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133 5. IL VALORE DELL’OPERA FOTOGRAFICA Introduzione Non esiste un modo per valutare un’opera fotografica in termini ogget- tivi. Il prezzo è sempre e comunque il risultato di un processo simbolico di costruzione del significato, al quale prendono parte tutti gli attori del sistema dell’arte e della fotografia. Eppure, tutti gli elementi citati nel ca- pitolo precedente – come anche quelli che seguono – concorrono a spie- gare parzialmente alcune fondamentali componenti del prezzo, scelte nel sistema dell’arte come indicatori di un determinato livello di desiderabili- tà e quindi cruciali nel valutare, secondo pratiche consolidate eppure mai scritte, il valore di un’opera fotografica. La tiratura Quando si tratta di opere fotografiche, sia il mercato delle fotografie sia quello dell’arte contemporanea rispondono alla legge del numero chiuso, più comunemente detto “edizione”. Questa legge presenta le sue dovu- te eccezioni, che fino agli anni Ottanta erano piuttosto la regola, data la mancanza di un mercato strutturato rivolto al collezionismo. I fotografi che operavano allora si limitavano a firmare e datare le stampe, talvolta usavano un timbro, stampando “on demand”, su richiesta. Lo stesso Mario Giacomelli, il cui lavoro fu riconosciuto fin da subito da istituzioni di spicco del mondo della fotografia e dell’arte 1 , non sentì mai il bisogno di numerare le sue fotografie, di cui trattava personalmente il processo di stampa nella sua piccola tipografia nel cuore di Senigallia, sua città natale. Certo, poteva anche darsi che alcuni fotografi decidessero di numerare le loro stampe, ma senza che questa pratica implicasse un pre- sunto intento economico nella determinazione del prezzo. Eugene Smith, The walk to paradise garden, 1946 © Eugene Smith/Magnum Photos

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5. IL VALORE DELL’OPERA

FOTOGRAFICA

Introduzione

Non esiste un modo per valutare un’opera fotografica in termini ogget-tivi. Il prezzo è sempre e comunque il risultato di un processo simbolico di costruzione del significato, al quale prendono parte tutti gli attori del sistema dell’arte e della fotografia. Eppure, tutti gli elementi citati nel ca-pitolo precedente – come anche quelli che seguono – concorrono a spie-gare parzialmente alcune fondamentali componenti del prezzo, scelte nel sistema dell’arte come indicatori di un determinato livello di desiderabili-tà e quindi cruciali nel valutare, secondo pratiche consolidate eppure mai scritte, il valore di un’opera fotografica.

La tiratura

Quando si tratta di opere fotografiche, sia il mercato delle fotografie sia quello dell’arte contemporanea rispondono alla legge del numero chiuso, più comunemente detto “edizione”. Questa legge presenta le sue dovu-te eccezioni, che fino agli anni Ottanta erano piuttosto la regola, data la mancanza di un mercato strutturato rivolto al collezionismo. I fotografi che operavano allora si limitavano a firmare e datare le stampe, talvolta usavano un timbro, stampando “on demand”, su richiesta. Lo stesso Mario Giacomelli, il cui lavoro fu riconosciuto fin da subito da istituzioni di spicco del mondo della fotografia e dell’arte1, non sentì mai il bisogno di numerare le sue fotografie, di cui trattava personalmente il processo di stampa nella sua piccola tipografia nel cuore di Senigallia, sua città natale. Certo, poteva anche darsi che alcuni fotografi decidessero di numerare le loro stampe, ma senza che questa pratica implicasse un pre-sunto intento economico nella determinazione del prezzo.

Eugene Smith, The walk to paradise garden, 1946© Eugene Smith/Magnum Photos

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Era un modo, semmai, di tenere sotto controllo i materiali prodotti e identificare con facilità quelli approvati personalmente anche a distanza di lunghi intervalli temporali. La numerazione era usata in maniera più sistematica nel caso in cui, invece, il fotografo stampasse portafogli com-posti da diverse opere fotografiche per un committente o in occasione di eventi e mostre speciali. Luigi Ghirri, ad esempio, non produceva edizioni, salvo appunto casi spe-cifici quali i portafogli di fotografie stampati ad hoc per il Comune di Mo-dena o per la Riello Group Energy for Life negli anni Ottanta. Altri fotografi più giovani, come Gabriele Basilico, si sono convertiti alla logica dell’edizione dopo aver raggiunto una certa popolarità all’interno di un contesto artistico che richiedeva questa modalità di gestione delle stampe. Così, mentre la serie “Ritratti di fabbriche” (1978-80) non è edi-zionata, le produzioni successive sono vendute in esemplari di quindici, una numerazione comunque abbastanza alta che favorisce la diffusione a discapito di prezzi proibitivi.Un’altra pratica diffusa era quella di riprendere in mano i negativi e rea-lizzare nuove stampe, variando il contrasto dei grigi o le dimensioni della fotografia. Ansel Adams fece di questo processo di rimaneggiamento il suo marchio di fabbrica, muovendosi nella camera oscura come uno scienzia-to, sperimentando contrasti e ritornando concettualmente sull’interpre-tazione dei suoi scatti più sorprendenti. Il caso di “Moonrise, Hernandez, New Mexico” è esemplare: la fotografia è scattata nel 1941 e stampata per la prima volta nel 1942 come dono al MoMA, che la espone nel 1944 nel contesto della mostra “Art in pro-gress”. Nelle stampe prodotte prima del 1948 – pochissime in verità – il fotografo si concentra su tonalità soft e ampie scale di grigi, che risultano in una maggiore intensità del cielo e attenzione al dettaglio paesaggistico. Dopo suddetta data, hanno inizio le celeberrime sperimentazioni – circa milletrecento quelle tracciate nel mercato secondario – che modificano radicalmente il senso e il pathos dell’immagine, al punto da scatenare un dibattito che ancora oggi non ha trovato risposta. Quali versioni sono de-finibili vintage e quindi originarie, quelle dei primi anni Quaranta o quelle successive al fatidico 1948? Il MoMA, primo destinatario della fotografia, ha egregiamente detto “la sua” esponendo ben tre versioni della controversa “Moonrise” durante una retrospettiva dell’opera di Ansel Adams nel 2002; mentre il mercato ha ampliamente dimostrato di prediligere le stampe più datate e quelle

di dimensioni inusuali (i murali), in armonia con quanto detto circa il principio della rarità.In questo meccanismo di scambi discontinui dell’era della fotografia ana-logica è bene sapere, a titolo di curiosità, che alcuni fotografi un po’ sbada-ti perdevano i negativi originali dei loro scatti e, per riprodurre le imma-gini fotografiche, si rivolgevano a una tecnica non perfetta al 100%, ma piuttosto efficace: la duplicazione del negativo a partire da una qualsiasi stampa fotografica. Si racconta che William Eugène Smith vi si sia affida-to per rispondere alle richieste di una televisione americana, la CBS Sun-day Morning, che avrebbe sollecitato il fotografo a ristampare alcune delle sue immagini più famose, tra cui “The Walk to Paradise Garden” (1946)2.

Tra edizione e prova d’artista

Oggi l’edizione limitata e numerata è un passaggio obbligatorio per il fo-tografo interessato a lavorare nel mercato dell’arte. Il gallerista, o chi per lui si occupa delle vendite, tende ad appoggiare questa regola adducendo prevalentemente due motivazioni: la preservazione della rarità come fat-tore trainante del mercato e la possibilità di promuovere una produzione più diversificata dell’artista. Il timore diffuso è che, data l’illimitata ripro-ducibilità di una stampa, il mercato del collezionismo vada a concentrarsi su pochi scatti giudicati estremamente rilevanti o d’impatto, mettendo in crisi la produzione successiva dell’artista e la distribuzione delle opere fo-tografiche tra le diverse gallerie impegnate nella sua promozione. Si tratta, dunque, di una regola empirica che mantiene equilibrio tra le parti senza sconvolgere la realtà pre-esistente all’accoglienza dell’opera, tenendo vivo al tempo stesso l’interesse per la futura produzione fotografica dell’artista. Non per niente, gli Estate o i parenti dei fotografi defunti sono solita-mente molto rigorosi per quanto riguarda le ristampe e sono malvisti dal mercato quelli che scelgono la strategia della diffusione incontrollata delle stampe fotografiche a scopo commerciale, nonché coloro che dimostrano scarsa competenza tecnica relativa alla gestione del processo di stampa. L’Estate di Diane Arbus si distingue tra i modelli di eccellenza, al punto che, per gli scatti più rari della fotografa, la differenza di prezzo tra foto-grafia vintage e stampa contemporanea è minima, quasi trascurabile.Sempre nella logica del numero chiuso, si è sviluppata la pratica di realiz-zare da una a tre prove d’artista dell’opera fotografica, addirittura quattro

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Ansel Adams, Moonrise, Hernandez, New

Mexico, 1941 © Ansel Adams Publishing

Rights Trust/Corbis

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per il fotografo brasiliano Vik Muniz. Ci si chiederà a questo punto cosa distingua la prova d’artista dall’edizione classica. Una risposta esauriente richiederebbe di soffermarsi sul fatto che la prova d’artista non aveva ini-zialmente una destinazione commerciale, essendo spesso l’oggetto di un dono dell’artista a un collaboratore importante. Nel caso in cui le prove d’artista fossero più di una, le altre restavano di proprietà dell’artista ed erano usate per motivi espositivi. Oggi, invece, sono vendute alla stregua delle altre stampe, e non esiste quindi alcuna differenza sostanziale, tran-ne la forma. Per l’esattezza, cambia la numerazione, che sceglie i numeri romani invece di quelli arabi con i quali sono identificate le altre stampe dell’edizione.

Un’eccezione particolare

Vale la pena citare una situazione che sembra andare in senso contrario rispetto a quanto affermato: è il caso di Francesca Woodman, vissuta ap-pena ventidue anni eppure titolare di un corpus di ben 500 fotografie in bianco e nero e un libro d’artista. Le sue fotografie sono uno studio inti-mistico della propria identità, intrecciata a quella delle eroine dei romanzi di epoca vittoriana, da Colette a Virginia Woolf e Simone de Beauvoir, di cui era fervente lettrice. Sullo sfondo, stanze abbandonate, decadenti e vuote, costellate solo da qualche minimo oggetto. Queste fotografie di sapore surrealista sono uniche nel loro genere, al punto da essersi gua-dagnate l’interesse sia di istituzioni come la Fondation Cartier Pour l’Art Contemporain con sede a Parigi, sia di gallerie come la Photographer’s Gallery di Londra, in linea perfetta con la dualità di diffusione del lin-guaggio fotografico di tipo artistico.Oggi i negativi sono gestiti dalla famiglia, che tende a proporre edizioni piuttosto numerose di ogni scatto, oltre le venti unità. Questa scelta è stata spesso criticata sulla base della consuetudine del mercato dell’arte di trattare l’opera alla stregua di un bene di lusso, misurando dunque il suo successo economico in termini di prezzo e non di vendite. Ciò signi-fica che quando le due variabili crescono assieme ne deriva un senso di approvazione generale, ma quando sono disgiunte, si preferisce dare più importanza alla crescita della prima. Per comprendere fino in fondo l’indignazione degli attori del mercato di fronte a un’edizione considerata “troppo numerosa”, è necessario aggiun-

gere alcune altre considerazioni. Anzitutto, il fatto che i prezzi delle opere sono percepiti come indicatori di qualità e come tali non possono essere abbassati, salvo l’uso di escamotage che deviano l’attenzione verso il com-pratore – come appunto gli sconti – richiamando la logica dell’eccezione e la specialità del momento. Da qui deriva la difficoltà di dare un prezzo all’opera di un’artista, soprattutto se esordiente, che induce i galleristi ad appoggiare le proprie decisioni sulle caratteristiche fisiche del lavoro proposto, tecnica e dimensioni in primis3. La tecnica conta sia per il costo di produzione che per una gerarchia storica che vede la pittura e la scul-tura – e ormai anche l’installazione – primeggiare rispetto al disegno, così come il video rispetto alla fotografia. Ultima considerazione riguarda la qualità delle diverse opere dello stesso artista, che non è mai argomento di discussione: tutte meritano lo stesso interesse in quanto frutto della stes-sa mente geniale. Per tutti questi motivi, i galleristi spesso preferiscono perdere il potenziale surplus di guadagno derivante da un’opera che con-siderano più importante nel percorso dell’artista o che per un temporaneo fattore di moda pensano possa vendere più rapidamente.Per riprendere l’esempio di Francesca Woodman, le sue stampe fotogra-fiche sono piuttosto piccole, assolutamente antimonumentali e in con-trotendenza rispetto alle recenti sperimentazioni dimensionali realizzate con la tecnica digitale. Il fatto che l’artista sia morta giovane e che le sue fotografie siano anche diffuse in grandi quantità implica prezzi piuttosto bassi, giudicati poco rappresentativi rispetto al valore del suo lavoro. D’altra parte, si tratta di una scelta consapevole di una famiglia – entram-bi i genitori sono artisti – che ha preferito favorire la diffusione dell’opera della figlia piuttosto che la sua settorializzazione, per quanto questo non sia in linea con il pensiero dominante sul mercato.

Cosa scelgono gli artisti?

L’edizione è un modo curioso di gestire la numerosità delle stampe foto-grafiche relative allo stesso scatto. Andando a sommare prove d’artista, edizioni in piccolo formato ed edizioni in grande formato – o stampe a contatto versus ingrandimenti nel caso dell’analogico – le fotografie oggi possono raggiungere una quantità nominale ben superiore a quella delle fotografie stampate venti o trent’anni fa, alla faccia di chi pensava l’oppo-sto e chiamava in causa il principio della rarità.

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Certo è bene precisare che, in alcuni casi, quantità nominali e quantità reali non coincidono. Prendiamo l’esempio di Richard Avedon: dopo la sua morte, nulla è stato più stampato per volere espresso del fotografo. Così, nonostante di alcuni suoi scatti siano state dichiarate tirature fino a cento esemplari, è verosimile che siano molti meno quelli effettivamente in circolazione in seguito alla sua improvvisa scomparsa.Inoltre, artisti e galleristi sono piuttosto propensi a realizzare edizioni sì numericamente ridotte ma non uniche, e le differenze in dimensioni e tipologia di stampa sono spesso addotte a motivazione per riproporre uno scatto particolarmente apprezzato dalla critica e dal mercato. Senza che questo provochi alcun tipo di imbarazzo: di fronte a tante variazioni possibili talvolta i galleristi non conoscono la quantità reale delle stampe messe in circolazione dall’artista. Nel caso di fotografi e artisti come Beat Streuli e Armin Linke, la questio-ne si risolve in fretta in quanto entrambi lavorano prevalentemente con due formati, uno più piccolo e l’altro più grande cui corrispondono le rela-tive differenze di prezzo; non si può dire lo stesso dei fotografi che hanno vissuto a cavallo degli anni Ottanta, per i quali la questione dell’edizione si presenta piuttosto arzigogolata. Uno fra tutti, Martin Parr: le sue fotografie in bianco e nero sono edizioni aperte, probabilmente perché appartengono alle prime serie e non avreb-be avuto senso vendere in edizione scatti di cui erano già molte le stampe in circolazione. Al contrario, le fotografie a colori sono edizionate, ma secondo logiche ogni volta diverse. La serie “Common Sense” prevede un massimo di dieci esemplari ed è a discrezione del collezionista se scegliere il grande o il piccolo formato. Per la serie “Last Resort”, Parr ha invece scelto un’edizione aperta in piccolo formato – 51 x 76 cm – e una speciale edizione di cinque in grande formato. Questo per chiarire quanto possa essere difficile, per non dire impossibile, tenere le fila delle scelte di un artista. Fino a qualche tempo fa, alcuni fotografi pretendevano di fare chiarezza su questa pungente questione ad-ducendo una sorta di garanzia rispetto alla reale diffusione di ogni scatto fotografico: la distruzione dei negativi. Risultava però pressoché impossi-bile verificare che alla dichiarazione corrispondesse un’azione concreta, e il tutto si risolveva in una questione di fiducia e nell’idea che nuove edizioni di uno scatto fotografico formalmente distrutto sarebbero state difficili da vendere o comunque avrebbero provocato un calo della reputa-zione del fotografo. Oggi non si sente più parlare di questa soluzione, che

è stata millantata senza che ne derivasse una maggiore sicurezza e una concreta trasparenza tra gli operatori del mercato.Ad ogni modo, non è il caso di allarmarsi di fronte al temibile spettro della riproducibilità tecnica. L’edizione è prima di tutto una dichiarazione di intenti, un'informazione richiesta dalla galleria, ma poi si stampa in caso di necessità. La necessità può essere: l’acquisto da parte di un collezioni-sta o di un’istituzione, sempre più veicolato da e-mail e telefono, l’esposi-zione dell’opera durante una fiera commerciale o una mostra all’interno degli spazi della galleria. Per le mostre museali, se il costo di produzione dell’opera è inferiore al costo di trasporto della stessa dalla casa del collezionista o dal laborato-rio dell’artista, si tende a prediligere stampe ad hoc definite “exhibition prints”, volte anche a diminuire il rischio per il collezionista che l’opera riscontri danneggiamenti durante il viaggio. In ultima istanza, è sempre bene ricordare che la rarità ha certamente una sua componente puntuale nel presente, ma anche una temporalità derivante dal fatto che collezio-nare implica possedere, per un certo periodo di tempo, un’opera, e quindi preservarla dagli effetti degradanti che il tempo ha sugli oggetti.Sarà poi capitato a qualche lettore di imbattersi in galleristi che alla do-manda “Quanto costa quest’opera?”, abbiano risposto il fatidico “dipen-de”. È giusto chiarire immediatamente che si tratta di una strategia di ven-dita, per cui il mercante decide di elaborare prezzi crescenti proporzional-mente al numero delle stampe vendute, giustificando il metodo come una premiazione al collezionista che per primo scopre l’opera, senza tergiver-sare in attesa di conferme dal sistema (interviste, mostre, commissioni, cataloghi). Il fenomeno è piuttosto diffuso e la maggior parte delle volte è esplicitato dal gallerista o dal venditore, che indica non una cifra puntuale ma una fascia di prezzo.Non ultimo, per i più sensibili rispetto alle tematiche del sistema dell’ar-te e ai meccanismi di redistribuzione del reddito, vale la pena declinare poche e importanti osservazioni. Infatti, la questione dell’edizione e della limitazione artificiale dell’offerta comporta degli effetti concreti, andando anzitutto a privare il fotografo di un guadagno derivante dalla vendita di tutte le stampe richieste potenzialmente dal mercato per un certo scatto. D’altra parte, per quanto i prezzi più elevati di una stampa siano giustifi-cabili proprio nella logica di una indisponibilità, è molto più facile che au-mentino nel mercato secondario, in presenza di una platea di compratori interessati e rimasti insoddisfatti durante la prima sessione di vendite.

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I proventi derivanti dalla rivendita delle opere fotografiche nel mercato secondario non vanno però all’artista – eccetto nel caso in cui sia usato il canale dell’asta che è stato recentemente regolato per applicare il Diritto di Seguito4 – bensì al venditore.Ed è soprattutto nell’ambiente della fotografia professionale, accolta nel mondo dell’arte per l’eccellenza della sua ricerca, che continua a difen-dersi l’idea dell’edizione aperta. La scelta di non imporre una chiusura alla riproducibilità di uno scatto fotografico, coniugata agli usi e costumi di un mercato editoriale nel quale l’immagine e le informazioni sono ide-almente “di tutti” coloro che desiderano entrarne in possesso, sono tra le motivazioni sottostanti alla teoria dell’edizione aperta. Ça va sans dire, tra i sostenitori di questa metodologia ci sono i rappresentanti della vecchia scuola capitanati dal defunto Henri Cartier-Bresson, Elliott Erwitt, Joel Meyerowitz e l’italiano Ferdinando Scianna.

La dimensione

Nella fotografia analogica

Sono tanti i motivi per cui il grande formato è stato assunto a fattore iden-tificativo di una maggiore desiderabilità, un prezzo più elevato o entrambe le cose. Nel 1981 la G. Ray Hawkins Gallery di Los Angeles vende una fotografia di Ansel Adams per 71.500 dollari, il prezzo di gran lunga più alto pagato per un’opera fotografica, ancor più sorprendente in quanto il fotografo è ancora vivo. L’immagine è “Moonrise, Hernandez, New Me-xico” stampata in dimensioni di 100 x 140 cm5, un formato decisamente atipico per i tempi e per l’opera di Adams, che sceglieva più spesso misure in cui l’ingrandimento della stampa era gestibile nell’ambito dei limiti pratici derivanti dalla tecnica di quegli anni. La maggioranza dei fotografi a metà del Novecento stampa in grandi di-mensioni solo quando si tratta di enfatizzare gli effetti dell’immagine fo-tografica sull’osservatore e avvicinare l’impatto generato da una fotografia appesa al muro a quello di una tela. Queste stampe sono speciali, nel sen-so che affiancano e completano la produzione più copiosa nel formato ri-dotto, determinando una scissione nella produzione del fotografo: da una parte, stampe più grandi, visivamente stimolanti e rare; dall’altra stampe più piccole, stilisticamente perfette e diffuse sul mercato.

L’opera di André Kertész incarna perfettamente questa osservazione; fatto non secondario, infatti, stampe più grandi richiedevano maggiori lavoro e costo, ed erano quindi giustificabili a seguito di una ampia distri-buzione di un determinato scatto e del successo pubblico o critico, di cui Kertész poteva tranquillamente vantare. Nel caso di Dorothea Lange, il grande formato è un modo per conciliare l’aspetto artistico con un intento propagandistico, di cui è testimone la sua produzione socialmente impegnata inserita nel quadro della Farm Security Administration, una missione fotografica indetta dal presidente americano Franklin Delano Roosevelt in seguito alla crisi del ’29 per in-dagare le condizioni di vita della popolazione americana e infondere un sentimento di tenacia nei confronti della difficile situazione economica. Diversamente, quando Henri Cartier-Bresson propone stampe più grandi delle sue fotografie per la mostra del 1947, lo fa soprattutto a sostegno della tesi artistica, come dimostra la simultanea decisione di incornicia-re le fotografie lasciando intravedere i bordi del negativo, per mettere a tacere quanti sostenevano o avrebbero sostenuto che ritagliava le inqua-drature in fase di stampa. Non sono solo i fotografi a usare con oculatezza l’elemento dimensio-nale: quando Edward Steichen cura la mostra “The Family of Man”6 al MoMA nel 1955, fa stampare le fotografie in grande formato per accre-scere l’umanismo dei soggetti e colpire emotivamente gli spettatori con campi visivi più corrispondenti alla visione naturale del nostro occhio. La desiderabilità delle fotografie di grande scala deriva proprio da que-sto rapporto diretto tra occhio della macchina fotografica e occhio dello spettatore: tanto più la fotografia si ingrandisce, tanto più entriamo nella scena e abbiamo la sensazione di vedere “da protagonisti” ciò che ha ispirato il fotografo.

Nella fotografia digitale e digitalizzata

Nella fotografia contemporanea, digitale o – come spesso avviene – digi-talizzata a partire dal negativo in pellicola, la dimensione della stampa è elemento portante della ricerca di un fotografo e si estende a una parte dominante se non a tutta la sua produzione. Se ne sono accorti al North Carolina Museum of Art dove, in seguito a una politica di acquisizione di fotografia contemporanea, si sente l’esi-

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genza di dare vita a una mostra che racconti come il fotografo si sia ap-propriato del grande formato per dare nuovo significato alle immagini. Nel 2007 inaugurano “The Big Picture”, una mostra che mette insieme 23 opere fotografiche che “trasformano il vedere in un’esperienza parte-cipativa”, afferma la curatrice Linda Dougherty7. La tendenza è inaugurata qualche decennio prima da Jeff Wall con i suoi tableaux fotografici direttamente ispirati a opere pittoriche sostanziali della storia dell’arte: in “The Destroyed Room” (1978), ad esempio, la corrispondenza è con “La zattera della medusa”, un’opera di dimensioni imponenti realizzata nel 1819 dall’artista francese Théodore Géricault e fiore all’occhiello della collezione permanente del Museo Louvre a Parigi. Sempre a partire dagli anni Settanta, l’artista Barbara Kruger si avvale della fotografia in quanto strumento mediatico per eccellenza della cul-tura consumistica americana. Le immagini pubblicitarie sono diffuse su larga scala, stampate a basso costo e rispondono a un immaginario popo-lare – immediato e universale – con cui l’artista ha avuto a che fare agli esordi della sua carriera lavorativa in un’agenzia. Nella sua produzione artistica, fotografie di cui non conosciamo la pro-venienza – forse ritagli di riviste – sono ingrandite al punto da mostrare la grana della stampa a discapito della riconoscibilità del soggetto e par-zialmente coperte da slogan focalizzati su questioni politiche e sociali in cui domina un pensiero di matrice femminista. La celebre opera “Untitled (I shop therefore I am)” (1983) misura 282 x 287 cm, proprio come un manifesto pubblicitario da esterni, assumendo la duplice identità di spazio di critica ideologica e oggetto criticato al contempo. La dimensione ha quindi un aspetto mimico nei confronti della realtà, mentre il contenuto è artificialmente distorto, ingrandito, bloccato. Nelle sue fotografie monumentali, invece, Candida Höfer indaga lo spa-zio architettonico abitato dall’uomo coniugando lo sguardo oggettivo ere-ditato dai maestri Hilla e Bernd Becher con un fare antropologico. Le biblioteche, i teatri, i musei sono i soggetti più gettonati dall’artista, scelti come rappresentanti della nostra storia culturale. Il punto di vista è centrale, la percezione è di uno spazio puro, intonso, pronto ad accoglie-re la presenza dell’uomo che tuttavia già si percepisce nei piccoli dettagli dell’arredamento e nella disposizione razionale degli oggetti. La prospettiva rinascimentale domina la scena e l’ambiente che avvolge la parete ci invita a entrare e a rapportarci con una realtà frutto della no-

Dorothea Lange, Migrant Mother, California, 1936 © Dorothea Lange, courtesy of Library of Congress

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stra interpretazione occidentale dello spazio. Anche le fotografie di Tho-mas Struth, Thomas Ruff e Andreas Gursky – gli altri influenti esponen-ti della scuola di Düsseldorf – presentano l’elemento dimensionale come una scelta interna all’opera fotografica, inseparabile dalla sua concezione di fondo. Nei lavori di Andreas Gursky, in specifico, l’ingrandimento unito alla manipolazione digitale delle immagini fotografiche ha l’effetto di attivare nello spettatore una reazione critica alla società contempora-nea, alle degenerazioni consumistiche e a un senso di artificialità che le fotografie univocamente tendono a suggerire. In Italia, è nelle immagini dedicate alle architetture metropolitane di Oli-vio Barbieri che scala e manipolazione digitale, meglio ancora virtualità, definiscono il significato della fotografia. L’artificio è tale da alterare la percezione dello spettatore, che indotto in un primo momento a con-frontarsi con il tessuto urbano dai colori sgargianti catturato dall’occhio del fotografo, si ritrova afflitto dal dubbio che l’immagine non sia altro che una mise en scène, il modello di una contesto urbano familiare ma in qualche modo “altro” rispetto all’esperienza reale.

Se la fotografia professionale è appesa al muro

L’elemento dimensionale è condiviso anche dalla fotografia applicata – il fotogiornalismo e la fotografia di moda per intendersi – introdotta nelle istituzioni e nelle gallerie. Misure fino a due metri di base, combinate con stampe particolarmente vivide e penetranti grazie alla scelta del metodo cibachrome o cromogenico, trasmettono una nuova presenza alla stampa inaugurando un periodo di altrettanti dubbi e riflessioni sull’estetismo connesso a queste scelte tecniche. La questione si fa cruciale nel caso del fotogiornalismo, intimamente connesso con la rappresentazione del reale e del “ciò che è stato”, ma soprattutto mezzo di conoscenza di avve-nimenti drammatici come guerre, carestie, stati di emergenza dovuti alla povertà o all’inquinamento. A partire dalla seconda metà del Novecen-to, queste tematiche un tempo riservate esclusivamente alla documenta-zione fotografica, sono entrate nell’orbita della videocamera e ci hanno raggiunto attraverso la televisione, il cinema e, infine, i canali web come Youtube.com. A modificare ulteriormente modalità di ricezione e effetti dell’informazione è arrivato il digitale, che ci ha imposto il decisivo di-stacco dal credere all’oggettività dell’occhio fotografico, e ci ha spinto a

imparare a non giudicare più univocamente le immagini fotogiornalisti-che, ammettendo al contempo l’estetismo connesso a certe produzioni.Così siamo arrivati al passaggio successivo: l’accettazione di queste im-magini come qualcosa di più di una documentazione effimera e qualcosa di meno di una riproduzione oggettiva, spesso ponte verso il mondo “in movimento” del cinema e della televisione. Sono state le istituzioni dedi-cate alla fotografia a cogliere questa svolta metodica e concettuale, come l’International Centre of Photography di New York, fondato da Cornell Capa nel 1974 con la missione di “mantenere viva l’eredità di una foto-grafia impegnata”, che ha rivolto la propria attenzione negli ultimi anni al confronto tra fotografia e video, immaginando, nel consolidamento di questi due canali mediatici all’interno della società, un’espansione delle potenzialità stesse della fotografia. Questa riflessione è sviluppata e ap-profondita anche attraverso la Triennale di Fotografia e Video, che ha luogo dal 2003 presso la sede del museo.Stessi gli intenti della mostra itinerante dal titolo “Off Broadway”, giun-ta al PAC Padiglione di Arte Contemporanea di Milano nell’estate del 2005, che si proponeva come un punto di osservazione sul mondo attuale attraverso gli sguardi di sei fotografi dell’agenzia Magnum Photos. La frase di Pessoa, “Ma cosa stavo pensando prima di perdermi a guar-dare”, all’inizio del percorso, invitava lo spettatore a lasciarsi andare a un’esperienza visuale non convezionale: la mostra constava infatti di sei videoproiezioni e circa trecento fotografie di reportage e semplici fram-menti di immagini trovate, tutte prive di etichette indicanti autori, tempi e luoghi, tutte ugualmente piene e sensuali. Il titolo della mostra faceva da collante per questi materiali tanto diversi, richiamando l’idea di un teatro alternativo che rappresenta la realtà accet-tando l’imprevedibilità del risultato tipica di un approccio sperimentale.

Ma quanto realmente conta la dimensione?

Le critiche all’elemento dimensionale, diffuse con insistenza alla fine de-gli anni Novanta, continuano ancora oggi a ricordare allo spettatore che una fotografia non si giudica a partire dalla sua fisicità, perché l’autorità data dalla monumentalità è un fuoco fatuo, una scintilla pronta a spe-gnersi di fronte a un’altra fotografia stilisticamente simile. La dimensio-ne, ancora una volta, non è un fine e deve essere attentamente valutata

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all’interno dell’opera di uno stesso fotografo: se ben sintonizzata con gli altri elementi della fotografia scompare, si nasconde lasciando emergere narrative e poetiche relative all’immagine nella sua complessità. Motivo per cui connotare negativamente la scelta di stampare in grandi dimensioni è ugualmente un errore: la tecnologia ha aperto le porte a una nuova opportunità, fornendo un’inedita chiave di accesso a determinate fotografie e non solo una compensazione alla mancanza di contenuto di altre. Lo hanno capito gli artisti che hanno cominciato a lavorare negli anni Novanta e hanno trovato nella fotografia digitale e in un processo di stampa molto più facile e potenziato per gamma di opzioni, uno dei mezzi espressivi per eccellenza della propria pratica artistica.E in campo fotografico l’accoglienza è stata ancora più euforica, come già successo con altre introduzioni tecnologiche del passato, come la pic-cola Leica negli anni Trenta, che aveva fornito un impulso incredibile al fotogiornalismo. In fondo, la fotografia è sostanzialmente legata alla tecnologia e al suo progresso, e colui che se ne serve è ben consapevole della sua anima mutevole. In alcune circostanze, poi, la dimensione può modificare significativa-mente la percezione di un’opera. Wolfgang Tillmans è un esempio in-teressante a questo proposito: infatti, l’artista si è di recente dedicato a una produzione fotografica astratta e sperimentale, una linea di ricerca parallela rispetto a quella delle sue opere fotografiche passate, realizzata direttamente nella camera oscura senza l’ausilio della macchina fotogra-fica. Il processo, con ponderate esposizioni e operazioni che risultano in sottili graffi di colore, diventa così il soggetto stesso dell’opera d’arte, racchiusa in un foglio di carta fotosensibile di piccole dimensioni, 40 x 30 cm. Disinteressandosi al negativo, Tillmans crea un’opera unica, ori-ginaria, assimilabile a un disegno; quindi, una volta uscito dalla camera oscura, scannerizza l’opera e la ingrandisce al punto da occupare tutta la lunghezza di una parete domestica con un’altezza di circa 240 cm e una larghezza di quasi 200 cm, in edizione di 1 più 1 prova d’artista. Sul mercato, l’artista propone entrambe le produzioni, il “disegno” e la sua immagine ingrandita che rimanda piuttosto all’idea dell’affresco, tra-sformando segni e toni in paesaggi astratti. Certo è invece che nella maggior parte dei casi la scelta di variare le di-mensioni si configura piuttosto come un tentativo di aggirare l’artifizio dell’edizione, interpretato in maniera troppo restrittiva nell’ambito del collezionismo di arte contemporanea.

Le stampe vintage e contemporanee

Il concetto di vintage

Quando le fotografie si pesavano e si compravano guardando alla quan-tità d’argento e alla qualità tecnica della stampa, nessuno vi scorgeva le potenzialità di un linguaggio artistico. Il riconoscimento in questo senso ha sancito il valore di altre caratteristiche a discapito della tecnica, e il progresso ha aperto la strada alla tecnologia digitale, inaugurando una nuova era per la fotografia analogica. Le nuove tecnologie come la fotografia impongono sfide inedite al mercato dell’arte, basato tradizionalmente sul principio dell’unicità e dell’origina-lità. Da quando non si realizzano più opere singole, ma multipli infini-tamente riproducibili, esistono infatti due rischi concreti per il mercato dell’arte e i suoi fruitori: la banalizzazione dell’opera per la sua abbon-danza e diffusione, e la svalutazione sociale ed economica dell’arte per la sparizione del fattore della rarità. La necessità di estendere l’etichet-ta di opera d’arte ai nuovi linguaggi basati sulla tecnologia, che a livello estetico già influenzano quelli tradizionali, si accompagna alla scelta di lasciare invariati i canoni di valutazione dell’arte per non incappare in questi rischi.Si attivano allora meccanismi di creazione e controllo della rarità, che nella fotografia corrispondono a tre precise forme di escamotage: la firma, la numerazione delle stampe e la traslazione del concetto di autenticità, a supporto di una distinzione tra le diverse stampe di una fotografia. Que-sta distinzione ha portato negli anni Settanta alla diffusione del concetto di “vintage”, che qualifica la stampa eseguita a distanza temporale ravvi-cinata allo scatto della fotografia, tipicamente entro i cinque anni, ed è eleggibile di un prezzo premio rispetto alle altre stampe – tarde o moderne – esistenti del medesimo scatto. Una stampa vintage è sensibilmente più costosa rispetto alle altre versioni del medesimo scatto ed è sempre più interpretata in termini di investimento in quanto coniuga due garanzie, rarità e valore storico.Anzitutto la rarità, dato che fino alla seconda metà del Novecento era piuttosto difficile che un fotografo stampasse numerose copie dal nega-tivo, in quanto non esisteva un mercato in grado di assorbirle. La situa-zione cambia radicalmente con la diffusione della tecnologia digitale, che permette la perfetta riproducibilità delle immagini fotografiche, riducen-

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do l’impegno manuale richiesto per la realizzazione di ogni copia in ca-mera oscura. Per la prima volta le scelte riguardanti la stampa sono ge-stite interamente nell’ambito del programma di elaborazione fotografica installato sul computer e possono essere memorizzate per le successive necessità. Un risultato qualitativo garantito e a minore costo8, associato a un vivo interesse del mercato dell’arte per l’opera fotografica, induce quindi i fotografi a orientarsi verso una maggiore sperimentazione nei processi di stampa, negli ingrandimenti e nei supporti, dalla carta fotogra-fica tradizionale all’alluminio, senza mai tuttavia perdere di vista la rarità attraverso il meccanismo dell’edizione.Più di tutto però, il processo che permette di aumentare il valore di una determinata stampa fotografica a discapito di altre dello stesso scatto si basa sull’idea che un’opera vintage rispecchi più sinceramente le reali in-tenzioni del fotografo dal punto di vista tecnico e quindi del risultato: scelta della carta fotografica, tonalità, chiaroscuro, tipologia di stampa. Nel caso di immagini classiche di Ottocento e inizio Novecento, la dici-tura vintage può corrispondere anche a un maggiore pregio artistico dato dall’intensa profondità tonale delle fotografie stampate sulle carte foto-grafiche più datate, ricche di sali d’argento e via via sostituite con altre più economiche dai laboratori fotografici. La fotografia vintage può essere anche dieci volte più costosa di una stampa successiva, e questo ha richie-sto la parallela diffusione di meccanismi di trasparenza, volti a proteggere la buona fede del compratore da eventuali truffe, e di consulenti ad hoc. Per le implicazioni di natura economica, l’uso del termine vintage si è diffuso anche nei riguardi di stampe fotografiche usate in campo editoria-le e pubblicitario, dove manca la componente del controllo della stampa da parte del fotografo, al punto che ci possono essere ritagli e variazioni significative nelle tonalità senza che questi sia interpellato. Non da tra-scurare, inoltre, il fatto che in questi campi non abbondano professioni-sti della manipolazione e gestione delle fotografie, né vige un prioritario interesse verso la conservazione della stampa nelle migliori condizioni possibili.

Quando scegliere il vintage?

La fortuna di questo criterio di valutazione economica delle stampe ha avuto il difetto di non corrispondere spesso a una reale, percettibile diffe-

renza. Dunque, il concetto c’è nel senso che data del negativo e data della stampa sono inequivocabilmente vicine, ma è svuotato di vero significato e non spiega il motivo del valore economico addizionale della fotografia. Diversi sono i motivi per cui la stampa vintage può non rappresentare la migliore versione possibile dell’immagine. A volte sono i difetti conserva-tivi a oscurare l’effettivo beneficio derivante dall’acquisto di una stampa a dispetto dell’altra. Senza imbarazzi, invece, in alcune fotografie è davvero impossibile apprezzare a occhio nudo gli elementi identificativi del vin-tage. Certo, l’occhio del collezionista è meno tecnico e abituato di quello dell’esperto, ma ci sono casi – e molti – per i quali non si può affermare il primato della stampa vintage neppure da un punto di vista tecnico pro-fessionale. Ci sono, poi, fotografi il cui rapporto con la camera oscura si è evoluto nel tempo e, per loro stessa ammissione, le stampe tarde hanno forse una nota in più rispetto alle prime interpretazioni. Come Bill Brandt, il fotografo passato alla storia per aver raccontato, con una buona dose di sarcasmo, gli effetti della crisi economica nei diversi substrati sociali inglesi nel li-bro fotografico The British at Home (1936). Altri, invece, hanno cambiato sensibilmente il proprio approccio alla stampa. Imogen Cunnigham e il già citato Ansel Adams superano il tanto discusso criterio della perfetta riproducibilità fotografica, intensificando le versio-ni dei loro scatti con risultati sempre più drammatici.L’effetto vintage deve essere allora riesaminato con rispetto al caso spe-cifico. Infatti, il mercato tende sempre e comunque a conferire al vintage un prezzo tale da renderlo il corrispettivo di una stampa “di lusso”, senza alcuna aderenza rispetto alle qualità concrete della stampa. È la rarità in termini assoluti che conta. Ma oggi è giusto che un collezio-nista si faccia le sue domande e decida se – ceteris paribus – sia realmente intenzionato a pagare prezzi tanto superiori rispetto alle stampe moderne dello stesso scatto.Tanto più che sono ben rari anche gli operatori economici in grado di distinguere le differenze tra le diverse stampe. Nel mondo delle gallerie e delle agenzie che trattano fotografie vintage la questione è abilmente risolta con il certificato di autenticità, in cui si confermano data e pro-venienza della fotografia e si giustifica il prezzo pagato dal collezionista. Invece, le case d’asta hanno scelto di tutelarsi rispetto alle affermazioni dei propri esperti, dichiarando di garantire unicamente l’attribuzione no-minale delle fotografie vendute, anche se, nelle schede descrittive di ogni

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opera non mancano ricche congetture rispetto alle origini della fotografia. Basti pensare al controverso caso della fotografia di una foglia messa all’asta da Sotheby’s nella sessione newyorkese della primavera del 2008 e ritirata ufficialmente per la necessità di effettuare ulteriori accertamen-ti. La fotografia, trattata dalla stessa casa d’asta nel 1989 per un prezzo di 900 dollari, appariva nel catalogo di allora datata 1840-45 e attribuita a un collaboratore di Fox Talbot, anche se numerosi specialisti l’avevano considerata successiva e frutto di un’esperienza amatoriale. Lo studioso Larry Schaff, consultato da Sotheby’s e non estraneo a pre-cedenti collaborazioni con il venditore, azzarda invece che si tratti di un’opera di Thomas Wedgwood o James Watts, due gentiluomini che avevano compiuto numerose sperimentazioni in campo fotografico senza essere mai riusciti a stabilizzarle. La sensazionale questione della proto-fotografia raggiunge le più grandi testate internazionali stimolando una serie di obiezioni degli specialisti del settore che costringe la casa d’asta a ritirare il pezzo a cinque giorni dall’evento9. In passato la questione è stata risolta diversamente: nel 2001 è dovuto intervenire l’FBI per investigare il caso di numerose stampe vintage fir-mate da Lewis Hine, vendute all’asta negli anni Novanta per prezzi anche superiori ai 100 mila dollari. Uno dei collezionisti che se le era accapar-rate aveva svolto delle ricerche ex post, scoprendo che le stampe vintage di Hine non erano mai apparse in condizioni così ottimali come quelle di sua proprietà e, preso dal dubbio di essere stato truffato, aveva finalmente esposto le stampe al controllo degli esperti. Confermata la presenza di il-luminatori ben successivi alla morte di Lewis Hine, vi è stato un ricorso al tribunale e tutte le parti coinvolte sono state costrette a prendersi carico delle rispettive responsabilità pecuniarie. Resta la domanda: se il colle-zionista non si fosse accorto delle incongruenze, sarebbe forse rimasto lo status quo? E se le avesse rivendute in asta, sarebbero passate ancora una volta come opere vintage?Non mancano esempi meno sensazionali di errori grossolani nella com-pilazione delle schede tecniche delle opere fotografiche, sia da parte degli esperti – tutelati – delle case d’asta che degli assistenti di galleria, per cui il collezionista deve sempre svolgere una ricerca preventiva se acquista opere il cui prezzo è – teoricamente – giustificato sulla base di dettagli tecnici come appunto il vintage.Tutt’altro è il punto di vista nel mercato dell’arte, dove la stampa è sempre un argomento di difficile approccio in quanto rientra in quelle caratteri-

stiche tecniche del mezzo fotografico che sono state trascurate, anzittutto dagli artisti che se ne servivano negli anni Settanta per registrare il pro-dotto di happening, installazioni e situazioni anonime della vita quoti-diana, quindi dagli artisti che negli anni Novanta hanno cominciato a esprimersi attraverso molteplici linguaggi, incluso quello fotografico. Gli stessi addetti al mercato dell’arte, ormai abituati a tecniche artisti-che inusuali – rispetto alla sfera delle tradizionali belle arti – e a ma-teriali di provenienza domestica e quotidiana, hanno mostrato sempre meno interesse per gli aspetti legati al mezzo fotografico, soprattutto alla stampa, usata nel settore più conservatore della fotografia come fattore di discriminazione per valutare immagini anche molto diverse da un punto di vista concettuale e ragione dell’appiattimento di prezzi in tempi non sospetti. Queste osservazioni evidenziano ancora di più le differenze tra due mercati, quello dell’arte e quello della fotografia tradizionale, che per quanto tangenti e vicendevolmente debitori conservano le proprie speci-ficità e credenze, comprese le proprie regole interne di funzionamento.

Cosa cambia con il digitale

Le fotografie analogiche possono essere sbiadite, strappate, graffiate, rovi-nate da muffa, ferro, cancellature, corrose, sporche, ammaccate o piegate. Sappiamo però che la tradizionale emulsione ai sali d’argento e tutti i metodi utilizzati per fissare quelle immagini fotografiche su supporto ma-teriale – dall’albume d’uovo fino al platino o al palladio – hanno centrato il proprio obiettivo: rendere la fotografia eterna. Non possiamo dire lo stesso per la fotografia digitale, non ancora almeno. La tecnologia digita-le è, infatti, recentissima. È del 1972 l’annuncio dell’azienda americana Bell Systems circa l’uso di un dispositivo ad accoppiamento di carica ccd – charged coupled device – in una fotocamera a stato solido. Prima era stato l’incontro tra la tecnologia ottica – il principio della camera oscura basato sulla replica del sistema di rappresentazione della prospettiva ri-nascimentale (Leon Battista Alberti, De Pictura, 1433) – e quella chimica – l’uso di minerali sensibili all’effetto della luce – a permettere la creazio-ne di un’immagine fotografica. Durante lo scatto, un segnale continuo di informazioni si registrava in modo definitivo su un supporto trattato con un'emulsione al bromuro d’argento, in cui gli atomi si raggruppavano quando colpiti dalla luce che transitava attraverso l’obiettivo.

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Alle origini, le prime macchine fotografiche basate specularmente sul principio della camera oscura restituivano un’immagine del mondo reale a testa in giù, come suggerisce l’artista canadese Rodney Graham nella se-rie “Tree Portrait”, dove i suoi alberi capovolti sfidano la forza di gravità.Invece, il sistema di rappresentazione digitale recepisce lo stesso segna-le continuo di informazioni attraverso la tecnologia ottica, ma ingloba queste informazioni, invece che sulla lastra di vetro o sulla pellicola, su un ccd: un microchip di silicio ricoperto da una matrice di elettrodi che reagiscono al segnale generando delle piccole cariche elettriche tra di loro. Tre elettrodi formano un pixel e tanto più è elevato il numero di pixel, tanto maggiore è la possibilità che l’informazione sia precisa. In un secondo tempo, quanto selezionato dal ccd è convertito in un siste-ma binario per essere letto dal meccanismo computerizzato della fotoca-mera. Dopo il trasferimento dei dati il ccd, al contrario della pellicola e della lastra di vetro, torna vergine e può accogliere nuove informazioni dalla realtà.Il mercato delle fotocamere digitali si è sviluppato soprattutto a partire dagli anni Novanta, in risposta a una diffusione di prodotti di fascia alta e di largo consumo. Nel frattempo sono stati risolti i problemi iniziali, che includevano consumi di energia e livelli di rumore elevati, limiti nei supporti di memoria, lentezza del funzionamento, qualità scadente del-lo schermo lcd che sostituisce il mirino. Eppure, restano delle questioni aperte in riferimento alle immagini fotografiche digitali prodotte in questi ultimi anni. Come conservarle? Quanto durano le impressioni e quali pos-sono essere i fattori di degrado?I tecnici stanno ancora studiando la qualità e la permanenza dei toni e dell’immagine, ma già iniziano a delinearsi i primi criteri empirici di va-lutazione. Argomento non secondario, dato che nel digitale “come in tutti i processi di acquisizione ed elaborazione delle immagini, è il risultato finale che conta”10. Tanto più che oggi si stampano in digitale anche foto-grafie nate sotto il segno dell’analogico, scannerizzando opportunamente il negativo. Gli Estate di Luigi Ghirri e William Eggleston adoperano, ad esempio, la tecnica della stampa a inchiostro, che sostituisce la stampa cromogenica e quella per trasferimento di coloranti, usate dai due foto-grafi negli anni Settanta e oggi sempre più rare.Nella macroclasse della stampa a inchiostro vige, comunque, una differen-za tra i due ingredienti principali, che sono alternativamente i coloranti (dye based) o i pigmenti (carbon based). I primi penetrano nel supporto

di stampa e ciò favorisce una finitura resistente e una certa trasparenza e ampiezza cromatica che ricordano il procedimento per trasferimento di coloranti. I secondi restano in superficie ma garantiscono una notevo-le stabilità anche se esposti a forte illuminazione come spesso accade in occasione di mostre. Ma è soprattutto nei confronti del tempo che questi due ingredienti mostrano la loro vera natura. Mentre il colorante tende, infatti, a essere completamente assorbito dal supporto, risultando in una minore permanenza dell’immagine; il pigmento sembrerebbe poter dura-re fin a 200 anni in condizioni ottimali, ed è per questo che è favorito per le fotografie d’archivio.Accanto alla stampa a inchiostro, un altro tipo di stampa digitale parti-colarmente apprezzata da fotografi e artisti è quella laser con tecnologia Lambda, che permette di ottenere un’immagine nitida anche in grandi dimensioni per la totale assenza di retino, coniugandovi un’ampia gamma di toni e sfumature.

La firma, il timbro e altre annotazioni

Quando, negli anni Venti e Trenta, le fotografie erano destinate alla car-ta stampata, la maggior parte di esse erano anonime, anche nelle riviste di circoli d’arte come quello surrealista. Non esistevano meccanismi che premiassero l’autenticità dell’opera fotografica e l’attenzione era comple-tamente rivolta allo scatto. Certo non sono mancate eccezioni tra quei fo-tografi che sempre hanno protetto il lato artistico del loro lavoro frequen-tando movimenti e associazioni dedicate alla fotografia, come il gruppo di Camera Work (1903), f/64 (1932) o la Photo League (1936). Edward Weston, ad esempio, già in quegli anni collocava le sue iniziali sul fronte della stampa poi aggiungeva la data e una particolare numerazione sul retro.Naturalmente, le cose sono cambiate: firma, timbro e annotazioni non sono più un’eccezione, ma piuttosto la regola e vale sempre la pena con-sultarsi con uno specialista del settore prima di acquistare una fotografia che non rechi almeno uno di questi riferimenti all’autore. Per i fotografi contemporanei, se ne occupano i soggetti deputati alle vendite che han-no un rapporto continuativo con l’artista in questione, fatto che si può facilmente verificare attraverso qualche domanda di rito: ultima mostra presentata, opere in magazzino o reperibilità dei lavori recenti.

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L’impresa si complica nel caso di fotografi defunti, che hanno calcato aree di sperimentazione eterogenee e sono stati così accolti tanto nel mondo editoriale che in quello artistico. Le loro opere sono estremamente di-sperse e spesso i familiari che hanno ereditato il patrimonio di negativi e stampe rimasti nello studio non hanno le competenze tecniche per ar-chiviarli e conservarli. Fortunatamente, e soprattutto da quando le foto-grafie hanno maturato un valore economico nel mercato dell’arte, si sono diffuse fondazioni create dagli stessi fotografi o dai citati eredi per gestire l’eventuale ristampa delle fotografie e il processo di autenticazione dei materiali fotografici in circolazione.Alcune di queste fondazioni hanno recepito le regole del mercato dell’arte e della fotografia in modo severo, abbinando la scelta di edizioni ridotte a livelli qualitativi elevati della stampa, come l’Estate di Diane Arbus; altre hanno stabilito invece di non stampare più, affidando la completa gestione delle stampe fotografiche già in circolazione ad alcune gallerie con contratti più o meno esclusivi a livello geografico e internazionale. Tra queste, le Fondazioni di Helmut Newton, quella di Robert Mapple-thorpe e di Henri Cartier-Bresson, tutte create dai fotografi stessi poco prima di morire. Altre ancora, come l’Archivio Mario Giacomelli, vende direttamente dal sito internet le fotografie dell’artista, specificando che si tratta di quelle stampate da Giacomelli stesso e accumulate negli anni nel suo studio.

La firma

Ecco un elemento che oggi mette tutti d’accordo: la firma sulla stampa. C’è chi preferisce collocarla davanti alla fotografia, in basso a destra, memore degli usi e costumi dei pittori che non hanno mai mancato di affermare la paternità delle proprie creazioni con grafie che quasi riproponevano in piccolo le forme e le modalità di creazione del dipinto. Che dire altrimenti della sofisticata firma di Magritte o di quella sconclusionata di Picasso, entrambe manifesto del carattere artistico dei due autori? Altri, la mag-gioranza, firmano sul retro, accompagnandovi anche la data, il luogo ed eventualmente il titolo dell’opera o della serie; spesso scrivendo a matita per evitare possibili inconvenienti di tipo conservativo che possono deri-vare dall’uso di pennarelli.Recentemente, alcuni fotografi e artisti hanno scelto una terza via, quella

dell’etichetta da applicare sul retro della fotografia con tutti i dettagli del caso, compreso il logo della galleria che tratta il loro lavoro. Martin Parr e Guy Tillim, ad esempio, hanno optato per questa modalità, che consente di vendere la stampa nel passepartout, lasciando piena libertà al collezio-nista circa la decisione di applicarla su alluminio, inserirla in una cornice colorata o appenderla tale e quale al muro.

Il timbro e le annotazioni

L’uso del timbro è un costume del fotografo più che dell’artista. Può essere tradizionale o a secco e si accompagna spesso con altre forme di identifica-zione quali firma, data e annotazioni personali di varia natura.Tra gli estimatori del timbro a secco c’è il fotografo brasiliano Sebastião Salgado, che tratta le proprie fotografie attraverso l’intermediazione di Amazonas Images, l’agenzia da lui stesso costituita a Parigi nel 1994. Le sue fotografie si riconoscono per la timbratura a secco sul fronte della stampa, con il nome esteso del fotografo, e per l’aggiunta sul retro, in ma-tita, delle informazioni relative a titolo e data dell’opera, nonché la firma.Storicamente diffuso, il timbro tradizionale è oggi usato soprattutto dagli Estate che curano la produzione del fotografo defunto o ristampano – se abilitati – alcune delle fotografie più famose in edizione. Le ristampe dell’Estate di Herbert List, membro Magnum e stimato foto-grafo di moda presso la rivista Harper’s Bazaar, riportano il timbro della Fondazione e il nome e cognome di colui che se ne occupa, Olaf Richter. Al contrario, Simone Giacomelli, figlio del fotografo di Senigallia, si li-mita ad autenticare le foto del padre tramite l’opera dell’archivio a lui dedicato e ha scelto il timbro dopo un primo periodo in cui certificava con la propria calligrafia l’autenticità della stampa. Il timbro tradizionale vanta di per sé alcune qualità informative aggiuntive rispetto alle altre forme di riconoscimento e riconducibili alla presenza di caratteri formali e/o contenutistici, come ad esempio l’indirizzo dello studio del fotogra-fo. Nell’universo fotografico di Gianni Berengo Gardin, che conta più di un milione e trecentomila scatti, l’indirizzo dello studio è talvolta l’unica fonte informativa da cui dedurre il periodo storico di esecuzione della stampa, in virtù dei numerosi traslochi affrontati dal fotografo, errante tra Italia, Francia e Svizzera e sempre attento ad aggiornare il timbro. Per quanto concerne le annotazioni, c’è da sbizzarrirsi.

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Non mancano didascalie, numeri di archiviazione, date, luoghi, dediche ma anche dichiarazioni di intenti, se così può essere definita la frase “Fo-tografia non manipolata al computer” che recentemente applica Gianni Berengo Gardin alle sue stampe fotografiche in aperta polemica con la diffusione della fotografia digitale. Nel vintage, invece, si trovano soprat-tutto le dediche, poiché le stampe erano spesso doni personali ad amici e sostenitori.

Comprare una serie o una foto singola?

L’universo fotografico possiede una tale varietà, che rispondere univo-camente a questa domanda è impossibile. Tuttavia, analizzando caso per caso in profondità, è possibile capire la genesi e il significato di una fotografia, e di conseguenza scoprire se, estrapolata singolarmente da una serie, possa mantenere intatto il suo valore comunicativo.Scorrendo un catalogo di fotografie datato anni Settanta, non è raro trovarsi di fronte ad una sequenza di immagini che si dipanano come le diapositive di un viaggio o i frammenti di un paesaggio, la cui unità implica la possibilità di un concetto più chiaro e autentico.Il linguaggio seriale delle fotografie dei Becher o i pensieri per imma-gini di Luigi Ghirri ne sono un esempio, tanto più che coniugano un aspetto di ricerca concettuale che permea le singole fotografie e il tutto con un fare documentario, per cui sembra ogni volta di essere davanti all’inquadratura di una realtà significativamente più ampia. Anche nel contemporaneo, molti fotografi restano intimamente legati all’idea di sequenzialità che si trova nel reportage, nell’archivio o ancora nel pro-getto editoriale, prima destinazione privilegiata della fotografia. E non è una tendenza circoscritta quanto una scelta diffusa, che può riguar-dare il fotografo e l’artista in tutto o in una parte specifica dell’opera, attraverso i diversi generi fotografici, nella fotografia di moda, come nel ritratto, nel paesaggio o nel fotogiornalismo.Osservando l’approccio di due fotografe coetanee rispetto al tema del ritratto femminile, la ceca Jitka Hanzlová e l’olandese Rineke Dijkstra, la questione posta risulta senz’altro più chiara. Nella serie “Female” (1997-2000), la prima ha indagato la condizione della donna rivolgendo la propria attenzione a sconosciute incontrate per strada. Le sue fo-tografie accendono un confronto tra queste varie figure, in un dialogo multiculturale che fa emergere un punto di vista sul mondo e il nostro modo di abitarlo. Nelle numerose serie fotografiche dedicate all’univer-so della donna, Rineke Dijkstra è, invece, interessata non allo spazio quanto al tempo e ritorna anche sui medesimi soggetti a distanza di anni per leggere nella loro attitudine, nello sguardo e nelle movenze, i segni di un cambiamento. Oppure si concentra su una determinata condizione come può essere quella dell’adolescenza, della gravidanza o del servizio militare. Immagini fotografiche ugualmente ritrattistiche possono avere uno

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sbocco diverso nel collezionismo. Jitka Hanzlová vende di solito le fo-tografie singolarmente, ma la possibilità di comprarne più di una relati-va alla stessa serie apre un nuovo orizzonte riflessivo sottile per capire la filosofia della fotografa, il concetto e la narrazione interna all’imma-gine e il dialogo con le altre della serie. E il discorso nel suo caso vale anche per la serie “Forest” (2000-2005), cui non a caso è stato dedi-cato il progetto artistico di destinazione libraria della casa editrice te-desca Steidl. Al contrario, Rineke Dijkstra pensa ogni fotografia come un’entità singola, fusa in un unicum essenziale coniugando gli aspetti formali – come la luce, il colore e la composizione – e informali – come lo sguardo del soggetto o la sua gestualità.

I prezzi delle opere storiche e del contemporaneo

Alle conversazioni organizzate da Art Basel 05, Maria De Corral, ai tempi curatrice della collezione di arte e fotografia dell’impresa di te-lecomunicazioni spagnola Téléfonica, affermava: “quando l’arte con-temporanea supera nel prezzo il materiale storico, allora sai che c’è un problema. Eppure, anche se il problema è di facile definizione, non saprei come risolverlo”11. Non lo si può negare, è un fenomeno piuttosto strano, e nel campo della fotografia pure usuale. In passato si trattava di casi specifici, che in un mercato inesistente riuscivano comunque ad attrarre su di sé l’attenzione; Ansel Adams, Stephen Shore, Mario Giacomelli tra gli altri. Ma oggi più che mai, il valore aggiunto accordato alle opere contem-poranee rispetto a quelle storiche è un caso di interesse sociologico ormai generalizzato.Si potrebbe avanzare un’ipotesi che fa leva sul meccanismo identita-rio innestato dalle immagini fotografiche. Le ambientazioni ricercate o ricreate nelle fotografie a partire dagli anni Novanta fanno spesso esplicito richiamo al materiale fotografico documentario di cinquanta anni prima, aggiungendo riferimenti all’attualità presi a prestito dalle mitologie collettive di un pubblico non specializzato. Nelle immagini di Andreas Gursky prendono forma architetture e pae-saggi identificabili con l’ausilio di titoli rivelatori: scopriamo così che la decadente costruzione multipiano che occupa a tutta pagina la stampa fotografica “Montparnasse” si trova nell’omonimo quartiere parigino caratterizzato per l’eleganza dell’architettura di epoca haussmaniana, nel quale però esistono edifici di costruzione post guerra di dubbio gusto e dimenticati dalla municipalità. Questa immagine colpisce ini-zialmente per la sua presenza fisica, alterata e rafforzata digitalmente tale da diventare più reale del reale; poi affiora il dialogo con le linee geometriche dei quadri di Mondrian e con il rigore documentario delle fotografie dei nuovi paesaggisti degli anni Settanta, da Lewis Baltz ai coniugi Becher, maestri di Gursky.Quando arriva in asta, però, emana un appeal inedito, un’autorevolez-za non paragonabile a quelle dei fotografi citati. Stesso discorso per le opere di fotografi contemporanei la cui pratica sembra a primo impatto molto distante: le immagini di Gregory Crewdson, ad esempio, che si

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rifà al tradizionale stile documentario di Walker Evans esaltando un’at-mosfera di suspense tipica dei film di paura di David Lynch e Stephen Spielberg; le fotografie concettuali di Cristopher Williams e i ritratti di Collier Schorr e Rineke Dijkstra, riflettendo sull’identità del soggetto nella fotografia familiare, sembrano invitare lo spettatore a eliminare le distanze tra l’esperienza personale e la storia della fotografia.Queste immagini sono epifaniche, raccontano una storia verosimile ma la presentano con tale precisione e imponenza da accentuare il processo di identificazione tra immagine e reale. La grandezza/gran-diosità della stampa e l’uso sensibile del colore, oltre a un inquadra-tura interna alla scena, non lasciano scampo. Il principio di originalità che le contraddistingue sta dunque nella capacità propria dell’imma-gine di essere per l’osservatore un monumento alla velocità e alla società contemporanea, ma al contempo anche una scena autonoma da un preciso contesto spazio-temporale. Per questo non è un errore dire che spesso i collezionisti interessati a queste immagini fotogra-fiche sono più interessati all’immagine che al percorso artistico di un certo fotografo: la forza dell’immagine e il suo esclusivo contatto con lo sguardo dell’osservatore diventano il punto focale di un’intesa che si intensifica nel tempo e determina l’ascesa dei prezzi di certe imma-gini a dispetto di altre. È per questo anche che qualunque previsione rispetto ai prezzi di queste immagini fotografiche può sembrare oggi un calcolo inutile e affrettato: la questione è ancora in pieno svolgimento e riguarda il no-stro rapporto con una realtà che tende a sfuggirci di mano e ci porta a rifugiarci in queste immagini a metà strada tra fatti concreti e imma-ginario, un punto di appoggio e di autodefinizione rispetto al mondo.

1. Nel 1964 John Szarkowski, allora direttore del Dipartimento di Fotografia del MoMA di New York, acquista alcune immagini di Mario Giacomelli della serie dedicata a Scanno. Negli anni successivi lo include nella celebre mostra “The Photographer’s Eye” (1966), mentre il suo lavoro è sempre più presente nel panorama istituzionale internazionale, dal Baltimore Museum of Art al George Eastman House. 2. La fotografia chiudeva il percorso della storica mostra “The Family of Man” (1955), curata da Edward Steichen al MoMA di New York.3. La decisione deriva dall’impossibilità di effettuare una previsione circa l’interesse dei collezionisti nei confronti di una ricerca artistica inedita e le singole opere presentate. Que-sto limite oggettivo si unisce al fatto che il mercato dell’arte non brilla per trasparenza e prezzare individualmente le opere – senza una coerenza di fondo – può provocare un senso di disordine nel collezionista e la percezione di essere vittima di un imbroglio. 4. Si veda il box dedicato al Diritto di Seguito .5. Le misure in pollici sono 39 x 55 e un pollice equivale a 2,5 cm.6. “The Family of Man”, la mostra curata da Edward Steichen al MoMA e finanziata in parte dal U.S Information Service e dall’azienda americana Coca Cola, è stata spesso nel mirino dei critici e degli osservatori che vi hanno visto uno strumento di manipolazione politica. 7. Dal sito del North Carolina Museum of Art: www.ncartmuseum.org.8. Si intende il costo complessivo, che include denaro e manodopera.9. Per un approfondimento sulle argomentazioni del caso, si consiglia l’articolo di Alex Novak pubblicato sulla newsletter E-Photo # 148 del 28 Settembre 2008.10. Dizionario della fotografia (Einaudi 2009) a cura di Gabriele D’Autilia e Robin Len-man.11. Maria de Corral, Art Basel Conversations, giugno 2005.

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Note

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