5 - L’ETÀ GIULIO-CLAUDIA · il corso degli astri, contaminandola con la pratica astrologica, che...

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Il materiale è stato tratto da “Letteratura Latina...in tasca”, edito da che ne ha concesso la pubblicazione su www.maturansia.it Copyright © 2013 Simone S.r.l. L’ETÀ GIULIO-CLAUDIA TAVOLA CRONOLOGICA DEGLI EVENTI 14-37 d.C. Principato di Tiberio. 37-41 Principato di Caligola. 41-54 Principato di Claudio. 54-68 Principato di Nerone. 65 Congiura di Calpurnio Pisone. Morte di Seneca, Lucano e Petronio. INQUADRAMENTO STORICO Dopo la morte di Augusto assumono il potere i principi della dinastia giulio-claudia, frutto dell’innesto dell’antica famiglia dei Claudii nella gens Iulia rimasta priva di eredi diretti: Tiberio (14-37 d.C.), Caligola (37-41), Claudio (41-54), Nerone (54-68). Gli eredi di Augusto spezzano il delicato equilibrio augusteo fra principe e senato e governano in modo dispotico. La vecchia aristocrazia, che idealizza i tempi della repubblica, quando reggeva le redini del potere, attua una costante opposizione, che degenera spesso in scontri violenti. Nonostante i conflitti, le istituzioni imperiali si evolvono verso un modello statuale più efficiente e più rispondente agli interessi della borghesia di tutto l’impero, italica e provinciale. Claudio incrementa l’apparato burocratico servendosi soprattutto dei liberti che, slegati dai pregiudizi e dagli interessi delle tradizionali classi egemoni, si identificano completamente con le funzioni pubbliche loro assegnate. Il dispotismo di Caligola e la fastosa megalomania di Nerone esprimono anche, sebbene in modo distorto, alcune esigenze organiche del sistema imperiale. La crisi del 68-69 d.C., che porta alla morte di Nerone e alla fine della dinastia giulio-claudia, manifesta il risentimento delle legioni e dei ceti provinciali più poveri contro le popolazioni italiche privilegiate e contro le classi ricche romanizzate delle stesse province. LA CULTURA Sotto il profilo culturale, con la morte di Augusto nacque un nuovo mondo, che si contrapponeva a quello appena finito: cessava definitivamente quell’ambiguità, che aveva caratterizzato la personalità e l’opera degli autori tardo-repubblicani, fra la nostalgia della libertas repubblicana e la memoria di sanguinose guerre civili, cui solo il princeps aveva saputo mettere fine. Si diffusero nuove aspirazioni e nuove incertezze. Era naturale che all’età augustea, nella quale fiorì un numero impressionante di capolavori letterari – si pensi alle opere di Virgilio, Orazio, Ovidio – succedesse un periodo che poteva sembrare di stasi, per il mutamento degli interessi, per la sensazione di irraggiungibilità che quei capolavori ispiravano, per il desiderio stesso di cambiare. Si diffuse però una sete di conoscenza, che trovò la sua espressione in scritti tecnici di carattere geografico, agricolo, medico, cosmologico. Contemporaneamente, la filosofia stoica, che si diffonde notevolmente in quest’epoca, promuove una visione universale, ecumenica delle problematiche socio-politiche che, pur senza essere necessariamente antiromana, mette sullo stesso piano Roma e il mondo. Ne consegue un’attenzione nuova rivolta a quella realtà rappresentata dai cosiddetti «barbari», visti ora in una luce non pregiudizialmente ostile e con considerazione per i loro problemi. Nel I secolo d.C. lo stoicismo soppiantò gradualmente l’epicureismo, divenendo la filosofia predominante: il sapiente del periodo greco fu reinterpretato come il cittadino esemplare, che si conforma pienamente alle leggi dello Stato romano e non si lascia piegare dalle avversità del Fato: tutto sopporta con fermezza, accettando persino il suicidio, quando il gesto estremo si presenta come l’unico mezzo per sfuggire a tutto quanto possa offendere la sua dignità di uomo e di cittadino. Nello stoicismo romano rimane, anche se molto spesso come pura enunciazione teorica, l’idea della superiore volontà provvidenziale, affermata dallo stoicismo greco. La pratica della filosofia fu intesa allora come ricerca della quiete interiore di fronte al mistero della vita e della morte, ma anche come conquista di libertà contro la tirannide. L’opposizione politica dei senatori al principe, non avendo spazi istituzionali per manifestarsi, divenne opposizione filosofica e intellettuale.

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L’ETÀ GIULIO-CLAUDIA TAVOLA CRONOLOGICA DEGLI EVENTI

• 14-37 d.C. Principato di Tiberio. • 37-41 Principato di Caligola. • 41-54 Principato di Claudio. • 54-68 Principato di Nerone. • 65 Congiura di Calpurnio Pisone. Morte di Seneca, Lucano e Petronio.

INQUADRAMENTO STORICO

Dopo la morte di Augusto assumono il potere i principi della dinastia giulio-claudia, frutto dell’innesto dell’antica famiglia dei Claudii nella gens Iulia rimasta priva di eredi diretti: Tiberio (14-37 d.C.), Caligola (37-41), Claudio (41-54), Nerone (54-68). Gli eredi di Augusto spezzano il delicato equilibrio augusteo fra principe e senato e governano in modo dispotico. La vecchia aristocrazia, che idealizza i tempi della repubblica, quando reggeva le redini del potere, attua una costante opposizione, che degenera spesso in scontri violenti. Nonostante i conflitti, le istituzioni imperiali si evolvono verso un modello statuale più efficiente e più rispondente agli interessi della borghesia di tutto l’impero, italica e provinciale.

Claudio incrementa l’apparato burocratico servendosi soprattutto dei liberti che, slegati dai pregiudizi e dagli interessi delle tradizionali classi egemoni, si identificano completamente con le funzioni pubbliche loro assegnate. Il dispotismo di Caligola e la fastosa megalomania di Nerone esprimono anche, sebbene in modo distorto, alcune esigenze organiche del sistema imperiale.

La crisi del 68-69 d.C., che porta alla morte di Nerone e alla fine della dinastia giulio-claudia, manifesta il risentimento delle legioni e dei ceti provinciali più poveri contro le popolazioni italiche privilegiate e contro le classi ricche romanizzate delle stesse province.

LA CULTURA Sotto il profilo culturale, con la morte di Augusto nacque un nuovo mondo, che si contrapponeva a quello appena finito: cessava definitivamente quell’ambiguità, che aveva caratterizzato la personalità e l’opera degli autori tardo-repubblicani, fra la nostalgia della libertas repubblicana e la memoria di sanguinose guerre civili, cui solo il princeps aveva saputo mettere fine. Si diffusero nuove aspirazioni e nuove incertezze.

Era naturale che all’età augustea, nella quale fiorì un numero impressionante di capolavori letterari – si pensi alle opere di Virgilio, Orazio, Ovidio – succedesse un periodo che poteva sembrare di stasi, per il mutamento degli interessi, per la sensazione di irraggiungibilità che quei capolavori ispiravano, per il desiderio stesso di cambiare. Si diffuse però una sete di conoscenza, che trovò la sua espressione in scritti tecnici di carattere geografico, agricolo, medico, cosmologico.

Contemporaneamente, la filosofia stoica, che si diffonde notevolmente in quest’epoca, promuove una visione universale, ecumenica delle problematiche socio-politiche che, pur senza essere necessariamente antiromana, mette sullo stesso piano Roma e il mondo. Ne consegue un’attenzione nuova rivolta a quella realtà rappresentata dai cosiddetti «barbari», visti ora in una luce non pregiudizialmente ostile e con considerazione per i loro problemi.

Nel I secolo d.C. lo stoicismo soppiantò gradualmente l’epicureismo, divenendo la filosofia predominante: il sapiente del periodo greco fu reinterpretato come il cittadino esemplare, che si conforma pienamente alle leggi dello Stato romano e non si lascia piegare dalle avversità del Fato: tutto sopporta con fermezza, accettando persino il suicidio, quando il gesto estremo si presenta come l’unico mezzo per sfuggire a tutto quanto possa offendere la sua dignità di uomo e di cittadino. Nello stoicismo romano rimane, anche se molto spesso come pura enunciazione teorica, l’idea della superiore volontà provvidenziale, affermata dallo stoicismo greco.

La pratica della filosofia fu intesa allora come ricerca della quiete interiore di fronte al mistero della vita e della morte, ma anche come conquista di libertà contro la tirannide. L’opposizione politica dei senatori al principe, non avendo spazi istituzionali per manifestarsi, divenne opposizione filosofica e intellettuale.

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I GENERI LETTERARI E GLI AUTORI

La poesia. La poesia imperiale risente della retorica, della pratica scolastica, della mancanza di libertà politica e dell’adulazione nei confronti del principe. Condizionata dal clima politico e dalla mancanza di grandi personalità, è circoscritta generalmente nell’ambito del lusus, il raffinato gioco letterario alessandrino e neoterico; inoltre, essendo destinata a gare e recitazioni pubbliche, accentua l’aspetto spettacolare.

Parallelamente al tramonto delle tradizioni politiche repubblicane, si diffondono nuove visioni del mondo e nuovi culti di origine orientale: alle pratiche astrologiche e magiche, testimoniate già nella tarda repubblica da Varrone e Nigidio Figulo, si attribuisce la capacità di prevedere e prevenire un destino concepito secondo gli insegnamenti della filosofia stoica.

Marco Manilio in età tiberiana si colloca con gli Astronomica nel filone del poema epico-didascalico ispirato di tipo lucreziano, poiché intende giovare all’umanità con il verum. Due i principi fondamentali, di ispirazione stoica: ratio («mente divina») e fatum («destino»). L’insistenza sulla ratio, un principio ordinatore del mondo, contrappone Manilio a Lucrezio, sostenitore della casualità degli eventi, mentre la fede nel fatum ispira la visione della vita umana, del carattere degli individui, degli eventi storici.

Giulio Cesare Germanico nipote dell’imperatore Tiberio, generale e letterato, mette in versi la scienza astronomica, che studia il corso degli astri, contaminandola con la pratica astrologica, che instaura rapporti fra eventi celesti e umani, nella traduzione artistica dei Phaenomena del greco Arato (IV secolo a.C.). Mentre l’autore greco, ispirato dallo stoicismo, voleva soprattutto illuminare l’azione continua della provvidenza divina, manca in Germanico il concetto della provvidenziale sistemazione del cielo da parte di Zeus. Germanico ha una visione coerente dei rapporti fra cielo e terra, una visione politica della religione, una concezione laica della scienza.

Il genere della favola nasce in Grecia con Esopo, personaggio leggendario vissuto forse nel VI secolo a.C., che compone favole in prosa. Si tratta di brevi racconti, intessuti di spunti umoristici e filosofici, completati da una premessa o una postilla che spiegano il tema della favola o la morale che si può trarre da essa. Tipico del genere è, poi, l’uso di animali come maschere, personaggi umanizzati dotati di una psicologia fissa, scelti perché meno compromettenti di quelli umani. Fedro, schiavo macedone e poi liberto di Augusto, compone in senari giambici delle favole moralistiche alla maniera del greco Esopo: ne abbiamo 5 libri incompleti, più 32 trascritte dall’erudito del Quattrocento Niccolò Perotti e alcune altre ricavate da raccolte favolistiche medioevali in prosa. Fedro è pessimista e moralista. La sua lingua non è realistica.

Un altro genere minore, che rifiorisce in età neroniana, è la bucolica, coltivata da Tito Calpurnio Siculo, di cui ci sono pervenute 7 Ecloghe. Del modello virgiliano Calpurnio dilata in maniera consistente l’elemento encomiastico, con le lodi a Nerone, il cui mecenatismo offre nuove opportunità agli intellettuali, e quello allegorico. Sulla stessa linea culturale e artistica sono le due ecloghe contemporanee definite Carmina Einsidlensia dal luogo in cui sono state ritrovate.

Col titolo Priapea viene indicata una raccolta di 80 poesie, 38 in endecasillabi, 34 in distici elegiaci, otto in coliambi, di argomento scherzoso e osceno, messa insieme verso la metà del I secolo d.C., come sembra indicare la diffusa imitazione di Ovidio.

Dei tre sottogeneri in cui si era manifestata la satira in età repubblicana, enniano (polimetrico), varroniano (misto di prosa e versi), luciliano (esametrico), continuano in età imperiale il genere varroniano l’Apokolokyntosis di Seneca, il Satyricon di Petronio e, per certi aspetti, le Metamorfosi di Apuleio; quello luciliano le satire di Persio e Giovenale.

La prosa. Fiorisce la letteratura scientifica, intesa come descrizione e non, modernamente, come ricerca, nelle forme della prosa didascalica dei trattati di grammatica (Remmio Palèmone, Asconio Pediano, Valerio Probo, Cesio Basso), di agricoltura

(Columella), di culinaria (Apicio), della prosa scientifico-tecnica dei trattati di medicina (Celso e Scribonio Largo), di geografia (Pomponio Mela). Uno straordinario rilievo assume la tecnica retorica: è l’età delle recitationes pubbliche di opere letterarie in appositi auditoria, e delle declamationes, esercitazioni fittizie su temi inverosimili tratti dalla letteratura romanzesca greca. Sui declamatori dell’età di Augusto e di Tiberio possediamo una ricchissima documentazione conservataci da Seneca il Vecchio, padre di Seneca il Filosofo. Nato a Cordova in Spagna intorno al 58-55 a.C., vive a lungo a Roma, dove muore fra il 37 e il 41 d.C. Scrive una Storia di Roma dall’inizio delle guerre civili e un’opera intitolata Oratorum et rhetorum sententiae divisiones colores, una rassegna dei maggiori oratori e rètori del suo tempo.

La storiografia si apre a nuovi orizzonti, pur nell’ambito di un complessivo appiattimento sull’ideologia imperiale. Velleio Patèrcolo scrive una Storia romana, partendo dalla caduta di Troia, in cui viene esaltata la figura di Tiberio, protettore della famiglia dell’autore, messi in rilievo gli equites, la classe sociale emergente e sono inseriti cenni di storia letteraria.

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Nella stessa età Valerio Massimo compone una raccolta di Detti e fatti memorabili a scopo moralistico, diretta probabilmente alle scuole di retorica come repertorio per le declamationes. Curzio Rufo compone, probabilmente sotto Caligola, una Storia di Alessandro Magno, interessando i lettori con fatti meravigliosi e descrizioni suggestive del lontano Oriente.

Rufo ha uno spirito antitradizionalista e antisenatoriale e mostra sensibilità per le differenze culturali fra i vari popoli non romani, che non vengono presentati semplicemente e indistintamente come «barbari».

SENECA

La vita. Lucio Anneo Seneca nacque a Corduba (Cordova), in Spagna, nel 4 a.C. circa. Il padre, Seneca il Vecchio, un agiato cavaliere, condusse i figli a Roma perché ricevessero l’educazione retorica che riteneva indispensabile per un brillante cursus honorum. Solo il primo dei figli di Seneca il Vecchio, Anneo Novato, detto poi Gallione, seguì la carriera pubblica, giungendo alla carica di proconsole in Acaia. Il terzo, Anneo Mela, padre del poeta epico Lucano, cur i propri affari privati; il secondogenito, Lucio Anneo, coltiv gli studi di retorica, ma al tempo stesso si avvicin alla filosofia stoica, frequentando la scuola di Attalo e Sozione.

Attraverso gli insegnamenti di Sozione di Alessandria e soprattutto di Papirio Fabiano, Seneca conobbe le dottrine di Quinto Sestio e del suo circolo, che predicavano un ideale filosofico di perfezionamento morale e austere norme comportamentali di origine pitagorica, tra cui il vegetarianesimo, lontano da ogni interesse politico-sociale. Quando però la scuola dei Sestii si sciolse, in seguito al senatoconsulto del 19 d.C., che condannava all’esilio chiunque praticasse riti e culti stranieri, Seneca abbandon lo studio della filosofia e partì per l’Egitto, dove risiedeva la zia materna, moglie del prefetto di quella regione, forse per motivi di salute, forse per prudenza, in quanto notoriamente coinvolto nelle pratiche filosofiche condannate.

Ritornato a Roma solo dodici anni dopo, nel 31, iniziò la sua carriera pubblica, spinto anche dalle esortazioni della zia, che con la sua influenza gli fece ottenere la questura nel 37. Seneca divenne molto noto per la sua eloquenza, al punto da indispettire Caligola, che decise di condannarlo a morte. La condanna non venne pronunziata solo perché una favorita dell’imperatore lo convinse che la salute malferma non lasciava a Seneca molto da vivere e non valeva quindi la pena attirarsi il biasimo della sua morte.

Nel 41 invece, salito al trono Claudio, sua moglie Messalina, per liberarsi della rivale Giulia Livilla, la accusò di aver compiuto adulterio con Seneca: Giulia Livilla venne giustiziata poco tempo dopo e Seneca fu mandato in esilio in Corsica.

Nonostante i ripetuti tentativi di ottenere la grazia e il rientro, Seneca fu costretto a rimanere in Corsica otto anni. Solo quando Claudio, fatta uccidere Messalina, sposò la nipote Agrippina, sorella di Giulia Livilla, questa, sia per riabilitare la memoria della principessa scomparsa, sia per accattivarsi il favore del popolo con un atto di clemenza, ottenne per il condannato la revoca della pena. Seneca fu nominato quindi pretore e gli fu affidata da Agrippina l’educazione del dodicenne Nerone, perché gli insegnasse l’eloquenza, ritenuta più consona della filosofia alla formazione di un futuro monarca.

Quando Nerone succedette a Claudio, nel 54, Seneca gestì il passaggio del potere assieme ad Agrippina e al prefetto del pretorio Afranio Burro. Per alcuni anni i due personaggi indirizzarono la politica di Nerone; ben presto, però, il giovane imperatore si sottrasse alla guida del maestro, che nel 59 assistette impotente all’uccisione di Agrippina. Fu Seneca a scrivere la lettera con cui Nerone giustificava davanti al senato il suo matricidio, forse per conservare una qualche forma di controllo sul principe. La situazione gli sfuggì comunque di mano e quando Burro morì, non si sa se per malattia o per veleno, Seneca comprese di avere perso l’unico appoggio a corte e si ritirò a vita privata.

Dal 62 al 65 Seneca visse nei suoi possedimenti a Roma e in Campania, assieme alla giovane moglie Paolina, trascorrendo tutto il suo tempo tra gli studi filosofici, ostentatamente lontano da ogni interesse politico. Quando, nel 65, fu scoperta la congiura dei Pisoni, Nerone colse l’occasione per liberarsi dell’ex precettore e per impadronirsi del suo cospicuo patrimonio. Seneca, che forse era stato al corrente della congiura, ma che certamente non vi aveva preso parte attiva, ricevette dall’imperatore l’ordine di uccidersi. Si tagliò le vene, ma poiché il sangue non defluiva, dovette ricorrere al veleno usato anche dal filosofo Socrate, la cicuta, che gli procurò un’agonia lenta e straziante.

Il profilo culturale. Seneca concepì la filosofia soprattutto come etica, finalizzandola al miglioramento della società: la ricerca del bonum, della felicità filosofica, si configurò per lui come educazione permanente, al servizio della quale egli metteva il sapere.

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Lo stile di Seneca prosatore è fratto e teso, organizzato in periodi brevi, che si concentrano nella sententia finale. Si contrappone consapevolmente al periodo di Cicerone, costruito gerarchicamente su un asse verticale con andamento piano e con un insieme armonico e ben regolato. Tale contrapposizione di stili è specchio della radicale differenza tra due mondi, l’uno ancora fondato sulle certezze del mos maiorum e del secolare ordinamento repubblicano, l’altro privato delle antiche certezze, che non ne ha ancora costituite di nuove: in esso regnano il caos e l’imprevedibilità, che mettono a dura prova anche la fede nella provvidenza degli stoici.

Lo stile asiano trionfa nelle tragedie senecane: frasi brevi e a effetto, abbondanza di figure retoriche, tra le quali predomina l’antitesi. Trova largo impiego, come nelle opere in prosa, la sententia, la frase a effetto da scolpire nella memoria, che fissa definitivamente un concetto o una riflessione.

I Dialogorum libri. Conserviamo dodici Dialogorum libri («Dialoghi») su argomenti morali, raccolti dopo la morte di Seneca, la cui cronologia, difficile da stabilire con certezza, è compresa tra il principato di Caligola e il ritiro dalla politica attiva.

I Dialogorum libri non hanno una vera e propria struttura dialogica: sono in realtà dissertazioni interrotte dalle presunte obiezioni del destinatario o di un immaginario ascoltatore («Tu mi dirai», «potresti osservare», «qualcuno dice»), che nel titolo si ricollegano alla tradizione aristotelico-ciceroniana del trattato filosofico. Il contenuto attinge alla diatriba cinico-stoica, un genere popolare di riflessione morale.

Un gruppo di dialoghi può essere inquadrato nel genere della consolatio («consolazione»), caratterizzato dall’intento di consolare qualcuno che aveva subito un lutto. Questo genere, molto diffuso in Grecia e a Roma, era stato trattato anche da Cicerone, che aveva composto un trattato De consolatione («Discorso consolatorio»), perduto, per la morte della figlia Tullia, sperimentando la forza morale delle varie dottrine filosofiche. Quelle di Seneca sono le prime consolationes pervenuteci. I temi di questi componimenti, in cui abbondano i luoghi comuni retorici, ruotano attorno all’esigenza per il saggio di distaccarsi dalle vicende quotidiane e di considerare solo ciò che è buono, onesto, giusto, in modo da poter attraversare indenne le sventure.

La prima opera di Seneca è probabilmente l’Ad Marciam de consolatione («Discorso consolatorio a Marcia»), composto nel 37 e indirizzato alla figlia dello storico Cremuzio Cordo, lasciatosi morire di fame perché Tiberio aveva condannato alle fiamme i suoi Annales («Annali»).

Sul tema che il saggio nutrito di dottrina stoica non può soccombere alle sventure è imperniata la Ad Helviam matrem de consolatione («Discorso consolatorio alla madre Elvia»). Composta sicuramente nei primi anni dell’esilio, forse nel 42, è rivolta alla madre Elvia, che Seneca voleva rassicurare sulle proprie condizioni di vita in Corsica: l’esilio per il filosofo è solo una loci commutatio («mutamento di luogo»), che non può turbare l’animo del saggio, indifferente ai colpi della sventura, poiché per lui la povertà non è un male e il disprezzo degli altri non lo tocca.

Nonostante i propositi di fermezza, Seneca non seppe resistere ai disagi dell’esilio e alla lontananza da Roma: scoraggiato, rivolse le sue suppliche a Polibio, liberto di Claudio, che aveva perso un fratello giovane, con l’Ad Polybium de consolatione («Discorso consolatorio a Polibio») del 44. In quest’opera il filosofo loda il destinatario e il suo padrone, l’imperatore Claudio, che introduce come personaggio a illustrare le sventure capitate ai grandi romani del passato. Che le adulazioni rivolte a Claudio non fossero sincere dimostra il fatto che Seneca avrebbe deriso l’imperatore nell’Apokolokyntosis («Divinizzazione di una zucca»), dopo la sua morte.

Iniziato prima dell’esilio e concluso in Corsica nel 41, il De ira («L’ira»), l’unico dialogo in tre libri, è dedicato al fratello Novato e tratta la fenomenologia e l’origine delle passioni umane, all’ira in particolare è dedicato il terzo libro, proponendo i modi per dominarle.

Al 49 risale il De brevitate vitae («La brevità della vita»), dedicato a Paolino, prefetto dell’annona, probabilmente parente della seconda moglie di Seneca, Paolina, basato sull’antitesi tempo-saggezza: gli occupati sono vittime del tempo, mentre il sapiens è il suo dominatore. Gli occupati vivono nel presente e sciupano la loro esistenza nelle cure quotidiane, il saggio si dedica tutto a sé stesso, ripercorrendo il suo passato, le cui gioie, una volta superati i travagli, si riflettono sul presente. L’esistenza degli uomini non è breve come pensa la massa, purché la si sappia vivere nel modo giusto, trascurando i vani desideri, i falsi splendori della vita per cercare un proprio perfezionamento morale.

Nel De constantia sapientis composto tra il 40 e il 41 e dedicato a Sereno, Seneca sostiene che, in quanto tale, il saggio, non solo è in grado di sopportare le offese, come riteneva Epicuro, ma addirittura non è sottoposto a riceverne, poiché è superiore alle vicissitudini dell’esistenza.

Nel De tranquillitate animi («La tranquillità dell’animo»), del 62 circa, dedicato a Sereno, Seneca manifesta le sue incertezze, in un periodo assai delicato della sua vita, quando già si rendeva conto che presto sarebbe arrivato per lui il momento di ritirarsi.

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Seneca afferma che è possibile conciliare la politica attiva e la filosofia, il negotium e l’otium, purché, sia quando si è coinvolti negli affari pubblici, sia quando si vive per conto proprio si agisca con l’intenzione di giovare al prossimo. Tuttavia, se sarà necessario allontanarsi definitivamente dalla politica, bisognerà farlo gradatamente e salvando l’onore.

Con il De otio («La vita appartata») del 62 Seneca rivendica la propria coerenza nei confronti dei precetti stoici, che prescrivevano la partecipazione attiva del saggio alla vita pubblica: i maestri stoici ammettevano l’otium in presenza di motivati impedimenti, sia soggettivi, quando cioè si abbia una particolare disposizione per l’attività teoretica, sia oggettivi, quando le condizioni politiche non lo permettano. In ogni caso, chi per anni ha servito lo Stato può da vecchio dedicarsi a un’altra occupazione. Peraltro, il filosofo ritiene di poter giovare con le sue meditazioni filosofiche a un maggior numero di persone, non solo ai suoi contemporanei, ma anche ai posteri: migliorando sé stesso, migliorerà indirettamente anche gli altri.

Il De vita beata («La vita felice»), pervenutoci mutilo della parte finale, fu composto tra il 58 e il 59, quando Seneca era all’apice del suo potere. È dedicato, come il De ira, al fratello Novato, che aveva assunto per adozione il nome di Gallione. L’autore risponde all’accusa di incoerenza che gli veniva mossa da più parti. In polemica con gli Epicurei, Seneca argomenta che la felicità consiste nel vivere conformemente alla virtù, non conformemente al piacere, che con essa è inconciliabile. Ma poiché il raggiungimento di questa condotta di vita, che rappresenta il sommo bene, richiede grandi fatiche, per gli uomini è già motivo di merito tendervi, liberandosi giorno dopo giorno dei vizi che opprimono l’animo. L’autore infatti non pretende di essere un sapiente, ma solo di essere alla continua ricerca della virtù. A quanti gli rimproverano di essere troppo ricco, Seneca risponde che la ricchezza, pur non essendo considerata un bene dallo stoico, tuttavia non andrà rifiutata poiché permette di essere munifici e generosi verso il prossimo: ci che importa è non divenirne schiavi.

Nell’ultimo dialogo in ordine di composizione, il De providentia («La provvidenza») del 62-63, dedicato a Lucilio, Seneca si chiede come mai la provvidenza consenta che sui buoni cadano le avversità. La risposta è che Dio manda le sventure agli uomini più meritevoli per metterne alla prova la virtù e per impedire che questa si indebolisca. Nessuno potrà, peraltro, privare lo stoico della vera libertà, cioè della libertà di morire. Conclude l’operetta un’apologia del suicidio pronunciata dalla provvidenza.

Il De clementia e il De beneficiis. Più ampi dei Dialogi, in forma di veri e propri trattati sono il De clementia e il De beneficiis, uno in tre libri, l’altro in sette.

Il De clementia («La clemenza»), composto nel 56, di cui possediamo solo il primo libro e l’inizio del secondo, è dedicato a Nerone di recente salito al trono. Con quest’opera Seneca tenta di persuadere alla moderazione un sovrano, che ha nelle sue sole mani le redini dello Stato e che è quindi necessari eserciti l’autocontrollo. Perci Seneca esorta Nerone alla clemenza, illustrandogli i vantaggi di una condotta moderata: i sudditi, infatti, se governati con giustizia, non hanno motivo di ribellarsi, né di congiurare; d’altra parte la presenza di un principe garantirà loro la pace. Questa fede nel rex iustus conforme ai principi stoici convive in Seneca assieme al disprezzo per la massa: il monarca vorrà risparmiare dei colpevoli anche solo per non sporcarsi le mani.

La delusione per il comportamento del principe lasciò un segno di profonda amarezza nell’animo del filosofo che, nei sette libri del De beneficiis («I benefici»), terminati nel 64, dopo il ritiro a vita privata, e dedicati all’amico Ebuzio Liberale, discute sulla natura dei benefici, su come si debbano fare e ricevere e sull’ingratitudine, argomento che lo toccava assai da vicino alla luce degli ultimi eventi. Il filosofo si chiede appunto quale atteggiamento si debba tenere nei confronti del benefattore se questi è diventato malvagio.

La posizione di Seneca in proposito è oscillante: mentre nel terzo libro formula semplicemente il problema astenendosi dal dare una risposta, nel sesto afferma che le offese ricevute liberano dall’obbligo della gratitudine. La questione sarà poi ripresa nell’Epistula 81, composta dopo il ritiro dalla corte, con conclusioni diametralmente opposte: la considerazione dei benefici ricevuti deve superare quella delle offese e bisogna in ogni caso ricambiare il gesto di chi ci ha beneficiato.

In pratica, quest’opera è un appello ai doveri della filantropia e della liberalità, rivolto alle classi abbienti, nell’intento di instaurare rapporti sociali più umani e cordiali e si configura quindi come risposta alternativa al fallimento del progetto di una monarchia illuminata delineato nel De clementia.

La Divi Claudii Apokolokyntosis. Con la Divi Claudii Apokolokyntosis («Divinizzazione di una zucca») la moderazione del filosofo e dello statista lascia il posto all’irrisione e all’aggressività del satirico. Si tratta infatti di una satira menippea, mista cioè di prosa e versi, genere elaborato da Menippo di Gàdara (III secolo a.C.) e introdotto a Roma da Varrone (I secolo a.C.). Nulla più rimane però della sorridente bonomia di Varrone: per il tono sarcastico e le violente invettive il libello di Seneca ricorda piuttosto le satire di Lucilio (II secolo a.C.).

Il titolo è di interpretazione piuttosto problematica: un misto fra l’apathanátisis, la «deificazione» degli imperatori defunti, e la kolokynte, la «zucca» vuota dell’imperatore Claudio, che godeva reputazione di sciocco.

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Seneca, morto l’imperatore, che pure aveva elogiato dall’esilio, ne celebra una ridicola apoteosi: la divinizzazione consueta per gli imperatori romani defunti viene rovesciata e si immagina che invece di salire al cielo, accolto fra gli dèi, lo sciocco imperatore venga trascinato agli Inferi, dove è condannato a giocare eternamente ai dadi con un bussolotto sfondato.

Con una sorta di «contrappasso» è regalato a un liberto, lui che in vita aveva amato circondarsi di liberti in qualità di ministri, poiché nessuno sa che farsene di lui. Oltre che alla satura menippea, l’operetta si ricollega al mimo, di cui presenta spesso gli andamenti e gli sbalzi. Seneca coglie le debolezze fisiche e morali del principe e le fa risaltare tramite una varietà di toni, che vanno dal triviale al solenne. Alla sbrigliatezza della composizione corrisponde un impasto linguistico e uno stile fra i più densi ed espressivi della prosa latina: vocaboli e stile volgari e colloquiali delle parti prosastiche, sono in stridente contrasto con i toni elevati delle parti versificate, che hanno spesso intenzioni parodistiche; abbondano citazioni ironiche e adattamenti parodistici da autori classici.

Le Naturales Quaestiones. Dedicate a Lucilio come il dialogo De Providentia e le Epistulae morales, furono scritte da Seneca subito dopo il ritiro dalla vita pubblica, quindi dal 62 in poi. Per mostrare al suo discepolo e corrispondente il percorso che educa alla libertà, Seneca parte dalle osservazioni naturali che – attuate sistematicamente – servono a togliere all’uomo la paura dell’ignoto e a sciogliere i relativi pregiudizi, per affrontare i temi dell’esplorazione morale. La vera conoscenza ha infatti un fine morale: serve a rendere l’uomo migliore. Si tratta di un compendio di scienze naturali diviso in sette libri: (I) i fuochi celesti, (II) i tuoni, i fulmini e i lampi, (III) le acque della terra, (IV) il Nilo e le nubi, (V) i venti, (VI) i terremoti, (VII) le comete.

La materia, che Seneca probabilmente attingeva alle raccolte di opinioni dei filosofi («dossografie»), piuttosto che direttamente alle opere dei filosofi da lui citati nel corso dell’opera, è esposta secondo la struttura già seguita da Lucrezio nel De rerum natura: l’argomento di ogni libro è preceduto da un preambolo più o meno ampio e si chiude con un epilogo, in cui l’autore espone considerazioni di carattere morale.

Seneca, conformemente alla mentalità dello scienziato antico, non concepisce lo studio della natura come fine a sé stesso, ma in relazione a esigenze etiche: esso per lui deve servire – secondo la concezione epicurea – a liberare l’uomo dalle superstizioni. Queste nascono appunto dall’ignoranza delle cause dei fenomeni naturali e dal timore della morte, che inquina la vita con la coscienza che ogni momento può essere l’ultimo, tanti sono i pericoli che ci sovrastano. Se l’uomo, purificatosi dalla corruzione che lo ottenebra e lo devia, sarà in grado di cogliere tutto questo, si libererà anche dal falso timore degli dèi e del principe, comprendendo che le ire degli uni sono pure superstizioni, mentre le crudeltà dell’altro non possono spaventare chi non teme per la vita. Seneca si mantiene così fedele allo scopo che si era prefisso al momento di abbandonare la politica: giovare all’umanità intera, secondo i dettami della filosofia dei Sestii, abbandonata per seguire la via dell’attività pubblica, di cui ora avverte i limiti e gli errori.

Le Epistulae morales ad Lucilium. Ci sono pervenute 124 lettere di Seneca, divise in 20 libri, ma pare che originariamente i libri fossero non meno di 22. Le Epistulae sono indirizzate a Lucilio, un discepolo e amico di Seneca, di cui si conoscono con certezza solo le poche notizie che ci dà il filosofo: è un cavaliere romano, nativo di Pompei, più giovane di Seneca, procuratore imperiale in Sicilia al tempo delle lettere, personaggio in vista nella capitale.

Seneca compose le Epistulae con intento letterario e ne prevedeva la pubblicazione, il che non esclude, tuttavia, che alcune siano state effettivamente inviate e che tra Seneca e l’amico esistesse un carteggio regolare.

Il genere della lettera morale sul modello di quelle inviate da Epicuro agli amici, fuso con lo stile della diatriba cinico-stoica, fu verosimilmente scelto da Seneca per la forma agile, per la libertà di nessi e di passaggi da un argomento all’altro, per il tono discorsivo, caratteristiche che gli consentivano di insinuarsi più agevolmente nell’animo del lettore. Le Epistulae non furono concepite come un’opera sistematica, ma piuttosto come un insieme di spunti e di temi diversi a cui l’autore si accosta spesso partendo da riflessioni su momenti di vita vissuta, su episodi che rivestono carattere di quotidianità. Dalle prime lettere, più brevi e incisive, scritte con l’intento di impartire utili precetti di immediata fruizione, si passa nella parte centrale e finale a lettere più complesse e dottrinali, che assumono veste di vero e proprio trattato.

Le Epistulae possono essere considerate il testamento spirituale di Seneca: giunto alla fine della vita, il filosofo guarda con distacco i falsi beni che abbagliano gli uomini con il loro illusorio splendore. Tutto ciò che è al di fuori di noi e che dipende dalla fortuna non dà la felicità: la felicità è un bene interiore, nasce dall’intimo, è un possesso duraturo che nessuna forza, nessun evento può sottrarci. «Riappropriati di te stesso», «sii pago di te stesso» è l’invito che Seneca rivolge a Lucilio con insistenza: in questo consiste per lui la virtus.

Solo la ratio può condurre l’uomo a liberarsi dai falsi beni che lo conducono lontano dalla felicità. Seneca era pervenuto alla rinuncia del mondo esterno, alla tensione sociale del sapiente, a mano a mano che il fallimento del suo disegno politico e l’impossibilità di operare sulle strutture dello Stato erano diventate evidenti. Con le Epistulae accede dunque a una dimensione più intima, circoscritta al colloquio con il discepolo prediletto, piuttosto che indirizzata a tutta la collettività della res publica.

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Seneca si ripiega sul proprio io alla ricerca non solo di giustificazioni, ma anche di un rimedio alla propria solitudine esistenziale. La sua crisi personale ha come sfondo il vasto rivolgimento segnato dalla nascita dell’impero.

Venuti meno i princìpi tradizionali, oscuratosi il ruolo dell’intellettuale libero, il filosofo si trova solo di fronte a sé stesso, teso a ricercare non più i grandi valori dell’utile in senso sociale, ma il significato della propria esistenza.

Una filosofia del genere si sarebbe potuta esaurire in uno sterile atteggiamento di chiusura, se Seneca non avesse avuto fiducia nella parola intesa come predicazione. Constatando con amarezza che il predicare nel presente era vano, si rivolse ai posteri conscio di lasciare nelle sue pagine un bene valido per tutte le epoche.

Ma il vero fulcro dell’epistolario, il punto di forza, è la riflessione e la concentrazione sul tema della morte. La malattia, la vecchiaia, l’odio del principe sono segni premonitori: Seneca sa di essere arrivato all’epilogo. Il poco tempo che gli rimane gli lascia una sola possibilità di riscattare le incoerenze, i compromessi a cui l’ha costretto il suo ruolo a corte: una morte virtuosa. Per questo frequentemente ritorna a meditare su quel momento supremo che accomuna in un unico destino tutti gli uomini. Anche se oscilla tra posizioni diverse e addirittura contrastanti riguardo la sopravvivenza dell’anima, il suo atteggiamento di fronte alla morte è di profonda serenità.

Seneca è pronto non solo ad accettare la fine che la sorte gli riserva, ma anche a mettere termine, da stoico, di propria mano ai suoi giorni, quando il bene e la giustizia lo esigano.

Le tragedie. Delle opere poetiche di Seneca, a parte tre epigrammi di discussa autenticità contenuti nell’Anthologia Latina e i versi inseriti nella Divi Claudii Apokolokyntosis, si sono conservate le tragedie.

La tradizione più accreditata, quella del cosiddetto Codice Etrusco della Biblioteca Laurenziana, ci ha conservato nove tragedie cothurnatae nel seguente ordine: Hercules furens, Troades, Phoenissae, Medea, Phaedra, Oedipus, Agamemnon, Thyestes, Hercules Oetaeus. Un’altra tradizione introduce nel corpus delle nove tragedie una decima praetexta, ignota all’Etrusco, l’Octavia.

È probabile che Seneca si fosse accostato al teatro con l’intento di rivolgere utili ammaestramenti a Nerone, così come fa nel De clementia, indicandogli la strada da seguire nell’esercizio del potere, e cioè deporre l’ira, che non si addice al princeps, e assumere la moderazione come consigliera.

La scelta di storie macabre con finali atroci corrisponderebbe così all’esigenza di evidenziare le conseguenze nefaste dell’ira in un sovrano. Gran parte delle tragedie ha infatti come figura centrale quella del tiranno, delineato sempre a fosche tinte.

Oltre che la datazione, anche la destinazione del teatro di Seneca è discussa: se l’autore compose cioè le tragedie per la rappresentazione, per la lettura o per la declamazione. Perduto ormai il favore popolare la tragedia romana si era infatti rinchiusa negli auditori e nelle sale di recitazione, rivolgendosi a un pubblico scelto e raffinato e acquistando sempre più un carattere letterario e artificioso.

Il grado di immedesimazione con il quale descrive le terribili vicende dei suoi personaggi rivelano che Seneca parlava prima a sé stesso che agli altri, per esorcizzare il pericolo che, abbandonata la ragione, si lasciasse travolgere dal vortice della follia come tanti attorno a lui.

Il senso di angoscia e di oppressione che domina quest’epoca si manifesta anche nel gusto del macabro, nel senso di orrore che troviamo in tanti passi delle tragedie: la messa in scena di opere teatrali in questo periodo si giovava addirittura di condannati a morte, da crocifiggere realmente per il divertimento degli spettatori; ma, soprattutto, durante gli spettacoli del circo e dell’anfiteatro, si svolgevano massacri di fronte ai quali lo stesso Seneca aveva manifestato il suo disgusto.

L’atmosfera cupa e truculenta che domina nelle tragedie di Seneca non è puro compiacimento retorico fine a se stesso, perché, oltre che contrappunto al tema politico, è sfondo su cui si delinea il dramma delle passioni, forse il momento più interessante e moderno del teatro di Seneca, in cui trova la sua giustificazione la massiccia presenza di apparizioni infernali, come proiezione espressiva atta a porre in luce quanto di mostruoso, di tenebroso è negli impeti della matta bestialità: la quale sembra scaturire nel cuore umano da una tetra forza che scaturisce dagli abissi più oscuri della nostra coscienza.

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LUCANO

La vita. Le fonti principali per ricostruire la biografia di Marco Anneo Lucano sono costituite soprattutto da due biografie antiche: quella contenuta nel De poetis, una delle cinque sezioni in cui si articolava il De viris illustribus di Svetonio, composta tra I e II secolo d.C., è decisamente ostile al poeta; quella di Vacca, autore a noi sconosciuto di un commentario alla Pharsalia di Lucano, collocabile probabilmente in età piuttosto tarda, è invece estremamente favorevole nei suoi confronti. Le due biografie comunque, pur nell’orientamento diametralmente opposto, concordano su alcune notizie piuttosto precise, che vanno considerate sicure.

Marco Anneo Lucano nacque il 3 novembre del 39 d.C. a Corduba (Cordova), da Marco Anneo Mela, ultimo figlio di Seneca il Vecchio e fratello del filosofo Seneca. Dopo che tutta la famiglia si fu trasferita a Roma, Lucano ebbe come maestri i più famosi intellettuali del tempo, fra i quali emergeva Anneo Cornuto, che il poeta frequentò insieme con l’amico e poeta satirico Persio, dando prova delle sue notevolissime capacità.

La notizia della fama del giovanissimo poeta giunse a Nerone, che lo accolse nella sua cohors amicorum, il gruppo degli amici più fedeli, composto in massima parte dai giovani dell’aristocrazia senatoria. Dal principe Lucano ricevette grandi onori: fu nominato questore, prima che avesse l’età minima prevista per quella carica, ed entrò a far parte del collegio degli indovini. Ma l’amicizia e la reciproca stima tra Lucano e l’imperatore ebbero breve durata: fra i due si verificò una rottura profonda e irreversibile, sul motivo della quale le due antiche biografie forniscono versioni divergenti. Per Svetonio, infatti, la rottura fu determinata dall’intemperanza e dall’impulsività del poeta, il quale, ferito nell’orgoglio perché Nerone aveva abbandonato improvvisamente una pubblica lettura della sua opera, concepì per lui un odio furioso: di qui la partecipazione attiva alla congiura organizzata da Calpurnio Pisone contro l’imperatore. Vacca, invece, attribuisce la causa della discordia unicamente all’invidia di Nerone: geloso per i successi letterari del suo giovane amico e persuaso che soltanto a sé dovesse spettare il primato non solo del potere, ma anche dell’attività artistica e poetica, l’imperatore gli avrebbe proibito addirittura di pubblicare i suoi versi e persino di svolgere il patrocinio delle cause nel Foro. Al di là dell’attribuzione delle responsabilità, comunque, le due biografie concordano nell’individuare le cause della rottura tra il poeta e il principe in una rivalità di carattere letterario.

Se anche vi fu qualche provocazione a sfondo letterario da parte di Nerone o di Lucano, questa fu solo un pretesto, che celava motivazioni politiche molto più ampie. La crisi fra i due uomini aveva la stessa motivazione di quella che opponeva, nello stesso periodo, Nerone a Seneca e Petronio: il progetto del principe di stabilire un potere assoluto a Roma e l’opposizione del senato a questo progetto.

Al principio del 65, dunque, Lucano aderì alla congiura contro l’imperatore capeggiata da Calpurnio Pisone, ma la congiura venne scoperta e i suoi partecipanti arrestati. Quando venne interrogato Lucano neg , secondo le testimonianze di Tacito e Svetonio, qualsiasi responsabilità; in un secondo momento, in seguito alla promessa di aver salva la vita, avrebbe confessato, denunciando addirittura la madre, che per non fu perseguitata.

Il 30 aprile del 65 il poeta ebbe da Nerone l’ordine di suicidarsi e, secondo l’uso stoico, si aprì le vene o se le fece aprire da un medico, dopo un lauto pranzo. Tacito racconta che Lucano, mentre moriva dissanguato, recitò un suo brano che descriveva l’analoga fine di un soldato ferito.

Il profilo letterario. L’accurata e rigorosa narrazione degli avvenimenti storici, scelti fra quelli non molto lontani nel tempo, ricollega il Bellum civile direttamente ai poemi epico-storici precedenti l’Eneide, quali il Bellum Poenicum di Nevio e gli Annales di Ennio. Nell’épos di Lucano è scomparso inoltre tutto l’apparato mitologico di concili degli dèi e interventi delle divinità nelle vicende umane, che costituiva un elemento centrale del poema virgiliano. Nell’Eneide Virgilio poneva il mito addirittura come fondamento dell’origine e della grandezza di Roma, che veniva così a costituire il supporto ideologico del principato stesso di Augusto. Nel Bellum civile, invece, Lucano colloca un fatto storico, la guerra civile, all’origine della dissoluzione della res publica e di tutti i mali presenti.

Ma il poema di Lucano è originale anche per un altro motivo: mentre l’epica tradizionale celebrava le nobili gesta degli eroi, degne di essere tramandate ai posteri, nel Bellum civile trionfano l’ambizione, la violenza, l’empietà, che spazzano via i valori tradizionali. Il moralista Lucano vede il presente come l’ultima degradazione di un passato glorioso, al quale va il suo inutile rimpianto.

Nella sua impostazione ideologica e nella sua realizzazione artistica, il Bellum civile appare come la netta antitesi dell’Eneide, come risulta evidente soprattutto dal confronto fra i libri centrali dei due poemi (VI). Nel poema virgiliano Enea, l’eroe destinato a un radioso futuro discende negli Inferi, guidato da una sacerdotessa, la Sibilla Cumana, per interrogare le anime dei defunti sulla riuscita del suo viaggio. Qui riceve dal padre Anchise, assieme all’assicurazione del successo, una profezia di gloria per la gente romana che da lui discenderà. Nel poema lucaneo, invece, Sesto Pompeo, un personaggio destinato alla sconfitta, con l’aiuto di una repellente strega fa risvegliare il cadavere di un soldato morto in guerra e ne riceve una sinistra profezia di morte e distruzione per sé e per l’Impero Romano. È evidente il determinato rovesciamento dell’ottimismo virgiliano.

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Questo era frutto del clima di pace e collaborazione fra intellettuali e potere instauratosi con la pax augustea, ma al tempo di Lucano quell’equilibrio era ormai rotto, né si intravedevano all’orizzonte prospettive di salvezza da un regime imperiale ormai consolidatosi definitivamente e che aveva già prodotto individui come Caligola e Nerone. Il Bellum civile è dichiaratamente antimperiale, esaltando gli ideali dell’opposizione repubblicana e i suoi rappresentanti più insigni, come Pompeo, Bruto e soprattutto Catone l’Uticense.

La base filosofica del Bellum civile risulta, almeno nominalmente, rigorosamente fedele ai canoni e ai dettami della dottrina stoica. Ma una drammatica contraddizione caratterizza singolarmente l’atteggiamento di Lucano: nel suo poema non troviamo un tranquillo abbandono e una serena fiducia in una superiore potenza provvidenziale, che trascenda e al contempo si prenda cura delle cose umane. Il Lógos stoico vi è del tutto assente.

Anche le figure cui Lucano sembra, sia da un punto di vista ideologico sia poetico, maggiormente aderire – come quelle di Pompeo, di Catone, di Bruto – rimangono isolate e frammentarie, nella desolata visione di un mondo ormai irrimediabilmente incamminato verso la sua fine, non illuminato da un raggio, anche tenue, di fede in una forza qualsiasi.

L’epica di Lucano è tragica e lo stile si adegua al contenuto: drammatico, retoricamente molto elaborato, anticlassico, antivirgiliano nella stessa struttura metrica dell’esametro, ormai lontano dall’armonica compostezza del verso dell’Eneide, studiato per ottenere particolari effetti espressivi atti a coinvolgere e a persuadere il lettore. Quintiliano definì quello stile «ardente e concitato» (Institutio oratoria 10, 1, 90), riferendosi probabilmente all’incalzante ritmo narrativo dei periodi, che si susseguono senza freno, mentre la frase si estende spesso oltre i confini dell’esametro, con largo ricorso all’enjambement.

Lucano mira a stupire il lettore ed è costantemente teso a cogliere ogni singolo particolare degli avvenimenti. Per caratterizzare sempre meglio il suo nuovo tipo di poesia impiega a profusione gli artifici linguistici e stilistici più disparati, tipici del gusto asiano, quali la collocazione dei termini che danno luogo a diversi schemi, le massime (sententiae) che quasi sempre iniziano il verso o lo concludono, le allitterazioni, i nessi stilistici come la variatio, l’anafora, la paronomasia, le insistenti antitesi.

Opere minori. Oltre al suo capolavoro, il Bellum civile o Pharsalia, Lucano compose varie opere, di cui ci restano solo i titoli o scarsissimi frammenti. Vacca ricorda un poema di argomento troiano dal titolo Iliacon («La guerra di Troia»), dei Saturnalia («Saturnali»), un Catachthonion («Discesa agli Inferi»), opera che riguardava, come suggerisce il titolo greco, un viaggio nell’oltretomba, 10 libri di Silvae, cioè componimenti di vario genere scritti in metro diverso, forse epigrammi.

L’autore si dedicò anche al teatro, con una tragedia incompiuta Medea, e 14 fabulae salticae, cioè libretti per pantomimi, una specie di rappresentazione consistente nella lettura con accompagnamento musicale, da parte di un attore, di un testo poetico, mentre un secondo attore mimava l’azione descritta dal primo.

Su temi di attualità erano due orazioni, una contro e l’altra a favore (sul modello delle controversiae) di un tribuno della plebe che aveva ucciso l’amante, un De incendio urbis, sull’incendio di Roma, 23 Epistulae a Campania («Lettere dalla Campania»).

Durante i Neronia, gare quinquennali di poesia, eloquenza e musica, istituite da Nerone e celebrate per la prima volta nel 60, l’autore compose delle Laudes Neronis («Elogio di Nerone») e un Orpheus («Òrfeo»). Più tardi, quando i suoi rapporti con l’imperatore degenerarono, rivelò in un carme d’invettiva le malefatte del principe e dei suoi cortigiani.

Il Bellum civile. I manoscritti intitolano il poema epico di Lucano Bellum civile («La guerra civile»), ma l’autore stesso sembra indicare l’opera come Pharsalia (9, 985-86: Pharsalia nostra vivet, «La mia Farsalia sarà immortale»), dalla località di Farsàlo, in Tessaglia, dove si svolse la battaglia finale della guerra civile. Si tratta di poco più di 8.000 esametri, suddivisi in 10 libri, in cui vengono narrate le vicende dall’inizio del 49 a.C. alla fine del 48 a.C.

L’evidente stato di incompiutezza è attestato sia dal fatto che l’ultimo libro si interrompe bruscamente al v. 546, risultando così inferiore per estensione a tutti gli altri libri del poema, sia dall’esplicita affermazione di Vacca, il quale non solo afferma che tre libri (forse i primi tre) erano già stati pubblicati in edizione definitiva, con ogni probabilità quando Lucano era ancora in vita, ma dichiara anche che i rimanenti libri dell’opera non dovrebbero, per lo stato di incompiutezza in cui furono lasciati dall’autore, essere oggetto di critiche eccessivamente malevole.

I primi tre libri del poema epico lucaneo comparvero in una fase in cui l’esperienza istituzionale augustea provocava inquietudini e non era chiaro in quale direzione si sarebbe evoluta. Questi libri, dunque, furono subito bene accolti da chi riteneva che l’attaccamento all’ideale libertario della tradizione dovesse conciliarsi con la realtà politica del tempo, costituita dal principato, dato storico ormai irrevocabile. Nella seconda parte del poema, però, si manifesta un pessimismo sulla natura del principato, che diventa vera e propria opposizione. La dissociazione fra gli entusiasmi iniziali manifestati nel proemio e l’approfondirsi del pessimismo durante il proseguimento del poema, è uno degli aspetti che hanno proiettato dubbi sull’unitarietà del poema di Lucano.

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Nessun personaggio infatti assume una vera e propria centralità, anche se l’azione ruota sostanzialmente attorno alle personalità di Cesare, Pompeo e Catone. Cesare, il fondatore dell’impero, domina a lungo la scena, con la sua malefica grandezza e la sua forsennata brama di potere, incarnazione del furor che un’entità ostile, la Fortuna, scatena contro l’antica potenza di Roma. Il dittatore rappresenta il trionfo di quelle forze irrazionali che nell’Eneide venivano dominate e sconfitte: il furor, l’ira e l’impazienza. Spogliandolo del suo attributo principale, la clementia verso i vinti, Lucano svela la deformazione ideologica operata dalla propaganda cesariana ai danni della verità storica.

La figura di Pompeo appare schiacciata dalla furia e dalla determinazione di Cesare. Non per questo Pompeo risulta come un personaggio positivo: è ambizioso e privo di scrupoli nel ricorrere alla violenza pur di realizzare i suoi scopi. Ma, soprattutto, condivide con il suo avversario la responsabilità della guerra civile: questa appare come un vero e proprio sovvertimento di ogni scala di valori morali, causa di una rovina irrimediabile e cosmica.

Catone, il campione del partito repubblicano, è rappresentato con i tratti di un «santo» stoico: decide d’intervenire non perché creda fermamente nel successo dell’impresa, ma perché la sorte, il Fato, hanno voluto che si trovasse a vivere in quel momento e non può sottrarsi alla scelta. Catone verrà sconfitto, ma il suo intervento avrà l’effetto di rigettare su Cesare la vergogna di aver combattuto i difensori della libertà. L’ammirazione di Lucano per Catone arriva al punto da fargli esclamare: victrix causa deis placuit, sed victa Catoni (1, 128: «la causa del vincitore piacque agli dèi, ma quella del vinto a Catone!»).

Nel proemio dell’opera, luogo privilegiato per esprimere il programma ideologico e artistico del poeta, emerge la tragicità della storia narrata: nel Bellum civile si tratta di una guerra civile, anzi fratricida, perché combattuta fra parenti: Pompeo infatti aveva sposato Giulia, figlia del rivale Cesare. Il personaggio di Cesare, forte e volitivo, si contrappone a quello di Pompeo, dominato da paura e indecisione e destinato perciò fin dall’inizio a soccombere. La dimensione drammatica è accentuata dalla totale mancanza di speranza: la caduta della libertas repubblicana e l’avvento del regnum costituiscono una svolta irreversibile per la storia di Roma.

PETRONIO

La vita. Oggi si identifica generalmente il Petronius Arbiter autore del Satyricon con il personaggio di cui parla Tacito nel sedicesimo libro degli Annales (capp. 18-19). Lo storico narra le vicende della congiura pisoniana, la cui scoperta, nell’anno 65, aveva causato un grande bagno di sangue: in quell’occasione persero la vita, tra gli altri, il poeta Lucano e suo padre Anneo Mela, il fratello di Seneca. Elencando le vittime di una seconda fase della repressione, Tacito dedica a Petronio due capitoli, l’uno contenente un ritratto e l’altro la descrizione particolareggiata della sua fine. Petronio vi appare come un uomo esperto di ogni vizio, che riesce a diventare elegantiae arbiter («arbitro di eleganza») nella cerchia degli intimi di Nerone e arriva a essere il suo consigliere nella ricerca dei piaceri più raffinati. Tuttavia, il personaggio mostra anche, in occasione del proconsolato in Bitinia e poi del consolato, grande vigore e capacità amministrativa. Fu proprio il prestigio conseguito a corte a destare l’invidia di Tigellino, il potente prefetto del pretorio di Nerone, che accusò Petronio di essere coinvolto nella congiura pisoniana. Caduto in disgrazia del principe, ricevette l’ordine di fermarsi a Cuma mentre cercava di raggiungere la comitiva imperiale. Per non soggiacere al capriccio del tiranno, decise di togliersi la vita, ma in modo tale che sembrasse una sua libera scelta e non un’imposizione, secondo i precetti dello stoicismo di cui era seguace. Nella descrizione della morte, lo storico sottolinea che Petronio si comportò all’opposto di quanto avevano fatto nelle stesse circostanze altri seguaci dello stoicismo, come Seneca e Tràsea Peto, rifiutando l’esibizione di una eroica morte «socratica».

Il profilo letterario. Il raffinato Petronio sembra rifiutare molti, talvolta opposti, aspetti del gusto contemporaneo: come sorride dei grossolani errori linguistici in cui cadono i liberti arricchiti, o dei tentativi poetici di chi scrive versi senza avere l’ingenium, così prende le distanze dagli eccessi del modernismo di cui Seneca e Lucano, zio e nipote, rappresentano gli esponenti più prestigiosi nella prosa d’arte e nella poesia. La critica nei confronti di Seneca va oltre il piano letterario: Petronio rovescia sistematicamente le idee del filosofo, celebrando quelle mode e quei comportamenti contrari alla natura diffusi nella moda del tempo.

L’ex schiavo Trimalchione è il parvenu per eccellenza: in tutte le sue manifestazioni tradisce la bassezza della sua origine, la volgarità della sua educazione, la grossolanità dei suoi gusti. Il suo amore per l’eccesso lo ha fatto identificare come la feroce caricatura di Nerone, ma in lui si deve piuttosto rintracciare la satira pungente di tutti quei liberti imperiali, i quali, con i mezzi più bassi (Trimalchione stesso dichiara pubblicamente di avere iniziato la carriera concedendo il suo corpo al padrone e alla padrona) erano riusciti ad ammassare ricchezze favolose.

È stata richiamata, a proposito del Satyricon, la categoria del «realismo» e in effetti il romanzo di Petronio costituisce il limite più avanzato cui sia giunta la rappresentazione della realtà nel mondo antico.

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Non è possibile comunque assimilare la forte tendenza al realismo di Petronio con le esperienze della narrativa ottocentesca naturalistica: il «realismo» petroniano costituisce infatti nient’altro che una particolare applicazione del canone aristotelico della «mimesi», l’«imitazione» della realtà che ispira tutta l’arte antica. Al Satyricon manca, rispetto al romanzo dell’Ottocento, l’intento di denuncia sociale che orienta in senso ideologico la narrazione.

Pur rimanendo misterioso il significato complessivo dell’opera, l’autore risalta comunque come un personaggio elegante e raffinato, disgustato ma al tempo stesso attratto dalle nuove classi sociali, portatrici di un sistema di valori estraneo alle tradizioni delle classi egemoni romane. Nel campo delle lettere, ha elaborato un’opera unica nella letteratura latina, al di fuori di ogni schema, ma al tempo stesso ha lasciato trasparire sia dai brani di poesia più ampi inseriti nel racconto, sia dalle teorizzazioni su oratoria e poesia, la nostalgia per quell’ideale di classicistica compostezza che i grandi poeti augustei avevano saputo realizzare nelle loro opere e che in età neroniana era stato soppiantato dal gusto per un modernismo spinto.

L’opera di Petronio è un documento linguistico prezioso, caratterizzato dal plurilinguismo: ci offre infatti brani di sermo vulgaris (linguaggio plebeo) negli interventi dei convitati della cena di Trimalchione e di sermo familiaris (linguaggio familiare) nel resto del romanzo. Numerosi termini latini dell’uso comune ci sono conosciuti solo attraverso l’opera di Petronio e di alcuni neppure comprendiamo bene il significato, in mancanza di confronti. Questo documento unico ci permette di misurare la distanza esistente nel I secolo d.C. tra la prosa letteraria di un Seneca e di un Quintiliano e altre forme di espressione.

Il Satyricon. Il titolo greco Satyricon trasmessoci dalla tradizione è un genitivo: (libri) di «Racconti satirici» o di «Racconti satireschi». Esso si giustifica col fatto che il romanzo presenta la mescolanza di prosa e versi tipica della satura e un forte elemento satirico, che si serve spesso di un linguaggio prosaico e volgare.

L’opera ci è giunta mutila della parte iniziale e molto lacunosa. L’episodio più famoso del romanzo, la Cena Trimalchionis («Cena di Trimalchione»), conservata da un manoscritto di Colonia fatto ricopiare da Poggio Bracciolini nel XV secolo, è a noi pervenuta attraverso un’ulteriore copia ritrovata a Traù in Dalmazia. Delle restanti parti possediamo i cosiddetti «estratti brevi» o excerpta vulgaria, compilati nel IX secolo e gli «estratti lunghi», risalenti al XIII secolo. Antologie del XIII-XIV secolo contengono massime morali estratte dal romanzo e la novella della «Matrona d’Efeso». La testimonianza di Fulgenzio (V secolo) e le annotazioni del codice di Traù permettono di ricostruire che quanto ci è rimasto corrisponde ai libri XIV–XVI del romanzo, all’incirca la decima parte dell’opera completa, che doveva constare di una ventina di libri. La narrazione è condotta dal protagonista Encolpio, mentre nella Cena Trimalchionis viene introdotto un «io-narrante» che non coincide esattamente né con il narratore né con l’autore.

L’opera di Petronio non è un vero e proprio romanzo: nelle letterature classiche infatti questo genere era composto tutto in prosa, mentre nel Satyricon s’incontrano numerose e talvolta lunghe inserzioni di brani in versi. È per questo che molti studiosi lo considerano un’enorme satira menippea, genere composito di prosa e versi, inventato dal filosofo cinico Menippo di Gàdara (II secolo a.C.); ma neppure tale definizione è del tutto soddisfacente, perché l’opera è troppo lunga per essere così classificata. Inoltre, la satira comporterebbe un intento moralistico e la proposta di un sistema di valori che è difficile scorgere nel Satyricon. Una critica agli eccessi di carattere sessuale non sembra in alcun modo presente nell’opera; semmai vi si può vedere un intento di derisione e di condanna per gli eccessi del cattivo gusto, sia nel campo sociale, con la rappresentazione di personaggi come Trimalchione, sia nel campo delle lettere, con la parodia epica della Troiae halosis.

Alla luce delle nostre attuali conoscenze, dunque, è difficile inquadrare perfettamente il Satyricon in uno dei generi letterari dell’antichità. Questa non riconoscibilità secondo gli schemi retorico-letterari è forse la causa del silenzio che dopo la morte del suo autore cadde sull’opera, mai citata direttamente fino al V secolo.

Anche la possibile allusione a contemporanei dello scrittore nei personaggi del romanzo ha fatto molto discutere. Oggi si è orientati ad ammettere che, se veramente Petronio ha voluto parodiare Nerone, lo ha fatto non certo nella figura di Trimalchione, quanto piuttosto in quella di Eumolpo. Questo personaggio è presentato come persona viziosa e corrotta, ma anche come poetastro maniaco, autore di un poemetto sulla distruzione di Troia, la Troiae halosis, e su questo stesso argomento anche Nerone compose un’operetta, che recitò durante l’incendio di Roma secondo una diceria riportata da Tacito. A favore dell’identificazione Eumolpo-Nerone depone anche lo scarso valore poetico del brano, giustificabile solo con un preciso intento parodistico.

Una trama: Satyricon. Il protagonista del Satyricon è Encolpio, un giovane proveniente, come ci informa una fonte posteriore, dal Nord e vagabondo nell’Italia meridionale, perseguitato dalla maledizione del dio Priapo, che lo ha privato della potenza virile. Suoi compagni di avventure sono l’amato Gìtone, un bellissimo ragazzo piuttosto disponibile al tradimento sentimentale, e Ascilto, un giovinastro spregiudicato aggregatosi successivamente alla coppia, perché attratto da Gìtone. La parte a noi giunta dell’opera si apre nella scuola del rètore Agamènnone: Encolpio discute col rètore delle cause che hanno fatto decadere l’oratoria. Poco dopo troviamo Encolpio e Ascilto al mercato di una Graeca Urbs, identificata con Napoli, Cuma o Pozzuoli, che intendono vendere un mantello rubato per rifarsi di un furto subito. Il caso vuole che riescano, dopo varie situazioni incresciose, a barattare il mantello con la tunica che era stata loro rubata: tanto più preziosa, perché vi avevano nascosto il loro denaro. Dopo aver costatato che le monete sono ancora tra le pieghe dell’indumento, rientrano felici della loro fortuna all’albergo.

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Mentre cenano ricevono la visita di un’ancella: hanno violato i segreti del dio Priapo e per questo sono invitati a una celebrazione espiatoria dalla sacerdotessa Quartilla. La cerimonia di espiazione consiste in pratiche sessuali di ogni genere, che mettono alla prova la resistenza dei malcapitati. Dopo tre giorni, i giovani vengono finalmente tratti d’impaccio dal servo di Agamènnone, che annuncia loro un invito a cena in casa del ricco Trimalchione. Segue la cena più famosa della latinità: la Cena Trimalchionis.

L’autore si sbizzarrisce nella descrizione delle discutibili abitudini e dello strepitoso lusso di un volgare arricchito che, per stanchezza di tutto, ogni giorno escogita novità. Gli affreschi della casa di Trimalchione illustrano allegoricamente, accanto a episodi dei poemi omerici, i momenti più salienti della vita del padrone di casa, un uomo «fattosi da sé». Le portate del banchetto, imbandite secondo complesse simbologie, ingannano sistematicamente i convitati con il loro aspetto; i discorsi del padrone di casa, che vorrebbero essere seri, muovono al riso, e quelli scherzosi inducono alla riflessione. Durante la Cena i convitati e lo stesso padrone di casa raccontano delle storie che rappresentano vere e proprie novelle: «Il vetro infrangibile», «Il lupo mannaro», «Le streghe». Il pranzo prosegue fra trovate di ogni tipo, finché il discorso cade sulla morte. Trimalchione, ubriaco, precipita allora nella tristezza più nera e molesta: si vede già morto e legge pubblicamente il suo testamento; quindi esorta i suoi ospiti a compiangerlo come se fosse morto davvero. Al baccano che gli adulatori fanno montare per compiacere il loro ospite, accorrono i vigili del rione, pensando che sia scoppiato un incendio. I tre giovani invitati approfittano di tale confusione per lasciare la casa di Trimalchione, dove l’atmosfera è ormai diventata insopportabile.

Nelle pagine successive Encolpio si ritrova solo, abbandonato dai due compagni e capita in una pinacoteca, dove incontra il vecchio e scalcagnato poeta Eumolpo. Il personaggio gli racconta le sue traversie, determinate dal fatto che ormai non si apprezzano più i frutti dell’ingegno, ma solo i beni materiali. Il discorso scivola sulla decadenza delle belle arti, e di fronte a un quadro, che raffigura la caduta di Troia, Eumolpo improvvisa un commento alla scena con 63 versi trimetri giambici: la cosiddetta Troiae halosis («La conquista di Troia»). Il pubblico non gradisce l’esibizione e costringe alla fuga i due con una gragnuola di sassi. Eumolpo sostituisce Ascilto nel terzetto e il racconto prosegue con l’imbarco della comitiva su una nave. Il comandante Lica e la cortigiana Trifena, che viaggia sulla nave, hanno avuto in passato relazioni sentimentali con Encolpio e Gìtone, dai quali sono stati abbandonati: nasce una violenta lite, che solo a fatica Eumolpo riesce a sedare. Durante il banchetto che segue, il vecchio poeta racconta la novella della «Matrona di Efeso». Scoppia una violenta tempesta, dalla quale i due giovani si salvano a stento raggiungendo a nuoto la spiaggia di Crotone. Lungo il cammino verso la città, Eumolpo declama 295 esametri di un poema epico sul Bellum civile («Guerra civile») tra Cesare e Pompeo.

A Crotone il poeta si fa passare per un ricco possidente africano che ha perduto tutto nel naufragio e viene adottato dai cacciatori di eredità; intanto Encolpio si innamora perdutamente della bella Circe, che non riesce a soddisfare sessualmente a causa dell’ira di Priàpo. Una maga, ingaggiata dalla stessa Circe, dà a Encolpio l’illusione di aver ricuperato la sua virilità, ma dopo un nuovo fallimento il giovane viene picchiato dai servi della matrona. Infine, il giovane riesce a vincere, forse definitivamente, la maledizione di Priapo grazie all’aiuto del dio Mercurio. Intanto Eumolpo si è seriamente ammalato e fa testamento, disponendo che gli eredi dovranno cibarsi delle sue carni se vorranno ereditare i suoi beni.

PERSIO

La vita. La vita di Aulo Persio Flacco fu breve: si svolse dal 34 al 62 d.C., tra la fine del principato di Tiberio e gli anni centrali del regno di Nerone. Discendente di una famiglia etrusca molto ricca di Volaterrae (Volterra), vicina alla nobilitas di tradizione repubblicana, Persio rimase orfano di padre a sei anni; a dodici anni fu condotto dalla madre a Roma, perché vi compisse gli studi di grammatica e di retorica sotto maestri celebri ai suoi tempi, Remmio Palèmone per la grammatica, Virginio Flavo per la retorica. Precocemente passò agli studi di filosofia.

Nel 50, a sedici anni, lasciò, secondo il costume romano, la toga praetexta, il vestito dei fanciulli, per indossare la toga virile. La via più naturale per un giovane della classe di Persio sarebbe stata la carriera militare e politica al servizio del principe. Tuttavia, la conoscenza di Anneo Cornuto, un noto filosofo stoico in stretto contatto con la famiglia di Seneca, impresse una svolta alla sua vita. Il maestro conquistò il giovane discepolo, che si dedicè appassionatamente agli studi filosofici e compose le Satire, in cui esprimeva la sua visione del mondo, influenzata dagli insegnamenti morali del maestro.

Tutta la breve vita di Persio si svolse al chiuso delle pareti domestiche, circondato dalle cure del precettore e di ben cinque donne: la madre, una zia, una sorella, la cugina Arria, moglie di Tràsea Peto, la figlia di questa. La mancanza di un’esperienza reale della vita, trascorsa tutta in un ambiente chiuso e protettivo, può spiegare la sensibilità morbosa per il vizio e l’aspirazione fanatica per la virtù di Persio.

Lo scrittore morì a 28 anni, per una «malattia di stomaco», come testimonia la Vita premessa nei manoscritti al testo delle Satire.

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Il profilo letterario. Illuminato dalla nuova verità dello stoicismo, dominato dal bisogno di liberare gli uomini e innanzi tutto sé stesso dalla schiavitù alle passioni, il giovane poeta sente un impulso irresistibile a pronunciarsi sulla corruzione del tempo, e sceglie di rompere con le mode letterarie del tempo, anche rischiando il discredito, l’isolamento, l’ostilità pericolosa dei potenti.

L’atteggiamento di Persio è frutto del particolare carattere assunto dalla letteratura a quel tempo, in relazione al mutamento della società. Durante il periodo giulio-claudio erano emersi nuovi ceti, che cercavano nella cultura il prestigio di cui erano privi. Per compiacere questo pubblico gli artisti tendevano a sfruttare tutti i virtuosismi dell’arte retorica, badando bene, nello stesso tempo, a non destare i sospetti del principe con qualche forma di impegno etico. I due generi privilegiati furono perciò l’epica e la tragedia, nei quali si poteva dispiegare la retorica in tutte le sue potenzialità ed elogiare il principe.

Secondo Persio, invece, scopo della poesia non è guadagnare vantaggi o compiacere il principe, ma conquistare la libertà morale. In relazione a questo fine, quindi, secondo Persio i generi letterari di successo all’epoca non solo sono inutili, ma anche dannosi: se infatti la libertà si ottiene conoscendo la realtà contemporanea e rifiutandola, questo tipo di poesia non può condurre alla libertà, perché con le sue astrusità si tiene lontano dalla vita o, peggio ancora, partecipa ai suoi vizi.

Il ritorno all’aggressività e all’espressionismo linguistico della satira luciliana è determinato da motivi politico-sociali e letterari: da un lato la gravità della situazione storica rendeva inefficace una critica bonaria condotta con i mezzi dell’umorismo, alla maniera di Orazio; dall’altro la retorica e il barocco espressivo erano ormai penetrati massicciamente nella poesia e neppure Persio, per quanto fosse critico nei confronti di tale letteratura, vi si poteva sottrarre.

La sperimentazione stilistica e linguistica di Persio non si può ridurre tuttavia a un prodotto delle scuole di retorica: lo stile impiegato è infatti funzionale allo scopo di rompere ogni equilibrio, di sovvertire ogni struttura organizzata dalla precedente cultura. Il linguaggio è lo specchio di un mondo deforme, disordinato, sconvolto quale appariva al moralista Persio.

La deformazione in senso barocco, che si avverte qualche volta già in Ovidio, che è così forte in Lucano e costituirà una componente essenziale anche nella poesia dell’età dei Flavi, rispondeva al bisogno di tentare vie nuove senza lasciarsi schiacciare dai recenti classici. La regolarità, la simmetria del mondo poetico augusteo si sono ormai dissolte, sostituite da un nuovo concetto di arte, intesa come movimento, vita, colore, in cui l’ingenium («ingegno») del creatore ha infinite occasioni di sperimentazione.

Anche il linguaggio è investito da tale crisi. I termini delle Satire appartengono in gran parte alla sfera delle realtà corporali che, in quanto esprimono un significato di per sé abominevole e abietto, rappresentano efficacemente la corruzione del mondo.

Da Lucilio, ma soprattutto da Orazio, Persio ha appreso l’uso elegante di lessico e stile aulico, specialmente epico, in funzione di parodia, e a questo effetto fa un certo uso anche dell’allitterazione. L’uso di termini umili ed elevati insieme è un procedimento teorizzato già da Orazio, la cosiddetta callida iunctura («abile accostamento»), ma secondo Persio l’autore satirico deve essere iunctura callidus acri (saturae 5, 14), cioè abile nell’uso di un accostamento «tagliente», «pungente»: la forzatura stilistica serve infatti alla demistificazione delle ipocrisie che, secondo l’autore, è lo specifico della satira.

Le Satire. Riviste da Cornuto e pubblicate da Cesio Basso, Le Satire sono sei, per un totale di 650 esametri. Assieme alle satire ci è pervenuto un breve brano in coliambi o trimetri scazonti, considerato dagli editori moderni come il prologo, ma che forse era originariamente l’epilogo della raccolta.

Non è possibile fissare una precisa datazione dell’opera, per la mancanza di riferimenti espliciti alla realtà contemporanea, eliminati puntigliosamente, come già detto, dal maestro Cornuto, preoccupato per le allusioni rivolte contro l’imperatore.

La satira era il genere poetico che, dopo il poema didascalico di tipo lucreziano, meglio permetteva a Persio di conciliare la sua originaria vocazione poetica con il nuovo amore per la filosofia. Per il tradizionale interesse ai problemi morali e alla vita quotidiana, la satira era infatti un genere particolarmente adatto a chi cercava una guida pratica per la vita, piuttosto che una spiegazione teorica per la vita e per il mondo.

Le satire di Persio sono incentrate su vere e proprie tesi di carattere morale, che derivano dai loci communes dello stoicismo e dalle tecniche delle declamationes; ma numerosi caratteri condividono anche con il poema didascalico di Lucrezio: ad esempio, la visione pessimistica della vita, l’assunzione della veste di guida filosofica nei confronti del lettore, la mitizzazione del maestro. Mentre però il poeta epicureo trae dall’idealizzazione di Epicuro un entusiasmo religioso, che lo stimola a diffondere il verbo filosofico, il poeta stoico reagisce alla perfezione di Anneo Cornuto con un sentimento di inadeguatezza, che lo precipita sempre più nell’abisso del pessimismo.