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PREMIO RICERCA «CITTÀ DI FIRENZE» – 24 –

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PREMIO RICERCA «CITTÀ DI FIRENZE»

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COLLANA PREMIO RICERCA «CITTÀ DI FIRENZE»

Commissione giudicatrice, anno 2012

Luigi Lotti (Presidente)Piero Tani (Segretario)

Franco CambiMichele A. FeoMario G. Rossi

Vincenzo VaranoGraziella Vescovini

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Firenze University Press2013

Leonardo Manigrasso

CAPITOLI AUTOBIOGRAFICI

Poeti che traducono poeti dagli ermetici a Luciano Erba

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Capitoli autobiografici : poeti che traducono poeti dagli ermetici a Luciano Erba / Leonardo Manigrasso . – Firenze : Firenze University Press, 2013.(Premio Ricerca «Città di Firenze» ; 24)

http://digital.casalini.it/9788866555025

ISBN 978-88-6655-502-5 (online)

Certificazione scientifica delle OpereTutti i volumi pubblicati sono soggetti ad un processo di referaggio esterno di cui sono responsabili il Consiglio editoriale della FUP e i Consigli scientifici delle singole collane. Le opere pubblicate nel catalogo della FUP sono valutate e approvate dal Consiglio editoriale della casa editrice. Per una de-scrizione più analitica del processo di referaggio si rimanda ai documenti ufficiali pubblicati sul catalogo on-line della casa editrice (www.fupress.com).

Consiglio editoriale Firenze University PressG. Nigro (Coordinatore), M.T. Bartoli, M. Boddi, R. Casalbuoni, C. Ciappei, R. Del Punta, A. Dolfi, V. Far-gion, S. Ferrone, M. Garzaniti, P. Guarnieri, A. Mariani, M. Marini, A. Novelli, M. Verga, A. Zorzi.

La presente opera è rilasciata nei termini della licenza Creative Commons Attribuzione – Non commerciale - Non opere derivate 3.0 Italia (CC BY-NC-ND 3.0 IT: www.creativecommons.by-nc-nd).

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Questo libro è dedicato alla memoria del Maestro Paolomarini

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Ringraziamenti Il primo ringraziamento, è d’obbligo, va ad Anna Dolfi e Silvio Ramat, per i pre-

ziosi consigli e l’attenta supervisione. In seguito desidero ringraziare coloro che hanno seguito il mio lavoro collabo-

randovi a vario titolo: Beatrice Fabbrani, soprattutto, e poi Giulio Calamandrei, Ric-cardo Donati, Lorenzo Peri, Francesco Coschino e Riccardo Barontini. Un ringra-ziamento tutto particolare va infine a Vincenzo Manigrasso, Gianna Torrini e Carla Fantechi.

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Sommario

Introduzione 9

Appunti per una storia della traduzione: dall’ermetismo in poi 271. Anni Quaranta 272. Anni Cinquanta 333. Anni Sessanta 374. Anni Settanta 415. Anni Ottanta 436. Anni Novanta e Duemila 46

Beniamino Dal Fabbro, un traduttore alle soglie dell’ermetismo 49

Tradurre due volte la Delfica di Nerval. Parronchi tra Valeri e Risi 69

Tradurre controtempo. Le crépuscule du matin di Baudelaire in Fortini e Parronchi 85

Campionature su Ta chevelure d’oranges di Éluard (Bigongiari e Fortini, Traverso e Zanzotto) 107

Il tradurre consanguineo di Bigongiari. Il caso di Septentrion di Char (e Sereni) 129

Quattro versioni (più una) di La vie antérieure. Luzi, Parronchi, Pagano e Raboni traduttori 149

L’altrove di Michaux. Luzi, Erba e La Cordillera de los Andes 165

Caproni e Risi traducono due poesie di Frénaud: J’ai bâti l’idéale maison e Espagne 183

Luciano Erba o della traduzione scalata. Su Les canaux de Milan di Frénaud (e Caproni) 201

Leonardo Manigrasso, Capitoli autobiografici : poeti che traducono poeti dagli ermetici a Luciano Erba ISBN 978-88-6655-502-5 (online), CC BY-NC-ND 3.0 IT, 2013 Firenze University Press

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Appendice 2191. Regesto delle principali antologie di versioni dei traduttori 2192. Regesto delle principali raccolte di poesia tradotte dal francese 233

Bibliografia 259

Capitoli autobiografici

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Introduzione

Si direbbe che nell’ultimo trentennio [1940-1970], le traduzioni di poesia vanno da quelle del tipo che abbiamo chiamato dell’esercizio spirituale o del capitolo autobiografico (la traduzione esemplare degli anni Trenta: Ungaretti, Montale, Solmi, Quasimodo: ancora oggi vivissima in Luzi, Sereni, Bertolucci, ma anche in Giudici, Caproni, Zanzotto, ecc…) fino a quelle che si sono chiamate “di servizio”, con gradi diversi di intenti dichiarativo-critici.

(Franco Fortini1) Nel quadro delle teorie fortiniane, la traduzione come «capitolo autobiografico»

identifica l’estremità ‘d’autore’ di quel ventaglio di intenzioni traduttive che dalla versione letterale e didascalica arriva fino alla «creazione di un nuovo testo, che non pretende nessun rapporto con quello di partenza ma ogni rapporto invece con le opere “creative” del traduttore»2; versioni insomma in cui i poeti rivendicano (alme-no come opzione) un diritto di riscrittura che può stanziare il testo fin oltre l’ambigua soglia tra traduzione e rifacimento. Categoria molto elastica, vi si potreb-bero subito ascrivere le traduzioni che non prevedono il testo a fronte, quasi impli-cando una sorta di ‘rimozione del modello’ largamente praticata fra gli ermetici (Dal

Fabbro, Traverso, Pagano…), ma recuperata anche in seguito nelle Traduzioni e imi-tazioni di Attilio Bertolucci, nel Quadernetto di traduzioni di Luciano Erba, e altro-ve. Più in generale, e sia pure nel quadro di un possibile ideale di ‘fedeltà’ – purché la si intenda come «fedeltà all’evento complessivo che chiamiamo testo originale e di cui il significato letterale non è che uno degli elementi decisivi» (Raboni3) – ‘capitolo autobiografico’ è una formula che si presta a definire quell’operazione che, secondo Caproni, implica «un allargamento nel campo della propria esperienza e della pro-

1 F. Fortini, Traduzione e rifacimento, in Id., Saggi ed epigrammi, a cura e con un saggio introduttivo di L.

Lenzini e con uno scritto di R. Rossanda, Milano, Mondadori, 2003, p. 828. 2 Ivi, p. 827. 3 G. Raboni, Prefazione a C. Baudelaire, I fiori del male e altre poesie, traduzione di G. Raboni, Torino, Einaudi, 1999, p. IX.

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pria coscienza, del proprio esistere o essere, più che del conoscere»4. La traduzione

d’autore insomma – in modo flagrante nei casi in cui la selezione del testo derivi da una scelta privata, solo soggiacente forse quando si tratti di corrispondere a un invito editoriale –, si dà come momento saldamente interconnesso con l’opera ‘originale’ del poeta, radicata nei suoi materiali lessicali, nel suo immaginario, nelle sue compe-tenze stilistiche; in tal senso infatti la pratica del tradurre esige un serrato impegno d’interpretazione, la ricerca di una coerenza tonale mediante un piano di «infedeltà programmate» (Raboni5), l’evocazione di un diverso sistema di relazioni sincroniche con la realtà extratestuale6 e con le istituzioni formali della cultura ricevente. Il tra-durre allora non può darsi che come decentramento, scarto, anamorfismo, inven-zione condizionata, già che «nessuna traduzione può essere assolutamente fedele, e qualsiasi atto di traduzione va a toccare il senso del testo tradotto» (Genette7); ed è in questi interstizi che quella che approssimativamente può essere definita la poetica del traduttore interviene ad orientare i processi di versione, e ad esserne orientata. Alla luce di queste considerazioni, è ora possibile giustificare la scelta del titolo: è opportuno precisare infatti che con ‘capitoli autobiografici’ non si intende sposare una possibile definizione generale dell’atto del tradurre d’autore, ché in un campo tassonomico così complesso costituirebbe senza dubbio una formula sommaria ed incompleta; l’obiettivo è piuttosto quello di dichiarare un modo di leggere questo corpus di testi, adottando una prospettiva da storico della poesia, per così dire, piut-tosto che da traduttologo in senso tecnico. Non, dunque, il tradurre come fenomeno

in sé è al centro di questo libro, ma come declinazione privilegiata dell’attività di poeti di spicco del ventesimo secolo.

4 G. Caproni, Divagazioni sul tradurre, in Id., La scatola nera, Milano, Garzanti, 1996, p. 62. 5 G. Raboni, Giovanni Raboni (ovvero tradurre per amore), in A. Dolfi (a cura di), Traduzione e poesia

nell'Europa del Novecento, Roma, Bulzoni, 2004, p. 627. 6 Sull’argomento, cioè sui problematici rapporti che si instaurano tra il testo tradotto e il nuovo contesto

di referenza, si veda ad esempio A. Zanzotto, Europa, melograno di lingue, Venezia, Società Dante Ali-

ghieri – Università degli studi di Venezia, 1995, poi in Id., Le poesie e prose scelte, a cura di S. Dal Bianco

e G. M. Villalta, con due saggi di S. Agosti e F. Bandini, Milano, Mondadori, 1999, p. 1361: «Non ho cita-to a caso il mondo nipponico, in cui giocano con evidenza tutte le questioni dell’extratesto, cioè del tipo

di cultura che è in gioco, i riferimenti impliciti, l’accorgersi di tutto quello che non è detto ma solo ac-cennato: ad esempio il fatto che la nebbia venga sentita dai giapponesi come un respiro della Natura,

mentre noi la sentiamo come un chiudersi, un velarsi della Natura stessa, oppure che essi celebrino in primavera il culto dei morti anziché in autunno, già dà luogo a tutta una serie di fratture difficilmente

valicabili, specie nelle valutazioni di un fluido campo di elementi poetici. Non parliamo poi della que-

stione degli ideogrammi, perché allora tutti i miti che riguardano la nostra “poesia visiva”, che sono stati coltivati e che anch’io ho spesso cercato di tener presenti, si sfasciano di fronte alla violenza di questi dati

assolutamente sghembi». 7 G. Genette, Palinsesti. La letteratura al secondo grado, Torino, Einaudi, 1997 [1982], p. 248.

Capitoli autobiografici

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Ad ogni modo, le più aggiornate teorie di genere riferiscono sempre più della

centralità del traduttore nelle proprie strategie di analisi, una volta aggirate le aporie intrinseche a una concezione del tradurre come trasferimento di un ‘significato’ del testo da un sistema di segni a un altro (a propria volta basata sull’assunto saussuria-no della ‘scomponibilità’ del segno in due elementi distinti). Rispetto ad essa, biso-gna ormai prediligere l’attenzione non su «le signe constitué (même si le texte, lui, l’est), mais la particulière relation de signification qui le fonde, vers l’amont du pro-cessus d’énonciation» (Vegliante8). In questo senso, è possibile oramai concepire la traduzione come processo di riscrittura che affonda la propria origine, il proprio punto di partenza, non nella forma compiuta della poesia presa in esame, ma – at-traverso di essa – nella ‘rifusione’ che il traduttore opera nell’intenzione del testo9, nel «movimento del linguaggio»10: «in quest’ottica, la dignità estetica della traduzio-

8 J. C. Vegliante, Quelle théorie, pour quelle traduction?, in Id., D’écrire la traduction, Paris, Presse de la Sorbonne Nouvelle, 1996, p. 49. 9 La formula è, tra gli altri, adoperata anche da Umberto Eco in relazione al concetto di ‘fedeltà’ nel tra-

durre e a quello – certamente diverso – di ‘intenzione dell’autore’; cfr. pertanto il suo Dire quasi la stessa

cosa, Milano, Bompiani, 2003: «Ho speso qualche paragrafo sopra la parola fedeltà perché un autore che segue i propri traduttori parte da una implicita esigenza di “fedeltà”. Capisco che questo termine possa

parere desueto di fronte a proposte critiche per cui, in una traduzione, conta solo il risultato che si realiz-za nel testo e nella lingua di arrivo – e per di più in un momento storico determinato, in cui si tenti di

attualizzare un testo concepito in altre epoche. Ma il concetto di fedeltà ha a che fare con la persuasione che la traduzione sia una delle forme dell’interpretazione e che debba sempre mirare, sia pure partendo

dalla sensibilità e dalla cultura del lettore, a ritrovare non dico l’intenzione dell’autore, ma l’intenzione del testo, quello che il testo dice o suggerisce in rapporto alla lingua in cui è espresso e al contesto cultu-

rale in cui è nato». 10 Sulla nozione di «movimento del linguaggio», mutuata dagli scritti di Friedmar Apel, cfr. F. Buffoni,

La traduzione del testo poetico, in Id. (a cura di), La traduzione del testo poetico, Milano, Marcos y Mar-

cos, 2004, p. 17: «Il concetto di “movimento” del linguaggio nasce proprio dalla necessità di guardare nelle profondità della lingua cosiddetta di partenza prima di accingersi a tradurre un testo letterario.

L’idea è comunemente accettata per la cosiddetta lingua d’arrivo. Nessuno infatti mette in dubbio la ne-cessità di ritradurre costantemente i classici per adeguarli alle trasformazioni che la lingua continua a

subire. Il testo cosiddetto di partenza, invece, viene solitamente considerato come un monumento im-mobile nel tempo, marmoreo, inossidabile. Eppure anch’esso è in movimento nel tempo, perché in mo-

vimento nel tempo sono – semanticamente – le parole di cui è composto; in costante mutamento sono le strutture sintattiche e grammaticali, e così via. In sostanza si propone di considerare il testo letterario

classico o moderno da tradurre non come un rigido scoglio immobile nel mare, bensì come una piatta-

forma galleggiante, dove chi traduce opera sul corpo vivo dell’opera, ma l’opera stessa è in costante tra-sformazione o, per l’appunto, in movimento». Di analogo tenore, ma forse con una più prudente atten-

zione ai diritti del testo-fonte, è la pagina di Franco Nasi nel suo Specchi comunicanti. Traduzioni, paro-die, riscritture, Milano, Medusa, 2010, pp. 43-44: «L’idea di un testo che si dà una volta per tutte, che de-

ve essere anatomizzato come un cadavere, che deve essere inteso e intepretato in modi vincolanti e unici definiti essi pure da “istruzioni per l’uso” o, più elegantemente, dal testamento dell’autore, dalle sue ul-

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ne appare come il frutto di un incontro tra pari destinato a far cadere le tradizionali

coppie dicotomiche, in quanto mirato a togliere ogni rigidità all’atto traduttivo, for-nendo al suo prodotto una intrinseca dignità autonoma di testo» (Buffoni11).

Questo mio studio allora pone al proprio centro il traduttore, o meglio il poeta-traduttore, per il quale (a maggior ragione) l’atto del tradurre si costituisce anche come mezzo di espressione individuale ‘per interposta voce’, sì che «il vero autore di qualunque testo che si presenti come tradotto è in realtà il traduttore» (Sanguineti12); non a caso così come Caproni si era riferito al processo traduttivo come di un ‘allar-gamento’ della propria coscienza, allo stesso modo un altro poeta come Risi si serve del medesimo, eloquente termine dichiarando che «tradurre significava allargare il [proprio] spazio poetico a una conoscenza di voci che, pure affini, venivano d’altrove»13; e poco importa che Sereni dal canto suo capovolga i termini del discorso («traducendo non tanto ci si appropria, non tanto si fa proprio il testo altrui, quanto invece è l’altrui testo ad assorbire una zona sin lì incerta della nostra sensibilità e a illuminarla»14): il meccanismo di assimilazione, nell’una direzione o nell’altra, di fat-to rimane lo stesso. Allora il poeta è indotto naturalmente a tradurre per annessione (del testo a sé o di sé al testo), di assorbimento non di necessità al proprio stile ma senz’altro alla propria esperienza di poesia, tramite aggiunte progressive e contami-

time “volontà”, è forse un’idea ragionevole ma anche, come spesso succede a una ragione astratta e rigi-da, semplificazione parziale. Un testo, da tradurre, da rappresentare, da interpretare musicalmente ecc.,

sembra più simile a un essere organico che a una struttura disanimata. La sua identità non è data una volta per tutte, non è qualcosa a cui possiamo tendere in modo più o meno fedele. La sua identità è data

dalle sue singolarità, dalle sue co-essenze. La molteplicità del testo nella storia, nel tempo e nello spazio

dunque (poiché questa è la sola dimensione in cui esso comunque è), co-stituiscono quel testo che noi vogliamo leggere, interpretare, manipolare; con il quale vogliamo interagire. Ogni lettura, ogni traduzio-

ne, ogni rappresentazione sarà un modo per ricostruire quel testo, quell’intreccio di modalità espressive che formano un’identità cangiante. Fare esperienza di un testo nella traduzione non significa semplice-

mente accontentarsi di costruire un’immagine che rispecchi un’identità […]. Non vuol dire applicare a freddo un metodo, un percorso operativo che trasporti da una lingua a un’altra un certo numero di in-

formazioni e renda quelle informazioni comprensibili a un lettore che non conosca la lingua del testo originale. Significa piuttosto entrare a far parte di un complesso caleidoscopico in cui ciascuna rifrazio-

ne, ciascuna immagine va a co-struire e co-stituire l’identità di quel testo originario. Va da sé che quel

testo non è solo pluralità. Il tessuto, l’intreccio di frasi, parole, ritmi, fonemi, ambiguità lasciate intenzio-nalmente dall’autore o nate dai movimenti del linguaggio, dai mutamenti dei significati dei termini nella

storia, non sono qualcosa che si annulla nella complessità delle riproduzioni. Il testo originario, per quanto in movimento, assai più dell’intenzione dell’autore, deve restare come testo da ammirare, da

guardare con attenzione, a cui ritornare con pudore e umiltà». 11 Ibid. 12 E. Sanguineti, Edoardo Sanguineti (citazioni travestite), in A. Dolfi (a cura di), Traduzione e poesia nell’Europa del Novecento, cit., p. 629. 13 N. Risi, Compito di francese e d’altre lingue 1943-1993, «Testo a Fronte», VI, 11, II semestre 1994, p. 84. 14 V. Sereni, Il musicante di Saint-Merry e altri versi tradotti, Torino, Einaudi, 1983, p. VI.

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nazioni di cui è testimonianza l’intenso scambio (d’immagini, di lessico, di ritmi)

che si innesca fra le diverse varianti della sua scrittura in versi. Un commercio, que-sto, basato su una delicata tattica di negoziati, compromessi, licenze e contropartite, il cui groviglio – convergendovi quesiti di stile e interpretazione – costituisce una angolo di analisi privilegiato da cui non solo indagare l’attività del singolo poeta, ma su cui si potrebbe fondare una determinante pagina di storia della poesia del Nove-cento.

Il perimetro d’indagine è circoscritto in questa sede alla categoria dei poeti-traduttori – da contrapporre (certo un po’ sommariamente) al genere dei critici-traduttori – nati tra il secondo decennio e i primissimi anni Venti del secolo; di que-sta categoria è nella fattispecie messa a fuoco l’attività di traduzione dalla letteratura francese, il territorio di gran lunga più percorso tra le culture europee prima dell’agguerrita concorrenza, a partire grosso modo dagli anni Sessanta, di quella del mondo anglosassone. In particolare la rassegna comprende, oltre a traduttori ‘di me-stiere’ come Leone Traverso, Beniamino Dal Fabbro (nn. 1910) e Vittorio Pagano (n. 1919), una compagine di autori che svaria da Attilio Bertolucci (n. 1911), Giorgio Caproni (n. 1912) e Vittorio Sereni (n. 1913), passando per i fiorentini Mario Luzi, Piero Bigongiari, Alessandro Parronchi (nn. 1914) e Franco Fortini (n. 1917), fino a Nelo Risi (n. 1920) Andrea Zanzotto (n. 1921) e Luciano Erba (n. 1922). Una cerchia abbastanza omogenea (anche solo per estrazione geografica: Toscana, Lombardia e Veneto si spartiscono quasi tutta la scena) ma che non si costringe in confini tassati-vi: quando è il caso, infatti, per ragioni funzionali è contemplata la possibilità di de-rogare mobilitando voci rappresentative di altre generazioni (ma, ancora, non di al-tri territori), quali ad esempio Diego Valeri (n. 1887) o, all’altro capo, Giovanni Ra-boni (n. 1932).

Sia pure tenendo conto dei rapporti di continuità con i grandi traduttori delle generazioni precedenti (Ungaretti, Quasimodo, Solmi…), sono evidenti le ragioni

che autorizzano ad eleggere il canone ermetico come punto di partenza ideale per una storia del tradurre poesia dagli anni Quaranta in poi. Riepilogando: da un punto di vista tecnico è decisiva tra gli ermetici la strutturazione di un codice formale, co-mune al linguaggio della poesia e a quello della traduzione, così organico e, per così dire, dotato di autorevolezza ‘normativa’, da costituirsi prima come obbligato para-digma di riferimento per le principali esperienze traduttive ad esso contemporanee, e poi quasi come il ‘grado zero’ per i successivi sviluppi del genere15. Ma l’esperienza

15 Cfr. P. V. Mengaldo, Aspetti e tendenze della lingua poetica italiana del Novecento, in Id., La tradizione

del Novecento. Prima serie, Torino, Bollati-Boringhieri, 1996 [1975], pp. 144-145: «Ciò testimonia il ca-

rattere omogeneo, di “scuola”, del linguaggio ermetico, il suo aspetto di koinè. I poeti tradotti sono allora

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riformatrice della compagine ermetica non si è limitata solo al piano stilistico: inedi-

ta infatti è anche l’inestricabile solidarietà tra le figure del poeta, del critico e del tra-duttore (per lo più coesistenti, a diverse dosi, nell’attività di ciascuno dei protagoni-sti), che «in un’ottica di collaborazione sincronica e diacronica […], indipendente-mente da ogni collocazione od altezza, si trovavano a compiere un cammino com-plementare che doveva piuttosto agire sui pieni e sui vuoti, ma con l’obiettivo finale di offrire comunque l’intero» (Dolfi16); una ricerca di ‘interezza’ dell’esperienza della poesia che si è espressa anche nella regolare condivisione degli autori tradotti, capil-larmente convocati dagli ermetici nella rassegna delle proprie fonti come indispen-sabili fondamenta sulle quali articolare la propria identità europea. Un’ulteriore di-scontinuità rispetto ai predecessori è infine messa a segno dal nuovo statuto – di fat-to estraneo alle assai più sporadiche prove dei primi decenni del secolo – che la pra-tica del tradurre assume nell’economia della formazione, di linguaggio e di ideologia, dei nuovi autori17: non solo l’occasione per una sorta si praticantato stilistico o di

sistematicamente filtrati attraverso gli stilemi più caratteristici della corrente […]. In tal modo si è venu-

to creando un abito stilistico uniforme che ha condizionato fortemente i traduttori anche dopo il declino della “scuola”: colpisce per esempio vederne affiorare di continuo alcuni ingredienti caratteristici nelle

versioni di Éluard, tanto più difficilmente assimilabile all’ermetismo che non siano Rilke o Trakl, di un poeta così presto antiermetico come Fortini. Questo fenomeno, come anche la tenace persistenza dei più

evidenti modi ermetizzanti nello stile poetico medio e minore più recente, conferma che, nel bene e nel

male, con l’ermetismo si è avuta l’ultima tipica incarnazione, in Italia, di un linguaggio della poesia in-terpersonale, uniforme ed egemonico». 16 A. Dolfi, Una comparatistica fatta prassi. Traduzione e vocazione europea, in Id. (a cura di), Traduzio-ne e poesia nell'Europa del Novecento, cit., p. 14. 17 Cfr. ivi, pp. 16-17: «Certo – e i nomi di Ungaretti e Montale, ai quali si potrebbe almeno aggiungere quello del Solmi di Montaigne e Laforgue, sono lì a testimoniarlo – tentativi in tal senso erano già stati

fatti dalla prima generazione novecentesca (e questo sarebbe già motivo sufficiente per autorizzare su quella l'avvio del nostro Novecento poetico, al di là delle proposte di recupero della temperie crepuscola-

re-futurista o di ogni celebrata triade), ma al di là dell'Ungaretti addirittura poeta bilingue prima ancora che gongorino in prospettiva barocca, del Comi della dimora francese, del francesista Valeri, dell'Holder-

lin vigoliano, del Quasimodo greco, non c'è dubbio che si debba alla terza generazione l'aver fatto del riconoscimento della grande tradizione europea un elemento indispensabile per il formarsi della propria

stessa poetica». Ma cfr. anche O. Macrí, La traduzione poetica negli anni Trenta (e seguenti), in F. Buffoni

(a cura di), La traduzione del testo poetico, Guerini e Associati, Milano, 1989, poi in O. Macrí, La vita

della parola: da Betocchi a Tentori, Roma, Bulzoni, 2002, p. 49: «Ma la traduzione, in particolare, risulta-va conseguenza psicologica e artistica della nostra vocazione europea e quindi planetaria, suggerita dal

demone delle letterature straniere, sincronizzati con noi o di poco anteriori i nostri padri e maestri: Un-garetti gongorino e Montale eliotiano, Rebora della narrativa russa e Vigolo hölderliniano, Quasimodo

dei lirici greci, Solmi machadiano, ecc… Ma lo spirito e l’intento dei traduttori era diverso, oltre che

comprensivamente impegnato: riprodurre stili, modelli, persone poetiche, esempi concreti che rompes-sero la nostra tradizione indigena provincializzata e sclerotizzata nell’accennato manierismo postclassico

e purista». E infine F. Fortini, I poeti del Novecento, Bari, Laterza, 1977, p. 105: «Per la poesia del moder-nismo novecentista e dell’ermetismo la traduzione come rifacimento e personale luogo di esperienza

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mediazione culturale, ma essenziale strumento per una determinante circolazione di

testi da cui assimilare (ma anche, quando è il caso, in cui trapiantare) un codice, un repertorio d’immagini e di temi, una norma linguistica, una misura formale; in ulti-ma istanza, una poetica.

Più nello specifico, sono noti i costituenti ideologici e tecnici del tradurre erme-tico, riassumibili – con l’ausilio delle voci dei protagonisti – nei seguenti punti:

• la ‘contemporaneità assoluta’ della poesia, e nella fattispecie della lirica: «La poesia è il più profondo sforzo di liberarsi, in lievi parole, dalla storia» (Traverso18); «La liri-ca è certamente, anche per noi, “storia del cuore dell’uomo”. Ma una tale idea, or-mai, implica all’interno delle distinzioni: la “storia del cuore” non può essere “attua-

le”, e neppure deve essere risolta in diario o in narrazione: essa deve avere una asso-

luta condizione di canto» (Anceschi19); «Unità da un’idea sempre vivente e mossa, e da un sentire per cui tutta la poesia è sempre contemporanea, subito – da Omero ai Lirici Greci, da Virgilio a Catullo, da Shakespeare a Landor a Eliot, da Ronsard a Apollinaire a Valéry, da Gongora a Machado, da Hölderlin a Rilke – si veniva man mano dichiarando con evidentissime linee una accordata e libera tradizione, in cui i limiti nazionali erano finalmente superati in un discorso europeo che non rinnegava le ragioni native» (Anceschi-Porzio20).«Un Petrarca sottilmente islamizzato o un Dante e Valéry impressionisti o un Don Chisciotte fachirizzato o la tradizione extra-polare Shakespeare-Racine-Goethe-Leopardi-Mallarmé, sono affabulazioni critiche, che tendono singolarmente alla verità, rompendo l’incanto e i recinti della filologia accademica, scavando nel segreto comune della patria europea fino al limo e alla pol-la nativa, agli elementi della terra, del popolo, dei gesti e delle voci primordiali ed eterne dell’uomo» (Macrí21); «Se ci piacesse un’immagine, diremmo che a Firenze alla fine degli anni Trenta si ritrovarono per un ideale convegno tutti i grandi scrit-tori del Novecento: allora non sapevamo che sarebbe stata l’ultima occasione di un incontro libero e fatto esclusivamente nel nome della letteratura [...]. Le si è voluto

stilistica ebbe ad assumere un valore eccezionale: non si trattò, come era stato per le traduzioni dell’età precedente, del trasferimento di autori stranieri, in genere moderni, che fosse opportuno immettere nella

nostra cultura, bensì della assunzione di testi stranieri come pretesti e luoghi di sperimentazione». 18 L. Traverso, Poesia moderna straniera, Roma, Edizioni di Prospettive, 1942, p. XIII. 19 L. Anceschi, Prefazione a S. Quasimodo, Lirici greci, Milano, Ed. di Corrente, 1940, poi in Id., Lirici greci, a cura di N. Lorenzini, Milano, Mondadori, 1985, p. XX. 20 L. Anceschi – D. Porzio (a cura di), Poeti antichi e moderni tradotti dai lirici nuovi, Milano, Il Balcone, 1945, p. 14. 21 O. Macrì, Ungaretti e la formazione letteraria dei nuovi poeti, in Id., Caratteri e figure della poesia ita-liana contemporanea, Firenze, Vallecchi, 1956, p. 38.

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contrapporre i fatti, gli avvenimenti, la storia: insomma tutto ciò che essa aveva ac-

curatamente scartato e rifiutato» (Bo22).

• l’unità della poesia oltre le sue declinazioni linguistiche e formali: «Se compito della poesia è – secondo la formula esatta e comprensiva di Mallarmé – l’interpretazione orfica del mondo, da Holderlin a Rilke una specie di omerica fune d’oro perpetua gli scambi dal cielo alla terra; così che il nostro pianeta volge ormai in un’atmosfera sa-tura di tutti gli influssi celesti assorbiti. L’aspirazione a rientrare nel grembo del Tut-to, la nostalgia di un accordo tra i numi e gli efimeri – motivo del lutto eroico di Hoelderlin – si placa nella coscienza perfettamente terrestre dell’ultimo Rilke. Ma non una piatta aderenza a una rigida realtà è l’estremo messaggio del nuovo Orfeo, ma una docile volontà alla metamorfosi perenne del cosmo, un’assoluta dedizione a tutte le forze che ci sollecitano senza posa d’ogni lato a rifluire nella circolazione dell’universo» (Traverso23); «il tempo non lasciava altra speranza che nei gesti più assurdi, nelle più occulte testimonianze di un io che cercava la moltiplicazione del

proprio essere nella fraternità universale della poesia, al di là delle frontiere dove per noi non esisteva un nemico, ma un fratello. Il nemico, se mai, era in noi, nell'accetta-re una separazione che non potevamo ammettere, imposta dalle ragioni di una poli-tica di potenza e sopraffazione. Era insomma la ricerca delle ragioni della scissura del linguaggio universale dell'uomo, quale quello della poesia, e il modo forse di trovare un risarcimento nel risalire a monte del divaricarsi di ogni linguaggio, fino a toccare nella sua primigenia poliedricità la causa naturale del suo folgorante nucleo. Era in-somma un discorso sulla trasparenza della forma in se stessa perseguita nella molte-plicità formale delle proprie manifestazioni storiche. Tanto è vero che per me tra-durre è un atto primordiale» (Bigongiari24); «La cultura dell’ermetismo fu la cultura del poetico, in senso operativo e speculativo insieme. Fu un fatto importante cui die-dero un contributo rilevante i traduttori (Leone Traverso, Sergio Baldi, Renato Pog-gioli, Carlo Bo, Vittorio Bodini, Vittorio Pagano) che misero in circolazione idee e immagini poetiche, con apporti di altri paesi. La poesia ermetica fu europea; mai la poesia era stata indivisa, anche senza rinunciare ad una sua fisionomia, come lo fu allora» (Luzi25).

22 C. Bo, La cultura europea in Firenze negli anni ’30, «L’Approdo letterario», 46, aprile-giugno 1969, poi

col titolo «Firenze vuol dire...», in Id., Letteratura come vita, a cura di S. Pautasso, prefazione di J. Staro-binski, testimonianza di G. Vigorelli, Milano, Rizzoli, 1994, p. 195. 23 L. Traverso, Poesia moderna straniera, cit., pp. XIII-XIV. 24 P. Bigongiari, Perché ho tradotto Ronsard, in F. Buffoni (a cura di), La traduzione del testo poetico, cit.,

1989, p. 39. 25 M. Luzi, Conversazione. Interviste 1953-1998, a cura di A. M. Murdocca, Fiesole, Cadmo, 1999, p. 85.

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• il rifiuto del principio crociano dell’intraducibilità: «Dir d’un poeta che non si può tradurlo, val quanto denunciare l’incapacità propria, o d’altri, o l’inesistenza di chi sappia con mano ferma e leggera penetrarne la selva espressiva, bruciarla del proprio fuoco, e dalle sue ceneri, e da se stesso, per nuovo miracolo, resuscitarla» (Dal Fab-

bro, V dei Paragrafi sul tradurre usciti a puntate su «Campo di Marte»).

• il rifiuto delle versioni filologiche o in prosa: «Chi troppo a lungo si sofferma negli

andirivieni del testo, e vi s’attarda in scandagli anche profondi, rischia di restarne prigioniero per sempre, tra le forme soverchiamente note avendo distrutto ogni spe-ranza d’evasione. La conoscenza, più che minuta, ha da essere plenaria, per quanto investe il tono, l’architettura e lo stile. Gli altri son modesti problemi di tecnica, e si risolvono via via che l’esecuzione procede» (Dal Fabbro, VII); Traduzioni in prosa di poesie, non esistono; escluso l’inganno di una disposizione grafica che imiti la prosa, non curando di separare gli elementi ritmici e strofici del discorso. Allo stesso modo, un canto lo si può mal cantare: parlarlo no» (Dal Fabbro, XVI); «Chi sa donare sa ricevere e a sua volta anche ridonare. Così dai poeti originali si può attendere con maggior fiducia una resa di opere straniere che dai puri filologi: i quali di solito per l’eccessiva frequentazione se ne riducono a quella vista fissa che rasenta la cecità, ag-ghiacciata l’onda emotiva da cui soltanto potrebbero risorgere in un’altra lingua. E come soprattutto importa il dominio della nuova materia verbale in cui s’ha da get-tare il modello, il poeta, che ha già dovuto risolvere nei limiti del proprio campo atti-vamente i vari problemi dell’espressione, sarà nell’impresa favorito da quella sensibi-lità e sicurezza che è fatalmente collegata all’esercizio, mentre al filologo soccorrerà al più la memoria di altrui soluzioni, perplessa e inerte per la molteplicità stessa degli esempi in confronto agli spettatori e non saprà mai (se mi si conceda l’immagine) emulare la grazia senza peso degli acrobati volteggiati in efimere costellazioni sotto il

suo sopracciglio critico» (Traverso26).

• l’implicazione nell’atto del tradurre del piano interpretativo, con conseguente ridu-zione al minimo del corredo di glosse e note esplicative: «Se opera di poesia, una tra-duzione compendia in sé un giudizio critico sul testo primitivo: poiché soprattutto ne afferma una validità che oltrepassa i confini della sua letteratura d’origine, inoltre ne dichiara una certa e singolar maniera d’intenderlo ch’è quella di chi traduce, ed anche ne appalesa nuovi aspetti, altri occultati ne rivela, alcuni ne sottintende, e tutto

26 L. Traverso, Poeti traduttori, «La Nazione», Firenze, 6 gennaio 1940, poi «Studi Urbinati», XLV, B, 1-2. 1971, tomo I.

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ciò con animo d’indagine e di ricostruzione» (Dal Fabbro, XIII); «Nell’inutilità più

dichiarata di “commento” – per voci così assolute – limitarsi alle indicazioni antolo-giche, lasciare il discorso alla poesia, questo è, forse – fuori da trasposizioni in un al-tro linguaggio o logico-critico o (come nel caso del Pascoli, ma allora: perché?) im-maginativo, e fuori dagli entusiasmi forzati e dagli affannosi rapimenti dei filologi-poeti – questo è, forse, il dovere, qui, più alto e responsabile» (Anceschi27); «Quanto al significato e ai contenuti, addivenivo allora [nel 1939] al concetto della versione

come lettura critica unica e immanente, restando abolito nella forma imitata il pre-mondo, cui erano conversi il saggio e il commento» (Macrí28).

• l’assimilazione del testo tradotto all’opera poetica originale del traduttore, cui è

correlativa la frequente abolizione del testo a fronte: «Una disposizione a tradurre solo è autentica quando sia amor d’esprimere se stessi, sacrosanto amor di sé e della letteratura cui si appartiene, più che amore ai modelli d’altra lingua e di diversa civil-tà, per grandi che siano: ciò unicamente redime dal metter mano a un’armonia già costituita per formarne dagli smembrati elementi una nuova, di cui la prima costi-tuisca l’origine certa e il malsicuro confine» (Dal Fabbro, III); «A opera compiuta, il traduttore di cui vado ragionando, ormai prigioniero di sé e della nuova poesia con pena e rischio da lui conformata, con gioia e qualche sbigottimento s’avverte che il testo gli suona, anzi che modello preesistente, una posteriore, sciolta e bellissima, imitazione di se stesso» (Dal Fabbro, XXI); «Ma da ultimo, e soprattutto, valga che il tradurre la poesia, quale problema d’espressione, non considero staccarsi dall’originalmente comporla che per il diverso oggetto: del poeta, in lui nacque, e da lui fu recato alla luce della forma; del traduttore, esso è l’opera del poeta, portata nel proprio dominio ed esaltata al cielo salendo sulla propria torre» (Dal Fabbro, XXII).

• l’investimento degli strumenti formali ereditati dalla tradizione, ed in particolare

dell’endecasillabo: «Dirò oggi che nulla più del ridurre l’italiano a farsi prendere la misura col metro delle lingue classiche “o magari della lingua tedesca” mi sembra esterno, assurdo. Abbandonare un nostro costume, una voce che da secoli ci è fami-liare, una persona di casa, per non si sa che; ridurci romantici e archeologici fino a quel punto, no, sarebbe troppo» (Ungaretti29); «Condannabile zelo, di chi presume,

27 L. Anceschi, Prefazione, cit., p. XXIII-XXIV. 28 P. Valéry, Il cimitero marino: studio critico, testo, versione metrica, a cura di O. Macrí, Firenze, Sansoni,

1947. 29 G. Ungaretti, Difesa dell’endecasillabo, 31 marzo-1aprile 1927, «Il Mattino», poi in Id., Vita d’un uomo.

Saggi e interventi, a cura di M. Diacono e L. Rebay, prefazione di C. Bo, Milano, Mondadori, 1974, p. 162.

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proclamandosi scrupoloso, di rigidamente attenersi, nel tentativo di riprodurli, quasi

per una condanna di taglione letterario, ai moduli metrici e strofici d’altra lingua: quando invece è necessario alludervi con discrezione, sempre guidati da un’intima e propria legge di ritmo» (Dal Fabbro, VI); «Il filtro selettivo si operava verso i più ab-normi e deformi contenuti e stili stranieri dentro il limite delle possibilità ricettive della tradizione poetica italiana, soprattutto nei riguardi degl sperimentalismi neo-decadentistici, neocrepuscolari e simili» (Macrí30).

• il ricorso a un linguaggio selettivo e regolato sul metro petrarchesco-leopardiano: «[...] nel sentimento, attivamente ravvivato in me da tali miei esercizi, che la tradi-zione petrarchesca fosse vincolata per sempre allo sviluppo d’ogni linguaggio poetico europeo» (Ungaretti31); «Dei poeti, soltanto i grandissimi innovano: gli altri li tradu-cono, secondo il diverso modo di paragonarsi a quelli, e dentro i confini dell’arte singola. Di ciò è prova, che secoli e secoli siano vissuti di un solo libro di poesia: e già avvenne che un unico verso abbia dato l’avvio a irrefrenabili poemi» (Dal Fabbro,

XV). La generazione ermetica ha insomma costituto un codice unificante che, sia in

funzione impositiva e paradigmatica, sia, più tardi, in funzione oppositiva e critica, ha globalmente condizionato il genere della traduzione fino almeno agli anni Cin-quanta; ancora da scrivere invece è una storia organica ed esaustiva del declino del tradurre ermetico e del suo polverizzarsi in una raggiera di esperienze sempre più divaricate, inscrivibili in linea di massima (ma, al solito, con eccezioni) nel solco del progressivo indebolimento delle aspettative formali, come del resto testimonia il transito da un’area traduttiva in cui «il rigore delle traduzioni […] si espresse in “versioni metriche”, come si usava apporre alla fine, prima della firma; ritmi con-formi in generale alla tradizione italiana con gli effetti metrici e linguistici derivati dalle lingue degli originali» (Macrí32), a una stagione – per l’esattezza è il 1957 – in cui un acutissimo indagatore dei fenomeni metrici come Fortini, in dichiarata di-scontinuità rispetto al passato, poteva scrivere:

Contro tutto quello che ci è stato insegnato per decenni, bisogna afferma-

re che, almeno entro certi limiti, i nessi ritmico-metrici non sono così decisivi

30 O. Macrí, La traduzione poetica negli anni Trenta (e seguenti), cit., p. 50. 31 G. Ungaretti, Sulla Fedra di Racine, in Id., Vita d’un uomo, Milano, Mondadori, 1950, poi in Id., Vita

d’un uomo. Saggi e interventi, cit., p. 576. 32 O. Macrí, La traduzione poetica negli anni Trenta, cit., p. 57.

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e insostituibili come un superstizioso formalismo ha voluto farci credere; la

traducibilità della poesia si fonda proprio su questa constatazione. È vero che la durata storica delle strutture metriche è di tanto superiore a quella dei rap-porti tonali del lessico (non per nulla metrica è, per definizione, tradizione); ma, d’altra parte, la rilevanza del metro diminuisce col crescere di altri ele-menti, di altre scelte33.

Dunque nelle traduzioni del dopoguerra sono crescenti le infedeltà alle conven-

zioni metriche, parallelamente alla sempre più diffusa pratica di registri prosastici, sintatticamente prossimi al parlato, correlativi alla sopraggiunta crisi della dicibilità del reale del dopoguerra e alla messa in questione della «polarità delle topologie più elementari: affermazione e negazione, sopra e sotto, soggetto e oggetto» (Calvino34). Un fenomeno, questo, che se coniugato al disarticolarsi dell’organismo linguistico ermetico si può infine sintetizzare nel passaggio tra una traduzione tra codici, a una traduzione fra un codice e, per così dire, un idioletto, intendendo in tal senso l’accresciuta importanza dei vocabolari di ciascun traduttore sull’ambizione sovrain-dividuale o addirittura sovranazionale del poeta ermetico. La vicenda dell’abrogazione di questo linguaggio comune attorno a cui si erano raccolti i poeti negli anni precedenti alla guerra è lucidamente messa a fuoco da Ungaretti:

Dopo la guerra abbiamo assistito a un cambiamento tale del mondo che ci

ha separato da quel che eravamo e da quel che avevamo fatto prima, come se fossero passati, d’un colpo, milioni d’anni. Le cose sono diventate vecchie, de-gne solo si un museo. Oggi tutto quello che è contenuto nei libri lo si ascolta come testimonianza del passato, ma non si può accettare come modo espres-sivo nostro. È molto strano: le parole stesse. certe metafore o cadenze della poesia, certi movimenti nella pittura, ci sono diventati del tutto estranei. Li

accettiamo come sprofondati nella storia, come una loro vita storica che però non ci può riguardare da vicino. C’è qualcosa nel mondo dei linguaggi che è definitivamente finito. Fino a pochi anni fa la lingua del passato poteva essere ancora la nostra. I secoli erano legati l’uno all’altro e ci diventavano improvvi-samente contemporanei. Oggi tutto quello che era convenzione e rettorica sulle quali si fondava il discorso umano, è diventato insostenibile. Non c’è più modo, secondo me, di formare una rettorica nuova, perché ci coglie subito la

33 F. Fortini, Metrica e Libertà, in Id., Saggi ed epigrammi, cit., p. 795. 34 I. Calvino, Una pietra sopra: discorsi di letteratura e società, Milano, Mondadori, 1995, p. 346.

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falsità di ogni convenzione e anche la parola è una convenzione subito logo-

ra…35.

In ambito traduttivo questa dissoluzione del codice si esprime in tempi sfasati ri-spetto a quello della poesia in proprio, come se la presenza di un testo fonte a pro-pria volta in anticipo sul tempo del traduttore costituisse un supplementare radica-mento alla tradizione, tale da rendere le versioni più refrattarie all’aggiornamento stilistico. Un radicamento però talvolta non privo di ragioni ‘ideologiche’: è il caso ad esempio di un autore come Alessandro Parronchi che, per trascrivere in termini stilistici il proprio contraddittorio con il circostante, il rovescio di un progresso pre-sunto in un regresso effettivo, bilancia il tendenziale abbassamento dei registri della poesia in proprio – attraverso cui transita l’impossibile predicabilità elevata del mo-derno – con una pronuncia arcaizzante non esente da punte auliche nelle sue tradu-zioni, delegando al testo tradotto il mandato di testimoniare una civilità ancora alta (espressa attraverso gli autori prediletti: Nerval, Rimbaud, Baudelaire, Mallarmé…), anteriore al crollo dei valori etici ed estetici che presiede alla contemporaneità.

Ma al di là di fenomeni occasionali, l’indebolirsi dei canoni condivisi rimane un vettore irreversibile nel dopoguerra. Ne deriva una stagione in cui il corpo-a-corpo con il testo assume sempre i più i connotati di appuntamento personale – ferme re-stando le oggettive limitazioni riguardo ai testi tradotti su commissione. A questo incanalarsi della storia della traduzione da un territorio idealmente comune in solchi individuali non è forse del tutto estraneo almeno un fattore contestuale: sono infatti molti gli insofferenti alle mire scientifiche della più agguerrita linguistica degli anni Cinquanta-Sessanta tese a formulare una ‘precettistica’ della traduzione, contro la quale i poeti (con parziali eccezioni) rivendicarono anche in seguito un’idea radi-

calmente empirica e a-sistematica dell’atto traduttivo: fra questi ci sono Luzi36, il bri-

35 G. Ungaretti, Delle parole estranee e del sogno d’un universo di Michaux e forse anche mio, «Le Cahiers

de l’Herne», 8, 1966, poi in Id., Vita d’un uomo. Saggi e interventi, cit., p. 842. 36 Cfr. M. Luzi, La cordigliera delle Ande e altri versi tradotti, Torino, Einaudi, 1983, pp. 5-6: «Certo

neanche io sono rimasto sordo ai quesiti di lingua e di linguaggio che la traduzione di poesia fa nascere, tanto più che allora si poteva vedere quasi giorno per giorno e per così dire a occhio nudo svolgersi il

lavoro di traduttori memorabili […]. Con tutto questo io che in vita mia ho resistito anche troppo poco alla sirena della teoresi non ho scritto una riga a cui si possa attribuire intendimento teorico. Ho scritto

di traduzioni da lettore e da critico, ne ho scritto anche da autore per esporre ragionamenti in margine al lavoro eseguito. Ho scritto sul fatto e non sul principio. Dietro questa reticenza si nascondeva indubbia-

mente qualcosa. Ritengo oggi di poterlo ravvisare, quel qualcosa, in una riserva neanche tanto esigua di

incredulità. Intendo dire che non ho mai pensato davvero di poter io teorizzare un oggetto eminente-mente empirico come, gira e rigira, ha sempre finito per apparirmi la traduzione».

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coleur Erba37, Parronchi38, Caproni39, Sereni40 e altri, accomunati non dal rifiuto per

un discorso teorico e tecnico sui problemi della traduzione – sulla quale anzi hanno scritto essi stessi pagine molto belle – ma avversi a un’espropriazione nelle strategie

37 Cfr. L. Erba, Dei cristalli naturali e altri versi tradotti, Milano, Guerini e Associati, 1991, pp. 7-8: «Sarà per una necessità di autodifesa davanti all’invadenza dei linguisti a una sola marcia nel campo degli studi

letterari, sarà per la qualità del loro discorso, di grandi pretese scientifiche ma, in fatto di stile, non tanto di basso quanto di nessun profilo (ma lo stile non è forse garante della verità e vitalità delle idee che sono

esposte? addirittura, diceva il Cecchi, parte intrinseca di quella verità e vitalità?), sarà per la scarsa credi-bilità di quei loro diagrammi, grafici e simboli in concorrenza con la lavagna di un fisico nucleare, sarà

per l’andamento sempre più asfittico di molte sedute di laurea in facoltà che si vorrebbero umanistiche, per tutto questo e altro ancora sarà se, introducendo una scelta di mie lontane e meno lontane traduzioni

di poesia, eccederò in senso opposto a quello dianzi chiamato in causa, dandomi il lusso di una totale

insensibilità di fronte a eventuali pruriti scientifici e di un altrettanto assoluta sordità dinanzi a possibili tentazioni metodologiche. L’operazione del tradurre, come era da prevedersi, non è sfuggita alla coloniz-

zazione di certa linguistica, ivi comprese alcune sue presuntuose sottospecie quali la glottodidattica: si fosse solo trattato di riscontri tipologici, d’un criterio meccanicistico limitato all’area denotativa, perché

no? si è invece andati oltre, e ricorrendo ad apparati e terminologie non prive di terrorismo, si è investito lo spazio aperto e concluso, irrapinabile e irreversibile, certo e insicuro, contraddittorio ambiguo sibilli-

no della letteratura, semplicemente ridotta a epifenomeno della lingua […]. Per venire al dovuto pream-bolo, a quanto ho pensato e cercato di mettere in pratica in materia di traduzione, mi dichiaro per il me-

todo del non metodo o, fuor di rigiro, per l’odòs in luogo del methodos (cfr. Gadamer); in altre parole, ho

perseguito un cammino che mi è venuto incontro ogni volta nuovo, lungo il quale ho affrontato ostacoli

ogni volta diversi e imprevedibili così come lo è stata la loro soluzione. Empirismo? bricolage? do la pre-

ferenza a quest’ultimo termine». 38 A. Parronchi, Quaderno francese. Poesie tradotte con alcuni commenti, Firenze, Vallecchi, 1989, p. 6:

«Tradurre, per me, è stato una pratica, utile a tempi determinati. Sarebbe dunque eccessivo se tentassi di premettere alla raccolta di quasi tutto ciò che ho tradotto notazioni teoriche. Coi poeti che ho scelto, s’è

aperto per me un dialogo, che, stringendosi, ha condotto all’operazione del tradurre. Non altro». 39 G. Caproni, L’arte del tradurre, in F. Buffoni (a cura di), La traduzione del testo poetico, cit., p. 31: «Pur

se è vero che nel corso della mia vita ho molto e perfin troppo tradotto, in nessun modo mi considero un tecnico o un traduttore di professione. Non ho nessun laboratorio mentale attrezzato allo scopo, e mi

trovo quindi nella mortificante condizione di dover deludere con la mia impossibilità non solo di espor-

re e tantomeno proporre teorie, ma di sciorinare una qualsiasi cultura professionale sulla cosiddetta “arte

del tradurre”. Che il tradurre sia un’arte, certo, non dubito. Anzi, è la sola certezza, o semplice cognizio-ne, che ho, anche se tale possesso non mi ha mai aiutato troppo nel mio lavoro. Un’arte, direbbe il Bara-

tono, proprio nel significato primordiale e generalissimo di téchne, così come lo è – o lo era un tempo – il costruire un mobile, o il dipingere un quadro, o lo scolpire una statua, o il comporre un sonetto o una

novella». 40 Cfr. V. Sereni, Il mio lavoro su Char, in René Char – V. Sereni, Due rive ci vogliono. Quarantasette tra-duzioni inedite, con una presentazione di P. V. M., a cura di E. Donzelli, Roma, Donzelli, 2010, p. 3: «Tengo a dire subito che non ho da esporre teorie generali sul tradurre e forse nemmeno semplici punti

di vista che non siano connessi con l’esperienza diretta compiuta su questo o quel testo. Di sicuro so che

tra le traduzioni in cui mi sono impegnato alcune se non tutte hanno corrisposto a precisi momenti della mia esistenza che questi nel mio ricordo ne hanno appunto il tono e il colore».

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del tradurre della priorità degli strumenti del poeta a favore di quelli del filosofo del

linguaggio o del critico-filologo. Il fenomeno del crescente scioglimento del tradut-tore dagli scrupoli, per così dire, di fedeltà analitica della sua operazione è messo a referto ancora da Fortini:

Quindi il rifiuto dell’umiltà interpretativa, la resistenza a trasformarsi in

“nota a pie’ di pagina”, hanno continuato fino ad oggi [1972] […]. Anzi si può dire che le traduzioni “poetiche” dell’età a noi più vicina sono tornate ad esse-re né più né meno “infedeli” delle traduzioni preromantiche. Debbono la loro libertà, non troppo paradossalmente, all’accresciuto livello di conoscenza del-le lingue, ad una più diffusa sensibilità verso la propria lingua nazionale ed i suoi vari livelli, e quindi al tacito rinvio del lettore, per più certa informazio-ne, alle traduzioni filologico-specialistiche. Per alcune lingue – la francese, l’inglese, la spagnola, in parte la tedesca – la maggiore conoscenza o diciamo

un minore estraneità dovuta a molti fattori della esistenza contemporanea può trasformare il “testo a fronte” (che normalmente negli scorsi due decenni ha avuto funzione di appoggio “scientifico”) in autorizzazione ad una indipen-denza creativa41.

Muta in questo modo, sempre di più, anche l’aspettativa del lettore, sempre me-

no orientato (come lo era invece negli anni Cinquanta) da un «bisogno di informa-zione sulle personalità e correnti poetiche»42 recenti: «Quando io compero o cerco in biblioteca la traduzione che un grande poeta ha fatto di un altro grande poeta, non

mi attendo di avere qualcosa di fortemente simile all’originale; anzi, di solito leggo la traduzione perché conosco già l’originale e voglio vedere come l’artista traduttore si sia confrontato (sia in termini di sfida che di omaggio) con l’artista tradotto» (Eco43). Ed è una tendenza che si consolida di pari passo con l’iscrizione dei poeti presi in esame sempre più al centro del canone novecentesco: lo testimonia sia il rapido in-foltirsi di antologie di traduzioni degli anni Ottanta e Novanta, sia la fitta produzio-ne critica volta a scandagliarne le manifestazioni.

Dunque nell’ultimo mezzo secolo quella coordinazione dei livelli del testo che di fatto gli ermetici avevano regolato a partire dai criteri formali della cultura di rice-zione – ossia come osservanza alle istituzioni metriche e linguistiche italiane – si di-sarticola e si riorganizza in combinazioni assai diversificate: combinazioni che,

41 F. Fortini, Traduzione e rifacimento, cit., pp. 821-822. 42 Ivi, p. 818. 43 U. Eco, Dire quasi la stessa cosa, cit., p. 20.

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quando non si sconfini apertamente nel rifacimento, mettono in funzione meccani-

smi compensativi sempre più sottili tra i vari piani del discorso, all’insegna della mobilità dei livelli egemoni nelle gerarchie della traduzione; livelli che, a seconda dei problemi tecnici che, di volta in volta, il laboratorio del poeta deve affrontare, posso-no scivolare l’uno sull’altro in una tattica di remunerazioni via via sempre più elasti-ca, dove possono prevalere e diversamente interagire ora le tessiture foniche, ora le ragioni della referenzialità, ora i dispositivi formali, ora le consapevoli trasgressioni del traduttore...

Le forme del tradurre della terza e quarta generazione svariano allora dal citato mantenimento di Parronchi di un’area lessicale medio-alta (sì che non c’è vera escursione tra i diversi autori tradotti, ma l’assimilazione del diverso a un’unica cir-coscrizione linguistica), fino al multiforme impasto lessicale caproniano abbinato al fittissimo allestimento di trame sonore che compensano, quando è il caso, lo sman-tellamento delle partiture strutturanti dell’ipotesto, passando per le sottili trattative fortiniane tra evocazione dei codici formali e loro infrazione, fino alle riscritture di Luciano Erba, che riformulano con straordinaria libertà non solo i piani metrici, les-sicali, ritmici, ma anche quelli semantici e addirittura, nelle circostanze più radicali, quelli relativi alle strutture ‘mitologiche’ del poeta tradotto. Ma forse tra i testimoni più sicuri del drastico mutamento del tradurre nel dopoguerra c’è l’antologia di Luzi, che partendo da posizioni esemplarmente ermetiche che assegnavano alle versioni da Baudelaire e Rimbaud un radicamento in toni e registri autorizzati dalla tradizio-ne, approda negli anni Settanta ai testi messi a punto a partire da Mallarmé, straor-dinariamente sperimentali nella loro configurazione formale e in anticipo sulla tipica versificazione scalata che di lì a poco avrebbe formalizzato i flussi di poesia della sua

ultima, fertilissima stagione, almeno da Per il battesimo dei nostri frammenti in poi.

Il mio lavoro mira a dare conto di questo transito dal tradurre ermetico alle mol-teplici varianti successive che hanno coinvolto i poeti della terza e quarta generazio-ne, attraverso una rassegna di ‘tessere’ che, incrociando più versioni di uno stesso avantesto, restituiscano per tracce e campionature esemplari un capitolo importante del nostro Novecento. Pur coinvolgendo ampiamente traduttori ormai consacrati dal canone e oggetto di un’attenzione critica crescente (Caproni, Sereni, Fortini, Lu-zi…) ho comunque voluto dare particolare risalto a autori centrali della storia della traduzione del secolo ma ancora meno indagati su questo versante, come Alessandro Parronchi, Piero Bigongiari, Luciano Erba, Nelo Risi. Il libro dunque si articola in modo tale da offrire uno sviluppo il più organico possibile, avvicendando: a) alcuni affondi su autori ermetici, a partire da una figura di frontiera come Beniamino Dal Fabbro, verificato su traduzioni di Luzi e Parronchi, per passare poi a un’analisi cen-trata sull’attività traduttiva dello stesso Parronchi a riscontro di versioni, più defilate nell’economia del saggio, di Valeri e Risi; b) incroci ‘interermetici’ volti a sondare

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meglio le forme della dissoluzione della grammatica fiorentina grazie al raffronto,

intensamente giocato sul versante tematico, delle traduzioni di Bigongiari e Fortini da Éluard, poi nella giustapposizione di due versioni di Parronchi e Fortini da Bau-delaire, fino a una più ampia panoramica che dalla circoscrizione pienamente erme-tica dei testi di Luzi, Parronchi e Pagano apre poi il compasso fino a Raboni (plu-ri)traduttore di Baudelaire; c) alcune risultanze rappresentative dell’attività di tradu-zione dei vari protagonisti nei decenni successivi alla guerra, con particolare riguar-do a Luciano Erba, messo a paragone prima con il Luzi postermetico e in seguito con Caproni, e Nelo Risi, affiancato ancora a Caproni nel tradurre due poesie di Fré-naud.

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Appunti per una storia della traduzione: dall’ermetismo in poi

1. Anni Quaranta

La storia del tradurre ermetico comincia fra la fine degli anni Trenta, quando appaiono su rivista versioni di traduttori come Leone Traverso e Beniamino Dal Fabbro, e l’inizio degli anni Quaranta, in concomitanza con le prime prove dei poeti ‘ufficiali’ della terza generazione (Luzi, Bigongiari, Parronchi). Quanto agli autori tradotti, gli ermetici si allineano subito a un criterio che potrebbe dirsi ‘intensivo’, concentrandosi per forza di innumerevoli variazioni su tre particolari stagioni della letteratura francese, così come già mette a referto Fortini nella sua ricognizione delle fonti europee dell’ermetismo:

Tradurre, per gli autori del decennio ermetico, significò ridurre il diverso

al già posseduto; e quindi si trattò soprattutto di tradurre testi di letterature, di età e di autori che distanza di tempo e di culture rendevano atemporali op-pure di una poesia che poteva essere considerata come antecedente remota o prossima della tendenza nella quale i traduttori si riconoscevano; nel campo

dell’ermetismo, la poesia della Pléiade francese, del secondo Cinquecento spa-gnolo, dei metafisici inglesi e poi, a partire da Hölderlin, Novalis, Nerval,

l’Ottocento e il Novecento del simbolismo primo e di quello tardo, fino a ta-lune propaggini surrealiste44.

* Pur passando in rassegna la gran maggioranza delle traduzioni di poesia francese date alle stampe dagli

autori presi in esame, questi Appunti non ambiscono a costituirsi come una catalogazione esaustiva di

tutto il tradotto della terza e quarta generazione (fino a Erba), vista anche l’estrema dispersione dei testi pubblicati in rivista dagli anni Quaranta a oggi, appena arginata – dove esistano – dalle utilissime ‘bi-

bliografie degli scritti’ uscite in questi anni (qui riportate alla voce dei singoli poeti nella Bibliografia es-senziale). L’obiettivo di queste pagine è piuttosto quello di fornire un primo spunto per il bilancio di una

stagione centrale del tradurre novecentesco, certo doviziosamente verificato in re nei suoi principali eventi, ma nondimeno provvisorio, certamente lacunoso e pertanto esposto – com’è inevitabile in questi

casi – a ritocchi e possibili integrazioni. 44 F. Fortini, I poeti del Novecento, Bari, Laterza, 1977, p. 105.

Leonardo Manigrasso, Capitoli autobiografici : poeti che traducono poeti dagli ermetici a Luciano Erba ISBN 978-88-6655-502-5 (online), CC BY-NC-ND 3.0 IT, 2013 Firenze University Press

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In conformità a questo profilo, abbondano le traduzioni dalla Pléiade, da inter-pretarsi come occasione per un tradurre ‘al quadrato’, ricorso a «una ‘traduzione-tradizione’, quale finiva per essere […] la novità del testo ronsardiano rispetto al grande esemplare petrarchesco» (Bigongiari45): nel solo 1940 sono infatti da trascri-

vere alla voce del Cinquecento francese la celeberrima Copia da Ronsard46 di Luzi su «Incontro» – occasione più di ‘sfida’ che di omaggio, non a caso destinata ad essere

inclusa due anni dopo nella seconda edizione della Barca – e le traduzioni di Bigon-giari ancora da Ronsard47 e da Joachim du Bellay48 su «Letteratura» e «Prospettive» (la stessa «Prospettive» d’altronde aveva pubblicato numerose traduzioni dovute a Giancarlo Vigorelli di poeti coevi come Louise Labé49 – sulla quale tornerà nel de-cennio successivo anche Luzi – e Maurice Scève50).

45 P. Bigongiari, Perché ho tradotto Ronsard, in F. Buffoni (a cura di), La traduzione del testo poetico, Mi-lano, Marcos y Marcos, 2004, p. 45. Bigongiari rivendica alla propria generazione un ruolo prioritario

nella riscoperta e nel rilancio degli studi sul Cinquecento francese in Italia, per cui cfr. il suo Ronsard o il visibile attraverso la parola, in P. Bigongiari, L’evento immobile, Milano, Jaca Book, 1985, pp. 66-67: «Per

quanto riguarda l’Italia, un capitolo è da aggiungere a questa rinnovata attenzione a Ronsard e in genere ai poeti della Pléiade. È stato proprio l’ermetismo, alla fine degli anni Trenta, a rinnovare l’attenzione a

Ronsard e du Bellay, dopo la rivalutazione fattane da Sainte-Beuve: un ermetismo intento a rinnovare in

termini di discorso quanto la poesia pura aveva ridotto nei termini della poetica della parola, della se-conda (e riduttiva) poetica della parola, quella cioè quasimodiana, rispetto alla prima, originaria (e accre-

scitiva) poetica della parola, quella ormai antica ungarettiana dell’Allegria. Sono stati i poeti fiorentini della terza generazione a tradurre in sonetti italiani alcuni degli stupendi sonetti ronsardiani, quel fra-

seggiato lungo in cui il poeta pare intrattenersi con la propria anima parlante nel momento stesso che essa si accommiata, ed è come l’ombra stessa che la persona poetica lascia, bruna, sul suo cammino tra le

celebri piante dei giardini delle Muse, negli eliotiani “boschi sacri” aggrediti con giovanile baldanza ma

dove poi il poeta andando lento pede si scopre con malinconia uomo […]. La nuova poesia italiana ri-

scopriva i manieristi attraverso il neoclassicismo foscoliano, cioè proprio passando a una valutazione nuova di quel neoclassicismo rivoluzionario rispetto alla fin allora dominante lezione del neoclassicismo

conservatore attestata dalla poesia carducciana, predominante nel gusto accademico italiano. Fu quella

ripresa di interesse verso il grande manieristico europeo, se non ci inganniamo, sintomatica in quanto anticipò la nuova valutazione a cui stiamo assistendo, sul piano storico, di tutte le manifestazioni artisti-

che del manierismo, dalla poesia, per cui si intesero i valori del “romanzo fermo” insito e oscuramente lampeggiante nelle metafore discorsive del grande petrarchismo europeo, alla pittura […]». 46 P. de Ronsard, Per la morte di Maria, tr. di M. Luzi, «Incontro», I, 12, ottobre 1940, p. 4. 47 Si vedano rispettivamente i Quattro sonetti, «Letteratura», IV, 2, aprile-giugno 1940, p. 55-56, e

CCXXVII dal primo libro degli Amori, XCVII dal secondo libro degli Amori, «Prospettive», IV, 11-12, novembre-dicembre 1940, p. 25. 48 J. du Bellay, Sonetto LXXXIII dall’Oliva, tr. di P. Bigongiari, «Prospettive», IV, 6-7, giugno-luglio 1940, p. 14. 49 L. Labé, Liriche XIII-XIV, tr. di G. Vigorelli, «Prospettive», IV, 8-9, agosto-settembre 1940, p. 14. 50 G. Vigorelli, Rime e frammenti di un petrarchista, «Letteratura», IV, 4, ottobre-dicembre 1940, p. 15;

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Quanto alla grande stagione della poesia simbolista, le attenzioni degli ermetici

si concentrano con eccezionale assiduità sulle figure di Mallarmé, Rimbaud e – come ultimo epigono del mallarmeismo – Valéry (molto rari infatti i testi da Baudelaire51). Partendo proprio da Mallarmé, si può senz’altro dichiarare che il problema della resa

in italiano dell’Après-midi d’un faune sia stato in assoluto l’esperienza centrale del tradurre ermetico, convergendovi in un serrato rapporto dialogico (che si faceva, talvolta, aperto contraddittorio), la versione di Dal Fabbro, quella di Alessandro Par-ronchi, pubblicata a Firenze nel ’45 da Il Fiore di Piero Santi52 (e ripresentata poi più volte con ritocchi e ampliamenti per Fussi53), poi le traduzioni di Giuseppe Ungaret-ti54 su «Poesia» e Bigongiari55 su «Letteratura», e infine (ma siamo già nei primi anni Cinquanta) quella di Pagano sull’«Albero»56, prima di quella che farà Luzi molti anni

dopo. Sullo stesso numero di «Letteratura» Bigongiari aveva poi allegato al Fauno le

CCCLXVII-CCCCVII, «Prospettive», IV, 8-9, agosto-settembre 1940, p. 14; Traduzione da Scève, «Incon-

tro», I, 12, ottobre 1940, p. 4; CCCCXLIX, «Prospettive», IV, 11-12, novembre-dicembre 1940, p. 25. 51 Una traduzione di un poème en prose di Baudelaire negli anni Quaranta si trova ad esempio su rivista a

cura di Parronchi; cfr. infatti C. Baudelaire, La fine del mondo, «Quaderni», 1, 1, 28 agosto 1947, pp. 1-2. 52 S. Mallarmé, L’Après-midi d’un faune, preceduto dalla Genesi de L’Après-midi d’un faune di C. Guyot, tr. con testo a fronte di A. Parronchi, Firenze, Il Fiore, 1945. 53 Cfr. in prima battuta Id., Il pomeriggio d’un fauno, a cura di A. Parronchi, Firenze, Fussi, 1946; in

seguito Id., Il monologo, l’Improvviso e Il pomeriggio d’un fauno, a cura di A. Parronchi, Firenze, Fussi,

1951. 54 Id., Il pomeriggio d’un fauno, tr. di G. Ungaretti, «Poesia», II, 5, luglio 1946, p. 85. Secondo Marco Forti

è proprio l’esercizio di versione di questo testo l’esperienza centrale dell’attenzione tributata a Mallarmé

in sede critica e traduttiva negli anni Quaranta; cfr. infatti il suo La poesia di Mallarmé in Italia, «Milleli-

bri», 52, ottobre 1992, poi in Il Novecento in versi. Studi, indagini, ricerche, Milano, Il Saggiatore, 2004,

pp. 167-168: «Protagonista da noi in questa fase mallarmeana è stato l’Ungaretti di Sentimento del tempo,

sicuramente sollecitato a un suo secondo “tempo” anche da una lettura in chiave petrarchesca di Mal-

larmé, e particolarmente di L’Après-midi d’un faune […]. È attorno a questa decisiva acquisizione mal-

larmeana che sarebbe fiorita, a cavallo della Seconda guerra e negli anni subito successivi, la lettura di Mallarmé dei critici e dei poeti dell’ermetismo, con Carlo Bo e con Mario Luzi, che nei loro saggi fon-

damentali in tale direzione, avrebbero privilegiato al primo Mallarmé ancora parnassiano, o al secondo

più prossimo all’ufficialità del simbolismo, il poeta più tardo di Igitur o di Coup de dés […]. In questo

stesso clima, si sarebbero svolte le importanti traduzioni di L’Après-midi d’un faune di Parronchi e Bi-gongiari: l’una volta a risuscitare liberamente e, diciamo, con moderna creatività postromantica, la gran

fioritura mallarmeana di immagini e di colori che sfumano all’orlo dell’ineffabilità; e l’altra a restituirci,

insieme al suo lusso metaforico, anche il labirintico e fin abissale giuoco analogico, che proprio durante

il percorso più che decennale delle stesure del Fauno, ha fatto approfondirsi fino al gelo più interno delle

immagini, le mille sfaccettature del verbo mallarmeano che meglio avrebbe recepito la grande intellet-tualità di un Valéry». 55 S. Mallarmé, Due redazioni di un famoso sonetto; Il pomeriggio di un Fauno: egloga, tr. di P. Bigongiari, «Letteratura», VIII, 31, novembre-dicembre 1946, pp. 44-50. 56 S. Mallarmé, Il pomeriggio d’un fauno, tr. di V. Pagano, «L’Albero», 13-14-15-16 gennaio-dicembre 1952.

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traduzioni delle due redazioni di Tristezza d’estate, rispettivamente del 1862 (si pre-

sume) e del 1864, «la prima d’intonazione ancora baudelairiana, atmosferica, con un peso carnale troppo deciso, la seconda assolutamente mallarméana, evaporata nell’intensa luce del suo complesso dal peso dei particolari disgreganti»57, mentre ri-

sale al 1947 il Brindisi funebre tradotto da Parronchi su «Il Mondo Europeo»58. Anche Rimbaud è assai tradotto negli anni Quaranta: da Dal Fabbro, fra gli altri

sul «Tesoretto»59 e «La Ruota»60, da Franco Fortini, che pubblicò su «Il Politecnico»61

una prima versione di Bonne pensée du matin, e infine da Parronchi, che (ancora per

Fussi) nel 1949 tradusse Una stagione all’inferno62. Quanto agli altri protagonisti del-la stagione romantico-simbolista – prima di arrivare a Valéry – spicca l’assidua fre-quentazione da parte di Parronchi dell’opera di Nerval, inizialmente tradotto su «Corrente»63 e poi – per un totale di tredici sonetti - per Fussi nel ’4664, mentre tra i

simbolisti ‘pieni’ meritano una citazione Germain Nouveau, curato ancora da Par-ronchi nel ’45 (prima per «La Rassegna»65 e poi per la Libreria Editrice Fiorentina66), Georges Rodenbach, ampiamente tradotto da Dal Fabbro sia su rivista (si vedano esempio «Primato»67 e «Tre Venezie»68), sia in volume, a Milano, nel 194269, e Paul Verlaine, ancora da Dal Fabbro70.

Valéry invece attira gli sforzi più dei critici-traduttori e dei traduttori-traduttori

che dei poeti ‘ufficiali’ dell’ermetismo (con la parziale eccezione di Eupalinos71, li-bretto – ad ogni modo non di poesia – tradotto da Vittorio Sereni per Mondadori nel ’47): fra tutti, per continuità, spicca il lavoro di Dal Fabbro, che di Valéry – su

57 Ibid. 58 S. Mallarmé, Brindisi funebre, tr. di A. Parronchi, «Il mondo europeo», 1 settembre 1947, p. 11. 59 A. Rimbaud, Riassunto di Poeti di sette anni, tr. di B. Dal Fabbro, «Tesoretto», 1940. 60 Id., Le bateau ivre, tr. di B. Dal Fabbro, «La Ruota», giugno 1943, pp. 174-177. 61 Id., Buona ispirazione del mattino, tr. di F. Fortini, Politecnico, 21, 16 febbraio 1946, p. 3. 62 Id., Una stagione all’Inferno, a cura di A. Parronchi, Firenze, Fussi, 1949. 63 A. Parronchi, Quattro sonetti di Nerval, «Corrente di vita giovanile», III, 7, 15 aprile 1940, p. 2. I sonet-

ti sono nella fattispecie A Hélée de Mecklembourg, A madame Sand, A madame Isa Dumas, A madame

Aguado. 64 G. de Nerval, Le chimere, a cura di A. Parronchi, Firenze, Fussi, 1946. 65 G. Nouveau, Le mani, tr. di A. Parronchi, «La Rassegna», 3 giugno-luglio 1945, pp. 35-36. 66 Id., Poesie di Humilis, tr. di A. Parronchi, Firenze, Libreria Editrice Fiorentina, 1945. 67 G. Rodenbach, Il cuore dell’acqua, tr. di B. Dal Fabbro, «Primato», I, 18, 15 novembre 1940, p. 9. 68 Id., Vecchi quais, tr. di B. Dal Fabbro, «Tre Venezie», ottobre 1943. 69 Id., Il regno del silenzio, tr. di B. Dal Fabbro, Milano, Industrie grafiche Pietro Vera, 1942. 70 P. Verlaine, Soli calanti; Acquerello, tr. di B. Dal Fabbro, «Corrente», II, 18, 15 ottobre 1939. 71 P. Valéry, Eupalinos, preceduto da L'anima e la danza, seguito dal Dialogo dell'albero, unica traduzione autorizzata dal francese di V. Sereni, introduzione di E. Paci, Milano, Mondadori, 1947.

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rivista72 e in volume – presenta numerosi testi, tra cui quelli milanesi di Gli incanti73

nel ’42 e il Discorso e ode in morte di Paul Valéry74 nel ‘46; altre traduzioni sono a cu-ra di Renato Poggioli e Vittorio Pagano, che daranno alle stampe le rispettive versio-

ni del Cimitero marino nel ’46 su «Inventario»75 e «Libera Voce»76; più organica però l’attività di Oreste Macrí, che nel solo 1947 da un lato pubblica su rivista una versio-

ne di Tre risvegli77 e dall’altro raccoglie in volume i suoi studi (e la sua traduzione,

risalente al ‘39) del Cimetière per Sansoni78. Da segnalare infine fra i tradotti anche Rainer Maria Rilke, le cui poesie francesi impegnarono Piero Bigongiari in collabo-razione con Giorgio Zampa nel 194879.

Fra i surrealisti è indiscutibile il primato di Éluard, tradotto già nel ’3880 e su fini-re del ’3981 da Leone Traverso, poi nel ’40 da Alessandro Parronchi82 su «Prospetti-ve» (l’unica traduzione éluardiana del poeta fiorentino) e poi da Bigongiari83 su «Corrente», mentre nel ’41 – sempre su «Prospettive» – sarà la volta ancora di Tra-verso84 e di Curzio Malaparte85; di qualche anno successivo, nel ’45, anche un com-

72 Dal Fabbro pubblica alcuni Charmes su «Letteratura», 9, 1939, e la prosa L’appassionato di poesia su

«Campo di Marte», II, 11-12, 1 luglio – 1 agosto, p. 5. 73 P. Valèry, Gli incanti, tr. di B. Dal Fabbro, Milano, Bompiani, 1942. 74 B. Dal Fabbro, Discorso e ode in morte di Paul Valéry. Instants, traduzioni, studi per un saggio, Milano, IEI, 1946. 75 P. Valéry, Il cimitero marino, tr. di R. Poggioli, «Inventario», 2, 1946, p. 95-98. Lo stesso anno peraltro

era apparsa anche la traduzione del Cimitero di Mario Praz in «Il Mondo», II, 26, 20 aprile 1946, p. 6. Su

«Inventario», 1, 1946, pp. 58-61, Poggioli aveva tradotto anche il poème en prose Neiges di Saint-John Perse. 76 Id., Il cimitero marino, tr. di V. Pagano, «Libera Voce», 15-30 maggio 1946. 77 Id., Tre risvegli, tr. di O. Macrí, «Libera voce», a. V, n. 16, 24 maggio 1947, p. 3. 78 O. Macrí, Il Cimitero Marino di Paul Valéry: studio critico, testo, versione metrica, commento, Firenze, G.C. Sansoni, 1947. 79 R. M. Rilke, Poesie francesi, 1: Verzieri, Le quartine vallesane, a cura di G. Zampa e P. Bigongia-ri, Milano, E. Cederna, 1948. 80 P. Éluard, Poesie, tr. di L. Traverso, «Corrente», I, 17, 31 ottobre 1938. Sono: da L’amour la poésie, Le speranze sono vinte e gli sgomenti; da Capitale de la douleur, I tuoi capelli arancia nel vuoto del mondo. 81 Id., Liriche, tr. di L. Traverso, «Prospettive», III, 10, dicembre 1939, p. 12. Da L’amour la poésie, Tri-stezza a onde di pietra, La fronte ai vetri come chi veglia l’angoscia, Simmetrica dignità vita ben divisa; da

Capitale de la douleur, Su questi rottami di cielo, su questi vetri d’acqua dolce, Ella era, sconosciuta, la mia forma prediletta, I tuo capelli arancia nel vuoto del mondo. 82 Id., Défense de savoir, tr. di A. Parronchi, «Prospettive», IV, 3, marzo 1940, p. 10. 83 Id., Da «Capitale de la douleur», tr. di P. Bigongiari, «Corrente», III, 6, 31 marzo 1940. Le poesie sono

L’unica, Si rifiuta sempre, Una, Ritornare in una città. 84 Id., Vivere, tr. di L. Traverso, «Prospettive», V, 13, 15 gennaio 1941, p. 8. 85 Id., Noi non importa dove; Solo; Giustizia; Morire; Fanciulli; Incontri; Regni, tr. di C. Malaparte, «Pro-spettive», V, 13, gennaio 1941, p. 7.

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ponimento dovuto a Oreste Macrí86. Tra il 1944 e il 1946 invece compariranno le

prime prove della lunga fedeltà éluardiana di Franco Fortini, su «L’Avvenire dei La-voratori»87 – dove il poeta aveva esordito come traduttore un paio di mesi prima88 –

e «Il Politecnico»89; ma già nel 1947 Fortini pubblica presso Einaudi Poesia ininter-rotta90, raccolta che costituisce la prima importante tappa di un percorso destinato a culminare il decennio successivo con una assai più ampia selezione di poesie di Éluard, sulla quale Fortini avrebbe poi condotto sostanziose riscritture. Non è que-sta, tuttavia, la prima raccolta monografica sul poeta francese, visto che già due anni prima Leone Traverso aveva pubblicato alcune sue traduzioni in un volumetto delle veneziane Edizioni del Cavallino assieme a Gennaro Masullo e Aldo Camerino91.

Fra le altre versioni di poeti assimilabili al surrealismo spiccano quelle di Forti-ni92da Aragon, di Carlo Bo93 da Jacob (entrambe sul «Politecnico» del 1945), di Ma-crí94da Char e di Nelo Risi95 da Prévert. Quanto mai tempestive infine sono anche le versioni da Frénaud di Fortini, che già nel 1946 ne aveva dato alcune primizie su due numeri del «Politecnico»96.

Gli anni Quaranta, per concludere, vedono anche l’uscita di due determinanti antologie poetiche di area ermetica – quelle di Leone Traverso97 a Roma nel 1942 e

86 Id., Sulla curva dei tuoi occhi, tr. di Oreste Macrí, «Vento del Nord», 4 agosto 1945, p. 3. 87 Id., L’ultima notte, tr. di F. Fortini, «Avvenire dei Lavoratori», 10 maggio 1944. Sullo stesso periodico

Fortini traduce il 30 maggio dello stesso anno Dalla prigione di Pierre Emmanuel. 88 La traduzione di Fortini aveva riguardato un Anonimo francese, Ostaggi, «Avvenire dei Lavoratori», 15 marzo 1944. 89 P. Éluard, Per vivere, «Il Politecnico», I, 4, 20 ottobre 1945, p. 2; Fedeli alla vita, «Il Politecnico», 23 marzo 1946. Sempre sul «Politecnico» del 20 ottobre del ‘45 Fortini aveva tradotto Chrétien de Troyes

Lamento delle filatrici detto delle trecento donzelle e Jean Paul Sartre, O di qui o di là. 90 Id., Poesia ininterrotta, tr. di F. Fortini, Torino, Einaudi, 1947. 91 Id., Poesie, a cura di G. Masullo, L. Traverso e A. Camerino, Venezia, Edizioni del Cavallino, 1945. Le

poesie tradotte da Traverso sono Sui declivi inferiori, Primo gradino – La voce d’un altro, Tra poco,

L’ultima notte, La pausa delle ore. 92 L. Aragon, Le lacrime si somigliano, tr. di F. Fortini, «Il Politecnico», I, 7, 10 novembre 1945, p. 2. Dello

stesso autore Fortini traduce anche Il 6 febbraio a Parigi sul «Politecnico», 23, 2 marzo 1946. 93 M. Jacob, Canto di Natale , tr. di C. Bo, «Il Politecnico», I, 13-14, 22-29 dicembre 1945, p. 2. 94 R. Char, Le tre sorelle, tr. di O. Macrí, «Libera voce», a. V, n. 20, 28 giugno 1947, p. 3. 95 Le otto traduzioni di Risi da Prévert compaiono su «La Rassegna d’Italia» nel gennaio del 1949. 96 A. Frénaud, Prosa e poesia, tr. di F. Fortini, (comprendente I Re Magi, Senz’amore, La vita morta la vita, La più folle, oltre alla prosa Il borgo profanato), «Il Politecnico», II, 31-32, luglio-agosto 1946, pp.

44-45; poi Antologia della canzone popolare francese (XVI-XVIII): Quando il marinaio, Il compianto di Grenoble, La signora di Bordeaux, Pique la Baleine, Jean François di Nantes, Sulle scale del Palazzo, tr. di

F. Fortini, «Il Politecnico», 33-34, settembre-dicembre 1946, p. 12. 97 L. Traverso, Poesia moderna straniera, Roma, Edizioni di Prospettive, 1942.

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di Beniamino Dal Fabbro98 a Milano nel ’44 – e di altrettante antologie altamente

rappresentative del movimento: i Poeti antichi e moderni tradotti dai Lirici nuovi di Anceschi e Porzio99 nel ‘45, con versioni (fra gli altri) di Dal Fabbro, Attilio Berto-

lucci, Luzi e Bigongiari, e l’Antologia di scrittori stranieri a cura di Carlo Bo e Tom-maso Landolfi100 nel ’46, con traduzioni di Luzi (con inediti da Baudelaire e Rim-baud), Traverso, Parronchi (inedito il Rimbaud), Poggioli, Dal Fabbro. Non sfugge, in particolare, l’importanza della compilazione di Anceschi, che viene a costituire un supplemento decisivo a quell’opera di codificazione del canone poetico novecentesco che impegnò il critico milanese nel decennio fra il ’42 e il ’53 e i cui frutti principali

furono i Lirici nuovi, Linea lombarda e Lirica del novecento (quest’ultimo in collabo-razione con Sergio Antonielli).

2. Anni Cinquanta

Conformemente al quadro che delinea la storia della traduzione del dopoguerra come stilisticamente più ‘conservatrice’ rispetto alla storia della poesia ‘in proprio’, negli anni Cinquanta i poeti della terza generazione proseguono in gran parte lungo i più radicati orientamenti che avevano guidato la loro attività nel decennio prece-dente. Se da un lato si assiste a un calo delle versioni da Mallarmé, d’altro canto gli autori più praticati nelle loro versioni rimangono i poeti del Cinquecento francese, Rimbaud ed Éluard.

Resistono infatti i nomi ‘forti’ di Louise Labé (in Pagano101, traduttore – detto per inciso – anche di Villon102, Nerval103 e Apollinaire104, e Mario Luzi105), quelli di Ronsard106 e Scève107 (in Bigongiari, traduttore anche del più tardo Henri-Benjamin

98 B. Dal Fabbro, La sera armoniosa, Milano, Rosa e Ballo, 1944. 99 L. Anceschi e D. Porzio (a cura di), Poeti antichi e moderni tradotti dai lirici nuovi, Milano, Il Balcone, 1945. 100 C. Bo, T. Landolfi e L. Traverso (a cura di), Antologia di scrittori stranieri, Firenze, Marzocco, 1946. 101 V. Pagano, 24 sonetti di Louise Labé, «L’Albero», luglio-settembre 1955. 102 F. Villon, Lasciti lirici, tr. di V. Pagano, «L’Albero», 9-10-11-12, gennaio-dicembre 1951. 103 V. Pagano, 21 Poesie di Nerval, «L’Albero», luglio-settembre 1955. 104 G. Apollinaire, Il bestiario, tr. di V. Pagano, «L’Albero», 17-18, dicembre 1953. 105 L. Labé, Sonetti XIV, XVI, XX, tr. di M. Luzi, «La Chimera», II, 14, maggio 1955, p. 5. 106 P. de Ronsard, Sonetto XXII e Sonetto XXX, tr. di P. Bigongiari, in C. Betocchi (a cura di), Festa d’amore, Firenze, Vallecchi, 1952. 107 M. Scève, Tre «dizains» dalla Delie (Dizain LII, Dizain CCCLV, Dizain CCCLXVII), tr. di P. Bigongia-ri, «L’Approdo», III, n. 4, ottobre-dicembre 1954, pp. 56-57.

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Constant108), mentre Parronchi sposta il baricentro fino al seicentesco Tristan

l’Hermite109; il Cinquecento transalpino si attesta poi anche in Erba, che traduce Sei sonetti di Jean de Sponde sul «Verri».110

Rimbaud invece è tradotto prima da Franco Fortini111 nel 1950, poi si stanzia al

centro dell’officina traduttiva di Parronchi, che nel solo 1954 ne pubblica Sette poe-sie112 su «L’Approdo» e poi Le bateau ivre su «L’Albero»113, nell’ambito di un interes-sante esperimento articolato sul ‘parallelo’ con un’analoga versione allestita da Vitto-rio Pagano. Oltre a tradurre Rimbaud, Parronchi colma anche la lacuna baudelairia-na della triade fiorentina (con l’eccezione dei due testi luziani in antologia) pubbli-

candone Otto poesie in «Letteratura»114, mentre Giorgio Caproni traduce sulla «Fiera

Letteraria»115 una poesia di Germain Nouveau nel 1959. Moltissime invece le tradu-zioni di Fortini da Éluard: prima quelle del ’52 e ’53 sull’«Avanti»116, e poi l’ampia silloge di poesie curata per Einaudi117 nel 1955. Altre traduzioni éluardiane stampa nel 1957 Bigongiari118.

Ma si infoltiscono, oltre che da Éluard, le traduzioni dai contemporanei, per «ri-spondere ad un bisogno di informazione sulle personalità e correnti poetiche del quarantennio precedente» (Fortini119): nel ’51 Fortini traduce Prévert120, Luzi nel ’55

108 P. Bigongiari, Episodi della Cécile di Constant, «Il Nuovo Corriere», Firenze, 18 dicembre 1951, p. 3, poi «Il Raccoglitore» della «Gazzetta di Parma», Parma, maggio 1952, p. 3. 109 T. l’Hermite, Sentiero di due amanti, tr. di A. Parronchi, «Marsia», I, 2, novembre – dicembre 1957.

Sempre relativa al Seicento francese è la traduzione di Luciano Erba di Cyrano de Bergerac, L’altro mon-

do ovvero Gli Stati e gli Imperi della Luna, introduzione, traduzione, note e bibliografia di L. Erba, Firen-ze, Sansoni-Fussi, 1956. 110 J. de Sponde, Sei sonetti, tr. di L. Erba, «Il Verri», 2, agosto 1958, pp. 131-138. 111 A. Rimbaud, L’orgia parigina, tr. di F. Fortini, «Delta», 3-4, gennaio 1950. 112 Id., Sette poesie, tr. di A. Parronchi, «L’Approdo», III, aprile-giugno 1954, 2, pp. 31-35. 113 Id., Le bateau ivre, tr. di A. Parronchi, «L’Albero», settembre 1954, 19-22, pp. 3-11. 114 A. Parronchi, Da Baudelaire (Otto liriche), «Letteratura», V, 29, settembre-ottobre 1957, pp. 3-7. 115 G. Caproni, Una poesia di Humilis [Les cathédrales], «La Fiera Letteraria», 10 maggio 1959. 116 P. Éluard, La fronte ai vetri, tr. di F. Fortini, «Avanti», 22 novembre 1952; poi A due a due, «Avanti», 24 novembre 1953. 117 Id., Poesie, con l’aggiunta di alcuni scritti di poetica, introduzione e traduzione di F. Fortini, Torino, Einaudi, 1955. 118 P. Bigongiari, Ritrattino di Éluard, «Il Raccoglitore» della «Gazzetta di Parma», Parma, 7 novembre

1957, p. 3, [traduzioni di al primo bagliore, da L’amour, la poésie, Ordinanza da Au rendez-vous alle-

mand], poi «Il Critone», Lecce, nn. 1-2, gennaio-febbraio, p. 6. 119 F. Fortini, Traduzione e rifacimento, in Id., Saggi ed epigrammi, a cura e con un saggio introduttivo di

L. Lenzini e con uno scritto di R. Rossanda, Milano, Mondadori, 2003, p. 818. 120 J. Prévert, Marcia o crepa, tr. di F. Fortini, «Avanti», 10 ottobre 1951.

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René Guy Cadou121 sulla «Chimera», Parronchi l’anno successivo si occupa di Fré-

naud su «L’Albero»122 e di Fargue sul «Critone»123, dove nel ‘58 Bigongiari traduce René Char124; più organiche tuttavia le pubblicazioni di Nelo Risi, che nel 1956 pub-blica da Scheiwiller un esile libretto di una decina di testi di Supervielle125 e nel 1957 un nutrito volume di traduzioni da Pierre Jean Jouve126 per l’editore Carucci di Ro-

ma. Nel ’59 infine Caproni include nella sezione Imitazioni del Seme del piangere127 una poesia di Prévert (D’estate come d’inverno), due di Apollinaire (La chiamavano Lu e Le campane) e una di Lorca (Arbolé, arbolé).

Gli anni Cinquanta sono inoltre un decennio gremito di antologie di poesia

straniera. Innanzitutto escono raccolte come Festa d’amore del 1952 a cura di Carlo Betocchi (vi si leggono traduzioni inedite di Caproni da Verlaine e Hugo, Fallacara da Mallarmé, Valeri da Villon e Betocchi da Scève, Baudelaire, Rimbaud e Laforgue)

e l’Antologia di poeti negri128 a cura di Carlo Bo dove nel ’54 trovano posto alcune

traduzioni di Vittorio Sereni129; nel ’57 appare l’Antologia dei poeti maledetti130 tra-dotti da Vittorio Pagano, dove si riepiloga la grande tradizione simbolista per mezzo di folte rassegne di versioni da Nerval, Baudelaire, Verlaine, Rimbaud, Mallarmé e altri; fra tutte però – per numero e qualità dei traduttori coinvolti - spiccano quella a cura di Vanni Scheiwiller131 del ’55, dove sono ospitate le versioni spesso inedite di Dal Fabbro, Fortini, Risi, Erba, Caproni, Luzi, Traverso, Bigongiari, Sereni, Berto-lucci…, e quella a cura dello stesso Bertolucci132 nel 1958 per Garzanti, con traduzio-

121 M. Luzi, Tre poesie di Cadou: La notte specialmente; Per dopo; Lied, «La Chimera», II, 11-12, febbraio-marzo 1955, p. 3. 122 A. Frénaud, Non c’è paradiso, Fumata, Per bere agli amici, tr. di A. Parronchi, «L’Albero», gennaio-dicembre, 26-29, pp. 94-95. 123 L. P. Fargue, Postface, tr. di A. Parronchi, «Il Critone», I, 9-10, dicembre 1956, p. 6. 124 R. Char, Nous avons, tr. di P. Bigongiari, «Il Critone», 8-9, agosto-ottobre 1958, p. 6. 125 J. Supervielle, In viaggio con Supervielle, versioni di N. Risi, Milano, All'insegna del pesce d'oro, 1956. 126 P. J. Jouve, Poesie, a cura di N. Risi, con una presentazione di G. Ungaretti, Roma, Carucci, 1957. 127 G. Caproni, Il seme del piangere, Milano, Garzanti, 1959. 128 C. Bo (a cura di), Antologia di poeti negri. Traduzione italiana con testi originali e fronte, Firenze, Pa-

renti, 1954. 129 Tra le traduzioni francesi di Sereni negli anni Cinquanta occorre inserire anche quella di Non giurare

su niente di Alfred de Musset (Il ne faut jurer de rien) per il Piccolo Teatro di Milano e la regia di Giorgio Strehler. Lo spettacolo fu rappresentato il 20 aprile del ’51. 130 V. Pagano, Antologia dei poeti maledetti, s.l., Edizioni dell’albero, 1957. Di Pagano escono anche nel

’58 per la casa editrice Pajano di Galatina Francese antico, un’antologia di testi medievali francesi, e Il

poeta contumace di Tristan Corbière. 131 V. Scheiwiller (acura di), Poeti stranieri del '900 tradotti da poeti italiani, Milano, All’insegna del pesce

d’oro, 1955. 132 A. Bertolucci (a cura di), Poesia straniera del Novecento, Milano, Garzanti, 1958.

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ni (oltre che del curatore), di Pagano, Parronchi, Caproni, Luzi, Pasolini, Bigongiari,

Traverso, Sereni, Poggioli… Restando nell’ambito delle antologie, una menzione particolare merita, sempre

della Garzanti, la collana delle Antologie del saper tutto, il cui catalogo comprende

nel solo 1959 – «data importante nel panorama editoriale delle antologie»133 – L’idea simbolista di Mario Luzi (con contributi ancora di Bertolucci, Traverso, Parronchi,

Macrí, Pagano…) e Il movimento surrealista134 di Franco Fortini, volto a «presentare un profilo degli intenti surrealisti, con particolare riguardo alle loro applicazioni let-terarie e alle loro implicazioni politiche»135, con poesie edite e inedite da tutti i prin-cipali animatori del movimento (Breton, Éluard, Tzara, Artaud, Aragon, Char…). Sempre da Garzanti apparve poi la serie di tre antologie sul tema dell’umorismo a

cura di Attilio Bertolucci: Umoristi dell’Ottocento136 (con una traduzione dello stesso

Bertolucci da Georges Fourest, Fiori dei morti, e tre di Caproni da Franc-Nohain,

Lamento per il signor Benoît, Girotondo dei nipotini irriguardosi, Canzoncina del por-

133 B. Sica, Luzi e Fortini tra simbolismo e surrealismo, in G. Quiriconi (a cura di), Antologie e poesia nel Novecento italiano, Roma, Bulzoni, 2011, p. 113. Nonostante la diversità degli orientamenti dei due cura-

tori, entrambe le antologie hanno una radice in comune, ancora secondo la Sica (ivi, pp. 129-131), nell’ipotesi di «una rivoluzione della parola e della cultura che non ha ancora esaurito secondo loro le

sue fondamentali risorse […]. Luzi tenta di superare, attraverso la via della “naturalezza”, l’impasse del simbolo che aveva abolito la realtà; la sua è una posizione che si presenta consapevole dei propri mezzi

nei modi certi di una fede. In Fortini si avverte tutta la ferita di una speranza delusa, di un’aspettativa

disattesa. Mentre ne parla al passato, come di una vicenda conclusa, ormai superata e non più proponibi-

le, Fortini non riesce a staccarsi del tutto dal surrealismo e tenta in extremis di salvare il salvabile, di pro-

porre alcuni valori fondamentali del surrealismo in lotta per la liberazione dell’uomo […]. Nel 1959 però il surrealismo ha fallito agli occhi di entrambi, non è considerato più adatto o sufficiente né ad affermare

“che la conoscenza è al di fuori degli oggetti stessi della nostra ragione e dei nostri sensi” né a promuove-

re una “sconsacrazione linguistica” e un riesame della cultura e della politica del paese. Così Luzi si volge

a ciò che aveva preceduto il movimento bretoniano, recuperando le lontane origini del sogno e dell’inconscio e seguendo un cammino alternativo della parola per esprimere il lato non-razionale

dell’uomo e la dimensione non-scientifica dell’esistenza; mentre Fortini si impegna in una disamina del surrealismo e in una critica serrata della sua vicenda politica, rifugiandosi altrimenti nella bellezza e nella

resistenza al tempo di alcuni suoi prodotti artistici. Le differenze allora riguardano più i modi, o meglio i

mezzi, della riproposizione che non il suo fine. Considerate alla luce del contesto storico e del panorama culturale in cui escono, le due antologie si rivelano così meno distanti di come appaiono a prima vista:

contro un presente ristretto e un reale limitato al razionale, riconsiderano il passato per guardare a un futuro dagli orizzonti più vasti». 134 F. Fortini, Il movimento surrealista, Milano, Garzanti, 1959. 135 Ivi, p. 5. 136 A. Bertolucci (a cura di), Umoristi dell’Ottocento con i maestri del secolo diciottesimo che diedero inizio all’umorismo moderno, Milano, Garzanti, 1960.

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cospino), e soprattutto Gli umoristi del Novecento137 e Gli umoristi moderni138 (la se-

conda in coppia con Pietro Citati), nelle quali sono incluse numerose versioni di Ne-lo Risi (Cros, Apollinaire, Michaux, Prévert, Queneau), oltre a testi più ‘isolati’ anco-ra di Giorgio Caproni (Prévert, Jacob, Queneau) e Franco Fortini (Jarry).

3. Anni Sessanta

Il 1960 si apre con un’antologia del Teatro francese del grande secolo139, che riu-

nisce traduzioni di Vittorio Sereni (Jean Rotrou, Laura perseguitata), Mario Luzi e

Alessandro Parronchi (Jean Racine, rispettivamente Andromaca e Britannico), oltre a quelle di Montale, di Quasimodo, della Spaziani. L’anno seguente invece, in lar-ghissimo anticipo sui compagni-poeti di generazione, Piero Bigongiari dà alle stam-

pe il Vento d’ottobre140, cospicua antologia di versioni di poesie che svariano dal gre-co antico al francese, dall’inglese allo spagnolo, fino a singolari esperimenti di ‘con-trotraduzione’ dall’italiano al francese di un testo ungarettiano, e di autotraduzione in senso inverso.

Nel frattempo, salvo un esercizio ancora di Bigongiari141 nel ’61, i poeti tradutto-ri della terza generazione si allontanano (con poche deroghe) dal Cinque-Seicento francese. Il decennio appare dominato, invece, dalla figura di André Frénaud, che – al centro di una fortunata rete di amicizie – riesce a mobilitare una schiera davvero non ordinaria di poeti-traduttori. Il primo importante episodio ‘collettivo’ è il nume-ro del dicembre 1960 dell’«Europa Letteraria»142, sulle cui colonne si allineano le tra-

duzioni di Ungaretti di Tutto sarà in ordine, di Pasolini di Esortazione ai poveri, di

Caproni di Astri della notte e Passaggio della visitazione, mentre Fortini traduce Au-toritratto, Vigorelli Non c’è paradiso, la Spaziani Alba, Bertolucci Paese ritrovato, Se-

reni infine Ancienne Mémoire. Non sfugge l’importanza di questo esperimento:

In area italiana, un interessante e paradigmatico accostamento di tradut-tori-poeti giunge da «L’Europa Letteraria»: nel 1960 Giancarlo Vigorelli, allo-ra neodirettore della rivista, invita sette poeti italiani, Ungaretti, Pasolini, Ca-

137 Id. (a cura di), Umoristi del Novecento. Con alcuni singolari precursori del secolo precedente, Milano, Garzanti, 1959. 138 A. Bertolucci e P. Citati (a cura di), Gli umoristi moderni, Milano, Garzanti, 1961. 139 G. Macchia (a cura di), Teatro francese del grande secolo, Roma, ERI-RAI, 1960. 140 P. Bigongiari, Il vento d’ottobre. Da Alcmane a Dylan Thomas, Milano, Mondadori, 1961, p. 358. 141 Id., Un sonetto di Ronsard. «Cela il corno stanotte buona Luna», «Corriere d’informazione», Milano,

30-31 dicembre, p. 2. 142 Cfr. l’«Europa Letteraria», I, 5-6, dicembre 1960, pp. 87-91.

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proni, Fortini, Spaziani, Bertolucci, Sereni, includendosi poi nel convito, a

confrontarsi con la traduzione di alcuni testi lirici di André Frénaud. Una scelta decisamente innovativa se consideriamo che in nessun’altra pubblica-zione periodica dell’epoca, ad eccezione di una versione a più mani di Rabe-lais alcuni anni prima su «Il Caffè», è mai stata fatta una tale offerta al pubbli-co dei lettori143.

E nel corso dello stesso anno Caproni aveva già tradotto Les rues de Naples, Pre-miers échos de Sicilie, Douceur d’Ortige e Dans les lointains parages in «L’Approdo

Letterario»144, mentre Risi aveva fornito una versione di Perplessità su di una stella calda su «Il Caffè»145 e di altri quattro testi (Ho fabbricato la casa ideale, Un fumo, C’è di che nella mia casa, Spagna) su «Tempo presente»146. Proprio sul «Caffè» Caproni

avrebbe poi stampato, l’anno successivo, tre ulteriori versioni da Frénaud, Tomba di mio padre, Porto del canale a Monceau-les-mines e Bon-an Mal-an147. Nel 1962 è

Franco Fortini a tradurre un lungo poemetto del poeta francese, L’agonia del genera-le Krivitski148 per Il Saggiatore.

Ma è nel 1964 che l’attenzione corale rivolta a Frénaud culmina nel ben noto omaggio al poeta curato da Vanni Scheiwiller149 in cui convergono sedici versioni di quindici poeti (Solmi ne ha due), più un brano in prosa a cura di Elio Vittorini e un ritratto firmato da Ottone Rosai: ancora una volta, al genere dell’antologia si attri-buisce una funzione riepilogativa, stando alle parole di Enza Biagini:

[…] questo piccolo libro s’inserisce […] nel quadro di avvenimenti culturali un po’ fuori corso, come una sorta di richiamo e testimonianza di una genea-logia della tradizione poetica del ventesimo secolo, successiva ai movimenti d’avanguardia e situata tra la riscoperta del canto, del rilievo dato alla “grana

143 C. Gubert, Le belle infedeli: omaggio a Frénaud de «L’Europa Letteraria, in Id. (a cura di), Frammenti di Europa. Riviste e traduttori del Novecento, Pesaro, Metauro, 2003, p. 83. 144A. Frénaud, Poesie, tr. di G. Caproni, «L’Approdo Letterario», VI, 11, luglio-settembre 1960, pp. 21-31. 145 Id., Perplessità su di una stella calda, tr. di N. Risi, «Il Caffè», VIII, fascicolo 07/08, luglio-agosto 1960,

pp. 10-11. 146 Id., Quattro poesie, tr. di N. Risi, «Tempo presente», dicembre 1960, pp. 853-855. 147 Id., Tomba di mio padre e altro, tr. di G. Caproni, «Il Caffè», IX, 5, ottobre 1961, p. 9. 148 Id., L’agonia del generale Krivitski, tr. di F. Fortini, Milano, Il Saggiatore, 1962. 149 André Frénaud tradotto da Attilio Bertolucci, Giorgio Caproni, Luciano Erba, Franco Fortini, Mario Luzi, Giorgio Orelli, Alessandro Parronchi, Pier Paolo Pasolini, Nelo Risi, Vittorio Sereni, Sergio Solmi,

Maria Luisa Spaziani, Giuseppe Ungaretti, Diego Valeri, Elio Vittorini, Andrea Zanzotto con un ritratto di Ottone Rosai, Milano, All’insegna del pesce d’oro, 1964.

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della voce” e l’urgenza di temi esistenziali e impegnati – della poesia per la vita

– che sembravano allora sul punto di scomparire150. In seguito, tra il ’64 e il ’65, Caproni pubblica ancora un paio di traduzioni (su

l’«Approdo Letterario»151 e la «Fiera Letteraria»152), ricapitolando infine nel 1967 la sua ormai lunga attenzione a Frénaud curandone per Einaudi la prima antologia ita-

liana, Il silenzio di Genova e altre poesie, che comprende venticinque testi.

Accanto alle traduzioni da Paul Valéry nel 1960 di Luzi di Il cantico delle colon-ne153, di Tutino del Cimetière marin154 (in fitto dialogo con il prefatore Parronchi), e

la significativa pubblicazione delle Poesie a cura di Beniamino Dal Fabbro155 – che «può essere considerata la prima e completa trascrizione nella nostra lingua della sua opera poetica»156 – aumentano le traduzioni dai contemporanei: notevole l’esordio di

Zanzotto con la versione prima di alcuni testi di Michaux su «Il Caffè»157 nel 1960,

poi con 15 poesie in Ricordo di Paul Éluard in «Terzo Programma»158 nel 1963; anco-

ra nel ’60 Caproni traduce da Aragon (Santa Spina), Éluard (Novembre 1936, La vit-toria di Guernica), Supervielle (Ai due lati dei Pirenei), nell’antologia Romancero del-la Resistenza spagnola (1936-1959)159, a cura di Dario Puccini, e un testo di Cadou sulla «Fiera Letteraria»160; nel ’61 sia Bigongiari che Erba traducono Reverdy, rispet-

150 Enza Biagini, Antologie d’autore: Francis Ponge e André Frénaud in Italia, in G. Quiriconi (a cura di),

Antologie e poesia in Italia, cit., p. 157. 151 A. Frénaud, Il silenzio di Genova, tr. di G. Caproni, «L’Approdo Letterario», X, 27, luglio-settembre

1964, pp. 54-69. 152 Id., Ancora una volta, tr. di G. Caproni, «La Fiera Letteraria», 13 giugno 1965, p. 5. 153 P. Valéry, Cantique des colonnes suivi d'une traduction italienne de Mario Luzi et avec six lithographies originales de Felice Casorati, Milano, All'Insegna del Pesce d'Oro, 1960. 154 Id., Il cimitero marino, versione e commento di M. Tutino, prefazione di A. Parronchi, Milano,

All’insegna del pesce d’oro, 1962 [stampa 1963]. 155 Id., Poesie, tr. in versi di B. Dal Fabbro, Milano, Feltrinelli, 1962. 156 Ivi. p. 161. 157 H. Michaux, Testi scelti [Magia, La mia vita si arrestò, Il mio re, Sulla via della morte, Come pietra nel pozzo, Riposo nella sventura, Nausea, o è la morte che viene?, La mia vita], tr. di A. Zanzotto, «Il Caffè»,

VIII, n. 6, 1960, pp. 30-41. 158 A. Zanzotto, Ricordo di Paul Éluard, «Terzo programma. Quaderni trimestrali», 1, 1963, pp. 237-249. 159 D. Puccini (a cura di), Romancero della Resistenza spagnola (1936-1959), Milano, Feltrinelli, 1960. 160 R. G. Cadou, Tristezza, tr. di G. Caproni, «Fiera Letteraria», 24 luglio 1960. Altre traduzioni di Capro-ni di poeti minori appaiono nel ’64 su riviste come «La Soffitta» e «Persona»: traduce infatti Marc Alyn e

Robert Marteau «La soffitta», I, n. 1, aprile 1964, André Du Bouchet e Gérard Engelbach su «Persona», 5,

maggio 1964, e infine versioni di Georges-Emmanuel Clancier e Jacques Dupin, «Persona», n. 6, giugno 1964.

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tivamente sull’«Approdo Letterario»161 e in volume162; Risi presenta Queneau sul

«Caffè»163, mentre ancora Caproni pubblica alcune poesie di Char su «La Soffitta»164,

prima di curarne l’anno successivo assieme a Vittorio Sereni la raccolta Poesia e pro-sa165 per Feltrinelli (la versione sereniana dei Fogli d’Ipnos sarà poi ristampata da sola nel 1968 per Einaudi166). Un anno decisivo, il 1962, per la divulgazione dell’opera di Char, come puntualizza Bigongiari:

Ma qui da noi la poesia di Char, dopo un cenno fugace di Carlo Bo nel

’47, una breve nota di Macrí accompagnante la versione de Le tre sorelle nella «Libera Voce» di Lecce del 28 giugno 1947 e un successivo articolo parigino di

Montale sul «Corriere», e dopo la traduzione di Nous avons, per opera mia,

sul leccese «Critone» dell’agosto-ottobre 1958 (ora ne Il vento d’ottobre) e di

sei poesie, per opera di Bassani, nell’antologia Poesia straniera del Novecento curata da Bertolucci presso Garzanti sempre nel 1958, è conosciuta soprattut-to, sia pure non quanto merita, attraverso l’opera amorosa di traduzione di Giorgio Caproni che nel 1962 pubblicava, presso Feltrinelli, una vasta antolo-

gia, che ricalcava fin dal titolo, Poesia e prosa, la scelta fatta dallo stesso Char nel ’57 […]. In più il volume feltrinelliano […] è preceduto da una prefazione, una acuta presentazione, quale solo Caproni sa fare, con una penna che sem-bra divagare, ed è sempre lì a frugare nel cuore della questione. Infine, sempre nel ’62, io stesso, in un lungo saggio uscito l’anno dopo sulla rivista milanese «Questo ed altro», cercavo di dare una quanto più possibile compiuta visione d’insieme dell’opera del poeta, facendone il punto: un’opera difficile a defini-re, ma indubbiamente fondamentale nella poesia francese dell’ultimo tren-tennio, in cui rappresenta la forza della protesta e insieme la fede catacombale nell’esistenza decisiva dell’uomo in un universo minacciato167.

161 P. Reverdy, Strada che svolta, Spazio, tr. di P. Bigongiari, «L’Approdo letterario», VII, n. 14-15, aprile –settembre 1961, pp. 96-97. 162 Id., Paris-Noël, tr. di L. Erba, in M. de Rachewiltz e V. Scheiwiller (a cura di), Il Natale, Milano, All’insegna del pesce d’oro, 1961, pp. 97-99. 163 R. Queneau, Istante fatale, tr. di N. Risi, «Il Caffè», IX, 6, dicembre 1961, p. 27. 164 Alcune poesie di Char tradotte da Caproni appaiono su «La soffitta», I, n. 1, maggio-giugno 1961. 165 R. Char, Poesia e prosa, a cura di G. Caproni e V. Sereni, Milano, Feltrinelli, 1962. 166 Id., Fogli d’Ipnos: 1943-1944, prefazione e traduzione di V. Sereni, Torino, Einaudi, 1968. 167 P. Bigongiari, Char e il dolore dell’immagine, in Id., Poesia francese del Novecento, Firenze, Vallecchi, 1969, p. 215.

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Nel medesimo ‘62 Sereni aveva pubblicato Gli immediati dintorni che fra le nu-

merose prose inseriva alcune traduzioni, come quelle dai Cinque poeti negri (Léon-G. Damas, Etienne Léro, Léopold Sédar Senghor, Jean-Joseph Rabéarivelo, Jacques

Rabémananjara), da Pound (Studio d’estetica, In una stazione del metro, La commes-sa, Villanella I e II e III, Momenti di François-Marie Arouet (Voltaire)), Il pont Mira-beau di Apollinaire, Ancienne mémoire di Frénaud, Foto a colori in un calendario commerciale di W. C. Williams.

Tra i restanti lavori monografici spiccano l’ampia silloge di poesie di Blaise Cendrars curata da Luciano Erba per la Nuova Accademia di Milano nel ’61168, le traduzioni di Pierre Jean Jouve, sul quale Nelo Risi torna a più riprese per le Edizioni della Lanterna169 di Bologna (vi rivede e amplia i brani già tradotti nel ’57170) e per

Lerici171 di Milano; infine la controversa edizione Curcio delle Fleurs du mal a cura di Giorgio Caproni172. Da registrare, nel ’66, anche la seconda edizione ampiamente

riveduta delle Poesie173 di Éluard a cura di Franco Fortini. Un’ulteriore menzione merita poi la «Strenna del pesce d’oro per il 1962» dedicata al tema del Natale, che raccoglie poesie sulla principale festività cristiana tratte dalle maggiori letterature eu-ropee con traduzioni inedite – oltre alla già citata versione di Erba da Reverdy – di Nelo Risi da Apollinaire e Jacob, di Caproni da Frénaud (‘inedite’ in quanto ritocca-te), di Margherita Guidacci da Vicente Aleixandre e da Guillén, e già edite di Par-ronchi da Germain Nouveau, di Sereni da Williams, di Giovanni Giudici da Eliot…

4. Anni Settanta

Anche negli anni Settanta escono notevoli volumi di traduzioni ‘monografiche’: nel ’71 Bigongiari coinvolge Ungaretti, Erba e Jacqueline Risset in un’interessante

168 B. Cendrars, Poesie, a cura di L. Erba, Milano, Nuova Accademia, 1961. 169 N. Risi, Dal paradiso perduto di Pierre Jean Jouve, con un disegno di R. Birolli, Bologna, Edizioni della Lanterna, 1961. 170 Cfr. ivi, p. 69: «A distanza di anni ho sentito il bisogno di ritornare sulla bella favola della Genesi. Ho riveduto interamente la primitiva versione e allargato la scelta fino a comprendere una buona metà del

poema, avendo soprattutto a cuore la continuità della narrazione». 171 P. J. Jouve, Poesie, traduzione, introduzione, bio-bibliografia a cura di N. Risi, Milano, Lerici, 1963.

Questa edizione sarà sostanzialmente ripresa in P. J. Jouve, Conoscenza, dubbio, rivelazione: antologia poetica, a cura di N. Risi, con un'appendice di Ugo Salati, Milano, Accademia, Firenze, Sansoni, 1971. 172 C. Baudelaire, I fiori del male, comprese le poesie condannate, traduzione e introduzione di G. Caproni, con sedici tavole a colori di O. Tamburi, Napoli, Curcio, 1962. 173 P. Éluard, Poesie: con l’aggiunta di alcuni scritti di poetica, introduzione e traduzione di F. Fortini, To-rino, Einaudi, 1966.

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collaborazione per l’antologia mondadoriana di Francis Ponge Vita del testo174 (titolo

scelto dall’autore francese) che coglieva l’occasione per presentare al pubblico italia-no le opere di un poeta ancora non molto noto; nello stesso anno Caproni dà alle

stampe la ricca traduzione di Il n’y a pas de paradis di Frénaud175 (Rizzoli), seguita poi nel ’72 da quattro componimenti sulla «Fiera Letteraria»176. Ancora nel ’72 Nelo

Risi cura la traduzione integrale del Paradiso perduto177 di Jean Jouve, e nel ’73 Gio-

vanni Raboni pubblica la sua determinante versione delle Fleurs du mal178 di Baude-laire, su cui ritornerà più volte con un intenso lavoro variantistico che lo occuperà

per quasi tre decenni; la traduzione in prosa dei Fiori del male di Attilio Bertolucci

uscirà nel 1975. Dell’anno successivo, a cura di Vittorio Sereni, appare Ritorno So-pramonte179 di Char (uno dei poème en prose che lo compongono è tradotto più tardi

da Sereni anche su rivista180), mentre del ’79 sono le Poesie181 di Apollinaire a cura di Caproni; una raccolta significativa, questa, per la posizione strategica nella sua vi-

cenda di traduttore, già che, «se non fosse per una tarda Educazione sentimentale, si potrebbe parlare di Apollinaire come dell’ultimo autore tradotto [dal poeta]» (Dol-fi182).

174 F. Ponge, Vita del testo, a cura e con un’introduzione di P. Bigongiari, tr. di P. Bigongiari, L. Erba, J.

Risset, G. Ungaretti, Milano, Mondadori, 1971. Sull’antologia cfr. E. Biagini, Antologie d’autore, cit., p.

167: «Dunque, un’antologia tradizionale nella formula, che raccoglie in maniera esemplare testi tratti dalle raccolte maggiori (scritte tra il 1924 e il 1964). I traduttori intrecciano anche stavolta [oltre

all’antologia di Frénaud del 1964] più generazioni: da Giuseppe Ungaretti a Bigongiari, da Erba a Jacque-line Risset vi è uno scarto di almeno cinque generazioni, un fatto non privo di importanza. Ancora (co-

me per Frénaud) si tratta di traduttori eccezionali, poeti e specialisti in letteratura francese, pubblicati in

una collana di gran prestigio (“Lo Specchio” di Mondadori). Luciano Erba e Jacqueline Risset hanno svolto il lavoro di traduzione più considerevole (16 pezzi Erba e 24 Jacqueline Risset). Ungaretti ha tra-

dotto una lunga lirica (Le pré) e un brano di riflessioni pongiane su Fautrier, altrettanto lungo. A Bigon-

giari, traduttore de La nouvelle araignée, spettano in egual misura il merito della composizione

dell’antologia e d’un penetrante studio critico». 175 A. Frénaud, Non c'è paradiso: 1943-1960, tr. e note di G. Caproni, introduzione di S. Agosti, Milano,

Rizzoli, 1971. 176 Id., Quando il deserto minaccia, Morto l’anno, Senza amore, Se l’amore fu, tr. di G. Caproni, «La Fiera

Letteraria», 16 gennaio, p. 15. 177 P. J. Jouve, Paradiso perduto, introduzione e traduzione di N. Risi, Torino, Einaudi, 1972. 178 C. Baudelaire, Poesie e prose, a cura di G. Raboni, introduzione di G. Macchia, Milano, Mondadori, 1973. 179 R. Char, Ritorno sopramonte e altre poesie, cit.. Una traduzione, quella di Tradition du mètéore, è a cura di Bigongiari, un autore spesso chiamato in causa da Sereni anche sul versante critico. 180 Id., Déclarer son nom, tr. di V. Sereni, «Sul Porto», 7, febbraio 1979. 181 G. Apollinaire, Poesie, tr. di G. Caproni, introduzione e note di E. Guaraldo, Milano, Rizzoli, 1979. 182 A. Dolfi, «Trascrivere per violino». Caproni e un’antologia di Apollinaire, in Id. (a cura di), Antologie e poesia nel Novecento italiano, cit., p. 137.

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Escono numerose anche le traduzioni di Fortini: nel ’74 Pier Vincenzo Mengal-

do ne cura le Poesie scelte183 includendovi senza testo a fronte (oltre a versioni da

Kao Che, Goethe, Brecht) le traduzioni di Le crépuscule du soir-La sera di Baudelaire,

Bardi e corde di Jarry, e Per vivere qui e Il muro di Paul Éluard; nel ’77 esce un rifa-

cimento del Movimento surrealista in collaborazione con Lanfranco Binni, e nel ‘78

la traduzione della quinta parte di Mémoire di Rimbaud nel fascicolo del Premio Monselice184 di quell’anno. Per concludere la rassegna infine Bigongiari traduce Yves Bonnefoy185 nel ’75, mentre verso la fine del decennio escono la decisiva versione di

Luzi di Le vierge, le vivace et le bel aujourd’hui di Mallarmé su «Tuttolibri»186, e Sere-

ni traduce otto poesie di Apollinaire per l’«Almanacco dello Specchio»187.

5. Anni Ottanta

Il decennio prosegue l’intensa attività di traduzioni di Apollinaire che aveva chiuso il precedente: protagonisti ancora Vittorio Sereni e Giorgio Caproni. Sereni

infatti nel 1980 pubblica Eravamo da poco intanto nati come «Strenna per gli amici

di Paolo Franci» (Scheiwiller188), dove confluiscono una quindicina di testi in parte riediti l’anno successivo, assieme ad altri di Raboni, per Il Saggiatore189 e poi di nuo-vo nell’84 per Mondadori190; Caproni da parte sua aveva visto prima includere dal

curatore Raboni ben otto traduzioni da Apollinaire in L’ultimo borgo (Il gambero,

Corni da caccia, L’addio del cavaliere, Esercizio, L’avvenire, da Vedetta malinconica,

Le campane, I colchici), la raccolta uscita da Rizzoli191 nel 1980, e poi aveva pubblica-

to nove traduzioni (I colchici, Marizibill, Notte renana, Le campane, Corni da caccia,

183 F. Fortini, Poesie scelte: 1938-1973, a cura di P. V. Mengaldo, Milano, Mondadori, 1974. 184 Id., Da Mémoire di Rimbaud in memoria di Diego Valeri, in Premio Città di Monselice per una tradu-

zione letteraria, VII vol., a cura dell’amministrazione comunale, Monselice 1978, p. 22. 185 Y. Bonnefoy, Nell’inganno della soglia, tr. di P. Bigongiari, «L’Approdo Letterario», Torino, XXI, 70,

giugno, pp. 24-46. 186 S. Mallarmé, Le vierge, le vivace et le bel aujourd’hui, tr. di M. Luzi, «Tuttolibri», IV, 31, 12 agosto

1978. 187 Le otto traduzioni di Sereni da Apollinaire si trovano in Almanacco dello Specchio n. 8, Milano, Mon-

dadori, 1979. 188 G. Apollinaire, Eravamo da poco intanto nati, tr. di V. Sereni, Strenna per gli amici di Paolo Franci,

Milano, Scheiwiller, 1980. 189 Id., Da Alcools, a cura di S. Zoppi, versioni a fronte di G. Raboni e V. Sereni, Milano, Il Saggiatore,

1981. 190 Id., La chiamavano Lù e altre poesie, tradotte da G. Raboni e V. Sereni, introduzione di A. Giuliani,

Milano, Mondadori, 1984. 191 G. Caproni, Traduzioni da Apollinaire in L’ultimo borgo, Milano, Rizzoli, 1980.

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La chiamavano Lu, L’addio del cavaliere, Esercizio, Andiamo più svelti) negli Scritti in onore di Giovanni Macchia192 dell’83. Proprio questi contributi dedicati a Macchia

si rivelano un appuntamento d’eccezione sul piano traduttivo, già che la sezione Let-teratura e fantasia accoglie, oltre a quelle di Caproni, versioni di Sereni da Char in

versi e prosa (Pieno impiego, Avessimo, Maurice Blanchot, voluto rispondere solo…,

Per M. H., La sega trasognata, Dine, Permanente invisibile, Giaciglio, Nell’ora che le strade frantumano il loro tenero dono, Fossile sanguinario), di Erba da Saint-Amant

(L’estate di Roma, con testo a fronte), di Luzi da Mallarmé (da La Chevelure vol d’une flamme, da Le Vierge, le vivace et le bel aujourd’hui, da L’Après-midi d’un fau-ne), oltre che di Solmi da Queneau, Luciana Frezza da Apollinaire, Muscetta da Bau-delaire.

Fra le traduzioni ‘monografiche’ spiccano le Poesie193 di Proust tradotte da For-tini per Einaudi nel 1983, mentre risale all’anno successivo un esperimento singolare

come quello delle Lodi del corpo femminile, in cui una schiera eterogenea di poeti cu-

ra la traduzione dei cinquecenteschi Blasons du corps féminin: tra questi – oltre a Giovanni Raboni, Valerio Magrelli, Cesare Viviani, Maurizio Cucchi, Antonio Porta,

Tiziano Rossi e altri – si annoverano anche Vittorio Sereni, traduttore di Le front di Maurice Scève, e Giovanni Giudici, protagonista in questa sede della sua unica ver-

sione dal francese, il testo anonimo, Le… Nel frattempo in volume e su rivista appaiono alcune versioni di Bigongiari da

Michaux194 (prose) e da Racine195; ancora dell’83 è la traduzione di Luzi di un sonetto

di Mallarmé, Quand l’ombre menaça de la fatale loi, su «Lingua e Letteratura»196, cui

segue sulla stessa rivista diretta da Carlo Bo nel 1987 un manipolo di traduzioni di Bigongiari senza testo a fronte risalenti al 1962-1985 (con l’eccezione di un testo da Ronsard del 29 settembre ’55): oltre al Ronsard sono comprese poesie di Scève, Re-

192 Scritti in onore di Giovanni Macchia, Milano, Mondadori, 1983, 2 voll. 193 M. Proust, Poesie, tr. di F. Fortini, Torino, Einaudi, 1983. 194 P. Bigongiari, Da Lointain intérieur di Henri Michaux: Vi scrivo da un paese lontano in R. Copioli (a

cura di), Tradurre poesia, Brescia, Paideia, 1983, pp. 318-321. 195 C. Racine, E l’acqua altrove; Quando vengo, tr. di P. Bigongiari, «Salvo Imprevisti», Firenze, XII, 35-36, maggio-dicembre 1985, p. 13. 196 Bigongiari pubblica Rerum vulgarium fragmenta, «Lingua e Letteratura», V, 8, maggio 1987, pp. 97-

103. I testi sono: dalla Délie di Scève: Dizain VII, Dizain LXXIII, Dizain CCCLXXVI, Dizain CCCCXV,

tradotti tra il luglio e il settembre 1962; dalle Odi, Libro IV di Pierre de Ronsard, l’Ode anacreontica XXXI; da La lucarne ovale di Pierre Reverdy, Cuore di piombo, tradotta il 12 gennaio ’67; da Le nu perdu

di René Char, Settentrione del 25 maggio ’66 e Tradizione della meteora del 27 settembre 1968 (già ap-

parsa però in Ritorno sopramonte curata a Sereni nel 1974), da La nuit talismanique, Rondinella del 4

giugno 1972; da Al margen di Jorge Guillén, I gabbiani innumerevoli del 18 febbraio 1964; da Mohn und Gedächtnis di Paul Celan, Cristallo del 1972.

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verdy, Char, Guillen e Celan, pensate come integrazione al Vento d’ottobre (da ag-

giungere in un’ipotetica seconda edizione mai realizzata) che desse conto della sua attività traduttiva posteriore al libro del ‘61197. Anche Bigongiari in tal modo parteci-pa, seppure su un piano intenzionale, a quello che è il vero, determinante contrasse-gno della storia del tradurre negli anni Ottanta, e cioè il fiorire delle antologie perso-nali dei traduttori della terza generazione, in evidente risposta a un’istanza riepiloga-tiva avvertita fortemente dal pubblico dei lettori di poesia quanto dagli autori mede-simi. Dopo la provvisoria uscita delle versioni di Luzi198 nel 1980, è Einaudi a lancia-re un ambizioso progetto editoriale volto a fare il punto delle esperienze dei princi-pali poeti traduttori italiani viventi; un progetto, questo, realizzatosi solo a metà, come riferisce Mengaldo:

Nei primissimi anni ottanta Franco Fortini e il sottoscritto avemmo, con

singolare e significativa indipendenza, l’idea di proporre a Giulio Einaudi una serie di auto-antologie dei maggiori poeti traduttori italiani (esclusi, si capi-sce, quelli già ospitati altrove e anche in forma “completa”, come Ungaretti o Montale o Quasimodo); l’Editore accolse la proposta con l’entusiasmo acuto, culturalmente ed editorialmente, che lo fanno unico. Uscirono così a ruota,

scelte personali di versioni poetiche di Sereni (Il musicante di Saint-Merry),

dello stesso Fortini (Il ladro di ciliege), di Giudici (Addio, proibito piangere), di

197 Le traduzioni di Bigongiari sono accompagnate da un Codicillo che spiega la genesi dei testi accompa-gnandoli a una sintetica nota ‘traduttologica’: «Spigolando fra le traduzioni che tentate in tempi diversi

mi è accaduto di compiere come esercizio sotterraneo al capire, ne raccolgo qui un mannello di inedite,

dietro la sollecitazione dell’amico Sergio Pautasso. Ricordo che ne Il vento d’ottobre (Milano, Mondado-

ri, Lo Specchio, 1961) raccolsi quanto di poesia occasionalmente avevo tradotto fin allora. Qui, esclusa l’anacreontica ronsardiana la cui volgarizzazione risale al ’55, propongo quanto mi è accaduto di tradur-

re successivamente. Ne restano fuori Henri Michaux (Vi scrivo da un paese lontano), Yves Bonnefoy

(Nell’inganno della soglia) e Charles Racine (E l’acqua altrove; Quando vengo) perché, già altrimenti edi-

te, tali composizioni credo siano anche facilmente reperibili. L’intenzione dell’autore – che dico, di colui che tradit, cioè trasmette, tramanda, e traducit, cioè trasporta al di là del testo un testo ne varietur, ed è

qui la contraddizione ineliminabile, perché, il meschino, crede di trasportare un testo in un altro testo -,

è di raccogliere il tutto in una eventuale seconda edizione de Il vento d’ottobre: cioè di affidare questi fo-

gli sibillini al vento – che è quello della sua natura bilanciata -, questo sbilanciamento di un peso specifi-co, quello poetico, che nessuna bilancia può calcolare. Resti pertanto questo un piccolo sorso della gran-

de sete: frammenti d’un lampo, essenze dell’oblio, segni, si perdonino, di una volontà altrettanto bene

intenzionata quanto male applicata. Ma soprattutto perdonate al cocchiere che invece di riportare i ca-valli nella stalla, li riporta nelle brughiere pericolose della loro libertà. Il fatto è che il tremito e il fremito

non si confondono nell’immobilità di testi diversi». 198 M. Luzi, Francamente (versi dal francese), Firenze, Nuovedizioni Vallecchi, 1980.

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Luzi (La cordigliera delle Ande); poi la serie si bloccò, per motivi diciamo di

forza maggiore199. Per l’esattezza l’antologia di Sereni200 esce nel 1981 (ancora con un titolo apolli-

naireano, ricavato da una traduzione inedita), quelle di Fortini201 (con nuove tradu-zioni da Baudelaire e Queneau) e di Giudici202 nel 1982, mentre la raccolta luziana203 appare nel 1983, recuperando e integrando la precedente antologia fiorentina. Da

Vallecchi uscirà poi nell’89 il Quaderno francese204 di Alessandro Parronchi. Da segnalare infine (ancora nel 1989) la ripresentazione di Oreste Macrí, con si-

gnificativi aggiornamenti e ritocchi, del suo capillare studio sul Cimetière marin205 di Valéry.

6. Anni Novanta e Duemila

L’ultimo decennio del secolo vede proseguire la pubblicazione di importanti an-

tologie personali, come le Traduzioni e imitazioni206 di Attilio Bertolucci, incluse

nell’edizione garzantiana delle Poesie del 1990 e poi ampliate per Scheiwiller207 nel

1994, Dei cristalli naturali208 di Luciano Erba (1991) – con traduzioni inedite da Ro-

denbach e Machado – e Compito di francese209 di Nelo Risi (1994) per Guerini e As-

sociati di Milano, e ancora il – fin troppo a lungo rimandato – Quaderno di tradu-zioni210 di Giorgio Caproni (Einaudi, 1998).

199 P. V. Mengaldo, Premessa a G. Caproni, Quaderno di traduzioni, a cura di E. Testa, prefazione di P. V.

Mengaldo, Torino, Einaudi, 1998. Il progetto in fieri era stato annunciato proprio da Fortini in «Il Musi-cante di Saint Merry» in Nuovi saggi italiani, Milano, Garzanti, 1987, p. 166: «Tanto per essere chiaro:

questo bellissimo libro di Sereni si colloca all’inizio di una serie dell’editore Einaudi. La serie vorrebbe accogliere libri che il poeta possa considerare come propri sebbene composti di traduzioni; serie che ho

proposto io medesimo e che ci si augura di poter accogliere opere di Luzi, Giudici, Caproni, Zanzotto». 200 V. Sereni, Il musicante di Saint-Merry e altri versi tradotti, Torino, Einaudi, 1981. 201 F. Fortini, Il ladro di ciliege e altre versioni di poesia, Torino, Einaudi, 1982. 202 G. Giudici, Addio, proibito piangere e altri versi tradotti (1955-1980), Torino, Einaudi, 1982. 203 M. Luzi, La Cordigliera delle Ande e altri versi tradotti, Torino, Einaudi, 1983. 204 A. Parronchi, Quaderno francese. Poesie tradotte con alcuni commenti, Firenze, Vallecchi, 1989. 205 O. Macrí, Il cimitero marino di Paul Valéry. Studi, testo critico, versione metrica e commento, Firenze, Le Lettere, 1989. 206 A. Bertolucci, Traduzioni e imitazioni in Id., Le Poesie, Milano, Garzanti, 1990. 207 Id.., Imitazioni, Milano, Scheiwiller, 1994. 208 L. Erba, Dei cristalli naturali e altri versi tradotti (1950-1990), Milano, Guerini e Associati, 1991. 209 N. Risi, Compito di francese e d’altre lingue, introduzione di F. Buffoni, Milano, Guerini e Associati,

1994. 210 G. Caproni, Quaderno di traduzioni, cit.

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Fra gli altri traduttori restano attivi Parronchi, che pubblica traduzioni da Bau-

delaire nel 1996211, nel 1999212 e nel 2002213, Fortini214, Erba, il quale – oltre ad aver

ristampato la traduzione dei Navigli di Milano di Frénaud215 nel 1991, Paris-Noël di

Reverdy216 nel 1993 e la Prose du Transsibérien et de la petite Jeanne de France di Cendrars217 nel 2005 – traduce Villon218, Rodenbach (più volte) su «Testo a fronte»219 e Bernard Simeone su «Resine»220 nel 2002, e infine Zanzotto, che nel 1991 pubblica

una traduzione da Ronsard221, nel 1997 una versione di Les pas222 di Valéry e nel

2004, in un volume omaggio a Rimbaud una traduzione della Chercheuses de poux223. Il decennio si chiude (e apre il successivo) con due inediti postumi: in primo luogo

nel 2008 la Marsilio pubblica la traduzione ampiamente rivista dei Fiori del male di

Caproni224, successiva a quella ripudiata dell’editore Curcio, mentre nel 2010 escono

quarantasette versioni di Vittorio Sereni225 da Char rimaste escluse da Ritorno so-pramonte.

Nel frattempo il mercato editoriale continua a sfruttare largamente e a ripropor-re al pubblico le traduzioni dei poeti di terza e quarta generazione, ormai entrati sta-bilmente al centro del canone poetico novecentesco: lo testimoniano fra le altre le

ristampe fra gli anni Novanta e Duemila di antologie come Non c’è paradiso di Fré-

211 C. Baudelaire, Confessione, tr. di A. Parronchi, in Miscellanea di studi in ricordo di Clementina Roton-di, «Copyright. Miscellanea di studi marucelliani», 1996, pp. 25-28. 212 A. Parronchi, Una traduzione da Baudelaire, «Hortus», 22, 1998, pp. 78-81. 213 C. Baudelaire, Confession e L’irrémédiable, tr. di A. Parronchi, «Resine», 93, luglio-settembre, pp. 18-

23. 214 Id., Due epigrammi, tr. di F. Fortini, «Testo a Fronte», II, 3, 1990. 215 A. Frénaud, I navigli di Milano, tr. di L. Erba, «Testo a Fronte», 4, 1991, pp. 150-151. 216 P. Reverdy, Paris-Noël, tr. di L. Erba, «Testo a Fronte», V, 9, 1993, pp. 126-127. 217 L. Erba, Un po’ di repubblica: con una traduzione da Blaise Cendrars, Novara, Interlinea, 2005. 218 F. Villon, Ballades et Rondeaux su Testament, Costigliole Radicati, All’insegna del Lanzello, 1992, pp.

59-92. 219 Erba traduce di Rodenbach, Vieux quais nel n. 13 dell’ottobre 1995, pp. 138-139, La pluie nel n. 16,

marzo 1997, pp. 160-161, e Douceur du soir nel n. 17 dell’ottobre dello stesso anno, pp. 198-199. 220 B. Simeone, Coda, tr. di L. Erba, «Resine», 92, aprile-giugno 2002, pp. 95-98. 221 P. de Ronsard, Le ciel ne veut, Dame, que je jouisse,«Testo a fronte», 4, marzo 1991, pp. 146-147. 222 P. Valéry, Les pas, tr. di A. Zanzotto, «Testo a Fronte», 18, marzo 1998, pp. 258-259. Nello stesso nu-

mero si trova anche la traduzione del Cantique des colonnes di Luzi, pp. 252-257. 223 A. Rimbaud, Les chercheuses de poux, tr. di A. Zanzotto in Da Rimbaud a Rimbaud. Omaggio di poeti

veneti contemporanei con dodici opere figurative originali, a cura di M. Munaro, Rovigo, Il ponte del sale, 2004, p. 40. 224 C. Baudelaire, I fiori del male, tr. di G. Caproni, introduzione e commento di L. Pietromarchi, Vene-zia, Marsilio, 2008. 225 R. Char – V. Sereni, Due rive ci vogliono. Quarantasette traduzioni inedite, con una presentazione di P. V. Mengaldo, a cura di E. Donzelli, Roma, Donzelli, 2010.

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naud e le Poesie di Apollinaire tradotte da Caproni, Ritorno sopramonte di Char da

Sereni, Poesie di Jean Jouve da Risi. È dunque la ripresentazione di testi per lo più confezionati nel corso degli anni Sessanta-Settanta, e che in un certo qual modo sug-geriscono di collocare a quell’altezza il vero momento di svolta verso strategie della traduzione ancor oggi avvertite come ‘contemporanee’, segnando un definitivo af-francamento dalle ultime pratiche stilistiche di memoria ermetica e inaugurando un capitolo di storia della traduzione ancora lontano dall’esaurirsi.

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Beniamino Dal Fabbro, un traduttore alle soglie dell’ermetismo

1. Della classe del ’10, il bellunese Beniamino Dal Fabbro sembra vocato (anche geograficamente) a occupare una posizione di confine nella vicenda della compagine ermetica. Studente a Firenze negli anni Trenta, prima di trasferirsi a Milano, la sua posizione quantomeno di ‘fiancheggiatore’ del movimento è provata dalle sue colla-borazioni a «Campo di Marte», sulle cui colonne scrisse di letteratura francese fir-mando traduzioni in prosa da Mallarmé e Valéry, e curando una rubrica dal titolo

Selva di Francia; il contributo più sostanzioso di Dal Fabbro all’estetica ermetica ri-

guarda però i Paragrafi sul tradurre (poi recuperati, con variazioni, nella prima edi-

zione della Sera armoniosa226) nei quali espose una sorta di ‘programma’ fondato sui temi dell’autonomia dell’«imitazione» rispetto al testo fonte, del rifiuto a livello teo-rico dell’impossibilità del tradurre, della sola dignità della traduzione creativa rispet-to a qualsivoglia pretesa di oggettività. Principi che rinviano a un protocollo perso-nale, ma che ambivano a esprimere un’attitudine condivisa, come quasi trent’anni dopo l’autore avrebbe ancora ribadito al momento di introdurre la seconda edizione della sua antologia di versioni:

Come oppressi da un tradizionale senso di colpa, di rado i traduttori ri-

nunciano a giustificarsi con la dichiarazione e la difesa dei loro cosiddetti cri-

teri di lavoro […]. Anch’io, ai tempi della prima Sera armoniosa, e in appen-

dice al volume, v’ho sacrificato con ventitré paragrafi Del tradurre, i quali tut-

tavia, nella loro formulazione volutamente allusiva e per immagini, intende-vano suggerire una sorta di manifesto, delineando una compendiosa estetica della traduzione di poesia. Partendo dal concetto classico di “imitazione”, ca-ro a Leopardi, i miei paragrafi svolgevano una teoria della traduzione in versi quale opera autonoma del poeta-traduttore, parafrasi e trascrizione del testo, bastante a se stessa, operazione non linguistica ma di linguaggio, creazione ri-flessa ma non necessariamente in sott’ordine al testo primitivo. Erano idee

226 B. Dal Fabbro, La sera armoniosa, Milano, Rosa e Ballo, 1944.

Leonardo Manigrasso, Capitoli autobiografici : poeti che traducono poeti dagli ermetici a Luciano Erba ISBN 978-88-6655-502-5 (online), CC BY-NC-ND 3.0 IT, 2013 Firenze University Press

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non soltanto mie, ma di quanti allora operavano in quella temperie, a cui ac-

cennavo in principio, di fiducia nella poesia227. Eppure, nonostante questa partecipazione attiva all’articolarsi dell’estetica erme-

tica228, i termini del suo effettivo radicamento nella terza generazione fiorentina sono ancora da definire: se infatti da un lato la sua iscrivibilità nella rassegna dei traduttori ermetici è affermata, ad esempio, da Franco Fortini229, dall’altro Luciano Anceschi

227 Id., La sera armoniosa, Milano, Rizzoli, 1966, p. 14. In seguito, ove non specificato, il titolo La sera

armoniosa rinvierà alla citata antologia di Dal Fabbro del 1944; nel caso in cui invece il riferimento vada alla seconda edizione, il titolo sarà seguito dall’indicazione [66]. Teorie complementari sono allegate da

Dal Fabbro anche al volumetto di traduzioni di P. Valéry, Gli incanti, Milano, Bompiani, 1942, p. 155: «Dei componimenti tradotti, libero ciascun lettore di stabilire o di arguire il rapporto, stretto forse quan-

to meno palese, con i primitivi, da cui essi derivano materia e slancio: i quali, come sono conformati,

non pretendono di riprodurli meglio di quanto, riguardo gli Charmes francesi, lo possano gli italiani In-

canti, ma piuttosto, riesprimendoli secondo i modi della nostra letteratura e d’una qualche tecnica del verso e della strofe, di attingere talvolta a una propria poesia, se anche riflessa». Per una nota sulla mo-

dernità degli scritti sulla traduzione di Dal Fabbro, anticipatori di talune posizioni critiche di Meschon-

nic e Venuti, cfr. E. Mattioli, Poeti antichi e moderni tradotti da ‘Lirici Nuovi’, «Testo a Fronte», 38, set-

tembre 2008, poi in Id., L’etica del tradurre e altri scritti, Modena, Mucchi, 2009, pp. 85-88. 228 I rapporti con l’ermetismo, debiti compresi, furono sempre espressamente riconosciuti da Dal Fabbro,

come ad esempio ancora nell’introduzione a La sera armoniosa [66], p. 9: «Era in atto, in quegli anni, una restaurazione lirica, il plausibile progetto d’una nuova “scuola” di poesia, i cui fondamenti di comu-

ne linguaggio, via via proposti e svolti, se favorivano i manieristi, com’è sempre accaduto in simili circo-stanze e com’è inevitabile che accada, cominciavano a consentire a ciascun poeta una più precisa, abbre-

viata e personale ricerca d’espressioni e di forme. Da questa poesia, ermetica o no che fosse, e dai suoi

caratteri stilistici, derivò necessariamente una rinata e diversa fiducia nella traduzione di poesia […]». È altrettanto vero tuttavia che Dal Fabbro diffida da quelle che definisce «traduzioni di gusto», ossia le ver-

sioni uniformate a un linguaggio ‘sincronico’, significante cioè nella cornice della propria epoca ma a rischio – proprio per questo suo radicamento nel proprio tempo – di una rapida svalutazione, per cui cfr.

il dodicesimo dei Paragrafi sul tradurre: «Le traduzioni di gusto, quelle voglio dire che tentano d’adeguarsi, per mezzo di un diligente spoglio di vocaboli e di costrutti in uso, all’aura stilistica in un

certo periodo letterario condivisa da un gruppo di poeti tra di loro contemporanei, poiché prive di per-sonali compromissioni rischiano di non superare l’anno, subito cancellate dal volubile soffio della mo-

da». 229 F. Fortini, I poeti del Novecento, Bari, Laterza,1977, p. 105. Alla stessa maniera Dal Fabbro è incluso

nella compagine dei traduttori ermetici della poesia francese in R. Luperini, Il Novecento, Torino, Loe-scher, 1981, pp. 609-610: «Ovviamente, dietro questo tecniche c’è la “magia bianca” di Valéry, il surreali-

smo di Éluard, la lezione, soprattutto, di Mallarmé (tradotto ora in una chiave ermetizzante ben diversa da quella delle prime traduzioni di Marinetti e di Soffici negli anni della prima guerra mondiale). Le loro

poesie sono volte in italiano da Dal Fabbro, Luzi, Parronchi, Bigongiari: non solo per la prosa, dunque,

ma anche per la poesia questa è l’età delle traduzioni (sebbene i poeti stranieri siano spesso assunti a pre-testo per personali rifacimenti e, sempre, a luogo di individuale sperimentazione)».

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tende a ‘retrocederlo’ alla generazione di traduttori precedente: quella degli Ungaret-

ti, dei Solmi, dei Quasimodo230... 2. Al fine di collocare la figura di Dal Fabbro nel quadro della costellazione er-

metica è possibile pescare nel folto mazzo dei testi tradotti da più protagonisti della generazione fiorentina. Approfittando ad esempio del comune impegno dedicato all’importazione dei modelli simbolisti, è possibile far interagire le due traduzioni di

Tête de faune di Rimbaud pubblicate da Dal Fabbro231 e Mario Luzi232.

230 Cfr. L. Anceschi, I poeti traducono poeti, in R. Copioli (a cura di), Tradurre poesia, Brescia, Paideia, 1983, p. 16: «Nelle diverse prospettive tutti [Ungaretti, Solmi, Quasimodo, Dal Fabbro] apparivano

d’accordo nella convinzione che il diritto di manipolare i modelli del passato o di altre letterature acqui-sta un suo accento di autenticità solo se esso si presenti come un ritrovare se stessi nell’altro, e, nello stes-

so tempo, come un essere nella letteratura cui si appartiene, un ridare il testo quasi fosse stato scritto e

pensato in italiano». Ancora su Dal Fabbro, cfr. L. Anceschi – D. Porzio, Poeti antichi e moderni tradotti

dai lirici nuovi, Milano, Il Balcone, 1945, p. 18: «E che diremo di Dal Fabbro, così arguto teorico del tra-durre, di quel suo far rivivere i testi di una traduzione “moderna” nel gusto di un dorato classicismo di

saldo impianto letterario e come di castissima devozione? A lui dobbiamo prove di alto impegno di mo-ralità letteraria: la ripresa di certe liriche di Rodenbach di rarissimo gioco tra sentimento crepuscolare e

simbolista; l’“imitazione” di Charmes e di altri testi difficili; e tale e di tanto affetto scaldato è il suo sen-timento dell’esercizio dell’arte secondo una ben articolata e conveniente idea del tradurre, che, attraverso

un “lavorio” assiduo e legatissimo, la sua scrittura acquista una letizia di teso e latente calore, di penna amorosissima: “una disposizione a tradurre si riconosce autentica quando sia amore di esprimere se stes-

si, naturale amore di se stessi e della letteratura cui si appartiene”». 231 Quanto a Dal Fabbro, l’intenzione di mettere a fuoco nelle sue traduzioni la stagione simbolista è un

dato quasi programmatico, per cui cfr. La sera armoniosa [66], cit., p. 10: «La più vagheggiata di queste

intellettuali terre di conquista aveva un nome che allora sembrava assai meno vago di quanto non lo sia oggi: Simbolismo. Era il Simbolismo francese, soprattutto, ma anche tedesco ed europeo in senso lato:

sino all’irlandese Yeats e al danese Jacobsen a Nord, e a Est sino ai russi dell’Acmeismo, del Supremati-smo. C’era anche, nel mio e nostro desiderio d’aggregarci la suggestiva provincia del Simbolismo, il pro-

posito d’ammodernare la poesia italiana più direttamente di quanto non avesse tentato di fare D’Annunzio coi suoi dissimulati imprestiti dai francesi, d’immettervi una poesia che, nei decenni tra i

due secoli, s’era svolta parallelamente alla nostra, ma che i poeti italiani, sempre propensi a scambiare nazionalismo per classicismo, avevano ignorato o quasi, o avevano imitato, qua e là, di seconda mano, e

più negli atteggiamenti esteriori che nello stile». 232 Sulla ricezione luziana ed ermetica in generale di Rimbaud, cfr. M. Luzi, Nel cuore dell’orfanità, in A.

Rimbaud, Opere complete, Torino, Einaudi-Gallimard, 1992, poi in M. Luzi, Naturalezza del poeta. Saggi

critici, a cura di G. Quiriconi, Milano, Garzanti, 1995, pp. 263-264: «Quel periodo di effervescente coo-perazione tra uomini molto diversi nel tema unificante del messaggio e del linguaggio poetico e che fu

poi detto Ermetismo non aveva numi esclusivi, ma Rimbaud era un sottinteso oppure un esplicito rife-rimento onnipresente. Può darsi che la poetica di Mallarmé più simile a un teorema formulato abbia

finito per accentrare il dibattito generale che proprio in quegli anni Trenta fu ripreso ab imis in toto co-me se i segnali del passato decennio non avessero alcuna importanza. Nei fondamenti dell’Ermetismo,

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Di seguito, il testo francese233, composto probabilmente nel 1871, con allegate le

due traduzioni234:

Tête de Faune

Dans la feuillée, écrin vert taché d’or, Dans la feuillée incertaine et fleurie De fleurs splendides où le baiser dort, Vif et crevant l’exquise broderie, Un faune effaré montre ses deux yeux Et morde les fleurs rouges de ses dents blanches. Brunie et sanglante ainsi qu’un vin vieux, Sa lèvre éclate en rires sous les branches. Et quand il a fui – tel qu’en écureuil – Son rire tremble encore à chaque feuille, Et l’on voit épeurè par un bouvreuil Le Baiser d’or du Bois, qui se recueille.

Testa di Fauno di Dal Fabbro Testa di Fauno di Mario Luzi

Dentro lo scrigno verde a macchie d’oro Nel fogliame, crin verde a chiazze d’oro, del fogliame indeciso e di sgargianti entro il fogliame incerto, sotto il ramo corolle sparso dove il Bacio posa, di fiori accesi in cui il bacio ha ristoro, squarciando tal vago ricamo un vivo vivo, fendendo il fragile ricamo

ammesso che si possano usare questi termini, la sostanza di Rimbaud è colata come in un indurito amal-gama». 233 Pur contando il componimento su una doppia tradizione, entrambi i traduttori si rifanno alla stessa stesura: non a quella pubblicata da Verlaine su «La Vogue» il 7 giugno 1886, ma alla seconda, divulgata

solo all’altezza dei primi anni del Novecento dopo il suo rinvenimento nel «cahier» dove lo stesso Ver-laine trascrisse fra il settembre del 1871 e il maggio del 1872 alcune poesie di Rimbaud. Di seguito il testo

della poesia edita da Verlaine: «Dans la feuillée, écrin vert taché d’or, / Dans la feuillée incertaine et fleu-

rie, / D’énormes fleurs où l’âcre baiser dort / Vif et devant l’exquise broderie, // Le Faune affolé montre ses grands yeux / Et mord la fleur rouge avec ses dents blanches. / Brunie e sanglante ainsi qu’un vin

vieux, / Sa lèvre éclate en rires par les branches; // Et quand il a fui, tel un écureuil, / Son rire perle encore à chaque feuille / Et l’on croit épeuré par un bouvreuil / Le baiser d’or du bois qui se recueille». 234 La poesia di Dal Fabbro è contenuta in La sera armoniosa, cit., mentre la traduzione di Luzi è inclusa

in C. Bo, T. Landolfi e L. Traverso (a cura di), Antologia di scrittori stranieri, Firenze, Marzocco, 1946.

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e intimorito Fauno occhieggia e morde un fauno mostra i due occhi atterrito,

a denti bianchi nei purpurei fiori: morde coi denti bianchi i rossi fiori: sanguigna e bruna come un vecchio vino cotto e sanguigno come un vino ardito la bocca in risa rompe sotto i rami. il labbro scoppia in risa tra i frescori.

E quando sparve, simile una lepre, Quando è fuggito come uno scoiattolo e il riso ad ogni foglia ancor ne trema, quel riso trema ancora nelle foglie il Bacio d’oro vedi che per tema e là, impaurito da un fringuello, il timido d’un fringuello nel bosco si raccoglie. Bacio d’oro del Bosco si raccoglie.

Prima però di entrare nel merito delle scelte stilistiche praticate dai due poeti,

conviene sostare sulla complessa storia della critica del testo e sulla posizione che Luzi e Dal Fabbro implicitamente vi assumono. Entrambe le traduzioni infatti, se let-te alla luce delle più recenti proposte, costituiscono un campione esemplare della ri-cezione simbolista delle quartine di Rimbaud. Il componimento ha da sempre mobi-litato risorse interpretative di estrazione molto eterogenea, presentando un ‘palinse-sto’ articolato su numerose fonti (lasciti parnassiani, la lezione di Mallarmé, le melo-die verlainiane...) e soprattutto su un’eredità figurativa così codificata, ma qui accolta in modo atipico, come quella che fa capo al tema del fauno. E infatti proprio nell’evocazione del codice faunesco e al contempo nell’elusione dei suoi attributi ca-nonici consisterebbe – secondo la tradizione critica cui si allineano gli ermetici – l’essenza simbolista della poesia di Rimbaud, ispirata a una sorta di pura visività, sfuggente e allusiva. Se infatti da un lato la prerogativa faunesca dell’ebbrezza risulta evocata dalla bocca «brunie et sanglante ainsi qu’un vin vieux», dall’altro l’ingrediente davvero strutturale dell’iconografia del satiro – quello delle ninfe insi-diate – non partecipa alla tessitura narrativa della poesia, dando origine a una rap-presentazione anomala, ellittica235.

La principale tradizione alternativa a questo indirizzo (che farebbe capo addirit-tura a Verlaine) tende invece a restituire le quartine di Rimbaud al repertorio tipico del genere faunesco. L’ipotesi è che il testo sfrutti un meccanismo di implicitazione

235 Cfr. A. Guyaux, Notes in A. Rimbaud, Œuvres complètes, édition établie par A. Guyaux, avec la colla-boration d’A. Cervoni, Paris, Gallimard, 2009, p. 872: «Rimbaud a su se dégager du stéréotype romanti-

co-parnassien qui fige le vieux faune, entouré des nymphes, dans un rôle lascif [...] le demi-dieu, animal et humain, garde son mystère: pourquoi rit-il? que signifie autour de lui le recueillement du bois?».

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di una rete di significati erotici che riassimilerebbe nel testo le sigle convenzionali236.

Si tratterebbe dunque di una poesia di ispirazione animista237 piuttosto che simboli-sta, stando a numerosi ‘indizi’ in gran parte disinnescati – non a caso – dalle tradu-zioni di Luzi e Dal Fabbro. Si segnalano infatti numerosi nuclei di potenziale allusi-vità soggiacenti al tema-cardine del fiore come metafora del femminile: è il caso di «baiser», ma anche di «écrin», «exquise broderie»238, e del diramare nel testo di Rim-baud di una sorta di simbologia sessuale del colore rosso, che dai petali di fiore ad-dentati dal fauno si trasmetterebbe, quasi alla stregua di un principio mitopoietico, alle presenze animali dell’ultima strofa, l’«écuereuil» e il «bouvreuil», in tal modo partecipi della stessa strategia di senso.

236 S. Murphy, Le premier Rimbaud ou l’apprentissage de la subversion, Lyon-Paris, Presses Universitaires

de Lyon-Edition du CNRS, 1991 [1990], pp. 168-169: «Tête de Faune semble mettre en jeu, subtilement, tous les attributs du faune conventionnel; il manque toutefois au portrait un élément capital. Cette appa-

rente omission doit, autant que le pré-texte, aiguiller le lecteur vers une tâche exégétique: il lui faudra

chercher la femme. En effet, le faune, Pan, les satyres, s’accompagnent inéluctablement de nymphes, dont

ils interrompent épisodiquement les innocents ébats. Il leur est impossible de se consacrer pleinement à leur culte dionysiaque sans vin et sans femmes. Si la lèvre du faune est “brunie et sanglante ainsi qu’un

vin vieux”, la comparaison signale métonymiquement l’existence du vin bu. La femme est sans doute présente aussi, moins clairement actualisée sur le plan du lexique, mais plus certainement accessible au

faune». 237 C. Bataillé, Pour un animisme poétique: Tête de Faune, «Parade sauvage», 17-18, Août 2001, pp. 107-

108: «À l’inverse de nombreux autres poètes s’attachant au traitement du topos et qui ne font que sous-entendre ou faire allusion à l’acte faunesque proprement dit (copulation avec une nymphe), Rimbaud,

lui, livre bien une action du faune mais qui a priori ne témoigne en rien d’agissements proprement

sexuels. Le poème apparaît dès lors des plus absurdes étant donné son absence d’érotisme pourtant in-contournable à partir du moment où l’on se réclame du mythe du faune et ce dès titre. L’animisme est

bien alors l’unique recours pour remédier à cette incohérence: lui seul rétabli logique et évidence car lui

seul autorise une lecture à double sens. Si les fleurs sont de chair, le traitement du topos est assuré. Mais,

cet animisme se complexifie en outre – et c’est là ce qui fait toute la valeur littéraire du poème – en ce qui Rimbaud le confond avec une langue érotico-obscène depuis toujours abondante en fait de créations

verbales tropiques et polysémiques puisées dans le vocabulaire végétal, dont le poète fut toujours adepte

en témoignant les éloquentes réalisations de l’Album zutique». 238 S. Murphy, Le premier Rimbaud ou l’apprentissage de la subversion, cit., p. 173: «Le verbe crever sug-gère irrésistiblement une pénétration agressive et violente, continuée par la morsure de la seconde

strophe. Au-delà de la violence orale, il va sans dire que l’ “exquise broderie” pénétrée par le faune est une version un peu plus étroitement localisée du “ventre neigeux brodé de mousse noire” de Soleil et

chair. L’ “Ecrin” désigne, de même, le bijou de la femme […]. Là où la broderie suggère une surface exté-rieure unie, l’écrin propose au contraire l’idée d’un intérieure caché. L’écrin étant ce qui renferme, son

ouverture sera pour ainsi dire l’objet de la quête du faune […]. Il s’agit plus spécifiquement d’une allu-

sion à la virginité, à l’hymen. Si Rimbaud met en scène quelques indices de clôture et d’une intimité pro-tégée, c’est en effet pour mieux mettre en valeur l’irruption du faune-violeur».

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L’iscrizione dei due animali in questo sistema semantico, se è in linea di massi-

ma preservata da Luzi, viene viceversa smantellata per ragioni metriche da Dal Fab-bro; anzi, più che smantellata l’immagine è letteralmente capovolta, se il passaggio dallo «scoiattolo» rosso a una candida «lepre» involontariamente si presta a incarna-re il transito da un testo così allusivo a una rappresentazione puramente simbolica, castamente evocativa239. La versione di Luzi invece sembra trasgredire a questa trama là dove interviene sulla sequenzialità dell’azione del fauno, impegnato con il suo morso a riaccendere la potenziale vitalità primigenia della natura. In questo senso lo sfondare faunesco dello schermo di foglie, seguito dal rapprendersi del ‘bacio d’oro del bosco’, dovrebbe rinviare all’illuminazione/fecondazione dei fiori/donne, rimasti fino ad allora ‘in ombra’ come in uno stato di assopimento: ecco dunque che seppure la poesia esordisce con l’immagine della luce solare che timidamente filtra nell’intrico di foglie della pianta, i fiori sono da considerarsi «splendides», magnifici, ma non «accesi» – come invece suggerisce Luzi – giacché questa loro bellezza è vir-tuale (in essi in effetti «le baiser dort»), e la loro illuminazione diretta dal sole sareb-

be da immaginarsi solo successiva all’irruzione del fauno, dopo la quale «le Baiser d’or du Bois» potrà realmente attualizzarsi.

Reinseriti i testi all’interno della loro tradizione critica, è possibile passare a una più capillare ricognizione delle due versioni. Per cominciare sia Luzi che Dal Fabbro si allineano per quanto riguarda le strutture metriche alle più sperimentate consue-

tudini della terza generazione: il decasyllabe di partenza è infatti piegato alla discipli-

na dell’endecasillabo, in conformità al disegno ermetico di annessione del testo stra-niero alle più nobili convenzioni formali della cultura di arrivo. Le differenze insor-gono piuttosto nel momento in cui Luzi si preoccupa di ristabilire anche la trama rimica del testo (con l’eccezione della coppia sdrucciola «scoiattolo» : «timido») e soprattutto nella selezione linguistica e nell’amministrazione della sintassi del testo. In Dal Fabbro infatti il tema ermetico dell’iperdeterminazione letteraria del lessico si manifesta in termini così radicali da risultare infine estraneo agli altri traduttori della compagine (come Bigongiari, Parronchi, Traverso…); in questo caso particolare, se pure anche la versione di Luzi si serva di un registro linguistico alto, il testo messo a punto da Dal Fabbro ricorre, come gli è consueto, a un lessico assai più arcaizzante di quello luziano:

239 Il passaggio nella traduzione di Dal Fabbro dallo scoiattolo alla lepre implica anche un transito da una fuga verticale a una corsa orizzontale non priva di risonanze, ancora secondo la chiave di lettura propo-

sta da Murphy, già che «il y aura ici une ellipse où la vertialité montante, comme dans les multiples ima-

ges de montées et de soulévements dans Soleil et chair, figurerait “l’éruption” de l’orgasme» (ivi, p. 179).

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Rimbaud Dal Fabbro Luzi

a) «dort» «posa» «ha ristoro»; b) «exquise» «vago» «fragile»; c) «montre ses «occhieggia» «mostra i due occhi»;

deux yeux» d) «rouges» «purpurei» «rossi»; e) «éclate en rire» «in risa rompe» «scoppia in risa»; f) «il a fui» «sparve» «è fuggito»; g) «epeuré» «per tema» «impaurito». Per tracciare un grafico complessivo della regia stilistica di Dal Fabbro, a queste

opzioni lessicali bisogna sommare il ricorso a inversioni («di sgargianti / corolle

sparso», con aggiunta ex novo del participio), all’apocope («tal vago»), l’uso disinvol-to delle preposizioni («morde / a denti bianchi nei purpurei fiori», «simile una le-pre»), la sineddoche preziosa di «corolle» per «fiori».

Ma, si è detto, è anche nella gestione della sintassi e dell’ampiezza del discorso che Dal Fabbro si pone in discontinuità rispetto ai versi luziani. L’adesione di Dal Fabbro a un forte codice letterario si esprime anche nella ricerca di una dizione che tende naturalmente ad articolarsi su una sorta di ‘passo lungo’ antimoderno240, che riassimila gli incisi in un discorso ampio, fortemente inarcato, declamatorio: è in questa cornice, evidentemente, che rientra anche lo smantellamento dell’anafora ini-ziale, sciolta e rifusa nello stampo di questo periodare saldamente gerarchizzato. Luzi viceversa mette a punto una tessitura più segmentata, articolata su legami per asin-

deto: la sua versione infatti scandisce i primi cinque versi della poesia di Rimbaud in sei membri, contro i soli due di Dal Fabbro, remunerativi forse con la loro cantabili-tà più ampia della revoca dell’impianto rimico.

Il sistema di rime è comunque solo un’espressione della ricerca luziana di un profilo musicale (simbolista?) da imprimere alla propria traduzione; fra gli altri espedienti spicca senz’altro la traduzione ‘fonica’ di «écrin» con «crin», peraltro ca-

duta nelle successive redazioni della poesia confluite poi nella Cordigliera delle Ande, probabilmente in seguito all’intenzione di accordare il dettato a registri meno lette-

240 Cfr. sull’argomento G. L. Beccaria, La poesia del Novecento: figure metrico-sintattiche, in M. Dardano

e P. Trifone (a cura di), La sintassi dell’italiano letterario, Roma, Bulzoni, 1995, p. 311: «Con Myricae

Pascoli si impone come il primo, ancorché timido eversore capace di liberare il verso dagli stereotipi ot-tocenteschi. Nuove proposte anche nelle figure ritmico-sintattiche: intanto, l’usurato cantabile ottocen-

tesco negato tramite frangimenti, forti pause interne, punteggiatura ritmica. Pascoli rifugge

dall’andamento cantilenante, predilige un inedito sincopato, fitta segmentazione e interpunzione, rotture sintattiche che possono talvolta ricordare le esitazioni del “parlato”».

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rari, rapidamente svalutati nelle loro qualità espressive già a partire dal dopoguer-

ra241. Ma si veda anche il diramare nel testo dell’allitterazione della labiodentale sor-da /f/ che, a partire dalla terna di vocaboli tematici «fauno», «fiori» e «foglie», poi si seria in «fogliame», «fendendo il fragile», «frescori», «fuggito», «fringuello», quasi a trascrivere fonosimbolicamente il frusciare della chioma dell’albero all’incursione del fauno. Un’analoga trama allitterativa è solo occasionalmente orchestrata da Dal Fabbro («la bocca in risa rompe sotto i rami», «tal vago ricamo un vivo», «come un vecchio vino»), che attraverso le sue cascate di endecasillabi non rimati (così nume-rose nella sua antologia) preferisce intonare la traduzione a un registro, si direbbe, leopardiano. Una tradizione, questa, che può definirsi defilata rispetto al codice cul-turale entro cui si è svolta la produzione ermetica di Luzi, ma che secondo Dal Fab-bro rappresenta il vero tramite fra la lirica italiana e addirittura Baudelaire, caposti-pite dell’intera vicenda simbolista:

Le ‘intraducibili’ poesie delle Fleurs du mal, con cui s’apriva la mia raccol-ta, m’attirarono proprio con gli ostacoli di resa italiana d’un linguaggio co-mune, sovente di cronaca, sollevato alle risonanze più dolci e metalliche del verso dall’ardente confessione lirica di Baudelaire. Alla grande poesia italiana Baudelaire mi pareva unito traverso Leopardi, in maniera analoga a quella, misteriosa, per cui nella melodia polacca di Chopin echeggia il canto meri-dionale di Bellini242.

3. S’intende che il ricorso da parte di Dal Fabbro alla tradizione stilistica ottocen-

tesca è del tutto compatibile con l’investimento di strumenti stilistici di ispirazione ermetica, anche ben oltre i termini convenzionali di questa stagione243. Scorrendo le prime opere poetiche della terza generazione, la prossimità delle traduzioni di Dal Fabbro ai canoni lessicali dell’ermetismo è particolarmente evidente soprattutto in

241 Si veda pertanto il passaggio da « Nel fogliame, crin verde e chiazze d’oro, / dentro il fogliame incerto,

sotto il ramo» a « Là nello scrigno verde a chiazze d’oro, / là nel fogliame incerto, sotto il ramo». Da no-

tare, tuttavia, che l’avvio della traduzione si presenta identica alla stesura del ’49 ancora all’altezza di

Francamente (versi dal francese), Firenze, Vallecchi, 1980. 242 B. Dal Fabbro, La sera armoniosa [66], cit., p. 11. 243 Si veda in tal senso l’esempio davvero flagrante di un segmento (tradotto isolatamente) di Que diras-

tu, ce soir, pauvre âme solitaire243, in cui il testo di Baudelaire, dopo essere stato ‘sfrondato’ delle sue

componenti dialogico-narrative, è ricondotto tramite una rigorosa disciplina endecasillabica al topos ermetico della ‘sembianza’, della presenza imminente, della figurazione potenziale: «Que ce soit dans la

nuit et dans la solitude, / Que ce soit dans la rue et dans la multitude, / Son fantôme dans l’air danse

comme un flambeau» → «Sia nella notte, nella solitaria / notte, che per la strada, tra la folla / della strada, la tua sembianza passa / e ondeggia come una lucente fiamma…».

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relazione alla tessitura linguistica dei libri di un altro fra i membri più rappresentati-

vi di questa stagione, Alessandro Parronchi. I registri messi in funzione da Dal Fab-bro mostrano infatti una sorprendente contiguità con le principali aree lessicali dei Giorni sensibili244, la cui identità antinarrativa e implicitamente rituale favorisce la ricorsività di pochi, essenziali campi semantici. Si veda in questo senso come l’intera

trama linguistica di La sera armoniosa di Baudelaire245, la traduzione che dà il titolo alla raccolta, coincida largamente con i repertori lessicali ai vertici delle liste di fre-quenza del libro d’esordio di Parronchi: accanto a stilemi conformi all’analogismo ermetico come il sostantivo assoluto246 e l’implicitazione degli avverbi di paragone247,

parole chiave come «incenso» (cfr. ad esempio Acanto, v. 6) e «reliquia» (si pensi al

titolo Reliquie del giorno), oppure varianti tipiche di quel lessico d’estrazione natura-le, bisillabo e musicale, che costituisce l’essenza del linguaggio parronchiano come

«cielo», «fiore», «vento», «sera», «stelo», «luce», ma anche «dolce», «stanco», «odori», verbi come «perduta»248, «vagano», «fremere» («un caduco fremere di steli»249), «splende»250… testimoniano il convergere di queste poesie e traduzioni in un domi-

nio linguistico che realmente aspira a strutturarsi in koinè. Oltre a questi incroci formali la sovrapponibilità dei campionari traduttivi passa poi dall’assoluta fedeltà – spiccata anche rispetto agli altri animatori dell’ermetismo – al capitolo simbolista,

entrambi occupandosi della versione di La servante au grand cœur di Baudelaire,

L’après-midi d’un faune, il Toast funèbre, Brise marine, Cantique de Saint Jean di

Mallarmé, Voyelles e Le bateau ivre di Rimbaud... Infine, anche sul piano specifico dell’attività di traduzione, Parronchi è fra fiorentini del ‘14 quello che può definirsi più affine a Dal Fabbro alla luce dell’ingente quantità di attestazioni lessicali arcaiz-

244 A. Parronchi, I giorni sensibili, Firenze, Vallecchi, 1941. 245 La traduzione di Dal Fabbro: «E giungi sera, quando sullo stelo / ogni fiore vibrando incensi esala; / odori e suoni vagano col vento, / ridda che langue e vertigine amara. // Ogni fiore vibrando incensi esala,

/ dolce freme il violino cuore in pianto, / ridda che langue e vertigine amara. / Il cielo ampio riposa bello e stanco. // Dolce freme il violino cuore in pianto, / un cuore ostile al Nulla nero e immenso; / il cielo

ampio riposa bello e stanco. / Nel proprio vasto sangue il sole è spento, // Un cuore ostile al Nulla nero e immenso / ogni perduta luce in sé comprende. / Nel proprio vasto sangue il sole è spento, / il tuo ricordo

in me reliquia splende». 246 Cfr. il caso di «Les sons et les parfums» che divengono «odori e suoni». 247 Si registrano nel testo i seguenti casi: «Chaque fleur s'évapore ainsi qu'un encensoir» → «ogni fiore

vibrando incensi esala»; «Le ciel est triste et beau comme un grand reposoir» → «Il cielo ampio riposa bello e stanco»; «Le violon frémit comme un cœur qu'on afflige» → «Dolce freme il violino cuore in pian-

to»; «Ton souvenir en moi luit comme un ostensoir!» → «il tuo ricordo in me reliquia splende». 248 Cfr. ad esempio dai Giorni senbili i casi di Eclisse, v. 1 e Distanza, v. 11. 249 Ancora dai Giorni sensibili cfr. Eclisse, v. 9. 250 Cfr. ivi, Acanto, v. 1.

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zanti nelle sue versioni251. E nondimeno, sebbene piuttosto fitta, la frequenza di que-

sti registri non è pari a quella degli investimenti praticati da Dal Fabbro, né di fatto assimilabile alla qualità delle relazioni strette dal piano linguistico con gli altri livelli del discorso. In particolare la ristrutturazione del dettato che si era ravvisata nella misura breve del sonetto si declina altrove secondo una tendenza diversa ma com-plementare: in testi che naturalmente presentino un fraseggio più ampio infatti la trama messa a punto da Dal Fabbro tende a strutturarsi su architetture del periodo estremamente complesse, che potrebbero definirsi ‘piramidali’ per i prevalenti rap-porti ipotattici, saldamente gerarchici, che si radicano nelle sue traduzioni, o quanto meno per i continui accumuli di segmenti sintattici orchestrati dal poeta. Una prima

campionatura significativa può essere verificata già su La servante au grand cœur di Baudelaire:

La servante au grand cœur dont vous étiez jalouse, Et qui dort son sommeil sous une humble pelouse, Nous devrions pourtant lui porter quelques fleurs. Les morts, les pauvres morts, ont de grandes douleurs, Et quand octobre souffle, émondeur des vieux arbres, Son vent mélancolique à l'entour de leurs marbres, Certes, ils doivent trouver les vivants bien ingrats, A dormir, comme ils font, chaudement dans leurs draps, Tandis que, dévorés de noires songeries, Sans compagnon de lit, sans bonnes causeries,

Vieux squelettes gelés travaillés par le ver, Ils sentent s'égoutter les neiges de l'hiver Et le siècle couler, sans qu'amis ni famille Remplacent les lambeaux qui pendent à leur grille. Lorsque la bûche siffle et chante, si le soir, Calme, dans le fauteuil je la voyais s'asseoir,

251 Alcuni esempi tratti dal Quaderno francese di Parronchi: in Baudelaire, da Le poison, «capacité» →

«possa», «défaillante» → «in deliquio», da L’horloge, «bientôt» → «tosto»; in Mallarmé, da Toast funèbre, «magique» → «magata», «Jusqu’à» → «insino», «Par» → «Traverso», «croyance» → «credenza»; «où gît tout

ce qui nuit» → «dove tutto ciò che nuoce posa»; da Brise marine, «tranche» → «reseca», «selon un baptê-

me» → «a guisa d’un battesimo»; in Rimbaud, da Michel et Christine, «d’abord jette» → «principia a getta-

re»; da Faim, «Je déjeune» → «Fo colazione»; in Germain Nouveau, da Les Cathédrales, «oreille» → «orec-

chia»; «y rayonne» → «vi luce»; in Radiguet, da Septentrion, dieu de l’amour «de bizarre forme» → «di

foggia bizzarra»; in L’étoile de Vénus, «vigne» → «cisso»; in Éluard, da Défense de savoir, «sperme» →

«semenza»; in André Frénaud, da Il n’y a pas de paradis «pouvoir» → «potestà».

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Si, par une nuit bleue et froide de décembre,

Je la trouvais tapie en un coin de ma chambre, Grave, et venant du fond de son lit éternel Couver l'enfant grandi de son œil maternel, Que pourrais-je répondre à cette âme pieuse, Voyant tomber des pleurs de sa paupière creuse?

Traduzione di Beniamino Dal Fabbro La serva di buon cuore che t’ingelosiva, e che dorme sotto l’umile erbetta il suo sonno, dovremmo ora portarle qualche fiore. I morti, i poveri morti hanno molte pene. E quando Ottobre soffia, spogliatore di vecchi alberi, un triste vento intorno ai loro marmi, troveranno di certo assai ingrati i vivi, di dormire tra le lenzuola al caldo, come usano, intanto che divorati da nere fantasie, senza compagno di letto, senza i buoni conversari, vecchi scheletri freddi che travaglia il verme, sentono le nevi dell’inverno che dimoiano, il secolo che trapassa; né amici o familiari gli rinnovano i lembi che pendono al cancello. Quando il ceppo sibila e canta, se la sera vedessi lei calma sedersi al fuoco, se una notte azzurra e fredda di dicembre la trovassi accoccolata

nella mia stanza, in angolo, dal fondo venuta del suo giaciglio eterno con occhi di madre il fanciullo invecchiato a covare, a quell’anima pia cosa potrei rispondere, vedendo le lacrime cadere dalle sue palpebre cave!

Traduzione di Alessandro Parronchi La serva dal gran cuore di cui eri gelosa, e che dorme il suo sonno sotto un umile prato,

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dovremo noi portarle qualche fiore.

Grandi dolori hanno i morti, i poveri morti. E quando ottobre spoglia alberi soffia su quei marmi il suo vento malinconico, troveranno che i viventi sono ingrati a dormir come fanno sotto calde coperte, mentre rosi da nere fantasie senza amico nel letto, o per discorrere, vecchi, gelidi scheletri logorati dal verme ascoltano stillare le nevi dell’inverno, colare il secolo senza che amici o familiari rinnovino gli stracci penduli alle sue griglie La vedessi sedersi, quando a sera il fuoco fischia e canta, calma nella poltrona, se una notte di dicembre azzurra e fredda la trovassi rannicchiata in un angolo della mia camera, grave dal fondo del suo letto eterno ritornata a covare il bambino cresciuto sotto il suo occhio materno, che mai potrei rispondere a quell’anima pia vedendo scorrere il pianto dalle sue occhiaie?

Sebbene lo stesso Parronchi recuperi l’ampiezza del dettato di Baudelaire, il poe-

ta fiorentino amministra il periodo attraverso una diversa coordinazione e quasi giu-stapposizione delle frasi, arcaizzanti per inversioni e lessico ma meno ricche di incisi

delle traduzioni di Dal Fabbro, sì che le frequenti trasgressioni alla linearità canonica del discorso si impiantano più nell’ordine dei microelementi della frase, che nell’organizzazione generale dell’enunciato. Dal Fabbro invece ricorre su tutti i piani del discorso a una strutturazione letteraria, in cui alle numerosissime inversioni a livello della proposizione fanno eco i frequenti incisi, le sospensioni, e quasi un stra-tegia del discorso ‘a incastro’ (che trova conferma nel resto delle sue traduzioni)252.

252 Cfr. ad esempio il caso di «troveranno / di certo assai ingrati i vivi, di dormire / tra lenzuola al caldo, come usano, intanto che…», là dove Parronchi traduce «troveranno che i viventi sono ingrati / a dormir

come fanno sotto calde coperte, mentre…»; e ancora Dal Fabbro: «se una notte / azzurra e fredda di di-

cembre la trovassi accoccolata / nella mia stanza, in angolo, dal fondo / venuta…», mentre Parronchi, «se una notte di dicembre / azzurra e fredda di dicembre la trovassi rannicchiata / in un angolo della mia

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Dal Fabbro infatti, che in presenza di un dettato anaforico e fortemente articolato

sulle sue qualità musicali (verlainiane) ne riassimilava i segmenti in una sorta di ma-cro-periodo, nel caso di versi dal ritmo più ampio ne sfrutta le lunghe campate per dare vita a un’enunciazione che punta ad un’architettura composita, sulle cui artico-lazioni si esercita la ‘razionalità’ di un poeta che disciplina la tradizione simbolista con la forza del codice letterario, evocato a tutti i livelli del testo al massimo del suo valore paradigmatico. Una razionalità dunque che coordina il molteplice piuttosto che semplificarne la complessità, che penetra i segmenti della frase la cui scomposi-zione in più livelli si dà come testimonianza della forza ‘accentratrice’ del soggetto traducente.

Questa specie di ‘primato della sintassi’ nelle strategie di Dal Fabbro si ripercuo-te poi nella rottura strutturale della congruenza di frase e metro, a differenza di quanto accade nella versione parronchiana in cui le scansioni di verso e sintassi si relazionano in termini meno (o meno univocamente) ‘conflittuali’. Pur reperibile in entrambi i poeti infatti l’inarcatura agisce in modo differente nell’economia delle lo-ro versioni: in apertura Parronchi si serve di questa risorsa (impostando la riarticola-zione strofica della poesia, con aumento del numero dei versi, tendenzialmente più

brevi) facendo corrispondere la pausa metrica con lo stacco fra i due hémistiches; in seguito, nella restante parte della strofa, il poeta replica l’amministrazione baudelai-riana del discorso, riproponendone non la misura metrica ma la sovrapponibilità della frase con il verso (con eccezioni, ma sporadiche: «soffia / su quei rami»); infine

solo nella seconda strofa introduce enjambements di forte rilievo (spicca il caso di

«nella / poltrona»), riconducibili però alla temporanea normalizzazione del verso li-bero ai ritmi dell’endecasillabo.

Dal Fabbro invece fa dell’inarcatura uno dei principi ordinatori dell’irregolare spartito metrico della sua traduzione: «troveranno / di certo», «compagno / di letto», «scheletri / freddi», «il secolo / che trapassa», «notte / azzurra e fredda», «dal fondo / del suo giaciglio», cui si aggiungono, fra gli altri, alcune rotture frase-metro che se-parano il predicato dal suo accusativo («rinnovano / i lembi», «vedendo / le lacri-me») che, ad esempio, non trovano riscontro nella versione del poeta fiorentino. Si tratta dunque di forzature della frase sui limiti del verso che rispondono all’intenzione di elevare il tono a un passo che potrebbe dirsi argomentativo, a cui il livello lessicale si uniforma confermandosi nei suoi apici letterari più elevato di quel-lo di Parronchi. È il caso di «conversari» al posto di «per discorrere», di «dimoiano» per il pur ricercato «stillare» parronchiano253, «lembi» (calco fonico del francese

camera, grave / dal fondo…». 253 Si veda in questo senso come sia Caproni, che Bertolucci e Raboni si servano tutti e tre per tradurre «s’egoutter» di un verbo prosaico come «sgocciolare».

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«lambeaux») rispetto a «stracci», cui si aggiungerà nelle successive stesure anche

«cheta» al posto di «calma»; a questi fattori occorrerà inoltre sommare l’uso transiti-vo di Dal Fabbro di ‘travagliare’, e poi, nella versione del ’66, l’investimento di un participio presente inusuale come «dormenti» («tra lenzuola dormenti») e le inver-sioni della sintassi («ingrati i vivi stimano», «con occhi di madre / il fanciullo cre-sciuto a covare»).

Dal Fabbro sembra insomma sostare su una posizione di ‘retroguardia’ anche nei confronti del traduttore ermetico che più degli altri fa uso di risorse stilistiche arcaizzanti; ma una ricognizione più ampia, relativa nella fattispecie all’impegnativo

banco di prova di Le bateau ivre di Rimbaud, permette di circostanziare ulterior-mente la sostanziale differenza fra i due traduttori, riconducibile (s’intende, un po’ schematicamente) al prevalere in Parronchi254 dell’istanza ‘romantica’

254 La versione del Battello ebbro comparve su «L’Albero», settembre 1954, 19-22, pp. 3-11. Per uno sguardo critico di Parronchi sull’attività di Rimbaud, verificata nelle sue relazioni con l’opera di Nerval –

insostituibile pietra di paragone per Parronchi di tutto l’Ottocento francese – cfr. Il dualismo di Nerval, «La Chimera», II, 14, maggio 1955, pp. 3 e 6: «Non c’è che il miracoloso ragazzo Rimbaud, il tremendo

eversore, a poterglisi paragonare [a Nerval] nella felicità del colore, e nell’assenza assoluta di deforma-

zione o stilizzazione dell’immagine. Proprio Rimbaud, che scrive Juinphe, e Parmerde, riesce a non tradi-

re mai il sublime senso di identità naturale dei paesi delle figure e dei colori. Solo che quanto Nerval re-sta romanticamente incantato in un senso della bellezza in cui cerca di affondare rievocandone il raggio

primitivo, Rimbaud pur evitando il baudelairiano amour du difforme, appare troppo legato alle leggi del-la rivolta e spinto dalle necessità della violenza per non forzare l’immagine fino all’estremo limite senza

tuttavia cadere nella pesante deformazione barocca, e per non accendere spasmodicamente il colore sen-za arrivare alla lacerazione espressionista […]. Mi ha sempre colpito di ritrovare invertita nell’opera di

Rimbaud l’esperienza tecnica dell’opera di Gérard de Nerval. Dopo il verso pieno, il vers poème del Ba-teau ivre, nel cui organismo verbale si contrae il traboccare della visione, Rimbaud cercherà nelle Illumi-

nations, per nuovo processo d’alchimia, e per un bisogno maggiore di distensione, i movimenti immate-riali d’una forma più semplice e fluida […]. Fu il Thierry Maulnier a parlare per primo dei due poeti co-

me dei più scelti e qualitativamente profondi che abbia avuto il Romanticismo francese. Sarà vero intan-

to che l’uno e l’altro hanno distrutto il loro classicismo di fondo per arrivare alla parte più intima del loro essere. Ma è a cotesto estremo che essi si contrappongono l’uno all’altro: si direbbe che al termine

della loro esperienza poetica l’esito sia assolutamente contrario. Mentre infatti a Nerval si aprono le por-te del sogno, un sogno lucido in cui l’ideale prende l’unica concretezza che gli è consentita, e l’essere va-

ga, è trasportato, di mondo in mondo, alle sue origini; a Rimbaud non resta che fare un brusco resocon-to, confessarsi e darsi in mano a una disperazione cosciente. Quelle che egli tocca allora sono poche note:

altissime e d’una tristezza invincibile, dove lo spirito combatte per trovare i termini di una risoluzione e nello stesso tempo esulta nel contraddirsi e nel mordersi, giustapponendo gli stadi successivi della sua

esaltazione e del suo abbattimento […]. Un modo di arrivare alla negazione senza speranza; che è l’opposto della totale assunzione da cui Nerval è sollevato impetuosamente al suo paradiso […]. In Ner-

val il corpo soccombe allo spirito […]. In Rimbaud è lo spirito che lotta contro se stesso e si compiace in

quest’opera di autodistruzione […]. Ma se il suo demone lo aveva portato verso gli eccessi e se questi eccessi finché fu attivo spiritualmente egli ebbe modo di controllarli, cioè di fissarli artisticamente, venne

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dell’ermetismo, rispetto allo strenuo ‘razionalismo’ classico di Dal Fabbro255. In pri-

mo luogo l’immediata discriminante fra le due versioni riguarda il metro, che stavol-ta Dal Fabbro uniforma in una rigorosa trama endecasillabica, mentre Parronchi riarticola il testo di Rimbaud in una strumentazione molto libera, entrambi smantel-landone la tessitura rimica: l’ovvia conseguenza è ancora la messa a punto di Dal Fabbro di un testo fortemente inarcato rispetto a quello di Parronchi. Sul versante stilistico si registra l’adozione comune di misure letterarie, che fanno capo a inver-sioni sistematiche (numerose in Parronchi ma addirittura dilaganti in Dal Fabbro), lessico arcaizzante256, sostantivi assoluti257, participi presenti inusuali258. È invece an-cora nella gestione della frase che le strategie dei due poeti, almeno in parte, differi-scono. Parronchi infatti conferma la sua tendenza, ove possibile, a innalzare il di-scorso su un piano esclamativo, più raramente sfruttato da Dal Fabbro: se infatti an-che Dal Fabbro sul piano dell’interpunzione ricorre spesso al punto esclamativo, la sua natura di puro segno grafico più che di indicatore dell’intonazione del dettato è testimoniata dalla sua posizione in genere interna alla frase (seguita da minuscola) e

certo il momento in cui egli per primo sentì di non poter aggiungere nulla alla sua opera, altro che un

rifiuto insormontabile. Allora pare chiaro che non per dominare la vita spiritualmente gli era bisognato

farsi voyant, ma soltanto per accedere a quella che è la terra promessa di ogni artista: a una più grande porzione d’indicibile. E in tre anni si saziò di tutto il dolce e l’amaro che poté esprimere il frutto amaro

della letteratura, che addentano abitualmente tante bocche impreparate e inadatte a sentirne il sapore». 255 La versione del Bateau ivre di Dal Fabbro, prima di confluire nella Sera armoniosa, fu pubblicata su

«La Ruota» del giugno 1943, accompagnata da una nota: «Questo lavoro, che risale al 1935, fu compiuto in tre stesure successive: nella prima, una quartina di versi liberi, rimati o assonati, tentava di corrispon-

dere a ogni quartina del testo; nella seconda, una strofe libera d’endecasillabi, sovente con un settenario o quinario finale completato dal principio della strofe seguente, conteneva la materia verbale d’una quar-

tina del testo, conservando la maggior parte delle rime e delle assonanze sperimentate nella prima stesu-ra; nella terza, le strofi furono accostate e saldate insieme in una successione unica d’endecasillabi, in cui,

tuttavia, le rime, le assonanze e il giro sintattico alludessero con chiarezza alla struttura formale del testo.

Delle innumerevoli revisioni operate sino ad oggi, e rivolte ad avvicinare la traduzione al suo impossibile limite di poesia, l’ultima fu condotta con l’ausilio dell’edizione critica delle poesie di Rimbaud curata da

H. Bouillane de Lacoste». 256 Dal Fabbro usa «negri» per l’aggettivo «noir», «etra», «foia»; Parronchi si serve di «chiotti», «abeto»,

«fiotta», «ombrando», «immemore» a tradurre – con soluzione averbale - «sans songer», il dantesco «bragia», «esigli», «enfiato». 257 Due casi simili: mentre Dal Fabbro utilizza «più dolce che ai ragazzi acerba carne / di pomi», Parron-chi ricorre a «più sordo che menti di bambini», ed entrambi a «d’occhi biondi». 258 Dal Fabbro ricorre a «stridenti» riferito ai «Pellirosse», e poi – oltre a «trionfanti», «cieli in lampi in-frantisi», «muso rantolante», «fumante», «deliranti cieli», «imbuti avvampanti» - «rullante di merletti»,

«circolante assurdi umori»; Parronchi, oltre ai più canonici «urlanti», «cielo rosseggiante», «torpori ine-

brianti», investe participi anomali come «scoppianti», «onde svolgentisi lontano in guizzi d’imposte», «isola sbattente tra le mie rive».

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dalla loro conseguente soppressione, in numerose occasioni, nella ‘variantistica’ del

testo fino alla versione del ‘66. Si vedano i seguenti casi:

Versioni di Alessandro Parronchi 1) - Sbattuto da maree in furia, io L’altro inverno, più sordo che menti di bambini, Viaggiai! Penisole disancorate Fracassi più trionfali non subirono.

Versioni di Beniamino Dal Fabbro - Tra i furibondi tonfi delle maree, più sordo che cervelli d’infanti, l’altro inverno corsi! e sciolte d’ormeggi le penisole gazzarre non subirono affatto più trionfanti259.

2) - Ho urtato, sappiatelo, Floride incredibili, E a fiori occhi di pantere dalla pelle d’uomo mischiavo! Arcobaleni tesi come briglie Sotto l’orizzonte dei mari, a greggi glauchi! Ho visto enormi paludi in fermento, reti, Dove tra i giunchi un intero Leviatan marcisce! Frane d’acque durante le bonacce, Lontananze inabissarsi a cateratte!

- Non sapete? Diedi di cozzo a non credibili Floride, mischiando ai fiori occhi di pantere con pelli d’uomo! e arcobaleni, briglie sotto i mari lanciate, a glauchi armenti. Vidi acquitrini fermentosi, nasse

259 Nell’edizione del ’66 il passo è privato del punto esclamativo: «Tra i furibondi tonfi / delle maree, più

sordo che cervelli / d’infanti, l’altro inverno corsi, e sciolte / d’ormeggi le penisole gazzarre / non subiro-no affatto più trionfanti».

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enormi dove sotto i giunchi intero

marcisce un Leviathan, liquide frane in seno alle bonacce e gli orizzonti lontani a cateratta che crollavano260.

3) - Ora io, nave spersa tra alghe d’insenature Spinta dalla tempesta nell’etere senza uccello, Io di cui Monitor e velieri delle Leghe Come avrebbero ripescato la carcassa ebbra d’acqua?

- Ora battello sperso dentro chiome di rade, in etra senza uccelli spinto dal turbine, sapendo che i velieri dell’Ansa e i Monitor la mia carcassa non pescheranno ubriacata d’acqua;

4) - Ma ho troppo pianto, è vero! L’Alba strazia! La luna è sempre atroce, il sole è sempre amaro. L’aspro amore m’ha enfiato di torpori inebrianti, Ah! schianti la mia chiglia! Ah! Mi perda nel mare!

Ma troppo, troppo piansi: Albe straziate, atroce luna, sempre amaro sole. Gonfia dei pigri lieviti d’amore, al mare torni la mia chiglia, schianti!261

A questi esempi se ne potrebbero poi aggiungere altri, come nel caso del Toast funèbre di Mallarmé, dove l’esclamazione del poeta («Cette foule hagarde! elle an-nonce…») è da una parte disinnescata da Dal Fabbro («La folla torva e annuncia…») e dall’altra coerentemente replicata da Parronchi («Questa folla spaurita! essa an-nuncia…»). È dunque questa ricerca del poeta fiorentino di enfatizzare nelle sue tra-

260 Come nel passo precedente, la stesura pubblicata nel ’66 non presenta l’interpunzione esclamativa: «Non sapete? Diedi di cozzo a on credibili Floride, / mischiando ai fiori occhi di pantere / con pelli

d’uomo, e arcobaleni, briglie / sotto i mari lanciati a glauchi armenti». 261 Nella versione del ’66 rimane il punto esclamativo, ma significativamente il dettato per asindeto, che

nel ’42 isolava pateticamente l’ottativo «schianti!», lascia il posto a una coordinazione per polisindeto che

per certi versi riassorbe la lapidarietà dell’esclamazione nell’ampiezza dell’enunciato: «Gonfia dei pigri lieviti d’amore, / al mare torni la mia chiglia e schianti».

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duzioni il dato patetico a confliggere la sintassi congegnata da Dal Fabbro in rigoro-

sissimi rapporti gerarchici, in architetture classicamente razionali che assai meno frequentemente indulgono a quei toni che proliferano nelle traduzioni di Parronchi. In particolare il tipico passo di Dal Fabbro si costituisce sul piano della sintassi in una sorta di ‘sistematica’ dell’inversione, ottenuta combinando dissociazioni di unità semantiche per iperbato («un mare / gli compone di fiamma»…), anticipazioni di attributi al referente, numerosissime postposizioni del verbo in fondo alla frase. Una tendenza alla redistribuzione delle componenti dell’enunciato in organismi di estre-ma complessità che poi si struttura a propria volta in un periodare articolato su con-tinui accumuli – che possono riguardare catene di accusativi, di proposizione relati-

ve, serie di gerundi, moduli appositivi (dal Cimitero marino di Valéry, «Immobile tesoro, pacata mole, tempio / semplice di Minerva, e scrigno torvo / di visibili acque, / pupilla che in te chiudi tanto sonno / sotto un velo di fuoco, o mio silenzio… / Edi-ficio nell’anima, / ma colmo d’oro a mille scaglie, Tetto!» oppure «Recinto, sacro, colmo d’una fiamma / immateriale, io t’amo, / dominio delle faci, / o terrestre frammento offerto al sole, / luogo di pietra, d’oro, / d’alberi cupi, dove / tanto mar-mo su tante ombre trema») – e sulla sovrabbondanza di incisi. Questa ineccepibile architettura ‘classicheggiante’ è poi ancor più avvalorata nel suo recupero di moduli formali e stilistici letterari dall’investimento sistematico nel libro di un lessico pre-zioso («divalla», «querula», «brandi», «imeneo», «rorido», «gèmino», «morituri», «tremebondo», «enfiagioni», «illuniva», «cachettici», «occhi declivi», «olenti», «pu-bescenze», «ocrati»…), di significati etimologici («mosche strepitose»262), calchi fo-nici («lames» → «lame»), da arcaismi vari (apocopi come in «allor che», «giovin pet-

to», «muor la forma», «sol mortale», «orror lucente», «visibil sereno», «libro del do-ver» per «livre du devoir», la sistematica predilezione per formule letterarie come «beltà», «vecchiezza», «allegrezza», l’uso primonovecentesco delle maiuscole per Fiumi, Albe, Penisole263…), dall’impiego di solenni passati remoti in luogo di passati

prossimi (ad esempio, oltre che diffusamente nel Bateau ivre, nel Toast funèbre di Mallarmé: «Je t’ai mis, moi-même, en un lieu de porphyre» → «io stesso / in un luogo di porfido ti misi», mentre Parronchi traduce, con verso lunghissimo, «perché ti ho collocato io stesso in un luogo fatto di porfido»).

Da queste ricognizioni emerge dunque che se da un lato – per lessico, letterarietà delle versioni e selezione degli autori – anche nelle traduzioni di Dal Fabbro si possa

262 Per una storia dell’aggettivo montaliano ‘strepitoso’ nella poesia di Dal Fabbro, cfr. R. Zucco, Benia-

mino Dal Fabbro scrittore in versi, in Id. (a cura di), Beniamino Dal Fabbro scrittore, cit., p. 83. 263 La normalizzazione delle maiuscole è uno dei non molti ‘aggiornamenti’ stilistici perseguiti da Dal

Fabbro lungo la storia variantistica delle sue traduzioni: la versione del ’66 in effetti riporta canonica-mente fiumi, albe, penisole ecc…

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avvertire quell’«aria di famiglia»264 che Fortini ravvisa nelle traduzioni ermetiche,

dall’altro l’uso metodico e strutturale di espedienti di conservazione formale che solo con minore frequenza si registrano nelle versioni ermetiche finisce per defilare il poeta anche dal traduttore che fra fiorentini ricorreva più largamente nelle sue ver-sioni a questi istituti stilistici: il che, in ultima istanza, consente di reinscrivere Dal Fabbro in un’area di traduttori che, pur intersecandola, non può dirsi a pieno coin-cidente con quella ermetica; una sorta di leggero ma sensibile scarto destinato peral-tro a divaricarsi ulteriormente negli anni, già che Dal Fabbro – dissociandosi dall’evoluzione del linguaggio e della poesia degli ermetici – impronterà il proprio lavoro variantistico non nel senso di una semplificazione del linguaggio e un ridi-mensionamento del registro letterario, ma al contrario conservando e a tratti addirit-tura infoltendo, in chiave sempre più antimoderna, la trama aulicizzante delle sue traduzioni.

264 Cfr. F. Fortini, Il Rilke di Giaime Pintor, cit., p. 1320.

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Tradurre due volte la Delfica di Nerval. Parronchi tra Valeri e Risi

1. Fedele a un profilo che può dirsi generazionale, la poesia di Alessandro Par-ronchi è un caso esemplare di scrittura ‘colta’, fittamente intertestuale, in continuo dialogo con la propria tradizione letteraria in virtù della folta trama di prelievi, allu-sioni, riferimenti espliciti o dissimulati che ne articolano il dettato. Questo ‘sistema citazionistico’ si trattiene però sempre al di qua di una soglia metadiscorsiva, ten-dendo ad inscriversi da una parte nella delega ermetica della produzione di un sup-plemento di senso a una pronuncia iperdeterminata in senso letterario, e dall’altra nel successivo ricorso alla continuità della tradizione come argine allo sfaldarsi dei codici (morali, naturali, estetici) dell’odierno «mondo di detriti»265. La possibile ras-segna intertestuale è dunque copiosa, da Petrarca266, Foscolo267, Campana268 e Gat-

265A. Parronchi, Sembrerebbe non si dover attendere (v. 2), in Id., Climax, Milano, Garzanti, 1990. 266 Per il petrarchismo ermetico cfr. S. Ramat, L’ermetismo, Firenze, La Nuova Italia, 1969, pp. 39-40: «La

linea positiva [Sbarbaro-Rebora-Ungaretti-Montale] continua con gli ermetici, ma sensibilmente va-riando: la fiducia nella storia della persona diventa fede nella sua centralità riferita al cosmo […] e nella

sua propria, interiore centricità; sicché quanto si è soliti affermare a proposito dell’esistenza di un petrar-chismo ermetico vale nel senso di un’urgenza di centricità lirica che si trasmette al carattere degli ermeti-

ci, [...] per quel sentimento dell’assorbire, che può parer evasione, la vicenda nella sua fisionomia esterna per mantenerne invece, o gettarne, in luce talune costanti meno legate alla fisicità dell’istante o della fi-

gura del protagonista lirico (poeta dialogante con se stesso, lettore, amata, ombra o fantasma purgatoria-

le) che alla visione universale e necessaria della persona cosmica, rispetto a cui ogni altro evento o dato ha sapore occasionale, subordinato». 267 Per il foscolismo di Parronchi cfr. O. Macrí, Il «sensibile» di Parronchi, in Id., Il Foscolo negli scrittori italiani del Novecento, con una conclusione sul metodo comparatistico e un'appendice di aggiunte al

«Manzoni iberico», Ravenna, Longo, 1980, pp. 113-117. Tra i casi flagranti di prelievi dal Foscolo delle

Grazie, si notino almeno le espressioni seguenti (prima è riportato il modello ottocentesco, poi il calco di

Parronchi): «due brune giovani» → «le brune giovani»; «Amicle / terra di fiori» → «amiclei / corsi d'ac-qua»; «con la lira inesperta a sé li chiama» → «e dal lontano esilio a sé la chiami»; «la teda alluma» → «le

tede già rutile d'aurora». Dal Foscolo dei Sepolcri occorre menzionare almeno il recupero di una formula come «Le fontane versando / acque lustrali» con «dalle sue fonti / d'acque lustrali». 268 A semplice titolo di esempio, si pensi a come l’espressione parronchiana «figure in vesti lunghissime

[...] mosse ab antico dal nero dei vicoli», tratta da Al di qua d’una sera, in A. Parronchi, I giorni sensibili,

Leonardo Manigrasso, Capitoli autobiografici : poeti che traducono poeti dagli ermetici a Luciano Erba ISBN 978-88-6655-502-5 (online), CC BY-NC-ND 3.0 IT, 2013 Firenze University Press

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to269, particolarmente influenti nelle prime liriche, a Rebora e i crepuscolari in segui-

to, onnipresenti Leopardi270 e Montale271. Due referenti sistematici, questi, che però è d’obbligo integrare con la frequentazione altrettanto assidua (e molteplice nelle sue declinazioni) di Gérard de Nerval, eletto da Parronchi capostipite e massimo ispira-tore della vicenda romantica e simbolista francese272.

Sul fronte poetico non è difficile ricondurre alla lezione nervaliana un insieme tangibile di riferimenti e temi messi a profitto con continuità nel tessuto della sua

poesia: dalla trama mitologica dei Giorni sensibili a Autoritratto alla figlia per quan-do avrà ventun’anni (1978)273, dall’esergo di Bellosguardo274 a certe formulazioni sot-

terraneamente debitrici di Aurelia275 o dei sonetti. Analogamente essenziale è la pre-

Firenze, Vallecchi, 1941, potrebbe derivare dalla campaniana «Laggiù avevano tratto le lunghe vesti mol-

lemente verso lo splendore vago della porta le passeggiatrici, le antiche». 269 Si veda ad esempio ancora da Al di qua d’una sera una sigla di evidente matrice gattiana come: «Bal-

zano i monti al gremito pianto dei lumi, come a una carezza in cui goda leggera la notte». 270 Sulla presenza di Leopardi nella poesia e nella saggistica di Parronchi cfr. almeno A. Dolfi, Leopardi-

smo e terza generazione, in Id., Leopardi e il Novecento, Firenze, Le Lettere, 2009, pp. 61-100 e V. Melani,

Parronchi lettore e critico di Leopardi, in I. Bigazzi e G. Falaschi (a cura di), Per Alessandro Parronchi, Atti della giornata di studio (Firenze, 10 febbraio 1995), Roma, Bulzoni, 1998, pp. 191-226. Gli scritti

leopardiani del poeta sono raccolti in Il computar e altri studi leopardiani, Firenze, Le Lettere, 1998. 271 La continuità della frequentazione di Montale da parte di Parronchi è testimoniata dalla raccolta di

saggi Quaderno per Montale, Novara, Interlinea, 2003. Per quanto riguarda i referti critici, cfr. almeno

M. Fanfani, Sul linguaggio poetico di Parronchi, in I. Bigazzi e G. Falaschi (a cura di), Per Alessandro Par-ronchi, cit., pp. 68-71. 272 La centralità della figura di Nerval è infatti autorizzata anche dalla posizione attribuitagli da Parronchi nella storia delle principali rotte ottocentesche della poesia francese. Dopo aver ribadito infatti che le due

tradizioni portanti del simbolismo (quella della ‘perfezione’ e della ‘purezza’ e quella del ‘sentimento’ e della ‘sensazione’) diramano entrambe dall’opera di Baudelaire, il poeta ridefinisce questo schema con-

notando l’esperienza di Nerval come premessa inevitabile ed esplicativa alle Fleurs du mal, come testi-

moniano la palese anticipazione nei Vers dorés della poetica delle correspondances e «il riflesso metafisi-

co, soprasensibile, simbolico» delle sue associazioni di immagini. Una rilettura dunque che pone a capo dell’intera vicenda simbolista europea non la sola figura di Baudelaire, ma una sorta di ‘sequenza’, di bi-

nomio quasi inscindibile nei suoi elementi composto da entrambi i poeti, non a caso largamente rappre-

sentati nel Quaderno francese. Si ricordi infine come attraverso la tradizione della ‘purezza’ stilistica Par-

ronchi designi quella linea che tocca il suo apice con Mallarmé e si prolunga fino a Valéry, mentre il rife-rimento alla poesia della ‘sensazione’ coivolge autori come Lautréamont, Rimbaud, Verlaine, Germain

Nouveau. 273 Il riferimento a Nerval in questa poesia è duplice. Non solo il poeta è citato espressamente («Per qual-che verso di Nerval / tutto Éluard, tutto Neruda, tutto Brecht, / e ancora tutto Pascoli darebbe»), ma an-

che la ‘struttura’ stessa del verso è ricavata da Fantaisie, un componimento del poeta francese: «Il est un air pour qui je donnerais / Tout Rossini, tout Mozart, tout Weber». 274 L’esergo della poesia («Un air très vieux») è tratta ancora da Faintasie di Nerval. 275 Come piccolo esempio di una possibile interferenza si paragoni in All’arida montagna una formula

come «abissi / che non danno vertigine» con un’espressione tratta da Aurélia come «hauteurs qui don-nent le vertige». Ma più in profondita, si veda la prossimità di due ‘quasi’ dichiarazioni di poetica come:

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senza di Nerval nel suo discorso saggistico, culminata nelle preziose annotazioni alle

Chimères276, edite nel 1946 presso Fussi-Sansoni e divenute un punto di riferimento obbligato per i successivi studi sul poeta francese. È dunque nell’ambito di questa lunga fedeltà che si inscrivono le sue traduzioni nervaliane, interamente databili alla prima metà degli anni Quaranta.

Un’angolazione privilegiata per indagare i termini in cui si declina questa attività

è offerta dalla traduzione di uno specifico sonetto della raccolta, Delfica. Il testo in-fatti è l’unico componimento di cui il poeta offra due distinte ‘esecuzioni’: da una parte quella ‘ufficiale’, allineata ai parametri metodologici che guidano le circostanti

versioni delle Chimères; dall’altra la riduzione che le viene affiancata, vero e proprio

hapax nell’orizzonte del suo tradurre. Inoltre, accanto alla singolarità di questo dop-

pio esercizio, Delfica costituisce un campione assai propizio anche da un punto di

vista comparatistico: consente infatti di mettere in risalto le proprie strutture essen-ziali mediante l’incrocio con gli investimenti fonici e formali operati da altri due in-signi poeti-traduttori di Nerval come Diego Valeri e Nelo Risi. Due autori che, peral-tro, offrono i presupposti per un sondaggio ‘intergenerazionale’, in quanto rappre-sentativi della prima e della quarta generazione novecentesca. I componimenti:

1) Delfica di Gérard de Nerval277 La connais-tu, Dafné, cette ancienne romance, Au pied du sycomore, ou sous les lauriers blancs, Sous l'olivier, le myrte, ou les saules tremblants, Cette chanson d'amour qui toujours recommence?...

Reconnais-tu le TEMPLE au péristyle immense, Et les citrons amers où s'imprimaient tes dents, Et la grotte, fatale aux hôtes imprudents, Où du dragon vaincu dort l'antique semence?...

«Quoi qu'il en soit, je crois que l'imagination humaine n'a rien inventé qui ne soit vrai, dans ce monde ou

dans les autres, et je ne pouvais douter de ce que j'avais vu si distinctement» e, tratta da Al di qua d’una

sera: «Da queste spoglie d'oblio di cui sono circondato, nulla mi sembra nascere di più vero». 276 G. de Nerval, Le Chimere, a cura di A. Parronchi, Firenze, Fussi-Sansoni, 1946. 277 La poesia fu edita su l’«Artiste» il 28 dicembre 1845 con il titolo Vers dorés, che in seguito avrebbe de-

signato l’ultimo sonetto delle Chimères. Fu quindi ripubblicata nei Petits Châteaux de Bohȇme (1852-53)

con il titolo Daphné, fino a confluire nelle Chimères nel 1854 con la formula che poi ha mantenuto. Reca la data ‘Tivoli 1843’, ritenuta erronea dagli studiosi, in quanto non risulta che il poeta durante il suo

primo viaggio in Italia abbia visitato Roma. Del resto è consueto che Nerval confonda tra loro gli episodi relativi ai suoi due viaggi italiani.

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Ils reviendront, ces Dieux que tu pleures toujours! Le temps va ramener l'ordre des anciens jours, La terre a tressailli d'un souffle prophétique...

Cependant la sibylle au visage latin Est endormie encor sous l'arc de Constantin - Et rien n'a dérangé le sévère Portique.

2) Traduzione di Diego Valeri278 La conosci tu, Dafne, quella romanza antica al pie' del sicomoro o sotto i lauri bianchi, sotto l'olivo, il mirto o i salici tremanti, quella canzon d'amore che sempre ricomincia? Lo riconosci il tempio d'alte colonne cinto, e gli amari limoni che il tuo dente mordeva, e l'antro che i passanti imprudenti attraeva, dove dorme l'antico seme del drago vinto? Quegli Dei che tu piangi torneranno, e il lor evo tornerà, rinnovato l'antico ordine del primo. La terra ha trasalito a un annuncio del vero... Frattanto la Sibilla dal bel viso latino (nulla ha turbato ancora il portico severo)

278 È la versione contenuta in D. Valeri, Lirici francesi, Milano, Mondadori, 1960. Una traduzione prece-

dente è inclusa nel suo Il Simbolismo francese. Da Nerval a De Régnier, Padova, Liviana, 1954, p. 36. Il testo della poesia: «La conosci tu, Dafne, quell'antica romanza / Al pie' del sicomoro o sotto i lauri bian-

chi / Sotto l'olivo, il mirto o i salici tremanti, / Quella canzon d'amore che sempre ricomincia? // Lo rico-nosci il tempio dal peristilio immenso, / E gli amari limoni che il tuo dente mordeva, / E la grotta, fatale

agli ospiti imprudenti, / Dove del drago vinto dorme l'antico seme? // Quegli Dei che tu sempre piangi

ritorneranno! / Sta per tornar nel tempo l'ordin dei dì remoti. / La terra ha trasalito a un profetico sof-fio... // Frattanto la Sibilla dal bel viso latino / È addormentata sotto l'arco di Costantino: / Nulla ancora

ha turbato il portico severo». Per un profilo generale di Valeri traduttore, cfr. M. L. Belleli, Diego Valeri traduttore e poeta in francese, in Gli studi francesi in Italia fra le due guerre, Atti del XIV Convegno della

Società Universitaria per gli studi di lingua e letteratura francese (Urbino, 15-17 maggio 1986), Urbino, Quattroventi, 1987, pp. 193-205.

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è addormentata sotto l'arco di Costantino.

3) Traduzione di Alessandro Parronchi279 Conosci, Dafne, quell'antica romanza, Ai piedi del sicomoro, o sotto gli allori fioriti, Sotto l'ulivo, il mirto o i salci tremanti, Quella canzone d'amore che sempre ricomincia?... Riconosci tu il TEMPIO dall'immenso peristilio, E i limoni amari dove i denti imprimevi, E la grotta, fatale ai visitatori imprudenti, Dove l'antico seme del dragone vinto riposa? Ritorneranno, questi Dei che sempre tu piangi! Il tempo è prossimo a riportare il giro antico dei giorni, La terra ha trasalito d'un soffio profetico... Frattanto la sibilla dal viso latino È ancora addormentata sotto l'arco di Costantino E nulla ha turbato il Portico severo.

4) Traduzione di Nelo Risi280

Conosci, Dafne, la romanza antica Del sicomoro al piede o sotto i lauri bianchi Sotto l'ulivo il mirto o i salici tremanti

Questo canto d'amore che sempre ricomincia?

Riconosci il Tempio dal peristilio immenso Con i limoni amari al morso dei tuoi denti E la grotta, fatale agli ospiti imprudenti Dove del drago vinto giace la semenza?

279 La traduzione si trova in G. de Nerval, Le Chimere, cit. 280 La stampa di questa traduzione, datata 1943, risale al Compito di francese e d’altre lingue 1943-1993, introduzione di Franco Buffoni, Milano, Guerini, 1994.

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Torneranno gli Dei che tu rimpiangi

Farà ritorno l'ordine di un tempo; la terra è scossa da un'aura di presagi...

Ma sotto l'arco di Costantino Ancora dorme la sibilla dal viso latino - E niente turba il portico severo.

L’esercizio di Valeri è un esempio paradigmatico di come le scelte metodologi-

che e stilistiche di una traduzione possano costituirsi come diretta emanazione di una lettura critica. Scorrendo infatti i suoi scritti saggistici si assiste a un’identificazione della «visione simbolista del mondo» di Nerval con la sua caratte-ristica «musicalità del verso»281, all’insegna cioè della tendenziale riassimilazione dell’orizzonte tematico e speculativo del poeta all’interno di una sigla stilistica, quella dell’incanto sonoro ed evocativo che ‘brucia’282 gli spunti figurali, sempre provvisori,

che si avvicendano nelle Chimères. Valeri dunque enfatizza il ruolo del dato ritmico decentrando dalla sua analisi quella trama finissima di riferimenti cabalistici e pita-gorici che rappresenta un’area tematica ampiamente frequentata da Parronchi. Ne deriva la relativa disponibilità a sacrificare la fedeltà sintattica, lessicale283 e immagi-

281 Cfr. il suo Il Simbolismo francese da Nerval a de Régnier, cit., p. 32: «La musicalità del verso di Nerval è già simbolistica; com'è simbolistica, radicalmente, la sua concezione del mondo. I sogni ci rivelano infatti

(hanno la funzione di rivelarci) la verità unica ed essenziale nascosta dentro o dietro la multiforme realtà apparente; si presentano come figurazioni simboliche di quella verità divina e, per se stessa, indecifrabi-

le». Sullo stesso tema si veda anche A. Thibaudet, Histoire de la littérature française, cit., p. 186: «L'esprit

de Gérard est celui de la musique plus que de la peinture, du mystère plus que de l'expression, de la poé-sie intérieure plus que de l'extérieure». 282 La metafora è tratta dal discorso critico parronchiano, per cui cfr. Un tacito mistero. Il carteggio Vitto-rio Sereni-Alessandro Parronchi (1941-1982), a cura di Barbara Colli e Giulia Raboni, prefazione di Gio-

vanni Raboni, Milano, Feltrinelli, 2004, p. 151: «Nerval, per cui la poesia è soltanto vera nell'attimo in cui un'immagine brucia la precedente e si estingue nella successiva; e di tutto il rogo che è stata la sua vita di

poeta non restano che dei barbagli». 283 Proprio Valeri mette in guardia dall'apparente facilità della restituzione lessicale consentita dal pas-

saggio dal francese all'italiano, evidenziando piuttosto le profonde discontinuità fonetiche tra le due lin-

gue che creano situazioni di vera e propria intraducibilità, per cui cfr. D. Valeri, Lirici francesi, cit., pp.

409-410: «Ma riguardo al problema particolare del tradurre poesia francese, è forse opportuno ricordare al lettore che l'affinità, anzi consanguineità, anzi originaria identità delle due lingue, l'italiana e francese,

non agevola né semplifica affatto il compito del traduttore. Le perpetue consonanze approssimative dell'una e dell'altra lingua possono, al contrario, trarlo in inganno (il traduttore), distrarlo cioè dal cerca-

re quelle più interne e sostanziali e libere consonanze che sole saranno atte a giustificare il suo lavoro

[…]. D'altronde, se ci facciamo attenti all'aspetto più propriamente tecnico del problema, non possiamo non avvertire che la lingua, e dunque la versificazione, e dunque la poesia francese, possiedono in pro-

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nativa dell'originale, a favore di un ‘criterio prevalente’ d’ordine metrico e rimico. Il

poeta infatti replica regolarmente gli alessandrini francesi attraverso doppi settenari (con eccezione al secondo emistichio del decimo verso) organizzandoli secondo un’architettura di rime esatte e assonanze. Una scelta che impone subito precise compensazioni stilistiche, come l'accettazione di più o meno leggeri scarti di signifi-cato284 e, soprattutto, l'uso generoso – con effetto arcaizzante – dell'apocope, che for-se è il dato che manifesta di più lo scarto generazionale tra un poeta coetaneo, per intendersi, di Sbarbaro285, e autori nati tra il ’14 e il ’20 come Parronchi e Risi.

Se dunque Valeri affida all'opzione formale la resa del tono ‘alto’ nervaliano, Ne-lo Risi, per riformularne l’ossimorica «limpidezza ermetica del dettato»286, preferisce intervenire sull'ordine degli elementi della frase e sull’interpunzione. Il poeta dunque ricorre da un lato a inversioni forti del sostantivo di sostegno e del complemento287, e dall’altro all'abolizione ‘astraente’ di gran parte della punteggiatura (forse per ri-condurre Nerval al rango di capostipite di un'ipotetica ‘idea surrealista’?). Occorre tuttavia segnalare come l'articolazione parallelistica del sonetto, nonostante la parte-cipazione di due sole rime esatte («denti» : «imprudenti», «latino» : «Costantino»), sia comunque evocata attraverso espedienti fonici talvolta più serrati («immenso» : «semenza»), talvolta più discreti («antica» : «ricomincia»; «bianchi» : «tremanti; «rimpiangi» : «presagi»). Da un punto di vista metrico Risi orchestra una versifica-zione molto mossa, che tende alternativamente – ma senza esercitare alcune coazio-ne – alle forme (prossime o proprie) dell'endecasillabo e dell'alessandrino: il primo predominante nel dettato solennemente sentenzioso delle terzine, il secondo funzio-nale alla resa dei folti versi ‘enumerativi’ delle quartine iniziali; maggiore eccezione il v. 13, più irregolare, che assolve forse alla funzione di smorzare l'eccessiva cantabilità della rima baciata.

Se nell’attività di Valeri Delfica penetra (oltre che nella pratica del tradurre,

s’intende) per via critica, in quella di Risi al contrario penetra soprattutto per ‘via

prio, oltre alle vocali “turbate” e alle vocali nasalizzate, un elemento, uno strumento, un “valore” fonico e

metrico di cui non abbiamo né il corrispondente né il simile: dico la e muta. La quale, in certo modo, è

una sillaba atona, abbassata e tenuta in sordina. Gli effetti che un poeta francese può cavare, specie in fine di verso, da questa estenuazione e smorzatura di suono non possono essere riprodotti nella nostra

lingua». 284 Emblematico è lo slittamento dalla dimensione orizzontale a quella verticale nell’evocazione dello spa-

zio ‘immenso’ del peristilio che circonda il ‘tempio’ («temple au péristyle immense» → «tempio d’alte

colonne cinto»). 285 Per la funzione e la diffusione dell’apocope in Sbarbaro cfr. le analisi stilistiche svolte da Vittorio Co-

letti in Prove di un io minore. Lettura di Sbarbaro – Pianissimo 1914, Roma, Bulzoni, 1997. 286 N. Risi, Compito di francese, cit., p. 17. 287 Emblematico in questo senso il caso di «del sicomoro al piede», ma anche di «del drago vinto giace la semenza».

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poetica’, in termini cioè di assimilazione alla propria scrittura di elementi linguistici

e spunti figurativi. Questi materiali infatti filtrano e si ricombinano in modo tangibi-

le almeno nelle trame di un testo di Polso teso: Estate quarantaquattro288:

Un popolo lontano non è che una notizia:

legata nella polvere dei marmi come il suo nome

al sangue dei miei denti.

L’americano a Cecina e Volterra gli indiani al Trasimeno,

le tombe degli etruschi sono buche per gli ospiti prudenti sotto il cielo d’Italia fatto a scacchi.

L’interferenza fra i due testi è testimoniata da un ordito linguistico condiviso che

si irradia in Risi dalla rima «denti» : «ospiti prudenti», che reinveste in modo fla-grante la coppia rimica nervaliana «dents» : «hôtes imprudents». Un’annessione les-sicale autorizzata dal comune spunto tematico dell’evocazione di ‘popoli assenti’, sia pure destituiti da Risi di quell’ordine mitologico in cui si inscriveva la ‘profezia’ ner-valiana in favore di una ‘distanza’ di tipo spaziale, per cui il componimento descrive una geografia dell’assenza, piuttosto che una mitologia dell’eterno ritorno. Da questa combinazione mitopoietica diramano poi altre strategie testuali: in primo luogo la

fissità (non priva di risonanze luttuose) dei marmi, che si costituiscono come ‘astra-zione materica’ del «temple», dell’«arc de Constantin» e del «Portique», e poi la serie figurativa delle «tombe» e delle «buche», evidenti sottomultipli – se reintegrati nella

cornice simbolica che le ha generate – della «grotte» di Delfica.

Se dunque Valeri privilegia la trama fonica di questa poesia e Risi mostra di averne assimilato il tessuto lessicale e immaginativo, la versione di Parronchi è carat-terizzata invece dall’adozione del verso libero e dall’indebolimento dei parallelismi del sonetto, all’insegna dell’assunzione del criterio della fedeltà letterale a tendenza-

guida della traduzione289. E in questo senso Delfica esprime una tendenza piuttosto

288 Il riferimento al 1944 contenuto nel titolo radica la poesia all’anno successivo alla detenzione svizzera

di Risi, durante la quale, su stimolo di Giansiro Ferrata, il poeta si dedicò alle versioni da Nerval. 289 Costituisce trasgressione evidente l’eccellente interpretazione di «lauriers blancs» con «allori fioriti», attraverso cui evidenzia antiermeticamente il nesso causale (la fioritura) che presiede alla tonalità croma-

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radicata nel quadro delle sue versioni nervaliane: da una ricognizione analitica con-

dotta sul Quaderno francese emerge infatti che le vere peculiarità del traduttore siano da ricavare non tanto da queste traduzioni, scandite da un prevalente intento divul-gativo290, ma piuttosto dai restanti esercizi in cui il poeta si muove con maggiori spa-zi di libertà stilistica.

tica della pianta, anziché accentuare quell'isolamento del dato coloristico (‘il bianco degli allori’*, per intendersi) così caro alla ‘natura visiva’ della sua poesia. Si tratta infatti di un gusto d'estrazione tardo-

simbolista (e segnatamente campaniana) che si trasmette abbondantemente alle restanti opere del tra-

duttore: «veines bleues» → «azzurro di vene» in Apparition d'un bras dans une rue de Paris di Jean Coc-

teau; «badigeon d'eau bleue» → «beverone misto d'azzurro» da Les premières communion di Rimbaud; «horizons / Sont à la toilette rouge de l'orage» → «orizzonti / Digià abbiglia di rosso l'uragano» e «front

rouge» → «rosso in fronte» in Michel et Christine, «soleils d'argent» → «argento di soli» e «golfes bruns» →

«buio di golfi» in Le Bateau ivre ancora di Rimbaud; «que la blancheur défend» → «difeso dal suo bianco»

in Brise marine di Mallarmé; «la rue grise» → «il grigio della via» in Postface di Léon-Paul Fargue. Al con-trario più vicina alle forme tipiche del suo dettato è la scelta di una formula arcaizzante come «salci»,

non dettata da ragioni metriche. Parronchi infatti decide spesso di inserire nelle sue traduzioni soluzioni

tipiche del proprio repertorio linguistico (anche se parzialmente infedeli alla poesia originale). Si vedano

nella raccolta delle sue versioni: da Le poison di Baudelaire, «Mes songes viennent en foule» → «Vengono

a fiotti i miei sogni», cui si somma la traduzione di «dans l'encens bleu» di Germain Nouveau con «in un

fiotto d'incenso»; dal Toast funèbre di Mallarmé, «tranquille désastre» → «tacito disastro», con un agget-

tivo da sempre caro al poeta, a partire dai «taciti conviti» di Pietre e musica, le «tacite apparenze» di Not-

te fuggitiva, e dall'«impaccio tacito» di Al di qua d'una sera; da Le bateau ivre, «m'a gonflé» → «m'ha en-

fiato» (si pensi ai «calici enfiati» di Reliquie del giorno); da Bonne pensée du matin ancora di Rimbaud,

«Sous les bosquets l'aube évapore / L'odeur du soir fêté» → «Sotto i boschetti vapora / L'odor della festa serale», che rinvia tra gli altri, dopo aver riproposto il complemento oggetto al posto del soggetto, e eli-

minato il dato temporale («l'aube») che svolgeva la funzione di soggetto, a Non parole che svelino il segre-to del Coraggio di vivere, dove il poeta si avvale dello stesso uso intransitivo che contraddice il verso rim-

baudiano; e analogamente si veda L'Horloge di Baudelaire, «Le Plaisir vaporeux fuira vers l'horizon» →

«vaporerà il Piacere all'orizzonte», con una ancor più esplicita verbalizzazione del sostantivo; da La gare

di Léon-Paul Fargue, «dans le plants ruisselants» → «tra i roridi polloni», con scelta iperletteraria che

evoca il «d'ombra rorido» che chiudeva Veglia in Arcetri, ma anche la traduzione di «me soufflaient tes

chœurs» con «i tuoi cori alitavano su me»; ma si segnalano anche la scelta di un verbo denominale per

tradurre dalla Chanson de la plus haute tour il verso «Et la soif malsaine / Obscurcit mes veines» con «E

la sete malsana / mi ombra le vene», replicato nel Bateau ivre nella versione di «teignant tout à coup les bleuités» con «ombrando trasparenze» e – riconducibile al medesimo ordine linguistico tendente all'a-

strattezza – la traduzione del primo verso di Postface di Fargue («Un long bras timbré d'or») con «Un

lungo braccio diafano d'oro». 290 È lo stesso poeta a illustrare in una lettera a Vittorio Sereni del 1946 i criteri cui all’epoca occorreva

attenersi per la collana Fussi-Sansoni; cfr. il carteggio Un tacito mistero, cit., p. 67: «Ora intorno a Sanso-

ni s'è già affollata la turba dei traduttori di professione e temo che anche il mio Nerval, pel quale ho an-cora bisogno di lavoro, non entri nella prima serie. Non so se ti spiegai che in questi libretti, beninteso

sin dove il tuo scrupolo lo consente, si tratterebbe di dare traduzioni anche letterali e per conseguenza di

tono divulgativo, non eccessivamente impegnate stilisticamente». Ma cfr. anche la lettera del 12 dicem-bre 1945, Ivi, p. 61: «Io farei volentieri per questa collezione un Nerval; sebbene abbia poche possibilità

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Nei versi tratti dai Sonnets e da Les Chimères si assiste infatti al rinvio solo spo-

radico alla riformulazione linguistica, prediligendo la tendenziale restituzione dell'immediato correlativo fonico nel caso di termini di radice comune nelle lingue d'origine e di arrivo291. È questo il fondamento dell’assoluta non conformità metrica e rimica292 delle traduzioni ai testi tradotti, come testimonia la cospicua partecipa-

zione in questo corpus nervaliano di versi lunghi e lunghissimi293. Anche dal punto di vista dell'interpunzione e della congruenza tra frase e verso, il traduttore di Nerval punta a conservare in genere la rigorosa struttura originale, priva di inarcature e senza valorizzazioni di particolari segmenti semantici. Un’importante eccezione è costituita casomai dagli interventi sostanziosi sul piano dell'ordine degli elementi della frase, su cui il traduttore esercita una certa libertà; e tuttavia si tratta di una li-bertà che riguarda più la canonizzazione dell’enunciato294 che la disposizione artifi-

di riuscire a una traduzione più che letterale. Ma comunque sarebbe una cosa che farei volentieri, anche

non dovendo riuscire più che a un'opera di semplice divulgazione». 291 Alcuni esempi di diversa resa di medesimi termini tra le versioni nervaliane e quelle non nervaliane:

«sévère Portique» sia di Delfica che di Érythréa è restituito con «Portico severo», mentre nelle traduzioni

baudelairiane una formula come «plus d'un portique fabuleux» in Le poison è reso con il plurale «loggiati

inesistenti» anziché, per intendersi, con ‘portico favoloso*’, e – similmente – «vastes portiques» di La vie antérieure con «spaziosi loggiati», piuttosto che con ‘vasti portici*’; e analogamente «sables d'or» è tra-

dotto con «sabbie d'oro» nel secondo sonetto del Christ aux oliviers, rispetto alle soluzioni in cui il com-

plemento è reinvestito sotto forma aggettivale, come «liqueur d'or» con «liquido biondo» in Larme di

Rimbaud, o «larmes d'or» di Germain Nouveau con «lacrime preziose». 292 Le poche rime conservate in questi sonetti sono in genere trainate dalla facile reversibilità degli origi-

nali francesi («armée» : «aimée» → «armata» : «amata»; «granit» : «brunit» → «granito» : «brunito»; «Orient» : «souriant» → «Oriente» : «sorridente»; «dorée» : «adorée» → «dorata» : «adorata»; «irritée» :

«ensanglantée» → «irritato» : «insanguinato»; «latin» : «Constantin» → «latino» : «Costantino»...). Sono più frequenti, ma mai normativi, altri parallelismi più deboli come l'assonanza o lo consonanza (signifi-

cativo, perché suggerito ma non dettato esplicitamente dal testo francese, il caso di renommée:fumée →

fama:fumo). Occorre tuttavia precisare che l'istituto rimico anche nelle altre versioni del libro è osservato

da Parronchi in rari casi, tra cui tuttavia spicca il caso di Le crépuscule de matin di Baudelaire, dove la

struttura rigidamente parallelistica dei distici alterna senza deroghe rime (talvolta del tutto irrelate agli equivalenti francesi: «inégaux:«travaux → «tratti» : «disfatti»; «édifices» : «hospice» → «casali» : «ospeda-

li»; «verte» : «déserte» → «verde-rosa» : «freddolosa») a consonanze e assonanze. 293 Si veda a puro titolo di esempio la traduzione del primo alessandrino di A Madame Sand («Ce roc

voûté par art, chef-d’œuvre d’un autre âge») con un verso lunghissimo come «Questa roccia artificiosamente incurvata, capolavoro d'altri tempi». 294 Alcuni esempi tratti dalla traduzioni nervaliane: «Qui des derniers Capets veut sauver les enfants» → «Che vuol salvare i bambini degli ultimi Capeti»; «Si tu vois Bénarès, sur son fleuve accoudée» → «Se tu

vedi Benares, adagiata sul suo fiume»; «Et de blancs papillons la mer est inondée» → «E il mare è invaso di bianche farfalle»; «Au Pausillippe altier, de mille feux brillant» → «A Posillipo altero, luccicante di mil-

le fuochi»; «Et de cendres soudain l'horizon s'est couvert» → «E a un tratto l'orizzonte s'è ricoperto di ce-

nere»; «J'ai parfois de Caïn l'implacable rougeur!» → «Ho a volte il rossore implacabile di Caino!»; «Cha-que fleur est une âme à la Nature éclose» → «Ogni fiore è un'anima schiusa alla Natura».

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ciosa delle componenti sintattiche della frase, che spesso, per evidenti ragioni di ri-

ma, subisce nel dettato nervaliano frequenti trasgressioni, anticipazioni, distassie. Nel merito delle singole formulazioni, la prima quartina – complice

l’affastellamento di elementi naturali che occupa i due versi centrali – non presenta sigle stilistiche discriminanti tra le diverse opere, ad eccezione forse della scelta da parte di Valeri di adoperare il clitico coreferente che, coniugato all’esplicitazione del soggetto («La conosci tu, Dafne») conferisce un tono solenne all’interrogazione del poeta. Anche la seconda quartina, pur registrando varianti triplici a livello lessicale (hôtes → ospiti/visitatori/passanti; dort → giace/riposa/dorme) e alcune redistribu-zioni del materiale sintattico (spicca la riduzione dei segmenti proposizionali operata da Risi al v. 6), si costituisce principalmente come premessa al centro di irradiazione semantica del sonetto rappresentato dalla prima terzina, che introduce e sviluppa i temi-base della sfida al tempo295 e dell’eterno ritorno296. Motivi che, sulla scorta del pensiero vichiano, divulgato in Francia fin dal 1827 da Jules Michelet, presiedono all’annuncio della nascita di un nuovo paganesimo espresso dalla figura sincretica della sibilla, annunciatrice delle dottrine pitagoriche e al contempo dell’avvento di Cristo. Alla luce di questa trama ideologica, le tre traduzioni tendono, ciascuna in modo differente, a ‘sovrasemantizzare’ l’area simbolica del ‘ritorno’: da parte sua Parronchi replica dall’originale l’accentuazione semantica del verbo tramite l’isolamento per interpunzione, enfatizzata dall’assertività del dettato esclamativo, mentre Valeri ricorre a una sintomatica struttura iterativa che crea una correlazione tra il piano stilistico e quello tematico all’insegna della ripetizione («torneranno»; «tornerà»), dopo aver disarticolato la sincronia tra frase e metro; Risi infine declina questa struttura in una variazione sintagmatica del verbo («tornerà»; «farà ritorno»), particolarmente significativa nel quadro di una trama stilistica che aveva eluso la

conduplicatio (rispettata dalle versioni di Parronchi e Valeri) del nervaliano cette...

cette al v. 1 e al v. 5.

295 Cfr. per questo tema G. Vanhèse, Tivoli dans la poésie de Gérard de Nerval, in L’imaginaire nervalien. L’espace de l’Italie, textes recueillis et présentés par M. Streiff Moretti, Napoli, ESI, 1988, p. 74, secondo

cui Delfica punta a annullare il tempo «dans la mesure où la création poétique instaure un temps sacré, circulaire, susceptible d’être réitéré à l’infini et exhume ce qui était au commencement». 296 Il tema del continuo ritorno del mito e delle cose è alla base dell'intero insieme delle Chimères, per cui

cfr. M. J. Durry, Gérard de Nerval et le mythe, Paris, Flmmarion, 1956, p. 183. «Tout a disparu, tout veut

être ressaisi. Les dents du vieux dragon se ressèment... Ils reviendront, ces dieux... Le treizième revient... Un cri, un souhait éperdu, un ordre, appelle l'éternel retour: “Rends-moi le Pausillippe...” “Colonne de

Saphir... Reparais”. Le murmure tremblant des arbres de Delfica faisait glisser dans le recommencement de la chanson tendre la promesse du recommencement des dieux et de l'amour morts».

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È però il verso successivo, di ispirazione virgiliana297, il più enigmatico della pro-

fezia nervaliana («Le temps va ramener l’ordre des anciens jours»), e il più eloquente

nel quadro dell'assoluta libertà metrica perseguita da Parronchi. Il poeta di I giorni sensibili infatti traduce l'alessandrino con un verso lungo in cui l'aggettivo ‘antico’ slitta da «giorni» a «giro» («Il tempo è prossimo a riportare il giro antico dei gior-ni»), senza altre riformulazioni d’ordine sintattico che invece sono investite in Risi e Valeri. Notevole l'accentuazione della circolarità del mito nervaliano nella scelta di

Parronchi di tradurre «ordre» con «giro» anziché con ‘ordine’, vocabolo preferito dagli altri due traduttori; qui il poeta introduce un leggero scarto semantico rispetto

al testo originale: il ritorno non riguarda l'ordine mitologico della classicità, ripetuto e reintegrato dal passato al presente, ma «il giro antico dei giorni», prevalendo sot-

tilmente il principio dell'identità su quello, per così dire, della proiezione. Nella ver-

sione di Risi invece, la prima terzina, in quanto culmine del tono profetico nervalia-no, perde il passo ‘lungo’ dell'alessandrino per l'andamento solenne, ma più sinteti-co, dell'endecasillabo, con la ‘pseudo-anafora’ iniziale che marca il verso in discesa con soggetto postverbale («Farà ritorno l’ordine di un tempo»). Lo slittamento in questo caso è imposto alla parola «temps», che da soggetto della frase passa a svolge-re la funzione di determinazione avverbiale sostitutiva del genitivo «des anciens jours», con «ordine» impiegato come nominativo. Valeri infine spezza il rigoroso ordine paratattico della terzina subordinando il v. 10, e ricorre a un arcaismo come «evo» in assonanza con «vero» per rispettare il primato del criterio parallelistico del-la sua traduzione («e il lor evo / tornerà, rinnovato l’antico ordine del primo»).

L'ultimo verso della prima terzina è ancora emblematico del metodo letterale parronchiano: «La terre a tressailli d'un souffle prophétique...» è infatti restituito con «La terra ha trasalito d'un soffio profetico», che – oltre a ricalcare perfettamente il modello originale sul piano lessicale – conserva ‘ermeticamente’ la preposizione

anomala («trasalito d'un soffio») normalizzata nelle altre due traduzioni. Valeri in-fatti canonizza la formula in «trasalito a un annuncio», mentre Risi elude il problema concretizzando il francese «a tressailli» in «è scossa» (autorizzato in questo dalla consueta semantizzazione nervaliana dell'Italia come paesaggio archetipico di fuo-chi, vulcani e terremoti298). Se dunque Risi per certi versi risale ed esplicita il percor-so figurale che ha presieduto all'origine di questa immagine, Valeri da parte sua ope-

ra su un segmento diverso ma nella stessa direzione ‘concretizzante’. Pur conservan-

297 L’alessandrino in questione è ispirato infatti da un verso della quarta egloga di Virgilio: «Magnus ab

integro saeculorum nascitur ordo». 298 Cfr. ad esempio, oltre ad alcuni passi di Octavie, la poesia Myrtho e la sua allusione a «Pausillippe al-

tier»: «Je sais pourquoi là-bas le volcan s'est rouvert... / C'est qu'hier tu l'avais touché d'un pied agile, / Et de cendres soudain l'horizon s'est couvert».

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do la formula ‘impertinente’ «ha trasalito», il poeta traduce «souffle profetique» con

un meno astratto «annuncio del vero» che, dettato dalle necessità di rima con «seve-ro», oggettiva la profezia conferendole maggiore solidità, forse tradendo quella can-cellazione del «senso della materia»299 che secondo Parronchi costituisce il tratto più segreto della scrittura nervaliana. Non a caso dunque l'interpretazione offerta dal poeta fiorentino non è solamente la più fedele da un punto di vista linguistico, ma anche quella che in maggiore misura conserva «questo senso costante di vittoria sul reale, sul dato materiale destinato a eccitare l'azione dell'intelligenza»300. Occorre tut-tavia notare come anche Risi però – forse proprio a contrappeso della scelta orienta-ta in senso materializzante del verbo – opti per una formula fortemente evocativa (complice il plurale di indeterminazione) come «aura di presagi».

L'ultima terzina offre in primo luogo problemi di tipo ‘consequenziale’, cioè nell'ordine imposto alla successione dei versi. La disposizione nervaliana è osservata senza interferenze solo da Parronchi (ABC), mentre Risi capovolge i primi due versi (BAC) redistribuendo però in parte alcune componenti del discorso, mentre Valeri (ACB) investe la lapidaria chiusura nervaliana come parentetica che sospende – an-ziché concludere – l'asserto principale della terzina. Proprio le due traduzioni di Risi e Valeri danno vita a un leggero ma non irrilevante scarto semantico: in prima istan-za si segnala il diverso impiego della congiunzione, che in Valeri – come in Parron-chi – articola le due terzine secondo un rapporto di contemporaneità («Frattanto»); viceversa Risi sceglie una congiunzione avversativa («Ma») che pone l’ultima terzina quasi in contraddizione con il «souffle prophétique» nervaliano. Una negazione della restaurazione mitica della classicità irrobustita dalla scelta di isolare la secca chiusura del sonetto con la lineetta già presente nell’originale, e dall’altra dall’utilizzo del sen-so continuativo del presente indicativo («turba») anziché del passato prossimo («n’a dérangé»). Contrariamente a questa costituzione ‘statica’ della traduzione di Risi, Valeri enfatizza la provvisorietà della terzina attraverso lo slittamento dell’avverbio

‘ancora’ dal sonno della sibilla all’imperturbabilità del «portico severo»: ne deriva forse un’accentuazione dell’ambiguità dell’avverbio, che se coniugato a un’azione in corso rilancia il senso della continuità (‘dorme ancora’), mentre in frasi negative in-troduce un’incrinatura, accerta una condizione che investe il passato e il presente ma nulla, o quasi, dice del futuro (‘il Portico non è ancora – fino ad adesso – stato turba-to’). Tra l’immobilismo di Risi e la provvisorietà di Valeri si colloca la versione di

299 A. Parronchi, Gérard de Nerval, in Id., Quaderno francese, cit., p. 29: «La suprema originalità di Nerval consiste nell'aver cancellato, dalla sua vita come dalla sua opera, il senso della materia. Non c'è cosa ch'e-

gli non abbia spiritualizzato». 300 Ivi, p. 30.

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Parronchi, che mira a mantenere con la maggiore fedeltà possibile le relazioni inter-

ne stipulate fra gli elementi del discorso originale. 2. L’analisi comparatistica di queste versioni colloca Valeri e Parronchi ai lati di

un ideale trittico la cui posizione centrale è occupata da Risi, l’autore maggiormente incline a un compromesso tra il primato formale dell’uno e la fedeltà letterale dell’altro. La traduzione del poeta fiorentino infatti è quella che in modo maggior-mente costrittivo sconta la propria libertà metrica nei termini di una tendenziale – e, va da sé, asintotica – ‘specularità’ del messaggio. È in relazione negativa a questa

norma che si pone la riduzione301 di Delfica, all’insegna della regolarità metrica e so-prattutto di una libertà stilistica che fornisce numerose indicazioni sulle vere ten-denze metodologiche praticate nella restante attività del traduttore. Il testo:

La conosci tu, Dafne, quell'antica romanza, sotto il sicomoro, o i lauri bianchi, sotto l'ulivo, il mirto, o i salci tremuli, onda d'amore... che ritorna?

Riconosci tu il Tempio, il peristilio aereo, i cedri amari che addentavi,

l'antro, fatale agli ospiti, ove dorme il vecchio seme del dragone vinto?

Ritorneranno questi Dèi che tu piangi! Il tempo riporta il giro antico dei giorni, la terra ha trasalito...

Tuttavia la sibilla nel suo viso latino dorme ancora sotto l'arco di Costantino – e il Portico è severo.

Come è evidente, il criterio dominante è qui la riconduzione della discontinuità

versale della prima versione alla disciplina dell'endecasillabo; ne è testimonianza esemplare il riadattamento letterale di «lauriers blanc» in «lauri / bianchi», anziché

301 La Riduzione non era compresa nell’edizione Fussi-Sansoni delle Chimères del 1946, né d’altra parte il

poeta offre indicazioni relative a una possibile pubblicazione del testo precedente al Quaderno francese; il testo dunque è da intendersi inedito all’altezza del 1989.

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con ‘fioriti’ che, preferito da Parronchi all'interno di una struttura a verso libero,

viene sacrificato e normalizzato per ragioni metriche. L'adozione dell'endecasillabo impone poi al traduttore l'uso di forme sintetiche («la terre a tressailli d'un souffle profetique» → «la terra ha trasalito»; «et rien n'a dérangé le sévère Portique» → «e il

Portico è severo») e un dettato prodigo di enjambements che compromettono del tutto la tendenziale concomitanza originale di frase e verso. Anche le scelte linguisti-

che che scandiscono questa riduzione rispondono a criteri di traduzione molto di-

versi da quelli del restante corpus nervaliano, come nel caso della resa di «au pérysti-le immense» con «aereo»; tuttavia l’acme della libertà stilistica che sarà propria delle sue versioni più riuscite non si configura nei casi in cui l'aggettivazione viene inte-ramente riformulata, ma si concretizza esemplarmente nell'apposizione «onda d'a-more» riferita all'«antica romanza» del primo verso.

Si tratta di un'attestazione particolarmente importante in quanto consente di ri-costruire il percorso immaginativo, quasi l’associazione inconscia che presiede alla genesi di questo modulo appositivo, apparentemente non giustificato dal modello originale. Non sembrano esservi infatti riferimenti testuali a componenti equoree o

liquide, se non in maniera piuttosto generica: si segnalano ad esempio il «tu pleures»

del v. 9 o l’attestazione di «grotte», topos nervaliano in cui, in El Desdichado, «nage la syrène». Decisamente improbabile che l'immagine derivi da «les saules tremblants», cioè da un ipotetico tremolio dei rami dei salici riflessi in uno specchio d'acqua, se-condo gli abituali codici figurativi. La ragione più plausibile dell'inserzione di questa immagine in un contesto che apparentemente non la giustifica rinvia piuttosto a un'operazione non di doppia, ma addirittura di tripla memoria: se infatti una tradu-zione deriva necessariamente dall'intersezione e dal compromesso di due voci, acca-de talvolta che si aggiunga un'ulteriore interferenza a stratificare il palinsesto di una poesia302. Il caso dell'«onda d'amore» di Parronchi è flagrante: quest’invenzione figu-

302 Del resto queste forme di sovrapposizione intertestuale e citazionistica sono fenomeni tutt'altro che sconosciuti al resto dell'attività di traduzione di Parronchi. Scorrendone le versioni è facile infatti imbat-

tersi in prelievi talvolta clamorosi, altre volte più discreti o solamente ipotetici. Alla prima categoria ap-

partiene senz'altro la traduzione dal Bateau ivre di Rimbaud di «cieux de braises» con il dantesco «cieli di bragia», ma inequivoca, nella stessa poesia, è anche la memoria ungarettiana contenuta nella versione di

«liens frêles» con l'allitterante «fragili fibre», che rinvia a certe soluzioni tipiche del Porto sepolto. Alla

seconda voce è possibile ascrivere la traduzione ‘montaliana’ del verso di Faim di Rimbaud «Le supplice

est sûr» con «La tortura è certa», oppure – ancora dal Bateau ivre – lo ‘sbandare’ della nave potrebbe rin-

viare all'Ulisse di Umberto Saba («vele / sottovento sbandavano più al largo)», un autore in genere estra-neo all'officina parronchiana. Un'ipotesi, quella del prestito sabiano, forse avvalorata dalla scelta di Par-

ronchi di intervenire fortemente sulla struttura sintattica del verso («Des écumes de fleurs ont bercé mes

dérades» → «Sbandando, spume mi cullavano di fiori»). La frase infatti è smontata in due segmenti ipo-tattici che pongono in rilievo l'isolato gerundio che traduce e ‘verbalizza’ – forse appunto per effetto sa-

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rale non è dovuta infatti né all'«ancienne romance», di cui si costituisce come appo-

sizione, né alla «chanson d'amour», di cui si pone come sostituzione, ma alla frase relativa che la segue. Infatti l'emistichio «qui toujours recommence» evoca uno dei

più celebri versi del Cimitiére marin, poemetto che di lì a poco sarebbe stato al cen-

tro del suo carteggio con Mario Tutino. È proprio «La mer, la mer toujours recom-mencée» che motiva con molta pertinenza la metafora marina di Parronchi, costi-tuendosi come mediazione ideale a generare l'associazione canto-onda quale si con-

figura nella riduzione di Delfica, e a sanzionare l’assoluta diversità metodologica cui il poeta si sente autorizzato quando è dispensato dai criteri di ‘disimpegno’ stilistico previsti per la restante costellazione di versioni da Nerval.

biano – il sostantivo «dérades», impostando un effetto ‘rallentante’ al discorso assecondato anche dai due

sostantivi assoluti («spume», «ali») e dall’iperbato forte che separa «spume» e «di fiori», a meno che la

riscrittura parronchiana non associ «di fiori» a «cullavano» secondo il criterio ermetico dell'impertinen-za e della labilità dei nessi preposizionali.

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Tradurre controtempo. Le crépuscule du matin di Baudelaire in For-

tini e Parronchi

Uno sguardo d’insieme alla storia recente della traduzione in Italia permette di rintracciare in un campione significativo di poeti-traduttori almeno una particolare tendenza che possa dirsi largamente condivisa, legata forse al criterio ‘legislativo’ più intransigente nel creare un’aspettativa formale e nel radicalizzare gli esercizi com-pensativi sugli altri livelli del discorso (sintattico, lessicale, semantico, tonale…): l’indebolimento delle funzioni della rima. Un fenomeno, questo, analogo d’altronde a ciò che si registra nell’ambito della poesia ‘di primo grado’, in cui la rima – al di fuori di usi parodici, metaletterari o citazionali – ha in gran parte perduto, seppure con importanti eccezioni, il ruolo normativo tradizionalmente assegnatole. Proprio

l’usura, lo svuotamento che ha investito la rima come istituto formale fa sì che a par-tire dalla sua adozione o non-adozione in sede traduttiva sia possibile: da un lato ac-certare la trama di relazioni e distanze che un testo tradotto stipula con la tradizione della lingua di arrivo; dall’altro formulare ipotesi sui rapporti (ideologici, psicologici, culturali) che il traduttore stringe con le categorie del contemporaneo, con il proprio radicamento nella modernità.

Tra le ricognizioni più capillari condotte in questo senso spiccano le analisi di Franco Fortini, lungamente in ascolto dei problemi formali innescati dal contatto fra le strategie stilistiche della poesia-fonte e il contesto culturale di arrivo. Secondo For-tini infatti questa interazione, lungi dal coinvolgere domini di natura solo linguistica e poetica, mette in circolazione nel testo innanzi tutto valori di tipo storico, ideologi-co, convenzioni letterarie, istituzioni latamente politiche: qui il dialogo tra segno e

spazio bianco assume a priori un decisivo statuto significante, già che, precisa il criti-co, «il bianco della pagina è coperto degli invisibili segni di un extratesto storico-culturale amplissimo»303. Su questo terreno si misura la prossimità delle interroga-

303 F. Fortini, Realtà e paradosso della traduzione poetica, Seminario sulla teoria e pratica del tradurre (Istituto di Studi Filosofici, Napoli, 1988-1989), a cura di Erminia Passannanti, No Profit E-book, 2009,

Leonardo Manigrasso, Capitoli autobiografici : poeti che traducono poeti dagli ermetici a Luciano Erba ISBN 978-88-6655-502-5 (online), CC BY-NC-ND 3.0 IT, 2013 Firenze University Press

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zioni sollevate dalla pratica del tradurre agli argomenti più incandescenti

dell’indagine fortiniana, dato che il rapporto (apparentemente contraddittorio in un’ottica ‘rivoluzionaria’) tra lo studio delle implicazioni ‘civili’ del dato formale e il ricorso ai moduli della tradizione304 (talvolta i più ipostatizzati) è tra i fenomeni più scandagliati di un autore che, nonostante la serrata attività di decostruzione e critica dei ‘poteri’ culturali, «non ha smesso per un attimo di agire all’interno dell’istituzione letteraria, della convenzione poetica» (Ramat305). Una sorta di «rela-tivo “classicismo” formale» (Mengaldo306) che se da una parte concepisce gli stru-menti stilistici della tradizione come emanazione di un sistema di valori borghese (e di fatto reazionario), dall’altra – brechtianamente – li riassimila al proprio repertorio

p. 34. Il testo pubblica on-line la preziosa sbobinatura del corso sui problemi della traduzione tenuto a

Napoli da Fortini nell’inverno del 1989. 304Cfr. Id., Poeti del Novecento, Roma-Bari, Laterza, 1977, p. 169: «La lingua letteraria è per lui [Fortini stesso] un luogo di possibile riflessione rivoluzionaria, e tutto il discorso formale nasce fondamental-

mente da una riflessione equilibrata, capillare e intimamente dialettica col patrimonio della tradizione letteraria». 305 S. Ramat, Storia della poesia italiana del Novecento, Milano, Mursia, 1976, p. 573. 306La formula è proposta e approfondita in P. V. Mengaldo, Introduzione a F. Fortini, Poesie scelte (1938-

1973), Milano, Mondadori, 1974, pp. 13-14: «Due sono gli aspetti più vistosi di questo atteggiamento. Da un lato il recupero, che può toccare il manierismo, di forme metriche della tradizione più autorevole

[…]. Dall’altra le “imitazioni” o parafrasi […]. Senonché delle due valenze fondamentali che assumevano in Brecht le modulazioni classicheggianti – rovesciamento parodico del linguaggio dell’alta tradizione

borghese e ricerca di oggettivazione e straniamento dei dati poetici attraverso uno strumento “neutro” – Fortini fa propria, significativamente, quasi solo la seconda, col suo eventuale corollario, cioè la possibili-

tà di coniugare cadenze popolaresche alle “forme semplici” della traduzione, e con in più un’intenzione, estranea a Brecht, di retrospettività, di poesia che monta sulle spalle di un’altra poesia. Qui sta, mi sem-

bra, il punto. Quanto più preme un’accesa materia esistenziale, tanto più Fortini affida alla poesia non

già il ruolo dell’immediatezza individuale d’espressione ma quello della mediazione oggettiva e indiretta. Il problema è ben altro che semplicemente formale, nel senso che la mediazione oggettiva della forma è

omologa a quella che l’oggettività della storia universale, con la sua compresenza di passato depositato e di futuro contenuto come tendenza, esercita sul qui-e-ora dei destini individuali […]. Verificare la pro-

pria storia individuale “dal punto di vista dell’universale”: questo, e non è poco, è il compito finale che Fortini assegna alla sua poesia, disposto a tutti i rischi del caso». Su un tenore simile, relativamente

all’eredità brechtiana di Fortini, cfr. M. Boaglio, La casa in rovina. Fortini e la "funzione-Brecht", «Critica Letteraria», 1, 2008, p. 63: «[Brecht] sul piano letterario, rappresentava l’unico caso di scrittore del Nove-

cento totalmente “consumato” nella storia, in cui aveva accettato di risolvere se stesso e le proprie con-traddizioni poetiche ed esistenziali: di lì venivano la sua predilezione per la parabola e l’allegorismo, le

cadenze epigrafiche e l’intenzione didascalica dei modelli sapienziali, l’incessante appello al lettore, la

necessità dello straniamento – nella lirica non meno che nei testi drammatici – e quella che Fortini ha

chiamato “poesia della situazione poetica”, ovvero la tensione “fra un universo culturale-ideologico pre-

supposto dall’autore e una occasione, una situazione, un esempio che lo confermino sviluppandolo”, per cui le poesie del tardo Brecht sono al tempo stesso totalmente politiche e rigorosamente private» Le cita-

zioni da Fortini sono tratte dalla sua Prefazione a B. Brecht, Poesie e canzoni, a cura di R. Leiser e F. For-tini, con una bibliografia musicale di G. Manzoni, Torino, Einaudi, 1959, pp. XI e VIII.

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stilistico come fattori di straniamento e distacco, come complementi di

quell’indispensabile mediazione oggettiva e razionale che ha sempre trattenuto For-tini al di qua degli sperimentalismi d’avanguardia del secondo Novecento.

È in questo contesto che la riflessione sull’incidenza dei codici formali nell’economia di una versione pone in primo piano lo statuto iperletterario della ri-ma; in particolare, alla luce dell’esaurimento (almeno sincronico, attuale) delle sue funzioni espressive, Fortini giunge a dichiarare la sopraggiunta intraducibilità in ri-ma di qualsiasi grande poeta straniero:

Oppure, posso essere motivato dalla crisi della rima nella mia tradizione

poetica, nel rifiuto di rimare per motivi culturali perché lo status della rima è decaduto, avvertito come vecchio, inautentico. […]. Di fronte ad un elemento come la rima, soprattutto quando, come accade in certe forme metriche e pro-sodiche, essa è di singolare rilievo espressivo, la scelta sarà dettata dall’elezione di questa o di quell’area di consenso dei destinatari. La svaluta-zione della rima, in ambito italiano, non accoglierebbe adeguatamente un poeta straniero che, per quanto grande, fosse riportato, nella lingua contem-poranea, attraverso tale applicazione formale. Siamo, in questo caso, dinanzi ad un fenomeno epocale che, in Italia, ha un passato di oltre un secolo di av-versione a questa forma lirica. La situazione potrebbe cambiare, ma nel frat-tempo, il traduttore sa di dovere fare convivere un’eventuale rima con il no-stro attuale sistema di non-rima, che enfatizza la dicibilità, ovvero la recita-zione del testo poetico, a scapito della ‘memorabilità’, conferita dalla versifica-zione in rima307.

Proprio attraverso la rima, in quanto elemento che più saldamente riannoda il

testo ai codici della tradizione, può transitare un’idea della modernità, l’invito a rin-

negarla o l’ipotesi di intervenirvi attivamente. È un’alternativa, questa, che si presen-ta in modo esemplare nel raffronto fra una traduzione di Fortini e quella di un poeta anagraficamente di poco più anziano come Alessandro Parronchi, suo compagno di studi superiori (sia pure in classi differenti) al «Liceo Classico Dante» di Firenze ma ben presto protagonista di un percorso critico e letterario radicalmente difforme. Il

componimento in questione è Le crépuscule du matin di Baudelaire, pubblicato il

primo febbraio del 1852 sulla rivista «Semaine Théâtrale» sotto il titolo di Les deux crépuscules, in coppia con la poesia destinata a confluire nelle Fleurs du mal con il

nome ‘speculare’ di Le crépuscule du soir. Il testo della poesia:

307 F. Fortini, Realtà e paradosso della traduzione poetica, cit., pp. 42-44.

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La diane chantait dans les cours des casernes, Et le vent du matin soufflait sur les lanternes.

C'était l'heure où l'essaim des rêves malfaisants Tord sur leurs oreillers les bruns adolescents; Où, comme un œil sanglant qui palpite et qui bouge, La lampe sur le jour fait une tache rouge; Où l'âme, sous le poids du corps revêche et lourd, Imite les combats de la lampe et du jour. Comme un visage en pleurs que les brises essuient, L'air est plein du frisson des choses qui s'enfuient, Et l'homme est las d'écrire et la femme d'aimer.

Les maisons çà et là commençaient à fumer. Les femmes de plaisir, la paupière livide, Bouche ouverte, dormaient de leur sommeil stupide; Les pauvresses, traînant leurs seins maigres et froids, Soufflaient sur leurs tisons et soufflaient sur leurs doigts. C'était l'heure où parmi le froid et la lésine S'aggravent les douleurs des femmes en gésine; Comme un sanglot coupé par un sang écumeux Le chant du coq au loin déchirait l'air brumeux; Une mer de brouillards baignait les édifices, Et les agonisants dans le fond des hospices Poussaient leur dernier râle en hoquets inégaux. Les débauchés rentraient, brisés par leurs travaux.

L'aurore grelottante en robe rose et verte S'avançait lentement sur la Seine déserte, Et le sombre Paris, en se frottant les yeux, Empoignait ses outils, vieillard laborieux.

Questa è dunque la metà di un dittico, la cui organicità d’insieme è suggerita non

solo dal parallelismo dei titoli, ma anche dalla reversibilità dell’articolazione strofi-

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ca308. Il metro si uniforma sulla misura classica degli alexandrins à rime embrassées, ancora secondo un’alternanza capovolta nei due tableaux parisiens fra rime maschili e femminili. Il taglio tematico del componimento è orientato in senso descrittivo, a cui si correlano il ricorso a un tempo narrativo come l’imperfetto indicativo e

l’espunzione del je del poeta, unico caso all’interno di questa sezione delle Fleurs du mal. Sono espedienti che se da una parte assecondano un movimento di estraniazio-ne e distacco, dall’altra sono compensati da un alto tasso di metaforicità che dà adito a un registro piuttosto mosso, in cui la natura tradizionalmente ‘impoetica’ di nume-rosi dettagli non compromette la possibilità di assumere un tono talvolta arcaizzan-te309.

Le due traduzioni sono apparse con un lungo intervallo di tempo: Parronchi,

prima di inserirla nel Quaderno francese310, pubblicò la sua versione su «Letteratu-

ra»311 nel 1957, mentre Fortini incluse nel 1982 il suo esercizio inedito nell’antologia delle proprie traduzioni312, al termine di un’incubazione trentennale di cui testimo-niano gli estremi cronologici trascritti in calce (1950-1980). Le due poesie:

- Alessandro Parronchi

Il crepuscolo del mattino La diana nei cortili di caserme e il vento della notte su lanterne. È l’ora in cui gl’incubi violenti torcon nel letto i bruni adolescenti; occhio iniettato di continuo mosso, sul giorno il lume fa una macchia rossa; come il lume col giorno lotta l’anima sotto il peso del corpo rozzo, esanime.

308 Le crépuscule du matin in effetti incornicia le due stanze centrali con un distico di apertura da una

parte e un doppio distico di chiusura dall’altra, laddove in Le crépuscule du soir le due strofe centrali so-

no introdotte e chiuse secondo una struttura perfettamente rovesciata (rispettivamente quattro e due versi). 309 È il caso di un vocabolo come «lésine», attestato anche in Au lecteur, v. 1: si veda in questo senso C.

Baudelaire, Œuvres complètes, I, texte établi, présenté et annoté par C. Pichois, Paris, Gallimard, 1975, p.

831: «Le mot lésine, plutôt rare, est bien attesté à l’époque baroque et classique, chez Scarron et Boileau par exemple […]: il est de ces vocables qu’affectionne Baudelaire pour leur valeur pittoresque, neuve». 310 A. Parronchi, Quaderno francese. Poesie tradotte con alcuni commenti, Firenze, Vallecchi, 1989, pp. 90-93. 311 Id., Da Baudelaire (otto liriche), «Letteratura», V, 29, settembre-ottobre 1957, pp. 6-7. 312 F. Fortini, Il ladro di ciliegie e altre versioni di poesia, Torino, Einaudi, 1982, pp. 132-133.

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Volto in pianto che a lungo il vento asciuga,

l’aria è piena di fremiti di fuga, l’uomo è stanco di scrivere e la donna di amare. Case prendono a fumare. Le mondane, occhi pesti e bocca aperta, profondano nel loro sonno inerte; mendicanti, carni fredde, avvizzite, soffiano sui carboni e sulle dita. Ecco l’ora di freddo e di sgomento che il dolore alle donne in doglia aumenta; e, singhiozzo da un sangue attraversato, lungi il canto del gallo ha lacerato la bruma che in maree bagna i casali; agonizzanti al fondo di ospedali l’ultimo rantolo esalano a tratti. Rientrano i nottambuli disfatti. Sulla Senna deserta in veste verde- rosa avanzava aurora freddolosa. Parigi oscuro strusciandosi gli occhi, impugnava gli arnesi, laborioso vecchio.

- Franco Fortini

L’alba Squilli da cortili di caserme e il vento dell’alba ai fanali.

Era l’ora che maligna la torma dei sogni contorce gli adolescenti bruni sui loro letti;quando, pupilla sanguinosa che palpita e cerca, la lampada si arrossa incontro alla luce del giorno; quando combatte l’anima col corpo greve e ìmita la lotta fra la lampada e il giorno. Simile a un viso in lacrime nel vento vivo è il brivido, nell’aria, delle cose che spariscono. E l’uomo è stanco di scrivere e la donna di amare.

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Qua e là, cominciavano a fumare

le case. Bocche aperte, occhiaie péste, dormivano le puttane quel loro sonno sordo. Alito sulle braci, alito sulle dita, le donne dei poveri, seni nel gelo sfiniti.

Era l’ora che tra freddo e miseria si fanno più acute le doglie. Come un singhiozzo che strozzano schiume di sangue distante il canto di un gallo lacerava la bruma. Tra le mura la nebbia, un mare. E in fondo agli ospedali le agonie spezzavano gli ultimi rantoli disordinati. I servi del vizio tornavano stronchi dalle fatiche loro.

L’aurora rabbrividita in veste rosa e verde sulla Senna deserta lentamente veniva avanti. E riprendeva i suoi ferri, tra sonno e veglia ancora, cupo vecchio laborioso, la Città.

Il ricorso sistematico a distici di endecasillabi rimati (o comunque legati da vin-

coli fonici rigorosi) è un espediente del tutto eccezionale nel corpus delle traduzioni

parronchiane, dove in genere prolifera il verso libero e senza rime. Nondimeno è un addestramento metrico e fonico del tutto inscrivibile nella strumentazione stilistica dell’autore, che anche all’altezza della sua più intensa fase di sperimentazione forma-le tende a collocarsi nel solco di strutture metriche saldamente autorizzate dalla tra-dizione313. Se d’altra parte Parronchi traduttore si serve altrove di forme aperte o comunque non modulari, il riferimento a un paradigma di classicità è delegato ad altre strategie testuali come la selezione di un lessico elevato-sublime, o la quantità ingente di inversioni sintattiche. Un insieme di fenomeni che non si inscrive sola-

313 Un allineamento sulla diagonale della tradizione a volte anche scarsamente funzionale a certe inten-

zioni sperimentali, come nel poemetto Nel bosco. L’opera in effetti registra proposte largamente innova-

tive nella coniugazione dei registri narrativi e lirici, nel montaggio ispirato dagli arditi incastri metadie-getici del film di Kurosawa da cui è tratta la storia, nella riabilitazione della referenza della parola poeti-

ca, nella traduzione intersemiotica; e tuttavia uno dei limiti del poemetto è stato appunto quello di esser-

si imposto il ritmo solenne, continuo, declamativo dell’endecasillabo, poco affine alle traiettorie spezzate, discontinue, poliprospettiche del narrato.

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mente nell’ambito di una pratica stilistica coerente – per certi versi – all’estrazione

‘ermetica’ del poeta, ma che riflette nelle proprie strutture anche una posizione, per così dire, ideologica e filosofica; una posizione che pur trovandosi nella ‘stagione del-le traduzioni’314 parronchiana a uno stato ancora provvisorio, embrionale, impugna già saldamente alcuni motivi destinati nei decenni successivi ad accentrarne l’orizzonte tematico all’insegna dell’inattualità315.

La sua poesia infatti, a partire dagli anni Cinquanta, tende sempre più a radica-lizzarsi sulla dissociazione dal proprio tempo, sulla distonia, su un’assiologia lacera-ta, internamente contrapposta. Da una parte il poeta isola un’area di temi di ispira-zione romantica in cui convergono i fattori ‘unificanti’ rispetto alla frammentarietà psicologica dell’uomo novecentesco (l’arte, la natura, la religione, sovrintesi dal prin-cipio etico-estetico della bellezza); dall’altra invece pone l’insieme di elementi centri-fughi che costituiscono il moderno mondo dimidiato, le forze regressive (tra cui, leopardianamente316, il progresso) del reale. A queste due aree di valori corrispondo-no poi circoscrizioni lessicali ben definibili, in cui si fronteggiano una sorta di ‘lin-gua della transitorietà’, dove si incrociano i repertori tematici e i livelli espressivi che riguardano la «morte tecnologica»317, il presente «insopportabile»318, la «corrente / che va contenta solo dell’andare»319, il progresso «mai piaciuto ai poeti»320, e una ‘lingua dell’inattuale’, punto di intersezione tra linguaggio e riflessione metafisica

314 Con ‘stagione delle traduzioni’ nella storia della poesia di Parronchi si intende il quasi ventennio che

va dagli esercizi d’esordio dei primi anni Quaranta fino all’intensa stagione degli anni Cinquanta (del ’59

è la versione del Britannicus di Racine), dopo la quale le distillatissime traduzioni del poeta (ma si arriva

addirittura agli anni Novanta e Duemila) avranno sempre più carattere episodico. 315 L’approdo alle posizioni dell’inattualità può essere sintetizzato nei termini di quella provocatoria rico-

struzione della proprio vicenda di poeta formulata da Parronchi come transito da posizioni di punta, e

quasi avanguardistiche, della giovinezza, passando per il dettato saggio e giudizioso della prima maturità, fino a farsi ‘reazionario’ con la vecchiaia (una vecchiaia presunta, almeno, già che Parronchi inizia a de-

finirsi ‘vecchio’ già sulla soglia dei cinquant’anni...). Cfr in questo senso A. Parronchi, Nota biografica al 1989, in F. Piemontese (a cura di), Autodizionario degli Scrittori italiani, Milano, Leonardo, 1989, pp.

260-261, poi in A. Parronchi, Le Poesie, con un saggio di E. Ghidetti, Firenze, Polistampa, 2000, vol. II, p.

765. Sul tema dell’inattualità di Parronchi sia consentito il rimando a L. Manigrasso, «Una lingua viva

oltre la morte». La poesia ‘inattuale’ di Alessandro Parronchi, Firenze, Società Editrice Fiorentina, 2011. 316 Cfr. A. Parronchi, Intervista all’autore, in Id., «Il computar» e altri studi leopardiani, Firenze, Le Lette-

re, 1998, p. 148: «Leopardi considerato in sé può forse sembrare un nemico del progresso, un “reaziona-rio”. Ma contro cosa reagiva? Quali erano, e che dicevano i suoi oppositori? Se si indaga, e si studiano le

circostanze, ci si accorge che Leopardi, nel suo tempo, era l’unico che vedeva chiaro, al di là delle appa-renze e dei proventi immediati, dov’è che il progresso avrebbe condotto». 317 Id., - Che vuoi -, v. 19, in Id., Le poesie, cit. 318 Id., «No saber», v. 30, ivi. 319 Ivi, vv. 64-65. 320 Id., «Il computar», in Id., «Il computar» e altri studi leopardiani, cit., p. 104.

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dalle cui articolazioni invariabili e ricorrenti si irradiano valori inscrivibili in un pia-

no di autenticità, in quanto sottratti alle coordinate relativizzanti di tempo e di luo-go.

Esistono insomma nella poesia di Parronchi due regioni stilistiche saldamente organizzate in un’indissolubile interazione interna di componenti linguistiche, se-mantiche, tematiche ed etiche, all’insegna del rifiuto dell’eufemismo e della compen-sazione formale rispetto alla tragicità del discorso, già che il suo registro «non am-mette neppure il compromesso stilistico, per il suo ragionamento, che è morale» (Ramat321). La lingua che si incarica di esprimere il vertice alto dell’universo di valori di Parronchi deriva in particolare dalla continua ricombinazione di un lessico estrat-to da poche aree che nella sua opera mantengono una sorprendente continuità. Un lessico insomma selezionato dalla tradizione, attraverso cui dare vita – questo l’auspicio del poeta – a una «lingua viva oltre la morte», a un «Linguaggio Universale di Natura». Nell’ambito di questa alternativa sommaria il sistema della tradizione letteraria si costituisce allora come soccorso, come controproposta alla negatività del proprio orizzonte sincronico. È quasi consequenziale, allora, che le traduzioni di Parronchi tendano a non dialogare con il presente storico, a non regolare il proprio registro sulla misura del linguaggio poetico corrente, ma a stanziarsi in un’area di classicità, a enfatizzare il loro ‘anticipo’, il loro esser-prima (o esser-altrove) rispetto al tempo del traduttore.

In Le crépuscule du matin questa intenzione è tangibile: i parallelismi rimici im-pongono tutta una serie di combinazioni stilistiche arcaizzanti, come l’apocope («torcon») – a cui si somma un’elisione che non assolve ad alcuna funzione metrica

(«gl’incubi») –, la folta partecipazione di sostantivi assoluti («lanterne», «mendican-ti», «case», «agonizzanti»), le inversioni sintattiche («singhiozzo da un sangue attra-versato»; «l’ultimo rantolo esalano a tratti»). All’interno di questa tessitura che im-prime al testo una sorta di ‘conclusività’, si inscrive anche la tendenza ad articolare la struttura del verso secondo un rapporto di congruenza con la trama sintattica: l’enunciazione infatti solo sporadicamente non corrisponde alle pause del metro,

321 Cfr. S. Ramat, Fallacara inedito e il nuovo Parronchi, «Corriere del Ticino», 12 settembre 1970: «[...] occorre penetrare le ragioni pulite dell’intolleranza parronchiana, rispettandone l’isolamento di ieri e

quello attuale, poiché riflettono una schiettezza assoluta, e la riflettono proprio nella sua ultima retorica, che è tale (formalmente arcaica nel suo puro messaggio), in quanto non ammette neppure il compro-

messo stilistico, per il suo ragionamento, che è morale. È un ragionamento senza sottinteso né ellissi al-cuna, che adotta il passo del verso, si direbbe, solo per darsi una carica dimostrativa più efficace; ma il

disinteresse per le forme, in questi tempi di riprese formalistiche più o meno spontanee, è totale in Par-

ronchi e lo isola (come scrittore e come personaggio) in una sua resistente unicità che continua a piacer-ci quanto meno lui stesso ne porta coscienza».

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dando peraltro vita, in questi casi, a inarcature piuttosto deboli («ha lacerato / la

bruma»). Fanno eccezione i due versi che chiudono la prima strofa («e la donna / di amare») e quelli che aprono la quarta, dove addirittura la pausa metrica cade nel pieno di un processo di univerbazione («verde-/rosa»). Ma sono eccezioni apparenti, dato che il criterio della rima ristabilisce il rigore della composizione delegando pro-prio ai primi segmenti del nuovo endecasillabo l’incarico di rispondere all’attesa formale impostata dall’articolazione in dittici del componimento: ecco dunque che la rima si raccorda, anziché su «donna» e «verde», tra ‘amare:fumare’ e ‘ro-sa:freddolosa’. Un dato rilevante, questo, perché evidenzia come la legislazione del testo sia scandita ancor più dall’identità tra rima e discorso che da quella tra rima e pausa metrica.

Il metro selezionato da Parronchi è rigorosamente endecasillabico, con l’eccezione dell’ultimo verso, irregolare; è palese dunque che il poeta sceglie la forma metrica a cui rifarsi non su un principio di equivalenza sillabica (nei limiti in cui il martelliano italiano può definirsi il correlativo dell’alessandrino francese), ma sul criterio del prestigio del verso nel quadro della tradizione letteraria in cui il testo si inscrive. L’addestramento dell’alessandrino sulla misura dell’endecasillabo esige a propria volta una precisa tattica compensativa, con inevitabili ripercussioni sul piano del significato: flagrante in questo senso è lo sfruttamento della ‘liminarità’ del con-testo crepuscolare per capovolgere la lettera del testo in nome della parsimonia silla-bica, convertendo al v. 2 «le vent du matin» in «il vento della notte». Una logica eco-nomica, questa, che Parronchi estende a tutto il componimento, ricorrendo in parti-colare agli espedienti che seguono:

• implicitazione dei termini di paragone in moduli appositivi: «Où, comme un œil

sanglant qui palpite et qui bouge» → «occhio iniettato di continuo mosso»; «Comme un visage en pleurs que les brises essuient» → « Volto in pianto che a lungo il vento asciuga»;

• nominalismo: «La diane chantait dans les cours des casernes, / Et le vent du matin

soufflait sur les lanternes» → «La diana nei cortili di caserme / e il vento della notte su lanterne».

• soppressione di avverbi e locuzioni avverbiali: «çà et là», «lentement»; si attesta tuttavia anche la resa avverbiale di un’espressione come «des choses qui s'enfuient» con «in fuga».

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• opzioni sintetiche: «Imite les combats » → «lotta», «en hoquets inegaux» → «a trat-

ti», «brisé par leurs travaux» → «disfatti», «l’essaim des rêves» → «gl’incubi», con in-debolimento del tasso metaforico.

• fusioni: «Le chant du coq au loin déchirait l'air brumeux; / Une mer de brouillards

baignait les édifices» → «lungi il canto del gallo ha lacerato / la bruma che in maree bagna i casali»; «Soufflaient sur leurs tisons et soufflaient sur leurs doigts» → «soffia-no sui carboni e sulle dita», con rottura del parallalismo interno al verso.

• economia sillabica: oltre al caso già citato di «matin» → «notte», cfr. almeno la tra-duzione metonimica di «oreillers» con «letti» anziché con «cuscini»;

Ma parallelamente a questi elementi strutturali, imputabili in linea di mas-sima alla legislazione metrico-rimica orchestrata da Parronchi, la misura della di-stanza che separa questa versione dal testo di Fortini è ben accertabile sul piano les-sicale. Parronchi infatti intona il testo a un livello linguistico medio-sublime, in linea più con il registro tipico della storia della traduzione della prima metà del secolo che con quelle dissonanze strutturali che Giovanni Raboni322 ravvisava nella poesia di Baudelaire. Sui contrasti intrinseci all’opera del poeta francese, scrive Parronchi:

322 Cfr. G. Raboni, L’arte della dissonanza, in C. Baudelaire, Opere, a cura di G. Raboni e G. Montesano, introduzione di G. Macchia, Milano, Mondadori, 1996, pp. XLV-XLVI: «Quanto ai criteri (ammesso che

di criteri si possa parlare per un’operazione basata in così larga misura sull’intuito e sull’istinto) ai quali mi sono via via attenuto, prima nel fare, poi nel mutare il già fatto, tanto vale mettere subito le carte in

tavola dichiarando che le interpretazioni critiche che più profondamente e da più tempo condivido e dalle quali sono stato dunque – magari senza volerlo, o non sempre volendolo – sicuramente condizio-

nato, sono quelle di Albert Thibaudet e di Eric Auerbach. Del primo considero assolutamente fonda-mentale l’idea che la singolarità e la grandezza della poesia di Baudelaire consistano in misura decisiva

nell’alleanza che essa propone e attua fra poesia e prosa o, per dirla con le sue parole, “tra prosa nuda e

poesia pura”: alleanza che a lungo ha potuto essere scambiata per “banalità o scorrettezza”, che persino a un lettore geniale e profetico come Proust faceva l’impressione di “qualcosa di strozzato, come un venir

meno del respiro”, e nella quale Thibaudet riconosce invece un’arte della dissonanza “più sottile e più delicata che non l’arte della consonanza”. Intuizione critica formidabile, attraverso la quale sarei portato

a filtrare non solo qualsiasi discorso sulla “modernità” di Baudelaire, ma anche ogni immagine o proget-to, ancora oggi, di modernità in poesia. Di Auerbach è, suppongo, addirittura superfluo ricordare la fon-

damentale asserzione che Baudelaire è stato il primo a “dare forma sublime” a soggetti appartenenti, se-condo l’estetica classica, alla categoria del “ridicolo”, del basso, del “grottesco”. Piuttosto, sarà il caso di

insistere su un corollario di tale asserzione, quello secondo il quale Baudelaire rimane, da questo punto di vista, “un caso estremo” anche se lo si ponga “accanto a coloro che dopo di lui fecero il medesimo ten-

tativo”. È stato dunque sotto il doppio segno dell’alleanza tra prosa e poesia (ovvero dell’“arte della dis-

sonanza”) e dell’assunzione del comico in sublime che ho cercato di porre (e mantenere) il mio intermi-nabile lavoro di ricostruzione in lingua italiana della poesia di Baudelaire».

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Certo è che in Baudelaire magistero formale e senso profondo di umanità si equilibrano e spesso, senza fondersi, contrastano liberamente. Ciò che ha reso possibile lo sprigionarsi della vitalità poetica al suo seguito in due dire-zioni323.

È evidente come le ‘dissonanze’ baudelairiane siano ricondotte non a una loro

compresenza sul piano stilistico, ma al conflitto tra rastremazione della forma e im-poeticità (rispetto alla tradizione selettiva) di alcuni materiali tematici. Un conflitto essenzialmente a due livelli dunque, di fatto scindibili tra loro se gli eredi daranno vita a due declinazioni del suo magistero: quella dell’esattezza formale e della razio-nalità (Mallarmé, Valéry) e quella «dei maudits, cioè dei poeti che, più che il sacer-dozio dell’elaborazione del verbo poetico, ha preoccupato il mistero della vita e del destino, di tutte le sue condanne certe e ineluttabili e di tutte le sue possibili evasio-ni»324 (Lautréamont, Rimbaud, Verlaine). Nondimeno Parronchi riduce questa con-flittualità, questo rapporto scalato tra il livello stilistico e quello semantico, a un so-stanziale ‘equilibrio’ (sia pure un equilibrio dove è dato ‘contrastare liberamente’) che a suo modo riorganizza e compone le dissonanze.

Forse in nome di questo equilibrio nella sua traduzione Parronchi disinnesca ogni escursione formale o tematica riassorbendola, oltre che nella dizione piana dell’endecasillabo, in soluzioni di carica espressiva ‘temperata’, nell’ambito di un les-sico autorizzato dalla tradizione. Questo fenomeno ha una particolare evidenza nella terza strofa del componimento, là dove si infoltisce il resoconto delle manifestazioni

del declino implicato dall’area metaforica del crépuscule325: i casi esemplari sono

quelli delle traduzioni rispettivamente di «femmes de plaisir» con «mondane» e di «débauchés» con «nottambuli», quasi neutro nelle sue implicazioni morali. Questa tendenza che (stavolta sì) potrebbe definirsi ‘eufemistica’ emerge con chiarezza dal

raffronto con le soluzioni formulate da altri poeti-traduttori di Le crépuscule du ma-tin:

1) Giorgio Caproni: «puttane» e «libertini»;

323 A Parronchi, Quaderno francese, cit., p. 77. 324 Ibid. 325 Cfr. in questo senso l’apparato di note a C. Baudelaire, Œuvres complètes, cit., p. 1044: «Ayant d’abord

groupé les deux pièces sous un même titre, Les Deux Crépuscule, il était normal qu’en les disjoignant Baudelaire leur conservât le parallélisme du titre. Et surtout le mot aube – qui caractérise d’ailleurs un

genre littéraire fort bien représenté pendant le Moyen Âge, la Renaissance et le baroque – contient une nuance d’espoir qui n’eût pas convenu au poème. Autrement dit: l’aube est déjà un crépuscule».

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2) Attilio Bertolucci: «cortigiane» e «libertini»; 3) Gesualdo Bufalino: «mondane» e «viziosi»; 4) Giovanni Raboni: «puttane» e «libertino». È evidente come in questa circostanza Bertolucci sia il più vicino al registro par-

ronchiano, che tuttavia è eluso grazie alla scelta (condivisa da altri) di ricorrere a una soluzione come «libertini», che implica una nozione di dissolutezza non contemplata (con ‘tradimento’ del dettato di Baudelaire) da «nottambuli». Bufalino invece, pur condividendo con Parronchi la scelta di un vocabolo come «mondane», orienta esplicitamente il discorso sul versante etico con l’opzione «viziosi», mentre gli abbi-namenti identici proposti da Caproni e Raboni rinviano a una ricerca di intensa ca-rica espressiva, che non esita a servirsi dei registri linguistici più bassi.

Tuttavia in questa circostanza è proprio Fortini a formulare la coppia lessicale più compromessa sul versante morale, traducendo i due termini rispettivamente con «puttane» e con l’inedito «servi del vizio». Due attestazioni che si inseriscono in una tendenza all’accentuazione dell’espressività ben radicata in questa traduzione: là do-ve Parronchi investe forme arcaizzanti come «lungi», eufemismi come «sonno iner-te» per «sommeil stupide», generalizzazioni metonimiche in «traînant leur seins maigres et froids» con «carni fredde, avvizzite», dall’altra Fortini traduce «brisé» con una forma toscana (e fonicamente ‘espressionistica’) come «stronchi», oppure «Comme un sanglot coupé par un sang écumeux» con la formula fonosimbolica «Come un singhiozzo che strozzano schiume di sangue». Questo contrasto tra regi-mi linguistici testimonia le censure di Fortini all’inscrizione ‘classica’ nel più elevato codice culturale italiano del sistema metrico-lessicale del testo tradotto. È quella ten-

tazione che si era manifestata al massimo grado con il prelievo da parte di Parronchi

di un endecasillabo dell’Ultimo canto di Saffo di Leopardi nella traduzione del verso

conclusivo del Toast funèbre di Mallarmé («Et l’avare silence et la massive nuit» → «E l’atra notte e la silente riva»326).

326 Traduzione, questa, di particolare interesse, e – nel quadro di una volontà intertestuale, della convo-

cazione di un supplemento di senso al testo – anche piuttosto riuscita. Parronchi infatti ripropone trami-te Leopardi un verso distinto in due segmenti scanditi entrambi dalla medesima congiunzione («Et…

et...» → «E… e…»), e imbastisce un rapporto di identità che può essere semantica, anche se non sul piano

delle funzioni grammaticali («silence» → «silente», «nuit» → «notte», mentre è più forzata ma a suo modo plausibile la coppia «massive» → «atra»), oppure fonica («avare» → «riva»).

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In ottica fortiniana non sarebbe scorretto affermare che Parronchi attinga attra-

verso la rima a una funzione di «rassicurazione culturale»327, di ossequio a un codice letterario istituito in cui si riflette un esercizio implicitamente ideologico e perfino politico328. Una concezione del tradurre che insomma potrebbe essere definita ‘rea-zionaria’, e in esplicito contraddittorio con le teorie fortiniane relative alla traduzio-ne come momento intensamente dialettico (soprattutto quando investe lingue simili, o meglio, di «minore estraneità»329). Una dialettica che, innescata dalla tensione tra la traduzione e la poesia a fronte, è responsabile di «un fenomeno di interferenza fra i due testi, sì che il vero risultato sia dal sovrapporsi d’una memoria e di un presen-

327 F. Fortini, Realtà e Paradosso, cit., p. 94. 328 Sulla concezione fortiniana della funzione della rima nella poesia ermetica e nella storia del tradurre negli anni ’30-’40, cfr. ivi, pp. 47-48: «Pensate che bella storia della poesia italiana della fine dello scorso

secolo fino a quella del presente secolo si potrebbe scrivere a partire dalla presenza, dall’assenza, o dalla latenza della rima, proprio passando attraverso l’opera dei poeti-traduttori, per verificare se, e in che mi-

sura, una data parte del sistema formale del traduttore-autore intervenga o prevalga su una data parte del testo-cultura di partenza; come ho detto, tra il 1930 e il 1940, il rifiuto della rima si diffuse enormemente:

infatti, si guardava alla poesia orfica e metafisica del tardo Cinqucento e primo Seicento, in Francia, in

Inghilterra e in Spagna, quindi a John Donne, alla scuola Lyonnese, a Maurice Scève, e altresì, in area spagnola, a Giovanni della Croce, la cui poesia venne in gran moda nella Firenze ermetica degli anni

Trenta fino all’inizio della guerra. Nel ripudiare la rima, gli ermetici alzarono contemporaneamente il linguaggio della prosa a un livello poetico, contrariamente a quanto si mise a fare successivamente Paso-

lini, che, com’è noto, “carnevalizzava”, per dirla alla Bakhtin, i modi alti, e ambiva a trascinare in basso il linguaggio della poesia per collocarlo allo stesso livello della prosa, parodiandolo anche tramite il “rifa-

cimento”. Quindi sia per via ermetica sia per via dissacratoria, la rima subisce un violento urto nelle mo-de letterarie novecentiste […]. Ma allora, che cosa significava la scelta, compiuta da taluni traduttori,

soprattutto negli anni Trenta e Quaranta, in Italia, di ricorrere all’uso della rima, in modo che inducesse

un ordine gerarchico nel testo d’arrivo omologo a quello che si riteneva occupasse nel testo di partenza? E, quindi, la connotazione culturale indotta da tale ordine aveva o meno una sua rilevanza maggiore di

quella che avevano, o che avrebbero potuto avere, le altre componenti stilistiche? Capire questi fenomeni epocali significa tracciare una mappa dell’area nella quale non solo vigeva la rima, ma vigeva una società-

cultura che su quella si fondava». 329 Cfr. Id., Traduzione e rifacimento, «Problemi», 33, luglio-settembre 1972, poi in Id., Saggi italiani, Ba-

ri, De Donato, 1974, poi in Id., Saggi ed epigrammi, Milano, Mondadori, 2003, pp. 822-823: «Per alcune

lingue – la francese, l’inglese, la spagnola, in parte la tedesca – la maggiore conoscenza o diciamo una

minore estraneità dovuta a molti fattori della esistenza contemporanea può trasformare il “testo a fronte” (che negli scorsi due decenni ha avuto funzione di appoggio “scientifico”) in autorizzazione ad una indi-

pendenza creativa […]. Quanto più si allontana dall’orizzonte di un ipotetico lettore non soltanto la co-noscenza della lingua di partenza (nulla di meno definibile, comunque, della “conoscenza” di una lin-

gua) ma anche la sfera dei riferimenti indiretti, dell’aura culturale di quella lingua e diciamo anche di quello specifico autore o di quel momento di quella letteratura, tanto più all’effetto di interferenza si so-

stituirà l’arbitrario inverificabile del tradurre (e quindi l’autonomia di una sua scrittura originale) oppure

la traduzione si legittimerà su un complesso implicito o esplicito di sussidi forniti dalle scienze storiche e della linguistica».

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te»330. Questa interferenza, (soprattutto nel caso di un poeta come Baudelaire, mae-

stro di ‘maniera’ di Fortini, secondo Berardinelli331) si attesta sul piano

dell’elaborazione formale in cui si incrociano e si respingono il concetto di nostalgia mutuato da Croce332, e quello di trascendimento, di «messa in forma liberante»333.

Così la traduzione, che in Fortini si costituisce come «operazione letteraria per eccel-lenza»334, letterarietà ‘al quadrato’, si fonda sulla «simultanea presenza della innova-zione e della ripetizione, il rifiuto della tradizione nell’ossequio alle istituzioni»335. Le coordinate di questa costitutiva «ambivalenza»336, di questa tensione tra ‘collusione’ e ‘collisione’, sono state messe in luce da Luca Lenzini:

Senza inseguire ideali banalmente mimetici, ma senza nemmeno preten-

dere una forzata originalità, Fortini coglie l’essenziale del poeta ‘a fronte’ ope-

330 Ivi, p. 822. 331 A. Berardinelli, Fortini, Firenze, La Nuova Italia, 1973, pp. 142-143:« Sul piano letterario, come si è

accennato, prevale ora un atteggiamento definibile come “manieristico”. Ma per intendere il senso di questo uso della “maniera” bisogna pensare a quelli che per Fortini sono i più grandi insegnanti e mae-

stri di maniera: e cioè, per esempio, Goethe, Virgilio, Baudelaire, Tasso. “Maniera” è allora l’uso di ogni linguaggio che nel momento stesso in cui si organizza e costruisce una unità stilistica “chiusa” e “classi-

ca”, disloca al proprio interno, in verticale, e comprime sincreticamente un insieme molto complesso di

universi simbolici, ideologici, retorici. Per questo si può dire che alla poesia dell’ultimo Fortini una le-zione di “maniera” venga dagli scrittori più diversi, ma nei quali il senso “tragico” della catastrofe, della

rovina, della fine di un intero universo sociale e culturale, si accompagna ad una vocazione alla “luce”, ad una passione per il presente, la vita vivente, la ragione, la felicità fisica. E in cui il passato e i morti conti-

nuano a parlare e ad essere ascoltati, ma perché servono i vivi e il presente, e solo da questi a loro volta saranno o potranno essere salvati, sottratti alla loro condizione ossessa e larvale, alla colpa e al rimorso

[…]. Bisogna sempre ascoltare, bisogna tradurre quel mormorio di spiriti in attesa, farne un messaggio, un insegnamento, un’arma». 332 Cfr. F. Fortini, Cinque paragrafi sul tradurre, in Premio Città di Monselice per una traduzione lettera-ria, Atti del Convegno sui problemi della traduzione letteraria, Monselice, 1973, poi in Id., Saggi italiani,

cit., poi in Id., Saggi ed epigrammi, cit., pp. 839-840: «Croce ha parlato, per la traduzione, di “voce che risuona dentro un’altra voce”, di “nostalgia dell’originale”. Per quest’ultima, meglio si dovrebbe parlare

di tensione tra la memoria dell’originale e l’apprensione del nuovo “originale” ossia della traduzione. D’altronde, qualunque innovazione gioca su un altro effetto d’eco, sulla “voce che risuona dentro

un’altra voce”. Ma non si può avere nostalgia senza riferimento; e la frase di Croce è spia

dell’atteggiamento signorile di chi legge in traduzione solo dalle lingue che potrebbe anche leggere in originale». 333 P. V. Mengaldo, Introduzione, cit., p. 13. 334 F. Fortini, Traduzione e rifacimento, cit., p. 826. 335 Ibid. 336 Cfr. in questo senso R. Pagnanelli, Fortini, Jesi, Transeuropa, 1988, p. 136: «Tra le motivazioni endo-

psichiche, metterei, al primo posto, l’ambivalenza, che Fortini vive duramente, tra un desiderio di colpire e distruggere e la coscienza del mantenimento di grosse parti del passato».

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rando tutta una serie di sintesi/rinunce e di disarticolazioni/ricomposizioni,

metriche e lessicali, che fanno risuonare l’originale dentro un corpo testuale ‘altro’ e gemello. La figura del traduttore recupera così in lui l’etimo profondo in vista di un ‘portare oltre’ del tutto coerente con il porsi di Fortini come cri-tico di ciò che è fissato, stabile, sicuro dei propri fondamenti nel presente337.

Nel caso specifico di Le crépuscule du matin, la nostalgia implicita alla traduzio-ne crea un’aspettativa formale – in ragione del rigore metrico della poesia fonte – che Fortini disattende attraverso uno strumento investito sistematicamente come l’inarcatura, adibita alla continua deroga della funzione normativa del metro sul li-vello sintattico. Fortini si muove sul filo della continua infrazione a quel criterio la cui fedeltà aveva costituito il più inflessibile radicamento di Parronchi nell’istituzione culturale. Al contrario Fortini sovrintende un sottile bilancio tra la tensione alla letterarietà intrinsecamente evocata – oltre che dalla ‘fisiologica’ nostal-gia del testo – dal ricorso ad alcuni mezzi di forte capacità strutturante (ad esempio l’epifora ‘isolata’ all’interno del metro: «Era l’ora») con gli interventi che tendono all’asimmetria, alla forzatura e all’elusione dei rigorosi equilibri messi a punto da Baudelaire.

Un caso esemplare in questo senso è rappresentato dalla traduzione di Fortini

dei primi due versi di Le crépuscule du matin, saldamente interdipendenti alla luce

del parallelismo su cui si regge l’architettura sintattica, della disposizione a chiasmo

dell’enunciato («[La diane (1)] chantait [dans les cours des casernes (1+1)], / Et [le

vent du matin (1+1)] soufflait [sur les lanternes (1)]»), della scansione del discorso su due versi equivalenti. Un parallelismo di fatto replicato dai principali poeti-traduttori (tra quelli generazionalmente adiacenti) di questa poesia:

1) Parronchi: «La diana nei cortili di caserme / e il vento della notte su lanterne»,

con soluzione nominale, funzionale, come si è visto, alla riduzione del testo alla di-sciplina dell’endecasillabo.

2) Caproni: «La Diana squillava nei cortili delle caserme, e il vento mattutino

soffiava sui lampioni». 3) Bertolucci: «La Diana cantava nei cortili delle caserme e il vento del mattino

soffiava sui lampioni».

337 L. Lenzini, Il poeta di nome Fortini: saggi e proposte di lettura, Lecce, Manni, 1999, p. 10.

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4) Bufalino: «La diana entro i cortili militari cantava, / e al vento del mattino i

lumi si smorzavano». 5) Raboni: «Cantava la diana sui piazzali delle caserme / e il vento del mattino

soffiava sui lampioni»338. Da parte sua Fortini ripropone il parallelismo sintattico (peraltro orchestrato su

tre regolari emistichi di sei sillabe) ma abrogandone – unico fra tutti339 – quella simmetria versale che presso gli altri traduttori costituiva il principio ordinatore più importante: «Squilli da cortili di caserme e il vento / dell’alba ai fanali». D’altronde è un verso che anticipa una serie foltissima di spostamenti: nella traduzione fortiniana infatti l’interpunzione scandisce la fine del verso in appena dodici casi su ventinove versi totali, contro i venti di Parronchi e i quindici (ma diventano diciotto nelle suc-cessive stesure) di Raboni, che pure si serve, quando è il caso, di inarcature piuttosto forti (come ad esempio «sonno / d’animale»). Fortini invece, oltre al già citato «ven-to / dell’alba», mette in funzione continue spezzature metriche, in particolare tra verbo e complemento oggetto («contorce / gli adolescenti»; «ìmita / la lotta»), tra verbo e soggetto posposto («fumare / le case»; «dormivano / le puttane»), tra il so-stantivo portante e la sua specificazione («le donne / dei poveri»; «i servi / del vizio»), tra il sostantivo e il pronome relativo («Era l’ora / che», due volte), tra il sostantivo e il suo aggettivo possessivo o qualificativo («i suoi / ferri»; «cupo / vecchio»). Fortini sottopone il testo di Baudelaire a una sorta di opera di decostruzione che tuttavia non implica (e anche in ciò consiste la ‘nostalgia’ della poesia fonte) una totale disso-luzione metrica, come testimonia ad esempio la serie di quattro endecasillabi (sia pu-re indeboliti nelle loro qualità melodiche dall’abbondanza delle inarcature) che si at-testano nell’ultima strofa340.

Nello stessa intenzione formale si inscrive forse la seconda peculiarità stilistica

della traduzione fortiniana, vale a dire la partitura nominale che scandisce alcuni

segmenti essenziali di L’alba. Un dato non irrilevante, questo, nel quadro dell’attività di un poeta che in genere struttura il proprio dettato «sull’evidenza delle giunture

338 La versione di Raboni citata in questo saggio è la prima, quella del ’73. 339 Altra unicità nella traduzione di Fortini di questi due versi è la soppressione di «diana», sostituita -

con accentuazione del dato auditivo - da «squilli», in cui si fonde nell’ambito della partitura nominale dell’enunciato il verbo «chantait». 340 La sequenza endecasillabica è possibile grazie all’isolamento iniziale del risillabo «L’aurora», che forse

assolve anche alla funzione strutturante (nostalgica) di rilanciare in rima l’isolamento epiforico di «Era l’ora».

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sintattiche»341, all’insegna di una enunciazione che si vuole assertiva, perentoria, non

evocativa, allegorica342. Ciò nondimeno, oltre all’articolazione ellittica dei primi due versi, si attestano:

1) «Alito sulle braci, alito sulle dita, le donne / dei poveri, seni nel gelo sfiniti», parti-

colarmente significativo nel bilancio tra nostalgia e ‘trasgressione’ delle strutture formali del testo-fonte. Fortini infatti è l’unico fra i traduttori già evocati che, pur intervenendo così radicalmente sull’articolazione dell’enunciato attraverso la sua ri-formulazione a nodo non verbale, ripropone nondimeno il rigoroso parallelismo di Baudelaire («Soufflaient sur leurs tisons et soufflaient sur leurs doigts» → «Alito sulle braci, alito sulle dita»). Al contrario infatti – in ossequio a una delle più radicate ten-denze del tradurre in Italia – questa partitura è smantellata, oltre che da Parronchi, anche da Caproni («le accattone […] soffiavano sui tizzoni e sulle dita»), da Berto-lucci («le mendicanti […] soffiavano sulle braci e sulle dita»), da Bufalino («le men-dicanti […] fiatavan sulle dita e i tizzi semispenti») e da Raboni («le mendicanti […] / alitavano insieme sul fuoco e sulle dita);

2) «Tra le mura la nebbia, un mare», in cui si attesta l’incidenza del fattore fonico nell’opzione sineddochica di «mura» a tradurre «édifices», trainata da «mare»; una trama fonica e figurativa coniugata alla secchezza del dettato che sembra sovrappor-re al testo di Baudelaire un’orbita ungarettiana («Un riflettore / di là / mette un mare / nella nebbia»343).

341 P. V. Mengaldo, Introduzione, cit., p. 17. 342 Cfr. in questo senso le osservazioni su una delle più celebri poesie di Fortini proposte in M. Boaglio,

La casa in rovina. Fortini e la ‘funzione-Brecht’, cit., pp. 83-84: «Le diverse componenti [della poesia La grondaia] concorrono alla costruzione di un’ampia allegoria e di un discorso compatto, imperniato sulla

negazione del presente e sulla profezia, ma tenuto rigorosamente lontano da quel mito dell’immediatezza vitale della poesia che, sorto come mito romantico, nel Novecento aveva trovato molte

traduzioni, fino allo sperimentalismo di Pasolini e al ribellismo della neoavanguardia. La poesia fortinia-na, infatti, quanto più si vuole assertiva, esposta alla storia e quindi politica ed ideologica, tanto più per-

segue effetti di straniamento retorico e si sigilla nella costrizione grammaticale, prestando attenzione a ogni minimo aspetto metrico, ritmico, sintattico, perché per Fortini il rigore della forma è espressione di

moralità, è rispetto del “ruolo” e della “missione” del poeta, e costituisce quindi l’altra faccia del rigore della testimonianza storica ed intellettuale». 343 Cfr. G. Ungaretti, Pellegrinaggio, vv. 15-18. Forse la stessa scelta fortiniana di investire un vocabolo come «mura» a tradurre «édifices» (si confronti con Parronchi: «casali»; Caproni: «edifici»; Bertolucci:

«edifici»; Bufalino: «tetti»; Raboni: «edifici») contribuisce a evocare il celebre componimento ungarettia-

no che apriva la rappresentazione di un paesaggio deturpato dalla guerra proprio tra «budella / di mace-rie».

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Le crépuscule du matin è dunque un testo paradigmatico nello stabilire le distan-

ze fra i profili di traduttori di Fortini e Parronchi, portavoci di istanze etiche e lette-rarie quasi inconciliabili. Si veda ancora in questo senso come la traduzione di «lési-ne» con «sgomento» inserisca Parronchi nel solco di una tradizione lirica introspet-tiva, là dove la «miseria» evocata da Fortini rivendica i caratteri di materialità (e for-se anche l’estrazione sociale) del disagio delle «femmes en gésine». Un’intenzione d’altra parte implicata in Fortini anche dalla resa sintagmatica di «pauvresses» con «donne dei poveri», che, a differenza del sostantivo assoluto «mendicanti» di Par-ronchi e di altri traduttori344, in un certo modo ‘verticalizza’ il quadro sociale abboz-zato da Baudelaire e mette a fuoco la classe che quasi per vocazione s’incarica di rap-presentare la ‘crepuscolarità’ di Parigi. D’altronde – afferma Fortini – è compito eminente del traduttore di Baudelaire quello di ricostruire un rapporto (mediato dal-la forma) tra il poeta e la realtà sociale in cui egli ha vissuto, al fine di risalire «a lin-

guaggi, comportamenti e modelli radicalmente premoderni, di una borghesia ancora atterrita dalla propria storia; e ne rinascono proposte altrettanto radicalmente post-

moderne e non-capitalistiche»345. Alla luce di queste dichiarazioni è forse possibile

inscrivere la scelta fortiniana di radicalizzare il contesto sociale di Le crépuscule du matin nell’ambito di una più ampia ‘politica’ della traduzione:

Ma qui quei luoghi e sequenze e temi (la negra tisica e la serva generosa,

l’invito al viaggio e la banderuola cigolante), temi che la moderna poesia ita-liana rifiuta ed espelle, non si accontentano di essere una allusione storica né la traduzione si contenta di essere esplicativo-critica come una nota a piè di pagina: no, quelle situazioni, quei viaggi a Citera, quei ‘Quadri parigini’, pre-

tendono, nel loro linguaggio italiano, di essere fra noi. E qui esplode la con-

traddizione: la ‘realtà’ storico-sociale che essi ‘rappresentano’ (ossia la relazione

fra l’autore e quella realtà, fra l’uomo-autore e la città di uomini eccetera di

cui egli parla) quella realtà, estromessa dalla realtà nostra (ossia dall’universo

delle nostre relazioni), si ‘presenta’ a noi non come una nostalgia o una sala di museo o come un classico, ma come qualcosa che è un valore e che dobbiamo o negare o rivendicare. In altri termini, la tensione fondamentale di Baudelaire, e le incarnazioni liriche che quella assume, attraverso questa traduzione [quel-

la di Raboni] ci chiedono di verificare in quale misura esse sono latrici di veri-

344 Il sostantivo «mendicanti» a tradurre «pauvresses» è proposto, debitamente preceduto da articolo, anche da Bertolucci, Bufalino e Raboni, mentre Caproni si serve di una formula più ‘popolare’ come «ac-

cattone». 345 F. Fortini, Una traduzione da Baudelaire, in Id., Nuovi saggi italiani, Milano, Garzanti, 1987, p. 384.

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tà; intendendo per verità, in questo caso, una autenticità da opporre, da im-

piegare contro il falso e l’inautentico. (Solo così il lavoro del traduttore ha un senso; sfida paradossale, va da sé, di fronte alla molteplicità dell’editoria, all’impazienza, alla distrazione)346.

Forse nel quadro di questa verifica sul presente delle tensioni intrinseche alle

formulazioni di Baudelaire si inserisce anche la delega di Fortini al contesto cittadino di una funzione paradigmatica, che dilata «Paris» (evocato comunque dal rinvio alla

«Senna») al rango – stavolta sì, assoluto – di «Città»347. La traduzione di Le crépuscu-le du matin si costituisce allora in Fortini come ‘piattaforma’ per una proiezione di valori antiborghesi sulla società capitalista contemporanea nell’ottica di una sua de-strutturazione, di una crisi; al contrario, nel testo messo a punto da Parronchi, il vet-tore ‘ideologico’ segue un percorso inverso: non addita un possibile destino, un do-po, ma rinvia a una memoria, a un prima. Entrambi i traduttori comunque – sia pu-

346 Ivi, pp. 381-382. 347 Sulla problematicità della traduzione del francese (maschile) «Paris», cfr. M. Richter, Tre casi di tra-duzione ‘impossibile’ (Baudelaire, Rimbaud, Apollinaire), in G. Peron (a cura di), Premio Città di Monse-

lice per la traduzione letteraria e scientifica: 28-29-30, Monselice, Il Poligrafo, 2003, pp. 157-159: «Per capire bene la difficoltà, occorre chiarire rapidamente il contesto, ossia il significato (o un significato)

portante della poesia. C’è un motivo assolutamente centrale nelle Fleurs du mal: il motivo è la profonda e grave separazione (incomprensione) che si è venuta a creare – in una realtà saldamente controllata dal

potere maschile – fra l’uomo e la donna. Questo motivo diventa assolutamente clamoroso nella sezione

intitolata Tableaux parisiens, ossia nel luogo del libro in cui siamo messi di fronte alla capitale francese,

Parigi, città che più d’ogni altra, nell’Ottocento, si fa espressione del progresso inteso come conquista della cultura maschile (una cultura intellettualistica fondata sulla scrittura, sulla conservazione e sul ca-

davere). Il componimento che conclude questa sezione ha uno dei suoi maggiori punti nodali – se lo si legge attentamente – proprio in questa divisione. Basta osservare il verso 11, quello che conclude la se-

conda parte: «Et l’homme est las d’écrire et la femme d’aimer». […] Su ciò Baudelaire costruisce il suo testo e su ciò fa passare la specificità del suo messaggio. Ebbene, qui il traduttore italiano si trova di fron-

te a un ostacolo che a me sembra insormontabile. Appunto un caso, mi sembra, di traduzione impossibi-

le. In francese, il nome proprio Paris – diversamente dalla Parigi italiana – è maschile, e non ci sono santi che gli possano far cambiare sesso. Per Baudelaire, poeta francese, questo fatto è di fondamentale impor-

tanza. Paris (maschile) è un gran vecchio che ha nel lavoro il suo più grande mito (perché adora

l’“implacabile e sereno dio dell’Utile”): è appunto un “vieillard laborieux”. L’aurora è invece – pur essen-

do così antica – una fanciulla (una donna) che si vorrebbe riproporre ogni giorno nella sua delicata me-

raviglia femminile. Ma Paris, il vecchio maschio lavoratore (come l’uomo che scrive) la contraddice. È

dunque indispensabile, per il traduttore italiano, che il nome proprio di cui dispone nella sua lingua, Pa-rigi, sia di genere maschile, sia cioè rappresentabile come un “vecchione tutto dedito al lavoro”. I migliori

traduttori si sono naturalmente sforzati di rispettare questo carattere del testo. Ma credo proprio che non ci siano riusciti. Infatti, in italiano, non si potrà mai dire che Parigi è un “cupo vegliardo” (Ortesta)

o un “laborioso vecchio” (De Nardis). In queste traduzioni si crea un ingiustificato monstrum ambigene-re (Parigi-vecchio), mentre Baudelaire ha avuto cura di tenere i due sessi separati e in contrasto».

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re attraverso canali così divergenti – concordano su un punto: il concepire l’atto tra-

duttivo come evocazione di una diversità, come invito a un’alternativa rispetto a un presente sbagliato.

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Campionature su Ta chevelure d’oranges di Éluard (Bigongiari e

Fortini, Traverso e Zanzotto)

1. Mettendo a confronto versioni ‘d’autore’ di componimenti poetici stranieri, accanto all’accertamento delle consuete interazioni che si incrociano nell’atto tradut-tivo (quelle con il modello di riferimento, con il proprio codice linguistico, con la tradizione in cui il nuovo testo si inserisce…), si impone come strumento d’analisi privilegiato lo studio delle interferenze che la nuova opera stringe con il sistema cri-tico e poetico del traduttore. Il campo d’indagine infatti, rispetto all’abituale prassi

‘traduttologica’, ridefinisce i propri equilibri interni spostando il focus dalla relazione

‘a due’ tra testo A e B, a quello triangolare tra testo B e C analizzati nel loro stato di intervallo reciproco e di distanza dall’ipotesto; nella fattispecie dunque occorre esa-minare i modi in cui si realizzano quegli ‘spostamenti’, che per definizione spettano al tradurre rispetto al testo originale, in rapporto, positivo o contraddittorio, all’‘attrazione’ esercitata sulle strategie della versione da parte delle ‘poetiche’ dei traduttori. Un’operazione, questa, particolarmente funzionale nei casi in cui la con-vergenza di due versioni in un unico componimento inneschi trame e dialoghi tra poeti altrimenti distanti, espressioni talvolta di opposte partecipazioni all’episteme novecentesca.

È questo il caso dell’opera di Paul Éluard, sede di una duratura confluenza di in-teressi critici fra due esperienze tra le più conflittuali del nostro Novecento. Da una

parte Franco Fortini, a lungo ideologo e maître à penser della cultura italiana d’ispirazione marxista, che ha messo a punto come proprio campo d’indagine una regione ‘di confine’ tra attività poetica, impegno politico, critica delle istituzioni let-terarie e «verifica dei poteri»; dall’altra Piero Bigongiari, la cui riflessione – altrettan-to metadisciplinare ma più che mai estranea a implicazioni di tipo socioeconomico – ha mirato piuttosto a combinare al proprio momento espressivo i più vari e aggior-nati strumenti dedotti dalla psicoanalisi, dalla filosofia del linguaggio e dalle teorie del segno. Dunque due vicende culturali dal profilo diseguale, e che nondimeno dia-logano sulla base della comune rivendicazione della stagione surrealista, e éluardiana in particolare, come determinante componente della propria formazione. Una ri-

vendicazione, questa, che tuttavia assume fisionomie diverse sia per i modi in cui

Leonardo Manigrasso, Capitoli autobiografici : poeti che traducono poeti dagli ermetici a Luciano Erba ISBN 978-88-6655-502-5 (online), CC BY-NC-ND 3.0 IT, 2013 Firenze University Press

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tende a esprimersi, sia in termini di continuità (o discontinuità) nel tempo. Quanto a

Bigongiari, come a tutto l’ambiente ermetico in genere348, la versione éluardiana del surrealismo si è configurata come «indicazione fondamentale dell’indissolubile con-nubio di letteratura e di vita»349, discorso finalizzato a travalicare il proprio orizzonte verbale per tendere a quel ‘flusso’ naturale esemplarmente incarnato, in seguito, da una formula come «poesia ininterrotta»; un punto di riferimento, quello surrealista-éluardiano, peraltro mai ritrattato e anzi perfettamente integrato nella cornice teori-ca e storiografica in cui il poeta ha più volte contestualizzato la propria esperienza350.

348 Sull’argomento cfr. P. Bigongiari, Éluard, un classico, in Id., La poesia come funzione simbolica del lin-

guaggio, Milano, Rizzoli, 1972, p. 243: «Éluard è stato il pane della nostra affamata gioventù: qualcosa di

nuovo accadde in Italia mentre cominciavano a circolare tra i più giovani La Vie immédiate del ’32, La

Rose publique del ’34, Les Yeux fertiles del ’36: rarissimi libri esaltanti. Opponevano i più giovani queste parole vere di un poeta rivoluzionario alla chiusura tragica che negli anni Trenta avviava l’Europa verso

la catastrofe. La cappa di piombo che pesava sull’intelligenza italiana era rotta a squarci dal lampeggiare di questa improvvisa apertura poetica, che per noi trovava fraterno consenso con le parole di poeti allora

derisi come Ungaretti, o malnoti come Montale, Betocchi e pochi altri. La rivolta, che fu rivolta morale, nacque in quel decennio in nome della poesia, in nome di testi che osavano opporsi a ogni tirannide con

la loro solitudine che cercava il consenso nel segreto dell’animo, nella resistenza di una decisione sempre più chiara da prendere: e che nasceva come il senso di tutta una coscienza in rivolta, tanto più revulsiva

quanto più distaccata dalla prassi». 349 G. Quiriconi, Il surrealismo rimosso, in Id., I miraggi, le tracce. per una storia della poesia italiana con-

temporanea, Milano, Jaca Book, 1989. Nello stesso saggio, si veda il primato accordato a Éluard dal criti-co nel quadro delle influenze surrealiste in ambito ermetico: «La poesia dell’“ermetismo” nasceva tra

l’altro sull’insofferenza della parola unica in grado di racchiudere in sé il mistero; tendeva ad assumere i ritmi naturali in cui si esprime la vita. E dunque Éluard, più ancora del surrealismo nel suo complesso,

doveva rappresentare un punto di riferimento imprescindibile». 350 Cfr. tra le altre possibili segnalazioni, P. Bigongiari, Nel mutismo dell’universo. Interviste sulla poesia 1965-1997, a cura di A. Dolfi, Roma, Bulzoni, 2001, p. 114. Il colloquio citato (intitolato dal curatore del-

la raccolta La ferita nell’invisibile) da cui è estratto il passo si tenne a Barberino del Mugello il 20 luglio 1982: «Il periodo che abbiamo passato, messo sotto l’etichetta dell’Ermetismo, è qualcosa che corrispon-

de, in Italia, ad un movimento che è, diciamo, volto da una parte verso il Surrealismo ma volto dall’altra verso quella che è stata poi l’esperienza Informale del Novecento. Quindi non è né surrealista né infor-

male ma qualcosa che ha in un certo senso risposto direttamente, cioè in termini sincronici, a quello che stava accadendo in Europa». Più precisamente, sulle dissonanze tra surrealismo e ermetismo, cfr. ancora

P. Bigongiari, Éluard, un classico cit., pp. 244-245: «Ma è strano constatare che la parola surrealista non è oscura: essa si svolge nella luce, è trasparente e, si direbbe, non ambigua, anche dove il senso s’avvia a

mutare fuori della parola: la parola aiuta solo a mutarlo, con la sua essenza reattiva, non più oltre scindi-bile. Cioè la parola surrealista è semanticamente esatta, sempre identica a se stessa anche se il contesto in

cui essa opera è continuamente sollecitato ad andare al di là di se stesso. Parola cristallina e a significato unico, ecco quanto separa il surrealismo, per esempio, dall’ermetismo italiano e dall’informale, in cui il

segno è ambiguo e polivalente perché il discorso, poetico o plastico che esso sia, nel quale il segno agisce,

è multiplo e policentrico. La figura, per l’ermetismo e l’informale, nasce dappertutto, da un suo stato non figurato; la figura surrealista nasce per analogia, dunque da un’altra figura […]. Insomma alle origini del

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Sul versante fortiniano351 invece Éluard ha rappresentato una credibile ipotesi di

conciliazione tra poesia e rivoluzione, all’interno della quale la strategia dell’amore precedeva e annunciava la tattica della lotta politica; nondimeno l’affermazione di questo modello si è attestata per lo più nella stagione dell’immediato dopoguerra, destinata in seguito a defilarsi progressivamente dalle sue trame critico-poetiche in

favore del diverso modello brechtiano di letterato engagé 352.

surrealismo sta anche la pittura metafisica oltre che, s’intende, la pluralità picassiana dei punti di vista,

mentre alle origini dell’ermetismo – e dunque dell’informale –, che ha abolito ogni analogia, sta un farsi,

e non un fatto, figurale e insomma la pluralità simbolica del centro propulsivo, del centro che si fa, e mentre diviene, discorso poetico. Mentre il surrealismo è un fenomeno poetico di partenza soggettiva,

l’ermetismo è un fenomeno poetico di partenza oggettiva, mirante alla scienza di quell’oggetto ultimo

mentre si capovolge, per necessaria forza antitetica, in soggettività originaria, in obiettiva soggettività,

mentre insomma si costituisce un linguaggio (mentre dunque ammette un parlante, un lacaniano sujet;

una parola, e la parole): perché solo in quanto si fa linguaggio esso entra nella zona della soggettività, che è peraltro una soggettività operativa, linguistica, a livello contestuale». 351 I rapporti tra il surrealismo e la poesia di Fortini sono indagati in P. V. Mengaldo, Introduzione a F.

Fortini, Poesie scelte (1938-1973), Milano, Mondadori, 1974, pp. 23-24: «[…] la pratica fortiniana si ca-

ratterizza, almeno a livello intenzionale, per la capacità di tenere al massimo sotto controllo le spinte dell’inconscio – ciò che vien fatto, non occorre dirlo, proprio liberandolo il più possibile […]: nella qual

cosa, e non in altro, è da riconoscere la motivazione di fondo del legame di Fortini col surrealismo, che da poetica dell’invasione dell’inconscio nella ragione diviene – con speculare rovesciamento – poetica

dell’assorbimento del primo nella seconda per via di simboli concettualizzabili». Relativamente al rap-

porto tra Éluard in particolare e l’opera di Fortini cfr. le riflessioni di M. Boaglio, La casa in rovina. For-

tini e la ‘funzione-Brecht’, «Critica Letteraria», 1, 2008, p. 62: «In particolare, di Éluard Fortini aveva ac-

cettato in Poesia e errore la tensione oratoria e la fluente eloquenza, con le connesse indicazioni stilistiche

(il procedere per iterazioni ossessive, la modulazione dei crescendo e dei diminuendo, la facilità ritmica, la perentorietà della clausola finale), pur rifiutandone la poetica dell’“immediatezza”, che faceva del poe-

ta francese l’erede “di tutta la disperazione dei romantici e dei decadenti”, molto prossimo al surreali-

smo». Il rapporto fra Fortini e Éluard è messo a fuoco anche in A. Berardinelli, Fortini, Firenze, La Nuo-

va Italia, 1973, pp. 30-31: «Ciò che nel poeta francese maggiormente affascina Fortini sono l’idea della dissacrazione della poesia e quella della sua estinzione in una società egualitaria. “La poesia non è sacra”:

per Éluard essa deve avere il coraggio di perdere la sua purezza, affrontare il rischio di una lettura “im-

mediata e diretta”, diventare altro da sé. La poesia deve essere letta “a livello di esperienza comune”, “come si legge il giornale”. Per Fortini il surrealismo (nonostante le distanze che sempre più prenderà da

esso) è anche correttivo o contestazione di ogni razionalismo progressista in un momento in cui veniva condotto in Italia “un generico processo all’irrazionalismo, in nome di un razionalismo assai poco dialet-

tico”. E da Éluard deriva inoltre l’idea della posizione inevitabilmente contraddittoria di chi scriva poesia a partire da una posizione di conflitto con la società. In una società di classe la poesia non può infatti che

appartenere, oggettivamente, come prodotto e come linguaggio, alle classi dominanti». 352 Sull’argomento cfr. le dichiarazioni del poeta in F. Fortini – P. Jachia, Fortini leggere e scrivere, Firen-

ze, Marco Nardi, 1993, pp. 54-55: «Ma i testi davvero centrali, per il lavoro di traduttore, fra il 1947 e il 1955, furono – e li sento oggi divergenti, ma uniti da una sorta di inspiegabile tensione comune – Éluard,

Brecht e la Weil. […] però la versione delle poesie di Éluard aveva esaurita una certa concitazione della

speranza, che era stata vera, anche se ingenua per ottimismo, negli anni della “ripresa”; e invece quella di Brecht mi compariva come la geniale unione di assertività e di forma poetica assoluta e classica. Éluard

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Tornando al sistema delle traduzioni, è possibile tentare una ricognizione delle

convergenze e delle discordanze che si producono nei testi dei due poeti giustifican-dole a partire dalle difformi modalità teoriche attraverso cui transitano le proposte éluardiane353. Nel mazzo delle poesie tradotte da entrambi gli autori quella che più

me lo sarei lasciato alle spalle, Brecht mai». Emblematico in questo senso è anche l’attacco

dell’Introduzione a P. Éluard, Poesie: con l’aggiunta di alcuni scritti di poetica, introduzione e traduzione

di F. Fortini, Torino, Einaudi, 1981 [1955], p. XI: «La poetica di Éluard non è la nostra. Questa afferma-zione dev’esser fatta e chiarita per comprendere i motivi della presente antologia. Che sono anche di li-

berazione da quella poetica». Su queste ultime formulazioni cfr. A. Manfredi, Fortini traduttore di Éluard, Pisa, Maria Pacini Fazzi, 1992, p. 6: «“La poetica di Éluard non è la nostra”; dove nostra non sta

per un plurale di maestà o modestia, ma allude ad un interesse intersoggettivo, ad un auspicato dover essere della poesia come momento della cultura e della vita sociale. Così che la rilettura di Éluard viene

subito ad assumere il pieno significato di un atto di politica culturale, e la liquidazione “privata” implica in realtà una progettualità pubblica anche più forte della altre motivazioni allegate dall’autore […].

L’impegno critico nei confronti dell’opera di Éluard non è, per un verso, che un aspetto di quella rifles-sione polemica sugli atteggiamenti artistici e politici dell’avanguardia che occupa un posto di primo pia-

no nella produzione saggistica di Fortini. Uscire dall’irrazionalismo avanguardistico e dalla “decadenza”, non come volontaristico sforzo individuale nello scriver versi o per grazia ricevuta, ma “per esito di fati-

ca collettiva”, era il compito che Fortini si formulava alla fine degli anni ’50. Tuttavia come Lukàcs, dife-

so su questo punto contro le accuse di Adorno in un saggio di Verifica dei poteri, combatte le poetiche del decadentismo e non le intuizioni profonde della poesia realizzata, tradurre Éluard significava anche

accogliere e riconoscere il mandato di una poesia sopravvalutata o denigrata, e in Italia più razziata o presa a pretesto che veramente conosciuta, ma recante in sé momenti di incontestabile grandezza». 353 Modalità difformi eloquentemente testimoniate dalla ricostruzione polemica che Fortini fa de alla

penetrazione del surrealismo presso la terza generazione, per cui cfr. F. Fortini-L. Binni, Il movimento

surrealista, Milano, Garzanti, 1991 [1959], p. 11, nel momento in cui afferma come «negli Anni Trenta l’ambiente fiorentino filtrò lo Éluard della poesia d’amore e, più in genere, un Surrealismo di destra, che

ignorava la dimensione politica a favore di quella orfica e sublime»; di segno opposto, evidentemente, l’intervento di Carlo Bo relativo alle ‘compromissioni’ politiche e rivoluzionarie dei poeti surrealisti, giu-

dicate come uno ‘sviamento’, un abuso rispetto alla loro opera di liberazione che doveva ambire, secondo il critico, a farsi ‘assoluta’, metastorica, pena il rischio di divenire addirittura «un atto di tradimento»

(cfr. C. Bo, Bilancio del surrealismo, in Id., Letteratura come vita, a cura di S. Pautasso, prefazione di J.

Starobinski, testimonianza di G. Vigorelli, Milano, Rizzoli, 1994, p. 914). Ma in questo contesto, dallo stesso intervento, cfr. ancora le parole di Bo: «È chiaro che non sta qui – in questo stretto e particolaris-

simo rapporto – l'importanza della poesia surrealista e che si deve invece insistere specialmente sulla parte della liberazione naturale di ogni elemento attivo della vita che sull'altra di una speciale libertà con-

sentita al giuoco della politica» (p. 884); «Restava la definitiva liberazione dello spirito ma ciò era impos-sibile non senza aver tentato prima la liberazione dell'uomo. Per noi è su questo motivo confuso, su un

rapporto così falso che il surrealismo accetta la preoccupazione politica. Dalla libertà dello spirito a quel-la dell'uomo la strada sarebbe stata non solo più facile ma naturale e diretta, veramente spontanea, e in-

fatti è nell'ambito di questa larga e dolorosa situazione che il surrealismo ha rallentato la sua corsa e i suoi frutti non sono più stati così ricchi, così provvisti di virtù immediata» (p. 887-888); «Il surrealismo

ha, dunque, cambiato strada e la sua ultima storia (all'ingrosso fra il '30 e la guerra di Spagna) può appa-

rire opposta al senso del primo periodo intuitivo (1919-1925) e delle prime dichiarazioni. In realtà la vera nozione del surrealismo è affidata a quel tempo e in quei documenti che abbiamo analizzato: il pe-

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risulta influenzata da questa disparità critica è senz’altro Ta chevelure d’oranges, trat-

ta da Capitale de la douleur del 1926354. Una cronologia, che se pure sembra radicare il testo al pieno dell’avventura surrealista– anche per la sua metrica a tratti incline ai più consacrati codici formali francesi –, si dà invece come espressione, secondo For-tini, «della capacità éluardiana di non sacrificare, quando il sentimento della forma poetica glielo richieda, alle leggi dell’analogia surrealista e di ravvicinarsi invece alla propria tradizione nazionale»355. Il testo:

Ta chevelure d’oranges dans le vide du monde Dans le vide des vitres lourdes de silence Et d’ombre où mes mains nues cherchent tous tes reflets ,

La forme de ton cœur est chimérique Et ton amour ressemble à mon désir perdu. O soupirs d’ambre, rêves, regards.

Mais tu n’as pas toujours été avec moi. Ma mémoire Est encore obscurcie de t’avoir vue venir

Et partir. Le temps se sert de mots comme l’amour. È dunque una poesia in cui l’assenza/presenza della donna si dispiega

nell’ambito di uno spazio ‘vuoto’356, «dans le vide du monde» e «des vitres», sulla ba-

riodo delle ragioni politiche – conviene dirlo subito – non sarà che una pausa, utile e importante finché si vuole, illuminante, ma una pausa» (p. 914). 354 La poesia tuttavia era già apparsa in una piccola raccolta di 18 testi accompagnati da 20 disegni di

Max Ernst, Au défaut du silence, uscita anonima nel 1925 in appena 51 copie. Capitale de la douler esce

invece a Parigi per le Éditions de la N.R.F. l’anno seguente. 355 F. Fortini, Introduzione, cit., p. XXI. 356 Per la centralità del tema dello spazio vuoto nella raccolta éluardiana presa in esame, cfr. F. Muzzioli,

Éluard, La Nuova Italia, Firenze, 1977, p. 45: «Il problema centrale in Capitale de la douleur diventa

quello di riempire lo spazio, perché esso non diventi un vuoto in cui scomparire. […] Contro le scissioni e le fratture, bisogna puntare all’unità, operando una serie di connessioni per un tessuto strutturale soli-

do e duttile ad un tempo. In modo che lo spazio […] risulti insomma imbastito da una trama di rapporti. Ora, questo tessuto è essenzialmente simbolico. Esso si costituisce infatti non a partire dallo sperimenta-

lismo empirico che tende ad analizzare (cioè a dividere), ma secondo le leggi dell’immaginazione che al contrario identifica (cioè riunisce). Il simbolo è anche etimologicamente (dal greco symballein = mettere

insieme) la forma contestuale del riunire. In pratica, il reticolato simbolico è realizzato attraverso serie equivalenti su vari registri: avremo su un registro le forze cosmiche (fuoco, acqua, vento) su di un altro il

mondo naturale (minerali, vegetali, animali) su di un altro il corpo umano (occhi, bocca, sangue), su di

un altro ancora gli oggetti artificiali (battelli, strade, specchi). L’importante è che, su ogni registro, lo spazio risulti percorso da linee dinamiche: così il mare è solcato dai battelli, il cielo dalle nuvole e dal

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se di una trama di significati che fa capo a un equilibrio tra «désir perdu» e «mémoi-

re», due termini in continuo scambio che mirano a una sospensione, o a una rifor-mulazione, del fattore temporale. Su questo punto convergono, semplificando, le po-sizioni di Fortini e Bigongiari357, che però trasmettono al testo le loro dissonanze cri-tiche nella misura in cui le rispettive scelte stilistiche ‘sbilanciano’ il testo in direzio-ne del dramma dell’assenza o della totalità della memoria. Le due versioni358:

1)Traduzione di Franco Fortini Quei tuoi capelli d’arance nel vuoto del mondo, Nel vuoto dei vetri grevi di silenzio e D’ombra dove con nude mani cerco i tuoi riflessi, Chimerica è la forma del tuo cuore E al mio desiderio perduto il tuo amore somiglia. O sospiri di ambra, sogni, sguardi. Ma non sempre sei stata con me, tu. La memoria Mia oscurata è ancora d’averti vista giungere E sparire. Ha parole il tempo, come l’amore.

2) Traduzione diPiero Bigongiari I tuoi capelli d’arancia nel vuoto del mondo,

volo degli uccelli, la terra dalle strade, e il corpo umano infine è irrorato capillarmente dal sangue. Geo-metricamente parlando, la figura della linea tende alla complessità della rete: proprio il metamorfosarsi

dei registri simbolici produce quella dinamizzazione che Richard ha bene espresso col termine di “vitali-tà reticolare”». 357 Si veda ad esempio da una parte F. Fortini, Introduzione, cit., p. VII: «Éluard conosce il male ma non lo sente mai come veramente storico male, nemmeno quando nomina i fascisti; e il rivoluzionario della

Resistenza vuole in verità solo la restaurazione, in un perpetuo avvenire, della propria e altrui giovinezza, della freschezza e libertà che crede di aver avuto e di poter riottenere per tutti. Il conflitto s’inflette: di-

venta conflitto fra il tempo amoroso-poetico della o delle coppie e quello degli ‘altri’. Quindi eterno. Di-venta circolare, si fa ritorno perpetuo. Gli istanti aperti gli uni agli altri si compenetrano. Il tempo scom-

pare»; dall’altra P. Bigongiari, Poesia come natura, in Id., Poesia francese del Novecento, Firenze, Vallec-

chi, 1968, p. 72: «Lo scorrere della sabbia in una clessidra, questa è la serenità di Éluard. Senza peccato, senza limiti; ma essa stessa un peccato, il limite. È una serenità tutta bianca, quotidiana; finge i battiti del

tempo e li sostituisce». 358 Le due versioni di Bigongiari e Fortini non dovrebbero aver interferito l’una con l’altra: quella di Bi-

gongiari infatti risale agli anni intorno al 1939-1940, ma è stata pubblicata solo in Il vento d’ottobre: da

Alcmane a Dylan Thomas, Milano, Mondadori, 1961; al contrario quella di Fortini segue la stesura di

quella traduzione ma ne precede la divulgazione, essendo stata per la prima volta inclusa in P. Éluard,

Poesie, Torino, Einaudi, 1955.

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nel vuoto dei vetri gravi di silenzio

E d’ombra dove vagano le mie mani in ogni tuo riflesso nude.

La forma del tuo cuore è una chimera E il tuo amore, il mio desiderio perduto. Sospiri d’ambra, sogni, sguardi. No, non sei sempre stata con me. La mia memoria Ancora il tuo venire e l’andarsene l’oscurano. Il tempo usa come l’amore parole. In primo luogo i due traduttori replicano stroficamente i tre gruppi di tre versi

dell’originale éluardiano, privi di parallelismi, servendosi allo stesso modo di una strumentazione metrica che non esita a impiegare versi lunghi. Tuttavia già nella di-sposizione della sintassi in rapporto al metro si attesta una prima distinzione impor-tante, peraltro convalidata anche da una ricognizione comparatistica con gli altri te-sti doppiamente eseguiti dai due poeti359. Si segnala infatti la tendenza fortiniana a

riformulare il rapporto fra frase e metro mediante l’introduzione di nuovi enjambe-ments non contemplati dai componimenti originali. Clamorosa in questa sede è la

sospensione dell’enunciato al v. 2 attraverso la collocazione in fine di verso della congiunzione «e» (ma in sinalefe con «silenzio»), al fine di non sbilanciare la rigoro-sa partitura in due settenari del verso successivo. Al contrario la traduzione di Bi-gongiari mette piuttosto in risalto la tendenza a far coincidere la partitura metrica del verso con la trama sintattica della frase, come nel caso dell’enunciato finale, la cui assertività – secondo un modulo tipico del sistema stilistico éluardiano – è accentua-ta sopprimendo la forte inarcatura (replicata ancora da Fortini) che lega i due versi conclusivi nel testo originale:

a) […] Ma mémoire Est encore obscurcie de t’avoir vu venir Et partir. Le temps se sert de mots comme l’amour.

359 Si veda ad esempio il caso di Ta bouche aux lèvres d’or, dove tra l’altro, Fortini irrobustisce la spezza-

tura con una forte inversione dell’ordine sintattico: «Toute ma vie t’écoute et je ne peux détruire / Les terribles loisirs que ton amour me crée» → «Tutta la vita mia ti ascolta né distruggere / So i terribili ozi

che il tuo amore mi crea», là dove Bigongiari si mantiene fedele all’organizzazione éluardiana: «Tutta la mia vita ti ascolta e non posso distruggere / I terribili riposi che il tuo amore m’inventa».

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b) […] La mia memoria

Ancora il tuo venire e l’andarsene l’oscurano. Il tempo usa come l’amore parole. Sul versante lessicale è possibile mettere a referto un’ulteriore divergenza stilisti-

ca fra i due traduttori, per certi aspetti sorprendente: a dispetto di quanto lascerebbe presumere l’autonoma attività in versi dei due poeti, la tentazione di elevare in senso aulico il registro éluardiano attrae infatti più Fortini che Bigongiari. Oltre al caso in

Ta chevelure d’oranges di «lourdes» restituito da Fortini con un prezioso «grevi» an-ziché con il più comune «gravi» bigongiariano, sono emblematiche le scelte lingui-

stiche operate nelle rispettive traduzioni di un breve componimento come Sur ce ciel délabré, dove si possono ricostruire serie lessicali come «délabré»: «diruto» e «spez-zato»; «coquillage»: «valva» e «conchiglia»; «ouverte»: «schiusa» e «aperta»360; ma

anche, da La courbe de tes yeux, «berceau»: «arca» e «culla»; «sûr»: «fida» e «sicura».

L’elevazione del discorso in Ta chevelure d’oranges è casomai perseguita da Bigon-giari con le forti distassie del terzo e dell’ultimo verso («dove vagano le mie mani in ogni tuo riflesso nude»; «Il tempo usa come l’amore parole»), il rafforzamento al v. 4 del rapporto analogico tra i due termini dell’identità mediante la resa sostantivata dell’aggettivo («La forme de ton cœur est chimérique» → «La forma del tuo cuore è una chimera»), il taglio ellittico della seconda strofa, con il v. 5 nominale («La forma del tuo cuore è una chimera / E il tuo amore, il mio desiderio perduto»), e l’elisione ‘assolutizzante’ dell’interiezione vocativa.

Tuttavia non è nel merito di queste opzioni stilistiche che si può accertare se la traduzione sia o no di radice ermetica; occorre piuttosto rifarsi preliminarmente a un piano critico. Per Fortini la poesia di Éluard, ben lontano dall’inscriversi nei soli termini cui convenzionalmente è stata associata dal pubblico dei lettori – quelli di «grazia mobilità freschezza», della totalità dell’esperienza amorosa – tende invece ad esprimersi nel solco di un segreto antagonismo. Una «duplicità»361 sviluppata fra due estremi, di cui l’uno è esplicito e ricorsivo, l’altro solamente accennato, sottinteso, ma proprio perché soggiacente, quasi si direbbe per forza d’implicazione, tanto più incisivo (fino a prevalere, secondo Fortini) nelle dinamiche di senso éluardiane. Il

termine esplicito rinvia al tema dominante dell’aspirazione alla felicità, al bonheur

360 In tutti e tre i casi , come nei successivi, l’ordine con cui sono presentate le attestazioni prevede – arbi-

trariamente – prima la versione francese, poi quella di Fortini, e infine quella di Bigongiari. 361 F. Fortini, Nota per l’edizione 1966, in P. Éluard, Poesie, cit., p. V: «Quasi nessuno fra i poeti del Nove-

cento, con l’eccezione di Majakovski, mostra però, ancora oggi, tanta duplicità sotto un’apparenza tanto unitaria».

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sans limites indicato dal traduttore come argomento d’elezione del poeta francese.

Ma proprio la ripetitività del tema, la sua insistenza, l’apparente esclusività, implica-no di per sé la prova di un fallimento, già che il tentativo di intensificare la circola-zione del ‘flusso’ amoroso e di amplificare l’esperienza della felicità moltiplicando l’esistente allega in sé – sia pure discretamente – un controcanto di dissipazione e di fuga tale da far scrivere a Fortini che, di Éluard, «quel che ce ne rende sempre viva la voce è l’incrinatura di infelicità e di sconfitta che la percorre»362. In questa prospetti-va persino la sua tipica assenza di punteggiatura e la conseguente circoscrizione dello spazio bianco intorno alla parola poetica, anziché costituirsi come dimensione di as-solutezza e garanzia di autonomia verbale, tende piuttosto a consegnarsi all’interpretazione del critico come un divieto, una dannazione all’isolamento subita in seguito a un rifiuto, a una sconfitta; e «per questo la poesia di Éluard più sembra volerci parlare di felicità e vita e più, dai suoi margini bianchi, ci parla invece di an-

nullamento e perdita»363. Da una parte dunque l’aspirazione a un «paradisus volupta-tis»364 di grazia e spontaneità amorosa, dall’altra l’implicito scacco che l’accerchiamento dell’esistente comporta. La stessa pratica elencatoria si configura

per Fortini nei termini di un ‘rogo’ del reale, e quanto più il canto sembra spiegarsi nella sua pienezza, tanto più nella poesia éluardiana si incidono i segni della disillu-

sione e della sconfitta, come nel caso della poesia L’amoureuse, che secondo Fortini

«contiene anche una nota grave e desolata, il senso di un infortune che non è mai espresso come accadimento psicologico, individuale, anche se ha un accenno più in-timo di quello della gioia entusiastica»365.

Non un rogo del reale, secondo Bigongiari, ma la valorizzazione di immagini ‘as-solute’, in quanto sottratte a ogni relazione con l’esistente. La tendenza enumeratoria (enfatizzata, come si diceva, dall’ellitticità dell’enunciato) è dunque funzionale alla realizzazione di una sorta di ‘romanzo assoluto’ , in cui gli «oggetti nascono pura-mente creati come supremo impegno di limite al vuoto, ma d’una caratteristica du-

rata e familiarità»366, così come – aggiunge il poeta – «la poesia deve porre nel mondo

tali olimpici oggetti, viventi, pieni di memoria: sentimenti solidificati, liberi della loro

notte: sono situazioni, e la solitudine è vinta in un dialogo, il cuore si crea»367. Gli og-getti éluardiani non derivano dunque dalla polverizzazione dell’esistente, ma si pon-

362 Ivi, p. VI. 363 Ibid. 364 Si veda l’introduzione di Fortini a P. Éluard, Poesia ininterrotta, Torino, Einaudi 1976 [1947], pp. V-

VII, dal titolo Éluard e il «paradisus voluptatis». 365 F. Fortini, Introduzione, cit., p. XIX-XX. 366 P. Bigongiari, Poesia come natura, cit., p. 74. 367 Ivi, p. 75.

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gono come argini alla dissoluzione del realtà in quanto sottratti al loro progetto for-

male. L’assolutezza del discorso poetico éluardiano infatti mira all’informità, in quanto «solo l’informe qui sopporta l’effigie variabile dei giorni e li trafigge durando

oltre quelli»; non a caso del resto in Ta chevelure d’oranges il cuore femminile è «una chimera», si configura all’insegna della pluralità, intrinsecamente molteplice.

L’informità di Éluard tuttavia, caratterizzata com’è da una «parola cristallina a significato unico», non è quella ermetica in quanto non tende al fondo del linguaggio per via simbolica, ma ricava le sue trame di senso per via figurale, indotte nello spa-zio dell’immaginazione al di fuori dei codici dell’esperienza e della lingua368. L’obiettivo, secondo Bigongiari, è quello di sostituire la norma del tempo con la du-rata della parola/cosa lungo il filo della memoria:

[…] la poesia, ridotta a se stessa senza appoggi, entra nella sua regola vuota, nell’immaginazione. Intorno ad essa, tutto quello che le preesisteva si fa vetro spezzato, cosa senza nome e, in Éluard, oltre che sconosciuta angosciosa. La poesia, al centro, divina, comincia il suo respiro; è leggera e inconsistente co-

me il fiato, ma misura tutti gli spazi in parole artistes, in sentimenti désensibi-lisés. Accompagna l’uomo che ha rinunciato al suo nome a tutte quelle entità

(l’amour, la douleur) di cui si è denegato l’incontro diretto, in una visitazione amara. Comincia la salmodia senza divinità (perché lo spazio che la divinità

porta al poeta è sénsibilisé; come minato, pieno d’incontri), la poesia è al cen-tro senza incarichi: il tempo che le è offerto è anonimo, e allora essa non mi-sura che l’evitare le mete; il porto non è nemmeno più sepolto, ma soppresso: si tratta di durare369.

368 Cfr. le dichiarazioni del poeta riportate in Una verifica sugli autori. Colloqui con Piero Bigongiari e Mario Luzi, in M. Bernardi Leoni, Informale e terza generazione, introduzione di A. Noferi, Firenze, La

Nuova Italia, 1975, pp. 57-58: «Ora, per spiegare esattamente quello che è successo, bisogna dire questo; che la poesia della Terza Generazione, che è quella che secondo me ha istituito questo rapporto, è una

poesia che si è trovata a metà strada tra, da una parte il Surrealismo, che stava completando il suo atto di presenza, e dall’altra qualche cosa di nuovo che è quello che poi sarà l’Informale. Quindi per la poesia c’è

questo momento scalare, questo doppio registro direi: da una parte questa attenzione ad Éluard, a Bre-ton, a tutti i testi del Surrealismo che in Italia furono introdotti allora e tradotti da ognuno di noi, ha fat-

to sì che la rottura d’una certa norma linguistica sia avvenuta attraverso questo absurde proclamato dal

Surrealismo, dall’altra, sul piano linguistico vero e proprio, attraverso un tentativo, che io direi appunto precorre quello che è stato il movimento informale, non solo in Europa, ma in tutto il mondo». 369 P. Bigongiari, Éluard dalla bellezza amara alla verità pratica, in Id., Poesia francese del Novecento, cit., p. 66.

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Così i poli entro cui si svolge la poesia di Éluard sono per Fortini quelli – anta-

gonistici – tra felicità e esistenza, tra vita e annullamento, mentre per Bigongiari i termini – non in conflitto370 – sono (ermeticamente) quelli tra durata e memoria. Dicotomie alle quali si aggiunge infine un’ultima, determinante contrapposizione critica: da una parte infatti Fortini afferma che la poesia dell’autore francese rinvia «oggettivamente al disfarsi della individualità cristiano-borghese»;371 dall’altra, inve-ce, Bigongiari allude a «un se stesso divenuto subito, con atto impietoso, centro, in-vece che progressione continua verso il centro»372. Ecco dunque, in ultima battuta, la dissonanza di fondo che presiede alle operazioni traduttive dei due poeti: da una parte la poesia di Éluard riferisce della dissoluzione dell’identità borghese; dall’altra, ermeticamente, mette a referto la concentrazione ‘centrica’ dell’io.

Nel componimento allora convergono, a seconda del punto di vista, le due spin-te alla dispersione e all’accentramento, esercitate rispettivamente nella messa in fun-zione delle componenti centrifughe o centripete dell’ipotesto; un’accentuazione, evi-dentemente, da rintracciare nel tessuto delle traduzioni in microelementi che – in un certo qual modo – sfruttano le implicite riserve di senso della poesia francese per da-re voce alle discordi posizioni critiche dei traduttori. È il caso del v. 3, che dopo l’incipit scandito dall’accensione del dettaglio cromatico, e dopo la contestualizza-zione di questo dettaglio in una dimensione anonima e neutrale («vide», «vide», «si-lence»), assolve allo scopo di mettere in rilievo a livello testuale il problematico rap-porto tra le aree lessicali dell’assenza («ombre») e della presenza evocata («reflets»), con al centro la funzione ‘io’ introdotta dall’uso della prima persona.

In quest’ambito Fortini, alla luce della dichiarata identificazione della poetica éluardiana come conflittualità, tende a privilegiare la rottura dell’equilibrio tra as-senza e partecipazione, ombra e luce, avvalendosi di una traduzione come: «dove con mani nude cerco i tuoi riflessi»; il poeta dunque compone la trama semantica del verso sulla base del motivo della ‘ricerca’, tema che – per definizione – sottende una

mancanza, una lacunosità del suo oggetto, un’assenza, appunto, di cui si fa portavoce la metafora della ‘nudità’ delle mani. Anzi, la seconda stesura di questa traduzione – destinata a uscire nel ’66 – contemplerà un’eloquente variante, nella quale le «nude mani» sono sostituite dalla locuzione «a mani nude», che attiva una memoria idio-matica allusiva ad un disarmo, ad una lotta disperata.

370 Si veda ancora Bo, che in relazione proprio a Ta chevelure d’oranges, nel suo Bilancio del surrealismo, cit., p. 900, sostiene che, anziché sottendere un sistema semantico internamente antagonistico, «Éluard

non troverà più una pace così riscattata dalla vita della propria coscienza, dall’assistenza di una profondi-tà di echi e di memorie». 371 F. Fortini, Nota per l’edizione 1966, cit., p. VIII. 372 P. Bigongiari, Poesia come natura, cit., p. 73.

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La traduzione di Bigongiari, al contrario, si muove non nell’orizzonte di una di-

cotomia assenza/ricerca, ma nell’ambito di una strategia della presenza, seppure solo dei ‘riflessi’ della figura femminile: «dove vagano le mie mani in ogni tuo riflesso nu-de». Non la ricerca, ma l’appuntamento, la verifica di uno ‘stato in luogo’ dichiarato dall’emistichio finale del verso; una partecipazione che nondimeno elude ogni fissità figurale mediante un verbo dinamico come ‘vagare’. Le stesse ‘mani nude’ sembrano non implicare – come in Fortini – una condizione di impotenza, quanto piuttosto uno stato di abbandono nel giro delle intermittenze femminili («in ogni tuo riflesso nude») in cui naufraga la memoria del poeta. È peraltro una ‘presenza / non presen-za’ del tutto conforme alla cornice teorica d’estrazione ermetica – articolata su quel «sistema assenza-attesa-memoria» rintracciato da Ramat373 – entro cui si dispongo-no i labili spunti figurali trascritti dai poeti della terza generazione fiorentina. Dun-que, organicamente ai repertori tematici della grammatica ermetica, si potrebbe af-fermare che Bigongiari metta in funzione uno stato di ‘assenza’ tramite un eccesso ‘informale’ di presenza, non circoscritta in un profilo definitivo per conservarne lo statuto ‘potenziale’, «là dove il possibile rasenta l’impossibile, là dove il probabile ra-senta l’improbabile»374.

Un secondo caso di segno analogo si coglie ai vv. 7-9, in cui è coinvolta esplici-tamente a livello testuale la ‘funzione-memoria’ del poeta. In questa circostanza, in modo ancora più evidente, le rispettive versioni risentono dei diversi tagli critici dei due poeti. Il tema di fondo è ancora quello della presenza/assenza della donna in re-lazione alle facoltà mnemoniche del soggetto; la traduzione fortiniana in questo sen-so è interamente impostata al passato, all’insegna della conclusività: «La memoria / M’è oscurata ancora d’averti vista giungere / e sparire». Si tratta di versi che accerta-no una condizione definitiva, attestata da una parte dalla continuità implicita alla determinazione avverbiale riferita al tema dell’‘oscuramento’, e dall’altra dall’investimento di un verbo come «sparire» a tradurre il francese «partir»; sono

scelte stilistiche che non risentono in alcun modo della funzione ‘attualizzante’ rico-nosciuta alla memoria da quella tradizione ermetico-ungarettiana che, come è natu-rale, interferisce in modo tangibile nella versione di Bigongiari.

373 Per una trattazione complessiva dell’estetica ermetica, cfr. S. Ramat, L’ermetismo, Firenze, La Nuova Italia, 1969. Nello stesso libro, si vedano le osservazioni relative al rapporto tra il poeta fiorentino e

Éluard sul tema dell’attesa: «A leggere i versi del suo primo libro, c’è una condizione quasi costante che

esprime l’‘attendere attivo’, la presenza di qualcosa di attivo nel senso degli yeux fertiles ai quali Éluard

intitolava la sua opera del 1936» (p. 217). 374 La citazione, tratta da P. Bigongiari, Nel mutismo dell’universo, cit., pp. 114-115, è riferita

all’indicazione del limite del discorso poetico additato agli ermetici dagli esponenti della stagione france-

se dell’aventure et la révolte, con particolare riguardo a Reverdy, Apollinaire e, appunto, Éluard.

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Infatti negli anni durante i quali scrive La figlia di Babilonia il poeta traduce: «La

mia memoria / Ancora il tuo venire e l’andarsene l’oscurano». Anziché configurare una strategia della definitezza, Bigongiari mette a punto una trama dinamica del di-scorso poetico éluardiano, all’interno del quale l’area semantica della continuità (evocata dall’indicatore avverbiale) non è più riferita all’‘oscuramento’ inesorabile della memoria, ma è adibita a ‘cassa di risonanza’ di quel movimento pendolare, ri-corsivo, attivato dal ‘venire e andarsene’ della figura femminile. Una dimensione continuativa che circoscrive all’interno dell’io la dinamica del rapporto amoroso, depotenziandone le forze centrifughe – segnatamente per quanto riguarda il sistema di senso che fa capo al tema (fortiniano) della ‘ricerca’ – e accentuando l’assimilazione della misura del tempo alla norma della memoria, in modalità del tutto conformi al profilo ermetico del traduttore.

2. Si è detto dell’importanza di questa poesia nella formazione dell’estetica e del

linguaggio ermetico, come ha accertato lo stesso Fortini là dove afferma che Ta che-velure d’oranges è un componimento «che ebbe una notevole importanza per il

gruppo fiorentino degli ermetici»375. Non poteva forse essere altrimenti: la bigongia-riana ‘centricità’ della poesia di Éluard infatti raccorda la lezione dell’autore francese alle radici della più nobile esperienza lirica italiana, quella che fa capo al Petrarca e al petrarchismo, ormai quasi convenzionalmente posta al rango di capostipite della tradizione alla quale si allinea, come variante novecentesca, la vicenda ermetica. Una giuntura che se in Bigongiari rimane soggiacente, di fatto assorbita nel piano inter-

pretativo, al contrario si radica anche a livello formale in altre due traduzioni di Ta chevelure d’oranges messe a punto da poeti la cui prossimità (in un caso aperta mili-tanza) ai ranghi del canone ermetico testimonia ancora la fertilità del testo nelle tra-me della terza-quarta generazione. Le versioni, dopo quelle dei toscani Fortini e Bi-gongiari, sono quelle dei veneti Leone Traverso, quasi il traduttore ‘ufficiale’ della

societas fiorentina, «mediatore d’eccezione e che della traduzione riuscì a fare l’unica sua professione» (Bo376), e Andrea Zanzotto, di cui è ben noto l’‘attraversamento’ dell’ermetismo da cui «eredita soprattutto la categoria dell’orfismo, ma in maniera

apodittica e outrée, come nessuno dei poeti degli anni Trenta e Quaranta (mi riferi-

sco soprattutto a quelli di scuola fiorentina) avrebbe osato» (Bandini377). I testi378:

375 Cfr. F. Fortini, Introduzione, cit., p. XXI. 376 C. Bo, La cultura europea in Firenze negli anni ’30, «L’Approdo letterario», 46, aprile-giugno 1969, poi

col titolo «Firenze vuol dire» in Id., Letteratura come vita, a cura di S. Pautasso, prefazione di J. Starobin-ski, testimonianza di G. Vigorelli, Milano, Rizzoli, 1994, p. 192. 377 F. Bandini, Zanzotto dalla «Heimat» al mondo, in A. Zanzotto, Le poesie e prose scelte, a cura di S. Dal Bianco e G. M. Villalta, con due saggi di S. Agosti e F. Bandini, Milano, Mondadori, 1999, p. LIX. Sulla

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1) Traduzione di Leone Traverso

I tuoi capelli arancia nel vuoto del mondo Nel vuoto dei vetri pesanti di silenzio E d’ombra ove le mie mani nude cercano i tuoi raggi.

La forma del tuo cuore è una chimera E il tuo amore somiglia al mio desiderio perduto Sospiri d’ambra, sogni, sguardi! Ma non eri tu sempre con me. La mia memoria È ancora oscurata a vederti venire E partire. Usa il tempo e l’amore parole.

2) Traduzione di Andrea Zanzotto La tua chioma d’aranci nel vuoto del mondo nel vuoto dei vetri grevi di silenzio e d’ombra ove le mie mani nude cercano tutti i tuoi riflessi

Chimerica è la forma del tuo cuore e al mio desìo perduto l’amore tuo somiglia. Sospiri d’ambra, sogni, sguardi. Ma tu sempre con me non sei stata. E la mia memoria dura oscurata d’averti vista venire e partire.

Il tempo usa parole come l’amore.

costellazione culturale nel cui segno si inscrive il primo libro di Zanzotto, cfr. S. Dal Bianco, Profili dei libri e note alle poesie, ivi, p. 1399: «Il nucleo linguistico di quella che fu chiamata l’Arcadia di Z. si situa

alla confluenza tra ermetismo nostrano e surrealismo, innestati sul tronco del simbolismo europeo

(Baudelaire, Rimbaud, ma anche D’Annunzio) e con una attenzione costante a Leopardi e Hölderlin, due numi che non abbandoneranno mai la scrittura di Z. Fra gli ermetici vanno segnalati Gatto e Luzi, ma la

grammatica dominante di DP [Dietro il paesaggio] si rifà piuttosto al gelido intellettualismo di Quasi-modo e De Libero e insomma alle frange estremiste del movimento, che meglio si accordano con il radi-

calismo stilistico dei modelli surrealisti, Lorca e Éluard». 378 La versione di Traverso si trova in Poesia moderna straniera, Roma, Edizioni di Prospettive, 1942,

mentre quella di Zanzotto in Ricordo di Paul Éluard, «Terzo programma. Quaderni trimestrali», n. 1., 1963, pp. 237-249.

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Partendo da Traverso, la sua traduzione, pur non costituendosi come quella di Bigongiari (quasi) alla stregua di paradigma di un’ortodossa ricezione ermetica di Éluard, condivide nondimeno con essa alcune curve interpretative in contraddittorio con la più tarda ricezione fortiniana, che d’altra parte, vista la sua dialettica sottesa fra apparente isolamento dal reale e sua intrinseca affermazione, non poteva forse filtrare nell’opera di un autore per il quale la poesia si dà come strumento astorico ed anarrativo per eccellenza.

Nel merito della traduzione, sia il lessico che la sintassi sono piuttosto regolari: spicca casomai l’ultimo verso, in cui il traduttore smantella la comparazione ed enfa-tizza – al pari di Bigongiari, diversamente da Fortini (e da Éluard) – l’elemento «pa-role», posto in chiusura del testo grazie ad un iperbato; interessante inoltre la con-cordanza del verbo al singolare – complice l’anticipazione – in presenza di due sog-getti. Difficile stabilire quanto possa definirsi ‘ermetica’ l’opzione adottata sia da Traverso che da Bigongiari, protagonisti di una traduzione molto simile, finalizzata ad accentuare il medesimo segmento semantico nella sede strategicamente privile-giata di fine di verso (Traverso: «Usa il tempo e l’amore parole»; Bigongiari: «Il tem-po usa come l’amore parole»); ma si può ipotizzare che i traduttori ermetici puntino a dichiarare la piena reversibilità, la pienezza di senso della parola poetica nella quale il tempo e l’amore tendono a risolversi nella coscienza del soggetto. Traverso d’altronde premette all’antologia delle proprie traduzioni un vero atto di fede nella generatività della poesia (e della transitività del reale in essa) quando scrive che «la parola è chiamata così a mitificare non solo gli oggetti e l’uomo che li nomina confu-so in loro, ma se stessa, creandosi un’esistenza, nell’atto d’una nascita perenne, estremamente avventurosa e solo via via affermata»379. Forse debolmente ermetica, per contro, la scelta di Traverso di sciogliere l’ambiguità analogica di un’espressione come «ta chevelure d’oranges» in «i tuoi capelli arancia», che in parte ‘normalizza’

l’anomala preposizione che introduce il dettaglio cromatico, mentre notevole è la scelta di isolare stroficamente il verso 7 esclamativo per enfatizzarne la natura nomi-nale, il mandato patetico e, forse, per caricare semanticamente l’affacciarsi nel vuoto della memoria dei frammenti dell’oggetto d’amore, la deriva di questi dati assoluti.

Venendo ai punti più ‘controversi’ delle traduzioni di Bigongiari e Fortini, Tra-verso sembra porsi in una striscia ‘mediana’ rispetto alle tattiche della presenza e del commiato messe in campo dai due traduttori fiorentini. Si segnala in questo la scelta di rispettare il tema della ‘ricerca’, così centrale nella traduzione fortiniana e par-zialmente disatteso dalle strategie ermetiche di Bigongiari; strategie che tuttavia sono

379 Ivi p. XVII-XVIII.

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in parte remunerate nel testo dove «reflets» si traduce con «raggi», che agisce come

una sorta di contrappeso revocando al testo non l’allusività con cui è evocata la figu-ra femminile (già che i raggi si costituiscono comunque come presentimento o indi-zio, non come presenza), ma l’idea di una ulteriore mediazione: laddove il concetto di ‘riflesso’ implica un ripercuotersi dell’immagine, una rifrazione, una scomposi-zione, quella di ‘raggio’ per allude (anche etimologicamente) a un emanare diretto, ove si perde la sfumatura ‘astraente’ del riverbero, della moltiplicazione, quasi del gioco di specchi.

Allo stesso modo, in fine di componimento, Traverso opta nuovamente per una scelta che pur non aderendo alla traduzione ‘esemplarmente’ ermetica di Bigongiari, nondimeno dichiara la propria estraneità alla chiave interpretativa fortiniana. Infatti Traverso replica senza variazioni il «partir» éluardiano (assai più debole dello «spari-re» di Fortini) e salvaguarda il tema della continuità delle epifanie femminili nel cir-colo vuoto della memoria grazie al ricorso al tempo presente («La mia memoria / È

ancora oscurata a vederti venire / E partire») attraverso il quale la visione della don-na è continuamente sospesa tra convocazione e congedo. Un dato di particolare inte-resse, questo, già che contraddice evidentemente la coordinazione dei tempi quale risultava in Éluard, candidandosi pertanto a diventare il più eloquente contrassegno di un taglio interpretativo di tipo ermetico nell’assimilare l’esempio éluardiano alla grammatica della terza generazione.

Si è detto della possibile funzione semantico-figurativa esercitata dalla parola «raggi» nell’economia del testo, e del leggero spostamento di significato che compor-ta rispetto a ‘riflesso’; ma la soluzione di Traverso poggia anche su un principio

d’ordine formale, già che ‘raggio’ – soprattutto in riferimento a una figura femminile – è parola sovraccarica di memoria letteraria, e petrarchesca nella fattispecie. Si tratta dunque di un intervento dalla fortissima intenzione culturale, e che risponde a una ben precisa politica linguistica di Traverso, messa a fuoco da Macrí, il più lucido in-terprete (almeno dall’interno) del tradurre ermetico:

Nella matrice dell’opera critica di Leone Traverso, breve ma intensa,

s’incorpora una poetica della traduzione, derivata e occasionata (sono scritti quasi tutti di introduzione a traduzioni) da esperienza tecnica testuale di tra-slazione da sistema a sistema linguistico. Concetto terraciniano, ma proprio di Traverso il criterio attivo del minimo possibile differenziale e dissimilatorio fra traduzione e originale: una sorta di mimesi al limite dell’identità per inter-cambiabilità dentro una lingua generale europea, fondata sulla rilatinizzazio-ne umanistica, sulla legislazione linguistica settecentesca e sul simbolismo sto-rico […]. [In Traverso] la versione dev’essere specchio […] dell’originale poe-tico nell’ambito accennato della lingua comune del classicismo romanzo deri-

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vato da quello greco-latino e inverato (fin dal Petrarca) nella civiltà letteraria

del simbolismo europeo […]. Similati al livello linguistico delle versioni tra-versiane, si riconoscono d’un solo grembo di poesia poeti distanti nel tempo e nelle spazio, da Eschilo a Pound, da Hölderlin a Éluard, poiché identici e con-tinui nelle stesse profonde differenze individuali e nazionali sono i quesiti di fondo circa la forma e l’esistenza380.

In Traverso dunque un lessico d’estrazione petrarchesca rinvia al rimontare del

linguaggio della poesia alla fonte comune delle culture europee, «cercando di annul-lare al massimo le differenze, nel sogno di una letteratura universale» (Bo381). Tra-verso ammette una nozione di poesia non come medium linguistico (con tutto ciò che il principio della mediazione comporta), ma come interrogazione di un’‘essenza’ ermeticamente non divisa. Una politica che contempla allora la possibilità di attinge-re all’interezza dell’esperienza poetica tramite lo scavo di un unico bacino lessicale i cui materiali trascendano non solo gli usi di volta in volta praticati dai diversi poeti, ma che soprattutto annullino in un unico movente ‘spirituale’, quello della poesia, le distanze di tempo e di luogo, che raccordino le infinite ramificazioni della scrittura in versi alla radice sotterranea dalla quale tutte sgorgano. Una funzione-Petrarca, questa, che assolve a compiti assai dissimili da quella attiva nella traduzione di Zan-zotto.

Anche nella prosa critica del poeta di Pieve di Soligo infatti, è ben chiara la giun-tura che lega il poeta d’amore Éluard382 al poeta d’amore Petrarca:

Al di là e al di sopra del surrealismo canonico, Éluard, dopo averne tratto

il massimo profitto nella direzione di una liberazione totale dei ritmi e delle immagini, dopo aver demolito in esso le strutture coattive del passato e porta-to all’incandescenza le polivalenze, le implicazioni e le suggestioni delle singo-

le parole, delle strutture sintattiche, come anche dei tropi e delle figure retori-che, riscatta nel suo canto anche i metri prima negati, rivelandosi erede della

380 O. Macrí, La traduzione poetica negli anni Trenta (e seguenti), in F. Buffoni (a cura di), La traduzione

del testo poetico, Guerini e Associati, Milano, 1989, poi in O. Macrí, La vita della parola: da Betocchi a Tentori, Roma, Bulzoni, 2002, poi in F. Buffoni (a cura di), La traduzione del testo poetico, Milano, Mar-

cos y Marcos, 2004, pp. 63-64. 381 C. Bo, La cultura europea in Firenze negli anni Trenta, cit., p. 193. 382 Cfr. A. Zanzotto, Éluard dopo dieci anni, «Questo e altro», 3, marzo 1963, poi in Id., Fantasie di avvi-cinamento, Milano, Mondadori, 1991, poi in Id., Scritti sulla letteratura, Milano, Mondadori, 2001, p.

116: «Éluard non ha mai esitato a rappresentare se stesso come il poeta dell’amore, ha fin dall’inizio identificato con l’amore la poesia, la costruzione della verità».

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tradizione lirica del ‘500 e del ‘600 francese, ricollegandosi anzi al Petrarca. E

ciò avviene perché egli, volendo se stesso poeta dell’amore e della giustizia (polo introverso e polo estroverso di un possibile equilibrio di valori umani),

come del calembour o dal nonsenso trae imprevedibilmente la sentenza, la massima, dalla negazione rivoluzionaria surrealistica può poi volgersi con animo sgombro alla tradizione, alla reintegrazione dei valori in una luce nuo-va383.

Questa posizione critica di Zanzotto si riflette nel suo tradurre appiccando al te-

sto una «scintilla»384 (secondo la definizione del poeta) dedotta dal ‘cozzo’ fra idiomi o registri linguistici. È il caso, qui, della frizione fra la lingua media e l’italiano iper-letterario; il «desìo» evocato da Zanzotto è adibito infatti a ridestare gli echi della più eletta tradizione lirica, stratificando la versione di un secolare spessore stilnovistico. Ma la sua flagranza, la sua natura appunto di urto, di dissonanza nel tessuto della poesia, è sufficiente a limitare a questo dato di fondo le affinità con l’operazione compiuta da Traverso vent’anni prima e che mirava a configurare un impasto lessi-cale così omogeneo (a questo, d’altronde, puntava il ricorso a un lessico classico) da farne, al limite dell’impersonalità, quasi un trans-linguaggio in cui potesse converge-re e riassimilarsi la diffrazione linguistica europea. Zanzotto, invece, attinge i suoi materiali dalle circoscrizioni più disparate; essi contano nella misura in cui provoca-no un effetto di interferenza volta a connotare la traduzione come esperienza di lin-guaggio (stavolta) culturalmente mediata, a far spiccare il rilievo della funzione reto-rica, a dichiarare il distacco del traduttore dal proprio oggetto385.

Su questa scorta Zanzotto provvede ad allestire una traduzione saldamente ac-centuata sul profilo letterario, ricorrendo ad alcuni fra i più praticati espedienti stili-stici dei suoi esercizi traduttivi, come la rottura dei versi lunghi – anche a costo di sbilanciare la partitura originale del testo in tre membri strofici uguali e di imporgli

383 Id., Ricordo di Paul Éluard, cit., pp. 235-236. 384 Id., Conversazione sottovoce sul tradurre e l‟essere tradotti, in S. Perosa, M. Calderaro e S. Regazzoni

(a cura di) Venezia e le lingue e letterature straniere, Atti del Convegno, Università di Venezia, 15-17

aprile 1989, Roma, Bulzoni, 1991, p. 476: «Tutti questi discontinui mondi degli idiomi necessitano, per contraccolpo, di entrare in confronto, di presentarsi come diversità reciproca e di venire frantumati in

continuazione, di essere ridotti in scintille». 385 Sull’argomento – segnatamente in riferimento all’esperienza delle IX Ecloghe del ’62 (ma le date di

composizione sono 1957-1960) – cfr. S. Dal Bianco, Profili dei libri e note alle poesie, cit., p. 1461: «Il di-stanziamento ironico della coscienza comporta altresì la rottura dell’affidamento al codice letterario […].

È insomma la stessa fede nelle possibilità salvifiche della tradizione che viene tenuta a distanza: la lingua

si apre agli inserti “storici” di registro scientifico tecnologico […] i quali convivono con arcaismi, recu-peri letterari e danteschi, latinismi espressivi».

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una forte inarcatura («la mia / memoria») – e la forza delle inversioni («e al mio de-

sìo perduto l’amore tuo somiglia»; «Ma tu sempre con me non sei stata», in rima in-terna con «oscurata»); anche metricamente il poeta interviene su questo testo irrego-lare in bilico fra norma e trasgressione con, tra gli altri, endecasillabi (vv. 5 e 10), no-venari (vv. 4 e 7), un doppio senario (v. 2), un alessandrino (v. 6).

Sul versante critico Zanzotto sembra ancora far transitare la poesia di Éluard per uno schema petrarchesco (ma stavolta il riferimento è più esterno) articolandone il percorso in due possibili capitoli, ‘in vita’ e ‘in morte’ di Nusch. In tal senso la dialet-tica fra circolarità e infiltrazione, autosufficienza e delega, non si dà, fortinianamen-te, come interna allo stesso canto, e anzi più flagrante proprio là dov’è più nascosta, ma tende a spiegarsi in termini consecutivi, tra un prima, in cui si trascrive una «nuova e sfolgorante leggenda dell’amore»386, e un dopo, nel quale irrompe il senso di una tragica ingiustizia. A differenza però del ‘romanzo assoluto’ bigongiariano, nella leggenda d’amore decifrata da Zanzotto lo spazio intorno alla poesia non è una «regola vuota», ma straripa di una realtà che nell’amore trova il più autentico inve-ramento: «Non si delinea qui soltanto una psicologia dell’amore, ma la storia della reviviscenza di tutti gli aspetti della realtà in questa esperienza, che include tutte le altre»387; in tal modo la poesia non si stanzia fuori dal tempo, ma in un circolo di grado superiore ad esso, nel quale il tempo è compreso e addirittura generato:

La poésie ininterrompue, la litania che così spesso si ritrova in Éluard, è

l’espressione più adeguata dell’entusiasmo amoroso che sente di non aver mai abbastanza detto le sue ragioni, è quel rinnovarsi che elabora il suo oggetto e aggiunge un’ulteriore abbondanza alla foltissima e screziata immagine del mondo. Appena enunciata una verità, questa lode, questo “blason”, subito ne cerca un’altra, accumulando conquiste, allineando definizione a definizione, in un percorso che teoricamente potrebbe non aver mai fine. Essere instanca-

bile è proprio della vita come dell’amore, i quali in ciò si rivelano anche nella loro natura di “fedeltà” e tendono a collocarsi oltre il flusso temporale nell’atto stesso in cui lo generano, rovesciando in securitas la cura che sta ap-punto alla base della temporalità388.

386 A. Zanzotto, Ricordo di Paul Éluard, cit., p. 233. 387 Id., Éluard dopo dieci anni, cit., p. 117. 388 Ivi, p. 116. Su temi analoghi cfr. Ricordo di Paul Éluard, cit., p. 240: «In Les mains libres e in Cours

naturel […] brillano con incomparabile fulgore, grazie alla libertà di mani sicure che le tessono come in ghirlande, gli aspetti della natura. E basta il lampo di una mano […] per suscitare dai fondi della memo-

ria uno zampillo di sensazioni ardenti e una violenta presa di coscienza di una situazione particolare e universale insieme. Così la visione di un giardino si carica di tutte le prospettive edeniche, diventa tutte

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Il colloquio amoroso ha allora una «stabilità anulare», ma che sempre si som-muove dell’«infinitamente variato scintillio delle immagini in cui si concreta la du-plice verità del reale e dell’immaginario»389; l’amore-poesia così tende all’inclusione, alla dilatazione, «è una lode impetuosa, che annulla se stessa come onda dissolve on-da, e che nello stesso tempo allinea, accumula, costruisce motivi»390. È un cerchio sì, ma esuberante, «la chiusura di un circolo perfetto nel colloquio delle anime e dei corpi. E questa ricchezza, una volta raggiunta, tende a traboccare»391. L’esperienza d’amore si rapporta al reale non come momento selettivo o di sublimazione, ma co-me un ordine «al di fuori del quale non esistono regole autentiche, ma sconnessi schemi e scorie»392. Questa funzione ‘normativa’ del colloquio amoroso, donatore di senso a ciò che altrimenti è inchiodato a un destino di disarmonia, presiede poi alla stagione dell’impegno sociale, già che solo «l’andare a due a due consente la vera comprensione di tutti gli altri, solo passando attraverso questa forma di eros si può arrivare ad una universale solidarietà, a una specie di “comunione dei giusti”, dei giustificati dall’amore»393.

È proprio questo il punto destinato ad esacerbarsi nell’esperienza di Éluard dopo la morte di Nusch: la trascorrenza fra il circuito del discorso amoroso e la vita dell’esperienza subisce una frattura, un trauma, l’irruzione del male per il quale «la realtà cessa di apparire come autosufficiente e redenta, la possibilità di una sua totale “ingiustizia” si spalanca con “una sola” morte»394. È solo allora, non prima, che nella poesia di Éluard deflagra il dramma della «non-autocoincidenza del mondo», apren-do la via ad un ancor più serrato impegno politico come lotta all’ingiustizia della sto-ria (ingiustizia sociale, ingiustizia della morte che spezza l’unità dell’encomio amoro-so).

Ta chevelure d’oranges si colloca in questo decorso nella fase liminare, nella qua-

le l’abbagliante miraggio d’amore si consegna all’apice della sua luminosità, cattu-rando i dati della percezione sensibile e della vita della coscienza rifusi in una sola fonte d’immagini (assai più attinente, in questo, a una chiave ermetica che alla teoria della ‘dialettica soggiacente’ formulata da Fortini). La prima strofa della traduzione di Zanzotto sembra compensare la riscrittura metrica dell’ipotesto con un rispetto

le possibilità di sviluppo e di raccordo, verso il passato e verso il futuro, nella deliziata sospensione dell’istante». 389 Id., Ricordo di Paul Éluard, cit., p. 237. 390 Ivi, p. 236. 391 Ibid. 392 Id., Éluard dopo dieci anni, cit., p. 117. 393 Ivi, p. 119. 394 Ibid.

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quasi letterale della sintassi e del lessico; spicca casomai l’opzione iniziale di «chio-

ma», più letterario dei «capelli» di Fortini, Bigongiari e Traverso, ma funzionale sul versante ritmico a retrocedere l’accento sulla terza sillaba ad impostare un passo dat-tilico che ‘regolarizza’ un verso anomalo come quello d’avvio, oltre a consentire il rispetto della coniugazione di singolare + plurale del francese «ta chevelure d’oranges». Da evidenziare anche la scelta di «grevi» per tradurre «lourdes», che la-scia supporre una certa influenza su Zanzotto della traduzione fortiniana, se anche l’inversione al primo verso della seconda strofa («Chimerica è la forma del tuo cuo-re», identico nelle due versioni) e quella tra i due termini di paragone con retroces-sione del verbo in fondo alla frase in quello successivo sono anticipate da Fortini («E al mio desiderio perduto il tuo amore somiglia» → «e al mio desìo perduto l’amore tuo somiglia»).

Nella strofa finale però si concentrano gli interventi più interessanti della tradu-zione: la coppia verbale «venir / et partir» è infatti restituita da Zanzotto in termini del tutto diversi da Fortini, disinnescando quello «sparire» così eloquente nel quadro interpretativo ‘anti-ermetico’ del traduttore. Zanzotto al contrario si serve (come già Traverso) del più immediato abbinamento «venire e partire», ma intervenendo con una scelta netta sulla referenza dell’avverbio «encore», che in Fortini sembrava desi-gnare la continuità dell’oscuramento della memoria e della sparizione della figura femminile, mentre in Bigongiari si legava più alla costanza dell’andamento ricorsivo, della presenza-assenza del dato mnemonico nell’immaginazione del poeta; la solu-zione di Zanzotto è invece inedita, riassorbendo l’avverbio nel verbo ‘durar’, che alla metà del Novecento può dirsi poco meno sovraccarico di stratificazione letteraria di «desìo», o meglio, e per così dire, quasi altrettanto codificato ma a differente tempe-ratura: congelato nel suo secolare ruolo di istituzione culturale il desueto petrarchi-smo, incandescente l’altro per l’uso intensivo (filosofico e poetico) praticato negli ultimi decenni. La ‘durata’ intrinseca alla coscienza del poeta nella fissità del «pensie-

ro dominante» inscrive allora la traduzione di Zanzotto in un solco d’ispirazione un-garettiano-ermetica, sia pure correggendo questa appartenenza con il verbo al passa-to subito dopo («d’averti vista venire e partire»), dissonante rispetto alle coniugazio-ni al presente di Bigongiari e Traverso.

La chiusura, singolarmente, dopo tante inversioni fila liscia sul piano sintattico, a differenza di quanto accade nelle altre traduzioni prese in esame; al contempo, e ciò nonostante, il verso risulta forse il più ambiguo sul piano semantico: isolato per evidenziarne la sentenziosità, come in Bigongiari, esso accoglie in pieno la riserva di senso già éluardiana. Se nella versione di Traverso lo smantellamento della struttura comparativa coordina amore e tempo («Usa il tempo e l’amore parole»); se in Bi-gongiari l’anticipazione di «come» a «parole» sortisce in pratica lo stesso effetto («Il tempo usa come l’amore parole»); se infine in Fortini la prossimità di «come» a

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«tempo» ottiene ancora l’esito di legare «amour» e «temps» più forte di quanto non

accada con «mots» («Ha parole il tempo, come l’amore»), in Zanzotto la duplicità delle possibili referenze del «comme» (a «temps» o a «mots») viene di fatto lasciata sospesa. Anzi, la posizione a contatto, senza l’interpunzione fortiniana, di «come l’amore» a «parole» («Il tempo usa parole come l’amore») parrebbe mettere in co-munione proprio questi ultimi termini, come se il poeta intendesse dire che ‘il tempo

si serve di parole quali l’amore’, anziché ‘il tempo, a pari dell’amore, si serve di paro-le’: un’ambiguità volutamente non del tutto risolta, grazie al fedele recupero della sintassi éluardiana.

La traduzione di Zanzotto, la più tarda delle quattro, sembra situarsi allora alla confluenza di più fonti, come se al prevalere dell’informazione tecnica fortiniana corrispondesse una partecipazione critica che in qualche modo incrocia la lezione ermetica; il tutto, s’intende, negli alvei di una sensibilità personalissima, così ricono-scibile nell’improvviso impennarsi del tessuto linguistico della poesia non in registri, ma addirittura in idiomi altrimenti inconciliabili.

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Il tradurre consanguineo di Bigongiari. Il caso di Septentrion di

Char (e Sereni)

Seguendo una tendenza tutt’altro che stravagante, nell’opera di Piero Bigongiari non si riscontra una piena specularità o parità d’attenzione per lo stesso autore quando sia oggetto ora della sua attività di saggista, ora di quella di traduttore. Il ca-so di René Char in questo senso è abbastanza eloquente. La sua centralità nel discor-so critico di Bigongiari è palese, trattandosi – anche da un punto di vista solo statisti-co – di uno dei cinque autori ai quali il poeta dedica almeno due capitoli nella sua

Poesia francese del Novecento, accanto a Reverdy (sul quale gli affondi critici di Bi-

gongiari sono molto sintetici), Paul Éluard, Ponge e, con appena un pugno di pagine distribuite in due noterelle, Jacques Dupin. Nella contabilità degli spazi infatti Char è secondo solo a Ponge – di gran lunga qui il poeta più studiato – e si trova a pari me-rito con Éluard. Le proporzioni fra questi autori sono invece quasi capovolte nel

Vento d’ottobre, l’antologia di traduzioni del ’61 dove, fra i francesi moderni, am-piamente prevalgono per numero di testi tradotti Reverdy e Éluard, mentre a Char e Ponge, a dispetto della lunga fedeltà di Bigongiari critico, sono destinati appena un

componimento ciascuno: rispettivamente Nous avons e La nouvelle araignée. Solo più tardi Bigongiari risarcirà i due poeti dei limitati spazi accordati loro nel

Vento d’ottobre: entrambi negli appositi capitoli di La poesia come funzione simbolica del linguaggio395, mentre – presi singolarmente – da un lato con la curatela del volu-

me Vita del testo396, ove fu antologizzata una folta scelta di poesie di Ponge a cui col-laborarono anche Giuseppe Ungaretti, Jacqueline Risset e Luciano Erba; dall’altro

395 P. Bigongiari, La poesia come funzione simbolica del linguaggio, Milano, Rizzoli, 1972. Il terzo impor-

tante episodio critico del Bigongiari saggista di letteratura francese è la pubblicazione di L’evento immo-bile, Milano, Jaca Book, 1987, in cui però non compaiono scritti né su Char, né su Ponge, né su Éluard;

largo spazio è invece accordato a Reverdy e Dupin, oltre che a Perse, Michaux, Tzara, Sartre, Camus, Blanchot e altri. 396 F. Ponge, Vita del testo, a cura e con un’introduzione di P. Bigongiari, traduzioni di P. Bigongiari, L. Erba, J. Risset, G. Ungaretti, Milano, Mondadori, 1971.

Leonardo Manigrasso, Capitoli autobiografici : poeti che traducono poeti dagli ermetici a Luciano Erba ISBN 978-88-6655-502-5 (online), CC BY-NC-ND 3.0 IT, 2013 Firenze University Press

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attraverso quella vera e propria integrazione al Vento d’ottobre397 che uscì, con il tito-

lo di Rerum Vulgarium Fragmenta, su «Lingua e Letteratura» del 1987398. Qui si tro-

vano infatti altre tre versioni da Char: la quartina Rondinella da La nuit talismani-que, e da Le nu perdu le poesie Tradizione della meteora (già edita però nel mazzo di

traduzioni sereniane di Ritorno Sopramonte399) e Settentrione. Di queste tre versioni

quella che per cronologia è più attinente ai saggi critici di Poesia francese del Nove-cento – risalenti al ’62-’63 e al ’65 – è proprio Settentrione, datata in calce 25 maggio

1966 (gli altri due testi sono del ’68, Tradizione della meteora, e dell’85, Rondinella).

Grazie a questa prossimità, Settentrione è fra le tre versioni quella che meglio si can-

dida a campione ideale su cui verificare in re le forme di lettura e riscrittura dell’opera di Char nell’officina bigongiariana degli anni Sessanta; oltre a questo, il componimento offrendo anche la possibilità di mettere meglio a fuoco le opzioni

traduttive del poeta di Le mura di Pistoia raffrontandole con quelle formulate di lì a

poco dal più fedele traduttore di Char in Italia, Vittorio Sereni, che si occupò di que-

sta poesia in occasione della citata stampa mondadoriana di Ritorno Sopramonte, nel 1974.

Septentrion, prima di confluire in Le nu perdu, raccolta pubblicata da Gallimard

nel 1971, uscì in Retour amont400 nel dicembre del 1965. Il testo di Char:

- Je me suis promenée au bord de la Folie -

Aux questions de mon cœur, s’il ne les posait point, ma compagne cédait, tant est inventive l’absence. Et ses yeux en décrue comme le Nil violet Semblaient compter sans fin leurs gages s’allongeant dessous les pierres fraîches.

397 P. Bigongiari, Il vento d’ottobre. Da Alcmane a Dylan Thomas, Milano, Mondadori, 1961. 398 Id., Rerum vulgarium fragmenta, «Lingua e Letteratura», V, 8, maggio 1987, pp. 97-103. 399 R. Char, Ritorno Sopramonte e altre poesie, a cura di Vittorio Sereni, con un saggio di J. Starobinski,

Milano, Mondadori, 1974. 400 Id., Retour amont, Paris, G.L.M., 1965. Sul significato del titolo aiuta l’epigrafe di Georges Bataille,

tratta da L’Experience intérieure, allegata alla prima edizione del libro: «Cette fuite se dirigeant vers le sommet (qu’est, dominant les empires eux-mêmes, la composition du savoir) n’est que l’un des parcours

du labyrinthe. Mais ce parcours qu’il nous faut suivre de leurre en leurre, à la recherche de l’être, nous ne pouvons l’éviter d’aucune façon».

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La Folie se coiffait de longs roseaux coupants.

Quelque part ce ruisseau vivait sa double vie. L’or cruel de son nom soudain envahisseur venait livrer bataille à la fortune adverse.

Il componimento è esemplare della tipica articolazione della poesia chariana per

tensioni interne, dinamiche che si insediano sotto la superficie testuale compensan-done l’apparentemente scarsa coerenza letterale; si giova in tal senso della «produ-

zione (nel senso latino di producere, far venire avanti, presentare) di figure di senso compatte ma irricevibili per il concetto, costituite dalla compresenza (dalla commi-stione) delle opposizioni adibite a fondare il reticolo soggiacente delle relazioni» (Agosti401). Il reale non può trascriversi in poesia che come dialettica, sotto la quale però è compito e responsabilità del lettore rintracciare una sottesa unità di senso che, di fatto, punta a un’ultima, ma mai afferrabile, istanza di conciliazione, «riconducibi-le alla lontana lezione di Eraclito sull’alterna lotta e armonia degli opposti nel grem-bo dell’unità originaria» (Sereni402).

Se in Septentrion la strategia delle contraddizioni si dispiega in modo dichiarato

nelle intermittenze di assenza e presenza, di silenzio e discorso, a un livello più com-plesso la figurazione del testo si consegna a una duplicità più ambigua che si incrocia nell’elemento della «Folie», stanziata com’è sulla soglia metamorfica tra «il nome di

401 S. Agosti, Figure profonde e figure di superficie nella poesia di René Char, in Id. (a cura di), Canti della Balandrane seguito da Sfilacciatura del sacco di iuta, Milano, Mondadori, 1993, p. XX. 402 V. Sereni, Appunti del traduttore in R. Char, Ritorno Sopramonte, cit., p. 227. Cfr. anche J. Starobinski,

René Char e la definizione del poema, ivi, p. 16: «Nel punto di passaggio il conflitto non si annulla: i con-

trari restano l’uno di fronte all’altro, l’aspetto tragico dell’opposizione permane interamente, ma si an-nuncia un nuovo slancio, al quale il poeta consente». Sulle analogie e differenze tra la filosofia di Eraclito

e la poesia di Char, e sul rapporto tra frammento e unità, cfr. inoltre J. Roudaut, Les Territoires de René Char, in R. Char, Œuvres complètes, introduction par J. Roudaut, Paris, Gallimard, 1983, pp. XXXIV-

XXXV: «Peut-on parler de fragment dans le cas de l’œuvre de René Char? Ce ne pourrait être, ce me semble, qu’en fausse analogie avec le textes des présocratiques, qui reposent sur une totalité dont nous ne

possédons plus que des éléments épars. Loin d’être le reste d’un ensemble perdu, l’élément en cette œuvre (le poème isolé, l’aphorisme) est constitutif de l’ensemble; ce qui fait songer au fragment grec,

c’est la fulguration axiomatique et la polysémie […]. La notion d’hermétisme est de nature radicalement différente chez Héraclite l’Obscur et chez Char l’Évident. Alors que le fragment est, selon son étymolo-

gie, le résultat d’une fracture (et ce sens est repris, avec sa racine, par le biais du mot saxifrage, la fleur briseuse de rocher), et ne permet pas à partir de lui-même d’inférer la totalité, l’axiome est dans la poésie

de Char une partie réalisant le tout, en simulacre et miniature. Un échange constant s’opère de l’élément

à la totalité, et si le postulat fondamental de la lecture est la cohérence, il n’y a pas de possibilité de penser

le fragment […] Chez René Char il n’y a pas de membra disjecta ni d’hiatus insurmontable entre frag-

ment et totalité; disjointe, elle est en même temps conjointe […]. Parcellisation et organisation sont en échange sans fin, le texte se fragmentant et se reconstituant».

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un fiumiciattolo, che lo deriva dal suo corso tortuoso, volubile e bizzarro»403, e una

determinata condizione psicologica, riferibile alla «compagne» del poeta; una figura femminile, peraltro, che nel discorso diretto del primo verso significativamente «s’[est] promenée au bord de la Folie», incamminata lungo un «bord» che sembra già convocare nel testo il tema della posizione di confine, di discrimine, di frontiera nella «double vie» del ruscello. La trascorrenza della designazione semantica della Folie si esplica infatti: sia, lungo il vettore “donna → fiume”, nel paragone tra gli oc-chi della compagna e il flusso ‘decrescente’ del Nilo; sia, nella direzione inversa “fiume → donna”, nell’analogia impostata dal verbo ‘coiffer’ che assimila a capelli i «roseaux coupants» che affollano il fondo del ruscello.

Più enigmatica – ma del tipico enigma chariano – è la chiusa della poesia, che sembra porsi in discontinuità figurativa e tematica con la più omogenea parte prece-dente, con la quale stringe solo relazioni non epidermiche, di profondità, relative alle consuete strategie di tensione e opposizione: adesso però i termini del contradditto-

rio, anziché slittare tra le ambigue realizzazioni della Folie, si dispongono in senso pienamente frontale nella «bataille» contro la «fortune adverse». Protagonista è «l’or de son nom», i bagliori del linguaggio poetico che vengono a opporsi, appunto, alla ‘fortuna avversa’, da intendersi come uno dei modi attraverso i quali l’«ignoto» si dà alla coscienza del poeta, categoria di ciò che, segreto, non si offre alla sua nomina-zione; scrive Starobinski:

Il poeta fa fronte all’ignoto. «Come vivere senza ignoto davanti a sé».

Questo aforisma di Char […] situa la vita – la poesia, dunque – sulla linea

avanzata di un confronto. L’ignoto: ciò di cui non posso disporre, ciò che mi

tiene senza posa desto, ciò che mi circonda e mi provoca, la parte avversa che mi investe, l’orizzonte inaccessibile dove si forgia il mio destino. Ma come il poeta non resta inattivo, così l’ignoto non permane neutro e senza volto: si

paleserà nell’evento che rompe l’agguato immobile. Dal fondo dell’ignoto in-

sorge l’occorrenza, e il poeta ha il dovere di rispondere. Il destino si produce, e

il poeta deve produrre in risposta «l’inesauribile reale increato». Dall’orizzonte ancora inqualificato, dove resta intatta la riserva dell’ignoto, ecco venire i de-legati dell’ignoto: la sventura e il rischio, - o la fortuna. Un attacco, - o un do-no. I carnefici e i mostri, - o la bellezza non sperata, sempre attesa. Il poeta si fa loro incontro, con la risposta appropriata404.

403 V. Sereni, Note al testo, in R. Char, Ritorno Sopramonte, cit., p. 216. 404 J. Starobinski, René Char e la definizione del poema, cit., pp. 17-18.

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Qui si dispiega pienamente insomma la tipica costruzione della poesia di Char,

«letterale e oracolare insieme. Non un messaggio unico e costante, ma una serie va-riabile di messaggi calati nelle forme del nostro discorso giornaliero, nell’articolazione abituale della frase. Si stenta a ravvisare una tecnica compositiva, ma una tecnica metamorfica del profondo, una potente carica analogica attraversa la struttura logica, preme sui significati e li contrae all’estremo» (Sereni405).

Le due versioni di Bigongiari e Sereni:

Settentrione di Piero Bigongiari - Ho passeggiato lungo la Folie - Alle domande che il cuore Davvero non poneva La mia compagna cedeva, Tanto l’assenza è inventiva. E i suoi occhi decrescenti come il Nilo violetto Parevano annoverare senza fine quanto impegnavano stendendosi Sotto la frescura delle pietre. Si copriva il capo di lunghe canne taglienti la Folie. Non so dove il ruscello vivesse la sua doppia vita. L’oro del suo nome, crudele con improvvisa invadenza

Veniva a dar battaglia alla fortuna avversa.

Settentrione di Vittorio Sereni - Ho passeggiato in riva alla Folie. –

Alle domande del mio cuore, se non ne faceva, cedeva la mia compagna, tanto inventiva è l’assenza. E i suoi occhi in deflusso come il Nilo viola parevano contare senza fine i loro pegni propagandosi sotto i ciottoli freschi.

405 V. Sereni, Appunti del traduttore, cit., p. 224.

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Di lunghe canne taglienti

andava chiomata la Folie. In una qualche parte viveva quel rivolo la sua doppia vita. Improvviso invasore l’oro crudele del suo nome veniva a dar battaglia alla fortuna avversa.

Un’indagine sul tradurre bigongiariano non può fare a meno di inscrivere questa

variante della sua scrittura all’interno della capillare cornice teorica che ne alimenta la formidabile coscienza critica406; nella fattispecie, a raccordare il momento dell’invenzione poetica con il rigore del progetto interpretativo, è determinante la nozione – assai cara al poeta – di ‘vita del testo’, così come puntualizzato da Ramat:

Nel 1968 i saggi di Poesia francese del Novecento avrebbero dato una si-stematicità a questo rapporto fra Bigongiari e un’area dell’invenzione europea

a lui congeniale da sempre; ma quei poeti francesi presenti nel Vento d’ottobre costituiscono già una testimonianza corposa della “riscrittura” bigongiariana attuata su certi campioni così flessibili (eccettuato forse Mallarmé) da illustra-re nella maniera migliore quella possibilità o prospettiva di “vita del testo” (parafrasando Ponge) la quale prosegue in lettori traduttori interpreti crono-

406 Sull’argomento cfr. G. Quiriconi, Piero Bigongiari, in Id., I miraggi, le tracce. Per una storia della poe-

sia contemporanea, Milano, Jaca Book, 1989, pp. 199-200: «La consapevolezza critico-teorica di Piero Bigongiari nei confronti del proprio testo poetico non ha forse eguali nel Novecento poetico italiano. Il

dato è così macroscopico da risultare scontato; e su esso in ogni modo si sono compiutamente soffermati

i lettori più attenti e continui di quella poesia. Non c’è verso – si potrebbe dire -, non c’è modulazione tonale o variazione formale che non si poggi su di una ben precisa opzione teorica; così come – specu-

larmente – non c’è acquisizione critica che non sia avviata o non trovi un innesco nel fuoco dell’invenzione poetica. Non stupisce dunque che talora la rete di relazioni si avviluppi così fitta da crea-

re una sorta di nodo […]. L’originaria formula del “critico come scrittore” con cui in ambito ermetico si impostava un rapporto di collaborazione aperta tra testo e lettore, postula in Bigongiari – ancora più che

negli altri suoi sodali – la inversa e complementare operazione dello scrittore come critico. E, in primis, di se stesso. Il fenomeno si viene vieppiù accentuando e complicando con il passare degli anni, sulla base

di sempre più ampie acquisizioni teoriche e nell’intrecciarsi senza soluzione di continuità nei vari livelli di applicazione della sua scrittura: il lavoro di poeta come risultante e a sua volta punto di partenza del e

per il lavoro di critico – della letteratura come della storia dell’arte – e di teorico che si confronta – si

veda in particolare La poesia come funzione simbolica del linguaggio – con il pensiero moderno nei suoi punti di forza più decisivi».

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logicamente attivi al di là dell’istante in cui, come si dice, l’autore “licenzia” la

propria opera compiuta407. Nello specifico l’atto del tradurre si costituisce, senza alcuna distinzione di ran-

go, come esperienza di partecipazione (o quanto meno tensione) a un senso unitario, anteriore al suo riformalizzarsi in versi o prosa critica e sottesa a ogni vera esperien-za di poesia; autore, critico, lettore e traduttore408 coabitano e cospirano a fare della poesia una realtà vitale ed unitaria tramite la quale attingere all’essere indifferenziato – di cui essa è tramite – al di là delle individuazioni di genere:

Ma ogni traduzione per me è un atto assurdo che il poeta compie per e nel

riconoscere fraterno un testo alieno. È una forma di opposizione, per dispera-zione felice, alla diversità degli essere nell’identità dell’essere. Ma è anche una forma di esecuzione di un testo; e come in musica il direttore d’orchestra ha una sua caratteristica personale per la penetrazione e la messa in funzione di un’opera, così accade per la poesia: anch’essa si presta, nella sua suprema im-personalità, a ogni personificazione che ne rispetti, andandone in cerca, il suo nucleo inesauribile409.

407 S. Ramat, Invito alla lettura di Bigongiari, Milano, Mursia, 1979, p. 112. Interessante anche il seguito

dell’appunto di Ramat: «Sono ipotesi e concetti portanti proprii non solo di questa stagione della maturi-tà, in Bigongiari: il loro primo germe è infatti rinvenibile già forse al tempo del noviziato in clima erme-

tico. Oltretutto si fa luce lungo gli anni Sessanta, avanzato da più parti, il pur cauto suggerimento di un parallelo attendibile fra quella ch’era stata la critica degli ermetici e la nouvelle critique esercitata nel

quadro dell’attuale cultura francese. Alla base del tentativo di raccordo è quantomeno l’ipotesi d’una cri-tica testuale come collaborazione e complemento a quell’“oggetto” solo apparentemente “finito”, il testo

scritto quale l’autore lo consegna al lettore. Va da sé che una sollecitazione come questa si combina con

una crescita d’interesse per la cosiddetta “opera aperta”. In Bigongiari, ora, questi e altri stimoli acuisco-no una sensibilità, appunto, alla “vita del testo” che già era desta da tempo: solo che, poniamo, negli anni

Trenta, il più vivace modello in proposito poteva offrirlo Giuseppe De Robertis; e poco più tardi il ri-schio era una collusione con la stilistica, ma anche con la stilizzazione di Gianfranco Contini (per fer-

marci a questi due nomi eccellenti). Così l’incontro con la cultura francese del “segno” – da Saussure a Barthes e oltre – è valso per Bigongiari da radicale correttivo comunque, pur implicando a sua volta –

verificabile in più pagine di poesia – il pericolo di un nodo fra logica teoretica e logica inventiva, nodo talora così stretto da dare a chi legge l’impressione di un’identità di fatto tra le due sfere». 408 Cfr. P. Bigongiari, Nel mutismo dell’universo. Interviste sulla poesia 1965-1997, a cura di A. Dolfi, Roma, Bulzoni, 2001, p. 9: «nella letteratura novecentesca si ha una corrente trifase; [non solo l’autore e

il critico, ma] anche il lettore non è più un mero utente, è parte necessaria del circolo compiuto, al pari

dell’autore e della sua continua, necessaria crisi». 409 Ivi, p. 133.

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In questo senso proprio Septentrion si rivela per la scrittura di Bigongiari un ve-

ro groviglio di fasci tematici trasversali ai generi della traduzione, della sua riflessio-ne critica su Char, della più generale speculazione sulle teorie del segno e sulla filoso-fia del linguaggio. Nel merito di questo componimento, possiamo individuare alme-no quattro-cinque motivi che – facendo sponda sugli scritti chariani di Bigongiari – s’incaricano di intrecciare gli snodi della fitta trama di temi, rapporti, scambi e inte-razioni che legittimano la stretta parentela tra le varie forme della sua scrittura:

• il topos dell’assenza inventiva, che aggiorna agli anni Sessanta forse il più incan-descente e affollato nucleo tematico della coscienza ermetica;

• il tema del ‘silenzio eloquente’ (spesso coniugato al motivo dello sguardo), inteso

come pienezza di linguaggio «contro un’indifferenza che diventava sempre più un fenomeno dell’ordine naturale»410, e come strumento privilegiato per un ridispiega-mento della parola fino (e oltre) ai propri margini di senso;

• il motivo della contesa fra luminosità e buio, «tra l’assertività della luce e i palpi-

tanti gorghi dell’ombra»411 attraverso la quale si esplicano le dinamiche della crea-

410 Id., Furore e mistero di Char, in Id., Poesia francese del Novecento, Firenze, Vallecchi, 1968, p. 194.

Scrive in tal senso il poeta, riferendosi segnatamente all’esperienza dei Feuillets d’Hypnos e al tempo della guerra (attraverso cui filtra, peraltro, anche un fondo generazionale-autobiografico): «“Les yeux seuls

sont encore capables de pousser un cri” dichiara il feuillet 104: è stato il grido soffocato dei nostri anni di guerra, un grido tutt’occhi, il grido desolato come la pupilla di chi vedeva gli orrori sotto il passo caden-

zato della ronda nemica traversare la strada simile ai gatti notturni spaventati, da una cantina all’altra, a

balzi felini. Fu quella la nostra vera “école du regard”, quando lo sguardo spiava, e gridava, nella luce smorta dei crolli e dell’indifferenza, la propria voglia di essere diverso, in tutto simile alla vita che non

assorbiva ma che anzi emetteva attraverso le pupille dilatate: questa dura volontà di durare. Era il silen-zio da cui era circondata l’azione a dare questo senso di visibilità e insieme d’invisibilità all’esistenza; e io

ricordo come questo s’accordava alla nostra crisi di libertà, che quanto più s’avvicinava alla stretta finale, alla illibertà e alla morte nella loro cruda necessità, tanto più si dimostrava irresistibile come un fatto di

natura. Chi aveva opposto il proprio silenzio, ora poteva ritornare all’azione e alla parola come alla pri-ma età del mondo […]. La crisi del linguaggio per l’uomo di questa, ormai di quella, metà del Novecen-

to, derivava dall’ambigua possibilità che la parola si trascinava seco, di tradire il proprio segreto, e un

segreto comune; era perciò, il linguaggio più proprio, un vedere silenzioso, uno scolpirsi nel proprio sguardo, un’intrepidità nella trepidità, un buttare col proprio sguardo se stessi contro il mondo tradito»

(ivi, p. 194). È vero che Bigongiari fa riferimento all’esperienza contingente del maquis, ma bisogna tene-re a mente come per lui la Resistenza si connoti come fenomeno storico in alcun modo scisso da un ap-

puntamento interiore e morale che anzi ne costituisce l’autentico presupposto, nel quadro di una fluida continuità tra l’esperienza storica e la vita naturale. 411 Ivi, p. 193: «“La seule lutte a lieu dans les ténèbres. La victoire n’est que sur leurs bords”, dice in Pour un Prométhée saxifrage, ed è la sensazione che noi riceviamo dalla lettura di Char: una vittoria sull’orlo

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zione poetica chariana, per cui «l’opera di Char, nelle sue caratteristiche più generali,

si manifesta come un sollevamento che, lasciandosi alle spalle una regione notturna, punta, attraverso la pura chiarità del giorno, verso un rischio ulteriore» (Starobin-ski412); a questa tensione fa da supplemento il ricorrere della parola «bord/bordo» a designare la linea di frizione del contraddittorio tra luce e ombra, parola e silenzio, sì

che, in Char, «l’agonia è il luogo di confine»413 (mentre significativamente La dialet-tica degli opposti è il titolo di un paragrafo di Quiriconi sulla poesia di Bigongiari de-gli anni Sessanta414). La circoscrizione metaforica della luce, investita nel suo alterno contrapporsi e mischiarsi con l’ombra, assume in tal modo una funzione determi-nante nello strutturare l’immaginario chariano. Per inciso, è forse sulla base di que-sto presupposto che, in modo anomalo nelle strategie di questa traduzione, Bigon-giari agisce sul penultimo verso del testo accentuando la segmentazione del dettato tramite l’interpunzione, adibita a gerarchizzare ulteriormente i rapporti fra il sin-tagma principale e il suo modulo attributivo – che è appositivo in Char e Sereni –

delle tenebre, una vittoria che ha radici nella “lutte dans les ténèbres”, e ancora un impulso originaria-

mente tenebroso: un invadere la luce, un rapinarla. L’arcipelago delle parole è toccato, nel suo selvoso inerire alla terra, da questo sole che si leva improvviso ed immenso: nell’infinità dell’orizzonte le parole

sembrano portare la loro cupa radicalità terrestre; la loro massa vaporare in luce. Così, e in opposizione a

queste tenebre che danno luce, vediamo il sole, nelle eruzioni prorompenti della propria solarità, coprirsi di macchie minacciose, che echeggiano fin nelle lontane latebre del suo sistema stellare». In ‘negativo’ si

veda come proprio nella differente connotazione della luce Bigongiari distingua da Char, artista della

contraddizione, la poesia della pienezza meridiana di Éluard; cfr. allora Ultimo Char, in P. Bigongiari,

Poesia come funzione simbolica del linguaggio, cit., p. 258: «Il canto charriano è ormai ben lungi da quello del maggior sodale di gioventù, Éluard, mirante a una “poésie”, surrealisticamente, “ininterrompue” per-

ché intimamente innocente e dunque senza interstizi “colpevoli” di buio. Per Éluard anche la sofferenza umana è luce, luce continua, fatta dello stesso mezzo aereo e instabile, quasi un gas esilarante, l’“amour”,

anche per entro la sopraffazione, anche se sfida con la maggiore naturalezza, come in un atto quotidiano

e ripetibile, la morte». Sul tema della visività in Bigongiari, cfr. almeno R. Donati, L’invito e il divieto.

Piero Bigongari e l’ermeneutica d’arte, Firenze, Società Editrice Fiorentina, 2002. 412 J. Starobinski, René Char e la definizione del poema, cit., p. 12. 413 P. Bigongiari, Ultimo Char, cit., p. 261. Ma cfr. anche il suo Furore e mistero in Char, cit., p. 201: «Il dolore non malmena più la notte accettata come luogo della lotta, la sua condizione dialettica, per una

conoscenza che significhi emergere ai bordi dell’ombra: un lampo d’una eticità folgorante, un improvvi-so apprendersi al linguaggio, un improvviso apprendere un linguaggio: una luce che si sprigiona grazie

all’ombra della parola, un’avventura spirituale che può dirsi tale grazie al corpo del linguaggio, un fine

che ha trovato nella parola il mezzo per dichiararsi puramente come tale». 414 Cfr. G. Quiriconi, Piero Bigongiari, cit., p. 216: «Il senso del contrario non ipotizza più la necessità

della scelta o del superamento dei due termini in un terzo termine che li ingloba e li supera; il contrario è

intrinseco ad ogni elemento, e dunque inscindibile». Speculari le riflessioni ancora di Bigongiari in Furo-

re e mistero di Char, cit., p. 207: «È dunque una salda sensazione primordiale che tende a radicarsi e in tale modo a radicare tra loro gli opposti che altrimenti non si toccherebbero e non potrebbero attuare la

propria potenzialità. L’oggetto poetico non ha altro compito che quello, provocatorio, di mettere in con-tatto tali estremi: la sua inesistenza oggettiva si qualifica appunto come funzione».

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facendo convergere il focus semantico del verso sull’indissolubile interazione (quasi

un endiadi) di «oro» e «nome», luce e parola: «L’or cruel de son nom soudain en-vahisseur» → «L’oro del suo nome, crudele con improvvisa invadenza». Nell’ambito di questa redistribuzione dei carichi semantici, l’aggettivo «crudele» viene sì espunto dal sintagma dominante del verso, ma solo previa la ‘retrocessione’ di «envahisseur» a complemento retto proprio da «crudele», in tal modo eletto epicentro del secondo emistichio. Una scelta non priva di effetti, questa, giacché a propria volta presuppo-ne un altro cruciale sistema simbolico messo a fuoco da Bigongiari: quello relativo al tema della colpa;

• il motivo della colpa conseguente all’intrinseca violenza inferta a un’innocenza primaria, destata (e forse ad essa coesistente) dall’atto creativo, dal chiamare la paro-

la alla propria esistenza; da qui deriva l’intrinseca ‘crudeltà’ del nome, la natura co-stitutivamente trasgressiva della scrittura chariana (non esente da «una sorta di ran-core segreto»415) che addirittura induce Bigongiari a dichiarare che «il significato della poesia di Char emerge da un senso linguistico di colpa»416;

• il motivo del non sapere417 come antipodo (e antidoto) alla ‘certezza’ – altrimenti, questa, sul punto di «giace[re] senza rapporto intrinseco»418 – dal cui cortocircuito

415 P. Bigongiari, Furore e mistero di Char, cit., p. 205. 416 Id., Ultimo Char, cit., p. 260. Ma cfr. inoltre il suo Furore e mistero di Char, cit., p. 201: «Tutto il mo-

vimento del poème charriano è in questa sua continua evoluzione maieutica da una preistoria a una sto-ria che d’altronde conserva, nel suo destarsi alla volontà, insieme all’incanto di un’innocenza primaria, il

dolore cupo di una volontà già macchiata da una colpa altrettanto primaria. La creazione pecca, e anche la creazione prima peccò, in questo captare insieme bene e male nell’esistente? La poesia di Char anticipa

il peccato originale nell’atto stesso che l’esistente cominciò a esistere, perché l’esistente spinge verso il Néant il suo necessario antipodo, tutto quello che era prima o fuori di lui. È una colpa da scontare in

innocenza, quella che si trascina dietro la volontà di Char: l’ipotesi dell’innocenza si fa chiarezza di rap-

porti, offerta, dono, partecipazione, idea chi di un male accettato esiste la gioia segreta e lustrale dell’accettazione di esso come di un compito necessario». 417 Sull’argomento cfr. ancora Furore e mistero di Char, cit., p. 205: «La vita che io vivo, è la vita che io so: cioè che io so vivere. Potrebbe concludere, l’alta moralità, senza infingimenti, di Char: io so, quel che io

so, per non sapere, ma anche per raggiungere la dignità del mio non sapere. In definitiva questo poeta ha osato alzare la testa davanti al Dio sconosciuto. Il Dio sconosciuto è l’interposta persona, il diaframma,

che rende l’uomo degno della eventuale conoscibilità dello stesso inconoscibile Iddio. È che Dio, per Char, è Lui e l’Altro insieme; l’immanenza dialettica di Char costringe l’Altro a rivelarsi a quel Lui che il

poeta guarda senza poter vedere. Ed è questo, indubbiamente, uno dei punti più alti del messaggio che la poesia moderna abbia espresso, una certezza, una volitiva certezza in mezzo all’incertezza contempora-

nea: ha riportato Iddio a se stesso, che è una garanzia per l’uomo, costringendo la conoscenza a coincide-

re con l’inconoscibile, ma dando all’inconoscibile una sorta di divina, trattenuta fatalità, quella stessa, attiva, della conoscenza».

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sgorga il momento conciliatorio e conoscitivo (conoscitivo della non conoscibilità,

potrebbe dire Bigongiari), provocatorio e dinamico, della poesia. Forse proprio la centralità dell’esperienza del non sapere come impulso all’origine della poesia cha-riana sovrintende alla scelta ‘d’autore’ di Bigongiari di agire sul tessuto ‘impersonale’ della poesia francese («Quelque part ce ruisseau vivait sa double vie»), replicato an-che da Sereni («In una qualche parte / viveva quel rivolo la sua doppia vita») con l’investimento esplicito della prima persona che dichiara l’enigma della duplicità, il proprio connaturato ‘non sapere’ («Non so dove il ruscello vivesse la sua doppia vi-ta»).

Questi flussi tematici in movimento tra l’attività critica su Char e la pratica del tradurne la poesia – non dandosi la scrittura bigongiariana che a partire dalla conti-nua circolazione del senso al di sotto dei codici letterari – si estendono poi anche alle sue pagine più intensamente speculative, in un’inestricabile ricorrenza di itinerari figurativi e partiture tematiche: per citare un esempio a puro titolo indicativo, in un solo saggio degli anni Settanta di argomento che potremmo definire (approssimati-

vamente) di ‘teoria della poesia’, Quasar, ovvero riflessioni al limite419, si rintracciano formulazioni così intrinseche ai suoi scritti chariani da mobilitare «la parola in stato di contraddizione»420, la dialettica tra voce e silenzio da cui sgorga la poesia, «il lin-guaggio [come] presenza e assenza insieme»421, il segreto della poesia «in questa con-tinua opposizione rilevante all’indicibile, nel che consiste l’inventività del linguaggio, rispetto ai propri stessi estremi tentati»422, il rovesciarsi della storia umana in verità dell’invisibile423, il presente come «stato dilemmatico tra fortuna ed evento»424, i re-

pertori figurativi – adibiti alla rappresentazione dell’atto creativo – dell’acqua, del fuoco e della frontiera, del ‘bordo’ lungo cui incamminarsi425, da intendersi come

418 Id., Ultimo Char, cit., p. 263. 419 Id., Nel mutismo dell’universo, cit., pp. 95-102. 420 Ivi, p. 101. 421 Ivi, p. 102. 422 Ibid. 423 Cfr. ivi, p. 101: «La poesia in questo senso ha il valore, umilissimo, del miracolo: è un atto di fede

nell’abitabilità dell’uomo sulla terra. Il suo è il recupero enigmatico della fecondità della storia umana come percezione che la verità è al di là dell’enigma della stessa realtà storica in cui l’uomo è immerso

come imitatore dell’operare primo di Dio: umilissimo imitatore, ma non abbandonato dalla grazia che ne fa un inventore di vita in lotta contro il non essere e la morte, che è l’aspetto enigmatico, lottato gior-

no per giorno, dell’essere». 424 Ivi, p. 96. 425 Cfr. ivi, pp. 100-101: «Camminiamo sul confine interno dell’impossibile; si tratta di crearne la mappa

– la poesia ha, e ammette, una sua “abitabilità” -, per l’uomo che vi scenderà domani; allora la dicibilità a cui miriamo è questo “esternarsi” dell’indicibile. Al contrario di Empedocle che cammina sull’orlo del

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metafora della soglia tra il reale e il vero, il «possibile» e ciò che non lo è. Settentrione

è dunque un caso esemplare della quête bigongiariana di un fondo universale di poe-sia: un tradurre appunto per ‘consanguineità’ ancor più che sulla base di sensibilità affini, suggerendo idealmente di sostituire all’immagine della trattativa tra testo fronte e la poesia d’arrivo, quella del circolo, dell’osmosi, della germinazione da un unico seme.

Esemplarmente diverso è il caso di Sereni, che traduce Char come esperienza

della diversità, remunerazione a una lacuna del vissuto (specie nei resistenziali Feuil-lets d’Hypnos426), o – che è quasi lo stesso – come appuntamento con un registro sti-listico altrimenti del tutto estraneo, e quasi opposto, agli strumenti abituali della propria tastiera427. Un fenomeno ampiamente messo a referto dalla critica, ma che in

vulcano, cioè della bocca di fuoco che finirà per inghiottirlo; ma il suo suicidio, per ritrovare il Dio che

era in lui, deriva appunto dal fatto che, per Empedocle, l’impossibile è “interno” al possibile. Per noi è vero il contrario. Egli cioè camminava sull’orlo esterno dell’impossibile che è “dentro”; pertanto interio-

rizzarlo voleva dire precipitarvi dentro, suicidarvisi come in un vortice per ritrovare in sé l’essenza del fuoco, di un fuoco, sì, occulto, profondo, non prometeico, non sublime; se il sublime era già consumato

nella salita fino all’orlo del vulcano. Per noi, ripeto, è vero il contrario: si tratta di raggiungere la norma attraverso l’abbandono del sublime: così è proprio di una fonte lo scendere fecondante, a valle, del suo

sgorgare; non intrattenersi troppo a lungo in quell’occhio viscerale del profondo. È il possibile che è in-terno all’impossibile: camminare sull’orlo esterno del possibile, cioè raggiungere l’estremo del possibile,

mettere il possibile nello stato di massima tensione, significa raggiungere l’immensa distesa

dell’impossibile, aiutarlo ad avverarsi come orizzonte». 426 Cfr. V. Sereni, Il mio lavoro su Char, in R. Char - V. Sereni, Due rive ci vogliono. Quarantasette tradu-

zioni inedite, con una presentazione di P. V. Mengaldo, a cura di E. Donzelli, Roma, Donzelli, 2010, pp. 4-6: «Capita che uno che scrive versi traduca un poeta e che altri siano portati a cercare chissà quali affi-

nità e corrispondenze tra il tradotto e il traduttore. Più prudente è chiedersi il perché della scelta. A parte

quel tanto che va assegnato al caso e a volte persino a circostanze pratiche, debbo riportare il mio perché

nei confronti di René Char essenzialmente a due ragioni. La prima è che essendomi stato chiesto in anni ormai lontani di condividere con altri la cura di un volume antologico di Char in Italia, avevo aderito a

patto che fossi io a curare la parte dedicata ai Feuillets d’Hypnos, singolarissimo diario poetico della Resi-stenza francese. Il motivo è chiaro: ero stato prigioniero di guerra negli stessi anni, avevo fatto

un’esperienza passiva e dunque mi attraeva l’esperienza opposta, a me ignota, quella del “maquis”. In più

ravvisavo nei Feuillets certi agganci al concreto che mi sfuggivano invece nella restante produzione di

Char. L’altra ragione è più complessa: […] se volevo continuare a leggere quel poeta che mi indicava ter-ritori sconosciuti in un’aria non più asfittica, non c’era che un modo: tradurlo». 427 Sulla sostanziale distanza tra le opere in proprio di Char e Sereni cfr. tra gli altri F. Fortini, «Il Musi-cante di Saint Merry», in Id., Nuovi saggi italiani, Milano, Garzanti, 1987, pp. 165-166: «In questa vicen-

da Char occupa altro e diverso luogo. Se Apollinaire è la passione per l’effimero e la melanconia dell’eterno, Char è, per Sereni, troppo altre cose. Egli è (mi occorse altra volta di dire) il sublime che Se-

reni non si sarebbe perdonato in proprio. Il sublime e l’eroico quali supplenze d’una religiosità altrimenti

irrecuperabile e sempre più spesso sostituita da un nesso paradossale di razionalismo e di animismo. Nel fratello maggiore o “grande amico” Char, Sereni avverte e accetta quello spessore del passato storico che

in lui è pressoché assente. Char parla di assoluto ma anche di storia, storia vecchia di Francia o di Pro-

venza. Invece l’educazione di Sereni è tutta nello esprit moderne, nel senso che proprio Apollinaire dava a

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questa sede può essere indagato sotto una luce inedita, quella proiettata dal tradutto-

re-amico Bigongiari, che si accosta a Char nei termini – rovesciati rispetto a quelli di Sereni – di una continuità quasi liquida, un flusso all’interno del quale ha poco sen-so, già a un livello teorico prima che nella prassi traduttiva, stilare un bilancio delle esportazioni e dei prelievi tra la poesia in proprio e quella tradotta.

A differenza che nelle traduzioni da Éluard di Bigongiari e Fortini, dove le diver-genze tecniche insorgevano sulla base di radicali dissonanze critiche, in queste ver-sioni non si rintracciano significative discordanze d’interpretazione (e non a caso la

prefazione ai Feuillets d’Hypnos428 di Sereni cita ampiamente – in apertura e chiusura – gli scritti critici di Bigongiari, compagno d’altra parte della sua prima visita alla ca-sa provenzale di Char del 1968429). Piuttosto le scollature, i margini sfasati fra le due

questo aggettivo. Per Sereni il passato remoto è citazione e ornato, trascorre tutt’al più negli arcaismi

squisiti degli iperbati, nelle allusioni discrete. Insomma: all’un polo (con il suo minimo satellite Camus) sta Char; all’altro, Apollinaire. In mezzo Williams, che di quest’ultimo ha il vagabondaggio ironico e di

quello la dignità virile». Sullo stesso argomento cfr. anche G. Raboni, René Char tradotto da Sereni, «Ri-

nascita», XXXI, 48, 6 dicembre 1974, p. 29, poi con il titolo Char di Sereni in Id., Poesia degli anni Sessan-

ta, Roma, Editori Riuniti, 1976, pp. 262-266, poi in Id., L’opera poetica, a cura e con un saggio introdut-tivo di R. Zucco e uno scritto di A. Zanzotto, Milano, Mondadori, 2006, pp. 465-466: «Fra Vittorio Sere-

ni, nato nel 1913 […], e René Char, nato nel 1907 […] non ci sono che sei anni di differenza. Tutti e due

si sono formati, dal punto di vista letterario, nel decennio precedente la Seconda guerra mondiale, e nella guerra tutti e due sono stati profondamente coinvolti dal punto di vista esistenziale: Sereni con vicende

di amara dispersione culminate nella prigionia in Africa, Char con una partecipazione di primo piano, che ne ha fatto un personaggio quasi leggendario (il “capitano Alexandre”), alla Resistenza contro i tede-

schi. Ma diversissimi, al di là di queste relative coincidenze biografiche, sono l’apparenza culturale, la traiettoria evolutiva, il senso ultimo del rapporto fra poesia e realtà, che caratterizzano le loro due opere.

Char, la cui esperienza di scrittore ha come sfondo, da un lato la rivolta surrealista, dall’altro la grande pittura francese, da Georges de La Tour a Georges Braque, con la sua lezione di ardua e luminosa con-

cretezza simbolica, è venuto evolvendosi con gli anni verso una poesia sempre più autonoma e

(l’aggettivo è di Sereni) “oracolare”, in cui gli spunti reali – i riferimenti a luoghi, eventi, persone – ven-gono risucchiati, e non di rado cancellati, da una materia verbale densissima all’interno della quale paro-

le e immagini sembrano nascere una dall’altra e rinascere una nell’altra secondo leggi misteriosamente organiche, naturali. Sereni, al contrario, partito dall’ansia di purezza, dalle “evocazioni pure”

dell’ermetismo, ha intrecciato sempre più fittamente la sua imprescindibile ricerca di autenticità lirica con un’esigenza di sapere umano, sino a fare della sua poesia, per sé per gli altri, anche (o addirittura in

primo luogo) uno strumento di interrogazione e di responsabilità morale. Se fossero possibili, e soprat-tutto se non fossero rischiosamente fuorvianti, semplificazioni di questo genere, potremmo dire che

mentre Char tende sempre più verso l’implicito, verso una poesia il cui spazio vitale è la poesia stessa,

Sereni tende sempre più verso l’esplicito, verso una poesia che vuol essere spiegata non in se stessa, come un oracolo, ma alla luce della realtà (e viceversa, naturalmente: cioè verso una spiegazione della realtà

attraverso la poesia)». 428 R. Char, Fogli d’Ipnos: 1943-1944, prefazione e traduzione di V. Sereni, Torino, Einaudi, 1968. 429 Sui non sempre distesi rapporti personali fra Sereni e Char, cfr. E. Donzelli, Come lenta cometa, Tori-no, Aragno, 2009.

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traduzioni sono da ricondurre quasi esclusivamente alla distanza fra i rispettivi ‘pun-

ti di osservazione’. Il banco di prova su cui verificare le diverse strategie traduttive è innanzi tutto

quello della gestione del verso chariano: nei due poeti la tessitura metrica di Septen-trion è trattata in modo molto diseguale, specie quando – dopo le più scheggiate se-quenze d’avvio – il verso tende ad allungarsi in corrispondenza del ritorno del tema della «Folie»; si direbbe anzi che proprio la riconquistata centralità del ruscello nelle trame figurative della poesia trasmetta al testo e alle sue partiture la propria ‘fluviali-tà’ («s’allongeant / dessous les pierres fraîches»…). Se questa, come sembra, è l’intenzione formale di Char, la traduzione complice di Bigongiari ne accoglie e anzi rilancia la testura. Prima infatti delle dilatazioni del verso sulla scorta della tortuosa «Folie», Bigongiari interviene già sullo snodarsi della frase reintegrando ai vv. 2-3 i segmenti del dettato in un unico movimento sintattico, con relativo snellimento dell’interpunzione:

a) Aux questions de mon cœur, b) Alle domande che il cuore

s’il ne les posait point, Davvero non poneva,

ma compagne cédait, La mia compagna cedeva, Ma è soprattutto, com’è ovvio, nei densi versi finali della strofa che la strategia di

conciliazione tra il livello semantico e il suo corpo linguistico assume una fisionomia ben specifica: ecco quindi l’investimento in un unico verso di quattro lunghi polisil-labi, di cui tre sdruccioli, che creano una sorta di vuoto ritmico che stira il verso in un’ampia campata che, a suo modo, si protrae a quello successivo nell’allungamento

del verso francese (che in Sereni è uno schioccante settenario: «sotto i ciottoli fre-schi») in un decasillabo di tono leggermente impennato, per via dell’inversione di determinato e determinante e dell’opzione ‘frescura’ al posto di un più comune ‘fre-sco’:

1) Semblaient compter sans fin leurs gages s’allongeant dessous les pierres fraîches. 2)Parevano annoverare senza fine quanto impegnavano stendendosi Sotto la frescura delle pietre.

Ma strategie dilatative in Bigongiari si riscontrano anche altrove, come quando traduce «soudain envahisseur» in «con improvvisa invadenza», previa caduta del modulo appositivo. Radicalmente difformi sono gli interventi di Sereni. La sua ben

nota tendenza a ‘sentire’ una forma interna ai poème en prose chariani in un certo

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senso si conferma, con le dovute differenze, nella traduzione di Septentrion430; Sereni

infatti procede disarticolando il flusso metrico, specie nei versi dove Bigongiari agiva diluendo la scansione ritmica. Il caso più eloquente è proprio quello del v. 7: ai vuoti messi di Bigongiari Sereni risponde allestendo un emistichio dal fitto passo ritmico («senza fine i loro pegni») il cui timbro ‘sovraccarico’ prepara sì per dissonanza il successivo «propagandosi» - più dinamico nel significato e meno rilassato sia di «s’allongeant» che di «stendendosi», forse con lo scopo di risarcire sul piano seman-tico la carica dilatativa implicita a questi versi – ma a patto di isolarlo metricamente. Una tattica di spinte e controspinte dunque, all’interno della quale la stessa funzione compensativa potrebbe essere rivestita dalla traduzione di «en décrue» con «in de-flusso», molto più attinente alla sottesa ambiguità figurativa tra il femminile e il suo correlativo equoreo, rispetto al più generico «decrescenti» bigongiariano. Sono tut-tavia risarcimenti al tema della fluidità solo parziali: sul piano formale infatti Sereni insiste ai vv. 9-10 a distinguere in membri minori – comunque eterometrici – i versi ruotanti intorno al tema della Folie (in questo caso la remunerazione sereniana po-trebbe consistere nel non smontare l’ultimo fra questi versi tradotti nei due emistichi che lo compongono), dove ancora Bigongiari era intervenuto mettendo a punto versi lunghi:

430 Cfr. sull’argomento P. V. Mengaldo, Caproni e Sereni: due versioni, in Id., La tradizione del Novecento. Quarta serie, Torino, Bollati Boringhieri, 2000: «Si ricordi che i testi chariani antologizzati in Ritorno

Sopramonte formano un insieme in cui a vari componimenti in versi si allinea (si intreccia) tutta una

serie, che è anzi maggioritaria, di prose, di tipo aforistico o del tipo poème en prose, conforme anche a

quanto in Char v’è di sublime-oracolare; e che sempre in questi casi Sereni rende prosa con prosa, ben allenato a tradurre quella di Char dalla sua precedente esperienza di traduttore del grande diario parti-

giano del provenzale, i Feuillets d’Hypnos. Tre soltanto sono le eccezioni, cioè le trasformazioni di prose in poesie […]. Difficile dire perché la trasformazione è avvenuta solo in queste tre occasioni: negativa-

mente si può ben supporre che Sereni non avrà esteso il procedimento proprio per non turbare il rap-

porto lirica-prosa che è essenziale in Char; positivamente si può ritenere […] che in questi tre casi egli abbia sentito, se così possiamo dire, una “forma interna” poetica premere con particolare forza entro i

confini della prosa raggrumata e sapienziale di Char; e perciò l’abbia senz’altro portata in luce». Sullo

stesso tema cfr. anche G. Raboni, René Char tradotto da Sereni, cit., p. 467: «Quanto al ritmo, bisogna

premettere che Char ricorre sempre più di rado al verso e che la sua forma tipica è ormai una prosa mol-to compressa e, per così dire, metricamente motivata, dove le parti del discorso si compongono in una

sorta di costellazione, anzi (usiamo un’espressione dello stesso Char) di “arcipelago”. È chiaro che da una traduzione qualunque (da una qualsiasi traduzione “professionale”) una prosa siffatta può uscire

letteralmente dispersa, vanificata. Ebbene, l’impegno costante di Sereni è stato quello di creare dentro la prosa tradotta la tensione del verso – una tensione così forte da esplodere, in più di un caso […] in una

vera e propria versificazione, e comunque da costringere l’orecchio del lettore sull’accentro di ogni paro-

la e sul significato della sua posizione all’interno di quella costellazione o arcipelago che ogni poema, ogni periodo, ogni frase costituisce».

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1) La Folie se coiffait de longs roseaux coupants.

Quelque part ce ruisseau vivait sa double vie. 2) Di lunghe canne taglienti andava chiomata la Folie. In una qualche parte viveva quel rivolo la sua doppia vita. Ma la riscrittura sereniana per tensione431 con il poeta francese (anziché per bi-

gongiariana ‘fraternità’) si esprime anche nella redistribuzione delle componenti sin-tattiche della frase, già che la sua è «una versione che quanto a lessico e semantica è, come sempre nel libro, fedele quanto si può, ma che si concede il massimo di libertà nell’organizzazione formale del testo e, un po’ anche, in conseguenza di questo, nella

sintassi» (Mengaldo432); anche in tal senso il caso di Septentrion è esemplare, regi-strandovisi le più significative marche stilistiche delle versioni sereniane. Il riferi-

mento è nella fattispecie ai topoi del chiasmo e dell’inversione, «figure notoriamente carissime a Sereni, proprie del suo specifico idioletto e prevedibili dunque anche nel-le pagine del traduttore»433.

431 P. V. Mengaldo, Prefazione a R. Char – V. Sereni, Due rive ci vogliono, cit., p. XI: «La prima impres-sione, tutta da verificare s’intende, è che siano gli aforismi e le prose poetiche di Char a non essere sem-

pre del valore di quelli accolti in Ritorno Sopramonte e altre poesie, laddove il poeta-traduttore – uno dei grandissimi del secolo passato – è sempre o quasi all’altezza di se stesso, e se non attinge d’acchito il me-

glio lo cerca e trova ritoccando abilmente. E anche qui il rapporto del traduttore con il tradotto non è

affatto di adeguamento o di mera ricreazione ma di tensione, come rivelano prima di tutto le trasposi-

zioni della prosa in poesia cui ho appena accennato. E che non sono scelte da poco perché permettono anzitutto di conservare il registro alto di Char nel momento che gli sottraggono, come è normale che

Sereni faccia, sapienzialità e oracolarità, e che il poeta-traduttore lotta, come sempre accade nelle versio-ni di alto livello, per conservare il più possibile, o compensare, gli effetti fonici (e ritmici) dell’originale,

in Char sempre cospicui». 432 Id., Caproni e Sereni: due versioni, cit., p. 215. Il riferimento di Mengaldo è alla traduzione di Ébrieté. 433 S. Zoico, Come è fatto il Musicante di Saint-Merry di Vittorio Sereni, in T. Matarrese, M. Praloran e P.

Trovato (a cura di), Stilistica, metrica e storia della lingua. Studi offerti dagli allievi a Pier Vincenzo Men-

galdo, Padova, Antenore, 1997, p. 370. Sull’argomento cfr. P. V. Mengaldo, Sereni traduttore di poesia, in

V. Sereni, Il musicante di Saint Merry, introduzione di P. V. Mengaldo, Torino, Einaudi, 2001, pp. XV-

XVII: «Un’altra costante, più diffusa, si presta a chiose un po’ diverse. Si tratta di applicazioni dell’ordine artificiale delle parole, con inversioni, anastrofi, iperbati ecc…, al fraseggiare lineare, per ragioni appar-

tenenti anzitutto al diverso genio della lingua, dei poeti in idioma francese o inglese […]. Ma la spinta primaria va indubbiamente cercata in quella che possiamo chiamare la forma interna della lingua poetica

di Sereni, nella quale la torsione e trazione sintattica del verso è straordinaria regola, e per almeno tre

motivi: come icona di una profonda tortuosità psichica; come segno di un rifiuto quasi eroico dei modi linguistici dati, che peraltro è tutt’uno con la nota difficoltà verso la parola o minaccia d’afasia che abita-

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Già Luisa Previtera434, nella campionatura delle inversioni operate da Sereni,

aveva incluso nella rassegna la traduzione del verso appena citato, «Di lunghe canne taglienti / andava chiomata la Folie», con doppia inversione e scelta lessicale elevata, da inscriversi al solito nell’alterna regia sereniana di disattesa e risarcimento del tono oracolare di Char (ma l’inversione, però non doppia, è anche di Bigongiari: «Si co-priva il capo di lunghe canne taglienti la Folie»); ma cfr. anche l’iperbato subito dopo («Quelque part ce ruisseau vivait sa double vie» → «In una qualche parte / viveva quel rivolo la sua doppia vita»), là dove al contrario Bigongiari si mantiene fedele a un’articolazione lineare («Non so dove il ruscello vivesse la sua doppia vita»). Solo bigongiariana invece l’inversione (ma canonizzante) del dettato di Char al v. 5: «tant est inventive l’absence» → «tanto l’assenza è inventiva».

La tentazione del chiasmo435 è invece evocata nella disposizione dei verbi rimanti ai vv. 3-4 (leggermente indebolito il primo da Sereni sul piano dell’espressività per via della caduta dell’avverbio e per l’investimento del più generico ‘fare’ al posto di ‘porre’), ruotanti, come è evidente, intorno alla coppia verbale «faceva» : «cedeva»:

Char Sereni Bigongiari

a) s’il ne les posait point, b) se non ne faceva, c) Davvero non poneva

ma compagne cédait, cedeva la mia compagna, La mia compagna

cedeva,

Come si vede, la rima interna di Char viene invece ricondotta da Bigongiari in

punta di verso, adibita forse – grazie anche all’allestimento subito dopo della conso-

va paradossalmente il grande poeta; infine come mezzo privilegiato per sottrarre meccanicità e per rimo-

tivare stilisticamente e innalzare il verso lungo libero, altrimenti piatto (anche in queste traduzione la perversione sintattica tocca soprattutto i versi lunghi anomali), caricandolo di peso». 434 L. Previtera, La trasposizione creatrice in Sereni, «Secondo quaderno veronese di filologia e letteratura

italiana», Verona, 1983, pp. 89. Cfr. ibid.: «Si ricordi come inversioni di questo tipo e così pure quelle

seguenti, non siano peculiarità soltanto sereniana, ma leghino il poeta alla tradizione lirica a lui contem-poranea o immediatamente precedente, presso la quale anche tramite questa disposizione sintattica si

raggiunge un innalzamento ed una mobilitazione del tono lirico». 435 Ivi, pp. 91-92: «Esiste nelle traduzioni un altro tipo di fenomeno che, pur implicando come i prece-

denti un mutamento del normale ordine sintattico, viene ad assumere valenza retorica e a collegarsi strettamente non solo alla sintassi poetica di Sereni, ma anche alla tendenza all’iterazione e alla speculari-

tà dei parallelismi in chiasmi, cioè della predisposizione del poeta a privilegiare una delle figure tipiche della “non progressione” e della specularità. Il chiasmo, infatti, consistente secondo Lausberg “nella posi-

zione incrociata di elementi corrispondenti in gruppi che corrispondono fra loro”, non è altro che la

proiezione speculare del primo dei suoi due costituenti nel secondo. Può essere quindi particolarmente utile soffermarsi su questo argomento, poiché la predilezione sereniana per la disposizione chiastica co-

stituisce una delle spie più luminose e probanti della rielaborazione condotta dal poeta sulle sue versioni dal francese».

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nanza con «inventiva» – a replicare la strutturazione fonica sottesa al testo francese,

che mette a punto una trama di rime discreta (perché spesso i membri sono ben di-slocati lungo il testo) ma riconoscibile nelle sue intermittenze: «Folie» : «vie», «cœur» : «envahisseur», «cédait» : «violet», «s’allongeant» : «coupants»; a queste so-no poi da aggiungere le coppie interne «fin» : «soudain», «roseaux» : «ruisseau», «longs» : «nom». Ma a costituire la principale nervatura fonica della poesia c’è la se-quenza di rime che riprende la coppia «cédait» : «violet» e la rilancia nelle attestazio-ni di «promenée», «posait», «coiffait», «vivait», e con la doppia occorrenza – sempre a inizio di verso – degli abbinamenti verbali «semblaient compter» e «venait livrer».

Bigongiari dal canto suo risponde dopo i parallelismi iniziali articolando una forte assonanza in fine di poesia – con effetto sentenzioso – tra «invadenza» e «av-versa», mentre Sereni si limita da un lato ad allestire una tripla assonanza che ha for-se la funzione compensativa di legare i passaggi in cui più risolutamente era interve-nuto con le sue disarticolazioni (pegni:freschi:taglienti), e dall’altro configurando un’altra assonanza interna al penultimo verso tra «invasore» e «nome», che lega più strettamente il soggetto della frase al suo modulo appositivo, al contempo eviden-ziando la forte cesura.

Anche sul piano allitterativo Char compone alcune trame interne, fra cui si rin-tracciano quella ai primi versi composta da «questions», «cœur» e «compagne» - ri-presa poi dalla serie «coiffait», «coupants», «quelque part», «cruel» -, il forte lega-

mento del verso «tant est inventive l’absence» (ripreso, per la facile riproducibilità

tra le lingue, da entrambi i traduttori) e l’emistichio «san fin leurs gages

s’allongeant»; ma senz’altro la più produttiva è l’allitterazione annominativa «vivait sa double vie» (rilanciata poi da «envahisseur / venait»), da cui sia Bigongiari che Se-reni prendono spunto disseminando del fonema /v/ l’ultima strofa della poesia (forse contando anche su un effetto fonosimbolico). Fra i due traduttori però prevale per continuità l’impianto messo a punto da Sereni, che al bigongiariano «ruscello» op-pone l’etimologia più popolare di «rivolo» sul quale costruisce un passo dattilico in cui l’eco fonica è particolarmente insistita, anche per il ricorso a un imperfetto indi-cativo ‘comodo’ in sede allitterativa («viveva quel rivolo la sua doppia vita») là dove Bigongiari usa il congiuntivo imperfetto («Non so dove il ruscello vivesse la sua doppia vita»). Molto simile invece tra Bigongiari e Sereni la restante trama fonica, facente sì perno sulla /v/, ma non in modo esclusivo:

1) Di lunghe canne taglienti

andava chiomata la Folie. In una qualche parte

viveva quel rivolo la sua doppia vita.

Improvviso invasore l’oro crudele del suo nome

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veniva a dar battaglia alla fortuna avversa.

2) Si copriva il capo di lunghe canne taglienti la Folie.

Non so dove il ruscello vivesse la sua doppia vita.

L’oro del suo nome, crudele con improvvisa invadenza

Veniva a dar battaglia alla fortuna avversa. Oltre a queste trame i poeti agiscono con molta discrezione sulla tessitura della

poesia, limitandosi ad allestire poche altre percussioni, tra cui si segnala almeno

l’allitterazione in /p/ di Sereni in «parevano contare senza fine i loro pegni / propa-

gandosi». Ma se, come è evidente, le trame foniche e le sfumature semantiche incidono in

modo significativo sul testo, tutto sommato vi riescono in un modo che è meno so-stanziale della vera dissonanza di base fra queste due operazioni traduttive: quella di Bigongiari, in cui la Folie si dà vita come un flusso (a suo modo anche nel metro) «di una materia dotata di un’energia trascorrente»436, e dunque di temi, interpretazioni,

mots-clés, spunti metapoetici, tale da non costituire quasi scarto, almeno idealmente, tra il testo-fonte e la sua traduzione, che è fonte anch’essa partecipando della stessa ‘vita del testo’ (e si rammenti che il murmure della poesia-fiume di Char, secondo Bigongiari, «ricorda quello della Sorga. Scorre, vuol dire che scorre; che è qui e non è

qui; e mai due volte potrai leggere lo stesso poème, tu che credi d’essere sulle sue ri-ve»437); e dall’altra parte quella di Sereni, in cui la Folie accentua invece la propria na-tura di corso accidentato, discontinuo e tortuoso, così come segmentata, disarticola-ta, è la sua maniera di trascriverlo in versi: un tradurre che per Sereni può solo gio-carsi ‘in trasferta’ – e quindi più bisognoso di essere ricondotto a una misura familia-re, sereniana – già che la poesia di Char, per sua indole, «sconvolge le abitudini del

lettore, lo costringe a spostarsi su un territorio diverso da quello sul quale normal-mente si appresta a cogliere il frutto tangibile del fare poetico»438.

436 P. Bigongiari, Furore e mistero di Char, cit., p. 208. 437 Id., Ultimo Char, cit., p. 262. 438 V. Sereni, Prefazione, cit., p. 14.

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Quattro versioni (più una) di La vie antérieure. Luzi, Parronchi, Pa-

gano e Raboni traduttori

Baudelaire è stato tradotto poco dagli ermetici. Generazione mallarméana per antonomasia, alla compagine fiorentina calza bene il profilo tracciato da Raboni sul decorso anomalo dell’eredità baudelairiana in Italia, sviluppatasi a partire da un con-

testo debut de siècle pre-Baudelaire a una stagione immediatamente successiva già post-baudelairiana, al di fuori di una fase di «effettiva, effettivamente vissuta con-temporaneità» al poeta francese:

Il fatto è, credo, che la poesia italiana degli ultimi cento anni, che fino a

un certo punto è sostanzialmente e naturalmente prebaudelaireana a causa di un evidente e (in termini geografico-politici) spiegabilissimo ritardo culturale, diventa poi, quasi senza soluzione di continuità, postbaudelaireana in virtù di un aggiornamento compiuto da angolazione periferica sui successivi sviluppi della poesia francese, cioè principalmente su Rimbaud e più ancora su Mal-larmé (donde il prevalente mallarmeismo della poesia italiana fra le due guer-re)439.

439 G. Raboni, L’arte della dissonanza, in C. Baudelaire, Opere, a cura di G. Raboni e G. Montesano, in-

troduzione di G. Macchia, Milano, Mondadori, 1996, p. XLII. Sull’argomento cfr. anche F. Fortini, Una traduzione da Baudelaire, in Id., Nuovi saggi italiani, Milano, Garzanti, 1987, p. 379: «Almeno per cin-

quant’anni, fra il decennio 1860-1870 e quello 1910-20, i contenuti primari più immediati della poesia di Baudelaire avevano da noi subite moltissime riprese, imitazioni, calchi, traduzioni, echi (dagli Scapigliati

a Lucini e da Bettini a Sbarbaro): una influenza dovuta ad un equivoco interpretativo rispecchiato quasi sempre in un equivoco linguistico, l’area dei nostri simbolisti e decadenti non avendo né gli obbietti né le

ragioni della società francese ed europea di quel tempo. Solo fra il 1910 e il 1920 si vennero a determina-re le condizioni che avrebbero potuto permettere di scorgere il secondo volto di Baudelaire: l’immagine,

ad esempio, della città come teatro e simbolo del mondo e del destino, dell’eros e della morte penetra i poeti nostri maggiori di quegli anni, massime Rebora. Ma in quel periodo i modelli già erano altri: quelli

dei francesi venuti dopo Baudelaire. Non è un caso che la sua fortuna sia stata così bassa tanto presso le

prime avanguardie quanto presso i surrealisti; e fino a oggi. Ma, appunto, egli è il poeta di un universo borghese ancora non compiutamente capitalistico».

Leonardo Manigrasso, Capitoli autobiografici : poeti che traducono poeti dagli ermetici a Luciano Erba ISBN 978-88-6655-502-5 (online), CC BY-NC-ND 3.0 IT, 2013 Firenze University Press

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Una sincronia a Baudelaire veramente recuperata, secondo Raboni, solo nel do-

poguerra, e testimoniata dall’improvviso infoltirsi delle traduzioni integrali delle

Fleurs du mal a partire dall’edizione curata da Caproni del ’67 fino a quella del ’75 di Bertolucci. Quanto agli ermetici, solo a partire dai secondi anni Quaranta comincia-no a attestarsi le prime versioni da Baudelaire, destinate peraltro a rimanere episodi tutto sommato sporadici: Bigongiari infatti lungo la sua carriera non traduce alcun

testo delle Fleurs du mal, Luzi due solamente – tra cui nel ’46 La bellezza, non più recuperata nell’antologia delle sue traduzioni –, Parronchi appena un manipolo, tra

le otto liriche pubblicate su «Letteratura» nel ’57 e i pochi testi stampati su rivista tra gli anni Novanta e il primo decennio del nuovo secolo. E se pure è diverso il caso di esponenti più defilati della costellazione ermetica, come dimostrano i più cospicui

corpora di Dal Fabbro e Pagano, rimane schiacciante il paragone con le traduzioni

ermetiche da Mallarmé: basti pensare al caso-limite dell’Après-midi d’un faune – ve-ro e proprio banco di prova generazionale – su cui si sono misurati Parronchi, Bi-gongiari, Dal Fabbro, Pagano, (Ungaretti) e più tardi Luzi; al contempo, la parsimo-nia degli ermetici è parimenti significativa se posta a rovescio dell’intensa frequenta-zione di Baudelaire (sia pure in prosa) da parte di traduttori coetanei come, appunto, Caproni o Bertolucci.

Data l’esiguità del campione baudelairiano presso gli ermetici, non è priva di in-formazioni critiche la doppia inclusione nelle antologie di Luzi440 e Parronchi di uno

stesso componimento, La vie antérieure, documento privilegiato forse della ricezione

delle Fleurs du mal all’interno della compagine fiorentina441. In particolare nell’Idea

440 Sulla versione di Luzi cfr. F. Tentori, Luzi: tradurre poesia, «Testo a Fronte», II, 3, II semestre 1990,

pp. 102-103: «Ma dove originale e versione gareggiano, dove non si sa che scegliere, cosa di più ammira-re, tanto entrambi sono smaglianti e si bastano, perfetti nella loro pienezza, è nelle pagine ove si spec-

chiano i testi di La vie antérieure: più solennemente, sordamente musicale e colmo d’un languore che è dell’immaginazione prima che delle immagini quello baudelairiano; più asciutto e teso, puro, essenziale

(è il rapporto tra alessandrino ed endecasillabo) quello luziano. Non è passata invano la lezione di Mal-larmé; la riduzione dell’eloquenza – anche quella, d’intima suggestione, di Baudelaire – agli elementi

primi da cui l’emozione nasce, è divenuta la norma per la poesia. Né l’economia dei mezzi impoverisce il testo, anzi: “agitavano il fresco delle palme” può vincere in intensità il “me refraîchissaient le front avec

des palmes”». 441 Su questo argomento sono interessanti le riflessioni di Silvio Ramat sul ‘superamento’ del sublime

baudelairiano da parte degli ermetici, per cui cfr. il suo L’ermetismo, Firenze, La Nuova Italia, 1969, pp.

66-67: «Del resto, l’età moderna prende coscienza di un’evidente mutazione semantica avvenuta per la

parola “sublime”, non più ottocentescamente indicativa di un ultra soltanto, quanto ugualmente di un

citra, rispetto allo stato poetico: che non è ormai il punto zero da cui si parta alla conquista di un’altezza vertiginosa, ma è bensì un grado (piuttosto che uno ‘stato’) che ha dietro di sé un altrettanto profondo

abisso, sicché fuoco tra due fuochi, conoscenza entro la conoscenza, e non istante di separazione da un prima un dopo […]. La maggior difficoltà novecentesca, di inventarsi una propria specie di sublime, è

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simbolista di Mario Luzi il testo è rappresentativo della componente del libro più ‘or-

todossa’ alla tradizione del simbolismo europeo, affiancata com’è alle versioni di

Corrispondenze a cura di Enrico Vito Pannunzio del ’46, e di Il gabbiano ed Eleva-zione tradotti da Diego Valeri (inedite al ’58), ossia i testi che più di tutti «cantano i

privilegi del poeta, il suo rapporto magico-veggente col mondo» (Orlando442); La vie antérieure allora si candida a testimone esemplare di quell’«anima scissa» trascritta in versi da Baudelaire443, e che tramite l’enigmatico «secret douloureux» accessibile per via memoriale (ermeticamente, l’unico mezzo per penetrare «nel regno dell’universale analogia444») anticipa la poetica delle terza generazione in ciò che poi

filtra in «tutti i richiami al dominio inaccessibile e al fatale mistero che la parola del poeta non può vincere ma solo comunicare445» di Mallarmé. Anche sul versante ‘iconografico’ questa poesia agisce, secondo Silvio Ramat, nel cuore della figurazione ermetica, e luziana in particolare, là dove il critico evoca proprio un segmento della

data dal suo maggior vanto: che è l’aver conseguito (secondo un riferito auspicio di Vigolo) la condizio-

ne poetica. Questo grado di cui la tensione è norma rende quasi illecito discorrere di élévation, in senso

baudelaireano, per l’uomo poetico di un Novecento maturo, creatore di quadri e di lessici dai quali è scomparsa ogni intenzione di gerarchia figurale o verbale, tra i vari elementi costitutivi di quel “tutto

angosciato” che denota la lirica ben al di là dalle vaneggiate “purezze”, e formatrice di quell’immediatezza nuova così profondamente intravista dal Gargiulo». 442 Cfr. F. Orlando, L’artificio contro la natura nel mondo di Baudelaire, in Id., Le costanti e le varianti.

Studi di letteratura francese e di teatro musicale, Bologna, Il Mulino, 1983. 443 Per le possibili interferenze tra la lezione di Baudelaire e la poesia di Luzi, cfr. M. Landi, La metafisica imperfetta. Baudelaire e il primo Luzi, «Semicerchio», XXVI-XXVI, 2002, p. 694-65: «Ad evidenziare

l’impatto dell’esperienza simbolista sul Luzi ‘ermetico’, ci sono senz’altro di esempio due componimenti,

Periodo e Patio, tratti da Avvento notturno, dove si rilevano, pur nello scarto stilistico (giacché Luzi ci

sembra molto più prossimo a Mallarmé), analogie tematiche con La vie antérieure ma in cui l’assunto (l’osmosi consentita dalla ‘fluidità’ naturale, pre-logica, delle istanze del soggetto e dell’oggetto) è ripreso

in antifrasi: sull’immagine “aperta” del “portique” si trasferisce connotativamente l’idea di un vacuum metafisico, allorché le “images des cieux” non sono più infuocate e plastiche ma raggelate, “vitrifiées”,

come nell’Hérodiade mallarméana […]. Dal confronto dei due testi luziani testè citati con La vie anté-

rieure si coglie senz’altro la comune pregnanza figurale del paradiso perduto, che appare tanto più viva quanto più è marcato lo straniamento del poeta rispetto alla storia. Come Baudelaire dovette abbando-

nare l’idea della ‘centralità’ del Poète nel suo tempo ed accettare un’inesorabile “perte d’auréole”, così l’esperienza drammaticamente iniziatica della guerra costringe Luzi a rinunciare alla “fisica perfetta”

(come lui la definisce) de La Barca, sua prima raccolta (dove il soggetto godeva di una generosa, mater-na, fusione con l’oggetto), per prendere atto di una ‘metafisica imperfetta’, ovvero dell’Essere in perdita,

conseguente al male biblico della deiezione. Lo stesso atteggiamento si ravvisa, come è noto, in Baudelai-re, tra claustrofobia del reale e dilatazione estrema degli spazi sognati di un’“époque nue”. È tra i noti

temi dell’Invitation au voyage e di Moesta et errabunda che si situa, con maggiore disincanto, la voce del

primo Luzi, anch’egli mosso dalla nostalgia; dolore del nostos, o del ritorno impossibile». 444 M. Luzi, L’idea simbolista, Milano, Garzanti, 1959, p. 12. 445 Ivi, p. 16.

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Vie antérieure tra i precedenti del topos dello ‘spazio cavo’, sede d’elezione al con-

tempo di un’assenza e di un’attesa:

La reboriana ‘imminenza di attesa’ si è ora elevata a dato costante e (non è

un giocare sui termini) si dovrebbe anche dire una immanenza di essa; in suo favore molto ha contribuito la presenza intermedia del primo Montale, con la specie inottundibile dei suoi presagi, tanto naturalmente nemici dell’uomo quanto necessari alla sua sopravvivenza attiva. Dai ‘vastes portiques’ di Bau-delaire ai ‘portici profondi’ di Pascoli, agli ‘archi enormemente vuoti di ponti’ e ad altre cavità di Campana, è una preparazione amplissima all’avvento della persona che si origina dal profondo: frammentari saranno i presagi finché lei,

la figura, non compaia integra (nella Toccata luziana la figura aspettata po-trebbe addirittura essere la Primavera, totalmente illimpidita nel medesimo

autore, e fatta persona, poi, in invocazione, 1948)446.

Anche per quanto riguarda Parronchi questa poesia sembra contare nei termini

di una suggestione ‘immaginativa’, come se la ‘metamorfosi minerale’ della prima

quartina di La vie antérieure («J’ai longtemps habité sous de vastes portiques / Que les soleils marins teignaient de mille feux, / Et que leurs grands piliers, droits et ma-jestueux, / Rendaient pareils, le soir, aux grottes basaltiques») facesse da precedente indiretto alle numerose commistioni di naturale e minerale che costituiscono uno tra

i repertori figurativi più diffusi dei Giorni sensibili447. Innumerevoli infatti, in questa raccolta, sono le varietà del campionario metamorfico minerale448, tutt’altro che ac-

446 S. Ramat, L’ermetismo, cit., pp. 26-27. 447 Cfr. tra gli altri sull’argomento O. Macrí, Recensione, «Letteratura», n. 17, gennaio-marzo 1941, poi in

C. Pirozzi (a cura di), ‘La poesia – si sa – si affida al tempo’. Rassegna stampa sul primo ermetismo fioren-tino: Luzi, Parronchi, Bigongiari, Firenze, Società Editrice Fiorentina, 2004, p. 55: «[…] tutta una prodi-

giosa grazia di arabesco, un lusso squisito di fontane e giardini, un descrittivismo delirante – ma soste-nuto e curvato – di nature vegetali e minerali, un moltiplicarsi e analogizzarsi di concreti e astratti in una

ricca complessità di punteggio e tratteggio irritato e fremente, ferri e legni rari, rose soprattutto, perce-zioni di stagioni elette, d’incontri dorati, d’apparizioni idilliche e divine, figurazioni neoclassiche e un

rarissimo lessico giusto e misurato in un gusto di costanti distribuzioni: tutto s’avvolge e turbina nei cicli prosastici e strofici, si trasfigura in un lirismo di eccezione, sostenuto al suo vertice senza una vacanza,

uno spegnimento, di che son pii tanti simbolismi orientali e veneziani, senza una morte della propria materia». 448 Si vedano per esempio dalla prosa Al di qua d’una sera, in A. Parronchi, I giorni sensibili, Firenze, Val-lecchi, 1941: «Come un’unghia morta s’indugia a sollevare l’intonaco delle pareti senz’occhi, e toglie a

una a una nelle fontane le conchiglie che incrostano una memoria d’antica cerimonia nuziale» (p. 9); «e

le mille attitudini del passato, velandosi appena, ricompaiono nello squadro dei marmi, attutendosi ai grumi di porfido di cui la siepe si corona» (p. 10); «Oggi l’opale dell’aria posa come un anello sui tetti,

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cessorie o esornative nella tessitura figurativa del libro (come dimostra Ramat449) e

debitrici, forse, del precedente baudelairiano (tramite l’aggiornamento della simili-tudine a un analogismo pienamente simbolista450) nella misura in cui concorrono a alimentare quell’esotismo prezioso che è la marca più tipica dell’‘altrove’ di consi-stenza mentale trascritto da Parronchi nel suo volumetto d’esordio. La trama di pos-sibili lasciti tuttavia è anche reversibile fra il poeta in proprio e il traduttore, se la ver-

sione in La vie antérieure di «riche musique» con «densa musica» riecheggia nei «ti-

mi densi di musica» della ‘riscrittura451‘ della poesia Concerto, testo eponimo della seconda sezione della raccolta del ’41.

Di seguito, il testo completo della poesia di Baudelaire, così determinante nello strutturare l’immaginario ermetico, apparso per la prima volta il 1° giugno 1855 sulla «Revue des Deux Mondes»:

J’ai longtemps habité sous de vastes portiques Que les soleils marins teignaient de mille feux, Et que leurs grands piliers, droits et majestueux, Rendaient pareils, le soir, aux grottes basaltiques. Les houles, en roulant les images des cieux, Mêlaient d’une façon solennelle et mystique

Les tout-puissants accords de leur riche musique Aux couleurs du couchant reflété par mes yeux

sulle terrazze che avvivano l’erbe sbiadite» (p. 12); dalle poesie della stessa raccolta invece cfr. Eclisse, vv. 9-14 («Un caduco fremere di steli / accelera la mia sorte, ma tu / sei coi fusti sommersi nell’arborea / vita

d’un lago / e ti veli di fumidi / coralli»), oppure Ragazza pensile, vv. 9-12 («E tentenna nel limpido topa-zio / stupito un viso, una palpebra lieve, / ed occhi ingenui bevono lo spazio»). 449 Cfr. S. Ramat, La poesia italiana 1909-1943. Quarantuno titoli esemplari, Venezia, Marsilio, 1997, pp. 441-443: «Un sangue scambievole unisce in simbiosi la forma umana e il marmo: le 'brune' giovani, al-

lontanantesi con un sorriso 'animavano le verdi / iridi che consumano la sera': mediatrice di questo 'scambio' la 'fluida luna', archetipo e prototipo spettacolare d'una compatibilità umano-divina ma anche

astrale-minerale, che può saldarsi esemplarmente in un oggetto fatato come il gioiello, concrezione di celeste e abissale. Di qui la non-decoratività di onici, topazi, eccetera, sostanze dense di vibrazioni mito-

logiche». 450 Sul tema cfr. S. Agosti, Strutture della comparazione nella poesia di Baudelaire, in Baudelaire poeta e critico, Atti del VII Convegno della Società Universitaria per gli Studi di Lingua e Letteratura Francese (Como, 6-7 ottobre 1978), Bologna, Pàtron, 1981. 451 Nell’edizione dei Giorni sensibili del ’41 il verso in questione suonava: «Presso / forse la brezza ti re-spira infausta / dai timi che avvolge la musica». Le modifiche apportate nella stesura finale del compo-

nimento, volte a accentuare il debole portato sinestetico dell’espressione, altrimenti piuttosto canonico, è

un caso eccezionale nell’apparato variantistico del libro, che in genere mira a sfrondare i testi dei moduli ermetici più radicali.

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C’est là que j’ai vécu dans les voluptés calmes, Au milieu de l’azur, des vagues, des splendeurs

Et des esclaves nus, tout imprégnés d’odeurs, Qui me rafraîchissaient le front avec des palmes, Et dont l’unique soin était d’approfondir Le secret douloureux qui me faisait languir. La centralità di questa poesia nell’elaborazione teorica e traduttiva della genera-

zione ermetica fa sì che La vie antérieure si presti a campione ideale su cui verificare le trasformazioni, gli sviluppi, le soste e, dove è il caso, le costanti di alcune strategie traduttive che possano dirsi rappresentative di un segmento decisivo della storia del-la traduzione dal dopoguerra in poi; in particolare, nell’ambito dell’affermazione e del declino del tradurre ermetico, è ricco di indicazioni il raffronto tra le versioni di Luzi (’47) e Parronchi (’57), prima con quella di un ermetico di ‘periferia452‘, defilato come Vittorio Pagano (ancora ’57), e poi, più distanziata nel tempo, con quella di un poeta della generazione successiva come Giovanni Raboni (’73) - in nessun modo

implicato nella koinè fiorentina - protagonista di un laborioso e a tratti radicale pro-

452 Sui rapporti tra Pagano e l’estetica ermetica, cfr. D. Valli, Cento anni di vita letteraria nel Salento (1860-1960), Lecce, Milella, 1985, p. 185: «D’altra parte il suo discorso politico sembrava veramente for-

zato, tutto svolgentesi in tautologie e petizioni di principio prive di vera forza polemica e inficiate dalla persistenza d’una visione idealistica, frutto d’un giovanile compromesso tra filosofia crociana e letteratu-

ra ermetica. Tale compromesso permane anche negli articoli a carattere teorico, allorché, per esempio, egli discute dell’assoluta libertà dell’arte, o dei rapporti tra arte e morale, o della inconfondibile spiritua-

lità del fatto artistico. Pagano ha bisogno di liberarsi d’ogni residuo logico per ritrovare pienamente se

stesso e dare libero sfogo alla surrealtà del suo barocchismo impetuoso e musicale, al simbolismo rigo-glioso delle sue immagini. Su questa via egli si conferma ermetico senza reticenze e riserve; il suo ermeti-

smo, anzi, è di carattere immediato, condizione naturale dello spirito poetico, formalmente ineccepibile, indistricabilmente involuto in una sensibilità di infernale misticismo e di suggestive ansie liberatrici. Egli

ammira gli ermetici per la loro intellettualistica ambiguità, perché tramutano in metafisica necessità liri-ca la fisica incorporeità delle immagini e risolvono totalmente nella parola-evento e magia ogni residuo

reale, psicologico, sociale del fatto poetico. È un po’, quella di Pagano, una poetica che si riempie di vuo-to, che vuole tradurre in immagini formali positive tutte le negatività di cui si sostanzia lo spirito

dell’uomo. Infatti chi sono gli ermetici? “Il poeta della distanza e del vuoto, dell’eterno rischio e

dell’eterno azzardo, d’un correre di là d’ogni meta, gli esemplari, a dirla con Macrí, d’un sentimento poe-tico, il quale avverte che nell’assoluto e nell’infinito nessuna conquista è possibile se non quella del cono-

scere liricamente tale impossibilità” [in Degli ermetici, evento e ragioni, «Libera Voce», II, 24, 11 luglio 1944]».

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cesso variantistico nella sua acclamata traduzione dei Fiori di Baudelaire. Le quattro

versioni: 1) Mario Luzi453 2) Alessandro Parronchi454 Dimorai sotto portici spaziosi A lungo ho abitato spaziosi loggiati che la marina empiva di faville che il sole marino irradiava di luci e la sera i pilastri maestosi e i grandi pilastri diritti e maestosi tramutavano in grotte di basalto. rendevano simili a grotte basaltiche, a

sera.

Onde volgendo immagini dall’alto Onde, svolgendo immagini dei cieli fondevano ieratiche con tocchi mischiavano misticamente accordi d’onnipossente musica scintille potenti della loro densa musica del tramonto riflesso dai miei occhi. ai tramonti riflessi dai miei occhi. Là vissi a lungo di voluttà calme Là ho vissuto in voluttuosa calma tra l’azzurro, i marosi, gli splendori, tra l’azzurro, le ondate, gli splendori, gli schiavi nudi impregnati d’odori e schiavi nudi, impregnati d’odori, che agitavano il fresco delle palme che agitavano palme alla mia fronte, sulla mia fronte, intenti a far più vivo non d’altro ansiosi che d’approfondire il segreto penoso onde languivo. quel segreto che mi faceva languire.

3) Vittorio Pagano455 4) Giovanni Raboni456 A lungo io vissi sotto portici alti, Vasti spazi ho abitato di colonne di fuoco al sole dell’oceano – o a sera dritte, solenni, accesi di colori infiniti di colonne giganti un’irta schiera dal meriggio marino, e quando è sera solenne ne formava antri basaltici. simili a grandi grotte di basalto.

453 La versione comparve per la prima volta in C. Bo, T. Landolfi e L. Traverso (a cura di), Antologia di

scrittori stranieri, Firenze, Marzocco, 1946. 454 Il testo è tradotto, assieme ad altre sette liriche, su «Letteratura», V, 29, settembre-ottobre 1957, pp. 3-

4, e in seguito compreso, senza varianti, in A. Parronchi, Quaderno francese. Poesie tradotte con alcuni commenti, Firenze, Vallecchi, 1989. 455 La versione si trova in Antologia di poeti maledetti: versioni metriche di Vittorio Pagano, Lucugnano, Edizioni dell’Albero, 1957. 456 La traduzione è comparsa in C. Baudelaire, Poesie e prose, a cura di G. Raboni, introduzione di G. Macchia, Milano, Mondadori, 1973.

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Forme volvendo ai cieli in mille assalti, Le onde, gonfie immagini del cielo,

l’onda fondeva, mistica ed altera, accordavano il mistico fragore gli accordi onnipossenti, ampia tastiera, del loro canto ai fuochi del tramonto coi franti nei miei occhi occidui smalti. riflesso nei miei occhi. Là ho vissuto

È là ch’io vissi nelle ebbrezze calme, voluttà calme in cerchi di splendore tra i vasti azzurri, i flutti, gli splendori fra le onde e l’azzurro, mentre schiavi e i nudi schiavi saturi d’odori, nudi, impregnati di profumi,

che il viso m’ombreggiavano con palme, mi facevano vento con le foglie e solo assorti a immergermi nel cuore cercando, unica loro cura, di scoprire un segreto dolente – oh mio languore!... il segreto di pena che mi fa languire.

La versione di Luzi, al pari di quella di Pagano, è quella che più delle altre risulta

gerarchizzata a partire dai suoi livelli fonici e ritmici, già che entrambi i poeti metto-no a punto versioni metriche regolate da un saldo impianto rimico. Ma mentre Pa-gano compensa questo primato con forti inversioni e provvedimenti anche sostan-ziali sul piano della sintassi e della semantica, Luzi per quanto possibile limita la ri-formulazione dei significati della poesia (prevedibilmente concentrando questi in-terventi in fine di verso) congegnando piuttosto una trama di formule sintetiche che non compromettano la sostanziale linearità della frase: tra questi espedienti è parti-colarmente efficace sul piano semantico la scelta di «ieratiche», in cui convergono entrambe le sfumature di «solennelle et mystique». Più mosso è il sistema metrico allestito da Parronchi, che avvicenda una quartina di doppi senari dagli accenti mol-to regolari (ma con un’anomala ‘coda’ al quarto verso, molto rallentato anche per l’investimento di tre proparossitoni, di cui due a contatto) a una sequenza di endeca-sillabi sigillati da un dodecasillabo posto in chiusura. Coniugata allo smantellamento

dei parallelismi rimici, la tessitura di Parronchi si presta a replicare più fedelmente, per quanto possibile, le strutture del testo fonte e i suoi repertori figurativi, soprat-tutto nelle lunghe campate della prima quartina: la sua traduzione ad esempio è l’unica a ripresentare fedelmente la sequenza di attributi «grands […] droits et maje-stueux» con «grandi […] diritti e maestosi», oppure a tradurre «rendaient pareils» con «rendevano simili», rispetto agli spostamenti dal piano della similitudine a quel-lo – per sua natura sintetico – dell’analogia, praticati da Luzi («tramutavano») e Pa-gano («ne formava»), mentre Raboni aggira il problema ricorrendo all’ellissi del ver-bo che consente di conservare il «simili» («e quando è sera / simili a grandi grotte di basalto»).

Le due versioni degli ermetici fiorentini presentano inoltre forti differenze di re-gistro, a partire dai solenni passati remoti luziani («dimorai», «vissi») in cui è rias-

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sorbita l’indicazione temporale («Longtemps») con una sorta di effetto di ‘sospen-

sione’ dissonante rispetto alla profondità evocata dall’attacco ‘proustiano’ di Parron-chi («A lungo ho abitato spaziosi loggiati»), come d’altronde era stato proustiano –

secondo Silvio Ramat457 – l’incipit di Al di qua d’una sera458, la lunga prosa inaugura-

le dei Giorni sensibili. La tendenza di Luzi a mantenere le proprie traduzioni su un tono aulico, soprattutto là dove la poesia fonte sia ascrivibile alla tradizione simboli-

sta, si conferma anche in La vita anteriore e nella sua trama linguistica, dove il poeta fa largo uso di formule arcaizzanti (rispetto a Parronchi «empivano» per «irradiava», «marosi» per «ondate», «ieratiche» per «misticamente», e poi «onnipossente», l’avverbio relativo «onde»…). Dove invece entrambe le versioni tradiscono l’estrazione ermetica è nell’uso generoso dei sostantivi assoluti, in particolare nell’ellissi comune dell’articolo in avvio della seconda quartina («Les houles» → «Onde»), ma anche «accordi», «in voluttuosa calma», «schiavi nudi» (Parronchi), «scintille» (Luzi); ma affini a una tecnica ermetica sono anche la sostantivizzazione luziana dell’aggettivo nella traduzione di «rafraîchissaient le front avec des palmes» con «agitavano il fresco delle palme / sulla mia fronte», e l’uso parronchiano del plu-

rale - anche ‘sintetico’ in questo caso - d’indeterminazione («couleurs du couchant» → «tramonti»). Al di là del rispetto della trama rimica, la traduzione di Luzi – con-formemente all’inscrizione della poesia a caposaldo della vicenda simbolista – risulta più connotata nei suoi aspetti musicali, così come intrinsecamente melodica è la rappresentazione messa in atto da Baudelaire, all’insegna di una trascorrenza tra suono e immagine in cui si accerta il colloquio fra i sensi, la totalità sinestetica delle ‘corrispondenze’. A questo fine sono funzionali: a) al v. 4 la riduzione in unico flusso dei tre segmenti messi a punto da Baudelaire («Rendaient pareils, le soir, aux grottes basaltiques» → «tramutavano in grotte di basalto»), già limitati a due da Parronchi tramite la dislocazione laterale dell’indicatore temporale («rendevano simili a grotte basaltiche, a sera»); una non dissimile soppressione della punteggiatura viene poi praticata al v. 11 («Et des esclaves nus, tout imprégnés d’odeurs» → «gli schiavi nudi impregnati d’odori»), a differenza di quanto avviene nella versione di Parronchi («e schiavi nudi, impregnati d’odori»); b) al v. 2 l’insistenza con cui Luzi ribatte gli ac-

centi sulla stessa vocale i («che la marìna empìva di favìlle), forse con effetto fono-

457 Cfr. S. Ramat, Parronchi e ‘I giorni sensibili’, in I. Bigazzi e G. Falaschi (a cura di), Per Alessandro Par-

ronchi, Atti della giornata di studio (Firenze, 10 febbraio 1995), Roma, Bulzoni, 1998 p. 37, poi in S. Ra-

mat, Il lungo amore del secolo breve. Saggi sulla poesia novecentesca, Firenze, Cesati, 2010. 458 Cfr. A. Parronchi, Al di qua d’una sera, cit., p. 7: «Da lungo tempo seguo senza domanda le minime oscillazioni dei tralci nella prima sera. Questi giorni passati accorrevano mesti al declino, l’ombre

v’erano intense fino dal pomeriggio, e la luce profonda e notturna, parente delle stelle e della calma del cielo».

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simbolico rispetto alla variazione parronchiana di quattro vocali («che il sòle marìno

irradiàva di lùci»); c) la seconda quartina, la più implicata tematicamente sul versan-te musicale, molto inarcata per una pronuncia più rotonda con rottura reiterata tra sostantivo reggente e genitivo («tocchi / d’onnipossente musica», «scintille / del tra-monto»); d) la riproposizione a breve distanza del sema «onde» del v. 5, tematica-

mente strategico, all’inizio del verso successivo riassorbito in «fondevano» (e rilan-ciato poi a fine sonetto dall’avverbio relativo «onde») dopo l’attestazione ‘anagram-

matica’ di «volgendo»; e) la divisione in due emistichi del penultimo verso, con la funzione di rendere più bruciante la rima finale.

Fra la traduzione musicale-simbolista di Luzi del ’46 e quella più fedele al profilo iconico (ma con eccezioni) di Parronchi del ’57, si stanzia quella di Pagano, fedele – come di consueto in questo traduttore459 – a un rigoroso criterio metrico di base: ciò nonostante, resta nettissima la differenza con la traduzione luziana, che si basava sulla ‘compressione’ del testo di partenza in formule sintetiche in genere intervenen-do sul piano semantico per necessità di rima («feux» → «faville», «accords» → «toc-chi»), e conservando ove possibile la linearità del dettato. Pagano invece interviene radicalmente sul piano semantico e della sintassi, attraverso riformulazioni che age-volano il sistema delle rime in un organismo palesemente orientato in senso arcaiz-zante: per lessico («irta», «occidui smalti», «ebbrezze», «saturi» per «imprégnés»), inversioni («di colonne giganti un’irta schiera / solenne»), dissociazioni di unità se-

mantiche («coi franti nei miei occhi occidui smalti»), ma anche il plurale d’indeterminazione («i vasti azzurri»), il passato remoto ‘sapienziale’ («io vissi», due volte). Sul versante della gestione della frase spicca la chiusa esclamativa con interie-zione, anch’essa in linea con certo tradurre ermetico, e l’ellissi del verbo al v. 2 («Que les soleils marins teignaient de mille feux» → «di fuoco al sole dell’oceano»), entram-be esemplari della subordinazione del livello semantico e sintattico a quello musica-le. E infatti la versione di Pagano risulta particolarmente folta di corrispondenze, rinvii interni, ripercussioni foniche: si veda in questo senso come le rime delle due quartine impostino nessi vocalici ricorrenti per assonanza come nel caso della se-quenza «alti» → «giganti» → «antri» → «basaltici» → «assalti» → «franti» → «smalti»; ma anche «sera» → «schiera» → «fondeva» → «altera» → («onnipossenti˘ampia») →

«tastiera». Si trovano poi allitterazioni, come al v. 5 («Forme volvendo ai cieli in mil-le assalti») o ai vv. 13-14 («e solo assorti a immergermi nel cuore / un segreto dolente

459 Cfr. in questo senso V. Pagano, Nota all’antologia poetica nervaliana, «L’Albero», 23-25, luglio-settembre 1955: «La nostra di tradurre metricamente non è una fissazione da artigiani perdigiorni, bensì

un bisogno di chi, volgendo da una lingua a un'altra un poeta (e non per soli fini didascalici), crede di

capire che, per questo poeta, la metrica è un elemento sostanziale, inalienabile e necessario dell'espres-sione poetica: è addirittura il modo dell'ispirazione».

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– oh mio languore!...»), sequenze come «formava» → «forme» → «fondendo» ai vv. 4-

6, come «onda» → «onnipossenti» → «occhi» →«occidui», oppure «azzùrri» → «flùtti» → «nùdi» → «saturi». A questa concentrata tessitura fonica Pagano delega

l’evocatività intrinseca alla tradizione cui rinvia La vie antérieure, già che – scrive Donato Valli – nelle sue traduzioni, come nella sua poesia, «sono il ritmo e la rima a condurre la danza delle immagini, racchiuse nel cerchio di forti suggestioni calligra-fiche di chiaro influsso simbolistico460».

La versione di Raboni, posteriore di quasi due decenni alle traduzioni di Parron-chi e Pagano, dilata la campionatura a una stagione (e a una generazione) sulla quale è possibile verificare tangibilmente alcune forme del superamento della grammatica traduttiva ermetica. La traduzione in primo luogo, come già in Parronchi, rinuncia all’elemento normativo della rima, salvaguardando però l’impianto endecasillabico: un impianto però che si conserva a patto di indebolirsi delle sue principali funzioni ‘coattive’ sulla sintassi, che disattende le aspettative formali del verso muovendosi nelle sue griglie con estrema libertà. Si veda in questo senso il caso davvero esempla-re dell’incipit di Baudelaire («J’ai longtemps habité sous de vastes portiques»), che Raboni è l’unico a ‘gettare’ oltre il limite del primo verso attraverso lo sdoppiamento di «portiques» in «spazi» e «colonne», quest’ultimo risultante dal dislocamento al primo verso di «piliers» e dei suoi aggettivi («droits et majestueux») mentre il terzo aggettivo della serie («grands») viene trasferito alle «grotte di basalto» del v. 4:

1) Raboni: « Vasti spazi ho abitato di colonne / dritte, solenni» 2) Luzi «Dimorai sotto portici spaziosi» 3) Parronchi: «A lungo ho abitato spaziosi loggiati» 4) Pagano: «A lungo io vissi sotto portici alti»

Ma il sottrarre all’architettura metrica le sue più intransigenti prerogative strut-

turanti (solo in due casi la pausa del verso coincide con l’interpunzione) culmina poi nell’ancor più evidente trasgressione delle partiture strofiche della poesia, inderoga-bilmente osservate nelle tre traduzioni precedenti. È il caso del passaggio tra la se-conda quartina e la prima terzina, architrave strategico della divisibilità fra fronte e sirma del sonetto canonico («Là ho vissuto // voluttà calme»). Se il lessico nella tra-duzione di Raboni si appiana poi su un registro medio, nella sintassi permane un

460 D. Valli, Poeti salentini. Comi, Bodini, Pagano, Fasano, Schena, 2000, p. 82.

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forte iperbato al primo verso, irrobustito dall’anticipazione dell’attributo al nome,

mentre il resto della traduzione si ispira a un criterio di linearità461. Vi si accampano nondimeno almeno due associazioni semantiche anomale: il «cerchi di splendori» (derivato dalla dislocazione al verso precedente di «splendeurs» e dall’immagine ine-dita dei «cerchi»: forse ispirata dalla suggestione di «au milieu […] des vagues»?), e «il segreto di pena» dell’ultimo verso; associazioni in un certo qual modo dissonanti rispetto al registro messo a punto da Raboni, così poco incline al rispetto delle con-venzioni poetiche sfruttate dai poeti di estrazione ermetica (indebolimento referen-ziale del segno, libertà preposizionale…). Non sorprende dunque che lungo il lavoro di riscrittura di queste traduzioni, che ha dato luogo a ben cinque edizioni462, Raboni

abbia ‘corretto’ queste particolarità nell’ultima versione delle sue Fleurs du mal pub-blicata per Einaudi nel ’99:

Vissi a lungo al riparo di colonne dritte, solenni, accese di bagliori infiniti dal meriggio marino, e quando è sera simili a grandi grotte di basalto.

Le onde, gonfie immagini del cielo, accordavano il mistico fragore del loro canto ai fuochi del tramonto

461 Sugli espedienti stilistici che hanno consentito a Raboni di mettere a punto un linguaggio da un lato

distante dal ‘medio-sublime’ delle traduzioni del pieno Novecento ma dall’altro lontano anche dal regi-

stro parlato, cfr. il referto critico contenuto in F. Fortini, Una traduzione da Baudelaire cit., pp. 379-380:

«Nella versione di Raboni – che ha tutte le caratteristiche delle traduzioni ‘d’anima’, come m’è occorso di chiamarle, o d’arte o di pietà letteraria, non comunque di ‘servizio’ – non si dovrebbe sopravvalutare

l’effetto di nostalgia, di risonanza e d’eco del testo originale a fronte. Raboni ha compiuto – quasi sempre

– una operazione eccezionale: invece di forzare nell’ordine dell’espressività lessicale per recuperare quanto, col verso tradizionale, andava perduto nell’ordine ritmico-metrico, ha puntato su di un altro

ordine: la flora degli epiteti esornativi – che in Baudelaire sono spesso un omaggio alla tradizione – viene da lui non già depressa ma mantenuta a fine di nobilitazione della materia, surrogando con questa fun-

zione le perdute sonorità dell’alessandrino. Scompaiono i luoghi melodici con i quali Baudelaire citava le

grandi amarezze barocche di Garnier e Corneille innografi o del Racine di Esther: e ci viene innanzi in-

vece una lingua italiana che sembra congelata ancora viva, opposta alla mimèsi del parlato e agli effetti di dislivello cari al plurilinguismo espressionistico; ma tuttavia distante dal decoro novecentesco. Una lin-

gua che ha fatto miele da tutta l’area del manierismo dimesso e persino crepuscolare ma che è passata anche per Saba e Sereni. La luce fredda che distanzia, non è una vernice di finito, un preservante; è la

intenzione di dare un minuscolo brivido al lettore». 462 Le edizioni, dopo quella mondadoriana del ’73, risalgono all’87 e al ’92 per Einaudi, al ’96 di nuovo per Mondadori, e infine, quella a cui si fa riferimento nel testo, ancora per Einaudi nel ’99.

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riflesso nei miei occhi. Là ho vissuto

voluttà calme in mezzo allo splendore delle onde e dell’azzurro, mentre schiavi nudi, impregnati di profumi, davano

fresco con delle palme alla mia fronte cercando, unica loro cura, di scoprire quale pena segreta mi facesse languire463.

Si vede come in questa traduzione la sintassi sia normalizzata (è elusa anche

l’anticipazione esornativa dell’aggettivo al sostantivo del primo verso), rafforzata l’incongruenza tra frase e verso («davano / fresco»), il lessico ulteriormente avvicina-to al parlato e le ambiguità sciolte, sostituite ove possibile con forme più colloquiali:

Baudelaire Raboni ‘73 Raboni ‘99 a) «dans les voluptés calmes» «in cerchi di «in mezzo allo

splendore» splendore»; b) «rafraîchissaient» «ombreggiavano» «davano / fresco». Si tratta d’altronde di una serie di provvedimenti in linea con i principi teorici

che, stando alle dichiarazioni del poeta, hanno presieduto al suo lavoro variantistico:

Vi era poi, fondamentale, la questione del lessico e della sintassi. Per rap-presentare o evocare in termini attuali, voglio dire attualmente percepibili, l’interazione fra “comico” e “sublime” era necessario, a mio modo di sentire, accentuare entrambi i registri, rendendo per così dire più eccelso l’eccelso del

linguaggio baudelairiano (a costo di retrodatarlo, di farlo apparire, a tratti, più aulico, più “antico” e, per contro, più basso il basso, più grottesco il grottesco, più realistica e prosastica la componente realistico-prosastica […] Aggiungo,

463 Tra i quattro traduttori Raboni è l’unico a sciogliere nel significato si «scoprire» l’ambiguità baudelai-

riana del verbo «approfondir», interpretabile appunto nel doppio significato di ‘rendere più profondo’, ‘più acuto’ e, appunto, di ‘chiarire’, ‘indagare’. In tal senso l’opzione raboniana è certamente minoritaria.

Se infatti Parronchi cerca di conservare l’equivocità del verbo proponendo un «approfondire» che non scioglie il nodo interpretativo, Luzi e Pagano traducono rispettivamente con «far più vivo» e con «im-

mergermi», forse quest’ultimo trainato dalla metafora marina intorno a cui ruota il sistema figurativo del

componimento. Ma nello stesso solco si collocano anche le versioni in prosa di Caproni e Bertolucci, che traducono entrambe «rendere più profondo».

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per finire, qualche considerazione riferibile in modo più specifico alla fase o,

per dir meglio, alla “funzione” rifacimento. A guidarmi in essa è stato soprat-tutto, e in modo via via più rilevante e cosciente, l’intento di rendere, nel testo di arrivo, più coperta, più implicita, meno espressionisticamente vistosa (sen-za per questo, beninteso, revocarne la centralità) la più volte citata divarica-zione fra alto e basso, fra sublime e comico, fra “poesia” e “prosa”. In altre pa-role ho cercato di avvicinarmi un po’ di più, per quanto era nelle mie forze, a un uso “sottile e delicato” di quell’“arte della dissonanza” che sulle prime mi era parso di dover praticare quasi a qualsiasi costo, di dover sbandierare in modo dimostrativo e quasi provocatorio, e che in seguito mi è parso invece di dover perseguire con maggiore cautela e più ancora, con maggiore segretez-za464.

Da notare infine come Raboni recuperi anche l’indicazione temporale «a lungo»,

che – coniugata alla smantellamento del tempo presente in chiusura di poesia («il segreto di pena che mi fa languire» → «quale pena segreta mi facesse languire») –

reintegra in toto lo spessore temporale, la natura mnemonica (cara agli ermetici) di questa poesia.

Queste quattro traduzioni (più una) offrono allora un campione rappresentativo di alcune tendenze generali del tradurre della seconda metà del Novecento: spicca fra tutti l’indebolimento degli istituti formali che nella versione di Luzi, come in quella di Pagano, gerarchizzavano i diversi livelli della traduzione, ossia la rima, il metro, la strofa, rispettati da questi poeti come ‘canali’ ineludibili per lo svolgimento della sin-

tassi, con appena l’eccezione di qualche inarcatura. Già la traduzione di Parronchi riabilitava il profilo semantico della poesia, che forzava la modularità del metro sfruttando diverse misure non prive di forti anomalie. Le partizioni strofiche tutta-via, in virtù proprio della mobilità del verso che tendeva ad adeguarsi al passo della frase, rimaneva un elemento strutturante della sintassi. Il passo ulteriore è compiuto da Raboni, la cui traduzione, se da un lato recupera l’organizzazione endecasillabica del sonetto, dall’altro evoca e al contempo disattende l’aspettativa formale del testo fonte, già che questi strumenti formali (il metro, la strofa) sono ammessi nella tradu-zione ma purché si rendano dispositivi estremamente flessibili, capaci di corrispon-dere alle esigenze che di volta in volta l’atto traduttivo impone al traduttore: ecco dunque che l’indebolimento degli espedienti formali intesi come principi ordinatori della strategia traduttiva può essere esteso a un generale indebolirsi delle gerarchie

464 G. Raboni, L’arte della dissonanza cit., pp. XLVII-XLVIII.

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complessive della versione, da sostituirsi con criteri ‘elastici’ sostituibili nelle loro in-

terazioni a seconda dei problemi sollevati nei singoli casi dalla poesia fonte. Ma se la convocazione dell’involucro metrico e strofico agisce come forza oppo-

sta alla riformulazione integrale del testo e come fattore di inclusione della traduzio-ne nel solco prestigioso del genere-sonetto, anche sul piano semantico il traduttore pone alcuni limiti alla sua riscrittura: un complesso bilancio di spostamenti e sosti-tuzioni presiede all’esercizio di Raboni, che in questo senso – adoperando materiali di ‘riuso’, per così dire – sfrutta margini di riscrittura per certi aspetti inferiori a quelli di Pagano. Un sistema di ‘patteggiamenti’ con il testo fonte, quello di Raboni - fortinianamente in trattativa tra memoria formale e suo oltrepassamento (o «fra adempimento e metafora dell’adempimento465») - che si esplica nel fitto reinvesti-mento del lessico baudelairiano in nuove funzioni sintattiche e diversi contesti figu-rativi, nell’ambito di una strategia di riscrittura sempre autorizzata dalla poesia di partenza: ecco dunque che «colori» e «fuochi» invertono le rispettive posizioni di «couleurs» e «feux», «colonne» anticipa «piliers» e sostituisce «portique», «accorda-vano» anticipa «accords» e sostituisce «mêlaient», «grands» è dislocato da aggettivo di «piliers» a attributo di «grotta», «splendori» viene prelevato dalla sua sequenza enumerativa e anticipato di un verso rispetto a «splendeurs». È quindi ancora all’insegna della flessibilità dei materiale poetici che Raboni media tra il criterio me-lico-metrico di Luzi e Pagano e la rottura dell’assoluta legislazione del verso sulla sintassi praticata da Parronchi: una flessibilità che consente l’adozione dei moduli formali tradizionali senza forzare l’ordine della sintassi, e alla quale è correlativa – nell’ambito di una limitazione dei dispositivi convenzionalmente ‘poetizzanti’ – l’accordo del lessico a un registro medio.

465 Ivi, p. XLVII.

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L’altrove di Michaux. Luzi, Erba e La Cordillera de los Andes

La revoca all’atto traduttivo di qualsiasi implicazione di metodo: sul filo di que-sta radicale affermazione del primato dell’empirismo sulla coscienza teorica, al mo-mento di introdurre le rispettive raccolte di traduzioni466, coincidono i profili critici di Mario Luzi e Luciano Erba. Un ponte gettato tra figure altrimenti distanti, esem-plarmente rappresentative di due ‘linee’ poetiche che una convenzione un po’ som-maria contrappone in termini di quasi reciproca esclusione. E tuttavia questo ap-prossimativo ‘codice’ storiografico si rivela in linea di massima attendibile se accer-tato sul terreno della loro attività di traduttori; al di là infatti della norma che pre-scrive la traduzione come esperienza antisistematica del linguaggio, gli esercizi di Luzi e Erba si presentano all’insegna della difformità già a partire da un punto di vi-sta macrostrutturale, verificabile fin dalla rassegna dei poeti inclusi nei rispettivi vo-lumi. Un dato significativo, già che queste antologie, seppure destituite dagli autori di un disegno d’insieme, s’incaricano nondimeno – attraverso l’amministrazione de-

gli spazi, delle proporzioni e degli esoneri – di riflettere scelte che fanno capo al do-minio della critica, se il vaglio dei testi da passare al filtro della transcodificazione (anche se ricondotto a un movente d’ordine occasionale) è un esercizio che implica quasi per statuto un atto interpretativo. Il coinvolgimento della sfera critica poi è ul-

teriormente sollecitato dalla necessità di una sovra-selezione nel corpus globale delle proprie versioni, allo scopo di offrire un campione rappresentativo che risulta infine inscrivibile, se non certo in un progetto critico unitario, quantomeno in un’area di tessitura relativamente compatta. Diviene dunque lecito parlare della formulazione di due potenziali canoni poetici, senza dubbio lacunosi e poco equilibrati, ma co-struiti comunque su un principio di coerenza riconducibile ora alla ricorsività di al-cune sigle stilistiche, ora alla gravitazione degli autori tradotti intorno a determinate

466 Cfr. M. Luzi, La cordigliera delle Ande e altri versi tradotti, Torino, Einaudi, 1983, e Luciano Erba, Dei cristalli naturali e altri versi tradotti (1950-1990), Milano, Guerini, 1990.

Leonardo Manigrasso, Capitoli autobiografici : poeti che traducono poeti dagli ermetici a Luciano Erba ISBN 978-88-6655-502-5 (online), CC BY-NC-ND 3.0 IT, 2013 Firenze University Press

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stagioni della storia letteraria, ora a un rapporto di prossimità o distanza dalle strate-

gie tematiche del traduttore. È ben noto il prevalere dell’accordo simbolista nella strumentazione luziana, che

a partire da un precursore come Charles-Augustin de Sainte-Beuve attraversa tutta la grande dorsale della poesia francese che si dirama da Baudelaire e che, dopo il ten-tativo di abrogazione della realtà di Mallarmé e l’esperienza ‘en enfer’ di Rimbaud, trova un ideale punto d’approdo nell’appello di Valéry a «tenter de vivre». Di con-

certo con la sua Idea simbolista dunque, Luzi focalizza gran parte delle sue risorse critico-interpretative nel seguire lo sviluppo, secondo Quiriconi, della «pretesa di una centralità dell’universo come esclusivo appannaggio dell’uomo che a se stesso intende uniformare tutto quanto lo circonda e che anche nella caduta inevitabile – vedasi Baudelaire – conserva una sua connotazione di fiera, titanica indignazione e grandezza»467. La dissoluzione del sogno simbolista, in parallelo ideale con la propria vicenda espressiva, è seguita poi da Luzi in alcune sue resultanze esemplari, con par-ticolare riguardo ad esperienze novecentesche che mirano all’interrogazione delle più impercettibili espressioni del circostante, fedele alla progressiva messa a fuoco di alcuni fondamenti filosofici del suo dire poetico (come ‘natura’, ‘molteplice’, ‘movi-mento’, ‘unità’) destinati a scandire il piano argomentativo della sua stagione matu-ra.

Anche le scelte di Erba possono essere raccordate molto strettamente alle sue più sperimentate trame tematiche, evocate dai domenicali borghi fiamminghi messi in versi da Rodenbach, dallo scorcio milanese ritratto da Frénaud, o ancora da quell’attribuzione di supremi valori ontologici a elementi minimi della realtà quale si

riscontra nelle prose di Ponge, là dove egli confessa di trovare come più congrua

467 G. Quiriconi, Luzi traduttore, in A. Serrao (a cura di), Mario Luzi, Atti del Convegno di Studi (Siena,

9-10 maggio 1981), Roma, Edizioni dell’Ateneo, 1983, poi con il titolo Allegati su Luzi, in G. Quiriconi, I miraggi, le tracce: per una storia della poesia italiana contemporanea, Milano, Jaca Book, 1989, p. 175.

Nello stesso saggio, tuttavia, Quiriconi accerta molto opportunamente le notevoli discrasie nell’amministrazione luziana della propria attività critica da un lato, e di traduzione dall’altro, ravvisan-

dovi i segni di un diversa ‘densità’ di rapporto con gli autori di riferimento; cfr. allora ivi, pp. 165-166: «Ad un rapido confronto tra la produzione del critico e quella del traduttore si colgono subito delle dif-

ferenze di non poco conto. Come mai ad esempio la riflessione critica sente la necessità di cimentarsi più volte con la poesia di Apollinaire mentre tace il traduttore? E, per converso, che senso ha il largo spazio

accordato nell’ultimo quaderno di traduzioni a scrittori come Supervielle e Michaux per i quali manca un riscontro preciso in sede critica? […] L’attività di critico dunque dimostrerebbe in Luzi una necessità

di conoscenza e di confronto, mentre l’attività di traduttore comporterebbe un’accentuazione di densità del rapporto, quasi un colloquio più ravvicinato, una sorta di assunzione in proprio e di verifica dal di

dentro; anche se questa verifica e questa assunzione – è bene dirlo sin d’ora – non avvengono sempre sul

piano dell’accettazione assoluta o passiva, ma sviluppano invece al loro stesso interno un contraddittorio ben visibile, una scelta, ancora una volta, quindi, una ben accertabile presenza critica».

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‘immagine del mondo’ – anziché i grandi congegni filosofici – frammenti trascurabi-

li di esistenza come «un ramo di lillà, un gamberetto nell’acquario naturale di scogli all’estremità del molo del Grau-du-Roi, un asciugamano di spugna della mia stanza da bagno, un buco di serratura con la chiave dentro»468. Dove invece queste due rac-colte eccezionalmente convergono è nel già citato Frénaud – ma un Frénaud scalato da opposti versanti, metafisico per Luzi, elegiaco per Erba – e in modo più significa-

tivo nell’Henri Michaux giovane di La cordillera de los Andes.

La poesia, com’è noto, è tratta da Ecuador, anomalo diario che ripercorre il péri-ple svolto dal poeta in Sudamerica alla fine degli anni Venti. Un libro che rappresen-

ta un unicum tra gli scritti di Michaux, già che di lì in poi il journal de voyage sarà un genere le cui forme il poeta eluderà in favore di una cosciente disorganicità dei pro-pri appunti, sistematicamente sganciati al momento della pubblicazione da ogni ri-

gore cronologico. Al di là dei dati strutturali e dell’eterogeneità dei generi, dei mate-riali e dei registri messi in campo da Michaux, la singolarità tematica di un lavoro a

suo modo sperimentale come Ecuador è data dal fatto di contemplare di continuo la

tentazione del proprio contrario, l’invito alla rêverie immobile; per questo il viaggio, nonostante il poeta lo dichiarasse ‘inutile’, assolve a una funzione determinante nel suo orizzonte poetico, in quanto costringe a un distaccarsi dalla propria identità al contempo provocando uno sprofondamento in essa: una doppia dinamica in cui coincidono il moto nello spazio e la progressione verso l’interno. Ed è per questa ra-gione che «le voyage est la condition qui donne à l’intérieur sa chance de pouvoir toucher des points toujours plus éloignés en soi»469, e – secondo Piero Bigongiari – il poeta «quanto più avanza nella verità laterale e divisa, tanto più sente di ricostruirne il nucleo centrale»470.

È allora nello slittamento continuo tra reale e onirico, tra geografia e mitologia (si pensi a partire da questa poesia all’importanza di un sema come «dedans», al con-tempo coordinata spaziale e categoria dell’interiore), che il libro di Michaux interfe-risce sia con la riabilitazione luziana della categoria filosofica dell’esistenza in oppo-sizione alle trame orientali e esotiche della metafisica ermetica471, sia con i viaggi so-

468 Cfr. la traduzione di Erba del passo intitolato La forme du monde di Ponge in Dei cristalli naturali, cit., pp. 76-79. 469 R. Bellour, Notice, in H. Michaux, Œuvres complètes, édition établie par R. Bellour avec Y. Tran, vol. I, Paris, Gallimard, 1998, p. 1082. 470 P. Bigongiari, Il discorso su Michaux è il discorso di Michaux, in Id., Poesia francese del Novecento, Fi-renze, Vallecchi, 1968, p. 139. 471 Sulla stilizzazione non solo delle astratte geografie mitologiche, ma anche dei luoghi dell’esperienza, e sulla loro successiva conversione in categorie e radicamenti dell’esistente nel primo Luzi, cfr., tra gli altri,

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gnati e proibiti che costituiscono il non sempre pacifico radicamento dell’autore mi-

lanese al proprio ambiente. Alla luce di questa trasversalità del tema non può dirsi casuale che la poesia abbia occupato le loro officine in un giro d’anni quasi concomi-

tante, già che Erba mise a punto la sua versione per l’antologia Poeti stranieri del No-vecento tradotti da poeti italiani edita da Scheiwiller nel 1955, mentre Luzi nel ’58

incluse il suo esercizio nella garzantiana Poesia straniera del Novecento, su invito di Attilio Bertolucci. Scorrendo la cronistoria dei due poeti si scopre allora che l’incontro attivo con il componimento di Michaux si colloca da un lato nel pieno

della composizione della raccolta parzialmente riepilogativa del Male minore, edita nel 1960, e dall’altra in quella cruciale stagione di rifondazione del proprio discorso

poetico cui competono le esperienze di Primizie del deserto, Onore del vero e Dal fondo delle campagne. In questo contesto, La cordillera delle Ande rappresenta un capitale di temi e argomenti ideale a coinvolgere le strategie di senso di Erba e Luzi, ponendosi come bruciante interrogazione relativa, più che al motivo del viaggio, alle determinazioni psicologiche e metageografiche del ‘qui’ e dell’‘altrove’.

Il testo di Michaux seguito dalle versioni di Luzi e Erba:

La cordillera de los Andes La première impression est terrible et proche du désespoir. L’horizon d’abord disparaît. Les nuages ne sont pas tous plus hauts que nous. Infiniment et sans accidents, ce sont, où nous sommes, Les hauts plateaux des Andes qui s’étendent, qui s’étendent. Le sol est noir et sans accueil. Un sol venu du dedans. Il ne s’intéresse pas aux plantes. C’est une terre volcanique.

Nu! et les maisons noires par-dessus, Lui laissent tout son nu; Le nu noir du mauvais. Qui n’aime pas les nuages, Qu’il ne vienne pas à l’Equateur. Ce sont les chiens fidèles de la montagne, Grands chiens fidèles;

S. Ramat, «La conoscenza per ardore o il buio». La poesia di Mario Luzi, in G. Ladolfi (a cura di), Sentieri poetici del Novecento, Novara, Interlinea, 2000, pp. 103-113.

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Couronnent hautement l’horizon;

L’altitude du lieu est de 3.000 mètres, qu’ils disent, Est dangereuse qu’ils disent, pour le cœur, pour la respiration, pour l’estomac Et pour le corps tout entier de l’étranger. Trapus, brachycéphales, à petits pas, Lourdement chargés marchent les Indiens dans cette ville, collée dans un cratère

de nuages, Où va-t-il ce pèlerinage voûté? Il se croise et s’entre-croise et monte; rien de plus: c’est la vie quotidienne. Quito et ses montagnes. Elles tombent sur lui, puis s’étonnent, se retiennent, calment leur langues! c’est

chemin; sur ce, on les pave. Nous fumons tous ici l’opium de la grande altitude, voix basse, petits pas,

petit souffle. Peu se disputent les chiens, peu les enfants, peu rient. 1) Traduzione di Mario Luzi La prima impressione è terribile e a un passo dallo sconforto. L’orizzonte subito scompare. Non più alte di noi sono le nuvole. All’infinito e senza intoppi sono, qui dove siamo, Gli alti pianori delle Ande che si stendono, si stendono. Il suolo è nero e inospitale. Suolo che erompe dal di dentro. Non fa caso alle piante.

È una terra vulcanica. Nudo! e le case nere sopra Lasciano intatto il nudo, Il nudo nero e maligno.

Chi non ama le nubi Non venga all’Equatore. Sono i cani fedeli della montagna, Grandi cani fedeli; Coronano altamente l’orizzonte; L’altitudine del luogo è di tremila metri, dicono, Pericolosa, dicono, pel cuore, lo stomaco e il respiro

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E per il corpo intero allo straniero.

Tozzi, brachicefali, a passi brevi, Sotto pesanti carichi camminano gli Indiani in questa città inchiodata in un

cratere di nuvole.

Dove va questo pellegrinaggio curvo? S’incrocia e s’interseca e s’arrampica; niente altro: è la vita quotidiana. Quito e le sue montagne. Cadono su di lei, stupiscono, si trattengono, acquietano le lingue! è strada;

così le pavimentano. Noi fumiamo qui tutto l’oppio della grande altezza, voce bassa, passo cauto,

respiro corto. Poco altercano i cani, poco i bimbi, poco ridono.

2) Traduzione di Luciano Erba La prima impressione è terribile, vicina alla disperazione Anzitutto scompare l’orizzonte. Le nuvole, non sono più alte di noi tutte le nuvole. Noi siamo dove all’infinito, senza mutamento, sono gli alti pianori delle Ande che si stendono, si stendono, si stendono E’ un suolo nero, senza gioia E’ un suolo venuto da sotto,

senza piante. E’ una terra vulcanica. E’ un suolo nudo! con sopra le case nere che nulla tolgono alla sua nudità: è un nudo nero di cose cattive. Chi non ama le nuvole non venga all’Ecuador. Sono i cani fedeli delle montagne, fedeli e grandi cani: alta corona dell’orizzonte. Siamo a tremila metri, si dice,

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a un’altezza pericolosa per il cuore, si dice,

per la respirazione, per lo stomaco, e per tutto quanto il corpo del forestiero. Brachicefali, tarchiati, a passi brevi, affardellati incredibilmente gli Indiani si muovono in questa città che si aggrappa a un cratere di nuvole, di nuvole. Dove andrà questo curvo pellegrinaggio? s’incrocia, torna a incrociarsi, sale: e nient’altro, la vita di tutti i giorni. Quito e le sue montagne. Gli piombano addosso, si stupiscono, si trattengono, si ritirano: e poi eccole lastricate. Quassù si fuma l’oppio d’alta montagna, voce bassa, passi brevi, soffio corto, scarsi litigi dei bambini e dei cani, nessuno, o quasi, che rida. Quassù.

Fin da un primo sondaggio è evidente come la versione messa a punto da Erba

manifesti una maggiore disponibilità alla riformulazione metrica e sintattica del te-sto di Michaux, rispetto alla tendenziale replica luziana delle strutture dell’ipotesto. Sul versante metrico infatti il passo adottato da Luzi ne ricalca le notevoli dismisure, funzionali alla trascrizione antimelodica della disarmonia del reale. In questo senso il poeta toscano si avvale di una tastiera formale che va dal settenario – particolarmen-te folto nella zona centrale del testo – al verso lunghissimo e prosastico degli enun-ciati finali; viceversa Erba mostra più propensione a disarticolare la tessitura metrica

di Michaux con investimenti che vanno dal quadrisillabo (e unità quadrisillabe in-terne al verso sono destinate a ricorrere in punti chiave della traduzione472) al doppio novenario, non senza rifarsi a misure anche fortemente irregolari. Questi smotta-menti hanno come esito quello di contenere l’estensione orizzontale del testo, a patto però di introdurvi numerose inarcature - talvolta molto forti («alta / corona dell’orizzonte»; «e / nient’altro, la vita di tutti i giorni») - del tutto estranee alla quasi sistematica congruenza tra frase e verso orchestrata da Michaux. Referti analoghi, cioè relativi a un diverso esercizio della dislocazione formale, sono ricavabili dal lato

472 Il riferimento va in particolare al terzultimo verso, appunto scandito dalla successione di tre unità quadrisillabe.

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stilistico: rispetto a Luzi ad esempio il poeta milanese ricorre più liberamente a for-

mule sintetiche («Un sol venu du dedans. / Il ne s’intéresse pas aux plantes» → «È un suolo venuto da sotto, / senza piante»; «c’est chemin; sur ce, on les pave» → «e poi eccole lastricate»; «peu se disputent les chiens, peu les enfants» → «scarsi litigi dei bambini e dei cani»), e soprattutto alla conversione, con poche eccezioni, della con-giunzione per polisindeto a quella per asindeto (vv. 1, 5, 8, 12, 14, 22).

Il confronto della versione luziana con un testo che esibisce una così notevole fa-cilità di riscrittura fa da cassa di risonanza all’accertamento di Giancarlo Quiriconi sulle traduzioni del poeta fiorentino, là dove, seguendo una pista suggerita dall’autore stesso473, stabilisce l’esistenza di un rapporto di proporzione inversa tra affinità tematica del brano tradotto e licenza di trasferimento stilistico:

[…] l’intervento correttore luziano tende a scomparire man mano che egli si cimenta con poeti come Supervielle, Cadou e Michaux nei quali più esplicito è il riconoscimento di una poetica fondata sulla immediata aderenza alle cose e, quindi, in definitiva, un trionfo della naturalezza474.

Alla luce di queste considerazioni, e a parziale dispetto delle indicazioni dello

stesso Luzi, una ricognizione delle interferenze tra la Cordigliera delle Ande e il suo universo ideologico e formale si costituisce come una verifica inaggirabile per rico-struirne l’orizzonte tematico e filosofico, così complesso, del dopoguerra; è evidente infatti come sempre più la pratica del tradurre tenda a indebolire il proprio statuto di

473 Cfr. M. Luzi, Premessa o confidenza, in Id., La cordigliera delle Ande, cit., p. VIII: «E qui cadrebbe a

pennello un altro genere di considerazioni, sempre empiriche beninteso, sugli effetti della adiacenza. In senso linguistico e culturale (come scinderli?) la vicinanza e l’affinità sconfortano i fieri intendimenti del

traduttore. La familiarità più e intrinseca più dissuade da tentazioni di mutamento di stato. Quella um-

bratile dialettica tra identità e differenza che presiede al génie della traduzione si addormenta in questi

casi ed ha solo sporadici e magari per questo eccitanti risvegli». Sugli stessi argomenti, dove però lo scar-to linguistico è visto come liberatorio spazio di invenzione rispetto ai ‘capestri’ delle lingue ‘familiari’,

cfr. le dichiarazioni di Luzi contenute in Maria Luisa Spaziani, La traduzione di poesia come osmosi, in F.

Buffoni (a cura di), La traduzione del testo poetico, Milano, Marcos y Marcos, 2004, p. 116: «Questo è un

discorso che riguarda più il traduttore che il poeta tradotto, perché anche in lingue molto vicine può dar-si che avvenga un momento di felice immedesimazione o che si dia una felice trasformazione del dato

iniziale. Ma, come traduttore io stesso, ho avuto più remore e anche più impedimenti nella traduzione dal francese che non dall’inglese, dove questo margine di estraneità è molto fertile d’avventura. Quando

ho tradotto Coleridge conoscevo poco l’inglese, ma proprio quella distanza, tra l’inglese mitico e la lin-

gua che ero costretto ad usare, era un territorio suscettibile di molte avventure che non mi sarei permes-so di correre da una lingua più obbligante come di per sé è il francese. In teoria, l’inglese si presta di più,

forse, a certi miei testi». 474 G. Quiriconi, Allegati su Luzi, cit., p. 181.

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‘genere extraterritoriale’ e a reagire con i più incandescenti materiali linguistici e fi-

gurativi della scrittura luziana. Dove le trame poetiche sembrano intrecciarsi più fitte è nei primi segmenti delle

Primizie del deserto475, tangenti a un’orbita leopardiana nella misura in cui sono leo-pardiane (in senso iconico più che testuale) l’evocazione di un drammatico contrad-dittorio con la natura in bilico tra i domini dell’esistenza e della metafisica, e la sua trascrizione nei termini di un paesaggio riarso, desolato e di eloquente origine vul-canica476. Un’area lessicale quindi, quella dell’infecondità vulcanica, che una volta rifusa dal testo di Michaux all’interno del codice culturale italiano è destinata a met-tere in funzione un supplemento di senso quantomai pertinente, riconvocando a li-

vello testuale i lasciti filosofici della Ginestra, con il suo tangibile portato di lacera-mento, rottura, dissonanza, negatività477. Il paesaggio, dunque, si conferma più che

475 Il rilievo cronologico in senso stretto sposterebbe il baricentro della traduzione verso le date di com-

posizione di Dal fondo delle campagne; tuttavia il tono e i contenuti della Cordillera si approssimano di

più alle Primizie nella misura in cui ne condivide il rapporto tra la transitorietà e insensatezza della «vie

quotidienne» e la totalità del suo annullamento. Come ammonisce lo stesso poeta invece con Dal fondo delle campagne – che non a caso inaugura la seconda macrosezione della sua scrittura, Nell’opera del

mondo – Luzi approda a una più sottile e misteriosa complementarietà tra la morte e la vita, che troverà

prima espressione esemplare nel titolo della sezione Morte cristiana, e che maturerà nella professione

della totalità oltre la parcellizzazione del quotidiano dagli anni Ottanta in poi. Scrive infatti il poeta in-

troducendo Dal fondo delle campagne (oggi in M. Luzi, L’opera poetica, a cura di S. Verdino, Milano,

Mondadori, 1998, p. 258): «I versi che raccolgo in questa plaquette li ho scritti tra il 1956 e il 1960 e sono

dunque, per chi avesse interesse a questa così poco “storica” ricostruzione, da collocarsi tra Onore del

vero e Nel magma. Il tema insistente, in virtù del quale sono stato indotto a isolarli è dei più elementari. Il confronto, il rapporto, la “questione” tra morte e vita sono infatti connaturali con il poetare stesso,

tautologici in qualche modo. Ma in quegli anni mi si riproponevano concitati da trapassi violenti di for-me civili, si associavano alla consapevolezza di trovarsi a una discriminante dei tempi, a un salto della

civiltà prodigo di lacerazioni. La morte di mia madre, nel 1959, dette un crisma di religioso dolore a quell’ordine di pensieri». 476 Per una serie di sondaggi sul leopardismo nel Novecento, con particolare attenzione dedicata alla ter-

za generazione, cfr. A. Dolfi, Leopardi e il Novecento. Sul leopardismo dei poeti, Firenze, Le Lettere, 2009. 477 Per quanto riguarda la convergenza di memorie e prestiti della letteratura italiana nelle traduzioni luziane – come indici di vere e proprie posizioni critiche – cfr. lo studio sulla versione del poeta dei so-

netto Le vierge, le vivace et le bel aujourd’hui in G. Fontana, Il teorema e il testo. Appunti su Luzi tradut-

tore di Mallarmé, «Strumenti critici», X, n. 79, settembre 1995, pp. 428-429: «Anzi tutto, la sostituzione di “fui” con “levati” fa scattare un corto circuito che interessa l’asse diacronico della lingua: “i voli che

non si sono levati” non possono, infatti, non ricordare il passo di RVF 234 dove Petrarca, proprio ser-vendosi di questa immagine, rievoca, per denunciarne l’amara perdita, le alte occupazioni a cui lo innal-

zava un tempo l’intimità con se stesso e con il proprio “pensiero”. Attraverso questo richiamo, la medita-

zione sull’impotenza creativa – vero tema di Le vierge, le vivace secondo Luzi – si iscrive dunque

nell’alveo di una tradizione italiana di poesia “autoriflessiva” […]. La trama delle allusioni e dei riecheg-giamenti della tradizione letteraria italiana e straniera andrebbe ricostruita nel dettaglio e rivelerebbe,

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mai in questa stagione luziana come categoria della frattura con il circostante, para-

digma della dissoluzione; quella dissoluzione, nella fattispecie, che aveva interessato la coscienza creativa della compagine ermetica di cui Luzi era stato il capofila, e che sconta la propria crisi forzando il poeta a stipulare una diversa relazione con il reale, resosi impermeabile alle suggestioni idealistiche che avevano autorizzato la legalità ermetica dell’io, scommessa e al contempo garanzia delle associazioni figurative ‘im-

pertinenti’ dei suoi primi libri. La ricorsività di questa cornice naturale nelle Primizie è stata messa bene in luce, tra gli altri, da Giovanni Raboni, che molto opportuna-mente la inscrive nella trama tematica in cui si combinano i motivi base del libro:

Il paesaggio opaco e aspro, senza spiragli o conforto, rispecchia il cuore e

la sorte di chi lo osserva sentendosene parte, fibra, sentendovisi immerso; un tempo uguale avvolge il mutamento, il passaggio di nascita, malattia e morte attraverso la desolazione di una “fatica” che “non avrà mai fine”478.

Ecco allora che la principale giuntura che salda le Primizie a La cordigliera delle Ande consiste nell’identica interazione, chiamata in causa da Raboni, fra questo pae-

saggio così destrutturato479 e altri due topoi dell’‘analitica esistenziale’ del Luzi di

crediamo, un’attentissima strategia interpretativa del sonetto mallarméano. Ci limitiamo qui a suggerire un altro possibile spunto d’indagine: l’immagine dell’ “esilio inutile” su cui si chiude il sonetto è giocata

sull’intarsio di tessere dantesche […] che sottolinea la duplicità e la contraddittorietà del simbolo del “cigno”, sospeso fra l’assoluto a cui la poesia agogna e si cui reca qualche riflesso, e il contingente, il ter-

restre, a cui è “condannata”». 478 G. Raboni, Nelle poesie di Luzi la Commedia del ‘900, «Corriere della Sera», 24 novembre 1998, poi

con il titolo Luzi, conoscenza per ardore in Id., La poesia che si fa: cronaca e storia del Novecento poetico

italiano, Milano, Garzanti, 2005, p. 111. 479 Cfr. anche M. Richter, Luzi traduttore di Ronsard e Baudelaire, in G. Peron (a cura di), Premio ‘Città di Monselice’ per la traduzione letteraria e scientifica, Monselice, Il Poligrafo, 2008, pp. 91-93, dove il cri-

tico si sofferma sulla prossimità delle trame filosofiche luziane con le implicazioni simboliche del pae-

saggio trascritto da Michaux, ravvisandovi tra l’altro le ragioni dell’elezione della poesia a titolo dell’intera raccolta di traduzioni: «Quale può essere la ragione (o le ragioni) di un titolo come questo? La

poesia di Michaux si caratterizza per essere uno sguardo particolarmente intenso su qualcosa che asso-miglia a un destino difficile, a una condizione di vita minacciata da una ineluttabile, da una imperturba-

bile e quotidiana tragedia, un paesaggio spoglio e nero, privo d’orizzonte, percorso da una processione di gente che va, di gente che viene, inerpicandosi curva e muta su altitudini rarefatte, ostili, quasi annichili-

ta dalla più chiusa rassegnazione. Un’immagine della vita di tutti, forse […]. Ci si potrà allora chiedere se, nella visione di Luzi, il testo di Michaux non dovesse assumere un significato particolarmente forte di

modello poetico, non dovesse farsi espressione, al di là della riuscita propriamente traduttoria (che a me pare notevole), di una convinta adesione o simpatia alla situazione o alla rappresentazione allucinata ed

estrema creata dal poeta francese (per età quasi un fratello maggiore di Luzi) in quei versi che uniscono a

perfezione, nella loro asciutta e dimessa descrittività, l’immagine e la sua portata simbolica […]. Quali dunque le possibili ragioni della scelta del titolo? Nessuna spiegazione esplicita ci soccorre nella “Pre-

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quegli anni. Il primo sta nell’attenzione antologica alle minime occupazioni quoti-

diane la cui esclusione da una cornice di senso che le giustifichi addita un destino, esprime una dannazione comune; un tratto, questo, che si traduce nella ripetizione di catene verbali che esprimono azioni – preferibilmente al presente per revocarle qualsiasi ordine finalistico – oppure affastellamenti di situazioni, nomi o di compo-nenti oggettuali480. Il secondo motivo rinvia invece all’uniformazione dello spessore temporale a un flusso monocorde, sì che – con Zanzotto - «si potrebbe dire che la congerie dei “fatti triti” in cui si risolve il cosmo (o caos) montaliano, si dispone qui in un quadro meno accidentato, meno ricco di “trasalimenti” e di contrasti, di vio-lenza e di maiestas, per allinearsi nell’estenuante monotonia che non conosce gli “spari” o i “morsi di tarantola”»481. Dunque il testo luziano si inscrive in quest’area tematica a tre vertici, con l’esito di promuovere, a parziale dispetto delle ripetizioni

di Michaux, un’implicita varietas al tessuto lessicale della poesia (correlativa all’impaginazione dei mille rituali dell’esistenza) destinata poi a annullarsi nella sec-chezza dell’asserto filosofico finale.

I segni di questa tendenza sono ravvisabili nella declinazione delle nuages (tre at-testazioni nell’ipotesto) nella coppia nuvole/nubi (due e una occorrenza, forse quest’ultima trainata dall’allitterante «nudo nero» del verso precedente), così come nella preziosa variazione di «Il se croise et s’entre-croise» con «s’incrocia e s’interseca», e in quella di «petits pas, petit souffle» con «passo cauto, respiro corto»

(su cui però interviene anche Erba). La funzione, evidentemente, è quella di enfatiz-zare lo sfinimento dell’esistente che, per quanto plurale, ha come unico destino la condanna alla «vie quotidienne», in cui «poco altercano i cani, poco i bimbi, poco ridono»; finale quanto mai luziano, in primo luogo a): per la partizione del verso in tre segmenti solo leggermente asimmetrici dove il privilegio dell’anafora è ricono-sciuto esclusivamente a una parola chiave come «poco», anticamera del ‘nulla’ e

messa o confidenza” che si legge all’inizio del libro. Esiste tuttavia un aspetto abbastanza evidente: La Cordigliera delle Ande è senza dubbio uno fra i testi più letteralmente tradotti, più fedelmente trasposti

nella nostra lingua. Se così è, la “Premessa o confidenza” dello stesso Luzi ci fa sapere che “alcune volte la forma del testo originale sembra esiga di essere assunta come un blocco con il quale al traduttore non

resta più altro desiderio che d’identificarsi e si identifica allora mediante il calco quanto più possibile

perfetto – e questa è paradossalmente la forma più competa di adesione e insieme di rimozione del model-

lo”. Potrebbe allora darsi che questa “forma più completa di adesione”, questa identificazione col testo tradotto (e nel contempo la sua rimozione) sia stata indirettamente indicata da Luzi come la soluzione

ottimale di una sua poetica della traduzione». 480 Annotando Notizie a Giuseppina dopo tanti anni, Stefano Verdino allude all’«ultima strofa che nel

regesto di varia quotidianità inaugura una tipologia ricorrente in Luzi», per cui cfr. il suo Apparato criti-co in M. Luzi, L’opera poetica, cit., p. 1448. 481 A. Zanzotto, Luzi e il cammino della poesia: Onore del vero, in Id., Scritti sulla letteratura, Milano, Mondadori, 2001, pp. 20-21.

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punto di convergenza delle assi tematiche del testo; b): per l’investimento di un vo-

cabolo come «altercano», al centro di alcune tra le dinamiche di senso più incisive

della sua vicenda di poeta482, soprattutto là dove, a partire dal Battesimo, il suo di-scorso punta alla sintesi metafisica delle forze contrarie, tra la gravità dell’esistente e la riscossa della luce, del finalismo, della presenza di Cristo nella storia; infine c): per l’occorrenza di quella che potrebbe definirsi la funzione-cane, che in contesti analo-ghi (ma si ricordi anche il «magro cane» montaliano) è adibita a rappresentare i «se-gni che nessuno raccoglie»483, appena un increspamento nella superficie di ‘niente’ in cui si consuma l’attesa sempre più gratuita alla quale si espone il poeta.

In conclusione è possibile affermare che la traduzione di Luzi altro non miri che a configurare l’‘altrove’ secondo un rapporto di equivalenza al ‘qui’, coerentemente alla revoca dei valori mitologico-fantastici cui il poeta sottopose l’esotica topografia che aveva dilatato gli orizzonti pensati dell’io ermetico. Proprio su questo punto si registra il discrimine decisivo con la versione di Erba; se infatti la concezione di ‘al-trove’ luziano si pone lungo questa diagonale, lo scarto di generazione e il diverso retroterra del poeta milanese delegano all’‘altrove’ ancora uno statuto alternativo ri-spetto al circostante, sia pure a condizione di stanziarsi nella dimensione dell’ottativo484, del desiderio inappagato o, che è lo stesso, sotto il segno dell’ironia. Una grammatica ottativa declinata alla voce del viaggio in particolare nella terza se-

zione del Male minore485, fitta di partenze invocate quanto disattese da un poeta pro-

482 Cfr. in maniera esemplare un testo come Pace? – non terminato, vv. 1-3, tratto da Frasi e incisi di un canto salutare: «Pace? – non terminato / ancora / l’infuocato alterco». L’area semantica dell’ ‘alterco’,

fittissima negli ultimi decenni dell’attività luziana, annovera solo in questo testo occorrenze come «ris-sa», «lite», «diverbio», «disaccordo», «agonia», «lotta». 483 Due volte si accampa nelle non nutritissime Primizie del deserto la figura del cane, sempre inclusa nel resoconto dei segni senza referenza a un significato strutturato. La prima, da cui è tratta la citazione, è

compresa in Forse dice l’addio, vv. 5-8: «vagano voci rotte, cani mogi, / segni che nessuno raccoglie, /

presagi che si spengono nel vuoto»; la seconda attestazione è relativa invece alla celebre Notizie a Giu-

seppina dopo tanti anni, vv. 11-15: «Tutto l’altro che deve essere è ancora, / il fiume scorre, la campagna varia, / grandina, spiove, qualche cane latra, / esce la luna, niente si riscuote, / niente dal lungo sonno

avventuroso». 484 Sull’argomento cfr. S. Prandi, Uno sguardo «nei dintorni nel nulla»: la poesia di Luciano Erba, in L.

Erba, Poesie 1951-2001, Milano, Mondadori, 2002, pp. IX-X: «Erba è davvero poeta della virtualità come

condizione di perenne intercambiabilità di reale e immaginario: oltre a connotare l’impianto di intere

composizioni […] ben ottantanove “se” compaiono nel suo corpus complessivo: tra i periodi ipotetici

dominano in senso assoluto proprio quelli di secondo tipo, della possibilità. Al dispiegarsi del possibile si accompagna spesso il registro desiderativo, “recitato perennemente in falsetto”, come ha osservato Ay-

mone, con i suoi stilemi più ricorrenti: i futuri, gli infiniti ottativi, le frequenti esclamative. Ancora un distanziamento del presente vissuto, dunque». 485 Cfr. ad esempio un testo emblematico come Terra e mare: «Goletta, gentilissimo legno, svelto / prodi-gio! se il cuore / sapesse veleggiare come sai / tra gli azzurri arcipelaghi! // ma tornerò alla casa sulla rada

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verbialmente alla «finestra come una grata»486, emblema della separazione inaggira-

bile tra il ‘qui’ in cui si radica la vicenda privata (la ‘miopia’487) dell’autore, e la di-mensione del possibile cui è demandata l’ipotesi mentale – se non della totalità del senso, che è opzione ermetica – almeno della sospensione del proprio radicale scetti-cismo488.

L’‘altrove’, ad ogni modo, rientra di diritto nel novero di quelle «immagini-schermo» che a livello psicologico ‘remunerano’ il poeta del suo stato di detrazione, di mancanza489. Quella mancanza attestata, fra l’altro, dalla ben nota ricorrenza dei capi di vestiario nella sua poesia, i quali anziché dare asilo a un’amabile attenzione per il dettaglio borghese, assolvono a una sorta di ‘funzione di delega’ che compensa l’abrogazione dei corpi, lo ‘sfilamento’ della pelle che occorre talvolta nei suoi testi490:

/ verso le sei, quando la Lenormant / avanza una poltrona sul terrazzo / e si accinge ai lavori di ricamo /

per le mense d’altare. // Navigazione blu, estivi giorni / sere dietro una tenda a larghe maglie / come una rete! bottiglie / vascelli tra rocchi di conchiglie / e la lettura di Giordano Bruno / nel salotto di giunco,

nominatim / De la Causa Principio e Uno!». Ma si veda anche il registro desiderativo di Incompatibilità («potessi volare sulle lunghe ringhiere / varcare porte […] Partono adesso i crociati / io rimango quassù /

come una spia albanese / che fotografa torri e ciminiere») e il sandolino ivre di Il miraggio, in cui il titolo

stesso disinnesca la realtà dell’abbandono alla corrente. 486 A me stesso, v. 4. 487 Cfr. il concetto di ‘miopia’ elaborato dallo stesso Erba in relazione alla poesia barocca in Vision miope e secentismo in Magia e invenzione: note e ricerche su Cyrano de Bergerac e altri autori del primo Seicento

francese, Milano, All’insegna del pesce d’oro, 1967, p. 191: «Più di una volta, in tema di letteratura fran-cese del primo Seicento, accade di veder ricorrere con intento caratterizzante la nozione di “miopia”. Se è

vero che miopia significa l’incapacità di distinguere gli oggetti posti lontani dall’occhio, vulgo cortezza di vista, per scrittore “miope” sembra a noi che debba intendersi, fuori d’ogni traslato, lo scrittore di refe-

renza portato a rappresentare quanto cade entro il più breve raggio visivo: pertanto piuttosto oggetti pic-coli che grandi, o linee, strutture, toni particolari piuttosto che generali. Lo stile di questo scrittore non

mancherà di darci l’impressione di una estrema precisione, e lo scrittore stesso di apparirci attentissimo a che nessun particolare, per quanto nascosto o poco significante, possa sfuggirgli: quasi che la sua vista,

applicandosi a un’esigua porzione di reale, vi spenda la stessa somma di potere percettivo richiesta per scrutare entro campi visivi più vasti o vastissimi». 488 Cfr. anche S. Ramat, Storia della poesia italiana del Novecento, Milano, Mursia, 1976, pp. 582-583, dove si parla similmente di «relativismo dilagante» nella poesia di Erba, ravvisabile nella sua poetica dei

minimi frammenti dispiegata in un dettato giocoforza epigrammatico, implicitamente dimidiato: «È ov-vio che si tratterà di un essenziale ricavato all’interno di un relativismo dilagante senz’ostacoli, nel raggio

di una gratuità che il poeta accoglie e restituisce nella specie del frammento, del lacerto di vita che ha

resistito, per puro caso, all’azione di uno “scialo”, già topico in passato e naturale ancora in questo se-condo dopoguerra». 489 Il concetto è elaborato magistralmente da Stefano Agosti nel suo determinante saggio Consuntivo su Erba, in S. Agosti, Poesia italiana del Novecento, Milano, Bompiani, 1995, pp. 89-103. 490 Cfr. in questo senso La mia fatica, vv. 8-14: «non questo sacco di patate / la juta segna un reticolo sui polsi / mi sfila la pelle dalle dita / terra arida / ricorda una spiaggia / disabitata». Una funzione per certi

versi analoga a quella della juta è assolta dalla «lana sul petto» in Mea minima cupa: «Non ho che lana sul petto / per sentire più mia / e più viva la pelle».

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metonimie rovesciate, in altri termini, dove l’unità circoscritta, invece di significare

l’insieme, il tutto, significa il nulla. È allora in questo ambito che il viaggio si costitui-sce come risarcimento, ancorché mascherato, della «nostalgia del narrare»491 – se-condo Testa – imputabile all’esautorazione dell’io nelle strategie di ordinamento del-la realtà. In questo senso Erba, invece di riassimilare nell’unica dimensione della «sfera di Parmenide» le declinazioni dell’alterità, provvede piuttosto ad enfatizzare le strategie di senso dell’ipotesto che autorizzano lo statuto pensato, sognato, evocato del paesaggio492, nella circostanza attuando una sorta di tattica della moltiplicazione. Una tattica, beninteso, orchestrata pur sempre all’interno della cornice semantica messa a punto da Michaux, la cui negatività – anziché essere capovolta nei suoi dati esistenziali dalla rarefazione del paesaggio – è anzi forse accentuata sul versante me-tafisico da questa astrazione della natura. Lo strumento stilistico adibito da Erba a questo fine è la ripetizione, specie nel sottomultiplo privilegiato dell’anafora. Pur trattandosi di espedienti sovrasfruttati dal poeta milanese, il testo tradotto si muove nondimeno in un perimetro del tutto ‘legale’, già che agisce su risorse inscritte a pie-no titolo nel repertorio espressivo di Michaux493.

Un caso esemplare è quello del già citato sema nuages, scomposto da Luzi nella coppia nuvole/nubi, e viceversa reduplicato in addirittura cinque attestazioni da Er-ba: in un caso come pura serializzazione del dato percepito/pensato («un cratere di nuvole, di nuvole), nell’altro sfruttando una forma di dislocazione patetica in cui il medesimo soggetto si trova non solo a doppiare la propria funzione sintattica, ma anche a occupare la posizione strategica di clausola in due versi consequenziali («Le nuvole / non sono più alte di noi tutte le nuvole»); di fatto appartiene allo stesso or-

dine di intenzioni la triplicazione del verbo – già doppio – che rinvia alla profusione

491 Cfr. il profilo introduttivo a Luciano Erba redatto da Enrico Testa nell’antologia Dopo la lirica. Poeti italiani 1960-2000, Torino, Einaudi, 2005, p. 119: «I luoghi immaginari o misteriosi, le collocazioni fan-

tastiche, le atmosfere da romanzo o da feuilleton […] ricorrono, come esili fantasmi verbali della nostal-gia del narrare, in un a scrittura che opta consapevolmente per una dimensione ormai postuma alla “leg-

genda” e al racconto e che, di quest’ultimo, trattiene, interrogandolo, solo “l’alfabeto delle cose” e i loro

fitti cataloghi». 492 Sulla geografia ‘esotica’ di Erba, cfr. P. V. Mengaldo, Luciano Erba, in Id., Poeti italiani del Novecento,

Milano, Mondadori, 1978, p. 909: «La geografia di Erba (molto ramificata e apparentemente puntuale) è una geografia internazionale, un po’ da chierico vagante un po’ fantastica, dove Parigi, Londra e Milano

si alternano con pure località d’atlante o cifre esotiche come Sasebo o Quelpart o il Gruppo Nord (Tout se tient), sicché nella stessa poesia la domestica “Italia orientale” si estrania in una terra misteriosa di cui

“non si conosce il fascino”». 493 Di questa non infrequente partizione iterativa è testimonianza eloquente, tra le altre, la poesia imme-

diatamente precedente la Cordillera, Arrivée à Quito: «Région de Huygra, noire, noire, noire, / Province du Chimborazo, haute, haute, haute».

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delle montagne nello spazio («che si stendono, si stendono, si stendono»494). E anco-

ra Erba amplifica l’articolazione di per sé iterativa della seconda strofa, dove la ripe-tizione di alcuni semi in un breve giro di versi («sol», «nu», «noir») è elevata a norma strutturale attraverso l’anafora («È un suolo» ripetuto tre volte e declinato con «È una terra» e «è un nudo»); notevole, tra l’altro, la riconversione dell’ultimo verso del-la strofa che da modulo appositivo a ripetizione patetica (appena dissimulato dalla punteggiatura ‘forte’) diviene autonoma proposizione a nodo verbale. Analogamente il quadrisillabo «senza piante» non ha solo lo scopo di prolungare la frase oltre il confine formale, ma anche quella di impostare un ennesima partitura parallelistica con il primo verso della strofa, la cui segmentazione in emistichi («È un suolo nero, senza gioia») è redistribuita nell’arco di due versi («È un suolo venuto da sotto / sen-za piante) nel quadro di un’architettura metrica dotata a propria volta di un’evidente coesione interna (5+4, 9, 4). Questa tendenza alla serialità risalta in una successione verbale scandita dall’articolazione ‘particella riflessiva+trisillabi sdruccioli alla terza persona plurale’ come «si stupiscono, si trattengono, / si ritirano», soprattutto se messa a paragone con i correlativi luziani determinati da un intento di maggiore mobilità («stupiscono, si trattengono, acquietano le loro lingue»). Infine è flagrante l’indebolimento della referenza dell’avverbio di luogo «ici»/«quassù» alla luce del suo reinvestimento come clausola finale ‘assoluta’ («nessuno, o quasi, che rida. Quassù»).

Questi due caratteri dell’esecuzione erbiana di Michaux – l’iteratività sul versan-te stilistico, l’astrazione intellettuale del paesaggio su quello iconico – sono implici-

tamente ribaditi dal reimpiego citazionistico che Erba fa in Libro d’ore, dove l’occorrenza testuale dell’«Ecuador» è ricondotta a una cifra di consistenza puramen-

te nominale, mentre il tic della ripetizione – astraente quanto più si fa cantabile495 – è introdotto in un verso neanche stavolta implicato nella tattica replicativa di Mi-chaux:

Come dice il poeta

494 Si tratta di un verso che si presta in modo eccellente all’intento di reduplicazione del paesaggio, con-

vergendovi in modo naturale il dato semantico e quello fonico. Il sapiente utilizzo dell’allitterazione mes-

so in funzione da Michaux («Les hauts plateaux des Andes qui s’étendent, qui s’étendent») è infatti trasfe-

ribile con buona approssimazione nella lingua italiana (le «Ande» che «si stendono»), per di più accen-tuando l’effetto di dilatazione grazie alla forma sdrucciola del verbo; è in questo ambito che Erba decide

di prolungare il già marcato effetto fonico/visivo aggiungendovi un terzo segmento analogo. 495 L’astrazione del dettato di Michaux è un intento esplicito di Erba non solo sulla base dell’iterazione di

«non venga», ma anche nella fortissima inversione ‘quasi musicale’ di «chi li nubi non ama», e

nell’introduzione ‘metalinguistica’ e ironica – sfruttando una formula quasi proverbiale – di «come dice il poeta».

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chi le nubi non ama

non venga non venga all’Ecuador […] Stanchi sogniamo di verdi ferrovie lillipuziane dentro e fuori dei picchi a pan di zucchero. In città ci lasciamo tra quarzo e mica di costruzioni gela la primaluna, noi rientriamo inseguiti dappresso dalla vita come da un cane amico che ci raggiunga.

Tornando alla Cordillera è solo un’apparente infrazione alle strategie reduplica-tive di Erba lo smantellamento dell’iterazione sentenziosa dell’ultimo verso – il più ‘luziano’; piuttosto sembra una scelta fedele alla delega dell’artificio anaforico alla funzione prevalente di dilatare in senso metageografico le componenti fisico-naturalistiche del testo (le nuvole, il suolo, le catene montuose); viceversa infatti al predicato filosofico finale è riservato un diverso dettato argomentativo che – in linea con il tipico ‘doppio registro’ erbiano496 – neutralizza le impennate del poeta nell’universo dell’immaginazione, implicitamente dichiarando l’inconsistenza dell’ipotesi di un’‘altrove’ di reale evasione. Entrambi i poeti dunque si può dire che centrino lo stesso bersaglio – quello dell’ontologia negativa dell’essere-nel-mondo – da postazioni opposte, se da una parte Luzi interviene dilatando il ‘qui’ nell’‘altrove’,

e dall’altro continuando Erba a concepire l’‘altrove’ come spazio mentale da cui rica-vare le reintegrazioni psicologiche, per quanto puramente virtuali, alle disfunzioni dell’esistere. Ed è forse anche per questa differente prospettiva, tra assimilazione e

desiderio, che La cordillera delle Ande si è prestata ad essere per Luzi il terreno pro-

496 Sull’argomento cfr. A. Jacomuzzi, La poesia di Erba: ‘Super flumina’, in Id., La citazione come proce-

dimento letterario e altri saggi, Alessandria, Edizioni dell’Orso, 2005, p. 124: «[…] è necessario operare una distinzione tra i dati contenutistici e tematici raccolti intorno alla situazione d’idillio e i materiali

linguistici attinti in prevalenza al lessico dell’umile e del quotidiano da un lato, e l’effettiva strutturazione stilistica e il punto di vista dell’autore dall’altro, tra la lettera del testo e il codice di interpretazione che gli

compete, tra il personaggio ironicamente dimidiato e l’autore. La divaricazione tra l’uno e l’altro livello è lo strumento fondamentale dell’ironia di Erba, che non è edizione rivitalizzata dell’ironia crepuscolare,

ma ha la funzione strutturale di collocare al livello almeno tendenzialmente tragico e sublime il punto di

vista dell’autore e il codice effettivo di interpretazione, e al livello elegiaco e umile le situazioni, gli oggetti e i materiali linguistici dell’invenzione poetica».

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pizio a un impianto di materiali linguistici, mentre per Erba l’occasione di un sac-

cheggio497.

497 Oltre infatti al prelievo per certi versi parodico di Libro d’ore, si veda il reinvestimento di un termine

specifico e raro come «brachicefali» a connotare un popolo lontano e fantastico in Ippogrammi & metai-ppogrammi del pittore Giovanola, vv. 34-44: «Giovanola ha varcato i confini / di una terra di uomini lon-gilinei / brachicefali, esperti di metalli / dell’arco e di un tipo di lotta / ben diversa da quella delle Ryu-

Kyu. / Nessuno può dire se i cavalieri / immobili in sella ai cavalli / vengano dal mare o dall’altipiano /

oppure da un continente sommerso / né quando il loro momento sia stato / né se debba ancora arriva-re».

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Caproni e Risi traducono due poesie di Frénaud: J’ai bâti l’idéale

maison e Espagne

1. Nel quadro delle strategie tematico-figurative della poesia di Frénaud, la rap-presentanza del motivo della «maison», della casa, è particolarmente folta, connota-bile come termine di una dialettica il cui altro estremo è costituito dal campo meta-forico dello «château»; una dialettica che si fa testimone del costante scivolare del suo discorso tra il piano dell’esistenza a quello della metafisica, già che lo «château», il ‘castello’, rappresenta nella sua poesia «le poème comme finalité rêvée, c’est l’inaccessible»498, che «fait allusion aussi à un monde légendaire et mythique»499, il

luogo «où on reconnaîtra le secret»500, dove, infine, «le poète saisira pour un instant l’unité du tout»501. Viceversa l’«homme choisit sa maison pour établir un bon rapport avec la terre et avec les hommes»502, rinvia cioè al dominio della realtà e dell’esistente, più che all’area del possibile, del desiderio. Talora tuttavia le due re-gioni si sovrappongono, tendono l’una all’altra, scambiano i propri attributi, mo-strando in particolare una spiccata vocazione a rappresentare il metapoetico, a dare abito figurativo all’esercizio della scrittura, alla riflessione sulle forme e le finalità

della poesia. È il caso di un testo come J’ai bâti l’idéale maison, dove la «maison» è al

contempo ‘bâtie’ e ‘proférée’, costruita e detta; una sorta di mise en abyme in anticipo sul riconoscimento da parte di Frénaud – nel corso degli anni Cinquanta – della poe-sia come patria d’elezione503, a dispetto della labilità dei luoghi ove si è vissuto, sem-

498 A. Frénaud, Notre inhabileté fatale. Entretiens avec Bernard Pingaud, Paris, Gallimard, 1979, p. 164. 499 Ibid. 500 Ibid. 501 Ivi, p. 165. La citazione è tratta dalla prosa Le château et la quête du poème, datata settembre 1957 e

inclusa in A. Frénaud, Il n’y a pas de paradis, Paris, Gallimard, 1962, p. 291. 502 Id., Notre inhabileté fatale, cit., p. 166. 503 Prendendo spunto dalla poesia Où est mon pays?, cfr. l’analisi di S. Gaubert, Où est mon pays? Pays-

Caproni e Risi traducono due poesie di Frénaud: J’ai bâti l’idéale

maison e Espagne

1. Nel quadro delle strategie tematico-figurative della poesia di Frénaud, la rap-presentanza del motivo della «maison», della casa, è particolarmente folta, connota-bile come termine di una dialettica il cui altro estremo è costituito dal campo meta-forico dello «château»; una dialettica che si fa testimone del costante scivolare del suo discorso tra il piano dell’esistenza a quello della metafisica, già che lo «château», il ‘castello’, rappresenta nella sua poesia «le poème comme finalité rêvée, c’est l’inaccessible»498, che «fait allusion aussi à un monde légendaire et mythique»499, il

luogo «où on reconnaîtra le secret»500, dove, infine, «le poète saisira pour un instant l’unité du tout»501. Viceversa l’«homme choisit sa maison pour établir un bon rapport avec la terre et avec les hommes»502, rinvia cioè al dominio della realtà e dell’esistente, più che all’area del possibile, del desiderio. Talora tuttavia le due re-gioni si sovrappongono, tendono l’una all’altra, scambiano i propri attributi, mo-strando in particolare una spiccata vocazione a rappresentare il metapoetico, a dare abito figurativo all’esercizio della scrittura, alla riflessione sulle forme e le finalità

della poesia. È il caso di un testo come J’ai bâti l’idéale maison, dove la «maison» è al

contempo ‘bâtie’ e ‘proférée’, costruita e detta; una sorta di mise en abyme in anticipo sul riconoscimento da parte di Frénaud – nel corso degli anni Cinquanta – della poe-sia come patria d’elezione503, a dispetto della labilità dei luoghi ove si è vissuto, sem-

498 A. Frénaud, Notre inhabileté fatale. Entretiens avec Bernard Pingaud, Paris, Gallimard, 1979, p. 164. 499 Ibid. 500 Ibid. 501 Ivi, p. 165. La citazione è tratta dalla prosa Le château et la quête du poème, datata settembre 1957 e

inclusa in A. Frénaud, Il n’y a pas de paradis, Paris, Gallimard, 1962, p. 291. 502 Id., Notre inhabileté fatale, cit., p. 166. 503 Prendendo spunto dalla poesia Où est mon pays?, cfr. l’analisi di S. Gaubert, Où est mon pays? Pays-

Leonardo Manigrasso, Capitoli autobiografici : poeti che traducono poeti dagli ermetici a Luciano Erba ISBN 978-88-6655-502-5 (online), CC BY-NC-ND 3.0 IT, 2013 Firenze University Press

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pre mutevoli e pertanto irriducibili allo statuto di principi fondatori dell’io e della

memoria (si pensi in questo senso, oltre a Où est mon pays?, anche a un testo come

Qui possède quoi?504, incluso da Caproni nell’antologia delle proprie traduzioni505).

Tra i traduttori italiani di J’ai bâti l’idéale maison spiccano due poeti come Gior-

gio Caproni, che ha incrociato il componimento nella sua versione integrale di Il n’y a pas de paradis, e il milanese Nelo Risi, che invece ha condotto le proprie scelte tra-

duttive sulla base di una più mirata selezione (appena un gruzzolo di testi) sul corpus del poeta francese. Una selezione che secondo Franco Buffoni si inscrive coerente-

mente nella seconda fase della vicenda poetica di Risi, quella che va dal 1961 di Pen-sieri elementari al 1970 di Di certe cose, «caratterizzata da una poesia civile e dotta, limpidissima e epigrammatica»506. Al contempo questo componimento interseca comunque certe rotte iconiche del più tipico repertorio caproniano: la metafora dell’atto poetico come costruzione di una casa, di un edificio, non è infatti estranea alla nozione – così diffusa anche nel suo idioletto critico – di parola come «laterizio» del poeta, nel quadro di una definizione dell’artista come ‘artigiano’ e della riabilita-zione del momento tecnico dell’atto creativo.

Il testo di Frénaud: Je l’ai proférée en pierres sèches ma maison pour que les petits chats y naissent dans ma maison pour que les souris s’y plaisent dans ma maison

poème-épitaphe, in Lire Frénaud, présenté par J. Y. Debreuille, Lyon, Presses Universitaires de Lyon, 1985, pp. 186-187: «Le poème inclut alors, comme on le ferait de citations, des noms et des images –

lieux, moments, sensations – inscrits dans le texte comme dans la mémoire. Lieux-dits, lieux écrits, énumération éclatée, collection de fragments précieux incapable par définition de s’achever sur la décou-

verte d’un lieu fondateur du moi. Au contraire cette liste littéralement interminable menace l’unité de la

personne […]. A ce pluriel “cosmopolite” et coloré du texte cité, aux lieux dont le poème parle, Frénaud oppose alors le poème comme parole. Une réponse paraît enfin trouvée. La patrie du poète c’est sa voix

[…]. Le poète s’est convaincu que son lieu natal est l’écriture, qu’il ne saurait accéder à sa singularité, à sa différence qu’en la faisant advenir, en la tirant au jour, dans sa création». 504 Si trascrive di seguito la traduzione di Caproni di questo testo esemplare dell’impossibilità di raccor-dare l’io e la sua vicenda alla storicità del paesaggio: «Chi possiede, e che cosa, in tutti questi recinti? / Di

chi la montagna investita fino alla vetta, / i muri pazienti, le bionde biade, i mandorli? / È forse tua, pro-prio tua, questa bella tenuta, / la casa, il bacino d’acqua preziosa, / il bimbo che alza un grido sul prato

d’erba? / Ahi, chi potrà trattener fra le mani / i muri che cadono, il fiore immutabile, / le eredità smem-

brate, i pozzi prosciugati? / Delle casate spente chi leggerà più i nomi / sul muschio delle tombe dimenti-cate? / E il vento, le rupi, e la morte, di chi sono? 505 G. Caproni, Quaderno di traduzioni, a cura di E. Testa, prefazione di P. V. Mengaldo, Torino, Einau-di, 1998. 506 F. Buffoni, Introduzione a N. Risi, Compito di francese e d’altre lingue 1943-1993, Milano, Guerini e Associati, 1994, p. 7.

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pour que les pigeons s’y glissent que la mi-heure y mitonne

quand de gros soleils y clignent dans les réduits pour que les enfants y jouent avec personne c’est-à-dire avec le vent chaud les marronniers C’est pour cela qu’il n’y a pas de toit sur ma maison ni de toi ni de moi dans ma maison ni de captifs ni de maîtres ni de raisons ni des statues ni de paupières ni la peur ni des armes ni des larmes ni la religion ni d’arbres ni de gros murs ni rien que pour rire C’est pour cela qu’elle est si bien bâtie ma maison

Questi versi sono inclusi in Passage de la visitation del 1956, dove si raccoglie

una serie di poesie scritte tra il 1946 e il 1950 e poi a loro volta confluite in Il n’y a pas de paradis. All’interno del libretto il componimento faceva parte di un dittico

intitolato L’idéale maison, assieme a una poesia ‘gemella’ come Il y a de quoi dans ma maison507, datata «2 avril 1948». J’ai bâti l’idéale maison è un testo saldamente strut-turato, le cui varie tessere linguistiche e figurative si inscrivono in un intarsio molto rigoroso: entrambe le strofe sono inquadrate da versi di apertura e chiusura che in-corniciano folti versi enumerativi e irregolari, già che – come nota Mengaldo - «spesso in Frénaud la struttura insistentemente iterativa è contrastata dalla massima informalità metrica»508. Nella prima strofa questi cinque versi centrali si aprono con la congiunzione finale «pour que» (tranne che nel v. 5, in cui l’enunciato temporale è introdotto da «quand») e si articolano in due emistichi similari rigidamente distinti

507 Il testo della poesia: «Il y a de quoi boire et de gros biftecks dans ma maison / de quoi rire et de quoi

s’aimer et de quoi pas / de quoi passer sa rage et apaiser son temps / de quoi faire attention et de n’y prendre garde / des fenêtre pour obstruer des portes qui ferment clair / des arbres sans horizon et des

beaux, des bêtes à toutes voix // Il y a place pour des animaux anges dans ma maison / pour des anneaux parfaits pour les rêves qui débordent / pour de petits cœurs du genre soupirs de veau / place pour le feu

et pour la dent des rats / Il y aura place pour nous y étendre». Le correlazioni e interferenze fra i due testi sono esplicite, e si verificano: a) sul versante tematico, ruotando entrambe intorno al motivo della ‘casa’ e

a ciò che in essa viene ospitato; b) sul versante lessicale, visto l'investimento di vocaboli comuni («pier-res», «rire», la declinazione «souris»-«rats»); c) nell’articolazione strofica, dato che entrambe le poesie

sono basate su due brevi strofe di estensione analoga fra loro, rispettivamente di sette versi nel primo

componimento e di sei nel secondo; d) nella tessitura fortemente anaforica e nella segmentazione in due o tre membri di ampie campate di versi. 508 P. V. Mengaldo, Caproni e Sereni: due versioni, in Id., La tradizione del Novecento. Quarta Serie, Tori-no, Bollati-Boringhieri, 2000, p. 211.

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dall’avverbio «y» (che però al v. 4 compare addirittura due volte, scomponendo il

verso in altrettante frasi). La seconda strofa invece scandisce i propri versi centrali in tre parti, introdotte ciascuna dalla congiunzione negativa «ni» (anche qui tuttavia un’eccezione al v. 9). Il dettato fortemente anaforico è irrobustito anche dai versi ‘la-terali’ della seconda strofa, il primo e l’ultimo, che rilanciano in apertura quello stes-so «c’est que» che aveva chiuso la prima stanza; all’anafora fa da contraltare l’uso os-sessivo dell’epifora, già che «ma maison» chiude quasi la metà dei versi (6 su 14), ol-

tre ad aprire entrambe le strofe di Il y a de quoi dans ma maison. Il rigore della trama strutturale agisce come contrappeso all’esilità dello spunto

tematico, cui sono correlativi un’aggettivazione ‘facile’509, del tutto inscrivibile in un registro comune («gros» due volte, «sèches», «petits», «chaud») e in genere un lessico scarsamente determinato in senso letterario. Ecco dunque che in questa cornice, in cui la sintassi è subordinata a un tessuto rigorosamente parallelistico e il dato narra-tivo è smantellato in un movente descrittivo, la successione iconica è largamente de-legata a un criterio sonoro; un criterio che, quasi magmaticamente, si esprime non solo nella declinazione elementare della rima, che pure si attesta copiosamente a supporto dell’epifora (‘mitonne : personne’, ‘maison : raisons : religion’), ma più si-gnificativamente nella produttività dei segmenti fonici: si segnalano trasferimenti di membri sonori come «ni de paupières ni de la peur», «ni des armes ni des larmes», fino al culmine dell’omofonia (‘de toit : de toi’). Un fenomeno, questo, che tra l’altro si infoltisce significativamente in corrispondenza dei passaggi enumerativi del testo, a dimostrazione che il supplemento fonico assolve la funzione di irrobustire i ‘lega-menti’ tra vocaboli là dove le giunture semantiche sono più labili. Ma in ottica gene-

rale l’orizzonte semantico della poesia si struttura molto regolarmente in due parti (concomitanti alla partizione strofica) articolate in successione sui temi dell’affermazione e della negazione, o meglio della presenza e dell’assenza, di inclu-sione e di esclusione.

509 Per quanto riguarda l’aggettivazione praticata nella propria poesia da Frénaud, cfr. F. Rouffiat, Matiè-

re de la langue, in André Frénaud. «La négation exigeante», Colloque de Cerisy (15-21 août 2000), sous la direction de Marie-Claire Bancquart, Paris, Le temps qu’il fait, 2004, pp, 354-355: «Contrairement à la

poésie de ses contemporains, dont la tendance générale est à la concision ou au dénuement volontaire, on trouve chez Frénaud un nombre considérable d’adjectifs. Or ceux-ci ne sont pas par leur registre les

marques ostensibles d’un style poétique. Au contraire, on les dirait prosaïque, témoignant d’un fonds réaliste retravaillé dans le sens d’un primitivisme. On note en effet la forte présence d’adjectifs courts, le

plus souvent monosyllabiques, que l’on peut appeler substantiels. Par leur sémantisme, par l’accent qu’ils

portent, ils marquent, qu’ils soient euphoriques ou dysphoriques, un accord exceptionnel chez Frénaud, car toujours compromis, sans cesse remis en question entre les mots et les choses. Ce sont des adjectifs

tels que “grand”, “gros”, “gras”, “lourd”, “bon” et “beau” exceptionnellement […], “seul”, enfin, puisque,

comme il est déclaré dans Les Rois mages, “je suis seul”».

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Proprio su un testo così saldamente congegnato intorno ai suoi tratti strutturali

e fonici si misurano, con scelte sottilmente diverse, Caproni e Risi. Le due traduzio-ni:

1) Ho costruito la casa ideale di Giorgio Caproni L'ho proferita in pietre asciutte, la mia casa, perché i gattini ci nascano, nella mia casa, perché i sorci ci si trovino, nella mia casa, perché i piccioni vi s'infilino, la controra vi crògioli quando i gran soli vi ammiccano nei cantucci. Perché i bimbi ci giochino con nessuno, voglio dir col vento caldo, con gli ippocastani. Per questo non c'è tetto sulla mia casa, né tu né io nella mia casa, né schiavi, né padroni, né ragioni, né statue, né palpebre, né la paura, né armi, né lacrime, né la religione, né alberi, né spesse mura, né altro che per ridere Per questo è così ben costruita, la mia casa.

2) Ho fabbricato la casa ideale di Nelo Risi

L’ho espressa in pietre secche la mia casa perché vengano al mondo dei mici in casa mia perché i topi si piacciano in casa mia perché i colombi vi s’imbuchino e ci si schiacci il pisolino quando un bel sole grosso ammicca nei cantucci perché i bambini vi giochino con niente come dire col vento caldo e coi castagni Ecco perché nella mia casa non c’è il tetto né te né me nella mia casa né servi né padroni né ragioni né statue né palpebre né timori né lacrime né armi o religione né alberi né spessi muri non c’è posto per nient’altro se non per ridere. Ecco perché è fatta così bene la mia casa.

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Già una prima ricognizione mette in evidenza come Caproni finalizzi la gestione

dei livelli del testo a replicare il più rigorosamente possibile le trame strutturali della poesia-fonte, attraverso il reinvestimento di anafore ed epifore; una mossa, questa, perfettamente allineata alle abitudini traduttive del poeta, già che – secondo Testa – tra le «costanti che informano modalità e principi del tradurre [di Caproni] di asso-luto rilievo è l’adesione alla compagine formale del testo originale»510. Viceversa Risi fa ricorso a un criterio di ‘ripetizione per scarto’ che, sia pure discretamente, rende più mossa, variabile, l’architettura messa a punto da Frénaud. In questa direzione si segnalano: a) la declinazione della formula «la/nella mia casa» – vero e proprio asse iterativo del testo – in «casa mia», con sottile ma decisiva variazione del passo ‘canti-lenante’ invece assunto da Caproni, il quale reinveste questa espressione in tutti le sei occorrenze dell’ipotesto, contro le quattro di Risi (vv. 1, 8, 9, 14); b) la deroga di una delle residue attestazioni di «casa mia» alla sua funzione di epifora, a causa del suo trasferimento nel corpo del verso all’inizio della seconda strofa («Ecco perché nella mia casa non c’è il tetto»); c) l’indebolimento del tessuto parallelistico dei versi cen-trali della prima strofa, tramite la soppressione ai versi 2 e 5 dell’avverbio su cui ruo-ta la segmentazione del verso in membri quasi speculari («perché vengano al mondo dei mici in casa mia», «quando un bel sole grosso ammicca nei cantucci»).

Quest’ultima tendenza della traduzione di Risi si inscrive nella sua generale pro-pensione a ristrutturare il discorso, a scoprirne una sonorità meno disarticolata, una pronuncia più ampia; eloquente in questo senso è il raffronto tra l’opzione per asin-deto adoperata da Caproni per tradurre l’ultimo verso della prima strofa («voglio dir col vento caldo, con gli ippocastani»), in cui il verso è scomposto in due parti da una cesura molto netta sottolineata dalla punteggiatura, rispetto alla scelta di Risi di esplicitare la congiunzione che – anticipando la pausa e per via della sinalefe – attri-

buisce al verso una sorta di maggiore coesione sottolineata, peraltro, dai forti ‘legan-

ti’ fonici in allitterazione («come dire col vento caldo e coi castagni»). Tenendo conto delle peculiarità della scrittura in versi di Caproni, questa poesia

di Frénaud esalta tra tutte la slogatura del dettato, la dizione franta, cui peraltro con-corre (rispetto alla versione di Risi) l’uso abbondante dell’interpunzione che enfatiz-za le frequenti dislocazioni a destra. Altre caratteristiche tipiche del tradurre capro-niano ne risultano viceversa disinnescate; ad esempio la commistione dei registri les-sicali è piuttosto debole, se si eccettua una soluzione fortemente espressiva come «sorci» per «souris», di «cantucci» (peraltro anche di Risi) e di una soluzione più rara

510 E. Testa, Introduzione a G. Caproni, Quaderno di traduzioni, cit., p. XVII.

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Già una prima ricognizione mette in evidenza come Caproni finalizzi la gestione

dei livelli del testo a replicare il più rigorosamente possibile le trame strutturali della poesia-fonte, attraverso il reinvestimento di anafore ed epifore; una mossa, questa, perfettamente allineata alle abitudini traduttive del poeta, già che – secondo Testa – tra le «costanti che informano modalità e principi del tradurre [di Caproni] di asso-luto rilievo è l’adesione alla compagine formale del testo originale»510. Viceversa Risi fa ricorso a un criterio di ‘ripetizione per scarto’ che, sia pure discretamente, rende più mossa, variabile, l’architettura messa a punto da Frénaud. In questa direzione si segnalano: a) la declinazione della formula «la/nella mia casa» – vero e proprio asse iterativo del testo – in «casa mia», con sottile ma decisiva variazione del passo ‘canti-lenante’ invece assunto da Caproni, il quale reinveste questa espressione in tutti le sei occorrenze dell’ipotesto, contro le quattro di Risi (vv. 1, 8, 9, 14); b) la deroga di una delle residue attestazioni di «casa mia» alla sua funzione di epifora, a causa del suo trasferimento nel corpo del verso all’inizio della seconda strofa («Ecco perché nella mia casa non c’è il tetto»); c) l’indebolimento del tessuto parallelistico dei versi cen-trali della prima strofa, tramite la soppressione ai versi 2 e 5 dell’avverbio su cui ruo-ta la segmentazione del verso in membri quasi speculari («perché vengano al mondo dei mici in casa mia», «quando un bel sole grosso ammicca nei cantucci»).

Quest’ultima tendenza della traduzione di Risi si inscrive nella sua generale pro-pensione a ristrutturare il discorso, a scoprirne una sonorità meno disarticolata, una pronuncia più ampia; eloquente in questo senso è il raffronto tra l’opzione per asin-deto adoperata da Caproni per tradurre l’ultimo verso della prima strofa («voglio dir col vento caldo, con gli ippocastani»), in cui il verso è scomposto in due parti da una cesura molto netta sottolineata dalla punteggiatura, rispetto alla scelta di Risi di esplicitare la congiunzione che – anticipando la pausa e per via della sinalefe – attri-

buisce al verso una sorta di maggiore coesione sottolineata, peraltro, dai forti ‘legan-

ti’ fonici in allitterazione («come dire col vento caldo e coi castagni»). Tenendo conto delle peculiarità della scrittura in versi di Caproni, questa poesia

di Frénaud esalta tra tutte la slogatura del dettato, la dizione franta, cui peraltro con-corre (rispetto alla versione di Risi) l’uso abbondante dell’interpunzione che enfatiz-za le frequenti dislocazioni a destra. Altre caratteristiche tipiche del tradurre capro-niano ne risultano viceversa disinnescate; ad esempio la commistione dei registri les-sicali è piuttosto debole, se si eccettua una soluzione fortemente espressiva come «sorci» per «souris», di «cantucci» (peraltro anche di Risi) e di una soluzione più rara

510 E. Testa, Introduzione a G. Caproni, Quaderno di traduzioni, cit., p. XVII.

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(e allitterante) come «la controra vi crògioli»; al contrario, Risi ricorre generosamen-

te a espressioni più popolari come «vengano al mondo» per «y naissent», il forte-mente parafrastico «schiaccino il pisolino» per «la mi-heure y mitonne», e più de-bolmente «fatta così bene» per «elle est si bien bâtie» (rispetto al meno generico «co-struita» caproniano). Analogamente Risi investe forme di registro più popolare nei casi di «mici» rispetto a «gattini», di «castagni» rispetto a «ippocastani», di «espres-sa» anziché «proferita»; come norma generale si può pertanto asserire che i registri lessicali non divergano ‘in altezza’ o su un piano qualitativo, ma piuttosto nella fre-quenza con cui certe punte estrinseche al livello medio-discorsivo del testo si accam-pano nelle rispettive traduzioni.

Il livello medio con punte popolari della traduzione di Risi non contraddice però la ricerca di una partitura più intensamente musicale (soprattutto in punti nevralgici del testo), poiché la foltissima trama di legamenti fonici messa a punto da Frénaud viene evocata dal poeta forse con più costanza rispetto a Caproni. In Caproni infatti, al di là di richiami fonici quasi ‘obbligati’ («né palpebre, né la paura, / né armi, né lacrime», la serie ‘padroni : ragioni : religione’, cui aggiungere però la rima ‘paura : mura’) allestisce una sola sequenza che possa dirsi fortemente coesa: è il caso della già citata partitura allitterante con rima visiva (e peraltro interna al verso) tra

«crògioli» e «soli» («la controra vi crògioli / quando i gran soli vi ammiccano nei cantucci»). Nelo Risi invece, pur nell’impossibilità di replicare la generatività ‘surrea-lista’ dei segmenti fonici sfruttata da Frénaud, articola una tessitura sonora più fitta, in cui spicca una sequenza trasversale alla prima strofa tra «mici» → «piacciano» → «schiacci» → «cantucci», cui aggiungere poco dopo almeno la coppia ‘niente : ven-

to’511. Ma è la sequenza enumerativa della seconda strofa che stimola nei due traduttori

una più sottile ricerca ‘musicale’; in questa circostanza infatti entrambi i poeti met-

511 Non è forse irrilevante segnalare come la produttività delle unità sonore sul piano iconico e semantico

di una poesia sia un fenomeno tutt’altro che ignoto alla scrittura di Risi. Si veda in questo senso l’analisi

condotta da Silvio Ramat su un passo di Dans le plâtre di Polso teso nel saggio dal titolo Nelo Risi dans le

plâtre, in S. Ramat, Particolari. Undici letture novecentesche, Milano, Mursia, 1992, p. 169: «E i puntini sui quali, al terzo verso, la premessa-didascalia resta in sospeso possono effettivamente sottintendere –

lasciare quindi nel sottinteso – quell’appello oscuro al poeta della Saison en enfer (sulla cui vita, nel ’71, proprio Risi avrebbe girato un film), una sorta di solidale terrore che cede sull’apice di languorosa dol-

cezza di un’“ora” della giornata e di una parola (“magnolia”) la quale, più che scòrta dei sensi, sembra spuntare per combinatoria alchimia verbale da un intreccio ineluttabile delle sovrastanti “Marsiglia” e

“spagnole” (un po’ come, tra i vv. 12-15, “getto” susciterà “sesso”, e anzi “sesso / d’osso” per il tramite di

un vocabolo nascosto, “gesso”, non pronunciato nella nostra lingua, però suggerito fin da principio nel suo corrispondente francese “plâtre”)».

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tono a punto una sorta di falsa quartina, articolata sul sistema di rime (o quasi rime,

l’ultima interna) riconducibile a una struttura ABAB:

1. Giorgio Caproni: né schiavi, né padroni, né ragioni,

né statue, né palpebre, né la paura,

né armi, né lacrime, né la religione,

né alberi, né spesse mura

2. Nelo Risi: né servi né padroni né ragioni

né statue né palpebre né timori

né lacrime né armi o religione

né alberi né spessi muri Ma se le pseudo-architetture strofiche delle due traduzioni sono dunque sovrap-

ponibili, ancora una volta Caproni tende a replicare più rigorosamente le disposizio-ni strutturali di Frénaud e a indebolirne le qualità musicali, puntando su una tessitu-ra metrica e ritmica irregolare; mentre Risi scommette proprio sulle potenzialità me-lodiche del testo, mettendo a punto una trama principalmente endecasillabica che ne esalta la vocalità avvalendosi di espedienti come: a) la soppressione degli articoli – che in Caproni assolvono a una funzione ‘rallentante’ del dettato, come d’altronde il dittongo ‘au’ di paura –; b) la conversione dell’ultimo «né» in «o» al v. 12, con conse-guente sinalefe; c) l’inversione delle posizioni tra «lacrime» e «armi» rispetto al testo francese, con anticipazione dello sdrucciolo che marca il verso in discesa; d) l’assonanza tra «ragioni» e «timori», oltre alla consonanza tra «ragioni» e «religione».

Forse è proprio questo il punto in cui si misura lo scarto più tangibile tra il rigo-re strutturale e la slogatura dell’enunciato praticati da Caproni, e l’immissione da parte di Risi nel tessuto iterativo di Frénaud di una dizione più ampia che fa da sponda a quella sorta di ‘emergenza’ musicale in cui dovrebbe esprimersi il tratto pe-culiare di questo poeta, ossia «la forza e la novità dei suoi versi, di un disordine appa-rente, quasi un’ubriacatura del linguaggio, di parole che fanno irruzione con impa-zienza, mosse da una energia interna, vulcanica»512.

2. Le quattro traduzioni di Risi da poesie di Frénaud incluse nella sua antologia

sono tutte prelevate da una sola sezione di Il n’y a pas de paradis dal titolo Passage de la visitation; una sezione tuttavia che accoglie e organizza testi che prendono avvio

da occasioni e spunti anche molto eterogenei: è il caso esemplare, dopo la metafora

512 N. Risi, Compito di francese e d’altre lingue, cit., p. 85.

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metapoetica della «maison», del Frénaud ‘fuori di casa’ di Espagne. Il componimen-

to, tratto dalla sottosezione Lieux d’approche:

Râpée et rose, toute mouchetée d’yeuses maigres et le sang invisible sous la craie blanche qui criait, comme une jument pleine de force vaine, et pleine d’un squelette pétrifié. Rien, Espagne, rien que mille chiens errants parmi les ânes, partout, petits amis vaillants. Je les bâterais avec dedans ma grande âme vaine, tous nos malheurs, fardeaux si minuscules, au bord du blason énorme sur la tour, vaniteux de la gloire.

L’ânon rêve d’un mieux-être, pensif, et le petit garçon,

cul-nu sur la croupe regarde, entre ses doigts à travers le vert violent. Rien. Tu dors, figée parmi les blasons gladiolés des parcours anciens. Et les charrues passent par les sillons, les araires d’un creusement révolu. Les châteaux se dressent, squelettes d’aigles, parmi le vert violent et la pierre. L’aire où l’on bat le blé insuffisant resplendit à Zamarramala, vaine. Les bœufs noirs conduisent les chars de foin. Au soir les troupeaux moutonnent sur les berges, ils entrent dans l’eau, dans la ville. La vie. . Et rien, Espagne, rien. Honneur et mourir.

Il testo si presenta in modo vistosamente diverso da J’ai bâti l’idéale maison; l’«irruption des mots» tipica di tanta poesia di Frénaud sembra in parte defilarsi dal-

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le strategie stilistiche di un testo ampiamente discorsivo, che smantella la precedente

partitura fondata sulla congruenza tra frase e verso per dare vita a un periodare mol-to inarcato. Stando a questi esempi è possibile ipotizzare che là dove un contenuto vitalistico e il continuo rilancio dei segmenti fonici impone come compensazione una saldissima griglia strutturale entro cui questi fenomeni possano inscriversi, in

un testo come Espagne l’espressione sul livello semantico di un universo immobile e ‘stagnante’ può invece dilatarsi (ma con eccezioni) in una intelaiatura sintattica e versale molto più duttile. Nondimeno, benché i rapporti tra la dizione e la sua confi-

gurazione formale siano così sfasati tra le due poesie, anche Espagne tende a artico-larsi sulla ricorsività di alcuni membri fonici disseminati nel testo; la differenza sta

nel fatto che in Espagne non si assiste (se non per eccezioni) a una ‘staffetta’ tra unità sonore continuamente rilanciate, quanto piuttosto al ramificare nella poesia di uno-due segmenti facenti capo a vere e proprie parole-chiave che scandiscono il registro del componimento permeandone le strutture foniche: la fitta tessitura delle nasali che attraversa il testo sembra infatti diramare dai due termini – così incandescenti sul piano semantico – di maggior frequenza, cioè «rien» (cinque attestazioni) e «vai-

ne» (tre). Si vedano appunto le seguenti serie, che si costituiscono quasi alla stregua di ‘assi’ foniche su cui si struttura la trama sonora del componimento:

1) «pleine» (x2) → «vaine» (x3) 2) «rien» (x5) → «chiens» → «anciens» → «foin» 3) «blason» (x2) → «ânon» → «garçon» → «sillons» 4) «sang» → «errants» → «vaillants» → «violents» → «dedans» → «insuffisant» → «creusement» Nelle spire di questa strategia tatutologica, che privilegia la serialità sulla decli-

nazione, converge l’espressione di quell’universo inalterabile, fatalmente in oscilla-zione tra il nulla e l’inutilità, che imposta i predominanti sistemi di senso di questa poesia. Un’immobilità – non priva di risonanze funebri («Honneur et mourir») – che sul piano tematico è trascritta in numerosi dati figurativi e linguistici, come nell’iterata attestazione di «squelette», nel duplice ricorso all’area semantica della pietra («pietrifié», «pierre»), nella ‘vanità’ della forza delle giumente, nella scarsità del grano, e più in generale in un paesaggio evacuato da figure umane, a eccezione del «petit garçon» a dorso di mulo che non detiene in alcun modo una posizione di privilegio nella cornice di animali domestici o da fattoria rappresentati (somari, cani, buoi, mucche); anzi, la sua nudità per certi versi uniforma la sua condizione a uno statuto animale, coinvolgendolo nel medesimo destino di lavoro, fatica e necessità. Inoltre, un particolare spessore metaforico è assunto dal movimento pendolare dell’aratro, destinato a ripercorrere infinitamente i medesimi solchi di una natura

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stremata, al di fuori di qualsiasi perimetro di senso che ne legittimi l’esistenza o la

funzione, se non la replica meccanica di un rituale arcaico quanto inderogabile: un imperativo la cui tassatività è sanzionata stilisticamente dal dettato perentorio, itera-tivo e nominale su cui si chiude il componimento.

Le traduzioni di Caproni e Risi:

1) Spagna di Giorgio Caproni Frusta e rosea, tutta maculata di magri lecci, e il sangue invisibile sotto la bianca creta che gridava. Come una giumenta piena di vana forza, e piena d'un pietrificato scheletro. Nulla, Spagna, nulla se non mille cani randagi fra gli asini, dappertutto, piccoli intrepidi amici. Li imbastirò con dentro la mia grande anima vana, tutti i nostri mali, fardelli così minuscoli, intorno al blasone enorme sulla torre, vanitoso della propria gloria. Il ciuchino sogna vita migliore, assorto,

e il ragazzetto in groppa col culetto fuori guarda di fra le dita per il verde violento. Nulla. Tu dormi, intostita fra i blasoni degli antichi percorsi. E gli aratri passano pei solchi, gli aratri semplici d'un revoluto scavo. S'ergono i castelli, scheletri d'aquile, tra il verde violento, il sasso. L'aia dove si batte il grano insufficiente risplende a Zamarramala, vana. I bovi neri tirano i carri di fieno. A sera le greggi mareggiano sulle prode, entrano nell'acqua, nella città. La vita.

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E nulla, Spagna, nulla. Onore e morire.

2) Spagna di Nelo Risi Rosea e consunta, macchiata tutta di magri lecci, di un sangue invisibile sotto la biacca che gridava, in tutto simile a una giumenta pregna di vana forza, piena d’uno scheletro di pietra. Nada, Spagna, nient’altro che una muta di cani randagi tra gli asini un po’ dovunque, compagni piccoli e validi. Io li vorrei imbastare ficcandoci dentro la mia grossa anima vana con tutte le nostre disgrazie (fardelli così lievi!) attorno al blasone enorme, là, sulla torre tronfio di gloria. L’asinello che sogna pensa al meglio e il bimbetto in groppa a culo nudo lascia che gli fili via tra le dita il verde intenso che traguarda. Nada.

Tu dormi, scolpita nei blasoni gladiolati dei tuoi antichi giorni. E gli aratri vanno su e giù da solco a solco i vomeri degli scavi d’un tempo. Carcasse d’aquile, i castelli alti tra il verde intenso e la pietra. L’aia dove si batte il poco grano splende vana, a Zamarramala. Dei buoi neri tirano i carri di fieno. Le mandrie a sera sciamano lungo gli argini entrano nell’acqua, nella città. La vita. E nada, Spagna, nada. Onore e morire.

Nonostante la grande diversità strutturale tra Espagne e J’ai bâti l’idéale maison, uno sguardo d’insieme testimonia il persistere di alcune tendenze generali nei due

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traduttori. In primo luogo il lessico di Caproni sembra includere ancora punte più

elevate, rispetto alla predilezione più sistematica di Risi per vocaboli estratti da un registro medio513: «râpée» / «frusto» / «consunto»; «mouchetée» / «maculata» / «macchiata»; «berges» / «prode» / «argini»; «revolu» / «revoluto» / «d’un tempo». Un’importante eccezione a questa norma è la scelta di «gladiolati» di Risi a tradurre il «gladiolés» di Frénaud, lasciato cadere invece da Caproni nella sua traduzione; ma

l’adozione di termini più rari da parte del poeta di Il passaggio di Enea ha lo scopo – come d’altronde gli è consueto514 – di accordare il dettato (più che a un tono alto) a un universo lessicale molto mosso ed eterogeneo, che non esita a lasciare interferire questi registri selettivi con forme o espressioni di estrazione più popolari o arcaiche o toscane come «bovi» o «di fra le dita».

In secondo luogo, come nel componimento precedente, Caproni si mantiene prossimo all’architettura del testo di Frénaud, non introducendovi inarcature sup-plementari né intervenendo sulla partizione strofica; al contrario, Risi si muove con molta più libertà lungo la poesia, ad esempio attraverso la redistribuzione sul metro dei materiali della frase ai vv. 8-10, in cui in particolare il verso «parmi les ânes, par-tout, petits amis vaillants» è ripartito con il verso precedente (a cui Risi riaggancia il sintagma «tra gli asini») e con il successivo, cui sono demandati gli attributi «piccoli e validi». Viceversa, nella seconda strofa Risi accorpa due versi come «et le petit ga-rçon, / cul-nu sur la croupe regarde» in «e il bimbetto in groppa a culo nudo» (ri-mandando il solo «traguarda» al verso seguente); da questi trattamenti del verso de-rivano, rispettivamente, un allungamento e una scorciatura delle prime due strofe. Ma nel quadro di questa inclinazione di Risi a intervenire sui dati strutturali del testo

fonte, si potrebbe mettere a referto anche la coniazione ex novo di una rottura tra frase e metro come «dei buoi neri / tirano i carri di fieno».

Questa maggiore disponibilità alla riformulazione dell’‘intelaiatura’ dell’ipotesto è solo una declinazione di una tendenza più generale di Risi traduttore; in effetti il

513 Le sequenze lessicali successive presentano in prima posizione l’attestazione frénaudiana, e di seguito rispettivamente le traduzioni di Caproni e Risi. 514 Cfr. ancora P. V. Mengaldo, Caproni e Sereni: due versioni, cit., p. 212, relativamente alla trama lessi-

cale della traduzione di Bord de la mer et schistes à Collioure di Frénaud, rispetto a quella messa a punto

da Sergio Solmi: «Al v. 2 sembra essere Caproni ad aulicizzare di più: crinita contro chiomata, e soprat-

tutto, contro spessore, densore, che stando al Battaglia è inesistente in italiano e io interpreterei semmai

come uno pseudofrancesismo (il francese non ha denseur). Ma non credo si tratti di scelta letteraria: cri-nita è ancora una volta più mosso e irregolare, meno statico-neoclassico di chiomata, e soprattutto

l’ardito astratto densore, col suo sapore arcaico, rafforza il senso di compattezza secolare della materia e di rocciosità metafisica che percorre il testo di Frénaud».

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poeta lombardo agisce in modo tangibile, molto più spesso di Caproni, anche su altri

piani:

• sull’organizzazione della frase, nel momento in cui non esita a enfatizzare un mo-dulo appositivo in una parentetica esclamativa - «tous nos malheurs, fardeaux si mi-nuscules» → «con tutte le nostre disgrazie (fardelli così lievi!) – sia nell’allestire un enunciato nominale in contraddizione con la discorsività descrittiva dell’ipotesto («Les châteaux se dressent, squelettes d’aigles, / parmi le vert violent et la pierre» → «Carcasse d’aquile, i castelli alti / tra il verde intenso e la pietra»). In entrambi i casi invece Caproni si mantiene in linea al dettato di Frénaud: «tutti i nostri mali, fardelli così minuscoli» e «S’ergono i castelli, scheletri d’aquile / tra il verde violento, il sas-so», appena introducendo una congiunzione per asindeto.

• sul piano metaforico, laddove Frénaud si serve di una metafora equorea per desi-

gnare il passaggio serale delle mandrie («Au soir / les troupeaux moutonnent sur les berges»), regolarmente recuperata da Caproni («A sera, le greggi mareggiano sulle prode»), e invece declinata da Risi sulla base dell’area iconica della ‘sciamare’ («Le mandrie / a sera sciamano lungo gli argini»); analogamente Risi preferisce ‘discipli-nare’ i «mille chiens» di Frénaud (che restano «mille cani» nella traduzione di Ca-proni) correggendoli in «una muta di cani».

• su un piano che potremmo definire di prospettiva della narrazione, nel caso in cui

Risi capovolge il dato implicitamente narrativo del «petit garçon» che «regarde, / en-tre ses doigts / à travers le vert violent» in una condizione di maggiore passività in cui il «bimbetto […] lascia che gli fili via tra le dita / il verde intenso che traguarda». Un rovesciamento prospettico dunque del tutto estraneo a Caproni, che – anche in questo caso – si mantiene nel solco dell’immagine frénaudiana («il ragazzetto […] guarda / di fra le dita / per il verde violento»).

• sul versante lessicale, già che Risi ricorre molto più frequentemente a una più o meno forte escursione semantica (con il caso esemplare del calco fonico di «vail-lants» con «validi», anziché il più corretto «intrepidi» caproniano). Gli altri casi più eclatanti si possono riassumere come segue (facendo ancora seguire al termine fré-

naudiano prima la proposta di Caproni, poi quella di Risi): «craie blanche» / «bianca

creta» / «biacca»; «pleine» / «piena» / «pregna»; «minuscules» / «minuscoli» / «lievi»; «vaniteux» / «vanitoso» / «tronfio»; «squelletes» / «scheletri» / «carcasse»; «insuffi-sant» / «insufficiente» / «poco». Il dato più clamoroso rimane tuttavia la scelta di Risi di servirsi dello spagnolo «Nada» per tradurre quel «rien» che, si è visto, imposta i sistemi tematici e fonici del testo.

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Siamo allora in presenza di due tattiche traduttive radicalmente diverse, che affi-dano a principi stilistici ben particolari la funzione di accogliere, e – per quanto pos-sibile – rilanciare, l’intenzione semantica dell’ipotesto. In questa nuova organizza-zione gerarchica, solo marginalmente i due poeti puntano a trascrivere nei nuovi componimenti la trama fonica di Frénaud. La sola rima messa a punto da Caproni infatti è quella tra «ragazzetto» e «culetto», mentre si segnalano consonanze e allitte-razioni interne tra «nulla» e «mille», «greggi» e «mareggiano», o il rintocco dell’accento sulla vocale ‘e’ nell’attestazione «insufficiente / risplende»; un po’ più folta l’intelaiatura della traduzione di Risi – sia pure in nulla simile a quella sorta di ‘ingorgo’ o paralisi fonica che è nel testo di Frénaud – grazie ad espedienti come il richiamo sdrucciolo tra «simile» e «invisibile», l’allitterazione (che trascrive la len-tezza del transito dei buoi) di «a sera sciamano», la ripercussione quasi schioccante tra «macchiata» e «biacca», le sequenze intensamente allitteranti di «via tra le dita / il verde intenso che traguarda. Nada», oppure «attorno al blasone enorme, là, sulla tor-re / tronfio di gloria». Interessante poi, sempre in Risi, è la triangolazione fra «pie-na», «scheletro» e «pietra», in cui l’ultimo sema si costituisce come fusione di mem-bri fonici prelevati dai primi due («piena di uno scheletro di pietra»); un simile ‘gio-co di sponda’ tuttavia si trova anche in Caproni, che però ne indebolisce le corri-spondenze interne tramite un’attestazione come «pietrificato», che riassimila nel corpo della parola (ossia in una posizione strategicamente meno rilevante rispetto a quella finale) il nesso immediatamente rilanciato da «scheletro» («e piena d'un pie-trificato scheletro»).

Se la dilatazione e quasi la voluta prolissità di poche unità sonore viene di fatto

disinnescata nel suo movimento a spirale, l’orizzonte di significati di Espagne viene

dislocato dai due traduttori su altri livelli. Caproni opta per una soluzione del tutto estranea alle sistematiche ‘variazioni’ di Risi, enfatizzando – tra le caratteristiche pe-

culiari del dettato di Frénaud – la sua intrinseca iteratività. In Espagne la stagnazione dei segmenti fonici si accompagna al tornare di Frénaud, a breve o lunga distanza, sui medesimi vocaboli e sintagmi (oltre ai già citati «rien», «vaine», «pleine», «sque-lette»…, si segnalano anche «Espagne», che recupera due volte nel testo il titolo del componimento, e «vert violent»). In questo senso Caproni non solo accoglie piena-mente questo criterio iterativo, ma addirittura lo rilancia investendone un’ulteriore attestazione; le ripetizioni infatti non solo fanno capo a «nulla» (cinque volte), «va-na» (tre volte»), «blasone/i», «scheletro/i», «piena», «verde violento», ma uniforma-no anche la coppia frénaudiana tra «charrues» e «araires» (un tipo di aratro arcaico, quasi primitivo, «semplice», appunto) facendola convergere sotto l’unica attestazio-ne di «aratri».

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Per contro Risi smantella, fin dove è possibile, la tessitura iterativa del poesia, in-

troducendo al posto dei parallelismi linguistici coppie lessicali come «pre-gna»/«piena», «nada»/«nient’altro», «aratri»/«vomeri», «scheletro»/«carcas-se». I suoi interventi ‘compensativi’ agiscono piuttosto su altri livelli, con particolare rife-rimento all’ordine semantico del testo. La tattica traduttiva di Risi culmina in tal sen-so su due punti decisivi: la dilatazione (ma con effetto statico) dello spessore tempo-rale da un lato e dall’altro la radicalizzazione del contrasto tra la passività del paesag-gio e l’io del poeta che sotterraneamente se ne dissocia. Il primo punto fa capo in particolare alla seconda strofa, là dove il poeta: a) disloca un dato iconico dal piano condiviso dello spazio e del tempo a quello unicamente del tempo (per cui i «par-cours anciens» diventano gli «antichi giorni»); b) risolve la possibile ‘ambiguità’ se-mantica di «creusement revolu», espressione che assimila due significati inscrivibili da una parte nella dichiarazione della ritualità antica del gesto (o almeno della sua ripetitività) e dall’altra nell’allusione al ritornare, al rinvenire su se stessi dei solchi dissodati; mentre Caproni decide di mantenere la duplicità della formula investendo una espressione rara come «revoluto scavo» e delegando all’iterazione di «aratri» il senso di un ritorno, e quasi di un avvolgersi del percorso dei «charrues», Risi smem-bra questa espressione nelle sue componenti evocando prima il cammino «su e giù da solco a solco» degli aratri, e poi privilegiandone (anche per la posizione strategica in fine di strofa) il fattore più propriamente temporale traducendo «scavi d’un tem-po». Ne deriva una sottile ma sostanziale modifica dell’assetto metaforico del testo, già che il rapporto frénaudiano tra l’inerzia della natura (estrinseca) e l’immutabilità

del tempo (tendenzialmente implicita) su cui si regge il ‘paesaggismo’ di Espagne

viene scomposto e ricombinato in termini più esibiti; si realizza in questo modo una sorta di transito, per così dire, da una rappresentazione (prevalentemente) orizzon-tale e metaforica a un discorso più verticale e non-mediato: quindi più tangibile nel suo portato diacronico.

Il secondo intervento di Risi presuppone innanzitutto un’attenuazione dei con-trasti tonali del paesaggio, secondo la stessa intenzione semantica che aveva presie-duto al rovesciamento prospettico messo in atto nella seconda strofa e volto a enfa-tizzare la condizione, lo statuto di passività del «petit garçon»; una linea traduttiva, questa, che si esprime segnatamente sul piano dell’aggettivazione, in rapporto alla quale Risi tende a agire in senso ‘depressivo’, indebolendo la plasticità degli attributi che eccedono dal registro medio del testo. È infatti il caso della traduzione di «minu-scules» con «lievi», e soprattutto – perché relativa alla connotazione del paesaggio – della doppia resa di «vert violent» con un più ‘contemplativo’ «verde intenso». Un ideale riallineamento del paesaggio all’universo semantico della poesia (con i suoi caratteri di inerzia, indolenza, fatalità) funzionale a innescare più drammaticamente lo stato di conflittualità del soggetto nei suoi confronti; uno stato, o meglio l’augurio

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di un intervento attivo su questa natura refrattaria sotterraneamente dichiarato dal

poeta quando scriveva: «Je les bâterais avec dedans ma grande âme vaine / tous nos malheurs, fardeaux si minuscules». Dunque l’intenzione ottativa di Frénaud si tra-duce in Risi in un gesto di rottura e quasi di liberazione, se incorniciato nella sfini-tezza e immobilità del circostante (nella traduzione ancor più che nell’ipotesto), col ricorso a un verbo di movimento espressivo – e di una plasticità quasi popolare – come «ficcare», che trascrive la volontà (effimera) dell’io di sovvertire il ‘nulla’ che sovrasta i rituali svuotati di una Spagna che anche sotto un profilo puramente verba-le potrebbe definirsi ‘sotto assedio’ («Rien, Espagne, rien»): «Io li vorrei / imbastare ficcandoci dentro la mia grossa anima vana / con tutte le nostre disgrazie (fardelli così lievi!)»; in questo gesto converge forse il desiderio di dare rilievo all’esile partitu-ra dialettica dell’opera, evocata da Frénaud – al di sotto del torpore del paesaggio – nel «sang invisible / sous la craie blanche qui criait». È un’irruzione del soggetto nelle trame narrative della poesia che, per quanto precaria, è subito irrobustita da Risi tramite l’investimento di un avverbio di luogo come «là», che stipula un rapporto esplicito di lontananza tra la funzione-io (a questo modo implicitamente riconvocata a livello ‘diegetico’) e il «blasone enorme, là, sulla torre / tronfio di gloria»; forse un inclusione dell’io – ma per stacco o chiaroscuro – che trascrive livello testuale il dra-stico dissociarsi del poeta – ancor più radicale di quanto non accada in Frénaud – dall’immobilismo (anche politico?) in cui affonda la Spagna del dopoguerra.

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Luciano Erba o della traduzione scalata. Su Les canaux de Milan di

Frénaud (e Caproni)

1. Nell’ambito delle versioni d’autore, il rapporto che idealmente si instaura fra l’insieme dei versi tradotti e i testi ‘originali’ di ciascun poeta può essere molto varia-bile. Un ampio spettro di possibilità che può essere accertato, e reso quasi esemplare, su due poeti-traduttori d’eccezione del nostro Novecento: da una parte Giorgio Ca-proni – che forse contende a Sereni e Fortini il primato per numero e qualità degli

affondi critici dedicati al corpus delle proprie versioni – e dall’altra un traduttore

quanto meno anomalo come Luciano Erba. Può dirsi anomalo, Erba, nella misura in cui mira a collocare le proprie versioni – quasi sradicandone i legami con l’attività e le opere circostanti – al di sopra delle ‘negoziazioni’ fra traduttore e tradotto, per ri-

cavare loro uno spazio di sostanziale autonomia in quanto «tertium (infine

datur!)»515; dichiarazione di ‘terzietà’ del tradurre (ed extraterritorialità, almeno pre-sunta) che beninteso si inscrive nell’ambito di non troppo dissimulati fini polemici contro l’invadenza, «la colonizzazione di certa linguistica»516. Si tratta di una posi-zione che stabilisce una distanza tangibile dalla politica al contrario ‘inclusiva’ di Ca-proni, che nei suoi scritti sulla traduzione dichiarava di non concepire alcuna diffe-renza di rango fra le varie declinazioni della propria attività in versi517. Ecco allora che se Caproni agisce sul filo di un sottilissimo bilancio tra l’immissione di propri materiali stilistici e l’obiettivo di trasferire nel nuovo codice linguistico le strategie formali e di senso dell’ipotesto, Erba predilige invece il momento antitetico, con-traddittorio del tradurre, configurando il testo finale nei termini dell’alterità (sia al

515 L. Erba, Dei cristalli naturali e altri versi tradotti, Milano, Guerini e Associati, 1991, p. 9. 516 Ivi, p. 8. 517 G. Caproni, Divagazioni sul tradurre, in Id., La scatola nera, Milano, Garzanti, 1996, p. 60: «Invero,

non ho mai fatto differenza, o posto gerarchie di nobiltà, tra il mio scrivere in proprio e quell’atto che, comunemente, vien chiamato il tradurre. In entrambi i casi, per quanto mi concerne, si tratta soltanto di

cercar di esprimere me stesso nel modo migliore: nel cercar di far bene qualcosa che valga a esprimer

bene quanto ho in animo. L’impegno, per me, resta in entrambi i casi il medesimo e di egual natura, e di diverso non vedo in essi che l’impulso, il movente».

Leonardo Manigrasso, Capitoli autobiografici : poeti che traducono poeti dagli ermetici a Luciano Erba ISBN 978-88-6655-502-5 (online), CC BY-NC-ND 3.0 IT, 2013 Firenze University Press

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testo fonte che alla propria poetica), intendendo questa alterità non come tributo

scontato fatalmente dal passaggio traduttivo (e quindi, a suo modo, limite implicito all’atto stesso), ma come identità stabilita a livello ‘intenzionale’, programmatico, prima ancora che empirico.

In effetti pochi traduttori disattendono le aspettative del lettore con l’assiduità di Erba, che fa dell’infrazione, della deroga, dell’inottemperanza, i criteri normativi del-le proprie traduzioni. Basta scorrerne infatti la distillata rassegna per accertare la continua revoca ai testi di quella trama di compensazioni e risarcimenti che costitui-scono forse il più arduo banco di prova di un traduttore. Piuttosto il vero criterio strutturale è da rintracciarsi in una sorta di procedimento traduttivo per scarto, per sistematica variazione, a quasi tutti i livelli, delle relazioni testuali. Scarto metrico, strofico, lessicale, iconico, semantico, come se il componimento preso in esame rap-presentasse più un capitale di materiali linguistici e di spunti figurativi da smontare e ricombinare secondo una logica quasi indipendente – riconducendo l’ipotesto quasi alla stregua di un canovaccio, insomma – piuttosto che il punto di partenza di un’operazione dotata di un proprio ‘rigore traduttivo’, orchestrato nell’ambito di una complessa tattica di licenze e contrappesi.

L’unico esemplare che permette il confronto diretto tra la riscrittura ‘per scarto’ di Erba e le abitudini traduttive di Caproni – abilissimo nel dislocare le riserve di

senso originarie su nuove interazioni fra gli ‘strati’ del testo – è Les canaux de Milan di André Frénaud518. Il componimento, datato «Milano 16 settembre 1956», è inclu-

so all’interno della brevissima sezione Amour d’Italie nella raccolta Il n’y a pas de pa-radis, uscita da Gallimard nel 1962. La poesia fu innanzitutto tradotta da Erba, come contributo all’omaggio collettivo a Frénaud stampato da Scheiwiller nel 1964; una collocazione, questa, che ne rende indiscutibile la conoscenza da parte di Caproni, anch’egli tra i protagonisti dell’iniziativa promossa dell’editore milanese. E tuttavia, data l’estrema difformità dei due lavori, si tratta di una cognizione che di fatto non influisce in alcun modo sulla successiva traduzione di Caproni, pubblicata a pochi

anni di distanza in Non c’è paradiso del 1971.

518 La poesia di Frénaud è presa a paradigma dell’attività traduttiva ‘infedele’ di Erba da Giuseppe Sanso-ne nel dibattito tra gli stessi Erba e Sansone con Piero Bigongiari, Emilio Mattioli e Mauro Iannotti tra-

scritto in L. Erba, Traduzione come in bricolage, in F. Buffoni (a cura di), La traduzione del testo poetico, Milano, Marcos y Marcos, 2004, p. 142: «A proposito di quello che ha detto Erba, ho la sensazione che si

tocchi un punto estremo del codice traduttivo, o della varietà traduttiva. Io non so se tu ami particolar-mente Frénaud, ma lo volevi o lo dovevi tradurre, e così hai fatto poesie di Luciano Erba, su idee di Fré-

naud, che non hanno niente a che vedere con il testo. Il risultato è magnifico e io ti confesso che è molto

più bello il tuo testo di quello di Frénaud. Soltanto che siamo in una punta estrema della “bella infedele”, se vogliamo metterla sotto una etichetta».

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Di seguito, il componimento di Frénaud519, dedicato a Elio e Ginetta Vittorini:

Gentil dimanche quotidien au bord de l’eau d’un ancien quartier encore émergeant, île de calme si loin de toi, Milan, parmi ta clameur.

Naviglio grande où de larges dalles longent l’eau limoneuse,

le goudron flottant jusqu’auprès de San Gottardo. Eau douce oubliée par le temps et les édiles, négoce amoindri, navires porteurs de sable gris et de pierres. Le pavement menu, les lavandières qui frappent fort, le battement léger du linge parmi l’air pâle, et les gamins qui se poursuivent sur l’eau sale comme des enfants-dieux Débonnaire dans les jardins, la trattoria ,

avec le jeu de boules et les petits musiciens sous la treille, la table aux pieds épais, le vin rouge dans les gros verres, les persiennes au-dessus de la galerie, les lauriers. La lumière et l’ombre également enjouées sur le balcon strict où s’accroche le soleil jaune au soir et disparaît.

Ticinese, Ticinese. Tous les chinois travaillent aujourd’hui dans les bureaux.

Ils détruiront tout, Ettore Mezzo. Le néon anéantira la clarté antique de l’huile.

519 Si trascrive in questa sede il testo su cui lavora Caproni dopo il reintegro della punteggiatura operato

da Frénaud. Erba infatti traduce il componimento nella sua redazione priva di interpunzione - a parte il

punto fermo finale – così come si presenta in Il n’y a pas de paradis. Unica ulteriore difformità, la con-

servazione in Erba di «travaillent» dal v. 23 alla chiusura del precedente: «Ticinese Ticinese Tous le chi-nois travaillent / aujourd’hui dans les bureaux». Si segnala tuttavia anche il v. 13, dove al posto di «sur

l’eau sale» il testo riportato da Erba, stavolta in difformità da Frénaud, presenta la forma «dans l’eau sa-le».

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Et les autocars vrombiront sur l’autostrade,

où fut autrefois le flot de l’eau étale coulant pour la simple gaieté devant ses maisons, du petit peuple travailleur. Presentato con il sottotitolo di «aquarelle», il testo si articola su cinque strofe di

composizione irregolare, così come molto eterogenea è la tastiera metrica messa a punto da Frénaud, fedele alle consuete tessiture ‘prosastiche’ della sua poesia. Il di-scorso è intonato a un registro spesso esclamativo, ascrivibile all’affollarsi di annota-zioni nominali che passano in rassegna gli elementi del paesaggio su cui si appunta lo sguardo del poeta. Un’esclamatività, del resto, funzionale a quell’intento elegiaco dominante sui toni da idillio che si affermano da principio negli affabili scorci tra-scritti dal poeta; l’ultima strofa del testo invece è responsabile di una sorta di capo-volgimento nelle strategie descrittive di Frénaud, rovesciando la vivacità dei colori tenui o brillanti dei Navigli in un destino di dissolvimento, di perdita; una sorte di cui è garante l’avverbio «autrefois», incaricato di esprimere l’irruzione del tempo nell’immobilità «antique» del dipinto, la rottura dell’integrità del paesaggio.

Il testo non dispiega rime o assonanze se non occasionalmente («verre» : «lumiè-re», «emergeant» : «Milan», «pavement» : «battement», «sale» : «pâle», «coulant» : «maisons»…); la sua organicità fonica è consegnata piuttosto ad alcuni meccanismi allitterativi che si attivano in punti di particolare evidenza iconica: è il caso, ad esempio, dell’insistenza sulla liquida nella rappresentazione dell’acqua dei Navigli

(«Naviglio grande où de larges dalles / longent l’eau limoneuse»); spicca poi

l’avvicendarsi per opposizione del nesso f+r con la fitta serie l+g+r+p, contrappunto in cui transita la dissonanza tra i colpi sui panni delle lavandaie, e la brillantezza

nell’aria dei lenzuoli sbattuti («les lavandières qui frappent fort / le battement léger

du linge parmi l’air pâle»); una tessitura ‘duplice’, questa, che si replica in seguito, e anzi si amplifica, nel contraddittorio tra la serie di vibranti in cui è trascritto il rom-

bo dei motori sull’autostrada («Et les autocars vrombiront sur l’autostrade»), con la

sequenza fonica che traduce la musica, l’armonia della natura («où fut autrefois le

flot de l’eau étale coulant»); subito prima, peraltro, a comporre un brano particolar-mente organico sul piano allitterativo, un’altra partitura di nasali aveva presieduto

alla ‘profezia’ del poeta sull’imminente fine di quel mondo rurale («Le néon / anéan-tira la clarté antique de l’huile»); come ultima ricorrenza fonica, infine, bisogna met-tere a referto almeno l’insistenza sulla sibilante nella rappresentazione, particolar-

mente intensa nei suoi valori cromatici, del crepuscolo serale («sur le balcon strict où

s’accroche / le soleil jaune au soir et disparaît»). È pertanto evidente come, a dispetto di un’architettura metrica irregolare, Frénaud provveda a correggere il proprio tipico dettato antimelodico attraverso una trama piuttosto folta di compensazioni foniche,

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addebitabile forse alla tecnica da paesaggista di cui il poeta si è servito per questo ac-

querello milanese. Adesso i testi di Caproni520 e Erba521:

1) Giorgio Caproni Gentile, quotidiàna doménica in riva all'acqua d'un vecchio quartiere ancora a galla, isola di quiete da te sì lontana, Milano, fra i tuoi clamori.

Naviglio grande dove larghe lastre costeggiano l'acqua limacciosa,

il catrame ondeggiante fino a sfiorar San Gottardo. Dolce acqua dimenticata dal tempo e dal Comune, commercio in sordina, barconi carichi di grigia rena e pietrame.

L'acciottolato minuto, le lavandaie che picchian sodo, il palpito lieve dei panni nell'aria pallida, e i monelli che si rincorrono sull'acqua sporca come i giovani iddii.

Bonaria fra gli orti, la trattoria col gioco delle bocce e i piccoli sonatori sotto la pergola, la tavola dai piedi tozzi, i bicchieroni di rosso, le persiane sul ballatoio, l'alloro. Luce e ombra egualmente gioviali sull'angusto balconcino dove s'impiglia a sera il sole giallo e scompare.

Ticinese, Ticinese. Tutti i cinesi

oggi lavorano negli uffici.

Distruggeranno tutto, Ettore Mezzo. Il neon annienterà l'antico chiarore dell'olio.

520 La traduzione di Caproni è contenuta in A. Frénaud, Non c’è paradiso, traduzione di G. Caproni, Mi-

lano, Rizzoli, 1971, pp. 308-311. 521 L. Erba, Dei cristalli naturali, cit., pp. 90-91.

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E i torpedoni romberanno sull'autostrada

dove un tempo, sulla soglia di casa, l'acqua stanca scorreva per l'ingenua gioia del popolino lavoratore.

2) Luciano Erba Giorni come domeniche fuori porta dove il vecchio quartiere emerge sulle sue acque gentili giorni di quiete isola senza città

Naviglio grande di lenta corrente tra pietre come lastre tombali trascorri torbido di fango ma tra le chiese splendi di bitume Naviglio dolce di dolcissima acqua ignorata dal tempo e dagli edili custode a superstiti navigazioni di zattere di sabbia e di pietrame Lo schiocco del bucato riempie l’argine breve al gesto antico delle lavandaie l’aria è pallida di un brivido di panni

nell’acqua sudicia sguazzano i monelli come giovani iddii La trattoria alla buona in mezzo agli orti col pergolato e il gioco delle bocce la tavola massiccia, il vino rosso nei bicchieri di vetro spesso un dito le verdi persiane sopra l’andito gli oleandri, quel gioco d’ombre e luci sullo stretto balcone ove s’impiglia l’ultimo sole giallo della sera. Ticinese… cinese ma i cinesi oggi sono impiegati negli uffici Distruggeranno tutto, Ettore Mezzo, (il neon ha già partita vinta) correranno rombanti i torpedoni sull’autostrada, là dove fu un tempo

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una pigra corrente d’acque dolci

per la semplice festa tra le case della piccola gente che lavora

Già una prima ricognizione mette in evidenza come i due poeti agiscano in mo-

do molto diverso sull’intreccio fonico di Frénaud. Dal canto suo Erba impone al det-tato una regolarità metrica (sia pure non strutturata modularmente) che si fa flusso nella misura in cui assorbe nel proprio svolgersi le partizioni strofiche dell’ipotesto. La sua strumentazione rimane varia, ma a tratti tende a canonizzarsi su una misura endecasillabica, come nel finale. Caproni invece, facendo propria l’eterogeneità del metro, articola una fitta trama di richiami fonici che tendono a infoltirsi, ove possi-bile, secondo un principio di simmetria al testo di Frénaud. Pertanto questi meccani-

smi si intensificano presso i vv. 5-6 («Naviglio grande dove larghe lastre / costeggia-

no l'acqua limacciosa»); i vv. 11-12 («le lavandaie che picchian sodo, / il palpito lieve

dei panni nell'aria pallida»), al prezzo però di smantellare il ‘contrappunto’ fonico

francese; i vv. 20-21 («dove s'impiglia / a sera il sole giallo e scompare»); i vv. 26-28

(«Il neon / annienterà l'antico chiarore dell'olio. / E i torpedoni romberanno sull'au-

tostrada / dove un tempo, sulla soglia di casa, / l'acqua stanca scorreva per l'ingenua

gioia / del popolino lavoratore»). Tuttavia, in conformità alle sue abituali pratiche traduttive, la tentazione di imbastire un ordito allitterante più fitto della pur ricca articolazione frénaudiana induce Caproni a distribuire nel testo ulteriori sequenze

foniche: è il caso, ma piuttosto debole, del v. 8 («Dolce acqua dimenticata dal tempo

e dal Comune») e soprattutto dei vv. 15-16, in cui sono molto produttive l’unità sil-

labica tor – declinabile in ort – sempre accentata, e in minor misura (già che non vi

cadono accenti principali) l’unità ol, che si costituisce come sottofondo alle traietto-

rie ritmiche e melodiche portanti («Bonaria fra gli òrti, la trattòria / col giòco delle

bòcce e i piccoli sonatòri sòtto la pergola»). Notevole infine anche la traduzione da parte di Caproni del profilo allitterativo della prima strofa, saldamente intraconnessa grazie alla ricorrenza delle nasali:

Gentil dimanche quotidien au bord de l’eau d’un ancien quartier encore émergeant île de calme si loin de toi Milan parmi ta clameur Spiccano in particolare i richiami interni «quotidien» : «ancien» e, al contempo,

la doppia corrispondenza di «loin» con «toi» da una parte, e con «Milan» dall’altra. Caproni interviene in questo senso disseminando la strofa di un nucleo fonico ri-

conducibile alle unità an-en-on, e mettendo a punto una rima interna con accenti

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principali come «quotidiana» : «lontana» immediatamente rilanciata dalla parola

tematica «Milano»:

Gentile, quotidiàna doménica in riva all'acqua

d'un vecchio quartiere ancora a galla,

isola di quiete da te sì lontàna, Milàno, fra i tuoi clamori. Ma oltre al piano fonico-musicale, la mano di Caproni si manifesta in modo in-

confondibile anche sul versante delle scelte lessicali e retoriche: si vedano ad esempio le classiche apocopi («sfiorar», «picchian»), l’uso generoso dei suffissi («le vin rouge dans les gros verres» → «bicchieroni di rosso», «balcon strict» → «balconcino», «petit peuple» → «popolino»), un toscanismo, di cui il poeta è prodigo nelle sue versioni,

nella forma monottongata di «sonatori». È insomma piuttosto evidente come Les ca-naux de Milan propizi il raccordarsi spontaneo delle strategie stilistiche tipicamente

praticate da Caproni con il tono di affettuoso, amabile descrittivismo messo in atto da Frénaud. Una convergenza tutt’altro che ovvia, dato che i due poeti sono stati in genere così affini sul piano filosofico (soprattutto per un certo stoicismo metafisico), quanto distanti su quello delle rispettive grammatiche formali.

Se I navigli di Milano è dunque un testo che si presta a rappresentare un cam-pione esemplare del tradurre caproniano, allo stesso modo vi si rintracciano alcuni denominatori essenziali dell’attività di Erba. Innanzitutto spicca rispetto a Caproni l’indebolimento del ruolo strutturale dell’allitterazione frénaudiana, di fatto replicata solo occasionalmente: si segnalano, tra gli altri, il mantenimento del meccanismo fo-nico forse più elementare, relativo all’insistenza della consonante vibrante al v. 26 («correranno rombanti i torpedoni / sull’autostrada»), e la sostituzione della liquida

con il nesso t+r ai vv. 5-6 del testo francese («come lastre tombali / trascorri torbido di fango»), decentrando l’interazione fonosimbolica dall’area iconica dello ‘scorrere’ dell’acqua a quello della ‘limacciosità’ del canale. Si attestano però altri espedienti attivi sullo stesso piano, come in particolare la continua generatività degli spunti fo-nici che connettono il folto dettato enumerativo della zona centrale del testo:

La trattoria alla buona in mezzo agli orti col pergolato e il gioco delle bocce

la tavola massiccia, il vino rosso nei bicchieri di vetro spesso un dito le verdi persiane sopra l’andito gli oleandri, quel gioco d’ombre e luci sullo stretto balcone ove s’impiglia

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l’ultimo sole giallo della sera. Vi si rinviene infatti una serie relativamente nutrita di trasferimenti e dilatazioni

sonore, che sfruttano una sorta di staffetta verbale in cui ogni unità eredita alcune caratteristiche dell’elemento precedente, rilanciandone altre al successivo. Si parte dal sintagma «vino rosso» (v+o+r+ss), che si duplica nel verso seguente in una sorta di calco come «vetro spesso» (ve+tr+o+ss); la prima sillaba ribatte subito dopo in «verdi» (ve+rdi), da cui dirama a propria volta – come in una sorta di consonanza rovesciata - «oleandri» (o+ndri), significativamente preferita al caproniano ‘allori’; da qui, infine, l’ultimo anello di questa catena, rappresentato da «ombre» (o+mbr), che accoglie il precedente inizio vocalico e rilancia il nesso consonantico con vibran-te.

Ma al di là di queste articolazioni interne, basta esaminare una soluzione come «Il neon ha già partita vinta», adibito a tradurre «Le néon / anéantira la clarté anti-que de l’huile», per avere una controprova della tipica traduzione per scarto di Erba: vi si attestano infatti interventi radicali sul piano dell’organizzazione del periodo – per cui la frase da enunciazione ‘assoluta’ diviene una parentetica – così come sul piano della sintassi, della metrica, della congruenza frase-verso, del lessico, della se-mantica. Un passaggio che insomma subisce uno ‘spostamento’ integrale, una dislo-cazione sistematica. La non-occasionalità di questo fenomeno è accertabile in modo esemplare nell’intensa attività di segmentazione e riassemblamento dei materiali te-

stuali condotta sulle prime strofe di Canaux de Milan:

[Gentil] [dimanche] [quotidien] [au bord de l’eau] [Giorni] [come domeniche] [fuori porta] 1) 2) 3) 4) 3) 2) (9)

[d’un ancien quartier] [émergeant] [dove il vecchio quartiere]

5) 6) 5)

[île] [de calme] [si loin de toi Milan] [emerge] [sulle sue acque]

7) 8) 9) 6) 4)

[parmi ta clameur] [gentili] [giorni] [di quiete]

10) 1) 3) 8)

[isola] [senza città]

7) 9)

[Naviglio grande] [où de larges dalles] [Naviglio grande] [di lenta corrente]

1) 2) 1) 4)

[longent] [l’eau limoneuse] [tra pietre][come lastre] [tombali]

3) 4) 2) 2) a) [le goudron] [flottant jusqu’auprès] [de San Gottardo] [trascorri] [torbido di fango]

5) 6) 7) 3) 4)

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[Eau douce] [oubliée par le temps et les édiles] [ma tra le chiese] [splendi] [di bitume]

8) 9) 7) b) 5) [négoce amoindri navires] [Naviglio] [dolce] [di dolcissima acqua]

10) 1) 8) 8)

[porteurs de sable gris et de pierres] [ignorata dal tempo e dagli edili]

11) 9)

[custode a superstiti navigazioni]

10)

[di zattere di sabbia e di pietrame]

11)

Queste radicali asimmetrie, che ramificano lungo l’intero componimento, non si organizzano però solo sul criterio dell’inadempienza formale – intesa come (innega-

bile) forma mentis del traduttore – ma si strutturano anche in una divergente strate-gia di senso; una strategia che fa capo a un decentramento dell’identità pittorico-visiva del testo verso un diverso orizzonte psicologico, relativo all’interiorizzazione del paesaggio milanese. Di particolare rilievo, nella prima strofa appena citata, l’astrazione della ‘domenicalità’ evocata da Frénaud, ossia la revoca della sua referen-za ‘da calendario’ in funzione di un suo reinvestimento come categoria del malinco-nico (per cui la scena non si svolge più di domenica, ma in «giorni come domeni-che»), del tutto in linea con l’universo tematico (crepuscolare?) del poeta. Ma questo trasferimento da un taglio descrittivo a un registro più lirico è attestato anche nella riorganizzazione del periodo: laddove Frénaud metteva a punto un modulo appositi-vo («île de calme») relativo a «quartier émergeant» – vero e proprio baricentro tema-tico del discorso –, Erba interviene inserendo tra il referente e la sua apposizione (che in un certo qual modo subisce un effetto assolutizzante, dato l’ampio distacco tra i due elementi) un verso che ripete parallelisticamente il sema «giorni», eletto dunque a ordinatore e protagonista (compresa la sua ‘domenicalità’) delle trame di senso della strofa. Il maggiore lirismo d’altronde affiora anche in altre sedi, come nell’opzione sinestetica di «l’aria è pallida di un brivido di panni», o nel passaggio alla seconda persona dei vv. 6-9, adibiti all’allocuzione al Naviglio stesso, definito – con formula antropomorfizzante – «custode a superstiti navigazioni». Allo stesso or-

dine di significati può forse ascriversi la scelta che fa Erba di smantellare alcune tra le coordinate topografiche più riconoscibili (Milano e San Gottardo) – compensate (ma non risarcite) dall’anafora di «Naviglio» – come se l’implicitazione a livello no-minale degli indicatori di luogo fosse correlativa all’assimilazione del paesaggio, all’adesione a una ben nota geografia sentimentale che rendesse superflua l’esplicazione dei propri termini. D’altra parte sarebbe il giusto contrappeso all’opposta tendenza – criticamente accertata – che presiede all’infoltirsi della nomi-

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nazione esotica là dove il poeta si relaziona all’ambiente nei termini della lontananza,

della privazione, dell’estraneità. 2. Il rifiuto di una metodologia traduttiva unitaria impone a questo punto una

ricognizione più capillare del corpus erbiano di versioni francesi, allo scopo di isolare alcune ricorrenze significative sul piano della gestione, e quasi della ‘centrifuga’, dei segmenti del discorso522. I testi in cui questi fenomeni si concentrano con più fre-quenza risultano quelli di Frénaud, Rodenbach e Michaux523. Nelle versioni dei poeti barocchi infatti la necessità di replicare la struttura rigorosa dei sonetti fonte in parte ridimensiona (sia pure in modo tutt’altro che tassativo) le spezzature metriche e l’iteratività messe in pratica da Erba, mentre le catene verbali di Cendrars, così de-strutturate, non possono prestarsi alle ampie riformulazioni sintattiche orchestrate invece su testi di maggior tenuta discorsiva. Sono dunque da mettere a referto:

• elisioni, che possono riguardare porzioni minime di testo (in Canaux de Milan,

«gris», «Milan»), sintagmi (in Canaux de Milan, «e les petits musiciens»; da Jean de

Sponde, in Mais si mon foible corps, «d’un invincible effort»; da Rodenbach, in Di-manches, «debout dans son orgeuil), o interi versi (in Canaux de Milan, «parmi ta clameur»);

• aggiunte, funzionali ora a compensare le soppressioni, ora a ristabilire una norma

metrica, ora a fini di riformulazione semantica (in Canaux de Milan, «splendi»,

«tombali»; in Jean de Sponde, da Je meurs, «acerbi», in Mais si mon foible corps, «fi-

nissima»; da Rodenbach, in En des pays «degli occhi del nord», in Sur l’horizon con-fus, «navate», «ignote»);

• sdoppiamenti, (in Canaux de Milan, «loin de toi Milan» genera sia «fuori porta»

che «senza città», mentre «dalles» dà vita a «pietre» e «lastre», «eau limoneuse» a «lenta corrente» e «torbido di fango», «navires» a «zattere» e per contiguità fonica a

«navigazioni», «battement» a «schiocco» e «brivido»; da Jean de Sponde, in Mais si

522 L’eccezionalità della traduzione per scarto di Erba non sta nella particolarità delle singole attestazioni,

per lo più riscontrabili quasi fatalmente anche in altri traduttori, bensì nel fatto che altrove questi tratti hanno il carattere di espedienti sporadici, spesso di compensazione per bilanciare scelte obbligate; vice-

versa in Erba queste dislocazioni assumono la dignità di veri e propri ‘criteri metodologici’ (o categorie

del non-metodo, per riprendere una definizione d’autore ) che informano di sé la quasi totalità delle tra-duzioni del poeta milanese. 523 Per l’analisi dei tratti formali della Cordillera de los Andes si rinvia al capitolo incentrato sulle tradu-zioni di Erba e Luzi del componimento di Michaux.

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mon foible corps, «effroy» si seria in «sorprese» e «sgomenti», in Tout s’enfle contre moy, «constante» in «assidua» e «tenace»); da Saint-Amant in L’esté de Rome, forse l’immagine d’esordio è trainata nella sua fantasiosa cosmografia celeste, dalla «Zône-torride» del verso successivo, che sembra impostare il discorso nei termini di una geografia dell’immaginazione («Quelle estrange Chaleur nous vient icy brûler? / Sommes-nous transportez sous la Zône-torride?» → «Da qual plaga del cielo, fuoco,

ci colpisci? / In qual torrida zona, sorte, ci hai scagliati?»); da Rodenbach, in Sur l’horizon confus, «inscription» è prima tradotto con «geroglifici», e poi suggerisce il successivo «inscritti», così come «éphémère» dà vita a «effimeri» e «labili». In quest’ultimo componimento l’attestazione di «volatilise» innesca il circuito non tau-tologico ma dinamico di «s’alza e si annulla»;

• fusioni, per cui due termini semanticamente contigui convergono in una sola atte-

stazione. Da Saint-Amant, in L’esté de Rome, «jonc» e «roseaux» si uniformano in

«canneti», così come da Dimanche di Rodenbach «vide» e «deuil» in «deserta», men-

tre in En des pays «enluminure» e «miniaturée» si sintetizzano nel solo «miniato»;

• ripetizioni di termini attestati solo una volta nelle poesie di partenza con conse-

guente riassestamento degli equilibri di senso (in Canaux de Milan, oltre al già citato «giorni», «eau douce» → «Naviglio dolce di dolcissima acqua»; da Jean de Sponde, in

Qui seroit dans le ciel, «Et que cette grandeur nous est toute incongnuë» → «dove

immenso più immenso, dove più ignoto?», in Je meurs la coppia Dea/Dee, in Mais si mon foible corps, «Mais si mon foible corps, qui comme l’eau s’escoule» → «Passano

l’acque, e passi tu mia spoglia»; da Rodenbach, in Les cygnes blancs vont et viennent, «Et les vet de blancs et doux / De la couleur du badigeon des sacristies» → «bianche piume del bianco / dei muri di certe sacrestie», oppure «O beaux cygnes» → «Cigni, bei cigni»). L’assiduità con cui Erba pratica questa tattica iterativa può essere però

misurata con particolare evidenza in alcune folte quartine di Dimanches: 1) Des visages de femme ennuyés sont collés Aux carreaux, contemplant le vide et le silence, Et quelques maigres fleurs, dans une somnolence, Achèvent de mourir sur les châssis voilés. .

Incollati alle finestre, visi di donna annoiata

visi smarriti nel vuoto in infiniti silenzi

visi e fiori, avvizziti poveri fiori anch’essi ai vetri in un sonno di morte

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2) Et tous ces vieux hôtels sont vides et sont ternes;

Le moyen âge mort se réfugie en eux! C’est ainsi que, le soir, le soleil lumineux Se réfugie aussi dans les tristes lanternes. O lanternes, gardant le souvenir du feu Le souvenir de la lumière disparue Vecchie dimore patrizie, asili del passato

simili alle lanterne dove il sole splendente sembra cercare a sera un rifugio notturno

taciturni dimore, taciturne lanterne.

Lanterne custodi di una memoria di fuoco

lanterne custodi di una luce smarrita

• reinvestimenti, in particolare di aggettivi dislocati da un termine a un altro (da

Canaux de Milan, oltre al già citato aggettivo «gentil» delocalizzato dal primo al quarto verso, si segnala lo spostamento di «antique» da «clarté» al ‘frapper fort’ delle

lavandaie; in Sur les horizon confus, l’aggettivo «molles» è trasferito da «oraisons» a «molli fili di fumo», segmento inserito ex-novo da Erba ad aprire la traduzione della terza strofa di Rodenbach).

• sostituzioni a partire da una contiguità fonica, (oltre al già citato «navires» → «na-

vigazioni», si veda in Canaux de Milan come l’omofonia francese tra ‘verre’ e ‘vert’ porti alla compensazione della caduta di «verres» al v. 17 con l’inserzione dell’aggettivo «verdi» riferito alle «persiane» del verso successivo; in Georges Roden-

bach, da Dimanches la scomparsa di «trottoir» come marciapiede è remunerata sul piano sonoro dall’investimento di una locuzione avverbiale come «in fretta»; nello stesso testo, nel passo citato per intero in precedenza, la rima «ternes» : «lanternes» dà vita a un sintagma come «taciturne lanterne»).

Sul piano iconico (ma non solo), nel quadro delle integrali riformulazioni erbia-

ne, si segnala un particolare fenomeno riconducibile a una sorta di tendenza dello

slittamento metonimico; in questo senso i materiali figurativi del testo-fonte metto-no in funzione un meccanismo di ‘riassestamenti’, in cui la riconfigurazione espres-siva non si relaziona nei termini (va da sé, intenzionali) del rispecchiamento, ma si lega all’ipotesto attraverso un nesso di contiguità obliqua, di rapporto scalato rispet-to a una lettura ‘testo a fronte’. Si segnalano dunque, rapidamente inventariati, slit-

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tamenti come: dall’individuale a una categoria più generale, «San Gottardo» → «chie-

se», «Moyen Age» → «passato», ma anche l’estensione dell’aggettivazione dalla parte al tutto «la table aux piéds epais» → «tavola massiccia»; lo stesso fenomeno può veri-ficarsi dal generale al particolare, «vaisseaux» → «trealberi»; e poi ancora altri tipi di spostamento: «le soleil jaune et disparaît» → «l’ultimo sole giallo della sera», «incon-solable» → «per l’eternità», «Béguines revenant des saluts de paroisse» → «beghine

che dopo i vespri ritornano a casa». Particolarmente numerosi gli spostamenti in Sur l’horizon confus524, dove un’espressione come «au fond du ciel doux» vede la reinter-pretazione di ‘fond’ (con le sue implicazioni relative al significato di ‘termine’, di ‘fi-ne’) ‘riciclandosi’ – dal piano spaziale a quello temporale – in «tramonto» («sul dol-cissimo cielo del tramonto»); poi le «molles oraisons», sia pure impiegate da Roden-bach metaforicamente, sono ancora reinvestite da Erba nella loro determinazione temporale («nel turchino del vespro»); e ancora, nel medesimo componimento, c’è un caso in cui Erba va in vero e proprio controsenso rispetto all’ipotesto, prima de-clinando appunto «ciel» con «turchino», poi facendo il percorso inverso, con la tra-duzione di «azur» con «cielo».

Questi fenomeni attestati sul piano lessicale e iconico si inquadrano poi in vere e proprie rivoluzioni sul piano dell’organizzazione del discorso e della sintassi. Tra le occorrenze più significative, è possibile passare in rassegna certi vettori di base:

• tendenziale paratassi per asindeto (nella traduzione di Dimanche ad esempio si attestano tre sole congiunzioni ‘e’ – di cui una sola adibita a coordinare due frasi –

contro le nove del testo di Rodenbach, di cui cinque a inizio verso, mentre in Ca-naux de Milan il rapporto è 6:4.

524 Proprio in questa traduzione si registra un felicissimo caso di sfruttamento delle potenzialità sopite

del testo in un nuovo ordine semantico e figurativo. Là dove Rodenbach conduceva parallelamente il paragone tra il filo di fumo e il ruscello, confluenti l’uno nel cielo, l’altro nel mare, Erba fonde i due sis-

temi metaforici in un disegno ambiguo, volutamente polisemico: «Vague mélancolie au loin se propa-geant… / Car, parmi la langueur d’une cloche qui tinte, / On dirait des ruisseaux d’eau pâle voyageant /

Des ruisseaux de silence aux rives non précises / Dont le peu d’eau glisse au hasard, d’un cours mal sûr, / En méandres ridés, en courbes indécises / Et, comme dans la mer, va se perdre en l’azur!» → «Vaghe ma-

linconie / a ignote lontananze avviate! Viaggio di ruscelli / di pallide acque, fra lenti rintocchi di campa-ne / ruscelli di silenzio senza riva, d’incertissimo corso / dove l’acqua corre a caso, con meandri increspa-

ti / in curve indecise per smarrirsi nel cielo come un mare!». «Come un mare» è riferito a «cielo» o al fumo? In effetti quest’ultimo verso sembra inscrivere nel significato primario e più ovvio (il cielo in cui il

filo di fumo si perde come in un mare) un supplemento di senso dovuto alla potente immagine dello

smarrirsi del fumo come il mare nel cielo, all’insegna di una comunione di valori cromatici immaginata sul filo dell’orizzonte.

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• moduli appositivi: da Rodenbach, in O ville, toi ma sœur: «Nous sommes tous les

deux la ville en deuil qui dort / Et n’a plus des vaisseaux parmi ton port amer» → «Comune lutto è il nostro / derelitta città, preda del sonno / città senza velieri al vec-

chio porto», in Sur l’horizon confus, «Elles que rien n’attache, elles qui vont ailleurs / Et dont les convois blancs emportent nos chimères» → «A nulla legati, altrove sempre sospinti / bianchi convogli delle nostre chimere».

• nominalismo; alcuni esempi:

1) Jean de Sponde, Je meurs; - Je meurs, et les soucis qui sortent du martyre Que me donne l’absence, et les jours et le nuicts Font tant, qu’a tous moment je ne sçay que je suis - Martirio dell’assenza, acerbo affanno Dei giorni e delle notti, a tanto estremo Ch’io non so che sono

2) Jean de Sponde, Tout s’enfle contre moy; - Toute s’enfle contre moy, tout m’assaut, tout me tente,

Et le Monde et la Chair, et l’Ange révolté, Dont l’onde, dont l’effort, dont la charme inventé Et m’abysme, Seigneur, et m’esbranle, et m’enchante. - E tutto m’è minaccia, guerra, lusinga, Il Mondo, la Carne, il Ribelle, Ah! il flutto, l’assalto, i sortilegi, L’aperto abisso, il danno, l’incantesimo.

3) Georges Rodenbach, Sur l’horizon confus; - Sur l’horizon confus des villes, les fumées Au-dessus des murs gris et des clochers épars Ondulent, propageant en de muets départs Les tristesses du soir en elles résumées. On dirait des aveux aux lèvres des maisons: Chuchotement de brume, inscription en fuite Confidence du feu des âtres qui s’ébruite Dans le ciel et raconte en molles oraisons L’histiore des foyers où la cendre est éteinte.

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- Sinuosità del fumo sulle punte dei campanili sul grigiore dei tetti, sul confuso orizzonte della città sinuosità lontane azzurre, partenze mute di tristezze fili di fumo a sera… forse confidenze di case di camino in camino sussurrate, vaporosi bisbigli geroglifici in fuga nello spazio indiscrezioni di focoloari ancora caldi di braci gelosi segreti di famiglie a ogni vento affidati inscritti con tenerissimi tratti sul turchino del vespro.

4) Georges Rodenbach, O ville, toi ma sœur ; - toi ma sœur douloureuse qui n’as que du silence et le regret des anciens mâts; Moi, dont la vie ausi n’est qu’un grand canal mort. - Per te silenzio e rimpianto di vele per me la vita questo lungo canale d’acqua morta! Emerge da questo inventario una tendenza all’implicitazione per lo più funzio-

nale ai toni esclamativi o interrogativi verso i quali il discorso piega volentieri. Non

mancano tuttavia casi opposti – in ossequio al tradurre ‘scalato’ dell’autore – in cui il poeta ‘appiana’ su un livello medio le impennate della poesia-fonte in registri enfatici o interrogativi.

Ma se da una parte Erba disarticola l’enunciato, ne implicita i nessi, riformula i rapporti semantici, smantella gli impianti metrici e rimici, ricombina il lessico, mol-tiplica i sintagmi, elide interi versi, li sdoppia, dall’altro lato uniforma e compensa questi smottamenti che investono il testo a tutti i suoi livelli imponendo una sintassi di estrema linearità, sia pure, beninteso, senza strutturarsi su quell’ordito prosastico

eluso dalla sua vocazione a una regolarità metrica (è il caso che si è accertato su Ca-naux de Milan). Il lirismo viene piuttosto delegato al tenore evocativo delle immagi-ni o al piano della tematica elegiaca o patetica (ma anche per l’inserimento, qua e là,

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di verbi di percezione che enfatizzano la soggettività del dettato525); quasi mai, inve-

ce, per strategie formali come l’inversione o l’iperbato, frequenti solo nei testi baroc-chi dove – avendo più peso il fattore dell’estraneazione formale – s’incaricano al pari delle apocopi o di taluni arcaismi di garantire un tono antico alla traduzione. Una conservazione, peraltro, da inscriversi forse in quella tentazione della letterarietà praticata da Erba anche come poeta in proprio, come declinazione di quel registro dell’ironia in cui egli esprime le sue tipiche tendenze ‘depressive’, finalizzate all’‘auto-ridimensionamento’, da parte di «uno che non si è mai preso troppo sul se-rio»526. A questa tendenza alla linearità e alla chiarezza sintattica collabora infine an-che il frequente recupero dei soggetti della frase, funzionali a riordinarne il filo logi-co allorché il discorso rischia di ingorgarsi in qualche lungo inciso o in costruzioni del periodo più complesse, come nel caso dei numerosi enunciati a nodo non verba-le.

Alla luce di questa rassegna di denominatori dell’attività traduttiva di Erba, di queste ricorrenze del non-metodo, si misura tutta la distanza che lo separa da un traduttore come Caproni, genialmente attento alle ramificazioni più sottili del suono e della musica, a partire dalle quali impone alla propria sintassi «inversioni, chiasmi, dislocazioni e iperbati»527. E nondimeno – specialmente nel tradurre un poeta affine, sul piano tematico, come Frénaud – la traduzione di Caproni si impegna anche a salvaguardare la ‘prosa-senso’528 della poesia-fonte, proprio quel piano lungo il quale Erba si muove con più disinvoltura. D’altronde, si è visto, Erba è un traduttore vota-to a una sorta di ‘dissolutezza’ antisistematica, di riscrittura scalena; un traduttore insomma che per definizione ‘disattende’, che traduce per «disattenzione», dunque, anche in questa variante – tutt’altro che terza – del suo repertorio espressivo.

525 È il caso ad esempio dell’inizio della traduzione di En des pays: «En des pays de longs canaux et de marais, / Les yeux sont, eux aussi, baignés d’un charme frais» → «So di paesi d’acque e di canali / dove

anche gli occhi hanno una grazia freschissima». 526 L. Erba, Premessa a Poesie 1951-2001, Milano, Mondadori, 2002, p. XXVII. 527 E. Testa, Introduzione a G. Caproni, Quaderno di traduzioni, Torino, Einaudi, 1998, p. XIX. 528 G. Caproni, Avvertenza del traduttore, in A. Frénaud, Non c’è paradiso, cit., p. 17: «Nei limiti del pos-

sibile, salvo qualche caso, ho cercato di non scostarmi troppo dal senso letterale, e di tenermi sempre sul limitar della prosa, secondo quello ch m’è parso lo spirito genuino degli originali».

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Appendice

1. Regesto delle principali antologie di versioni dei traduttori

• Leone Traverso, Poesia moderna straniera, Roma, Edizioni di Prospettive, 1942. Introduzione [pp. XIII-XIX].

Friedrich Hoelderlin: Mnemosyne, Età della vita, Metà della vita, Frammento, E nes-suno sa, Grecia, Come uccelli passano lenti, Maturi sono, immersi nel fuoco, arsi, Ma quando hanno i Celesti, Ricordo, Migrazione, Quando il succo del tralcio, I titani, Ab-bozzo di un Inno alla Madonna, L’Aquila;

Charles Algernon Swinburne: Il giardino di Proserpina;

Gerog Trakl: A primavera, Canto dell’ora, Canto del dipartito, Declino d’estate, Elis,

Al fanciullo Elis, Paesaggio, La sera, In un album antico, Seguendo ancora l’azzurro lamento della sera, A sera risuonano le foreste autunnali; Rainer Maria Rilke: Orfeo – Euridice – Ermete; dai Sonetti a Orfeo: Dove, in quali giardini felici perennemente irrigati, Bocca che doni e mormori una sola, Salute, o mai dal mio cuore lontani, E una fanciulla quasi dall’accordo, Calmo amico delle lonta-nanze, Ma te ora voglio, te ch’io ho conosciuta, Oh vieni e va. Nell’attimo componi; Donna allo specchio, Apollo precoce, Delle fontane, La cortigiana, L’unicorno; da Ul-time poesie: Musica: respiro delle statue forse, O perduta anzi tempo, Non mi verrà il futuro? Debbo solo ancora indugiare?, Come il vento serale alle falci sugli omeri dei mietitori, Dietro gli alberi innocenti; Per Alma Johanna Koenig, La morte, Cena fune-bre, Orcio di lacrime;

William Butler Yeats: Ephemera, L’isola del lago d’Innisfree, Affanno d’amore, Gli uc-celli bianchi, Io odo i cavalli dell’ombra, le lunghe criniere agitate, Ho sognato; io stavo nel mezzo d’una valle in sospiri, I Magi, I cigni selvaggi a Coole, Sogni infranti, Morte di seignora, Navigando verso Bisanzio, Vidi sorgere attonita una vergine, In pietà pel torbido pensiero, La purezza della lune senza nubi, Olio e sangue, Bisanzio;

James Joyce: Chamber music;

Rudolph Binding: Com’è lieve il mio cuore che tu levi, Verrai tu che m’aiuti anche lontana, Amore, Sonno;

Leonardo Manigrasso, Capitoli autobiografici : poeti che traducono poeti dagli ermetici a Luciano Erba ISBN 978-88-6655-502-5 (online), CC BY-NC-ND 3.0 IT, 2013 Firenze University Press

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Thomas Stearns Eliot: da La terra desolata;

Gottfried Benn: Vedi le prede di luce, Quanto ancora, poi cade, La Danese I e II, Scendere non può più buio, Sposa di negro, Lungo la spiaggia tanto e nella barca;

Paul Éluard: Le speranze sono vinte, L’avventura pende al collo del rivale, Tristezza a onde di pietra, La fronte ai vetri come chi veglia l’angoscia, Simmetrica dignità vita ben divisa, I tuoi capelli arancia nel vuoto del mondo, Su questi rottami di cielo, su questi vetri d’acqua dolce, Ella era, sconosciuta, la mia forma prediletta, Vivere;

Joseph Weinheber: La bagnante, Canto senza tempo;

Walter James Turner: Estasi; Ina Seidel: Cacciatore e ninfa, Piccoli preludi, Addio, Vita, Il padre perduto (fram-mento); Agnes Miegel: Settembre, Johanni, Cranz, Leda, Luna di primavera, Canzoncina cine-se;

Juàn Ramòn Jimènez: Elegia, Al mare crepuscolare, Sogno, Ottobre;

Ezra Pound: Erat hora, Atteone, La tomba d’Akr Caar, XVII dei Cantos; Michael Roberts: L’onda, Sonno;

Lasso de la Vega Marquès de Villanova: Imitazione del Settembre, Rondò felice del bel giorno, Terra, Autunno, Lussemburgo.

Nota bibliografica (pp. 165-168).

• Beniamino Dal Fabbro, La sera armoniosa, Milano, Rosa e Ballo, 1944.

Charles Baudelaire: La sera armoniosa, Fleurs du mal: XXV, CII, CIII; Paul Verlaine: Arietta, Acquerello, Soli calanti, Green, Falsa impressione, Il fauno,

Frammenti; Arthur Rimbaud: Le bateau ivre, I poeti di sette anni, La caccia ai pidocchi, Vocali, Quartina, Testa di fauno;

Stephane Mallarmé: Il pomeriggio d’un fauno, Erodiade: Frammenti dalla scena, Il cantico di San Giovanni, La tomba di Edgar Allan Poe, Omaggio, Alla sola brama di viaggio, Un riassunto dell’anima, Foglio d’album, Santa, Brezza marina, Apparizione,

Sospiro;

Paul Valéry: Il cimitero marino, Al platano, I passi, Interno, Aria di Semiramide;

Luis Gòngora: Sopra il sepolcro di tre fanciullette;

Edgar Allan Poe: A Zante, Eldorado;

Rainer Maria Rilke: Gli angeli amano, Tu sei il povero;

Sergei Essenin: Lettera alla madre, Inno;

Georges Rodenbach: Il regno del silenzio, Interni, Il cuore dell’acqua, Vecchi quais; Jules Laforgue: Il mistero dei tre corni; Maurice Rollinat: La lavandaia del paradiso;

Guillaume Apollinaire: I colchici, La partenza;

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Ivan Goll: Notti romane;

André Gide: Preludio;

Jean Moréas: Proserpina;

Jules Supervielle: Figure, Prendere, La vita, Preghiera allo sconosciuto;

Marcel Proust: Risveglio in ferrovia. Del tradurre (pp. 149-158).

• Antologia dei poeti maledetti, versioni metriche di Vittorio Pagano, s.l., Edizioni dell’albero, 1957.

Avvertenza (pp. XIII-XX).

Gérard de Nerval: El desdichado, Myrtho, Horus, Anteros, Delfica, Artemide, Eritrea,

La testa armata, Versi aurei, Il Cristo agli olivi, Cambio dei cavalli, Nei boschi, Aprile,

Fantasia, Le farfalle, Il punto nero, Le «cydalises», Coro sotterraneo, La serenata, Il re di Tule, Abbozzo di un’odicina, Stanze elegiache, Romanza, Il sogno di Carlo VI, So-vrana e mia signora, Epitaffio;

Charles Baudelaire: La vita anteriore, Don Giovanni all’inferno, Una carogna, Il gat-to, Reversibilità, Confessione, L’alba spirituale, L’invito al viaggio, Spleen,

L’irrimediabile, Sepoltura, Donne dannate, Abele e Caino, Le litanie di Satana, Inno alla bellezza, Un fantasma, Ossessione, Alchimia del dolore, Orrore simpatico, Lo scheletro sterratore, L’amore della menzogna, Il viaggio, Lola di Valenza, Madrigale triste, L’esame di mezzanotte;

Paul Verlaine: I saturnini, Arte poetica, L’ora del pastore, Canzone d’autunno, Delle voci d’un dì, Un pianto nel mio cuore, nella vallata piena, Bianca la luna, Notturno parigino, I grotteschi, Ho il furore d’amare, Angoscia, Sul balcone, Allegoria, Impres-sione falsa, Never more, Passeggiata sentimentale, Mistico fui, Prologo, Canzone per le belle, Frammento, Oh triste, triste…, Spleen, A poor young shepherd, Green, Elegia, Le mani, Altre mani, Il nemico, Reversibilità, L’azzurrità del cielo, Epilogo,

Quell’angoletto, Il buon discepolo, L’Angelus di mezzogiorno, Dialogo mistico, Ai piedi di Cristo;

Arthur Rimbaud: Sensazione, Ofelia, Gl’imbambolati, Romanzo, La mia vita randa-gia, I corvi, I vecchi assisi, Testa di fauno, Quartina, Accovacciamenti, Vocali, Il giu-sto, Le cercatrici di pidocchi, Il cuore rubato, Il battello ebbro, Lacrima, Il fiume di Cassis, Bandiere di maggio, Canzone della più alta torre, L’eternità, Feste della fame,

Commedia della sete, Gridava il lupo, Onta;

Tristan Corbière: Parigi, Insonnia, Paesaggio tristo, La fine, Il rospo, Buona fortuna e fortuna, La pipa del poeta, Natura morta, Sonetto notturno, l poeta contumace, La menestrella foranea e il Perdono di Sant’Anna, Sotto un ritratto di Corbière fatto da lui a colori nel 1868;

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Stéphane Mallarmé: Il castello della speranza, Mysticis umbraculis, Una negra, Ero-diade, Angoscia, Primavera, Il campanaro, La disdetta, Il pagliaccio castigato, Fuggito invitto, Il pomeriggio di un fauno;

Maurice Rollinat: I due solitari, Gelosia felina, Madamina scheletretta, I brividi, Il gran capo dei lupi, I corvi, I tredici sogni.

• Piero Bigongiari, Il vento d’ottobre: da Alcmane a Dylan Thomas, Milano, Mon-

dadori, 1961.

Alcmane: Frammento 58;

Pindaro: dalla I Pitica, A Ιερωνι Αιτναιωι αρματι / A Ierone Etneo vincitore col carro;

Bacchilide: Ode XVII. Θησευς / Teseo;

Gregorio Nanzianzeno: dai Carmina, I, 2: Carme XIV;

Maurice Scève: dalla Délie: Dizain LII / LII, Dizain CCCLV / CCCLV, Dizain CCCLXVII / CCCLXVII; Joachim Du Bellay: da L’Olive: Sonnet LXXXIII / Sonetto LXXXIII; Pierre de Ronsard: dal primo libro degli Amours: Sonnet XC / Sonetto XC, Sonnet CXLIV / Sonetto CXLIV, Sonnet CCXXVII / Sonetto CCXXVII; dal secondo libro de-

gli Amours: Sonnet XCVII / Sonetto XCVII; dal secondo libro dei Sonnets pour Hélè-ne: Sonnet XXIII / Sonetto XXIII, Sonnet XXX / Sonetto XXX;

Stéphane Mallarmé: Tristesse d’été / Tristezza d’estate (prima redazione, 1862), Tri-stesse d’été / Tristezza d’estate (redazione definitiva, 1864), L’après-midi d’un faune / Il pomeriggio di un fauno (1865-1876); Pierre Reverdy: da Les ardoises du toit: Campagne / Campagna; da La guitare endor-mie: Filet d’astres / Rete d’astri; da Grande nature: Fausse joie / Falsa allegria, Celui qui attend / Colui che attende, Je tenais à tout / Tenevo a tutto; da Sources du vent: Chemin tournant / Strada che svolta, Le sang plus clair / Il sangue più chiaro, Espace / Spazio; da Pierres blanches: Mémoire / Memoria; da Le chant des morts: Longue por-tée / Tiro lungo;

Paul Éluard: da Répétitions: Nul / Nessuno, L’unique / L’unica; da Mourir de ne pas mourir: L’amoureuse / L’innamorata, Avec tes yeux / Coi tuoi occhi, Elle se refuse toujours / Ella si rifiuta sempre, Sur ce ciel délabré… / Su questo cielo spezzato…; da

Capitale de la douleur: Une / Una, Revenir dans une ville… / Ritornare in una città…,

Ta chevelure d’oranges… / I tuoi capelli d’arancia…, Ta bouche aux lèvres d’or… / La tua bocca dalle labbra d’oro…, Le grand jour / Giorno pieno, La courbe de tes yeux… / La curva dei tuoi occhi…, Celle de toujours, toute / Quella di sempre, tutta; da

L’amour la poésie: Révolte de la neige / Rivista della neve, Au premier éclat... / Al pri-mo bagliore…; da Au rendez-vous allemand: Avis / Ordinanza;

Francis Ponge: La nouvelle araignée / Il nuovo regno;

René Char: Nous avons / Noi abbiamo;

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Garcilaso de la Vega: dai Sonetos: Soneto X / Sonetto X (1533); Jorge Guillén: da Cantico: Chiudo gli occhi, Estate del tramonto, Notte planetaria; da

Historia Natural: Visto e evocato;

Rafael Alberti: da Marinero en tierra: Malva-luna-di-gelo;

Hart Crane: da White Buildings: Per le nozze di Faustus ed Elena (parte prima);

Dylan Thomas: da Eighteen Poems: Ten / Decima poesia; da Twenty-five Poems: Out of the sighs / Dai sospiri, Ears in the turrets hear / Orecchie nelle torricelle ascoltano,

And death shall have no dominion / E morte non regnerà; da Deaths and Entrances: The conversation of prayer / Il colloquio della preghiera (1945), Poem in october / Poe-sia in ottobre (1944), This side of the truth / Questo lato della verità, In my craft of sul-len art –Nel mio mestiere o arte ostinata, Among those killed in the dawn raid was a man aged a hundred / Fra le vittime dell’incursione all’alba c’era un uomo che aveva cent’anni, Lie still, sleep becalmed / Non muoverti, dormi in bonaccia, da Vision and prayer / Visione e preghiera;

Giuseppe Ungaretti: da L’allegria: Mattina / Matin (1917); Piero Bigongiari: Pour ce rêve. Note ai testi (pp. 349-386).

• Beniamino Dal Fabbro, La sera armoniosa, Milano, Rizzoli, 1966.

Poesia e traduzione di poesia (pp. 9-17);

Louis Bertrand: Chèvremorte, Il pazzo, La caccia, Ondina, I Raitri, Scarbo, Il patibolo;

Charles Baudelaire: La sera armoniosa, “Io ti vagheggio al pari della volta notturna”,

La casa del ricordo, “La serva di buon cuore che t’ingelosiva”, Don Giovanni all’Inferno, La fiamma, “Angelo pieno di beltà, conosci”, Lola di Valenza;

Paul Verlaine: Arietta, Acquerello, Soli calanti, Green, Falsa impressione, Il fauno, Il sognatore, Il cembalo, “Com’era il cielo tenero e turchino;

Arthur Rimbaud: Le bateau ivre, I poeti di sette anni, Cercando i pidocchi, Le vocali, Testa di fauno, Alba parigina, Quartina, “O pigra gioventù, schiava di tutto”;

Stephane Mallarmé: Il pomeriggio d’un fauno; Erodiade: I. Frammenti dalla scena, II. Il cantico di San Giovanni; Toast funebre, La tomba di Edgar Allan Poe, Omaggio,

“Un riassunto dell’anima”, Brezza marina, Sospiro, Apparizione, Santa, Foglio d’album; Versi di circostanza: Lo stradino, Il mercante d’aglio e di cipolle, Epitaffio,

Ventaglio, Il bicchiere, La Biblioteca, Dedica del “fauno”, Di se stesso; L’albero di Na-tale, Il fenomeno futuro, Lamento d’autunno, Brivido d’inverno, Il demone dell’analogia, La pipa, Reminiscenza, L’ecclesiastico;

Paul Valéry: Il cimitero marino; Poesia bruta:Al sole, Alla vita, Finale; Il bagno, Iscri-zione;

Rainer Maria Rilke: Le rose: I. “Se di tanta freschezza, o tu felice”, II. “Rosa, ti vedo libro semiaperto, III. “Rosa, tu più completa d’ogni altra”, IV. “Noi stessi, noi abbiamo

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domandato”, V. “Abbandono recinto d’abbandono”, VI. “Un’unica rosa è tutte le ro-se”, VII. “Posando, chiara fresca”, VIII. “Troppo colma del tuo sogno”, IX. “Rosa, rosa ardente e insieme chiara”, X. “Amica d’ore in cui nessuno resta”, XI. “Tanto io so di te, rosa completa”, XII. “Contro chi, rosa”, XIII. “Dei trasporti attuali eleggi, rosa”, XIV. “Coetaneo delle rose esser d’estate”, XV. “Solo, copioso fiore”, XVI. “Non parliamo di te, sei ineffabile”, XVII. “Sei tu che in te prepari”, XVIII. “Di quanto ci commuove sei partecipe”, XIX. “Di te stessa è un esempio che proponi?”, XX. “Dimmi, rosa, onde vie-ne”, XXI. “Non ti dà la vertigine girare”, XXII. “E ancora tu nasci”, XXIII. “Rosa tardi venuta, che fermano”, XXIV. “Rosa, bisognava lasciarti”; Il povero, Gli angeli amano;

Georges Rodenbach: Il regno del silenzio, Interni, Il cuore dell’acqua, Vecchie rive;

Marcel Proust: Tuileries, Versailles, Passeggiata, Vento di mare in campagna, I casta-gni, Come al chiaro di luna, Le perle, Vele in porto, Risveglio in ferrovia;

“Vecchio Natale inglese”: Ben venuto Natale, Non v’ha rosa, Il pargoletto, Balulalow,

Il bambinello, Nella notte di ghiado, Qual rugiada in aprile, Canto di primavera, Deo gratias; Album di traduzioni da poeti diversi: Luis Gòngora, Sopra il sepolcro delle tre figlie del Duca di Feria; Clément Marot, La neve ardente, Anna alla spinetta; Pierre de

Ronsard, Stanze, Bacio; Edgar Allan Poe, A Zante, Eldorado; Emily Dickinson, Col-loquio; Percy B. Shelley, Song, Canta il vento, Il sepolcro della memoria; Frédéric Mi-

stral, Il bastimento; Comte de Lautréamont, L’ermafrodito; Jean Moréas, Proserpina;

O. V. de L. Milosz, I morti di Lofoten, Alla luna; Albert Samain, Le vergini del crepu-scolo; Maurice Rollinat, La lavandaia del paradiso; Jules Laforgue, Il tramonto, Il pianoforte in provincia; Jules Supervielle, Figure, Prendere, La vita; Guillaume Apol-

linaire, I colchici, La partenza; Alecsander Pusckin, Il Requiem di Mozart, Insonnia di Mazepa; Serghiei Essenin, Lettera alla madre, Mai come oggi; Anna Achmatova,

Primavera d’autunno a Pietroburgo; Ivan Goll, Notti romane; Saint-John Perse, Scrit-to sulla porta; André Gide, Postludio; Note (pp. 187-189).

• Mario Luzi, Francamente (versi dal francese), Firenze, Nuovedizioni Vallecchi,

1980.

Pierre de Ronsard: Sur la mort de Marie / Copia da Ronsard (per la morte di Maria); Charles Augustin de Sainte-Beuve: Les rayons jaunes / Riflessi gialli; Charles Baudelaire: La vie antérieure / La vita anteriore;

Stéphane Mallarmé: Le vierge, le vivace… / Il vivido, l’intatto, Le chevelure vol d’une flamme / Un volo la capigliatura una fiammata, Extrait de L’après-midi d’un faune / Il pomeriggio d’un fauno (vv. 13-25 e 67-76);

Arthur Rimbaud: Tête de faune / Testa di fauno;

Paul Valéry: Cantique des colonnes / Cantico delle colonne;

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Jules Supervielle: San Bernardino / San Bernardino, Tiges / Fusti, Cœur / Cuore, Le chevaux du temps / I cavalli del tempo, Le regret de la terre / Il rimpianto della terra;

Henri Michaux: La cordillera de los Andes / La cordigliera delle Ande, Nausée ou c’est la mort qui vient? / Nausea o è la morte?, Sur le chemin de la mort / Sulla strada della morte, Mais toi, quand viendras-tu? / Ma tu quando verrai?;

André Frénaud: Il n’y a pas de paradis / Non c’è paradiso;

René Guy Cadou: La nuit surtout / La notte specialmente, Pour plus tard / Per dopo,

Lied / Lied, Tout amour / Ogni amore. Informazione bibliografica (p. 95).

• Vittorio Sereni, Il musicante di Saint-Merry e altri versi tradotti, Torino, Einaudi, 1981.

Premessa (pp. V-IX). Nota bibliografica (pp. XI-XII).

Orphée Noir: Il sont venus ce soir / Sono venuti quella sera, En file indienne / In fila indiana, Fumées… / Fumi …, Chant XXII / Canto XXII, Ezra Pound: The Study in Aesthetics / Studio d’estetica, In a Station of a Metro / In una stazione del métro; da Impressions of François-Marie Arouet (de Voltaire) / Mo-menti di François-Marie Arouet (Voltaire): III. To Madame Lullin / III. A Madame Lullin;

René Char: da Feuillets d’Hypnos / Fogli d’Ipnos: 138, 146, 175, 221, 222;

William Carlos Williams: Dedication for a Plot of Ground / Dedica per un pezzo di terra, The Lonely Street / La strada solitaria, Adam / Adamo, These / Queste sono, A Flowing River / Corrente; da The Clouds / Le Nuvole: IV; A Unison / Unisono, New Mexico / Nuovo Messico, da The Desert Music / La Musica del deserto;

André Frénaud: Ancienne mémoire / Antica memoria;

ancora da René Char: Déclarer son nom / Dire il proprio nome, Tracé sur le gouffre / Tracciato sul baratro, Aux portes d’Aerea / Alle porte di Aerea, Le mur d’enceinte et la rivière / Il muro di cinta e il rio, Dansons aux Baronniers / Ballo alle Baronie, Yvonne / Yvonne, Le banc d’ocre / Il banco d’ocra, Faim rouge / Fame rossa, Le gaucher / Il mancino, Rémanence / Permanenza, Cours des argiles / Corso delle argille, L’abri ru-doyé / Il sito sconvolto, Cérémonie murmurée / Cerimonia di murmuri, Éprouvante simplicité / Struggente semplicità, Relief et louange / Scultura e elogio, Sommeil aux Lupercales / Sonno ai Lupercali, Ébriété / Ebrezza, Rodin / Rodin;

Guillaume Apollinaire: Le Pont Mirabeau / Il Ponte Mirabeau, Le voyageur / Il viag-giatore, La porte / La porta, Cors de chasse / Corni da caccia, Le musicien de Saint-Merry / Il musicante di Saint-Merry, La petite auto / La piccola auto, La boucle re-trouvée / La ciocca ritrovata, Désir / Voglia, Carte postale / Cartolina postale, Un oi-seau chante / Un uccello canta;

Albert Camus: Le taureau enfonce… / Il toro affonda…;

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Fernando Bandini: Sacrum hiemale / Festa d’inverno;

Pierre Corneille: da L’Illusion comique / L’illusione teatrale: Acte I Scène III, Acte II Scène II e IV, Acte III Scène IV e VII, Act IV Scène II e IV, Acte V Scène V.

• Franco Fortini, Il ladro di ciliege e altre versioni di poesia, Torino, Einaudi, 1982.

Premessa (pp. V-IX). Nota bibliografica (pp.XI-XIII).

John Milton: Lycidas / Lícida;

Anonimo tedesco: Es ist ein Schnitter / C’è uno che miete;

Johann Wolfgang Goethe: Ein zärtlich jugendlicher Kummer / Una sottile pena gio-vanile, Mignon / Mignon; da Faust I: Zueignung / Dedica, Studierzimmer / Studio (vv. 1447-1505), Studierzimmer / Studio (vv. 1583-1606), Abend / Sera (vv. 2759-2782); da

Faust II: Erster Akt / Atto primo (vv. 4679-1727), Dritter Akt / Atto terzo (vv. 9526-9561), Vierter Akt / Atto quarto (vv. 10725-10782), Fünfter / Akt (11298-11339); Nun weiss man erst / E che cosa è una rosa;

Heinrich Heine: Wenn ich an deinem Hause / Come sono contento;

Rainer Maria Rilke: Immer wieder, ob wir / E ancora, benché si conosca;

Karl Kraus: Sonntag / Domenica dopo la guerra;

Bertolt Brecht: Einst / Un tempo, Die Liebenden / Gli amanti, An die Nachgeborenen / A coloro che verranno, Legende von der Entstehung des Buches Taoteking auf dem Weg des Laotse in die Emigration / Leggenda sull’origine del libro Taoteking dettato da Laotse sulla via dell’emigrazione; da Die heilige Johanna der Schlachthöfe / Santa Giovanna dei Macelli: Vor der Viehbörse / Davanti alla Borsa Bestiame, Tod und Ka-nonisierung der heiligen Johanna / Morte e beatificazione di Santa Giovanna dei Ma-celli; Vier Aufforderungen an einen Mann von verschiedenen Seiten zu verschiedenen Zeiten / Quattro inviti a un uomo da parti diverse in tempi diversi, Der Anstreicher spricht von kommenden grossen Zeiten / L’imbianchino parla di grandi tempi a veni-re, Der Kirschdieb / Il ladro di ciliege, Schwierige Zeiten / Tempi duri, Ach, wie sollen wir die kleine Rose buchen / Come schedarla, la piccola rosa;

Peter Huchel: Der Gartem des Theophrast / Il giardino di Teofrasto;

Hans Magnus Enzensberger: Die werschwundenen / Gli scomparsi; Attila Jósef: Coscienza, Talpa antica porta peste;

Charles Baudelaire: da Les fleurs du mal / I fiori del male: Je te donne ces vers afin que si mon nom / A te do questi versi; Le Crépuscule du soir / La sera, Le Crépuscule du matin / L’alba;

Arthur Rimbaud: da Mémoire: Jouet de cet œil d’eau morne / Illuso da quest’orbita;

Bonne pensée du matin / Buona ispirazione del mattino;

Marcel Proust: da La Fugitive / La fuggitiva;

Alfred Jarry: Bardes et cordes / Bardi e corde;

Max Jacob: Avenue du Maine / Avenue du Maine;

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Paul Éluard: Pour vivre ici / Per vivere qui, Premièrement / Primamente, Avec tes yeux / Al lume dei tuoi occhi, Nous avons fait la nuit / Abbiamo fatta la notte, Pour un or-gueil meilleur / Per un orgoglio migliore, Toute la vie / Tutta la vita, La dernière nuit / L’ultima notte, Le mur / Il muro;

Antonin Artaud: La momie attachée / La mummia appesa;

André Frénaud: da Agonie du général Krivitski / Agonia del generale Krivitski, Auto-portrait / Autoritratto,

Raymond Queneau: Tant de sueur humaine / Tanto sudore umano, L’explication des métaphores / La spiegazione delle metafore.

• Mario Luzi, La Cordigliera delle Ande e altri versi tradotti, Torino, Einaudi, 1983. Premessa o confidenza (pp. V-IX). Nota bibliografica (pp. XI-XII).

Pierre de Ronsard: da Amours / Amori: Sur la mort de Marie / Copia da Ronsard (per la morte di Maria); Louise Labé: da Euvres / Opere: Sonnet XIV / Sonetto XIV, Sonnet XVI / Sonetto XVI, Sonnet XX / Sonetto XX;

Charles Augustin de Sainte-Beuve: da Vie, poésies, pensées de Joseph Delorme / Vita, poesie, pensieri di Jospeh Delorme: Les rayons jaunes / Riflessi gialli; Charles Baudelaire: da Les fleurs du mal / I Fiori del male: La vie antérieure / La vita anteriore;

Stéphane Mallarmé: da Plusieurs sonnets / Alcuni sonetti: Le vierge, le vivace… / Il vi-vido, l’intatto; da Autres poèmes / Altre poesie: Le chevelure vol d’une flamme / Un vo-lo la capigliatura una fiammata; da Plusieurs sonnets / Alcuni sonetti: Victorieuse-ment fui le suicide beau / Vittoriosamente fuggito il suicidio splendido, Ses purs ongles très haut dédiant leur onyx / Le pure unghie di lei elevando il loro onice; da L’après-midi d’un faune / Il pomeriggio d’un fauno;

Arthur Rimbaud: da Poésies / Poesie: Tête de faune / Testa di fauno;

Paul Valéry: da Charmes / Incanti: Cantique des colonnes / Cantico delle colonne;

Jules Supervielle: San Bernardino / San Bernardino; da Gravitations / Gravitazioni: Tiges / Fusti, da Le forçat innocent / Il forzato innocente: Cœur / Cuore; da Les amis inconnus / Gli amici sconosciuti: Le chevaux du temps / I cavalli del tempo; da Les Veuves / Le Vedove: Le regret de la terre / Il rimpianto della terra;

Henri Michaux: da Ecuador / Ecuador: La cordillera de los Andes / La cordigliera delle Ande, Nausée ou c’est la mort qui vient? / Nausea o è la morte?; da Plume / Pen-na: Sur le chemin de la mort / Sulla strada della morte, Mais toi, quand viendras-tu? / Ma tu quando verrai?;

André Frénaud: da Il n’y a pas de paradis / Non c’è paradiso: Il n’y a pas de paradis / Non c’è paradiso;

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René Guy Cadou: da Le diable et son Train / Il diavolo e il suo treno: La nuit surtout / La notte specialmente; da L’héritage fabuleux / L’eredità favolosa: Pour plus tard / Per dopo, da Les biens de ce monde / I beni di questo mondo: Lied / Lied; da Tout amour / Ogni amore: Tout amour / Ogni amore.

Jean Racine: da Andromaque / Andromaca: Acte I Scène II / Atto I Scena II, Acte II Scène V / Atto II Scena V, Acte III Scène I / Atto III Scena I, Acte III Scène IV / Atto III Scena IV, Acte III Scène VII / Atto III Scena VII, Acte III Scène VIII / Atto III Sce-na VIII, Acte IV Scène II / Atto IV Scena II, Acte IV Scène III / Atto IV Scena III, Acte V Scène I / Atto V Scena I. Jorge Guillén: da La fuente / La fonte, I / I, II / II, III / III. Informazione bibliografica (p. 95).

• Luciano Erba, Quadernetto di traduzioni in Il tranviere metafisico, Milano,

Scheiwiller, 1987. Il tranviere metafisico (pp. 9-30).

Jean de Sponde: Chi dall’alto del ciel, Passano l’acque;

Blaise Cendrars: Costruzione;

Pierre Reverdy: Natale a Parigi; Henri Michaux: La cordillera de los Andes;

Francis Ponge: La capra;

André Frénaud: I navigli di Milano;

Thom Gunn: Nevicata.

Riferimenti bibliografici (p. 66). Autoritratto (p. 67). Notizia (pp. 69-70).

• Alessandro Parronchi, Quaderno francese. Poesie tradotte con alcuni commenti, Firenze, Vallecchi, 1989.

Introduzione (pp. 5-6).

Tristan L’Hermite: da Le promenoir des amants / Sentiero dei due amanti; da La mer / Tempesta di mare: Consolation à Idalie sur la mort d’un parent / Consolazione a Idalia, per la morte d’un parente; Sonnet / Sonetto;

Jean Racine: da Britannicus / Britannicus: Acte II Scène II / Atto II Scena II, Acte V Scène VIII / Atto V Scena VIII; Gérard de Nerval: dai Sonnets / Sonetti: La tête armée / La testa armata, À Hélène de Mecklembourg / A Elena di Mecklembourg, À Madame Sand / Alla signora Sand, À Madame Ida Dumas / Alla signora Ida Dumas, Érythréa / Eritrea; da Les Chimères / Le Chimere: El desdichado / El desdichado, Myrtho / Myrtho, Horus / Horus, Antéros / Anteros, Delfica / Delfica / Delfica (riduzione), Artémis / Artemide, Le Christ aux oliviers / Il Crtisto agli ulivi, Vers dorés / Versi aurei;

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Charles Baudelaire: da Les fleurs du mal / I fiori del male: Le poison / Il veleno, La vie antérieure / La vita anteriore, Horreur sympathique / Orrore simpatico, À una pas-sante / A una passante, Les yeux de Berthe / Gli occhi di Berta, L’horloge / L’orologio,

Le crépuscule du matin / Crepuscolo della mattina, La servante au grand cœur / La serva dal grande cuore;

Stéphane Mallarmé: Dialogue des Nymphes / Dialogo delle Ninfe, Monologue d’un faune / Monologo d’un fauno, 2e Monologue / Secondo Monologo, Improvisation d’un faune / Improvviso d’un fauno, L’après-Midi d’un faune. Eglogue / Il pomeriggio d’un fauno. Egloga, Toast funèbre / Brindisi funebre, Brise marine / Brezza marina, Canti-que de Saint Jean / Cantico di San Giovanni; Arthur Rimbaud: da Poèsies / Poesie: Les corbeaux / I corvi, da Les premières commu-nions / Le prime comunioni, Voyelles / Vocali, Michel et Christine / Michele e Cristina,

Le bateau ivre / Il battello ebbro; da Une saison à l’Enfer / Una stagione all’Inferno:

Larme / Lacrima, Bonne pensée du matin / Pio pensiero mattutino, Chanson de la plus haute tour / Dalla torre più alta, canzone, Faim / Fame; da Les Illuminations / Le illuminazioni: Le pauvre songe / Il povero sogna, Bannières de mai / Stendardi di maggio;

Germain Nouveau: da Les cathédrales / Le cattedrali; Max Jacob: Il se peut / Può darsi, Vie et marée / Vita e marea, 1914 / 1914, Quelque-fois un poisson nageant / Talvolta un pesce nuotando, Cela / Questo, La balle / La pal-la;

Léon-Paul Fargue: La gare / La stazione, Postface / In ultimo;

Jean Cocteau: Le dimanche matin / La domenica mattina…; Apparition d’un bras dans une rue de Paris / Apparizione d’un braccio in una via di Parigi; Raymond Radiguet: Septentrion, dieu de l’amour / Settentrione, dio d’amore, Un cy-gne mort / Un cigno morto, L’étoile de Vénus / La stella di Venere, Automne / Autun-no;

Paul Éluard: Défense de savoir / Proibito sapere;

André Frénaud: Il n’y a pas de paradis / Non c’è paradiso, Une fumée / Fumata, Pour boire aux amis / Alla salute degli amici.

• Attilio Bertolucci, Traduzioni e imitazioni in Le Poesie, Milano, Garzanti, 1990.

William Shakespeare: da Come vi piace: Atto II, scena prima;

John Milton: dal Paradiso perduto: libro XII; Thomas Hardy: Fieri canterini, Climi, Al tempo dello «sfacelo delle nazioni», Il vento e la pioggia, Quando partii per Lyonnesse (1870), Romanza da chiesa (Mellstock: circa 1835), Coloro che non si guardavano, Bellezze di un tempo;

Rudyard Kipling: Epitaffi di guerra;

Robert Frost: La vacca al tempo delle mele, L’ospite di novembre, Polvere di neve;

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Ezra Pound: Lo zingaro;

John Crowe Ransom: Visione a Sweetwater, Ragazze azzurre, Qui giace una signora;

Edward Thomas: La semina, Il disgelo, Le ortiche, Adlestrop;

Marianne Moore: Critici e conoscitori, Silenzio;

Herbert Read: Fuochi di settembre;

Robert Graves: Lamento per Pasifae;

Cecil Day Lewis: L’allodola;

Louis Mac Neice: da Fuori quadro;

David Gascoyne: Un turbine improvviso;

André Frénaud: Paese ritrovato.

• Luciano Erba, Dei cristalli naturali e altri versi tradotti (1950-1990), Milano, Gue-

rini e Associati, 1991. Introduzione (pp. 7-10). Nota bibliografica (pp. 11-12)

Jean de Sponde: Qui seroit dans le cieux / Chi dall’alto del ciel, Je meurs / Martirio dell’assenza, Mais si mon foible corps / Passano l’acque, Qui sont, qui cont ceux-là / Chi son dunque costoro, Tout s’enfle contre moy / E tutto m’è minaccia;

Saint-Amant: L’esté de Rome / L’estate romana;

Georges Rodenbach: Dimanches / Domeniche, O ville, toi ma sœur / Città sorella, Sur l’horizon confus / Sinuosità del fumo, En des pays / So di paesi, Les cygnes blancs vont et viennent / Sul canale vengono e vanno;

Antonio Machado: La plaza y los naranjos / Mi sorride la piazza;

Blaise Cendrars: Journal / Giornale, Ma danse / La mia danza, Aux 5 coins / Quarta dimensione, Natures mortes / Nature morte, La tête / La testa, Construction / Costru-zione;

Henri Michaux: La Cordillera de los Andes / La Cordillera de los Andes;

Francis Ponge: Des cristaux naturels / Dei cristalli naturali, Le feu / Il fuoco, Bords de mers / Rive di mare, La forme du monde / La forma del mondo, La chèvre / La capra;

André Frénaud: Canaux de Milan / Navigli di Milano;

Thom Gunn: Touch / Tatto, Breakfast / Prima colazione, Taylor Street / Taylor Street, Dryads / Driadi, Snowfall / Nevicata, The Girl of Live Marle / La fanciulla di marmo vivo, The Produce District / I mercati generali, Back to Life / Di ritorno alla vita.

• Attilio Bertolucci, Imitazioni, Milano, Scheiwiller, 1994.

William Shakespeare: da Come vi piace: Atto II, scena prima;

John Milton: dal Paradiso perduto: Libro XII; William Wordsworth: La valle di Airey-Force, Per nocciole, dal Preludio, da

L’escursione;

Walter Savage Landor: Autunno, Jante, Su Catullo, Ultime foglie;

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Charles Baudelaire: da I fiori del male: 99, 100, 103. Crepuscolo del mattino;

Thomas Hardy: Fieri canterini, Climi, Bellezze di un tempo, Al tempo dello «sfacelo delle nazioni», Il vento e la pioggia, «Quando partii per Lyonnesse» (1870), Romanza da chiesa (Mellstock: circa 1835), Coloro che non si guardavano, Giacendo da svegli; Rudyard Kipling: Epitaffi di guerra;

Robert Frost: La vacca al tempo delle mele, Polvere di neve;

Carl Sandburg: Il rapido, Salmo per coloro che escono prima che sia giorno;

Edward Thomas: La semina, Il disgelo, Le ortiche, Adlestrop;

Ezra Pound: Lo zingaro;

Marianne Moore: Critici e conoscitori, Silenzio;

Thomas Stearn Eliot: Il viaggio dei Re Magi; John Crowe Ransom: Visione a Sweetwater, Ragazze azzurre, Qui giace una signora;

Archibald MacLeish: Pioggia sui morti; Herbert Read: Fuochi di settembre;

Robert Graves: Lamento per Pasifae;

Cecil Day Lewis: L’allodola;

André Frénaud: Paese ritrovato. Louis Macneice: da Fuori quadro;

David Gascoyne: Un turbine improvviso; Nota bibliografica (pp. 123-125).

• Nelo Risi, Compito di francese e d’altre lingue, introduzione di Franco Buffoni, Milano, Guerini e Associati, 1994.

Introduzione (pp. 7-9).

Jacques Prévert: Compositio française / Compito di francese;

Gérard de Nerval: Le réveil en voiture / Il risveglio in carrozza, Le relais / La stazione di posta, Le point noir / Il punto nero, Delfica / Delfica;

Robert Desnos: Deshabille-toi / Spogliati, Tu prends la première rue à droite / Tu prendi la prima strada a destra, Ombres des arbres dans l’eau / Ombre d’alberi sull’acqua, Je touche au fond / Tocco il fondo, Le dernier poème / L’ultimo poema;

Sandor Pëtofi: Etelkéhez / A Etelke;

Jules Supervielle: Ordre / Ordine, À Lautréamont / A Lautréamont, Pointe de flamme / Punta di fiamma, Une voix dit / Ecco una voce che dice;

Guillaume Apollinaire: Le départ / La partenza, La blanche neige / La bianca neve,

Les colchiques / I colchici, Les trois faux rois mages / I falsi re magi; Max Jacob: Noël / Natale, Noël breton / Natale bretone;

Raymond Queneau: L’instant fatal / L’istante fatale;

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Pierre Jean Jouve: Arianes / Arianne, Le cœur a son compte / Il cuore ha quello che si merita, Le retour de l’Épouse / Il ritorno della Sposa, Les adieux d’Orphée / Gli addi di Orfeo, Adieu I II III / Addio I II III; Costantinos Kavafis: Άπολείπειν ό Θεόζ Αντώνιον / Il dio abbandona Antonio, Τά

βήματα / I passi, Ρωτοΰσε για τήν ποιότητα / S’informava della qualità, Μιά νύχτα /

Una notte, Θυμήσου, σῶμα / Ricordati mio corpo;

André Frénaud: Pour boire aux amis / Levando il bicchiere agli amici, Une fumée / Un fumo, J’ai bâti l’idéale maison / Ho fabbricato la casa ideale, Espagne / Spagna;

Miklos Radnòti: Arckép / Ritratto, Csodàlkozol baràtném / Amica tu ti meravigli, Téli kòrus / Coro invernale, Hetedik ecloga / Settima egloga, Zsivajgò pàlmafàn / Palma vociderante, Szentkiràlyszabadja / Scritto fra le montagne;

Henri Michaux: Contre! / Contro!, Mon sang / Il mio sangue, Sur le chemin de la mort / Lungo il cammino della morte;

Vladimir Majakovskij:Флеŭma-noзвoнoчнuк, Прoлoᴤ I II III / Il flauto di vertebre, Prologo I II III.

• Giorgio Caproni, Quaderno di traduzioni, a cura di Enrico Testa, prefazione di Pier Vincenzo Mengaldo, Torino, Einaudi, 1998.

Premessa (pp. V-XI). Introduzione (pp. XIII-XXII). Nota al testo (pp. XXIII-L).

Guillaume Apollinaire: da Le Bestiaire: L’écrevisse / Il gambero; da Alcools, Zone / Zona, Les colchiques / I colchici, Marizibill / Marizibill, La voyageur / Il viaggiatore,

La blanche neige / La bianca neve, Nuit rhénane / Notte renana, Les cloches / Le cam-pane, Cors de chasse / Corni da caccia; da Calligrammes: Ombre / Ombra, C’est Lou qu’on la nommait / La chiamavano Lu, Exercice / Esercizio, Chevaux de frise / Cavalli di Frisia, L’avenir / L’avvenire, La jolie rousse / La rossina; da Il y a,: Le pont / Il pon-te, Allons plus vite / Andiamo più svelti, Fagnes de Wallonie / Torbiere di Vallonia,

Onirocritique / Onirocritica; da Poèmes à Lou: En allant chercher des obus / Andando in cerca di granate; da Le Guetteur mélancolique: Et toi mon cœur pourquoi bats-tu / E tu mio cuore perché batti; da Poèmes a Madeleine: La tranchée / La trincea.

René Char: da Poèmes et prose choisis: Congé au vent / Addio al vento, La compagne du vannier / La compagnia del cestaio, Le loriot / Il rigogolo, Gravité (L’emmuré) / Gravità (Il murato vivo), Conduite / Condotta, Le Visage nuptial / Il Volto nuziale,

Evadné / Evadné, Les trois sœurs / Le tre sorelle, Biens égaux / Beni eguali, Donner-bach Mühle… / Donnerbach Mühle…, Les inventeurs / Gli inventori, A la désespérade / Disperatamente, Pleinement / Pienamente, Pourquoi se rendre? / Perché arrendersi?, A*** / A***;

André Frénaud: da Il silenzio di Genova e altre poesie: Epitaphe / Epitaffio, Maison à vendre / Casa da vendere, Les Rois Mages / I Re Magi, Noël au chemin de fer / Natale ferroviario, Les rues de Naples / Le strade di Napoli; da Il n’y a pas de paradis: Qui

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possède quoi / Chi possiede, e che cosa?, Il n’y a pas de paradis / Non c’è paradiso, La vie, le vent / La vita, il vento, Machine inutile / Macchina inutile, Le prisonnier ra-dieux / Il radioso prigioniero, Plainte du dernier restanquère / Lamento dell’ultimo terrazzatore, Requiescat / Requiescat; Jacques Prévert: da Paroles: L’épopée / l’epopea, Rue de Seine / Rue de Seine, Chez la fleuriste / Dalla fioraia, Familiale / Quadretto domestico; da Spectale: En été comme en hiver / D’estate come d’inverno; da Paroles: Tentative de description d’un dîner de têtes à Paris-France / Tentativo di descrizione d’un pranzo di teste di cartapesta a Pa-rigi-Francia;

Paul Verlaine: da Romances sans paroles: O triste, triste était mon âme / Oh triste, tri-ste era il mio cuore, da Fêtes galantes: Le coquillages / Le conchiglie; da Romances sans paroles: C’est l’extase langoureuse / È un’estasi di languore; da Poème Saturniens: Un dahlia / Una dalia, Il bacio / Il bacio;

René Guy Cadou: da Hélène ou le Règne végétal: La tristesse / La tristezza; Henri Thomas: Le village, l’arbre / Il villaggio, l’albero, Hammersmith, hiver / Ham-mersmith, inverno;

Federico García Lorca: da Canciones: Arbolé, arbolé / Arbolé, arbolé; da Romancero gitano: La casada infiel / La sposa infedele, Llanto por Ignacio Sànchez Mejías / Pianto per Ignacio Sànchez Mejías; da El maleficio de la mariposa: Acto I Escena IV / Atto I Scena IV, Acto II Escena III / Atto II Scena III, Acto II Escena VI / Atto II scena VI; Manuel Machado: da Poesias: Los dias sin sol / I giorni senza sole, Dice la guitarra / Dice la chitarra, Cualquiera canta un cantar… / Una canta una canzone, La lluvia / La pioggia, La pena / La pena, Alegrías / Alegrías;

Théophile de Viau: Stances / Stanze;

Victor Hugo: da Les Contemplations: Elle était déchaussée, elle était décoiffée / S’era tolta le scarpe, e, spettinata;

Charles Baudelaire: da Les fleurs du mal: Le voyage / Il viaggio, Les litanies de Satan / Le litanie di Satana, Les petites vieilles / Le vecchine. Note (pp. 311-314).

2. Regesto delle principali raccolte di poesia tradotte dal francese

• Paul Valéry, Incanti, traduzione di Beniamino Dal Fabbro, Milano, Bompiani, 1942. Introduzione (pp. 5-21). Notizia biografica (pp. 23-25)

Aurora, Al platano, Cantico delle colonne, L'ape, Poesia, I passi, La cintura, La dor-miente, Frammenti del Narciso, La Pitia, Il silfo, L'insinuante, La falsa morta, Disegno

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di un serpente, Le melagrane, Il vino perduto, Interno, Il cimitero marino, Ode segreta, Il Rematore, Palma. Nota (p. 155).

• Germain Nouveau, Poesie di Humilis [traduzione di Alessandro Parronchi], Fi-renze, Libreria Editrice Fiorentina, 1945. Introduzione (pp. 7-10).

Immensità, Alle donne, Le mani, Il corpo e l’anima, Le cattedrali, La povertà, Umiltà (San Benedetto Labre), da Idillio, L’amore dell’amore;

Nota (p. 45).

• Stéphane Mallarmé, L’après-Midi d’un faune, preceduto dalla Genesi de L’après-Midi d’un faune di Charles Guyot, traduzione con testo a fronte di Alessandro Par-ronchi, Firenze, Il Fiore, 1945.

La genesi dell’Après-midi d’un faune (pp. 5-26). Nota (p. 27).

L’après midi d’un faune. Eglogue / Pomeriggio d’un fauno. Egloga.

• Stéphane Mallarmé, Il pomeriggio d’un fauno, a cura di Alessandro Parronchi, Fi-renze, Fussi, 1946.

La genesi dell’Après-midi d’un faune (pp. 9-29) [Charles Guyot].

L’Après-midi d’un faune / Il pomeriggio d’un fauno. Nota (pp. 47-52).

• Beniamino Dal Fabbro, Discorso e ode in morte di Paul Valéry. Instants, traduzio-ni, studi per un saggio, Milano, IEI, 1946.

Discorso (pp. 7-16). Ode (pp. 17-21). Instants di Paul Valéry (pp. 23-40). Traduzio-

ni: La filatrice, La selva amica, Narciso parla, Episodio, Estate, Tre frammenti da “La Jeune Parque”, Iscrizione rifiutata per la nuova fabbrica del Trocadero, Sinistro, La ballerina socratica. Studi per un saggio su Valéry: Poesia e poetica di “Charmes”, Mallarmé e Valéry, Un profilo, Degas Danse Dessein, Per il “Cantico delle colonne”, Per il “Cimitero marino”.

• Gérard de Nerval, Le chimere, a cura di Alessandro Parronchi, Firenze, Fussi,

1946. Introduzione (p. 9-21).

Alcuni sonetti: La tête armée / La testa armata, À Hélène de Mecklembourg / A Elena di Mecklembourg, À Madame Sand / Alla signora Sand, À Madame Ida Dumas / Alla signora Ida Dumas, Érythréa / Eritrea;

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Les Chimères: El desdichado / El desdichado, Myrtho / Myrtho, Horus / Horus, An-téros / Anteros, Delfica / Delfica / Delfica (riduzione), Artémis / Artemide, Le Christ aux oliviers / Il Cristo agli ulivi, Vers dorés / Versi aurei; Note (pp. 61-96).

• Paul Éluard, Poesia ininterrotta, traduzione di Franco Fortini, illustrazioni di Bruno Cassinari, Torino, Einaudi, 1948 [stampa 1947].

Poésie ininterrompue / Poesia ininterrotta, Moralité du sommeil / Moralità del sonno,

Le travail du poète / Il lavoro del poeta, La travail du peintre / Il lavoro del pittore, Á l’échelle animale / Alla misura animale, L’âge de la vie / Età della vita.

• Oreste Macrí, Il Cimitero Marino di Paul Valéry: studio critico, testo, versione me-trica, commento, Firenze, G.C. Sansoni, 1947.

In morte di Paul Valéry (pp. 1-3). Metrica e metafisica nel «Cimetière marin» (pp. 5-

16); Due prose di Paul Valéry: Ispirazioni mediterranee (pp. 19-38). Intorno al «Ci-metière marin» (pp. 39-53); Le cimtière marin / Il cimitero marino, Commento (pp.

69-104), Nota (pp. 105-108), Nota bibliografica e giustificazione (pp. 109-114).

• Rainer Maria Rilke, Poesie francesi, a cura di Giorgio Zampa e Piero Bigongiari, Milano, Cederna, 1948.

Vergers / Verzieri: Ce soir mon cœur fait chanter / Fa cantare stasera il mio cuore,

Lampe du soir, ma calme confidente / Lampada della sera, calma confidente, Reste tranquille, si soudain / Resta tranquillo, se a un tratto, Combien a-t-on fait aux fleurs / Quante si fanno a un fiore, Tout se passe à peu près comme / Tutto, quasi, è come se tu, Nul se sait, combien ce qu’il refuse / Tu non lo sai come stretto ti tiene, Paume / Palma, Notre avant-dernier mot / La parola penultima, Si l’on chante un dieu / Quando tu canti un dio, C’est la Centaure qui a raison / Ha ragione il Centauro se at-traversa, Corne d’abondance / Cornucopia, Comme un verre de Venise / Come un ca-lice veneziano, Fragment d’ivoire / Frammento d’avorio, La passante d’été / La pas-sante d’estate, Sur le soupir de l’amie / A un sospiro dell’amata, Petit Ange en porce-laine / Se l’occhio s’incanta, puttino, Qui vient finir le temple de l’amour? / Chi ha di-strutto il tempio dell’amore?, Eau qui se presse, qui court, - eau oublieuse / Acqua che corri, affannosa, smemorata; Éros / Eros: I O toi, centre du jeu / I Tu, o centro di quel giuoco, II O faisons tout pour cacher son visage / II Con un gesto timido e arrischiato,

III Là, sous la treille, parmi le feuillage / III Sotto la pergola, tra i pampini, IV Ce n’est pas la justice qui tient la balance précise / IV Non la giustizia regge l’esatta bilancia;

Que le dieu se contente de nous / Il dio sia contento di noi; Dans la multiple rencontre / A tutto si dia la sua parte; Les Anges, sont-ils devenus discrets / Gli Angeli, diventano discreti?, Combien le pape au fond de son faste / Quanto il Papa, dall’alto del suo fa-

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sto, C’est qu’il nous faut consentir / Devi, lo sai, consentire, On a si bien oublié / Gli iddii contrari e i loro, La fontaine / La fontana, Qu’il est doux parfois d’être de ton avis / Com’è dolce talvolta acconsentirti, La déesse / La dea; Verger / Verziere: I Peut-être que si j’ai osé t’écrire / I Forse per altro non ho osato scriverti, II Vers quel soleil gravi-tent / II Verso che sole inclinano, III Jamais la terre n’est plus réelle / III Mai la terra è tanto reale, IV De leur grâce, que font-ils / IV Della loro grazia questi, V Ai-je des sou-venir, ai-je des espérances / V Desti forse ricordi, forse desti speranze, VI N’était-il pas, ce verger, tout entier / VI Non era la tua veste chiara, intorno, VII Heureux verger, tout tendu à parfaire / VII O felice verziere, al compimento; Toutes les joie des aïeux / Tutte le gioie degli avi, Portrait intérieur / Ritratto interiore, Comment encore recon-naître / Come ancora ravvisare, Le sublime est un départ / Il sublime è una partenza,

Combien de ports pourtant, et dans ces ports / Quanti porti, tuttavia, e in questi porti, N’est pas triste que nos yeux se ferment? / Non è triste che gli occhi ci si chiudano?,

Puisque tout passe, faisons / Tutto passa: e allora, Souvent au-devant de nous / Spesso davanti a noi, Vues des anges, les cimes des arbres peut-être / Viste dagli angeli, forse, le cime degli alberi, O mes amis, vous tous, je ne renie / Amici, di voi non rinnego, Un cygne avance sur l’eau / Un cigno va sull’acqua, O nostalgie des lieux qui n’étaient point / O nostalgia dei luoghi non amati, Ce soir quelque chose dans l’air a passé / Qualcosa stasera è passato, Tel cheval qui boit à la fontaine / Un cavallo che beve alla fontana; Printemps / Primavera: I O mélodie de la sève / I Melodia della linfa, II Tout se prépare et va / II Lo vedi, tutto è pronto, III Montée des sèves dans les capillaires / III La linfa quando assale i capillari, IV C’est la sève qui tue / IV È la linfa che uccide,

V Que vaudrait la douceur / V Che sarebbe dolcezza, VI En hiver, la mort meurtrière / VI D’inverno la morte assassina, VII C’est de la côte d’Adam / VII Eva fu ricavata;

Cette lumière peut-elle / Questa luce può forse, Dans la blondeur du jour / Nel giorno fatto biondo, Le silence uni de l’hiver / Il silenzio compatto dell’inverno, Entre le ma-sque de brume / Tra le maschere opposte della nebbia, Le drapeau / La bandiera; La

fenêtre / La finestra: I N’es-tu pas notre géométrie / I Non sei la nostra geometria, fine-stra, II Fenêtre, toi, ô mesure d’attente / II Finestra, tu, misura dell’attesa, III Assiette verticale qui nous sert / III Piatto verticale ricolmo; A la bougie éteinte / Spenta la candela, la stanza, C’est le paysage longtemps, c’est une cloche / Il paesaggio, a lungo, una campana, On arrange et on compose / Tu sai disporre e ordinare, J’ai vu dans l’oeil animal / Ho visto nell’occhio animale, Faut-il vraiment tant de danger / Deve un’aria sempre arrischiata, La dormeuse / La dormiente, La biche / La cerva,

Arrêtons-nous un peu, causons / Fermiamoci un poco, parliamo, Tous mes adieux sonts faits. Tant de départs / Ho lasciato i miei addii. Tante partenze;

Les quatrains valaisans / Le quartine vallesane: Petite cascade / Cascatella, Pays, arrête à mi-chemin / Paese fermo a mezza costa, Rose de lumière, un mur qui s’effrite / Rosa di luce, un muro che si sgretola, Contrée ancienne, aux tours qui insistent / Con-

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trada antica, torri che persistono, Douce courbe le long du lierre / Tenera curva segna-ta dall’edera, Pays silencieux dont les prophètes se taisent / Paese silenzioso dai profeti, Vois-tu, là-haut, ces alpages des anges / Vedi lassù quei pascoli degli angeli, O bonheur de l’été: le carillon tinte / È felice l’estate, le campane, C’est presque l’invisible qui luit / È quasi l’invisibile che splende, O ces autels où l’on mettait des fruits / Oh quegli altari dove si posavano, Portons quand même à ce sanctuaire / E portiamo lo stesso al san-tuario, Le clocher chante / Il campanile, L’année tourne autour du pivot / L’annata gira intorno al perno, Un rose mauve dans les hautes herbes / Una rosa malva e tutt’intorno un’erba, Tout ici chante la vie de naguère / Qui tutto canta la vita d’un tempo, Quel calme nocturne, quel calme / Che calma notturna, che calma, Avant que vous comptiez dix / Da uno a dieci, e tutto, Chemin qui tourne et joue / Sentiero che gira e gioca, Tant de noir sérieux / Tanto austero nero, La petite clématite se jette / La piccola clemàtide si getta, Après une journée de vent / Caduto il vento, d’un tratto,

Comme tel qui parle de sa mère / Come colui che parla di sua madre, Ici la terre est entourée / Fascia la terra quanto, Voici encore de l’heure qui s’argente / Ecco ancora dell’ora che s’argenta, Le long du chemin poussiéreux / Lungo la via polverosa, Fier abandon de ces tours / Fiero abbandono delle torri, Les tours, les chaumières, les murs / Torri, capanne, mura, Pays qui chante en travaillant / Paese che canta lavorando,

Vent qui prend ce pays comme l’artisan / Vento che a questo paese si accosta come l’artigiano, Au lieu de s’évader / Non evade, consente, Chemins qui ne mènent nulle part / Sentieri tra due prati, che non vanno, Quelle déesse, quel dieu / Quale dea, quale dio, Ce ciel qu’avaient contemplé / Questo cielo contemplato, Mais non seulement le regard / Ma non soltanto lo sguardo, Au ciel, plein d’attention / Al cielo attento, Beau papillon près du sol / Bella farfalla che sfiorando il suolo; Appendice (dalle lettere da Muzot): Ad Arthur Fischer-Colbrie (pp. 135-139). Al dott. Eduard Korrodi (pp. 140-144). Nota dei traduttori (pp. 145-146).

• Arthur Rimbaud, Una stagione all’Inferno, a cura di Alessandro Parronchi, Firen-ze, Fussi, 1949. Introduzione (pp. 7-14).

Une saison en Enfer / Una stagione all’Inferno.

• Stéphane Mallarmé, Il monologo, l’Improvviso e Il pomeriggio d’un fauno, a cura di

Alessandro Parronchi, Firenze, Fussi, 1951.

Monologue d’un faune (1865) / Monologo d’un fauno; Improvisation d’un faune (1875) / Improvviso d’un fauno, L’après-midi d’un faune. Églogue (1876) / Il pomerig-gio d’un fauno. Egloga; Nota (pp. 49-67); Dialogue des nymphes (1865) / Dialogo delle ninfe; 2e Monologue (1865) / Secondo Monologo.

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• Paul Éluard, Poesie, con l’aggiunta di alcuni scritti di poetica, introduzione e tra-

duzione di Franco Fortini, Torino, Einaudi, 1955. Introduzione (pp. 15-63). Bibliografia delle opere di Paul Éluard (pp. 65-72)

da Le devoir et l'inquiétude: Anxieux / Ansioso, Me souciant / In pena, Fidéle / Fedele;

da Poèmes pour la paix / Poesie per la pace: I Toutes le femmes… / I Tutte le donne…,

II Splendide, la poitrine… / II Splendida, il seno…, VII J’ai eu longtemps… / VII Per molto tempo…, X Je rêve de toutes le belles… / X Sogno di tutte le belle…, XI Toute la fleur… / XI Tutto il fiore…;

da Pour vivre ici: Pour vivre ici / Per vivere qui; da Les animaux e leurs hommes: Poisson / Pesce, Mouillé / Liquido, Patte / Zampa;

da Les nécessités de la vie et les conséquences des rêves: Modèle / Modello, Le grand jour / La grande luce, Baigneuse du clair au sombre / Bagnante da chiaro a buio;

da Répétitions: Max Ernst / Max Ernst; da Mourir de ne pas mourir: L'amoureuse / L’innamorata, Sans rancune / Senza ran-core; Nudité de la vérité / Nudità della verità: La désespoir n’a pas d’ailes… / La dispe-razione è senz’ali…, Le monstre de la fuite… / Il mostro della fuga…, Sur ce ciel déla-bré… / Su questo cielo, Inconnue, elle était… / Ignota…;

da Capitale de la douleur: Première du monde / Prima al mondo, Les Gertrude Hoff-mann girls / Le Gertrude Hoffmann girls, Leurs yeux toujours purs / I loro occhi sempre puri, Ta chevelure d'oranges… / Quei tuoi capelli d’arance…, Elle est – mais elle n’est pas… / Ella è…, Ta bouche aux lèvres d'or… / Bocca di labbra d’oro…, La courbe de tes yeux… / La curva dei tuoi occhi…, Le miroir d'un moment / Lo specchio d’un istante;

da Les dessous d'une vie ou la pyramide humaine: La dame de carreau / La dama di quadri, Le cendres vivantes / Le ceneri vive, À la fenêtre / Alla finestra;

da L'amour la poésie: Premièrement / Primamente;

da À toute épreuve: L'univers-solitude / L’universo-solitudine: Une chanson de por-celaine… / Una canzone di porcellana;

da La vie immédiate: Belle et ressemblante / Bella e somigliante, Le mal / Il male, Nuits partagées / Notti condivise, La facilité en personne / La facilità in persona, Nusch / Nusch, Critique de la poésie / Critica della poesia, Oser et l'espoir / Osare e la speranza;

da La rose publique: Comme deux gouttes d'eau / Come due gocce d’acqua: De tout ce que j’ai dit… / Di quanto ho detto…, Filles de rien… / Ragazze da nulla…; Une per-sonnalité toujours nouvelle... / Una personalità sempre nuova…, Ce que dit l'homme de peine… / Quel che dice l’uomo di pena…, Je ne cesse… / Non smetto mai…;

da Facile: Tu te lèves… / Ti levi... , L'entente / L’intesa, Nous avons fait la nuit… / Ab-biam fatta la notte;

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da Les yeux fertiles: On ne peut me connaître / Nessuno può conoscermi, Être / Essere, La tête contre les murs / La testa contro i muri, À Pablo Picasso / A Pablo Picasso, In-times / Intime;

da Les mains libres: Belle main / Bella mano, La liberté / La libertà;

da Cours naturel: Sans âge / Senza età, Quelques-uns des mots qui, jusqu'ici, m'étaient mystérieusement interdits / Alcune delle parole che, finora, mi erano misteriosamente vietate, Une pour toutes / Una per tutte, Paroles peintes / Parole dipinte, Entre autres ombres / Fra altre ombre, Pour un orgueil meilleur / Per un orgoglio migliore, No-vembre 1936 / Novembre 1936, La victoire de Guernica / La vittoria di Guernica, Té-nèbres de janvier / Tenebre di gennaio, Les veillées perpétuelles / Le veglie perpetue;

da Chanson complète: Nous sommes / Noi siamo, Fin d'un monstre / Fine di un mos-tro, Les vainqueurs d'hier périront / I vincitori di ieri morranno;

da Médieuses: Je ne suis pas seul / Non sono solo, Médieuses / Médieuses; da Le livre ouvert i: «Je veux qu'elle soit reine!» / «Voglio che sia regina!», Vivre / Vi-vere, Crier / Gridare, Justice / Giustizia, Mourir / Morire, Mourir / Morire; Règnes /

Regni: I Tôt sur la terre… / Subito al mondo…;

da Le livre ouvert ii: Mes heures / Le mie ore, Moralité du sommeil / Moralità del son-no, Toute la vie / Tutta la vita, Le droit le devoir de vivre / Il diritto il dovere di vivere; da Poésie et vérité: Sur les pentes inférieures / Sui declivi inferiori, Première marche la voix d'un autre / Primo gradino la voce d’un altro, La halte des heures / La sosta delle ore, Un loup / Un lupo, Du dedans / Dall’interno, Liberté / Libertà, Dimanche après-midi / Domenica pomeriggio, Douter du crime / Dubitare del delitto, La dernière nuit / L’ultima notte;

da Au rendez-vous allemand: Avis / Ordinanza, «Un petit nombre d'intellectuels…» / «Alcuni intellettuali…», Le sept poèmes d'amour en guerre / Le sette poesie d’amore in guerra, Comprenne qui voudra / Lo capisca chi può, Gabriel Péri / Gabriel Péri, Faire vivre / Far vivere;

da Le lit la table: L'aube dissout les montres / L’alba dissolve i mostri, Critique de la poésie / Critica della poesia, Le mur / Il muro;

da Poésie ininterrompue: Poésie ininterrompue / Poesia ininterrotta: Tous les mots se reflètent… / Ogni parola…, Si nous montions… / Se volessimo…; Le travail du poète / Il lavoro del poeta: VII Je sais… / Lo so…; L'âge de la vie / L’età della vita: VII En dépit des pierres… / Malgrado le pietre…;

da Le dur désir de durer: Nous n'irons pas au but… / Non verremo alla meta;

da Poémes politiques: De l'horizon d'un homme à l'horizon de tous / Dall’orizzonte di un uomo all’orizzonte di tutti, Égolios / Egolios, «La poésie doit avoir pour but la véri-té pratique / «La poesia deve avere quale suo fine la verità pratica», En Espagne / In Spagna, Aujourd'hui / Oggi, Sœurs d'espérance / Sorella di speranza;

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da Une leçon de morale: Camarades mineurs… / Compagni minatori…, Sans rire / Senza ridere, Le langage des couleurs / Il linguaggio dei colori, Grèce ma rose de raison / Grecia rosa di ragione: I Le soir recule / La sera indietreggia;

da Tout dire: Bonne justice / Buona giustizia, Tout dire / Dir tutto;

da Le phénix: La mort l'amour la vie / La morte l’amore la vita;

da Poésie ininterrompue ii: Épitaphes / Epitaffi: Arrête-toi… / Fermati ora.., Ceux qui m’ont mis à mort… / Coloro che morte mi han data. Appendice. Prose: Fisica della poesia (pp. 505-509). L’evidenza poetica (pp. 510-519). Lo specchio di Baudelaire (pp. 520-522). Una lezione di morale (pp. 523-527).

Prefazione alla Prima antologia vivente della poesia del passato (pp. 528-535). Da La poesia è contagiosa (pp. 536-540). Da La poesia di circostanza (pp. 541-555).

• In viaggio con Supervielle, versioni di Nelo Risi da Jules Supervielle, disegni di Mitty Risi, Milano, All’insegna del pesce d’oro, 1956. Introduzione (pp. 5-6).

Pointe de flamme / Punta di fiamma, Cœur / Cuore, Le portrait / Il ritratto, La reve-nante / Il fantasma, Tiges / Steli, Vertige / Vertigine, Ordre / Ordine, Le survivant / Lo scampato, A Lautréamont / A Lautréamont, Une voix dit: «C’est pour bientôt» / Ecco una voce che dice: «Ci siamo»; Nota bibliografica (p. 60).

• Pierre Jean Jouve, Poesie, a cura di Nelo Risi, con una presentazione di Giuseppe Ungaretti, Roma, Carucci, 1957. Presentazione (pp. VII-IX) [G.U.]. Prefazione (pp. XI-XXXIV) [N.R].

Da Le Paradis Perdu: L’arbre et la main / L’albero e la mano, Le donneur de conseil / Il consigliere, Actus / Actus, Premier amour / Primo amore, Elle revient / Il ritorno, La faute / La colpa, Les ceintures / Le cinture, …Sous le pleur de la nuit / …Sotto il pianto della notte;

da Les noces: Ces femmes soyeuses des théâtres d’argent / Queste seriche donne da mercato, Brûle ces cœurs ce sont des silex / Questi cuori sono selci, La mélancolie d’une belle journée / La malinconia di una bella giornata; Une colombe / Una colomba,

Lombes de satin / Lombi di raso; Géants / Giganti, Autres géants / Altri giganti, Voya-geurs dans un paysage / Viaggiatori nel paesaggio, Larmes / Lacrime;

da Sueur de sang: La tache / La macchia, Par contre, paysage / In compenso, paesag-gio, Arianes / Arianne, La fourrure de la fille / La pelliccia della fanciulla, O Pandore / O Pandora, La reine de Saba / La regina di Saba, Sur la pente / La china;

da Matière céleste: À l’autre monde / All’altro mondo, Une seule femme endormie / Una sola donna addormentata, Pays d’Hélène / Paese di Elena, Thème d’Hélène / Te-ma di Elena;

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da Kyrie: J’ai payé par des actes de douleur / Ho pagato con atti di dolore, Cheval roux / Cavallo rosso, Cheval noir / Cavallo nero;

da La vierge de Paris: Je ne vous parlerai pas d’ombre / Non vi parlerò dell’ombra, Le vent hurle à la mort / Il vento urla in morte, Elles ne sont plus les montagne bleues / Addio ai monti blu, Comme je suis sortie nue sous mon voile triste / Nuda sotto il mio velo triste;

da Hymne: Plaine des renards / Piana delle volpi, Va vivre, Liberté / Vivi, Libertà, Myrrha / Mirra, Fin du monde / Fine del mondo, Sur trois manuscrits incendies / Su tre manoscritti dati alle fiamme, Le retour de l’épouse / Il ritorno della sposa, Sac de froment / Sacco di frumento, Le baiser du soir / Il bacio della sera, Car la beauté / Per-ché il bello, Vaugirard / Vaugirard, L’art qui parle de Dieu / Langue di Dio, C’est une chose dure que ton âme / La tua anima;

da Diadème: Le passage / Il passaggio, Abrahm / Abramo;

da Ode: Furieux / Iroso;

da Langue: Dès profondeurs du pays sans nom / Dal profondo del sito senza nome, Le cœur a son compte / Il cuore ha quello che si merita, D’où venus? D’où venus? / Da do-ve, da dove venuti? Bibliografia essenziale (pp. 177-179).

• Blaise Cendrars, Poesie, a cura di Luciano Erba, Milano, Nuova Accademia, 1961529. Introduzione alla poesia di Cendrars (pp. 7-31). Calendario di Blaise Cendrars (pp. 33-38). Nota bibliografica (pp. 39-48). Nota bibliografica (pp. 39-42).

Dal Mondo intero / Du Monde entier: Pasqua a New York / Les Pâques à New York, Prosa della Transiberiana e della piccola Jeanne de France / Prose du transsibérien et de la petite Jeanne de France, Panama ovvero le avventure dei miei sette zii / Le Pa-nama ou les aventures de mes sept oncles;

Dalle Diciannove poesie elastiche / Dix-neuf poème élastiques: I. Giornale / I Jour-nal, 3 Contrasti / 3 Contrastes, 4: I. Ritratto / 4 I. Portrait, II Atelier / II Atelier, 5 La mia danza / 5 Ma danse, 10 Ultima ora / 10 Dernière heure, 11 Bombay Express / 11 Bombay Express, 12 F.I.A.T. / 12 F.I.A.T., 13 Quarta dimensione / 13 Aux 5 coins, 14 Nature morte / Natures mortes, 15 Fantômas / 15 Fantômas, 17 Me too buggi / 17 Me too buggi, 18 La testa / 18 La tête, 19 Costruzione / 19 Construction;

529 I testi originale non sono a fronte ma posti in coda all’insieme delle traduzioni. Per comodità in que-sta sede i titoli sono giustapposti immediatamente di seguito a quelli delle versioni.

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Dai Documentari / Documentaires: West, I Roof-Garden / I Roof-Garden, III Anfi-trione / III Amphitryon, VI Giovin Signore / VI Jeune homme, VII Lavoro / VII Tra-vail; Far-West: V Club / V Club, VII La Ville-de-Frisco / VII Ville-de-Frisco; Menù / Menus;

Dalle Note di viaggio / Feuille de route: Sei più bella del cielo e del mare / Tu es plus belle que le ciel et la mer, Lettera / Lettre, Verso Dakar / En route pour Dakar, Gli av-voltoi / Les charognards, Tramonti / Couchers de soleil, Completo bianco / Complet blanc, Orione / Orion, Rio de Janeiro / Rio de Janeiro, San Paolo / Saint-Paul, Svelato l’incognito / Incognito dévoilé, Vita pericolosa / Vie dangereuse, Errori / Coquilles, Hic haec hoc / Hic Haec hoc, Il carpentiere / Le charpentier, L’avevo detto / Je l’avais bien dit, Cristoforo Colombo / Christophe Colomb, Picco / Pic, Perché / Pourquoi, Ballo / Bal; da Donne del Sudamerica e dalle Poesie diverse / Sud-américaines et Poème divers:

Donne del Sudamerica I / Sud-americaines I, Omaggio a Guillaume Apollinaire / Hommage a Guillaume Apollinaire;

da Nel cuore del mondo / Au cœur du monde: Questo cielo di Parigi / Ce ciel de Pa-ris, Albergo Notre-Dame / Hotel Notre-Dame, A un tratto mugghiano le sirene / Soudain les sirènes mugissent, Sono in piedi sul marciapiedi / Je suis debout le trottoir, Siccome era al completo / Comme elle était au complet, Hôtel des étrangers / Hôtel des étrangers. Note (pp. 171-176). Testi originali (pp. 177-248).

• Nelo Risi, Dal paradiso perduto di Pierre Jean Jouve, con un disegno di Renato Bi-rolli, Bologna, Edizioni della Lanterna, 1961.

Prologue / Prologo: Les Nombres / I Numeri, Mouvement / Movimento, Nataniel et la Chute / Nataniele e la Caduta, Désir et Chagrin / Desiderio e rimpianto;

Le Paradis / Il Paradiso: Le double Adam / Il doppio Adamo, L’Arbre et la Main / L’Albero e la Mano, Le Donneur de Conseil / Il Consigliere, Actus / Actus, Premier Amour / Primo Amore, Elle revient / Il ritorno, La Faute / La Colpa, Conscience / Co-scienza, Les Ceintures / Le Cinture;

Les Sentences / Le Sentenze: Les Sentences / Le Sentenze, Destruction / Distruzione,

Les Chérubins du Ciel / I Cherubini del Cielo; Nota all’Opera (pp. 67-68). Nota (p. 69). Bibliografia (pp. 71-73).

• Paul Valéry, Poesie, traduzione in versi di Beniamino Dal Fabbro, Milano, Feltri-nelli, 1962. Prefazione (pp. 5-19).

Album di versi giovanili: La filatrice, Elena, Orfeo, Nascita di Venere, Fantasia, La stessa Fantasia, La bagnante, L’addormentata nel bosco, Cesare, La selva amica, Le

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vane ballerine, Le vane ballerine, Una nitida fiamma…, Narciso parla, Episodio, Ve-duta, Valvins, Estate, Estate, Profusione della sera (poema incompiuto), Anna, Aria di Semiramide, L’appassionato di poesia; La giovane Parca;

Gli Incanti: Aurora, Al Platano, Cantico delle colonne, L’ape, Poesia, I passi, La cintu-ra, La dormiente, Frammenti del Narciso, La Pitia, Il silfo, L’insinuante, La falsa mor-ta, Disegno d’un Serpente, Le melagrane, Il vino perduto, Interno, Il cimitero marino,

Ode segreta, Il rematore, Palma;

Poesie varie d’ogni epoca: Neve, Sinistro, Colloquio (per due flauti), La distratta, Insi-nuante II, Crudele uccello, All’aurora, La carezza, Equinozio, Elegia, Canzone intima; Nota (pp. 161-164).

• René Char, Poesia e prosa [traduzioni di Giorgio Caproni e Vittorio Sereni], Mi-lano, Feltrinelli, 1962. Prefazione (pp. 7-14) [g.c.]

Les poings serrés / I pugni stretti, Congé au vent / Addio al vento, La compagne du vannier / La compagna del cestaio, Envoutement à la Renardière / Malia alla Renar-dière, Le loriot / Il rigogolo, L’absent / L’assente, Le devoir / Il dovere, L’épi de cristal égrène dans les herbes sa moisson transparente / La spiga di cristallo sgrana fra l’erbe la trasparente messe; Neuf poèmes pour vaincre / Nove poesie per vincere: Chant du refus (Début du partisan) / Canto del rifiuto (Esordio del partigiano), Vivre avec de tels hommes / Vivere con uomini tali, Ne s’entend pas / Non s’ode, Carte du 8 novem-bre / Carta dell’8 novembre, Louis Curel de la Sorgue / Louis Curel de la Sorgue, Le bouge de l’historien / Il bugigattolo dello storico, Plissement / Avvallamento, Homma-ge et famine / Omaggio e fame, La liberté / La libertà; Gravité / Gravità, Conduite / Condotta, Le Visage nuptial / Il volto nuziale, Évadné / Évadné, Post-scriptum / Post scriptum; Feuillets d’Hypnos / Fogli d’Ipnos; Les trois sœurs / Le tre sorelle, Biens égaux / Beni eguali, Donnerbach Muhle / Donnerbach Mühle, Hymne a voix basse / Inno sottovoce, J’habite une douleur / Io abito un dolore, L’extravagant / Lo strava-gante, Seuil / Soglia, Le requin et la mouette / Lo squalo e il gabbiano, Le bulletin des Baux / Il bollettino dei Baux, Jacquemard et Julia / Jacquemard e Julia, Marthe / Mar-ta, Suzerain / Suzerain, Affres, détonation, silence / Spasimo, scarica, silenzio, A la santé du serpent / Alla salute del serpente, Chanson du velours à côtes / Canzone del velluto a coste, Lyre / Lira, Sur la nappe d’un étang glacé / Sulla tovaglia d’uno stagno gelato, Madeleine à la veilleuse par Georges de la Tour / La Maddalena del lumino di Georges de la Tour, Fastes / Fasti, Á une ferveur belliqueuse / A un bellicoso fervore,

Les premiers instants / I primi istanti, La Sorgue. Chanson pour Yvonne / La Sorga. Canzone per Yvonne, Le martinet / Il rondone, Allégeance / Obbligo di fedeltà, Le Thor / Il Thor, Pénombre / Penombra, Cur secessisti? / Cur secessisti?, Cette fumée qui

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nous portait / Quel fumo che ci sosteneva, Redonnez-leur… / Ridate loro…, Dis… / Di’…, Prière rogue / Preghiera arrogante, Georges Braque intra-muros / Georges Bra-que intra-muros, Un oiseau… / Un uccello…, Crayon du prisonnier / Matita del pri-gioniero, Débris mortels et Mozart / Rottami mortali e Mozart, A une enfant / A una bambina, Auxiliaires / Ausiliari, Compagnie de l’écolière / Compagnia della scolara,

Corail / Corallo, Complainte du lézard amoureux / Lamentazione della lucertola in-namorata, Fête des arbres et du chasseur / Sagra degli alberi e del cacciatore, Les Transparents / I Trasparenti, Huis de la mort salutaire (L’interrogatoire total) / Uscio della morte salutare (L’interrogatorio totale), Qu’il vive! / Che viva!, Pyrénées / Pire-nei, Hermétiques ouvriers… / Ermetici operai…, Dédale / Labirinto, Le tout ensemble / Tutto insieme, Le carreau / Il vetro della finestra, Les nuits justes / Le notti giuste,

L’adolescent souffleté / L’adolescente schiaffeggiato, L’amoureuse en secret / L’innamorata in segreto, Les lichens / I licheni, Recours au ruisseau / Ricorso al ruscel-lo, Centon / Centone, Joue et dors… / Gioca e dormi, Les inventeurs / Gli inventori, Le masque funèbre / La maschera funebre, Montagne déchirée / La montagna dilaniata,

Anoukis et plus tard Jeanne / Anoukis e poco dopo Jeanne, Les seigneurs de Maussane / I signori di Maussane, Á la désespérade / Disperatamente, Pleinement / Pienamente,

Pourquoi se rendre? / Perché arrendersi?, A*** / A***, La paroi et la prairie. Lascaux / La parete e il prato. Lascaux: Homme-oiseau mort et Bison mourant / Uomo-uccello morto e Bisonte morente, Les Cerfs noirs / Cervi neri, La Bête innommable / La Bestia innominabile, Jeune cheval à la crinière vaporeuse / Cavallino dalla vaporosa criniera;

Transir / Intirizzire, Quatre fascinants / Quattro creature affascinanti: Le Taureau / Il Toro, La Truite / La Trota, Le Serpent / Il Serpente, L’Alouette / L’Allodola; La minu-tieuse / La minuziosa, L’une et l’autre / L’una e l’altra, Épitaphe / Epitaffio, Neuf mer-ci / Nove ringraziamenti, Chant d’insomnie / Canto d’insonnia, Le deuil des Névons / Il lutto dei Nevons, L’inoffensif / L’inoffensivo, Le mortel partenaire / Il mortale com-pagno di gioco, Front de la rose / Fronte della rosa, La double tresse / La doppia trec-cia, Le vipéreau / Il viperotto, Bonne grâce d’un temps d’avril (La passante de Sceaux) / Garbo d’una giornata d’aprile (La passante di Sceaux), Vermillon / Vermiglione,

Marmonnement / Borbottio, La chambre dans l’espace / La stanza nello spazio, Rap-port de marée / Rapporto di marea, Invitation / Invito, Le risque et le pendule / Il ri-schio e il pendolo, Victoire éclair / Vittoria lampo, Le bois de l’Epte / Il bosco dell’Epte,

Toute vie… / Ogni vita…, Tu es pressé d’écrire… / Hai premura di scrivere…, Partage formel / Spartizione formale, Argument / Argomento, Rougeur des matinaux / Rossore dei mattinieri, De moment en moment / Di momento in momento, Á une sérénité cri-spée / A una serenità contratta, Le rempart de brindilles / Il bastione di fuscelli, La bi-bliothèque est en feu / La biblioteca è in fiamme, Les compagnons dans le jardin / I compagni nel giardino, Sur une nuit sans ornement / Su una notte senza ornamento,

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Heureuse la magie… / Felice la magia…, Nous resterons attachés… / Resteremo avvin-ti…, Remise / Rinvio.

• André Frénaud, L’agonia del generale Krivitski, traduzione di Franco Fortini, Mi-lano , Il Saggiatore, 1962. Nota (pp. 9-10).

Agonie du Général Krivitski / L’agonia del generale Krivitski

• Pierre Jean Jouve, Poesie, traduzione, introduzione, bio-bibliografia a cura di Nelo

Risi, Milano, Lerici, 1963. Introduzione (pp. 9-31). Biografia (pp. 33-37). Bibliografia (pp. 39-42).

Da Les Noces / Le Nozze: Chant de reconnaissance / Canto di riconoscenza, Cynthia / Cinzia, Des Désert / Deserti, La Mélancolie d’une belle journée / La Malinconia di una bella giornata, Jeune Mort / Giovane Morta, Géants / Giganti, Autres géants / Altri giganti, Voyageurs dans un paysage / Viaggiatori in un paesaggio, Larmes / Lacrime;

da Sueur de Sang / Sudore di Sangue: Crachats / Sputi, La Tache / La Macchia, De-struction / Distruzione, Par contre, paysage / In compenso, paesaggio, Arbre nu dévo-rant, ô mère et terre et mort / Nudo albero che divora, Où as-tu mis l’odeur de tes no-bles navires? / Dove l’hai messo, Arianes / Arianne, La fourrure de la fille et encor plus bas / La pelliccia della ragazza e più già ancora, Combats des Yeux / Occhio per Oc-chio, O Pandore, il n’y a que chaleur dans tes membres / O Pandora, non hai che calo-re nelle membra, Cerf de la Nuit / Cervo della Notte, Le cerf naît de l’action la plus claire / Il cervo nasce dall’azione più chiara, Lamentation au Cerf / Lamento per il Cervo, Le Cristal / Il Cristallo, La reine de Saba porte un vert diadème / La regina di Saba porta un verde diadema, Sur la pente / In discesa;

da Matière Céleste / Celeste Materia: À l’autre Monde / All’altro Mondo, Une seule femme endormie / Una sola donna addormentata, Pays d’Hélène / Paese di Elena,

Nada / Nada, Thème d’Hélène / Tema di Elena, La Chasse / La Caccia, Fugue / Fuga,

La langue et les murs / La lingua e i muri, La putain de Barcelone / La puttana di Bar-cellona, Catastrophe / Catastrofe, À une Créature / A una Creatura, Front / Fronte,

Les adieux d’Orphée / Gli addii di Orfeo;

da Kyrie / Kyrie: La nuit / La notte, J’ai payé par des actes de douleur / Ho pagato con atti di dolore, con atti, Mozart dans la fosse commune / Mozart nella fossa comune,

Nous avons étonné par nos grandes souffrances / Il nostro soffrir molto finì per smuo-vere, Nos derniers cris / Gli ultimi gridi, Cheval blanc / Cavallo bianco, Cheval roux / Cavallo rosso, Cheval noir / Cavallo nero, Cheval jaune / Cavallo giallo, Le Cheval noir que tu as envoyé / Il nero Cavallo che inviasti, Alors on attendait la pluie / La pioggia, com’era attesa!, Je te prends je te laisse / Ti prendo ti lascio, Tes mains regar-

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Capitoli autobiografici. Poeti che traducono poeti dagli ermetici a Luciano Erba

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dent / Le tue mani guardano, La nuit s’étend par delà mes tombeaux / La notte va ol-tre le mie tombe, Adieu / Addio;

da La Vierge de Paris / La Vergine di Parigi: Glorieux accident, mort / Morte glorioso accidente, Nuits des Saints / Notte dei Santi, Je ne vous parlerai pas d’ombre / Non vi parlo dell’ombra, Le vent hurle / Il vento urla, Elles ne sont plus les montagnes bleues / Addio ai monti blu, Comme je suis sortie nue sous mon voile / Nuda sotto il mio velo,

A une Soie / A una Seta, Le Bois des Pauvres / Il Bosco dei Poveri: I / I, II / II, III / III, IV / IV; Ma nuit / La mia notte, Rue Saint-Sulpice / Rue Saint-Sulpice, Rue de Rivoli / Rue de Rivoli; Hymne / Inno: Plaine des Renards / Pian delle Volpi, Va vivre, Liberté / Vivi, Libertà,

Fin du monde / Fine del mondo, Le retour de l’Épouse / Il ritorno della Sposa, L’art qui parle de Dieu ne gémit / Langue di Dio l’arte, C’est une chose dure que ton âme / La tua anima, dura cosa!; Diadème / Diadema: Des profondeurs du pays sans nom / Dal profondo del sito senza nome, Le cœur a son compte / Il cuore ha quello che si merita, Les actes du poète aussi lourds et douteux / Gli atti del poeta, incerti e duri, Et d’où vient l’étendue de votre île / E da dove viene quest’estensione d’isola, Les abysses de la sirène / Gli abissi della si-rena, Dans cette saison où muait le monde / Nella stagione in cui l’attuale mondo, J’ai connu la plus humble fille / Ho incontrato la più umile ragazza, D’où venus? d’où ve-nus? / Da dove da dove venuti?;

Lyrique / Lirico: Phénix / Fenice: I / I, II / II, III / III, IV / IV, V / V; Invention sur un thème / Invenzione su un tema, Le mystère engendrant / Il mistero che genera, Cette épaisse douleur / Questo dolore folto, Sur un mystère / Dentro un mistero, Notre créance sur l’inconnu / Il nostro credito sull’ignoto, Comment vivrait-il ce Chant / Che vita mai può avere questo Canto, O Beauté, inaltérable inexplicable / O Bellezza, in-sensata immutabile, Et chargé de ses biens / E carico dei suoi beni, J’ai rêve d’un cœur de la pierre / Ho sognato di un cuore;

Mélodrame / Melodramma: Voyageur / Viaggiatore, Le Voyageur arrive / Arrivo del viaggiatore, Adieu: I / I, II / II, III / III; Inventions / Invenzioni: Sente / Sentiero, Nuages / Nuvole, Dans le nu souvenir / Nel ricordo puro, Les cheveux étaient blonds / I capelli erano biondi, Rien n’a changé / Non è cambiato niente, Dès lors il n’y eut-plus / Dopodiché niente più, J’ignore / Io ignoro, Or il disait / Ergo, diceva, Et chargé de ses biens / E carico dei suoi beni: Dans un temple de ruine / In un tempio di rovina, Elle tremble parfois / Nei suoi deliri di pece, Et chargé de ses biens / E carico dei suoi beni, Que tout ceci peine avec joie / Che tuttociò si affatichi con gioia;

Moires / Destini: Disjecta membra / Disjecta membra, Le travail est abîme / Il lavoro è baratro, Portrait / Ritratto; Indice delle illustrazioni (pp. 329).

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• André Frénaud tradotto da Attilio Bertolucci, Giorgio Caproni, Luciano Erba, Franco Fortini, Mario Luzi, Giorgio Orelli, Alessandro Parronchi, Pier Paolo Pasolini, Nelo Risi, Vittorio Sereni, Sergio Solmi, Maria Luisa Spaziani, Giuseppe Ungaretti, Diego Valeri, Elio Vittorini, Andrea Zanzotto con un ritratto di Ottone Rosai, Milano, All’insegna del pesce d’oro, 1964.

Sans amour / Senza amore [g.o.], Exhortation aux pauvres / Esortazione ai poveri [p.p.p.], Haineusement mon amour la poésie / Rabbiosamente l’amore mio la poesia [a.z.], Air du colporteur / Aria del venditore ambulante (d.v.), Autoportrait / Autori-tratto (f.f.), Il n’y a pas de paradis / Non c’è paradiso (m.l.), Le Tholonet-Cézanne / Il Tholonet-Cézanne (m.l.s.), Perplexité à propos d’une étoile chaude / Perplessità su di una stella calda (n.r.), J’ai bâti l’idéale maison / Ho costruito la casa ideale (s.s.), Bord de la mer et schistes à Collioure / Riva del mare e schisti a Collioure (s.s.), Une fumée / Fumata (a.p.), Epitaphe / Tutto sarà in ordine (g.u.), Canaux de Milan / Navigli di Milano (l.e.), Ancienne mémoire / Antica memoria (v.s.), Pays retrouvé / Paese ritro-vato (a.b.), Les rues de Naples / Le strade di Napoli (g.c.), À propos de Mantegna / A proposito di Mantegna (e.v.) Biographie (p . 63). Bibliographie (pp. 65-66).

• André Frénaud, Il silenzio di Genova e altre poesie, traduzione di Giorgio Caproni,

Torino, Einaudi, 1967. Introduzione (pp. 5-9) [Guido Neri]. Nota bio-bibliografica (pp. 10-11)

Le silence de Genova / Il silenzio di Genova, Epitaphe / Epitaffio, Paysage / Paesaggio, Le petite fille / La fanciullina, La mort du fils prodigue / La morte del figliol prodigo, Femme déserte / Donna deserta, La chasse / La caccia, La nouvelle pâte / La nuova pa-sta, La création de soi / La creazione di sé, L'honneur de vivre / L’onore di vivere, Mai-son a vendre / Casa da vendere, Sur la mer des Caraïbes / Sul mar dei Caraibi, Les Rois Mages / I Re Magi, Noël au chemin de fer / Natale ferroviario, Tombeau de mon père / «Tombeau» di mio padre, À la grâce / Alla grazia, Port du canal à Montceau-les-Mines / Porto sul canale a Montceau-les-Mines, Le rues de Naples / Le strade di Napoli, Echos en Sicile / Echi in Sicilia, Où est mon pays / Dov’è il mio paese?, Qui possède quoi? / Chi possiede, e che?, Le lieu commun des morts / La dimora comune dei morti, C'est pour moi la mer / È per me il mare, Dans les lointains parages / Nei remoti paesaggi, Les saisons / Le stagioni.

• René Char, Fogli d’Ipnos 1943-1944, prefazione e traduzione di Vittorio Sereni,

Torino, Einaudi, 1968. Prefazione (pp. 5-18). Nota bibliografica (pp. 18-19).

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Feuillets d’Hypnos 1943-1944 / Fogli d’Ipnos 1943-1944. La rose de chêne / La rosa di quercia.

• Francis Ponge, Vita del testo, a cura e con un’introduzione di Piero Bigongiari, traduzioni di Piero Bigongiari, Luciano Erba, Jacqueline Risset, Giuseppe Ungaretti, Milano, Mondadori, 1971530. Introduzione (pp. 5-37) [Piero Bigongiari].

I. Da Tome premier / Libro primo. Brani da Le parti pris des choses / Il partito preso delle cose: Le pain / Il pane [l.e.], Le feu / Il fuoco [l.e.], Bords de mer / Rive di mare [l.e.], Le galet / Il ciottolo [j.r.]; brani da Proêmes / Proemi: La forme du monde / La forma del mondo [l.e.], De la modification des choses par la parole / Della modifica-zione delle cose attraverso la parola [l.e.], Justification nihiliste de l’art / Giustificazio-ne nichilista dell’arte [l.e.], Natare piscem docet / Natare piscem docet [l.e.], L’aigle commun / L’aquila comune [l.e.], L’imparfait ou les poissons-volants / L’imperfetto o i pesci volanti [l.e.], Notes d’un poème / Appunti di un poema [j.r.], Des raisons d’écrire / Delle ragioni di scrivere [j.r.], Raisons de vivre heureux / Ragioni di vivere felici [j.r.],

Introduction au galet / Introduzione al ciottolo [j.r.]; brani da La rage de l’expression / La rabbia dell’espressione: La guêpe / La vespa [j.r.].

II. Da La grand recueil / La grande raccolta. Brani dal vol. II Méthodes / Metodi: Le verre d’eau (Note prèmiere) / Il bicchiere d’acqua (Nota prima) [j.r.], Le monde muet est notre seule patrie / Il mondo muto è la nostra sola patria [l.e.], Des cristaux natu-rels / Dei cristalli naturali [l.e.]; brani dal vol. III Pièces / Pièces: Le platane / Il plata-no [j.r.], La métamorphose / La metamorfosi [l.e.], Ébauche d’un poisson / Abbozzo di un pesce [l.e.], L’araignée / Il ragno [j.r.], Première ébauche d’une main / Mano di primo getto, Le soleil placé en abîme / Il sole messo in abisso [j.r.] Le nous quant au soleil. Initiation à l’objeu / Il noi rispetto al sole. Iniziazione all’oggiuoco, Le soleil tou-pie à fouetter (I) / Il sole trottola da sferzare (I), Le soleil lu à la radio / Il sole letto alla radio, Le soleil toupie à fouetter (II) / Il sole trottola da sferzare (II), Le soleil fleur fas-tigiée / Il sole fiore fastigiato, Le soleil toupie à fouetter (III) / Il sole trottola da sferzare (III), Scellés par le soleil… / Sigilli dal sole…, Le soleil titre la nature / Il sole titola la natura, Le nuit baroque / La notte barocca, Le soleil se levant sur la littérature / Il sole si alza sulla letteratura], Les hirondelles / Le rondini [j.r.], La nouvelle araignée / Il nuovo ragno [p.b.], La chèvre / La capra [l.e.]. III. Da Pour un Malherbe / Per un Malherbe [j.r.].

530 Di seguito a ogni titolo si riportano le iniziali del traduttore del singolo brano.

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IV. Da Nouveau Recueil / Nuova raccolta: Proème / Proemio [j.r.], L’objet, c’est la poétique / L’oggetto, è la poetica [j.r.], Le pré / Il prato [g.u.], Nouvelles notes sur Fau-trier, crayonnées hâtivement depuis sa mort / Nuove note su Fautrier, in fretta segnate a matita dopo la sua morte [g.u.].

• André Frénaud, Non c'è paradiso, traduzione di Giorgio Caproni, introduzione di

Stefano Agosti, Milano, Rizzoli, 1971. Campi e funzioni della metafora in Frénaud (pp. 5-15) [s.a.]. Avvertenza del tradut-tore (p. 16).

I. Soleil irréductible / Sole irriducibile. Bienveillance: Astres de la nuit / Astri della notte, Une lumière acropole / Una luce acropoli, La vie dans le temps / La vita nel tempo, La vie, le vent / La vita, il vento, Bienveillance / Benevolenza, Je tue le temps / Ammazzo il tempo, Il n'importe / Non importa, Comme si quoi? / Come se che cosa?; Malamour / Malamore: Je ne t'ai jamais oubliée / Non t’ho mai dimenticata, Mal-chance / Sfortuna, Viens dans mon lit / Vieni nel mio letto, Pour attirer dans mon rire / Per attirar nel mio riso, Le drame / Il dramma, Invitation galante / Invito galante; Suite de Paris / Suite parigina: Paris / Parigi, L'argent de l'épicier ou Défense du capi-tal / I quattrini del bottegaio ovvero difesa del capitale; 14 juillet / 14 luglio, Les mystè-res de Paris / I misteri di Parigi. II. Enorme figure de La deèsse Raison / Immane figura della dea Ragione. III. Source entière / Sorgente intera. Trois élégies en prologue / Tre elegie a mo’ di

prologo: Veille / Vigilia, Dans l'île / Nell’isola, Aube / Alba; Noël pour Christiane / Natale per Christiane; Belle année / Bell’annata; L'amour nous annule / L’amore ci

annulla: À force de s'aimer / A furia d’amarci, L'avenir / L’avvenire, Promesse / Pro-messa, Le lieu miraculeux de l'amour / Il luogo miracoloso dell’amore, L'amour récon-cilié / L’amore riconciliato, L'amour simplement / L’amore semplicemente; Pour ré-concilier / Per riconciliare; Source totale / Sorgente totale; Armoiries pour une arri-vée le jour de la fête des rois / Stemma per un arrivo nel giorno dell’Epifania. IV. Les paysans / I contadini.

V. Passage de la Visitation / Passage de la Visitation. Machine inutile / Macchina

inutile: Il n'y a pas de paradis / Non c’è paradiso, Une fumée / Fumo, Inutile nature / Inutile natura, Machine inutile / Macchina inutile, Pour boire aux amis / Per bere alla salute degli amici; Le prisonnier radieux / Il radioso prigioniero; L'idéale maison / La

casa ideale: J'ai bâti l'idéale maison / Ho costruito la casa ideale, Il y a de quoi dans ma maison / C’è di che scegliere nella mia casa; Lieux d'approche / Luoghi

d’approccio: Bord de la mer et schistes à Collioure / Riva del mare e scisti a Collioure,

Le souvenir vivant de Joseph F. pêcheur de Collioure / Ricordo vivente di Joseph F. pes-catore di Collioure, Blason d'Oxford / Blasone d’Oxford, Espagne / Spagna, Passage de la Visitation / Passage de la Visitation; Enfance / Infanzia: La maison de Sennecey-le-

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Grand / La casa di Sennecey-le-Grand, Le jardin Rajaud / Il giardino Rajaud, Saint-Vallerin / Saint-Vallerin; L'auberge dans le sanctuaire / La locanda nel santuario; La

nuit des prestiges / la notte dei prestigi. VI. Chemins du vain espoir / Sentieri della vana speranza. Sans avancer / Senza avanzare. VII. Où est mon pays? / Dov’è il mio paese: Ancienne mémoire / Antica memoria, Si-lence en Bourgogne / Silenzio in Borgogna, La maison en Ré / La casa in ré, Pays re-trouvé / Paese ritrovato, Campagne / Campagna, Derrière le village / Dietro il villag-gio, Qui possède quoi? / Chi possiede, e che cosa?, Dans l'arbre ténébreux / Nell’albero tenebroso, Epitaphe / Epitaffio; VIII. Ménerbes / Ménerbes.

IX. Petits airs du milieu de l'arbre / Ariette dal folto dell’albero: L'heure de l'enfant / L’ora del bambino, Noël modeste / Natale modesto, Plainte du dernier restanquère / Lamento dell’ultimo terrazzatore, Petit portrait de Jacques / Ritrattino di Jacques, Les yeux bleu / Gli occhi azzurri. X. Parmi le saisons de l'amour suivi de Femme déserte / In seno alle stagioni

dell’amore seguito da Donna deserta: Les fils bleus du temps / Gli azzurri fili del tem-po, L'amour comme / L’amore come, Cœur mal fléché / Cuore mal frecciato, Sans amour / Senza amore, Dans l'île Barbe / Nell’isola Barbe, Sur les remparts / Sui bas-tioni, Quand le désert menace / Quando il deserto minaccia, Morte l'année / Morto l’anno, Si l'amour fut / Se l’amore fu, Maison éteinte / Casa spenta, Perdue / Perduta, S'il s'était / Se si era, Patricia / Patricia, Deux épigrammes pour une épitaphe tue / Due epigrammi per un taciuto epitaffio, Dannemarie / Dannemarie; Femme déserte /

Donna deserta: Une fois encore / Ancora una volta, Si j'avais pitié de moi / Se io avessi pietà di me, Vœu / Voto. XI. Pour l'office des morts / Per l’uffizio dei defunti: Parole du prêtre / Parola del sa-cerdote, Murmure du mort / Bisbiglio del defunto, Requiescat / Requiescat. XII. Noël interdit / Natale precluso;

XIII. L'amour d'Italie / Amor d’Italia: Les canaux de Milan / I Navigli di Milano, Le Turc à Venise / Il Turco a Venezia. XIV. Non pas un temple / Non già un tempio. XV. Le château et la quête du poème / Il castello e la cerca del poema. XVI. Pauvres petits enfants / Poveri piccini. Note (pp. 331-335). Notizie bio-bibliografiche (pp. 337-341).

• Pierre Jean Jouve, Paradiso perduto, introduzione e traduzione di Nelo Risi, Tori-no, Einaudi, 1972. Il grande fantasma delle origini (pp. 5-8). La vita e l’opera di Pierre Jean Jouve (p. 9). Bibliografia (pp. 11-12).

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Prologo: Les Nombres / I Numeri, Les anges aux cheveux blancs / Gli angeli dai capelli bianchi, Mouvement / Movimento, L’invention de la douleur / L’invenzione del dolore,

Nataniel et la chute / Nataniele e la Caduta, Désir et Chagrin / Desiderio e rimpianto;

Libro primo: Le Paradis / Il Paradiso, Le vent et la prière / Il vento e la preghiera, Le double Adam / Il doppio Adamo, Du sentier et de la femme / Il sentiero e la donna, Les deux plus grands de tous les arbres / I due alberi più grandi di tutti, Furtif / Furtivo, L’Arbre et la Main / L’Albero e la Mano, Le Donneur de Conseil / Il Consigliere, Actus / Actus, Premier Amour / Primo Amore, Elle revient / Il ritorno, La faute / La colpa,

Conscience / Coscienza, Les Ceintures / Le Cinture;

Libro secondo: Les Sentences / Le Sentenze, Destruction / Distruzione, Coup de force / Colpo di forza, Le Paradis revient / Ritorna il Paradiso, Les Chérubins du Ciel / I Che-rubini del Cielo.

• René Char, Ritorno sopramonte e altre poesie, a cura di Vittorio Sereni, con un saggio di Jean Starobinski, Milano, Mondadori, 1974. René Char e la definizione del poema (pp. 7-28) [j.s]. I. Da L’âge cassant / L’età squassante.

II. Retour Amont / Ritorno Sopramonte: Sept parcelles de Luberon (I-II) / Sette schegge del Luberon, Tracé sur le gouffre / Tracciato sul baratro, Effacement du peu-plier / Annullarsi del pioppo, Chérir Thouzon / Cara Thouzon, Mirage des aiguilles / Veduta sulle guglie, Aux portes d'Aerea / Alle porte di Aerea, Devancier / Predecessore, Venasque / Venasque, Pause au Château Cloaque / Sosta al Castello Cloaca, Le mur d'enceinte et la rivière / Il muro di cinta e il rio, Les parages d'Alsace / I paraggi d’Alsazia, Dansons aux Baronnies / Ballo alle Baronie, Faction du muet / Scolta silen-ziosa, Convergence des multiples / Convergenza dei molteplici, Yvonne / Yvonne, Le nu perdu / Il nudo perduto, Célébrer Giacometti / Per Giacometti, Septentrion / Set-tentrione, Lied du figuier / Lied del fico, Aiguevive / Aiguevive, Le village vertical / Il villaggio verticale, Le jugement d'octobre / Il giudizio di ottobre, Lenteur de l'avenir / Lentezza del futuro, Le banc d'ocre / Il banco d’ocra, Faim rouge / Fame rossa, Servan-te / Ancella, Lutteurs / Lottatori, Déshérence / Senza eredi, Dernière marche / Ultima marcia, Bout des solennités / Termine delle solennità, Le gaucher / Il mancino, L'ouest derrière soi perdu / L’occidente dietro sé perduto.

III. Da Dans la pluie giboyeuse / Nella pioggia doviziosa: Buveuse / Bevitrice, D'un même lien / Di uno stesso legame, Le terme épars / Il termine sparso, Le ramier / Il co-lombo, Floraison successive / Fioritura successiva, Sortie / Uscita, Possessions extérieu-res / Possedimenti remoti, Tradition du météore / Tradizione della meteora [trad. di

Piero Bigongiari], Sur un même axe (I-II) / Sullo stesso asse (I-II), Jeu muet / Tacito gioco, Rémanence / Permanenza, Cours des argiles / Corso delle argille, Redoublement

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/ Raddoppio, L'abri rudoyé / Il sito sconvolto, Ni éternel ni temporel / Né temporale né eterno.

IV. Da Le chien de cœur / Il cane del cuore: Crible / Crivello, Encart / Inserto, Les ap-paritions dédaignées / Le apparizioni disdegnate, Même si... / Anche se…, Le baiser / Il bacio, En cette fin des Temps… / In quella fine dei tempi…;

V. Da L'effroi la joie / Lo spavento la gioia: Hôte et possédant / Ospite e possessore, Aversions / Avversioni, Bons voisins / Buoni vicini, Aliénés / Alienati; VI. Contre une maison sèche / In una casa murata a secco;

VII. Da La nuit talismanique / La notte talismanica: Vétérance / Anzianità, Cérémo-nie murmurée / Cerimonia di murmuri, L'anneau de la Licorne / L’anello del liocorno, Eprouvante simplicité / Struggente semplicità, Relief et louange / Scultura e elogio,

Sommeil aux Lupercales / Sonno ai Lurpecali, Hirondelle, active ménagère / Rondine, massaia affaticata.

VIII. Da Aromates chasseurs / Aromi cacciatori: Ebriété / Ebbrezza, Rodin / Rodin. Note al testo (pp. 211-219). Appunti del traduttore (pp 221-229).

• Guillaume Apollinaire, Poesie, traduzione di Giorgio Caproni, introduzione e no-te di Enrico Guaraldo, Milano, Rizzoli, 1979. Introduzione (pp. 5-33). Giudizi critici (pp. 35-51). Bibliografia essenziale (pp. 53-64). Illustrazioni (pp. 65-75).

Da Le Bestiare: L’écrevisse / Il gambero;

da Alcools: Zone / Zona, Le pont Mirabeau / Il ponte Mirabeau, La chanson du mal aimé / La canzone del maleamato, Les colchiques / I colchici, La maison des morts / La casa dei morti, Marizibill / Marizibill, Le voyageur / Il viaggiatore, La blanche neige / La bianca neve, L’adieu / L’addio, Nuit rhénane / Notte renana, Les fiançailles / Il fi-danzamento, Cors de chasse / Corni da caccia;

da Calligrammes: Arbre / Albero, Lundi rue Christine / Lunedì in Rue Christine, Un fantôme de nuées / Un fantasma di nuvole, Ombre / Ombra, C’est Lou qu’on la nom-mait / La chiamavano Lu, Saillant / Saliente, Toujours / Sempre, L’adieu du cavalier / L’addio del cavaliere, Potographie / Fotografia, L’inscrption anglaise / La scritta ingle-se, Désir / Desiderio, Merveille de la guerre / Meraviglia della guerra, Exercice / Eserci-zio, Le chant d’amour / Il canto d’amore, L’avenir / L’avvenire, Chevaux de Frise / Ca-valli di Frisia, Chef de section / Caposezione, La jolie rousse / La rossina;

da Il y a: Montparnasse / Montparnasse, Le pont / Le pont, Fusée-signal / Razzo di se-gnalazione, Allons plus vite / Andiamo più svelti, Fagnes de Wallonie / Torbiere di Vallonia, Onirocritique / Onirocritica;

da Poèmes à Lou: En allant chercher des obus / Andando in cerca di granate;

da Le guetteur mélancolique: Et toi mon cœur pourqoi bats-tu? / E tu mio cuore per-ché batti?, La chaste Lise . La casta Lisa;

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da Poèmes à Madeleine: La tranchée / La trincea;

da Poèmes retrouvés: L’assassin / L’assassino.

• Guillaume Apollinaire, Da Alcools, a cura di Sergio Zoppi, versioni a fronte di Giovanni Raboni e Vittorio Sereni, Milano, Il Saggiatore, 1981. Introduzione (pp. 7-17) [s.z.]. Cronologia (pp. 18-20).

Zona / Zone [g.r.], Il Pont Mirabeau / Le Pont Mirabeau [v.s.], Corni da caccia / Cors de chasse [v.s.], Vendemmiaio / Vendemiaire [v.s.]. Bibliografia (pp. 88-90). Bibliografia critica essenziale (pp. 91-93).

• Marcel Proust, Poesie, traduzione di Franco Fortini, Torino, Einaudi, 1983. Nota del traduttore (V).

Le intermittenze del cuore: Je contemple souvent le ciel de ma mémoire / Guardo spes-so il cielo della memoria, J’eus en ma tête un souffreteux oiseau bizarre / Ebbi in testa un uccello cagionevole strano, Sur une Damoiselle / Su di una signorina, Madame il se peut que j’oublie / Può darsi che io dimentichi, Signora, Comme en la claire cour de l’exquise monastère / Come nel chiostro chiaro dell’eremo soave, Sonnet / Sonetto, Si las d’avoir souffert, plus las d’avoir aimé / Stanco di aver sofferto e, più, di avere ama-to, Laissez pleurer mon cœur entre vos mains fermées / Che fra le vostre palme chiuse il mio cuore lacrimi, Acrostiche inachevé / Acrostico incompiuto, Sur ce coteau normand établis ta retraite / Su questo poggio normanno, eleggi il tuo ritiro, Si la femme stupide ou détestable est belle / Se la donna stupida o odiosa è bella;

Ritratti di pittori e di musicisti: Albert Cuyp I / Albert Cuyp I, Albert Cuyp II / Albert Cuyp II, Paulus Potter / Paulus Potter, Antoine Watteau / Antoine Watteau, Anton Van Dyck / Anton Van Dick, Chopin / Chopin, Gluck / Gluck, Schumann / Schu-mann, Mozart / Mozart; Mélanges: Le ciel est d’un violet sombre / Il cielo è viola cupo, Pâles, ainsi qu’on voit aux rares porcelaines / Pallide, come si vede nelle porcellane preziose, Magda / Magda,

Sans doute Sévigné, Saint-Simon et Voltaire / Certo, Sévigné, Saint-Simon Voltaire,

Tu verras, signe indéchiffrable et familier / Segno consueto indecifrabile vedrai; Men-

songes / Menzogne: Si le bleu de l’opale est tendre / Se l’opale dell’azzurro è tenero,

Lundi à une heure / Lunedì ore una; Pour l’Album de Mélancolie / Per l’Album di

Mélancolie: Nouveaux lieds de Macédoine / Nuovi Lieder di Macedonia, Nouveau lied de France / Nuovo Lied di Francia; Dordrecht / Dordrecht: Ton ciel toujours un peu bleu / Il tuo cielo sempre un po’ azzurro, Le pâtissier sur la place / La pasticceria sulla piazza, Épitaphe pour un chien / Epitaffio per un cane, Donc si vous le voulez sans être trop loquace / Se lo volete dunque, senza essere troppo loquace, Note à Nicolas / Ap-punto a Nicolas, J’écris un opuscule / Scrivo un libro molto breve;

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Pastiches: Petit pastiche de Mme de Noailles / Piccolo pastiche di Mme de Noailles, Adresses / Indirizzi, Prière du Marquis de Clermont-Tonnerre / Preghiera del Marchese di Clermont-Tonnerre, Écho / Eco;

Versi burleschi e satirici: Vandal, exquis, répand son sel / Vandal, sottile, dissemina sale, Des gigolos mondains il est – dis tu – le chef / Dei gigolò mondani il capo è lui, tu dici, […] n’a pas inventé / La poudre / […] non ha inventato la polvere da sparo,

Chanson / Canzone, Hélas quand ton triomphe, énorme, mondial / Ahi, quando il tuo trionfo, enorme, mondiale, Maure, balzacien, d’une marche pressé / Maure, balzac-chiano, si affretta per via, Du silence des d’A… / Del silenzio dei d’A…, On prétend qu’un Russien, digne que Dieu le garde / Dicono che un di Moscovia, brav’uomo, Iddio lo guardi, Jeunes filles en fleur / Fanciulle in fiore;

Poesie a…: À Reynaldo Hahn / A Reynaldo Hahn: Tu veux que ton basset soit misé-rable et souffre / Tu vuoi che il tuo bassotto faccia pietà e patisca, Sur le temps plu-vieux / Sul tempo piovoso, Le vieil hidalgo / Del vecchio hidalgo di Este Modena o di Parma, Petit projet de gentil vitrail / Piccolo progetto di graziosa vetrata, Ni tenir une épée, un lys, une colombe / Né stringere una spada, un giglio, una colomba, Noël! Noël! / Natale! Natale!, En remerciement d’une réponse admirable / Ringraziando per una splendida risposta, L’infini raisonneur dit à Kant: entendes-tu? / L’infinito ragio-natore dice a Kant: “Hai sentito?”, Ô Reynaldo je te dirai lansgage / Il mio sermone, o Reynaldo, ascoltalo!, De tourner la fenêtre, de dépister l’issue / Aggirare la finestra, rintracciare l’uscita, Chanteur, pardonne-moi d’ici te déranger / Cantore, perdonami se ti disturbo, Mais non, Reboux l’emporte et la faveur du Buncht / Ma no, vince Re-boux e l’appoggio del Buncht, Plutôt qu’à ce rêveur, cet amoureux d’abeilles / Invece che a questo sognatore, a questo innamorato delle api , Hélas seul de tant d’illustres. Duc et rustres / Ahi che solo fra tanti illustri duchi e zotici, Air du Pont des Soupirs / Aria del Ponte dei Sospiri, Tandis qu’assis dans un bac / Mentre, seduto in una vasca,

Sonnet. Envoi / Sonetto “envoi”, Ô toi qui m’as mené chez la de Castellane / O tu che mi hai portato dalla de Castellane, À Wafflard, Bracke o Collardeau / A Wafflard, Bracke o Collardeau, Quatrains pour Guninuls / Quartine per Guninuls, J’étais seul, j’attendais auprès de la fenêtre / Ero solo, aspettavo accanto alla finestra, Abords du Palais (partie opposée de l’île) / Dalle parti del Palais, parte opposta dell’isola, Plutôt que d’aimer un meschant / Piuttosto che amare un tristo; À Daniel Halévy / A Daniel

Halévy: Sonnet / Sonetto; À Robert de Billy / A Robert de Billy: Ton esprit, divin chry-santhème / Divino crisantemo, la tua mente, Chanson sur Robert / Canzone su Robert; À Madeleine Lemaire / A Madeleine Lemaire: Quel trop subtil voleur coupa dans les vergers / Chi fu il ladro troppo agile che colse nei frutteti, Au Convive / Al Convitato;

À Marie Nordlinger / A Marie Nordlinger: Ta main qui, comme l’eau, reflète les nua-ges / La tua mano che, come l’acque, riflette le nuvole; À Louisa de Mornand / A Loui-

sa de Mornand: (Le ciel de lit couleur de ciel, l’ange du lit couleur de rose) / (Il cielo del

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letto color di cielo l’angelo del letto color di rosa); À Antoine Bibesco / A Antoine Bi-besco: C’est là: la mer sans cesse aux rochers de porphyre / È là: incessante il mare alle rocce di porfido, Acrostiche / Acrostico, La “Lutte” avait été très chaude… / La “Lutte” era stata calorosa…, Mon cœur plus qu’au rosier la tenace cétoine / Più che al roseto la tenace cetonia il mio cuore; À Emmanuel Bibesco / A Emmanuel Bibesco: Épître en vers burlesques / Epistola in versi burleschi; À Bertrand de Fénelon / A Bertrand de

Fénelon, Eusses-tu la valeur dont s’illustre Enguerrand / Anche avessi il valore che dà fama a Enguerrand, Fais fermenter ce soir la vigne ou le houblon / Il luppolo e la vigna fermentino stasera, Que le repas soit bref; poulet froid et melon / Breve sia il pranzo: pollo freddo e popone; En passant Avenue Malakoff / Passando per l’Avenue Malakoff; À Louis d’Albufera / A Louis d’Albufera: Marcel s’est demandé: qu’est-ce qu’Albu fe-ra? / Marcel si è domandato: che mai Albu farà?; Au comte Greffhule / Al conte Gref-

fhule: Hélas il partira demain pour Boisboudran / Domani partirà, ahimé, per Boi-sboudran; À la comtesse Greffhule / Alla contessa Greffhule: Hélas Élisabeth de Ca-raman-Chimay / Purtroppo, Elisabeth de Caraman-Chiamay; À Jean Cocteau / A

Jean Cocteau: Dans ton Midi pour ces raisons je t’écris, Jean / Jean, per questi motivi ti scrivo nel tuo Sud, Afin de me couvrir de fourrure et de moire / Onde coprirmi di pel-liccia e seta; À Armand de Gramont / A Armand de Gramont: Au duc de Guiche im-promptu généalogique pour Mirliton / Al duce di Guiche impromptu genealogico per Canzonetta, Ici demeure Armand de Gramont, duc de Guiche / Qui Armand de Gra-mont, duca di Guiche, risiede; À Céleste / A Celeste: Grande, fine, belle, un peu mai-gre / Alta sottile bella, un po’ magra, Sombres chagrins des ciels coutumièrement gris / Pena cupa di cieli abitualmente grigi; À Paul Morand / A Paul Morand: Ode à Paul Morand / Ode a Paul Morand. Note (pp. 237-247) . Indice dei nomi (pp. 249-256).

• Guillaume Apollinaire, La chiamavano Lù e altre poesie, tradotte da Giovanni Ra-boni e Vittorio Sereni, introduzione di Alfredo Giuliani, Milano, Mondadori, 1984. Introduzione (pp. 5-9). Nota dell’editore (pp. 10-12). Nota bibliografica (pp. 13-14).

Da Alcool: Zone-Zona (g.r.), Le pont Mirabeau / Il Pont Mirabeau (v.s.), Les colchi-ques / Il colchici (v.s.), Le voyageur / Il viaggiatore (v.s.), L’adieu / L’addio (v.s.), La porte / La porta (v.s.), Rhénane d’automne / Renana d’autunno (g.r.), Les fiançailles / Fidanzamento: Le printemps laisse errer les fiancés parjures / I fidanzati spergiuri la primavera lascia errare, Mes amis m’ont enfin avoué leur mépris / Gli amici alla fine l’han confessato mi disprezzano, Je n’ai plus même pitié de moi / Non mi faccio nem-meno più pietà, J’ai eu le courage de regarder en arrière / Ho preso il coraggio a due mani mi son guardato indietro, Pardonnez-moi mon ignorance / Perdonatemi la mia ignoranza, J’observe le repos du dimanche / Di domenica osservo il riposo, À la fin les mensonges ne me font plus peur / Alla fine le menzogne non mi fan più paura, Au

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tournant d’une rue je vis des matelots / A un angolo di strada vidi marinai, Templiers flamboyants je brûle parmi vous / Brucio nel vostro numero fiammeggianti templari (g.r.); À la Santé / Alla Santé: I. Avant d’entrer dans ma cellule / I. Prima di entrare dentro la cella, II. Non je ne me sens plus là / II. Non che qui dentro, III. Dans une fos-se comme un ours / III. Come un orso in una fossa, IV. Que je m’ennuie entre ces murs tout nus / IV. Che noia è mai la mia tra questi muri, V. Que lentement passent les heures / V. Passano lente così le ore, VI. J’écoute les bruits de la ville / VI. Ascolto i suoni della città; Cors de chasse / Corni da caccia (v.s.), Vendémiaire / Vendemmiaio (v.s.); Vitam impendere amori: L’amour est mort entre tes bras / Fra le tue braccia amore è morto, Dans le crépuscule fané / Nel crepuscolo che tanti, Tu n’as pas surpris mon se-cret / Il mio segreto non hai vinto, Le soir tombe et dans le jardin / Cade nel giardino la sera, Tu descendais dans l’eau si claire / Scendevi in acque così chiare, O ma jeunes-se abandonnée / Mia giovinezza abbandonata (g.r.);

da Calligrammi: Les fenêtres / Le finestre (g.r.), La petite auto / La piccola auto (v.s.),

Ombre / Ombra (g.r.), C’est Lou qu’on la nommait / La chiamavano Lu (v.s.), La bou-cle retrouvée / La ciocca ritrovata (v.s.), Désir / Voglia (v.s.), Exercice / Esercizio (g.r.),

Carte postale / Cartolina postale (v.s.), Un oiseau chante / Un uccello canta (v.s.), La jolie rousse / La bella rossa (v.s.).

• René Char – Vittorio Sereni, Due rive ci vogliono. Quarantasette traduzioni inedi-te, con una presentazione di Pier Vincenzo Mengaldo, a cura di Elisa Donzelli, Ro-

ma, Donzelli, 2010.

Presentazione (pp. IX-XII) [p.v.m.]. Nota ai testi (pp. XIII-XIV). Il mio lavoro su Char (pp. 3-7) [v.s.]. Da L’âge cassant / L’età squassante: II, III, V, VI, VIII, IX, X, XI, XII, XIII, XV, XVI, XVII, XVIII, XIX, XX, XXI, XXIV, XXV, XXVII, XXVIII, XXX, XXXI, XXXII, XXXIII, XXXV, XXXVI, XXXVII, XL, XLI;

da Dans la pluie giboyeuse / Nella pioggia doviziosa: Plein emploi / Pieno impiego,

Maurice Blanchot, nous n’eussions aimé répondre… / Avessimo, Maurice Blanchot, voluto rispondere solo…, Tables de longévité / Tabella di longevità, Cotes / Quote, À M. H. / Per M. H., La scie rêveuse / La sega trasognata, Dyne / Dine, Bienvenue / Il benvenuto, Permanent invisible / Permanente invisibile;

da Le chien du cœur / Il cane del cuore: Dans la nuit du 3 au 4 mai / Nella notte tra il 3 e il 4 maggio;

da L’effroi la joie / Lo spavento la gioia: Enchemisé dans les violences de sa nuit / Av-viluppato nelle violenze della sua notte, Couche / Giaciglio, À l’heure où les routes mettent en pièces leur tendre don / Nell’ora che le strade frantumano il loro tenero do-no, Fossile sanguinaire / Fossile sanguinario, Joie / Gioia;

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da Aromates chasseurs II / Aromi cacciatori II: Pontonniers / Pontonieri, Orion iro-quois / Orione irochese; Postfazione (e.d.). Apparato critico (a cura di e.d. con la collaborazione di Barbara Colli).

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Capitoli autobiografici. Poeti che traducono poeti dagli ermetici a Luciano Erba

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Capitoli autobiografici

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Indice dei nomi

Achmatova Anna 224Adorno Theodor 110 n.Agosti Stefano 10 n., 42 n., 119 n., 131 e n.,

153 n., 177 n., 249Alberti Rafael 223Alcmane 37 n., 112 n., 130 n., 222Aleixandre Vicente 41Alighieri Dante 15, 64 n., 83 n., 124 n., 174 n.Alyn Marc 39 n.Anceschi Luciano 15 e n., 18 e n., 33 e n.Antonielli Sergio 33Apel Friedmar 11 n.Apollinaire Guillaume 15, 33 e n., 35, 37, 41,

42 e n., 43 e n., 44, 46, 48, 104 n., 118 n., 140 n., 141 n., 166 n., 220, 224, 225, 231, 232, 242, 252, 253, 255

Aragon Louis 32 e n., 36, 39Artaud Antonin 36, 227Auerbach Erich 95 n.Aymone Renato 176 n.

Bacchilide 222Bachtin Michail Michajlovič 98 n.Baldi Sergio 16Bancquart Marie-Claire 186 n.Bandini Fernando 10 n., 119 e n., 226Baratono Adelchi 22 n.Barthes Roland 135 n.Bassani Giorgio 40Bataillé Cristophe 54 n.Bataille Georges 130 n.Baudelaire Charles 9 n., 21, 24, 25, 29 e n., 30,

33, 34 e n., 35, 41 n., 42 e n., 43, 44, 46, 47 e n., 57 e n., 58, 59 e n., 61, 62, 63 n., 70 n., 77 n., 78 n., 85-105, 120 n., 149-163, 166, 174 n., 220, 221, 223, 224, 226, 227, 229, 231, 233, 240

Beccaria Gian Luigi 56 n.Belleli Maria Luisa 72 n.Bellini Vincenzo 57Bellour Raymond 167 n.

Benn Gottfried 220Berardinelli Alfonso 99 e n., 109 n.Bernardi Leoni Margherita 116 n.Bertolucci Attilio 9, 13, 33, 35 e n., 36 e n., 37

e n., 38 e n., 40, 42, 46 e n., 62 n., 97, 100, 102 e n., 103 n., 150, 161 n., 226, 229, 230, 247

Bertrand Louis 223Betocchi Carlo 14 n., 33 n., 35, 108 n., 123 n.Bettini Pompeo 149 n.Biagini Enza 38 e n., 42 n.Bigazzi Isabella 70 n., 157 n.Bigongiari Piero 13, 16 e n., 24, 25, 27, 28 e n.,

29 e n., 31 e n., 33 e n., 34 e n., 35 e n., 36, 37 e n., 39, 40 e n., 41, 42 n., 43 e n., 44 e n., 45 e n., 50 n., 55, 107-119, 121, 122, 125, 127, 129-147, 150, 152 n., 167 e n., 202 n., 222, 223, 235, 248, 251

Binding Rudolph 219Binni Lanfranco 43, 110 n.Birolli Renato 41 n., 242Blanchot Maurice 44, 129 n., 256Bo Carlo 16 e n., 18 n., 29 n., 32 e n., 33 e n.,

35 e n., 40, 44, 52 n., 110 n., 117 n., 119 e n., 123 e n., 155 n.

Boaglio Marino 86 n., 102 n., 109 n.Bodini Vittorio 16, 159 n.Boileau Nicolas 89 n.Bonnefoy Yves 43 e n., 45 n.Bouillane de Lacoste Henri 64 n.Braque Georges 141 n., 244Brecht Bertolt 43, 70 n., 86 e n., 102 n., 109 e

n., 110 n., 226Breton André 36 e n., 116 n.Bufalino Gesualdo 97, 101, 102 e n., 103 n.Buffoni Franco 11 n., 12 e n., 14 n., 16 n., 22

n., 28 n., 46 n., 73 n., 123 n., 172 n., 184 e n., 202 n., 231

Cadou René Guy 35 e n., 39 e n., 172, 225, 228, 233

Leonardo Manigrasso, Capitoli autobiografici : poeti che traducono poeti dagli ermetici a Luciano Erba ISBN 978-88-6655-502-5 (online), CC BY-NC-ND 3.0 IT, 2013 Firenze University Press

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Calderaro Michela 124 n.Calvino Italo 20 e n.Camerino Aldo 32 e n.Campana Dino 69, 70 n., 77 n., 152Camus Albert 129 n., 141 n., 225Caproni Giorgio 9, 10 n., 12, 13, 22 e n., 24,

25, 34 e n., 35 e n., 36, 37, 38 e n., 39 e n., 40 e n., 41 e n., 42 e n., 43 e n., 44, 46 e n., 47 e n., 48, 62 n., 96, 97, 100, 102 e n., 103 n., 143, 144 n., 150, 161 n., 183-199, 201-217, 232, 243, 237, 259, 252

Carducci Giosue 28 n.Casorati Felice 39 n.Cassinari Bruno 235Catullo Gaio Valerio 15, 230Cecchi Emilio 22 n.Celan Paul 44 n., 45Cendrars Blaise 41 e n., 47 e n., 211, 228, 230,

241Cervoni Aurélia 53 n.Char René 22 n., 32 e n., 35 e n., 36, 40 e n., 42

e n., 44 e n., 45, 47 e n., 48, 129-147, 222, 225, 232, 243, 247, 251, 256

Chopin Frédéric François 57, 253Chrétien de Troyes 32 n.Citati Pietro 37 e n.Clancier Georges-Emmanuel 39 n.Cocteau Jean 77 n., 229, 255Coleridge Samuel Taylor 172 n. Coletti Vittorio 75 n.Colli Barbara 74 n., 257Comi Girolamo 14 n., 159 n.Constant Henri-Benjamin 34 e n.Contini Gianfranco 135Copioli Rosita 44 n., 51 n.Corbière Tristan (Édouard-Joachim Cor-

bière) 35 n., 221Corneille Pierre 160 n., 226Crane Hart 223Croce Benedetto 17, 99 e n., 154 n.Cros Charles 37Crow Ransom John 230, 231Cucchi Maurizio 44Cyrano de Bergerac Savinien 34 n., 177 n.

Dal Bianco Stefano 10 n., 119 n., 120 n., 124 n.Dal Fabbro Beniamino 9, 13, 17, 18, 19, 24, 27,

29, 30 e n., 31 n., 33 e n., 35, 39 e n., 49-68, 150, 220, 223, 233, 234, 242

Damas Léon-Gontran 41D’Annunzio Gabriele 51 n., 120 n.Dardano Maurizio 56 n.Day Lewis Cecil 230, 231

Debreuille Jean-Yves 184 n.Degas Edgar 234De Libero Libero 120 n.De Régnier Henri 72 n., 74 n.De Robertis Giuseppe 135 n.Desnos Robert 231De Sponde Jean 34 e n., 211, 212, 215, 228,

230Diacono Mario 18 n.Dickinson Emily 224Dolfi Anna 10 n., 12 n., 14 e n., 42 e n., 70 n.,

108 n., 135 n., 173 n.Donati Riccardo 137 n.Donne John 98 n.Donzelli Elisa 22 n., 47 n., 140 n., 141 n., 256Du Bellay Joachim 28 e n., 222Du Bouchet André 39 n.Dupin Jacques 39 n., 129 e n.Durry Mary-Jeanne 79

Eco Umberto 11 n., 23 e n.Einaudi Giulio 45 Eliot Thomas Stearns 14 n., 15, 28 n., 41, 220,

231Éluard Nusch (Maria Benz) 125, 126, 238Éluard Paul 14 n., 25, 31 e n., 32 e n., 33, 34

e n., 36, 39 e n., 41 e n., 43, 50 n., 59 n., 70 n., 107-128, 129 e n., 137 n., 141, 220, 222, 227, 229, 235, 238

Emmanuel Pierre (Mathieu Di Noël) 32 n.Empedocle 139 n., 140 n.Engelbach Gérard 39 n.Enzensberger Hans Magnus 226Eraclito 131 e n.Erba Luciano 9, 13, 22 e n., 24, 25, 27 n., 34 e

n., 35, 38 n., 39, 40 n., 41 e n., 42 n., 44, 46 e n., 47 e n., 129 e n., 165-181, 201-217, 228, 230, 241, 247, 248

Ernst Max 111 n., 238Eschilo 123Esenin Sergej Aleksandrovič 220, 224

Falaschi Giovanni 70 n., 157 n.Fallacara Luigi 35, 93 n.Fargue Léon-Paul 35 e n., 77 n., 229Ferrata Giansiro 76 n.Fontana Giovanni 173 n.Forti Marco 29 n.Fortini Franco 9 e n., 13, 14 n., 19, 20 n., 23 e

n., 24, 25, 27 e n., 30 e n., 32 e n., 34 e n., 35, 36 e n., 37, 38 e n., 41 e n., 43 e n., 44 e n., 45, 46 e n., 47 e n., 50 e n., 68 e n., 85-105, 107-119, 121, 122, 125, 126, 127,

Capitoli autobiografici

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128, 140 n., 141, 149 n., 160 n., 163, 201, 226, 235, 238, 245, 247, 253

Foscolo Ugo 28 n., 69 e n.Fourest Georges 36Franc-Nohain (Legrand Maurice Étienne) 36Frénaud André 25, 32 e n., 35 e n., 37, 38 e n.,

39 e n., 41, 42 e n., 47 e n., 59 n., 166, 167, 183-199, 201-217, 225, 227, 228, 229, 230, 231, 232, 245, 247, 249

Frezza Luciana 44Frost Robert 229, 231

Gadamer Hans-Georg 22 n.Garcia Lorca Federico 35, 120 n., 233Garcilaso de la Vega (Gómez Suárez de Figue-

roa) 223Gargiulo Alfredo 151 n.Garnier Robert 160 n.Gascoyne David 230, 231Gatto Alfonso 70 n., 120 n.Gaubert Serge 183 n.Genette Gérard 10 e n.Ghidetti Enrico 92 n.Gide André 221, 224Giovanni Della Croce (Juan de Yepes Álva-

rez) 98 n.Giudici Giovanni 9, 41, 44, 45, 46 e n.Giuliani Alfredo 255Goethe Johann Wolfgang von 15, 43, 99 n.,

226Goll Ivan 221, 224Góngora Luis de 14 n., 15, 220, 224Graves Robert 230, 231Gregorio Nanzianzeno 222Guaraldo Enrico 42 n., 252Gubert Carla 38 n.Guidacci Margherita 41Guillén Jorge 41, 44 n., 45, 223, 228Gunn Thom 228, 230Guyaux André 53 n.Guyot Charles 29 n., 234

Hardy Thomas 229, 231Heine Heinrich 226Hölderlin Friedrich 14 n., 15, 16, 27, 120 n.,

123, 219Huchel Peter 226 Hugo Victor 35, 233

Iannotti Mauro

Jachia Paolo 109 n.Jacob Max 32 e n., 37, 41, 226, 229, 231

Jacobsen Jens Peter 51 n.Jacomuzzi Angelo 180 n.Jarry Alfred 37, 43, 226Jimènez Juàn Ramòn 220Jósef Attila 226Jouve Pierre Jean 35 e n., 41 e n., 42 e n., 48,

232, 240, 242, 245, 250Joyce James 219

Kao Che 43Kavafis Costantinos 232Kipling Rudyard 229, 231 Kraus Karl 226Kurosawa Akira 91 n.

Labé Louise 28 e n., 33 e n., 227Ladolfi Giuliano 168 n.Laforgue Jules 14 n., 35, 220, 224Landi Michela 151 n.Landolfi Tommaso 33 e n., 52 n., 155 n.Landor Walter Savage 15, 230Lasso de la Vega Rafael 220La Tour Georges de 141 n., 243Lautréamont (Isidore Lucien Ducasse) 70 n.,

96, 224, 231, 240Leiser Ruth 86 n.Lenzini Luca 9 n., 34 n., 99, 100 n.Leopardi Giacomo 15, 19, 49, 57, 70 e n., 92 e

n., 97 e n., 120 n., 173 e n.Léro Etienne 41L’Hermite Tristan 34 e n., 228Lorenzini Niva 15 n.Lucini Gian Pietro 149 n.Lukàcs György 110 n.Luperini Romano 50 n.Luzi Mario 9, 13, 16 e n., 21 e n., 24, 25, 27, 28

e n., 29 e n., 33 e n., 34, 35 e n., 36 e n., 37, 38 n., 39 e n., 43 e n., 44, 45 e n., 46 e n., 47 n., 50 n., 51-57, 116 n., 120 n., 149-163, 165-181, 211 n., 224, 227, 247

Macchia Giovanni 37 n., 42 n., 44 e n., 95 n., 149 n., 155 n.

Machado Antonio 14 n., 15, 46, 230Machado Manuel 233MacLeish Archibald 231Mac Neice Louis 230Macrí Oreste 14 n., 15 e n., 18 e n., 19 e n., 31

e n., 32 e n., 36, 40, 46 e n., 69 n., 122, 123 n., 152 n., 154 n. 235

Magrelli Valerio 44Majakovskij Vladimir Vladimirovič 114 n.,

232

Leonardo Manigrasso

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Malaparte Curzio (Kurt Erich Suckert) 31 e n.Mallarmé Stéphane 15, 16, 21, 24, 29 e n., 30 e

n., 33, 35, 43 e n., 44, 49, 50 n., 51 n., 53, 58, 59 n., 66, 67, 70 n., 77 n., 96, 97, 134, 149, 150 e n., 151 e n., 166, 173 n., 174 n., 220, 222, 223, 224, 227, 229, 234, 237

Manfredi Anna 110 n.Manigrasso Leonardo 92 n.Manzoni Alessandro 69 n.Manzoni Giacomo 86 n.Marinetti Filippo Tommaso 50 n.Marot Clément 224Marteau Robert 39 n.Masullo Gennaro 32 e n.Matarrese Tina 144 n.Mattioli Emilio 50 n., 202 n.Maulnier Thierry 63 n.Mengaldo Pier Vincenzo 13 n., 22 n., 43 e n.,

45, 46 n., 47 n., 86 e n., 99 n., 102 n., 109 n., 140 n., 143 n., 144 n., 178 n., 184 n., 185 n., 195 n., 232, 256

Meschonnic Henri 50 n.Michaux Henri 21 n., 37, 39 e n., 44 e n., 45 n.,

129 n., 165-181, 211 e n., 225, 227, 228, 230, 232

Michelet Jules 79Miegel Agnes 220Milosz Oscar Vladislas de Lubicz 224Milton John 226, 229, 230Mistral Frédéric 224Montaigne Michel de 14 n.Montale Eugenio 9, 14 n., 37, 40, 45, 67 n., 69

n., 70 e n., 83 n., 108 n., 152, 175, 176Montesano Giuseppe 95 n., 149 n.Moore Marianne 230, 231Moréas Jean 221, 224Mozart Wolfgang Amadeus 70 n., 224, 244,

245, 253Munaro Marco 47 n.Murdocca Anna Maria 16 n.Murphy Steve 54 n., 55 n.Muscetta Carlo 44Musset Alfred de 35 n.Muzzioli Francesco 111 n.

Nasi Franco 11 n.Neri Guido 247Neruda Pablo 70Nerval Gérard de 21, 27, 30 e n., 33 e n., 35, 63

n., 69-84, 158 n., 221, 228, 231, 234Noferi Adelia 116 n.Nouveau Germain 30 e n., 34, 41, 59 n., 70 n.,

78 n., 229, 234

Novalis (von Hardenberg Friedrich) 27

Omero 15, 16Orelli Giorgio 38 n., 247Orlando Francesco 151 e n.Ortesta Cosimo 104 n.

Paci Enzo 30 n.Pagano Vittorio 9, 13, 16, 25, 29 e n., 31 e n.,

33 e n., 34, 35 e n., 36, 149-163, 221Pagnanelli Remo 99 n.Pannunzio Enrico Vito 151Parronchi Alessandro 13, 21, 22 e n., 24, 25,

27, 29 e n., 30 e n., 31 e n., 33, 34 e n., 36, 37, 38 n., 39 e n., 41, 46 e n., 47 e n., 50 n., 55, 57-105, 149-163, 228, 234, 237, 247

Pascoli Giovanni 18, 56 n., 70 n., 152Pasolini Pier Paolo 36, 37, 38 n., 98 n., 102 n.,

247Passannanti Erminia 85 n.Pautasso Sergio 16 n., 45 n., 110 n., 119 n.Peron Gianfelice 104 n., 174 n.Perosa Sergio 124Pëtofi Sandor 231Petrarca Francesco 15, 19, 28 e n., 29 n., 69

e n., 119, 122, 123, 124, 125, 127, 173 n.Pichois Claude 89 n.Piemontese Felice 92 n.Pietromarchi Luca 47 n.Pindaro 222Pingaud Bernard 183 n.Pintor Giaime 68 n.Pirozzi Carlo 152 n.Poe Edgar Allan 220, 223, 224Poggioli Renato 16, 31 e n., 33, 36Ponge Francis 39 n., 42 e n., 129 e n., 134, 166,

167 n., 222, 228, 230, 248Porta Antonio 44Porzio Domenico 15 e n., 33 e n., 51 n.Pound Ezra 41, 123, 220, 225, 230, 231Praloran Marco 144 n.Prandi Stefano 176 n.Praz Mario 31 n.Prévert Jacques 32 e n., 34 e n., 35, 37, 231, 233Previtera Luisa 145 n.Proust Marcel 44 e n., 95 n., 221, 224, 226, 253Puccini Dario 39 e n.Puškin Aleksandr Sergeevič 224

Quasimodo Salvatore 9, 13, 14 n., 15, 37, 45, 51 e n., 120 n.

Queneau Raymond 37, 40 e n., 44, 46, 227, 231

Capitoli autobiografici

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Page 275: – 24durre allora non può darsi che come decentramento, scarto, anamorfismo, inven-zione condizionata, già che «nessuna traduzione può essere assolutamente fedele, e qualsiasi

Quiriconi Giancarlo 36 n., 39 n., 51 n., 108 n., 134 n., 137 e n., 166 e n.

Rabéarivelo Jean-Joseph 41Rabémananjara Jacques 41Rabelais François 38Raboni Giovanni 9 e n., 10 e n., 13, 25, 42 e

n., 43 e n., 44, 62 n., 74 n., 95 e n., 97, 101 e n., 102 n., 103 e n., 141 n., 143 n., 149-163, 174 e n., 253, 255

Raboni Giulia 74 n.Rachewiltz Maria de 40 n.Racine Charles 44 e n., 45 n.Racine Jean 15, 19 n., 37, 92 n., 160 n., 228Radiguet Raymond 59 n., 229Radnòti Miklos 232Ramat Silvio 69 n., 86 e n., 93 e n., 118 e n.,

134, 135 n., 150 n., 151, 152 n., 153 e n., 157 e n., 168 n., 177 n., 189 n.

Ransom John Crowe 230, 231Read Herbert 230, 231Rebay Luciano 18 n.Rebora Clemente 14 n., 69 n., 70, 149 n., 152Regazzoni SusannaReverdy Pierre 39, 40 n., 41, 44 n., 47 e n., 118

n., 129 e n., 222, 228Richard Jean-Pierre 112 n.Richter Mario 104 n., 174 n.Rilke Rainer Maria 14 n., 15, 16, 31 e n., 68 n.,

219, 220, 223, 226, 235Rimbaud Arthur 21, 24, 29, 30 e n., 33, 34 e n.,

35, 43 n., 47 e n., 51-57, 58, 59 n., 63 e n., 64 e n., 70 n., 77 n., 78 n., 83 n., 96, 104 n., 120 n., 149, 166, 220, 221, 223, 224, 226, 227, 229, 237

Risi Nelo 12 e n., 13, 24, 25, 32 e n., 35 e n., 37, 38 e n., 40 e n., 41 e n., 42 e n., 46 e n., 48, 69-84, 183-199, 231, 240, 242, 245, 247, 250

Risset Jacqueline 41, 42 n., 129 e n., 248Roberts Michael 220Rodenbach Georges 30 e n., 46, 47 e n., 51 n.,

166, 211, 212, 213, 214 e n., 215, 216, 220, 224, 230

Rollinat Maurice 220, 222, 224 Ronsard Pierre de 15, 16 n., 28 e n., 33 e n.,

37 n., 44 e n., 45 n., 47 e n., 174 n., 222, 224, 227

Rosai Ottone 38 e n., 247Rossanda Rossana 9 n., 34 n.Rossi Tiziano 44Rossini Gioacchino 70 n.Rotondi Clementina 47 n.

Rotrou Jean 37Roudaut Jean 131 n.Rouffiat Françoise 186 n.

Saba Umberto 83 n., 160 n.Saint-Amant Marc-Antoine Girard de 44,

212, 230Sainte-Beuve Charles Augustin de 28 n., 166,

224, 227Saint John Perse (Alexis Léger) 31 n., 224Salati Ugo 41 n.Samain Albert 224Sandburg Carl 231Sanguineti Edoardo 12 e n.Sansone Giuseppe 202Santi Piero 29Sartre Jean Paul 32 n., 129 n.Saussure Ferdinand de 11, 135 n.Sbarbaro Camillo 69 n., 75 e n., 149 n.Scarron Paul 89 n.Scève Maurice 28, 29 n., 33 e n., 35, 44 e n.,

98 n., 222Scheiwiller Vanni 35 e n., 38Sédar Senghor Léopold 41Seidel Ina 220Sereni Vittorio 9, 12 e n., 13, 22 e n., 24, 30 e

n., 35 e n., 36, 37, 38 e n., 40 e n., 41, 42 e n., 43 e n., 44 e n., 45, 46 e n., 47 e n., 48, 74 n., 77 n., 129-147, 160 n., 185 n., 195 n., 201, 225, 243, 247, 251, 253, 255, 256

Serrao Achille 166 n.Shakespeare William 15, 229, 230Shelley Percy Bysshe 224Sica Beatrice 36 n.Simeone Bernard 47 e n.Soffici Ardengo 50 n.Solmi Sergio 9, 13, 14 n., 38 e n., 44, 51 e n.,

195 n., 247Spaziani Maria Luisa 37, 38 e n., 172 n., 247Starobinski Jean 16 n., 110 n., 119 n., 130 n.,

131 n., 132 e n., 137 n., 251Strehler Giorgio 35 n.Streiff Moretti Monique 79 n.Supervielle Jules 35 e n., 39, 166 n., 172, 221,

224, 225, 227, 231, 240Swinburne Charles Algernon 219

Tamburi Orfeo 41 n.Tasso Torquato 99 n.Tentori Francesco 14 n., 123 n., 150 n.Testa Enrico 46 n., 178 e n., 184 n., 188 e n.,

217 n., 232Thibaudet Albert 74 n., 95 n.

Leonardo Manigrasso

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Thomas Dylan 37 n., 112 n., 130 n., 222, 223Thomas Edward 230, 231Thomas Henri 233Trakl Georg 14 n., 219Tran Yse 167 n.Traverso Leone 9, 13, 15 e n., 16 e n., 17 e n.,

27, 31 e n., 32 e n., 33 e n., 35, 36, 52 n., 55, 59 n., 119-128, 219

Trifone Pietro 56 n.Tristan L’Hermite (François L’Hermite) 34 e

n., 228Trovato Paolo 144.nTurner Walter James 220Tutino Mario 39 e n., 84Tzara Tristan (Samuel Rosenstock) 36, 129 n.

Ungaretti Giuseppe 9, 13, 14 n., 15 n., 18 e n., 19 e n., 20, 21 n., 28 n., 29 e n., 35 n., 37, 38 n., 41, 42 n., 45, 51 e n., 69 n., 83 n., 102 e n., 108 n., 118, 127, 129 e n., 150, 223, 240, 247, 248

Valeri Diego 13, 14 n., 24, 35, 38 n., 43 n., 69-84, 151, 247

Valéry Paul 15, 18 n., 29 e n., 30 e n., 31 e n., 39 e n., 46 e n., 47 e n., 49, 50 n., 67, 70 n., 96, 166, 220, 223, 224, 227, 233, 234, 235, 242

Valli Donato 154 n., 159 e n.Vanhese Gisèle 79 n.Vegliante Jean Charles 11 e n.

Venuti Lawrence 50 n.Verlaine Paul 30 e n., 35, 52 n., 53, 70 n., 96,

220, 221, 223, 233Viau Théophile de 233Vico Giambattista 79Vigolo Giorgio 14 n., 151 n.Vigorelli Giancarlo 16 n., 28 e n., 37, 110 n.,

119 n.Villalta Gian Mario 10 n., 119 n.Villon François (de Montcorbier François) 33

e n., 35, 47 e n.Virgilio Marone Publio 15, 80 e n., 99 n.Vittorini Elio 38 e n., 203, 247Vittorini Ginetta 203Viviani Cesare 44Voltaire (François-Marie Arouet) 41, 225, 253

Weber Carl Maria Von 70 n.Weil Simone 109 n.Weinheber Joseph 220Williams William Carlos 41, 141 n., 225Wordsworth William 230

Yeats William Butler 51 n., 219

Zampa Giorgio 31 e n., 235Zanzotto Andrea 9, 10 n., 13, 38 n., 39 e n., 46

n., 47 e n., 119-128, 141 n., 175 e n., 247Zoico Silvia 144 n.Zoppi Sergio 43 n., 253Zucco Rodolfo 67 n., 141 n.

Capitoli autobiografici

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PREMIO RICERCA «CITTÀ DI FIRENZE»

Titoli pubblicati

anno 2011

Cisterna D.M., I testimoni del XIV secolo del Pluto di AristofaneGramigni T., Iscrizioni medievali nel territorio fiorentino fino al XIII secoloLucchesi F., Contratti a lungo termine e rimedi correttivi Miniagio G., Soggetto trascendentale, mondo della vita, naturalizzazione. Uno sguardo

attraverso la fenomenologia di Edmund HusserlNutini C., Tra sperimentalismo scapigliato ed espressivismo primonovecentesco poemetto

in prosa, prosa lirica e frammentoOttonelli O., Gino Arias (1879-1940). Dalla storia delle istituzioni al corporativismo

fascistaPagano M., La filosofia del dialogo di Guido CalogeroPagni E., Corpo Vivente Mondo. Aristotele e Merleau-Ponty a confrontoPiras A., La rappresentazione del paesaggio toscano nel TrecentoRadicchi A., Sull’immagine sonora della cittàRicciuti V., Matrici romano-milanesi nella poetica architettonica di Luigi Moretti.

1948-1960Romolini M., Commento a La bufera e altro di Montale Salvatore M., La stereotomia scientifica in Amédée François Frézier. Prodromi della

geometria descrittiva nella scienza del taglio delle pietreSarracino F., Social capital, economic growth and well-beingVenturini F., Profili di contrattualizzazione a finalità successoria

anno 2012

Barbuscia D., Le prime opere narrative di Don Delillo. Rappresentazione del tempo e poetica beckettiana dell’istante

Brandigi E., L’archeologia del Graphic Novel. Il romanzo al naturale e l’effetto TöpfferBurzi I., Nuovi paesaggi e aree minerarie dismesseCora S., Un poetico sonnambulismo e una folle passione per la follia. La romantizzazione

della medicina nell’opera di E.T.A. HoffmannDegl’Innocenti F., Rischio di impresa e responsabilità civile. La tutela dell’ambiente tra

prevenzione e riparazione dei danniDi Bari C., Dopo gli apocalittici. Per una Media Education “integrata”Fastelli F., Il nuovo romanzo. La narrativa d’avanguardia nella prima fase della postmo-

dernità (1953-1973)Fierro A., Ibridazioni balzachiane. «Meditazioni eclettiche» su romanzo, teatro,

illustrazioneFrancini S., Progetto di paesaggio. Arte e città. Il rapporto tra interventi artistici e

trasformazione dei luoghi urbaniManigrasso L., Capitoli autobiografici. Poeti che traducono poeti dagli ermetici a

Luciano ErbaMarsico C., Per l’edizione delle Elegantie di Lorenzo Valla. Studio sul V libro

Leonardo Manigrasso, Capitoli autobiografici : poeti che traducono poeti dagli ermetici a Luciano Erba ISBN 978-88-6655-502-5 (online), CC BY-NC-ND 3.0 IT, 2013 Firenze University Press

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Piccolino G., Peacekeepers and Patriots. Nationalisms and Peacemaking in Côte D’Ivoire (2002-2011)

Pieri G., Educazione, cittadinanza, volontariato. Frontiere pedagogichePolverini S., Letteratura e memoria bellica nella Spagna del XX secolo. José María

Gironella e Juan BenetRomani G., Fear Appeal e Message Framing. Strategie persuasive in interazione per la

promozione della saluteSogos G., Le biografie di Stefan Zweig tra Geschichte e Psychologie: Triumph und Tragik

des Erasmus von Rotterdam, Marie Antoinette, Maria StuartTerigi E., Yvan Goll ed il crollo del mito d’EuropaZinzi M., Dal greco classico al greco moderno. Alcuni aspetti dell’evoluzione

morfosintattica