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Valentina Lippi Bruni

TERTIVS DECIMVSIl tredicesimo apostolo

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Questa è un’opera di fantasia. Ogni riferimento a fatti, luoghi e persone realmente esistiti è puramente casuale.

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© 2016 Giunti Editore S.p.A.Via Bolognese 165 – 50139 Firenze – ItaliaPiazza Virgilio 4 – 20123 Milano – ItaliaPrima edizione: marzo 2016

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A Daniela, mia madre.

Dal cielo... tu mi guardi.

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Io vi darò ciò che occhio non ha veduto e orecchio non ha udito e

mano non ha toccato e non ha mai dimorato nel cuore dell’uomo.

(Loghia di Tommaso, testualmente tratta dal copto e contenuta

nel Vangelo di San Tommaso, dichiarato apocrifo, rinvenuto

intatto fra i tredici codici di Nag Hammadi.)

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Prologo

Suor Bernarda era inginocchiata al primo banco della chiesa. Un

raggio di sole, tinto di verde smeraldo, attraversava la vetrata colo-

rata sopra l’altare, illuminandole il viso. I suoi occhi neri, un tempo

molto grandi, erano ora soffocati dalle guance paffute.

La sua corporatura era troppo robusta per una donna della sua

altezza, non più di un metro e cinquanta, ma lei, con vezzo tutto

femminile, soleva dire di essere solo un po’ in sovrappeso. E una

allegra risata scopriva la sua dentatura bianchissima.

Anche se era l’alba, il caldo si faceva già sentire. E mentre sgra-

nava il rosario, Bernarda si faceva aria con un fazzoletto che usava

anche per asciugarsi il sudore sulla fronte.

Amava andare in chiesa presto, prima che le altre consorelle si

alzassero. Era piacevole godere di tanta pace. Essere sola con Dio

in quei minuti di preghiera le faceva bene all’anima, le consentiva

di caricarsi di energia buona da dispensare, nell’arco della giornata,

a tutti coloro i quali avessero bisogno di lei.

Suor Bernarda Maria Moretti aveva quasi cinquant’anni, più

di metà della sua vita era trascorsa nella comunità delle suore del

S.S. Salvatore di santa Brigida, ma non aveva rimpianti, anzi era

fiera della sua scelta.

Era solo una bambina quando, seduta al suo banco di scuola e

fissando il soffitto, parlava con Gesù come se fosse un amico. Era

figlia unica, cresciuta in una famiglia contadina dai rigidi prin-

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cipi, un padre severo e una madre dolce e premurosa, che si era

schierata a suo favore quando il marito aveva disapprovato quella

decisione, sapendo che lei avrebbe lasciato la famiglia per sempre.

Bernarda avrebbe desiderato avere un rapporto più affettuoso con

lui, ma non le fu possibile. E tante volte si era chiesta se suo padre

Giovanni fosse più arrabbiato per la mancanza dell’unica figlia, o

per la perdita di due giovani e sane braccia che potevano aiutarlo

in campagna.

Guardando l’orologio, si rese conto che si era fatto tardi. Si sistemò

la veste sudata e infilò il rosario nella tasca, non prima però di

averlo avvolto con cura in un fazzoletto candido.

La comunità disponeva di una casa di accoglienza pensata per

ospitare religiosi in ritiro spirituale; con il passare degli anni, era

stata aperta anche a scrittori alla ricerca dell’ispirazione, giornalisti

e turisti.

L’ ostello era affiancato a un grande complesso Benedettino,

risalente al VI secolo, che ospitava graziose botteghe di artigiani,

ma dove spiccava in tutta la sua antica e maestosa bellezza la Basi-

lica Abbaziale. Quel luogo di culto era attorniato da viti e uliveti,

orti, siepi di lauroceraso e biancospino. Si respirava un’aria pulita,

carica di un’atmosfera suggestiva e spirituale.

La gestione e la cura della casa di accoglienza richiedevano un

notevole impegno, per cui i monaci avevano affidato quel compito

alla devozione delle suore Brigidine. Le sorelle disponevano di una

grande casa in cui vivere e di una cappella privata.

Mentre Bernarda si dirigeva verso l’uscita, un suono flebile,

una sorta di gemito, richiamò la sua attenzione. Fermandosi di

scatto cercò di capire da dove provenisse e con le orecchie tese e

il volto che diventava sempre più rosso per l’agitazione si diresse

con passo rapido verso il fondo della chiesa. Più si avvicinava e più

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nitido diventava quel miagolio, che pareva venire dal confessionale.

“Gatti” pensò. “Chi può aver portato dei gatti in chiesa?”

Tirò la tenda che oscurava il confessionale e vide una cesta ri-

coperta da un vecchio panno. Il cuore prese a batterle forte, sempre

più forte. Strinse il crocifisso che portava al collo e poi si chinò

con fatica per raccogliere la cesta. La estrasse con cautela e, dopo

aver respirato profondamente, scostò la coperta. Tre creature, tre

gemelli avvolti ognuno in un lembo di lenzuolo, piangevano con

le boccucce aperte come uccellini affamati.

– Santa Brigida, aiutami tu – mormorò la suora con un filo di

voce.

Allungò la mano verso i tre visetti sfiorandoli timidamente.

Quello che piangeva più forte degli altri aveva capelli folti e lisci.

Gli altri due avevano invece la testina coperta di una peluria chiara.

Bernarda accarezzò quelle tre testoline con infinita cautela, non

sapeva nulla di bambini. Avrebbe voluto prenderli tra le braccia per

calmare il loro pianto, ma ecco che il più vigoroso dei tre smise di

urlare e spalancò i suoi occhi azzurri fissando il volto della suora.

Il piccolo le rivolse una sorta di sorriso e la suora, dandogli con il

dito indice un leggero buffetto sul nasino, gli sussurrò:

– Tu devi essere il più birichino, eh!

Il suono delle campane la riportò alla realtà e si rese conto che

stava perdendo tempo prezioso: sicuramente i piccoli avevano bi-

sogno di cure immediate.

Sollevando i lembi dell’abito corse fuori dalla cappella, e ansi-

mando attraversò il prato per raggiungere in fretta la casa.

Prima di entrare, dovette fermarsi qualche istante; l’asma, di

cui soffriva da quando era bambina, le toglieva il respiro e le ren-

deva difficoltoso chiamare a raccolta le consorelle. Tuttavia, riuscì

a raggiungerle e avvertirle:

– Venite, presto, ci sono dei bambini in chiesa!

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Il tempo di riprendersi e in pochi minuti tutte insieme entra-

rono in chiesa. Disposte a cerchio intorno alla cesta guardavano

ora i neonati, ora si fissavano l’un l’altra preoccupate, domandan-

dosi che cosa avrebbero dovuto fare.

Suor Veronica, risoluta, prese la cesta e la portò in casa, se-

guita dalle altre. Decise che bisognava chiamare un medico che

visitasse i bambini. Dovevano almeno sapere quando erano nati.

Intanto tutte le altre cominciarono a darsi da fare come formiche

industriose. Entravano e uscivano dalle stanze con una rapidità

insolita. Per prima cosa stesero un lenzuolo candido sul tavolo di

legno della cucina e vi adagiarono i piccoli. Una suora arrivò con

una bacinella piena di acqua calda e cominciò a lavarli, mentre

un’altra li asciugava delicatamente. Suor Claretta, la più anziana,

in un angolo tagliava un telo di cotone per farne delle fasce. Tutte,

con le guance rosse e gli occhi che brillavano, cercavano di dare

il loro contributo, agitate, trepidanti, cariche di un’ansia che non

avevano mai conosciuto.

Suor Bernarda nel frattempo aveva cominciato a frugare nel

cesto con la speranza di trovare un biglietto o qualche altro segno

che potesse chiarire l’origine di quei trovatelli. Ma nella cesta di

vimini non c’era altro che un vecchio panno di lana rosso e un

lenzuolino stropicciato.

Quel mattino le suore Brigidine dimenticarono tutte i loro do-

veri nella comunità, finché la madre superiora, rimasta a lungo in

silenzio, non intervenne richiamandole al lavoro e alla preghiera.

Dopo la visita del dottore, che aveva trovato i gemelli vispi e in

perfetta salute, e dopo che il giardiniere venne spedito in paese a far

rifornimento di latte in polvere, biberon e pannolini, la superiora

concesse solo a Bernarda di occuparsi di loro e acconsentì alla sua

richiesta di vegliarli tutta la notte.

Tra una poppata e l’altra e solo quando era certa che i bambini

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riposassero tranquilli, la sorella continuava a domandarsi chi li

avesse abbandonati. Ogni tanto era presa dalla tentazione di ac-

carezzarli, ma ogni volta fermava la sua mano a mezz’aria. Andò

avanti così per tutta la notte fino a quando la stanchezza prese il

sopravvento e Bernarda si accasciò esausta sulla sedia accanto al

letto dove dormivano i piccoli.

Si addormentò in quel modo, il capo reclinato da un lato, e il

velo e la croce bianca di lino appuntata su di esso, simbolo dell’or-

dine delle Brigidine, le scivolarono giù dalla testa, scoprendole i

capelli color cenere, cortissimi e ispidi.

Il calore del sole sul viso la svegliò. I bambini dormivano sereni.

Il cuore di Bernarda era talmente colmo di gioia che quella mattina

non sentì la necessità di andare in chiesa.

Poiché i gemelli erano stati ritrovati il giorno in cui si celebra-

vano i santi Pietro e Paolo, le sorelle decisero di battezzare i tre

fratelli Pietro, Paolo e Simone.

Al bambino con gli occhi cerulei fu dato il nome di Pietro.

Suor Bernarda si trovò da subito a fare i conti con il regolamento.

Alle suore non era permesso allevare degli orfanelli. Ma in certe

occasioni – credeva lei, nel profondo del suo cuore generoso e

irruente – occorreva agire con il buon senso e non con le regole.

Da anni accoglievano i pellegrini: «Tutti gli ospiti che giungono

al monastero siano accolti come Cristo, poiché un giorno Egli dirà:

“Ero forestiero e mi avete ospitato”». Questa era la loro regola.

Se il volto del Signore era impresso su ogni persona che si re-

cava al convento, allora bisognava allevare i gemelli, continuando

a percorrere la strada che da sempre aveva ispirato la sua esistenza

e quella delle altre suore.

Era da tanti anni che Mussolini aveva abolito la cosiddetta

“ruota degli esposti”. Il compito di gestire la vita delle piccole cre-

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ature abbandonate spettava ai Tribunali dei Minori. Ma chi meglio

di una suora amorevole e devota a Dio poteva occuparsi di quei

bambini?

Niente da fare, i tre gemellini dovevano essere portati in un isti-

tuto. Forse qualcuno li avrebbe adottati. I servizi sociali sarebbero

presto passati a prenderli. Così si era espressa la madre superiora.

E colei che li aveva trovati non si dava pace.

Una mattina Bernarda era sola con i bambini e Pietro la osservava

sorridendo. Lei lo prese fra le braccia, guardandolo con tutto l’a-

more di una madre per poi stringerlo forte al petto.

– Non temere piccolo mio, andrà tutto bene – gli sussurrò.

In quel momento la porta della cella si aprì: suor Benedetta, la

madre superiora, reggeva una busta fra le mani.

– È arrivata proprio adesso – disse. Bernarda rimise il piccolo

nel suo letto accanto ai fratelli, e si voltò verso la superiora, che

aveva aperto la lettera e cominciato a leggere:

– Grazie alla cooperazione e alla fiducia che regna nel nostro

Ordine, allo spirito di fede, al clima di carità fraterna, volto anche

alla formazione dell’uomo… – Dopo un momento di pausa Bene-

detta spostò lo sguardo sulla monaca trepidante, guardandola al

di sopra degli occhiali.

– L’abbadessa generale ci concede una temporanea dispensa.

In breve, potremo allevare noi i piccoli fino alla loro adozione, per

la quale ci adopereremo con estrema sollecitudine.

La madre superiora concluse il suo annuncio marcando questo

ultimo punto con la voce.

Bernarda non riuscì a trattenersi ed esplose in un applauso.

Suor Benedetta si ritirò in silenzio, ma nel chiudersi la porta

alle spalle sorrise compiaciuta.

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Dopo una lunga giornata di lavoro Bernarda decise di riposarsi un

po’ prima dell’ora di cena. Raggiunse il giardino, sedette su una

panchina, aprì un libro e iniziò a sfogliarlo sorridendo. Il libro si

intitolava Ricette golose; aveva sempre avuto passione per la cucina,

e per i dolci soprattutto. Era stanca e sentiva il desiderio di togliersi

le scarpe. Dopo essersi guardata intorno, si tirò su la veste e si tolse

i mocassini lasciando che la brezza serale portasse sollievo ai suoi

piedi gonfi. La pioggia era cessata da alcune ore, la sagoma scura

delle colline si stagliava nitida contro il cielo tornato sereno mentre

il sole stava ormai per tramontare. Qualche luce cominciava ad

accendersi in lontananza e Bernarda smise di leggere per contem-

plare tanta bellezza.

All’improvviso il suo sguardo fu attirato da qualcosa che si

muoveva dietro la siepe di biancospino. Incuriosita, si spostò lenta-

mente dalla panchina, fino a che riconobbe una testolina riccioluta.

In punta di piedi aggirò la siepe e quando fu alle spalle di Pietro

lo afferrò per la vita:

– Guarda un po’ chi c’è qui! – esclamò con un sorriso.

Pietro era un bimbetto esile, con le gambe lunghe, magrissime,

sempre ricoperte di lividi e graffi.

Erano passati anni da quando giaceva neonato in una cesta

assieme ai suoi fratelli. Quando furono uno di fronte all’altro, il

monello, le braccia conserte e un piglio severo, guardò fissa negli

occhi la suora:

– Non si sollevano le gonne!

– E questo chi lo dice?

– Suor Giovanna l’ha detto a Simone.

– Quando?

– Ieri, quando Simone ha perso la pallina da tennis sotto la

sua gonna.

– Suor Giovanna ha ragione. Ma quella è un’altra cosa, Pietro.

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– No, è uguale! Ti sei alzata la gonna e ti sei tolta anche le

scarpe.

Bernarda rideva, mentre Pietro la rimproverava.

– Adesso ti spetta una penitenza. Devi dire la preghiera di santa

Brigida. Anche Simone ha fatto così.

– È giusto.

Bernarda si sedette di nuovo sulla panchina, e chiuse gli occhi

per meglio raccogliersi nella preghiera.

– Posso pregare con te? – disse Pietro.

Il bambino si era già sistemato accanto a lei, con i piedi a

penzoloni.

– Allora comincia tu…

Il fanciullo, i folti capelli scuri, gli occhi azzurri, il viso macchiato

da un pennarello giallo limone, iniziò a recitare la preghiera che

da pochi giorni aveva imparato.

O Signore, vieni presto e illumina la notte! Di’ all’anima mia che

niente succede senza che tu lo permetta, e che nulla di quello che tu

permetti è senza conforto. Mostrami la strada e disponimi a seguirla.

Pericoloso è indugiare e rischioso proseguire. Rispondi alla mia sup-

plica e mostrami la via. Dona, o Signore, pace al mio cuore! Amen.

– Lei ha perfettamente ragione… Sì, certo, me ne rendo conto…

Ma i bambini sono tre e non è facile… D’accordo, mi sembra un’ot-

tima soluzione… Grazie, madre.

Bernarda passava proprio in quel momento davanti all’ufficio

della superiora e le fu impossibile non udire la conversazione tele-

fonica. Rimase per un momento immobile, poi entrò spalancando

la porta con irruenza. Suor Benedetta, seduta dietro la sua scri-

vania, sembrava più pallida del solito.

– Ti sembra questo il modo di entrare, suor Bernarda?

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– Chiedo scusa, ma non ho potuto far a meno di sentire…

Vogliono portarci via i bambini, non è vero?

– I bambini devono essere adottati. La dispensa concessaci dalla

madre abbadessa sta per essere revocata. Ci viene rimproverato il

fatto che non ci siamo adoperate per cercare loro dei genitori. I

gemelli non frequentano una vera scuola, vivono in un ambiente

non adatto a loro. La vita del convento non ci permette di seguirli

come si dovrebbe. Se non troveremo in breve tempo una solu-

zione, saranno affidati ai servizi sociali e saranno loro a occuparsi

dell’adozione.

Bernarda era fuori di sé. Forse che loro non li amavano, li nu-

trivano, li educavano? I bambini erano sereni e felici!

A quelle rimostranze, suor Benedetta batté con energia la mano

sulla scrivania:

– In tutti questi anni mi sono presa la responsabilità dei nostri

orfanelli e ho difeso la loro presenza qui nonostante le pressioni che

mi venivano fatte. Non te ne ho mai parlato perché mi sono resa

conto di quanto dolore avresti provato se li avessimo allontanati.

Ma tu non sei la loro madre. Forse hai dimenticato che sei una

suora – proseguì abbassando la testa e il tono di voce.

– No, non l’ho dimenticato. Pensavo anzi che occuparci di loro

esaltasse la nostra missione. Noi siamo discepole di Cristo attra-

verso l’amore per il prossimo. E il nostro prossimo sono anche

questi bambini. Abbiamo dato loro un tetto e amore. Abbiamo

insegnato loro a conoscere Dio. Prima che loro arrivassero la no-

stra missione qui era solo mandare avanti una pensione per turisti.

– Suor Bernarda, ora basta! Ritirati nella tua stanza.

Dal canto suo, la sottoposta non intendeva restare neanche un

minuto in più.

Si rifugiò nella sua cella senza partecipare alle preghiere della

sera non prima, però, di aver controllato il sonno dei tre piccoli.

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Alla stizza era sopravvenuta la rassegnazione. Qualche giorno

più tardi, seduta nell’ufficio della madre superiora, Bernarda sor-

seggiava una tazza di tisana alla malva, storcendo le labbra per il

sapore orribile dell’intruglio e per l’amarezza che sentiva. Suor

Benedetta, seduta di fronte a lei, smistava la posta.

– Perché non provi a parlare loro? – La donna alzò lo sguardo

verso Bernarda tralasciando le sue lettere. – Sono molto legati a

te, ti ascolteranno.

– Ma come faccio a dire a quei piccoli che saranno…

– Provaci, perché fra qualche settimana verranno a prenderli.

– Ci proverò.

– Parla con loro questa mattina.

La suora si alzò dalla poltrona sbuffando. Avrebbe voluto dire

«Al diavolo tutti!», ma tacque per rispetto alla sua superiora.

Radunò i gemelli in giardino, sedendosi sotto il pergolato, di

fronte a una piccola fontana di marmo bianco. Dopo anni di ri-

poso, la fontanella spruzzava ora acqua verso l’alto, e per volere dei

gemelli ospitava cinque ingordi pesci rossi.

Pietro e Simone avevano i volti sudici. Bernarda li aveva pre-

levati dal cortile, mentre ancora si sfidavano a duello con le spade

di cartone costruite per loro da un monaco Benedettino. Paolo, in-

vece, più mite e riflessivo, aveva interrotto una partita a ruba mazzo

con suor Leopolda, proprio quando stava finalmente vincendo.

Tutti e tre guardavano Bernarda dritta negli occhi, mentre lei cer-

cava le parole giuste per iniziare il discorso. Pietro ruppe l’attesa.

– So cosa ci vuoi dire – disse, infilandosi le mani nelle tasche

dei pantaloncini.

Con il fazzoletto Bernarda deterse la sua fronte e quella di Si-

mone. – Sono sempre sudati e in disordine – bisbigliò rivolgendosi

a Paolo, che non poteva essere lasciato in disparte neanche per un

solo momento.

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– Ci avete trovato dei genitori – continuò Pietro, facendo un

passo indietro, sottraendosi alle carezze della suora.

Bernarda annuì. Era la prima volta che le mancavano le parole,

lei che non aveva mai avuto problemi a esprimere i propri senti-

menti. Ma ora, davanti a quelle creature, si sentiva disarmata.

I tre bambini, senza nemmeno guardarsi, emisero all’unisono

un «Ah» che suonò come la peggiore delle accuse.

– Ne abbiamo parlato spesso. Ricordate? – proseguì con un

nodo alla gola.

Pietro confermò con la testa, mentre Simone e Paolo rimasero

in silenzio.

– Sapete cosa significa, vero? – Bernarda attese una risposta

che non venne. – Lascerete il convento e sarete accolti in una fa-

miglia. Studierete in una scuola e conoscerete altri bambini, non

solo quelli che vengono in vacanza nella casa di accoglienza. Avrete

degli amici, una mamma e un papà. Sarà bellissimo per voi.

– Ma tu non ci sarai.

Al cuore della suora arrivò una pugnalata.

– Certo che ci sarò, ci sarò sempre, in qualunque momento voi

avrete bisogno di me. Mi verrete a trovare e…

– Staremo insieme? Io, Simone e Paolo, staremo insieme? –

domandò Pietro.

Bernarda implorò il buon Dio di aiutarla, doveva trovare la

forza di dire la verità.

– Perché ognuno di voi possa avere tutte le attenzioni di cui

ha bisogno sarà necessario che siate affidati a tre famiglie diverse.

Non riuscì a proseguire. Si chinò allora sulle ginocchia, e

aprendo le braccia li accolse tutti e tre.

– Bambini – disse – potrete incontrarvi sempre, tutte le volte

che lo vorrete. Chiederò un impegno alle famiglie che vi adotte-

ranno perché questo avvenga.

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Prese la mano di Simone alla sua destra e quella di Paolo alla

sua sinistra.

– Forza Pietro, anche tu.

Componevano un cerchio ora.

– Chiudete gli occhi, stringetevi forte le mani… La sentite?

Pietro avvertì una sensazione sconosciuta, qualcosa che non

si poteva vedere e neanche toccare, ma che si sentiva, in fondo

al cuore. Gli sembrò di capire le parole di suor Bernarda: anche

lontani sarebbero sempre stati vicini.

Simone fu affidato a una coppia di origine napoletana. Michele

e Lucia Navarra erano i proprietari di un ristorante di specialità

campane a Roma.

Appena sposati avevano fatto i conti con un’attività che ren-

deva poco e con l’infertilità di Lucia. Solamente l’amore che li

univa e una buona dose di coraggio avevano rimesso in piedi il

loro matrimonio. Ora, all’età di trentasette anni, avevano deciso

di accogliere un bambino.

Simone lasciò il convento per primo, subito dopo aver festeg-

giato il compleanno. Il giorno della festa furono invitati anche la

famiglia Signori, che aveva adottato Paolo, e il maresciallo dei cara-

binieri Quinto Alessi con la moglie Angela, che sarebbero diventati

i genitori di Pietro.

Suor Marta, la cuciniera, lavorò come una pazza: decisa a ren-

dere quella giornata indimenticabile, preparò biscotti, focacce

salate, bignè ripieni di crema e cioccolato e una torta gigantesca.

Coscienti di commettere più di un peccato di gola, le suore Bri-

gidine si unirono ai festeggiamenti dedicandosi ai dolci e al canto.

I giorni che videro partire Simone e Paolo non furono tristi: i

bambini sapevano che presto si sarebbero rivisti. Tutti e tre anda-

vano a vivere nella Capitale.

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Non fu così per suor Bernarda, e il peggio arrivò quando toccò

a Pietro andarsene.

L’arrampicata sulla collina per acchiapparlo e portarlo dai suoi

genitori non le costò solo fatica fisica:

– Pietro! Sono arrivati! – Ansimando Bernarda cercava di ri-

pulire dalla terra le ginocchia del bambino.

– Guardati, sei tutto sporco. Mi fai proprio arrabbiare. – Si

rendeva conto che ormai il suo compito era terminato, ma non

riusciva a smettere di essere ciò che era stata fino a quel momento,

una madre per quella creatura.

Trascinò Pietro giù per la collina con foga, tenendolo per una

mano.

– Che fretta, hai proprio voglia di cacciarmi via!

– Facciamo brutta figura con il maresciallo. Non dovevo la-

sciarti uscire questa mattina. Roba da matti. Sporco come un ani-

maletto… – Bernarda farfugliava parole senza senso, ma come

smettere, mio Dio, come fare…

Poco prima di entrare nel salone si fermarono. La suora guardò

Pietro sistemandogli i capelli scompigliati sulla fronte. Poi lo prese

fra la braccia e lo strinse a sé.

– Ricordati sempre che io sono qui. Se avrai bisogno, io ci sarò,

bambino mio.

Vedere Angela e Quinto sorridere a Pietro, la rasserenò: era

sicura che sarebbero stati felici insieme. Osservò l’auto allontanarsi,

fino a quando non sparì dietro una curva della strada.

Ora si sarebbe rimboccata le maniche ancora più di prima: po-

vertà, obbedienza, profonda contemplazione e operoso apostolato

le avrebbero permesso di ritornare alla sua missione originale, ac-

cantonando il pensiero di essersi sentita madre.

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Quinto stava sorseggiando una tazza di caffè e aveva aperto il gior-

nale. Pietro si sedette di fronte a lui, cercando di sbirciare i titoli

delle notizie.

– Hai dato un’occhiata a quel volantino? – gli chiese Angela

mentre spalmava il burro su una fetta biscottata integrale.

La sera prima aveva lasciato sul comodino del figlio un volan-

tino trovato nella buca delle lettere. La parrocchia del quartiere

cercava volontari per il centro giovanile, durante i mesi estivi, fino

a settembre.

Pietro lo aveva accartocciato, gettandolo nel cestino vicino alla

scrivania. Sapeva cosa stava cercando di fare sua madre. Erano

mesi che lui non andava in chiesa e non c’era miglior occasione di

quella per unire l’utile al dilettevole. Riportare la pecorella smarrita

all’ovile e trovargli anche qualcosa da fare per l’estate.

Lui lo sapeva di dover prendere una decisione sul suo futuro.

I suoi fratelli avevano già scelto il loro percorso: dopo la maturità,

Paolo si era iscritto ad architettura e Simone avrebbe frequentato

una scuola di alta cucina per diventare chef. Ogni sera, rientrando

a casa, Pietro sapeva che suo padre e sua madre avrebbero voluto

chiedergli: «Cosa farai? Cosa ti piace?», ma lui la risposta non la

conosceva.

Era irrequieto, insoddisfatto, carico di una rabbia a cui non

riusciva a dare motivo e limiti. E spesso aveva paura, di se stesso e

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