97412810 Gianni Solla Lettera a Scarlett Johansson e Altre Storie Corte

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Gianni Solla

Lettera a Scarlett Johansson

e altre storie corte  

Marsilio

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Gianni Solla vive a Napoli. Ha pubblicato Airbag (Ad est

dell’equatore 2008) e le raccolte di racconti Tropico di San Giovanni a Teduccio (Senza Patria 2011) e Seppellitemi con l’accappatoio (RGB 2006). Tra il 2005 e il 2010 ha partecipato a numerose antologie tra cui Watersex, Sex Blog, SexUniform (Mondadori), Trema la terra, E morirono felici e contenti (Neo Edizioni).

Scrive sul suo blog www.hotelmessico.net

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Ebook gratuito © 2012 by Marsilio Editori® in Venezia Gianni Solla è rappresentato dall’agenzia letteraria Vicolo Cannery www.marsilioeditori.it [email protected]

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Lettera a Scarlett Johanssonn

1. Cara Scarlett Johansson, mi chiamo Renato e lavoro alla

PlasticFond. Ho la Fiat Panda 1100 a gasolio con il condizionatore e lo stereo Kenwood con l’mp3. L’anno scorso ad agosto ho affittato per due settimane una casa a Mondragone con mia sorella. Ha una bambina piccola che piange sempre. Il dottore dice che è autistica, ma se uno non lo sa sembra normale. Solo certe volte se guarda la televisione per troppo tempo le viene l’epilessia, fa la schiuma e gira gli occhi all’indietro. Allora mia sorella deve farle una siringa lunga due centimetri nella gamba. Mio cognato dice che da grande la bambina si aggiusta perché anche lui da piccolo sembrava mongoloide però adesso ha l’alfa 147 a benzina. Ti scrivo per dirti che sei molto bella e che hai dei capelli bellissimi. Per dimostrarti che sono un ragazzo che ha fatto le sue esperienze, nella busta di questa lettera troverai anche una fotografia di Cinzia, la ragazza con la quale sono stato fidanzato per tre anni. Nella

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fotografia siamo vicini una fontanina al matrimonio di mio fratello Germano al ristorante Il cucchiaio d’oro di Torre del greco. Io ho schizzato Cinzia con l’acqua per scherzare ma lei si è messa gridare. Quello che invece sta in mezzo a noi coi Reyban, è il cantante Raffaello. Cinzia a marzo si è fidanzata con l’istruttore della sua palestra, io l’ho aspettato nel garage con un cacciavite, lui mi ha sbattuto con la faccia per terra e ha detto che se mi vedeva di nuovo chiamava la polizia. Se pensi che tra te e me possa nascere una relazione seria, ecco, io vorrei dirti che sono disponibile. Ti lascio due numeri di cellulare però ti consiglio di chiamare sul tim perché la tre non prende mai. Se ti decidi entro la fine di luglio io potrei venire una settima da te a Los Angeles e poi potremmo passare un’altra settimana a casa di mio cognato a Formia per conoscerci meglio.

2. Scarlett, ho raccontato a mio cognato Rosario di averti

scritto, lui ti ha visto sul sorrisi e canzoni abbracciata con uno e dice che è difficile che lo lasci. Adesso però parlo un po’ di me. Lavoro fino alle sei, certe volte fino alle undici se faccio il secondo turno, torno a casa, cucino le panatine o i sofficini, lavo i pantaloni e le magliette e poi faccio la doccia

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con il felce azzurra. Quando ho finito mi stendo sul divano e guardo la televisione. A casa sono da solo, mia mamma e mio padre sono morti l’anno scorso e il lavoro me lo hanno dato alla fabbrica dove lavorava mio padre. Ho preso il suo posto nel reparto, il suo armadietto e il suo posto macchina. Quelli della mensa mi chiamano con il suo nome. All’inizio il lavoro non mi piaceva, c’era sempre puzza di plastica bruciata e il rumore non mi faceva parlare con nessuno. Otto ore senza parlare. Da sotto il casco protettivo si vedeva poco la faccia degli altri, restava fuori la bocca e un po’ i capelli sul collo. Dalla mia postazione vedevo solo i caschi gialli che si muovevano simmetricamente come le ragazze del nuoto sincronizzato di Pechino. Devo fare un milione di volte al giorno lo stesso movimento con il braccio. Bisogna abbassare la leva del compattatore, infilare il pezzo nella guida, spingere il bottone rosso e contare fino a quattro. Certe volte quattro è un tempo lunghissimo, io penso che dovrei contare fino a due. L’ho detto al caposettore mi ha detto di contare fino a quattro e che non si può fare il cazzo che ci pare. Ogni volta che il caposettore passa mi fa il segno del quattro con le dita. Non è come dicono da Santoro Scarlett, il lavoro ripetitivo mi piace. Mi piace lavorare al compattatore, il pezzo che esce è lucente, al tocco è liscio. Mi piace vederlo allineato nel carrello insieme ad altri dodici tutti uguali. Io prima di fare qualsiasi cosa

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conto fino a quattro perché non posso fare il cazzo che mi pare. La sera guardo striscia la notizia (i miei conduttori preferiti sono ficarra e picone), poi guardo una trasmissione (trasmissione preferita: chi l’ha visto) e poi i bellissimi di rete quattro e poi quando tutto finisce, guardo le televendite degli attrezzi della palestra oppure dei trapani oppure del robot per la casa roomba. Io questa cosa non l’ho mai detta nemmeno a mio cognato: dormo due ore per notte e tutto il resto guardo la televisione. Mi piace sapere che sono l’ultimo ragazzo sulla terra ancora sveglio. Con il computer ho fatto un fotomontaggio, una cosa porno con la tua faccia. Sulle pareti della mia stanza ci sono foto tue con molti uomini e penso che non stia bene che tu faccia certe cose. Sei una donna sporca ma io ti perdono. Mia mamma quando trovava le mie videocassette schifose diceva sempre che non andava bene e mi faceva dire dieci angelo custode. Cinzia voleva sempre fare le cose e mia mamma diceva che era una schifosa e perciò poi li abbiamo ammazzati con il veleno nella stufa a cherosene. Poi si è iscritta in palestra perché ha visto un servizio sulla palestre su verissimo. Ciao Scarlett, sei sempre bellissima.

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3. Ciao Scarlett, ieri notte ho chiamato Cinzia e le ho detto

che io e te ci siamo fidanzati e che ci sposeremo al ristorante Il cucchiaio d’oro di Torre del Greco. Lo so che non è vero, però ieri ho ricevuto una chiamata anonima sul cellulare (il tim, cellulare samsung con suoneria del gatto virgola) e lo sapevo che eri tu. Capisco la tua vergogna ma io sono un ragazzo semplice e non devi avere paura. Cinzia ha detto che non devo chiamare a casa sua così tardi e quando le ho chiesto se voleva restare un po’ a parlare ha attaccato. Non la sentivo da due mesi e dopo che ho parlato con lei sono uscito e ho guidato tutta la notte sulla tangenziale. Ho dormito dieci minuti nel parcheggio di una pompa di benzina e poi mi hanno svegliato i carabinieri bussando con la mano sul vetro perché il proprietario si è impressionato. Dopo che mi hanno controllato i documenti sono andato a lavoro. Ho parcheggiato nel piazzale della fabbrica e ho contato fino a quattro prima di uscire, poi ho marcato il badge e ho contato fino a quattro, ho aperto l’armadietto e ho contato fino a quattro perché non posso fare il cazzo che mi pare. È importante che tutti rispettiamo una regola. Se ti piace il mare possiamo andare a l’acqua flash di Licola, là hanno anche il calcetto con il sapone che quando cadiamo

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poi ridiamo, come facevamo io e Cinzia e mio cognato ci scattava la fotografia con il cellulare.

4. Ciao Scarlett, ho un braccio fasciato e il collarino. Fa

caldo e mi prude. Eravamo in fabbrica al reparto e a un certo punto ho sentito un suono fortissimo, un fischio spaziale e mi facevano male le orecchie, ho contato fino a quattro ma non è passato, allora me le sono coperte perché sentivo il fischio sempre più acuto e ho lasciato la macchina e tutti gridavano di non lasciarla ma io dovevo coprirmi le orecchie perché sentivo il cervello che si stava bucando e poi la pala è caduta sul braccio di Luigi e c’era sangue dappertutto e lo hanno portato all’ospedale. Ha sbagliato perché non ha contato fino a quattro, ha fatto il cazzo che gli pareva e questo non si può fare. Cristo Scarlett, bisogna sempre contare fino a quattro un milione di volte al giorno. Poi l’allarme ha smesso e io ho tolto le mani dalle orecchie e quando tutti sono andati all’ospedale sono rimasto da solo nel reparto e dove c’è la postazione di Luigi, per terra c’era segatura e sangue. La sera sono andato nel posto dove ci incontravamo con i nostri amici e c’era anche Cinzia con quello della palestra. Nessuno parlava, ho aspettato un po’

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perché non riuscivo a muovermi, poi ho contato fino a quattro e sono ritornato alla macchina per andarmene e mentre facevo manovra ho sentito di nuovo il fischio spaziale e ho alzato le mani dallo sterzo per metterle sulle orecchie e sono andato a sbattere e il vetro della macchina è scoppiato e mi è arrivato sulla faccia e mentre l’infermiere dell’ambulanza mi tirava fuori dalla macchina, mi diceva di non girare il collo e io piangevo e sentivo il sangue nella bocca.

5. Cara Scarlett anche stanotte mi è arrivata una chiamata

anonima, ma ho capito, non sei stata tu e nemmeno la volta scorsa, ma è stata Cinzia. Ho chiamato a casa sua, ha risposto la madre, erano le due, strillava, ha detto che sono un cazzo di disturbato e che non devo chiamare, che loro non ce la fanno più con questa storia e allora io anche le ho detto che non ce la faccio più e che Cinzia non deve più stare con quell’altro che poi non è nemmeno l’istruttore della palestra ma solo uno che ci va perché l’ho seguito e poi è anche sposato e non sta bene che Cinzia faccia le cose con uno sposato.

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5 bis. Scarlett mi sento tranquillo solo quando sono vicino il

compattatore. In quel posto nessuno può fare il cazzo che gli pare, nemmeno il caposettore. L’attimo in cui si abbassa lo stampo sul pezzo e i rivoli di metallo schizzanno dappertutto nella cesta è bellissimo. Il braccio arancione del compattatore fa uno scatto veloce verso il pezzo, poi si blocca per un istante, come se volesse accumulare peso e poi si abbassa. Allora si sente il metallo che si deforma e dentro la pancia sento una sensazione di potenza infinita per un milione di volte al giorno. Il meccanismo preciso del compattatore assomiglia a quello che facevano gli uomini e le donne nelle mie videocassette schifose. I pistoni, la lubrificazione, il movimento ripetuto, il calore che si sprigiona. Questo fa assomigliare gli essere umani ai compattatori. Una volta mi sono eccitato guardando il compattatore. Sono andato nel bagno del primo piano e ho fatto una cosa schifosa. La notte a casa ho detto cento angelo custode. Se un pezzo è fatto bene, produce trecentosettantadue rivoli di metallo. Gli altri non saranno perfetti, penderanno da un lato, saranno parti di macchine difettose. Sono stato io a premere il bottone rosso e a contare fino a quattro, mi sento parte della potenza del compattatore. Se nessuno fa il cazzo che gli pare tutto è

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inquadrato e i pezzi escono buoni. Questa è l’unica cosa che conta. Anche Cinzia non doveva fare il cazzo che gli pareva.

6. Tengo tutte le lettere che mi scrivi nella scatola delle

scarpe assieme alle bustine per il mal di denti, lo sciroppo per la tosse e il ventolin e alla fotografia di mia mamma e mio padre quando eravamo sulla spiaggia di Gaeta. Io piangevo e mio padre aveva fatto il cappellino di carta e mia mamma mi teneva in braccio e la cosa bella è che nessuno si ricorda chi ha fatto quella fotografia. Smettila di spedirmi quelle fotografie dove fai quelle cose schifose con tutti quegli uomini, anche se le infili per bene nelle bustine di cellophane trasparenti per congelare la carne e le metti nella busta della lettera, io lo capisco da subito che cosa c’è dentro, sei una schifosa puttana e anche mia sorella, l’ho sempre saputo, una schifosa anche lei, tu e lei in mezzo a quelli che vi mettono le mani addosso in tutte quelle fotografie e dalle vostre facce si vede che vi piace e anche Rosario che prima tocca te e poi lei in mezzo a tutti quegli altri. Smettila di scrivermi per sempre sei una cazzo di disturbata.

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7. Scusa Scarlett se non ti ho scritto per tre settimane ma

sono stato in galera e poi mi hanno rilasciato. Adesso devo andare due volte a settimana a parlare con una dottoressa della asl 3. Tutto è successo quando mi hai spedito con l’ultima lettera, la foto di te e Cinzia in mezzo a quei due. Le ho trovate nella cassetta della posta avvolte in un foglio di giornale chiuso con il nastro isolante. Adesso che avevo le prove che Cinzia era una schifosa, ho spedito la foto a casa della moglie del suo nuovo fidanzato e il giorno dopo sono arrivati i carabinieri a prendermi mentre ero al reparto. Io non mi staccavo dal compattatore e anche se mi hanno bloccato in due il mio braccio continuava ad andare su e giù perché tutti i giorni devo fare un milione di volte lo stesso movimento e all’improvviso la mia mano è andata a sbattere contro un carabiniere e c’era di nuovo il sangue come quella volta con Luigi. Ma adesso sono tornato a casa. La dottoressa con cui parlo è brava, mi fa raccontare un sacco di cose, vuole sapere tutta la mia storia con Cinzia e del lavoro al reparto e delle televendite, ma c’è una cosa che ho scoperto su di lei. Mi è arrivata una fotografia a casa dove lei è in mezzo a due uomini e si fa fare di tutto. Qualcuno l’ha infilata sotto la porta di casa mia. Era piegata all’interno di un guanto da cucina. Non so chi sia stato a spedirmela ma

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c’è qualcuno che ha voluto avvertirmi che lei è una schifosa. Forse qualcuno mi spia, sto pensando di installare una telecamera fuori la porta.

8. Cara Scarlett, grazie per avermi spedito il tuo indirizzo.

Ho comprato il biglietto, parto tra due giorni, non vedo l’ora di conoscerti. Qua è un via vai di poliziotti e mi hanno anche inquadrato al telegiornale di rai 3 perché hanno trovato il nuovo fidanzato di Cinzia morto in un parcheggio e la polizia sta facendo il suo dovere per capire quello che è successo. Quando la polizia è arrivata a casa mia ha messo le mani ovunque e ha trovato la scatola con tutte le fotografie che i disturbati mi mandano a casa e adesso dice che mi vogliono aiutare.

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Ruomania

Io viengo da Ruomania. Arrivata qua tre anni e adesso lavora da signora Clara a pulire mierda e bava. Ruomania era mieglio di Napuli. Ogni vuolta che viene figliu di signora Clara lui vuole chiavare con mia e mi dà dieci euro, ma io no puttana di strada io dico tu dare mia trenta euro ma lui solo dieci euro e dice che napolitani tutti puoveri. Ruomania era mieglio di Napuli. Per esempio io cambio pannulone signora Clara, perché lei tre vuolte giorno mierda su sedia, divanu, lettu tutto ikea roba economica e io abbasso per cambiare pannolone signora Clara e lui subito vuole scupare. Inizio io stare da altra signora. Lei buona con mia. Poi muorta. Io trovata muorta mattina dentro a lettu e signora era dura. Io pensavo lei aveva fatto mierda dentro a lettu e aveva paura che io picchiare lei e non voleva parlare con mia. Allora io andata da lei e gridata e picchiata e sputata e poi capito che lei muorta con faccia viola dentro a lettu. Io inizio non capire mai quando vecchi di Napuli muorti o dormire. Io penso che signora Clara muore presto perché lei ha cancro dentro schiena e io trovare altra signora

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che mierda letto e divano ikea. Noi Ruomania niente Ikea, noi tutto roba economica che si ruba da casa di vicino quando loro vanno ospedala di anemia. Quando loro tornati da ospedala non fai entrare casa tua perché dentro casa tua loro mobili e loro sedie. Metti scotch e sedia diventa buona. In Ruomania non ci stanno cinesi perché non conviene. Noi di Ruomania andare in Cina a lavorare perché loro molti soldi e poi signora cinese piccola mierda e facile lavara. Signore Napuli molta mierda. Io adesso a Napoli ma un giorno forse andare Italia a lavorare. Signora Clara due figli, uno chiavare sempre dieci euro, altro ricchione che gli piace cazzu. In Ruomania invece no ricchiuni a uomini piace chiavere femmine e basta. A Napuli molti euro molti ricchioni. Io penso allora che Italia molti ricchioni più di Napuli. Figlio ricchione signora Clara bravo ragazzo, lui cucina, veste con gonna e noi ci scambiamo reggiseno e camicette. Noi amiche. Io Romania avevo amica chiamava Micheljikenja poi muorta. Tutti muorti Ruomania. Mio figlio muorto, mio amante muorto, mio marito non mi ricordo. Romania facile muorire fame, guerra, ladri, ospedala. Bambini muorti perché loro prendono notte e ti portano ospedala e ti prendono pulmoni, reni, fegati e poi ti buttano su strada e mattina vedi bambini muorti senza occhi e tu vai a vedere se bambino tuo figlio o figlio vicino di casa che non si truova da settimana e poi non è lui e tu dici meno

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male. Con figliu ricchione signora Clara noi giovedì andare a fare passeggiata per abbuscare cazzu alla stazione oppure Mergellina passeggiata vicino mare. A mergellina si abbuscanu parecchi cazzu perché io pensa che mare venire voglia di chiavare. Noi mettiamo su muretto e ogni tanto passa ragazzo su motorino e grida «Ricchion!» ma lui scherza e figliu ricchione signora Clara piange e io dico non piange che lui adesso fa incidente su motorino e muore. E ragazzo su motorino quasi sempre fa incidente e io dico a figliu ricchione signora Clara hai vista lui fatto incidente. Noi incontrato signore sessant’anni che ha detto che lui voleva chiavare tutte e due. Io detto signore che figliu signora Clara ricchione e signore sessant’anni detto che lo sapeva e anche lui ogni tanto piace cazzu e allora andati tutti e tre albergo dietro stazione. Spogliati tutti e tre e vecchio preso viagra ma cazzu piccolo piccolo e figliu ricchione signora Clara aveva cazzu venticinquo centimetri e duro come sedia ikea soggiorno casa signora Clara e io non capivo adesso chi doveva chiavare chi. Io messa quattro zampe e ogni tanto prendevo cazzu ma nun mi ricordo quale. Io paura che vecchiu sessant’anni moriva prima di dare soldi allora ho detto questu a figliu ricchione signora Clara e lui ha detto a viecchiu dacci soldi o ti ammazziamo. Io detto a figliu ricchione signora Clara, noi non ammazzare viecchiu, lui muore da solo per cuore lesionato mentre

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chiava allora figliu ricchione detto a viecchiu e lui datu soldi. Ieri venuto duttore da signora Clara e detto che lei forse morta settimana prossima. Io cerco lavoro in Italia perché andare via da Napuli. Andata a stazione a domandare biglietto treno da Napuli per Italia e ferroviere detto che nun capiva. Se anche Italia come Napuli io torna Ruomania.

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Annamaria

Quando mi spuntarono i denti, mia madre per undici giorni non mi tenne in braccio. Se potevo masticare un animale e godere della carne, allora ero pronta per farmi scopare. Il mio destino non era scritto in mezzo alle mani, ma nelle gengive. Il giorno numero dodici fumò trentasei Camel Light, le spense nel bicchiere e mi chiese scusa. È stato il primo dei miei abbandoni.

La prima volta che mi ha chiamato Annamaria avevo un anno. Al comune mi aveva registrato come Luisa, ma sulla torta ci fece scrivere Annamaria. Era il giorno prima del mio compleanno, eravamo solo io e lei, l’indomani aveva il turno lungo al ristorante. Tenne la televisione accesa per tutto il tempo, il volume era altissimo. Cantò la canzone e spense la candelina. Nella scatola delle foto ce n’è una di me che piango con una tutina dell’orso Bubu. Mia nonna si chiamava Annamaria, tutte le puttane dovevano chiamarsi Annamaria.

Nessuno doveva sapere che fossi una femmina Annamaria. Mi tagliava i capelli con la macchinetta tutti i

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giovedì e mi vestiva come un maschio. «Sta’ ferma» diceva. La macchinetta mi faceva il solletico, restavano chiazze di capelli. Al ristorante tutti sapevano che mi chiamavo Alessandro. A scuola il mio grembiule era blu e c’era scritto Alessandro. Dovevo giocare con i maschi, segnavo due gol a partita, ho bruciato un gatto con la benzina in un campo, nessuno degli altri che era con me ebbe il coraggio di girare la rotella dell’accendino. Mia mamma aveva portato i documenti falsi in segreteria. Mi diceva che non dovevo mai andare in bagno, tenermela fino a quando non arrivavo a casa. Nessuno doveva starmi più vicino di due metri. A casa facevamo le prove, due metri corrispondevano a quattro mattonelle del salotto e a otto della cucina. Se sentivo la puzza del suo alito da sigaretta allora le ero troppo vicino. A casa ero Annamaria, a scuola Alessandro, al comune Luisa. Era facile.

Andavamo a mare a Licola, dalla tangenziale si vedeva il radar della NATO. Ogni volta che lo vedevo, domandavo e lei inventava una storia diversa. Sulla spiaggia dovevo restare vestita perché il sole mi faceva male. A mare era pieno di meduse, non si poteva fare il bagno. Mi sedevo su un masso di cemento e guardavo le meduse in acqua che si gonfiavano e pulsavano. Erano animali di vetro, trasparenti. Dei pescatori le prendevano con i retini. Le meduse non scappavano. In un retino ne entravano dieci, si

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ammassavano sui loro corpi scivolosi e lucenti. Quando il retino era pieno, le portavano in un punto della spiaggia vicino il parcheggio. Io andavo a toccarle con una mazza. Mia mamma mi chiamava, diceva che dovevo smetterla con le meduse. Al mio tocco non reagivano, si scioglievano, io volevo riportarle a mare.

Mia mamma ritorna a casa con uno, si chiama Antonio, non è la prima volta che viene. Hanno una bottiglia e ridono. Lei è truccata, è bellissima. Ha passato tutto il pomeriggio nel bagno con la cassetta di Vasco Rossi. Non vuole che io la guardi mentre si trucca, vedo la sua ombra attraverso il vetro opaco della porta. Ha la gonna marrone, gli stivali con i laccetti. Si è spruzzata i brillantini sulle labbra. È bello vederla contenta, ma quello che poi succede non mi piace. Mi ha detto che non devo uscire dalla mia stanza. Vicino il mio letto c’è il piatto con pollo. Si chiudono nella camera da letto. Li sento tutta la notte.

A undici anni mi ha dato gli ormoni per ritardare il mio sviluppo. Pesavo il doppio dei miei compagni. Avevo baffi e peli sulle braccia, riuscivo a spostare una pila di otto banchi da sola. In classe mi temevano. Mi piaceva che gli altri avessero paura di me. O avevi paura o ne incutevi, in mezzo non c’era niente. Cambiavo i nomi dei miei compagni. «Tu da oggi ti chiamerai Luisa» dicevo a uno e tutti obbedivano. La mia prima fidanzata si chiamava Vanessa, fuori la scuola

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ci tenevamo per mano. Una volta le ho messo la mano in mezzo alle gambe.

Il pomeriggio non potevo scendere per giocare con gli altri bambini, restavo a guardarli dal balcone. Giocavano nel primo quadrato del condominio, le due piante erano una porta, i citofoni un’altra. Certe volte alzavano gli occhi, mi guardavano, ero troppo lontana per sentirli. Mi chiudevo in casa. Mia mamma mi aveva promesso un acquario con una medusa, l’avrei chiamata Diamante. Avrebbe avuto i filamenti blu e viola come quelle della spiaggia di Licola. Avevo preparato lo spazio sulla macchina per cucire.

Non ho fatto il battesimo, né la prima comunione, non siamo mai andate a messa. Non abbiamo il quadro della Madonna sopra il letto. Non ci facciamo il segno della croce. A Natale mia mamma lavora tutta la notte al ristorante.

Una notte lei non torna a casa. Non è mai successo. Io resto con la televisione accesa, ho il telecomando e il dito puntato sul pulsante rosso. Stabilisco che non appena sento la chiave girare nella porta lo premo. Lei non vuole che la televisione resti accesa dopo le otto. Faccio le prove. Bisogna abbassare il volume per sentire la chiave nella toppa. Tengo il dito sul pulsante tutta la notte. Quando diventa giorno preparo il latte e vado a scuola. Mi ha detto di non chiamare mai al ristorante. In classe non dico niente.

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Dopo scuola ritorno a casa, lei non c’è ancora. Mangio, lavo i piatti, forse è andata a Licola a comprarmi Diamante.

Anche la notte seguente guardo la televisione. Un documentario sulle lucertole e un film di indiani. Faccio dieci volte l’angelo custode a bassa voce, ce lo hanno insegnato a scuola. In classe la maestra dice che sono un bambino precoce, basta che io senta una cosa perché l’impari a memoria. Faccio una prova con le parole della televisione. Ascolto una frase e poi la ripeto uguale per dieci volte. Quando ho finito faccio la preghiera. È la prima volta che ne faccio una. Scandisco bene le parole, cerco di figurarmi in mente i passi della preghiera. Sono sicura che questa notte torna, il tempo necessario all’angelo di custode. Fino alla mattina non torna, nessuna chiave nella toppa. È l’ultima volta che prego.

Ritornò il pomeriggio seguente stesa in un’ambulanza del Cardarelli. Il custode aprì il cancello per farli entrare nel viale del condominio. Si affacciarono le persone da tutti i piani. Gli infermieri portarono la lettiga a mano fino al sesto piano perché era troppo grande per l’ascensore. In casa la stesero sul letto, aveva tutto il corpo fasciato, inclusa la testa. Non ero sicura che sotto le bende ci fosse mia madre. Era successo qualcosa al ristorante e la sua faccia e le sue gambe erano bruciate.

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«Non devi avere paura» mi dice, «devi fare come ti dico io.»

Aspiro l’antibiotico nella fialetta. L’ago è lunghissimo. La sua voce è strana, non riesce ad aprire bene la bocca.

«Adesso prendi l’ovatta con il mercurocromo.» Non sono sicura che abbia detto mercurocromo. Lascio la siringa sulla tavola, sulla faccia c’è un piccolo

spazio tra le bende, la pelle che si vede è viola. Appoggio l’ovatta, il liquido esce e tutto diventa rosso. «Adesso prendi la siringa.» Forse dovrei fare di nuovo l’angelo custode. «Quando infilerai l’ago non potrò più parlare. Devi

entrare due millimetri sotto la pelle e spingere lo stantuffo piano.»

Mi avvicino, faccio come dice lei, non ho paura, appoggio l’ago e spingo, non lo so quanto siano due millimetri ma l’ago è entrato, non vedo più la punta, comincio a spingere lo stantuffo.

«Mi chiamo Luisa» dico, «me lo ha detto la maestra. Ha portato dei documenti. Dice che non è normale come sono vestita.»

Lasciai la scuola, facevo tutto io in casa. All’inizio venivano due signore del comune, io non aprivo, appoggiavo l’orecchio sulla porta e smettevo di respirare.

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Mi affacciavo dal balcone per vedere quando uscivano dal viale del condominio.

«Se ne sono andate?» diceva mamma. Era diventata paurosa e remissiva. «Hai preso le medicine?» mi diceva. «Sì» dicevo, ma avevo smesso di prendere gli ormoni. In

due mesi persi diciotto chili e mi spuntarono le tette. I baffi scomparvero. Pregavo l’angelo custode perché non mi succedesse. Anche i capelli mi erano ricresciuti e come era successo a lei, la mia voce stava cambiando.

Mi siedo sul letto. È sabato sera, lo sappiamo perché in televisione c’è Fantastico con la sigla finale cantata da Lorella Cuccarini e Alessandra Martines. Ci sono delle ballerine. La pelle dei loro corpi ha una bella colorazione.

«Gira» mi dice. «No». Adesso sono io che gestisco il telecomando. Quando le tolgono le bende lei non ha più la faccia. I

buchi del naso sono enormi, la pelle non ce la fa a coprire nemmeno tutti i denti. Un occhio è pieno di sangue.

«Come sono?» mi chiede. Non rispondo. «Come sono?» chiede di nuovo.

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Le ho messo una parrucca, il contorno occhi a quello che resta dei suoi occhi, il rossetto sul suo unico labbro. Quello superiore.

«Perché lo stai facendo?» Voglio solo che sia bella e felice come quando la sera

ritornava a casa con Antonio. «Perché hai messo quello specchio?» mi chiede. Suonano alla porta. «Non aprire» mi dice. «Non preoccuparti» le dico. Quando apro la porta, Antonio ha un mazzo di fiori e la

giacca nera. «Vieni» gli dico, «ti sta aspettando.» Anch’io sono vestita

bene. Ho messo i suoi stivali con i laccetti e la sua gonna marrone. Lui conosce la strada per la stanza da letto.

Mentre avanziamo nel corridoio mi chiedo quanto tempo resisterà.

«Annamaria, sei tu?, sei da sola?» mi chiede mia mamma. Antonio apre la porta. In un certo modo la riconosce, lei

non ha la forza di portare le mani alla faccia per coprirsela. Però riesce a piangere. Mi chiedo che senso abbia provare ancora vergogna.

«Perché lo stai facendo?» continua a dirmi. Antonio non sa cosa dire, si porta la mano alla bocca. Ha

un piede dentro e uno fuori dalla camera da letto. Gli

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prendo i fiori e vado a metterli nel vaso vicino la finestra. Cammino lentamente, impiego un tempo lunghissimo per arrivare alla finestra. Quando ritorno, lo prendo per mano, è alto il doppio di me, gli dico di venire con me nella mia stanza. Quando arriviamo gli chiedo cosa vuole che io faccia, lui mi dice di inginocchiarmi e si sbottona i pantaloni.

Ho una foto di mia nonna Annamaria. È in bianco e nero, anche se il colore principale è il marrone. È assieme ad altre cinque ragazze in una stanza grande che sembra un salotto. So chi è lei perché attorno la sua faccia c’è un cerchio fatto a penna. Sotto c’è scritto, «Mezza ora £ 5,50 – Un’ora £ 8,00». Mia nonna e le altre ragazze ridono, sembrano felici. L’ho appesa con lo scotch allo specchio del bagno. Mia mamma non può alzarsi dal letto. Dal giorno che gli infermieri l’hanno portata non si è più alzata. Le vene delle gambe non funzionano più e provvedo io a lei. Ho comprato il rossetto e un fermacapelli bianco. Stendo il rossetto sulle labbra. Sento un sapore dolce, sulla confezione c’è scritto al gusto di fragola. Non ho mai mangiato una fragola. Traccio la linea con cura. La mia bocca sembra più grossa. Infilo il fermacapelli bianco, uguale a quello che ha mia nonna nella fotografia. Sono bellissima, ho deciso di chiamarmi Annamaria, sono uguale a lei.

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Storia corta

Mio nonno smise di lavarsi i denti il 4 novembre 1979. Eravamo a tavola, mia sorella aveva avuto la febbre tutta la notte, c’era la scatola della tachipirina sul lavello e mia mamma aveva fumato duecento sigarette mentre era al telefono con il pediatra della asl di San Giovanni a Teduccio.

«Per me va bene» disse lei spegnendo la sigaretta nel piatto.

Lo spazzolino del nonno diventò secco, se appoggiavo il polpastrello sulle setole mi pungevo e l’estate seguente il caldo lo fece spezzare. Mia madre gli portava da mangiare nella sua stanza, passava tutto il giorno a leggere l’enciclopedia e usciva solo di sera, quando per strada restavano solo i cani e i pazzi. Se faceva un colpo di tosse a Piazza Garibaldi noi lo sentivamo.

La puzza è cresciuta lentamente per i primi due mesi, poi si è stabilizzata raggiungendo il massimo della potenza verso la nona settimana. Per me quello era l’odore del nonno e quando morì, i becchini che dal letto lo infilarono nella

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bara, non ci potevano credere. Dissero che secondo loro il vecchio doveva essere morto da almeno dieci mesi per come puzzava.

«Avvitate bene il coperchio» disse mia mamma. C’era parecchia gente a casa a salutarlo e sotto il palazzo

avevano messo una ghirlanda con dei nomi scritti su una stoffa viola. Bisognava girare la testa per seguire il verso delle parole e io comunque conoscevo le lettere solo fino alla m, il nonno non aveva fatto in tempo a parlarmi delle altre.

«Lascialo stare» gli urlava mia mamma quando lo sentiva raccontarmi della morte.

«Lo deve sapere adesso» gli urlava lui. «Ha solo nove anni» diceva lei. «È tardi, cristoiddio, è tardissimo.» E poi attaccava a raccontarmi la storia di Elvira Samana,

la puttana che l’aveva nascosto dopo che lui aveva sparato nel ginocchio a un carabiniere mentre scaricava le sigarette sulla spiaggia. Lo tenne in una casa a piazza Nazionale per quattro mesi, lui l’aveva minacciata con la pistola – mi aveva fatto vedere esattamente dove si appoggia la canna sulle costole di una femmina – poi alla fine lei si è innamorata.

«Se le femmine non hanno paura di te non si possono innamorare.»

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Cercavo di terrorizzare mia madre e mia sorella perché si innamorassero di me.

Elvira Samana morì di epatite due anni dopo la storia del carabiniere, e il nonno disse che nessuna morte poteva essere più ridicola e precisa perché aveva trasformato la pelle bianca e bellissima di Elvira in un fazzoletto giallo. Era morta di quello che aveva vissuto. Per questo, quando mi parlava della morte, si partiva sempre parlando del chiavare, perché lui diceva che morire e chiavare sono la stessa cosa, sono cose che si devono fare per forza.

Prima di morire il nonno mi lasciò la fotografia di Elvira, non era bella come mi raccontava, ma io non sapevo niente delle femmine. La faccia era troppo lunga e dalla fotografia non si poteva né sentire l’odore del suo collo né provare come faceva la parmigiana di melanzane e, secondo il nonno, mi perdevo il meglio di lei e poi non avevo capito bene il significato di Puttana.

Dietro, c’era una poesia che lui le aveva scritto e che mi aveva letto così tante volte che la conoscevo a memoria, senza sapere se le parole che ricordavo corrispondessero ai tratti di inchiostro dietro la fotografia. Perciò volevo imparare a leggere oltre la lettera m, perché il nonno mi diceva che il bello veniva dopo.

Al funerale avevo la magliettina gialla con l’orso yoghi e mia madre mi diceva di non allontanarmi. Aveva paura di

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perderci e teneva sempre me e Luisa a due metri. C’erano fiori e tre candele profumate, ma il fiato del nonno usciva dalla bara, e le candele, il deodorante e il disinfettante mi facevano venire il mal di pancia.

Il nonno mi aveva spiegato per bene come funziona la procedura della morte. Un giorno smetti di respirare, ti mettono in una bara, ti infilano sottoterra e statti bene al cazzo. E allora di un uomo restano solo tutte le chiavate che si è fatto e le femmine che ha fatto piangere e le notti che non è tornato a casa dalla moglie. Perciò presi la fotografia di Elvira e facendo finta di leggere cominciai a recitare la poesia ad alta voce in mezzo a tutti quelli che erano là:

Il culo di Elvira, m’ispira e mi tira, lo cerco la notte, gli do un paio di botte lo sento vicino, ci infilo il ditino, bagascia e puttana, Elvira Samana. Poi arrivò mia madre e strappandomi la cartolina dalle

mani, mi diede uno schiaffo dietro al collo.

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Gianni Solla Il fiuto dello Squalo pp. 304 In libreria e in ebook dal 21 marzo

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Il fiuto dello Squalo. Il libro

Sergio Scozzacane è un impresario musicale. Lo chiamano “lo Squalo” per la forma a pinna del suo naso. Un soprannome, ma anche un destino da carnivoro: è il proprietario della casa discografi ca Musica Blue Records, che produce dischi a pagamento, vendendo illusioni a cantanti privi di talento che lui chiama “pazienti”.

Alloggiato in una pensione d’infimo ordine e sommerso dai debiti contratti anche con la camorra (costatigli il mignolo del piede sinistro), lo Squalo progetta una improbabile uscita di scena. Ma quando tutto sembra perduto, una speranza si riaccende: Mattia, un giovane cantante che ha ancora sotto contratto per due mesi, vince un talent show televisivo, e portarlo al festival di Sanremo sembra l’occasione di riscatto della sua vita da discografico fallito e per salvare la pelle.

Con passo incalzante e capacità dissacratoria, Gianni Solla mette in scena un romanzo sull’impossibilità di

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sottrarsi alla propria natura, la storia di un antieroe che lotta per la sopravvivenza in una Napoli divisa tra mediocri cantanti neomelodici e clan della camorra, una commedia amara sui fallimenti umani.  

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Cerchiamo di capirci, se hai una pinna da squalo sulla faccia allora diventi un carnivoro

La prima volta che mio padre mi ha chiamato Squalo avevo tre settimane. Mi teneva avvolto in un plaid marrone a pochi centimetri dalla stufa a cherosene che accendeva bruciando un foglio di giornale infilato nel buco del serbatoio. Aveva paura: adesso che ero nato, era davvero costretto a tornare nel letto di mia madre tutte le notti? Continuava a guardarmi attraverso gli occhiali a goccia e non si spiegava quella cosa misteriosa che avevo sulla faccia.

Mi chiamò Squalo perché gli piaceva che avessi il nome di una pianta carnivora o di un predatore. Doveva farlo sentire meno responsabile. Se ero nato con quella pinna al posto del naso, c’era da aspettarsi che mi sarebbero comparse le branchie e in bocca un centinaio di denti triangolari. Era convinto che per ognuno di noi esistesse un solo nome possibile, e lui aveva trovato il mio.

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Quarant’anni dopo, sul mio biglietto da visita c’è scritto LO SQUALO.

Tutti quelli a cui devo dei soldi mi conoscono con questo nome. Quando avevo una casa sul mio citofono c’era scritto Squalo. La “S” è il tasto più consumato del mio computer.

Mi chiamano così per la forma del mio naso, ma se a chiedermelo sono i miei clienti, allora dico che è per il

mio fiuto negli affari. Sono stato io a mettere in mezzo questa storia.

Nel mio ambiente, alcuni dicono che sento il sangue a chilometri di distanza, altri che sono più innocuo di un pesce gatto. In tutti e due i casi, il mio destino è scritto nella forma del mio naso.

Chi conosce la stanza dove vivo alla pensione Nuova Libia e sa quanto valgono i vestiti che indosso, capisce perché lo Squalo ha deciso di cambiare acque. Sono fuori di cen-totrentaduemila euro con i Santamaria. Hanno in mano il rione Terzo mondo, Secondigliano e Miano. È il clan più potente della città.

Cominciamo per gradi. Prima di conoscere le circostanze che mi hanno portato al fallimento, mi toccherà raccontare di come si siano conosciuti i miei genitori, perché la verità è sempre contenuta nell’inizio di ogni storia.  

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Festival di Licola, quarantasette anni dopo

La macchina non regge il minimo, deve essere il carburatore, ai semafori devo tenere il piede sulla frizione e dare gas. Parlo ad alta voce e tengo lo stereo alto. Questa seduta dietro fa finta di non capire, allora insisto.

«Secondo te Madonna come ha iniziato?» Allora ridono tutte e tre, si danno il gomito nei fianchi. Superata la tangenziale la città diventa colate di cemento

e svincoli autostradali. Attorno a me ci sono migliaia di automobili sperdute come supernove di metallo e alluminio. Prendo una Multicentrum dal taschino e la ingoio senza acqua. Sento la pasticca che mi attraversa la gola, la spingo giù. Queste continuano a ridere, parlano dei capelli, dei microfoni che non si sentono, che hanno paura di scordarsi le parole. Sempre gli stessi discorsi, ne ho la nausea, vorrei vomitare nel portaoggetti.

Quella coi capelli rossi continua a mandare messaggi dal cellulare, le altre due ridono ogni volta che suona il telefono, sta con due ragazzi per volta, dicono, figurati

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adesso che diventiamo famose, sì, dico io, sicuro, adesso che diventate famose vi riconosceranno dal parrucchiere, ma bisogna impegnarsi però, ricordatevi la storia di Madonna, e tutte a ridere.

Licola è il posto più schifoso della provincia. Ci sono le ville degli americani che lavorano alla NATO, guidano macchine enormi coi vetri scuri e le targhe che non si capisce niente. Lungo la strada è pieno di cani morti, lattine e preservativi. Queste qua dietro sono eccitatissime. Da quando siamo usciti dalla tangenziale, non fanno altro che gridare e chiedere quanto è grande il palco, se c’è l’effetto fumo, se ci sono le spie, se viene qualche televisione e io dico sì, invento, so tutto, numeri, misure, quantità, faccio nomi, racconto aneddoti, devo solo tenere duro e prendere le vitamine la mattina, il Maalox quando finisco di mangiare e lo Stilnox per dormire.

Il festival si tiene sul Lago Patria, una pozzanghera appestata dalle zanzare.

«Il posto è bellissimo» gli dico, «molto suggestivo, una cosa di classe.»

Quelle dietro fanno di sì con la testa. «Avete mai sentito parlare del concerto del Parco

Lambro?» Stanno zitte, le Traffic, non sanno niente. Meglio. Tiro

giù il finestrino e metto la mano fuori, l’aria è umida. Siamo

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in un posto desolato, devo stare attento, la prima buca che prendo si sfonda il semiasse.

«Il Parco Lambro è un posto del genere, ci fecero un concerto enorme» racconto, cerco di confonderle, «dovreste conoscere chi ha fatto musica prima di voi, è importante.»

Le Traffic non sanno che dire. Le lascerei qui, sulla strada, guadagnerebbero dei soldi in pochi minuti, si vede di peggio in giro a battere.

«Siete bellissime» dico, «questa sera avrete successo, siete a un punto importante della vostra carriera.»

Una stacca la schiena dal sedile posteriore, mi abbraccia e mi dà un bacio sul collo. Quando ride ha un dente fradicio che viene fuori dalle labbra.

Imbocchiamo una stradina e ci avviciniamo al palco. Le Traffic prendono gli specchietti dalle borsette e si danno una ripassata agli occhi. Due di loro si tengono per mano, oramai ci siamo, si sente la musica del soundcheck in lontananza, abbassano i finestrini per sentire meglio e vengono investite dalla puzza del lago, ma a loro interessa solo quanto è grande il palco e se ci saranno le telecamere.

Qualcuno parla ai microfoni, stanno provando l’impianto voci, avete pagato voi signorine, questa è la vostra festa, servitevi pure. È tutto quello che lo Squalo può offrirvi, ma è più di quanto meritereste. Non mi biasimate, ho provato a

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perdonarvi ma non ci sono riuscito, fallirete anche voi con me. Funziona così.

Il palco è uno schifo, spero solo che qualcuno non si faccia male. Parcheggio lontano, se cade la struttura non voglio che frani sulla macchina. È una specie di mattanza.

«Il palco è bellissimo» dico. Quelle saltano sui sedili, mi ringraziano, mi toccano le

spalle e le braccia. «Sono il vostro produttore, voglio il meglio per voi, siete

la mia scommessa.» Qualcuno dell’impianto audio riconosce la macchina. «È arrivato lo Squalo» urla al microfono. Lo Squalo sono io. La rossa alza gli occhi dal cellulare, prende una sigaretta

dalla borsetta. «Sergio perché ti chiamano lo Squalo. Tutti ti chiamano

così.» Adesso faccio uno show di dieci secondi per le tre

zoccolette. L’ho fatto un milione di volte nella mia vita. Ogni comico ha il suo tormentone, la battuta che da sola vale i soldi del biglietto.

Mi batto tre dita sul naso, si sente rumore di ossa. «Avete sentito?» dico. «Cosa?» dice la rossa.

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Batto di nuovo con le dita. Adesso il rumore delle ossa è più netto.

«Questo suono?» dice. «Secondo te il naso di un uomo fa questo rumore?» La rossa si batte le dita sull’osso del naso, ma non si sente

niente. «No.» «Questa è la pinna di uno squalo, perciò fiuto i talenti

anche in alto mare.» Le ragazze sono contente. Mi serve per sentire le prede:

se non paghi, non canti. «Viva lo Squalo» dice la rossa. «Viva lo Squalo» dicono le altre due. «Successo per le Traffic» dico io. Si stringono le mani, altre due ore e sparisco da questa

città.

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