70 -...

234
EMILIA ROMAGNA BIBLIOTECHE ARCHIVI DONNE E LAVORO: UN’IDENTITÀ DIFFICILE Lavoratrici in Emilia Romagna (1860-1960) Rossella Ropa e Cinzia Venturoli Istituto per i beni artistici culturali e naturali della Regione Emilia-Romagna Soprintendenza per i beni librari e documentari 15,00 Il volume illustra, attraverso immagini e documenti significativi, gli aspetti principali del complesso rapporto fra la donna lavoratrice e il mondo della produzione, ovvero il processo di trasformazione dell’identità femminile (individuale e collettiva) nella società italiana del XX secolo. La ricerca – con focus sull’Emilia-Romagna – affronta la tematica, ripercorrendo tempi e fasi della inclusione/esclusione femminile nel mondo del lavoro, individuandone cause e ragioni. Dalla difficoltà di accedere ad occupazioni ritenute ‘naturalmente maschili’ di fine Ottocento-inizio Novecento, si passa a delineare il riconoscimento ad esercitare tutte le professioni ottenuto dopo la prima guerra mondiale, riconoscimento tuttavia negato durante il periodo fascista, e si arriva infine al raggiungimento della parità duramente conquistata con le lotte degli anni 1950-1960. La narrazione, dall’Unità d’Italia agli anni Sessanta del secolo scorso, prende in esame gli ambiti lavorativi esclusivamente femminili, le loro caratteristiche (salari più bassi, status inferiore, minore qualificazione) e la loro evoluzione; le riviste, le associazioni e le donne che portano avanti le richieste delle lavoratrici; le filosofie sul tema del lavoro che dominano lo spazio comunicativo e sociale; la legislazione (protettiva, discriminatoria, espulsiva) connessa a tali visioni del lavoro; le conseguenze sulle strutture sociali e sulla mentalità dominante. 70 ERBA DONNE E LAVORO: UN’IDENTITÀ DIFFICILE

Transcript of 70 -...

Page 1: 70 - online.ibc.regione.emilia-romagna.itonline.ibc.regione.emilia-romagna.it/I/libri/pdf/ERBA_70.pdf · Le donne organizzate: fasci femminili e sezioni operaie e lavoranti a domicilio

EMILIAROMAGNABIBLIOTECHEARCHIVI

DONNE E LAVORO: UN’IDENTITÀ DIFFICILE

Lavoratrici in Emilia Romagna(1860-1960)

Rossella Ropae Cinzia Venturoli

Istituto per i beni artisticiculturali e naturali dellaRegione Emilia-RomagnaSoprintendenza per i benilibrari e documentari

€ 15,00

Il volume illustra, attraverso immagini e documenti significativi, gli aspetti principali del complesso rapporto fra la donna lavoratrice e il mondo della produzione, ovvero il processodi trasformazione dell’identità femminile(individuale e collettiva) nella società italiana del XX secolo. La ricerca – con focussull’Emilia-Romagna – affronta la tematica,ripercorrendo tempi e fasi dellainclusione/esclusione femminile nel mondo del lavoro, individuandone cause e ragioni.Dalla difficoltà di accedere ad occupazioniritenute ‘naturalmente maschili’ di fineOttocento-inizio Novecento, si passa a delineareil riconoscimento ad esercitare tutte leprofessioni ottenuto dopo la prima guerramondiale, riconoscimento tuttavia negatodurante il periodo fascista, e si arriva infine al raggiungimento della parità duramenteconquistata con le lotte degli anni 1950-1960. La narrazione, dall’Unità d’Italia agli anniSessanta del secolo scorso, prende in esame gli ambiti lavorativi esclusivamente femminili, le loro caratteristiche (salari più bassi, statusinferiore, minore qualificazione) e la loroevoluzione; le riviste, le associazioni e le donneche portano avanti le richieste delle lavoratrici;le filosofie sul tema del lavoro che dominano lo spazio comunicativo e sociale; la legislazione(protettiva, discriminatoria, espulsiva) connessaa tali visioni del lavoro; le conseguenze sullestrutture sociali e sulla mentalità dominante.

70ERBA

DONNE E LAVORO: UN’IDENTITÀ DIFFICILE

Page 2: 70 - online.ibc.regione.emilia-romagna.itonline.ibc.regione.emilia-romagna.it/I/libri/pdf/ERBA_70.pdf · Le donne organizzate: fasci femminili e sezioni operaie e lavoranti a domicilio

Istituto per i Beni Artistici Culturali e Naturalidella Regione Emilia-Romagna

Soprintendenza per i benilibrari e documentari

EMILIAROMAGNA

BIBLIOTECHEARCHIVI

N. 70

Copertina di Sergio Vezzali

© 2010 Testi e immaginiIstituto per i beni artistici culturali e naturali

della Regione Emilia-Romagnawww.ibc.regione.emilia-romagna.it

© 2010 EDITRICE COMPOSITORI s.r.l. Via Stalingrado, 97/2 - 40128 Bologna

Tel. 051/3540111 - Fax 051/327877E-mail: [email protected]

http://www.compositori.it

ISBN 978-88-7794-701-7

Page 3: 70 - online.ibc.regione.emilia-romagna.itonline.ibc.regione.emilia-romagna.it/I/libri/pdf/ERBA_70.pdf · Le donne organizzate: fasci femminili e sezioni operaie e lavoranti a domicilio

DONNE E LAVORO: UN’IDENTITÀ DIFFICILE

Lavoratrici in Emilia Romagna (1860-1960)

Rossella Ropa e Cinzia Venturoli

Page 4: 70 - online.ibc.regione.emilia-romagna.itonline.ibc.regione.emilia-romagna.it/I/libri/pdf/ERBA_70.pdf · Le donne organizzate: fasci femminili e sezioni operaie e lavoranti a domicilio

Mostra promossa daRegione Emilia-Romagna - Presidenza GiuntaIBC - Soprintendenza per i beni librari e documentari

a cura di Rossella Ropa e Cinzia Venturoli

coordinamentoAnnamaria Bernabè

organizzazionePaola Bussei, Liana D’Alfonso, Carlo Tovoli

progetto grafico Pablo comunicazione | Fabio Bolognini

apparati fotograficiLe riproduzioni fotografiche del materialedocumentario conservato presso la Bibliotecacomunale dell’Archiginnasio, l’Istituto storicoParri Emilia-Romagna, la Fondazione IstitutoGramsci Emilia-Romagna sono state eseguitedal Laboratorio dell’IBC (Andrea Scardova);quelle della Biblioteca Nazionale Centrale diFirenze dallo Studio Gap di Firenze (MarioSetter); quelle della Biblioteca Universitariadi Bologna dallo Studio fotograficoRoncaglia di Modena. Le rimanenti sono statedirettamente fornite dalle istituzioni culturaliche le possiedono.

comunicazioneUfficio Stampa IBCAgenzia Informazione e Ufficio Stampa della Regione Emilia-Romagna

Per informazioni: www.ibc.regione.emilia-romagna.itwww.regione.emilia-romagna.it/costituzione

Si ringraziano per la cortese disponibilità ecollaborazione i direttori e gli operatori deglienti per l’autorizzazione a pubblicare ilmateriale documentario e fotografico:Archivi Alinari di Firenze; Archivio CentroItaliano Femminile di Roma; Archivio del

lavoro di Sesto S. Giovanni (Milano); Archiviodi Stato di Bologna; Archivio fotograficoCineteca del Comune di Bologna; Archiviostorico “Donatella Turtura”, Flai Cgilnazionale di Roma; Archivio storico delComune di Bologna; Archivio storico delComune di Modena; Archivio storico delComune di Parma; Archivio storicodell’Università di Bologna; Archivio storicodella Provincia di Bologna; AssociazionePaolo Pedrelli, Archivio storico sindacale diBologna; Biblioteca civica d’Arte Luigi Polettidi Modena; Biblioteca comunaledell’Archiginnasio di Bologna; Bibliotecacomunale Giulio Cesare Croce di S. Giovanni in Persiceto (Bologna); Bibliotecadell’Accademia Nazionale di Agricoltura diBologna; Biblioteca Italiana delle Donne diBologna; Biblioteca Nazionale Centrale diFirenze; Biblioteca Reale di Torino; BibliotecaUniversitaria di Bologna; Centro italiano didocumentazione sulla cooperazione el’economia sociale di Bologna; CivicaRaccolta stampe Achille Bertarelli di Milano;Collezioni d’Arte e di Storia della FondazioneCassa di Risparmio in Bologna; Dipartimentodi colture arboree dell’Università di Bologna;Fondazione Istituto Gramsci Emilia-Romagnadi Bologna; Fotomuseo Giuseppe Panini diModena; Fototeca della Biblioteca Panizzi diReggio Emilia; Gruppo “Tracce di una storia”,Centro Sociale Ricreativo Culturale SantaViola di Bologna; Istituto per la storia dellaResistenza e dell’età contemporanea dellaprovincia di Forlì-Cesena (Forlì); Istitutostorico della Resistenza e di storiacontemporanea di Modena; Istituto storicoParri Emilia-Romagna di Bologna; IstituzioneVilla Smeraldi, Museo della civiltà contadinadi S. Marino di Bentivoglio (Bologna); Museicivici di Carpi; Museo civico d’Arte diModena; Museo civico del Risorgimento diBologna; Museo dell’AssistenzaInfermieristica di Bologna; Museo della civiltàcontadina di Bastiglia (aut. prot. 7266/2009).

Il volume è pubblicato in occasione della mostra allestita per la prima volta a Imola, nellaSalannunziata, dal 30 gennaio al 14 febbraio 2010, nell’ambito delle iniziative del Comitato per lecelebrazioni del 60º anniversario della Costituzione Italiana composto da Regione Emilia-Romagna, Provincia di Bologna, Comune di Bologna, Ufficio Territoriale di Governo di Bologna,Alma Mater Studiorum Università di Bologna e Ufficio Scolastico Regionale.

Page 5: 70 - online.ibc.regione.emilia-romagna.itonline.ibc.regione.emilia-romagna.it/I/libri/pdf/ERBA_70.pdf · Le donne organizzate: fasci femminili e sezioni operaie e lavoranti a domicilio

Donne e lavoro VII

Maria Giuseppina Muzzarelli

Introduzione XI

Rossella Ropa e Cinzia Venturoli

Lavorare al femminile XV

Fiorenza Tarozzi

DALL’UNITÀ D’ITALIA ALLA PRIMA GUERRA MONDIALE 1

Rossella Ropa

Tra due secoli

La ‘questione’ del lavoro femminile 3

Le attività tradizionali 8

I lavori di cura 35

Le lavoratrici dello Stato 52

Le donne si organizzano 67

La conquista dei diritti 82

L’intervento dello Stato 90

La prima guerra mondiale

Lavorare in tempo di guerra 95

Mobilitarsi in tempo di guerra 100

RACCONTO PER IMMAGINI 105

Sommario

Page 6: 70 - online.ibc.regione.emilia-romagna.itonline.ibc.regione.emilia-romagna.it/I/libri/pdf/ERBA_70.pdf · Le donne organizzate: fasci femminili e sezioni operaie e lavoranti a domicilio

DAL REGIME FASCISTA AGLI ANNI SESSANTA 123

Cinzia Venturoli

Il fascismo e la seconda guerra mondiale

La donna nella propaganda fascista 125

Le donne organizzate: fasci femminili e sezioni operaie e lavoranti a domicilio 130

Le donne organizzate: massaie rurali e donne in Africa 135

Le donne al lavoro, lavori da donne 141

Nelle fabbriche 149

Lavorare in campagna 154

Altri mestieri 158

I littoriali del lavoro femminile 161

Donne in guerra 163

Il secondo dopoguerra e gli anni Cinquanta

Votare ed essere votate. Donne sulla scena pubblica 167

Il diritto al lavoro 174

La legislazione 177

Richieste e rivendicazioni per il lavoro in campagna e in fabbrica 182

Le operaie 187

Il lavoro a domicilio: mutamenti e persistenze 190

La campagna 193

Mestieri e professioni 196

BIBLIOGRAFIA 205

INDICE DEI NOMI 212

Page 7: 70 - online.ibc.regione.emilia-romagna.itonline.ibc.regione.emilia-romagna.it/I/libri/pdf/ERBA_70.pdf · Le donne organizzate: fasci femminili e sezioni operaie e lavoranti a domicilio

Donne e lavoro

Donne e lavoro: un’endiadi che indica sacrificio e libertà, limite e insieme risorsa.Una coppia di termini il cui significato cambia radicalmente a seconda della colloca-zione geografica e cronologica, che cambia nel lungo periodo ma anche nel corso diqualche decennio con conseguenze sulle sorti individuali e collettive. Una combinazio-ne che è diversa dalla pur analoga fra uomini e lavoro e questo dato è al centro dellaricerca che segue.

Endiadi, si è detto, e in senso proprio, giacché una delle parole appare, seppur soloin qualche misura, il possibile complemento dell’altra. Il lavoro ha, in effetti, la poten-zialità, ma non sempre l’effettiva capacità, di rendere più piena la realizzazione perso-nale e sociale di chi lo pratica. Il lavoro conferisce identità e consente modificazioni edascese sociali modificando lo status individuale e famigliare: per gli uomini nei secoliè stato così, ma non per le donne. Alle donne il lavoro, quasi sempre impegnativo mainterstiziale, aggiustato, a termine, non specializzato, non ha dato le stesse possibilitàdi relazioni e di realizzazione. Le donne hanno sempre lavorato ma spesso per sostitu-zioni temporanee, con pochi riconoscimenti e regolarmente con minori retribuzioni eineguali diritti. Le cose al riguardo hanno cominciato a cambiare solo in tempi relati-vamente recenti e di questo non si deve perdere memoria.

Prendiamo il mezzo secolo e oltre che corre dalla fine dell’Ottocento agli anni Ses-santa del Novecento: in Italia e dunque anche in Emilia-Romagna i cambiamenti sonostati enormi dovuti alla tecnologia, alle vicende politiche, agli assetti sociali. Cambia-menti altrettanto rilevanti hanno riguardato la condizione delle donne e molti di essisono correlati al lavoro. Il lavoro risulta sempre più scelto dalle donne e non solo subi-to, un lavoro anche qualificato e spesso esercitato in ambiti mai calcati in precedenza.Ancora: lavoro che ha dato non solo reddito ma anche identità e libertà, lavoro che harisolto problemi ma contestualmente originato difficoltà e drammi, basti pensare alladifficile conciliazione con la maternità. Si parla nelle pagine che seguono di lavorodisciplinato ed equiparato a quello maschile ma con paghe che in alcuni casi ancoraoggi sono inferiori a quelle percepite dagli uomini.

Le affermazioni nel campo del lavoro di cui si parla sono state raggiunte anche gra-zie alle drammatiche vicende belliche che hanno allontanato gli uomini da fabbrichee officine dando così alle donne un peso in più ma anche una possibilità di dimostra-re le loro capacità. Le eterne riserve, le usuali ‘socie non pagate’ si sono trasformatein coprotagoniste della produzione e del lavoro impiegatizio: a situazioni eccezionaliha corrisposto uno spazio usualmente negato alle donne che queste ultime hanno sapu-to occupare senza successive retrocessioni. Resta il fatto che in caso di crisi le donnesono tendenzialmente le prime a perdere il lavoro e su questo siamo chiamati a riflet-tere e ad intervenire.

Nel periodo analizzato in questo volume assistiamo all’assommarsi ‘ufficiale’ e nonsolo surrettizio di lavoro domestico ed extradomestico fin quasi all’esaurimento delle

Page 8: 70 - online.ibc.regione.emilia-romagna.itonline.ibc.regione.emilia-romagna.it/I/libri/pdf/ERBA_70.pdf · Le donne organizzate: fasci femminili e sezioni operaie e lavoranti a domicilio

VIII Donne e lavoro

forze; assistiamo al superamento del lavoro infantile, al pionieristico raggiungimento disettori usualmente preclusi. L’endiadi, insomma, mostra un’infinità di aspetti che oscil-lano fra fatica e indipendenza, giogo e libertà.

Se le facce del fenomeno sono dunque innumerevoli, altrettanto numerose appaio-no le teorie da proporre alla riflessione e, in particolare, le indicazioni di approfondi-mento per i più giovani. Questo lavoro si ripropone proprio per uno scopo del genere:far capire la complessità e insieme la rilevanza del tema e rendere conto del lungo per-corso che ha portato le donne nelle corsie ospedaliere non solo come infermiere, nellescuole anche come dirigenti, nelle aziende in ruoli tecnici elevati, in politica agli apicidelle posizioni. Non tutto è stato raggiunto, sia chiaro, ma certamente nell’ultimo seco-lo è stata fatta una lunga e faticosa strada che va ricordata non solo per rendere meritoa chi si è battuto per ottenere i risultati che sono sotto gli occhi di tutti ma anche perevitare passi indietro, tanto più possibili quanto più si è ignari e si attraversano fasi dicrisi economica e di basso impegno civile.

Oggi per i più giovani è quasi scontato che una donna lavori fuori casa e che eser-citi o aspiri ad esercitare lo stesso mestiere di un uomo. Per i più è anche ovvio che ladonna lavori di più assumendosi pure l’onore delle cure domestiche. È un fatto che latecnologia abbia dato una mano alle donne grazie ad invenzioni apparentemente mode-ste ed in realtà strepitose, dalla lavatrice agli aspirapolveri semoventi di recente idea-zione. Non so quante fra le più giovani siano consapevoli del faticoso iter percorso equanto ancora oggi risulti difficile a molti l’accettazione dell’emancipazione femmini-le! I dati della ricerca Istat del 2006 sulla violenza subita dalle donne invitano a riflet-tere sulle resistenze ad accettare che la donna lavori, sia autonoma, raggiunga posizio-ni di comando, guadagni più di un uomo e così via. Una condizione tanto difficile daaccettare da indurre anche a violenze. L’autonomia raggiunta dalle donne rende peral-tro inaccettabile il subire e ciò fa lievitare le denunce di violenze da parte delle donne:per dire come il cammino che porta all’equiparazione sia scivoloso e tortuoso e comeparte di esso attraversi il campo del lavoro.

Uno studio come questo si ripropone di far conoscere e di aiutare a ricordare, diaccrescere la consapevolezza e di istruire nella manutenzione dei diritti faticosamen-te acquisiti. Propone un dialogo con parole ed immagini frutto di una ricerca icono-grafica che ha lo scopo di collocare la partecipazione femminile al lavoro all’internodi scenari sociali ed urbani molto diversi da quelli che sono sotto i nostri occhi. Lebotteghe, le fabbriche ma anche le città sono, infatti, profondamente cambiate e leriproduzioni fotografiche aiutano ad immaginare oltre a costituire una prova storica,anzi una fonte da maneggiare con le dovute cautele. Le parole come le immaginidedicate al lavoro femminile richiedono sistematicità di collocazione e rigore diinterpretazione, esigono un quadro di riferimento stabile e la disponibilità di un abbe-cedario adeguato che consenta a chi si accosta ad esse di superare il semplice, ma purutile, impatto con il diverso, anzi il ‘tipico’ d’un tempo che fu per cogliere invece neldifferente il simile, lo iato ma anche la continuità, le persistenze che si intreccianocon le abissali distanze.

Calati come siamo nella nostra contemporaneità, che per molti riassume l’interez-za delle vicende storiche, non è facile prendere contezza dei cambiamenti intervenu-ti e delle ragioni di essi, della relatività della nostra attuale condizione, globalizzazio-ne compresa: se viviamo in tempi di scenari planetari e di fenomeni di ciclopiche pro-porzioni non meno rilevanti furono i cambiamenti che hanno fronteggiato le nostrenonne e bisnonne, dalla radio alle ferrovie fino all’automobile e alla possibilità dicontrollare le nascite.

Page 9: 70 - online.ibc.regione.emilia-romagna.itonline.ibc.regione.emilia-romagna.it/I/libri/pdf/ERBA_70.pdf · Le donne organizzate: fasci femminili e sezioni operaie e lavoranti a domicilio

Donne e lavoro IX

Bisogna insegnare a cogliere lo specifico e a collocarlo in un quadro generale,occorre far capire che la storia è prima di tutto cronologia ma anche connessione eintreccio: di piani, di temi, di domande e di relative risposte. L’endiadi donne e lavoroè un grumo di aspettative e di esperienze, di consapevolezze e di fatti, di conquiste e dimancati raggiungimenti di obiettivi: è un grimaldello per arrivare ad una possibileinterpretazione del passato ma anche un rilevatore della condizione attuale. Una situa-zione, la nostra, nella quale dura fatica l’acquisizione del fatto che il lavoro delle donneè un fattore di crescita, un elemento di civiltà, una condizione di libertà e di uguaglian-za, una condizione che richiede cura e sforzi di conciliazione ma anche di accettazionedi nuovi ruoli e inediti equilibri per i quali è urgente la rivisitazione di stereotipi duri amorire. Si tratta di materia complessa che va insegnata ai più giovani mostrando e pun-golandoli ad interrogarsi, proponendo quesiti più che certezze, stimolando alla rifles-sione e alla reazione. È solo a partire dall’educazione, dalla scuola, dalle generazioni informazione che si possono ottenere garanzie di continuazione di quel cammino diciviltà che ha portato le donne a lavorare non solo per la sopravvivenza ma anche perla partecipazione alla costruzione di un mondo nel quale fatiche e soddisfazioni possa-no essere sempre più equamente condivise.

Maria Giuseppina MuzzarelliVicepresidente e Assessore Europa, cooperazione internazionale,

pari opportunità della Regione Emilia-Romagna

Page 10: 70 - online.ibc.regione.emilia-romagna.itonline.ibc.regione.emilia-romagna.it/I/libri/pdf/ERBA_70.pdf · Le donne organizzate: fasci femminili e sezioni operaie e lavoranti a domicilio

Per analizzare il processo di trasformazione dell’identità femminile (individuale ecollettiva) nella società italiana del Novecento, processo che ha portato le donne adesprimersi come cittadine sulla scena pubblica, l’attenzione deve soffermarsi – quasiper necessità – sulla presenza delle donne nel mondo del lavoro. Il loro inserimento pro-duttivo ha infatti comportato, nel corso del tempo, una profonda rielaborazione dell’or-ganizzazione sociale in cui tendenzialmente non esiste più separazione tra ruolomaschile e ruolo femminile.

La mostra – con focus sull’Emilia-Romagna – si propone di illustrare questo tema,ripercorrendo tempi e fasi della inclusione/esclusione femminile nel mondo del lavoro,individuandone cause e ragioni.

Dopo aver tratteggiato l’impossibilità di accedere ad occupazioni ritenute ‘naturalmen-te maschili’ di fine Ottocento-inizio Novecento, si è passati a delineare il riconoscimentoad esercitare tutte le professioni ottenuto dopo la prima guerra mondiale, riconoscimentonegato e cancellato durante il periodo fascista, arrivando infine a illustrare la realizzazio-ne della parità duramente conquistata con le lotte degli anni Cinquanta-Sessanta.

Inoltre, all’interno delle diverse scansioni temporali in cui si dipana la mostra, sisono presi in considerazione: gli ambiti lavorativi esclusivamente femminili, le caratte-ristiche di tali ambiti (salari più bassi, status inferiore, minore qualificazione) e la loroevoluzione; le associazioni, le riviste e le donne che portano avanti le richieste dellelavoratrici; le filosofie sul tema del lavoro che dominano lo spazio comunicativo esociale; la legislazione (di volta in volta: protettiva, discriminatoria, espulsiva) che datali visioni del lavoro femminile scaturisce; le conseguenze sulle strutture sociali e sullamentalità dominante.

Si è cercato, dunque, di esemplificare, attraverso una scelta necessariamente limita-ta di immagini e documenti significativi, alcuni aspetti basilari delle condizioni di vitae dei problemi sorti nel complesso rapporto che si instaura fra la donna lavoratrice e ilmondo della produzione, collegando questa particolare condizione con i fermenti cul-turali e rivendicativi dei movimenti femministi e operai.

La mostra ha precisi limiti cronologici che non sono parsi arbitrari: prende l’avviodagli ultimi decenni dell’Ottocento per concludersi con gli anni Sessanta del Novecento.

Tra fine Ottocento e inizio Novecento sembrano infatti convergere un insieme diprocessi che concorsero a definire l’identità collettiva delle donne lavoratrici, ma sol-tanto in parte la legittimarono e la resero visibile.

Innanzitutto, si ebbero profonde trasformazioni economiche e sociali, che interes-sarono il mondo delle campagne, l’industria, il terziario e influenzarono il mercatodel lavoro femminile e le stesse tipologie di lavoratrici. In agricoltura la modernizza-zione dei rapporti di produzione consolidava e ampliava i salariati agricoli, in parti-colare in area padana, determinando un forte incremento delle donne braccianti. Nel-l’industria, il settore tessile, a prevalente composizione femminile, registrava muta-

IntroduzioneRossella Ropa e Cinzia Venturoli

Page 11: 70 - online.ibc.regione.emilia-romagna.itonline.ibc.regione.emilia-romagna.it/I/libri/pdf/ERBA_70.pdf · Le donne organizzate: fasci femminili e sezioni operaie e lavoranti a domicilio

XII Introduzione

menti del ciclo produttivo che comportavano lo sviluppo del sistema di fabbrica, ilquale, però, conviveva con la permanenza del lavoro a domicilio. Inoltre, imponentifenomeni di migrazione territoriale determinavano un sensibile flusso di manodope-ra dalle campagne alle città in espansione; in queste ultime aumentarono le opportu-nità di lavoro non soltanto negli opifici, ma anche nella fitta rete di laboratori e diatelier: le lavoratrici dell’ago (modiste, sartine, cucitrici, ecc.) si moltiplicavano,aggiungendosi al gruppo delle domestiche e delle balie, di più antica tradizione. Sisviluppava, infine, il settore terziario e nelle amministrazioni pubbliche soprattutto lemaestre e le impiegate si affermavano come nuove figure del lavoro femminile. Nelfrattempo, si istituzionalizzavano altri mestieri legati all’ambito sanitario, come quel-li della levatrice e dell’infermiera.

Nello stesso periodo, cresceva in Italia il bisogno di forme più ampie di cittadinan-za: si andavano costituendo associazioni femminili che, accanto alla battaglia per il voto,si interessavano in modo particolare al lavoro delle donne; giungeva poi a maturazioneil processo di gestazione dell’organizzazione sindacale che aveva avuto inizio dal lungoe complesso intreccio tra Società di mutuo soccorso, Leghe di resistenza e, in seguito,Camere del lavoro e Federazioni sindacali di categoria. Le associazioni femminili coglie-vano, con lucidità, nel lavoro una delle possibili vie di accesso all’emancipazione fem-minile, poiché poteva consentire autonomia e indipendenza e promossero le tante espe-rienze e attività per cercare di porre fine allo sfruttamento ad esso connaturato. A lorovolta, gli organismi sindacali furono indotti a misurarsi con realtà lavorative in cui ledonne costituivano la quasi totalità ed esprimevano capacità di organizzazione e di lotta.1

Il fascismo propose un modello femminile, quello di moglie e di madre prolifica,funzionale alla creazione dello Stato totalitario, che doveva però fare i conti con la pre-senza delle donne in tutti i settori lavorativi. Il regime agì con la propaganda, l’educa-zione, l’organizzazione di associazioni strettamente legate ai lavori femminili, quali leMassaie rurali e la Sezione operaie e lavoranti a domicilio e con provvedimenti legisla-tivi al fine di fare accettare alle donne una riduzione dello spazio lavorativo a quei set-tori di cura, considerati adatti alla ‘natura delle donne’. La seconda guerra mondiale, lamobilitazione e la Resistenza accelerarono un processo che portò, nell’immediatosecondo dopoguerra, all’acquisizione del voto e alla presenza pubblica, e politica, delledonne. All’Assemblea Costituente il tema del lavoro e della possibilità di accesso a tuttele carriere fu discusso a lungo e venne inserito a pieno titolo nella Costituzione repub-blicana. Iniziò quindi un periodo in cui numerosi furono i decreti attraverso i quali iprincipi costituzionali entrarono nella legislazione. Nel 1963, finalmente, vennero vara-te leggi che permettevano alle donne l’accesso a tutte le carriere e fu sancita la proibi-zione del licenziamento per matrimonio. Il boom economico di quegli anni, poi, segna-va una forte cesura nella società italiana: trasformazioni radicali investivano i modi diprodurre e di consumare, di vivere il presente e di progettare il futuro, persino di pen-sare e di sognare.2 I nuovi ordinamenti e il ‘miracolo italiano’ aprivano strade nuoveall’inizio delle quali la mostra lascia le donne.3

1 Cfr. GLORIA CHIANESE, Storie di donne tra lavoro e sindacato, in Mondi femminili in cento annidi sindacato, a cura di G. Chianese, Roma, Ediesse, 2008.

2 Cfr. GUIDO CRAINZ, Storia del miracolo italiano. Culture, identità, trasformazioni fra anni Cin-quanta e Sessanta, Roma, Donzelli, 1996.

3Alla fine degli anni Cinquanta gli italiani erano pronti per un nuovo stile di vita e si apprestavano acompiere un salto notevole vista la situazione di grave disagio da cui provenivano. I mutamenti coinvolse-ro tutti gli aspetti della vita: si passò infatti dall’economia agricola ad un’economia industriale, da una forte

Page 12: 70 - online.ibc.regione.emilia-romagna.itonline.ibc.regione.emilia-romagna.it/I/libri/pdf/ERBA_70.pdf · Le donne organizzate: fasci femminili e sezioni operaie e lavoranti a domicilio

Rossella Ropa e Cinzia Venturoli XIII

Per illustrare questi temi si sono utilizzate varie fonti: iconografiche (immagini d’e-poca, manifesti, cartoline, pubblicità, ecc.) e scritte (documenti d’archivio, testi didecreti, opuscoli, volantini, articoli di quotidiani e riviste, racconti, romanzi, memorie,testimonianze).

Nel primo caso, l’obiettivo era quello di proporre delle immagini che dessero contodella presenza delle donne nel mondo del lavoro tenendo presente sia le diverse realtàprovinciali sia le diverse categorie lavorative da tratteggiare (si è cercato di documen-tare non solo quelle prevalentemente femminili ormai entrate nell’immaginario collet-tivo come le mondine, ma anche quelle in cui le donne erano meno rappresentate comele fornaciaie) e tentando di far fronte alle difficoltà di reperimento riguardanti soprat-tutto il periodo fine Ottocento-inizio Novecento. Le fotografie relative a quell’epocasono, infatti, rare e solo eccezionalmente presentano figure femminili al lavoro.4 Moltii motivi, e alcuni di questi attengono alle caratteristiche tecniche proprie della fotogra-fia in quegli anni: ancora all’inizio del Novecento occorrevano attrezzature particolariche richiedevano assistenti e lunghi tempi di posa; le fotografie erano quindi costose eappannaggio di una clientela facoltosa. L’obiettivo principale della committenza padro-nale era quello di illustrare i prodotti della propria impresa e mostrarne i macchinari,per cui la presenza umana era puramente accessoria.

Ancora più scarse le immagini che ritraggono donne nel corso di scioperi. Anche iperiodici come «L’Illustrazione italiana» e «La Domenica del Corriere», ricchi peraltrodi illustrazioni a carattere sociale, solo sporadicamente ospitano rappresentazioni delletante proteste femminili di quegli anni. Poche le eccezioni, tra le quali la manifestazio-ne delle operaie tessili di Torino e le lotte nelle campagne del parmense, che si ritrova-no anche in una delle celebri copertine de «La Domenica del Corriere», firmate daAchille Beltrame. A meritare gli onori della cronaca, insomma, erano solo quegli epi-sodi che colpivano l’opinione pubblica per la loro imponenza o che impressionavanoper il livello di durezza assunto dallo scontro, così come lo sciopero e la manifestazio-ne delle 500 giovani apprendiste sarte (le ‘piccinine’) entrate a far parte dell’immagi-nario collettivo degli italiani anche grazie alle immagini a loro dedicate.

Ben diversa la situazione durante la prima guerra mondiale: le immagini davanovisibilità, per la prima volta a livello di massa, al lavoro delle donne, occupate poi inambiti considerati generalmente maschili, come nel caso delle tramviere e delle operaieaddette alla produzione di armamenti.5 Il conflitto portò, infatti, a una grande, nuova

crescita demografica ad una crescita zero, da una famiglia estesa ad una nucleare, da una società contadi-na ad una urbana, da una scarsissima mobilità sociale a una situazione più dinamica, da stili di vita diffe-renziati all’omologazione, da culture regionali e locali omogenee, che si esprimevano con i rispettivi dia-letti, a una cultura nazionale con una lingua unificante, da uno status della donna dipendente dall’autoritàdel padre e del marito a una condizione femminile autonoma. Nel primo quindicennio post-bellico si tro-vano solo segni ed intenzioni in nuce, di ciò che si esplicitò negli anni successivi. La società italiana siavviava verso radicali modifiche negli stili di vita della famiglia e delle donne in particolare (basti pensa-re all’ingresso nelle case degli elettrodomestici): un altro capitolo della storia del nostro paese.

4 Non sempre dunque è stato possibile documentare la realtà regionale di quel periodo e si è cer-cato di colmare i vuoti mostrando comunque le donne al lavoro in altre zone del paese.

5 Sull’argomento cfr. LILIANA LANZARDO, Dalla bottega artigiana alla fabbrica, Roma, EditoriRiuniti, 1999 (Storia fotografica della società italiana); LUCIA MOTTI, Trecento foto per raccontare unsecolo di storia, in Donne nella CGIL: una storia lunga un secolo, a cura di L. Motti, Roma, Ediesse,2006; PAOLA DI CORI, Il doppio sguardo. Visibilità dei generi sessuali nella rappresentazione fotogra-fica (1908-1918), in La grande guerra. Esperienza, memoria, immagini, a cura di Diego Leoni, Camil-lo Zadra, Bologna, il Mulino, 1986, pp. 765-800.

Page 13: 70 - online.ibc.regione.emilia-romagna.itonline.ibc.regione.emilia-romagna.it/I/libri/pdf/ERBA_70.pdf · Le donne organizzate: fasci femminili e sezioni operaie e lavoranti a domicilio

XIV Introduzione

immissione delle donne nelle attività produttive e alla progressiva sostituzione del per-sonale maschile, richiamato al fronte, con quello femminile nel normale lavoro deicampi, negli uffici, nelle fabbriche, tanto che, alla fine della guerra, le donne occupatenell’industria bellica risultavano essere circa 200.000.

Le immagini che offre del lavoro il fascismo sono numerose e, sovente, danno contodi momenti propagandistici e di incontro fra gli esponenti del partito fascista e le donneal lavoro. Particolari sono le immagini di manifestazioni come i Littoriali del lavoro incui le donne mostravano la loro abilità nella professione. La seconda guerra mondialeripropose la mobilitazione e la presenza delle donne nei lavori maschili. Nell’immedia-to secondo dopoguerra le donne erano soprattutto rappresentate nella loro nuova vestedi elette ed elettrici, parlamentari, costituenti. Il lavoro femminile si concentrò e simostrò nella ricostruzione; con il passare degli anni, si affacciò agli anni Sessanta pro-ponendo nuove professioni: la donna magistrato, la poliziotta, l’operaia specializzata.

Tra le fonti scritte, di particolare rilievo sono state le carte di polizia, da esse è statopossibile raccogliere una serie di informazioni riguardanti soprattutto i lavori delledonne nel primo periodo preso in esame. I documenti redatti da questori e prefettirestituiscono, infatti, le immagini di miseria e di rassegnazione di molte lavoratrici allequali non restava altra scelta se non quella di chiedere sussidi per integrare lo scarsosalario; tratteggiano le disavventure occorse nei rapporti con i padroni (nel caso delledomestiche); mettono in evidenza il modo in cui le amministrazioni pubbliche vaglia-vano la moralità delle loro dipendenti (nel caso di maestre e impiegate); accennanoagli incidenti sul lavoro connessi all’impiego di nuovi congegni meccanici, l’affolla-mento, la giovane età delle operaie, i lunghi orari di lavoro (nel caso delle operaie); e,infine, segnalano con puntualità le lotte intraprese dalle donne per migliorare le con-dizioni lavorative.

Per far emergere la realtà dei mestieri femminili, una realtà ‘sommersa’ soprattuttoalla fine dell’Ottocento, si è fatto ricorso – oltre ad articoli apparsi sui numerosi perio-dici femminili dell’epoca e alle inchieste svolte dal Ministero dell’agricoltura, industriae commercio e dalle varie associazioni con obiettivi economici o più propriamentesociali, analisi utili a delinearne alcuni elementi tipici – anche alla letteratura. Se èlegittimo riconoscere validità documentaria a testi letterari che rinviano a situazioni sto-riche, economiche e politiche, questo vale tanto più per i romanzi sociali del periodo (ilriferimento è in particolare alle novelle di Matilde Serao), spesso documenti di storiaquotidiana, vere inchieste socio-culturali in cui compaiono pagine utili per ricostruirela mentalità collettiva dell’epoca.6

Il periodo fascista offre una notevole produzione di opuscoli realizzati per la propa-ganda, l’educazione e il coinvolgimento delle donne, il regime si auto-rappresentavasulla stampa quotidiana e periodica ed è per questo motivo che fra le fonti scritte delVentennio esaminate non potevano certo mancare quelle di questo tipo.

Il catalogo si apre con un saggio di Fiorenza Tarozzi, in cui viene tracciato il per-corso lavorativo delle donne lungo un secolo di storia, contributo prezioso che fornisceun essenziale inquadramento alla ricerca.

6 Francesco Bruni, nella nota introduttiva a Il romanzo della fanciulla di Matilde Serao, scrive: «Lenovelle della Serao generose di aperture su certe dimensioni ignorate dalle fonti storiche vere e pro-prie, potrebbero integrare le fonti stesse, delle quali giustamente, ma talora con un po’ di esclusivismo,si servono gli storici», Napoli, Liguori, 1985, p. XIII.

Page 14: 70 - online.ibc.regione.emilia-romagna.itonline.ibc.regione.emilia-romagna.it/I/libri/pdf/ERBA_70.pdf · Le donne organizzate: fasci femminili e sezioni operaie e lavoranti a domicilio

Donna moderna è per noi quella che libera dai pregiudizi medievali, resa serena e forte da unaconcezione giusta della vita, spezza il giogo secolare che l’uomo le impose secondo la vecchiateoria del diritto del più forte, e pur rimanendo femminilmente dolce e buona, sa difendere lapropria dignità e mettere un prezzo al proprio lavoro; regina veramente nella casa per intellet-to ed amore, utile alla società come fattore economico, sposa e madre se la fortuna lo vuole,lavoratrice solitaria, tenace e dignitosa se le venissero negati la grazia del volto e il fascinodella parola.1

Così Ines Oddone Bitelli, direttrice di uno dei primi giornali socialisti femminili,tratteggiava l’immagine della donna che entrava nel secolo XX, così voleva che fosse echiedeva alle sue lettrici di essere: ‘donne moderne’, lavoratrici intelligenti ed energi-che che nella vita si mostravano capaci di assumere la propria parte di responsabilità enon riparavano all’ombra della protezione paterna o maritale; lavoratrici in grado dimettere un prezzo al proprio lavoro a difesa della propria dignità; lavoratrici convintenel sostenere con forza la consapevolezza del proprio ruolo all’interno del mondo dellavoro e sollecite nella denuncia di soprusi e sfruttamenti. Insomma donne forti di unruolo storicamente avuto nel mondo lavorativo, ma anche storicamente taciuto, invisi-bili produttrici di beni per la famiglia e per la società.

È del resto innegabile il fatto che le donne abbiano sempre lavorato all’interno eall’esterno della sfera domestica; basta osservare i dipinti a noi giunti fin dai secoli piùlontani per vedere lavoratrici nei campi, nelle botteghe artigiane, nei primi opifici e poinelle fabbriche, nelle case. Immagini di fiere di paese ci trasmettono memoria di ragaz-ze che esibivano gli emblemi del proprio mestiere per attirare l’attenzione di possibilidatori di lavoro: la cuoca esperta portava un mestolo nel grembiule, le ragazze di uncaseificio uno sgabello. Olwen Hufton ci dice come Daniel Defoe, nel narrare dei mer-cati di paese del primo Settecento, descrivesse la forza lavoro femminile «altamentesfacciata» nel modo di attirare l’attenzione sul proprio talento.2 Ancora diari e docu-menti privati ci danno conto dei contatti tra le famiglie e i possibili datori di lavoro pergarantire un impiego stabile e non temporaneo alle giovani fanciulle.

Diversamente le fonti così dette ufficiali, pur non tacendo totalmente sul lavorofemminile, non ne hanno, almeno in passato, dato rilevanza, al punto che per l’etàpreindustriale mancano dati certi per quantificare la presenza lavorativa delle donne ela consistenza della manodopera femminili. Registri fiscali e parrocchiali non fannocenno a mestieri e professioni femminili, perché le donne – al contrario degli uominiche venivano sovente registrati in relazione al mestiere – erano indicate in base al loro

Lavorare al femminileFiorenza Tarozzi

1 Donna moderna, in «La donna socialista», 22 luglio 1905. 2 OLWEN HUFTON, Donne, lavoro e famiglia, in Storia delle donne in Occidente. Dal Rinascimento

all’età moderna, a cura di Natalie Zemon Davis, Arlette Farge, Roma-Bari, Laterza 1991, p. 18.

Page 15: 70 - online.ibc.regione.emilia-romagna.itonline.ibc.regione.emilia-romagna.it/I/libri/pdf/ERBA_70.pdf · Le donne organizzate: fasci femminili e sezioni operaie e lavoranti a domicilio

XVI Lavorare al femminile

stato civile (nubili, maritate, vedove) oppure per il ruolo all’interno della famiglia(madre, moglie, figlia). Quando anche ci si trova di fronte a dati statistici più accurati,nel passato accadeva spesso che il lavoro delle donne non venisse registrato perché tem-poraneo o intermittente. Un discorso a parte poi, andrebbe fatto per il lavoro a domici-lio, non definito come tale se non in tempi a noi molto vicini e, di conseguenza, nonconsiderato e non quantificato.3 Ecco quindi che i numeri, almeno fino all’Ottocentoavanzato, sono fallaci e travisanti.

Certo non è facile dire quante fossero le donne che ovunque prestavano la loro operanelle fattorie agricole o nelle case dei paesi e delle città come lavoratrici ‘di fatica’ concompiti che andavano dal trasportare pesanti carichi di biancheria avanti e indietro dallavatoio, vuotare latrine, portare pesanti carichi di verdure, cucinare, pulire. Ma testi-moni e studiosi affermano come nel corso dei secoli XVII e XVIII la servitù femmini-le costituisse il più grande gruppo occupazionale nella società urbana rappresentandoil dodici per cento della popolazione in ogni città europea. Partendo da questo datocomplessivo altre osservazioni sono possibili: le case signorili pullulavano di un grannumero di addetti ai servizi di vario genere, in questo grande insieme le donne occupa-vano le gerarchie più basse: erano sguattere, serve, lavandaie (solo alcune dame di com-pagnia e, più tardi, istitutrici). Quelle abili nel cucito potevano godere di qualche privi-legio in più. Anche nelle botteghe e nei pubblici esercizi si potevano vedere donne allavoro: gli osti impiegavano le ragazze come bariste, cameriere e sguattere, nelle trat-torie a conduzione famigliare si potevano vedere giovani donne dare una mano nellaproduzione per la vendita del cibo o nel sorvegliare forni e fuochi.4

Man mano che le città acquisivano una rilevanza economica, sia come sedi di mer-cato sia come luoghi di produzione, aumentò anche l’impegno delle donne nelle attivitàartigianali. Nelle città le donne tentarono anche la via del piccolo commercio di mercidi propria produzione o acquistate o importate. Se, in genere, l’attività di queste ‘mer-ciaie’ e ‘bottegaie’ era numericamente contenuta, non mancarono casi di donne che allamorte lasciarono ingenti eredità.

Sia pure entro limitati spazi era dunque consentito alle donne un lavoro che portas-se guadagno; tuttavia, specie in età moderna, il modello della donna salariata venneampiamente combattuto. La donna indipendente era vista come una figura innaturale edetestabile, mentre si riteneva che il padre o il marito avrebbero dovuto darle una casacontribuendo anche al suo mantenimento. E nella casa doveva svolgersi tutta l’attivitàfemminile; se il bilancio famigliare chiedeva l’intervento attivo della donna essa pote-va guadagnarsi da vivere lavorando a domicilio come filatrice o tessitrice, secondol’immagine di una forza lavoro in cooperazione in cui il marito intrecciava, la moglie ele figlie filavano mentre i bambini più piccoli preparavano il filo.

Anche nel campo delle professioni troviamo donne a cui era consentito di svolgere atti-vità legate alla medicina e all’ostetricia, quest’ultima ritenuta terreno privilegiato dell’abi-lità e dell’esperienza femminile. La figura dell’ostetrica primeggiò a lungo, soprattutto inetà in cui la morale comune vietava agli uomini di effettuare visite ginecologiche. Le leva-trici sono rimaste nel tempo figure professionalmente riconosciute per le notevoli capacitàpratiche messe in atto; la loro attività venne progressivamente regolata da norme e regola-menti e, per la loro preparazione sorsero vere e proprie scuole di formazione.

3 Cfr. FIORENZA TAROZZI, Lavoratori e lavoratrici a domicilio, in Operai, a cura di Stefano Musso,Torino, Rosenberg & Sellier, 2006, pp. 109-161.

4 Cfr. Il lavoro delle donne, a cura di Angela Groppi, Roma-Bari, Laterza, 1996. In particolare:parte prima L’età medievale e parte seconda L’età moderna.

Page 16: 70 - online.ibc.regione.emilia-romagna.itonline.ibc.regione.emilia-romagna.it/I/libri/pdf/ERBA_70.pdf · Le donne organizzate: fasci femminili e sezioni operaie e lavoranti a domicilio

Fiorenza Tarozzi XVII

Tutte queste presenze di donne lavoratrici confermano il fatto che il lavoro femmi-nile non è mai mancato, quello che manca sono i dati relativi ad una sua quantificazio-ne e l’indeterminatezza quantitativa del lavoro femminile permane fino alle soglie delmondo industrializzato del primo Ottocento all’apparire dei primi rilevamenti statisti-ci. Ancora per tutto il secolo XIX comunque le cifre che emergono, raccolte in mododiverso e frammentario, sono semplici indicatori di un fenomeno, non reali quantifica-zioni di una presenza lavorativa costante e crescente. Prendiamo il caso del lavoro adomicilio. Nelle statistiche di fine Ottocento si parla di un numero rilevante di famiglieil cui lavoro era legato alla tessitura in casa (il telaio artigianale casalingo non era stato‘ucciso’ dalla fabbrica, anzi si era rafforzato in un mercato che esigeva una produzionesempre maggiore e che la fabbrica non era in grado di soddisfare); dai dati comunquenon si evince quanti fossero i lavoratori maschi e quante le femmine.

Anche altre lavoratrici erano ‘invisibili’ alle statistiche. «Silenziose e rassegnate»,così una collaboratrice del citato periodico femminile «La donna socialista», definiva lemerlettaie che aveva visto al lavoro nei centri della Riviera ligure, zone dove «tutte ledonne dai 5 anni alla decrepitezza lavorano le belle trine del tombolo»; un lavoro che lecostringeva a ore e ore col busto curvo appoggiate ai cavalletti, una posizione antiigie-nica e portatrice, alla lunga, di notevoli malformazioni fisiche. Alcune lavoravano percommissione di magazzini o di rivenditori e avevano una sorta di contratto che ne fissa-va i compensi; altre lavoravano per committenti privati, per conto proprio, con una pro-spettiva incerta di guadagno. Guadagni, in ogni caso, irrisori, documentava l’autrice.5

In quell’articolo emergeva anche la questione delle malattie determinate dalle con-dizioni innaturali e antiiegieniche cui le donne erano costrette durante il lavoro, unadenuncia che ritroviamo in tante altre pagine del giornale.6 Costipazione cronica, emor-roidi, malattie del basso ventre, deviazione della colonna vertebrale, asimmetria deltorace a causa della posizione curva alla quale spesso erano obbligate, tubercolosi, mio-pia, sordità erano tra le malattie più frequenti che colpivano le giovanissime lavoratricidelle fabbriche. Numerose erano, poi, le operaie cotoniere soggette a deformazionidegli arti inferiori causate dall’umidità, così come anche le operaie canapine e linaiuo-le soggette a morte per tisi. E ancora: cenciaiuole, lavoranti di cappelli, pellicce, spaz-zole e pennelli venivano colpite da catarri cronici a causa dell’inalazione di enormiquantità di polveri.

Fu sicuramente la stampa femminile a dare voce e visibilità alle questioni legate almondo del lavoro femminile. Le donne che lavoravano e lottavano per il riconoscimen-to della dignità del proprio impegno economico nella famiglia erano le protagoniste dirubriche fisse in periodici come «Eva», «La Difesa delle Lavoratrici», «La donna socia-lista», solo per citare alcuni titoli. Le collaboratrici di «Eva» (periodico ferrarese direttoda Rina Melli)7 tratteggiano con lucidità il lavoro delle lavoratrici dei campi e delle risaiedella Valle Padana, ma numerose sono anche le notizie che ci offrono sul lavoro femmi-nile nel settore tessile e dell’abbigliamento: stracciaie, smollettatrici, berrettaie, bustaie,setaiole, filandiere. E ancora fiascaie, trecciaiole, sigaraie, tabacchine. Molte le notiziedalle sartorie e dal lavoro domestico (che sappiamo essere diffuso anche nei paesi a più

5 Cucitrici, ricamatrici, merlettaie, in «La donna socialista», 27 gennaio 1906.6 Si veda, ad esempio, Le donne che lavorano. Fatiche e compensi, in «La donna socialista», 14

ottobre 1905.7 SUSANNA GARUTI, Tra vecchi e nuovi mestieri: i lavori delle donne in «Eva», in Le donne in area

padana: politica, lavoro, immaginario, numero unico di «Padania. Storia cultura istituzioni», VIII,1994, 16, pp. 95-110.

Page 17: 70 - online.ibc.regione.emilia-romagna.itonline.ibc.regione.emilia-romagna.it/I/libri/pdf/ERBA_70.pdf · Le donne organizzate: fasci femminili e sezioni operaie e lavoranti a domicilio

XVIII Lavorare al femminile

alto tasso di industrializzazione come Francia e Gran Bretagna) che assieme ad antichimestieri come la lavandaia, la balia e la stiratrice rimanevano prerogative femminili.Lavoratrici non qualificate, sempre sfruttate da orari estenuanti e da paghe miserrime.

Tutto ciò si evince anche da dati relativi a studi effettuati presso la Camera di Bolo-gna all’inizio del Novecento e apparsi su «La donna socialista». La donna – si legge inun articolo firmato da Zelinda Roveri attenta collaboratrice del periodico – era occupa-ta tanto nel lavoro diurno che notturno, in media la sua giornata di lavoro era di 12 ore,ma sovente anche di 13 o 14, arrivando fino a 15. E i salari erano nettamente inferioria quelli dell’uomo: «abbiamo che di 197.842 donne, superiori ai 15 anni, che lavorano,3.169 non guadagnano più di 10 soldi al giorno, 21.195 hanno dai 50 ai 75 centesimi ilgiorno; 55.230 dai 76 centesimi a una lira; 70.484 stanno fra la lira e la lira e mezza;26.540 oscillano fra i 30 soldi e le due lire; 8.798 raggiungono i lauti guadagni supe-riori alle due lire ma non a 2,50 e finalmente solo 2.069 possono dire: guadagno unagiornata umana, perché prendo più di 50 soldi al giorno».8

Questi dati dimostrano con evidenza come le condizioni di partenza delle donne nelmercato del lavoro fossero molto più deboli rispetto a quelle degli uomini. Cionono-stante nella società contemporanea sempre nuovi impieghi si aprivano al mondo fem-minile fuori dalle mura domestiche, a partire dalle così dette occupazioni da ‘collettobianco’, lavori divenuti disponibili con l’espandersi dei servizi e dei commerci.9 Gliuffici statali e le compagnie di assicurazione assunsero segretarie e dattilografe; lecompagnie telefoniche e del telegrafo impiegarono donne come operatrici,10 i negozi ei grandi magazzini accolsero giovani commesse.11 In genere i datori di lavoro fissava-no un limite d’età per le loro dipendenti e non mancavano regolamenti in cui era previ-sto il licenziamento in caso di matrimonio: tutto ciò per mantenere una forza-lavoromodello costituita da giovani donne in genere al di sotto dei venticinque anni e non spo-sate. Anche se cambiava il luogo di lavoro si voleva continuare a non confondere, esoprattutto a non mutare, per le lavoratrici, il tipo di relazione tra la casa e il lavoro nellaconsapevolezza che il lavoro portava via le donne dalla casa e che ciò non era bene perla moglie e per la madre.

Pur persistendo tutti questi pregiudizi e queste mentalità difficili da modificare, trafine Ottocento e inizio Novecento si verificò un massiccio spostamento dal lavorodomestico (urbano e rurale, famigliare, artigianale e agricolo) a quello impiegatizio. Lecommesse di negozio aumentarono in Germania da 32.000 nel 1882 a 174.000 nel1907, mentre in Gran Bretagna l’amministrazione pubblica centrale e locale impiegava7.000 donne nel 1881 e 76.000 nel 1911; e il numero delle donne impiegate in eserci-zi e aziende private era salito nello stesso periodo da 6.000 a 146.000.

Se l’economia dei servizi e delle altre occupazioni terziarie offriva una garanziasempre più ampia di posti di lavoro per le donne, l’avvento di una economia dei consu-mi le rendeva anche il principale obiettivo del mercato capitalistico.12 E il lancio della

8 Le donne che lavorano. Fatiche e compensi cit.9 Cfr. JOAN W. SCOTT, La donna lavoratrice nel XIX secolo, in Storia delle donne. L’Ottocento, a

cura di Geneviéve Fraisse, Michelle Perrot, Roma-Bari, Laterza, 1991, pp. 355-385.10 Cfr. MARIA LINDA ODORISIO, Le impiegate del Ministero delle Poste, in Il lavoro delle donne cit.,

pp. 398-420.11 MARIA TERESA SILLANO, Appunti per la storia delle commesse de La Rinascente, in Le donne in

area padana cit., pp. 126-140.12 Cfr. GABRIELLA TURNATURI, La donna fra il pubblico ed il privato: La nascita della casalinga e

della consumatrice, in Lavoro/non lavoro, «Nuova DWF», 12-13, 1979, pp. 8-29.

Page 18: 70 - online.ibc.regione.emilia-romagna.itonline.ibc.regione.emilia-romagna.it/I/libri/pdf/ERBA_70.pdf · Le donne organizzate: fasci femminili e sezioni operaie e lavoranti a domicilio

Fiorenza Tarozzi XIX

‘donna nuova’ fu al centro dell’impegno delle industrie pubblicitarie che entravanonella loro prima fase di splendore. La pubblicità si concentrava sulle donne perchéerano loro che decidevano per lo più gli acquisti di casa. La donna andava trattata conmaggiore rispetto almeno da questo settore della società capitalistica: la trasformazio-ne del sistema distributivo – i negozi multipli e i grandi magazzini che progressivamen-te si sostituivano ai negozietti e al mercato, così come le vendite su catalogo per ordi-nazione tramite posta che soppiantarono i venditori ambulanti – formalizzò questorispetto con la deferenza, l’adulazione, le vetrine e la pubblicità. Erano soprattutto lesignore della borghesia ad essere trattate con riguardo, esse infatti potevano permetter-si di spendere in oggetti utili per la casa, ma anche in articoli voluttuari come oggettida toeletta e in abbigliamento alla moda. Se il messaggio pubblicitario contribuì a crea-re nuovi stereotipi femminili, occorre però dire come il mercato femminile contribuì acreare, a sua volta, un numero cospicuo di nuovi impieghi per le donne.

La donna nuova, la donna moderna, vedeva aprirsi dunque maggiori possibilità diingresso nel mondo del lavoro, compreso quello delle professioni. Ostetriche (si è giàdetto), infermiere, maestre: ecco alcune delle professioni più squisitamente femminili,o ritenute tali da un’opinione pubblica che vedeva il mondo cambiare, ma cercava dirallentarne i ritmi o di contenerne gli effetti. La maestra è, a tal proposito, un esempioa tutto tondo. L’allargamento dell’istruzione alle donne di fatto generò un duplicerisvolto: da un lato la maggior presenza di bambine a scuola richiedeva un numero sem-pre crescente di personale femminile, dall’altro si vide nella maestra il riprodursi all’e-sterno della famiglia del ruolo e della funzione materna, verso cui la donna dovevaprofondere ogni suo impegno e ogni suo sforzo. Crebbero nella seconda metà del XIXsecolo le Scuole Normali per la formazione dei maestri, a cui si chiedeva per esercita-re la professione di essere muniti di ‘patente’; e le Scuole Normali, nate per preparareinsegnanti si riempirono rapidamente di fanciulle che cercavano nel lavoro di maestreuna professione che consentisse loro di guadagnare, di rendersi indipendenti dalle fami-glie, di poterne anche contribuire al mantenimento. Fu una vera e propria esplosione dipresenza femminile nel mercato del lavoro: basti pensare che in Italia, a quindici annidalla legge Casati emanata nel 1859 per il riordino del sistema scolastico, il numerodelle maestre superava abbondantemente quello dei maestri.13 Ciò pose il problema didove collocarle: solo nelle sezioni femminili o anche in quelle maschili? È forse oppor-tuno ricordare che per lungo tempo in città le classi elementari erano ben distinte tramaschili e femminili in nome di una rigida morale che ribadiva come non si potessero«lasciare insieme lupi e agnelli, nibbi e colombe». E poi si aggiungeva – e di questenorme la precettistica ottocentesca è fonte storica eccezionale – che le donne mancava-no di «quella forza morale che è pur indispensabile nel maestro per mantenere la sco-laresca disciplinata» e spesso le maestre manifestavano «una snervante mollezza dicarattere» dannoso per gli alunni. Insomma erano proprio quei tratti materni che tantosi volevano vedere emergere nelle donne a essere assunti, in questo caso, come limitialla loro professionalità. A partire dagli inizi del Novecento, comunque, il numero cre-scente di maestre negli istituti scolastici servì ad abbattere progressivamente gli antichipregiudizi, creandone però in poco tempo uno nuovo, vale a dire l’idea che l’insegna-mento fosse la professione più adatta per le donne.

La sempre più consistente presenza femminile nel lavoro ‘fuori di casa’ comportòanche il cambiamento di una mentalità diffusa circa il ruolo e le capacità delle donne.

13 Cfr. SIMONETTA SOLDANI, Maestre d’Italia, in Il lavoro delle donne cit., pp. 368-397.

Page 19: 70 - online.ibc.regione.emilia-romagna.itonline.ibc.regione.emilia-romagna.it/I/libri/pdf/ERBA_70.pdf · Le donne organizzate: fasci femminili e sezioni operaie e lavoranti a domicilio

XX Lavorare al femminile

Fu un processo non sempre facile, tant’è vero che si tentò di opporvi argini quali unsalario inferiore, l’assenza di norme giuridiche e di tutela e ancora la ricerca di ‘lavorifemminili’, ‘da donne’. Da qui emerse la ‘questione’ della lavoratrice dibattuta nellesedi dei partiti politici e dei sindacati, sulle pagine dei giornali socialisti, nelle confe-renze pubbliche tenute anche da donne di alto profilo come (e ne citiamo solo alcune)Anna Kuliscioff, Argentina Bonetti Altobelli, Rina Melli, Maria Goia che si impegna-rono per ottenere riconoscimenti economici, norme giuridiche e ruolo sociale definitoe riconosciuto per la lavoratrice salariata. Una battaglia, peraltro, sostenuta anche dalleSocietà femminili e maschili di mutuo soccorso e dalle Leghe di resistenza, che creb-bero sempre più numerose tra il secondo Ottocento e il primo Novecento.

Certo non mancarono ostacoli all’affermazione di quella ‘donna nuova’ di cui tantosi parlava, di quella ‘donna moderna’ produttrice di ricchezza sociale, compagna del-l’uomo, lavoratrice intelligente ed energica che nella vita sapeva e voleva assumersi lapropria parte di responsabilità civile e morale e non riparava nell’ombra della protezio-ne maritale o paterna. Dalla donna moderna ci si aspettava che, pur rimanendo femmi-nilmente dolce e buona, sapesse difendere la propria dignità e mettere un prezzo al pro-prio lavoro, e l’uomo cosciente e ‘moderno’ non avrebbe potuto che vedere di buonocchio questo mutamento, questo risveglio delle donne, questa emancipazione anchenel campo del lavoro.

È comunque solo nel corso del Novecento che si può cogliere la crescente influenzadelle donne negli ingranaggi della società, sia pure attraverso percorsi non sempre faci-li e lineari. Se negli anni della Grande guerra le donne sperimentarono spazi fino a quelmomento loro preclusi, la fine del conflitto parve riportarle, spesso non senza il loroconsenso, nel ruolo tipico di madre e di sposa. Certamente le donne, prima ancora degliuomini, hanno subito e subiscono le scosse di economie in crisi e pagano per prima l’a-dattamento del mercato del lavoro. Ma sono anche state capaci e sono capaci di ribadi-re energicamente il desiderio dell’affermazione di se stesse come individui autonomi,economicamente indipendenti, capaci anche di inventarsi una propria carriera. Un per-corso tortuoso, non sempre validamente affiancato da norme e leggi opportune.

Fu a partire dagli anni a cavallo tra XIX e XX secolo che si iniziò a parlare di legi-slazione sociale e ad estenderne gli interventi al mondo femminile.14 Erano anche glianni in cui si iniziava a cogliere sia da parte del movimento emancipazionista femmi-nile sia del crescente movimento associativo operaio, il valore del lavoro come momen-to di crescita e di trasformazione del ruolo della donna nella società.

La prima legge a favore delle donne, quella del 1902, si presentò come legge di tute-la ed era diretta sostanzialmente a salvaguardare la loro capacità di procreazione. Sitrattava insomma di una legislazione protettiva che andava a contribuire a quel proces-so di costruzione del genere maschile e femminile proprio dell’epoca. Due generi di cuila donna rappresentava l’anello debole, secondo un modello in cui le donne erano infe-riori agli uomini e la maternità era la loro principale funzione sociale. La legge Carca-no, quella del 1902 appunto, fu parzialmente modificata negli anni successivi con ildivieto del lavoro femminile notturno e con la difesa delle lavoratrici madri attraversol’introduzione del congedo di maternità obbligatorio, sia pur limitato a quattro settima-ne dopo il parto e senza remunerazione. La legge, riferita esclusivamente alle operaiedi fabbrica (che produsse anche l’effetto di disincentivare l’occupazione femminile nel-

14 Cfr. MARIA VITTORIA BALLESTRERO, Dalla tutela alla parità. La legislazione italiana sul lavorodelle donne, Bologna, il Mulino, 1979.

Page 20: 70 - online.ibc.regione.emilia-romagna.itonline.ibc.regione.emilia-romagna.it/I/libri/pdf/ERBA_70.pdf · Le donne organizzate: fasci femminili e sezioni operaie e lavoranti a domicilio

Fiorenza Tarozzi XXI

l’industria), subì degli aggiustamenti nel 1910 e nel 1923, che istituivano e rafforzava-no le casse di maternità finanziate dai datori di lavoro e dai contributi delle lavoratriciche avrebbero dovuto compensare la perdita di salario.

L’introduzione dei nuovi limiti di legge al lavoro delle operaie rendeva meno appe-tibile il loro impiego e nell’immediato venne registrata una progressiva perdita di pesodella presenza femminile nelle fabbriche. Questa situazione si modificò negli anni delprimo conflitto mondiale, che portò a una nuova grande immissione delle donne nelleattività produttive e alla necessaria sostituzione del personale maschile con quello fem-minile nei campi, nelle fabbriche, negli uffici. Alla fine della guerra, però, operaie eimpiegate furono in gran parte rimandate a casa, a rioccupare l’antico ruolo tra i for-nelli, reintegrate nei tradizionali ruoli femminili. Gli anni della crisi profonda del siste-ma liberale e dell’avvento del fascismo furono quelli in cui si concluse la prima fasedella legislazione sul lavoro delle donne. L’Italia, ratificando la convenzione diWashington nel 1919, approvava nel 1922 una legge nella quale erano fissati per ledonne i limiti minimi d’età per l’ammissione al lavoro, il divieto al lavoro notturno el’astensione obbligatoria dal lavoro per gestanti e puerpere.

Questa legislazione protettiva aveva come soggetto protagonista le operaie dellefabbriche. Intanto però il mondo del lavoro femminile fuori di casa andava, come giàsottolineato, facendosi sempre più composito: ostetriche, maestre, insegnanti, commes-se, impiegate erano nuove figure in costante aumento. Di loro però, fino ad allora, benpoco si era interessato il sistema legislativo. L’affermazione dei loro diritti, quindi, apri-va nuovi scenari, soprattutto significative divennero le battaglie delle donne del cetomedio, professioniste spesso laureate, per avere libero accesso alle professioni e peraccedere agli impieghi pubblici.

Le aspirazioni di queste donne, già manifestate negli ultimi decenni dell’Ottocento,trovarono una prima, anche se incompleta, risposta nella legge del 1919 con la qualesolo veniva abrogata l’istituto dell’autorizzazione maritale consentendo l’ammissionedelle donne «a pari titolo degli uomini, ad esercitare tutte le professioni ed a copriretutti gli impieghi pubblici» con esclusione di quelli che si riferivano a funzioni impli-canti poteri politici o giurisdizionali. Le donne dunque restavano di fatto diseguali;anche un settore come quello dell’insegnamento le vide tagliate fuori dall’eserciziodella loro professione in alcune scuole. L’inferiorità naturale delle donne a svolgerelavori di responsabilità trovò poi traduzione in legge durante gli anni del regime, quan-do fu loro vietato l’insegnamento di storia, filosofia ed economia nelle scuole superio-ri e quando, anche, vennero espulse dagli impieghi pubblici e privati.

Se nella legge del 1919 si poteva leggere un intreccio tra uguaglianza e protezione,i testi legislativi successivi ebbero come concetto portante quello della tutela, nonessendo il valore dell’uguaglianza uno tra quelli a cui si ispiravano i legislatori fascisti.Il regime aveva chiaro il rapporto gerarchico di subordinazione della donna all’uomo,inoltre si preoccupava di assicurare l’occupazione ai maschi capofamiglia espellendo,se necessario, le donne dal mercato del lavoro. La donna nella società fascista dovevaaffermarsi come ‘sposa e madre esemplare’, la casalinga esperta in economia domesti-ca – vale a dire nel buon funzionamento della casa – e la massaia rurale erano i model-li sostenuti dalla propaganda. Per quelle donne che invece continuavano a lavorare fuoricasa, occorreva trovare provvedimenti protettivi in nome dell’interesse della razza. Unaserie di interventi presi tra il 1923 e il 1925 e la legge del 26 aprile 1934 davano corpoa quel progetto. Per le donne che lavoravano veniva riproposto uno scenario prebellicodeclinato, questa volta, in chiave demografico-razziale: la protezione della donna anda-va letta e realizzata come ‘salvaguardia della stirpe nazionale’.

Page 21: 70 - online.ibc.regione.emilia-romagna.itonline.ibc.regione.emilia-romagna.it/I/libri/pdf/ERBA_70.pdf · Le donne organizzate: fasci femminili e sezioni operaie e lavoranti a domicilio

XXII Lavorare al femminile

Il campo di applicazione della legge del 1934 era rivolto pressoché esclusivamentealle lavoratrici occupate nei settori industriali e commerciali; ne erano invece esclusialtri campi di forte presenza femminile come i lavori agricoli, quelli svolti a domicilio,il lavoro domestico.

Ancora da ribadire è come durante tutto il ventennio si susseguirono provvedimen-ti di carattere espulsivo delle donne dal pubblico impiego come dal lavoro privato, prov-vedimenti che andavano a colpire in particolare le donne della piccola e media borghe-sia che numerose erano entrate nella pubblica amministrazione e nella scuola. Obietti-vo non mascherato del regime era quello di limitare l’occupazione femminile extra-domestica senza distinzione tra le classi sociali: contadine, proletarie, impiegate, pro-fessioniste dovevano trovare nella casa, nella domesticità dei compiti e degli affetti, laloro realizzazione.

Di nuovo una guerra veniva a riproporre la necessità di utilizzare in maniera mas-siccia le donne nel settore produttivo ed economico. Nel dopoguerra, poi, si aprivanonuovi scenari a partire dal dettato costituzionale che stabiliva la parità di trattamento tralavoratori e lavoratrici.15 Il testo dell’art. 37 comma 1 è però al tempo stesso innovati-vo e conservativo o, come è stato detto, carico di ‘ambiguità volute’ là dove si affermache per le donne, anche in un regime di parità, si devono garantire le condizioni perconsentire loro l’adempimento della loro funzione ‘essenziale’ di madri.

La Costituzione repubblicana aveva stabilito l’uguaglianza formale fra i sessi, ma laconquista dei diritti civili andava intrecciandosi da parte delle donne con la sempre piùnitida percezione di muoversi in un terreno culturale e sociale dove il persistere di vec-chie consuetudini finiva per non garantire loro una reale parità. E di parità raggiunta sipuò parlare solamente a partire dal 1977, quando una nuova legge cancellava le formedi tutela e, nel rispetto delle norme comunitarie, poneva fine alla a lungo dominantelegislazione protettiva.

A quella legge ne sono seguite altre di particolare rilievo: nel 1991 quella sulle pariopportunità, fortemente voluta dalle donne in quanto intesa come strumento in grado diintervenire e di rimuovere le discriminazioni e fare crescere l’idea di uguali opportu-nità uomo-donna nel lavoro; nel 1992 la legge sull’imprenditoria femminile per favori-re la nascita di imprese composte per il 60% da donne, società di capitali gestiti peralmeno 2/3 da donne e imprese individuali; la legge comunitaria del 1999 che imponeil divieto assoluto delle donne al lavoro notturno durante la gravidanza e fino al com-pimento del primo anno del bambino; la legge dell’8 marzo 2000 sui congedi parenta-li, una normativa che punta ad una maggiore condivisione dei compiti all’interno delnucleo familiare, una legge con la quale la cura dei figli smette di essere esclusiva pre-rogativa delle madri.

E non si tratta certo dell’approdo finale, bensì di progressive tappe di un percorsosempre in via di sviluppo, un percorso molto ben documentato da Rossella Ropa e Cin-zia Venturoli nelle immagini della mostra e nel catalogo che l’accompagna.

15 Cfr. ANNA ROSSI-DORIA, Le donne sulla scena politica italiana agli inizi della Repubblica, inEADEM, Dare forma al silenzio. Scritti di storia politica delle donne, Roma, Viella, 2007, pp. 127-208.

Page 22: 70 - online.ibc.regione.emilia-romagna.itonline.ibc.regione.emilia-romagna.it/I/libri/pdf/ERBA_70.pdf · Le donne organizzate: fasci femminili e sezioni operaie e lavoranti a domicilio

Dall’Unità d’Italia alla prima guerra mondialeRossella Ropa

Page 23: 70 - online.ibc.regione.emilia-romagna.itonline.ibc.regione.emilia-romagna.it/I/libri/pdf/ERBA_70.pdf · Le donne organizzate: fasci femminili e sezioni operaie e lavoranti a domicilio

La ‘questione’ del lavoro femminile

La presenza delle donne nel mondo del lavoro è documentata dai censimenti dellapopolazione italiana, che fotografarono, nei decenni successivi all’Unità d’Italia, l’e-volversi del fenomeno e le sue sfaccettature. Una presenza estesa e variegata questa,non sporadica e non occasionale: le donne che lavoravano non erano certo, in queglianni, un’eccezione, ma la norma.

Le rilevazioni di fine Ottocento-inizio Novecento evidenziavano, però, fin da subi-to la difficoltà di classificare le donne per professioni, soprattutto nei comuni rurali,nonché l’esistenza di differenziazioni nel modo di percepire la propria attività da partedelle stesse donne. Mancava, infatti, soprattutto nelle contadine, la coscienza del pro-prio lavoro, la consapevolezza di svolgere un’attività qualificabile come lavorativa.1

Comunque, nel censimento del 1881 veniva riscontrato che il 51% della popolazio-ne femminile (contro l’84,6% di quella maschile) era impegnato stabilmente in un’at-tività extradomestica che la caratterizzava tanto da classificarla ai fini di un documen-to ufficiale quale appunto un censimento. In particolare, il 27% delle donne era occu-pato in agricoltura, il 16,9% nell’industria, un 4% era definito personale di servizio,mentre nelle altre professioni la presenza delle donne presentava percentuali inferioriall’1%. Analizzando, invece, l’incidenza della presenza femminile nelle singole catego-rie, era possibile rilevare che il 65,9% degli individui dediti a mestieri connessi all’igie-ne della persona erano di sesso femminile (pettinatrici, stiratrici, ecc.) e che il 62,8%del personale di servizio erano donne, le quali rappresentavano anche il 58,8% degliinsegnanti, il 25,8% del personale sanitario,2 il 37,3% degli impiegati in agricoltura edil 45,5% degli occupati nelle produzioni industriali.3

La condizione di dipendenza salariale della donna, soprattutto di ceto medio-basso,costituiva, dunque, una realtà diffusa e consolidata; il sesso femminile svolgeva unruolo essenziale nell’economia di famiglie e Stati.4

Vi era, però, un enorme divario fra l’importanza del suo ruolo produttivo e il rico-noscimento che a questo si faceva corrispondere nel campo economico come in quello

Tra due secoli

1 Per i limiti delle rilevazioni statistiche ottocentesche, soprattutto nei riguardi del lavoro femmini-le cfr. FIORENZA TARICONE, BEATRICE PISA, Operaie, borghesi, contadine nel XIX secolo, Roma, Cruc-ci, 1985, pp. 146-153.

2 Tutte le specializzazioni sanitarie parevano essere rigidamente strutturate per sesso: le levatrici inparticolare erano rigorosamente donne, i veterinari erano soltanto uomini; l’unica eccezione era rappre-sentata dalla categoria degli infermieri, dove entrambi i generi erano quasi equamente rappresentati.

3 Cfr. F. TARICONE, B. PISA, Operaie, borghesi, contadine nel XIX secolo cit., pp. 265-271.4 Le numerose indagini condotte nel corso degli ultimi decenni dell’Ottocento con obiettivi econo-

mici o con scopi più propriamente sociali (quella di VITTORIO ELLENA, La statistica di alcune industrieitaliane del 1880, L’Inchiesta industriale del 1872, e le Ricerche sopra la condizione degli operai nelle

Page 24: 70 - online.ibc.regione.emilia-romagna.itonline.ibc.regione.emilia-romagna.it/I/libri/pdf/ERBA_70.pdf · Le donne organizzate: fasci femminili e sezioni operaie e lavoranti a domicilio

4 Dall’Unità d’Italia alla prima guerra mondiale

dei diritti civili e politici. Le donne svolgevano, infatti, i mestieri più umili, meno spe-cializzati e mal pagati.

Il loro lavoro, verso la fine dell’Ottocento, costava agli imprenditori la metà di quel-lo maschile, come rilevato da una indagine compiuta nel 1895 da Pietro Sitta, ordina-rio di economia politica all’Università di Ferrara: «Nei nostri cotonifici e nelle nostrefilande di lino e di canape, nelle fabbriche di tabacchi, di zolfanelli, ecc. [la retribuzio-ne della donna] giunge appena ad una lira al giorno, mentre gli uomini ne guadagnanoda due a quattro. E si noti che essa deve lavorare bene spesso per giornate lunghissime,di 14 e fino di 17 ore».5

Dal punto di vista dei datori di lavoro la manodopera femminile rappresentava unarisorsa attraente e competitiva per ragioni economiche e di politica gestionale: per ibassi salari, per l’antica consuetudine con un lavoro intenso e costante nel tempo e perla loro maggiore docilità.

Sia dalle organizzazioni sindacali e politiche, sia dalle associazioni emancipazioni-ste l’obiettivo della parità salariale venne a più riprese rivendicato come «il diritto dellelavoratrici sempre conculcato».6

L’estrema precarietà, frammentarietà e flessibilità erano poi elementi strutturali dellavoro non qualificato e privo di riconoscimento sociale delle donne; in città il lorolavoro era fluttuante per definizione: «Vi sono – scriveva la Giunta comunale di stati-stica di Milano – operai, in ispecie donne, che lavorano non per un solo produttore, maper parecchi e dello stesso genere e di diverso, ed anche per privati, secondo loro con-sigliano la ricerca, o il bisogno, o il caso».7 Potevano lavorare tra le pareti domestiche,dove combinavano con assidua attività gli impegni domestici e familiari e il lavoro perun salario, ma era altrettanto normale trovarle nelle filande, nelle cartiere, nelle forna-ci, nelle cave e nelle miniere. Campo privilegiato di impiego, però, erano le lavorazio-ni poco produttive, che richiedevano molto tempo e fatica ed erano il più delle volteausiliarie rispetto al lavoro qualificato vero e proprio:

Mentre agli uomini sono aperte tutte le occupazioni, richiedano esse la forza o l’abilità, alladonna non è concesso l’adito che per quelle dove richiedesi soltanto destrezza e per di più chenon esigono doti di mente e cognizioni tecniche straordinarie, la sua imperfetta educazionenon permettendole di attendere a lavori complicati e difficili.8

Così era per le mansioni di aiuto e servizio che svolgevano nelle fabbriche tessilidove preparavano e legavano i fili dell’ordito; così era per la scelta degli stracci e la cer-

fabbriche del 1877) offrivano un quadro eloquente della situazione: se alcuni mestieri erano esclusividelle donne (la trattura della seta, la manifattura dei tabacchi, ecc.) non vi era campo di attività dalquale fosse esclusa la maestranza femminile.

5 PIETRO SITTA, Il lavoro della donna, Roma, Tip. dell’Unione Cooperativa Editrice, 1895, p. 10.Se si confrontano i salari con il costo di alcuni generi di prima necessità ai primi del Novecento (paneL. 0,36 il kg, farina L. 0,40 il kg, carne L. 1,23 il kg, olio L. 2,35 il kg, carbone L. 0,08 il kg) appareevidente la modestia dei livelli retributivi. Per i prezzi cfr. L’arte del truciolo a Carpi, Carpi, [s.n.],1979, p. 21.

6 CRISTINA BACCI, A uguale lavoro uguale salario, Milano, Libreria edizioni Avanti, 1917.7 VOLKER HUNECKE, Classe operaia e rivoluzione industriale a Milano 1859-1892, Bologna, il

Mulino, 1982, p. 174, citato in SIMONETTA ORTAGGI CAMMAROSANO, Condizione femminile e industria-lizzazione tra Otto e Novecento, in Tra fabbrica e società. Mondi operai nell’Italia del Novecento, acura di Stefano Musso, Milano, Feltrinelli, 1999, pp. 109-172: 113.

8 P. SITTA, Il lavoro della donna cit. p. 11.

Page 25: 70 - online.ibc.regione.emilia-romagna.itonline.ibc.regione.emilia-romagna.it/I/libri/pdf/ERBA_70.pdf · Le donne organizzate: fasci femminili e sezioni operaie e lavoranti a domicilio

Tra due secoli 5

ARNALDO MARCHETTI, Ritratto di contadina con carico di fieno sulle spalle, 1920 ca.,Archivi Alinari, Firenze

Page 26: 70 - online.ibc.regione.emilia-romagna.itonline.ibc.regione.emilia-romagna.it/I/libri/pdf/ERBA_70.pdf · Le donne organizzate: fasci femminili e sezioni operaie e lavoranti a domicilio

6 Dall’Unità d’Italia alla prima guerra mondiale

nita delle lane nelle cartiere e nei lanifici; così nelle miniere dove svolgevano il durolavoro di manovalanza trasportando enormi blocchi di minerale; così era nell’ediliziadove erano addette alla costruzione di strade e ferrovie.9

A cavallo tra i due secoli, emergevano, però, alcune nuove tendenze: accanto alleproletarie cominciava a registrarsi la presenza, nel mondo del lavoro extradomestico, didonne borghesi che, per problemi economici10 o per insoddisfazioni personali, eranospinte a trovarsi una occupazione consona alla propria condizione sociale e culturale.La diffusione (dibattuta, non facile, criticata) della scolarizzazione femminile, infatti,schiudeva le porte a nuove possibilità di lavoro per le donne ‘di civil condizione’, dap-prima in quei settori che rappresentavano una proiezione dei caratteri materni nellasocietà (l’insegnamento e le professioni sanitarie), poi in ruoli impiegatizi e nelle libe-re professioni.

Osservava Emilia Mariani, protagonista delle prime associazioni magistrali, al VICongresso degli insegnanti del 1888, sottolineando quanto di innovativo emergeva daquesta nuova presenza femminile nel mondo del lavoro salariato:

Non sono trent’anni che all’infuori della povera operaia costretta dal bisogno, nessuna donnaavrebbe osato rivolgersi al lavoro come fonte di libero e onesto guadagno. Allora, quando erapriva del sostegno naturale del padre o del marito, ricorreva alla porta di un chiostro pernascondervi la sua miseria, e la sua inettezza, per chiedervi quella protezione che fuori le man-cava. Ora invece noi la vediamo dopo aver frequentato le Scuole superiori, i Licei, le Univer-sità, entrare nelle industrie, nel commercio, far la maestra, darsi all’arte, al giornalismo, allelettere, cercando di guadagnarsi nel modo più dignitoso e decoroso la vita, con una serietà euna disinvoltura che altamente la onorano. Anzi ora le donne, non contente degli umili eristretti lavori cui si sono sin’ora dedicate, fanno ressa intorno agli uffici pubblici, insistendoper essere abilitate a novelli impieghi, desiose di ampliare il modo della loro attività, di eser-citare le nuove forze acquisite nella nobile palestra del lavoro.11

Era una presenza questa che, ancora nell’ultimo decennio dell’Ottocento, riguarda-va poche migliaia di donne concentrate nelle grandi città, ma che stava iniziando adavere un impatto sociale di sicuro più consistente della sua reale portata numerica.Sempre più donne, infatti, stavano diventando ‘visibili’ fuori da casa e il loro lavoro ini-ziò ad essere descritto, documentato, commentato con un’attenzione senza precedentida filosofi, sociologici, medici, politici, giuristi che discutevano sulla sua convenienza,addirittura sulla compatibilità tra femminilità e produttività.12

I timori principali erano relativi soprattutto agli effetti negativi che ne derivavanodal punto di vista sociale e morale. Il lavoro femminile extra-domestico veniva consi-derato pericoloso fattore di disgregazione sociale: la donna impiegata nel lavoro, oltrea trascurare i figli che necessitavano delle sue cure, assaporava il gusto della propriaindipendenza. In tal modo l’autorità del marito avrebbe potuto essere limitata, allentan-

9 S. ORTAGGI CAMMAROSANO, Condizione femminile e industrializzazione tra Otto e Novecentocit., p. 113.

10 In quegli anni erano, comunque, aumentate le difficoltà economiche del ceto medio, difficoltàche potevano essere superate e risolte con l’inserimento delle donne borghesi nel mercato del lavoro.Il loro salario avrebbe, infatti, contribuito al risanamento del bilancio familiare, soprattutto in caso diavversità capitate al padre o al marito.

11 Discorso riportato sulla rivista «La donna», 15 settembre 1888.12 JOAN W. SCOTT, La donna lavoratrice nel XIX secolo, in Storia delle donne. L’Ottocento, a cura

di Geneviéve Fraisse, Michelle Perrot, Roma-Bari, Laterza, 1991, pp. 355-385: 356.

Page 27: 70 - online.ibc.regione.emilia-romagna.itonline.ibc.regione.emilia-romagna.it/I/libri/pdf/ERBA_70.pdf · Le donne organizzate: fasci femminili e sezioni operaie e lavoranti a domicilio

Tra due secoli 7

do, quindi «i legami di famiglia che è il fondamento primo dello Stato e della civilesocietà».13 «Il posto della donna è nella casa» diventava, quindi, la ‘parola d’ordine’ deisostenitori di un modello di organizzazione sociale in cui il lavoro dell’uomo dovevaessere sufficiente a soddisfare tutte le necessità economiche della famiglia, asserzioneperaltro utilizzata anche per sostenere la disparità salariale tra i due sessi e la necessitàche la donna abbandonasse la propria occupazione dopo il matrimonio. In questo sensoil lavoro doveva venire considerato dalle donne borghesi come un ‘passatempo’ senzaulteriori complicazioni né implicazioni di natura professionale concreta, per questovenivano avviate ad occupazioni considerate poco appetibili dagli uomini e comunqueinadatte a costituire una reale alternativa alla «carriera» matrimoniale.

Il lavoro delle donne veniva poi considerato fattore di una potenziale devastazionemorale, pubblica e privata. Molto presto la figura dell’operaia sembrò incarnare ilmodello di una femminilità più libera, combattiva e cosciente dei propri diritti. I con-temporanei deploravano soprattutto la cattiva influenza che l’ambiente «fisicamente emoralmente corrotto» della fabbrica esercitava sulle fanciulle, facendo loro acquisire«quel sentimento di indipendenza che le rende proterve, intolleranti al dovere».14

L’interesse dell’opinione pubblica nei confronti della questione era particolarmentevivo, tanto che il Comitato centrale per la pubblica moralità nel 1912 predisponeva unquestionario, compilato dai soci e dalle associazioni aderenti, relativo «all’influenzadelle condizioni del lavoro femminile sulla prostituzione e, in generale, della moralitàfemminile negli opifici», incaricando il dottor Paolo Cesare Rinaudo, studioso di scien-ze sociali, di ricavarne una relazione. Il rapporto conclusivo individuava nell’industria-lismo una delle principali cause della diffusa immoralità tra le lavoratrici. La concen-trazione delle operaie nelle fabbriche, infatti, provocava la diffusione di «turpiloquio,bestemmia, assenza del pudore, amoreggiamenti, seduzioni, irreligiosità». Il comporta-mento delle operaie era frutto in gran parte dei «discorsi immorali che si tengono neglistabilimenti» nonché dell’esempio dei compagni di lavoro, «gente resa immorale dalleletture, dagli eccitamenti all’odio di classe, dalla negazione dei principi cristiani e dallapredicazione del libero amore». I rimedi proposti per risolvere tale situazione venivanoindividuati nella diffusione di «sani principi morali e religiosi» e di un senso di respon-sabilità nell’uomo e di dignità nella donna.15

L’opposizione al lavoro femminile proveniva anche da fisiologi e igienisti, che sce-sero in campo perché allarmati dalle presunte conseguenze negative del lavoro sullagravidanza e, soprattutto, sulla prole. Nel giro di pochi anni, le ragioni di ordine mora-le messe in campo a salvaguardia della donne e della famiglia, cellula base dellasocietà, cedevano il passo a preoccupazioni più dirittamente connesse alla dimensionesociale della maternità e alla salvaguardia delle generazioni future. Il timore di un pos-sibile decadimento fisico degli italiani veniva sollevato da medici e ostetrici – «alleva-tori della razza umana» – che lamentavano «la decadenza fisico-organica che, fino allanascita, si verifica del prodotto umano delle classi lavoratrici, specie delle città». Ildecadimento fisico trovava conferma nella diminuzione di peso e statura, fin dallanascita, dei figli della classe lavoratrice: si riteneva che questo processo fosse conse-

13 P. SITTA, Il lavoro della donna cit., pp. 11, 12, 19.14 STEFANO BONOMI, Intorno alle condizioni igieniche degli operai e in particolare delle operaie in

seta della provincia di Como, «Annali universali di medicina», 1873, p. 233, citato in F. TARICONE, B.PISA, Operaie, borghesi, contadine nel XIX secolo cit., p. 249.

15 COMITATO CENTRALE ITALIANO PER LA PUBBLICA MORALITÀ, Il lavoro femminile e la moralità, Tori-no, G. degli Artigianelli, 1913, pp. 3-15.

Page 28: 70 - online.ibc.regione.emilia-romagna.itonline.ibc.regione.emilia-romagna.it/I/libri/pdf/ERBA_70.pdf · Le donne organizzate: fasci femminili e sezioni operaie e lavoranti a domicilio

8 Dall’Unità d’Italia alla prima guerra mondiale

guenza dell’ingresso della donna nel mondo del lavoro, anch’essa trascinata in quei«logoranti ingranaggi di attività umana che hanno specialmente per miraggio il miglio-ramento economico». Se ne auspicava, quindi, l’utilizzo in settori lavorativi più conso-ni «ed in armonia con la particolare costituzione del suo corpo, e con la speciale fun-zione del suo organismo».16

Il mondo ottocentesco in tema di relazioni fra i generi si era organizzato attorno alprincipio delle sfere separate, dove agli uomini competeva quella pubblica e alle donnespettava l’ambito privato, quello degli affetti familiari e della soggezione all’autoritàmaschile. Se nel corso dell’Ottocento era stato facile occultare e respingere le richiestedelle donne nel nome della tradizione e del ‘buon senso’, nel Novecento un simileatteggiamento non sembrava più praticabile. La determinazione mostrata nella rivendi-cazione dei diritti civili e politici, l’impegno nello studio, le nuove possibilità di lavoroche si estendevano al mondo della scuola e degli impieghi, le associazioni cui le donneavevano dato vita, la fondazione di riviste che aiutavano a riflettere sulla propria con-dizione, l’attiva presenza nel mondo cattolico e nei partiti politici, primo fra tutti quel-lo socialista, erano i segnali forti di un cambiamento nelle italiane. Esse svilupparonouna maggior coscienza del loro valore nelle attività svolte, il lavoro per esse veniva adassumere una configurazione diversa, iniziava ad essere inteso come una fonte di auto-nomia, un mezzo per promuovere uguaglianza e indipendenza economica.

Le attività tradizionali

Le mezzadre, le braccianti, le risaiole

Pur con le grandi differenze che contraddistinguevano le campagne italiane all’in-domani dell’Unità, il lavoro femminile era un dato costante e tradizionale nelle societàrurali. Le donne erano una componente essenziale della manodopera agricola: zappa-vano, seminavano, mietevano, compivano insieme agli uomini gran parte dei lavori neicampi, oltre a farsi carico degli oneri connessi alla conduzione della casa, alla mater-nità, all’allevamento dei figli. Il lavoro delle donne contadine, comunque, si connotavain modo diverso a seconda dei sistemi di conduzione del fondo e dell’organizzazionefamiliare, che in Emilia poteva essere essenzialmente di due tipi, quella dei mezzadri equella dei salariati agricoli.

All’interno della famiglia colonica le donne potevano svolgere diverse attività: tuttelavoravano nei campi sotto la direzione del reggitore (il capofamiglia), nella casa alledipendenze della reggitrice (la capofamiglia) e molto spesso in attività extra-agricoleper le necessità familiari o, più raramente, per piccoli mercati locali. In alcuni contestiquesto lavoro si inseriva in un ambito produttivo più importante: era il caso di alcunearee delle campagne reggiane e soprattutto modenesi e di vaste zone della montagnabolognese. Qui le contadine lavoravano a domicilio, intrecciando il truciolo e la paglia,organizzate da imprenditori che destinavano i loro prodotti ai mercati di importanti cittàeuropee. I compensi del lavoro per il mercato andavano al capofamiglia, salvo piccolesomme che potevano costituire un fondo gestito dalle donne e destinato, ad esempio,all’acquisto di beni per bambini o anziani, oppure potevano rimanere alle singole per

16 GIUSEPPE VICARELLI, Lavoro e maternità. Malattie professionali e gravidanza. Studio etnico, cli-nico e sociale, Torino, Utet, 1914, pp. 15-17, 27-28.

Page 29: 70 - online.ibc.regione.emilia-romagna.itonline.ibc.regione.emilia-romagna.it/I/libri/pdf/ERBA_70.pdf · Le donne organizzate: fasci femminili e sezioni operaie e lavoranti a domicilio

Tra due secoli 9

uso personale: «I soldi dei cappelli [di paglia] li tenevo io in famiglia per vestire lebambine, con l’approvazione della suocera. I soldi dei cappelli: a ciascuno i suoi».17

I tipi di lavoro agricolo che le contadine eseguivano erano molti e potevano essereanche particolarmente duri, spesso, infatti, le donne lavoravano a fianco degli uominisvolgendo la stessa attività; non di rado, però, erano escluse da quelli in cui venivano uti-lizzati la vanga e l’aratro, considerati troppo pesanti e faticosi. La consuetudine avevapoi definito occupazioni abitualmente di pertinenza femminile come la raccolta dellafrutta, la lavorazione del lino, alcune fasi della lavorazione della canapa, l’allevamentodel baco da seta e la mondanatura del riso. Le donne, molto spesso anche le bambine, sirendevano utili anche in altri modi: raccoglievano frutti selvatici, erbe e fascine, produ-cevano ceste e scope, filavano e tessevano e si impegnavano nel trasporto di carichipesanti (la provvista di acqua o di legna), spesso in sostituzione delle bestie da soma.

Sono nata il 24 aprile 1910 nel comune di Teodorano [frazione di Cusercoli, in provincia diForlì]. La mamma e il babbo erano contadini […] eravamo sette figli […]. Sono andata pocoa scuola, ho fatto la prima, la seconda e poi dovevo andare in terza, ma… c’era da lavorare…la mamma si ammalò ed io rimasi a casa. Nel 1911 siamo diventati contadini e fino ai ventianni ho lavorato nel campo, ho tenuto i bachi da seta, facevo l’erba, mietevo, rastrellavo eandavo a prendere l’acqua lontano da casa. Io e la mia sorella avevamo dei tacchini in cortilee li badavamo con le canne perché altrimenti andavano a far danno in quello degli altri… nonavevo neanche quattro anni! Badavo anche ai maiali… Giocare? Mai! Non mi era mai possi-bile perché era necessario lavorare. La mia mamma aveva il telaio e faceva anche la tela pergli altri e me a dvaneva con e’ dvanadue, a faseva i gumsel e i canel [io facevo le matasse, igomitoli e i cannelli]. […]. La mamma tesseva il cotone, ma anche il lino e la canapa.18

Queste attività erano fondamentali in economie familiari spesso precarie e modeste,indispensabili in momenti di crisi o di carestia. Spesso la possibilità di una vita menomisera era determinata proprio dalle attività delle donne.19

L’unica figura femminile che non svolgeva lavori agricoli era la reggitrice. A leispettava il governo della casa, che spesso consisteva nel mandare avanti una grandecomunità familiare e nel prendersi cura durante la giornata di bambini ed infermi. Lecompeteva, inoltre, la gestione di alcune attività produttive minori, come l’allevamen-to degli animali da cortile e la conduzione dell’orto. I proventi della vendita di que-sti prodotti rimanevano nelle sue mani e andavano a costituire un fondo che venivautilizzato per particolari bisogni della famiglia. La reggitrice, dunque, era l’unicadonna che poteva accedere, con il suo lavoro, a una piccola somma di denaro. Per lasua posizione al vertice della gerarchia famigliare era investita di importanti respon-sabilità e di compiti direttivi nei confronti delle altre donne. A lei facevano capo spes-so aspetti importanti delle relazioni familiari, come quelli che riguardavano le strate-gie matrimoniali e le relazioni parentali. Nei poderi di piccole dimensioni la divisio-ne dei ruoli poteva essere meno rigida e la reggitrice si divideva tra casa, cortile ecampi a seconda delle necessità.

17 Percorsi di vita femminile. La donna attraverso l’immagine tra Ottocento e Novecento, a cura diLuciana Nora, Carpi, Nuova Grafica, 1990, p. 19.

18 Testimonianza di Domenica Giovannetti, tratta da Voci di donne: storia di paese. Cusercoli 1881-2006, Testimonianze a cura di Germana Cimatti, narrazione di Alba Piolanti, Cesena, Il Ponte Vecchio,2006, pp. 36-37.

19 JOAN W. SCOTT, LOUISE A. TILLY, Lavoro femminile e famiglia nell’Europa del XIX secolo, in Lafamiglia nella storia, a cura di Charles E. Rosenberg, Torino, Einaudi, 1979, p. 200.

Page 30: 70 - online.ibc.regione.emilia-romagna.itonline.ibc.regione.emilia-romagna.it/I/libri/pdf/ERBA_70.pdf · Le donne organizzate: fasci femminili e sezioni operaie e lavoranti a domicilio

Questo lavoro affannato e continuo – ledonne filavano e intrecciavano la pagliaanche nei momenti che avrebbero dovutoessere di riposo –, indispensabile per farquadrare il bilancio familiare, era in realtànon riconosciuto, cancellato e subordinatoall’interno della famiglia mezzadrile, dellaquale unico capo era il padre o uno dei fra-telli (il reggitore) cui tutti professavano«una sottomissione completa e un’obbe-dienza passiva» e che, come stabiliva ilcontratto di mezzadria «rappresenta lasocietà di fronte al padrone del fondo,come pure in tutte quante le relazioni col-lettive coi terzi e colle autorità ammini-strative e politiche».20 All’interno dellalogica che sovrintendeva all’organizzazio-ne tradizionale della famiglia contadina eche rimaneva alla base di tanta parte delmondo rurale, il lavoro delle donne resta-va schiacciato e svalutato: disperso inmille attività (dal campo, all’aia, alla casa)raramente autonomo e specializzato, era inogni caso condizionato dalle esigenzedella comunità familiare che non ripartivaequamente fra i suoi membri poteri e van-taggi. Un lavoro essenziale alla vita dellafamiglia, eppure mai valutato, mai mone-tizzato, impossibile a calcolarsi, un lavoroperennemente complementare e accessorio. Lavoro negato eppure indispensabilemezzo di sopravvivenza.

Se le condizioni di vita delle mezzadre potevano, in particolar modo nei periodi dicrisi, essere precarie e durissime, quelle delle braccianti erano spesso ai limiti dellasopravvivenza.

La donna lavora da mattina a sera, parte in casa, parte in campagna. Giunta all’età di 14-15 annisi reca a giornata, anch’essa come tutto il resto della famiglia e va a zappar la melica [erba medi-ca] oppure a mondar riso, nel quale lavoro guadagna in due o tre anni quel po’ di argento e dicorredo che deve necessariamente avere per trovar marito. Dai 18 ai 24 si accasa, e quindi le suecure sono rivolte ad allattare e allevare i figli, ammanire il pasto della famiglia, preparare la pastaper il pane, ed anche, quando il tempo lo permette, zappare il tratto di melica assegnato alla fami-glia, recarsi alla mondanatura dei risi e in giornata qua e là a seconda delle circostanze. Quandole occupazioni di casa le lasciano un po’ di tempo libero si reca nelle risaie e va a pescar rane ea prender pesci, che molte volte si mangiano freschi e altre si conservano salati per l’inverno,oppure va a raccogliere i semi del pabbio per dar da mangiare alle galline, che si allevano peressere vendute. In questi giri per la campagna è assai facile che un po’ di riso, di melica, di erba

10 Dall’Unità d’Italia alla prima guerra mondiale

20 GIULIANA CORNELIO, Sebben che siamo donne… La contadina italiana dall’Unità alla primaguerra mondiale, in Esistere come donna. Catalogo della mostra tenuta a Milano nel 1983, Milano,Mazzotta, 1983, pp. 115-116: 115.

Comune di Castel S. Pietro dell’Emilia,Tariffa votata dall’assemblea dei possidentidi Castel S. Pietro dell’Emilianell’Adunanza del 25 marzo 1902, edaccettata dalla Lega di miglioramento deglioperai, e dalle Unioni professionali dellavoro, 1902, Archivio di Stato, Bologna

Page 31: 70 - online.ibc.regione.emilia-romagna.itonline.ibc.regione.emilia-romagna.it/I/libri/pdf/ERBA_70.pdf · Le donne organizzate: fasci femminili e sezioni operaie e lavoranti a domicilio

Tra due secoli 11

o di legna venga portata a casa, specialmente quando le escursioni si fanno nelle ore notturne.La cura della famiglia, i lavori faticosi e il cibo insufficiente avvizziscono presto queste donne,le quali a trent’anni paiono mature, a quaranta vecchie, a cinquanta decrepite.21

L’inchiesta parlamentare sulle condizioni di vita dei contadini, condotta da StefanoJacini, riferiva che i braccianti della provincia di Bologna nel 1881 si nutrivano in granparte di polenta e di acqua; nell’imolese abitavano nelle «case più luride, più antigieni-che», nel modenese «godevano peggior salute che gli animali»22 (erano diffusissime pel-lagra,23 scorbuto, tifo); ebbene i giornalieri avevano una vita media di 34,2 anni in provin-cia di Bologna e di 32,5 a Ravenna.24 Le loro indescrivibili condizioni di vita furonodenunciate dall’on. Gregorio Agnini alla Camera dei deputati nella seduta del 3 maggio1893: «Nel basso bolognese […] gli attuali proprietari sono per i lavoratori assai peggio-ri di quello che erano i padroni degli schiavi; a questi, almeno, era assicurata la vita. Oggiai contadini in genere, e ai giornalieri in particolare, manca perfino il necessario».25

Ad inizio Novecento, secondo i dati forniti dall’inchiesta della Società umanitariadedicata alla disoccupazione agricola, il fenomeno del bracciantato femminile era inespansione26 soprattutto in alcune aree della provincia di Bologna, Ferrara e Ravenna.Nei due comuni indagati per la provincia di Bologna, San Giovanni in Persiceto e Moli-nella, le donne rappresentavano rispettivamente il 22,3 e il 46,1% dell’intero gruppo dei«lavoratori liberi». Nel comune di Ravenna esse costituivano il 49,6% degli 8.969 brac-cianti censiti, mentre nel ferrarese su quattro comuni indagati, tre (Portomaggiore,Argenta e Copparo) vedevano addirittura una preminenza femminile.27

21 GIUNTA PER L’INCHIESTA AGRARIA E SULLE CONDIZIONI DELLE CLASSI AGRICOLE, Atti, vol. VIII,Roma, Forzani, 1887, pp. 627-628.

22 Ivi, vol. II, Roma, 1881, p. 234.23 Soprattutto la pellagra era divenuta la dimostrazione esplicita e prepotente del legame esistente

tra salute e condizioni sociali, un legame che non poteva essere sottinteso neppure dai medici che, schie-rati con Cesare Lombroso, davano una spiegazione connessa non alla carenza alimentare ma ai ‘vizi’ deibraccianti. Infatti essa dimostrava come fossero le condizioni di produzione nelle aree mezzadrili a ren-dere necessario il ricorso al mais come unico mezzo di alimentazione. La pellagra era diventata cosìsimbolo di una condizione di vita, «chiave di lettura per riconoscersi in una unica realtà di sfruttamen-to» (ROBERTO FINZI, Quando e perché fu sconfitta la pellagra in Italia, in Salute e classi lavoratrici inItalia dall’Unità al fascismo, a cura di Maria Luisa Betri, Ada Gigli Marchetti, Milano, Angeli, 1982,pp. 391-430) e, in definitiva, strumento di coesione e di lotta sociale nelle campagne. Non a caso essaera il problema sanitario maggiormente trattato dai periodici socialisti che ne sostenevano l’ipotesi ipoa-limentare indicata da Paolo Mantegazza, contro l’ipotesi tossica sostenuta dai giornali borghesi.

24 GIUNTA PER L’INCHIESTA AGRARIA E SULLE CONDIZIONI DELLE CLASSI AGRICOLE, Atti, vol. II cit., pp.254, 256, 258.

25 Dalla interpellanza di Gregorio Agnini alla Camera, il 3 maggio 1893, sull’argomento «Contro-versie fra capitale e lavoro nel basso bolognese» citato in ILVA VACCARI, La donna nel ventennio fasci-sta (1919-1943), in Donne e Resistenza in Emilia-Romagna, Milano, Vangelista, 1978, pp. 23-254: 37.

26 Il fenomeno del bracciantato femminile divenne dirompente quando si verificò quel profondoprocesso di proletarizzazione che negli ultimi anni dell’Ottocento riguardò soprattutto le pianure delleprovince settentrionali e zone molte vaste della bassa bolognese, ferrarese e ravennate. Il forte aumen-to delle famiglie bracciantili – a struttura nucleare o estesa e di dimensioni ridotte – era frutto di pro-cessi di trasformazione complessi, di cui la crisi agraria con il suo contributo alla disgregazione degliaggregati domestici contadini costituiva soltanto l’ultimo anello, anche se il più rilevante. Cfr. MAURA

PALAZZI, Donne delle campagne e delle città: lavoro ed emancipazione, in Storia d’Italia. Le regionidall’Unità ad oggi. L’Emilia-Romagna, a cura di R. Finzi, Torino, Einaudi, 1997, pp. 375-409: 385.

27 SOCIETÀ UMANITARIA, UFFICIO DEL LAVORO, La disoccupazione nel Basso Emiliano. Inchiestadiretta nelle province di Ferrara, Bologna e Ravenna, Milano, Tip. degli operai, 1904, citato in M.PALAZZI, Donne delle campagne e delle città cit., p. 386.

Page 32: 70 - online.ibc.regione.emilia-romagna.itonline.ibc.regione.emilia-romagna.it/I/libri/pdf/ERBA_70.pdf · Le donne organizzate: fasci femminili e sezioni operaie e lavoranti a domicilio

12 Dall’Unità d’Italia alla prima guerra mondiale

L’origine di questo fenomeno era da imputare ai minori salari pagati a parità di lavo-ro: «Il lavoro delle donne va allargandosi a discapito della manodopera maschile – veni-va scritto nell’inchiesta – molti lavori che prima erano fatti dagli uomini, ora invecesono eseguiti dalle donne». Il processo di sostituzione riguardava, fra gli altri, la batti-tura del granoturco, il trasporto della paglia e «i lavori del riso, compiuti nei luoghi piùdifficili e melmosi». Ad Alfonsine «le donne fanno il lavoro di carriola, che è il più fati-coso, al pari degli sterratori, ed eccettuati l’aratura, la vangatura e il trasporto, parteci-pano a tutti gli altri lavori del campo e della risaia».28

Questa cospicua presenza si traduceva in un forte contributo delle donne al redditodi casa. Nella stima dei bilanci familiari dei braccianti il numero delle giornate di lavo-ro di uomini e donne non erano di solito molto diversi.29 A San Giovanni in Persiceto sivalutava che nelle famiglie bracciantili il marito fosse occupato nei lavori agricoli per135 giornate e la moglie per 104. Il primo aggiungeva poi diverse giornate nei lavori disterro, mentre la seconda contribuiva con la coltivazione di un piccolo orto e l’alleva-mento di alcuni animali: bachi, pollame, nei casi migliori un maiale.

In ogni caso al lavoro femminile veniva attribuito minor valore. La differente valu-tazione si esprimeva in questo caso con la discriminazione salariale, che prevedeva peril lavoro delle donne a parità di mansioni, tariffe di solito non superiori alla metà e soloraramente uguali a due terzi di quelli maschili.

La grande povertà e la precarietà del lavoro delle braccianti si traduceva in una forteflessibilità: spesso svolgevano attività diverse in diversi periodi dell’anno, attività inte-grative alle quali ricorrevano secondo le necessità della famiglia. In varie province emi-liane potevano anche partecipare ai lavori nei settori agro-industriali, ad esempio nellaproduzione di conserve di pomodoro, nella lavorazione della frutta o negli zuccherifici.

Fra tutte queste occupazioni, una contribuì più delle altre a dare una forte identitàsociale alle donne che vi partecipavano: la risaia. Le donne vi eseguivano molti lavo-ri ma i più femminilizzati erano la roncatura e la monda, quest’ultimo – stancante egravoso perché svolto per molte ore al giorno con la schiena ricurva e le gambeimmerse in acque melmose e malsane – rendeva necessarie, per quaranta giorni allafine della primavera, un numero elevato di lavoratrici. Dalla fine dell’Ottocentocominciò, perciò, a diventare molto consistente il flusso migratorio che ogni anno por-tava le donne emiliane nelle risaie del Piemonte, della Lombardia e, in misura mino-re, del Veneto. L’Emilia forniva il contingente di gran lunga più numeroso di emigra-te per la monda: da essa provenivano, nel 1905, il 37% di tutte le risaiole. In quell’an-no il fenomeno coinvolse ben 13.181 donne provenienti soprattutto da Piacenza (conpiù di 6.000 unità), Reggio, Modena e, in misura minore, Bologna; quote inferiorivenivano da Ferrara e Parma.30

Le emigrate affrontavano condizioni di vita e di lavoro molto pesanti: la loro gior-nata veniva pagata meno e durava un’ora di più di quella delle locali; gli alloggi erano

28 Ivi, p. 387. 29 Nello stesso periodo, però, nelle aree meno toccate dalla proletarizzazione delle campagne,

come in quelle montane e collinari e in ampie zone della Romagna, le giornate lavorative si diversifi-cavano maggiormente: nel cesenate, ad esempio, una stima della Camera del Lavoro attribuiva agliuomini una media di 125 giornate all’anno e alle donne solo 33. CAMERA DEL LAVORO DEL CIRCONDA-RIO DI CESENA, Relazioni. Statistica 1906, Cesena, [s.n.], 1907, p. 23, citato in M. PALAZZI, Donne dellecampagne e delle città cit., p. 386.

30 MINISTERO DI AGRICOLTURA, INDUSTRIA E COMMERCIO, Le condizioni di lavoro nelle risaie,Roma, Tip. nazionale di G. Bertero & C., pp. 145-151, citato in M. PALAZZI, Donne delle campagne edelle città cit., pp. 388-389.

Page 33: 70 - online.ibc.regione.emilia-romagna.itonline.ibc.regione.emilia-romagna.it/I/libri/pdf/ERBA_70.pdf · Le donne organizzate: fasci femminili e sezioni operaie e lavoranti a domicilio

Tra due secoli 13

spesso baracche presso il luogo di lavoro, cioè in luoghi malsani dove era facileammalarsi di malaria.

Così descriveva la loro situazione l’on. Angiolo Cabrini in un discorso pronunciatoal Parlamento nel marzo 1903:

L’ingegno umano che inventò, secondo il poeta, cose stupende, ideò in talune zone risicolequesta specie di prolungamento della Santa Inquisizione. Udite: le risaiole lavorano, stese inlunga fila, con i piedi e con i polpacci nell’acqua, nel fango; e curve della persona così da averla testa a livello, o poco più su, delle ginocchia. Dietro sull’argine, c’è il fattore, che prodigaquesti epiteti: «Lavorate, fannullone! Lavorate, bestiacce!». Dinanzi – ecco la geniale trovata!– el tiracoll (il tiracollo). È costui un contadino […] giovane scelto fra i più robusti, egli rice-ve una specie di soprassoldo per lavorare intensamente, il più presto possibile. Le disgraziateche lo seguono non debbono mai lasciare crescere la distanza che sta tra loro e il tiracollo alprincipiar del lavoro… Tiracollo, parola scultoria, che dà la visione delle vittime con la cordaal collo, trascinate faticosamente in avanti.31

E ancora:

Il menù delle risaiole eccolo qua: un pane di farina mista (dovrebbe essere frumento e gran-turco, ma molte volte c’è la segala) a colazione; una minestra di riso e fagioli a desinare; unaminestra di riso e fagioli a cena. Niente vino! Niente latte! Niente carne! È il regime vegeta-riano ed astemio portato all’ultima espressione; una quaresima che dura appunto circa 40 gior-ni. E meno male gli alimenti fossero sani! Ma nei paesi di risaia il commercio viene accumu-lando lungo l’anno i generi di consumo scadenti, avariati, corrotti, e si attende la stagione delriso per venderli alle squadre delle forestiere.32

Sul lavoro delle risaiole non speculavano solo proprietari terrieri ma anche ‘capo-rali’ senza scrupoli che per loro le assumevano: «Le chiama e le sorveglia poi sullavoro il caporale, costui viene pagato con 20 o 30 lire più delle operaie, dal padro-ne; spesso però avviene che il caporale assoggetti ad un tributo di 5 centesimi setti-manale ogni mondina».33

Proprio queste esperienze di sfruttamento fecero maturare in loro una coscienzanuova: le risaiole, infatti, furono protagoniste importanti delle lotte che si svilupparononelle campagne emiliane a partire dalla fine dell’Ottocento, lotte la cui portata andòben al di là dei confini regionali. Esse organizzarono scioperi per migliorare le condi-zioni di orario e di salario e parteciparono da protagoniste alle proteste bracciantili.34

A Conselice, nel 1890, due mondine morirono negli scontri con la polizia35 e moltealtre, negli anni successivi conobbero l’arresto e il carcere. Il risultato fu un’adesione,più ampia che in qualsiasi altra regione italiana, a organizzazioni dei lavoratori comele Leghe ‘miste’, ma anche la creazione nei primi anni del Novecento di numeroseLeghe femminili.36

31 CAMERA DEL LAVORO DI REGGIO EMILIA, Alle risaiole. Discorso pronunciato dal deputato A.Cabrini al Parlamento nazionale nella seduta del 2 marzo 1903, Reggio Emilia, Società anonima coo-perativa tra lavoranti tipografi e affini, 1903, p. 15.

32 Ivi, p. 13.33 Ivi, p. 11.34 Cfr. paragrafo La lotta delle donne nelle campagne.35 Le mondine di Conselice chiedevano un aumento di 25 centesimi sul salario. Cfr. I. VACCARI, La

donna nel ventennio fascista cit., p. 36. 36 Cfr. paragrafo Le associazioni.

Page 34: 70 - online.ibc.regione.emilia-romagna.itonline.ibc.regione.emilia-romagna.it/I/libri/pdf/ERBA_70.pdf · Le donne organizzate: fasci femminili e sezioni operaie e lavoranti a domicilio

14 Dall’Unità d’Italia alla prima guerra mondiale

Le lavandaie

Ci volevano tre giorni per fare il bucato: prima i panni si lavavano nel fiume, poi si facevanobollire con la cenere e infine bisognava sciacquarli di nuovo nel fiume. […]. Si andava allequattro di mattina perché l’acqua era ancora chiara e pulita.37

Fra i tanti mestieri che le donne svolgevano, nel periodo considerato, uno dei piùdiffusi era quello delle lavandaie, proprio perché si configurava come una sorta di pro-lungamento delle mansioni svolte nell’ambito domestico. Praticato dalle appartenentiai ceti più umili, in modo spesso informale38 e privo di riconoscimento sociale, appareestremamente difficile una sua quantificazione,39 date le caratteristiche di lavoro sot-tratto a ogni controllo.40

Più semplice la descrizione delle meschine condizioni di lavoro, un lavoro scarsa-mente remunerato (a Bologna alla fine dell’Ottocento generalmente veniva corrispostoun salario mensile di 25 lire) che impegnava per 18-20 ore al giorno pressoché tutti igiorni dell’anno, e che a volte poteva accompagnare l’intero arco di vita delle donne,dall’infanzia alla vecchiaia – come documenta il caso di Filomena Migliorini di 66 annicolta da morte improvvisa mentre stava lavorando lungo il canale di via Lame –.41

Anche se ‘lavare i panni sporchi’ in generale rimaneva una costante nella vita, potevacomunque essere ‘giocata’ in vario modo, secondo diverse strategie: poteva diventarelavoro a tempo pieno o costituire una soluzione di ripiego, ai limiti della sopravviven-za, cui ricorrere in determinate fasi della vita particolarmente critiche; poteva esserel’unica fonte di reddito o fonte integrativa di altre più redditizie; poteva essere abbina-to ad altri lavori extra-domestici o a domicilio. La varietà e l’elasticità del rapportodelle donne con questa attività pare emblematica, pare mostrare come poteva articolar-si il lavoro produttivo nelle diverse vite femminili.

A Bologna l’attività delle lavandaie si svolgeva nella parte solcata dalle derivazionidel Canale del Reno. I lavatoi, costruiti lungo il canale, si trovavano fuori delle mura inlocalità Crocetta, alla Grada nel tratto che precedeva il ponte della Carità su via S. Feli-ce, al ponte delle Lame dietro la Chiesa della Visitazione, infine in via Capo di Lucca.

37 Testimonianza di Giovannina Betti, detta Velia, nata a Cusercoli in provincia di Cesena il 14 giu-gno 1917, in Voci di donne. Storia di paese. Cusercoli 1881-2006 cit., p. 61 e p. 254.

38 Gli strumenti di lavoro erano composti da una tavola o un’asse di legno dove appoggiare gli indu-menti e sbatterli vigorosamente (ma spesso era sufficiente un masso in riva al fiume), un contenitoredi acqua che veniva scaldata spesso sul posto con bracieri, e la cenere o il sapone per lo più fatto incasa (con grassi animali cui si univa soda caustica o pece greca, il tutto bollito in una caldaia e poi fattoraffreddare in un basso contenitore).

39 Nonostante l’assenza di dati ufficiali, è possibile affermare che la maggior parte della bianche-ria a Bologna era trattata dalle lavandaie, vista la quasi totale assenza di lavanderie «impiantate su basirazionali». Nel periodo preso in considerazione, infatti, esistevano in città solo «la lavanderia Bologne-se, quella degli Ospedali e quella militare di Borgo Panigale», del resto non tutte a disposizioni dei pri-vati. FRANCO CRISTOFORI, Bologna. Immagini e vita tra Ottocento e Novecento, Bologna, Alfa edizio-ni, 1978, p. 96.

40 Proprio per le caratteristiche di mestiere non regolato e non riconosciuto, la documentazione chedi esso rimane è sempre frammentaria, eterogenea, il più delle volte indiretta e scandita dai ritmi dioccasionali incontri con le istituzioni, spesso filtrata attraverso la lente deformante delle parole di unosservatore esterno, in genere quelle di un poliziotto in caso di incidenti, di morti improvvise sul lavo-ro, di furti di biancheria subiti.

41 Rapporto di Pubblica Sicurezza, Bologna, 30.11.1897, in Archivio di Stato di Bologna (d’ora inpoi ASBo), Gabinetto di Prefettura, serie 951, 1897, «Relazioni di Pubblica Sicurezza».

Page 35: 70 - online.ibc.regione.emilia-romagna.itonline.ibc.regione.emilia-romagna.it/I/libri/pdf/ERBA_70.pdf · Le donne organizzate: fasci femminili e sezioni operaie e lavoranti a domicilio

Tra due secoli 15

PIETRO POPPI, Lavandaie lungo il canale Reno e retro della Chiesa di Santa Maria dellaVisitazione al Ponte delle Lame a Bologna, ca. 1900, Collezioni d’Arte e di Storia dellaFondazione Cassa di Risparmio, Bologna

ROBERTO SEVARDI, Lavandaie nei pressi di Reggio Emilia, ca. 1920, Fototeca della BibliotecaPanizzi, Reggio Emilia

Page 36: 70 - online.ibc.regione.emilia-romagna.itonline.ibc.regione.emilia-romagna.it/I/libri/pdf/ERBA_70.pdf · Le donne organizzate: fasci femminili e sezioni operaie e lavoranti a domicilio

16 Dall’Unità d’Italia alla prima guerra mondiale

Le loro diverse tipologie – a trincea, a gradinata, a ponte levatoio – imponevano condi-zioni di lavoro più o meno faticose.

Il lavatoio a trincea poteva essere costituito da una sola barriera scavata lungo lasponda del canale, dietro al quale le donne lavavano stando all’asciutto, oppure a duetrincee a gradinata, disposte in modo che se il livello dell’acqua invadeva la prima trin-cea poteva essere usata la seconda posta più in alto; ne erano esempio i lavatoi delleLame e quelli della Crocetta. Il lavatoio della Grada, invece, era costituito da ‘gradina-te’: le lavandaie poggiavano i piedi sul gradino più alto fra quelli immersi e lavavanosul gradino soprastante. Nel periodo invernale impiantavano sul gradino sommersodelle botti scoperchiate per restare all’asciutto.

Altri lavatoi erano molto spesso del tipo ‘a ponte levatoio’, cioè un semplice tavo-lato di legno posto a livello dell’acqua, molti si trovavano lungo le Moline, nella viaRepubblicana e al Cavaticcio: in questo caso le donne erano costrette a lavorare inginocchio e piegate a terra, non avendo alcun piano di appoggio più elevato.42

Le condizioni di lavoro erano pessime anche dal punto di vista igienico: secondo ilresponso delle analisi chimico-batteriologiche del fiume Reno – analisi compiute dallaboratorio di igiene della Regia Università della città nel 1903 – lo stato delle acque incui le lavandaie erano ‘immerse’ per la maggior parte del tempo non era in sostanzadiverso da quello delle fogne.43

La fatica, l’insalubrità ma anche la pericolosità paiono caratterizzare il mestiere, unesempio su tutti: nell’agosto del 1896 Annunziata Gardini, dopo aver lavato biancheriaper tutto il giorno alla Grada, scivolò e fu travolta dalle acque ma venne, fortunatamen-te, tratta in salvo.44

Proprio nella consapevolezza delle drammatiche condizioni di fatica e sfruttamento,la categoria a Bologna cominciava ad organizzarsi fondando nel 1884 una Società dimutuo soccorso, caratterizzata da finalità di sostegno e reciproco aiuto tra i soci, in cuiperò la presenza delle donne era poco significativa.45 Diversa, invece, la caratterizzazio-ne della Lega di miglioramento lavoranti lavandai, costituita nel 1901 presso la localeCamera del Lavoro e contrassegnata da una più esplicita connotazione di classe e dafinalità e azioni decisamente rivendicative.46 La Lega, appunto, presentava, nell’ottobredello stesso anno, ai padroni e ai conduttori di lavanderie, una serie di proposte che pre-vedevano innanzitutto la riduzione dell’orario di lavoro (dalle sei di mattino alle sei disera, con intervalli di mezz’ora per la colazione e di un’ora per il pranzo, per sei giornialla settimana «non esclusi i giorni festivi in caso di urgenza, e fatta eccezione del 1°maggio, festa operaia») e un aumento di salario («L. 2,50 al giorno in contanti, da pagar-si settimanalmente»). Per le lavandaie, la Lega richiedeva lo stesso orario e trattamentolavorativo dei colleghi, ma non la parità salariale (quello femminile richiesto era di L.1,75): «uguale mercede per uguale lavoro» rimaneva, dunque, solo un principio.

42 Bologna città d’acqua, a cura di Stefano Pezzoli, Cecilia Ugolini, Sergio Venturi, Bologna, Com-positori, 1998, pp. 96-97.

43 LABORATORIO D’IGIENE DELLA REGIA UNIVERSITÀ DI BOLOGNA, Il canale di Reno ed i suoi inqui-namenti, Bologna, Stab. tip. succ. Monti, 1903.

44 Rapporto di Pubblica Sicurezza, Bologna, 14.8.1896, in ASBo, Gabinetto di Prefettura, serie934, 1896, «Relazione di Pubblica Sicurezza».

45 Statuto della Società di mutuo soccorso fra i lavandai di Bologna, Bologna, Soc. tip. Azzogui-di, 1884.

46 Lega di miglioramento lavoranti lavandai, Sezione della Camera del Lavoro, Bologna,31.10.1901, in ASBo, Gabinetto di Prefettura, serie 1001, 1901, cat. 6, fasc. 2 «Sciopero dei lavoran-ti lavandai».

Page 37: 70 - online.ibc.regione.emilia-romagna.itonline.ibc.regione.emilia-romagna.it/I/libri/pdf/ERBA_70.pdf · Le donne organizzate: fasci femminili e sezioni operaie e lavoranti a domicilio

Tra due secoli 17

Di fronte al deciso rifiuto della controparte di dialogare, la Lega decideva di sospen-dere il lavoro a partire dal 17 novembre. L’agitazione, secondo fonti prefettizie, avreb-be interessato una settantina di lavoranti e dopo qualche giorno si sarebbe esteso coin-volgendo per solidarietà altre categorie.47 Andrea Costa, nel concludere il 25 novembre1901, il Congresso nazionale dei lavoratori della terra, rivolgeva un saluto agli sciope-ranti, testimoniando un diffuso interesse nei confronti del movimento cittadino. Inizia-va così a svilupparsi la sindacalizzazione delle lavandaie a Bologna.

Le domestiche

Giovani, nubili, di recente immigrazione, pressoché analfabete, appartenenti ai cetipiù umili, residenti presso le famiglie borghesi che le impiegavano: questi sembrano esse-re i tratti che compongono la tipologia più frequente delle domestiche alla fine dell’Otto-cento. Però, intorno a questo nucleo centrale più nitido si estende una zona di confinemobile che non è possibile circoscrivere esattamente. Proprio perché l’attitudine ai lavo-ri casalinghi si presupponeva innata in ogni donna, tutte potevano svolgere questo mestie-re che si poteva configurava come una risorsa elastica, occasionale e transitoria. Era pos-sibile andare a servizio per qualche tempo o per tutta la vita, a seconda delle circostanze(per superare difficoltà economiche transitorie proprie o della famiglia oppure per inte-grare stabilmente il bilancio domestico) e soprattutto in modi molto diversi (di cui alcuninon incompatibili con la gestione di una famiglia propria), svolgendo al contempo altrimestieri oppure alternandoli. L’estrema precarietà e flessibilità erano qualità strutturali dellavoro non qualificato delle donne appartenenti alle classi popolari in quel periodo.48

Ebbene, proprio per queste caratteristiche, il mestiere coinvolgeva un numero cre-scente di giovani.49 Secondo i dati riportati dal censimento del 1901 (dati che offrivanoindicazioni assai approssimative soprattutto in questo settore), le addette ai servizidomestici rappresentavano circa un terzo dell’intera classe operaia femminile: oltre400.000 su 1.371.426 impiegate nelle industrie.50

Impossibile invece determinare quante emiliane, in quegli anni, partirono dalle areepiù povere della regione per andare a servire nelle grandi città. Nella relazione presenta-ta al congresso femminile di Bergamo del settembre 1913, dedicata alle «addette ai ser-vizi domestici», Nina Rignano Sullam dichiarava: «in quasi tutte le regioni d’Italia le fan-ciulle, partendosi dalle province a industria poco sviluppata o di scarso rendimento agri-colo […] si riversano in larghe correnti migratorie nelle città principali».51 Fra le regioniche fornivano domestiche l’Emilia era citata al primo posto (seguita da Veneto, Umbria,

47 Lettera del Questore al Prefetto, Bologna, 18.11.1901, in ASBo, Gabinetto di Prefettura, serie1001, 1901, cat. 6, fasc. 2 «Sciopero dei lavoranti lavandai».

48 MARGHERITA PELAJA, Mestieri femminili e luoghi comuni. Le domestiche a Roma a metà Otto-cento, «Quaderni storici», XXIII, 1988, 68, pp. 497-518.

49 La femminilizzazione del servizio domestico, tipico del periodo, faceva parte di un più ampioprocesso di trasformazione, nel cui ambito gli uomini si orientavano verso lavori contraddistinti da unamaggiore autonomia individuale.

50 I dati sono ripresi da NINA RIGNANO SULLAM, Le addette ai lavori domestici. Collocamento, assi-stenza, istruzione, Milano, Tipo-lit. Rebeschini, 1914, p. 5. Nina Rignano Sullam (1871-1945), attivanelle associazioni di mutuo soccorso e inserita nell’ambiente di stampo democratico e socialista mila-nese, fu tra le co-fondatrici dell’Unione femminile nel 1899. La relazione citata fu presentata al Con-gresso nazionale femminile di Bergamo nel settembre del 1913.

51 N. RIGNANO SULLAM, Le addette ai servizi domestici cit., p. 7. Le destinazioni privilegiate eranoMilano, Torino, Firenze e Roma.

Page 38: 70 - online.ibc.regione.emilia-romagna.itonline.ibc.regione.emilia-romagna.it/I/libri/pdf/ERBA_70.pdf · Le donne organizzate: fasci femminili e sezioni operaie e lavoranti a domicilio

18 Dall’Unità d’Italia alla prima guerra mondiale

Marche, Abruzzo): «le contadinelle dell’Emilia e della pianura lombarda, dei Castelli edella campagna romana, taluna dalla Toscana, tornano d’estate al paese per coadiuvare lefamiglie nel lavoro dei campi o per unirsi alle schiere delle mondine all’epoca dellamonda del riso». Il fenomeno era evidentemente ampio se il collocamento delle donnepoteva avvenire in modi molto diversi: uffici aperti da istituzioni filantropiche, agenzieprivate, relazioni informali con portinai e negozianti, inserzioni sui giornali.52

All’inizio del Novecento, settori riformisti dell’opinione pubblica cominciarono aprendere posizione – attraverso inchieste e opuscoli di denuncia – contro le loro preca-rie e talvolta drammatiche condizioni di lavoro. Veniva scritto che nelle abitazioni dellaborghesia era prassi comune che la serva dormisse in qualche «bugigattolo» senza ariané luce o che la sera accomodasse «la sua cuccia nell’andito», che il vitto fosse scarsoe scadente, che la giornata di lavoro non avesse limiti e che, nel migliore dei casi, venis-sero concesse, a differenza dei colleghi maschi, solo quattro ore di libertà ogni quindi-ci giorni.53 Veniva denunciato «il lavoro illimitato; qualche volta sproporzionato all’etàed alla loro fisica costituzione»:54 fare il bucato, stare in cucina, fare le pulizie, traspor-tare acqua, legna e carbone, cucire e rammendare, spesso anche sorvegliare i bambinie curare gli anziani e gli infermi.

52 M. PALAZZI, Donne delle campagne e delle città: lavoro ed emancipazione, in Storia d’Italia. Leregioni dall’Unità ad oggi. L’Emilia-Romagna cit., p. 390.

53 FLORES REGGIANI, Un problema tecnico e un problema morale: la crisi delle domestiche a Mila-no (1890-1914), in Donna lombarda 1860-1945, a cura di Ada Gigli Marchetti, Nanda Torcellan, Mila-no, Angeli, 1992, pp. 149-179: 155.

54 CLEMENTINA GIUSTI PESCI, Proposta per la classe delle domestiche presentata alla assembleadella Federazione Emiliana delle Donne Italiane il 3 marzo 1913, Bologna, Tip. succ. Monti e Noè,1913, p. 5.

GIUSEPPE MICHELINI, Domestica con bambini a Riccione, 1913, Fondo Famiglia Michelini,Archivio fotografico Cineteca del Comune, Bologna

Page 39: 70 - online.ibc.regione.emilia-romagna.itonline.ibc.regione.emilia-romagna.it/I/libri/pdf/ERBA_70.pdf · Le donne organizzate: fasci femminili e sezioni operaie e lavoranti a domicilio

Tra due secoli 19

Se a tutto questo si aggiunge la pratica ancora ben viva delle punizioni fisiche55 ese si tiene presente che nel 1901 il 9% del personale di servizio in Italia era compostoda bambine di età compresa dai 9 ai 15 anni,56 acquista verosimiglianza, anche se nonvalore di generalizzazione, la figura di Agnese, protagonista della novella Tiranni mini-mi di Gerolamo Rovetta: «smunta, magra e sbalordita» a dodici anni ‘sfacchinava’senza tregua come sguattera, cuoca, cameriera e bambinaia per cinque lire al mese inuna famiglia borghese, per poi morire consunta dalla fatica e dalla tisi.57 Del resto lasua vicenda appare convenzionale al confronto di quella, reale, della servetta undicen-ne assunta «per carità» (e quindi senza retribuzione, ma solo in cambio di vitto e allog-gio) che nel 1918 fuggì dopo tre anni di servizio e chiese rifugio, gravemente denutri-ta e ferita per i colpi di frustino ricevuti come castigo, all’Asilo Mariuccia di Milano.58

Quanto alla condizione salariale, l’inchiesta condotta da Nina Rignano Sullam nel1913 stabiliva che le «domestiche abili» potevano percepire dalle 20 alle 35 lire men-sili mentre le «ragazze di primo servizio» dalle 8 alle 15 lire:59 indubbiamente una«paga da miseria», pur se talvolta integrata dall’assegnazione di vitto, alloggio, indu-menti e se inserita in un panorama generalizzato di basse retribuzioni.

Allo sfruttamento brutale, si aggiungevano la possibilità di subire perquisizionidegli effetti personali, licenziamenti senza preavviso per sospetti non provati, umilia-zioni e rimproveri gratuiti, imposizioni di regole maniacali, nonché l’obbligo di vestirein modo anonimo e disadorno.

La lunga abitudine – veniva scritto in una inchiesta – ci ha fatto dimenticare che sono essericome noi e purtroppo fino dall’infanzia li consideriamo come persone inferiori e però licomandiamo con troppa autorità, spesso con maniere sprezzanti.60

Ciononostante, anche perdere un lavoro così negativamente caratterizzato potevaspingere alla disperazione e portare a decisioni estreme, come nel caso di Cesira Lelli,«servente presso il signor Zamboni in via Barberia» che, essendo stata licenziata, tenta-va il suicidio gettandosi dalla finestra.61 Le relazioni giornaliere stilate dagli ufficiali diPubblica Sicurezza di Bologna registravano, in quegli anni, un’elevata percentuale disuicidi tra le domestiche, così come una lunga serie di violenze sessuali perpetrate a lorodanno, ulteriori indici della loro particolare vulnerabilità. Un esempio su tutti: a Camu-gnano il possidente Antonio Elmi «non potè mandare ad effetto il suo intento» perchéElena Palmieri, domestica tredicenne, «avendo opposto resistenza» riusciva «a liberarsi

55 Nel Codice civile del nuovo Stato italiano i padroni erano responsabili «pei danni cagionati dailoro domestici e commessi nell’esercizio delle incombenze alle quali li [avevano] destinati» (art.1153). Coerentemente con questo principio, il padrone poteva usare mezzi di correzione o di discipli-na nei loro confronti. Tali norme assimilavano i domestici ai minori. Cfr. RAFFAELLA SARTI, Quali dirit-ti per la donna? Servizio domestico e identità di genere dalla Rivoluzione francese a oggi, s.i.p., Bolo-gna, 2000, p. 12.

56 N. RIGNANO SULLAM, Le addette ai lavori domestici cit., p. 3.57 GEROLAMO ROVETTA, Tiranni minimi, in Novelle, Milano, Fratelli Treves, 1898, p. 194 e p. 209,

citato in F. REGGIANI, Un problema tecnico e un problema morale cit., p. 156-157.58 ANNARITA BUTTAFUOCO, Le Mariuccine. Storia di una istituzione femminile laica: l’asilo

Mariuccia, Milano, Angeli, 1988, pp. 134-135. L’ente fu fondato da Ersilia Majno per l’educazionedelle ragazze povere e abbandonate.

59 N. RIGNANO SULLAM, Le addette ai lavori domestici cit., p. 11.60 C. GIUSTI PESCI, Proposta per la classe delle domestiche cit., p. 4.61 Rapporto di Pubblica Sicurezza, Bologna, 26.2.1899, in ASBo, Gabinetto di Prefettura, serie

983, 1899, «Relazioni giornaliere di Pubblica Sicurezza».

Page 40: 70 - online.ibc.regione.emilia-romagna.itonline.ibc.regione.emilia-romagna.it/I/libri/pdf/ERBA_70.pdf · Le donne organizzate: fasci femminili e sezioni operaie e lavoranti a domicilio

20 Dall’Unità d’Italia alla prima guerra mondiale

e a fuggire», sottraendosi al tentativo di stupro.62 Giovani, separate dalla famiglia d’ori-gine, e quindi senza reti di protezione, le domestiche pare fossero esposte, più di ognialtro gruppo occupazionale, alle insidie e alle lusinghe dei padroni con cui il loro lavo-ro le poneva in contatto diretto e quotidiano: «Per la moralità ogni sorta di pericoli; leinsidie dei padroni, talvolta le imprudenze delle padrone, quando per esempio la madredice al figliolo “fa un po’ di corte alla cameriera così ci servirà meglio”. L’esempio èpreso dal vero – scriveva Clementina Giusti Pesci – e molti più gravi ne potrei citare».63

Il nuovo Stato unitario, nonostante l’urgenza di risolvere tale situazione, non sioccupò di regolare questa occupazione: le domestiche furono a lungo escluse da lar-ghissima parte delle leggi relative alla regolamentazione del lavoro o alla tutela dellelavoratrici introdotte in Italia. Non vennero infatti comprese in quelle sul lavoro dei fan-ciulli e delle donne, sulla tutela della maternità, sulla limitazione dell’orario di lavoro,ecc.64 Il lavoro domestico rimaneva abbandonato quasi del tutto all’arbitrio dei singoli.

Ciò portava le donne dell’associazionismo femminile a prendere posizione e adichiarare quanto fosse necessario promuovere il miglioramento delle «condizionimorali e materiali di questa classe di lavoratori», considerare le domestiche come«lavoratrici a contratto con obblighi di pari grado per ambo le parti» e, soprattutto prov-vedere a istituire «la pensione per la vecchiaia e la invalidità».65 Auspicavano, infine, lacostituzione di «organizzazioni di lavoratrici domestiche che, partendosi dalla formainiziale della Mutualità, sviluppino nella classe lo spirito di previdenza e solidarietà, ilsentimento della dignità umana, il desiderio di elevazione e di progresso, premendo eagitandosi per il conseguimento delle riforme sopra indicate».66

Nonostante gli obiettivi di riforma delle associazioni femminili, le serve rimaseroper lungo tempo le lavoratrici con minori diritti e con minori possibilità di sperimenta-re una vita indipendente.

Le lavoranti a domicilio

Nel periodo preso in considerazione una miriade di cucitrici, ricamatrici, merlettaie,trecciaiole, tessitrici, sarte, modiste, infilatrici di perle o di coroncine di rosario lavorava-no a domicilio, fuori dagli opifici, ma comunque alle dipendenze e sotto la direzione degliimprenditori. Una attività subordinata che non era, dunque, scomparsa con l’affermarsidel sistema di fabbrica, ma che prima aveva convissuto con esso, poi ne era divenuto unelemento strettamente complementare,67 venendo a prefigurarsi come una «forma produt-

62 Relazione giornaliera dei reati ed avvenimenti, Bologna, 20.2.1889, in ASBo, Gabinetto di Pre-fettura, serie 709, 1889, «Relazioni di Pubblica Sicurezza».

63 C. GIUSTI PESCI, Proposta per la classe delle domestiche cit., p. 5.64 Solo nel 1923 beneficiarono di quelli sull’assicurazione obbligatoria contro l’invalidità e la vec-

chiaia.65 C. GIUSTI PESCI, Proposta per la classe delle domestiche cit., p. 4 e p. 6.66 N. RIGNANO SULLAM, Le addette ai lavori domestici cit., p. 21.67 Coma ha scritto Stefano Merli nel suo imprescindibile studio sulle origini del capitalismo indu-

striale italiano «da una prima fase artigianale e manifatturiera in cui il telaio era sparso nella campa-gna presso il singolo tessitore proprietario del suo strumento di lavoro oppure riunito in piccole fab-briche dirette da un capo operaio, padrone dei suoi telai, che lavoravano per conto di un imprenditore,si era passati a un sistema di fabbrica vero e proprio nel quale il telaio casalingo sussisteva, anzi eraincrementato come appendice della fabbrica, specie per certe lavorazioni come i tessuti di cotone [...]e per certe seterie». S. MERLI, Proletariato di fabbrica e capitalismo industriale. Il caso italiano 1880-1900, Firenze, La Nuova Italia, 1972, p. 60.

Page 41: 70 - online.ibc.regione.emilia-romagna.itonline.ibc.regione.emilia-romagna.it/I/libri/pdf/ERBA_70.pdf · Le donne organizzate: fasci femminili e sezioni operaie e lavoranti a domicilio

Tra due secoli 21

Ricamatrici a Cavriago, 1919, Fototeca della Biblioteca Panizzi, Reggio Emilia

Page 42: 70 - online.ibc.regione.emilia-romagna.itonline.ibc.regione.emilia-romagna.it/I/libri/pdf/ERBA_70.pdf · Le donne organizzate: fasci femminili e sezioni operaie e lavoranti a domicilio

22 Dall’Unità d’Italia alla prima guerra mondiale

tiva apparentemente arretrata che in qualche misura incarna il “sogno” descritto da alcu-ni teorici del “capitale”: accumulazione e profitto senza operai, con forza-lavoro atomiz-zata e dispersa nell’indistinto del ciclo frazionato. La dipendenza è travestita in formale“autonomia”. Lo sfruttamento “aggiuntivo” si converte in autosfruttamento. La produzio-ne si realizza attraverso l’apparente dissolversi del rapporto di produzione».68

Ebbene, questo tipo di lavoro era praticato, in massima parte, dalle donne: nel censi-mento del 1901 su 117.642 lavoranti a domicilio 69.722 erano donne, concentrate in mas-sima parte in Lombardia, Piemonte ed Emilia; un dato che rimase costante nel corso delNovecento, proprio perché, svolto in casa, poteva conciliarsi con le mansioni domestiche.

Le lavoranti a domicilio producevano, in genere, semilavorati destinati all’industriatessile e a quella dell’abbigliamento:69 erano soprattutto questi i settori che prosperava-no sullo sfruttamento del loro lavoro, «così faticoso, così miseramente retribuito, cosìintenso e dannoso alla salute».70

Le migliaia di donne impegnate a domicilio, in quell’avvio di secolo, costituivanoun mondo sommerso, invisibile, clandestino. «Silenziose e rassegnate» venivano, infat-ti, definite le merlettaie della Riviera ligure, zone in cui «tutte le donne dai cinque annialla decrepitezza lavorano le belle trine» un lavoro che le costringeva a stare «per lun-ghe ore col busto curvo in avanti sul tombolo appoggiato ai cavalletti», tutte ugualmen-te con un’espressione sul viso «stanca e sofferente», come documentava l’articolista de«La donna socialista», rivista femminile che andava affrontando il tema rimasto a lungoinesplorato. Alcune lavoravano su commissione di negozi e magazzini, altre per priva-ti. Tutte con una prospettiva di guadagno irrisoria.

Dopo molte domande e molti confronti ho potuto calcolare che il lavoro delle merlettaie èvalutato dai sei ai nove centesimi all’ora, oscillazione dovuta alla maggiore o minor capacitàdell’operaia ed all’età sua. […]. «Potrò guadagnare 35 centesimi lavorando cinque o sei ore»mi diceva una sposina. E una giovane baldanzosa: «Io guadagno 60 o 70 centesimi per 9 o 10ore, ma se lavorassi tutto il giorno [in corsivo nel testo] potrei prendere una lira». Di quanteore avrebbe dovuto essere la giornata di quell’infelice, già macilenta e anemica?71

Vari, miseri, incerti: la realtà di questi salari dimostra che si trattava di un settore dovelo sfruttamento poteva essere ignobile e meschino. Gli esempi si possono moltiplicare,ma anche cambiando area geografica e campo lavorativo il quadro non muta: paghe inac-cettabili per orari di lavoro impossibili, ancora e sempre sfruttamento. Il salario delle trec-ciaiole toscane, negli anni di fine Ottocento, era di 10-13 centesimi per un cappello per ilquale occorrevano due giorni di lavoro; le cucitrici della capitale, sempre nello stessoperiodo, ‘sgobbando’ dalle sette di mattina alle otto di sera, guadagnavano 3,60 lire allasettimana (e a loro carico spesso erano le matasse di cotone, gli aghi e il consumo dellamacchina da cucire, spesso fornita dalla ditta che ne tratteneva il costo dalle retribuzio-

68 Il lavoro a domicilio ha accompagnato l’intera storia del capitalismo industriale come modo diproduzione la cui essenziale caratteristica era quella di trasferire all’esterno dell’impresa i rischi con-nessi alla sua gestione. LUIGI MARIUCCI, Il lavoro decentrato. Discipline legislative e contrattuali,Milano, Angeli, 1979, p. 22.

69 Erano soprattutto le industrie cotoniera, serica, laniera a incrementare il lavoro a domicilio fem-minile. Ne fa fede l’aumento del numero dei telai domestici riportato in quegli anni nelle statisticheindustriali. Cfr. FIORENZA TAROZZI, Lavoratori e lavoratrici a domicilio, in Operai, a cura di S. Musso,Torino, Rosenberg & Sellier, 2006, pp. 109-161: 111-113.

70 Le merlettaie, «La donna socialista», 24 febbraio 1906.71 Ibidem.

Page 43: 70 - online.ibc.regione.emilia-romagna.itonline.ibc.regione.emilia-romagna.it/I/libri/pdf/ERBA_70.pdf · Le donne organizzate: fasci femminili e sezioni operaie e lavoranti a domicilio

Tra due secoli 23

ni); mentre nel 1900 le tessitrici a domicilio milanesi arrivavano con fatica a ricevere una-due lire al giorno, per un numero imprecisato di ore di lavoro massacrante.72

In assenza di riconoscimenti contrattuali e di norme legislative a tutela, le lavoran-ti a domicilio si trovavano poi a svolgere la propria attività in ambienti angusti e spes-so sovraffollati, dove si accumulavano, indifferentemente, scatole, merce in lavorazio-ne e persone:

[...] in una inchiesta privata a Bologna (1907) per l’allargamento di via Clavature, ho visto, inuna stanza di 14 mq. di superficie, ben sette lavoratrici, accaparrate da una sottoimprenditricedella industria domestica. E gli esempi possono moltiplicarsi all’infinito, […] delle perenniviolazioni che, alle leggi fisiologiche, e anche a quelle scritte, porta il lavoro a domicilio.73

Tale situazione derivava anche dall’impossibilità per queste donne di riconoscersicome gruppo omogeneo. Più disarmate e maggiormente ricattabili dai padroni – perchédonne, perché isolate a lavorare nelle proprie abitazioni, perché spesso disperse nellecampagne – le lavoranti a domicilio con molta difficoltà riuscivano a dare vita a Societàdi mutuo soccorso o a Leghe di resistenza che avrebbero loro permesso di mettere inatto forme di pressione collettiva, cercando così di migliorare le proprie condizioni di

72 Cfr. F. TAROZZI, Lavoratori e lavoratrici a domicilio cit., pp. 119-120. 73 ERNESTO BERTARELLI, La lotta contro il «lavoro in casa», «Critica sociale», XIX, 5-6, 1-16

marzo 1909, pp. 80-81, citato in Ivi, p. 124.

GIUSEPPE GRAZIOSI, Donna al telaio nei dintorni delle campagne modenesi, ca. 1910,Museo Civico d’Arte, Modena

Page 44: 70 - online.ibc.regione.emilia-romagna.itonline.ibc.regione.emilia-romagna.it/I/libri/pdf/ERBA_70.pdf · Le donne organizzate: fasci femminili e sezioni operaie e lavoranti a domicilio

24 Dall’Unità d’Italia alla prima guerra mondiale

lavoro. Sole, senza il momento dell’organizzazione, non potevano che continuare asubire passivamente, chiudendosi in una disperata difesa dei loro minimi livelli di vita.

In questo contesto difficile e complesso, tuttavia, cominciarono a emergere forme orga-nizzative di settore su sollecitazione di esponenti, uomini e donne, del Partito socialista.

A Carpi, ad esempio, a fine Ottocento cominciarono a formarsi le Leghe delle trec-ciaiole che ben presto si convertirono in vere e proprie cooperative, la trasformazione

[...] partì dai centri di produzione della bassa reggiana e arrivò alla costituzione di Federazio-ni e Consorzi interprovinciali e poi alla Federazione nazionale [dei lavoratori del truciolo] chesi proponeva di incentivare l’associazionismo fra gli addetti alla produzione della treccia,affinché l’autogestione operaia potesse sempre più contare nel consolidare l’industria del tru-ciolo, qualificandone ed estendendone la produzione a vantaggio dei lavoratori associati.74

Nell’area della ‘bassa’ emiliana che gravitava intorno a Carpi e interessava le pro-vince di Modena e Reggio Emilia, in effetti, la lavorazione del truciolo – sia sotto formadi trecce, sia in forma più limitata di cappelli – costituiva l’attività manifatturiera pre-valente. Risalente al XVI secolo, l’utilizzazione del legno di salice75 aveva dato vita auna intensa attività a domicilio in cui erano impegnati per circa sei mesi all’anno, incoincidenza della pausa nei lavori agricoli, migliaia di lavoratrici.

Nel febbraio del 1905 si tenne il primo congresso interprovinciale delle organizza-zioni delle trecciaiole in cui temi centrali del dibattito furono la necessità di aumentiretributivi e l’urgenza di disciplinare il lavoro a domicilio; questione, quella della tute-la, che fu ripresa e ripresentata nel corso degli anni successivi, ad esempio nell’agostodel 1910 al primo congresso nazionale dei lavoratori del truciolo a Carpi e, ancora, nel-l’agosto del 1912 al terzo congresso nazionale tenutosi a Reggio Emilia.

Però, il disinteresse da parte dello Stato prevalse anche nel primo dopoguerra, nellaconvinzione secondo cui il lavoro a domicilio era una forma arcaica e transitoria diimpegno lavorativo, e l’Italia continuò ad essere uno dei pochi paesi europei privo diuna legislazione specifica che mettesse ordine in una realtà, invece, largamente rappre-sentativa del mercato del lavoro. Le lavoranti a domicilio quindi rimasero prive di leggidi tutela (infortuni, malattie) e previdenziali (invalidità, vecchiaia).

Le lavoratrici dell’ago

Nella società di fine Ottocento–primi Novecento, il lavoro di sarta presentava carat-teristiche compatibili con modelli pensati per le donne, soprattutto quelle dei ceti ope-rai; compatibilità dimostrata anche dal fatto che le scuole professionali femminili pre-paravano le giovani proprio a mestieri che avessero queste caratteristiche, primi fra tuttiil cucito e il ricamo.76

74 L’arte del truciolo a Carpi, Carpi, [s.n.], 1979, p. 20.75 Dal legno di salice o di pioppo, opportunamente coltivati, venivano tratte delle sottili paglie (tru-

cioli) – uniformi per spessore, larghezza e lunghezza – che venivano poi intrecciate a formare unalunga fettuccia (trecce), utilizzata da donne esperte per confezionare cappelli di paglia.

76 A titolo di esempio, quando nel 1895 venne aperta la scuola professionale «Regina Margherita»di Bologna le ottantacinque allieve vennero «suddivise nei laboratori di taglio e confezione biancheria,sartoria da donna e bambino, modisteria, ricamo in bianco e a colori, maglieria, fiori artificiali, stira-tura, cucina, decorazione delle ceramiche». Donne scuola lavoro. Dalla scuola professionale «ReginaMargherita» agli istituti «Elisabetta Sirani» di Bologna (1895-1995), a cura di Brunella Dalla Casa,Imola, Galeati, 1996, p. 34.

Page 45: 70 - online.ibc.regione.emilia-romagna.itonline.ibc.regione.emilia-romagna.it/I/libri/pdf/ERBA_70.pdf · Le donne organizzate: fasci femminili e sezioni operaie e lavoranti a domicilio

Tra due secoli 25

La sua stessa flessibilità era funzionale al modo in cui la forza lavoro femminile sipresentava sul mercato del lavoro. Infatti, le competenze scolastiche acquisite poteva-no essere messe a frutto in vario modo: potevano essere utilizzate dalle donne nelle sar-torie o nelle industrie dell’abbigliamento, ma anche costituire la base di una piccolaattività artigianale che aveva nell’abitazione il suo luogo di realizzazione o, infine,essere utilizzate per far quadrare il bilancio, in certi momenti di crisi, con il ricorso allavoro a domicilio, una risorsa che poteva dare alla famiglia una capacità di sopravvi-venza altrimenti più incerta.

Il mestiere subì, dunque, un forte processo di femminilizzazione per diversi motivi:l’estendersi del consumo di abiti confezionati, che portava alla trasformazione dellesarte in vere e proprie operaie, una maggior domanda di abiti femminili e biancheria,oltre all’assunzione delle donne in ruoli secondari nelle sartorie per uomini.77 Tuttaviatale processo fu tutt’altro che omogeneo e riguardò, innanzitutto, le regioni centro-set-tentrionali e i grandi centri urbani. Nel censimento del 1881 le donne erano assoluta-mente preponderanti nel nord – con punte massime in Lombardia, Piemonte e Liguria– e nel centro del paese. Il settore di taglio e confezione di biancheria, che ne coinvol-geva più di 170.000 (circa un terzo delle quali concentrato in Lombardia) era quasicompletamente femminilizzato.78 Quarant’anni dopo, nel 1911, la percentuale di sarterispetto alla popolazione era aumentata in modo ancor più considerevole.79

Secondo i dati del primo censimento degli opifici e stabilimenti industriali del 1911in Emilia-Romagna erano concentrate l’8% delle 513 sartorie con più di dieci addetti eil 12% delle 166 imprese di taglio e cucitura di biancheria.80 Qui, ad esempio, operava-no cinque ditte produttrici di busti da donna: quattro si trovavano in provincia di Parmae occupavano 475 operaie, mentre a Bologna la ditta Pancaldi ne utilizzava oltre 90.81

Sempre nella nostra città operava l’Aemilia Ars, l’impresa per la produzione di mer-letti e ricami a punto antico sorta per iniziativa di Lina Bianconcini Cavazza82 a fine

77 Nel corso degli ultimi decenni dell’Ottocento e dei primi del Novecento si assistette in Italia allosviluppo del settore dell’abbigliamento, sviluppo legato a importanti mutamenti sia nella domanda sianell’organizzazione della produzione e quindi del lavoro. Fanno parte del primo aspetto l’aumento delconsumo di abiti confezionati e anche lo sviluppo di due nuovi tipi di mercato riguardanti l’alta modae la biancheria. Un impulso alla riorganizzazione del lavoro venne invece dalla tecnologia. L’invenzio-ne e poi, nella seconda metà del secolo, la diffusione della macchina per cucire, aumentò la produtti-vità e la regolarità del lavoro consentendo di ridurre i costi e favorendo la produzione di abiti confe-zionati. La storia di questa macchina e la sua grande diffusione nel corso del Novecento è legata adaspetti importanti del lavoro femminile. Basti pensare che essa entrò rapidamente non solo nelle sar-torie, ma anche nelle case (nella sua diffusione fu sperimentata per la prima volta la vendita a rate) enelle scuole femminili (le professionali, talvolta anche le Normali dove venivano formate le maestre epersino, in casi molto più rari, anche le elementari). Cfr. M. PALAZZI, Donne sole. Storia dell’altra fac-cia dell’Italia tra antico regime e società contemporanea, Milano, Bruno Mondadori, 1997, p. 149.

78 Ivi, p. 152.79 La presenza femminile era largamente preponderante fra le salariate, minoritaria fra i proprietari e i

direttori. Questo settore però si dimostrava essere il comparto in cui cominciavano a diffondersi forme dipiccola imprenditoria femminile, derivate da iniziative autonome. Cfr. M. PALAZZI, Donne sole cit., p.155.

80 MINISTERO DI AGRICOLTURA, INDUSTRIA E COMMERCIO, Censimento degli opifici e delle imprese indu-striali al 10 giugno 1911, vol. III, Roma, [s.n.], 1914, citato in M. PALAZZI, Donne sole cit., pp. 154-155.

81 M. PALAZZI, L’industria emiliana alle soglie del XX secolo, in Studi in memoria di Luigi DalPane, Bologna, Clueb, 1982, pp. 893-949: 934.

82 Lina Bianconcini Cavazza (1861-1942), moglie del conte Francesco, non fu solo imprenditricedi successo ma anche promotrice di iniziative di carattere sociale, culturale e politico. Nel 1915, adesempio, istituì l’Ufficio notizie alle famiglie dei militari. Cfr., a tale proposito, il paragrafo Mobilitar-si in tempo di guerra.

Page 46: 70 - online.ibc.regione.emilia-romagna.itonline.ibc.regione.emilia-romagna.it/I/libri/pdf/ERBA_70.pdf · Le donne organizzate: fasci femminili e sezioni operaie e lavoranti a domicilio

26 Dall’Unità d’Italia alla prima guerra mondiale

Ottocento.83 Il progetto perseguito dalla contessa tendeva al recupero di antichi esem-plari di trine (a cui si affiancavano disegni originali più innovativi, spesso basati suschizzi di Alfonso Rubbiani), attraverso cui fondare un miglioramento del gusto ed unrilancio dell’artigianato di qualità. Venne così avviata una raffinata produzione caratte-rizzata da un virtuosismo tecnico pari se non superiore alla qualità degli originarimanufatti cui si ispirava. L’impresa aveva anche precise finalità filantropiche: si avva-leva, infatti, del lavoro prezioso di donne della città e della provincia bisognose di svol-gere un’attività remunerata, come rilevato dalla stessa Bianconcini Cavazza nel 1903:«[L’Aemilia Ars è] una istituzione che porta sollievo a molte miserie nascoste, che per-mette a tante madri di non trascurare i loro doveri allontanandosi di casa per lavoro, atante figlie di venire in aiuto di genitori vecchi e malati, a tante ragazze di utilizzare condecoro e profitto le ore libere della loro giornata».84

L’azienda presentava poi aspetti peculiari – di tipo imprenditoriale, sociale e politi-co – che valgono a spiegare il suo successo durato fino al 1936. Di particolare origina-lità furono i risvolti connessi alla commercializzazione – sviluppata sui mercati euro-pei e statunitensi grazie alla personalizzazione del prodotto, la creazione di una reteflessibile di vendita, la presenza alle grandi esposizioni internazionali come quella diTorino del 1902 – ed all’organizzazione del lavoro femminile. La trasparenza nelladefinizione del rapporto costi/prezzi, la scelta di alcune lavoratrici per definire tale rap-porto, la partecipazione delle lavoratrici agli utili nella percentuale del 35%, la forma-zione gratuita di una forza lavoro composta soprattutto di donne povere, furono tra glielementi caratterizzanti di questa innovativa impresa al femminile.

L’industria dell’abbigliamento era, dunque, una combinazione di manifattura elavoro a domicilio. Coesistevano, infatti, piccoli laboratori semiartigianali che assu-mevano il lavoro da una o più ditte e utilizzavano aiutanti o apprendiste, la realtà piùdiffusa, e ditte di dimensioni medie, i cui addetti superavano le cento unità che, oltread avvalersi largamente di lavoranti a domicilio, generalmente producevano abiti con-fezionati a basso costo.

I laboratori e le realtà produttive di dimensione artigianali, dove ancora si cuciva-no abiti su misura, si dividevano in atelier per signora e in sartorie per uomo. Nei

83 Nel 1898 a Bologna venne fondata, per iniziativa di nobili, imprenditori e artisti, l’Aemilia Ars,impresa che aveva lo scopo di promuovere le industrie artigianali emiliane e dar vita ad un rinnovamentonelle arti decorative, applicate agli oggetti di uso quotidiano. Al suo interno, un particolare rilievo venneassunto proprio dalla produzione di merletti e ricami a punto antico. L’impresa, attraverso i suoi artisti (ilprincipale artefice Alfonso Rubbiani, ma anche Achille Casanova, Giuseppe De Col, Edoardo Collamari-ni, Augusto Sezanne, Alfredo Tartarini), forniva modelli e nuovi disegni alle varie industrie e ai laboratoriartigiani della regione che si sarebbero occupati della realizzazione. L’attività copriva tutti i settori delle artiapplicate: dai mobili alla ceramica, dai vetri ai ferri battuti, dalle rilegature in cuoio ai gioielli, al ricamo,non trascurando gli interventi decorativi su edifici pubblici e privati. Il successo e la notorietà dell’Aemi-lia Ars sul mercato nazionale ed estero furono sanciti dalla sua partecipazione a diverse esposizioni inter-nazionali (Torino 1902, Liegi 1905, Milano 1906, Bruxelles 1910) e dai numerosi riconoscimenti e premiconseguiti. Pur ottenendo una significativa affermazione e pur avendo sviluppato l’aspetto commercialedella produzione con l’apertura di un negozio-galleria in via Ugo Bassi a Bologna, la società stabilì, nel1903, di chiudere per mancanza di fondi. Venne deciso comunque di mantenere in attività la manifatturadi merletti e ricami a punto antico. Cfr. Aemilia Ars 1898-1903. Arts & Crafts a Bologna, a cura di CarlaBernardini, Doretta Davanzo Poli, Orsola Ghetti Baldi, Milano, A+G edizioni, 2001.

84 LINA BIANCONCINI CAVAZZA, Note relative allo scopo e alla economia dell’azienda, in AemiliaArs, azienda merletti e ricami a punto antico, Bologna, 1903, citato in VITTORIO CAPECCHI, ADELE

PESCE, L’Aemilia Ars “merletti e ricami”: storia di un’impresa tutta femminile, in Aemilia Ars 1898-1903. Arts & Crafts a Bologna cit., pp. 127-153: 142.

Page 47: 70 - online.ibc.regione.emilia-romagna.itonline.ibc.regione.emilia-romagna.it/I/libri/pdf/ERBA_70.pdf · Le donne organizzate: fasci femminili e sezioni operaie e lavoranti a domicilio

Tra due secoli 27

primi lavoravano solo donne,mentre nei secondi si potevanotrovare sarti e sarte.

A Bologna una delle attività disartoria più rinomate fu avviata daGiovanni Maria Policardi nel186085 e poi continuata dal figlioLorenzo: sotto la sua direzione, lasartoria si occupò esclusivamentedi alta moda. Alcune fotografiescattate negli anni Venti dal foto-grafo Villani documentano le stan-ze dell’atelier di piazza Minghetti.I locali erano stati sontuosamentearredati nella parte destinata allapresentazione dei capi di abbiglia-mento, ai salottini di prova, ai luo-ghi di ricevimento della clientela,costituita prevalentemente dall’ari-stocrazia locale e nazionale.86 Agliinizi del Novecento erano presentiin città anche la sartoria di VirginiaMoretti, aperta nel 1907 in viaCastiglione con una ventina didipendenti, e quella delle sorelleLiverani (Luisa, Adele e Maria),creata nel primo dopoguerra, cheproseguiva il lavoro di un celebreatelier, fondato nel 1862 da Cle-mentina Moschini, occupandone anche la sede storica di via Val d’Aposa.87

Queste sartorie per signora, chiamate anche scuole, erano ambienti prevalentemen-te femminili dove lavoravano ‘sartine’ e ‘maestre’: le une sottoposte alle altre in unastruttura rigidamente gerarchica basata sulla lenta acquisizione dei segreti del mestie-re, anche se alla maggior parte delle operaie era negato il momento più creativo dell’i-deazione e del taglio. La maestra organizzava e distribuiva il lavoro, insegnava ilmestiere alle apprendiste e manteneva la disciplina. Spesso infliggeva multe ingiuste,assegnava incarichi eccessivi e pretendeva ore supplementari (durante gli scioperi nonera raro che le sarte richiedessero di limitarne l’autorità).88

Le paghe delle sarte da donna erano inferiori sia a quelle dei colleghi maschi siaa quelle delle sarte che confezionavano abiti da uomo. A fine Ottocento, i salarimedi giornalieri oscillavano da 75 centesimi a 1,25 lire, ma alle più giovani spetta-va un compenso compreso tra i 40 centesimi e le due lire. A mansioni particolari

85 Artisti del quotidiano, sarti e sartorie storiche in Emilia-Romagna, a cura di Elisa Tosi Brandi,Bologna, Clueb, 2009, p. 91.

86 Ivi, pp. 180-181.87 Ivi, p. 183.88 Cfr. FIORELLA IMPRENTI, Operaie e socialismo. Milano, le leghe femminili, la Camera del lavo-

ro (1891-1918), Milano, Angeli, 2007, p. 147.

Una sarta e la sua ‘piccinina’, 1880 ca. Civicaraccolta Stampe Achille Bertarelli, Milano

Page 48: 70 - online.ibc.regione.emilia-romagna.itonline.ibc.regione.emilia-romagna.it/I/libri/pdf/ERBA_70.pdf · Le donne organizzate: fasci femminili e sezioni operaie e lavoranti a domicilio

28 Dall’Unità d’Italia alla prima guerra mondiale

equivalevano retribuzioni più elevate: le sarte che utilizzavano le macchine da cuci-re guadagnavano circa tre lire a giornata, mentre le maestre e le capo-reparto pote-vano arrivare a sette lire.89

Ai bassi salari corrispondevano giornate di lavoro intensissime. Gli orari andava-no dalle 12 alle 16 ore al giorno, con significative oscillazioni in base alle esigenze diproduzione:

Dolorosa è la vita che conducono nelle città migliaia e migliaia di ragazze del popolo: sarte emodiste. Esse cominciano la vita del laboratorio a 9 o 10 anni, con un orario che dalle otto delmattino (inverno) e dalle sette (estate) le tiene sedute fino alle 21 certe sere e al venerdì e alsabato fino alle 23 e alle 24, con una breve mezz’ora di riposo verso il mezzodì, per mangia-re un boccone. Questa la regola generale. Vengono poi le eccezioni che si verificano due, trevolte per settimana, in cui per finire la «toilette» alla signora X che deve recarsi al ballo, dellasignora Y che deve recarsi a una conversazione, la padrona prega le operaie di rimanere qual-che ora in più al lavoro, per dare l’ultimo punto, e così si fermano fino alle ore 23 anziché usci-re alle ore 20 come al solito. Tutto questo lavoro extra non rende loro un centesimo in più, poi-ché la mercede dell’operaia sarta […] comprende orari supplementari, giorni festivi e in qual-che laboratorio più barbaro, anche la notte!.90

Non erano contemplate neppure pause per il pranzo, era la maestra che stabiliva, divolta in volta secondo le necessità del lavoro e delle consegne, se e quando mangiare:«appena cacciato giù l’ultimo boccone, che si era dovuto magari nascondere nel candi-

89 Ivi, p. 148.90 Sarte e modiste, «La donna socialista», 17 marzo 1906.

Lo sciopero delle ‘piccinine’ a Milano,«L’Illustrazione italiana», 6 luglio 1902, Istituto storico Parri Emilia-Romagna, Bologna

Lettera della sartoria Policardi allaCamera di Commercio di Bologna, 24gennaio 1919, Archivio di Stato, Bologna

Page 49: 70 - online.ibc.regione.emilia-romagna.itonline.ibc.regione.emilia-romagna.it/I/libri/pdf/ERBA_70.pdf · Le donne organizzate: fasci femminili e sezioni operaie e lavoranti a domicilio

Tra due secoli 29

do grembiale per non sentirsi una strapazzata, giù di nuovo colla testa sul lavoro, senzapoter digerire, col cibo che sta sullo stomaco».91

La moda e il clima concorrevano a determinare periodi di febbrile attività (in gene-re corrispondenti con i mesi estivi e invernali, più il periodo a ridosso del Carnevale) incui per giorni interi le sarte rimanevano in laboratorio anche fino a venti ore di segui-to, alternati a periodi di ozio forzato e di mancato guadagno, non compensato dalleretribuzioni, troppo esigue, dei mesi lavorativi.92

In questo quadro di sfruttamento non sorprende che le indagini promosse dall’U-nione femminile di Milano rilevassero un elevato tasso di morti per tubercolosi fra lesartine, conseguenza della scarsa alimentazione e delle lunghe ore di lavoro passate inambienti sovraffollati, angusti, privi di aria e di luce.93

Erano soprattutto le giovanissime apprendiste, le ‘piccinine’, a patire questa situa-zione lavorativa: ragazzine dai sette ai dodici anni che ufficialmente venivano assunteper imparare il mestiere ma che, in realtà, erano utilizzate per compiere svariate man-sioni che non avevano niente a che fare con l’apprendistato, come ricorda Teresa Nocenel suo Rivoluzionaria professionale: «Non avevo ancora dodici anni che cambiaimestiere. Provai a fare la sarta in un piccolo ma elegante atelier. […]. Qui vi erano trelavoranti e due apprendiste: oltre a me, una quattordicenne che già “sedeva”, cioè nonfaceva solo le corse e le pulizie, ma stava anche qualche ora seduta a cucire».94

Rientravano, dunque, abitualmente nei loro compiti svolgere vari servizi domesti-ci e commissioni, tra cui la consegna degli abiti alle clienti. Lo scatolone usato, par-ticolarmente pesante per esili schiene di bambine, le identificava ed è con questo‘strumento di lavoro’ che compaiono nelle immagini qui riprodotte. La loro paga eraquasi simbolica: 25-35 centesimi per una intensa giornata lavorativa. Furono 500 diloro che nel giugno del 1902 a Milano scesero in sciopero. In tale occasione, tra levarie richieste, fu presentata anche quella di una limitazione del carico dello scatolo-ne «in modo che le bambine fino ai nove anni non portassero un peso superiore aiquattro chili e fino ai dodici anni non superiore ai dieci».95 Lo sciopero si concluseai primi giorni di luglio con la completa vittoria delle ‘piccinine’.96 Fu indubbiamen-te un successo del quale per molto tempo rimase il ricordo: il fatto che delle ragazzi-ne, fino a quel momento disorganizzate, fossero riuscite a condurre una lotta ordina-ta e a imporre le loro richieste ai proprietari divenne quasi un mito, riproposto conti-nuamente nei comizi operai.97

91 Le sartine, «La lotta», 12-13 maggio 1899.92 Appello della Lega di mutuo soccorso e di difesa fra le lavoranti sarte da donna in Milano, 1892,

citato in S. MERLI, Proletariato di fabbrica e capitalismo industriale. Il caso italiano 1880-1900, vol.II, Documenti, cit., pp. 142-144.

93 Cfr. ERSILIA BRONZINI MAJNO, Relazione sul lavoro delle donne, Milano, Tip. milanese, 1900. Larelazione fu presentata al Congresso nazionale di previdenza nel giugno del 1900. Cfr. Dizionario bio-grafico delle donne lombarde, a cura di Rachele Farina, Milano, Baldini & Castoldi, 1995, pp. 223-227.

94 TERESA NOCE, Rivoluzionaria professionale, Milano, La Pietra, 1974, p. 14.95 SOCIETÀ UMANITARIA, UFFICIO DEL LAVORO, Origini, vicende e conquiste delle organizzazioni

operaie aderenti alla Camera del Lavoro in Milano, Milano, Tip. milanese, 1909, pp. 300-301, citatoin S. ORTAGGI CAMMAROSANO, Condizione femminile e industrializzazione tra Otto e Novecento cit.,pp. 109-172: 150.

96 Le ‘piccinine’ ottennero un minimo di paga di 50 centesimi, dieci ore di lavoro ed un’ora di inter-vallo per il pranzo, la retribuzione del lavoro domenicale e la riduzione del peso dello scatolone. Cfr.F. IMPRENTI, Operaie e socialismo cit., p. 181.

97 Ivi, p. 182.

Page 50: 70 - online.ibc.regione.emilia-romagna.itonline.ibc.regione.emilia-romagna.it/I/libri/pdf/ERBA_70.pdf · Le donne organizzate: fasci femminili e sezioni operaie e lavoranti a domicilio

30 Dall’Unità d’Italia alla prima guerra mondiale

In quegli anni, però, le sarte avevano ormai compreso la necessità di organizzarsi eil vantaggio dell’associarsi: a Bologna nel 1910 si costituiva la Federazione lavorantisartorie per signora e Albertina Gasperini, sua segretaria, così rievoca lo sciopero cheportò poi alla sua fondazione:

Non posso dimenticare quell’ottobre del 1909 quando organizzai, con l’aiuto di ArgentinaAltobelli, il primo sciopero delle sartine bolognesi che fu totale e che durò 15 giorni. […]. Allafine le nostre proposte furono accolte e i salari aumentarono del 50% e fu anche stabilito chenon si poteva più fare il licenziamento in tronco. L’accordo fu firmato […] per le lavoratrici[da] Argentina Altobelli e per i padroni [da] Policardi e Collina per la sartoria Baroni. L’8marzo 1910, per la festa della donna, inaugurammo la bandiera della Lega delle sartine efacemmo una festa da ballo al teatro Verdi che durò tutta la notte.98

Sempre a Bologna nel marzo del 1919 si riunivano le oltre sessanta organizza-zioni (Leghe di sarte e sarti, modiste, cravattaie, bretellaie, bustaie, ecc.) che costi-tuivano la Federazione nazionale addetti all’industria dell’abbigliamento e vestia-rio.99 I numerosi scioperi delle sarte che si susseguirono in quegli anni nelle mag-giori città italiane rimangono a testimonianza della loro combattività, della loro cari-ca rivendicativa.

Le operaie

Al compimento del processo di unificazione nazionale si realizzava anche in Italiauna trasformazione produttiva che portava in pochi decenni il paese nel novero deglistati industrializzati. Nelle regioni settentrionali il lavoro a domicilio veniva sostituitodalla grande produzione in serie: la fabbrica attirava allora fuori dalle mura domesti-che, e spesso anche lontano dai paesi di origine, migliaia di donne.

Nell’inchiesta voluta dal Ministero di Agricoltura, Industria e Commercio sullostato degli opifici italiani nel 1880 veniva, infatti, rilevato «un fatto notabile: vale a direla grande prevalenza che ha nell’industria italiana il lavoro delle donne e dei fanciulli.Sopra 382.131 operai, solo 103.562 cioè il 27,10% sono uomini adulti; 188.486(49,32%) sono donne; 90.083 (23,58%) sono fanciulli dell’uno e dell’altro sesso»,intendendo per fanciulli i ragazzi di meno di 14 anni.100

A Bologna, secondo quanto riferito da Aristide Ravà nella Relazione della Giun-ta di statistica riguardante il lavoro negli stabilimenti industriali elaborata negli anniSettanta dell’Ottocento, vi erano 118 stabilimenti industriali in cui erano impiegati4.334 operai (1.276 donne e 432 ragazzi di ambo i sessi, di età non inferiore ai 10anni). Di questi, 1.300 risultavano concentrati in due stabilimenti: 925 nella Manifat-tura tabacchi (con la presenza di 720 donne) e 316 nell’Arsenale militare di artiglie-ria (con 119 donne). Le ore di lavoro erano in media di 10-12, con punte di 15 neimolini, nelle cartiere, nei brillatoi, nei panifici. Il salario maschile variava dalle L. 1

98 Testimonianza di Albertina Gasperini, nata a Bologna nel 1887, in LUCIANO BERGONZINI, LUIGI

ARBIZZANI, La Resistenza a Bologna. Testimonianze e documenti, vol. II, La stampa periodica clande-stina, Bologna, Istituto per la storia di Bologna, 1969, pp. 134-135: 134.

99 I. VACCARI, La donna nel ventennio fascista cit., p. 55.100 VITTORIO ELLENA, La statistica di alcune industrie italiane, Roma, Tip. eredi Botta, 1880, pp.

29-31, citato in S. ORTAGGI CAMMAROSANO, Condizione femminile e industrializzazione tra Otto eNovecento cit., pp. 109-172.

Page 51: 70 - online.ibc.regione.emilia-romagna.itonline.ibc.regione.emilia-romagna.it/I/libri/pdf/ERBA_70.pdf · Le donne organizzate: fasci femminili e sezioni operaie e lavoranti a domicilio

Tra due secoli 31

Operaie in posa in uno stabilimento per la lavorazione del truciolo a Carpi, ca. 1910-1913,Fotomuseo Giuseppe Panini, Modena

Sala confezione tortellini della ditta Bertagni di Bologna, «L’Illustrazione italiana», 1909,Istituto storico Parri Emilia-Romagna, Bologna

Page 52: 70 - online.ibc.regione.emilia-romagna.itonline.ibc.regione.emilia-romagna.it/I/libri/pdf/ERBA_70.pdf · Le donne organizzate: fasci femminili e sezioni operaie e lavoranti a domicilio

32 Dall’Unità d’Italia alla prima guerra mondiale

alle L. 3,50 al giorno, quello femminile da 75 centesimi a L. 1,50, quello dei ragazzida 25 a 50 centesimi.101

La manodopera femminile veniva impiegata in gran numero nell’industria mec-canica, chimica ed estrattiva, in settori più tradizionali come l’abbigliamento e l’a-limentare, ma la prevalenza delle donne era assoluta nell’industria tessile. Era unapresenza pressoché esclusiva nella produzione della seta grezza dove l’interventodelle macchine era minimo e il ruolo femminile decisivo perché: «le nostre donnehanno occhio buono e dita agili […] e, poverette, si accontentano di salari i qualieccedono di poco la metà di quelli che si danno in Francia».102 Era poi una presen-za nettamente in aumento nell’industria del cotone, dove invece la tecnologia eraavanzata e i telai meccanici consentivano la diminuzione dello sforzo muscolare,portando gli imprenditori a sostituire gli uomini con le donne per «far risparmio disalari».103

L’organizzazione del lavoro, in questi luoghi, era centrata quasi esclusivamente sul-l’uso incontrollato della manodopera femminile e su infime retribuzioni – generalmen-te inferiori del 50% rispetto a quelli maschili, già bassi – per impieghi che portavano aun rapido deperimento fisico e a malattie professionali «contratte per lavoro troppo pro-lungato in luoghi insalubri».104

In filanda, ad esempio, i bozzoli venivano messi a macerare nell’acqua a 70-75gradi in bacinelle riscaldate direttamente dal vapore. La filatrice prendeva i bozzoliimmergendo le mani nell’acqua bollente, li liberava dalle incrostazioni e, afferrataun’estremità della bava, ne svolgeva il filo e lo avvolgeva sugli aspi dandogli contem-poraneamente un certo numero di torsioni. L’abilità del lavoro consisteva nel dare alfilo la sottigliezza che lo rendesse lucente senza diminuirne la resistenza. Spesso unastessa persona svolgeva tutte queste operazioni, aiutata da una bambina (chiamata‘sbattitrice’) che poteva fare girare la ruota che muoveva gli aspi o afferrare i bozzo-li che erano nell’acqua bollente, individuare l’estremità del filo e porgerlo poi allafilatrice.

Ero alta quattro dita, non arrivavo nemmeno alle macchine – racconta Anna Giorgis, entra-ta in filanda a dodici anni – il mio era il lavoro dla sbatosa [della sbattitrice]. Il primo gior-no, al mattino, ho osservato. Nel pomeriggio toglievo già i cuchet [bozzoli] mi sono bru-ciata le mani nell’acqua bollente. Dopo cinque o sei giorni avevo già le mani pelate […]tutte le mani che sanguinavano. La pelle era a brandelli, le dita e i palmi delle mani bru-ciati […]. Sanguinavano e come le mani... Alla sera quando tornavo a casa non sapevo piùdove tenerle le mani. Al mattino quando mi lavavo nell’acqua fredda, dolori che davano alcuore neh…105

Insieme alle donne, dunque, lavoravano nelle filande moltissime bambine – gene-ralmente tra gli otto e i dieci anni – che condividevano i mali prodotti dal tipo di lavo-

101 MUNICIPIO DI BOLOGNA, Relazione della Giunta di Statistica riguardante il lavoro negli Stabi-limenti industriali considerato sotto il rapporto della salute degli operai, a norma delle richieste con-tenute nella circolare della R. Prefettura di Bologna, in data 16 ottobre 1872, n. 41, Bologna, [1873],in ASBo, Camera di Commercio (1863-1927), «Relazioni fra industriali e operai», fasc. 3/2.

102 Ivi, p. 43.103 Ivi, p. 33.104 RODOLFO MORANDI, Storia della grande industria in Italia, Torino, Einaudi, 1977, p. 124.105 Testimonianza di Anna Giorgis, nata a Peveragno (Cuneo) nel 1916, in NUTO REVELLI, L’anello

forte. La donna: storie di vita contadina, Torino, Einaudi, 1983, p. 140.

Page 53: 70 - online.ibc.regione.emilia-romagna.itonline.ibc.regione.emilia-romagna.it/I/libri/pdf/ERBA_70.pdf · Le donne organizzate: fasci femminili e sezioni operaie e lavoranti a domicilio

Tra due secoli 33

ro e le lunghe giornate di sfruttamento, 14-15 ore a fine Ottocento, scese a 11 a inizioNovecento, però con ritmi produttivi molto più intensi. Questa, comunque, era unasituazione largamente generalizzata poiché tutte le addette all’industria tessile ottene-vano a fronte di «orari estenuanti», «infime mercedi».106

La pratica di servirsi di bambine era estesa anche nei cotonifici dove, dopo un breveapprendistato, venivano messe a lavorare al telaio: «Ma ero piccola, non ci arrivavo –racconta Anna Anselmo – mi mettevo con la pancia sopra al rotolo per passare i fili,facevo una vita!». Per facilitarla nelle manovre le costruirono persino una predella dilegno: «Io salivo e, ah! Ero come un re, diventavo grande come loro… allora lo facevoandare, non era mai fermo il mio telaio».107

Anche nei cotonifici le donne subivano ore di impiego massacranti, spesso senzaalcuna interruzione o con pochissimo tempo per mangiare e riposarsi, alle quali anda-vano aggiunte quelle per il lavoro straordinario, notturno e festivo, «le infinite eccezio-ni e violazioni dovute alle cosiddette ragioni produttive o al capriccio padronale»,108

nonché le ore di marcia a piedi per tornare a casa o per recarsi in fabbrica, l’obbligogeneralizzato alla pulizia dei locali, l’intensificazione dei ritmi produttivi e dei carichidi fatica a seguito della meccanizzazione, per cui spesso le donne erano costrette aseguire il lavoro su due telai.

Nei riguardi delle operaie, poi, il rigore era massimo e gli ordinamenti di fabbricaprevedevano multe, ammonizioni, castighi e licenziamenti in caso di cattivo lavoro,disobbedienza ai superiori, spostamento dalle macchine senza permesso, ritardo diqualche minuto all’entrata, assenza ingiustificata (nella quale era compresa anche l’a-stensione per aver partecipato al funerale di un congiunto o di una compagna di lavo-ro), schiamazzi (era proibito parlare, cantare, genericamente «far rumore»), pause trop-po lunghe anche per i bisogni fisiologici.109 Si trattava di un regime di fabbrica durissi-mo, in cui alla rigidità dei regolamenti si aggiungeva spesso l’arbitrio dei capireparto,che si realizzava in ambienti di lavoro malsani e pericolosi.

Nelle fabbriche dove si lavora il cotone, non esiste, per così dire, ventilazione: porte e fine-stre devono restare ermeticamente chiuse anche durante i grandi calori dell’estate perché laminima corrente d’aria solleverebbe in vortici il minuto e fitto pulviscolo che riempie l’am-biente. Con tutto ciò l’aria ne è satura, esso penetra, deleterio, ad ogni respiro nei polmoni,predestinando una percentuale fortissima di operaie a vittime della tisi, il terribile flagellodel proletariato.110

La situazione igienico-sanitaria era talmente precaria che, in una inchiesta naziona-le del 1877 sulle condizioni degli operai nelle fabbriche, risultavano insalubri non soloi cotonifici ma anche le fabbriche di fiammiferi, le cartiere, le concerie di pelli, gli sta-bilimenti dove si lavorano stracci, le tintorie, le filande, i lanifici, «praticamente quasitutte le industrie presso le quali allora si fece l’inchiesta».111 Né migliori furono i risul-

106 R. MORANDI, Storia della grande industria in Italia cit. p. 122.107 Testimonianza di Anna Anselmo, nata a Montanaro (Torino) nel 1898, in BIANCA GUIDETTI

SERRA, Compagne. Testimonianze di partecipazione politica femminile, vol. I, Torino, Einaudi, 1977,pp. 60-61.

108 S. MERLI, Proletariato di fabbrica e capitalismo industriale cit., p. 200.109 Ivi, pp. 157-158.110 MARGHERITA SARFATTI, Le donne che lavorano. Le operaie cotoniere, «La donna socialista», 23

marzo 1906.111 S. MERLI, Proletariato di fabbrica e capitalismo industriale cit., p. 187.

Page 54: 70 - online.ibc.regione.emilia-romagna.itonline.ibc.regione.emilia-romagna.it/I/libri/pdf/ERBA_70.pdf · Le donne organizzate: fasci femminili e sezioni operaie e lavoranti a domicilio

34 Dall’Unità d’Italia alla prima guerra mondiale

tati relativi ai servizi igienici o ai locali dove si permetteva alle donne di mangiare e diallattare i propri figli (il tempo concesso per l’allattamento nei locali delle fabbriche eradi venti minuti ed esso non era conteggiato tra le ore di lavoro).

Ancora nel 1905 le condizioni non erano sostanzialmente migliorate se «Ladonna socialista», tratteggiando il «danno fisiologico che viene alla razza umanadalle fatiche eccessive a cui è assoggettata la donna che passa la giornata nelle offi-cine e nei laboratori», poteva fare un lungo elenco di malattie professionali – risul-tato di varie inchieste ministeriali compiute in quel periodo a tale proposito – a cuierano pericolosamente soggette le lavoratrici, in particolar modo tubercolosi edeformazione degli arti.112

Negli stabilimenti industriali erano molto frequenti anche gli infortuni; questi si con-centravano soprattutto nelle ore notturne, alla fine del lavoro giornaliero e negli ultimigiorni della settimana, a dimostrazione di come la stanchezza e il logoramento fisico nefossero la causa, alla pari delle macchine che senza alcuna protezione mangiavano «mani,dita e braccia».113 Da questo punto di vista la questione risultava veramente drammatica:tra il 1879 e il 1881, in soli tre anni, 2.091 erano state le morti causate da incidenti. Peral-tro nel corso degli anni Ottanta circa un terzo degli scioperi proclamati mirava al miglio-ramento delle condizioni produttive, poiché l’impiego di nuovi congegni meccanici,l’affollamento, la giovane età delle operaie, i lunghi orari di lavoro rendevano inevitabileil ripetersi di infortuni spesso gravi,114 come quelli accaduti, ad esempio, nel 1895 e anco-ra nel 1900 al laboratorio pirotecnico e all’arsenale, stabilimenti di Bologna,115 o quellosuccesso nel 1906 a Padova «nella fabbrica di retine per incandescenza Aner» dove

[...] verso le 71/2, quando le ragazze addette stavano per abbandonare il lavoro, improvvisamen-te scoppiava una vasca capace di 25 litri di collodio, e ripiena di codesta infiammabilissimamateria. Allo scoppio fragoroso seguì l’incendio. Parecchie ragazze che erano nel laboratoriofurono investite dalle fiamme riportando gravissime ustioni alla faccia, al petto, alle braccia,alle gambe. Cinque di esse vennero ricoverate all’ospedale e tre versano in pietose condizionitanto che si teme per la loro vita.116

Se le macchine avevano trasformato le condizioni di lavoro inserendo migliaia dilavoratrici nel mercato produttivo, esse non avevano inciso altrettanto profondamentesulla qualità della vita delle donne. L’occupazione femminile si configurava comesubalterna e precaria, una dura necessità economica a cui sfuggire appena possibile, disolito dopo il matrimonio o la maternità.

Sul finire del secolo però anche fra le operaie cominciarono ad agitarsi fermentinuovi e sempre più frequenti furono gli episodi di lotte sindacali con al centro le donneche rivendicavano la parità salariale, la tutela della maternità e il miglioramento dellecondizioni di lavoro.

112 Le donne che lavorano. Fatiche e compensi, «La donna socialista», 14 ottobre 1905. Su questitemi cfr. Salute e classi lavoratrici in Italia dall’Unità al fascismo cit.

113 S. MERLI, Proletariato di fabbrica e capitalismo industriale cit., p. 212.114 ADA LONNI, Fatalità o responsabilità? Le «jatture» degli infortuni sul lavoro: la legge del 1898,

in Salute e classi lavoratrici in Italia dall’Unità al fascismo cit., pp. 738-739.115 Relazione di Pubblica Sicurezza, Bologna, 18 maggio 1895, in ASBo, Gabinetto di Prefettura,

serie 911, 1895; Relazione della Questura, Bologna, 21 dicembre1900, in ASBo, Questura, Archiviogenerale, n. 556; Relazione dell’ospedale Maggiore, Bologna, 18 maggio 1900, in ASBo, Questura,Archivio generale, n. 556.

116 Le donne che lavorano. Le vittime di Padova, «La donna socialista», 3 marzo 1906.

Page 55: 70 - online.ibc.regione.emilia-romagna.itonline.ibc.regione.emilia-romagna.it/I/libri/pdf/ERBA_70.pdf · Le donne organizzate: fasci femminili e sezioni operaie e lavoranti a domicilio

Tra due secoli 35

I lavori di cura

Le balie

Nell’epoca considerata:

[...] il corpo delle donne valeva non solo come forza-lavoro e macchina di riproduzione mapoteva produrre valore esso stesso; in tutte le regioni della penisola, l’allattamento costituivauna delle funzioni economiche più importanti della donna, sia direttamente, come possibilitàdi far gravare il meno possibile i nuovi nati sul bilancio alimentare della famiglia, sia indiret-tamente, come fonte di entrate in denaro per i bambini presi a balia.117

Le origini di tale mestiere sono rintracciabili nel ‘baliatico assistenziale’ che si svi-luppò all’interno delle strutture caritative per l’infanzia, fin dalla fondazione degliospedali stessi.118 Il baliatico, cioè l’allattamento dei neonati abbandonati, poteva esse-re interno o esterno all’ospizio. Nel primo caso la nutrice risiedeva all’interno dell’o-spedale, nel secondo caso l’infante era affidato «a balia di fuori», cioè ad una donnache, per mestiere o anche ‘per voto’, lo allattava e lo allevava in casa propria riconse-gnandolo al compimento dell’età prescritta dal regolamento della struttura sanitaria.Disposizioni assai differenti regolavano il baliatico nelle diverse regioni italiane e neidiversi periodi. Un dato era, comunque, ovunque costante: le possibilità di sopravviven-za erano più alte per i bambini affidati a baliatico esterno rispetto a quelli allevati all’in-terno dell’istituto.119 Le cause dell’alto indice di mortalità potevano essere le più varie– cattive condizioni igieniche, locali inadatti, carenza di cure – ma di certo incidevanoin maniera rilevante la scarsezza di cibo e la sua inadeguatezza a soddisfare le esigen-ze delle nutrici, come rilevato da Matilde Serao in un suo articolo, apparso su «Il mat-tino» di Napoli il 27 maggio 1897, nel quale la scrittrice, attenta indagatrice sociale,affrontava il fenomeno dell’infanzia abbandonata analizzando la situazione nell’ospiziodell’Annunziata della città partenopea.

Le nutrici avevano fame, sempre: anzi tutto perché i loro due, i loro tre, i loro quattro poppan-ti, succhiavano il loro sangue e i midolla [sic], non trovando più latte nel petto: e poi eranocibate scarsamente e malamente, con molti legumi, con molte verdure, legumi di bassa qua-lità, verdure inferiori, vinello acido, quando vi era il vinello. Queste donne entrate là dentrodiventavano pallide, smorte, smarriti tutti i colori della salute dimagravano sempre, diventava-no deboli e fiacche; molte non resistevano oltre il quarto, il quinto mese […] queste nutricidiventavano irascibili e nervose, si ammalavano spesso, il latte si inacidiva e dalla loro fame,quella dei poppanti si mutava in delirio di fame e indi di morte.120

117 LUCETTA SCARAFFIA, Essere uomo, essere donna, in Storia sociale delle donne nell’Italia con-temporanea, a cura di Anna Bravo, Margherita Pelaja, Alessandra Pescarolo, Lucetta Scaraffia, Roma-Bari, Laterza, 2001, pp. 3-76: 17.

118 Il compito di ricevere «gli infanti esposti» nel territorio bolognese venne attribuito all’ospedaledi via D’Azeglio, detto di San Procolo, fin dal XII secolo. Cfr. UMBERTO FERRI, L’ospizio Esposti e l’A-silo di maternità in Bologna. Cenni storici, funzione e ordinamento, Bologna, Stab. poligrafici riuniti,1933; I bastardini. Patrimonio e memoria di un ospedale bolognese, Bologna, Edizioni A.G.E, 1990.

119 GIOVANNA DA MOLIN, Introduzione, in Trovatelli e balie in Italia, Atti del convegno Infanziaabbandonata e baliatico in Italia secc. XVI-XIX, a cura di G. Da Molin, Bari, Cacucci, 1994, pp. 7-8.

120 MATILDE SERAO, Figli della Madonna, «Il mattino» di Napoli, 27 maggio 1897, citato in WANDA

DE NUNZIO SCHILARDI, L’infanzia abbandonata nel romanzo sociale dell’Ottocento (Ranieri, Mastria-ni, Serao), in Trovatelli e balie in Italia cit., pp. 527-552: 547.

Page 56: 70 - online.ibc.regione.emilia-romagna.itonline.ibc.regione.emilia-romagna.it/I/libri/pdf/ERBA_70.pdf · Le donne organizzate: fasci femminili e sezioni operaie e lavoranti a domicilio

36 Dall’Unità d’Italia alla prima guerra mondiale

Anche se questa fosca descrizione delle condizioni di vita delle balie interne dicerto non corrispondeva a tutte le realtà assistenziali dell’epoca, era comunque possi-bile che non se ne discostasse di molto, soprattutto nel caso in cui l’organizzazionedegli ospizi fosse economicamente debole. Avere un numero di nutrici adeguato all’in-terno della struttura era una necessità: i bambini che venivano abbandonati, nella quasitotalità, erano nati da pochi giorni e avevano l’esigenza di essere immediatamente allat-tati al momento dell’arrivo ma ciò concorreva ad aumentare l’impegno finanziario a cuiperò gli amministratori spesso non riuscivano a far fronte.121

Dall’attività così concepita, prendeva corpo un ‘baliatico privato’ – praticato dallefamiglie aristocratiche e borghesi nel corso dell’Ottocento – che, a sua volta, venivaesercitato in due modi: affidando il neonato ad una balia di campagna che lo allevava acasa propria e lo restituiva ai genitori quando lo svezzamento era stato completatooppure ospitando la nutrice nella propria casa, in modo da controllare rigidamente ilprocesso di allevamento e di educazione del bambino.

Questi comportamenti delle classi agiate furono negativamente commentati e, avolte, ferocemente contestati dai contemporanei: si giunse a dire che i bambini eranoconsiderati dalle madri dell’alta borghesia un incomodo rispetto agli impegni sociali emondani. Giudizi sfavorevoli, largamente condivisi, che costituirono anche i punti diforza della propaganda in favore dell’allattamento materno: numerosi manuali ed opu-scoli del tempo veicolarono, infatti, la diffusione di quello che divenne un principiomedico insindacabile. Un esempio su tutti: nel testo qui esposto, innanzitutto, veniva-

121 La mancanza di fonti dirette e studi sulle condizioni di vita e di lavoro delle balie interne nelperiodo considerato non permette di precisare meglio la loro situazione lavorativa.

FOTO CHOMON, Balie e bambini dell’asilo per i lattanti fondato a Bologna nel 1881,fine Ottocento, Biblioteca Reale, Torino

Page 57: 70 - online.ibc.regione.emilia-romagna.itonline.ibc.regione.emilia-romagna.it/I/libri/pdf/ERBA_70.pdf · Le donne organizzate: fasci femminili e sezioni operaie e lavoranti a domicilio

Tra due secoli 37

no elencati dettagliatamente i vantaggi che dall’allattamento materno potevano deriva-re al bambino e alla stessa madre che allattava:

L’opera di protezione della prima infanzia, cui attendono in ogni paese e medici e filantropi,si esplica innanzi tutto col favorire l’allattamento materno. Quale metodo infatti può con que-sto gareggiare sia dal lato fisiologico che morale e umano? Il latte materno è il vero alimentoche meglio si confaccia ai progressivi bisogni del bambino, e l’affetto e le cure di una madrenon vi è mezzo o denaro che possa sostituirle.122

E ancora: «Si vede subito come sia sempre da preferirsi e da raccomandarsi quel siste-ma che non allontana il piccino dalla propria madre, essendo ormai un fatto acquisito cheil valore speciale, anche di uno scarso quantitativo di latte materno, e le cure maternecostituiscono una tal somma di beneficio da sorpassare i vantaggi offerti da opulentinutrici mercenarie».123 Si passava poi a giustificare l’assunzione di una balia solo nei casidi inabilità fisica: «vuole infatti il regolamento che a fruire dell’aiuto del baliatico sianoammesse soltanto quelle donne che per malattia o difetto fisico sono incapaci assoluta-mente ad allattare»124 e «d’altra parte è unanime giudizio di pediatri e ginecologi che benpoche sono le madri che non possono assolutamente allattare: siano in rapporto collo statodelle mammelle o della salute in generale le cause per cui l’allattamento materno è scon-sigliabile o impossibile, si riducono ad un numero così esiguo da turbare e confondere ifacili fautori dell’allattamento mercenario».125 Infine, si terminava con il motto «a ciascunbambino la propria mamma».126

Nonostante le aspre critiche e i severi moniti, il fenomeno del ‘baliatico mercena-rio’ aumentò in misura considerevole dando luogo a un vero e proprio ‘esodo’ che inte-ressò una parte consistente della popolazione femminile italiana: migliaia di giovanipuerpere127 – in gran parte appartenenti alla classe bracciantile, spinte dunque dal biso-gno e dalla miseria – per recarsi a nutrire i neonati delle famiglie borghesi lasciavano ipropri figli di pochi mesi, privandoli di un bene prezioso ed esponendoli al rischio dimalattie, talvolta mortali. La partenza, spesso subita con rassegnazione, si inseriva nel-l’ambito di precise strategie economiche che tendevano a garantire la sopravvivenzadella famiglia. Era un esercito silenzioso, che sfuggiva a controlli e statistiche, nonbeneficiava di nessuna garanzia sul piano contrattuale e, una volta entrato nell’intimitàdelle famiglie borghesi, cadeva nel silenzio e nell’oblio. Accanto alla schiera di dome-stiche, cuoche, guardarobiere, le balie andavano a far parte di quello che è stato defini-to «l’invisibile quotidiano».128

Fare la balia non comportava solamente l’impatto, spesso traumatico, con la grandecittà e con i problemi di inserimento nella famiglia ospitante – l’assunzione di un codi-ce linguistico (l’italiano) di cui raramente la balia aveva competenza, la necessità diadeguarsi a comportamenti e a tempi inusuali, l’accettazione di norme spesso in con-trasto con le consuetudini del proprio luogo di provenienza – ma anche e soprattutto la

122 PAOLO GALLI, L’aiuto materno, Faenza. Tip. G. Montanari, 1907, p. 6.123 Ivi, p. 8.124 Ivi, p. 5.125 Ivi, p. 7.126 Ivi, p. 8.127 Impossibile dare una rigorosa definizione quantitativa del fenomeno per l’assenza di dati dovu-

ti ad accertamenti ufficiali.128 DANIELA PERCO, Balie da latte. Note e testimonianze su alcune esperienze di lavoro, in Balie da

latte. Una forma peculiare di emigrazione temporanea, a cura di D. Perco, Feltre, 1984, pp. 15-50: 15.

Page 58: 70 - online.ibc.regione.emilia-romagna.itonline.ibc.regione.emilia-romagna.it/I/libri/pdf/ERBA_70.pdf · Le donne organizzate: fasci femminili e sezioni operaie e lavoranti a domicilio

38 Dall’Unità d’Italia alla prima guerra mondiale

disgregazione del nucleo famigliare perché l’assenza influenzava, talora in modo dura-turo e quasi inevitabilmente, i rapporti affettivi.

Le donne, infatti, rimanevano lontane da casa almeno dai sette ai 18 mesi (ma laloro attività poteva protrarsi nel tempo come balia asciutta anche per diversi anni, tal-volta presso la medesima famiglia) lasciando i figli neonati da parenti o vicini che veni-vano compensati in genere con un terzo del proprio salario. Difficilmente venivano sti-pulati contratti di lavoro regolari, gli accordi erano quasi sempre verbali, e la garanziaera data dall’enorme differenza sociale dei due contraenti. Il viaggio era generalmentepagato dai padroni. L’attività era considerata privilegiata, dal punto di vista salariale,rispetto ad altri mestieri ma le retribuzioni variavano sensibilmente sia in relazione allefamiglie sia alle città in cui le balie si trovavano a lavorare: negli anni Venti potevanoraggiungere le 100 lire mensili.

Almeno dalla metà del 1918 il collocamento delle balie cominciò a realizzarsi,quasi esclusivamente, attraverso la mediazione di specifiche agenzie. La regolamenta-zione sanitaria, resa esecutiva proprio in quel periodo, ne prevedeva l’istituzione, ocomunque la legalizzazione di quelle già esistenti, da parte dei Prefetti provinciali. Nelgennaio del 1919, poi, un ulteriore decreto obbligava le agenzie a tenere un registro conl’elenco delle donne, residenti nel Comune, autorizzate ad esercitare il baliatico e acomunicare all’ufficiale sanitario comunale i dati anagrafici delle balie iscritte e diquelle collocate.

L’ufficio di Enrico Conte, pubblicizzato su «L’illustrazione italiana» fin dal 1911,fungeva da collettore dell’intera zona di Feltre e ne aveva assorbito per lungo periodole molte potenzialità di lavoro: un flusso consistente di balie provenienti dal bellunese,infatti, affluirono soprattutto nelle città di pianura tra cui Bologna e in certa misuraanche Forlì, Parma e Piacenza.129 Dopo aver regolarizzato la sua posizione nella prima-vera del 1919,130 Conte continuò a svolgere la sua attività, raccogliendo e schedando lerichieste di personale che venivano inoltrate dalle famiglie, residenti per lo più nellecittà dell’area padana. L’intermediario poi contattava le aspiranti balie, spesso in statodi avanzata gravidanza, che lasciavano una loro fotografia in base alla quale avvenivala scelta da parte dagli eventuali padroni. Il compenso per l’agenzia – che garantiva nonsolo il perfetto stato di salute ma anche l’ineccepibile moralità della donna – venivapatuito sulla parola e fissato nell’entità di una mezza mensilità percepita dalla balia.

Prima del varo legislativo, invece, le famiglie che avevano bisogno di una nutrice sirecavano direttamente dalle aspiranti o utilizzavano intermediari: chiedevano a un fidu-ciario locale (Sindaco, prete, medico, levatrice) garanzie sulla correttezza morale delledonne e inviavano, o facevano trovare al loro arrivo in famiglia, un medico per verifi-care la qualità del latte e lo stato di salute.

La visita medica diventò obbligatoria all’inizio del Novecento come conseguenzadella massiccia campagna promossa dal governo per debellare le malattie veneree. Ilmanifestarsi di casi di sifilide all’interno di alcuni brefotrofi aveva indotto i medici deltempo a prendere in considerazione tra i «canali di contagio accidentale» anche il‘baliatico mercenario’. Di qui l’attenzione dei legislatori per il fenomeno, attenzioneche portava progressivamente alla sua regolamentazione dal punto di vista sanitario.

129 FRANCA MODESTI, Emigrazione femminile e baliatico nella provincia di Belluno tra Ottocentoe Novecento, in Balie da latte. Una forma peculiare di emigrazione temporanea cit., pp. 7-13: 9.

130 Lettera del Sottoprefetto al Sindaco di Feltre, Feltre, 12 aprile 1919, citata in ANNAMARIA BAGA-TELLA SENO, Criteri di selezione e canali di assunzione delle balie, in Balie da latte. Una forma pecu-liare di emigrazione temporanea cit., pp. 51-65: 58.

Page 59: 70 - online.ibc.regione.emilia-romagna.itonline.ibc.regione.emilia-romagna.it/I/libri/pdf/ERBA_70.pdf · Le donne organizzate: fasci femminili e sezioni operaie e lavoranti a domicilio

Tra due secoli 39

Nel decreto, varato il 4 agosto 1918, per la «tutela igienica del baliatico», esso venivasubordinato a «speciale autorizzazione da rilasciarsi dal Sindaco, alle donne di buonacondotta, riconosciute fisicamente idonee in seguito a visita medica».131

Durante il controllo medico, oltre ad effettuare tutti gli esami clinici per accerta-re che le balie fossero immuni da malattie affettive trasmissibili, veniva ricostruita,attraverso un colloquio con la paziente, l’anamnesi della stessa al fine di accertareanche l’assenza di patologie ereditarie. Il medico, considerato l’esito delle analisi,sottoscriveva poi un certificato di sana e robusta costituzione di cui il Sindaco si ser-viva per rilasciare alla balia richiedente l’autorizzazione, completa di dati anagrafici,connotati e fotografia.

Le levatrici

Quello della levatrice era un tradizionale mestiere femminile, frutto di una culturasecolare, dell’esperienza diretta di donne, basato sulla conoscenza del corpo secondoconvinzioni empiriche, ascientifiche ma riconosciuto socialmente. Poiché aiutava adare la vita, nella civiltà contadina, la levatrice godeva di grande autorità e prestigio:«depositaria dei segreti delle donne e delle famiglie, testimone della nascita di ognimembro della comunità, le veniva spesso accordato il ruolo di accompagnare i bambi-ni al fonte battesimale, ma anche di presiedere alla spartizione delle eredità o a dirime-re piccole controversie fra le famiglie».132

Lo Stato unitario, per far fronte soprattutto alla necessità di debellare dannose abi-tudini legate alla gravidanza (la morte per parto era allora diffusa, come pure la febbrepuerperale ed altre patologie legate alle scarse precauzioni igieniche) decideva di isti-tuzionalizzare la figura della levatrice, medicalizzando il parto e subordinando il tradi-zionale sapere femminile a quello medico-scientifico, in rapida ascesa nella secondametà dell’Ottocento. Di qui la trasformazione di una antica prerogativa delle donne inuna vera e propria professione rigidamente codificata.

Vari interventi legislativi, dunque, nel corso del tempo cercarono di definire le com-petenze della levatrice e disciplinare l’esercizio della sua attività; questi riguardaronosostanzialmente la strutturazione di un corso di studi per conseguire il diploma, la lottaalla febbre puerperale, l’istituzione e la regolamentazione delle condotte ostetriche, infi-ne il tentativo di limitare il massiccio ricorso popolare alle cosiddette ‘levatrici abusive’.

Il primo decreto in grado di intervenire in maniera esauriente sulla materia fu quel-lo riguardante la sanità pubblica, varato nel 1865 e seguito da due regolamenti applica-tivi – il primo del 1874, il secondo del 1876 – firmati da Ruggero Bonghi, allora mini-stro della Pubblica Istruzione. In particolare con il secondo provvedimento veniva sta-bilito che le scuole di ostetricia dipendessero direttamente dalle cliniche universitarie eprevedessero corsi teorico-pratici di durata triennale ai quali potevano accedere soloallieve di età comprese tra i 18 e i 36 anni che avessero frequentato la terza elementa-re, purché in possesso di un certificato di buona condotta e dell’assenso del padre senubili e del marito se coniugate.133

131 Tutela igienica del baliatico, Milano, Soc. ed. Portafoglio, 1918 (Collezione legislativa «Por-tafoglio», n. 2351).

132 CLAUDIA PANCINO, Il bambino e l’acqua sporca. Storia dell’assistenza al parto dalle mamma-ne alle ostetriche (secoli XVI-XIX), Milano, Angeli, 1984, p. 228.

133 Cfr. ALESSANDRA GISSI, Le segrete manovre delle donne. Levatrici in Italia dall’Unità al fasci-smo, Roma, Biblink editore, 2006, p. 22.

Page 60: 70 - online.ibc.regione.emilia-romagna.itonline.ibc.regione.emilia-romagna.it/I/libri/pdf/ERBA_70.pdf · Le donne organizzate: fasci femminili e sezioni operaie e lavoranti a domicilio

40 Dall’Unità d’Italia alla prima guerra mondiale

Una Scuola di ostetricia era presente anche nell’Ateneo bolognese.134 Di certo,l’ammissione a tali corsi costituiva, oltre a una sicura opportunità professionale per ilfuturo, motivo di orgoglio personale se Dora Persiani in Cosci scriveva al Prefetto, nelnovembre 1896, allegando il proprio biglietto da visita con impressa la dicitura «allie-va levatrice nella Regia Università di Bologna».135

Sempre con il regolamento del 1876, si cercava di sostituire, in modo graduale, lecosiddette ‘irregolari’ con ostetriche depositarie e portatrici di saperi scientifici. Ladisposizione transitoria n. 43, infatti, permetteva alle donne che già esercitavano ilmestiere, sprovviste però di regolare abilitazione, di ottenere il diploma sostenendo sol-tanto un esame pratico, entro tre anni dall’entrata in vigore della legge, termine proro-gato fino al 1894. La sanatoria, che faceva fronte ad una situazione oggettiva di biso-gno,136 creava di certo una conflittualità fra dimensioni culturali diverse, tra professio-nalità ispirate a principi talvolta antitetici e dava avvio ad un lungo periodo di polemi-che e recriminazioni da parte delle diplomate, durante il quale l’obiettivo di eliminarele ‘irregolari’, nella pratica fallì, se ancora nel 1913 veniva scritto che la loro presenzaera «micidiale per le madri e per i neonati, indecorosa e umiliante per noi levatrici».137

La vera e propria medicalizzazione del parto fu sancita e promossa dalla Legge sullatutela dell’igiene e della sanità, emanata nel dicembre del 1888,138 con la quale veni-vano istituite le condotte ostetriche obbligando i Comuni a stipendiare una levatricediplomata, che portasse la propria assistenza a tutte le donne, comprese quelle prive dimezzi e, in questi casi, a titolo gratuito.

A tali norme venne aggiunto, nel 1890, il Regolamento speciale con istruzioni per l’e-sercizio ostetrico delle levatrici dei Comuni del Regno.139 Venne promulgato al fine di spe-cificare le misure sanitarie a cui dovevano attenersi le levatrici – i movimenti da compierepresso le partorienti, le cure igieniche da applicare alla madre e al bambino, gli strumentied accessori da avere con sé – e introdusse l’obbligo di chiamare il medico in caso di partiirregolari e di tenere un vero e proprio registro dove annotare, oltre ai dati anagrafici dellapartoriente, varie informazioni sull’andamento dei parti a cui avevano dato assistenza.

134 A Bologna una vera e propria scuola di ostetricia fu istituita nel 1804 e affidata alla direzionedi Maria Dalle Donne, laureata in filosofia e medicina nel 1799. Per maggiori informazioni su taleargomento cfr. OLIMPIA SANLORENZO, Maria Dalle Donne e la Scuola di Ostetricia nel secolo XIX, inLa presenza femminile dal XVIII al XX secolo. Ricerche sul rapporto Donna/Cultura Universitaria nel-l’Ateneo bolognese, Bologna, Clueb, 1988, pp. 147-158.

135 ASBo, Gabinetto di Prefettura, serie 931, 1896, cat. 14, fasc. 1, prot. n. 2636. La donna richie-deva l’intervento delle autorità per ricercare il marito Igino, ufficiale del I reggimento Cacciatori d’A-frica, scomparso a Massaua, «e se ancora vivo farlo obbligare per l’alimento dei figli e della poveramadre». Le indagini disposte dal Ministero degli Esteri non diedero esito positivo. In ogni caso, la Per-siani completò, con successo, gli studi, risultando nell’elenco delle levatrici esercenti e residenti aBologna nel 1901 e pubblicato nel locale Foglio degli Annunzi Legali della provincia di Bologna n. 80del 1901. Cfr. il documento in ASBo, Gabinetto di Prefettura, serie 997, 1901, cat. 1, «C.S.P. Carte etelegrammi senza pratica».

136 All’epoca molti Comuni erano ancora privi di assistenza ostetrica ufficiale o spesso la presen-za di una unica levatrice si rivelava insufficiente. Una circolare del Consiglio di Stato del 13 febbraio1890 aveva definito legittimo l’esercizio delle abusive nei Comuni privi di assistenza ostetrica ufficia-le o dove si fosse rivelato insufficiente il lavoro di un’unica levatrice. A. GISSI, Le segrete manovredelle donne cit., p. 23.

137 La levatrice condotta sui monti, «Gazzetta italiana per le levatrici», 1913, 18, p. 296.138 Legge 22 dicembre 1888, n. 5849.139 Regolamento speciale ed istruzioni per l’esercizio ostetrico delle levatrici nei Comuni del

Regno, Roma, Tip. di L. Cecchini, 1890.

Page 61: 70 - online.ibc.regione.emilia-romagna.itonline.ibc.regione.emilia-romagna.it/I/libri/pdf/ERBA_70.pdf · Le donne organizzate: fasci femminili e sezioni operaie e lavoranti a domicilio

Tra due secoli 41

L’ambizione di istituzionalizzaree controllare la figura della levatricepassò anche attraverso l’inserimentodi norme specifiche nei nuovi Codi-ci. In quello Civile la levatrice aveval’obbligo di registrare presso l’Uffi-ciale di Stato la nascita di vivi omorti, in assenza del padre o di unprocuratore. Il Codice Penale del1888, invece, puniva la procuratamorte, l’occultamento e la sostitu-zione d’infante, il procurato aborto,e regolamentava il dovere della leva-trice di fornire, nel caso in cui vifosse una richiesta dell’autorità giu-diziaria, chiarimenti ed informazio-ni circa diagnosi di gravidanza, diparto avvenuto, di età e situazioni dineonati abbandonati.

Intanto, il numero delle levatriciin Italia continuava a crescere inmaniera costante e graduale: se nel1871 erano 9.432, nel 1901 passaro-no a 13.886, per arrivare a 15.900nel 1921.140

Anche i dati regionali conferma-vano questa tendenza: oltre 900ostetriche registrare nel censimentodel 1901, 1.112 in quello del 1911 e1.287 nella rilevazione del 1921.Nel 1901 delle 360 levatrici cherisultavano censite nei ducati emilia-ni, 118 esercitavano a Bologna,141 eun servizio ostetrico era previsto dalla maggior parte dei Comuni della provincia. Lasituazione era sicuramente fra le migliori del paese «se si pensa che c’erano regioni incui un solo Comune su dieci aveva una levatrice abilitata e a livello nazionale i Comu-ni in regola non rappresentavano nemmeno il 50% del totale».142

Il numero delle levatrici aumentava anche se le loro condizioni di vita e di lavoronon erano, di certo, facili: all’epoca, lo stipendio annuo era veramente esiguo, soprat-tutto se equiparato ai gravosi compiti nei confronti delle comunità ed alle responsabi-

140 A. GISSI, Le segrete manovre delle donne cit., p. 36.141 Dieci di esse erano autorizzate a tenere «pensioni di partorienti» come disposto dalla legge sani-

taria del 22 dicembre 1898. Si trattava di una pratica, consolidatasi nei secoli, a tutela delle «gravideillegittime». Regolarizzando l’esistenza di questi ‘pensionati’, lo Stato li sottoponeva a registrazioni ea controlli igienici. Cfr. il Foglio degli annunzi legali della provincia di Bologna n. 80, in ASBo, Gabi-netto di Prefettura, serie 997, 1901, cat. 1, «C.S.P. Carte e telegrammi senza pratica».

142 C. PANCINO, Le ostetriche lombarde nell’Ottocento, in Donna lombarda 1860-1945 cit., pp.225-233: 225.

«Bollettino delle levatrici. Periodico mensileillustrato fondato e diretto dal dott. cav. MuzioPazzi, ostetrico primario degli ospedali di Bologna»a. I, n. 1, 30 gennaio 1898, Biblioteca Comunaledell’Archiginnasio, Bologna

Page 62: 70 - online.ibc.regione.emilia-romagna.itonline.ibc.regione.emilia-romagna.it/I/libri/pdf/ERBA_70.pdf · Le donne organizzate: fasci femminili e sezioni operaie e lavoranti a domicilio

42 Dall’Unità d’Italia alla prima guerra mondiale

lità civili e penali:143 oscillava dalle 300 alle 500 lire per le ostetriche condotte144 ed eradifferenziato da Comune a Comune.145 All’inadeguato riconoscimento economico siaggiungeva poi l’instabilità del posto di lavoro – poiché potevano essere rimosse inqualsiasi momento dal loro incarico – l’assenza del diritto alla pensione ed a forme diassicurazione in caso di malattia.

A partire dalle inadeguate condizioni di lavoro, sorsero tra le levatrici spinte riven-dicazioniste che diedero luogo alle prime forme organizzative. Il 6 febbraio 1888, aMilano, venne, infatti, annunciata la nascita di una associazione denominata Societàitaliana delle levatrici.146 Sei anni dopo la sua fondazione, in regione le si affiancaronola Società bolognese delle levatrici, presieduta dal dottor Muzio Pazzi,147 e quella emi-liana, nella quale figurava lo stesso Pazzi come segretario.

Obiettivi dichiarati dei sodalizi emiliani erano il mutuo soccorso e l’aggiornamen-to scientifico:

[...] le levatrici, guidate da persone serie, da medici benemeriti della loro classe, hanno com-preso lo spirito della società, l’indirizzo degli studi odierni e formando associazioni e fondan-do giornali e procurandosi libri utili e guide, facendo riunioni, congressi, istituendo una fede-razione hanno dimostrato di essere in regola col progresso.148

Certo nacquero dal bisogno e dalla volontà di difendere, garantire e tutelare la pro-fessione ma forte fu la spinta a differenziare il nuovo ruolo dell’ostetrica da quello dellalevatrice tradizionale, sottolineando l’importanza dell’istruzione. Questo però «com-portò non solo l’accettazione ma anche la difesa dell’ideologia medica ufficiale, delruolo voluto dalla classe medica per l’ostetrica, della sua posizione subordinata nellagerarchia delle professioni sanitarie».149 In questo senso è significativo che le levatricibolognesi si lasciassero organizzare – e che la rivista della loro associazione fosse diret-ta – da uno dei più famosi medici ostetrici della città. Pazzi fu, infatti, il fondatore delperiodico illustrato «Il bollettino delle levatrici» il cui programma era quello di «pre-stare l’istruzione scientifica alla levatrice volgarizzando le difficili teorie di medici-

143 Spesso chiamata ad assistere un parto che, dopo la visita non riteneva essere di sua competen-za, la levatrice, mandato a chiamare il medico, si trovava poi ad agire da sola perché, o la distanza o ilmaltempo o la notte, facevano desistere il medico dall’assolvere il suo dovere. L’unica cosa che rima-neva da fare era allora agire con ‘prudenza e scienza’, sperando in un esito felice per non essere incol-pata di incuria e incorrere nei rigori della legge.

144 Il Comune di Gaggio Montano, ad esempio, bandì un concorso nel 1898 per un posto di levatri-ce alla quale sarebbe spettato «uno stipendio di L. 300, più L. 2 ogni parto di donne non povere e cen-tesimi 50 per ogni visita richiesta dalle medesime» («Bollettino delle levatrici», 30 ottobre 1898). Bendiversi gli stipendi delle levatrici che insegnavano nei vari istituti ostetrico-ginecologici: un concorsobandito a Palermo prevedeva un compenso di L. 1.000 «oltre all’alloggio, alla biancheria, al vitto, allume, ed al fuoco» («Bollettino delle levatrici», 30 giugno 1898). Esse dovevano assistere i neonati e ledonne durante la gravidanza, il parto e il puerperio ma soprattutto dirigere le allieve nelle esplorazioniostetrico-ginecologiche e nell’assistenza ai parti, ma sempre sotto lo stretto controllo del medico.

145 Alla richiesta della Società italiana delle levatrici del 1891 di uniformare gli stipendi e di garan-tirne uno minimo non venne data risposta alcuna.

146 Cfr. C. PANCINO, Le ostetriche lombarde nell’Ottocento cit., p. 231.147 Muzio Pazzi, primario di ostetricia e ginecologia e direttore dell’Asilo di maternità a Bologna,

fu fortunato autore di una breve Storia scientifico-sociale della levatrice e dei Cento racconti per lalevatrice, pubblicati a Bologna, rispettivamente nel 1895 e nel 1898.

148 Rendiconto del 1894 della Società emiliana delle levatrici con sede in Bologna, Milano, Tip. L.Marchi, 1895, p. 5.

149 C. PANCINO, Le ostetriche lombarde cit., p. 231.

Page 63: 70 - online.ibc.regione.emilia-romagna.itonline.ibc.regione.emilia-romagna.it/I/libri/pdf/ERBA_70.pdf · Le donne organizzate: fasci femminili e sezioni operaie e lavoranti a domicilio

Tra due secoli 43

ostetrici […] che per il loro arido tecnicismo clinico sembrano quasi inaccessibili perla mente delle levatrici. Il nostro giornale […] sarà corredato di figure illustrative, ondesussidiare la mente delle levatrici con utili impressioni visive».150

Nella rivista, pubblicata a Bologna dal gennaio 1898 al marzo 1899,151 venivanoraccontati i casi più interessanti della pratica ostetrica, comunicate difficoltà e sod-disfazioni della professione, analizzate le responsabilità civili e penali che gravava-no sull’assistenza prestata e a cui era destinata una rubrica fissa titolata «Giurispru-denza sanitaria». Il comitato di redazione era composto esclusivamente da uomini euomini erano pure i collaboratori, sia per la parte medica sia per quella giuridica. Illoro atteggiamento, a dir poco ambivalente, oscillava tra un evidente paternalismo,un velato scetticismo per le capacità della categoria e un più raro entusiasmo per ilriconoscimento dei loro diritti e delle competenze da loro acquisite. Così infatti siesprimeva Pazzi nell’illustrare il resoconto morale della Società Emiliana delle leva-trici nel 1894:

Il Comitato direttivo ha diramato una circolare per invitare ad assistere a sette conferenze […]frattanto, per mia modesta iniziativa, si sta organizzando un comitato di conferenzieri, alloscopo di impartire l’istruzione alle levatrici, almeno in tutti i capoluoghi della regione emilia-na […] né posso tacervi la cortesia esemplare del prof. Giovanni Calderini, il quale ha conces-so a tutte le levatrici di potere usufruire delle lezioni cliniche e pratiche, da lui stesso e da suoiegregi assistenti impartite allo Spedale S. Orsola. Sta ora in voi approfittare tanto delle lezio-ni clinico-pratiche, quanto delle conferenze per raggiungere meglio quel grado di indipenden-za intellettuale e morale di cui avete diritto. Come vedete il Comitato direttivo si è adoperatoe si adopera continuamente per il miglioramento della vostra classe.152

Nel frattempo, il 22 maggio 1892, durante il primo congresso nazionale delle leva-trici, si era costituita la Federazione nazionale alla quale aderirono le diverse societàsorte in tutto il paese. Il «Giornale per le levatrici», pubblicato dalla Guardia Ostetricadi Milano già dal 1886, ne divenne l’organo ufficiale.

Si diffuse così la figura della nuova levatrice che si riconosceva nelle leggi delloStato, operava in nome della scienza, combatteva ignoranza, superstizione e pregiudi-zio, si faceva portavoce nelle campagne di conoscenze mediche a vantaggio della salu-te della popolazione.

Le infermiere

Infermiere è quegli che per professione assiste agli ammalati nell’Ospitale o in case private.Fare l’infermiere non è la stessa cosa come darsi a un mestiere qualunque, a quello del dome-stico, fattorino, operaio, ecc.; chi si accinge ad assistere gli infermi deve sentire dentro di séuna certa vocazione, deve essere deciso a dedicarsi del tutto a una vera vita di sacrificio. Piùancora che l’uomo, è, per sua natura, adatta all’ufficio d’infermiera la donna.153

150 «Il bollettino delle levatrici», I, 1, 30 gennaio 1898, pp. 4-5.151 La rivista cessò le pubblicazioni per mancanza di fondi, come dichiarava il suo direttore Muzio

Pazzi in La dottoressa Maria Dalle Donne, prima insegnante di ostetricia minore nella Regia Univer-sità di Bologna. Discorso commemorativo letto nel Teatro anatomico dell’Archiginnasio il 21 settem-bre 1909 in occasione del VII Congresso nazionale delle levatrici, Castel S. Pietro dell’Emilia, Tip. A.Conti, 1910, p. 5.

152 Rendiconto del 1894 della Società emiliana delle levatrici con sede in Bologna cit., p. 6.153 GIOVANNI PUGLIESI, Il manuale dell’infermiere, Venezia, [s.n.], 1915, p. 9.

Page 64: 70 - online.ibc.regione.emilia-romagna.itonline.ibc.regione.emilia-romagna.it/I/libri/pdf/ERBA_70.pdf · Le donne organizzate: fasci femminili e sezioni operaie e lavoranti a domicilio

44 Dall’Unità d’Italia alla prima guerra mondiale

Così, si esprimeva il dottor Giovanni Pugliesi, già primario dell’ospedale di Lodi edirettore di quello di Venezia, nel suo Il manuale dell’infermiere. Il medico, continuandonella sua trattazione, elencava le qualità essenziali per quella professione sanitaria: dol-cezza nelle maniere, passo e mano leggeri, fedeltà e obbedienza, pazienza e dedizione,pulizia, prudenza e discrezione, tratteggiando quelle che all’epoca erano considerate pre-rogative femminili. Proprio per questa presupposta ‘naturale predisposizione’, minorifurono le resistenze da parte dell’opinione pubblica verso l’esercizio di quei lavori cheapparivano come un’estensione delle attività di cura e assistenza che, da sempre, le donnesvolgevano, non solo in famiglia ma anche all’interno delle comunità, fornendo soccorsoin caso di bisogno, di malattia o in momenti significativi quali nascita e morte. Ed è forsequesto il motivo che portò a un consolidamento della presenza delle donne nel settoresanitario tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento: un settore in grado di offrireuna collocazione lavorativa rispondente alle ‘naturali’ caratteristiche delle donne.

Proprio in quel periodo importanti scoperte scientifiche contribuivano a dare unforte e positivo impulso alla medicina portando il campo sanitario e ospedaliero ad unasvolta significativa: nascevano e si perfezionavano branche specialistiche, l’ospedaleperdeva il tradizionale carattere di ‘ospizio’ per poveri per assumere quello di ‘luogoper la diagnosi e la cura’, aumentavano anche i pazienti, bisognosi di terapie particola-ri, di trattamenti qualificati. Tutto questo richiedeva l’inserimento sempre maggiore dilaici salariati forniti di un alto livello professionale per far fronte alla somministrazio-ne di cure specialistiche.

All’epoca, l’assistenza agli ammalati era affidata principalmente a personale reli-gioso, mentre il ruolo delle infermiere laiche si affiancava e si confondeva con quellodelle inservienti; questa confusione di funzioni si ritrova anche nella letteratura archi-vistica dove spesso venivano usati i due concetti e le due denominazioni come sinoni-mi. In un documento riguardante l’amministrazione ospedaliera di metà Ottocento siriteneva che «potrebbe essere meglio stabilire una sola classe di persone al servizio coltitolo di infermiere, anziché farne due, una di infermiere e una di serventi». Solo piùtardi si affermava che «le serventi attualmente addette alle infermerie sono di una cate-goria inferiore alle infermiere». In effetti, quanto veniva ordinato alle inservienti dove-va venir eseguito anche dalle operatrici sanitarie, alle quali «servirà per ciò di norma,la stessa istruzione, coll’avvertenza che alle infermiere apparterranno inoltre le opera-zioni di bassa chirurgia, che non sono di taglio».154 Ad esse era, dunque, richiesto di«riattare i letti, cambiare le lenzuola sudice e i traversi ogni volta che lo credano neces-sario […], di pulire scrupolosamente gli ambienti […], di sorvegliare che ai malati nonvengano rimessi pillole, unguenti e cerotti […], così pure che i malati non consegninoai parenti i cibi dell’ospedale»,155 oltre che somministrare medicamenti di base e svol-gere le normali operazioni relative all’igiene del malato. Mansioni, dunque, di custodiae sorveglianza piuttosto che terapeutiche nel vero senso del termine.

Pare ovvio che si dedicassero a questa professione soprattutto donne dei ceti popo-lari, non solo per gli incarichi svolti ma anche per le pessime condizioni lavorative: in

154 Archivio di Stato di Bergamo, Delegazione provinciale, Beneficenza, XIX secolo, citato inEDOARDO MANZONI, Storia e filosofia dell’assistenza infermieristica, Milano, Masson, 1996, p. 108.

155 Regolamento interno dell’Ospedale degli Infermi, redatto dalla Congregazione di Carità diCesena nel dicembre 1862, citato in SANDRA MONTALTI, La formazione del personale infermieri-stico a Cesena tra la fine dell’800 e l’inizio del ’900, in Sanità e società a Cesena 1297-1997, acura di Stefano Arieti, Giovanni Camaeti, Claudio Riva, Cesena, Il Ponte Vecchio, 1999, pp. 289-295: 290.

Page 65: 70 - online.ibc.regione.emilia-romagna.itonline.ibc.regione.emilia-romagna.it/I/libri/pdf/ERBA_70.pdf · Le donne organizzate: fasci femminili e sezioni operaie e lavoranti a domicilio

Tra due secoli 45

una inchiesta condotta, su areanazionale, dalla Camera del Lavorodi Parma nel 1897 veniva delineatauna situazione «quale ha riscontroin pochi altri settori»: turni di lavo-ro di 12 ore consecutive (a voltaaddirittura di 24), spesso senza«diritto al vitto né di un piccoloriposo», per un salario giornalieroche si aggirava attorno a lire 1/1,80,poco più di quanto percepito dalleinservienti, senza possibilità diavanzamenti di carriera (i ruoli dicapo-sala o sorvegliante erano diesclusiva competenza del personalereligioso), né diritto alla pensione.In molti casi, poi, le infermieredovevano subire gli arbitrii dellesuore che, con un semplice rappor-to disciplinare, potevano determi-nare sospensioni dello stipendiofino a cinque giorni con l’obbligodel servizio.156

Se la bassa retribuzione, poi,risultava essere l’unica risorsa eco-nomica di una famiglia, potevametterne in serie difficoltà le capa-cità di sussistenza. È il caso, adesempio, di Caterina Piccinelli,vedova di un postino, costretta arivolgersi alla Direzione delle postee dei telegrafi per mendicare unsussidio. Caterina, addetta in unospedale bolognese «ne riceve mer-cede giornaliera di una lira, vive miseramente […] e collo scarso guadagno deve prov-vedere al mantenimento suo e di tre figli di tenera età».157

Intanto si faceva strada nell’opinione pubblica la necessità di avere personale infer-mieristico diversamente preparato, maggiormente qualificato, in numero sufficiente ediventava, dunque, fondamentale superare le tristi arretratezze della condizione lavora-tiva. Affinché tale riforma potesse concretamente realizzarsi occorreva investire nellaformazione professionale. A tale scopo, nel 1890, venne avviata a Cesena una scuola perinfermieri.158 Il corso, aperto a uomini e donne, era della durata di quattro mesi ed orga-

156 S. MERLI, Proletariato di fabbrica e capitalismo industriale cit., pp. 272-273.157 Lettera del Prefetto di Bologna al Direttore delle Poste e Telegrafi, Bologna, 19 dicembre 1896,

in AsBo, Gabinetto di Questura, serie 229, 1896, cat. 9/B «Informazioni», prot. n. 3130.158 Vale la pena ricordare che nel periodo esaminato poche erano le scuole esistenti nel Regno: nel

1902 solo 25 ospedali, su un totale di 1.304, avevano istituito un corso per infermieri. S. MONTALTI, Laformazione del personale infermieristico a Cesena cit., p. 290.

Risultati delle inchieste particolari negli anni 1901e 1908, in ANNA CELLI, Per le scuole delleinfermiere, «Nuova Antologia», 1º ottobre 1908,Biblioteca Comunale dell’Archiginnasio, Bologna

Page 66: 70 - online.ibc.regione.emilia-romagna.itonline.ibc.regione.emilia-romagna.it/I/libri/pdf/ERBA_70.pdf · Le donne organizzate: fasci femminili e sezioni operaie e lavoranti a domicilio

46 Dall’Unità d’Italia alla prima guerra mondiale

nizzato in lezioni teorico-pratiche. Tra i requisiti di ammissione: l’ottima condotta civi-le e morale, saper leggere e scrivere correttamente e, per le donne, essere rigorosamen-te nubili o vedove (si temeva che le sposate potessero non erogare un servizio di buonaqualità).159 Solo nel 1901, venne istituito un nuovo corso destinato però esclusivamentea donne, a testimonianza della progressiva femminilizzazione della professione.160

Lo sforzo di organizzare l’attività professionale delle infermiere in Italia si deveprincipalmente ad Anna Fraentzel Celli,161 la quale, nel primo decennio del Novecento,svolse diverse inchieste sull’argomento arrivando a delinearne un quadro desolante.162

Da una tabella, pubblicata a corredo di un suo saggio del 1908,163 è possibile estrapo-lare informazioni preziose sulle condizioni di lavoro negli ospedali emiliano-romagno-li: le donne sostenevano turni di 10-15 ore al giorno, per un compenso – in cui spessonon erano compresi né il vitto né l’alloggio – che variava dalle 40 alle 66 lire al mese;non avevano diritto al riposo settimanale, e nessun beneficio previdenziale.

Per emendare quella realtà, Celli riteneva essenziali alcuni presupposti di base, quali:scuola preparatoria tecnico-pratica della durata di almeno sei mesi e obbligo, per l’assun-zione, di avere frequentato almeno la quinta classe elementare per incrementare le cono-scenze professionali; separazione del lavoro di infermiera da quello di inserviente; indi-pendenza del personale laico da quello religioso e abolizione dei sorveglianti uomini perfavorire possibilità di carriera; abitazione e vitto nell’ospedale, riposo giornaliero, setti-manale ed annuale senza diminuzione di stipendio; iscrizione alla Cassa per gli infortuni,per l’invalidità e la vecchiaia; salario anche in caso di malattia per migliorare la situazio-ne lavorativa. A queste condizioni Celli aggiungeva la rinuncia ai vincoli familiari, chie-dendo dunque una dedizione assoluta alle donne che intendessero abbracciare questa che,più che una attività lavorativa, assumeva le caratteristiche di una vera e propria missione.

Se in altre professioni già aver marito e figli porta seco un aggravio di lavoro per la donna eper conseguenza una diminuzione della sua attività, nella professione di infermiera diventaaddirittura un’ironia. Assistere i malati non richiede soltanto tutta la nostra attività, ma tutti inostri pensieri e tutto il nostro cuore. Può una donna che ha figli, dar tutta la miglior parte disé ai malati affidati alle sue cure? Può una donna ai suoi doveri di madre unire quelli di unabuona infermiera? Non parliamo delle difficoltà materiali. Dopo 12 ore di servizio passatonella corsia degli ammalati, essa torna a casa e deve dedicarsi alla famiglia, sbrigare le faccen-de di casa. […]. La professione d’infermiera ha bisogno di tutto l’individuo, non può divider-lo colla famiglia, cioè coi doveri della figliolanza!164

Non mancarono le polemiche e le contestazioni intorno a questa sua idea di richie-dere per le donne ancora la condizione di nubilato o vedovanza ma, al di là di questo

159 Ivi, pp. 290-292.160 In Emilia-Romagna, secondo i dati raccolti con i vari censimenti, si poteva notare una lieve pre-

valenza di personale femminile: nel 1901 870 infermiere contro 801; nel 1911 1.167 e 950; nel 19211.576 contro 1.531.

161 Anna Fraentzel Celli (1878-1958) diplomata infermiera in Germania, si trasferì in Italia dopoaver sposato Angelo Celli, direttore dell’istituto di Igiene dell’Università di Roma. Appartenente all’U-nione Femminile, istituì il Comitato scuole per i contadini dell’Agro Romano e si dedicò alla lotta anti-malarica, al miglioramento delle condizioni di vita dei contadini della campagna romana e, in genera-le, alla sensibilizzazione sanitaria e igienica della società italiana.

162 I vari interventi di Anna Celli vennero raccolti nel volume La donna infermiera in Italia, Roma,Tip. naz. di G. Bertero & C., 1908.

163 ANNA CELLI, Per le scuole delle infermiere, «Nuova Antologia», 1° ottobre 1908, pp. 481-489.164 Ivi, p. 486.

Page 67: 70 - online.ibc.regione.emilia-romagna.itonline.ibc.regione.emilia-romagna.it/I/libri/pdf/ERBA_70.pdf · Le donne organizzate: fasci femminili e sezioni operaie e lavoranti a domicilio

Tra due secoli 47

aspetto, le sue proposte suscitarono, al tempo, un notevole interesse anche se furonoapplicate e introdotte nel sistema sanitario con molta lentezza, se ancora nel 1913, comerisulta dal regolamento per il personale dell’istituto ortopedico Rizzoli, le infermiereavevano compiti assimilabili a quelli degli inservienti, quali la pulizia dei locali.165

Nel frattempo, però, nascevano aggregazioni sindacali, in gran parte costituite dauomini, con lo scopo di rappresentare il personale ospedaliero nelle controversie nonsolo retributive e migliorative del trattamento lavorativo ma anche di formazione, pro-tezione, assistenza degli aderenti. Queste associazioni si riunirono già nel 1914 a Vene-zia in una assise nazionale per richiedere una maggiore tutela della categoria.166

Nel 1919, invece, le aderenti al Consiglio nazionale delle donne italiane, provenien-ti dalla Croce Rossa, costituirono l’Associazione nazionale italiana tra le infermiere(Aniti) allo scopo di incrementare l’assistenza, il mutuo soccorso in caso di malattia ela previdenza fra le aderenti. Il sodalizio possedeva anche un proprio organo di stampa,il «Bollettino d’Informazione». L’Aniti, avendo nello statuto le caratteristiche peculia-ri richieste, venne riconosciuta e affiliata al Consiglio internazionale delle infermierenel 1922. Poco dopo ne fu estromessa: l’avvento del fascismo le aveva tolto le caratte-ristiche di apoliticità, aconfessionalità, costituzione su base democratica, richieste perpoter rimanere all’interno dell’organismo sovranazionale.167

Le crocerossine

Uno dei settori tipici e tradizionali di impegno femminile era quello delle crocerossi-ne che risaliva all’iniziativa pionieristica dell’inglese Florence Nightingale durante laguerra di Crimea (1853-1856). In Italia il volontariato femminile in questo campo erastato promosso dalla Croce Rossa, sorta nel 1864, e successivamente incentivato da donnedi ceto medio-alto, come Sita Camperio Meyer,168 che, supportata dalla organizzazionecui apparteneva, aveva dato vita a Milano nel 1907 al primo corso per crocerossine. Adesso seguì l’apertura, il 9 febbraio 1908, di una scuola nell’ospedale militare del Celio aRoma, atto che segnava ufficialmente la nascita del Corpo delle infermiere volontarie. Ilcorso era di cinque mesi – i primi quattro dedicati alle lezioni teoriche, l’ultimo di eser-citazioni pratiche – e si concludeva con un esame abilitante. All’atto dell’iscrizione sirichiedeva l’adesione alla Croce rossa italiana e l’impegno a intervenire in caso di guer-ra o nelle missioni di soccorso alle popolazioni colpite da epidemie e calamità naturali.

In Emilia-Romagna, nello stesso periodo, si inauguravano le scuole infermieristichedi Modena e di Bologna, istituita quest’ultima il 16 marzo 1908, con «95 iscritte, di cui39 seguirono il corso e 56 sostennero l’esame, ottenendo il diploma di infermiera e lamedaglietta dopo i tre anni regolamentari di studi».169

165 Regolamento organico per il personale dell’istituto ortopedico Rizzoli in Bologna, Bologna,Coop. Tip. Azzoguidi, 1913, p. 8.

166 E. MANZONI, Storia e filosofia dell’assistenza infermieristica cit., p. 108.167 Ibidem.168 Sita Camperio Meyer (1877-1967) si diplomò infermiera della Cri nel luglio del 1909 e nel

novembre 1911 conseguì il grado superiore. Pluridecorata, nel 1933 ottenne il più alto riconoscimen-to con la medaglia «Nightingale». Cfr. STEFANIA BARTOLONI, Italiane alla guerra. L’assistenza ai feri-ti 1915-1918, Venezia, Marsilio, 2003, pp. 50-57.

169 CROCE ROSSA ITALIANA, COMITATO REGIONALE DELLA VI CIRCOSCRIZIONE, La scuola infermierevolontarie di Bologna (1914-1915-1916), Bologna, Stab. poligrafico emiliano, 1915, p. 5. Pare che aBologna già dal 1903, per la collaborazione fra Scuola samaritana e Università popolare, fosse in

Page 68: 70 - online.ibc.regione.emilia-romagna.itonline.ibc.regione.emilia-romagna.it/I/libri/pdf/ERBA_70.pdf · Le donne organizzate: fasci femminili e sezioni operaie e lavoranti a domicilio

48 Dall’Unità d’Italia alla prima guerra mondiale

La prima mobilitazione che vide le ‘dame bianche’ all’opera riguardò il terremotoche colpì drammaticamente la Calabria e la Sicilia nel dicembre del 1908. Dopo moltidubbi, furono impiegate 260 volontarie: una parte venne distribuita negli ospedali dellecittà costiere, altre accolsero i profughi nei centri di smistamento di Firenze e Napolimentre alcune si imbarcarono sulla nave Taormina e sui treni ospedale.170 Importante fupoi la loro partecipazione alla missione per lo sgombero dei malati e dei feriti sulla naveMenfi nella guerra italo-turca. Per l’occasione furono selezionate 66 infermiere cheprestarono la loro opera dall’ottobre 1911 al marzo 1912 riportando in Italia 1.238degenti.171 L’operazione fu un successo anche per l’impatto esercitato sull’opinionepubblica: le crocerossine diedero una immagine di forza, sicurezza, serenità e riusciro-no, con fermezza, a ribaltare tutti i luoghi comuni che le volevano deboli e fragili, faci-li a svenimenti e pianti, incapaci dunque di portare vero soccorso e di solo intralcio peri medici. Nel frattempo un gruppo di volontarie era stato inviato sul fronte balcanico ealtre, nell’inverno 1915, si recarono sui luoghi del terremoto della Marsica.

Allo scoppio della grande guerra l’organizzazione della Croce Rossa si mise inmoto per mobilitare le ‘bianche sorelle’, che furono coinvolte in gran numero in operedi assistenza sanitaria nelle immediate retrovie del fronte, sui treni-ospedale destinati altrasporto dei feriti172 e nei luoghi di ricovero del paese. Secondo calcoli sommari, nel1917 le volontarie erano quasi 10.000 e altrettante quelle organizzate da altre associa-zioni di soccorso.173

Le infermiere impiegate al fronte furono oltre un migliaio.174 In questa loro attivitàalternavano momenti di riposo a un impegno al limite della sopportazione. Dopo ogniassalto, l’arrivo convulso di feriti le mobilitava, in netto contrasto con i ritmi più tran-quilli delle strutture territoriali. Ad esse spettava sedare la paura di chi era scampato allacarneficina, consolare quelli al limite della follia, calmare chi con rabbia imprecavacontro il conflitto e non voleva tornare in trincea, assistere i moribondi, ricomporre imorti e scrivere alle famiglie dei soldati che non ce la facevano. Condivisero il perico-lo, il dolore e l’orrore di un massacro privo di senso. Oltre alle difficili e talvolta impos-sibili condizioni di lavoro, alla scarsa strumentazione, all’assenza di farmaci e localiadeguati, le volontarie dimostrarono grandi capacità di adattamento: in stanze fredde espartane dovettero imparare a convivere con furiosi bombardamenti, freddo, disagi,fame, parassiti e topi. Molte dovettero faticare non poco per essere accettate. La dichia-rata ostilità di alcuni ufficiali medici e i diffusi pregiudizi sulle capacità femminili agi-rono, soprattutto agli inizi, come deterrente al pieno utilizzo delle volontarie. Per non

funzione un corso per infermiere. Sull’organizzazione del capoluogo emiliano cfr. M. PAZZI, La ScuolaSamaritana bolognese, Bologna, Parmeggiani, 1903.

170 S. BARTOLONI, Italiane alla guerra cit., p. 62.171 Ivi, p. 72.172 Durante il conflitto, operarono ventiquattro treni ospedale che svolsero un ruolo importante

anche nel recupero dei prigionieri malati. Ben attrezzate, provviste di tutte le figure e i servizi neces-sari per garantirne l’autosufficienza, le unità sanitarie su rotaie erano composte da quattordici vetture,compreso un settore riservato ai contagiosi. Di norma il numero degli addetti previsti era di otto uffi-ciali, quarantotto fra sottufficiali e militi e quattro infermiere. I convogli, durante il conflitto, arrivaro-no a contenere oltre 300 posti letto. Cfr. Donne al fronte. Le infermiere volontarie nella Grande Guer-ra, a cura di S. Bartoloni, Roma, Jouvence, 1998, pp. 127-128.

173 Si mobilitarono anche le antiche società di soccorso come la Scuola Samaritana, la Croce Verde,la Croce Bianca che istituirono varie sezioni femminili. Sulle cifre della mobilitazione cfr. S. BARTO-LONI, Italiane alla guerra cit., p. 18.

174 Donne al fronte cit., p. 139.

Page 69: 70 - online.ibc.regione.emilia-romagna.itonline.ibc.regione.emilia-romagna.it/I/libri/pdf/ERBA_70.pdf · Le donne organizzate: fasci femminili e sezioni operaie e lavoranti a domicilio

Tra due secoli 49

parlare del poco rispetto che, talvolta, usarono loro gli inservienti o gli infermieri tenu-ti ad eseguire gli ordini da loro impartiti essendo equiparate al grado di ufficiale. Varicordato che non percepivano alcun compenso per il lavoro svolto.

Negli ospedali territoriali, invece, le militanti rossocrociane erano presenti in tutti ireparti, e lavoravano sia nelle sale operatorie sia nelle corsie. Responsabili degli strumen-ti chirurgici e degli armadietti contenenti farmaci e bende, distribuivano la colazione e laterapia prescritta, accompagnavano il primario o il capo reparto nella visita giornaliera,medicavano laddove era necessario, seguivano i pazienti nelle sale fisioterapiche, in quel-le per la rieducazione e portavano in giardino chi non poteva recarvisi da solo. Infine, almomento dei pasti aiutavano chi non era in grado di provvedere a se stesso. Nel pomerig-gio, dopo la consegna alle colleghe del secondo turno e il riposo dei feriti, alcune si occu-pavano dei degenti che svolgevano varie attività – di solito di tipo artigianale – nei labo-ratori per la rieducazione professionale, mentre ad altre spettavano la distribuzione di libri

ARNALDO ROMAGNOLI, Soldati feriti assistiti dalle crocerossine all’interno dell’infermeriaallestita nei magazzini ferroviari della stazione di Bologna, 1915-1918, Collezioni d’Arte e diStoria della Fondazione Cassa di Risparmio, Bologna

Page 70: 70 - online.ibc.regione.emilia-romagna.itonline.ibc.regione.emilia-romagna.it/I/libri/pdf/ERBA_70.pdf · Le donne organizzate: fasci femminili e sezioni operaie e lavoranti a domicilio

50 Dall’Unità d’Italia alla prima guerra mondiale

e la lettura per i pazienti che non potevano o non sapevano leggere, l’aiuto nella compi-lazione di lettere, il riordino del guardaroba e, infine, servire la cena. La giornata si chiu-deva con l’arrivo delle volontarie addette al turno di notte. Oltre alle cure e al conforto,cercavano di organizzare un minimo di attività sociale per lo svago e la socializzazione.

La mobilitazione delle crocerossine scatenò nell’opinione pubblica reazioni contra-stanti che andarono da timidi incoraggiamenti, a malcelati disagi, fino a una apertaopposizione. La paura dei benpensanti nasceva dall’improvvisa libertà di cui, soprattut-to ragazze e giovani signore, avrebbero usufruito e si accompagnava ai timori dell’ec-cessiva vicinanza fra i due sessi. Nonostante la figura della crocerossina fosse tale dapromuovere l’impegno femminile senza contraddire, anzi estendendo e perfezionandoil lavoro di cura e di assistenza normalmente svolto, tutto ciò avveniva nella promi-scuità degli ospedali, dove queste donne venivano quotidianamente in contatto conuomini sconosciuti e più precisamente col loro corpo bisognoso di cure:

Ierlaltro il presidente ci aveva convocate per dirci che i nuovi richiami rendono più difficile ilservizio e chiederci di venire più presto e di assumere anche i cosiddetti bassi servizi. Natu-ralmente, accettammo di tutto cuore. E così in talune sale facciamo il servizio intero. Per for-tuna, anche i soldati trovano ogni cosa naturale (siamo le sorelle) e così non vi è imbarazzo néda una parte, né da l’altra.175

L’insistenza sul ruolo sororale e/o materno delle infermiere serviva proprio a occul-tare e rimuovere quello sessuale, minimizzando rischi e tentazioni dovuti alla conviven-za, evitando quel disordine morale che poteva derivarne:

E qui si rivela l’infermiera di vocazione, che sa diventare semplicemente una mamma, anchecon ragazzoni che hanno quasi la sua età, e riesce a compiere le più umili bisogne con quellaprestezza di mano, con quella delicatezza di modi, con quella semplice affettuosità che ispira-no una confidenza rispettosa e placano ogni allarme di pudore. Non sono più un uomo e unadonna, di fronte l’uno all’altro: sono due creature, unite nello stesso spirito e nello stesso sen-timento e mentre l’una dà, l’altra riceve, con cuore puro, il più ineffabile dei doni, la carità.176

In questo senso tanto l’accento posto sul ruolo materno quanto la distanza socialetra crocerossine (di ceto medio-alto) e pazienti (in maggioranza contadini) doveva ser-vire da antidoto fissando confini netti. Si comprende così la ragione del divieto, detta-to dai regolamenti, alle infermiere di occuparsi di ufficiali (generalmente di estrazionesociale omogenea alla loro), se non in casi di emergenza. Alle volontarie venivano,invece, affidati i soldati semplici i quali non avrebbero osato mancare loro di rispetto.

L’impegno in queste attività diede modo ad una parte di donne di ‘uscire allo sco-perto’, varcare i confini chiusi della famiglia, assumere una nuova rilevanza pubblica e

175 ANTONIETTA GIACOMELLI, Dal diario di una Samaritana. Ai nostri soldati e alle loro infermie-re, Milano, A. Solmi, 1917, pp. 38-39. Giacomelli (1857-1949), nota negli ambienti del riformismoreligioso, durante la guerra si impegnò in una intensa attività assistenziale come infermiera samarita-na. Su di lei cfr. ANNA SCATTIGNO, L’educazione della donna nella cultura modernista: Antonietta Gia-comelli, in L’educazione delle donne. Scuole e modelli di vita femminile nell’Italia dell’Ottocento, acura di Simonetta Soldani, Milano, Franco Angeli, 1989, pp. 531-550.

176 ELISA MAJER RIZZIOLI, Accanto agli eroi. Crociera sulla “Memfi” durante la conquista di Libia,Milano, Libreria ed. milanese, 1915, p. 80. Rizzioli nata a Venezia nel 1880, frequentò il primo corsodella città e fece servizio nella guerra del 1915, sostenne l’impresa fiumana e aderì al fascismo fon-dando nel 1925 i Fasci femminili. Morì a Milano nel 1930.

Page 71: 70 - online.ibc.regione.emilia-romagna.itonline.ibc.regione.emilia-romagna.it/I/libri/pdf/ERBA_70.pdf · Le donne organizzate: fasci femminili e sezioni operaie e lavoranti a domicilio

Tra due secoli 51

utilità sociale. L’eccezionalità delle circostanze le portava lontane da casa per lunghimesi, rompeva i ritmi della loro quotidianità, consentiva di intrecciare nuove relazionipersonali all’interno di una cornice di elevato valore morale. Dei significati del volon-tariato delle crocerossine si hanno interessanti riscontri nelle loro testimonianze, dovesi coglie spesso la coesistenza tra sentimenti di pietà e dolore per lo strazio dei feriti esentimenti di soddisfazione, di appagamento per l’occasione avuta di mostrare, appun-to, il proprio valore.177 Molto spesso, quest’ultimo appare il tema dominante, quello chedà il tono agli scritti:

Oggi è partito Castelli, una delle glorie del nostro bravo primario. Quando rammento in qualestato pietoso è arrivato sei mesi fa… pareva un caso disperato. Egli mi ricorda una mattinaemozionante della scorsa estate, nella quale ero stata destata dall’allarme degli aeroplani. Miero vestita a precipizio ed ero andata all’ospedale di corsa. Della gente che abita incontro [sic],usciva correndo verso il rifugio vicino. Uno mi gridò appresso: «Imprudente!». Un altro:«L’arresteranno». Ma chi oserà arrestare uno che va a compiere il proprio dovere? Intanto s’eraudito lo scoppio di parecchie bombe. Quando salii le scale dell’ospedale, vidi tracce di sangue[…]. Tutti i feriti e i malati dell’ultimo piano erano stati portati abbasso, i più gravi nei lettivuoti del primo piano, gli altri nei rifugi. Nessuna confusione, nessuna diserzione, il panicoera stato vinto dal sentimento del dovere. Solo Castelli, non trasportabile, era rimasto di sopracon suor Blandina. Salii per darle il cambio. Traversando le sale, vidi le tracce della furia conla quale erano state sgombrate. Dai letti vuoti pendevano le coperte, qua e là erano vesti tra-scinate per terra, oggetti caduti e rovesciati. La suora non volle muoversi. Rimanemmoentrambe, mentre nel cielo seguitava il fragore della lotta aerea, e ogni tanto si distingueva loscoppio di una bomba. Il ferito voleva mandarci via: «Voialtre sorelle, non siete soldati» dice-va. Io risposi: «Sì, siamo soldati anche noi, figliolo e siamo così contente di condividere unbriciolino dei vostri pericoli». S’udiva sul tetto passare il rombo di un motore. Una bomba, inquel mentre, scoppiava vicino.178

Fermezza, dignità, coraggio, dimostrati senza dubbio da Maria Antonietta Clerici laquale, dopo la rotta di Caporetto nell’ottobre del 1917, rifiutò di abbandonare i feritigravi intrasportabili e per questo venne imprigionata nel campo di concentramento diKatzenau:

Lo sgombero dei feriti leggeri e trasportabili sui treni, continuava intanto febbrile e incessan-te. Un lavoro vertiginoso e fantastico! Sgombrammo in pochi giorni – credo – circa duemilaferiti. La sera del 27 [ottobre 1917], verso le ventitre, mi ritirai in camera esausta per la stan-chezza e per l’angoscia. Poco dopo arrivò, per noi infermiere, l’ordine di ritirarci. Io non avevoancora compreso che l’ospedale era destinato a rimanere, per continuare l’assistenza ai feritigravi intrasportabili; non avevo ancora concepito – né l’avrei potuto – l’orrore della situazio-ne. Pensavo che tutti i feriti avrebbero avuto al domani la possibilità di salvarsi, e contavo dipartire con uno degli ultimi treni ospedale. […] Certo, in quel momento io non prevedevo néla ritirata precipitosa che si iniziò per la III armata la stessa notte, né lo stato d’animo mioallorché mi trovai, più tardi, di fronte ai molti feriti che avrei dovuto lasciare in balia dell’i-gnoto. […] Salii in reparto. Fui salutata come una benedizione da quei poveri ragazzi che,inchiodati a letto dalle gravi ferite, vedevano gli altri mettersi in salvo. […] Feriti al cranio, alpetto, all’addome…, moltissimi polmonitici. Qualcuno agonizzava… […]. Sentii che la miapersona scompariva di fronte a quegli infelicissimi, sentii che qualsiasi sorte, qualunque sven-tura mi fosse riservata, io non potevo lasciare quei ragazzi, che tutto avevano dato alla Patria.

177 Cfr. ANTONIO GIBELLI, La Grande guerra degli italiani 1915-1918, Milano, Rizzoli, 1998, pp.201-205.

178 A. GIACOMELLI, Dal diario di una Samaritana cit., pp. 22-23.

Page 72: 70 - online.ibc.regione.emilia-romagna.itonline.ibc.regione.emilia-romagna.it/I/libri/pdf/ERBA_70.pdf · Le donne organizzate: fasci femminili e sezioni operaie e lavoranti a domicilio

52 Dall’Unità d’Italia alla prima guerra mondiale

Allora chiamai a raccolta le mie energie migliori, ed imposi all’animo mio la calma e la sere-nità necessaria. Intuii la gravità dell’atto che compivo rifiutando di mettermi in salvo, ma ebbiforte, diritta, chiara, la visione della via da seguire… e mi decisi.179

Con motivazioni fra le più varie, Clerici manifestò una capacità di scelta per queitempi inedita e insospettata, come fecero la gran parte delle italiane durante il primoconflitto mondiale.

Le lavoratrici dello Stato

Le tabacchine

Tra le donne ammesse alle dirette dipendenze dello Stato, anche se in attività periferi-che rispetto alla sua gestione, vi erano quelle che lavoravano nelle manifatture tabacchi.180

Tutte le fasi della lavorazione del prodotto erano esercitate fondamentalmente damanodopera femminile: nel 1901 lavoravano nel settore, su un organico di 13.313 unità,12.044 donne pari al 90,5% del totale,181 divise in diciassette stabilimenti, dislocati sututto il territorio nazionale, tra cui quelli capaci dei più alti livelli produttivi erano a Mila-no, Venezia, Torino, Firenze, Roma e, in Emilia-Romagna, a Modena e a Bologna.182

Nel 1865 la manifattura di Bologna occupava 1.159 operai e «produceva kg 1.300di tabacchi divisi in ventiquattro prodotti, fra cui otto qualità di sigari». Dopo alcunidecenni di decremento di produzione e di manodopera, nel 1905 la crisi poteva dirsisuperata: alla produzione – venivano trattati 1.455 chili di tabacco, divisi in dodici pro-dotti – erano impiegate 439 persone,183 di cui 361 donne e una «avventizia al di sottodei 15 anni».184

179 MARIA ANTONIETTA CLERICI, Al di là del Piave, coi morti e coi vivi. Ricordi di prigionia, Como,Libreria ed. V. Omarini, 1919, pp. 11-14. Allieva a partire dal marzo 1912, diplomata nel dicembre1914, partecipò al conflitto fino alla rotta di Caporetto, dopo di che venne internata a Katzenau, con-dividendo la sua esperienza di prigionia con altre due infermiere volontarie Maria Andina e Maria Con-cetta Chludzinska. Rientrata in Italia nel maggio 1918, ottenne vari riconoscimenti.

180 Le attività connesse alla produzione del tabacco in tutti i paesi sono sempre state considerateuna prerogativa dello Stato e sono state svolte in un regime di monopolio per la loro alta redditività.Le manifatture esistenti negli Stati pre-unitari vennero, pertanto, organizzate dal nuovo Regno d’Italiain una struttura centralizzata, la Regia Cointeressata, e dal 1884 la lavorazione del tabacco fu gestitadirettamente dallo Stato, in specie dal Ministero delle Finanze, attraverso la Direzione generale deiMonopoli.

181 S. SOLDANI, Strade maestre e cammini tortuosi. Lo Stato liberale e la questione del lavoro fem-minile, in Operaie, serve, maestre, impiegate, a cura di Paola Nava, Torino, Rosenberg & Sellier, 1992,pp. 289-352: 296 e GIORGIO PEDROCCO, Le operaie delle manifatture tabacchi, in Operaie, serve, mae-stre, impiegate cit., pp. 353-362: 354.

182 In Emilia chiusero, nel corso dell’Ottocento, le manifatture di Parma e Ferrara.183 I pochi uomini in servizio erano in genere addetti alla manutenzione degli impianti.184 La manifattura tabacchi di Bologna fu istituita nel 1801 nel luogo dell’ex convento di S. Maria

Nuova in via Riva Reno. Con la caduta del governo napoleonico e il ritorno di quello pontificio, lamanifattura acquistò importanza, anche a seguito della chiusura di quella di Ferrara, tanto che nel 1817impiegava 76 operai destinati alla lavorazione di ben 32 prodotti diversi: dai sigari comuni ai Virginia,Levante e Moro, con una produzione annua di kg 171.000 di tabacco lavorato. Nel 1831 impiegava già400 operai che, nel giro di alcuni anni, giunsero a 600. Per i dati qui riportati cfr. «Il Tabacco», nume-ro unico pubblicato in occasione dell’Esposizione internazionale di Milano, [Roma, 1906], pp. 47-48.

Page 73: 70 - online.ibc.regione.emilia-romagna.itonline.ibc.regione.emilia-romagna.it/I/libri/pdf/ERBA_70.pdf · Le donne organizzate: fasci femminili e sezioni operaie e lavoranti a domicilio

Tra due secoli 53

Le manifatture erano luoghi ano-mali nel panorama industriale italia-no per il ricorso prevalente ad unamanodopera femminile altamentequalificata. A differenza degli opifi-ci in cui le donne erano spesso rele-gate in mansioni residuali e di servi-zio, qui le tabacchine – organizzatein squadre e, per lungo tempo, forni-te di una tavoletta di legno duro e diun coltello quali unici strumenti dilavoro – dimostravano di avere unaessenziale capacità professionalefatta di destrezza, precisione ed ele-vata agilità manuale.

La gestione dell’attività da partedello Stato si traduceva da una partenella tutela delle lavoratrici e dal-l’altra in una rigida disciplina azien-dale. Da una parte, infatti, assicura-va loro una «notevole stabilità di impiego», un orario di lavoro giornaliero di otto ore afronte delle dieci e più di altri comparti industriali e un salario di circa tre lire al gior-no – ma era soprattutto il cottimo, e quindi il duro lavoro, a garantirne il livello – con-siderato comunque «notevolmente superiore a quello delle operaie private» e soprattut-to «certo».185 Di contro comportava il loro inquadramento entro un complesso sistemadi norme, di emanazione ministeriale, che – forse meno arbitrarie di quelle in vigorenelle industrie private – erano di certo più invadenti e rigide.

L’articolato regolamento disciplinava rigidamente, nei modi e nei tempi, l’esecuzio-ne del lavoro delle tabacchine, ne scandiva l’intera giornata dall’ingresso in fabbrica,arrivava a controllarne persino la condotta privata e a condizionarne lo stile di vita:venivano, infatti, sanzionati con severità non solo i ritardi e le infrazioni sul lavoro maanche i comportamenti ritenuti immorali o contrari all’ordine pubblico. Sigari valutaticome difettosi, risate in laboratorio, battute considerate troppo licenziosa, risposte bru-sche all’esortazione di un capo-laboratorio potevano costare alle ‘colpevoli’ anchediversi giorni di sospensione dal lavoro, con conseguente cospicua perdita di salario.Così, seguendo il rigido regolamento disciplinare, venivano multate «per aver cantato»o sospese «per aver fatto chiasso in laboratorio» ragazzine di 11 o 12 anni che, tra l’al-tro, venivano assunte come ‘avventizie’ in violazione del limite di 15 anni imposto perl’ingresso in fabbrica, in ragione di presunte esigenze di produzione.186

Ad assicurare il rispetto dell’organizzazione interna alle manifatture vi era un com-plesso apparato di sorveglianza, strutturato gerarchicamente che vedeva, ai vertici e nei

Manifattura dei tabacchi di Bologna. Laboratorioper la formazione delle boette dei tabacchi inpolvere, «Il tabacco», numero unico pubblicato inoccasione dell’Esposizione internazionale diMilano, 1906, Biblioteca dell’AccademiaNazionale di Agricoltura, Bologna

185 MINISTERO DI AGRICOLTURA, INDUSTRIA E COMMERCIO, UFFICIO DEL LAVORO, Notizie sull’appli-cazione della legge 19 giugno 1902, n. 241, sul lavoro delle donne e dei fanciulli, Roma, Officina poli-grafica italiana, 1906, citato in S. SOLDANI, Strade maestre e cammini tortuosi cit., p. 298.

186 ORNELLA BIANCHI, Le lavoratrici del tabacco nella storia del sindacalismo italiano, in Mondifemminili in cento anni di sindacato, a cura di Gloria Chianese, Roma, Ediesse, 2008, pp. 87-105: 90-91 e LORETTA GIOVANELLI, Vita di fabbrica delle sigaraie modenesi tra Otto e Novecento. Una ricercasui registri disciplinari, in Operaie, serve, maestre, impiegate cit., pp. 363-376.

Page 74: 70 - online.ibc.regione.emilia-romagna.itonline.ibc.regione.emilia-romagna.it/I/libri/pdf/ERBA_70.pdf · Le donne organizzate: fasci femminili e sezioni operaie e lavoranti a domicilio

54 Dall’Unità d’Italia alla prima guerra mondiale

ruoli strategici per il mantenimento della disciplina e del funzionamento della produ-zione, personale maschile, e nei singoli laboratori, a diretto contatto con le operaie, concompiti oltre che di controllo anche di insegnamento, le cosiddette ‘maestre’ e le sor-veglianti, selezionate dalla Direzione tra le operaie più affidabili.187 Una vasta gammadi sanzioni – dalle multe alla riduzione del salario, dalle sospensioni al licenziamento– era il naturale corollario di questo complesso sistema disciplinare, allestito con la fun-zione di assicurare la corretta e puntuale esecuzione del lavoro ma anche e soprattuttodi dissuadere, ancor prima di punire e reprimere, insofferenza e ribellione come purequalsiasi forma di organizzazione sindacale e politica.188

Il sistema aziendale repressivo; l’azione di razionalizzazione del lavoro messo in attodalle direzioni che, per contenere i costi di produzione, fornivano tabacco di scarsa qua-lità così da costringere a consegnare prodotti imperfetti retribuiti in misura minore; l’in-tensificazione dei ritmi produttivi, spinti fino a richiedere il confezionamento di oltremille sigari al giorno, quantità raggiunta solo dalle più abili o a costo di rinunciare allegià scarse pause, finirono con l’alimentare le proteste delle tabacchine, che scioperavanoper ottenere miglioramenti lavorativi, salariali e, in particolare, la copertura pensionisti-ca. Il peggioramento delle condizioni di lavoro alimentava, infatti, una forte insofferenzaverso quell’assegno di ‘valetudinarietà’ riconosciuto alle operaie anziane o inabili al lavo-ro, a patto che avessero maturato almeno 35 anni di servizio e avessero 60 anni di età.189

A tutto questo si aggiungeva anche l’insalubrità del lavoro. Proprio per valutare lecondizioni sanitarie delle lavoratrici del tabacco, nei primi anni del Novecento venivarealizzata una inchiesta ministeriale, coordinata dal medico deputato Angelo Celli, chesi basava su un campione di 8.100 giovani donne, fra i 20 e i 25 anni, di varie manifat-ture, con meno di cinque anni di lavoro. Secondo i risultati raggiunti dall’indagine,l’84% di esse era in buona salute e le mediocri condizioni del 15% erano dovute essen-zialmente alle precarie condizioni di vita e all’ereditarietà:190 il quadro patologico diqueste ultime era perciò dovuto a una serie di fattori negativi (abitazioni malsane, pre-coce avviamento al lavoro, alimentazione insufficiente, scarsa igiene) piuttosto che allalavorazione del tabacco, facile alibi per giustificare gli allarmanti dati statistici sullamorbilità delle lavoratrici caricando su questi fattori esterni le responsabilità maggioridelle loro precarie condizioni di salute. L’inchiesta ministeriale, dunque, rispose inmaniera sorprendentemente ottimistica ai quesiti di fondo sullo stato di salute delletabacchine là dove affermava che «la lavorazione del tabacco, quale si svolgeva nellemanifatture italiane e nelle industrie del monopolio di Stato, non è per se stessa nocivaalla salute né delle operaie né della loro prole».191

187 LUCIANA SPINELLI, Disciplina di fabbrica e lavoro femminile. Le operaie delle Manifatture deiTabacchi (1900-1914), «Società e storia», VII, 1985, 28, pp. 319-372: 362-370; F. IMPRENTI, Operaiee socialismo cit., pp. 206-208; O. BIANCHI, Le lavoratrici del tabacco nella storia del sindacalismo ita-liano cit., p. 91.

188 Venivano proibite e punite con il licenziamento la diffusione della stampa antigovernativa, lapartecipazione a forme collettive di protesta, l’organizzazione – o anche solo l’adesione – alle Leghedi resistenza. Cfr. S. MERLI, Proletariato di fabbrica e capitalismo industriale cit., pp. 172-173.

189 Era una sorta di esigua pensione l’ammontare della quale poteva variare da un minimo di 3/10ad un massimo di 2/5 dell’ultimo salario. Cfr. O. BIANCHI, Le lavoratrici del tabacco nella storia delsindacalismo italiano cit., p. 94; L. GIOVANELLI, Vita di fabbrica delle sigaraie modenesi cit., p. 376.

190 Il lavoro femminile nell’Ottocento e nel Novecento. Le tabacchine. Coltivatrici, produttrici evenditrici, a cura di F. Taricone, Roma, Gangemi editore, 2005, p. 61.

191 MINISTERO DELLE FINANZE, Sulle condizioni igieniche e sanitarie dell’industria del tabacco in Ita-lia, Roma, Tip. Elzeviriana, 1908, citato in G. PEDROCCO, Le operaie delle manifatture tabacchi cit., p. 359.

Page 75: 70 - online.ibc.regione.emilia-romagna.itonline.ibc.regione.emilia-romagna.it/I/libri/pdf/ERBA_70.pdf · Le donne organizzate: fasci femminili e sezioni operaie e lavoranti a domicilio

Tra due secoli 55

Ben diverse le conclusioni a cui arrivò il dottor Luigi Tavernari nel suo Saggio d’i-giene industriale sulla Regia Manifattura dei Tabacchi di Modena192 che metteva inluce la tossicità e la nocività delle manifatture e la stretta correlazione tra patologie sof-ferte dalle operaie e lavorazione del tabacco. Il prodotto fermentato, manipolato quoti-dianamente, tenuto in grembo per tutta la giornata, i vapori e le polveri respirati, lasedentarietà forzata, la scarsa igiene, l’affollamento dei laboratori avevano effetti dele-teri sulla salute di queste donne – sicuramente malnutrite e già provate da un carico dilavoro che andava ben oltre a quello di fabbrica – e portavano a disturbi ovarici e respi-ratori, artrosi, glaucoma e tubercolosi.193

Sul finire dell’Ottocento, però, le tabacchine avevano ormai compreso la necessitàdi organizzarsi e il vantaggio dell’associarsi: già nel 1874 nasceva una Società dimutuo soccorso fra le operaie della manifattura bolognese il cui statuto del 1883 pre-vedeva l’assistenza delle socie in caso di malattia, un sussidio di una lira al giorno allepartorienti e un contributo mensile per le anziane.194 Da qui derivava il loro essere riu-scite a diventare «una parte importante della classe operaia organizzata», «dotate diuna lunga esperienza e di una crescente capacità di affrontare i loro problemi per lasoluzione dei quali avrebbero negli anni successivi affrontato lunghe lotte».195 Lunghee aspre lotte che le portarono ad ottenere, nel 1904, un nuovo regolamento con il qualeveniva definito ogni aspetto normativo e salariale del rapporto di lavoro e riconosciu-to loro il diritto di sciopero, una giornata di sette ore (con un’ora di riposo), l’istalla-zione di cucine economiche all’interno delle manifatture per farsi un pasto caldo, l’al-lestimento di stanze di allattamento, due mesi pagati di malattia e la cassa-pensioni,196

trovandosi così ad avere, come lavoratrici, una dignità e una sicurezza che altre dicerto non possedevano.

Le impiegate

Alla fine dell’Ottocento in Italia si assisteva al fenomeno della femminilizzazionedel lavoro impiegatizio pubblico e privato. La necessità di sviluppare le attività nei set-tori commerciali e nei servizi, aveva reso indispensabile il reclutamento di manodope-ra sufficientemente istruita, specializzata ma a costi ridotti. L’offerta si rivolse dunquealle donne della piccola borghesia urbana che, grazie alla diffusione dell’istruzionepubblica, potevano offrire un livello di preparazione culturale adeguata alle nuove pro-fessioni e una riserva di lavoro a buon mercato. Per questo, enti statali, compagnie diassicurazione e attività commerciali cominciarono ad ingaggiare segretarie, dattilogra-

192 LUIGI TAVERNARI, Saggio d’igiene industriale sulla Regia Manifattura dei tabacchi di Modena,Roma, Soc. ed. Dante Alighieri, 1900.

193 Il dottor Rosario Vitanza, che studiò le sigaraie palermitane, non esitò ad affermare una netta econclamata correlazione tra lavoro nelle manifatture e maggiore incidenza di episodi abortivi e morta-lità neonatale. Cfr. L. SPINELLI, Disciplina di fabbrica e lavoro femminile cit., pp. 350-351.

194 Statuto della Società di Mutuo soccorso fra gli operai e le operaie della Manifattura Tabacchidi Bologna, fondata il 1º aprile 1874, Bologna, Soc. tip. Azzi, 1883.

195 FRANCA PIERONI BORTOLOTTI, Vita di fabbrica e attività politica delle sigaraie fiorentine dal1874 al 1893, «Movimento operaio e socialista in Liguria», 1960, 4, p. 15.

196 MINISTERO DELLE FINANZE, DIREZIONE GENERALE DELLE PRIVATIVE, Regolamento del personalee mercede giornaliera delle Manifatture dei Tabacchi, Roma, [s.n.], 1904 che siglò conquiste impor-tanti e precoci, ma che le tabacchine non riuscirono poi a modificare fino al 1921. Cfr. S. SOLDANI,Strade maestre e cammini tortuosi cit., p. 298.

Page 76: 70 - online.ibc.regione.emilia-romagna.itonline.ibc.regione.emilia-romagna.it/I/libri/pdf/ERBA_70.pdf · Le donne organizzate: fasci femminili e sezioni operaie e lavoranti a domicilio

56 Dall’Unità d’Italia alla prima guerra mondiale

fe, archiviste; uffici postali e compagnie telefoniche e telegrafiche ad assumere ope-ratrici; negozi e grandi magazzini a reclutare commesse e istituzioni scolastiche aricercare insegnanti.

Nelle mansioni d’ufficio le donne venivano considerate adatte per loro qualità‘naturali’: pazienza e attenzione, docilità e sottomissione, discrezione ma, soprattutto,economicità. Le impiegate si rivelarono un buon investimento perché il rapporto tracosti e rendimento era estremamente conveniente, in primo luogo per le pubblicheamministrazioni, dove furono assunte soprattutto nel campo delle comunicazioni, set-tore che ebbe un rapidissimo sviluppo negli ultimi decenni dell’Ottocento grazie all’in-venzione e al perfezionamento di nuove tecnologie. Lo sforzo economico e organizza-tivo per diffondere il servizio postale, telegrafico e telefonico, essenziale per il conso-lidamento del moderno Stato, rese necessaria un’attenta politica degli ingaggi attraver-so un incremento del personale femminile, assunto però in forma precaria.

Le prime donne vennero impiegate dal Ministero dei Lavori pubblici (poi Comuni-cazioni) nel 1863: erano addette alle poste e ai telegrafi, negli uffici postali soprattuttocome ricevitrici o supplenti;197 negli uffici telegrafici, dopo aver prestato servizio comegiornaliere e dopo aver superato un concorso per esami, potevano raggiungere la qua-lifica di ausiliarie; negli uffici telefonici potevano trovare lavoro come commutatoriste,centraliniste, contabili, segretarie d’amministrazione.198

All’inizio, questa possibilità di lavoro era offerta solo alle vedove o alle orfane diun dipendente, conformemente ad una prassi tipica del mondo artigianale, per la quale,in caso di morte del capo dell’azienda familiare, era possibile per la parente assumer-ne il ruolo. Nel 1865 questa clausola famigliare venne resa meno vincolante, anche sela consanguineità poteva ancora rappresentare un elemento di preferenza nella scelta daeffettuarsi. È il caso questo di Emma Tinarelli, proposta dal marito, titolare dell’ufficiopostale di Mordano, come sua supplente «nei casi di assenza o impedimento».199 Vistal’ottima condotta politico-morale e il buon livello di studi, l’istanza venne accolta. Larichiesta presentata al Ministero dal titolare dell’ufficio postale di Praduro e Sasso,Domenico Bartolini, al fine di poter cedere il proprio impiego alla figlia Teodolinda,che già ne era supplente, non trovò invece accoglimento. Il questore, infatti, pur consta-tando il possesso da parte della ragazza dei requisiti necessari di buona condotta mora-le e capacità, doveva peraltro rilevare che il suo comportamento sul posto di lavoro davaadito a critiche: «è giovane, assai poco diligente e non mantiene la necessaria segretez-za. Permette l’entrata nell’ufficio a persone estranee e vuolsi apra talvolta lettere priva-te. Perciò l’ufficio postale, a dire di molti, non sarebbe bene affidato».200 Gli accerta-

197 I ricevitori erano responsabili ed organizzatori delle cosiddette ‘ricevitorie’ – gli odierni ufficipostali – successivamente fornite di servizio telegrafico e telefonico; mentre i supplenti, di fatto, eranosalariati del ricevitore, non avevano nessuna garanzia, né tutela del posto di lavoro.

198 MARIA LINDA ODORISIO, Le impiegate del Ministero delle Poste, in Il lavoro delle donne, a curadi Angela Groppi, Roma-Bari, Laterza, 1996, pp. 398-420: 404.

199 Lettera della Questura del circondario di Bologna al Prefetto, Imola, 19 novembre 1895, inASBo, Gabinetto di Prefettura, cat. 3, fasc. 10 «Poste e telegrafi», 1895.

200 Lettera della Questura del circondario di Bologna al Prefetto, Bologna, 14 luglio 1895, inASBo, Gabinetto di Prefettura, cat. 3, fasc. 10 «Poste e telegrafi», 1895. A tale proposito, è necessa-rio sottolineare che il Codice Penale prevedeva come «Delitto contro l’inviolabilità dei segreti», l’apri-re arbitrariamente lettere e telegrammi diretti ad altri, sopprimere corrispondenza epistolare o telegra-fica nonché «l’abuso e la rivelazione di segreto epistolare o telegrafico da parte del personale addettoa quei servizi», in DALMAZIO MAFFIOLI, Riordinamento dell’Amministrazione delle Poste e dei Telegra-fi. DD. RR. 26 gennaio 1899, nn. 43 e 44, Milano, Soc. ed. Libraria, 1899, p. 191.

Page 77: 70 - online.ibc.regione.emilia-romagna.itonline.ibc.regione.emilia-romagna.it/I/libri/pdf/ERBA_70.pdf · Le donne organizzate: fasci femminili e sezioni operaie e lavoranti a domicilio

menti eseguiti dalle pubbliche autoritàriguardavano soprattutto e in partico-lar modo il comportamento tenutodalle impiegate. Per la Direzionedelle Poste e dei Telegrafi si rendevanecessario verif icarne la moralitàpoiché «per avere titolo ad assumereil posto, devono risultare di costumiintegerrimi»:201 Armida Bacchetti, adesempio, si dimostrava di buona con-dotta politica «ma non così [per]quella morale imperocchè costei vivecoll’ufficiale telegrafico BacialliGiovanni, il quale ha fatto con la stes-sa solo il matrimonio religioso e l’Ar-mida ha avuto una bambina».202

Nei confronti delle impiegate dellePoste il pedagogismo dello Stato assunse caratteri molto pervasivi, a partire dalla proi-bizione del matrimonio e la cacciata per immoralità di chi si macchiasse – magari pernon perdere il posto – del reato di concubinaggio fino all’istituzione di qualificheseparate, che permettevano di evitare comunque ‘l’innaturale competizione’ con gliuomini, passando attraverso una rigida delimitazione degli spazi e delle sezioni dilavoro (suddivise in maschili e femminili) per garantire la debita ‘separazione deisessi’.203 Per le impiegate delle poste la clausola del nubilato fu abolita nel 1899 e loStato si limitò da allora a chiedere puntigliosamente, in ottemperanza alle normevigenti, l’autorizzazione del marito.204

Nonostante tutto, questo sbocco professionale costituiva uno dei pochi lavoridignitosi e rispettabili per le donne: nel censimento del 1881 erano impiegate pres-so il Ministero delle Poste 1.518 donne e, in quello del 1911, 2.707. Un incremen-to, la cui consistenza reale peraltro, non venne effettivamente registrata dalle stati-stiche ufficiali che riportavano solo le impiegate di ruolo; mentre, pur non disponen-do di un dato effettivo, è stato stimato indicativamente che nella sola categoria dellesupplenti nel 1908 si contassero almeno 10.000 donne su un totale di 16.000 dipen-denti non di ruolo.205

Tra due secoli 57

201 ASBo, Gabinetto di Questura, serie 241, 1897, cat. 9/B, prot. n. 82.202 Lettera della Sotto-Prefettura del circondario di Vergato al Prefetto di Bologna, Vergato,

29.6.1895, in ASBo, Gabinetto di Prefettura, cat. 3, fasc. 10 «Poste e telegrafi», 1895.203 Osserva Simonetta Soldani che «Il problema non era di igiene o di salvaguardia della prole,

ammesso che di questo si trattasse in altre situazioni, e che fosse comunque ragionevole parlare di‘incompatibilità fra servizio e stato coniugale’ in rapporto a condizioni di lavoro ritenute ‘insostenibi-li per una gestante o una puerpera’, come faceva nel 1911 una Commissione reale chiamata a studiarei problemi del personale telefonico. Ciò che si voleva era piuttosto inculcare norme di vita, indicarequale fosse il posto della donna all’indomani del matrimonio, farla uscire da un circuito che – in quan-to pubblico – era di per sé incongruo con la sua nuova condizione». S. SOLDANI, Strade maestre e cam-mini tortuosi cit., p. 296.

204 Cfr. Regolamento speciale pel personale degli uffici postali, Milano, Società editrice libraria,1911 (Collezione legislativa «Portafoglio» n. 1340-1342).

205 M. L. ODORISIO, Le impiegate del Ministero delle Poste cit., p. 399.

Telegrafista, «L’Illustrazione italiana», 1893,Istituto storico Parri Emilia-Romagna, Bologna

Page 78: 70 - online.ibc.regione.emilia-romagna.itonline.ibc.regione.emilia-romagna.it/I/libri/pdf/ERBA_70.pdf · Le donne organizzate: fasci femminili e sezioni operaie e lavoranti a domicilio

Le prime impiegate provenivano di frequen-te dalla piccola e media borghesia, anche aBologna è possibile individuare un flusso diragazze di tale ceto sociale che si indirizzavaverso questa occupazione. Un esempio su tutti:la ventunenne Adalgisa Bozzani, proposta come«aiuto fiduciario» del commesso postale diMolinella, proveniva da una famiglia di estra-zione piccolo-borghese (il padre era proprieta-rio di una avviata calzoleria in via Ugo Bassi ela famiglia, risiedente a Villa Brun, fuori portaS. Isaia, viveva agiatamente). Inoltre, la ragaz-za, «dotata di sufficiente coltura […] gode lapubblica fiducia».206

Il 40% circa delle impiegate statali a livellonazionale proveniva dalla provincia e spesso sidoveva trasferire in città, quindi lontano dallafamiglia, in condizioni difficili sia socialmente(la donna sola, priva di controllo famigliare, erasempre oggetto di sospetti e maldicenze) sia eco-nomicamente. Il loro salario, infatti, non consen-tiva di vivere autonomamente in modo decoroso.Il loro livello culturale era piuttosto alto (il 55%risultava diplomata alla scuola superiore) ma leloro possibilità di carriera erano praticamenteinesistenti così come non avevano diritto alla pensione, alle ferie retribuite, né alla stabi-lità di impiego, tutte prerogative invece riconosciute agli uomini almeno dal 1881.

Soprattutto le telegrafiste, però, non si diedero per vinte e dopo anni di intensis-sime lotte sindacali,207 grazie anche al relativo appoggio dei partiti di sinistra, riusci-rono a ottenere il riconoscimento di impiegate di ruolo. La loro situazione però rima-se sempre svantaggiata rispetto a quella degli uomini, sia dal punto di vista retributi-vo sia da quello delle possibilità di carriera. Le opportunità di avanzamento eranoestremamente ridotte: un’ausiliaria poteva al massimo diventare direttrice della sezio-ne femminile e «per arrivare a guadagnare il massimo dello stipendio consentito alsuo grado avrebbe dovuto lavorare per almeno 45 anni consecutivi raggiungendo altermine della carriera uno stipendio pari a un terzo di quello percepito da un suo col-lega con la stessa anzianità».208

Così descriveva le condizioni di lavoro delle ausiliarie telegrafiche, considerate l’ari-stocrazia delle impiegate del Ministero delle Poste, una grande scrittrice dell’epoca, Matil-de Serao, in un racconto del 1884, intitolato Telegrafi dello Stato (Sezione femminile):

Le trattavano come tante bestie da soma, con quei tre miserabili franchi al giorno, scematidalle tasse, dalle multe, dai giorni di malattia: e invece, esse avevano, quasi tutte il diploma di

58 Dall’Unità d’Italia alla prima guerra mondiale

206 Lettera della Questura del circondario di Bologna al Prefetto, Bologna, 10 aprile 1895, inASBo, Gabinetto di Prefettura, cat. 3, fasc. 10 «Poste e telegrafi», 1895.

207 La Federazione dei Postelegrafonici sorse nel 1902 e fu presieduta, per un primo periodo, daFilippo Turati.

208 M. L. ODORISIO, Le impiegate del Ministero delle Poste cit., p. 408.

NYTA JASMAR [Clotilde Scanabissi],Ricordi di una telegrafista, Bologna,Libreria editrice C. Galleri, 1913,Biblioteca Nazionale Centrale, Firenze

Page 79: 70 - online.ibc.regione.emilia-romagna.itonline.ibc.regione.emilia-romagna.it/I/libri/pdf/ERBA_70.pdf · Le donne organizzate: fasci femminili e sezioni operaie e lavoranti a domicilio

Tra due secoli 59

grado superiore e al telegrafo prestavano servizio come uomini, come impiegati di secondaclasse, che però avevano duecento lire al mese […]. Non erano nominate né con decreto regio,né con decreto ministeriale: un semplice decreto del direttore generale, revocabile da unmomento all’altro. Se le telegrafiste facevano cattiva prova, le potevan rimandare a casa, tutte,senza che avessero diritto di lagnarsi. L’avvenire? Quale avvenire? Erano fuori pianta, non ave-vano da aspettar pensione: anzi, diceva il regolamento che a quarant’anni il Governo le licen-ziava, senz’altro: cioè se avevano la disgrazia di restar telegrafiste sino a quarant’anni, ilGoverno le metteva sulla strada, vecchie, istupidite, senza sapere fare altro, consumate nellasalute e senza un soldo.209

Fare l’impiegata, nonostante tutto, segnava per le donne l’arricchimento, l’afferma-zione della propria identità attraverso nuove forme di consapevolezza.

Anche io ho infranto le pastoie; ho spezzato la dorata catenella […]. Vivrò del mio lavoro! Ohla gioia di esser liberi […]. Non voglio essere una parassita e tanto meno una schiava

affermava Marina, protagonista del romanzo Ricordi di una telegrafista di NytaJasmar, pseudonimo di Clotilde Scanabissi Samaritani.210 Il volume – scritto da unatelegrafista di Budrio, punita con un trasferimento a Torino per avere attentato con ilvolume «alla moralità telegrafica»– narra la vita immaginaria di una ragazza dell’altaborghesia che nel 1903 sceglieva di fare la telegrafista per ottenere la libertà.

Marina incarnava l’immagine ‘negativa’ dell’impiegata: viveva in un raffinato e lus-suoso pied à terre, vestiva di seta e merletti, si preparava raffinati pranzi, aveva unarelazione con un giovane, insomma faceva tutto quello che la società borghese sospet-tava si nascondesse dietro a quella pur debole possibilità di autonomia femminile, e loviveva con voluttà:

E sento un piccolo rimorso pensando alle povere colleghe che dispongono del solo stipendioed hanno debiti. Però la mia vera gioia è la libertà! Abbasso l’etichetta! Evviva le gambe incro-ciate e l’abbandono del corpo dove si sente attratto: abbasso la rigidezza!211

Le impiegate spesso erano costrette a difendere la propria reputazione dai continuiattacchi di coloro che, per motivi diversi, non approvavano la presenza delle donnenegli uffici: «Recentemente tutti i periodici riportarono una requisitoria contro le signo-

209 M. SERAO, Telegrafi dello Stato (Sezione femminile), «Nuova Antologia», ottobre 1884, pp.86-87. Il racconto apparve per la prima volta sulla rivista letteraria in due puntate, nell’ottobre enel novembre 1884 e venne raccolto, successivamente, nel volume Il Romanzo della fanciulla,pubblicato nel 1885. La scrittrice era stata, per un certo periodo, impiegata presso un ufficio deltelegrafo.

210 NYTA JASMAR [Clotilde Scanabissi], Ricordi di una telegrafista, Bologna, Libreria editriceCostantino Galleri, 1913. Clotilde Scanabissi, nacque a Budrio il 4 marzo 1873 in una modesta fami-glia di commercianti. Telegrafista per alcuni anni, l’8 dicembre 1904 sposava Tommaso Samaritani –da qui lo pseudonimo, anagramma del cognome dell’uomo – di nobile famiglia lughese ormai impo-verita. Il matrimonio durò poco, dopo alcuni anni i due si separarono. Morì a Budrio il 10 novembre1931. Il volume venne pubblicato a spese dell’autrice. Il numero di pagine fa riferimento all’edizionedella casa editrice Einaudi del 1975, p. 7.

211 Ivi, pp. 56-57. È particolarmente significativo che una povera telegrafista di paese, quale eral’autrice, potesse mettere in scena un rovesciamento così radicale della prospettiva moralistica domi-nante, segno indubbio della potenzialità positiva che si nascondeva dietro a questi nuovi lavori, seppurcosì poco rispettati.

Page 80: 70 - online.ibc.regione.emilia-romagna.itonline.ibc.regione.emilia-romagna.it/I/libri/pdf/ERBA_70.pdf · Le donne organizzate: fasci femminili e sezioni operaie e lavoranti a domicilio

60 Dall’Unità d’Italia alla prima guerra mondiale

rine impiegate, con una statistica fatta da un americano sulle ore che perdono le ragaz-ze impiegate, ciarlando, specchiandosi, ravviandosi i capelli, ecc.».212

Se la loro rappresentazione, che dava la stampa e che aveva in gran parte l’opinio-ne pubblica, rimandava a molti e tristi luoghi comuni – frivole, chiacchierone, imper-tinenti, spesso ignoranti e maliziose, incuranti del loro lavoro, mai della loro toilette– ben diversa e più complessa era la realtà di donne e lavoratrici che compariva suigiornali di categoria o su quelli delle associazioni femministe: articoli e prese di posi-zione che denotavano una chiara presa di coscienza sia politica sia di genere. Orga-nizzate e consapevoli, si opponevano alla valutazione negativa che veniva data delloro lavoro:

Le telegrafiste si ribellano ad un tale giudizio ed hanno tanta coscienza del loro dovere,hanno acquistato tanta esperienza del lavoro e della lotta quotidiana, da poter con pienacognizione di causa affermare che nessuna differenza invece esiste fra il lavoro compiutodagli uomini e quello compiuto dalle donne […] concludendo e per rispondere a chi sugge-risce al Ministro che le donne non rendono quanto gli uomini, noi diciamo che non credetea quello che dite. Voi sapete che della donna più docile per natura, più facilmente addome-sticabile, per atavismo soggetta, potete farne più agevolmente uno strumento di produzionee sfruttamento e […] dopo aver accasermato gli uomini tenendoli in servizio tutto il giorno,è venuta la volta delle donne, le quali, finché non trionfi il principio che a uguale lavoro sideve corrispondere uguale mercede, voi cominciate col denigrarle nell’opera loro, per poter-le meglio sfruttare.213

Oppure cercavano di attirare l’attenzione sugli aspetti più degradanti del loro lavoro:

I sacrifici di ogni genere fatti per conservarsi il posto sono spesso fatti anche nel lodevoleintento di procurarsi, dopo una vita di lavoro, un pane per la vecchiaia, mediante la pensione.Ma anche in questo lo Stato borghese e necessariamente sfruttatore, ha trovato il mezzo pereludere tali speranze. Con dei lunghi periodi di avventiziato, fuoriruolato o periodi consimili,non calcolati agli effetti della pensione, trova il mezzo di levare a queste disgraziate, oltre allapolpa della gioventù, anche l’ossame della vecchiaia.214

I ritmi incalzanti del lavoro da sbrigare, sotto l’incubo delle multe per gli errori o iritardi, la rigida disciplina che imponeva il silenzio e la concentrazione costante, le dif-ficoltà economiche che opprimevano quasi tutte le impiegate, le palesi ingiustizie chea causa del loro sesso erano costrette a subire, contribuivano a creare un clima di soli-darietà e lo sviluppo di una forte coscienza politica. Le postelegrafoniche si mobilita-rono con collette, articoli di denuncia, assemblee, scioperi e numerose campagne disolidarietà a favore di colleghe anziane a cui non veniva riconosciuto il diritto di pen-sione, a sostegno delle compagne punite con trasferimenti, multe e sospensioni perché

212 SOFIA BISI ALBINI, Le impiegate italiane, «Vita femminile», settembre 1910, citato in M.L.ODORISIO, Le impiegate del Ministero delle Poste cit., p. 415.

213 ROMELIA TROISE, In difesa del lavoro femminile, «L’Unione Postale e Telegrafica», 1° agosto1903, citato in M. L. ODORISIO, Le impiegate del Ministero delle Poste cit., p. 418.

214 Le postelegrafoniche, «La Difesa delle Lavoratrici», 20 luglio 1917. Le redattrici della rivistadelle donne socialiste espressero una sostanziale apertura verso le impiegate, anche se considerateappartenenti al ceto piccolo borghese, sostenendo la necessità di una lotta comune contro il precariatoe lo sfruttamento. Cfr. F. TARICONE, «La difesa delle lavoratrici»: socialismo e movimento femminile,in «La Difesa delle Lavoratrici», reprint a cura di Giulio Polotti, Milano, Istituto europeo studi socia-li, 1992, 3 voll.

Page 81: 70 - online.ibc.regione.emilia-romagna.itonline.ibc.regione.emilia-romagna.it/I/libri/pdf/ERBA_70.pdf · Le donne organizzate: fasci femminili e sezioni operaie e lavoranti a domicilio

Tra due secoli 61

colpevoli di militare nel sindacato, per la statalizzazione del servizio delle centralinistee per l’abolizione del divieto di matrimonio. Impararono, dunque, a difendersi e adaffermare i loro diritti di lavoratrici.

Le maestre

Quando lo Stato unitario, con la legge Casati,215 decise che l’istruzione elementa-re doveva diventare obbligatoria poteva disporre di 17.000 maestri mentre ne servi-vano almeno 50.000. Per colmare questo bisogno e formare al più presto il numero diinsegnanti necessari, vennero istituite le cosiddette Scuole Normali triennali e com-prensive di tirocinio.216 Dopo due anni di corso era previsto il conseguimento di unapatente per l’insegnamento nel corso inferiore delle scuole elementari, al completa-mento dei tre anni quella per l’insegnamento nel corso superiore.217 Separate persesso, come le classi di alunni a cui erano destinati gli insegnanti, le scuole prevede-vano curricula studiorum diversificati: per le studentesse era prescritto un insegna-mento «abbreviato ed alleggerito», adatto al cervello femminile.218 Era convinzionedei legislatori, all’epoca, che alle maestre servisse imparare solo quello che avrebbe-ro dovuto insegnare – i rudimenti del leggere, dello scrivere e del far di conto –aggiungendovi la ‘naturale disposizione a educare’ i più piccoli e le bambine. Oltreche nelle scuole femminili, le donne potevano essere impiegate nelle scuole dette‘rurali’, istituite in Comuni poverissimi, in genere composte da una sola classe digrado inferiore, seppur mista.

Il fatto che le maestre potessero avere allievi maschi non mancò di suscitare allar-mismi e proteste: era opinione comune che le donne mancassero di «quella forzamorale che è pur indispensabile per mantenere la scolaresca disciplinata», oppure chepresentassero una «snervante mollezza di carattere» che si rifletteva dolorosamentesugli alunni venendo meno l’esempio della forza, del coraggio, della fermezza, in unaparola della virilità.219 Si evidenziava anche il pericolo che correva la moralità nelleclassi maschili per la presenza o l’avvenenza delle insegnanti. Ma, ormai, le maestre

215 Regio decreto legislativo 13 novembre 1859, n. 3725 del Regno di Sardegna, entrato in vigorenel 1860 ed esteso, con l’unificazione, a tutta Italia. Con questa legge, che prese il nome dal ministrodella Pubblica Istruzione Gabrio Casati, la formazione elementare venne demandata ai Comuni ed arti-colata in due cicli: uno inferiore, biennale, obbligatorio e gratuito, istituito nei luoghi in cui ci fosseroalmeno cinquanta alunni e uno superiore, anch’esso biennale, presente solo nei Comuni con popola-zione superiore a 4.000 abitanti.

216 Potevano essere ammessi alle Scuole Normali, dopo aver superato un esame, ragazzi di 16 annicon la quarta elementare e ragazze di 15 – per la precoce maturità – in possesso della terza elementare.

217 Ci si rese presto conto, però, che, per l’alto ed importante compito a cui erano destinati gli inse-gnanti – formare i cittadini del nuovo Stato – essi abbisognavano di studi meno approssimativi e dimaggior durata; di conseguenza, vennero potenziate le Scuole Normali ed i loro programmi. Nel 1883,inoltre, fu previsto un corso preparatorio intermedio per le ragazze, prima di due, poi di tre anni, tra leclassi elementari e le Scuole Normali, e nel 1886 questo corso fu definito ‘scuola complementare’,riservata sempre alle sole ragazze e demandata alle iniziative delle singole città, in realtà insegnamen-to scadente e inadeguato (per i ragazzi il corso fu soppresso, perciò essi frequentavano le scuole tecni-che o il ginnasio inferiore prima di iscriversi alla Normale). Fu anche abolita la patente inferiore e laScuola Normale, fino allora distinta in inferiore e superiore, fu unificata.

218 AURORA DELMONACO, La signorina a quadretti e altre lavoratrici insegnanti, in Mondi femmi-nili in cento anni di sindacato cit., pp. 209-272: 226.

219 La donna nel corso elementare maschile, «Il Rinnovamento scolastico», 1892, 2.

Page 82: 70 - online.ibc.regione.emilia-romagna.itonline.ibc.regione.emilia-romagna.it/I/libri/pdf/ERBA_70.pdf · Le donne organizzate: fasci femminili e sezioni operaie e lavoranti a domicilio

62 Dall’Unità d’Italia alla prima guerra mondiale

erano una realtà: nell’anno scolastico1863-1864 rappresentavano il 46,2%degli insegnanti elementari (15.820donne a fronte di 18.443 uomini); nelperiodo 1875-1876 il 50,6% (23.818donne contro 23.267 uomini), nell’ar-co temporale 1881-1882 il 55%; nel1901 le maestre raggiunsero le 44.561unità rispetto ai 21.178 maestri. InEmilia-Romagna le donne erano piùdell’80% del personale insegnantedelle scuole pubbliche a Piacenza esuperavano il 70% a Bologna, Forlì,Modena, Ravenna, Reggio Emilia. Glianni successivi avrebbero confermatola tendenza in atto, portando il nume-ro delle maestre a 42.000 nel 1907 e55.000 circa alla vigilia della primaguerra mondiale.220

D’altronde quella era pressochél’unica professione non manuale «perla quale al vederla seguita da unadonna non si gridasse allo scanda-lo»:221 veniva riconosciuta la sua‘naturale vocazione’, esaltato il carat-tere tutto ‘materno’ del suo insegna-mento ma queste ‘virtù’ venivanoconsiderate, fino alla legge Nasi del1903,222 comunque inferiori alle com-petenze maschili e retribuite perciòun terzo in meno di quelle, non sottovalutando perciò neppure la possibilità di rispar-mio per le finanze pubbliche, visto lo scarno salario erogato: a Bologna nel 1880 lemaestre avevano uno stipendio che poteva variare dalle 1.000 alle 1.100 lire all’anno(800 le supplenti) a fronte di quello maschile che andava dalle 1.750 alle 1.550 (1150i supplenti).223

L’esercito magistrale femminile, che aveva cominciato a formarsi, proveniva inmisura consistente dai ceti medi224 per diversi fattori: da una parte, l’accesso all’istru-

220 S. SOLDANI, Maestre d’Italia, in Il lavoro delle donne cit., pp. 368-397: 377.221 GIULIO FASELLA, La riforma delle scuole medie e l’istruzione della donna, Milano, Vallardi,

1906, p. 7, citato in S. SOLDANI, Strade maestre e cammini tortuosi cit., p. 308.222 Il decreto, che prese il nome dal ministro della Pubblica Istruzione Nunzio Nasi che lo emanò,

stabilì l’equiparazione degli stipendi a parità di compiti.223 Cfr. Tabella degli stipendi del personale insegnante nelle Scuole elementari del Comune di

Bologna, in Piano organico. Regolamento disciplinare per le scuole elementari del Comune di Bolo-gna, Bologna, Regia tipografia, 1880, p. 22.

224 Marcello Dei rileva la seguente provenienza di classe: borghesia 16,5%; piccola borghesia urbana28,5%; piccola borghesia agraria 8%; classe media impiegatizia 35,5%; classe operaia 11,5%. Cfr. MAR-CELLO DEI, Le radici storiche delle maestre. Indagine sulle origini sociali degli insegnanti elementari deiprimi decenni del 1900, «Polis», 1993, 1, citato in A. DELMONACO, La signorina a quadretti cit., p. 229.

«Corriere delle maestre. Monitore didatticosettimanale illustrato», a. XXIV, n. 17, 20febbraio 1921, Istituto storico Parri Emilia-Romagna, Bologna

Page 83: 70 - online.ibc.regione.emilia-romagna.itonline.ibc.regione.emilia-romagna.it/I/libri/pdf/ERBA_70.pdf · Le donne organizzate: fasci femminili e sezioni operaie e lavoranti a domicilio

Tra due secoli 63

zione aveva preparato a soluzioni lavorative diverse da quelle manuali che sarebberostate considerate inadeguate alla loro condizione sociale; dall’altra, le difficoltà econo-miche in cui si trovava all’epoca una fascia consistente di appartenenti alla piccola bor-ghesia rendevano le famiglie meno rigide nel considerare lesivo del proprio onore illavoro delle figlie che, tra l’altro, potevano avere impedimenti nello sposarsi proprioper i suddetti problemi economici che non permettevano di procurare una dote adegua-ta. Il lavoro, dunque, per queste giovani poteva diventare un modo per aiutare la fami-glia e un elemento di relativa indipendenza da essa.

Il fenomeno veniva così analizzato e commentato da Anna Kuliscioff:

Queste povere classi medie che vanno in malora hanno pure figliole, senza dote e senza bla-sone, che non possono neppure sognare un modesto matrimonio e sono spinte volere o no adinvadere il campo professionale. Maestre che crescono come funghi […] che vengono osteg-giate, derise e devono raccomandarsi a tutti i santi moderni, che si chiamano uguaglianza elibertà, per poter vivere modestamente e poter bastare a se stesse.225

Dunque, anche la carriera professionale delle maestre era «sparsa di tanti tribo-li»,226 per la misera situazione retributiva, le pessime condizioni di lavoro, le frequen-ti angherie delle autorità locali e dei superiori e la costante ostilità del clero che vede-va nell’insegnante della scuola pubblica un pericoloso tramite per la laicizzazionedella società.

L’esiguità dello stipendio percepito non riusciva a garantirne la sopravvivenza,spesso rendeva indispensabile l’esercizio di almeno una attività collaterale o larichiesta di un sussidio. Conferme di tale situazione provengono dalle numeroserichieste di aiuti economici inoltrate alle pubbliche autorità: la trentenne Maria DeWitt, traendo «i mezzi di sussistenza unicamente dalla propria occupazione di mae-stra comunale di Loiano con l’annuo stipendio di L. 660»227 e non vivendo a caricodi parenti, fu costretta a chiedere, ottenendolo, un sussidio alla Regia beneficenza.La disperata situazione retributiva era conosciuta dai contemporanei se MatildeSerao, nel suo racconto Scuola Normale femminile, faceva morire la maestra GiuliaPessenda fra gli stenti, nella miseria assoluta a cui la condannava lo stipendio delcomune di Olevano.

La Pessenda non potendo aspettare il concorso, ha subito accettato il posto di maestra rura-le, comune di Olevano, nel Cilento, con cinquecento franchi all’anno di retribuzione. Nelgrave freddo di due anni fa, non aveva potuto ottenere una indennità per il fuoco di casa,dopo avere invano scritto più volte all’ispettore scolastico e al provveditore, per qualche sus-sidio, la vecchia madre le si è ammalata di bronchite e le è morta. Nell’anno seguente, ilcomune di Olevano, avendo dovuto sopportare qualche spesa maggiore nel bilancio, hadiminuito di cento lire la retribuzione della maestra elementare; la Pessenda è rimasta, con-

225 ANNA KULISCIOFF, Il sentimentalismo nella questione femminile, «Critica sociale», 1892, 9, cita-to in M.L. ODORISIO, Le impiegate del Ministero delle Poste cit., p. 402.

226 ARISTIDE GABELLI, L’Italia e l’istruzione femminile, «Nuova Antologia», V, 1870, p. 154, citatoin L. SCARAFFIA, Essere uomo, essere donna cit., p. 50 e in ILARIA PORCIANI, Sparsa di tanti triboli: lacarriera della maestra, in Le donne a scuola. L’educazione femminile nell’Italia dell’800, a cura di I.Porciani, Firenze, Il sedicesimo, 1987, pp. 170-173: 170.

227 Lettera della Questura del circondario di Bologna al Prefetto, Bologna, 26.1.1902, in ASBo,Gabinetto di Prefettura, serie 1020, cat. 10 «Domande di impiego», fasc. «Ministero Pubblica Istru-zione, sottofasc. 3 «Casa Reale», 1902.

Page 84: 70 - online.ibc.regione.emilia-romagna.itonline.ibc.regione.emilia-romagna.it/I/libri/pdf/ERBA_70.pdf · Le donne organizzate: fasci femminili e sezioni operaie e lavoranti a domicilio

64 Dall’Unità d’Italia alla prima guerra mondiale

tentandosi di quello, in mancanza di meglio […]. Nell’estate ultima la Pessenda non ha usu-fruito delle vacanze non avendo forse i mezzi per recarsi in Piemonte; nell’agosto è statapresa dal tifo petecchiale, che è stato mal curato dal medico condotto. Essendosi nel paesediffusa la voce che la sua malattia era contagiosa, ella è stata abbandonata da tutti […] quin-di non si può ben accertare il giorno della sua morte, avendola poi ritrovata morta e quasinera, sul letto, in una stanza senza mobiglio, con le finestre aperte e un lume spento, perterra, in un angolo.228

I frequenti spostamenti delle sedi di servizio, l’impossibilità di fare carriera siandavano ad aggiungere a carichi eccessi di lavoro: orari lunghi, il più delle volte rad-doppiati con le classi serali; corsi spesso sovraffollati, con sessanta e più bambini, incui le maestre erano obbligate a seguire contemporaneamente i piccoli che imparava-no a fare le aste e i più grandi che compitavano sui loro sillabari; scolari talvolta didifficile controllo perché costretti in stanze buie e malsane. Ma soprattutto, specie segiovani e non sposate,229 potevano essere oggetto di pesanti attenzioni e di ricatti asfondo sessuale da parte delle autorità (Sindaci ed ispettori scolastici), dalle qualidipendevano per la conferma del posto di lavoro. Anche quando non venivano caccia-te dai villaggi230 e non erano obbligate a dare prove umilianti della propria verginitàper sfatare le maldicenze231 – come documentano abbondantemente le cronache deltempo – le maestre, soprattutto nelle campagne, erano guardate con sospetto e spes-so giudicate dalla ipocrita morale dell’epoca. Emilia Mariani, tra le principali prota-goniste delle prime associazioni magistrali in Italia, così descriveva le pesanti espe-rienze delle giovani:

Le poverette con rara abnegazione si disponevano al duro e faticoso ufficio, abbandonandocasa, parenti, amici, per andare in lontani posti sconosciuti, dove avrebbero avuto bisogno diprotezione, di aiuto, di consiglio, e invece non trovavano sovente che malvagità e ignoranza,ed erano perseguitate, tormentate, sedotte.232

Il loro contegno veniva attentamente analizzato e controllato, il comportamentotenuto doveva dimostrarsi ineccepibile poiché essa «ha debiti gravi verso gli allievi,verso il prossimo, verso il mondo intero che ha diritto di attendere da lei nella giova-ne generazione un miglioramento nel bene».233 Un esempio su tutti: le informazioni

228 M. SERAO, Scuola Normale Femminile, «Nuova Antologia», 1º gennaio 1885, pp. 482-483. 229 Il nubilato di molte maestre era spesso legato alle difficili condizioni di lavoro.230 Un esempio su tutti: nel 1898, in un piccolo centro nei pressi di Pordenone, la prima maestra,

benché accompagnata dal Sindaco e dall’Ispettore scolastico, era stata ricevuta «da una sessantina dipersone che, radunate in sulla piazza, battevano la tarantella gridando No volemo la maestra, fuori lamaestra, mentre in su la piazza stessa sorgeva un palo con all’estremità un pezzo di corda e un cartel-lo che diceva: Se la maestra verrà sarà schernita e bruciata», citato in «Il Corriere delle maestre»,1898. La dinamica di questo episodio rientra nei rituali con i quali la cultura contadina tradizionalestigmatizzava lo sconfinamento dei comportamenti previsti per i rispettivi generi. Cfr. a tale propositoL. SCARAFFIA, Essere uomo, essere donna cit., p. 53.

231 Esemplare a questo proposito la vicenda di Itala Donati, maestra nel 1883 in un Comune delpistoiese e costretta dal Sindaco, noto donnaiolo, ad abitare accanto a casa sua. In seguito alle maldi-cenze che si diffusero si suicidò, lasciando alcune lettere nelle quali protestava la propria innocenza,confermata poi dall’autopsia. Il clamore suscitato dal fatto fu altissimo. Cfr. GIORGIO BINI, La maestranella letteratura: uno specchio della realtà, in L’educazione delle donne cit., pp. 331-362.

232 EMILIA MARIANI, Per le maestre, «Il Rinnovamento scolastico», 19 agosto 1893.233 A proposito delle maestre, «Giornale delle donne», 19 novembre 1886.

Page 85: 70 - online.ibc.regione.emilia-romagna.itonline.ibc.regione.emilia-romagna.it/I/libri/pdf/ERBA_70.pdf · Le donne organizzate: fasci femminili e sezioni operaie e lavoranti a domicilio

Tra due secoli 65

GIUSEPPE FANTUZZI, Alunni di una scuola di Reggio Emilia, ca. 1910, Fototeca della BibliotecaPanizzi, Reggio Emilia

Page 86: 70 - online.ibc.regione.emilia-romagna.itonline.ibc.regione.emilia-romagna.it/I/libri/pdf/ERBA_70.pdf · Le donne organizzate: fasci femminili e sezioni operaie e lavoranti a domicilio

66 Dall’Unità d’Italia alla prima guerra mondiale

predisposte dalla delegazione di Pubblica Sicurezza di Molinella nel settembre 1898su Alessandrina Deserti, aspirante moglie di un brigadiere dei carabinieri, ne sottoli-neavano la perfetta condotta morale, tale da impedire qualsiasi diceria che avrebbepotuto derivare dalla attività professionale svolta. La ragazza, ventiseienne maestraelementare a San Martino in Argine, conduceva infatti vita ritirata «e quasi esclusiva-mente di scuola e famiglia, evitò sempre anche le malignità e dicerie facili a correrenei piccoli paesi».234

Nonostante le situazioni che si trovavano a dover affrontare, o forse proprio a causadi queste, nel corso degli ultimi anni dell’Ottocento le maestre cominciarono a battersiper avere condizioni di lavoro meno precarie, più dignitose, per far meglio valere i pro-pri diritti, organizzandosi in associazioni di categoria e mutuo soccorso e osandodenunciare apertamente le situazioni di illegalità più clamorose di cui erano vittime.

Si andarono così costituendo nel 1901 l’Unione nazionale delle maestre e dei mae-stri, più tardi Unione Magistrale Nazionale, il cui primo congresso venne proprio tenu-to a Bologna, e l’Associazione Niccolò Tommaseo che, dal luglio del 1906, aggregò gliinsegnanti cattolici.235

Nello stesso periodo, a Bologna, la Società degli insegnanti – fondata fin dal 29 giu-gno 1862 ma per soli fini culturali – mutò di indirizzo maturando strategie e iniziativedi assistenza e previdenza tra i soci. Il sodalizio si sciolse nel 1919 per dare vita allaFederazione dei maestri della provincia di Bologna che ne assunse il patrimonio, glioneri e le finalità, continuandone l’opera. Le due associazioni ebbero un peso determi-nante nell’orientamento pedagogico e didattico locale.236

Nel 1897, poi – accanto alle riviste di settore più ricche di informazioni, di prote-ste, di proposte come «Il Risveglio educativo» e «Il rinnovamento scolastico» – com-pariva, pubblicato dall’editore Vallardi, il «Corriere delle maestre» che, rivolto a donnee pensato in primo luogo per loro, ma diretto e fatto quasi esclusivamente da uomini, sicaratterizzò inizialmente per il racconto di esperienze di vita, per gli appelli alla solida-rietà che avevano al centro casi eclatanti di soprusi, insomma per la capacità di coinvol-gere in campagne di opinione di grande respiro quelle insegnanti che, dal punto di vistapolitico e culturale, potevano restare decisamente periferiche.237

La presenza di questa «falange ardita, attiva, intelligente» di maestre consapevolidei propri diritti e dei propri doveri, «franche e ferme»238 nel rivendicarli, portò all’ob-bligo del concorso per le assunzioni del 1885, ai miglioramenti salariali fissati nel1886, alle norme introdotte nel 1893 per ridurre «l’indecente indugio» di molte ammi-nistrazioni nel pagamento degli stipendi, alla legge di revisione del monte-pensioni nel1894 e alle riforme che, tra il 1903 e il 1911,239 oltre a fissare procedure più rigide per

234 Lettera della R. Delegazione di Pubblica Sicurezza di Molinella al Questore, Molinella, 12 set-tembre 1898, in ASBo, Gabinetto di Questura, serie 249, cat. 9/B «Informazioni», 1898.

235 A tale proposito cfr. ESTER DE FORT, L’associazionismo degli insegnanti elementari dall’età gio-littiana al fascismo, «Movimento operaio e socialista», 1981, 4, pp. 375-404.

236 Nel 1894 venne costituita la Federazione Magistrale Emiliana. Cfr. MIRELLA D’ASCENZO, LaScuola elementare nell’età liberale. Il caso Bologna 1859-1911, Bologna, Clueb, 1997.

237 Su questo tema cfr. S. SOLDANI, Maestre d’Italia cit., p. 387.238 E. MARIANI, Il pareggiamento degli stipendi fra maestri e maestre, 1905, in EADEM, Ascensio-

ne femminile, Torino, Comitato pro Voto Donne, 1918, p. 97 e p. 104.239 Nel 1911 con la legge Daneo-Credaro (dai nomi dei ministri della Pubblica Istruzione Eduardo

Daneo e Luigi Credaro che la promossero) il pagamento degli stipendi degli insegnanti elementari fuavocato allo Stato, sottraendo le maestre all’arbitrio delle amministrazioni locali e avallando così la sta-bilità d’impiego.

Page 87: 70 - online.ibc.regione.emilia-romagna.itonline.ibc.regione.emilia-romagna.it/I/libri/pdf/ERBA_70.pdf · Le donne organizzate: fasci femminili e sezioni operaie e lavoranti a domicilio

Tra due secoli 67

i concorsi e garanzie più puntuali per la stabilizzazione del posto di lavoro, sancironoil diritto delle maestre a ricevere retribuzioni uguali a parità di lavoro svolto e di acce-dere alla ‘carriera’ di direttrici didattiche.240

Le donne si organizzano

Le associazioni

In Italia la spinta propulsiva all’associazionismo femminile avvenne all’indoma-ni dell’Unità. Erano soprattutto le intellettuali che, unite in sodalizi, cercavano diavviare la costruzione e la diffusione di nuovi modelli di comportamento e di nuovirapporti tra donne, per farle emergere dalla marginalità in cui leggi, costumi e orga-nizzazione sociale le costringevano.241 La loro azione era tesa a creare strutture disostegno, di assistenza e di educazione dirette a donne del proletariato o appartenen-ti alla piccola borghesia al fine di fornire loro strumenti teorico-pratici utili peraffrontare le battaglie per la rivendicazione dei diritti politici e civili tra cui emerge-va quello relativo al lavoro.

Attorno ai primi anni Ottanta dell’Ottocento si costituivano, per questo fine, leLeghe di tutela degli interessi femminili, associazioni fondate e dirette da donne, for-matesi in diverse città italiane, soprattutto ad opera di maestre, di lavoratrici del terzia-rio – telegrafiste, impiegate, ecc. – e di alcune operaie.242 Anna Maria Mozzoni, insie-me a Paolina Schiff, fondavano a Milano nel 1881 la Lega promotrice degli interessifemminili che operò per circa dieci anni; alla Lega fu affiancata l’Unione delle lavoran-ti, riservata alle sole lavoratrici, per promuoverne i miglioramenti nelle condizioni sala-riali e di orario di lavoro, e per sostenere con sussidi le socie disoccupate. All’Unionedelle lavoranti aderirono le sigaraie milanesi che, dalla spontaneità delle prime prote-ste, si aprivano a forme di attività organizzata, mentre nel 1883 si costituiva sempre aMilano, per impulso di Paolina Schiff, uno dei primi sindacati femminili di categoria,quello delle orlatrici.243 Nel 1884 esistevano ormai «parecchi sodalizi di donne, ammi-nistrate dalle sole operaie le quali volentieri rubano qualche ora dedicata al riposo peraccudire ai bisogni sociali e al comune benessere».244

240 S. SOLDANI, Maestre d’Italia cit., p. 385 e p. 388.241 Cfr. A. BUTTAFUOCO, La filantropia come politica. Esperienze dell’emancipazionismo italiano

nel Novecento, in Ragnatele di rapporti. Patronage e reti di relazione nella storia delle donne, a curadi Lucia Ferrante, Maura Palazzi, Gianna Pomata, Torino, Rosenberg & Sellier, 1988, pp. 166-187.

242 A. BUTTAFUOCO, Cronache femminili. Temi e momenti della stampa emancipazionista in Italiadall’Unità al fascismo, Arezzo, Dipartimento di studi storico-sociali e filosofici, Università degli studidi Siena, 1988, p. 55. A partire dalla loro costituzione è possibile parlare correttamente di ‘movimen-to politico delle donne’ in Italia sia perchè per la prima volta gruppi prevalentemente femminili si strut-turavano intorno ad un tema comune, l’emancipazione delle donne, sia per la loro presenza relativa-mente diffusa su territorio nazionale; sia per un tentativo di coordinamento che fu perseguito.

243 BARBARA IMBERGAMO, ANNA SCATTIGNO, «Una forza nuova». Le donne nel movimento dei lavo-ratori dalle prime organizzazioni alla repressione fascista, in Donne nella CGIL: una storia lunga unsecolo. 100 anni di lotte per la dignità, i diritti e la libertà femminile, a cura di Lucia Motti, Roma,Ediesse, 2006, pp. 169-199: 170.

244 Dalla testimonianza di una sigaraia all’inaugurazione ufficiale della Fratellanza artigiana fem-minile (5 ottobre 1884), in F. PIERONI BORTOLOTTI, Alle origini del movimento femminile in Italia(1848-1892), Torino, Einaudi, 1963, p. 194.

Page 88: 70 - online.ibc.regione.emilia-romagna.itonline.ibc.regione.emilia-romagna.it/I/libri/pdf/ERBA_70.pdf · Le donne organizzate: fasci femminili e sezioni operaie e lavoranti a domicilio

68 Dall’Unità d’Italia alla prima guerra mondiale

A Bologna, già nel 1890, era attivo un Comitato per il miglioramento delle condi-zioni della donna; a Milano, nel 1893, fu fondata la Lega per la tutela degli interessifemminili, composta da un comitato di donne che si riconoscevano nel Partito sociali-sta, la cui segretaria era Linda Malnati. L’associazione aveva «per principio la causafemminile» e la sua attività si articolava su un programma minimo di intervento prati-co locale, che prevedeva l’istituzione di una cassa di beneficenza, una campagna per ilmiglioramento delle condizioni morali ed economiche delle maestre d’asilo, delle tele-grafiste, delle telefoniste, l’istruzione professionale per le figlie delle operaie, l’ammis-sione delle donne ai consigli di amministrazione delle opere pie e corsi di istruzione edi aggiornamento. Una Lega con scopi affini nacque a Torino nel 1894 per opera diEmilia Mariani e Irma Scodnik che, l’anno successivo, promossero la formazione diassociazioni simili a Venezia, Roma, Napoli e Palermo.

Nel maggio 1898 le Leghe femminili, considerate sovversive, furono sciolte d’auto-rità e ciò avrebbe indotto molte emancipazioniste a puntare più sul carattere operativo-assistenziale del loro intervento che non su quello propriamente politico. In questo sensofu fondata, nel 1899 a Milano, l’Unione femminile, da un gruppo di donne diverse perestrazione sociale e formazione culturale: Ersilia Majno Bronzini, Nina Rignano Sullam,Ada Garlanda Negri, Adele Riva, Rebecca Calderini, ecc. L’associazione si diffuse pre-sto in altre città italiane, ad esempio a Roma, la cui sezione era presieduta da Anna Celli.

Per le donne dell’Unione, il lavoro femminile aveva un valore in sé, non solo e nonunicamente come contributo al bilancio familiare, per cui tendevano a rendere profes-sionali, attraverso una serie di corsi teorico-pratici, attività tradizionali245 e a creare

245 Ad esempio, per le domestiche veniva attivata una struttura di scuola-convitto tra le più moder-ne e stabili nel tempo. Era, infatti, ancora fiorente nel 1938 quando il regime fascista obbligò l’Unio-ne a sciogliersi. Cfr. A. BUTTAFUOCO, La filantropia come politica cit., p. 177.

GIUSEPPE FANTUZZI, Socie e sede della Società nazionale di patronato e mutuo soccorso dellegiovani operaie a Reggio Emilia, ca. 1900, Fototeca della Biblioteca Panizzi, Reggio Emilia

Page 89: 70 - online.ibc.regione.emilia-romagna.itonline.ibc.regione.emilia-romagna.it/I/libri/pdf/ERBA_70.pdf · Le donne organizzate: fasci femminili e sezioni operaie e lavoranti a domicilio

Tra due secoli 69

nuovi mestieri. Preparavano ispettrici di fabbrica per l’applicazione delle norme sullavoro femminile, ancor prima che la legge le prevedesse; infermiere laiche quandonegli ospedali erano presenti soprattutto suore; visitatrici delle carceri e delegate delComune per indagini sulle condizioni di vita e di lavoro nei quartieri più poveri, ecc.Una caratteristica peculiare dell’Unione era, infatti, proprio quella di professionalizza-re ed istituzionalizzare la tradizionale presenza delle donne in campi lavorativi dovevenivano richieste ‘sensibilità e pietà’, lavori che la modernità richiedeva ormai di esse-re condotti con criteri nuovi e scientifici, e non più soltanto seguendo ruoli sociali ste-reotipati, lavori che per le donne dell’Unione dovevano essere pagati adeguatamenteperché utili alla collettività e quindi produttivi.

Uno sguardo sommario all’insieme delle attività delle organizzazioni emancipazio-niste mette in luce la grande varietà di iniziative che venivano impostate con program-mi rispondenti a diverse esigenze, ma un dato emerge chiaro: anche nelle associazionipiù piccole e periferiche convivevano, anzi erano strettamente interdipendenti, le cam-pagne per la ricerca della paternità con l’aiuto concreto alle madri nubili; le agitazioniper il diritto di voto con i corsi professionali per le operaie o di istruzione politica suidiritti delle lavoratrici.246 L’opera dell’emancipazionismo assumeva forme e contenutipiù originali proprio nel settore della preparazione al lavoro per il quale, accanto ad ini-ziative di taglio più tradizionale, si andavano sperimentando modalità di intervento eprogetti del tutto nuovi. Queste associazioni avevano colto con lucidità nel lavoro,accanto all’istruzione, la via di accesso all’emancipazione femminile.

Nello stesso periodo, proprio per far fronte alle drammatiche condizioni di faticae sfruttamento a cui erano sottoposte le donne nel lavoro industriale, venivano create,per iniziativa spontanea delle lavoratrici o su stimolo di figure eminenti mosse da finifilantropici, le prime Società di mutuo soccorso femminili – sia di orientamento laicosia religioso – caratterizzate da finalità di sostegno e reciproco aiuto tra le iscritte. Aquella bolognese, costituitasi negli anni Settanta dell’Ottocento, avevano aderitodonne soprattutto dei ceti popolari: sarte, cucitrici, cameriere, orlatrici, lavandaie,sigaraie, insegnanti, modiste, stiratrici che «al febbraio 1878 ammontavano alla cifraconsiderevole di 864».247

Accanto a questi sodalizi si andavano organizzando le Leghe di resistenza, senza lequali, veniva osservato nel 1890, «la battaglia del lavoro purtroppo è sempre una scon-fitta»,248 caratterizzate da una esplicita connotazione di classe e da finalità e azionidecisamente rivendicative. Già dalla metà degli anni Ottanta dell’Ottocento ne esiste-vano diverse di sarte, di sigaraie, di cucitrici.249 Le Camere del Lavoro, che nacquero apartire dai primi anni Novanta dell’Ottocento (in Emilia-Romagna, a Piacenza nel 1891e a Bologna nel 1893), offrivano sostegno e coordinamento agli scioperi e alle azionidelle Leghe nei centri urbani e nelle campagne, dove anche le donne del bracciantato siandavano organizzando, in particolare nella Pianura padana.

L’importanza di queste associazioni nei primi anni del Novecento è testimoniata anchee soprattutto dal numero delle loro iscritte: nelle Leghe agricole le donne erano circa

246 Ivi, pp. 177-178.247 Rapporto sulla gestione e sull’operato della Società operaia di Bologna nel 1877 del presiden-

te avv. Ferdinando Berti all’assemblea delle sezioni riunite maschile e femminile del 25 marzo 1876,Milano, [s.n.], 1878, p. 35.

248 F. PIERONI BORTOLOTTI, Alle origini del movimento femminile in Italia cit., p. 196.249 Cfr. S. MERLI, Proletariato di fabbrica e capitalismo industriale, vol. II, Documenti, cit., pp.

142, 245, 431.

Page 90: 70 - online.ibc.regione.emilia-romagna.itonline.ibc.regione.emilia-romagna.it/I/libri/pdf/ERBA_70.pdf · Le donne organizzate: fasci femminili e sezioni operaie e lavoranti a domicilio

70 Dall’Unità d’Italia alla prima guerra mondiale

92.000 pari al 21,6% degli iscritti, ed erano circa 50.000, pari al 10,1% degli iscritti, inquelle operaie.250 La distribuzione regionale conferma quella geografia di presenze orga-nizzate e di lotte al femminile di cui si sono indicati i lineamenti in precedenza. In Emi-lia si contava l’adesione più alta delle donne alle Leghe agricole251 (74%, vale a dire68.827 iscritte), regione dove era preponderante il fenomeno del bracciantato, legatoall’affermazione di una agricoltura capitalistica, e nella quale si ebbe più intensa e rapidala diffusione delle idee socialiste e la contrapposizione tra lavoratori e padronato. Nell’in-dustria l’adesione delle donne alle Leghe era distribuita in modo più uniforme, con puntepiù alte in Lombardia (29,5%) ma l’Emilia era al secondo posto col 23,5% (vale a dire12.026 iscritte).252 Il 26,4% delle lavoratrici dell’industria iscritte alle Leghe apparteneva-no al settore della filatura, tessitura e tintoria, il 16,8% alle manifatture tabacchi.

Nel 1903 si era poi costituito a Roma il Consiglio nazionale delle donne italiane,presieduto da Gabriella Spalletti Rasponi. Il comitato promotore, composto per lo piùda donne dell’aristocrazia, si era formato nel 1899 per impulso dell’InternationalCouncil Women, la prima organizzazione internazionale del movimento suffragista natanegli Stati Uniti nel 1888. Il comitato promotore aveva dato vita, nel corso del tempo,alla Federazione romana delle opere di attività femminili, presieduta da Lavinia Taver-na, e alle federazioni lombarda, diretta da Sabina Parravicino di Revel e piemontese,coordinata da Giulia Bernocco Fava Parvis.253

Le posizioni moderate dell’associazione vennero alla luce durante il primo Con-gresso nazionale delle donne italiane, organizzato proprio dal Consiglio nazionale nel-l’aprile del 1908 a Roma. La stessa presidente, nel suo discorso di apertura dei lavori,dichiarava: «se rivendichiamo per la donna alcuni diritti è perché la crediamo pronta asostenere i nuovi doveri che la moderna civiltà le impone senza che per questo abbia adimenticare quelle che furono e saranno sempre le più belle delle sue glorie: la mater-nità e l’educazione dell’uomo».254

Le donne parevano essere nelle condizioni di dover dare garanzie sull’uso cheavrebbero fatto dei diritti eventualmente concessi loro. Da qui l’impegno alla salva-guardia del ‘naturale’ destino di madre della donna. Ciononostante, il Congresso fu unaoccasione importante: diede voce e visibilità a donne, non qualificabili né per apparte-nenza politica né per categoria di lavoro, che agivano in una situazione pubblica e poli-tica, in una sfera che per definizione era propria dell’uomo e negata alla donna.

Intanto, tra la fine degli anni Novanta dell’Ottocento e l’inizio del Novecento siandava definendo la linea di intervento del movimento cattolico sulla ‘questione’ fem-

250 L’unica fonte utile che fornisce dati omogenei in ambito nazionale è quella compilata dal Mini-stero dell’Interno nel 1910, ma con dati del 1908, che fa riferimento alle donne iscritte alle Leghe deilavoratori in agricoltura e nell’industria. La fonte non fa distinzione tra Leghe di ispirazione socialistae quelle di ispirazione cattolica, diffuse in particolare nel Veneto e nel settore tessile. Cfr. MINISTERO

DELL’INTERNO, Dati statistici riassunti per provincie e per compartimenti relativi alle condizioni intel-lettuali e morali della donna ed alla partecipazione di essa ad alcuni fatti della vita sociale. Raccoltiper la Commissione ministeriale incaricata di esaminare se e in quali limiti convenga di estendere alladonna il voto amministrativo, Roma, 1910, pp. 36-37, citato in Donne nella CGIL: una storia lungaun secolo cit., pp. 198-199.

251 All’Emilia seguivano la Lombardia con l’8,3% e la Puglia con il 6,3%.252 A queste regioni seguiva il Piemonte con il 14,2%.253 Cfr. F. TARICONE, L’associazionismo femminile italiano dall’Unità al fascismo, Milano, Uni-

copli, 1996.254 GABRIELLA SPALLETTI RASPONI, Intervento al Congresso femminile di Roma, «Pensiero e azio-

ne», 10-25 maggio 1908, p. 4.

Page 91: 70 - online.ibc.regione.emilia-romagna.itonline.ibc.regione.emilia-romagna.it/I/libri/pdf/ERBA_70.pdf · Le donne organizzate: fasci femminili e sezioni operaie e lavoranti a domicilio

Tra due secoli 71

minile. Anche per i cattolici uno dei punti di partenza nella riflessione e nell’azione erarappresentato dal problema del lavoro delle donne e della sua possibile limitazione. Lapubblicazione della Rerum Novarum, nel maggio del 1891, costituendo il riferimentoteorico principale e una legittimazione all’azione dei cattolici nel sociale, rappresentòuna guida anche su tale specifico problema. Quanto alla vera e propria organizzazionedelle donne, sul finire del secolo essa si articolò in varie forme: si costituirono sezionifemminili nei comitati diocesani dell’Opera dei Congressi, su espresso invito di Mon-signor Radini Tedeschi, che aveva colto l’importanza di una iniziativa propositiva deicattolici sul posto della donna nella società moderna; mentre, nell’ambito del movimen-to democratico cristiano, si formarono organizzazioni in cui si cominciò a parlare di‘femminismo cristiano’.255

Numerose operaie e lavoratrici agricole aderirono ai Fasci femminili democratico-cristiani, mostrando di se stesse ««un’immagine del tutto nuova; anch’esse erano usci-te di casa, tenevano discorsi e conferenze in pubblico, scrivevano sui giornali, viaggia-vano», sia pure nello spirito ‘missionario’ dell’opera di cristianizzazione della società,messa a rischio dalla diffusione di idee socialiste, e nella difesa del primato della fami-glia come luogo proprio di espressione della donna. Le più attive in queste organizza-zioni si muovevano tra le proletarie con una attenzione particolare al ruolo della donna,alla sua nuova identità, al lavoro extra-domestico, visto come un dato, magari di segnonegativo, ma in qualche modo irreversibile e carico di conseguenze per la condizionesociale e i diritti femminili.256

255 A tale proposito cfr. PAOLA GAIOTTI DE BIASE, Le origini del movimento cattolico femminile,Brescia, Morcelliana, 1963.

256 A. BUTTAFUOCO, Cronache femminili cit., pp. 72-73.

ROBERTO SEVARDI, Soci e socie della Società di mutuo soccorso barbieri e parrucchiere diCarpineti, ca. 1920, Fototeca della Biblioteca Panizzi, Reggio Emilia

Page 92: 70 - online.ibc.regione.emilia-romagna.itonline.ibc.regione.emilia-romagna.it/I/libri/pdf/ERBA_70.pdf · Le donne organizzate: fasci femminili e sezioni operaie e lavoranti a domicilio

72 Dall’Unità d’Italia alla prima guerra mondiale

Fu questa attenzione alla drammatica condizione delle donne lavoratrici che portòil gruppo raccolto intorno ad Adelaide Coari, iniziatrice del Fascio democratico-cri-stiano femminile di Milano e animatrice della Federazione femminile cattolica mila-nese, a maturare posizioni più schiettamente ‘femministe’. Così al primo Convegnofemminile nazionale (1907), promosso dalla Federazione femminile cattolica milane-se, a cui aderirono sia l’Unione femminile sia il Consiglio nazionale delle donne,veniva presentato e discusso quel ‘programma minimo femminista’ che testimoniaval’acquisita consapevolezza, da parte delle cattoliche, dello spessore civile e politicodella ‘questione’ femminile e che poteva segnare l’inizio di un dialogo e di una col-laborazione fra le diverse correnti del nascente femminismo italiano. In grande sin-tesi i punti del programma erano: parità salariale, ampliamento e riforma dell’istru-zione femminile, riforma del codice civile e penale (nel senso di autorizzare la donnasposata a disporre dei propri beni e di introdurre la ricerca di paternità), infine, il votoamministrativo.257

Soltanto un anno dopo, invece, con le polemiche sull’insegnamento religioso emer-se durante il Congresso femminile romano, ogni ipotesi di largo consenso programma-tico venne a cadere.258 Le cattoliche uscirono, per iniziativa personale e per imposizio-ne delle gerarchie ecclesiastiche, dal movimento emancipazionista dando vita all’Unio-ne tra le donne cattoliche d’Italia, di impronta prettamente confessionale, che ben pocomanteneva di quel programma minimo di rivendicazioni che il primo femminismo cri-stiano aveva elaborato.259

La stampa femminile e il lavoro

Nel periodo preso in esame comparvero riviste politiche, espressione dell’associa-zionismo emancipazionista, diverse da quelle delle donne militanti nel movimentosocialista o in quello cattolico, diverse ancora dai bollettini delle organizzazioni di cate-goria delle lavoratrici.

Le prime ad uscire furono proprio le riviste legate al mondo del lavoro femmini-le. Tra Ottocento e Novecento, quando le donne ebbero accesso a varie attività, ini-ziarono a venire pubblicati i primi giornali professionali e sindacali che non soltantocuravano l’aggiornamento tecnico-scientifico, ma affrontavano i problemi più gene-rali della categoria, da quelli organizzativi a quelli retributivi. Tra questi il «Giorna-le per le Levatrici» (1887), primo esempio in Italia di una stampa specializzata di talgenere,260 e «Il Corriere delle maestre» (1897) il cui obiettivo era di offrire alle inse-gnanti italiane consigli didattici e notizie del mondo scolastico.261 L’esperienza diquesti primi periodici non rimase isolata. Ad essi, infatti, ne seguirono altri, soprat-tutto dopo la prima guerra mondiale, che coinvolgevano diverse categorie professio-nali come «La Voce delle impiegate» (1919) il cui scopo era di sensibilizzare le‘signorine mezzemaniche’ riguardo ai propri problemi lavorativi, «La Berrettaia»

257 Ivi, p. 82.258 La proposta di Linda Malnati di abolire l’obbligatorietà dell’insegnamento religioso nella scuo-

la per introdurvi invece lo studio comparato della storia delle religioni fu votata a maggioranza e pro-dusse quella spaccatura definitiva con le cattoliche.

259 Cfr. CECILIA DAU NOVELLI, Società, Chiesa e associazionismo femminile, Roma, AVE, 1988.260 Cfr. paragrafo Le levatrici.261 Cfr. paragrafo Le maestre.

Page 93: 70 - online.ibc.regione.emilia-romagna.itonline.ibc.regione.emilia-romagna.it/I/libri/pdf/ERBA_70.pdf · Le donne organizzate: fasci femminili e sezioni operaie e lavoranti a domicilio

Tra due secoli 73

(1922), organo della Società di Mutuo Soccorso delle lavoratrici di Milano; «LaRisaiola» pubblicato a Lodi (1919) in cui comparivano notizie prevalentemente sin-dacali ed informazioni legali sui diritti delle mondine. Mentre il primo gravitava inaerea socialista, il secondo era collegato all’attività di Leghe operaie di ispirazionecattolica, come pure «La donna nei campi», supplemento de «La Terra», pubblicatoa Roma nel 1919.

Più squisitamente politici furono i periodici nati durante la stagione emancipazio-nista dalla seconda metà dell’Ottocento. Fare un giornale per le donne e magari scrit-to da donne si confermava essere una importante operazione culturale, in cui trova-vano spazio le voci sia dei movimenti delle donne di matrice democratica, socialistao cattolica.262

Il periodico più rilevante di questo primo periodo fu sicuramente «La donna»,fondato e diretto da Gualberta Alaide Beccari.263 Il primo numero uscì a Padova il 22aprile 1868, poi la rivista seguì le sorti della sua fondatrice che si trasferì prima aVenezia e infine a Bologna, dove la rivista fu pubblicata fino al 10 agosto 1891, conperiodicità settimanale e poi quindicinale.264 L’intento principale era quello di infor-mare ed educare la donna in tutti gli ambiti perché, come scriveva Beccari: «tutto èquistione di educazione. I più ardui problemi sociali non attendono la loro soluzionese non dall’educazione individuale e collettiva».265 Dopo il trasferimento della reda-zione a Bologna, l’impegno politico della rivista si fece più specifico e una attenzio-ne particolare venne rivolta alle lotte del mondo del lavoro. Tra le collaboratrici delperiodico emergevano i nomi delle principali protagoniste del femminismo ottocen-tesco tra cui: Anna Maria Mozzoni, Giorgina Saffi, Giulia Cavallari Cantalamessa,Malvina Frank ed Ernesta Napollon.266

Il ventennio tra gli anni Novanta dell’Ottocento ed i primi dieci anni del Novecen-to rappresentò un periodo cruciale per il movimento femminile: l’emancipazionismo siandò strutturando in organizzazioni che, pur operando su base locale, tendevano a coor-dinarsi in associazioni nazionali, fenomeno che ebbe il suo pieno sviluppo nel primoNovecento. Alla stampa veniva dunque attribuito un ruolo fondamentale: informazio-ne, collegamento tra gruppi, discussione, elaborazione culturale.

All’inizio del nuovo secolo nacquero contemporaneamente e in breve successioneuna trentina di testate di diverso indirizzo: laiche e riferibili all’emancipazionismodemocratico, come «L’Unione femminile» (1901), «La voce della donna» (1903),«Cronache femminili» (1904), «L’Alleanza» (1906); socialiste, come: «Eva» (1901),«L’operaia socialista» (1902), «La donna socialista» (1905); cattoliche, come «L’Azio-ne muliebre» (1901), «La donna» (1902), «Pensiero e Azione» (1904). Per la prima

262 Cfr. A. BUTTAFUOCO, Cronache femminili cit., pp. 23-24.263 Il sottotitolo cambiò nel corso del tempo: dapprima «Periodico morale e istruttivo», divenne più

tardi «Periodico di educazione compilato da donne italiane» e infine, dopo un decennio di pubblica-zioni, «Propugna i diritti femminili».

264 Nello stesso periodo venivano, inoltre, pubblicate altre testate: «La donna. Giornale per l’eman-cipazione della donna» di Firenze, diretta da Adolfo Scander Levi; «La Cornelia», «Cordelia», «L’Au-rora», «Il giornale delle donne», «La missione della donna», «La Rassegna degli interessi femminili».Quanto ai contenuti, questi non avevano, in complesso, «elementi che li differenziassero in modo taleda segnare nettamente una loro fisionomia specifica». A. BUTTAFUOCO, Cronache femminili cit. p. 26.

265 GUALBERTA ALAIDE BECCARI, Alle mie associate, «La donna», 15 ottobre 1878.266 Cfr. B. PISA, Venticinque anni di emancipazionismo femminile in Italia. Gualberta Alaide Bec-

cari e la rivista «La Donna» (1868-1890), Roma, Quaderni Fiap, s.d. [1983].

Page 94: 70 - online.ibc.regione.emilia-romagna.itonline.ibc.regione.emilia-romagna.it/I/libri/pdf/ERBA_70.pdf · Le donne organizzate: fasci femminili e sezioni operaie e lavoranti a domicilio

74 Dall’Unità d’Italia alla prima guerra mondiale

volta, infatti, si produceva una stampa specificatamente rivolta alle donne sia nell’am-bito del movimento socialista sia di quello cattolico.

Ai primi del secolo i giornali socialisti per le donne nacquero per iniziativa esforzo personale di alcune militanti come la ferrarese Rina Melli la quale, lancian-do «Eva» nel 1901, scriveva con orgoglio che il nuovo settimanale era il primo nel-l’ambito della ricca stampa socialista «fatto esclusivamente per le donne».267 Sem-pre a Ferrara – mentre «Eva» veniva trasferito a Genova, dove fu pubblicato fino al23 agosto 1903 – uscì nel 1902 il quindicinale «L’operaia socialista», per iniziativadi Giuseppe Tamarozzi, libraio. Esistenza stentata ebbe anche «Anima e vita» diret-to da Ernestina Lesina, che uscì a Piacenza soltanto per sei numeri (dal luglio all’ot-tobre del 1902).268 Sorte analoga, sebbene meno precaria, toccò al settimanale «Ladonna socialista», uscito dal luglio del 1905 all’aprile del 1906 grazie al lavoro diInes Oddone Bitelli. Il foglio bolognese era destinato soprattutto alle lavoratrici eattento a valorizzare «l’immagine di una donna moderna […] produttrice di ricchez-za sociale, compagna dell’uomo e lavoratrice intelligente ed energica che assume

267 Volantino di propaganda a stampa, Ferrara, 1901, citato in A. BUTTAFUOCO, Cronache femmini-li cit., pp. 67-68.

268 Ivi, p. 69.

«La Donna. Propugna i diritti femminili», a. XIV, serie II, n. 1, 5 dicembre 1883,Biblioteca Universitaria, Bologna

«L’azione muliebre. Organo delfemminismo cristiano», a. I, n. 2, 1º febbraio 1901, Biblioteca NazionaleCentrale, Firenze

Page 95: 70 - online.ibc.regione.emilia-romagna.itonline.ibc.regione.emilia-romagna.it/I/libri/pdf/ERBA_70.pdf · Le donne organizzate: fasci femminili e sezioni operaie e lavoranti a domicilio

Tra due secoli 75

nella vita la sua piena responsabilità».269 Un osservatorio particolare, spesso presen-te in questi giornali, era quello legato al mondo del lavoro femminile; non mancava-no quasi mai pagine dedicate alle lotte per l’occupazione e per il miglioramentodelle condizioni di vita sia nelle fabbriche sia nelle campagne. Il fatto nuovo fu lanascita, nel gennaio 1912, de «La Difesa delle Lavoratrici». «Oppresse e sfruttate»,«perpetuamente dimenticate» e «assenti dalla vita vera» del paese, con il nuovofoglio «le donne del lavoro» avrebbero avuto modo «di far sentire alfine la lorovoce».270 Il giornale, stampato a Milano dalla tipografia della società editricedell’«Avanti!», era diretto da Anna Kuliscioff e facevano parte della redazione tuttele migliori penne del socialismo femminile: Angelica Balabanoff,271 Linda Malnati,Margherita Sarfatti, Maria Bornaghi, Argentina Altobelli, Giselda Brebbia, MariaGoia. «Non siamo agli inizi; né veniamo come delle intruse»: con queste paroleannunciavano la «forza nuova» rappresentata, nel Partito socialista e nel sindacato,

269 A. GIGLI MARCHETTI, Le risorse del repertorio dei periodici femminili lombardi, in Donne egiornalismo. Percorsi e presenze di una storia di genere, a cura di Silvia Franchi, Simonetta Soldani,Milano, Angeli, 2004, pp. 295-308: 305.

270 La forza nuova, «La Difesa delle Lavoratrici», 7 gennaio 1912.271 Angelica Balabanoff aveva diretto «Su compagne!», supplemento al «Secolo nuovo» di Vene-

zia. Il giornale, si fuse, dopo breve vita, con « La Difesa delle Lavoratrici».

«La Difesa delle Lavoratrici», a. 1, n. 1, 7 gennaio 1912, Fondazione IstitutoGramsci Emilia-Romagna, Bologna

«Parva favilla. Organo bimensile dell’Unionefemminile cattolica italiana per la città ediocesi di Bologna», a. III, n. 12, 25 giugno1920, Biblioteca Universitaria, Bologna

Page 96: 70 - online.ibc.regione.emilia-romagna.itonline.ibc.regione.emilia-romagna.it/I/libri/pdf/ERBA_70.pdf · Le donne organizzate: fasci femminili e sezioni operaie e lavoranti a domicilio

76 Dall’Unità d’Italia alla prima guerra mondiale

dalle «donne del lavoro».272 Con concisione ed efficacia, l’editoriale del primonumero evocava la partecipazione delle donne alle lotte e all’organizzazione delmovimento operaio e sindacale in Italia tra Otto e Novecento, ma anche il difficilepercorso di costruzione e di legittimazione della figura delle lavoratrici, cui compe-teva ormai il dovere di condividere le lotte dei loro compagni e il diritto che ne con-seguiva all’esercizio del suffragio politico.

Tra la fine degli anni Novanta e l’inizio del Novecento venivano sviluppandosianche associazioni femminili di orientamento cattolico che diedero vita ad alcune ini-ziative giornalistiche destinate alle donne, tra cui le più significative furono «L’Azionemuliebre», fondata a Milano nel 1901 e diretta da Elena Da Persico, e «Pensiero e azio-ne» progettata nel 1904 da Adelaide Coari, già segretaria di redazione de «L’Azionemuliebre»; la prima più aristocratica e moderata, la seconda decisamente più attentaalle drammatiche condizioni delle donne lavoratrici, tanto da avere un supplemento –«L’operaia» – proprio dedicato a questo tema.273 La rivista della Coari, che voleva esse-re portavoce e promotrice di tutte le rivendicazioni necessarie a salvaguardare la dignitàdella donna e a favorirne l’effettiva partecipazione alla vita sociale, nel 1908 venivaaccusata pubblicamente di modernismo dai cattolici più intransigenti e cessava le pub-blicazioni per intervento delle autorità ecclesiastiche. L’Unione fra le donne cattoliche,che venne istituita a Roma nel 1908 e la cui prima presidente fu Cristina GiustinianiBandini, aveva in «Parva favilla» la sua rivista, mentre «Fiamma viva», pubblicata nel1921, fu quella della Gioventù femminile cattolica. Sempre nell’ambito cattolico nel1909, a Vicenza, cominciava ad essere pubblicato il giornale «La donna e il lavoro»fondato e diritto da Elisa Salerno. La «causa santa» dell’elevazione femminile, dell’o-peraia in particolare, era lo scopo che il periodico si proponeva, «fornendo armi di dife-sa alla lavoratrice stessa educandola, istruendola, formandole la coscienza cristiana».274

Nell’estate del 1917 veniva sconfessato dalle autorità ecclesiastiche di Vicenza ed ElisaSalerno ne riprendeva le pubblicazioni nel dicembre 1918 dopo aver mutato il titolodella testata in «Problemi femminili» che cessava le pubblicazioni nel 1927.

Nel primo decennio del Novecento si moltiplicavano le riviste rivolte alle donne:alla stampa si affidava ancora il compito di educare le lettrici, soprattutto le lavoratrici,proprio per dare loro il modo di interpretare le trasformazioni che comunque l’identitàfemminile andava subendo sotto la spinta di mutamenti culturali, economici, socialicomplessivi. Per le emancipazioniste era necessario «conservare e rivitalizzare i princi-pi basilari, naturali ed abbattere i pregiudizi, quella credenza divenute legge che aveva-no conculcato le leggi di natura, prima fra tutte la pretesa superiorità dell’uomo sulladonna; ma bisognava anche contrastare la tendenza di un’identificazione delle donne‘nuove’ col modello maschile dominante o di un comportamento mimetico con gliuomini».275 La ‘donna nuova’ proposta dai periodici di primo Novecento era, però anco-ra collocata nella cornice della famiglia e la sua identità si doveva ridefinire a partiredal suo essere moglie e madre. Questi i temi infatti che si ritrovano in «La Voce delladonna», quindicinale nato a Bari nel dicembre 1903; in «Cronache femminili» periodi-co torinese fondato nel 1904 da Emilia Mariani; ne «L’Alleanza», foglio settimanalepavese, avviato nell’aprile del 1906, per iniziativa della socialista Carmela Baricelli che

272 La forza nuova, «La Difesa delle Lavoratrici», 7 gennaio 1912.273 Per l’analisi dei due periodici cfr. P. GAIOTTI DE BIASE, Le origini del movimento cattolico fem-

minile, Brescia, Morcelliana, 1963.274 «La donna e il lavoro», 27 dicembre 1912.275 A. BUTTAFUOCO, Cronache femminili cit., p. 91.

Page 97: 70 - online.ibc.regione.emilia-romagna.itonline.ibc.regione.emilia-romagna.it/I/libri/pdf/ERBA_70.pdf · Le donne organizzate: fasci femminili e sezioni operaie e lavoranti a domicilio

Tra due secoli 77

in un suo editoriale scriveva: «il nostro femminismo, o italiane non falsa, non degene-ra la natura femminile; ma la innalza al grado di dignità umana e la nobilita nell’intel-letto e nel cuore. Il femminismo come l’intendiamo noi […] non distruggerà mai [lafemminilità] della madre affettuosa, della sposa innamorata, della fanciulla gentile!».276

Uscito fino all’ottobre 1911, il periodico aveva ospitato gli scritti di tutte le espo-nenti più prestigiose e note dell’emancipazionismo dell’epoca: Paolina Schiff, LindaMalnati, Emilia Mariani, Teresa Labriola e Giselda Brebbia.

Di particolare rilievo nel panorama delle pubblicazioni analoghe fu «L’Unionefemminile», bollettino della omonima associazione fondata da Ersilia Majno, pubbli-cato a Milano dal 1901 al 1905,277 la cui attenzione era puntata prevalentemente sul-l’attività di denuncia – oltre che della disparità giuridica e della oppressione morale –dello sfruttamento subito dalle donne nel mondo del lavoro, con analisi e informazio-ni sempre puntuali, e con il dichiarato intento di sensibilizzare le donne alla richiestadi una pronta approvazione del disegno di legge socialista sulla regolamentazione dellavoro femminile.

Le riviste nate nell’immediato primo dopoguerra erano accomunate da una carat-teristica distintiva che le differenziava in modo piuttosto netto dalle precedenti. Tuttesi ponevano, infatti, come interpreti della ricerca di protagonismo politico che sembra-va animare le donne dopo la loro ampia partecipazione alla mobilitazione in occasio-ne del conflitto, del loro desiderio di fare contare le esperienze acquisite e le capacitàdimostrate, di dare un senso nuovo alla politica rendendosi visibili e soprattutto essen-do riconosciute.

Durante il conflitto, però, molte associazioni erano scivolate su posizioni naziona-liste e «Voce nuova», settimanale milanese voluto nel 1919 dalla dirigenza dell’Unio-ne femminile nazionale e diretto da Paolina Tarugi e Sofia Ravasi, costituisce un esem-pio quanto mai rappresentativo delle trasformazioni profonde in questo senso, subite daalmeno una parte del movimento. Secondo Teresa Labriola, che vi pubblicò gli inter-venti più significativi, era quello il momento del ‘femminismo politico’, contrappostoal ‘femminismo puro’, fatto di alleanze, strategie, scelte di campo.278 Ebbene, il giorna-le non si occupava più di proletarie o di lavoratrici ma aveva deciso di rivolgersi soprat-tutto alla borghesia, poiché il popolo era ad essa soggetto e per alleviare le sue condi-zioni era necessario «educare» la classe dominante, la «più responsabile» chiamata«nelle contingenze d’oggi, fatalmente ad essere esempio e guida alle masse».279 Lascelta di campo era stata fatta.280

Le donne protagoniste

Molte intellettuali dell’epoca si interessarono, in modo particolare, al lavoro delledonne, cogliendo in esso, con lucidità, una delle possibili vie di accesso all’emancipa-zione femminile, consentendo autonomia e indipendenza; proprio per questo era neces-sario porre fine allo sfruttamento ad esso connaturato.

276 CARMELA BARICELLI, Calunnia, «L’Alleanza», 5 gennaio 1907.277 Il periodico cessò le pubblicazioni nel 1905 per riprenderle poi nel 1908 con il titolo di «Unio-

ne femminile nazionale».278 A. BUTTAFUOCO, Cronache femminili cit., p. 275.279 SOFIA RAVASI, La via più breve, «Voce nuova», 19 luglio 1919.280 Teresa Labriola, Margherita Sarfatti, Giselda Brebbia, Regina Terruzzi, Ester Lombardo riten-

nero di trovare nel fascismo l’espressione delle loro convinzioni.

Page 98: 70 - online.ibc.regione.emilia-romagna.itonline.ibc.regione.emilia-romagna.it/I/libri/pdf/ERBA_70.pdf · Le donne organizzate: fasci femminili e sezioni operaie e lavoranti a domicilio

Anna Maria Mozzoni,281 una delleprincipali protagoniste dell’emancipa-zionismo ottocentesco, sin dai primiscritti (La donna e i suoi rapportisociali, 1864), poneva al centro dellasua riflessione la denuncia delle mise-re condizioni di impiego delle donne,inserendosi però polemicamente, aiprimi del Novecento, nel dibattito sulleleggi di tutela del lavoro femminile,sostenute invece da Anna Kuliscioff. Inbreve, venivano richieste la parità sala-riale, le otto ore di lavoro, il riposodomenicale, la proibizione del lavoronotturno, pericoloso e insalubre, l’a-stensione dal lavoro nei due mesi pre-cedenti e nei due successivi al parto.282

«Non accettate protezione – scrivevanel 1890 – chiedete giustizia».283 La suadiffidenza era motivata dal timore chenorme ‘protettive’ – il divieto di lavoronotturno, di imposizione di straordinari,di mansioni pesanti – potessero contri-buire a renderlo di minor valore rispettoa quello degli uomini, a legittimare dif-ferenziazioni salariali e a ostacolare lalibertà di lavoro della donna che rischia-va, in tal modo, di essere ricondotta allafamiglia e alla casa «come una gallinanel suo pollaio – scrisse nel 1898 – acovare le sue uova nella solitudine e nelsilenzio».284

78 Dall’Unità d’Italia alla prima guerra mondiale

281 Anna Maria Mozzoni (1837-1920). Il suo impegno era rivolto soprattutto alla estensione deldiritto di voto alle donne e a promuovere l’istruzione femminile. Dal 1870 al 1890 collaborò al gior-nale «La donna», attento ai temi dell’emancipazione e sensibile alla questione sociale. Nel 1881 costi-tuiva la Lega promotrice degli interessi femminili. Dopo aver collaborato con il deputato socialistaAgostino Bertani alla prima inchiesta sulla condizione dei contadini, si avvicinò alle idee socialiste econ Filippo Turati fondò la Lega socialista milanese. In seguito, pur restando in buoni rapporti conmolti esponenti socialisti, non esitò a denunciare la scarsa attenzione che il Partito socialista andavadedicando alla ‘questione’ femminile e ne prese le distanze. Pubblicò: Dei diritti della donna (1865),La donna in faccia al progetto del nuovo codice civile italiano (1865), Un passo avanti nella culturafemminile (1866), Il bonapartismo in Italia. Delle scienze morali considerate in ordine all’educazionedella donna (1867).

282 Cfr. UNIONE FEMMINILE, Per una legge sul lavoro delle donne e dei fanciulli. Notizie e documen-ti, Milano, Tip. nazionale di V. Ramperti, 1902, p. 26.

283 A.M. MOZZONI, Sentimentalismo, «L’Italia del popolo», 26-27 novembre 1890, citato in F. PIE-RONI BORTOLOTTI, Alle origini del movimento femminile in Italia cit., p. 202.

284 A.M. MOZZONI, Legislazione a difesa delle donne lavoratrici. «Dagli amici mi guardi Iddio»,«Avanti!», 7 marzo 1898.

COMITATO DI PROPAGANDA PEL MIGLIORAMENTO

DELLE CONDIZIONI INTELLETTUALI, MORALI E

GIURIDICHE DELLA DONNA, La donna nellafamiglia, nella città e nello Stato, discorsodetto a Bologna il 16.11.1890 dalla signoraAnna Maria Mozzoni, Bologna, Tip. A.Pongetti, 1891, Biblioteca Comunaledell’Archiginnasio, Bologna

Page 99: 70 - online.ibc.regione.emilia-romagna.itonline.ibc.regione.emilia-romagna.it/I/libri/pdf/ERBA_70.pdf · Le donne organizzate: fasci femminili e sezioni operaie e lavoranti a domicilio

Tra due secoli 79

Anna Kuliscioff,285 una delle figure più rigorose sul piano teorico e certo la più sen-sibile ad una politica di reale emancipazione delle donne nel Partito socialista, redassenel 1897 il progetto di legge sulla protezione del lavoro femminile e minorile nelle fab-briche. Scriveva, infatti, nel 1892:

La macchina, la grande forza rivoluzionaria dell’industria, ha rivoluzionato anche la donna,l’ha prima di tutto emancipata dalla pentola e messa in condizione di lotta per l’esistenza ugua-li a quelle dell’uomo. L’ha resa pari all’uomo nella miseria e nell’aspirazione a scuotere ilgiogo del capitalismo. I famosi diritti politici e civili della donna, che sembrano mera accade-mia, diventano necessità assoluta per le lavoratrici.286

Per lei la legge di tutela era un importante obiettivo di lotta contro lo sfruttamen-to delle operaie da parte degli industriali, capace di rafforzare la loro presenza in fab-brica attraverso una maggiore consapevolezza dei loro diritti di donne e di lavoratri-ci e rispondeva a Mozzoni sostenendo che: «se il presagio dei licenziamenti avessefondamento, certamente i socialisti sarebbero i primi a combattere qualsiasi legge atutela del lavoro delle donne».287 La protezione legale era invocata a difesa di unamanodopera debole che subiva il lavoro come una necessità ed era esposta dal biso-gno ad un utilizzo disumano.

Negli schieramenti diversificati che si produssero attorno alla proposta anche tra lesocialiste si manifestarono pareri opposti: Emilia Mariani,288 ad esempio, sosteneva chel’unica legge protettiva del lavoro delle donne era quella che avrebbe sancito «mercedeuguale a lavoro uguale e salario minimo adeguato negli altri casi».289

La richiesta di parità salariale era presente, d’altra parte, nel primo progetto di leggeelaborato nel 1895 a Milano dall’Associazione generale delle operaie e dal Coordina-mento delle Società operaie femminili,290 che fu ripreso in larga parte in quello redattoda Anna Kuliscioff, nel quale tuttavia non figurava più il tema della parità salariale. Era

285 Anna Kuliscioff (1854 ca.–1925) nata in Russia da famiglia agiata, sedicenne si iscrisse al Poli-tecnico di Zurigo. Nel 1878 fu arrestata con Andrea Costa a Parigi ed espulsa. Venne nuovamente arre-stata a Firenze, dove si era rifugiata. Assolta dopo un lungo processo, riprese in Svizzera gli studi cheterminò in Italia laureandosi in medicina. Nel 1888 fondò con Filippo Turati la Lega socialista milane-se. Affrontò la ‘questione’ femminile dal punto di vista delle disuguaglianze economiche e sociali. Nel1890 tenne a Milano una conferenza dal titolo Il monopolio dell’uomo, suo primo organico scritto sullanecessità dell’emancipazione della donna. Nel gennaio 1891 fondò con Turati «Critica sociale» e nel1892 svolse un ruolo importante per la fondazione del Partito dei lavoratori italiani. Nei moti del 1898contro il caro-pane venne arrestata e condannata a due anni di prigione, poi liberata in seguito a indul-to. Nel 1911 fondò il periodico «La Difesa delle Lavoratrici». Allo scoppio della prima guerra mon-diale chiamò le donne a lottare per la difesa della pace.

286 A. KULISCIOFF, Il sentimentalismo nella questione femminile, «Critica sociale», 1892, p. 141,citato in F. PIERONI BORTOLOTTI, Alle origini del movimento femminile in Italia cit., p. 239.

287 A. KULISCIOFF, In nome della libertà della donna, «Laissez faire, laissez aller!», «Avanti!», 19marzo 1898, citato in F. PIERONI BORTOLOTTI, Socialismo e questione femminile in Italia 1892-1922,Milano, Mazzotta, 1974, p. 77.

288 Emilia Mariani (1854-1917), maestra elementare e presidentessa della Lega per la tutela degliinteressi femminili di Torino, fu un’aperta sostenitrice dei diritti politici e sociali delle donne e tra leprincipali protagoniste delle prime associazioni di insegnanti in Italia. Un obiettivo costante della suabattaglia politica fu la necessità dell’equiparazione degli stipendi tra maestri e maestre. Fu poi tra lefondatrici delle riviste «Vita femminile» e nel 1899 «L’Italia femminile».

289 E. MARIANI, Il Primo Maggio delle donne lavoratrici, citato in A. BUTTAFUOCO, Cronache fem-minili cit., p. 63.

290 A. BUTTAFUOCO, Cronache femminili cit., p. 65.

Page 100: 70 - online.ibc.regione.emilia-romagna.itonline.ibc.regione.emilia-romagna.it/I/libri/pdf/ERBA_70.pdf · Le donne organizzate: fasci femminili e sezioni operaie e lavoranti a domicilio

80 Dall’Unità d’Italia alla prima guerra mondiale

il progetto che recava il nome di Ersilia Majno.291 una delle protagoniste dell’emanci-pazionismo milanese di fine Ottocento. La fondatrice dell’Unione femminile, si inte-ressava in modo particolare del lavoro delle donne e, con l’associazione, nel 1901 siimpegnò in un enorme sforzo di propaganda per la legge di tutela, formulando una peti-zione che fu inviata a centinaia di organizzazioni, Leghe, Camere del Lavoro, per poiessere presentata alla Camera. In essa veniva scritto:

Giova ricordare come la necessità dell’intervento legislativo ad impedire o a limitare l’ignobi-le sfruttamento del lavoro delle donne e dei fanciulli, ad ovviare gl’immani danni sociali chene sono effetto, sia stata intuita sino nelle prime timide riunioni in cui la classe operaia, tral’indifferenza dei più, affermava il suo diritto nuovo.292

Nel frattempo, la parità salariale, l’istituzione di una Cassa di maternità, la regolamen-tazione del lavoro erano le rivendicazioni con più forza portate avanti dalle donne nei cir-coli e nei congressi operai, nei programmi dei convegni femministi e delle Camere delLavoro perché parevano aprire alle donne un varco di legittimazione, di affermazione delvalore del proprio lavoro, armi per l’affermazione dei propri diritti. Linda Malnati,293 adesempio, intervenendo al primo Congresso di attività pratica femminile organizzato dal-l’Unione femminile nel 1908, sostenne il diritto delle donne alla giornata lavorativa di ottoore, la parità retributiva e l’istituzione di moderni nidi d’infanzia.294 La Malnati, oltre aessere segretaria della Lega per la tutela degli interessi femminili di Milano, fu tra le fon-datrici della Camera del Lavoro di Milano, insieme a Carlotta Clerici e Giuditta Brambilla.

Diverse tra le donne più attive nell’opera di organizzazione e di propaganda ricopri-rono funzioni direttive proprio in queste istituzioni, a riprova della centralità del lavoronella ‘questione’ femminile, come Maria Giudice295 responsabile ai primi del Novecen-

291 Ersilia Majno (1859-1933) Si impegnò a favore delle donne più disagiate dapprima nell’Asso-ciazione generale di mutuo soccorso e istruzione fra le operaie di Milano, poi nella Società di mutuosoccorso e miglioramento fra sarte e nella Sezione femminile della Camera del Lavoro. Diede vita aquello che viene definito ‘femminismo pratico’, fondando nel 1899 l’Unione femminile, reggendoneper alcuni anni la presidenza e prodigandosi nel contempo in una serie di iniziative collaterali quali ilComitato contro la tratta delle bianche e l’Asilo Mariuccia, istituto quest’ultimo da lei voluto per l’e-ducazione delle fanciulle povere e abbandonate.

292 Cfr. UNIONE FEMMINILE, Per una legge sul lavoro delle donne e dei fanciulli cit., p. 3.293 Linda Malnati (1855-1921), maestra e organizzatrice delle associazioni delle insegnanti ele-

mentari, fu tra le principali organizzatrici del movimento operaio femminile a Milano, esponente diquel gruppo di donne, vicine alle posizioni socialiste, che svolsero un ruolo centrale per la formazio-ne culturale e il diritto al lavoro delle donne meno abbienti. Partecipò ai moti sociali del 1898 e venneper questo sospesa dall’insegnamento e denunciata, essendo poi riabilitata nel 1900. Oltre ad aver fon-dato la Società Figlie del lavoro, rivolta alla tutela degli interessi delle lavoratrici, nei primi anni delNovecento fu una sostenitrice del movimento per l’Università popolare milanese. Collaborò a nume-rosi giornali e riviste, tra cui «Vita femminile» e «La Difesa delle Lavoratrici», con articoli a sostegnosoprattutto delle maestre elementari, criticando la discriminazione salariale di cui erano fatte oggetto.

294 B. IMBERGAMO, A. SCATTIGNO, «Una forza nuova». Le donne nel movimento dei lavoratori cit.,pp. 173-174.

295 Maria Giudice (1880-1953). Maestra elementare, propagandò l’emancipazione femminile e deilavoratori. A Voghera, stampò «La donna che piange», in cui trattava i problemi delle lavoratrici. Neglianni 1903-1904 per gli accesi toni dei suoi articoli, fu incriminata e processata. Fuggita in Svizzera,assieme ad Angelica Balabanoff, pubblicò il periodico «Su, compagne». Rientrata in Italia, operò nellecooperative vinicole dell’Emilia, poi si trasferì a Milano. Nel 1914 diresse lo sciopero delle lavoratri-ci tessili in Valsesia. Scrisse per «La Difesa delle Lavoratrici», per «Il grido del popolo» e fu attiva nel1917 nelle giornate di rivolta contro la guerra, motivo per il quale fu arrestata.

Page 101: 70 - online.ibc.regione.emilia-romagna.itonline.ibc.regione.emilia-romagna.it/I/libri/pdf/ERBA_70.pdf · Le donne organizzate: fasci femminili e sezioni operaie e lavoranti a domicilio

Tra due secoli 81

to della Camera del Lavoro di Voghera, prima di assumere, in anni più tardi, la respon-sabilità della Federazione torinese del Partito socialista. E ancora: Maria Goia,296 mae-stra elementare, che fu responsabile delle Camere del Lavoro di Cervia e di Faenzaprima ancora di entrare a far parte della Commissione nazionale del Partito socialista(1906) indirizzando la propria attenzione verso le lavoratrici agricole, nel quadro del-l’azione sindacale svolta dalla rivista «Il seme», da lei fondata e diretta; e ArgentinaAltobelli297 che fece parte del Consiglio direttivo della Camera del Lavoro di Bolognafin dalla fondazione e, dal 1906 fu segretaria della Federazione Nazionale dei Lavora-tori della Terra che aveva contribuito a fondare, un ruolo d’eccezione, unico fra le diri-genti del movimento sindacale e non solo in Italia.

Le stesse rivendicazioni venivano portate avanti anche da Luisa Anzoletti298 Adelai-de Coari299 che diedero vita ad organizzazioni e riviste cattoliche di stampo femminista,propagandando una forma di associazione sindacale non paternalistica, aconfessionale ecombattiva, che non condannasse le donne alla pura rassegnazione ma le rendessecoscienti della loro condizione, così da esprimere le proprie esigenze di lavoro, e a sod-disfarle anche attraverso forme di lotta quali lo sciopero. Con serrata e stringata logicafilosofica scriveva Luisa Anzoletti: «Ci volete umili? Senza libertà ci costringete solo ad

296 Maria Goia (1878–1924) si iscrisse al Psi nel 1898 e fece lavoro di propaganda e di organizza-zione dei nuclei operai in varie zone dell’Emilia. La sua abilità oratoria è ricordata da una canzonepopolare che celebra «il suo bel parlare». Contro la guerra di Libia coordinò le dimostrazioni antico-lonialiste delle donne; mentre nel 1913 fondò un nuovo periodico «La nuova terra» sulle cui paginesvolse un’accesa propaganda contro il primo conflitto mondiale. Per questa sua attività fu incarceratadal 1916 al 1917, uscendo dalla prigione con la salute gravemente compromessa.

297 Argentina Altobelli (1866–1942) fu instancabile organizzatrice del lavoro e delle lotte nellecampagne tanto che, durante il suo mandato, gli iscritti passarono da 75.000 a 1 milione e conquista-rono l’abolizione del lavoro a cottimo e la giornata di otto ore. Redattrice del periodico «La Confede-razione del lavoro», collaborò sia con giornali socialisti («Avanti!» e «Riscossa») sia con periodicidestinati alla propaganda fra donne («Su, compagne» e «La Difesa delle Lavoratrici») e si prodigò afavore di tutte le campagne per l’emancipazione delle donne: per il divorzio, per il diritto di voto, perla partecipazione delle donne alla vita sociale e politica.

298 Luisa Anzoletti (1863-1925). Nacque da famiglia agiata ed ebbe una raffinata cultura classica.A ventisei anni cominciò a maturare il suo interesse per l’educazione femminile. Da tale interesse nac-quero due opuscoli che ebbero notevole risonanza nel mondo cattolico di inizio secolo: La donna nelprogresso cristiano (1895) e La donna nuova (1898). In quel periodo il giudizio dell’Anzoletti sul fem-minismo era ancora negativo: l’unica vera battaglia in favore della donna era quella di una educazionereligiosa e culturale più esigente, per una migliore e più efficace capacità di influenza nella società.Durante il 1902 svolse un’ampia battaglia antidivorzista. Dal 1904 iniziò la sua collaborazione conl’«Azione Muliebre» e «La donna del popolo». Anzoletti avvertiva ormai che non si trattava soltantodi rinnovare e migliorare l’educazione delle donne, ma anche di considerare la nuova condizione socia-le creata dal massiccio ingresso delle donne nel mondo del lavoro. Non a caso Adelaide Coari affidòa lei la prolusione del primo Convegno femminile nazionale, promosso dalle cattoliche nel 1907.Quando le gerarchie ecclesiastiche intervennero, Anzoletti rimase comunque attiva nel gruppo reda-zionale de «La donna» di Torino.

299 Adelaide Coari (1881-1966). Maestra, verso la fine del 1901 il problema educativo e la questio-ne femminile cominciarono a diventare due poli di interesse evidenti nella sua attività: in quel periodoveniva scelta come segretaria di redazione del periodico «Azione muliebre» e cominciò a parteciparealle attività del Fascio democratico cristiano di Milano. Nel 1904 lasciò la rivista e investì tutte le sueenergie nel gruppo, fondando poco dopo «Pensiero e Azione», organo della nascente Federazione fem-minile milanese. Nel 1908 il giornale dovette sospendere le pubblicazioni per le accuse di moderni-smo. Il Vaticano abbastanza drasticamente liquidò il movimento. Coari smise ogni attività politica e,accettando il ‘suggerimento’ del silenzio, si dedicò alla difficile opera di rieducazione sociale avviatada Don Orione.

Page 102: 70 - online.ibc.regione.emilia-romagna.itonline.ibc.regione.emilia-romagna.it/I/libri/pdf/ERBA_70.pdf · Le donne organizzate: fasci femminili e sezioni operaie e lavoranti a domicilio

82 Dall’Unità d’Italia alla prima guerra mondiale

essere umiliate».300 E intanto, la Coari, preparando il primo Convegno femminile nazio-nale (1907), ribadiva su «Le pagine dell’operaia», rivolgendosi alle lavoratrici:

Quante rivendicazioni avete da ottenere voi operaie! Voi vi siete mai domandate perché purelavorando come l’uomo, siete pagate meno? […]. Non avete mai pensato perché voi che sop-portate tante dure condizioni nei vostri opifici, nei vostri laboratori, e sentite vivo il bisognodi leggi che tolgono tante ingiustizie, che riparino tante cattive condizioni vostre, che ponga-no un freno allo sfruttamento che si fa di voi, del vostro lavoro, non potete portare la vostravoce là dove queste leggi partono, né potete mandarvi nessuno che vi difenda?301

Insieme, poi, vergavano quel ‘programma minimo femminista’, in cui veniva richie-sta la parità salariale e il miglioramento delle condizioni lavorative delle donne, presen-tato al Convegno e su cui si trovarono d’accordo sia le socialiste sia le liberali.302

Le donne qui citate non furono sole ad affermare il valore in sé del lavoro femmi-nile, lottando per l’affermazione di diritti imprescindibili. Accanto ad esse, indiscutibi-li leader carismatiche, una miriade di altre, di ogni ceto sociale, impegnate a organiz-zare inchieste, a dirigere riviste, a promuovere iniziative politiche e sociali di notevolerilievo. Così, per esempio, Maria Pasolini, autrice di alcune importanti monografie sul-l’organizzazione familiare di mezzadri e braccianti e organizzatrice di varie attività infavore delle ragazze contadine in provincia di Ravenna; così Ernesta Stoppa, educatri-ce e antesignana del mutualismo femminile a Lugo di Romagna, per la quale scuola elavoro portavano al miglioramento delle condizioni di vita delle donne; così GiorginaSaffi, fondatrice della sezione femminile della Società di mutuo soccorso forlivese efigura di punta nelle battaglie a sostegno dell’istruzione femminile; e tutte le lavoratri-ci che, riunite in società, in leghe, in associazioni non si arresero.

La conquista dei diritti

Le lotte delle donne nelle campagne

Alla fine dell’Ottocento si rilevava una indiscutibile partecipazione agli scioperiagrari da parte delle donne, attestata persino dalle parzialissime statistiche ministe-riali,303 una partecipazione che vedeva come protagoniste soprattutto risaiole e brac-cianti della realtà agraria padana. Si disegnava così, in quel periodo, una geografiadelle rivendicazioni femminili che aveva in particolare nelle campagne emiliano-romagnole il nucleo centrale, proteste che sedimentarono nel primo decennio delNovecento e si svilupparono fino al primo dopoguerra. Una tradizione di lotta e diorganizzazione destinata, però, a sfaldarsi con gli attacchi dello squadrismo fascistae l’avvento del regime.

300 R. FARINA, Introduzione, in Esistere come donna cit., p. 13.301 «Le pagine dell’operaia», numero unico in occasione del Primo Convegno femminile naziona-

le, 1907, citato in A. BUTTAFUOCO, Cronache femminili cit., p. 81.302 Cfr. MARIA GRAZIA TANARA, Femminismo cristiano. Le donne cattoliche e la sfida del lavoro,

in Esistere come donna cit., pp. 153-158.303 MINISTERO DI AGRICOLTURA, INDUSTRIA E COMMERCIO, DIREZIONE CENTRALE DI STATISTICA, Sta-

tistica degli scioperi avvenuti nell’industria e nell’agricoltura durante gli anni dal 1884 al 1891,Roma, Tip. naz. G. Bertero, 1892.

Page 103: 70 - online.ibc.regione.emilia-romagna.itonline.ibc.regione.emilia-romagna.it/I/libri/pdf/ERBA_70.pdf · Le donne organizzate: fasci femminili e sezioni operaie e lavoranti a domicilio

Tra due secoli 83

Intorno al 1886 in Emilia venivano spesso segnalati, tra gli scioperi agrari, episodiesclusivamente femminili. Dal 1886 al 1893, infatti, su 53 astensioni dal lavoro locali –segnalate dai Prefetti al ministero dell’Agricoltura, industrie e commercio – ben 18, vale adire il 34%, vedevano coinvolte risaiole, (ed è ragionevole presumere che molti dei restan-ti fossero scioperi misti) e, nei cinque anni successivi, su un totale di 24.975 scioperantiemiliani per motivi salariali ben 9.747, poco meno del 40%, risultavano donne.304

Le mondine scesero in lotta una prima volta nel 1886305 e poi più volte negli annisuccessivi a Molinella, Budrio, Baricella, Minerbio, insomma nell’ampia area dellabassa pianura del Reno.306 Esse chiedevano aumenti salariali, e, nel corso del tempo,l’assunzione prioritaria di lavoratrici locali rispetto a quelle ‘venute da fuori’, la ridu-zione dell’orario a nove ore, la nomina di sorveglianti da parte dei braccianti. Queste

304 MANUELA MARTINI, Divisione sessuale dei ruoli e azione collettiva nelle campagne padane difine Ottocento, in Donne e spazio nel processo di modernizzazione, a cura di Dianella Gagliani,Mariuccia Salvati, Bologna, Clueb, 1995, pp. 75-110: 81.

305 In questi primi scioperi le risaiole ottennero l’aumento della paga giornaliera da 70 centesimi auna lira, ostinato obiettivo salariale di quegli anni di crisi. Cfr. M. MARTINI, Divisione sessuale dellavoro e azione collettiva cit., p. 82.

306 Lettera della Legione dei Carabinieri Reali di Bologna al Prefetto della Provincia, Bologna,25.7.1900, in ASBo, Gabinetto di Prefettura, serie 990, 1900, cat. 6 «Agitazioni operaie, scioperi»,fasc. «Molinella e basso bolognese. Agitazioni di operai disoccupati, scioperi, ecc.».

Lettera della Legione dei Carabinieri Reali di Bologna al Prefetto della Provincia, 25 luglio 1900, Oggetto: Astensione dallavoro di 200 risaiole di Molinella, Archivio di Stato, Bologna

Lettera della Legione dei Carabinieri Reali di Bologna al Prefetto della Provincia, 12 giugno 1888, Oggetto: Sciopero dirisaiuole ed arresto di cinque istigatrici,Archivio di Stato, Bologna

Page 104: 70 - online.ibc.regione.emilia-romagna.itonline.ibc.regione.emilia-romagna.it/I/libri/pdf/ERBA_70.pdf · Le donne organizzate: fasci femminili e sezioni operaie e lavoranti a domicilio

84 Dall’Unità d’Italia alla prima guerra mondiale

ultime rivendicazioni, avanzate nel 1893 e poi abbandonate nell’insuccesso, furonoriprese nel 1897 durante le agitazioni proseguite per quaranta giorni, che condussero albuon esito delle trattative, portate avanti da commissioni di donne scioperanti.307

Le lavoratrici, dunque, prendevano la parola, agivano collettivamente, ottenevanoimportanti esiti ma risultavano essere anche vittime delle repressioni poliziesche; forzapubblica e magistratura non sembravano operare distinzioni di genere nei confrontidelle donne implicate nei conflitti di lavoro: già nello sciopero del 1888 vennero ferma-te «cinque istigatrici»308 e delle 46 scioperanti di Molinella, arrestate nel 1897, ben 40furono condannate da uno a tre mesi di reclusione, pene non inferiori a quelle inflitteai loro compaesani di sesso maschile.309

Nella prima decade del Novecento l’impennata di scioperi nel settore agricolovedeva, già nel 1901, la partecipazione di 53.000 donne e di 26.000 tra fanciulli eragazze.310 Ancora una volta tornavano ad essere protagoniste le braccianti emiliane,la maggior parte delle quali era organizzata in Leghe.311 A Molinella uno sciopero del

307 GUIDO CRAINZ, Padania. Il mondo dei braccianti dall’Ottocento alla fuga dalle campagne,Roma, Donzelli, pp. 72-73; M. MARTINI, Divisione sessuale dei ruoli e azione collettiva nelle campa-gne padane di fine Ottocento cit., p. 107.

308 Lettera della Legione dei Carabinieri Reali di Bologna al Prefetto della Provincia, Bologna,25.7.1900, in ASBo, Gabinetto di Prefettura, serie 647, 1888, «Reati. Scioperi e disordini», cat. 1, fasc.16 «Scioperi e disordini».

309 M. MARTINI, Divisione sessuale dei ruoli e azione collettiva nelle campagne padane di fineOttocento cit., p. 89.

310 Lotte agrarie in Italia. La Federazione nazionale dei lavoratori della terra 1901-1902, a curadi Renato Zangheri, Milano, Feltrinelli, 1960, p. XXVIII.

311 Già all’inizio del secolo a Molinella circa il 66% delle braccianti avventizie (878 su 1.328 lavo-ratrici) era iscritta a una Lega. Nel 1911 nella zona di Ravenna le organizzate erano, con buona appros-simazione, vicine, al 70-80% delle donne. Cfr. M. MARTINI, Divisione sessuale dei ruoli e azione col-lettiva nelle campagne padane di fine Ottocento cit., pp. 99-100.

Arresti in massa degli scioperanti di Copparo, «L’Illustrazione italiana», 21 luglio 1907,Istituto storico Parri Emilia-Romagna, Bologna

Page 105: 70 - online.ibc.regione.emilia-romagna.itonline.ibc.regione.emilia-romagna.it/I/libri/pdf/ERBA_70.pdf · Le donne organizzate: fasci femminili e sezioni operaie e lavoranti a domicilio

Tra due secoli 85

1903 coinvolse nelle risaie 3.500 tra lavoratori e lavoratrici per 73 giorni e si conclu-se con esito favorevole.312

Nelle numerose agitazioni delle risaiole, nel biennio 1905-1906, la rivendicazionedella precedenza delle lavoratrici locali rispetto alle ‘forestiere’ toccava un tema che siintrecciava, in quegli anni, con la lotta per il collocamento e la richiesta delle otto orelavorative. Infatti, solo esercitando un controllo sul mercato del lavoro tramite un’orga-nizzazione del collocamento sindacale che regolasse le migrazioni verso le risaie, erapossibile, da un lato, sottrarre le donne allo sfruttamento dei cosiddetti ‘caporali’ (inter-mediari che ingaggiavano le lavoratrici per conto dei padroni) e, dall’altro, gestire lotteefficaci per la riduzione delle ore di lavoro in risaia, senza il timore di veder boicotta-re gli scioperi dall’arrivo di ‘crumire’ reclutate nelle zone vicine a quelle dove si svol-geva la lotta. Argentina Altobelli, dal 1906 segretaria della Federazione Nazionale deiLavoratori della Terra che aveva contribuito a fondare, sulla penosa questione del cru-miraggio, si espresse più volte, sottolineando come solo attraverso l’organizzazione erapossibile costruire attorno alle lavoratrici una rete di solidarietà che consentisse di nondisperderne nel fallimento i sacrifici e le lotte.

Gli scioperi nell’Argentano del 1906 e soprattutto del 1907 furono esemplari di talecapacità del movimento operaio: non solo vennero aperte sottoscrizioni (che raggiun-sero le migliaia di lire) per soccorrere gli scioperanti ma centinaia di famiglie romagno-le ne accolsero i figli, consentendo loro la prosecuzione della lotta e il raggiungimentodegli obiettivi, tanto che il quotidiano «Avanti!» poteva intitolare Non vi sono più fan-ciulli ad Argenta! un articolo del 25 aprile 1907.

La fanfara della Lega intonò l’Inno dei lavoratori, un fremito scosse il fascio delle bandiere, ela folla si pose in cammino per un ampio stradale diritto, sotto l’uggiosa acquerugiola insisten-te. I fanciulli degli scioperanti, raccolti in gruppo all’ombra dei vessilli spiegati in testa al cor-teo, procedevano seri e silenziosi, più stupiti che addolorati di quella separazione – che nonsapevano spiegarsi – dalle loro mamme […]. Due sere prima gli uomini e le donne avevanoapplaudito con un entusiasmo quasi forsennato, nei locali della Lega, la lettura delle lettere conle quali i compagni di Lugo e di Ravenna domandavano i bambini. Ma ora giunti alla stazio-ne, ove essi si sarebbero dovuti separare dai loro piccini, una tristezza infinita serrava i lorocuori, anche gli uomini avevano un nodo di pianto alla gola. […]. Finalmente il treno si misein moto […]. Le donne con la faccia congestionata e rigata di lacrime chiamavano ancora avoce alta i loro figlioli […]. Il treno scomparve. La fanfara tornò ad intonare l’Inno, tutte lebocche la cantarono, a voce alta con frenesia; le donne si avviarono verso l’uscita tenendosi abraccetto, gli uomini si strinsero loro accanto, cantando ancora, cantando sempre.313

Nel giugno del 1907 Altobelli, sulle pagine della «Confederazione del Lavoro»,rivolgeva alle donne, alle «madri proletarie» di Argenta un saluto pieno di ammirazio-ne per i «sacrifici eroici» compiuti.314

Le lotte di quegli anni condussero infine all’approvazione di una legge sul lavoronelle risaie che fissava l’orario a nove ore giornaliere per le lavoratrici locali e dieci per

312 LUIGI ARBIZZANI, La Federazione provinciale dei lavoratori della terra (1901-1915) e le Came-re del Lavoro di Bologna, in Il sindacato nel bolognese. Le Camere del Lavoro di Bologna dal 1893 al1960, a cura di L. Arbizzani et alii, Roma, Ediesse, 1988, pp. 111-156: 122.

313 Non vi sono più fanciulli ad Argenta!, «Avanti!», 25 aprile 1907.314 Lo sciopero di Argenta è finito con la vittoria dei lavoratori!, «Confederazione del lavoro», 8

giugno 1907, citato in B. IMBERGAMO, A. SCATTIGNO, «Una forza nuova». Le donne nel movimento deilavoratori cit., p. 175.

Page 106: 70 - online.ibc.regione.emilia-romagna.itonline.ibc.regione.emilia-romagna.it/I/libri/pdf/ERBA_70.pdf · Le donne organizzate: fasci femminili e sezioni operaie e lavoranti a domicilio

86 Dall’Unità d’Italia alla prima guerra mondiale

le forestiere e che proibiva, seppure con limitata efficacia, la mediazione dei ‘capora-li’; una legge che, nella fase progettuale, fu fortemente criticata e avversata dalle orga-nizzazioni dei lavoratori ma che costituiva pur sempre un primo tentativo di sottoporreil lavoro a controllo e di garantire alcuni diritti.

Le lavoratrici della terra, poi, furono attive protagoniste del grande sciopero attua-to nell’estate del 1908 nel parmense, tanto che «La Domenica del Corriere», dedicòloro la copertina del numero di metà maggio. La lotta fu molto violenta e arrivò adassumere la forma del boicottaggio coinvolgendo anche gli addetti alle stalle perché leLeghe si trovarono di fronte alla resistenza compatta e decisa dell’Associazione agra-ria che raccoglieva i proprietari della zona e che organizzò il crumiraggio su vastascala.315 Il governo Giolitti resistette alle pressioni degli agrari perché fossero presemisure d’eccezione, ma in giugno la proclamazione di uno sciopero cittadino di solida-rietà contro l’arrivo di ‘crumiri’ diede luogo a gravi incidenti con la forza pubblica chedurarono alcuni giorni, furono aggravati dall’impiego della cavalleria e si concluserocon l’occupazione della Camera del Lavoro da parte della truppa e con l’arresto di uncerto numero di aderenti alle Leghe.

Anche durante il ‘biennio rosso’ nelle campagne vi furono numerosi scioperi in cuii braccianti continuarono a chiedere miglioramenti nelle condizioni di lavoro, pagatiperò a caro prezzo: Gertrude Grassi, ventitrenne incinta, nel corso di una manifestazio-ne svoltasi nel giugno 1919 a Bologna per reclamare la requisizione delle terre incolte,venne gravemente ferita dalle forze dell’ordine inviate ad arginare la protesta e morì inospedale cinque giorni dopo; Adalgisa Galletti, ventunenne, perse la vita perché duran-te un comizio, svoltosi a Decima di Persiceto nell’aprile del 1920 per la riforma delcapitolato colonico, i carabinieri avevano aperto il fuoco. Gertrude e Adalgisa apparte-nevano a quelle categorie sociali sulle quali più pesantemente gravavano le difficoltàeconomiche del primo dopoguerra.316

Le lotte delle donne nelle città

Nel periodo esaminato gli scioperi delle donne (operaie, tabacchine, trecciaiole,sarte, ecc.) testimoniavano di una nuova combattività delle lavoratrici: nell’ultimodecennio dell’Ottocento, ad esempio, le donne che decidevano di sospendere il lavoronell’industria furono il 31% del totale delle occupate, una percentuale rilevante chedimostrava il loro grado di organizzazione.317

Se la richiesta di aumenti salariali accomunava le lavoratrici in lotta, nei diversi set-tori produttivi l’eterogeneità delle mansioni e degli accordi vigenti con i padroni in ter-mini di salario, orario, regolamenti aziendali, così come la scarsissima legislazione inmateria di lavoro esistente, facevano sì che ogni categoria avesse piattaforme rivendi-cative diverse e che giungesse a conquiste diverse nel corso del tempo.

Le tabacchine che, come dipendenti dello Stato avevano conquistato condizioni dilavoro migliori di quelle delle operaie degli stabilimenti privati, ottenute con una serie

315 Lo sciopero ebbe inizio per il sabotaggio, da parte degli agrari, degli accordi stipulati nel 1907,accordi che stabilivano il salario ad ora anziché a giornata (con tariffa minima di 23 centesimi l’ora pergli uomini e di 16 per le donne; un chilo di pane costava più di 40 centesimi) e l’orario fissato ad 11ore di lavoro per i braccianti e a 13 per i salariati fissi aventi cura del bestiame.

316 I. VACCARI, La donna nel ventennio fascista cit., p. 60.317 IDOMENEO BARBADORO, Il sindacato in Italia. Dalle origini al Congresso di Modena della Con-

federazione del Lavoro (1908), Milano, Teti, 1979, pp. 40-41.

Page 107: 70 - online.ibc.regione.emilia-romagna.itonline.ibc.regione.emilia-romagna.it/I/libri/pdf/ERBA_70.pdf · Le donne organizzate: fasci femminili e sezioni operaie e lavoranti a domicilio

Tra due secoli 87

Corteo di operaie cotoniere a Torino, «L’Illustrazione italiana», 20 maggio 1906, Istitutostorico Parri Emilia-Romagna, Bologna

Page 108: 70 - online.ibc.regione.emilia-romagna.itonline.ibc.regione.emilia-romagna.it/I/libri/pdf/ERBA_70.pdf · Le donne organizzate: fasci femminili e sezioni operaie e lavoranti a domicilio

88 Dall’Unità d’Italia alla prima guerra mondiale

di scioperi a fine Ottocento, proseguiro-no le lotte nei primi del Novecento rag-giungendo salari superiori a quelli dellealtre categorie operaie e maggiori tute-le.318 Le tessili protestavano contro ilcontinuo svilimento del salario, maanche contro la prassi che voleva chefossero le lavoranti a procurarsi l’illumi-nazione per il lavoro serale.319 Le trec-ciaiole toscane tra il 1896 e il 1897,furono protagoniste di lotte che coinvol-sero almeno 27.000 donne in un’impo-nente agitazione a cui partecipò anche laCamera del Lavoro: protestavano controla decurtazione dei salari compiuta dagliintermediari, i cosiddetti ‘fattorini’, eproseguirono la lotta negli anni succes-sivi, ma in forme meno tumultuose e piùcollegate all’organizzazione di classe,fino ad organizzare una delle pochecooperative di produzione femminiledell’epoca.320 Certamente, data lavarietà delle tipologie contrattuali nelsettore industriale, non pare un caso chel’organizzazione delle operaie sia statapiù lenta anche in Emilia-Romagna eche gli scioperi di cui pur vi è traccia –a Bologna, ad esempio, di operaie dellacartiera o della manifattura tabacchi –riguardassero spesso singole aziende e dunque numeri limitati di lavoratrici e pochigiorni di agitazione. Fra le lavoratrici dell’industria, salari e orari variavano di settorein settore, di zona in zona, nei singoli stabilimenti e al loro interno in base alle mansio-ni più o meno qualificate che esse ricoprivano. Ciò rendeva l’organizzazione ben piùframmentaria e difficile, ed è probabilmente ascrivibile a questo, oltre che alla scarsitàe dispersione delle fonti per quegli anni, il minor numero di episodi di lotta di cui si èa conoscenza nel settore industriale rispetto a quello agricolo.321

A inizio Novecento, a Bologna – dopo le agitazioni isolate che si erano avute allafine dell’Ottocento, di certo più limitate e frammentate di quelle delle campagne – lelavoratrici di alcuni settori (tessitrici, bustaie, fiammiferaie, ecc.) cominciavano azionidi sciopero con motivazioni ed obiettivi sistematicamente ripresi da uno all’altro, e conla tendenza ad investire più fabbriche e più gruppi di operaie dello stesso settore, coin-volgendo di anno in anno un numero crescente di partecipanti e quindi facendo cono-scere alla città non la manifestazione sporadica o il tumulto verificatosi in circostanze

318 Cfr. S. SOLDANI, Strade maestre e cammini tortuosi cit., pp. 289-352.319 S. MERLI, Proletariato di fabbrica e capitalismo industriale cit., p. 9.320 B. IMBERGAMO, A. SCATTIGNO, «Una forza nuova». Le donne nel movimento dei lavoratori

cit., p. 171.321 Ivi, p. 175.

Lettera del Ministero dell’Interno, Direzionegenerale di Pubblica Sicurezza al Prefetto diBologna, 27 settembre 1888, Oggetto: OperaieManifattura tabacchi, Archivio di Stato,Bologna

Page 109: 70 - online.ibc.regione.emilia-romagna.itonline.ibc.regione.emilia-romagna.it/I/libri/pdf/ERBA_70.pdf · Le donne organizzate: fasci femminili e sezioni operaie e lavoranti a domicilio

Tra due secoli 89

straordinarie, ma l’adozione regolare dello sciopero come strumento di resistenza e diorganizzazione delle classi lavoratrici.322

Le agitazioni erano in massima parte dovute a peggioramenti della condizione lavo-rativa riguardanti sia i modi della retribuzione sia la misura e il controllo del lavoro, oltreche l’orario e il regolamento di fabbrica. Ai nuovi provvedimenti presi in questo sensoreagirono, ad esempio, le tessitrici del cotonificio Valla, con uno sciopero di 19 giorniche si concluse positivamente grazie all’intervento della Camera del Lavoro.323 Anche letessitrici dello stabilimento Sabbatini, chiedevano, oltre ad aumenti salariali, un nuovoregolamento di fabbrica per il superamento delle vecchie forme di utilizzazione dellaforza lavoro, aggravate e non più sostenibili a causa dell’introduzione di nuovi metodi disfruttamento, derivanti questi dalle ristrutturazioni e razionalizzazioni attuate dai padro-ni.324 Tra gli scioperi più importanti del 1900 vi fu quello delle bustaie della fabbricaRinaldi. Le rivendicazioni di queste donne erano rivelatrici di un doppio effetto di sfrut-tamento che era venuto determinandosi per problematiche relative alla riorganizzazioneinterna. Il proprietario, avendo aumentato la forza motrice e quindi intensificato il ritmodi lavoro, era intenzionato a licenziare una parte delle operaie e a ridurre la paga dellealtre; nello stesso tempo erano le lavoratrici che, secondo le forme più tradizionali di pre-stazione d’opera, dovevano pagare la quota di consumo del gas e le riparazioni dellemacchine. Le operaie non intendevano accettare nessuno di questi aggravamenti dellaloro condizione e il proprietario dovette trattare con una commissione della Camera delLavoro che, nel frattempo, aveva aperto una sottoscrizione di solidarietà con le sciope-ranti, e finì dopo 15 giorni con l’accettare buona parte delle loro richieste. Risultatosignificativo dello sciopero fu anche il costituirsi in Lega di resistenza di quelle operaie,con l’adesione di altre lavoratrici dello stesso settore.325 Anche le fiammiferaie della dittaPezzoli, particolarmente combattive, dovettero affrontare problemi relativi alla trasfor-mazione aziendale in seguito ai quali il proprietario voleva imporre loro riduzioni sala-riali e aumenti dei carichi lavorativi. Al termine dello sciopero «le mercedi e l’orario»rimasero «quelle di prima, ma avendo la fabbrica un grosso fondo di merce» furonolicenziate 40 donne, alle quali però venne corrisposta almeno una gratifica di 30 lire.326

In regione, altri scioperi significati si ebbero nel 1907 a Parma, dove più di milleoperaie delle sei fabbriche di busti esistenti (che esportavano in tutto il mondo il pro-dotto abile e paziente di queste donne), ottennero l’eliminazione del cottimo, le otto oredi lavoro e il riconoscimento della loro Lega e, sempre nel 1907, a Spilamberto, nelmodenese, dove le setaiole sospesero il lavoro per 38 giorni per protestare contro inde-scrivibili condizioni di lavoro.

Il primo dopoguerra, insieme alle polemiche sul lavoro delle donne e la loro smo-bilitazione, portò anche all’iscrizione di mezzo milione di lavoratrici alla CameraGenerale del Lavoro.327 Furono queste lavoratrici che parteciparono con grande inten-

322 IGNAZIO MASULLI, Crisi e trasformazione. Strutture economiche, rapporti sociali e lotte politi-che nel bolognese 1880-1914, Bologna, Istituto per la storia di Bologna, 1980, p. 230.

323 Lettera di Valla al Prefetto di Bologna, Bologna, 2.8.1900, in ASBo, Gabinetto di Prefettura,serie 990, 1900, cat. 6 «Agitazioni operaie», fasc. 2 «Agitazioni, scioperi».

324 I. MASULLI, Crisi e trasformazione cit., p. 235.325 Ibidem.326 Lettera della Legione territoriale dei Carabinieri Reali al Prefetto della Provincia, Bologna,

30.4.1902 in ASBo, Gabinetto di Prefettura, serie 1017, 1902, cat. 6, fasc. II «Bologna. Agitazioni ope-raie, dimostrazioni, scioperi, congressi».

327 La donna lavoratrice, «Almanacco della donna italiana», 1921, p. 109.

Page 110: 70 - online.ibc.regione.emilia-romagna.itonline.ibc.regione.emilia-romagna.it/I/libri/pdf/ERBA_70.pdf · Le donne organizzate: fasci femminili e sezioni operaie e lavoranti a domicilio

90 Dall’Unità d’Italia alla prima guerra mondiale

sità alle lotte del cosiddetto ‘biennio rosso’ a partire dal 1919 fino al 1921. La mobili-tazione fu imponente a livello nazionale con scioperi generali e occupazioni di fabbri-che che coinvolsero le operaie dei settori meccanici e metallurgici, delle industrie tes-sili, le sarte, le impiegate delle poste, le maestre, le lavoranti dei giocattoli, le cravat-taie, le spazzolaie e le lavoratrici del vetro, «risolute e altere sempre, sicure nel lorovalore di produttrici» come le operaie laniere e cotoniere del biellese che nell’estate del1919 scesero in sciopero invadendo le vie cittadine.328

In queste mobilitazioni si esprimeva pubblicamente e con piena consapevolezza lavolontà delle donne di ‘mettere in mostra’ la propria presenza. L’avvento del fascismo,però, mise fine al protagonismo operaio femminile.

L’intervento dello Stato

La legislazione sul lavoro femminile

Nella seconda metà dell’Ottocento il mondo del lavoro era già popolato di donne:soprattutto migliaia di giovani e giovanissime affollavano gli opifici. La progressivasostituzione della fabbrica alla manifattura e la logica della concentrazione di capitaleavevano infatti esteso un modo di produzione basato essenzialmente sullo sfruttamen-to illimitato, senza vincoli legali della loro forza lavoro.

L’uso indiscriminato delle donne e dei bambini era considerato dagli industriali una‘necessità’: i loro bassi salari – argomentavano – garantivano la possibilità di fronteg-giare la concorrenza straniera in un periodo di crisi in cui non era possibile ricorrere alrinnovamento dei macchinari.329

Della ‘questione’ del lavoro industriale delle donne si cominciò, comunque, a discu-tere soprattutto a partire dagli ultimi decenni dell’Ottocento, quando la condizione delleoperaie divenne oggetto di inchieste e di proposte di disciplinamento: preoccupazionisuscitavano soprattutto i danni fisici che il lavoro industriale procurava alle operaie,incidendo sulla salute della prole e contribuendo a una loro degenerazione (denutrizio-ne, deformazioni, morbilità).330

Per tali ragioni lo Stato decise di intervenire e affrontare intanto la scandalosa situa-zione del lavoro minorile:331 l’11 febbraio 1886 venne approvata la legge n. 3657 sullavoro dei fanciulli, primo atto della legislazione sociale in Italia. La legge, povera dicontenuti e molto al di sotto dello standard delle consimili leggi europee,332 introduce-

328 Battaglie biellesi, «La Difesa delle Lavoratrici», 6 luglio 1919.329 L’industria italiana si andava sviluppando in una fase particolarmente difficile a livello interna-

zionale: la crisi del 1873 e la lunga depressione che ne seguì e che durò fino almeno al 1896. 330 Le leggi di tutela riguardarono soprattutto le operaie, ma il mondo del lavoro dell’epoca era tut-

tavia popolato da donne che operaie non erano. Di loro la legge si occupò ben poco: qualche sporadi-co provvedimento aveva via via consentito l’accesso delle donne a determinati impieghi (telefoniste,insegnanti, levatrici) e persino qualche funzione semi-pubblica (membri dei collegi dei probiviri per lecontroversie individuali di lavoro). Tuttavia, nessuna specifica ‘protezione’ legale era stata accordataalle donne lavoratrici.

331 L’età media di ammissione al lavoro si aggirava all’epoca fra i cinque e i sette anni e la quasitotalità dei minori occupati erano bambine. Cfr. MARIA VITTORIA BALLESTRERO, Dalla tutela allaparità. La legislazione italiana sul lavoro delle donne, Bologna, il Mulino, 1979, p. 16.

332 Su tale argomento cfr. Ivi, pp. 11-12.

Page 111: 70 - online.ibc.regione.emilia-romagna.itonline.ibc.regione.emilia-romagna.it/I/libri/pdf/ERBA_70.pdf · Le donne organizzate: fasci femminili e sezioni operaie e lavoranti a domicilio

Tra due secoli 91

va il divieto di utilizzare il lavoro dei minori di nove anni in opifici, cave e miniere;limitava a otto ore giornaliere l’orario di lavoro per i minori di dodici anni e a sei ore illavoro notturno dei giovani dai dodici ai quindici anni; vietava l’impiego dei minori diquindici anni nei lavori pericolosi ed insalubri. Questa norma si applicava solo negliopifici, vale a dire negli stabilimenti con motore meccanico o fuoco continuo o neiquali fossero occupati almeno dieci operai. L’esclusione dei piccoli stabilimenti avevauna notevole importanza pratica perché sottraeva alla disciplina legale non solo alcuneindustrie in cui il lavoro dei minori era più faticoso e pericoloso, ma soprattutto il lavo-ro a domicilio e i laboratori, nei quali erano occupate un gran numero di ragazze.333

Nulla, poi, veniva disposto per le donne. Per arrivare alla regolamentazione del lorolavoro furono necessari sedici anni; anni che vedevano crescere la partecipazione delledonne alle lotte operaie e al movimento di emancipazione e il Partito socialista assume-re l’iniziativa per una legislazione ‘protettiva’. Tra il 1900 e il 1901, ad esempio, furo-no promosse numerose manifestazioni per propagandare una legge che regolamentasseil lavoro delle donne, manifestazioni sostenute essenzialmente dalle Camere del Lavo-ro che organizzarono in tutta Italia nel febbraio del 1902, i cosiddetti ‘cento comizi’,per cercare di sensibilizzare l’opinione pubblica e far pressione sul Parlamento.

L’iter parlamentare che portò all’approvazione della legge 19 giugno 1902, n. 242 sullavoro delle donne e dei fanciulli fu lungo e faticoso: ebbe inizio nel dicembre 1900, conla presentazione da parte del ministro Paolo Carcano del disegno di legge governativo,seguito nel maggio del 1901 da quello socialista. Quest’ultima proposta, legata al nomedi Anna Kuliscioff, era per i tempi audacemente progressiva (pur essendo più arretrata

333 M.V. BALLESTRERO, La protezione concessa e l’eguaglianza negata: il lavoro femminile nellalegislazione italiana, in Il lavoro delle donne cit., pp. 445-469: 447-448.

Per la legge sul lavoro delle donne e dei fanciulli, «Avanti», 21 febbraio 1902,Biblioteca Comunale dell’Archiginnasio, Bologna

Page 112: 70 - online.ibc.regione.emilia-romagna.itonline.ibc.regione.emilia-romagna.it/I/libri/pdf/ERBA_70.pdf · Le donne organizzate: fasci femminili e sezioni operaie e lavoranti a domicilio

92 Dall’Unità d’Italia alla prima guerra mondiale

delle proposte avanzate da alcune Camere del Lavoro): cercava di favorire la protezionedella lavoratrice madre e aveva l’ambizione di ricomporre il dissidio tra lavoro extrado-mestico ed esigenze familiari riducendo l’orario di lavoro a otto ore giornaliere, dispo-sto al fine di ottenere che la donna fosse libera il sabato alle 15 e potesse così «accudi-re alle settimanali faccende domestiche», e assicurando un effettivo riposo domenicale.La richiesta della parità salariale, invece, era stata cassata, si temeva infatti che potessesortire l’effetto di far abbassare i salari maschili anziché elevare quelli femminili.

In Parlamento, un’apposita commissione cercò di armonizzare la proposta socialistacon il disegno di legge governativo, elaborando infine un testo che non si discostava dimolto da quest’ultimo e che teneva largamente conto degli interessi degli imprenditori.334

Le misure adottate erano complessivamente modeste: l’orario di lavoro giornaliero veni-va fissato a dodici ore (con un intervallo di due ore, mai messo in pratica) e veniva pre-visto un riposo settimanale di ventiquattro ore; veniva vietato il lavoro sotterraneo per ledonne di qualsiasi età mentre quello notturno era interdetto solo alle minorenni, la suaabolizione per le altre era rinviata di cinque anni, per non turbare «ad un tratto, con gran-di riforme, ordinamenti industriali già formati».335 Veniva prevista anche l’istituzione delcongedo di maternità, consistente in quattro settimane dopo il parto (nessun riferimentofaceva invece la legge al periodo precedente il parto); tuttavia, per il periodo di riposoforzato non erano previsti né la retribuzione, né un indennizzo.

Dalla sfera di applicazione della normativa, entrata in vigore il 1º luglio 1903,erano esclusi il settore agricolo336 e il lavoro a domicilio.337 Le disposizioni subirono,inoltre, una serie di correzioni e mutilazioni che ridussero in gran parte la sua giàmodesta portata: le norme transitorie dilazionavano l’esecuzione di alcuni articoli, ilregolamento di attuazione limitava ulteriormente la sfera di applicazione della legge euna serie di circolari ministeriali, accogliendo le richieste degli industriali, ammettevanumerose deroghe ai divieti e al congedo di maternità. La tutela, comunque scarsa econtrastata, era accordata poi essenzialmente alle sole operaie e, nell’intenzione deilegislatori, tendeva a salvaguardare la loro capacità riproduttiva: «il fine è di evitareche le donne minorenni si infiacchiscano e diano al paese generazioni di deboli e infe-lici» dato che «la donna debole procrea uomini deboli».338 La legge dunque rispecchia-va le idee allora diffuse sulla naturale inferiorità delle donne e sulla maternità comeloro unica funzione sociale.

La legge Carcano (dal nome del ministro che l’aveva presentata) venne parzialmentemodificata con la legge 7 luglio 1907, n. 416 (confluita poi nel Testo Unico sul lavoro delledonne e dei fanciulli del 10 novembre 1907, n. 816) che introduceva il divieto di lavoronotturno per le donne di qualsiasi età, prevedendo comunque numerose eccezioni.339

334 F. PIERONI BORTOLOTTI, Socialismo e questione femminile in Italia cit., p. 70.335 M.V. BALLESTRERO, Dalla tutela alla parità cit., p. 20.336 Nel periodo esaminato, l’unica legge che venne emanata riguardò le mondine: l’articolo 82 del

Regio Decreto 1º agosto 1907, n. 636 (Testo unico delle leggi sanitarie) garantiva alle risaiole l’asten-sione dal lavoro nell’ultimo mese di gravidanza e nel primo dopo il parto.

337 Anche se la nozione di opificio risultava più ampia che nella precedente legge del 1886, poichévi erano compresi i luoghi in cui lavoravano normalmente più di cinque operai.

338 Il passo è tratto dagli atti parlamentari senza citazione specifica, cfr. M.V. BALLESTRERO, Dallatutela alla parità cit., p. 22.

339 Ad esempio, l’art. 32 del regolamento di attuazione (Regio Decreto n. 442 del 1909) consenti-va la deroghe al lavoro notturno nelle industrie «che trattavano materie suscettibili di rapida alterazio-ne e che non permettevano sospensione di lavorazione». M.V. BALLESTRERO, La protezione concessa el’eguaglianza negata cit., p. 455.

Page 113: 70 - online.ibc.regione.emilia-romagna.itonline.ibc.regione.emilia-romagna.it/I/libri/pdf/ERBA_70.pdf · Le donne organizzate: fasci femminili e sezioni operaie e lavoranti a domicilio

Tra due secoli 93

Il 17 luglio 1910, con legge n. 520 veniva istituita finalmente la Cassa di maternità,deputata al pagamento del sussidio a favore delle lavoratrici in congedo e finanziata coni contributi posti a carico delle lavoratrici e degli imprenditori: solo a partire da quelladata le lavoratrici poterono godere, nel periodo di assenza dal lavoro, di una prestazio-ne economica (sussidio di 30 lire erogato dalla Cassa e di 10 lire dallo Stato) checomunque aveva carattere di elargizione assistenziale, fissata in una cifra predetermi-nata e non ragguagliata al salario.340

Con il deflagrare del conflitto, le donne venivano irreggimentate nelle industrie diguerra e costrette a lavori pesanti e nocivi, il governo, infatti, si era affrettato ad ema-nare norme per rendere partecipi le donne ‘al difficile momento’; così con RegioDecreto 14 agosto 1914, n. 925 era stato sospeso il divieto di lavoro notturno, mentreil decreto legge n. 1136 del 1916 riammetteva le donne ad alcuni lavori esclusi dalTesto Unico del 1907 e dal successivo regolamento di attuazione, suscitando la nettacontrarietà delle donne socialiste espressa su «La Difesa delle Lavoratrici». La gran-de mobilitazione aveva reso evidente che le donne stavano assumendo un ruolo cen-trale nella costruzione dello Stato ma il risultato di quel processo non fu il riconosci-mento di diritti politici, per i quali le donne avrebbero dovuto aspettare un altro dopo-guerra. Dopo il primo conflitto mondiale, invece, arrivarono riforme che ampliavanoi diritti civili: la legge 17 luglio 1919, n. 1176 sulla capacità giuridica abrogava l’isti-tuto dell’autorizzazione maritale341 e sanciva all’art. 7 l’ammissione delle donne «apari titolo degli uomini, ad esercitare tutte le professioni ed a coprire tutti i pubbliciimpieghi» esclusi soltanto «quelli che implicano poteri pubblici giurisdizionali, o l’e-sercizio di diritti o podestà politiche, o che attengono alla difesa militare delloStato».342 Questo articolo, giustamente considerato una tappa decisiva dell’emancipa-zione femminile, ebbe tuttavia una applicazione che ne doveva impoverire notevol-mente l’effetto. Il regolamento applicativo del gennaio 1920 precludeva, infatti, alledonne ogni funzione direttiva, la carriera diplomatica, quella nell’esercito e nellamagistratura, lasciando poi ampia discrezionalità alle amministrazioni di individuarecasi di esclusione non previsti dal regolamento stesso.

Un caso esemplare in tal senso fu quello delle insegnanti: il Ministero della Pubbli-ca Istruzione venne autorizzato a non ammettere per regolamento le donne all’insegna-mento in talune scuole e/o di talune materie, con questa motivazione: «la formazionedella mente e del carattere del cittadino devono compiersi nella scuola media di secon-do grado in ispecie attraverso certi insegnamenti, e questi non possono essere affidatialla donna, la quale non dà adeguato affidamento per le sue qualità fondamentali, chenon sono modificabili da tirocinio e cultura».343

Può essere di qualche interesse, poi, riportare come i membri della Commissioneministeriale del Senato sul progetto di legge difendessero questo provvedimento da chilo considerava dannoso per la famiglia. Nella relazione da essi stilata si leggeva:

340 M.V. BALLESTRERO, Dalla tutela alla parità cit., p. 27.341 Peraltro, già durante il conflitto, la normativa vigente aveva subìto significative sospensioni in

funzione delle esigenze finanziarie dello Stato. Il 21 gennaio 1917 il decreto luogotenenziale n. 54aveva, infatti, resa non necessaria l’autorizzazione maritale per le operazioni relative ai prestiti di guer-ra, fatte direttamente dalle donne sposate presso gli istituti di emissione. I. VACCARI, La donna nel ven-tennio fascista cit., pp. 57-59.

342 M.V. BALLESTRERO, La protezione concessa e l’eguaglianza negata cit., p. 458.343 Ivi, p. 460.

Page 114: 70 - online.ibc.regione.emilia-romagna.itonline.ibc.regione.emilia-romagna.it/I/libri/pdf/ERBA_70.pdf · Le donne organizzate: fasci femminili e sezioni operaie e lavoranti a domicilio

94 Dall’Unità d’Italia alla prima guerra mondiale

L’evoluzione sociale va rendendo sempre più numeroso lo stuolo di quelle che non trovano unaposizione soddisfacente nel matrimonio o comunque nella compagine famigliare […] ad ognibuon modo le donne che hanno la vocazione della famiglia e la sensibilità di adempiervi, nonvi rinunciano così facilmente, solo perchè virtualmente abilitate alle carriere delle professio-ni; e quelle che tali vocazioni non hanno, troveranno nella via meglio aperta a procurarsi deco-rose occupazioni un incentivo di più a non diventare delle irregolari.344

Con le amare vicende del dopoguerra, e nel momento del passaggio dal sistemaliberale al regime fascista, si concludeva anche la prima, lunga e complessa fase dellalegislazione sul lavoro delle donne.

344 PAOLO EMILIO BENSA, Per la capacità giuridica e professionale della donna, Relazione dellaCommissione del Senato sul progetto di legge approvato dalla Camera dei deputati il 9 marzo 1919,in Giurisprudenza italiana e La legge, Torino, Utet, 1919, pp. 24-32, citato in M. PALAZZI, Donne solecit., p. 423.

Page 115: 70 - online.ibc.regione.emilia-romagna.itonline.ibc.regione.emilia-romagna.it/I/libri/pdf/ERBA_70.pdf · Le donne organizzate: fasci femminili e sezioni operaie e lavoranti a domicilio

La prima guerra mondiale

Lavorare in tempo di guerra

Per tutti gli interstizi una fiumana di donne è penetrata, gorgogliando e frusciando, nei luoghidegli uomini: campi, fabbriche… talune, è vero, assomigliano ai bambini, specie quando anco-ra non ne hanno di propii: si stancano, si distraggono, sospirano, liticano, s’impuntano, scio-perano, minacciano, strillano. Ma le più, insomma, lavorano e sono preziose, e s’ha bisognodi loro… la donna è prima di tutto un essere pratico il cui lavoro sociale è utilissimo se il suocompito è limitato.1

Così si esprimeva lo scrittore Ugo Ojetti nel 1917 sul «Corriere della sera». A parteil tono paternalistico, si trattava di un significativo, e del resto inevitabile, riconosci-mento. Con lo scoppio della Prima guerra mondiale, infatti, le donne furono chiamatea rimpiazzare gli uomini nei luoghi e nei ruoli lasciati dagli uomini impegnati al fron-te: non solo li dovettero sostituire a capo delle famiglie, di cui spesso divennero l’uni-co punto di riferimento e le uniche procacciatrici di reddito, ma anche nei posti lavora-tivi e nei ruoli direttivi e amministrativi fino ad allora preclusi, come, ad esempio, nellaconduzione delle aziende familiari.

La Grande guerra – evento traumatico che coinvolse grandi masse causando la rot-tura degli equilibri fra i sessi nella famiglia e nella società2 – fu una esperienza colletti-va che coinvolse tutte le donne e le cui conseguenze furono numerose: spesso comportòl’accettazione di responsabilità mai assunte prima di allora, con la sperimentazione dicompetenze di solito considerate non adeguate alla ‘natura’ femminile o svalorizzate.

Il primo conflitto mondiale ebbe, dunque, conseguenze molto rilevanti per l’entra-ta in massa delle donne sulla scena pubblica e in particolare nel mondo del lavoro. Dalconfronto fra i dati dei censimenti del 1911 e del 1921 risulta che, industria a parte, in

1 SALIO [Ugo Ojetti], Le donne e la guerra, «Il Corriere della sera», 30 aprile 1917, citato in A.GIBELLI, La Grande guerra degli italiani cit., p. 190.

2 «Le crisi costituiscono spesso un importante osservatorio per analizzare le relazioni fra i sessi ele condizioni che influiscono sul loro condizionamento o le loro trasformazioni. Le fasi in cui, in moltesocietà, si interrompono provvisoriamente o si abbandonano in via definitiva vecchi equilibri familia-ri, economici, sociali, culturali, si caratterizzano anche per una messa in discussione o comunque peruna modifica, più o meno duratura più o meno generalizzata, della peculiare divisione dei ruoli e deipoteri femminili e maschili dominanti in un dato contesto, sia nell’ambito privato delle relazioni sia inquello pubblico dei rapporti sociali. Quando la crisi provoca un’interruzione o una sospensione delladivisione dei ruoli dominante e in particolare produce assenza o allontanamento degli uomini adulti, ledonne si possono trovare a svolgere funzioni familiari e sociali normalmente interdette al loro sesso,di conseguenza il loro spazio di azione ne risulta ampliato sia nell’ambito domestico sia in quello lavo-rativo. La guerra è un fenomeno di questo tipo, un evento sociale che coinvolge grandi masse di uomi-ni e donne in esperienze che comportano effetti significativi anche in termini di soggettività e di iden-tità sociale». M. PALAZZI, Donne sole cit., pp. 362-363.

Page 116: 70 - online.ibc.regione.emilia-romagna.itonline.ibc.regione.emilia-romagna.it/I/libri/pdf/ERBA_70.pdf · Le donne organizzate: fasci femminili e sezioni operaie e lavoranti a domicilio

96 Dall’Unità d’Italia alla prima guerra mondiale

3 Ciò era l’indizio di una linea di tendenza innescata dalla guerra, che il ritorno alla ‘normalità’ deldopoguerra non fu sufficiente a invertire. Per i dati cfr. A. GIBELLI, La Grande guerra degli italiani cit.,p. 191. Inoltre, su tale argomento, cfr. BARBARA CURLI, Italiane al lavoro 1914-1920, Venezia, Marsi-lio, 1998.

4 Per favorire un avvicinamento graduale delle donne a questo tipo di lavoro per loro certamenteinusuale, a Bologna, per iniziativa e intervento di privati, venne aperta una scuola professionale fem-minile. L’intento non era tanto l’addestramento, in generale attuato all’interno delle fabbriche, ma pro-prio quello di vincere le diffidenze femminili. Cfr. M. PALAZZI, Donne sole cit., p. 416.

5 COMITATO NAZIONALE PER IL MUNIZIONAMENTO, Il lavoro femminile nella industria di guerra ita-liana, Roma, Calzone, 1917, pp. 20-21.

6 Cfr. COMITATO CENTRALE DI MOBILITAZIONE CIVILE, I comitati regionali di mobilitazione industria-le (1915-1918), Milano-Roma, L. Alfieri, [dopo 1925] e A. GIBELLI, La Grande guerra degli italianicit., p. 184.

7 DONNA PAOLA [Paola Baronchelli Grosson], La donna della nuova Italia. Documenti del contri-buto femminile alla guerra (maggio 1915-maggio 1917), Milano, R. Quintieri editore, 1917, p. 242.

tutti gli altri comparti (trasporti e comunicazioni, commercio, banche e assicurazioni,amministrazione pubblica e privata, professioni e arti liberali) la presenza di manodo-pera femminile aumentò in cifre assolute, ma – a causa della crescita complessiva del-l’occupazione – solo in alcuni di essi si verificò un aumento anche in percentuale: neitrasporti, e soprattutto nel settore bancario e assicurativo (dove passò dal 3,5all’11,4%), nell’amministrazione (dal 4,7 al 12,9%) e nelle professioni.3

Nelle manifatture la loro presenza aumentò nei settori già fortemente femminiliz-zati, come quelli tessili, dell’abbigliamento e alimentari, spesso convertiti per esigen-ze belliche, ma anche nei comparti a prevalente manodopera maschile, come quellomeccanico, della produzione di armamenti e in generale di allestimento di materialibellici.4 Se in generale alla fine del 1916 nell’industria delle munizioni le donne rap-presentavano il 18% della manodopera occupata, in alcuni spolettifici raggiungevanoil 95% e nella lavorazione delle granate il 90%. Così, secondo i dati forniti dal Comi-tato nazionale per il Munizionamento, negli stabilimenti impegnati nella produzionemilitare le donne «al 1º agosto 1914 […] erano appena 1760, al 1º marzo 1916 esseerano divenute 6.000, 60.000 circa al 31 ottobre 1916 e 90.000 al 31 dicembre1916»,5 salirono poi a 140.000 nel 1917 per toccare il massimo di quasi 200.000 allafine della guerra.6

Ecco come rilevava la novità delle ‘donne al tornio’, Donna Paola, la scrittrice PaolaBaronchelli Grosson, autrice di diversi libri e opuscoli dedicati alla mobilitazione delladonna per la guerra, tra cui La donna della nuova Italia. Documenti del contributo fem-minile alla guerra, pubblicato nel 1917:

Soltanto due anni addietro un ingegnere, un capo-tecnico avrebbe riso come di una stramberiaall’idea di mettere una donna al tornio… cioè al congegno tradizionalmente di competenzamascolina […] Ebbene le notizie in possesso del Ministero Armi e Munizioni dimostrano chele donne possono eseguire, ed oggi eseguiscono, gran parte delle lavorazioni per la produzio-ne del materiale da guerra, quali: la lavorazione dei cannoni da piccolo e medio calibro; la fab-bricazione dei proiettili e bombe di tutti i calibri; la lavorazione e il montaggio di macchine diprecisione, cioè motori per aviazione e per automobili, e macchine utensili; la lavorazione acaldo per la trafilatura dei proiettili; la lavorazione dei più potenti esplosivi; la manovra dellegru; l’estrazione dei minerali di ferro ed altri occorrenti alla fabbricazione delle armi, ecc.7

«Le massaie della guerra» le chiamavano su «L’Illustrazione italiana» commentan-do l’immagine certo non usuale di donne che sistemavano bombe in un cortile, ‘moder-

Page 117: 70 - online.ibc.regione.emilia-romagna.itonline.ibc.regione.emilia-romagna.it/I/libri/pdf/ERBA_70.pdf · Le donne organizzate: fasci femminili e sezioni operaie e lavoranti a domicilio

ne Penelopi’ non più impegnate a fare e a disfare la tela in attesa del ritorno dell’uomodalla guerra, ma a sostituirlo in tutti i posti di lavoro lasciati sguarniti.8

A colpire maggiormente la fantasia, suggerendo pezzi di colore sui giornali e lapubblicazione di fotografie, fu soprattutto la comparsa delle donne in occupazione dav-vero inconsuete (soprattutto tramviere e spazzine), ricoprendo le quali esse sembrava-no modificare le regole della società civile, quasi mascolinizzarsi, anche per via delle‘divise’ che le identificavano: «Esse portano in testa una specie di cuffia grigia edhanno un lungo soprabito dello stesso colore», scriveva «L’avvenire d’Italia» quandocomparvero le tramviere a Bologna «sulle linee di S. Stefano, di S. Ruffillo e dellaMascarella», subito aggiungendo, quasi a voler rassicurare i lettori, che «tutte adempi-rono al loro incarico con vera gentilezza».9

Per utilizzare queste donne, però, era necessario che le istituzioni prendessero delleprecauzioni, come quelle di stabilire precise regole di comportamento per gli utenti alfine di rispettare, nonostante le precarietà dei tempi, le necessità del vivere civile, cosìil Prefetto scriveva al Sindaco sottolineando l’opportunità di evitare «gli ingombri delpubblico nell’interno delle vetture, pericolosi e poco convenienti per la morale e ladecenza» vietando «di ingombrare in piedi lo spazio delle corsie longitudinali nellointerno delle vetture stesse».10

Molto più scontato fu l’impiego delle donne negli speciali laboratori – che venneroinstallati appositamente – o nella lavorazione a domicilio per la produzione di indumen-ti militari, impiego che registrò uno straordinario incremento. Ad esempio, il laborato-rio sartoriale di Bologna, costituito dalla Fondazione Formiggini11 e convertito nel 1915per confezionare divise affinché «lo Stato potesse realizzare risparmi sulle sue fornitu-re» e perché trovassero «conveniente occupazione le donne povere appartenenti a fami-glie di richiamati alle armi o di disoccupati», nel 1917 produsse 15.181 pezzi e neiprimi quattro mesi del 1918 «23.949, più 8.656 capi in lana».12

Non meno importante fu l’azione delle donne nelle campagne: secondo calcoliattendibili, su una popolazione di 4,8 milioni di uomini che lavoravano in agricoltura,2,6 furono richiamati alle armi, sicché le mogli dei mezzadri, dei piccoli proprietari edei coltivatori affittuari si trovarono per la prima volta in grande numero a sostituire imariti nella direzione delle aziende, mentre le braccianti con il proprio lavoro non dove-vano più integrare il salario sovente insufficiente dei mariti, bensì mantenere interinuclei familiari spesso composti unicamente di bambini e anziani, con un aggravio difatica e di responsabilità.

La prima guerra mondiale 97

8 Il riferimento è all’articolo Penelope moderna, apparso su «La lettura» nell’agosto del 1916, cita-to in A. GIBELLI, La Grande guerra degli italiani cit., p. 192.

9 Le donne tramviere in servizio, «L’Avvenire d’Italia», 26 ottobre 1916.10 Lettera del Prefetto di Bologna al Sindaco, Bologna, 6 novembre 1916, in Archivio del Comu-

ne di Bologna, Carteggio amministrativo, Titolo XIII «Opere pubbliche», Rub. 1, Sez. 2 «Strade e piaz-ze», n. corda 439, anno 1916.

11 La fondazione, istituzione pubblica di beneficenza eretta in ente morale con RD 17.4.1913, fucostituita in seguito alle disposizioni testamentarie del dottor Alberto Sabatino Formiggini, modenese,che lasciò il suo patrimonio ai Comuni di Bologna e Modena perché fossero aperti laboratori retti conmoderni sistemi ed atti a combattere e lenire la disoccupazione operaia. All’epoca presidente della fon-dazione era l’avvocato Demos Altobelli e nel comitato di gestione era attiva Argentina Altobelli. Illaboratorio ebbe sede dapprima nel salone di Palazzo dei Notai, poi in via Zamboni, 6. Cfr. Il labora-torio della Fondazione Formiggini in Bologna, maggio 1917-maggio 1918, «La vita cittadina», mag-gio 1918, p. 121.

12 Ibidem.

Page 118: 70 - online.ibc.regione.emilia-romagna.itonline.ibc.regione.emilia-romagna.it/I/libri/pdf/ERBA_70.pdf · Le donne organizzate: fasci femminili e sezioni operaie e lavoranti a domicilio

98 Dall’Unità d’Italia alla prima guerra mondiale

13 I brani delle testimonianze sono tratti da A. BRAVO, Donne contadine e prima guerra mondiale,«Società e storia», 1980, 10, p. 847 e p. 856.

14 M. PALAZZI, Donne sole cit., pp. 414-415; S. SOLDANI, Donne senza pace. Esperienze di lavoro,di lotta, di vita tra guerra e dopoguerra (1915-1920), in Le donne nelle campagne italiane del Nove-cento, a cura di Paola Corti, «Annali Istituto A. Cervi», 1991, 13, pp. 11-56.

15 Il libro d’oro delle donne dell’agro parmense. Le donne premiate negli anni di guerra 1916-1917, a cura di Antonio Bizzozero, Parma, Tip. Pelati, 1920, pp. 33, 35, 37, 40. Nel volume sono elen-cate le motivazioni dei premi alle donne parmensi, premi che il ministero dell’Agricoltura aveva deci-so di assegnare con decreto nel luglio del 1917 a tutte le italiane «che si erano distinte in modo esem-plare, per operosità costante e produttiva, nell’attendere ai lavori agrari e alla direzione di questi». Cfr.M. PALAZZI, Donne sole cit., pp. 414-415 e S. SOLDANI, Donne senza pace cit., pp. 17-18.

16 I. VACCARI, La donna nel ventennio fascista cit., p. 48.

Le contadine, dunque, videro dilatarsi i tempi e i cicli abituali di lavoro (col coin-volgimento delle più giovani e delle più anziane) e dovettero coprire mansioni dallequali erano tradizionalmente esentate. A cadere era soprattutto la divisione del lavo-ro che voleva affidati agli uomini i compiti più pesanti e impegnativi, come vanga-re, seminare, falciare e persino guidare le macchine agricole: «Tutti i lavori chedovevano fare gli uomini, li facevo anch’io. – raccontava una donna –. Andavo per-sino a sporgere i covoni, a scaricare il grano, ad aiutare a trebbiare quando veniva lamacchina». E ancora: «Alla Riviera a trebbiare mi ricordo, eravamo tutte donne,c’era qualche macchinista… ma per il resto facevamo tutto noi. Chi buttava i covo-ni, chi tagliava».13

I dati di cui si dispone sembrano dimostrare che l’impegno femminile fu mag-giore nelle regioni dove il coinvolgimento nei lavori agricoli era già nel passato piùesteso, come in Emilia-Romagna.14 A Parma, scriveva Antonio Bizzozero, direttoredella Cattedra ambulante di agricoltura della città, c’era chi «colla sola suocera»aveva governato trentadue capi di bovini e coltivato 6000 mq. di terreno a pomodo-ro; chi, con l’aiuto di due garzoni aveva prodotto «600 forme di grana Parmigiano»e, in due anni, «ingrassato oltre centotrenta maiali»; chi aveva consegnato «allecommissioni incaricate alle requisizioni bovine, il fieno e la paglia compiendo talo-ra lunghi e faticosi tragitti»; chi aveva sostituito il marito come macchinista alle lat-terie sociali; e infine chi, dal mestiere di sarta svolto fino ad allora, era passata acondurre un’azienda dotata di sette macchine trebbiatrici e a occuparsi dell’assun-zione di salariati, della stipulazione dei contratti relativi alla pressatura dei foraggicon l’autorità militare e, in generale, a impegnarsi nella direzione e amministrazio-ne di complesse imprese agricole.15

Furono il grande impegno e la perizia di queste donne a consentire, nonostante lagravità del momento, di contenere i danni provocati dalle contingenze belliche, comericonobbe il ministro dell’Agricoltura, Giovanni Ranieri nel gennaio 1917: «Nessunosaprà mai mettere abbastanza in luce il paziente lavoro, la tranquilla rassegnazione, lapertinace costanza della donna di campagna, alla quale è dovuto in gran parte se laterra, priva di tante braccia valide e di volontà operose date alla guerra, ancora produ-ce di che alimentare le genti italiane».16

Nonostante il contributo dato, il massiccio ingresso delle donne nei lavori e negliambienti maschili provocò diffidenze e atteggiamenti di rigetto che non di rado attin-gevano ai più triti stereotipi e a pregiudizi moralistici.

Nelle fabbriche metalmeccaniche la presenza femminile era talvolta avvertita comeinutile e non necessaria: «Non meno di un centinaio di donne si notavano [nel reparto]in permanenza oziose: si leggevano romanzi, si scrivevano lettere, si faceva la calza, si

Page 119: 70 - online.ibc.regione.emilia-romagna.itonline.ibc.regione.emilia-romagna.it/I/libri/pdf/ERBA_70.pdf · Le donne organizzate: fasci femminili e sezioni operaie e lavoranti a domicilio

La prima guerra mondiale 99

17 A. GIBELLI, La Grande guerra e gli italiani cit., p. 193.18 Lettera del Prefetto al Ministro dell’Interno, Bologna, 21 febbraio 1917, in ASBo, Gabinetto di

Prefettura, b. 1275.19 I. VACCARI, La donna nel ventennio fascista cit., pp. 57-59.

chiacchierava e si dormiva inluogo di lavorare», scriveva, in unrapporto al suo dirigente, un capo-squadra dell’Ansaldo, descriven-do l’apporto delle donne alla pro-duzione.17

E ancora le nuove assuntepotevano essere considerateoggetto di favoritismi interessatida parte di dirigenti maschi, odonne che approfittavano dellanuova condizione e vivevano nellusso, sciupando i loro salari «perabbigliarsi in modo non consonoalla loro condizione», comedenunciava il Prefetto di Bolognanel febbraio del 1917.18

Per quanto elementi di rotturae di mutamento si fossero intro-dotti nei rapporti tra i generidurante il conflitto, nel dopoguer-ra si affermò nettamente una con-trotendenza. Finito il tempo delgrande scontro, tutti provavano unforte bisogno di sicurezza a cui loStato rispose prescrivendo alledonne il rientro nei ranghi, neiruoli familiari, nei compiti pro-creativi e materni. Secondo laretorica dominante, la parentesi della guerra doveva essere chiusa anche in questo senso.

Nell’ambito del lavoro, la riconversione a un’economia di pace provocò una drasti-ca riduzione dell’occupazione femminile. Solo per pochi settori, come quello impiega-tizio, la guerra rappresentò una tappa del processo di espansione della presenza femmi-nile. Nell’industria il processo di smobilitazione della forza lavoro femminile fu moltorapido, più lento ma comunque profondo nell’agricoltura.

I modi in cui vennero pagati i sussidi di disoccupazione rivelano in modo inequivo-cabile il significato che le istituzioni attribuivano alla mobilitazione della manodoperafemminile. A Bologna, per esempio, le sovvenzioni furono concesse soltanto alle donneche erano state operaie anche prima del conflitto e in ogni caso per un ammontare piùbasso e per un tempo più limitato di quanto avveniva con gli uomini (140 giornate con-tro 150). Alle braccianti il sussidio venne sospeso nel dicembre 1919, quando iniziavail periodo di disoccupazione stagionale: secondo la logica fatta prevalere dalle autoritàla mancanza di lavoro, a quel punto, non era imputabile alla guerra e perciò i loro dirit-ti si estinguevano.19

Donne mentre puliscono cartucce a Villa Contriin Bologna, 1915-1918, Museo Civico del Risorgimento, Bologna

Spazzine in via Riva Reno a Bologna, 1916, Museo Civico del Risorgimento, Bologna

Page 120: 70 - online.ibc.regione.emilia-romagna.itonline.ibc.regione.emilia-romagna.it/I/libri/pdf/ERBA_70.pdf · Le donne organizzate: fasci femminili e sezioni operaie e lavoranti a domicilio

100 Dall’Unità d’Italia alla prima guerra mondiale

20 M. PALAZZI, Donne sole cit., p. 422.21 A Bologna fu istituito il Laboratorio per i doni ai soldati combattenti, presieduto da Giulia Mon-

tanari. Cfr. I. VACCARI, La donna nel ventennio fascista cit., p. 45.22 Il coordinamento delle informazioni dei ‘militari di mare’ veniva attuato dall’altro ufficio cen-

trale di Roma.23 ELISA ERIOLI, L’«Ufficio Notizie alle famiglie dei militari». Una grande storia di volontariato

femminile bolognese, in Archiviare la guerra. La Prima Guerra Mondiale attraverso i documenti delMuseo del Risorgimento, a cura di Mirtide Gavelli, «Bollettino del Museo del Risorgimento», L, 2005,pp. 75-90: 78.

In un contesto come questo, le medaglie d’oro e i miseri premi conferiti alle donneche si erano particolarmente distinte con il loro lavoro, al di là della retorica, avevanosoprattutto il significato di dichiarare conclusa un’emergenza, ripristinare gli equilibriprebellici nelle relazioni fra i sessi, chiudere la parentesi: «mentre i reduci tornavano acasa, le loro mogli avrebbero dovuto tornare “in” casa».20

Mobilitarsi in tempo di guerra

Tra gli aspetti della mobilitazione femminile per il conflitto ebbero maggiore ecoquelli di tipo assistenziale.

Nell’assistenzialismo patriottico confluirono la tradizione caritativa tipica delmondo cattolico, quella filantropica di segno laico ma anche attività di sostegno elabo-rate dal femminismo. Ad alimentarlo fu un volontariato espresso specialmente da donnedi estrazione borghese e aristocratica. Le cosiddette ‘Dame visitatrici’ e quelle che simettevano a disposizione dei vari ‘Uffici assistenza’ e ‘Uffici dono’,21 sorti un po’ovunque, avevano il compito di recare sostegno, conforto e aiuto materiale alle fami-glie dei mobilitati nonché agli stessi soldati che si trovavano in licenza, nelle retrovie oai feriti negli ospedali.

Nell’esecuzione di queste e altre funzioni simili, considerate tipicamente femminili econsone al decoro borghese, veniva esaltato il ruolo materno della donna, una maternitàsimbolica, per così dire estesa dalla sfera privata a quella pubblica. Questo ruolo mater-no, questa sorta di maternage di massa, si esplicava in varie forme. Le donne, come diret-trici e come lavoranti, si impegnarono a fondo, oltre che nell’attività di laboratori di cuci-to e per la confezione di divise e di indumenti adatti a proteggere i militari dal freddo,nella raccolta della lana, e ancora nei servizi dei cosiddetti ‘Uffici Notizie’ che avevanoil compito di favorire i contatti tra i combattenti e le famiglie e di trasmettere informazio-ni soprattutto su feriti, dispersi, morti e prigionieri. La sede centrale, che coordinava edirigeva le 8.400 sezioni periferiche per le notizie riguardanti i militari di terra,22 venneistituita a Bologna per iniziativa di un gruppo di nobildonne guidate da Lina BianconciniCavazza. La contessa arrivò a concedere il primo piano del suo palazzo di via Indipen-denza 69 per impiantarvi l’ufficio fino al 1916, quando, data la sopravvenuta inadegua-tezza della sede, questo fu trasferito presso i locali delle Poste situati in via Farini 3.23

Il sistema funzionava in questo modo:

Ogni sede di Corpo d’armata e le principali città hanno una sezione dell’Ufficio: le sottosezio-ni trovansi nelle sedi dei distretti o dei centri di mobilitazione o degli ospedali cha abbiano uncospicuo numero di letti […]. Ogni sottosezione ha la sua visitatrice, una schiera di signore esignorine che si recano negli ospedali più volte alla settimana e fanno l’elenco dei militari feri-ti o malati colle loro generalità e colla natura delle malattie, e raccolgono insieme quelle noti-

Page 121: 70 - online.ibc.regione.emilia-romagna.itonline.ibc.regione.emilia-romagna.it/I/libri/pdf/ERBA_70.pdf · Le donne organizzate: fasci femminili e sezioni operaie e lavoranti a domicilio

La prima guerra mondiale 101

24 ALBANO SORBELLI, Accanto alla guerra. L’Ufficio notizie, «La Lettura», XVI, 1, 1º gennaio1916, pp. 63-69: 65-66.

25 Complessivamente le donne mobilitate nei vari uffici furono circa 25.000. Cfr. E. ERIOLI,L’«Ufficio Notizie alle famiglie dei militari» cit., p. 78.

26 Ivi, p. 81.

zie che ogni militare desidera di aggiungere affinché siano trasmesse alla famiglia. Se i milita-ri appartengono, per la residenza della loro famiglia, alla sezione, le notizie vengono cataloga-te e trattenute nello schedario della sezione; se appartengono invece ad altre sezioni, le schedevengono inviate a quella sezione che si incarica tosto di comunicare le notizie desiderate allafamiglia; in ambi i casi una copia delle schede è inviata alla sede centrale in Bologna, la qualedeve servire da tramite e coordinamento fra tutte le sezioni e deve sapere indirizzare le ricercheper tutte le domande che le vengono rivolte. Se una richiesta di notizie pertanto giunge a unasezione, questa guarda prima nei suoi schedari e, se non trova il nome, ne fa richiesta all’uffi-cio centrale: questo o ha notizie e le spedisce tosto, o non le ha, e allora invia domanda al colon-nello del reggimento cui appartiene il soldato, e si è sicuri che dopo 8 o 10 giorni al massimoarriva dal colonnello la risposta: che il militare sta bene, o è ferito, o malato, o disperso.24

All’interno dell’ufficio bolognese 350 volontarie25 si dividevano nella gestione dellospoglio della corrispondenza: dalle richieste di notizie che giungevano da sezioni e sotto-sezioni a quelle dei privati che scrivevano direttamente alla struttura nella speranza diaccelerare i tempi di risposta; dalle comunicazioni dei comandi militari e dei depositi allacorrispondenza dei cappellani dalle zone di guerra che fornivano dati sui combattenti.26 Illavoro di smistamento era febbrile: in alcuni periodi, soprattutto in concomitanza degliattacchi, le bolognesi arrivarono a smistare diecimila informazioni al giorno, tanto che altermine del conflitto lo schedario dell’ufficio contava 12 milioni di schede-notizie.

ROBERTO SEVARDI, Comitato di assistenza civile di Reggio Emilia. Confezione di calzatureper militari, 1919, Fototeca della Biblioteca Panizzi, Reggio Emilia

Page 122: 70 - online.ibc.regione.emilia-romagna.itonline.ibc.regione.emilia-romagna.it/I/libri/pdf/ERBA_70.pdf · Le donne organizzate: fasci femminili e sezioni operaie e lavoranti a domicilio

Iniziative particolarmente rilevan-ti, poi, furono messe in atto per pro-pagandare e favorire la sottoscrizioneai vari prestiti nazionali lanciati dalloStato per rastrellare il risparmio pri-vato. La Federazione emiliana delConsiglio nazionale delle donne ita-liane invitava a partecipare alla sotto-scrizione utilizzando «i mille e millemodesti rivoli del risparmio femmini-le», i «prodotti nascosti della virtù edella previdenza muliebre» poiché«la donna lavoratrice che si mostrassecapace, in un momento tanto graveper la Patria, di apportarle con le suesole forze così cospicue risorse eco-nomiche, dimostrerebbe con eloquen-za al legislatore come la soggezionegiuridica dell’autorizzazione maritalenon sia più per lei, che tanta resisten-za sa mostrare ai dispendi, che lavora,guadagna, risparmia, e per ciò stessoha il diritto di amministrare e tutelare col marito l’azienda domestica».27

Nelle attività di sostegno allo sforzo bellico sembravano venire alla luce quell’inventi-va e quelle capacità non solo di risparmio ma anche di riutilizzo che erano considerate virtùtipicamente femminili e che costituivano una risposta a tempi di penuria e di restrizioni. Ledonne adoperarono, per farne cappotti, frammenti di pellicce prelevati da indumenti usati;promossero allo stesso scopo l’allevamento dei conigli; idearono forme di riuso della cartadi giornali o confezionarono i cosiddetti ‘scaldaranci’ piccoli rotoli di carta paraffinata perriscaldare il rancio nelle gavette; realizzarono speciali superfici compresse detti ‘coltroni’(grandi coltri) che proteggevano i soldati dal vento e dal freddo; concepirono particolariindumenti antiparassitari contenenti miscele per tener lontani i pidocchi che tormentavanoi fanti in trincea e idearono ‘fasce da piedi’ che, imbevute di una speciale miscela chimi-ca, scongiurarono i temuti congelamenti, causati del corredo militare inadatto e incomple-to. Le donne provvidero persino a organizzare la raccolta di noccioli di frutti (pesche, albi-cocche, prugne) per vari usi farmacologici e di saponificazione.28 Persino la maschera anti-gas, simbolo di una guerra combattuta coi mezzi più terrificanti, fu creata a quanto paredalle donne di un comitato bolognese, prima di essere perfezionate da esperti chimici e dientrare stabilmente nel corredo dei militari.29 Le iniziative si moltiplicarono. Per i figlidelle donne che dovevano lavorare furono improvvisati nidi e asili per bambini e ricreato-

102 Dall’Unità d’Italia alla prima guerra mondiale

27 CONSIGLIO NAZIONALE DELLE DONNE ITALIANE, FEDERAZIONE EMILIANA, Le piccole risparmiatricie il prestito nazionale. Conferenza di Gilda Chiari Allegretti detta in Bologna il 10 gennaio 1916 sottogli auspici dell’Università popolare, Bologna, Stab. poligrafico Emiliano, 1916, p. 9 e p. 24.

28 Cfr. A. GIBELLI, La grande guerra degli italiani cit., pp. 197-201.29 La proprietaria di un negozio di merceria di Bologna, Bianca Bordoli, ebbe per prima l’idea di

creare una mascherina contro i gas asfissianti. Certo l’arnese ideato era rudimentale, ma diede modoal prof. Giacomo Ciamician dell’Ateneo felsineo di perfezionarlo, tanto che il modello risultante parefosse adottato dal governo. Cfr. I. VACCARI, La donna nel ventennio fascista cit., p. 46.

Ufficio notizie di Bologna, «La lettura. Rivistamensile del Corriere della Sera», a. XII, 1916,Museo Civico del Risorgimento, Bologna

Page 123: 70 - online.ibc.regione.emilia-romagna.itonline.ibc.regione.emilia-romagna.it/I/libri/pdf/ERBA_70.pdf · Le donne organizzate: fasci femminili e sezioni operaie e lavoranti a domicilio

La prima guerra mondiale 103

30 GIULIA CAVALLARI CANTALAMESSA, L’opera di una donna nel periodo della guerra, Bologna, Sta-bilimenti poligrafici riuniti, 1919.

31 Cfr. I. VACCARI, La donna nel ventennio fascista cit., p. 45.32 DONNA PAOLA, [Paola Baronchelli Grosson], La donna nella nuova Italia cit. Nel 1915 aveva

intanto pubblicato, per la Bemporad di Firenze, La funzione della donna in tempo di guerra.33 Ivi, p. 43.34 Ivi, p. 27.

ri per fanciulli. A Bologna ne sorsero sei, per merito di Elena Sanguinetti Ghiron, che assi-stevano circa 800 fra bimbi e ragazzi. La meritevole attività venne ricordata da GiuliaCavallari Cantalamessa nel suo L’opera di una donna nel periodo della guerra.30 Per i pro-fughi delle terre invase vennero attrezzati posti di ristoro. A Piacenza, importante nodo fer-roviario, furono organizzati da Gilberta Nasalli Rocca che aveva mobilitato a tal fine unanumerosa schiera di collaboratrici. Per provvedere di indumenti i feriti e i figli di richia-mati furono attivati vari laboratori, tra cui si distinse quello dipendente dal Comitato fem-minile di assistenza di Reggio Emilia, presieduto da Virginia Guicciardi Fiastri.31

Queste e molte altre attività femminili vennero riportate nel volume La donna nellanuova Italia. Documenti del contributo italiano alla guerra,32 scritto da Paola Baronchel-li Grosson, nota come Donna Paola, che ne fornì, a guerra ancora in corso, un quadroampio e dettagliatissimo. La pubblicazione può essere considerata anche un utile docu-mento dell’epoca su come poteva venire presentata la mobilitazione patriottica femmi-nile ai contemporanei. La scrittrice infatti collegava le conquiste prodotte dal femmini-smo – «lo studio che libera la mente» e il «guadagno che libera il corpo» – con il nuovobisogno di partecipazione e di protagonismo, fino a quel momento impedito o negato:

L’ultimo ventennio del femminismo aveva abbastanza illuminata e sorretta la donna e si deve all’a-zione sua il contegno consapevole e pur docile che toglieva, forse, la possibilità di isolati esempidi eroismo […] ma che offriva al Paese l’esempio di una intera massa di coscienti, di volontero-se, di anonime donne, accettanti l’olocausto come un supremo dovere, accettanti l’obbligo di coo-perare anche con la mente e col braccio, perché l’olocausto non fosse un semplice gesto sacerdo-tale ma il contributo attivo al definitivo riscatto dell’Italia dalla servitù dello straniero. Così que-sto contributo si è offerto subito complesso: la donna ha dato, senza versare inutili lacrime dagliocchi e paga di versare entro il cuore le sacre lacrime che nessuno vede e che perciò non reclama-no l’apologia della sensibilità muliebre… i propri uomini: figli, mariti, fratelli, amici. E, anche ellasi è messa in linea, agli ordini dei dirigenti la vita sociale, senza che le vanità dell’arrivismo indu-cessero maggiori dislivelli nella qualità e nella sincerità dell’offerta […]. Ma poiché i dislivellisociali esistono […] le offerte della collaborazione femminile presero subito il loro posto deter-minato e l’aristocratica offrì piuttosto contributo filantropico e la borghese offrì piuttosto contri-buto civile e la popolana offrì piuttosto contributo di mano d’opera. Tutte poi, sia con l’immedia-to esborso di denaro sia col mediato risparmio, offersero anche il proprio contributo economico.33

La donna dunque, acquisite «una nuova liberazione, una coscienza morale e unadisponibilità materiale che, di colpo, la svellevano dalle sue due grandi soggezioni: l’i-gnoranza e il matrimonio»,34 rompeva antichi steccati, andava a invadere un territoriotradizionalmente affidato al dominio del genere maschile, la guerra.

In effetti, il coinvolgimento e l’impegno di migliaia di donne in nuove mansioni ein varie attività culturali, propagandistiche e solidaristiche furono in grado di produrremaggiore visibilità accanto ad inedite forme di autonomia e di mobilità. La partecipa-zione alla guerra, sia attraverso il lavoro volontario sia in quello remunerato, si rivelòun mezzo per praticare esperienze differenti la cui valenza e i cui esiti variarono inmodo significativo. Un agire complesso, ampio e multiforme.

Page 124: 70 - online.ibc.regione.emilia-romagna.itonline.ibc.regione.emilia-romagna.it/I/libri/pdf/ERBA_70.pdf · Le donne organizzate: fasci femminili e sezioni operaie e lavoranti a domicilio

Racconto per immagini

Page 125: 70 - online.ibc.regione.emilia-romagna.itonline.ibc.regione.emilia-romagna.it/I/libri/pdf/ERBA_70.pdf · Le donne organizzate: fasci femminili e sezioni operaie e lavoranti a domicilio

Racconto per immagini 107

NICOLA BIONDI, Donne e operai impegnati in lavori stradali, ca. 1895-1910,Archivi Alinari, Firenze

GIUSEPPE GRAZIOSI, Contadina con maialini a Savignano sul Panaro, ca. 1900-1910,Museo Civico d’Arte, Modena

Page 126: 70 - online.ibc.regione.emilia-romagna.itonline.ibc.regione.emilia-romagna.it/I/libri/pdf/ERBA_70.pdf · Le donne organizzate: fasci femminili e sezioni operaie e lavoranti a domicilio

108 Racconto per immagini

GIUSEPPE MICHELINI, Risaiuole al lavoro in una tenuta di Molinella. Aia da riso ripresa daitetti, 1903, Collezioni d’Arte e di Storia della Fondazione Cassa di Risparmio, Bologna

PAOLO BETTINI, Lavandaie alla periferia di Bologna, inizio Novecento, in FRANCO CRISTOFORI, Bologna, gente e vita dal 1914 al 1945, Bologna, Alfa, 1980,Istituto storico Parri Emilia-Romagna, Bologna

Page 127: 70 - online.ibc.regione.emilia-romagna.itonline.ibc.regione.emilia-romagna.it/I/libri/pdf/ERBA_70.pdf · Le donne organizzate: fasci femminili e sezioni operaie e lavoranti a domicilio

Racconto per immagini 109

Operaie della fornace Galotti di Bologna, 1910, Collezione Budriesi, Gruppo «Tracce di una storia», Centro sociale ricreativo culturale Santa Viola, Bologna

Donne al lavoro nello stabilimento ceramico Saime negli anni Venti,Fotomuseo Giuseppe Panini, Modena

Page 128: 70 - online.ibc.regione.emilia-romagna.itonline.ibc.regione.emilia-romagna.it/I/libri/pdf/ERBA_70.pdf · Le donne organizzate: fasci femminili e sezioni operaie e lavoranti a domicilio

110 Racconto per immagini

FRATELLI ALINARI, Ritratto di tre eleganti signore, in abiti degli anni Venti, in un salonedella Sartoria Policardi a Bologna, Archivi Alinari, Firenze

Impiegato di azienda seduto alla scrivania del suo ufficio. La segretaria è di spalle, ca. 1920,Archivi Alinari, Firenze

Page 129: 70 - online.ibc.regione.emilia-romagna.itonline.ibc.regione.emilia-romagna.it/I/libri/pdf/ERBA_70.pdf · Le donne organizzate: fasci femminili e sezioni operaie e lavoranti a domicilio

Racconto per immagini 111

Impiegate alle macchine calcolatrici,1910-1920, Archivi Alinari, Firenze

F. DE’ FRANCESCHI, Ritratto di scolaresca con maestra, Bologna, ca. 1900,Fondo Renzo Comani, Archivio fotografico Cineteca del Comune, Bologna

Page 130: 70 - online.ibc.regione.emilia-romagna.itonline.ibc.regione.emilia-romagna.it/I/libri/pdf/ERBA_70.pdf · Le donne organizzate: fasci femminili e sezioni operaie e lavoranti a domicilio

112 Racconto per immagini

ACHILLE BELTRAME, Il primo congresso delle donne italiane a Roma. La seduta inauguralenella sala degli Orazi e dei Curiazi in Campidoglio, «La Domenica del Corriere», 3-10 maggio1908, Istituto storico Parri Emilia-Romagna, Bologna

Page 131: 70 - online.ibc.regione.emilia-romagna.itonline.ibc.regione.emilia-romagna.it/I/libri/pdf/ERBA_70.pdf · Le donne organizzate: fasci femminili e sezioni operaie e lavoranti a domicilio

Racconto per immagini 113

ACHILLE BELTRAME, Sciopero agrario nel Parmigiano: come le scioperanti tentano di impedirela partenza del bestiame abbandonato nelle stalle, «La Domenica del Corriere», 10-17 maggio 1908, Biblioteca Comunale dell’Archiginnasio, Bologna

Page 132: 70 - online.ibc.regione.emilia-romagna.itonline.ibc.regione.emilia-romagna.it/I/libri/pdf/ERBA_70.pdf · Le donne organizzate: fasci femminili e sezioni operaie e lavoranti a domicilio

114 Racconto per immagini

Le massaie della guerra, «L’Illustrazione italiana», 20 maggio 1917, Istituto storico ParriEmilia-Romagna, Bologna

Donne alla lavorazione delle bombe, in COMITATO NAZIONALE PER IL MUNIZIONAMENTO, Il lavoro femminile nell’industria di guerra italiana, Roma, Calzone, 1917, Biblioteca Comunale dell’Archiginnasio, Bologna

Page 133: 70 - online.ibc.regione.emilia-romagna.itonline.ibc.regione.emilia-romagna.it/I/libri/pdf/ERBA_70.pdf · Le donne organizzate: fasci femminili e sezioni operaie e lavoranti a domicilio

Racconto per immagini 115

Bologna. Giornata della madre e del fanciullo, 1933, Archivio storico del Comune, Bologna

Modena. Cerimonia di premiazione corso per donne della sezione operaie e lavoranti a domicilio, 1941, Fondo Bandieri, Fotomuseo Giuseppe Panini, Modena

Page 134: 70 - online.ibc.regione.emilia-romagna.itonline.ibc.regione.emilia-romagna.it/I/libri/pdf/ERBA_70.pdf · Le donne organizzate: fasci femminili e sezioni operaie e lavoranti a domicilio

116 Racconto per immagini

Agenda della massaia rurale, 1936, Istituto storicoParri Emilia-Romagna, Bologna

Operaie al lavoro nella fabbrica della ditta Giordani, produttrice di carrozzine e biciclette,1930, Studio Villani, Archivio Alinari, Firenze

Page 135: 70 - online.ibc.regione.emilia-romagna.itonline.ibc.regione.emilia-romagna.it/I/libri/pdf/ERBA_70.pdf · Le donne organizzate: fasci femminili e sezioni operaie e lavoranti a domicilio

Racconto per immagini 117

Località Fossalta. Casa della madre e del bambino. Asilo infantile, gestito dalle suoresalesiane. Gruppo di bimbi delle mondine con una puericultrice a tavola durante la colazione,1941, ca., Fondo Bandieri, Fotomuseo Giuseppe Panini, Modena

Donne tramviere, 21 agosto 1940, Biblioteca Civica d’Arte L. Poletti, Modena

Page 136: 70 - online.ibc.regione.emilia-romagna.itonline.ibc.regione.emilia-romagna.it/I/libri/pdf/ERBA_70.pdf · Le donne organizzate: fasci femminili e sezioni operaie e lavoranti a domicilio

118 Racconto per immagini

La signora Venusta Landini ripresa nell’aia della sua casa rurale in mezzoa galli e galline, 1942, Istituzione Villa Smeraldi, Museo della civiltàcontadina, S. Marino di Bentivoglio, Bologna

Pianura bolognese, Affondamento dei fasci dicanapa, 1943, Istituzione Villa Smeraldi,Museo della civiltà contadina, S. Marino diBentivoglio, Bologna

Page 137: 70 - online.ibc.regione.emilia-romagna.itonline.ibc.regione.emilia-romagna.it/I/libri/pdf/ERBA_70.pdf · Le donne organizzate: fasci femminili e sezioni operaie e lavoranti a domicilio

Racconto per immagini 119

Bologna. Ludi del lavoro, 1942, Fondo Nino Comaschi, Archivio fotografico Cinetecadel Comune, Bologna

Trecciaiole a Monghidoro, Bologna, 1952, Fondo Aldo Ferrari,Archivio fotografico Cineteca del Comune, Bologna

Page 138: 70 - online.ibc.regione.emilia-romagna.itonline.ibc.regione.emilia-romagna.it/I/libri/pdf/ERBA_70.pdf · Le donne organizzate: fasci femminili e sezioni operaie e lavoranti a domicilio

120 Racconto per immagini

Infermiera ferrista, 1952, Fondo Aldo Ferrari, Archiviofotografico Cineteca del Comune, Bologna

Lavori sul fondo «Barabana», Sala Bolognese, Bologna,1957, Centro italiano di documentazione sulla cooperazionee l’economia sociale, Bologna

Page 139: 70 - online.ibc.regione.emilia-romagna.itonline.ibc.regione.emilia-romagna.it/I/libri/pdf/ERBA_70.pdf · Le donne organizzate: fasci femminili e sezioni operaie e lavoranti a domicilio

Racconto per immagini 121

Manifestazione 1956, Associazione Paolo Pedrelli, Archivio storico sindacale, Bologna

Faenza. Produzione calze nello Stabilimento OMSA, 1945 ca.,Studio Villani, Archivi Alinari, Firenze

Page 140: 70 - online.ibc.regione.emilia-romagna.itonline.ibc.regione.emilia-romagna.it/I/libri/pdf/ERBA_70.pdf · Le donne organizzate: fasci femminili e sezioni operaie e lavoranti a domicilio

122 Racconto per immagini

«Panorama di vita femminile», numero speciale, 1951, Archivio fotografico Centro ItalianoFemminile, Roma

Page 141: 70 - online.ibc.regione.emilia-romagna.itonline.ibc.regione.emilia-romagna.it/I/libri/pdf/ERBA_70.pdf · Le donne organizzate: fasci femminili e sezioni operaie e lavoranti a domicilio

Dal regime fascista agli anni SessantaCinzia Venturoli

Page 142: 70 - online.ibc.regione.emilia-romagna.itonline.ibc.regione.emilia-romagna.it/I/libri/pdf/ERBA_70.pdf · Le donne organizzate: fasci femminili e sezioni operaie e lavoranti a domicilio

La donna nella propaganda fascista

Il regime fascista proponeva alla donna, attraverso la propaganda, il ruolo dimoglie e madre, in una posizione subordinata all’uomo. Questo modello era da un latosimile a quello tradizionale, presente nella cultura cattolica, ma diveniva peculiare nelfascismo dove il corpo delle donne era nazionalizzato e la maternità si trasformava inun dovere nei confronti della patria; tanto che il codice penale elaborato da AlfredoRocco, nel 1930, vedeva inserito l’aborto nel titolo X, delitti «contro l’integrità e lasanità della stirpe».1

Con il varo della politica demografica questa concezione venne chiaramente espli-citata: era necessario per il fascismo fare crescere numericamente la popolazione italia-na e, al tempo stesso, curare la ‘razza’ al fine di permettere all’Italia di divenire unapotenza nel panorama mondiale. Questo era un compito da affidare alle donne e il 26maggio 1927, in quello che è ricordato come il discorso dell’Ascensione, Benito Mus-solini sottolineò proprio queste esigenze.

Bisogna quindi vigilare il destino della razza, bisogna curare la razza, a cominciare dallamaternità e dall’infanzia; [bisogna] dare una frustata demografica alla Nazione. Questo vi puòsorprendere; qualcuno di voi può dire: «Ma come, ce n’era bisogno?» Ce n’è bisogno. Qual-che inintelligente dice: «Siamo in troppi». Gli intelligenti rispondono: «Siamo in pochi».Affermo che, dato non fondamentale ma pregiudiziale della potenza politica, e quindi econo-mica e morale delle Nazioni, è la loro potenza demografica. […]. Signori, l’Italia, per conta-re qualche cosa, deve affacciarsi sulla soglia della seconda metà di questo secolo con unapopolazione non inferiore ai 60 milioni di abitanti.

La politica pro-natalista era vista anche come un mezzo normalizzatore, in grado difavorire la ricostruzione «dell’ordine morale», ovvero del tradizionale sistema dei rap-porti fra i sessi messo in discussione, secondo l’interpretazione fascista, dalla primaguerra mondiale e dagli eventi del primo dopoguerra.

Madri e padri, dunque: gli uomini celibi dal 1926 dovevano pagare una tassa e gliomosessuali erano fuori legge dal 1931, tutto affinchè si costituissero sempre più fami-glie fasciste, ovvero nuclei composti da numerosi figli, da una madre completamentedipendente dal marito anche in base alle convinzioni dell’inferiorità femminile. Nume-rosi erano i saggi, gli scritti, le prese di posizione pubbliche di studiosi, docenti univer-sitari, gerarchi e dello stesso Mussolini, che affermavano la «naturale» inferiorità delladonna rispetto all’uomo.

Il fascismo e la seconda guerra mondiale

1 Codice Rocco, Titolo X, articoli 545-547.

Page 143: 70 - online.ibc.regione.emilia-romagna.itonline.ibc.regione.emilia-romagna.it/I/libri/pdf/ERBA_70.pdf · Le donne organizzate: fasci femminili e sezioni operaie e lavoranti a domicilio

126 Dal regime fascista agli anni Sessanta

L’uomo è incalcolabilmente superiore alla donna. La filosofia non le deve alcun sistema, lascienza nessuna scoperta, l’arte nessun monumento. La donna imparò e ripeté talvolta ciò chegli uomini avevano fatto, non li precorse mai e non li riassunse. Il genio, che è la sintesi di unpopolo o di un’epoca, ebbe sempre nome da uomo.2

La famiglia, numerosa e fascista, eraquindi al centro della propaganda e dellacostruzione del modello fascista, tantoche nel 1937 vennero istituiti l’Ufficiocentrale demografico e l’Unione fasci-sta tra le famiglie numerose, su decisio-ne del Gran consiglio del fascismo, e infunzione pro-natalista furono presinumerosi provvedimenti di legge: nel1937 il matrimonio ed il numero di figlidivennero un criterio per gli avanzamen-ti di carriera, quindi i padri di numerosifigli avevano vantaggi, si vedevanoassegnare premi e sussidi, per i figli eper il matrimonio.

Nella costruzione dello stato assi-stenziale fascista spazio ebbe, eviden-temente, la costituzione di organismiche si occupavano della maternità edell’infanzia: a questo tendeva l’Operanazionale maternità e infanzia (Onmi),istituto articolato in federazioni provin-ciali, che aveva lo scopo di assistere ledonne bisognose ed i bambini finoall’età scolare.

Si affiancarono ai provvedimentilegislativi e agli organismi assistenzialila creazione di feste e di giornate in cuisottolineare l’importanza della famiglia e della maternità. Fra queste nel 1933 fu isti-tuita la Giornata della Madre e dell’Infanzia. Ogni 24 dicembre, si sarebbero dovutefesteggiare tutte le madri «prolifiche».

Scriveva il podestà di Ravenna:

il Duce la cui azione indefessa ha la precisione matematica di un assioma e lo slancio liricodella poesia, ha voluto che la celebrazione si concretasse in provvedimenti utili e avesse luogonella giornata spiritualmente più propizia: la vigilia di Natale. Nel giorno in cui tutti gli spiri-ti sono protesi verso il santo mistero della maternità e il popolo italiano adora in essa la figu-ra simbolica di tutte le madri.3

2 ALFREDO ORIANI, Il matrimonio, con prefazione di Benito Mussolini, Bologna, Cappelli, 1923,citato in PIERO MELDINI, Sposa e madre esemplare ideologia e politica della donna e della famigliadurante il fascismo, Rimini-Firenze, Guaraldi, 1975, pp. 31-32.

3 La Giornata della Madre e del Fanciullo, «Il Comune di Ravenna», 1934, p. 114, citato in GIO-VANNA MARCHIANÒ, Fascismo e organizzazione del consenso: la politica demografica, in Storia del-l’Emilia-Romagna, a cura di Aldo Berselli Bologna, University Press, 1980, p. 753.

Benito Mussolini, Discorso dell’ascensione,Roma, 1927, Fondazione Istituto GramsciEmilia-Romagna, Bologna

Page 144: 70 - online.ibc.regione.emilia-romagna.itonline.ibc.regione.emilia-romagna.it/I/libri/pdf/ERBA_70.pdf · Le donne organizzate: fasci femminili e sezioni operaie e lavoranti a domicilio

Il fascismo e la seconda guerra mondiale 127

Fu poi celebrata la «Saga della nuzialità» e nel 1937 a Bologna 1020 coppie deci-sero di sposarsi alla presenza del segretario del partito nazionale fascista Achille Stara-ce proprio durante la saga della nuzialità che si svolse il 21 aprile. La cerimonia, cheseguiva il rito matrimoniale celebrato per ogni singola coppia, prevedeva una funzionereligiosa e la consegna di un premio di nuzialità.

In quella occasione vennero ricordati i significati che il regime dava all’incremen-to demografico e si mise in luce come, in realtà, la natalità non fosse aumentata comeil fascismo auspicava:

L’iniziativa bolognese è stata segnalata a tutti gli italiani, affinchè essi, dopo le larghe provvi-denze del Regime, comincino a dare più tangibili prove della loro adesione alla lotta demogra-fica impegnata dal Fascismo per la vita, l’avvenire e la potenza dell’Italia imperiale. Infatti nonsolo la potenza militare dello Stato ma anche «l’avvenire e la sicurezza della Nazione» comesi è espresso il Duce sono legati ai problemi assillante in tutti i paesi di razza bianca e anchenel nostro». Nella piena consapevolezza che la condizione insostituibile del primato sta nelnumero, il Fascismo non desisterà un attimo dalla sua guerra ai disertori di una così vitale bat-taglia: i celibi e i coniugati egoisti senza prole.4

Nonostante la martellante propaganda e i numerosi provvedimenti la campagnademografica non ebbe successo tanto che la nuzialità e la natalità, nel paese e nellanostra Regione, andò diminuendo. Infatti, l’incremento annuo del tasso di nuzialitàbolognese che era costantemente salito dal 1881, per divenire del 9,3 per mille annuonel 1921, diminuì al 6,7 nel 1931 per risalire lievemente al 7,7 nel 1936. Per quantoriguarda la Regione, si passò dal 9,6 all’8 per arrivare al 4,4 nel 1936.

I quozienti di natalità erano in molte città della regione, molto più bassi di quellisperati dal regime ed inferiori a quelli nazionali: in provincia di Bologna e Ravenna, adesempio, il quoziente di natalità per mille abitanti nel 1933 era di 17,5 e 16,7; in quel-la di Ferrara 24,1, attorno al 22 nelle province di Modena e Forlì. Parma aveva un quo-ziente di 18,3. Infine le province di Piacenza e Reggio Emilia 19,3 3 e 20,9. A livellonazionale il quoziente era di 23,5.5

Alle donne che lavoravano si addebitava il mancato successo della politica demo-grafica e la «crisi economico-morale della famiglia»:6

il lavoro femminile crea due danni: la mascolinizzazione della donna e l’aumento della disoc-cupazione maschile. La donna che lavora si avvia alla sterilità; perde la fiducia nell’uomo;considera la maternità come un intoppo, un ostacolo, una catena; se sposa, difficilmente rie-sce ad andare d’accordo con il marito; concorre alla corruzione dei costumi; in sintesi inqui-na la vita della stirpe.7

Anche la Chiesa cattolica riteneva che le donne dovessero restare a casa e che biso-gnasse creare le condizioni sociali ed assistenziali affinché questo fosse possibile.

Le madri di famiglia prestino l’opera loro in casa sopra tutto o nelle vicinanze della casa,attendendo alle faccende domestiche. Che poi le madri di famiglia, per la scarsezza del sala-

4 «Il Comune di Bologna», aprile 1937, pp. 53-54.5 «Corriere padano», citato in G. MARCHIANÒ, Fascismo e organizzazione del consenso cit., p. 766.6 La politica demografica di Benito Mussolini a cura e con prefazione di Paolo Orano, Roma, Pin-

ciana, 1937, p. 4.7 GUGLIELMO DANZI, Europa senza europei, presentazione di Mussolini, Roma, Edizioni Roma,

1935, p. 27.

Page 145: 70 - online.ibc.regione.emilia-romagna.itonline.ibc.regione.emilia-romagna.it/I/libri/pdf/ERBA_70.pdf · Le donne organizzate: fasci femminili e sezioni operaie e lavoranti a domicilio

128 Dal regime fascista agli anni Sessanta

rio del padre, siano costrette ad esercitare un’arte lucrativa fuori delle pareti domestiche, tra-scurando così le incombenze e i doveri loro propri, e particolarmente la cura e l’educazionedei loro bambini, è un pessimo disordine, che si deve con ogni sforzo eliminare. Bisogna dun-que fare di tutto perché i padri di famiglia percepiscano una mercede tale che basti per prov-vedere convenientemente alle comuni necessità domestiche.8

Le donne erano comunque presenti nel mondo del lavoro e molti vedevano in que-sta presenza una minaccia alla moralità, tanto che, ad esempio, Nicola Pende, uno deipiù noti ed ascoltati scienziati dell’epoca,9 scriveva:

È noto che le delinquenza femminile è più alta nei paesi in cui maggiore è la presenza di ope-raie, mentre è meno forte dove le donne attende al lavoro della terra ed è minore dove la donnasi occupa esclusivamente di lavori domestici.10

Ferdinando Loffredo, intellettuale del tempo, rincarava la dose asserendo:

[...] la donna che, senza la più assoluta e comprovata necessità, lasci le pareti domestiche perrecarsi al lavoro, la donna che, in promiscuità con l’uomo, gira per le strade, sui trams, sugliautobus, vive nelle officine e negli uffici, deve diventare oggetto di riprovazione, prima e piùche di sanzione legale. La legge può operare solo se l’opinione pubblica ne forma il substra-to: questa, a sua volta, può essere determinata da tutto un insieme di altre misure che indiret-tamente e insensibilmente operino sulla opinione pubblica.11

Secondo Loffredo bisognava arrivare a far uscire tutte le donne dal mondo dellavoro per tornare ad una situazione in cui le donne fossero assoggettate completamen-te agli uomini.12

Chiara e netta, quindi, l’immagine della donna nella propaganda fascista: madre dinumerosi figli e, se possibile, lontana dal mondo del lavoro. In questo ambito ideologico,il regime varò numerose leggi in merito al lavoro delle donne, distinte in leggi protettive eleggi espulsive, provvedimenti questi ultimi che avevano la finalità di limitare e margina-lizzare la presenza delle donne dapprima nel pubblico impiego, quindi nel lavoro privato.

I principali interventi che furono rivolti al pubblico impiego riguardarono innanzi-tutto la scuola, settore ad alta occupazione femminile. Nel 1923, e poi nel 1940, alledonne fu precluso l’incarico di preside nelle scuole o istituti di istruzione media, nel1926 le donne vennero escluse dall’insegnamento della storia, della filosofia e dell’e-conomia nei licei e dall’insegnamento di lettere e di storia negli istituti tecnici.

Dalla scuola l’attenzione del legislatore fascista si spostò verso altri settori dellapubblica amministrazione. Nel 1934 venne approvata una legge che autorizzava leamministrazioni dello Stato a stabilire, nei bandi di concorso, l’esclusione delle donneo a porre dei limiti nelle assunzioni femminili, legge che venne estesa al settore priva-to nel 1938 prevedendo un limite del 10% dei posti per le donne. L’anno successivo, ilRegio Decreto n. 989/1939 stabiliva una tipologia di mansioni per il personale femmi-nile nell’impiego pubblico e privato. Fra questi

8 Lettera Enciclica Quadragesimo Anno, del Sommo Pontefice Pio XI.9 Fu anche docente di Patologia medica dimostrativa nella Facoltà di Medicina e Chirurgia dell’U-

niversità bolognese.10 NICOLA PENDE, Bonifica umana e razionale, Bologna, Cappelli, 1933, p. 135.11 FERDINANDO LOFFREDO, Politica della famiglia, Milano, Bompiani, 1938, p. 365.12 F. LOFFREDO, Politica della famiglia cit., pp. 369-370.

Page 146: 70 - online.ibc.regione.emilia-romagna.itonline.ibc.regione.emilia-romagna.it/I/libri/pdf/ERBA_70.pdf · Le donne organizzate: fasci femminili e sezioni operaie e lavoranti a domicilio

Il fascismo e la seconda guerra mondiale 129

servizi di dattilografia, telefonia, stenografia, servi-zi di raccolta e prima elaborazione di dati statistici;servizi di formazione e tenuta di schedari; servizi dilavorazione, stamperia, verifica, classificazione,contazione e controllo dei biglietti di Stato e dibanca, servizi di biblioteca e di segreteria dei Regiistituti medi di istruzione classica e magistrale; ser-vizi delle addette a speciali lavorazioni presso laRegia zecca.

L’articolo 4 della stessa legge, suggeriva altriimpieghi ritenuti «particolarmente adatti» alledonne, quali

annunciatrici addette alle stazioni radiofoniche; dicassiere (limitatamente alle aziende con meno di 10impiegati); di addette alla vendita di articoli diabbigliamento femminile, articoli di abbigliamentoinfantile, articoli casalinghi, articoli di regalo, gio-cattoli, articoli di profumeria, generi dolciari, fiori,articoli sanitari e femminili, macchine da cucire;addette agli spacci rurali cooperativi dei prodottidell’alimentazione, limitatamente alle aziende conmeno di 10 impiegati; di sorveglianti negli alleva-menti bacologici ed avicoli; di direttrici dei labora-tori di moda.

Molti furono, poi, i provvedimenti protettivielaborati sempre alla luce della politica demografi-ca del regime che trovava necessario «preoccupar-si di tutti i problemi inerenti il lavoro delle madrioperaie», le lavoratrici dovevano essere tutelate e«la tutela deve assumere un carattere assistenziale,igienico-sanitario, in vista della loro funzione dimadre».13

Durante il regime fascista furono due i provve-dimenti sul lavoro delle donne e dei fanciulli chevenero emanati nel 1923, con un regio decreto con-vertito in legge nel 1925, e nel 1934, con la leggeentrata in vigore nel 1936. Le leggi sul lavoro delledonne e dei fanciulli, considerate una normativa diordine pubblico, si inserivano in una politica legi-slativa già tracciata da leggi precedenti, ripropo-nendola in chiave demografico razziale. AffermòMussolini alla Camera:

la nuova legge ha una portata totalitaria. La neces-saria tutela delle deboli forze del minore non rispet-to a particolari attività produttive ma estesa il più

13 BRUNO BIAGI, Scritti di politica corporativa, Bologna, Zanichelli, 1934, p. 201.

Esclusione delle donne da alcunecattedre, «Il Corriere della sera»,29 dicembre 1926, Istituto storicoParri Emilia-Romagna, Bologna

Page 147: 70 - online.ibc.regione.emilia-romagna.itonline.ibc.regione.emilia-romagna.it/I/libri/pdf/ERBA_70.pdf · Le donne organizzate: fasci femminili e sezioni operaie e lavoranti a domicilio

130 Dal regime fascista agli anni Sessanta

possibile è una forma – fra le più importanti – di tutela demografica diretta alla potenza nonsoltanto numerica ma qualitativa della nazione e per tale suo carattere rientra nei fini essen-ziali dello stato fascista.14

Rispetto alla disciplina del lavoro, infatti, era separato il trattamento delle lavoratri-ci madri; nella legge era prevista, fra le altre cose, l’astensione obbligatoria dal lavoroun mese prima e sei settimane dopo il parto, due periodi di riposo al giorno per allatta-re e l’istituzione delle camere di allattamento. Lo Stato doveva quindi tutelare le donnecome madri o future madri.

Il campo di applicazione della legge del 1934 non era esteso a settori in cui in realtàmolto alta era la presenza di donne: il lavoro agricolo, il lavoro a domicilio, il lavorodomestico.

Nessuna norma garantiva, poi, le lavoratrici contro i licenziamenti né impediva aidatori di lavoro di licenziarle non appena avessero contratto matrimonio, così comenessuna norma garantiva qualifiche e salari uguali a quelli dei lavoratori.15

Le donne organizzate: fasci femminili e sezioni operaie e lavoranti a domicilio

Durante il ventennio fascista, l’allineamento e il coinvolgimento delle donne fu cer-cato attraverso l’istituzione dei fasci femminili ai quali si aggiunsero l’organizzazionedelle massaie rurali e quella delle operaie in fabbrica e a domicilio.16 Il primo fasciofemminile d’Italia venne fondato a Monza da Elisa Savoia nel marzo 1920:17 sempre inquell’anno era stato istituito il fascio bolognese18 ed anche il fascio femminile di Bon-deno, in provincia di Ferrara, che, nel luglio, aveva circa un centinaio di iscritte.

I gruppi femminili, secondo lo schema proposto dal Popolo d’Italia e ripreso daChiurco, nei suoi volumi in cui racconta la «Rivoluzione fascista», avevano

lo scopo di coordinare il lavoro di propaganda, beneficenza, assistenza, sotto il controllo deifasci, non possono prendere iniziative di carattere politico, sebbene partecipino alle adunate eadunanze dei Fasci, in seno ai Gruppi femminili possono sorgere scuole serali, circoli istrutti-vi, cicli di conferenze, squadre ginniche, compagnie filodrammatiche.19

In molte realtà le donne che fondarono, nei primi anni Venti, i fasci femminili eranoinsegnanti, o più specificamente maestre. Lo era la già citata Elisa Savoia e lo era PiaBortolini20, segretaria del fascio femminile di Bologna, due insegnanti erano presenti

14 PARTITO NAZIONALE FASCISTA, La politica sociale del fascismo, La libreria dello Stato, anno XIV,1936, pp. 36-37.

15 MARIA VITTORIA BALLESTRERO, La protezione concessa e l’eguaglianza negata: il lavoro femmi-nile nella legislazione italiana, in Il lavoro delle donne, a cura di Angela Groppi, Bari, Laterza, 1996,pp. 445-44.

16 GISELA BOCK, Le donne nella storia europea. Dal Medioevo ai nostri giorni, Roma-Bari, Later-za, 2003, p. 333.

17 I fasci femminili sciolti nel 1920 vennero poi ricostituiti nel 1921, cfr. ALBERTO DE BERNARDI-SCIPIONE GUARRACINO, Dizionario del fascismo, Milano, Bruno Mondadori, 1998, p. 260.

18 «Il Comune di Bologna», gennaio 1927, p. 40.19 GIORGIO ALBERTO CHIURCO, Rivoluzione fascista, vol. IV, anno 1922, Firenze, Vallecchi, 1929, p. 25.20 MIRELLA D’ASCENZO, Momenti e figure femminili dell’associazionismo magistrale femminile tra

Otto e Novecento, in L’altra metà della scuola. Educazione e lavoro delle donne tra Otto e Novecen-to, a cura di Carla Ghizzoni, Simonetta Polenghi, Torino, SEI, 2008, pp. 243-245.

Page 148: 70 - online.ibc.regione.emilia-romagna.itonline.ibc.regione.emilia-romagna.it/I/libri/pdf/ERBA_70.pdf · Le donne organizzate: fasci femminili e sezioni operaie e lavoranti a domicilio

Il fascismo e la seconda guerra mondiale 131

nel direttorio del primo fascio ravennate. Quando nel 1928 nacque il fascio di Faenza,fra le 61 aderenti 35 erano insegnanti.21

Le funzioni dei fasci femminili doveva essere «quasi essenzialmente assistenziale epiù determinatamente apolitica».22 O per meglio dire di propaganda e di educazione alfascismo, in un ruolo ausiliare rispetto a quello maschile.

Elisa Majer Rizzioli interventista e infermiera volontaria durante il primo conflittomondiale che aveva aderito al movimento fascista nel 1920 e nel 1922 partecipò allamarcia su Roma,23 descriveva così i fasci femminili:

i Fasci Femminili per avere ragione di essere, non scimmiottando i fasci maschili, manipolan-do dell’indigesta politica, lasciarono cortei e camicia nera, si innalzarono alla valorizzazionedella maternità come sentimento di Patria e alla valorizzazione di tutti gli elementi sociali chefalla maternità si diffondono come luce solare24.

Presenza «discreta» nei fasci femminili, non dimenticando mai che la «veravocazione delle donna» doveva essere la famiglia, una famiglia che diventava fasci-sta grazie all’impegno femminile. In pubblico la donna fascista «non si sgolerà ingrida, non si sbraccerà in saluti romani. Ma costituirà soprattutto una restaurazionedella donna nei suoi compiti tradizionali: con quel tanto in più che basti a farladonna del suo tempo».25

Alla fine degli anni Venti si ritenne che i fasci femminili dovessero diventare unadelle strutture del partito nazionale fascista e in questo contesto vi furono alcuni cam-biamenti all’interno della stessa organizzazione: nel 1926 Roberto Farinacci, durante lasua breve esperienza come segretario del partito nazionale fascista, costrinse alle dimis-sioni Elisa Majer Rizzioli, che fu sostituita da Angiola Moretti.

Il 20 dicembre 1929, una direttiva, impose la supervisione centrale di tutte lenomine e organizzazioni giovanili: per disposizione di Mussolini, passarono alMinistero dell’Educazione Nazionale rendendo così pressoché nulla la già scarsissi-ma influenza politica dei fasci femminili, che dovevano subire anche la «concorren-za» delle organizzazioni cattoliche26, così come lamentavano le dirigenti.27 Soprav-vivevano in Italia, in quegli anni, ben poche organizzazioni al di là di quelle fasci-ste. Vi erano le organizzazioni delle donne professioniste, la Fildis; rari sodalizi diispirazione liberale, e il Consiglio nazionale delle donne italiane, che ancora nel1927 aveva sezioni in numerose località italiane e sedi principali a Roma, in Tosca-na, a Parma e a Bologna, oltre che a Ravenna. Federate al Consiglio erano le Indu-strie femminili italiane, l’Unione cristiana delle giovani, le assistenti sanitarie, la

21 CLAUDIA BASSI ANGELINI, Le signore del fascio l’associazionismo femminile fascista nel Raven-nate 1919-1945, Ravenna, Longo, 2008, pp. 34-42.

22 ESTER LOMBARDO, «Almanacco della donna Italiana», 1927, p. 276.23 HELGA DITTRICH-JOHANSEN, Le «Militi dell’idea». Storia delle organizzazioni femminili del Par-

tito Nazionale Fascista, Firenze, Olschki, 2002, p. 243. 24 ELISA MAJER RIZZIOLI, «Almanacco della donna Italiana», 1927, p. 277.25 La donna madre nel fascismo, «Critica Fascista», 1931, p. 11.26 Le organizzazioni cattoliche erano certamente quelle che raccoglievano un numero elevato di

donne, sicuramente molto maggiore di quelle fasciste, almeno negli anni Venti: basti pensare che, alivello nazionale, nel 1925 i fasci femminili avevano 40.000 iscritte, mentre l’Unione femminile catto-lica ne contava 160.000.

27 Il provvedimento del 1929 venne contestato da alcune dirigenti, quali Maria Pezzè Pascolato,Wanda Gorjux Bruschi e la bolognese Pia Bortolini.

Page 149: 70 - online.ibc.regione.emilia-romagna.itonline.ibc.regione.emilia-romagna.it/I/libri/pdf/ERBA_70.pdf · Le donne organizzate: fasci femminili e sezioni operaie e lavoranti a domicilio

Federazione laureate e diplomate,l’Associazione dottoresse in medici-na e chirurgia, l’Unione italiana assi-stenza all’infanzia, l’Opera naziona-le assistenza materne.28

Infine nel 1931 il segretario delpartito nazionale fascista, GiovanniGiurati, ordinò la totale subordina-zione a tutte le direttive del partito daparte dei gruppi femminili.29 All’ini-zio degli anni Trenta si chiedevasempre più alle donne di iscriversialle organizzazioni fasciste e di par-tecipare alle loro attività che consi-stevano, soprattutto, in «un program-ma altissimo di educazione morale,sociale e patriottica, atto a formare ea creare la futura madre delle nuovegenerazioni, perfetta come donna dicasa non solo nelle sue virtù materia-li e casalinghe, ma anche nello spiri-to profondamente fascista».30

I compiti dei fasci femminilierano così riassunti nel Primo librodel fascista:

I Fasci femminili hanno il compito di divulgare e tenere desta l’idea fascista anche fuori del-l’ambito della famiglia, di migliorare la preparazione spirituale e culturale della donna italia-na, di concorrere ad attuare tutte le attività assistenziali del Regime, di svolgere negli ambien-ti femminili azione di propaganda per la difesa ed il potenziamento della razza, di collabora-re con le organizzazioni sindacali ed economiche per l’autarchia della Nazione.31

L’assistenza era quindi uno degli ambiti essenziali in cui si potevano, o megliodovevano, muovere le donne dei fasci, tanto che i fasci femminili furono definiti«organi esecutivi dell’assistenza».32 Le attività assistenziali dei fasci femminili siintrecciavano e si sovrapponevano a quelle di istituzioni come l’Onmi e dell’Eca, entiin cui erano presenti le rappresentanti dei fasci femminili e portavano con sé nume-rose funzioni e significati. Innanzitutto cercavano di coinvolgere e dimostrare allepersone come il regime fascista fosse attento alle esigenze delle classi sociali piùdisagiate, di come il regime si adoperasse per la «difesa della razza» e per l’incre-mento demografico. Vi era però anche una funzione di controllo sociale e politico: ilcontrollo della «moralità», dell’adesione alle idee fasciste, del rispetto dei precetti

132 Dal regime fascista agli anni Sessanta

28 «L’Almanacco della donna italiana», 1927, pp. 282-283.29 VICTORIA DE GRAZIA, Le donne nel regime fascista, Venezia, Marsilio, 2007, p. 327.30 AUGUSTO TURATI, I Fasci Femminili - Statuto delle Giovani e Piccole Italiane, Milano, Libreria

d’Italia, 1929, p. 19 ed anche WANDA GORJUX, L’educazione femminile, «Il giornale della donna», 1°aprile 1933, p. 3.

31 PARTITO NAZIONALE FASCISTA, Il Primo Libro del Fascista, Roma, Mondadori, 1942.32 «Il Comune di Bologna», ottobre 1932, p. 20.

I fasci femminili, Milano, s.d., Bibliotecacomunale dell’Archiginnasio, Bologna

Page 150: 70 - online.ibc.regione.emilia-romagna.itonline.ibc.regione.emilia-romagna.it/I/libri/pdf/ERBA_70.pdf · Le donne organizzate: fasci femminili e sezioni operaie e lavoranti a domicilio

Il fascismo e la seconda guerra mondiale 133

religiosi e la verifica della presenza dei requisiti ritenuti necessari per l’assistenzaerano compiti della visitatrice fascista.33

Fino alla prima metà degli anni Trenta l’attività e le funzioni della visitatriceerano estremamente simili a quelle della dama di carità, e quindi una missione adat-ta alle donne della borghesia, così come possiamo leggere nella descrizione che nefa Maria Pezzè Pascolato:

Si può girare l’Italia da un capo all’altro: non c’è pericolo di trovare una sede troppo dilusso per la delegazione o la segreteria dei fasci femminili. Semplicità, spesso povertà fran-cescana. Donne fasciste che hanno una bella casa, comoda e ben riscaldata, passano ore edore ogni giorno in una squallida stanzetta, senza il cappotto – (la pelliccia non la portanoin ufficio perché «se ne vergognano» davanti a certi poveri cenci …). Ascoltano storie ditribolazioni sino a tarda ora: Ascoltare con pazienza» è il comandamento del Duce. Torna-no a casa stanche morte.34

Alla fine degli anni Trenta, la visitatrice diventò sempre più simile ad una sortadi assistente sociale di partito, vennero istituiti corsi per la sua formazione, fu pre-visto che indossasse una divisa turchina e divenne una stipendiata.

Nella regione Emilia-Romagna, come in tutto il territorio nazionale, i fasci fem-minili si dedicarono alla creazione di strutture e di attività rivolte all’assistenza,numerosissimi gli esempi: a Ferrara, ad esempio nel 1927, il fascio femminileaveva aperto un ambulatorio per i bambini figli degli iscritti al partito e al sindaca-to fascista. Questa attività suscitò il plauso del «Corriere padano» che si compiac-que di come le donne, lasciata «ogni velleità di suffragismo e di femminismo»,facevano ora «le infermiere, le istitutrici, le suore di carità, rimanendo cioè squisi-tamente donne, anche partecipando alla vita politica».35 A Reggio Emilia fu ilLaboratorio dove le «giovinette possono acquisire il maggior dono che a una donnapossa farsi: l’abilità nei lavori muliebri».36 A Rimini le donne fasciste gestivano il«guardaroba del povero» ed avevano aperto un ambulatorio ostetrico; a Bolognal’attività di particolare rilievo a cui le donne si erano dedicate era quella delle colo-nie estive.37

Il tesseramento per i fasci femminili non raggiunse le cifre sperate ed ipotizzatedal regime, anche nelle realtà in cui più vi era stata attività in questo senso, a Reg-gio Emilia, nonostante il «fervido» impegno di Laura Marani Argnani, nel 1930, 25erano i fasci femminili e 752 le iscritte in tutta la provincia, nel 1938 raddoppiaro-no, ed erano 3473 nel 1940.38 A Forlì su 420.000 abitanti 731 erano, nel 1930, leaderenti. A Ravenna l’aumento delle iscrizioni si ebbe dalla metà degli anni Trenta:3000 nel 1936, 4659 nel 1937 e, in costante crescita fino al 1939, quando le donneiscritte erano 7763. Dati che non si discostano da quelli nazionali. Fra le organizza-

33 PAOLA BENEDETTINI ALFERAZZI, Organizzazioni femminili fasciste dell’anno X, «Almanaccodella donna italiana», 1933, p. 352.

34 MARIA PEZZÈ PASCOLATO, Fasci femminili, «Gerarchia», n. 2, 1932, p. 117.35 «Corriere padano», 10 novembre 1927 citato in G. MARCHIANÒ, Fascismo e organizzazione del

consenso cit., pp. 756-757.36ADOLFO ZAVARONI, La Donna del Fascio II. Le iniziative sociali del fascismo femminile reggia-

no, «L’almanacco», dicembre 2000, p. 37.37 «Il Comune di Bologna», agosto 1927, p. 730 ed anche «L’Assalto», 16 agosto 1930, p. 4.38 LAURA MARANI ARGANI, I Fasci femminili nella provincia di Reggio nell’Emilia dal 1921 al

1940, Reggio Emilia, 1940, p. 5.

Page 151: 70 - online.ibc.regione.emilia-romagna.itonline.ibc.regione.emilia-romagna.it/I/libri/pdf/ERBA_70.pdf · Le donne organizzate: fasci femminili e sezioni operaie e lavoranti a domicilio

134 Dal regime fascista agli anni Sessanta

zioni femminili i fasci furono quelle che difficilmente riuscirono a radicarsi fra lapopolazione, passando dalle 40.000 unità nel 1925, alle 743.786 del 1937 e1.217.036 nel 1943.

Nel 1935 fu istituito, in via sperimentale, un «Ufficio di assistenza e di avvia-mento per le giovani» per le ragazze che arrivavano in città in cerca di lavoro».39

Il fascismo creò poi una ulteriore organizzazione legata al mondo femminile: laSold, Sezioni operaie e lavoranti a domicilio, sorta in seno ai fasci femminili. Que-sta organizzazione aveva una rivista, «Lavoro e famiglia», diretta dal 1938 al 1943da Tullio Cianetti attraverso la quale venivano fornite informazioni sulle «attivitàfemminili che maggiormente interessano le famiglie operaie e le lavoratrici a domi-cilio».40 Fra le collaboratrici della rivista troviamo, ad esempio, Rachele Ferrari delLatte, insegnante, interventista ed attiva nel fascismo milanese fino dai primi anniVenti, Maria Diez Gasca, che diresse anche il mensile «Casa e Lavoro» dedicato allarazionalizzazione del lavoro domestico.

La Sold era aperta non solo alle lavoratrici – diversamente a quello che succede-va per le organizzazioni maschili – ma anche alle mogli degli operai e ad altri mem-bri femminili delle famiglie operaie.41

Fra i compiti di questa organizzazione vi erano la propaganda «fascista ed edu-cativa, l’assistenza morale per le lavoratrici» ed anche azioni più legate al lavoroquali il collocamento.42 Fra le funzioni della Sold non vi erano, invece, azioni tipi-camente sindacali quali il rafforzamento del potere contrattuale delle lavoratrici, mal’organizzazione si limitava a svolgere e a promuovere attività assistenziali, educa-tive e propagandistiche. Ancora una volta, l’accento era posto sull’essere madre emoglie, sulla famiglia, mettendo così in secondo piano e cancellando l’identità dilavoratrice.43 Era previsto per le iscritte un fazzoletto triangolare nero e argento daindossare sugli abiti, per le segretarie un distintivo, la «M. oro con due stellette orosu fondo nero». Mentre labaro e fiamma come simboli rispettivamente per le segre-tarie provinciali e comunali. L’iscrizione a questa organizzazione non era particolar-mente costosa, essendo la quota di due lire e mezza contro le dieci lire dell’iscrizio-ne al partito nazionale fascista.

La Sold passò dalle 309.945 iscritte del 1938 a 501.415 nel 1939, per riceverepoi un forte impulso dall’entrata in massa delle donne nell’economia di guerra, chefece passare le iscritte da 616.264 nel 1940 a 864.922 del 1942.44 Nel 1938 allaSold erano iscritte, in Emilia-Romagna 12.883 donne che rappresentavano lo0,78% della popolazione femminile, mentre in Italia erano 309.694, ovverol’1,43%. A Reggio Emilia nel 1938 le iscritte alla Sold erano 1050, crebbero poinell’anno successivo (3000) e divennero 3473 nel 1940.45 Questi dati non soddisfa-cevano Laura Marani che affermava come difficile fosse la «la penetrazione neglianimi» di queste lavoratrici.46

39 «L’almanacco della donna», 1935, pp. 138-139.40 V. DE GRAZIA, Le donne cit., p. 244.41 Primo libro del fascista, cit.42 Ibidem.43 V. DE GRAZIA, Le donne cit., p.245.44 Compendio statistico, 1938-1942, p. 14-16.45 L. MARANI ARGNANI, I Fasci femminili nella provincia cit., p. 5.46 Ivi, p. 9.

Page 152: 70 - online.ibc.regione.emilia-romagna.itonline.ibc.regione.emilia-romagna.it/I/libri/pdf/ERBA_70.pdf · Le donne organizzate: fasci femminili e sezioni operaie e lavoranti a domicilio

Il fascismo e la seconda guerra mondiale 135

Le donne organizzate: massaie rurali e donne in Africa

Le massaie rurali

Negli anni Trenta il regime si avviava sempre più ad assumere il carattere totalita-rio, quello di una dittatura fondata e retta dal Duce, con un partito unico e con una retedi organizzazioni per la mobilitazione ed il controllo delle masse.47 Con l’intento dicoinvolgere il maggior numero possibile di donne che vivevano e lavoravano in cam-pagna, nel 1933 fu fondata la Federazione nazionale fascista delle massaie rurali, acapo della quale fu nominata Regina Terruzzi, che denunciò la difficoltà di coinvolge-re le donne.

Riunire in un organismo le donne è più difficile che non riunire gli uomini. Questi sono abi-tuati alla comunità della osteria, della piazza, della caserma. Il lavoro obbliga la donna alla vitacollettiva della fabbrica, dei campi; ma questa è temporanea, e quella è nella gioventù. Appe-na si maritano restano in casa. Appena la raccolta, la vendemmia, la mietitura sono finite, tor-nano alla vita solitaria della famiglia.48

Il 28 agosto 1934 nacque la sezione massaie rurali sotto il controllo del partitonazionale fascista nell’ambito dei fasci femminili.49

Le sezioni si propongono di promuovere la propaganda educativa presso le massaie dalla cam-pagna nei centri rurali curandone in modo particolare l’assistenza morale, sociale e tecnica; dipromuovere l’istruzione professionale delle massaie rurali perché possano compiere con com-petenza e con modernità di vedute le molteplici mansioni loro affidate, con particolare riferi-mento alla coltivazione dell’orto, dell’allevamento degli animali domestici, all’artigianato ealle piccole industrie casalinghe, inducendo a tal uopo corsi di economia domestica e pueri-cultura; di migliorare l’arredamento e l’igiene delle case rurali; di fare apprezzare tutti i van-taggi della vita dei campi, per contrastare le dannose tendenze all’urbanesimo.50

Gli scopi e i progetti che dovevano essere seguiti dall’Organizzazione delle massaierurali non erano poi così differenti da quelli dei fasci femminili e la Sold, ciò che lacaratterizzava erano i soggetti che coinvolgeva, ovvero «le donne che risiedono abitual-mente in Comuni a carattere rurale, che appartengono a famiglie di proprietari coltiva-tori diretti, coloni e mezzadri, operai agricoli, che abbiano l’età richiesta per l’ammis-sione ai Fasci femminili»; ed anche l’intento di «far apprezzare tutti i vantaggi della vitadei campi, per contrastare, come il Fascismo vuole, le dannose tendenze all’urbanesi-mo»,51 nell’ambito della campagna ruralista del regime.

L’organizzazione per le massaie rurali registrò in Italia 371.658 iscritte del 1934,numero che calò a 241.000 nell’agosto successivo. Lo sforzo propagandistico fu peròtale che alla fine del 1938 le Massaie rurali inquadravano più del 5% della popolazio-ne femminile nazionale con punte massime in Emilia (9,86) e in Piemonte (8,47). Nel1943 l’associazione arrivò a registrare 2.491.792 iscritte.

47 EMILIO GENTILE, Fascismo storia e interpretazione, Roma-Bari, Laterza, 2002, p. 27.48 Lettera di Regina Terruzzi a Mussolini, Milano, 5 dicembre 1934, citata in H. DITTRICH-JOHAN-

SEN, Le «militi dell’idea» cit., pp. 161-162.49 «L’Almanacco della donna italiana», 1935, pp. 139-140.50 Ibidem.51 Primo libro del fascista, cit.

Page 153: 70 - online.ibc.regione.emilia-romagna.itonline.ibc.regione.emilia-romagna.it/I/libri/pdf/ERBA_70.pdf · Le donne organizzate: fasci femminili e sezioni operaie e lavoranti a domicilio

136 Dal regime fascista agli anni Sessanta

In Emilia-Romagna nel 1941 a Bologna vi erano 57.876 iscritte e 69.890 a Reggio Emi-lia; la federazione di Ravenna era al penultimo posto con le sue 25.800 massaie rurali.52

Le iscrizioni erano incoraggiate anche attraverso agevolazioni economiche, adesempio prevedendo posti riservati nei mercati e riduzioni per le tasse di posteggio neimercati stessi.53

Per l’iscrizione alle Massaie rurali non era richiesta, così come avveniva per altreorganizzazioni, la «prova di fede fascista» e i controlli non erano così rigidi. Vi sonoesempi di donne con trascorsi antifascisti, che potevano anche avere portato a condan-ne, la cui iscrizione fu accettata.54

L’alta partecipazione all’associazione rurali in Emilia-Romagna è spiegabile attra-verso numerosi fattori, per quanto riguarda le mondine e le braccianti, costrette al col-locamento tramite il sindacato fascista, l’iscrizione era necessaria per ottenere il lavo-ro, inoltre, ipotizza Perry R. Willson «il fatto che in queste aree, prima del fascismo, cifosse già una tradizione di coinvolgimento femminile nei sindacati agricoli può averspianato la strada agli organizzatori fascisti. In breve, in queste regioni, l’appartenenzadelle donne a organizzazioni politiche non era una novità».55 A questo si può aggiunge-re che il clero, i sacerdoti delle parrocchie di campagna, vedevano in modo positivo lapartecipazione a questa organizzazione.

L’attività consisteva, quindi, in assistenza e beneficienza, nell’organizzare corsi e con-corsi legati ai temi della casa rurale, dell’economia domestica, dell’allevamento degli ani-mali da cortile, nella bachicultura e nella tessitura.56 Lo scopo del programma di formazio-ne era introdurre i cosiddetti metodi di coltivazione «razionali», attraverso l’introduzionedi tecniche considerate «moderne e scientifiche» che dovevano sostituire quelle tradizio-nali, come previsto anche nello statuto della stessa associazione. Non rare erano le mostreagricole, comunali, provinciali e regionali, dove le massaie rurali portavano lavori di tessi-tura, coperte di lana, di canapa e cotone; cestini e lavori di vimini, sporte di foglie di gra-noturco, cappelli di paglia, lavori a maglia. Le partecipazioni a questi corsi erano solita-mente abbastanza alte, tanto che Claudia Bassi Angelini, ipotizza che il partecipare alle ini-ziative delle Massaie rurali, che a volte assomigliavano a quelle di un dopolavoro, fosseuna gradita e occasione di socialità.57 Consigli e articoli tecnici venivano poi pubblicatisulle riviste ed in particolare sull’«Agenda della massaia rurale» e in volumi.

Le massaie rurali, così come le donne aderenti alle altre associazioni, partecipavanoalle adunate, alle cerimonie, alle manifestazioni e lo facevano, solitamente, in costumetradizionale, con il grembiule, il fazzoletto al collo e lo scialle sulle spalle, così cheanche nell’immagine potessero riassumere e rappresentare il modello della donna fasci-sta: legata alle tradizioni, incurante della moda, prosperosa madre di famiglie numerose.

Durante gli incontri a Roma, al cospetto del duce, sovente si poteva riscontrare,nelle partecipati, quella sorta di fascinazione per Mussolini che era caratteristico delsistema totalitario e che massimamente si espresse negli anni Trenta, come si accenna-va.58 Scriveva una massaia rurale di Bologna nel 1937:

52 A. ZAVARONI, La Donna del Fascio cit., p. 30.53 H. DITTRICH-JOHANSEN, Le «militi dell’idea» cit., p. 170.54 C. BASSI ANGELINI, Le «signore del fascio» cit., p. 99-102.55 PERRY R. WILLSON, Contadine e politica nel ventennio. La sezione Massaie rurali dei Fasci fem-

minili, «Italia contemporanea», 218, 2000, pp. 31-48.56 «L’Agenda della massaia rurale», anno XV.57 C. BASSI ANGELINI, Le «signore del fascio» cit., p. 99-102.58 E. GENTILE. Fascismo cit., pp. 113-170.

Page 154: 70 - online.ibc.regione.emilia-romagna.itonline.ibc.regione.emilia-romagna.it/I/libri/pdf/ERBA_70.pdf · Le donne organizzate: fasci femminili e sezioni operaie e lavoranti a domicilio

Il fascismo e la seconda guerra mondiale 137

ho 35 anni, mio marito 37, Fascista di vecchia data; ho 4 figli, 3 femmine e un maschio. Lamia famiglia è composta di n. 6 persone tutti in buona salute e tutti tesserati con tessere delPnf. Il più piccolo balilla della Lupa; si vive onestamente col lavoro.Duce, io mi son sentita sempre vicino a voi. Ho sempre avuto per voi un amore sopra natura-le; nei momenti difficili passati ho pregato Dio per voi che non vi venisse a mancare quelcoraggio come è vostra abitudine per affrontare tutte le ingiustizie fatteci da Nazioni amiche.Duce, io vivevo sempre nella speranza di vedervi da vicino ma la mia possibilità non permet-teva di fare spese di più di quelle che erano necessarie per la famiglia. Grazie a Dio pervolontà vostra il 20 di questo mese avete ordinato l’adunata a Roma di tutte le donne d’Ita-lia. Io come donna Fascista e come massaia rurale datosi la minima spesa partecipai a questagrande adunata.Duce, ora vi scrivo per ringraziarvi del trattamento che avete usato verso di noi donne in tuttoe per tutto che non riuscirò mai e poi mai a dimenticare la mia giornata così felice. Ebbi la for-tuna di vedervi da vicino, poter rendermi conto della vostra bontà, ammirai le vostre parole equel sì… che noi rispondemmo alle vostre domande è un giuramento fatto col cuore davanti avoi da noi donne d’Italia e lo manterremo in qualunque momento voi lo comandate.

Molto probabilmente le domande di cui si fa cenno nella lettera sono quelle postenel discorso tenuto proprio il 20 giugno 1937 durante l’adunata delle donne delle varieprovincie italiane

Come donne italiane e fasciste voi avete dei particolari doveri da compiere, voi dovete esserele custodi dei focolari (sì). Voi dovete dare con la vostra vigilante attenzione, col vostro inde-fettibile amore, la prima impronta alla prole che noi desideriamo (sì, sì).59

59 I Fasci femminili, cit.

La regina Elena riceve gli omaggi delle massaie rurali nel salone del palazzo del Podestàdurante la celebrazione del II centenario della nascita di Luigi Galvani, Bologna, 19 ottobre1937, Foto Gambini, Archivio storico dell’Università, Bologna

Page 155: 70 - online.ibc.regione.emilia-romagna.itonline.ibc.regione.emilia-romagna.it/I/libri/pdf/ERBA_70.pdf · Le donne organizzate: fasci femminili e sezioni operaie e lavoranti a domicilio

138 Dal regime fascista agli anni Sessanta

La lettera della donna bolognese continuava

di tutto quello che ho potuto vedere a Roma specie della inaugurazione della colonia estiva edell’assistenza all’infanzia tutto per volontà vostra, racconto tutto a questa gente ma soffrotanto perché con le mie parole mi sembra di non riuscire bene a far capire a loro la grandezzae la bellezza di Roma.Duce, con tutto questo io vi ringrazio di avermi così illuminata. Vi giuro che educherò la miafamiglia secondo i vostri insegnamenti. Chiedo a voi una cosa sola. Una vostra fotografia cherimanga per noi tutti un perpetuo ricordo della vostra bontà e un incitamento per la nostra fede.Rimanendo ai vostri ordini io e la mia famiglia. A Noi.60

Il tono e il modo di scrittura ci fa dire che, sicuramente, la massaia rurale bologne-se, così affascinata, non era una bracciante o una mondina, visto che queste non pote-vano certamente avere l’istruzione necessaria per scrivere in quel modo, poteva esserepiuttosto la moglie di un proprietario o, comunque, apparteneva ad una classe socialepiù elevata. Il consenso, un consenso così «affascinato» era in effetti più caratteristicodella media borghesia che delle classi popolari.

La mobilitazione delle donne per la campagna d’Africa

Una delle caratteristiche dell’espansione coloniale durante il fascismo è il tentati-vo di coinvolgimento della popolazione italiana, novità assoluta rispetto all’atteggia-mento del governo liberale. Dopo l’attacco all’Etiopia, le conseguenti sanzioni com-minate all’Italia dalla Società delle Nazioni il 3 novembre 1935, in realtà non così inci-sive, vennero trasformate in un mezzo per sollecitare l’orgoglio nazionale.61 Innanzi-tutto venne chiesto alle donne, alle massaie di organizzare l’alimentazione per incre-mentare l’utilizzo di prodotti nazionali, «autarchici», per svincolare così l’Italia dalleimportazioni, le donne avrebbero dovuto «sorreggere l’industria italiana con la lorotenace fiducia».62 In questo contesto fu organizzata la giornata della fede.63 Era il 18dicembre 1935, secondo il documentario Luce L’atto di fede del popolo italiano, «neltrigesimo delle sanzioni, auspice S.M. la Regina – tutte le spose d’Italia hanno offer-to il loro anello nuziale simbolo di una fede sublimata dalla carità di patria», piovevavisto che la regina Elena era accompagnato dal cancelliere di corte che le teneva l’om-brello mentre saliva gli scalini dell’altare della patria dove lesse il suo discorso perinvitare le italiane a donare la fede nuziale. Subito dopo di lei altre donne donarono lafede nuziale, fra queste Rachele ed Edda Mussolini, e poi, in modo simbolico, alcunesuore diedero l’anello della consacrazione. Anche uomini, evidentemente fecero que-sto gesto, ma la cerimonia fu improntata alla mobilitazione delle donne. La giornatadella Fede era stata un ulteriore tentativo di nazionalizzare le donne e aveva rappresen-tato, scrive Petra Terhoeven, «una illustrazione simbolica delle richieste che la nazio-ne in guerra avrebbe posto alle donne, complementari a ciò che chiedeva alla partemaschile della popolazione».

60 Lettera data 25 giugno 1937, citata in H. DITTRICH-JOHANSEN, Le «militi dell’idea» cit., pp. 168-169.61 NICOLA LABANCA, Oltremare. Storia dell’espansione coloniale italiana, Bologna, il Mulino,

2002, p. 189.62 «L’Almanacco della donna italiana», 1936, pp. 55-56.63 Su questo si veda, fra l’altro PETRA TERHOEVEN, Oro alla patria. Donne guerre e propaganda

nella giornata della Fede fascista, Bologna, il Mulino, 2006.

Page 156: 70 - online.ibc.regione.emilia-romagna.itonline.ibc.regione.emilia-romagna.it/I/libri/pdf/ERBA_70.pdf · Le donne organizzate: fasci femminili e sezioni operaie e lavoranti a domicilio

Il fascismo e la seconda guerra mondiale 139

L’intenzione era quella di mobilitare le donne e in tutta Italia, evidentemente, le orga-nizzazioni fasciste si erano mobilitate affinché le donne consegnassero le fedi. Richie-sta che non fu accolta sempre con grande favore, almeno secondo quello che viene ricor-do nelle testimonianze.64 Ad esempio, sull’appennino bolognese si ricorda che

Volevano portare la civiltà in Africa, il Duce, altroché, gli andava a sparare, altro che la civiltà.Mia madre non consegnò la fede, fece finta d’averla persa, quando la chiesero.65

Io non avevo paura, e non volevo darci la fede, mia suocera, dice lui lì non me la prende lafede; e mio marito diceva, abbiamo una bottega, siamo segnati, dobbiamo dargliela, ma lei nongliela diede, quando è morta e poi quando ne abbiamo riesumate le ossa, l’aveva ancora neldito, è questa che io porto adesso, perchè la mia mi è toccata di dargliela.66

Laura Marani, scriveva invece di una realtà diversa, in cui, grazie alla sua azione diconvincimento, le donne diedero, infine, la fede.

Le massaie rurali, care piccole donne, hanno dato la vera che avevano ricevuto all’altare, el’hanno data con un misto di dolore e d’orgoglio commoventissimo. Mi avevano detto che inun villaggio montano le massaie invitate ad offrire gli anelli, avevano risposto in coro «tutto alDuce, fuorché la fede». Io vado lassù. Entro: spiego loro il significato di quest’offerta. […]una ad una vennero a consegnarmi l’anello. Solo una giovanissima sposa rimaneva riluttante;poi, infine, esclama: «ho aspettato tre anni di fidanzamento per avere questo anello, e voleteche me lo cavi dal dito?». Mi avvicino, l’accarezzo: scoppia in pianto: si toglie l’anello e midice con un misto di rabbia e fierezza: «a lei, lo porti al DUCE».67

Non si può dire, evidentemente, quanto la presenza della segretaria dei fasci fem-minili, donna caparbia e estremamente convinta delle proprie idee fasciste, abbia incen-tivato la donazione. Certamente dove la presenza delle organizzazioni fasciste era piùserrata, difficile diveniva non seguire le direttive.

Nella retorica di regime, le donne furono considerate un elemento fondamentale perla guerra d’Etiopia:

Sono veramente lieto di rivolgere a voi, donne dell’Urbe, e con voi alle donne di tutta Italia, l’e-spressione della mia più profonda simpatia. La fulgida Vittoria riportata dalle nostre truppe nel-l’A.O. si deve all’eroismo dei vostri figliuoli, dei vostri mariti, dei vostri fratelli, ma si deve anchea voi, o donne di Roma e d’Italia. L’Italia fascista. cinta dall’assedio societario organizzato da 52Paesi, vi aveva affidato un compito delicato e decisivo: quello di fare di ogni famiglia italiana unfortilizio per resistere alle sanzioni. Con magnifica disciplina, con patriottismo superbo, voi, odonne, avete assolto a questo compito che il Regime vi aveva affidato. La Patria vi tributa la suagratitudine, mentre il vostro esempio rimarrà consegnato nelle pagine della storia italiana.68

Dopo la conquista dell’Etiopia si poneva il problema della presenza delle donnenella vita nelle colonie. Scriveva Gadda:

64 ANNA MARIA PAZZAGLIA, Immagini e ruolo delle donne nella società emiliana negli anni prece-denti il secondo conflitto mondiale, in ILVA VACCARI, La donna nel ventennio fascista 1919-1943, Mila-no, Vangelista, 1978, p. 297.

65 Intervista a Ines Crisalidi, raccolta da chi scrive, 1995.66 Intervista a Filomena Vecchi, raccolta da chi scrive, 1995.67 A. ZAVARONI, La donna del fascio cit., pp. 32-33.68 Discorso dell’8 maggio 1936, in BENITO MUSSOLINI, Scritti e Discorsi dell’Impero, novembre

1935-XIV – 4 novembre 1936-XV, Edizione definitiva X, Milano, Hoepli Editore, 1936.

Page 157: 70 - online.ibc.regione.emilia-romagna.itonline.ibc.regione.emilia-romagna.it/I/libri/pdf/ERBA_70.pdf · Le donne organizzate: fasci femminili e sezioni operaie e lavoranti a domicilio

c’è da esprimere la certezza che le donne italiane, ove se ne dia loro l’occasione, saprannoessere in colonia quello che sono in patria: le compagne, le madri, le consolatrici di chi lavo-ra, di chi osa, di chi vince, poiché la vittoria è ben spesso il premio di una volontà senza sostae di una paziente fatica.69

L’espansione coloniale, italianaed europea, è stata soprattutto unaesperienza al maschile e nelle colo-nie italiane, sino agli anni Venti, ledonne furono un sesto rispetto agliuomini. Lo sforzo del regime versouna emigrazione famigliare non ebbegrandi risultati se non dalla metàdegli anni Trenta: i ricongiungimentifamigliari furono massimi in Libia,in Eritrea prima della guerra d’Etio-pia e in questo paese in seguito allacolonizzazione rurale. Da Ferrara neltriennio 1933-1935, ad esempio,furono 22 le famiglie coloniche,composte da 156 membri, che emi-grarono in Tripolitania. In Eritrea,alla fine del 1938, vi erano 67.000italiani di cui un quinto donne.70

In particolar modo la così dettaspedizione dei ventimila, che portòsulla «Quarta sponda» 14.633 e11.000 persone, fu una emigrazionedi famiglie, organizzata anche grazieagli enti regionali di colonizzazionedi Veneto, Romagna e Puglia. Ilgoverno fascista chiedeva quindi alledonne di recarsi nelle colonie e asse-gnava loro un duplice compito: riunire o creare nuove famiglie e contemporaneamen-te diffondere la cultura italiana agli «indigeni». Bisognava dunque preparare le donnealla «nuova missione»: per questo motivo, nel 1937, il governo stabilì la presenza diuna collaboratrice all’interno di ogni sezione dei fasci, con il compito di «infonderenelle iscritte il sentimento coloniale» e l’anno successivo furono istituiti campi pre-coloniali nelle varie regioni italiane. I primi campi si allestirono ad Alessandria,Cuneo, Genova, Varese, Brescia, Vicenza, Venezia, Trieste, Bologna e Roma. In que-sti corsi le lezioni alternavano le tematiche care al regime, come la difficoltà dell’e-spansione italiana, la difesa della razza e il pericolo del meticciato, con la presenta-zione dei problemi di ordine quotidiano che le donne avrebbero potuto trovare unavolta giunte a destinazione. Si creò anche la Giornata Coloniale, il 9 di maggio, in cuivenivano rilasciati i diplomi di partecipazione ai corsi.

140 Dal regime fascista agli anni Sessanta

69 CARLO EMILIO GADDA, La donna si prepara ai suoi compiti coloniali, «Le Vie d’Italia», n. 10,ottobre 1938, p. 1251.

70 N. LABANCA, Oltremare cit., pp. 397-403.

«Almanacco annuario della donna», 1936,Biblioteca Italiana delle Donne, Bologna

Page 158: 70 - online.ibc.regione.emilia-romagna.itonline.ibc.regione.emilia-romagna.it/I/libri/pdf/ERBA_70.pdf · Le donne organizzate: fasci femminili e sezioni operaie e lavoranti a domicilio

Il fascismo e la seconda guerra mondiale 141

Le donne al lavoro, lavori da donne

«La donna idealmente è madre prima di essere tale naturalmente. Madre per i figli,per i fratelli, per gli infermi, per i piccoli affidati alla sua educazione»,71 scriveva Gio-vanni Gentile; secondo il fascismo esistevano dei mestieri adatti alle donne, lavori che«per natura» erano considerati femminili, ovvero i lavori di cura: questi impieghi veni-vano accettati più facilmente, fermo restando che il modello ideale di donna fascista erala donna di casa, la madre, la moglie, così come già illustrato.

Scriveva Nicola Pende:

noi ci auguriamo che il lavoro delle donne sia sempre più disciplinato e ristretto in Italia aquelle professioni ed a quei mestieri appropriati ed adatti alla psicologia femminile, e doveuomini e donne non devono lavorare mescolati in ambienti spesso moralmente oltre che igie-nicamente malsani.72

Di questo pensiero si trovava traccia negli scritti teorici, nei discorsi di propagandae nei testi scolastici. Ad esempio, nel testo di seconda elementare:

Progetti e progettini. Che cosa farai quando sarai grande? Maria dichiara che coltiverà il suoorto, Amelia farà la ricamatrice, Marcella studierà da maestra. Sarina vorrebbe poter frequen-tare l’Accademia Fascista di Orvieto e dedicarsi all’educazione fisica dei fanciulli. Ed io cosafarò? – pensa Lunella. La sua mente vaga come in un sogno: si vede adulta, simile allamamma, col peso di una casa addosso. – Ecco – dice alfine – farò quello che fa la mamma.Terrò la casa ben in ordine, accudirò al desinare, rammenderò la biancheria, e quando mi avan-zerà un po’ di tempo leggerò qualche libro. Poi avrò dei bambini, molti bambini, e dedicheròloro tutte le mie cure, affinchè crescano belli, sani, laboriosi, coraggiosi, degni della nostramadre Patria.

Con diversa intonazione, ma sulla stessa scia, Maria Diez Gasca affermava che ladonna non doveva fare professioni o mestieri considerati da uomini:

in luogo di troppe numerose e mediocri avvocatesse, medichesse, ingegneresse e impiegate diamministrazioni pubbliche e private, oggi si possono gettare sul mercato del lavoro e moltoben agguerrite, professioniste della casa, dell’alimentazione, di particolari insegnamenti, del-l’assistenza ospedaliera e sociale, le quali oltre a risolvere il problema angoscioso del panequotidiano e del proprio avvenire, raggiungono socialmente un alto valore economico e pro-duttivo tutt’altro che da disprezzare.73

Quindi se proprio le donne dovevano lavorare, era più conveniente, secondo la dot-trina fascista, che lo facessero in campi giudicati a loro consoni e lo facessero per untempo limitato, quando ancora non erano sposate.74

L’assistenza era ritenuto uno di questi ambiti femminili e fu proprio infatti duranteil fascismo che nacque nel 1927 la scuola Scuola superiore fascista di assistenza socia-

71 GIOVANNI GENTILE, La donna nella coscienza moderna, XLII. Preliminari allo studio del fanciul-lo, Opere complete a cura della Fondazione Giovanni Gentile per gli Studi Filosofici, Firenze, Sanso-ni, 1969.

72 N. PENDE, Bonifica umana e razionale cit., p.135.73 MARIA DIEZ GASCA, Nuove professioni femminili, «Difesa sociale», n. 10, 1936.74 Confederazione fascista dei lavoratori del commercio, Primo convegno nazionale del lavoro fem-

minile commerciale, citato in V. DE GRAZIA, Le donne cit., p. 229.

Page 159: 70 - online.ibc.regione.emilia-romagna.itonline.ibc.regione.emilia-romagna.it/I/libri/pdf/ERBA_70.pdf · Le donne organizzate: fasci femminili e sezioni operaie e lavoranti a domicilio

142 Dal regime fascista agli anni Sessanta

le per formare le assistenti sanitarie visitatrici,75 autorizzata con il regio decreto legge15 agosto 1925. La scuola che era diretta da Angiola Moretti si proponeva di

preparare tecnicamente e spiritualmente il personale femminile che è chiamato a svolgere nellefabbriche una delicata opera di assistenza sociale ai lavoratori. Con essa i segretari di fabbri-ca potranno disporre di personale tecnico specializzato a compiere le più delicate mansioniassistenziali in favore delle classi lavoratrici e delle loro famiglie.76

Potevano presentare domanda di ammissione le laureate in giurisprudenza, scienzepolitiche, economiche e commerciali, in età compresa fra i 25 e i 35 anni, iscritte al Pnfe munite di una presentazione ufficiale della fiduciaria provinciale che attestasse il pos-sesso dei «requisiti morali e politici».

La Scuola terminò la sua attività nel 1943, dopo aver diplomato circa 500 allieve chetrovarono occupazione in aziende industriali e presso le Unioni Provinciali dei Lavora-tori dell’Industria, distribuite su tutto il territorio nazionale, soprattutto nelle zone in cuipiù presenti erano le industrie, ovvero nelle regioni centro-settentrionali. Era previsto poianche un corso per assistente sanitaria visitatrice abilitata a lavorare nel campo della pre-venzione di malattie endemiche quali la tubercolosi, la malaria, il tracoma.

Le donne erano presenti nell’ambito sanitario in diverso modo e in diverse propor-zioni: rarissime le donne medico e le donne dentiste. Mestiere femminile, anche se nonesclusivamente, era poi quello dell’infermiera. Il numero di infermiere crebbe dal 1921al 1936 con regolarità: dai censimenti possiamo rilevare come le infermiere fossero inItalia nel 1921, 15.197 e gli infermieri 12.067; in Emilia donne e uomini erano in unnumero pressoché simile: 1576 donne e 1531 uomini. Dieci anni dopo il numero delledonne che svolgevano questa professione era aumentato: nel Regno 19.944 le donne,14.964 gli infermieri. In Emilia 1941 le infermiere e 1475 gli uomini. Era quindi ini-ziata una decisa femminilizzazione di questa professione causata anche dal fatto che lescuole di formazione organizzate dal regime erano riservate alle donne. L’assistenzainfermieristica venne infatti regolamentata nel 1925 con lo stesso regio decreto che sta-biliva l’istituzione delle scuole per le assistenti visitatrici cui si è fatto cenno. In questodecreto, convertito in legge il 18 marzo 1926, si stabilivano i criteri per la istituzione discuole convitto professionali per infermiere che duravano due anni durante i quali veni-vano impartiti da medici insegnamenti tecnico-pratici. La direttrice della scuola sidoveva occupare della «educazione morale» delle allieve che venivano ammesse dopoaver frequentato la scuola media di primo grado, seppur non fosse un titolo di studioobbligatorio. Alla domanda di ammissione doveva essere allegata una dichiarazione fir-mata da due persone in cui fosse garantita la moralità della candidata e fra le materieinsegnate nel corso vi erano l’economia domestica e ospedaliera, cultura militare e reli-giosa, patologie tropicali ed etica professionale.77

La norma prevedeva che le allieve infermiere, compiuto il tirocinio nei reparti e ilcorso teorico-pratico, complessivamente di durata biennale, una volta superato l’esamedi Stato, conseguissero il diploma di infermiera professionale.78 Rimanevano comun-

75 Professione e genere nel lavoro sociale, a cura di Pierangela Benvenuti, Roberto Sgatori, Mila-no, Franco Angeli, 2000, pp. 90-92.

76 FRANCO MARTINELLI, Assistenti sociali nella società italiana contributo ad una sociologia dellaprofessione, Roma, Istituto per gli studi di servizio sociale, 1965, p. 22.

77 EDOARDO MANZONI, Storia e filosofia dell’assistenza infermieristica, Milano, Masson, 1996.78 LUCIA CONTI, L’infermieristica dall’Unità di Italia al Fascismo, «L’infermiere», n. 1, 2006.

Page 160: 70 - online.ibc.regione.emilia-romagna.itonline.ibc.regione.emilia-romagna.it/I/libri/pdf/ERBA_70.pdf · Le donne organizzate: fasci femminili e sezioni operaie e lavoranti a domicilio

Il fascismo e la seconda guerra mondiale 143

que valide le precedenti modalità di formazione per gli infermieri generici, formazionein questo caso estesa indifferentemente a uomini e donne e regolamentata poi con leggidel 1925 e 1927. Naturalmente restavano in funzione e venivano ampliate le scuoledella Croce Rossa: a Bologna, ad esempio, ne viene costruita una nel 1931 presso l’o-spedale S. Orsola.

Un altro settore della sanità in cui le donne lavoravano era quello della maternità edell’infanzia dove, evidentemente, altissima era la presenza femminile fino ad arrivaread un mestiere esercitato esclusivamente dalle donne come quello delle levatrici. Daidue censimenti del 1921 e 1931 possiamo vedere che in Italia in dieci anni il numerodelle levatrici diminuì passando da 15.900 a 15.514, in Emilia vi fu un calo di 55 unità,si passò infatti da 1287 a 1232.

Nel 1927, per l’ammissione ai corsi triennali delle Scuole di Ostetricia era richiestoil diploma di scuola media inferiore o la licenza complementare. Nel 1937, dopo lun-ghe polemiche, il titolo di levatrice viene sostituito per legge con quello di ostetrica enel 1940 si elaborò un nuovo regolamento per l’esercizio professionale delle ostetriche(R.D. n. 1364).

Nel 1938 l’Omni s’incaricò di creare corsi di perfezionamento per le levatrici cheerano le uniche persone che assistevano e potevano quindi intervenire durante i parti del95% delle italiane. Sovente si applicava a questo mestiere, di grande responsabilità e digrande fatica, soprattutto per le levatrici del forense, una buona dose di retorica.

La levatrice assolve nella funzione dell’assistenza una missione particolarmente delicata, fattadi scienza sia pur elementare, ma anche di tenerezza. La sua presenza al letto della prossimamadre già rappresenta un aiuto conscio, una difesa contro l’oscuro pericolo, un conforto dellospirito che alleggerisce le atroci trafitture del corpo squassato.Alleviatrice di pene e garante di vita, la levatrice, la «comare», è la vera madre del primo peri-glioso momento: è essa che apre per prima gli occhi del neonato alla immensa bellezza dellaluce e la piccola boccuccia all’immenso grido iniziale conquistatore della vita: è essa che rico-pre per prima il nudo e fumigante germoglio umano, dei lini e delle fasce per difenderlo dallefredde insidie dell’ambiente: è essa che accorre dovunque, nel tugurio, nella cascina, tra lealpestri asperità, di giorno di notte, per recare, umile, misconosciuta sovente, sempre malpagata, l’aiuto della sua breve tecnica, della sua esperienza, dell’igiene, a rendere scevro dipericoli lo sbocciar lieto della vita umana dal dolore santo della maternità.79

I compiti della levatrice, oltre alla gravidanza e al parto, dovevano coprire i primianni della vita del bambino e quindi coincidere con attività di puericoltura.80

Con l’avvento del fascismo e lo scioglimento dei partiti e dei sindacati, si ebbe lacreazione del sindacato nazionale fascista delle levatrici; nel 1934 il sindacato iniziò lapubblicazione della rivista «Lucina», proprio organo mensile diretto da Maria VittoriaLuzzi, presidente della Corporazione delle ostetriche e per questo unica donna al Con-siglio superiore delle corporazioni.

Vista l’importanza che veniva data all’incremento demografico, la professione dellalevatrice era soggetta ad una attenzione particolare; attenzione rivolta anche alle possi-bili pratiche di aborto, tanto che le levatrici, così come i medici, erano obbligati adenunciare e a registrare, parti ed aborti, e a segnalare anche i sospetti casi di abortoprocurato o auto procurato. La condanna per il procurato aborto era l’ammonizione e il

79 PIETRO CAPASSO, Le buone ancelle della maternità, «Gazzetta Italiana delle Levatrici», AnnoXXII, 15 aprile 1933, XI, n. 4.

80 Ibidem.

Page 161: 70 - online.ibc.regione.emilia-romagna.itonline.ibc.regione.emilia-romagna.it/I/libri/pdf/ERBA_70.pdf · Le donne organizzate: fasci femminili e sezioni operaie e lavoranti a domicilio

144 Dal regime fascista agli anni Sessanta

confino, condanne che venivano comminate spesso anche in seguito a segnalazionianonime o di «voce diffusa».81

I podestà di Comuni in cui non vi era una condotta ostetrica sovente chiedevano chefossero inviate al confino da loro le levatrici, così da poter intervenire, almeno nei casipiù urgenti e gravi. Per questo, ad esempio, a Castelgrande in provincia di Potenza fumandata Irma, levatrice di Rimini. Una donna di Bologna, è invece ricordata in moltetestimonianze raccolte in Basilicata.

La prima figlia di Giovanni nacque in Basilicata. Quando la moglie si accorse di aspettare unfiglio chiese consiglio ad alcune vicine e queste consigliarono subito una nota levatrice; manon seppero lì per lì dire il nome perché tutti, in paese, la indicavano semplicemente come «labolognese». Dissero che fosse una buona donna, e poi educata, pulita, anzi pulitissima. Tutti iparti della bolognese andavano bene; e poi, si sa, aveva studiato a Bologna, veniva da quelleterre dove hanno molto più rispetto per la vita umana. Giovanni ed Anna andarono a trovare labolognese e l’ostetrica li accolse con molta cordialità.82

Alessandra Gissi ipotizza che «la bolognese» fosse una confinata, Clementina C.,nata a Sant’Agata Bolognese, diplomata in ostetricia presso l’Università di Bolognadurante la prima guerra mondiale, mandata al confino dapprima a Lipari e quindi aMiglionico nel 1928, dove restò anche dopo aver scontato la pena. Stessa scelta fu fattada Rosina M. di Parma che, confinata nel 1928 a Rapone, località del potentino dovenon vi era assistenza ostetrica, vi rimase per tutta la vita.83

Sempre legato alla maternità vi era poi un’altra occupazione, svolta soprattutto dalledonne di campagna, ovvero la balia. Mestiere che prosegue ancora durante il periodofascista per il quale assume una valenza particolare, visto che solitamente erano le gio-vani donne di campagna che allattavano i figli della borghesia cittadina: una ulterioreoccasione per sottolineare la bontà dello stile di vita rurale.

In campagna l’allattamento materno è sempre in onore […]; la nutrice dovrà essere scelta nel-l’elemento agricolo, perché le donne conservano quelle doti di pazienza, di arrendevolezza, diminor emotività, che sono indispensabili nella funzione che ad esse viene richiesta.84

Alle madri vere, nella retorica di regime, si affiancavano le maestre, donne in grado,così come le infermiere, di «esplicare quelle doti che ogni donna ha in sé anche inconsa-pevolmente. Ossia sacrificio, dedizione e rinuncia, dimenticanza di sé, abnegazione».85

Nella scuola le donne rappresentavano il 70% del totale ed erano presenti massic-ciamente nelle scuole elementari, mentre le redini della scuola fascista erano saldamen-te nelle mani degli uomini. Nei censimenti del 1921 e del 1931 vediamo come effetti-vamente la presenza femminile in ambito scolastico fosse estremamente alta. Purtrop-po i dati non indicano quanti fossero i maestri e quanti i docenti di altri gradi di scuo-

81 Potevano essere ammonite in base all’articolo 165 del regio decreto del 18 giugno 1931, in cuipossiamo leggere che era «diffamata la persona la quale è designata dalla voce pubblica come abitualecolpevole […] dei delitti contro l’integrità e la sanità della stirpe commessi da persone esercenti l’artesanitaria». ALBERTO AQUARONE, L’organizzazione dello Stato totalitario, Torino, Einaudi, 2003, p. 555.

82 VITO MAUROGIOVANNI, Lungo viaggio nella Basilicata del ’50, citato in ALESSANDRA GISSI, Lesegrete manovre delle donne, levatrici in Italia dall’unità al fascismo, Roma, Biblink, 2006, pp. 121-122.

83 A. GISSI, Le segrete manovre delle donne cit., pp. 122-123.84 GIULIO CASALINI, La madre e il suo bambino, Torino-Genova, Casanova, 1929, p. 221.85 «La donna italiana», n. 4, aprile 1934.

Page 162: 70 - online.ibc.regione.emilia-romagna.itonline.ibc.regione.emilia-romagna.it/I/libri/pdf/ERBA_70.pdf · Le donne organizzate: fasci femminili e sezioni operaie e lavoranti a domicilio

Il fascismo e la seconda guerra mondiale 145

la, comunque possiamo vedere come a livello nazionale, nel 1921, 161.271 erano ledonne e 46.826 gli uomini. Dieci anni dopo gli impiegati in questo settore erano dimi-nuiti ma la proporzione rimaneva pressochè invariata. Nella nostra Regione i dati cimostrano la stessa massiccia presenza femminile 10.612 a fronte di 2599; nel 1931, poi,9320 erano le donne nella scuola e 2392 gli uomini. Nel 1936 in Italia vi erano 22.435maestri mentre le maestre erano 88.111. Nell’anno scolastico 1920-1921 al liceo inse-gnavano 1076 uomini e 316 donne, mentre nella scuole normali insegnavano 829 donnee 426 uomini.86 A livello universitario, in Emilia-Romagna nove erano le docenti su untotale di 416. Secondo alcune stime nel 1938 le cattedre occupate da donne nei liceivariava fra il 2 e il 3%, mentre l’insegnamento elementare e medio inferiore registrava-no una ben più alta percentuale.87

La dimostrazione di questa sproporzione è rintracciabile nei dati delle iscrizionialla scuola normale, che con la riforma Gentile divenne Istituto magistrale. Nell’annoscolastico 1922-1923 gli alunni erano 28.994, di cui 2225 maschi e 26.769 femmine.Tre anni dopo la proporzione maschi-femmine degli iscritti all’istituto magistrale eradi uno a dieci.88

Era talmente evidente la sproporzione che si cercò di incentivare le iscrizionimaschili attraverso l’introduzione di agevolazioni, l’istituzione di borse di studio afavore dei maschi, l’apertura di istituti magistrali nelle località prive di altre scuolesecondarie, l’esonero degli aspiranti maestri dal pagamento delle tasse scolastiche. Peròil numero delle maestre continuò a crescere, sebbene la distinzione dei concorsi per leclassi maschili, femminili e miste, favorisse il passaggio in ruolo dei maestri.89

Le donne potevano quindi insegnare, ma preferibilmente alle elementari e, neglialtri gradi, solo ed esclusivamente materie giudicate consone alle loro capacità, tantoche si era arrivati, come detto in precedenza, ad una legge che stabiliva quali discipli-ne la donna poteva insegnare.

In ogni settore del lavoro umano possono le donne avere un posto; ma sia il suo posto. Quan-do l’ordine corporativo devia le donne da certi impieghi, pubblici e privati, compie un attopositivo dell’avviamento delle donne ai suoi impieghi. Può la donna, per esempio, insegnare?Senza dubbio. Anzi lo deve. Ma solo in quei gradi dell’insegnamento e in quelle discipline incui la sua maestria non può essere surrogata da quella, di diverso tono, dell’uomo.90

Alle donne, ritenute non dotate né di genio né di capacità di sintesi, si riconoscevauna grande memoria, «incapace di trasformare fondamentalmente il dato, la donna pervirtù di memoria si colloca al primo posto e sopravanza i suoi concorrenti»91 e quindi

86 Essere donne insegnanti: storia, professionalità e cultura di genere, a cura di Simonetta Ulivie-ri, Torino, Rosenberg & Sellier, 1996, pp. 39-40.

87 MICHELA DE GIORGIO, Le italiane dall’Unità a oggi, modelli culturali e comportamenti sociali,Roma-Bari, Laterza, 1992, p. 472.

88 ANTONIO SANTONI RUGIU, Maestre e maestri. La difficile storia degli insegnanti elementari,Roma, Carocci 2006, p. 108.

89 RINO GENTILI, La scuola italiana nel ventennio fascista, Istituto Regionale per la Storia dellaResistenza e della guerra di Liberazione in Emilia-Romagna, Annale 3, 1983, Scuola e educazione inEmilia Romagna fra le due guerre, a cura di Aldo Berselli e Vittorio Telmon, Bologna, Editrice Clueb,1983, p. 63.

90 Delle scuole femminili, radiocomunicazione del 19 marzo 1939 citata in ESTER DE FORT, Lascuola elementare dall’Unità alla caduta del fascismo, Bologna, il Mulino, 1996, p. 449.

91 NAZARENO PADELLARO, Pedagogia ed antipedagogia, Roma, Scuola salesiana del libro, 1940.

Page 163: 70 - online.ibc.regione.emilia-romagna.itonline.ibc.regione.emilia-romagna.it/I/libri/pdf/ERBA_70.pdf · Le donne organizzate: fasci femminili e sezioni operaie e lavoranti a domicilio

146 Dal regime fascista agli anni Sessanta

poteva insegnare quelle materie e soprattutto in quelle scuole in cui l’imparare e l’inse-gnare si riducevano ad esercizi mnemonici.

Ernesto Codignola in un articolo del 1933 affermava che solo nelle prime classidella scuola elementare il rendimento delle maestre è migliore di quello dei maestri.92

Lo stipendio non era certamente alto, le difficoltà erano molte, spesso la sede sco-lastica era lontano da casa e, a scuola, la pulizia dei locali era lasciata alla buonavolontà delle maestre e degli scolari.93 Le classi erano numerose e soprattutto in cam-pagna vi erano le pluriclassi.

Il regime fascista impiegò molte energie per l’educazione totalitaria, affinché fossecresciuto ed educato «l’uomo nuovo fascista»,94 investendo di questo compito maestri,e soprattutto maestre.95 Molti furono i provvedimenti, da quelli che via via fascistizza-va la riforma varata da Gentile, all’introduzione del libro unico nel 1928. Il comporta-mento degli alunni e degli studenti fu militarizzato con l’adozione di riti, simboli e ceri-monie legate all’ideologia fascista, la storia, la geografia e le altre materie divenneroveicoli della retorica del regime.

Agli insegnanti fu imposto fra il 1929 e il 1931 il giuramento di fedeltà al regime:non prestare giuramento significava essere allontanati dal posto di lavoro. Fra chi fecequesta scelta possiamo ricordare Lina Merlin, che dopo la seconda guerra mondialedivenne deputata alla costituente, oppure, a livello emiliano, la ferrarese Alda Costa,socialista che prestò poi il giuramento ma con riserva. Dopo queste vicende il prefettoordinò una perquisizione nella casa della maestra dove vennero trovati il ritratto deldeputato socialista Giacomo Matteotti – assassinato due anni prima dai fascisti – gior-nali, tessere del partito socialista e lettere di esponenti di questo partito. Il 17 marzo1926 Alda Costa fu allontanata dall’insegnamento e le venne sospeso lo stipendio.Qualche mese più tardi fu licenziata con atto prefettizio per «aperta ed esplicita profes-sione di fede socialista». In seguito fu condannata al confino ed arrestata a Milano,dove si era trasferita in cerca di lavoro. Venne condotta dapprima alle isole Tremiti e poiin un piccolo paese della Basilicata.96

Il controllo non era solo politico, ma anche «morale», ovvero le maestre dovevanoagire e vestirsi in modo ritenuto consono, rispettoso della «pubblica decenza», senzapreoccuparsi delle mode. Le insegnanti dovevano essere un esempio, un modello, cosìcome veniva ricordato in una circolare del 1929:

Lo stile di serietà morale e d’interiore disciplina cui il Fascismo importa la vita nazionale, eche deve avere nella scuola la sua maggiore efficacia, per la preparazione delle nuove genera-zioni ai compiti futuri, esige che anche nelle forme esteriori si rifletta e si manifesta la dignitàe l’elevatezza di pensiero e di sentimento cui tutta l’opera educativa si ispira. Rinnovo perciòa tutti i nostri Presidi e Direttori di scuole l’esortazione di curare che siano strettamente osser-vate le norme già emanate da questo Ministero sul modo di vestire delle signore insegnanti edalle alunne nelle scuole. A tal uopo è opportuno ricordare che esse debbono indossare grem-

92 ERNESTO CODIGNOLA, La carriera magistrale, «La Nuova scuola italiana», 1933.93 GIOVANNI GENOVESI, MAURA GELATI, La scuola attraverso i giornali di classe. Indagine sull’in-

segnamento elementare in un comune parmense durante il periodo fascista (1928-1935), IstitutoRegionale per la Storia della Resistenza e della guerra di Liberazione in Emilia Romagna, Annale 3,1983, Scuola e educazione in Emilia-Romagna fra le due guerre cit., pp. 158 e 178.

94 E. GENTILE, Fascismo cit., p. 25.95 Attività femminile fascista, «Il giornale della donna», 1º marzo 1929.96 ANNA MARIA QUARZI, ANNAMARIA ANSALONI, L’azione politica e formativa di Alda Costa, in I.

VACCARI, La donna nel ventennio fascista cit., pp. 312-314.

Page 164: 70 - online.ibc.regione.emilia-romagna.itonline.ibc.regione.emilia-romagna.it/I/libri/pdf/ERBA_70.pdf · Le donne organizzate: fasci femminili e sezioni operaie e lavoranti a domicilio

Il fascismo e la seconda guerra mondiale 147

biuli di giusta lunghezza, oltre il ginocchio, accollati e con le maniche lunghe. Per le signoreinsegnanti sono convenienti i colori scuri, e così pure per le alunne dei corsi superiori. […] lesignore insegnanti dinnanzi alle scolaresche debbono essere, anche nell’aspetto esteriore,esempio e modello di austerità morale, di signorile contegno, di massima correttezza, così chele giovanissime creature affidate alle loro cure vedano in esse attuato un superiore ideale dimaternità per il quale è gioia ed orgoglio far sacrificio d’ogni vanità femminile, nella ricercasoltanto di quella nobile bellezza interiore, che si manifesta nella luce delle idee.97

Se le insegnanti non si dovevano occupare di moda, dovevano però occuparsi dicucito ed altri «lavori donneschi», inseriti nei programmi scolastici. Si insegnavanolavori come «tagliare, cucire, scalzettare [che erano] quasi una necessità istintiva delladonna. Si comincia da bambine, ci si trova donne fatte, massaie a capo di una casa,madri», come possiamo leggere in un manuale di cucito, libro di testo per le scuolesecondarie di avviamento professionale a tipo industriale femminile.98

97 Circolare12 febbraio 1929, n. 35 ministro Giuseppe Belluzzo, ministro della Pubblica Istruzio-ne dal 9 luglio 1928 al 12 settembre 1929.

98 LIDIA MORELLI, IRENE FACCIO, Il lavoro della giovinetta italiana nelle scuole secondarie diavviamento professionale a tipo industriale femminile, Torino, S. Lattes & C., 1938.

«Il Comune di Bologna», Attività del Comitatobolognese dell’ente nazionale della moda,maggio 1934, p. 55, Biblioteca comunaledell’Archiginnasio, Bologna

LIDIA MORELLI, IRENE FACCIO, Il lavoro dellagiovinetta italiana nelle scuole secondarie diavviamento professionale a tipo industrialefemminile, Torino, S. Lattes & C., 1938,Biblioteca comunale dell’Archiginnasio,Bologna

Page 165: 70 - online.ibc.regione.emilia-romagna.itonline.ibc.regione.emilia-romagna.it/I/libri/pdf/ERBA_70.pdf · Le donne organizzate: fasci femminili e sezioni operaie e lavoranti a domicilio

148 Dal regime fascista agli anni Sessanta

I lavori di cucito e di ricamo erano praticati dalle donne sia per la famiglia, sia pres-so il proprio domicilio sia a livello di sartoria. In quegli anni, anche in seguito alle san-zioni, la propaganda di regime si incentrò molto sulla moda italiana e sui tessuti italia-ni. Grande sviluppo ebbero quindi le sartorie e la moda, che in molti casi divenne ancheveicolo di propaganda. Secondo Nicola Pende:

Il campo del governo delle case e quello della beneficenza ed assistenza civile. Ecco le duenobilissime ed utilissime sfere di lavoro in cui signore e signorine delle classi agiata dovreb-bero far consistere la loro giornata lavorativa, dopo una opportuna preparazione culturale epratica che è più difficile a farsi di quanto creda.99

Sovente, però le donne di quelle classi sociali si affidavano al lavoro di altre donneper il «governo della casa». Chi andava presso le famiglie a lavorare erano giovani senon giovanissime ragazze che lasciavano la campagna per andare in città per accudirei bambini o per svolgere i lavori domestici.

Lì da noi chi andava via, andava a fare la domestica, perchè non c’era mica altro. Quindi lamaggioranza di noi, anche le mie due sorelle più grandi tutte siamo andate a servizio, a farela domestica, non mi vergogno mica a dirlo perchè, lo so che è un lavoro, neanche umiliante,perchè si facevano i lavori in casa oppure si guardavano i bambini, io, più che altro, guardavodei bambini, perchè io ero ancora tanto giovane io avevo dei bambini da guardare, da portarefuori, da andare a fare un po’ di spesa, perchè poi, dove ero io, c’era un’altra signora che veni-va la mattina a fare i lavori, abitava a Bologna, veniva a fare le pulizie, da mangiare, io eroaddetta solo al bambino e ad andare a fare un po’ di spesa che c’erano dei negozi lì vicino edel resto il mio lavoro era quello lì, quindi non è che uno possa venire su da capire certe cose,cioè da capire come si svolgeva la vita allora.100

Secondo i censimenti il numero delle domestiche aumentò dal 380.614 del 1921,quando gli uomini censiti come domestici erano 65.017, alle 585.000 del 1936,quando la disoccupazione era in aumento, nelle campagne e nelle fabbriche. Nellanostra Regione nel 1921 erano 27.682, contro 5053 uomini, e dieci anni dopo erano33.890 e 4687 gli uomini. Lo stipendio, concordato solitamente con il padre, varia-va dalle 30 alle 60 lire al mese. Per questa cifra non certo alta, per vitto e alloggiole ragazze che andavano a servizio lavoravano sette giorni su sette, dalla mattina allasera, spesso senza un contratto regolare tanto l’organizzazione Unione femminilenazionale si impegnò per la legalizzazione dei contratti di lavoro delle domesti-che.101 Anche se fu difficile dare una regolamentazione giuridica a questo particola-re tipo di lavoro.

Nel 1938 le donne che lavoravano nelle case di ebrei dovettero concludere, in segui-to alle leggi razziali, il loro lavoro e quindi le organizzazioni fasciste, come la Sold,vennero mobilitate per trovare loro un altro lavoro. Questo era, nella retorica razzistadel regime, descritto come un evento positivo visto che si erano «sottratte all’influen-za, all’insidia, al predominio dell’avida razza ebraica per crescere da italiane e da cri-stiane in una casa dove si pensa, si crede e si vive con animo italiano».102

99 N. PENDE, Bonifica umana razionale cit., p. 135.100 Intervista a Alfonsina Luccarini, raccolta da chi scrive, 1994.101 V. DE GRAZIA, Le donne cit., pp. 258-260.102 RACHELE FERRARI DEL LATTE, La difesa della razza, «Lavoro e famiglia», n. 1, dicembre

1938, p. 3.

Page 166: 70 - online.ibc.regione.emilia-romagna.itonline.ibc.regione.emilia-romagna.it/I/libri/pdf/ERBA_70.pdf · Le donne organizzate: fasci femminili e sezioni operaie e lavoranti a domicilio

Il fascismo e la seconda guerra mondiale 149

Nelle fabbriche

La donna italiana lavora quasi esclusivamente per bisogno. La donna italiana se può fare ameno del lavoro fuori di casa ne fa a meno, si accontenta della vita casalinga, della famiglio-la, della casetta anche povera, del pane anche scarso, purché sicuro.103

Così si poteva leggere nella prima pagina de «Il giornale della donna», organo delpartito nazionale fascista nel 1933, e tre anni prima sull’«Almanacco della donna ita-liana» era stato scritto che «molte donne devono contribuire a sostenere direttamente lafamiglia anche dopo aver preso marito». In effetti, nel 1931 sulla percentuale di donneimpiegate nell’industria (il 23,6 del totale), 18,2 % erano donne sposate.

La crisi economica degli anni Trenta aveva prodotto da un lato disoccupazione e,dall’altro, la necessità del lavoro sia per gli uomini che per le donne. La disoccupazio-ne e il disagio erano diffusi, tanto che nel 1932 il presidente della Congregazione dicarità bolognese rilevava come gli esercizi degli anni 1929-1930 avessero registratodisavanzi per la necessità di intensificare la beneficenza a fronte dei «grandi bisogniprovocati dal disagio economico delle classi povere della città».104

Le famiglie numerose, così auspicate dal regime, avevano difficoltà economiche, tantoche sovente si rivolgevano alla segreteria particolare del duce per avere un aiuto, organi-smo strumento della politica assistenziale legata strettamente alla creazione del consensoe alla costruzione del «mito di Mussolini».105 Alla segreteria si rivolse anche una operaibolognese del Pirotecnico nella seconda metà degli anni Trenta, rivolgendosi a Mussolini

Eccellenza, la sotto scritta madre di 12 figli trovandosi in condizioni disagiate avendo da 7mesi i 4 figli grandi disoccupati e anche quando lavorano col turno il guadagno non è suffi-ciente. I 5 bambini che vanno a scuola non glieli posso mandare perché sono tutti senza scar-pe. Mio marito pure lavora col turno. Io sono al Pirotecnico e guadagno 8 lire al giorno e sic-come lavoro mi anno tolto l’assistenza, a lire 100 sussidio al mese ma mi occorrerebbero alme-no 10 chili di pane al giorno per sfamare la mia famiglia e spesso sento piangere i miei bam-bini perché anno fame. Stato di Famiglia, C.A. fu Cesare, 1885; D.E. moglie fu Carlo, 1897;figli: Carlo, 1914, Cesarino, 1917; Amleto 1918; Clara, 1919; Anselmo, 1921; Elfa, 1922;Ugo, 1924; Raul, 1925; Eliseo, 1926; Romolo, 1928; Benito, 1933. Sono venuta a Roma spe-rando di poter parlare a Vostra Eccellenza ma siccome vedo che è impossibile spero che que-sta mia Le giungerà e già che so quanto Ella sia buono e giusto spero Vorrà interessarsi al miocaso pietoso. […] Nella speranza di essere esaudita perché so che nessuno si rivolge a VostraEccellenza inutilmente, porgo devoti ossequi e ringrazio di tutto cuore.106

Nella retorica del regime la disoccupazione era causata anche dalla presenza delledonne nelle fabbriche, tanto che lo stesso Benito Mussolini, nel 1934 scrisse sul «Popo-lo d’Italia»:

Il lavoro femminile è la seconda delle grandi spine del problema [della disoccupazione]. Ladonna operaia e lavoratrice in genere interseca oltre la disoccupazione anche la questione

103 «Il giornale della donna», 15 febbraio 1933-XI.104 Archivio storico comunale di Bologna, Eca, Verbali del comitato dei Patroni, seduta del 26 feb-

braio 1932. 105 Sulla segreteria particolare del duce si veda: TERESA MARIA MAZZATOSTA, CLAUDIO VOLPI, L’i-

talietta fascista, Bologna, Cappelli, 1980. 106 Lettera di E.C. alla segreteria particolare del fuce, Bologna, s.d., (1936), citata in H. DITTRICH-

JOHANSEN, Le «Militi dell’idea» cit., p. 174.

Page 167: 70 - online.ibc.regione.emilia-romagna.itonline.ibc.regione.emilia-romagna.it/I/libri/pdf/ERBA_70.pdf · Le donne organizzate: fasci femminili e sezioni operaie e lavoranti a domicilio

150 Dal regime fascista agli anni Sessanta

demografica. Il lavoro, ove non è diretto impedimento, distrae dalla generazione, fomentauna indipendenza e conseguenti mode fisiche e morali contrarie al parto. L’uomo, disorien-tato, e soprattutto disoccupato in tutti i sensi, finisce per rinunziare alla famiglia. Oggi comeoggi, macchina e donna sono due grandi cause di disoccupazione. Nel particolare, la donnasalva molto spesso una famiglia ammalata o addirittura se stessa, ma il suo lavoro è, nel qua-dro generale, fonte di amarezze politiche e morali. Il salvataggio di pochi individui è paga-to con il sangue di una moltitudine. Non vi è vittoria senza i suoi morti. L’esodo delle donnedal campo del lavoro avrebbe senza dubbio una ripercussione economica su molte famiglie,ma una legione di uomini solleverebbe la fronte umiliata e un numero centuplicato di fami-glie nuove entrerebbe di colpo nella vita nazionale. Bisogna convincersi che lo stesso lavo-ro che causa nella donna la perdita degli attributi generativi porta nell’uomo una fortissimavirilità fisica e morale.107

Pur ammettendo che escludere le donne dal lavoro avrebbe significato un ulteriorepeggioramento delle condizioni degli operai e delle famiglie, secondo Mussolini que-sto era l’unico modo per evitare umiliazioni agli uomini, che, disoccupati mentre vierano donne che lavoravano, si sarebbero sentititi sminuiti nella loro virilità.

Nonostante ciò non vennero applicate alle operaie le limitazioni che invece eranostate stabilite per i lavori impiegatizi e per le insegnanti, di cui si è detto. Le donne quin-di rimasero presenti nelle fabbriche e, in seguito alle leggi sulla maternità, sovente tor-navano al lavoro anche dopo la nascita dei figli. Questa loro presenza, a volte voluta peravere indipendenza in una abbozzata trasformazione sociale e personale, a volte soloper necessità, era ben presente alle organizzazioni fasciste che, pur cercando di limitar-ne la portata, non potevano non fare i conti con essa.

I saggi provvedimenti presi in questi ultimi tempi dal Governo Fascista per assicurare alleimpiegate e alle operaie le cure necessarie e la conservazione del posto durante il periodo incui i riguardi per il riposo sono necessari alla salute della madre e del bambino, mentre con-tribuiranno efficacemente all’incremento della nostra potenza demografica […] permetteran-no alle donne di contribuire, in modo sempre più considerevole, a coadiuvare ai bisogni dellafamiglia, ed accrescere la produzione e gli scambi, ed a migliorare quindi, seppur indiretta-mente, tutta quanta l’economia nazionale. Largo dunque alle donne!108

Complessivamente, dai censimenti possiamo rilevare come nel settore industria-le nel 1921 in Italia erano impiegati 1.273.391 donne e 4.081.204 uomini e in Emi-lia 84.081 donne per 267.934 uomini. Dieci anni dopo, gli impiegati nel settoreindustriale erano 1.252.404 donne e 4.057.270 a livello nazionale e 74.383 donnee 258.477 uomini in Regione. Le donne operaie erano il 27,6% del totale di cate-goria nel 1921 e dieci anni dopo la loro percentuale era del 23,6%. È forse interes-sante anche notare che la percentuale sul complesso della popolazione femminileimpiegata nell’industria era molto simile nei due censimenti: 7,9 nel 1921 e 7,5dieci anni dopo.109

Nel 1936 la forza lavoro femminile raggiunse il 28,4% aumentando rispetto al 1931,ma rimanendo inferiore al 1921. Si può quindi affermare che la politica di contenimen-to, e di allontanamento, delle donne dal lavoro in fabbrica ebbe un successo limitato: ledonne erano, e rimasero, occupate negli opifici, in particolar modo nelle

107 B. MUSSOLINI, Macchina e donna, «Il Popolo d’Italia», 31 agosto 1934.108 «Almanacco della donna italiana», 1930, p. 294.109 Dati pubblicati nel VII Censimento della popolazione, 1931, vol. IV, parte I, p. 127.

Page 168: 70 - online.ibc.regione.emilia-romagna.itonline.ibc.regione.emilia-romagna.it/I/libri/pdf/ERBA_70.pdf · Le donne organizzate: fasci femminili e sezioni operaie e lavoranti a domicilio

Il fascismo e la seconda guerra mondiale 151

industrie […] che richiedono minore fatica fisica e quelle alle quali l’elemento femminile sisente maggiormente inclinato, ossia le industrie tessili e quelle dell’abbigliamento propria-mente detto.110

Le donne erano principalmente nelle industrie tessili e dell’abbigliamento, quindi alterzo posto le industrie alimentari, poi le industrie chimiche, le industrie per la lavora-zione dei minerali, della carta, delle pelli, cuoi e simili, del legno, dei trasporti.111 InEmilia-Romagna erano funzionanti, in quel tempo, 27 filande, collocate soprattutto aForlì, Meldola, Modigliana, San Mauro, Santa Sofia. La filanda Majani a Forlì fra il1918 e il 1929 aveva dato lavoro a più di 500 operai, quasi esclusivamente donne. Larecessione mondiale del 1929, condusse Napoleone Majani al fallimento. La produzio-ne di seta viscosa si affermava in quegli anni e a Forlì, entrano in funzione alla fine del1926 gli impianti dell’azienda del Conte Paolo Orsi Mangelli. Le maestranze impiega-te nei primi 5 anni si aggirano intorno alle 1400-1500 unità e di queste la percentualefemminile era cospicua.

Il declino dell’industria della seta naturale rese disponibile mano d’opera femminile abile edesperta, retribuita tradizionalmente con salari bassissimi, per i reparti tessili della nuova fibra(torcitura, aspatura, binatura ecc.) in cui le mansioni erano pressoché identiche.112

In questo settore sulle 23.520 operaie impiegate, il 13% circa aveva meno di 15anni, il 28,5% si trovava nel gruppo di età compresa tra i 15 e i 18 anni, il 58% avevatra 18 e 65 anni; molto bassa era la percentuale delle donne anziane. La manodoperaoperaia femminile risultava, in media più giovane di quella maschile e più della metàdelle operaie erano nubili.113

Nel settore tessile vi erano le fabbriche che caratterizzarono il lavoro delle donnefino al secondo dopoguerra, fra questo il Calzificio Reggiano che negli anni Trenta,quando apparteneva alle manifatture Maglierie Milano, occupava 2300 operaie. Anchenelle fabbriche alimentari la presenza femminile era cospicua, così come nell’industriachimica. In questo settore molto attiva era la ditta Gazzoni di Bologna, che produceval’idrolitina, la pasticca del Re Sole, un antimalarico e un ricostituente, fra le altre cose.Interessante è a questo proposito un articolo, se così possiamo dire, celebrativo di que-sta industria bolognese comparso sulla rivista del Comune di Bologna, dove, pur ripor-tando due fotografie in cui chiaramente si vedono maestranze in prevalenza, se nonesclusivamente, costituite da donne, all’interno dello scritto non vengono mai nomina-te. Come se delle operaie fosse meglio non parlare, per non sollevare le contraddizioniesistenti fra il modello femminile proposto e propagandato e il lavoro femminile. Nellefabbriche chimiche vi erano in prevalenza operaie, come nella Hatù che venne fondataa Bologna nel 1922 da Franco Goldoni e che aveva i suoi stabilimenti a Casalecchio diReno dove venivano prodotti profilattici, tettarelle per biberon, succhiotti per bambini,guanti in gomma. Questo opificio fu acquisito dalla Maccaferri nella cui orbita, dal1927, entrò anche la fabbrica di siringhe e termometri Ico, che impiegava manodopera

110 «Almanacco della donna italiana», 1930, p. 295.111 Ivi, pp. 295-296.112 BRUNA BIANCHI, Lavoro e produzione della seta artificiale. Il caso della fabbrica di Padova (1925-

1933), in Annali 1980. Impresa e manodopera nell’industria tessile, Venezia, Marsilio, 1980, p. 127.113 Istituto Centrale di Statistica del Regno d’Italia, Censimento industriale e commerciale al 15

ottobre 1927, vol. VII, 1931.

Page 169: 70 - online.ibc.regione.emilia-romagna.itonline.ibc.regione.emilia-romagna.it/I/libri/pdf/ERBA_70.pdf · Le donne organizzate: fasci femminili e sezioni operaie e lavoranti a domicilio

152 Dal regime fascista agli anni Sessanta

femminile. Un’altra fabbrica che vedeva impiegate moltissime donne era la Giordaniche, nel 1928, sviluppò la produzione della carrozzina per bambini e negli anni 1930costruì le prime biciclette per bambini con stabilizzatori laterali. Allo scoppio dellaseconda Guerra Mondiale l’officina Giordani, allora in via Niccolò dell’Arca, davalavoro a più di 1300 persone. Nel secondo dopoguerra, nel 1961, lo stabilimento davalavoro a più di mille operai di cui l’80% donne.

Le donne erano poi molto presenti anche nelle manifatture tabacco di Modena e diBologna. In questa venne istituito un asilo aziendale, così come la legge prevedeva, edi ciò venne data notizia e grande rilievo sulla stampa cittadina.

Bologna, tra le due guerre, era stata teatro di importanti trasformazioni industriali: ilquadro delle produzioni si presentava abbastanza articolato con un comparto metalmec-canico emergente e il 27% di occupati su circa 80.000 addetti nel settore secondario.

I dati statistici confermavano anche una crescita occupazionale femminile (oltre il25% nel settore) e un diffuso tessuto di piccole imprese la cui dimensione media era dicirca cinque unità. Anche nel giornale cittadino, «Il Resto del Carlino» che nel 1936 ènella nuova sede fra le vie Dogali, Milazzo e Montebello dove riceve la visita di Mus-solini, sono occupate numerose donne.

Durante il fascismo si ebbe la collocazione delle lavoratrici in un sistema di quali-fiche separato e diverso da quello degli operai maschi; per le donne esistevano solo duecategorie e in genere, a parità di settore, il salario di un’operaia di qualifica più eleva-ta, era inferiore a quello del lavoratore maschio di qualifica più bassa. I salari delle ope-raie erano, in media, circa la metà di quello percepito dagli uomini. Nel 1925, ad esem-pio, a parità di mansioni, nell’industria automobilista il rapporto fra il salario femmini-le e quello maschile era il 53,37%; nelle industrie meccaniche del 54,67%; nell’indu-

Lavoratrici nella nuova sede de «Il Resto del Carlino» fra le vie Dogali, Milazzo e Montebello,24-25 ottobre 1936, Archivio storico dell’Università, Bologna

Page 170: 70 - online.ibc.regione.emilia-romagna.itonline.ibc.regione.emilia-romagna.it/I/libri/pdf/ERBA_70.pdf · Le donne organizzate: fasci femminili e sezioni operaie e lavoranti a domicilio

Il fascismo e la seconda guerra mondiale 153

stria della carta da imballaggio il 51,26% e in quella della carta paglia il 58,65%. Perquanto riguarda il comparto tessile al tradizionale basso livello delle retribuzioni rispet-to ad altri settori si accentuò durante questo periodo, in seguito alle riduzioni di stipen-dio volute dal regime, e quindi si aggravò sempre più la percentuale di scarto fra i sala-ri di operaie ed operai.114

Già nel 1924 gli stipendi delle donne che lavoravano in filanda non raggiungeva lesei lire al giorno, ovvero 35 lire la settimana di 48 ore e in alcuni reparti del setificio diFerrara le operaie non arrivavano a cinque lire al giorno.115 Tre anni dopo le paghe perle «filatrici provette» erano negli opifici forlivesi di 10,50 lire a Forlì, 9 a Medola e SanMauro, 9,30 a Santa Sofia e 8,60 a Modigliana. Le paghe giornaliere delle apprendisteerano la metà.116 Nel 1932 nella fabbrica di seta artificiale Orsi Mangelli, le tariffeerano inferiori: la paga minima giornaliera era di 4 lire e la massima di 6,40. Per gliuomini la paga massima giornaliera era di 23,6 lire e la minima 14,8.

Le condizioni erano quindi molto difficili e anche le associazioni cattoliche si occu-parono delle lavoratrici: ad esempio nel 1928 le donne cattoliche di Reggio cercaronodi mettere in pratica un programma di assistenza alle lavoratrici in cui si chiedeva, fral’altro, il rispetto del riposo festivo, orientamento professionale per le ragazze, assisten-za alle contadine e alle emigranti.117

Le condizioni igieniche e di lavoro erano in generale molto difficili tanto che nel1940, a Torino, un ispettore dell’assistenza mutualistica riportava con preoccupazionele condizioni di salute delle lavoratrici in età compresa fra i 14 e i 18 anni. Tutte sof-frivano di affaticamento cronico, la metà almeno era afflitta da vene varicose, scolio-si o altre deformità scheletriche ed altre patologie. Per tutte comunque lavorare eraimportante.

A causa di queste condizioni, dello stipendio basso, della riduzione delle giornatedi lavoro, nonostante la riorganizzazione del lavoro all’interno delle istituzioni corpo-rative, la centralizzazione delle trattative sindacali e il conseguente divieto di sciopero,sancito dalla legge del 3 aprile 1926,118 le donne dimostrarono il loro scontento ancheattraverso questa forma di dissenso: nel 1927 le astucciaie di Bologna, le operaie delloIutificio di Ravenna, tre anni dopo a Piacenza le bottonaie e sempre contro le riduzio-ni di salario le tessitrici di Modigliana e le operaie della manifattura tabacchi di Mode-na. Le filandaie di Spilamberto scioperarono invece contro le multe applicate dalla diri-genza delle fabbrica.

Negli anni Trenta nelle file dell’antifascismo clandestino si andava elaborando lanecessità che in Italia venissero effettuati scioperi, rivendicazioni economiche, anchedall’interno dei sindacati fascisti.119

114 INES PISONI CERLESI, La parità di salario in Italia: lotte e conquiste delle lavoratrici dal 1861a oggi, Roma, Editrice Lavoro, 1959, p. 86.

115 «L’Unità», 30 luglio 1924.116 «Il popolo di Romagna», 31 luglio 1937, citato in I. VACARI, La donna nel ventennio fascista

cit., p. 135.117 I. VACCARI, La donna nel ventennio fascista cit., p. 149.118 L’articolo 18 del capo terzo della legge prevedeva esplicitamente che gli impiegati e gli operai,

che « in numero di tre o più previo concerto, abbandonano il lavoro, o lo prestano in modo da turbarela continuità o la regolarità, per ottenere diversi patti di lavoro dai loro principali, sono puniti con lamulta da lire cento a mille», ALBERTO AQUARONE, L’organizzazione dello Stato totalitario, cit., 2003,p. 450.

119 TERESA NOCE, In prima fila le lavoratrici per il pane e il lavoro!, s.l., Edizioni del P.C. d’I., Pic-cola biblioteca proletaria, n. 4, 1931, p. 20.

Page 171: 70 - online.ibc.regione.emilia-romagna.itonline.ibc.regione.emilia-romagna.it/I/libri/pdf/ERBA_70.pdf · Le donne organizzate: fasci femminili e sezioni operaie e lavoranti a domicilio

154 Dal regime fascista agli anni Sessanta

Nel 1930 le operaie del bottonificio piacentino si videro diminuire le ore di lavoroe lo stipendio del 10-20%; questo innescò una serie di proteste ed anche uno scioperobianco, le protagoniste dei quali furono quasi esclusivamente le donne. Il prefetto anno-tava che le donne, entrate normalmente negli stabilimenti, restavano inoperose. Il 26marzo, quattro giorni dopo l’inizio della protesta, la fabbrica venne sgomberata conl’intervento della polizia e le operaie furono sostituite da altre appositamente reclutate.Lo stesso Arpinati, secondo i documenti ritrovati in archivio di Stato, intervenne con untelegramma in cui autorizzava la serrata, il licenziamento delle scioperanti e l’assunzio-ne di altra manodopera.120

Nello stesso anno scioperarono le operaie della filanda di Spilamberto, astenendo-si in novembre dal lavoro e manifestando lungo le vie del paese, per protestare controil padrone della fabbrica che chiedeva lavoro straordinario senza compenso, che com-minava molte multe e che, cosa mai successa prima secondo le testimonianze, impedi-va alle donne di cantare durante il lavoro, come solevano fare per alleviare la fatica.121

Il 28 febbraio 1938, le orlatrici di tomaie di Modena manifestarono il loro malcon-tento e per questo denunciate all’autorità giudiziaria «per il delitto di cui al 2° capover-so dell’art. 502 del codice penale».122

Lavorare in campagna

Come già accennato, il regime fascista si impegnò, soprattutto a livello propagandi-stico, in una campagna di ruralizzazione. Vennero messi in atto provvedimenti, leggi,messaggi pubblici che, dal 1927, coinvolsero la popolazione con l’intento di ricompor-re l’economia rurale, le istituzioni sociali, le relazioni famigliari e lavorative. Il viverein campagna veniva presentato come il modo migliore di vivere: la campagna, prospe-ra e serena, contro la città, dove vi era sterilità e disoccupazione.

Nonostante ciò, a causa delle disagiate condizioni economiche, molte persone deci-devano di spostarsi dalle campagne verso le città e per questo vennero varati provvedi-menti che obbligavano i disoccupati a ritornare verso i luoghi di residenza originari.

Al tempo stesso fu incoraggiato lo spostamento delle famiglie verso le zone agrico-le da poco bonificate. Da Ravenna partirono 500 uomini e 50 donne per andare a boni-ficare le paludi di Ostia, nel 1933 erano emigrate da Ferrara verso l’Agro Pontino 76famiglie, 162 nel 1934.123 Dopo il 1938 a questa emigrazione si aggiunse quella versola Germania, che riguardò, fino al 1943, 50.000 lavoratori, fra cui anche molte donne:dall’Emilia-Romagna ne partirono 2404, più del 42% di tutte le emigrate. Modena eraal secondo posto fra le città da cui vennero effettuate le partenze.124

La donna era una figura chiave della struttura economica contadina: non solo inquanto la reggitrice della casa, ma anche perché prestatrice d’opera. Braccianti, coadiu-vanti, massaie, ma al contempo domestiche, addette agli animali da cortile. Le soleincombenze casalinghe continuavano ad essere estremamente impegnative: il bucato,

120 Documenti citati in I. VACCARI, La donna nel ventennio fascista cit., p. 166.121 Testimonianza di Maria Bartolotti, citata in I. VACCARI, La donna nel ventennio fascista cit., pp.

168-169.122 I. VACCARI, La donna nel ventennio fascista cit., p. 172.123 Ivi, p. 140.124 MAURA PALAZZI, Donne delle campagne e delle città lavoro ed emancipazione, in L’Emilia-

Romagna, a cura di Roberto Finzi, Torino, Einaudi, 1997, pp. 406-407.

Page 172: 70 - online.ibc.regione.emilia-romagna.itonline.ibc.regione.emilia-romagna.it/I/libri/pdf/ERBA_70.pdf · Le donne organizzate: fasci femminili e sezioni operaie e lavoranti a domicilio

Il fascismo e la seconda guerra mondiale 155

fatto con la cenere, richiedeva molti giorni di lavoro e di fatica, visto il peso che rag-giungeva la biancheria di canapa una volta bagnata, le bocche da sfamare erano moltee il preparare pranzo e cena era estremamente impegnativo, solo per fare pochi esem-pi. Le donne si occupavano della cura dell’orto e degli animali da cortile e parte delrisultato di questo lavoro andava, ancora durante il fascismo, a costituire le regaliedovute al padrone del terreno su cui la famiglia viveva e lavorava.

La presenza femminile in agricoltura diminuì durante il regime fascista: nel censi-mento nel 1921, con un dato non dissimile da quelli del 1911, il 30,6% degli occupatiin agricoltura erano donne, mentre nel 1931 la percentuale era del 19%. In Emilia nel1921 lavoravano nel settore primario 306.327 donne e 610.452 uomini, dieci anni dopoerano 207.778 e 634.390 uomini. A livello nazionale nel 1921 le donne erano 3.117.222e gli uomini 7.146.884, nel 1931erano rispettivamente 1.534.482 e 6.544.683.

In agricoltura negli anni Trenta vigeva il così detto coefficiente Serpieri secondo cuil’unità lavorativa femminile valeva il 60% di quella maschile. Nel 1930 la paga orariaper un bracciante era in media di 1,70, mente una donna guadagnava 1,15 lire ed unragazzo 0,90 centesimi. Due anni dopo gli uomini avevano una paga di 1,55 lire, ledonne 1,10 e i ragazzi 0,90 centesimi.

In quegli anni anche l’agricoltura fu interessata dalla disoccupazione e le percentua-li mostrano come le donne braccianti fossero fra le maggiormente colpite e, anche perquesto, furono protagoniste di scioperi, così come era accaduto per le operaie. Lerichieste riguardavano la necessità di avere un lavoro e una retribuzione adeguata. Adesempio, il 17 aprile 1930 a Villa Argine Reggio Emilia, furono arrestate 12 ragazzeperché accusate di aver cantato la strofa «Quando bandiera rossa si cantava, 30 lire algiorno si pigliava, ora che si canta Giovinezza, si va a letto con la debolezza».125

Nello stesso anno a Medicina e a San Biagio di Argenta vi furono altri scioperi edoccupazioni di terreni in maggioranza condotte da donne. Nell’agosto del 1932, per piùdi due giorni, duecentocinquanta mondine romagnole non si presentarono nei campi.126

Fra le lavoratrici agricole, la figura più idealizzata, più stereotipata e più presente nelsistema produttivo agricolo era la mondina della Val Padana e del delta del Po. La cam-pagna del riso durava otto settimane e la mondina era una figura che difficilmente pote-va essere integrata nell’immagine femminile che il regime voleva propagandare: ragazzee donne che lavoravano nell’acqua melmosa fino alle ginocchia, con le gambe nude, chein molti casi vivevano lontane da casa e che, a causa delle fatiche, dell’ambiente malsa-no avevano il più alto tasso di aborti spontanei di qualsiasi altro gruppo. La propagandadipingeva queste donne, esposte alle condizioni a cui si è fatto cenno, come giovani spen-sierate che vivevano allegramente il loro lavoro. Ad esempio, nel 1925 sul settimanalededicato alle mondine si poteva leggere una strofa di un canto composto sul tema di Gio-vinezza che recitava «Quando il sole la risaia/tutta infuoca di calor/la mondina fresca egaia/canta i canti dell’amor».127 A cui pare fare da controcanto un’altra strofa, tratta dalrepertorio tradizionale delle cante delle mondariso: «non badare se son smortina/È larisaia che mi rovina/Quando poi sarò a casa mia/I miei colori ritorneran/Non badare se iocanto/La passione l’ho di dentro/Il mio cuore non è contento».

125 LUISA STEFANI, La donna nella Resistenza reggiana, «Ricerche storiche», a. IX, n. 2, luglio1975, pp. 15-16.

126 MIRCA MODONI, Le donne nelle campagne, in Donne bolognesi nella Resistenza, Bologna, Tip.Moderna, 1975.

127 «La mondina. Settimanale della Federazione provinciale pavese della Corporazioni sindacalifasciste», giugno 1925, citato in V. DE GRAZIA, Le donne cit., p. 253.

Page 173: 70 - online.ibc.regione.emilia-romagna.itonline.ibc.regione.emilia-romagna.it/I/libri/pdf/ERBA_70.pdf · Le donne organizzate: fasci femminili e sezioni operaie e lavoranti a domicilio

156 Dal regime fascista agli anni Sessanta

Il lavoro della monda occupava nelle risaie emiliano-romagnole un buon numero dimondine locali, mentre altre donne dovevano recarsi in Lombardia e in Piemonte, affron-tando viaggi e soggiorni estremamente disagiati. Le retribuzioni giornaliere per le cosìd-dette mondine forestiere diminuirono alla fine degli anni Venti passando dalle 21,80 liredel 1926 alle 17,65 nel 1929 e alle 10,64 nel 1931. Solamente agli inizi degli anni Trenta– pare su suggerimento di Angiola Moretti – Augusto Turati fondò la Pro-assistenza mon-dariso, che coordinava le iniziative assistenziali private delle donne lombarde coi servizisindacali e di partito: in quella primavera del 1930, le mondine che si dovevano allontana-re da casa per recarsi sulle risaie furono accolte con servizi di ristoro lungo la strada.128

Gli anni 1930 e 1931 furono caratterizzati da lunghi scioperi, provocati proprio daquesta progressiva diminuzione del salario.129

Nel 1931 vennero organizzati scioperi che coinvolsero più di duemila lavoratrici aMedicina,130 250 mondine nel faentino in agosto si ribellarono e si rifiutarono di lavo-rare oltre l’orario, furono organizzati degli scioperi anche in Piemonte dove si recava-no moltissime donne emiliano-romagnole per richiedere aumenti di stipendio, brandecon le quali sostituire la paglia su cui le donne erano costrette a dormire durante i 40giorni della monda. Le mondine chiedevano, poi, di avere il latte la mattina, la carnealmeno la domenica e la pasta che potesse, di tanto in tanto, sostituire il riso. Nel 1931nel Novarese e nel Vercellese venne fatto uno sciopero di tre giorni che coinvolse lemondine emiliane e venete.131

Veniva stampato un foglio clandestino, «La Risaia» in cui si cercava di coinvolgeretutte le mondine nelle rivendicazioni.

Numerosi furono, infine, i provvedimenti che il regime fascista prese in queglianni verso le mondine, anche grazie alle proteste e agli scioperi. Nel 1933 fu conces-sa la riduzione del 75% del prezzo del viaggio per le mondine che dovevano spostar-si verso le risaie fuori dalla regione, nel 1935 venne stabilito che le mondine doves-sero avere a disposizione una branda per la notte. Nel 1936 le spese per il viaggiofurono addebitate ai proprietari e i trasporti venivano ora effettuati con vagoni pas-seggeri e non più su carri bestiame; nel 1937 furono pagate in più le ore straordina-rie e le ore festive e il vitto migliorò.132 Per tenere più sotto controllo questa catego-ria di lavoratrici e per evitare gli scioperi e lo svilupparsi al loro interno di forme diavversione al regime, oltre ai provvedimenti di cui si è detto, vennero messe in attoazioni di propaganda. Per ciò lo stesso Starace cominciò a recarsi nelle zone dallarisaia, nel vercellese, in Lomellina e nella bassa padana, portando «i saluti di Musso-lini» e somme da destinare all’assistenza. Ugualmente fecero i dirigenti locali e ledonne delle organizzazioni fasciste.

Sul piano giuridico, bisognò invece aspettare fino alla fine degli anni Trenta, pervedere qualche disposizione riguardante le mondine e tutte le lavoratrici agricole:con il decreto legge del 7 agosto 1936 si estesero i diritti di maternità alle lavoratri-

128 I. VACCARI, La donna nel ventennio fascista cit., p. 131.129 CAMILLA RAVERA, La donna italiana dal primo al secondo Risorgimento, Roma, Edizioni di

Cultura sociale, 1951, pp. 127-129.130 M. MODONI, Le donne nelle campagne cit., 1975, pp. 15-16.131 DIANELLA GAGLIANI, Forme di protesta soggettività bracciantile in Emilia Romagna 1929-1939,

in Geografia e forme del dissenso sociali in Italia durante il fascismo (1928-1934), a cura di Marinel-la Chiodo, 1990, p. 264.

132 LUIGI ARBIZZANI, Le lavoratrici delle campagne durante il fascismo e la Resistenza nella VallePadana, «Annali Cervi», 13, Bologna, il Mulino,1991, pp. 228-231.

Page 174: 70 - online.ibc.regione.emilia-romagna.itonline.ibc.regione.emilia-romagna.it/I/libri/pdf/ERBA_70.pdf · Le donne organizzate: fasci femminili e sezioni operaie e lavoranti a domicilio

Il fascismo e la seconda guerra mondiale 157

ci agricole e il 28 aprile 1938 le autorità sanitarie proibirono il lavoro in stato avan-zato di gravidanza.

Le donne della campagna, così come accadeva in città, affiancavano il lavoro fuoricasa – della monda del riso, della raccolta della frutta e di tutti gli altri lavori caratteri-stici dell’economia agricola come la lavorazione della canapa – a quello svolto in casa,sovente senza nessuna regolamentazione. Il lavoro a domicilio era quindi, e lo fu anchein momenti successivi, un lavoro caratteristicamente femminile. Ancora una volta ilfascismo vedeva in questo un lavoro adatto alle donne, perché fatto in casa, all’internodella famiglia, come un ausilio al guadagno del padre o del marito, senza quindi «sot-trarre» posti di lavoro agli uomini con il vantaggio «morale» di evitare i contatti pro-miscui.133

La prima definizione legislativa del lavoro a domicilio avvenne nel 1924, ma, affer-ma Maria Vittoria Ballestrero, la legislazione fascista, in realtà, non proteggeva le lavo-ranti a domicilio, lasciando che questa occupazione continuasse a rappresentare unaforma di super sfruttamento: il salario era molto basso, legato al cottimo. Molto spes-so era lavoro, diremmo oggi, «in nero» visto che si evadevano i pur modesti obblighiprevidenziali.134

Il lavoro a domicilio poteva essere di cucito, ricamo e tessitura, oppure poteva esse-re legato alla lavorazione dei prodotti agricoli, come la paglia o i trucioli.

133 PAOLO GRECO, Il lavoro a domicilio nell’ordinamento corporativo, «Il diritto del lavoro», 1928,I, p. 298.

134 MARIA VITTORIA BALLESTRERO, Dalla tutela alla parità: la legislazione italiana sul lavoro delledonne, Bologna, il Mulino, 1979, p. 81.

Il segretario federale Franz Pagliani accompagnato dal segretario dell’unione fascistalavoratori dell’agricoltura, passa in rassegna alle mondine occupate nelle risaie delcarpigiano, 1941 ca., fondo Bandieri, Fotomuseo Giuseppe Panini, Modena

Page 175: 70 - online.ibc.regione.emilia-romagna.itonline.ibc.regione.emilia-romagna.it/I/libri/pdf/ERBA_70.pdf · Le donne organizzate: fasci femminili e sezioni operaie e lavoranti a domicilio

158 Dal regime fascista agli anni Sessanta

Altri mestieri

Negli anni Trenta più di un quarto della forza lavoro in Italia era rappresentata dalledonne e una donna su quattro fra i 14 e i 65 anni risultava attiva, fra queste, in città,molte erano impiegate nel piccolo commercio, soprattutto nel settore alimentare, dellaristorazione, della merceria. Non disponiamo di studi particolareggiati su questo tema,ma a titolo di esempio si può ricordare come le donne fossero titolari, fra il 1926 e il1939, del 27,9% degli esercizi commerciali.135 In Emilia nel 1921 il censimento regi-strava 16.644 donne e 63.384 uomini impiegati in questo campo. Nell’ambito dellaristorazione venne emanato un decreto grazie al quale il prefetto poteva impedire alledonne l’accesso alla somministrazione di bevande alcoliche negli esercizi pubblici«anche se trattisi di esercizi nei quali la vendita al minuto o il consumo delle bevandealcoliche non costituisca prestazione unica od essenziale dell’esercizio». Il divieto, chenon si applicava alla moglie del titolare, era emanato in nome della moralità e dell’or-dine pubblico.136

Appartenevano alla categoria del commercio anche le titolari di laboratori di modi-steria, sartoria e ricamo.

Le donne erano presenti, fin dalla prima guerra mondiale, in uffici pubblici e priva-ti, e il fascismo cercò di mantenerle in una posizione subordinata attraverso normeinterne di sbarramento alla carriera: ricordiamo ad esempio il decreto ministeriale 29febbraio 1928 che fissava nel grado di ragioniere del gruppo B il livello massimo con-seguibile dal personale femminile nell’amministrazione dei Monopoli di Stato.

Le segretarie, soprattutto quelle del settore pubblico, sovente erano accompagnateda ironia, fin da quando, nell’immediato dopoguerra, erano considerate delle ineffi-cienti «usurpatrici» di posti di lavoro.

Il perfetto vade-mecum della signorina impiegata è quella di assentarsi saltuariamente, di tantoin tanto, per alcuni giorni nessuno dei quali, beninteso, cade di domenica; e durante le ore diufficio le operose attendono alla fabbricazione di fiori, e quelle a tendenza sentimentale a let-tura intensiva dei romanzi di Guido da Verona od altri simili, con gite collettive per i corridoi,a chiacchierare con speciale considerazione per i fattacci del giorno.137

La terziarizzazione degli anni Trenta che, seppur non particolarmente incisiva, portòad un aumento dell’occupazione femminile in questo settore, a fronte di una diminu-zione di quella industriale, produsse qualche significativa concentrazione di impiegatesoprattutto nelle grandi città e gli anni Trenta furono importanti per le donne negliimpieghi privati, regolati dalla nuova legge sul contratto di impiego del 1924, che inci-se su un quadro normativo che sino ad allora era stato vago e indeterminato.138

Furono loro, le giovani o meno giovani segretarie d’azienda, le dattilografe, le ela-boratrici di dati ai primi apparati di schedatura meccanica, le destinatarie e, al tempo

135 M. PALAZZI, Donne delle campagne e delle città: lavoro ed emancipazione cit., p. 401.136 Articolo 188 del regio decreto del 6 maggio 1940, n. 635 e prima ancora, articolo 101, comma

3, del regio decreto 18 giugno 1931, n. 773.137Atti Parlamentari Camera dei deputati, Leg. XXV, prima sessione, seduta del 25 febbraio 1921,

p. 8144. Su questi temi si veda PATRIZIA FERRARA, Le donne negli uffici (1863-2002), in Impiegati, acura di Guido Melis, Torino, Rosenberg & Sellier, 2004, pp. 125-162.

138 MARCO SORESINA, Mezzemaniche e signorine. Gli impiegati privati a Milano (1880-1939),Milano, Franco Angeli, 1992.

Page 176: 70 - online.ibc.regione.emilia-romagna.itonline.ibc.regione.emilia-romagna.it/I/libri/pdf/ERBA_70.pdf · Le donne organizzate: fasci femminili e sezioni operaie e lavoranti a domicilio

stesso le protagoniste, di romanzi e di film delcosì detto cinema dei telefoni bianchi, un gene-re d’evasione costituito da melodrammi roman-tici e commedie sofisticate di ambiente generi-camente alto borghese, fra questi «Segretariaprivata» di Goffredo Alessandrini. Una pellico-la del 1931 dove la protagonista, una dattilogra-fa di provincia, trova, con l’aiuto di un usciere,impiego in una banca di Roma ed è presa dimira dalle avances di un pedante capo del per-sonale, mentre si innamora del direttore dellabanca: inevitabile il finale coronamento delsogno d’amore. Questo è forse uno dei primifilm italiani sulla donna lavoratrice e uno deiprimi a parlare di «molestie sessuali» sul lavo-ro. Dello stesso tema trattava, una decina dianni dopo, il romanzo di Luciana Peverelli,Sogni in grembiule nero dove Titti, una maturasegretaria mette in guardia una giovane collegasulla possibile richiesta di favori sessuali incambio di lavoro.

Le donne impiegate nelle amministrazioni,pubblica e privata, erano il 14,5% della cate-goria, nel 1921 e nel 1931, essendo aumenta-te notevolmente rispetto al 1911 quando eranoil 4,8%. Sul complesso della popolazionefemminile erano nel 1921 e nel 1931 lo 0,3%.In Emilia gli impiegati uomini, nel pubblico enel privato, erano 47.891 e 4066 le donne.Dieci anni dopo gli impiegati pubblici maschierano 22.677, 1233 i privati, e le donne impie-gate nel settore pubblico erano 3254 a frontedi 675 che lavoravano presso privati. Esclu-dendo gli insegnanti e i militari. Nel comunedi Bologna alla fine di gennaio 1937 su 2031impiegati 429 erano donne, di cui 166 assuntein pianta stabile e 263 erano avventizie. Eranosoprattutto bidelle, 187; 98 le insegnanti delleistituzioni integrative della scuola; 51 le mae-stre; 52 le vere e proprie impiegate, per lamaggior parte nei gradini più bassi dell’am-ministrazione.139

Difficile era per le donne pensare di poterfar carriera, ostacolate dalla mentalità comunee dalle leggi, come detto. Si scriveva su volu-mi e su giornali di come fosse innaturale per

Il fascismo e la seconda guerra mondiale 159

139 Bologna in cifre, «Bollettino del Comune di Bologna», n. 1, 1937, p. 34.

Le telefoniste, vignetta «L’almanaccodella donna italiana», 1925, BibliotecaItaliana delle Donne, Bologna

LUCIANA PEVERELLI, Sogni in grembiulenero, «Mani di Fata», 1940, Collezioneprivata

Page 177: 70 - online.ibc.regione.emilia-romagna.itonline.ibc.regione.emilia-romagna.it/I/libri/pdf/ERBA_70.pdf · Le donne organizzate: fasci femminili e sezioni operaie e lavoranti a domicilio

160 Dal regime fascista agli anni Sessanta

la donna cercare di migliorare la propria posizione lavorativa. Gina Lombroso,medico e figlia di Cesare Lombroso, affermava che fare carriera era innaturale perla donna visto che l’indipendenza, economica e non solo, lasciava «inappagata lasete d’affetto (sete in lei naturale) – ed eccita l’insoddisfacente senso di ambizione(in lei non naturale) fa la donna moderna smoderatamente ambiziosa, assai più del-l’uomo».140

Era d’altra parte ritenuto non così femminile studiare, laurearsi e poi pensare dipoter impiegarsi in professioni legate ai propri studi. Leggiamo ancora le parole diGina Lombroso

La donna antica non poteva studiare, ma non doveva neppure subire la sequela di esami che netormenta oggi l’adolescenza. La donna antica non poteva spirare alla gloria, all’indipendenzama il suo cervello non era mai sotto pressione, ma la carica a lei affidata corrispondeva ai suoiistinti. Una donna medico, avvocato, sarà inferiore nel cucinare e nel rattoppare alla giovanesposa incolta dedicatasi unicamente fin dall’infanzia a queste occupazioni.141

L’istruzione universitaria, sicuramente elitaria, era negli anni Venti e Trenta ancoraprevalentemente a presenza maschile: nel 1921 era iscritto all’università italiana lo0,5% delle ragazze fra i 20 e i 24 anni, contro il 2,5% dei maschi di pari età. Le pochedonne che frequentavano le aule universitarie lo facevano soprattutto nelle facoltà uma-nistiche, il 47,4% e il 69,8% delle iscritte nel 1925 e nel 1936; mentre le facoltà tecni-co-scientifiche registravano la presenza del 38,7%, nel 1925, e il 22,35 nel 1936.

L’ambito umanistico più frequentato dalle donne era quello letterario, 39,8% e 62,6%.Le docenti erano pochissime e nel 1939 su 416 docenti delle quattro Università

della nostra Regione le donne erano 9.Le donne laureate e diplomate avevano fondato nel 1920 la Fildis, Federazione ita-

liana laureate diplomate istituti superiori, che, fino al suo scioglimento nel 1935, preseposizione contro le limitazioni poste all’impiego delle donne nella scuola, e nel 1929inviò «al Ministero dell’Educazione Nazionale un’istanza tendente ad ottenere il ripri-stino dei diritti delle professoresse ad insegnare nelle scuole secondarie superiori edun’altra al Capo del Governo con la richiesta di abrogare le limitazioni esistenti per ladonna nella carriera amministrativa».142

Il giornalismo fu la professione intellettuale in maggior espansione negli anni tra ledue guerre, in quanto sopravviveva una concezione letteraria del mestiere ed appariva,quindi, più adatto alle donne, anche se non erano certamente rare le critiche verso ledonne scrittrici e giornaliste, anche su giornali locali, in cui forte era la preoccupazio-ne per le sorti del «ragù e delle calze»:

non si capisce perché mai tanta letteratura femminile sul mercato librario. Spuntan donne let-terate, filosofe, sociologhe d’ogni parte. Son cose che non si spiegano o se mai potrebberospiegarsi seguendo gli indici demografici e il numero dei matrimoni malandati. Il campo let-terario non è stato mai messo tanto a rumore come in questi tempi da facinorose donne con lavelleità violenta della carta stampata. Siamo sotto l’incubo d’una letteratura femminile a basedi donne clorotiche, di Bovary in ritardo, di incomprese, di allucinate. Questi gli argomenti che

140 GINA LOMBROSO, La donna nella vita riflessioni e deduzioni, Bologna, Zanichelli, 1923, pp. 16-20.141 Ibidem.142 FIORENZA TARICONE, La FILDIS e l’associazionismo femminile, in La corporazione delle donne

ricerche e studi sui modelli femminili nel ventennio fascista, a cura di Marina Addis Saba, Firenze, Val-lecchi, 1988, pp. 155-156 e 165.

Page 178: 70 - online.ibc.regione.emilia-romagna.itonline.ibc.regione.emilia-romagna.it/I/libri/pdf/ERBA_70.pdf · Le donne organizzate: fasci femminili e sezioni operaie e lavoranti a domicilio

Il fascismo e la seconda guerra mondiale 161

si succedono con una monotonia esasperante e con la complicità dolosa di critici ed editorisciocchi. Povere calze nostre, povero ragù, povero bucato.143

Fra le professioni – quella in cui più presenti erano le donne – erano quelle legate allasanità, come si è visto. In quest’ambito le donne medico e dentiste erano molto poche: nelcensimento del 1921 gli uomini medici erano 28.714, le donne 613. I dentisti 1497, ledonne che facevano questa professione 244. In Emilia-Romagna 2012 i medici; 133 ledonne medico; 78 i dentisti; 3 le dentiste. Dieci anni dopo, nel Regno d’Italia i medicierano 32155; 795 le donne che esercitavano questa professione; 861 i dentisti e 30 le den-tiste. In Emilia 2302 i medici e 54 le dottoresse; 26 dentisti e nessuna donna.

Nell’ambito della eccezionalità donne come Maria Bortolotti, ingegnere e direttri-ce di cantiere o le donne architetto. Alcune fasciste protestarono poi perchè le donneerano scarsissimamente rappresentate nel Consiglio superiore delle corporazioni; unicaeccezione la già citata Vittoria Maria Luzzi della Corporazione delle ostetriche. Il mini-stro per le Corporazioni, Giuseppe Bottai, nel 1931 nominò come prima delle tre con-sigliere donne Adele Pertici Pontecorvo, esperta di diritto del lavoro e fautrice dei dirit-ti delle donne, che in Italia era stata la prima donna notaio.

I littoriali del lavoro femminile

Dal 1934 vennero organizzati i littoriali, ovvero gare universitarie di cultura e disport che coinvolgevano solo gli studenti maschi: nel 1939 i littoriali si aprirono alledonne e in quello stesso anno furono organizzati anche i littoriali del lavoro.

La partecipazione femminile era rigorosamente separata da quella maschile, così comeera giudicato conveniente per tutti i momenti educativi e ricreativi, per evitare la «promi-scuità».144 Nel caso dei littoriali della cultura, verrebbe da dire che la separazione delle garepoteva essere messa in atto per non porre in diretta competizione rappresentati di studentie di studentesse; in effetti, le opere femminili, nell’edizione di Trieste– dove per la primavolta le donne erano presenti – vennero esposte separatamente in un apposito salone.

E di là si entra nel regno della donna, dove, con ogni avvenimento che non ci dispiace, si sonocollocate anche le pitture e le sculture di tante giovani italiane. Certamente talune di questeopere, per la bravura, meriterebbero di essere considerate maschie, e di andarsene, temibiliesuli, nelle altre sale; ma infine sono di donne.145

Opere talmente belle da essere definite «maschie».I littoriali femminili della cultura si occupavano di temi «da donne», ovvero «adat-

ti alle attitudini naturali della donna. Si parlerà dei compiti della donna nella scuola,nelle colonie, per il prestigio della razza nell’economia rurale; della maternità in arte;di problemi di moda».146

143 «Il popolo di Romagna», 16 gennaio 1932, p. 3, citato in I. VACCARI, La donna nel ventenniofascista cit., p. 117.

144 PIETRO CAPORILLI, L’educazione giovanile nello stato fascista, Roma, Sapientia, 1930, passim.145 Alla mostra dei Littoriali, «Il piccolo», 28 marzo 1939, citato in Cultura a passo romano storia

e strategie dei Littoriali della cultura e dell’arte, a cura di Ugoberto Alfassio Grimaldi, Marina AddisSaba, Milano, Feltrinelli, 1983, p. 149.

146 Cultura a passo romano cit., p. 156.

Page 179: 70 - online.ibc.regione.emilia-romagna.itonline.ibc.regione.emilia-romagna.it/I/libri/pdf/ERBA_70.pdf · Le donne organizzate: fasci femminili e sezioni operaie e lavoranti a domicilio

162 Dal regime fascista agli anni Sessanta

Nel 1939 fu deciso di affiancare ai littoriali della cultura e dello sport quelli dellavoro, maschili e femminili, sempre organizzati dagli universitari. Le concorrenti sisarebbero dovute affrontare in una

prova generale di cultura fascista, ed una prova tecnica riservata ai vari settori produttivi e cioè:agricoltura (per mondine, raccoglitrici di olive, massaie rurali che si dedicano all’allevamentodel baco da seta o all’allevamento di animali da cortile), industriali (riservato alle lavoratricidell’industria dolciaria, alle lavoranti sarte, alle lavoranti ceramiste), commercio (per le steno-grafe, dattilografe, lavoratrici ortofrutticole), artigianato (per merlettaie, ricamatrici in oro,camiciaie).147

Questi primi littoriali si sarebbero tenuti a Catania, quelli maschili, e a Venezia,quelli femminili.

Nel 1941, quando i littoriali si tennero a Pisa, vennero introdotti concorsi riguardan-ti la preparazione della donna alla vita domestica, ovvero «gare per la preparazionedella donna alla vita famigliare. La casa operaia e la casa rurale». Le gare di selezionecomunale si tennero fra il 1º e il 15 gennaio 1941, il mese successivo i pre-littoriali e ilittoriali si sarebbero svolti dal 3 al 12 marzo.148

I pre-littoriali femminili, così come quelli maschili, si svolsero in ogni Comune capo-luogo di provincia con la partecipazione complessiva di 17.018 donne, 5402 in più rispet-to all’anno precedente, almeno a seconda di quanto si legge sulle pubblicazioni ufficiali.

A Ferrara si presentarono 296 concorrenti, a Forlì 37, a Parma 92, a Piacenza 93, aReggio Emilia 22, a Ravenna 51. Infine Bologna vide la partecipazione ai pre-littoria-li di 529 lavoratrici.

Durante le gare di selezione le concorrenti dovevano affrontare una prova orale di«cultura fascista» allo scopo di

accertare la loro conoscenza della vita politica del Paese e dell’Impero (autarchia, protezionedella madre e del fanciullo, assistenza alle famiglie dei richiamati, preparazione spirituale emobilitazione civile, preparazione alla vita domestica e alla lotta contro gli sprechi, prepara-zione alla vita coloniale, tutela della donna lavoratrice e provvidenze del Regime per le fami-glie dei lavoratori) sempre in rapporto alla posizione e alla funzione della donna nella vitanazionale.149

A Pisa il concorso per lavoratrici ortofrutticole venne vinto da una dipendentedel Consorzio agrario provinciale di Ferrara. La classifica finale di questa competi-zione vide Bologna arrivare seconda con 57 punti e quindi Modena tredicesima, Fer-rara quindicesima, Ravenna ventiduesima e Piacenza subito dietro Parma trentaquat-tresima. Forlì e Reggio Emilia furono rispettivamente cinquantacinquesima e cin-quantasettesima.

In aprile si tenne poi a Milano la mostra dei Littoriali maschili e femminili del lavo-ro dove vennero esposti i lavori prodotti durante i littoriali. Grande enfasi, grande reto-rica sui littoriali quando l’Italia era già entrata in guerra.

L’anno successivo i littoriali si tennero a Salsomaggiore e a Fidenza, con la stessaorganizzazione, con altri tipi di lavori su cui gareggiare:

147 «Il Resto del Carlino», 20 novembre 1939.148 PNF - GUF, Littoriali maschili e femminili del lavoro: Torino-Pisa-Milano, marzo-aprile-mag-

gio 1941, Bologna, Società Anonima Poligrafici Il Resto del Carlino, 1941.149 Ibidem.

Page 180: 70 - online.ibc.regione.emilia-romagna.itonline.ibc.regione.emilia-romagna.it/I/libri/pdf/ERBA_70.pdf · Le donne organizzate: fasci femminili e sezioni operaie e lavoranti a domicilio

e così appare sempre più manifesta l’importanza di queste gare del lavoro femminile agricolospecie in questi tempi nei quali l’uomo diserta il campo per procurane altri più vasti e tantonecessari al lavoro e all’esistenza dei suoi figli. È la donna che resta nella casa e sul campoche moltiplica se stessa per sopperire alle deficienze della mano d’opera, per riempire i vuoti.Oggi il pollaio, la conigliera, domani, se sarà necessario la stalla e il gregge: ora l’orto, doma-ni, il campo; non ha limiti la fatica quando la sorregge e la fortifica l’amore. Amore per la terrabenedetta, amore per l’uomo che la difende, perché egli possa un giorno ritrovarla tutta cura-ta, feconda come il grembo della sua compagna.151

Nel marzo 1943 si tennero i pre-littoriali del lavoro e «Il Resto del Carlino» ne diedenotizia, corredata dalle fotografie delle partecipanti delle gare ortofrutticole e dei lavo-ri domestici.152 Qualche mese dopo l’Italia si sarebbe trovata ad affrontare l’armistizio.

Donne in guerra

Nel 1925 fu approvata la prima legge sull’Organizzazione della Nazione per laguerra153 che definiva le modalità e i principi secondo i quali tutte le attività del paesesi sarebbero trasformate per sostenere la produzione bellica e per garantire la continuità

Il fascismo e la seconda guerra mondiale 163

150 «Il Resto del Carlino», 24 marzo 1942.151 MIRO ZORZI, Fotocronaca delle gare Littoriali, Ricordi di Salso, «Architrave», numero speciale

per i littoriali del lavoro anno XX.152 «Il Resto del Carlino», 6 e 10 marzo 1943.153 Legge 8 giugno 1925, n. 969.

Le gare più rapide sono state quelle del-l’erboristeria e delle cravatte. L’erboriste-ria è una materia nuovissima per i Litto-riali, ma ha raccolto un folto gruppo diconcorrenti.Compito delle cravattaie era invece quellodi comporre una cravatta nel tempo mas-simo di mezz’ora e in omaggio a questitempi guerrieri, le cravatte erano tutte ingrigio verde, da soldato. Ma la lotta sceni-camente più movimentata e interessante siè avuta nel corso delle magliaie. Il localeera stato trasformato in una nitida e ron-zante officina. La prima a finire il compi-to è stata una giovane fascista di Forlì.150

Negli articoli sui giornali veniva sotto-lineato il «fervore» con cui le giovani par-tecipavano alle gare, riprendendo amplifi-cando i temi della propaganda fascista; adesempio si pone sotto la luce dei riflettori ilruralismo e il lavoro agricolo femminile.Ai temi soliti si aggiungeva quindi la mobi-litazione del fronte interno e delle donnechiamate a sostituire gli uomini nel lavoro:

«Resto del Carlino», 6 marzo 1943, Bibliotecacomunale dell’Archiginnasio, Bologna.

Page 181: 70 - online.ibc.regione.emilia-romagna.itonline.ibc.regione.emilia-romagna.it/I/libri/pdf/ERBA_70.pdf · Le donne organizzate: fasci femminili e sezioni operaie e lavoranti a domicilio

164 Dal regime fascista agli anni Sessanta

della vita civile. Nel 1931 seguì la Disciplina dei cittadini in tempo di guerra,154 in cuierano elencati i compiti che spettavano alla donna durante il conflitto: la mobilitazionecivile prevedeva la sostituzione del personale delle amministrazioni, industrie, servizi eaziende, necessaria per affrontare l’assenza degli uomini chiamati al fronte e l’assisten-za ai combattenti. Per questo fu istituito un elenco di donne professioniste. Secondoquanto riportato dall’«Almanacco della donna» nel 1936 le professioniste censite erano180 avvocatesse procuratrici; cinque notaie; 795 «medichesse»; 30 dentiste; due vete-rinarie; 195 «ingegneresse chimiche»; 13 architette; 391 giornaliste e 134.985 inse-gnanti.155 A queste si dovevano poi aggiungere le operaie, le donne occupate in agricol-tura, le impiegate nelle amministrazioni e nel commercio.

Già nel 1936, erano state organizzate squadre di volontarie.

Squadre specialiste in servizi tecnici (laureate in ingegneria, in matematica, chimica, fisica,astronomia, nonché tutte quelle donne che hanno diplomi speciali come: radiotelegrafiste,telefoniste, e rami tecnici in genere. Squadre di ausiliarie di pronto soccorso, medichesse, far-maciste e coloro che hanno seguito corsi speciali per il pronto soccorso in caso di difesa aerea.Squadre di automobiliste per trasporti di carattere vario. Squadre di propagandiste, laureate inlegge, lettere, giornalisti, scrittrici, conferenziere, da adibirsi a tutti i lavori di propaganda e diinformazione. Squadre di ordine, costituite da donne che abbiano un certo prestigio, per coo-perare alla vigilanza dei rifugi, affinché non si diffonda il panico e nell’espletamento di tuttequelle manifestazioni che possano rendersi necessarie.156

La mobilitazione delle donne in vista del conflitto non si interruppe e anzi si inten-sificò quando ormai la seconda guerra mondiale era alle porte dell’Italia. Il 30 novem-bre 1939 si tenne a Bologna il primo convegno nazionale sui compiti della donna fasci-sta in guerra.157

Il 5 giugno 1940 i giornali diedero notizia dei provvedimenti varati dal Consigliodei ministri. Fra questi un «disegno di legge concernente la assunzione di personalefemminile e di pensionati per assicurare il funzionamento dei servizi civili». Vennequindi disposto che per sostituire il personale maschile delle pubbliche amministrazio-ni richiamato alle armi si potesse, in deroga alle limitazioni che erano presenti, assume-re delle donne.158

Nel febbraio 1943 gli uomini impiegati nei teatri e nei cinematografi, con qualcheeccezione riguardanti i mutilati di guerra e gli anziani, vennero sostituiti da personalefemminile.159 Non stupisca che in piena guerra, con le città soggette a bombardamenti,si parli di spettacoli e cinematografi; in effetti erano ancora in funzione questi locali: aBologna, ad esempio, esistevano nel 1940 ventitre sale cinematografiche e cinque tea-tri, anche se in periodo bellico ne funzionava regolarmente un numero minore.160

Un altro settore in cui le donne furono chiamate a sostituire gli uomini, fu quello deitrasporti, urbani e ferroviari, dove le donne vennero assunte come fattorini e bigliettaie.161

154 Legge 14 dicembre 1931, n. 1699.155 «L’Almanacco della donna italiana», 1936, pp. 51-52.156 Ibidem.157 «Il Resto del Carlino», 30 novembre 1939.158 «Il Resto del Carlino», 5 giugno 1940.159 «Il Resto del Carlino», 7 marzo 1943.160 ANGELA VERZELLI, Vivere nonostante tutto, Bologna 1938-1945. Guida ai luoghi della guerra e

Resistenza, Bologna, Aspasia, 2005, p. 59.161 «Il Resto del Carlino», 7 marzo 1943.

Page 182: 70 - online.ibc.regione.emilia-romagna.itonline.ibc.regione.emilia-romagna.it/I/libri/pdf/ERBA_70.pdf · Le donne organizzate: fasci femminili e sezioni operaie e lavoranti a domicilio

Il fascismo e la seconda guerra mondiale 165

Problemi si verificarono anche a livello delle strutture ospedaliere, soprattutto perquanto riguarda il personale paramedico, in cui ancora alta era la percentuale maschi-le. Se infatti i medici potevano ottenere dispense per rimanere nel loro ospedale, cosìnon era per infermieri, portantini e per i paramedici. La loro sostituzione con perso-nale femminile era complessa, più complessa di quella che avveniva per altri settorivisto che serviva una preparazione specifica non acquisibile con corsi di poche ore:si affiancarono così al personale religioso, come detto molto presente in questocampo, le volontarie della Croce Rossa, a cui si chiesero turni suppletivi per l’emer-genza bellica.162

Nell’ambito dell’assistenza vennero mobilitati, e non potrebbe essere altrimenti,anche i Fasci femminili, che furono impegnati nella distribuzione dei sussidi, nell’assi-stenza alle famiglie e alle vedove e agli orfani di guerra. Il campo in cui si impegnaro-no fu anche quello rivolto ai feriti e ai soldati, con visite agli ospedali, l’organizzazio-ne delle «madrine di guerra», l’invio di pacchi al fronte, l’organizzazione di posti diristoro alla stazione per i militari in transito, l’istituzione della befana del soldato, chesi affiancava alla befana fascista rivolta, negli anni precedenti, ai bambini, nella notacommistione fra assistenza e propaganda.163

La mobilitazione coinvolgeva, evidentemente, anche le industrie, che in alcuni casisi trasformarono in industrie di guerra ed in altri aumentarono la loro produzione cheera ora destinata alla produzione bellica. Alla fine del biennio 1940-1941 la presenzadelle donne nelle fabbriche bolognesi impiegate nella produzione bellica ebbe un incre-mento del 100% rispetto agli inizi del 1940. In quattro delle 30 aziende con produzio-ne bellica, il numero delle donne si avvicinava o superava quello degli uomini: allaBaschieri e Pellagri di Marano di Castenaso e alla Fratelli Bassi, due polverifici e allaDucati che produce condensatori e apparecchi radiotrasmittenti per le forze armate.Alla Giordani che costruiva ora anche minuterie e arredi per l’esercito e involucri permine e bombe a mano le donne erano 420 e 108 gli uomini.164

Le condizioni economiche peggiorarono con l’avanzare della guerra, le donne sitrovarono, sempre più sole, a dover affrontare i razionamenti e i danni della guerra. Isalari delle operaie e delle donne che lavoravano in campagna non erano sufficienti equesta fu la molla che fece scattare numerosi scioperi in tutta la Regione. Difficile riu-scire a dare conto di tutti gli scioperi che vennero organizzati, in realtà grandi e picco-le, in città e in campagna, in quel primo biennio di guerra. A solo titolo di esempioricordiamo gli scioperi delle mondine del 1940. Negli anni successivi numerose furonopoi le proteste delle operaie.165

La guerra aveva scalfito sia il consenso che la credibilità del regime: si era persa lafiducia nello Stato. Ciò è evidente sia a livello della provincia di Bologna166 che in tuttala nazione,167 si stava sviluppando una specie nuova di antifascismo, che non era piùl’antifascismo politico degli anni Venti, ma un antifascismo che potremmo definire di

162 FIORENZA TAROZZI, Organizzazione sanitaria e malattie, in Bologna in guerra 1940-1945, inBologna in guerra 1940-1945, a cura di Brunella Dalla Casa, Alberto Preti, Milano, Franco Angeli,1995, p. 276.

163 «La fiamma», n. 1, 15 giugno 1941.164 LORENZO BOLELLI, L’industria bolognese attraverso il fondo dell’Ispettorato regionale del lavo-

ro, in Bologna in guerra 1940-1945 cit., pp. 210-211.165 I. VACCARI, La donna nel ventennio fascista cit., pp. 173-180.166 Cfr A. PRETI, Spirito pubblico, fronte interno e carte di Polizia, in Bologna in guerra cit.167AURELIO LEPRE, Le illusioni, la paura, la rabbia, Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane, 1989.

Page 183: 70 - online.ibc.regione.emilia-romagna.itonline.ibc.regione.emilia-romagna.it/I/libri/pdf/ERBA_70.pdf · Le donne organizzate: fasci femminili e sezioni operaie e lavoranti a domicilio

166 Dal regime fascista agli anni Sessanta

guerra. Pane e pace erano le rivendicazioni più presenti nelle manifestazione delledonne che, dall’armistizio in poi, si fecero sempre più presenti. La situazione divienesempre più drammatica fino ad arrivare all’8 settembre, quando cominciarono anche aformarsi i primi nuclei della Resistenza.

La più ampia ondata di scioperi, maschili e femminili, si ebbe nel 1944, durantel’occupazione nazista, sia nelle campagne che nelle città. La piattaforma rivendicativaprevede la riduzione dell’orario di lavoro, aumenti salariali, la distribuzione di generialimentari, ma si chiedeva anche la fine della guerra.

Le donne, a questo punto, organizzate dai partiti e nei gruppi di difesa della donnacominciarono ad impegnarsi nella lotta di resistenza, in cui agli scioperi, ora con valen-ze anche politiche, si affiancarono tutte le azioni e i compiti che le donne portaronoavanti in questo periodo, come si può leggere anche nei giornali clandestini e nei volan-tini scritti dalle e per le donne.168

La mobilitazione femminile fascista continuò anche nella Repubblica sociale ePiera Gatteschi Fondelli, fascista della prima ora, propose di costruire un «corpo ausi-liario femminile» in cui organizzare le donne e «meglio concretare le iniziative sortedallo spirito patriottico femminile». La Gatteschi Fondelli riteneva di dover dividere levolontarie in tre categorie, in base ai mestieri e alle professioni:

Gruppo 1: pulitrici, serventi alle mense, lavandaie, aiutanti sarte, cuciniere, autiste. Gruppo 2:magazziniere: casermaggio, vestiario, viveri; avvistamento contraereo, dattilografe, telefonistecentraliniste, aiutanti di sanità. Terzo gruppo: telegrafiste, marconiste, disegnatrici, interpreti,segretarie di comando, infermiere.169

Fu fondato il Saf, Servizio ausiliario femminile. Secondo il decreto legislativo fir-mato da Mussolini il 18 aprile 1944, questo servizio ausiliario era costituito da

Volontarie per i servizi ospedalieri: le infermiere ausiliarie diplomate nei corsi istituiti daiGruppi Femminili del Pfr [Partito fascista repubblicano] d’intesa con la Cri e il personale fem-minile di fatica addetto agli ospedaliVolontarie per i servizi militari: le addette, con qualsiasi incarico e mansioni, ai lavori di uffi-cio e di servizio presso i comandi militari, caserme, preside, depositi.Volontarie per i posti di ristoro: le donne che svolgono le loro attività nei posti mobili dell’im-mediato retrofronte, elle località di transito delle truppe, nelle cucine e nei refettori presso ireparti militariVolontarie per la difesa contraerea: le aerofoniste, le marconiste, utilizzate per i servizi di dife-sa contraerea.170

Tra i loro compiti c’era anche quello definito «casalingo» di tener in ordine e ram-mendare le uniformi dei combattenti. Il fascismo non voleva che si dimenticasse com-pletamente il ruolo della donna di casa.

168 «La compagna», 15 gennaio 1945.169 LUCIANO GARIBALDI, Le soldatesse di Mussolini con il memoriale inedito di Piera Gatteschi Fon-

delli, generale delle ausiliarie della Rsi, Milano, Mursia, 1997, p. 109.170 Ivi, pp. 111-113.

Page 184: 70 - online.ibc.regione.emilia-romagna.itonline.ibc.regione.emilia-romagna.it/I/libri/pdf/ERBA_70.pdf · Le donne organizzate: fasci femminili e sezioni operaie e lavoranti a domicilio

Il secondo dopoguerra e gli anni Cinquanta

Votare ed essere votate. Donne sulla scena pubblica

Scriveva Maria Bellonci: «2 giugno di sera, in una cabina di legno povero e con inmano un lapis e due schede mi trovai all’improvviso di fronte a me, cittadino».1 E fu pro-prio questo l’evento caratterizzante il dopoguerra e la nascita della Repubblica italiana.

Le donne avevano chiesto il diritto di voto fin dall’Ottocento e, dopo il ventenniofascista in cui questa richiesta era stata sopita, durante la guerra ripresero con forza arivendicare la piena cittadinanza.

A Roma il 7 ottobre 1944 grazie all’iniziativa della Commissione per il voto alledonne dell’Unione donne italiane, dell’Alleanza femminile Pro Suffragio e della Fildis,fu presentato al governo Bonomi un documento in cui veniva ribadita l’assoluta neces-sità del suffragio femminile.2 Qualche giorno dopo, il 25 ottobre, sempre a Roma fucostituito dalle rappresentanti dei movimenti femminili dei partiti presenti nel Comita-to di Liberazione Nazionale il Comitato pro voto a cui aderirono anche le donne dellaFederazione italiana laureate e diplomate istituti superiori e dell’Alleanza pro suffragio.

Marisa Rodano affermava che l’attività del Comitato fosse necessaria ma ben pocacosa visto che in realtà «il diritto di eleggere e di essere elette le donne italiane se lostessero conquistando combattendo nell’Italia occupata». Su «Noi donne», giornaledell’Unione donne italiane (Udi), venne pubblicata una petizione rivolta al governo diliberazione nazionale.

Contro il fascismo e contro l’oppressore tedesco abbiamo lottato accanto ai nostri uomini, contenacia e coraggio nei duri mesi della occupazione. Sentiamo di esserci così acquistato il dirit-to di partecipare pienamente all’opera di ricostruzione del nostro paese.Confidiamo pertanto che la nostra legittima aspirazione sia presa in esame dagli uomini diGoverno e sia finalmente resa alle donne d’Italia quella giustizia e quella eguaglianza di dirit-ti che è alla base di ogni ordinamento veramente democratico.3

Intanto, nell’Italia occupata, all’interno dei gruppi di difesa della donna si discute-va del diritto di voto tanto che il decreto che lo sancì, ebbe una vastissima eco sui gior-nali clandestini. Allo stesso tempo, sui giornali della Repubblica di Salò questa decisio-ne venne accolta con una ironia direi sprezzante, sostenendo che il voto alle donne non

1 Il 1946 di Maria Bellonci, Processo al 1946, numero speciale di «Mercurio», p. 172.2 Tra le firmatarie: Rita Montagnana Togliatti, Bastianina Musu Martini, Giuliana Nenni, Marisa

Cinciari Rodano, Josette Lupinacci e Libera Levi Civita.3 Petizione da far firmare dal maggior numero di donne possibile e da far approvare in apposite

assemblee, riunioni, comizi femminili. «Noi Donne - Rivista quindicinale dell’Unione delle Donne Ita-liane», anno I, n. 7, Roma, 1º dicembre 1944.

Page 185: 70 - online.ibc.regione.emilia-romagna.itonline.ibc.regione.emilia-romagna.it/I/libri/pdf/ERBA_70.pdf · Le donne organizzate: fasci femminili e sezioni operaie e lavoranti a domicilio

168 Dal regime fascista agli anni Sessanta

era un tema né urgente né interessante visto che le donne erano più protette da un regi-me come quello fascista piuttosto che nell’Italia liberata. «Il Resto del Carlino» scrive-va che «mentre si muore di fame ci si preoccupa del voto alle donne».4

Vi era poi chi, come Mario Borsa su «Il Corriere dell’informazione», che afferma-va come le italiane il voto se lo fossero «visto offrire senza aver fatto nulla o ben pocoper ottenerlo», contraddicendo e negando le iniziative e le rivendicazioni a cui noiabbiamo fatto brevemente cenno. Non tutti i politici dell’Italia libera erano d’accordonel riconoscere il diritto di voto alle donne, qualcuno riprendeva vecchie convinzioniquali quella che, facendo votare una donna, sarebbe stato come dare due voti al maritoperché, inevitabilmente, la donna avrebbe votato seguendo le indicazioni dell’uomo dicasa. Ci si interrogava se le donne fossero progressiste o conservatrici, se avrebberovotato ascoltando il marito o il sacerdote, dimenticando la possibilità che le donne aves-sero una loro opinione politica.

Il decreto legislativo luogotenenziale del 1º febbraio 1945, n. 23 – Estensione alledonne del diritto di voto – fu adottato in extremis nel Consiglio dei ministri presiedutoda Ivanoe Bonomi il 30 gennaio, giorno dell’entrata in vigore delle disposizioni date aiComuni dell’Italia liberata per la formazione delle liste elettorali per le amministrative.

Prima di vedersi riconoscere il diritto di voto, amministrativo e politico, le donneavevano già ricoperto ruoli pubblici: dapprima nelle repubbliche partigiane, poi parteci-pando ai lavori della Consulta, l’assemblea transitoria costituita nell’aprile 1945. I mem-bri della Consulta erano 455 designati dai partiti del Comitato di liberazione nazionale,fra questi vi erano 13 donne: cinque designate dal partito comunista (Adele Bei, TeresaNoce, Rina Picolato, Elettra Pollastrini, Gisella Della Porta), tre da quello socialista(Clementina Calligaris, Jole Lombardi e Claudia Maffioli), due erano le democristiane(Laura Bianchini e Angela Cingolani Guidi), due le azioniste (Bastianina Martini Musue Ada Marchesini Gobetti) e una liberale (Virginia Minoletti Quarello).

Rina Picolato, sarta di Torino, organizzatrice dei Gruppi di difesa della donna scri-veva sulle pagine di «Noi Donne» del 31 agosto 1945: «le donne porteranno un contri-buto concreto alle riunioni della Consulta, sollevando e discutendo i problemi dell’in-fanzia, della scuola, i problemi così complessi dell’assistenza, quello gravissimo dell’a-limentazione», temi che, come vedremo, furono proprio quelli più frequentati nell’agi-re politico e sociale delle donne.

Per la prima volta nelle aule del parlamento italiano nella seduta del 1º ottobre 1945parlò, una donna Angela Cingolani Guidi e lo fece sottolineando la difficoltà che tro-vavano le donne ad entrare nelle istituzioni e nei luoghi della politica.

Ardisco pensare, pur parlando col cuore di democratica cristiana, di poter esprimere il senti-mento, i propositi e le speranze di tanta parte di donne italiane: credo proprio di interpretareil pensiero di tutte noi consultrici, invitandovi a considerarci non come rappresentanti del soli-to sesso debole e gentile, oggetto di formali galanterie e di cavalleria di altri tempi, ma pre-gandovi di valutarci come espressione rappresentativa di quella metà del popolo italiano cheha pur qualcosa da dire (applausi), che ha lavorato con voi, con voi ha sofferto, ha resistito, hacombattuto, con voi ha vinto con armi talvolta diverse, ma talvolta simili alle vostre e che oracon voi lotta per una democrazia che sia libertà politica, giustizia sociale, elevazione morale.(approvazioni – applausi). Colleghi Consultori, nel vostro applauso ravviso un saluto per ladonna che per la prima volta parla in quest’aula. Non un applauso dunque per la mia persona,ma per me quale rappresentante delle donne italiane che ora, per la prima volta, partecipano

4 «Il Resto del Carlino», 31 gennaio 1945.

Page 186: 70 - online.ibc.regione.emilia-romagna.itonline.ibc.regione.emilia-romagna.it/I/libri/pdf/ERBA_70.pdf · Le donne organizzate: fasci femminili e sezioni operaie e lavoranti a domicilio

Il secondo dopoguerra e gli anni Cinquanta 169

alla vita politica del Paese. […] Parole gentili, molte ne abbiamo intese nei nostri riguardi, male prove concrete di fiducia in pubblici uffici non sono molte in verità. Qualche assessorecome la collega Velletri, qui presente, una Vicesindaco come la nostra di Alessandria e qual-che altro incarico assai, assai … sporadico.

Nonostante dubbi, tentennamenti, scarsa fiducia nella determinazione delle donnee nella loro capacità di esercitare il loro diritto al voto, la loro partecipazione alle ele-zioni fu molto alta: il 2 giugno le votanti rispetto alle aventi diritto, che erano il52,2% dell’intero elettorato, furono l’89%, con una differenza irrilevante rispetto agliuomini, per i quali il dato corrispondente fu dell’89,2%. Dobbiamo ricordare cheanche per molti uomini le elezioni del 2 giugno furono il primo incontro con la libe-ra espressione di voto.

Si presentarono in quella occasione 51 liste: 36 non ottennero alcun seggio, lademocrazia cristiana ebbe il 35,2% dei voti che corrisposero a 207 seggi, il partitosocialista il 20,7% e 115 seggi, il partito comunista il 19% e 104 seggi, l’unionedemocratica nazionale 6,8% e 41 seggi e il fronte dell’uomo qualunque 5,3% e 30seggi, il partito repubblicano ebbe il 4,4% e 23 seggi. Non furono molte le donnepresenti nelle liste: il partito che presentò il più alto numero di donne fu quellocomunista, 68 candidate, seguito da quello democristiano con 30 e da quello socia-lista con 16. Le elette alla Costituente, su un totale di 556 deputati, furono 21: noveerano della democrazia cristiana e del partito comunista; due del partito socialista euna dell’uomo qualunque.

Ai fini di un più efficiente svolgimento del proprio lavoro, l’Assemblea deliberò lanomina di una Commissione per la Costituzione, composta di 75 membri scelti dal pre-sidente sulla base delle designazioni dei vari gruppi parlamentari in modo da garantirela partecipazione della totalità delle forze politiche, con l’incarico di predisporre unprogetto di Costituzione da sottoporre al plenum dell’Assemblea. Le donne fra i 75membri della Commissione furono: Maria Federici, Lina Merlin, Teresa Noce e NildeIotti, il 6 febbraio 1947 si aggiunse Angela Gotelli.

Durante i lavori dell’Assemblea vennero affidati alle parlamentari temi, ancora unavolta, considerati femminili: l’assistenza, la scuola, la cura: nella Commissione dei Set-tantacinque o in seduta plenaria, esse parlarono di assistenza in 145 occasioni, di fami-glia in 146, di istruzione in 147, di pace in 148, di donne lavoratrici in 149, di donnenei pubblici uffici 150. A questo stato di fatto vi furono due sole eccezioni: il 1° feb-braio 1947 Nilde Iotti parlò alla Commissione dei Settantacinque di autonomie locali eil 3 maggio Angela Cingolani Guidi intervenne in Assemblea in materia di partecipa-zione dell’Italia ad organizzazioni internazionali.

Bisogna annotare come, anche negli interventi pubblici, durante i comizi vi era unasorta di suddivisione informale degli argomenti da trattare: agli uomini spettavano quel-li più prettamente politici ed alle donne quelli inerenti la ricostruzione e l’assistenza.Come se alle donne fosse tacitamente, o meno, proibito, o per lo meno sconsigliato,partecipare a dibattiti su altri temi non «femminili», nei comizi o in parlamento.5

Una situazione questa che si protrasse per lungo tempo anche nelle amministrazio-ni locali, possiamo infatti affermare che, almeno fino ai mandati amministrativi deglianni Ottanta, alle donne, consigliere o assessori, si affidavano quasi esclusivamenteincarichi legati proprio a questi temi: l’assistenza, la beneficenza, e, a volte, la scuola;in un portare al di fuori delle mura domestiche quel lavoro di cura che è affidato, tra-

5 ANNA GAROFALO, L’Italiana in Italia, Bari, Laterza, 1956, p. 105.

Page 187: 70 - online.ibc.regione.emilia-romagna.itonline.ibc.regione.emilia-romagna.it/I/libri/pdf/ERBA_70.pdf · Le donne organizzate: fasci femminili e sezioni operaie e lavoranti a domicilio

170 Dal regime fascista agli anni Sessanta

dizionalmente, alle donne.6 L’impegno delle donne divenne quindi, per utilizzare leparole di Anna Rossi Doria una «politicizzazione dei ruoli tradizionali».7

Nella Costituzione italiana possiamo rintracciare vari articoli che riguardano inmodo specifico le donne e in particolar modo l’eguaglianza con l’uomo anche nelcampo del lavoro. Prima di tutto vi è l’articolo 3 in cui si enuncia il principio di paridignità sociale e dell’eguaglianza di fronte alla legge «senza distinzione di sesso»: fuproprio una donna, la socialista Lina Merlin a proporre l’introduzione di questo termi-ne, temendo che l’uso di «cittadino» per comprendere entrambi i generi, maschile efemminile, non garantisse davvero l’eguaglianza e la parità:

molti di voi sono insigni giuristi e io no, però conosco la storia. Nel 1789 furono solennemen-te proclamati in Francia i diritti dell’uomo e del cittadino, e le costituzioni degli altri paesi siuniformarono a quella proclamazione che, in pratica, fu solamente platonica, perché cittadinoè considerato solo l’uomo con i calzoni, e non le donne, anche se oggi la moda consente lorodi portare i calzoni Insisto sul mio emendamento anche in vista degli sviluppi d’ordine legi-slativo che ne seguiranno.8

Teresa Mattei chiese che nell’articolo 3, al secondo comma, fosse aggiunto «difatto».9

L’articolo 37 è un ulteriore articolo in cui viene sancita la parità di trattamento tralavoratori maschi e femmine.10 Angelina Merlin in terza sottocommissione aveva propo-sto un testo diverso da quello poi approvato.11 Dopo la discussione venne poi postoall’attenzione dell’Assemblea un articolo, elaborato da Maria Federici, il cui primocomma recitava: «La donna lavoratrice ha gli stessi diritti e, a parità di lavoro, le stesseretribuzioni che spettano al lavoratore». Se la sua approvazione non diede luogo ad alcu-na discussione, il dibattito si fece vivace quando fu posto all’attenzione e alla discussio-ne il secondo comma: «Le condizioni di lavoro devono consentire l’adempimento dellasua essenziale funzione familiare e assicurare alla madre e al bambino una speciale eadeguata protezione». Le polemiche si concentrarono proprio sul termine «essenziale»voluto da Aldo Moro.12 Il deputato liberale Roberto Lucifero lesse nell’«essenziale» un«freno al fenomeno dilagante dell’immissione della donna nel campo sociale, politico edel lavoro», e questo non fece altro se non confermare, alle comuniste, i loro timori eperplessità che questo insistere sulla maternità come funzione essenziale della donnapotesse essere un freno ed un condizionamento per le donne.13

6 A. VERZELLI, Il voto alle donne, Tempi moderni, Bologna, 1989.7 ANNA ROSSI DORIA, Diventare cittadine. Il voto alle donne in Italia, Firenze, Giunti, 1996, p. 86.8 Citato in A. ROSSI DORIA, Diventare cittadine. Il voto alle donne in Italia cit., p. 14. L. MERLIN,

La mia vita cit., pp. 93-949 TERESA MATTEI, Difendiamo la Costituzione!, discorso pronunciato a Cinisello Balsamo il 26

aprile 2004, pp. 6-7.10 Sul dibattito relativo all’articolo 37 si veda anche VITTORIA BALLESTRERO, Dalla tutela alla

parità cit., pp. 109-128.11 «Alla donna sono riconosciuti, nei rapporti di lavoro, gli stessi diritti che spettano ai lavoratori.

La remunerazione di ogni cittadino, sia uomo, sia donna, deve assicurargli un’esistenza dignitosa, tenu-to conto del carico familiare».

12 ALDO MORO, in Atti dell’Assemblea Costituente cit., pp. 203, 207, 208, citato in BRUNELLA

MANOTTI, Le donne alla Costituente, Repubblica, Costituente e voto alle donne, Atti del convegno Pre-fettura di Parma, Università degli Studi di Parma, Parma, Battei, 2007.

13 ANNAMARIA GALOPPINI, Il lungo viaggio verso la parità. I diritti civili e politici delle donne dal-l’Unità ad oggi, Bologna, Zanichelli, 1980.

Page 188: 70 - online.ibc.regione.emilia-romagna.itonline.ibc.regione.emilia-romagna.it/I/libri/pdf/ERBA_70.pdf · Le donne organizzate: fasci femminili e sezioni operaie e lavoranti a domicilio

Il secondo dopoguerra e gli anni Cinquanta 171

Per quanto riguarda l’accesso delle donne a tutti gli impieghi, negata come visto dalfascismo, fu approvato l’articolo 51 non senza discussioni e riformulazioni dello stes-so. In una prima proposta l’articolo recitava: «Tutti i cittadini dell’uno e dell’altro sessopossono accedere agli uffici pubbliche e alle cariche elettive in condizione di egua-glianza, conformemente alle loro attitudini». L’inciso, conformemente alle loro attitu-dini, era visto come una limitazione verso l’accesso al lavoro e alla possibilità di eser-citare una professione: le donne rischiavano, nuovamente, di vedersi aprire la stradasolamente in quei campi giudicati «femminili».

Maria Federici intervenne.

Onorevoli colleghi, noi donne di tutti i settori dell’Assemblea abbiamo colto un’intenzione par-ticolare nell’articolo 48 [ora 51], e cioè che si volesse limitare alle donne la possibilità di acce-dere ai pubblici uffici o alle cariche elettive […]. Non solamente per le carriere o per le caricheelettive, ma per tutte le manifestazioni del lavoro si deve verificare la possibilità che chi lavorasegua la propria attitudine […], poiché le attitudini non si provano se non col lavoro; escluderele donne da determinati lavori significherebbe non provare mai la loro attitudine a compierli».evidentemente qui c’è l’idea di creare una barriera nei riguardi delle donne. E tuttavia che cosapuò far pensare che le donne non siano capaci di accedere a posti direttivi? E che le donne nonpossano accedere alle cariche pubbliche, alle cariche dello Stato? È un pregiudizio, un precon-cetto. E del resto tutta la storia delle affermazioni femminili dimostra che sempre si sono dovu-ti superare dei preconcetti. Abbiamo condotto le donne alle cattedre, le abbiamo ammesse negliospedali in funzione di medici, le abbiamo ammesse nei laboratori chimici, le abbiamo ammes-se dappertutto e mi pare che nessuno possa disconoscere la loro capacità di lavoro e il contri-buto da esse portato a tutte le attività, anche culturali e scientifiche.14

Dopo un partecipato dibattito l’articolo venne modificato, fu tolta la parte riguar-dante le presunte «attitudini» e fu inserita la parte finale del testo: «secondo i requisitistabiliti dalla legge».

Un altro articolo per l’approvazione del quale vi furono polemiche è l’articolo 98(ora 106) riguardante l’accesso agli uffici pubblici e alle cariche elettive e in particolarmodo per l’entrata delle donne in magistratura, un ambito in cui la presenza femmini-le fu difficile e contrastata.15

La prima formulazione proposta era: «i magistrati sono nominati con decreti delPresidente della Repubblica, su designazione del Consiglio superiore della Magistratu-ra, in base a concorso seguito da tirocinio. Possono essere nominate anche le donne neicasi previsti dalle norme sull’ordinamento giudiziario».

In assemblea plenaria, la prima a chiedere parola fu Teresa Mattei.

Noi non possiamo ammettere che alle donne rimangano chiuse porte che sono invece aperteagli uomini. Sia tolto ogni senso di limitazione e sia anzi affermato, in forma esplicita e piena,il diritto alle donne ad accedere ad ogni grado della Magistratura come di ogni altra carriera.16

Molte deputate intervennero durante un dibattito in cui furono ripresi vecchi stereo-tipi sulla incapacità di giudizio della donna e di cui si darà conto più avanti, quindi furo-no presentati due emendamenti: l’emendamento Rossi-Mattei, che affermava in manie-

14 MARIA FEDERICI, Assemblea Costituente, seduta 22 maggio 1947, pp. 4170-4171.15 M. FEDERICI, La donna alla Costituente, in Studi per il ventesimo anniversario dell’Assemblea

Costituente, vol. II, Firenze, Vallecchi, 1969, p. 201.16 T. MATTEI, in Atti della Assemblea Costituente, seduta plenaria 18 marzo 1947, p. 2270.

Page 189: 70 - online.ibc.regione.emilia-romagna.itonline.ibc.regione.emilia-romagna.it/I/libri/pdf/ERBA_70.pdf · Le donne organizzate: fasci femminili e sezioni operaie e lavoranti a domicilio

172 Dal regime fascista agli anni Sessanta

ra chiara il diritto di accesso a tutti i gradi della magistratura anche per le donne, e quel-lo della Federici, che richiedeva la soppressione di qualsiasi limitazione, senza però fareriferimento esplicito al sesso femminile. Il 26 novembre 1947 l’Assemblea Costituentevotò: l’emendamento Rossi-Mattei non passò per 153 voti contrari e solo 120 favore-voli. Il giorno successivo le deputate di tutti i gruppi riuscirono a far approvare un ordi-ne del giorno in cui possiamo leggere:

l’Assemblea Costituente, considerato che l’articolo 48 garantisce a tutti i cittadini di ambo isessi il diritto di accedere alle cariche elettive e agli uffici in condizione di uguaglianza, secon-do i requisiti stabiliti dalla legge, afferma che per quanto riguarda l’accesso della donna allamagistratura, l’articolo 48 contiene le garanzie necessarie per la tutela di questo diritto.17

La presenza delle donne all’Assemblea Costituente, come visto, fu attiva, proposi-tiva e combattiva.

Nel frattempo, dopo aver ottenuto il diritto di voto, le donne cominciarono ad affac-ciarsi sulla scena pubblica e l’alfabetizzazione politica delle donne fu in gran parte affi-data alle due associazioni femminili di massa nate entrambe nell’autunno del 1944: ilCentro Italiano Femminile (Cif), di matrice cattolica e l’Unione Donne Italiane (Udi),legata ai partiti comunista e socialista. Per le donne, l’attività e la presenza nei partitirisultò più complessa, meno agevole, più difficile vista la mentalità comune.18

«Noi donne» divenne la voce ufficiale dell’Udi, l’associazione nata dai Gruppidi Difesa che si proponeva «di unire tutte le donne italiane in una forte associazio-ne» in grado di «difendere gli interessi particolari delle masse femminili e risolverei problemi più gravi e urgenti di tutte le donne lavoratrici, delle massaie e dellemadri»,19 stimolando la partecipazione attiva alla vita sociale e politica del paese,l’iscrizione delle donne ai sindacati, realizzando un’articolata opera di assistenzanell’ambito della ricostruzione, ed organizzando conferenze su problemi riguardan-ti le madri e i bambini e la promozione di corsi scolastici di base. La volontà inizia-le fu dunque quella di creare un’organizzazione che coinvolgesse le donne di ogniidea politica, tale unità fu, però, di brevissimo periodo. Solo inizialmente infatti,l’Udi vide la partecipazione di donne cattoliche, già presenti nei Gruppi di Difesa,poi Maria Rimoldi, presidente delle donne cattoliche, propose la costituzione di unorganismo separato, il che portò alla nascita del Cif,20 federazione di associazioni,istituzioni ed enti femminili di ispirazione cristiana che si inseriva in una lunga tra-dizione di associazionismo femminile.21 Alla nascita di questa organizzazione avevacontribuito anche Giovanni Battista Montini, futuro papa Paolo VI, che aveva inten-zione di fare del Cif un punto d’incontro tra un nascente movimento politico femmi-nile e l’associazionismo cattolico più tradizionale che vedeva ancora con difficoltàun impegno politico attivo.22

17 Ibidem.18 NELLA MARCELINO, «La lotta», 1º dicembre 1945.19 L’Unione delle donne italiane si è costituita a Roma, «L’Unità», 21 novembre1944. Cfr. anche

MARISA CINCIARI, Un anno di vita dell’Udi. Molto lavoro fatto – molto lavoro da fare!, «Noi Donne»,n. 3, 1945.

20 Sulle origini del Cif, cfr. PAOLA GAIOTTI DE BIASE, La donna nella vita sociale e politica dellaRepubblica 1945-1948, Donne e Resistenza in Emilia-Romagna, Milano, Vangelista, 1978.

21 PATRIZIA GABRIELLI, Il club delle virtuose: Udi e Cif nelle Marche dall’antifascismo alla guerrafredda, Ancona, Il lavoro editoriale, 2000, pp. 65-73.

22 Azione programmatica sviluppi del Cif, citato in P. GABRIELLI, Il club delle virtuose cit., p. 73.

Page 190: 70 - online.ibc.regione.emilia-romagna.itonline.ibc.regione.emilia-romagna.it/I/libri/pdf/ERBA_70.pdf · Le donne organizzate: fasci femminili e sezioni operaie e lavoranti a domicilio

Il secondo dopoguerra e gli anni Cinquanta 173

Il campo privilegiato delle associazioni femminili fu quello dell’assistenza ai bam-bini, ai reduci alle famiglie.23 Tentando dapprima di rispondere alle emergenze, comeavvenne rispetto ai bambini residenti in zone nelle quali la guerra aveva causato i mag-giori disagi. Dal 1947, dopo una decisione del Comitato centrale del Pci, si iniziò a pre-parare l’organizzazione per aiutare i bambini, vi si impegnarono donne dell’Udi e deipartiti della sinistra ed anche rappresentanti degli enti amministrativi, nonché numero-sissime famiglie che senza alcun compenso ospitarono, in alcune zone dell’Emilia-Romagna, Toscana e Marche questi bambini.24

Sempre rivolti all’infanzia vi furono altri momenti di organizzazione e di lotta,infatti, convinte che non bastasse dare cibo e riparo, le donne cominciarono ad impe-gnarsi nell’organizzazione delle colonie e degli asili nei quali alla cura si cercò diaffiancare un progetto educativo. Organizzare asili e mense fu uno dei punti sui cuil’Udi si impegnò e su cui chiese la collaborazione di tutte le donne, del sindacato, delCif e di Azione cattolica. Queste ultime avevano però una visione differente, tanto cheVittoria Rossi, dirigente di Azione cattolica affermò:

su due punti noi cattoliche siamo assolutamente ferme: la libertà di educare i nostri figli e l’u-nità indissolubile della nostra famiglia. Le mense che tolgono alla donna la fatica di prepara-re il pranzo le tolgono per ciò stesso la gioia di essere lei la regina che accudisce, sia pure consacrificio, ai suoi cari. In tal modo la famiglia si distrugge.25

Non solo la visione era differente, ma anche i mezzi messi a disposizione dellediverse associazioni dall’autorità centrale.26

Questo non significava che le donne non entrassero anche nei partiti, sia nelle com-missioni femminili che, più raramente, negli organi direttivi.

Una particolare situazione si verificò per le donne emiliano-romagnole dei partiti disinistra, quella di essere inviate in luoghi lontani a fare lavoro politico fra le donne. Ledestinazioni erano solitamente al sud: Sicilia, Campania, Calabria, Abruzzo; ma anchela Lombardia nella zona di Lecco e Como, ad esempio, o a Brescia o, ancora, nel Vene-to. I racconti di quelle esperienze hanno alcuni tratti in comune: innanzi tutto le diffi-coltà materiali e la diffidenza o addirittura l’aperta ostilità mostrata dai parroci o dalleautorità locali a cui si andava incontro.

La reazione era spesso la pazienza e la costanza e a volte, quando le interruzionidivenivano intollerabili, l’appello al diritto di espressione garantito dalla Costituzioneera un’arma utilizzabile.

Io avevo sempre con me due documenti, ricorda Margherita Preti, il libretto da bracciante agri-cola e la Costituzione italiana. Questo mi permetteva di mostrare la mia condizione di lavora-trice a chi mi stava ad ascoltare e, con la Costituzione in mano, chiedevo ai carabinieri il rispet-to dei miei diritti.

23 ALESSANDRO ALBERTAZZI, ANNA MARIA STAGNI, Il primo anno di vita del Centro Italiano Fem-minile in Emilia-Romagna, in P. GAIOTTI DE BIASE, La donna nella vita sociale e politica della Repub-blica cit.

24 Su questo si veda, fra l’altro, GIOVANNI RINALDI, I treni della felicità. Storie di bambini in viag-gio tra due Italie, Roma, Ediesse, 2009.

25 Citato in FIORENZA TARICONE, Il centro italiano femminile dalle origini agli anni Settanta, Mila-no, Franco Angeli, 2001, p. 51.

26 Nel suo congresso del 1948 l’Udi rese noto di aver ricevuto, assieme all’Inca Cgil, un contributoper l’organizzazione dell’attività di assistenza, 60 milioni a fronte dei 300 assegnati al Cif e dei 600 datialla Pontificia commissione di assistenza. Citato in F. TARICONE, Il centro italiano femminile cit. p. 52.

Page 191: 70 - online.ibc.regione.emilia-romagna.itonline.ibc.regione.emilia-romagna.it/I/libri/pdf/ERBA_70.pdf · Le donne organizzate: fasci femminili e sezioni operaie e lavoranti a domicilio

174 Dal regime fascista agli anni Sessanta

Il diritto al lavoro

Durante la guerra non solo le donne avevano sostituito gli uomini nelle industrie enei servizi, ma avevano cercato di conservare il proprio lavoro per poter sostenere lorostesse e la famiglia. Con il ritorno dei soldati, però, furono presi dei provvedimenti chepenalizzarono la presenza della donna nel mondo del lavoro, ad esempio venne varatoun decreto che lasciava la libertà di licenziare i lavoratori che avevano altri cespiti, ilavoratori assunti dopo il 30 giugno 1943 e le donne ricadevano facilmente in questedue categorie; inoltre il 4 agosto 1945 il governo decretò che per il successivo biennioil 50% delle assunzioni, nel pubblico e nel privato, doveva essere riservato ai reduci. Lareazione delle lavoratrici e dei sindacati fu immediata e già alla fine del mese di ago-sto la Commissione consultiva femminile sollecitava Udi, Cif e sindacato ad impegnar-si per impedire questa discriminazione. Nonostante ciò, il ministro dei Trasporti UgoLa Malfa dispose il licenziamento di 4000 avventizie delle Ferrovie. Le donne si mobi-litarono, tennero manifestazioni e dopo un comizio in un cinema romano, una delega-zione di loro guidata da Adele Bei, fu ricevuta dal ministro.27

Su «Noi donne» nel settembre 1945 si leggeva:

Parlo di voi, lavoratrici dell’industria, e del commercio, che in questi ultimi tragici anni avete lavo-rato tanto non solo con impegno e serietà, ma (riconosciamolo signori uomini), con tanta capacitàda soddisfare a tutti gli indici della produzione e del rendimento. Parlo di voi, impiegate e dattilo-grafe il cui stipendio doveva sostenervi e vestirvi e forse anche mantenere qualche famigliare. Erapoco ma era una base. Parlo di te, tramviera, che raccoglievi dei nervosi passeggeri migliaia emigliaia di lire e guai se sbagliavi ad aprire una delle mille porte che azionavi in un giorno.Parlo di te, maestrina, il cui stipendio poteva servirti per comperare forse una scarpa al mese.«Cambino mestiere», dice certa gente. Ma non ve lo danno un mestiere nuovo. «Rimangano acasa a far la calza». Ma e chi guadagna per riempire il piatto? Forse che trasformandovi tuttein lavoranti a domicilio potreste guadagnare da vivere? «Facciano le donne di servizio» comese le dattilografe, le impiegate, le operaie potessero improvvisarsi donne di servizio. E poi èpossibile che nessun altro orizzonte debba aprirsi alle donne italiane?28

27 È brava ma… donne nella Cgil 1944-1962, a cura di Simona Lunadei, Lucia Motti, Maria LuisaRighi, Roma, Ediesse, 1999, p. 53.

28«Noi donne», 31 settembre 1945.

8 marzo 1959. Lavoro, assistenza, istruzione, migliore tenore di vita chiedono le donne, a curadella Federazione bolognese del PCI, 1959, manifestipolitici.it, a cura della Fondazione IstitutoGramsci Emilia-Romagna, Bologna

Page 192: 70 - online.ibc.regione.emilia-romagna.itonline.ibc.regione.emilia-romagna.it/I/libri/pdf/ERBA_70.pdf · Le donne organizzate: fasci femminili e sezioni operaie e lavoranti a domicilio

Il secondo dopoguerra e gli anni Cinquanta 175

L’articolo di «Noi donne» continuava esortando le donne a ribellarsi a questo ten-tativo di licenziarle per risolvere il problema della disoccupazione, le si invita ad affi-darsi ai sindacati. Molti pensavano che, in una situazione così complessa come quel-la dell’immediato dopoguerra, in cui la povertà e la disoccupazione erano molto pre-senti si dovesse in effetti allontanare le donne dal lavoro.29 Eco di queste opinioni siebbero anche sulla stampa: ad esempio sul settimanale dei reduci bolognesi, «L’ita-liano» si sosteneva che le donne lavorassero non per necessità ma per comprare «leborsette alla moda, il cappellino e le calze di seta», e che quindi dovessero lasciare illoro posto agli uomini.30

Lo stesso giornale lanciò un sondaggio fra i suoi elettori per sapere se le «donnedovevano comandare». Il sondaggio ebbe il risultato, forse un po’ scontato, di racco-gliere giudizi negativi sulle donne che «volevano fare l’uomo»: il 90% secondo i redat-tori del giornale.

Mentre ragazze corrono in jeep una voce femminile dalla Consulta ha rivendicato per il suosesso precise responsabilità pubbliche, e forti nuclei di donne impiegate non si mostrano affat-to disposte a farsi soppiantare dagli uomini che tornano. Si tratta di una temporanea ubriaca-tura del femminino o esistono motivi veritieri per la trasformazione del costume nazionale? [siinsite] per la penetrazione delle donne nel lavoro, negli studi, e nella lotta elettorale. Anche sevolessimo potremmo cacciarle indietro? E non può essere una buona cosa che, la tradizionale«ochetta italiana» pratica solo di cucina e di moda, apprenda a ragionare di dottrine e statisti-che? [così] non rischia di vedere cadere e il rispetto cavalleresco da parte dell’uomo e l’accet-tazione da parte della donna delle funzioni di guida del proprio uomo?31

I temi del lavoro delle donne rispetto al ritorno dei reduci furono ripresi anche da«L’appello», giornale della democrazia cristiana bolognese.

Moltissimi reduci quando partirono quattro, sei, dieci anni fa, per il fronte lavoravano, il loroposto fu preso in gran parte dalle donne; ora che sono tornati queste donne, a meno che nonsi tratti di capo famiglia o di casi speciali di famiglie numerose, debbono tornare a casa adoccuparsi delle faccende domestiche. […]Resta vivo il dissenso e aperta la discussione intorno alla donna, nubile o coniugata, che nonsia capo famiglia. Nel nostro caso il sacrificio delle donne lavoratrici, andrebbe non a vantag-gio della collettività, bensì a beneficio di qualche singolo reduce. L’eliminazione delle donne,anche di tutte, dal lavoro non basterebbe a dare onorevole sistemazione ai reduci.32

Le donne dell’Udi e le cattoliche erano contrarie ai licenziamenti visto che, comeveniva scritto su «Azione femminile», «fra i diritti il primo da difendere è precisamen-te il diritto al lavoro».33

La discussione sulla presenza delle donne nel mondo del lavoro non terminò neiprimi anni del dopoguerra ma fu costantemente ripresa almeno fino alla metà degli anniCinquanta. Vi era chi, ancora, credeva che il compito precipuo della donna fosse quel-

29 Su questo si veda ROSSELLA ROPA, La presenza delle donne sulla scena pubblica nella stampalocale di area cattolica (1945-1946), in La fondazione della Repubblica modelli e immaginario repub-blicani in Emilia e Romagna negli anni della Costituente, a cura di Mariuccia Salvati, Milano, FrancoAngeli, 1999, pp. 310-334.

30 «L’italiano», 25 novembre 1945.31 «L’italiano», 25 novembre 1945.32 «L’appello» 9 dicembre 1945. 33 «Azione femminile», 16 novembre 1945.

Page 193: 70 - online.ibc.regione.emilia-romagna.itonline.ibc.regione.emilia-romagna.it/I/libri/pdf/ERBA_70.pdf · Le donne organizzate: fasci femminili e sezioni operaie e lavoranti a domicilio

176 Dal regime fascista agli anni Sessanta

lo di accudire ai figli e che quindi il lavoro, o almeno non tutti i lavori, fossero adatti alei. Il 14 giugno 1956, in un editoriale su «L’Avanti», il deputato socialista e sindacali-sta Ferdinando Sarti scriveva accompagnando la partenza delle delegate italiane allaconferenza mondiale delle lavoratrici:

quella del diritto al lavoro per assicurare l’indipendenza della donna non deve essere una riven-dicazione indiscriminata. Le donne debbono rivendicare un lavoro, e soltanto quello che noncontrasta con la particolare natura del loro complesso fisico e psichico. Non ci piacciono ledonne muratrici o stradine, o guidatrici di camion, che invece sollecitano l’orgoglio di qualenostra graziosa amica dell’Udi. La donna lavoratrice, oltre che essere tale, è prima di tuttomadre e sposa. Perciò noi dobbiamo batterci perché il lavoro che per essa giustamente riven-dichiamo non sia in conflitto con questo suo insostituibile umano destino.

In questo articolo erano riproposti – da un esponente di rilievo del partito socialista– temi e stereotipi sulla «funzione» della donna e sulla impossibilità della donna stes-sa di esercitare qualsiasi mestiere o professione. Come possiamo immaginare le donnedell’Udi, direttamente sollecitate dall’ironia del sindacalista, intervennero. Per primaAda Alessandrini che definì sconcertante un articolo «così legato a passate visioni delladonna, in cui si ripropone il ruolo materno come il destino femminile».34

La risposta del deputato socialista pubblicata su «Noi Donne» l’8 luglio non fecealtro se non ribadire, con una ironia un po’ greve, le sue posizioni.

Le donne dell’Udi mi considerano un reazionario, una specie di capo della Confindustria deimariti. Le reazioni al mio modesto scritto dimostrano che talune emancipatissime donne del-l’Udi sono affette da un inguaribile complesso di inferiorità nei confronti degli uomini, checredono di superare rivendicando tutti i mestieri anche i più rudi.

Questa polemica a distanza continuò sul giornale dell’Udi dove il 2 settembre inter-venne anche Concetto Marchesi, esponete del partito comunista, affermando che

se si comincia a distinguere e a dire che «questo non è lavoro da donna» ricomincia a spirareil soffio della boria mascolina. L’onorevole Sarti dimentica i tanti gravosissimi lavori a dasecoli cui attende la donna della campagna e della città.

Dall’inizio del secolo al 1951 vi era stata in Italia una costante diminuzione dellapresenza femminile al lavoro, tanto che se nel 1901 le donne costituivano quasi unterzo della popolazione attiva, nel 1951 erano un quarto: le donne volevano invertirequesta tendenza.35

Qualche tempo prima, nel 1953, le donne bolognese avevano stilato un documento «lacarta dei diritti delle donne bolognesi», in cui uno dei diritti irrinunciabili da rivendicareera proprio la «difesa del lavoro manuale ed intellettuale», perché la donna potesse «averela sicurezza del suo pane quotidiano». Similmente il Cif ribadiva, sul periodico «Crona-ca», che il diritto al lavoro era inalienabile, visto che era sancito anche dalla Costituzione.36

34 «Noi donne» primo luglio 1956.35 LUCIANO BARCA, Prospettive dell’occupazione e qualificazione femminile nell’attività economi-

ca italiana. La preparazione professionale della donna, Atti del Convegno organizzato dal Comitato diassociazioni femminili per la parità di retribuzione, Milano, 3-4-5 aprile 1959. Firenze, La nuova Ita-lia, 1959, p. 77.

36 «Cronache», gennaio 1954.

Page 194: 70 - online.ibc.regione.emilia-romagna.itonline.ibc.regione.emilia-romagna.it/I/libri/pdf/ERBA_70.pdf · Le donne organizzate: fasci femminili e sezioni operaie e lavoranti a domicilio

Il secondo dopoguerra e gli anni Cinquanta 177

La legislazione

Le delegate riunite nel Congresso mondiale della donna che si tenne a Copenaghendal 5 al 10 giugno 1953 fissarono l’elenco dei diritti che dovevano essere riconosciutia tutte le donne indipendentemente dalla loro «razza, nazionalità e posizione sociale».Fra gli altri vi erano:

diritto ad un lavoro garantitodiritto di libera scelta di una professione o mestierediritto ad accedere a qualsiasi impiego pubblico e amministrativopari possibilità di avanzamento in tutti i campi del lavoroper uguale lavoro uguale salarioparità di diritto all’assicurazione socialidiritto alla protezione della madre e del bambino da parte dello Statoriposo pre e post-natale retribuitoriconoscimento alle lavoratrici agricole dei diritti accordati alle lavoratrici delle fabbriche:salari, lavoro garantito, protezione della madre e del bambino.37

Questi diritti erano, in Italia, in parte già sanciti dalla Costituzione, ma dovevanoessere tradotti in leggi e norme che potessero completare e rendere reali i diritti delledonne in tema di lavoro.

Il primo intervento legislativo nel campo del lavoro femminile fu la legge n. 860 del1950, ovvero la legge sulla tutela per le lavoratrici madri, tutela prevista nell’articolo 37della Costituzione. L’iniziativa legislativa, promossa dalla Cgil, era stata fatta propria nel1948 dalle donne del fronte popolare, Teresa Noce in testa. In questa proposta si chiede-

37 Carta dei diritti delle donne bolognesi, a cura del Consiglio delle donne bolognesi, Bologna,Steb, 1953, pp. 37-38.

«L’italiano», 25 novembre 1945, Biblioteca comunaledell’Archiginnasio, Bologna.

«Cronache», gennaio 1954, ArchivioCentro Italiano Femminile, Roma.

Page 195: 70 - online.ibc.regione.emilia-romagna.itonline.ibc.regione.emilia-romagna.it/I/libri/pdf/ERBA_70.pdf · Le donne organizzate: fasci femminili e sezioni operaie e lavoranti a domicilio

178 Dal regime fascista agli anni Sessanta

va l’estensione della tutela a tutte le donne, comprese le casalinghe e quindi l’eguaglian-za di fronte alla maternità di tutte le lavoratrici, la corresponsione di un’indennità, per ilperiodo di astensione obbligatoria dal lavoro, pari al 100% della retribuzione.

Teresa Noce sottolineava che il progetto era scaturito da riunioni, comizi, assembleeoperaie nelle fabbriche ed incontri con esperti, per questo la stessa Noce definì il pro-getto una legge popolare, approvata e attesa «dalle operaie come le contadine, le impie-gate come le casalinghe, le mamme di Torino e di Milano come quelle di Matera e diNuoro, di qualunque fede politica».38

Il progetto, secondo la sua relatrice, avrebbe dovuto garantire che la tutela fisicadella donna incominciasse

dall’inizio della gravidanza ed estendersi anche dopo il parto. E doveva proteggere non solo lamamma, ma anche il bambino. Per questo chiedemmo sale di allattamento attrezzate sul luogodi lavoro o il permesso pagato perché la mamma potesse uscire per allattare il figlio, per que-sto richiedevamo asili nido sul luogo di lavoro, oppure nei quartieri di abitazione e nei paesi.[Perciò] presentammo una formulazione che richiedeva sempre e in ogni caso l’asilo nido, mache lasciava alle commissioni interne, sul luogo di lavoro e alle organizzazioni sindacali loca-li la facoltà di accordarsi sulla possibilità di creare l’asilo nido in fabbrica o localmente, masempre gratuito per le lavoratrici e a spese dei datori di lavoro.39

La proposta di legge, firmata da un gruppo di deputate, fu presentata in parlamen-to il 14 giugno 1948 e come prima firmataria vi era proprio Teresa Noce. Due annidopo, il 27 giugno 1950, fu presentato da Amintore Fanfani e da Maria Federici il pro-getto che poi diventò legge. Vi erano alcune differenze rispetto al così detto progettoNoce: l’indennità fu stabilita all’80%, ad esempio, e non al 100%, e la legge non riguar-dava le lavoratrici a domicilio, le mezzadre e le impiegate statali.

La presenza di questa legge che tutelava le donne in gravidanza fece sì che alcunidatori di lavoro pensassero di non rispettarla licenziando le donne. Ecco che quindi cheil 23 novembre 1950 venne proposto da Teresa Noce e dal socialista Sansone un ulte-riore provvedimento, una legge il cui solo articolo recitava: «a decorrere dal 3 novem-bre 1950, data di pubblicazione della legge 26 agosto 1950, n. 859, i datori di lavoronon possono licenziare le proprie dipendenti, gestanti o puerpere, a meno che non sirendano colpevoli di infrazioni al contratto di lavoro», proposta che venne trasformatanella legge n. 986 varata in quello stesso anno.

Le donne, che non potevano più essere licenziate durante la gravidanza, continua-vano però a correre il rischio di essere licenziate in seguito al matrimonio e, probabil-mente, questo era anche un modo per evitare la legge sulla tutela della lavoratricemadre. Numerosissimi i casi segnalati, tanto che la senatrice Lina Merlin fece su que-sto tema una interrogazione al Senato nella seduta del 30 gennaio 1951. In questa inter-rogazione la senatrice affermò, fra l’altro:

che cosa si vuole fare, onorevole Sottosegretario, quando si licenzia? Si vuole eludere la Costi-tuzione e si vuole eludere anche la legge sulla maternità. Si è mai sentito dire che un uomo sialicenziato perché si sposa? Evidentemente no. Ora, perché si vuol licenziare la donna che vaa nozze? Forse perché si temono le conseguenze visibili del matrimonio? Ma chi, nel 1951, siscandalizzerebbe dei segni esteriori della maternità, che tutti consideriamo sacra? E se lamaternità, oltre ai segni esteriori, porta anche una diminuzione della capacità lavorativa, è qui

38 Una legge popolare: tutela della maternità, «Notiziario Cgil», n. 30, 30 ottobre 1948, pp.769-770.39 T. NOCE, Rivoluzionaria professionale, Milano, Bompiani, 1977, pp. 407-408.

Page 196: 70 - online.ibc.regione.emilia-romagna.itonline.ibc.regione.emilia-romagna.it/I/libri/pdf/ERBA_70.pdf · Le donne organizzate: fasci femminili e sezioni operaie e lavoranti a domicilio

Il secondo dopoguerra e gli anni Cinquanta 179

che dovrebbe entrare in vigore la legge sulla maternità. Ma, fatta la legge, trovato l’inganno, esi ricorre allora all’inganno per poter licenziare queste donne. Io ho voluto denunciare in sedepolitica tali fatti, che non sono così sporadici come lei onorevole Sottosegretario ha volutoasserire.

In moltissime realtà lavorative le donne venivano licenziate per matrimonio: aRoma, ad esempio, nel 1954 in alcune aziende esistevano regolamenti interni che pre-vedevano la risoluzione automatica del contratto di lavoro in caso di matrimonio;40

numerose segnalazioni venivano dall’Emilia-Romagna, tanto che si ritenne di racco-glierne alcune in un «libro bianco» pubblicato dall’Udi.41 In questo testo si può legge-re, ad esempio, che a Reggio Emilia

alla Banca agricola commerciale le dipendenti venivano licenziate quando si sposano in baseall’articolo 76 licenziamento ad nutum del contratto di lavoro. Quest’articolo con la sua for-mulazione dà possibilità all’azienda di licenziare per qualsiasi motivo i propri dipendenti e diquesto articolo ci si avvale per licenziare le lavoratrici che si sposano. La Banca nazionale dellavoro, dopo aver licenziato tutte le donne nel 1947 non ne ha più assunte.A Modena, in una fabbrica di scatolame in metallo: vi sono occupati 60 donne e 10 uomini.In questa fabbrica, all’atto dell’assunzione, viene fatto firmare alle lavoratrici un documentocon il quale si impegnano a dimettersi qualora contraggano matrimonio.

A Parma, nel settore bancario, secondo quanto segnalò l’Udi al prefetto, ad ecce-zione delle Casse di risparmio le donne venivano sistematicamente licenziate. AllaBarilla erano segnalati licenziamenti dopo il matrimonio. Inoltre, agli ospedali riuni-ti, come in altri ospedali, era stata ripristinata la clausola del nubilato o della vedovan-za come requisito per l’ammissione alle scuole convitto per le infermiere.42 Il presi-dente dell’ospedale neuropsichiatrico San Lazzaro di Reggio Emilia, promise, inseguito ad un dibattito sorto in quella città, che avrebbe osservato la legge non licen-ziando le donne in stato di gravidanza, a quel punto, le donne chiesero anche chevenisse abolita la clausola del nubilato nel contratto per le nuove assunte. La prassi diintrodurre il vincolo del nubilato e del conseguente licenziamento per matrimoniointrodotte dalle direzioni degli ospedali psichiatrici, indusse il ministro della sanità ademanare una circolare in cui specificava che quella clausola era «da ritenere antisocia-le e senza fondamento giuridico».43

In questa situazione numerose furono le proposte di legge d’iniziativa di deputa-ti che furono elaborate: il 5 giugno 1956, prima firmataria Ada Guelfi Del Vecchio,21 deputate presentarono un progetto «di disciplina dei licenziamenti delle donne chesi sposano». Il 20 giugno 1958 Lina Merlin e Anna Matera De Lauro firmarono laproposta di legge «divieto di licenziamento dai posti d’impiego e di lavoro delledonne che si sposano»; il 6 maggio 1959, prima firmataria Giuseppina Re; 18 depu-tati – in questo caso fra le firme troviamo anche quelle di uomini –presentarono laproposta di legge «divieto di licenziamento per causa di matrimonio». Infine il 28giugno 1962 il ministro del Lavoro e della Previdenza Sociale, di concerto con ilministro di Grazia e Giustizia e col ministro del Tesoro presentarono la legge «divie-

40 «Cronache», n.1, 1954.41 Libro bianco sui licenziamenti per causa di matrimonio in Italia Situazioni e documentazione, a

cura di L. Merlin, Roma, Tip. L. Morara, 1961.42 Ivi, pp. 33-34.43 Circolare 21 giugno 1960.

Page 197: 70 - online.ibc.regione.emilia-romagna.itonline.ibc.regione.emilia-romagna.it/I/libri/pdf/ERBA_70.pdf · Le donne organizzate: fasci femminili e sezioni operaie e lavoranti a domicilio

to di licenziamento del personalefemminile per causa di matrimo-nio». La legge fu approvata allaCamera il 17 ottobre 1962, dopo ilpassaggio al Senato, ritornò allaCommissione lavoro e previdenzadella Camera dei deputati che laapprovò. Il 3 gennaio 1963, la leggevenne promulgata.

Questa legge constava di seiarticoli: i primi due riguardavano ildivieto di licenziamento per causadi matrimonio e gli altri quattrointervenivano sulla tutela delle lavo-ratrici madri.

Nel quarto comma del primo arti-colo venivano prese in considerazio-ne anche le dimissioni volontarie e siaffermava che erano «nulle le dimis-sioni presentate dalla lavoratrice nelperiodo di cui al precedente comma»,ovvero fino ad un anno dopo la cele-brazione delle nozze «salvo che sianodalla medesima confermate entro unmese all’Ufficio del lavoro». Questanorma era stata introdotta per contra-stare la pratica di far firmare, almomento dell’assunzione, dimissioniin bianco, che il datore di lavoropoteva poi utilizzare al momento delmatrimonio.

«Per uguale lavoro uguale salario» era scritto nella carta di Copenaghen. In effet-ti, in Italia, questa richiesta era lontana da corrispondere a verità nell’industria e nel-l’agricoltura.

Ad esempio nell’industria tessile una operaia specializzata nella lavorazione dellalana percepiva 152,50 lire all’ora, un manovale comune 154,65. Fra i chimici l’operaiadi prima categoria guadagnava 139,60 lire, mentre il manovale comune 147,50. Anchenei lavori statali la situazione era simile. Ad esempio nei Monopoli, uno specializzatoriceveva 501.000 lire l’anno, una specializzata 453.000. In generale nel 1954 il salariofemminile era di circa il 16% inferiore a quello maschile. Due anni prima, un gruppodi parlamentari, fra cui Teresa Noce, avevano presentato la proposta di legge «Applica-zione della parità di diritti e della parità di retribuzioni per un pari lavoro». Nel 1954cominciò la discussione della proposta Noce in commissione Industria, i pareri espostifurono discordanti e nel 1956 venne approvata la legge n. 741 sulla parità di remunera-zione. Nel 1957 le Acli chiedevano ancora «il giusto riconoscimento del valore dellavoro femminile, la parità salariale e previdenziale».44

180 Dal regime fascista agli anni Sessanta

44 «Noi donne», n. 39, 6 ottobre 1957.

Proposta di legge firmata da sole donne contro illicenziamento per matrimonio, 1956, Camera deideputati, atti parlamentari on line.

Page 198: 70 - online.ibc.regione.emilia-romagna.itonline.ibc.regione.emilia-romagna.it/I/libri/pdf/ERBA_70.pdf · Le donne organizzate: fasci femminili e sezioni operaie e lavoranti a domicilio

Il secondo dopoguerra e gli anni Cinquanta 181

Nel 1951 il Bureau international du Travail riunito a Ginevra il 6 giugno aveva ema-nato una Convenzione: la Convention sur l’égalité de rémunération, conosciuta comeBit 100, in cui veniva prevista la necessaria parità di salario fra uomini e donne. Que-sta convenzione fu ratificata, in tempi e in momenti estremamente differenti, nei paesieuropei e mondiali: in Italia fu riconosciuta con la legge n. 741 del 22 maggio 1956.45

Sulla necessità di stabilire l’uguaglianza salariale, applicando così l’articolo 37della Costituzione, si trovarono d’accordo, seppur con sfumature differenti, le donne ditutti gli schieramenti politici e sindacali: dalla Cgil, alla Uil alle donne delle associa-zioni cattoliche.46

Nel 1957, nel trattato che fonda il Mercato Comune Europeo l’articolo 119 recita-va «Ciascuno stato membro assicura durante la prima tappa, e in seguito mantiene, l’ap-plicazione del principio della parità delle retribuzioni fra i lavoratori di sesso maschilee quelli di sesso femminile per uno stesso lavoro».

Il primo accordo interconfederale per la parità salariale fu siglato nel 1960. A rap-presentare la Confederazione generale dei lavoratori vi era Vittorio Foa, per i lavora-tori metalmeccanici della Fiom Luciano Lama e per le lavoratrici del settore tessileLina Fibbi.

Il settore agricolo restava escluso dalla legge del 1956 ed era ancora in vigore ilcoefficiente Serpieri, per l’abolizione del quale l’Udi pensò di presentare una legge d’i-niziativa popolare che constava di due articoli.

Art. 1: la capacità lavorativa della donna contadina, sia essa coltivatrice diretta, mezzadra,colona, compartecipante, è uguale ad ogni effetto a quella dell’uomo.È abrogata ogni contraria o diversa valutazione, risultante dalla legge, dai contratti individua-li e collettivi, dagli usi o da ogni altra fonte di diritto, in base alle quali la capacità lavorativadella donna contadina sia valutata in modo inferiore a quella dell’uomo.Art. 2: Il governo della Repubblica è delegato ad emanare, sentita apposita commissione par-lamentare, entro sei mesi dalla entrata in vigore della presente legge, anche con decreti sepa-rati, le norme necessarie in materia previdenziale ed assistenziale per adeguare la legislazionevigente alle disposizioni della presente legge.47

Le 50.000 firme richieste per la presentazione della legge furono raccolte e il 25ottobre 1962 furono consegnate alla Presidenza del Senato. Una delegazione di millelavoratrici, secondo il quotidiano «L’Unità», fu ricevuta da Cesare Merzagora e quindidai gruppi parlamentari e dalla segreterie nazionali delle Confederazioni sindacali.Discussa in Commissione, questa legge ebbe un parere positivo dall’unanimità deicomponenti48 e la parità di salario in agricoltura fu ottenuta nel 1964 quando venneemanata la legge sulle «nuove norme in materia di contratti agrari»: così, dopo 30 anni,non era più in vigore il coefficiente Serpieri.

Nonostante la legge e il lavoro sindacale, su 78 contratti nazionali rinnovati nel1962, solo 27 prevedevano l’uguaglianza di retribuzione.49

Tutte le leggi fino a qui descritte erano necessarie per accogliere il dettame del-l’articolo 3 e dell’articolo 37 della Costituzione. Per l’applicazione dell’articolo 51

45 Per un elenco completo si veda: http://www.ilo.org/.46 «Noi donne», n. 41, 20 ottobre 1957, pp. 24-2547 «Noi donne», n. 48, 3 dicembre 1961, pp. 28-31.48 137a seduta pubblica, resoconto stenografico, 26 maggio 1964, pp. 7404-7405.49 DARA KOTNIK, Le donne al guinzaglio. Ma ora si stanno muovendo per la parità dei diritti-chi

le ferma più?, «Panorama», n. 16 del gennaio 1965.

Page 199: 70 - online.ibc.regione.emilia-romagna.itonline.ibc.regione.emilia-romagna.it/I/libri/pdf/ERBA_70.pdf · Le donne organizzate: fasci femminili e sezioni operaie e lavoranti a domicilio

182 Dal regime fascista agli anni Sessanta

furono emanate le leggi che sancirono, almeno sulla carta, la possibilità per le donnedi esercitare qualsiasi mestiere e di accedere a qualsiasi carriera. Il rapporto fra ledonne e la possibilità di entrare in magistratura fu molto complesso, come si è vistoanalizzando la discussione alla Costituente e come si dirà più avanti. Nel 1951 tredeputate presentarono una proposta di legge in cui si stabilivano le norme per la par-tecipazione delle donne alle giurie popolari nelle Corti d’Assise. E la legge1441/1956 ammise le donne nelle giurie popolari delle Corti d’Assise e come com-ponenti dei tribunali per minorenni. Con la legge del 9 febbraio 1963, n. 66, le donnefurono ammesse «ai pubblici uffici ed alle professioni», ad esclusione di Guardia difinanza e Forze armate.

Lungo e complesso, quindi, l’iter legislativo attraverso il quale gli articoli dellaCostituzione potevano trovare le norme per essere messi in pratica.

Richieste e rivendicazioni per il lavoro in campagna e in fabbrica

L’immediato dopoguerra poneva i lavoratori della terra di fronte a numerosi proble-mi, fra questi la necessità, per fare fronte alla disoccupazione, di effettuare tutti i lavo-ri indispensabili per ricominciare la produzione anche sui terreni incolti. A questo siaffiancarono richieste di miglioramento delle condizioni salariali e dell’abolizione dialcune consuetudini come quella delle regalie. Già nel 1944 su «Noi donne» si trovavaun articolo in cui si metteva in luce come questo «dono obbligatorio» nei confronti deiproprietari dei fondi pesasse soprattutto sulle spalle delle donne.

Chi maggiormente sente il peso di quest’usanza di carattere feudale sono le donne contadine.Sono esse che curano il pollame, che si alzano di notte per assicurarsi che le chiocce non rom-pano le uova, che preparano il mangime; e sono le donne che di soliti traggono vantaggio daiprodotti del pollaio. Col ricavato dalla vendita del pollame, le massaie contadine compranospesso gli abiti loro e dei bimbi. [… ] Negli ultimi anni che precedettero il fascismo, in qual-che località il contadino era riuscito a sottrarsi all’obbligo umiliante delle regalie. Poi il fasci-smo, ha rimesso in vigore dovunque tale obbligo. Ma il fascismo è finito. E con esso dovreb-bero essere finiti tutti i residui feudali ancora esistenti nel nostro paese.50

Sovente queste regalie, per protesta, venivano donate agli ospedali o alle mense deipoveri, come avvenne a Bologna nell’inverno 1945-1946. Il 22 marzo1946 fu raggiun-to un accordo per i circondari di Forlì, Rocca San Casciano, Cesena e Rimini che pre-vedeva l’abolizione delle regalie.

Nell’immediato dopoguerra, a causa delle difficili condizioni di vita, molte furonole proteste e gli scioperi messi in atto dai lavoratori della terra. Il primo sciopero pro-vinciale dei braccianti bolognesi per un nuovo contratto ebbe luogo nell’estate del1947. Nel maggio 1948 vi fu lo sciopero delle mondine che chiedevano il contratto. Nelgiugno quindici mondine vennero arrestate perché avevano cercato di impedire l’impie-go dei lavoratori «crumiri». Le agitazioni furono numerose tanto che nel periodo mag-gio giugno 1948 nell’area bolognese gli scioperanti furono 14.846 di cui 8477 donneper una perdita complessiva di 237.320 giornate di lavoro.

Iniziarono in quel dopoguerra anche i cosiddetti scioperi a rovescio: il 15 marzo1949, in Emilia-Romagna, circa 4000 contadini diedero il via ad un’occupazione di

50 «Noi donne», 25 ottobre 1944, p. 2.

Page 200: 70 - online.ibc.regione.emilia-romagna.itonline.ibc.regione.emilia-romagna.it/I/libri/pdf/ERBA_70.pdf · Le donne organizzate: fasci femminili e sezioni operaie e lavoranti a domicilio

Il secondo dopoguerra e gli anni Cinquanta 183

terre incolte e la polizia intervenne per allontanarli effettuando complessivamente unaventina di arresti. Sul finire del 1949 si diffuse sempre più questo tipo di protesta, brac-cianti e mondine lavoravano anche dove il padrone non avrebbe voluto, a rischio del-l’arresto visto che si trattava di entrare in modo abusivo sulla proprietà privata.51

La contrapposizione politica, i riflessi della guerra fredda si fecero sempre piùcogenti e in questo clima di crescente tensione si arrivò allo sciopero generale dei brac-cianti e dei salariati fissi per rivendicare il primo contratto di lavoro nazionale il 16maggio 1949. Durante questi scioperi, in provincia di Bologna, ai confini con quella diFerrara, il 17 maggio 1949 fu uccisa una bracciante, Maria Margotti e circa 30 personefurono ferite. Il contesto in cui avvenne era particolarmente drammatico e lacerante: leforze dell’ordine spararono verso gli scioperanti che si erano recati a Marmorta, unafrazione di Molinella, per protestare contro l’impiego dei «crumiri» nel lavoro deicampi durante gli scioperi. Maria Margotti divenne, per gli scioperanti e soprattutto perle donne un «simbolo e una bandiera», numerosissime furono le persone che seguiro-no il suo funerale e la stampa di sinistra diede largo spazio a questo avvenimento. Digrande interesse è l’analisi del racconto fatto proprio sulla stampa, quotidiana e perio-dica;52 qui Maria Margotti una donna lavoratrice – era infatti una bracciante ed una ope-raia – venne descritta anche come madre: «avete ucciso una madre» era, ad esempio, iltitolo di un articolo di «Noi donne».53 Probabilmente sottolineare il suo essere madre,significava sì rimarcare la drammaticità dell’avvenimento, ricordando le sue due figlierimaste orfane dopo la precedente morte del padre, ma, si può forse affermare, che met-tere in rilievo nella descrizione l’‘essere madre’ significasse anche altro. In questo,come in altre numerose occasioni, possiamo ipotizzare una sorta di transizione nelmodello femminile: la donna, da madre e sposa, stava diventando anche lavoratrice edonna impegnata in politica, mentre ancora il ruolo famigliare era estremamente impor-tante e definente per le figure femminili. Fin da subito, evidentemente, questo avveni-mento ebbe risonanza locale e nazionale.54

Ci pare opportuno poi sottolineare come Maria Margotti sia stata ricordata comemondina, quando in realtà era una operaia della fornace di Argenta ed una bracciante.Sicuramente il fatto che sia stata uccisa su un argine può avere influenzato l’immaginecristallizzata nel ricordo, ma anche in questo caso ci pare che l’esemplarità del mestie-re di mondina e la caratterizzante presenza di queste figure professionali nelle zone danoi analizzate abbiano fatto includere anche Maria Margotti in questa categoria, quasia renderla ancora più «simbolo e bandiera».

In seguito allo sciopero i braccianti ottennero un aumento dell’indennità infortuni;l’impegno a corrispondere l’indennità di caro-pane e le prestazioni farmaceutiche ailoro familiari; l’emanazione della legge che estende il sussidio e l’indennità di disoc-cupazione a tutti i braccianti e salariati agricoli e che rappresenta una delle più grandiconquiste sul piano della legislazione sociale.

Nel 1957 a Sala Bolognese nella tenuta Barabana, le donne e gli uomini bracciantioccuparono la terra per evitare lo smembramento della tenuta e il loro allontanamento,

51 A. VERZELLI , PAOLA ZAPPATERRA, La vita, il lavoro, le lotte. Le mondine di Medicina negli anniCinquanta, Bologna, Aspasia, 2001, p. 24.

52 Le donne, le lotte, la memoria, 1949-1999 a cinquant’anni dalla morte di Maria Margotti, ricer-ca a cura dell’archivio storico dell’Udi e dell’Istituto di Storia Contemporanea di Ferrara, Ferrara, Edi-trice il globo, 1999.

53 «Noi donne», 29 maggio 1949.54 Atti Parlamentari Camera dei deputati CCXXXT, seduta di venerdì 20 maggio 1949.

Page 201: 70 - online.ibc.regione.emilia-romagna.itonline.ibc.regione.emilia-romagna.it/I/libri/pdf/ERBA_70.pdf · Le donne organizzate: fasci femminili e sezioni operaie e lavoranti a domicilio

184 Dal regime fascista agli anni Sessanta

l’occuparono e la lavorarono. Nel ferrarese l’anno successivo, in seguito ad annunciatilicenziamenti, venne messo in atto una protesta che prevedeva di mietere il grano conle macchine ma con la falce: in questo modo si salvava il raccolto, a mezzadria con ilpadrone del terreno, ma si lasciava sul campo la paglia che non era a mezzadria, ma chespettava tutta al proprietario.

Un impegno gravoso a cui donne e uomini si dedicarono con l’aiuto degli abitantidelle località, «Questa solidarietà attiva non è mai venuta meno alle donne e ai brac-cianti del ferrarese. […] Si sono viste andar sui campi le casalinghe e le merciaiole, glistudenti e le studentesse, i commercianti, gli operai; dai paesi si muoveva la venditricedi frutta e il farmacista».55

Nel 1959 a Ravenna i braccianti arrivano a fare 80 giornate di sciopero con una piat-taforma rivendicativa che prevedeva aumenti salariali, fine della sperequazione salaria-le tra uomini e donne, contrattazione per l’imponibile di manodopera.

Uomini e donne, quindi, scioperavano in quegli anni sulle stesse piattaforme riven-dicative e con le stesse modalità, dovendo affrontare le stesse difficoltà e gli stessirischi. E a quelle comuni si affiancavano richieste più legate alle esigenze delle donne,quale l’estensione della legge sulla maternità, si faceva strada, quindi, una mobilitazio-ne più specifica legata ad una attenzione al coinvolgimento delle donne da parte delleassociazioni e dei partiti, così come si è visto.

È in quest’ambito che nel 1953, in vista della Conferenza nazionale delle lavoratri-ci, il Congresso della Donna Italiana elaborò una serie di punti e di problemi da porrealla discussione delle mezzadre:

Rispetto dei diritti e della dignità delle donne mezzadre e colone.Per l’acquisizione di tutti i diritti sanciti per legge a degli accordi sindacali in favore di oltremezzo milione di donne della categoria.L’alleggerimento del lavoro e la riduzione delle ore lavorative con l’impiego di un più largonumero di macchine.Il giusto riconoscimento del proprio apporto nella produzione e compenso adeguato al lavorosvolto.Abitazione sane e sufficienti per tutte le famiglie. Contro i tuguri, fonte di malattie e di dege-nerazione sociale.Tutela della maternità, dell’infanzia e vecchiaia per mezzadre.Potenziamento delle attrezzature scolastiche e costruzione di scuole.56

L’impegno delle donne era rivolto, quindi, all’ottenimento di leggi che, mettendoin pratica il dettato costituzionale, prevedessero l’estensione della legge sulla lavora-trice madre anche a chi lavorava nel settore agricolo e garantissero l’effettiva parità frauomo e donna.

Coinvolgere le donne nell’organizzazione sindacale era un obiettivo consideratoessenziale dai partiti e dal sindacato.57 I dirigenti sindacali decisero, nel giugno 1947,di creare la Commissione femminile nazionale, composta da «sei comuniste, sei socia-liste, sei democristiane e cinque rappresentanti delle minoranze»,58 sancendo così uffi-cialmente il ritorno delle donne nell’organizzazione sindacale che avevano dovutoabbandonare con l’avvento del fascismo.

55 «Noi donne», n. 28, 13 luglio 1958, p. 15.56 «Bollettino unione donne italiane» n. 1-2, febbraio 1953, p. 17.57 «Noi donne», 25 ottobre 1944.58 «Notiziario Cgil», n. 8, 20 settembre 1047, p. 16.

Page 202: 70 - online.ibc.regione.emilia-romagna.itonline.ibc.regione.emilia-romagna.it/I/libri/pdf/ERBA_70.pdf · Le donne organizzate: fasci femminili e sezioni operaie e lavoranti a domicilio

Le donne avevano difficoltà a farelavoro politico e sindacale: la timidezza,la non abitudine a parlare in pubblico,l’estraneità ad una situazione in cui farvalere i propri diritti erano le cause diquesta difficoltà che colpivano nontanto le dirigenti nazionali ma soprattut-to i quadri intermedi e le operaie.«Siamo alle prime armi della vita sinda-cale democratica; alle prime armi sonole donne ed anche molti uomini».59

Il problema della disoccupazione edel blocco delle attività produttiveerano fra i primi da affrontare: il 12novembre 1945 a Santa Sofia, in pro-vincia di Forlì, le filandiere manifesta-no per ottenere lo sblocco della seta. Inquello stesso anno a Bologna, una dele-gazione composta dalle rappresentanzefemminili della Camera del Lavoro,dell’Udi, dei partiti socialista, comuni-sta, repubblicano e della sinistra cristia-na protestano con la direzione dellaCassa di Risparmio per il licenziamen-to di alcune impiegate.

Il tema del contratto, del superamen-to delle disparità salariale e dei licenziamenti erano fra quelli più sentiti in quei primi annidel dopoguerra, sia nelle grandi fabbriche sia nelle piccole attività.60 Ad esempio, scese-ro in sciopero su questi problemi le sarte bolognesi.61 Una richiesta era ben presente nellerivendicazioni delle donne, ed era quella di avere strutture tali da sostenere le donne nelloro lavoro: asili, mense e spogliatoi nelle fabbriche, assistenza, colonie per i bambini frale altre cose e le operaie delle industrie alimentari posero poi all’attenzione un tema estre-mamente importante: quello della salubrità sul posto di lavoro.62 Nel giugno 1949, duran-te gravi incidenti a Forlì, causati dall’intervento delle forze dell’ordine nel corso di unosciopero alla Mangelli, fu gravemente ferita Jolanda Bertaccini.63

In quegli anni si susseguirono licenziamenti di massa, quando si decideva di chiu-dere, spostare, riorganizzare le industrie, ma anche a sfondo politico quando venivanoallontanati i sindacalisti, gli operai e le operaie più attive sul piano politico; le reazionia queste decisioni prevedevano scioperi ed anche attività di solidarietà per gli operaicolpiti dai provvedimenti.

A Bologna, emblematica di questa situazione, fu la vicenda della Barbieri e Burzi.Il 5 dicembre si tenne nella fabbrica un’assemblea dei lavoratori contro il licenziamen-

Il secondo dopoguerra e gli anni Cinquanta 185

59 «La lotta», 4 gennaio 1947. 60 Su questo si veda R. ROPA, La presenza delle donne sulla scena pubblica. Lavoro e lotte a Bolo-

gna, «Resistenza oggi, quaderni bolognesi di storia contemporanea», giugno 2004.61 «La lotta», 14 maggio 1948.62 «La lotta», 28 maggio 1948.63 Camera dei deputati, resoconto stenografico, seduta di lunedì 17 ottobre 1949, p. 12290.

«La lotta» 20 maggio 1949, Fondazione IstitutoGramsci Emilia-Romagna, Bologna

Page 203: 70 - online.ibc.regione.emilia-romagna.itonline.ibc.regione.emilia-romagna.it/I/libri/pdf/ERBA_70.pdf · Le donne organizzate: fasci femminili e sezioni operaie e lavoranti a domicilio

186 Dal regime fascista agli anni Sessanta

Bologna. Delegazione di lavoratori della provincia presso lo stabilimento Barbieri e Burzi insolidarietà agli scioperanti, 30 gennaio 1948, Associazione Paolo Pedrelli, Archivio storicosindacale, Bologna

Page 204: 70 - online.ibc.regione.emilia-romagna.itonline.ibc.regione.emilia-romagna.it/I/libri/pdf/ERBA_70.pdf · Le donne organizzate: fasci femminili e sezioni operaie e lavoranti a domicilio

Il secondo dopoguerra e gli anni Cinquanta 187

to di Giorgio Barnabà, capofabbrica, contro la nomina di un nuovo vice direttore gene-rale e per l’assunzione di 40 lavoratori, come previsto dall’accordo siglato. Iniziò inquel momento una lunga e dura agitazione che portò all’occupazione e all’autogestio-ne dell’officina. Il blocco delle merci, deciso immediatamente dalle autorità e accoltocon commenti positivi su una parte della stampa locale e nazionale, impedì di dare unosviluppo produttivo significativo all’occupazione e dopo 34 giorni di occupazione, laCamera del Lavoro fu costretta a sospendere la lotta: vennero così confermati il licen-ziamento di Barnabà e di altri 40 operai.64

Durante questo periodo numerosi furono gli scioperi e le azioni di solidarietà, fu coin-volta tutta la città, e non solo attraverso le pagine dei giornali: le manifestazioni si susse-guirono, la popolazione venne invitata a sostenere economicamente la causa dei lavora-tori. Anche il Consiglio comunale di Bologna fu coinvolto e la vicenda ebbe eco nazio-nale tanto che il ministro del Lavoro, Fanfani, tentò senza successo una mediazione.65

L’autogestione continuò per alcune settimane grazie ad azioni di solidarietà organiz-zata, provenienti in particolar modo dalle campagne.

Durante un’altra vertenza, lunga e complessa, si mise in atto lo stesso meccanismodi solidarietà. Facciamo riferimento alle Officine Reggiane. Per protestare contro gliannunciati licenziamenti la fabbrica fu occupata dal 1950 al 1951, quando furono licen-ziati 5000 lavoratori.

Le donne, anche in questo caso, ebbero un ruolo importante per tenere accesa l’at-tenzione sul problema e per proporre azioni di solidarietà ai lavoratori delle Reggiane.

Qualche anno dopo fu una importante fabbrica bolognese a licenziare: nel luglio1952, 960 dipendenti della Ducati, di cui 600 donne ricevettero una lettera di licenzia-mento o di sospensione a tempo indeterminato. Il 27 luglio i sindacati indissero unosciopero generale in tutta la provincia contro il tentativo di liquidazione dell’azienda.Nel 1954 vi furono scioperi alla Pancaldi in seguito ai quali furono sospese 12 lavora-trici, fra cui le due della commissione interna. In questa fabbrica le donne scioperaro-no anche nel 1961.

Le operaie

Scriveva all’inizio degli anni Cinquanta Camilla Ravera:

Nelle fabbriche, nelle manifatture, nei laboratori, nelle aziende varie lavorano oggi milioni didonne. La conquista del posto di lavoro costa pesanti e faticose ricerche, insistenze, lotte: lastrada per arrivare all’occupazione è dura e penosa per tutti in Italia; ma durissima e cosparsadi particolari amarezze e umiliazioni per le donne, a cui si vuole concedere il lavoro soltantoa condizione che esso costi meno dell’eguale lavoro maschile, che esoneri il più possibile dagliobblighi e contributi dell’assistenza e della previdenza sociale, e dal rispetto delle qualifiche,delle carriere e così via.66

Nei primi anni del dopoguerra le donne costituivano gran parte dei due milioni didisoccupati registrati, soprattutto a causa della ristrutturazione dell’industria tessile e

64 MAURO BOARELLI, Strategie del conflitto: la vertenza «Barbieri e Burzi». Distretti, imprese, clas-se operaia. L’industrializzazione dell’Emilia-Romagna, a cura di Pier Paolo D’Attorre, Vera NegriZamagni, Milano, Franco Angeli, 1992.

65«Progresso d’Italia», dal 27 gennaio al 1° febbraio 1948.66 CAMILLA RAVERA Parole semplici e vere alle donne italiane, s-l., s.d., p. 1.

Page 205: 70 - online.ibc.regione.emilia-romagna.itonline.ibc.regione.emilia-romagna.it/I/libri/pdf/ERBA_70.pdf · Le donne organizzate: fasci femminili e sezioni operaie e lavoranti a domicilio

188 Dal regime fascista agli anni Sessanta

manifatturiera ad altissima composizione operaia femminile. La presenza delle donnenelle fabbriche era però una realtà ormai consolidata: nel 1951, le donne erano il 28%con cifre che aumentavano. In Emilia-Romagna nel 1951 vennero censite 90.557 donneche lavoravano in fabbrica e 324.821 uomini.

Negli anni dal 1954 al 1961 vi fu un aumento complessivo di due milioni e 300 milaunità circa di occupati in questo settore e fra questi un milione e 300 mila erano donne.Nel 1958 il 30,3% delle donne occupate lo erano nel settore industriale.

Fino alla fine degli anni Cinquanta le condizioni del lavoro operaio delle donne nel-l’industria, italiana ed europea, erano ancora molto difficili; molto spesso i peggiori postidi lavoro, quelli con una paga bassa, in stabilimenti disagiati, in locali non riscaldati,erano riservati alle donne a cui si affidavano i lavori monotoni, in Italia e in Europa.67

Sulle donne gravava anche il peso, al di fuori della fabbrica, delle molte responsa-bilità nella gestione del ménage familiare. La carenza di strutture, così come già accen-nato, peggiorava la situazione. Affermava Laura Diaz in un intervento al Parlamento:

non abbiamo purtroppo ancora trovato chi efficacemente sappia dire tutto il doloroso cari-co di fatica di milioni di donne italiane, le quali, uscendo esauste dalla porta della fabbri-ca, trovano a casa il fardello delle cure domestiche, i mastelli di panni da lavare, i fornellicui accudire, le stoviglie da governare, le cure morali e materiali da dedicare al marito edai figli. È disarmante ed amaro il constatare come questo umiliante stato di doppio sfrutta-mento operato sulla donna continui a d essere non soltanto accettato da buona parte dell’o-pinione pubblica, in prevalenza maschile, ma considerato persino come una condizionenormale. E non è comprensibile, onorevole Fanfani, l’asserito desiderio suo, del Governoe della maggioranza che lo sostiene, di affrontare indirizzi di rinnovamento della societàsenza dedicare nemmeno una piccola parte del programma governativo a questi aspettidella condizione della società in cui viviamo. La società italiana, e non soltanto la donna,ha bisogno di un ampio sviluppo della rete dei servizi sociali. E chiarisco subito che perservizi sociali intendo il complesso di strumenti rivolti a conciliare l’espletamento deidoveri familiari della donna con il suo lavoro extradomestico, con il suo diritto al lavoroextradomestico.68

Le donne cercavano di alleviare ed organizzare meglio il loro lavoro, chiedendo,creando, gestendo strutture come quelle dedicate all’infanzia a cui si è fatto cenno.Un’altra iniziativa che venne presa in quegli anni fu la richiesta di avere l’istituzio-ne del servizio pubblico di lavatrici meccaniche. Nel 1955 il progetto venne realiz-zato, in via sperimentale, grazie al contributo del comune di Bologna che avevadovuto superare gli ostacoli posti dalla Giunta provinciale amministrativa che nonriteneva di poter approvare questa spesa. Vi fu l’apertura di un primo servizio e quin-di solo nel 1957 vennero aperte otto lavanderie in altrettanti punti della città. Supe-rate le prime diffidenze – la paura che «la macchina» potesse rovinare la biancheria– le donne si trovarono soddisfatte del servizio. Gli uomini erano, e rimasero, un po’spiazzati dalle novità: «mia moglie da trent’anni fa il bucato da sé; cosa sono tuttequeste novità», affermavano.

Le donne cercavano, quindi, di portare la loro attività all’esterno dell’ambito dome-stico, si impegnavano nel lavoro, nella politica, nell’amministrazione, si ponevano fuoridal modello conosciuto. «Io non capisco, non capisco proprio, cosa vogliono fare le

67 MICHÈLE AUMONT, Femmes en usine: les ouvrières de la métallurgie parisienne, Paris, Spes, 1953.68 Resoconto stenografico, Intervento di Laura Diaz, III legislatura - discussioni - seduta antimeri-

diana dell’8 marzo 1962, pp. 27911 ss.

Page 206: 70 - online.ibc.regione.emilia-romagna.itonline.ibc.regione.emilia-romagna.it/I/libri/pdf/ERBA_70.pdf · Le donne organizzate: fasci femminili e sezioni operaie e lavoranti a domicilio

Il secondo dopoguerra e gli anni Cinquanta 189

donne oggi. Non vogliono più tenere i figli, non vogliono più lavare, ma che cos’è chevolete fare?», affermava un po’ smarrito, un assessore del comune di Bologna.69

Le donne continuarono ad essere prevalenti in industrie quali quelle tessili, ora nonpiù filande della seta ma produttrici di tessuti diversi, quelle alimentari, quelle chimi-che. Ma non mancava la loro presenza in tutti i settori industriali.

A partire dalla seconda metà degli anni Cinquanta le donne espulse dal manifatturie-ro tradizionale e quelle che arrivavano dalla campagna, furono assunte in quei settoridove la meccanizzazione dei processi produttivi permetteva la sostituzione della mano-dopera maschile qualificata; produzione di massa ed accentuazione della quantità rispet-to alla qualità portano alla richiesta di una manodopera flessibile, mobile, dequalificata,sottopagata, caratteristiche queste che storicamente connotano la forza lavoro femmini-le. Aumentarono gli occupati nell’industria, mutarono i settori industriali di maggior svi-luppo, aumentarono i consumi, cambiarono le aspirazioni e le richieste di uomini edonne. Vi fu una attenzione diversa anche da parta dei mass media al lavoro della donna:nel 1958 venne trasmessa in televisione una delle prime inchieste sul lavoro femminile,La donna che lavora, curata da Ugo Zatterin e Giovanni Salvi. L’inchiesta di otto punta-te prendeva in considerazioni i diversi settori del lavoro della donna e metteva in luce ildoppio ruolo a lei affidato, il lavoro esterno e lavoro interno alla famiglia, attraverso letestimonianze dirette di mondine, paglierine, operaie, commesse e madri di famiglia. Lafine degli anni Cinquanta, il 1958, segnarono un radicale mutamento nella storia econo-mica e sociale italiana: si entrava nel cosiddetto boom economico.

69 VITTORINA TAROZZI, Lavatrici meccaniche, nuovo servizio sociale, in Comunisti, i militanti bolo-gnesi del PCI raccontano, Roma, Editori Riuniti, 1983, pp. 263-265.

Bologna. Asilo della cooperativa operai fornaciai, anni ‘50, Centro italiano di documentazionesulla cooperazione e l’economia sociale, Bologna.

Page 207: 70 - online.ibc.regione.emilia-romagna.itonline.ibc.regione.emilia-romagna.it/I/libri/pdf/ERBA_70.pdf · Le donne organizzate: fasci femminili e sezioni operaie e lavoranti a domicilio

190 Dal regime fascista agli anni Sessanta

Il lavoro a domicilio: mutamenti e persistenze

Nel 1950 Teresa Noce, che era stata segretaria del sindacato dei tessili, e Giusep-pe Di Vittorio proposero un disegno legge per la regolamentazione del lavoro a domi-cilio, disegno che decadde nel 1950 a causa dello scioglimento delle Camere. La pro-posta di legge, oltre a definire il lavorante a domicilio e l’imprenditore che si avvale-va del lavoro a domicilio, vietava l’intermediazione (art. 2), stabiliva il sistema daadottare per la retribuzione (art. 6) e garantiva ai lavoranti a domicilio il trattamentoriservato ad ogni altro lavoratore per ciò che riguardava le festività, la gratifica e l’in-dennità di licenziamento (art. 10). In alcune regioni come l’Emilia e la Toscana giàdalla fine degli anni Quaranta erano state avanzate richieste perché venisse approvatauna legge capace di tutelare i lavoratori, o per meglio dire le lavoratrici, a domicilio.Nel 1948, ad esempio, a Reggio Emilia la commissione femminile del sindacato,ancora unitario, organizzò la Conferenza della donna reggiana lavoratrice a cui parte-ciparono 5000 donne. In quell’occasione fu approvato da tutte le rappresentanti dellediverse correnti un documento che, oltre a sancire i principi del diritto al lavoro e dellaparità salariale, affrontava proprio il problema del lavoro a domicilio.70 Il disegno dilegge fu ripresentato nel 195471 e il 13 marzo 1958 fu approvata la legge di regolamen-tazione del lavoro a domicilio. Questa legge, accogliendo le proposte contenute nelprogetto Noce-Di Vittorio, allargava la definizione di «lavorante a domicilio»; elimi-nava la figura dell’intermediario; obbligava gli imprenditori che intendevano affidarelavoro a domicilio ad iscriversi in un apposito registro presso l’ufficio provinciale dellavoro. Inoltre, con questa legge, le lavoranti a domicilio vennero equiparate alle altrelavoratrici per la tutela della maternità.

L’applicazione della legge risultò troppo macchinosa e largamente inevasa, lascian-do il lavoro a domicilio in un’area di sfruttamento delle donne.

Anche questo settore andava mutando: da lavoro che coinvolgeva soprattutto ledonne contadine, come impiego complementare o sostitutivo di quello agricolo, diven-tava una occupazione strettamente legata all’espansione economica e dei cambiamentidella produzione industriale. Soprattutto nei settori produttivi come il tessile, l’abbi-gliamento, la ceramica e l’industria chimica, in particolare il settore farmaceutico ecosmetico e quella delle materie plastiche il lavoro a domicilio, sottopagato e facilmen-te «in nero», permetteva di fare fronte alla concorrenza senza dover effettuare impor-tanti innovazioni strutturali negli opifici.72

Nel reggiano, nel carpigiano, in tutta l’Emilia-Romagna, era estremamente diffusoquesto particolare tipo di lavoro, visto che era presente

una tradizione ormai centenaria della lavorazione della paglia, del truciolo e del cappello, cheoccupava, soprattutto nei mesi invernali, centinaia di lavoratrici la cui paga – molte volte l’u-nica fonte della famiglia – era di appena 30 o 50 lire per treccia. La paga di una lavoratricetrecciaiola che lavorava dalle 12 alle 15 ore al giorno era di L. 150-300.73

Tradizionalmente le trecciaiole lavoravano a casa propria, d’inverno nella stalla, ederano pagate a seconda del numero di trecce prodotte ed i guadagni derivati da questa

70 P. GAIOTTI DE BIASE, La donna nella vita sociale e politica cit., p. 225.71 Camera dei deputati, Atti Parlamentari - Documenti - Disegni di legge e Relazioni, vol. XXIV.72 RINA PICOLATO, La piaga sociale del lavoro a domicilio, «Rinascita», n. 6, giugno 1957, pp. 283-284.73 P. GAIOTTI DE BIASE, La donna nella vita sociale e politica cit., p. 224.

Page 208: 70 - online.ibc.regione.emilia-romagna.itonline.ibc.regione.emilia-romagna.it/I/libri/pdf/ERBA_70.pdf · Le donne organizzate: fasci femminili e sezioni operaie e lavoranti a domicilio

Il secondo dopoguerra e gli anni Cinquanta 191

attività rappresentavano una cospicua fonte di reddito per le famiglie, ma con differen-ze tra la famiglia bracciantile e quella mezzadrile o contadina. Nella prima tutti faceva-no la treccia, uomini, donne e bambini. I guadagni che ne derivavano servivano quasisempre, soprattutto nel periodo invernale quando per gli uomini non c’era lavoro, amantenere la famiglia. Si faceva la treccia per comprare da mangiare. Nella famigliacontadina invece erano le donne e i bambini che facevano la treccia. Nel 1950 le donnedi Lavino, nel Bolognese, guadagnavano 36 lire al giorno lavorando la paglia.74

Quando cominciò il tramonto di questo tipo di produzione, si cominciò a lavorarecon le confezioni: camicie, maglie, pantaloni. Massiccia era la presenza di occupazio-ne femminile nel lavoro a domicilio, la cui composizione sociale variava dalle operaietradizionali a quelle licenziate dalla fabbrica, alle donne di famiglie artigiane, alle mez-zadre e alle braccianti, così come notevole era il divario tra il salario di queste lavora-trici e quello delle operaie di fabbrica che risultava intorno al 60-70%: per realizzare unsalario che potesse avvicinarsi a quello dell’operaia, le lavoratrici a domicilio doveva-no lavorare «13-14 ore al giorno, senza alcuna tutela assicurativa, senza usufruire dellenormali indennità contrattuali di fine anno, per ferie, festività, gratifica natalizia».75

Anche questo fu un tema affrontato nelle rivendicazioni sindacali e quando la SniaViscosa annunciò la smobilitazione della fabbrica, lavoratrici a domicilio e operaie siunirono in una lotta che riuscì ad imporre al nuovo proprietario, la Bloch, il riconosci-mento della parità di salario a parità di produzione.76

Il lavoro a domicilio, seppur sottopagato e non regolamentato, era a volte indispen-sabile per far quadrare il magro bilancio familiare. Lo si afferma in una inchiesta con-dotta nel 1955 sul periodico «Noi donne».

Ave è una sposa di Correggio. Ha due figli e con lei vive la vecchia mamma. Suo marito lavo-ra in una fabbrica di prodotti alimentari ed alla fine del mese, se tutto va bene, riesce a porta-re a casa una trentina di mila lire. Mille lire al giorno per cinque persone, senza contare luce,fitto, gas ed altre spese. La famiglia non va avanti. Ava cerca un lavoro. Ma le fabbriche con-tinuano a licenziare, anziché assumere. Un bel giorno infine, Ave trova una possibilità di lavo-ro a Carpi, in provincia di Modena, stanno sorgendo come funghi piccole e grandi industried’abbigliamento. Non assumono in fabbrica, ma a chi sia capace di lavorare di cucito dannolavoro da portare a casa.77

Nel marzo del 1962, Giorgio Bocca, in una serie di articoli pubblicati su «Il Gior-no» scriveva raccontando del carpigiano, zona in cui il lavoro a domicilio era, da sem-pre, estremamente presente e dove, in questa fine degli anni Cinquanta, la produzionedi maglieria si affiancava a quella delle trecce, fino a sostituirla:

centinaia di fabbrichette con il nome dell’azienda sopra: Clorinda, Miriam, Lucy, Giba,Noemi, Effegi, Globus, Marilyn, Magic, a volte i nomi delle mogli e delle figlie, un miraggiopaesano della Bassa. Sono fabbrichette strane, magari senza una macchina e con poche ope-raie ma capaci di fornire quantità inverosimili di maglie. Più che fabbriche, luoghi di recapitoe di smistamento per le lavoranti a domicilio, ma sì, quelle lunghe fila di donne in biciclettacon i fagotti appoggiati sul manubrio, matasse di lana se rincasano, maglie se vanno in azien-da. Nelle aziende si rifinisce il lavoro e si commercia.

74 «L’Unità», edizione di Bologna, 21 gennaio 1950.75 R. PICOLATO, La piaga sociale del lavoro a domicilio, «Rinascita», n. 6, giugno 1957, pp. 283-284.76 P. GAIOTTI DE BIASE, La donna nella vita sociale e politica cit., p. 225.77 «Noi donne», n. 47, 27 novembre 1955.

Page 209: 70 - online.ibc.regione.emilia-romagna.itonline.ibc.regione.emilia-romagna.it/I/libri/pdf/ERBA_70.pdf · Le donne organizzate: fasci femminili e sezioni operaie e lavoranti a domicilio

192 Dal regime fascista agli anni Sessanta

Soliera-Modena. Lavorante a domicilio su macchina per la produzione di teli per maglieria,ca. 1960, Archivio comune di Soliera, Fotomuseo Giuseppe Panini, Modena

Page 210: 70 - online.ibc.regione.emilia-romagna.itonline.ibc.regione.emilia-romagna.it/I/libri/pdf/ERBA_70.pdf · Le donne organizzate: fasci femminili e sezioni operaie e lavoranti a domicilio

Il secondo dopoguerra e gli anni Cinquanta 193

Carpi nel 1961 esportò prodotti per trenta miliardi, ovvero la metà dell’esporta-zione nazionale. Solo una piccola parte di queste maglie erano prodotte dagli operaiinterni alle fabbriche, la maggior parte della produzione veniva fatta dagli oltre47.000 lavoranti a domicilio distribuiti fra la provincia di Modena e le altre provincelimitrofe.78

Nel 1963 era più di un milione la stima che si poteva fare sul numero di donne chelavoravano a domicilio, a volte aiutate dai bambini e dai genitori. In questa sorta di«fabbriche» famigliari venivano eseguiti lavori di vario tipo: dipinte ceramiche, impac-chettati prodotti chimici, avvolte bobine, intrecciati cappelli e cestini, confezionatemaglie e camicie.

I salari continuavano ad essere molto bassi, in provincia di Modena, ad esempio, siandava dalle 105 lire giornaliere alle 250, secondo i dati ricavati da un questionarioeffettuato dai sindacati sovente le lavoratrici a domicilio dovevano anche acquistare lamacchina su cui lavoravano. Le donne che lavoravano a casa loro ricevevano, media-mente, uno stipendio all’ora pari al 56% di quello percepito dalle operaie.79

La campagna

Nel 1947 vi erano

nella provincia di Bologna circa 45.000 famiglie di lavoratori agricoli, vi sono quindi 45.000massaie che sopportano assieme al marito, quando addirittura non sono vedove, il peso dellafamiglia, spesso molto numerosa, che arriva in certi casi ai 20-25 componenti e che ha sem-pre una media dai 4 ai 9 componenti.Oltre a queste ve ne sono altre migliaia che esplicano il loro lavoro nei campi. In tutto noiabbiamo nella provincia di Bologna circa 50.000 donne che hanno come occupazione princi-pale quella agricola ed altre, circa 35.000, che, sempre di famiglia agricola, si dedicano all’a-gricoltura solo saltuariamente. Vi sono le braccianti e mondine, in tutto circa 24.000, le donnedelle famiglie dei mezzadri, dei fittavoli, dei piccoli proprietari coltivatori diretti.80

Alcuni mestieri della campagna ancora esclusivamente femminili, come quellodella monda del riso, alla vigilia del boom andavano scomparendo per diversi motivi.Innanzitutto i cambiamenti economici e tecnologici, quindi la volontà delle donne dicambiare mestiere. Nonostante questo, per tutti gli anni Cinquanta la monda era anco-ra molto praticata come nei secoli precedenti; un mestiere faticoso, sottopagato, insa-lubre. Renata Viganò definiva la monda un mestiere «retorico»,81 tanto che le braccian-ti molto spesso vennero rappresentate proprio durante la monda, «mestiere da donna»e quindi, faticoso e sottopagato.82

78 LUISA CIGOGNETTI, MARIO PEZZINI, Dalle paglie alle maglie. Carpi: la nascita di un sistema pro-duttivo, in Distretti, imprese, classe operaia cit, pp. 157-190.

79 PIERPAOLO LUZZATTO FEGIZ, Il volto sconosciuto dell’Italia dieci anni di sondaggi Doxa, Mila-no, Giuffrè, 1956.

80 «La lotta», 7 marzo 1947.81 RENATA VIGANÒ, Mondine, Modena, Arti grafiche modenesi, 1952, p. 25.82 FRANCO CAZZOLA, MANUELA MARTINI, Il movimento bracciantile in area padana, in PIERO BEVI-

LACQUA, Storia dell’agricoltura italiana in età contemporanea, II, Uomini e classi, Venezia, Marsilio,1990, pp. 773-774.

Page 211: 70 - online.ibc.regione.emilia-romagna.itonline.ibc.regione.emilia-romagna.it/I/libri/pdf/ERBA_70.pdf · Le donne organizzate: fasci femminili e sezioni operaie e lavoranti a domicilio

194 Dal regime fascista agli anni Sessanta

Dopo la retorica del fascismo, il film «Riso amaro», le descrizioni un po’ fantasio-se e mitizzate che in letteratura erano state fatte, le mondine rivendicavano che vi fosseuna descrizione precisa del loro lavoro. Scriveva Davide Lajolo:

ricordi, mi dicevi di dire chiaro sui giornali che era tempo di farla finita con il colore, le sto-rielle, le invenzioni allegre sulle mondine? Scrivete la verità, quello che siamo e come lo siamoe la gente ci capirà di più.83

Per le donne che partivano verso le risaie lontane, il viaggio era fatto sui treni bestia-me, «cavalli otto, uomini quaranta, ma le mondine anche in settanta» scriveva RenataViganò.84 Sui carri bestiame, perché alle mondine era vietato salire sui treni passegge-ri, come fecero presente alcune deputate in una interpellanza parlamentare nel 1951.85

Nella proposta di legge sul lavoro delle mondine presentata in Parlamento nel 1953 unarticolo prevedeva esplicitamente che fosse «in ogni caso vietato il trasporto delle lavora-trici mediante vetture o veicoli non destinati originariamente al trasporto di persone».

Nel 1956 venne decisa la diminuzione di coltivazione del riso, ma, nonostante que-sto, alla vigilia del boom, nel 1958, per la prima volta si invertì la situazione: ovvero larichiesta di manodopera era superiore all’offerta, forse perché le donne «Al lavoro fati-coso e insalubre della risaia preferiscono altri lavori, di maglieria, di sartoria, eseguitia domicilio».86

Nel decennio 1950-1960 ebbe inizio il cosiddetto processo di femminilizzazionedelle campagne causato da mutamenti economico-sociali: L’espansione del settoreindustriale richiamava manodopera maschile provocando un esodo dalle campagne e ladonna sostituiva il marito; in tale periodo la presenza delle donne aumentò significati-vamente contro una presenza maschile ridottasi di quasi la metà87 e molte donne furo-no costrette ad assumere il ruolo di capofamiglia diventando così soggetti visibili anchenelle rilevazioni statistiche.88

Il processo di femminilizzazione dell’agricoltura condusse alla presenza delledonne nella direzione delle aziende, soprattutto di quelle cooperative: percorso lungo ecomplesso che trovò una sua prima realizzazione proprio alla fine degli anni Cinquan-ta. Ad esempio nella cooperativa agricola di Baricella nel 1957 furono elette, per laprima volta, quattro donne alla direzione.

Le donne chiedevano poi di potersi specializzare, ma non sempre erano ascoltate,come sottolinearono le donne di Castelfranco Emilia alla Conferenza delle donne dellacampagna emiliana tenutasi a Ferrara nel 1962:

esiste ancora molta prevenzione nei nostri confronti: lavoriamo come gli uomini, ma se chie-diamo una scuola per la specializzazione agricola delle donne per diventare trattoriste, potatri-ci, magari anche agronome, tutti ci rispondono con una risata.89

83 «Noi donne», n. 23, 6 giugno 1945, p. 5.84 R. VIGANÒ, Mondine cit., p. 60.85 Camera dei deputati, resoconto stenografico, seduta 28 giugno 1951.86 «Annuario dell’agricoltura italiana», 1959, citato in GUIDO CRAINZ, Storia del miracolo italiano,

Torino, Donzelli, 2005, p. 72.87AMALIA SIGNORELLI, Il pragmatismo delle donne. La condizione femminile nella trasformazione

delle campagne, in Storia dell’agricoltura in età contemporanea , vol. II, Venezia, Marsilio, 1990, p. 630.88 F. TARICONE, Le donne di Coldiretti , Percorsi e strategie (1953-2003), Roma, B&C Editoria,

2003, p. 69.89 «Noi donne», n. 6, 11 febbraio 1962.

Page 212: 70 - online.ibc.regione.emilia-romagna.itonline.ibc.regione.emilia-romagna.it/I/libri/pdf/ERBA_70.pdf · Le donne organizzate: fasci femminili e sezioni operaie e lavoranti a domicilio

Il secondo dopoguerra e gli anni Cinquanta 195

Ferrara. Donna specializzata in potatura, «Noi donne», n. 10, 7 marzo 1964,Fondazione Istituto Gramsci Emilia Romagna, Bologna

Page 213: 70 - online.ibc.regione.emilia-romagna.itonline.ibc.regione.emilia-romagna.it/I/libri/pdf/ERBA_70.pdf · Le donne organizzate: fasci femminili e sezioni operaie e lavoranti a domicilio

196 Dal regime fascista agli anni Sessanta

Un esempio di questa volontà di specializzazione fu, ad esempio, il seguire il corsoper potatrice tenuto a Ferrara. «È una bellezza discutere da pari a pari con gli uomini edecidere insieme come va fatta la potatura o a quali condizioni vendere la frutta»90

affermava una delle quattro donne iscritte al corso, donne con una scolarità bassa, comeera comune nelle campagne, donne che in quel momento restavano una eccezione mache, comunque, mostravano una nuova tendenza.

Mestieri e professioni

Le donne ebbero, in questo secondo dopoguerra, in una Regione come quella emi-liano-romagnola un importante ruolo all’interno delle cooperative di lavoro.

Durate il regime fascista le cooperative, sorte nel primo dopoguerra, vennero dap-prima aggredite dalle squadre armate e poi proibite e, infine, fascistizzate. Non tutta lacooperazione che aveva avuto salde radici nel Nord Italia nel primo ventennio delNovecento, era stata però completamente distrutta dal fascismo: alla caduta del regimenel 1943 vi erano in Italia oltre 12.000 cooperative con più di tre milioni di soci.91 Nellecooperative di consumo molto esigua era la presenza femminile, 13.101 nel 1934 su untotale di 329.984; questo nonostante che queste fossero le cooperative in cui le donneerano maggiormente presenti. Esistevano comunque, nel 1928, cooperative «di lavoridonneschi».92

Nel dopoguerra le cooperative erano viste come uno strumento efficace per ripara-re ai danni della guerra che si era appena conclusa, una guerra che, come è noto, erastata devastante non solo per la popolazione ma anche per il territorio e le strutture agri-cole, artigianali e industriali. Anche per questo l’attenzione verso le cooperative eramolto viva, tanto che già nel periodo della clandestinità i dirigenti del Comitato di Libe-razione Nazionale diedero indicazioni per la creazione di nuove cooperative o per laricostruzione di quelle distrutte durante il ventennio93 e, nel 1945, a Roma venne rifon-data la Lega a cui aderirono cooperatori che si richiamarono ai partiti comunista, socia-lista, repubblicano, liberale, alla democrazia del lavoro, al partito d’azione e alla sini-stra cristiana. I cooperatori cattolici rifondarono la Confederazione delle cooperative.

Tra il 21 aprile e il 31 dicembre 1945 nella provincia di Bologna furono effettiva-mente costituite oltre 250 aziende autogestite94 e nel 1951 le cooperative esistenti in Ita-lia erano circa 25.000.95 Nel febbraio 1946 venne costituita la Direzione generale dellacooperazione e nel maggio 1947 fu approvato dall’Assemblea Costituente quello chedivenne l’articolo 45.

90 «Noi donne», n. 10, 7 marzo 1964.91 MASSIMO FORNASARI, VERA ZAMAGNI, Il movimento cooperativo in Italia. Un profilo storico-

economico (1854-1992), Firenze, Vallecchi, 1997, p. 145.92 MARIO MARAZZITTI, ROBERTO SANI, La cooperazione femminile nel periodo fascista: ideologia

ed esperienza, in L’audacia insolente la cooperazione femminile 1886-1986,Venezia, Marsilio, 1986,pp. 147-150.

93 VALERIO CASTRONOVO, Dal dopoguerra a oggi, in Renato Zangheri, Giuseppe Galasso, ValerioCastronovo, Storia del movimento cooperativo in Italia la Lega nazionale delle cooperative e mutue1886-1986, Torino, Einaudi, 1987. pp. 498 e ss.

94 LUIGI ARBIZZANI, NAZARIO SAURO ONOFRI, GIULIANA RICCI GAROTI, L’unione di mille strumentiStoria della cooperazione bolognese dal 1943 al 1956, Bologna, Editrice Emilia-Romagna, 1991 p. 95.

95 M. FORNASARI e V. ZAMAGNI, Il movimento cooperativo in Italia. Un profilo storico-economico(1854-1992) cit., p. 145.

Page 214: 70 - online.ibc.regione.emilia-romagna.itonline.ibc.regione.emilia-romagna.it/I/libri/pdf/ERBA_70.pdf · Le donne organizzate: fasci femminili e sezioni operaie e lavoranti a domicilio

Il secondo dopoguerra e gli anni Cinquanta 197

Anche a Modena vennero riattivate cooperative e ne sorsero di nuove già primadella Liberazione, quasi per un impulso spontaneo ad associarsi per risolvere i proble-mi legati alla disoccupazione, alla ricostruzione ed alle difficoltà nel reperire merci eprodotti di sostentamento.

Si formarono anche in quella realtà cooperative di consumo, agricole, di lavoro e diservizio, cantine sociali, latterie e fu rinsaldato il rapporto donne-cooperative: a Mode-na, nella primavera del 1948, si era costituita in seno alla Federazione Provinciale delleCooperative e Mutue di Modena una sezione femminile che organizzò il 29 agosto1948 il primo Convegno Provinciale delle Donne Cooperatrici.96

Le donne erano presenti nelle cooperative, in quelle agricole, nelle cooperative diconsumo, come impiegate negli uffici delle varie organizzazioni cooperative, ma eranoanche protagoniste e fondatrici di cooperative come quelle in cui si riunivano le sarte.

A Bologna, il 25 ottobre 1948, venne costituita da 25 sarte una cooperativa, nel1954 la Cooperativa Abbigliamento contava 300 socie e nel 1960, dodici anni dopo lasua fondazione, i soci erano oltre 500, tra cui una decina di uomini.97

Cooperative simili nacquero, anche per iniziativa dell’Udi, in molte località dellaRegione allo scopo di «eliminare la speculazione degli intermediari» e di assicurare unadeguato guadagno alle socie. Fra queste, ad esempio, cooperative di magliaie a Carpi,di sarte e pantalonaie a Reggio Emilia, delle lavoratrici della paglia a Scandiano. Inseguito nacquero nella provincia di Ravenna cooperative di sarte, magliaie, parrucchie-re ed anche per la lavorazione delle canne palustri.

Se queste cooperative erano legate all’Udi e alla Lega nazionale delle cooperative,anche le organizzazioni cattoliche, il Cif fra le altre, si occuparono di cooperazionefemminile nell’ambito della produzione soprattutto nell’ambito dei lavori «esclusiva-mente muliebri», ovvero sartorie, ricami e così via. Scriveva nel febbraio 1948 VittoriaFabris sul settimanale della Confederazione delle cooperative:

la cooperativa fra lavoranti a domicilio ha una fondamentale finalità sociale: quella di riporta-re la donna al lavoro a domicilio, mantenendola così nella sua posizione naturale di madre,sposa, figlia. È evidente che ciò in vista dei riflessi morali e spirituali ha grande rilievo per lasolidità del nucleo famigliare. La donna infatti è il perno su cui gravita l’ordine della famiglia.98

A Bologna sorse nel marzo 1951 una cooperativa legata all’Azione Cattolica, deno-minata Artico, in cui una quarantina di operaie si erano riunite per confezionare abiti,biancheria, abiti da lavoro.99

Ruoli ‘femminili’, quindi, e cooperative che si occupavano di lavori ‘femminili’,così come era nell’immagine tradizionale della donna. Un altro mestiere da donne era,lo abbiamo visto, quello dell’insegnamento. Nell’Italia del secondo dopoguerra ilmondo della scuola continuava ad essere un luogo frequentato dalle donne: alle elemen-tari e alle scuole d’infanzia le donne, considerate ancora come seconde mamme, eranomolto o esclusivamente presenti. Ancora, crescendo i bambini, alle scuole medie e alle

96 Io, noi, le cooperative le donne della cooperazione modenese raccontano, a cura di GabriellaVignudelli, Modena, Edizioni apm, 2005, pp. 6-7.

97 REMIGIO BARBIERI, Diecimila capi di maglieria esportati dalle sarte di Bologna, «Centro italia-no della moda», 15 novembre 1960.

98 MARCO GALLO, FRANCESCO DI DOMENICANTONIO, Cooperazione femminile, emancipazione delladonna. Mondo cattolico (1945-1955), in L’audacia insolente la cooperazione femminile cit., p. 178.

99 «Azione muliebre», marzo 1951, pp. 18-20.

Page 215: 70 - online.ibc.regione.emilia-romagna.itonline.ibc.regione.emilia-romagna.it/I/libri/pdf/ERBA_70.pdf · Le donne organizzate: fasci femminili e sezioni operaie e lavoranti a domicilio

198 Dal regime fascista agli anni Sessanta

superiori, diminuiva la presenza dei docenti di sesso femminile, per essere esiguo all’u-niversità,100 in Italia e nel contesto internazionale.101 In Emilia-Romagna su 17.388maestri, censiti nel 1951, gli uomini erano solo 3600; in Italia su un totale di 224.542gli uomini erano 58.630.

Gli Istituti magistrali, le Facoltà di Magistero erano frequentati per la maggior parte dadonne; nella Facoltà di Bologna, ad esempio, nel 1955, anno di fondazione, il totale degliiscritti era 201, di cui 148 donne; dieci anni dopo su 673 iscritti, 547 erano le donne.102

Il giornale locale di Bologna si lamentava che le donne avessero preso troppi postinell’istituzione scolastica, avevano «stravinto», arrivando «al punto che mentre gliuomini sono esclusi dalla direzione di certi istituti femminili, la professoressa puòdiventare preside di un liceo». In effetti erano state abolite le limitazioni risalenti alperiodo fascista.

L’articolista de «Il Resto del carlino» proseguiva poi affermando che la scuola«dopo la macchina da scrivere e la cuffia telefonica, è stata la prima preda delle donne

100 Enciclopedia della donna, a cura di Dina Bertoni Jovine, Roma, Editori Riuniti, 1965, vol. II,pp. 244-245. Si veda anche TINA TOMASI, Dalla scuola normale al liceo magistrale, «Scuola e città»,giugno-luglio 1965, pp. 425-430.

101 ROBERT W. CONNELL, Questioni di genere, Bologna, il Mulino, 2006.102 Da Magistero a scienze della formazione. Cinquant’anni di una Facoltà innovativa dell’Ateneo

bolognese, Bologna, Clueb, 2006, p. 676.

Sarte della cooperativa abbigliamento di Bologna, ca. 1960, Centro italiano di documentazionesulla cooperazione e l’economia sociale, Bologna

Page 216: 70 - online.ibc.regione.emilia-romagna.itonline.ibc.regione.emilia-romagna.it/I/libri/pdf/ERBA_70.pdf · Le donne organizzate: fasci femminili e sezioni operaie e lavoranti a domicilio

Il secondo dopoguerra e gli anni Cinquanta 199

emancipate». In questa situazione di scuola ‘femminilizzata’, concludeva il giornalista«le parole dell’apostolo Timoteo “non permetto alla donna di fare da maestra” acqui-stano un forte sapore di ironia».103

Un mestiere femminile, e che durante il fascismo era stato ulteriormente femminiliz-zato, era quello dell’infermiera. Nel 1951 infatti su 1404 persone che facevano questomestiere gli uomini erano solo 325, in Italia il totale era 16.648 e gli uomini 3.257. Nel-l’ambito delle professioni mediche e paramediche, le ostetriche continuavano ad esseresolo donne, mentre i dentisti quasi esclusivamente maschi (solo sei le donne dentiste inRegione su un totale di 226; 2336 gli uomini dentisti in Italia sul totale di 2411); anchei medici erano ancora in prevalenza uomini, e non poteva essere che così visto il pocotempo passato dalla fine del fascismo e della seconda guerra mondiale.

Il terziario era un altro campo in cui la presenza femminile si era fatta evidente,come già detto: negli anni Cinquanta si ebbe un aumento delle presenze del 32% per ledonne e del 30% per gli uomini.104

In uffici privati e pubblici le donne erano quindi presenti e «La Domenica del Corrie-re», ritenne necessario dare dei suggerimenti alle impiegate. Fra questi possiamo leggere:

abbiate cura della vostra persona, non fate la «civetta» in ufficio: potrebbe anche costarvi ilposto. Siate eleganti, con giudizio: cercate di evitare gli abiti troppo sfarzosi. Siate riservata,siate seria. Non mangiate né fumate in ufficio. Non siate troppo zelante, non siate pettegola.Abbiate una vita vostra, frenate il cuore, se possibile.105

Il contatto con il pubblico, con gli altri impiegati, con il capoufficio e il direttorepoteva esporre la donna a rischi, secondo una certa mentalità, tanto che il professorEmilio Zanini scriveva nel 1961:

là dove negli opifici, nei laboratori, nei servizi pubblici e privati, negli uffici il lavoro di svol-ge con promiscuità. In un’atmosfera materialistica lontana dalla concezione cristiana, là dovei dirigenti, i capiufficio, i capireparto indulgono sulla licenziosità dei discorsi che si svolgonodurante i riposi e sulla lettura di pubblicazioni illecite, le donne, specie le nubili e le giovanis-sime, si vengono a trovare in condizioni di grave disagio e se non sono difese da una retta edu-cazione, da una adeguata formazione religiosa e da una forte volontà, possono accedere adeviazioni, non di rado di indubbia gravità.106

Negli uffici privati, a volte non erano rispettate le condizioni previste dai contratti edagli obblighi assicurativi. Per «pigrizia o in odio a tutte le noiose pratiche sindacali eassicurative», come scrive il giornale delle donne cattoliche «Donne d’Italia», cosa che ledonne accettavano quasi sempre «specie quando la necessità di lavorare è prepotente. Per-ché anche le donne impiegate lavorano per bisogno o per desiderio di indipendenza».107

Le impiegate di Bologna e provincia, riunite in assemblea, secondo il resocontopubblicato da «La lotta» nel 1947 rilevavano

103 «Il Resto del Carlino», 13 dicembre 1950, p. 3.104 Camera dei deputati, resoconto stenografico, III legislatura - discussioni - seduta antimeridiana

dell’8 marzo 1962, pp. 27911.105 «La lotta», 11 luglio 1948, p. 10.106 EMILIO ZANINI, Il lavoro della donna nella società italiana di oggi, La donna e le professioni,

Atti del convegno di studi organizzato dall’Università Cattolica del Sacro Cuore, 5-8 settembre 1961,Milano, Società editrice Vita e Pensiero, p. 42.

107 «Donne d’Italia», n. 10, ottobre 1954, pp. 8-9.

Page 217: 70 - online.ibc.regione.emilia-romagna.itonline.ibc.regione.emilia-romagna.it/I/libri/pdf/ERBA_70.pdf · Le donne organizzate: fasci femminili e sezioni operaie e lavoranti a domicilio

200 Dal regime fascista agli anni Sessanta

la necessità da parte degli organi dello stato di un maggiore interessamento per le impiegate;la necessità che la Camera del lavoro locale e la Confederazione generale del lavoro intensifi-chi la sua azione per inquadrare nelle sue file tutte le impiegate degli studi professionali, dandoanche a queste lavoratrici la possibilità di usufruire di un contratto di lavoro che permetta lorouna vita dignitosa.108

Nel dopoguerra, e per tutti gli anni Cinquanta la presenza delle donne negli uffi-ci pubblici continuò a sollevare delle polemiche, e non solo per la loro «moralità»: sichiedeva, da più parti, il loro allontanamento adducendo la necessità di fare spazioagli uomini. Nel 1945 era stato chiesto di ripristinare la legge del 1938 inerente ilimiti della presenza femminile negli uffici pubblici, «Siamo stufi di vedere “segno-re” e “segnorine” impiegate dello Stato le quali a noi uomini l’impiego hanno leva-to», si affermava.

La legge non venne ripristinata, nelle amministrazioni pubbliche rimasero le donne.La percentuale femminile continuò a salire, anche se solitamente per le donne era dif-ficile fare carriera, sia per la presenza di una mentalità ostile sia per alcuni regolamen-ti o provvedimenti legislativi quale quello del 7 maggio 1948, n. 557 con il quale ledonne – pur riammesse ai concorsi per il personale tecnico di vigilanza presso l’Ispet-torato generale della motorizzazione civile e dei trasporti – venivano espressamenteescluse (art. 2) da quelli per l’accesso ai gradi più elevati.

Non tutte le carriere erano veramente possibili per le donne e le vere discussioni sifecero quando esse chiesero di entrare – così come la Costituzione sanciva – nelle pro-fessioni da sempre considerate maschili. La presenza delle donne in magistratura è ilcuore di questa situazione.

Il 7 novembre 1947, nella seduta pomeridiana dell’Assemblea Costituente, nell’am-bito del dibattito sull’assetto da dare alla magistratura, l’onorevole Giuseppe Bettiol,democristiano e laureato in giurisprudenza, dichiarava:

San Paolo diceva «Tacciano le donne nella Chiesa», se San Paolo fosse vivo direbbe «Faccia-no silenzio le donne anche nei tribunali», cioè non siano chiamate le donne ad esplicare que-sta funzione, la quale può arrivare (per fortuna noi abbiamo in parte eliminato questo perico-lo) a pronunziare una sentenza di morte. Perché il problema dell’amministrazione della giusti-zia è un problema razionale, è un problema logico, che deve essere impostato e risolto in ter-mini di forte emotività, non già di quella commozione puramente superficiale che è propriadel genere femminile. Quindi a mio avviso, le donne non dovrebbero essere chiamate ad espli-care la funzione giurisdizionale.

Le donne, quindi, secondo il parere dell’onorevole Bettiol, non potevano, a causadella «loro natura», occupare cariche nella magistratura.

Da San Paolo a Shakespeare, per trovare una base se non scientifica almeno cultu-rale per escludere le donne dalla magistratura: «nel Mercante di Venezia ha giudicatoPorzia e Porzia ha giudicato male», affermava l’onorevole Giovanni Persico, avvocatoiscritto al gruppo del partito socialista lavoratori italiani, che aggiungeva: «la donnasarà la madre dei giudici, sarà la ispiratrice dei giudici, ma è bene che lasci questa gravee talvolta terribile responsabilità agli uomini», parole non in netto contrasto a quellepronunciate dallo stesso onorevole l’8 marzo 1947 quando, in occasione della giornatainternazionale della donna, disse:

108 «La lotta», 23 maggio 1947.

Page 218: 70 - online.ibc.regione.emilia-romagna.itonline.ibc.regione.emilia-romagna.it/I/libri/pdf/ERBA_70.pdf · Le donne organizzate: fasci femminili e sezioni operaie e lavoranti a domicilio

Il secondo dopoguerra e gli anni Cinquanta 201

noi diamo la massima importanza alla femminilità, la quale non soltanto rappresenta la bellez-za della vita, ma è il conforto dell’uomo nella battaglia che ogni giorno combatte per la causadella libertà. Non possiamo parlare della donna senza ricordare le parole di Mazzini che ladisse sorella, madre, sposa, profumo della casa, speranza dell’avvenire.109

Giovanni Leone, avvocato democristiano e futuro presidente della Repubblica,affermava di non essere completamente contrario all’ingresso delle donne, seppur condelle limitazioni legate, ancora una volta, alle caratteristiche «naturali».

Si ritiene, però, che la partecipazione illimitata delle donne alla funzione giudiziaria non siaper ora da ammettersi. Che la donna possa partecipare, con profitto per la società, a quellaamministrazione della giustizia dove più può far sentire le qualità che le derivano dalla suafemminilità e dalla sua sensibilità, non può essere negato: si accenna qui, oltre che alla giuria– nel caso che questo istituto sia ripristinato – a quei procedimenti per i quali è più sentita lanecessità della presenza della donna, in quanto richiedono un giudizio il più possibile confor-me alla coscienza popolare. Anche il Tribunale dei minorenni sarebbe la sede più idonea perla partecipazione della donna. Ma, negli alti gradi della Magistratura, dove bisogna arrivarealla rarefazione del tecnicismo, è da ritenere che solo gli uomini possano mantenere quell’e-quilibrio di preparazione che più corrisponde per tradizione a queste funzioni.110

L’onorevole Carlo Molè, iscritto al gruppo Democrazia del lavoro, dichiarava il 31gennaio 1947, nella seduta pomeridiana, alla Commissione di «aver combattuto questaproposta sia in Consiglio dei ministri, che in seno alla Sottocommissione e non può cheripetere brevissimamente che ritiene non trattarsi né di superiorità, né di inferioritàdella donna di fronte all’uomo nella funzione giurisdizionale: è soprattutto per i moti-vi addotti dalla scuola di Charcot riguardanti il complesso anatomo-fisiologico che ladonna non può giudicare».

L’onorevole Maria Federici il 26 novembre 1947, nella seduta antimeridiana l’As-semblea Costituente, criticò fortemente gli oppositori.

Onorevoli colleghi, abbiamo inteso voci intonate e voci stonate, voci favorevoli e voci sfavo-revoli; abbiamo sentito portare innanzi argomenti così triti e così superficiali da generare,almeno in me, un senso di mortificazione. Abbiamo sentito citare argomenti di puro valoreaccademico, che molto spesso mi hanno fatto ripensare a quella accolta di illustri accademiciche perse il suo tempo per discutere se un pesce vivo pesasse più di un pesce morto! Si tratta-va di fare una semplice prova e di rimettersi alla bilancia. Ora anche qui, onorevoli colleghi,facciamo la prova, vediamo se la donna è veramente in grado di coprire le cariche che sonoinerenti all’alto esercizio della Magistratura. A tutto quanto è stato detto, io potrei rispondereche una raffinata sensibilità, una pronta intuizione, un cuore più sensibile alle sofferenzeumane e un’esperienza maggiore del dolore non sono requisiti che possano nuocere, sonorequisiti preziosi che possono agevolare l’amministrazione della giustizia. Potrei rispondereche le donne avranno la possibilità di fare rilevare attraverso un lungo tirocinio la loro capa-cità; saranno sottomesse e sottoposte ai concorsi e a una rigida selezione. Le donne che si pre-senteranno a chiedere di salire i gradi della Magistratura devono avere in partenza (e li avran-no) i requisiti che possono dare loro una certa garanzia di successo.Non so invece che cosa rispondere a coloro i quali ci hanno proposto di imitare i modellidomestici. Prima di tutto è uno sbaglio psicologico, perché noi donne amiamo differenziarci

109 Camera dei deputati, resoconto stenografico, seduta di sabato 8 marzo 1947, p. 1904.110 Seduta pomeridiana dell’Assemblea Costituente 7 novembre 1947, citato in ROMANO CANOSA,

Il giudice e la donna cento anni di sentenze sulla condizione femminile in Italia, Milano, Mazzotta,1978, p. 41.

Page 219: 70 - online.ibc.regione.emilia-romagna.itonline.ibc.regione.emilia-romagna.it/I/libri/pdf/ERBA_70.pdf · Le donne organizzate: fasci femminili e sezioni operaie e lavoranti a domicilio

202 Dal regime fascista agli anni Sessanta

fra noi sia pure nel dettaglio di un vestito o nel particolare di un ornamento, e se qualcuno chesiede qui ha la propria moglie che in casa fa la calza, non ritengo questo un argomento validoper invogliare una donna che chiede una toga ad accettare anziché una toga una calza.

Nel 1951 le deputate democristiane Erisia Tonietti Gennai e Maria Federici presen-tarono una legge sulla partecipazione delle donne alle giurie popolari nelle Corti d’As-sise che prevedeva il numero massimo di due donne in giuria, l’anno successivo MariaMaddalena Rossi, Pci, e la repubblicana Mary Tibaldi Chiesa presentarono due ordinidel giorno su questo tema. Nel 1953 deputati di diversi partiti presentano una propostadi legge per l’ammissione delle donne nelle giurie, infine nel 1955 fu approvata in Con-siglio dei ministri su proposta dell’onorevole Moro un progetto di legge e nel luglio1956 la Camera dei deputati approvò la legge che consentiva l’accesso delle donnenelle giurie popolari e che prevedeva obbligatoriamente la presenza come componenteprivata nel Collegio giudicante del Tribunale dei minori.111

111 «Noi donne», n. 32, 5 agosto 1956, p. 5.

Shell a Cesenatico, Fondo Nino Comaschi, 1956-1958 ca., Archivio fotografico Cinetecadel Comune, Bologna

Page 220: 70 - online.ibc.regione.emilia-romagna.itonline.ibc.regione.emilia-romagna.it/I/libri/pdf/ERBA_70.pdf · Le donne organizzate: fasci femminili e sezioni operaie e lavoranti a domicilio

Il secondo dopoguerra e gli anni Cinquanta 203

Nel 1958 tre donne fecero ricorso al Consiglio di Stato perché il concorso di udito-re giudiziario era stato riservato ai soli maschi, non ottenendo sentenze favorevoli.112

L’ingresso delle donne in magistratura fu infine sancito dalle legge n. 66 del 1963.Annunziata dall’onorevole democristiana Maria Coco il 5 agosto 1960, posta in discus-sione nella prima Commissione nel 1962 dove fu approvata il 28 novembre con il tito-lo «Ammissione della donna ai pubblici uffici ed alle professioni», la legge prevedeval’abrogazione della legge n. 1176 del 1919 e apriva la strada all’applicazione dellaCostituzione e permise, nel maggio del 1963, l’organizzazione del primo concorso peruditore giudiziario aperto alle candidate donne a cui risultarono idonee otto candidate.La migliore di queste si piazzò al quarto posto della graduatoria.

La legge del 1963 pur consentendo l’accesso delle donne a tutte le cariche pubbliche,mantenne una riserva sulla possibilità di arruolamento nelle Forze Armate. Nella legge n.66/1963 si sottolineava che per l’accesso al servizio militare era necessaria l’emanazionedi una apposita legge. Questo avvenne 36 anni dopo con la legge del 20 ottobre 1999.

Nel 1964 vi fu il primo concorso per la carriera diplomatica aperto alle donne, qual-che anno prima, nel 1959 era nato il Corpo di polizia femminile con la legge n. 1083 enel 1961 le prime 69 donne poliziotto entrarono in servizio con le funzioni previstedalla legge, ovvero:

– prevenzione e accertamenti dei reati contro la moralità pubblica ed il buon costume, la fami-glia e l’integrità e sanità della stirpe nonché dei reati in materia di tutela del lavoro delle donnee dei minori;– indagini ed atti di polizia giudiziaria relativi a reati commessi da donne o da minori deglianni 18 o in loro danno;– vigilanza ed assistenza di donne e di minori nei cui confronti siano stati adottati provvedi-menti di pubblica sicurezza o di polizia giudiziaria o che siano stati, comunque, convocatipresso gli uffici di pubblica sicurezza;– eventuali compiti di assistenza nei confronti di donne nonché di minori in stato di abbando-no morale e sociale mediante opportuni collegamenti con autorità ed enti che tali specificicompiti perseguono.

Una legge che chiedeva alle donne poliziotto di occuparsi di donne, di minori e dimorale.

112 R. CANOSA, Il giudice e la donna cit., p. 42.

Page 221: 70 - online.ibc.regione.emilia-romagna.itonline.ibc.regione.emilia-romagna.it/I/libri/pdf/ERBA_70.pdf · Le donne organizzate: fasci femminili e sezioni operaie e lavoranti a domicilio

Bibliografia

La bibliografia non ha pretese di completezza.È composta esclusivamente dalle opere con-sultate nel corso della preparazione del catalo-go e della mostra ed ha più i connotati di unostrumento di controllo o di un repertorio ditesti che hanno guidato la ricerca.

L’altra metà dell’impiego. La storia delledonne nell’amministrazione, a cura diChiara Giorgi, Guido Melis, AngeloVarni, Bologna, Bononia UniversityPress, 2005.

ARBIZZANI LUIGI, Le lavoratrici delle campa-gne durante il fascismo e la Resistenzanella Valle Padana, «Annali dell’IstitutoAlcide Cervi», 1991, 13, pp. 223-246.

ARRU ANGIOLINA, Lavorare in casa d’altri:servi e serve domestici a Roma nell’800,«Annali della Fondazione Lelio e LisliBasso», VII, 1983-1984, pp. 95-160.

ARRU ANGIOLINA, Il matrimonio tardivo deiservi e delle serve, «Quaderni storici»,XXIII, 1988, 68, pp. 469-496.

ARRU ANGIOLINA, Protezione e legittimazione:come si usa il mestiere di serva nell’Otto-cento, in Ragnatele di rapporti. Patronagee reti di relazione nella storia delle donne,a cura di Lucia Ferrante, Maura Palazzi,Gianna Pomata, Torino, Rosenberg & Sel-lier, 1988, pp. 381-416.

L’arte del truciolo a Carpi, Carpi, [s.n.], 1979.Artisti del quotidiano. Sarti e sartorie storiche

in Emilia-Romagna, a cura di Elisa TosiBrandi, Bologna, Clueb, 2009.

L’audacia insolente. La cooperazione femmi-nile 1886-1986, Venezia, Marsilio, 1986.

Balie da latte. Istituzioni assistenziali e priva-te in Toscana tra XVII e XX secolo, a curadi Adriana Dadà, Roma, Morgana edizio-ni, 2002.

Balie da latte. Una forma peculiare di emigra-zione temporanea, a cura di Daniela Perco,Feltre, [s.n.], 1984.

BALLESTRERO MARIA VITTORIA, Dalla tutelaalla parità. La legislazione sul lavorodelle donne, Bologna, il Mulino, 1979.

BALLESTRERO MARIA VITTORIA, La protezioneconcessa e l’eguaglianza negata: il lavorofemminile nella legislazione italiana, in Illavoro delle donne, a cura di Angela Grop-pi, Roma-Bari, Laterza, 1996, pp. 445-469.

BARBAGLI MARZIO, Sotto lo stesso tetto. Muta-menti della famiglia in Italia dal XV al XXsecolo, Bologna, il Mulino, 1984.

BARTOLONI STEFANIA, Donne nella CroceRossa Italiana tra guerre e impegno socia-le, Venezia, Marsilio, 2005.

BARTOLONI STEFANIA, Italiane alla guerra.L’assistenza ai feriti 1915-1918, Venezia,Marsilio, 2003.

BASSI ANGELINI CLAUDIA, Le signore delfascio. L’associazionismo femminile fasci-sta nel Ravennate 1919-1945, Ravenna,Longo, 2008.

BECALLI BIANCA, Donne e uomini nella divi-sione del lavoro, Milano, Angeli, 1991.

BIANCHI ORNELLA, Le lavoratrici del tabacconella storia del sindacalismo italiano, inMondi femminili in cento anni di sindaca-to, a cura di Gloria Chianese, Roma,Ediesse, 2008, pp. 87-105.

BIGARAN MARIAPIA, Donne e rappresentanzanel dibattito e nella legislazione tra ’800 e’900, in La sfera pubblica femminile. Per-corsi di storia delle donne in età contem-poranea, a cura di Dianella Gagliani,Mariuccia Salvati, Bologna, Clueb, 1992,pp. 63-72.

BINI GIORGIO, La maestra nella letteratura, inL’educazione delle donne. Scuole e model-li di vita femminile nell’Italia dell’Otto-cento, a cura di Simonetta Soldani, Mila-no, Angeli, 1989, pp. 331-362.

BOCK GISELA, Le donne nella storia europea.Dal Medioevo ai nostri giorni, Roma-Bari, Laterza, 2003.

Page 222: 70 - online.ibc.regione.emilia-romagna.itonline.ibc.regione.emilia-romagna.it/I/libri/pdf/ERBA_70.pdf · Le donne organizzate: fasci femminili e sezioni operaie e lavoranti a domicilio

206 Bibliografia

BOSERUP ESTER, Lavoro delle donne. La divisio-ne sessuale del lavoro nello sviluppo econo-mico, Torino, Rosenberg & Sellier, 1982.

BRAVO ANNA, Donne contadine e prima guer-ra mondiale, «Società e Storia», III, 1980,10, pp. 843-862.

BRAVO ANNA, Lavorare in tempo di guerra,«Memoria», 1990, 30, pp. 69-88.

BUTTAFUOCO ANNARITA, Cronache femminili.Temi e momenti della stampa emancipa-zionista in Italia dall’Unità al fascismo,Arezzo, Dipartimento di studi storico-sociali e filosofici, Università degli studidi Siena, 1988.

BUTTAFUOCO ANNARITA, La filantropia comepolitica. Esperienze dell’emancipazioni-smo italiano nel Novecento, in Ragnateledi rapporti. Patronage e reti di relazionenella storia delle donne, a cura di LuciaFerrante, Maura Palazzi, Gianna Pomata,Torino, Rosenberg & Sellier, 1988, pp.166-187.

BUTTAFUOCO ANNARITA, “In servitù regine”.Educazione ed emancipazione nella stam-pa politica femminile, in L’educazionedelle donne. Scuole e modelli di vita fem-minile nell’Italia dell’Ottocento, a cura diSimonetta Soldani, Milano, Angeli, 1989,pp. 363-392.

BUTTAFUOCO ANNARITA, Tra cittadinanza poli-tica e cittadinanza sociale. Progetti edesperienze del movimento politico delledonne nell’Italia liberale, in Il dilemmadella cittadinanza, Diritti e doveri delledonne, a cura di Gabriella Bonacchi,Angela Groppi, Roma-Bari, Laterza,1993, pp. 104-127.

CALAMANDREI CARLO, L’assistenza infermieri-stica. Storia, teoria, metodi, Firenze, LaNuova Italia, 1993.

CANOSA ROMANO, Il giudice e la donna. Centoanni di sentenze sulla condizione femmini-le in Italia, Milano, Mazzotta, 1978.

CAPECCHI VITTORIO, PESCE ADELE, L’AemiliaArs “merletti e ricami”. Storia di un’im-presa tutta femminile, in Aemilia Ars1898-1903. Arts & Crafts a Bologna, acura di Carla Bernardini, Doretta DavanzoPoli, Orsola Ghetti Baldi, Milano, A+Gedizioni, 2001, pp. 127-153.

CASALINI MARIA, Le serve e i loro padroni, inOperaie, serve, maestre, impiegate, a curadi Paola Nava, Torino, Rosenberg & Sel-lier, 1992, pp. 265-286.

CHIANESE GLORIA, Storia sociale della donnain Italia (1800-1980), Napoli, Guida,1980.

CONNELL W. ROBERT, Questioni di genere,Bologna, il Mulino, 2006.

Le crocerossine nella Grande guerra. Aristo-cratiche e borghesi nei diari e negli ospe-dali militari. Una via per l’emancipazionefemminile, a cura di Paolo Scaletti, Giulia-na Variola, Udine, Gaspari, 2008.

CURLI BARBARA, Italiane al lavoro 1914-1920, Venezia, Marsilio, 1998.

DALLA CASA BRUNELLA, Giorgina Saffi e l’as-sociazionismo femminile di fine Ottocen-to: la Società operaia femminile di Forlì,in Le donne in area padana: politica,lavoro, immaginario, numero unico di«Padania. Storia, cultura, istituzioni»,VIII, 1994, 16, pp. 48-65.

DALLA CASA BRUNELLA, Istruzione, lavoro edemancipazione femminile nel mutualismodi fine Ottocento. Alcune considerazioni,in La sfera pubblica femminile. Percorsidi storia delle donne in età contempora-nea, a cura di Dianella Gagliani, Mariuc-cia Salvati, Bologna, Clueb, 1992, pp.101-112.

D’ASCENZO MIRELLA, La scuola elementarenell’età liberale. Il caso Bologna 1859-1911, Bologna, Clueb, 1997.

DAU NOVELLI CECILIA, Società, chiesa e asso-ciazionismo femminile, Roma, AVE, 1988.

DE FORT ESTER, La scuola elementare dall’U-nità alla caduta del fascismo, Bologna, ilMulino, 1996.

DE GIORGIO MICHELA, Le italiane dall’Unitàad oggi. Modelli culturali e comportamen-ti sociali, Roma-Bari, Laterza, 1992.

DE GRAZIA VICTORIA, Le donne nel regimefascista, Venezia, Marsilio, 2007.

DELMONACO AURORA, La signorina a quadret-ti e altre lavoratrici insegnanti, in Mondifemminili in cento anni di sindacato, acura di Gloria Chianese, Roma, Ediesse,2008, pp. 209-272.

DI CORI PAOLA, Il doppio sguardo. Visibilitàdei generi sessuali nella rappresentazionefotografica (1908-1918), in La GrandeGuerra. Esperienza, memoria, immagini,a cura di Diego Leoni, Camillo Zadra,Bologna, il Mulino, 1986, pp. 765-800.

Il dilemma della cittadinanza. Diritti e doveridelle donne, a cura di Gabriella Bonacchi,Angela Groppi, Roma-Bari, Laterza, 1993.

Page 223: 70 - online.ibc.regione.emilia-romagna.itonline.ibc.regione.emilia-romagna.it/I/libri/pdf/ERBA_70.pdf · Le donne organizzate: fasci femminili e sezioni operaie e lavoranti a domicilio

Bibliografia 207

DITTRICH-JOHANSEN HELGA, Le «Militi dell’i-dea». Storia delle organizzazioni femmini-li del Partito Nazionale Fascista, Firenze,Olschki, 2002.

DOMENICALI ORNELLA, Emancipazione femmi-nile e pacifismo in Maria Goia, in Ledonne in area padana: politica, lavoro,immaginario, numero unico di «Padania.Storia, cultura, istituzioni», VIII, 1994, 16,pp. 66-82.

La donna nella famiglia e nel lavoro, a cura diGiovanna Rossi, Giuseppina Malerba,Milano, Angeli, 1993.

Donne al fronte. Le infermiere volontarienella Grande Guerra, a cura di StefaniaBartoloni, Roma, Jouvence, 1998.

Donne e giornalismo. Percorsi e presenze di unastoria di genere, a cura di Silvia Franchi,Simonetta Soldani, Milano, Angeli, 2004.

Donne e professioni nell’Italia del Novecento,a cura di Giovanna Vicarelli, Bologna, ilMulino, 2007.

Donne e spazio nel processo di modernizza-zione, a cura di Dianella Gagliani, Mariuc-cia Salvati, Bologna, Clueb, 1995.

Donne e uomini nelle guerre mondiali, a curadi Anna Bravo, Roma-Bari, Laterza, 1991.

Le donne in area padana: politica, lavoro,immaginario, numero unico di «Padania.Storia, cultura, istituzioni», VIII, 1994, 16.

Donne nella CGIL: una storia lunga un seco-lo. 100 anni di lotte per la dignità, i dirit-ti e la libertà femminile, a cura di LuciaMotti, Roma, Ediesse, 2006.

Donne, scuola, lavoro. Dalla scuola professio-nale “Regina Margherita” agli istituti“Elisabetta Sirani” di Bologna 1895-1995, a cura di Brunella Dalla Casa,Imola, Galeati, 1996.

DUBY GEORGES, PERROT MICHELLE, Storiadelle donne in Occidente. L’Ottocento, acura di Geneviéve Fraisse, Michelle Per-rot, Roma-Bari, Laterza, 1991.

E’ brava ma… donne nella Cgil 1944-1962, acura di Simona Lunadei, Lucia Motti,Maria Luisa Righi, Roma, Ediesse, 1999.

Educazione e ruolo femminile. La condizionedelle donne in Italia dal dopoguerra adoggi, a cura di Simonetta Ulivieri, Scan-dicci, La Nuova Italia, 1992.

L’emancipazione femminile in Italia. Un seco-lo di discussioni 1861-1961: atti del Con-vegno organizzato dal Comitato di asso-ciazioni femminili per la parità di retribu-

zione in occasione del primo centenariodell’Unità d’Italia, Torino, 27-28-29 otto-bre 1961, Firenze, La Nuova Italia, 1963.

ERIOLI ELISA, L’ “Ufficio Notizie alle famigliedei militari”. Una grande storia di volon-tariato femminile bolognese, in Archiviarela guerra. La Prima Guerra Mondialeattraverso i documenti del Museo delRisorgimento, a cura di Mirtide Gavelli,«Bollettino del Museo del Risorgimento»,L, 2005, pp. 75-90.

Esistere come donna, Milano, Mazzotta, 1983.Essere donne insegnanti. Storia, professiona-

lità e cultura di genere, a cura di Simonet-ta Ulivieri, Torino, Rosenberg & Sellier,1996.

FERRARA PATRIZIA, Le donne negli uffici, inImpiegati, a cura di Guido Melis, Torino,Rosenberg & Sellier, 2004, pp. 125-162.

FIUMI ALESSANDRA, Infermieri e ospedale:storia della professione infermieristica tra’800 e ’900, Verona, Nettuno, 1993.

FURLAN PAOLA, Il lavoro delle donne dallaricostruzione agli anni Sessanta, Bologna,Futura Press, 1993.

GABRIELLI PATRIZIA, Il club delle virtuose. Udie Cif nelle Marche dall’antifascismo allaguerra fredda, Ancona, Il lavoro editoria-le, 2000.

GAGLIANI DIANELLA, Welfare State come uma-nesimo e antipatronage. Un’esperienzadelle donne nel secondo dopoguerra, in Lasfera pubblica femminile. Percorsi di sto-ria delle donne in età contemporanea, acura di Dianella Gagliani, Mariuccia Sal-vati, Bologna, Clueb, 1992.

GAIOTTI DE BIASE PAOLA, La donna nella vitasociale e politica della Repubblica 1945-1948, Milano, Vangelista, 1977, pp. 9-182.

GAIOTTI DE BIASE PAOLA, Le origini del movi-mento cattolico in Italia, Brescia, Morcel-liana, 1963.

GALOPPINI ANNAMARIA, Il lungo viaggio versola parità. I diritti civili e politici delledonne dall’Unità ad oggi, Bologna, Zani-chelli, 1980.

GARIBALDI LUCIANO, Le soldatesse di Musso-lini, Milano, Mursia, 1997.

GAROFALO ANNA, L’Italiana in Italia, Bari,Laterza, 1956.

Genere. La costruzione sociale del femminile edel maschile, a cura di Simonetta PicconeStella, Chiara Saraceno, Bologna, il Muli-no, 1996.

Page 224: 70 - online.ibc.regione.emilia-romagna.itonline.ibc.regione.emilia-romagna.it/I/libri/pdf/ERBA_70.pdf · Le donne organizzate: fasci femminili e sezioni operaie e lavoranti a domicilio

208 Bibliografia

GIANNETTO MARINA, «Tre lire al giorno,pazienza, attenzione, minori distrazioni»:le donne nelle Poste e telegrafi, in L’altrametà dell’impiego. La storia delle donnenell’amministrazione, a cura di ChiaraGiorgi, Guido Melis, Angelo Varni, Bolo-gna, Bononia University Press, 2005, pp.31-48.

GIGLI MARCHETTI ADA, Le risorse del reperto-rio dei periodici femminili lombardi, inDonne e giornalismo. Percorsi e presenzedi una storia di genere, a cura di SilviaFranchi, Simonetta Soldani, Milano,Angeli, 2004, pp. 295-308.

GIORGI CHIARA, L’emarginazione femminilenella pubblica amministrazione tra le dueguerre: storie di donne, in L’altra metà del-l’impiego. La storia delle donne nell’am-ministrazione, a cura di Chiara Giorgi,Guido Melis, Angelo Varni, Bologna,Bononia University Press, 2005, pp. 79-98.

GIOVANELLI LORETTA, Vita di fabbrica dellesigaraie modenesi tra Otto e Novecento.Una ricerca sui registri disciplinari, inOperaie, serve, maestre, impiegate, a curadi Paola Nava, Torino, Rosenberg & Sel-lier, 1992, pp. 363-376.

GISSI ALESSANDRA, Le segrete manovre delledonne. Levatrici in Italia dall’Unità alfascismo, Roma, Biblink, 2006.

GUIDICINI PAOLO, ALVISI CATERINA, L’arzdau-ra. Donne e gestione familiare nella realtàcontadina, Milano, Angeli, 1994.

IMBERGAMO BARBARA, SCATTIGNO ANNA,«Una forza nuova». Le donne nel movi-mento dei lavoratori dalle prime organiz-zazioni alla repressione fascista, in Donnenella CGIL: una storia lunga un secolo, acura di Lucia Motti, Roma, Ediesse, 2006,pp. 169-199.

IMPRENTI FIORELLA, Operaie e socialismo.Milano, le Leghe femminili, la Camera delLavoro (1891-1918), Milano, Angeli, 2007.

In guerra e in pace. Storia fotografica delCorpo delle infermiere volontarie dellaCroce Rossa Italiana, Roma, Palombi,1990.

LANZARDO LILIANA, Dalla bottega artigianaalla fabbrica, Roma, Editori Riuniti,1999, (Storia fotografica della società ita-liana).

LANZARDO LILIANA, Donne e guerra, in Guer-ra vissuta, guerra subita, Bologna, Clueb,1991, pp. 19-108.

LANZARDO LILIANA, Il mestiere prezioso. Rac-conti di ostetriche, Torino, Gruppo edito-riale Forma, 1985.

Il lavoro delle donne, a cura di Angela Grop-pi, Roma-Bari, Laterza, 1996.

Il lavoro di balia. Memoria e storia dell’emi-grazione femminile da Ponte Buggianesenel ’900, a cura di Adriana Dadà, Ospeda-letto (Pisa), Pacini editore, 1999.

Il lavoro femminile nell’Ottocento e nel Nove-cento. Le tabacchine. Coltivatrici, produt-trici e venditrici, a cura di Fiorenza Tarico-ne, Roma, Gangemi editore, 2005.

MAHLER VANESSA, Tenere le fila. Sarte, sarti-ne e cambiamento sociale 1860-1960,Torino, Rosenberg & Sellier, 2007.

MANZONI EDOARDO, Storia e filosofia dell’as-sistenza infermieristica, Milano, Masson,1996.

MARCHIANÒ GIOVANNA, Fascismo e organizza-zione del consenso. La politica demografi-ca, in Storia dell’Emilia Romagna, a curadi Aldo Berselli, Bologna, UniversityPress, 1980.

MARTINELLI FRANCO, Assistenti sociali nellasocietà italiana contributo ad una sociolo-gia della professione, Roma, Istituto pergli studi di servizio sociale, 1965.

MARTINI MANUELA, Divisione sessuale deiruoli e azione collettiva nelle campagnepadane di fine Ottocento, in Donne e spa-zio nel processo di modernizzazione, acura di Dianella Gagliani, Mariuccia Sal-vati, Bologna, Clueb, 1995, pp. 75-110.

MARTINI SILVIA, L’associazionismo economicodelle donne: un vuoto da colmare?, in Lasfera pubblica femminile. Percorsi di sto-ria delle donne in età contemporanea, acura di Dianella Gagliani, Mariuccia Sal-vati, Bologna, Clueb, 1992, pp. 73-80.

MERLI STEFANO, Proletariato di fabbrica ecapitalismo industriale. Il caso italiano1880-1900, Firenze, La Nuova Italia,1972.

Mondi femminili in cento anni di sindacato, acura di Gloria Chianese, Roma, Ediesse,2008.

MONTALTI SANDRA, La formazione del perso-nale infermieristico a Cesena tra la finedell’800 e l’inizio del ’900, in Sanità esocietà a Cesena 1297-1997, a cura di Ste-fano Arieti, Giovanni Camaeti, ClaudioRiva, Cesena, Il Ponte Vecchio, 1999, pp.289-295.

Page 225: 70 - online.ibc.regione.emilia-romagna.itonline.ibc.regione.emilia-romagna.it/I/libri/pdf/ERBA_70.pdf · Le donne organizzate: fasci femminili e sezioni operaie e lavoranti a domicilio

Bibliografia 209

MOTTI LUCIA, Trecento foto per raccontare unsecolo di storia, in Donne nella CGIL:una storia lunga un secolo, a cura di LuciaMotti, Roma, Ediesse, 2006.

NAVA PAOLA, La fabbrica dell’emancipazione.Operaie della Manifattura tabacchi diModena. Storie di vita e di lavoro, Roma,Utopia, 1896.

ODORISIO MARIA LINDA, Le impiegate delMinistero delle Poste, in Il lavoro delledonne, a cura di Angela Groppi, Roma-Bari, Laterza, 1996, pp. 398-420.

Operaie, serve, maestre, impiegate, a cura diPaola Nava, Torino, Rosenberg & Sellier,1992.

ORTAGGI CAMMAROSANO SIMONETTA, Condi-zione femminile e industrializzazione traOtto e Novecento, in Tra fabbrica esocietà. Mondi operai nell’Italia del Nove-cento, a cura di Stefano Musso, Milano,Feltrinelli, 1999, pp. 109-172.

PALAZZI MAURA, Donne delle campagne edelle città: lavoro ed emancipazione, inStoria d’Italia. Le regioni dall’Unità adoggi. L’Emilia Romagna, a cura di RobertoFinzi, Torino, Einaudi, 1997, pp. 375-409.

PALAZZI MAURA, Donne sole. Storia dell’altrafaccia dell’Italia tra antico regime esocietà contemporanea, Milano, BrunoMondadori, 1997.

PALAZZI MAURA, Famiglia, lavoro e proprietà.Le donne nella società contadina tra conti-nuità e trasformazione, in Società rurale eruoli femminili in Italia fra Ottocento eNovecento, a cura di Paola Corti, «Annalidell’Istituto A. Cervi», XII, 1990, pp. 25-80.

PALAZZI MAURA, Il lavoro delle contadine, inTra passione e professione. Il lavoro dellacanapa nelle fotografie di un cicloturista:Antonio Pezzoli (1870-1943), a cura diAngela Tromellini, Stefano Pezzoli, SilvioFronzoni, Bologna, Editrice Compositori,2001, pp. 127-135.

PALICI DI SUNI ELISABETTA, Il lavoro delledonne nell’Italia del Novecento tra paritàe protezione, in L’altra metà dell’impiego.La storia delle donne nell’amministrazio-ne, a cura di Chiara Giorgi, Guido Melis,Angelo Varni, Bologna, Bononia Univer-sity Press, 2005, pp. 17-30.

PANCINO CLAUDIA, Il bambino e l’acqua spor-ca. Storia dell’assistenza al parto dallemammane alle ostetriche, Milano, Angeli,1984.

PANCINO CLAUDIA, La comare levatrice. Crisidi un mestiere nel XVIII secolo, «Società estoria», 1981, 4, pp. 593-638.

PANCINO CLAUDIA, La levatrice nelle primeregolamentazioni dell’Italia unita, in Ope-raie, serve, maestre, impiegate, a cura diPaola Nava, Torino, Rosenberg & Sellier,1992, pp. 377-385.

PANCINO CLAUDIA, Le ostetriche lombarde nel-l’Ottocento, in Donna lombarda 1860-1945, a cura di Ada Gigli Marchetti,Nanda Torcellan, Milano, Angeli, 1992,pp. 225-233.

PASSERA OLGA, Assistenza infermieristica.Storia sociale, Milano, Casa editriceAmbrosiana, 1993.

PEDROCCO GIORGIO, Le operaie delle manifat-ture tabacchi, in Operaie, serve, maestre,impiegate, a cura di Paola Nava, Torino,Rosenberg & Sellier, 1992, pp. 353-362.

PELAJA MARGHERITA, Mestieri femminili e luo-ghi comuni. Le domestiche a Roma a metàOttocento, «Quaderni storici», XXIII, 68,1988, pp. 497-518.

Percorsi di vita femminile. La donna attraver-so l’immagine tra Ottocento e Novecento,a cura di Luciana Nora, Carpi, [s.n.],1990.

PESCAROLO ALESSANDRA, Il lavoro a domiciliofemminile: economie di sussistenza in etàcontemporanea, in Tra fabbrica e società.Mondi operai nell’Italia del Novecento, acura di Stefano Musso, Milano, Feltrinelli,1999, pp. 173-195.

PESCAROLO ALESSANDRA, Il lavoro delle donnee l’industria domestica, «Annali dellaFondazione Giangiacomo Feltrinelli»,XXX, 1997, pp. 173-195.

PESCAROLO ALESSANDRA, Il lavoro e le risorsedelle donne, in Storia sociale delle donnenell’Italia contemporanea, a cura di AnnaBravo, Margherita Pelaja, AlessandraPescarolo, Lucetta Scaraffia, Roma-Bari,Laterza, 2001, pp.127-178.

PIERONI BORTOLOTTI FRANCA, Alle origini delmovimento femminile in Italia 1848-1892,Torino, Einaudi, 1975.

PIERONI BORTOLOTTI FRANCA, Socialismo equestione femminile in Italia 1892-1922,Milano, Mazzotta, 1974.

PISA BEATRICE, Una azienda di Stato a domi-cilio: la confezione di indumenti militaridurante la grande guerra, «Storia contem-poranea», XX, 1989, 6, pp. 953-1006.

Page 226: 70 - online.ibc.regione.emilia-romagna.itonline.ibc.regione.emilia-romagna.it/I/libri/pdf/ERBA_70.pdf · Le donne organizzate: fasci femminili e sezioni operaie e lavoranti a domicilio

210 Bibliografia

PISONI CERLESI INES, La parità di salario inItalia. Lotte e conquiste delle lavoratricidal 1861 a oggi, Roma, Editrice Lavoro,1959.

PORCIANI ILARIA, Sparsa di tanti triboli: lacarriera della maestra, in Le donne ascuola. L’educazione femminile nell’Italiadell’800, a cura di Ilaria Porciani, Firenze,Il sedicesimo, 1987, pp. 170-173.

PROCACCI GIOVANNA, La protesta delle donnedelle campagne in tempo di guerra,«Annali dell’Istituto Alcide Cervi», 1991,13, pp. 57-87.

Professione e genere nel lavoro sociale, a curadi Pierangela Benvenuti, Roberto Sgatori,Milano, Angeli, 2000.

Ragnatele di rapporti. Patronage e reti di rela-zione nella storia delle donne, a cura diLucia Ferrante, Maura Palazzi, GiannaPomata, Torino, Rosenberg & Sellier,1988.

REGGIANI FLORES, Un problema tecnico e unproblema morale: la crisi delle domestichea Milano (1890-1914), in, Donna lombar-da 1860-1945, a cura di Ada Gigli Mar-chetti, Nanda Torcellan, Milano, Angeli,1992, pp. 149-179.

ROPA ROSSELLA, La presenza della donnasulla scena pubblica. Lavoro e lotte aBologna, «Resistenza oggi. Quadernibolognesi di storia contemporanea»,XXIV, 2004, 5, pp. 35-42.

ROPA ROSSELLA, La presenza delle donne sullascena pubblica nella stampa locale diarea cattolica (1945-1946), in La fonda-zione della Repubblica modelli e immagi-nario repubblicani in Emilia e Romagnanegli anni della Costituente, a cura diMariuccia Salvati, Milano, Angeli, 1999.

ROSSI-DORIA ANNA, Le donne sulla scena poli-tica, in Storia dell’Italia repubblicana,Torino, Einaudi, 1994, vol. I, pp. 780-846.

SALVATI MARIUCCIA, Studi sul lavoro delledonne e peculiarità del caso italiano, inAlla ricerca del lavoro tra storia e socio-logia. Bilancio storiografico e prospettivedi studio, a cura di Varni Angelo, Torino,Rosenberg & Sellier, 1998, pp. 113-132.

SALVATICI SILVIA, Contadine dell’Italia fasci-sta. Presenze, ruoli, immagini, Torino,Rosenberg & Sellier, 1999.

SANTONI RUGIU ANTONIO, Maestre e maestri.La difficile storia degli insegnanti elemen-tari, Roma, Carocci, 2006.

SARTI RAFFAELLA, Servire al femminile, servi-re al maschile nella Bologna sette-otto-centesca. Introduzione alla ricerca, inOperaie, serve, maestre, impiegate, a curadi Paola Nava, Torino, Rosenberg & Sel-lier, 1992, pp. 237-264.

SARTI RAFFAELLA, La servitù domestica comeproblema storiografico, «Storia e problemicontemporanei», 1997, 20, pp. 159-184.

SAVELLI LAURA, Contadine e operaie. Donneal lavoro negli stabilimenti della SocietàMetallurgica Italiana, «Annali dell’Istitu-to Alcide Cervi», 1991, 13, pp. 119-132.

SCARAFFIA LUCETTA, Essere uomo, esseredonna, in Storia sociale delle donne nel-l’Italia contemporanea, a cura di AnnaBravo Anna, Margherita Pelaja, Alessan-dra Pescarolo, Lucetta Scaraffia, Roma-Bari, Laterza, 2001, pp. 3-76.

SCOTT W. JOAN, La donna lavoratrice nel XIXsecolo, in Storia delle donne in Occidente.L’Ottocento, a cura di Geneviéve Fraisse,Michelle Perrot, Roma-Bari, Laterza,1991, pp. 355-385.

La sfera pubblica femminile. Percorsi di storiadelle donne in età contemporanea, a curadi Dianella Gagliani, Mariuccia Salvati,Bologna, Clueb, 1992.

SIGNORELLI AMALIA, Il pragmatismo delledonne. La condizione femminile nella tra-sformazione delle campagne, in Storiadell’agricoltura in età contemporanea,vol. II, Venezia, Marsilio, 1990.

SIRONI CECILIA, Storia dell’assistenza infer-mieristica, Roma, Nuova Italia Scientifi-ca, 1991.

SOLDANI SIMONETTA, Donne educanti, donneda educare. Un profilo della stampa fem-minile toscana (1770-1945), in Donne egiornalismo. Percorsi e presenze di unastoria di genere, a cura di Silvia Franchi,Simonetta Soldani, Milano, Angeli, 2004,pp. 309-353.

SOLDANI SIMONETTA, Le donne, l’alfabeto, loStato. Considerazioni su scolarità e citta-dinanza, in La sfera pubblica femminile.Percorsi di storia delle donne in età con-temporanea, a cura di Dianella Gagliani,Mariuccia Salvati, Bologna, Clueb, 1992,pp. 113-136.

SOLDANI SIMONETTA, Donne senza pace. Espe-rienze di lavoro, di lotta, di vita tra guerrae dopoguerra (1915-1920), «Annali dell’I-stituto Alcide Cervi», 1991, 13, pp. 11-56.

Page 227: 70 - online.ibc.regione.emilia-romagna.itonline.ibc.regione.emilia-romagna.it/I/libri/pdf/ERBA_70.pdf · Le donne organizzate: fasci femminili e sezioni operaie e lavoranti a domicilio

Bibliografia 211

SOLDANI SIMONETTA, Maestre d’Italia, in Illavoro delle donne, a cura di Angela Grop-pi, Roma-Bari, Laterza, 1996, pp. 368-397.

SOLDANI SIMONETTA, Strade maestre e cammi-ni tortuosi. Lo Stato liberale e la questio-ne del lavoro femminile, in Operaie, serve,maestre, impiegate, a cura di Paola Nava,Torino, Rosenberg & Sellier, 1992, pp.289-352.

SPINELLI LUCIANA, Disciplina di fabbrica elavoro femminile: le operaie della mani-fattura dei tabacchi (1900-1914), «Societàe storia», VII, 1985, 28, pp. 319-372.

Storia della famiglia italiana 1750-1950, acura di Marzio Barbagli, David I. Kertzer,Bologna, il Mulino, 1992.

Storia delle donne in Occidente. Il Novecento,a cura di Françoise Thebaud, Roma-Bari,Laterza, 1992.

SULLEROT EVELYNE, La donna e il lavoro. Sto-ria e sociologia del lavoro femminile,Milano, Etas Kompass. 1969.

TAGLIALATELA EMILIA, «Non volo d’aquila, mavolo di rondine». Le impiegate tra societàe sindacato, in Mondi femminili in centoanni di sindacato, a cura di Gloria Chiane-se, Roma, Ediesse, 2008, pp. 273-334.

TARICONE FIORENZA, Il centro italiano femmi-nile dalle origini agli anni Settanta, Mila-no, Franco Angeli, 2001.

TARICONE FIORENZA, La FILDIS e l’associa-zionismo femminile, in La corporazionedelle donne. Ricerche e studi sui modellifemminili nel ventennio fascista, a cura diMarina Addis Saba, Firenze, Vallecchi,1988.

TARICONE FIORENZA, PISA BEATRICE, Operaie,borghesi, contadine nel XIX secolo,Roma, Carucci editore, 1985.

TAROZZI FIORENZA, Lavoratori e lavoratrici adomicilio, in Operai, a cura di StefanoMusso, Torino, Rosenberg & Sellier, 2006,pp. 109-161.

TAROZZI FIORENZA, Solidarietà sociale e asso-ciazionismo femminile. Alcune riflessioni,in La sfera pubblica femminile. Percorsi di

storia delle donne in età contemporanea, acura di Dianella Gagliani, Mariuccia Sal-vati, Bologna, Clueb, 1992, pp. 81-90.

TAROZZI FIORENZA, Tradizioni politiche fem-minili in Emilia Romagna tra Ottocento eNovecento, in Le donne in area padana:politica, lavoro, immaginario, numerounico di «Padania. Storia, cultura, istitu-zioni», VIII, 1994, 16, pp. 7-17.

TERHOEVEN PETRA, Oro alla patria. Donneguerre e propaganda nella giornata dellaFede fascista, Bologna, il Mulino, 2006.

THÉBAUD FRANÇOIS, La Grande Guerra: etàdella donna o trionfo della differenza ses-suale?, in Storia delle donne in Occidente.Il Novecento, a cura di François Thebaud,Roma-Bari, Laterza, 1992, pp. 25-90.

TOMASSINI LUIGI, Mercato del lavoro e lottesindacali nel biennio rosso, «Annali del-l’Istituto Alcide Cervi», 1991, 13, pp. 87-118.

Trovatelli e balie in Italia. Atti del convegnoInfanzia abbandonata e baliatico in Italiasecc. XVI-XIX, a cura di Giovanna DaMolin, Bari, Cacucci, 1994.

VACCARI ILVA, La donna nel ventennio fascista(1919-1943), in Donne e Resistenza inEmilia Romagna, Milano, Vangelista,1978, pp. 23-254.

VERZELLI ANGELA, ZAPPATERRA PAOLA, Lavita, il lavoro, le lotte. Le mondine diMedicina negli anni Cinquanta, Bologna,Aspasia, 2001.

WILLSON R. PERRY, Contadine e politica nelventennio. La sezione Massaie rurali deiFasci femminili, «Italia contemporanea»,2000, 218, pp. 31-48.

ZANINI EMILIO, Il lavoro della donna nellasocietà italiana di oggi. La donna e le pro-fessioni. Atti del convegno di studi orga-nizzato dall’Università Cattolica del SacroCuore, 5-8 settembre 1961, Milano, Vita ePensiero, 1962.

ZAPPATERRA PAOLA, Loro venivano avanti manoi non stavamo zitte. Mondine a Bentivo-glio nelle lotte del dopoguerra, Bologna,Aspasia, 2008.

Page 228: 70 - online.ibc.regione.emilia-romagna.itonline.ibc.regione.emilia-romagna.it/I/libri/pdf/ERBA_70.pdf · Le donne organizzate: fasci femminili e sezioni operaie e lavoranti a domicilio

Addis Saba Marina, 160n., 161n.Agnini Gregorio, 11, 11n.Albertazzi Alessandro, 173n.Alessandrini Ada, 176Alessandrini Goffredo, 159Alfassio Grimaldi Ugoberto, 161n.Altobelli Argentina, XX, 30, 75, 81, 81n., 85,

97n.Altobelli Demos, 97n.Andina Maria, 52n.Ansaloni Annamaria, 146n.Anselmo Anna, 33, 33n.Anzoletti Luisa, 81, 81n.Aquarone Alberto, 144n., 153n. Arbizzani Luigi, 30n., 85n., 156n., 196n.Arieti Stefano, 44n.Aumont Michèle, 188n.

Bacchetti Armida, 57Bacci Cristina, 4n.Bacialli Giovanni, 57Bagatella Seno Annamaria, 38n.Balabanoff Angelica, 75, 75n., 80n.Ballestrero Maria Vittoria, XXn., 90n., 91n.,

92n., 93n., 130n., 157, 157n.Barbadoro Idomeneo, 86n.Barbieri Remigio, 197n.Barca Luciano, 176n.Baricelli Carmela, 76, 77n.Barnabà Giorgio, 187Baronchelli Grosson Paola [Donna Paola], 96,

96n., 103, 103n.Bartolini Domenico, 56Bartolini Teodolinda, 56Bartoloni Stefania, 47n., 48n.Bartolotti Maria, 154n.Bassi Angelini Claudia, 131n., 136, 136n.Beccari Gualberta Alaide, 73, 73n.Bei Adele, 168, 174Bellonci Maria, 167, 167n.Belluzzo Giuseppe, 147n.Beltrame Achille, XIIIBenedettini Alferazzi Paola, 133n.Bensa Paolo Emilio, 94n.Benvenuti Pierangela, 142n.

Bergonzini Luciano, 30n.Bernardini Carla, 26n.Bernocco Fava Parvis Giulia, 70Berselli Aldo, 126n., 145n.Bertaccini Jolanda, 185Bertani Agostino, 78n.Bertarelli Ernesto, 23n.Bertoni Jovine Dina, 198n.Betri Maria Luisa, 11n.Betti Giovannina, 14n.Bettiol Giuseppe, 200Bevilacqua Piero, 193n.Biagi Bruno, 129n.Bianchi Bruna, 151n.Bianchi Ornella, 53n., 54n.Bianchini Laura, 168Bianconcini Cavazza Lina, 25, 25n., 26, 26n.,

100Bini Giorgio, 64n.Bisi Albini Sofia, 60n.Bizzozero Antonio, 98, 98n.Blandina, suora, 51Boarelli Mauro, 187n.Bocca Giorgio, 191Bock Gisela, 130n.Bolelli Lorenzo, 165n.Bonghi Ruggero, 39Bonomi Ivanoe, 168Bonomi Stefano, 7n.Bordoli Bianca, 102n.Bornaghi Maria, 75Borsa Mario, 168Bortolini Pia, 130, 131n. Bortolotti Maria, 161Bottai Giuseppe, 161Bozzani Adalgisa, 58Brambilla Giuditta, 80Bravo Anna, 35n., 98n.Brebbia Giselda, 75, 77Bruni Francesco, XIVn.Buttafuoco Annarita, 19n., 67n., 68n., 71n.,

73n., 74n., 76n., 77n., 79n., 82n.

Cabrini Angiolo, 13, 13n.Calderini Giovanni, 43

Indice dei nomi

Page 229: 70 - online.ibc.regione.emilia-romagna.itonline.ibc.regione.emilia-romagna.it/I/libri/pdf/ERBA_70.pdf · Le donne organizzate: fasci femminili e sezioni operaie e lavoranti a domicilio

Indice dei nomi 213

Calderini Rebecca, 68Calligaris Clementina, 168Camaeti Giovanni, 44n.Camperio Meyer Sita, 47, 47n.Canosa Romano, 201n., 203n.Capasso Pietro, 143n. Capecchi Vittorio, 26n.Caporilli Pietro, 161n. Carcano Paolo, 91Casalini Giulio, 144n. Casanova Achille, 26n.Casati Gabrio, 61n.Castelli, soldato, 51Castronovo Valerio, 196n.Cavallari Cantalamessa Giulia, 73, 103, 103n.Cavazza Francesco, 25n.Cazzola Franco, 193n.Celli Angelo, 54Celli Fraentzel Anna, 46, 46n., 68Chianese Gloria, XIIn., 53n.Chiari Allegretti Gilda, 102n.Chiodo Marinella, 156n. Chiurco Giorgio Alberto, 130n.Chludzinska Maria Concetta, 52n.Ciamician Giacomo, 102n.Cinciari Rodano Marisa, 167, 167n., 172n.Cianetti Tullio, 134Cigognetti Luisa, 193Cimatti Germana, 9n.Cingolani Guidi Angela, 168Clerici Carlotta, 80Clerici Maria Antonietta, 51, 52, 52n.Coari Adelaide, 72, 76, 81, 81n., 82Coco Maria, 203Codignola Ernesto, 146, 146n. Collamarini Edoardo, 26n.Connell Robert W., 198n.Conte Enrico, 38Conti Lucia, 142n., Cornelio Giuliana, 10n.Corti Paola, 98n.Costa Alda, 146Costa Andrea, 17, 79n.Crainz Guido, XIIn., 84n., 194n.Credaro Luigi, 66n.Crisalidi Ines, 139n.Cristofori Franco, 14n.Curli Barbara, 96n.

D’Ascenzo Mirella, 66n., 130n.Da Molin Giovanna, 35n.Da Persico Elena, 76Dalla Casa Brunella, 24n., 165n. Dalle Donne Maria, 40n.Daneo Eduardo, 66n.Danzi Guglielmo, 127n.,

D’Attorre Pier Paolo, 187n.Dau Novelli Cecilia, 72n.Davanzo Poli Doretta, 26n.De Bernardi Alberto, 130n. De Col Giuseppe, 26n.De Fort Ester, 66n., 145n.De Giorgio Michela, 145n. De Grazia Victoria, 132n., 134n., 141n., 148n.,

155n.De Nunzio Schilardi Wanda, 35n. De Witt Maria, 63Defoe Daniel, XVDei Marcello, 62n.Della Porta Gisella, 168Delmonaco Aurora, 61n., 62n.Deserti Alessandrina, 66Di Cori Paola, XIIIn.Di Domenicantonio Francesco, 197n.Di Vittorio Giuseppe, 190Diaz Laura, 188, 188n.Diez Gasca Maria, 134, 141, 141n. Dittrich-Johansen Helga, 131n., 135n., 136n.,

149n.Donati Itala, 64n.Donna Paola [v. Baronchelli Grosson Paola]

Ellena Vittorio, 3n., 30n.Elmi Antonio, 19Erioli Elisa, 100n., 101n.

Faccio Irene, 147n.Fanfani Amintore, 178, 187Farge Arlette, XVn.Farina Rachele, 29n., 82n.Fasella Giulio, 62n.Federici Maria, 169, 170, 171, 171n., 178, 201,

203Ferrante Lucia, 67n.Ferrara Patrizia, 158n.Ferrari del Latte Rachele, 134, 148n. Ferri Umberto, 35n.Fibbi Lina, 181Finzi Roberto, 11n., 154n.Foa Vittorio, 181Formiggini Alberto Sabatino, 97n.Fornasari Massimo, 196n.Fraisse Geneviéve, XVIIIn., 6n.Franchi Silvia, 75n.Frank Malvina, 73

Gabelli Aristide, 63n.Gabrielli Patrizia, 172n.Gadda Carlo Emilio, 139, 140n. Gagliani Dianella, 83n., 156n.Gaiotti De Biase Paola, 71n., 76n., 172n.,

173n., 190n., 191n.

Page 230: 70 - online.ibc.regione.emilia-romagna.itonline.ibc.regione.emilia-romagna.it/I/libri/pdf/ERBA_70.pdf · Le donne organizzate: fasci femminili e sezioni operaie e lavoranti a domicilio

214 Indice dei nomi

Galasso Giuseppe, 196n.Galletti Adalgisa, 86Galli Paolo, 37n.Gallo Marco, 197n.Galoppini Annamaria, 170n.Gardini Annunziata, 16Garibaldi Luciano, 166n.Garofalo Anna, 169Garuti Susanna, XVIIn.Gasperini Albertina, 30, 30n.Gatteschi Fondelli Piera, 166Gavelli Mirtide, 100n.Gelati Maura, 146Genovesi Giovanni, 146n. Gentile Emilio, 135n., 136n., 146n. Gentile Giovanni, 141, 141n. Gentili Rino, 145n. Ghetti Baldi Orsola, 26n.Ghizzoni Carla, 130n. Giacomelli Antonietta, 50n., 51n.Gibelli Antonio, 51n., 95n., 96n., 97n., 99n.,

102n.Gigli Marchetti Ada, 11n., 18n., 75n.Giorgis Anna, 32, 32n.Giovanelli Loretta, 53n., 54n.Giovannetti Domenica, 9n.Gissi Alessandra, 39n., 40n., 41n., 144, 144n. Giudice Maria, 80, 80n.Giurati Giovanni, 132 Giusti Pesci Clementina, 18n., 19n., 20, 20n.Giustiniani Bandini Cristina, 76Goia Maria, XX, 75, 81, 81n.Goldoni Luigi, 151Goriux Bruschi Wanda, 131n., 132n.Gotelli Angela, 169Grassi Gertrude, 86Greco Paolo, 157n. Groppi Angela, XVIn., 56n.Guarracino Scipione, 130n. Guelfi Del Vecchio Ada, 179Guicciardi Fiastri Virginia, 103Guidetti Serra Bianca, 33n.Guidi Mussolini Rachele, 138

Hufton Olwen, XV, XVn. Hunecke Volker, 4n.

Imbergamo Barbara, 67n., 80n., 85n., 88n.Imprenti Fiorella, 27n., 29n., 54n.Iotti Nilde, 169

Jacini Stefano, 11Jasmar Nyta [Scanabissi Samaritani Clotilde],

59, 59n.

Kotnik Dara, 181n.

Kuliscioff Anna, XX, 63, 63n., 75, 79, 79n., 91

La Malfa Ugo, 174Labanca Nicola, 138n., 140n. Labriola Teresa, 77Lajolo Davide, 194Lama Luciano, 181Lanzardo Liliana, XIIIn.Lelli Cesira, 19Leone Giovanni, 201Leoni Diego, XIIIn.Lepre Aurelio, 165n.Lesina Ernestina, 74Levi Civita Libera, 167n.Liverani sorelle (Luisa, Adele, Maria), 27Loffredo Ferdinando, 128, 128n. Lombardi Jole, 168Lombardo Ester, 77n., 131n., Lombroso Cesare, 11n., 160.Lombroso Gina, 160, 160n.Lonni Ada, 34n.Luccarini Alfonsina, 148n.Lucifero Roberto, 170Lunadei Simona, 174n.Lupinacci Josette, 167n.Luzzatto Fegiz Pierpaolo, 193n.Luzzi Maria Vittoria, 143, 161

Maffioli Claudia, 168Maffioli Dalmazio, 56n.Majer Rizzioli Elisa, 50n., 131, 131n. Majno Bronzini Ersilia, 19n., 29n., 68, 77, 80,

80n.Majani Napoleone, 151Malnati Linda, 68, 72n., 75, 77, 80, 80n.Manotti Brunella, 170n.Mantegazza Paolo, 11n.Manzoni Edoardo, 44n., 47n., 142n.Marani Argani Laura, 133, 133n., 134n., 139Marazzitti Mario, 196n.Marcelino Nella, 172n.Marchesi Concetto, 176Marchesini Gobetti Ada, 168Marchianò Giovanna, 126n., 127n. Margotti Maria, 183Mariani Emilia, 6, 64, 64n., 66n., 68, 76, 77,

79, 79n.Mariucci Luigi, 22n.Martinelli Franco, 142n. Martini Manuela, 83n., 84n., 193n.Masulli Ignazio, 89n.Matera De Lauro Anna, 179Matteotti Giacomo, 146Mattei Tersa, 170, 170n., 171, 171n.Maurogiovanni Vito, 144n.Mazzatosta Teresa Maria, 149n.

Page 231: 70 - online.ibc.regione.emilia-romagna.itonline.ibc.regione.emilia-romagna.it/I/libri/pdf/ERBA_70.pdf · Le donne organizzate: fasci femminili e sezioni operaie e lavoranti a domicilio

Indice dei nomi 215

Meldini Pietro, 126n.Melis Guido, 158n. Melli Rina, XVII, XX, 74Merli Stefano, 20n., 29n., 33n., 34n., 45n.,

54n., 69n., 88n.Merlin Lina, 146, 169, 170, 178, 179, 179n.Merzagora Cesare, 181Migliorini Filomena, 14Minoletti Quarello Virginia, 168Modesti Franca, 38n.Modoni Mirca, 155n., 156n.Molè Carlo, 201Montagnana Rita, 167n. Montalti Sandra, 44n., 45n.Montanari Giulia, 100n.Montini Giovanni Battista, 172Morandi Rodolfo, 32n., 33n.Morelli Lidia, 147n.Moretti Angiola, 130, 142, 156Moretti Virginia, 27Moro Aldo, 170, 170n. Moschini Clementina, 27Motti Lucia, XIIIn., 67n., 174n.Mozzoni Anna Maria, 67, 73, 78, 78n.Musso Stefano, XVIn., 22n.Mussolini Benito, 125, 126n., 127n., 129, 131,

135n., 136, 139n., 149, 150, 150n. Mussolini Edda, 138Musu Martini Bastianina, 168

Napollon Ernesta, 73n.Nasalli Rocca Gilberta, 103Nasi Nunzio, 62n.Nava Paola, 52n.Negri Ada Garlanda, 68Nenni Giuliana, 167n.Nightingale Florence, 47Noce Teresa, 29, 29n., 153n., 168, 169, 177,

178, 178n., 180, 190Nora Luciana, 9n.

Oddone Bitelli Ines, XV, 74Odorisio Maria Linda, XVIIIn., 56n., 57n.,

58n., 60n., 63n.Ojetti Ugo [Salio], 95n.Onofri Nazario Sauro, 196n.Orano Paolo, 127n.Oriani Alfredo, 126n. Orione Luigi, 81n.Orsi Mangelli Paolo, 151Ortaggi Cammarosano Simonetta, 4n., 6n.,

29n., 30n.

Padellaro Nazareno, 145n., Palazzi Maura, 11n., 12n., 18n., 25n., 67n.,

94n., 95n., 96n., 98n., 100n., 154n., 158n.

Palmieri Elena, 19Pancino Claudia, 39n., 41n., 42n.Parravicino di Revel Sabina, 70Pasolini Maria, 82Pazzaglia Anna Maria, 139n.Pazzi Muzio, 42, 42n., 43, 43n., 48n.Pedrocco Giorgio, 52n., 54n.Pelaja Margherita, 17n., 35n.Pende Nicola, 128, 128n., 141, 141n., 148,

148n.Perco Daniela, 37n.Perrot Michelle, XVIIIn., 6n. Persiani Cosci Dora, 40Persico Giovanni, 200Pertici Pontecorvo Adele, 161Pescarolo Alessandra, 35n. Pesce Adele, 26n.Pessenda Giulia, 63Peverelli Luciana, 159Pezzè Pascolato Maria, 131n., 133, 133n. Pezzini Mario, 193n.Pezzoli Stefano, 16n.Piccinelli Caterina, 45Picolato Rina, 168, 190n., 191n.Pieroni Bortolotti Franca, 55n., 67n., 69n.,

78n., 79n., 92n.Pio XI, 128n.Piolanti Alba, 9n.Pisa Beatrice, 3n., 7n., 73n.Pisoni Cerlesi Ines, 153n.Polenghi Simonetta, 130n.Policardi Giovanni Maria, 27Policardi Lorenzo, 27Pollastrini Elettra, 168Polotti Giulio, 60n.Pomata Gianna, 67n.Porciani Ilaria, 63n.Preti Alberto, 165n.Preti Margherita, 173, 173n.Pugliesi Giovanni, 43n., 44

Quarzi Anna Maria, 146n.

Radini Tedeschi Giacomo Maria, 71Ranieri Giovanni, 98Ravà Aristide, 30Ravasi Sofia, 77, 77n.Ravera Camilla, 156n., 187, 187n.Re Giuseppina, 179Reggiani Flores, 18n., 19n.Revelli Nuto, 32n.Ricci Garoti Giuliana, 196n.Righi Maria Luisa, 174n.Rignano Sullam Nina, 17, 17n., 19, 19n., 20n.,

68Rinaldi Giovanni, 173n.

Page 232: 70 - online.ibc.regione.emilia-romagna.itonline.ibc.regione.emilia-romagna.it/I/libri/pdf/ERBA_70.pdf · Le donne organizzate: fasci femminili e sezioni operaie e lavoranti a domicilio

216 Indice dei nomi

Rinaudo Paolo Cesare, 7Riva Adele, 68Riva Claudio, 44n.Rocco Alfredo, 126Ropa Rossella, XXII, 175n., 185n.Rosenberg Charles E., 9n.Rossi Maria Maddalena, 202Rossi Vittoria, 173Rossi-Doria Anna, XXIIn., 170, 170n.Roveri Zelinda, XVIIIRovetta Gerolamo 19, 19n.Rubbiani Alfonso, 26, 26n.

Saffi Giorgina, 73, 82Salerno Elisa, 76Salio [v. Ojetti Ugo]Salvati Mariuccia, 83n., 175n.Salvi Giovanni, 189Samaritani Tommaso, 59n.Sanguinetti Ghiron Elena, 103Sani Roberto, 196n.Sanlorenzo Olimpia, 40n.Sansone Luigi Renato, 178Santoni Rugiu Antonio, 145n.Sarfatti Margherita, 33n., 75, 77n.Sarti Ferdinando, 176Sarti Raffaella, 19n.Savoia Elisa, 130Scanabissi Samaritani Clotilde [v. Jasmar Nyta]Scander Levi Adolfo, 73n.Scaraffia Lucetta, 35n., 63n., 64n.Scattigno Anna, 50n., 67n., 80n., 85n., 88n.Schiff Paolina, 67, 77Scodnik Irma, 68Scott Joan W., XVIIIn., 6n., 9n.Serao Matilde, XIV, XIVn., 35, 35n., 58, 59n.,

63, 64n.Sezanne Augusto, 26n.Sgatori Roberto, 142n.Signorelli Amalia, 194n.Sillano Maria Teresa, XVIIIn.Sitta Pietro, 4, 4n., 7n.Soldani Simonetta, XIXn., 50n., 52n., 53n.,

55n., 57n., 62n., 67n., 75n., 88n., 98n.Sorbelli Albano, 101n.Soresina Marco, 158n.Spalletti Rasponi Gabriella, 70, 70n.Spinelli Luciana, 54n., 55n.Stagni Anna Maria, 173Starace Achille 127, 156Stefani Luisa, 155n. Stoppa Ernesta, 82

Tamarozzi Giuseppe, 74Tanara Maria Grazia, 82n.Taricone Fiorenza, 3n., 7n., 54n., 60n., 70n.,

160n., 173n., 194n.Tarozzi Fiorenza, XIV, XVIn., 22n., 23n., 165n.Tarozzi Vittorina, 189n.Tartarini Alfredo, 26n.Tarugi Paolina, 77Taverna Lavinia, 70Tavernari Luigi, 55, 55n.Telmon Vittorio, 145n.Terhoeven Petra, 138, 138n.Terruzzi Regina, 77n., 135, 135n.Tibaldi Chiesa Mary, 202Tilly Louise A., 9n.Tinarelli Emma, 56Tomasi Tina, 198n.Tonietti Gennai Erisia, 202Torcellan Nanda, 18n.Tosi Brandi Elisa, 27n.Troise Romelia, 60n.Turati Augusto, 132n., 156Turati Filippo, 58n., 79n.Turnaturi Gabriella, XVIIIn.Ugolini Cecilia, 16n.Ulivieri Simonetta, 145n.

Vaccari Ilva, 11n., 13n., 30n., 86n., 93n., 98n.,99n., 100n., 102n., 103n., 153n., 154n.,161n., 165n.

Vecchi Filomena, 139n. Venturi Sergio, 16n.Venturoli Cinzia, XXIIVerzelli Angela, 164n., 170, 183n.Vicarelli Giuseppe, 8n.Viganò Renata, 193, 193n., 194n.Vignudelli Gabriella, 197n.Villani, fotografo, 27Vitanza Rosario, 55n.Volpi Claudio, 149n.

Willson Perry R., 136n.

Zadra Camillo, XIIIn.Zamagni Vera, 187n., 196n.Zangheri Renato, 84n., 196n. Zanini Emilio, 199, 199n.Zappaterra Paola, 183n.Zatterin Ugo, 189Zavaroni Adolfo, 133n., 136n., 139n. Zemon Davis Natalie, XVn.Zorzi Miro, 163n.

Page 233: 70 - online.ibc.regione.emilia-romagna.itonline.ibc.regione.emilia-romagna.it/I/libri/pdf/ERBA_70.pdf · Le donne organizzate: fasci femminili e sezioni operaie e lavoranti a domicilio

Istituto per i beni artistici, culturali e naturali della Regione Emilia-Romagna

Presidente: Ezio Raimondi

Direttore: Alessandro Zucchini

Consiglio Direttivo: Giordano Conti, Giovanni De Marchi, Laura Muti, Clementina Santi,Siriana Suprani, Isabella Zanni Rosiello

Responsabile del servizio “Soprintendenza per i beni librari e documentari”: Rosaria Campioni

Page 234: 70 - online.ibc.regione.emilia-romagna.itonline.ibc.regione.emilia-romagna.it/I/libri/pdf/ERBA_70.pdf · Le donne organizzate: fasci femminili e sezioni operaie e lavoranti a domicilio

Finito di stamparenell’anno 2010

da Editrice Compositori, Bologna