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FILIPPO VIOLA LA SOCIETA' ASTRATTA Un sistema di indifferenza alla realtà esistenziale degli uomini e delle donne in carne e ossa Libro Primo ASTRAZIONE E INDETERMINAZIONE Testo del volume unico a stampa con l’aggiunta di nuovi capitoli Edizione definitiva ampliata e aggiornata in tre volumi Web Edit

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FILIPPO VIOLA

LA SOCIETA' ASTRATTA

Un sistema di indifferenza

alla realtà esistenziale

degli uomini e delle donne in carne e ossa

Libro Primo

ASTRAZIONE E INDETERMINAZIONE

Testo del volume unico a stampa

con l’aggiunta di nuovi capitoli

Edizione definitiva ampliata e aggiornata

in tre volumi

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FILIPPO VIOLA

LA SOCIETA' ASTRATTA

Un sistema di indifferenza

alla realtà esistenziale

degli uomini e delle donne in carme e ossa

Libro Primo

ASTRAZIONE E INDETERMINAZIONE

Testo del volume unico a stampa

con l’aggiunta di nuovi capitoli

Edizione definitiva

ampliata e aggiornata

in tre volumi

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alle mie figlie

Letizia ed Elisa

con la infondata speranza

che non abbiano a vivere

in una società astratta

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PRESENTAZIONE

1980 – 2010 «La società astratta» compie trenta anni

La società astratta è stata scritta nel 1979 e pubblicata nel 1980. Compie

quindi trenta anni. Per onorare questa ricorrenza, ci siamo decisi ad

approntare questa Edizione definitiva. Rispetto alle altre edizioni, in volume

unico, questa edizione si compone di tre volumi. Il primo volume copre l’area

tematica del volume unico, centrata su astrazione e indeterminazione, con

l’aggiunta di dieci capitoli. Il secondo volume affronta i problemi connessi a

crisi e ripresa. Il terzo volume analizza le dinamiche di alterità sociale e

antagonismo politico.

Viviamo in una società astratta, fondata su un sistema di indifferenza alla

nostra condizione esistenziale. Astratta, non nel senso che è una società

irreale, ma nel senso che fa astrazione dalla realtà sociale, non tiene conto di

come le persone realmente vivono.

L’astrazione sociale, questa glaciale indifferenza all’essere reale della

gente, investe la vita quotidiana e tende a cancellare i connotati dell’identità

personale e collettiva. La dimensione esistenziale viene così subordinata alle

nuove cadenze del processo materiale e immateriale di organizzazione e di

produzione.

L’indifferenza sistematica alle specificità sociali ed esistenziali si traduce in

pretesa di definire l’attività lavorativa e la vita di relazione in termini di

indeterminazione sociale. La società astratta esige che tutte le espressioni

della vita sociale siano indeterminate, cioè prive di riferimenti alle particolarità

personali e collettive.

Questa ipotesi di lettura della società capitalistica avanzata attraversa – in

forma accessibile anche ai non specialisti – tutte le sfere della dinamica

sociale: l’individuo, l’ambiente, i rapporti interpersonali la ricchezza sociale, i

valori, il tempo, la vita quotidiana, il lavoro. In questo senso, non si tratta di

un modello interpretativo costruito a tavolino, ma di una proposta nata come

strumento di ricerca-intervento e destinata a quanti/e, resistendo ad una

fortissima pressione ideologica, si ostinano a guardare alla realtà sociale con

gli occhi delle persone concrete.

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I N D I C E

Libro Primo

ASTRAZIONE E INDETERMINAZIONE

Pag.

Presentazione 7

Premessa 23

Introduzione 27

Definizione di società astratta

Sezione Prima 31

IL SISTEMA DI ASTRAZIONE SOCIALE

Premessa Sezione Prima 33

ASTRAZIONE MATERIALE E ASTRAZIONE SOCIALE

0.1 L'astrazione materiale

0.2 L'astrazione sociale Capitolo Primo 39

L’INDIVIDUO ASTRATTO

1.1 L'individuo astratto come pura funzione della valorizzazione capitalistica 1.2 Individuo astratto e persona concreta 1.3 Concretezza esistenziale e astrazione sociale 1.4 La separazione fra persona e qualità umane 1.5 La contrapposizione fra l'individuo e le sue qualità 1.6 Il bisogno di reintegrazione esistenziale 1.7 Dal disagio esistenziale alla fuga nel mondo artificiale prodotto dalla droga

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Capitolo Secondo 53

I RAPPORTI SOCIALI ASTRATTI

2.1 La desoggettivazione dei rapporti sociali 2.2 La socialità astratta 2.3 La segregazione del personale nell’individuale

2.4 La rigidità dei rapporti interpersonali profondi

Capitolo Terzo 61

LA RICCHEZZA ASTRATTA

3.1 Ricchezza concreta e ricchezza astratta 3.2 Ricchezza astratta e bisogni sociali 3.3 Denaro e materialità della ricchezza astratta 3.4 l comando del denaro sulla ricchezza sociale

come dominio di classe

3.5 Lo scontro sociale fra il valore d'uso

e il valore di scambio

Capitolo Quarto 67

I VALORI ASTRATTI

4.1 I valori astratti come valori di classe

4.2 Valori "altri" e società astratta

4.3 Dall’ambivalenza all’ambiguità dei valori astratti

4.4 Opzioni individuali e astrazione sociale

4.5 Valori mercantili e valori comunitari

Scheda A 77

DEFINIZIONI DI VALORI

Scheda B 79

VALORI CRISTIANI

E SOCIETA’ ASTRATTA

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Capitolo Quinto 81

I GIOVANI TRA RAPPORTI E VALORI

5.1 La relazione tra rapporti e valori nel mondo giovanile

5.2 La dinamica del mondo giovanile

5.3 I giovani tra rapporti comunitari e valori mercantili 5.4 Rapporti e valori dei ragazzi di scuola

5.5 Il mondo dei ragazzi di scuola 5.6 La soggettività giovanile tra rapporti e valori 5.7 I valori dei ragazzi di scuola

Capitolo Sesto

IL TEMPO ASTRATTO 89

6.1 Tempo esistenziale e tempo astratto 6.2 Il tempo come tempo di vita

Capitolo Settimo 93

L’IDENTITA’ SOCIALE ASTRATTA

7.1 Identità sociale e sistema di astrazione 7.2 La ridefinizione della identità sociale

7.3 La rigidità della identità sociale 7.4 La precarietà esistenziale come identità sociale

Capitolo Ottavo 97

L’IDEOLOGIA DELLA SOCIETA’ ASTRATTA

8.1 I capisaldi dell’ideologia della società astratta: la competizione e la meritocrazia 8.2 L’ideologia della flessibilità 8.3 L’ideologia della “modernizzazione” 8.4 L’ideologia della convenienza 8.5 La sintesi dell’ideologia della società astratta:

la logica del mercato

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Capitolo Nono 103

LA REGOLAMENTAZIONE MORALE

DELLA CONDOTTA SOCIALE

9.1 Regolazione sociale e regolamentazione morale 9.2 Astrazione sociale e regolamentazione morale 9.3 Società astratta e valori “altri”

9.4 Regolamentazione morale della condotta sociale e valorizzazione capitalistica

Capitolo Decimo 109 LA COMUNICAZIONE ASTRATTA 10.1 Comunicazione primaria e comunicazione secondaria 10.2 La comunicazione di massa 10.3 La comunicazione astratta 10.4 Comunicazione televisiva e valori astratti 10.5 Comunicazione di massa e potere 10.6 Telematica, comunicazione multimediale e realtà virtuale: Internet 10.7 Internet e differenziazione sociale di classe 10.8 Telematica e astrazione comunicativa

Capitolo Undicesimo 117

SOGGETTIVITA’ SOCIALE E TELEVISIONE

11.1 Soggettività sociale e comunicazione 11.2 La comunicazione mediata dalla tecnologia 11.3 Dalla comunicazione a circuito chiuso alla comunicazione a circuito aperto 11.4 Tv domestica e soggettività sociale 11.5 Dalla Tv come mezzo di comunicazione alla Tv come agenzia di socializzazione

11.6 Soggettività sociale, condizione materiale e processi immateriali

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Capitolo Dodicesimo 123

INFORMATICA E ASTRAZIONE

12.1 L’oggettivazione delle funzioni intellettive: computer e soggettività 12.2 La logica del computer

Capitolo Tredicesimo 125

LA CITTA' ASTRATTA

13.1 Vita di città e astrazione sociale

13.2 La rarefazione dei rapporti interpersonali

nella città astratta

13.3 La struttura di classe della città astratta

13.4 Periferia urbana e marginalità sociale

Capitolo Quattordicesimo 131 DIVERSITA' ETNICA E ASTRAZIONE SOCIALE

14.1 Astrazione e razzismo

14.2 Diversità etnica e valorizzazione del capitale

14.3 Astrazione sociale e specificità etnica

Capitolo Quindicesimo 135 ASTRAZIONE SOCIALE E VITA QUOTIDIANA

15.1 Astrazione sociale e ricerca di senso della vita

15.2 Vita quotidiana e uso della forza-lavoro

15.3 L'appropriazione della vita sociale

da parte del capitale

15.4 La separazione fra lavoro e vita

15.5 15.5 Bisogni quotidiani e valorizzazione capitalistica

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Capitolo Sedicesimo 143

ASTRAZIONE SOCIALE E QUALITA’ DELLA VITA, FRA AMBIENTE NATURALE E RISCHIO NUCLEARE 16.1 Organizzazione capitalistica della società e qualità della vita

16.2 Astrazione sociale e ambiente naturale

16.3 Astrazione sociale e rischio nucleare

Capitolo Diciassettesimo 151

ASTRAZIONE POLITICA E DOMANDA SOCIALE

17.1 L'astrazione come funzione della politica 17.2 Astrazione politica e bisogni sociali 17.3 L'astrazione come sistema di elusione della domanda sociale

17.4 La domanda sociale come prodotto dell'astrazione politica

Sezione Prima - Conclusione 159

L'ASTRAZIONE SOCIALE COME SISTEMA

18.1 L'astrazione come sistema di indifferenza sociale

18.2 L'astrazione sociale come sistema di formalizzazione

18.3 L'astrazione sociale come sistema di dominio 18.4 Sistema di astrazione e bisogni sociali

18.5 Sistema di astrazione e aspirazioni sociali 18.6 Sistema di astrazione e "visibilità" delle distanze sociali

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Sezione Seconda 171

IL PROCESSO DI INDETERMINAZIONE SOCIALE

Sezione Seconda – Introduzione 173

LA SUSSUNZIONE DELLA SOCIETA’ AL CAPITALE:

DALL’ASTRAZIONE ALLA INDETERMINAZIONE

19.1 La società astratta come società sussunta al capitale 19.2 L'emancipazione del capitale dai vincoli sociali 19.3 Astrazione e indeterminazione

Capitolo Ventesimo 177 L'INDETERMINAZIONE TECNICA DEL LAVORO 20.1 Il lavoro tecnicamente indeterminato

20.2 L'indeterminazione nella formazione delle forze di lavoro 20.3 Sistema formativo e sistema produttivo nel processo di indeterminazione 20.4 La desoggettivazione del lavoro 20.5 L'oggettivazione del processo lavorativo: dalla meccanizzazione all'automazione

Scheda C 187

TAYLORISMO E DESOGGETTIVAZIONE DEL LAVORO

Capitolo Ventunesimo 191

L'INDETERMINAZIONE SOCIALE DEL LAVORO

21.1 L'indeterminazione della forza-lavoro nel mercato del lavoro 21.2 La flessibilità della forza-lavoro come indeterminazione esistenziale 21.3 L'indeterminazione della retribuzione 21.4 come rischio esistenziale

21.5 L'indeterminazione della mansione lavorativa

21.5 L'indeterminazione del rapporto di lavoro

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21.5.1 La valenza sociale del «posto di lavoro»

21.5.2 Sperimentazione della indeterminazione

occupazionale e doppio mercato del lavoro

21.5.3 Le forme del lavoro irregolare 21.5.4 La scissione fra soggetto e prestazione

lavorativa

21.5.5 L'istituzionalizzazione della instabilità

del rapporto di lavoro

21.6 L’indeterminazione nel processo

di trasformazione del lavoro

21.7 Innovazione tecnologica e indeterminazione

del lavoro

21.8 Destabilizzazione del sistema delle professioni

e precarietà sociale

Capitolo Ventiduesimo 221

FLESSIBILITA’ DEL LAVORO E SOGGETTIVITA’ SOCIALE

22.1 L’individualizzazione del rapporto di lavoro

22.2 La flessibilità del tempo di lavoro: il part-time

22.3 Un lavoro sempre in prova: il contratto a termine

22.4 Professionalità e precariato giovanile:

il contratto di collaborazione

22.5 Una forma di regressione: il lavoro in affitto

22.6 La flessibilità al massimo grado: il lavoro nero

22.7 Dal «posto di lavoro» alla ideologia del rischio

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Capitolo Ventitreesimo 233

GLOBALIZZAZIONE ECONOMICA

E INDETERMINAZIONE SOCIALE

23.1 La delocalizzazione della produzione industriale

23.2 Globalizzazione dell’economia

e indeterminazione sociale

23.3 Globalizzazione economica, astrazione sociale

e condizione delle classi subalterne

23.4 Globalizzazione economica e nuovo colonialismo

Capitolo Ventiquattresimo 237

LA NEGAZIONE DEL LAVORO UMANO

24.1 Negazione del lavoro umano

e indeterminazione sociale

24.2 Le forme della negazione del lavoro umano

24.3 La negazione del lavoro umano

come sistema di esclusione sociale

Capitolo Venticinquesimo 251

L'INDETERMINAZIONE DELLA VITA SOCIALE

25.1 Vita sociale e valorizzazione capitalistica nel processo di indeterminazione

25.2 La separazione fra individualità e socialità

25.3 La spettacolarizzazione della vita sociale

25.4 L'indeterminazione dell'essere sociale

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Capitolo Ventiseiesimo 261

LA REGOLAZIONE DELLA VITA SOCIALE

26.1 Indeterminazione e regolazione della vita sociale

26.2 Regolazione e integrazione sociale

26.3 Le forme della regolazione della vita sociale

26.4 La giornata lavorativa come sede

di regolazione della vita sociale 26.5 Regolazione sociale ed espropriazione della progettualità esistenziale

Libro Primo - Conclusione 266

LA SOCIETA’ ASTRATTA FRA ASTRAZIONE E INDETERMINAZIONE

27.1 La dinamica della società astratta

27.2 Forza e debolezza della società astratta

Postilla metodologica I 273

SULLA ESPLORAZIONE TEORICA

DELLA REALTA' SOCIALE

Postilla Metodologica II 277 PER UNA ANALISI SISTEMATICA

DEI PROCESSI IMMATERIALI

II.1 Lo stato dell’analisi dei processi immateriali

II.2 Una prospettiva di lavoro teorico ed empirico

II.3 L’intreccio fra materialità e immaterialità

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Appendici 281

SOCIETA’ E CAPITALE

Appendice A 283

UNA FIGURA STORICA: L'OPERAIO-MASSA

FRA INDETERMINAZIONE SOCIALE

E SOGGETTIVITA’ POLITICA

A.1 La condensazione dell'essere sociale: l’operaio-massa A.2 L'operaio-massa pre-sessantotto: forza-lavoro indeterminata A.3 L'operaio-massa post-sessantotto: da forza-lavoro indeterminata a soggetto politico A.4 La risposta del capitale all'operaio-massa: la rarefazione dell'essere sociale

A.5 La duplice valenza dell'operaio-massa

Appendice B 293

LA CITTA' COME FABBRICA SOCIALE

B.1 La città, sede del capitale sociale

B.2 L'utopia capitalistica

B.3 Il comportamento capitalistico nella città

come risposta alle lotte operaie

B.4 Il "consumo" sociale di forza-lavoro

B.5 La società come fabbrica

Appendice C 305 SISTEMA DI MACCHINE E MODO CAPITALISTICO DI PRODUZIONE NELLA TEORIA DI MARX

Sezione Terza 309

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STUDI

Teoria di riferimento

LAVORO ASTRATTO E LAVORO OGGETTIVATO

NELLA TEORIA DI MARX

Studi S1 311

DAL LAVORO ASTRATTO

ALLA INDETERMINAZIONE SOCIALE

S1.1 La centralità della nozione di lavoro astratto

S1.2 L’astrazione come indifferenza ai contenuti

S1.3 Il processo capitalistico di espropriazione

S1.4 Il processo di indeterminazione sociale

S1.5 Il processo sociale di valorizzazione capitalistica S1.6 Ridefinizione della sussunzione reale del lavoro al capitale

S1.7 Indeterminazione e rarefazione dell’essere sociale

Studi S2 317

L'OGGETTIVAZIONE DEL LAVORO

S2.1 Oggettivazione del lavoro e valorizzazione capitalistica S2.2 Oggettivazione e sussunzione del lavoro al capitale S2.3 Oggettivazione del lavoro e antagonismo di classe

S2.4 La forza-lavoro come soggettività oggettivata

S2.5 Il lavoro vivo come lavoro non oggettivato S2.6 Oggettivazione ed estraniazione S2.7 Oggettivazione del lavoro e misurazione del valore

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Studi S3 323

IL LAVORO ASTRATTO

IN QUANTO LAVORO OGGETTIVATO

S3.1 Lavoro astratto e lavoro oggettivato in Marx S3.2 Dal lavoro astratto alla legge del lavoro-valore S3.3 Oggettivazione e astrattizzazione del lavoro S3.4 Distinzione tra lavoro vivo e lavoro oggettivato S3.5 Rapporto tra lavoro concreto e lavoro astratto S3.6 Distinzione tra nozione tecnica e nozione economica del lavoro S3.7 L’astrattizzazione del lavoro come categoria dello scambio S3.8 Critica di alcune interpretazioni della nozione marxiana di lavoro astratto S3.9 Ridefinizione della nozione di lavoro astratto

Dalla Prima Edizione (1980) 343

LA SOCIETA’ ASTRATTA NEL QUADRO DELLA TEORIA DI MARX

Dalla Prima Edizione (1980) 345

ATRAZIONE E INDETERMINAZIONE NEL QUADRO DELLA TEORIA DI MARX

Dalla Prima Edizione (1980) 349

L’INDIVIDUO ASTRATTO NEL QUADRO DELLA TEORIA DI MARX

Dalla Prima Edizione (1980) 351 LA RICCHEZZA ASTRATTA NEL QUADRO DELLA TEORIA DI MARX

Nota editoriale 353

Nota biografica 355

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Edizione definitiva

PREMESSA

Presuppongo naturalmente lettori che vogliano imparare qualcosa di nuovo e che quindi vogliano anche pensare da sé.

Karl Marx

L'astrazione sociale, connotato di fondo della società in cui viviamo, ha un

andamento tutt'altro che lineare e continuo. Quando sembra piegata alle forti

valenze del concreto, si inventa una via di uscita per riprendere la sua

marcia. E quando naviga a gonfie vele, può porre le premesse per un

arretramento.

La società astratta è sospesa fra crisi e ripresa. Ed è nell'oscillazione fra

questi due stati che va colto il suo modo di essere. Bisogna dunque evitare di

vincolare la dinamica dell'astrazione alle particolari contingenze con le quali

volta a volta è costretta a misurarsi. A volere interpretare il suo modo di

essere sulla base dell'attualità di oggi, si rischia di essere smentiti da quella

che sarà l'attualità di domani.

In queste condizioni, ho scelto di cogliere la società astratta nei due stati

significativi del suo essere: da una parte in fase di crisi, dall'altra in fase di

ripresa. Si tratta di una schematizzazione, assunta per comodità di analisi. In

realtà, i fattori di crisi sono fortemente intrecciati ai fattori di ripresa. E' qui

una delle diverse forme dell'ambivalenza della società astratta.

A questo punto, spero risulti esplicito l'obiettivo che mi sono proposto

nell'approntare questa nuova edizione: svincolare il modello teorico dalle

situazioni di fase, per proiettarlo in una prospettiva comprensiva delle

dinamiche di fondo dell'astrazione sociale.

Una tale ambizione, non so in quale misura realizzata, ha comportato un

notevole ampliamento dell'area di analisi, che si è tradotto in una nuova

struttura editoriale in tre libri, al posto della struttura in unico volume. Rispetto

alla precedente edizione, il primo libro copre l'area di analisi del volume

unico, il cui testo è stato revisionato ed accresciuto, con l'aggiunta di nuovi

capitoli e di nuovi paragrafi. Il secondo libro ridisegna la struttura del modello

teorico e coglie la società astratta prima in fase di crisi e poi in fase di

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ripresa. Per la dinamica della crisi, il testo riprende alcuni passaggi di analisi

presenti nella prima edizione e soppressi nelle edizioni successive. Il terzo

libro cerca di dare conto, in sede di analisi, delle fratture tra la società

astratta e l"altra società", cioè fra l'astrazione sociale attivata dal sistema

istituzionale e la concretezza esistenziale affermata dalle aree di alterità

sociale e di antagonismo politico. I materiali di studio, presenti nella

precedente edizione, vengono accresciuti con una ricostruzione critica della

teoria di Marx sulla crisi, inserita nel secondo libro e ripresa dalla prima

edizione. In luoghi opportuni dei tre libri vengono inseriti, come appendici,

vari articoli che, sebbene elaborati al di fuori del progetto teorico della società

astratta, attengono alle dinamiche analizzate nel testo.

Con questa nuova edizione, che aggiunge due nuovi volumi al testo delle

precedenti edizioni, spero di avere dato una sistemazione definitiva alla mia

proposta teorica, fermo restando che il discorso sulla società astratta non

può mai dirsi concluso.

A questo punto, la vicenda complessiva de La società astratta ha già un

profilo abbastanza leggibile. Nella premessa alla edizione precedente a

questa ho accennato alla nascita della mia ipotesi di lettura della società

sussunta al capitale (sottotitolo della prima edizione). In questi anni, la

proposta ha circolato moltissimo, oltre ogni aspettativa, al di fuori dei canali

ufficiali della distribuzione editoriale. Una sorta di diffusione spontanea, da

mano a mano, soprattutto nelle realtà di base, come i ciclostilati di antica

memoria, senza supporti pubblicitari e nell'ermetico, ostico silenzio di quanti

passano per “addetti ai lavori”.

E' stato sempre un problema assicurare, in misura adeguata, la

disponibilità delle copie, pur mettendo nel conto la circolazione parallela di

fotocopie. Oggi siamo alla quarta edizione italiana. Ma, fra una edizione e

l'altra, si è spesso dovuto ricorrere a veloci ristampe, per colmare i vuoti di

disponibilità. Per dare una idea della anomala circolazione del testo, vale la

pena raccontare un episodio. Mi arriva da Torino la telefonata di un amico, il

quale mi informa di avere visto in Grecia il libro tradotto. Rispondo che non

ne so niente, ma - al di fuori di ogni logica utilitaristica - mi fa piacere

apprendere che La società astratta, per autonoma iniziativa di un Editore

greco - che l'ha letta alla Fiera del Libro di Torino, durante un suo viaggio in

Italia - circoli anche fuori dai confini nazionali.

L'edizione che qui viene approntata prende in considerazione le dinamiche

sociali emerse negli ultimi tempi e si avvale delle discussioni che la proposta

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ha provocato. Una riflessione a parte meriterebbe la profonda identificazione

che il testo ha suscitato in quanti/e, soprattutto giovani, l'hanno letto in

chiave esistenziale, al di là della valenza teorica della proposta.

Risonanze del discorso sulla società astratta sono entrate nei circuiti della

pratica sociale di base. «Gente senza casa e case senza gente», un

passaggio dell'analisi della ricchezza astratta, è diventato uno slogan delle

lotte sulla casa. Queste forme di simbiosi sono una conferma dell'origine de

La società astratta, che è nata ed è sempre vissuta come opera di

movimento. Scambi, in un senso e nell'altro, tra le espressioni del movimento

e una ipotesi teorica rientrano nella dinamica teoria-prassi.

Risonanze di altro tipo sono state riscontrate nella produzione teorica

ufficiale e in alcuni interventi giornalistici. In questi casi, il silenzio rigoroso su

La società astratta non ha impedito una sua indebita utilizzazione. In un

editoriale apparso sulla prima pagina del quotidiano «L'Unità» alcuni

passaggi dell'analisi dell'individuo astratto sono stati riportati quasi alla

lettera, senza citazione della fonte (nota).

Come autore, sono - per indole - estremamente autocritico. E sono portato

a vedere ne La società astratta un contributo limitato rispetto alla portata

dell'oggetto di analisi. Nei confronti di questa opera sono però in debito di

una testimonianza, che prescinde assolutamente dal valore intrinseco della

proposta teorica. In questi anni La società astratta è vissuta tra due opposte

esagerazioni: da un lato il silenzio a catenaccio dei cosiddetti esperti,

dall'altro le manifestazioni di amore viscerale dei comuni lettori. In varie

occasioni, mi è capitato di parlare del primo. Mentre, per pudore, non ho mai

voluto fare cenno delle seconde. Nel licenziare quella che ritengo l'edizione

definitiva, mi sono sentito in dovere di saldare un debito di verità nei confronti

di una opera che vive vita autonoma anche nei confronti del suo occasionale

autore.

F. V.

Roma, Febbraio 2013.

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NOTA

A conclusione dell’opera, nel terzo volume, vengono dati i seguenti

materiali:

a) Articoli dell’autore su temi di attualità, riconducibili al quadro della

società astratta e pubblicati su riviste.

b) Saggi dell’autore, pubblicati su riviste, in cui vengono

approfonditi alcuni aspetti della società astratta.

c) Materiali di studio dell’autore sul quadro teorico di riferimento.

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Introduzione

DEFINIZIONE DI SOCIETA’ ASTRATTA

La società capitalistica, per potere funzionare come società formalmente

democratica, deve prescindere dalla concreta esistenza degli esseri umani,

deve cioè non tenere conto di come le donne e gli uomini realmente vivono.

Sulla base di questa considerazione, definiamo società astratta

I'organizzazione capitalistica della società, regolata dalle istituzioni della

democrazia fomnale. Astratta, non nel senso che è una società irreale, ma

nel senso che fa astrazione dalla realtà sociale. Società astratta, dunque, nel

senso che è un sistema di indifferenza alla condizione esistenziale degli

uomini e delle donne in carne e ossa.

Il sistema di indifferenza sociale è l'esito della combinazione della realtà

del capitalismo con la forma della democrazia. Tale esito è da imputare non

alla forma democratica, ma alla realtà capitalistica.

Un connotato fondamentale della società sussunta al capitale in forma di

democrazia è la separazione di fatto della sfera politica dalla sfera sociale.

Nella sfera politica vengono affermati principi di partecipazione, libertà,

uguaglianza, fratellanza, giustizia. Nella sfera sociale vengono istituite

strutture e attivati rapporti che producono autoritarismo, repressione,

disuguaglianza, rivalità, ingiustizia. La società capitalistica formalmente

democratica è dunque una società ambigua. Da una parte proclama principi,

dall'altra crea presupposti strutturali perché non si realizzino. In sostanza, è

una società truccata.

La separazione tra la sfera politica e la sfera sociale produce astrazione

sociale. La sfera politica si struttura facendo astrazione dalle condizioni reali

che si vengono a creare nella sfera sociale. Di conseguenza, la dinamica del

sistema istituzionale prescinde dalla concretezza esistenziale degli uomini e

delle donne in carne e ossa.

In un sistema di democrazia formale, chi - per esempio - ha bisogno di

andare in albergo è libero di scegliere un hotel di gran lusso o una modesta

locanda. Una legge che riservasse gli alberghi di prima categoria ad un

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particolare ceto sociale sarebbe incompatibile con le istituzioni della

democrazia formale. D'altra parte, la società capitalistica è una società divisa

in classi. E tale rimane, nella sostanza, pur nella complessità

dell'articolazione sociale. Ora, una struttura classista produce, ai diversi livelli

della stratificazione sociale, stili di vita che talvolta sono incompatibili fra di

loro. Un imprenditore miliardario non sopporterebbe di vedersi accanto, nella

hall di un albergo, un modesto impiegato. E lo stesso impiegato proverebbe

disagio a convivere con gente di altro pianeta sociale.

Come risolvere tali contraddizioni? Nel caso specifico, come distribuire la

popolazione ai diversi livelli della piramide sociale, senza fare ricorso a leggi

formalmente antidemocratiche? In pratica, come attivare una regolazione

della vita sociale a misura della struttura di classe, senza ricorrere ad una

regolamentazione delle scelte personali?

L'astrazione sociale è la via per la quale la società capitalistica

formalmente democratica tenta di dare soluzione a questo tipo di problemi E'

una via tortuosa e tormentata. La sfera sociale viene strutturata in modo da

produrre sistematicamente una realtà che, di fatto, vanifica i principi sanciti

nella sfera politica. La società astratta nega, in quanto società capitalistica,

ciò che afferma in quanto società formalmente democratica. L'astrazione

sociale è dunque la via per la quale il capitalismo si avventura - in un

alternarsi di vittorie e di sconfitte - sul terreno minato della democrazia

formale.

Per tutto ciò, I'indifferenza sociale non è una degenerazione del dominio

del capitale, ma il suo specifico modo di funzionare in forma di democrazia.

L'astrazione sociale si definisce non come una disfunzione della democrazia

nel sistema capitalistico, ma come una sua ragione di essere, che consiste

nel fare funzionare il sistema istituzionale secondo modalità estranee al

vivere reale degli uomini e delle donne. Questa indifferenza istituzionale non

è dovuta ad un qualche dissesto organizzativo. La società capitalistica

formalmente democratica è astratta perché è strutturata per l'affermazione di

un valore "altro" rispetto alla realizzazione esistenziale degli esseri umani.

Ognuno di noi non è già dato in partenza. E' un potere essere sociale, un

campo di possibilità da realizzare nella dimensione sociale. La persona

sociale, cioè l'essere umano in quanto dotato di socialità, realizza la propria

concretezza esistenziale - il suo pieno esistere nelle situazioni concrete della

vita quotidiana - se è in condizione di esprimere tutte le sue potenzialità.

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In rapporto a questo bisogno di autorealizzazione dell'essere umano, una

società è tanto meno astratta quanto più assume come valore fondante

l'organizzazione e la messa in atto di tutto il potere essere che emerge nella

collettività. La realizzazione della specificità personale - cioè dell'esistere

come uomo o donna particolare e irripetibile - non è in antitesi con lo sviluppo

dell'essere sociale, con il movimento della realtà collettiva. La dimensione

collettiva trova concreta attuazione solo quando anche il più piccolo

frammento personale raggiunge la pienezza dell'essere reale.

Non si tratta di immaginare il classico paradiso terrestre. Quel che conta

per la qualificazione di una società è la direzione del suo movimento,

determinata dal valore centrale che fa da motore al processo sociale

generale. In questi termini, una società a tanto più astratta quanto più

astratto è il valore centrale che realmente la muove, al di là delle

enunciazioni di principio.

In tale quadro, la società sussunta al capitale ci appare come un aereo in

mano a dirottatori professionisti, che hanno stravolto l'originario piano di volo.

Il modo capitalistico di produzione tende a deviare il processo sociale

generale dalla concretezza esistenziale ed a convogliarlo verso un valore

astratto: il profitto.

Questo scandaloso dirottamento sociale si svolge, come ogni dirottamento,

fra tensioni latenti e aperti conflitti, sia sul piano degli interessi materiali, sia

in ordine agli orientamenti ideali. C'è in esso il tentativo di mettere le

potenzialità presenti nella collettività al servizio del dominio di classe. Nella

società astratta, in quanto società dirottata, ognuno/a è costretto a lasciare

inespresse le proprie possibilità e a diventare strumento in mano di altri, per

fini non solo estranei, ma anche antitetici alla propria realizzazione

esistenziale.

Il dirottamento sociale è dunque funzionale all'astrazione. Solo indirizzando

la società complessiva verso un valore "altro" è possibile chiudere ogni varco

all'espressione delle potenzialità che emergono nella collettività. Soltanto in

una società organizzata per "altro" gli uomini e le donne non trovano spazio

per esprimersi in quanto persone. A sua volta, I'astrazione è funzionale al

dirottamento sociale. La società complessiva può essere dirottata in

direzione di un fine "altro" nella misura in cui viene ignorato l'essere concreto

delle persone.

La deviazione della società dai fini che presiedono alla realizzazione

esistenziale degli uomini e delle donne incide pesantemente sulla dinamica

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sociale. La nostra lettura di tale dinamica è basata sulla distinzione fra

società intesa come struttura - cioè come insieme di istituzioni - e società

intesa come collettività, ossia come insieme di uomini e donne in carne e

ossa. Si tratta ovviamente non di due distinte realtà, ma di due dimensioni

della realtà sociale, che nella società capitalistica formalmente democratica

tendono a divaricarsi. La società-struttura si orienta in direzione "altra"

rispetto alla piena realizzazione delle potenzialità esistenziali presenti nella

società-collettività.

La divaricazione tra la sfera politica e la sfera sociale costituisce non

I'oggetto della nostra indagine, ma il suo presupposto. Al centro del quadro di

analisi è non la contraddizione tra la forma democratica e la realtà di classe,

ma l'astrazione sociale che essa produce.

In tale ambito, il compito che presiede a questa ipotesi di lettura della

società sussunta al capitale è ben delimitato. Si tratta di ricostruire i processi

attraverso i quali l'astrazione percorre e plasma le più significative

espressioni dell'universo sociale: la soggettività individuale, i rapporti

interpersonali, la ricchezza materiale, il sistema di valori, la vita quotidiana, il

mondo del lavoro. L'intento è di cogliere, lungo questi percorsi, il senso della

condizione umana, trasfigurata dall'astrazione sociale. In fondo,

avventurandoci sui sentieri impervi dell'indifferenza della società astratta,

andiamo alla ricerca di una chiave di lettura sociologica del disagio

esistenziale.

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Sezione Prima

IL SISTEMA DI ASTRAZIONE SOCIALE

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Premessa Sezione Prima

ASTRAZIONE MATERIALE

E ASTRAZIONE SOCIALE

0.1 L'astrazione materiale

Punto di partenza della nostra indagine teorica è un aspetto singolare

della trasformazione del bene di consumo in merce di scambio. Quando non

si prende in considerazione l'uso che si può fare di un prodotto, ma soltanto il

valore che esso ha sul mercato, perdono di importanza i suoi connotati

rnateriali. Per chi traffica in edilizia una casa non è una particolare

costruzione con una data struttura e con determinate caratteristiche abitative.

E' una merce come un'altra 1.

La trasformazione del bene in merce comporta dunque una trasfigura-

zione del prodotto materiale in entità astratta. Chiamiamo astrazione

materiale questo particolare stato del prodotto, considerato non nella sua

specificità corporea, in quanto bene di consumo, ma nella sua indistinta

generalità, in quanto merce di scambio.

Una tale trasfigurazione non è conseguente ad una mutazione intrinseca

del prodotto. Non è che una casa diventi, di per sé, immateriale. Essa rimane

lì, con tutto il peso della sua struttura in cemento armato. Solo che, se la si

guarda non come luogo da abitare, ma come merce da piazzare sul mercato,

i suoi connotati materiali perdono di rilievo. E' come stare davanti ad una

ribalta buia, percorsa da un cono di luce. Ad uno spostamento del faro, un

tavolo, che si stagliava nettamente sul fondale, d'improvviso si immerge

nell'ombra e scompare. Il tavolo è ancora lì, ma è come se non ci fosse più.

La sua realtà è stata come cancellata da un cambiamento scenico.

L'astrazione è dunque non inerente all'oggetto, ma conseguente ad un

modo di considerarlo. Il connotato di fondo di tale modo di considerare il

1 Come è noto, tale aspetto è stato evidenziato da Marx nel quadro dell'analisi della merce: «[...] il

prodotto del lavoro ci si trasforma non appena lo abbiamo in mano. Se noi facciamo astrazione dal suo valore

d'uso, facciamo astrazione anche dalle partl costitutive e forme corporee che lo rendono valore d'uso» (K.

Marx, II capitale, trad. it., Roma, Editori Riuniti, 1970, I, p. 70).

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prodotto è l'indifferenza ai contenuti dell'oggetto. Una sedia non è più una

sedia non perché cessa di essere fatta in modo da potercisi sedere, ma

perché questa sua adeguatezza all'uso viene considerata solo un espediente

per poterne fare merce di scambio. Chi guarda ad un prodotto non per l'uso

che intende farne, ma per il profitto che pensa - per suo tramite - di

realizzare, è indifferente nei confronti del suo contenuto. Non gli importa che

si tratti di un frigorifero o di una chitarra. Gli importa soltanto che si venda e

si venda bene, cioè con profitto. Del resto, basta osservare da una parte chi

intende comprare una casa per abitarci e dall'altra chi intende acquistarla per

venderla e realizzare un guadagno. I due acquirenti si comportano in modo

diverso. Il primo sta attento soprattutto alla grandezza ed al numero delle

stanze, alla loro dislocazione ed alla loro esposizione al sole. Il secondo

presta attenzione soprattutto al valore di scambio della costruzione in

relazione all'andamento del mercato edilizio. Il primo considera la casa come

un bene concreto. Il secondo la prende in considerazione come una entità

astratta.

A questo punto dovrebbe risultare chiara la sequenza che sta dietro

I'astrazione materiale. La trasformazione del bene in merce sposta

I'interesse dal valore d'uso al valore di scambio. Questo spostamento

produce indifferenza ai contenuti materiali dell'oggetto. Esito di tale

indifferenza è l'astrazione materiale.

0.2 L'astrazione sociale

L'astrazione materiale è una nozione estremamente feconda. E' però

ristretta entro l'ambito, ben definito, della produzione di beni. Risulta pertanto

inadeguata a cogliere il livello della società complessiva.

Ad un tale livello, si tratta di definire l'astrazione non più soltanto in

relazione al prodotto rnateriale, rna anche - e soprattutto - in relazione alla

produzione della stessa società. Ed è lungo questa linea che si coglie il

passaggio dall'astrazione materiale all'astrazione sociale. Chiamiamo

astrazione sociale l'esito della indifferenza del sistema politico-economico nei

confronti della condizione esistenziale degli uomini e delle donne in carne e

ossa.

Non è possibile dare corpo a questa nuova nozione con una semplice

trasposizione e amplificazione dell'astrazione materiale. L'allargarsi dello

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scenario comporta una mutazione qualitativa dei processi che stanno a

monte e a valle dell'astrazione.

Il primo segnale di questo vero e proprio salto di qualità ci arriva non

appena trasferiamo la nozione di astrazione dall'esame della produzione

materiale all'analisi della produzione della vita sociale. In questo contesto,

I'indifferenza ai contenuti è ancora tutta da definire. Innanzi tutto non è

possibile parlare dei contenuti della vita sociale come si parla dei contenuti

dei prodotti materiali. I processi interni alla produzione della vita sociale non

hanno la consequenzialità e la linearità che si possono riscontrare nella

produzione dei beni materiali. Non è un caso che la politica fa fatica ad

omologarsi alla ingegneria industriale.

In questo quadro, dovrebbe essere chiaro che fare astrazione dalle realtà

esistenziali degli esseri umani è operazione qualitativamente diversa dal

praticare indifferenza nei confronti dei contenuti materiali dei prodotti.

L'astrazione sociale è "altra" rispetto all'astrazione materiale, anche se

entrambe discendono dalla indifferenza ai contenuti.

A questo punto, ci imbattiamo in un interrogativo: I'astrazione attiene

all'essere sociale o al dover essere della società? In altri termini, è astratta la

società com'è o la società come la vorrebbero i rappresentanti degli interessi

capitalistici?

La collettività è una complessa entità concreta. Ma la struttura sociale

formale, in tutte le sue articolazioni istituzionali, la tratta con indifferenza alle

sue molteplici realtà. La tratta come se fosse priva di essere sociale

concreto. In questo senso, la società astratta è non la società com'è, ma la

società come la vorrebbero le forze del capitale. Questo dover essere della

società non rimane però allo stato di pura aspirazione. Si traduce in strutture

materiali ed organizzative, che tendono a svuotare la società-collettività del

suo essere concreto. In altri termini, la società-struttura, organizzata a

prescindere dalla concretezza della vita sociale, tende a produrre una

società-collettività astratta, cioè un insieme di persone che negli

atteggiamenti e nei comportamenti fanno astrazione dalla loro concretezza

esistenziale. A forza di operare senza fare i conti con l'essere reale delle

persone, finisce con l'erodere il fondo di concretezza della vita sociale.

In particolare, il sistema politico-economico opera come se non

esistessero uomini e donne in carne e ossa, ma soltanto articolazioni sociali

prive di identità soggettiva. Opera quindi sulla base di una presunzione. Ma

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questa presunzione diventa, in realtà, il modo di funzionare delle strutture

sociali, con le quali le persone sono costrette, in qualche modo, a misurarsi.

La struttura sociale funziona a prescindere dalla concretezza degli esseri

umani. E pretende che le persone si rapportino ad essa mettendo fra

parentesi il loro specifico essere concreto. In ciò ritroviamo un connotato

qualificante della nozione di astrazione sociale, che non ha nulla a che

vedere con l'indifferenza come atteggiamento soggettivo e si definisce in

termini di struttura. L'indifferenza non è qui da ricercare nel soggetto, ma nel

sistema politico-economico, che definisce gli individui non in quanto esseri

umani, ma in quanto portatori di forza-lavoro manuale-intellettuale 2. Per

questa via, la società-struttura tende a piegare la società-collettività al suo

bisogno di astrazione ed a ridurre la ricchezza dell'essere sociale all'arido

paradigma del dover essere astratto.

Una tale pressione non riesce a cancellare la concretezza esistenziale

degli uomini e delle donne in carne e ossa. Vengono quindi a profilarsi due

opposti movimenti. La collettività tende a produrre una dinamica sociale volta

a dare espressione al concreto esistere degli esseri umani. Il fiume della

concretezza esistenziale trova però davanti a sé la diga dell'astrazione

sociale. Ma la sua spinta è tale da farlo scorrere, a piccoli rivoli, tra le pieghe

dell'organizzazione sociale. Gli uomini e le donne riescono in qualche modo

a crearsi piccoli spazi di concretezza. In particolari momenti storici questi

spazi si allargano al punto che l'onda della concretezza rischia di travolgere

la diga dell'astrazione.

Ora, se la società sussunta al capitale funzionasse soltanto sulla base

della contrapposizione fra astrazione e concretezza, il sistema sociale

complessivo rischierebbe in permanenza di saltare. La concretezza

esistenziale ha, in sé, una tale forza di espressione e di espansione da

travolgere, prima o poi, qualsiasi ostacolo.

2 A rigor di termini, bisognerebbe parlare di forza-lavoro, senza aggettivi. Infatti, la forza-lavoro è, per

definizione, I'energia manuale-intellettuale che può essere tradotta in attività lavorativa.

A livello di senso comune, l'espressione viene però di solito associata a capacità esclusivamente

manuali. La specificazlone, se pure impropria, si rende quindl necessaria. Ed abbiamo deciso di adottarla

lungo tutto l'arco dell'analisi.

Altra è la questione della divisione fra lavoro manuale e lavoro intellettuale, che abbiamo ritenuto di non

affrontare in sede di discorso sulla società astratta. Essa si è infatti invischiata in tali complicazioni - per

effetto della innovazione tecnologica - che sarebbe difficile approfondirla senza deviare dalla nostra

prospettiva di ricerca teorica.

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Per evitare che questo rischio sia sempre incombente, I'astrazione sociale

per un verso si pone come argine all'espandersi della concretezza, per l'altro

penetra nella vita sociale e occupa gli spazi dell'esistenza reale degli esseri

umani. Ne viene fuori un intreccio di concretezza e astrazione, difficile da

districare.

Non stiamo parlando di un semplice processo di assimilazione. Certo, gli

uomini e le donne assimilano l'astrazione e la vivono come se fosse la loro

realtà. Ma c'è qualcosa di più. C'è che, a forza di essere vissuta come realtà,

I'astrazione finisce per essere, in qualche modo, la realtà degli uomini e delle

donne. La vita astratta finisce per essere la vita che le donne e gli uomini

realmente vivono, giorno dopo giorno.

D'altra parte, chi vive una vita astratta è portato/a paradossalmente a

percepire la propria concretezza esistenziale come qualcosa che non attiene

alla sua vita, cioè come astrazione. L'astrazione si fa realtà e la realtà si fa

astrazione.

L'impasto realtà-astrazione è un dato caratterizzante della società astratta,

che è - per definizione - una società ambigua, proprio perché pretende di

essere funzionale alla collettività facendo astrazione dall'essere concreto dei

soggetti. Se le persone avvertissero di vivere nel vuoto dell'astrazione, la

società-collettività si estranierebbe dalla società-struttura, con il rischio di

provocare una rottura. E' il gioco astrazione-realtà che tiene legata la

collettività alla struttura, malgrado la seconda operi ignorando la prima.

L'estraneazione della società-collettività dalla società- struttura è tuttavia

un processo latente. Il rischio della rottura emerge solo in fasi storiche in cui

l'intreccio astrazione-realtà si allenta e la concretezza esistenziale invade la

vita sociale, provocando una contrazione delI'astrazione.

Astrazione sociale e concretezza esistenziale si contendono il campo, con

il prevalere dell'una o dell'altra, a seconda dei rapporti di forza che

caratterizzano ogni fase storica della società.

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Capitolo Primo

L’INDIVIDUO ASTRATTO

1.1 L'individuo astratto come pura funzione della valorizzazione

capitalistica

I soggetti che costituiscono la collettività sono persone concrete, uomini e

donne in carne e ossa. Sono persone robuste, snelle, alte, basse, bionde,

brune, bianche, nere. Sono persone estroverse, introverse, talvolta allegre,

talvolta tristi. Nella società astratta, nel sistema di indifferenza alla condizione

esistenziale degli uomini e delle donne in carne e ossa, si prescinde da tutti

questi caratteri, che fanno di una persona questa persona e non un'altra. La

persona concreta viene diluita in una entità astratta: la forza-lavoro 3. E' il

primo passo verso la configurazione di un individuo astratto, concepito come

pura funzione della valorizzazione capitalistica 4.

Le persone concrete vivono nel contesto di una determinata cultura, che

crea abitudini di vita, atteggiamenti, comportamenti. Una cultura può, per

esempio, creare l'attaccamento ad un luogo determinato, ad un tipo

determinato di attività, ad un determinato tipo di rapporti sociali. Ecco, il

processo di valorizzazione capitalistica richiede che le persone facciano

astrazione da tutto ciò. Richiede che le donne e gli uomini siano disponibili

a spostarsi continuamente da un luogo all'altro, a cambiare continua-

mente attività e rapporti sciali. Può darsi anche il caso inverso. Una persona

è incline a girovagare, a non fissarsi in una particolare attività. Ed è costretta

ad inchiodare la sua vita ad un lavoro e ad un luogo fissi.

Ora, non importa che le esigenze del processo di valorizzazione del

capitale entrino realmente in conflitto con le singole specificità delle persone

concrete. Quel che importa è che la società astratta, per essere tale, deve

3 Anni fa uno studente, segretario di sezione di un partito della sinistra, mi chiese se poteva contattare un

autorevole personaggio politico, per chiedergli di presentare in pubblico «La società astratta». Non ebbi difficoltà a dare il mio assenso. Lo studente avanzò la richiesta, accompagnandola con una copia del libro. Ma l’iniziativa non ebbe seguito. Dopo qualche tempo, il personaggio in parola, che non si era dichiarato disponibile per la presentazione, firmava su un quotidiano un editoriale in cui veniva riportata esattamente, senza virgolette e senza la citazione della fonte, la parte iniziale di questo capitolo.

4 Per i non addetti ai lavori è opportuno precisare che per valorizzazione capitalistica - espressione

ricorrente nel nostro discorso - si intende il processo attraverso il quale il capitale, riproducendosi, aumenta di valore e di potenza.

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poter contare, in qualsiasi momento ed a qualsiasi livello, su una disponibilità

allo stato puro. E questa disponibilità la può offrire, in senso pieno, soltanto

un individuo considerato come entità astratta, avulsa dalle concrete

specificità esistenziali.

L'individuo astratto - in quanto pura funzione della valorizzazione

capitalistica - è una irrealtà reale. Irrealtà, perché - nella sua purezza ideale -

non esiste in carne e ossa. Reale, perché tutto il sistema capitalistico è

fondato su questa irrealtà. Ed è per questo - perché fa leva sull'individuo

astratto, sulla irrealtà reale di un individuo spogliato delle sue specifiche

caratteristiche umane - che I'apparato economico e politico si qualifica come

sisterna astratto. Astratto, nel senso che produce astrazione e nel senso che

è l'esito di una astrattizzazione.

Funzionale all'impianto del sistema economico- politico fondato sul

capitale è l'individuo spogliato di ogni vincolo sociale. Un individuo non legato

né a luoghi particolari, né a persone specifiche. Un individuo senza storia e

senza affetti. Disponibile a presentarsi come un contenitore vuoto ed a

riempirsi dei contenuti del processo di valorizzazione del capitale. Pronto a

fare un lavoro qualsiasi, in un posto qualsiasi, in orari qualsiasi, di giorno o di

notte, a qualsiasi ritmo, insieme a gente qualsiasi. Pronto a trapiantarsi dal

sud al nord, dal proprio ad un altro paese, da un contesto agricolo ad un

contesto industriale. In sostanza, un individuo che non oppone nessuna

rigidità al processo di valorizzazione capitalistica. Estremamente mobile,

flessibile, docile, manovrabile. Immemore della sua storia personale, sempre

pronto a cancellare il suo ieri ed a vendere il suo domani. Una sorta di pagina

bianca, su cui la valorizzazione capitalistica segna di volta in volta le sue

indicazioni. Una pagina bianca, su cui di tanto in tanto gli economisti fanno

I'elenco delle vecchie e delle nuove compatibilità. Una pagina bianca, su cui

gli ideologi segnano il comportamento adeguato alla prospettiva del

capitalismo. Una pagina bianca, su cui i politici di professione scrivono i loro

programmi. Insomma, un individuo concepito come terminale

dell'organizzazione capitalistica della società complessiva.

1.2 Individuo astratto e persona concreta

L'individuo astratto è il soggetto considerato dal punto di vista della

valorizzazione capitalistica. La persona concreta è il soggetto considerato dal

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punto di vista della realtà esistenziale. Nei termini del nostro discorso,

individuo figura come espressione della società-struttura, persona figura

come espressione della società-collettività 5.

Ora, se individuo e persona si definissero come entità separate e non

comunicanti, avremmo da una parte un soggetto concepito, in astratto,

secondo le esigenze del capitale e dall'altra uomini e donne in carne e ossa

radicati nella propria concretezza esistenziale. In tale quadro, la

valorizzazione capitalistica non potrebbe piegare alle proprie esigenze la vita

sociale e sarebbe condannata ad un graduale, ma inarrestabile declino.

Per tutto ciò, il sistema capitalistico non può limitarsi a concepire un

individuo a sua immagine, disinteressandosi degli orientamenti delle persone

concrete. Deve fare di tutto per tentare di incarnare le sue esigenze negli

atteggiamenti e nei comportamenti sociali.

Di conseguenza, I'individuo astratto non può definirsi come pura

aspirazione del capitale. Per un verso non esiste, in carne e ossa, nella

pienezza della sua valenza ideale, perché non è possibile azzerare in una

persona concreta le specificità esistenziali. Ma, per altro verso, si insinua

nelle pieghe della vita sociale, inquinando il rapporto fra la persona e

I'universo della concretezza.

Accade così di incontrare uomini e donne delle classi subalterne che

ragionano non nei termini del proprio concreto esistere e della propria reale

condizione sociale, ma secondo schemi astratti. Tipico è il caso di povera

gente indotta a spiegare le proprie difficoltà materiali in base alle leggi del

libero mercato, cioè secondo i parametri dell'economia borghese. E' facile

supporre che qui è l'individuo astratto a parlare per bocca delle persone

concrete.

Ora, non è da pensare che il soggetto coinvolto nella logica della

valorizzazione capitalistica abbia coscienza di escludere dal suo orizzonte

esistenziale la propria concretezza in quanto donna o uomo in carne e ossa.

E' opportuno dunque chiedersi per quale via l'astrazione prodotta dalla

società-struttura penetra nella società-collettività sino al punto di fare di un

soggetto l'espressione di altro da se stesso, di fare cioè di un uomo o di una

donna in carne e ossa una contraddizione vivente.

Attraverso l’assimilazione di valori astratti, viene operata nella coscienza

collettiva una inversione. E così la persona vive l'astrazione come

5 Per la distinzione fra società-struttura e società-collettività, si veda l'Introduzione.

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concretezza e percepisce la propria concretezza come astrazione. Nella

misura in cui questa inversione incide sulla dinamica della coscienza

collettiva, la società astratta allarga la sua base nella collettività. Quanto più

è diffuso e profondo l'orientamento in direzione dell'astrazione, tanto più la

società astratta viene percepita dalla collettività come realtà sociale. E' un

punto cruciale per il destino della società astratta. La società-struttura ha

bisogno da una parte di operare su una base di astrazione, dall'altra di

legittimarsi su una base di concretezza. Una società-struttura che venisse

percepita dalla collettività come società astratta non potrebbe durare a lungo.

1. 3 Concretezza esistenziale e astrazione sociale

Come si è già avuto modo di osservare, milioni di uomini e di donne

assimilano come proprie le esigenze della valorizzazione capitalistica. Così

vivono l'astrazione come realtà propria. D'altra parte, l’assimilazione di valori

"altri" produce nelle donne e negli uomini una sorta di "distanza" dalla propria

specificità. La concretezza esistenziale viene vissuta come astrazione. Per

quali vie si giunge a questa inversione?

La realtà che vive una donna o un uomo è un impasto di concretezza e di

astrazione. Questo groviglio produce una condizione di disagio, difficile da

definire. E' come se la vita ci scorresse sotto, senza che si riesca a fare

presa su di essa. E' una strana sensazione. La persona cerca, spesso con la

forza della disperazione, un contatto stabile con la propria vita. Ma se la

sente continuamente sfuggire di mano. Il sistema di astrazione mette dunque

gli uomini e le donne in condizione di non poter vivere la propria vita o,

peggio, di doverla vivere come se non fosse la propria vita.

Questa condizione raramente prende corpo nella coscienza dei soggetti.

Molti finiscono per fare propria la vita regolata dal sistema di astrazione. Ciò

è reso possibile dal fatto che l'astrazione non si presenta mai allo stato puro.

La realtà degli uomini e delle donne in carne e ossa mantiene la forma della

concretezza. Solo che tale forma non si riempe dei contenuti della specificità

personale, ma dei valori del sistema di astrazione. Così accade che molte

persone vivono l'astrazione come concretezza. Non riescono ad andare oltre

la forma con la quale si presenta la realtà. E spendono tutte le loro energie

nel cercare di adattarsi ad una vita di cui non colgono il senso.

Vivere nella società astratta è dunque per milioni di donne e di uomini un

lento deperire in quanto persone concrete. Uno ad uno si spezzano i fili che

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legano la persona alla propria specificità. Il soggetto si trova nella condizione

di chi non è esperto di nuoto e sente di non "toccare". In tale situazione,

vivere è un continuo annaspare, per cercare di stare a galla nel mare

dell'astrazione sociale. Vivere è un continuo tentare di vivere. E quando si

crede di posare un piede sul fondo della propria personale concretezza, ci si

accorge - quando ci si accorge - che l'astrazione, attraverso vari processi di

assimilazione, è arrivata fin là, diventando carne della nostra carne, sangue

del nostro sangue.

Dobbiamo dunque resistere alla tentazione di concepire concretezza e

astrazione come due sfere separate. La società astratta è intrecciata con la

società concreta. L'astrazione è il guscio istituzionale della realtà sociale.

Questo modo di essere della società astratta rende estremamente difficile

per gli uomini e per le donne cogliere la sede e il momento della concretezza

sociale. L'astrazione si annida tra le pieghe della vita di tutti i giorni.

1.4 La separazione fra persona e qualità umane

Nella società sussunta al capitale la persona è separata dalle proprie

qualità e spogliata del suo essere concreto. A loro volta, le qualità sono

separate dalla persona e spogliate del loro essere qualità umane. Questa

separazione si traduce in astrazione. La concretezza sociale è infatti nella

unità dei due termini. E' nella persona che gode delle sue qualità urnane. La

separazione produce da una parte persone prive di qualità proprie, dall'altra

qualità prive di concretezza esistenziale. Da una parte individui astratti,

dall'altra astratte qualità. Produce cioè estraneazione e infelicità. Ecco

perché il processo di liberazione si configura come processo di

ricomposizione esistenziale. La liberazione è nella riconquista della

concretezza esistenziale da parte di donne e di uomini reintegrati nelle loro

qualità umane.

Adesso facciamo un passo in avanti. Quando l'astrazione viene a toccare

gli uomini e le donne in carne e ossa, il processo che si è fino a quel punto

accumulato si azzera. L'individuo astratto è il punto di partenza di un nuovo

processo, dominato non più dalla persona, ma dal capitale. Si tratta di un

processo complesso, attraverso il quale il capitale, dopo avere disaggregato

l'unità concreta che fa capo all'essere umano ed avere così interrotto il

circuito sociale basato sulle qualità integrate nella persona, mette a contatto i

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poli sociali separati dal sistema di astrazione e, in quanto poli astratti, li fa

funzionare insieme dentro il processo di valorizzazione del capitale.

Da tale punto di vista, il processo di valorizzazione del capitale è il

risultato dell'accostamento di componenti sociali, che, disaggregate dal

sistema di astrazione, entrano in rapporto utilitaristico. Il soggetto, espro-

priato della sua attività creativa, viene immesso, in quanto lavoratore o

lavoratrice, nell'attività che si è incarnata nel processo di produzione.

Espropriato dei suoi rapporti sociali, viene calato nei rapporti utilitaristici.

Donne e uomini, fra loro separati in quanto persone concrete, vengono

ricollegati come componenti del processo di produzione. La ricomposizione

capitalistica realizzata nel corpo mistico della società astratta.

1.5 La contrapposizione fra l'individuo e le sue qualità

Dopo avere cercato di definire l'astrazione propria delle qualità umane

separate dall'individuo, abbiamo cominciato a sondare l'altro versante

dell'astrazione: l'individuo espropriato delle sue qualità. Da un lato la vita

sociale congelata e commisurata alla valorizzazione capitalistica, dall'altro la

persona espropriata della quotidianità che le è propria, della quotidianità

come espressione della sua umanità. Il trait-d'union dei due versanti è

l'organizzazione e l'utilizzazione delle qualità umane non per la realizzazione

degli uomini e delle donne in quanto persone, ma per la valorizzazione

economica e sociale del capitale.

L'estraneazione delle qualità umane non si risolve in una semplice

esteriorizzazione. Le qualità umane estraneate non diventano solo qualità

esterne all'individuo. L'estraneazione si risolve in contrapposizione. Le

qualità, una volta separate dall'individuo, gli si contrappongono 6. E', questo,

un passaggio decisivo. Perché è da qui che parte un processo complessivo,

il cui esito è la società sussunta al capitale. Questo processo prende avvio

da un atto violento di estraneazione. Ed è per noi estremamente significativo

che la "materia" che dà corpo al capitale è I'esito dell'uso di una qualità

umana sottratta al controllo delle persone, che ne sono state espropriate. Il

prodotto che diventa capitale è frutto dell'attività creativa della collettività.

L'ideologia borghese vorrebbe trarre da ciò la legittimazione del capitale

6 Marx ha chiarito questo aspetto riguardo alla estraneazione del prodotto. Il prodotto, sottratto

all'operaio, gli si contrappone come un essere estraneo (K. Marx, Manoscritti economico-filosofici del 1844,

trad. it., Torino, Einaudi, 1968, p. 71).

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come forza naturale. Ma, al di là dell'ideologia, I'origine del capitale è non

nell'esito dell'attività creativa, bensì nella sua espropriazione ed

estraneazione.

Alla base del modo capitalistico di produzione c'è dunque il processo di

espropriazione-estraneazione. Questo scorporo delle qualità umane dalla

persona produce da una parte il capitale e dall'altra l'individuo adeguato al

capitale. Da dove nasce allora la contrapposizione? Se il sistema di

astrazione investe tutto lo spazio sociale, com'è che salta fuori un dato così

"anomalo", da cui discende l'antagonismo sociale?

In effetti, la contrapposizione è, per il capitale, una conseguenza non

voluta della valorizzazione. Ma resta per noi il problema di individuare il

processo attraverso il quale la valorizzazione del capitale produce per un

verso astrazione, per l'altro contrapposizione.

C'è un primo interrogativo da risolvere. La contrapposizione è un dato

collaterale all'astrazione, è cioè un dato che "sta insieme" - in rapporto

dialettico - all'astrazione, oppure è, rispetto all'astrazione, un dato alter-

nativo? In altri termini, la contrapposizione si produce per effetto del-

I'astrazione o in mancanza di essa?

La questione non può essere risolta in modo schematico. Le qualità

umane, scorporate dalla persona, si fanno - in quanto qualità astratte -

capitale e si contrappongono all'individuo. Qui l'astrazione si traduce

direttamente in contrapposizione. Ma il soggetto, spogliato delle sue qualità

umane, è in grado di contrapporsi, in quanto individuo astratto, al capitale?

Qui la contrapposizione non è immediata, diretta. Una spoliazione violenta

come quella che subisce la persona da parte del capitale provoca, in

potenza, contrapposizione. Ma questa contrapposizione, per mettersi in atto,

deve passare per una persona reintegrata nelle sue qualità umane. E' un

tragico circolo vizioso. Il soggetto che può mettere in atto un processo di

liberazione è la persona liberata.

Il circolo vizioso può essere spezzato soltanto con una forzatura politica.

Attraverso una tale forzatura, chi si fa carico del processo di liberazione è la

persona non ancora liberata, ma che ha preso coscienza del suo bisogno di

liberarsi. La spinta alla liberazione viene al soggetto dal bisogno di

reintegrarsi nelle sue qualità umane.

In questa condizione, il soggetto viene a trovarsi di fronte ad una

alternativa: da una parte la disperazione passiva, dall'altra la scelta politica

attiva.

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In tale quadro, la pratica politica recupera tutta la sua concretezza e si

definisce come tensione continua verso la conquista della perduta integrità

della persona. Il soggetto espropriato lotta per ricongiungersi alla parte di sé

che gli è stata estraneata. Per questa via, si capovolge il segno politico

dell'individuo astratto. Il soggetto spogliato delle sue qualità è I'individuo

adeguato al capitale, perché in grado di ricongiungersi alle qualità

incorportate nell'apparato di produzione. Ma il soggetto espropriato che

prende coscienza della sua condizione e ne trae le conseguenze pratiche a

livello politico non funziona più in questo senso. Non solo rifiuta di integrarsi

alle qualità incorporate nella struttura produttiva del capitale, ma lotta per

riappropriarsi delle sue qualità, in quanto attributi dell'essere umano. E' qui

l'ambivalenza dell'individuo astratto: una faccia di soggetto subalterno e

l'altra di soggetto politico antagonista.

1.6 Il bisogno di reintegrazione esistenziale

E' importante, a questo punto, esaminare da vicino il bisogno di

reintegrazione esistenziale, cioè l'esigenza che ha ogni persona di ri-

congiungersi alle proprie qualità. Occorre partire dalla situazione in cui viene

a trovarsi l'individuo per effetto del processo di estraneazione. Il soggetto ha

davanti a sé le qualità umane che gli sono proprie, ma non come qualità sue,

bensì come qualità del capitale. Ora, una situazione del genere è tutt'altro

che lineare. Le due parti che si trovano di fronte per un verso sono estranee

e contrapposte, per l'altro sono parte I'una dell'altra. Sono estranee e

contrapposte in quanto individuo e capitale. Sono parte I'una dell'altra in

quanto individuo e qualità umane. L'estraneazione, in sé, in quanto

espropriazione, produce contrapposizione. Ma I'estraneazione di qualità

umane, oltre che contrapposizione, produce bisogno di reintegrazione

esistenziale.

Questo bisogno si esprime in forme diverse. Il soggetto - uomo o donna - è

come preso in una morsa. Spogliato delle sue qualità, ha un senso di vuoto

dentro di sé, ma prova repulsione per le qualità estraneate. Da qui una

sensazione di impotenza, che procura angoscia e disperazione e si traduce

in fredda indifferenza nei confronti della realtà esterna. Gli orizzonti di vita si

chiudono. Si oscura lo spettro delle soluzioni. L'individuo, chiuso nel suo

isolamento, si sente come un topo in trappola e non vede vie di uscita. Ha

bisogno di reintegrarsi nelle sue qualità, ma la realtà che lo circonda gli si

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prensenta come l'esatta negazione del suo volere essere persona. In tale

situazione si rispecchia la condizione dell'essere umano nella società

astratta. E' una condizione che viene sperimentata soprattutto dalle giovani e

dai giovani, i quali avvertono più degli altri il malessere per non potere

attivarsi senza vedersi espropriare delle proprie qualità.

E' difficile dare voce ai sogni e alle paure di un uomo e di una donna

combattuti fra il bisogno di impegnarsi in qualcosa per cui valga la pena di

vivere e le frustrazioni derivanti dal sentirsi usati per fini estranei alla propria

realizzazione esistenziale. E' difficile rendere lo stato d'animo di una donna e

di un uomo che tentano di tuffarsi nella vita sociale e si sentono ricacciati

indietro nelle proprie solitudini interiori. E' difficile dare un senso ad una

giornata che ti si apre davanti e non sai cosa metterci dentro, mentre altri,

intorno a te, non hanno abbastanza tempo per correre dietro alle loro piccole

e grandi incombenze.

La società astratta, questo grande consorzio degli affari, si sveglia di buon

mattino e scorre veloce, con i suoi mille occhi ancora assonnati, la lunga lista

delle cose da fare. Ma, se guardi dietro le sigle pompose, non una delle

frenetiche attività che sono in programma ti riguarda personalmente, in

quanto uomo o donna in carne e ossa. Eppure, dicono tutti di lavorare per la

collettività. E, in effetti, tutti i santi giorni mettono le loro rapaci mani dentro la

vita di ognuno/a di noi.

Quando si parla di affari, dal fondo della memoria emerge quella incredibile

rappresentazione scenica che è la contrattazione dei titoli in una sala della

borsa valori. Eccola lì la società astratta. E' in quella torma di fantasmi che

gesticola freneticamente, facendo strani segni con le dita. Quel gesticolare

non ha nulla di umano. Le braccia levate a tagliare l'aria densa di fumo

sembrano i tentacoli di un mostro che fruga nelle viscere della vita sociale.

La sensazione dolorosa di essere continuamente frugati dentro da chi

vuole trarre un utile persino dai nostri pensieri inespressi induce alla chiusura

nei confronti del mondo esterno. Il bisogno di attivarsi viene così ricacciato

indietro dal rifiuto di mettere le proprie qualità al servizio di fini estranei alla

propria realizzazione esistenziale. Il soggetto, uomo o donna, si sente come

una lepre che freme dalla voglia di tuffarsi nel verde luminoso dei prati ed è

invece spinta sempre più in fondo alla tana dalle schioppettate dei cacciatori

in agguato.

L'astrazione sociale dissolve dunque le qualità umane, in quanto attributi

degli uomini e delle donne in carne e ossa, per tradurle in fattori della

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valorizzazione capitalistica. Ed è quindi la barriera che blocca il rifluire nella

vita sociale dell'attivismo finalizzato alla realizzazione esistenziale della

persona. E' una sorta di labirinto. Le qualità umane, per potersi attivare nella

società complessiva, devono attraversare la barriera dell'astrazione sociale.

Le altemative sono due. O rimangono di qua dalla barriera, nel qual caso

continuano ad essere attributi della persona, ma non hanno la possibilità di

arricchirsi della dinamica sociale complessiva. Oppure attraversano la

barriera, si immettono nel flusso della dinamica sociale, ma ne escono

spogliate delle specificità personali e ridotte a funzioni dell'apparato

produttivo del capitale. Nell'uno e nell'altro caso, la persona concreta viene

ridotta a individuo astratto. Il soggetto viene bloccato nella sua individualità e

messo in condizione di non potere attivare le prorpie qualità umane per dare

corso alla realizzazione della propria concretezza esistenziale.

1.7 Dal disagio esistenziale alla fuga nel mondo artificiale prodotto dalla droga

La difficoltà ad attivarsi per la propria realizzazione provoca, in presenza di

una acuta sensibilità soggettiva, disagio esistenziale. Nel contesto del nostro

discorso, per disagio esistenziale si intende la sensazione di non essere in

sintonia con il mondo esterno. Il soggetto sente di non essere preso in

considerazione in quanto potenzialità da realizzare, ma soltanto come

strumento per il perseguimento di fini che gli sono estranei. Se si espone

come essere umano, non trova riscontro nella realtà che lo circonda. Per

potere sperare di farsi ascoltare, deve proporsi non come universo di

energie creative, ma come anello impersonale del processo di

valorizzazione del capitale.

In una società che pretende di qualificarsi in termini di razionalizzazione

dei processi sociali gli uomini e le donne non sono in condizione di darsi un

progetto di vita. Non si tratta di una disfunzione, dovuta a inefficienza, ma di

una contraddizione strutturale. In tanto il sistema di produzione può essere

programmato in direzione di un valore astratto, in quanto gli uomini e le

donne rinunciano a progettare la propria esistenza. La programmazione

capitalistica può avere corso solo in un vuoto di progettualità esistenziale. La

razionalità del capitale è fondata sulla irrazionalità e casualità delle vite

umane.

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In mancanza di una ben definita prospettiva esistenziale, il soggetto, uomo

o donna, non può dispiegare le proprie attitudini in funzione della propria

realizzazione in quanto persona.

Il disagio esistenziale ha dunque origine in una chiusura della prospettiva

di autorealizzazione. La società sussunta al capitale, strutturandosi come

sistema di indifferenza sociale, chiude ogni spazio alla dinamica esistenziale

degli uomini e delle donne.

Le reazioni soggettive a questa chiusura sono varie. C'è chi si adatta a

vivere una vita non sua. C'è chi tenta percorsi alternativi per riaffermare la

propria identità. C'è chi, invece di cercare di riappropriarsi del senso

dell'esistere, agisce sul proprio io, per alterarlo e renderlo non recettivo nei

confronti della realtà esterna. Per effetto di una sostanza stupefacente, l'io si

dilata e rimane temporaneamente sospeso in un mondo artificiale.

Una delle possibili risposte al disagio esistenziale è dunque la fuga dalla

realtà. E uno dei possibili esiti di tale fuga è l'approdo al mondo artificiale

prodotto da una droga. Nell'ambito di tale esito, la nostra attenzione è rivolta

non all'insieme di azioni-reazioni connesse alla dipendenza da una sostanza,

ma alla dinamica sociale che può predisporre il soggetto ad orientarsi in

direzione del consumo di droga.

Dovrebbe, a questo punto, emergere il quadro entro cui si muove il nostro

discorso. Nella società astratta, il sistema di indifferenza produce una vasta

area di disagio esistenziale. Entro tale area si innescano varie dinamiche,

una delle quali conduce alla fuga dalla realtà. Una delle forme che assume la

fuga è il consumo di droga.

La tossicodipendenza copre dunque solo una piccola parte dell'area del

disagio esistenziale. In realtà, il disagio non produce automaticamente

consumo di droga. Espone al rischio di un orientamento in direzione di una

fuga dalla realtà. Altri fattori - psicologici, culturali e sociali (fra cui la

pressione del mercato) - concorrono poi a tradurre tale fuga in consumo di

droga.

Non sempre il disagio è avvertito come tale dal soggetto. A volte il

soggetto, mancando di un rapporto vitale con la realtà esterna, finisce per

girare su se stesso, in una sorta di vuoto esistenziale.

Il vuoto esistenziale è una condizione in cui sono assenti le spinte alle

attività vitali. Il quadro delle motivazioni è spento. Manca un collegamento tra

la soggettività e le sfere dei comportamenti. Il soggetto non controlla i suoi

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stessi atti. Non è attore, ma semplice ricettacolo di dinamiche esterne, che

intersecano la sua quotidianità.

Molti/e tossicodipendenti dichiarano di avere cominciato per caso, per

curiosità o per gioco. Ma, se si va oltre l'immediatezza della situazione, viene

spesso fuori che tutto ciò accade all'interno di circuiti sociali in cui è assente

una progettualità esistenziale. Ora, in circuiti privi di prospettiva vitale è facile

che si introducano elementi di artificio, che tendono a surrogare la realtà.

Non potendo operare nel concreto, si gioca a "viaggiare" in un mondo

artificiale.

Le vie che conducono ad una droga sono strettamente legate alle vicende

personali. Una qualsiasi generalizzazione può risultare fuorviante. Tuttavia,

sul filo di quanto è emerso, è possibile tracciare due percorsi, entrambi

collegati al sistema di indifferenza sociale.

Un primo percorso parte dal disagio esistenziale e approda al distacco

dalla realtà esterna ed alla fuga nella irrealtà del mondo prodotto dalla droga.

L'indifferenza alla condizione esistenziale provoca uno scompenso tra la

sfera dell'aspirazione e la sfera dell'attivazione. Non essendo preso in

considerazione per quello che è in quanto persona, il soggetto - uomo o

donna - non si può attivare in direzione della propria autorealizzazione. Ora,

in persone fortemente motivate, questa caduta della progettualità

esistenziale può indurrre alla fuga.

In un secondo percorso, il sistema di indifferenza produce nella vita sociale

sacche di vuoto esistenziale, in cui si innescano dinamiche artificiose, che

coinvolgono soggetti demotivati sul piano dell'attivazione vitale.

In entrambi i percorsi c'è, all'origine, una situazione di scollatura nei

confronti della realtà esterna. In tale situazione, la persona finisce per essere

svuotata della sua identità e ridotta a individuo astratto.

Il cerchio dell'astrazione sociale si chiude. Il soggetto, quando è cosciente

dl ciò che fa, si illude di salvare la propria integrità esistenziale rifugiandosi in

un mondo artificiale. E invece, senza rendersene conto, si spinge più

addentro al sistema di astrazione sociale.

Il/la tossicodipendente è un soggetto svuotato della propria identità

personale e ridotto a semplice macchina di consumo, che alimenta un settore

specializzato del mondo degli affari. E' un individuo astratto alla massima,

tragica potenza.

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Capitolo Secondo

I RAPPORTI SOCIALI ASTRATTI

2.1 La desoggettivazione dei rapporti sociali

La soggettività degli uomini e delle donne è, per il processo di

valorizzazione del capitale, una mina vagante. Proprio perché la

valorizzazione capitalistica esige la passività dei fattori di produzione rispetto

al sistema produttivo, la soggettività, in quanto fonte di attività, si configura

come variabile disvalorizzante. In quanto espressione di vita della persona

concreta, la soggettività è, per il capitale, minaccia di morte.

Particolarmente pericolosa è la presenza attiva della soggettività nei

rapporti sociali. Da qui la necessità di rendere astratte le relazioni sociali,

cioè di disancorarle da ogni interferenza della soggettività. I rapporti sociali

astratti sono rapporti desoggettivati, cioè svincolati da ogni espressione della

soggettività. Sono rapporti indifferenti ai propri contenuti, perché non sono

strutturati in relazione a ciò che hanno da comunicarsi, come persone, gli

uomini e le donne in carne e ossa.

L'origine di tutto ciò si può fare risalire, sul piano storico, alla

contrattualizzazione dei rapporti sociali, cioè alla istituzione di relazioni

strandardizzate e codificate, attraverso le quali gli individui entrano in

contatto fra loro per scambiarsi beni o servizi. In conseguenza della

contrattualizzazione, i rapporti sociali si definiscono come relazioni non tra

persone, ma tra funzioni e ruoli, in cui si prescinde dalle specificazioni proprie

dei soggetti. Nel sistema di relazioni contrattuali gli individui figurano soltanto

in quanto veicoli di funzioni e di ruoli direttamente o indirettamente produttivi

o, comunque, assunti come tali. Non le funzioni e i ruoli sociali come

espressioni degli individui, ma gli individui come espressioni delle funzioni e

dei ruoli produttivi 7.

7 La contrattualizzazione dei rapporti sociali comporta, come è noto, la transizione dal rapporto servile al

rapporto libero. Il rapporto servile coinvolge tutta la vita dell'individuo. Il servo della gleba è

servo in qualsiasi momento della sua vita, perché tale lo definisce la sua condizione sociale complessiva,

nella forma e nella sostanza. Non c'è un angolo della vita sociale in cui, almeno formalmente, la sua

condizione possa definirsi non-servile. Il rapporto contrattuale invece investe, formalmente, solo un aspetto

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Il riscontro reale di tale inversione si può ritrovare nell'intreccio di funzioni e

di ruoli di cui è intessuta la società sottomessa al capitale. In questo senso,

la società astratta si definisce come sistema di funzioni e di ruoli sociali, più

che come insieme di persone.

Il sistema di funzioni e di ruoli sociali funziona come apparato del sistema

di astrazione(*). Nella società astratta il ruolo sociale rappresenta infatti -

nella sua purezza ideale - I'istituzionalizzazione della funzione direttamente o

indirettamente produttiva, spogliata di ogni interferenza personale.

I rapporti fra ruoli sociali sono - nella loro astrazione - i rapporti sociali

adeguati al capitale. E ciò perché, in primo luogo, si tratta di relazioni

standardizzate e quindi prevedibili. Quanto più un ruolo è astratto, quanto più

cioè riesce a mettere fra parentesi il soggetto che lo ricopre, tanto più è

funzionale al processo complessivo di valorizzazione del capitale. In ogni

caso, un ruolo sociale ha la funzione di mediare tra l'imprevedibilità della

persona e il bisogno di prevedibilità del sistema. I rapporti sociali astratti,

realizzati attraverso la mediazione di ruoli funzionali al sistema di potere in

atto, non solo non corrispondono al bisogno di relazione dei soggetti, ma

sono il risultato della espropriazione dei rapporti interpersonali, cioè della

estraneazione di un dato fondamentale del comportamento umano. Rapporti sociali dunque come canali non di realizzazione esistenziale delle

donne e degli uomini, ma di estraneazione della loro socialità. La socialità viene sradicata dalla persona e trasferita nel ruolo. L'individuo ritrova, nel ruolo, la sua socialità come sfera a lui estranea. Ed egli, per attivare questa socialità estraneata, deve negare se stesso come uomo o donna in carne e ossa.

2.2 La socialità astratta

Non facendo funzionare il sistema di comunicazioni interpersonali, si cerca

di ottenere individui isolati, più facilmente disponibili nei confronti del sistema

di relazioni astratte. Fare il vuoto di socialità reale attorno ad ogni uomo e ad

ogni donna significa creare le condizioni perché l'individuo funzioni come

conduttore di ruoli astratti. L'estraneazione della socialità reale delle persone

è funzionale all'attivazione della socialità astratta del sistema.

specifico della vita dell'individuo, l'uso della forza-lavoro per un tempo determinato. In tal senso, fa astrazione dagli

altri momenti della vita sociale. Questo aspetto formale del rapporto contrattuale ha conseguenze pratiche

enormi, che interessano il sistema sociale complessivo.

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La socialità astratta non dispone di un suo spazio autonomo rispetto alla

persona concreta. Deve dunque realizzarsi entro la vita quotidiana. Il

soggetto non solo è privato della socialità che gli è propria, ma è costretto a

farsi carico di una socialità che gli è estranea. La socialità astratta per un

verso è estranea alla persona, per l'altro deve attivarsi attraverso la persona,

ridotta a individuo. E può attivarsi soltanto occupando lo spazio vitale della

persona e svuotandolo di ogni contenuto reale. L'attivazione della socialità

astratta può darsi soltanto attraverso l'astrattizzazione della vita reale.

Una vita sociale carica di contenuti e di significati personali è una sede

inadatta per il funzionamento del sistema di relazioni astratte. Le relazioni

astratte pretendono di essere impersonali e soffrono il carico di contenuti e di

significati personalizzati. In questo senso, la vita quotidiana adeguata alla

socialità astratta è la routine, con tutto il suo carico di noia e di solitudine. La

socialità astratta crea routine, che a sua volta genera rapporti sociali astratti.

L'astrazione si rivela, a tutti i livelli, come un sistema a circuito chiuso. In

particolare, il sistema di astrazione è continuamente chiamato a ripulire i

processi sociali delle scorie di relazioni interpersonali ed a sgombrare la vita

sociale dei detriti di valenze personali, di cui tendono a caricarsi le stesse

relazioni impersonali. E' cioè continuamente chiamato a riprodurre le

condizioni per riportare la vita sociale entro i binari della routine quotidiana.

Come viene vissuta la routine delle relazioni impersonali? Come viene

cioè vissuta la privazione di relazioni sociali personalizzate? In altri termini,

interessa vedere come si definisce l'insediamento della socialità astratta

entro la dinamica della vita quotidiana, quali conflitti provoca, a quali reazioni

va incontro.

Il tempo di vita è - dal punto di vista della persona concreta - indivisibile.

La socialità astratta deve quindi potere trovare il modo di funzionare entro le

mura della vita quotidiana. E qui entra in conflitto con tutta la carica

personale che sta dentro il vissuto degli uomini e delle donne in carne e

ossa. Il vissuto personale che tenta di farsi strada nei rapporti di vita

quotidiana si imbatte continuamente nella violenza prodotta dal sistema di

astrazione, che tenta di metterlo fra parentesi.

Nella sfera dei rapporti interpersonali penetrano diverse forme di

astrazione. Una delle forme più ricorrenti è la spersonalizzazione. E' un

connotato tipico dei rapporti formali, cioè di rapporti regolati da precise norme

di comportamento, che schiacciano la soggettività e la mortificano,

inchiodandola ad espressioni standardizzate, che le sono del tutto estranee.

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Altra forma, propria delle grandi città, è la casualizzazione. I rapporti casuali,

che si intrecciano nel corso di incontri fortuiti, sembrano assolutamente

personalizzati. E in effetti non ubbidiscono, mani-festamente, a canoni

espressivi esterni. Il limite è pero qui interiore. La casualità del rapporto non

consente alla soggettività di dar fondo alle sue potenzialità espressive.

Pertanto, pur non essendo sottoposto ad imposizioni esterne, il soggetto si

limita spesso, in questi casi, tranne rare eccezioni, a rifugiarsi in espressioni

ripetitive e banali. La banalizzazione delle relazioni sociali, che è una

conseguenza dell'astrazione propria dei rapporti non personalizzati, lascia

nel soggetto una dolorosa sensazione di frustrazione e di impotenza e lo

induce talvolta a ridurre le sue manifestazioni verso l'esterno alle

comunicazioni indispensabili per la sopravvivenza.

2.3 La segregazione del personale nell’individuale

Quando l'astrazione viene a toccare i rapporti interpersonali, si pone un

problema di grande portata. E' il problema dello sbocco sociale del vissuto

personale. Nella società astratta il vissuto personale non ha modo di

esprimersi, di uscire fuori dall'ambito individuale, di intersecarsi con altre

esperienze soggettive. L'astrazione ha, nella sfera dei rapporti sociali, questa

conseguenza immediata: la segregazione del personale nell'individuale. E

qui bisogna intendersi. Personale e individuale sono ambiti non

necessariamente coincidenti. Anzi. Il personale ha bisogno di arricchirsi

continuamente attraverso esperienze intersoggettive. Ha bisogno di aprirsi a

prospettive collettive, in cui la sfera individuale abbia la possibilità di

dilatarsi. L'individuo diventa persona quando incontra gli altri/e e quando

prende coscienza del fatto che la realizzazione delle proprie potenzialità può

avvenire soltanto attraverso gli altri/e.

Nella società astratta il personale e l'individuale invece coincidono. Non

perché sono la stessa cosa, ma perché sono costretti a muoversi entro la

stessa sfera: la sfera del privato. Il personale è come imprigionato nell'ambito

individuale. Questa condizione procura un doloroso senso di solitudine, con

punte di vera e propria disperazione. Il personale non ha la possibilità di

espandersi, di intersecare l'«altro da sé» in esperienze collettive e

intersoggettive. Bloccato nella prigione della sfera individuale, è costretto a

ritorcere la sua dinamica su se stesso.

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I rapporti sociali reali danno spazio alla dialettica interiore delle persone

concrete. Il personale ha, per questa via, la possibilità di strutturarsi in forme

mobili, tali da potersi volta a volta adeguare al livello di realtà con cui si deve

confrontare. Viceversa, i rapporti sociali astratti ricacciano continuamente

indietro, nel privato, il personale che tenta di emergere, di invadere i canali

che gli si aprono davanti. Il soggetto ha difficoltà ad esternare i problemi che

lo affliggono. Fuori della persona c'è la sfera pubblica, dove regna

l'astrazione e dove la presenza di contenuti personali crea scandalo.

Il confinamento del personale nella sfera privata non è casuale. Rientra in

una logica di controllo sociale. L'individuo, messo in condizione di non potere

vivere insieme ad altri/e il suo personale, si ripiega su se stesso e si colloca

in una posizione soggettiva di estraneità rispetto alla realtà sociale

complessiva.

Questa estraneità può essere vissuta in modi diversi. C'è chi si lascia

fagocitare dalla routine quotidiana, arrivando ad un alto grado di

depersonalizzazione. C'è chi perde il senso della realtà e vive il suo

personale in modo onirico. C'è chi rifiuta la realtà esterna e si rifugia nello

stordimento artificiale procurato dalle droghe.

Quanto si è detto fin qui mette in evidenza la funzione di fondo che ha

l'astrazione in sede di rapporti sociali: bloccare i bisogni nella sfera privata e

chiudere i canali attraverso i quali essi possono organizzarsi ed avere un

impatto con il sistema politico-economico.

In relazione a questa funzione dell'astrazione, è necessario, a questo

punto, cercare di vedere che cosa rappresentano i rapporti sociali per

l'espressione dei bisogni. I rapporti sociali sono i canali attraverso i quali i

bisogni circolano e si organizzano nella società- collettività. Non si tratta di

una funzione puramente esterna e strumentale. Attraverso i rapporti sociali, i

bisogni avviano processi politici collettivi, che producono nuove prospettive,

più avanzate. Una intensificazione accelerata dei rapporti sociali dà talvolta

luogo ad una spirale di bisogni, che può rappresentare una seria minaccia

per le compatibilità, economiche e politiche, dell'apparato capitalistico.

Rapporti sociali e bisogni sono connessi in modo dialettico. I rapporti

sociali sono il presupposto per la definizione e l'espressione del sistema dei

bisogni a livello sociale complessivo. E, a sua volta, il sistema dei bisogni

rappresenta l'insieme delle motivazioni, personali e collettive, che stanno alla

base dei rapporti sociali.

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In questo quadro, la realizzazione di una autentica socialità è, di per sé,

affermazione dei bisogni fondamentali delle persone concrete. Di

conseguenza, per negare i bisogni, il sistema si deve strutturare in modo da

essere di ostacolo alla realizzazione dei rapporti interpersonali. E, viceversa,

per impedire la realizzazione dei rapporti interpersonali, deve negare i

bisogni.

2.4 La rigidità dei rapporti interpersonali profondi

L'astrazione sociale incontra non poche difficoltà a penetrare nei rapporti

personali profondi, cioè nei rapporti di amore, di affetto, di amicizia. In questa

sfera i soggetti si mettono in relazione fra di loro in quanto persone,

prescindendo dai loro ruoli formali. Si pensi quanto la persona, con il suo

specifico e irripetibile bagaglio esistenziale, viene coinvolta in un autentico

rapporto di amore o di amicizia. Un dirigente è in rapporto con la propria

moglie e con i propri figli non come funzionario, ma come persona.

Può anche accadere che due persone abbiano un doppio rapporto,

astratto e concreto. Un dirigente ha una relazione sentimentale con una sua

subordinata (o una dirigente con un suo subordinato). Davanti agli altri si

danno del lei e si rapportano in quanto portatori di ruoli. Hanno cioè un

rapporto formale, astratto. Ma, appena si trovano soli nella stanza dell'ufficio,

si danno del tu e si sintonizzano in quanto persone concrete. Su questo

doppio binario possono insorgere equivoci, derivanti dall'intersecarsi dei due

piani di rapporto. Per cui si rendono spesso necessari chiarimenti, che

rimettano le cose a posto. Tipico è il caso del militare graduato che è in

stretto rapporto di amicizia con un militare semplice. Il graduato chiede

qualcosa al militare semplice, il quale, pensando di parlare all'amico, ci

scherza sopra. A questo punto, il graduato riporta la sua richiesta nell'ambito

del rapporto formale, da superiore a subordinato, precisando: «E' un ordine».

Il coinvolgimento della persona nei rapporti profondi può provocare

atteggiamenti di rigidità, cioè di resistenza all'astrazione sociale, di

riaffermazione della propria specificità personale. Tale resistenza si esprime

nell'attaccamento affettivo alla propria compagna o al proprio compagno, ai

figli e alle figlie, ai familiari, alle amiche ed agli amici, ai luoghi, alle abitudini

di vita.

Ora, se l'astrazione sociale fosse limitata ai rapporti formali, lasciando la

sfera dei rapporti profondi sotto il dominio della concretezza, la società

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astratta non riuscirebbe ad incidere sul sistema di relazioni quotidiane. E

questo vuoto di astrazione finirebbe per condizionare il processo

complessivo di valorizzazione capitalistica, creando vincoli sociali, che sono

di ostacolo alla piena disponibilità della forza-lavoro manuale-intellettuale.

Per tutto ciò, l'astrazione deve attaccare ed intaccare la rigidità dei rapporti

interpersonali profondi, la non-indifferenza presente nella struttura portante

del sistema di relazioni quotidiane. A questo livello, l'astrazione non può agire

in modo diretto. Segue vie traverse, incidendo sui fattori che concorrono alla

struttura dei rapporti sociali, in modo che le relazioni astratte appaiano come

un esito di progresso, come il risultato di una evoluzione sociale. In effetti, dal

punto di vista del sistema politico-economico, i rapporti astratti si definiscono

in termini di "modernizzazione", in quanto tendono a liberare la valorizzazione

capitalistica da ogni vincolo sociale. E i rapporti sociali concreti, con la loro

pregnanza di contenuti e di significati, con la loro tendenza alla

specificazione soggettiva, si definiscono come relazioni "arretrate" ed

"anguste" rispetto al sistema di relazioni industriali.

In questo quadro, il sistema di relazioni industriali è il sistema di rapporti

sociali astratti per eccellenza. E' il sistema di relazioni adeguate alla società

astratta.

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Capitolo Terzo

LA RICCHEZZA ASTRATTA

3.1 Ricchezza concreta e ricchezza astratta

Gli uomini e le donne producono oggetti concreti, trasformando la materia

attraverso tecniche specifiche. Soddisfano così il bisogno di sentirsi attivi e si

realizzano negli oggetti prodotti. Gli oggetti prodotti hanno forme e colori.

Sono grandi, piccoli, gialli, rossi. Hanno qualità diverse. Nella società astratta

le qualità particolari degli oggetti vengono ridotte ad astratte quantità

comparabili.

Le donne e gli uomini producono oggetti per farne un uso particolare. Il

fine della produzione reale è il valore d'uso dei beni. Nel processo di

valorizzazione capitalistica l'uso diventa mezzo per la realizzazione del

valore di scambio. Si dà forma e colore all'oggetto, per poterlo meglio

scambiare. Il valore di scambio è il fine ultimo della produzione capitalistica,

che - in questo senso - si definisce come processo di valorizzazione del

capitale. Tutti questi passaggi sono sintetizzati nella riduzione del bene

concreto, finalizzato all'uso, a merce astratta, finalizzata allo scambio.

In via preliminare, occorre individuare il significato storico del passaggio

dal dominio del valore d'uso al dominio del valore di scambio. Si tratta di un

passaggio che comporta un insieme rilevante di mutamenti nel sistema

politico-economico. Ma il senso profondo di tali mutamenti è nel graduale

passaggio da un mondo dove regna la concretezza ad un mondo dove regna

l'astrazione.

Bisogna intendersi bene su questo punto. Il processo di valorizzazione del

capitale, mentre da un lato opera nel concreto della realtà sociale, dall'altro

rimane un processo astratto, al quale sono estranee motivazioni legate alla

concretezza delle persone. Questa sua astrazione il processo di

valorizzazione capitalistica non la tiene per sé, ma - proprio perché è

costretto a funzionare nella sfera sociale - la scarica sulla società

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complessiva, attraverso la mediazione del sistema istituzionale. La

mediazione istituzionale è, nella società formalmente democratica,

indispensabile al capitale per potere definire la produzione sociale come

produzione di merci.

La merce è il prodotto astratto, indifferente al suo valore d'uso e deferente

verso il suo valore di scambio. In questo senso, la ricchezza, in quanto

disponibilità di merci, si definisce - nella società sussunta al capitale - come

ricchezza astratta, indifferente ai suoi contenuti.

Un impatto diretto con la ricchezza astratta si ha quando si entra in una

banca. La banca è una grossa concentrazione di ricchezza. Ma non ha

magazzini pieni di roba da mangiare o da usare. Ha solo titoli monetari e reti

informatiche con la memoria zeppa di cifre. Dentro una banca circola solo

ricchezza astratta.

3.2 Ricchezza astratta e bisogni sociali

I beni sono, in sé, risposte ai bisogni. La trasfigurazione di beni in merci

stravolge una tale funzione. L'uso dei beni viene svincolato dai bisogni e

vincolato allo scambio. I bisogni, per potersi rapportare ai beni, devono

passare sotto le forche caudine del valore di scambio. Le persone che hanno

un bisogno devono riconoscere i beni come merci. Il che, a ben riflettere, è

un paradosso. La merce è una entità astratta, indifferente al contenuto del

prodotto nel quale si incarna 8. Ebbene, per potere usufruire di un prodotto

specifico, le persone devono negarlo come specifico prodotto.

Ad un livello ancora più generale, nella società astratta produzione e

valorizzazione devono coincidere. Le persone non devono poter disporre di

beni se non in forma di merci. Sta qui il ricatto economico che il capitale

esercita nei confronti della collettività. Un vero e proprio sequestro privato

della produzione sociale, per estorcere plusvalore.

Il destino sociale del modo capitalistico di produzione è legato alla

resistenza del nesso tra creazione di beni di consumo ed estrazione di

plusvalore. Finché questo nesso resiste, la collettività "non può fare a meno"

del capitale. Per tutto ciò, l'economia borghese tende a mistificare il nesso,

nel senso che cerca di non farlo vedere, per non esporlo a pericolosi

attacchi. Così fa del processo di produzione direttamente un processo di

8 Si veda il paragrafo 0.1 L’astrazione materiale nella Premessa alla Parte Prima.

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valorizzazione del capitale. E in ciò - a livello di percezione collettiva - ha

gioco facile. Perché il processo di valorizzazione capitalistica non ha una

sede fisica, distinta dal luogo di produzione. Produzione e valorizzazione

capitalistica fanno parte di un processo complessivo. Ma solo la prima è

visibile nelle sue strutture materiali.

La coincidenza fra produzione e valorizzazione si traduce in una

separazione della ricchezza concreta - cioè della disponibilità diretta di beni -

dai bisogni sociali. E non è un caso. Solo una ricchezza astratta, una

ricchezza indifferente ai suoi contenuti, può essere separata dai bisogni

sociali. E solo una ricchezza separata dai bisogni sociali può essere

indifferente ai suoi contenuti.

Produrre ricchezza non finalizzata al soddisfacimento di bisogni particolari

(se non in modo strumentale, per realizzare valore di scambio) è, di per sé,

un atto di espropriazione. Significa espropriare le persone della gestione

diretta della soddisfazione dei loro bisogni. Significa negare il comando dei

bisogni sulla ricchezza sociale. Produrre ricchezza indifferente ai suoi

contenuti significa produrre indifferenza per i contenuti dei bisogni sociali.

A prescindere dagli stravolgimenti prodotti dalla mistificazione ideologica,

la separazione della ricchezza dai bisogni provoca una marcata

polarizzazione sociale: da una parte la società-struttura impone il dominio del

valore di scambio, dall'altra la società-collettività preme per affermare il suo

bisogno di valore d'uso.

3.3 Denaro e materialità della ricchezza astratta

La riduzione del bene a merce non muta la figura fisica del prodotto. A

questo livello, l'astrazione opera ancora nell'ambito del rapporto fra bisogni e

beni, senza nemmeno sfiorare la materialità della ricchezza. Fin qui la

ricchezza astratta è costituita da prodotti materiali considerati dal punto di

vista dello scambio 9. L'astrazione non si è ancora tradotta in trasfigurazione

fisica.

In questa traiettoria il denaro segna un passaggio estremamente

significativo. Segna il passaggio alla materializzazione dell'astrazione

applicata alla ricchezza. Il biglietto di banca, stampato in tagli diversi ad uso

del piccolo commercio, è la figura materiale della ricchezza astratta. Ma è

9 Ibidem.

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una figura esposta ad una ulteriore astrattizzazione. Il residuo di materialità

presente nella valigia piena di soldi, che si vede nei film polizieschi, si

vaporizza in una cifra segnata a penna su un rettangolo di carta, riconosciuto

come assegno di conto corrente. Operazione che può essere evitata con la

semplice presentazione di una carta di credito. Questa smaterializzazione

del denaro, questa traduzione della residua materialità del denaro a puro

simbolo grafico - legata alla esigenza di velocizzare le operazioni di scambio

e quindi destinata ad estendersi sempre più – mette in atto indirettamente,

almeno per un certo tempo, una differenziazione di classe. Chi ha molti soldi

non è abituato a maneggiare la materialità del denaro. Ha sempre a che fare

con il denaro come pura astrazione simbolica, cioè con una ricchezza

astratta all'ennesima potenza.

3.4 Il comando del denaro sulla ricchezza sociale come dominio di classe

Il denaro rappresenta la ricchezza. Ma non la rappresenta in modo neutro.

Nel rappresentarla, la domina. E' da qui che discende il comando del denaro

sulla ricchezza sociale.

Questo comando sulla ricchezza sociale viene esercitato su basi di classe.

Il denaro è l'imperio della classe dominante sulla ricchezza sociale. Da qui la

sua ambivalenza. Per le classi privilegiate il denaro è il ponte che porta le

persone al godimento della ricchezza. Per le classi subalterne è invece il

muro che separa le persone dalla ricchezza sociale. In tal senso, la presenza

sociale del denaro si traduce in ricchezza per le classi privilegiate e in

povertà per le classi subalterne. E il comando sulla ricchezza si traduce, per

la classe dominante, in potere economico e politico. Sta qui la forza del

denaro.

Il godimento della ricchezza sociale non è mediato dai bisogni, ma dal

denaro. E il denaro - in quanto rappresentazione imperativa della ricchezza e

non mero strumento di sopravvivenza fisica - è un attributo della classe

dominante. Ora, da dove viene al denaro questo marcato segno di classe?

Per quale via esso è in grado di esprimere il comando della classe

dominante sulla ricchezza sociale e quindi sulle classi subalterne?

Ragioniamo in negativo. Se l'unico valore fosse il valore d'uso e se esso

fosse connesso strettamente ai bisogni sociali, verrebbe a mancare lo spazio

per il comando di classe sulla ricchezza sociale. I contenuti della produzione

avrebbero un tale peso sul sistema economico da sfuggire al controllo della

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classe dominante. Il comando della classe dominante sulla ricchezza sociale

si può dunque affermare soltanto nell'ambito di un sistema di astrazione che

da una parte svuoti la persona della specificità dei suoi bisogni e dall'altra

svincoli la ricchezza sociale da particolari contenuti e ne faccia una ricchezza

per sé, una ricchezza in quanto ricchezza, una ricchezza astratta.

3.5 Lo scontro sociale fra il valore d’uso e il valore di scambio

La specificità dei contenuti è - in qualsiasi sede ed a qualsiasi livello - un

nemico mortale per il comando del capitale sulla società complessiva. Il

comando del capitale richiede astrazione, cioè indifferenza ai contenuti. E si

capisce perché. Nella misura in cui la società è indifferente ai contenuti, è

deferente verso il capitale.

In condizioni di forte tensione sociale, I'antiteticità fra valenza con-

tenutistica della vita sociale e dominio del capitale si traduce in antagonismo

sociale. In alcuni strati del proletariato giovanile emerge allora la pratica

dell'uso diretto dei beni, non mediato dal valore di scambio. Tale pratica

costituisce una minaccia per il comando del denaro sulla ricchezza sociale. I

soggetti cominciano a dimostrarsi irrispettosi nei confronti della mediazione

del denaro e vedono nella ricchezza sociale materia di godimento diretto. Il

soggetto proletario è tutt'altro che deferente verso la intangibilità del valore di

scambio. Un bene vale per il godimento che dà. E da tale godimento non

vuole sentirsi escluso. Questa indifferenza proletaria nei confronti della

"sacralità" del valore di scambio è I'esatto contrario della indifferenza

borghese nei confronti della "volgarità" del valore d'uso.

Là dove esplode, lo scontro ha radici sociali profonde. Da una parte il

valore di scambio, dall'altra il valore d'uso, ognuno dei quali cerca di

affermare, a danno dell'altro, la propria egemonia sulla società complessiva.

Nella sconvolgente immagine televisiva delle ruspe che riducono a

informe poltiglia montagne di bellissime arance dorate c'è tutta la violenza e

I'assurdità di un sistema politico-economico che assume a fondamento il

valore di scambio. E' una immagine emblematica, una sintesi delle

contraddizioni della società sussunta al capitale. Nei termini del nostro

discorso, è soprattutto la cruda evidenziazione del bisogno di astrazione del

capitale. Si distrugge valore d'uso pur di salvare valore di scambio. Si

distrugge ricchezza concreta pur di salvare ricchezza astratta.

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Ma c'è di più. Qui la salvaguardia di ricchezza astratta sta proprio nella

distruzione di ricchezza concreta. Ciò rivela un aspetto significativo della

produzione di ricchezza astratta. La produzione di ricchezza astratta è, di per

sé, distruzione di ricchezza concreta. L'indifferenza al valore d'uso, che è

alla base della produzione del valore di scambio, condanna al

deterioramento, se non alla distruzione diretta, una ingente quantità di beni

materiali. Pensiamo a tutte le merci deteriorabili che rimangono invendute nei

magazzini delle aziende e delle ditte di commercio. Queste merci non

vengono immesse sul mercato al ribasso, per non compromettere i prezzi di

vendita, cioè per difendere il valore di scambio. Anche qui ricchezza concreta

viene lasciata putrefare per salvare ricchezza astratta.

Un caso particolare è quello dell'edilizia. Il prodotto casa non è soggetto,

entro tempi ragionevoli, a deterioramento. Anzi, il suo valore tende a

incrementarsi. Ciò conferisce un andamento particolare al mercato della

casa. Migliaia e migliaia di case di nuova costruzione rimangono per lungo

tempo invendute. E, contemporaneamente, il prezzo della casa, invece di

scendere, sale. Così una ingente ricchezza concreta rimane inutilizzata per

incrementare la ricchezza astratta.

Da tutto ciò risulta con evidenza che la ricchezza astratta è di ostacolo al

godimento della ricchezza concreta. Da una parte gente senza casa,

dall'altra case senza gente 10. Cos'è che impedisce alla gente senza casa di

andare ad abitare nelle case senza gente? Cos'è questo muro che separa

dalla ricchezza concreta i bisogni sociali? E' la ricchezza astratta. E come la

produzione di ricchezza astratta è distruzione di ricchezza concreta, così la

riappropriazione di ricchezza concreta è distruzione di ricchezza astratta.

L'occupazione di case da parte dei senza-tetto è un attentato al loro valore di

scambio, perché è difficile riuscire a vendere case occupate.

Da questo quadro emerge una contrapposizione frontale. Da una parte c'è

chi distrugge arance per mantenere il valore di mercato. Dall'altra c'è chi

delle arance apprezza non il valore di mercato, ma il sapore e le vitamine. Da

una parte chi costruisce case, per lasciarle vuote. Dall'altra chi nelle case ha

bisogno di abitarci.

Tale contrapposizione può essere superata soltanto attraverso un

processo di liberazione che tenda alla distruzione di tutta l'astrazione

presente nella società complessiva.

10 Questa frase ha avuto la ventura di essere assunta come slogan nelle lotte per la casa.

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Capitolo Quarto

I VALORI ASTRATTI

4.1 I valori astratti come valori di classe

Definiamo valori astratti i principi che fanno astrazione dalla condizione

reale in cui vivono le persone concrete e non sono rivolti alla realizzazione

dell'umano. In tal senso, è un valore astratto l'uguaglianza formale, perché

non tiene conto delle concrete disuguaglianze, che vengono a determinarsi

nella realtà sociale. E sono astratti i valori mercantili, perché in essi si

realizza non l'umano, ma l'utile.

Il sistema di valori astratti si regge su una artificiosa compartimentazione

della vita sociale in sfere separate: la sfera politica, la sfera economica, la

sfera sociale. Sulla base di tale compartimentazione, i valori della sfera

politica fanno astrazione dalle condizioni che vengono prodotte in sede

economica. E i valori della sfera economica fanno astrazione dalle condizioni

che vengono prodotte in sede sociale.

E' attraverso questo rapporto di astrazione fra le diverse sfere della vita

sociale che valori formalmente generali funzionano, di fatto, come valori di

classe. In tale senso, i valori astratti non sono valori, in senso proprio, perché

mancano di un requisito essenziale: la generalità.

Prendiamo un valore fondante della società astratta in quanto società

formalmente democratica: la libertà. Tutti gli individui, uomini e donne, che si

accingono a fare un viaggio in treno sono formalmente liberi di scegliere la

prima o la seconda classe, la carrozza cuccette o il vagone letto, l'accelerato

o il super-rapido. Di fatto, la condizione economica e sociale indirizza ogni

individuo, uomo o donna, verso una scelta in larga parte predeterminata.

E non si tratta di una disfunzione. La compartimentazione del treno in

classi (termine quanto mai allusivo) viene operata proprio nella convinzione

che, differenziando il costo, si metterà in atto una disaggregazione

dell'universo dei viaggiatori, uomini e donne, in base al censo ed allo status

sociale. Con questo stratagemma si garantisce agli utenti di un certo livello

sociale non solo di avere in esclusiva certe comodità e certi servizi, ma

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anche di non dovere convivere con gente di basso rango. Tanto è vero che

se, per un accidente qualsiasi, un "poveraccio/a" va a finire in un

compartimento di lusso, i "signori/e" cominciano a scambiarsi segni di

comune disagio. E possono anche arrivare a protestare presso il personale

delle ferrovie, magari di nascosto. Ciò significa che chi paga di più intende

garantirsi, fra l'altro, la certezza di avere a che fare, nel corso del viaggio,

soltanto con suoi pari.

C'è, come si vede, una frattura all'interno del rapporto tra valori della sfera

politica e condizioni prodotte nella sfera sociale. Un concerto di musica

sinfonica trasmesso in televisione è aperto a tutti o quasi. Ma solo chi ha

potuto farsi una cultura musicale di un certo livello sarà indotto/a a non

cambiare canale. Tutti siamo liberi di ascoltare musica sinfonica, ma di fatto

solo alcuni/e "scelgono" di ascoltarla.

I valori astratti sono formalmente generali, per potere essere legittimati

come valori. E sono sostanzialmente particolaristici, per potere essere

funzionali alla differenziazione di classe.

Il prestigio di cui godono i valori nella società astratta è in relazione al loro

grado di astrazione. Quanto più i valori sono lontani dalla condizione

esistenziale degli uomini e delle donne in carne e ossa, tanto più sono

presenti nei canali ufficiali della comunicazione sociale, attraverso cui

esercitano una forte pressione ideologica sulla coscienza collettiva. Viene

così a crearsi una gerarchia rovesciata di valori, in base ad una logica di

classe. In cima a tale gerarchia è insediato il valore astratto come valore di

classe per eccellenza: il profitto.

4.2 Valori "altri" e società astratta

La società astratta privilegia i valori prodotti dal capitalismo. Ma essa si

deve misurare anche con valori di diversa provenienza, con valori "altri":

valori religiosi, culturali, ecc.. Mentre esalta lo "spirito del capitalismo", cerca

di piegare ai propri fini valori radicati nella tradizione storica.

In questo quadro, il sistema di astrazione sociale deve dare spazio a valori

che, pur non essendo propri della ideologia capitalistica, favoriscono

atteggiamenti e comportamenti sostanzialmente funzionali alla valorizzazione

del capitale.

Si viene così a delineare un rapporto, estremamente complesso, fra

sistema di astrazione e quadro dei valori diffusi. C'è, innanzi tutto, da tenere

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presente il fatto che i valori diffusi non hanno tutti lo stesso segno. Valori

contrapposti si contendono il campo. La società astratta è quindi costretta a

scegliere. E sceglie sempre quei valori che orientano le donne e gli uomini in

direzione non della propria specificità concreta, ma di una astratta generalità.

E ciò nel quadro di una contrapposizione, artificiosa e strumentale, fra

specificità individuale e generalità sociale.

4.3 Dall’ambivalenza all’ambiguità dei valori astratti

Le idee-forza della società astratta sono fondate - al di là della forma in cui

si presentano - su una visione dell'organizzazione sociale che prevede due

distinti modelli di comportamento, uno per la classe dominante ed uno per le

classi subalterne. Ed è possibile attivare un modello di comportamento nella

classe dominante solo se lo si disattiva nelle classi subalterne.

Se si tiene conto di questa ambivalenza, si può pure parlare del quadro di

riferimento della società astratta come di un «sistema di valori», ma a

condizione di qualificarlo in modo specifico, al di là della nozione di valore in

sé. In effetti, come si è visto, si tratta di un sistema di valori astratti, rivolto

alla realizzazione non delle persone concrete, ma della valorizzazione del

capitale.

L'ambivalenza dei valori astratti ha significativi risvolti pratici. I valori che

per la classe dominante indicano comportamenti da seguire, per le classi

subalterne indicano confini da non valicare. Per i lavoratori e per le lavoratrici

dipendenti i valori della società astratta si traducono in controindicazioni, in

cose da non fare. Il perseguimento del profitto comporta, per esempio, per gli

inprenditori capacità di iniziativa e di inventiva, mentre per chi lavora

comporta disciplina e assenza di iniziativa personale. Se i lavoratori e le

lavoratrici si mettessero a praticare, durante l'orario di lavoro, le "virtù

imprenditoriali", il sistema capitalistico di produzione salterebbe.

Ma c'è di più. I valori rivolti alle classi subordinate sono non solo opposti e

simmetrici, ma anche complementari ai valori rivolti alla classe dominante. Al

valore della iniziativa personale dell'imprenditore fa da supporto il valore della

disciplina del dipendente. L'iniziativa dell'uno non può darsi senza la

disciplina dell'altro. I comportamenti delle classi subordinate devono creare le

condizioni materiali per la realizzazione dei valori della classe dominante.

Ovviamente, questa doppiezza dei valori astratti non è mai resa esplicita.

Anzi, si sta molto attenti a coprirla con un velo ideologico. A tal fine, i valori

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della classe dominante e i valori delle classi subalterne non vengono mai

presentati in contrapposizione, ma come componenti di un sistema integrato

di valori. All'interno di tale sistema, ciascuna classe trova il valore

corrispondente al proprio ruolo nella società complessiva.

Per questa via, la contrapposizione di valori perde, in apparenza, ogni

connotato di classe e si traduce in un riflesso della differenziazione sociale.

In azienda - si sente spesso ripetere - tutti lavorano, ognuno con il proprio

ruolo. La doppiezza di classe dei valori viene così diluita in una

differenziazione di ruoli all'interno dello stesso sistema di valori.

Questa complessa e articolata ambivalenza delle dinamiche valoriali si

traduce in una ambiguità di fondo dei volri astratti.

I valori della società astratta non possono presentarsi sulla scena sociale

per quel che sono. Hanno bisogno di presentarsi sotto le mentite spoglie di

valori concreti. E si capisce perché. Un valore, per essere tale, deve

affermare qualcosa. Non può essere l'astrazione, pura e semplice, da

qualche cosa. Inoltre, per legittimarsi come fattore di orientamento per la

collettività, deve trovare riscontro in un bisogno sociale.

Ecco perché il profitto, per presentarsi sulla scena sociale, è costretto a

travestirsi. Nel richiedere legittimazione come valore sociale, ha bisogno di

negarsi per quel che è e di affermare proprio quell'interesse di cui esso è la

negazione vivente. E' espressione dell'interesse privato e invece vuole

apparire come espressione dell'interesse pubblico. E' espressione

dell'interesse particolare e invece vuole apparire come espressione

dell'interesse generale.

L'ambiguità dei valori astratti ha un ruolo rilevante nella dinamica delle

opzioni individuali funzionali alla realizzazione non della persona, ma della

valorizzazione capitalistica. Il sistema di valori astratti si regge non

definendosi in conflitto con gli interessi, ma deformando la percezione degli

interessi autentici. Per questa via, esso svolge la funzione di mediare nella

coscienza collettiva gli interessi della classe dominante. Interessi che

altrimenti avrebbero un impatto troppo violento sulle classi subalterne. In tal

senso, il quadro dei valori si definisce, nella società astratta, come sistema di

mediazione sociale. Infatti, quando montano movimenti che contestano i

valori dominanti, si alza la tensione sociale. Venendo a indebolirsi la funzione

di filtro svolta dai valori astratti, gli interessi della classe dominante vanno a

scontrarsi direttamente con gli interessi delle classi subalterne. Per evitare un

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tale rischio, la società astratta produce non solo eventi, ma anche la loro

interpretazione.

4.4 Opzioni individuali e astrazione sociale

La società astratta è gelosa, sul piano formale, delle opzioni individuali.

Proclamandosi società democratica, non può - senza rovinare la sua

immagine - mettere in discussione il principio delle libere scelte dell'individuo.

D'altro lato, le opzioni individuali che assumono come quadro di riferimento la

specificità concreta della persona si configurano come minacce permanenti

nei confronti del sistema di astrazione sociale. Pertanto il sistema di

astrazione sociale non può fare a meno di agire sulle opzioni individuali.

Così la società astratta viene a trovarsi nella morsa di una contraddizione.

Da una parte deve proclamare l'intoccabilità delle scelte individuali (sulle

quali, fra l'altro, si fonda l'imprenditoria privata, in quanto istituzione), dall'altra

deve operare in modo che le opzioni individuali facciano astrazione dalla

concretezza della persona. Questa contraddizione è una ferita sempre aperta

nel cuore della società astratta. Là dove non si può ricorrere, senza scoprirsi,

a provvedimenti restrittivi, la soluzione viene ricercata attraverso un apparato

di influenza che induca l'individuo ad optare "da sé" per i valori funzionali al

sistema di astrazione.

In Italia, lo scontro sul terreno dei valori ha aperto nuovi varchi alla

dinamica sociale. Nel quadrante dei valori immateriali l'articolazione politica

di classe, che discende direttamente dagli interessi materiali, sembra subire

alcune modificazioni. In effetti, le battaglie sul divorzio e sull'aborto - per

limitarci a due esempi significativi - hanno trovato rispondenza nell'universo

sociale al di là dell'articolazione tradizionale degli schieramenti di classe.

E tuttavia, se si va oltre la dinamica fisiologica della lotta politica, è

possibile ritrovare, anche su questo terreno, i connotati dello scontro fra

collettività e società astratta. Solo che qui l'astrazione sociale discende dagli

interessi organizzati attorno alla struttura del potere religioso. In tal senso,

l'integralismo cattolico si definisce come tentativo di imporre al paese un

modello di società astratta, attraverso cui legare la collettività ai codici di

comportamento di una particolare morale religiosa, a prescindere dalle

opzioni personali. Tale pretesa è analoga a quella del potere economico, che

chiede ai soggetti di prescindere dalle loro esigenze personali, per essere

disponibili nei confronti delle esigenze della valorizzazione capitalistica.

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4.5 Valori mercantili e valori comunitari

La società astratta, in quanto società capitalistica, assume il mercato come

modello della organizzazione sociale. La struttura sociale viene concepita

come una grande piazza degli affari, in cui tutto si compra e si vende, in

primo luogo la forza-lavoro, cioè l'attitudine degli esseri umani a comportarsi

come soggetti attivi. E la vita sociale viene raffigurata come una gara, in cui

gli individui competono per conquistarsi una posizione.

Una tale rappresentazione della realtà sociale è impregnata di ideologia.

Mette in scena soggetti che liberamente comprano, vendono e competono,

ognuno secondo le proprie capacità. Ma si tratta di una finzione. La struttura

di classe della società capitalistica predetermina, in linea di massima, la

posizione dei soggetti nella piramide sociale.

Sulla base di questa ideologia, viene modellato un sistema di valori

adeguati alla società astratta. Parliamo di sistema di valori, perché non si

tratta di una sommatoria di singoli valori separati l'uno dall'altro. Ogni valore

ha senso all'interno del sistema e non è definibile al di fuori di esso.

Funzionale alla società astratta, in quanto società-struttura, è un sistema di

valori mercantili. Al polo opposto, funzionale alla società-collettività, alla

società degli uomini e delle donne in carne e ossa, è un sistema di valori

comunitari, cioè un insieme di orientamenti, in cui a modello della

organizzazione sociale viene assunta la comunità.

I due sistemi di valori prefigurano due tipi alternativi di società. Si tratta

ovviamente di due “tipi ideali”, nel senso weberiano dell’espressione. Da una

parte una società mercantile, dall'altra una società comunitaria. Ognuno dei

due tipi di società ha una propria specifica dinamica. La società mercantile è

basata su rapporti fra individui in quanto venditori-compratori di merci. La

società comunitaria è basata su rapporti fra persone in quanto esseri umani.

A queste diverse dinamiche corrispondono opposte finalità sociali. La finalità

di fondo della società mercantile è quella di realizzare il massimo del profitto.

La finalità di fondo della società comunitaria è quella di realizzare tutte le

potenzialità di ogni persona.

Sulla traccia di questi opposti orientamenti, vengono a profilarsi, in termini

più o meno espliciti, le alternative di valore. Alla base di tutte le alternative c'è

una distinzione di fondo fra cultura utilitaristica e cultura umanistica. La

cultura utilitaristica persegue, come dice l’attributo, l'utile. La cultura

umanistica persegue l'umano.

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Non si tratta di una semplice distinzione teorica. Si tratta anche di una

distinzione pratica fra due opposti modelli di organizzazione sociale. Se una

persona ha bisogno, per restare in vita, di un intervento chirurgico di

altissimo costo, l'organizzazione sociale di tipo umanistico mette al primo

posto la possibilità di salvare una vita umana. Al contrario, l'organizzazione

sociale basata sull'utilitarismo pretende che il soggetto malato abbia i soldi

per pagarsi l'intervento. In sostanza, interviene soltanto se può ricavare un

utile anche da una umana tragedia.

Il valore portante della cultura utilitaristica è la competizione. Il valore

portante della cultura umanistica è la solidarietà. Si tratta di due valori

inconciliabili. Non ci può essere solidarietà là dove regna la legge della

competizione. E viceversa.

Ognuno dei due opposti valori portanti viene sorretto da una appropriata

costellazione di valori. Direttamente collegata alla competizione, nel modello

mercantile della società, è la meritocrazia. A prescindere dal suo carattere

ideologico, che la riduce a una pura finzione, la meritocrazia è la traduzione

pratica della cultura mercantile. Ogni soggetto viene preso in considerazione

dalla società-struttura in base ai propri meriti. I più bravi, i più capaci devono

avere di più, così come al mercato le mele più buone devono avere un

prezzo più alto. Al polo opposto, nel modello comunitario, ogni soggetto

viene preso in considerazione in base ai propri bisogni. Per esempio, nella

società mercantile chi ha meriti professionali deve potere disporre di una

casa di cinque stanze, anche se in famiglia sono soltanto marito e moglie.

Nella società comunitaria invece marito e moglie possono stare bene in un

appartamento di tre stanze, mentre di una casa di cinque stanze ha più

bisogno, a prescindere dalla posizione professionale, una coppia con cinque

figli. In questo ultimo caso, l'organizzazione sociale è basata sui bisogni. Nel

primo caso, essa è invece basata (a prescindere dalla finzione ideologica)

sui meriti.

Ora, se i soggetti, nei loro atteggiamenti e comportamenti, facessero

costante riferimento a valori comunitari, entrerebbero in collisione con la

struttura sociale, che è modellata su valori mercantili. Da qui la necessità di

fare sedimentare, attraverso sottili operazioni manipolatorie, il sistema di

valori mercantili nella coscienza collettiva.

Una prima significativa operazione è quella che possiamo definire in

termini di depolarizzazione dei valori. I valori comunitari e i valori mercantili

tendono a polarizzarsi, cioè a disporsi su poli opposti. Ma una accentuata

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polarizzazione finirebbe con il marcare le scelte di campo, provocando uno

stato di disagio in chi, per esempio, essendo a favore della competizione,

dovrebbe - di conseguenza - dichiararsi contrario alla solidarietà. Per evitare

simili complicazioni, le alternative di valore vengono depolarizzate attraverso

una artificiosa conciliazione degli opposti. Si pretende di fare convivere

solidarietà e competizione. Impresa possibile soltanto nel cielo della

ideologia. Sulla terra della pratica sociale, solidarietà e competizione hanno

dinamiche fra loro incompatibili. L'atteggiamento solidaristico induce ad

operare con/per l'altro/a. L'atteggiamento competitivo impone di prevalere

sull'altro/a. Nel primo caso, si opera per la realizzazione del nos. Nel

secondo caso si opera per l'affermazione dell'ego.

Altrettanto incompatibili sono utilitarismo e solidarietà. Anche qui si cerca

di costruire un modello ideologico, in cui la ricerca dell'utile compare come la

forma più di alta di solidarietà. Al di là della ideologia, è però difficile fare

convivere comportamenti utilitaristici e comportamenti solidaristici. Si sa che

l'amicizia è una delle espressioni più significative del rapporto solidaristico.

Ma se scopriamo che un amico tenta di strumentalizzare il rapporto per

ricavarne un vantaggio, l'amicizia muore.

Non potendo mettere insieme, nella pratica sociale, utilitarismo e

solidarietà, si ricorre ad una sorta di divisione di compiti. L'organizzazione

sociale viene strutturata su base utilitaristica, mentre la solidarietà viene

lasciata alla buona volontà dei singoli. Capita spesso di vedere nei bar e nei

negozi una cassetta con richiesta di offerte per salvare la vita ad un malato

che non ha i mezzi per un costoso intervento chirurgico. Per non parlare

delle campagne televisive con l'immancabile numero di conto corrente per la

raccolta di fondi da destinare alla ricerca su un male incurabile. C'è nella

coscienza collettiva una diffusa disponibilità a gesti di solidarietà, una sorta di

compensazione all'utilitarismo che impronta la vita sociale. Questa

disponibilità si traduce in una rete di meritorie attività di volontariato. Ma

accade anche che la solidarietà diventi un vero e proprio affare per piccoli e

grandi speculatori.

Quando si mettono insieme principi di per sé contrapposti, si evidenzia un

uso veicolare dei valori. Valori mercantili che potrebbero non trovare largo

consenso vengono veicolati attraverso valori comunitari. Si dice, per

esempio, che il licenziamento di lavoratori in esubero è un atto di solidarietà,

perché consente di preservare la competitività dell'azienda e quindi di salvare

posti di lavoro. E' chiaro che in questo caso la solidarietà figura come valore

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veicolare, richiamato per fare accettare un valore mercantile. Può anche

accadere il contrario. Forze politiche che, per tradizione storica, si

richiamano a valori comunitari, in una fase in cui il mercato appare vincente,

esaltano valori mercantili, facendone un uso veicolare, per essere legittimate

come forze di governo.

Questo processo approda all'assimilazione dei valori. Come è noto,

attraverso la socializzazione - nel corso della quale si apprendono i ruoli da

svolgere nella vita sociale - i valori funzionali alla società in atto vengono, per

così dire, acquisiti dal soggetto, il quale finisce per viverli come valori propri.

Così molti uomini e donne, che non hanno nulla da mercanteggiare, se non

la propria forza-lavoro, si orientano verso valori mercantili, cioè verso quei

valori in base ai quali vengono trattati non come persone, ma come merci. Il

cerchio si chiude. Si attua il paradosso. Molti fruttati, senza rendersene

conto, vivono lo sfruttamento come valore.

Tutto ciò non deve fare pensare a un apparato che progetta e mette in

esecuzione, dall'alto, strategie di manipolazione delle coscienze.

L'assimilazione di valori è un processo policentrico, che passa per piccole e

grandi agenzie di socializzazione, a volte in conflitto fra di loro: la famiglia, la

scuola, la parrocchia, il centro sociale, la cerchia di amici, la televisione e

così via.

Accade così che si scontrino opposte esigenze. Da un lato si esalta il

valore della maternità, dall'altro si penalizza la lavoratrice sposata, perché la

maternità viene vista come un ostacolo allo svolgimento delle funzioni

lavorative. A scuola, per un verso si esalta il valore della solidarietà, per

l'altro si crea un clima di competizione fra compagni/e di classe. Non è

difficile immaginare una scena curiosa in una classe delle elementari. Un

ragazzino, mentre è intento a svolgere un tema in cui fa le lodi della

solidarietà, mette le braccia a cerchio intorno al foglio, per evitare che il

compagno di banco possa mettere gli occhi sul suo compito.

Contraddizioni di questo tipo hanno conseguenze devastanti sulla identità

personale e collettiva. In mancanza di un quadro coerente di valori di

riferimento, l'identità soggettiva si frammenta in tante anime, che esprimono

diversi e anche opposti orientamenti Un tale processo non si traduce in un

arricchimento della soggettività - come si vorrebbe far credere quando si

parla di poliedricità dei valori - ma in un appannamento dell'identità, che ha

esiti di opposto segno: da una parte il cinismo di chi, per affermarsi, ritiene di

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potere stare a tutti i giochi, dall'altra il disagio esistenziale di chi,

specialmente in età giovanile, non riesce a darsi una identità ben definita.

Questo quadro rende poco credibile una rappresentazione dei valori come

stelle fisse nel firmamento della vita sociale. Molti soggetti hanno

orientamenti di valore di segno opposto. Ma si tratta di un artificio. In realtà,

tali soggetti fanno - a volte inconsapevolmente - un uso strumentale dei

principi. Non li vivono sino in fondo, traendone le conseguenze sul piano

esistenziale. Cioè non li vivono come valori. I principi non sono, in sé, valori.

Sono valori solo quando vengono sentiti e praticati come principi di vita 11.

11 Si veda la Scheda C «Definizioni di valori».

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Scheda A

DEFINIZIONI DI VALORI

Una definizione dei valori presenta problemi di non facile soluzione. Siamo di

fronte ad una categoria multidimensionale, di cui fanno uso diverse discipline. Si

parla di valori in economia, in filosofia, in antropologia culturale, in sociologia, in

psicologia. E se ne parla anche sui giornali e nelle conversazioni quotidiane della

gente comune.

Nell'ambito della sociologia e della antropologia culturale emergono alcune linee

di tendenza, abbastanza differenziate. Boudon e Borricaud definiscono i valori

come preferenze collettive, che concorrono alla regolazione sociale (Voce «valore»

in R. Boudon - F. Bourricaud, Dizionario critico di sociologia, ed. it., Roma, Armando

Editore, 1991). I valori come preferenze compaiono anche in un'altra definizione.

«Che cos'è allora il valore? - si chiede Agnes Heller - Una specie [...] di preferenza

cosciente» (A. Heller, Per una teoria marxista del valore, trad. it., Roma, Editori

Riuniti, 1980, p. 33). Per la Heller una preferenza è di valore solo se è regolata

socialmente e se è generalizzata. In questa definizione riappare la regolazione, ma

con un segno rovesciato. I valori non regolano, ma sono regolati.

In un altro tipo di definizione i valori vengono visti come concezioni del

desiderabile. Su questo versante, il valore è «una concezione, esplicita o implicita

[...] di ciò che è meritevole di essere desiderato e che influenza la selezione tra i

possibili mezzi, modi e fini dell'azione» (C. Kluckhon, Values and Value Orientation

in the Theory of Action, in T. Parsons, E.A. Shils (edd.), Toward a General Theory of

Action, Cambridge, Harward University Press, 1954). Anche qui i valori hanno una

sorta di ricaduta sulla vita sociale, influenzando le scelte connesse all'azione

sociale.

In un'altra area teorica i valori vengono definiti come principi di comportamento.

Il valore è un «principio di comportamento astratto e generalizzato» (Voce «valore»

in G.A. Theodorson, Dizionario di sociologia, trad. it., Marotta Editore, 1975).

Compare qui un collegamento diretto con il comportamento, mentre nelle

definizioni fin qui esaminate la connesione passava per la regolazione sociale e per

la selezione dei mezzi, dei modi e dei fini dell'azione.

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Da questo quadro problematico emerge la necessità di una ridefinizione del

concetto di valori.

I valori sono principi che coinvolgono profondamente i soggetti e sono rilevanti

per la loro visione del mondo. Nessun principio è un valore in sé, ma solo se sentito

e praticato come punto di forza dell'esistenza.

Non sono dunque semplici preferenze. Preferire la pasta asciutta alla minestra

non è una scelta di valore. Non è rilevante per la visione del mondo e interessa

soltanto chi deve preparare il pranzo.

I valori sono principi irrinunciabili, non mediabili, ma non assoluti. Un principio

non è, in sé, un valore per chi lo sente valido solo nei confronti di alcuni e non di

altri, per chi può farne a meno o è disposto a barattarlo, a patteggiarlo. E tuttavia

ogni valore è espressione di una determinata cultura e può convivere con un

diverso valore, espressione di un'altra cultura.

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Scheda B

VALORI CRISTIANI

E SOCIETA’ ASTRATTA

Quando si realizza un alto grado di assimilazione, i valori astratti vengono

percepiti dalla coscienza collettiva come parametri "naturali" - e quindi non

discutibili - della vita sociale. Non sempre però i valori astratti sono compatibili con

gli orientamenti già sedimentati nella coscienza dei singoli soggetti. A questo

punto, ogni soggetto cercherà di conciliare i valori astratti con i propri

orientamenti, operando commistioni più o meno esplicite.

Esemplare è, a questo riguardo, il caso di chi si professa cristiano. La tradizione

storica del Cristianesimo è profondamente comunitaria. Negli Atti degli Apostoli

l'organizzazione sociale dei credenti viene così presentata:

«Tutti coloro che erano diventati credenti stavano insieme e tenevano ogni cosa

in comune; chi aveva proprietà e sostanze le vendeva e ne faceva parte a tutti,

secondo il bisogno di ciascuno» (Atti 2, 44-45). E ancora: «La moltitudine di coloro

che eran venuti alla fede aveva un cuore solo e un'anima sola e nessuno diceva sua

proprietà quello che gli apparteneva, ma ogni cosa era fra loro comune. Nessuno

infatti fra loro era bisognoso, perché quanti possedevano campi o case li

vendevano, portavano l'importo di ciò che era stato venduto e lo deponevano ai

piedi degli apostoli; e poi veniva distribuito a ciascuno secondo il bisogno» (Atti 4,

32 e 34-35) 12.

Si dirà: l'organizzazione delle prime comunità cristiane non è oggi riproponibile

dai cristiani di oggi. Ora, la questione che qui interessa riguarda non la struttura di

quella organizzazione sociale, ma i valori che la ispirano. Ebbene, sotto questo

aspetto, si tratta di una tradizione tutt'altro che morta. Ogni domenica il sacerdote

che celebra la Santa Messa commenta un passo del Nuovo Testamento,

richiamando i fedeli ad uno spirito e ad una pratica ispirati, nella situazione di oggi,

ai valori comunitari del Cristianesimo.

12 A chi ragiona in termini di artificiosi schemi ideologici può fare impressione l’analogia, persino

terminologica («a ciascuno secondo il bisogno»), fra i valori di fondo delle prime comunità cristiane e i

principi che saranno alla base della prospettiva comunista disegnata da Marx.

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In questo quadro è legittimo attendersi che i cristiani siano impermeabili alla

assimilazione dei valori mercantili. Ma per molti/e non è così. In questi casi, come

fanno i soggetti a conciliare i valori mercantili con la loro fede? Alcuni non

avvertono questo problema, perché non percepiscono l'incompatibilità fra

utilitarismo e comunitarismo. Nella loro coscienza si è sedimentato un sistema di

valori artificiosamente integrato, in cui sono state cancellate le linee di

demarcazione fra valori mercantili e valori comunitari. Altri vivono la fede cristiana,

caratterizzata da valori comunitari, come una sfera separata rispetto alla vita

sociale, nella quale dominano i valori mercantili. In ogni caso, l'identità cristiana ne

risulta sfigurata.

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Capitolo Quinto

I GIOVANI TRA RAPPORTI E VALORI 5.1 La relazione tra rapporti e valori nel mondo giovanile

«Dimmi con chi vai e ti dirò chi sei» recita un vecchio detto, ripetuto spesso

da mamme e papà in ansia per le amicizie dei loro ragazzi/e. Questa

espressione popolare prospetta una qualche relazione fra i rapporti

interpersonali e il modo di essere dei soggetti. E non è un caso che la frase

venga brandita come una minaccia soprattutto nei confronti dei giovani, che

sono particolarmente esposti ai rapporti con gli altri.

Nel detto popolare l’accento è posto sul tipo di persone che si frequentano.

Nel caso dei ragazzi/e, viene quindi ipotizzata una relazione tra il loro “giro di

amicizie” e il loro essere in quanto soggetti. Ma questa relazione coglie

soltanto un aspetto della dinamica giovanile. «Con chi vai?» chiedono la

mamma e il papà. Vogliono sapere con chi i loro figli/e stringono amicizia.

Temono le amicizie cosiddette “pericolose”. Ma spesso non si chiedono

come i ragazzi/e vivono le loro amicizie. A volte non hanno sentore di che

cosa significhi per un ragazzo/a vivere male i propri rapporti interpersonali. Il

detto popolare andrebbe così completato: «Dimmi con chi e come vai e ridirò

chi sei».

In tale direzione, non si può eludere una questione di fondo: sono i rapporti

interpersonali a influenzare gli orientamenti di valore o sono, viceversa, i

valori interiorizzati ad avere una qualche incidenza sulle relazioni

intersoggettive dei giovani?

5.2 La dinamica del mondo giovanile

Perché abbiamo scelto il mondo giovanile come contesto della relazione

tra rapporti e valori? Nell’età giovanile i rapporti interpersonali sono molto

intensi e il processo di formazione è in pieno corso. La sfera relazionale e la

sfera valoriale sono, per così dire, sotto tensione. Può quindi essere

particolarmente interessante cercare di vedere se c’è – e di che tipo è – una

qualche forma di comunicazione tra le due sfere.

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I giovani vivono un particolare stato d’essere. Hanno già interiorizzato,

nella fase della prima socializzazione, tutto un mondo di orientamenti di

valore. Ma questo mondo non è in sé concluso. Rimane ancora

potenzialmente aperto e recettivo nei confronti di altri modi di sentire e di

pensare, che si propongono come modelli esistenziali. A partire da qui si

apre una complessa problematica, che ruota intorno alla relazione tra il modo

di vivere i rapporti con gli altri e l’essere orientati verso determinati tipi di

valori.

5.3 I giovani tra rapporti comunitari e valori mercantili

Molti giovani, in quanto soggetti in formazione, tendono a vivere le

relazioni interpersonali come rapporti comunitari, finalizzati alla realizzazione

del proprio essere. Ma nella loro quotidiana ricerca di comunicazione sono

assediati da valori mercantili, da modi di concepire la vita associata come un

mercato, fondato sullo scambio utilitaristico. I valori mercantili fanno

pressione sulle relazioni comunitarie di molti ragazzi/e per ricondurle al

modello utilitaristico. Non a caso. La tendenza giovanile all'aggregazione

comunitaria è una anomalia insopportabile all'interno di una organizzazione

sociale che assume le relazioni industriali come modello dei rapporti

interpersonali.

L'acuta antinomia fra l'originario bisogno comunitario dei giovani e il

sistema di valori mercantili ha esiti diversi, a seconda delle diverse storie

personali. In ogni caso, la pressione mercantile sulla soggettività giovanile si

esercita non per via diretta, con una esplicita proposta utilitaristica, ma

attraverso un sottile processo di assimilazione di valori apparentemente

neutri.

Non si può dire ad un ragazzo o ad una ragazza: in un rapporto di amicizia

bisogna perseguire i propri interessi. Un tale messaggio difficilmente

troverebbe spazio nella coscienza giovanile. E allora si procede per vie

traverse. Una delle armi più sottili e più efficaci di cui dispone l'ideologia

mercantile per espugnare la tendenza comunitaria dei giovani è

l’assimilazione dello spirito competitivo. Quando questa operazione va in

porto, il ragazzo/a assume la competizione come valore doppiamente

positivo. Nella versione ideologica, la competizione sviluppa le capacità

umane ed è quindi uno strumento indispensabile per la realizzazione delle

potenzialità personali. Inoltre, essa corrisponde alle esigenze della

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organizzazione sociale, perché porta ai posti di responsabilità i soggetti più

capaci.

Questo modello ideologico si insedia in larghi strati della coscienza dei

ragazzi/e, interferendo pesantemente nella dinamica comunitaria propria

delle relazioni giovanili. Una tale interferenza contamina gli atteggiamenti e i

comportamenti solidali, immettendovi elementi di utilitarismo mercantile, che

li sfigurano, al punto da rovesciarne il segno. Per dare una idea di questo

fenomeno, si può citare il caso di una ragazza molto aperta ai rapporti

interpersonali e ricercatissima da amici e amiche. Ad un certo punto, la

ragazza, in seguito ad una delusione d'amore, cade in una crisi di nervi che

le crea difficoltà relazionali. Gli amici e le amiche, invece di aiutarla a

superare la crisi con una maggiore attenzione, interrompono di colpo ogni

rapporto con lei. Interpellati dai familiari della ragazza per spiegare questo

loro incredibile comportamento, se ne escono con giustificazioni che, in un

modo o nell'altro, rivelano orientamenti di tipo mercantile e suonano più o

meno così: «Per sopravvivere, bisogna sgomitare. E ognuno/a ha il suo bel

da fare per rimanere a galla. Non può occuparsi delle difficoltà degli altri. E'

bello stare insieme. Ma se qualcuno ha problemi, se li deve risolvere da sé.

Non deve creare problemi agli altri».

Non tutti i giovani piegano i loro rapporti interpersonali ai valori mercantili.

Ci sono ampie aree giovanili, in cui lo spirito comunitario resiste all'ondata

montante di rampantismo. Su questo versante, molti ragazzi/e praticano con

fatica, giorno dopo giorno, i valori solidaristici, lottando contro tutti gli

impedimenti che l'ideologia mercantile riesce a inventarsi, per restringere

sempre più i loro spazi comunitari .

5.4 Rapporti e valori dei ragazzi di scuola

Nell’ambito del Corso Avanzato di Sociologia dell’Università di Roma «La

Sapienza» abbiamo realizzato una ricerca sulla relazione tra rapporti e valori

in una area del mondo giovanile: gli studenti delle scuole superiori, che

abbiamo denominato emblematicamente «ragazzi di scuola» 13.

I ragazzi di scuola sono, certo, giovani. Ma non sono soltanto giovani.

Sono figure particolari del mondo giovanile. Per un verso dunque esprimono

13 F. Viola, Ragazzi di scuola tra rapporti e valori, Roma, Armando Editore, 1998.

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la condizione generale dei giovani. Ma per altro verso esprimono la

condizione particolare di studenti delle scuole superiori.

Intanto la condizione socioeconomica è quella di giovani che hanno potuto

permettersi di continuare gli studi dopo la scuola dell’obbligo. Non è poco.

Ma non è tutto. La quotidianità dei ragazzi/e che frequentano le scuole

superiori ha una struttura diversa rispetto alla vita quotidiana dei giovani che

lavorano o che comunque hanno dovuto interrompere gli studi dopo la – o

addirittura prima della – licenza media inferiore. E anche la struttura delle

relazioni interpersonali è diversa. Per tutto ciò, il mondo dei ragazzi/e «zainetti in spalla» non è il mondo

giovanile tout court. E’ un mondo giovanile specificamente connotato sia sul piano sociale che sul piano esistenziale.

5.5 Il mondo dei ragazzi di scuola

Il mondo dei ragazzi di scuola, «zainetti in spalla», si compone di quattro

sfere: la famiglia, la scuola, il quartiere, la cerchia di amici/amiche. Uno dei

problemi esistenziali che i ragazzi/e si trovano a dovere affrontare giorno

dopo giorno è quello di raccordare queste sfere tra di loro. Si sa quanto è

difficile, per i ragazzi/e, mettere d’accordo le esigenze della famiglia con

quelle degli amici. Un problema che è nella biografia di molti ragazzi/e e che

spesso mete in tensione il rapporto genitori-figli/e, è quello del rientro a casa

la sera, specialmente nelle grandi città. Le città, a sera inoltrata, sono piene

di insidie, specialmente per le ragazze. Dopo una certa ora, molti genitori

sono in preda alla preoccupazione per i figli – e specialmente per le figlie –

non ancora rientrati. Dall’altra parte il gruppo amicale richiede una certa

“indipendenza” dalla famiglia. Un ragazzo/a troppo ligio alle regole imposte

dalla famiglia rischia di essere emarginato. E’ un caso classico di difficoltà

all’interno del raccordo tra sfera familiare e sfera amicale.

Le sfere in cui si muovono gli studenti delle superiori, ragazzi e ragazze in

quanto soggetti sociali, non operano allo stesso livello. La famiglia

rappresenta uno strato di sentimenti, atteggiamenti interiorizzati, che operano

nel profondo, non sempre in modo esplicito e non sempre a livello di

consapevolezza. Più esplicito è il ruolo degli amici/amiche, i quali

rappresentano un modello di socializzazione che opera più in superficie, ma

esercita una più forte attrazione nella immediatezza delle scelte quotidiane. Il

tal senso, il quartiere e la scuola funzionano come luoghi di coltura dei

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rapporti amicali. Sono in pratica, per i ragazzi/e, i luoghi privilegiati in cui

viene intessuta la rete dei rapporti interpersonali.

Da un lato dunque una sorta di cordone ombelicale che lega questi

ragazzi/e al nucleo familiare, dall’altro le relazioni quotidiane che li collocano

nella rete amicale. Nel primo caso c’è, in prevalenza, un rapporto in verticale,

nel secondo caso c’è, in prevalenza, un rapporto in orizzontale.

E la scuola? Che posto occupa la scuola nella vita dei ragazzi «zainetti in

spalla»? La scuola segna una fase della vita e dà una impronta ai rapporti

interpersonali. Ha una struttura di rapporti interni. Da un lato rapporti fra

studenti, in quanto compagni/e di scuola, di classe o addirittura di banco.

Dall’altro il rapporto fra studenti, in quanto allievi, e insegnanti. Si tratta di

rapporti che non sono frutto di scelte personali. I rapporti fra compagni/e di

scuola – e di classe in particolare – si trasformano a volte (non sempre) in

rapporti di amicizia, che si proiettano all’esterno, nella vita extrascolastica. In

certi casi, si prolungano nel tempo o si proiettano nella memoria. Quante

volte capita di ascoltare gente avanti negli anni che rievoca i compagni/e di

classe e in particolare il compagno o la compagna di banco.

Diverso è il rapporto con gli insegnanti. Nel mondo dei ragazzi di scuola la

figura dell’insegnante rappresenta un punto di riferimento, positivo o

negativo. Quante volte capita sugli autobus di sentire ragazzi di scuola, che

parlano degli insegnati in termini macchiettistici, contraffacendone i gesti, la

voce e i modi di dire. Ma ci sono anche insegnanti che lasciano una impronta

indelebile nei loro allievi e vengono ricordati con amore. La scuola dunque, a

distanza di anni, rimane nella memoria, è parte della vita.

Della vita dei ragazzi di scuola entra a far parte anche il quartiere. A

distanza di anni, si ricorda il quartiere in cui si è cresciuti e si è vissuti da

ragazzi/e. C’è una differenza di fondo rispetto alla famiglia ed alla scuola. Il

quartiere è il luogo di elezione delle amicizie di gruppo. Ha una sua

fisionomia inconfondibile, un suo colore, un suo odore. Tutto ciò viene

interiorizzato dai ragazzi/e, che fanno del quartiere il loro teatro di vita. Anche

quando si va al centro, il punto di partenza e di riferimento è il quartiere. E’

qui che si decide il da fare quotidiano. E’ qui che si intrecciano i rapporti

interpersonali. Ed è qui che si organizza – e in gran parte si svolge – il tempo

libero.

Questi ragazzi/e come impiegano il tempo libero? A questo punto entrano

in gioco le strutture del quartiere. Ci sono nel quartiere strutture adeguate? Di

che cosa questi ragazzi/e sentono la mancanza?

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La mancanza di strutture nel quartiere incide negativamente sulla vita

quotidiana dei ragazzi/e ed apre la strada – soprattutto in un contesto di

degrado – al consumo di droghe.

Sulle vie di accesso alle droghe non si può generalizzare. Le

testimonianze di tossicodipendenti offrono un quadro di motivazioni di non

facile lettura. A prendere alla lettera le singole esperienze, sembrerebbe che

ognuno/a arrivi alla sostanza per suo conto. Eppure, al di là degli orizzonti

individuali, c’è una vasta rete nelle cui maglie vanno a impigliarsi le vite di

tanti/e giovani. Su questo piano, le dinamiche di accesso alle droghe hanno

avuto una evoluzione significativa.

I soggetti a rischio non sono sempre giovani isolati, come vengono

rappresentati in uno stereotipo diffuso: Spesso sono giovani immersi in

circuiti di intensa socialità. Solo che si tratta di una socialità sospesa in un

vuoto di progettualità sociale ed esistenziale. Sono giovani che stanno a

lungo insieme, ma non fanno, insieme, qualcosa che attenga ad un progetto

di vita personale e sociale. Girano come ruote d’auto impantanate, che non

hanno presa sul terreno 14.

La difficoltà di attivarsi per la propria realizzazione provoca, in presenza di

una acuta sensibilità soggettiva, disagio esistenziale, cioè la sensazione di

non essere in sintonia con il mondo esterno. Il soggetto sente di non essere

preso in considerazione in quanto potenzialità da realizzare, ma soltanto

come strumento per il perseguimento di fini che gli sono estranei.

Su un universo giovanile così fragile e così esposto preme il mercato delle

droghe con le sue ramificazioni capillari, che arrivano a toccare i nostri

ragazzi di scuola.

5.6 La soggettività giovanile tra rapporti e valori

La soggettività si struttura all’interno della famiglia. In seno alla piccola

comunità familiare l soggetto si nutre delle affettività primarie e interiorizza i

valori di base. Così strutturata, la soggettività si riversa all’esterno della

famiglia, soprattutto nei rapporti con gli amici. In tal senso, la soggettività

giovanile si definisce come combinazione – non sempre agevole, a volte

conflittuale – fra i valori familiari e i rapporti amicali.

14 Si veda la Finestra B Dinamiche della tossicodipendenza e possibili interventi.

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Fuori dalla famiglia, i giovani sono spinti da tre bisogni: a) il bisogno di

relazioni orizzontali, con i pari; b) il bisogno di relazioni non istituzionali; c) il

bisogno di protagonismo.

La famiglia viene vissuta dai giovani da una parte come comunità, dall’altra

come istituzione. La famiglia-istituzione esprime autorità, la famiglia-comunità

esprime solidarietà. I giovani tendono a prendere le distanze dalla famiglia-

istituzione, senza rinunciare ala famiglia-comunità. Il distacco psicologico

dalla famiglia-istituzione segna dunque il passaggio dai rapporti verticali ai

rapporti orizzontali, dai rapporti istituzionali ai rapporti amicali. Alla base di

tale passaggio c’è soprattutto il bisogno di protagonismo.

Quando nella vita sociale i giovani non riescono a realizzare il loro bisogno

di protagonismo, ritardano il loro distacco psicologico dalla famiglia. Le

difficoltà di affermarsi in quanto soggetti, di costruirsi una prospettiva

esistenziale, inducono il soggetto giovanile a ricercare protezione e sicurezza

nel nucleo familiare. I giovani tendono a farsi scudo della famiglia per

affrontare i rischi della vita sociale.

5.7 I valori dei ragazzi di scuola

Il disagio esistenziale è legato da una parte alla condizione personale e

sociale, dall’altro al mondo della aspirazioni e dei valori. E’ un mondo non

ancora ben definito e quindi di non facile lettura. E ciò soprattutto nella sua

proiezione verso il futuro. I ragazzi «zainetti in spalla» hanno un progetto per

il futuro? Un progetto di vita fa, in ogni caso, riferimento ad un quadro di

valori. Per questi ragazzi/e che cosa conta di più nella vita?

C’è da vedere innanzi tutto come si collocano gli orientamenti valoriali dei

soggetti rispetto alla distinzione di fondo tra valori individualistici e valori

solidaristici. Ma nell’età di questi ragazzi/e i valori sono calati nella realtà

della vita quotidiana e nei rapporti interpersonali. Come indicatori di valori

possono quindi essere utilizzate le preferenze rispetto alle doti delle persone

vicine.

Viene così a delinearsi il quadro di valori entro cui si muovono questi

ragazzi/e. Ma in che misura questo quadro trova corrispondenza nella loro

vita quotidiana? Gli studenti delle superiori sono tutt’altro che figure

monolitiche. Hanno soggettività percorse da differenze di sesso, di

estrazione sociale, di ambiente familiare. Queste differenze si riversano sul

tipo di scuola frequentata. Si tratta quindi di vedere in che misura queste

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differenze si riflettono sugli orientamenti di valore, sulle «visioni del mondo» e

quindi sugli atteggiamenti e sui comportamenti.

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Capitolo Sesto

Capitolo Sesto

IL TEMPO ASTRATTO

6.1 Tempo esistenziale e tempo astratto

Ognuno/a di noi ha un suo particolare tempo di vita, una sua specifica

cadenza esistenziale. C'è chi ha la tendenza a rincorrere le giornate con

frenesia spasmodica e chi invece ama vederle scorrere lentamente. C'è chi

reagisce istantaneamente agli stimoli della vita sociale e chi invece ha

bisogno di una lunga elaborazione interiore. Ogni persona ha un suo tempo

esistenziale 15.

Non solo. Nel quadro di un particolare tempo di vita, il ritmo è tutt'altro che

uniforme. Il tempo esistenziale non scorre secondo le modalità fissate sul

quadrante di un orologio. In una situazione di pericolo cinque minuti sono

una eternità. Un'ora con la persona che si ama vola via in un attimo. Non è il

tempo la misura dell'esistenza. Viceversa, è l'esistenza la misura del tempo.

La società sussunta al capitale fa astrazione dal tempo esistenziale ed

impone alla collettività un tempo astratto, indifferente alle cadenze interiori

proprie di questo o di quell'uomo, di questa o di quella donna.

Il tempo astratto è il tempo adeguato al processo di valorizzazione

capitalistica. La valorizzazione del capitale non sopporta la specificità e la

discontinuità del tempo esistenziale. Ha bisogno di un tempo generale ed

uniforme, modellato sulle esigenze della produzione. Al polo opposto, invece,

ogni uomo, ogni donna vive il tempo come tempo esistenziale, come tempo

della propria vita. E questa dimensione esistenziale del tempo rischia di

spezzare il ritmo del processo di produzione.

15 La questione del tempo emerge - nell'analisi della società astratta - ogni qualvolta si rapporta il

processo di valorizzazione del capitale alla vita quotidiana delle persone concrete. Essa attraversa quindi tutto l'arco del nostro discorso ed è frammentata in vari punti del testo.

In questo breve capitolo ci siamo limitati ad alcune considerazioni basilari, partendo dai presupposti della società astratta.

La questione del tempo è oggetto di studi specialistici, di cui non è possibile dare conto in questa nota.

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Da qui la necessità di rimodulare continuamente il tempo a misura delIe

cadenze del processo produttivo. Da qui l'esigenza di fare del tempo

dell'esistenza il tempo della produzione. Da qui l'organizzazione capillare del

tempo come tratto qualificante della società sussunta al capitale. La

regolazione della prestazione lavorativa tende a delegittimare il tempo di vita.

Tende ad evitare che il flusso produttivo risenta della discontinuità del flusso

esistenziale. L'agire umano, per poter essere piegato alla valorizzazione

capitalistica, deve essere svincolato da specifiche cadenze esistenziali. Quali

sono i passaggi essenziali di questa sorta di riconversione capitalistica del

tempo, di questa riduzione del tempo esistenziale a tempo astratto?

L'asse del tempo viene spostato dall'esistenza alla produzione. E, per

proteggere il processo di produzione da qualsiasi interferenza esistenziale,

viene operato uno sdoppiamento del tempo: da una parte il tempo di lavoro,

dall'altra il cosiddetto tempo libero. Per questa via, si vuole fare passare

l'illusione di una specie di pacifica composizione fra esigenze produttive ed

esigenze esistenziali. Durante il tempo di lavoro il capitale consuma la

forza-lavoro. Durante il tempo libero la persona vive la sua vita. Lavoro e vita

vengono presentati come due sfere non comunicanti.

Il fine che presiede a questo modello ideologico è di evitare che l'uso della

forza-lavoro debba fare i conti con la vita quotidiana. L'ideologia della società

astratta mira a giustificare un uso della forza-lavoro che faccia astrazione dal

concreto vivere del soggetto. Così, mentre da una parte presenta il lavoro

come una sfera in cui la persona realizza se stessa, dall'altra pretende di

separare l'attività lavorativa dai bisogni personali. Pretende di ridurre il lavoro

ad attività tecnica, priva di qualsiasi implicazione esistenziale.

Lo sdoppiamento del tempo ha una duplice valenza. Da un lato il tempo

non occupato direttamente dall'attività lavorativa viene definito in termini

residuali. Il tempo libero altro non è che il residuo del tempo di lavoro, ciò che

resta una volta che si sia conclusa la giornata lavorativa. Dall'altro lato il

tempo di lavoro non è un modo abbreviato di dire tempo di vita applicato al

lavoro. E' un modo di intendere che il tempo di lavoro non è tempo di vita. In

tale contesto, il tempo di lavoro non serve solo a regolare l'attività produttiva.

Serve anche - e soprattutto - ad evitare che essa sia regolata dal tempo di

vita.

6.2 Il tempo come tempo di vita

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Il tempo è un presupposto della vita. E la vita è un presupposto del tempo.

Non si dà vita senza tempo. E non si dà tempo senza vita. Il tempo è

dunque, in sé, tempo di vita. E il tempo di lavoro altro non è che tempo di vita

espropriato, ristrutturato a misura dei ritmi della produzione e finalizzato alla

valorizzazione del capitale.

La vita umana è indivisibile. La pretesa di sospendere il tempo di vita

durante il tempo di lavoro si rivela, nella realtà, una vera e propria utopia del

capitale. Durante le ore di lavoro gli uomini e le donne continuano a vivere.

La imprescindibile valenza esistenziale del tempo investe l'attività lavorativa,

insinuandosi negli interstizi del tempo della produzione. E, anche quando

ogni spazio esistenziale viene precluso, non si può impedire che uomini e

donne, mentre sono intenti ad operazioni lavorative, continuino a sentirsi

coinvolti in problemi personali insorti fuori dell'orario di lavoro.

Sarebbe interessante esplorare, sul piano empirico, lo spazio che il flusso

esistenziale riesce a crearsi in particolari situazioni di lavoro. Non pensiamo

solo agli spazi materiali (la telefonata a casa, la chiacchierata con il

compagno o con la compagna di lavoro). Pensiamo anche - e soprattutto -

alla condizione di chi, uomo o donna, è preso nella morsa di un problema

personale ed è costretto ad occuparsi di altro. E' penoso dovere lavorare

quando si è presi/e dalla preoccupazione per una persona cara che sta male

o quando si è attanagliati/e dall'angoscia per una delusione d’amore.

Il tempo di lavoro, in quanto tempo astratto, è concepito sulla base di un

azzeramento del flusso esistenziale. In pratica, per esempio, una donna

preoccupata per il bambino affetto da una grave malattia dovrebbe

sospendere la sua preoccupazione durante il tempo di lavoro e riprenderla a

casa. La società sussunta al capitale arriva a concepire un tempo così

astratto da segnare un confine ai moti interiori dell'essere umano.

Volendo dunque assumere - per comodità di analisi - una distinzione del

tutto artificiosa, c'è da constatare che il tempo di lavoro è fortemente

intrecciato al tempo di vita. E come con l'inizio dell'orario di lavoro non si

sospende automaticamente il tempo di vita, così con la fine della giornata

lavorativa non si conclude automaticamente il tempo di lavoro.

Da una parte il tempo di vita si prolunga nell'orario di lavoro, dall'altra il

tempo di lavoro proietta la sua ombra sul tempo di vita. Quante persone,

mentre sono intente ad un compito di lavoro, stanno con la testa altrove. E

quante persone, nel bel mezzo di una serata con amici e amiche, si

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sorprendono a pensare ad un problema irrisolto della loro attività lavorativa.

Comunque definito, il tempo è tempo esistenziale.

C'è dunque un continuo flusso e riflusso fra tempo di vita e tempo di

lavoro. E ciò porta a concludere che solo il tempo astratto, spogliato delle

particolari situazioni della vita quotidiana, può essere sezionato e sistemato

in compartimenti stagni. Il tempo reale, il tempo vissuto dalle donne e dagli

uomini, non si presta ad essere contenuto rigidamente entro i confini del

processo di valorizzazione del capitale.

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Capitolo Settimo

L’IDENTITA’ SOCIALE ASTRATTA

7.1 Identità sociale e sistema di astrazione

Per identità sociale intendiamo - nel contesto analitico dell'astrazione - il

"quadro sociale" nel quale le donne e gli uomini si identificano, cioè il tipo di

struttura e di organizzazione sociale in cui pensano di potersi realizzare sul

piano esistenziale. L'identità sociale di una persona è I'esito - mai definitivo -

di tutta una serie di lente sedimentazioni che si attuano attraverso lo scambio

con la realtà esterna. Se questo scambio potesse attuarsi nella sua

pienezza, le persone mutuerebbero la propria identità sociale dalla

concretezza della propria vita quotidiana. In altri termini, se gli uomini e le

donne potessero venire a contatto diretto con la propria realtà, finirebbero

per identificarsi con una organizzazione sociale finalizzata alla realizzazione

del loro specifico essere concreto.

Tale "rischio" rende necessaria la sedimentazione nella coscienza

collettiva di una identità astratta, che faccia da schermo fra i soggetti e la loro

concreta realtà e nella quale risulti rovesciata, come in uno specchio

deformante, la concretezza in astrazione e l'astrazione in concretezza.

Nella società astratta l'identità sociale di una donna o di un uomo non è

dunque espressione della sua specifica concretezza. E' - possiamo dire -

I'esito di tutto il lento e sottile lavorìo al quale il sistema di astrazione

sottopone la specificità personale. Tale lavorìo mira alla composizione - più o

meno stabile - dell'antitesi esistente fra la concretezza delle persone e

l'astrazione della società sussunta al capitale. Là dove questa composizione

non si realizza, per alcuni strati di collettività si aprono due possibilità: o si

estraneano dalla vita sociale, oppure ricercano la loro identità in una società

alternativa da realizzare. Nel primo caso una parte della collettività vive una

identità sociale segregata. Nel secondo caso vive una identità incompatibile

con il sistema di astrazione sociale e quindi in continua "tensione".

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7.2 La ridefinizione della identità sociale

L’identità sociale non è data una volta per tutte. Viene continuamente

sottoposta a processi di adeguamento alla realtà sociale ed economica in

atto. Ciò per evitare che si venga a determinare uno scarto troppo forte fra il

sentire delle persone e il loro vissuto quotidiano. I soggetti vengono

continuamente chiamati a mettersi in sintonia con le nuove modalità della

valorizzazione.

Nella situazione in atto nel nostro paese, lo sconvolgimento del sistema di

ruoli sociali provocato dal nuovo modo di produrre e di scambiare ha

spiazzato una identità sociale ancora legata al mondo della stabilità del

lavoro e del sistema di garanzie. C’è quindi il rischio che i soggetti vivano la

nuova realtà con la testa rivolta al passato e in una condizione di forte

tensione psicologica, che potrebbe tradursi in antagonismo sociale.

Da qui la necessità di riallineare l’identità sociale con il nuovo sistema di

produzione, in modo che i soggetti si riconoscano nella loro mutata

condizione esistenziale, caratterizzata dalla precarietà.

7.3 La rigidità della identità sociale

Come è facilmente comprensibile, una operazione sulla identità va a

toccare gli strati più profondi della sensibilità collettiva. Ed è quindi costretta

a procedere lungo un itinerario accidentato. La coscienza non è un

contenitore, nel quale sia possibile immettere determinati valori al posto di

altri. La dinamica degli orientamenti di valore è complessa e segue percorsi

tutt’altro che lineari. Nel caso specifico, l’emergere di una identità allineata

alla nuova fase della produzione deve misurarsi con la resistenza di soggetti

che ogni giorno vivono il dramma della precarietà esistenziale.

7.4 La precarietà esistenziale come identità sociale

Fin qui ci siamo mossi nel quadro delle dinamiche attuali della identità

sociale, in continuo conflitto con la concretezza esistenziale degli uomini e

delle donne in carne e ossa. Su tale quadro incombe però il disegno di una

complessa operazione ideologica, che mira a innescare una prospettiva

inquietante, non ancora ben delineata, difficile da definire. E tuttavia da

cogliere in tempo. Una esplorazione teorica della realtà sociale deve darsi

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carico della necessità di fare emergere una dinamica sociale prima che

diventi realtà consolidata e inamovibile 16.

In una tale prospettiva, il modello di soggettività che meglio si attaglia al

sistema avanzato di produzione ha un connotato di base: la precarietà

esistenziale come identità sociale. Attenzione: non più una identità chiamata

a misurarsi con la condizione di precarietà. Ma la condizione di precarietà

che si incarna direttamente nella identità sociale e determina l’essere al

mondo delle persone, al punto che le persone percepiscano le incertezze del

futuro come percorsi della propria realizzazione esistenziale.

In questa direzione, il peggio che si possa immaginare non è che i giovani

non siano oggi in grado di progettare il proprio futuro. Il che è, di per sé,

devastante. Per paradosso, sul piano della prospettiva politica, il peggio è

che i giovani comincino a immaginare il loro futuro in termini di precarietà.

Bisogna cercare di cogliere bene il significato di questo passaggio. Ci

dobbiamo chiedere: una volta operata l’istituzionalizzazione della instabilità

del lavoro, che si traduce inevitabilmente in precarietà esistenziale, perché si

può avere interesse a proiettare questa condizione sulla identità sociale?

La risposta è semplice: perché si vuole che i soggetti si sentano realizzati

nella condizione di instabilità. In pratica, si vuole fare emergere una

soggettività collettiva, soprattutto giovanile, che veda nel lavoro discontinuo

non la fonte della propria condanna alla marginalità sociale, ma anzi la

possibilità di scegliere ogni volta tra le alternative che offre il mercato e di

arricchire, per questa via, il proprio bagaglio esperienziale.

Tutti questi interventi sfigurano e rendono irriconoscibile l’identità sociale.

La prospettiva è allarmante. La figura collettiva di milioni di donne e uomini

rischia di ridursi a controfigura del capitale 17.

16 Si veda, al riguardo, la «Postilla metodologica».

17 Sul supplemento di economia de Il Corriere della Sera (19/03/07, p. 7), sotto il titolo

«Flessibilità: dannazione o opportunità?», risalta l’annuncio ben evidenziato, in un riquadro con foto, di un convegno di alto profilo, con la partecipazione dei maggiori “esperti”. La breve presentazione è un vero e proprio manifesto: «Tutti felicemente flessibili, in coerenza con una economia in rapido mutamento in cui l’elasticità dei rapporti di lavoro consente ai singoli di accumulare nuove competenze e, in prospettiva, di ottenere maggiori guadagni rispetto al vecchio posto fisso».

Attenzione: non solo flessibili, ma felicemente flessibili. La precarietà come porto di felicità. E’ chiaro che, se una persona si sente felice nella sua condizione di precarietà, è portata a identificarsi in tale condizione. Eccola dunque, all’orizzonte, la precarietà esistenziale come identità sociale.

La copertina di Panorama (n. 52, del 26/12/07) riporta a tutta pagina la foto di una giovane donna seduta al suo tavolo di lavoro. A fianco una grossa scritta: «Vi sembro precaria?». In effetti,

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è l’immagine di una persona soddisfatta del suo lavoro. La didascalia è ancora più esplicita: «Storie di chi con il contratto a termine ha imparato a vivere bene». E nell’interno si leggono le note vicissitudini del lavoro instabile, ma raccontate in chiave di «felici di essere precari». Anche qui un piccolo, ma significativo, contributo alla ridefinizione della identità sociale in termini di precarietà esistenziale.

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Capitolo Ottavo

L’IDEOLOGIA DELLA SOCIETA’ ASTRATTA

8.1 I capisaldi dell’ideologia della società astratta: la competizione e la meritocrazia

L’organizzazione capitalistica della società, per potersi affermare nella

collettività, si avvale della sedimentazione nella coscienza collettiva di un

sistema di valori funzionale alla legittimazione del profitto. I valori proclamati

dalle istituzioni della società astratta hanno dunque un carattere strumentale

e funzionano come canali di trasmissione dell’ideologia capitalistica.

Capisaldi dell’ideologia della società astratta sono la competizione e la

meritocrazia. Questi due valori di base hanno una forte incidenza sull’identità

sociale. A prescindere da ogni considerazione di merito, la competizione è un

valore contraddittorio nella prospettiva di una società avanzata, che sempre

più richiede l’operare in gruppo. La pubblicità di una azienda, apparsa sui

giornali, diceva: il nostro valore è il gruppo. Ora, la dimensione di gruppo si

fonda sulla coesione e sulla cooperazione, cioè su modalità dell’agire

antitetiche alla competizione. Un gruppo i cui componenti competono fra di

loro, invece di cooperare, è destinato alla disgregazione. La stessa

produzione tecnologicamente avanzata si basa su un processo integrato,

cioè sulla coordinazione e sulla compenetrazione di fattori tecnici e

organizzativi.

Dunque, le aziende sono in competizione fra di loro, ma riescono a stare

sul mercato solo se sono strutturate su base di cooperazione. A livello di

lavoro dipendente, la competizione è dunque una copertura ideologica della

guerra tra sfruttati, a tutto vantaggio della valorizzazione capitalistica.

Soggetti che cercano lavoro in concorrenza l’uno con l’altro sono costretti ad

abbassare le loro richieste e quindi a lasciare spazio all’incremento del

profitto.

Parte integrante della competizione è la meritocrazia, cioè un sistema

basato sulla premiazione dei meriti. Si dice che solo un sistema che premia i

più capaci riesce a indurre i soggetti a impegnarsi, perché è nella natura

umana impegnarsi solo in vista di un utile. Questa tesi è semplicemente

infondata. La motivazione utilitaristica dell’agire umano è un dato culturale,

non naturale. Altrimenti non sarebbe spiegabile l’agire di quanti/e si

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impegnano sulla spinta di una motivazione di tipo solidaristico. In realtà, un

sistema meritocratico tende a privilegiare le capacità sui bisogni. Deve avere

di più non chi ha più bisogno, ma chi è più capace. E’ dunque una

organizzazione sociale che tende ad emarginare i soggetti deboli e a dare

spazio solo a chi è in grado di saltare gli ostacoli.

Una identità sociale che fa propria la logica meritocratica è funzionale

all’organizzazione capitalistica della società, basata sulla differenziazione

sociale. La meritocrazia è infatti la faccia ideologica della stratificazione di

classe. E’ difficile giustificare le disuguaglianze sociali, che discendono dalla

struttura classista della società capitalistica, se viene a mancare la base

ideologica della meritocrazia.

8.2 L’ideologia della flessibilità

Il tentativo di acquisire la precarietà alla coscienza collettiva si avvale di

una ideologia istituzionale incentrata sulla distinzione tra flessibilità e

precarietà. La flessibilità, si dice, è un dato strutturale del processo avanzato

di produzione. Si tratta solo di evitare che si traduca in precarietà. Come?

Adottando ammortizzatori sociali, che in pratica hanno la funzione di

assicurare la sopravvivenza nei periodi in cui i soggetti dell’attività lavorativa

vengono a mancare dei mezzi di sussistenza. E’ una tesi particolarmente

insidiosa, che va smontata alla radice, perché, attraverso il riconoscimento

della flessibilità, tende a istituzionalizzare la precarietà come modalità

tecnica del moderno processo di produzione.

Alla base di questo modello ideologico c’è una asserzione implicita. Non

c’è precarietà se viene assicurata la sopravvivenza. Non vive in condizione di

incertezza chi, perdendo il lavoro, percepisce una indennità di

disoccupazione, cioè un piccolo rattoppo alla indigenza (altra cosa rispetto al

salario sociale, destinato a chi è in cerca di una prima occupazione). Ora,

come si fa a sostenere che l’alternarsi di lavoro e non lavoro, vale a dire un

continuo movimento sismico della condizione esistenziale, non provoca

disagio? E’ irrilevante, sul piano psichico, sentirsi alternativamente soggetto

attivo e relitto sociale, al minimo della sussistenza? Ed è irrilevante, sul piano

banalmente contabile, non potere pianificare le proprie spese, già difficili da

gestire in condizione di bassi salari? Come si può tenere fede agli impegni

finanziari sottoscritti (l’affitto mensile dell’alloggio, la rata di mutuo della

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macchina, ecc.) quando, da un giorno all’altro, l’entrata, già insufficiente,

viene ridotta drasticamente, nel passaggio dal salario alla indennità?

8.3 L’ideologia della “modernizzazione”

Un intervento ideologico di particolare rilievo è puntato sulla percezione

collettiva dello smantellamento del sistema di garanzie che, nel vecchio

assetto sociale, presidiava la condizione dei lavoratori e delle lavoratrici. Tale

smantellamento viene presentato come processo di “modernizzazione”. E chi

si oppone a tale operazione viene fatto apparire come “conservatore”. Non si

tratta di una semplice manipolazione terminologica. Nell’immaginario

collettivo - in particolare del popolo di sinistra, che per lunga tradizione si

autodefinisce “progressista” - ritrovarsi relegati nell’area della conservazione

provoca un certo disagio.

Una strategia ideologica abbastanza efficace è quella di fare apparire i

diritti degli occupati come contrapposti ai diritti dei non occupati e di additare

la difesa delle garanzie per chi lavora come indifferenza alla condizione di chi

un lavoro non ce l’ha. Il teorema è chiaro: togliere agli occupati è il

presupposto per dare ai non occupati.

In fondo a questo percorso ideologico c’è l’esaltazione della instabilità del

lavoro. L’instabilità occupazionale viene presentata non come degrado

sociale, ma anzi come possibilità per i soggetti occupati di arricchire il proprio

bagaglio di esperienze lavorative e per i non occupati di introdursi nel mondo

del lavoro. Ancora una volta, una rinuncia alle garanzie di base crea le

condizioni per dare un futuro ai giovani.

In questo quadro, è gioco facile addossare agli anziani la responsabilità

della mancanza di prospettiva per le nuove generazioni. In particolare, sulle

pensioni la campagna ideologica assume connotati particolarmente perfidi,

perché tende a mettere esplicitamente i figli contro i padri. Si sostiene infatti

che quanti si oppongono al taglio delle pensioni sottraggono ai propri figli la

possibilità di avere una pensione. Ora, non è difficile immaginare i conflitti

generazionali che possono nascere all’interno delle famiglie se un ragazzo o

una ragazza si convince che il padre e la madre operano contro il futuro dei

loro figli. L’indisponibilità a rinunciare ai propri diritti acquisiti viene infatti fatta

passare per dimostrazione di egoismo e di indifferenza nei confronti della

condizione giovanile, generando disagio psicologico in chi non fa altro che

chiedere ciò che è dovuto. In tale contesto, si può dare il caso di un povero

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pensionato che dichiari di essere disposto ad accettare una riduzione della

sua pensione, pur di assicurare un futuro ai propri figli.

Un significato particolare assume la questione delle pensioni di anzianità.

Qui i diritti acquisiti sono inconfutabili. E allora si sposta il discorso sul

bilancio dello Stato, che non può reggere all’impatto di una spesa così

prolungata nel tempo, dato che le aspettative di vita sono notevolmente

aumentate e le persone vivono, in media, più a lungo. Il bilancio dello Stato

non viene però tirato in ballo per le pensioni d’oro, che vengono difese a

spada tratta con la scusa che la professionalità va retribuita in modo

adeguato. Quando ci sono di mezzo interessi di classe, la logica diventa un

suppellettile di cui si può benissimo fare a meno.

L’obiettivo di fondo di questa complessa e articolata operazione ideologica

è di ripulire la vita collettiva di tutte le forme di rigidità sociale, cioè delle

resistenze alle incursioni del capitale nelle condizioni esistenziali degli uomini

e delle donne in carne e ossa. E questo obiettivo viene perseguito non con

atti autoritari, che potrebbero provocare pericolose tensioni, ma ridisegnando

l’identità di massa su base di flessibilità sociale.

Si vuole ottenere una soggettività sociale che sia pienamente disponibile

nei confronti delle esigenze della valorizzazione capitalistica. Una

soggettività pronta a rinunciare a qualsiasi garanzia sociale che sia di

intralcio al libero dispiegarsi della logica del mercato. In breve, una

soggettività che si identifichi nella organizzazione capitalistica della società.

Una tale esigenza tende a indurre il sistema istituzionale a non cercare

più, come nel passato, di mediare fra le richieste degli imprenditori e gli

interessi della collettività. Le rappresentanze istituzionali si fanno carico

direttamente delle aspettative imprenditoriali e le traducono in provvedimenti

governativi, accompagnandoli con una pressione ideologica sulla coscienza

collettiva, al fine di sintonizzarla sulla lunghezza d’onda del processo di

produzione in atto.

8.4 L’ideologia della convenienza

La favola ricorrente di ogni programma di governo è la creazione di nuovi

posti di lavoro. In realtà, si tratta di una sorta di cavallo di Troia che da

decenni viene usato per fare passare agevolazioni e finanziamenti a favore

delle forze imprenditoriali. Nei confronti di questo problema l’ideologia

istituzionale è strutturata come una sorta di catena a tre anelli: convenienze,

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investimenti, nuovi posti di lavoro. Si dice: per avere investimenti, che creino

nuovi posti di lavoro, bisogna dare agli imprenditori adeguate convenienze.

Dunque, il destino di milioni di giovani, ragazzi e ragazze, viene legato dalle

pubbliche istituzioni alla convenienza di privati. In pratica, i giovani possono

avere un futuro solo se a qualcuno conviene dar loro una occupazione. E’ il

culmine del cinismo istituzionale, di fronte al quale occorre essere drastici.

Una società che basa la convivenza sulla ideologia della convenienza privata

si colloca fuori dalla civiltà.

8.5 La sintesi dell’ideologia della società astratta: la logica del mercato

Tutti gli aspetti dell’ideologia del capitale trovano la loro sintesi nella logica

del mercato. Nel modello ideologico che le istituzioni vogliono fare

sedimentare nella coscienza collettiva, il mercato viene rappresentato come

l’espressione più alta della moderna razionalità. Chi non fa i conti con questa

legge suprema vive fra le nuvole. Perché il mercato è la realtà e non ha

senso metterlo in discussione.

L’identità sociale, una volta ingabbiata nella ideologia del mercato, non ha

modo di connotarsi a misura dei bisogni della collettività. La vita sociale si

riduce ad una semplice rappresentazione scenica delle alterne vicende di

questo moderno dio in terra. Fa impressione leggere su giornali autorevoli

che questo o quell’evento ha reso nervoso il mercato. Ormai siamo alla

personificazione di una entità astratta. E’ un messaggio allarmante. Si vuole

far passare l’idea che sulla vita sociale pende, come una spada di Damocle,

la legge di una entità superiore. E guai a mettere in campo aspettative

incompatibili con i canoni della valorizzazione capitalistica. Il mercato si

potrebbe arrabbiare. E le conseguenze ricadrebbero soprattutto su chi vive di

lavoro.

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Capitolo Nono

LA REGOLAMENTAZIONE MORALE DELLA CONDOTTA SOCIALE

9.1 Regolazione sociale e regolamentazione morale

La vita sociale è, in sé, la sede in cui si realizzano gli uomini e le donne in

quanto persone. Non ci sono altre sfere nelle quali una donna o un uomo

possa mettere in atto le potenzialità di cui dispone.

Ora, proprio perché gli uomini e le donne tendono a realizzarsi sul piano

esistenziale ed a progettare la vita sulla base della propria concretezza, la

società astratta ha bisogno, per reggersi, di un sistema in grado non solo di

"mettere ordine" nella vita sociale, ma anche di canalizzarla verso la

valorizzazione capitalistica.

Tale sistema opera a due livelli. Un primo livello è quello della regolazione

sociale attraverso gli orientamenti di valore. Con sofisticate operazioni di

manipolazione, si fanno sedimentare nella coscienza collettiva i valori

costitutivi della ideologia capitalistica. Per questa via, le opzioni di fondo che i

soggetti compiono nel corso della loro esistenza sono formalmente

demandate alle loro scelte personali, ma vengono sostanzialmente avviate

sui binari della differenziazione di classe, struttura portante della

valorizzazione capitalistica.

A questo livello, la società astratta mette formalmente in salvo la sua faccia

liberale. Ma si espone al rischio che particolari aree sociali vengano attratte

da sistemi “altri” di valore, configurandosi nel tempo come mine vaganti per

l’assetto economico e sociale in atto.

Da qui la necessità di aggiungere alla regolazione sociale un secondo

livello, più profondo, del sistema di manipolazione della coscienza collettiva.

Nella regolazione sociale manca un qualsiasi vincolo nei confronti

dell’orientamento di valore. I soggetti agiscono sulla base di indirizzi interiori,

certamente tutt’altro che spontanei, ma comunque senza sentirsi obbligati a

fare una scelta piuttosto che un’altra. Gli orientamenti di valore non sono

vincolanti.

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La società astratta, per sentirsi al riparo da minacce sempre incombenti di

delegittimazione, avverte quindi l’esigenza di un complesso di vincoli morali,

che tenga le libertà personali, proprie del sistema liberale, entro il quadro

dell’assetto capitalistico della società.

9.2 Astrazione sociale e regolamentazione morale

La società astratta non è, sul piano della struttura formale, una società

autoritaria e teocratica. Essa si definisce formalmente come società

democratica e laica. Rigetta quindi l'istituzionalizzazione di una morale

pubblica, così come rigetta una cultura ufficiale e un'arte di regime.

L'immagine che la società astratta vuole darsi è quella di una società

moderna, dinamica, aperta alle opzioni individuali ed alla competitività

economica e sociale. In una società di questo tipo la morale è costretta a

darsi forme nuove rispetto alla tradizionale regolamentazione, basata su un

sistema di obbligazioni individuali.

La società astratta, in quanto società capitalistica avanzata, è del tutto

indifferente alla morale. L’unica morale che vige per il capitalista è la ricerca

del massimo profitto. E’ “dovere” del capitalista realizzare la valorizzazione

del suo capitale. In tal senso, nutre una forte repulsione nei confronti di

qualsiasi vincolo che frapponga un limite alla espansione dell’accumulazione

capitalistica.

Un caso particolare è quello di alcune questioni che attengono alla morale

religiosa. L’uso della morale religiosa da parte degli ideologi del capitale è

puramente strumentale. Il grande capitale ha interesse a conquistarsi, nel

nostro paese, il consenso della Chiesa cattolica. Ed hanno peso, in certe

posizioni del mondo industriale, diffusi sentimenti radicati nella coscienza dei

fedeli. Si tratta di una strategia volta a creare le migliori condizioni politiche e

sociali generali per il processo di valorizzazione.

Ma, al di là delle posizioni tattiche e strategiche, la funzione di fondo che

hanno i vincoli morali nella società astratta è la regolamentazione morale

della vita sociale. E’ dunque opportuno cercare di individuare e definire il

significato che la morale assume nel quadro dell’astrazione sociale. A tale

scopo, seguiamo, passo dopo passo, il percorso sotterraneo che seguono le

prescrizioni morali per insediarsi nella vita sociale.

Nella società sussunta al capitale la regolamentazione morale tende ad

orientare gli atteggiamenti ed i comportamenti delle donne e degli uomini in

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direzione dei valori costitutivi del sistema capitalistico. Essa si avvale - come

è facile capire - di apparati ideologici volti a sostenere motivazioni profonde,

spinte "ideali" verso un sistema politico-economico che fa astrazione dalla

concretezza esistenziale. Ed è tanto più necessaria quanto più i valori sono

lontani dalla concretezza degli uomini e delle donne in carne e ossa. In tal

senso, da una parte la regolamentazione morale è funzionale all'astrazione

sociale, dall'altra l'astrazione sociale produce regolamentazione morale.

La persona non solo viene svuotata di ogni riferimento alla propria

specificità, ma viene anche "caricata" di riferimenti al quadro indistinto dei

valori astratti. Anzi, I"'oscuramento" delle specificità personali viene operato

proprio in funzione della "illuminazione" che discende dal sistema di

astrazione. La regolamentazione morale è, in fondo, un modo di raccordare

la fase di "eclissi" alla fase di "illuminazione". I soggetti, privati dei parametri

della propria realtà esistenziale, sono portati a rifugiarsi nel grembo

dell'astrazione sociale.

9.3 Società astratta e valori “altri”

La società astratta privilegia i valori prodotti dal capitalismo. Ma essa si

deve misurare anche con valori di diversa provenienza: valori religiosi,

culturali, ecc.. Mentre dunque esalta lo "spirito del capitalismo", cerca di

piegare a proprio vantaggio i valori radicati nella tradizione storica.

In questo quadro, la funzione del sistema morale è quella di dare spazio a

valori che, pur non essendo propri della società capitalistica, favoriscono

atteggiamenti e comportamenti sostanzialmente funzionali al sistema di

astrazione.

Si viene così a delineare un rapporto, estremamente complesso, fra

sistema di astrazione e quadro dei valori socialmente diffusi. C'è, innanzi

tutto, da tenere presente il fatto che i valori diffusi non hanno tutti lo stesso

segno. Valori contrapposti si contendono il campo. La società astratta è

quindi costretta a scegliere. E sceglie sempre quei valori che orientano le

donne e gli uomini in direzione non della propria specificità concreta, ma

dell'astratta generalità. Ciò è possibile perché uno dei presupposti della

società astratta è la contrapposizione, artificiosa e strumentale, fra la

specificità individuale e la generalità sociale.

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9.4 Regolamentazione morale della condotta sociale e valorizzazione capitalistica

La regolamentazione morale non è neutra. Ha la funzione di modulare la

condotta sociale a misura dei parametri della valorizzazione capitalistica.

Attraverso lenti e difficilmente avvertibili processi di orientamento,

sedimentati nella coscienza collettiva, i soggetti sono portati a comportarsi

nella vita quotidiana secondo canoni avulsi dalla loro concretezza

esistenziale. Le persone agiscono nell'ambito di una astrazione che ha

assunto la forma della concretezza. Ma c'è di più. La regolamentazione

morale ha anche la funzione di fare vivere come astratti i bisogni concreti, in

modo che le persone siano indotte a rigettare, in quanto astratta, la propria

specificità.

Per quali vie il sistema morale regolamenta la vita sociale? I soggetti sono

portati, per induzione, a costruire la propria identità personale in relazione ad

un quadro di valori astratti. Per questa via, i valori astratti diventano parte

integrante della personalità e vengono percepiti dai soggetti come valori

concreti, come valori della propria concretezza. La regolamentazione morale,

in quanto sistema di regolazione della vita sociale, ha dunque la funzione di

introdurre nella società valori astratti come parametri della condotta sociale e

di farli sedimentare nelle coscienze come valori concreti. Le persone

agiscono nell'ambito di una astrazione che ha assunto la forma della

concretezza. Ma c'è di più. La regolamentazione morale ha anche la

funzione di fare vivere come astratti i valori concreti, in modo che le persone

siano indotte a rigettare, in quanto astratta, la propria concretezza.

Questo complesso processo non si determina alla luce del sole. Si svolge

per vie sotterranee. Il sistema economico e sociale capitalistico è

tendenzialmente totalizzante. Ogni dinamica sociale può quindi mettersi in

atto solo a partire dalle condizioni di fondo che la valorizzazione del capitale

impone alla società. Ma è proprio sul punto di intersezione tra le condizioni di

base e le dinamiche dell’essere sociale che si insinua la regolamentazione

morale. Le condizioni dell’essere sociale nel sistema capitalistico, una volta

definite, si trasformano, surrettiziamente, in prescrizioni del dover essere

morale, che si sovrappongono alla dinamica sociale.

In questo senso, il dover essere normativo sovradetermina l’essere

sociale. E gli standard sociali imposti dalla classe dominante non sono solo

modi uniformi di essere degli uomini e delle donne, ma anche modi

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uniformanti dell’essere sociale. Sono cioè da un lato dati dell’essere sociale,

dall’altro prescrizioni del dover essere morale del sistema capitalistico.

Essere e dover essere costituiscono un circuito chiuso e tendono a riprodursi

l’un l’altro. Il sociale è come deve essere e deve essere com’è. L’essere,

attraverso il dover essere, riproduce se stesso. E le realtà non omologate al

dover essere morale non vengono fatte rientrare nella sfera dell’essere

sociale. Non essendo conformi al dover essere morale, non fanno parte

dell’essere sociale 18.

Si delineano, in questo contesto, i tratti che assume la regolamentazione

morale nella società astratta. Nulla a che fare con la morale religiosa. Se di

religione si tratta, si tratta della religione della valorizzazione capitalistica. E

se di morale si tratta, si tratta della morale della ricerca del massimo profitto.

Rientra in questo quadro, per limitarci al caso più significativo, la valenza

morale che viene attribuita al rispetto della proprietà privata e, in particolare,

della proprietà privata dei mezzi di produzione. La connotazione morale della

realtà sociale data è nel suo imporsi alla coscienza collettiva in termini di

dover essere. Per questa via, il dover essere morale discende dal cielo delle

aspirazioni religiose, per incarnarsi nel sistema economico e sociale

capitalistico. La società astratta si definisce nei termini della società morale.

Questo riporto del dover essere morale nell’essere sociale ha effetti

devastanti. Per rendersene conto, è opportuno riflettere sul suo significato in

rapporto al tradizionale bipolarismo tra società ideale e società reale. La

dialettica tra l’ideale sociale e il reale della società ha la funzione di tenere

aperto lo scarto fra l’essere e il dover essere sociale. E’ da qui che discende

quella particolare tensione sociale che sta al fondo di ogni autentico

movimento di trasformazione. Nella ideologia capitalistica la società ideale si

veste delle spoglie terrene della società reale. La società da realizzare è la

società realizzata.

18 Su questa problematica si veda F. Viola, La società morale, Roma, Edizioni Associate, 2^ ediz., 1992.

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Capitolo Decimo

LA COMUNICAZIONE ASTRATTA

10.1 Comunicazione primaria e comunicazione secondaria

Le persone comunicano. Si parlano, si ascoltano, chiacchierano,

discutono, consentono, dissentono. Per questa via, si scambiano

impressioni, idee, riflessioni, sentimenti. La comunicazione è un canale di

interazione sociale.

Interagendo, gli uomini e le donne prendono coscienza dei loro bisogni e

tendono ad aggregarsi, per trovare insieme una soluzione. Affermano così la

realizzazione della loro concretezza esistenziale come problema sociale. La

comunicazione sociale è un mezzo di crescita collettiva e una mina vagante

per la società astratta.

Per disinnescare questa mina, è necessario che l'astrazione penetri nella

comunicazione sociale. Bisogna che la comunicazione venga svuotata delle

sue potenzialità dirompenti e si trasformi in un veicolo di astrazione sociale.

L'operazione è complessa e articolata, perché la comunicazione si realizza

in forme diverse, ognuna delle quali richiede un intervento specifico. Per

semplificare, ci limitiamo a prendere in considerazione due tipi fondamentali:

comunicazione primaria e comunicazione secondaria.

Per comunicazione primaria intendiamo l'interazione sociale che si realizza

per via diretta, faccia a faccia, senza l'intermediazione di un apparato tecnico

centralizzato.

La classe dominante è portata a vedere sempre un pericolo latente là dove

più persone si mettono insieme a pensare e a fare, comunicando in presa

diretta. La condensazione della soggettività in un luogo e in un progetto è

materiale esplosivo per la società astratta 19. Nel caso della comunicazione

primaria l'intervento dall’esterno è problematico. Come si fa a interferire tra

persone che comunicano direttamente, senza avvalersi di supporti tecnici?

19 Si veda, in questo volume, Appendice A, Una figura storica: l’operaio-massa fra indeterminazione

sociale e soggettività politica.

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Da qui la necessità di intervenire all'origine, facendo mancare le condizioni

materiali perché la comunicazione si realizzi. Si spiega così l'accanimento

contro qualsiasi iniziativa di comunicazione orizzontale e di aggregazione dal

basso. Non solo non si provvede a creare spazi dove le persone possano

ritrovarsi e parlarsi a tu per tu, ma si sta molto attenti ad evitare che soggetti

collettivi si approprino di spazi nel territorio.

Ben altre sono le possibilità di intervento sulla comunicazione secondaria,

cioè sulla comunicazione che si realizza sulla base di un apparato tecnico

centralizzato, come una emittente radio o tv. In questo caso, lo stesso mezzo

tecnico crea condizioni favorevoli al determinarsi di una comunicazione

astratta.

10.2 La comunicazione di massa

I mezzi di comunicazione di massa sono in rapida evoluzione. Ed è

rischioso ragionare nei termini della situazione presente, che viene

continuamente superata dalla innovazione tecnica. Tuttavia è possibile

individuare, al di là del dato tecnico, le dinamiche di fondo della

comunicazione di massa e la loro funzionalità al sistema di astrazione

sociale.

La comunicazione di massa è una comunicazione secondaria, a circuito

aperto. Il suo emblema è la televisione. Ed è soprattutto attraverso la tv che

l'astrazione penetra nella comunicazione sociale.

Per cominciare, la televisione produce una comunicazione a senso unico.

Da una parte un soggetto che trasmette, dall'altra un soggetto che riceve.

Manca l'interazione. Vero è che alcune trasmissioni prevedono le telefonate

del pubblico. Ma si tratta di un espediente che solo in apparenza copre il

vuoto di interazione. In realtà, le poche telefonate fanno parte dello

spettacolo, che viene ricevuto passivamente da chi sta davanti al televisore.

Si dà comunicazione in senso pieno quando c'è interazione fra due o più

soggetti che, alternativamente, emettono e ricevono, scambiandosi

messaggi. Quando invece uno dei soggetti ha il ruolo fisso di emittente e un

altro ha il ruolo fisso di ricevente, si ha emissione unilaterale, con particolari

connotati comunicativi.

Intanto si tratta di una comunicazione basata su un rapporto verticale fra i

due soggetti, mentre nella comunicazione vera e propria il rapporto è

orizzontale. Questa verticalità del rapporto tra i due poli dà luogo, di fatto, al

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di là del contenuto dei messaggi, ad una comunicazione autoritaria, calata

dall'alto.

Nel caso della televisione, come mezzo di comunicazione di massa,

l'unilateralità e la verticalità del rapporto vengono considerate semplici aspetti

tecnici e quindi fuori discussione. Quando un uomo o una donna si siede

davanti alla tv, si dispone, in partenza, ad un ruolo ininfluente rispetto

all'andamento della trasmissione. Basta osservare la differenza di

atteggiamento fra chi alza la cornetta del telefono e chi accende il televisore.

Nel primo caso il soggetto si prepara ad una comunicazione attiva, in cui

contenuto e forma dipendono da come egli si comporterà nel corso della

telefonata. E rimane interdetto quando, dall’altra parte, risponde la segreteria

telefonica (una sorta di “comunicazione blindata”). Nel secondo caso si

predispone ad una comunicazione passiva, in cui egli ha il ruolo di semplice

spettatore.

In più, il rapporto che si instaura tra lo spettatore o la spettatrice e il

televisore è del tutto particolare. La passività del soggetto arriva al punto che

egli continua a stare davanti al televisore, passando da un canale all'altro,

anche se non trova niente che lo possa interessare. E' come se dal piccolo

schermo emanasse una sorta di magnetismo, che impedisce di

distaccarsene. Un tale indecifrabile vincolo rende tutt'altro che agevole un

atteggiamento critico nei confronti delle trasmissioni televisive.

10.3 La comunicazione astratta

Gli aspetti fin qui esaminati creano le premesse di una comunicazione

astratta, cioè di una comunicazione che tende ad elidere la concretezza

esistenziale degli uomini e delle donne. L'astrazione si insedia nella

comunicazione televisiva, più che per una manipolazione della realtà sociale,

attraverso una vera e propria sostituzione di realtà. Milioni di uomini e di

donne, seduti davanti ai televisori, vivono ogni giorno, in una sorta di sogno

collettivo, una realtà "altra" rispetto alla loro concretezza esistenziale.

Ma c'è di più. La comunicazione astratta della tv tende a cancellare la

comunicazione reale fra le persone concrete. Come si sa, in famiglia a

tavola non si può conversare, perché c'è sempre qualcuno/a che reclama il

silenzio, per seguire la trasmissione.

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10.4 Comunicazione televisiva e valori astratti

La comunicazione televisiva è il canale più adatto per la sedimentazione di

valori astratti nella coscienza collettiva. E' difficile far passare valori

esplicitamente dichiarati. Si ergono difese psicologiche, che tendono a

preservare lo stato consolidato della coscienza. La televisione è in grado di

aggirare questo ostacolo, nel senso che non ha bisogno di esplicitare i valori.

Attraverso la rappresentazone di una realtà "altra", può introdurre

nell'immaginario collettivo stili di vita e modelli di comportamento che si

traducono in orientamenti di valore funzionali alla società astratta.

Per il piccolo schermo passa ogni giorno la società che consuma, la

società dei belli, bravi e vincenti, che hanno in cima ai loro pensieri la

ricchezza e il successo. Passa la società degli affari, basata sulla

competizione e sulla meritocrazia. E passa la società politica e istituzionale,

la società libera e democratica. Le facce, i luoghi, le parole, i suoni sono

sempre gli stessi. Una sorta di finzione scenica, che si ripete ogni giorno, con

piccole variazioni. Eccola la società astratta, la società delle maschere, che

ruba la scena alla collettività degli uomini e delle donne in carne e ossa.

A volte una scheggia di realtà compare sotto le luci accecanti dei riflettori.

Accade, per esempio, quando una comunità riesce a rompere il cerchio

della emarginazione ed a richiamare l'attenzione pubblica sui propri problemi.

Allora l'incanto si rompe. Si squarcia la patina del video. Si spezzano le

litanie mercantili e irrompono sulla scena televisiva i valori comunitari. Per

pochi minuti si affacciano alla finestra della tv uomini e donne che, con le loro

facce segnate, urlano al microfono dell'incauto reporter la loro condizione

esistenziale.

10.5 Comunicazione di massa e potere

La proprietà dei mezzi di comunicazione di massa dà potere di classe

come la proprietà di mezzi di produzione in genere. Il controllo della

comunicazione dà però un potere in più. Consente un controllo culturale,

ideologico e politico. Inoltre, la comunicazione di massa, in particolare quella

televisiva, dà potere a chi ne può usufruire con una certa frequenza. Una

presenza continua sul video dà una notorietà che nessuna altra attività

sociale potrà mai conferire. Un professionista di alto valore non sarà mai

conosciuto come il suo mediocre collega che viene chiamato continuamente

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ad esprimere pareri sul piccolo schermo. Tale notorietà viene sfruttata

nell'ambito professionale e a volte si traduce in carriera politica.

Ancora più rilevante è il potere che acquisiscono i cosiddetti intellettuali

ammessi a frequentare gli studi televisivi e le colonne dei giornali. Il controllo

dei mezzi pubblici o privati di comunicazione dà la facoltà di fare emergere,

in un particolare settore culturale o scientifico, i rappresentanti di un

particolare orientamento e di emarginare i rappresentanti di un orientamento

opposto. La comunicazione astratta non solo come espressione del potere,

ma anche come produzione di potere politico, culturale e scientifico.

10.6 Telematica, comunicazione multimediale e realtà virtuale: Internet

La telematica, cioè la comunicazione per reti di computer, si caratterizza

per una particolare mediazione tecnica, che mette in contatto, in un

complesso e articolato sistema di interazione, soggetti che hanno da

scambiarsi informazioni a distanza. Lo sviluppo del sistema telematico è

molto accelerato. Le potenzialità sono straordinarie e destano entusiasmi,

che spesso fanno perdere il senso della realtà.

Considerata in sé, sul piano strettamente tecnico, la telematica arricchisce

e potenzia le possibilità di comunicazione. Se invece si considera il sistema

telematico dal punto di vista sociale, il discorso cambia.

10.7 Internet e differenziazione sociale di classe

La differenziazione sociale di classe è il carattere fondante della società

capitalistica. Di conseguenza, tutte le funzioni della vita sociale devono

concorrere a produrre e riprodurre differenziazione. E, quando una funzione,

con il progresso sociale, si estende a livello di massa, il sistema crea una

nuova funzione, più avanzata, che rimette in moto il processo di

differenziazione.

E’ quello che sta accadendo nella sfera della comunicazione sociale.

Adesso che il saper leggere e scrivere è diventata una “funzione estesa” ed

ha perso, in gran parte, la capacità di produrre differenziazione di classe,

subentra una funzione ristretta, più avanzata che rimette in moto il sistema di

stratificazione sociale. E' già successo prima con il telefono e poi con la

televisione.

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Attenzione. La differenziazione prodotta dalla funzione più avanzata non

ricalca quella precedente. La differenziazione prodotta da Internet è diversa

da quella prodotta dalla funzione del leggere e dello scrivere, anche se si

sovrappone ad essa. Internet ristruttura la composizione di classe su altre

basi, crea nuovi corpi sociali, rimodula la differenziazione sociale.

La tecnica più avanzata - nella comunicazione come in qualsiasi altro

settore - tende dunque a riprodurre a un livello più alto le differenziazioni di

classe. Per un certo tempo, finché non si sono diffusi a livello di massa, sono

stati segni di distinzione di classe fra chi poteva disporne e chi non poteva.

Nel caso della telematica, il fenomeno è più complesso, perché si tratta di

poter disporre non solo del mezzo tecnico, ma anche delle conoscenze e

delle abilità necessarie per poterlo usare. La comunicazione telematica,

come tutti i linguaggi tecnici, privilegia alcuni/e ed emargina altri/e,

escludendoli di fatto da un circuito comunicativo e informativo sempre più

importante per tenersi al passo con i tempi. E la linea di demarcazione non

può che essere, in una forma o nell'altra, una differenza di classe.

10.8 Telematica e astrazione comunicativa

Oltre a produrre effetti di differenziazione sociale, la telematica innesca

processi di astrazione comunicativa. I soggetti che navigano spesso in rete,

come si usa dire in gergo, a lungo andare rischiano di spendere tutte le loro

risorse comunicative all'interno del circuito telematico, perdendo contatto con

le persone concrete. Per questi soggetti la telematica si sostituisce sempre

più alla comunicazione reale.

Tale processo viene accentuato dallo sviluppo del sistema multimediale,

che crea sempre nuove connessioni tecniche fra i vari mezzi di

comunicazione. Il soggetto ha la sensazione di essere al centro di un campo

di possibilità comunicative, che fanno apparire come arretrata la

comunicazione primaria, faccia a faccia.

C'è chi vede nella telematica uno strumento di “democrazia elettronica”.

Ma il sistema telematico è un canale troppo importante perché venga lasciato

alle esigenze comunicative di singoli soggetti. Le grandi forze economiche,

che dominano i vari settori della produzione, invadono la rete on line e

determinano le scelte dei singoli operatori.

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In tale quadro, si va verso la creazione di una realtà virtuale, prodotta per

via tecnica dai potentati economici. Il soggetto viene immerso in un mondo

artificiale e perde il contatto con la realtà della propria condizione umana.

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Capitolo Undicesimo

SOGGETTIVITA’ SOCIALE E TELEVISIONE

11.1 Soggettività sociale e comunicazione

La soggettività sociale non è la somma di soggettività individuali che

vivono la stessa condizione esistenziale. Non basta che una moltitudine di

soggetti abbiano in comune esperienze di vita perché si formi una

soggettività sociale. E’ necessario che i soggetti possano scambiarsi

quotidianamente le loro esperienze esistenziali. La comunicazione è dunque

un passaggio cruciale nel processo di formazione della soggettività sociale. E

va considerata nel quadro dei processi immateriali, cioè di processi privi di

materialità, ma fortemente intrecciati ai processi materiali. E’ in questo

impasto di materialità e immaterialità il connotato specifico della soggettività

sociale. Da qui la necessità di una sorta di “anatomia” dei processi

immateriali, che prenda a modello l’analisi marxiana dei processi materiali. Il

lavoro teorico che è alla base de La società astratta va in tale direzione.

La formazione di una soggettività sociale autonoma rispetto al quadro

istituzionale è una mina vagante per il sistema capitalistico. Per disinnescare

tale mina, bisogna che la comunicazione venga svuotata delle sue

potenzialità dirompenti e trasformata in veicolo di assimilazione del modello

capitalistico. Ma un intervento di questo tipo è problematico in una società

formalmente democratica finché la comunicazione interpersonale si realizza

in forma diretta, attraverso rapporti faccia a faccia, senza l’intermediazione di

un apparato tecnico.

E’ una situazione analoga a quella che si è avuta nella sfera della

produzione materiale. Marx ha messo in evidenza l’incidenza che ha sulla

soggettività l’introduzione delle macchine. Nella fase premeccanizzata il

capitale ha il controllo economico sul lavoro, ma il controllo tecnico rimane

all’operaio 20. Analogamente possiamo dire che, prima dell’introduzione

dell’apparato tecnico, il controllo della comunicazione interpersonale rimane,

in ultima analisi, in mano ai soggetti. A meno di interventi autoritari e

20 Su questo aspetto si veda F. Viola, Il sistema di macchine, 3^ ediz., Roma, Edizioni Associate, 1996.

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restrittivi, come si fa a intervenire tra persone che comunicano direttamente,

faccia a faccia?

11.2 La comunicazione mediata dalla tecnologia

La situazione cambia invece quando si passa dalla comunicazione diretta

alla comunicazione mediata dalla tecnologia ed ancora di più quando si

sviluppa la comunicazione basata su un sistema tecnico centralizzato.

Analogamente a quanto è avvenuto per la produzione materiale, c’è una

sorta di passaggio dalla sussunzione formale della comunicazione - per cui la

comunicazione fra soggetti deve rispettare certi canoni, ma il controllo diretto

rimane ai soggetti - alla sussunzione reale, in cui, attraverso l’apparato

tecnico centralizzato, è possibile il controllo dall’alto della comunicazione

sociale. Il sistema centralizzato consente ai funzionari dei poteri forti di

decidere le modalità e gli ambiti della comunicazione sociale.

11.3 Dalla comunicazione a circuito chiuso alla comunicazione a circuito aperto

Nel quadro della comunicazione tecnicamente centralizzata la comunica-

zione televisiva ha una connotazione specifica. Per tentare di cogliere lo

specifico televisivo, in relazione alla formazione della soggettività sociale,

occorre introdurre una distinzione fra comunicazione a circuito chiuso e

comunicazione a circuito aperto.

Nel primo caso i soggetti, per mettersi in comunicazione, devono attivarsi,

uscendo di casa e recandosi nel luogo di riunione, dove interagiscono e

partecipano alla strutturazione della comunicazione. Questo aspetto è

rilevante per la formazione della soggettività sociale. Perché agli

appuntamenti vanno soggetti che hanno un comune orientamento di base.

Nella comunicazione a circuito aperto invece da una parte c’è una stazione

emittente, dall’altra c’è una moltitudine di apparecchi riceventi. E’ questo

ultimo il tipo di comunicazione televisiva che arriva nelle case. Il soggetto può

starsene sprofondato in poltrona. Basta premere un pulsante del

telecomando per aprire la comunicazione. Questo connotato tecnico mette,

in partenza, il soggetto in condizione di passività. Di fatto, il soggetto assiste,

più che partecipare, ad un episodio comunicativo.

Certo, lo svilluppo dei mezzi di comunicazione di massa prevede un

sempre maggiore coinvolgimento del soggetto, che avrà sempre più la

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possibilità di scegliersi programmi su misura. Ma qualsiasi evoluzione in tale

direzione non può mutare il ruolo di fondo del soggetto, che non è in grado di

intervenire su una struttura della comunicazione comunque predeterminata.

La soggettività sociale si trova così coinvolta in un processo che sfugge al

suo controllo.

11.4 Tv domestica e soggettività sociale

Come è noto, ormai nelle case delle famiglie italiane il televisore è sempre

acceso. E spesso ci sono diversi televisori sparsi per casa. In queste

condizioni non solo non c’è bisogno di uscire di casa per andare ad un

appuntamento comunicativo. Al contrario, solo uscendo di casa si può

sfuggire alla comunicazione televisiva. Ed anche per strada arrivano a volte

le risonanze televisive. Quante volte capita di sentire per strada l’eco

televisiva di una partita di calcio? Di fatto - a prescindere da aree alternative,

impermeabili alla tv - la soggettività sociale è letteralmente assediata dalla

comunicazione televisiva. Ma i soggetti non hanno sentore di questo assedio.

Tutt’altro.

La tv è in tutte le case, ma non fa pesare la sua presenza. E’ una sorta di

tv domestica, che fa compagnia, ma non lascia trapelare la sua invadenza.

Così la realtà virtuale si confonde con la realtà reale. Capita spesso che uno

squillo del telefono della fiction televisiva venga scambiato per una chiamata

al telefono di casa. I personaggi della tv domestica entrano a far parte della

famiglia. E il chiacchiericcio sulle figure del piccolo schermo ha il sapore

antico dei pettegolezzi sui parenti. Nelle telefonate delle telespettatrici (a

chiamare sono in maggioranza donne) i conduttori vengono interpellati per

nome e trattati con tono familiare: «Paolo, dammi un aiutino».

11.5 Dalla Tv come mezzo di comunicazione alla Tv come agenzia di socializzazione

Questa integrazione della tv alla famiglia, questa connotazione domestica

della tv, provoca un passaggio cruciale per l’incidenza che la comunicazione

televisiva ha sulla formazione della soggettività sociale. Si passa dalla

televisione come mezzo di comunicazione alla televisione come agenzia di

socializzazione. La socializzazione è un processo attraverso il quale i

soggetti assimilano, cioè fanno propri, i modelli sociali di atteggiamento e di

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comportamento. Una agenzia classica di socializzazione è la famiglia. I

modelli che, all’interno della famiglia, vengono assimilati dai soggetti

nell’infanzia e nella adolescenza, si depositano nella coscienza e sono difficili

da cancellare, proprio perché le persone li sentono come propri.

Nella struttura familiare anteriore all’avvento della televisione di massa le

figure dominanti sono i genitori. La tv domestica introduce nell’ambiente

familiare nuovo figure - i personaggi delle trasmissioni più seguite - che

assumono un ruolo significativo nel processo di socializzazione. Nell’ambito

familiare i figli e le figlie fanno riferimento non solo alla madre e al padre, ma

anche alle figure del piccolo schermo. Si innesca un processo di

socializzazione televisiva. Per questa via, vengono introdotti nel nucleo

familiare, attraverso messaggi latenti, orientamenti di valore che i soggetti

fanno propri, senza rendersene conto.

Il senso di questa sofisticata operazione dovrebbe risultare abbastanza

chiaro. Attraverso un lento processo di assimilazione - che si intreccia ai ben

noti processi materiali – si sedimenta, per così dire, nel fondo della

soggettività sociale il sistema di valori funzionale al modello di

organizzazione capitalistica della società (competizione, meritocrazia, ecc.).

Tale processo fa pensare alle lunghe lavorazioni a cui i contadini

sottopongono il terreno prima di dare inizio alla semina. Il seme germoglia

solo se il terreno è stato a lungo coltivato.

Ecco, l’assimilazione che mette in atto la tv domestica, attraverso

l’intrigante proposizione di modelli virtuali di atteggiamento e di

comportamento, si traduce in un lento lavoro di conio operato sulla

soggettività sociale. L’esito è devastante. Giorno dopo giorno, si forma una

sorta di intercapedine fra la condizione materiale dei soggetti e la loro

interpretazione della realtà sociale. Questa ostruzione impedisce che la

condizione oggettiva si traduca in percezione soggettiva della realtà. I

soggetti finiscono per interpretare la loro condizione materiale con i parametri

della logica che presiede all’organizzazione capitalistica della società. Basta

pensare al disoccupato che è convinto di non riuscire a trovare lavoro per

quei “maledetti vincoli” che ancora intralciano il libero dispiegamento del

mercato.

11.6 Soggettività sociale, condizione materiale e processi immateriali

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Fin qui le dinamiche dei processi immateriali sono state considerate in sé,

a prescindere da ogni condizionamento della condizione materiale. In realtà,

nessun processo immateriale opera in un vuoto di materialità. Nel caso

specifico, non si può immaginare che nella soggettività sociale venga

azzerato, attraverso l’induzione di una percezione deformata, il peso della

condizione materiale. Si tratta quindi di vedere, volta a volta, in situazioni

storicamente determinate, fino a che punto i processi immateriali sono riusciti

a depurare la soggettività sociale dei riscontri quotidiani della concretezza

esistenziale. E’ sempre aperta la partita fra una soggettività sociale che

tende a strutturarsi su base reale e un apparato di comunicazione di massa

che cerca di connotarla su base virtuale.

Sull’esito di una tale partita incide molto il livello di aggregazione materiale

e di coscienza di classe presente in una determinata fase storica. L’attuale

condizione di frammentazione e di precarizzazione del lavoro evoca una

soggettività sociale disgregata ed esposta al processo di interiorizzazione

indotto dalla tv domestica. Il soggetto, espropriato dei suoi connotati di

classe, si ritrova solo e indifeso davanti alle mille seduzioni del piccolo

schermo. Ancora una volta si ripropone, in sede di strutturazione della

soggettività sociale, l’intreccio fra condizione materiale e processi

immateriali.

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Capitolo Dodicesimo

INFORMATICA E ASTRAZIONE 12.1 L'oggettivazione delle funzioni intellettive: computer e soggettività

L'ultimo segno di presenza della soggettività umana nel processo

lavorativo diretto, cioè nel processo di lavorazione della materia prima, è la

funzione di controllo. Con l’automazione anche tale funzione viene

oggettivata. A questo punto della evoluzione tecnologica, la soggettività

umana viene espulsa dalla lavorazione diretta. Ma il processo di produzione

non si esaurisce con l’espletamento di singole funzioni operative. E il

complesso del processo rimane ancora nelle prerogative del soggetto, che

con le sue capacità intellettive domina la produzione come sistema 21. In

questa direzione, il computer rappresenta un vero e proprio salto di qualità.

Con il computer la struttura della mente umana viene incorporata nella

macchina. Il passaggio è di eccezionale rilevanza. Non si tratta più del

trasferimento di funzioni operative. Si tratta della riproduzione tecnica di

funzioni mentali, cioè delle funzioni umane per eccellenza. E in tale

riproduzione le funzioni mentali non solo non perdono in efficacia, ma si

potenziano. Il computer è in grado di compiere certe operazioni meglio e in

modo più rapido della mente umana. Anche se non sarà mai in grado di

interpretare L’infinito di Leopardi.

La riproduzione tecnica delle funzioni mentali ha una notevole incidenza

sulla presenza della soggettività nel processo produttivo. Molte funzioni di

organizzazione e di supervisione vengono incorporate nel computer. La

soggettività viene quindi sempre più relegata alla tastiera.

Questo passaggio trasforma la qualità del rapporto tra soggetto e

operazione tecnica. In fase di meccanizzazione semplice, il soggetto ha la

mente libera da incombenze lavorative. E mentre svolge il suo compito di

addetto alla macchina, può pensare ad altro e magari fantasticare. Davanti al

21 A tale riguardo, si veda F. Viola, Il sistema di macchine, Roma, Edizioni Associate, 3^ ediz.,

1996.

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computer, il soggetto ha la mente occupata dai compiti di interazione con lo

strumento tecnico. Mentre interagisce con il computer, è completamente

isolato dal contesto umano e non può pensare ad altro. Il processo di

produzione si appropria non solo delle sue mani, ma anche della sua anima

12.2 La logica del computer

Tutte queste potenzialità, che aprono prospettive straordinarie e, per certi

versi, inimmaginabili, vanno però collocate entro i confini di una logica ben

definita. Il computer è in grado di misurare, in tempi rapidi, la distanza delle

stelle. E' in grado di darci all'istante la rappresentazione grafica di un

complicatissimo calcolo. Può riprodurre, in immagini in movimento,

l'evoluzione di una situazione reale. In tutto ciò supera di molto le capacità

della mente umana. Il computer non può però darci il senso di una frase, il

significato di una poesia. Non può interpretare L’infinito di Leopardi.

Non si tratta di un limite, che verrà prima o poi superato. Si tratta della

logica propria del computer, che è una logica di amministrazione di dati

codificati. Tutto ciò che non è sottoposto a codifica non rientra nella logica

del computer.

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Capitolo Tredicesimo

LA CITTA' ASTRATTA 13.1 Vita di città e astrazione sociale

Nella società astratta non ci sono luoghi in cui gli individui possono vivere

come persone concrete. L'astrazione sociale è un effetto della

organizzazione complessiva della società. Non è quindi limitata a questo o a

quel settore sociale, a questa o a quella zona del territorio, a questo o a quel

tipo di insediamento abitativo.

Tuttavia, con il variare della vita sociale nei diversi contesti ambientali varia

anche l'impatto dell'astrazione sulla collettività. Da un tale punto di vista, un

conto è vivere in un piccolo centro, un conto è vivere in una grande città.

La grande città manca di una identità comunitaria. Gli abitanti, più che un

vero e proprio senso di appartenenza, hanno spirito di bandiera, che si

riversa, per esempio, nelle competizioni sportive. In ogni caso, non si

sentono legati fra di loro da un comune sentire. Non è un caso. La struttura

sociale non prevede momenti di vita collettiva. Ogni soggetto, uomo o donna,

ha un suo percorso obbligato di vita quotidiana, che si incrocia, ma non si

incontra, con i percorsi degli altri. Migliaia e migliaia di uomini e di donne si

alzano ogni mattina, si chiudono nelle scatole di latta delle auto o si

ammassano nei mezzi pubblici. Vanno tutti di fretta, si rubano il passo, si

ostacolano, si imbottigliano. Così una grande massa, nel tentativo di andare

di corsa, procede lentamente verso i luoghi di lavoro. Migliaia di occhi

puntati, a intermittenza, sugli orologi affibiati ai polsi. Migliaia di anime

impigliate, ognuna nel proprio impenetrabile guscio, nei pensieri della

giornata che è appena cominciata. Una massa di esseri isolati in una città

che ignora il loro concreto esistere, in una città astratta.

Lo spostamento casa-lavoro ha la sua copia conforme la sera, nello

spostamento lavoro-casa. In più c'è adesso l'ansia di tirarsi fuori dalla

mischia, per mettersi al sicuro nel fortino familiare. Varcata la soglia

domestica, rimane appena la forza di mettersi in panciolle davanti alla tv. E

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poi a letto, perché domani il trillo della sveglia non sentirà ragioni.

Dall'isolamento fuori casa all'isolamento in casa.

In questo quadro, la grande città svuota di senso l'umana esistenza. La

città astratta non è luogo di vita collettiva. Assume le due facce dell'individuo

astratto: da una parte macchina di produzione, dall'altra terminale del

consumo. Nei luoghi di produzione i beni vengono confezionati, per essere

esposti nei luoghi di consumo. In tutti e due i luoghi la persona concreta

figura come entità astratta. Quelli che si aggirano nella città spettrale della

sera, fermandosi incantati davanti alle vetrine addobbate, non sono uomini e

donne. Sono larve messe in movimento dalla macchina del consumo. Le

insegne multicolori, a luci intermittenti, creano uno scenario fantasmagorico,

in cui il soggetto perde il contatto con la realtà e si lascia trasportare

dall'onda dell'astrazione sociale.

13.2 La rarefazione dei rapporti interpersonali nella città astratta

Nella grande città l'astrazione sociale si traduce dunque in una

atomizzazione esistenziale della soggettività collettiva e in una

frammentazione della vita quotidiana.

In queste condizioni i soggetti hanno difficoltà a tenere in vita i rapporti

interpersonali. Per incontrarsi, bisogna mettersi d'accordo sul giorno e

sull'orario. E' una sorta di complicato gioco ad incastro. Quel che andrebbe

bene all'uno non va bene all'altro. Così passano i giorni, passano anche i

mesi, senza che si riesca a combinare un appuntamento. A lungo andare, si

finisce per perdere la voglia. Ogni tanto una telefonata e via. A poco a poco,

neppure quella. Attraverso vicende in apparenza private, lo svuotamento

delle esistenze personali e la frantumazione della vita sociale approdano alla

rarefazione dei rapporti interpersonali.

E' sintomatico il caso di parenti che non si incontrano quasi mai nella città

in cui si sono trasferiti e, in occasione delle vacanze estive, si salutano

festosamente nel paese di origine, con grande stupore dei paesani.

Si potrebbe pensare che la rarefazione dei rapporti interpersonali derivi

dalle distanze che, a volte, si interpongono quando si abita in quartieri

diversi. Se questa fosse la difficoltà più grave da superare, non si

spiegherebbero certe paradossali situazioni che si vengono a creare

all'interno dello stesso quartiere. Persone che abitano a pochi metri l'una

dall'altra e vanno a prendere il latte tutte le mattine nello stesso bar, si

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ignorano a vicenda. Persino persone che abitano nello stesso palazzo a volte

non si dicono nemmeno buongiorno e buonasera. Si incrociano, ma non si

incontrano. Letteralmente non esistono l'una per l'altra.

Se si parte dal presupposto che il paese di provincia ha una dimensione

più aperta alla vita di relazione, la grande città potrebbe avere un respiro

umano se fosse articolata in quartieri che funzionassero come tanti piccoli

centri. Ma non è così. E la ragione di fondo è che la città, nel suo insieme,

non è concepita come luogo di vita, ma come sede di produzione e di

amministrazione 22. E' concepita come città astratta.

13.3 La struttura di classe della città astratta

Nella società capitalistica la città non è concepita secondo le esigenze di

abitazione e di vita della popolazione, ma sulla base della struttura di classe.

E' anche per questo suo connotato di fondo che si definisce come città

astratta. Nella società astratta la città deve rappresentare, nella sua stessa

struttura fisica, la differenziazione di classe. I quartieri sono contrassegnati

da un marchio di classe: quartieri per la classe alta, quartieri per la classe

media, quartieri per la classe bassa.

Nei limiti della sua dimensione, la città astratta riproduce il disegno politico,

economico e sociale della società astratta. Si definisce quindi come città

formalmente libera e democratica. In tal senso, non può distribuire d'autorità

la popolazione nei diversi quartieri in base allo status sociale. Ogni famiglia

sceglie liberamente il quartiere dove abitare. Non c'è - e non ci può essere -

legge che vieti a qualcuno/a di abitare dove vuole, ovviamente nel rispetto

della proprietà privata. Eppure, l'esito complessivo è che ogni frammento di

popolazione va a collocarsi al posto giusto, nel pieno rispetto della struttura

di classe della città. E' questo il miracolo che riesce a realizzare l'astrazione

sociale nella città, come nella società.

In questo quadro si pone a volte un problema. La città non è una entità

statica. Si evolve e si espande. Perciò può accadere che zone ad

insediamento popolare acquistino, con il tempo, un valore strategico nello

sviluppo della città oppure un valore di prestigio. Per cui cadono nell'orbita

della speculazione edilizia. A questo punto, la popolazione residente è

costretta, attraverso varie forme di pressione, a spostarsi in una zona più

22 Si veda, in questo volume, l’Appendice B «La città come fabbrica sociale».

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periferica, per lasciare spazio al nuovo insediamento e consentire una

ristrutturazione di classe del territorio.

13.4 Periferia urbana e marginalità sociale

Nella struttura di classe della città astratta la periferia urbana ha la

funzione di separare dal contesto cittadino la popolazione che si colloca alla

base della piramide sociale. Si tratta in genere di sottoproletariato e di

proletariato poco stabile.

La periferia urbana non è quindi soltanto la fascia esterna del territorio

urbano. E' anche - e soprattutto - una fascia estranea alla vita cittadina. La

struttura della periferia urbana è funzionale a questa sua caratteristica di

classe. I collegamenti con il centro e con il resto della città sono ridottissimi.

Le persone devono essere scoraggiate a uscire dalla riserva in cui sono state

relegate. All'interno della riserva mancano a volte i servizi essenziali. Ma non

è questa la discriminante fondamentale. Ci sono periferie più o meno

materialmente attrezzate. Quel che manca - e deve mancare - è soprattutto

una simbiosi con il resto della città. In tal senso, la periferia urbana viene a

configurarsi come moderno ghetto.

Questo connotato si esaspera in certe situazioni di edilizia popolare.

Migliaia di persone vengono segregate in lunghi serpentoni di cemento, con

cunicoli interni e feritoie alle pareti esterne. Qui veramente l'astrazione

sociale assolve in pieno la sua funzione più incisiva: ignorare la concretezza

delle persone per salvare la struttura di classe.

La periferia come ghetto produce marginalità sociale, in senso letterale. I

soggetti sono costretti a vivere a margine della città, sotto tutti gli aspetti.

Vengono così a sommarsi nella condizione sociale di uomini e donne tutte le

ferite che la società astratta apporta nel corpo vivo della collettività. E' come

se l'astrazione operasse in modo da concentrare e rinchiudere tutti i mali

della società in particolari zone, per rendere immuni, senza riuscirci, le zone

riservate alle classi privilegiate.

Nei moderni ghetti edilizi gli uomini e le donne mancano spesso del

minimo necessario per sopravvivere. Questa condizione scatena fenomeni

striscianti di illegalità, che trasformano, in parte, il carcere in una sorta di

appendice della periferia urbana. Molti fanno i pendolari fra una catapecchia -

in cui sono ammucchiati genitori e figli - e una cella sovraffollata. Questo

pendolarismo anomalo sgretola il nucleo familiare. I ragazzi e le ragazze non

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vanno a scuola. Vivono per strada, sui muretti, esposti alle pressioni del

mercato delle droghe.

Attraverso impervi percorsi, l'indifferenza alla condizione esistenziale delle

persone concrete produce nella periferia urbana, nella città astratta per

eccellenza, il degrado dell'essere umano.

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Capitolo Quattordicesimo

DIVERSITA' ETNICA E ASTRAZIONE SOCIALE

14.1 Astrazione e razzismo

La società astratta è aperta a tutte le possibilità di valorizzazione del

capitale. Riguardo all'uso della forza-lavoro, non pone quindi preclusioni di

tipo nazionalista o razzista. In tal senso, la selezione dei soggetti sulla base

della provenienza etnica o del colore della pelle, la discriminazione razziale

nella vita sociale e tutti i comportamenti che denotano atteggiamenti razzisti

non rientrano nella logica della società astratta, considerata in sé.

Sulla base di questa premessa, la società astratta non ha da avanzare

pregiudiziali ideologiche nei confronti degli immigrati. Ha soltanto l'esigenza

di regolamentare il flusso dell'immigrazione. Così milioni di uomini e di

donne, ridotti alla fame nei paesi di origine dal dominio, diretto o indiretto, del

capitale internazionale, vengono ricacciati indietro nella loro originaria

condizione di miseria.

D'altra parte, gli immigrati regolarizzati vengono trattati, nella migliore delle

ipotesi, non come cittadini del mondo, ma come ospiti in casa d'altri. Da

parte delle forze più aperte nei confronti degli immigrati si dice: «Si tratta di

esseri umani bisognosi e abbiamo il dovere di aiutarli. Ma non possiamo

accoglierne più di un certo numero. In cambio, chiediamo agli immigrati di

comportarsi bene e di integrarsi».

L'integrazione culturale e sociale è l'obiettivo cardine di quanti si dichiarano

ben disposti nei confronti degli immigrati (non parliamo degli altri). Ma nella

società sussunta al capitale chiedere agli immigrati di integrarsi significa

pretendere che rinuncino alla loro identità e facciano proprio il sistema di

valori astratti.

In questo quadro, il capitale pretende da una parte di poter circolare senza

controllo e dall'altra di potere controllare il flusso di immigrati, per limitarlo

alla quota di forza-lavoro sottopagata da potere sfruttare.

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14.2 Diversità etnica e valorizzazione del capitale

Nel sistema di astrazione sociale la collettività non viene concepita come

società multietnica, cioè come società in cui hanno diritto di cittadinanza tutte

le etnie comunque presenti sul territorio nazionale. La società astratta non è

una società senza frontiere etniche. E' una società che concepisce

l'immigrazione come immissione nel mercato nazionale di forza-lavoro di

riserva, in misura corrispondente alle esigenze del sistema di produzione.

Tanto meno la società astratta azzera la differenziazione etnica. Apre, in

misura controllata, la struttura sociale alla diversità etnica, non per

valorizzarla come risorsa di crescita sociale, ma per utilizzarla a vantaggio

della valorizzazione del capitale. La pregiudiziale etnica viene fatta cadere in

sede di acquisizione di forza-lavoro, ma viene recuperata in sede di utilizzo

della forza-lavoro acquisita, per potere disporre di lavoro a costo più basso e

in condizione di assenza di garanzie. La discriminazione etnica, che trova

spazi più o meno ampi nella coscienza collettiva - con tutto il carico di

violenza, di discriminazione, di emarginazione materiale e immateriale -

risulta oggettivamente funzionale alla strategia capitalistica, perché rende

disponibili soggetti in grande difficoltà e quindi pronti ad accettare tutto pur di

riuscire a sopravvivere.

Nel quadro che abbiamo cercato di abbozzare fin qui si può intravedere la

trama intessuta dal sistema di astrazione per creare condizioni favorevoli alla

valorizzazione del capitale nell'ambito di una società che non esclude, sul

piano ideologico, la diversità etnica.

Quando non si riesce a subordinare completamente l'immigrazione alle

esigenze della valorizzazione e i flussi migratori non rispettano i parametri

dell'economia, il sistema istituzionale interviene d'autorità con misure

legislative e con provvedimenti di polizia. In tali casi cade il velo

dell'astrazione e viene fuori la reale considerazione che la società sussunta

al capitale ha degli immigrati, trattati come forza umana da spremere e

ammassare in condizioni di pura sopravvivenza.

14.3 Astrazione sociale e specificità etnica

La mancanza di pregiudiziali razziste nei confronti dell'immigrazione non

viene intesa come rispetto della diversità etnica, in quanto specificità

culturale. La società astratta tende a definire la specificità etnica come scoria

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culturale, di cui una moderna organizzazione sociale si deve liberare.

Soggetti che intendono attenersi alle tradizioni culturali del paese di

provenienza, per esempio nella determinazione dei giorni e degli orari di

lavoro, creano difficoltà al processo di produzione. Perciò la società astratta

è aperta alla integrazione etnica, intesa come annullamento della cultura

etnica nella logica della cultura capitalistica industriale.

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Capitolo Quindicesimo

ASTRAZIONE SOCIALE E VITA QUOTIDIANA

15.1 Astrazione sociale e ricerca di senso della vita

La ricerca di senso della vita è una delle espressioni più significative della

concretezza esistenziale degli uomini e delle donne. Nella società astratta

essa viene continuamente frustrata. L'indifferenza alla concretezza

esistenziale svuota di senso la vita.

Sentendosi ignorato in quanto persona concreta, il soggetto non riesce a

dare un significato alla propria esistenza. Ha la sensazione di vagare in un

vuoto esistenziale. La giornata gli appare come un quadrante di orologio

senza lancette. Nel tempo di lavoro e nel cosiddetto tempo libero gli atti, i

gesti, le parole non gli si dispongono come le piastrelle colorate di un

mosaico, ma gli si accumulano come i grigi detriti di una strada dissestata.

Gli accadimenti gli rovinano addosso, procurandogli graffi e ferite, senza che

egli sia in grado di farsene una ragione.

In questo quadro, l'astrazione sociale opera in direzione di una

demotivazione del soggetto nei confronti della vita sociale. Viene a mancare

la spinta ad un impegno che tenda all'autorealizzazione. Emergono

atteggiamenti di oppportunismo e di trasformismo, che mirano al

conseguimento di un vantaggio immediato.

La ricerca di senso - una tendenza dirompente all'interno di una cultura

utilitaristica - viene così dirottata verso obiettivi consoni al modello ideologico

che presiede alla valorizzazione del capitale.

15.2 Vita quotidiana e uso della forza-lavoro

La vita quotidiana di chi esiste solo per lavorare è la negazione della sua

esistenza in quanto persona. In tal senso, nel vivere quotidiano il soggetto,

invece di affermarsi, si nega. Nega il suo essere altro da quello che è in

quanto portatore di forza-lavoro manuale-intellettuale. Chiude il suo orizzonte

esistenziale entro le mura della valorizzazione capitalistica.

Al di là di ogni impalcatura ideologica, al di là di ogni rappresentazione

idealistica della realtà sociale, la persona è quale si realizza nella sfera della

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vita quotidiana. Alla luce di tale considerazione, cerchiamo di vedere più da

vicino in quali termini e in che misura è possibile la realizzazione esistenziale

della persona nella vita quotidiana di chi è costretto/a a vendere l'uso della

sua forza-lavoro manuale-intellettuale.

Con l'uso della sua forza-lavoro il soggetto vende l'uso della sua vita

quotidiana. E' un punto decisivo, in senso letterale. Qui si decide il destino

esistenziale degli uomini e delle donne in carne e ossa. La vita quotidiana è

la sfera in cui la forza-lavoro viene usata per valorizzare il capitale. In sé,

I'uso della forza-lavoro manuale-intellettuale ha finalità economiche. Ma per

la persona esso ha conseguenze esistenziali. Il capitale, con la sua sete di

profitto, è per la persona concreta l'altro da sé.

Questa estraneità degli uomini e delle donne alla valorizzazione

capitalistica è insanabile. Ma la compravendita dell'uso della forza-lavoro

manuale-intellettuale non crea soltanto un rapporto contrattuale fra due

soggetti estranei. Sulla base di tale rapporto, il capitale ha modo di insediarsi

nella sfera esistenziale delle persone concrete.

L'uso della forza-lavoro manuale-intellettuale plasma la vita delle persone.

Ne fa una vita sovradeterminata dal capitale, una vita organizzata,

programmata dal capitale e finalizzata alla produzione di profitto.

E qui si apre una contraddizione di grande portata. In quanto persone, Il

lavoratore e la lavoratrice sono estranei al capitale. In quanto forza-lavoro,

sono parte del capitale. Ora, se il consumo di forza-lavoro

manuale-intellettuale fosse possibile al di fuori della vita quotidiana, un uomo

o una donna potrebbe vendere l'uso della sua forza-lavoro senza farsi

coinvolgere dal capitale sul piano esistenziale, vivendo la sua vita al di fuori

del rapporto contrattuale con il capitale. In questo caso, puramente teorico, il

consumo della forza-lavoro non entrerebbe in collisione con I'estraneità delle

persone. Gli uomini e le donne potrebbero vivere nella vita quotidiana la loro

estraneità al capitale, lasciando liberi i rappresentanti del capitale di

consumare nel processo produttivo la loro forza-lavoro.

Ma l'uso della forza-lavoro non può darsi al di fuori della vita quotidiana. Un

uomo o una donna non può vendere l'uso della sua forza-lavoro

manuale-intellettuale e tenere per sé la sua vita. Non può dire all'azienda:

usa pure come vuoi la mia forza-lavoro, però sulla mia vita, su come viverla,

su come spenderla decido io. Vendendo l'uso della sua forza-lavoro, "vende"

anche la propria vita. Non nel senso che non è più, formalmente, una

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persona "libera", ma nel senso che la sua vita di persona "libera" sarà quella

di lavoratore o lavoratrice.

15.3 L'appropriazione della vita sociale da parte del capitale

Il rapporto di lavoro per un verso è un rapporto specifico, che interessa una

sfera particolare e prescinde dalle altre sfere della vita sociale, per I'altro è

un rapporto fondante, nel senso che è decisivo per la condizione sociale

complessiva degli uomini e delle donne. Nella forma, prescinde da ciò che

non attiene strettamente all'uso della forza-lavoro. Nella sostanza, proprio

attraverso l'uso della forza lavoro, investe l'intera vita sociale. Praticamente,

attraverso l'uso della forza-lavoro nanuale-intellettuale il capitale si appropria

della vita sociale. Ma se ne appropria in un senso particolare. Non nel senso

che è qualche rappresentante del capitale a programmare direttamente la

vita esterna alla sfera lavorativa. Certo, in questo senso ci sono fenomeni di

canalizzazione della vita extralavorativa (per esempio, tutte le forme di

organizzazione del cosiddetto tempo libero) che sono tutt'altro che estranei

agli interessi del capitale. Ma in questa sede a noi interessa vedere le

implicazioni dirette del rapporto di lavoro, in quanto rapporto contrattuale, in

sede di vita sociale complessiva.

Ebbene, il senso particolare dell'appropriazione della vita sociale da parte

del capitale sta nel fatto che essa si attua non riconducendo la vita

extralavorativa dentro la sfera di influenza della vita lavorativa, ma proprio

lasciandola fuori dal rapporto contrattuale. Per questa via, il capitale può

affermare la sua indifferenza nei confronti della vita "privata" delle persone ed

imporla alla società in termini di astrazione sociale.

La vita sociale, lasciata fuori dal rapporto contrattuale, è formalmente

libera, mentre il capitale, lasciato fuori dalla vita sociale, è formalmente

vincolato ad una sfera specifica. In realtà, la vita sociale, non rientrando nel

rapporto contrattuale, deve rimanere fuori dalle vertenze sindacali e politiche,

là dove, almeno formalmente, si decidono le condizioni dell'uso della

forza-lavoro manuale-intellettuale. Non a caso, in condizioni di rapporti di

forza favorevoli, i rappresentanti del capitale oppongono un sistematico rifiuto

sostanziale a tutte le richieste delle forze del lavoro tendenti a spostare la

contrattazione su questioni di vita sociale complessiva. I rappresentanti del

capitale rispondono - nella sostanza, al di là delle formule diplomatiche - che

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oggetto della contrattazione è l'uso diretto della forza-lavoro. Il resto deve

rimanere fuori.

In altri termini, la contrattazione deve fare astrazione dalla vita reale,

perché il lavoratore o la lavoratrice entra nel rapporto contrattuale non in

quanto persona, ma in quanto forza-lavoro. Tanto meno rientra nella

contrattazione la condizione di chi, come il disoccupato o la disoccupata, non

è nemmeno presente nel rapporto contrattuale. Il soggetto a cui fa riferimento

il rapporto contrattuale è un individuo astratto, che in sede di contrattazione

deve essere considerato a prescindere dalla sua specificità personale. E la

vita sociale, quale è contemplata nel rapporto contrattuale, è priva di

qualsiasi particolarità concreta.

Si sa che fuori della sfera lavorativa c'è una vita sociale complessa. Ma,

dal punto di vista del contratto, non interessa quale sia. E' una vita astratta.

Si sa che al di là delle strutture produttive c'è una società organizzata. Ma dal

punto di vista del rapporto di lavoro, non interessa in concreto. E' una società

astratta. Il capitale, attraverso l'uso della forza-lavoro, produce la società

capitalistica. Ma quando si tratta di farsi carico dei costi che la conduzione di

una società comporta, pretende di ritirarsi nell'ambito del rapporto

contrattuale, considerando la sua società solo in astratto. E' da qui che

discende la società sussunta al capitale come società astratta.

15.4 La separazione fra lavoro e vita

Per questa via, il capitale ritiene di avere il diritto di "ignorare" i bisogni

sociali. Non è compito suo dare risposta al bisogno di dormire sotto un tetto,

di avere una istruzione adeguata, di disporre di ospedali dove curarsi e via

dicendo. Attraverso l'uso della forza-lavoro, il capitale ha un rapporto

complessivo con la società nel suo insieme. Succhia profitto da tutti i pori

della società. Ma non intende andare al di là dell'ambito contrattuale, appena

c'è da farsi carico degli oneri che l'ampiezza del rapporto comporta. Ed è

proprio per sfuggire a tali oneri che si prefigura una società astratta, definita

in termini puramente economici, che prescindono dai bisogni emergenti nella

vita sociale. Non è un caso che, nella discussione sulla fiscalizzazione degli

oneri sociali, gli industriali definiscono "impropri" gli oneri derivanti alle

aziende da attrezzature funzionali alla vita sociale del personale dipendente.

Non spetta alle aziende - dicono espressamente - provvedere, per esempio,

agli asili nido per i figli e le figlie di chi lavora in azienda.

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A questo punto però sorge per l'ideologia della società astratta una

difficoltà. Un processo lavorativo che non abbia nulla a che vedere con la vita

quotidiana consente un uso della forza-lavoro adeguato al capitale. Ma,

perché i soggetti vendano l'uso della propria forza-lavoro manuale-

intellettuale, bisogna che esso abbia una qualche attinenza con la loro vita.

Bisogna che lavorare sia indispensabile per vivere. La separazione - da parte

del capitale - tra consumo della forza-lavoro e vita quotidiana per un verso

rende possibile un uso incondizionato della forza-lavoro, per l'altro rischia di

produrre una separazione - da parte del lavoratore o della lavoratrice - fra

lavoro e vita, gravida di conseguenze per il capitale.

La separazione - da parte del lavoratore o della lavoratrice - tra lavoro e

vita è la più grave minaccia che possa incombere sull'uso della forza-lavoro.

Questo uso è possibile nella misura in cui il lavoro, manuale e intellettuale, è

la fonte di sussistenza della persona, nella misura in cui cioè il lavoro è, per

la persona, legato alla vita.

Da questo punto di vista, la separazione - da parte di chi lavora - fra

lavoro e vita ha effetti opposti rispetto a quelli che ha la separazione da parte

del capitale. Questa tende a spogliare la forza-lavoro manuale-intellettuale

delle sue specificità esistenziali. Quella tende a liberare la persona dal ricatto

della sopravvivenza fisica 23.

La caduta del ricatto della sopravvivenza fisica non basta, da sola, a

liberare il lavoro ed a restituirlo alla persona come attività vitale. Non basta

ad aprire al soggetto una prospettiva di autorealizzazione esistenziale. I

termini del rapporto fra lavoro e sussistenza vanno al di là della disponibilità

dei mezzi materiali. Il lavoro si configura non soltanto come fonte di

sussistenza primaria, ma anche come fonte di sussistenza secondaria. Per

sussistenza primaria intendiamo la sopravvivenza fisica vera e propria. Per

sussistenza secondaria intendiamo invece quello spazio vitale che dà un

qualche significato al sopravvivere del corpo fisico. A questo ultimo livello, al

ricatto della sopravvivenza fisica subentra il ricatto della sopravvivenza

sociale. Chi non fa lavoro produttivo è tagliato fuori dai rapporti sociali.

Comunque, emerge la tendenza a rigettare il ricatto della sopravvivenza a

qualsiasi livello. Molti giovani e molte giovani si adattano a lavorare per

vivere, ma non accettano di vivere per lavorare. Su questo versante sono

23 Cfr F. Viola, Occupazione operaia e ristrutturazione tecnologica tra profitto e sopravvivenza, Libro

Secondo, Materiali di studio.

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possibili fenomeni di rigidità della forza-lavoro, che si esprimono nel rifiuto dei

lavori più faticosi e meno gratificanti.

Tale rigetto significa che il tempo di lavoro viene, in fondo, vissuto da molti

giovani e da molte giovani come tempo di vita. Da questo punto di vista, la

separazione - da parte del capitale - fra lavoro e vita si rivela come una

mistificazione.

Vero è che l'ideologia della società astratta riesce a far sedimentare in

alcuni strati della coscienza collettiva la separazione fra lavoro e vita. Ma

resta il fatto che durante il lavoro la persona vive un tratto della sua vita. La

pretesa di fare astrazione, nell'uso della forza-lavoro, dalla concretezza

esistenziale degli uomini e delle donne in carne e ossa è destinata dunque a

rimanere una utopia del capitale. In realtà, dentro l'uso della forza-lavoro

urgono e si affollano i problemi esistenziali. L'uso della forza-lavoro non potrà

mai realizzarsi, per così dire, allo stato puro. Sarà sempre, più o meno,

disturbato dalle interferenze esistenziali dei soggetti. Queste interferenze

aumentano o diminuiscono, in frequenza e in intensità, nella misura in cui

monta o rifluisce la soggettività sociale.

A prescindere dalle alterne vicende della contingenza politica, il dato

sociale di fondo, antitetico alla prospettiva della società astratta, è comunque

la realtà del tempo di lavoro come tempo di vita, in cui non possono essere

messi fra parentesi i bisogni quotidiani di questo o di quell'uomo particolare,

di questa o di quella particolare donna.

15.5 Bisogni quotidiani e valorizzazione capitalistica

L'insediamento dei bisogni quotidiani nei luoghi di lavoro introduce nel

processo di produzione, materiale e immateriale, una variabile che minaccia

la logica del sistema capitalistico. Rispetto a tale logica, i bisogni sono una

variabile del tutto anomala. Non a caso, la separazione fra tempo di lavoro e

tempo di non lavoro, all'interno della vita quotidiana, ha la funzione di tenere i

bisogni lontani dalla sfera lavorativa. In che cosa consiste questa anomalia?

Intanto, i bisogni non sono quantificabili, mentre nel processo di produzione

materiale e immateriale tutto deve poter essere calcolato sul piano

quantitativo. E poi, hanno un andamento assolutamente incompatibile con il

processo di valorizzazione del capitale, in quanto il soddisfacimento di un

bisogno crea un altro bisogno, più avanzato.

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La presenza di fatto dei bisogni quotidiani nella sfera del lavoro costituisce

un vero e proprio scandalo. Ed hanno ragione, dal loro punto di vista, i

sacerdoti della società astratta a farne una questione di vita o di morte per il

sistema politico-economico. Il senso delle loro prediche televisive è, nella

sostanza, inequivocabile. O si riesce a depurare il sistema complessivo di

tutte le scorie introdotte dalla soggettività sociale o esso è destinato a

bloccarsi. O si libera il processo di valorizzazione del capitale da tutti i

condizionamenti imposti dalla concretezza esistenziale degli uomini e delle

donne, oppure l'accumulazione capitalistica è destinata ad arrestarsi. In altri

termini, o si riesce a concepire il sistema di produzione facendo astrazione

dalla vita quotidiana delle persone concrete o il capitalismo non ce la fa a

sopravvivere.

Ancora una volta, I'astrazione sociale come funzione della valorizzazione

economica e politica del capitale. La società astratta come società adeguata

al capitale.

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Capitolo Sedicesimo

ASTRAZIONE SOCIALE E QUALITA’ DELLA VITA FRA AMBIENTE NATURALE E RISCHIO NUCLEARE

16.1 Organizzazione capitalistica della società e qualità della vita

Nei termini della ideologia borghese, I'organizzazione capitalistica della

società è finalizzata al continuo miglioramento della qualità della vita. Vanto

storico del capitalismo è di avere tratto intere popolazioni da condizioni di vita

arretrate. Quasi che, senza l'avvento del capitalismo, la storia si sarebbe

fermata.

In realtà, la qualità della vita è, in sé, una dimensione non solo estranea,

ma alternativa al processo di valorizzazione del capitale, che richiede un rito

quotidiano di sacrificio collettivo sull'altare della massi- mizzazione del

profitto.

In questo quadro, la valorizzazione capitalistica da una parte assume la

qualità della vita come fine istituzionale, dall'altra si afferma in alternativa al

processo attraverso il quale le donne e gli uomini si sforzano di realizzare

una vita vivibile.

E' il tipico contesto in cui opera l'astrazione sociale. L'operazione, di

stampo marcatamente ideologico, consiste in un insieme di provvedimenti

apparente- mente finalizzati al miglioramento della vita sociale e in realtà

funzionali alla valorizzazione del capitale. Fine ufficiale delI'organizzazione

capitalistica è I'ottimizza- zione della vita sociale. Ma tale obiettivo può

essere realizzato solo attraverso lo sviluppo economico. E, per favorire lo

sviluppo economico, occorre dare spazio alle esigenze della valorizzazione

capitalistica e sacrificare la qualità della vita sociale. Il cerchio si chiude. Per

realizzare la qualità della vita sociale, bisogna sacrificarla sull'altare della

valorizzazione del capitale.

Non solo dunque siamo espropriati delle finalità che presiedono alla nostra

esistenza, ma siamo anche costretti a vivere una vita senza qualità. Quel po'

di vita che si riesce a realizzare non passa attraverso l'organizzazione ca-

pitalistica della società, ma viene conquistato dalle donne e dagli uomini con

dure lotte. La qualità della vita non è infatti un fine dell'organizzazione

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capitalistica, ma una esigenza sociale, che si traduce in atteggiamenti e in

comportamenti di difesa della condizione esistenziale. Siamo al paradosso.

Gli uomini e le donne sono costretti a difendere la propria vita dal potere

distruttivo dell'organizzazione che presiede alla società complessiva con il

compito di realizzare le finalità collettive.

Le donne e gli uomini devono difendere i propri spazi vitali dalla logica

produttivistica, che tende a permeare tutte le espressioni della collettività.

Devono difendere la propria integrità psico-fisica dai ritmi imposti dalla

razionalizzazione del processo di produzione.

Sentiamo di fare parte non di una comunità che si organizza e si attrezza

per rendere vivibili le nostre giornate e dare un senso alla nostra esistenza,

ma di un sistema che si struttura a prescindere dalla qualità del nostro

concreto vivere. Spendiamo le nostre energie non per contribuire a costruire

una convivenza sociale a misura del nostro essere, ma per tentare di

arginare l'arrogante invadenza della valorizzazione capitalistica, che tende a

risucchiare nel suo vortice l'unica vita che abbiamo da vivere 24.

16.2 Astrazione sociale e ambiente naturale

Gli uomini e le donne vivono in un ambiente naturale, oltre che umano.

Fare astrazione dalla concretezza esistenziale significa dunque anche non

tenere conto delle condizioni naturali in cui le donne e gli uomini vivono la

loro vita quotidiana.

L'indifferenza nei confronti della tutela dell'ambiente è un dato

significativo della società astratta. Il processo di valorizzazione del capitale

non sopporta vincoli di nessun genere. Il verde dei prati, I'azzurro dei mari, la

limpidezza dell'aria sono - per la "civiltà" capitalistica - valori arcaici, che non

24 A proposito di invadenza, ecco una perla della "civiltà" capitalistica. In anni non lontani, in alcune

fabbriche le porte dei servizi igienici erano a metà, in modo che gli operai potessero essere sorvegliati

nell'atto di soddisfare i bisogni fisiologici. E ci sono volute lotte per ottenere le porte intere.

Sul quotidiano «Il Giorno» del 5/6/1996 si dà notizia di uno sciopero nello stabilimento Zanussi di Solaro.

Motivo: la soppressione del jolly, cioè della figura che sostituisce chi deve allontanarsi dalla linea per un

bisogno fisiologico. Contro la riorganizzazione aziendale dei tempi delle pause, i dipendenti hanno

proclamato l'«autogestione delle pausa della pipì», obiettando che la pipì non può essere programmata. Un

comportamento giudicato grave dall'azienda, la quale ha replicato trattenendo un'ora di salario dalla busta

paga.

Quando occorre, il moderno capitalismo industriale ignora persino i limiti della decenza.

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possono frenare la marcia dello sviluppo industriale. La società astratta

definisce, di fatto, la tutela dell'ambiente come sottocultura.

E' un dato rivelatore. L'ambiente è una componente importante della

condizione esistenziale. La rottura dell'equilibrio ecologico rappresenta una

pesante minaccia alla nostra esistenza. L'indifferenza della cultura

capitalistica nei confronti di tale minaccia rientra nella logica della società

astratta e porta ancora una volta in primo piano la divaricazione tra

massimizzazione del profitto e garanzia della qualità della vita. Tale

divaricazione spiega il fallimento sostanziale di tutte quelle politiche che si

basano sulla identificazione tra sviluppo capitalistico e crescita sociale.

In questo quadro, la questione ecologica non può essere definita in

termini trasversali rispetto alla finalizzazione della società complessiva. Non

si può sollevare la questione dell'ambiente senza mettere in discussione

l'organizzazione capitalistica della società. In una società finalizzata al

profitto non c'è spazio per la tutela delI'ambiente.

Tutto ciò non deve significare uno svilimento delle lotte in difesa

dell'ambiente all'interno della società sussunta al capitale. Difendere la

purezza dell'aria che respiriamo, battersi contro l'inquinamento delle acque

marine e fluviali, opporsi alla distruzione del verde ed alla devastazione del

territorio, protestare contro la distruzione della flora e della fauna significa

irrigidirsi sulla base materiale della qualità della vita. Significa contrapporre

alla voracità predatoria del capitale il nostro bisogno di vivere in modo

integrale il rapporto con la natura.

Le lotte ambientaliste vanno dunque lette in termini di rigidità ecologica.

Settori sempre più ampi della collettività fanno quadrato intorno agli elementi

primari del vivere quotidiano e si battono per sottrarli al dominio inquinante

della valorizzazione capitalistica.

Il capitalismo, irrompendo sulla scena sociale, sconvolge l'assetto naturale,

così come sconvolge l'assetto economico. Basta pensare a quel che

comporta, da tale punto di vista, un insediamento industriale in una zona

agricola. La salvaguardia dell'equilibrio ambientale non può quindi essere un

obiettivo prioritario all'interno di una logica produttivistica.

Il rischio di un movimento ambientalista che pretenda di non prendere

posizione nei confronti della logica capitalistica è quello di ridursi a

testimoniare una sensibilità nei confronti del problema dell'ambiente. E'

possibile individuare piccoli e grandi obiettivi ambientalisti solo se quadro di

riferimento della lotta è la contrapposizione fra sviluppo capitalistico e qualità

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della vita. Possiamo sperare di guadagnarci spazi di verde solo se siamo

consapevoli del fatto che ciò significa togliere spazio alla logica del profitto.

La concretezza ambientale si afferma là dove viene sconfitta I'astrazione

capitalistica.

Il problema di fondo è quello di definire correttamente il rapporto fra due

versanti di lotta ugualmente importanti. Se gli uomini e le donne non

respirano aria pulita, si ammalano. Se vivono in una società fondata sullo

sfruttamento, non possono realizzare le loro potenzialità. Le donne e gli

uomini hanno dunque diritto a vivere in un ambiente naturale non inquinato e

in un ambiente sociale finalizzato alla loro realizzazione in quanto esseri

umani.

16.3 Astrazione sociale e rischio nucleare

L'indifferenza nei confronti del rischio nucleare rappresenta un punto alto

dell'astrazione sociale. Parliamo del rischio derivante dall'uso civile e, ancora

più, dall'uso militare dell'energia nucleare.

Diciamo subito che la semplice possibilità di un uso militare dell'energia

nucleare, comportando l'annientamento del genere umano, ha sulla

coscienza collettiva un impatto così forte da escludere ogni pubblica

controversia. Nemmeno il più fanatico militarista oserebbe presentarsi in

pubblico come sostenitore dell'uso bellico del nucleare. D'altra parte, sul

nucleare militare si impianta un sistema di potere e di interessi che non

indietreggia nemmeno di fronte ad una prospettiva così catastrofica.

Tale sistema, per continuare ad esistere, deve produrre il nucleare militare.

Ora, in genere, si produce per l'uso. Qui invece si produce qualcosa che si

giura di non volere usare. Come è dunque possibile varare un piano di

ingente entità sulla base di una così palese contraddizione? Non si può dire

a milioni di donne e di uomini: dovete rinunciare a qualcosa di necessario a

favore della produzione di qualcosa che non potrà mai essere usato.

Quando il riferimento alla concretezza mette a rischio il controllo

istituzionale di una situazione o di una prospettiva di interesse collettivo, il

sistema di potere ricorre inevitabilmente all'astrazione. L'uso bellico del

nucleare comporta l'esplosione atomica e quindi l'annientamento del genere

umano. Questo è I'uso concreto del nucleare militare, che però non può

essere esplicitamente richiamato per renderne legittima la produzione. Non

potendosi produrre per un uso concreto e non potendosi produrre per un

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non-uso, si produce per un uso astratto. La produzione del nucleare militare

è necessaria - si dice - per scoraggiare il nemico ad usarlo. In altri termini, si

deve produrre nucleare militare come deterrente, per rendere più improbabile

il suo uso da parte del nemico.

La deterrenza nucleare è dunque un supporto di astrazione ad un sistema

di potere che pretende di tenere in piedi un apparato di distruzione globale, a

prescindere dalla minaccia di morte sospesa sul futuro delI'umanità.

Da qualsiasi lato lo si consideri, il nucleare militare ci si presenta come

I'esasperazione di una logica che, a forza di fare astrazione dagli uomini e

dalle donne in carne e ossa, può condurre alla loro distruzione. Il sistema di

astrazione non mette qui in pericolo la qualità della vita, ma la vita in quanto

tale.

Altri sono i termini della questione del nucleare civile. Innanzi tutto, il

nucleare civile ha - rispetto al nucleare militare - un impatto diverso sulla

coscienza collettiva. Non è un caso che per un certo tempo le lotte contro il

nucleare militare vengono condotte all'insegna dell'«uso civile del nucleare».

Ciò significa che il potere distruttivo viene, in una prima fase, assegnato non

al nucleare in sé, ma al suo uso bellico. E si capisce perché. La collettività

per lungo tempo recepisce Hiroshima come tragedia prodotta dalla

combinazione fra guerra ed energia atomica. Nella memoria di milioni di

uomini e di donne è impressa, come simbolo di devastazione e di morte, il

fungo atomico. In questo senso, la bomba atomica richiama scenari

tragicamente spettacolari, che colpiscono direttamente l'immaginazione

collettiva.

Gli effetti inquinanti che ha sull'ambiente una centrale nucleare non sono

invece visibili. Possono essere rilevati soltanto attraverso gli strumenti

scientifici. Sono quindi in mano alla consorteria delle centrali, che li può

gestire e manipolare a vantaggio dei suoi interessi.

In queste condizioni, il nucleare civile passa inosservato, finché non

emerge il punto di vista ambientalista. E' la cultura della tutela dell'ambiente

che, nelle sue svariate espressioni, solleva la questione delle centrali

nucleari. Ma tale cultura stenta a penetrare nella coscienza collettiva,

disponibile alla ricezione dello spettro del fungo atomico, ma scarsamente

recettiva nei confronti di discorsi di sapore scientifico sulla nocività di

"pacifiche" centrali nucleari.

E' I'incidente di Chernobyl (Unione Sovietica, aprile 1986) che muta i

termini della percezione collettiva. La nube che attraversa i confini delle

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nazioni e rende nocivi il latte e l'insalata diventa il simbolo del rischio

connesso al nucleare civile. Dalla nube non ci si può difendere con la fuga. Si

esce sulla strada. Tutto normale. E invece si sa che sospeso per aria c'è uno

spettro di morte. L'invisibilità si traduce in una spettralità che gela.

La nuova sensibilità collettiva allarma il sistema di interessi sorto attorno

alle centrali nucleari. La difesa del nucleare civile deve, rispetto al nucleare

militare, cambiare registro. Si dice che i missili vengono prodotti ed installati

non per essere usati, ma per scoraggiare il nemico ad usare i propri. Le

centrali vengono invece costruite per essere usate. La controversia si sposta

quindi sulle conseguenze dell'uso. Né la nocività del nucleare in sé, né il

rischio di incidenti possono essere negati. E allora, ancora una volta, scatta

la dinamica dell'astrazione. Da una parte si riconosce una certa nocività del

nucleare civile, dall'altra si tende a farla apparire socialmente accettabile,

attraverso un artificioso parallelismo con altre nocività presenti nella vita

sociale. Il nucleare è nocivo? E allora? Anche il fumo è nocivo. Eppure si

fuma. Analogo giro vizioso per il rischio di incidenti. Certo, una quota di

rischio è ineliminabile. E allora? Anche viaggiare in auto o in aereo comporta

rischi. Eppure si va in auto e in aereo.

E' stato più volte spiegato che un incidente nucleare ha conseguenze

particolari, che si ripercuotono sulle future generazioni. Ma, a parte ciò, il

ragionamento a cui si ricorre in difesa delle centrali nucleari è molto strano e

rivela involontariamente le vere finalità dello sviluppo capitalistico. Se fosse

finalizzato alla realizzazione esistenziale delle persone concrete, lo sviluppo

dovrebbe tradursi in un continuo migliorarnento della qualità della vita. Ma

ecco che, invece di cercare di eliminare o di diminuire la nocività ed i rischi

esistenti, si pretende di aggiungerne altri. E tutto ciò, si badi, in nome del

bene comune. Come se la vita non fosse il bene per eccellenza. Viene in

mente l'osservazione di una donna che, chiamata a pronunciarsi in

occasione di un sondaggio, così risponde: «Non mi importa che con le

centrali nucleari mi danno l'elettricità, se poi mi ammalo di cancro». La forza

della concretezza che si sprigiona da questa risposta smonta, di getto,

I'impianto dell'astrazione. Questa donna non è stata informata sulle energie

alternative, che sono al centro della battaglia arnbientalista. Si trova quindi

davanti ad una falsa scelta: o il nucleare o il ritorno al lume di candela.

Eppure non arretra. Sceglie la vita al lume di candela. Con questa scelta

provocatoria la concretezza riesce a sventare una sottile astuzia

dell'astrazione sociale.

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La resistenza al nucleare deve fare i conti, nella coscienza collettiva, con i

mille ricatti del cosiddetto progresso. In queste condizioni, può vincere solo

se riesce a farsi forte di una visione alternativa della società, intesa come

comunità umana, che tende alla realizzazione esistenziale degli uomini e

delle donne in carne e ossa.

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Capitolo Diciassettesimo

ASTRAZIONE POLITICA E DOMANDA SOCIALE

17.1 L'astrazione come funzione della politica

Nella società sussunta al capitale l'astrazione è la funzione costitutiva della

politica istituzionale. Una politica che non si fa carico, in una qualche misura

e in forma più o meno mascherata, di tale funzione, mettendosi in sintonia

direttamente con i bisogni sociali, non ha spazio nel sistema istituzionale, a

prescindere da situazioni di particolari rapporti di forza.

In questo quadro, le forze politiche nate per dare voce alle classi

subalterne sono chiamate a risolvere, in un modo o nell'altro, il conflitto fra la

loro funzione storica e la funzione che assumono nel sistema istituzionale.

Una contraddizione particolare vivono i sindacati delle forze di lavoro. Il

fine istituzionale di tali sindacati è quello di difendere gli interessi della forza-

lavoro. Ora, gli interessi della forza-lavoro sono fortemente radicati nei

bisogni sociali. Non è possibile separare la forza-lavoro manuale-intellettuale

dal soggetto che ne è il portatore. I rappresentanti del capitale vogliono

invece avere a che fare soltanto con la forza-lavoro astratta. E pretendono di

potere prescindere dal fatto che la forza-lavoro manuale-intellettuale è

incarnata in una persona concreta, cioè in un soggetto portatore di bisogni.

Così i sindacati si trovano stretti fra due ruoli. Da un lato il ruolo

istituzionale di rappresentanti della forza-lavoro, cioè della faccia astratta

dell'individuo. Dall'altra il ruolo storico di rappresentanti dei lavoratori e delle

lavoratrici, cioè della faccia concreta della persona che lavora. Nel bene e nel

male, i sindacati sono costretti a sporcarsi continuamente le mani con i

bisogni sociali. A differenza dei partiti, non possono confinarsi nella sfera

dell'astrazione politica. In questo senso, vivono sulla loro pelle - a volte con

gravi crisi di rappresentanza - la condanna ad operare con un occhio alla loro

funzione istituzionale e l'altro alla loro funzione sociale.

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17.2 Astrazione politica e bisogni sociali

La chiusura ai bisogni sociali si traduce in astrazione politica. L'unica via

per evitare l'impatto delle strutture istituzionali della società astratta con la

domanda sociale è quella di tessere una rete di provvedimenti legislativi che

tendano a chiudere i bisogni sociali nella gabbia delle compatibilità imposte

dal processo di valorizzazione del capitale. Il che in pratica si traduce nella

loro esclusione dalla scena politica. D'altra parte, un sisterna politico non

riesce a tenere chiuso a lungo l'orizzonte dei bisogni sociali, se non mantiene

- al suo interno - un adeguato livello di astrazione. Un sistema politico in cui

la realtà sociale ha peso in tutte le espressioni del governo della cosa

pubblica difficilmente può funzionare come sistema di astrazione.

Un alto tasso di astrazione politica presente nella società sussunta al

capitale non è dunque dovuto - come si potrebbe desumere da certe analisi -

ad un difetto "culturale" di un particolare quadro politico. L'astrazione politica

è il connotato strutturale centrale di un sistema che riesce a funzionare

soltanto "ignorando" i bisogni sociali. Nella società sussunta al capitale

l'operare politico è astratto non perché non riesce a venire al "dunque", ma

perché il "dunque" del sistema capitalistico sta nel non potere dare risposta

alla massa di bisogni che si alza dalla collettività come una marea montante.

Non è che nella società astratta non si operi a livello politico. Anzi, c'è un

operare estremamente laborioso e faticoso, volto a ritessere continuamente

le maglie rotte della rete di astrazione che protegge il processo di

valorizzazione del capitale dall'assalto dei bisogni sociali. Il quadro politico

funziona come organizzazione del livello di astrazione di cui necessita il

sistema per escludere i bisogni sociali. Le forze politiche dominanti non

operano per mantenere i bisogni entro il quadro istituzionale, secondo la loro

funzione ufficiale, ma semplicemente per espellerli dalla prospettiva sociale.

L'astrazione politica per un verso discende dalla regolazione capitalistica

del sistema, per l'altro rende possibile tale regolazione. Quanto più i bisogni

sociali acquistano forza, tanto più il capitale è costretto a regolare il sistema

politico in senso astratto.

17.3 L'astrazione come sistema di elusione della domanda sociale

La negazione dei bisogni sociali è effetto e insieme funzione del sisterna di

astrazione. Varie strutture sono chiamate a funzionare in modo da sciogliere,

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in tutte le sedi della società complessiva, ogni coagulo di domanda sociale.

E' un'opera - minuta, sotterranea, ma sistematica e implacabile - di

prosciugamento del sociale incompatibile con la valorizzazione economica e

politica del capitale. La funzione ufficiale di queste strutture è quella di

produrre ed organizzare il soddisfacimento dei bisogni sociali. Ma la loro

funzione reale è quella di atrofizzare sul nascere ogni forma di domanda che

cerca di farsi strada nella società-collettività.

In quanto sistema di indifferenza sociale, la società astratta si qualifica per

la sua distanza stellare dai problemi che insorgono nella vita quotidiana. Di

fronte a tali problemi, le donne e gli uomini vengono lasciati soli a se stessi.

Chi ha bisogno di un intervento immediato non riesce a trovare la strada che

conduce alla soluzione sociale del suo problema. In questo ambito, sociale

diventa sinonimo di lento e inefficace. Quel che è dovuto è, certo, dovuto. Ma

solo chi può aspettare riesce ad ottenere, nella migliore delle ipotesi, quel

che gli spetta.

I tempi del sociale sono lunghi. Le urgenze non rientrano nella dimensione

che attiene ai bisogni della gente. Scattano invece quando si tratta di

rispondere alle esigenze del capitale. Provate a scordarvi di pagare, alla

scadenza, una cambiale firmata per l'acquisto dell'auto. L'ufficiale giudiziario

arriva subito a casa vostra a pignorarvi i mobili. Si tratta di due casi che ci

danno, emblematicamente, il termometro delle diverse "sensibilità" della

società astratta.

La società sussunta al capitale è "insensibile" nei confronti del bisogni

primari di un uomo o di una donna. Ed è invece "sensibilissima" nei confronti

di una cambiale scaduta. Lì si dimostra lenta e inefficiente. Qui rapida ed

efficiente. Una spiegazione c'è. Lì è in gioco un valore concreto. Qui c'è un

valore astratto da difendere 25.

La società astratta è come avvolta da una coltre di nebbia, che rende il

sistema istituzionale poco visibile per chi non è addentro alle sue segrete

stanze. E' una sorta di società spettrale. Una idea di tale spettralità ci viene

data da Kafka ne Il castello. La situazione vissuta dal protagonista, che non

25 I giornali di qualche anno fa riportano un discorso di un capo del govemo italiano (non importa chi sia),

quanto mai sintomatico. Dice, in sostanza, quel presidente del consiglio: I'Italia è arretrata e va modernizzata.

Uno pensa subito agli ospeali che non funzionano, alla scuola che fornisce una cultura vecchia. Macché. Il

capo del govemo pensa ad altro. Le nostre aziende, dice, sono efficienti. Ma i prodotti, quando escono dalle

fabbriche, vanno incontro a tutta una serie di difficoltà che ne intralciano il cammino. Per quel presidente del

consiglio, I'ltalia è un paese abitato da prodotti, che chiedono di potere circolare più speditamente.

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riesce a mettersi in contatto diretto con i signori del castello, potrebbe

benissimo rappresentare la condizione degli uomini e delle donne, che non

riescono a portare i bisogni dentro le istituzioni della società astratta. I

soggetti, pressati dall'urgenza dei loro problemi, vanno disperatamente alla

ricerca di interlocutori dentro la fortezza dell'astrazione sociale. Percorrono

lunghi corridoi, bussano alle porte. Il competente sta sempre "di là". E

quando arrivano all'ultima stanza, si sentono rispondere che il competente

non c'è.

Là dove, malgrado tutto, i bisogni sociali riescono ad emergere e

cominciano a premere sulla sfera politica, la funzione di quelle che possiamo

chiamare «le strutture politiche del sistema di astrazione sociale» è di

eludere la domanda sociale. E quando ogni tentativo di elusione riesce vano,

allora si tratterà di svuotare la domanda sociale non solo di ogni contenuto

antagonista, ma addirittura di ogni contenuto che dia risposta al bisogno che

l'ha originata. In questo caso, la risposta alla domanda sociale viene

concepita in termini non di soddisfacimento, ma di controllo. Quando poi la

domanda sociale diventa ingovernabile, allora la risposta viene organizzata in

termini di repressione manifesta.

Dal punto di vista del suo funzionamento, il sistema di astrazione sociale è

un sistema "parassita", nel senso che, per eludere e negare la domanda

sociale, si avvale delle strutture ufficialmente addette al soddisfacimento dei

bisogni. Perciò le istituzioni del sistema di astrazione sociale sono invisibili.

Vanno individuate tra le pieghe del sistema istituzionale ufficiale, là dove gli

interessi della classe dominante si organizzano per bloccare l'emergere dei

bisogni sociali. Si tratta delle forme più svariate di reazione ai bisogni che

emergono nella collettività, tutte riconducibili ad un informale sistema di

elusione della domanda sociale.

In sostanza, la struttura politica, di fronte all'emergere della domanda

sociale, non si organizza per soddisfarla, anche soltanto al fine di autocon-

servarsi, ma impiega tutte le sue energie per bloccarla, eluderla, svuotarla.

Sotto questo aspetto - se ci è consentito un accostarnento irriverente - il

comportamento del sistema politico nella società astratta fa pensare ad una

squadra di calcio che spende tutte le sue energie non per fare gioco, ma per

contrastare il gioco della squadra avversaria.

E', questo, un aspetto che concorre a definire la società astratta come

sistema di elusione della domanda sociale. In generale, il sistema capita-

listico opera a due livelli. Ad un primo livello, si definisce come apparato

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politico-economico che, di fronte all'insorgere della domanda sociale, è in

grado di produrre risposte di classe. Risposte che, senza soddisfare in senso

pieno la domanda (il soddisfarla in senso pieno equivarrebbe per la struttura

sociale a negarsi come sistema capitalistico), la inquadrano in una dinamica

sociale complessiva, ove ogni classe ha "ciò che le spetta". In un certo

senso, la risposta capitalistica alla domanda sociale sta all'interno di una

logica che tende a ricostituire il sistema di classi ad uno stadio più avanzato.

Ad un secondo livello, il sistema capitalistico dimostra invece una vo-

cazione tenace a definirsi come rozzo apparato di decapitazione politica del

sociale. Questa vocazione le deriva da una cronica incapacità di stare dietro

ad una sempre più complessa e accelerata dinamica sociale. Incapacità che

si traduce in una perenne "nostalgia del tempo che fu". In pratica, invece di

tendere a ricomporre il potere di classe al nuovo stadio che la società

complessiva ha ormai acquisito, si dà un grande da fare per tentare di

retrodatare il presente, per cercare cioè di riconquistare all'indietro il perduto

equilibrio. Si può dire che la domanda sociale, spingendo in avanti il sistema

politico, lo costringe a ripercorrere a ritroso, con grande sforzo, il tratto di

strada percorso per forza di inerzia. Molti dei provvedimenti legislativi hanno

questo carattere retrogrado, di recupero di posizioni superate dai tempi.

Nella situazione italiana, alla quale in particolare ci riferiamo, esemplare è,

a questo proposito, il caso della scuola. Certi settori della sinistra hanno

lavorato sulla base dell'ipotesi che il sistema di potere cercasse, attraverso

una serie di riforme, di ricomporsi ad un nuovo stadio. Nei tempi lunghi,

invece, la reazione del sistema è stata ben altra. Dopo avere eluso, per anni,

la domanda sociale per la scuola, il sistema di interessi dominanti tende a

ricomporsi al livello pre-sessantotto. Basta pensare ai rigurgiti dell'ideologia

della selezione, che fanno piazza pulita degli stessi fermenti riformistici e si

attestano su un modello chiuso di scuola, in ritardo rispetto alle stesse

esigenze di una società capitalistica avanzata.

17.4 La domanda sociale come prodotto dell'astrazione politica

Fin qui abbiamo considerato la domanda sociale come polo di concretezza

della dinamica sociale. Essa è però anche un prodotto dell'astrazione

politica.

La domanda sociale data non è, di per sé, espressione dei bisogni degli

uomini e delle donne in carne e ossa. Non è, di per sé, espressione della

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concretezza sociale. Attraverso un processo di lenta sedimentazione, la

società astratta penetra nella realtà sociale, penetra nella coscienza

collettiva. La domanda sociale che viene dagli uomini e dalle donne è quindi,

in certi casi, una domanda stravolta, nel senso che non va in direzione della

realizzazione esistenziale delle persone concrete.

La domanda sociale è sempre, ovviamente, un dato significativo per la

piena comprensione della realtà sociale e della sua dinamica. Ma non

sempre può essere assunta come espressione della concretezza

esistenziale. Talvolta non è che il riflesso della società-struttura sulla

società-collettività. Occorre quindi cercare di individuare e definire lo scarto

che c'è fra la domanda sociale data ed una qualsiasi prospettiva di

realizzazione esistenziale delle persone concrete. Ora, l'individuazione di

questo scarto non è possibile soltanto per via teorica. E' indispensabile

avviare un processo di attivazione dei soggetti, in modo da rendere possibile

I'emergere dei bisogni sociali concreti.

L'attivazione dei soggetti è indispensabile anche soltanto a fini di

conoscenza. La domanda che proviene dai soggetti si presenta talvolta come

una sorta di specchio deformante della società concreta. Per tentare di

conoscere la domanda sociale come espressione dei bisogni reali, occorre

smuoverla, farla uscire dalla condizione di stato, per farla diventare processo.

Soltanto una realtà sociale attivata può esprimere bisogni autentici, che

vanno in direzione della realizzazione esistenziale dei soggetti concreti.

La via per la quale l'astrazione penetra nel corpo vivo della domanda

sociale è l’assimilazione, da parte dei soggetti, dei valori della società

astratta. Per esempio, l’assimilazione dell'efficienza produttiva come valore

sociale tende a frenare la domanda di qualità della vita ed a renderla

compatibile con le esigenze del sistema di produzione.

L'assimilazione dei valori della società astratta induce i soggetti a

ragionare non nei termini del soddisfacimento dei bisogni collettivi, ma nei

termini della logica che è stata messa in atto per eluderli. Per esemplificare,

si sente spesso dire per la strada che non bisogna aumentare le retribuzioni,

perché un elevato costo del lavoro manda in rovina le aziende, con gravi

conseguenze per l'occupazione. Ora, questo è proprio il ragionamento

portato avanti dalle forze imprenditoriali. In questo caso quindi i soggetti

fanno propria la logica della società astratta e stravolgono i termini della

domanda sociale.

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Da questo quadro emerge che la società astratta, invece di approntare

istituzioni politiche adeguate alla domanda sociale, tende a precostituirsi una

domanda sociale adeguata alle istituzioni politiche del sistema capitalistico.

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18 Sezione Prima - Conclusione

L'ASTRAZIONE SOCIALE COME SISTEMA

A conclusione della Parte Prima, dopo avere seguito gli itinerari

dell'indifferenza nelle varie sfere della vita sociale, è opportuno cercare di

prendere in considerazione la dinamica complessiva dell'astrazione sociale.

18.1 L'astrazione come sistema di indifferenza sociale

La società sussunta al capitale, per potere dare corso agli interessi che si

formano in sede di produzione, deve fare astrazione dai bisogni che

emergono nella società, deve "ignorare" la domanda sociale. Deve definirsi

come sistema di astrazione sociale, come astrazione sociale eretta a

sistema. Deve, in pratica, funzionare come sistema di indifferenza sociale,

come sistema di indifferenza alla condizione esistenziale degli uomini e delle

donne in carne e ossa.

Il sistema di indifferenza sociale non può ovviamente presentarsi in quanto

espressione di interessi di classe, in quanto esito della volontà politica della

classe dominante. Occorre che l'esclusione dei bisogni dall'orizzonte politico

si presenti come indifferenza oggettiva. Occorre cioè che l'indifferenza del

sistema sia strutturata in modo da presentarsi come conseguenza oggettiva

dell'organizzazione sociale. Funzione del sistema di indifferenza sociale è

quella di produrre condizioni, materiali e immateriali, in cui la domanda

sociale sia impossibilitata a formarsi.

18.2 L'astrazione sociale come sistema di formalizzazione

Le involuzioni delle risposte istituzionali alla domanda sociale creano nella

società sussunta al capitale delle strozzature che ricacciano indietro i bisogni

sociali, producendo nei soggetti un senso di impotenza ed uno stato di

disperazione diffusa. Per tutto ciò, il sistema istituzionale centrale non

potrebbe a lungo funzionare se agli altri livelli la domanda sociale avesse

modo di formarsi e di espandersi. Il coperchio istituzionale sarebbe destinato

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a saltare, in tempi più o meno lunghi, se i bisogni sociali avessero nella

società spazio per fermentare. Da qui l'esigenza di un apparato di

contenimento della domanda sociale.

Tale apparato opera soprattutto in termini di formalizzazione. Intendiamo

per formalizzazione l'insieme di atti formali, attraverso i quali la volontà della

classe dominante viene codificata e tradotta in regole di comportamento

economico e sociale per le classi subalterne. Attraverso questi atti formali si

conta di rapportare il sistema sociale al sistema politico- economico, cioè - in

sostanza - alle esigenze della valorizzazione capitalistica. Si tratta,

ovviamente, di una operazione di lunga durata, che richiede continui

aggiornamenti e scatena una infinità di tensioni, di conflitti e di scontri.

In pratica, il sistema di formalizzazione consiste in un quadro di

"provvedimenti", in cui la realtà sociale è ridotta a formule economico-

giuridiche. La funzione del sistema di formalizzazione è di ingabbiare i

bisogni sociali in una fitta rete di vincoli giuridico-formali. I "provvedimenti"

sono ufficialmente concepiti come "risposte" alla domanda sociale. In realtà

ogni "risposta" è un atto di normalizzazione, cioè un atto che tende a

ricondurre alla norma ogni bisogno che emerge nella collettività. A tal fine, il

bisogno sociale incompatibile con il sistema politico-economico viene

sostanzialmente definito come un pericolo incombente sulla collettività, dal

quale occorre difendersi attraverso misure adeguate.

In apparenza, dunque, la formalizzazione serve a dare risposta - a livello

giuridico-formale - alla domanda sociale. In realtà, serve ad approntare un

sistema formale di difesa degli interessi della classe dominante nei confronti

della pressione dei bisogni sociali.

Perché il sistema economico capitalistico funzioni, il livello di formaliz-

zazione del sistema politico deve essere tale da prevedere I'elisione dei

bisogni sociali antagonisti, cioè di quei bisogni che possono trovare risposta

soltanto in un mutamento radicale del sistema. In questo senso, la

formalizzazione deve introdurre nel sistema politico tutta l'astrazione

necessaria perché venga evitato l'impatto tra bisogni sociali e interessi della

classe dominante. Serve cioè a creare un clima asettico, neutrale, attorno al

processo complessivo di valorizzazione capitalistica.

Ma quando, malgrado tutto, i bisogni sociali, ignorati nella sfera formale,

irrompono nella società-collettività ed impongono la loro realtà, il sistema di

formalizzazione salta. In tale situazione di rottura politica, i bisogni sociali

vengono percepiti da masse sempre più estese di persone come reali, in

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quanto la loro realtà è più forte dell'astrazione prodotta dal sistema

politico-economico. In altri termini, I'astrazione prodotta non è più sufficiente

a mettere fra parentesi i bisogni sociali antagonisti. Il sistema di indifferenza

sociale non risulta adeguato ad "ignorare" una realtà sociale che impone la

sua presenza.

A questo punto, gli interessi minacciati vanno alla ricerca di un più alto

livello di formalizzazione, in cui sia ricostituita l'efficacia dell'indifferenza

sociale. Il sistema politico-economico deve approntare un più incisivo

apparato di astrazione, deve disegnare una società più astratta, dove i

privilegi possano essere ripristinati ad altro livello e il processo complessivo

di valorizzazione capitalistica possa riprendere a funzionare liberamente,

senza doversi inceppare, in presenza di pressioni della domanda sociale. Il

processo di valorizzazione economica e politica del capitale ha bisogno di

funzionare in un vuoto di domanda sociale. Ha cioè bisogno di essere

protetto da una cortina di astrazione che eviti di dovere fare continuamente i

conti con i bisogni reali degli uomini e delle donne in carne e ossa.

Il processo di valorizzazione economica e politica del capitale è un

fenomeno complesso. Esso da un lato ha bisogno di essere alimentato dalle

persone concrete, dall'altro ha bisogno di funzionare al di sopra della

collettività. In tal senso, ottimale per il sistema politico-economico sarebbe

una situazione in cui potere fare uso della società concreta avendo a che

fare soltanto con la società astratta. Quando la società concreta ha un

brusco salto di livello ed invade il processo di valorizzazione del capitale,

inceppandolo, occorre o riportare la collettività al livello precedente o alzare

di livello la valorizzazione del capitale. Le due "misure" non sono alternative.

Anzi, quasi sempre si intrecciano. Da un lato, attraverso provvedimenti

restrittivi e repressivi, si opera una compressione dei bisogni sociali, dall'altro

si sposta la valorizzazione del capitale ad un livello più generale 26.

18.3 L'astrazione sociale come sistema di dominio

L'astrazione sociale si definisce, in sé, come sistema di dominio. Mettere

fra parentesi la condizione esistenziale degli uomini e delle donne in carne e

ossa da un lato presuppone l'esercizio del potere, dall'altro è un presupposto

26 Nel caso italiano, rientrano in questo quadro le lotte sociali che si sono sviluppate a partire dal 1968 e

le risposte del capitale in termini di ristrutturazione.

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per imporre un dominio sistematico. Nel primo caso I'astrazione viene

considerata come un insieme di atti di espropriazione, che sono possibili in

quanto possono appoggiarsi ad una struttura di potere. Nel secondo caso

viene considerata come un sistema di emarginazione della concretezza

sociale. Emarginazione che è indispensabile per la costruzione di un

sistema di dominio. A questo livello, siamo però ancora ai connotati di fondo

dell'astrazione in quanto dominio. A partire da qui, bisogna entrare nel merito

dello specifico funzionamento del dominio fondato sull'astrazione sociale.

L'astrazione sociale tende a distaccare i soggetti dalla propria concretezza

esistenziale. Quadro di riferimento degli atteggiamenti e dei comportamenti

delle persone direttamente investite dall'astrazione è non la propria

specificità esistenziale, ma il sistema di valori astratti. E' da tale sistema che

si fa discendere la soluzione dei problemi esistenziali.

Per questa via, la società astratta produce un quadro di soluzioni tecniche

da applicare alla vita pratica. Il sistema di astrazione da una parte,

"ignorando" la concretezza sociale, mette in difficoltà l'esistenza degli uomini

e delle donne in carne e ossa, dall'altra pretende di fornire le soluzioni ai

problemi che esso stesso provoca. Si viene così a creare un cortocircuito

sociale, nel senso che le "soluzioni" applicate ai problemi - operando

all'interno della logica della società astratta - non sono che ulteriori elisioni

della realtà delle persone. Le "soluzioni" tendono infatti non ad eliminare le

difficoltà che incontrano le persone nel dare corso alla loro concretezza, ma

a sciogliere i vincoli che intralciano il processo di valorizzazione economica e

politica del capitale. In tal senso, si tende a "risolvere" le difficoltà ripulendo

la società-collettività delle scorie di realtà esistenziale che il sistema di

astrazione non è riuscito ad "ignorare".

In questo modello, le difficoltà esistenziali che emergono nella vita sociale

vengono addebitate non ad un eccesso, ma ad un difetto di astrazione. Non

è la scarsità di riferimenti alla concretezza del vivere quotidiano, ma - al

contrario - è il continuo riemergere di istanze di concretezza a rendere

difficoltoso il procedere della vita sociale.

Il dominio sul sociale si attua dunque in termini di svuotamento della vita

sociale di qualsiasi riferimento allo specifco esistenziale delle persone

concrete. L'astrazione si fa motore della vita sociale, la quale, per girare

liberamente su se stessa, richiede che ogni circuito personale sia ripulito dei

residui di concretezza esistenziale.

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La vita sociale procede perciò a sbalzi. Tutte le volte che la concretezza

esistenziale emerge, provoca un sobbalzo alla società astratta. E allora il

problema diventa quello di andare a ricercare i punti di attrito, per rimuovere

gli "ostacoli" che non consentono alla vita sociale di girare completamente a

vuoto.

18.4 Sistema di astrazione e bisogni sociali

Vediamo adesso come il sistema di astrazione si rapporta ai bisogni

sociali. In primo luogo, i bisogni sociali vengono definiti dal punto di vista

della classe dominante, vengono depurati di tutta la loro carica di impellenza

e di antagonismo e, così sterilizzati, vengono introdotti - una variabile fra le

tante - nel "quadro delle compatibilità".

Per questa via, si crea una falsa alternativa fra bisogni sociali ed interessi

generali. Questa operazione viene messa in atto sulla base di una inversione

ideologica, cioè di un rovesciamento artificioso della realtà. I bisogni sociali

vengono definiti in termini di interessi individualistici, egoistici. E invece le

sordide cupidigie della classe dominante vengono definite in termini di

interessi generali. Ovviamente, posta così la questione, i bisogni "egoistici"

devono cedere il passo agli interessi "generali". Il rovesciamento è compiuto.

Non sono i bisogni sociali ad essere affermati, a prescindere dagli interessi di

pochi. Sono gli interessi di pochi ad essere imposti, attraverso l'elisione dei

bisogni sociali.

I bisogni sociali subiscono così un trattamento di astrazione. Le

compatibilità economiche sono congegnate in modo opportuno. Tutto il

sistema si regge a condizione che si mettano fra parentesi i bisogni sociali, a

favore degli interessi della classe dominante. L'esito di questa sottile

operazione ideologica è il disegno di un sistema politico-economico astratto,

di un sistema cioè che funziona solo nella misura in cui riesce a fare

astrazione dai bisogni sociali.

E' un punto decisivo. I bisogni sociali finiscono per configurarsi come

ostacoli al funzionamento del sistema politico-economico. Si ha qui una sorta

di cortocircuito ideologico. Il sistema politico-economico viene, sulla carta,

presentato come un apparato concepito per dare risposta ai bisogni sociali.

Senonché, per potere assolvere questa funzione, è costretto ad escludere

proprio quei bisogni che, almeno ufficialmente, ha il compito di soddisfare. Si

sfiora il paradosso. Le finalità pubbliche vengono additate come ostacoli alla

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loro stessa realizzazione. Come dire che il miglior modo di realizzare uno

scopo è quello di eliminarlo. La società-struttura si realizza nella negazione

dei suoi stessi presupposti. Si realizza come società astratta, cioè come

società oggettivamente indifferente ai contenuti della vita sociale e

disponibile nei confronti delle esigenze della valorizzazione economica e

politica del capitale. Sull'altro versante, la società-collettività si definisce

invece come società espropriata e subalterna.

Le istituzioni politiche e sociali - in quanto articolazioni del sistema di

astrazione - sono chiamate ad assolvere una funzione particolare. Devono

realizzare I'astrazione del sistema, farla passare per il corpo sociale, farla

diventare l'anima della società complessiva. La loro funzione pubblica è non

di dare risposta concreta ai bisogni sociali, ma di vanificarli, disperdendoli in

una serie interminabile di piccoli atti insignificanti, mistificandoli in una serie

di riconoscimenti formali e di disconoscimenti sostanziali.

C'è in questo modo di funzionare delle istituzioni pubbliche una perfida

volontà politica, che tende a fare apparire come pretestuosi i bisogni sociali,

al fine di poterli eliminare come superflui. Il grado di funzionamento del

sistema di astrazione può essere misurato sulla base dei bisogni sociali che

riesce a rendere superflui.

Prendiamo il bisogno che ha la gente di potere decidere direttamente le

forme ed i contenuti della vita sociale. Nell'ambito del sistema di astrazione

sociale, alcune istituzioni vengono chiamate non a realizzare, ma a vanificare

questo bisogno, per esempio attraverso l'introduzione di organi collegiali, che

si presentano formalmente come strumenti di democrazia partecipativa. Se si

va a guardare dentro il funzionamento di tali organi, ci si accorge che sono

congegnati in modo da non dare, in pratica, alla base nessun reale potere

decisionale. Non potendo decidere su niente, chi partecipa sente come

inutile lo stare a discutere. Così, mentre si riconosce formalmente il bisogno

di partecipazione dal basso, lo si svuota praticamente. Chi partecipa si

convince che è meglio che decida chi deve decidere, perché quando si è in

molti non si combina niente.

Per questa via, attraverso sottili operazioni di ingegneria politica, il sistema

di astrazione rende superflui bisogni sociali fondamentali, assolvendo la sua

funzione di contenimento e di vanificazione della domanda sociale. D'altra

parte, non potendo dare spazio ai bisogni legati alla realtà della vita sociale, il

sistema di produzione crea artificiosamente bisogni funzionali alla

valorizzazione del capitale.

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18.5 Sistema di astrazione e aspirazioni sociali

Nella società sussunta al capitale una persona non è ciò che avrebbe

potuto essere se fosse stata in condizione di esprimere tutte le proprie

potenzialità. Si viene così a creare uno scarto fra essere e poter essere, fra

ciò che si è e ciò che si potrebbe essere. Quante donne, quanti uomini

avrebbero potuto realizzarsi esistenzialmente nella scienza, nella poesia,

nella pittura, nella narrativa, nella musica, se la loro condizione sociale non li

avesse condannati ad altro. Quante doti di intelligenza, di fantasia, di

creatività si bruciano, perché mai attivate. Tutte le doti non attivate, perché

non funzionali al processo di produzione, finiscono per atrofizzarsi. Un

ingente patrimonio umano viene sacrificato per massimizzare il profitto.

Non è dunque attraverso puri e semplici riferimenti ai dati della vita sociale

che è possibile individuare e definire, in tutta la sua portata, lo spreco di

esistenze prodotto dalla sussunzione della società al capitale. Ciò che è

andrebbe continuamente rapportato a ciò che può essere e non è. L'essere

sociale andrebbe sempre commisurato al poter essere, personale e

collettivo, delle donne e degli uomini.

Occorre intendersi. Commisurare I'essere al poter essere non significa

pretendere di rapportare due sfere definite. Come si fa a definire ciò che

poteva essere e non è? Proprio perché non è, sfugge alla nostra cognizione.

L'esigenza che intendiamo sottolineare è un'altra. Si tratta di non schiacciare

l'analisi sull'esistente. Il rischio è di prendere in considerazione ciò che il

capitalismo produce e non ciò che esso distrugge o non fa nascere. Se

esaminiamo la vita degli uomini e delle donne, non dobbiamo chiudere

I'analisi entro l'orizzonte delle possibilità che offre l'organizzazione

capitalistica della società. Per cogliere sino in fondo il potere distruttivo del

capitalismo, bisogna avere la capacità di tenere sempre presente che al di là

della siepe dell'organizzazione capitalistica c'è un universo irrealizzato di

possibilità. Ed è nell'universo di ciò che può essere e non è il quadro di

riferimento dell'analisi della società astratta, cioè della società che fa

astrazione dal reale possibile. Per arrivare al cuore dell'astrazione sociale,

occorre spostare il fuoco dell'analisi dal capitalismo come sistema di

produzione al capitalismo come sistema di distruzione.

Nella società astratta il possibile viene schiacciato sull'esistente, funzionale

al processo di valorizzazione del capitale. E' possibile solo ciò che serve alla

produzione ed alla riproduzione capitalistica. Ed è questa la versione del

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possibile che viene fatta passare nella coscienza collettiva. Gli uomini e le

donne finiscono per convincersi che l'unica realtà possibile è la realtà

prodotta dal sistema capitalistico e ad essa commisurano i propri progetti di

vita.

L'astrazione sociale è un processo a senso unico. Il sistema capitalistico,

per funzionare, deve fare astrazione dalla vita reale degli uomini e delle

donne in carne e ossa. Viceversa, le donne e gli uomini, per vivere, non

possono fare astrazione dal capitale. Più il sistema politico-economico si

svincola dalla concretezza dei soggetti, individuali e collettivi, più la vita degli

uomini e delle donne viene vincolata all'andamento del processo di

valorizzazione del capitale.

La valorizzazione capitalistica, emancipandosi dai condizionamenti sociali,

lega alla sua logica la vita delle persone concrete. Più il capitale è libero di

manovrare la realtà sociale, meno le donne e gli uonini sono liberi di

progettare la propria vita.

Non si tratta soltanto del vincolo della sussistenza, che il capitale impone

alla collettività. Certo, gli uomini e le donne, per vivere, sono costretti a

legarsi al carro della produzione capitalistica. Ma il dominio del capitale sulla

vita degli uomini e delle donne va oltre. Raggiunge persino la sfera delle

aspirazioni.

Ci si aspetterebbe che almeno le aspirazioni spazino liberamente nel

campo aperto delle umane possibilità. Ci si aspetterebbe cioè che le donne e

gli uomini, costretti a subordinare le loro esistenze ai ritmi ed ai contenuti

della produzione capitalistica, scarichino nella sfera delle aspirazioni il

bisogno di realizzarsi pienamente in quanto persone, al di là dei limiti imposti

dall'organizzazione capitalistica della società complessiva.

Proviamo a gettare un sasso nello stagno della condizione esistenziale che

si viene a produrre nella società astratta. Rivolgiamo in giro, a uomini e

donne, questa domanda: se avessi potuto scegliere liberamente, senza

doverti procurare il necessario per vivere, come avresti voluto impiegare tutto

il tempo dedicato al lavoro nel corso della tua vita?

E', ovviamente, una provocazione, che intende svincolare, con la forza

dell'immaginazione, la condizione esistenziale dai limiti imposti dal modo

capitalistico di produzione. La domanda apre una finestra sull'infinito delle

possibilità esistenziali e invita la persona a tuffarvisi, per dare forma al

proprio tempo di vita.

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Ebbene, la persona, spinta ad affacciarsi alla finestra del mondo delle

umane possibilità di vita, non riesce a vedere altro che le meschine realtà

prodotte dall'organizzazione capitalistica della società complessiva. Il tempo

di vita, liberato in via teorica dalla prigione del lavoro, non lo si immagina

come spazio per la realizzazione piena delle proprie potenzialità, ma come

possibilità di un piccolo avanzamento di grado nella gerarchia professionale.

Chi ha bruciato la propria vita in un lavoro umiliante risponde che, se ne

avesse avuto la possibilità, avrebbe scelto un altro lavoro. E, vedi caso,

questa altra attività non rappresenta che un lieve miglioramento della

condizione lavorativa. Ognuno/a, in fondo, si muove all'interno del suo

ristretto orizzonte sociale. La sfera delle aspirazioni non fa che riprodurre la

struttura dell'esistente. Ognuno/a di noi ha aspirazioni adeguate alla propria

condizione sociale. Si può parlare di una vera e propria stratificazione sociale

delle aspirazioni. La società astratta tiene prigioniera non solo la realtà

vissuta, ma anche la realtà desiderata.

18.6 Sistema di astrazione e "visibilità" delle distanze sociali

La società capitalistica produce distanze sociali di tale portata che

sarebbero insopportabili se gli uomini e le donne potessero averne chiara

coscienza. Da qui la necessità di erigere attorno alla condizione sociale della

classe privilegiata una sorta di cortina fumogena che la renda poco "visibile".

Provate a fare un test. Recatevi nel quartiere più povero della vostra città o

del vostro paese. Bussate alle porte e dite che state facendo una inchiesta

sulla condizione di vita degli abitanti. Troverete donne e uomini che vi

trascinano dentro a vedere tre letti in una stanza, soffitti cadenti, pareti

macchiate di muffa. Troverete donne e uomini che vi inchiodano su una

sedia ad ascoltare. E vi inondano di tutti i particolari di una vita di stenti:

quanto guadagnano, quanto spendono, come fanno a tirare avanti. E vi

sentirete spesso dire: mi raccomando, scrivi questo, non ti scordare

quest'altro.

Spostatevi poi in una zona di ville di gran lusso, abitate da imprenditori e

finanzieri di grosso calibro. Ripetete qui la prova dell'inchiesta. Come vi

aspettate di essere accolti? Ve lo immaginate un imprenditore miliardario

venire al cancello e dirvi: una inchiesta sulla condizione di vita degli

industriali? Ma certo, si accomodi. Venga a vedere che paradiso. Vede tutta

questa distesa di verde intorno alla villa? E' tutta mia. E non è niente. Venga

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dentro. Venga a vedere che lampadari, che quadri. Lei nemmeno se li sogna.

Vuole sapere quanto guadagno? Vuole sapere quanto spendo ogni mese per

questo tenore di vita? Ma certo, adesso chiamo il mio contabile personale,

che farà vedere tutti i conti.

Chi può mai aspettarsi di essere accolto in questo modo da un

imprenditore miliardario? State certi che se al citofono pronunciate la parola

«inchiesta», il cancello non vi sarà mai aperto.

Tutto ciò ha una ragione. Chi vive di stenti non è portato ad esibire le

proprie miserie. Ma se si presenta una occasione di pubblica denuncia, non

ha nulla da nascondere. Anzi, ha interesse a rendere "visibili" le proprie

condizioni di vita. Al contrario, il ricco borghese esibisce la propria elevata

condizione di vita in luoghi riservati, dove c'è da affermare il proprio status

sociale. Ma appena vede profilarsi il pericolo di una "visibilità" pubblica del

proprio tenore di vita, reagisce barricandosi dentro irraggiungibili fortilizi.

I due diversi comportamenti nei confronti della "visibilità" sociale stanno a

indicare interessi contrapposti: da una parte l'interesse a denunciare

ingiustizie, dall'altra I'interesse a nascondere privilegi. Ma, al di là degli

interessi particolari, c'è un interesse generale del sistema istituzionale ad

evitare, fin dove è possibile, una qualsiasi "visibilità" delle distanze sociali

che la società sussunta al capitale produce. lmmaginiamo di poter mettere

sotto gli occhi di milioni di persone due situazioni, I'una accanto all'altra: da

una parte la condizione del più povero fra i poveri e dall'altra la condizione

del più ricco fra i ricchi. La possibilità di un confronto così diretto e brutale

rischierebbe di far saltare, nella coscienza collettiva, ogni apparenza di

uguaglianza sociale.

Ad evitare che le distanze sociali siano percepibili nella loro reale portata, il

sistema di astrazione appronta tutta una serie di misure, che rendono quasi

impossibile il confronto fra condizioni sociali troppo distanti. Alla base di tali

misure c'è una sorta di compartimentazione della vita sociale. ll vivere

quotidiano delle donne e degli uomini viene, di fatto, incanalato in circuiti che

sono propri di una data classe sociale. Ogni persona è libera di andare dove

vuole, di frequentare chi vuole. Di fatto, ogni persona si muove in dati spazi

sociali e frequenta date persone. E, vedi caso, persone appartenenti ad una

data classe sociale si muovono, più o meno, negli stessi spazi ed hanno

quindi occasione di incontrarsi e di frequentarsi.

Tutto ciò in un regime di libertà di movimento, che lascia ad ognuno/a la

facoltà di scegliere i luoghi e le persone da frequentare, senza ombra di

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discriminazioni sociali e nel pieno rispetto delle regole di democrazia e di

uguaglianza. Come è possibile? Di fatto, si ergono invisibili barriere intorno a

spazi "esclusivi", cioè riservati a persone di alto rango. E viene a configurarsi

una topografia sociale degli spazi urbani, per cui ogni quartiere si

caratterizza - in linea di massima - come area abitativa di particolari ceti

sociali.

A questo esito si giunge separando la facoltà di movimento dalle reali

possibilità di vita, cioè facendo funzionare la società formalmente de-

mocratica come società astratta. E' dunque il sistema di astrazione e non un

dispositivo di legge a presiedere alla selezione degli spazi e delle persone in

base alla classe di appartenenza.

Il sistema di astrazione sociale esercita qui in pieno la sua funzione

fondamentale. Una legge sulla distribuzione delle aree urbane in base al

censo è incompatibile con una società formalmente democratica.

L'astrazione sociale serve ad ottenere lo stesso risultato senza ricorrere ad

una legge, lasciando che gli uomini e le donne si distribuiscano

"spontaneamente" sul territorio, senza violare le linee di demarcazione

sociale.

La compartimentazione della vita sociale riduce il campo di esperienza

degli uomini e delle donne all'area sociale occupata dalla classe di

appartenenza. Ognuno/a di noi ha conoscenza diretta solo di persone e di

cose che si collocano nell'ambito sociale in cui si svolge la nostra vita

quotidiana.

Questa sorta di delimitazione di classe dell'esperienza induce ad

atteggiamenti a dir poco paradossali. Chi lamenta l'ingiustizia di una

retribuzione insufficiente è portato/a a confrontare la propria condizione non

al tenore di vita del miliardario, ma alla condizione di chi ha una retribuzione

appena decente. Molte persone che alla fine del mese devono fare quadrare

i conti non hanno idea delle disponibilità finanziarie di cui gode la classe

privilegiata. Chi è abituato ad attingere alla busta paga si lamenta se il suo

vicino o la sua vicina ha una busta paga con qualcosa in più, ma non "vede"

chi, per le semplici spese correnti, ha in banca un conto con una bella fila di

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cifre e stacca assegni a destra e a manca come se si trattasse di biglietti di

visita 27.

Attraverso I' “invisibilità” o la scarsa “visibilità” delle distanze sociali, il

sistema di astrazione raggiunge un esito rilevante: evitare che in una società

formalmente democratica facciano scandalo le abissali disuguaglianze

prodotte dal capitalismo.

L'astrazione sociale assolve così, in quanto sistema, una sua importante

funzione: far convivere, nella coscienza collettiva, la sostanza classista con

la forma egualitaria della democrazia capitalistica.

27 Per gli addetti ai lavori è d'obbligo, su questo punto, un richiarno alla teoria sociologica dei gruppi di

riferimento ed al concetto di privazione relativa (R.K. Merton, Teoria e struttura sociale, trad. it., Bologna, Il

Mulino, 1975 (1949), II, p. 451 e segg.).

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Sezione Seconda

IL PROCESSO DI INDETERMINAZIONE SOCIALE

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Sezione Seconda - Introduzione

LA SUSSUNZIONE DELLA SOCIETA’ AL CAPITALE: DALL’ASTRAZIONE ALLA INDETERMINAZIONE

19.1 La società astratta come società sussunta al capitale

La società in cui si è affermato il modo capitalistico di produzione non è, di

per sé, una società capitalistica. Parliamo di società capitalistica in senso

forte: società a immagine del capitale.

Tra società a produzione capitalistica e società capitalistica corre un lungo

e travagliato processo di trasformazioni profonde, strutturali e sovrastrutturali,

materiali e immateriali, attraverso il quale si realizza gradualmente una vera e

propria sussunzione della società al capitale.

Tale sussunzione è il presupposto basilare della società astratta, in quanto

società adeguata al capitale. Adeguata al capitale è una società in cui i

rapporti sociali complessivi coincidono con i rapporti di produzione. Una

società in cui i "valori" fondamentali del capitalismo - liberismo economico,

mercato, profitto, competitività, ecc. - sono ampiamente sedimentati nella

coscienza collettiva, a livello di massa, come valori positivi.

19.2 L'emancipazione del capitale dai vincoli sociali

La sussunzione della società al capitale si presenta, ideologicamente, in

forma di "modernizzazione" e comporta, in primo luogo, l'emancipazione del

capitale dai vincoli sociali. Si tratta di cancellare, una ad una,

implacabilmente, le garanzie relative alla salvaguardia della esistenza

concreta degli uomini e delle donne, per lasciare le forze imprenditoriali libere

di decidere i tempi e i modi dell'uso (o del non uso) delle forze di lavoro.

Questa emancipazione dai lacci e lacciuoli - per rifarsi ad una nota

espressione usata da un presidente della Confindustria 28 - si può realizzare

soltanto se al sistema di astrazione corrisponde un processo di

indeterminazione.

28 Si tratta di Guido Carli.

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19.3 Astrazione e indeterminazione

Gli esseri umani non sono semplici terminali del sistema sociale. Sono

realtà specifiche, dalle quali non può prescindere una espressione autentica

della dimensione collettiva. I contenuti della vita sociale, considerati in sé,

non sono dunque altro che determinazioni esistenziali, cioè particolari modi di

essere delle persone che compongono una collettività.

In questo quadro, una società finalizzata alla realizzazione dei soggetti in

quanto esseri umani tende a tradurre le determinazioni esistenziali presenti

nella collettività in dinamiche della vita sociale.

Nella società astratta, invece, I'indifferenza alle specifiche realtà personali

si traduce in pretesa di definire la vita collettiva in termini di indeterminazione

sociale. Per potere sussistere in quanto sistema, la società sottomessa al

capitale esige che tutte le espressioni della vita sociale siano indeterminate,

siano cioè prive di qualsiasi riferimento alle concrete specificità esistenziali. E

si capisce perché. Il sistema politico-economico, per potere mantenere la

propria indifferenza nei confronti dei contenuti della vita sociale, pretende

una quotidianità spogliata di valenze legate alle specificità personali.

Da tale punto di vista, al sistema di astrazione sociale deve corrispondere

un processo di indeterminazione sociale. L'astrazione sociale tende a

strutturare il sistema politico-economico a prescindere dai bisogni che

emergono nella vita sociale. L'indeterminazione sociale tende a depurare i

soggetti individuali e collettivi delle loro determinazioni, per adeguarli alla

società astratta.

Dunque, I'astrazione attiene alla società-struttura, mentre I'indeterminazio-

ne attiene alla società- collettività. E' chiaro che astrazione e indeterminazio-

ne sono complementari. Non vi può essere indeterminazione sociale senza

che si faccia astrazione dai bisogni sociali. D'altra parte, non si può

prescindere dai bisogni sociali se i soggetti sono fortemente determinati.

Emerge, ancora una volta, l'ambiguità della società astratta. L'astrazione

per un verso presuppone l'indeterminazione e per l'altro le dà corso nella

società. Una società strutturata in astrazione dalle determinazioni della vita

sociale crea condizioni in cui gli esseri umani sono costretti a vivere la loro

vita quotidiana a prescindere dalle proprie specificità esistenziali. Ne risulta,

di fatto, una vita sociale indeterminata. Per questa via, quello che era un

presupposto si traduce in realtà sociale. Attraverso l'indeterminazione

sociale, I'astrazione si traduce in modo di essere della società complessiva.

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Questa dinamica è però tutta dentro uno dei versanti del rapporto fra

struttura sociale e collettività. Nel versante opposto, i soggetti tendono a

definire il rapporto con la struttura sociale nei termini della propria

concretezza esistenziale. Alla richiesta di indeterminazione che la società--

struttura rivolge alle persone si contrappone, uguale e contrario, il bisogno di

determinazione che emerge nella società-collettività.

La richiesta di indeterminazione non è fine a se stessa. I soggetti sono

chiamati a spogliarsi delle proprie determinazioni, cioè delle forme e dei

contenuti del loro specifico essere concreto, per vestirsi delle determinazioni

della strutturazione capitalistica della società, cioè dei modi tecnici ed

organizzativi in cui il capitale impone il suo dominio alla società complessiva.

In pratica, le donne e gli uomini sono indotti, per via diretta o indiretta, a

vivere non in aderenza alla propria concretezza esistenziale, ma in funzione

della valorizzazione economica e politica del capitale.

La società-struttura può fare astrazione dalla condizione esistenziale delle

donne e degli uomini nella misura in cui nella società-collettività non hanno

modo di esprimersi le determinazioni sociali. L'indeterminazione prepara

dunque il terreno all'astrazione. La concretezza esistenziale viene, in un

certo senso, "sterilizzata", per potere essere "ignorata" senza contraccolpi

pericolosi per I'assetto sociale complessivo.

Una vita sociale carica di determinazioni esistenziali è difficile da mettere

fra parentesi. All'altro polo, il sistema di astrazione immette nella vita sociale

le determinazioni del processo di valorizzazione capitalistica. La vita sociale

da una parte viene "svuotata" delle determinazioni della concretezza

esistenziale, dall'altra viene "riempita" delle determinazioni della

valorizzazione capitalistica. Più precisamente, la vita sociale viene sguarnita

delle determinazioni delle persone concrete per potere farsi carico delle

determinazioni del capitale.

In questo quadro, come viene a definirsi la condizione esistenziale degli

uomini e delle donne in rapporto al sistema di astrazione? Quanto più la vita

sociale è indeterminata, tanto più le persone sono esposte all'astrazione.

Una vita sociale organizzata a misura degli uomini e delle donne in carne e

ossa sarebbe una sorta di cittadella nella quale non facilmente potrebbero

penetrare i valori su cui si regge il sistema di astrazione. La concretezza

esistenziale verrebbe vissuta quotidianamente con una tale intensità da

imporsi come valore centrale, da cui non sarebbe facile fare astrazione.

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L' indeterminazione della vita sociale fa mancare alla persona il terreno

sul quale potere costruire concretamente un proprio particolare progetto di

vita. In questa condizione, il vivere quotidiano degli uomini e delle donne si

struttura sulla base degli interessi dominanti. L'indeterminazione come

funzione dell'astrazione sociale.

Attraverso l'indeterminazione, I'astrazione preme sulla vita sociale, per

svuotarla delle specificità esistenziali degli uomini e delle donne in carne e

ossa. In tale direzione, è costretta a fare i conti con la concretezza

esistenziale. Gli esiti non possono essere definiti una volta per tutte. La

società astratta è esposta alle alterne vicende della conflittualità sociale.

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Capitolo Ventesimo

L'INDETERMINAZIONE TECNICA DEL LAVORO

20.1 Il lavoro tecnicamente indeterminato

Nella sfera dell'attività connessa alla produzione, l'esigenza fondamentale

della società astratta è non una particolare determinazione del lavoro, ma

l'assenza di ogni determinazione, cioè l'assoluta mancanza dl particolari

contenuti e di specifiche procedure operative. Quanto più è indeterminato,

tanto più il lavoro è adeguato alla società astratta. La società-struttura, per

essere in grado di fare astrazione dalla società-collettività, non ha tanto

bisogno di determinate condizioni, favorevoli alla produzione, quanto di

liberare il sistema di valorizzazione del capitale da condizioni predeterminate.

La condizione fondamentale di cui ha bisogno la società astratta è l'assenza

di condizioni predeterminate. Una società costruita sul presupposto

dell'astrazione sociale si contraddistingue per il fatto di richiedere un lavoro

non stabilmente strutturato e quindi in grado di ricevere, volta a volta, la

struttura adeguata alle esigenze della produzione. Un lavoro, insomma, a

struttura mobile, la cui organizzazione tenda alla destabilizzazione della vita

sociale.

Per lavoro tecnicamente indeterminato intendiamo un lavoro privo di

determinazioni tecniche proprie e disponibile verso qualsiasi determinazione

che venga ad esso imposta dal sistema di produzione. E' un lavoro che non

ha una propria procedura ed è disponibile verso qualsiasi procedura. Un

lavoro che non ha un proprio contenuto ed è disponibile verso qualsiasi

contenuto.

La storia del rapporto fra capitale e lavoro è nel progressivo svuotamento

del lavoro di determinazioni proprie e nella sempre più pressante richiesta di

disponibilità nei confronti delle determinazioni del processo di produzione.

Questo progressivo svuotamento ha vissuto, nel tempo, alcuni passaggi

significativi, che vanno rapidamente ricostruiti, perché consentono di cogliere

in profondità il senso della dinamica del processo di indeterminazione. ~_~

20.2 L'indeterminazione nella formazione delle forze di lavoro

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In una società in via di "modernizzazione" le forze di lavoro provengono

dalle più svariate esperienze. In genere, si tratta però di esperienze cariche

di determinazioni professionali, oltre che sociali. Di conseguenza, esse

presentano - in varia misura, ma sempre in misura rilevante - caratteri di

estraneità rispetto alle esigenze di indeterminazione che emergono, nella

società sussunta al capitale, in sede di produzione industriale avanzata.

Basta pensare - per fare un solo esempio - alla radicale incompatibilità

esistente fra il curriculum lavorativo di un artigiano meridionale che emigra al

nord e i contenuti del lavoro operaio in una grande fabbrica.

Da qui la necessità di piegare al processo di indeterminazione, che

attraversa la produzione industriale, le forze di lavoro radicate in una

economia di tipo pre-industriale. Da qui l'esigenza di liberare atteggiamenti e

comportamenti lavorativi da ogni valenza legata, in qualche modo, alla

soggettività, per integrarli allo standard "razionale" della organizzazione

"scientifica" del lavoro. Si tratta di un particolare - più o meno esplicito -

processo di formazione, che tocca via via gli strati più "arretrati" delle forze di

lavoro. Queste vengono spogliate delle determinazioni lavorative originarie e

sintonizzate gradualmente - a prezzo di aspri conflitti - ai modi ed ai tempi del

lavoro tecnicamente indeterminato .

In questo contesto, il processo di formazione delle forze di lavoro viene a

definirsi in termini di disattivazione delle determinazioni proprie del soggetto e

di predisposizione ad una attività lavorativa tecnicamente indeterminata.

Determinazioni proprie del soggetto sono - in questa sede - le abilità

lavorative specifiche, che fissano la qualità della forza-lavoro in relazione ad

un particolare contenuto di lavoro.

Ora, qualità monovalenti della forza-lavoro sono di ostacolo alla sua

duttilità nei confronti delle continue ridefinizioni delle mansioni lavorative. La

formazione che risponde alle esigenze di un sistema di lavoro non fissato su

particolari procedure tecniche deve dunque essere polivalente, cioè

tecnicamente indeterminata, tale da consentire rapidi adattamenti agli

spostamenti lungo il processo produttivo. La formazione è funzionale al

sistema di lavoro indeterminato se stimola e mette in evidenza non tanto le

conoscenze-abilità incorporate in una particolare mansione lavorativa, quanto

le attitudini che stanno alla base della personalità dell'individuo: prontezza di

riflessi, capacità di attenzione prolungata e così via.

A questo punto, non ha senso parlare di formazione professionale distinta

dalla formazione non professionale. La formazione delle forze di lavoro

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diventa, entro certi limiti, formazione tout court, in quanto sviluppo di quelle

qualità che - al di là di conoscenze particolari, suscettibili di rapido

invecchiamento - rendono più agibile la stessa applicazione specialistica, in

continua evoluzione.

Il processo di indeterminazione, considerato in sé, non abbassa dunque il

livello della formazione delle forze di lavoro. Anzi, lo innalza. Ma le

potenzialità che in sede di formazione vengono messe in moto, per

agevolare lo scorrimento della forza-lavoro lungo il processo produttivo, sono

disattivate in sede di applicazione lavorativa. Qui le attitudini soggettive del

lavoratore o della lavoratrice vengono bloccate, per dare corso alle modalità

standardizzate del sistema tecnico di lavorazione.

In pratica, il sistema di produzione ha bisogno di forze di lavoro duttili e

pronte ad apprendere rapidamente - attraverso poche istruzioni - nuove

mansioni. Ciò richiede una formazione di base, non direttamente operativa,

la quale però rimane inutilizzata nei compiti che la lavoratrice o il lavoratore

svolge. Così, un potenziale arricchimento della qualità della forza-lavoro

manuale-intellettuale diventa, nella quotidianità lavorativa, causa di

frustrazione e di abbrutimento.

In realtà, l'arricchimento richiesto in sede di formazione è finalizzato non

alla crescita della soggettività, ma al potenziamento della disponibilità tecnica

della forza-lavoro. Il lavoratore o la lavoratrice deve affinare le sue qualità

non in quanto soggetto, ma in quanto forza-lavoro. E la qualità per

eccellenza, adeguata ad un sistema di lavoro indeterminato, è la capacita di

incarnare, volta a volta, le mutevoli esigenze della lavorazione tecnica.

20.3 Sistema formativo e sistema produttivo nel processo di indeter minazione

La formazione professionale rappresenta il primo contatto del sistema

produttivo con le forze di lavoro. Ed é un contatto estremamente qualificante,

nel senso che mira a trasformare le potenzialità creative, cariche di

soggettività, in capacità produttive, desoggettivate. Le potenzialità creative

non sono, di per sé, capacità di "produrre" (nell'accezione "moderna" del

termine). Una tale finalizzazione è storica. E storico è anche il processo di

desoggettivazione, che prelude alla indeterminazione del lavoro.

La capacità di creare viene tradotta - attraverso il processo di formazione

- in disponibilità a "produrre" ed a "produrre" in condizioni di in determina-

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zione, cioè ad attivarsi efficacemente, a prescindere dalle proprie determina-

zioni, in relazione alle esigenze che via via emergono nel processo

produttivo.

D'altra parte, un sistema formativo non nasce storicamente con la

"vocazione" capitalistica. In esso si annidano tradizioni culturali, istanze

politiche e sociali, che spesso agiscono in direzione contraria - o comunque

non nella stessa direzione - rispetto al bisogno di indeterminazione. Per

queste ragioni, un sistema formativo difficilmente fornisce risposte univoche.

I meccanismi di formazione risultano spesso ambivalenti. Nell'ambito di un

piano di "modernizzazione", mentre operano in una certa direzione per

raggiungere certi obiettivi, rischiano sempre di scatenare reazioni impreviste,

che mettono in evidenza esigenze del tutto estranee al processo di

indeterminazione.

Ma c'è di più. Il sistema formativo non è solo la risposta del sistema

produttivo al bisogno di crearsi a propria immagine le forze di lavoro. E'

anche una istituzione politica, che ha la funzione di raccogliere ed integrare

le istanze di promozione sociale provenienti dal basso.

Queste due facce del sistema formativo entrano spesso in concorrenza

fra di loro. Perché, nel momento in cui emerge una forte pressione sociale

sul sistema formativo, questo è costretto ad allentare le maglie della propria

struttura. E una tale maggiore elasticità nei confronti della domanda sociale

si traduce in una maggiore rigidità nei confronti del sistema produttivo.

Quando larghi strati della popolazione premono per avere accesso

all'istruzione, il sistema formativo è costretto ad allentare i meccanismi di

selezione scolastica. Ma una scuola di massa non è in grado di dare corso

ad una formazione che abbia le caratteristiche richieste dal mondo della

produzione.

La "modernizzazione" è un processo globale. In quanto tale, essa dà per

scontato un collegamento - a qualsiasi livello e sotto qualsiasi forma - tra

sistema formativo e sistema produttivo. Da questo punto di vista, una

struttura formativa che non tenga conto di tale collegamento si presenta - a

prescindere da ogni giudizio di merito - come struttura "arretrata". Uno dei

punti di forza del capitalismo è presentarsi come espressione della

"modernità" e fare apparire come "arretrate" tutte le realtà che non tengono

conto delle sue esigenze.

D'altra parte, le esigenze di un sistema produttivo esposto al processo di

"modernizzazione" sono - come è facile capire - in continua evoluzione. Esse

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si legano alle risultanze, sempre provvisorie, del progresso tecnico. E questo

è già un primo aspetto che occorre, in via preliminare, mettere in rilievo.

La relativa stabilità tecnica del sistema produttivo "pre-moderno", soggetto

a mutamenti molto lenti, dava luogo ad una domanda di formazione ben

definita e di lunga durata. La "modernizzazione", accelerando in modo

significativo le trasformazioni tecniche, rende estremamente precari gli stessi

bisogni del sistema produttivo in fatto di "qualità" della forza-lavoro.

Tutto ciò aggiunge una ulteriore difficoltà al non facile raccordo fra sistema

produttivo e sistema formativo. L'articolazione tecnica della produzione

rende tutt'altro che univoca la richiesta di formazione che da essa proviene.

Inoltre, ammesso che si riesca a definire univocamente tale richiesta, la

risposta del sistema formativo necessita di tempi che la fanno giungere

sempre in ritardo, quando l'esigenza da soddisfare è già mutata. Basta

pensare ai mutamenti che si possono verificare in sede tecnica nell'arco di

tempo compreso fra l'inizio e la fine della formazione scolastica. Un aspetto

rilevante nel momento in cui un ragazzo o una ragazza intraprende il corso di

studi superiori può risultare irrilevante nel momento in cui lo porta a termine.

Quanto è emerso fin qui mette in luce una ulteriore valenza delI'indeter-

minazione nella formazione delle forze di lavoro. Non si tratta soltanto di

rendere utilizzabile la forza-lavoro manuale-intellettuale nell'arco di un

processo produttivo dato. C'è anche l'esigenza di incorporare nelle forze di

lavoro qualità che non siano soggette a rapido invecchiamento. In altri

termini, il sistema formativo è chiamato ad assicurare al sistema produttivo

forze di lavoro che dispongano non solo di fluidità orizzontale, cioè di

capacità di inserirsi in qualsiasi punto del processo, ma anche di fluidità

verticale, cioè della capacità di inserirsi in qualsiasi stadio dell'evoluzione

tecnica del sistema produttivo. In altri termini, la scuola è chiamata a dare

una formazione che consenta non solo continui spostamenti da un settore ad

un altro della produzione, ma anche il rapido apprendimento dell'uso di un

nuovo strumento tecnico.

Ora, solo una formazione tecnicamente indeterminata, cioè non legata a

procedure tecniche specifiche, è in grado di svincolare la professionalità dalle

contingenze di un particolare standard produttivo e di renderla disponibile nei

confronti della evoluzione tecnica. L'indeterminazione viene dunque a

definirsi non solo in termini di flessibilità sincronica, da un punto all'altro di un

processo dato, ma anche - e soprattutto - in termini di flessibilità diacronica,

da uno stadio all'altro della evoluzione tecnica.

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Una formazione svincolata da moduli tecnici determinati si muove, in sé, in

direzione dell'arricchimento della persona. Solo che, nella società sussunta

al capitale, l'indeterminazione viene giocata tutta all'interno di ruoli

subordinati. In queste condizioni, la polivalenza si traduce non in capacità di

dominare il processo, ma in disponibilità a seguirlo ed a servirlo

passivamente nella sua evoluzione imperante, mortificando e ignorando le

esigenze di crescita della persona. Le donne e gli uomini sono chiamati ad

allargare la base della loro formazione non in funzione di una più attiva

incidenza sull'attività lavorativa, ma in funzione di una più passiva aderenza

alla evoluzione tecnica.

Alla base dell'indeterminazione nella formazione delle forze di lavoro c'è

dunque non lo sviluppo delle potenzialità della persona, ma l'accentuarsi

della instabilità tecnica del processo produttivo. Nella società astratta persino

le qualità umane vengono formate a prescindere dalle esigenze delle donne

e degli uomini.

20.4 La desoggettivazione del lavoro

Quando il processo di produzione si definisce come processo lavorativo, si

impone per l'apparato di comando sul lavoro la necessità di fare i conti con la

presenza del soggetto portatore della forza-lavoro manuale-intellettuale,

uomo o donna in carne e ossa.

La presenza di una valenza soggettiva della forza-lavoro nel processo

produttivo si pone come limite del processo di indeterminazione. La

soggettività è carica di determinazioni, che - in un modo o nell'altro -

premono sull'attività lavorativa e tendono a personalizzarla, a impregnarla di

significati esistenziali.

Un lavoro affidato alla soggettività umana non sarebbe dunque

disponibile a lasciarsi continuamente destrutturare e ristrutturare, sull'onda

del processo di indeterminazione tecnica. Inoltre, attraverso la soggettività, il

flusso esistenziale, con le sue discontinuità di ritmo e di intensità,

spezzerebbe il continuum della produzione. Le procedure tecniche e gli esiti

produttivi sarebbero in balia degli umori degli operatori e delle operatrici. In

altri termini, la produttività si ridurrebbe a valore subordinato al concreto

esistere del lavoratore o della lavoratrice in quanto essere umano. Il che, nel

quadro della società astratta, è una contraddizione.

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Per tutto ciò, non è un caso che il problema della organizzazione del lavoro

si è sempre più definito, nel modo capitalistico di produzione, in termini di

desoggettivazione del lavoro, cioè di svincolo delle operazioni tecniche di

lavoro dalla personalità del soggetto.

Il senso di molti provvedimenti, tecnici ed organizzativi, è quello di

eliminare via via dal processo produttivo le interferenze legate, in un modo o

nell'altro, alla vita quotidiana. Dal punto di vista del capitale, ogni soggetto

dispone di capacità lavorativa, che si deve tradurre in attività di lavoro.

Senonché, tra la sfera della capacità e la sfera dell'attività interferiscono

situazioni di vita quotidiana, che "disturbano" questa trasposizione.

L'interesse dell'azienda sarebbe che tutta la capacità lavorativa, tutta l'attività

lavorativa in potenza, si traducesse in attività lavorativa in opera. Di fatto,

soltanto una parte delle potenzialità lavorative del soggetto diventa lavoro

effettivo.

I dirigenti aziendali potrebbero, in teoria, tentare di quantificare lo scarto fra

capacità ed attività lavorativa. Proviamo ad immaginare i calcoli dei ragionieri

del capitale. Un operaio la mattina, quando si sveglia, ha una potenzialità

lavorativa 100. Poi si mette a litigare con la moglie e ciò riduce la sua

potenzialità a 90 (interferenza di una situazione familiare). Esce per andare

al lavoro. L'autobus ritarda, l'operaio si innervosisce. La sua potenzialità

lavorativa si riduce a 80 (interferenza della organizzazione dei servizi sociali).

Arriva sul posto di lavoro in ritardo. C'è uno scambio di battute con il capo-

reparto. La sua potenzialità si riduce a 70 (interferenza di una situazione

lavorativa). Come si vede, si tratta di un vero e proprio campo di interferenze,

analogo a quello che si ha nelle trasmissioni radiofoniche a modulazione di

frequenza, quando il programma di una stazione viene disturbato da una

trasmissione che vi si sovrappone.

20.5 L'oggettivazione del processo lavorativo: dalla meccanizzazione all'automazione

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A questo punto, è opportuno cercare di definire il significato che assume, nel quadro della nostra analisi, l'evoluzione tecnica che va dalla meccanizzazione all'automazione del processo lavorativo.

All'origine della meccanizzazione c'è - per quel che qui interessa - la

necessità di depurare il processo lavorativo di qualsiasi interferenza della

soggettività umana. Si tratta di trovare il modo di usare la forza-lavoro

manuale-intellettuale senza avere a che fare con le intemperanze degli

uomini e delle donne in carne e ossa.

Ora, il valore d'uso della forza-lavoro ha una sua specificità rispetto al

valore d'uso della merce in generale. Il valore d'uso della merce in generale è

la sua disponibilità a lasciarsi trasformare - cioè logorare e consumare -

attraverso l'utilizzazione che si fa di essa. Il valore d'uso di una caramella

consiste nel piacere che si prova quando la si succhia. Al contrario, il valore

d'uso della forza-lavoro manuale-intellettuale è non la sua disponibilità a

lasciarsi trasformare, ma la sua capacità di trasformare. Il valore d'uso della

forza-lavoro di un meccanico consiste nella capacità di trasformare un

cumulo di pezzi in un motore funzionante. L'uso della forza-lavoro implica sì -

in quanto uso di una merce - una trasformazione. Non però una

trasformazione operata sulla forza-lavoro, ma dalla forza-lavoro. Lo specifico

del valore d'uso della forza-lavoro è in ciò: che la merce forza-lavoro è il

soggetto e non l'oggetto della trasformazione. Rispetto all'azione di

trasformazione, la forza-lavoro figura al nominativo e non all'accusativo. Il

valore d'uso della forza-lavoro consiste nella sua capacità di trasformare,

tramite i mezzi di lavoro, la materia prima in prodotto finito.

Questo quadro è coerente con la nozione di forza-lavoro in quanto fattore

soggettivo del processo produttivo. Si verrebbe in effetti a creare uno scarto

fra definizione concettuale e funzionamento reale, se da un lato la

forza-lavoro si definisse come fattore soggettivo e dall'altro funzionasse

come oggetto di trasformazione. L'uso di un fattore soggettivo non può

essere che l'utilizzazione del suo funzionamento in qualità di soggetto. Finché

la forza-lavoro si definisce come fattore soggettivo della produzione, I'unico

modo di usarla è quello di farla funzionare come soggetto di trasformazione 1.

E' in questa specificità dell'uso della forza-lavoro manuale-intellettuale

l'origine della complessità del processo di indeterminazione all'interno della

sfera lavorativa. Da un lato il processo lavorativo presuppone la presenza di

1 F. Viola, Il sistema di macchine, Roma, Edizioni Associate, 2^ edz., 1996, pp. 15-16.

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una soggettività umana attiva, dall'altro la soggettività umana attiva è di

ostacolo alla indeterminazione del processo lavorativo.

Ora, è su questa contraddizione che interviene la meccanizzazione del

processo lavorativo. Nei termini della nostra analisi, I'introduzione delle

macchine comporta una operazione che possiamo chiamare oggettivazione

del processo lavorativo. Con questa espressione intendiamo il trasferimento

di funzioni manuali e intellettuali proprie del lavoro umano ad una struttura

oggettiva - tecnica ed organizzativa - del sistema di produzione.

Dall'oggettivazione del processo lavorativo discende una inversione di

ruolo fra chi lavora e la condizione di lavoro. Non è più chi lavora ad usare la

condizione di lavoro, ma è la condizione di lavoro ad usare chi lavora. Per

questa via, la soggettività umana viene disattivata, in modo da essere usata

come pura e semplice forza-lavoro manuale-intellettuale.

Tuttavia, il processo meccanizzato prevede l'intervento umano là dove

insorgono fattori di disturbo che deviano la produzione dallo standard

previsto. Si rende quindi necessaria la sorveglianza della macchina.

L'oggettivazione del processo lavorativo presenta, in questa fase della

evoluzione tecnica, una lacuna: la funzione di controllo è ancora prerogativa

della soggettività umana. Con l'automazione questa lacuna viene colmata:

anche la funzione di controllo viene incorporata nella struttura tecnica. Il

processo automatizzato si autocontrolla e richiede soltanto una attività

umana di programmazione e di supervisione.

Con l'automazione vengono annullati gli scarti, sempre insorgenti, fra

struttura del processo lavorativo e struttura del processo produttivo. Viene

cioè risolto il problema della efficacia produttiva del processo lavorativo, che

è poi il problema della produttività. Quando il processo lavorativo è vincolato,

in qualche modo, alla forza-lavoro manuale-intellettuale, la sua efficacia è

legata a fattori esterni alla sua dinamica, perché deve fare i conti con le

interferenze della soggettività umana. Da qui la necessità di incorporare -

attraverso l'automazione - il processo lavorativo nella struttura del processo

produttivo. Il processo produttivo è in grado di funzionare direttamente, senza

la mediazione del processo lavorativo. E ciò perché, nella struttura tecnica

automatizzata, il processo lavorativo viene a coincidere senza residui - a

prescindere dai compiti di programmazione e di supervisione - con il

processo produttivo. II processo lavorativo si fa direttamente - senza

mediazione umana, se non ad un certo livello - processo produttivo. E,

affermandosi come oggettività tecnica, si nega come attiva soggettività.

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In queste condizioni, è possibile incorporare l'indeterminazione del lavoro

nell'apparato tecnico. Un sistema automatico ad alta flessibilità tecnica, in

grado di adattarsi a diversi tipi di lavorazione, può dare soluzione a molti di

quei problemi che emergono ogni qualvolta l'esigenza capitalistica di

indeterminazione si scontra con il bisogno dei soggetti concreti di affermare

le proprie determinazioni. In conclusione, con l'automazione il processo di indeterminazione del

lavoro tende a liberarsi dai condizionamenti della concretezza esistenziale degli uomini e delle donne in carne e ossa. A partire da qui, si apre per il sistema di produzione una prospettiva nuova, in fondo alla quale si profila un riassetto della società capitalistica ad un più alto livello di astrazione sociale.

.

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Scheda C

TAYLORISMO E DESOGGETTIVAZIONE DEL LAVORO

L'organizzazione del lavoro ha avuto nel tempo, come è noto, una evoluzione

significativa. Tuttavia, essa ha fatto costante riferimento, da un certo punto in poi, ai

principi del Taylorismo, cioè del procedimento teorizzato dall'ingegnere

statunitense F. W. Taylor e basato sullo studio dei tempi e dei modi di ogni

operazione lavorativa. Tali principi sono fondamentalmente tre: a) è possibile

individuare il modo migliore ed unico di fare una qualsiasi operazione (il principio

della one best way); b) questo modo può essere individuato soltanto attraverso la

sperimentazione e la ricerca, studiando i tempi richiesti per qualsiasi operazione

(valutazione cronometrica del rendimento); c) lo studio del modo e del tempo di

lavoro è prerogativa esclusiva della direzione dell'azienda 29.

Di questi tre principi è il primo che ci interessa adesso in modo particolare. La

one best way ha un significato ben preciso. A prescindere dagli altri suoi effetti,

essa - di fatto - sottrae al soggetto portatore di forza-lavoro il controllo della sua

funzione produttiva. E' qui che si opera la vera "rivoluzione industriale".

Fino all'avvento del Taylorismo, il soggetto mantiene un certo controllo sui modi

della produzione. Questo controllo non è diretto. Non è cioè Iegato immediatamente

alla soggettività del lavoratore o della lavoratrice. E tuttavia passa per il soggetto, in

quanto portatore di un mestiere. Il mestiere infatti, se da un lato si definisce come

insieme di conoscenze-abilità accumulate ed organizzate in base ad una tradizione,

dall'altro si caratterizza per il fatto di non potere prescindere da una soggettività

che se ne faccia portatrice dinamica, ma durevole.

Il mestiere si comincia ad apprendere in giovanissima età e dura tutta la vita. E

come da un lato questo tesoro di conoscenze-abilità ha bisogno, per esercitare la

sua funzione, di depositarsi in maniera duratura (da qui il vanto che si esprime in

frasi come «sono vent'anni che faccio questo mestiere»), dall'altro questa

durevolezza è espressione del legame esistente fra la personalità del soggetto ed il

mestiere di cui tale personalità è portatrice. Si può dire, sotto tale profilo, che il

29 L'opera fondamentale di F. W. Taylor è The Principles of Scientific Management, del 1911, trad. it.:

L'organizzazione scientifica del lavoro, Milano, Comunità, 1952; Milano, Etas Kompass, 1967.

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mestiere non è altro che la professionalità incorporata nella forza-lavoro. E

l'accento va messo sulla incorporazione, perché quel che interessa - in sede di

ricostruzione del processo di desoggettivazione del lavoro - non è la struttura

interna dell'attività lavorativa che si esprime nel mestiere, ma il rapporto fra tale

attività ed il soggetto che la realizza.

Certo, il mestiere, se pure legato al soggetto, non nasce né muore con esso. Ma

anche la trasmissione delle conoscenze-abilità risente, in questo caso, del più o

meno alto grado di personalizzazione dei contenuti trasmessi. Si spiega così perché

la trasmissione del mestiere avviene quasi sempre per via verticale: da padre-madre

a figlio-figlia, da chi si avvia a lasciare l'attività lavorativa a chi si appresta a

cominciarla. Ciò accade appunto perché si tratta di una trasmissione fortemente

personalizzata, significativamente diversa dalla trasmissione che si attua, per

esempio, ad opera di istituzioni formative.

Per questi suoi caratteri, la struttura interna del mestiere si rivela antitetica al

processo di indeterminazione tecnica del lavoro. La struttura del mestiere ha infatti

il suo centro organizzativo all'interno del soggetto e si definisce quindi come

determinazione soggettiva. E' il soggetto che decide la successione delle

operazioni e coordina i movimenti necessari ad ogni singola operazione. E' chiaro

che nella divisione pre-tayloriana del lavoro questa struttura da un lato ha un

carattere di corpo rispetto alla singola operazione interna alla mansione lavorativa,

dall'altro si pone già come membro rispetto al processo complessivo di produzione.

Il mestiere è cioè un insieme unitario di operazioni tecniche, ma il lavoro che

compie I'operaio/a di mestiere all'intemo della fabbrica è solo una parte del ciclo

lavorativo necessario alla produzione.

Che significato assume allora la "moderna" organizzazione del lavoro per la

soggettività coinvolta nell'attività lavorativa? Spostare il centro motore

dell'organizzazione interna dell'attività lavorativa dai singoli soggetti alla direzione

dell'azienda è il significato del terzo principio del Taylorismo: lo studio dei tempi e

dei modi richiesti per qualsiasi operazione fa parte delle prerogative esclusive delle

direzioni aziendali. Per raggiungere questo obiettivo, I'organizzazione del lavoro ha

bisogno di sgretolare la struttura del mestiere, in modo da spersonalizzare al

massimo le singole operazioni, la cui conduzione viene accentrata a livello di

direzione.

La funzione lavorativa finisce di configurarsi come prerogativa soggettiva del

lavoratore o della lavoratrice, che la contratta con I'azienda. Adesso è l'Ufficio Studi

che progetta l'organigramma delle funzioni necessarie al processo produttivo. Ed è

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l'Ufficio Studi che traduce queste funzioni in una serie di operazioni e decide i

tempi per ogni operazione.

In tal modo l'azienda si appropria della professionalità del lavoratore o della

lavoratrice e, dopo averla polverizzata, ne fa una prerogativa della organizzazione

del lavoro, per imporla dall'esterno al lavoro deprofessionalizzato. Una tale

appropriazione impone tutte quelle trasformazioni che, nel loro insieme,

costituiscono il progresso tecnico. Si può dunque dire che il progresso tecnico non

è la causa del declino della professionalità, ma soltanto lo strumento attraverso il

quale l'organizzazione del lavoro realizza tale declino.

L’«organizzazione scientifica del lavoro», progettata e promossa da Taylor, sente

come estranee a sé le qualità professionali incorporate nella forza-lavoro. Ad una

tale organizzazione non può bastare che la professionalità sia al servizio

dell'azienda. Non può bastarle che lavori per I'azienda. Occorre che diventi la

professionalità dell'azienda. Così, da prerogativa del soggetto, il corpo di

conoscenze-abilità che discende dall'arcaico mestiere, si trasforma in oggetto di

responsabilità dell'Ufficio Studi.

Ai lavoratori ed alle lavoratrici non resta che vestirsi ogni mattina delle funzioni,

manuali e intellettuali, predisposte dalla Direzione. L'attributo professionale, da

carne e sangue della persona che lavora, viene ridotto ad una specie di divisa, di

proprietà dell'azienda, da indossare all'entrata e togliere prima di uscire. All'uscita

dal luogo di lavoro, il lavoratore o la lavoratrice torna ad essere padre o madre di

famiglia, utente della televisione, ecc.. Neppure un riflesso dell'energia spesa

nell'attività lavorativa si incorpora nella forza-lavoro come attributo professionale.

Tutto ciò provoca una serie di conseguenze di grande rilievo. Segna da un lato la

morte della specializzazione come attributo del soggetto e dall'altro la nascita della

specializzazione come prerogativa dell'azienda. La prima, essendo attributo

personale, rendeva il soggetto - in una certa misura – indipendende, sotto l'aspetto

professionale, rispetto alla singola azienda. Passando da una azienda all'altra, il

soggetto si portava addosso il mestiere. La seconda specializzazione invece si

riferisce non al particolare bagaglio di conoscenze-abilità del soggetto, bensì alla

particolare tecnologia adottata dall'azienda. Il soggetto diventa qui una componente

del processo produttivo. Passando da una azienda all'altra, anche dello stesso

settore, viene a trovarsi di fronte a un diverso processo e soprattutto a una diversa

configurazione delle funzioni lavorative. D'altra parte, il fatto che il lavoratore o la

lavoratrice non abbia attribuzioni soggettive da fare valere rende la sua prestazione

intercambiabile all'interno del quadro di funzioni previste per un particolare

processo di produzione.

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Così il rapporto fra azienda e forza-lavoro rivela tutta la sua unilateralità. La

specializzazione rispetto alla mansione diventa specializzazione rispetto al

processo produttivo. E come la specializzazione rispetto alla mansione si traduceva

in polivalenza rispetto ai processi produttivi in cui compariva quella mansione, così

la specializzazione rispetto al processo produttivo si traduce in polivalenza rispetto

alle mansioni che compaiono in quel processo.

In pratica, chi era esperto/a in una particolare mansione, poteva inserirsi in tutti i

processi produttivi in cui era presente quella mansione. Chi invece, ad uno stadio

avanzato del progresso tecnico, è esperto/a in un particolare processo produttivo, è

in grado di apprendere rapidamente le diverse mansioni comprese in quel

processo. Nel primo caso i lavoratori e le lavoratrici erano relativamente liberi di

spostarsi da una azienda all'altra. Nel secondo caso è l'azienda relativamente libera

di spostare il personale da una mansione all'altra. Inoltre, la prima specializzazione

compariva - in linea di massima - nella qualifica della forza-lavoro e veniva, come

tale, pagata dall'azienda. La seconda compare solo nell'organigramma dell'Ufficio

Studi e non produce quindi alcun effetto retributivo per le forze di lavoro. Né è da

dire che nel primo caso i lavoratori e le lavoratrici trasmettevano al processo

produttivo le loro "qualità professionali", mentre nel secondo caso non hanno

"qualità" da trasmettere. In realtà, il processo produttivo a tecnologia avanzata

consuma una nuova "qualità": I'indeterminazione della forza-lavoro.

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Capitolo Ventunesimo

L'INDETERMINAZIONE SOCIALE DEL LAVORO

La società astratta è condannata ad uno stato di precarietà finché alla

indeterminazione tecnica non fa riscontro una indeterminazione sociale del

lavoro, finché cioè un lavoro privo di determinazioni tecniche è in grado di

opporre alle pretese delle forze imprenditoriali le sue determinazioni sociali,

cioè la sua collocazione in un quadro sociale rapportato ai bisogni delle

donne e degli uomini.

In tal senso, il processo di indeterminazione sociale del lavoro attraversa e

scompagina tutti gli aspetti della condizione lavorativa - l'uso della forza-

lavoro, il quadro delle mansioni lavorative, la retribuzione - fino ad attaccare

lo stesso rapporto di lavoro.

21.1 L'indeterminazione della forza-lavoro nel mercato del lavoro

Perché il lavoro sia socialmente indeterminato, è necessario che sia

indeterminata la forza-lavoro manuale-intellettuale, cioè l'insieme delle

energie, delle attitudini e delle conoscenze che stanno alla base di ogni

attività lavorativa.

L'indeterminazione della forza-lavoro manuale-intellettuale ha inizio nel

mercato del lavoro e si definisce come assenza di corrispondenza fra la

qualità dell'offerta di prestazioni lavorative e la qualità della domanda. Si

tratta soprattutto di scarto di livello tra la qualificazione della forza-lavoro e il

tipo di prestazioni richieste. Questo scarto quasi generalizzato induce il

sistema socio-economico a non tenere conto del livello di qualificazione della

forza-lavoro, cioè a definire la qualità della domanda a prescindere dai livelli

di capacità e di conoscenza acquisiti dai soggetti che si presentano sul

mercato del lavoro.

In tale situazione, la forza-lavoro che presenta credenziali di qualificazione

a più alto livello ha minori probabilità di trovare una occupazione. Il che

induce quanti/e bussano alle porte del lavoro a nascondere, più che ad

esibire, la propria qualificazione. Chi è in possesso di laurea preferisce

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presentare la licenza di terza media per un lavoro esecutivo, ad evitare di

essere scartato per "eccesso di qualificazione" 30.

Per tale via, il sistema socio-economico intende indurre i soggetti in cerca

di occupazione a presentarsi sul mercato come forza-lavoro indeterminata,

disponibile ad assumere qualsiasi determinazione, a svolgere qualsiasi ruolo

nell'attività lavorativa. L'indeterminazione della forza-lavoro prepara il terreno

all'indeterminazione dell'attività lavorativa. L'indeterminazione infatti qui si

definisce rispetto alla qualificazione della forza-lavoro. Dal momento che non

si vuole tenere conto delle determinazioni acquisite dalla forza-lavoro, si

preferisce lasciare indeterminata la qualificazione, in modo da indurre il

soggetto ad una maggiore disponibilità nei confronti delle esigenze della

produzione. Chi non ha una precisa qualifica da rivendicare sarà costretto/a

a mostrarsi più accondiscendente verso le richieste della controparte.

L'indeterminazione che i giovani e le giovani in cerca di prima

occupazione sono costretti a portarsi addosso nel momento in cui si

presentano sul mercato del lavoro è una sorta di costume di scena, che

indossano sopra le determinazioni, per nascondere le loro specifiche

capacità, i loro bisogni particolari, le loro aspirazioni personali ed apparire

completamente disponibili nei confronti di qualsiasi richiesta. E' dunque,

all'origine, per chi cerca occupazione, una "finzione". Ma chi siede dall'altra

parte del tavolo ha interesse a prendere la "finzione" per realtà. Assume

dunque il comportamento della forza-lavoro nel mercato del lavoro come

modello del suo comportamento nel processo lavorativo. Si aspetta cioè che

chi è docile e arrendevole all'atto dell'assunzione lo sia poi anche nel

rapporto di lavoro. Al polo opposto, chi viene assunto/a ha piena

consapevolezza del fatto che l'indeterminazione esibita sul mercato del

lavoro era una "finzione" necessaria per farsi assumere.

Con questi presupposti, appena stipulata l'assunzione, si apre un aspro

conflitto. La Direzione tende a fare dimenticare al soggetto la realtà della sua

determinazione. Il soggetto tende a fare dimenticare la "finzione" recitata sul

mercato ed a reclamare i diritti della sua determinazione.

In un sistema come quello capitalistico, basato sul rapporto tra le forze in

campo, I'accumulazione dell'esperienza sociale si traduce spesso in un

danno per i più deboli, perché da tale esperienza i potenti apprendono a

30 Sul quotidiano «La Repubblica» del 15/9/1996, pag. 21, è riportata la seguente notizia: «Un tale ha

partecipato a un concorso alla Dogana, per poi sentirsi rispondere: Lei ha vinto, ma non La possiamo

assumere, perché il titolo di studio è troppo elevato».

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sventare le piccole astuzie di chi è costretto/a a ricorrere a mille stratagemmi

per sopravvivere. Così accade che, ad un certo punto, chi chiede prestazioni

lavorative non si fida più del comportamento che viene esibito in sede di

trattativa per l'assunzione, perché sa che, dopo l'assunzione, verrà richiesto il

rispetto dei diritti acquisiti.

21.2 La flessibilità della forza-lavoro come indeterminazione esistenziale

In seguito alla immissione della forza-lavoro nel processo lavorativo,

I'esigenza di indeterminazione si traduce in richiesta di mobilità e di

flessibilità. La mobilità è l'indeterminazione della forza-lavoro rispetto al luogo

di produzione (mobilità territoriale), al settore di produzione (mobilità

intersettoriale) o al tipo di lavoro all'interno di un settore di produzione

(mobilità intrasettoriale). La flessibilità è l'indeterminazione della forza-lavoro

rispetto al modo e al tempo di produzione. Data la centralità che ha l'attività

nella vita umana, la flessibilità della forza-lavoro tende a definirsi come

indeterminazione esistenziale.

Prendiamo la mobilità territoriale. Chiedere ad un soggetto, uomo o

donna, di spostarsi continuamente sul territorio, secondo le esigenze della

produzione, di fatto significa chiedergli di non mettere radici in nessun posto.

Significa cioè condannarlo ad essere uno sradicato. La mobilità territoriale

prescinde, di fatto, dai vincoli - affettivi, culturali, esistenziali - che lega la

persona al "suo" ambiente. E ciò nella pretesa - più o meno esplicita, da

parte di chi controlla il sistema economico - di poter decidere, volta a volta, la

destinazione della forza-lavoro manuale-intellettuale semplicemente sulla

base delle esigenze della produzione.

DI fronte a tali esigenze, i bisogni immateriali dell'essere umano - in

questo caso, il suo sentirsi legato ad un particolare ambiente - vengono

opportunamente presentati dall'apparato ideologico borghese come scorie

sottoculturali, da cui un moderno sistema industriale si deve liberare. In

realtà, il sistema capitalistico tecnologicamente avanzato ha bisogno di una

forza-lavoro manuale-intellettuale socialmente indeterminata, di una forza-

lavoro liberata da tutte le pastoie della concretezza umana. E non vuole

sentirne di prendere in considerazione la personalità di quel particolare uomo

o di quella particolare donna che è il soggetto portatore di forza-lavoro.

Preme cioè per riportare il rapporto di lavoro ai suoi termini originari di pura e

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semplice compravendita della forza-lavoro, spogliandolo di ogni valenza

sociale ed esistenziale.

In altri termini, le forze imprenditoriali intendono fare valere una definizione

formale del rapporto di lavoro, come rapporto puramente economico - e

quindi astratto - fra capitale e lavoro, in cui non possono interferire questioni

di carattere personale. Chi desidera essere assunto/a deve sempre

rispondere a qualsiasi richiesta dell'addetto al personale: no problem. In

questo senso, in fabbrica o in ufficio deve entrare la forza-lavoro, mentre il

soggetto, che ne è il portatore, deve restare fuori dalla sede di lavoro.

Non si tratta di una sottigliezza filosofica. C'è, dietro, una questione

politica di fondo. Perché è proprio nel rifiuto delle persone concrete di

definirsi esclusivamente come forza-lavoro l'atto politico fondante

dell'antagonismo sociale.

Non è un caso che i rappresentanti del capitale individuano nell'universo

dei bisogni una mina vagante e una minaccia incombente sul sistema di

privilegi. E pretendono di esorcizzarlo con la quotidiana predica sulle leggi

ferree dell'economia e soprattutto con la volontà proterva di comprimere i

bisogni sociali. L'attacco è rivolto contro la realtà esistenziale delle donne e

degli uomini, su cui gravita l'universo dei bisogni. Disinnescando le persone

concrete dall'universo dei bisogni, si pretende di potere accedere all'uso di

una forza-lavoro indeterminata, sorda al richiamo dei sentimenti, degli affetti,

indifferente alla qualità della vita, pronta ad abbassare le proprie esigenze

quotidiane al minimo vitale.

La pretesa di fare uso di una forza-lavoro manuale e intellettuale

socialmente indeterminata si definisce così più distintamente. C'è in essa il

rifiuto ostinato di dare legittimazione politica ai bisogni, materiali e

immateriali, sempre più diffusi nella collettività, proprio perché in essi viene

individuato un fattore di opposizione sociale.

In tale contesto, la determinazione presente nei bisogni sociali si polarizza

nei confronti dell'astrazione presente nell'uso capitalistico della forza-lavoro

manuale-intellettuale. In altri termini, I'insieme delle particolarità concrete e

delle irrinunciabili necessità personali presenti nell'essere sociale viene

gradatamente a definirsi come un mondo separato e contrapposto al quadro

economico astratto, entro il quale gli uomini e le donne in carne e ossa

vengono ridotti ad unità indifferenziate.

Questa polarizzazione apre un ventaglio di conflitti sociali più o meno

marcati, più o meno tesi, con punte di scontro e periodi di stasi, con vittorie e

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sconfitte da una parte e dall'altra, a seconda dell'andamento dei rapporti di

forza fra capitale e lavoro.

In ogni caso, permangono i presupposti della contrapposizione fra bisogno

capitalistico di indeterminazione e bisogno sociale di determinazione. Alla

richiesta di mobilità territoriale viene a contrapporsi l'affermazione del

bisogno delle persone concrete di avere un rapporto stabile con l'ambiente e

con la comunità.

Un discorso analogo può farsi per le altre forme di indeterminazione della

forza-lavoro. La mobilità rispetto alle mansioni si definisce, dal nostro punto

di vista, come indeterminazione della forza-lavoro manuale-intellettuale

rispetto ai contenuti del lavoro. Non essendo definite le mansioni lavorative,

la persona viene chiamata a funzionare come "forza-lavoro", in senso

letterale, cioè come semplice "macchina di lavoro". Si badi bene. L'astrazione

è qui introdotta all'interno della stessa definizione di forza-lavoro, in quanto

entità priva di qualsiasi specificazione contenutistica, a prescindere dal

rapporto fra persona e attività lavorativa.

Non è dunque in questione l'opzione personale per le forme e per i

contenuti dell'attivazione. La forza-lavoro manuale-intellettuale, chiamata ad

applicarsi a contenuti sempre diversi, a seconda delle esigenze del processo

produttivo, può essere definita come entità indeterminata in sé, ancora prima

che venga presa in considerazione in quanto requisito di questa o di quella

persona particolare. E ciò perché per questa via I'attività lavorativa tende a

definirsi come vuota forma, in grado di riempirsi di qualsiasi contenuto.

Ancora più coinvolgente, se possibile, è la flessibilità dell'uso della forza-

lavoro manuale-intellettuale, cioè la possibilità di usare la forza-lavoro in

modo elastico rispetto ai ritmi, agli straordinari, ecc.. In questa sede, la

flessibilità coinvolge direttamente la determinazione esistenziale degli uomini

e delle donne. Essa presuppone una vita quotidiana indeterminata, una vita

quotidiana priva di qualsiasi struttura autonoma e volta a volta modellata -

attraverso il controllo della giornata lavorativa - sulle scadenze del

programma di produzione.

La flessibilità dell'uso della forza-lavoro manuale-intellettuale - se

applicata, per esempio, all'orario di lavoro - estende il tempo di lavoro a tutto

il tempo di vita, in quanto ogni segmento del tempo di vita viene ad essere

potenziale tempo di lavoro. E quindi, attraverso il comando sul tempo di

lavoro, il sistema politico-economico comanda tutto il tempo di vita. La

giornata lavorativa - pur rimanendo immutato, sul piano quantitativo, il tempo

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di lavoro - scorre lungo il tempo di vita e riesce così a contaminare l'intero

arco della vita quotidiana.

Tutto ciò ha conseguenze notevoli sulla struttura della vita quotidiana. Non

essendo fissati stabilmente i confini temporali dell'uso della forza-lavoro

manuale-intellettuale, la vita quotidiana non può avere un minimo di

organizzazione, non può darsi una qualsiasi struttura stabile, nemmeno

quella struttura subalterna al capitale che è possibile in concomitanza di un

uso rigido della forza-lavoro. La vita quotidiana di ognuno/a di noi è

condannata a rimanere informe, per potere assumere la forma che le dà,

volta a volta, la struttura della giornata lavorativa. Per questa via, il comando

del capitale sulla vita quotidiana, proprio perché è indeterminato, privo di

qualsiasi codifica, diventa totale.

Abbiamo considerato gli effetti della flessibilità applicata all'orario di lavoro,

presupponendo immutato, sul piano quantitativo, il tempo di lavoro. Ma, nel

quadro delle esigenze della programmazione capitalistica della produzione,

flessibilità non significa solo elasticità della struttura dell'orario di lavoro entro

determinati limiti quantitativi. Significa anche possibilità, attraverso un uso

discrezionale degli straordinari, di variare quantitativamente il tempo di

lavoro, secondo le esigenze della produzione. Così la giornata lavorativa non

solo scorre lungo l'arco della vita quotidiana, ma si dilata e si restringe. Il

tempo di vita è sotto il completo dominio del tempo di lavoro.

21.3 L'indeterminazione della retribuzione come rischio esistenziale

Nei termini della nostra analisi, le determinazioni della persona concreta si

realizzano nel quadro esistenziale. Ora, perché la retribuzione sia legata alle

determinazioni esistenziali delle donne e degli uomini, bisogna che sia

indipendente dal quadro economico. La retribuzione legata alla congiuntura è

una retribuzione sganciata dai bisogni esistenziali delle persone e agganciata

ai bisogni economici del sistema. E' una retribuzione indeterminata per la

vita concreta dei soggetti e regolata sulla base delle determinazioni del

sistema economico.

Nella società astratta, la tendenza a definire la retribuzione come variabile

dipendente dalla congiuntura economica, cioè ad abbassarla e ad elevarla

secondo l'andamento degli indici dell'economia, è dunque una specificazione

dell'esigenza capitalistica di indeterminazione sociale. Una tendenza che

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mira a subordinare la qualità della vita al processo di valorizzazione del

capitale 31.

Dal punto di vista delle donne e degli uomini che sono costretti a

vendere l'uso della propria forza-lavoro manuale-intellettuale per procurarsi

di che vivere, considerare la retribuzione una variabile indipendente significa

da un lato subordinare l'economico al sociale e dall'altro mettere il sociale al

riparo dall'economico. Da un lato il profitto è costretto a rapportarsi alla

qualità della vita sociale, dall'altro la qualità della vita sociale cessa di

rapportarsi al profitto. Al pendolo, che oscilla pericolosamente tra il profitto

capitalistico e la qualità della vita sociale, viene imposto un determinato

arco di oscillazione, oltre il quale non può andare.

Tutto ciò che è garanzia per le persone concrete è limite per l'apparato di

astrazione. E, viceversa, tutto ciò che è mancanza di limite per l'apparato di

astrazione è rischio per le persone. Finché la retribuzione è variabile

dipendente, la qualità della vita sociale è legata alle alterne vicende della

imprenditorialità.

Il rischio imprenditoriale è un vanto storico della borghesia. L'aspetto

ideologico di tale vanto sta nel non chiarire che si tratta di rischio soltanto

economico. A fronte del carattere tutto economico del rischio

dell'imprenditore, sta il carattere tutto esistenziale del rischio del lavoratore

o della lavoratrice. Da una parte l'individuo mette a rischio il suo essere

capitalista, dall'altra la persona mette a rischio il suo essere tout court. Da

qui discendono da una parte il tanto osannato amore borghese e all'altra il

tanto deprecato odio proletario nei confronti del rischio imprenditoriale.

La retribuzione come variabile indipendente è il rifiuto del rischio

esistenziale in quanto conseguenza diretta del rischio imprenditoriale. La

retribuzione come variabile dipendente è la pura e semplice traduzione del

rischio economico dell'imprenditore in rischio esistenziale per chi vive di

lavoro.

Fin qui abbiamo considerato la questione, per così dire, allo stato puro, in

termini di rischio dell'imprenditore contrapposto al rischio del lavoratore o

della lavoratrice, al fine di evidenziare il salto qualitativo che c'è fra un

31 La retribuzione degli operai Fiat è legata, fra l'altro, ad un indice di qualità del prodotto. Sulla base di

questo vincolo, pare che la Fiat vorrebbe far dipendere il salario degli operai da un sondaggio che verifichi il

livello di gradimento del prodotto da parte degli utenti (Da una trasmissione radiofonica del gennaio 1996).

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rischio e l'altro 32. Abbiamo perciò dovuto assumere come reale il rischio

imprenditoriale. In realtà, è noto che raramente l'imprenditore rischia di suo,

anche in termini strettamente economici. Quante volte un capitalista che si

rispetti va in rovina se gli fallisce una iniziativa imprenditoriale? Si dirà per

contro: quante volte un lavoratore o una lavoratrice muore fisicamente se

perde il posto di lavoro?

Si tratta di intendersi sul termine sopravvivenza. Prescindiamo dai casi in

cui la disoccupazione porta alla disperazione ed alla autosoppressione

fisica. Ebbene, il non avere la certezza dei mezzi di sussistenza getta la

persona in una particolare condizione esistenziale, che può essere posta in

termini di messa in discussione della sopravvivenza. Il che non deve

necessariamente comportare la morte fisica. Quando parliamo di

sopravvivenza del lavoratore o della lavoratrice come polo opposto al

profitto dell'imprenditore, crediamo di non operare nessuna forzatura sulla

realtà. Venire a mancare dei mezzi di sussistenza significa per una persona

dover vivere sul filo della sopravvivenza, anche quando questa

sopravvivenza si prolunga per tutta una vita. Una società che fa mancare ad

un uomo o ad una donna i mezzi di sussistenza può essere ritenuta -

senza in nulla esagerare - responsabile della sua morte, anche se quella

persona tira avanti per anni. Per intendersi, mettere a rischio la certezza

della sopravvivenza di una persona è come mettere a rischio la sua

sopravvivenza.

Se consideriamo questi aspetti, la distanza qualitativa fra di due rischi

aumenta a dismisura, si fa abissale. Anzi. Ci accorgiamo che un paragone

fra i due rischi è impossibile. Si tratta, in effetti, di entità non paragonabili.

Da una parte c'è il rischio di venire a mancare dei mezzi di sussistenza,

dall'altra c'è il perseguimento del profitto anche attraverso il ricatto della

messa in discussione dei mezzi di sussistenza.

Come si vede, siamo tornati ai termini originari di ogni questione che

coinvolga il rapporto fra la società-struttura e la società-collettività. Gira e

rigira, la partita si gioca, anche in questa sede, tra gli interessi del capitale e

la qualità della vita sociale. Attaccando la determinazione esistenziale della

retribuzione, la struttura capitalistica mira a controllare quella sorta di

insubordinazione della collettività che si esprime nella definizione della

32 Se non si tiene conto di questa distinzione, diventa plausibile il discorso di un imprenditore, il quale,

intervenendo in un dibattito, si chiedeva, a proposito della libertà di licenziare: dal momento che gli

imprenditori mettono a rischio i loro capitali, perché gli operai pretendono di avere certezza di lavoro?

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retribuzione come variabile indipendente. Mira a piegare la qualità della vita

sociale alle "leggi" dell'economia capitalistica. L'autonomia della

retribuzione si esprime da un lato come indipendenza nei confronti del

profitto, dall'altro come dipendenza nei confronti del costo della vita. Da

una parte la retribuzione come variabile indipendente, dall'altra l'indicizza-

zione della retribuzione in rapporto al costo della vita.

L'argomentazione che gli economisti borghesi sono soliti portare avanti a

favore dell'imprigionamento della retribuzione è che, in un sistema

altamente integrato come quello capitalistico avanzato, nessuna delle

variabili in gioco può agire in modo indipendente dalle altre. Si tratta,

ovviamente, di una difesa di ufficio degli interessi capitalistici e di un

sostegno ideologico - ammantato di scientificità - all'attacco contro la qualità

della vita sociale. Tanto è vero che una tale argomentazione viene gettata

alle ortiche quando - cambiando il fronte di attacco - non porta acqua al

mulino degli interessi delle forze imprenditoriali.

L'indicizzazione della retribuzione è rispettosa del carattere integrato del

sistema. Essa fa in modo che la variabile retribuzione non agisca in modo

indipendente rispetto alla variabile costo della vita. Coerenza perciò

vorrebbe che quegli economisti che usano l'argomento del sistema integrato

contro la definizione della retribuzione come variabile indipendente, lo usino

anche in difesa della indicizzazione. Ci si aspetterebbe cioè che coloro che

sostengono la tesi della retribuzione come variabile dipendente difendano

un meccanismo che assicura già la dipendenza della retribuzione. E invece

no. Gli economisti che attaccano la retribuzione come variabile indipendente

rispetto al profitto, I'attaccano come variabile dipendente rispetto al costo

della vita.

La ragione c'è. Gli economisti borghesi non possono difendere

l'indicizzazione della retribuzione, perché essa va sì in direzione

dell'integrazione del sistema, ma questa volta dal punto di vista delle forze

di lavoro. L'indicizzazione della retribuzione è, come si sa, per le forze di

lavoro un meccanismo di difesa del potere di acquisto della retribuzione,

un meccanismo di difesa della retribuzione reale. Una retribuzione non

indicizzata è una retribuzione esposta alla variabilità del costo della vita 33.

33 Come è noto, l'indicizzazione della retribuzione - nota come «scala mobile» - è stata abolita con

l'accordo del 31 luglio 1992.

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A questo punto, dovrebbe essere chiaro che nella società sussunta al

capitale, in quanto società astratta, I'attacco alla retribuzione viene portato -

al di là delle acrobazie ideologiche degli economisti borghesi - su due

fronti. Da un lato il blocco sistematico delle retribuzioni nominali, attraverso

il loro agganciamento al profitto, dall'altro il sistematico taglio delle

retribuzioni reali, attraverso il loro sganciamento dal costo della vita.

Come è noto, i rapporti fra capitale industriale e capitale finanziario sono

molto stretti. Le grosse concentrazioni di capitale hanno la loro appendice

finanziaria. In tale contesto, le manovre monetarie sono parte integrante del

processo di accumulazione, in quanto incidono direttamente sul valore reale

delle componenti della produzione e soprattutto - per quel che qui interessa

- sulla retribuzione reale.

E' ormai di dominio pubblico quanto di manovrato c'è nel processo di

inflazione, che è uno dei fenomeni più appariscenti della vita economica. Il

margine di manovra che I'inflazione lascia al grande capitale industriale

viene utilizzato per riportare continuamente il valore reale della retribuzione

al di sotto del valore nominale. Per questa via, il capitale per un verso riesce

a recuperare quel che è costretto a cedere, volta a volta, in termini di

incrementi retributivi, per l'altro crea le condizioni per assorbire nuovi aumenti

di retribuzione.

L'ostacolo più grosso ad un uso dell'inflazione come manovra di

restrizione retributiva è la nozione di retribuzione reale, che consente una

rigidità retributiva verso il basso. E' infatti questa nozione che fornisce alle

forze del mondo del lavoro il punto di riferimento per contenere gli effetti

delle manovre inflazionistiche sulle retribuzioni. Mentre la nozione di

retribuzione nominale lascia, da sola, la retribuzione completamente in balia

delle operazioni monetarie, più o meno occulte.

D'altra parte, una restrizione retributiva può essere ottenuta anche

attraverso una manovra deflazionistica. Per ridurre l'inflazione, vengono

bloccati i meccanismi di incremento delle retribuzioni. Si dice che i

lavoratori e le lavoratrici non perdono niente, perché con la riduzione

dell'inflazione resta immutato il potere di acquisto delle retribuzioni. Ciò

sarebbe vero se l'incremento delle retribuzioni rallentasse esattamente in

proporzione alla riduzione del tasso di inflazione. In realtà, viene impresso

alle retribuzioni un rallentamento più significativo rispetto alla riduzione

dell'inflazione. Attraverso questa sottile manovra, un abbassamento del

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tasso di inflazione viene tradotto in una diminuzione del potere di acquisto

delle retribuzioni.

Per tutto ciò, la nozione di retribuzione reale rispecchia il punto di vista

delle forze di lavoro. La nozione di retribuzione nominale rispecchia invece il

punto di vista delle forze imprenditoriali, che hanno interesse a fare di essa

la nozione generale di retribuzione e mirano alla distruzione della nozione

di retribuzione reale.

21.4 L'indeterminazione della mansione lavorativa

La libertà di spostare la forza-lavoro manuale intellettuale da un punto

all'altro del processo di produzione di beni o di servizi significa - nella

società sussunta al capitale - possibilità di spezzare il rapporto fra il soggetto

ed uno specifico contenuto del lavoro.

L'obiettivo che sta alla base di tale operazione è l'indeterminazione della

mansione lavorativa. Tale indeterminazione cambia la qualità della

prestazione lavorativa. Il soggetto perde il rapporto tradizionale con una

specifica mansione, senza d'altra parte acquisire un qualsiasi rapporto con

l'insieme del processo di produzione.

Il rapporto tradizionale del soggetto con uno specifico contenuto del lavoro

faceva - in una certa misura - da tramite per il rapporto con il sistema sociale

di produzione. Venendo a mancare quel tramite, la forza-lavoro manuale-

intellettuale resta in balìa degli interessi delle forze imprenditoriali.

La mobilità da una parte ha dunque il significato tecnico di fare cadere

qualsiasi condizionamento professionale all'uso della forza-lavoro manuale-

intellettuale, dall'altra ha il significato politico di fare della persona una

individualità priva di identità lavorativa.

21.5 L'indeterminazione del rapporto di lavoro

Nello stato di avanzamento della nostra analisi, il processo di

indeterminazione non ha ancora investito il rapporto di lavoro. La distinzione

fra indeterminazione dei contenuti e delle condizioni di lavoro da una parte

e indeterminazione del rapporto di lavoro dall'altra non è soltanto analitica.

In realtà - e non soltanto in teoria - può darsi un lavoro indeterminato

all'interno di un determinato rapporto di lavoro.

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In sede di rapporto di lavoro, I'indeterminazione si definisce in termini

di instabilità. Ora, è vero che l'indeterminazione dei contenuti e delle

condizioni di lavoro, rimettendo continuamente in discussione la

collocazione della forza-lavoro lungo l'arco del processo lavorativo e sul

terreno delle garanzie sociali, apre sempre nuovi conflitti, che mettono in

tensione la stabilità del rapporto di lavoro. Ma la stabilità del rapporto in

quanto tale non è toccata - se non indirettamente - dalle richieste relative, per

esempio, alla flessibilità ed alla mobilità, che anzi presuppongono l'esistenza

di un rapporto di lavoro definito e formalizzato. (Nel lavoro senza contratto

mobilità e flessibilità sono implicite).

In questo quadro si intravede già la direzione del processo di

indeterminazione nella sfera lavorativa. Partendo da un assetto generale

delI'universo del lavoro in termini di relativa stabilità, si può ipotizzare una

graduale scompaginazione di tutti gli aspetti della condizione lavorativa.

Questo processo ha il suo culmine in un attacco diretto al rapporto di

lavoro.

Il punto terminale della libertà di spostare è la libertà di licenziare, cioè

di rompere il rapporto fra il soggetto portatore di forza-lavoro manuale-

intellettuale e il sistema di produzione. E' in questo quadro che

l'indeterminazione lavorativa acquista significato, in quanto anello di una

catena di attacchi alla stabilità della presenza delle forze di lavoro nel

sistema di produzione.

Fra l'indeterminazione dei contenuti e delle condizioni di lavoro e

I'indeterminazione del rapporto di lavoro c'è però un duplice scarto di

livello. Per quanto attiene alle conseguenze sociali, è evidente la differenza

che corre fra una ridefinizione dell'attività lavorativa e una rottura del

rapporto di lavoro, cioè fra uno spostamento da una mansione ad un'altra

ed un licenziamento.

Per quanto attiene all'oggetto che viene investito dal processo,

I'indeterminazione dei contenuti e delle condizioni di lavoro riguarda le

modalità d'uso della forza-lavoro manuale-intellettuale. L'indeterminazione

del rapporto di lavoro mette invece in discussione l'uso stesso della forza-

lavoro. Nel primo caso si tratta di una riorganizzazione qualitativa delle forze

di lavoro acquisite al processo di produzione. Nel secondo caso si tratta

invece di una ridefinizione quantitativa dell'acquisizione, al processo

produttivo, delle forze di lavoro disponibili. Questi due versanti del

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processo vanno tenuti distinti, anche se la strategia capitalistica opera

contemporaneamente sui due fronti.

L'impiego capitalistico del potenziale di operatività e di creatività che è

nella collettività obbedisce a criteri di convenienza, in vista della

realizzazione del massimo profitto. E sono tali criteri che stabiliscono, volta a

volta, la quota di forza-lavoro da acquisire al sistema di produzione.

La questione viene complicata dai risvolti sociali che ha sempre una

qualsiasi ridefinizione quantitativa della base produttiva. Ma, a prescindere

da tali implicazioni, la quota di forza-lavoro necessaria al processo

produttivo è rapportata non al bisogno di occupazione che hanno gli uomini

e le donne, ma al disegno di massimizzazione del profitto che può essere

realizzato in una fase data della evoluzione tecnologica.

Ne consegue che la necessità di forza-lavoro manuale-intellettuale varia

con il variare delle situazioni. E ciò sul piano semplicemente quantitativo, in

termini di uomini e di donne da acquisire alla produzione di beni e di

servizi, oltre che, ovviamente, sul piano della qualità delle forze di lavoro

da impiegare. Tale necessità è legata a due fondamentali fattori: da un lato

la strutturazione tecnica del processo lavorativo, dall'altro l'andamento del

mercato. Questi due fattori non hanno la stessa evoluzione.

La strutturazione tecnica del processo lavorativo procede - in generale - in

direzione della sostituzione di lavoro umano con lavoro tecnico, cioè di

uomini e di donne con macchine. Su questo versante, la necessità di forza-

lavoro manuale-intellettuale da acquisire al processo lavorativo ha un

andamento relativamente lineare, in direzione di una progressiva

diminuzione. La produzione di beni e di servizi, via via che si struttura in

sistema tecnico, ha bisogno di espellere lavoro umano, manuale e

intellettuale. C'è quindi una tendenza alla restrizione della base produttiva.

E' invece difficile tradurre in tendenza lineare l'andamento del mercato in

relazione ad un particolare prodotto. Può, per esempio, andare bene, in

generale, il mercato delle auto. Ma un modello non "tira", come si dice in

gergo, cioè non si vende abbastanza. E allora, in quel particolare settore, la

forza-lavoro diventa "esuberante". Poi invece si immette nel mercato un

nuovo modello, che ha un successo clamoroso. E allora, per andare dietro

alla richiesta, occorre aumentare la produzione e quindi assorbire una quota

più alta di forza-lavoro. Senza dire che ci sono prodotti che hanno un

consumo prevalentemente stagionale (si pensi, per esempio, ai gelati).

Inoltre, nella società avanzata uno degli incentivi al consumo è la continua

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variazione della gamma dei prodotti. Il mercato allargato ha bisogno di

novità. E le novità provocano l'alternarsi di impennate e di cadute del

consumo.

Da questo quadro emerge la necessità che ha il sistema produttivo

capitalistico di definire il rapporto di lavoro in termini di estrema instabilità,

per potere rapportare l'impiego di lavoro umano da una parte alla

evoluzione del sistema tecnico e dall'altra all'andamento del mercato. Le

risposte che via via vengono date a tale esigenza di fondo si collocano a

diversi livelli di intervento e sono comunque esiti provvisori di una ricerca

che tende a rifondare il rapporto complessivo fra capitale e lavoro.

21.5.1 La valenza sociale del «posto di lavoro»

In un assetto del rapporto di lavoro improntato alla stabilità, la ricerca di

un lavoro ha una collocazione ben precisa nella fase iniziale dell'età adulta.

E' la fase della ricerca del «posto di lavoro».

In tale assetto, il «posto di lavoro» ha una valenza sociale che va ben al

di là della semplice collocazione professionale. In una società che pretende

di ignorare i bisogni primari degli uomini e delle donne, potere contare su

una attività retribuita relativamente stabile significa mettere la propria

esistenza al riparo da imprevisti. La società astratta non dà sicurezza e

spinge quindi chi non dispone di mezzi propri a cercare rifugio in un lavoro

dipendente, il più possibile stabile e sicuro. Da qui il valore esistenziale

dell'approdo ad un «posto di lavoro». Valore che, del resto, è possibile

intravedere nell'espressione «si è sistemato», riferita a chi un «posto» I'ha

finalmente trovato.

In realtà, in un quadro di relativa stabilità del rapporto di lavoro, la ricerca

del «posto» si risolve nella ricerca - più generale - di dare, una volta per

tutte, una "sistemazione" alla propria vita. Non è un caso che, in questo

quadro, il «posto di lavoro» viene comunemente percepito - a torto o a

ragione - come il passaggio dalla "irresponsabilità" giovanile alla

"responsabilità" dell'età adulta.

Ora, la stabilità del rapporto di lavoro, che si esprime nella nozione di

«posto di lavoro», è un dato antitetico al processo di indeterminazione, che

tende al continuo azzeramento della condizione sociale degli uomini e delle

donne. Tutto ciò che rappresenta sicurezza per i soggetti concreti si qualifica

in termini di destabilizzazione per la struttura della società astratta.

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Da qui la tendenza a liberare il rapporto di lavoro da ogni vincolo sociale.

Questa tendenza si esprime, in una prima fase, in una sorta di

sperimentazione della indeterminazione occupazionale, che è volta alla

costruzione, in prospettiva, di un nuovo assetto del rapporto di lavoro,

adeguato alla società astratta.

Questa tendenza mette in crisi la nozione tradizionale di «posto di

lavoro». Tale nozione ha una doppia valenza. Da un lato fa riferimento alle

attitudini necessarie per svolgere una determinata attività lavorativa,

dall'altro si riferisce alla capacità che ha il sistema sociale di assicurare

occupazione. Da un lato dunque il carico di qualità lavorativa necessaria

per fare funzionare il processo complessivo di produzione, dall'altro il carico

di unità occupazionali che il processo è in grado di garantire.

Ora, nella società astratta queste due valenze tendono a contare sempre

meno. Il «posto di lavoro», in quanto professionalità sedimentata e inglobata

in una singola unità produttiva, viene investito da profonda crisi, per via

dell'accelerazione del processo di innovazione tecnologica. Il «posto di

lavoro», in quanto unità di misura delle capacità occupazionali del sistema

sociale, diventa sempre meno definibile. Le capacità occupazionali di un

sistema produttivo capitalistico avanzato sono sempre meno quantificabili in

modo rigoroso e sempre più determinate dai rapporti di forza. A monte di

tali capacità ci sono infatti tali e tante scelte soggettive, che è pura ideologia

volerle presentare come potenzialità neutre del sistema.

Da tutto ciò emerge la necessità, per le forze imprenditoriali, di aprire una

nuova prospettiva in sede di definizione globale del rapporto di lavoro.

21.5.2 Sperimentazione della indeterminazione occupazionale e doppio mercato del lavoro

In vista di un nuovo assetto del rapporto di lavoro, si procede alla

sperimentazione della indeterminazione occupazionale, nel cui ambito

assume particolare significato il ricorso a un doppio mercato del lavoro: un

mercato, ufficiale, del lavoro regolare e un mercato, non ufficiale, del lavoro

irregolare, cioè non garantito da contratto.

L'apparato di produzione tende a schiacciare la forza-lavoro manuale-

intellettuale con una strategia a tenaglia: da una parte una stretta alla forza-

lavoro ufficialmente occupata in termini di blocco retributivo, di utilizzo

flessibile e di espulsione dal processo lavorativo; dall'altra un uso indi-

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scriminato - al di fuori del sistema di garanzie contrattuali - della forza-

lavoro non ufficialmente impiegata. Si viene così ad aprire una doppia

prospettiva: da una parte sostituzione di lavoro umano con lavoro tecnico,

dall'altra sostituzione di lavoro regolare con lavoro irregolare.

In ambedue i casi si tende ad ottenere una restrizione delle forze di

lavoro, manuali e intellettuali, ufficialmente impiegate. Ma nella sostituzione

di lavoro regolare con lavoro irregolare c'è anche l'utilizzo di un secondo

mercato del lavoro, complementare al mercato ufficiale.

Operare in un sistema di doppio mercato del lavoro significa per le forze

imprenditoriali avere la possibilità di scaricare sul secondo mercato ogni

onere che deriva dall'operare sul primo mercato. Non solo. La situazione di

doppio mercato - con notevole scarto di costi fra il primo e il secondo -

produce una tendenza a trasferire retribuzioni dal primo al secondo mercato,

espellendo forza-lavoro in condizione contrattuale, per riassumerla in

condizione non contrattuale.

La complessa manovra a tenaglia - tendente a spremere, con pressioni

opposte e convergenti, il primo e il secondo mercato del lavoro - viene

sostenuta, sul piano ideologico, con un curioso ragionamento a doppia

faccia. Per ottenere di potere operare liberamente nel mercato ufficiale, le

forze imprenditoriali si fanno scudo della condizione dei disoccupati, che

meritano più attenzione degli occupati, perché mancano dei mezzi di

sussistenza. Per sentirsi legittimate ad operare nel secondo mercato,

mettono avanti la condizione degli occupati, che godono di retribuzioni

"troppo alte". Per un verso si sostiene che, per fare nuovi investimenti ed

incrementare l'occupazione, è necessario bloccare le retribuzioni, per I'altro

si richiede il riconoscimento ufficiale del carattere "fisiologico" del lavoro

irregolare.

Su questa via si muovono e convergono due tendenze: da una parte la

tendenza al blocco delle retribuzioni, dall'altra la tendenza alla

istituzionalizzazione del mercato del lavoro irregolare.

21.5.3 Le forme del lavoro irregolare

Per quel che qui interessa, il processo di indeterminazione attacca

I'attività lavorativa su due punti: il rapporto di lavoro e il contenuto del

lavoro. In sede di rapporto, I'indeterminazione si esprime in termini di

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instabilità del lavoro. In sede di contenuto, si esprime in termini di

incertezza delle rnansioni lavorative.

L'intrecciarsi di questi due modi di esprimersi dell'indeterminazione

produce una miriade di forme di lavoro irregolare. Definiamo lavoro

irregolare una attività lavorativa che viene svolta, per conto terzi, al di fuori

di un quadro definito di garanzie contrattuali.

La casistica è ricchissima. Cerchiamo di esaminare rapidamente alcuni

casi esemplari, tratti dalla situazione italiana. Per cominciare, prendiamo -

per esempio - il caso di chi fa il cameriere in un ristorante in posizione

lavorativa irregolare. Qui l'indeterminazione riguarda il rapporto di lavoro, ma

non le mansioni lavorative, dal momento che questo cameriere irregolare fa,

più o meno, ciò che farebbe in posizione di lavoro regolare. Certo, è

possibile che gli vengano richiesti lavoretti extra. Ma, nella sostanza, egli fa il

cameriere.

Diversa è la situazione di chi non solo non ha un rapporto regolare di

lavoro, ma non può nemmeno fare riferimento ad un quadro definito di

mansioni. Sono gli irregolari "tuttofare". In questo caso, I'indeterminazione

investe sia il rapporto di lavoro che il contenuto dell'attività lavorativa.

Fin qui, comunque, un rapporto di lavoro sussiste di fatto, anche se non

formalizzato e quindi non garantito. Ci sono invece situazioni particolari in cui

è possibile scorporare dal processo complessivo singole produzioni, che

vengono affidate all'esterno. Tipico è il caso del lavoro a domicilio. Qui il

rapporto di lavoro viene azzerato non solo nella forma, ma anche nella

sostanza. La lavoratrice (quasi sempre si tratta di donne) non entra a far

parte dell'azienda. Viene ignorata non solo nei diritti, ma anche nella

persona. La sede di lavoro è casa sua. C'è un mediatore che porta

periodicamente il lavoro da fare e ritira il lavoro fatto.

In relazione al processo di indeterminazione, il lavoro a domicilio

presenta una serie di aspetti che vanno presi in esame. Il dato più rilevante

è senz'altro la sede di lavoro. Il lavoro a domicilio viene presentato, negli

avvisi economici, come un lavoro comodo: «Potrete guadagnare bene

standovene a casa vostra». In realtà, è il capitale che produce profitto

standosene comodamente in casa di altri. Il lavoro invade la vita familiare e

la sconvolge. Il tempo di vita ha la stessa lunghezza d'onda del tempo di

lavoro. Il tanto decantato "focolare domestico" si trasforma in un piccolo

laboratorio, con la donna sballottata tutto il santo giorno fra il ruolo di moglie

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e di madre e il ruolo di lavoratrice, fra una cena da preparare, un sederino

da pulire e il prodotto da consegnare.

Questo dilatarsi della dimensione lavorativa al punto di sovrapporsi alla

dimensione di vita non deriva da un comando diretto sul lavoro. Non c'è

infatti un controllo sui modi e sui tempi dell'attività lavorativa.

L'indeterminazione del lavoro sembrerebbe quindi giocare a favore della

lavoratrice a domicilio, la quale - in teoria - può adattare il tempo ed il ritmo

del lavoro alle proprie esigenze. In realtà, il comando sul lavoro è mediato

dallo stato di necessità materiale, che spinge la lavoratrice a cercare di

raggiungere il massimo della produzione, prolungando i tempi ed

intensificando i ritmi, dal momento che viene pagata per pezzo lavorato. Per

una via traversa, si ottiene dunque lo stesso risultato: I'indeterminazione

come disponibilità del soggetto a mettere fra parentesi le proprie

determinazioni, per farsi carico delle determinazioni del sistema di

produzione.

Nell'arcipelago del lavoro irregolare è difficile classificare le diverse

situazioni sulla base di una scala di indeterminazione del rapporto di

lavoro. Ogni tipo di lavoro costituisce un caso a sé ed è l'esito di un

intreccio di interessi che si incarnano in una forma particolare. Da qui

I'andamento un po' erratico, del caso per caso, che inevitabilmente tende ad

assumere l'analisi all'interno di questo quadro.

Tuttavia stiamo cercando, nei limiti del possibile, di procedere lungo una

linea che va da un minimo ad un massimo di indeterminazione, cioè da

situazioni in cui sussiste, quanto meno, un rapporto informale, a situazioni in

cui il rapporto è, sotto tutti gli aspetti, azzerato e dissolto. Ora, nel caso del

lavoro a domicilio, il rapporto - come abbiamo visto - non sussiste. Di

contro, rimane in piedi - se pure in sede separata - una ministruttura tecnica,

che fa da supporto all'attività lavorativa. La lavoratrice a domicilio deve farsi

- fra l'altro, a proprie spese - I'attrezzatura indispensabile per lavorare in un

determinato settore della produzione. Una donna che lavora a domicilio nel

settore della maglieria non può fare a meno di una data macchina e di altri

opportuni arnesi. Inoltre, la lavoratrice a domicidio finisce per "specializzarsi"

in una particolare lavorazione.

La base tecnica acquisita e la specifica abilità accumulata danno luogo,

di fatto, ad una certa continuità dell'attività lavorativa, che a volte si traduce

in una sorta di "rapporto a distanza" - prolungato nel tempo - con una ditta.

La lavoratrice a domicilio non può passare continuamente da un tipo di

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lavoro ad un altro, né da una ditta ad un'altra, perché ciò significherebbe

cambiare di continuo attrezzatura e tipo di lavorazione. Dall'altra parte, le

ditte tendono ad ottenere con una certa continuità un dato tipo di prodotto,

che soltanto lavoratrici con una specifica esperienza lavorativa sono in grado

di garantire.

In sintesi, dunque, il lavoro a domicilio presenta - rispetto al processo

di indeterminazione - una relativa stabilità di fatto del contenuto del lavoro

in un contesto di separatezza sociale dell'attività lavorativa (la lavoratrice a

domicilio non ha contatti con compagni e compagne di lavoro) e in assenza

di un qualsiasi rapporto di lavoro, formale o informale.

Nettamente differenziato appare, rispetto a questo quadro connotativo, il

lavoro di propaganda e di vendita esterna, porta a porta, come si dice.

Questa area è, al suo interno, molto variegata. Si va da chi gira per le case

per vendere enciclopedie a rate a chi mette la pubblicità dei detersivi entro

le cassette della posta.

Dando per scontata l'assenza di rapporto formale di lavoro - assenza

che è alla base della nozione di lavoro irregolare - ci sono differenziazioni

per quanto riguarda la continuità del lavoro e la presenza di un qualsiasi

rapporto informale di lavoro, cioè di un contatto continuato fra il lavoratore o

la lavoratrice e la ditta. E' facile, per esempio, supporre che il lavoro di

propagandista editoriale abbia una "durata" maggiore rispetto al lavoro di

distribuzione di fogli pubblicitari. E non perché il primo lavoro preveda un

qualche vincolo formale, ma semplicemente perché la propaganda editoriale

presuppone, quanto meno, I'acquisizione di alcuni standard di conoscenza

e di comportamento, oltre che un certo "stile". Requisiti che non sono

richiesti per mettere foglietti dentro le cassette della posta.

Si può dunque dire che - entro i parametri di una estrema precarietà,

dovuta all'assenza di vincoli formali - la "durata" del lavoro irregolare è

correlata alla "qualità" (si fa per dire) del suo contenuto.

Fanno, in un certo senso, parte a sé i lavori stagionali. Si tratta soprattutto

di lavori agricoli. In zone di intensa produzione di frutta, la raccolta è una

occasione di forte mobilitazione del lavoro irregolare. Giovani, in particolare

immigrati, vengono supersfruttati, a basso costo ed al limite della resistenza

fisica. Si tratta infatti di lavori faticosissimi, perché fatti in estrema intensità e

per un numero elevato di ore al giorno.

A questa intensificazione quasi ossessiva concorrono da una parte

I'interesse dello “stagionale” (si tratta in genere di uomini) - pagato per ogni

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cesta di frutta raccolta - a guadagnare più che può nel più breve tempo

possibile e dall'altra l'interesse del proprietario a portare a termine

l'operazione il più presto possibile, dato che la raccolta non può essere

prolungata oltre un certo termine.

Il primo dato che emerge è il carattere particolare della situazione di

lavoro. Innanzi tutto, si tratta di una situazione predeterminata. C'è una

quantità determinata di frutta da raccogliere. L'occasione di lavoro è quindi

limitata. Finita la raccolta, I'occasione - per quell'anno - si esaurisce. Entro

questa sorta di contenitore il lavoratore stagionale riversa un lavoro

estremamente "concentrato", non perché venga sottoposto a particolari

controlli, ma perché ha interesse a fare più presto che può. Anche qui il

comando sul lavoro viene mediato dalla necessità materiale del soggetto.

Il carattere di esasperata "concentrazione" di questo lavoro produce, se

pure per periodi relativamente brevi, un vero e proprio azzeramento della

qualità della vita dei soggetti coinvolti. Alla "concentrazione" dell'attività

lavorativa corrisponde, come è ovvio, una elevazione del livello di

indeterminazione. Alla persona si richiede il massimo della disponibilità: la

disponibilità a sospendere per un certo periodo le proprie esigenze

quotidiane.

C'è nel lavoro stagionale un dato che ritroviamo in altri lavori irregolari: la

delimitazione dell'occasione di lavoro. Ci sono lavori che possiamo

chiamare "occasionali", perché nascono in occasione di un qualche evento

pubblico e finiscono nel giro di qualche giorno. C'è da sistemare sedie e

transenne per una manifestazione pubblica o per uno spettacolo. E' una

"occasione" delimitata, che mobilita lavoro irregolare. Rispetto alla raccolta

della frutta, di diverso c'è qui il controllo diretto dell'attività lavorativa. E si

capisce perché. Non è possibile, nel lavoro "occasionale", pagare per

quantità di prodotto. E allora è necessario comandare direttamente il lavoro.

Il che mette in evidenza la funzione suppletiva di comando che ha il

pagamento "tanto quanto".

In questa area il lavoro irregolare assume le forme più svariate e

raggiunge punte estreme di frammentazione. E, soprattutto, si presenta

come prestazione allo stato puro, separata dalla persona. Il soggetto non si

sente minimamente coinvolto. La singola prestazione viene ovviamente

inserita in una struttura organizzativa. Ma l'insieme viene composto e

scomposto con una tale rapidità da non lasciare segno alcuno in chi spende

le sue energie, si prende la paga e se ne va.

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E' praticamente impossibile dare conto di tutte le forme del lavoro

irregolare. Del resto, quel che qui interessa non è tanto un panorama

esaustivo delle modalità esteriori, quanto una ricognizione delle risposte

che, attraverso il lavoro irregolare, le forze imprenditoriali approntano rispetto

all'esigenza di indeterminazione del rapporto di lavoro. Il lavoro irregolare

assume, volta a volta, la forma adatta al contesto in cui viene ad inserirsi.

Ma non è tanto il tipo di attività (raccogliere frutta, montare transenne) che

qui interessa, quanto l'assenza di un rapporto formale o di un qualsiasi

rapporto. In sostanza, qui interessa non tanto il lavoro irregolare quanto il

lavoro irregolare. Il lavoro irregolare interessa cioè non tanto per il suo

contenuto, quanto per il tipo di rapporto che comporta. L'irregolarità è infatti

riferita non all'attività lavorativa, ma al rapporto di lavoro.

Nella definizione adottata, un lavoro è irregolare non in quanto I'attività è

priva di regole, ma in quanto è privo di regole, o addirittura assente, il

rapporto entro cui l'attività viene svolta. Ciò non significa che nel lavoro

irregolare non ci possa essere anche una irregolarità dell'attività lavorativa.

Significa che chiamiamo irregolare anche un lavoro in cui l'attività lavorativa

si svolge con regolarità, ma in assenza di un rapporto regolare.

21.5.4 La scissione fra soggetto e prestazione lavorativa

II lavoro irregolare, nelle sue svariatissime forme, ci interessa - in questa

sede - non tanto in sé, come ventaglio di risposte immediate all'urgenza del

problema della instabilità del rapporto di lavoro, quanto come spia delle

esigenze di fondo che stanno dietro a quella urgenza. Il lavoro irregolare da

un lato si definisce come soluzione non contemplata nel vecchio assetto,

dall'altro si propone come prefigurazione di un nuovo assetto. Da un lato

rottura pratica della stabilità del vecchio rapporto di lavoro, dall'altro

proposizione di un nuovo rapporto di lavoro, fondato sulla instabilità.

Ora, è possibile individuare nell'arcipelago del lavoro irregolare la

prefigurazione di un nuovo assetto del rapporto di lavoro? Dobbiamo

partire da un dato. La molteplicità delle forme che assume il lavoro

irregolare non è casuale. E' la traduzione pratica della molteplicità delle

situazioni in cui viene ad incardinarsi il rapporto di lavoro. Il montaggio

occasionale della struttura di uno spettacolo all'aperto presenta - in sede di

rapporto di lavoro - problemi diversissimi rispetto alla produzione di auto in

serie. Non è quindi immaginabile un assetto in cui l'instabilità del rapporto si

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esprima negli stessi termini in tutte le situazioni. E tuttavia I'individuazione

delle esigenze di fondo presenti nel lavoro irregolare può consentire di

tracciare le linee lungo le quali si snoda il processo di istituzionalizzazione

della instabilità del rapporto di lavoro.

C'è da osservare innanzi tutto che, in assenza di vincoli formali, la

"durata" del rapporto di lavoro è - a un dato stadio dell'evoluzione

tecnologica - I'esito di una mediazione fra il grado di continuità lavorativa

di cui necessita un particolare processo di produzione e il grado di instabilità

che caratterizza l'andamento di un particolare prodotto sul mercato.

In teoria, in assenza di una esigenza apprezzabile di continuità e in

presenza di un andamento fortemente instabile del prodotto sul mercato,

ogni lavoro tende a definirsi, in sede di rapporto, come lavoro "occasionale".

In questo modello, a parte uno staff tecnico ed organizzativo, non c'è

bisogno di acquisire forza-lavoro manuale-intellettuale all'interno del

processo di produzione. Basta prelevare dal mercato del lavoro le

prestazioni che volta a volta servono al ciclo produttivo, senza che ciò debba

comportare l'assunzione al sistema di produzione dei soggetti che

forniscono le prestazioni.

Una tale prospettiva comporta la scissione fra soggetto e prestazione

lavorativa. Per cogliere la portata di tale innovazione, occorre tenere

presente che nell'assetto tradizionale del capitalismo industriale la

prestazione lavorativa è, almeno formalmente, integrata ad un soggetto

concreto, ad un uomo o ad una donna in carne e ossa. Il sistema di

produzione si garantisce l'uso di una data prestazione assumendo il

lavoratore o la lavoratrice che quella prestazione è in grado di fornire. Nel

nuovo modello è invece possibile acquisire, dietro compenso, specifiche

prestazioni lavorative, senza dovere necessariamente instaurare un rapporto

con le persone concrete 34.

Questa prospettiva viene prefigurata nel «lavoro interinale». Si tratta di un

vero e proprio salto di qualità, che strappa il velo ideologico e porta allo

scoperto la mercificazione del lavoro umano nel modo capitalistico di

produzione. il lavoro interinale è l'attività umana concepita come merce, che

si può dare «in affitto», esattamente come una casa per la villeggiatura. E,

siccome il lavoro umano è incarnato in uomini e donne in carne e ossa, non è

34 Il quotidiano «La Repubblica» del 6/3/1996 titola: «Cambia la mappa dell'occupazione: non più

dipendenti, ma fornitori di servizi per la grande impresa».

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azzardato affermare che, con simili espedienti, il capitalismo avanzato

regredisce ad una sorta di "mercato degli schiavi".

Per questa via, si evita che donne e uomini si insedino stabilmente

all'interno del sistema di produzione e possano servirsi della struttura

produttiva come base materiale per la propria organizzazione di classe. La

lavorazione passa sotto il completo dominio della Direzione tecnica, che

opera l'assemblaggio delle singole prestazioni lavorative ad un livello

superiore rispetto al processo materiale di produzione.

In sintesi, il senso di fondo del processo di indeterminazione nella sfera

lavorativa si definisce in termini di emancipazione del lavoro dai vincoli

sociali. Ora, i vincoli sociali del lavoro umano discendono dalle implicazioni

esistenziali che ha per gli uomini e per le donne il problema

dell'occupazione. Pertanto, il modo capitalistico di emancipare il lavoro

umano è "liberarlo" dall'umano, assumendo - ove è possibile - la

prestazione lavorativa come pura e semplice performance tecnica, sganciata

dalla persona concreta. Il lavoro umano viene disinnescato dall'universo

della soggettività e integrato all'universo del sistema tecnico. La persona

diventa veramente - e non soltanto metaforicamente - macchina fra le

macchine.

21.5.5 L'istituzionalizzazione della instabilità del rapporto di lavoro

Da quanto si è osservato emerge che un nuovo assetto del rapporto di

lavoro si configura non come passaggio da una regolazione ad un'altra, ma

come transizione da un sistema regolato ad un sistema non regolato.

L'istituzionalizzazione della instabilità del rapporto di lavoro pone un

problema non di new regulation, ma di deregulation. Non si tratta cioè di

sostituire i vecchi con nuovi vincoli, ma semplicemente di azzerare il sistema

dei vincoli sociali nell'utilizzo della forza lavoro manuale-intellettuale.

L'emancipazione del rapporto di lavoro dai vincoli sociali si traduce in

liberazione dell'utilizzo della forza-lavoro dal rapporto formale di lavoro.

Una tale liberazione mette in moto tutte le possibili combinazioni fra capitale

e lavoro e si definisce quindi in termini di differenziazione del rapporto di

lavoro. Nella nuova posizione di forza, gli imprenditori possono attingere al

mercato del lavoro adottando, volta a volta, il rapporto per loro più

vantaggioso in relazione al tipo di produzione. In questo senso,

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istituzionalizzazione della instabilità lavorativa significa per gli imprenditori

libertà di manovra nelle situazioni date.

Dal punto di vista delle forze di lavoro, I'istituzionalizzazione della

instabilità del rapporto di lavoro ha un significato di segno opposto.

L'azzeramento dei vincoli nel rapporto di lavoro produce - nei termini della

nostra analisi - il massimo di esposizione della forza-lavoro manuale-

intellettuale al processo di indeterminazione. Quanto più spazio ha

I'imprenditore per fare valere le esigenze relative alla produzione - che sono,

nel sistema capitalistico, le esigenze relative alla massimizzazione del

profitto - tanto meno spazio ha il lavoratore o la lavoratrice per far valere le

esigenze relative alla qualità della vita. Quanto più libere sono le aziende di

decidere i tempi e i modi del processo lavorativo, tanto meno libero/a è il

lavoratore o la lavoratrice di decidere i tempi e i modi del proprio vivere

quotidiano. Quanto meno vincolata è la Direzione aziendale nelle sue

richieste di prestazioni lavorative, tanto più vincolato/a è il lavoratore o la

lavoratrice nelle sue risposte. Al massimo di liberalizzazione del rapporto di

lavoro corrisponde il massimo di asservimento della forza-lavoro manuale-

intellettuale.

In questo quadro, I'indeterminazione si definisce come sovradetermi-

nazione, cioè come determinazione dall'alto, da parte di una forza esterna.

In realtà, I'indeterminazione non è soltanto assenza di determinazioni

proprie, ma anche disponibilità a farsi carico delle determinazioni del

processo produttivo. Essere indeterminati significa essere in condizione di

farsi sovradeterminare.

21.6 L’indeterminazione nel processo di trasformazione del lavoro

Il processo di indeterminazione opera sempre nel quadro di una

trasformazione sociale. Ma ha una sua specificità. Segna il passaggio da

situazioni più definite a situazioni meno definite. Una indagine

sull'indeterminazione del lavoro in un particolare contesto dovrebbe prima

individuare un quadro significativo di trasformazioni del lavoro e poi

accertare se e in che misura in tale quadro si è prodotta una evoluzione da

situazioni di lavoro più definibili a situazioni meno definibili da parte dei

soggetti coinvolti.

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La rottura dei vincoli sociali è, da questo particolare punto di vista, un

modo per rendere fluida - e quindi difficilmente definibile da parte dei

soggetti coinvolti - la situazione di lavoro.

La difficoltà di definire la situazione non riguarda la direzione del

lavoro. Anzi. La minore definibilità da parte delle forze di lavoro deriva dal

fatto che la Direzione detiene il potere di definire, volta a volta, la

situazione secondo le esigenze del sistema di produzione. Per esempio,

nell'ambito del rapporto di lavoro, I'indeterminazione, in sé, si qualifica non

come assenza di un qualsiasi rapporto formale strutturato, ma come

impossibilità, per chi lavora, di poter contare - nell'organizzare la propria vita

- su una determinata durata e su una determinata continuità del rapporto.

Al limite, I'indeterminazione del rapporto di lavoro può anche riferirsi ad

una situazione di lavoro non priva di garanzie contrattuali. Il rapporto di

lavoro può pure essere formalizzato in un contratto. Ma se il contratto può

essere sciolto sulla base di motivazioni rispetto alle quali è determinante il

giudizio della Direzione, il rapporto di lavoro risulta, nella sostanza,

indeterminato. Da una parte infatti chi lavora non è in grado di definire, in

prospettiva, la sua condizione lavorativa e quindi esistenziale, dall'altra la

Direzione è sempre in grado di decidere se continuare o interrompere il

rapporto. I due aspetti sono legati. Chi lavora è impossibilitato a definire la

propria prospettiva di lavoro proprio perché chi dirige ha il potere di

decidere, quando vuole, la sua interruzione.

La presenza o meno di vincoli sociali relativi al rapporto di lavoro è

discriminante per l'analisi dell'indeterminazione del lavoro. Tale analisi deve

partire da una distinzione di fondo fra indeterminazione in condizione di

stabilità lavorativa e indeterminazione in condizione di instabilità lavorativa.

In un quadro di relativa stabilità lavorativa, il processo di

indeterminazione deve fare i conti con i vincoli contrattuali. Ciò vale

soprattutto per il rapporto di lavoro. Più agevole è invece l'indeterminazione

dei contenuti del lavoro, perché può operare facendosi velo della

innovazione tecnologica.

Non potendo attaccare direttamente il quadro delle garanzie contrattuali,

il processo di indeterminazione tende ad aggirare i vincoli sociali con una

serie di provvedimenti volti a indurre il lavoratore o la lavoratrice a ridurre

l'impegno lavorativo, in modo da indebolire il rapporto di lavoro.

Completamente diverso è, ovviamente, I'andamento del processo di

indeterminazione in un quadro di instabilità lavorativa, dove - in assenza di

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vincoli sociali - I'indeterminazione può operare in piena libertà, sia in sede di

contenuti e di tempi di lavoro, sia in sede di rapporto di lavoro.

Il panorama del lavoro nero e del lavoro precario in genere ci dà la

misura della forza di scompaginazione e di frammentazione che può

sviluppare, in condizione di piena deregulation, il processo di

indeterminazione. Sotto l'azione di tale processo, il lavoro cessa di definirsi

in forma stabile sul piano dei contenuti, dei tempi e del rapporto. Diventa

una sorta di area a pareti mobili, entro la quale è possibile comporre e

scomporre, volta a volta, spazi lavorativi. Attraverso l'indeterminazione, il

capitale si crea ogni volta un modello di struttura del lavoro a misura della

particolare congiuntura del processo di valorizzazione.

21.7 Innovazione tecnologica e indeterminazione del lavoro

L'innovazione tecnologica - allo stadio dell'automazione - introduce, di per

sé, elementi oggettivi di indeterminazione del lavoro umano.

Nell'organizzazione del lavoro legata al primo stadio della meccanizzazione

molte funzioni sono ancora incorporate nel lavoro umano. In tale contesto si

rende necessaria una certa continuità del rapporto fra lavoratore o

lavoratrice e mansione lavorativa. Infatti, maggiore è l'incidenza delle

funzioni lavorative - in senso stretto - incorporate nella componente umana

del lavoro, più stabile risulta il legame fra soggetto e mansione lavorativa. Il

lavoro umano, a differenza del lavoro incorporato nelle macchine, è sempre

fondato sulla esperienza accumulata. Certo, per quanto riguarda la struttura

tecnica, anche le macchine sono il frutto dell'accumulazione di esperienza.

Ma, per l'incidenza sul processo di lavorazione, una macchina può essere

talmente innovativa da azzerare tutte le precedenti esperienze..

L'innovazione introdotta dall'automazione ha, per quel che qui interessa,

un effetto significativo: tutte le funzioni lavorative, in senso stretto, sono

incorporate nelle macchine. Al lavoro umano rimangono soltanto compiti di

gestione, di programmazione e di manutenzione. A questo livello, il lavoro

umano è chiamato ad operare con estrema duttilità e fluidità. Da una

parte, deve essere in grado di affrontare e risolvere i problemi che volta a

volta insorgono nell'arco del processo. Dall'altra, deve ricercare ogni volta

l'assemblaggio più economico e più efficace - dal punto di vista della

massimizzazione del profitto - delle componenti del processo lavorativo.

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L'avvicendarsi delle soluzioni tecniche ed organizzative produce una

continua scomposizione e ricomposizione delle mansioni. Questa fluidità

delle mansioni lavorative richiede la completa disponibilità della forza-lavoro

manuale-intellettuale a seguire le esigenze della organizzazione Iungo tutto

l'arco del processo di produzione. L'innovazione tecnologica va dunque in

direzione della indeterminazione dei contenuti del lavoro e fornisce il

pretesto per la richiesta di disponibilità a cambiare mansione anche in un

quadro di stabilità lavorativa.

Inoltre, il progresso tecnico produce labour saving, risparmio di lavoro

umano, liberando tempo di lavoro, che può essere occupato attraverso un

ampliamento degli impegni lavorativi del singolo/a dipendente.

Prendiamo il caso di una ragazza che lavora in una piccola ditta

commerciale 35. E' addetta al carico e scarico. I contenuti e i tempi del suo

lavoro sono definiti. Ad un certo punto, viene introdotto un computer. E'

chiaro che nella nuova situazione non c'è più bisogno di qualcuno o

qualcuna che si occupi esclusivamente di carico e scarico. Alla ragazza

vengono assegnati anche altri compiti. Le viene richiesto di fare anche

l'elaborazione statistica dell'andamento dei prodotti sul mercato. Le

mansioni lavorative cominciano ad essere meno definite. Si libera tempo di

lavoro e si creano quindi spazi per altri compiti. La ragazza si sente spesso

dire: «Dato che ti rimane tempo, fammi pure quest'altra cosa». Ad un certo

punto, le viene chiesto di occuparsi non solo di amministrazione, ma anche

di vendita. La sua giornata lavorativa viene divisa in due parti: la mattina

vendita, il pomeriggio amministrazione. L'indeterminazione prodotta dalla

introduzione del computer investe dunque non solo le mansioni lavorative,

ma anche il tempo di lavoro.

E non basta. Si crea una sorta di reazione a catena. Essendo adesso

addetta anche alla vendita, dove vige la regola della incentivazione, la sua

retribuzione viene divisa in due parti: una parte fissa ed una parte variabile,

per provvigione. Come si vede, I'innovazione tecnologica si traduce in

processo di indeterminazione, che investe tutta la condizione di lavoro.

35 Si tratta di un caso reale, presentato da una studentessa lavoratrice nell'ambito di una lezione

universitaria di sociologia.

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21.8 Destabilizzazione del sistema delle professioni e precarietà sociale

In un sistema di produzione ad alta tecnologia i contenuti delle mansioni

lavorative sono in rapida evoluzione. Ciò produce non solo un continuo

invecchiamento dei contenuti del lavoro, ma - aspetto ben più rilevante -

una destabilizzazione del sistema delle professioni.

Tale destabilizzazione si traduce in una destrutturazione delle singole

professioni - che cambiano continuamente i loro connotati di fondo - e in

una permanente mutazione del quadro lavorativo, con un continuo com-

parire e scomparire di attributi professionali.

In una situazione così fluida, il soggetto ha grosse difficoltà a program-

mare la propria occupazione lavorativa. In un sistema in cui I'occupazione

lavorativa è un dato qualificante dell'esistenza, la difficoltà a darsi una

prospettiva occupazionale si traduce in difficoltà a darsi una prospettiva di

vita, si traduce cioè in precarietà sociale.

Per precarietà sociale intendiamo lo stato di insicurezza materiale e

immateriale, in cui sono costretti a vivere tanti uomini e tante donne. E'

importante sottolineare il fatto che non si tratta soltanto della mancanza o

della insufficienza dei mezzi di sussistenza, ma anche della incertezza

della prospettiva esistenziale. L'accento - già in sede di definizione della

precarietà sociale - va messo non tanto sulla mancanza di mezzi di vita,

quanto sulla incertezza della prospettiva, materiale e immateriale, di

esistenza. Questo punto è importante, perché c'è tutta una tendenza a

vanificare il problema della sussistenza con il dire che in fondo, nella società

capitalistica avanzata, le persone riescono, in un modo o nell'altro, a

sopravvivere. Spostare i termini della questione dall'aspetto quantitativo

all'aspetto qualitativo permette quindi intanto di recuperare all'analisi un

disagio che non può essere spiegato nel quadro di una sorta di contabilità

di mezzi di sussistenza.

La precarietà sociale è, in questo senso, una delle categorie esplicative

del disagio esistenziale. Il problema è quindi di definire tale categoria in

termini adeguati all'oggetto che intende spiegare. Dire che la precarietà

sociale non può essere definita soltanto in termini di mancanza di mezzi

materiali di vita significa affermare che tale mancanza non può spiegare, da

sola, ciò che vuole spiegare. L'ipotesi è che il disagio deriva non soltanto

dal non avere, nell'immediato, di che vivere, ma anche dal non avere la

certezza di potere continuare a disporre dei mezzi di sussistenza. Ciò sul

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piano materiale. Ma l'aspetto materiale non esaurisce l'origine del disagio.

E' I'incertezza del progetto di vita che è alla base del disagio esistenziale.

Tale incertezza è funzionale all'astrazione, perché non essere in condizione

di progettare la propria vita significa essere alla mercé del processo di

valorizzazione economica e politica del capitale.

L'indeterminazione del lavoro porta così a compimento la sua opera di

destabilizzazione della vita sociale. Minando alla base la prospettiva

esistenziale dei soggetti concreti, apre la strada alla sussunzione della

società al capitale ed alla sua qualificazione come società astratta.

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Capitolo Ventiduesimo

FLESSIBILITA’ DEL LAVORO E SOGGETTIVITA’ SOCIALE

L’insorgere, anche soltanto potenziale, di una soggettività sociale che si

richiami all’appartenenza di classe è una mina vagante per la società

sussunta al capitale. Da qui una continua ricerca di misure che tendano ad

evitare la coagulazione di componenti di classe nella soggettività sociale.

Un pesante intervento in questa direzione è la graduale scompaginazione

di tutti gli aspetti del lavoro. Al suo culmine, tale intervento va a investire il

rapporto di lavoro, dando luogo ad un sempre più alto grado di flessibilità del

mercato del lavoro. E’ qui il centro propulsore del processo di

indeterminazione, cioè del processo che tende a depurare i soggetti delle

loro determinazioni, per adeguarli al sistema di astrazione sociale, al sistema

di indifferenza alla concretezza esistenziale degli uomini e delle donne in

carne e ossa 36.

La flessibilità del mercato del lavoro produce una agibilità multiforme della

forza-lavoro, che si traduce in una molteplicità di percorsi lavorativi e si

esprime, sul piano normativo, nelle diverse forme del lavoro flessibile: part-

time, lavoro a termine, contratto di collaborazione, lavoro in affitto 37. Queste

forme potranno, nel tempo, essere cambiate, lasciando intatta la sostanza

del lavoro instabile. La soggettività sociale viene attraversata e contaminata

da ognuna di queste modalità d’uso della forza-lavoro, disarticolandosi e

frastagliandosi in un poliformismo di risposte individuali alle condizioni di vita

e di lavoro.

Non si tratta soltanto di una disaggregazione della soggettività di classe in

una molteplicità di corpi sociali, che si coagulano lungo ognuno dei percorsi

lavorativi. Le forme del lavoro flessibile hanno dentro di sé una sorta di

anticoagulante, che dissolve in partenza qualsiasi processo di aggregazione

36 Si veda, in questo volume, Introduzione alla Sezione Seconda, paragrafo 19.3 Sistema di astrazione e processo di indeterminazione.

37 Per le norme che regolano le diverse forme del lavoro flessibile, si può vedere Lavoro flessibile,

supplemento de Il Sole 24 Ore, maggio 2001.

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sociale. Il part-time, il lavoro a termine, la collaborazione, il lavoro in affitto,

non danno luogo a corpi della classe e nemmeno a semplici categorie di

lavoratori e lavoratrici. Il lavoro flessibile non dà identità. I singoli soggetti non

fanno corpo sociale con gli altri soggetti che hanno lo stesso tipo di rapporto

di lavoro.

In tale direzione, si va verso una lenta decomposizione della comunità del

lavoro e ad una sempre più accentuata esposizione dei singoli soggetti alla

sofisticata assimilazione dei valori portanti della organizzazione capitalistica

della società. Per questa via, tramonta la percezione del lavoro legato - pur

nella sua accezione alienata - alle capacità creative dell’essere umano. Il

lavoro si appiattisce sul salario. E’ sempre meno lavoro salariato, con

l’accento sull’attività lavorativa, e sempre più lavoro salariato, con l’accento

sulla variabile salariale.

Al di là dei connotati di fondo del lavoro flessibile, ogni forma di flessibilità

si caratterizza per una propria specifica modalità di intervento sulla

soggettività sociale. E’ quindi opportuno, a questo punto, guardare dentro

ognuna delle forme del lavoro flessibile, per cercare di individuare e definire

le modalità di destrutturazione della soggettività sociale.

22.1 L’individualizzazione del rapporto di lavoro

Il lavoro flessibile opera una prima disarticolazione della soggettività

sociale in sede di rapporto di lavoro. Tutte le forme del lavoro flessibile hanno

in comune, nella normativa che le regolamenta, un aspetto: sono basate su

contratti individuali. Attraverso l’individualizzazione del rapporto di lavoro si

passa dalla contrattazione fra le rappresentanze delle forze imprenditoriali e

le rappresentanze delle forze del lavoro alla contrattazione fra la singola

azienda e il singolo lavoratore, uomo o donna. L’orologio del rapporto fra

capitale e lavoro viene bruscamente spostato all’indietro, con pesanti

conseguenze in sede di determinazione dei rapporti di forza e di

salvaguardia dei diritti dei lavoratori e delle lavoratrici.

Questa svolta produce la disarticolazione della soggettività sociale delle

forze di lavoro. Il soggetto, uomo o donna in carne e ossa, non si sente,

come nella tradizione del movimento operaio, membro di un corpo sociale in

grado di reggere il confronto e lo scontro, anche in sede di contrattazione,

con il padrone. Si ritrova inchiodato al suo contratto individuale. Ogni

soggetto è parte a sé e se la deve cavare come può, in perfetta solitudine.

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Una tale situazione squilibra completamente il rapporto di lavoro: da una

parte un soggetto fragile e indifeso, dall’altra un potere forte e arrogante.

22.2 La flessibilità del tempo di lavoro: il part-time

Il part-time è una forma ambivalente di lavoro flessibile. Dal punto di vista

dell’azienda, esso consente di modulare nel tempo la prestazione lavorativa,

modellandola a misura di specifiche procedure di produzione. E questo

vantaggio non solo non ha un costo aggiuntivo, ma comporta una riduzione

della retribuzione. Dal punto di vista del lavoratore o della lavoratrice, la

riduzione del tempo di lavoro lascia spazio ad un secondo lavoro e,

soprattutto per le donne (nell’assetto dato dei ruoli), alla cura della famiglia

ed alle faccende di casa. I due versanti si intrecciano. L’azienda sfrutta, a

proprio vantaggio, il bisogno degli uomini e delle donne di avere tempo “per

altro”.

Sono previste tre modalità di part-time. Il tempo parziale di tipo orizzontale

comporta una riduzione dell’orario giornaliero di lavoro. Il tempo parziale di

tipo verticale lascia inalterato l’orario giornaliero di lavoro, ma riduce - nel

corso della settimana, del mese o dell’anno - le giornate lavorative. Il tempo

parziale di tipo misto è una combinazione dei due tipi precedenti.

Di fronte ad una tipologia così articolata dell’orario di lavoro, bisogna

chiedersi: a chi spetta scegliere l’una o l’altra modalità? Sulla base dei

rapporti di forza, c’è da supporre che, al di là della copertura formale, è

l’azienda a decidere, sulla base delle proprie convenienze. Può dunque

accadere che ad una riduzione della retribuzione non corrisponda una

modalità di orario conveniente per il lavoratore o per la lavoratrice. Al limite,

può darsi che la riduzione dell’orario sia modulata ad esclusivo vantaggio

dell’azienda. In tale quadro, la funzione del part-time è di consentire

all’azienda di concentrare il tempo di lavoro, in modo da evitare vuoti

fisiologici nell’utilizzo della forza-lavoro.

A questa logica risponde il lavoro supplementare, cioè la prestazione

svolta oltre l’orario di lavoro previsto dal tipo di part-time adottato, ma entro il

limite dell’orario di lavoro full-time. Dunque, l’azienda non solo può scegliere

la modalità di orario parziale che meglio risponde alle esigenze della

produzione, ma può anche dilatare e restringere il tempo parziale di lavoro, a

misura dell’andamento del processo di produzione. Inoltre, nel caso del tipo

verticale di tempo parziale, può anche andare oltre il limite del full-time. Per

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esempio, può richiedere prestazioni lavorative in giorni non compresi nel

calendario del tempo parziale, sforando così la soglia del tempo pieno. Solo

che, in questo caso, le prestazioni aggiuntive vengono considerate lavoro

straordinario. Come si vede, la flessibilità del part-time offre un’ampia gamma

di combinazioni, dando all’azienda la possibilità di fare aderire, volta a volta,

senza sbavature, il tempo di lavoro al tempo di produzione.

La parzializzazione del tempo di lavoro sembra non avere effetti sulla

soggettività sociale. In fondo, il lavoratore o la lavoratrice a tempo parziale ha

un lavoro stabile. Cambia soltanto una modalità contrattuale: l’orario di

lavoro. C’è però da tenere presente che il part-time si basa su una

contrattazione individuale, con le ricadute sul soggetto già evidenziate. Ma, al

di là di questo dato, chi fa un lavoro a tempo parziale finisce per sentirsi

estraniato dai ritmi dell’ambiente di lavoro, quasi fosse una semplice

appendice del corpo sociale della forza-lavoro impiegata in azienda. La

parzializzazione del tempo di lavoro si traduce così in parzializzazione della

soggettività.

22.3 Un lavoro sempre in prova: il contratto a termine

Il contratto di lavoro a termine mette l’impresa in condizione di estrema

forza e il lavoratore o la lavoratrice in condizione di estrema debolezza. Chi

dà prestazioni a termine è, di fatto, in balia della direzione dell’azienda. E’

continuamente chiamato a dare buona prova di sé. Di fatto, il lavoro a

termine è un lavoro sempre in prova.

La normativa generale prevedeva le condizioni in cui si può derogare dal

contratto di lavoro a tempo indeterminato e apporre un termine al rapporto di

lavoro. Condizioni che potevano essere agevolmente aggirate. In ogni caso,

è intervenuto un decreto legislativo per la completa liberalizzazione del

contratto a tempo determinato.

Il lavoro a termine può essere considerato, già nell’etichetta, il simbolo

dell’incertezza del domani. Incertezza che non riguarda soltanto i mezzi di

sussistenza. Il soggetto che fa un lavoro a termine, o un qualsiasi lavoro

flessibile, non è in condizione di darsi un progetto di vita. La sua è una vita a

corrente alternata. Ha appena il tempo di assaporare il piacere di avere un

lavoro. E già deve pensare alla scadenza del contratto.

In questo quadro manca la continuità di una condizione esistenziale

diffusa, che è alla base del formarsi di una soggettività sociale. I soggetti

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sono costretti a seguire percorsi lavorativi ed esistenziali non lineari, in una

sorta di corsa ad ostacoli, con tratti veloci e lunghe soste. Paradossalmente,

il lavoro a termine richiede un impegno senza termine. E’ una continua

ricerca di lavoro. E non c’è lavoro più faticoso del cercare lavoro. Il lavoro

instabile finisce per diventare un pensiero fisso. Non c’è spazio per impegni,

culturali o politici, che non siano legati alla quotidianità immediata.

22.4 Professionalità e precariato giovanile: il contratto di collaborazione

La normativa che regola il contratto di collaborazione è ancora piuttosto

incerta. Comunque, essa fa riferimento ad una figura che si colloca al livello

medio-alto della gerarchia aziendale. Tale connotato è evidente già

nell’etichetta che contraddistingue questo istituto: «Rapporto di

collaborazione coordinata e continuativa». Etichetta che fa pensare a

prestazioni qualificate. Del resto, se si scorrono le prerogative previste per i

collaboratori, ci si rende conto che si tratta di collaborazioni di un certo livello.

Si parla, per esempio, di indennità di trasferta, da corrispondere quando il

collaboratore è chiamato a svolgere una attività fuori sede. Non può certo

riguardare figure di secondo ordine.

Nella realtà del mercato del lavoro flessibile, le imprese utilizzano il

contratto di collaborazione per attingere prestazioni di un certo spessore

qualitativo nell’area del precariato giovanile. In tale area si sono infatti

formate, negli ultimi anni, competenze qualificate, soprattutto nel settore

dell’informatica. Non è difficile per una impresa trovare giovani esperti di

computer, che vivono a carico della famiglia e aspirano a crearsi un minimo

di autonomia economica e sociale. Nella loro condizione, non possono che

essere disponibili a qualsiasi forma di rapporto di lavoro, pur di mettere a

frutto, in sede di occupazione lavorativa, la loro professionalità.

Queste potenzialità del mercato del lavoro vengono sfruttate dalle imprese

in modo estremamente spregiudicato. Una azienda che deve realizzare un

progetto di informatizzazione assume giovani, uomini e donne, con le

necessarie competenze. Li tratta come dipendenti, ma senza riconoscere i

diritti connessi al lavoro dipendente. Stabilisce, volta a volta, l’orario di lavoro,

a misura delle proprie esigenze organizzative. Li paga a giornata, con ritardi

di mesi. E se in particolari giornate non prevede la loro presenza in azienda,

li lascia a casa. Non è tenuta nemmeno a rispettare un termine per il rapporto

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di lavoro. In qualsiasi momento il collaboratore, uomo o donna, può sentirsi

dire che non c’è più bisogno della sua collaborazione.

In netta contraddizione con questa condizione materiale di estrema

precarietà, chi lavora con contratto di collaborazione viene coinvolto in un

processo immateriale di assimilazione del modello manageriale. E, come

spesso succede a chi desidera assumere un ruolo, comincia ad anticipare i

comportamenti e l’ideologia del manager. Comincia ad essere ciò che

vorrebbe essere. Può così accadere di imbattersi in soggetti che, pur vivendo

una condizione di estrema precarietà, declamano l’ideologia liberista. Come

dire: una soggettività non solo coartata, ma anche deformata.

22.5 Una forma di regressione: il lavoro in affitto

Il lavoro in affitto non è soltanto una forma di lavoro a termine. In tal senso,

l’etichetta «lavoro interinale» o «lavoro temporaneo», che viene spesso usata

nella normativa, fa riferimento soltanto ad un aspetto - la durata del rapporto

di lavoro - che questo tipo di lavoro ha in comune con le altre forme di lavoro

flessibile. Il dato fondante di questo istituto non è però la temporaneità del

rapporto, ma l’istituzionalizzazione della intermediazione fra domanda e

offerta di lavoro. Intermediazione che viene evidenziata nella etichetta «in

affitto».

Una tale connotazione del lavoro segna un salto culturale, all’indietro, di

grande rilievo. Da qui la tendenza, nelle fonti ufficiali, a camuffarla sotto

mentite spoglie. Una sorta di pudore istituzionale, che segnala la

consapevolezza della portata storica, in negativo, di questa operazione nel

quadro della civiltà del lavoro. Al pudore terminologico corrisponde una

manifesta sfrontatezza ideologica, che pretende di presentare il lavoro in

affitto come un dato di modernizzazione.

E’ dunque necessario cercare di decifrare il segno culturale e politico che è

impresso a fuoco nell’istituto del lavoro in affitto. A tale scopo, bisogna

seguire, passo passo, le trasformazioni che la struttura del rapporto di lavoro

subisce nei vari passaggi del lavoro flessibile, fino ad arrivare al salto nel

buio del lavoro in affitto.

E’ nota la definizione classica del rapporto di lavoro. Da una parte un

soggetto che dispone dei mezzi di produzione, dall’altra un soggetto che

dispone della forza-lavoro. Il rapporto prevede, nel quadro della contrat-

tazione collettiva, un uso determinato, cioè limitato nel tempo e nello spazio,

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della forza-lavoro. Oggetto del rapporto non è dunque la compra-vendita

della forza-lavoro, ma il suo uso in condizioni determinate. I soggetti che

figurano nel rapporto di lavoro sono gli stessi che sottoscrivono, tramite le

rispettive rappresentanze, le condizioni del contratto. Questo dato è di

estremo rilievo. Si sa che il rapporto si svolge nel contesto del confronto-

scontro che volta a volta si determina fra le due parti, insieme titolari del

contratto e del rapporto di lavoro. Basta pensare ai conflitti che si scatenano

nella stagione di rinnovo dei contratti. Ognuna delle due parti cerca di

ridefinire il rapporto di lavoro a proprio vantaggio. E ciò è possibile perché i

soggetti titolari del rapporto di lavoro sono anche titolari del contratto di

lavoro.

Nelle altre forme del lavoro cosiddetto «atipico» (etichetta destinata, negli

anni, a diventare sempre più impropria) – part-time, lavoro a termine,

collaborazioni - la struttura del rapporto rimane quella classica. I soggetti del

rapporto sono anche titolari del contratto. Il lavoro in affitto segna invece una

netta rottura della struttura classica del rapporto di lavoro. Il contratto non

vede in campo due parti, che si confrontano direttamente. Coinvolge tre parti:

la società fornitrice di prestazioni, l’impresa che richiede le prestazioni e il

soggetto che rende disponibile la propria forza-lavoro. In questa nuova

struttura il rapporto di lavoro si disarticola. Da una parte il rapporto fra

l’impresa che richiede le prestazioni e l’agenzia che le fornisce. Dall’altra il

rapporto fra l’agenzia e il lavoratore o la lavoratrice. Nel corso dell’uso della

forza-lavoro, il lavoratore o la lavoratrice non ha più davanti a sé la sua

controparte contrattuale. Il soggetto è quindi spiazzato su due fronti. Con il

contratto individuale gli viene a mancare la forza della classe di

appartenenza e, di conseguenza, dell’appartenenza di classe. Con il doppio

contratto gli viene a mancare, in sede di uso della forza-lavoro, cioè nella

sede storica dello scontro di classe, la controparte diretta. Non ha nulla da

rivendicare nei confronti di chi fa uso (e abuso) della sua forza-lavoro, perché

la sua controparte contrattuale sta altrove.

In pratica, il lavoro in affitto consente di prelevare dal mercato del lavoro le

prestazioni che volta a volta servono al ciclo produttivo, senza che ciò debba

comportare l’assunzione al sistema di produzione dei soggetti che forniscono

le prestazioni. Alla base di questo passaggio c’è la scissione fra soggetto e

prestazione lavorativa. Per cogliere la portata di questa innovazione, occorre

tenere presente che, nell’assetto tradizionale, la prestazione lavorativa è

integrata ad un soggetto. E il sistema di produzione si garantisce l’uso di una

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data prestazione assumendo il soggetto che quella prestazione è in grado di

fornire. Nel nuovo modello è invece possibile acquisire una specifica

prestazione lavorativa, senza dovere necessariamente instaurare un rapporto

diretto con il soggetto titolare di quella prestazione. Per questa via, si evita

che donne e uomini si insedino stabilmente all’interno del sistema di

produzione e possano servirsi della struttura produttiva come base materiale

per la propria organizzazione di classe. La lavorazione passa sotto il

completo dominio della Direzione tecnica, che opera l’assemblaggio delle

singole prestazioni lavorative ad un livello superiore rispetto al processo

materiale di produzione 38.

La scissione fra soggetto e prestazione lavorativa apre il varco ad una

prospettiva di disattivazione dei conflitti di classe. Viene infatti a mancare la

linearità delle relazioni industriali, che si fonda sul confronto-scontro fra i due

soggetti titolari del contratto e dell’uso della forza lavoro. Confronto-

scontro che non può darsi in una struttura del rapporto di lavoro a doppio

binario, in cui la controparte in sede di contratto di lavoro non è controparte in

sede di uso della forza-lavoro. Il lavoratore o la lavoratrice in affitto con chi se

la deve vedere per questioni che attengono alle sue condizioni di lavoro: con

l’agenzia di lavoro interinale o con l’impresa che utilizza le sue

prestazioni lavorative? E non basta risolvere il quesito sul piano giuridico-

formale, per neutralizzare questa sofisticata operazione. Inoltre, non è un

caso che qui si parla di lavoratore o lavoratrice, al singolare. Uno degli effetti

del lavoro in affitto è quello di individualizzare il soggetto portatore della

forza-lavoro e quindi di svuotarlo della sua appartenenza di classe. Per

questa via, attraverso la cancellazione del rapporto diretto di lavoro, si

persegue un obiettivo di grande portata: la disarticolazione della soggettività

sociale.

Tutti questi connotati del lavoro in affitto danno luogo ad una trasforma-

zione antropologica del lavoro. Dare in affitto il lavoro significa, nel

38 Si veda, in questo volume, il Capitolo Ventunesimo, paragrafo 21.5.4 La scissione fra soggetto e prestazione lavorativa, dove il processo, in tempi antecedenti all’attuale realtà del lavoro in affitto, viene preso in esame come prefigurazione di una tendenza che oggi giunge a maturazione.

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sistema capitalistico di produzione, degradare la forza-lavoro da merce

specifica, in quanto espressione di un soggetto, a merce qualsiasi 39.

Significa trattare, di fatto, la capacità creativa dell’essere umano alla stregua

di una nuda energia produttiva. Ora, il lavoro non è soltanto impiego di

energia. E’ anche una delle sfere in cui si forma l’identità del soggetto. In

lavoro in affitto viene a mancare di ogni connotazione identitaria. Il soggetto

finisce per non riconoscersi nell’attività che svolge. Non solo fa un lavoro

alienato. Viene anche alienato dal lavoro.

E’ in questa regressione il connotato che fa del caporalato una forma

“medioevale” di rapporto di lavoro. Ora, il lavoro in affitto non fa altro che

trasformare la figura “medioevale” del caporale nella struttura “moderna”

dell’«Agenzia di lavoro interinale». Una tale trasfigurazione lascia però

inalterata la regressione qualitativa del rapporto di lavoro. Il lavoro in affitto

non è altro, nella sostanza, che l’istituzionalizzazione del caporalato.

Gli effetti sulla soggettività sono devastanti. E tuttavia, pure in presenza di

allarmanti segnali di putrefazione della soggettività sociale, non possono

essere considerati chiusi gli orizzonti del futuro. Una soggettività, per quanto

frammentata, è sempre in grado di ricomporsi su un altro piano. Per quanto

spenta, è sempre in grado di ricaricarsi. Sta qui la sua specificità: nel potere

essere altro da quel che è.

22.6 La flessibilità al massimo grado: il lavoro nero

Un argomento a cui spesso si ricorre per giustificare l’introduzione del

cosiddetto «lavoro atipico» nel nostro ordinamento è che la

regolamentazione di pratiche esistenti di rapporto di lavoro ha la funzione di

fare emergere il lavoro nero. Ora, non c’è dubbio che il lavoro nero incarna la

forma estrema di flessibilità del lavoro. E se il lavoro atipico si traducesse in

una regolamentazione dell’area del lavoro nero, assolverebbe una utile

funzione, pur nella sua intrinseca degradazione istituzionale. Ma così non è.

Il lavoro atipico può anche - nell’immediato - sostituire quote di lavoro nero,

ma - nei tempi lunghi - tende ad erodere l’area del lavoro stabile. Tende, nel

tempo, a perdere progressivamente la sua atipicità ed a proporsi come forma

tipica del nuovo assetto del mercato del lavoro.

39 F. Viola, Il sistema di macchine, Roma, Edizioni Associate, 1996, 3^ ed., pp. 15-16.

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Si viene così a rendere disponibile un doppio mercato del lavoro: un

mercato del lavoro ufficiale, regolato da contratto, e un mercato del lavoro

non ufficiale, non regolato. Da qui la tendenza ad espellere forza-lavoro in

condizione contrattuale, per riassumerla in condizione non contrattuale. La

complessa manovra a tenaglia - tendente a spremere, con pressioni opposte

e convergenti, il primo e il secondo mercato del lavoro - viene sostenuta con

una operazione ideologica a doppia faccia. Per ottenere di potere operare

liberamente nel mercato ufficiale, l’impresa si fa scudo della condizione dei

disoccupati, che meritano più attenzione degli occupati. Per sentirsi

legittimata ad operare nel secondo mercato, mette avanti la condizione degli

occupati, che godrebbero di retribuzioni “troppo alte”. Per un verso si

sostiene che, per fare nuovi investimenti ed incrementare l’occupazione, è

necessario bloccare le retribuzioni, per l’altro si richiede il riconoscimento

ufficiale del carattere “fisiologico” del lavoro irregolare 40.

22.7 Dal «posto di lavoro» alla ideologia del rischio

Nel quadro del lavoro stabile, il «posto di lavoro» ha una precisa valenza

sociale. Significa certezza del futuro. Il passaggio da un assetto basato sul

lavoro stabile ad un assetto basato sul lavoro instabile segna quindi una

svolta sociale di grande portata, che va a sconvolgere la prospettiva

esistenziale di milioni di persone. Da qui la necessità, per il sistema

istituzionale, di sostenere l’operazione con un intervento ideologico di

particolare incisività.

Il senso di fondo di tale intervento consiste nel fare percepire il «posto

fisso» come un residuo del passato, che blocca il soggetto in una situazione

statica e gli fa mancare la spinta per crescere sul piano culturale e

professionale. Di contro, il lavoro flessibile viene presentato come un fattore

di modernità, che induce al dinamismo ed all’inventiva. Per questa via, si

persegue una soggettività sociale funzionale ai valori portanti del sistema

capitalistico, in particolare alla competizione ed alla meritocrazia. Gli uomini e

le donne sono chiamati a competere senza sosta nel mercato del lavoro,

dove possono affermarsi solo se hanno particolari meriti da far valere.

Devono quindi essere capaci di guadagnarsi il loro percorso lavorativo metro

40 Si veda, in questo volume, il Capitolo Diciannovesimo, paragrafo 19.5.2 Sperimentazione della

indeterminazione occupazionale e doppio mercato del lavoro.

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dopo metro e comportarsi come donne e uomini spregiudicati, temprati per

farsi largo sgomitando.

L’architettura di questo modello si basa sulla ideologia del rischio. La

ricerca del lavoro deve seguire la stessa logica del rischio imprenditoriale.

Una tale pretesa trascura una discriminante decisiva. Il rischio di chi fa

impresa ha un carattere tutto economico, mentre il rischio di chi cerca lavoro

ha un carattere tutto esistenziale. Da una parte viene messo a rischio

l’essere imprenditore, dall’altra viene messo a rischio l’essere persona 41.

Al di là di ogni impalcatura ideologica, al fondo della flessibilità del lavoro

c’è la prefigurazione di una vita sociale depauperata, in cui gli esseri umani

sono costretti a contendersi lo spazio della propria sopravvivenza, a danno

della sopravvivenza di altri. Dal lavoro come diritto si passa al lavoro come

conquista. E non una conquista data una volta per tutte, ma continuamente

riproposta. E poiché il lavoro è per milioni di persone l’unica fonte dei mezzi

di sussistenza, mettere in forse continuamente il lavoro significa minare alla

base l’esistenza di esseri umani. La logica della flessibilità pretende,

nell’intervallo fra un lavoro e l’altro, di mettere fra parentesi l’esistenza di chi

vive di lavoro. Ora, a differenza del lavoro flessibile, la vita non è

intermittente. Gli uomini e le donne continuano a vivere anche dopo la

scadenza del lavoro a termine. Solo che, a quel punto, i soggetti vengono a

mancare di un quadro esistenziale ben definito. E la loro vita viene ridotta a

semplice sopravvivenza.

Una tale realtà viene occultata. Non solo. La flessibilità del mercato del

lavoro viene iscritta in un ambizioso progetto di “modernizzazione”. Questa

complessa operazione approda così ad un paradosso ideologico. Assegna

alla modernità un cammino a ritroso dell’assetto capitalistico della nostra

società, in direzione di una istituzionalizzazione sistematica della inciviltà del

lavoro, con le sue devastanti ricadute sulla soggettività sociale.

41 Si veda, in questo volume, il Capitolo Ventunesimo, paragrafo 21.3 L’indeterminazione della

retribuzione come rischio esistenziale.

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Capitolo Ventitreesimo

GLOBALIZZAZIONE ECONOMICA E INDETERMINAZIONE SOCIALE

23.1 La delocalizzazione della produzione industriale

Il capitale non ha patria. Va dove lo porta il profitto, dove cioè trova le

condizioni più favorevoli per valorizzarsi al massimo. E quando tali condizioni

si realizzano al di là dei confini nazionali, non c'è niente che possa indurre gli

industriali a investire nel proprio paese.

Si avvia così un processo di delocalizzazione della produzione industriale.

Le imprese dell'occidente industrializzato spostano interi settori della

produzione in paesi in cui il costo del lavoro e l'imposizione fiscale sono

molto bassi e l'uso della forza-lavoro non è sottoposto a vincoli sociali. Per

questa via, gli industriali perseguono un doppio obiettivo: abbassare i costi di

produzione e invadere dall'interno i consumi dei paesi di nuovo

insediamento.

Questo processo viene agevolato dalla modernizzazione delle vie di

comunicazione mondiale, che riduce le distanze e consente rapidi

spostamenti di materie prime e di prodotti finali. Viene così a configurarsi una

nuova concezione dell'impresa. Non più una struttura produttiva concentrata

in un'area circoscritta. Il nuovo modello di impresa ha una struttura centrale,

dalla quale si diramano insediamenti in paesi vicini e lontani.

23.2 Globalizzazione dell’economia e indeterminazione sociale

La delocalizzazione della produzione si realizza in un quadro di

globalizzazione dell'economia. La competizione economica non conosce

frontiere. Ogni sistema economico nazionale, legato a particolari condizioni

politiche e sociali, deve confrontarsi con tutti gli altri sistemi, sparsi nel globo

terrestre. Questa mondializzazione della competizione capitalistica provoca

due operazioni di grande rilevanza. Da una parte i capitalisti si mettono in

giro per il mondo, alla ricerca delle migliori condizioni per realizzare profitto.

Dall'altra i governanti fanno di tutto per creare condizioni favorevoli alle

imprese e indurre così i capitalisti a investire nei loro paesi.

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Ora, per un capitalista quale attrazione può essere più forte della libertà di

usare la forza-lavoro a proprio piacimento, al di fuori di qualsiasi vincolo

sociale? Così la gara internazionale di seduzione del capitale si traduce in

una sorta di asta mondiale, con offerte al rialzo di indeterninazione del

lavoro, dalla indeterminazione della mansione lavorativa alla indetermina-

zione dell'orario e del ritmo di lavoro, dalla indeterminazione della

retribuzione alla indeterminazione del rapporto di lavoro, fino ad arrivare alla

libertà di licenziare.

La globalizzazione economica provoca dunque un attacco sempre più

diffuso alla condizione sociale delle classi subalterne. Tutti i dati di tale

condizione vengono spinti sempre più verso il basso. La possibilità di

ritrovarsi senza mezzi di sussistenza dall'oggi al domani diventa, per milioni

di uomini e di donne in tutto il mondo, una delle tante alternative di vita in

regime di liberismo selvaggio.

23.3 Globalizzazione economica, astrazione sociale e condizione delle classi subalterne

Il sistema economico globale è indifferente alle specificità sociali e culturali

dei popoli. La globalizzazione economica si traduce così in astrazione sociale. Le storie delle nazioni vengono azzerate e costrette a misurarsi con gli standard della produzione mondiale.

In questo quadro, il ruolo dei governi nazionali diventa sempre più

subordinato. L'economia globalizzata fa riferimento a parametri decisi da

organismi sovranazionali, costringendo i diversi paesi ad una rincorsa

affannosa degli indici economici e monetari, per non essere tagliati fuori dai

consessi comunitari. Di conseguenza, le rappresentanze politiche e sindacali

delle forze del lavoro si trovano spiazzate di fronte ad un interlocutore

governativo che porta sul tavolo della trattativa parametri stabiliti ad altro

livello.

A partire da qui, si apre una prospettiva cosparsa di incognite, dalla cui

soluzione dipende il destino di masse ingenti di esseri umani.

Ora, finché l'economia si muove nell'ambito nazionale, le variabili possono

essere controllate con provvedimenti di governo. Con la globalizzazione

dell'economia, non sono più i governi nazionali a decidere gli interventi, ma i

grandi organismi mondiali. Le classi subalterne sono continuamente

chiamate ad abbassare il loro livello di vita, per potere consentire

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all'economia nazionale di stare dentro parametri che vengono decisi altrove.

La globalizzazione dell'economia si risolve quindi nella sottrazione alle classi

subalterne di qualsiasi possibilità di intervenire sull'andamento dell'economia

nazionale.

23.4 Globalizzazione economica e nuovo colonialismo

Nel quadro dell’economia mondiale, il capitale va alla ricerca delle

condizioni più favorevoli alla sua valorizzazione. Per realizzare i suoi obiettivi

di espansione, si appoggia spesso a forze reazionarie al potere. Le

economie nazionali vengono destabilizzate e subordinate agli interessi del

capitale internazionale.

Questo nuovo colonialismo ha effetti devastanti sulle condizioni di vita

delle popolazioni dei paesi del cosiddetto Terzo e Quarto Mondo. Una

grande quota della ricchezza mondiale viene accentrata nelle mani delle

borghesie dei paesi sviluppati, mentre folle sterminate di esseri umani

vengono lasciate marcire al limite - e spesso al di sotto - della sopravvivenza.

A questo punto, il capitale dovrebbe farsi carico degli oneri sociali derivanti

dalla globalizzazione dell'economia di mercato. Alla globalizzazione del

mercato dovrebbe corrispondere la globalizzazione degli oneri sociali. Inoltre,

alla libera circolazione dei capitali dovrebbe corrispondere la libera

circolazione delle persone. Se il capitale si mondializza, perché ogni essere

umano, nato in qualunque zona del globo terrestre, non deve potersi

dichiarare cittadino del mondo? La risposta è semplice. Perché la

mondializzazione dell’economia prevede la ricerca, da parte dei capitalisti,

della massimizzazione del profitto là dove sussistono le condizioni più

favorevoli.

Il capitale pretende da una parte di operare sul piano mondiale e dall'altra

di farsi carico degli oneri sociali soltanto sul piano nazionale. E pretende da

una parte di fare cadere le barriere economiche e dall'altra di mantenere le

barriere sociali.

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Capitolo Ventiquattresimo

LA NEGAZIONE DEL LAVORO UMANO

24.1 Negazione del lavoro umano e indeterminazione sociale

La destabilizzazione del rapporto di lavoro - dalle forme del lavoro

irregolare fino alla prospettiva di istituzionalizzazione della instabilità

lavorativa - non riguarda, almeno in teoria, la dimensione quantitativa del

lavoro complessivo, ma soltanto il quadro di garanzie entro cui l'attività

lavorativa si realizza. Per esempio, nella fase di transizione l'instabilità

lavorativa si traduce in una sorta di travaso di parte dell'attività lavorativa

complessiva dalla sfera del lavoro regolare alla sfera del lavoro irregolare.

L'oggettivazione del lavoro - cioè il trasferimento di funzioni lavorative ad

un apparato tecnico - va invece ad investire proprio la dimensione

quantitativa dell'attività umana necessaria per mettere in funzione il processo

di produzione. Nella fase dell'automazione tale dimensione ha una caduta

verticale. La presenza di lavoro umano nel processo produttivo si riduce ai

minimi termini.

Nonostante l'evidenza di tale realtà, non mancano tentativi ideologici di

nascondere il crollo del lavoro umano, mettendo in primo piano il processo di

trasformazione delle funzioni lavorative.

L'automazione, si dice, elimina alcuni lavori, ma ne crea altri. Ed è vero.

Ma è anche vero che la ridefinizione qualitativa del lavoro umano si opera

all'interno di una sua fortissima riduzione quantitativa. Peggio. La

ridefinizione del lavoro umano si opera anche in funzione della sua riduzione.

In pratica, il lavoro umano cambia anche per potere essere ridotto.

Il velo di reticenza che copre questo segno del cambiamento ha, secondo

noi, una sua ragione storica. Il capitalismo, nella sua veste

tradizionale, si presenta sulla scena sociale con due credenziali: a) offrire

una produzione di beni su vasta scala; b) garantire una occupazione

lavorativa di massa. Ebbene, I'introduzione dell'automazione fa venire meno

la seconda credenziale. Nella fase tecnica dell'automazione, il modo

capitalistico di produzione - considerato in sé, al di fuori di qualsiasi

condizionamento esterno - porta alla disoccupazione di massa.

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Si badi bene. Non si tratta dell'esito tecnico del processo di automazione in

quanto tale, ma della sua combinazione con il modo economico di produrre

proprio del capitalismo. L'automazione, in sé, riduce in modo significativo la

presenza di lavoro umano nel processo di produzione. Ma tale

ridimensionamento quantitativo può essere tradotto o in riduzione dell'orario

di lavoro oppure in riduzione dell'occupazione. Si può cioè fondare

l'organizzazione delle attività lavorative sulla base del principio «lavorare

sempre meno, per lavorare sempre tutti» o, viceversa, sulla base del

principio «lavorare come prima e più di prima, per essere sempre in meno a

lavorare».

Il modo capitalistico di produzione - per sua costituzione strutturale -

traduce la riduzione quantitativa del lavoro umano in riduzione

dell'occupazione. Quando in un luogo di lavoro arriva la notizia di una nuova

macchina che compie una data operazione in metà tempo rispetto alla

vecchia, i lavoratori e le lavoratrici dovrebbero saltare dalla gioia al pensiero

che la giornata lavorativa si ridurrà in proporzione. E se questo non accade è

perché, invece della giornata lavorativa, viene ridotta la forza-lavoro

impiegata.

Per questa via, I'automazione porta non - come si vorrebbe far credere -

ad una liberazione della persona dal lavoro, ma ad una liberazione del

lavoro dalla persona, cioè ad una emancipazione del processo produttivo dai

condizionamenti della soggettività umana. Il modo capitalistico di

produzione persegue - attraverso la sofisticazione esasperata delle

procedure tecniche - una vera e propria negazione del lavoro umano, cioè

uno sfruttamento, al massimo grado, delle risorse umane, spogliate della

corposità e della soggettività delle donne e degli uomini. E' una prospettiva

ambiziosa: spremere la qualità del lavoro umano complessivo, per sorbirsela

concentrata nell'apparato tecnico e nelle quote selezionate di forza-lavoro di

volta in volta impiegate 42.

La negazione del lavoro umano è dunque un disconoscimento di fatto della

indispensabilità della presenza diffusa e capillare di donne e uomini ai fini

della strutturazione del processo produttivo. Attraverso questo

disconoscimento, il capitale tende a liberarsi dai condizionamenti imposti da

42 Si veda, in questa opera, Libro Secondo, il Capitolo Trentaseiesimo, Ristrutturazione e

occupazione tra profitto e sopravvivenza.

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un rapporto di massa con la forza-lavoro manuale-intellettuale ed a scaricare

sulla singola persona il lavoro come assillo quotidiano.

Chi è senza occupazione lavorativa e non sa come tirare avanti non pensa

ad altro che al lavoro. Vive la schiavitù del lavoro ancora più di chi lavora. Chi

ha urgenza di trovarsi un lavoro, anche un lavoro qualsiasi, non ha tempo per

sé, perché tutte le sue giornate vengono risucchiate in un vortice: annunci sui

giornali, telefonate, lettere da spedire, corse speranzose e rientri carichi di

delusioni. Non c'è lavoro che possa prendere tanto la persona quanto la

ricerca di un lavoro. Ci viene in mente, al riguardo, un piccolo, ma

significativo episodio. Un giovane sparisce dalla circolazione. Un amico lo

incontra e gli chiede: «Com'è che non ti fai più vedere? Hai forse trovato

lavoro?». Il giovane risponde: «Peggio. Lo sto cercando».

La negazione del lavoro umano produce indeterminazione esistenziale,

cioè indeterminazione della vita sociale elevata alla massima potenza.

Ma c'è di più. In un sistema sociale in cui per avere di che vivere bisogna

vendere l'uso della forza-lavoro manuale-intellettuale, il soggetto, spogliato

delle sue funzioni lavorative, non ha niente da offrire per avere in cambio un

minimo di certezza del domani. La negazione del lavoro umano si traduce

così in un azzeramento della condizione sociale degli uomini e delle donne.

Attraverso tale azzeramento, il processo di indeterminazione investe la vita

sociale. Volendo ridurre a schema un processo estremamente complesso, si

potrebbe dire che la negazione del lavoro si colloca fra I'indeterminazione del

lavoro e l'indeterminazione della vita sociale. Rinnegando l'attività umana,

come attività sociale di massa, il processo si spinge oltre il confine della

indeterminazione del lavoro. Azzerando la condizione della persona, bussa

alla porta della indeterminazione della vita sociale.

La negazione del lavoro umano provoca un movimento circolare fra

indeterminazione del lavoro e indeterminazione della vita sociale.

L'espulsione delle forze di lavoro dal processo produttivo espone la vita

umana al peso quotidiano delle necessità materiali e immateriali, rendendola

estremamente indeterminata. D'altra parte, I'indeterminazione della vita

quotidiana, il dover vivere alla giornata, produce nei soggetti disponibilità a

rinunciare alle proprie esigenze ed a farsi carico delle esigenze della

valorizzazione economica e politica del capitale. Produce cioè condizioni

favorevoli al processo di indeterminazione del lavoro.

La negazione del lavoro tende non solo a ridurre all'osso l'impiego di lavoro

umano, ma anche a impiegare lavoro umano fortemente indeterminato. Sono

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due facce della stessa medaglia. Da una parte disoccupazione di massa,

dall'altra impiego di quote selezionate di forza-lavoro estremamente flessibile

e disponibile. La negazione del lavoro umano viene così a definirsi in termini

di dequalifcazione e di delegittimazione della forza-lavoro come corpo

massificato e potenzialmente antagonista.

In sostanza, il lavoro umano viene negato come espressione di classe, per

potere essere assunto, in quote ridotte e disarticolate, come componente

tecnica del processo produttivo. In quanto variabile - una fra le tante - del

processo, il lavoro umano non può avere una propria struttura interna,

dovendosi modellare sulle forme che la produzione volta a volta assume.

Inoltre, mentre una presenza diffusa del lavoro umano riduce al minimo gli

spostamenti lungo il processo, perché ad ogni passaggio della lavorazione

corrisponde una specifica unità di lavoro, il diradarsi del lavoro umano

comporta continui movimenti da un punto all'altro del processo tecnico. E a

questa esigenza può dare risposta adeguata solo una forza-lavoro

polivalente, flessibile e disponibile, cioè una forza-lavoro estremamente

indeterminata.

La negazione del lavoro umano va dunque oltre l'indeterminazione e nello

stesso tempo la potenzia. Pur qualificandosi come attacco diretto

specificamente alla dimensione quantitativa del lavoro, produce effetti che

ricadono sulla qualità dell'attività lavorativa. Rinnegando il lavoro umano, il

capitale non solo lo riduce, ma lo trasforma, modellandolo a misura del

processo di valorizzazione del capitale. E non si tratta soltanto di una

trasformazione della struttura tecnica del lavoro. Si tratta anche - e

soprattutto - di una radicale modificazione del suo modo di rapportarsi

all'apparato di direzione e di controllo del processo produttivo.

Così la negazione del lavoro umano si traduce in una ulteriore

subordinazione della forza-lavoro manuale-intellettuale, sia della forza-lavoro

occupata che della forza-lavoro non occupata. La prima perché esposta ad

un comando che, presentandosi in forma di esigenza tecnica, non ammette

replica. La seconda perché, esclusa da qualsiasi rapporto con I'apparato di

produzione, è costretta a subire passivamente le condizioni che esso impone

alla collettività.

Negare il lavoro non significa dunque, per il capitale, fare a meno

dell'attività umana. Il problema della negazione del lavoro umano non può

essere posto in termini di estinzione dell'uso di forza-lavoro. Sarebbe facile

obiettare che qualsiasi procedura tecnica di produzione - compresa quella

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che riduce al minimo la presenza di uomini e di donne - è, in ultima analisi,

frutto del lavoro umano. A questo livello, un apparato produttivo che neghi il

lavoro come attività umana è una contraddizione in termini.

In effetti, presa alla lettera, la negazione del lavoro umano è una sorta di

paradosso, che serve a mettere in evidenza un salto nella evoluzione della

società capitalistica. Un salto destinato a sconvolgere l'assetto sociale del

capitalismo. La drastica riduzione della presenza della forza-lavoro manuale-

intellettuale nel processo complessivo di produzione muta alla radice i termini

del rapporto fra capitale e collettività.

Il rapporto di massa con la forza-lavoro costringe il capitale a misurarsi

continuamente con i problemi che emergono nella società-collettività. E,

d'altra parte, quando gli uomini e le donne entrano in massa nei luoghi di

lavoro è come se la collettività penetrasse, in qualche modo, nelle viscere del

capitale. La caduta del rapporto di massa provoca una tendenza alla

separatezza del capitale rispetto alla collettività. Il che non comporta affatto

un abbassamento di livello del potere capitalistico. Anzi. La separatezza

consente alle forze imprenditoriali di emanciparsi dai vincoli sociali e di

esercitare il loro potere come dominio incondizionato sulla società

complessiva. Consente loro di tenere ancora in minor conto la domanda

sociale, cioè di fare riferimento ad una società ancora più astratta.

In questo nuovo quadro viene meno la base sociale che la presenza in

massa delle forze di lavoro conferiva al fermentare delle attività produttive. Il

grande capitale che opera appartato in un processo produttivo

completamente automatizzato rivela la sua natura affaristica e avida. D'altra

parte, la caduta del velo della socialità mette in difficoltà la legittimazione del

capitalismo in quanto modello di sistema sociale. E' ancora possibile

giustificare l'adozione di un modo di produzione come quello capitalistico,

che utilizza risorse sociali senza dare in cambio occupazione di massa? Si

può a lungo sostenere che l'apparato produttivo è, nel suo insieme, la

struttura centrale della società e poi invitare i giovani e le giovani a cercare

lavoro "altrove"?

Con la negazione del lavoro umano il capitale da una parte cerca di dare

forma sistematica alla società astratta, dall'altra apre una contraddizione di

fondo, che difficilmente può essere sanata con orpelli ideologici. Esaspera a

tal punto il suo cinismo utilitaristico da compromettere la sua stessa

credibilità. Concepisce una società talmente astratta da non riuscire a

mistificarla con l'ideologia.

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A questo punto, viene da chiedersi se è umana una società fondata su

una "visione del mondo" il cui principio costitutivo è l'indifferenza alla

condizione esistenziale degli uomini e delle donne in carne e ossa.

24.2 Le forme della negazione del lavoro umano

La negazione del lavoro umano non può tradursi immediatamente - per

evidenti ragioni di opportunità sociale - in licenziamenti in massa. Ad evitare

un impatto troppo violento, l'obiettivo di una drastica riduzione della presenza

delle forze di lavoro nel processo complessivo di produzione viene perseguito

attraverso una serie di provvedimenti di vario tipo.

C'è, innanzi tutto, un provvedimento che le forze imprenditoriali adottano

senza rendere conto a nessuno: il blocco delle assunzioni.

Il blocco delle assunzioni equivale ad un vero e proprio licenziamento. E'

un licenziamento sociale, perché rivolto contro forze di lavoro in cerca di

prima occupazione, cioè contro quelle forze giovanili che sono già forze

sociali, ma non ancora forze direttamente produttive. E' un licenziamento

preventivo, perché, essendo rivolto contro forze che non hanno ancora un

rapporto di lavoro, tende a prevenire, attraverso la non-assunzione, la

necessità di licenziamenti, che andrebbero incontro a possibili rivalse legate

all'acquisizione di diritti.

L'unità lavorativa non assunta, in sostituzione di quella che esce per

ragioni fisiologiche, è - di fatto - una unità "licenziata" prima di essere

assunta, perché, nella fisiologia del sistema, a quanti/e non hanno un lavoro

spetterebbe l'occupazione dei posti che si rendono liberi. Negare loro quei

posti di lavoro significa, di fatto, "licenziarli/e". E' un licenziamento continuato,

perché non viene operato una volta tanto, ma si ripete in continuità, ogni

volta che un lavoratore o una lavoratrice esce, per ragioni fisiologiche, dal

sistema produttivo e la sua uscita non viene compensata. E' un

licenziamento in massa, perché un alto numero di lavoratori e di lavoratrici

lascia ogni anno il sistema produttivo ed è come se ogni anno venissero

licenziati in blocco altrettanti ed altrettante giovani in cerca di prima

occupazione. Infine, malgrado il suo carattere sociale e di massa, si tratta di

un licenziamento invisibile, perché, mentre dà all'occhio anche una sola

persona gettata sul lastrico, la non-assunzione di migliaia di giovani in cerca

di prima occupazione è un fatto talmente generale che non colpisce

individualmente nessuno. Un licenziamento è la soppressione di una realtà

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esistente, mentre una mancata assunzione è soltanto la mancata creazione

di una realtà che ancora non esiste. Sopprimere qualcosa è odioso. Non

creare qualcosa che poteva esistere è, al massimo, deplorevole.

L'uscita fisiologica di forze di lavoro, manuali e intellettuali, dalla

produzione di beni e di servizi raggiunge dimensioni quantitative

considerevoli. E tuttavia non basta, da sola, a coprire il bisogno, sempre

crescente, di espulsione di lavoro umano. Si provvede quindi ad incentivare

la disattivazione volontaria delle forze di lavoro. I lavoratori e le

lavoratrici vengono sollecitati, con riconoscimenti aggiuntivi, a licenziarsi o a

collocarsi a riposo in anticipo rispetto all'età massima. Per questa

via, si ottiene una ulteriore riduzione del lavoro umano presente nel processo

produttivo.

Nella stessa direzione va l'introduzione del part- time. Viene offerta ai

lavoratori ed alle lavoratrici la possibilità di optare per una riduzione delle ore

di lavoro, a cui corrisponde una riduzione della retribuzione. Questa

possibilità incontra il favore di quanti - specialmente uomini - vanno in cerca

di tempo da impiegare in un secondo lavoro, irregolare. In questo caso si ha

quindi una sostituzione di lavoro regolare con lavoro irregolare. Molte donne

optano invece per il part-time al fine di potersi dedicare con più tempo alla

famiglia ed ai lavori di casa. E compensano magari la riduzione della

retribuzione facendo a meno della collaboratrice familiare.

Ma tutto ciò non basta. Il progresso tecnologico comporta una continua

espulsione, per via diretta, di quote rilevanti di forza-lavoro manuale-

intellettuale. Finché la libertà di licenziare non è istituzionalizzata, l'istituto

che agevola tale espulsione è la cassa integrazione. Lavoratrici e lavoratori

vengono via via dichiarati "esuberanti" - cioè in eccesso rispetto al

fabbisogno di forza-lavoro - e vengono mandati a casa, ma non sono

formalmente licenziati, anche se si sa che, nella maggioranza dei casi, non

rientreranno più nel posto di lavoro.

In pratica, le aziende si liberano della forza-lavoro eccedente e ne

scaricano i costi sulla collettività. Si viene così a creare un rapporto

particolare fra capitale e collettività. La collettività fornisce la forza-lavoro

manuale-intellettuale al capitale, che la mantiene, per poterla sfruttare.

Quando però lo sfruttamento di una quota di forza-lavoro non è più

conveniente per il capitale, la collettività è chiamata a intervenire, per

mantenerla a proprie spese. Come dire che il capitale tiene per sé i frutti del

rapporto con la forza-lavoro manuale-intellettuale e scarica i costi sulla

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collettività. Oltre a consentire di espellere la forza-lavoro eccedente, la cassa

integrazione, in quanto minaccia di espulsione, ha la funzione di piegare al

comando del capitale la forza-lavoro eccedente. Riduce la base produttiva ed

attacca, all'interno della base ridotta, la rigidità della forza-lavoro.

Per quanto si è detto, la funzione della cassa integrazione si esaurisce via

via che si afferma l'istituzionalizzazione della libertà di licenziare.

24.3 La negazione del lavoro umano come sistema di esclusione sociale

La negazione del lavoro umano si definisce come sistema di esclusione

sociale. E I'esclusione sociale è, nella sostanza se non nella forma, uno dei

connotati qualificanti della società astratta. E' il terreno sul quale la società

astratta, con maggiore evidenza, mentre si afferma in quanto sistema di

astrazione, si nega in quanto società comunitaria.

In tal senso, I'esclusione sociale è una delle contraddizioni interne

all'impianto della società astratta. Mentre afferma in teoria che tutti i membri

della collettività devono concorrere alla realizzazione dei fini sociali, la

società sussunta al capitale in pratica dimostra che i suoi fini possono essere

raggiunti soltanto con la sistematica esclusione di una parte della collettività

dalla vita sociale.

E' in questa contraddizione la prova del fuoco della società astratta. Per

legittimarsi in quanto formazione sociale di lunga durata, la società astratta

deve, quanto meno, prospettare una soluzione di fondo alla necessità di

restringere sempre più la base produttiva, senza ridurre la sua base sociale.

Intanto, ridurre la base produttiva non significa, di per sé, restringere la

sfera sociale della valorizzazione. La forza-lavoro espulsa, pur essendo

inattiva rispetto al processo di produzione, concorre alla valorizzazione

proprio attraverso il suo stato di inattività.

Immaginiamo che un sistema, impiegando tutta la forza-lavoro a

disposizione, produca un plusvalore complessivo X e che invece, lasciando

inattiva una quota di forza-lavoro, produca un plusvalore X + Y. E' chiaro che,

in questo caso, è stato possibile produrre il plusvalore aggiuntivo Y solo a

prezzo di una certa quota di disoccupazione. In un certo senso, quindi, il

plusvalore Y viene "prodotto" - se pure indirettamente e in senso lato - dai

disoccupati e dalle disoccupate. Tanto è vero che se essi/e, per ipotesi, si

inserissero a forza nella produzione, farebbero abbassare il livello del

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plusvalore. Questa sorta di paradosso mette in luce la funzionalità della

disoccupazione alla valorizzazione capitalistica.

Come si vede, nella società astratta può darsi anche il caso in cui la

persona venga quasi investita del "dovere sociale" di lasciare inattiva la

propria laboriosità, per non danneggiare il processo di valorizzazione del

capitale. E ciò mentre I'ideologia dominante esalta I'attivismo produttivo. Il

soggetto viene spesso a trovarsi nella condizione di chi da una parte è spinto

a qualcosa e dall'altra è trattenuto. Per esempio, la vita dei giovani e delle

giovani viene programmata, attraverso un corso di studio, in vista di una

attività da svolgere. E poi viene lasciata inattiva.

C'è, dietro questa incoerenza, una incongruenza di fondo. Nel sistema

capitalistico chi non produce viene fatto/a passare per una sorta di rottame

sociale. Questo modello ideologico ha una funzione di incentivazione

dell'attivismo produttivo, di cui iI capitale ha bisogno. Ma, d'altra patte, un

sistema di produzione a tecnologia avanzata tende sempre più a ridurre la

base produttiva e quindi ha bisogno di una quota sempre più alta di

inattivismo produttivo.

L'uomo o la donna senza lavoro è spesso un soggetto che ha assimilato il

modello ideologico dominante e si sente veramente un rottame sociale. La

sua condizione non può essere ridotta alla mancanza di salario, che pure ne

costituisce la base materiale. Ci sono aspetti che riguardano il problema della

integrità esistenziale. Da tale punto di vista, la condizione prodotta dalla

cassa integrazione è rivelatrice. Essa porta allo scoperto alcuni risvolti della

negazione del lavoro umano che altrimenti sarebbe difficile mettere in

evidenza.

In tale condizione, il rapporto classico fra capitale e lavoro subisce una

trasformazione rilevante. Chi è in cassa integrazione ha un salario non in

cambio di un uso della sua forza-lavoro, ma in cambio di un non-uso della

sua capacità lavorativa. I lavoratori e le lavoratrici in cassa integrazione

vengono pagati per stare senza fare niente. Ai fini della valorizzazione del

capitale, il far niente dei cassintegrati e delle cassintegrate è comunque un

"fare", in quanto produce, come si è visto, la quota di plusvalore che il

sistema perderebbe se quelle unità lavorative fossero inserite nella

produzione.

E qui viene fuori una delle espressioni più esasperate dell'astrazione

sociale. Qui la produzione di valore richiede l'azzeramento della persona in

quanto centro di attività. Le esigenze della valorizzazione del capitale

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finiscono per oscurare il bisogno della persona di essere attiva. Tale

situazione smaschera l'ideologia dell'attivismo borghese. Il capitalismo

accampa il merito storico di valorizzare la persona, mettendo in moto tutte le

sue energie. In effetti, della persona non gli importa nulla. E ciò risulta

evidente nel momento in cui si inventa una condizione nella quale si riduce il

soggetto ad una bocca da sfamare, facendo astrazione da tutte le sue qualità

umane. E' così che la società astratta intende risolvere il conflitto tra profitto

e sopravvivenza 43.

Dal punto di vista delle forze di lavoro, la condizione di chi è in cassa

integrazione dovrebbe, in teoria, rappresentare il meglio che si possa

desiderare all'interno del sistema capitalistico. Le donne e gli uomini vengono

liberati dalla schiavitù del lavoro salariato, senza venire a mancare dei mezzi

di sussistenza. La realtà è di segno opposto. I lavoratori in cassa

integrazione (un po' meno le lavoratrici) vivono, in genere, una vita da

sbandati e cadono in uno stato di prostrazione tale da portare, nei casi di

estrema fragilita psichica, a gesti suicidi. Come mai?

Per cercare di capire, proviamo ad addentrarci nella vita quotidiana degli

uomini e delle donne in cassa integrazione. La giornata di chi lavora si

definisce, nella sua struttura centrale, come giornata lavorativa. E' intorno

alle ore di lavoro che si organizza la vita quotidiana nella società sussunta al

capitale. Per questa via, la vita sociale viene strutturata in sintonia con i

tempi e con i modi del processo di produzione. Nella società astratta la vita

quotidiana di chi lavora è organizzata a prescindere dalle esigenze e dalle

scelte personali. E' una vita sovradeterminata.

Le lavoratrici e i lavoratori dipendenti vivono per anni una vita organizzata

da altri. Vivono una vita che altri riempiono di propri contenuti. Vivono una

vita a cui altri danno fini e significati. Di conseguenza, non sono abituati,

svegliandosi la mattina, a porsi il problema: che si fa oggi? Non sono abituati

ad elaborare alternative ed a scegliere fra diverse possibilità. Non sono

abituati - non certo per loro colpa - a riempire la vita quotidiana dei propri

desideri e dei propri interessi. Non sono attrezzati - né materialmente né

culturalmente - ad usare per sé la propria vita.

In queste condizioni, I'improvvisa disponibilità della propria vita quotidiana,

sottratta all'altrui organizzazione, invece di essere percepita come un evento

43 Si veda, in questa opera, Libro Secondo, il Capitolo Trentaseiesimo, Ristrutturazione e coccupazione

tra profitto e sopravvivenza».

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liberatorio, viene vissuta come una sorta di svuotamento esistenziale. Il

lavoratore (un po' meno la lavoratrice) vive il tempo liberato come tempo

vuoto. Il tempo non strutturato a misura dei ritmi del processo produttivo non

può - nelle condizioni date - essere strutturato sulla base di un progetto di

vita. Diventa tempo senza ritmo: noia. La giornata finisce di essere giornata

lavorativa, ma non comincia ad essere giornata di vita realizzata. E' una

giornata balorda, che dà solo angoscia e smarrimento.

Che significa tutto ciò nei termini della nostra analisi? Il soggetto viene

svuotato delle sue detemminazioni, al punto di vivere le determinazioni

dell'organizzazione del lavoro come determinazioni proprie. Viene espro-

priato della sua vita quotidiana, al punto di vivere la giornata lavorativa come

la sua giornata. E finisce per avere bisogno del lavoro, non solo per potere

disporre dei mezzi di sussistenza, ma anche per dare un senso alla sua

giornata. Diventa lavoro-dipendente. Ha con il lavoro un rapporto analogo a

quello che ha con la droga il tossico-dipendente.

Ma c'è un altro aspetto da prendere in considerazione. La vita quotidiana

del lavoratore o della lavoratrice è organizzata come giornata lavorativa.

Ed è quindi nel posto di lavoro che il soggetto vive i suoi rapporti

interpersonali quotidiani. Il cassintegrato non viene soltanto espulso dal

processo produttivo. Viene anche tagliato fuori dai rapporti con i compagni e

con le compagne di lavoro. E si sente escluso da quella convivenza che

quotidianamente si intesse di occhiate, di battute, di commenti ai fatti del

giorno, cioè di tutto il vissuto che riesce ad insinuassi negli interstizi della

organizzazione del lavoro. Il soggetto, privato dell'attività lavorativa, vive la

sua nuova situazione esistenziale come una condizione di emarginazione

sociale. Si sente come un arnese buttato nel ripostiglio dei ferri vecchi. E non

è in condizione di costruirsi una nuova prospettiva di vita. Il dramma della

sospensione dell'attività lavorativa discende dalla paura della morte civile.

La struttura produttivistica della vita quotidiana, pur essendo astratta,

svolge dunque, di fatto, una funzione centrale nel processo di integrazione

sociale. La giornata lavorativa, proprio perché è sovradeterminata, serve ad

integrare le persone concrete alla società astratta. E serve a collegare la

persona alle sue qualità, espropriate ed incorporate nella struttura produttiva.

Ovviamente, si tratta di una integrazione estraneata, nel senso che è

finalizzata non alla realizzazione esistenziale dei soggetti, ma al loro

asservimento. E tuttavia essa è per la persona l'unica via per uscire

dall'isolamento e collegarsi alla collettività.

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Solo in questa chiave è possibile spiegare lo smarrimento da cui si

sentono presi i lavoratori (soprattutto uomini) in cassa integrazione quando,

alzandosi la mattina, si trovano ad affrontare una giornata "liberata" dalle

incombenze dell'attività lavorativa. La giornata si presenta ai loro occhi come

una costruzione alla quale venga a mancare la struttura in cemento armato

che la tiene in piedi.

E' il massimo della inversione che riesce a mettere in atto la società

astratta. La giornata lavorativa si presenta come una giornata "piena",

mentre una giornata liberata dalle scadenze e dai ritmi della produzione si

presenta come una giornata "vuota".

Il cassintegrato che va davanti ai cancelli della fabbrica e chiede di

lavorare desidera ricongiungersi alle sue qualità espropriate ed esprime

apprezzamento non per il lavoro in quanto sede del rapporto con il capitale,

ma per il lavoro in quanto attività e in quanto sede del rapporto con i

compagni e con le compagne. In breve, chiedendo di lavorare, il soggetto

esprime - nell'unico modo che ha a disposizione - il suo bisogno di

reintegrazione esistenziale 44.

Diversa, in parte, è la condizione prodotta dallo stato di disoccupazione. A

prescindere dalle distinzioni che vengono fatte ai fini delle rilevazioni

statistiche, nell'area della disoccupazione occorre considerare a parte la

situazione di chi è senza lavoro pur avendo lavorato in passato e la

situazione di chi è in cerca di prima occupazione.

Chi, in seguito a licenziamento, viene improvvisamente a trovarsi senza

lavoro, è nella peggiore situazione. Ha, al pari dei cassintegrati, una vita già

strutturata sulla base del lavoro e vive quindi lo stesso smarrimento derivante

dal vuoto esistenziale prodotto dal collocamento in cassa integrazione. Ma in

più, venendo a mancare della retribuzione, si trova, di punto in bianco, a

dovere affrontare il problema della sussistenza per sé e spesso anche per la

propria famiglia. E' facile immaginare lo sgomento, la disperazione,

I'angoscia di una persona alla quale viene di colpo a mancare la prospettiva

di una vita preordinata da anni 45.

44 Nei paragrafi 1.4 e 1.6 si analizza da una parte la separazione fra persona e qualità umane e dall'altra

il bisogno di reintegrazione della persona alle qualità espropriate. Tutto ciò può servire ad individuare un altro

aspetto della condizione del cassintegrato, il quale sente la mancanza delle sue qualità incorporate nel

sistema di produzione.

45 Uno studio ha rilevato che la perdita del posto di lavoro provoca un danno psicologico equivalente al

dolore per la morte di un congiunto.

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Altri sono i caratteri della condizione di chi è in cerca di prima occupazione.

In genere, si tratta di soggetti relativamente giovani, che non hanno ancora

dato una struttura stabile alla propria vita ed hanno anzi, in un modo o

nell'altro, trovato la via per vivere la propria condizione di precarietà materiale

e immateriale. La vita di chi è in cerca di prima occupazione è destrutturata

ed ha quindi un grado di elasticità che consente un continuo - anche se

faticoso - adattamento e riadattamento alle nuove e sempre diverse

situazioni prodotte dallo stato di precarietà.

In comune le due condizioni hanno la sofferenza acuta delle persone che

si sentono espropriate della progettazione, della produzione, della finalizza-

zione e dell'uso della propria vita.

Abbiamo così tracciato - per grandi linee - il quadro delle soluzioni che

vengono adottate per corrispondere al bisogno di riduzione del lavoro umano,

all'interno del processo produttivo automatizzato. Tale quadro si colloca in

una fase di transizione. La negazione del lavoro umano che discende dal

processo di automazione trova un adeguato corrispettivo solo nella

istituzionalizzazione della instabilità del rapporto di lavoro. E la instabilità

lavorativa istituzionalizzata si traduce in una scompaginazione sistematica

della socialità che si coagula lungo il percorso del processo produttivo.

Siamo ormai sulla soglia della indeterminazione della vita sociale.

In questo quadro si spiega la seguente notizia: «Il quotidiano Usa Today del 19 febbraio [1996] pubblica

un decalogo del manager il cui compito consiste nel licenziare: una specie di terapia destinata a evitare il

peggio a chi riceve la notizia (non si dimentichi il numero di sparatorie dovute a licenziamenti che i giornali

americani continuano, chissà perché, a registrare in cronaca nera invece che nella pagina «Affari e Finanza»

») (F. Colombo, Finisce il lavoro, inizia l'avventura, in «La Repubblica» del 5/3/1996).

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Capitolo Venticinquesimo

L'INDETERMINAZIONE DELLA VITA SOCIALE

25.1 Vita sociale e valorizzazione capitalistica nel processo di indeterminazione

L'indeterminazione sociale è un processo graduale, che tende a rendere le

condizioni di vita delle donne e degli uomini sempre meno definibili in termini

di stabilità e di continuità. Da tale punto di vista, essa ha la funzione di

allargare la sfera della disponibilità delle persone nei confronti delle

esigenze del processo di valorizzazione del capitale.

Consideriamo gli effetti della indeterminazione del tempo di lavoro sulla

vita quotidiana. Meno il tempo di lavoro è determinato, più il tempo di vita si

deve rendere disponibile. Lasciando invariata la quantità del tempo di

lavoro, se le ore lavorative occupano stabilmente la mattina o il pomeriggio, è

possibile organizzare la propria vita nel tempo di non lavoro. Ma se il lavoro

occupa ora la mattina ora il pomeriggio, il tempo di non lavoro deve essere

sempre disponibile per il lavoro e quindi si definisce come potenziale tempo

di lavoro. In tal senso, l'indeterminazione del lavoro è la via per la quale il

sistema di valorizzazione del capitale estende il suo dominio alla vita

sociale.

Una società non può essere astratta al punto di far coincidere il tempo di

lavoro con il tempo di vita. Ma lo scarto fra tempo di lavoro e tempo di vita

non è fisso, perché il tempo di lavoro è estremamente mobile e scorre

continuamente lungo il tempo di vita. E nemmeno scorre compatto, in modo

che, comunque, si possa configurare una giornata lavorativa, se pure

estremamente flessibile. Tempo di lavoro e tempo di vita sono talmente

intrecciati che tutto il tempo di vita viene vissuto come tempo di lavoro in

potenza, come tempo indeterminato di lavoro.

Per questa via, I'indeterminazione viene ad investire il tempo sociale.

Mentre ci misuriamo con l'indeterminazione del lavoro, ci ritroviamo nel bel

mezzo del processo di indeterminazione della vita sociale.

Finché regge la distinzione fra tempo di lavoro e tempo di non lavoro,

I'indifferenza ai contenuti del lavoro può stare insieme - se pure in termini

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conflittuali - alla non-indifferenza alle determinazioni, materiali e immateriali,

presenti nella vita sociale. Ma, quando tutto il tempo di vita diventa tempo

potenziale di lavoro, la contraddizione fra indeterminazione del lavoro e

determinazione della vita sociale esplode. Le zone di compensazione

vengono sommerse dal fluire continuo del processo produttivo complessivo.

Nel quadro generale di tale processo, che valore può avere per il capitale

multinazionale l'indifferenza del soggetto ai contenuti della sua attività, se poi

egli si rifiuta di seguire sul territorio sovranazionale le mutevoli esigenze della

produzione, perché affettivamente legato a luoghi determinati, a determinati

rapporti interpersonali? Se, per esempio, ci si dichiara disponibili a fare

qualsiasi lavoro, a condizione però di non doversi sradicare dal proprio

ambiente, se cioè al lavoro indeterminato si vuole far corrispondere una vita

sociale determinata, la disponibilità non è adeguata al processo complessivo

di produzione.

Il lavoro indeterminato è la forma di lavoro adeguata al processo di

valorizzazione semplice del capitale, cioè alla produzione diretta di profitto

attraverso lo sfruttamento di forza-lavoro. Analogamente, ad altro livello, la

vita sociale indeterminata è la forma di vita adeguata al processo di

valorizzazione sociale del capitale, cioè al processo generale attraverso il

quale il capitale sfrutta la dinamica della società per accrescere la propria

forza e la propria potenza.

Per vita sociale indeterminata intendiamo una vita sociale non vincolata

da particolari determinazioni psichiche, culturali, politiche, dei soggetti

individuali e collettivi. Una vita spogliata di tutto ciò che è espressione della

soggettività. Per dirla in breve, una vita qualsiasi, indifferente ai suoi

contenuti. Una vita senza qualità.

Tutto ciò non perché i soggetti siano indifferenti ai contenuti della loro vita

quotidiana, ma perché il sistema politico-economico definisce la vita a

prescindere dai significati che le persone danno al loro vivere quotidiano. In

altri termini, i contenuti ed i significati che i soggetti danno alla loro esistenza

non trovano riscontro nella definizione che il sistema politico-economico dà

della vita sociale, proprio perché tale definizione fa astrazione dalla

concretezza esistenziale. Così la società vive una continua tensione fra la

vita sociale astratta, come è definita dal sistema politico-economico, e la vita

quotidiana concreta, come è vissuta da uomini e donne in carne e ossa.

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All'origine di tale tensione c'è una inversione. La vita reale diventa astratta

e la valorizzazione capitalistica diventa realtà, I'unica realtà con la quale

sono chiamati a misurarsi le donne e gli uomini.

Cercheremo di spiegarci con un paradosso. Un giovane in cerca di lavoro

si presenta ad una ditta e dice: «Vorrei essere assunto. Però anche la mia

compagna dovrebbe essere assunta da questa ditta e dovrebbe lavorare

nello stesso reparto dove lavoro io, in modo che anche durante il lavoro si

possa stare insieme». La risposta più gentile che il dirigente addetto al

personale potrebbe dare a questa "folle pretesa" è la seguente: «A noi quello

che tu dici non interessa. A noi interessa che tu lavori sodo e produca (cioè,

fuori dai denti, a noi interessa che dal tuo lavoro si possa ricavare profitto)».

Ecco, I'inversione sta nel fatto che la vita reale, la vita che ognuno/a di noi

vive realmente - con la propria compagna o con il proprio compagno, con le

proprie figlie e con i propri figli, con i propri amici e con le proprie amiche -

diventa astratta («a noi non interessa», dice il dirigente). E invece il profitto -

che è, in sé, valore astratto - diventa reale («a noi interessa che tu

produca»).

Il processo di indeterminazione della vita sociale ha la funzione di rendere

fluido il processo di valorizzazione economica e politica del capitale. La vita

quotidiana, così ricca di determinazioni (amori, amicizie, affetti) viene

immersa nell'acqua santa della indeterminazione sociale e, purificata di tutte

le concrete specifità delle donne e degli uomini, viene rivestita delle astratte

determinazioni del processo di valorizzazione economica e politica del

capitale.

Dal punto di vista dei ministri di culto della società astratta, la non-

specificità della vita sociale deve tradursi in disponibilità ad assumere, volta a

volta, la mutevole forma in cui si presenta la valorizzazione economica e

politica del capitale. La vita sociale deve mancare di proprie determinazioni,

per potere assumere le determinazioni della produzione. Deve essere

indifferente verso i propri contenuti, per potere essere deferente verso i

contenuti che volta a volta assume l'attività lavorativa. Deve essere

indifferente verso la propria qualità, per potere essere deferente verso la

quantità del valore da produrre. Deve, in pratica, essere la vita di chi - uomo

o donna - presentandosi ad una ditta per chiedere di essere assunto/a, si

limiti a dire, molto semplicemente: «Pur di lavorare, sono disposto/a a

trasferirmi in qualsiasi posto ed a fare qualsiasi cosa, rinunciando a stare nel

luogo che amo, vicino alle persone che amo, con le amiche e con gli amici

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che mi sono cari». Ecco, questa è la "vita vuota" che i ministri di culto della

valorizzazione capitalistica vogliono vedere offrire alla società astratta, in

cambio del diritto a vivere.

Tutto ciò però non spiega perché alla base del processo di valorizzazione

sociale del capitale c'è non più soltanto il lavoro socialmente indeterminato,

ma la vita sociale indeterminata, dal momento che I'indeterminazione sociale

è già nel lavoro. Sembrerebbe che fra lavoro socialmente indeterminato e

vita sociale indeterminata ci sia soltanto una differenza di grado e che, in

ogni caso, questa differenza non riguardi I'indeterminazione sociale.

In realtà, il lavoro può essere, sì, socialmente indeterminato, ma entro una

determinata condizione sociale, che è il suo presupposto: la condizione

sociale di attività lavorativa. E', sì, indifferente ai propri contenuti, ma, in ogni

caso, essi saranno contenuti di lavoro. Quella del lavoro è dunque una

indeterminazione, per così dire, determinata. Essa riguarda una sfera ben

definita e non può essere estesa a tutta la vita sociale. L'indeterminazione

del lavoro non è sociale al punto di prevedere, tra le realtà possibili, la

condizione di inattività lavorativa. Il problema dell'indeterminazione sociale

del lavoro non riguarda il disoccupato o la disoccupata. Non perché il

disoccupato o la disoccupata faccia un lavoro socialmente determinato.

Semplicemente perché non fa lavoro.

Il lavoro è dunque socialmente indeterminato se riferito al tempo di lavoro.

Se riferito al tempo di vita - che è il tempo del processo di valorizzazione

sociale del capitale - è determinato, perché presuppone una condizione

particolare. Ed è per questo che I'indeterminazione è adeguata alla

valorizzazione sociale del capitale soltanto a livello di vita sociale.

A tale livello, il processo di indeterminazione tende a svuotare di significato

la contrapposizione fra condizione lavorativa e condizione non lavorativa. La

vita sociale indeterminata non sopporta, al suo interno, steccati. L'esistenza

materiale e immateriale degli uomini e delle donne è funzionale alla

valorizzazione capitalistica non in quanto radicata in una condizione sociale

specifica, rna in quanto disponibile nei confronti di qualsiasi condizione.

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25.2 La separazione fra individualità e socialità

Nella vita sociale si esprime una componente fondamentale della persona:

la socialità. La persona ha una struttura circolare, che parte dal sé e ritorna

al sé, attraverso gli altri e le altre. Ed è in tale viaggio attraverso gli altri e le

altre che si realizza questo uomo o quella donna.

Una piena espressione della socialità porta alla realizzazione della persona

nella sua concreta specificità. Da qui il pericolo che costituisce per il

processo di indeterminazione una socialità in quanto espressione di uomini e

donne in carne e ossa. Una vita sociale indeterminata non sopporta l'attività

di donne e uomini impegnati a dare corso alla loro socialità in quanto

persone concrete. D'altro canto, il sistema di produzione deve potersi

avvalere del lavoro in quanto processo sociale e quindi legato, in qualche

modo, alla socialità della componente umana.

La via che il processo di indeterminazione percorre per uscire da questa

contraddizione è la separazione fra individualità e socialità. La socialità viene

estrapolata dal contesto personale, carico di determinazioni esistenziali, ed

usata nel processo lavorativo come pura e indeterminata variabile tecnica. E

l'individuo, svuotato della sua socialità, non ha modo di introdurre nella vita

sociale la propria concretezza esistenziale, perché non può usare per sé, per

la sua realizzazione, la propria socialità. L'individualità, separata dalla

socialità, anzichè esprimere la specificità dell'apporto personale alla vita

collettiva, viene rinchiusa nel gretto egoismo dell'interesse particolare. E la

socialità, avulsa dalla concretezza personale, anziché segnare la

realizzazione del soggetto, diventa sede della sua spersonalizzazione.

Ora, in che senso tutto ciò è funzionale alla indeterminazione della vita

sociale? Una vita sociale che tendesse alla piena espressione della persona

si arricchirebbe di tante e tali specificità da diventare inutilizzabile per un

processo sociale che richiede fluidità, flessibilità e intercambiabilità. Per

essere adeguata ad un processo di valorizzazione capitalistica non confinato

nelle sedi della produzione diretta, la vita sociale non può rimanere Iegata

alle specificità personali. Deve liberarsi dai vincoli della concretezza

esistenziale. E ciò è possibile soltanto da una parte recidendo la socialità dal

corpo vivente della personalità e dall'altra astraendo l'individualità dal suo

essere sociale.

L'individualità e la socialità, una volta separate, funzionano entrambe al

servizio del processo di valorizzazione del capitale. L'individuo - cioè il

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soggetto chiuso in sé - viene indotto a ricercare l'utile egoistico in

concorrenza con gli altri. E questa ricerca si risolve nel suo asservimento alla

valorizzazione economica e politica del capitale.

Attraverso la separazione tra sfera individuale e sfera sociale viene

dunque preclusa l'attivazione della soggettività collettiva. La pienezza della

vita sociale si realizza in una attività collettiva in cui le soggettività personali

possano esprimere creativamente la loro socialità. Ma nella società astratta il

soggetto ha un solo modo di attivarsi insieme agli altri soggetti: lavorare per

la valorizzazione economica e politica del capitale. Ora, nel lavoro

subordinato alla valorizzazione capitalistica la soggettività è sempre un

mezzo, mai un fine. L'attivazione capitalistica della socialità si traduce

dunque in un uso strumentale della soggettività.

25.3 La spettacolarizzazione della vita sociale

Non potendo attivarsi per sé nel tempo di lavoro, la soggettività cerca di

esprimersi attivamente nel tempo di non lavoro. Ma tale attivazione, se

venisse portata a compimento, finirebbe per creare una pericolosa tensione

tra sfera lavorativa e sfera non lavorativa. Dopo avere provato il gusto della

creatività attiva nella sfera extralavorativa, la soggettività difficilmente si

adatterebbe ad un ruolo passivo e subordinato nella sfera lavorativa. La

compartimentazione della società richiede dinamiche che tendano a

disinnescare tensioni tra le sfere separate della vita sociale.

Da qui la necessità di organizzare il tempo di non lavoro in modo da

ingabbiare la soggettività. Tutta la vita sociale extralavorativa viene

strutturata in modo che il soggetto vi figuri non come attore, ma come

passivo spettatore. La vita extralavorativa consiste non nel fare sport,

musica, teatro, ecc., ma nell'assistere ad uno spettacolo di sport, di musica,

di teatro, ecc.. Tutta l'organizzazione del tempo di non lavoro funziona sulla

base della passività dei soggetti. Una partita di calcio si può svolgere

regolarmente soltanto perché la massa degli spettatori e delle spettatrici si

limita ad assistere, magari con manifestazioni verbali, ai calci dati al pallone

dai ventidue in campo. Immaginiamo che cosa succederebbe se le persone

che stanno sugli spalti si scrollassero improvvisamente di dosso il ruolo di

spettatori e di spettatrici loro assegnato e, cedendo alla voglia matta di

sgranchirsi le gambe e dare i classici quattro calci al pallone, invadessero il

rettangolo di gioco.

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E' in questa degradazione della persona la logica di fondo della società-

spettacolo. Persino la politica - che è, per eccellenza, la sfera dell'attività -

viene ridotta ad uno spettacolo di controversie fra i partiti, a cui il pubblico è

invitato ad assistere tramite i mezzi di comunicazione di massa.

Questa passività di massa è funzionale alla indeterminazione della vita

sociale. Il vivere collettivo è indeterminato nella misura in cui in esso non ha

modo di esprimersi attivamente la soggettività delle persone concrete. E ciò

perché solo una soggettività socialmente attiva produce determinazioni

sociali.

Abbiamo finora analizzato il funzionamento della sfera lavorativa da una

parte e della sfera extralavorativa dall'altra in relazione all'attivazione della

soggettività delle persone concrete. E abbiamo visto che, nella società

astratta, le due sfere funzionano in modo da precludere tale attivazione. Ciò

non significa che nella vita sociale, sia lavorativa che extralavorativa, la

soggettività rimanga in uno stato di assoluta inattività. Dobbiamo dunque

adesso cercare di vedere per quali vie il bisogno di attivazione presente nella

soggettività riesce comunque ad esprimersi, se pure occasionalmente e con

difficoltà.

Per farsi una idea della impellenza del bisogno di attivazione, proprio della

soggettività, basta pensare alla pienezza di vita da cui ci sentiamo invadere

tutte le volte che, invece di assistere ad attività spettacolari, mobilitiamo le

nostre risorse per fare attività in prima persona. Dare quattro calci ad un

pallone su un prato verde, in una splendida giornata di sole, insieme a

persone che ci sono amiche, ci fa sentire più vivi/e che sedersi sui gradini

di uno stadio per assistere ad una partita. Stare a cantare insieme,

accompagnandosi magari con strumenti improvvisati, dà più gioia che fare da

spettatori e da spettatrici alla esibizione di un cantante o di una cantante di

professione. Di questo bisogno sono consapevoli quei cantanti e quelle

cantanti che dal palco invitano il pubblico ad accompagnare il ritmo con il

battito delle mani. Il bisogno di attivazione talvolta rompe gli argini. I soggetti

presenti abbandonano il ruolo di spettatori e di spettatrici e si appropriano

dell'occasione di stare insieme, per mettersi a cantare ed a ballare per conto

loro, facendo girotondi e disinteressandosi della esibizione che si svolge sul

palco.

Il bisogno di attivazione sociale è, nella società astratta, compresso e

ostacolato. La socialità viene espropriata ed organizzata tramite il processo

lavorativo o attraverso la partecipazione passiva ad attività spettacolari. C'è

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un sistema di regole che presiede alla organizzazione ed al consumo delle

attività spettacolari. Intanto, gli spettacoli indirizzati a soggetti che lavorano

sono collocati in giorni ed in orari non lavorativi. Si svolgono in ambienti

strutturati sulla base della separazione fra lo spazio riservato al pubblico e lo

spazio riservato alla esibizione. Prevedono il coinvolgimento del pubblico

entro i limiti dell'approvazione o disapprovazione della esibizione, con

applausi o fischi. Tutte queste regole sono, per così dire, incorporate nello

schermo televisivo, che - in tal senso - si qualifica come lo strumento per

eccellenza della spettacolarizzazione della vita sociale.

Il bisogno di attivazione sociale, per esprimersi, deve rompere

I'accerchiamento della organizzazione dello spettacolo, far saltare il ruolo

passivo di spettatore o di spettatrice, abbattere gli steccati che proteggono le

riserve di spazi e infrangere le regole del comportamento collettivo

standardizzato. In presenza di queste condizioni o di qualcuna di esse,

espressioni, magari limitate, di soggettività sociale attiva si realizzano e si

infiltrano negli interstizi della società astratta. Sono squarci di vita piena, che

riescono talvolta a incrinare la palude stagnante della indeterminazione

sociale.

25.4 L'indeterminazione dell'essere sociale

Presupposto di base della vita sociale è l'essere sociale, cioè il concreto

esistere di donne e uomini come entità collettiva. Non può dunque darsi

astrazione sociale in un quadro di forte determinazione dell'essere sociale,

perché le specificità esistenziali delle persone concrete finiscono, in un modo

o nell'altro, per tradursi in particolari modi di vivere.

La società astratta non può reggere a lungo se non è fondata su un essere

sociale indeterminato. Se milioni di uomini e di donne costruiscono il loro

essere a misura delle proprie particolari potenzialità, nella società si produce

una massa di determinazioni che premono per trovare espressione nella vita

sociale. Si crea così una tensione fra il modo di essere delle persone e il loro

modo di vivere.

Sotto la spinta di questa tensione, le determinazioni più forti si aprono

varchi sotterranei e invadono la vita sociale. E allora il processo di

indeterminazione si rimette in moto, per dissolvere le determinazioni presenti,

come mine vaganti, nel vivere quotidiano. Per dare l'idea, è come se si

venisse a creare una sorta di circuito sociale, che - in presenza di un tasso di

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determinazione superiore alla soglia di sopportazione - si chiude, rimettendo

in moto il processo di indeterminazione. Quando, nel vivo dello scontro delle

forze in campo, si accumulano bisogni legati all'essere concreto delle

persone, le istituzioni della società astratta si mobilitano per svuotare la

domanda sociale dei suoi contenuti.

Talvolta la pressione dell'essere sociale rompe gli argini della

indeterminazione. E' il momento alto della dinamica sociale. Milioni di uomini

e di donne pretendono di vivere tutte le possibilità che derivano dal loro

essere concreto. Il processo di indeterminazione viene messo in difficoltà e

non riesce a disinnescare i bisogni collettivi, prima che vadano a impattarsi

con I'apparato della società-struttura.

Ad evitare questo rischio, che incombe sempre sulla società astratta,

bisogna che il processo di indeterminazione non si limiti ad attaccare, nella

vita sociale, le determinazioni che via via vengono prodotte, ma investa

direttamente l'essere sociale, in quanto fonte di determinazioni.

Una vita sociale può essere indeterminata sino in fondo solo se è

indeterminato l'essere sociale. Un uomo o una donna non aspira a vivere una

vita determinata solo quando non ha determinazioni da esprimere.

L'indeterminazione della vita sociale richiede persone che non siano in

condizione di strutturare il loro essere lungo l'asse delle proprie autonome

possibilità di realizzazione.

Nelle loro particolarità, i soggetti sono persone in carne e ossa.

L'indeterminazione dell'essere sociale è il processo attraverso il quale, in

condizioni date, I'essere collettivo si definisce a prescindere dal particolare

esistere delle persone concrete.

Il processo di valorizzazione del capitale impone dunque alle persone di

prescindere dalle determinazioni particolari del loro esistere. Impone alla vita

sociale di svuotarsi di ogni determinazione esistenziale e culturale dell'essere

sociale.

Ovviamente, non pensiamo che il processo di valorizzazione tenda a

bloccare l'essere sociale in una forma astratta attraverso un utopico black out

della concretezza esistenziale. Qui si vuole soltanto sostenere che la

fissazione dell'essere sociale in una particolare determinazione della vita

materiale e immateriale è antitetica alla logica della valorizzazione

capitalistica, che ha a suo fondamento l'indeterminazione sociale. Non si

tratta dunque di immaginare un impossibile oscuramento del substrato

esistenziale della vita sociale. Si tratta semplicemente di definire - in questo

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contesto problematico - la tendenza capitalistica a subordinare la

concretezza dell'essere sociale. Si tratta di specificare la subordinazione

della vita sociale al processo di valorizzazione del capitale come tendenza

all'astrazione dalle specifiche determinazioni esistenziali dell'essere sociale.

In questo quadro, I'indeterminazione dell'essere sociale viene a

configurarsi come la via attraverso la quale la società astratta recide i legami

fra la vita sociale e la concretezza esistenziale degli uomini e delle donne.

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Capitolo Ventiseiesimo

LA REGOLAZIONE DELLA VITA SOCIALE

26.1 Indeterminazione e regolazione della vita sociale

La vita sociale è ricca di determinazioni concrete. Il processo di

indeterminazione non può dunque non investire il vivere quotidiano degli

uomini e delle donne in carne e ossa. Non sarebbe pensabile una società

astratta nella quale i riferimenti al concreto superassero una certa soglia. Ma

per potere essere indeterminata, cioè spogliata delle sue determinazioni

concrete, la vita sociale deve essere regolata dall'esterno. La regolazione

della vita sociale è dunque funzionale alla sua indeterminazione. Se ogni

persona vive a modo suo, la vita quotidiana sfugge al processo di

indeterminazione sociale.

Per regolazione della vita sociale intendiamo - nel contesto problematico

della società astratta - il processo attraverso il quale la vita quotidiana delle

donne e degli uomini viene sottoposta ad un sistema di regole che la

rendano compatibile con le esigenze della valorizzazione economica e

politica del capitale. In tal senso, la vita sociale viene regolata, viene cioè

modellata non sulle esigenze dei soggetti, ma proprio sulla negazione di tali

esigenze.

E' in questo quadro che, attraverso la regolazione, si tende a rendere

indeterminata la vita sociale, cioè a svincolarla dalla concretezza degli uomini

e delle donne in carne e ossa.

26.2 Regolazione e integrazione sociale

Non sempre il sistema di regole presiede al vivere quotidiano in forma

esplicita. Spesso la regolazione è l'esito oggettivo della organizzazione della

società. La società complessiva è strutturata in modo da indurre le donne e

gli uomini ad adottare comportamenti conformistici, se non vogliono restare

tagliati fuori dalla vita sociale. Accade così, in generale, che - pur potendo

scegliere di fare o non fare certe cose - si finisca per adeguarsi agli standard

di condotta sociale.

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E ciò perché la scelta fra le diverse alternative di comportamento è

caricata di significati relativi al problema della integrazione sociale. Di fatto,

un uomo o una donna, ogni volta che deve decidere come comportarsi in una

data situazione, si pone - in modo più o meno cosciente - il problema di cosa

verrà a significare la sua scelta nell'ambito dei suoi rapporti con gli altri.

Ora, si sa che la rottura con l'ambiente che ci circonda non è una

prospettiva che si possa affrontare a cuor leggero. Comporta tutta una serie

di difficoltà, che rendono la vita estremamente complicata. Vivere

controcorrente è come camminare in salita. Ogni tanto viene voglia di

sedersi.

Da qui la ricerca - più o meno consapevole - di soluzioni di compromesso,

che evitino il rischio dell'isolamento, senza fare perdere - come si suole dire -

la faccia. In questo quadro, la spinta all'integrazione è funzionale al sistema

di regolazione della vita sociale.

26.3 Le forme della regolazione della vita sociale

Il sistema di regolazione dispone di una serie di alternative ed è quindi in

grado di adattarsi alle mutevoli forme della vita sociale. Nell'ambito di tale

sistema è possibile una grande varietà di procedure, che vanno di volta in

volta individuate e definite..

Innanzi tutto va fatta una distinzione fra regolazione diretta e regolazione

indiretta. Per regolazione diretta intendiamo una regolazione messa in opera

attraverso l'organizzazione della vita sociale. Per regolazione indiretta

intendiamo una regolazione attuata attraverso l'assimilazione, da parte delle

donne e degli uomini, di un sistema di regole di comportamento. In altri

termini, la regolazione diretta agisce sulla vita sociale, organizzandola. La

regolazione indiretta agisce invece sui soggetti, i quali - facendo proprie certe

regole - organizzano la loro vita quotidiana in conformità agli standard di

comportamento.

Si tratta - come è facile capire - di due forme di regolazione che si

integrano a vicenda. Una qualsiasi organizzazione della vita sociale non

sarebbe in grado di funzionare se non potesse contare sul rispetto delle

regole da parte dei soggetti. Rispetto che non può essere ottenuto soltanto

per via coercitiva, senza un qualche riconoscimento morale. E, viceversa, un

sistema di regole finirebbe con il rimanere inattivo e con l'esaurirsi per inerzia

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se non trovasse riscontro in una qualche forma di organizzazione della vita

sociale.

Ma, a prescindere da tale interconnessione, le due forme di regolazione

agiscono contemporaneamente sulla vita sociale, con prevalenza dell'una

sull'altra, a seconda delle circostanze. Per esempio, durante le ore di lavoro

prevale la regolazione diretta, mentre durante il tempo di non lavoro prevale

la regolazione indiretta. Nel primo caso, la giornata Iavorativa rappresenta il

massimo di regolazione diretta, attraverso I'organizzazione della vita sociale.

Nel secondo caso, il sistema morale è la codifica di una regolazione indiretta,

ottenuta attraverso l'assimilazione di norme.

26.4 La giornata lavorativa come sede di regolazione della vita sociale

La giornata lavorativa viene di solito definita come sede in cui si realizza

l'uso della forza-lavoro in cambio di mezzi i sussistenza. In tale ambito, la

definizione della giornata lavorativa viene concepita in termini di modalità

dell'uso della forza-lavoro. Tale uso è il terreno su cui si esercita la

contrattazione fra capitale e lavoro ed è quindi il quadro in cui si muove il

processo di indeterminazione tecnica e sociale del lavoro.

Adesso si tratta di definire la giornata lavorativa da un ben diverso punto di

vista: come sede di regolazione della vita sociale. La giornata lavorativa

struttura la vita quotidiana non solo dei soggetti impegnati in un lavoro, ma

anche di quanti non hanno un lavoro.

Per farsi una idea del peso che ha la giornata lavorativa nel sistema di

regolazione, basterà osservare la vita comune in un giorno festivo. La

struttura della vita sociale in un giorno festivo cambia radicalmente rispetto

agli altri giorni della settimana. Non vogliamo certo dire che nella parentesi

domenicale si realizza una vita sociale libera da condizionamenti. Ai vincoli

del lavoro subentrano vincoli di altro tipo, che continuano a regolare la vita

comune. D'altra parte, non è pensabile che una volta a settimana la vita

sociale rimanga sospesa in un vuoto di regolazione. E tuttavia non si può

negare che la giornata domenicale è strutturalmente - a prescindere dalla

qualità - "diversa" da una giornata feriale. Per cui, chi perdesse la cognizione

del tempo sarebbe in grado di distinguere - in un contesto sociale dato - la

domenica dagli altri giorni della settimana.

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Questa "diversità" è da ascrivere non ad una mancanza di regolazione, ma

ad una differenza di procedura, all'interno dello stesso sistema generale di

regolazione.

26.5 Regolazione sociale ed espropriazione della progettualità esistenziale

La vita quotidiana di molte donne e di molti uomini procede lungo le linee

segnate dall'organizzazione sociale: ore e ore di lavoro, serata davanti alla

tv, gitarella di fine settimana, ecc.. Per gli aspetti essenziali, la vita quotidiana

viene regolata attraverso l'organizzazione delle attività lavorative e non

lavorative. Si innesca così un processo, attraverso il quale la società astratta

ci espropria, giorno dopo giorno, del nostro progetto di vita. A poco a poco, ci

troviamo a vivere una vita non nostra.

Questa espropriazione della progettualità esistenziale si attua per vie

diverse. Nella maggior parte dei casi non viene nemmeno percepita. Molti

uomini e molte donne non si rendono conto di vivere una vita che non sono

stati loro a progettare. Il più delle volte la vita delle donne e degli uomini si

organizza intorno a una fortuita occasione di lavoro. Spesso ci si trova a

vivere la propria vita secondo modalità che non abbiamo mai scelte.

Talvolta le persone non si rassegnano a vivere una vita che non sentono

propria. E cercano, per vie diverse, di riappropriarsi del senso dell'esistere.

C'è, per esempio, chi si tuffa nell'attività lavorativa, nell'illusione, a volte

persino cosciente, di riempirla di contenuti personali. Alla base di questo

rapporto con il lavoro non c'è identificazione. La persona esercita, è vero,

nell'attività lavorativa il suo bisogno di affermare la propria identità. Non però

perché si identifica nel lavoro che fa, ma proprio perché avverte il rischio che

la sua identità venga letteralmente cancellata. E' una sorta di giornaliero

braccio di ferro tra il processo oggettivo di espropriazione e lo sforzo

soggettivo di preservazione dell'identità personale.

Su questo terreno, una tensione troppo prolungata porta spesso ad un

cedimento su tutta la linea. Il soggetto assume un atteggiamento di passività

e lascia azzerare, in sede di lavoro, la sua identità, per cercare altrove

occasioni di compensazione. Il lavoro viene così a configurarsi come una

sorta di parentesi, che si apre e si chiude ogni giorno. Quel che accade entro

tale parentesi viene vissuto come lo scotto da pagare per farsi una vita

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propria. Solo che la vita quotidiana reale finisce per essere rinchiusa entro la

parentesi lavorativa. E non rimane spazio per dare un fine all'esistenza.

E' veramente un circuito chiuso. Siamo costretti a darci da fare per crearci

le condizioni minimali di vita. Ma tutto questo da fare finisce per diventare la

nostra vita. Mentre cerchiamo di vivere, viviamo. O, per meglio dire,

sopravviviamo. Il vivere, in senso pieno, viene continuamente rinviato, come

un programma sempre da realizzare. E consumiamo la vita mentre

cerchiamo di realizzarla in una società indifferente alla nostra condizione

esistenziale.

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Libro Primo - Conclusione

LA SOCIETA’ ASTRATTA FRA ASTRAZIONE E INDETERMINAZIONE

27.1 La dinamica della società astratta

La società sussunta al capitale può funzionare come società formalmente

democratica nella misura in cui riesce a fare astrazione dalla realtà sociale, a

definirsi come società astratta, come sistema di indifferenza sociale, come

sistema di indifferenza alla condizione esistenziale degli uomini e delle donne

in carne e ossa.

Funzionale al sistema di astrazione sociale è il processo di

indeterminazione sociale. La società complessiva in tanto è sussunta al

capitale in quanto la vita sociale è priva di determinazioni proprie e

disponibile nei confronti del processo di valorizzazione capitalistica. D'altra

parte, la struttura sociale può fornire l'indeterminazione necessaria al libero

gioco della valorizzazione del capitale nella misura in cui riesce a fare

astrazione dalla realtà sociale.

L'indeterminazione sociale è un prodotto della sovradeterminazione

capitalistica della società complessiva. Il capitale in tanto ottiene

indeterminazione sociale in quanto riesce a sovradeterminare la società

complessiva. L'indeterminazione non è dunque assenza di determinazione,

ma spostamento di determinazione dalla società complessiva al capitale.

Questo spostamento, operato tramite il sistema istituzionale, produce nella

collettività uno stato di subalternità.

La fruizione capitalistica dell'essere sociale richiede I'emancipazione del

soggetto dalla sua stessa identità culturale ed esistenziale. La specificazione

sociale della persona - in termini di radicamento in una cultura determinata,

di attaccamento ad un particolare contesto di rapporti sociali - è un limite per

la sua prestazione in quanto forza-lavoro manuale-intellettuale.

In tal senso, è adeguato al processo di valorizzazione capitalistica un

individuo astratto, cioè un soggetto - uomo o donna - che si nega in quanto

persona ed è disposto a definirsi come "uno, nessuno e centomila", per dirla

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con un famoso titolo pirandelliano. E sono adeguati alla società sussunta al

capitale rapporti sociali astratti, cioè relazioni svincolate da qualsiasi

espressione della soggettività.

L'astrazione tende a investire tutti gli aspetti della dinamica sociale. Le

idee-forza su cui si regge l'organizzazione capitalistica della società si

rivelano come valori astratti che, recidendo ogni riferimento alla concretezza

della vita sociale, tendono a far sedimentare nella coscienza collettiva il

punto di vista della classe dominante.

Così la dimensione esistenziale viene segregata dentro la sfera della

valorizzazione capitalistica. E la vita quotidiana di milioni di uomini e di donne

viene piegata alle cadenze del processo di produzione. Al tempo

dell'esistenza si sovrappone il tempo astratto dell'uso della forza-lavoro.

Il sistema di astrazione sociale crea dunque le condizioni per la

valorizzazione capitalistica e predispone la sussunzione della società al

capitale. Esso è fonte di potere economico e presupposto per il potere

politico. Questo doppio potere tende per un verso a legare la struttura sociale

al capitale, per l'altro a liberare il capitale dal carico della collettività. Da un

lato la sussunzione della società al capitale, dall'altro I'emancipazione del

capitale dai vincoli sociali. Quanto più la società-struttura è sussunta al

capitale, tanto meno il capitale si sente condizionato dalla società-collettività.

L'ideologia borghese tende a presentare i vincoli sociali come ostacoli allo

sviluppo della società. Nel modello ideologico borghese la vita reale degli

uomini e delle donne in carne e ossa compare come limite della società

astratta. Si tratta, come al solito, di una inversione. In effetti, è la società

astratta che tende ad imporsi come limite della vita reale. E' la

società-struttura che tende a sovrapporsi artificiosamente alla società--

collettività.

Questa sovrapposizione produce conseguenze drammatiche nella vita

sociale. Le persone hanno bisogno, per esempio, di case. Ma, appena

questo bisogno primordiale emerge e si impone, subito si mette in funzione il

sistema di astrazione sociale, che pretende di incastrarlo in una logica

particolare, dove la necessità inderogabile di dormire sotto un tetto viene

rapportata all'andamento del mercato edilizio. In tale logica, dormire sotto un

tetto è certo un diritto sacrosanto, ma a condizione che non venga

minacciata la dinamica del profitto, che è alla base degli investimenti privati

in edilizia.

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Il mondo dove regna I'astrazione del valore di scambio si contrappone al

mondo dove regna la concretezza del valore d'uso. La ricchezza astratta si

insedia nella vita collettiva ed ostacola il godimento dei beni concreti,

ponendosi come argine al dilagare dei bisogni sociali.

E' per questa via che i diritti primari vengono affermati nella forma e

vanificati nella sostanza. E' attraverso l'elusione della domanda sociale che la

società astratta tenta di imporsi sulla vita reale degli uomini e delle donne.

Il sistema di elusione della domanda sociale è la via per la quale I'apparato

istituzionale della società astratta cerca di evitare l'impatto con i bisogni

sociali emergenti. Eludere, svuotare, rinviare. Sono questi i verbi che

definiscono l'agire della società-struttura, la quale tenta così di sfuggire ad un

problema di fondo. Non può darsi autorealizzazione là dove la specificazione

culturale ed esistenziale di una persona o di una comunità viene stravolta o

cancellata o comunque appiattita nell'indistinto universo della valorizzazione

capitalistica. E, d'altra parte, non può darsi valorizzazione piena del capitale

là dove si affermano specifiche determinazioni culturali ed esistenziali

dell'essere sociale. L'indeterminazione sociale si rivela sempre più come

condizione vitale per la valorizzazione del capitale.

Dietro questo dilemma si profila la questione della qualità della vita, che è

una sorta di sintesi dell'antiteticità fra persone concrete e sistema di

astrazione, fra ricchezza concreta e ricchezza astratta. E' sulla sorte del

principio della qualità della vita che si gioca la partita fra società-collettività e

società-struttura. E non è un caso che attorno al principio della qualità della

vita si avviluppano i nodi del rapporto fra capitale e lavoro: dall'uso della

forza-lavoro ai livelli di retribuzione.

L'uso della forza-lavoro manuale-intellettuale investe direttamente la vita

quotidiana. Alla indeterminazione dell'uso della forza-lavoro non può non

corrispondere l'indeterminazione della vita sociale. Ecco perché il capitale ha

bisogno della società astratta. In una società che fa astrazione dalla

condizione esistenziale degli uomini e delle donne in carne e ossa I'uso della

forza-lavoro manuale-intellettuale non è condizionato dalle determinazioni

della vita sociale. Nella società astratta l'essere umano nasce già come

forza-lavoro ad uso del capitale. In tali condizioni - del tutto teoriche - il

rapporto capitale-lavoro si definisce come il rapporto sociale per eccellenza,

come la sintesi dei rapporti sociali. In questa utopia del capitale, la

società-collettività coincide con la società-struttura.

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Fuori dell'utopia, invece, la vita quotiiana minaccia continuamente I'uso

della forza-lavoro manuale- intellettuale da parte del capitale. La "voglia di

vivere" è una mina vagante per il sistema di vita sociale adeguato al capitale.

Vivere per se stessi vuol dire morire per il capitale. Così come vivere per il

capitale vuol dire morire per se stessi.

Alcune incognite sono insediate al centro della equazione sociale su cui è

fondata la società astratta. In che misura e in quali termini le donne e gli

uomini si lasceranno, in futuro, usare dal capitale come forza-lavoro? In che

misura il sistema tecnico automatizzato lascerà spazio al lavoro umano?

Quale incidenza avrà sull'uso della forza-lavoro manuale-intellettuale

l'evoluzione del sistema dei valori?

Questi interrogativi danno la misura di quanto gli interessi materiali siano

intrecciati alle esigenze immateriali. Al punto che riesce difficile dire dove

finiscono gli uni e dove cominciano le altre. Chi, per esempio, preferisce

arrangiarsi con mille espedienti, piuttosto che lasciarsi incastrare in un lavoro

dipendente, fa certo riferimento ad un quadro di esigenze immateriali, magari

non ben definito, ma comunque centrato sulla qualità della vita. La sua

scelta, se non è un caso isolato, va però ad incidere sul sistema generale

degli interessi materiali, nel senso che finisce per orientare in una direzione

piuttosto che in un'altra l'uso della forza-lavoro manuale-intellettuale. E, a

loro volta, gli orientamenti dell'uso della forza-lavoro finiscono per produrre

modi di essere degli uomini e delle donne, che con quegli orientamenti sono

costretti a misurarsi. Basta pensare alle figure sociali che vengono prodotte

dall'estendersi del lavoro cosiddetto “atipico”.

Quando emerge una nuova realtà sociale, il capitale è costretto, prima o

poi, a ridisegnare il suo progetto di società astratta. Il vecchio sistema di

astrazione sociale non riesce a mettere fra parentesi le nuove istanze che

irrompono sulla scena sociale.

La società astratta è costretta a ridefinire continuamente il suo rapporto

con la concretezza esistenziale degli uomini e delle donne in carne e ossa.

Da qui uno stato di incertezza, che si traduce in ambivalenza, in permanente

oscillazione tra forza e debolezza, tra assenza e presenza.

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27.2 Forza e debolezza della società astratta

La forza della società astratta è nella sua sistematica indifferenza alle

realtà che emergono nella vita degli uomini e delle donne. Ma qui è anche il

germe della sua debolezza. Chiusa in se stessa, la società astratta non è in

grado di captare i segnali che vengono dalla realtà sociale. Accade così che

essa sia colta quasi sempre di sorpresa dai sommovimenti sociali e non

faccia in tempo a preparare adeguate contromisure.

Da qui uno stato di precarietà, legato al modo di essere della società

astratta. In teoria, il fine più generale verso cui dovrebbe tendere una

organizzazione sociale, il fine che comprende in sé tutti gli altri fini, è la piena

realizzazione esistenziale degli uomini e delle donne in carne e ossa.

Orbene, la realizzazione esistenziale delle persone concrete non solo non è il

fine della società astratta, ma è per essa un pericolo mortale. Il rischio più

grosso che continuamente corre la società sussunta al capitale è nella

possibilità che emergano nel sociale tendenze alla affermazione di soggetti

individuali e collettivi. La società astratta deve stare sempre attenta a non

dare spazio ad espressioni della soggettività e soprattutto della soggettività

autorealizzantesi.

Ciò comporta da una parte un enorme dispendio di energie per bloccare le

espressioni di soggettività, dall'altra lo spreco di tutte quelle potenzialità che

sono presenti nella società-collettività e vengono fermate al di sotto della

soglia della espressione sociale. I risultati sono paradossali. E' come se una

persona in buona salute disperdesse di proposito le proprie energie per

indebolirsi e non essere in grado di camminare verso mete proibite.

E', questo, un punto di estrema debolezza della società sussunta al

capitale. Il non potere dare corso a tutte le possibilità di cui le persone

dispongono, per non correre il rischio di fare saltare il sistema di astrazione,

conferisce un carattere di estrema fragilità alle istituzioni della società

astratta.

Questa fragilità espone il sistema di astrazione a crisi ricorrenti, che non

sono però il presupposto di un suo deperimento o di un suo crollo. La società

astratta dà talvolta l'impressione di essere lì lì per crollare. E i movimenti di

opposizione si illudono spesso di averle assestato il colpo mortale. C'è

all'origine di queste impressioni e di queste illusioni una concezione distorta

della società sussunta al capitale, come di un muro che può essere abbattuto

a colpi di piccone. E invece la società astratta è come fatta di materia

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elastica ed è in grado di assorbire i colpi che subisce e di riassestarsi, magari

assumendo altre forme. D'altra parte chi, disilluso dalle esperienze politiche,

tenta la via della liberazione indiviuale, sperimenta di persona che

l'astrazione sociale non è una cappa da cui ci si libera chiudendosi nella

sfera del privato, ma una materia molle e vischiosa che ti si appiccica

addosso e viene via insieme alla pelle.

E' una caratteristica della società astratta trarre forza dalla sua fragilità e,

viceversa, rivelare debolezza proprio nei suoi punti di forza. E ciò perché la

sua forza è non in una affermazione, ma in una negazione di realtà. Come

dire, paradossalmente, che la sua forza è in un dato di debolezza. E' nel suo

"stare altrove" rispetto alla vita reale delle persone, nella sua scarsa

esposizione ai riscontri della politica concreta. In questo dato di fragilità è la

radice di quella sorta di "imprendibilità" della società astratta. E, per altro

verso, pur "stando altrove", essa è presente nelle pieghe della realtà sociale,

impregnando di sé gli angoli più riposti della vita sociale. Il fatto è che la sua

presenza sta proprio nella indifferenza sociale, nella indifferenza alla

condizione esistenziale degli uomini e delle donne in carne e ossa. Come

dire che la presenza della società-struttura sta nell'assenza della società-

collettività.

Dove la struttura sociale sfugge ai problemi delle persone concrete, là è

presente la società astratta. La sua presenza tende infatti a fare il vuoto

sociale intorno alla concretezza delle persone. Anzi, I'astrazione è, di per sé,

vuoto sociale. E, via via che essa si espande nella società complessiva,

vengono meno i riferimenti alla concretezza degli uomini e delle donne. E la

società-struttura gira a vuoto su se stessa. Più gira a vuoto, più è astratta.

Ora, girare a vuoto significa muoversi senza impedimenti. Ma significa anche

non avere presa sulla realtà.

Astratta è dunque una società-struttura che, quanto più sente franare i

valori su cui fonda la propria legittimazione, tanto più fa pesare la sua

presenza sulle persone. Una struttura sociale che, quanto più si allontana

dalla realtà delle donne e degli uomini, tanto più si arroga il diritto di decidere

il loro destino. E' come se il suo essere indifferente nei confronti della

condizione esistenziale delle persone concrete l'autorizzasse ad essere

determinante rispetto alla organizzazione della collettività.

Questa ambivalenza è il modo in cui la società astratta vive il suo

persistente stato di precarietà. La sua pretesa di ignorare la concretezza

esistenziale delle persone la espone continuamente ai rischi della

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contestazione sociale. Il destino della società astratta è appeso ad un filo. E

quel filo è, pur sempre, nelle mani degli uomini e delle donne in carne e ossa.

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Postilla metodologica I

SULLA ESPLORAZIONE TEORICA

DELLA REALTA' SOCIALE

Il quadro della società astratta, che abbiamo tentato di tracciare per linee

essenziali, può aprire una prospettiva di ricerca empirica. Ciò non deve

significare pretendere di poterlo assumere direttamente come disegno di

inchiesta. Teoria e ricerca non si toccano. C'è sempre, inevitabilmente, fra

l'una e l'altra, una sorta di "terra di nessuno", che bisogna volta a volta

conquistarsi, da una parte piegando il modello teorico alle ristrettezze della

ricerca empirica, dall'altra evitando di ridurre la teoria a puro e semplice atto

preparatorio dell'uscita sul campo.

La "distanza" fra teoria e ricerca non è soltanto una dura necessità, con cui

bisogna fare i conti. E' anche, a nostro avviso, una condizione da perseguire

soggettivamente. Chi si impegna a disegnare un modello teorico è bene

lavori ad una giusta distanza (né troppo vicino, né troppo lontano) dal

laboratorio della indagine empirica. Una teoria che nasce già come disegno

di inchiesta è destinata a vivere una vita grama. Non avrà nemmeno la forza

di alimentare la ricerca.

La teoria ha tempi, ritmi, cadenze che non sono i tempi, i ritmi e le cadenze

della ricerca empirica. E deve potere spaziare - in prima istanza - anche in

ipotesi non direttamente verificabili. In sociologia sarebbe suicida una

qualsiasi impresa teorica che, per principio, si ponesse come limite

invalicabile la soglia della verificabilità empirica diretta.

D'altra parte, I'apertura teorica spinta oltre la soglia del verificabile non

deve significare una sorta di pretesa di "autonomia del teorico". C'è sempre

un momento, una sede in cui la teoria sociologica è chiamata alla resa dei

conti. Sono infinite le vie per le quali una teoria del sociale può essere messa

alla prova dai processi reali. L'inchiesta sociologica - è bene rendersene

conto - è solo una delle possibilità di verifica. Anche se è - e rimane - il

nostro più efficace strumento di lavoro per aggredire in presa diretta, a livello

conoscitivo, la realtà sociale.

* * *

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Il rapporto fra teoria e ricerca non riguarda direttamente il nostro abbozzo

della società astratta, che non è - né aspira ad essere - teoria. La nostra è

una semplice ipotesi di lettura della società sussunta al capitale. E tuttavia

anche nel nostro caso si porrà il problema della traduzione del quadro

problematico in concetti operativi. Sarà necessaria un'opera di raccordo che

trasformi l'ipotesi di lettura in ipotesi di lavoro. In tale direzione lavoriamo da

qualche tempo. L'importante è non pretendere che la prima possa rientrare

tutta nella seconda. Il più attrezzato apparato di ricerca non potrà evitare la

sedimentazione di "residui teorici", che sfuggono a qualsiasi riscontro

empirico.

Una ipotesi di lettura ha molti limiti. Ma ha anche molte possibilità di

manovra, essendo relativamente libera di muoversi in tutte le direzioni. Il suo

rigore andrà ricercato non in una sorta di filologia dell'esistente, ma nella sua

capacità di dare fondo a tutte le possibilità di prefigurazione del reale. Non si

tratta di riprodurre la realtà che esiste, ma di anticipare conoscitivamente la

realtà che ci attende.

Non riusciamo a trovare una qualche utilità sociologica in un lavoro

conoscitivo che si limiti a stare a rimorchio degli accadimenti storici.

Registrare la realtà sociale quando è già precipitata e si è cristallizzata

significa mettersi nele peggiori condizioni per capire quel che ci accade

intorno. Perché quel che ci accade intorno non è ciò che è già incarnato nel

reale. Quello è il passato. quel che ci accade intorno è ciò che deve ancora

traformarsi in realtà sociale codificata. Ecco perché l’unico modo per

orientarsi nel presente è tentare di lavorare su ciò che ancora non è, ma sta

per essere.

In queste condizioni, tra le forme di lavoro conoscitivo sulla realtà sociale

dobbiamo tenere in conto anche la possibilità di una "teoria di sfondo": una

sorta di pre-teoria, con il compito di esplorare il terreno che prima o poi verrà

investito dalla teorizzazione vera e propria.

* * *

Una esplorazione teorica della realtà sociale deve dunque farsi carico

della necessità di fare emergere il sociale prima che diventi realtà

consolidata e inamovibile. In questo senso, deve avere la capacità - pena il

suo fallimento - di andare a cogliere i nessi cruciali della dinamica sociale. E'

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da lì che passa il reale che "sta per essere". Tenersi alla periferia del quadro

sociale, per paura di andare a toccare fili carichi di tensione, è una scelta

contraddittoria. Sarebbe come volere esplorare il polo nord tenendosi sulla

linea dell'equatore.

L'esplorazione teorica, come ogni esplorazione, comporta rischi. E ci sono

prezzi da pagare. Dovrà cadere ogni remora nei confronti della realtà che

incombe. Non serve a niente stendere un discorso ideologicamente pulito e

politicamente tranquillizzante sugli aspetti più scottanti della dinarnica

sociale.

D'altra parte, una esplorazione teorica va giudicata per quel che riesce a

dare in sede di conoscenza di realtà possibili, non per quel che sa offrire in

sede di esorcizzazione di realtà non auspicabili. Una analisi, anche una

analisi esplorativa, può essere ritenuta corretta o non corretta. Mai le si puo

addebitare il segno della realtà che esplora. Nel bene e nel male, una

esplorazione teorica della realtà sociale non è - e non puo essere - un

programma politico.

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Postilla Metodologica II

PER UNA ANALISI SISTEMATICA DEI PROCESSI IMMATERIALI

II.1 Lo stato dell’analisi dei processi immateriali

L’analisi dei processi immateriali non fa parte della tradizione culturale di

ispirazione marxista. Questa sorta di latitanza dalla sfera immateriale ha il

suo precedente classico non nel modello, ma nell’opera di Marx. Nel modello

è ben delineata la prospettiva teorica, basata - come è noto - sulla relazione

fra struttura e sovrastruttura. Ma nell’opera il fuoco dell’analisi è puntato

quasi esclusivamente sulla struttura. Per capirci, manca nel settore marxiano

della nostra biblioteca un testo che ci dia, per la sovrastruttura, il corrispettivo

analitico di quella sorta di “anatomia” della struttura capitalistica che troviamo

ne Il capitale. E, poiché la teoria si alimenta dell’analisi dei processi, oltre che

della prassi, il vuoto di analisi dà luogo ad un vuoto di teoria.

Certo, nella letteratura di area marxista non manca, anche in opere di

notevole rilevanza, l’approfondimento della problematica della sovrastruttura.

Manca la traduzione della prospettiva teorica in analisi dei processi reali.

Traduzione che, per i processi materiali, segna il passaggio dal Marx giovane

al Marx maturo.

Di un tale vuoto - che costituisce un pesante handicap non solo teorico,

ma anche politico - ci ha lasciato una plastica rappresentazione Althusser.

«[...] bisogna pur dire - scrive il filosofo francese - che la teoria dell’efficacia

specifica delle sovrastrutture e delle altre «circostanze» resta in gran parte

da elaborare, e, prima della teoria della loro efficacia, [...], la teoria

dell’essenza propria degli elementi specifici della sovrastruttura. Questa

teoria resta, come la carta dell’Africa prima delle grandi esplorazioni, una

terra conosciuta nei suoi contorni, nei grandi rilievi e corsi d’acqua, ma il più

delle volte, salvo qualche regione ben disegnata, sconosciuta nei particolari» 46.

46 L. Althusser, Per Marx, trad. it., Roma, Editori Riuniti, 1974, p. 94.

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II.2 Una prospettiva di lavoro teorico ed empirico

Dal quadro tracciato emerge con evidenza la necessità di mettere mano ad

una analisi sistematica dei processi immateriali, con la stessa procedura con

cui Marx analizza, ne Il capitale, i processi materiali. Nessuna pretesa di

“integrare” Marx e tanto meno di misurarsi con un modello irraggiungibile.

L’intenzione, molto più modesta, è di mettere a frutto la lezione marxiana, per

esplorare un versante di analisi poco frequentato. In tale direzione va - pure

con tanti limiti - il lavoro, teorico ed empirico, che cerco di portare avanti nel

mio Corso Avanzato di Sociologia all’Università di Roma «La Sapienza». Non

si tratta di abbandonare l’analisi dei processi materiali per sostituirla con

l’analisi dei processi immateriali. Si tratta di cogliere i processi reali in tutta la

loro complessità, che è un intreccio di materialità e immaterialità.

II.3 L’intreccio fra materialità e immaterialità

L’intreccio fra materialità e immaterialità è un connotato costitutivo della

soggettività sociale, considerata in sé. Ma nella società sussunta al capitale

c’è un uso specifico della poliedricità della soggettività collettiva. Per limitarci

ad un solo aspetto, pensiamo a quel che accade quando viene prospettato

un provvedimento governativo volto a colpire la condizione materiale di

larghe masse popolari. Subito viene attivata una sofisticata operazione volta

a fare sedimentare nella coscienza collettiva - anche se, per fortuna, non

sempre ci riesce - la necessità o addirittura la positività del provvedimento.

Se proviamo a trarre da questo aspetto specifico una qualche

conseguenza teorica, ci troviamo di fronte ad una azione doppia e

concentrica sulla condizione di classe. Da una parte si agisce sulla struttura

materiale per colpire la condizione di classe, dall’altra si opera sul processo

immateriale per attutire l’impatto della misura governativa sulla soggettività

sociale. Sul piano generale, si può dire che quanto più distruttivo è un

processo materiale, tanto più efficace ed incisivo deve essere il processo

immateriale chiamato a sostenerlo. Esemplare è, a questo riguardo, il caso

del previsto intervento sulle pensioni. Per rendere accettabile una misura

così antipopolare, si mette in scena una fantomatica contrapposizione di

interessi tra padri e figli. Per questa via, si vuole fare sedimentare nella

coscienza collettiva un modello ideologico che faccia da sostegno

immateriale alla misura materiale. In base a tale modello, un padre e una

madre devono sentirsi in colpa nei confronti dei loro figli se non accolgono

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con gioia un provvedimento governativo che taglia le loro misere pensioni.

Per cogliere la complessità dei processi reali in corso, bisogna dunque

misurarsi con questo impasto di materialità e immaterialità.

Le componenti immateriali dei processi reali hanno una evoluzione più

lenta rispetto alle componenti materiali. Ma sono esposte al “rischio” di

improvvise accelerazioni e possono, in certi casi (per esempio nel caso

dell’esplodere di movimenti di massa), precipitare. Di conseguenza, anche in

presenza di una soggettività sociale disastrata, la prospettiva di

cambiamento rimane sempre aperta. Il filo del futuro rimane pur sempre nelle

mani degli uomini e delle donne.

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Appendici

SOCIETA’ E CAPITALE

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Appendice A

UNA FIGURA STORICA: L'OPERAIO-MASSA FRA INDETERMINAZIONE SOCIALE

E SOGGETTIVITA’ POLITICA

A.1 La condensazione dell'essere sociale: l’operaio-massa

Per operaio-massa si intende l'operaio comune, non qualificato, addetto

alla catena di montaggio della grande azienda. Si tratta di forza-lavoro

estremamente flessibile, mobile, intercambiabile.

L'operaio-massa è la forza-lavoro ideale per un sistema meccanizzato di

produzione in serie. Non è un caso che in Italia compare solo negli anni '50,

quando, in notevole ritardo rispetto ad altri paesi, si afferma anche nel nostro

paese la produzione di massa, specialmente nel settore delle auto ed in

quello degli elettrodomestici.

Nei termini della nostra analisi, I'operaio-massa si definisce come I'esito di

un processo di condensazione dell'essere sociale, che il capitale, al fine di

allargare la base produttiva, in fase di sviluppo estensivo, innesca con

l'immissione di contadini, artigiani e giovani disoccupati meridionali alla

catena di montaggio delle grandi fabbriche del nord. Questa massificazione

dell'essere sociale nello standard della figura operaia da un lato afferma

d'autorità il lavoro indeterminato di massa, la indifferenza di massa ai

contenuti del lavoro, dall'altro fa esplodere il richiamo ai contenuti della

classe.

La data politica che discrimina queste due facce dell'operaio-massa è il

'68. Da qui la necessità di operare - in sede di analisi - una distinzione tra

operaio-massa pre-sessantotto ed operaio-rnassa post-sessantotto. Anche

se, ovviamente, in un fenomeno così complesso nessuna distinzione può

essere ridotta a schema.

A.2 L'operaio-massa pre-sessantotto: forza lavoro indeterminata

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Volendo tratteggiare un identi-kit dell'operaio -massa nella situazione

italiana degli anni cinquanta e sessanta, prima del '68, si può dire che in

genere si tratta di un ex contadino o ex artigiano meridionale, che è emigrato

al nord, lasciando al paese di origine la famiglia, alla quale spedisce il vaglia

mensile. In fabbrica è uno che - per usare il linguaggio padronale - "lavora

sodo" e "non ha grilli per la testa". E' disponibile nei confronti di qualsiasi

richiesta, estremamente mobile, flessibile, intercambiabile. All'esterno della

fabbrica è uno sradicato, tagliato completamente fuori da qualsiasi rapporto

con una comunità nella quale non si riconosce e dalla quale si sente

respinto, mentre rimane in rapporto nostalgico con la comunità di origine, alla

quale spera di potersi reintegrare.

L'operaio-massa pre-sessantotto si definisce dunque come forza-lavoro

tecnicamente e socialmente indeterminata, indifferente nell'immediato -

proprio per la sua condizione di sradicato - sia al contenuto del suo lavoro

che alla qualità della sua vita. Si tratta di una indifferenza prodotta dalla

situazione particolare in cui egli vive la sua attività lavorativa e la sua

esperienza esistenziale. Non è certo un connotato della sua personalità e

della sua cultura, che sono anzi fortemente orientate verso modi e contenuti

determinati di lavoro e di vita.

L'ex contadino o ex artigiano meridionale mantiene come quadro di

riferimento l'assoluta determinazione sociale del suo precedente lavoro e

della sua vita anteriore. Senonché, questa sua speranza in un futuro ritorno

alla passata determinazione si traduce - quando manca una visione politica

della realtà - in accettazione della indeterminazione presente. In questo

atteggiamento non c'è però solo lo spirito di sacrificio tipico dell'immigrato.

C'è anche il rifiuto esistenziale di assumere una determinazione di lavoro e di

vita che non sia quella che egli sogna di potere ancora tornare a realizzare

nella comunità di origine. In altri termini, la stessa rigida determinazione del

quadro esistenziale, al quale egli fa riferimento, concorre a produrre la sua

disponibilità a definirsi praticamente come forza-lavoro tecnicamente e

socialmente indeterminata. E ciò per due ordini di motivi: da un lato è pronto

a sopportare qualunque disagio in fabbrica e fuori della fabbrica, perché è

convinto che ciò potrà servire ad avvicinare il giorno del ritorno al paese;

dall'altro lato si rifiuta di assumere, in una comunità nella quale non si

riconosce, una qualsiasi determinazione di lavoro e di vita. In pratica, si

rifiuta di dare un qualsiasi carattere definitivo alla sua sistemazione.

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Da quanto si è detto dovrebbe risultare chiaro che l'operaio-massa

pre-sessantotto è funzionale al processo allargato di produzione e di

valorizzazione capitalistica, basato sulla massificazione della giornata

lavorativa complessiva, perché offre un uso tecnicamente e socialmente

indeterminato della forza-lavoro. E questo uso indeterminato è possibile

perché I'operaio-massa in fabbrica svolge un lavoro tecnicamente

indeterminato e fuori della fabbrica vive una vita qualsiasi, una vita sociale

indeterminata.

L'indeterminazione tecnica e sociale che sta alla base della figura

dell'operaio-massa pre-sessantotto discende da una sorta di duplice

azzeramento delle sue qualità professionali e sociali. In quanto contadino o

artigiano, entrando in fabbrica viene azzerato sul piano professionale. In

quanto immigrato meridionale, entrando in un agglomerato urbano del nord

viene azzerato sul piano culturale e sociale. La sensazione che egli prova di

"non sentirsi nessuno" non deriva soltanto dall'anonimato prodotto dalla

grande città, ma anche dalla perdita della sua identità professionale,

culturale e sociale.

Una variante della figura che abbiamo cercato di abbozzare nei suoi tratti

essenziali è l'operaio-massa giovane. Emigrato in cerca di prima

occupazione o coinvolto nella emigrazione del padre, cresciuto nella nuova

realtà o, comunque, disposto a sperimentarla, soffre molto

I'indeterminazione della sua condizione. Non si rassegna a fare un lavoro

qualsiasi ed a vivere una vita qualsiasi. Cova perciò entro di sé una rabbia

profonda, che è costretto a comprimere, non disponendo di canali di

comunicazione sociale per organizzarsi, né di strumenti politici per

intervenire sulla realtà.

Questa figura specifica - I'operaio-massa giovane - fa, a nostro avviso, da

tramite per il passaggio dall'operaio-massa pre-sessantotto all'operaio-massa

post-sessantotto.

A.3 L'operaio-massa post-sessantotto: da forza-lavoro indeterrninata a soggetto politico

Il movimento del sessantotto - si sente spesso ripetere - fallì il col-

legamento con la classe operaia. E' vero e non è vero. E' vero se ci si

riferisce ad un collegamento diretto, a livello di struttura organizzativa. Ad un

tale livello, per fare un esempio, la «Commissione per il collegamento con la

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classe operaia», sorta nell'ambito del movimento di Roma, deve registrare

I'esito negativo di qualsiasi iniziativa organizzativa comune fra studenti ed

operai. «Studenti, operai, uniti nella lotta» rimane uno slogan, gridato nelle

piazze per esprimere non una realtà, ma un desiderio. Studenti, operai: due

realtà ancora troppo distanti perché possano - a questo punto del processo

politico in Italia - entrare direttamente in contatto.

Di fallimento non si può invece parlare se si intende con ciò escludere che

il messaggio del '68 sia comunque arrivato in fabbrica e che ci sia una

qualsiasi forma di relazione fra il '68 degli studenti e il '69 degli operai. In

realtà, il modello ideologico e pratico degli studenti penetra - per vie indirette,

sotterranee, attraverso una sorta di comunicazione simpatetica -

nell'universo operaio.

Fa da antenna a questa ricezione I'operaio-massa giovane, il quale, con

istinto di classe, raccoglie il messaggio, lo decodifica, lo traduce nei termini

della realtà di fabbrica e lo mette in circolazione fra i suoi compagni e le sue

compagne di lavoro. Ne risulta una radicale ridefinizione della figura

dell'operaio-massa: da forza-lavoro tecnicamente indeterminata a soggetto

politico socialmente determinato.

L'operazione padronale risulta così stravolta. La concentrazione in fabbrica

di una massa di braccia incorporate nelle macchine si trasforma in una

aggregazione di teste politiche. Sempre più spesso le braccia si allontanano

dalla catena di montaggio. Ma non si limitano a incrociarsi, secondo la

tradizione operaia. Si alzano a pugno chiuso, mentre slogan durissimi

echeggiano nei grandi saloni, frastagliandosi tra i sentieri delle macchine

ferme.

Per questa via, I'operaio senza qualità tecnica si fa conduttore di qualità

politica. L'operaio sradicato dalla comunità di origine scopre la sua comunità

nella classe. L'operaio strappato alla cultura di origine scopre la cultura

politica.

Il segno politico attribuito dal grande padronato all'operaio-massa si

rovescia e gli si rivolta contro. L'operaio-massa è stato ottenuto attraverso la

condensazione in fabbrica di un essere sociale indeterminato. Il processo di

politicizzazione, con i suoi contenuti di classe, conferisce determinazione

esistenziale e politica ai portatori di forza-lavoro, li rende consapevoli della

loro condizione di sfruttati, li attiva come protagonisti della classe ed

antagonisti del capitale.

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E allora la condensazione dell'essere sociale si traduce in compattazione

della classe. La stessa organizzazione del lavoro viene usata dalla base

operaia come struttura materiale della organizzazione politica. Saltano tutte

le strutture della mediazione organizzata fra capitale e forza-lavoro. Al centro

dello scontro c'è adesso l'operaio-massa politicamente attivo, il protagonista

dell'autunno caldo del '69.

A.4 La risposta del capitale all'operaio-massa: la rarefazione dell'essere sociale

Il soggetto politico collettivo prodotto dall'operaio -massa è troppo forte

perché al padronato possa venire in mente di prenderlo di petto. In casi come

questo, il capitale, invece di misurarsi direttamente con la forza operaia,

preferisce agire su di essa, per cercare, quanto meno, di riportarla a livelli

controllabili.

Questo tentativo di intervento sulla figura dell'operaio-massa richiede una

ristrutturazione tecnica ed organizzativa dell'intero processo produttivo. A sua

volta, la ristrutturazione richiede una estrema mobilità e disponibilità dei

soggetti sociali che vi sono coinvolti. In pratica, si chiede all'operaio-massa

post-sessantotto ciò che ha caratterizzato l'operaio-massa pre-sessantotto:

la piena disponibilità a fare un lavoro qualsiasi in un posto qualsiasi. Si

chiede cioè al nuovo soggetto politico di tornare a funzionare come

forza-lavoro tecnicamente e socialmente indeterminata. Si chiede

all'operaio-massa ciò che non è più disposto a dare.

Ma c'è di più. La ristrutturazione si definisce subito non soltanto come

riorganizzazione delle forze di lavoro occupate, ma anche come sostituzione

di lavoro umano con lavoro tecnico. E in questo contesto la mobilità della

forza-lavoro assume il significato di pendolarità occupazionale. Ma su questa

faccia della mobilità la ristrutturazione si scontra con il bisogno operaio di

sicurezza di vita. Alla richiesta di indeterminazione di vita - nel senso forte di

incertezza di mezzi di sussistenza - I'operaio-massa risponde con

l'affermazione del suo diritto alla qualità della vita.

Attraverso la semplice riaffermazione di questo diritto primordiale,

I'operaio-massa oppone alla ristrutturazione il muro della rigidità tecnica e

sociale della forza-lavoro. In questa rigidità si esprime tutta l'autodetermi-

nazione conquistata dalla classe operaia a partire dal '69. In essa è però

anche l'ultima espressione politica dell'operaio-massa. La forza destabiliz-

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zante che la rigidità operaia è in grado di esprimere fa di essa un fattore

strutturale di crisi del sistema economico. E la crisi diviene ben presto, nelle

mani del padronato, I'arma per assediare e costringere alla resa la rigidità

operaia.

Il capitale, utilizzando la crisi, opera una disarticolazione del soggetto

politico attraverso un processo di scomposizione tecnica. Tenta cioè di

sconnettere il soggetto politico scomponendo la struttura tecnica del

processo produttivo, nel quale il soggetto è inserito in quanto forza-lavoro.

Poiché la condensazione dell'essere sociale si è tradotta in compattazione

della classe, il capitale cerca di disarticolare la classe attraverso un processo

opposto. Prima aveva condensato l'essere sociale, adesso cerca di rarefarlo.

Dal processo di condensazione si passa a un processo di rarefazione

dell'essere sociale.

Poiché nella vita sociale si realizza l'essere sociale, in tutte le sue

concrete determinazioni, dense di contenuti particolarissimi, l'indetermi-

nazione della vita sociale comporta una diradazione dell'essere sociale. Via

via che la vita sociale diventa indifferente ai suoi contenuti, l'essere sociale

perde di densità ed allarga le maglie della sua resistenza a lasciarsi

sottomettere al processo di valorizzazione del capitale.

La rarefazione dell'essere sociale - in quanto funzione della valorizzazione

capitalistica - è già in via di sperimentazione. Viene perseguita da un lato

attraverso la disarticolazione del corpo sociale della classe, dall'altro

attraverso l'estensione del tempo di lavoro a tutto il tempo di vita. I due

processi sono strettamente interconnessi. La disarticolazione del corpo

sociale rende praticabile un progetto di sottomissione del tempo di vita al

tempo i lavoro.

Un tale progetto trova difficoltà a realizzarsi in pieno, per l'insorgere della

rigidità sociale, cioè della resistenza che i nuovi soggetti oppongono al

tentativo di sottomettere la vita sociale al processo complessivo di

valorizzazione capitalistica. A.5 La duplice valenza dell'operaio-massa

L'operaio-massa rappresenta, in Italia, la sintesi della affermazione della

società astratta e della sua crisi. La migrazione al nord industrializzato dei

contadini e degli artigiani meridionali è una sorta di rappresentazione filmica

dell'ascesa della società astratta, della sua forza di attrazione, della sua

capacità di egemonia. L'essere sociale - cioè il coesistere delle persone

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concrete, con tutti i problemi che ciò comporta - viene calamitato ad un polo

del paese (il cosiddetto triangolo industriale) addensato in uno spazio

(geografico, ma anche sociale e politico) relativamente ristretto. L'esistenza

di migliaia di persone - così varia nelle sue specificità culturali e sociali -

viene schiacciata ed appiattita, almeno esteriormente, nello standard

dell'immigrato meridionale addetto alla catena di montaggio della grande

azienda. Questa condensazione e massificazione dell'essere sociale è una

sorta di sfida del grande padronato industriale alla composizione socio-

culturale del nostro paese. E' come se si sia voluto dimostrare che il capitale

ha la forza di mutare - quando ha interesse a farlo - i connotati geografici,

culturali e sociali di un paese. La geografia e la storia ridotte a variabili

dipendenti dagli interessi del capitale.

In questa prova di forza, in questo test italiano dell'arroganza storica del

grande capitale industriale, I'operaio-massa svolge un ruolo centrale. E'

prima oggetto di massificazione sociale e poi soggetto di compattazione

politica. E' prima una comparsa passiva della società astratta e poi un

protagonista attivo della società concreta.

Bisognerà scavare a fondo nella figura storica dell'immigrato meridionale,

per cercare le radici di una tale duplice valenza dell'operaio-massa. Noi

crediamo che nella ricostruzione di una figura così complessa non vada

trascurata una sorta di ambivalenza di fondo, che è propria - per quel che

possono valere generalizzazioni di questo tipo - del meridionale che emigra

per lavoro. Da una parte la pazienza atavica di chi è abituato alle più dure

esperienze di vita, dall'altra la rabbia e la voglia di ribellarsi, che secoli di

soprusi e di sopraffazioni gli hanno accumulate entro.

L'errore che il padronato ha commesso è stato quello di non tenere conto

del fatto che nel convogliare nel triangolo industriale la pazienza del sud

finiva per compattare la sua rabbia. Il motore dell'autunno caldo del '69 è

stata la rabbia meridionale trapiantata al nord. La società concreta del sud -

concreta pur nella sua storica miseria - portata di peso al nord, per fare da

supporto alla massificazione della giornata lavorativa, finisce per funzionare

come polo antagonista nei confronti della società astratta del grande capitale

industriale. Le determinazioni della vita sociale meridionale pendono come

spade di Damocle sulla esigenza di indeterminazione sociale che

caratterizza il processo di valorizzazione capitalistica. I bisogni storici del

sud, una volta rotto l'argine della subalternità politica, si insediano nei luoghi

di produzione e mettono in difficoltà il sistema di astrazione, cioè l'insieme di

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regole che presiedono al lavoro in fabbrica e tendono ad evitare che esso

funzioni anche come attività vitale e non soltanto come resa produttiva.

Il rifiuto della indeterminazione tecnica e sociale del lavoro è il punto da cui

parte l'operaio-massa post-sessantotto, per andare all'attacco della società

astratta. L'uso rigido della forza-lavoro per un verso mina alla base il

processo di produzione di valore astratto, per l'altro crea le premesse per la

difesa dei valori reali della vita sociale.

Significativa è, a tale riguardo, una parola d'ordine che caratterizza

I'autunno caldo del '69: «Aumenti uguali per tutti». Si tratta di una parola

d'ordine estremamente significativa, una sorta di sintesi dell'attacco operaio

al sistema di astrazione che presiede alla struttura sociale della fabbrica.

Chiedere aumenti uguali per tutti significa rapportare il salario non più alla

gerarchia aziendale, ma al quadro esistenziale, comune a tutti i lavoratori e a

tutte le lavoratrici. Significa, in altri termini, rapportare la retribuzione non più

alla società astratta, ma all'universo delle persone concrete. Lì si fa

astrazione dalla vita reale e gli individui vengono parametrati sulla base di

astratte valenze economiche. Qui si parte dal principio che - a prescindere

dalle astratte valenze economiche di ogni individuo nel processo di

valorizzazione - tutte le persone fanno riferimento allo stesso quadro di

bisogni.

Tutti i valori espressi dall'operaio-massa post- sessantotto sono

espressione della estraneità operaia alla società astratta - estraneità

oggettiva, che può essere mistificata, ma non eliminata - e si definiscono

come poli antagonisti alla indeterminazione sociale. La risposta del capitale a

questo attacco al sistema di astrazione sociale non è - e non può essere - la

semplice riaffermazione della società astratta. La strategia del capitale deve

tenere conto della forza ormai acquisita dalla concretezza sociale.

La riaffermazione capitalistica della società astratta parte quindi dalla

disarticolazione della società concreta. L'essere sociale, che prima è stato

addensato e massificato, adesso viene rarefatto attraverso la sua

dispersione nel territorio. Nel contempo, attraverso l'uso ideologico della crisi

economica, il capitale da una parte restringe la base produttiva regolare,

dall'altra estende il suo rapporto irregolare con la forza-lavoro. Per questa

via, da un lato assedia la cittadella della rigidità operaia, dall'altro recupera,

attraverso le mille forme del lavoro non garantito, I'indeterminazione dell'uso

della forza-lavoro.

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Il risultato di tutto ciò è l'emergere di nuove figure sociali, le quali

ridefiniscono ad un nuovo livello il rapporto antagonistico tra società concreta

e società astratta. Nei meandri della cosiddetta economia sommersa la

vecchia rigidità operaia viene letteralmente vanificata. Non solo. Si aprono

per il capitale infinite possibilità di uso incontrollato della forza-lavoro.

Ma proprio quando è acquisita l'indeterminazione tecnica della forza-lavoro

in posizione irregolare, ecco insorgere nuove forme di rigidità. E non si tratta

più di rigidità tecnica, ma di rigidità sociale. L'indeterminazione tecnica si

rovescia in determinazione sociale. E ciò perché la disponibilità tecnica della

forza-lavoro non è più - come nell'operaio-massa pre-sessantotto -

espressione della subalternità operaia al processo di valorizzazione

capitalistica, ma della estraneità soggettiva delle nuove figure sociali alla

società astratta.

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Appendice B

LA CITTA' COME FABBRICA SOCIALE

B.1 La città, sede del capitale sociale

L'esigenza di estendere l'organizzazione aziendale al di là delle mura

dell'azienda, nel territorio 47, diventa urgente quando il capitalismo, sotto la

pressione delle lotte operaie, comincia a sentire precaria la propria

condizione di frammentarietà - che è il portato del libero gioco delle iniziative

imprenditoriali - e si pone il problema di darsi una struttura organica a livello

generale. La necessità di fare della città una fabbrica, una fabbrica sociale 48,

si impone dunque allorché il capitalismo comincia a pensare sempre meno

con la testa del capitalista individuale e sempre più con la testa del

capitalista collettivo. La città-fabbrica, in breve, è un bisogno del capitale

come capitale sociale, nell'accezione marxiana: «[...] Ogni singolo capitale -

dice Marx - costituisce soltanto una frazione autonomizzata [ein verselb-

ständigtes], dotata, per così dire, di vita individuale, del capitale complessivo

sociale [des gesellschaftlichen Gesamtkapitals], così come ogni singolo

capitalista costituisce soltanto un elemento individuale della classe dei

capitalisti. Il movimento del capitale sociale [des gesellschaftlichen Kapitals]

consta della totalità dei movimenti delle sue frazioni autonomizzate, delle

rotazioni dei capitali individuali» 49. Teatro esterno, sede materiale del movi-

mento del capitale sociale, è il territorio, che così viene ad essere, rispetto

47 E' bene precisare subito l'uso che intendo fare - in linea di massima - dei termini «città» e «territorio».

«Città» sta ad indicare il punto di vista dell'insediamento umano, mentre «territorio» fa riferimento al punto di vista dell'insediamento produttivo. Nonostante questa distinzione, i due termini potranno talvolta apparire usati in maniera intercambiabile. Non a caso. E' chiaro infatti, sin da ora, che l'insediamento umano interessa al capitale esclusivamente dal punto di vista della produzione, cioè la città gli interessa in quanto territorio.

48 «Sociale» è, oramai, attributo estremamente corrotto. A meno che non si voglia approdare, per suo tramite, al fertile terreno dell'indefinito e piantarci le tende dell'analisi - com'è nello stile di certa sociologia di consumo - occorre volta a volta delimitarne il senso. Nel mio discorso il significato di «sociale» - quando non venga data altra indicazione - è tratto da «capitale sociale», nell'accezione precisata poco più avanti. «Fabbrica sociale» deve dunque intendersi - né più né meno - come sede in cui il capitale sociale realizza la produzione del plusvalore sociale.

49 K. Marx, Il capitale, trad. it., Roma, Editori Riuniti, 1970, II, p. 368 (corsivi miei). Ho tenuto presente l'edizione tedesca Das Kapital, Berlin Dietz Verlag, [1947-49] (il passo citato è alle pp. 352-3 del Libro II). Per una analisi della nozione marxiana di capitale sociale si veda M. Tronti, Il piano del capitale, apparso in «Quaderni Rossi», n. 3, 1963 pp. 43-73 e poi incluso nel volume M. Tronti, Operai e capitale, Torino, Einaudi, 1966, pp. 60-85.

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all'azienda, ciò che il capitale complessivo è rispetto al capitale singolo e il

capitalista collettivo rispetto al capitalista individuale.

Analogamente, quel che rappresenta per il capitale singolo il livello

aziendale in fatto di razionalizzazione della produzione, per il capitale sociale

complessivo è rappresentato dal livello metropolitano. E ciò perché il livello di

"metropolizzazione" di un'area solo in parte dipende dalla densità di popola-

zione insediata, mentre è legato strettamente alla qualità della

organizzazione del lavoro. Il livello metropolitano segna il «passaggio

graduale della città intesa come concentrazione di fabbriche, alla

città-fabbrica, come organica distribuzione delle attività lavorative entro la

logica dei grandi cicli di produzione, distribuiti a livello nazionale e

internazionale» 50.

Il livello metropolitano si qualifica dunque soprattutto come visione unitaria

- dal punto di vista del capitale sociale complessivo - dei bisogni della

produzione sul piano dell'assetto territoriale 51. Bisogni legati non soltanto

all'insediamento dei meccanismi direttamente produttivi, ma anche alla

creazione di una rete di infrastrutture, tale da rendere agevole da una parte

la circolazione delle merci (viabilità e trasporti) 52 e dall'altra la distribuzione e

riproduzione della forza-lavoro (residenza e consumi).

50 AA.VV., La città fabbrica, Milano, Clup (Cooperativa libraria universitaria del Politecnico), 1970, pp.

52-53. Si tratta di una ricerca su Milano, condotta a cura dell'Istituto di Urbanistica della Facoltà di Archi-tettura del capoluogo lombardo.

51 Un tentativo di analisi materialistica della città - intesa però come entità architettonica - è in M. Folin, Ipotesi materialistiche sull'architettura oggi, il più interessante di una serie di articoli apparsi in un inserto de «Il Contemporaneo» dedicato a «La città nella lotta di classe» (in «Rinascita», n. 51, 25 dicembre 1970, pp. 13-28. L'articolo citato è a p. 14 sgg.). Folin, utilizzando strumenti dell'analisi marxiana, giunge a configurare la città per un verso come merce e per l'altro come capitale fisso: «[...] La prima cosa che dobbiamo porre in rilievo è quale sia il modo specifico attraverso cui la città si realizza, cioè viene costruita ed usata. Esso è quello per cui essa è merce, al pari di tutti i beni materiali prodotti e consumati all'interno del modo di produzione capitalistico [...] (p. 15, corsivo nel testo). E più oltre: «In quanto la città è mezzo di produzione essa è capitale fisso: macchina, all'interno del processo di produzione. [...] Tenendo presente che macchina è «oggettivazione della forza-lavoro», è «aumento di produttività» (è sfruttamento più accentuato) la macchina-parte di città è presente ovunque esistano rapporti capitalistici che si tratti di organizzare spazialmente in modo che producano di più [...]» (Ibidem. Corsivi nel testo).

52 Sono costretto a toccare di sfuggita punti che meriterebbero una trattazione approfondita. Non è il caso di sottolineare qui l'importanza che riveste per il capitale la circolazione delle merci. «Quanto più la pro-duzione si basa sul valore di scambio, e quindi sullo scambio, - dice Marx nei Grundrisse - tanto più importanti diventano per essa le condizioni fisiche dello scambio - i mezzi di trasporto e di comunicazione [...]. La creazione delle condizioni fisiche dello scambio [...] diventa dunque per esso una necessità [...]». (K. Marx, Grundrisse der Kritik der politischen Okonomie; trad. it.: Lineamenti fondamentali della critica dell'economia politica, a cura di Enzo Grillo, Firenze, La Nuova Italia, 1968-70. Il passo citato è a p. 161 del vol. II). E in Il capitale: «La funzione di M' [capitale-merce] è ora quella di ogni prodotto-merce: trasformarsi in denaro, essere venduto, compiere la fase della circolazione M-D [merce-denaro]. Fino a che il capitale ora valorizzato perdura nella forma di capitale-merce, giace fermo sul mercato, il processo di produzione si arre-sta. Il capitale non opera come creatore di prodotto né come creatore di valore. Secondo il diverso grado di

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Le esigenze di carattere specificamente urbanistico non rientrano nella vita

biologica del capitale: «[...] La tecnica urbanistica segue il destino che il

capitale le prepara, quando la utilizza e quando no, quando ne fa un pilastro

dell'interesse generale e quando opera tranquillalnente le proprie scelte

scavalcando i piani e scandalizzando gli urbanisti» 53. Il cosìddetto "disordine

urbanistico" è dunque il portato di scelte capitalistiche, che nel caso specifico

si avvalgono di quel noto meccanismo di accumulazione che è la rendita

urbana 54. Niente di nuovo sotto il sole. Il caos della città come ordine

territoriale del capitale.

B.2 L'utopia capitalistica

A questo punto bisogna chiedersi a che livello opera il capitale nell'area

urbana, per tentare di prevederne la linea di tendenza. Le ipotesi possono

essere tante e andrebbero tutte verificate. Ma c'è, in primo luogo, da vagliare

una alternativa di fondo. A parte le componenti peculiari - che possono, per

comodità, essere ricondotte in quello che si usa definire come ruolo storico di

una città data - c'è da domandarsi se l'attuale economic behaviour del

capitale nell'area urbana possa già essere collocato a livello di town-planning

o si debba invece declassarlo ad un tipo di agire brigantesco, notevolmente

vistoso, di un blocco li forze che riesce ad imporre il proprio "particulare".

Occorre cioè sapere se ci si trova già di fronte ad un comportamento di

classe codificato oppure si è ancora in fase di scorribande avventuristiche

informali, non proprio esterne, ma certo oggettivamente "spurie" rispetto alla

linea di classe.

Non è, questo, un interrogativo che è possibile sciogliere qui, in astratto. Ci

sono, del resto, indicazioni in un senso e nell'altro. Probabilmente non si

tratta di un aut aut. Il capitale vive il suo travaglio di assestamento al di là

delle mura della fabbrica. La rendita urbana non è certo un episodio, ma è

ben lontana dal porsi, a mio avviso, come il modo di produrre plusvalore a

livello territoriale. Anzi. Va fatta una distinzione netta tra plusvalore sociale,

velocità con cui il capitale respinge la sua forma di merce e assume la sua forma di denaro, ossia secondo la rapidità della vendita, lo stesso valore-capitale, in grado assai differente, servirà come creatore di prodotto e di valore, e la scala della riproduzione si estenderà o si restringerà» (Il capitale, ed. cit., II, pp. 44-45).

53 C. Gruppi, A. Pedrolli, Produzione e programmazione territoriale, in «Quaderni Rossi», n. 3, 1963, pp. 94-101. Il passo citato è a p. 95.

54 Sulla nozione di rendita urbana vedi M. Allione, Metamorfosi della rendita, in «Il Manifesto», n. 3-4, marzo-aprile 1970, pp. 41-45. L'articolo fa parte di una «ricerca collettiva» su «Il movimento per la casa».

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che è il profitto del capitale sociale, e le diverse forme di rapina adottate dal

capitalismo 55. La rendita urbana è una esperienza. Il capitalismo italiano ha

già alle sue spalle diverse experiences, radicate in situazioni storiche spesso

nettamente differenziate. Ma tutto ciò lascia pensare che non sia ancora

riuscito a possedere teoricamente il suo stesso passato. L'avvenire, anche

immediato, della città capitalistica si gioca su questo terreno: sulle capacità

del capitale - e, più ancora, sulle possibilità che il movimento operaio gli

lascia aperte - di assorbire le spinte settarie e disarticolate che insorgono al

suo interno, per convogliarle - nell'interesse "generale" di classe - verso una

organica programmazione dell'assetto del territorio, coinvolgendo nell'opera

di ristrutturazione sia gli organi istituzionali dello Stato sia le forze storiche

della classe operaia. In altri termini, la prospettiva a lungo termine di

insediamento organico del capitale sociale complessivo a livello territoriale è

legata alla tempestività con cui il pensiero borghese riesce ad appropriarsi,

teoricamente e praticamente, della situazione urbana ed a tradurre le

necessità di classe in problemi di interesse "generale".

In fondo a questa strada c'è la città-fabbrica come concetto-limite: una città

completamente integrata e perfettamente funzionale rispetto al processo

complessivo di produzione e riproduzione del capitale; una città in cui finisce

con il perdere senso la nozione stessa di «giornata lavorativa», in quanto

concetto arcaico legato alla necessità ideologica di tenere formalmente se-

parato il momento lavorativo dal cosiddetto "tempo libero", il produttore dal

cittadino, per dare all'operaio la compensazione liberatoria di sentirsi, allo

scoccare di una certa ora, fuori dell'orbita del capitale e svuotarlo così di ogni

volontà di lotta a livello urbano. Caduta - nella città-fabbrica come utopia

capitalistica - la necessità di coprire di velo ideologico il carattere di totalità

del sistema, diventa possibile per il capitale, una volta acquisito il pieno

controllo della città, riunificare, dentro il processo complessivo di produzione,

momento lavorativo e tempo libero, produttore e cittadino, residenza e

fabbrica.

Ora, se immaginare una possibile trama dei sogni del capitalista sulla città

può servire a qualcosa, deve aiutarci in primo luogo a non cadere nell'errore

di scambiare eventuali fattori, che possono condizionare dall'esterno -

deviandone e, al limite, invertendone la tendenza - il comportamento del

capitale nei confronti dell'assetto urbano, per elementi necessitanti dello svi-

55 Si veda, a questo proposito, Operai e capitale, cit., pp. 63-64.

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luppo capitalistico. L'errore si fa ancora più grave quando poi, in

conseguenza di questo primo equivoco, si è convinti di marciare in direzione

opposta a quello sviluppo inseguendo obiettivi che possono apparire antitetici

all'agire capitalistico, in quanto agire condizionato, ma si traducono in

sostanza proprio in quelle scelte che il capitale, per sua costituzione interna,

avrebbe dovuto fare e non ha fatte, perché non si è sentito ancora in grado di

controllarne per intero la portata.

B.3 Il comportamento capitalistico nella città come risposta alle lotte operaie

Primo fra tutti i condizionamenti dell'agire capitalistico - nella città come

nella società - è, si sa, la presenza del movimento operaio. Non avrebbe,

ovviamente, alcun senso ricordarlo, se non si dovesse qui dare ragione di un

modo di procedere del discorso, che tende a isolare - entro i confini della

deterninazione storica - alcune variabili, nel tentativo di coglierne appieno le

possibilità di sviluppo, a prescindere da ogni condizionamento esterno 56.

Così è accaduto, non a caso, che il comportamento capitalistico nell'area

urbana sia stato considerato, fin qui, facendo astrazione da quella che è una

sua necessità storica: l'esigenza di configurarsi come risposta complessiva ai

movimenti di lotta della classe operaia. Ed è a partire da questa esigenza

che bisogna adesso ripercorrere il cammino, per inseguire non più le

necessità di sviluppo del capitale nell'area urbana, ma i suoi bisogni politici.

56 Qualcuno potrebbe richiamare a questo punto, per una sorta di associazione di idee, i procedimenti

euristici di Max Weber, in particolare la «possibilità oggettiva» [objektive Möglichkeit] che, come è noto, si riferisce all'atto di astrarre da uno o più elementi del processo storico nell'intento di pervenire all' imputazione causale. Per parte mia, credo di potermi rifare ad un tipico procedere di Marx, il quale usa spesso sem-plificare per astrazione il processo reale, al fine di penetrare meglio nel suo funzionamento interno. Egli dimostra di sapere assai bene - ll capitale può offrire, in tal senso, testimonianze a piene mani - che la complessità propria del reale storico oscura spesso i nessi cruciali del processo; nessi che possono essere colti soltanto se si riesce ad isolarli, facendo astrazione da tutti gli altri elementi concomitanti. Mi sia consentita una sola citazione, fra le tante possibili: «Per comprendere esattamente queste forme [«di cui si riveste il capitale nei suoi diversi stadi»], occorre innanzitutto fare astrazione [abstrahieren] da tutti quei momenti che nulla hanno a che fare con il mutamento di forma e la costituzione della forma come tali. Per questo si presuppone [wird angenommen] qui non solo che le merci vengano vendute al loro valore, ma anche che

ciò awenga in condizioni immutate. Si prescinderà [Es wird abgesehen], dunque, anche dalle variazioni di valore che

possono intervenire nel corso del processo ciclico» (Il capitale, ed. cit., II, p. 30. Das Kapital, ed. cit., II, pp 23-24.

Corsivi miei). Weber parla della «possibilità oggettiva» nel saggio Kritische Studien auf dem Gebiet der

kulturwissenschaftlichen Logik, parte II «Objektive Möglichkeit und adäquate Verursachung in der historischen

Kausalbetrachtung» [Studi critici intorno alla logica delle scienze della cultura, parte II «Possibilità oggettiva e

causazione adeguata nella considerazione causale della storia»]. In trad. it. il saggio citato è in M. Weber, Il metodo

delle scienze storico-sociali, a cura di Pietro Rossi, Torino, Einaudi, 1958, pp. 143-237, parte II, pp. 207-237).

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Di conseguenza, l'ipotesi della città come fabbrica sociale deve spostare il

suo centro di gravitazione. L' "utopia capitalistica" ha adesso davanti a sé la

realtà della presenza operaia nella città ed è costretta a piegarsi alle

necessità della lotta di classe. Necessità complesse, che impongono al

capitale un comportamento politico polivalente, in rapporto problematico con

quelle che sono le "dure leggi" della massimizzazione del profitto. La

presenza operaia costringe il capitalista a guardare al processo produttivo

non soltanto come a un fatto soggetto a provvedimenti tecnici, ma anche - e

soprattutto - come ad un rapporto che richiede soluzioni politiche sempre più

organiche ed istituzionalizzate. Viene così a profilarsi l'esigenza di una nuova

figura dello Stato, che si liberi del velo ideologico della tradizionale "funzione

di mediazione" tra capitale e lavoro e si faccia esso stesso protagonista dello

sviluppo capitalistico, trasmettendogli tutta la carica dell' "interesse

generale", di cui è portatore riconosciuto, e richiamando alle loro

"responsabilità" le forze storiche del movimento operaio. Prende così corpo

la tesi riformista dell'assetto urbano, che ha il merito di rendere credibile, nel

lungo periodo, la visione capitalistica della città-fabbrica. Il grande riformismo

ha sempre avuto in sommo grado la virtù di fare apparire come realizzabili i

sogni segreti del capitalismo. E' un vero peccato che sopravvenga prima o

poi, a dare la sveglia, un ciclo di lotte operaie. E si tratta, quasi sempre, di un

brusco risveglio. Perché, quando la lotta si impenna, diventa più acuta la

contraddizione tra esigenze tecniche e necessità politiche dentro il piano di

assetto territoriale: «Da una parte la necessità di concentrare spazialmente

enormi masse di forza-lavoro [...], dall'altra quella di scorporare e frantumare

il processo lavorativo, anche con lo strumento della separazione fisica delle

fasi di lavorazione e della forza-lavoro allorché, oltre un certo livello, la

concentrazione spaziale della produzione diventa più vantaggiosa per la

classe operaia e per i suoi movimenti di lotta che per il capitale» 57.

L'occhio tecnico del capitalista è quindi costretto a guardare alla

"concentrazione" del territorio nella fabbrica, I'occhio politico alla

"dispersione" della fabbrica nel territorio. Ne viene fuori un comportamento

"strabico", che fa perdere colpi al capitalismo sia sul piano politico che su

quello economico. E, mentre per un verso concede largo spazio di manovra

alle velleità repressive, per l'altro moltiplica i punti di attacco alla portata della

lotta operaia. La situazione è quindi, a livello territoriale, aperta a tutte le

57 La città fabbrica, cit., p. 70 (corsivo nel testo).

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possibilità. Si vive alla giornata. Lo Stato-imprenditore, per "sorreggere

l'economia del paese", scarica sulle spalle delle classi sfruttate i costi dei

servizi. In canone d'affitto, spese per trasporti e via dicendo, il capitale si

riprende a livello urbano quello che è stato costretto a cedere in fabbrica 58.

Come dire che la città prende a funzionare quale terreno di risposta alle lotte

operaie in fabbrica. D'altro lato, se il costo dei servizi essenziali superasse un

certo livello, finirebbe con il ripercuotersi, a lungo andare, sul costo della

forza-lavoro. Per tentare di uscire in qualche modo da questo vicolo cieco, il

capitalismo ricorre a mille espedienti, tenendo il più possibile basso il "tenore

di vita" del proletariato 59 e cercando nel contempo di rastrellare profitti in

tutte le direzioni. In altri terrnini, man mano che si restringe il margine che

consente di forzare ulteriormente la "macchina economica", tende ad

accentuarsi il comportamento predatorio del capitale sociale complessivo.

B.4 Il "consumo" sociale di forza-lavoro

Un esempio: i servizi. Le classi sfruttate vengono chiamate a bruciare, al di

fuori delle mura della fabbrica, energia psico-fisica per consentire al capitale

sociale complessivo di realizzare servizi a basso costo. Prendiamo i trasporti.

Quanto più bassa è l'efficienza di una linea di autobus e, quindi, quanto più

basso è il suo costo 60, tanto più alto è il dispendio di energia psico-fisica dei

viaggiatori. Ora, se i viaggiatori sono proletari, per i quali l'energia psico-fisica

è forza-lavoro potenziale 61, il "consumo" eccedente rispetto a quello

socialmente necessario - che proporrei di chiamare «"consumo" sociale di

58 «Non appena l'operaio ha finito di essere sfruttato dal fabbricante e ne ha ricevuto il salario in contanti,

ecco piombar su di lui gli altri membri della borghesia, il padrone di casa, il bottegaio, il prestatore a pegno, e così via» (K. Marx, F. Engels, Manifesto del partito comunista, trad. it., Roma, Editori Riuniti, 1960, p. 67).

59 «Qualunque cosa possa spettare al capitalista» (dal punto di vista del capitalista) «egli può sempre appropriarsi soltanto il pluslavoro (surplus labour) del lavoratore, perché il lavoratore deve vivere» [...]. Ma come il lavoratore viva e quanto grande sia perciò il pluslavoro che il capitalista si appropria, è molto relativo. «[..] il capitalista può [...] dire al lavoratore: tu non devi mangiare pane perché si può vivere di barbabietole e patate; [...] ». (Dalla prefazione di Engels al Libro II di ll capitale, ed. cit., pp. 18-19, corsivi nel testo. Engels cita da uno scritto dal titolo The source and remedy of the national difficulties. A letter to Lord John Russel, Londra, 1821).

60 Viene qui data per scontata la relazione costo-efficienza, a parità di altre condizioni. 61 Cioè, come viene chiarito poco più avanti, energia psico-fisica non immessa nel processo di

produzione. Il termine è qui preso, per analogia, da Marx, il quale chiama «potenziale» [potentielles] (oltre che «latente» [latent] e «virtuale [virtuelles]) il capitale monetario che, per un arresto del processo di circolazione, non si converte in merce. (Cfr. Il capitale, ed cit., II, p. 79, nota di F. E., Das Kapital, ed. cit., II, p. 74).

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forza-lavoro» - si traduce in una forma particolare di pluslavoro, che va ad

aggiungersi al pluslavoro di fabbrica. Per «"consumo" sociale di forzalavoro»

intendo dunque dispendio di energia psico-fisica dell'operaio, cioè di

forza-lavoro potenziale, operato dal capitale sociale complessivo al di fuori

del processo di produzione, al fine di realizzare bassi costi delle infrastrutture

territoriali. Si tratta quindi di forza-lavoro che viene sottratta all'operaio, ma

non viene consumata dal capitale o, meglio, viene "consumata" in quanto

energia psico-fisica che si brucia prima di diventare forza-lavoro. La forma

fenomenica di tale "consumo" - che si attaglia perfettamente al punto di vista

del capitale - è la sua configurazione come pluslavoro improduttivo, mentre

l'operaio (mettiamo il pendolare che, andata e ritorno, si estenua in quattro

ore di viaggio) lo sente come pluslavoro improduttivo.

Questo dispendio di energia non deve necessariamente determinarsi

durante il collegamento casa-posto di lavoro-casa perché lo si possa vedere

come un prolungamento artificioso della giornata lavorativa. Indubbiamente, il

tempo trascorso sul mezzo di collegamento è per l'operaio tempo di lavoro,

per il quale andrebbe compensato (altro che pagare il biglietto!). In tal senso,

la città si rivela per quel che è: una longa manus della fabbrica. Il tempo

trascorso sul mezzo di trasporto va quindi configurato come tempo di lavoro

in fabbrica. Finché l'operaio non mette piede a casa è come se non avesse

ancora superato i cancelli dell'azienda. Tutto ciò è vero. Ma rischia di imporre

un limite arbitrario alla nozione di fabbrica, come entità spazio-temporale en-

tro cui viene consumata la forza-lavoro 62.

Certo, una nozione stretta di consumo di forza-lavoro torna utile, anzi è

indispensabile, all'analisi diretta del processo di produzione aziendale 63. In

tal caso, una nozione lata allargherebbe troppo le maglie dell'anaIisi, con iI

rischio di vanificarIa. Ma, a livello territoriale, nell'ambito più vasto

dell'accumulazione capitalistica complessiva, ogni limite pregiudiziale a tale

nozione rischia di lasciare fuori della portata della ricerca la tendenza del

capitale a generalizzare lo sfruttamento. Del resto, nella coscienza

62 Sul concetto scientifico di fabbrica in Marx si veda Operai e capitale, cit., p. 50.

63 Tale è - e non può non essere - la nozione marxiana di uso della forza-lavoro: «L'uso della forza-lavoro [Der Gebrauch der Arbeitskraft], il lavoro, può essere realizzato - dice Marx- solo nel proresso lavorativo. Il capitalista non può rivendere il lavoratore come merce, perché questi non è il suo schiavo, ed egli inoltre non ha comperato se non la utilizzazione della sua forza-lavoro [die Vernutzung seiner Arbeitskraft] per un tempo determinato [auf bestimmte Zeit]. D'altra parte, egli può utilizzare la forza-lavoro soltanto facendo utilizzare da essa i mezzi di produzione come creatori di merce» (Il capitale, ed. cit., II, p. 39. Das Kapital, ed. cit., II, p. 33).

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dell'operaio il limite aziendale al consumo della forza-lavoro non esiste.

Preso com'è dal problema della sopravvivenza fisica, l'operaio sta attento a

conservare la sua forza-lavoro nelle migliori condizioni possibili, per potere

meglio e più a lungo barattarla con i mezzi di sussistenza. Egli sa, meglio di

chiunque altro, che anche al di là delle mura della fabbrica deve risparmiare

più che può energia psico-fisica, per poterla vendere in fabbrica. Dentro

l'orizzonte della coscienza operaia c'è dunque, in nuce, la nozione di

"consumo" sociale di forza-lavoro, pur se si tratta di una nozione ancora - per

così dire - passiva, di difesa. L'operaio sa di essere sfruttato anche fuori della

fabbrica ma, mancando ancora di una organizzazione a livello territoriale, si

difende come può sul piano individuale.

B.5 La società come fabbrica

Dovrebbe, a questo punto, risultare chiaro: tutto questo discorso non vuole

essere che l'abbozzo di una ipotesi di lavoro, appena un tentativo di fissare

alcuni punti per mettersi a lavorare con qualcosa in testa. Si tratta, in ogni

caso, di un primo schema teorico, che bisognerà "riempire" (si fa per dire) di

contenuto sociale. Ed entriamo così in una diversa dimensione del «sociale»,

che si estende dall'insieme dei rapporti interpersonali alla coscienza di

classe. Su questo terreno il primo passo è senz'altro una questione di

metodo 64. Non si può continuare ad andare avanti sull'onda delle intuizioni,

avulse dalle particolari situazioni di classe. Le intuizioni servono nella misura

in cui si mettono, dialetticamente, alla direzione ed al servizio della ricerca.

Una ricerca intesa come costruzione teorica, che si articola nella ricognizione

capillare della condizione di classe. Una ricerca, quindi, che deve intanto

scrollarsi di dosso una certa pigrizia mentale, tendente ad accampare

pretesti di ogni sorta per sottrarsi alla fatica del riscontro oggettivo, sul

"campo". E ciò è ancora più vero riguardo alla città, dove il capitale tende ad

64 Non è questa la sede per addentrarsi in una discussione specifica su un argomento così complesso.

Ciò non vuol dire però che questioni del genere vadano ignorate, come purtroppo si tende a fare da sinistra, con il pretesto che si tratta di mistificazioni del pensiero borghese. Sarà anche vero. Ma mette conto ricordare che Engels, sollecitato - si badi - anche dallo stesso Marx (oltre che da Liebknecht) scrisse ben trentaquattro articoli (poi raccolti, come è noto, in volume) sul Vorwärts di Lipsia, organo centrale della socialdemocrazia tedesca, per smontare le mistificazioni di Dühring. E Lenin non disdegnò di prendere a confutare (non importa qui, nell'uno e nell'altro caso, con quali risultati) la teoria della conoscenza di Mach e Avenarius, come teoria, appunto, mistificatrice. Il che, oltre tutto, sta a testimoniare che le mistificazioni vanno affrontate e smascherate, non ignorate. (Cfr. F. Engels, Antidühring, trad. it., Roma, Editori Riuniti, 1968, 2^ ed.; V.I. Lenin, Materialismo ed empiriocriticismo, trad. it., Roma, Editori Riuniti, 1970 ).

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imbrogliare sempre più la matassa, per impedire a chiunque di venirne a

capo.

Andare alla ricerca - sul "campo" - del filo su cui corre il punto di vista

operaio, partendo da precise ipotesi di lavoro, per evitare di brancolare nel

buio, ma senza chiudervisi dentro, per sottrarsi al rischio di una prigionia

teorica preventiva: è questo, a mio avviso, il compito che attende chiunque

voglia lavorare in concreto sul territorio. Il caso dei trasporti è solo un

esempio. Per il resto, basta un po' di sociological imagination, per dirla con

Wright Mills 65. Pensiarno ai quartieri popolari delle grandi città. Pensiamo ai

paesi sperduti nei deserti del nostro Sud. Quali dovrebbero essere - se non

altro a livello dei servizi essenziali - e quali sono. Riportiamo la differenza sul

piano dei costi: da un lato costi economici, dall'altro costi umani. In termini di

analisi di classe, i minori costi economici realizzati nei quartieri popolari

urbani e nei paesi meridionali, per limitarci agli esempi riportati, si traducono

per un verso in maggiori costi umani delle classi sfruttate e per l'altro in un

incremento del capitale sociale complessivo, in mano alla classe al potere.

In una tale prospettiva non basta più nemmeno la configurazione aziendale

dell'area urbana. Il capitalismo avanzato tende a fare funzionare la società

come fabbrica 66. Ed è proprio dentro una nozione totale di fabbrica che noi

qui possiamo tentare di cominciare a capire il senso e la portata di due entità

come l'azienda e la città. E capirle dal punto di vista del capitale, per

costruire - uguale e opposto - il punto di vista operaio. A tale livello, entità

come la fabbrica e la città rientrano nell'ambito di sottocategorie: settori

sempre più specializzati che lo Stato, condizionato dalla presenza operaia,

tende nel breve periodo a fare funzionare in sensi contrapposti, al fine di

spezzare la spirale di generalizzazione della lotta.

L'organicità a livelto globale di un tale disegno sta proprio nella sua

disorganicità a livello settoriale. E ciò nella convinzione che la razionalizza-

zione sia più difficile da cogliere - e quindi da colpire - a monte che a valle.

La città frantumata nei suoi elementi costitutivi: casa, scuola, trasporti e così

via. La città come frammento di società vuoto di sociale. Ecco, a livello

65 C. Wright Mills, The Sociological Imagination, Oxford University Press, N. Y., 1959; trad. it:

L'immaginazione sociologica, Milano, Il Saggiatore, 1962. 66 Una analisi delle connessioni tra fabbrica e società è stata fatta da Tronti: «Al livello più alto dello

sviluppo capitalistico, il rapporto sociale diventa un momento del rapporto di produzione, la società intera diventa un'articolazione della produzione, cioè tutta la società vive in funzione della fabbrica e la fabbrica estende il suo dominio su tutta la società» (Operai e capitale, cit., p. 51, corsivi nel testo). E tutto ciò non in senso iperbolico, ma semplicemente letterale.

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statuale, la misura capitalistica contro il pericolo che si creino nell'area

urbana canali di comunicazione della lotta operaia.

Città come fabbrica sociale. Città come tregua sociale. Il capitalismo

avanzato è stretto tra due contrapposte necessità del suo stesso sviluppo.

Funzionalizzare la città alla produzione è una esigenza fisiologica della

organizzazione capitalistica industriale. Ma è una esigenza che si porta in

corpo il pericolo di estendere all'area urbana il processo di sociatizzazione

operaia connesso oggettivamente a quella organizzazione.

A questo punto, il bel sogno della città-fabbrica rischia di tramutarsi in

incubo. Sulla strada della sua utopia, il capitalismo va incontro al pericolo di

imbattersi in una città-fabbrica di segno operaio. Una città in cui, partendo da

situazioni disarticolate e frammentarie, diventa possibile la costruzione

proletaria di un processo urbano globale, tale da ricomporre dentro di sé,

soggettivamente, le membra sparse dell'accumulazione capitalistica. Una

città dove gli stessi sfruttati ricostruiscono, praticamente, il processo di

accumulazione frammentato nel territorio, per porsi di fronte ad esso come

classe. Una città insomma che - al pari della fabbrica - rende finalmente

visibile la macchina capitalistica come corpo unitario e, per ciò stesso, crea

le premesse oggettive alla costruzione di un movimento organizzato e di

massa. Un movimento a livello di fabbrica sociale, in grado di "produrre" lotta

proletaria tra le pareti di casa, lungo le strade, nelle piazze, sugli autobus:

ovunque la classe al potere riesce a piazzare meccanismi di sfruttamento per

incrementare il capitale sociale e sottrarlo alla società.

(«La Critica Sociologica», n. 17, Primavera 1971, pp. 8 - 20)

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Appendice C

SISTEMA DI MACCHINE E MODO CAPITALISTICO DI PRODUZIONE

NELLA TEORIA DI MARX

Il modo capitalistico di produzione, per quanto appronti una propria

struttura tecnica specifica, non può prescindere da quelli che sono i caratteri

di fondo e gli elementi basilari del processo lavorativo, considerato in

generale. Il capitale, anche quando con la sussunzione reale trasforma

radicalmente il processo lavorativo, non può non avvalersi della struttura

portante di ogni attività, presa in sé. In altri termini, il sistema di produzione

non inventa ex nihilo, all’atto della sua sussunzione al capitale, una qualche

funzione lavorativa, ma è costretto ad avvalersi della capacità lavorativa che

esiste nell’essere umano a prescindere della esistenza del capitale. Il che,

d’altra parte, significa che lo stesso modo capitalistico di produzione non si

esaurisce nel capitale, né storicamente né strutturalmente. Il capitale ha

bisogno di attingere ad una fonte – la forza-lavoro – che è altro da sé.

A questo altro da sé il capitale ha bisogno di opporre – all’interno del

processo lavorativo – qualcosa che figuri come parte di sé, come

incarnazione di sé. La funzione di rappresentare materialmente il capitale in

seno al processo lavorativo viene assegnata alle macchine. In un sistema

produttivo che, pur essendo capitalistico, potrebbe apparire – per il ruolo che

vi svolge il lavoro vivo – “alienato” dal capitale, le macchine assolvono la

funzione di spostare dalla parte del capitale il baricentro tecnico della

produzione. Non è un caso che le macchine non solo compaiono come

capitale, ma costituiscono la forma più appropriata del capitale, il suo modo

di esistere più pieno. Esse non si limitano ad incarnare il capitale, ma

operano come capitale. Non sono soltanto capitale in potenza. Sono anche

capitale in atto. Sono capitale che produce capitale.

Viene così a configurarsi la collocazione delle macchine nel processo

lavorativo sussulto al capitale. Le macchine da un lato fanno parte della

condizione oggettiva del lavoro, dall’altro incidono in maniera rilevante sul

processo lavorativo, determinando una inversione di ruolo tra fattori oggettivi

e fattori soggettivi della produzione. L’introduzione delle macchine modifica la

condizione oggettiva del lavoro. Ma si tratta di una modificazione che ha

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qualcosa di particolare. Lo specifico di questa modificazione non è nel fatto

che c’è un progresso tecnico nella situazione di lavoro, ma che questo

progresso si definisce come processo di oggettivazione sociale, in quanto

assegna alla condizione oggettiva un ruolo nel processo lavorativo che prima

era della forza-lavoro.

E in questo tratto di analisi che va ricercata l’angolazione sociologica del

“modello” teorico marxiano relativo a quello che qui emblematicamente

chiamiamo «sistema di macchine», estendendo al sistema meccanizzato in

sé una espressione che Marx riferisce ad una particolare fase tecnica.

Una tale angolazione non può, d’altra parte, lasciare fuori campo il quadro

teorico complessivo. L’analisi marxiana della realtà delle macchine non si

esaurisce nelle macchine. Il sistema di macchine sconfina programma-

ticamente nel sistema di fabbrica. E il “modello” sulle macchine altro non è

che una specificazione della teoria marxiana del sistema di produzione

sussulto al capitale.

Chiarito – ad apertura del discorso sulle macchine 67 - che nel modo

capitalistico di produzione il macchinario non serve ad alleviare la fatica

dell’operaio, ma a produrre plusvalore, l’analisi marxiana cambia subito

direzione e punta diritto alla struttura tecnica della macchina. Sembrerebbe

una virata da tecnologo. E invece, a partire da qui, Marx prende a smontare

e a rimontare il «sistema di macchine» con un approccio che, a ben

guardare, ci fornisce la chiave di lettura del suo “modello” teorico.

C’è nell’analisi marxiana della struttura della macchina, un passaggio per

noi rivelatore. Ed è là dove Marx individua nella macchine utensile la sede

della rivoluzione del modo di produzione. Che cosa ha di particolare la

macchina utensile rispetto all’apparato motore ed a quello di trasmissione?

Sembra, a prima vista, un dettaglio tecnico. E invece nella risposta che Marx

dà a questo interrogativo è, secondo noi, la chiave di lettura dell’intero

“modello”. La macchina utensile, osserva Marx, agisce direttamente sulla

materia prima e quindi sostituisce l’operaio nella elaborazione del prodotto.

La meccanizzazione si risolve dunque, nel “modello” di Marx, nel

trasferimento a strutture meccaniche di funzioni lavorative sottratte

all’operaio. In tal senso, il progresso tecnico si definisce come processo di

oggettivazione delle funzioni lavorative. La struttura del processo lavorativo

ne risulta sconvolta. Il dato più significativo di un tale sconvolgimento è

67 K. Marx, Il capitale, trad. it., Roma, Editori Riuniti, 1970, I, p. 413 e sgg. .

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l’inversione di ruolo tra operaio e condizione di lavoro. Non è più l’operaio

che usa la condizione di lavoro, ma la condizione di lavoro che usa l’operaio.

E’ qui il passaggio centrale dell’analisi marxiana. Ed è a partire da qui che

il processo di oggettivazione prende a definirsi come la via aperta davanti al

capitale per il dominio non solo sulle funzioni lavorative, ma su tutto il

sistema di produzione.

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Sezione Terza Studi

Teoria di riferimento

LAVORO ASTRATTO E LAVORO OGGETTIVATO

NELLA TEORIA DI MARX

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Studi S1

DAL LAVORO ASTRATTO ALLA INDETERMINAZIONE SOCIALE

S1.1 La centralità della nozione di lavoro astratto

La maturità della sussunzione reale del lavoro al capitale si definisce, di

per sé, non come razionalizzazione tecnica dei contenuti del lavoro, ma come

liberazione del sistema di valorizzazione da qualsiasi determinazione

specifica dell'attività lavorativa. In tal senso, il lavoro è adeguato al capitale

non in quanto porta contenuti rispondenti alle esigenze della produzione

capitalistica, ma in quanto riesce a dimenticare il peccato originale del suo

attaccamento a contenuti particolari.

A questo livello vengono dunque a saldarsi due fenomeni che nell'analisi,

se non nella teoria, di Marx vivono in relativa separatezza: da una parte

l'astrattizzazione del lavoro, dall'altra la sua sussunzione al capitale.

L'astrazione non è più un aspetto della morfologia dell'attività lavorativa, ma

un requisito strutturale del lavoro sussunto al capitale.

Da qui la centralità della nozione di lavoro astratto per l'analisi del modo

avanzato di produzione capitalistica. Ma da qui anche i suoi limiti in quanto

attributo specifico. Entreremo a parte nel merito della definizione e del

significato di tale nozione. Qui ci interessa evidenziarne la grande fertilità,

quando si sia disposti a svilupparla in tutte le direzioni, per farne una chiave

di interpretazione delle dinamiche sociali che si scatenano là dove il modo

capitalistico di produzione, per realizzarsi nella sua pienezza, è costretto a

dare fondo ai suoi presupposti, aprendo il varco alla esplosione di

contraddizioni latenti.

S1.2 L’astrazione come indifferenza ai contenuti

Occorre subito raccogliere, in tutta la sua pregnanza, il frutto dell'analisi

marxiana del lavoro astratto. Ne ricaviamo un concetto che è alla base della

nostra indagine. Ed è il concetto di astrazione come indifferenza ai contenuti.

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Occorre individuare la discendenza di questo concetto. E non la

discendenza, per così dire, ideale, cioè la sua derivazione da altri concetti,

ma la discendenza reale, cioè la sua specificazione nella realtà del

capitalismo. Dobbiamo cercare cioè di vedere quale realtà del capitalismo

esso esprime. Intanto, ci interessa estrapolare dal contesto dell'analisi

marxiana del lavoro astratto il concetto di indifferenza ai contenuti, come

concetto per sé, e rifarne, per nostro conto, la storia dentro la realtà sociale

del capitale.

La questione può essere posta preliminarmente in termini di domanda: c'è

nella società sussunta al capitale una realtà che corrisponde al concetto di

indifferenza ai contenuti? E, se c'è, quali processi sono alla sua base?

S1.3 Il processo capitalistico di espropriazione

Il modo capitalistico di produzione si definisce, per quel che qui interessa,

come processo di espropriazione. Tutti i contenuti, materiali e immateriali,

che la società capitalistica produce, nascono, già in partenza, come

contenuti espropriati. E tutta la soggettività che la società sussunta al

capitale riesce ad esprimere è una soggettività espropriata dei propri

contenuti. Da un lato contenuti estraneati rispetto ai soggetti che li hanno

prodotti, dall'altro soggetti estraneati rispetto ai loro propri contenuti.

E' da una taIe duplice estraneazione che discende da una parte

I'indifferenza soggettiva ai contenuti della realtà sociale, dall'altra l'in-

differenza oggettiva che è nella stessa realtà sociale.

S1.4 Il processo di indeterminazione sociale

Si tratta di esiti non casuali del processo sociale imposto dal capitale.

Processo che si pone, più o meno esplicitamente, in termini di indetermi-

nazione sociale, cioè in termini di emancipazione della società da ogni

vincolo relativo a determinazioni particolari dell'essere sociale.

Il processo di indeterminazione sociale ha la funzione di produrre uno stato

di indifferenza sociale, che ha a sua volta la funzione di riprodurre astrazione

là dove l'essere sociale preme per affermare i suoi contenuti. Nello stato di

indifferenza sociale il capitale ricerca le condizioni per radicare nella società

complessiva il processo di valorizzazione.

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E si capisce perché. La valorizzazione del capitale è un processo astratto

e può operare soltanto in condizioni di astrazione sociale. In tanto è in opera

in quanto impone la sua astrazione all'essere sociale. Non è un caso che se

e quando il processo di indeterminazione sociale non risulta del tutto efficace

e si incrina lo stato sociale di indifferenza, il sistema di valorizzazione è

minacciato. Dalla crosta incrinata dell'indifferenza sociale si levano

minacciosi i contenuti dell'essere sociale. E' allora che realtà determinate

dell'essere sociale vanno a scontrarsi con l'astratta indeterminazione del

sistema di valorizzazione.

La nozione di indeterminazione sociale può dunque risultare utile per

spiegare la dinamica del processo materiale di produzione in rapporto alla

valorizzazione del capitale. Noi crediamo che lo stesso processo di

socializzazione della produzione, di cui parla Marx, sia da ascrivere non

direttamente al progresso tecnico, ma al processo di ulteriore indetermi-

nazione sociale che le innovazioni tecnologiche promuovono. E' infatti sullo

svincolo degli operatori da particolari contenuti del loro intervento nel

processo produttivo che si basa il carattere sociale della produzione.

S1.5 Il processo sociale di valorizzazione capitalistica

Questa particolare socialità della produzione appartiene comunque ancora

alla sfera della produzione diretta. E nell'ambito di questo universo la nozione

di indeterminazione sociale, mentre da un lato richiede specificazioni

adeguate alla nuova realtà, dall'altro può essere feconda di indicazioni per la

elaborazione di una nuova prospettiva di analisi.

Ad una prospettiva di questo tipo sono però di ostacolo residue timidezze

legate alla nozione di valorizzazione chiusa entro le sedi classiche della

produzione capitalistica. Anche se molti schematismi sono caduti con

I'incalzare delle trasformazioni tecnologiche, si continua a distinguere tra

sfera produttiva, come sede della produzione di plusvalore, e sfera

extraproduttiva, come sede della riproduzione della forza-lavoro e delle

condizioni della produzione; tra lavoro produttivo e lavoro improduttivo, tra

tempo di lavoro e tempo libero.

Ora, la nuova realtà del processo sociale di valorizzazione capitalistica non

sopporta più steccati. Tutta la vita sociale è coinvolta nel processo di

valorizzazione. Tutti i luoghi della società sono abilitati a fare da teatro alla

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produzione di plusvalore. E tutto il tempo di vita è terreno di conquista per il

capitale.

A spiegare la dinamica di questo universo sconfinato, la nozione marxiana

di lavoro astratto non basta più. Finché regge la distinzione fra tempo di

lavoro e tempo di non-lavoro, I'indifferenza ai contenuti del Iavoro può stare

insieme - se pure in termini conflittuali - alla non-indifferenza alle

determinazioni materiali della vita extralavorativa. Ma quando tutto il tempo di

vita diventa tempo di lavoro (doppio lavoro, lavoro nero, lavoro precario, ecc.)

o tempo di non-lavoro (disoccupazione), la contraddizione fra

indeterminazione del lavoro e determinazione della vita sociale esplode.

S1.6 Ridefinizione della sussunzione reale del lavoro al capitale

Se tutto ciò è vero, allora va ridefinita la nozione marxiana di sussunzione

reale del lavoro al capitale. Dopo avere definito la sussunzione formale come

«diretta subordinazione del processo lavorativo, comunque sia esercitato dal

punto di vista tecnologico, al capitale», Marx, passando alla sussunzione

reale, scrive: «[...] su questa base si erge un modo di produzione

tecnologicamente (e non solo tecnologica-mente) specifico, che modifica la

natura reale del processo lavorativo e le sue reali condizioni - il modo di

produzione capitalistico. Solo quando esso appare in scena, ha luogo la

sussunzione reale del lavoro al capitale» 68.

Mentre nella sussunzione formale il capitale si limita a subordinare il

processo, senza intervenire sulla sua struttura tecnica, la sussunzione reale

si definisce per il sorgere di uno specifico modo tecnico di produrre. Tra la

sussunzione formale e la sussunzione reale c'e di mezzo il progresso

tecnico. Non a caso Marx conclude la sezione sulla produzione del

plusvalore relativo con il capitolo «Macchine e grande industria» 69.

Ora, noi crediamo che la nozione marxiana sia, quanto meno, riduttiva, dal

momento che fa derivare la sussunzione reale del lavoro dai connotati tecnici

del processo di produzione. Ciò poteva anche essere vero ai tempi di Marx,

quando i parametri della valorizzazione capitalistica erano nei caratteri tecnici

della produzione. Oggi la sussunzione reale del lavoro al capitale si

68 K. Marx, Il capitale: Libro I, capitolo Vl inedito, trad. it., Firenze, La Nuova Italia, 1969, p. 68, corsivi nel

testo).

69 K. Marx, Il capitale, trad. it., Rorna, Editori Riuniti, 1970, I, pp. 413 e segg..

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definisce, in sé, non come specifico tecnico, come particolare organizzazione

dei contenuti del lavoro, ma come liberazione del processo da qualsiasi

vincolo tecnico. In tal senso, il lavoro è realmente sussunto al capitale non

quando passa per specifiche tecniche di produzione, ma quando, liberato da

ogni vincolo tecnico, si connette al capitale come pura potenzialità, come

mera disponibilità nei confronti di qualsiasi tecnica e di qualsiasi contenuto.

Alla base della sussunzione reale è dunque, a nostro avviso, non la

nozione di progresso tecnico, ma la nozione di lavoro indeterminato.

Sussunto realmente al capitale è, a prescindere dalla base tecnica, il lavoro

sociale, in quanto indeterminato e quindi estremamente disponibile ad

assumere, volta a volta, la determinazione più funzionale alla valorizzazione

del capitale. Ma poiché, come abbiamo visto, il lavoro sociale, non

disponendo di un tempo determinato di lavoro, fa riferimento al tempo di vita,

la sussunzione reale del lavoro richiede una regolazione della vita sociale. La

sussunzione reale del lavoro è dunque, sempre più, regolazione sociale

dell'attività lavorativa. E questa, a sua volta, si traduce continuarnente in

sussunzione della vita sociale al capitale.

In questo quadro, si può affermare che il processo di indeterminazione

sociale fa da supporto al sistema di valorizzazione capitalistica, in quanto

predispone le condizioni in cui si realizza la produzione di plusvalore. La

condizione fondamentale che il processo di indeterminazione sociale

appronta in funzione della valorizzazione del capitale è la subordinazione del

valore d'uso al valore di scambio. Non può darsi valorizzazione capitalistica

là dove si afferma l'egemonia del valore d'uso. Il valore d'uso è infatti

espressione di un rapporto di fruizione che, se non è regolato dal valore di

scambio, fa saltare il sistema di valorizzazione del capitale.

S1.7 Indetertminazione e rarefazione dell’essere sociale

Ora, è difficile subordinare e regolare il valore d'uso quando l'essere

sociale si addensa e preme per affermare i suoi contenuti. Il valore d'uso è

infatti espressione della concretezza sociale, così come il valore di scambio è

espressione dell'astrazione capitalistica. Da qui un'altra condizione cui è

chiamato a provvedere il processo di indeterrninazione: la rarefazione

dell'essere sociale. Si tratta di un meccanismo sociale estremamente sottile

e raffinato, che va visto da vicino, per poterne cogliere il funzionamento

interno.

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Il processo di espropriazione, tutto interno al modo capitalistico di

produzione, crea nella società stati diffusi di insoddisfazione che, come è

noto, si esprimono nei modi più disparati. Tali modi di espressione della

insoddisfazione sociale possono essere sopportati finché si mantengono

nell'ambito individuale. L'espressione di insoddisfazione diventa invece un

rischio per il sistema sociale quando alla sua base c'è una condensazione

dell'essere sociale. Finché l'insoddisfazione sociale è espressione di milioni

di individui insoddisfatti ognuno per proprio conto, la struttura sociale

complessiva può essere messa in difficoltà, ma non corre nessun pericolo

reale. Se invece l'insoddisfazione diffusa comincia a condensare I'essere

sociale, comincia cioè a compattare la condizione sociale di milioni di donne

e di uomini, allora si profila la possibilità di un salto politico che trasformi

l'espressione di insoddisfazione individuale in pratica antagonista di un

corpo sociale.

A questo punto, la funzione del processo di indeterminazione sociale

dovrebbe risultare chiara: sciogliere all'origine ogni coagulo di vita sociale

antagonista, per evitare che si trasformi in pratica di antagonismo politico.

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Studi S2

L'OGGETTIVAZIONE DEL LAVORO

S2.1 Oggettivazione del lavoro e valorizzazione capitalistica

Un atto fondamentale della valorizzazione capitalistica è l'oggettivazione

del lavoro. «[...] il lavoro - osserva Marx - viene non solo consumato, ma

nello stesso tempo fissato, materializzato dalla forma di attività a quella di

stasi, di oggetto; mutandosi in oggetto, esso muta la sua forma caratteristica

e da attività diventa essere» 70.

Dal momento che il valore si definisce come lavoro incorporato, se il lavoro

rimanesse nella forma di attività, se non assumesse la forma di oggetto, non

potrebbe darsi valorizzazione del capitale. Certo, la trasformazione di lavoro

vivo in lavoro oggettivato non è, di per sé, valorizzazione. Bisogna che una

tale trasformazione si qualifichi all'interno del modo capitalistico di

produzione. In tal senso, la valorizzazione capitalistica si definisce come

oggettivazione finalizzata allo scambio.

Ora, è proprio la finalizzazione allo scambio che qualifica l'oggettivazione

come fase della valorizzazione capitalistica. Non basta cioè che il lavoro

cambi stato. Di per sé, lavoro oggettivato e lavoro vivo sono, come osserva

Marx, «due diverse determinazioni, due valori d'uso di forma diversa, I'una

oggettiva, I'altra soggettiva» 71. Perché il passaggio dall'una all'altra

determinazione sia un atto fondante della valorizzazione del capitale,

bisogna che il lavoro vivo sia valore d'uso del capitale, «valore d'uso non per

un uso o consumo determinato e particolare, ma valore d'uso per il valore» 72.

Da un lato dunque la valorizzazione qualifica I'oggettivazione, è la sua

specificazione capitalistica, dall'altro l'oggettivazione rende possibile la

valorizzazione, è la sua base materiale. Senza oggettivazione non si dà

valorizzazione, ma senza valorizzazione non si dà oggettivazione capita-

70 K. Marx, Lineamenti fondamentali della critica dell'economia politica (Grundrisse der Kritik der

politischen Okonomie), trad. it., Firenze, La Nuova Italia, 1968-70, I, p. 285. D'ora in poi, in forma abbreviata, Lineamenti....

71 Ibidem, II, p. 92. 72 Ibidem, (sottolineatura nel testo).

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listica. Dal punto di vista del capitale, I'oggettivazione del lavoro è la

valorizzazione in potenza, la valorizzazione è l'oggettivazione del lavoro in

atto.

S2.2 Oggettivazione e sussunzione del lavoro al capitale

Come valorizzazione in potenza, I'oggettivazione apre la strada al dominio

del capitale sul lavoro. Se il lavoro non si oggettivasse, esso rimarrebbe una

prerogativa della persona e non potrebbe essere sussunto al capitale.

L'oggettivazione è, da questo punto di vista, un presupposto fondamentale

della sussunzione del lavoro al capitale.

Poiché la sussunzione riguarda il lavoro vivo, sembra strano che si possa

parlare di una qualsiasi relazione tra oggettivazione e sussunzione del lavoro

al capitale. In realtà, il lavoro vivo viene sussunto al capitale non in quanto

lavoro soggettivo, in quanto espressione creativa della persona, ma in

quanto lavoro vivo da oggettivare, lavoro oggettivato in potenza. E la

sussunzione ha proprio la funzione di sottrarre il lavoro al controllo del

soggetto che lo esprime, ha cioè la funzione di desoggettivare il lavoro. Non

si può pensare ad un lavoro sussunto al capitale che non sia disponibile alla

sua oggettivazione. Da tale punto di vista, la sussunzione del lavoro al

capitale si definisce come trasformazione del lavoro da attività soggettiva ad

energia da fissare in un oggetto.

E' per questa via che il capitale si appropria del lavoro. Non a caso Marx

parla di «lavoro oggettivato come dominio, come comando sul Iavoro vivo» 73. Il capitale si appropria del lavoro, trasformandosi esso stesso in oggetto,

trasfigurandosi nella merce. Nel corpo mistico della merce il capitale si

presenta come lavoro oggettivato.

S2.3 Oggettivazione del lavoro e antagonismo di classe

La figura del capitale come lavoro oggettivato tende a rappresentare un

continuum tra capitale e lavoro, elidendo il potenziale di antagonismo che il

processo di oggettivazione comporta. Il lavoro, oggettivandosi, si trasforma in

capitale. Produce cioè, come dice Marx, il suo contrario 74. L'oggettivazione

73 lbidem, II, p. 73 74 K. Marx, Manoscritti economico-filosofici del 1844, trad. it., Torino, Einaudi, 1968, p. 71.

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del lavoro è dunque per un verso annientamento della soggettività umana,

per l'altro base materiale dell'antagonismo di classe.

I termini dell'antagonismo sono già tutti presenti nel lavoro. Il lavoro come

attività e il lavoro come essere - per servirci di una distinzione marxiana 75 -

non sono stadi di uno stesso processo, ma poli di una contrapposizione

irriducibile. Il lavoro vivo preme per affermarsi come non-capitale, come

soggettività umana. Il capitale, di contro, vede nel lavoro vivo soltanto lavoro

da oggettivare. «L'unica cosa differente dal lavoro oggettivato - scrive Marx -

è il lavoro non oggettivato ma ancora da oggettivare, il lavoro come

soggettività» 76. Marx intende sottolineare la presenza della soggettività nel

lavoro. Ma, dal nostro angolo visuale, la soggettività è qui già condannata al

suo annullamento nel lavoro oggettivato. E' una soggettività già perduta in

partenza, dal momento che è sì lavoro non oggettivato, ma nel senso che è

«ancora da oggettivare».

S2.4 La forza-lavoro come soggettività oggettivata

In tutto ciò si esprime niente altro che il punto di vista del capitale. La

soggettività umana è da ricercare al di fuori di una tale prospettiva. Non può

più darsi soggettività umana autonoma una volta che il soggetto è definito in

termini di forza-lavoro. La forza-lavoro è l'oggettivazione capitalistica della

soggettività umana. Dal punto di vista dello scambio, la forza-lavoro è lavoro

oggettivato. Il suo valore equivale, come per qualsiasi merce, al lavoro

necessario per la sua riproduzione. «La forza-lavoro - fa notare Marx - non è

= al lavoro vivo che essa può fare, = cioè alla quantità di lavoro che essa può

eseguire - giacché questo è il suo valore d'uso. Essa è uguale alla quantità di

lavoro mediante la quale deve essere prodotta e può essere riprodotta» 77.

La forza-lavoro vale dunque sul mercato non in quanto agente del lavoro

vivo, ma in quanto depositaria di lavoro oggettivato.

Fin qui la degradazione a merce della stessa soggettività umana,

attraverso la sua fissazione nella forza-lavoro. Ora, poiché la forza-lavoro si

rivela come merce particolare, come merce che crea plusvalore, il capitale ha

interesse a limitarne I'oggettivazione alla sfera dello scambio. Una volta

75 Cfr. il riferimento indicato alla nota 1. 76 K. Marx, Lineamenti..., cit. I, p. 251 (sottolineature nel testo). 77 Ibidem, Il, p. 229 (sottolineature nel testo).

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scambiata, la forza-lavoro viene usata dal capitale non più come depositaria

di lavoro oggettivato, ma come agente di lavoro vivo 78.

E' in questo scarto fra acquisto di lavoro oggettivato ed uso di lavoro vivo

che sta, come sappiamo, la sorgente del plusvalore. «In questo scambio [...]

- osserva Marx - l'operaio dà, in cambio dell'equivalente del tempo di lavoro

in lui oggettivato, il suo tempo di lavoro vivo che crea e moltiplica il valore». E

conclude, con estrema efficacia: «Egli [I'operaio] si vende come effetto.

Come causa, come attività, egli viene assorbito dal capitale e incarnato in

esso» 79.

S2.5 Il lavoro vivo come lavoro non oggettivato

Ma c 'è di più. Lo stesso lavoro non oggettivato si definisce, in rapporto al

capitale, come non-capitale. Marx distingue due connotazioni, una positiva

ed una negativa, del lavoro non oggettivato in quanto non-capitale. Nella sua

connotazione negativa, il lavoro non oggettivato è lavoro separato dalla

oggettività degli strumenti di lavoro e della materia prima. In tal senso, è «il

lavoro come miseria assoluta». Nella sua connotazione positiva, il lavoro non

oggettivato è «il lavoro non come oggetto, ma come attività; non come valore

esso stesso, ma come sorgente viva del valore». Lì è miseria assoluta, qui è

possibilità generale di ricchezza 80.

L'intreccio antitetico di queste due valenze del lavoro non oggettivato

assume, dal nostro punto di vista, un significato particolare. Significa che nel

modo capitalistico di produzione la soggettività presente nel lavoro vivo può

porsi soltanto come possibilità di ricchezza, come ricchezza in potenza. Per

diventare ricchezza in atto, per non trasformarsi in miseria assoluta, deve

coniugarsi con l'oggettività dei mezzi di produzione, deve cioè oggettivarsi

nel capitale.

L'oggettivazione del lavoro è dunque il ricatto storico che il capitale

esercita sulla soggettività umana. Ed è su questo ricatto che si fonda il modo

capitalistico di produzione. «Da una parte l'oggettività in cui il capitale esiste

deve essere elaborata, ossia consumata dal lavoro, dall'altra la mera

78 «[...] essa [la forza-lavoro] viene comperata come lavoro oggettivato, mentre il suo valore d'uso

consiste in lavoro vivo, ossia nel creare valori di scambio» (K. Marx, Lineamenti.. ., II, p. 364). 79 Ibidem. 80 Ibidem, I, pp. 279-280 (sottolineature nel testo).

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soggettività del lavoro in quanto pura forma deve essere negata e oggettivata

nella materia del capitale» 81.

S2.6 Oggettivazione ed estraneazione

Dalla oggettivazione all'estraneazione il passo è breve. Anzi.

L'oggettivazione capitalistica del lavoro, in quanto sottrazione del lavoro alla

soggettività umana, è già estraneazione. «Il prodotto del lavoro - osserva

Marx - è il lavoro che si è fissato in un oggetto, è diventato una cosa, è

I'oggettivazione del lavoro. La realizzazione del lavoro è la sua

oggettivazione. Questa realizzazione del lavoro appare nello stadio

dell'economia privata come un annullamento dell'operaio, I'oggettivazione

appare come perdita e asservimento dell'oggetto, I'appropriazione come

estraniazione, come alienazione» 82.

L'oggettivazione del lavoro per un verso dunque è la premessa della

estraneazione del prodotto, per l'altro è il presupposto della utilizzazione

economica del prodotto estraneato. Se il lavoro non si fissasse in un

prodotto, esso rimarrebbe una prerogativa del soggetto e non diventerebbe

lavoro estraneato, ma nello stesso tempo non si realizzerebbe. «[...]

un'attività priva di oggetto non è nulla o è al massimo attività ideale, della

quale qui non si tratta» 83.

Nel quadro del modo capitalistico di produzione, dunque, I'oggettivazione è

insieme la realizzazione del lavoro e la sua estraneazione.

S2.7 Oggettivazione del lavoro e misurazione del valore

L'oggettivazione del lavoro, oltre ad essere presupposto fondamentale

della produzione di valore, è anche base materiale della sua misurazione.

Nell'ambito dell'analisi marxiana della merce, I'oggettivazione del lavoro

viene guardata dall'angolo visuale della legge del lavoro-valore. Il lavoro, per

essere metro di misura, deve fissarsi in un oggetto, deve oggettivarsi nella

merce. Non può essere lavoro-valore il lavoro vivo, il lavoro assunto nella sua

dimensione dinamica, il lavoro come attività. Lavoro-valore può essere solo il

81 Ibidem, p. 283. 82 K. Marx, Manoscritti economico-filosofici del 1844, cit., p. 71 (corsivi nel testo). 83 K. Marx, Lineamenti..., cit., I, p. 245.

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lavoro come stasi, come oggetto, il lavoro oggettivato 84. Non si tratta,

semplicemente, di finzione economica. Economica è soltanto la sua faccia

rivolta al valore. Anche qui, dietro la faccia economica c'è la pesante realtà

dell'oggettivazione, come espropriazione del soggetto da parte del capitale.

Ma il processo di oggettivazione non è, di per sé, sufficiente a fornire la

base materiale della misurazione del valore. A questo scopo, bisogna che

l'oggettivazione funzioni come filtro nei confronti di ogni determinazione

concreta del lavoro vivo. Il lavoro vivo, nell'oggettivarsi, deve perdere ogni

suo connotato particolare, deve cioè spogliarsi di ogni specificazione tecnica.

In quanto metro di misura del valore, cioè di una entità astratta, il lavoro non

può presentarsi nei suoi panni di lavoro tecnicamente dotato. Deve cessare

di essere questo o quel lavoro. Deve essere lavoro e basta. Lavoro-valore è

dunque il lavoro in quanto lavoro, il lavoro astratto. _~

Dopo l'oggettivazione e l'estraneazione, una ulteriore definizione del lavoro

nel modo capitalistico di praduzione è la sua astrattizzazione.

84 Per le implicazioni di questa precisazione in sede di definizione del Iavoro astratto, si veda «Materiali

di studio Q3, Il lavoro astratto in quanto lavoro oggettivato».

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Studi S3

IL LAVORO ASTRATTO IN QUANTO LAVORO OGGETTIVATO

S3.1 Lavoro astratto e lavoro oggettivato in Marx

La nozione marxiana di lavoro astratto emerge e si definisce nell'ambito

dell'analisi della merce. Non si tratta di un semplice quadro di riferimento. Si

può dire che è l'analisi della merce che "produce" la nozione di lavoro

astratto.

Il lavoro astratto è dunque, rispetto alla merce, una nozione derivata, una

sorta di scoria del processo che produce valore. Questo carattere residuale

del lavoro astratto attraversa tutta l'analisi marxiana della merce. Tale analisi

è finalizzata, più o meno direttamente, alla formulazione della legge del

lavoro-valore, cui la nozione di lavoro astratto è chiamata a fare da supporto.

Marx prende l'avvio dalla definizione dello scambio delle merci. Nel

rapporto di scambio, egli osserva, si fa astrazione dal valore d'uso delle

merci. Da questa constatazione fa discendere una conseguenza che segna

un passaggio fondamentale ai fini della nostra analisi: «[...] se si prescinde

dal valore d'uso dei corpi delle merci, rimane loro soltanto una qualità, quella

di essere prodotti del lavoro» 85.

Ora, considerare la merce soltanto in quanto prodotto del lavoro significa

per Marx aprire una prospettiva di analisi che porta alla formulazione della

legge del lavoro-valore. Infatti, il valore della merce non potrà essere basato

che sull'unica qualità che le è rimasta, una volta che si prescinda dal suo

valore d'uso. Ma una volta che si sia ridotto un bene a semplice prodotto del

lavoro - elidendo tutte le caratterizzazioni concrete che lo fanno diverso da

tutti gli altri beni - una volta cioè che si sia ridotto il bene concreto ad entità

astratta, non ci si può aspettare che questa entità astratta sia il prodotto di un

lavoro concreto, diversificato, tecnicamente e socialmente determinato.

Così, da una parte un bene diventa una entità astratta in quanto ridotto a

semplice prodotto del lavoro, dall'altra il lavoro, in quanto produttore di una

entità astratta, non può essere lavoro concreto. Il lavoro insomma subisce

85 K. Marx, Il capitale, trad. it., Roma, Editori Riuniti, 1970, I, p. 70.

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una sorta di feed-back dell'azione di astrattizzazione che esso stesso

esercita sul bene che produce.

A questo punto, si possono individuare nell'analisi di Marx due percorsi

opposti e paralleli. Un percorso porta dal bene alla merce, dal valore d'uso al

valore di scambio. E', come si vede, un percorso che va dal concreto

all'astratto e viene aperto dalla riduzione del bene a semplice prodotto del

lavoro. Un secondo percorso porta dal valore astratto al lavoro che lo

produce.

Vediamoli questi due percorsi nel discorso di Marx. Il primo si ritrova in

tutta l'analisi della merce: «[...] il prodotto del lavoro ci si trasforma non

appena lo abbiamo in mano. Se noi facciamo astrazione dal suo valore

d'uso, facciamo astrazione anche dalle parti costitutive e forme corporee che

lo rendono valore d'uso" 86.

Il prodotto concreto del lavoro ci si è così trasformato in entità astratta, in

valore. Tutte le qualità concrete della merce scompaiono. Ne rimane solo

una, che è una qualità per modo di dire, una qualità tra virgolette, uno stato

d'essere piuttosto: l'essere un prodotto del lavoro.

C'è una necessità alla base di questo percorso. E' la necessità di ridurre la

qualità del bene in quantità della merce, la qualità fruibile in quantità da

scambiare: «Come valori d'uso le merci sono soprattutto di qualità differente,

come valori di scambio possono essere soltanto di quantità differente, cioè

non contengono nemmeno un atomo di valore d'uso" 87.

L'astrattizzazione del bene è dunque una necessità dello scambio, un

imperativo della circolazione. E', questo, un aspetto che va tenuto nel

massimo conto. Perché da qui parte, si può dire, lo specifico sociale del

capitalismo. Produrre per scambiare, al posto di produrre per consumare.

Ma per scambiare bisogna potere stabilire equivalenze fra prodotti diversi.

E le equivalenze si possono stabilire non sulla base dei caratteri per i quali

un prodotto si differenzia dall'altro, ma sulla base di caratteri comuni, cioè

non sulla base della loro concretezza, ma anzi proprio facendo astrazione dal

loro essere beni concreti.

Ora, il carattere comune a tutti i beni è quello di essere prodotti, cioè di

essere esiti di processi lavorativi, di essere stati creati dal lavoro. Il lavoro

viene così individuato, in prima istanza, come denominatore comune a tutti i

86 Ibidem. 87 Ibidem, I, pp. 69-70.

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beni. Il lavoro che qui interessa non è quello che semplicemente produce, ma

quello che si incorpora nel prodotto.

E' da qui che discende quella categoria del lavoro, estremamente

preziosa per lo scambio, che è il lavoro oggettivato. E' un tratto importante di

questo percorso, che porta alla formulazione della legge del lavoro-valore.

Un tratto che si definisce come passaggio dal lavoro-forza al

lavoro-contenuto. Muta radicalmente, come si vede, lo stato d'essere del

lavoro: da lavoro che fa l'oggetto a lavoro che è nell'oggetto. Lavoro, direbbe

Marx, «non in forma di processo, ma di risultato» 88.

S3.2 Dal lavoro astratto alla legge del lavoro-valore

Questo primo cambiamento di pelle del lavoro - da forza attiva a stato

d'essere passivo - è indispensabile alla legge del lavoro-valore. Ma non è

sufficiente. Non basta che il lavoro sia contenuto nella merce perché possa

essere riconosciuto come base di misurazione del valore. Né basta che sia

comune a tutte le merci perché sia assunto come termine di riferimento per lo

scambio. Il lavoro contenuto nella merce può essere riferito al valore d'uso o

al valore di scambio. Nel primo caso conta la qualità del lavoro, che si

concretizza in prodotti diversi l'uno dall'altro. Nel secondo caso conta invece

la quantità. «Là si tratta del come e del cosa del lavoro, qui del quanto di

esso, della sua durata temporale» 89. Poiché devono essere stabilite delle

equivalenze, dei confronti quantitativi, bisogna che il lavoro contenuto nella

merce sia misurabile 90.

Da qui un altro passo importante in direzione della legge del lavoro-

valore: la quantificazione del lavoro oggettivato attraverso la sua riduzione a

tempo di lavoro. «Allo stesso modo che il tempo è l'esistenza quantitativa del

movimento, il tempo di lavoro è l'esistenza quantitativa del lavoro» 91.

Il lavoro oggettivato vive così, attraverso il tempo di lavoro, una sua

esistenza quantitativa. Ma non è una esistenza fine a se stessa. Ricordia-

88 K. Marx, Linearnenti fondamentali della critica dell'economia politica (Grundrisse der Kritik der

politischen Okonomie), trad. it., Firenze, La Nuova ltalia, 1968-1970,I, p. 79. 89 K. Marx, Il capitale, cit., I, p. 77 (corsivi nel testo). 90 «[...] un valore d'uso o bene ha valore soltanto perché in esso viene oggettivato, o materializzato,

lavoro astrattamente umano. E come misurare ora Ia grandezza del suo valore? Mediante la quantità della 'sostanza valorificante', cioè del lavoro, in esso contenuta» (K. Marx, II capitale, cit., I, pp. 70-71, corsivi nel testo).

91 K. Marx, Per la critica dell'economia politica, trad. it., Roma, Editori Riuniti, 1971, p. 12 (corsivo nel testo).

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moci che il fine ultimo di questa analisi è l'individuazione del criterio di

misurazione del valore. E la riduzione del lavoro a tempo di lavoro si rivela

come la via maestra per raggiungere tale scopo: «Il tempo di lavoro [...] ne è

[del lavoro] l'esistenza vivente come esistenza quantitativa, e insieme è la

misura immanente di questa esistenza» 92. Per questa via, il lavoro

oggettivato funziona come lavoro-misura.

Tutto dunque sembra pronto per la formulazione della legge del lavoro-

valore. Senonché, la riduzione del lavoro a tempo di lavoro si porta dietro una

conseguenza che è cruciale ai fini del nostro discorso: «Il tempo di lavoro è

l'esistenza vivente del lavoro, indipendentemente dalla sua forma, dal suo

contenuto, dalla sua individualità; [...]" 93.

La riduzione a tempo di lavoro ha dunque sul lavoro una sorta di effetto

secondario, che fa di esso un lavoro indifferenziato, astratto. Nell'analisi di

Marx il lavoro astratto è quindi, come si è detto in apertura, una nozione

derivata, un effetto secondario della formulazione della legge del lavoro-

valore. Non è un caso che Marx vede in esso niente altro che uno dei

caratteri della legge: «Per comprendere la determinazione del valore di

scambio in base al tempo di lavoro occorrerà tener fermi i seguenti punti di

partenza principali: la riduzione del lavoro a lavoro semplice, per così dire

privo di qualità; [...]» 94. E più oltre precisa meglio questo punto: «Per

misurare i valori di scambio delle merci in base al tempo di lavoro in esse

contenuto, i differenti lavori dovranno essi stessi essere ridotti a lavoro

semplice, indifferenziato e uniforme, in breve al lavoro che qualitativamente è

sempre uguale e si differenzia solo quantitativamente» 95.

Qui si vede chiaramente che la categoria di lavoro astratto è, nell'analisi di

Marx, subordinata alla misurazione del valore di scambio. E' per un verso

una condizione perché tale misurazione sia realizzata e per l'altro una sua

conseguenza. La misurazione del valore da una parte presuppone e dall'altra

produce la riduzione del bene a merce e la riduzione del lavoro concreto a

lavoro astratto. Le due riduzioni sono parallele e seguono processi analoghi.

Come la merce è il bene spogliato delle sue concrete determinazioni, così il

lavoro astratto è il lavoro privato delle sue concrete specificazioni qualitative.

92 Ibidem. 93 Ibidem (corsivo nostro). 94 Ibidem. 95 Ibidem.

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Si può dire che, mentre il lavoro concreto è la forma di lavoro vivo

adeguata alla produzione di beni, il lavoro astratto è la forma di lavoro

oggettivato adeguata allo scambio delle merci. Nel primo caso si tratta di

lavoro creativo, individualmente e socialmente differenziato, specificato nelle

sue espressioni inventive ed operative. E' quella attività creativa attraverso la

quale la persona realizza se stessa ed i beni di cui ha bisogno. Nel secondo

caso si tratta di lavoro astratto, indifferenziato, fluido. E' quello che Marx

chiama «lavoro generalmente umano» 96, lavoro ridotto a puro dispendio di

energia.

Chiariti i presupposti, vale la pena, a questo punto, vedere direttamente

come la nozione di lavoro astratto emerge dall'analisi marxiana ed in che

termini viene via via definendosi.

«Il lavoro che in essi [prodotti] uniformemente si oggettiva - osserva Marx -

dev'essere esso stesso lavoro semplice, uniforme, indifferenziato, per il quale

sia indifferente apparire nell'oro, nel ferro, nel grano, nella seta, allo stesso

modo che è indifferente per l'ossigeno trovarsi nella ruggine del ferro,

nell'atmosfera, nel succo dell'uva o nel sangue dell'uomo» 97.

S3.3 Oggettivazione e astrattizzazione del lavoro

C'è una prima considerazione da fare. Qui astratto è il lavoro in quanto si

oggettiva nei prodotti, non in quanto li realizza. Dunque, l'astrattizzazione del

lavoro è connessa alla sua oggettivazione. Vogliamo dire che, in quanto

attività di produzione, il lavoro può pure essere estremamente vario e

creativo. Questo stesso lavoro però, per oggettivarsi nei prodotti, deve

spogliarsi delle sue determinazioni concrete e ridursi a indifferenziato

dispendio di energia.

Questa precisazione si rende opportuna per evitare che - come spesso

succede - quando si parla di lavoro astratto si pensi subito al lavoro ripetitivo,

uniforme, monotono. Per sgombrare il campo da un tale persistente e diffuso

equivoco, basterà dire, a mo' di esempio, che lo stesso lavoro artigianale,

portato spesso a modello di creatività, deve ridursi a lavoro astratto per

oggettivarsi in prodotti destinati non al consumo personale, bensì allo

scambio. E' questo, infatti, il punto. Il lavoro che produce beni per il consumo

96 Ibidem, p.13.

97 Ibidem, p.11.

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personale non ha bisogno di oggettivarsi nei suoi prodotti, perché gli oggetti

prodotti, non essendo destinati allo scambio, non hanno bisogno di essere

valutati, cioè di essere tradotti in valore di scambio. E ciò a prescindere dalla

qualità del lavoro che li produce. Nel senso che un lavoro può pure essere

tutt'altro che creativo e soddisfacente, ma, se crea prodotti destinati al

consumo personale, non sarà mai astratto, perché non ha bisogno di

oggettivarsi nei prodotti. Viceversa, un lavoro può essere estremamente

creativo e soddisfacente, ma, se crea prodotti destinati allo scambio, si deve

oggettivare in essi e quindi ridursi a lavoro indifferenziato, generalmente

umano, astratto.

S3.4 Distinzione tra lavoro vivo e lavoro oggettivato

Alla base di questa analisi c'è, come si vede, una distinzione di fondo tra

lavoro vivo e lavoro oggettivato. Tutto il lavoro oggettivato deve essere stato

lavoro vivo. Ma non tutto il lavoro vivo diventa lavoro oggettivato. Solo nella

produzione di merci, cioè di prodotti destinati allo scambio, il lavoro vivo si

traduce in lavoro oggettivato.

Per la verità, la distinzione tra lavoro vivo e lavoro oggettivato - che

secondo noi, chiarisce sino in fondo i termini di lavoro astratto - è in Marx

tutt'altro che netta. Ad un certo punto, dopo avere descritto il lavoro

oggettivato come lavoro indifferenziato, egli tenta di dargli un corrispettivo in

sede di lavoro vivo. Ciò deriva dal fatto che Marx, dovendo arrivare alla

formulazione della legge del lavoro-valore, è costretto a trattare il lavoro

oggettivato in termini quantitativi, a ridurlo cioè a tempo di lavoro. Ora, il

tempo di lavoro è una categoria del lavoro concreto. Da qui la necessità di

specificare la nozione di lavoro astratto attraverso riferimenti alla struttura del

lavoro concreto. Dovendo fare da supporto alla legge del lavoro-valore, la

nozione marxiana di lavoro astratto è costretta a sopportare vincoli empirici

che ne offuscano i connotati teorici.

«[...] il lavoro, come si rappresenta in valori di scambio, potrebbe essere

espresso come lavoro generalmente umano» 98. E fin qui siamo nella

definizione teorica del lavoro astratto come misura di valore. Ma subito

I'analisi è costretta a ingolfarsi in riferimenti empirici al lavoro vivo,

difficilmente riconducibili alla nozione teorica di lavoro astratto. «Questa

98 Ibidem, p. 13 (corsivo nel testo).

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astrazione del lavoro generalmente umano - prosegue Marx - esiste nel

lavoro medio che ogni individuo medio può compiere in una data società, è

un determinato dispendio produttivo di muscoli, nervi, cervello, ecc. umani. E'

lavoro semplice [e in nota precisa: 'Unskilled labour' (lavoro non qualificato)

lo chiamano gli economisti inglesi] al quale ogni individuo medio può essere

addestrato e che esso deve compiere in una forma o nell'altra» 99.

E' chiaro che Marx va qui alla ricerca di connotati propri del lavoro

oggettivato nell'ambito del lavoro vivo. La difficoltà di tale ricerca sta nel fatto

che il lavoro oggettivato è una categoria economica, mentre il lavoro vivo è

una categoria tecnica. Ed è una forzatura attribuire connotati tecnici ad una

categoria economica. Di questa forzatura risente l'analisi, che è costretta a

identificare lavoro astratto con lavoro semplice o addirittura con unskilled

labour, che è una nozione attinente alla professionalità.

Non è un caso che, dopo avere operato l'ibrida identificazione fra lavoro

astratto e lavoro semplice, Marx è costretto a identificare il lavoro semplice

con il lavoro medio della società. Il lavoro astratto, da categoria puramente

economica del lavoro oggettivato, si trova così ad essere stravolto in

categoria non solo tecnica, ma addirittura statistica (la media attiene alla

statistica) del lavoro vivo sociale. L'intreccio di differenti livelli di realtà è

evidente. La difficoltà che ne deriva emerge di fronte al problema di fare

quadrare la complessità tecnica del lavoro vivo dentro la linearità economica

del lavoro astratto: «Il lavoro semplice costituisce la massa di gran lunga

maggiore di tutto il lavoro delle società borghesi, come ci si potrà convincere

da tutte le statistiche. [...]. Ma come si fa per il lavoro complesso che si eleva

al di sopra del livello medio in quanto lavoro di più alta intensità, di maggiore

peso specifico?» 100.

La soluzione adottata da Marx - ridurre il lavoro complesso a lavoro

semplice a più elevata potenza - lascia nell'ombra, sul piano pratico, tutta

una serie di aspetti. La complessità è una categoria teorica che attiene ad un

insieme. Ed è contraddittorio sul piano teorico e impossibile sul piano pratico

pretendere di scomporla in parti semplici. Ma, a parte ciò, quel che interessa

mettere in evidenza è che in queste operazioni pratiche sul lavoro è andata

completamente perduta la grande portata teorica della nozione originaria di

lavoro astratto. E' questa nozione originaria che occorrerà riprendere e

99 Ibidem (corsivi nel testo).

100 Ibidem.

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sviluppare sino alle estreme conseguenze teoriche, dopo averla liberata da

tutti i vincoli empirici.

Quanto poi alla causa dei guasti subiti dalla originaria nozione marxiana,

noi pensiamo che essa sia da individuare soprattutto in una mancata

precisazione da parte di Marx.

Incoerenze a parte, la nozione marxiana di lavoro astratto è centrata sulla

distinzione tra lavoro che crea valore d'uso e lavoro che crea valore di

scambio: «Mentre il lavoro che crea valore di scambio è lavoro astrattamente

generale e uguale, il lavoro che crea valore d'uso è lavoro concreto e

particolare che si scinde in modi di lavoro infinitamente vari a seconda della

forma e della materia» 101.

Ciò che Marx non precisa - aprendo così il varco all'ambiguità di fondo

prima rilevata - è che il lavoro è «astrattamente generale» non in quanto

produttore di valore di scambio, ma in quanto sua potenziale misura, in

qualità di lavoro da oggettivare, di lavoro potenzialmente oggettivato 102.

S3.5 Rapporto tra lavoro concreto e lavoro astratto

Nel capitolo sulla merce, ad apertura de II capitale, Marx insiste molto sul

rapporto fra lavoro concreto e lavoro astratto. Il lavoro concreto è lavoro utile

ed è connaturato alla condizione umana: «[...] il lavoro, come formatore di

valori d'uso, come lavoro utile, è una condizione d'esistenza dell'uomo,

indipendente da tutte le forme della società, è una necessità eterna della

natura che ha la funzione di mediare il ricambio organico fra uomo e natura,

cioè la vita degli uomini» 103.

Questo lavoro concreto e utile si presenta nella società sotto diverse

forme, che cambiano continuamente. Ora, tutte le forme di lavoro, dice Marx,

rappresentano solo forme diverse di dispendio di forza lavorativa umana 104.

Marx ha, fin qui, ragione. Il presupposto reale dell'oggettivazione del lavoro

nella merce in forma di lavoro astratto è nel fatto che il lavoro concreto, pur

nelle sue diverse forme, è comunque dispendio di energia umana. Questa

101 Ibidem, p. 18 (corsivi nel testo). 102 Che il lavoro possa essere misura del valore solo nella qualità di lavoro oggettivato è in Marx un

punto fermo: «Per esprimere il valore della tela come coagulo di lavoro umano, esso deve essere soppresso come una 'oggettività' la quale, come cosa, sia differente dalla tela e, simultaneamente, le sia comune con altra merce» (K. Marx, Il capitale, cit., I, p. 83).

103 K. Marx, Il capitale, cit., I, p. 75. 104 Ibidem, I, p. 76.

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osservazione è importante, perché ci dice che il lavoro astratto, mentre da un

lato è una nozione economica e non tecnica, dall'altro discende da uno

status reale del lavoro. Il lavoro astratto non è cioè una pura invenzione

economica. E' una nozione di teoria economica, che attiene strettamente al

lavoro oggettivato, ma ha un prius nella realtà tecnica del lavoro vivo.

Oltre un tale riconoscimento però non si può andare, senza snaturare,

come abbiamo visto, la stessa nozione marxiana di lavoro astratto, almeno

quella che noi riteniamo la più coerente all'interno dell'analisi marxiana. Marx,

invece, si spinge oltre. Egli tenta di individuare un fattore comune al lavoro

vivo ed al lavoro oggettivato nel lavoro medio, che consiste nel «dispendio di

quella semplice forza-lavoro che ogni uomo comune possiede in media nel

suo organismo fisico, senza particolare sviluppo» 105. Al di là delle intenzioni

di Marx - che, fra l'altro, non si pone questo tipo di problema - il lavoro medio

semplice viene in sostanza a configurarsi come lavoro concreto che, per

avere caratteristiche tecniche largamente diffuse, realizza, nella sostanza, il

modello del lavoro umano in generale, del lavoro astratto. Non sappiamo

vedere altrimenti questo «lavoro medio semplice» che come versione tecnica

della nozione di lavoro astratto.

S3.6 Distinzione tra nozione tecnica e nozione economica del lavoro

Da quanto si è detto dovrebbe risultare chiaro che noi giudichiamo

teoricamente illegittima e praticamente ibrida una siffatta operazione. E

perseguiamo il fine di recuperare - in sede teorica e in sede pratica - la

distinzione tra nozione tecnica e nozione economica del lavoro. La prima si

riferisce al lavoro concreto, determinato e differenziato, che si avvale di

particolari tecniche ed ha particolari esiti produttivi. La seconda si riferisce al

lavoro astratto, indeterminato e indifferenziato, al lavoro umano in generale.

Lavoro concreto è quello che, in sede tecnica, produce il bene. Lavoro

astratto è quello che, in sede economica, si oggettiva nella merce.

Ora, il «lavoro medio semplice» è lavoro concreto. E tale rimane anche se

medio e semplice. La medietà e la semplicità - essendo la prima una

caratteristica statistica e la seconda una caratteristica tecnica - non possono

105 Ibidem (corsivo nel testo).

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essere riferite al lavoro astratto, che Marx stesso definisce come «lavoro

umano senza ulteriore qualificazione» 106.

S3.7 L’astrattizzazione del lavoro come categoria dello scambio

Che il processo di astrattizzazione riguardi solo il lavoro in quanto lavoro

oggettivato nella merce risulta chiaro dall'analisi che Marx fa di tale processo,

là dove lo fa discendere dal rapporto di valore tra le merci: «Solo

l'espressione di equivalenza fra merci di genere differente mette in luce il

carattere specifico del lavoro creatore di valore, in quanto riduce

effettivamente i lavori di genere differente, inerenti alle merci di genere

differente, a ciò che è loro comune, a lavoro umano in genere» 107.

In altri termini, il processo di astrattizzazione del lavoro oggettivato nella

merce ha origine sociale, in quanto riguarda non la merce in sé, ma il suo

scambio e quindi il suo rapporto con le altre merci, il suo rapporto con il

mondo delle merci.

L'astrattizzazione del lavoro è dunque una categoria dello scambio, non

della produzione. Quando la merce entra nel rapporto di scambio, il processo

produttivo è già compiuto ed è già compiuto quindi il processo lavorativo. Il

processo lavorativo opera sempre nella concretezza delle sue specificazioni

tecniche. E solo dopo che si è incorporato nella merce come referente di

valore perde la sua qualità, per tradursi in quantità. Solo dopo che si è

oggettivato, da lavoro concreto, qual era in fase di produzione, diventa lavoro

astratto, lavoro senza altra qualificazione.

Bisogna stare attenti. Quando Marx segue il processo di astrattizzazione

del lavoro, fa in effetti un cammino a ritroso. Parte dallo scambio delle merci,

per risalire alla loro produzione. Parte dal lavoro astratto, per risalire al lavoro

concreto e vedere per quale via il lavoro concreto si è astrattizzato: «E' vero

che l'arte della sartoria che fa l'abito è un lavoro concreto di genere differente

da quella della tessitura che fa la tela. Ma l'equiparazione alla tessitura

riduce effettivamente la sartoria a quello che realmente è eguale nei due

lavori: al loro carattere comune di lavoro umano» 108. Mi sembra chiaro. Il

lavoro, in quanto produce, è lavoro concreto, differenziato. In quanto

incorporato nelle merci, diventa oggetto di equiparazione, non può non 106 Ibidem, I, p.77. 107 Ibidem, I, p. 83. 108 Ibidem.

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essere lavoro indifferenziato, astratto. E' passando attraverso

l'oggettivazione che il lavoro concreto perde le sue determinazioni tecniche e

qualitative acquisite nel processo di produzione. Schematizzando, I'itinerario

è dunque il seguente: dal lavoro concreto della sfera della produzione al

lavoro astratto della sfera dello scambio, attraverso l'oggettivazione nella

merce come referente di vaIore.

Il percorso reale del processo di astrattizzazione - che qui abbiamo

cercato di portare alla luce - si presenta nello scambio come invertito. Il

lavoro astratto è lavoro concreto filtrato dal processo di oggettivazione. E

invece, in sede di equivalenza, «lavoro concreto diventa forma fenomenica

del suo opposto, di lavoro astrattamente umano» 109.

Marx chiarisce i termini di questa inversione. In sostanza, il lavoro astratto

da strumento, in quanto referente di valore finalizzato allo scambio di

prodotti, diventa fine. E il lavoro concreto, che ha prodotto il bene di

consumo, diventa strumento per l'oggettivazione del lavoro astratto e la

realizzazione del valore. Come dire: il lavoro concreto viene messo in atto

per essere oggettivato nelle merci.

E' da qui che discende la socialità del lavoro. Dal momento, dice Marx,

che il lavoro concreto conta in quanto espressione di lavoro astratto, esso

può essere messo in rapporto - attraverso il comune referente - con gli altri

lavori concreti «ed è quindi, benché lavoro privato, lavoro in forma

immediatamente sociale come ogni lavoro che produce merci» 110.

Lo stesso vale per le merci. Ogni merce, attraverso la sua forma di valore,

entra in rapporto sociale con tutte le altre merci. Nel valore di una merce si

rispecchia, in forma di equivalente, il valore di ogni altra merce. Unico

referente è il lavoro astratto. I lavori concreti, da produttori del corpo fisico

delle merci, si presentano come forme particolari in cui si realizza o si

manifesta il lavoro astratto. E la forma corporea di una merce data si

presenta non come esito di un particolare lavoro concreto, ma come

«I'incarnazione visibile, la crisalide sociale generale di ogni lavoro umano» 111.

109 Ibidem, I, p. 91 (corsivo nel testo). 110 Ibidem. 111 Ibidem, I, p. 99.

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Così ogni lavoro viene ad avere una duplice forma: una particolare e

concreta, che lo rende diverso dagli altri lavori, ed una sociale e generale, in

cui tutti i lavori appaiono uguali.

Attraverso l'analisi di questi passaggi, Marx cerca, anche qui, di tessere

un rapporto reale fra lavoro concreto e lavoro astratto. Cerca cioè il substrato

reale del lavoro astratto. E ciò nel tentativo di evitare che la nozione di lavoro

astratto sia relegata nella sfera economica. Il suo intento è chiaro: vedere

nella riduzione dei particolari lavori a lavoro senza altra qualificazione non

soltanto una operazione economica, attinente al lavoro oggettivato nella

merce, ma anche una operazione sociale, con un fondamento reale nel

lavoro produttore di merci.

La forma generale in cui si presenta ogni lavoro particolare diventa così, in

un certo senso, il corrispettivo reale - in sede di lavoro vivo - del lavoro

astratto. Nella forma generale del lavoro concreto «il lavoro oggettivato nel

valore delle merci non è rappresentato solo negativamente, come lavoro nel

quale si astrae da tutte le forme concrete e da tutte le qualità utili dei lavori

effettivi. La natura positiva del lavoro oggettivato qui spicca espressamente:

è la riduzione di tutti i lavori effettivi al carattere a tutti comune di lavoro

umano, a dispendio di forza-lavoro umana» 112.

Pur apprezzando l'intento che sta dietro a questa opera di concretizzazione

del lavoro oggettivato, dobbiamo dire che essa risulta infruttuosa e finisce

per portare l'analisi su un terreno ambiguo, in cui la ricerca di referenti

empirici fa ombra alla chiarezza della definizione teorica della nozione di

lavoro astratto 113.

112 Ibidem. 113 Nei Grundrisse ci si imbatte in un passo in cui la nozione di lavoro astratto ha una angolatura del

tutto diversa rispetto a quella da noi analizzata. Il contesto è l'analisi della contrapposizione del lavoro al capitale. «[...] il lavoro - osserva Marx - come quel valore d'uso che si contrappone al denaro posto come capitale, non è questo o quel lavoro, ma lavoro puro e semplice, lavoro astratto, assolutamente indifferente ad una particolare determinatezza, ma capace di ogni determinatezza» (K. Marx, Lineamenti..., cit., 1, p. 280, corsivi nel testo).

L'astrazione del lavoro è qui un portato della sua necessità di contrapporsi al capitale. Questa contrapposizione richiede che il lavoro si porti, in un certo modo, allo stesso livello di generalizzazione del capitale.

In tal senso, il processo di astrattizzazione del lavoro è parallelo al processo di astrattizzazione del capitale. Ad un capitale determinato, osserva Marx, corrisponde un lavoro particolare, «ma poiché il capitale in quanto tale è indifferente ad ogni particolarità della sua sostanza, ed è tanto la totalità di ogni particolarità della sua sostanza quanto l'astrazione da tutte le sue particolarità, il lavoro che gli si contrappone ha in sé soggettivamente la medesima totalità e la medesima astrazione» (K. Marx, Lineamenti..., cit., 1, p. 280, corsivo nel testo).

Si potrebbe dire che qui il lavoro mutua l'astrazione dal suo antagonista, dal capitale.

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S3.8 Critica di alcune interpretazioni della nozione marxiana di lavoro astratto

Indispensabile ad una definizione puntuale della nozione di lavoro astratto

è, per noi, la distinzione tra lavoro vivo e lavoro oggettivato. Non si tratta

ovviamente di due entità distinte, ma di due modi di essere della stessa

entità. Vivo è il lavoro in quanto azione esercitata sulla materia, per

trasformarla in un prodotto. Nella definizione di lavoro vivo si prescinde - per

opportunità di analisi - dalla destinazione del prodotto, ben sapendo però

che in realtà tale destinazione determina le condizioni in cui si svolge la

produzione. E tuttavia isolare teoricamente lo specifico produttivo del lavoro

ci serve per arrivare a circoscrivere l'ambito in cui si definisce la nozione di

lavoro astratto. Tale nozione, se ben compresa, esclude da sé qualsiasi

attinenza agli aspetti produttivi - e quindi tecnici ed organizzativi - del

processo lavorativo. Non può mai essere astratto il lavoro in quanto si

incarna in specifiche tecniche di produzione.

La nostra intenzione di tagliare nettamente qualsiasi attinenza del lavoro

astratto alla sfera del processo produttivo in senso stretto - là dove

nell'analisi di Marx si va spesso a ricercare nel lavoro produttore di merci un

corrispettivo reale dell'astrazione propria del lavoro oggettivato nelle merci -

non deriva da una preoccupazione di tipo filologico. Essa intende evitare che

si dia corso, magari inconsapevolmente, all'equivoco - che certi tratti del

discorso di Marx non aiutano certo a contrastare - per cui, quando si parla di

lavoro astratto, il pensiero corre subito agli aspetti di ripetitività e di

monotonia del lavoro.

Non si tratta di un equivoco diffuso soltanto a livello di senso comune. Per

fare un esempio significativo, tutto il discorso di Lucio Colletti sul lavoro

astratto 114 - corretto per molti aspetti - tende a dare fondamento di realtà alla

nozione marxiana. D'altra parte, il versante teorico con cui polemizza Colletti

è ben lontano dalla nostra prospettiva di analisi.

La nozione che Colletti giustamente non accetta è quella che fa del lavoro

astratto «una astrazione nel senso che è una generalizzazione mentale dei

molteplici lavori utili o concreti; è l'elemento generale e comune a tutti questi

114 L. Colletti, Ideologia e società, Bari, Laterza, 1969, pp. 103-124.

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lavori'' 115. Il pericolo che Colletti vede in questa interpretazione della nozione

marxiana sta nel fatto che se il lavoro astratto è una generalizzazione

mentale, tale sarà anche ciò che esso produce, il valore, che così viene ad

essere ridotto ad una idea.

Le osservazioni di Colletti colgono, a nostro avviso, nel segno. Infatti, il

lavoro astratto non è, per Marx, una entità irreale, una generalizzazione del

lavoro concreto. La questione che noi poniamo è però di tipo diverso. Noi

diciamo che il lavoro astratto è una realtà, ma non una realtà tecnica. Non

riguarda cioè le procedure interne al processo lavorativo e, di conseguenza,

non riguarda l'azione di trasformazione della materia in prodotto.

Questa discriminante non la si trova in Marx. Anzi, come abbiamo visto, c'è

nell'analisi marxiana lo sforzo continuo di cogliere tracce di astrazione nel

lavoro produttore di merci. Il lavoro astratto è una realtà non della fattura

della merce, ma del suo scambio. Del resto, per lo stesso Colletti «la tesi

essenziale di Marx [da cui discende la nozione di lavoro astratto] è che, per

scambiare i loro prodotti, gli uomini debbono eguagliarli, cioè astrarre

dall'aspetto fisico-naturale o di valore d'uso per cui un prodotto differisce

dall'altro (il grano dal ferro, il ferro dal vetro, ecc.); e che, però, astraendo

dagli oggetti o materie concrete del loro lavoro, essi astraggono ipso facto

anche da ciò in funzione di cui si diversificano i loro lavori» 116. Colletti ne

deduce che il lavoro astratto è «un'astrazione che si compie ogni giorno nella

realtà stessa dello scambio» 117.

Questa interpretazione va esattamente in direzione della nostra prospettiva

di analisi. Colletti però non trae dalla sua affermazione tutte le conseguenze.

Non si preoccupa, per esempio, di chiarire che, se il lavoro astratto è una

realtà dello scambio - di una fase cioè successiva alla produzione diretta -,

tale nozione non può riguardare il lavoro vivo. Anzi, nel prosieguo del suo

discorso, dà I'impressione di volere dare rilievo agli aspetti di astrazione del

processo di produzione. Aspetti senz'altro reali e desumibili dalla analisi di

Marx, ma che nulla hanno, secondo noi, a che vedere con la nozione

originaria di lavoro astratto.

«[Il 'lavoro astratto'] - osserva Colletti - [è] un'attività che, a differenza delle

altre, non rappresenta un'appropriazione del mondo naturale oggettivo,

115 Ibidem, p. 107 (corsivi nel testo). 116 Ibidem, p. 112 (corsivi nel testo). 117 Ibidem, p. 113 (corsivi nel testo).

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quanto, al contrario, una espropriazione della soggettività umana, cioè una

separazione della 'capacità' o 'forza' di lavoro, intesa come I'insieme delle

attitudini fisiche e intellettuali umane, dall'uomo stesso» 118. Non mi pare

dubbio che qui si parli del lavoro astratto non come realtà dello scambio, ma

come realtà del processo produttivo.

All'interno dell'approccio adottato, il discorso di Colletti è indubbiamente

interessante. Ma è proprio questo approccio che noi intendiamo

abbandonare, perché inevitabilmente porta ad un inquinamento "tecnico"

della nozione originaria di lavoro astratto.

Altro intervento significativo, dal nostro punto di vista, è quello di Mario

Tronti 119. Tronti interpreta esattamente il discorso di Marx e ne mutua, a

nostro avviso, la contraddizione di fondo. Da una parte sottolinea la

distinzione marxiana tra lavoro vivo e lavoro oggettivato, dall'altra fa propria

la commistione fra concretezza del lavoro vivo e astrazione del lavoro

oggettivato. «Che la merce fosse qualcosa di duplice - osserva Tronti -,

insieme valore d'uso e valore di scambio, era cosa ovvia ai tempi di Marx. Ma

che il lavoro espresso nel valore avesse caratteristiche diverse dal lavoro

produttore di valori d'uso, era ignoto al pensiero del tempo. [...]. In Per la

critica dell'economia politica (1859) [Marx] aveva tentato [...] un'analisi della

merce 'come lavoro in duplice forma': analisi del valore d'uso come lavoro

reale o attività produttiva conforme allo scopo e analisi del valore di scambio

come tempo di lavoro o lavoro sociale uguale; [...] 120.

Ecco, l'originalità di Marx sta nell'avere rilevato che il lavoro oggettivato ha

«caratteristiche diverse» rispetto al lavoro vivo. E', come si vede, il punto da

cui parte il nostro discorso, che vuole rimanere coerente a questa

fondamentale scoperta di Marx. Invece Tronti, dopo avere messo

giustamente in evidenza la distinzione marxiana, non ne tiene conto nel

prosieguo del discorso. E, seguendo le orme di Marx, illustra come

caratteristiche del lavoro oggettivato connotazioni che sono proprie del lavoro

vivo.

Crediamo che l'equivoco di fondo - che è in Marx e viene assunto in

proprio da Tronti - sta nel pensare che i connotati del lavoro oggettivato

possano essere desunti, per riduzione, dalle caratteristiche del lavoro vivo.

118 Ibidem, p. 117 (corsivi nel testo). 119 Tronti, Operai e capitale, Torino, Einaudi, 1966, pp. 123 e segg..

120 Ibidem, p. 123.

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Scrive Tronti: «[...] il lavoro di più alta intensità, di maggiore peso specifico, è

sempre riducibile, cioè deve sempre essere ridotto a unskilled labour, a

lavoro non qualificato, lavoro privo di qualità» 121. Fin qui ci muoviamo nella

sfera del lavoro vivo. Il lavoro senza qualità è un lavoro vivo con particolari

caratteristiche tecniche (ripetitività, semplicità, ecc.). Senonché Tronti a

questo punto opera, sulla scia di Marx, un salto, che annulla la distinzione tra

lavoro vivo e lavoro oggettivato: «Ma - aggiunge - lavoro senza qualità e

lavoro 'generalmente umano' è la stessa cosa: [...] 122. In sostanza, ridotto

all'osso, il discorso di Marx - fatto proprio da Tronti - è questo: il lavoro vivo,

se ha caratteristiche tecniche di semplicità, di ripetitività, ecc., è lavoro

generalmente umano, è lavoro astratto, cioè è la stessa cosa del lavoro

oggettivato.

Ora, se è così, cade la fondamentale scoperta di Marx, in quanto il lavoro

oggettivato finisce di avere «caratteristiche diverse» rispetto al lavoro vivo.

Non è un caso che Tronti citi, a sostegno del suo discorso, il passo di Marx -

da noi già citato - in cui, a nostro avviso, è più evidente la commistione tra

lavoro vivo e lavoro oggettivato: «Questa astrazione del lavoro generalmente

umano esiste nel lavoro medio che ogni individuo medio può compiere in una

data società, è un determinato dispendio produttivo di muscoli, nervi,

cervello, ecc. umani» 123. Tronti, insomma, esalta la versione che Marx, ad

un certo punto, tradendo la sua scoperta originaria, ci dà della nozione di

lavoro astratto, come esito di una operazione di semplificazione del lavoro

vivo. Il commento di Tronti al passo citato di Marx è, sotto questo aspetto,

esemplare: «La forma specifica in cui il lavoro acquista carattere semplice è

quella dunque del lavoro umano in generale. La riduzione a lavoro semplice

è riduzione a lavoro astrattamente umano» 124. Tronti, senza volerlo, rende

ancora più evidente la forma empirica a cui Marx stesso finisce per ridurre la

sua originaria nozione di lavoro astratto 125.

121 Ibidem, p. 123-124 (corsivo nel testo). 122 Ibidem, p. 124.

123 Ibidem (corsivo nel testo). 124 Ibidem (corsivi nel testo). 125 I guasti teorici prodotti dalla commistione tra lavoro vivo e lavoro astratto sono enormi. Al punto che in

un intervento di Lapo Berti sulla «astrattizzazione del lavoro» può essere illustrata - senza che ciò comporti

implicazioni teoriche rispetto alla nozione originaria di lavoro astratto - la tendenza del capitale «verso

l'astrattizzazione del lavoro applicato al processo produttivo» (L. Berti, L'astrattizzazione del lavoro, in AA.

VV., La tribù delle talpe, a cura di S. Bologna, Milano, Feltrinelli, 1978, pp. 125 e segg., citazione a p. 129,

corsivo nel testo).

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339

S3.9 Ridefinizione della nozione di lavoro astratto

A questo punto, occorre ripartire dagli elementi che ci fornisce la nozione

marxiana, prescindendo dal tentativo di Marx di ricercare nel lavoro vivo

riscontri relativi al lavoro oggettivato. E' tempo di affrontare direttamente il

lavoro astratto in quanto lavoro oggettivato.

Attraverso l'oggettivazione, il lavoro si definisce come lavoro semplice,

uniforme, indifferenziato 126. L'attribuzione usata da Marx può indurre in

errore. Si può pensare ad un lavoro che abbia come caratteristiche tecniche

la semplicità, I'uniformità, I'indifferenziazione. Evidentemente, la terminologia

non è ancora adeguata alla qualità della nozione cui si riferisce. E' ancora

troppo legata ai modi di esprimere i connotati del lavoro vivo. Poco più in là

però Marx compie, secondo noi, un passo importante nella resa della

nozione di lavoro astratto: «Il lavoro che crea valore di scambio - osserva - è

[...] lavoro astrattamente generale» 127. C'è qui un salto qualitativo nella

connotazione del lavoro astratto. Salto che Marx, per la verità, non sempre

tiene presente. Il lavoro produttore di valore di scambio - che, badiamo bene,

differisce dal lavoro produttore di valore d'uso, in quanto manca di qualsiasi

connotato tecnico - ha due caratteristiche: I'astrazione e la generalità.

Occorre chiarire bene questi due caratteri, perché hanno grande peso

nella definizione della nozione di lavoro astratto. L'astrazione è qui un dato di

realtà. Di una realtà però non tecnica, ma economica. Si riferisce al lavoro

non in quanto complesso di procedure tecniche - che possono essere

semplici ed uniformi, mai astratte - ma in quanto sostanza economica della

merce. In questo senso, il lavoro astratto è - e non può non essere - lavoro

oggettivato.

Nell'intervento di Berti (che, contrariamente a quanto potrebbe far pensare il titolo, soltanto in minima

parte si occupa del problema che qui specificamente interessa) ha rilievo la contraddizione di fondo del

lavoro. «Per rendere la forza-lavoro sempre più astrattamente disponibile, il capitale è costretto sempre più a

porla come autonoma» (p. 129). La forza-lavoro viene espropriata della possibilità di incidere - attraverso il

lavoro concreto - sul processo produttivo. Ora, questa espropriazione si traduce per l'operaio da una parte in

perdita di potere di contrattazione, dall'altra in estraneità nei confronti del processo produttivo. E questa

estraneità è il pesupposto di un processo di autonomizzazione politica soggettiva. L'astrattizzazione del lavoro vivo come fattore di autonomizzazione della soggettività operaia più che

come canale di espropriazione è una tesi che, per un certo tempo, ha trovato credito in alcuni settori della sinistra.

126 K. Marx, Per la critica dell'economia politica, cit., p. 11. 127 Ibidem (corsivo nel testo).

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La generalità si riferisce al fatto che il lavoro oggettivato non ha niente

della particolarità propria della merce in cui è oggettivato. Tronti,

commentando Marx, vede in ognuna delle caratteristiche del lavoro che crea

valore di scambio un processo. E si capisce perché. Dal momento che il

lavoro produttore di valore di scambio discende dal lavoro produttore di

valore d'uso, è necessaria una evoluzione che trasformi il secondo nel primo.

Questa trasformazione viene poi assunta «come passaggio dalle forme

precapitalistiche alle forme capitalistiche del lavoro» 128. L'esito del processo

è dunque, per Tronti, la forma capitalistica del lavoro, che si caratterizza per

essere una forma tecnica estremamente semplice, priva di qualità. Questa

particolare forma tecnica fa del lavoro vivo un lavoro astratto. Unskilled

labour e lavoro generalmente umano sono la stessa cosa.

Occorre partire dalla conclusione di questo discorso, rovesciarla e farne un

presupposto. Lavoro senza qualità e lavoro astratto sono due cose

completamente diverse. Si deve parlare di lavoro senza qualità quando le

procedure vengono standardizzate al punto di non richiedere da parte del

soggetto operatore alcuna particolare capacità professionale. Per quanto

semplice, uniforme e ripetitivo, il lavoro senza qualità rimane una procedura

finalizzata, direttamente o indirettamente, alla creazione di beni. Si deve

invece parlare di lavoro astratto là dove il lavoro perde qualsiasi

connotazione tecnica di produzione e diventa misura di valore.

In tal senso, non si può parlare di lavoro astratto in termini di semplicità

tecnica, così come non si può parlare di lavoro senza qualità tecnica in

termini di astrazione. Semplicità tecnica e astrazione sono attributi che

attengono a due distinti universi. Il primo all'universo della tecnica di

produzione, il secondo all'universo della misurazione di valore.

Bisogna dunque abituarsi a parlare del lavoro astratto abbandonando l'idea

che ci siamo fatti del lavoro come tecnica di produzione. Il lavoro astratto non

è una particolare tecnica produttiva. Il connotato di astrazione fa del lavoro

oggettivato qualcosa di qualitativamente diverso dal lavoro vivo. Il fatto è che

il lavoro vivo, nell'oggettivarsi, astrae da tutto ciò che fa di esso un lavoro

particolare. E, poiché un lavoro è sempre un lavoro particolare, astraendo

dalla sua particolarità, il lavoro diventa altro da sé.

Il lavoro astratto è dunque altro dal "lavoro", nell'accezione comune del

termine. L'attributo è qui I'elemento centrale e caratterizzante rispetto al

128 M. Tronti, Operai e capitale, cit., p. 123.

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sostantivo. E ciò può avvenire perché il lavoro oggettivato è una sostanza,

una «concrezione», come dice Marx 129. Il lavoro oggettivato può essere

astratto perché non è tecnica operante, ma esito di una tecnica. Nel lavoro

oggettivato la tecnica è il passato, nel lavoro vivo è il presente. E questo

spiega perché il lavoro oggettivato può essere astratto e il lavoro vivo no. Si

può astrarre dalla particolarità tecnica del lavoro quando essa abbia già

compiuto la sua opera, non mentre la sta compiendo.

Questo punto va tenuto ben fermo. Il lavoro vivo non può mai essere una

sostanza, una concrezione. Ciò ci aiuta a capire i termini della sussunzione

del lavoro operata dal capitale. E' interesse del capitale vanificare il lavoro in

quanto tecnica produttiva e assumere il lavoro in quanto sostanza di valore.

L'interesse del capitale tende a fare del lavoro vivo un semplice tramite del

lavoro oggettivato.

Una tale prospettiva impone al lavoro vivo sussunto al capitale tutta una

serie di trasfigurazioni, che sono state ampiamente analizzate, ma che non

possono essere viste - come quasi sempre accade - in termini di astrazione.

Il problema è dunque oggi di definire la struttura del lavoro vivo

mantenendo la sua distinzione dal lavoro oggettivato. Il lavoro vivo tende

certo a configurarsi come f!usso lavorativo, come puro dispendio di energia.

E ciò induce a parlare, anche in tale sede, di "astrazione". "Astrazione" che

però è, pur sempre, ben altra cosa da quella derivante dalla oggettivazione

del lavoro nella merce. Conviene dunque evidenziarne la diversità adottando

una diversa terminologia.

Perciò si può parlare di lavoro astratto solo quando si tratta di lavoro

oggettivato. Mentre, per riferirsi al lavoro vivo senza qualità - qual è il

moderno lavoro meccanizzato ed automatizzato - proponiamo di parlare di

lavoro tecnicamente e socialmente indeterminato.

Non si tratta di una pignoleria terminologica. L'indeterminazione tecnica e

sociale è una connotazione moderna del lavoro vivo sussunto al capitale. Ed

è connotazione ben diversa da un lato dall'astrazione economica, che è

propria del lavoro oggettivato, e dall'altro dalla indifferenza soggettiva della

persona nei confronti del contenuto del suo lavoro.

Sulla base di questi chiarimenti, cerchiamo adesso di ridefinire la nozione

di lavoro astratto. Si tratta di una ridefinizione che intende assumere quella

che noi pensiamo sia l'originaria nozione marxiana, liberata dalle

129 K. Marx, Il capitale, cit., p. 70.

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contaminazioni che vi ha apportate lo stesso Marx. Per lavoro astratto

intendiamo il lavoro che è oggettivato nella merce ed è la base di

misurazione del suo valore.

Il lavoro, incorporandosi nella merce, perde ogni connotato tecnico e si

definisce come puro dispendio di energia: lavoro senza altra qualificazione,

dice Marx. Astratto dunque è il lavoro oggettivato, nel senso che è privo di

qualsiasi determinazione concreta. Ciò non significa che si tratti dell'esito di

una operazione mentale. Bisogna sottrarsi a questa sorta di ricatto teorico,

per cui il lavoro astratto o non ha realtà o ha la realtà tecnica del lavoro vivo.

Il lavoro astratto ha una realtà propria, non tecnica, che va individuata e

definita. Va combattuta la pretesa di parlare del lavoro astratto come di un

concetto o, viceversa, come di una particolare procedura produttiva.

Si badi bene. Quanto detto fin qui non significa affatto che, per noi, il

processo di astrattizzazione non interessa il lavoro vivo. Anzi. Ci siamo

assunti il compito di ricostruire il processo complessivo di astrattizzazione, ai

suoi diversi livelli. Del resto, che un processo di astrattizzazione investa il

lavoro vivo è pacifico. L'importante è tenere teoricamente distinta la nozione

tecnica e sociale di lavoro astratto, che attiene al lavoro vivo, dalla nozione

economica, che attiene al lavoro oggettivato.

Una tale distinzione teorica non solo non esclude, ma anzi rende più

evidente la connessione reale che esiste tra il processo economico ed il

processo tecnico e sociale di astrattizzazione. Sulla base di tale

distinzione-connessione, la direzione della nostra ricerca va dal lavoro

oggettivato verso il lavoro vivo. Il lavoro vivo è infatti la sede in cui opera il

soggetto umano. Ed è in quella sede che si ritrova, ad altro livello, il processo

di astrattizzazione, in quanto espropriazione della realtà socialmente

determinata, in quanto processo di indeterminazione sociale.

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Dalla Prima Edizione (1980)

LA SOCIETA’ ASTRATTA

NEL QUADRO DELLA TEORIA DI MARX

In questa sezione riportiamo capitoli della Prima

Edizione, in cui l’analisi viene condotta nel quadro della

teoria di Marx, mentre nelle successive edizioni l’analisi

viene condotta “in presa diretta”.

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Dalla Prima Edizione (1980)

ATRAZIONE E INDETERMINAZIONE NEL QUADRO DELLA TEORIA DI MARX

La maturità della sussunzione reale del lavoro al capitale, che oggi ci

accingiamo a vivere, si definisce, di per sé, non come razionalizzazione

tecnica dei contenuti del lavoro, ma come liberazione del sistema di

valorizzazione da qualsiasi determinazione specifica dell’attività lavorativa. In

tal senso, il lavoro è adeguato al capitale non in quanto porta contenuti

rispondenti alle esigenze della produzione capitalistica, ma in quanto riesce a

dimenticare il peccato originale del suo attaccamento a contenuti particolari.

Nell’approssimarsi del salto di qualità del processo di produzione,

assistiamo dunque alla saldatura di due fenomeni che nell’analisi, se non

nella teoria, di Marx vivono in relativa separatezza: da una parte

l’astrattizzazione del lavoro, dall’altra la sua sussunzione al capitale.

L’astrazione non è più un aspetto della morfologia dell’attività lavorativa, ma

un requisito strutturale del lavoro sussulto al capitale.

Da qui la centralità della nozione di lavoro astratto per l’analisi del modo

avanzato di produzione capitalistica. Ma da qui anche i suoi limiti in quanto

attributo specifico. Entreremo a parte nel merito della definizione e del

significato di tale nozione. Qui ci interessa evidenziarne la grande fertilità.

quando si sia disposti a svilupparla in tutte le direzioni, per farne una chiave

di interpretazione delle dinamiche sociali che si scatenano là dove il modo

capitalistico di produzione, per realizzarsi nella sua pienezza, è costretto a

dar fondo ai suoi presupposti, aprendo il varco all’esplosione di

contraddizioni latenti.

Occorre subito raccogliere, in tutta la sua pregnanza, il frutto dell’analisi

marxiana del lavoro astratto. Ne ricaviamo un concetto che è alla base di

questa nostra indagine. Ed è il concetto di astrazione come indifferenza ai

contenuti.

Ora, per cominciare, dobbiamo individuare la discendenza di questo

concetto. E non discendenza, per così dire, ideale, cioè la sua derivazione

da altri concetti, ma la sua discendenza reale, cioè la sua specificazione

nella realtà del capitalismo. Dobbiamo cercare cioè di vedere quale realtà del

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capitalismo esso esprime. Più avanti ci faremo carico di una ricostruzione

della nozione marxiana. Qui, subito, ci interessa estrapolare dal contesto

dell’analisi marxiana del lavoro astratto il concetto di indifferenza ai contenuti,

come concetto per sé, e rifarne, per nostro conto, la storia dentro la realtà

sociale del capitale.

La questione può essere posta preliminarmente in termini di domanda: c’è

nella società del capitale una realtà che corrisponde al concetto di

indifferenza ai contenuti? E se c’è, quali processi sono alla sua base?

Il modo capitalistico di produzione si definisce, per quel che qui interessa,

come processo di espropriazione. Tutti i contenuti, materiali e immateriali,

che la società capitalistica produce, nascono, già in partenza, come

contenuti espropriati. E tutta la soggettività che la società del capitale riesce

ad esprimere è una soggettività espropriata dei propri contenuti. Da una lato

contenuti estraniati rispetto ai soggetti che li hanno prodotti, dall’altro soggetti

estraneati rispetto ai loro propri contenuti.

E’ da una tale duplice estraniazione che discende da una parte

l’indifferenza soggettiva ai contenuti della realtà sociale, dall’altra

l’indifferenza oggettiva che è nella stessa realtà sociale.

Si tratta di esiti non causali del processo sociale imposto dal capitale.

Processo che si pone, più o meno esplicitamente, in termini di

indeterminazione sociale, cioè in termini di emancipazione della società da

ogni vincolo relativo a determinazioni particolari dell’essere sociale.

Il processo di indeterminazione sociale ha la funzione di produrre uno stato

di indifferenza sociale, che ha a sua volta la funzione di riprodurre astrazione

là dove l’essere sociale preme per affermare i suoi contenuti. Nello stato di

indifferenza sociale il capitale ricerca le condizioni per radicare nella società

il processo di valorizzazione.

E si capisce perché. La valorizzazione è un processo astratto e può

operare soltanto in condizioni di astrazione sociale. In tanto è in opera in

quanto impone la sua astrazione all’essere sociale. Non è un caso che se e

quando il processo di indeterminazione sociale non risulta del tutto efficace e

si incrina lo stato sociale di indifferenza, il sistema di valorizzazione è

minacciato. Dalla crosta incrinata dell’indifferenza sociale si levano

minacciosi i contenuti dell’essere sociale. E’ allora che realtà determinate

dell’essere sociale vanno a scontrarsi con l’astratta indeterminazione del

sistema di valorizzazione.

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Da tutto ciò risulta che il processo di indeterminazione sociale fa da

supporto al sistema di valorizzazione, in quanto predispone le condizioni in

cui può essere realizzata la produzione di valore. La condizione

fondamentale che il processo di indeterminazione sociale produce in

funzione della valorizzazione è la subordinazione del valore d’uso al valore di

scambio. Non può darsi valorizzazione là dove si afferma l’egemonia del

valore d’uso. Il valore d’uso è infatti espressione di un rapporto di fruizione

che, se non è regolato dal valore di scambio, fa saltare il sistema di

valorizzazione.

Ora, è difficile subordinare e regolare il valore d’uso quando l’essere

sociale si addensa e preme per affermare i suoi contenuti. Il valore d’uso è

infatti espressione dell’individuo sociale, così come il valore di scambio è

espressione del capitale. Da qui un’altra condizione cui è chiamato a

provvedere il processo di indeterminazione: la rarefazione dell’essere

sociale. Si tratta di un meccanismo sociale estremamente sottile e raffinato,

che va visto da vicino, per poterne cogliere il funzionamento interno.

Il processo di espropriazione, che è alla base del modo capitalistico di

produzione, crea nella società stati diffusi di insoddisfazione che, come è

noto, si esprimono nei modi più disparati. Tali modi di espressione

dell’insoddisfazione sociale possono essere sopportati finché si mantengono

nell’ambito individuale. L’espressione di insoddisfazione diventa invece un

rischio per il sistema sociale quando alla sua base c’è una condensazione

dell’essere sociale. Finché l’insoddisfazione sociale è espressione di migliaia

di individui insoddisfatti ognuno per proprio conto, la struttura sociale

complessiva può essere messa in difficoltà, ma non corre nessun pericolo

reale. Se invece l’insoddisfazione diffusa comincia a condensare l’essere

sociale, comincia cioè a compattare la condizione sociale di migliaia di

individui, allora si profila la possibilità di un salto politico che trasformi

l’espressione di insoddisfazione individuale in pratica antagonistica di un

corpo sociale.

In questo quadro, la funzione del processo di indeterminazione sociale

dovrebbe risultare chiara: sciogliere all’origine ogni coagulo di vita sociale

antagonista, per evitare che si trasformi in pratica di antagonismo politico.

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Dalla Prima Edizione (1980)

L’INDIVIDUO ASTRATTO NEL QUADRO DELLA TEORIA DI MARX *

In un passo de L’ideologia tedesca viene esaminato il processo di

autonomizzazione delle forze produttive. Ad un certo punto del loro sviluppo,

le forze produttive, da forze degli individui quali erano, si rendono

indipendenti rispetto agli individui . Questo processo produce per un verso

l’oggettivazione delle forze produttive, per l’altro l’astrattizzazione degli

individui. «Da una parte [...] una totalità di forze produttive che hanno

assunto, per così dire,una forma obiettiva [...]. Dall’altra parte a queste forze

produttive si contrappone la maggioranza degli individui, dai quali queste

forze si sono staccate e quindi sono stati spogliati da ogni contenuto di vita,

sono diventati individui astratti, [...] 130.

Anche se Marx-Engels parlano di «due fatti», è chiaro che si tratta di due

facce dello stesso fatto, di due versanti dello stesso processo. Meglio: si

tratta di un fatto che produce un altro fatto,di un processo che produce un

altro processo. E’ l’oggettivazione delle forze produttive che produce

l’astrattizzazione degli individui. Del resto, è questo il modo di funzionare

dell’intero processo. Qualità dell’individuo, oggettivandosi, si rendono

autonome rispetto all’individuo e gli si contrappongono. Cos’è il lavoro

astratto se non l’attività creativa dell’individuo, resa estranea all’individuo e

pietrificata nella merce? E cosa sono i rapporti sociali astratti se non le

relazioni degli individui cristallizzate in forme estraniate? Il processo di

astrattizzazione è un continuo intrecciarsi di atti di espropriazione, di

estraneazione e di oggettivazione. E la società astratta altro non è che

l’espressione sintetica della socialità complessiva espropriata, estraneata ed

oggettivata. La società astratta è la condizione generale dell’individuo sociale

separato dalle sue qualità umane. E’ il modo di essere dell’individuo astratto.

Le qualità umane, una volta separate dall’individuo ed oggettivate, perdono

* Di questo capitolo della Prima Edizione riportiamo solo la prima parte, che non è stata ripresa nelle successive edizioni, dove l’analisi è stata condotta “in presa diretta”. 130 K. Marx – F. Engels, L’ideologia tedesca, trad. it., Roma, Editori Riuniti, 1971, p. 63 (corsivo nostro).

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ogni specificità. Diventano qualità astratte e, in quanto tali, indifferenti ai loro

contenuti.

Il processo parte dunque da una azione di espropriazione e tende verso

uno stato di indifferenza. Parte da una violenza sui soggetti e tende verso la

quiete degli oggetti. Parte dall’astrattizzazione e tende verso l’oggettivazione.

L’oggettivazione è il punto di arrivo della graduale e sistematica

eliminazione della specificità umana dell’individuo dall’orizzonte sociale. E’

l’approdo della società astratta, della società spogliata di ognireale contenuto

di vita, all’indifferenza sociale, all’indifferenza nei confronti delle forme della

vita associata. L’estraneazione dell’individuo dalla società reale produce

indifferenza nei confronti della società formale. L’individuo espropria è

l’individuo astratto e, in quanto tale, indifferente alle forme della società. E’

come se l’indivduo si sentisse strappare la pelle di dosso e si ritrovasse,

spogliato della sua specificità umana, a nuotare nell’indistinto sociale.

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Dalla Prima Edizione (1980)

LA RICCHEZZA ASTRATTA NEL QUADRO DELLA TEORIA DI MARX *

Ne Il capitale la produzione capitalistica è definita, in partenza, produzione

di merci. E l’analisi del modo capitalistico di produzione si apre, come è noto,

con il discorso sulla merce. E’ una scelta di grande significato. Il processo

complessivo viene attaccato nel suo punto nodale. La merce conclude la

produzione diretta ed apre la circolazione. E’ dunque nel bel mezzo del

processo complessivo. Ma non si tratta solo di una centralità, per così dire, di

posizione. La merce è il cuore della produzione capitalistica.

Ora, cos’è che fa della merce una sorta di passaggio obbligato della

formazione sociale basata sul modo capitalistico di produzione? Partiamo dal

breve tratta dell’anali

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Libro Primo

NOTA EDITORIALE

Rispetto alle edizioni precedenti in volume unico,

vengono aggiunti il Libro Secondo e il Libro Terzo. Il Libro Primo copre l’area tematica del volume unico

delle precedenti edizioni. In esso sono state però rielaborate alcune parti e vengono aggiunti nuovi capitoli.

Nuovi capitoli aggiunti al Libro Primo

Capitolo Quinto

I GIOVANI TRA RAPPORTI E VALORI

Capitolo Settimo

L’IDENTITA’ SOCIALE ASTRATTA

(I paragrafia 1,2,3 sono tratti da Identità sociale e ideologia istituzionale, in «Proteo», n. 2, 2001).

Capitolo Ottavo

L’IDEOLOGIA DELLA SOCIETA’ ASTRATTA

(Tratto e adattato da Identità sociale e ideologia istituzionale, in «Proteo», n. 2 – 2001).

Capitolo Nono LA REGOLAMENTAZIONE MORALE DELLA CONDOTTA SOCIALE Capitolo Decimo

LA COMUNICAZIONE ASTRATTA

Capitolo Undicesimo

SOGGETTIVITA’ SOCIALE E TELEVISIONE

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(Tratto e adattato da Soggettività sociale e televisione: un processo immateriale, in «Proteo», n. 3 – 2000)

Capitolo Dodicesimo INFORMATICA E ASTRAZIONE Capitolo Tredicesimo LA CITTA’ ASTRATTA

Capitolo Quattordicesimo DIVERSITA' ETNICA E ASTRAZIONE SOCIALE

Capitolo Ventiduesimo FLESSIBILITA’ DEL LAVORO E SOGGETTIVITA’ SOCIALE

(Tratto e adattato da L’identità asociale tra flessibilità del lavoro e ideologia istituzionale in AA:VV. No/Made Italy, Napoli, Edizioni Media Print, 2001, pp. 187 – 198).

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FILIPPO VIOLA, nato in Sicilia, a Pietraperzia (Enna), è

docente di Sociologia (ora in pensione) all'Università di Roma

«La Sapienza».

Da anni porta avanti esperienze di lavoro sociale nei

quartieri popolari di Roma, in collaborazione con

associazioni, centri sociali ed altre strutture di base.

Come studioso, ha pubblicato lavori di ricerca teorica ed

empirica, nel quadro di un progetto di sociologia esistenziale,

cioè di analisi del sistema sociale dal punto di vista della

condizione esistenziale degli uomini e delle donne, con

particolare attenzione ai processi immateriali della vita

sociale.