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LE FOLLI DONNE DI GAETANO DONIZETTI a cura di LUCIANA DISTANTE 05 VOLUME

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LE FOLLI DONNE

DI GAETANO DONIZETTI

a cura di

LUCIANA DISTANTE

05 VOLUME

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1. Le folli donne di Gaetano Donizetti.

Il dramma che si nasconde dietro la follia ha sempre innegabilmente esercitato un’am-bivalente curiosità, a volte morbosità, nell’uomo. Quando la ragione improvvisamente viene risucchiata nel vortice del non senso e an-nebbiata dalle passioni umane, i freni della coscienza sono annullati, ed allora, perso il contatto con la realtà, è possibile commettere anche l’atto più scellerato. Per questo motivo il tema della follia ben si presta a diventare il fulcro delle rappresen-tazioni del Melodramma soprattutto nell’Ottocento. C’è poi un elemento che caratteriz-za queste composizioni sulle quali è molto evidente l’influsso del Romanticismo: le protagoniste del dramma della follia sono le donne. La figura femminile acquisisce nuovi connotati ed una prospettiva di introspezione interiore molto forte. Di solito, la donna non è rappresentata come una folle sin dell’inizio, ma il più delle volte ama “alla follia”. Potremmo parlare, in questo senso, di vera e propria “follia amorosa” che, il più delle volte, porta ad eventi drammatici. Le protagoniste “folli” dell’Opera sono numerose. Solo per citarne alcune: Lucia di “Lucia di Lammermoor” di Donizetti, Elvira de “I Puritani” di Bellini, Margherita del “Mefistofele” di Boito, Ophelia nell’”Hamlet” di Thomas. Ovviamente, nel Melodramma, gli uomini non sono esenti da questo turbamento men-tale, si pensi a Werther dell’omonima Opera di Massenet, o a Don Carlo nell’Opera di Verdi. La caratteristica che però differenzia i personaggi femminili da quelli maschili è, senza dubbio, la scarsa complessità psicologica di questi ultimi. Anche se un discor-so più complesso meriterebbero casi particolari come Orlando Furioso nell’Opera di Vivaldi e gli shakespeariani Macbeth e Amleto in Verdi, possiamo affermare che i per-sonaggi femminili godono di una prospettiva a tuttotondo e di uno spessore psicologico molto più complesso e coinvolgente. Ed infatti, alcune delle aree più celebri del reper-torio operistico sono cantate da queste donne impazzite. Manifestando tutto il loro do-lore con il canto, esse riescono a commuovere l’ascoltatore. Il coinvolgimento emotivo dello spettatore è raggiunto attraverso l’utilizzo di particola-ri tecniche narrative, prima tra tutte il topos che vede nelle candidate folli delle giovani vergini, bellissime e promesse spose, che sbocciano ed appassiscono nell’arco di un paio di atti. Una fanciulla in fiore, spesso in abiti bianchi e veli trapunti, o in camicia da prima notte nuziale regolarmente macchiata del sangue della vittima della sua follia che non ha avuto il tempo di consumare le nozze, si aggira sul palcoscenico tra gli a-stanti, padri, fratelli, tutori, invitati al matrimonio. Che pianga in una cella o, ancora, che sia stata abbandonata quasi sull’altare sembra in ogni caso ripetersi l’infallibile e geniale “effetto Ofelia” che, originariamente, non aveva nulla di romantico, data l’epo-ca della tragedia shakespeariana, ma che diventa un topos abilmente messo in musica in pieno e tardo romanticismo, facendo rientrare la follia nel celebre “Sturm und Drang” che permea tutta la cultura romantica. Dalle ugole di queste donne sgorgano parole e note di sublime fascino: mai la follia è

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disgiunta dal sentimento, né da un fondo di quell’antica saviezza che, riemergendo, provoca alti e bassi nella protagonista. Essa esprime in scena tutto il proprio dolore, distorcendo, spesso, la propria realtà, e mostrandola, in contrasto, cruda e coinvolgente allo spettatore. Spesso l’eroina crede di essere altrove ed ha dei semplici flash-back del proprio crudele passato; la desolazione nel vederla in quello stato tengono desta l’atten-zione dell’ascoltatore. 2. Gaetano Donizetti e la follia.

Molti compositori ed artisti si sono confrontati con il tema della follia1, ma in questo lavoro credo sia opportuno circoscrivere l’analisi del tema ad un determinato periodo storico, in questo caso l’Ottocento, e soprattutto ad un determinato autore: Gaetano Donizetti. Senza riportare l’intera biografia del compositore, ritengo molto utile ricordare alcuni passaggi fondamentali della sua esistenza che, senza dubbio lo hanno reso particolar-mente sensibile nei confronto di questo tema. La carriera del bergamasco Gaetano Donizetti (1797-1848) non fu certo facile. Allievo di Simone Mayr, poco più che ventenne, si affacciò sul panorama musicale della sua epoca e si dovette confrontare con Rossini e Bellini, trovandosi nella classica posizione di terzo incomodo. Lo aiutò un genio fertilissimo che lo supportò nel frenetico lavoro nel quale si gettò e che lo porterò a comporre oltre settanta opere comprese le revisioni. Il suo grande rivale era Bellini. Quando Donizetti, nel 1830, finalmente conquistava Milano con l'opera "Anna Bolena", il trionfo della "Sonnambula" e della "Norma" bel-liniane offuscarono quel successo un anno dopo. Ma il tenace Donizetti continuò im-perturbabile il suo lavoro: dal 1832 compose "L'elisir d'amore" che, con il "Don Pa-squale" (1843), sono i suoi capolavori comici, opere buffe venate però da un sottile velo di malinconia, in particolare nel "Don Pasquale". Seguono "Parisina" e "Torquato Tasso" del 1833. Nel 1834 vanno in scena "Lucrezia Borgia" e "Maria Stuarda", mentre l’anno successi-vo "Marin Faliero" e l'opera considerata il suo capolavoro, "Lucia di Lammermoor". Successivamente il "Belisario", opera suggestiva e ricca di belle pagine, trionfò a Ve-nezia nel 1836 e fu seguita da altri fortunati lavori: "Il Campanello" (1836), "Roberto

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1. Si pensi nelle arti pittoriche alle opere di Vincent Van Gogh, Francisco Goya, Richard Dadd, Edvar Munch, Francis Bacon, Salvador Dalì, per citare solo alcuni esempi. Nella Letteratura vi sono le note compo-sizioni di Seneca, Leopardi, Nietzsche, Pirandello ed il celeberrimo “Elogio della Follia” di Erasmo da Rot-terdam. Un campo a sé è poi rappresentato dagli studi di psichiatria e psicoanalisi che, con un approccio scientifico e metodico, hanno analizzato le cause, i sintomi, e le possibili cure della follia. È infatti interessante sottolineare una differenza imprescindibile tra l’approccio artistico e quello psicoanaliti-co. Il primo poco si interessa alla cura della follia, concentrandosi invece sul momento che induce alla follia ed alla rappresentazione della follia stessa. Il secondo, invece, trova il suo motore negli studi del giovane Freud ed è incentrato sull’analisi del percorso causa-effetto-cura della follia.

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Devereux" (1837). L'intensità della sua attività lo aiutò a superare i travagli della sua vita privata attraversata da vicende quanto mai tristi: la perdita in rapida successione dei genitori, dei figli2 e della moglie lasciò Donizetti in uno stato di profonda prostra-zione. Nel 1839 egli cercò la definitiva affermazione conquistando il pubblico parigino. Ottenne un notevole successo con "La fille du regiment" (1840) e "La favorite", rappre-sentata la sera del 2 dicembre 1840 all'Opéra con straordinario successo. Nel 1842 Do-nizetti aveva già composto la "Linda di Chamounix" con la quale conquista il pubblico di Vienna, dove aveva già ottenuto l'incarico di maestro di cappella dell'imperatore (incarico che fu anche di Mozart e di Haydn). L'ultimo periodo di attività di Donizetti lo vide diviso tra Vienna e Parigi, dove nel 1843 applausi entusiastici accolsero il suo "Don Pasquale". Il 5 giugno è nuovamente a Vienna dove porta in scena "Maria di Rohan". A novembre è a Parigi per il "Don Seba-stiano". A gennaio lo ritroviamo a Vienna. Nel frattempo, le condizioni fisiche del mu-sicista vanno aggravandosi. I sintomi della sifilide, che aveva colpito Donizetti attorno al 1845, lo conducono alla pazzia e non gli consentono di portare a termine la sua ulti-ma opera "Il Duca d'Alba", che verrà completata dal musicista Matteo Salvi. Il 19 set-tembre del 1847, dopo aver vinto le ultime resistenze delle autorità parigine, il povero Donizetti inizia il doloroso ritorno alla città natale dove si spegnerà l'8 aprile 1848. Dunque gli ultimi tre anni di vita conobbero solo il buio della follia e dell'incoscienza. In venticinque anni d'attività Donizetti scrisse più di settanta melodrammi, oltre che ad un cospicuo numero di canzoni, arie da camera e composizioni religiose. Una fervida vena creativa ed una sorprendente fecondità musicale furono la sua caratteristica più sorprendente, egli aveva una personalità eclettica e contemporaneamente una fantasia musicale ricchissima, la rapidità nel comporre non aveva in lui un carattere contingen-te, cioè legato a particolari richieste del teatro, essa era una sua necessità, un bisogno insopprimibile della sua natura di artista, e tutta la sua carriera fu caratterizzata da que-sta inventiva oltre che da una sorprendente capacità e duttilità di ingegno. Donizetti fu un artista sicuro, immediato, non mancò di vigoroso temperamento drammatico, unito anche ad un certo gusto letterario e poetico non mancante di quel pizzico d'ironia intel-ligente che contraddistingue molti suoi lavori teatrali. Come una mente così vivace, così viva e versatile, si annullò completamente sino a perdersi nella nebbia dell'oblio? Questo accadde al compositore, il male esplose nella sua tragica evidenza nell'estate del 1845, quando egli era ancora impegnato nei suoi numerosi viaggi fra Bergamo, Milano, Roma, Napoli, Vienna e Parigi, città dove le sue opere erano nei cartelloni dei teatri più importanti. Da un giorno all'altro la sua vita fu cancellata e nessuna musica risvegliò mai più quel "sonno" in cui la sua mente si ritro-vò. Fu subito ricoverato in una casa di cura nella città francese di Ivry, dove rimase per

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2. Il 29 Luglio del 1829 la moglie Virginia Vasselli partorì prematuramente il primogenito Filippo Francesco Achille Cristino, che sopravvisse a stento soli tredici giorni.

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oltre un anno. La diagnosi fu: paralisi mentale. Ma la tristezza desolante di quel luogo, la solitudine e le grida dei pazzi che erano lì non fecero che aggravare le sue condizio-ni, ed egli andava spegnendosi sempre più, quando l'interessamento affettuoso di amici e personalità influenti valse ad ottenere che, dopo un anno intero di internamento, egli lasciasse finalmente quel manicomio e fosse trasportato a Parigi, in un appartamento al n.6 della Avenue Chateaubriand. Senz'altro questo trasferimento ridiede dignità al mu-sicista e speranza in un qualche miglioramento, fino a che, con l'intervento del fratello Francesco e del nipote Andrea, egli tornò a Bergamo, la sua città natale. Qui, in un austero palazzo della città alta, Donizetti trovò ospitalità affettuosa presso la contessa Rosa Basoni-Scotti, sua grande ammiratrice, la quale si prodigò moltissimo per lui, tanto che spesso, nella speranza di risvegliare la mente ottenebrata del malato, ella gli cantava alcuni brani delle sue opere. Al primo di questi tentativi, atti a destare in lui qualche momentaneo barlume di coscienza, Donizetti alzò una mano, come nell'atto di rammentare… l'accenno di un ricordo si muoveva, forse, tra le nebbie della mente, qualcosa che saliva da lontano, avvicinandosi ai suoni per formulare un pensiero. Un attimo appena, e la sua mano ricadeva subito, ritornando immobile, dopo lo sforzo. Egli sentiva, la sua musica gli parlava, ma la sua anima era imprigionata nella paralisi. Per un singolare destino Donizetti aveva descritto la demenza e la follia in varie opere, iniziando dalla protagonista di Emilia di Liverpool (1824) e continuando con i deliri di Murena nell’Esule di Roma (1828) e di Torquato Tasso nell’opera omonima, per giun-gere a quelli di Linda di Chamounix (1842). Da segnalare sono poi due Opere dell’autore. La prima è “Una follia” conosciuta an-che con il titolo Il ritratto parlante o La folia di carnovale, una farsa in un atto su li-bretto di Bartolomeo Merelli, composta in meno di un mese alla fine del 1818 e rappre-sentata per la prima volta al Teatro San Luca di Venezia il 17 dicembre 1818. Sia il libretto sia la partitura sono però andati perduti dopo il 1818: rimangono solamente otto battute della musica, che Donizetti incorporò nel florilegio di motivi tratti dalle sue opere dedicato alla sua promessa sposa, Virginia Vasselli. Si tratta della prima prova del compositore con il genere comico. La seconda invece si intitola “I pazzi per progetto”, farsa in un atto su libretto di Do-menico Gilardoni, dalla commedia omonima di Giovanni Carlo Cosenza, andata in scena per la prima volta presso il Teatro San Carlo di Napoli il 6 febbraio 1830 riscuo-tendo il plauso e l’entusiasmo del pubblico. È l’unica opera di Donizetti dedicata al tema della pazzia in chiave esclusivamente comica, e si riallaccia a una tradizione di spettacoli assai popolari nella seconda metà del Settecento inaugurata da L’arcifanfano, re dei matti di Goldoni (1760). Il manicomio era l’allegoria della pazzia di ogni giorno, in accordo con l’idea di Shakespeare che tutto il mondo è un manicomio. Anche se lo spettacolo è ambientato in un ospedale psichiatrico, non compaiono perso-naggi realmente pazzi: i due coniugi protagonisti, Norina e il colonnello Blinval, divisi da tre anni per gli impegni militari del marito, si fingono matti per raggirarsi a vicenda.

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Norina sospetta l’infedeltà di Blinval e viene consigliata dallo zio Darlemont, direttore del manicomio, di fingersi pazza, per vedere se il marito la ama ancora o no. Blinval dapprima cade nell’inganno, ma poi se ne accorge e ricambia la moglie, fingendosi a sua volta pazzo. I due si confrontano in un duetto, in cui cercano di ingannarsi recipro-camente, tra provocazioni e gelosie. Alla fine, secondo la miglior tradizione comica, i due protagonisti abbandonano ogni finzione e si riconciliano. L’anno successivo, a Roma, l’opera fu accolta con i fischi: la nuova sensibilità romantica verso le tematiche legate alla follia, inaugurata con la Nina pazza per amore (Caserta 1789) di Paisiello e le comédies larmoyantes fecero apparire superata la farsa donizettiana3. Fatta eccezione per questi lavoro che hanno un approccio certamente più leggero ri-spetto alla riflessione sulla follia successiva, sono due le Opere che segnano il passo successivo ed irreversibile nella rappresentazione della follia femminile: “Lucia di Lammermoor” e “Linda di Chamounix”. Nella storia del teatro, come visto, i pazzi erano quelli comici, che continuavano ad essere presenti sulle scene operistiche, so-prattutto in forma maschile e buffonesca. Lucia e Linda sono alcune tra le prime eroi-ne ottocentesche alle quali è riservata una follia seria4, un’ irragionevolezza del tutto particolare: quella della follia amorosa. La convenzione, come accennato, spesso pre-vede per queste donne lo sprofondamento negli abissi dell’incoscienza dopo la nega-zione delle “giuste nozze”, in un crescente gorgo di sentimenti e visioni che ha però qualcosa di soprannaturale e inquietante, in piena armonia con il filone romantico. La rappresentazione di questa tipologia di pazzia è dunque una delle tematiche più interessanti per i musicisti e i librettisti dell’800 europeo; per questo le due Opere meritano un approfondimento. 3. Lucia di Lammermoor.

Lucia di Lammermoor è un'opera in tre atti su libretto di Salvatore Cammarano5, tratto da The Bride of Lammermoor (La sposa di Lammermoor) di Walter Scott. La prima

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3. A Napoli, invece, l’opera restò in cartellone fino al 1845, tanto che Il ritorno di Pulcinella dagli studi di Padova di Vincenzo Fioravanti (Napoli 1837), tra le ultime opere ambientate in un manicomio, arrivava a proporre un concertato finale di pazzi che cantano dei sillabati senza senso sull’ouverture della Semiramide di Rossini. 4. Splendidi esempi di questo cambiamento sono la “Sonnambula” di Bellini, Lady Macbeth nel “Macbeth” verdiano ed “Anna Bolena” dello stesso Donizzetti. 5. Il libretto di Salvatore Cammarano fu tratto da The Bride of Lammermoor, romanzo di Walter Scott. Ad esso si ispirarono ben quattro compositori che prima di Donizetti musicarono le vicende di Lucia ed Edgardo: Michele Carafa (Le nozze di Lammermoor, Parigi 1829), Luigi Riesk (1831), Ivar Frederik Bredal (La sposa di Lammermoor, Copenhagen 1832) e Alberto Mazzuccato (La fidanzata di Lammermoor, Padova 1834). Donizetti, come di consueto, fu rapidissimo: iniziò la composizione alla fine del maggio 1835, la terminò il 6 luglio. Scott, riferendosi alle lotte fra i seguaci di Guglielmo III d’Orange e i fedeli del detronizzato Giacomo II, aveva collocato il suo romanzo nella Scozia del 1689, mentre Cammarano retrodatò Lucia alla fine del Cinquecento.

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assoluta ebbe luogo presso il teatro San Carlo di Napoli il 26 settembre 1835. In se-guito lo stesso Donizetti curò una versione francese che andò in scena al Théâtre de la Renaissance di Parigi il 6 agosto 1839. È certamente la più famosa tra le opere serie di Donizetti. Oltre al duetto nel finale della prima parte, al vibrante sestetto Chi mi frena in tal momento? e alla celebre scena della pazzia di Lucia, la struggente cabaletta fina-le Tu che a Dio spiegasti l'ali è considerata una dei più bei pezzi d'opera tenorili. L'azione si svolge in Scozia, alla fine del XVI secolo, nel castello di Ravenswood. L’antefatto è il seguente: la nobile famiglia Asthon, alla quale appartengono i fratelli Enrico e Lucia, ha usurpato i beni e il castello della famiglia Ravenswood, il cui unico erede è Edgardo. Lucia e Edgardo si amano segretamente malgrado l’odio atavico che separa le loro famiglie. Ma Edgardo deve assentarsi, chiamato altrove dalle vicende della lotta nella quale è impegnato. Prima di partire rammenta a Lucia che Enrico Ashton gli ha ucciso il padre. Perdonerà, tuttavia, se potrà sposarla. Nel parco del castello Lucia attende Edgardo e racconta ad Alisa, sua dama di compagnia, l'antica lugubre storia di un Ra-venswood che in quello stesso luogo uccise per gelosia la propria amata e il cui fanta-sma, da quel giorno, si aggira inquieto presso la fontana (Regnava nel silenzio). Alisa interpreta il racconto come un cattivo presagio e mette in guardia Lucia dal rischio di subire la stessa sorte. Lucia e Edgardo si scambiano gli anelli nuziali e si congedano giurandosi amore e fedeltà eterni (Verranno a te sull'aure). Nel secondo atto Enrico, prossimo alla rovina perché la sua fazione è perdente, ingan-na Lucia facendole credere che Edgardo s’è legato a un’altra donna e la costringe a sposare il potente Lord Arturo Bucklaw. Durante la cerimonia di nozze, Edgardo ir-rompe nel castello degli Ashton, rimprovera a Lucia l’infedeltà di cui s’è macchiata e maledice lei e la sua stirpe. La seconda parte del secondo atto vede Edgardo trascorre-re la notte nello spoglio salone della torre nella quale risiede. Sopraggiunge Enrico, venuto a sfidare colui che ha osato turbare la cerimonia di nozze. Edgardo accetta la sfida, che avverrà all’alba. Intanto (terza scena del secondo atto) nel castello di Enrico gli invitati festeggiano ancora le nozze di Lucia con Arturo, ma sopraggiunge Rai-mondo, sconvolto, e narra che Lucia ha ucciso il novello marito traffigendolo con una spada. Il turbamento degli astanti è accentuato dalla comparsa di Lucia che con la veste bianca macchiata di sangue, ormai folle, immagina prima che si stiano celebran-do le sue nozze con Edgardo e poi, con una sorta di ritorno alla realtà, di rivelare all’a-mato di essere stata costretta a sposare Arturo. A questo punto cade svenuta. Nell’ulti-ma scena, che si svolge all’esterno della torre di Edgardo, questi, affranto per essere stato tradito da Lucia, immagina di rivolgersi a lei e di annunciarle che tra poco egli morrà. Medita evidentemente – anche se il libretto non lo precisa – di lasciarsi uccide-re da Enrico. Sopraggiungono Raimondo e gli invitati alle nozze: Edgardo apprende ciò che è accaduto e che Lucia è agonizzante. Vorrebbe rivederla, ma quando i rintoc-chi d’una campana annunciano che Lucia è morta, si trafigge con un pugnale.

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Nel dramma, Lucia ed Edgardo sono destinati quindi a consumare in solitudine, a parte l’unico duetto che li vede insieme nel primo atto, l’esito tragico di quest’amore in due grandi arie solistiche finali che si succedono nel terzo atto conducendo entram-bi all’annientamento di sé. Oltre al ritmo incalzante e all’immediatezza drammatica, tratti romantici sono il senso dell’oltre, l’ombra dell’ava uccisa per gelosia che appare quale presagio funesto a Lucia nella fontana del parco nel primo atto (Regnavanel silenzio), paesaggi sepolcrali e lunari, un medioevo torvo dominato da faide, una natu-ra partecipe dello sconvolgimento dell’animo dei personaggi, il delirio mentale della protagonista quale fuga dal mondo di violenza psicologica cui deve sottostare, in pri-mis la prevaricazione del fratello Enrico che la costringe ad un matrimonio forzato portandola alla pazzia e all’uccisione dello sposo indesiderato. Su tutto domina la figura diafana di Lucia con la sua pura cantabilità che ha il suo vertice nella scena della follia, la più celebre di tutta la storia del melodramma, preannunciata dal suono del flauto lontano e abilmente costruita da Donizetti privilegiando una discontinuità formale e una vocalità straordinaria in cui la difficile tecnica di coloratura (quanto di più irrealistico) volge alla rappresentazione realistica dell’uscita di senno del perso-naggio avvolto dalle sue visioni di follia. Il personaggio di Lucia è uno dei più compiuti dell'opera romantica. Il suo canto pu-rissimo e l'espressione di questa fragile creatura che, già dal suo apparire, è conscia del suo triste destino, della sua follia: solo attraverso il delirio potrà vivere quello che la vita reale non le ha concesso. La Scena della pazzia è probabilmente la più celebre scena di pazzia della storia del-l'opera, nota soprattutto nella versione modificata dai soprani dell'epoca, con l'aggiun-ta di una lunga cadenza col flauto. Nell’Opera non è solo la trama ad essere “romantica”, molto importante è infatti l’uti-lizzo di un linguaggio con un registro più realistico in grado di mettere in evidenza la potenza dei sentimenti. Molti critici definiscono Lucia di Lammermoor la risposta di Donizzetti al Pirata di Bellini, espressione dell’allora nascente melodramma romantico italiano. Il romantici-smo esigeva un linguaggio meno stilizzato, meno fiorito e tale da raffigurare con mag-giore immediatezza le situazioni sceniche. Bellini e Donizetti presero ad accostarsi a un linguaggio per l’epoca realistico, sopprimendo o riducendo le fioriture e l’orna-mentazione nel canto delle voci maschili e, a volte, anche in quello delle voci femmi-nili. Fu il primo passo verso la verosimiglianza del linguaggio vocale – ‘verosimiglianza’ che poco ha a che vedere con quello che sarà più tardi il verismo. Il secondo passo fu l’utilizzo di melodie che partivano dall’accentazione delle parole per svilupparsi in un motivo semplice, tenero, malinconico. Così nacquero le arie, definite ‘nenie’ o ‘cantilene’, che furono la sigla e di Bellini e di Donizetti. Tuttavia in certe ‘cantilene’ di Parsina, di Maria Stuarda o di Anna Bolena, l’abbandono e la malinco-nia nascono dall’antico espediente di far muovere la voce per gradi contigui, senza

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bruschi salti, o al massimo per piccoli intervalli. Ma proprio per questo Donizetti sfio-ra la grande melodia senza realizzarla: mancano lo struggimento e l’incisività, che egli raggiunge invece in Lucia. In una melodia come “Verranno a te sull’aure” (il duetto di Lucia ed Edgardo) l’accentuazione della parola è messa in rilievo dall’introduzione di ampi intervalli. Il languore della voce, che sale o scende per gradi contigui, trova nel salto d’ottava iniziale di «Verranno» un impulso che imprime sul periodo musicale ampiezza e incisività. Lo stesso nell’avvio di “Tu che a Dio spiegasti l’ali” (l’aria fi-nale di Edgardo) e, in precedenza, in “Spargi d’amaro pianto” (la scena della follia di Lucia nel terzo atto). Anche gli spunti veementi e iracondi nascono dall’immediata trasfigurazione melodica della accentazione delle parole. Come nel Larghetto “Cruda, funesta smania” di Enrico (I,2) e, subito dopo, nella veemenza dell’Allegro moderato “La pietade in suo favore”, che funge da cabaletta. Altrettanto aderente all’accentazio-ne ‘parlata’ è il Larghetto di Edgardo “Sulla tomba che rinserra”, che non per questo perde una felice flessuosità melodica (scena e duetto del finale primo). Per la protagonista, Lucia, il discorso sul linguaggio vocale è diverso. Donizetti, come Bellini in tutte le sue opere, applica soltanto saltuariamente al canto del soprano il procedimento di renderlo realistico eliminando vocalizzi e fiorettature; e questo pro-prio mentre il realismo drammatico guadagna spazio. Ma esiste una ragione storico-psicologica. Già agli albori del melodramma il canto fiorito e vocalizzato distingueva i personaggi mitologici o regali dai comuni mortali. Nel melodramma romantico il canto fiorito risponde al concetto della donna virtuosa, inaccessibile, portata a nascon-dere le proprie forme dalla foggia della crinolina, che il moralismo del periodo 1830-60 contrappone al ricordo d’un passato, ancor prossimo, ritenuto licenzioso. Si tratta, insomma, d’un linguaggio allegorico che afferma l’avversione della donna alle basse passioni. Lucia prova certamente slanci d’amore fervidi, appassionati, ma Donizetti le inibisce il canto sillabico e ‘spianato’ perché non allegorico, non idealizzato. Quando Lucia entra in scena e narra l’apparizione d’un fantasma (“Regnava nel silenzio”, I,4) la vocalità è prevalentemente ‘spianata’, ma quando è descritto l’amore per Edgardo (“Quando rapita in estasi”) diviene gradualmente virtuosistica. Ma il canto ornato e fiorito di Lucia ha anche il compito di esprimere orrore e terrore, come nella seconda parte della cavatina “Regnava nel silenzio” e come nella celebre “scena della pazzia” (III,5). Qui il recitativo arioso (quasi melodico, cioè) si alterna inizialmente ai melismi, per poi cedere, nel Larghetto “Ardon gli incensi” e nel Mode-rato “Spargi d’amaro pianto”, a una scrittura che evoca tutte le componenti del vocali-smo d’agilità: gorgheggi in alta tessitura, volate e volatine, trilli, note ribattute, pic-chettati. Notevoli in Lucia i recitativi che, per la loro varietà e complessità, rendono più serrato il ritmo della narrazione. Il momento magico vissuto da Donizetti durante la composizione investe tutte le strut-ture dell’opera. La strumentazione è abilmente correlata al mutare degli eventi scenici,

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anche attraverso interventi solistici. Nell’atmosfera notturna del parco, nel quale Lu-cia compare per la prima volta, è l’arpa ad annunciarla, con suoni liliali e sognanti; quando è convocata da Enrico, piagata dalla lunga assenza di Edgardo, è il lamento dell’oboe che la introduce; mentre nella scena della pazzia l’accompagna il suono

‘bianco’ e scarno del flauto6.

4. Linda di Chamounix.

Altra Opera degna di attenzione per la modalità e la sensibilità con cui viene affronta-to il tema della follia è, come abbiamo detto, “Linda di Chamounix”. Si tratta di un melodramma semiserio in tre atti con libretto di Gaetano Rossi, dal dramma “La Gra-ce de Dieu” di Adolphe-Philippe d’Ennery e Gustave Lemoine. Venne rappresentato per la prima volta a Vienna presso il Teatro di Porta Carinzia il 19 maggio 1842. Nel settembre 1840 Donizetti ricevette l’incarico di scrivere due opere, rispettivamen-te per la Scala e per il Teatro di Porta Carinzia, i due teatri dei quali Bartolomeo Me-relli era impresario. Già occupato con Maria Padilla per la Scala, Donizetti iniziò la composizione solo il 31 dicembre 1841 e lo terminò il 4 marzo 1842. All’ultimo mo-mento aggiunse all’opera un’ouverture, che ricavò dal primo movimento del Quartet-to per archi n.19 composto nel 1836. La prima rappresentazione, ritardata dall’indi-sposizione del tenore Napoleone Moriani (Carlo), registrò un clamoroso successo, tanto che l’opera ebbe diciassette rappresentazioni. Dopo la ‘prima’ italiana (Torino, Teatro Carignano, 24 agosto 1842), l’opera, ripresa a Parigi (Théâtre Italien, 17 no-vembre 1842) si arricchì di un nuovo e fortunato brano, la tyrolienne "O luce di que-st’anima". Composta da Donizetti su versi propri (nell’edizione viennese Linda entra-va in scena intonando un semplice recitativo), quest’aria divenne in breve la più famo-sa dell’opera. Questa, brevemente, la trama. Nel primo atto Antonio e Maddalena sono molto preoc-cupati per la felicità e per la virtù della figlia Linda, soprattutto da quando il prefetto li ha informati dei segreti disegni del marchese che, fingendo di proteggerla, intende in

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6. Il 21 marzo 2006, al Teatro alla Scala di Milano, sotto la direzione di Roberto Abbado, l'opera Lucia di Lammermoor è stata messa in scena nella sua edizione originale: Donizetti aveva infatti pensato, per la "scena della pazzia", all'uso della glassarmonica (o armonica a bicchieri), integrata con l'orchestra sinfonica. La glassarmonica è un particolarissimo strumento del XVIII secolo, mai veramente entrato nell'uso, costituito da una serie di bicchieri di cristallo posti su di un piano, riempiti ognuno con una quantità diversa di acqua, in modo che, sfioratone l'orlo o colpiti con l'unghia, emettano ciascuno una frequenza di suono diversa. Per suonare la glassarmonica è necessario, dunque, un orecchio assoluto, in grado di cogliere la minima variazio-ne nel suono causata da una quantità maggiore o minore di liquido. Circostanze pratiche costrinsero però Donizetti a rinunciare a questa originale soluzione e a riscrivere la partitura. L'edizione critica dell'opera ha reintegrato la parte per glassarmonica, che ben esprime, secondo quanto detto dal critico Paolo Isotta nel suo articolo sul Corriere della Sera del 22 marzo 2006, "l'atmosfera spettrale e nel contempo il totale distacco dalla realtà in che Lucia è precipitata."

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realtà approfittare della fanciulla. Linda è però segretamente innamorata di Carlo, che è in realtà il visconte di Sirval, nipote del marchese. Su consiglio del prefetto, Linda si unisce a Pierotto e ad altri musici savoiardi e si reca a Parigi. Il secondo atto vede una Linda molto cambiata che vive da qualche tempo in un appartamento che Carlo le ha messo a disposizione. Il marchese, riconosciutala, rinnova le sue profferte, ma la fan-ciulla lo respinge. Anche Antonio si trova nella capitale, sulle tracce della figlia, ma inizialmente non la riconosce nelle vesti della ricca signora. Quando però la giovane gli si rivela, il padre, convinto che abbia perduto il suo onore, la respinge e la maledi-ce. Sopraggiunge Pierotto, che annuncia il matrimonio di Carlo con una giovane di nobili origini; il padre, affranto, riparte, mentre Linda perde la ragione ed è riportata a Chamounix dall’amico. Nel terzo atto, Carlo apprende dal prefetto la sorte di Linda e gli confida di avere rifiutato le nozze impostegli dalla madre per amore di lei. Quando la rivede, Carlo le si fa incontro e, riaffermando la sincerità dei propri sentimenti, le restituisce la ragione. Opera di mezzo carattere, Linda di Chamounix è la prima delle due scritte da Donizet-ti per il Teatro di Porta Carinzia (la seconda fu Maria di Rohan ). Tra le opere semise-rie di Donizetti è forse la più riuscita, perché la parte del buffo (il marchese) è la più importante dopo quella dei protagonisti e appare meglio inserita nella vicenda. Inoltre Donizetti vi impiega, e con una libertà che non trova riscontro nel passato, formule melodrammatiche non convenzionali accanto a numeri musicali di struttura più tradi-zionale. Notevole è poi il ricorso, per caratterizzare ogni personaggio dell’opera, a particolari effetti strumentali oppure a temi ricorrenti come quello di Pierotto, o a quello dell’amore di Linda e Carlo, tratto dal celebre duetto "A consolarmi affretta-ti" (I,4). Quest’ultimo, senz’altro il brano più celebre dell’opera, prevede la classica tripla esposizione del tema principale che appunto, come una sorta di Leitmotiv (e in modo analogo, ma più sviluppato, rispetto a Lucia di Lammermoor ), ritornerà nei momenti più efficaci della vicenda: nella scena della follia di Linda ("No, non è ver mentirono"), in quella del suo ritorno a Chamounix e, infine, allorché Carlo le restitui-sce la ragione. Si approfondisce inoltre in quest’opera il progressivo superamento, iniziato con Lucrezia Borgia, della successione irrelata di episodi solistici, dalla scrit-tura per lo più virtuosistica, in favore del duetto, giocato sul rapporto tra i due perso-naggi e sul loro confronto. La vicenda di Linda, come quella già analizzata di Lucia, è esemplare: emblema di purezza (già nel nome è racchiusa questa sua caratteristica), la protagonista è messa a dura prova dallo scorrere degli eventi e dalla brutalità del mondo. E’ costretta a scappa-re a Parigi per fuggire alle mire di un vecchio marchese, a mendicare e poi a vivere da reclusa nell’equivoco di sembrare una “mantenuta” presso la casa del nobile fidanzato Carlo, dalla quale verrà poi lasciata e tradita. Con il susseguirsi delle scene Linda deve affrontare il trauma dell’apparente matrimonio di Carlo e del ripudio del padre. Una serie di accadimenti che la portano all’effettiva perdita della ragione e che affondano le

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radici in un’infanzia vissuta nell’ambito di un soffocante rapporto familiare con il pa-dre. È una costante che si ripropone quella della prepotenza pscicologica ed affettiva dei parenti maschi. Nel caso di Lucia, la fanciulla è obbligata ad un matrimonio non voluto dal fratello; nel caso di Linda la figura critica è rappresentata dal padre. Proprio il rapporto padre-figlia è un’interessante chiave di lettura per indagare questo dramma. La follia giunge a devastare la mente di Linda non nel momento dello sposa-lizio (come in Lucia), seppur non tradotto in realtà del fidanzato Carlo, ma nel mo-mento della maledizione paterna. Il giudizio e la volontà degli uomini, in entrambi i casi, spinge la psiche delle protagoniste verso il tunnel della follia. Follia che uccide e devasta, in Lucia, follia che guarisce in Linda. L’elemento che colpisce in Linda è l’utilizzo della musica. Lungo i tre atti si ha la sen-sazione che la musica sia “in scena”, prima di essere “di” scena. Le canzoni ripetute più volte, l’uso psicosomatico della musica e il canto distorto sono indice di un’aliena-zione che Donizetti estende a dimensioni e raffinatezze inedite nel melodramma italia-no. 5. Donne e follia: l’evoluzione di un ideale.

Giunti a questo punto, ritengo necessario concentrare l’attenzione sul presunto binomio donna-follia e sulla modalità di rappresentazione della follia nelle Opere di Donizetti che abbiamo precedentemente illustrato. Nel fare ciò, incentrerò questa analisi essenzialmente sulla figura di Lucia. Questa scel-ta non vuole minimizzare l’importanza dell’opera “Linda di Chamounix”. Semplice-mente reputo il personaggio di Lucia più complesso, completo ed affascinante. Secondo Alberto Savinio: “La pazzia di Lucia, questa pazzia garantita è il soffio più sottile, più leggero, più aereo che si possa dare, e il più gelido, pure. Un idillio a fili d'argento tra Lucia e un personaggio misterioso che lei sola vede, lei sola ascolta. Un gioco bianco in un bianco paradiso. E i gorgheggi, i ghirigori, i «chioccolii» di Lucia le escono di bocca a collana, a pallini sonori, esplodono in aria come minuscoli fiori, inseguiti dalle note rotondette e «soffiate» di un flauto solitario.”7 Una suggestione quasi surreale, quella che Savinio descrive minuziosamente; una sgra-nata cadenza che conclude il cantabile «Ardon gli incensi» nella citata scena della fol-lia di Lucia e che, come abbiamo visto, prevede stranianti virtuosismi eseguiti dal so-prano e dal flauto. Questa pagina ricca di ardite fioriture non corrisponde, però, all'idea originaria proposta da Donizetti. La cadenza col flauto comparve solo in seguito, otte-nendo subito un grande riscontro. Soprattutto nel XX secolo celebri soprani, dalla Te-

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7. Alberto Savinio, Scatola sonora, Milano, Ricordi, 1955, p. 91.

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trazzini alla Callas8, assegnarono un ruolo preponderante a questa cadenza apocrifa, contribuendo alla sua cristallizzazione nell'immaginario collettivo. Nella prima metà dell'Ottocento e oltre, Lucia riscosse in tutta Europa un ampio suc-cesso di pubblico, testimoniato da numerosi periodici che hanno tramandato accurate recensioni delle rappresentazioni. Gli articoli si soffermavano principalmente su alcuni aspetti della partitura, del libretto e della resa vocale dei cantanti, evidenziando i nume-ri musicali che avevano destato maggior interesse tra il pubblico e segnatamente il duetto d'amore «Verranno a te sull'aure», il Finale primo e l'aria conclusiva d'Edgardo «Tu che a Dio spiegasti l'ali». “I pezzi che meritano maggiore rimarco sono, a nostro credere, il duetto che termina la prima parte dell'atto primo, il largo del grandioso finale dello stesso primo atto, e la gran scena ed aria finale del tenore9”. E ancora: “Donizetti, ad ogni modo, ha con la Lucia di Lammermoor offerto all'Italia un capola-voro! Udite il soave duetto fra Lucia e il sire di Ravenswood, udite la grandiosa ma-gniloquenza del finale, brano non a torto proclamato magistrale, nel cui largo signo-reggia un motivo di gusto svolto e condotto con profondo magistero10”. Questi numeri musicali infiammarono gli spettatori e la critica, relegando in secondo piano, per assurdo che possa sembrare a noi oggi, la scena della follia di Lucia. Tale scena era considerata noiosa, poco orecchiabile e molto difficile da eseguire, non solo per l'eccessiva lunghezza, anche perché richiedeva alla cantante una notevole abilità mimetica, la capacità d'uniformare la voce e la recitazione alle continue variazioni e-

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8. La prima metà del XX secolo vide trionfare nel ruolo di Lucia i sopranini “pirotecnici”, come li chiamava Toscanini. Luisa Tetrazzini (1871-1940) e Toti Dal Monte (1893-1975) sono solo due esempi di soprani leggeri che elessero Lucia e la ca-denza col flauto a loro cavallo di battaglia. In seguito, a partire dal 1952, Maria Callas contriburà in modo determinante ad un ripensamento della vocalità di Lucia, riportando-la alla voce originaria del soprano drammatico d'agilità (vedi nota 40). Questa scelta filologicamente corretta non impedì al celebre soprano di valersi ugualmente della ca-denza apocrifa che aveva già fatto la fortuna della Tetrazzini e della Dal Monte, coniu-gando così due realtà fino ad allora scisse: quella del soprano drammatico d'agilità e quella del soprano leggero. 9. «Il Figaro», V/45, mercoledì 7 giugno 1837, p. 180. 10. «Il Figaro», VII/27, mercoledì 3 aprile 1839, p. 108.

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motive della folle. Come già precisato, un simile disinteresse era in parte provocato da una difficoltà og-gettiva nel seguire con facilità e poco sforzo il delirio di Lucia. L'altra spiegazione che non può passare inosservata e che va, almeno, accennata, riguarda più propriamente le attese del pubblico nei confronti della messinscena della follia. Lucia era nata in un ricco contesto di folles par amour che potevano fregiarsi di un «candido ammanto11». Ciò che accomunava queste folli romantiche era un'aura di virginale purezza che le elevava al di sopra di tutto, quasi fossero idola da venerare per la loro incontestabile virtù. Anche nel delicato momento del delirio continuavano ad incarnare il sogno ma-schile della fanciulla docile e remissiva, incapace di contaminare, con un linguaggio impudico o con azioni violente, la sua immagine angelicata. Tale immagine idealizzata non può, però, appartenere del tutto a Lucia che si macchia di una terribile colpa: l'uc-cisione del suo novello sposo. Se lo spettatore fino a quel momento aveva seguito con commozione le sfortunate vicissitudini della protagonista, ora, venuto a sapere da Rai-mondo che la donna è un'omicida, modifica il suo comportamento nei confronti della folle, attuando un tentativo di distanziazione (e rimozione). Lucia, ai suoi occhi, ha ormai perso il candore virginale e l'innocenza che contraddistinguono le altre folli ro-mantiche; è una donna pericolosa che, in un certo senso, ha tradito con una simile azio-ne le attese del pubblico. Soffocare nell'oblio l'ultima epifania della protagonista è an-che il tentativo di “proteggersi” da una follia uscita ormai dai canoni abituali. Fuori dall’ordinario e inattesa fu, del resto, anche la scelta donizettiana di accompagna-re la follia con la nota cadenza di flauto. Lucia di Lammermoor, come abbiamo visto, si adegua alle diverse tendenze e contesti linguistici che avevano in parte mutato le attese nei confronti della tematica della follia. Follia che fu nuovamente al centro del dibattito scientifico proprio a partire dalla se-conda metà dell'Ottocento, grazie all'opera di Jean-Martin Charcot (1825-1893). Lo studioso francese delineò i suoi interessi in campo neurologico, occupandosi anche di fenomeni ipnotici e tenendo dal 1870 delle lezioni sull'isteria, proprio alla Salpêtrière. Queste sedute riscossero molto successo, divenendo quasi un ritrovo alla moda, oltre che un momento di studio. Charcot, pur rimanendo un convinto sostenitore che il fatto-re ereditario e quello ambientale fossero i veri responsabili di tale patologia, spettacola-rizzava il fenomeno, effettuando autopsie davanti ad una vasta platea ed esibendo pa-zienti affette da isteria, per dimostrare come, tra le cause più prossime della malattia, ci fosse l'iperestesia ovarica. In queste lezioni si poteva assistere allo scatenamento di un attacco isterico solo mediante una leggera pressione delle ovaie, o ad un improvviso arresto di tale attacco tramite una pressione più forte nello stesso punto. Charcot, insie-

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11. Si pensi all'immacolata verginità ostentata da Nina (Nina, ossia la pazza per amore), da Elvira (Puritani) e da Amina (Sonnambula), solo per citare le folli romantiche più conosciute dal grande pubblico.

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me all'allievo Paul Richer, pubblicò nel 1887 Les démoniaques dans l'art12 unendo ai suoi interessi medico-scientifici la passione per l'arte. Un capitolo del saggio è dedicato all'attacco isterico e ai quattro stadi in cui si suddivide. Tale descrizione dettagliata, che si rifà ai numerosi casi di follia osservati direttamente da Charcot, rivela alcuni interes-santi punti di contatto con la follia, seppur idealizzata, di Lucia. Nella ricostruzione dello studioso francese, la fase che precede l'attacco isterico somi-glia agli atteggiamenti manifestati da Lucia durante il I atto. Lo stato d'agitazione che la fa fremere e le terribili allucinazioni che racconta ad Alisa nella cavatina «Regnava nel silenzio» sono i sintomi palesi di un'instabilità già evidente. Nelle fasi successive, proprio come illustrato da Charcot, anche Lucia mostra nei primi due atti alcuni sintomi che lo stesso Cammarano evidenzia nel libretto. Quando Lucia entra in scena chiamata da Enrico, il suo stato è già delirante: «la pallidezza del suo volto, lo sguardo smarrito, tutto annuncia in lei i patimenti che sofferse, ed i primi sin-tomi di uno squilibrio mentale». Nel colloquio che segue, la giovane donna subisce continui traumi ed è colpita da un'eccessiva palpitazione cardiaca («Il core mi balzò!»). Ma sarà proprio nel Finale primo, ed esattamente dopo aver firmato il contratto nuzia-le, che si sentirà mancare («Io gelo ed ardo…io manco…») fino a perdere conoscenza. E' l'inizio dell'“attacco isterico”. A questo punto Charcot parla di fase culminante dell'attacco, descrivendola in modo particolareggiato. La malata si contorce, impallidisce, perde conoscenza, rotea i globi oculari, il tutto in un breve lasso di tempo che prelude allo stadio successivo, molto più violento. L'isterica acquisisce, in questa fase ulteriore, un'impressionante forza musco-lare che le permette di compiere spaventose contorsioni, di simulare con il corpo archi di cerchio e di liberare un'irrefrenabile violenza distruttiva. Ovviamente era impossibile che Donizetti e Cammarano mettessero in scena nel 1835 tali incontrollate manifestazioni di follia. E, infatti, questa fase violenta, che costituisce l'apice dell'attacco isterico, è celata agli occhi dello spettatore con un tentativo di di-stanziamento e quindi di neutralizzazione. Sarà compito di Raimondo riferire ai presen-ti, seppur in modo attutito, la terribile azione compiuta da Lucia nella stanza nuziale. La docile e remissiva creatura che ognuno riteneva indifesa e mansueta, ha mostrato con l'uccisione del suo sposo un'aggressività incontrollata, proprio quella strepitosa forza muscolare che gli isterici acquisiscono nel momento denominato da Charcot «des grands mouvements». La terza fase descritta dallo studioso francese è detta «des attitudes passionnelles», nella cui descrizione si nota subito l'impressionante somiglianza con la scena della fol-lia di Lucia. Anche l'eroina donizettiana è sballottata da un'allucinazione all'altra: crede

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12. J.M. Charcot, P. Richer, Les démoniaques dans l'art, Paris, Delahaye et Lecrosnier, 1887. Oggi ristampa-to da Macula (J.M. Charcot, P. Richer, Les démoniaques dans l'art, Paris, Macula, 1984).

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di vedere il fantasma che la separa dal suo Edgardo («Ohimé! Sorge il tremendo/ fanta-sma e ne separa!») e avverte la presenza di nemici che le vogliono strappare la felicità. Successivamente, appena crede di essere al sicuro con il suo amato, si abbandona a «gaie» allucinazioni. E' soprattutto la ricostruzione idealizzata del sacro congiungimen-to con Edgardo in un Eden fiorito - come da tradizione romantica - a farla fremere di gioia. Anche in questo caso operistico si è materializzato un paradiso rassicurante ricco di fiori («Sparsa di rose») e allietato dall'inno di nozze («Un'armonia celeste/ Dì, non ascolti? - Ah, l'inno/ suona di nozze!»). Ma l'idillio è frantumato dal sopraggiungere di Enrico che scatena in Lucia nuove turbolente allucinazioni, in cui la giovane crede di vedere Edgardo che calpesta l'anello maledicendola («nell'ira sua terribile/Calpesta, oh Dio!, l'anello!…/Mi maledice!»). A questo punto l'attacco può considerarsi terminato. Anche Lucia si avvia lentamente verso la coscienza e con la cabaletta «Spargi d'amaro pianto» dà l'addio al mondo, desiderando morire accanto al suo amato. Questa comparazione mostra un possibile contatto tra due ambiti molto differenti, quello scientifico e quello drammaturgico. Proprio durante la fin de siècle si assiste sia al recupero di opere che ruotavano attorno alla tematica della follia, sia alla creazione di nuove eroine affette da isteria. Ma la gran differenza tra queste nuove malate e quelle che le avevano precedute nella prima metà dell'Ottocento è racchiusa, come abbiamo accennato, in un mutato significato della figura femminile. La donna, per gran parte del XIX secolo, aveva assunto agli occhi dell'uomo la rassicurante parvenza di “angelo del focolare” dedito al ruolo di moglie e di madre, incarnando la creatura destinata a subire la volontà maschile che esige una compagna docile, remissiva e dall'intelligenza limitata. Tale idealizzazione fu supportata anche da numerosi studi sulla donna che cercavano di dimostrare scientificamente il presunto divario fra i ses-si, tirando in causa, per legittimare la propria tesi, l'indiscussa testimonianza biblica. Ad esempio, Frédéric de Rougemont riteneva che Dio, nella sua infinita saggezza, avesse scelto per la creazione della donna la costola d'Adamo proprio con una precisa finalità: non una parte della testa, che l'avrebbe resa troppo intelligente, né una parte della gamba che l'avrebbe resa troppo attiva, ma una parte vicino al cuore, in modo che la donna fosse tutta amore!13 E proprio l'amore e l'innocente purezza che dovreb-bero, secondo l'uomo ottocentesco, contraddistinguere la donna, sono elementi onni-presenti nel repertorio operistico coevo. Elvira, Amina e Linda incarnano perfetta-mente quest'ideale maschile, che andava però preservato per far sì che «non sia mai, che si offuschi il suo candor». A partire dalla seconda metà dell'Ottocento, lo stereotipo della vergine tutta amore cominciò a vacillare, grazie anche ai nuovi studi sulla sessualità femminile. Agli occhi

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13. Anche cit. in Bram Dijkstra, Idols of perversity, Oxford, Oxford University Press, 1986, pp. 248-249.

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dell'uomo si spalancò un universo sconosciuto in cui la donna non subiva remissiva la virilità maschile. Lucia, pur portandosi dietro un bagaglio culturale pienamente romantico, riuscirà lo stesso a rilanciare il suo messaggio culturale e ad uniformarsi ai cambiamenti che si erano verificati, nel corso dell'Ottocento, in ambito vocale. Lucia fu composta in un'epoca che si era nutrita di grandi soprani drammatici d'agilità,

quali la Malibran e la Pasta, e fu interpretata da cantanti che possedevano una vocalità versatile. La prima interprete fu Fanny Tacchinardi Persiani (1812-1867) che cantò Lucia ripetutamente in Italia e all'estero ottenendo sempre giudizi favorevoli. La sua voce possedeva una grande duttilità e la capacità, pur mantenendosi su una tessitura media, di toccare le note più acute del soprano e di compiere arditi virtuosismi. Questo profilo della Tacchinardi è simile a quello di altri soprani che interpretarono Lucia nella prima metà dell'Ottocento, ad esempio, Anne Sophie Thillon (1819-1903), che impersonò Lucie al Théâtre de la Renaissance nel 1839, o Maria Dolores Bene-dicta Josephina Nau (1818-1891) prima interprete di Lucie all'Académie Royale de Musique nel 1846. Entrambe possedevano una voce che spaziava, senza difficoltà, dalle zone più gravi a quelle più acute del soprano14. Erano, in un certo senso, delle antesignane del soprano leggero che conquisterà grandi consensi proprio a partire dal-la seconda metà dell'Ottocento. Fu soprattutto con Meyerbeer che s'impose questo tipo di vocalità estremamente duttile ed acuta. L'Étoile du Nord (1854) e Le Pardon de Ploërmel (1859) ben esemplificano la predilezione per un soprano ormai definibile “leggero”. Nell'Étoile du Nord la protagonista Catherine impazzisce dopo aver scoper-to che il suo amato Peters è in realtà lo zar Pietro il Grande. Solo lo psicodramma in-scenato nel III atto e il suono del flauto che ripropone la melodia da lei cantata all'ini-zio dell'opera, le permetteranno di recuperare la ragione e di ricostruire il suo passato. Il ruolo creato da Donizetti per una voce da soprano drammatico d'agilità si adattò in piena fin de siècle, grazie ad opportune trasposizioni15 e all'aggiunta della cadenza col flauto, ai cambiamenti che si erano verificati in ambito vocale, divenendo una parte molto ambita dai soprani leggeri e dai grandi teatri europei. Tra tutti l'Opéra Garnier che, dopo ben vent'anni, allestirà Lucia valendosi delle doti di Nelly Melba, icona

14. Lucia fu cantata anche da celebri mezzosoprani, quali Pauline Viardot (1821-1910) che la interpretò a Vienna nel 1844 e successivamente a S. Pietroburgo nel 1845 e Anaïs Castellan (1819-1858) che cantò Lucia all'Her Majesty's nel 1845. 15. Il cantabile «Ardon gli incensi» era originariamente annotato in Fa maggiore, ma già nel 1835/1837 fu pubblicato da Ricordi in Mib (G. Donizetti, Lucia di Lammermoor. Spartito per canto e pianoforte, Firenze, G. Ricordi, 1835/37). In Francia, invece, circolava sia la versione trasportata (per la Lucia italiana), sia quella nella tonalità originaria (per la Lucie francese). Solo a partire dal 1889 verrà adottato definitivamente, prima nei manoscritti poi negli spartiti a stampa, il Mib per entrambe le Lucie. Questa trasposizione si collega diret-tamente all'interpolazione della cadenza col flauto, che prevedeva un notevole innalzamento della tessitura del soprano, fino al Mib5 finale, va da sé più agevole nella tonalità di Mib che in quella di Fa.

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della nuova generazione di soprani leggeri. Riassumendo, ciò che consentì all'opera donizettiana di adattarsi alle mutate esigenze del gusto, fu soprattutto lo spostamento del centro d'interesse dal Finale primo o dal duetto «Verranno a te sull'aure» - momenti clou nella prima metà dell'Ottocento - alla scena della follia. Lucia potè comunque assumere dei nuovi connotati che la rendes-sero perlomeno accostabile a tale fenomeno. Ecco allora la virtuosistica cadenza col flauto, aggiunta nel 1889, permise a Lucia di assumere una parvenza meno innocente e più conturbante. Infatti, tale cadenza, che presuppone una voce agile e acuta, molto simile a quella di un'adolescente, è in realtà una sorta di “eccesso” isterico, d'incon-trollabile smania che confluisce in interminabili e parossistiche fioriture.

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INDICE

LE FOLLI DONNE

DI GAETANO DONIZETTI.

1.0 Le folli donne di Gaetano Donizzetti 2.0 Gaetano Donizetti e la follia 3.0 Lucia di Lammermoor 4.0 Linda di Chamounix 5.0 Donne e follia: l’evoluzione di un ideale Indice Bibliografia Sitografia

Pag. 2 Pag. 3 Pag. 6 Pag. 10 Pag. 12 Pag. 19 Pag. 20 Pag. 21

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BIBLIOGRAFIA.

Bram Dijkstra, Idols of perversity, Oxford, Oxford University Press, 1986. Beppe Angeloni, I tre anni del dolore infinito: malattia e morte di Gaetano Donizetti, Bergamo: Centro stampa comunale, [200?]. «Il Figaro», V/45, mercoledì 7 giugno 1837. «Il Figaro», VII/27, mercoledì 3 aprile 1839. J.M. Charcot, P. Richer, Les démoniaques dans l'art, Paris, Delahaye et Lecrosnier, 1887. Oggi ristampato da Macula (J.M. Charcot, P. Richer, Les démoniaques dans l'art, Paris, Macula, 1984). Alberto Savinio, Scatola sonora, Milano, Ricordi, 1955. Paolo Isotta, Scala, con la glassarmonica la vera Lucia di Donizetti, ne “il Corriere della Sera” del 22 marzo 2006.

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SITOGRAFIA.

http://it.wikipedia.org/wiki/Gaetano_Donizetti http://it.wikipedia.org/wiki/Lucia_di_Lammermoor http://it.wikipedia.org/wiki/Linda_di_Chamounix http://archiviostorico.corriere.it/2006/marzo/22/Scala_con_glassarmonica_vera_Lucia_co_9_060322108.shtml

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Indice della collana, pubblicata con la rivista ASSODOLAB del 20

dicembre 2013. 1. Giuseppe Verdi: L’uomo, l’artista e le sue Opere. 2. Il trittico di Puccini: Fonti e Librettisti 3. Il superamento dell’opera: L’Otello di Giuseppe Verdi. 4. La Cenerentola di Gioacchino Rossini. 5. Le folli donne di Gaetano Donizetti. 6. L’Orientalismo di Puccini. 7. Pietro Mascagni e i suoi librettisti. 8. Romeo e Giulietta: L’opera di un amore impossibile. 9. Voce e registri nell’Opera Lirica. 10. Le nozze di Figaro di Wolfgang Amadeus Mozart.

Volume n. 5

Allegato alla rivista ASSODOLAB - Anno XIV n. 3 del 20.12.2013.

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