7° Festival Internazionale del Cinema di Bucarest...Tanovic (1969), che ha presentato la sua ultima...

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7° Festival Internazionale del Cinema di Bucarest Scritto da Umberto Rossi Martedì 12 Aprile 2011 00:00 - Ultimo aggiornamento Martedì 03 Maggio 2011 07:21 La settima edizione del Festival Internazionale del Film di Bucarest è stata aperta da Danis Tanovic (1969), che ha presentato la sua ultima fatica: Cirkus Columbia , tratto dall’omonimo racconto del giornalista Ivica Djikic. Questo cineasta bosniaco è alla terza fatica, dopo il formidabile esordio del 2001 con No man’s land , premio Oscar quale miglior film in lingua non inglese del 2002. Nel 2009 ha diretto Triage accolto da minori fortune, e ora firma un’opera che inclina più verso l’umorismo macabro del primo Emir Kusturica che non la tragedia pura e semplice. Siamo nelle settimane che segnano l’inizio di una delle tante guerre che hanno portato, attraverso un ventaglio di orrori indicibili, allo smembramento della Repubblica Jugoslava in altri cinque stati, autonomi e rissosi. Nel caso specifico il campo è quello della guerra fra Bosnia e Croazia. E’ il 1991 e il filo conduttore lo offre un croato, fuggito anni prima dal paese per non meglio definite persecuzioni per opera del regime titino. Il tizio è emigrato in Germania ove ha fatto fortuna come dimostrano la fiammante Mercedes rossa che guida e la ragazza, più giovane di lui di molti anni, che lo accompagna. E’ ritornato per riprendersi la casa, abbandonata al momento dell’espatrio, e che, per vent’anni, è stata abitata da sua ex – amante, la quale ha anche allevato il loro figlio. Poiché la donna è bosniaca e lui croato, alle frazioni personali si aggiungono quelle che annunciano il conflitto fra le due comunità. In questo modo il microcosmo paesano e le vicende che lo attraversano diventano l’emblema di una tragedia più generale. Il film si chiude con un soffio d’ottimismo anche se non in maniera apertamente positiva: il nuovo venuto sarà talmente turbato dalla violenza che si annuncia da convincere un suo amico, capo della comunità croata, a schierarsi con i perseguitati e salvare i rispettivi figli dalla guerra. Com’è nello stile di questo 1 / 5

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    Scritto da Umberto RossiMartedì 12 Aprile 2011 00:00 - Ultimo aggiornamento Martedì 03 Maggio 2011 07:21

    La settima edizione del Festival Internazionale del Film di Bucarest è stata aperta da DanisTanovic (1969), che ha presentato la sua ultima fatica: Cirkus Columbia, tratto dall’omonimoracconto del giornalista Ivica Djikic. Questo cineasta bosniaco è alla terza fatica, dopo ilformidabile esordio del 2001 con No man’s land, premio Oscar quale miglior film in lingua non inglese del 2002. Nel 2009 ha diretto Triageaccolto da minori fortune, e ora firma un’opera che inclina più verso l’umorismo macabro delprimo Emir Kusturica che non la tragedia pura e semplice. Siamo nelle settimane che segnanol’inizio di una delle tante guerre che hanno portato, attraverso un ventaglio di orrori indicibili, allosmembramento della Repubblica Jugoslava in altri cinque stati, autonomi e rissosi. Nel casospecifico il campo è quello della guerra fra Bosnia e Croazia. E’ il 1991 e il filo conduttore looffre un croato, fuggito anni prima dal paese per non meglio definite persecuzioni per opera delregime titino. Il tizio è emigrato in Germania ove ha fatto fortuna come dimostrano la fiammanteMercedes rossa che guida e la ragazza, più giovane di lui di molti anni, che lo accompagna. E’ritornato per riprendersi la casa, abbandonata al momento dell’espatrio, e che, per vent’anni, èstata abitata da sua ex – amante, la quale ha anche allevato il loro figlio.

    Poiché la donna è bosniaca e lui croato, alle frazioni personali si aggiungono quelle cheannunciano il conflitto fra le due comunità. In questo modo il microcosmo paesano e le vicendeche lo attraversano diventano l’emblema di una tragedia più generale. Il film si chiude con unsoffio d’ottimismo anche se non in maniera apertamente positiva: il nuovo venuto sarà talmenteturbato dalla violenza che si annuncia da convincere un suo amico, capo della comunità croata,a schierarsi con i perseguitati e salvare i rispettivi figli dalla guerra. Com’è nello stile di questo

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    Scritto da Umberto RossiMartedì 12 Aprile 2011 00:00 - Ultimo aggiornamento Martedì 03 Maggio 2011 07:21

    tipo di cinema, il dramma s’imparenta con prurigini sessuali – l’amore che esplode fra il ragazzoe la giovane compagna del padre – in un alternarsi d’ironia e dramma. E' un’opera piacevole,anche se più leggera che aggressiva.

    E' iniziata anche la sfilata dei film in competizione con Un gelido inverno (Winter’s Bone, 2010) è il film d’esordio dell’americana Debra Granik che ha già vinto numerosi premi, il piùimportante dei quali è quello assegnatole dalla giuria del Sundance Film Festival e che ora ècandidato a ben quattro premi Oscar. E’ la messa sul grande schermo del romando Un Gelido inverno(Winter’s Bone, 2006) di Daniel Woodrell (1953). Vi si racconta, ambientata suo gelidi montiOzark, in Missouri, il calvario di una diciassettenne che vuole far luce sulla scomparsa del padre, un piccolo fabbricante e spacciatore di metamfetamine, crack, che ha impegnato lafattoria di famiglia per pagarsi la cauzione e uscire dalla prigione, dopo di che è scomparso nelnulla. La ragazza, sulle cui spalle poggi l’intera famiglia, fratello e sorella compresi, intraprendeun lungo percorso difficile, doloroso e rischioso, per venire a capo del mistero a prezzo di lividie sofferenze. Lo fa non certo per amore verso il genitore, che disprezza perché ha denunciato gli altri membri del clan familiare per uscire dalla prigione, quanto per il terrore di perdere leuniche cose che possiedono: baracca e terra. E’ un film buio, girato spesso in atmosferenotturne che affronta un mondo degradato e violento in cui i rapporti di forza contano più di quelli sentimentali o familiari. L’intero racconto è reso cedibile e toccante dalla magiainterpretativa della giovane Jennifer Lawrence che qui perfeziona le abilità già mostrate in The Burning Plain - Il confine della solitudine (The Burning Plain, 2008) di Guillermo Arriaga, che le valse il Premio Mastroianni alla 65ªMostra internazionale d'arte cinematografica di Venezia. In altre parole è un’opera intensa esolidamente costruita.

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    Scritto da Umberto RossiMartedì 12 Aprile 2011 00:00 - Ultimo aggiornamento Martedì 03 Maggio 2011 07:21

    E' stato presentato anche Animal Kingdom che segna l’esordio dell’australiano David Michôd,un ex giornalista di cronaca nera che si addentra, con occhio disincantato, nel mondo dellamalavita di Victoria. L’apertura è folgorante: il giovane Josh Young è seduto sul divano accanto a sua madre, a guardare la televisione. Poco dopo arriva un gruppo di paramedici escopriamo che la donna è morta di overdose. In tutto questo tempo il ragazzo non ha smessodi guardare le immagini di uno dei tanti programmi d’indovinelli trasmessi sul piccolo schermo.Rimasto orfano, del padre non si parla mai, va a vivere con la monna, una specie di matronanevrotica i cui figli hanno formato una banda di rapinatori di banche e spacciatori, in perenneconflitto con una polizia che non esita a usare modi spicci per eliminarli. E’ una guerra che non ammette prigionieri e in cui tutte le efferatezze sono permesse. Lentamente il giovane precipitain questo inferno, sino a sfiorare la delazione. Sarà l’uccisione, da parte del fratello, dellaragazza che ha incontrato in quella feroce famiglia e della quale si è innamorato, a spingerloalla vendetta e, in partica, a mettersi al livello di questo regno animale. Il film ha vinto numerosipremi, fra cui uno dei maggiori del Sundance Film Festival, è pervaso da una straordinarialucidità nella descrizione di un mondo in cui non ci sono buoni o cattivi, ma solo animali prontia uccidere per sopravvivere o per il proprio benessere. E’ una prova di maturità registicadavvero fuori dal comune e un film destinato a rimanere a lungo nella mente.

    Ilich Ramírez Sánchez (1949) detto Carlos è un terrorista venezuelano, che si è autodefinito rivoluzionario professionista e che sta scontando una condanna all'ergastolo in Francia. La sua azione più clamorosa fu ilsequestro dei membri dell'OPEC a Vienna, il 21 dicembre 1975. Carlos sequestrò sessantaostaggi, fra ministri e plenipotenziari dei maggiori paesi produttori di petrolio, e ottenne un aereoaustriaco per fuggire, prima, in Algeria, poi in Tunisia, quindi nuovamente ad Algeri ove liberòostaggi e aereo in cambio di un sontuoso riscatto. L’operazione fu un insuccesso, dal punto divista del Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina (FPLP) che l’aveva organizzatasoprattutto con il proposito di uccidere i plenipotenziari saudita e iracheno. Dalla figura diquesto terrorista hanno tratto spunto vari registi fra cui Fred Zinneman, autore de Il giorno dello sciacallo(The Day of Jackal, 1973), ispirato al libro omonimo di Frederick Forsyth, pubblicato nel 1971,prima ancora che Carlos diventasse famoso. A lui si fa cenno anche in alcuni episodi dellatrilogia dedicata all’agente segreto Jason Bourne (The Bourne Identity, 2002, The Bourne Supremacy, 2004 e The Bourne ultimatum, 2007) tratta da romanzi di Robert Ludlum. È ora la volta del francese Olivier Assayas, che hadedicato a questo personaggio una serie televisiva che dura ben cinque ore e mezzo, da cui èstata tratta una versione cinematografica di due ore e quarantacinque minuti. Il regista hal’onestà di avvisare lo spettatore sin dall’inizio che molte sequenze ricostruiscono fattistoricamente documentati, mentre altre parti sono frutto di sue invenzioni. Il personaggio cheemerge da questa lunga carrellata è di un criminale superato dai tempi, un relitto della guerrafredda e una pedina nel gioco delle potenze mediorientali e di quelle petrolifere. Un idealistasconfitto dalla storia e un assassino crudele, ma con venature romantiche come quella chemostra quando tenta di stringere la mano al pilota dell’aereo che ha scorrazzato per i cieli delMediterraneo i sequestrati di Vienna. E’ un esempio di alta narrazione televisiva, nel senso cheusa per il piccolo schermo alcuni fra i valori fondanti del cinema realizzando un prodotto chefunziona assai bene in entrambi i campi.

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    Scritto da Umberto RossiMartedì 12 Aprile 2011 00:00 - Ultimo aggiornamento Martedì 03 Maggio 2011 07:21

    Meeks Cotoff dellamericana Kelly Reichardt è la classica opera da festival, nel senso che èuna produzione ad altissima componente culturale e sperimentale, ma assai poco appetibile aquello che siamo soliti chiamare il mercato delle immagini. Siamo nell’Oregon, nel 1845, gli StatiUniti, così come li conosciamo oggi, sono ancora poco più dell’embrione delle tredici coloniebritanniche che hanno dichiarato la propria indipendenza il 4 luglio 1776. Buona parte delterritorio è ancora controllata da britannici, francesi e messicani, mentre intere regioni sonoterritorio di caccia per i nativi pellerossa. In questo scenario s’inscrive la carovana di tre famigliedi coloni che, sotto la guida dello scout Stephen Meek, tentano di raggiungere le terre fertilidell’ovest. Ben presto si perdono, seguendo una scorciatoia consigliata dalla guida, e finiscononelle zone desertiche degli altipiani. Quasi privi di cibo e acqua vanno avanti fra sospetti versochi li conduce e tentazioni di tornare indietro. Decisivo sarà l’incontro con un indiano, dapprimavisto dome nemico, poi assunto a vera, unica guida. E’ un percorso verso l’integrazionerazziale, la caduta delle diffidenze preconcette che la regista descrive con toni quasidocumentaristici, some se fra quei pionieri vi fosse stata veramente una macchina da presa chene registrasse la vita di tutti i giorni. E’ un film che rovescia gli stereotipi, scenografici e diabbigliamento, di cui Hollywood ha ammantato la grande epopea western, restituendo allospettatore la fatica, la miseria, il sudore e il sangue di cui si è nutrita. E’ un’opera forte e a suomodo magistrale, che commuove e affascina nonostante la voluta lentezza della narrazione e lemisere condizioni di vita che rappresenta.

    Svinalängorna (Oltre) segna l’esordio dietro la macchina da presa dell’attrice Pernilla August.La storia è un classico della cultura e del cinema nordici: la rabbia e i sensi di colpa in cui sidibattono i figli di genitori violenti e alcolizzati. Qui è il caso di Lena, una Noomi Rapace benlontana dai manierismi della trilogia Millennium, a cui annunciano le gravissime condizioni dellamadre. E’ l’occasione per un percorso indietro nel tempo con ricordi d’infanzia punteggiati dibotte, appartamenti sfasciati, vomito ed escrementi seminati per casa da un padre, d’originefinlandese, in perenne stato alcolico. Non manca la morte per overdose del fratellino e ilprogressivo degrado della genitrice, anch’essa indulgente con la bottiglia. E’ un film robusto,ben costruito, a tratti commuovente che conferma le profonde distanze fra la cultura protestantee quella mediterranea. Loro hanno solo lo psichiatra, i cattolici hanno anche e principalmente laconfessione, una differenza di non poco conto.

    Exit Thought the Gift Shop è una riflessione dell’artista inglese d’avanguardia Banksy sulrapporto fra l’arte dei graffitisti di strada e il commercio, nel senso che anche questa formaestrema di decomerciallizzazione dell’arte ha finito per diventare un ricco mercato. Il tuttoattraverso la vita di un videoamatore ossessivo che diventa mercante d’arte e fa fortuna propriograzie a questi artisti di che disegnano le loro opere su muri e cartelloni pubblicitari. E’ un buondocumentario, interessante nel tema e nell’esposizione, ma che ha assai poco a che vederecon il cinema narrativo cui è dedicato questo festival.

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    Scritto da Umberto RossiMartedì 12 Aprile 2011 00:00 - Ultimo aggiornamento Martedì 03 Maggio 2011 07:21

    Abel del messicano Diego Luna costruisce un ritratto dolente e drammatico di un ragazzino chetraduce il trauma per l’abbandono del padre occupandone nevroticamente il posto. Comandaalla madre, che tratta come sua moglie, e a sorella e fratello. E’ una forma di nevrosi che loporterà al ricovero in clinica dopo che ha rischiato di morire annegato in una piscina pubblica. Ilritratto del giovane è doloroso e toccante, gli interpreti sono molto bravi e l’ambientazione ègiustamente in bilico fra il degrado e la vita quasi normale. E' un bel ritratto curato nei dettagli,ma non molto originale.

    Four Lions (Quattro leoni) dell’inglese Chris Morris utilizza toni fra la commedia e la satira perraccontare i pasticci, tragicamente conclusi, di un gruppo di mussulmani estremisti chedecidono di organizzare un attentato durante la maratona di Londra. Incapacità, e stupiditàapprodano alla morte degli attentatori, alcuni dei quali sono uccisi dai loro stessi complici chenon sanno come manovrare le bombe che hanno costruito. Dovrebbe essere una commedia nerama è solo un filmetto sconclusionato e per niente efficace.

    I premi Miglior fotografia: Patrick Murguia, per Abel Miglior regia: Debra Granik, per Winter’sBone IlTrofeo Internazionale del Festival è stato assegnato a: Meek’s Cutoff, diretto da Kelly Reichardt. La giuria della critica ha premiato: Four Lions, diretto da Chris Morris. Il premio del pubblico è andato a: Exit through the gift shop, di Banksy.

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