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L’ARTEDI OSSERVARE

a cura diAntonella Cammarota

Paola Cecchetti

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ISBN 978–88–548–3549–8

I diritti di traduzione, di memorizzazione elettronica,di riproduzione e di adattamento anche parziale,

con qualsiasi mezzo, sono riservati per tutti i Paesi.

Non sono assolutamente consentite le fotocopiesenza il permesso scritto dell’Editore.

I edizione: ottobre 2010

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Indice

Introduzione di Paola Cecchetti................................................. p. 7

Ida De Ceglie................................................................................ p. 23

Trasformarsi con l'osservazione

Marisa Andalò ............................................................................. p. 37

L'osservatore, questo sconosciuto

Mariella Colosimo ....................................................................... p. 59

Impossibili possibili

Serena Bartoli .............................................................................. p. 73

Dalla normalità all’incontro con la diversità

Giulia Sedda ................................................................................ p. 87

Crescere nell’Osservazione Diretta

Daniela Patriarca ........................................................................ p. 105

Le circostanze sconosciute

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6 Indice 

Francesca Bocchi .........................................................................p. 119

Dall’osservazione alla cura

Antonella Cammarota .................................................................p. 135

Prendersi cura: nascondere e svelare

Lucia Salvemini ...........................................................................p. 149

Legge 194

Anita Ceraso.................................................................................p. 165

Io, una mediatrice

Monica Tomassoni.......................................................................p. 175

Osservando altri mondi

Patrizia Lucattini .........................................................................p. 193

Formarsi alla mediazione culturale

Postfazione: Francesco Scotti .....................................................p. 209

Cammini verso l’osservazione diretta

Autrici ...........................................................................................p. 215

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Introduzione

Paola Cecchetti

Scrivere

Sono molti anni che, arrivati a toccare con mano che il curare, l’educare e il governare sono caratterizzati, come scriveva Freud, da un’intrinseca e insormontabile “impossibilità”, qualcuno del gruppo dice: dobbiamo scrivere ciò che stiamo elaborando, confrontarci con gli altri, essere più rigorosi. Per molto tempo è parso solo un ritornel-lo, sganciato da ogni volontà effettiva di realizzazione. Poi, è maturata l’idea: se non riusciamo a scrivere un libro, possiamo organizzare un convegno nel quale mettere al lavoro le tre aree sulle quali ci muo-viamo dall’inizio del nostro lavoro: la Psicoanalisi e l’Educazione, in-terrogate dal vertice dell’Osservazione Diretta. Un convegno che ci costringesse a lavorare attorno a Terre di confine e che offrisse il tem-po e lo spazio necessari ad un reale confronto con coloro che, magari in modo diverso, sono impegnati nelle stesse aree. Dovevamo orga-nizzare, creare un oggetto, una “forma” che restituisse in modo nuovo il lungo e paziente lavoro svolto all’interno. Da quel momento il grup-po ha sentito la responsabilità di mettere ordine nell’incredibile mole dei materiali esistenti, di riguardare le esperienze fatte, di pubblicare il tutto quasi come Atti preparatori del Convegno. Con l’organizzazione del Convegno, è dunque arrivata anche la scrittura.

La scrittura, come strumento per pensare e non solo in modo logi-co-razionale, ha caratterizzato dall’inizio la vita del nostro gruppo di osservazione. Ne abbiamo sperimentate modalità diverse. A volte, il protocollo osservativo veniva letto, gettato, per così dire, nel gruppo come un sasso nella fontana, e contemporaneamente ogni componente scriveva, raccogliendo a modo suo i cerchi concentrici del pensiero analogico scaturito. Così, alla fine di ogni incontro, ognuno se ne tor-nava a casa avendo fatto esercizio di ricevere pensieri ignoti e di aver dato pensieri auto-biografici. Non so se azzardo troppo mettendo in relazione questo produrre percezioni, desideri, fantasie, immagini-

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tante immagini, a cascata, trattandosi di un gruppo con la pubblica-zione successiva di saggi e romanzi da parte di alcuni membri del gruppo.

Altre volte, la modalità di scrittura seguita è stata stimolata dalla lettura di testi letterari portati da me, sulla base dei nodi teorici emersi nell’incontro precedente. Tutti i membri del gruppo, allora, scriveva-no, mentre ascoltavano, le loro associazioni al testo, che venivano let-te subito dopo. Un esercizio, questo, molto utile per fare del protocollo osservativo una piccola creazione letteraria.

In entrambi i casi, la scrittura serviva come difesa dalla violenza dello sguardo in presenza, era una sorta di scudo per proteggersi dal rimanere pietrificato dalla realtà osservata, un approdo tra sguardo in presenza e parola che conosce e indaga in assenza.

Più modestamente, possiamo dire che scrivere è stato ed è, per tutti, un esercizio di stile e un piacere legato all’eros. Il problema era invece scrivere un testo in cui le esperienze fatte nei diversi contesti, le rifles-sioni, le fantasie, le creazioni personali e collettive divenissero un punto di partenza per teorizzare, per rendere i tanti pensieri comunica-bili. Questo tipo di scrittura sembrava vietata, innanzi tutto a me, co-me responsabile del gruppo. Il divieto era di uscire dalla “artigianali-tà”, dalla libertà del “parlare in libertà” e di esplorare con il disordine di chi esplora perché non conosce ciò che osserva.

Oggi questo divieto è stato, almeno in parte, aggirato. Forse ciò che ha reso possibile la scrittura è l’aver trovato un compromesso accet-tabile: ognuno mantiene il proprio stile, ognuno dà un assaggio di ciò che ha prodotto, ricreando la cornice comune di pensiero nella sempli-cità della narrazione. Gioverà a qualcuno? Siamo convinte che in quest’epoca supertecnologica, nella quale sembra trionfare il successo e la produttività, nella quale non c’è posto per qualsiasi forma di mar-ginalità, e nella scuola dilagano valutazione e meritocrazia, questa scrittura varrà almeno come testimonianza, come prova che è ancora possibile incontrarsi e pensare in modo libero ai bambini e agli adole-scenti che ci sono affidati e al bambino e all’adolescente che vive in ciascuno di noi.

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L’appartenenza e l’importanza di un’Associazione

Tutto questo è accaduto in Apeiron. Per chi non conosce la piccola istituzione alla quale apparteniamo, provo a restituire una foto di fa-miglia, in ordine di grandezza. Il grande contenitore, o la matrioska più grande, è la scuola di specializzazione per terapeuti: la Coirag. Dentro questa, più piccola, la SIPSA, Società italiana di psicodramma analitico. Infine la matrioska ancora più piccola: l’Associazione Apei-ron, di cui fa parte uno dei due Centri didattici attraverso i quali a Roma la Coirag forma i futuri psicodrammatisti. La questione di Apei-ron si rovescerebbe però nel momento in cui la foto volesse mostrare la forza dei legami di appartenenza. Ciò che tiene insieme tutti, docen-ti compresi, è l’Associazione Apeiron, “Centro studi per la ricerca a-nalitica e educativa”, al quale coloro che hanno scritto fanno così spesso riferimento. Fondata da Luisa Mele in anni lontani, la vita dell’Associazione/Centro studi Apeiron è espressa da un logo: una barca con i remi, che allude all’essere psiconauti, navigatori della psi-che. L’Associazione diventa allora la matrioska che contiene tutte le altre, i remi che spingono a una vita di pensiero all’insegna dell’etica.

Perché tutte queste informazioni? Vorremmo far comprendere la collocazione particolare di questo gruppo di Osservazione Diretta, che all’inizio ha occupato all’interno dell’Associazione una posizione an-cillare, quasi clandestina, rispetto all’anima nobile della psicoanalisi, ma che, al tempo stesso, si faceva apprezzare per la vitalità dimostrata, per la presenza all’esterno - scuole, università ecc -, meritando così ad Apeiron il riconoscimento da parte del Ministero della Pubblica Istru-zione di “ente accreditato” per la formazione. Un riconoscimento che non è facile ottenere.

A un certo momento, si è resa necessaria una modifica dello statuto di Apeiron, che permettesse agli insegnanti di essere membri a pieno titolo dell’Associazione e che desse agli psicoanalisti quel che è della psicoanalisi (il Centro didattico) e agli insegnanti quel che è loro: edu-care. Ma, nel distinguere le competenze, occorre fare ancora i conti con l’Osservazione Diretta, per non lacerarne le vesti. È la “maledi-zione”, in realtà la ricchezza, delle terre di confine. C’era davvero bi-sogno di entrare nell’Associazione? Sembrerebbe di sì, per la ricchez-

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za che ne è venuta a tutti e per il peso che l’Osservazione è venuta as-sumendo, nel nostro Centro didattico, nella formazione degli allievi.

Concludendo. Il gruppo si presenta oggi all’esterno con quasi venti anni di esperienza. È un gruppo aperto; molti docenti sono transitati e poi andati via, tuttavia è rimasto stabile un nucleo di circa dieci perso-ne, non per effetto “colla”, ma perché la pratica osservativa ha attra-versato diversi livelli, fino a fare, di questo, un gruppo che sperimenta e ricerca sulla formazione dei formatori, con la consapevolezza della necessità di affrontare ogni volta nuovi saperi. Il Convegno e questo libro vogliono essere appunto esplorazione e approdo alle Terre di confine, sempre sconfinate. Ancora sul gruppo

Ripetiamolo: scrivere un libro sull’Osservazione Diretta, dopo il te-sto fondamentale “Osservare e comprendere”1 e i molti testi che l’hanno preceduto e seguito, non è impresa da poco.

“Osservare e comprendere” è un testo che si presta a molteplici let-ture e che ancora oggi, a distanza di otto anni, è aperto a nuove com-prensioni. È uno di quei testi che, più il lettore approfondisce attraver-so l’esperienza il proprio pensiero personale, più svela connessioni passate inosservate nelle precedenti letture. Ad esso dunque riman-diamo per i presupposti teorici della nostra esperienza.

A noi qui interessa raccontare, per farne un’esperienza generaliz-zabile, un tempo si sarebbe detto “politica”, il lavoro e la ricerca di un gruppo di insegnanti di ogni ordine e grado, impegnati per oltre quin-dici anni in una formazione permanente attraverso l’Osservazione Di-retta, all’interno di una struttura che si occupa di psicoanalisi. Motivo, questo, per richiedere ai membri del gruppo un percorso di psicotera-pia analitica, di modo che tutti i soci dell’Associazione abbiano in comune la pratica dell’inconscio, pratica necessaria in ogni relazione in cui ci si prende cura dell’altro. La distinzione è nell’uso dell’ascolto dell’inconscio che, in un caso, porta ad un percorso di cura, nell’altro,

                                                            1 Osservare e comprendere, a cura di Francesco Scotti, Borla 2002.

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di apprendimento, ambedue: però, percorsi di conoscenza. Dice Freud che lì dove non c’è possibilità per il processo educativo non c’è nem-meno possibilità per il processo analitico, definito “post-educazione”. I gruppi “misti”

“Distinguere per unire”: è il motto che viene da una filosofia ormai lontana2. Potremmo dire che è anche il nostro. Distinguere i confini tra educazione e psicoanalisi, non per sovrapporle in un secondo momen-to, ma per farle, grazie alla metodologia dell’Osservazione, dialogare. Ecco dunque che proprio la consapevolezza che non si deve confonde-re ambiti e metodi, ci ha spinto ad avventurarci in territori nei quali si potessero creare contaminazioni feconde ma non confuse. Abbiamo, ad un certo momento del nostro percorso, sperimentato gruppi di Os-servazione “misti”, con la partecipazione, cioè, sia di insegnanti sia di allievi psicodrammatisti. La metodologia dell’Osservazione, che pre-vede un processo che va dalla solitudine dello sguardo “in presenza”, all’assenza di sguardo nella scrittura, all’attivazione dello sguardo del pensiero in un gruppo, ci è sembrata utile per la formazione di gruppi misti siffatti.

Il gruppo, “misto”, si riuniva ogni quindici giorni. Si leggevano i protocolli riferiti alle osservazioni fatte nelle classi, una volta dagli al-lievi terapeuti, una volta dagli insegnanti. Per gli insegnanti si trattava di apprendere quali sono gli indizi che mostrano, dietro il bambino “reale”, il bambino immaginario con cui si ha a che fare, di “vedere” con i propri occhi le teorie sessuali di Freud, l’Edipo ecc.; per i tera-peuti, era una condizione preziosa per entrare nelle dinamiche incon-sce di un gruppo di pari: come nasce e come fallisce una relazione, quali sono i processi di crescita, la separazione, l’aggressività, l’invidia; come nasce la figurazione nei primi scarabocchi… Insom-ma, lo sguardo dell’insegnante arricchiva quello del terapeuta e vice-versa.

L’ascolto quotidiano di bambini, adolescenti e adulti, cui la profes-sione dell’insegnante obbliga, diventava un materiale prezioso per la                                                             

2 Cfr. Maritain e le problematiche della sua età.

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formazione dei terapeuti, i quali, venendo dalla facoltà di psicologia, in genere conoscono “casi” patologici studiati nei libri, ma hanno poca esperienza concreta di bambini e adolescenti. Grazie a questi gruppi “misti”, gli uni (gli allievi psicoterapeuti) condividono una metodolo-gia idonea per il passaggio dall’ascolto psicologico a quello terapeuti-co; gli altri (gli insegnanti) si esercitano nel passaggio dal “fare” all’ascoltare. Per entrambi si tratta di rinunciare non solo all’agire, ma anche a quella che per lo più consideriamo comprensione e interpreta-zione dei “fatti”, della “realtà”, rimanendo incantati da ciò che non si vede e non si ascolta, attratti delle tracce dell’invisibile.

Dunque. Se era ed è fondamentale, e acquisita, la distinzione tra l’educazione e la psicoanalisi, terre “protette”, dai saperi consolidati, anche questa esperienza ci ha dimostrato che molto meno esplorata è la terra che al tempo stesso separa e mette in comunicazione le due, terra che è da noi la più frequentata e che abbiamo definito, prendendo a prestito il titolo di un libro di poesie di Bianca Frabotta, “terra con-tigua”: l’Osservazione Diretta. Terra contigua in se stessa e che rende possibile, valorizzandola, la contiguità di educazione e psicoanalisi. Uno sguardo al passato

Ho avuto la fortuna, come insegnante, di aver fatto la mia forma-zione -e la “formazione alla formazione”- nel Movimento di Coope-razione Educativa, che già negli anni settanta si poneva il problema dell’inconscio nella pratica educativa. Prezioso, a riguardo, il breve ma denso scritto di Alessandra Ginzburg3. L’inconscio di cui si parla-va nella pratica educativa è lo stesso di cui si parla nella clinica? Do-manda retorica, se non altro dal momento che sia il bambino sia il pa-ziente sognano. Abbiamo già detto che ciò che conta è l’uso che si fa dell’ascolto.

C’era, in quegli anni, il tentativo di ripensare la pedagogia utiliz-zando la psicoanalisi, stimolati a farlo anche dai problemi legati all’inserimento nelle classi cosiddette “normali”, di bambini portatori di handicap. Nel Movimento di Cooperazione Educativa si era costi-                                                            

3 A. Ginzburg, L’inconscio nella pratica educativa.

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tuito, già nel 1972, un gruppo, chiamato di “Educazione e terapia”, sotto la guida di Giorgio Testa e di Alessandra Ginzburg, appassionati al sapere della psicoanalisi ed essi stessi terapeuti. Si leggevano as-sieme gli Scritti di Lacan, Funzione e campo della parola e del lin-guaggio. Ne venne, per il gruppo, la teoria della pedagogia dell’ascolto. Sia nella relazione educativa sia in quella terapeutica, se c’è qualcuno che ascolta la parola dell’altro che non sa quel che si di-ce, si instaura una relazione di cura. Ma è comunque importante man-tenere distinti gli obiettivi: educare, in un caso, curare, nell’altro.

Abbiamo visto prima che, tra le attività “impossibili”, Freud inseri-sce anche “il governare”. Non sarà fuori luogo ricordare, allora, che in quegli anni le innovazioni, o meglio le rivoluzioni nel campo educati-vo, come la pedagogia dell’ascolto, furono accompagnate e stimolate da un grande impegno civile e politico delle amministrazioni locali, che chiamarono a collaborare psicologi, operatori psichiatrici, educa-tori.. Non sarebbe male riflettere su quelle esperienze lontane in questi anni così diversi e difficili.

Torniamo al Movimento di Cooperazione Educativa. È nel contesto di questi fermenti che, con alcuni componenti del gruppo romano, de-cidemmo di inoltrarci, con una pratica di incontri quindicinale a Peru-gia, sotto la guida di Francesco Scotti, in un altro percorso: quello dell’Osservazione Diretta. Si trattava, e non è senza valore, di un gruppo misto: insegnanti, psichiatri, psicoterapeuti, assistenti sociali, tutti impegnati nel sociale per il cambiamento. Nel 1977 si poteva già, per così dire, uscire allo scoperto, con un Convegno perugino su “L’osservazione e la sua applicazione nella psicoterapia infantile, nel-la scuola e nelle situazioni psicotiche”.

La metodologia dell’Osservazione Diretta costringeva noi inse-gnanti ad andare nelle classi mettendo tra parentesi la responsabilità del nostro ruolo, costringendoci a non agire ed a ritornare sui banchi per apprendere chi è il bambino o l’adolescente a cui desideriamo in-segnare e chi siamo noi, adulti oggi, essendo stati quei bambini e que-gli adolescenti di ieri. Si trattava di ricercare il “bambino non visto”. Il bambino si fa soggetto dell’apprendimento, con spazi e tempi indivi-duali, diversi per ciascuno, e l’educatore può rendersene conto solo osservandolo. Si crea uno stretto legame tra osservazione come for-

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mazione dell’educatore e come luogo in cui, a partire dai bisogni e dalla relazione, si costruisce il processo di apprendimento.

Contemporaneamente, nel Movimento di Cooperazione Educativa, lavoravamo per comprendere sempre più a fondo il pensiero del bam-bino, scoprendo quei testi nei quali l’emozione è definita “la madre del pensiero”: Matte Blanco, L’inconscio come insieme infinito, che Alessandra Ginzburg ci traduceva prima che fosse pubblicato nel no-stro paese.

Questa, che accenno, fu una vera rivoluzione epistemologica. Sco-priamo, per noi e per il bambino, che pensiero ed emozioni sono in-scindibili. La rivoluzione “teorica” è tutt’uno con la rivoluzione nella prassi lavorativa. Scopriamo che sia il bambino, sia l’adulto portano a scuola innanzi tutto il corpo: a scuola con il corpo, sarà, non a caso, il nome che prenderà un gruppo nazionale. L’educazione ha a che fare con la totalità della persona del bambino e coinvolge la totalità della persona dell’adulto.

Ed eccoci ancora alle ragioni di questo libro e del Convegno che in-tende preparare. Il “corpo”, nel senso che dicevamo, spinge educazio-ne e psicoanalisi a dialogare. “L’educazione per salvaguardarlo, la psicanalisi per cercare di ritrovarlo quando è stato smarrito” . Quel corpo che, scriveva Panikkar, è il mio simbolo. “Il mio corpo è il mio simbolo”. Le nostre esperienze osservative e i loro caratteri originali. La lettura

Ho scritto, poco prima, che i principi fondamentali dell’osservazione sono chiaramente stabiliti in diversi testi. Come altre volte ha sottolineato lo stesso Francesco Scotti, quella dell’Osservazione è tuttavia una metodologia, dai principi fondamentali chiari ma non rigidi, suscetti-bili cioè di approfondimento e di verifica man mano che l’esperienza si estende a campi diversi.

In questo senso, possiamo dire che l’esperienza pluriennale condot-ta dal gruppo ha apportato novità e problemi nuovi?

Per rispondere alla domanda, provo a ripercorrere, nei suoi tratti es-senziali, il percorso fatto, testimoniato dagli scritti dei componenti del gruppo contenuti in questo libro.

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La lettura del protocollo nel gruppo degli osservatori è uno dei “comandamenti” di quello che, scherzosamente e seriamente al tempo stesso, fu chiamato “il decalogo”. Nella nostra esperienza, tuttavia, questo momento è stato particolarmente valorizzato, e forse anche “forzato” in maniera stimolante. Innanzi tutto la “lettura” è stata in qualche modo duplicata: mentre l’osservatore veniva leggendo il pro-prio protocollo al gruppo, tutti i suoi componenti, contemporaneamen-te, erano invitati a scrivere ciò che ascoltavano o, meglio, a riscrivere ciò che venivano filtrando nell’ascolto. Perché l’operazione risultasse fertile e omogenea, ciascuno scriveva il proprio “protocollo del proto-collo”, o dell’ascolto, secondo un modello prestabilito. Il foglio è divi-so in tre colonne, nella prima delle quali si “riscrive” il protocollo a-scoltato, smontandolo nelle sequenze principali; nella seconda si ap-punta il “film” (così ci è piaciuto chiamare il flusso del vissuto) che nasce dall’ascolto: emozioni, associazioni, ricordi ecc. Nella terza, in-fine, sono annotate le questioni metodologiche, teoriche, che il testo ascoltato ha posto. Finita la lettura del protocollo, ciascuno legge il proprio scritto e solo al termine l’osservatore interviene con le sue ri-flessioni sull’intreccio creatosi con questi ascolti molteplici. Il condut-tore interviene alla fine, come cassa di risonanza del funzionamento del gruppo e mostrando gli aspetti che nel corso dell’opera sono rima-sti velati o nascosti.

Perché questa “complicazione”? Ci è sembrato che in questo modo fosse più facile coinvolgere tutti nel lavoro ma, soprattutto, che que-sto “accorgimento” permettesse di amplificare e di valorizzare quello che è un principio fondamentale della metodologia: la consapevolezza che, nell’ascolto, ciascuno “filtra” secondo un proprio stile. Trovarsi subito nella condizione di confrontare il proprio ascolto con quello al-trui, aiuta a prendere coscienza del funzionamento della propria men-te, fino a riconoscere quel “punto cieco” che è segnato dal divieto alla comprensione. Si elimina il rischio che l’ascoltatore sia passivo, spin-gendolo ad un ruolo attivo.

Occorre ricordare, d’altronde, che il gruppo era composto di inse-gnanti e che ciascuno di loro è stato spinto ad applicare un metodo a-nalogo nella propria classe, sollecitando gli alunni a non registrare quanto l’insegnante veniva dicendo in “appunti” anonimi, ma ad anno-

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tare contemporaneamente quanto venivano ascoltando ed i propri pen-sieri, le proprie emozioni, più o meno “disturbanti”. La restituzione

Un altro momento che ci pare di aver valorizzato è quello della re-stituzione. Già nelle esperienze classiche e nei “sacri testi”, la restitu-zione viene posta come elemento “ultimo ma non ultimo” dell’esperienza osservativa. Rimando, tra l’altro, a quanto scritto in Osservare e comprendere da Fausta Ciotti e Tiziana Vergine.

Per quanto riguarda il nostro gruppo, appare chiaro e condiviso il principio secondo cui non c’è osservazione senza restituzione. Quando l’osservazione è stata fatta nelle classi, la restituzione ha preso il signi-ficato prezioso di un dono che l’osservatore faceva ai bambini, resti-tuendo loro, secondo modalità narrative diverse a seconda dell’età de-gli interessati, la ricchezza della vita segreta, colta e custodita con una memoria volontaria e involontaria al tempo stesso. Ma anche quando l’osservazione è stata compiuta in altri ambiti (quello ospeda-liero per la 194, quello della mediazione culturale e così via), la resti-tuzione, puntualmente fatta, ha permesso l’attivarsi di un pensiero sul-la pratica quotidiana che gli “osservati” andavano compiendo, l’attenzione sui segnali di un possibile cambiamento. Avviene in qual-che modo un’ identificazione con l’osservatore e questo permette di riattivare il processo del pensiero; guardandosi in qualche modo “dal di fuori”, “l’osservato”, grazie alla restituzione, può tentare di liberarsi della routine o fare di essa un elemento non mortifero.

Vogliamo notare, tuttavia, che nella restituzione c’è qualcosa di in-timo, di privato, di interno alla relazione osservatore-osservato, il che rende non facile la comprensione dall’esterno di questo momento. Ciò nonostante, abbiamo scelto di riportare, come testimonianza, alcune delle restituzioni fatte. Occorre però precisare, onde evitare equivoci, che, per quanto riguarda le osservazioni fatte nella scuola, abbiamo avuto due generi di restituzioni ben diverse: quelle fatte ai bambini ed agli adolescenti, per lo più in forma di favola o di narrazione, e quelle fatte ai consigli di classe o ai collegi dei docenti. In questo secondo caso la restituzione è divenuta un mezzo per verificare se il progetto

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educativo elaborato dagli insegnanti ha trovato poi la sua corrispon-denza nella vita reale della classe. Questo, va sottolineato, non per da-re giudizi o valutare il lavoro degli insegnanti, ma al fine di mostrare la complessità dell’esperienza e tutti gli elementi positivi che nella pratica rimandano ad un progetto implicito altrettanto valido, anche se spesso non si ha il coraggio di dirselo.

L’osservatore, libero dalla responsabilità, può “rimandare” all’insegnante osservato attraverso quali movimenti della mente è pas-sato l’apprendimento, nonché la diversificazione delle proiezioni degli adolescenti su di lui, attraverso le quali passa il legame che permette di ap-prendere o di rifiutare le conoscenze.

La preparazione della restituzione del singolo è sempre un momen-to importante per tutto il gruppo, perché mostra la ricchezza del lavoro fatto, non più parcellizzato nei singoli protocolli e nelle diverse di-scussioni avvenute, ma finalmente unificato, di modo che si può am-mirare il panorama nella sua tridimensionalità, dal racconto al roman-zo.

Chi deve restituire prepara per proprio conto tutto il materiale. Rie-samina i protocolli e crea tante monografie. Si raccolgono tutte le co-noscenze su colui che è stato “osservato”, bambino, adolescente o a-dulto che sia, seguendo uno schema discusso nel gruppo: chi sono i protagonisti; le relazioni, quelle che si sono stabilite e quelle fallite; quelle tra pari e quelle asimmetriche; quelle tra osservato e osservato-re…; la dimensione del tempo: cronologico, sincronico, diacronico…; lo spazio fisico e quello mentale…; gli incidenti..; il progetto implici-to…. . L’osservazione muta

Credo che la pigrizia e la forza dell’abitudine rendano difficile in-ventare parole che siano adeguate, che nascano e siano suggerite dall’esperienza alla quale vogliamo riferirci. “Osservazione muta” è l’espressione che abbiamo scelto per indicare l’osservazione praticata per un anno senza che i protocolli siano discussi nel gruppo. È quello che abbiamo fatto quando abbiamo dato vita ad un gruppo formato da allievi psicodrammatisti e nel quale il ruolo dell’osservatore era però

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affidato ad un insegnante (ricordiamo quanto detto sui “gruppi misti” e sul “distinguere per unire”). La metodologia viene sbilanciata sul versante della gestione della presenza e sulla scrittura dei protocolli. L’osservatore prende la parola all’inizio, dichiara la sua presenza nel gruppo e la riprende alla fine dell’anno per restituire al gruppo ciò che ha osservato. L’esperienza è riservata a coloro che hanno più di dieci anni di esperienza di Osservazione Diretta, analisti collaudati oppure esperti ricercatori di “oggetti non ben identificati”, attratti dalla ricerca per la ricerca, a prescindere dai risultati.

L’osservatore assiste a tutti gli incontri, scrive per ciascuno di essi il protocollo, che non leggerà a nessuno, facendone luogo privilegiato per un interlocutore interno sconosciuto. Solo alla fine restituirà al gruppo il frutto della sua elaborazione. Lo stesso testo viene riletto all’inizio del nuovo anno, come memoria e ponte per il nuovo cammi-no.

L’oggetto dell’osservazione è il Laboratorio, bottega dello psico-dramma in cui gli allievi del terzo e del quarto anno della Scuola di specializzazione in psicoterapia della Coirag hanno l’obiettivo di farsi gli strumenti del mestiere di psicodrammatisti, che consiste nell’ascolto dell’inconscio di soggetti in gruppo, come diciamo in gergo. L’ascolto è in contemporanea di ogni singolo soggetto e del gruppo nel suo insieme, lasciando cadere le dinamiche di gruppo.

L’inserimento di un “estraneo” nel gruppo degli specializzandi, che ha come obiettivo l’apprendimento, la pratica, la teoria della clinica dello psicodramma analitico, è garanzia che non si sconfini, come sa-rebbe facile, in un gruppo di terapia.

Per l’osservatore, si tratta di dare forma a qualcosa che scorre sot-terraneamente, come un fiume carsico, senza cadere nella trappola di contenuti e contenitori. Che cosa gliene viene? È come andare in un deserto senza esserne desertificati. Non c’è parola né pensiero che si possano scambiare, sembrerebbe non esserci la parola che vitalizza, ma solo la scrittura solitaria. Come nella fine di un’analisi, in cui non c’è più la coppia analitica, ma la funzione di ascolto dell’altro diviene auto-ascolto.

Ormai abbiamo i testi di tante persone che sono usciti da questa e-sperienza di solitudine estrema. In tutti è stata evidenziata l’assunzione di responsabilità di ciò che si è visto e di ciò che si è in-

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contrato, carico di emozioni. Non c’è stato il gruppo a cui indirizzare e leggere i protocolli, non c’è stata quella comprensione raggiunta attra-verso il setaccio di altri psichismi. In quel luogo dello scambio di pen-sieri che dilata ed arricchisce il testo, dove i referenti sono quell’interlocutore parlante che è il gruppo e il conduttore, c’è un vuo-to. La parola si fa silenzio. Chi torna dal deserto senza essere impazzi-to è in grado di affrontare la verità nascosta negli oggetti, di incontrare la pazienza del non sapere, di non capire. Quell’astinenza dall’agire che è obbligatoria per chiunque voglia apprendere l’ascolto dell’inconscio diventa, nel caso dell’osservazione muta, l’esercizio di una costruzione simbolica.

Quale altro nome può prendere questa esperienza, che risulta essere molto formativa per chi va ad osservare un gruppo di apprendimento? Essa ci appare utile da un punto di vista scientifico e metodologico per il gruppo e per il conduttore, che riceve un puzzle intero, ricavato dal-la memoria dei tanti pezzi. L’Osservazione Diretta, per essere tale, è legata a tre momenti: la presenza nella situazione osservata, la scrittu-ra del protocollo e la discussione nel gruppo. Se viene meno un pas-saggio forse non è più “osservazione diretta”, ma può essere la “cu-stodia”, la conservazione delle tracce lasciate da chi insegna e da chi apprende.

Quest’ulteriore esercizio di solitudine e di astinenza è molto utile per la “formazione al vuoto” necessaria sia allo psicanalista che ai docenti. Come scrive Mariella Colosimo, “questa è la strada della cre-atività: attraversare il nulla e attendere fiduciosi qualche barlume”.

I luoghi dell’Osservazione. Conclusioni

Come sanno bene tutti coloro che hanno pratica di osservazione e come è scritto nel più volte citato Osservare e comprendere, luoghi privilegiati per l’Osservazione Diretta sono tutti quelli segnati da si-tuazioni al limite: “è di fronte ad una situazione impossibile che atti-viamo un’osservazione”4.

                                                            4 Osservare e comprendere, cit., pag. 16.

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L’individuazione dei “luoghi” in cui osservare procede da questo bisogno ed è sempre aperta.

Noi, come gruppo, e come risulta dalle esperienze riportate, abbia-mo osservato particolarmente nelle scuole, nei luoghi della formazio-ne, in quelli della mediazione.

Sull’Osservazione nella scuola molte sono le testimonianze conte-nute in questo libro. Mi chiedo allora: queste esperienze ormai plu-riennali in che senso possono essere considerate esempi di quella “e-ducazione impensabile” che è titolo del bel saggio di Paolo Perticari? Evidentemente siamo dinanzi ad un paradosso, che fraintenderebbe radicalmente chi lo interpretasse traducendolo in rassegnazione, in quietismo. Abbiamo sempre a che fare con la celebre “scommessa e-ducativa”. Pensiamo all’esperienza pluriennale del Croce, cui si riferi-sce uno dei saggi che compongono il volume. Ne è protagonista un’insegnante che crede profondamente al valore educativo della pro-pria professione. È lei che coinvolge un’amica, già insegnante e ora psicoanalista e psicodrammatista, ad elaborare, assieme ai colleghi del Cic, un progetto che prevede sia la presenza della psicologa nelle clas-si (soprattutto nelle prime, per renderle gruppi di apprendimento); sia la presenza come osservatori di un gruppo di insegnanti che osservano nelle classi (non le proprie) gli adolescenti a rischio e discutono poi i protocolli con i Consigli di classe, perché siano effettivi gruppi di la-voro. Il progetto prevede inoltre incontri tra genitori, insegnanti e ra-gazzi, portati avanti con lo psicodramma analitico. Non è questa la se-de per ricostruire l’esperienza nella sua complessità. È evidente, tutta-via, che quell’“impossibilità” di cui scriveva Freud ed a cui si riferisce Perticari si trasforma, in casi come questo, in opportunità. Si può cre-dere nella possibilità di educare, di formare soggetti in una fase della vita nella quale si è ancora malleabili, ma solo se attraversiamo quella “impossibilità” che è propria di ogni relazione di cura. L’Osservazione diretta ci aiuta a vedere e a comprendere gli intrighi della relazione educativa.

Vorrei infine, a proposito dei luoghi dell’Osservazione, almeno ri-cordare un “luogo” apparentemente meno affine alla nostra prepara-zione di osservatori, ma che si è rivelato particolarmente fecondo: quello dell’Istituzione sanitaria. Un settore per lo più a noi sconosciu-

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to, quello che accoglie il soggetto quando a fare una domanda di cura è il corpo che si ammala.

“Da quale menzogna di tutta una vita è scaturita la malattia? Come ha fatto a scaturire dagli oggetti di quella stanza, da quei mobili, da ciò che è successo nel corpo e nell’anima di quell’uomo, un determinato fatto fisico, che sia calcolo biliare, acidità gastrica o trombosi…?.” Così si interroga S. Marai nel romanzo La sorella, edito in Italia da

Adelphi.. Non intendiamo addentrarci nei complessi problemi della psicoso-

matica, e tuttavia ci domandiamo: perché la psicologia della “salute” richiede l’Osservazione? Quale ruolo l’Osservazione può svolgere nei luoghi della cura della “salute”?

Il progresso delle conoscenze biologiche e delle tecnologie sanita-rie mostra una complessità e un’efficacia sempre maggiori, ma esse ri-schiano di occuparsi della malattia, non del malato. Scopo dell’Osservazione è contribuire a costruire, lì dove ci sono le condi-zioni, in particolare attraverso la discussione dei protocolli con tutte le figure che si occupano del malato, un nuovo rapporto tra malattia e vi-ta, ponendo al centro dell’attenzione la realtà della persona del malato e la complessità della relazione tra operatori della salute e paziente. Un’utopia? Per quello che riguarda il nostro gruppo, la via si è dimo-strata ardua ma percorribile. Eppure (o forse proprio per questo moti-vo!) la nostra esperienza ha scelto il luogo forse più oscuro tra tutti quelli che riguardano la salute, lì dove non si parla neppure di malat-tia, perché non si arriva a vivere: i luoghi nei quali, in applicazione della Legge 194, si pratica l’interruzione volontaria della gravidanza.

Discutere i protocolli è stata un’esperienza ai limiti della pensabili-tà: attraverso quali vie misteriose il concepimento si fa disfacimento, il generare si fa negarsi alla maternità, fare dell’annidamento uno “snidamento”, come se a volte il desiderio femminile si facesse elogio della mancanza?

Situazioni al limite della comprensione, dicevamo. Ecco allora che l’Osservazione ha permesso al gruppo una pensabilità del corpo, pro-prio e altrui, nuova e che, riportata attraverso la restituzione sul luogo di lavoro di chi opera nell’interruzione di gravidanza, ha reso possibili

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nuovi scenari. La natura prevede l’aborto spontaneo, prevede che si possa desiderare di non approdare ad una forma e per questo prendere qualsiasi forma. Una cosa grazie all’Osservazione è stata comunque testimoniata, che ogni bambino non nato nasce nella psiche della ma-dre.

Gli operatori della 194 hanno potuto esprimere il loro disagio ma riavere indietro che non sono dei “macellai”, come certa opinione pubblica pensa, ma che rispondono ad un’etica che insegna che nella vita è annidata la possibilità della non vita, e non per loro responsabi-lità.

Il loro compito è davvero “impossibile”, come e più che il curare, l’educare, il governare, perché si deve operare, mettere le mani pro-prio nel luogo da cui ognuno di noi è transitato sperimentando che a-vrebbe potuto non esserci. È difficile per una società fondata sui valori del pieno, dell’avere, accettare che ci sia la possibilità di non esserci, il vuoto. Ma è una sapienza antica, che già nel Qohélet (III° a.C.) parla dell’aborto in questo modo: “è bruma che viene/ e buio che svanisce/ e il suo non-nome avvolge l’oscurità” (cap.6, v.4).

Nell’Osservazione non si danno giudizi, ma si creano immagini a-perte all’ignoto. Per questo essa è preziosa in tutte le situazioni estre-me nelle quali c’è un sapere che non aiuta, ma blocca il pensiero e per le quali va inventato un sapere nuovo, con le parole per dirlo.