sono anche le due signore Evodia e Sintiche. Sappiamo che si sono impegnate a fianco dell'Apostolo per l'annuncio del vangelo, insieme a Clemente e ad altri collaboratori, dei quali non viene precisato il nome. Sono tutte persone che hanno servito la causa del vangelo, e che Paolo ricorda con stima e con riconoscenza (cf 4,2-3).205 «Gioia e dolore sono inseparabili. Essi giungono insieme, e se l'una vi siede accanto a mensa, ricordatevi che l'altro dorme nel vostro letto», GIBRAN K., Il profeta, Mondadori, Milano 1976, 33.

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Più volte è citata la comunità, sia pure con nomi diversi. Essa è richiamata fin dall'inizio nel termine «santi» (1,1; cf 4,21), poi raccolta in quel tenero «fratelli», usato come espressione affettiva, e non come semplice termine di transizione206. La fratellanza con tutti, anche con coloro che un tempo riteneva nemici da eliminare, Paolo l'ha capita sulla via di Damasco. Nelle persone perseguitate si nascondeva Gesù, principio di unità e di coesione tra tutti i credenti. Paolo si sente accolto da Anania con le parole: «Paolo, fratello mio!» (At 9,17).

D'ora in poi la fraternità è una sfida per Paolo che punta tutte le sue carte per costruire l’unità dei fratelli, pur nella diversità dei ruoli. È come dire che esiste una uguaglianza di dignità, mantenendo la differenziazione delle funzioni207. Il principio non è di facile attuazione, perché si tende a cadere in uno dei due estremi: o un’uguaglianza nell'appiattimento, o una differenziazione nell'anarchia; nell'uno e nell'altro caso si va incontro ad un fallimento. La vera unità viene dalla comunione delle differenze.

L'unità della comunità rimane un bene mai raggiunto in modo stabile e definitivo. Paolo educa e sollecita a perseguire tale unità, proponendo un preciso cammino che si compone di quattro elementi208, reperibili in 2,1: l’accoglienza della parola confortatrice di Cristo, l'invito e insieme il conforto derivanti dalla carità donata e ricevuta, la condivisione dei pensieri, dei sentimenti e della volontà, la partecipazione profonda mediante la bontà e, infine, la disponibilità al soccorso di chi si trova nel bisogno. Alla base di questi quattro impegni sta il comportamento di Cristo stesso, presentato come modello e come causa efficiente nell'inno che segue poco dopo.

3. IL CANTO DELLA GIOIAPossiamo chiamare la Lettera ai Filippesi ‘la lettera della gioia’. Il tema non è, né nuovo, né esclusivo209, tuttavia è qui trattato con tale insistenza, da rendere lo scritto una piacevole sinfonia della

206 Il termine 'adelphós () ricorre 11 volte nella lettera, di cui 6 in forma vocativa; si veda soprattutto la combinazione di 4,1 «fratelli miei carissimi» () per convincersi che la parola nasconde tanto affetto.207 Istruttivo, a questo proposito, lo schema della costituzione conciliare Lumen gentium: prima viene presentato il «popolo di Dio» (cap. II) che è l'unità complessiva di cui tutti fanno parte, quindi si esaminano i ruoli dell'autorità (cap. III) e dei laici (cap. IV).208 Cf MASINI, 108.209 Si vedano, per esempio, 1Ts 5,16; Rm 12,12; 2Cor 1,24; 13,11.

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gioia210. Il tema, sempre molto avvincente ed elettrizzante, merita un poco di approfondimento211.

Gioia è sinonimo di felicità o di letizia. Interessante ricordare l'etimologia di quest'ultimo termine. Deriva dal latino laetare che ha due significati: 'rallegrare', 'rendere lieto' e 'fertilizzare' 'ingrassare'212. Quindi, 'letizia' e 'letame' hanno la stessa etimologia. Come il letame è lo strame che feconda la terra, rendendola produttiva, così la letizia è il sentimento che si pone a fondamento della vita: «La gioia non è l'estasi infuocata di un istante, bensì lo splendore che aureola l'essere»213. Il tema investe la vita del cristiano e ha attirato l'attenzione del Magistero che ad esso ha dedicato un documento214.

Il tema sollecita tutti e si presta facilmente a interpretazioni diverse, non raramente contraddittorie. Per questo occorre saper ben distinguere tra gioia vera e i suoi surrogati.

3.1. I SURROGATI DELLA GIOIAAlla fiera dei desideri, la bancarella della felicità è sempre quella più visitata e più ambita. Nessuna sorpresa in questo, perché la voglia di sentirsi soddisfatti ci accompagna fin dal primo istante della nostra vita e si spegne solo al momento della morte. La felicità è quindi il motore dell'esistenza e per essa si è disposti a tutto.

Chiara e comune la meta, non lo sono altrettanto i mezzi per raggiungerla, perché identificati nel denaro, o nel successo, o nell’impegno sociale, o in altro ancora, in un colorato mosaico di possibilità. Non è però detto che tutti i mezzi conducano alla meta, perciò devono essere vagliati e verificati. L'esperienza insegna che ricette proposte e ampiamente reclamizzate si rivelano in seguito messaggi drogati e ideali stregati. La vita di tutti i giorni si muove nel dedalo di mille subdole insidie che,

210 Il sostantivo ricorre 5 volte (1,4.25: 2.2.29; 4,1), il verbo chairo 9 volte (1,18.18; 2,17.18.28; 3,1: 4,4.4.10), e il verbo composto sygcháiro () 2 volte (2,17.18). Nessuna lettera ha una tale frequenza; se teniamo conto che quantitativamente 2Cor si avvicina perché riporta 5 volte il sostantivo e 8 volte il termine, dobbiamo pure ricordare che, in proporzione, il tema riscuote più ampio spazio in Filippesi, data la sua brevità.211 Per un studio esegetico rimandiamo a CONZELMANN H., GLNT, XV, 493-527; in forma più sintetica cf BEYREUTHER E. - FINKENRATH G., Gioia, in: COENEN L. - BEYREUTHER E. - BIETENHARD H. (edd.), Dizionario dei concetti biblici del Nuovo Testamento, EDB, Bologna 41991, 766-771.212 Cf CALONGHI F., Dizionario Latino-Italiano, Rosenberg & Sellier, Torino 1965, 1538.213 FROMM E., Avere o essere, Mondadori, Milano 1986, 156.214 Esortazione apostolica Gaudete in Domino di Paolo VI (09.05.1975). Tra l'altro, si dice che il primo cantore della gioia è Gesù: «Se Gesù irradia una tale pace, una tale sicurezza, una tale allegrezza, una tale disponibilità, è a causa dell'amore ineffabile di cui egli sa di essere amato dal Padre» (n. 24); per gli uomini che vivono ancora nella storia, la gioia «non può scaturire che dalla celebrazione congiunta della morte e della risurrezione del Signore» (n. 28).

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come le sirene di Ulisse, incantano e distolgono dal reale215. La gioia cristiana non è una fortuna, è una virtù. Non è fatta per essere consumata, ma per venire donata, secondo il detto: «C'è più gioia nel dare che nel ricevere» (At 20,35)216.

Possiamo individuare diversi tipi di felicità. Li semplifichiamo in tre:- Felicità di tranquillità: è la felicità di coloro che non vogliono nessuna preoccupazione, nessun rischio. Perciò riducono i contatti, restringono i bisogni, induriscono l'epidermide e si rinchiudono nel loro guscio. Difficile, in questo caso, mantenere il termine 'felicità', perché il contenuto ha tutto il sapore del più gretto egoismo. Eppure non mancano persone che impostano la loro esistenza su tali parametri.- Felicità di piacere: lo scopo della vita non consiste nell'agire o nel creare, ma solo nel godere. Il principio regolatore è quello del minimo sforzo, cercando di ricevere il massimo beneficio. L'uomo felice, secondo questo schema, sarebbe colui che assapora l'attimo che tiene in mano. Sebbene sia raro incontrare persone che cercano di vivere così, anche in questo caso il termine ‘felicità’ è usato in chiave egoistica e, di conseguenza, risulta improprio.- Felicità di sviluppo: la felicità non è intesa come un oggetto che si tiene per sé, ma l'effetto dell'azione, quasi un 'sottoprodotto' dello sforzo. Nessun cambiamento beatifica se non tende alla pienezza, al punto esterno di se stesso, in avanti. La felicità si commisura sugli altri e non su se stessi. Ora possiamo parlare di una prospettiva positiva e accettabile.

215 Lo confermano le acute osservazioni di FROMM E., Avere o essere, cit., 155-156: «I piaceri degli edonisti ad oltranza, la soddisfazione di sempre nuove cupidigie, i piaceri della società attuale, danno origine a diversi gradi di euforia, ma non conducono alla gioia. Anzi, la mancanza di gioia rende necessaria la ricerca di piaceri sempre nuovi, sempre più eccitanti.

La gioia è concomitante nell'attività produttiva; non si tratta di una 'esperienza culminante' che raggiunga improvvisamente l'agire e improvvisamente termini, ma piuttosto di un altipiano, di uno stato emozionale che accompagna l'esperienza produttiva delle proprie essenziali facoltà umane. [...]. Piacere ed eccitamento lasciano il posto alla tristezza. Il detto 'dopo il coito ogni animale è triste' riflette appunto questa situazione relativamente al sesso e all'amore, il quale è una 'esperienza culminante' di intensa eccitazione e quindi elettrizzante e piacevole, ma necessariamente seguita da delusione. La gioia nel sesso può essere sperimentata solo qualora l'intimità fisica sia accompagnata dall'intimità amorosa».216 È l'unico detto di Gesù che troviamo fuori dai vangeli; il testo occidentale lo rende con la forma classica delle beatitudini bibliche: «Beato colui che dà, più di colui che riceve». Si tratta sostanzialmente di un proverbio greco (cf TUCIDIDE, II, 97,4; PLUTARCO, II, 137d) che «Luca o la tradizione a lui anteriore (cf Prima lettera di Clemente 2,2) hanno adattato alle beatitudini di Gesù. Luca intende la parola di Gesù come compendio della predicazione sociale di Gesù (cf Lc 6,30-46; 10,30-37)», PESCH R., Atti degli Apostoli, Cittadella, Assisi 1992, 782.

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3.2. LA VERA GIOIAStranamente, Paolo continua a parlare di gioia in una lettera in cui non mancano riferimenti a situazioni incresciose, come la tribolazione (cf 4,14), o come la presenza di mestatori che scompaginano l'armonia della comunità (cf 3,2), e che non risparmiano 'colpi bassi' all'Apostolo (cf 1,17). Insomma, sembrano esserci piuttosto le condizioni per lamentarsi, demoralizzarsi, scagliare fulmini e saette contro gli avversari.

Invece non è così: «La gioia di Paolo, in Fil, è dunque un 'ostinato malgrado tutto' (Barth; cf. Fil 2,17), un malgrado tutto che trae il suo vigore non da se stesso, ma si nutre di ininterrotta preghiera (4,6; cf. 1Ts 5,16; Col 1,11) indirizzata alla diffusione del vangelo nel mondo»217. Effettivamente, la gioia di cui parla Paolo non affoga i problemi e le difficoltà di ogni giorno in un utopistico sogno, né è tributaria di fattori esterni e contingenti. Essa ha radici divine che la rendono 'inossidabile' anche in casi umanamente disperati, permettendole di convivere con sofferenza e tribolazione.

Ancora una volta Paolo insegna. Egli non cessa di essere nella gioia e di esortare la comunità a vivere in essa, sebbene legato dalle catene, attorniato da persone malfidenti che spiano ogni sua mossa per coglierlo in fallo, e poi denunciarlo. Egli teme per la sua stessa vita, forse giunta al giro di boa. Eppure egli se ne sta, sereno e serafico, perché la sua gioia riposa in Dio/Cristo. Colui che è unito a Cristo può essere felice in ogni momento, anzi, lo deve essere: Paolo lo raccomanda vivamente ai suoi fratelli di Filippi (cf 4,4). Importante è sapere la motivazione addotta e, in qualche modo, scoprire la segreta radice: «Il Signore è vicino» (4,5b).

Leggiamo il commento che ne fa s. Agostino218: «L'Apostolo ci comanda di rallegrarci, ma nel Signore, non nel mondo. Chi dunque vuole essere amico del mondo si rende nemico di Dio (cfr. Gc 4,4), come ci assicura la Scrittura. Come un uomo non può servire a due padroni, così nessuno può rallegrarsi contemporaneamente nel mondo e nel Signore. Quindi abbia il sopravvento la gioia nel Signore, finché non sia finita la gioia nel mondo. Cresca sempre più la gioia nel Signore, mentre la gioia nel mondo diminuisca sempre finché sia finita. E noi affermiamo questo, non perché dobbiamo rallegrarci mentre siamo nel mondo, ma perché, pur vivendo in questo mondo, ci rallegriamo nel Signore. [...] Perciò, fratelli, rallegratevi nel Signore, non nel mondo; cioè rallegratevi nella verità, non nel peccato; rallegratevi nella speranza dell'eternità, non nei fiori della vanità. Così rallegratevi: e dovunque e per tutto il tempo che starete in questo mondo, 'Il Signore è vicino! Non angustiatevi per nulla' (Fil 4,5-6)».217 BEYREUTHER E. - FINKENRATH G., Gioia, cit., 771.218 Disc. 171,1-5, PL 38,933-935.

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La presenza del Signore sprigiona la gioia che ha un riverbero esterno: «La vostra affabilità sia nota a tutti gli uomini» (4,5a). Per la sua intima natura, la gioia è un bene che si travasa felicemente negli altri. La gioia ampia e profonda, che fin da quaggiù si diffonde nel cuore dei veri fedeli, non può che apparire ‘diffusiva di sé’, proprio come lo sono la vita e l'amore, di cui essa è una sintesi felice. Essa risulta da una comunione umano-divina, e aspira a una comunione sempre più universale. In nessun modo potrebbe indurre colui che la gusta ad una qualche attitudine di ripiegamento su di sé. Essa dà al cuore un’apertura cattolica sul mondo degli uomini, mentre gli fa sentire, come una ferita, la nostalgia dei beni eterni219.

La gioia favorisce un’apertura sugli altri, sull’Altro, sull’infinito: «Il vero egoismo della gioia non è il dolore che sta dentro la struttura stessa dell'esistenza. È l'egoismo che lo provoca dall'esterno con le sue mille iniziative, da quelle selvagge a quelle mascherate di buone ragioni: l'egoismo che spreca la vita, l'egoismo che vuole di più per sprecare di più, l'egoismo che si rifiuta a chi non ha. La gioia deve essere letta nel contesto di una realtà complessiva che ingloba tutto e tutti. L'uomo è come imbevuto dell'avventura del mondo, un mondo che sale verso più complessità e più coscienza, fino alla ricapitolazione in Dio tramite il Cristo universale. La felicità è incorporarsi nella totalità del processo in corso, inserire l'avventura della propria esistenza nell'avventura più globale del mondo, vivendo secondo il ritmo di tre momenti: essere se stessi ('incentrazione'), aprirsi agli altri ('decentrazione'), nello slancio umano e cristiano in avanti verso Dio che chiama e attira ('supercentrazione'). Abbiamo così tre verbi: ESSERE, AMARE, ADORARE che sono altresì espressione di tre atteggiamenti fondamentali, quello della creatività, quello dell'amore e quello dell'adorazione»220.

UN ABBRACCIO DI ETERNITÀAfferrato da Cristo, Paolo è in attesa di una trasformazione piena che interessa la sua vita, non ipotizzabile se disgiunta da quella dei suoi fratelli di fede. L'Apostolo ha ormai prospettive di eternità che relativizzano il presente, non relegandolo nel cantuccio della dimenticanza o del disinteresse, ma potenziandolo in una visione piena: «La lettera ai Filippesi sembra dunque esprimere un clima di pace, di pacatezza, di gratitudine, di dolcezza che contrasta con i fatti oggettivi esterni, soprattutto con le 'catene' cui fa fugace e marginale riferimento. I fatti 219 Cf Gaudete in Domino, cit., n. 41.220 GIBELLINI R., Prefazione al libro di TEILHARD DE CHARDIN P., Sulla felicità, Queriniana, Brescia 21991, 11-12.

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sembrano aver perso il loro potere su Paolo che, anzi, ritrova e riconduce a unità quelle sue risorse che in altri momenti aveva utilizzato in forma alternativa e altalenante. Si sente ormai vicino alla meta, è soddisfatto di come si sono svolti i fatti e ora è fiducioso non solo per quanto riguarda la sua persona, ma anche per quanto riguarda gli altri, i fratelli che, a modello del Padre, può ora chiamare individualmente per nome»221.

Vivere o morire passano in secondo piano, rispetto al possesso di Cristo, da godere e da comunicare. Questa è la sua gioia, questa è la gioia della comunità. E Paolo se ne fa cantore nella lettera inviata ai fratelli di Filippi, avviando un procedimento a cascata, di cui beneficiamo ancora noi, oggi222.

221 CIRIGNANO G. - MONTUSCHI F., La personalità di Paolo, cit., 188.222 È una caratteristica che si perpetua: «La trasmissione della fede cristiana è innanzitutto l'annuncio di Gesù Cristo, allo scopo di condurre alla fede in lui. Fin dall'inizio, i primi discepoli sono stati presi dal desiderio ardente di annunziare Cristo: 'Noi non possiamo tacere quello che abbiamo visto e ascoltato' (At 4,20). Essi invitano gli uomini di tutti i tempi ad entrare nella gioia della loro comunione con Cristo», CCC, n. 425.

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L’ULTIMA VOCE

«Lo scopo della Scrittura è la felicità eterna» (s. Bonaventura)

Ci sono testi nei quali, capirci qualcosa, è come voler decifrare una vetrata gotica dal di fuori. Altri hanno la luminosa trasparenza delle realtà evidenti. La Lettera ai Filippesi rientra più nella seconda categoria, anche se affiora qua e là qualche scoglio di comprensione, e se in qualche punto conserva una patina di opacità.

In genere, lo scritto è facilmente comprensibile e di piacevole lettura. Sebbene breve, perché di soli quattro capitoli, possiede alcune pagine semplicemente stupende, sia per la robustezza teologica, sia per la delicatezza dei sentimenti. E non pensiamo solo all'arpeggio teologico-mistico dell'inno cristologico del cap. 2, meritatamente famoso e ampiamente utilizzato. Tutto lo scritto, nel suo insieme, lascia affiorare una sottile gioia che, come un delicato profumo, conquista il lettore. È la fragranza che investe la vita del cristiano, invitato a valorizzare tutta la sua esistenza nella scia di Cristo.

Il centro è decisamente cristologico, com’è stato più volte rimarcato. Individuato il centro, identifichiamo nella gioia un ideale 'punto geometrico', nel quale convergono e dal quale s’irraggiano tanti fili. Il tema si presterebbe ad una spumeggiante cascata di parole, forse anche ad un'alchimia che viene dalla magia delle formule. Paolo rifugge da simile tentazione, e avvia un movimento che ha tutte le carte in regola per non durare una stagione. Lega la gioia a Cristo e ai fratelli. Alla crescita miope e insolente dell'individualità, Paolo oppone uno sviluppo armonico, complessivo, centrato in Cristo, radicato nella persona, aperto agli altri. L'uomo biblico, infatti, non è mai solo davanti a Dio, ma è sempre posto fra i fratelli, perché è l’uomo dell’alleanza. La gioia, quindi, principia in Dio, raggiunge la persona, e si riverbera sull’altro. La gioia che non si travasa negli altri è destinata ad imputridire, come l’eccesso di manna raccolto con intento egoistico (cf Nm 16,20).

L’esperienza insegna che ai giovani - e la giovinezza non è solo un dato anagrafico - non possono essere offerti ideali mediocri, proposte di vita a mezzadria, tra l'opacità del benessere e l’ottuso sogno rivoluzionario del dopopranzo223. La gioia di Paolo è a caro prezzo, perché porta le stigmate della sofferenza e della morte. Saranno quelle stigmate ad essere mostrate nel radioso mattino di Pasqua.223 Paul Claudel amava ripetere che la gioventù non è fatta per il piacere, ma per l'eroismo.

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Il vangelo non è un annunzio che si spegne, stagnante in chi lo riceve, ma invade la terra e si fa storia. Si tratta di individuare la piccola zolla di storia che è stata affidata alla nostra volontà di dissodamento: lì dobbiamo lavorare con serietà e costanza. La gioia finisce allora per permeare tutti i segmenti del vivere quotidiano, anche quelli minuscoli e apparentemente insignificanti. Non si può vivere sempre in edizione straordinaria. C'è una normalità che va rispettata ed ossequiata. La gioia, quella vera, si situa nella vita di tutti i giorni, patinando di speranza e di fiducia le inevitabili difficoltà. Pensare di essere felici ‘quando tutto andrà bene’ è pura follia dell’illusione.

Alla corposa sostanza del contenuto, non guasta, anzi è auspicabile, un completamento. Paolo combatte l'analfabetismo dei sentimenti, combatte quella pseudogioia che non ha riscontro neppure nella zona rarefatta della poesia. Guardare il mondo con gli occhi stupiti del bambino, con la curiosità dello scienziato, con la sete di bellezza dell’artista, sono tutte espressioni di una gioia che canta dentro, e che si manifesta fuori attraverso il prisma multicolore della vita.

Affidiamo la conclusione alla riflessione di un santo teologo224 che propone una sua ricetta di felicità, partendo dalla Scrittura e puntando dritto sulla Trinità. Si direbbe che stia chiosando Paolo:

L'origine della Sacra Scrittura non è frutto di ricerca umana, ma di rivelazione divina. Questa promana dal Padre della luce, dal quale ogni paternità nei cieli e sulla terra prende nome.

Dal Padre, per mezzo del Figlio suo Gesù Cristo, discende in noi lo Spirito Santo. Per mezzo dello Spirito Santo poi, che divide e distribuisce i suoi doni ai singoli secondo il suo beneplacito, ci viene data la fede, e per mezzo della fede Cristo abita nei nostri cuori.

Questa è la conoscenza di Gesù Cristo, da cui hanno origine, come da una fonte, la sicurezza e l'intelligenza della verità, contenuta in tutta la Sacra Scrittura. Perciò è impossibile che uno possa addentrarvisi e conoscerla, se prima non abbia la fede che è lucerna, porta e fondamento di tutta la Sacra Scrittura.

La fede infatti, lungo questo nostro pellegrinaggio, è la base da cui vengono tutte le conoscenze soprannaturali, illumina il cammino per arrivarvi ed è la porta per entrarvi. È anche il criterio per misurare la sapienza donataci dall'alto, perché nessuno si stimi più di quanto è conveniente valutarsi, ma in maniera di avere, di se stessi, una giusta valutazione, ciascuno secondo la misura di fede che Dio gli ha dato (cf Rm 12,3).224 BONAVENTURA, Breviloquio, Prologo, (Opera omnia 5, 201-202).

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Lo scopo, poi, o meglio, il frutto della Sacra Scrittura non è uno qualsiasi, ma addirittura la pienezza della felicità eterna225. Infatti la Sacra Scrittura è appunto il libro nel quale sono scritte parole di vita eterna perché, non solo crediamo, ma anche possediamo la vita eterna, in cui vedremo, ameremo e saranno realizzati tutti i nostri desideri.

Solo allora conosceremo «la carità che sorpassa ogni conoscenza» e così saremo ricolmi «di tutta la pienezza di Dio» (Ef 3,19).

Ora la divina Scrittura cerca di introdurci in questa pienezza, proprio secondo quanto ci ha detto poco fa l'Apostolo.

Con questo scopo, con questa intenzione, deve essere studiata la Sacra Scrittura. Così va ascoltata e insegnata.

Per ottenere tale frutto, per raggiungere questa meta sotto la retta guida della Scrittura, bisogna incominciare dal principio. Ossia accostarsi con fede semplice al Padre della luce e pregare con cuore umile, perché egli, per mezzo del Figlio e nello Spirito Santo, ci conceda la vera conoscenza di Gesù Cristo e, con la conoscenza, anche l'amore. Conoscendolo ed amandolo, e saldamente fondati e radicati nella carità, potremo sperimentare la larghezza, la lunghezza, l'altezza e la profondità (cf Ef 3,18) della stessa Sacra Scrittura.

Potremo così giungere alla perfetta conoscenza e all'amore smisurato della beatissima Trinità, a cui tendono i desideri dei santi ed in cui c'è l'attuazione ed il compimento di ogni verità e bontà.

225 Il grassetto è nostro, non dell’Autore.

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APPENDICE 1

PER LA RIFLESSIONE INDIVIDUALEE DI GRUPPO

La conoscenza della Parola di Dio si travasa nella vita di tutti i giorni. Intelligenza, cuore, attività, tutto è investito, illuminato e corroborato dal prezioso incontro con la Parola. Al fine di favorire un passaggio dalla teoria alla pratica, dalla conoscenza all’appropriazione, dall’erudizione alla contemplazione, proponiamo, a titolo puramente indicativo di stimolo, una serie di domande che si susseguono conservando l’ordine e i titoli del testo appena esaminato.

INTRODUZIONE1. Ritengo utile, forse importante, conoscere alcune informazioni preliminari

sulla Lettera ai Filippesi (autore, composizione, data, messaggio…)? Perché?

2. Che cosa conoscevo già? Che cosa ho appreso di nuovo da questa? Quale aspetto mi ha particolarmente interessato?

3. Saprei formulare in poche battute il messaggio di Paolo alla comunità? Potrebbe essere inviato anche alla mia comunità cristiana? Perché?

COMMENTO

A CUORE APERTO (Fil 1,1-11)1. Come Paolo dà un tocco di originalità agli elementi classici di una lettera:

mittente, destinatari, saluto? Posso imparare a ‘rendere nuove’ cose che fanno tutti e sempre? Come e quanto mi sforzo per non essere stritolato dalla monotonia del quotidiano?

2. Che cosa insegna Paolo con la sua preghiera di ringraziamento per la comunità? Quando e per chi ho ringraziato il Signore l’ultima volta? Erano grandi motivi, simili a quelli di Paolo? Una forma del ringraziamento è la gratificazione. Sono capace di vedere il bene altrui, riconoscerlo, apprezzarlo, valorizzarlo? Quando mi è capitato recentemente? Chi ha beneficiato della mia stima e gratificazione?

3. Come valuto la mia capacità affettiva? Ho un cuore aperto, capace di amare tutti, come Paolo che dichiara alla comunità di volerle bene? Posso dire di avere un amore ‘pulito’, capace di volare alto? Oppure mi lascio trasportare da simpatie e antipatie? Amo la mia comunità ecclesiale (per esempio la parrocchia), oppure preferisco le ‘chiesuole’?

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Se faccio parte di un gruppo ecclesiale, so conciliare bene l'attenzione alla parte, senza disattendere il tutto?

RICORDI PERSONALI E CONFIDENZE (Fil 1,12-26)1. Paolo è capace di confidenze profonde. Io, a chi faccio le mie

confidenze? Da chi le ricevo? Sono in grado di conservare gelosamente una confidenza ricevuta? Su questo aspetto, sono una 'cassaforte' o un 'trombone'? La confidenza è per me una semplice informazione, oppure un’occasione per conoscere meglio l’altra persona e stringere un rapporto più profondo? Che cosa ne deriva per la mia vita di amicizia?

2. I rancori personali, gli intrighi di palazzo, il sottobosco del pettegolezzo, tutto questo è assente in Paolo. E in me? Mi trovo persona libera, non condizionata dal pensiero altrui e, soprattutto, non succube del giudizio altrui? Sono capace di riferirmi a grandi ideali che mi permettono di non rimanere irretito dalle visioni miopi? Ho qualche recente esempio capace di illuminare questo punto?

3. Che cosa intendo quando sento parlare di ‘grandezza morale’? Ci sono persone che godono della mia stima, proprio perché ‘grandi’ sotto questo aspetto? Possiedo una mia dignità morale che si esprime con la nobiltà dei valori proclamati e vissuti?

4. Che cosa dice alla mia vita di cristiano una frase come «per me vivere è Cristo» (1,21)?

ESORTAZIONI ALLA COMUNITÀ (Fil 1,27-2,18)1. La lotta per il Vangelo è richiesta solo alla comunità di Filippi? Se vale

anche per la nostra comunità cristiana, come si concretizza oggi?2. Abbiamo una comunità ecclesiale unita? Quali sono i suoi punti forti? E

quali quelli deboli? La presenza di più gruppi all’interno della parrocchia è motivo di unità o di contrasto? Quale suggerimento viene dalla lettera?

3. Paolo addita il modello Cristo. Sono capace e siamo capaci di ispirarci a Cristo per costruire un'autentica comunità? Che cosa mi ha colpito di più nell’inno cristologico del cap. 2? Perché? Come potrei riassumerlo con le mie parole?

4. Come deve essere inteso il «timore» di 2,12? È possibile costruire un rapporto valido con Dio che sia fondato sulla paura? Che cosa intendevano i nostri nonni quando parlavano del «santo timore di Dio»? Quale termine oggi sarebbe più opportuno usare?

I COLLABORATORI DELLA MISSIONE (Fil 2,19-30)1. Perché Paolo parla e si interessa dei suoi collaboratori? Che cosa

significa per noi?2. Sono capace di relazionarmi con stima e rispetto ai miei collaboratori e ai

miei colleghi? Devo vergognarmi di qualche atteggiamento meschino che ha inquinato recentemente i nostri rapporti? Ho qualche bel caso che si avvicina al comportamento adottato da Paolo?

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3. Con chi mi riesce più facile la collaborazione? Perché? Con chi mi riesce più difficile? Perché? Che cosa dice Paolo su Timoteo e su Epafrodito? Che cosa ho detto io, la settimana scorsa, dei miei collaboratori e colleghi?

4. I primi e più intimi collaboratori sono i miei familiari. Come vivo il mio rapporto con loro? Apprezzo e stimo la loro persona, manifestandolo anche all'esterno con la gratitudine, l'apprezzamento, la valorizzazione?

L'ESPERIENZA DI CRISTO (Fil 3,1-4,1)1. Perché Paolo, delicato e dolce con i collaboratori, ha un violento attacco

contro i nemici? Si tratta di antipatia, o esiste un altro motivo, non personale, ma oggettivo? In che cosa consiste la polemica di Paolo? Posso trovare un equivalente nella vita di oggi?

2. Come ha fatto Paolo a collocare Cristo al centro della sua vita? E nella mia vita di credente, Cristo che posto occupa? C’è qualche elemento che funge da zavorra, impedendomi di aderire a Cristo? Quali sono i mezzi spirituali che mi aiutano a dare centralità a Cristo?

3. Paolo è cosciente di non essere ancora arrivato alla meta. Che cosa suggerisce al mio cammino spirituale? Sono capace di un giusto e continuo aggiornamento cristiano? Mi ritengo forse un ‘arrivato’, uno che non ha più bisogno di approfondire la propria fede e il proprio rapporto con Cristo? Quali sono i momenti della mia catechesi cristiana? A quale fonte mi abbevero?

4. Posso ripetere con Paolo: «Fatevi miei imitatori» (3,17)? In che senso deve essere capita la frase? Chi può dire di aver appreso da me uno scampolo di vangelo, guardando alla mia vita? In quale ambiente (familiare, professionale…) ho lasciato dietro a me il ‘profumo’ di buon cristiano?

UNA MANCIATA DI RACCOMANDAZIONI (Fil 4,2-9)1. Paolo denota una grande attenzione agli altri. Ancora una volta si ricorda

dei collaboratori e di persone della comunità. Sono ripiegato su me stesso, incapace di accorgermi della presenza degli altri, con le loro gioie e i loro dolori? Oppure mi sembra di essere sensibile e partecipe della vita altrui? Che cosa possono dire i miei familiari, i miei colleghi, i miei vicini di casa?

2. «Non angustiatevi per nulla» (4,6) può essere letto come un valido antidoto all’ansia? Se rispondo positivamente, perché? Quali criteri suggerisce Paolo? Li trovo validi anche oggi?

3. Che cosa sono le ‘virtù umane’? Perché Paolo le raccomanda vivamente alla sua comunità? Il cristiano può esimersi da uno sforzo continuo, perché in lui crescano e si sviluppino anche tali virtù? Qual è il loro rapporto con le virtù più propriamente cristiane, e soprattutto con quelle teologali (fede, speranza, carità)? Quale immagine di uomo ne deriva?

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4. Come accetto le raccomandazioni che mi vengono date? Sono pronto e disponibile ad ascoltarle, a vagliarle con serenità e oggettività, a tradurle in concreto, se utili? Come faccio uso di raccomandazioni verso gli altri?

IL PROFUMO DELLA RICONOSCENZA. CONGEDO (Fil 4,10-23)1. Che cosa mi sorprende in questo strano modo di ringraziare di Paolo?2. Sono capace di gratitudine? La so manifestare? Come? Ricordo che il

mio grazie va espresso anche a Dio? Quanto la gratitudine colora la mia preghiera? Chi è l’ultima persona che ha beneficiato del mio grazie?

3. Come va intesa la frase «Ho imparato a bastare a me stesso in ogni occasione» (4,11)? C’è forse della presunzione? Quale insegnamento viene alla mia vita? Posso leggervi anche un risvolto ecclesiale? Quale?

4. Chi sarà l’ultimo a dire ‘grazie’ (cf 4,19)? In che cosa consisterà tale ‘grazie’?

5. Posso trovare qualcosa di interessante nei saluti e nell’augurio finale?

NOTE TEOLOGICHE1. Quale ‘fotografia’ di Paolo appare alla fine della lettera? Che cosa ho

apprezzato di più nella sua persona e nella sua opera? Quale aspetto del suo carattere trova corrispondenza nella mia vita? Su quale punto vorrei assomigliargli di più?

2. Come giudico, complessivamente, la comunità cristiana di Filippi? Che cosa insegna alle nostre comunità? È una comunità senza problemi, oppure una comunità che sa affrontarli? Come? Quale ruolo ha avuto Paolo nel far crescere la comunità? Come essa ha risposto alla sollecitazione dell’Apostolo? Qual è il rapporto tra laici e preti o religiosi nella mia comunità? Ho maturato nuove convinzioni, dopo aver approfondito questa lettera di Paolo? Saprei individuare alcuni elementi costitutivi per il sorgere, il mantenimento e lo sviluppo di una sana comunità cristiana? Quali suggerimenti darei al mio parroco? Io, sono pronto ad ascoltare i suoi?

3. Posso dare una mia definizione di gioia? Quali sono gli ingredienti necessari perché ci sia vera gioia? Paolo che cosa raccomanda? Da quali surrogati dobbiamo difenderci? Abbiamo una nostra ricetta che, sperimentata positivamente, possiamo suggerire agli altri?

4. Come Paolo educa la comunità a guardare avanti e a guardare alto? Dove ho posto scintille di eternità che avvalorano e impreziosiscono il mio tempo? Quanta sensibilità e apertura verso l’eterno trovo nella mia vita? Come penso e quanto penso al Paradiso? Ho trovato qualche indicazione preziosa, una specie di bussola, che mi orienti? Che ruolo ha la gioia in questo?

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APPENDICE 2

USO LITURGICO DELLA LETTERA AI FILIPPESI

La Lettera ai Filippesi è letta quasi per intero, sia nel ciclo festivo, sia in quello feriale (lettura continuata), con il seguente calendario:

Ciclo festivo

Fil 1,4-6.8-11: 2a domenica di Avvento (C)Fil 1,20c-27a: 25a domenica del Tempo Ordinario (A)Fil 2,1-11: 26a domenica del Tempo Ordinario (A)Fil 2,6-11: Domenica delle Palme (A)Fil 3,8-14: 5a domenica di Quaresima (C)Fil 3,17-4,1: 2a domenica di Quaresima (C)Fil 4,4-7: 3a domenica di Avvento (C)Fil 4,6-9: 27a domenica del Tempo Ordinario (A)Fil 4,12-14.19-20: 28a domenica del Tempo Ordinario (A)

Ciclo feriale – anno pari

Fil 1,1-11: Venerdì della 30a settimanaFil 1,18b-26: Sabato della 30a settimanaFil 2,1-4: Lunedì della 31a settimanaFil 2,5-11: Martedì della 31a settimanaFil 2,12-18: Mercoledì della 31a settimanaFil 3,3-8a: Giovedì della 31a settimanaFil 3,17-4,1: Venerdì della 31a settimanaFil 4,10-19: Sabato della 31a settimana

Inoltre:

Fil 2,6-11: Esaltazione della santa croce (14 settembre)

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INDICE ANALITICO(da compilare)

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INDICE DEI NOMI CITATI(da compilare)

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I N D I C E

PREFAZIONE pag.ABBREVIAZIONI E SIGLE

pag.NOTA BIBLIOGRAFICA pag.

INTRODUZIONEpag.

COMMENTO

A CUORE APERTO1,1-11

pag.RICORDI PERSONALI E CONFIDENZE1,12-26 pag.ESORTAZIONI ALLA COMUNITÀ1,27-2,18 pag.I COLLABORATORI DELLA MISSIONE2,19-30 pag.L'ESPERIENZA DI CRISTO3,1-4,1 pag.UNA MANCIATA DI RACCOMANDAZIONI4,2-9 pag.IL PROFUMO DELLA RICONOSCENZA. CONGEDO4,10-23 pag.

NOTE TEOLOGICHEpag.

L’ULTIMA VOCE

APPENDICE 1: Per la riflessione individuale e di gruppoAPPENDICE 2: Uso liturgicoINDICE ANALITICOINDICE DEI NOMI CITATI

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