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LO ZEN E L’ARTE DELLA MANUTENZIONE DELLO STRESS

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BRUNO BALLARDINI

LO ZEN E L’ARTE DELLA MANUTENZIONE

DELLO STRESS

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Le traduzioni dei brani dal cinese e giapponese sono a cura dell’autore.

Redazione: Edistudio, Milano

ISBN 978-88-566-5852-1

I Edizione 2017

© 2017 - EDIZIONI PIEMME Spa, Milano www.edizpiemme.it

Anno 2017-2018-2019 - Edizione 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10

Stampato presso ELCOGRAF S.p.A. - Stabilimento di Cles (TN)

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PREFAZIONE 5

Prefazione

Se pensate che con un libro si riesca a far passare lo stress, scordatevelo. Probabilmente, l’avrete comprato per questo motivo e fra pochi minuti vi accorgerete che sfogliandolo non succede assolutamente nulla. Se invece l’avete ricevuto in re-galo, evidentemente qualcuno pensa che voi siate degli stres-sati. Nemmeno questa sensazione è piacevole. In un modo o nell’altro, questo libro rischia di farvi aumentare lo stress an-ziché diminuirlo. Dipende da come lo usate.

Viviamo in un mondo fatto di parole. Parole che, sempre più spesso, non sono collegate a fatti. Oppure, i fatti che le accompagnano sono l’esatto contrario di ciò che promettono. E questa schizofrenia, senza dubbio, è una notevole fonte di stress. Ma lo stress non nasce solo così. Si direbbe che la no-stra civilizzazione si basi sullo sfruttamento degli individui e sull’abitudine ormai consolidata di portarli fino a una condi-zione di stress. Poi c’è sempre qualcuno che arriva perfino a sfruttare questa condizione generalizzata a proprio vantaggio. È questo il punto. Se avete prodotto personalmente il vostro stress, non permettete che altri lo sfruttino (stressandovi ulte-riormente) ma, dato che non potete proprio liberarvene, pro-vate almeno a immaginare quali usi potreste farne. Entro certi limiti lo stress è una faccenda naturale. È un po’ meno natu-rale il fatto che oggi si sia sviluppata una gigantesca industria per “curare” lo stress, con discipline olistiche, medicine al-ternative, e un mucchio di stupidaggini che vi fanno solo cre-

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6 PREFAZIONE

dere di aver superato il problema quando in realtà vi lasciano al punto di partenza. Fanno leva sulla vostra buona fede, sono una specie di placebo psicologico, adatto a quelli che si aspet-tano una medicina definitiva che sconfigga il male e possibil-mente lo faccia subito.

Un buon punto di partenza potrebbe essere quello di pren-dere in casa un animale. Ti fa scoprire di essere un animale, ti fa tornare subito con i piedi per terra. Ti fa assumere la re-sponsabilità di occuparti di lui quando non ti sei mai preso la responsabilità di occuparti nemmeno di te stesso. Ti inse-gna cose che hai sempre saputo ma che non hai mai voluto minimamente prendere in considerazione. Ti cambia com-pletamente prospettiva. Come la cagnetta di Charlotte Joko Beck1, anche Lulù, la mia gatta, non si chiedeva il signifi-cato della vita. Non si preoccupava se la colazione fosse in ritardo: quando aveva fame mangiava, quando aveva sonno dormiva. E nemmeno lei stava lì seduta a domandarsi se si sarebbe mai realizzata, liberata o illuminata. Cibo e carezze le bastavano. Se non le bastavano, se le veniva a prendere. Come dice la Beck, noi esseri umani non assomigliamo ai cani (e men che meno ai gatti, aggiungo io): «Abbiamo una mente egocentrica che ci procura montagne di guai. Se non capiamo l’errore del nostro modo di pensare, la nostra co-scienza di sé, che è la più grande benedizione, si trasforma nella nostra rovina. Tutti, chi più chi meno, sentiamo la vita difficile, incomprensibile e opprimente. Anche quando tutto va bene, come ogni tanto succede, ci facciamo prendere dall’ansia che la situazione possa cambiare. […] Ci troviamo intrappolati nella contraddizione di sentire la vita come un rompicapo insolubile, fonte di grande dolore, e nello stesso

1 Charlotte Joko Beck (1917-2011), prima maestra Zen occidentale della scuola Sanbo Kyodan (三宝教団, letteralmente “Scuola dei Tre Tesori”, che coniuga insegna-menti Sōtō e Rinzai), fondatrice della Ordinary Mind Zen School a San Francisco e au-trice di Zen quotidiano (Ubaldini Editore, Roma 1991), uno dei testi che più hanno con-tribuito a far conoscere lo Zen in Occidente.

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PREFAZIONE 7

tempo di percepirne confusamente la sconfinatezza, l’am-piezza illimitata. Così cerchiamo una risposta al puzzle. Il primo impulso è di cercare la risposta all’esterno. Può trat-tarsi di una soluzione molto qualunque: un’auto più potente, una casa più bella, vacanze più divertenti, un capo più com-prensivo, un partner più interessante, e tutto andrebbe a po-sto. Tutti ci siamo cascati. Poi, a poco a poco, intacchiamo la maggior parte dei vari “se solo”: “se solo avessi questo, se solo avessi quello, la mia vita sarebbe migliore”. Nessuno di noi ha ancora esaurito i suoi personali “se solo”. Prima incominciamo a rimuovere i più grossolani, per sostituirli con forme più raffinate. Infine, continuando a cercare all’e-sterno la cosa che ci renderà completi, approdiamo a una di-sciplina spirituale. Purtroppo, trasferiamo anche qui la stessa modalità»2. E poi? E poi, non accade nulla. Nada de nada. Nisba. La trappola in cui cadiamo tutti è cercare al di fuori di noi la soluzione a problemi che noi stessi abbiamo cre-ato. Tutto questo meccanismo perverso è il motore princi-pale dello stress. Lo stress non è una malattia, casomai è la conseguenza di un atteggiamento sbagliato che facilmente diventa patologico.

Nonostante i miei studi delle filosofie orientali, i miei viaggi in Giappone, la mia pratica, le sedute di meditazione, le arti marziali e i tentativi di applicare lo Zen a tutte le cose, posso dire di non aver mai compreso veramente nulla dello Zen fino a quando non ho avuto Lulù accanto a me. Vivendo con lei, ho potuto osservare il suo approccio alla vita, ho compreso quale sia il corretto atteggiamento. Lulù non faceva meditazione: tutto ciò che faceva era Zen. Oggi, a chi mi chiede quale sia stato il mio maestro, posso rispondere con orgoglio: «La mia gatta». Ma se non amate gli animali, o siete allergici, o pro-prio non potete permettervi di averne uno, allora va bene an-

2 Joko Beck C., Zen quotidiano, op. cit., p. 13.

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8 PREFAZIONE

che cominciare da un libro. In fondo, molte terapie di oggi, dalla psicanalisi alle ultime trovate commerciali americane come la Mindfulness, si basano sulle parole. L’importante è non scambiare lo Zen per una medicina. Anzi, per farvi un dispetto, in questo libro verrà trattato proprio come tale, per disabituarvi al vizio assai diffuso di piegare qualsiasi nuova conoscenza alle proprie abitudini e ai propri desideri. Se poi volete insistere a vederlo in questo modo, allora diciamo che lo Zen non è soltanto un farmaco, è anche un percorso tera-peutico, uno stile di vita, una terapia psicanalitica, una me-dicina preventiva, un approccio dietetico, una pratica di pu-rificazione, un potente antidolorifico, e tante altre cose tutte insieme. Potete decidere che lo Zen debba essere per voi una sola di queste cose ma, in questo modo, non arriverete mai a comprenderne l’essenza, rincorrendo illusioni New Age o auto-ingannandovi con trappole dialettiche. Rispetto a tutto questo, siete fortunati a essere nati in questo secolo: i mae-stri antichi avrebbero sciolto i vostri nodi dialettici a suon di bastonate. Oggi, di quel gesto, resta solo la forma nei lievi e compassionevoli colpi di kyosaku3 somministrati ai prati-canti da chi guida la seduta di meditazione. Ma la sostanza dello Zen resta tutta nel carattere severo della pratica, severo come e forse più della psicanalisi freudiana, seppure allegge-rito dall’uso costante di paradossi, di provocazioni in forma di indovinello, che però non lasciano scampo. Lo Zen è ab-bastanza destabilizzante da far preferire alla massa forme più “comode” di buddhismo che gratificano l’Ego anziché co-minciare subito a demolirlo mettendolo in difficoltà. Ma voi, se volete guarire, non fate come fanno i bambini. Provate per una volta la medicina amara. Potreste scoprire che non solo fa bene, ma in realtà è anche buonissima.

3 Bastone piatto usato da chi guida una seduta di meditazione Zen per sciogliere la contrazione muscolare della schiena dei praticanti che ne facciano richiesta.

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Parte Prima

INDICAZIONI

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ChE COS’È LO ZEN 11

ChE COS’È LO ZEN

Lo Zen rappresenta il frutto migliore germogliato dall’albero le cui radici sono raccolte nel canone pāli.

Carl Gustav Jung

Se lo Zen fosse una medicina, apparterrebbe a una classe di farmaci particolare fra quelli prodotti dall’esperienza buddhi-sta, specifici per stabilire una condizione di durevole salute psicosomatica attraverso il riconoscimento del vero Sé: quella del buddhismo Mahayana (“Grande Veicolo”)1. Si differenzie-rebbe dalle altre due classi farmacologiche, quella del buddhi-smo Hinayana (“Piccolo Veicolo”) e del Vajrayana (“Veicolo di Diamante”), per modalità d’uso, controindicazioni, possi-bili effetti collaterali e dosaggio. Se siete poco pratici di Zen e intendete iniziare un percorso terapeutico, è necessario com-prendere bene che cosa state per assumere, non solo per evi-tare un uso scorretto e dannoso, ma anche per non alimentare false aspettative nel risultato terapeutico che, da sole, sono suf-ficienti ad alimentare e cronicizzare la malattia. E pazienza se questo bugiardino è lungo 274 pagine, quando è in gioco la vostra vita.

Il buddhismo, dopo la predicazione di Buddha2, si è diviso in scuole che hanno colto ciascuna un aspetto diverso dell’in-segnamento dell’Illuminato. Come in tutte le vicende umane, ognuna ha rivendicato l’interpretazione più corretta o efficace

1 Per “Veicolo” si intende “Veicolo di trasmissione” ovvero metodo per tramandare la dottrina.

2 Ca. 563-480 a.C.

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12 PARTE PRIMA. INDICAZIONI

del corpus originario. C’è chi ha preteso di preservare la tra-scrizione più fedele dei discorsi di Buddha a partire dal i se-colo a.C. (nel canone pāli) istituendo forme di culto mona-stico dedite all’ascesi individuale, e chi si è spinto un po’ più in là elaborando metodi per applicare quei principi alla vita e perseguire il bene di tutti gli esseri senzienti. Questo carattere più laico e socialista è tipico dello Zen.

Le differenze principali fra le tre classi di farmaco sono abbastanza semplici da riconoscere. Il buddhismo hinayana, oggi ancora diffuso nei Paesi del Sud-Est asiatico, ha un ca-rattere più devozionale rispetto al Mahayana essenzialmente filosofico. Il Vajrayana, invece, ha un carattere più esoterico e ritualità e meditazione conservano ancora tracce di più an-tiche pratiche sciamaniche e magiche. Tipico di questo ramo è il buddhismo tibetano, che tanto ha affascinato i primi viag-giatori europei che visitarono il Tibet in epoca moderna, come Alexandra David-Néel che agli inizi del Novecento ebbe la fortuna di incontrare gli ultimi lama ancora a conoscenza di quelle pratiche, dotati di inspiegabili poteri3. Il buddhismo hinayana si rifugia nella preghiera e viene criticato, quasi di-sprezzato, dalle scuole Mahayana per via di questa sua attitu-dine ritenuta egoistica. Il saggio delle scuole hinayana, detto arhat, è fondamentalmente uno che pensa solo alla propria li-berazione fregandosene degli altri. Il saggio delle scuole Ma-hayana, detto bodhisattva, coltiva invece la consapevolezza di essere parte dell’universo senziente che soffre come lui e non può accettare di superare la condizione di sofferenza da solo. Dunque, non può esistere liberazione, non può esserci Illuminazione, se queste due condizioni non le ottengono an-che tutti gli altri esseri viventi. Il saggio del buddhismo Vajra-yana, definito anch’egli bodhisattva, condivide la stessa etica, ma mentre nel buddhismo Mahayana e soprattutto nello Zen si

3 È affascinante leggere ancora oggi il suo Mistici e maghi del Tibet, Ghibli, Milano 2016.

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ChE COS’È LO ZEN 13

arriva alla liberazione attraverso un processo di eliminazione del superfluo con una dieta drastica, nel Vajrayana si arriva all’Illuminazione attraverso un processo di accumulazione che è l’esatto opposto, facendo attraversare al praticante una specie di bulimia terapeutica che genera a un certo punto la necessità di liberarsi da tutto il cumulo di nozioni apprese, la cui funzione è spesso incomprensibile. Il metodo del buddhi-smo tibetano per mettere in difficoltà l’Ego del praticante è paragonabile all’uso dei paradossi nello Zen, ma agisce sulla quantità: fa passare l’Ego dalla sazietà all’indigestione co-stringendolo ad arrendersi. «Basta! Non ne posso più! Mi ar-rendo!». Nei tempi antichi questo metodo non era semplice-mente “filosofico”, poteva anzi avere un riscontro pratico ed essere applicato al lavoro o all’apprendimento di un lavoro. Milarepa4, il più famoso mistico tibetano, subì una micidiale iniziazione da Marpa5, maestro iroso e incontentabile, che lo guidò nel suo percorso di conversione da stregone dedito alla magia nera a eremita buddhista. Marpa fece costruire e poi di-sfare a Milarepa una serie di stupa6 sulle montagne del Tibet dicendogli, ogni volta che terminava la costruzione di uno, che aveva frainteso i suoi ordini e che non aveva mai detto di costruire il monumento su quella determinata montagna, e se voleva farsi perdonare doveva costruirne daccapo uno nuovo su un’altra cima. E così via, per anni. Lo scopo di Marpa era di mettere spalle al muro l’allievo e prostrare il suo Ego affin-ché si arrendesse all’insegnamento. E ci riuscì perfettamente.

Secondo la tradizione, l’obiettivo dei due approcci terapeu-tici, quello tibetano e quello Zen, è lo stesso: stressare l’intel-letto discorsivo dell’allievo fino a neutralizzarlo, ottenendo

4 Ca. 1040-1123, mago, yogi, poeta e infine maestro della scuola buddhista tibetana Kagyüpa, successore di Marpa.

5 Detto anche Marpa il Traduttore (1012-1097) per aver contribuito alla trasmissione di molti testi Vajrayana indiani, fondatore del lignaggio Kagyüpa, una delle sei scuole del “buddhismo dell’himalaya”.

6 Monumento buddhista atto a conservare reliquie.

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14 PARTE PRIMA. INDICAZIONI

così la sua apertura. Il segnale che ciò è avvenuto è inequi-vocabile: è l’Illuminazione, non quella stabile e finale7, ma una piccola8, la prima di una serie, che testimonia ogni volta il passaggio a un livello superiore di comprensione. Solo a quel punto l’allievo può ricevere l’insegnamento.

7 In giapponese, satori (悟り, letteralmente “comprensione”), termine usato per indicare il “grande risveglio” cioè l’Illuminazione.

8 In giapponese, kenshō (見性, dove ken significa “vedere” e shō significa “natura” o “essenza”), un primo livello parziale di Illuminazione in cui si comincia a intravedere il vero Sé.

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PERChé LO ZEN CI CURA 15

PERChé LO ZEN CI CURA

Praticate la Viacome se steste cercando di estinguere un fuocoche brucia sulla sommità della vostra testa.

Dōgen

Lo Zen è estremamente efficace come terapia d’attacco contro l’ipertrofia dell’Ego e tutte le forme di disagio a essa correlate. Ma si è rivelato ancora più efficace come terapia preventiva per i disordini dovuti allo stress e, prima ancora, come terapia di recupero e terapia di mantenimento della nostra vera natura. Una volta ottenuta la liberazione è molto difficile tornare in-dietro, per quanto vi piaccia crogiolarvi nello stress. Si tratta di fare una scelta. In altre parole, secondo lo Zen, se non gua-rite è perché siete voi che non volete guarire. E stiamo par-lando di un male interiore che per decenni ha spesso fatto la fortuna di psicologi, psichiatri e psicanalisti, quando in realtà non c’era nulla da curare. Spesso si usa l’espressione “il male di vivere”. Il termine sanscrito con cui si definisce la condi-zione di sofferenza che caratterizza l’esistenza ed è comune a tutti gli esseri senzienti è dukkha. Ma la sofferenza è causata dallo stress, quella che è stata definita “la malattia del secolo”, anzi la sofferenza stessa è stress. Per lo Zen, come per tutto il buddhismo, la sofferenza è la condizione cui ci condanna ineluttabilmente l’attaccamento egoistico ai nostri desideri e alla permanenza delle cose. È il nostro Ego a produrla. L’Ego è anche profondamente conservatore e non ammette che le cose a cui è attaccato possano cambiare. Per questo, di fronte

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16 PARTE PRIMA. INDICAZIONI

ai cambiamenti e alle sollecitazioni che la vita ci propone, re-agisce malamente abbarbicandosi alle sue posizioni, ribellan-dosi, entrando in agitazione, creando tensioni interne che ci mettono in una condizione di allarme e a cui spesso non sap-piamo come reagire. Quello che in tempi moderni è stato de-finito “stress”.

Un altro principio che dovrebbe essere chiaro a tutti è che lo stress genera altro stress. Ovvero, una volta che ne siamo stati per così dire contagiati (e non importa se si è trattato di un’infezione autoindotta oppure trasmessa da altri), conti-nuiamo a reagire allo stress producendone altro. La dinamica delle interazioni di gruppo, in certe condizioni, fa sì che un individuo stressato possa influenzare rapidamente le persone vicine stressandole a loro volta. In condizioni di buona sa-lute psichica ognuno di noi ha sufficienti anticorpi per isolare il rompiballe di turno che appunto sta cominciando a stres-sarci, oppure riconoscere al volo una situazione malsana che alla lunga potrebbe portarci allo stress. In tutti gli altri casi, essendo costretti a rimanere a contatto di cause (o proprio di persone) stressogene9, non disponendo più delle proprie di-fese naturali, o avendone poche per via di un nostro tempora-neo indebolimento psichico, lo Zen è un toccasana. Elimina istantaneamente tutti gli appigli cui può agganciarsi il male e in questo modo non gli dà nemmeno il tempo di attecchire: rafforza in modo stabile le nostre difese e conduce con effi-cacia il nostro essere all’autoguarigione facendo emergere la sua vera e immutabile condizione originaria.

In definitiva, lo Zen può intervenire in tutte le fasi della malattia, quando ancora non è cronicizzata, ma soprattutto si può considerare farmaco d’elezione per la più efficace terapia preventiva, agendo in un modo paragonabile quasi a quello di un vaccino. Viceversa, quando cominciano a emergere i danni

9 In linguaggio medico, stressor.

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PERChé LO ZEN CI CURA 17

fisici e psicosomatici che lo stress porta nelle sue fasi acute e croniche allora è troppo tardi: è necessario ricorrere all’inter-vento dello psicoterapeuta e all’uso di farmaci (questa volta non metaforici).

Come abbiamo fatto a risolvere il problema per tutti quei secoli in cui la psicoterapia non era ancora stata inventata? Semplice: con la meditazione taoista, con quella buddhista e infine con lo Zen che è il distillato di entrambe. «Un po’ di Zen al giorno leva lo psicologo di torno» avrebbero detto gli antichi. E forse è proprio per questo che, per tanti secoli, in Oriente, non hanno avuto bisogno né della psicologia né de-gli psicofarmaci.

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18 PARTE PRIMA. INDICAZIONI

ChE COS’È LO STRESS

Lo stress è la causa e il risultato di se stesso.

hans Selye

A quanto pare siamo tutti stressati. Non c’è scampo. «ho supe-rato l’esame, però che stress!», «Ti vedo un po’ stressato oggi, ma che cos’hai?», «Devo incontrare per forza quella persona, sono già stressata!», «È tutto il giorno che sono in giro: che stress!»: sono solo alcune delle espressioni più comuni che sentiamo pronunciare quasi quotidianamente da qualcuno di fronte alle difficoltà o agli eventi quotidiani. Non c’è una sola occasione della nostra vita in cui non si produca un minimo stato di stress. Dalle preoccupazioni di tutti i giorni alla paura nei momenti più difficili, nelle delusioni come perfino nella gioia. Ma, in pratica, che cosa accade dentro di noi?

Lo stress, da un punto di vista fisiologico, è una risposta delle ghiandole surrenali agli stimoli che provengono dall’i-potalamo e dall’ipofisi. Di fronte a una sollecitazione, un cambiamento, un imprevisto, un pericolo, insomma di fronte a qualsiasi cosa ci colga alla sprovvista, si attiva istantanea-mente un meccanismo di allarme che fa produrre alle ghian-dole surrenali una quantità anomala, più abbondante, di or-moni: il cortisolo, l’aldosterone e l’adrenalina. Per questo lo stress è indispensabile e non ne possiamo fare a meno. Ma se lo stress continua, causa uno stato di “agitazione persistente” che può interferire, attraverso questa inarrestabile cascata di ormoni, con la produzione di importanti sostanze messaggere, come la serotonina, la noradrenalina e la dopamina, danneg-

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ChE COS’È LO STRESS 19

giandola e causando seri problemi. L’eccesso di cortisolo che non riusciamo più a smaltire, per esempio, provoca alcuni sin-tomi inequivocabili: stanchezza cronica, disturbi del sonno, deficit immunitari, ipersensibilità al dolore, invecchiamento precoce, ansia. Questa produzione psico-indotta (cioè indotta dalle nostre emozioni/sensazioni) di ormoni catabolizzanti da parte delle ghiandole surrenali ha presto degli effetti fisici vi-sibili. Si inizia con la costrizione dei vasi cutanei (la pelle di-venta più pallida), poi aumenta la frequenza cardiaca, si può verificare la dilatazione dei bronchi, l’inibizione del rilascio e dell’efficacia dell’insulina. Altri sintomi psicosomatici sono la caduta dei capelli o l’eccessiva dilatazione delle pupille che può alla lunga portare a problemi alla vista. L’alterazione del metabolismo ha un effetto diretto anche sulla minore difesa dalle malattie infettive e ci sono ampi studi che dimostrano le relazioni tra stress e malattie infiammatorie.

Sono questi gli strumenti principali di cui disponiamo per adattarci alle cose che abbiamo intorno, e cambiano a seconda della nostra capacità di reagire agli eventi, all’età, al nostro stato di salute. I meccanismi di adattamento sono diversi da persona a persona: lo stesso evento non provoca quasi mai la stessa quantità di stress in persone con pensieri, emozioni e comportamenti differenti. Si tratta, come si diceva, di una produzione anomala, cioè che capita solo in determinate con-dizioni per fornire al nostro organismo le riserve necessarie a reagire e a recuperare. Il più delle volte il meccanismo av-viene in background e non ce ne accorgiamo nemmeno. Ma se questa produzione continua a essere stimolata e non si inter-rompe, arriva a creare una situazione di stress cronica, che si fissa e produce ben altri danni. Un studio pubblicato recente-mente sulla rivista «Psychotherapy and Psychosomatics» dai ricercatori delle università tedesche di Costanza e di Ulm, di-mostra come lo stress crei danni addirittura a livello del dna, peggiorando inoltre la capacità di riparazione delle cellule. Se-

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condo lo studio la soluzione sarebbe la psicoterapia, che può invertire il fenomeno a livello cellulare10.

Paradossalmente, le persone che hanno più difficoltà a ge-stire lo stress sono quelle che mostrano una competitività più spinta in tutti gli aspetti della vita, quelle più aggressive e in-sofferenti verso le condizioni del prossimo. In pratica, quelle che sono già stressate. È chiaro quindi che lo stress, una volta generato, instaura facilmente un circolo vizioso. L’unica cosa che possiamo fare è cercare di non cascare in questa trappola dall’inizio cambiando i nostri atteggiamenti, i nostri modi di reagire agli eventi, e di relazionarci. Può diventare antistress anche il modo in cui ci comportiamo verso gli altri? Ebbene, decisamente sì. Sembra che per vincere lo stress basti essere altruisti. C’è un famoso detto: «Chi aiuta gli altri aiuta anche se stesso». È uno dei cardini della pratica buddhista e dello Zen. Ma ora è stato dimostrato anche quanto sia vero: una ri-cerca condotta dall’università di Yale ha dimostrato che aiu-tare il prossimo sembra essere un antistress infallibile. Per due settimane un gruppo di psicologi ha monitorato la vita quo-tidiana di 77 persone di età compresa tra i 18 e i 44 anni. Per l’esperimento era stata realizzata una app per smartphone su cui, ogni sera, i volontari hanno risposto alle domande di un questionario per classificare gli eventi stressanti che erano loro accaduti durante la giornata, le buone azioni compiute e gli stati d’animo a esse collegati. I risultati sono stati straor-dinari: le azioni altruistiche erano associate a un minor livello di stress, a emozioni più positive e a un conseguente benes-sere psicologico. Un altro dato interessante fra quelli rilevati è che «quando una persona assume comportamenti altruisti in un giorno particolarmente difficile a livello di stress, lo stesso

10 Morath J., Moreno-Villanueva M., hamuni G., Kolassa S., Ruf-Leuschner M., Schauer M., Elbert T., Bürkle A., Kolassa I.T., Effects of Psychotherapy on DNA strand break accumulation originating from traumatic stress, «Psychotherapy and Psychosomatics», 83 (2014), pp. 289-297.

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stress non riesce a scalfire le sue emozioni positive e il suo be-nessere psicologico, ma determina soltanto un lievissimo au-mento delle emozioni negative»11.

I risultati hanno suggerito inoltre che il comportamento af-filiativo può essere una componente importante per far fronte allo stress e indicano anche che impegnarsi in comportamenti prosociali può essere una strategia efficace per ridurre l’im-patto complessivo dello stress sulla nostra emotività. E infine, le persone capaci di mantenere nel tempo un’aggressività ri-dotta e una ragionevole competitività, oltre a una capacità di adattarsi ai bisogni degli altri e di fare cose compatibilmente col tempo disponibile, otterranno un rilassamento generale del corpo anche a livello muscolare e riusciranno ad affron-tare meglio qualsiasi tipologia di stress con minor possibilità di ammalarsi. In Oriente si parte dal rilassamento del corpo e dal controllo della respirazione per indurre a ritroso gli atteg-giamenti corretti, smontando l’aggressività e ricostruendo la capacità di adattamento. Lo Zen è il metodo più efficace per fare questo lavoro.

11 Raposa E., Laws h., Ansell E., Prosocial Behavior Mitigates the Negative Effects of Stress in Everyday Life, «Clinical Psychological Science», vol. 4, 4 (2016), pp. 691-698.

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TIPOLOGIE DELLO STRESS

Essere del tutto senza stress significa essere morti.

hans Selye

Secondo la nostra medicina, non esiste solo lo stress cattivo, o distress, c’è anche uno “stress buono”, che ci permette di reagire in modo adattivo ai cambiamenti e alle sollecitazioni della vita, ed è chiamato eustress12. Bisogna rassegnarsi all’e-videnza: la vita è tutta uno stress, dal momento della nascita fino alla morte. E non è affatto detto che i bodhisattva non con-tinuino a essere stressati anche in uno dei tanti mondi paralleli in cui proseguono la loro esistenza. Per questo si usa dire che «Shakyamuni (Buddha) e Bodhidharma continuano a medi-tare». È interessante notare come la concezione moderna dello stress positivo e negativo abbia un precedente storico nella medicina cinese, in cui si parla di ch’i13 sano e ch’i malato14. Nella circolazione dell’energia all’interno del nostro corpo la medicina cinese distingue fra l’energia creata dagli organi vi-tali sani e quella che essi producono quando sono ammalati. Il ch’i sano è quello che circola fra organi sani e mantiene la sa-lute, mentre quello malato è quello che produce o peggiora la malattia. Qualcuno, quindi, potrebbe cominciare a immaginare lo stress come una forma di energia interna che può, a seconda della sua qualità, aiutarci a portare a termine le nostre azioni,

12 Il primo a usare la parola stress, mutuata dall’ingegneria, per indicare uno stato di tensione interna, è stato l’endocrinologo hans Selye, che ha usato anche il termine distress con lo stesso significato, ed eustress con significato opposto, ovvero “stress positivo”.

13 Energia vitale (氣).14 Hsieh ch’i (邪氣, tradotto anche come “ch’i perverso” o nocivo).

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TIPOLOGIE DELLO STRESS 23

oppure distruggerci. Questo tipo di parallelismo è tipico della New Age, che mischia tradizioni e sistemi culturali diversi solo sulla base di una somiglianza, finendo per aumentare la con-fusione di chi si accosta ingenuamente e per la prima volta a questi studi. Meglio quindi non volare troppo con la fantasia, la realtà è meno affascinante: il ch’i è l’energia che permea l’universo mentre lo stress lo produciamo soltanto noi (e ce lo teniamo). L’unica possibilità che abbiamo, dunque, è quella di liberarcene o fare in modo di non averne più bisogno. Per-ché lo stress è un circolo vizioso: una volta che ci siamo en-trati sembra impossibile uscirne. C’è gente che sviluppa una tale assuefazione allo stress da non accorgersi più delle con-dizioni in cui si trova e cerca sempre nuove fonti di stress per poter “star bene”. Arrivati a questo livello di addiction, ci si comporta come dei drogati e tutte le nostre azioni e le nostre scelte sono in funzione di una maggiore produzione di stress.

Fra eustress e distress c’è una gamma teoricamente infinita di gradazioni del livello di alterazione dei nostri equilibri in-terni15. Proprio per questo spesso non avvertiamo nemmeno i campanelli d’allarme che ci segnalano che siamo passati da una fase già grave a un’altra ancora peggiore, e il fatto stesso di non avvertirli significa che abbiamo già varcato quel con-fine, perché lo stesso stress sarebbe, nelle fasi iniziali, il no-stro principale campanello d’allarme.

Quando ce ne accorgiamo la situazione è ormai fuori con-trollo.

15 Selye h., Stress without distress, J.B. Lippincott Company, Philadelphia 1974.

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24 PARTE PRIMA. INDICAZIONI

LA GRANDE INTUIZIONE DEL BUDDhISMO

Nella mente ha origine la sofferenza; nella mente ha origine la cessazione della sofferenza.

Buddha

Se Buddha fosse nato in questo secolo, probabilmente avrebbe lasciato una versione diversa dell’insegnamento che lasciò alla sua comunità. Alla base della sua dottrina delle Quattro No-bili Verità, c’è la constatazione di qualcosa che vale per tutti gli esseri senzienti: la vita è sofferenza (dukkha). Oggi le ri-cerche mediche concordano sul fatto che la sindrome del no-stro secolo è lo stress. Lo stress è la sofferenza comune a tutti. Ecco, quindi, come probabilmente Buddha enuncerebbe oggi la dottrina (o dhamma) ai suoi allievi, se fosse nato a New York o a Tokyo.

i. La vita è stressE questa, o monaci, è la santa verità circa lo stress: la na-scita è stress, la vecchiaia è stress, la malattia è stress, la morte è stress; l’unione con quel che dispiace è stress; la separazione da ciò che piace è stress; non ottenere ciò che si desidera è stress; in una parola, stress sono i cinque ele-menti dell’esistenza individuale.

Buddha ha scoperto un principio universale, una verità inoppugnabile. Ciò che accomuna tutti gli esseri senzienti in

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questa vita è il fatto di essere stressati. Non c’è scampo. Que-sto stress proviene dalla materia illusoria di cui è composto il nostro Ego, cioè forma, sensazione, discriminazione, forma-zioni mentali e coscienza16.

ii. Lo stress ha un’origine Questa, o monaci, è la santa verità circa l’origine dello stress: essa è quella sete che è causa di rinascita, che è congiunta con la gioia e col desiderio, che trova godi-mento ora qui ora là; sete di piacere, sete di esistenza, sete di estinzione.

Quindi, la causa dello stress è il desiderio di esistere17, cioè il desiderio di continuare a disporre delle stesse sensazioni, degli stessi piaceri, perfino delle stesse nevrosi e degli stessi dolori, perché crediamo che sia quella la vita. In realtà è il no-stro Ego che per continuare a esistere vuole farci credere che siamo separati dalla realtà, e che la vita vera sia quella che ha stabilito lui per noi.

iii. se Lo stress ha un’origine, ha anche una fine Questa, o monaci, è la santa verità circa la soppressione dello stress: è la soppressione di questa sete, annientando completamente il desiderio, è il bandirla, il reprimerla, il liberarsi da essa, il distaccarsi.

Esiste dunque una condizione di libertà completa dallo stress e da ogni schiavitù, una condizione in cui si gode della pace assoluta. Di conseguenza, non può esserci pace finché non troviamo l’origine dello stress. La sua fine si ottiene cer-cando l’inizio.

16 Sono i “cinque aggregati” (in sanscrito, skandha), elementi che non hanno una reale consistenza o esistenza, né insieme, né separatamente.

17 In sanscrito, tanha (letteralmente “sete”).

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iv. se Lo stress si Può estinguere aLLora esiste una curaQuesta, o monaci, è la santa verità circa il sentiero che conduce alla soppressione dello stress: è l’augusto ottu-plice sentiero, e cioè retta fede, retta decisione, retta pa-rola, retta azione, retta vita, retto sforzo, retto ricordo, retta concentrazione.

Se lo stress si può estinguere allora esiste un metodo per farlo, con otto semplici passi: un percorso di guarigione dall’i-gnoranza e dall’egoismo che porta a prendere coscienza del proprio vero Sé e quindi conduce al Nirvana, lo stato di pace perfetta e di felicità che si ottiene dopo l’Illuminazione.

Ma che cos’è il Nirvana? Per capirlo occorre partire dal concetto di karma che il buddhismo ha ereditato dall’indui-smo. Il karma è l’insieme delle nostre azioni con le loro con-seguenze morali, che portano meriti o demeriti. Questa idea non ha nulla a che fare con la concezione del peccato e della redenzione delle nostre religioni, ma ciò non toglie che il peso delle nostre azioni, nel buddhismo, sia tutt’altro che leggero perché ha conseguenze dirette con la “ruota delle rinascite”. Finché non si ottiene l’Illuminazione, cioè la comprensione, si continua a vagare nell’ignoranza18, quindi nel Samsara19, che è paragonabile all’Inferno in quanto condizione di soffe-renza. Ma questa condizione non è eterna, dura solo finché non riusciamo a ottenere la liberazione (quindi dipende da noi), e non è nell’aldilà, ma qui e ora (quindi dipende sem-pre da noi). In questo sta la potenza morale del buddhismo, che presuppone una grande assunzione di responsabilità da parte dell’uomo. Non c’è nessuna Divina Provvidenza a sal-

18 Intesa come ignoranza metafisica, ovvero avidya.19 La migliore traduzione del termine sanscrito Samsara è “Oceano dell’esistenza”,

cioè l’insieme di tutti i piani di esistenza, da quello animale a quello umano e quelli superiori.

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varci, nessun Redentore a redimerci. Dipende solo e soltanto da noi uscire dalla nostra condizione di ignoranza e di egoi-smo. Se non cominciamo a lavorare subito per ottenere il ri-sveglio, continueremo a rinascere in questa valle di lacrime e a ripetere esattamente gli stessi errori, all’infinito. Di questa condizione spesso non siamo consapevoli e quindi la prima mossa terapeutica che il buddhismo prescrive è di lavorare sulla consapevolezza.

Per noi occidentali è difficile renderci conto della sofferenza, presi come siamo a rincorrere obiettivi di vita, riconoscimenti, status sociale, puramente illusori. Crediamo anzi che il mondo sia solo quello in cui viviamo e non immaginiamo nemmeno la possibilità che una condizione diversa dalla nostra esista. Per questo accettiamo lo stress come se fosse il male minore, senza sapere che il nostro disagio è o può diventare ancora più profondo. In realtà, il Samsara non è altro che lo stesso Nir-vana visto però attraverso gli occhi di esseri la cui esistenza è puramente illusoria perché intrappolati in un universo virtuale, o meglio in una visione virtuale della realtà, perché determi-nata dal loro Ego. Allo stesso modo in cui le leggi matemati-che, chimiche e fisiche dominano il nostro mondo materiale, la legge del karma è automatica e ineluttabile. Nessun essere senziente può infrangerla, aggirarla o superarla. L’assenza di un Dio creatore che “regola” l’applicazione di questa legge a seconda dei casi, seguendo un criterio di “misericordia”, rende questo meccanismo senza dubbio spietato e inesorabile perché automatico: qualsiasi azione ha una reazione, qualsiasi gesto ha una conseguenza.

Chi proviene da un cristianesimo malinteso e mal praticato (soprattutto i cattolici), abituato com’era a credere di ottenere sempre il perdono per ciò che fa con un semplice atto di penti-mento, una volta approdato al buddhismo penserà addirittura di sfangarla perché non c’è nessun Dio a osservare le sue azioni. Ma sbaglia di grosso: deve fare i conti col suo karma, cioè con

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la somma delle conseguenze dei propri comportamenti. È una legge a cui nessuno può sfuggire, nemmeno ai piani più alti, quelli divini. Tuttavia, l’idea che perfino le divinità, in quanto esseri senzienti, siano sottoposte alla stessa legge cui sono sot-toposti gli umani, e quindi esistano diversi piani di esistenza paralleli, appartiene al buddhismo indiano, quello delle origini. Lo Zen elimina questa visione perché anch’essa potrebbe es-sere, a sua volta, causa di attaccamento e di illusione, e conce-pisce solo due condizioni: quella umana dell’ignoranza e quella della buddhità che si raggiunge una volta ottenuta l’Illumina-zione. Gli altri piani di esistenza non sono oggetto di interesse per lo Zen e perfino la letteratura che ne tratta viene messa in un cantuccio. Non occorre fare studi teologici per praticare e, come sottolinea Dōgen: «Dal punto di vista del buddhismo, pratica e Illuminazione sono una cosa sola. Poiché in qualsi-asi momento si tratta di pratica nell’Illuminazione, la pratica del principiante è il vero corpo dell’Illuminazione»20. Dunque, tutta l’attenzione dello Zen si sposta sulla necessità di lavorare da subito a un percorso terapeutico che consenta di arrivare alla liberazione qui e ora, perché soltanto noi possiamo farlo e solo mentre siamo in vita. Non dobbiamo nemmeno pensare che possa esistere un aldilà e, facendo meditazione, sederci co-modamente sull’idea che se non ci riusciamo ora ci riusciremo più avanti, magari in un’altra vita. Non viene dato per scon-tato nemmeno questo. Per lo Zen non c’è tempo da perdere.

20 Dōgen. Bendōwa, in Tollini A., Pratica e Illuminazione nello Shōbōgenzō, Ubaldini, Roma 2001, pp. 137-138.

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