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A ‘mmotu ‘e Luna

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A ‘mmotu ‘e LunaAnno 0 Numero 0

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EditorialePuò una neonata rivista di divulgazione culturale sor-ta dal nulla nel bel mezzo di una pandemia globale in un piccolo paese della Calabria - all’interno di una minuscola biblioteca - pretendere di affermarsi, gene-rare entusiasmo e, in ultima istanza, avere successo?

No.

Ma a noi interessa poco e contiamo sul fatto che la statistica faccia schifo anche a voi.

Serrastretta, 23 aprile 2020 La Redazione

Indice

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pag. 3Regolamento

pag. 4Omaggio a

Luis SepúlvedaGiusy Fazio

pag. 7I sentieri del sogno portano alla verità

Debora Calomino

pag. 8Pazienza passiva

Donato Parente

pag. 10Un altro punto di

vistaFabiana Calomino

pag. 12La scienza non può essere democratica

Martina Parente

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A ‘mmotu ‘e Luna

- La rivista nasce con lo scopo di favorire la condivisione di qualunque testo scritto considerata degna di nota da ogni singolo partecipante.

- Non c’è nessuna limitazione di carattere contenutistico, motivazionale, morale.

- Gli articoli saranno pubblicati sulla rivista cartacea, sul sito della Bibliote-ca Comunale “Luis Scalese” di Serrastretta e condivisi sulla pagina facebook

della rivista.- La partecipazione è aperta a tutti: chiunque può partecipare inviando il testo prescelto tramite messaggio privato alla pagina facebook “A ‘mmotu ‘e Luna”;- Il testo (di lunghezza variabile) dovrà essere estratto da libro ed inviato non

prima di aver aggiunto un titolo, una breve descrizione e il riferimento bibliografico.

- È possibile interagire o reagire ad un testo precedentemente pubblicato allegando al testo inviato la dicitura: “In risposta a…”

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Regolamento

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Omaggio a Luis SepúlvedaLuis Sepúlveda (1949 - 2020) scrisse Il vecchio che leggeva romanzi d’amore tra il 1988 e il 1989, ispi-randosi ai racconti di un suo amico shuar grande difensore dell’Amazzonia. Uno dei temi centrali è per il protagonista Antonio la scoperta di saper leggere e la consapevolezza di voler leggere solo romanzi d’amore, storie in cui dopo le difficoltà arrivava il lieto fine per i dolci amanti. A far da sfondo alle letture sentimentali vi è la foresta che Antonio conosce bene per averla vissuta intensa-mente grazie al popolo degli indios shuar. Da loro ha appreso il rispetto per la natura e per gli ani-mali che popolano la foresta. Per questo motivo sa che il tanto temuto tigrillo, un felino molto intelli-gente, sta vendicando la morte dei suoi cuccioli e del suo maschio ad opera di un gringo e, in fondo, cerca solo la sua stessa morte per porre fine alle sofferenze, al vuoto che ha dentro per ora occupa-to dall’odio nei confronti dell’uomo: un uomo in-capace di rispettare ciò che lo circonda; un uomo governato solo dalla superbia, dalla avidità e dal-la presunzione.

“Messo all’erta da un rumore di acqua che ca-deva all’improvviso, si voltò e la scorse che si spostava verso sud, a una cinquantina di metri di distanza. Si muoveva lentamente, con le fauci aperte, frustandosi i fianchi con la coda. Calcolò che dalla testa alla coda misurava due metri buo-ni, e che in piedi sulle zampe posteriori superava la statura di un cane da pastore. L’animale scomparve dietro un arbusto, ma si fece rivedere quasi immediatamente. Questa volta si muoveva verso nord. «Questo trucco lo conosco. Se mi vuoi qui, va bene, ci rimango. Nella nube di vapore non ve-drai più nulla nemmeno tu», le gridò, e si protes-se le spalle appoggiando la schiena a un tronco. La pausa della pioggia richiamò immediata-mente le zanzare. Attaccarono cercando labbra, palpebre, graffi. I minuscoli insetti si infilavano negli orifizi nasali, nelle orecchie, tra i capelli. Rapidamente si mise in bocca un sigaro, lo ma-sticò per spappolarlo, e si applicò l’impasto di sa-liva sul volto e sulle braccia.

Per fortuna la pausa durò poco e riprese a piove-re con rinnovata intensità. Subito tornò la calma, si sentiva solo il rumore dell’acqua che penetrava tra il fogliame. La femmina si lasciò vedere varie volte, muoven-dosi sempre su una traiettoria nord-sud.Il vecchio la osservava, studiandola. Seguiva i

movimenti dell’animale per scoprire in che pun-to della selva compiva il giro che le permetteva di tornare sempre allo stesso punto, a nord, per ricominciare la sua passeggiata provocatoria.«Eccomi qua tutto per te. Sono Antonio José Bolívar Proaño e l’unica cosa che ho d’avanzo è la pazienza. Sei un animale strano, su questo non ci sono dubbi. Mi chiedo se la tua condotta è in-telligente o disperata. Perché non mi giri intorno e tenti dei finti attacchi? Perché non ti avvii ver-so oriente, per farti seguire? Ti muovi da nord a sud, giri a ponente e ricominci da capo. Mi pren-di per coglione? Mi stai tagliando la strada verso il fiume. È questo il tuo piano. Mi vuoi vedere fuggire verso il folto della foresta per seguirmi. Non sono coglione fino a quel punto, amica mia. E tu non sei così intelligente come supponevo.»

a cura di Giusy Fazio

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Osservava i suoi spostamenti e in alcune oc-casioni fu sul punto di sparare, ma non lo fece. Sapeva che il tiro doveva essere sicuro e defi-nitivo. Se la feriva soltanto, la femmina non gli avrebbe dato il tempo di ricaricare l’arma, che, per un difetto dei cani, faceva esplodere entrambe le cartucce contemporaneamente. Passarono le ore, e quando la luce cominciò a diminuire seppe che il gioco dell’animale non consisteva nello spingerlo verso oriente. Lo voleva lì, in quel punto, e aspettava l’oscu-rità per attaccarlo. Il vecchio calcolò che di-sponeva di un’ora di luce, in quell’in-tervallo di tempo doveva andarse-ne, raggiunger e la riva del fiume e cercare un luo-go sicuro. Aspettò che la femmina fi-nisse uno dei suoi spostamenti verso sud e iniziasse il giro che la ripor-tava al punto di partenza. Allora, correndo a tutta velocità, si lanciò verso il fiume. Arrivò a un vecchio appezzamento disboscato che gli permise di guadagnare tempo, e lo attraversò con la doppietta stretta al petto. Con un po’ di fortuna avrebbe raggiunto la riva del fiume prima che la femmina scoprisse la sua mano-vra di evasione. Sapeva che non lontano da lì avrebbe trovato un accampamento abbando-nato di cercatori d’oro, dove avrebbe potuto rifugiarsi. Si rallegrò quando sentì il rumore della piena. Il fiume era vicino. Per raggiun-gere la riva gli restava soltanto da scendere un pendio di una quindicina di metri coperto di felci, quando l’animale attaccò.La femmina doveva essersi mossa con tale velocità e cautela, scoprendo il suo tentativo di fuga, che era riuscita a correre parallela al vecchio senza farsi notare, fino a piazzarglisi a un lato. Ricevette lo spintone affibbiatogli

con le zampe anteriori e cadde ruzzolando giù dal pendio. Stordito, si accucciò brandendo il machete con tutte e due le mani, e aspettò l’attacco finale. In alto, sul bordo del declivio, la femmina muoveva la coda freneticamente. Le piccole orecchie vibravano captando tutti i rumori della foresta, ma non attaccava. Sor-preso, il vecchio si mosse lentamente fino a recuperare la doppietta.«Perché non attacchi? A che gioco stai giocan-do?» Sollevò i cani della doppietta e si accostò l’arma al volto. A quella distanza non poteva

fallire. In alto la femmina non gli staccava gli occhi di dosso. All’improvviso ruggì, triste e stanca, e si lasciò cadere sulle zampe.La debole risposta del ma-schio gli arrivò da molto vicino, e non fece fatica a trovarlo. Era più picco-lo della femmina, e stava sdraiato al riparo di un tronco vuoto. Era ridotto pelle e ossa e aveva una co-

scia quasi strappata dal corpo da un colpo di fucile. L’animale respirava a stento, e l’agonia sembrava dolorosissima.«Volevi questo? Che gli dessi il colpo di gra-zia?» gridò il vecchio verso l’altura, e la fem-mina si nascose tra le piante. Si avvicinò al maschio ferito e gli accarezzò la testa. L’ani-male alzò appena una palpebra. Esaminando con attenzione la ferita vide che cominciava-no a mangiarselo le formiche. Appoggiò le due canne del fucile al petto dell’animale.«Mi dispiace, compagno. Quel gran figlio di puttana di un gringo ci ha fottuto la vita a tut-ti», e sparò. Non vedeva la femmina, ma la in-dovinava in alto, nascosta, in preda a lamenti forse simili a quelli umani. Ricaricò l’arma e si avviò tranquillamente verso la riva desi-derata. Si era allontanato di un centinaio di metri quando vide la femmina scendere dal maschio morto.”

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Tratto dall’ultimo libro pubblicato di Lui Sepúlveda, Storia di una balena bianca raccontata da lei stessa si ispira al celebre romanzo di Herman Melville, Moby Dick, per raccontarne gli eventi da un punto di vista nuovo, quello della balena. L’idea nasce in Sepúlveda dalla scoperta della reale esistenza di un gigantesco ca-podoglio albino che, nel 1819, si scagliò contro la nave baleniera Essex i cui ramponieri stavano in quel mo-mento issando a bordo una balena femmina appena arpionata. Dopo gli assalti la nave Essex affondò nelle acque del Pacifico, di fronte all’Isola di Mocha. Anche in questo libro fuoriesce la natura avida dell’uo-mo capace di distruggere ciò che gli capita a tiro pur di raggiungere il proprio obiettivo, sia esso quello di recu-perare olio e grasso dalle balene come in Storia di una balena bianca raccontata da lei stessa o pepite di oro e pelli di tigrillo come nel Il vecchio che leggeva romanzi d’amore.

“«Ti saluto, grande capodoglio del colore della luna, che gli uomini chiamano Mocha Dick» esordì l’alba-tros. «Devi sapere che gli uomini ti odiano e ti temo-no. Vedo nel tuo occhio che hai molte domande e io ho tutte le risposte. Gli uomini vengono da molto lon-tano e nulla frena la loro cupidigia, nemmeno la mor-te. Vengono da regioni che non abbiamo mai visto né mai vedremo, perché attraversano un oceano grande come questo per raggiungere lo stretto chiamato da loro Capo Horn, che ha le rive piene di relitti, di silen-ziosi resti di naufragi, a testimonianza dell’audacia de-gli uomini, che non desistono mai. Sulle imbarcazioni che arrivano e continueranno ad arrivare si parla di te, della grande balena bianca, di Mocha Dick, e per stuz-zicare l’avidità e seminare la paura negli equipaggi ine-sperti vieni descritto più grande di quanto realmente sei, più forte e più crudele. Verranno perché vogliono catturarti e perché sanno che queste sono zone di pas-saggio, sulla rotta che seguono le balene quando per partorire migrano dalle acque fredde alle acque cal-de, vicino alle isole delle grandi tartarughe dette dagli uomini Galápagos, per poi far ritorno affamate nelle acque fredde ricche di krill, calamari e polpi. Verran-no inesorabilmente. Nelle loro navigazioni uccidono balene, delfini, leoni marini, foche, trichechi, pingui-ni, gabbiani. Ogni essere che vive in mare finisce nei loro calderoni, trasformato in grasso oppure in olio. Sei stato scelto per una nobile missione, grande ca-podoglio del colore della luna, perché quando anche l’ultimo lafkenche sarà condotto sull’Isola di Mocha e intraprenderà il lungo viaggio oltre l’orizzonte, tutte noi creature dell’oceano ti seguiremo verso il mare più puro, il mare senza balenieri.»”

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Luis Sepúlveda, Il vecchio che leggeva romanzi

d’amore, Guanda Editore, 1993, pp. 123, 124, 125, 126.

Luis Sepúlveda, Storia di una balena bianca raccontata da lei stessa, Guanda Editore,

2018, pp. 88 - 91.

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I sentieri del sogno portano alla verità

a cura di Debora Calomino

Seguire i propri sogni, anche e soprattutto quando tutto sem-bra dirci il contrario. Il primo romanzo di Sergio Bambarén, pubblicato nel 2008 è un inno al coraggio delle proprie scelte, senza mai farsi scoraggiare dagli altri. L’autore è un esperto surfista ed ecologista, australiano, nato in Perù, ha vissuto per molti anni negli Stati Uniti. La sua produzione letteraria, fatta di romanzi che hanno spesso come protagonista il mare, offre una serie di spunti di riflessione su temi importanti come il coraggio, la libertà, la solitudine, l’anima, i sentimenti, la fede.Ne Il Delfino, romanzo che ha venduto più di centomila copie, tradotto in oltre 40 lingue, si narra la storia di un delfino che abbandona le acque sicure in cui vive insieme al suo branco, per inseguire il suo più grande desiderio: scoprire l’oceano. Nel-la sua scrittura semplice e immediata spiccano i paesaggi ma-rini e la bellezza della natura, personaggi a metà strada tra la realtà e la fantasia accompagnano il lettore in un mondo in cui tutto è possibile, basta solo crederci veramente.Di seguito alcuni estratti del volume, frasi significative e mo-tivazionali, utili per ritrovare la speranza, anche nei momenti più bui. Ho scelto questo libro perché è una lettura breve ma molto pro-fonda, che insegna ad avere il coraggio di non seguire i percorsi noti, ma di creare da soli la propria strada, anche se rischiosa.

“Quando piombi nella disperazione più cupa, ti si offre l’op-portunità di scoprire la tua vera natura. Proprio come i sogni prendono vita quando meno te lo aspetti, così accade per le risposte ai dubbi che non riesci a risolvere. Lascia che il tuo istinto tracci la rotta per la saggezza, e fa’ che le tue paure siano sconfitte dalla speranza.”“Alla fine, la grande sfida della vita consiste nel superare i nostri limiti, spingendoci verso luoghi in cui mai avremmo immaginato di poter arrivare.” “Quando desideri qualche cosa con tutto il cuore non esiste niente che possa fermarti, se non le tue paure.”“Se trovi lo spirito della giovinezza dentro di te, con i ricordi di adesso e i sogni di allora, potrai farlo rivivere e cercare una strada nell’avventura che chiamiamo vita, verso un destino migliore.”“Ricorda: quando stai per rinunciare, quando senti che la vita è stata troppo dura con te, ricordati chi sei. Ricorda il tuo sogno.”

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Sergio Bambarén, Il delfino, Sperling Paperback, 2012

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Pazienza PassivaLa rassegnazione, l’alienazione, il distacco sociale e culturale da tutto ciò che va al di là di un legame empatico basato sulla condivisione - reale o percepita - di un destino comune.

“I signori erano tutti iscritti al Partito, an-che quei pochi, come il dottor Milillo, che la pensavano diversamente, soltanto perché il Partito era il Governo, era lo Stato, era il Potere, ed essi si sentivano naturalmente par-tecipi di questo potere. Nessuno dei contadi-ni, per la ragione opposta, era iscritto, come del resto non sarebbero stati iscritti a nessun altro partito politico che potesse, per avven-tura, esistere. Non erano fascisti, come non sarebbero stati liberali o socialisti o che so io, perché queste faccende non li riguardavano, appartenevano a un altro mondo, e non ave-vano senso. Che cosa avevano essi a che fare con il Governo, con il Potere, con lo Stato? Lo Stato, qualunque sia, sono «quelli di Roma», e quelli di Roma, si sa, non vogliono che noi si viva da cristiani. C’è la grandine, le frane,

la siccità, la malaria, e c’è lo Stato. Sono dei mali inevitabili, ci sono sempre stati e ci saranno sempre. Ci fanno ammazzare le capre, ci portano via i mobili di casa, e adesso ci manderanno a fare la guerra. Pazienza!

Per i contadini, lo Stato è più lontano del cielo, e più maligno, perché sta sempre dall’altra parte. Non importa quali siano le sue formule politiche, la sua struttura, i suoi programmi. I contadini non li capiscono, perché è un altro linguaggio dal loro, e non c’è davvero nessuna ragione perché li vogliano capire. La sola possibile difesa, contro lo Stato e contro la propaganda, è la rassegnazione, la stessa cupa rassegnazio-ne, senza speranza di paradiso, che curva le loro schiene sotto i mali della natura.

Perciò essi, com’è giusto, non si rendono affatto con- to di che cosa sia la lotta politica: è una questione personale di quelli di Roma. Non importa ad essi di sapere quali siano le opinioni dei confinati, e perché siano venuti quaggiù: ma li guardano benigni, e li considerano come propri fratelli, perché sono anch’essi, per motivi misteriosi, vittime del loro stesso destino.

a cura di Donato Parente

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Quando, nei primi giorni, mi capitava d’in-contrare sul sentiero, fuori del paese, qualche vecchio contadino che non mi conosceva an-cora, egli si fermava sul suo asino, per salu-tarmi, e mi chiedeva: Chi sei? - Addò vades? (Chi sei? Dove vai?) - Passeggio, - rispondevo - sono un confinato. - Un esiliato (I contadi-ni di qui non dicono confinato, ma esiliato)? Peccato! Qualcuno a Roma ti ha voluto male. E non aggiungeva altro, ma rimetteva in moto la sua cavalcatura, guardandomi con un sorri-so di compassione fraterna.Questa fraternità passiva, questo patire insie-me, questa rassegnata, solidale, secolare pa-zienza è il profondo sentimento comune dei contadini, legame non religioso, ma natura-le. Essi non hanno, né possono avere, quella che si usa chiamare coscienza politica, perché sono, in tutti i sensi del termine, pagani, non cittadini: gli dèi dello Stato e della città non possono aver culto fra queste argille, dove re-gna il lupo e l’antico, nero cinghiale, né alcun muro separa il mondo degli uomini da quello degli animali e degli spiriti, né le fronde degli alberi visibili dalle oscure radici sotterranee. Non possono avere neppure una vera co-scienza individuale, dove tutto è legato da in-fluenze reciproche, dove ogni cosa è un potere che agisce insensibilmente, dove non esistono limiti che non siano rotti da un influsso ma-gico. Essi vivono immersi in un mondo che si continua senza determinazioni, dove l’uomo non si distingue dal suo sole, dalla sua bestia, dalla sua malaria: dove non possono esistere la felicità, vagheggiata dai letterati paganeg-

gianti, né la speranza, che sono pur sempre dei sentimenti individuali, ma la cupa passi-vità di una natura dolorosa. Ma in essi è vivo il senso umano di un comune destino, e di una comune accettazione. È un senso, non un atto di coscienza; non si esprime in discorsi o in parole, ma si porta con sé in tutti i momenti, in tutti i gesti della vita, in tutti i giorni uguali che si stendono su questi deserti.Peccato! Qualcuno ti ha voluto male. Anche tu dunque sei soggetto al destino. Anche tu sei qui per il potere di una mala volontà, per un influsso, malvagio, portato qua e là per opera ostile di magía. Anche tu dunque sei un uomo, anche tu sei dei nostri. Non importa-no i motivi che ti hanno spinto, né la politica, né le leggi, né le illusioni della ragione. Non c’è ragione né cause ed effetti, ma soltanto, un cattivo Destino, una Volontà che vuole il male, che è il potere magico delle cose. Lo Sta-to è una delle forme di questo destino, come il vento che brucia i raccolti e la febbre che ci rode il sangue. La vita non può essere, verso la sorte, che pazienza e silenzio. A che cosa val-gono le parole? E che cosa si può fare? Niente.Corazzati dunque di silenzio e di pazienza, taciturni e impenetrabili, quei pochi contadi-ni che non erano riusciti a fuggire nei campi stavano sulla piazza, all’adunata; ed era come se non udissero le fanfare ottimistiche della radio, che venivano, di troppo lontano, da un paese di attiva facilità e di progresso, che ave-va dimenticato la morte, al punto di evocarla per scherzo, con la leggerezza di chi non ci crede.”

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Carlo Levi, Cristo si è fermato ad Eboli,

Einaudi, Torino, 1945, pp. 69-72.

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Un altro punto di vistaa cura di di Fabiana Calomino

“Papalagi - Discorsi del capo Tuia-vii di Tiavea delle Isole Samoa” è un libro sprez-zante che racconta il resoconto di un viaggio del capo tri-bù delle Iso-le Samoa in Europa all’i-nizio del No-vecento. La critica spie-tata ed in-

credula verso l’uomo occidentale (che viene chiama-to papalagi) e tutte le abitudini e le “cose” che a noi sembrano normali, ci consente di vedere il mondo da un altro punto di vista, capovolgendo quel binomio “uomo selvaggio” “uomo civilizzato” che fa sentire noi occidentali dalla parte “giusta” o “buona”, spingen-doci a sentirci autorizzati di esportare democrazia e progresso. In un periodo in cui possiamo dedicare il nostro tempo alle riflessioni, guardando il mondo che scorre dall’interno delle nostre case e la natura che si riappropria degli spazi che fino a un mese e mezzo fa erano destinati solo ai passi frenetici degli uomini, leg-gere un libro come Papalagi può farci entrare in un’ot-tica differente e farci capire che ciò che abbiamo non è scontato, la nostra vita fatta di case piene di cose, di strade, cemento e mancanza di tempo è qualcosa che è stata creata dagli uomini e può cambiare, migliorare, nel rispetto della natura e dell’ambiente. Lo spezzone che ho scelto racconta dal di fuori il rapporto dell’uo-mo occidentale con le cose e la differenza del concetto di “povertà”, in base ai due contrapposti punti di vista.

“E anche in questo riconoscerete il Papalagi, perché tenta di convincerci che noi siamo poveri e misere-voli e abbiamo bisogno di molto aiuto e compassione perché non possediamo le cose. Lasciate che vi dica, miei cari fratelli delle molte isole, che cos’è una cosa.

La noce di cocco è una cosa, il panno, la conchiglia, lo scacciamosche, l’anello che porti al dito, la ciotola in cui mangi, gli ornamenti che porti in capo. Tutte queste sono cose. Ma ci sono due generi diversi di cose. Ci sono le cose fatte dal Grande Spirito, senza che noi lo vediamo, e che a noi uomini non costano né denaro, né fatica alcuna, come la noce di cocco, appunto, la conchiglia, la banana; e ci sono cose fatte dagli uomini, che costano lavoro e fatica, come gli anelli, la ciotola o lo scacciamosche. Il signore inten-de quindi le cose che egli può fare con le sue stesse mani, le cose dell’uomo, e sono queste che ci manca-no; poiché non può certo riferirsi alle cose del Gran-de Spirito. Gettate intorno lo sguardo, fino all’oriz-zonte, dove l’estremità della terra sostiene l’immensa volta azzurra. Tutto è pieno di grandi cose: la foresta con le sue colombe selvatiche, i colibrì e i pappagal-li; la laguna con i suoi frutti, le conchiglie, le arago-ste e gli altri animali d’acqua; la spiaggia con il suo volto chiaro e la morbida pelliccia della sua sabbia; la grande acqua, che può mostrarsi irata come un guerriero o sorridere dolcemente come una vergi-ne del villaggio; la grande volta azzurra, che si tra-sforma a ogni ora del giorno e porta grandi fiori che ci danno luce d’oro e d’argento. Perché dovremmo essere tanto stolti da aggiungere a queste altre cose, da mettere cose dell’uomo accanto a quelle sublimi del Grande Spirito? Non potremmo mai comunque uguagliarlo, poiché il nostro spirito è troppo piccolo e debole di fronte alla potenza del Grande Spirito; e anche la nostra mano è troppo debole in confronto alla sua, grande e possente. Tutto ciò che possiamo fare è soltanto poca cosa e non vale la pena di par-larne. Possiamo rendere più lungo il nostro braccio per mezzo di una clava, possiamo allargare la nostra mano per mezzo di una ciotola di legno, ma non c’è mai stato un samoano e neppure un Papalagi che ab-bia fatto una palma o una radice di kava. Naturalmente il Papalagi crede di poter fare queste cose, crede di essere forte come il Grande Spirito. E mille e mille mani non fanno altro che preparare cose, dal levarsi al cadere del sole. Cose dell’uomo, di cui non conosciamo lo scopo, di cui non vediamo la bellezza. E il Papalagi pensa sempre nuove cose, continuamente.

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Le sue mani tremano di febbre, il suo volto diventa grigio come la cenere e la schiena gli s’incurva; ma lui brilla di gioia quando riesce a costruire una cosa nuova. E subito tutti vogliono avere la cosa nuova, e la ammirano, si mettono davanti a essa e la cantano nel-la loro lingua. O miei fratelli, se voi voleste credermi: io sono riuscito a entrare nel pensiero del Papalagi e ho visto la sua volontà, come s’egli fosse illuminato dal sole di mezzogiorno. Poiché là dove egli arriva, distrugge le cose del Grande Spirito, e vuole poi ri-portare in vita con il proprio potere ciò che uccide, e con ciò far credere a se stesso di essere lui il Grande Spirito perché sa fare tante cose.Fratelli, pensate se fra un’ora venisse la grande tempe-sta e sradicasse la foresta e portasse via le montagne con tutti gli alberi e tutte le foglie e trascinasse via con sé tutte le conchiglie e gli animali della laguna e non ci fosse più neppure un fiore di ibisco con cui le nostre fanciulle potessero adornarsi i capelli. Se tut-to, tutto ciò che vediamo scomparisse e non restas-se altro che sabbia, e la terra somigliasse a una nuda mano tesa o a una collina su cui è scivolata la lava incandescente, come piangeremmo sulle palme, sulle conchiglie, sulla foresta, su tutto. Là dove si trovano le molte capanne del Papalagi, nei luoghi ch’egli chiama città, là però la terra è nuda come una mano tesa, e per questo il Papalagi si smarrisce nella follia e gioca a fare il Grande Spirito: per dimenticare ciò che non possiede. Poiché egli é così povero e la sua terra così triste, afferra le cose, le raccoglie come il pazzo racco-glie le foglie secche e con esse riempie la sua capanna. Per questo però ci invidia e vorrebbe che noi diven-tassimo poveri come lui.Grande povertà è quando l’uomo ha bisogno di tan-te cose: perché così egli dimostra di essere povero di cose del Grande Spirito. Il Papalagi è povero perché desidera tanto ardentemente le cose. Non può vivere senza di esse. Quando con il dorso di una tartaruga si costruisce un arnese per lisciarsi i capelli, quando vi ha messo dell’olio, fa ancora una pelle per l’utensile, una piccola cassa per la pelle e una cassa più grande per quella più piccola. Mette tutto in pelli e in casse. Ci sono casse per panni inferiori e superiori, per pan-ni da lavare, panni da bocca e altri panni, casse per le pelli da mani e per le pelli da piedi, per il metallo rotondo e per la carta pesante, per le provviste di cibo e per il Libro Sacro, per tutto e per ogni cosa. Di tutte le cose ne fa tante, quando una sola basterebbe. Vai in una cucina europea e vedi moltissime ciotole per il cibo e altri strumenti per cucinare che non vengono

mai usati. E per ogni cibo c’è una diversa ciotola: una per l’acqua diversa da quella per la kava europea, una per la noce di cocco diversa da quella per la colomba.…Chi possiede poche cose si considera povero e ne sof-fre. Non c’è Papalagi che canti e abbia uno sguardo lieto quando non ha nulla all’infuori della sua stuoia e della sua ciotola, come accade a ciascuno di noi. Gli uomini e le donne del mondo bianco piangerebbero di malinconia nelle nostre capanne, si affretterebbero a correre nella foresta per prendere legno e cercare il guscio della tartaruga, vetro, filo di ferro o pietre colorate o molte altre cose ancora, e continuerebbero da mattina a sera a tenere in moto le loro mani, fino a quando la loro casa delle Samoa si fosse riempita di cose grandi e piccole. Tutte cose che facilmente si rompono, che ogni piccolo fuoco e ogni pioggia tro-picale possono distruggere e spazzar via, e che devono perciò essere continuamente rifatte. Quanto più un uomo è un vero europeo, tanto maggiore è il numero delle cose di cui ha bisogno. Per questo le mani del Papalagi non stanno mai ferme, non riposano mai: per il gran fare le cose. Per questo i volti dei bianchi sono spesso così stanchi e tristi, e per questo pochis-simi fra di loro arrivano a vedere le cose del Grande Spirito, a giocare sulla piazza del villaggio, a dire e cantare liete canzoni o, nei giorni di sole, a danzare nella luce e a rallegrarsi come a noi tutti è dato di fare. Loro devono fare cose. Devono custodire le loro cose. Le cose stanno loro addosso e strisciano loro intor-no come le formichine della sabbia. Compiono con gelido cuore qualsiasi delitto, per ottenere le cose. Si fanno la guerra fra di loro, non per l’onore dell’indi-viduo, o per misurare le loro vere forze, ma solo per amore delle cose.”

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Tuiavii di Tiavea, Papalagi - Discorsi del capo Tuiavii di Tiavea delle Isole Samoa, Edizione digitale di Martin Guy Prima edizione: marzo 2002; ultima revisione: 1 luglio 2010. Pp. 17 - 19

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La scienza non può essere democratica

a cura di Martina Parente

Con l’espressione “parlare a vanvera” si indica una situazione in cui si pronunciano delle parole senza considerare ciò di cui si sta parlando. Potrebbe tradursi con “parlare a caso” o “parlare a casac-cio” o anche “dare fiato alla bocca”.Sempre più spesso ormai, in particolare sui social media, ma non solo, ci imbattiamo in fake news, notizie imprecise o interpreta-zioni di esse che, in un periodo delicato come quello che stiamo vivendo, risultano molto pericolose sia per la salute pubblica che per il singolo individuo. È proprio questo il fenomeno che Roberto Burioni analizza nel li-bro “La congiura dei Somari - perché la scienza non può essere democratica” facendo riferimento, in particolare, al mondo dei no-vax.

“Nessuno di noi conosce tutto: io – tanto per fare un esempio – so qualcosa di vaccini, virus e batteri ma non perché sono par-ticolarmente intelligente e intuitivo, ma perché li studio da una vita. Se parliamo di come preparare una torta o montare una pre-sa elettrica sono somarissimo, non avendo idea di come si faccia. Però quando mi serve una torta vado in pasticceria, dove è a la-voro un esperto pasticcere, e allo stesso modo, se necessito del montaggio di una presa elettrica, chiamo un bravo elettricista.

Questo precetto basilare – e per me decisamente scontato- su internet non è applicato: ci sono elettricisti che parlano di terremoti, geologi che parlano di prese elettriche, pasticceri che parlano di terapia dei tumo-ri e oncologi che parlano di torte. Da qui la corretta definizione di Somaro, un termine grottesco e spiritoso che in nessun modo vuole essere un insulto, ma che io, da quel momento in poi, mi misi a utilizzare per descrivere una persona che blatera di un argomento che non conosce.Nel tempo, più scrupolosamente, avvantaggiandomi della formazione scientifica che mi appartiene, ho messo a punto la descrizione del Somaro Ragliante, giungendo alla for-mula esatta che oggi sono in grado di pubblicare: «Un essere umano tanto babbeo da ritenersi tanto intelligente da riuscire a sapere e capire le cose senza averle studiate».Da buon ricercatore, ho analizzato a lungo il suo comportamento, ac-corgendomi che la vita di branco è indispensabile a questa molesta spe-cie: solo quando si trova circondato da simili il Somaro riesce a ritenersi molto intelligente, visto che il primario bisogno di ogni babbeo è quello di avere accanto un collega che lo rassicuri sulle sue capacità mentali. Inoltre, ragliando all’unisono, tanti asini tutti insieme possono convin-cersi a vicenda che non stanno effettivamente ragliando, ma intonando un gospel o una celestiale cantata di Bach. La prossimità di estranei è dunque evitata, visto che potrebbero accorgersi che non di Bach si trat-ta, ma di ragli sonori.”

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Roberto Burioni,La congiura dei Somari - Perché la scienza non può essere democrati-ca, Rizzoli, 2017,

pp.24 -25.

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“E se è tutto un sogno, che importa. Mi piace e voglio continuare a sognare.”

Luis Sepúlveda