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Introduzione

Martine Bovo Romœuf & Franco manai

Questa raccolta di saggi si propone di dare un contributo alla di-scussione attuale sul discorso postcoloniale italiano, cioè quell’in-sieme di testi incentrati in modo critico sulla storia coloniale in generale e su quella italiana in particolare. A tale discorso hanno contribuito sia opere di scrittori italiani di origine sia opere di nuo-vi italiani, cioè scrittori scolarizzati in lingue diverse e introdotti all’italiano in un secondo momento, come anche opere di italiani di prima generazione, nati da genitori stranieri e cresciuti in Italia nella coesistenza di due culture e di due lingue – e a volte più di due. Si tratta di una produzione che, attraverso diversi mezzi di comunicazione, dalla letteratura al cinema, dal teatro al fumetto, dalla televisione ai quotidiani, dalle riviste a internet, ha esplora-to percorsi nuovi e si è espressa in svariati generi, spesso mesco-landoli: dalle autobiografie alle biografie, dal romanzo storico o neostorico al realismo magico, dal romanzo giallo o noir a quello d’avventura o d’appendice, dalla poesia alla canzone, dal film al documentario, dal fumetto in serie al graphic novel.

Gli studi in questo campo hanno raggiunto una massa critica a partire dalla quale appare necessario un nuovo approccio. Non abbiamo la pretesa di fondarlo qui e ora, considerando la comples-sità e la varietà delle problematiche che esso comporta. Riteniamo che sia in questa fase importante, in via preliminare, ed è questa l’ambizione di questa raccolta di saggi, raccogliere osservazioni, intuizioni, visioni, tasselli che possano servire a ricostruire una re-altà sfaccettata che sembra difficile da afferrare nella sua totalità.

Il filone italiano delle scritture postcoloniali si può considera-re aperto con Tempo di uccidere di Flaiano del 1947; tuttavia è solo negli anni Novanta che si è pienamente dispiegata la vitalità di questo nuovo orientamento in concomitanza con la presenza sul suolo nazionale di un numero in rapida crescita di migranti dai diversi sud del mondo (Lombardi- Diop & Romeo 2014b: 12–14). Da Pap Khouma (1990) a Wu Ming 2 & Antar Mohamed (2012) il racconto postcoloniale ha esplorato percorsi nuovi, rivedendo

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gli schemi del romanzo storico tradizionale, inglobando tecniche provenienti da altri generi e media (romanzo giallo, noir, d’avven-tura, d’appendice, cinema, televisione, giornalismo, internet) e ar-ricchendosi grazie alle produzioni letterarie dei migranti, a loro volta impegnate nell’esplorazione della lingua e cultura italiana dall’ottica di chi la avvicina dall’esterno.

Per cogliere la problematicità di una rappresentazione comples-siva del discorso postcoloniale italiano può essere utile concentra-re l’attenzione sul rapporto tra le scrittrici e gli scrittori migranti, ciascuno con una propria storia culturale e letteraria alle spalle, da una parte e, dall’altra, la tradizione letteraria italiana nella quale questi scrittori cercano di inserirsi. Si tratta per molti motivi di un rapporto molto complesso e necessariamente confuso.

Uno dei generi letterari più battuti dalla narrativa postcolo-niale e migrante è il romanzo neostorico (Benvenuti 2012) dal quale, come a suo tempo da quello storico, viene una sfida alla storiografia come produzione scientifica. Quest’ultima, fondata su una metodologia di acquisizione dei documenti e di selezione dei dati, e quindi su un processo di ricostruzione controllato all’o-rigine dai produttori del discorso e controllabile in ogni momento dai suoi recettori, non ammette che la conoscenza storica si possa ricavare anche da altre pratiche più leggere ed esposte all’arbitrio individuale, come il romanzo o le memorie. Una cosa è se la sto-riografia scientifica si serve della letteratura, ritenendola, in casi particolari, fonte degna di fiducia, altra cosa è se la letteratura si presenta con la pretesa di essere presa per storia o di fare diretta-mente storia.

Da parte delle scritture migranti questa sfida si estende all’omo-geneità di una letteratura nazionale che affonda le sue radici nella storia e nella costruzione della lingua italiana in secoli di scrittura e di tradizioni condivise (Benvenuti 2012).

La grande letteratura e la storiografia scientifica dei secoli XIX e XX nate come elementi sovrastrutturali della civiltà borghese, presuppongono una visione del mondo umanistica, in cui i valori dell’individuo come microcosmo riproducono in sé l’infinita com-plessità e l’ordine divino del macrocosmo. La lingua, strumento umano per eccellenza nella ricostruzione spirituale del mondo, viene studiata, strutturata, approfondita, elaborata con passione e intensità. Al romanzo spetta la riflessione sulla vita interiore e sulla complessità sociale, mentre la storia, basandosi su un metodo vi-cino a quello delle scienze naturali, ricostruisce verità oggettive su documenti e fonti certe. L’umanità si identifica con quella prodotta

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dalla cultura europea e la storia universale è quella raccontata dal punto di vista europeo.

Questi sono i limiti di un’epoca e di una concezione del mondo che hanno prodotto grandi capolavori, grandi ideologie, grande progresso scientifico e sociale, ma non la capacità di entrare davve-ro in comunicazione con tutto ciò che si presentasse come diverso, come non “europeo”.

Noi siamo eredi di quelle forme di pensiero, di quella concezio-ne di letteratura e di storia, ma non possiamo più accettare le pre-messe ideologiche su cui essa si basa, così come non possediamo più quella formazione umanistica che rappresenta la vita interiore di quella letteratura e di quella storiografia. Non possediamo più la certezza che una storiografia scientifica sia in grado di fornirci una verità oggettiva, o forse neanche che una verità oggettiva esi-sta. Non possediamo la certezza che la ricostruzione di una guerra sulla base di documenti sia più vera di un racconto dei soprav-vissuti. La superiorità epistemologica della storia sulla memoria e sulla letteratura è messa in forse.

Allo stesso tempo viene posta in dubbio la funzione sociale del-la storiografia di stampo tradizionale, la cui visione appare spesso unilaterale, mentre hanno ormai acquisito piena dignità epistemo-logica tutte le prospettive da cui è possibile vedere la realtà, a co-minciare da quelle dei vinti e dei popoli colonizzati. La storiografia dei vincitori non è più veritiera di quella dei vinti, ma è spesso l’unica che esiste. Non avendo una storiografia i vinti, i colonizzati, esclusi dai circuiti della scienza, della credibilità, delle istituzio-ni, dell’autorità accademica, tendono ad avvalersi di altri canali, a loro vieppiù accessibili nell’era della globalizzazione, come il ro-manzo o l’autobiografia.

Anche il nostro rapporto con la lingua è coinvolto in questa cri-si. Molti lettori di oggi non sanno più apprezzare quell’elaborazio-ne della lingua che caratterizzava in Europa la letteratura “alta”, e anzi generalmente la percepiscono addirittura come fastidiosa pedanteria. Abbondano dati statistici che dimostrano il progressi-vo impoverimento linguistico e culturale degli italiani negli ultimi 30 anni, non solo per il dilagare dell’analfabetismo funzionale ne-gli strati di cultura medio bassa, ma anche per l’abbassamento del livello culturale sia degli studenti universitari sia dei laureati e dei dottori di ricerca.1 La certezza che la lingua italiana sia soggetta a

1 Si veda il rapporto del PIAAC (Programme for the International Assessment of Adult Competencies) dell’Ocse 2011, da cui si evince che un terzo degli italiani

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un processo di impoverimento lessicale e sintattico nell’uso quoti-diano e che questo fenomeno non possa lasciare indenne la lettera-tura era già di Pasolini e di Calvino negli anni ’70.2

Umberto Eco, sempre sensibile ai cambiamenti socio- culturali, nei primi anni Novanta nota come il pubblico dei lettori contem-poranei stia diventando sempre più estraneo al “patto finzionale” tra autore e lettore (Eco 1994: 92). Secondo Giuliana Benvenuti egli intende più in generale segnalare che

il suo pubblico, come quello di ogni altro scrittore contemporaneo, è in minima parte composto – diversamente da quanto accadeva negli anni Sessanta e Settanta – da lettori che condividono con lo scrittore una formazione umanistica, e che dunque sono in grado di riconosce-re le allusioni, le citazioni, i modelli della tradizione mobilitati entro opere costruite come ipertesti. (Benvenuti 2012: 35)

In altri termini, il pubblico di massa si va facendo sempre più refrattario alle elaborazioni linguistiche della tradizione letteraria italiana, e non più veramente in grado di comprendere, e tanto meno gustare la lingua colta.

Il pubblico, ovviamente, non è un’appendice secondaria della produzione letteraria, ma la sua ragione ultima, e ne determina la vita o la morte. D’altra parte gli autori e le autrici vivono sullo stesso pianeta:

Sono gli stessi scrittori, del resto, che ormai non sono più formati pre-valentemente su una tradizione letteraria condivisa, e sono loro che non interpretano la scrittura come forma di trasmissione di una cono-scenza sedimentata, né le attribuiscono un valore pedagogico e civile. (Benvenuti 2012: 35)

Da un lato dunque la tradizione letteraria italiana, con i suoi per-corsi stilistici e la sua intertestualità nazionale, è un difficile metro di comparazione per attribuire diplomi di appartenenza letteraria, ma

riesce a capire solo testi elementari che spesso non arrivano neanche a include-re le istruzioni per l’uso o la costruzione di semplici artefatti, quali una scatola di cartone. Altri dati arrivano ogni anno dai risultati dei test di ingresso uni-versitari, che mostrano generazioni di studenti dal lessico talmente povero da non essere in grado di seguire le lezioni (Montanari 2009; Crosetti 2009; Boeri 2013).

2 Da allora il fenomeno è stato analizzato e definito da diversi linguisti tra cui Sabatini 1985; Tavoni 2002; Sobrero 2003; Cortellazzo 2007; Antonelli 2011; Cacciotti 2012; Bortone 2014.

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dall’altro esistono per gli scrittori migranti altre soglie più o meno visibili, più o meno segnalate, che si interpongono al riconoscimen-to letterario. Detto brutalmente, il colore della pelle è una di queste. Come affermano Cristina Lombardi- Diop e Caterina Romeo:

il lavoro di scrittori e scrittrici come Pap Khouma e Igiaba Scego, rispettivamente di origini senegalesi e somale, mette in luce il sen-so di disagio che gli italiani bianchi avvertono nel vedere la nerezza associata all’italianità. Di solito si ritiene che questi termini siano in-compatibili e che pertanto si escludano a vicenda. Come vediamo in scrittori e scrittrici di prima e di seconda generazione, la critica a ciò che conferisce italianità è un nodo cruciale, in quanto l’italianità è ap-parentemente irraggiungibile per gli italiani neri precisamente perché l’appartenenza nazionale di solito viene concepita come l’essere ca-ratterizzati da tratti specifici, tanto biologici quanto culturali, che non si possono semplicemente acquisire come conseguenza di una perfet-ta padronanza della lingua italiana e di un modo di vivere italiano. (Lombardi- Diop & Romeo 2014 b: 14)

Lombardi- Diop e Romeo con molta chiarezza mostrano la com-ponente razziale e coloniale di un’identità italiana peraltro sempre convinta della propria innocenza, e impostano una serrata discus-sione sul significato del Risorgimento, che rileggono come espan-sione territoriale, e sul colonialismo interno che abita fin dalla sua fondazione l’“italianità” (Lombardi- Diop & Romeo 2014 b: 4–6).

Attraverso le opere letterarie postcoloniali vengono alla luce grovigli di problemi che si nascondevano tra le pieghe della co-scienza e che fanno scricchiolare molti contrafforti epistemologici considerati fermi. Il colonialismo italiano emerge dalla nebbia in cui l’aveva no confinato non tanto la storiografia ufficiale quanto le pratiche discorsive dominanti, anche grazie ai travisamenti e ai silenzi della letteratura (Labanca 2005). Tuttavia nel porsi dell’at-tività letteraria postcoloniale come istanza conoscitiva capace di sostituire una ricostruzione oggettiva e controllata del passato è in-sita una minaccia. Forse è vero che, come sostiene Carlo Ginzburg, è stata la letteratura e in particolare il romanzo storico dell’Otto-cento, da Balzac a Tolstoj, a suggerire agli storici di andare al di là della sequenza di eventi macroscopici, soprattutto guerre, di cui si erano sempre occupati, e rivolgersi a campi di indagine apparen-temente marginali, come la vita quotidiana, il lavoro, le passioni (Ginzburg 2006: 107). Certo è anche vero che la crisi della storia oggi è legata a una crisi di senso, cioè di trascendenza e utopia. La storia «non appare ormai più in grado di sostenere alcun credibile programma di emancipazione collettiva» (Bodei 1995: 21).

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Se la storia perde il suo senso, la sua direzione, anche la sua nar-razione perde cogenza e tensione interna. Si disperde. Il suo peso epistemologico non è più sufficiente a assicurare la comprensione del passato e a offrire strumenti per la previsione del futuro. Infine essa diviene futile gioco, senza spessore etico. Tuttavia, «dato che nessuno riesce a vivere una realtà totalmente insensata, quando del passato prossimo rimangono solo macerie sparse, l’identità è disposta a rinnovarsi ricomponendosi in figure fantasiose o miti» (ivi: 35). Poiché con la storia è in gioco la ricostruzione di un’i-dentità continua che lega il proprio presente al proprio passato, fondando quindi la comprensione di sé come individuo e come società, prescinderne non è dato. Al venir meno della sua funzione sociale, altri elementi si affacceranno a prenderne il posto, meno razionalmente controllabili.

La storiografia ufficiale sembra dibattersi tra l’esigenza di man-tenere la sua pretesa di scientificità e di oggettività, e le spinte centrifughe provenienti dalle critiche alla razionalità occidentale e dalle proposte di visioni alternative provenienti dalle culture al-tre. Ciò non fa meraviglia se pensiamo che la storia, come scrittura accertata e certificata del passato, è nata con Tucidide per legitti-mare l’imperialismo ateniese e dimostrare la superiorità dei greci sui barbari (Gallerano 1995b: 22). La storia universale sul modello di Polibio, poi, si configura solo a partire dal fatto che l’universo mondo (di allora) era sotto il dominio romano (Bodei 1997: 21).

La storia in senso occidentale è sempre stata storia dell’Europa e, al margine, delle sue colonie. Essa nasce e muore con il colonia-lismo. La crisi della storia, la crisi del soggetto, la perdita di senso, coincidono con la perdita delle colonie. Nel momento in cui non è più sostenibile la superiorità culturale dell’Occidente sul resto del mondo e i vinti prendono la parola per esigere una revisione della storia, questa perde senso, per l’Occidente. Il lavorio del pensiero subalterno, delle femministe, degli intellettuali del sud del mondo e di quelli occidentali che criticano il colonialismo,3 scava ai fian-chi la storia ufficiale. Il soggetto emergente dal sud del mondo ha un’urgenza impellentissima: quella di prendere la parola e essere ascoltato, definire e dare nomi, perché è sempre stato ascoltatore e

3 Tra gli altri Edward Said, Noam Chomsky, Giulio Angioni, Gayatri Spivak, Frantz Fanon, Homi Bhabha, Benita Parry, Armando Gnisci, Judith Butler, Pierre Bourdieu, Boaventura de Sousa Santos, Eric Hobsbawm, Stuart Hall, Ania Loomba, Partha Chatterjee, Dipesh Chakrabarty, Iain Chambers, Achille Mbembe, Robert Young e Paul Gilroy.

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oggetto di un linguaggio altrui, definito e costruito, come sostiene Said, dalle parole degli altri.

È dunque in questo affanno di parola che in tutto il mondo vengono prodotte opere di letteratura migrante. Scrittori e scrit-trici a volte improvvisati si esprimono in lingue che spesso non dominano e hanno tuttavia la pretesa o la missione di ribaltare il racconto storico ufficiale, di illuminare gli angoli che quello lascia-va oscuri. Il presentarsi alla ribalta di un nuovo sguardo sul pas-sato, anzi di una molteplicità di sguardi, rende evidente il fatto che il passato, come dice Bodei, non è immutabile, ma può cam-biare (Bodei in Vattimo 1990: 15). Questa mutabilità del passato però è pericolosa. «Se viene a mancare qualsiasi demarcazione tra ricostruzione obiettiva e trasfigurazione, qualsiasi manipolazione è valida» (Bodei in Vattimo 1990: 35). «La nuova storia culturale alle soglie del terzo millennio sembra perdersi nei mille rivoli della Alltagsgeschichte [storia del quotidiano] della microstoria, della storia delle mentalità, del genere, degli studi subalterni e postcoloniali, della storiografia della memoria» (Bondì 2012: 214).

L’emergere e l’affermarsi del discorso postcoloniale gioca dun-que un ruolo di primo piano tanto nel precipitare della crisi del pensiero storiografico, quanto nell’individuazione dei percorsi co-noscitivi che questa crisi ha reso possibili. Ci soffermeremo quin-di in un primo tempo sugli sviluppi del complicato intreccio tra storia e letteratura allo scorcio del XX secolo, cioè del periodo che ha visto l’affermarsi del cosiddetto postmoderno e l’affacciarsi dei primi tentativi di un suo superamento. Ci concentreremo poi sul modo in cui in questa discussione si inserisce il discorso postcolo-niale, al cui interno la dimensione “storica”, la narrazione tesa a proporre una sua versione della realtà passata, oltre che di quella contemporanea, ha una presenza assolutamente preponderante.

Sulla storia come oggetto di riscrittura si è cimentata la lettera-tura con grande successo di pubblico, dai Promessi Sposi al Nome della rosa, proponendo dei racconti tanto più graditi quanto più investiti di autorità storica, cioè di realtà. «Secondo Eco hanno maggiore possibilità di incontrare il plauso di un ampio pubblico quei libri che più indulgono nella confusione tra realtà e finzione» (Benvenuti 2012: 34). Su questo giocano anche quei generi di in-trattenimento recenti che contendono con successo il mercato alla letteratura, costringendola ad adeguarsi: i diversi tipi di reality, le ricostruzioni semi documentarie, i servizi giornalistici travestiti da storie avventurose etc. Anche i vari revisionismi di matrice fascista pescano nel torbido giocando sul vuoto di codici interpretativi.

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Di fronte alla responsabilità che comporta assumere il passato come proprio, e il presente come reale, la dissoluzione di entrambi in un inafferrabile mondo di narrazioni e interpretazioni autorefe-renziali offre un’egregia via di uscita. Il filosofo americano Richard Rorty nega alla storia l’autorità di fare affermazioni sulla realtà; essa può assolvere se mai un compito terapeutico (Rorty 1980: 5). Nella modestia dell’obiettivo epistemologico il pragmatismo ame-ricano non ha niente da invidiare al postmoderno, in cui il gioco di decostruzione del discorso portato all’estremo e la “debolezza” del pensiero diventano complici della dissoluzione della realtà e della nebulizzazione della storia. Quest’ultima diventa méta- récit, narrazione di narrazioni, infarcita di “favole per adulti”, grands récits, come Jean- François Lyotard definisce le speranze epocali o gli ideali sociali (Lyotard 1979). In tale contesto si dispiega l’analisi del discorso di Hayden White, che classifica tutti i generi narrativi in tre grandi categorie: romance, tragedia, commedia e satira. Tanto la narrativa di finzione quanto quella storica appartengono alla prima tipologia. Il contenuto della comunicazione si dà in primo luogo con la scelta della categoria formale in cui collocare il discor-so: è attraverso le scelte formali che sia lo storico sia il romanziere esprimono il loro messaggio. La forma è il contenuto (White 2006). Così con un gioco di prestigio White fa scomparire nelle pieghe dell’analisi della narrazione la differenza tra racconto e realtà.

In questa operazione la letteratura, come ricostruzione e narra-zione del passato, ma anche del presente, non si distingue dalla storiografia e sembrerebbe aver vinto la sua battaglia. Così non è; infatti, una volta neutralizzata la possibilità di parlare della realtà, non solo la storia ma anche la letteratura resta disarmata. La sua denuncia cade nel vuoto, o meglio nel caleidoscopio di immagini mutevoli e insignificanti con cui i media bombardano costantemen-te il pubblico. A chi giova la dissoluzione dei generi? La domanda di Carlo Ginzburg è più che legittima (Benvenuti 2012: 16).

La fine del colonialismo diretto ha provocato il crollo delle cer-tezze occidentali (soggetto, storia, senso) facendo venir meno il loro fondamento invisibile, tuttavia non ha dato luogo all’eman-cipazione del sud del mondo, bensì a forme di colonialismo in-diretto, il cui denominatore comune è la doppiezza linguistica, il divario tra l’azione reale e la sua descrizione a uso del pubblico. Esempi notissimi ne sono gli “aiuti per lo sviluppo”, la diffusione della “democrazia”, i contratti “bilaterali” di “libero” commercio, gli interventi militari “di pace”.

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È attraverso la cappa magica della narrazione di sé come qual-cos’altro che il colonialismo, credendosi invisibile, prosegue la sua distruzione del mondo nell’epoca del postcolonialismo. In altre parole: il postcolonialismo altro non è che il colonialismo di sem-pre, cioè la rapina delle materie prime e della forza lavoro delle colonie a beneficio dei paesi colonizzatori, ma mascherato, per esempio, da “accordo bilaterale di commercio”. Se si prende in considerazione quest’ultimo caso, occorre riconoscere che si tratta di un mascheramento molto ben riuscito, capace di ingannare an-che persone di assoluta onestà, democratici convinti e in perfetta buona fede. L’accordo bilaterale, infatti, si narra, racconta se stesso come accordo tra uguali, tra Paesi con gli stessi diritti, concluso per facilitare entrambe le economie e favorire gli interessi delle popolazioni coinvolte. Ciò che poi avviene nella realtà è del tutto irrilevante. Quasi nessuno lo viene a sapere, perché i media non ri-portano il numero dei contadini morti di fame o suicidatisi in con-seguenza di tanta libertà di commercio. È la narrazione che conta.4

Nel momento in cui ogni narrazione è legittima quanto ogni altra, perché è stato reciso od oscurato il suo collegamento con la

4 Sul tema, si vedano perlomeno i classici Amin (2001) e Harvey (2003), ma anche Wilkinson (1996), i diversi saggi raccolti in Lipsey & Meller (1996) e in Tetreault (2012), e l’interessante punto di vista presentato all’interno di un gruppo di ricerca della Banca Mondiale, Collier (2000). Gli economisti occiden-tali neoliberisti e le istituzioni internazionali preposte alla cooperazione eco-nomica e allo sviluppo, quali l’ONU, la Banca Mondiale e il Fondo Monetario Internazionale, sostenitori delle magnifiche sorti e progressive del libero mer-cato e del mercato tout court, elaborando la loro ideologia, nel senso marxiano di falsa coscienza, affermano che il processo di integrazione delle culture e delle tecnologie ha dato un forte contributo alla riduzione della povertà nel pianeta. Questi enti non hanno altresì mancato di dimostrare, con sondaggi “scientifici”, che, grazie alla globalizzazione, il commercio dell’Occidente con i Paesi poveri rende questi ultimi meno poveri e che, per esempio, i contadini morti di fame sono meno di qualche decennio fa. Il problema che resta, in primo luogo, è che i benefici degli scambi non sono stati ripartiti in modo omo-geneo, come indicano i dati forniti dalla stessa ONU (Giannini 2008). Quando poi ci si pone il quesito se questa situazione di forte sperequazione possa ve-nir modificata attraverso la progressiva liberalizzazione e la sempre maggiore integrazione globale dei mercati, la risposta dipende ovviamente dal tipo di statistica che si decide di effettuare. Se si misura il tasso di crescita complessiva dell’economia, sarà allora possibile riscontrare un benefico effetto del processo di integrazione sullo sviluppo dei paesi poveri. Tuttavia «il tasso di crescita non misura la povertà, in quanto registra la media dei redditi della popola-zione ma non dice nulla della situazione delle fasce più esposte. Quando ci focalizziamo su questa parte della popolazione, le indagini statistiche sono molto meno chiare e spesso non si trova una correlazione positiva tra il grado di apertura internazionale e la riduzione della povertà» (Giannini 2008).

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realtà, i soggetti subalterni hanno un bel gridare il loro punto di vista. La loro voce non riesce a sopraffare il brusio assordante delle infinite narrazioni che offuscano tanto il presente quanto il passa-to. Come dice ancora Bodei:

La lacuna del presente è anche questo senso di frustrazione, suscitato da uno spazio di complessità difficile da organizzare […] non credo che il senso globale della storia si sia semplicemente indebolito: di-rei che bisogna cambiare orientamento per inserirsi in questa nuova complessità, per non essere degli automi miopi […]. (Bodei in Vattimo 1990: 18)

Tra i filosofi italiani Remo Bodei è forse quello che ha dedicato i maggiori sforzi all’analisi, da molteplici punti di vista, dei cam-biamenti della posizione epistemologica della storiografia e del si-gnificato della storia nella percezione comune, prendendo sul serio l’alleggerirsi della storia, il suo essere considerata narrazione re-versibile, non più come un passato irrevocabile che ci tiene schiavi, ma come qualcosa su cui possiamo ancora riflettere e che possiamo ri- raccontare diversamente. Tuttavia Bodei non ha mai rinunciato al valore di realtà che rende “la storia pesante oltre che leggera” (Bodei in Vattimo 1990: 20), ritrovando in questo valore di realtà la dimensione collettiva, sociale della storia, che la ancora a una real-tà oggettiva e non arbitraria. La problematicità della connessione tra la soggettività e la realtà oggettiva, difficoltà che egli riconosce come propria dell’uomo postmoderno, non lo induce a desistere dalla speranza di dare un senso alla storia.

Boaventura de Sousa Santos, sociologo portoghese padre dei social forum internazionali della prima generazione e teorico del pensiero abissale (De Sousa Santos 2006 e 2010; Guarino 2009),5 cita Noam Chomsky che, per superare questa incapacità di fron-teggiare il presente, propone la creazione di un senso comune cartesiano (Chomsky 1987: 35). Ascoltando la gente che parla di calcio, Chomsky si accorge che essa ha una grande capacità di ana-lisi e che se l’applicasse alla politica saremmo già molto più avan-ti. Smontare il sistema di falsa informazione dei media è possibile

5 De Souza Santos ripercorre la storia del pensiero moderno europeo e mostra come esso si costituisca sulla base di una linea “abissale” che divide le società metropolitane dai territori coloniali. Questa linea invisibile ha la proprietà di rendere invisibile ciò che si trova dall’altra parte, come se appartenesse a un al-tro livello di realtà incommensurabile con quella conosciuta. Così tra il mondo coloniale e il primo mondo non si concepisce una comunicazione percepibile, né tanto meno uno scambio di conoscenze.

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anche con un intelletto medio e poco studio. Ma ci vuole scettici-smo e autostima per applicare le proprie capacità analitiche alle informazioni (De Sousa Santos 2000: 369). Nella stessa direzione sembra indicare Nicola Gallerano quando riabilita l’uso pubblico della storia denigrato da Habermas come pratica di manipolazione a cui il pubblico non specializzato, nella sua condizione di invali-dità critica, sarebbe soggetto (Gallerano 1995b). Paradossalmente Habermas in questa disputa si serve proprio dei canali di comu-nicazione pubblica da lui fatti oggetto di disprezzo, e non manca di ricorrere ai più classici metodi di argomentazione giornalistica, come per esempio l’uso disinvolto di citazioni abilmente estra-polate da testi e discorsi al fine di costruire un idolo polemico (Borowsky 2005: 70). Di fatto, l’intervento di Habermas ha finalità politiche, cioè pubbliche, quindi fa un uso pubblico della storia con intenti che potremmo anche chiamare manipolativi, dato che con-cepisce per la storia il compito di creare nei tedeschi un senso di colpa di tali dimensioni che neanche le generazioni future ne pos-sano restare indenni. A questo scopo la storia dovrebbe dimostrare (compito a tema dato) e mai mettere in dubbio l’unicità assoluta della persecuzione degli ebrei da parte dei nazisti, evitando di far circolare riflessioni e confronti che possano indebolire questa cer-tezza. Il cosiddetto Historikerstreit [controversia degli storici] intavo-lato da Habermas nel 1986 non fu un dibattito scientifico né portò a alcun risultato conoscitivo, ma uno scontro tra posizioni politiche e in quelle trova la sua giustificazione. Esso sta a dimostrare che gli storici di professione non sono immuni dall’uso pubblico della storia, anche quando pretendono di condannarlo.

In generale i dibattiti storici nei mass media, nelle scuole o nei partiti non devono essere disdegnati come insignificanti o, peggio, destinati alla manipolazione di un pubblico inetto. Essi possono essere «usi del passato che coinvolgono memoria e identità indi-viduali con potenzialità liberatorie» (Gallerano 1995b: 19). Anzi, lo storico farà bene a prenderli sul serio, perché la loro intensità indica che «ci troviamo in un’epoca di trasformazioni profonde e repentine discontinuità storiche» (ibidem). Soprattutto non bisogna dimenticare che «l’utilità pubblica della storia è la sua giustifica-zione originaria» (ivi: 22). Si dovrebbe poter dire lo stesso di ogni scienza, ma nel caso della storia l’utilità si dispiega solo nel suo essere conosciuta, sentita e accettata come patrimonio comune. Come constata con sgomento Hannah Arendt, le scienze naturali e in parte anche quelle umane si servono di formule che non c’è modo di ritradurre nella lingua parlata. Gli scienziati vivono in un mondo in cui la lingua non ha più potere e poiché il potere della

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lingua umana è quello di dare senso alle cose, essi vivono in un mondo tagliato fuori dal senso e, in quanto scienziati, non sono in grado di integrarsi al mondo dell’esistenza plurale, cioè nel mondo reale, in cui viviamo, ci muoviamo e agiamo. In esso infatti solo ciò di cui possiamo parlare gli uni con gli altri ha senso (Arendt 2010: 11–12).

Se questo è problematico per le scienze naturali, e rende, se-condo Arendt, gli scienziati in quanto scienziati inaffidabili nelle questioni che riguardano l’umanità, a maggior ragione è inaccet-tabile per la storia, che è «un’attività scientifica sui generis, la cui dimensione cognitiva si affianca e si mescola con quella affettiva, intrisa di valori, predilezioni, scelte non o pre- scientifiche» (Bodei 1992 citato in Gallerano 1995a: 23). E tuttavia la storia in quanto attività scientifica si oppone da sempre al sentire comune, perché la scienza non solo si basa sulla separazione tra soggetto e ogget-to, ma funziona tanto meglio quanto più è grande la distanza che li separa.

D’altra parte la storiografia, in quanto pratica sociale, riveste una fondamentale funzione di memoria pubblica, quindi di fonda-mento dell’identità comunitaria. Tra memoria e storia si viene però a creare un «rapporto conflittuale» (Gallerano 1995b: 27). Se la sto-ria aspira al monopolio della memoria e dell’oblio, contro di essa si sollevano tutte le memorie scartate e tutti gli oblii desiderati. «La memoria e l’oblio non rappresentano terreni neutrali ma veri e propri campi di battaglia, in cui si decide, si sagoma e si legittima l’identità, specie quella collettiva» (Bodei 1995: 38).

Il compito attuale non è quello di realizzare una ormai impos-sibile riabilitazione della storiografia scientifica, né quello di rico-struire il senso della storia secondo gli ideali della modernità, ma piuttosto quello di recuperare dalle macerie della storia la realtà e trovare un nuovo linguaggio per raccontarla. Questo recupero passa attraverso il ritrovamento dell’esperienza, il cui senso pare essere andato perduto con l’avvento della civiltà industriale e della produzione di massa. L’esperienza della realtà è legata a un campo di relazioni di reciprocità, che Arendt descrive come il mondo in cui l’essere visti e sentiti dagli altri acquisisce significato perché cia-scuno vede e sente da un’altra posizione. Infatti, sebbene il mondo comune offra un luogo di incontro e di riunione che è lo stesso per tutti, tutti quelli che vi si radunano occupano posizioni diverse. Per Arendt è solo la possibilità di riconoscere lo stesso oggetto nel-le diverse percezioni delle persone collocate in punti diversi che permette di parlare di realtà. Questa realtà comune scompare se

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viene meno il riconoscimento reciproco dei diversi punti di vista, cioè la pluralità delle esperienze riportabili allo stesso oggetto. È ciò che accade nelle epoche di dittature violente e nelle società di massa, cioè quando la comunicazione tra i cittadini (ormai sudditi) viene resa impossibile e tutti si comportano come fossero le mem-bra di un mostro, incapaci di vedere e sentire per proprio conto, ma anche nell’impossibilità di essere visti e sentiti dagli altri. Sono fenomeni di privatizzazione radicale, in cui ciascuno si rinchiu-de nella sua soggettività, che non diventa meno soggettiva per il fatto di vedersi moltiplicata all’infinito nella massa di esseri tutti uguali. Così oggi la perdita della realtà è diventata una sensazione generale e i singoli, privati dello spazio- tempo comune, soffrono di isolamento e di svuotamento. La costruzione dello spazio pubblico si ripercuote sullo spazio privato, giacché questi due momenti de-vono la loro esistenza l’uno all’altro (Arendt 2010: 51).

Poiché dunque in seguito all’affermarsi del postmoderno i presupposti estetici e culturali sui quali fondare una rappresen-tazione seria del reale sono stati erosi in una misura che non può essere ignorata, non sorprende che gli scrittori e le scrittrici che negli ultimi decenni hanno sentito e sentono la necessità di fare i conti col passato coloniale italiano, e allo stesso tempo con il pre-sente neocoloniale, non abbiano avuto e non abbiano gioco facile. Si tratta nientemeno che di ripristinare quell’uso pubblico sia della storia sia della letteratura, con una delicata distinzione tra l’una e l’altra, che le polemiche recenti sembravano aver reso impos-sibile. Le sperimentazioni che hanno visto la luce in questi anni sembrano significativamente aver voluto prendere il toro per le corna, e si sono principalmente concentrate nell’ambito del ro-manzo neostorico, agendo proprio là dove più aspre sono state e sono discussioni e polemiche. Fondamentale, tuttavia, ci sembra l’apporto delle scrittrici e degli scrittori migranti, spinti da pro-blemi del tutto diversi, nutriti forse di aspettative e di illusioni non sempre realistiche, ma armati spesso di un sano candore, di una legittima indifferenza verso molte delle controversie che nel mondo occidentale sono nate, come si è visto, dalla sconsolata constatazione che il futuro non aveva in serbo sempre nuove, più gloriose conquiste. Per molte e molti di coloro che vengono dal sud del mondo, la storia non s’è affatto conclusa. La realtà, lun-gi dall’essersi dissolta nelle nebbie dell’identificazione tra storia e narrazione, mantiene una sua salda concretezza. Il giustapporsi, l’intrecciarsi, a volte lo scontrarsi di voci così diverse e anche con-traddittorie, sta forse concorrendo alla ridefinizione dell’attività

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letteraria postcoloniale, con delle immediate ricadute nell’attività letteraria in generale.

Il presente volume è un contributo alla conoscenza e alla map-patura di questo mondo magmatico e in continua trasformazio-ne. Abbiamo in particolare voluto offrire un ampio panorama del recente lavoro critico sulla letteratura postcoloniale che si è foca-lizzato sull’esperienza italiana, senza trascurare due campi stret-tamente legati alla pratica letteraria come il cinema e il fumetto, e allo stesso tempo allargando lo sguardo al colonialismo “interno”, con i casi esemplari della Sardegna e della Sicilia. Il nostro intento è appunto quello di dare conto, attraverso la concordia discors dei vari saggi, della direzione che sta prendendo la ricerca in campo postcoloniale.

Il volume si apre con un saggio di Mario Domenichelli (Gramsci, Said. Colonialismo, postcolonialismo. L’Occidente e le rivoluzioni islami-che del maggio 2011), che riprende il confronto da lui da lungo tem-po avviato con i testi di Gramsci e Said intorno alla tanto irrisolta quanto ineludibile aporia centrale a tutto il discorso degli studi postcoloniali: il suo essere interno a quel sistema di valori occiden-tale che è al tempo stesso il suo principale idolo polemico. Il dibat-tito sulla portata e i limiti di un discorso tutto centrato sul rifiuto di un paradigma culturale visto come intrinsecamente invasivo e imperialista acquista una rinnovata attualità, nella prospettiva di Domenichelli, a causa della cosiddetta primavera araba del 2011, e soprattutto di quello che a distanza di pochissimo tempo può esse-re constatato come il suo tragico fallimento. Non si tratta di ricade-re nel vieto luogo comune del discorso orientalista, che affermava (e afferma) l’incapacità inerente dell’Oriente a costituire lo Stato, cioè la macchina giuridico- amministrativa che è stata la spina dor-sale della civiltà europea. Né si tratta semplicemente di denunciare che tale supposta incapacità sia in realtà in larga misura dovuta a un’inesausta azione ostativa esercitata dallo stesso Occidente tramite i meccanismi finanziari delle borse valori e delle agenzie di rating, quando non direttamente con le armi. Occorre piuttosto cogliere l’occasione per studiare come la difficoltà a fondare un di-scorso autenticamente antimperialista sia presente anche nei mo-menti migliori della cultura europea, persino negli autori che più lucidamente hanno tentato una critica senza rete del paradigma in cui si sentivano invischiati. Domenichelli chiama in causa Conrad e Céline, Malraux e F. Coppola da un lato, Gramsci e lo stesso Said dall’altro. L’unica voce davvero fuori del coro sembra essere quella solitaria del Flaiano di Tempo di uccidere, dove il protagonista occi-dentale, solitamente intento a fissare uno sguardo impavido sulla

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barbarie dell’imperialismo, per la prima volta non viene rivestito delle bardature dell’eroismo, sia pure nichilista, negativo e auto-distruttivo. È proprio dalla disincantata lucidità del romanzo di Flaiano, sembra suggerire Domenichelli, che è necessario partire per rivedere tutto il sistema di valori culturali sul quale l’Occiden-te si fonda e che, a onta dei risultati disastrosi sin qui raggiunti, si ostina a imporre ideologicamente al resto del mondo.

Se il Conrad di Heart of Darkness, e le discussioni intorno alla va-lenza politica che gli si deve assegnare, occupano un posto centrale nell’analisi di Domenichelli, altrettanto avviene nell’intervento di Franco Manai (Note su Conrad e il postcolonialismo italiano), che pro-prio a partire dalla fedeltà al modello stabilito dal grande scritto-re distingue all’interno dell’ormai vasta produzione postcoloniale italiana (e non solo) due filoni divergenti, quello dei “nipotini di Conrad”, il cui interesse è eminentemente eurocentrico, e quello degli scrittori e scrittrici non o non del tutto occidentali, il cui pri-mo interesse non è il destino dell’anima “europea”, ma quello dei paesi a suo tempo vittime del colonialismo europeo.

Nelle pagine di Gabriella Ghermandi e di Martha Nasibù, Martine Bovo Romœuf (Vers un canon postcolonial multiculturel: les cas paradigmatiques de Gabriella Ghermandi et Martha Nasibù) studia come l’incrociarsi della ricerca identitaria e la volontà di ritrovare una memoria perduta contribuiscano a riscrivere in modo nuovo la storia di un paese come l’Etiopia, già segnato dallo status di colonia italiana. Di particolare rilevanza in queste autrici, secondo Bovo Romœuf, sono da una parte la “porosità tra discorso storiografi-co e discorso narrativo letterario”, dall’altra il contributo da loro apportato alla ridefinizione di un canone letterario postcoloniale. In Ghermandi il recupero memoriale si attua attraverso una “fin-zionalizzazione” che dà luogo alla “messa in discorso delle frattu-re della storia ufficiale”, e ciò permette, secondo Bovo Romœuf, il costituirsi di una memoria epica, in cui la narratrice si erge a tra-mite intergenerazionale, a veicolo di esperienza, recuperabile e tra-smettibile in quanto dotata, dalla scrittura, di una profonda carica emozionale. Viceversa nell’opera di Martha Nasibù si ha la trasfor-mazione in romanzo di un’esperienza reale e diretta, di cui non è necessario ribadire la verità storica, già garantita in partenza dalla fondamentale coincidenza di narrato e vissuto. Nasibù impronta il suo racconto a una finissima sensibilità infantile, che sul mondo volge uno sguardo incantato di scoperta e di meraviglia, conser-vato grazie a una memoria eminentemente visiva, ma parimen-ti ricettiva degli altri stimoli sensoriali, dai profumi ai suoni. Pur senza tacere le nefandezze compiute a suo tempo dai colonizzatori

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italiani, le opere di Ghermandi e Nasibù si caratterizzano per l’as-senza di toni aspri e vendicativi. Nonostante la tragicità intrinseca delle vicende narrate, in entrambe il superamento dell’antico con-flitto si attua attraverso un rovesciamento sereno della menzogna coloniale, quasi una lezione di stile che ristabilisce la verità di una tradizione culturale millenaria, sulle cui basi le autrici additano un possibile nuovo canone letterario multiculturale, tanto proiettato verso il futuro quanto saldamente ancorato nel passato.

Sulla scorta della sua solida esperienza di storico dell’età con-temporanea, prima ancora che di romanziere, Luciano Marrocu (“Africa, bel suol d’amore”: la memoria, la storia, il romanzo) mette in luce la rilevanza della narrazione orale, della memoria tramanda-ta attraverso racconti e canzonette, del modo composito in cui si forma un immaginario collettivo che finisce per avere importanza determinante anche per il modo in cui si guarda al mondo, a se stessi e agli altri. Dai ricordi infantili ai libri di testo delle elementa-ri, dalle memorie dei vecchi coloni italiani in Africa Orientale oggi pubblicate su internet alle memorie più letterariamente autorevoli, come quelle di Flaiano e Orwell, è sempre in atto una sorta di cre-azione collettiva, il cui studio è indispensabile se si desidera capire fenomeni ideologicamente e politicamente centrali come la rispo-sta dell’Occidente al colonialismo e al postcolonialismo, il razzi-smo inconscio indissolubilmente mescolato a aperture antirazziste e democratiche. Tutto un mondo che può e deve essere fertile ter-reno di esplorazione tanto per lo storico quanto per il romanziere.

Un interesse eminentemente teorico è quello che anima il sag-gio di Giuliana Benvenuti (Memoria e métissage nel romanzo ita-liano postcoloniale e della migrazione), che affronta il problema del rapporto tra memoria e storia nel romanzo postcoloniale italiano. Prendendo le mosse dalla crisi che segna al presente l’attività sto-riografica, Benvenuti mette a fuoco come il romanzo neostorico si sia trovato, di fatto, a svolgere un ruolo di supplenza, riempiendo i vuoti, appunto, di una storiografia carente di prestigio e di deter-minazione. Un contributo importante all’elaborazione di una più approfondita consapevolezza storica è stato dato, in particolare, dal romanzo neostorico di argomento postcoloniale, e ancor più dalle opere autenticamente nate dalla migrazione. Grazie a questi contributi, infatti, è stato possibile arrivare a una rappresentazio-ne sempre più sfaccettata dell’esperienza coloniale italiana, troppo a lungo sparita dalla coscienza nazionale, e si è iniziato il movi-mento verso il costituirsi della letteratura italiana come letteratura post- nazionale. Si tratta di un traguardo reso inevitabile dalla stes-sa partecipazione alla creazione narrativa di scrittrici e scrittori che

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sono solo parzialmente italiani, e sono perciò completamente fuo-ri dall’ossessione nazionalistica ciecamente e inconsapevolmente condivisa dagli scrittori da sempre italiani. In questo quadro un ruolo particolare lo gioca l’opera che Benvenuti analizza più nel dettaglio, appunto per i suoi risvolti di interesse generale, Timira di Wu Ming 2 e Antar Mohamed. Attraverso una serrata analisi del paratesto, condotta sulle orme di Genette e della discussione teorica che a lui ha fatto seguito, Benvenuti mette in luce come la qualifica di “romanzo meticcio”, di cui Timira si fregia fin dalla copertina, non sia semplicemente un connotato contenutistico, ma caratterizzi l’opera dal punto di vista della sua costituzione forma-le. Il meticciato diventa il punto di arrivo di un’audace operazione letteraria che, secondo Benvenuti, permette agli autori di superare positivamente i rischi insiti in ogni coautorialità che veda lavorare insieme un occidentale e un migrante, e in particolare il rischio capitale del “ventriloquismo”. Non basta, infatti, che le autrici e gli autori migranti abbiano ora acquisito diritto di parola lettera-ria, se restano in campo gli insidiosi meccanismi della legittima-zione, del divario tra chi la parola la dà e chi la riceve. Il romanzo di Wu Ming 2, Antar Mohamed e, di fatto, la protagonista eponi-ma Isabella Marincola/Timira, grazie alla dialettica di tipo nuovo innestata dal concitato andirivieni tra storia e Storia, Occidente e Oriente, memoria e documento, passati e presenti, realtà e finzio-ne, si pone come esempio e come proposta di uno sguardo verso il mondo in cui l’Altro non compare in chiave di inferiorità perché, come si legge nella quarta di copertina, «siamo tutti profughi, sen-za fissa dimora nell’intrico del mondo. Respinti alla frontiera da un esercito di parole, cerchiamo una storia dove avere rifugio». Come conclude Benvenuti:

Storia- rifugio dunque: storia che ha anche un carattere terapeutico, di cura del trauma identitario, o storia- casa (un tòpos della letteratura migrante); tutte funzioni della narrazione delle quali il mondo con-temporaneo, sempre più transnazionale e meticcio, pare avere più che mai bisogno […].

Timira è anche centrale nelle considerazioni di Valeria Deplano (Come il colonialismo ha fatto gli italiani. “Timira” tra storiografia e letteratura), incentrate sulla funzione svolta dal colonialismo, e dall’insieme di mentalità, senso comune, atteggiamenti che lo hanno accompagnato, nel plasmare l’identità italiana, cioè il modo in cui gli italiani vedono se stessi. L’analisi del romanzo di Wu Ming 2 e Antar Mohamed consente all’autrice di mettere in luce come, anche grazie a una pervasiva opera di rimozione del

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passato coloniale italiano, ci sia stata a questo riguardo una so-stanziale continuità tra l’epoca fascista e l’Italia repubblicana. La storia narrata nel romanzo si presta particolarmente a questo sco-po sia perché la sua cornice temporale si estende dagli anni Venti ai Novanta, sia perché racconta la storia di una “italiana dalla pelle scura”, come la protagonista eponima definisce se stessa, e quindi riesce a far emergere la rilevanza che ha il fatto di essere “non bian-co”, a dispetto di lingua, cultura, mentalità. Il lavoro di svelamento compiuto da Timira è fondamentale, secondo Deplano, in quanto «analizzare comportamenti e linguaggi, riconoscere le ascendenze coloniali di certi schemi mentali che si fanno pratica quotidiana è fondamentale per capire la società contemporanea, e comprende-re le regole dell’immaginario è indispensabile per intervenire sui comportamenti reali».

Gabriele Proglio (Riflessioni a margine del rapporto storia – lettera-tura) fa una serie di riflessioni sul rapporto tra narrazione storica e esperienza postcoloniale italiana e propone di utilizzare, per in-terpretare, appunto, l’esperienza postcoloniale italiana, i concetti lacaniani di “forclusione” e “afanisi” come adoperati da Spivak e Bhabha: «Spivak parla di forclusione del “nativo”: il subalter-no non può parlare, assoggettato ai poteri coloniali e patriarcali», mentre l’afanisi sarebbe «la scomparsa del soggetto, il fading, ossia l’effetto della presa del soggetto nella catena significante, che con-siste nel suo non poter apparire […]».

Maurice Actis- Grosso (Da una sponda all’altra del Mediterraneo: sguardi incrociati sull’esodo italo- libico) si concentra su tre volumi che hanno riportato l’attenzione su un dramma della storia mediterra-nea recente molto spesso ignorato all’interno del dibattito italiano, quello degli italiani che si erano stabiliti in Libia a varie riprese tra l’inizio del Novecento e il secondo dopoguerra, ma prevalen-temente durante il periodo della dominazione coloniale fascista, e dei loro discendenti. Mai diventati “libici” come gli altri, quan-do nel 1970 vengono cacciati via dal nuovo governo libico, essi si ritrovano, come rifugiati, in un’Italia che non era mai stata o da tempo non era più il loro paese. Oggetto del saggio sono tre libri molto diversi dedicati nell’arco di pochi anni allo stesso tema, due opere di narrativa, Ghibli di Luciana Capretti, 2004, e Mare al matti-no di Margaret Mazzantini, 2011, e una raccolta di interviste, Tripoli 1970, di Luisa Pachera, 2010.

Il dramma degli italiani in vario modo inseriti in contesti ex- coloniali è anche studiato da Daniele Comberiati (Fra metropoli e colonia. Rappresentazioni letterarie degli italiani “insabbiati”), che

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prende in esame tre lavori dedicati ai tre principali teatri dell’av-ventura espansionistica italiana: l’Africa Orientale, l’Albania e la Libia. In Etiopia incontriamo, tramite un reportage di Tommaso Besozzi, gli “insabbiati”, ovvero gli italiani che scelsero l’integra-zione nella società locale, senza sentirsene mai pienamente accet-tati pur avendo di fatto rinunciato alla piena identificazione con la nazionalità di provenienza. In Albania ci sono gli Italianesi di un dramma di Saverio La Ruina, figli di tecnici italiani rimasti in un primo tempo in Albania dopo la guerra per aiutare alla ricostru-zione del paese, poi rispediti in Italia dal regime, mentre le loro famiglie venivano trattenute in Albania, ma sottoposte a confino in quanto potenzialmente pericolose; non abbastanza albanesi per gli albanesi, quando dopo il 1991 questi “italianesi” poterono emi-grare in Italia scoprirono di non essere neppure abbastanza italiani per gli italiani. Dalla Libia arrivano invece in Italia gli intervistati da Luisa Pachera di cui si è detto. In queste tre storie diverse, ma con molti elementi comuni, Comberiati legge una storia di corpi in cui insabbiati, italo- libici e “italianesi” rappresentano infrazioni, poiché mostrano le difficoltà e le ambiguità del concetto stesso di appartenenza nazionale, le relazioni fra colonizzati e colonizzatori (dai rapporti fra italiani e africani fino alla generazione dei metic-ci) e infine le ripercussioni temporali di una storia che si è voluto chiudere troppo in fretta”.

Un settore molto attivo di studi postcoloniali è quello che, pur rifacendosi in parte alle teorizzazioni sull’orientalismo di Said, propone di sostituire all’opposizione rigida Oriente/Occidente quella più sfumata tra Nord e Sud che permette di studiare fe-nomeni di colonialismo interno o comunque realtà geopolitiche che non rientrano negli schemi di Said. Ci riferiamo agli studi di Franco Cassano (1996), Manfred Pfinster (1996), Jane Schneider (1998), Maurizio Ascari e Adriana Corrado (2006), Giuseppe Goffredo (2010), Roberto Dainotto (2007; 2010), Luigi Cazzato (2008; 2011; 2012), Antonino De Francesco (2012), nonché a quelli specificamente dedicati all’area balcanica di Milica Bakić- Hayden (1995) e Maria Todorova (2009). Non mancano, nella termino-logia impiegata da questi studiosi differenze anche notevoli, per cui si passa da “Intra- European Meridionism” di Pfinster, a “Orientalism within” di Schneider, a “Orientalization” di Ascari, a “Sudorientalismo” di Goffredo, a “Nesting Orientalisms” di Bakić- Hayden, a “Balkanism” di Todorova, a “Southern Europeanism” di Dainotto, a “Meridionismo” di Cazzato. Tuttavia, come chiari-sce lo stesso Cazzato, si tratta di studi che nascono tutti da una riflessione critica intorno al modello di Said, al quale viene mossa

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una serie di precisi appunti. Questo modello è intanto impreciso da un punto di vista storicistico in quanto copre un arco tempo-rale che da Eschilo va oltre Marx; esso è poi generico e allo stesso tempo restrittivo in quanto l’Oriente geografico preso in conside-razione coincide col Medio Oriente. È “essenzialista” perché pre-suppone l’esistenza di un Oriente ben diverso da quello descritto dagli orientalisti, totalizzante perché dà per scontato un discorso occidentale omogeneo senza divergenze interne. Il denominato-re comune a tutti questi studi di postcolonialismo meridionale è costituito da alcune constatazioni di base: il Meridione europeo, per quanto periferico, è pur sempre in Occidente e non è stato fat-to oggetto di colonizzazione vera e propria, anche se in ragione del condizionamento culturale esogeno si può parlare di questo Meridione come di una quasi- colonia; esso non è, come l’Oriente di Said, l’Altro assoluto, ma un Occidente imperfetto:

Il meridionismo da un lato aiuta il Nord europeo a percepirsi nella sua compiutezza di civiltà superiore, dall’altro, e soprattutto, a definire il Sud come una sua copia imperfetta ovvero come una porzione della civiltà occidentale che non segue il ritmo del suo cuore pulsante, col-locato lontano dalle rive mediterranee. Il Sud è un Nord without: un Nord “esterno” e “senza”, senza storia, senza progresso, senza la luce della ragione, senza futuro, insomma senza tutte quelle conquiste del Nord moderno. L’idea di Sud come di non Nord, di un Sud pensato da altri, non più soggetto di pensiero, ma brutta copia di un’altra lati-tudine, è un processo facilmente percepibile all’interno del territorio italiano. (Cazzato 2012: 193)

Se dunque in Italia, quando si parla di colonialismo, e quindi di postcolonialismo, il pensiero corre subito alle avventure d’ol-tremare, non è chiaramente più possibile ignorare questo fronte interno del colonialismo italiano e europeo, quello esercitato dal centro verso le stesse periferie europee, in particolare verso alcu-ne di esse, caratterizzate da una irriducibile diversità rispetto ai centri del potere politico e economico. In Italia, casi emblematici sono quelli della Sardegna e della Sicilia, oggetto fin dall’antichi-tà di conquiste e assoggettamenti culminati nell’appropriazione sabauda. Alla realtà sarda dedica la sua attenzione Margherita Marras (Alcuni elementi per la definizione letteraria di un postcoloniale sardo), che all’interno della produzione postcoloniale sarda identi-fica due filoni, quello resistenziale e quello progressista. Il primo «fissa […] le sue basi tematiche alla rivendicazione della sardità in chiave etnocentrica, alla denuncia sociale e storica e alla rivaluta-zione identitaria». Marras lo esemplifica con due opere, Rapsodia

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sarda, 1984, di Francesco Zedda, e Manzela, 1985, di Gianfranco Pintore, ma come appartenenti allo stesso filone vengono citati an-che Il ponte di Marreri, 1981, di Bacchisio Zizi, Il dio petrolio, 1986, di Francesco Masala, Le intime pietre. Un racconto industriale, 1995, di Ignazio Lecca. Denominatore comune può essere considerata «un’idea riduzionista e essenzialista della cultura sarda», con il conseguente rischio di finire per dare a questa cultura uno statuto di separatezza e di trasformarne i tratti distintivi in feticci iden-titari sottratti all’analisi e alla possibilità di critica. Al contrario, il filone progressista, esemplificato qui con Raccontar fole, 1999, e Passavamo sulla terra leggeri, 1996, di Sergio Atzeni, e con Una ignota compagnia, 1992, di Giulio Angioni, cui si aggiungono i romanzi di Marcello Fois, opera una critica profonda dei paradigmi identitari dominanti nel discorso orientalista, il quale trova applicazione tan-to all’esterno quanto all’interno del mondo occidentale dominante e colonizzatore, secondo la dialettica di centro e periferia, attori e soggetti del dominio tanto economico- politico quanto cultura-le. Grazie alle tecniche del rovesciamento del punto di vista, del plurilinguismo, della mescidazione paritaria di elementi multige-netici e transnazionali, questi scrittori si inseriscono a pieno tito-lo nel grande dibattito postcoloniale contemporaneo, e proprio la loro origine decentrata consente loro di apportare un contributo importante e peculiare.

Ancora nell’ambito degli studi sul colonialismo/postcolo-nialismo intra- italiano si muove il saggio di Matteo Di Gesù (Un “oriente” domestico. Ipotesi per una interpretazione postcoloniale della letteratura siciliana moderna) sotto l’egida degli studi di Schneider (1988) e di Moe (2002). «Pur senza aderire necessariamente alle in-terpretazioni dell’unificazione nazionale italiana come mero pro-cesso di colonizzazione interna o alle letture in termini razzialistici della pubblicistica postunitaria sul Meridione», Di Gesù invita a studiare in prospettiva orientalista i rapporti tra la narrativa po-stunitaria prodotta dagli intellettuali siciliani e la funzione che la letteratura isolana ha avuto nella costruzione dell’attuale comples-sa e contradditoria identità siciliana. Sulla scorta di precisi assunti metodologici, in cui è centrale l’attenzione all’estetica della rice-zione, Di Gesù affronta le opere dei maggiori scrittori siciliani, da Capuana e Verga fino a Tomasi di Lampedusa e Sciascia, e sostiene che l’immagine “realistica” della cultura siciliana offerta dai due grandi veristi non sarebbe altro che una costruzione nata in op-posizione alla rappresentazione della cultura urbana “avanzata” dell’Italia di Firenze o di Milano. Proprio dal grande realismo ver-ghiano nascerebbe quindi il mito della Sicilia terra fuori dal tempo

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e senza storia che verrà riraccontato da scrittori del Novecento come Vittorini o Tomasi di Lampedusa, fino ad arrivare alle più sfumate e problematiche rappresentazioni della cultura siciliana elaborate da Sciascia.

Nella sezione dedicata al cinema abbiamo voluto abbracciare sia la prospettiva italiana, che per la verità non ha dedicato alla tematica postcoloniale tutta l’attenzione che essa meriterebbe e ha prodotto un numero piuttosto limitato di opere, sia quella degli ex- coloni, mettendo in luce una figura importante della cinemato-grafia contemporanea.

Marie- France Courriol (“Più turista che fascista”. Mémoire colo-niale et figure du soldat dans le cinéma italien contemporain) mostra come la persistenza e il radicamento, a tutti i livelli della società italiana, del mito degli italiani brava gente, colonizzatori sì, ma non cattivi, vittime loro stessi più che aguzzini e carnefici, trovi una patente dimostrazione in due film di successo, che a distanza di anni sono comunque tra i pochi a affrontare il tema del passato coloniale italiano. Sia in Mediterraneo, 1991, di Gabriele Salvatores, che in Le rose del deserto (2006) di Mario Monicelli, al di là delle intenzioni ideologiche palesate nelle dichiarazioni pubbliche (di Salvatores), inscrivibili in ambito postcolonialista, una rappresen-tazione dei soldati italiani come bonaccioni, pasticcioni, inoffensi-vi, impegnati in una fuga da una realtà (italiana) insoddisfacente ma vista come impossibile da affrontare e cambiare [ricordiamo che specie per Salvatores siamo in pieno “riflusso”], è costruita su una riesumazione del mito degli italiani brava gente, minimamen-te interessata alla realtà storica dell’occupazione italiana e della guerra nazifascista e ancor meno alle popolazioni che di quell’oc-cupazione e di quelle guerre furono le vere vittime.

Al film di Monicelli, liberamente ispirato al romanzo di Mario Tobino del 1951, Il deserto della Libia, dedica un’analisi particolareggia-ta Domenico Guzzo (“Le rose del deserto”: la quarta sponda fra arditismo e colonialismo straccione), giungendo a leggere il velleitario coloniali-smo italiano come prosecuzione e riflesso del colonialismo interno, e in generale di una dinamica di costruzione nazionale mai davvero re-alizzata e quindi sempre debole sia internamente che esternamente.

Sul fronte opposto, Lorenzo Mari (Adwa e i suoi figli. Etiopia anti- coloniale e post- coloniale nel cinema di Hailè Gerima) ricostruisce a tutto tondo la figura di Hailè Gerima, probabilmente il più impor-tante regista etiope, e ne inquadra il film Adwa – An African Victory (1999) alla luce della sua complessa vicenda umana e professio-nale. Questa vicenda assume una particolare rilevanza in quanto

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è esemplare di una dimensione transnazionale, frutto non solo dei casi della vita del regista (che dagli anni Sessanta vive negli Stati Uniti), ma di sue precise scelte politiche ed estetiche. Gerima si lega infatti al cinema afroamericano, innestandovi i suoi inte-ressi propriamente africani e particolarmente etiopi. Il cinema di Gerima, nei suoi vari versanti, si pone come intimamente connesso con il movimento detto del World Cinema, che fa da pendant alla World Literature, e impone sempre un’analisi che tenga conto allo stesso tempo dei contesti locali su cui di volta in volta i film punta-no lo sguardo, e della rete di legami, appunto, transnazionali al cui interno questi film nascono. Proprio questa tensione tra livello lo-cale e portata transnazionale può essere di grande importanza per rinvigorire il dibattito italiano, in cui le risultanze della storiografia accademica sul colonialismo italiano non sembrano essere pene-trate a livello di coscienza comune, e dove è ancora dominante un ristretto orizzonte localistico chiuso in genere in un atteggiamento di rifiuto e negazione rispetto alla realtà storica conclamata.

Cristina Greco (La costruzione del sé e dell’altro. Il caso del postco-lonialismo italiano nel graphic novel. Una lettura di “Etenesh. L’odissea di una migrante e Ilaria Alpi. Il prezzo della verità”), con l’aiuto del-la semiotica di Lotman e Uspenskij, coniugata con l’attenzione di Genette al paratesto e con gli studi di Greimas sugli aspetti mar-canti della comunicazione visiva, punta lo sguardo sul graphic novel come strumento di ricostruzione della memoria storica, in particolare la memoria di eventi a rischio di oblio, e quindi sulle modalità con le quali questa ricostruzione incide sulla definizione di un’identità collettiva che è sempre in un processo di rimodella-mento nella dialettica inesausta tra passato e presente.

Chiude il volume l’intervento di Giuliana Pias (Quando il gene-re noir sposa il postcoloniale), secondo la quale il genere noir, come lo pratica Lucarelli in L’ottava vibrazione, si dimostra lo strumento narrativo più adatto per un’immersione nel rimosso della storia italiana volta alla rappresentazione e allo smascheramento dell’i-deologia coloniale italiana.

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