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N ON CONCEDE BIS P AOLO Conte ol- tre all’ormai co- nosciutissimo «Via con me» che lascia infine canticchiare ai suoi affe- zionati. Ci accoglie con otto brani, famosissimi e suonati tutti d’un fiato, eccetto per la bellissima «Il quadra- to e il cerchio», con cui apre il concerto, e «Bella di giorno», canzoni che appartengono all’album Psiche, quest’ultima «virago» dal gusto un po’ retro. Incanta la rivisitazione di «Bartali», come un nastro alla moviola, si srotola, lenta e rivelatrice. Ammalia la lampada araba di «Psiche» con cui riapre la seconda parte del concerto, questa volta con l’orchestra sinfonica di Venezia con i suoi ottanta elementi e i gli eleganti solisti del Teatro la Fenice diretti dal maestro Bruno Fontaine. Resta al suo pianoforte Paolo Conte per raccontarci ancora una volta la realtà così com’essa ci appare, ac- compagnato dai suoi musicisti, «impareggia- bili scudieri», tutti bravissimi e accordati a un linguaggio musicale colto e letterario. Ci sono mancati brani come «Leggen- da e popolo», «Big Bill» e la visionaria «Berlino», accontentando il pubblico con brani come la notissima «Max» o «Gli impermeabili» in cui non manca- va di descriverci un’Italia dai sapori tra- scorsi. Nell’ambito del Venezia Jazz Fe- stival ci ritroviamo nel seducente scena- rio di piazza San Marco per un incontro unico tra musica e parola. Il concer- to se ne va sa- lutandoci con calde ma- racas dal sapore lati - no americano. L’artista ignora i convenevoli: «Il maestro è nell’ani- ma e dentro all’anima per sempre resterà». « A VIENNA BALLERÒ CON te/Con una maschera che ab- bia/Testa di fiume./Guarda che rive ho di giacinti!/ Lascerò tra le tue gambe la mia bocca,/L’anima in fo- tografie e gigli/E nelle oscure onde del tuo andare,/Amore mio, amore mio, voglio lasciare/Violino e sepolcro, i nastri del val - zer»: questo è l’epilogo del Piccolo valzer viennese , una delle ultime po- esie della raccolta «Poeta a New York» di Federico García Lorca. E non deve meravigliare che questi versi siano messi in relazio- ne con un grande cantautore come Leonard Cohen: quel poema infatti è fedelmente tradotto in una delle sue più celebri canzoni, «Take this Waltz». Ma più in generale è proprio attraverso la poe- sia di tutti i suoi testi – come aveva intuito Fabrizio De André, ri- proponendo in italiano tre sue liriche – che è possibile compren- dere appieno l’arte di questo maestro canade- se, che attraverso pochi giri melodici e una voce inconfondibile quanto straordina- ria, riesce a raccontare l’uomo nelle sue più piccole, impercetti - bili sfumature e nei suoi più tortuosi e dolenti chiaroscuri. Le pa- role vivono in simbiosi con il canto in una mescolanza che non può che richiamare alla mente epoche e contesti antichi e lonta- ni, dove l’aedo si ammantava di un’aura misteriosa e magica. E magica è effettivamente stata la serata del 3 agosto scorso, uni - ca data italiana del tour, quasi ritualmente introdotta da un vio- lento acquazzone, che docilmente ha preso il largo pochi minu- ti prima dell’inizio, lasciando la Piazza immersa in un riverbe- ro irreale di colori. In questa cornice le migliaia di spettatori che hanno sfidato la pioggia hanno potuto godere di un evento uni - co lungo quasi tre ore, dove il musicista settantacinquenne – co- adiuvato da una band d’eccezione, all’interno della quale si è di - stinta la bravissima Sharon Robinson, da molti anni sua strettis- sima collaboratrice anche nella composizione dei brani – non si è risparmiato mai, dando vita a uno show continuamente can- giante, dove i brani di un’intera carriera – a partire dalla roman- tica e malinconica «Dance Me to the End of Love», che ha dato inizio al concerto, hanno coinvolto e appassionato più genera- zioni di ascoltatori. Una grande serata di poesia in musica. (l.m.) Due stelle illuminano la Piazza «La voce umana» di Paolo Conte canta «Psiche» Il canto poetico di Leonard Cohen di Marialuce Breddo Il 31 luglio a San Marco per Venezia Jazz Festival Leonard Cohen Paolo Conte (foto Daniela Zedda) 46 — l’altra musica l’altra musica

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NoN coNcede bis Paolo Conte ol-tre all’ormai co-

nosciutissimo «Via con me» che lascia infine canticchiare ai suoi affe-zionati. Ci accoglie con otto brani, famosissimi e suonati tutti d’un fiato, eccetto per la bellissima «Il quadra-to e il cerchio», con cui apre il concerto, e «Bella di giorno», canzoni che appartengono all’album Psiche, quest’ultima «virago» dal gusto un po’ retro. Incanta la rivisitazione di «Bartali», come un nastro alla moviola, si srotola, lenta e rivelatrice. Ammalia la lampada araba di «Psiche» con cui riapre la seconda parte del concerto, questa volta con l’orchestra sinfonica di Venezia con i suoi ottanta elementi e i gli eleganti solisti del Teatro la Fenice diretti dal maestro Bruno Fontaine. Resta al suo pianoforte Paolo Conte per raccontarci ancora una volta la realtà così com’essa ci appare, ac-compagnato dai suoi musicisti, «impareggia-bili scudieri», tutti bravissimi e accordati a un linguaggio musicale colto e letterario. Ci sono mancati brani come «Leggen-da e popolo», «Big Bill» e la visionaria «Berlino», accontentando il pubblico con brani come la notissima «Max» o «Gli impermeabili» in cui non manca-va di descriverci un’Italia dai sapori tra-scorsi. Nell’ambito del Venezia Jazz Fe-stival ci ritroviamo nel seducente scena-rio di piazza San Marco per un incontro

unico tra musica e parola. Il concer-

to se ne va sa-lutandoci con calde ma-racas dal sapore lat i-no americano. L’artista ignora i convenevoli: «Il maestro è nell’ani-ma e dentro all’anima per sempre resterà». ◼

«a VieNNa ballerò coN te/Con una maschera che ab-bia/Testa di fiume./Guarda che rive ho di giacinti!/Lascerò tra le tue gambe la mia bocca,/L’anima in fo-

tografie e gigli/E nelle oscure onde del tuo andare,/Amore mio, amore mio, voglio lasciare/Violino e sepolcro, i nastri del val-zer»: questo è l’epilogo del Piccolo valzer viennese, una delle ultime po-esie della raccolta «Poeta a New York» di Federico García Lorca. E non deve meravigliare che questi versi siano messi in relazio-ne con un grande cantautore come Leonard Cohen: quel poema infatti è fedelmente tradotto in una delle sue più celebri canzoni, «Take this Waltz». Ma più in generale è proprio attraverso la poe-sia di tutti i suoi testi – come aveva intuito Fabrizio De André, ri-proponendo in italiano tre sue liriche – che è possibile compren-

dere appieno l’arte di questo maestro canade-se, che attraverso pochi giri melodici e una

voce inconfondibile quanto straordina-

ria, riesce a raccontare l’uomo nelle sue più piccole, impercetti-bili sfumature e nei suoi più tortuosi e dolenti chiaroscuri. Le pa-role vivono in simbiosi con il canto in una mescolanza che non può che richiamare alla mente epoche e contesti antichi e lonta-ni, dove l’aedo si ammantava di un’aura misteriosa e magica. E magica è effettivamente stata la serata del 3 agosto scorso, uni-ca data italiana del tour, quasi ritualmente introdotta da un vio-lento acquazzone, che docilmente ha preso il largo pochi minu-ti prima dell’inizio, lasciando la Piazza immersa in un riverbe-ro irreale di colori. In questa cornice le migliaia di spettatori che hanno sfidato la pioggia hanno potuto godere di un evento uni-co lungo quasi tre ore, dove il musicista settantacinquenne – co-adiuvato da una band d’eccezione, all’interno della quale si è di-stinta la bravissima Sharon Robinson, da molti anni sua strettis-sima collaboratrice anche nella composizione dei brani – non si è risparmiato mai, dando vita a uno show continuamente can-giante, dove i brani di un’intera carriera – a partire dalla roman-tica e malinconica «Dance Me to the End of Love», che ha dato inizio al concerto, hanno coinvolto e appassionato più genera-zioni di ascoltatori. Una grande serata di poesia in musica. (l.m.) ◼

Due stelle illuminano la Piazza«La voce umana»di Paolo Contecanta «Psiche»

Il canto poeticodi Leonard Cohen

di Marialuce Breddo

Il 31 luglioa San Marco

per Venezia Jazz Festival

Leonard Cohen

Paolo Conte ( foto Daniela Zedda)

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L’estate veneziana ha spesso il potere di sorprendere e permette di fare degli incontri imprevisti e affascinanti. Ne è un esempio il concertino improvvisato all’isola delle Vignole in un’as-

solata mattina di agosto dal Duo Manu’, composto da Orlando Tortora e Nino Macchia, due artisti pugliesi che preparavano l’esibizione serale nel locale veneziano «Al giardinetto». Dopo averli ascoltati suonare per più di un’ora una musica coinvolgente e quasi ammaliante, realizzata utiliz-zando esclusivamente le loro chitarre, abbiamo voluto conoscerli per sapere qualcosa di più sul genere cui si ispirano.

NiNo La musica alla quale aspiriamo ad avvicinarci si chiama manouche, un genere musicale creato negli anni venti-trenta da quel grande musicista che risponde al nome di Django Rein-hardt. Il manouche ha un profondo radi-camento in un’area geog raf ica che comprende l’intero centro Europa, e in particolare Germa-nia (dove entrambi attualmente lavo-rano, ndr.) e Francia. Tuttavia mi sem-bra che anche in Ita-lia si stia sviluppan-do un certo interes-se, che bisognereb-be favorire e incre-mentare. Volgar-mente questo ti-po di musica è no-to anche con il no-me di gipsy jazz, ma è una definizione un po’ impropria, per-ché il gipsy raggrup-pa moltissime bran-che. Reinhardt ha invece creato uno stile peculiare sin-tetizzando generi diversi, tra cui il jazz anni trenta, la corren-te gitana – Django appartiene a un’etnia sinti – e il valzer Mu-sette francese.

Quando nasce la vostra collaborazione?orlaNdo Ci conosciamo da almeno venticinque anni, ma

musicalmente parlando lavoriamo insieme da circa un anno. L’incontro artistico è stato un po’ casuale, ci siamo ritrovati a suonare insieme in varie occasioni. Data la sintonia che si è su-bito stabilita, ho proposto a Nino di venire per un periodo in Germania, dove vivo e fino a un po’ di tempo fa suonavo con un altro gruppo. Da allora ci esibiamo sia in duo che in forma-zioni più allargate. Sto elaborando anche nuovi progetti, uno dei quali comprende un altro musicista, che tra l’altro è il no-stro agente in Germania, con il quale lavoro sia come chitarri-

sta che come percussionista.NiNo In un certo senso è stata una volontà del destino. Oltre

a occuparmi da sempre di musica, io sono un operaio in mo-bilità, e le proposte che mi hanno fatto per reintegrarmi era-no così degradanti che ho preferito affrontare quest’avventu-ra. Suonando riusciamo a vivere, anche se certo una scelta co-me questa ha le sue difficoltà.

Che tipo di pubblico viene ai vostri concerti, e più in generale alle manife-stazioni dedicate al manouche?

orlaNdo È abbastanza trasversale, si compone di persone di ogni età. Quello che colpisce è la conoscenza, da parte de-gli spettatori, dei repertori e dei singoli brani eseguiti. In Ger-mania e più estesamente in centro Europa non è una musica di nicchia, come si potrebbe pensare. Ha largo seguito, ed è ap-prezzata da un folto gruppo di estimatori. Noi suoniamo dap-pertutto, sia all’esterno, nelle piazze, che nei molti festival e rassegne incentrati su questo tipo di musica. In Italia è più dif-ficile, perché ancora non c’è la stessa sensibilità.

Come si compone il vostro repertorio?NiNo Alcuni sono pezzi composti e arrangiati da noi, altri

appartengono ai maestri del genere, Reinhardt in primis. È anche successo di seguire alla lettera le esecuzioni «classiche», soprattutto per entrare in confidenza con quelle armonizza-

zioni, che sono molto particolari. Diciamo che in un concer-to alterniamo brani autoprodotti e di altri autori. Tra gli artisti cui ci ispiriamo citerei almeno il Trio Rosenberg, Joscho Ste-phan e Bireli Lagrene.

Il manouche si apre ad altri generi musicali oppure è rigidamente codificato?

NiNo Ci sono delle contaminazioni di natura virtuosistica, ma è il jazz che influisce al novanta per cento. Molti musicisti jazz hanno contribuito con le loro armonizzazioni ad arric-chire il genere.

Lo strumento centrale è la chitarra...orlaNdo Sì, ma le si possono affiancare altri strumenti, pre-

feribilmente il basso e il violino. Però esistono anche esecu-zioni orchestrali della musica di Django Reinhardt. (l.m.) ◼

Le ammalianti armoniedel «manouche»Il Duo Manu’di passaggio a Venezia

Orlando Tortora e Nino Macchia del Duo Manu’( foto Eva Rico)

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ritorNiamo alle riflessioNi che ho proposto su queste pagine ormai quattro mesi fa perché è tempo di mante-nere le promesse. Parliamo di «specifico stilistico», que-

sto concetto che tanto animò il dibattito sulla canzone popola-re nella seconda metà degli anni sessanta.

La definizione fu coniata, o quanto meno proposta all’interno del Nuovo Canzoniere Italiano (Nci), da Roberto Leydi verso la fine del ’65 inizi ’66.

In quel momento gli sviluppi che stavano as-sumendo le Edizioni del Gallo, il Nci e i Di-schi del Sole imponevano di promuovere una chiara riflessione su «chi siamo e dove andia-mo a parare».

Il Nci aveva appena portato in tutti i teatri ita-liani la prima «opera» di musica popolare: la rappresentazione Bella ciao sollevando atten-zione e approvazione.

Si stavano sviluppando attività decentrate rispetto al gruppo originario milanocentri-co: la straordinaria ricerca di Caterina Bueno in Toscana, le esperienze non solo musicali del Gruppo Padano di Piadena; il fermento roma-no che aveva già portato al Canzoniere Giovanna Marini, ma che avrebbe promosso attività i cui risultati si sarebbero apprez-zati negli anni successivi con l’arrivo di Paolo Pietrangeli, la for-mazione dello straordinario Canzoniere del Lazio, gli studi di Sandro Portelli e, successivamente, la nascita del Circolo Gian-ni Bosio ancora estremamente attivo nella capitale; lo svilup-po del nostro gruppo (il Canzoniere Popolare Veneto) che det-te impulso sia alla ricerca che alla scrittura di nuove canzoni.

Si erano fondate le Edizioni Musicali Bella Ciao per rac-cogliere e depositare tutto il materiale di ricerca e di nuova composizione.

Era nato, con i migliori auspici, e sarà un grande fatto di cultu-ra e di organizzazione, l’Istituto «Ernesto De Martino».

Nuovi autori e musicisti si avvicinavano al Nci e ai Dischi del Sole con canzoni che raccontavano la realtà di quegli anni e portavano con sé anche esperienze musicali diverse; poteva-mo in qualche modo essere paragonati ai folkniks così maltrat-tati da Lomax; dopo di me da Venezia arrivò Alberto D’Ami-co, il già citato Pietrangeli da Roma, e ancora da Roma Gian-ni Nebbiosi con uno straordinario disco sulla psichiatria (era-no gli anni di Basaglia a Trieste e di Agostino Pirella a Gorizia), dalla Puglia cantastorie come Silvano Spadaccino e il grandis-simo Matteo Salvatore e poi Paolo Ciarchi, stretto collaborato-re di Ivan Della Mea per molti anni, Rudy Assuntino e via via tanti altri dal ’68 in poi.

Si stava preparando un altro nuovo grande spettacolo, Ci ra-giono e canto, con la regia di Dario Fo, la cui grandezza interpreta-

tiva poteva anche porre qualche problema sul fronte dell’esecuzione del materiale popolare.

In questo scenario allo stesso tempo entusia-smante e complesso Roberto Leydi decise di porre il problema di come si dovesse «trattare» il materiale popolare, di quali criteri interpre-tativi si dovessero assumere, che rapporto sta-bilire con la fonte orale. Non è che ricercatori come Gianni Bosio, Franco Coggiola, Cesare Bermani, Dante Bellamio e altri che spendeva-no le loro energie nell’impresa non avvertisse-ro il problema. Tutt’altro! La gestione, ad esem-pio, della vicenda Ci ragiono e canto fu un banco di prova tremendo per i curatori dell’Istituto, provocò la rottura definitiva con Leydi, che ab-bandonò l’impresa, e creò non pochi momenti di frizione con Fo fino a rischiare l’abbandono del progetto. C’era in Bosio e negli altri una cer-

ta disponibilità a dare più credito anche alle nuove esperienze musicali e una acuta preoccupazione di chiusura accademica.

Leydi, per esempio, aveva un’attenzione decisamente selet-tiva verso la nuova canzone politica, prendendo in considera-zione soprattutto quella che esplicitamente si inseriva nel filo-ne della musica popolare, ricalcandone perfino stile e modi.

In ogni caso il vero e proprio aspro confronto verteva attorno alla domanda «Che rapporto ci dev’essere tra il canto dell’infor-matore e la riproposta?»

Ogni informatore, si diceva, rappresenta una comunità, ne ri-percorre la storia e i sentimenti e il modo con cui ci porge le sue

Lo specifico stilisticoe altre riflessionisulla ripropostadel canto popolare

di Gualtiero Bertelli

Franco Coggiola con Genia Azzali alla cascina del «Micio» Azzali, Pontirolo, 1995

Sesto Fiorentino, Piazza Vittorio Veneto

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canzoni, siano esse d’amore o sociali, non è indifferente: biso-gna cercare di capire qual è lo specifico messaggio che ci manda e con quali modalità canore lo fa. Insomma nelle campagne o nelle città non si canta a caso, esiste un modo, appunto uno spe-cifico stilistico, con cui ciascuna comunità si esprime per boc-ca dei suoi rappresentanti spontanei.

Questo specifico poteva essere rappresentato in notazione musicale; ci provò a lungo Giovanna Marini, decisamente la più titolata a farlo, andando a segnalare forme musicali che rivela-vano persistenze modali, andamenti melismatici tipici, caden-ze e ritmi particolari. Ci accorgemmo che la notazione «colta» non bastava, bisognava costruire degli appositi segni e le con-seguenti legende.

Poteva essere descritto attraverso l’osservazione degli atteg-giamenti: quasi mai i singoli o i gruppi motteggiavano o indu-giavano in espressioni corporali men che controllate. Era il mo-

mento di Brecht e del suo teatro dello strania-mento. Dalla drammaturgia popolare, ma an-che da quel modo visibilmente neutro, appa-rentemente distaccato, di porgere il dire e il cantare, le teorie del drammaturgo tedesco ri-cevevano una limpida conferma.

Infine poteva essere espresso dal modo di cantare, di emettere la voce, di calcare, o me-glio non calcare le parole, di entrare e uscire con le diverse voci e con quali voci; insomma il ma-gnetofono, come allora veniva prevalentemen-te chiamato, ci poteva restituire vere e proprie lezioni di canto a cui attingere. Bisognava de-dicarsi a un vero e proprio «ricalco filologico».

Su questo punto si consumò la rottura. Le critiche andavano da «È limitativo e statico» a «Non siamo degli imitatori», e avevano certa-mente una parte di ragione, anche se lo scem-pio che s’è successivamente fatto del patrimonio popolare (ri-cordo le esecuzioni delle celebri mondine Orietta Berti e Gi-gliola Cinquetti, tanto per far due nomi) consigliava almeno di confrontarsi serenamente su temi di questa portata. Non ci fu il tempo, Dario Fo incalzava con le sue audaci interpretazioni, non ci furono forse neanche le energie e le occasioni: la rassegna «L’Altra Italia» tenuta a maggio del 1966 all’Istituzione Umani-taria di Milano rese espliciti i percorsi che Leydi, Sandra Man-tovani, Hana Roth, Enrico Sassoon, Bruno Pianta da una par-te, tutto il Nci dall’altra, avevano preso. Accanto a rappresen-tazioni di grande contenuto politico come Gorizia, una guerra a

cura di Tullio Savi e Gianni Bosio con la regia di Virgilio Pue-cher, o La opposizione a cura di Michel L. Straniero, Leydi propo-se Il cavaliere crudele, una straordinaria esecuzione di ballate pre-valentemente dell’area Lombardo-Piemontese in cui incomin-ciò a delineare la sua ipotesi di ricerca.

Nacque così «l’Almanacco Popolare» che ebbe una vita di al-cuni anni e produzioni decisamente di qualità. L’anno succes-sivo, 1967, dell’«Almanacco Popolare» entrò a far parte un gio-vanissimo, e già bravo, Moni Ovadia.

Alla rappresentazione di quell’edizione de «L’Altra Italia» par-tecipammo anche come Canzoniere Popolare Veneto; erava-mo il gruppo di riferimento, assieme ad altri, nella realizzazio-ne di Gorizia, uno spettacolo davvero faticosissimo che ci mi-se a dura prova nel senso che provammo e apportammo modi-fiche teatrali e musicali fino a pochi minuti dalla messinscena.

Per il gruppo fu il successo che creò le condizioni per una ri-presa piena dei rapporti con il Nci.

E i nostri amici e maestri milanesi ascoltaro-no una Luisa Ronchini che non avevano anco-ra sentito e forse nemmeno immaginato.

Un paio d’anni fa l’Accademia teatrale di Udi-ne organizzò un incontro sul tema dell’esecu-zione dei canti popolari. A questo dibattito fummo invitati anche Giovanna Marini e io.

Sono sempre stato considerato, specialmen-te da Leydi, un buon esecutore dei canti vene-ti, ma di alcuni non ho mai sentito la registra-zione originale. Li ho appresi di seconda ma-no, eppure Roberto ha sempre sostenuto che «sembravano veri».

Io spiegavo: «Ma ho sempre sentito cantare così, mi viene naturale», e in particolare mi ve-nivano naturali alcuni melismi tipici dell’area lagunare, talmente bene che ero spontanea-

mente portato a esagerarli, mi pareva che così sottolineassi il senso di quel cantare.

All’incontro di Udine a un certo punto Giovanna più o meno disse: «Se io sento una prefica (le donne che nel sud cantano e piangono ai funerali) che fa un certo “svolo” e mi pare che sia la parte più significativa, specifica del suo canto, io prendo quel-lo e lo estendo, lo sviluppo, lo “esagero” perché è proprio quel-la la diversità che mi colpisce e comunica».

Che sia questo il ragionamento da cui eventualmente ripartire? ◼

Immagini dal sito dell’Istituto Ernesto De Martino (www.iedm.it).

Sesto Fiorentino, Teatro della Limonaia,16 maggio 1998, concerto di Rua Port’Alba ( foto di Angela Chiti)

Due cantori popolari del Gruppo «La Macina» di Jesi,

marzo 1995 ( foto di Angela Chiti)

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«Vado a fumare uNa sigaretta, vi la-scio con un grande artista che por-ta casualmente il mio nome: Cri-

stiano De André». Con queste parole Fa-brizio De André, nel tour Anime Salve, la-sciava il palco al figlio per un paio di canzoni. Certi toni di voce, contenti di partecipare ancora alla creazione del tempo, di essere ancora dentro quel processo che, trasfor-mando le intonazioni, cambia il tempo, vibrano nell’aria molto a lungo. Sono i segnali di una consapevolezza nuo-va, scuotono di dosso l’inquietudine, la fatica, il privilegio di essere figli.

Forse Cristiano De André ha vissuto a volte con qualche complesso di troppo quel cognome così nobile, così irrag-giungibile nella storia della canzone d’autore; ma per for-tuna, basti pensare ai suoi album Sul confine (1995) e Scara-mante (2001), ora quel nome è un sorriso, una benedizione dal cielo. È caduta una stella ma oggi, De André canta De An-dré, la chitarra a fare da timone, risale «venti scivolosi»* in cui sovente pulsa solo un senso di speculazione. Le inizia-tive per ricordare sono spesso «battaglia tra angeli e demó-ni»* ma, quest’estate, gli occhi, la sensibilità di un compa-gno di viaggio unico, resistono e, «coniugando nozione e ardimento»*, rileggono le canzoni del padre per «gridare a due voci un’identica fortuna»* rispettando il «termome-tro del cuore»*.

È un fatto di cuore, di nessi sottili, impliciti e, così, Cri-stiano De André, lavorando sulle ritmiche, che sono un po’ come il sangue che circola nel corpo della musica, tesse con

le canzoni paterne non un the best of, ma del-le fotografie musicali che danno vita

a una tela affascinante e puntuale.A qualcuno, De André can-ta De André potrà sembra-

re una strana forma di ka-raoke; ma, si sa, la com-prensione è una forma di intelligenza pur-troppo poco diffu-sa: «passerà l’occasio-ne portata dal vento»* per tutti coloro che, nelle mani di questo figlio d’arte che ri-visita il repertorio del genitore, senti-ranno pulsare solo opportunismo.

Cristiano De André, mettendo le mani nelle canzoni di Fabrizio De André, rivestendole di un’anima rock e di una più acustica e intimista, sembra dire: «con una mano ti spie-go la strada con l’altra poi ti chiedo aiuto»* e, solo un uomo di talento, disposto a frugare se stesso abbastanza per far-cela, può dar vita, reinterpretando, a un tessuto di canzoni che capita di stare a sentire per poi ritrovarsele addosso co-

me l’odore del mare: sembrano scogli i tam-buri, acqua intorno i tasti del pianoforte e le corde di violino e di bouzouki, spruzzi sa-lati di verità i canti. Uno siede a margine del palco come in riva al mare e, senza saper-

ne di nuoto, quando infine se ne deve andare, facile che sia emozionato per aver scoperto «quanto amore ci vuole per

capire il dolore e poi quanto dolore per capire l’amore».**Questo concerto (De André sta già lavorando al suo pros-

simo disco che uscirà nel 2010) è il piccolo sipario di un ar-tista cosciente delle proprie qualità, di un uomo maturo con un nutrito bagaglio di esperienza musicale e umana. È un viaggio pulito che non ricorre a trucchi, perché la musi-ca, quella buona, è una grande medicina: pulsa di illusioni sgominate e di altre inventate, di speranze fatte solo di ven-to eppure bastanti perché al largo il vento è tutto.

I venti brani della scaletta sono la Stella Polare della se-rata, il bandolo per srotolare quel gomitolo infinito che, spesso, può rivelarsi un rapporto tra padre e figlio: il vento

Cristiano De André «canta De André»

di Marina Pellanda

Verona – Teatro Romano12 settembre, ore 21.00

Immagini da De André canta De Andréa Palestrina 19 agosto 2009

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è girato, il tempo è cambiato, ma le lacrime, come le risate, quando sono buone non vanno certo gettate via.

«Non si butta via niente né una briciola, né una nota sto-nata né una pausa di incertezza».* Per Fabrizio e Cristiano De André, basti pensare alla tournée del 1998, «era la mu-sica che dava il tempo alle nostre ore»* e, anche se il tem-po non è più un «assassino senza nome»***, proprio perché la musica rende «Invincibili»***, De André canta De André, lungi dall’essere «Fragile scusa»**, è invece un germoglio. Questo concerto è come il germoglio che campeggia sul-la terra arida e desolata della copertina dell’ultimo album di Cristiano De André, Scaramante (parola che evoca sca-ramanzia, amore e disamore) e anche, pur essendo le can-zoni in scaletta venti e non quaranta, ascoltandolo si avrà

l’impressione di avere tra le dita «Le quaranta carte»** di una mano che, invece di girare a vuoto, apre nei sogni, e «chi sogna non muore quasi mai»**, onde infinite in mez-zo a un mare di ricordi tra cui cercare la terra.

Il sogno, specie se poi si avvera, è un bel tramite per leg-gere la realtà. Ha un potere salvifico e, se non si avvera, bi-sogna comunque andare avanti, bisogna «Sempre anà»** perché poi, chissà, magari «Se vedemmu in tu mezo du mâ suvia a’ n’unda che nu pö turnà»** o ci troviamo, così can-ta De Andrè in «Dietro la porta», uno dei brani del concerto, «ad aprire la porta ad ogni novità consumandone poco per volta per quello che verrà».****

«Dietro la porta»D. Fossati – C. De André

Dietro la porta di casa mia / ho notizie arriva-te da molto lontano / dietro al porta di casa mia / ho un amore che tengo che tengo a portata di mano / ho pensieri importanti parcheggiati in un angolo / aspet-tano me / ho parole scadenti perdenti vicino a me Dietro la porta di casa mia / c’è la polvere dei miei ritor-ni della mia strada / c’è l’ombra della mia anima / sem-pre attenta ovunque vada / c’è un tempo preciso un mo-mento anche per te / dietro la porta di casa / cosa c’è Ci sono novità ci sono notti / che per niente al mondo cambierei / ci sono novità e tutto quello che ci porterà / questo vivere appesi coi denti / per una faccia migliore / questo vivere fuori dai tempi / aspettando per ore / ci sono novità ci sono notti / che per niente al mondo cam-bierei / ci sono novità e tutto quello che ci porterà / que-sto gran consumarsi di mani / giocando carte miglio-ri / questo leggere sempre le mani / e cercarne i colori Dietro la porta di casa mia / ho un tappeto di tutte le stelle del cielo / e i tuoi occhi segretamente nasco-sti / rinchiusi per me / c’è un leggero passo di vento che qui non c’è / vedessi di notte quando danza per me Ci sono novità ci sono notti / che per niente al mondo cambierei / ci sono novità e tutto quello che ci porterà / questo stare leggeri e presenti / cantando fuori dal coro / queste voci poco distanti fuori dal coro / ci sono novi-tà ci sono notti / che per niente al mondo perderei / e la curiosità e tutto quello che ci porterà / ad aprire la por-ta ad ogni novità / consumandone poco per volta / per quello che verrà / per quello che verrà

* Citazione da Cristiano De André, Sul con-fine, WEA 1995.

** Citazione da Cristiano De An-dré, Scaramante, Edel Target 2001.

*** Citazione da Cristia-no De André, Canzoni con il naso lungo, WEA 1992.

**** Citazione da Cri-stiano De André, Un giorno nuovo, live in stu-dio ERE 2003.

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ASSOCIAZIONE CULTURALE

COMPAGNIA DE CALZA«I ANTICHI»

FONDATA DA ZANE COPE

VENEZIA

TRADIZIONE eTRASGRESSIONE

Campo San Maurizio 2674 – San Marco - Venezia – 30124 ITALIAtelefono 041 5234567 – e-mail: [email protected]

www.iantichi.org

La più antica, libera e originale organizzazione veneziana del divertimento.Sei un veneziano de garbo o un foresto de sesto?

Iscriviti e Partecipa!Il Circolo de I Antichi in Campo San Maurizio è aperto

per feste cene mostre concerti convegni conferenze presentazioni affabulazioni e deliri

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Per informazioni e prenotazioni www.bru-zane.com telefono 041 52 11 005

Una nuova musica vi aspetta a Venezia:sarà romantica e francesePalazzetto Bru ZaneSan Polo 2368, Venezia

Martedì 6 ottobre ore 20.30Alain Planès fortepianomusiche di Adam, Jadin, Mozart, Montgeroult

Giovedì 8 ottobre ore 20.30Trio AnPaPiémusiche di Boëly, Jadin, Haydn

Sabato 10 ottobre ore 20.30Jean-Paul Fouchécourt tenoreFlorence Malgoire violinoOlivier Baumont fortepianomusiche di Dauvergne, Boieldieu, Grétry, Hérold, Dalayrac

Venerdì 16 ottobre ore 20.30Christine Schornsheim fortepianomusiche di Onslow, Boëly, Hérold

Sabato 24 ottobre ore 20.30Quatuor Mosaïquesmusiche di Kreutzer, Jadin, Boëly

Mercoledì 28 ottobre ore 20.30Quatuor Diotimamusiche di Arriaga, Onslow, David

Scuola Grande di San Giovanni Evangelista San Polo 2454, Venezia

Sabato 3 ottobre ore 20.30Concerto Köln Alain Planès fortepianoAndreas Spering direzionemusiche di Jadin, Hérold, Onslow, Beethoven, Haydn

Domenica 4 ottobre ore 15.00Les Musiciens du Louvre-GrenobleMarc Minkowski direzionemusiche di Haydn, Gluck, Grétry

Lunedì 12 ottobre ore 20.30Le Cercle de l’Harmonie Mireille Delunsch sopranoMaria Riccarda Wesseling mezzosopranoJérémie Rhorer direzionemusiche di Cherubini, Salieri, Donizetti, Spontini, Rossini

Teatro La Fenice San Marco 1965, Venezia

Sabato 7 novembre ore 20.00 Orchestre National de France Sophie Koch mezzosopranoSabine Toutain violaSir Colin Davis direzionemusiche di Berlioz

3 ottobre 7 novembre 2009Le origini del romanticismo francese (1780 -1830)

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uNa carriera segNata da una voce invincibile, quella di Gianna Nannini, classe 1956, senese, un fratello ex-pilota di Formula 1, una famiglia ben nota per la pa-

sticceria, omonima, nel centro della città del Palio. Tanti di-schi alle spalle, una passione per il melodramma e una forma-zione classica che si è innestata sulla scelta di «essere rock», evi-tando gli stereotipi del genere.

Da California, 1980, con la collaborazione attiva di Roberto Vecchioni, che le valse la nomea di Janis Joplin italiana – sem-pre mal sopportata – al recentissimo Gianna Dream, la strada di Gianna, a volte tortuosa, ha continuato comunque una ricer-ca aspra, struggente, lirica. Grandissimi successi, anche fuo-ri dall’Italia, alcuni momenti di incertezza, una grinta che non l’ha mai abbandonata.

Con una carriera ricca come la sua, quali sono le curiosità e le aspirazio-ni per sentirsi ancora, artisticamente, viva?

Ho avuto la fortuna di entrare in contatto, fin dagli inizi, con molti artisti che mi hanno aiutato a trovare una mia vena: gli strumenti di un viaggio che non ho mai voluto percorrere in solitaria. Non concepisco il mio tragitto musicale senza il rap-porto con gli altri, insomma. Che sia un concerto o l’incisione di un disco, mi serve sempre avere una relazione: è ciò che mi fa crescere. In passato ci sono stati tanti amici importanti, da Roberto Cacciapaglia a Vecchioni, da Sting a Isa-bella Santacroce, fino, oggi, a Pacifico, oppure a Fabri Fibra, che ritengo uno dei migliori musicisti giovani di oggi. L’importante è non fermarsi mai.

Recentemente ha rispolverato pure la sua passione per la classica, conce-dendosi anche divagazioni nell’ambito. Non c’è inconciliabilità fra i gene-ri, secondo lei?

Se si riferisce al rock, o alla canzone d’autore, penso di avere dimostrato da anni, e non da sola, che non ci sono più distin-zioni o «parrocchie», di nessun tipo. Per me è importante co-municare sensazioni, riflettere su miei tempi e riuscire a emo-zionare: me, prima di tutto. Partendo da questo, di volta, in volta, mi concentro su storie e musiche diverse.

Gianna Dream rivendica non solo l’esigenza di sognare, ma pure quel-la di dare ai sogni la stessa dignità, diciamo così, dell’esistente.

Il sottotitolo dell’album è «solo i sogni sono veri»: penso che la realtà onirica abbia la stessa importanza di quella che vivia-mo da svegli. È come trasferirsi in una realtà parallela.

Non si rischia così di aprire una via di fuga?Direi invece che si tratta di un transito. Non vorrei impoveri-

re la for-za dei so-gni con i nostri problemi quotidia-ni – che comun-que r i-mango-no, non ce ne li-b e r i a -mo mi-ca: non s i può dormire sempre. L’io vi-ve altro-ve, quan-do si so-gna, ma r i m a ne se stesso. Io canto la poesia di quella seconda

esistenza, le sue immagini, con grande convinzione.C’è molta letteratura nei testi, sovente firmati da Pacifico. Sono una lettrice accanita. Le parole servono a rafforzare la

musica, secondo me, non viceversa. Gino (Pacifico, ndr) è un grande affabulatore, oggi forse il migliore che abbiamo. Sono contenta che si sia fatto coinvolgere in un progetto del genere.

Rimane curiosa di teatro e cinema, come al solito?Certo. Un pezzo del disco, «Sogno», è nella colonna sonora

del nuovo film di Donatella Maiorca, Viola di mare. Ho anche alcune proposte di collaborazione per qualche spettacolo te-atrale. Vedremo.

Come le appare oggi la scena musicale più giovane? Ci sono ancora spazi per affermarsi, o un certo tipo di storia è finita?

Non è finito un bel niente. Se è vero che i cd non vendo-no – quasi – più, ci sono però tantissimi concerti, gran-di e piccoli, e artisti giovanissimi, che hanno un seguito in-

sospettabile. Devono farsi forza e uscire fuori: molti lo stanno già facendo. Hanno capito che i ghetti non hanno senso, prima di tutto quelli che si costruiscono da soli, magari per paura. ◼

Il rockdi Gianna Nannini all’Arena di Verona

di John Vignola

Verona – Arena13 settembre, ore 20.30

Gianna Nannini ( foto Danny Clinch)

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