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1 4. Austin, Il nostro linguaggio: una sedimentazione attiva John Langshaw Austin (Lancaster, 26 marzo 1911 – Oxford, 8 febbraio 1960) «è tutto racchiuso nella capacità performativa della lingua vivente» «Guardar l’un l’altro sotto nuova luna; E sì ver noi aguzzavan le ciglia, Come vecchio sartor fa nella cruna». Dante Alighieri, Divina commedia, Inferno, XV, 19-21 «Ch’assolver non si può chi non si pente, Né pentere e volere insieme puossi, Per la contradizion che nol consente». Dante Alighieri, Divina commedia, Inferno, XXVII, 118-120 Parte prima: presentazione generale: alcuni concetti 0. Per introdurre, come una scheda. 1. Il contesto: il programma della filosofia analitica nella direzione del linguaggio ordinario 2. La proposta: concetti della filosofia analitica degli atti linguistici 3. Le direzioni della filosofia analitica linguistica (del ‘900) dopo Austin Parte seconda: laboratorio tematico 1. Ambiti di realizzazione della natura performativa del linguaggio 2. L’analisi sociologica e linguistica delle comunicazioni di transito 3. Come si fabbrica una lingua totalitaria Parte prima: presentazione generale: alcuni concetti 0. Per introdurre, come una scheda. [come una scheda di presentazione prima, liberamente tratta dai siti internet dell’Enciclopedia Treccani e altri affini] John Langshaw Austin filosofo e linguista inglese; tra i maggiori esponenti di quella corrente contemporanea della filosofia analitica comunemente nota sotto il nome di ''analisi del linguaggio ordinario'' (filosofia del linguaggio ordinario). Studioso della filosofia greca, e in particolare dell'etica di Aristotele. Ha insegnato prevalentemente al Christ Church College dell'Università di Oxford dal 1952 fino alla morte, 1960, ed è stato molto attivo anche nell'ambiente accademico di Cambridge. Il suo più celebre allievo è John Searle. Durante la seconda guerra mondiale presta servizio come tenente colonnello nei servizi segreti britannici. Ha elaborato una forma peculiare di filosofia linguistica, per molti versi originale rispetto agli analoghi tentativi di Moore e Wittgenstein. L’analisi del linguaggio ordinario, secondo Austin, deve essere condotta in forma sistematica con lo scopo di recuperare attraverso essa le più profonde e significative distinzioni radicate nella concezione del mondo dell’uomo comune. Dopo aver raccolto dati sull’uso di una determinata area linguistica e averli confrontati con l’uso che si riscontra nella tradizione filosofica, Austin procede alla costruzione di situazioni fittizie, nelle quali immagina le occasioni in cui si farebbe ricorso a specifiche espressioni linguistiche, chiarendone in tal modo le diverse sfumature di significato. Secondo Austin, infatti, il linguaggio ordinario, configurandosi come il risultato di lunghissime esperienze stratificate, presenta vaste e molteplici espressioni per descrivere una stessa area concettuale. Pertanto, la filosofia, nella sua indagine in

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4. Austin, Il nostro linguaggio: una sedimentazione attiva John Langshaw Austin (Lancaster, 26 marzo 1911 – Oxford, 8 febbraio 1960) «è tutto racchiuso nella capacità performativa della lingua vivente» «Guardar l’un l’altro sotto nuova luna; E sì ver noi aguzzavan le ciglia, Come vecchio sartor fa nella cruna». Dante Alighieri, Divina commedia, Inferno, XV, 19-21 «Ch’assolver non si può chi non si pente, Né pentere e volere insieme puossi, Per la contradizion che nol consente». Dante Alighieri, Divina commedia, Inferno, XXVII, 118-120 Parte prima: presentazione generale: alcuni concetti 0. Per introdurre, come una scheda. 1. Il contesto: il programma della filosofia analitica nella direzione del linguaggio ordinario 2. La proposta: concetti della filosofia analitica degli atti linguistici 3. Le direzioni della filosofia analitica linguistica (del ‘900) dopo Austin Parte seconda: laboratorio tematico 1. Ambiti di realizzazione della natura performativa del linguaggio 2. L’analisi sociologica e linguistica delle comunicazioni di transito 3. Come si fabbrica una lingua totalitaria Parte prima: presentazione generale: alcuni concetti 0. Per introdurre, come una scheda. [come una scheda di presentazione prima, liberamente tratta dai siti internet dell’Enciclopedia Treccani e altri affini] John Langshaw Austin filosofo e linguista inglese; tra i maggiori esponenti di quella corrente contemporanea della filosofia analitica comunemente nota sotto il nome di ''analisi del linguaggio ordinario'' (filosofia del linguaggio ordinario). Studioso della filosofia greca, e in particolare dell'etica di Aristotele. Ha insegnato prevalentemente al Christ Church College dell'Università di Oxford dal 1952 fino alla morte, 1960, ed è stato molto attivo anche nell'ambiente accademico di Cambridge. Il suo più celebre allievo è John Searle. Durante la seconda guerra mondiale presta servizio come tenente colonnello nei servizi segreti britannici. Ha elaborato una forma peculiare di filosofia linguistica, per molti versi originale rispetto agli analoghi tentativi di Moore e Wittgenstein. L’analisi del linguaggio ordinario, secondo Austin, deve essere condotta in forma sistematica con lo scopo di recuperare attraverso essa le più profonde e significative distinzioni radicate nella concezione del mondo dell’uomo comune. Dopo aver raccolto dati sull’uso di una determinata area linguistica e averli confrontati con l’uso che si riscontra nella tradizione filosofica, Austin procede alla costruzione di situazioni fittizie, nelle quali immagina le occasioni in cui si farebbe ricorso a specifiche espressioni linguistiche, chiarendone in tal modo le diverse sfumature di significato. Secondo Austin, infatti, il linguaggio ordinario, configurandosi come il risultato di lunghissime esperienze stratificate, presenta vaste e molteplici espressioni per descrivere una stessa area concettuale. Pertanto, la filosofia, nella sua indagine in

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tale area, non soltanto dovrebbe tener conto di tutto ciò, ma dovrebbe altresì assumere il linguaggio ordinario come il punto di partenza nella ricerca, al fine di epurarlo da errori e integrarlo. Austin giunge così a distinguere i vari enunciati linguistici in constativi, ossia descrittivi, tali da poter essere veri o falsi, e performativi, enunciati che si risolvono in un’azione o che ne determinano in qualche modo il compimento, e che, pertanto, non essendo descrittivi, non possono essere veri o falsi, ma, dal momento che compiono un’azione, possono essere «invalidi» nelle circostanze o nelle condizioni non adatte e non appropriate all’enunciato. In tal modo, superando una visione puramente formale, Austin evidenzia e attribuisce grande rilievo agli aspetti pragmatici del linguaggio, considerato in primo luogo come attività sociale razionale. Austin specifica inoltre che le espressioni linguistiche si distinguono non tenendo conto esclusivamente delle informazioni che con esse si comunicano (atto locutivo, locutorio), ma considerando anche le particolari azioni che con esse si realizzano (atto illocutivo, illocutorio; per es. l’asserire, il comandare, il prescrivere, ecc. che esprima cioè un'intenzione o un'azione del parlante.) e i diversi effetti che esse producono negli ascoltatori (atto perlocutivo, perlocutorio; per es. emozione, persuasione, attesa). Austin procede anche a un’ulteriore classificazione degli atti illocutivi, distinguendoli in cinque categorie: verdittivi, attraverso i quali si giudica su questioni di fatto o di valore; esercitivi, con cui si comunica una decisione; commissivi, funzionali a prendere un impegno con l’interlocutore; comportativi, che generalmente esprimono comportamenti; espositivi, ossia le affermazioni. Tra le sue opere, la maggior parte delle quali sono state pubblicate dopo la sua morte, si ricordano: Philosophical papers (1961; trad. it. Saggi filosofici), Sense and sensibilia (1962; trad. it. Senso e sensibilità), How to do things with words (1962; trad. it. Come fare cose con le parole Marietti, Genova 1987). 1. Il contesto: il programma della filosofia analitica nella direzione del linguaggio ordinario Conoscere, ascoltare e scoprire percorsi e possibilità ponendo in analisi la prassi umana del linguaggio, soprattutto quello quotidiano; dunque del linguaggio comune e di un (presunto o sempre progettato) linguaggio ideale. 1.1. Contesto 1. l’impegno della filosofia analitica (dal ‘900): l’attenzione passa dal “parlare delle cose” al “parlare del nostro modo di parlare delle cose” con il compito della chiarificazione. «La filosofia non può fare altro che renderci capaci di conseguire una visione chiara dei concetti mediante i quali pensiamo il mondo, consentendoci così di attingere un’apprensione più salda del modo in cui nel nostro pensiero rappresentano il mondo. L’ottico non può dirci che cosa vedremo quando ci guarderemo intorno: può solo dotarci di occhiali che mettano meglio a fuoco tutto quello che vediamo. Il filosofo si propone di svolgere un compito analogo riguardo al modo in cui pensiamo la realtà. Ciò significa però che il punto di partenza della filosofia deve essere l’analisi della struttura fondamentale dei nostri pensieri. Fino ai tempi recenti, è stato un caposaldo della filosofia analitica, nelle sue varie manifestazioni, l’assunto che l’analisi del pensiero possa essere affrontata solo attraverso la filosofia del linguaggio. In altre parole, non può esservi una spiegazione di che cosa sia un pensiero, indipendentemente dai mezzi espressivi impiegati; ma l’obiettivo della filosofia del pensiero può essere conseguito da una spiegazione di ciò che fa sì che le parole di una lingua abbiano i significati che hanno, una spiegazione che non faccia appello all’antecedente concezione dei pensieri che questi enunciati esprimono. Resta il fatto che essi significano ciò che significano solo grazie all’uso che ne facciamo. Per attingere un’intelligenza completa, per pervenire a una visione sinottica del modo in cui funzionano, dobbiamo esaminare molto attentamente le nostre pratiche linguistiche, così da acquistare innanzi tutto consapevolezza di quel che esattamente sono, avendo però come intento finale quello di pervenire a una descrizione sistematica. Nel costruire un modello generale del significato di un enunciato appartenente a ciascun settore della lingua, la teoria eluciderà il concetto di verità, così come è applicato alle asserzioni di enunciati appartenenti all’area in questione – affermazioni sulla realtà fisica, asserti

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matematici, asserti al tempo passato, e via dicendo – assegnando al concetto di verità il posto appropriato nella caratterizzazione dei significati di tali enunciati». (Michael Dummett, La base logica della metafisica) 1.2. contesto 2. l’impegno delle scienze storico-sociali: il comprendere. 1.2.1. Per i primi 20 anni del ‘900, si teorizza una distinzione netta (un divario inconciliabile, almeno così sembra) tra scienze della natura (scienze naturali, fisiche, Naturwissenschaften) e scienze dello spirito (scienze-sociali, scienze-umane, scienze dell’uomo, Geisteswissenschaften). Si può parlare dello “scatto d’orgoglio” dello storicismo (soprattutto ad opera di Dilthey, Windelband, Rickert) che distingue nettamente le scienze sociali (dell’uomo, umane, dello spirito) dalle scienze naturali (della natura). Si tratta di scienze tra loro distinte per l’oggetto, il metodo, l’esito: le scienze della natura studiano ciò che è universale (oggetto), allo scopo spiegare (metodo: erklären), individuando e fornendo cause e leggi affermate come necessarie e componibili in sistemi (esito: la teoria in sistema); le scienze sociali studiano ciò che è individuale, singolare o collettivo (oggetto è l’individualità storica), allo scopo comprendere e fornire il senso, il significato del comportamento e dei fatti (metodo: verstehen), individuando e fornendo regolarità presentate come costanti e confluenti in modelli e cornici di comportamenti e eventi possibili (esito: modelli o tipologie sociali). Dunque, secondo la distinzione diffusa (Dilthey, Weber, Jaspers) tra scienze della natura e scienze dello spirito, nelle prime i fenomeni sono collegati tra loro mediante cause che possono essere spiegate, mentre nelle seconde i fenomeni si collegano per mezzo del senso che può essere compreso. Nel binario causa-senso, la causa appartiene al determinismo e il suo "processo" può essere, se possibile, spiegato (siamo nel campo della spiegazione, erklären); i fenomeni della coscienza invece sono comprensibili, si dispiegano nel mondo del senso in maniera tale che uno stato dipende da un altro a cui fa seguito (siamo nel campo della comprensione, verstehen). (ultimo periodo tratto con variazioni da Di Ciaccia Antonio, Recalcati Massimo, 2000, Jacques Lacan, B.Mondadori, Milano, 122) 1.2.2. Ma tale distinzione non resta così radicalmente oppositiva né per il campo della scienze della natura né per quello delle scienze sociali. Anche nelle relazioni di comprensione occorre individuare e indicare cause che permettono l’interpretazione, la rendono fondata, la mettono in condizione di indicare leggi specifiche e logiche di comportamento. «[...] ogni fenomeno di coscienza ha un senso, in una delle due accezioni linguistiche di questo termine: significato e orientamento [...]. Ma per quanto illusorio, questo senso, come ogni altro fenomeno, non è privo di legge. Il merito della psicoanalisi, nuova disciplina, consiste nell'averci insegnato a conoscere tali leggi.» (Jacques Lacan, Della psicosi paranoica, in Di Ciaccia-Recalcati 2000, 125) Così come nelle relazioni di spiegazione, come nelle scienze della natura, i legami possono sorgere solo sulla base di una decisione che porta a valorizzare concetti e dati d’esperienza suscettibili di trattamento secondo leggi e necessità. 1.2.3. Domandare e ascoltare si traducono in volontà di conoscenza che non possono trovare soddisfazione se non quando si trova la causa e si coglie il senso di ciò che accade. Ma opera qui una implosiva identificazione tra comprensione e certezza; identificazione che viene in evidenza con centralità (altrettanto drammatica) nella filosofia moderna: “… i filosofi moderni hanno mescolato un naturale desiderio di comprensione e un innaturale desiderio di certezza”. (Rorty Richard 1979 La filosofia e lo specchio della natura, Bompiani, Milano 1998, 173) 1.3. contesto 3. senso e significato: una distinzione ormai storica e imprescindibile; Frege, Russell. Gottlob Frege, riconosciuto capostipite della filosofia analitica del linguaggio, in Über Sinn und Bedeutung, 1892 (Senso e denotazione o Senso e significato), analizza il significato dei nomi distinguendo fra il loro senso (il modo in cui il nome ci dà l’oggetto designato) e il loro significato o denotazione (l’oggetto designato stesso) [esempio “l’ippogrifo ha le ali” è enunciato dotato di senso ma non di denotazione, almeno in contesto fisico], e applica la medesima distinzione anche agli

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enunciati dichiarativi distinguendo tra il «pensiero» espresso e il valore di verità (cioè la circostanza che il pensiero espresso sia vero, oppure quella che il pensiero espresso sia falso). Il riferimento è anche a Bertrand Russell, On denoting (in Mind, 14 [1905] trad. Sulla denotazione), già qui la «teoria delle descrizioni» e la distinzione dei livelli linguistici sono fonte di ispirazione per la filosofia analitica del linguaggio. (note da Sbisà Marina 2007 Detto non detto. Le forme della comunicazione implicita, Laterza, Roma – Bari, pp. 20, 22) L’efficacia della distinzione tra “senso” e “significato” in un contesto conversazionale: «È al significato espresso che ci rapportiamo nella nostra risposta conversazionale? No! Corrispondiamo e rispondiamo al senso del significato, a quanto il detto non contiene esplicitamente in sé ma senza la cui comprensione preliminare il detto non ha per noi significato alcuno (oppure significa solo astrattamente, vale a dire al di fuori di qualsiasi contesto di situazione). Per questo alla formale domanda del nostro casuale interlocutore che educatamente ci chiede «Come sta?», non rispondiamo aprendo il nostro cuore e narrando, in modo meticoloso e partecipato, tristi vicende sentimentali, ma ci limitiamo a un più banale e meno impegnativo «Bene, grazie». La celeberrima teoria degli atti linguistici insegna che il detto ha sempre una forza illocutiva che non è parte del detto ma che nel detto immancabilmente si mostra. Essa, con la potenza del silenzio, mostra come deve essere «preso» quello che è di fatto detto. La forza illocutiva è il senso del detto. È il senso nell’accezione fregeana del termine, indica, cioè, la modalità del riferimento senza la quale il riferimento, la pura Bedeutung, starebbe sospesa nei vuoto come un’astrazione insignificante. La competenza comunicativa è quindi una competenza eminentemente pragmatica e non semplicemente semantica o sintattica. È un saper fare, una ars, della quale si dovrebbe dire — e per le stesse strutturali ragioni — il medesimo che Kant diceva dello schematismo trascendentale. È un’arte mirabile celata nella natura umana. È qualcosa che non sappiamo di sapere e che tuttavia mettiamo in pratica con straordinaria perizia. Saper fare a comunicare significa «avere orecchio» per la differenza del senso (la modalità di riferimento) dal significato (il riferimento). Saper fare a comunicare è «avere orecchio», nella conversazione quotidiana e qualunque sia il supporto di questa, per la differenza tra il detto e il non detto che nel detto immancabilmente si mostra senza per altro dirsi e che mostrandosi orienta la comprensione del detto e determina la coerenza della nostra risposta. Una differenza immateriale che è tuttavia alla sorgente di ogni reale processo di significazione-comprensione». (Ronchi Rocco, Parlare in neolingua. Come si fabbrica una lingua totalitaria in Recalcati Massimo (a cura di) 2007 Forme contemporanee del totalitarismo, Bollati Boringhieri, Torino, 50) Dunque, come in un dizionario: Sinn = senso, non detto, implicito, la modalità di riferimento, la guida e il contesto per comprendere la situazione d’uso in cui il termine si (ci) colloca; esempio: il modo con cui io dico “buongiorno” permette di interpretare la parola e il gesto come gioia, ironia, indifferenza, sorpresa, rabbia, rimprovero … Bedeutung = significato; il significato esplicito e letterale, da vocabolario, quindi espresso, del termine detto, teso a denotare una realtà (cosa, situazione). Il senso è ben più ampio del significato, è spesso (o forse sempre) implicito ma sostiene il significato, è la causa della sua enunciazione, è la sua essenza ermeneutica e la sua dilatazione nel significare; [un esempio “doloroso” per cogliere la distanza o differenza (pur nella relazione più o meno coerente o arbitraria): il termine “ebreo” definito nel suo significato come da vocabolario, definito nel senso che il termine assuma al variare dei contesti d’uso (soprattutto nei più variegati ambiti dell’antisemitismo)]. 1.3.1. La distinzione (con conseguente relazione) tra senso e significato trova sede in larga parte di enunciati e quotidiani. Enunciati di cui non è possibile cogliere o definire il significato e di cui occorre cercare il senso. Per consegnare la precisazione ad esempi: l’espressione “ti voglio bene” può suscitare la domanda “in che senso?”; allo stesso modo espressioni come “chiediamo giustizia”, “mi batto per il progresso”... In espressioni come “passami il sale”, “siediti” … il significato è chiaro e nessuno chiederebbe “in che senso?”.

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2. La proposta: concetti della filosofia analitica degli atti linguistici Austin John Langshaw, 1962, 1975, Come fare cose con le parole. [How to Do Things with Words] Le «William James Lectures» tenute alla Harvard University nel 1955, Marietti, Genova 1987 2.1. La svolta che pone al centro dell’attenzione filosofica il linguaggio, i discorsi e la comunicazione, inizia in modo irreversibile con l’opera di John Langshaw Austin “Come fare cose con le parole” [FCP] (How to do Things with Words), scritta tra il 1951 e il 1955, pubblicata postuma nel 1962. Ha inizio cioè quando si vede il linguaggio «come azione piuttosto che come struttura o risultato di un processo conoscitivo» e al centro dell’attenzione analitica si pongono gli “atti linguistici” (gli “speech acts”) non le parole astratte dal contesto pragmatico. Si tratta di una innovazione non solo tematica, ma di metodo. È sull’aspetto pragmatico, contesto poi di catalogazione e di riflessione teoretica, che insiste l’impostazione analitica di Austin. L’impostazione analitica pragmatica che caratterizza gli studi di Austin differenzia infatti le sue teorie dalle indagini che contemporaneamente Wittgenstein stava svolgendo (Ricerche filosofiche 1953) in particolare sul linguaggio quotidiano. Anche Wittgenstein “postula l’unità azione-linguaggio, considerando il nesso tra linguaggio e mondo come nesso tra una pluralità di giochi linguistici diversi, connessi a diverse forme di vita. Secondo Wittgenstein, parlare un linguaggio costituisce un’attività, e il significato di una parola è il suo uso nel linguaggio stesso. Per comprendere il significato di quanto espresso dal linguaggio è necessario conoscere le regole del gioco entro il quale il linguaggio stesso viene usato; e, dal momento che le regole del gioco sono stabilite per convenzione intersoggettiva (in altre parole, sono definite socialmente), ne deriva che l’analisi del linguaggio costituisce uno strumento per la comprensione dell’azione (dell’interazione) sociale. Ma è prevalentemente sull’aspetto pragmatico, contesto poi di catalogazione e di riflessione teoretica che mette in luce le azioni che vengono attivate nel linguaggio, che insiste l’impostazione analitica di Austin. Un orientamento sintetico preliminare del problema e quadro del passaggio storico-linguistico è sommariamente delineato nella ricostruzione di Ervin Goffman riflettendo sulle forme della comunicazione linguistica sociale quotidiana: «…cioè, come, partendo da ciò che un individuo dice, in maniera sistematica, capire ciò che intende dire. Un tentativo di risolvere il problema è stato avviato da John Austin come un'implicazione della sua nozione di "affermazione performativa", o "performativa", cioè, un'affermazione che fa un qualcosa. La linea è quella di considerare la condizione che potrebbe rendere tale performance nulla e vuota, in pratica, "infelice". Il presupposto è che lo svolgimento effettivo di una performativa dovrebbe soddisfare una lista di "condizioni di felicità." Austin (1965, How to Do Things with Words, pp. 14-15) ne elenca sei - un numero piuttosto modesto al quale ridurre l'oggetto di coloro che studiano l'interazione faccia a faccia. Più tardi John Searle (discepolo di Austin, 1969 Speech Acts: An Essay in the Philosophy of Language) ha ridefinito lo sforzo di Austin di classificare i tipi di performative (ora chiamate atti linguistici) e ha compiuto uno sforzo per esplicare le condizioni di felicità (ora in parte comprese con il termine "condizioni di sincerità") presupposte da alcune di esse. Tale linea di condotta si è mescolata ad un'analisi avviata da Paul Grice (1975 Logic and Conversation, in Syntax and Semantics, Vol. 3, Speech Acts ), che suggerisce quattro massime da cui gli interlocutori cooperativi si devono far guidare per fare in modo che le loro affermazioni siano utilizzabili al massimo dai destinatari. [in nota le quattro massime: Siate quanto informativi possibile, ma più di quanto richiesto; dite solo ciò che credete sia vero per il quale avete prove sufficienti; siate pertinenti; evitate espressioni ambigue o poco chiare o presentazioni disordinate.] La breve lista di condizioni per la felice performance dell'atto linguistico di Austin e Searle e l'ancora più breve lista di massime griceane vengono presentate come libere dalla cultura e dal contesto; esse (assieme al resto della "teoria dell'atto linguistico") hanno avuto un ampio impatto sulla sociolinguistica». (Goffman Ervin, 1983, Le condizioni di felicità, Mimesis edizioni, Milano 2015, 64-65)

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2.2. alcuni passaggi centrali della analisi e proposta di Austin: 2.2.1. enunciati performativi: enunciati (costruiti alla prima persona del presente indicativo) che non descrivono un atto, ma servono a compierlo, cioè «alcuni casi o sensi (solo alcuni, per amore del cielo!) in cui dire qualcosa è fare qualcosa; o in cui col dire o nel dire qualcosa noi facciamo qualcosa.» «Per troppo tempo i filosofi hanno assunto che il compito di una « asserzione » possa essere solo quello di « descrivere » un certo stato di cose, o di « esporre un qualche fatto », cosa che deve fare in modo vero o falso. Gli studiosi di grammatica, in realtà, hanno regolarmente fatto notare che non tutte le frasi sono (usate per fare) asserzioni: ci sono, tradizionalmente, oltre alle asserzioni (degli studiosi di grammatica), anche domande ed esclamazioni, e frasi che esprimono ordini o desideri o concessioni. E sicuramente i filosofi non intendevano negare ciò, nonostante qualche uso impreciso di « frase » per « asserzione ». […] Esempi: (E. a) « Sì (prendo questa donna come mia legittima sposa) » pronunciato nel corso di una cerimonia nuziale. (E. h) « Battezzo questa nave Queen Elizaheth » — pronunciato quando si rompe la bottiglia contro la prua. (E. e) « Lascio il mio orologio in eredità a mio fratello » — quando ricorre in un testamento. (E. d) « Scommetto mezzo scellino che domani pioverà ». In questi esempi risulta chiaro che enunciare la frase (ovviamente in circostanze appropriate) non è descrivere il mio fare ciò che si direbbe io stia facendo mentre la enuncio o asserire che lo sto facendo: è farlo. Nessuno degli enunciati citati è o vero o falso: lo asserisco come ovvio e non lo dimostro. Ciò ha tanto bisogno di discussione quanto ne ha il dire che « dannazione » non è vero o falso: può darsi che l’enunciato « serva ad informarti » — ma questa è una cosa abbastanza diversa. Battezzare la nave dire (in circostanze appropriate) le parole « io battezzo etc. ». Quando, davanti all’ufficiale di stato civile o davanti all’altare, etc., dico «sì », non sto riferendo di un matrimonio: mi ci sto coinvolgendo. Come dobbiamo chiamare una frase o un enunciato di questo tipo ? Propongo di chiamarlo una frase performativa o un enunciato performativo, o, in breve, « un performativo ». Il termine «performativo » verrà usato in una varietà di modi e costruzioni affini, quasi come il termine «imperativo » . Il nome deriva, ovviamente, da perform [eseguire], il verbo usuale con il sostantivo « azione »: esso indica che il proferimento dell’enunciato costituisce l’esecuzione di una azione — non viene normalmente concepito come semplicemente dire qualcosa.» (Austin 1962, pp. 9-11) 2.2.2. dalla condizione vero / falso (teoria della verità) alla condizione felice / infelice (teoria della felicità/infelicità) « Questi hanno, giudicando dalle apparenze, l’aspetto — o per lo meno la composizione grammaticale — delle « asserzioni »; ma tuttavia, quando li si esamina più attentamente, si vede molto chiaramente che non sono enunciati che potrebbero essere « veri » o « falsi ». Tuttavia l’essere « vero » o « falso » è tradizionalmente il segno caratteristico di una asserzione. Uno dei nostri esempi era l’enunciato « sì » (prendo questa donna come mia legittima sposa), pronunciato nel corso di una cerimonia nuziale. Qui dovremmo dire che nel dire queste parole noi stiamo facendo qualcosa — cioè, ci stiamo sposando, piuttosto che raccontando qualcosa, e cioè che ci stiamo sposando. […] Oltre all’enunciazione delle parole del cosiddetto performativo, molte altre cose devono, come norma generale, essere corrette e funzionare bene se si deve dire che abbiamo felicemente portato a compimento la nostra azione. Cosa siano queste cose possiamo sperare di scoprirlo esaminando e classificando i tipi di casi in cui qualcosa funziona male e l’atto sposarsi, scommettere, lasciare in eredità, battezzare, e altri ancora — è perciò almeno in una certa misura un insuccesso: l’enunciato è allora, possiamo dire, non proprio falso ma in generale infelice. E per questa ragione chiamiamo la teoria delle cose che possono essere scorrette e funzionare male in occasione di tali enunciati, la teoria delle Infelicità. […] vi sono più modi di violare il linguaggio che semplicemente la contraddizione. Le domande principali sono: quanti modi, e perché violano il

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linguaggio, e in cosa consiste la violazione? […] Dobbiamo considerare la situazione totale in cui viene formulato l’enunciato — l’atto linguistico totale — se dobbiamo vedere il parallelo tra le asserzioni e gli enunciati performativi, e come ciascuno possa funzionare male. Così l’atto linguistico totale nella situazione linguistica totale sta emergendo dalla logica a poco a poco come importante in casi speciali: e perciò stiamo assimilando il supposto enunciato constativo al performativo. […] Possiamo, comunque, rafforzare la nostra convinzione che la distinzione sia definitiva tornando alla vecchia idea secondo la quale l’enunciato constativo è vero o falso e quello performativo è felice o infelice. (Austin 1962, 15, 16, 39, 41, 44) 2.2.2.1. ma i due criteri non sono così lontani « Avendo suggerito che il performativo non è affatto distinto dal constativo in maniera così evidente — il primo felice o infelice, il secondo vero o falso — stavamo riflettendo su come definire il performativo in modo più chiaro.» Anche la verità ha bisogno di contesto; si avvicina quindi al criterio felicità / infelicità: « Supponiamo di mettere a confronto « la Francia è esagonale » con i fatti, in questo caso, suppongo, con la Francia: quest’asserzione è vera o falsa? Ebbene, se volete, fino ad un certo punto; naturalmente io posso capire ciò che intendi col dire che è vera per certi propositi e scopi. Va abbastanza bene per un generale di massimo grado, forse, ma non per un geografo. « Naturalmente è piuttosto approssimativo », dovremmo dire, « e va piuttosto bene come asserzione piuttosto approssimativa ». […] Il riferimento dipende dalla conoscenza che si ha al momento in cui viene proferito l’enunciato. […] È essenziale rendersi conto che « vero » e « falso », come « libero » e « non libero », non stanno per alcunché di semplice, ma soltanto per una dimensione generale dell’essere una cosa giusta o corretta da dire, in opposizione ad una cosa sbagliata, in queste circostanze, a questo uditorio, per questi scopi e con queste intenzioni.» (Austin 1962, 52, 105-106) Austin, per l’incontro di verità / falsità (forse una inclusione) nella felicità / infelicità: «la verità e la falsità non sono (tranne che mediante un’astrazione artificiale che è sempre possibile e legittima per certi scopi) nomi che indicano relazioni, qualità, o altro, bensì una dimensione di valutazione - in che condizioni stanno le parole quanto all’essere soddisfacenti riguardo ai fatti, gli eventi, le situazioni, etc., a cui si riferiscono.» (Austin 1962, 1975, 108, lezione XII) 2.2.3. enunciati performativi: enunciati locutori, illocutori, perlocutori. «Innanzitutto abbiamo distinto un gruppo di cose che facciamo nel dire qualcosa, che, nel loro insieme, abbiamo riassunto col dire che eseguiamo un atto locutorio, che approssimativamente equivale a pronunciare una certa frase con un certo senso e riferimento, che ancora equivale approssimativamente al « significato » nel senso tradizionale. In secondo luogo, abbiamo detto che eseguiamo anche degli atti illocutori quali informare, ordinare, avvertire, impegnarsi a fare qualcosa, etc., cioè enunciati che hanno una certa forza (convenzionale). In terzo luogo, possiamo anche eseguire degli atti perlocutori: ciò che otteniamo o riusciamo a fare col dire qualcosa, come convincere, persuadere, trattenere, e persino, per dire, sorprendere o ingannare.» In ulteriore presentazione – bilancio generale: « … l’unità tra linguaggio e azione è il presupposto fondamentale della teoria degli atti linguistici, elaborata da Austin e Searle, secondo cui enunciare una frase significa anche, di per sé, compiere un’azione, in questo caso, il dire diventa fare, e il linguaggio diventa uno strumento dell’azione sociale. Austin (1962) distingue tre tipi di «atti linguistici», o meglio tre dimensioni dell’atto linguistico: l’atto locutorio (l’azione che si compie nel parlare stesso, nonché la capacità del linguaggio di descrivere stati di cose); l’atto illocutorio (in questo caso l’azione che compiamo è, a seconda, ordinare. consigliare, promettere, scusarsi ecc.); l’atto perlocutorio (che consiste nella produzione — volontaria o involontaria — di conseguenze sulla situazione, dove l’azione consiste quindi in ciò di cui ci rendiamo responsabili se il nostro parlare produce un effetto extralinguistico, come convincere, allarmare, rassicurare ecc.). Facciamo un esempio: se io dico «ti assicuro che ti aspetto fuori», compio contemporaneamente tre atti distinti: un atto locutorio (cioè l’atto di pronunciare quelle determinate parole), un atto illocutorio (da in + locutorio, l’atto cioè che compio nel dire quella frase, e quindi, nel mio caso, l’assunzione di un impegno) e un atto perlocutorio (da per + locutorio, l’atto cioè che compio col dire quella

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frase, l’azione sul mio interlocutore, che può avere determinati effetti: in questo caso, spaventarlo, rallegrarlo, rassicurarlo ecc.). Boni Federico 2007 Sociologia della comunicazione interpersonale, Laterza, Roma-Bari (da questo stesso studio è tratto liberamente il confronto Austin - Wittgenstein sopra richiamato, in 2.1.) 2.2.4. centralità degli enunciati illocutori: « Con l’enunciato performativo, noi prestiamo la massima attenzione alla forza illocutoria dell’enunciato, e facciamo astrazione dalla dimensione della corrispondenza ai fatti. […] Ma la vera conclusione deve certamente essere che per noi è necessario a) distinguere tra atti locutori e illocutori, e b) specialmente, e in modo critico, stabilire in relazione ad ogni genere di atto illocutorio — avvertimenti, valutazioni, verdetti, asserzioni, e descrizioni — in quale modo specifico (se ve n’è uno) si intende che essi siano, in primo luogo a proposito o fuori luogo, e secondariamente, « giusti » o « sbagliati »; quali termini di valutazione vengono usati per ogni atto e cosa significano. Questo è un campo di ricerca molto vasto e certamente non porterà ad una semplice distinzione tra « vero » e « falso »; e non porterà neppure ad una distinzione tra le asserzioni e gli altri atti, poiché asserire è soltanto uno dei numerosissimi atti linguistici che appartengono alla classe degli atti illocutori. […] Distinguo cinque classi molto generali: ma sono lungi dall’essere ugualmente soddisfatto di tutte. Comunque, sono sufficienti per fare il diavolo a quattro con due feticci con cui ammetto di essere incline a farlo, cioè 1) il feticcio vero/falso, 2) il feticcio valore/fatto. Chiamo quindi queste classi di enunciato, classificate secondo la loro forza illocutoria, con i seguenti nomi più o meno sgradevoli: 1) Verdettivi. 2) Esercitivi. 3) Commissivi. 4) Comportativi (questo è terribile). 5) Espositivi. […] Per ricapitolare, possiamo dire che il verdettivo è un esercizio del giudizio, l’esercitivo è un’affermazione di influenza o un esercizio di potere, il commissivo è un’assunzione di un obbligo o dichiarazione di un’intenzione, il comportativo è l’adozione di un atteggiamento, e l’espositivo è la chiarificazione di ragioni, argomenti, e comunicazioni». (Austin J.L. 1962, 1975, Come fare cose con le parole. 106-111, 119) 2.2.4.1. Per un dibattito in ripresa e rilancio, che conclude con una «Una tassonomia alternativa: Rappresentativi Direttivi Commissivi Espressivi Dichiarazioni» con percorso di motivazione: Sbisà Marina (a cura di) (1993), Gli atti linguistici. Aspetti e problemi di filosofia del linguaggio, Feltrinelli, Milano, pp. 180-188) 2.2.4.2. concludi in generale, allo scopo di constatare come la natura performativa e illocutiva del linguaggio costituisca l’aspetto specifico e ampiamente diffuso della parola collocata in un contesto relazionale comunicativo: c’è un motto ricorrente che stigmatizza questa funzione performativa della parola e la illustra almeno per analogia e come prassi quotidiana; si pensi all’espressione «dare la propria parola» «quasi che divenisse un’entità deificata, e pronunciandola la si ponesse per così dire al di fuori del proprio controllo per collocarla sotto il dominio di potenze sacrali e/o della società» (Ortoleva Peppino 2009 Il secolo dei media. Riti, abitudini, mitologie, il Saggiatore, Milano p. 135) Richiami in forma di riepilogo (la teoria di Austin richiamata e applicata all’“atto linguistico” del giurare): «Secondo una nota teoria linguistica, il cui iniziatore è stato John Langshaw Austin, i comportamenti verbali possono essere letti non solo per il loro significato ma anche per le loro implicazioni pragmatiche, in termini di relazioni e di effetti concreti: si parla quindi di speech act o atto linguistico come terreno di confine tra l’universo del senso e quello dell’agire, tra la semiosfera e la sfera delle cose e delle relazioni personali. Da questo punto di vista, il giuramento è sicuramente uno speech act, e può

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essere fatto rientrare (a seconda del suo contenuto) nell’una o nell’altra delle varie categorie individuate da Austin e successivamente rielaborate da John Searle e altri studiosi: in particolare possiamo parlare di un giuramento «veridittivo» quando l’impegno è appunto a comunicare informazioni vere o che il giurante ritiene tali; di uno «commissivo» quando ci si vincola ad azioni future, come accade in molti giuramenti solenni, professionali, militari e simili. Che sono poi esattamente le due categorie richiamate prima: assertorio e promissorio». (Ortoleva Peppino 2009 Il secolo dei media. Riti, abitudini, mitologie, il Saggiatore, Milano p. 140) (una presentazione generale nel suo risvolto pratico in contesto) «Ma che cos’è la teoria degli atti linguistici? In breve, la teoria degli atti linguistici critica l’idea che il linguaggio sia soltanto un veicolo di trasmissione di informazione, un congegno utile unicamente per realizzare descrizioni o comunicare rappresentazioni del mondo. Tale concezione riduttiva è stata a lungo diffusa nelle scienze sociali ed è responsabile di quella clamorosa “messa tra parentesi”, all’interno delle interpretazioni sociologiche e filosofiche più influenti, di un fenomeno tanto pervasivo e onnipresente come il linguaggio. L’intuizione geniale di Austin e Searle è che il linguaggio è anche un modo di agire, cioè un mezzo con cui si possono compiere delle azioni, facendo così saltare la distinzione, implicita e indiscussa in buona parte del pensiero sociale moderno, tra linguaggio e azione. Un enunciato non è soltanto un insieme di parole connesse tra loro attraverso alcune regole grammaticali, ma può anche costituire un’azione sociale. in questo modo, il problema del linguaggio non è più semplicemente quello del suo significato (problema della produzione del significato), ma diventa quello di individuare l’azione che viene compiuta. Lungo questa direzione, il contributo originale di Searle è stato quello di provare a sistematizzare, attraverso una tassonomia rigorosa, i tipi di azione che possono essere compiuti attraverso il linguaggio. In netta antitesi con l’altro grande filosofo del linguaggio del Novecento, Ludwig Wittgenstein, nel suo primo libro (Speech Acts del 1969) Searle sostiene che le azioni che possono essere compiute con il linguaggio costituiscono un numero limitato, quindi è possibile riassumerle in una tabella generale. Quest’opera di sistematizzazione ha rappresentato il completamento delle originarie intuizioni di Austin, oltre che un modo con cui si sono risolte alcune delle aporie presenti nei primissimi tentativi di tipizzazione avanzati dal filosofo inglese. Come è noto, la tipologia di Searle distingue gli atti linguistici in assertivi (asserire, sostenere, obiettare...), direttivi (chiedere, dire, domandare...), espressivi (scusarsi, ringraziare, vantarsi...), dichiarativi (dichiarare, nominare, approvare...), commissivi (promettere, minacciare, giurare...). Al pari di Austin, Searle ritiene che la forza illocutiva di un enunciato, cioè la sua capacità di compiere un’azione, dipenda dalle circostanze sociali in cui viene prodotto. Dato che un atto linguistico non è tanto un’affermazione sul mondo quanto un’azione, la sua validità non dipende dalle “condizioni di verità”, e cioè dal suo valore-verità, quanto dalle “condizioni di felicità”, che costituiscono quella serie di condizioni che devono essere soddisfatte per compiere con successo un atto linguistico. Da ciò discende immediatamente il problema di come si riconosce la specifica azione compiuta dall’enunciato. Per Searle, una prima indicazione è offerta dall’individuazione del verbo performativo che viene usato — come negli enunciati “mi dimetto” o “ti accuso”. Spesso non è pero tanto facile per i destinatari degli enunciati capire quale tipo di azione è stata realizzata dal parlante. In molti casi non viene neanche impiegato un verbo performativo, ma questo non significa che non ci troviamo di fronte a un atto linguistico, cioè a un’azione compiuta attraverso un enunciato: non sempre, infatti, le minacce si presentano sotto forma di “io ti minaccio di...”. Per questa ragione, se ci si attiene al solo significato letterale dei singoli enunciati, diventa veramente difficile stabilire quale azione venga realizzata». (dalla Prefazione di Enrico Caniglia e Andrea Spreafico alla breve opera (intervento) Searle R. John, 1995, Occidente e multiculturalismo, il Sole 24 Ore, Milano, 2008) 2.3. Note tematiche a commento delle direzioni aperte dalla proposta di Austin (dalla Introduzione all’opera di Austin 1962, FCP, di Carlo Penco e Marina Sbisà)

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2.3.1. Verità e felicità: due diversi (non separati) criteri di validità e comprensione. Cade dunque il privilegio dato dai filosofi all’asserzione; questa non è che una delle diverse forme di atto illocutorio, accanto a valutazione, domanda, ordine, promessa, ecc. Ma l’asserzione è anche - per tradizione - l’uso del linguaggio che riguarda il vero e il falso. Cade forse dunque anche il privilegio dato al concetto di verità? È difficile dare una risposta univoca. Sul tema della verità Austin aveva scritto un articolo (Truth, 1950) che è stato al centro di una polemica con Strawson. Qui ci interessa mettere in evidenza tre aspetti particolarmente rilevanti come retroterra di FCP: a) Contro l’idea che la verità sia una proprietà delle credenze o delle espressioni linguistiche (parole o frasi), Austin sostiene che ciò cui si attribuisce verità è l’asserzione (la quale si differenzia dalla frase, o dalla credenza, proprio perché è quello che poi Austin chiamerà un concreto atto linguistico eseguito in un contesto). In questo senso il saggio Truth dà un contributo indiretto ma centrale alla formazione delle idee poi esposte in FCP. b) Per Austin il principio di bivalenza — cioè il principio della logica per cui ogni proposizione deve essere vera o falsa — « ha operato troppo a lungo come la forma più semplice e pervasiva della fallacia descrittiva» (Truth, p. 131). Questo principio non ha quella validità assoluta che i logici e i filosofi del linguaggio gli hanno sempre attribuito: da una parte (è il punto di partenza di FCP, Lezione I), abbiamo asserzioni « mascherate » che non descrivono alcunché e di cui non si direbbe che sono vere o false; dall’altra (è la conclusione di FCP, Lezione XI) comunque qualsiasi asserzione non va definita esclusivamente per la sua relazione al vero o al falso, ma anche in relazione allo scopo e alle intenzioni del parlante, alla posizione in cui la si può fare, al tipo di impegno che farla comporta, ecc.; queste caratteristiche hanno a che fare non tanto con la verità, ma con la felicità, o buona riuscita, di un atto illocutorio. Inoltre, se si applica il principio per cui occorre sempre «considerare la situazione linguistica nella sua totalità» (FCP, p. 101 [138]), nella vita reale, in opposizione alle situazioni semplificate della teoria logica, non si può sempre rispondere in modo semplice alla questione se un’asserzione è vera o falsa. Potrebbe trattarsi ad esempio di un’asserzione approssimativa o esagerata. Circostanze, uditorio e scopi dell’enunciazione concorrono così non solo a determinare la felicità dell’asserzione, ma anche la sua posizione in quella dimensione di giudizio che ha per poli estremi il vero e il falso (Truth, par. 5 e 6; FCP, pp. 104 [143] ss.). c) Austin, da buon aristotelico, difende una teoria corrispondentista della verità; ma riconosce chiaramente che dire che un’asserzione è vera quando « corrisponde ai fatti » è fuorviante, e porta a posizioni criticabili, come quella mai citata esplicitamente del Tractatus di Wittgenstein. La teoria corrispondentista rende però giustizia all’idea che « it takes two to make a truth », cioè che parliamo sempre di qualcosa (Truth, p. 124 n.). Come dunque salvarla? Austin contribuisce con due idee. Da una parte, mostra come la corrispondenza del linguaggio ai fatti è una questione più generale di quel che riguarda il solo discorso assertivo: come un’asserzione è vera o falsa, così un verdetto è equo o iniquo, un consiglio buono o cattivo, un rimprovero meritato o non meritato (cfr. FCP, pp. 34 [41] s.). Dall’altra parte, mostra come non si può parlare di mera corrispondenza a « fatti », ma è più corretto parlare di convenzioni che fanno corrispondere le frasi a tipi di situazione e le asserzioni a situazioni storiche; queste convenzioni rispondono al duplice scopo descrittivo e indicale (dimostrativo) delle espressioni linguistiche. Austin conclude che « un’asserzione è detta vera quando lo stato di cose storico cui è correlata dalle convenzioni dimostrative (quello a cui « si riferisce ») è di un tipo con cui la frase usata nel farlo è correlata dalle convenzioni descrittive» (Truth, par. 3, pp. 121-22). 2.3.2. La presupposizione, l’implicito, il non detto è contesto e condizione di validità e comprensione (“felicità”) degli enunciati per la loro efficacia performativa; condizione perché si realizzi la sua natura pratica. 2.3.2.1. La questione verte sul “Detto non detto”, sulle “forme della comunicazione implicita”, l’insieme di quegli impliciti la cui verità viene data per scontata da chi accetta come appropriato il proferimento di un certo enunciato

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(le riflessioni che seguono sono tratte, con libertà, da Marina Sbisà, Detto non detto. Le forme della comunicazione implicita. ed. Laterza, Roma- Bari 2007) Il tema della comunicazione implicita esamina i presupposti e i sottintesi che si accompagnano a quanto viene comunicato esplicitamente e che insieme ad esso vengono, silenziosamente, trasmessi. Non si tratta di una questione marginale rispetto a quella, generale, della comunicazione. Presupposti e sottintesi sono dappertutto. Contribuiscono in modo determinante al senso delle nostre comunicazioni linguistiche o, più precisamente, dei testi. Sono ineliminabili. Non è possibile suggerire modi per liberarcene, ma modi per accettare il loro gioco e imparare a padroneggiarli, scoprire la loro utilità e importanza per la comprensione di testi e, indirettamente, per qualsiasi attività cui la comprensione di testi sia funzionale. È sempre difficile soffermare la propria attenzione sull’implicito, perché l’implicito in quanto tale è predisposto proprio per non essere messo a fuoco e, per lo più, deve la sua efficacia alla sua capacità di restare consegnato all’area dell’implicito, del non detto ma presupposto. L’esplicito è la punta di un iceberg, non lo possiamo gestire senza tener conto in qualche modo della base, della vasta mole sottomarina. Né è una soluzione praticabile quella di rendere esplicito tutto. 2.3.2.2. J. Austin (in Come fare cose con le parole, 1962, sviluppando alcuni spunti di P.F. Strawson; tradizione rielaborata da J.R. Searle, Atti linguistici, 1969) esprime la convinzione che parlare comporti, in linea di principio, usare il linguaggio per compiere azioni di tipi socialmente previsti, regolate da convinzioni spesso tacite; l’analisi non è studio di enunciati e del loro significato ma di atti linguistici e delle condizioni di successo (“condizioni di felicità”); questo è il nuovo contesto di studio delle presupposizione e del loro ruolo comunicativo. Era convinzione di Austin, espressa e argomentata in How to do things with words, che parlare comporti, in linea di principio, usare il linguaggio per compiere azioni di tipi socialmente previsti, regolate da convenzioni spesso tacite, e che questo valga per enunciati di tutti i tipi, non solo per quelli che costituiscono azioni convenzionali nel modo più eclatante, come il «Sì» del matrimonio oppure la nomina a una carica o onorificenza, oppure i rituali interpersonali come le scuse, i ringraziamenti, i saluti. Soprattutto, Austin giunge alla conclusione che gli enunciati dichiarativi non fanno eccezione, neppure quando li usiamo semplicemente per fare affermazioni. Le convenzioni a cui pensa Austin includono «condizioni di felicità», cioè condizioni che devono essere soddisfatte dal contesto (le circostanze del proferimento, inclusi il parlante e il ricevente) perché l’atto linguistico possa dirsi riuscito e avere un suo effetto anch’esso convenzionale. Per esempio, ci vuole che io sia la madrina designata se devo battezzare la nave e con ciò far sì che «Queen Elizabeth» sia il suo vero nome. Ma anche, ci vuole che io abbia un’autorità riconosciuta per poter dare un ordine ad altre persone, in modo che queste siano tenute a eseguirlo. O bisogna che io ti abbia pestato un piede perché io debba (e con ciò possa) scusarmi con te per averlo fatto. 2.3.2.3. la presupposizione è intesa come un fatto essenzialmente pragmatico e la sua analisi si trasferisce in un nuovo contesto: si colloca all’interno della relazione tra i segni e i loro utenti; la presupposizione come credenza o conoscenza del parlante, condivisa dall’interlocutore o creduta tale (C. Morris, P. Grice). Diventa quindi secondario il problema della sua verità; l’interesse degli studiosi si sposta dall’atto linguistico e dalla sua relazione con la situazione d’uso (“condizioni di felicità”) alla soggettività del parlante con il suo patrimonio di conoscenze e di credenze, con il suo modo d’uso degli strumenti comunicativi (elementi lessicali, costruzioni sintattiche, profili intonativi) e alla condivisione delle presupposizioni tra i parlanti, in quanto, solo se condivise, costituiscono il contesto cognitivo che rende possibile il successo della comunicazione (nuove “condizioni di felicità”). La presupposizione più che precedente logico è contesto di intesa. (Sullo stesso tema le note di Goffman Ervin, 1983, Le condizioni di felicità, Mimesis edizioni, Milano 2015) 2.3.2.4. Il tema o la valenza della “felicità” finisce per configurarsi come criterio generale, esteso anche agli ambiti dove, per convinzione diffusa, sembra affermarsi un criterio di validità dell’enunciato sulla base della verità o della corrispondenza al reale (presupposto questo che è minato da numerose e ormai evidenti incongruenze, come deriva dalle analisi del filosofo Richard

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Rorty); il criterio della “felicità” è comprensivo del criterio di verità; quest’ultimo infatti ha bisogno di essere definito nei requisiti e fini che lo rendono possibile. Osserva Nelson Goodman, nella sua estesa indagine sulle forme simboliche e la loro operatività nei diversi ambiti culturali, scientifici e artistici: «Con tutte queste teorie e tutte queste descrizioni non riconciliate e addirittura inconciliabili, il cui carattere di alternative ammissibili è stato pienamente riconosciuto, le nostre concezioni sulla verità chiedono di essere in qualche modo riesaminate. E con la nostra concezione del fabbricare mondi che si estende ben oltre il piano teorico e descrittivo, ben oltre le asserzioni e il linguaggio, e anche ben oltre il piano della denotazione, fino a includere versioni e visioni non solo letterali ma anche metaforiche, non solo verbali ma anche pittoriche e musicali, che non solo realizzano funzioni descrittive e raffigurative ma anche funzioni esemplificative ed espressive, la distinzione tra vero e falso è ben difficilmente in grado di coprire la distinzione generale tra versioni corrette e versioni sbagliate. […] Come abbiamo osservato in precedenza, anche dove non c'è conflitto la verità si rivela tutt'altro che sufficiente. Alcune verità sono banali, irrilevanti, incomprensibili, ridondanti; troppo ampie, troppo ristrette, troppo noiose, troppo bizzarre, troppo complicate; o prese da qualche altra versione e non da quella in cui lavoriamo … […] La maggior parte delle leggi scientifiche sono proprio così: non resoconti diligenti e dettagliati ma drastiche, e radicali, semplificazioni. […] Quel che conta è che le approssimazioni vengano preferite a quelle che possono essere considerate verità o verità più esatte. […] Dopo tutto, dobbiamo ben usare dei criteri per giudicare le verità; e aspetti come l'utilità e la coerenza sono candidati più che autorevoli. […] E neppure occorre che siamo in grado di spiegare perché l'utilità o la coerenza, o qualche altra caratteristica, siano indicatori della verità. […] Che l'utilità, a differenza della verità, sia una questione di grado può forse trovare risposta nel considerarla una misura di approssimazione alla verità piuttosto che un criterio vero e proprio di verità. Che l'utilità, a differenza della verità, sia relativa a uno scopo potrebbe sembrare una difficoltà meno seria se si ammette, come abbiamo fatto nelle pagine precedenti, che la verità è relativa e non assoluta. […]Ma a parte questi problemi, un'asserzione è vera, e una descrizione o una rappresentazione è corretta, per un mondo cui si adatta. E una versione di finzione, sia verbale che pittorica, se costruita metaforicamente può adattarsi a, ed essere corretta per, un certo mondo. Invece che tentare di sussumere sotto la verità la correttezza descrittiva e rappresentazionale, penso sarà meglio sussumere la verità insieme a queste altre nozioni sotto quella generale di correttezza di adattamento. Questo ci conduce, prima ancora di esaminare la natura e i criteri di un adattamento corretto, a versioni che non sono asserzioni, descrizioni o rappresentazioni né fattuali né di finzione. [in nota] Chi legge le pagine precedenti si renderà conto che nessuna di esse implica che esiste un mondo bello e pronto in attesa di essere descritto o rappresentato, o che tanto le versioni sbagliate, quanto quelle corrette fabbricano mondi ai quali si adattano». (Goodman Nelson 1978, Vedere e costruire il mondo, Laterza, Roma-Bari 1988, 127, 140, 141, 142, 143, 154, 178) 3. Direzioni della filosofia analitica linguistica (della filosofia del ‘900) dopo Austin Filosofia e teoria del linguaggio (dalla Introduzione all’opera di Austin 1962, FCP, di Carlo Penco e Marina Sbisà) «Come abbiamo a più riprese avuto occasione di vedere, il lavoro di Austin ha dato un grande numero di contributi alla teoria del linguaggio, sia offrendo temi e spunti all’elaborazione dei logici, sia fornendo strumenti concettuali alla linguistica, soprattutto nell’area della pragmatica. Ma che relazione ha questo lavoro con la filosofia? Si tratta della nascita di un nuovo pianeta-scienza dal vecchio grande sole filosofico, come Austin preannuncia altrove? Al ruolo di filosofo, egli ha forse ormai rinunciato? Si rilegga l’ultima pagina del libro: Austin non propone una teoria filosofica; propone un programma di lavoro di teoria del linguaggio; e lo offre ai lettori perché lo usino, per il piacere [fun] della filosofia.

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E, in effetti, in FCP troviamo un autore che, spesso tra le righe, si diverte moltissimo a criticare certe abitudini intellettuali: la costruzione di dicotomie, il vizio del riduzionismo o gli stereotipi filosofici consolidati. Così vediamo Austin mettere in discussione e ristrutturare radicalmente una dicotomia dire/fare che non è altro che la reincarnazione della dualità teoria/prassi; protestare contro l’uso indiscriminato della dicotomia vero/falso; affermare che vuole fare il diavolo a quattro con la dicotomia fatto/valore. Non è dire poco. Si tratta di categorie fondamentali della cultura occidentale. Fino a che punto va preso sul serio tutto ciò? Forse non va preso sul serio perché la serietà della filosofia non era spirito di Austin? Ma proporre la filosofia come piacere e come gioco impedisce forse di prenderla sul serio? Non giocano forse molto seriamente i bambini? Austin mette in gioco i presupposti della propria cultura; ma di questa cultura accetta le regole: la pratica dell’argomentazione filosofica e la ricerca della verità. La sua è una scommessa di chi vuole criticare una tradizione dall’interno. Ma allora perché Austin non sviluppò i suoi discorsi in modo più esplicito, in una teoria filosofica, etica o epistemologica? In un appunto datato ottobre 1951 leggiamo: « sempre stato consapevole che [FCP] avrebbe avuto ripercussioni in filosofia (...) so benissimo che ha ripercussioni in etica e epistemologia, ma lo tengo sotto silenzio [keeping that dark] ». Sviluppare simili discorsi avrebbe comportato una sorta di profondità che Austin rifiutava: dotato semmai di quella « profondità della superficie », che Nietzsche attribuiva ai Greci, Austin, formatosi sui testi classici, ha trovato nella superficie del linguaggio il suo luogo filosofico. E non è del tutto falso dire che FCP è un’opera di filosofia teoretica travestita strategicamente da ricerca linguistica. In questa ambiguità essa rimane un enfant terrible della filosofia del ‘900: con tutte le potenzialità di un’infanzia. (dalla Introduzione all’opera di Austin 1962, FCP, di Carlo Penco e Marina Sbisà) Spunti di bilancio su metodi problemi direzioni della filosofia a partire dall’analisi di Austin con riferimento al progetto generale della filosofia analitica del ‘900 (o, semplicemente, della filosofia). Il mare di vasti e annosi quesiti: distinzione e relazione tra logica e linguaggio; pensiero e linguaggio; ragione e linguaggio; linguaggio formale e linguaggio quotidiano; definizione e uso del linguaggio; neuroscienze e linguaggio; tradizione linguistica e linguaggi personali … diventano il campo di attenzione e di lavoro della filosofia linguistica contemporanea di carattere analitico prima che metodico, teoretico e sistematico; ma questo campo, per i temi incontrati, si rivela essere il campo di lavoro della filosofia fin dal suo sorgere storico. La filosofia analitica lo riprende in considerazione senza assumersi la pretesa o l’enorme fardello di chiamare in giudizio ciò che la storia della filosofia ha fin qui detto, ben conoscendone tuttavia le specifiche tesi e muovendosi in esse come campo di articolazione riflessiva delle proprie osservazioni e proposte. «Fino ai tempi recenti, è stato un caposaldo della filosofia analitica, nelle sue varie manifestazioni, l’assunto che l’analisi del pensiero possa essere affrontata solo attraverso la filosofia del linguaggio. In altre parole, non può esservi una spiegazione di che cosa sia un pensiero, indipendentemente dai mezzi espressivi impiegati; ma l’obiettivo della filosofia del pensiero può essere conseguito da una spiegazione di ciò che fa sì che le parole di una lingua abbiano i significati che hanno, una spiegazione che non faccia appello all’antecedente concezione dei pensieri che questi enunciati esprimono. Resta il fatto che essi significano ciò che significano solo grazie all’uso che ne facciamo. Per attingere un’intelligenza completa, per pervenire a una visione sinottica del modo in cui funzionano, dobbiamo esaminare molto attentamente le nostre pratiche linguistiche, così da acquistare innanzi tutto consapevolezza di quel che esattamente sono, avendo però come intento finale quello di pervenire a una descrizione sistematica.» (Dummett Michael, La base logica della metafisica, il Mulino, Bologna 1996) 3.1. perché la filosofia contemporanea è filosofia analitica: risposte in evoluzione. 3.1.1 Tutta la filosofia è analitica? l’analisi linguistica esaurisce tutto il lavoro filosofico? lo è almeno prioritariamente (il resto è metafisica o filosofia “idealista”): J.L. Austin. È analisi

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(filosofica non psicologica) dei fatti linguistici, sempre con compiti “dissolutivi”o euristici (i discepoli di Austin: Paul Grice, John Searle), in tale contesto / proposito la filosofia analitica si dispone in procedure definite. In breve scheda sul tema, la posizione di tre pensatori analitici contemporanei: 3.1.1.1. Ernst Tuggendhat: la lunga indagine filosofica sul senso dell’essere (ontologia, da Aristotele a Heidegger), come l’esplorazione dell’a priori soprattutto in forma trascendentale (da Platone a Kant a Husserl) trovano impostazione e rilancio nella nozione di analisi linguistica: il linguaggio è quell’a priori che dà forma alla realtà e costituisce gli oggetti. In questo senso l’idea di filosofia come analisi linguistica raccoglie e porta a un ultimo appropriato sviluppo l’eredità storica dell’ontologia classica, e quella della filosofia trascendentale kantiana. 3.1.1.2. Michael Dummett: riallaccia la problematica della filosofia linguistica non alla questione dell’essere ma a quella del pensiero (per pensiero Dummett intende non il processo psicologico del pensare, ma il “significato” condiviso); la comprensione filosofica del pensiero si consegue attraverso la “spiegazione filosofica del linguaggio”, e solo in tal modo; linguaggio e pensiero sono rispettivamente lo strumento e l’oggetto del lavoro analitico. 3.1.1.3. Richard Rorty: la filosofia analitica si identifica con la filosofia linguistica, ossia, nella sua definizione: “la concezione secondo cui i problemi filosofici sono problemi che possono essere risolti (o dissolti) o riformando il linguaggio, o ampliando la conoscenza del linguaggio che abbiamo”. Anche quando la filosofia analitica si presenta nella versione costruzionista (che ritiene necessario costruire una qualche teoria linguistica, e valutare in base ad essa il linguaggio filosofico, scientifico o la lingua comune, e ciò “equivarrebbe a un ritorno alla grande tradizione della filosofia come costruttrice-di-sistemi”) “i sistemi costruiti non sarebbero più considerati descrizioni della natura delle cose o della coscienza umana, ma piuttosto proposte relative a come parlarne”. 3.1.2. accostando i primi progetti e le ultime scelte operative del ‘900 si coglie un’evoluzione: 3.1.2.1. da una filosofia analitica (fino agli anni quaranta) intesa come programma di una filosofia “rigorosa”, “scientifica”, che faccia riferimento alla logica (per quel che riguarda “le questioni di senso”) e alle scienze empiriche (per quel che riguarda “le questioni di fatto”) e segua un metodo argomentativo rigoroso, fissato in base a stipulazioni esplicite (qui: B. Russell, i teorici neopositivisti come da Manifesto del Circolo di Vienna del 1929, con rigorosa esclusione di ciò che si configura come individuale [in questo contesto nasce la contrapposizione tra “analitici” e “continentali” (meglio “filosofia analitica” e “filosofia ermeneutica”), questi ultimi a dominante impostazione esistenziale, fenomenologica, ermeneutica]), 3.1.2.2. a una filosofia analitica (negli anni quaranta – sessanta) in cui ha il sopravvento una visione del linguaggio come insieme di “atti” linguistici, per lo più determinati in base a stipulazioni e convenzioni inesplicite, di origine antropologico-sociale, 3.1.3.3. a una filosofia analitica (intorno alla metà degli anni settanta) in cui le questioni di “pensiero”, di “cognizione” (credenze, desideri, competenze del parlante ecc.) vengono considerate prioritarie rispetto alla questioni linguistiche, e anzi funzionali per una qualsivoglia indagine sul linguaggio stesso; qui è universalmente condivisa la disillusione circa le pretese di rigore e di scientificità “filosofica” rivendicata dall’analisi linguistica dei primi analitici. 3.2. il bivio e le due direzioni della filosofia analitica le loro ragioni - analitica del linguaggio ideale: costruzione (costruzionisti); - analitica del linguaggio comune (o naturale, o ordinario): descrizione (descrizionisti); (note tratte liberamente da: Franca D’Agostini, Filosofia analitica, ed. Paravia, Torino 1997 sul confronto: Austin, Dummett, Strawson, Rorty) Un comune contesto e intento, due direzioni di ricerca con difficoltà di incontro (dibattito Strawson e Rorty), un bilancio con intenti di costruire relazioni tra le due impostazioni. 3.2.01. Dispongono di un comune ingresso storico progressivo a tappe: 1. dall’analisi del mondo, all’analisi del pensiero del mondo, da analisi del linguaggio-mondo, all’analisi dell’uso del

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linguaggio nelle diverse situazioni; 2. dalla critica trascendentale (pura) delle facoltà (Kant), alla fenomenologia trascendentale della coscienza (Husserl), alla critica trascendentale del linguaggio (Wittgenstein 1° del Tractatus logico-philosophicus), alla fenomenologia del linguaggio nelle comunicazioni intersoggettive (Wittgenstein 2° delle Ricerche filosofiche). 3.2.02. Inseguono un comune obiettivo: le due tradizioni hanno in comune il linguaggio come contesto di chiarificazione dei pensieri, dei problemi filosofici, e la dissoluzione di impostazioni filosofiche metafisiche e idealistiche considerate fonte di problemi privi di soluzione (e quindi, come afferma Wittgenstein) di non problemi: “Sottoposte a tanta raffinata acribia linguistica concreta, molte teorizzazioni filosofiche tradizionali cominciarono ad apparire straordinariamente approssimative, quasi un complesso di vasti, ingenui fraintendimenti: ed era, si può ben pensare, estremamente esilarante veder sgretolarsi o addirittura crollare quelle immense ed imponenti cattedrali del pensiero al suono di questa musica così discreta. Ma c'era dell'altro, qualcosa di ben più positivo: il senso della scoperta, l'avvertimento profondo della tessitura raffinata, ricca, vibrante del nostro pensare in atto, dell'attuarsi del nostro bagaglio concettuale e linguistico.” (Magee: Strawson, autoritratto) 3.2.1. I filosofi del Linguaggio Ideale [costruzionista verbale] La chiarificazione linguistica ottenuta dal costruzionista attraverso il linguaggio ideale rende inutile l’analisi del linguaggio ordinario: si sa che questo contiene imperfezioni e insignificanze, queste non vanno chiarificate (è inutile), ma rimosse e sostituite; “Frege considerava la notazione [logica] non tanto come un mezzo per analizzare la lingua così com'è, quanto piuttosto come uno strumento idoneo a sostituirla attraverso un simbolismo opportuno in cui condurre il ragionamento deduttivo rigoroso, e insisteva sul fatto di non avere fornito meramente uno strumento per rappresentare i pensieri, bensì un linguaggio in cui potevano essere espressi. Esso si è dimostrato idoneo a questo scopo. Oggi i matematici usano la notazione logica come qualcosa di ovvio e scontato per dare espressione più perspicua alle proposizioni, benché il loro modo di ragionare resti quello informale di sempre.” (Dummett). 3.2.2. I filosofi del Linguaggio Ordinario [analista verbale] La chiarificazione dei linguaggi naturali (ordinari, quotidiani, quelli non costruiti a partire da processi formali), svolta allo scopo di dissolvere “modalità elusive, ingannevoli”, anche se ottenuta con il ricorso al linguaggio “costruito”, presuppone la conoscenza dei modi in cui i concetti sono costruiti nel linguaggio ordinario, ma tale conoscenza è già la risoluzione (la chiarificazione) dei problemi linguistici. Non si esercita qui, dunque, una attenzione analitica a partire dal presupposto della capacità significativa propria del linguaggio quotidiano. Queste osservazioni segnalano l’impossibilità o l’inutilità dell’incontro, nella filosofia analitica (magari con la identica funzione terapeutica), tra linguaggio ideale e linguaggio comune. L'argomentazione centrale di Strawson suona così: «La pretesa di chiarificazione avanzata dal costruzionista sembrerà vuota a meno che i risultati ottenuti abbiano una qualche presa sulle difficoltà e i problemi filosofici tipici che insorgono a proposito dei concetti da chiarificare. Ora (si ammetterà) questi problemi e difficoltà affondano le loro radici in concetti ordinari, non-costruiti, nelle modalità elusive, ingannevoli in cui funzionano le espressioni linguistiche non formalizzate... Se la modalità chiara di funzionamento dei concetti costruiti deve gettar luce sui problemi e sulle difficoltà radicate nella modalità non chiara di funzionamento dei concetti non costruiti, allora ciò che deve essere mostrato chiaramente sono precisamente i modi in cui i concetti costruiti sono connessi a, e si allontanano da, i concetti non costruiti. E come si può ottenere questo risultato senza descrivere accuratamente le modalità di funzionamento dei concetti non costruiti? Ma questo compito è precisamente il compito di descrivere il comportamento logico delle espressioni linguistiche dei linguaggi naturali; esso potrebbe fornire da sé la risoluzione, di cui si andava in cerca, dei problemi e delle difficoltà radicate nella modalità elusiva, ingannevole del funzionamento di concetti non costruiti.» A questo tipo di argomentazione il costruzionista può replicare in due modi ovvii: 1) Se si sa che parlare in un certo modo conduce a certi problemi, e si dispone di un modo di parlare alternativo che non conduce a certi problemi, che importa esaminare il «comportamento logico» implicato nel

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primo modo di parlare? La funzione di un Linguaggio Ideale non è di chiarire concetti ordinari, ma di sostituirli. 2) «Descrivere il comportamento logico delle espressioni linguistiche del linguaggio naturale» potrebbe produrre «da sé» il risultato sperato, ma solo la pratica lo dimostrerà, e finora tutto fa pensare che ciò non avvenga» (Rorty). 3.2.3. Un incontro? In realtà, si afferma che «Non è facile vedere chiaramente perché debba esistere una controversia tra i filosofi del Linguaggio Ideale e i filosofi del Linguaggio Ordinario, e difatti sono molti i filosofi che la considerano artificiosa. (Così troviamo l'osservazione di Goodman, approvata da Carnap, secondo cui il filosofo «costruzionista» - un filosofo che costruisce un Linguaggio Ideale [...]- «guarda all'analista verbale come a un alleato apprezzato e rispettato, benché inspiegabilmente ostile») (Rorty). La via di risoluzione può essere consegnata alla tesi della autonomia e valore delle due direzioni: 3.2.3.1. l’analitica costruzionista del linguaggio ideale propone (più di) un modello. “Ciò equivarrebbe a un ritorno alla grande tradizione della filosofia come costruttrice-di-sistemi (di mondi): con l'unica differenza che i sistemi costruiti non sarebbero più considerati descrizioni della natura delle cose o della coscienza umana, ma piuttosto proposte relative a come parlare. Con questa mossa si manterrebbe la funzione «creativa» e «costruttiva» della filosofia. I filosofi sarebbero, come tradizionalmente si è pensato che dovesse essere, uomini che forniscono una Weltanschauung o, per usare un'espressione di Sellars, un modo di «capire come le cose, nel senso più ampio possibile del termine, sono interconnesse nel senso più ampio possibile del termine».” (Rorty) Tra gli esponenti della filosofia analitica si cita Nelson Goodman, la sua opera dal titolo Vedere e costruire il mondo si apre con questa affermazione: «Mondi a non finire fabbricati dal nulla con l’uso di simboli […] la molteplicità dei mondi, l’apparenza del ‘dato’, il potere creativo dell’intelligenza, la varietà e la funzione formativa dei simboli sono parte integrante anche del mio modo di vedere» (Goodman Nelson 1978, Vedere e costruire il mondo, Laterza, Roma-Bari 1988, 1). 3.2.3.2 l’analitica descrizionistica del linguaggio ordinario trascende la sua funzione meramente critica, esplora possibilità espressive, scopre condizioni necessarie della possibilità del linguaggio stesso ed evidenzia diversi processi e strategie di argomentazione - comunicazione (Perelman). «Potrebbe darsi che la filosofia linguistica possa trascendere la sua funzione meramente critica trasformandosi in un'attività che, invece di inferire da fatti relativi al comportamento linguistico alla dissoluzione dei problemi tradizionali, scopre condizioni necessarie della possibilità del linguaggio stesso (in un modo analogo a quello in cui Kant ha, a quanto si dice, scoperto le condizioni necessarie della possibilità dell'esperienza). Un tale sviluppo è tracciato da Strawson, quando afferma che lo scopo della «metafisica descrittiva» è di mostrare «in che modo le categorie fondamentali del nostro pensiero siano connesse, e in che modo si riferiscano, a loro volta, a quelle nozioni formali (come esistenza, identità e unità) che attraversano tutte le categorie.» (Rorty) Nell’analitica del linguaggio ordinario la nuova direzione filosofica studia ed evidenzia gli atti del significare; osserva Austin: «Il nostro comune assortimento di parole incorpora tutte le distinzioni che gli uomini hanno considerato meritasse tracciare, e le connessioni che hanno considerato meritasse mettere in evidenza, nella vita di molte generazioni: dato che hanno superato il lungo esame della sopravvivenza del più adatto, queste sicuramente sono probabilmente più numerose e più valide, e più sottili, almeno in tutte le questioni pratiche ordinarie, di qualsiasi altra che voi o io si abbia la possibilità di pensare stando il pomeriggio in poltrona - che è il metodo alternativo di gran lunga preferito.[…] Quando eseguiamo un atto locutorio, usiamo il linguaggio: ma pre-cisamente in che modo lo usiamo in quell'occasione? Vi sono infatti numerosissime funzioni del linguaggio o modi in cui lo usiamo, e fa una gran differenza per il nostro atto in quale modo e in quale senso lo stavamo «usando» in quell'occasione. Fa una gran differenza se stavamo consigliando, o soltanto suggerendo, o effettivamente ordinando, se stavamo promettendo in senso stretto oppure solo annunciando un'intenzione vaga, e così via.» (Austin) [Probabilmente è proprio in questi contesti operativi, così evidenziati, che la filosofia analitica (descrizionista) si apre all’ermeneutica e contribuisce a mettere in dubbio la diffusa e disomogenea

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distinzione / contrapposizione tra “analitici” e “continentali” questi ultimi evidenziati nel contesto della filosofia fenomenologica e ermeneutica della tradizione di Husserl e Heidegger] 3.3. il quadro delle diverse impostazioni di metodo e di obiettivo: forme recenti di filosofia analitica. Le novità introdotte in filosofia dalla scuola inglese sono chiaramente delineate già da uno dei primi storici del movimento analitico, James O. Urmson, espressi in un Convegno sulla filosofia analitica del 1958, pubblicati in G.Gava, R.Piovesan, La filosofia analitica, Liviana, Padova 1972. Il quadro più recente sulle forme attuali della filosofia analitica, qui di seguito fornito, è tratto da D’Agostini Franca 1997 Filosofia analitica. Analizzare, tradurre, interpretare, Paravia, Torino. 3.3.1. L’analisi classica che si propone compiti di chiarificazione. Il pensiero fondamentale dell'analisi classica (che corrisponde, nelle sue linee generali, all’analisi tradizionale della filosofia inglese, che Russell ha tanto contribuito a sviluppare) consiste nel fatto che le proposizioni del linguaggio quotidiano sono corrette, in quanto esse in linea di massima non sono false. Esse non sono assurde né da un punto di vista metafisico né da un punto di vista logico. Ma, si obietterà, queste proposizioni del linguaggio ordinario non sono neppure metafisicamente né logicamente soddisfacenti, in quanto la loro forma nasconde molto spesso il loro vero contenuto. Il compito dell'analista non sarà, dunque, quello di respingere queste proposizioni, ma di riformularle in modo tale che il loro vero contenuto venga chiaramente ed esplicitamente espresso. Analizzare significa riformulare o anche tradurre in termini migliori. 3.3.2. L'analisi delle lingue artificiali che ne utilizza la costruzione. L'analista, per i filosofi di questa tendenza [l'analisi del linguaggio ideale] deve costruire il suo proprio linguaggio ideale, o tutt'al più dei frammenti di questo linguaggio, lo schema d'un linguaggio, la cui forma logica e i concetti siano definiti e chiari. In questo linguaggio artificiale, i procedimenti dell'analisi classica ridiverranno validi. Si disporrà di concetti e di proposizioni-base, a partire dai quali si potrà dedurre tutto il resto, e ai quali si potrà ridurlo. Lo studio di un tale linguaggio, aggiungevano, non è soltanto utile in sé. Se riuscissimo a costruirlo, facendolo per quanto possibile simile alle lingue naturali, quasi di suprema precisione, allora noi potremmo trarre da questo esame tutti i chiarimenti che è lecito sperare, del nostro pensare quotidiano. Questo studio ci renderà comprensibile l'apparato concettuale implicato nei linguaggi naturali, in modo analogo ad uno studio ben realizzato di un architetto che delucidi uno schizzo dai contorni imprecisi. Ecco, dunque, la teoria o, meglio, l'abbozzo di una teoria analitica adatta ai filosofi che costruiscono i linguaggi formali e i calcoli, non solo a titolo di esercizio di pura logica formale, ma in quanto vero e proprio metodo filosofico. Essa prende delle forme molto diverse. La si trova prima di tutto espressa qualche volta in Russell. È anche, sotto un'altra forma, la posizione di Carnap e dei suoi discepoli. È press'a poco la posizione di Nelson Goodman e di Villard Van Orman Quine. Questa teoria è anche molto diffusa negli Stati Uniti, ma non la si accetta molto in Inghilterra. 3.3.3. I giochi linguistici l'analisi che fa perno sul tema dei “giochi linguistici". Una seconda scuola s'ispira, in gran parte, ma non totalmente, al pensiero dell'ultimo Wittgenstein. Wittgenstein e la sua scuola insistono molto sull'eterogeneità dei nostri concetti e delle forme linguistiche usuali. Vi è, dice Wittgenstein, un gran numero di «giuochi linguistici» (language-games, Sprachspiele) le cui regole sono molto diverse; spesso non si saprebbe dire se un concetto è più complesso di un altro, o se ognuno d'essi ha lo stesso grado di complessità, perché le loro funzioni linguistiche sono troppo disparate. Certo, l'analisi classica aveva già riconosciuto una disparità analoga fra i concetti empirici e i concetti della logica; ma questa dicotomia è molto insufficiente. Parlare delle nostre sensazioni, per esempio, è giocare a un giuoco linguistico. Parlare degli oggetti, è giocare ad un altro giuoco, assai diverso; chi vuole ridurre l'uno all'altro, fa come colui che vuol parlare del tennis in termini di calcio.

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Sono le regole a delimitare spazi di senso, ambiti di formulazione e di comprensione di enunciati che siano dotati di senso e di possibile significato. Riprendendo un passo già fornito: «Le regole sono importanti in particolare per creare la separazione del gioco dalla vita ordinaria — avete mai fatto caso a quante discussioni e quanto tempo dedicano i bambini alle regole del gioco? Il mondo temporaneo del gioco ha delle regole per definire lo spazio in cui l’illusione può nascere e fiorire. Il gioco dipende dalle regole e da altri fattori spaziotemporali ma sotto questo profilo possiamo notare la comparsa di un interessante paradosso. Da un lato, l’essenza del gioco è la libertà, la licenza di creare e di allontanarsi dalla vita ordinaria. Eppure, dall’altro, affinché ciò possa avvenire, servono dei limiti, che assumono la forma di regole e altri fattori spaziotemporali. Quindi, con un curioso scarto logico, la libertà si crea soltanto attraverso i limiti.» (Whitty T. Monica, Carr N. Adrian 2006 Incontri@moci. Le relazioni ai tempi di Internet, Erikson, Gardolo Trento, 2008, p. 79) Wittgenstein e molti filosofi inglesi che si schierano in linea di massima con lui, pensano che una gran parte dei problemi della filosofia tradizionale provengono dal fatto che i filosofi hanno troppo misconosciuto questa varietà di funzioni dei concetti, e se ne fanno per conseguenza un'idea errata. Ne consegue che se si applica il metodo di Wittgenstein per la soluzione di un problema filosofico, si corregge una concezione sbagliata delle funzioni del linguaggio anziché acquistarne una concezione approfondita. Per il filosofo che abbraccia questa prospettiva, un problema è piuttosto un enigma da risolvere che una questione che comporta una vera soluzione. Da ciò si vede facilmente che i problemi della filosofia, per l'analista, non derivano dall'ignoranza del contenuto preciso di questo o quel concetto, ma da una concezione completamente falsa della sua funzione, non tenendo conto del carattere più o meno impreciso dei concetti empirici. 3.3.4. L'analisi come esplicitazione dei significati del linguaggio così come è (L’analisi di Oxford) Ma questa filosofia analitica, di cui ho appena offerto un succinto ragguaglio, non è la stessa di quella che credo sia caratteristica della scuola di Oxford, così come essa si è costituita dopo l'ultima guerra mondiale. L'analisi oxoniense e l'analisi wittgensteiniana non sono incompatibili e possono associarsi in un'unica ricerca; ma non bisogna confonderle. Il quarto metodo d'analisi che mi accingo ora a prendere in considerazione, sarà dunque il metodo di Oxford. È evidente che pochi filosofi del gruppo di Oxford darebbero un assenso incondizionato a tutto ciò che ho appena asserito riguardo al metodo di questo gruppo. I filosofi analitici della scuola di Cambridge, Russell e Wittgenstein, per esempio, sono pervenuti alla filosofia dopo una lunga pratica delle scienze e della matematica. È alla filosofia della matematica che Russell ha applicato dapprima la sua analisi classica. Ma i filosofi di Oxford, quasi senza eccezione, affrontano la filosofia dopo uno studio assai approfondito delle lettere classiche. Essi s'interessano dunque spontaneamente delle parole, della sintassi, degli idiotismi. Essi non vorrebbero utilizzare l'analisi linguistica ai soli fini di risolvere i problemi della filosofia, poiché l'esame di una lingua li interessa di per sé. Pertanto questi filosofi sono forse più atti e più portati alle distinzioni linguistiche della maggior parte dei filosofi. Per essi, i linguaggi naturali, che i filosofi hanno l'abitudine di stigmatizzare come impacciati e inadeguati al pensiero, contengono in realtà una ricchezza di concetti e di distinzioni molto sottili che adempiono ad una varietà di funzioni di fronte alle quali i filosofi restano ordinariamente ciechi. Inoltre, poiché questi linguaggi si sono sviluppati per rispondere ai bisogni di coloro che se ne servono, essi ritengono probabile che tali linguaggi non conservino che i concetti utili e le distinzioni sufficienti e che essi siano precisi là dove c'è bisogno di essere precisi e vaghi là dove non c'è bisogno di precisione. Tutti quelli che sanno parlare una lingua hanno senza dubbio un dominio implicito di questi concetti e di queste sfumature. Ma, sempre secondo la scuola di Oxford, i filosofi che si sforzano di descrivere questi concetti e queste distinzioni, o li misconoscono o li semplificano all'estremo. In ogni caso, essi non li hanno esaminati che superficialmente. Le vere ricchezze che racchiudono i linguaggi restano sepolte. [...]. Wittgenstein, si sa, vedeva nel suo metodo l'erede della filosofia tradizionale. L'analisi, come egli la praticava, si confondeva col vero metodo della filosofia; ella doveva quindi prima di tutto aiutarci a

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risolvere i problemi tradizionali. I difensori della scuola di Oxford non hanno pretese così audaci; ma vi è posto, stando a ciò che essi credono, nello stesso seno della filosofia per le imprese più diverse. La loro modestia non arriva fino a far loro ammettere che i loro studi linguistici siano senza importanza alcuna per la filosofia tradizionale. Dedicarsi a una qualunque ricerca filosofica, senza aver messo in luce le risorse concettuali del linguaggio cui ci si riferisce, è di un'audacia folle e il fallimento della maggior parte delle imprese filosofiche non ha altra causa secondo loro. Inoltre, dopo questa analisi molti problemi si dissolvono, come diceva già Wittgenstein, e molti altri si rivelano mal posti. Come ha affermato Austin, se l'analisi non è il termine ultimo (end-all) della filosofia, ne è per lo meno il primo inizio (begin-all). Parte seconda: laboratorio tematico 1. Ambiti di realizzazione della natura performativa del linguaggio Il termine “performativo” indica la capacità di “fare cose con le parole”. Individuare le sedi in cui si manifesta la performatività del linguaggio, e sono numerose (basti pensare sull’aspetto performativo del simbolico negli svariati campi in cui il simbolico compare e opera), diventa indispensabile per cogliere la natura e la logica dello stesso ambito in cui si manifesta la performatività e, in particolare, esaminarne l’efficacia (la “felicità”) espressiva, indicativa e direzionale (cioè la sua natura di atto linguistico locutivo, illocutivo e perlocutivo e la sua potenza). Una situazione come esempio classico ma di carattere socialmente non secondario, proposto da Slavoj Žižek: «Osservando Napoleone a cavallo per le strade di Jena dopo la battaglia del 1807, Hegel commentò dicendo che era stato come vedere lo Spirito del Mondo a cavallo. […] gli individui pensano di trattare una persona come re perché è un re in sé, mentre in realtà egli è un re solo perché lo trattano come tale. Il punto decisivo è però che questa "reificazione" di una relazione sociale in una persona non può essere liquidata come semplice "fraintendimento feticistico"; ciò che una simile liquidazione trascura è qualcosa che può forse essere definito un "performativo hegeliano": certo, un re è "in sé" un misero individuo, e certo, è un re nella misura in cui i suoi sudditi lo trattano come tale; il punto però è che l'"illusione feticistica" che sostiene la nostra venerazione di un re ha in sé una dimensione performativa; l'unità del nostro stato, che il re "incarna", si concretizza solo nella persona del re. Ecco come mai non è sufficiente insistere sull'importanza di evitare la "trappola feticistica" e di distinguere tra la persona contingente di un re e ciò che egli rappresenta: ciò che il re rappresenta si incarna solo nella sua persona, così come l'amore di una coppia (almeno all'interno di una certa prospettiva tradizionale) si incarna solo nella loro prole. E in questi casi non è difficile cogliere l'estrema prossimità del sublime e del ridicolo: nell'esclamare "Guardate laggiù! È lo spirito del mondo a cavallo!" c'è qualcosa di sublime, certo, ma c'è anche qualcosa di intrinsecamente comico... … la commedia si fonda sul gesto di svelamento. Più esattamente, l’effetto comico vero e proprio si produce quando, dopo l’atto di svelamento, ci troviamo di fronte al ridicolo e alla nullità del contenuto svelato… […] …l’effetto comico fondamentale ha luogo quando, dopo aver rimosso la maschera,ci troviamo di fronte alla stessa faccia riprodotta dalla maschera.» (Žižek Slavoj 2006 La visione di parallasse, il nuovo melangolo, Genova 2013, 164, 166) Il richiamo va a Étienne De La Boétie 1530-1563: De La Boétie Étienne, 1554, Discorso sulla servitù volontaria, Chiarelettere, Milano 2011. «Inoltre, questo tiranno solo non v'è neanche bisogno di combatterlo, non v'è bisogno di distruggerlo; egli vien meno da solo a patto che il paese non acconsenta alla propria servitù. Non è necessario strappargli alcunché, basta solo non dargli nulla. Non occorre che il paese si dia pena di far qualcosa per sé, a patto che non faccia nulla contro di sé. Son dunque gli stessi popoli che si fanno dominare, dato che, col solo smettere di servire, sarebbero liberi. È il popolo che si fa servo, che si taglia la gola, che, potendo scegliere se esser servo o libero, abbandona la libertà e si sottomette al giogo: è il popolo che acconsente al suo male o addirittura lo provoca. […]

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Colui che vi domina così tanto ha solo due occhi, due mani, un corpo, non ha niente di diverso da quanto ha il più piccolo uomo del grande e infinito numero delle vostre città, eccetto il vantaggio che voi gli fornite per distruggervi. Da dove prenderebbe i tanti occhi con cui vi spia, se voi non glieli forniste? Come farebbe ad avere tante mani per colpirvi, se non le prendesse da voi? I piedi con cui calpesta le vostre città, donde gli verrebbero se non fossero i vostri? Ha forse un potere su di voi che non sia il vostro? Come oserebbe attaccarvi se voi stessi non foste d'accordo? Che male potrebbe mai farvi, se voi non faceste da palo al ladrone che vi saccheggia, se non foste complici dell'assassino che vi uccide e traditori di voi stessi? Voi seminate i vostri campi affinché egli li devasti; arredate le vostre case per farvele derubare; allevate le vostre figlie per soddisfare la sua lussuria, nutrite i vostri figli perché nella migliore delle ipotesi li mandi a combattere le sue guerre, li spedisca al macello, li faccia strumenti della sua avidità ed esecutori delle sue vendette. Vi ammazzate di fatica perché egli possa trastullarsi e sguazzare nei suoi turpi piaceri. Vi indebolite affinché egli diventi più 13 forte e più duro per stringervi la briglia. E da cose così spregevoli, di cui le stesse bestie non hanno sentore e che non sopporterebbero, potete liberarvi senza neanche provare a farlo, ma solo provando a volerlo. Siate risoluti a non servire più, ed eccovi liberi; non voglio che vi scontriate con lui o che lo facciate crollare, limitatevi a non sostenerlo più, e lo vedrete, come un grande colosso cui sia stata sottratta la base, cadere d'un pezzo e rompersi». (De La Boétie Étienne, 1554, Discorso sulla servitù volontaria, Chiarelettere, Milano 2011, 10, 14) Étienne De La Boétie 1530-1563 1.1. Sedi e forme espressive dell’atto linguistico in quanto performativo. Esempio, con tabella. La distinzione tra le forme degli enunciati non richiede che ad ogni forma corrisponda uno specifico enunciato da cui è anche definito formalmente; in uno stesso enunciato possono essere presenti e attive le diverse forme o modi di essere degli atti linguistici (della loro performatività), forme individuate da Austin in complessa e aperta (non definitiva) catalogazione. Ad esempio, se dico «guarda che bella giornata» l’enunciato è constativo, ossia descrittivo, tale da poter essere vero o falso, performativo, enunciato che si risolve in un’azione e in più di una azione in tal caso le azioni che si attivano rendono l’enunciato un atto: locutivo, locutorio per le informazioni che comunica illocutivo, illocutorio per l’intenzione che contiene come asserire, comandare, proporre perlocutivo, perlocutorio per la reazione che provoca: emozione, persuasione, adesione l’enunciato illocutivo, illocutorio si presenta, nella sua natura, come un atto; la forza illocutiva di un enunciato, cioè la sua capacità di compiere un’azione, dipende dalle circostanze sociali in cui viene prodotto e quindi può assumere le forme di enunciato: verdittivo, giudica su questioni di fatto o di valore, esprime avvertimenti quando l’impegno è di comunicare informazioni vere; esercitivo, comunica una decisione, esprime valutazioni; commissivo, funzionale a prendere un impegno con l’interlocutore; ci si vincola ad azioni future, o pone domande al riguardo; comportativo, esprime comportamenti e asserzioni relative a comportamenti; espositivo, contiene affermazioni, descrizioni. Presentazione più analitica della forma degli enunciati illocutivi, ad opera di Searle: Verdittivi. Essi “consistono nell’esprimere un giudizio, ufficiale o no, in base a prove o a ragioni, relativo a una questione di valore o di fatto, nella misura in cui questi ultimi sono distinguibili.” Esempi di verbi di questa classe sono: assolvo, giudico, calcolo, descrivo, analizzo, stimo, dato, annovero, valuto, caratterizzo. Esercitivi. Un esercitivo “consiste nel prendere una decisione pro o contro una certa linea d’azione o nel propugnarla,” “Si tratta di una decisione che sia così, non di un giudizio che è così.” Ne sono degli esempi: ordino, comando, dò istruzioni, intercedo, imploro, raccomando, supplico, consiglio. Anche richiedo è un esempio che salta agli occhi, ma Austin non l’ha inserito nel suo elenco.

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Accanto a quelli nominati, Austin elenca: designo, licenzio, nomino, battezzo, vieto, dichiaro chiuso, dichiaro aperto, e inoltre: annuncio, avverto, proclamo, dono. Commissivi. “La funzione essenziale d’un commissivo — dice Austin — è d’impegnare colui che parla a una certa linea d’azione.” Alcuni tra gli esempi più ovvi sono: prometto, faccio voto di, prendo l’impegno di, stipulo, contraggo l’obbligazione, garantisco, abbraccio la causa di, giuro. Espositivi. Gli espositivi “sono usati in atti di esposizione implicanti l’esposizione di vedute, la conduzione di un’argomentazione e la chiarificazione dell’uso o del riferimento delle parole.” Austin dà molti esempi di espositivi, tra i quali troviamo: affermo, nego, pongo l’accento su, illustro, rispondo, riferisco, accetto, obietto, concedo, descrivo, classifico, identifico e chiamo. Comportativi. Questa classe, di cui Austin non era per niente soddisfatto, include “l’idea di una reazione al comportamento e alle sorti degli altri, e di atteggiamenti o espressioni d’atteggiamenti relativi alla loro condotta passata o immediatamente futura.” Tra gli esempi Austin annovera: chiedo scusa, ringrazio, deploro, compatisco, mi congratulo, mi felicito, dò il benvenuto, manifesto il mio plauso, critico, benedico, maledico, brindo, bevo alla salute di. Ma anche, stranamente, sfido, provoco, protesto. (John R. Searle, Per una tassonomia degli atti illocutori, in Sbisà Marina (a cura di) (1993), Gli atti linguistici. Aspetti e problemi di filosofia del linguaggio, Feltrinelli, Milano, p.176-177 1.2. In più direzioni (forse tutte, ma certamente non riducibili al linguaggio ordinario o comune) il linguaggio può evidenziare realizzare la sua natura performativa. 1.2.1. Il linguaggio è performativo in quanto permette la “creazione” di enti astratti ideali, come quelli della geometria e come i simboli matematici. Le figure che vengono definite in geometria non hanno alcuna possibilità di avere una raffigurazione che corrisponda alla loro definizione e che quindi permetta la costruzione di una teoria geometrica. Ad esempio, non è possibile raffigurare visivamente un punto che la definizione vuole senza dimensioni, una linea rispettando la definizione che le attribuisce la sola dimensione della lunghezza e così, in generale per tutti gli enti geometrici. Già Platone nota come noi ci serviamo di figure per costruire la geometria, ma questa non ha per oggetto le figure disegnate ma quelle ideali cui la forma visiva rimanda. 1.2.2. Il linguaggio è performativo in quanto permette la creazione di enti fisici dichiarati e considerati reali, efficaci nella traduzione tecnica della stessa teoria, ma per nulla visibili. Il modello dell’atomo di Bohr, di grande efficacia teorica ed inventiva, non ha alcuna possibilità di essere mostrato come un oggetto della fisica e così per molte altre “sostanze” della fisica (inerzia, gravità, durezza ecc.). In questo ambito accade quanto afferma Nelson Goodman fin dal titolo della sua opera: “Vedere e costruire il mondo” è il processo in cui si attua la scienza. 1.2.3. Il linguaggio è performativo in quanto permette la creazione di nuclei sociali, di dimensione internazionali, nazionali, comunitari… dai più disparati volti, motivi e obiettivi; che un gruppo di individui costituisca una famiglia non si vede se non sono gli stessi componenti, in qualche modo, a dichiararlo. Allo stesso modo, le parole d’ordine che legittimano una svolta, un nuovo corso culturale, politico, religioso (Vogliamo tutto, Potere al popolo, Yes we can, America first, Giubileo della misericordia, Governo del cambiamento, Finita la pacchia…). Una comunità religiosa si costituisce attraverso i propri enunciati e questi sono performativi: professione di fede, riti che si attuano con parole, gesti e simboli, parole d’ordine, slogan di coesione, riunioni (convegni, congressi, anniversari, commemorazioni…), sedi, regolamenti, atti fondativi, simboli, bandiere, ricorrenze, totem ecc. 1.2.3.1. In contesto istituzionale (sociale e politico): una fondazione delle istituzioni, delle forme e delle relazioni dello Stato politico sociale attraverso gli atti linguistici performativi espressione di una intenzionalità collettiva. Searle R. John, 2010 Creare il mondo sociale. La struttura della civiltà umana, Raffaello Cortina editore, Milano 2010 (Making the Social World: The Structure of Human Civilization): indica le radici (fisiche e biologiche, non solo culturali) della estensione della deontologia, intrinsecamente e costitutivamente presente nel linguaggio in termini di comunicazione, alla realtà sociale; o come il linguaggio ci consente di creare le istituzioni sociali. In

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particolare Searle mette in luce le due costitutività: «Al principio dell’analisi di Searle vi è dunque la “realtà sociale”. Per “ realtà sociale” si intende spesso, da Georg Simmel in poi, quel processo continuo inarrestabile e inafferrabile che con un neologismo potrebbe chiamarsi “associamento” (Vergesellschaftung), ossia “il fatto che gli uomini si lancino occhiate, che si dimostrino gelosi l’uno dell’altro, che pranzino insieme, che si trovino simpatici o antipatici, che per gratitudine reciproca siano spinti a frequentarsi e a scambiarsi dei favori, che l'uno domandi all'altro dove stia una strada o che tra loro sussista una forma di attrazione”. Al contrario, per Searle, il concetto chiave nella caratterizzazione della realtà sociale è il concetto di costitutività. Questa costitutività si declina nell’ontologia di Searle in due forme: costitutività di regole e costitutività di atti». Searle R. John, 2010 Creare il mondo sociale. La struttura della civiltà umana, prefazione all’edizione italiana di Paolo Di Lucia, XI). 1.2.3.2. Nella memoria storica mirata ad una costruzione “identitaria” (cioè tesa alla definizione culturale e politica di una appartenenza avente caratteri identitari: una comunità, un popolo, una nazione) sono attivi come agenti indispensabili enunciati linguistici e simbolici performativi (come del resto, la stessa narrazione storica, in quanto segnata da una logica di controfattualità ha caratteri performativi). Un ruolo indispensabile è svolto qui dai rituali delle commemorazione e dallo loro logica di ripetizione: «il carattere performativo del rituale» (Paul Connerton, 1999, Come le società ricordano, Armando, Roma, 118); le celebrazioni commemorative svolgono una azione performativa funzionando da ponte tra soggetto e società. Uno dei principali elementi formali con funzione performativa che compongono la pratica rituale delle commemorazioni è la ripetizione del rito nel tempo e nello spazio e, all’interno del rito, di parole e gesti attesi, immediatamente condivisi e quindi efficacemente performativi, costituenti una memoria corporea individuale e collettiva. Per questa direzione di indagine è guida lo studio di Di Pasquale Caterina, 2018, Antropologia della memoria. Il ricordo come fatto culturale, il Mulino, Bologna. Alcuni passaggi (le pp. tra […]). «Abbiamo già affrontato il legame tra memoria, potere e identità politica attraverso le parole di Le Goff che lo ha affrontato a partire dai rapporti tra memoria e storia, prima e dopo l'introduzione della tecnica scritturale, prima e dopo la stampa. Abbiamo ritrovato lo stesso tema negli anni Ottanta connesso alla nascita dello stato-nazione, attraverso le parole di Hobsbawm e Ranger, Anderson e Nora. Lo vediamo sistematizzato negli anni Novanta in opere divenute emblematiche come La memoria culturale. Scrittura, ricordo e identità politica nelle grandi civiltà antiche dell'archeologo Jan Assmann [1997]. [145] Ogni sistema che accentra un potere ha bisogno di una storia esemplare sulla quale fondare la propria autorità, così ricorre a un passato precedentemente selezionato, lo valorizza e in questo modo legittima in modo retroattivo la propria dignità. Ma quella parte di storia che non entra nell'epopea identitaria di legittimazione viene cancellata a opera di dispositivi finalizzati alla damnatio memoriae. Assmann parla di ricordo fondante e di ricordo contrappresentistico: il ricordo fondante legittima lo status quo in quanto diretta conseguenza dei miti elaborati dal sistema di potere; il ricordo contrappresentistico invece rende manifesta l'insoddisfazione di alcuni gruppi sociali. Di fatto la funzione contrappresentistica della memoria anima i movimenti rivoluzionari che, traendo ispirazione da un passato diverso rispetto a quello celebrato istituzionalmente, immaginano la nascita di un nuovo ordine, terreno o ultraterreno. Le due tipologie di ricordo non si escludono l'una con l'altra, piuttosto interagiscono all'interno di due canali preferenziali di trasmissione, la memoria culturale e la memoria comunicativa. [146] Dunque, il ricordo per essere attualizzato deve essere materializzato sotto forma di figure che lo rappresentano simbolicamente, collocandolo nel tempo e nello spazio del presente. La memoria valorizzata deve essere inserita entro una cornice discorsiva che collega l'evento da celebrare alle istanze dell'attualità, rappresentando non solo quello che fu, ma soprattutto la lezione a esso associata, il senso che collettivamente gli viene attribuito. Pertanto, non esistono realtà immerse in un presente percepito come un eterno ritorno del passato, non esistono realtà avvolte dalla tradizione e che per questo non sentono la necessità di cristallizzarla, di conservarla e di valorizzarla; così come non esistono società completamente votate al cambiamento, al progressivo mutare che per salvare il presente lo trasformano continuamente in passato. Piuttosto esistono

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differenti forme storiche di celebrazione del passato selezionato come rappresentativo e dunque rievocato. Muta il riferimento alla durata, il modo di interiorizzarla e di celebrarla. Permane il ruolo che la cultura del ricordo gioca nel costruirla continuità di un gruppo. Presente e passato insomma si fondono nella celebrazione di un archetipo originario dalla valenza simbolica e identificante. Al di là che esso evochi episodi storicamente avvenuti o personaggi storicamente vissuti, ciò che trasforma il ricordo fondante in mito è il suo carattere vincolante, la sua potenza è nel legittimare l'ordine sociale presente, o nel capovolgerlo. Il passato svolge una funzione fondamentale nell'elaborazione delle identità, perché circoscrive e giustifica il sentimento di appartenere a una comunità. [147-148] Il passato, o meglio il passato riconosciuto come patrimonio, dunque il passato che compone la memoria pubblica o la cultura del ricordo (a seconda della categoria che si vuole usare) viene descritto come un terreno di battaglia intorno al quale si gioca una crociata ideologica [Lowenthal 1985; 1995]. Da una parte sarebbero schierati i rappresentanti della scienza archeologica, portatori di una visione eurocentrica. Dall'altra parte ci sarebbero i cosiddetti altri, che avrebbero incorporato la visione eurocentrica e avrebbero rinunciato a modalità alternative di vivere e costruire la propria storia esemplare, abitata e conquistata come fosse una terra straniera da conoscere ex novo [Lowenthal 1985] e non il proprio orizzonte di vita. Questa lettura monodirezionale sembra non rendere completamente giustizia alle istanze degli altri, ovvero delle culture considerate come minoritarie e subalterne. Essa toglie la capacità creativa di sviluppare e rivendicare una visione locale del proprio passato (compreso quello coloniale) e anche di interiorizzare le istanze egemoniche ed eurocentriche in modo performativo, secondo la definizione usata da Marshall Sahlins parlando del rapporto con la storia» [150-151]. 1.2.4. Il linguaggio è performativo nelle comunicazioni sociali e quindi nelle relazioni interpersonali in quanto con esse si intende sempre costruire o ribadire (magari dandola solo per implicita, per presupposto) una situazione in cui si realizzano i processi indicati dagli atti performativi individuati da Austin: locutivo per le informazioni che comunica, illocutivo per l’intenzione che contiene, perlocutivo per la reazione che intende provocare. Parlando vogliamo sempre “influenzare”; il linguaggio è dunque sempre un principio attivo che entra a far parte del processo di soggettivazione (assoggettamento, formazione di sé come persona) costitutivo del vivere di ciascuno. Le tesi linguistiche circa il potere performativo della parola aprono uno scenario enorme che si traduce in un compito continuo, sconfinato, oggetto di attenzione che deve essere sempre presente e vigile: «In tutti gli ambiti e sotto tutti gli aspetti, bisogna diffidare dall'uso sconsiderato, e ancor più dall'uso deliberato, delle parole di moda: esse spesso contribuiscono a creare le realtà che pretendono di indicare o descrivere.» (Augé Marc 2007, Per una antropologia della mobilità, Jaca Book, Milano 2015, 38). 1.2.4.1. In contesto comunicativo quotidiano: individuazione di come si realizzano gli aspetti illocutivi, indicati da Austin, nelle comunicazioni sociali quotidiane, nel linguaggio comune a partire dai “non-luoghi”, luoghi di transito; le indagini di Marc Augé [nel punto-laboratorio 2. a seguire]. 1.2.4.2. In contesto comunicativo “virtuale”, digitale: la funzione performativa dei “social”. «Come abbiamo visto alla voce «social», questa memoria ci usa, mostrandoci prima di tutto ciò che ritiene adatto al nostro profilo. Questa archiviazione ininterrotta della nostra navigazione non diventa mai definitivamente passato, ma può sempre essere riesumata e venirci ripresentata, anche come conto da pagare. In questo modo, come nota Viktor Mayer-Shönberger [V. Mayer-Shönberger, Delete. Il diritto all’oblio nell’era digitale, Egea, Milano 2010 (consiglia i primi due capp. pp.2-80)], il nostro diritto all'oblio – ossia il nostro legittimo bisogno di annullare e dimenticare per sempre un'azione, un'immagine o un pensiero – è fortemente minacciato; e nello stesso tempo dobbiamo constatare che l'accesso alla memoria di qualsiasi tempo e qualsiasi luogo non ha rafforzato la nostra coscienza storica. Lo osservava benissimo Andreas Huyssen [l’osservazione di Andreas Huyssen è a sua volta riportata da P. Connerton, Come la modernità dimentica, Einaudi Torino 2010, p.7] già vent'anni fa:

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«Una fondamentale e incomprensibile contraddizione della nostra cultura. L'indiscutibile declino della storia e della coscienza storica, la critica nei confronti dell'amnesia politica, sociale e culturale e i vari discorsi, celebratori o apocalittici, sulla posthistoire sono stati accompagnati negli ultimi quindici anni da un boom della memoria senza precedenti». Siamo passati a una memoria primariamente intesa come hardware esterno a cui ricorrere ogni volta che non sappiamo o non ricordiamo. L'illusione in cui si può incappare, a questo punto, è quella di ritenere inutile imparare e sapere in nome di una possibilità di consultazione continua, immediata, compulsiva. […] Insomma, questa nuova memoria esterna, che ci monitora e si costruisce un'immagine di noi, ricordando anche ciò che dimentichiamo, è una sorta di monstrum (altra parola che si allaccia al verbo memini) che, insieme a tutte le straordinarie innovazioni che hanno rivoluzionato e migliorato il mondo, presenta pure dei limiti di natura epistemologica e morale. A maggior ragione è fondamentale tenere vivo il potere selettivo della memoria umana, l'unica che può mantenere una dimensione etica, una funzione critica e, appunto, una capacità di sintesi. E questa memoria più fragile, che vive costantemente sotto la certezza dell’invecchiamento e sotto la minaccia dell’oblio, la sola che può salvarci dalle scorie che sovraccaricano e inquinano le comunicazione, il pensiero, i nostri ricordi». (Balzano Marco, 2019, Le parole sono importanti. Dove nascono e cosa raccontano, Einaudi, Torino, 40-42) 2. L’analisi sociologica e linguistica delle comunicazioni di transito: la loro performatività L'incontro della filosofia linguistica analitica con l’antropologia-sociologica contemporanea in un ambito particolare, quello delle non comunicazioni, o meglio delle “comunicazioni di transito” proprie di quelli che la sociologia recente chiama “non-luoghi”. La loro performatività. Oggetto di analisi dettagliate svolte soprattutto dall’antropologo e sociologo Marc Augé. Luoghi di transito (non luoghi), comunicazioni di transito, relazioni di transito … le ambivalenze senza dicotomie moralistiche (non tutto è “comunità”: c’è comunità e società) 2.1. I “non luoghi”: «Philippe Vasset è un geografo francese che ha individuato delle zone bianche sulle carte delle città e delle relative periferie realizzate dall'Istituto geografico nazionale. Nell'esplorarle, ha percorso sodaglie, zone vuote, cantieri in costruzione spesso oggetto di occupazioni selvagge. Questi complessi riconvertiti, ma senza memoria, in attesa, ma senza un progetto evidente, corrispondono a una mondializzazione del vuoto di cui si trova traccia ovunque: essi sono, come tutte le aree fabbricabili abbandonate e le bidonvilles del pianeta, l'ombra della mondializzazione gloriosa che si manifesta in tutti i grattacieli e le sedi delle grandi compagnie o le sale vip degli aeroporti e degli hotel di lusso. Costituiscono in qualche modo la forma nuda del «nonluogo». Sono spazi in cui non è possibile riconoscere alcuna relazione sociale, in cui non si inscrive alcun passato condiviso, ma, al contrario dei nonluoghi della surmodernità trionfante, non sono nemmeno più spazi di comunicazione, di circolazione o di consumo.» (Augé Marc 2007, Per una antropologia della mobilità, Jaca Book, Milano 2015, 22) Oltre la sua accezione urbanistica, il “non-luogo” acquista un significato e una portata sociologica diffusa come spazio e come tempo trascorso: «I nonluoghi sono quegli spazi dell'anonimato ogni giorno più numerosi e frequentati da individui simili ma soli. Nonluoghi sono sia le infrastrutture per il trasporto veloce (autostrade, stazioni, aeroporti) sia i mezzi stessi di trasporto (automobili, treni, aerei). Sono nonluoghi i supermercati, le grandi catene alberghiere con le loro camere intercambiabili, ma anche i campi profughi dove sono parcheggiati a tempo indeterminato i rifugiati da guerre e miserie. Il nonluogo è il contrario di una dimora, di una residenza, di un luogo nel senso comune del termine. E al suo anonimato, paradossalmente, si accede solo fornendo una prova della propria identità: passaporto, carta di credito. Nel proporci una antropologia della surmodernità, Augé ci introduce anche a una etnologia della solitudine. Afferma Michel Foucault: «… un “non luogo”, una pura distanza, il fatto che gli avversari non appartengono ad uno stesso spazio.» (Foucault Michel 1971 Microfisica del potere. Interventi politici, Einaudi, Torino 1977, 39); se si vuole, il non-luogo è un luogo (lo è

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spazialmente, fisicamente) ma dove sono conservate e mostrate, risultano evidenti, le distanze, la non relazione, la non appartenenza tra coloro (e/o tra le cose) che vi sono presenti o “collocati”. 2.2. Le comunicazioni di transito. Il non-luogo è definito da una forma di comunicazione specifica definita "di transito": semplificata, stereotipata, prevedibile, che rimarca e segna la distanza e si avvicina più a una non comunicazione; un linguaggio in assenza di comunicazione; una comunicazione considerata corretta e efficace proprio quando nega una reale comunicazione, paradossalmente efficace come comunicazione negata, opportuna (“felice”) nella sua genericità nella sua inefficacia locutoria. Una comunicazione che si svolge di norma nei luoghi che sono definiti non-luoghi, luoghi di transizione ma che per la loro periodicità e il loro intensificarsi come durata, diventano luoghi di lunga persistenza: treni, metro, autobus, autostrade, bar, uffici pubblici, giardini pubblici, discoteche, comunicazioni telefoniche in continua connessione, il dilatarsi e moltiplicarsi dei supermercati e del tempo lì trascorso ecc. Nella società contemporanea i non luoghi subiscono una dilatazione imprevedibile e sicuramente non volontaria, assorbono momenti e spazi sempre più ampi della giornata. Con il loro diffondersi si espandono anche i momenti di comunicazione sospesa, rarefatta, abitudinaria e non partecipata, presenti e caratterizzanti la forma di comunicazioni di transito. Nel loro incremento è prendono consistenza specifici e doverosi stereotipi, imposti da una specifica e prevedibile etichetta, capace poi di espandersi e diventare la forma normale del comunicare. L’osservazione sociologica attuale presta una particolare attenzione ai non-luoghi al punto che sembra partire proprio da quelli per osservare e comprendere la dinamica della società contemporanea dal punto di vista delle forme e dei contenuti del proprio comunicare. (cfr. anche Floch Jean-Marie Esploratori o sonnambuli? Elaborazione di una tipologia comportamentale dei viaggiatori della metropolitana, in Bettettini G., Calabrese O., Larusso A.M., Violi P., Volli O. 2005 Semiotica, R. Cortina, Milano; uno studio di sistema è offerto da Boni Federico 2007 Sociologia della comunicazione interpersonale, Laterza, Roma-Bari) 2.3. I non luoghi si estendono e tentano di acquisire la caratteristica di luoghi. Con l’espansione del non luoghi prendono consistenza specifici e doverosi stereotipi, ma la situazione non è tuttavia inesorabilmente monotona o già segnata: si tratta di infraspazi destinati ad un futuro essenziale e indispensabile di rete connettiva, valorizzazione e apertura di tessuti abitativi precedenti (il riferimento va allo studio di Barbieri, Pepe (a cura), Infraspazi, Meltemi, Roma 2006); il loro imporsi è determinato da una precisa volontà e disposizione ad essere considerati e vissuti come luoghi [cfr. la battaglia per tenere aperti i supermercati la domenica]. Nella stessa narrazione osservativa (e della memoria) di Marc Augé i non-luoghi diventano luoghi perché la frequentazione, gli incontri, l’osservazione attribuisce loro domesticità e lì si addensano azioni e ricordi. «Non è un nonluogo (il metrò), in ogni caso per me, né per coloro che vi compiono regolarmente lo stesso tragitto. Nel metrò, essi hanno dei ricordi, delle abitudini, riconoscono dei volti e intrattengono con lo spazio di certe stazioni una sorta di intimità corporea misurabile nel ritmo della discesa nella rampa di scale, nella precisione del gesto con cui si introduce il biglietto nella fessura del portello di accesso o nell’accelerazione del passo quando si indovina dal rumore l’arrivo del treno sul bordo del binario. Non è un nonluogo per coloro i quali, come me, continuano a percepirlo come un elemento essenziale della Parigi intra muros, quella Parigi indissociabile dal suo metrò celebrato in certe canzoni, in certi film o testi nel dopoguerra e negli anni Cinquanta, da Georges Ulmer a Serge Gainsbourg, da René Clair a Raymond Queneau. La Place Pigalle (“Un p’tit jet d’eau, Un’ station de métro »), Porte de Lilas, Le Poinçoinneur des Lilas (“Des p’tits trous, Des p’tits trous”) e Zazie: sono i ritornelli, le immagini e le parole che hanno accompagnato la mia generazione dall’infanzia alla giovinezza. Come avremmo potuto non credere di vivere al centro del mondo? Questo centro che il mondo intero si era mobilitato per liberare e di cui il metrò costituiva le arterie, il cuore e le vene, visto che, da Bastille a Etoile, da Wagram ad Austerlitz o da Louvre a République, non smetteva di celebrarne quotidianamente la grandezza?» (Marc Augé, Il metrò rivisitato, Raffaello Cortina editore, 2009, p. 31-32). È ancora Marc Augé ad osservare, in termini di esperienza globale: «Tuttavia la moltiplicazione degli spazi anonimi nei quali non sembra radicarsi alcuna relazione sociale crea paradossalmente nuove familiarità. Ci si sente meno sperduti, perfino all’altro capo del

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mondo, quando si entra in un supermercato. Le pubblicità, i negozi di articoli di lusso, i marchi contrassegnano i nuovi spazi della circolazione planetaria, come, per esempio, gli aeroporti. Le iscrizioni o gli annunci in inglese contribuiscono inoltre a uniformare simbolicamente il pianeta, proprio come i monumenti dell’architettura internazionale che s’innalzano nelle grandi metropoli mondiali e sembrano farsi eco da un continente all’altro. I paesaggi del mondo attuale — ossia di un mondo segnato dall’accelerazione del tempo, dal restringimento del pianeta e dall'individualizzazione dei percorsi — sono essenzialmente paesaggi urbani o in via di urbanizzazione. Ma la città cambia, salta oltre i muri e si estende ben oltre il suo cuore “storico”, allunga i propri tentacoli lungo i fiumi, le coste e le vie di comunicazione per legarsi sempre più strettamente alle città vicine. Percepiamo ogni giorno i segni di un rapido cambiamento di scala di cui gli schermi della televisione e dei computer sono insieme l’indice e l’acceleratore. Le generazioni più giovani e quelle di domani trovano i propri riferimenti in questo nuovo spazio-tempo. E così le nostre rispettive infanzie rischiano di perdersi di vista». (Augé Marc, 2013, L’antropologo e il mondo globale, Raffello Cortina editore, Milano 2014, 47) Soprattutto commercialmente è in atto una doppia e antitetica tendenza che pone in nuova relazione luoghi e non-luoghi: 1. la tendenza dei luoghi a diventare non luoghi, con comunicazioni stereotipate e rarefatte; 2. la tendenza dei non luoghi a diventare luoghi con autopromozione di sé come evento, luoghi identitari, comunitari, di gruppo (sedi di eventi: mostre [arte, fotografia, street art, presepi], sfilate di moda, incontri con i divi del momento, spettacoli e musica, ristorazioni aperte ad ogni tradizione…[in questo e in altri ambiti si scopre anzi la presenza di non-luogo in ogni luogo in un irrisolvibile e magari piacevole o opportuno meticciato]). 2.4. La coppia di termini luogo / non luogo diventa uno strumento di osservazione e comprensione della dinamica tendenziale propria di ogni luogo. La ricerca sociologica sui non luoghi e le loro specifica forma linguistiche acquista un ulteriore rilievo quando si è di fronte alla constatazione che le forme della comunicazione di transito non si collocano soltanto nei non-luoghi (luoghi e tempi di transito) ma sono presenti e finiscono per diventare e quasi imporsi come forme comunicative generali che invadono anche il campo dei luoghi sociali non di transito del vivere sociale, come il luogo di lavoro, la famiglia, gli infiniti salotti inscenati nelle televisioni, i convegni e le cerimonie di rappresentanza, di anniversario, di commemorazione, della giornata di… (giornata del sorriso, dell’abbraccio… “giornata” per le quali ormai il numero dei giorni dell’anno rischia di essere insufficiente). Insomma la dinamica dell’età contemporanea sarebbe letta a partire dallo scontro in atto e anche dall’incontro e fusione, di processi totalmente imprevedibili negli esiti, tra luogo e non-luogo. In questa nuova coppia, luogo e non-luogo, si colloca il comunicare contemporaneo; coppia di opposizione e di relazione, coppia per la cui dinamica produttiva, e per l’analisi che ne mette in risalto la logica, occorre utilizzare il metodo indicato e applicato da Slavoj Źiźek: la “visione di parallasse”. (Žižek Slavoj 2006 La visione di parallasse, il nuovo melangolo, Genova 2013: «… fenomeni che sono reciprocamente intraducibili e che possono essere compresi solo in una specie di visione di parallasse, cambiando continuamente prospettiva tra due punti per i quali non è possibile sintesi o mediazione. Tra i due piani non esiste alcuna relazione, nessuno spazio condiviso, eppure essi sono strettamente connessi, in un certo senso identici; sono, per così dire, sui lati opposti di un nastro di Moebius.», 9). Si alternano, e con motivazioni, due opposte contemporanee e intrecciate tendenze o posizioni: 2.4.1. L’elogio del non luogo, come frammenti di comunicazioni sospese in un viaggio che non ha fine, né termine nè scopo ma opportunità e… forse alterità; un «seguire logiche senza ragione» (Elisa [cantante]); e all’elogio dell’anonimato che è possibile raggiungere solo nella logica comunicativa dei non-luoghi e in un modo che la rete e le connessioni possibile e continue promuovono come area del conturbamento globale. Elogio in quanto diventano lo sfondo per una più ampia autonomia di scelta e di privatezza. «Molti scrittori del diciannovesimo secolo e dell'inizio del ventesimo non videro che l'anonimità urbana ha i suoi netti vantaggi non meno dei suoi orrori. Uno scrittore che sia essenzialmente antiurbano perde ogni diritto alla grandezza, perché ciò che spesso viene taciuto dai morbosi critici dell'anonimità è, innanzitutto, che, senza di essa, la

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vita in una città moderna non potrebbe essere umana, e, in secondo luogo, che l'anonimità rappresenta per molti un fenomeno liberatorio ancor più che un fenomeno minaccioso: per un gran numero di persone essa serve come la possibilità della libertà in contrasto con la schiavitù della legge e delle convenzioni. Guardiamo prima in che modo l'anonimità della vita nella città contribuisca a proteggere l'intimità, che è essenziale alla vita umana. Mostreremo poi in che senso l'anonimità possa essere interpretata teologicamente come Vangelo contro Legge» (Cox Harwey, 1965, 19662 La città secolare, (The Secular City) Vallecchi editore, Firenze 1968, 40). A ripresa e sostegno: «Quel che la pubblicistica del potere insiste a dipingerci come il terribile destino, l'infelicità, l'"inumanità" nella grande città, cioè l'indifferenza, l'anonimato, è invece un fattore chiave della sua libertà, perché l'anonimato è l'altra faccia dell'assenza di controllo sociale, del continuo essere sorvegliati, dell'oppressione di non poter sfuggire al panopticum paesano (altro che apparato disciplinare foucaultiano!), quell'ispezione occhiuta 24 ore su 24 che, perfino secondo Simmel, ti fa "mancare l'aria".» (D’Eramo Marco, 2017, Il selfie del mondo. Indagine sull’età del turismo, Feltrinelli, Milano, 136) 2.4.2. L’analisi preoccupata per una deriva linguistico comunicativa in atto: i luoghi diventano non-luoghi. A creare un non-luogo non è la sua collocazione spaziale ma il ruolo che in esso svolge la comunicazione, e in particolare la “comunicazione di transito”. Da questo punto di vista si può verificare la tendenza delle comunicazioni tipiche dei non-luoghi ad espandersi in luoghi canonici (sul tema cfr. Augé Marc 2007 Tra i confini. Città, luoghi, integrazioni, B.Mondadori, Milano). La chiacchiera (in senso qui non molto positivo) è il loro esito “perlocutorio”. Una conversazione o delle relazioni che si affidano al dire secondo stereotipi e attese già da tempo condivise per ripetizione ed abitudine, il semplice scorrere dei luoghi comuni, una comunicazione puramente formale e non oggetto di opportuna riflessione… diventa la strada che può trasformare i luoghi storici classici in non-luoghi; come già indicato (e come una verifica di un facile laboratorio ricognitivo)il processo interessa comunità, famiglia, congressi di specialisti, dibattiti pubblici (diretti o televisivi…)… si tratta di luoghi che corrono questo rischio o già vivono una simile situazione; anzi sono gli apprezzati non-luoghi di una comunicazione “di transito” e, per questo, forse, frequentati con disinvoltura, distensione… C’è una ipotesi sulla ragione psicologica della ricerca di connessioni per frammenti e appigli nel processo delle comunicazioni di transito proprie dei non luoghi (o sospese tra luogo / nonluogo); la suggerisce l’opera di Kafka. «L'ansia che assilla i personaggi kafkiani non è il timore dell'ignoto, bensì l'orrore di essere ignoti: l'individuo si smarrisce non perché si trova dinanzi a qualcosa o a qualcuno che egli non conosce, ma perché viene posto a confronto con un interlocutore - individuale o collettivo - al quale lui stesso è sconosciuto. L'ignoto si può sfidare con coraggio e con baldanza, come gli eroi del mito antico affrontavano i mostri; ben più difficile è portare il peso della propria incertezza, dell'insicurezza che investe la propria stessa persona e del mistero che avvolge la propria stessa identità». (C. Magris, Introduzione a F. Kafka, Il Processo, Mondadori, Milano 1985, p. 7). Nel timore del mancato riconoscimento che interrompe la relazione con l’altro, o della percezione della propria irrilevanza e non presa in considerazione, si affaccia la paura del dubbio o della scoperta della difficoltà o impossibilità o assenza di conoscenza di se stessi. Le forme comunicative che si infittiscono in varietà di forme (disprezzate e criticate per alcuni o valorizzate e avvertite come contesti di opportunità per altri) diventano l’ambito in cui occorre tornare a riflettere intorno al senso e alla natura degli atti linguistici, riflettendo intorno alla loro efficacia performativa (con l’utilizzo degli strumenti analitici forniti da Austin). Il campo di ricerca è individuato e descritto soprattutto ad opera dell’antropologo e sociologo francese Mar Augé; alcuni sui studi: Augé, Marc 1993, Nonluoghi : introduzione a una antropologia della surmodernità, Milano, Elèuthera, 1993 Augé Marc, 1997, La guerra dei sogni, eléuthera, Milano 2012 Augé Marc, 2007, Tra i confini. Città, luoghi, integrazioni, B. Mondadori, Milano

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Augé Marc, Il metrò rivisitato, Raffaello Cortina editore, 2009 Augé Marc, 2013, L’antropologo e il mondo globale, Raffello Cortina editore, Milano 2014 3. Come si fabbrica una lingua totalitaria «è tutto racchiuso nella capacità performativa della lingua vivente» tratto da: Ronchi Rocco Parlare in neolingua. Come si fabbrica una lingua totalitaria: in Recalcati Massimo (a cura di) 2007 Forme contemporanee del totalitarismo, Bollati Boringhieri, Torino «Come abbiamo visto gli studi sul nazionalismo tra gli anni Settanta e Ottanta, a partire da quelli avanguardistici di Mosse per arrivare a quelli di Hobsbawn e Ranger, Anderson e Nora — limitando le citazioni ai più conosciuti — hanno ratificato queste caratteristiche della memoria confermando la capacità simbolica del passato di agire sulle masse imponendo una memoria ufficiale omogenea e comune, nella quale identificarsi grazie a pratiche rituali di commemorazione, all'invenzione di tradizioni e alla costruzione-celebrazione di monumenti. Negli anni Novanta invece l'omogeneità di questa memoria ufficiale, creata dagli apparati politici che si sono occupati della costruzione simbolica delle nazioni, viene decostruita, le conflittualità più o meno sommerse intorno ai vissuti familiari e comunitari, soprattutto quelli relativi ai passati traumatici, emergono con il nome di memoria divisa: un fenomeno che abbiamo imparato a conoscere in Italia, in Europa e non solo - quasi potremmo definirlo un fenomeno che distingue tutti i processi del ricordare». (Di Pasquale Caterina, 2018, Antropologia della memoria. Il ricordo come fatto culturale, il Mulino, Bologna, 183) 3.1. «Language is a virus Due libri tra loro assai diversi, entrambi pubblicati all’indomani della fine del secondo conflitto mondiale, presentano una diagnosi identica per il male assoluto che ha appena devastato l’Europa. Il primo è stato scritto nel 1947 da un filologo e storico delle idee, studioso della cultura francese, Victor Klemperer, un ebreo miracolosamente sopravvissuto alla catastrofe abbattutasi sul suo popolo (o, almeno, su quel popolo nel quale è costretto a riconoscersi proprio grazie all’accanimento assassino di cui è stato, senza distinzione, vittima). Il suo titolo, non privo, come vedremo, di una triste ironia, è un logo, un marchio, una sigla: (in nota: LTI. La lingua del Terzo Reich. Taccuino di un filologo, La Giuntina, Firenze 1988) È l’acronimo di Lingua tertii imperi, la lingua del Terzo Reich. Il secondo, pubblicato nel 1949, è 1984 di George Orwell, scrittore, combattente repubblicano nella guerra civile spagnola, dove assiste agli orrori del comunismo staliniano (il massacro degli anarchici). In appendice, questa distopia socialista contiene un saggio sulla «neolingua» del Socing (il «socialismo oceanico»). La neo-lingua è una lingua artificiale progettata dal Partito non solo per «dirigere» il pensiero secondo le sue intenzioni, ma soprattutto per rendere impossibile a priori l’articolazione di una divergente visione del mondo. «In neolingua — scrive Orwell — solo di rado era possibile seguire un pensiero eretico spingendosi oltre la percezione che si trattava, per l’appunto, di un pensiero eretico: oltre quel punto, le parole che sarebbero servite ad esprimerlo semplicemente non esistevano.» La domanda alla quale Klemperer, con il suo saggio in forma di diario, vuole rispondere è la stessa domanda che si pone Orwell, sebbene il primo abbia di mira il nazismo, il secondo lo stalinismo. Essa chiede, semplicemente: com’è potuto accadere? Delle cause ultime di questo avvento dal carattere perversamente religioso Klemperer e Orwell offrono una lettura di tipo epidemico o infettivo. Il virus però è colto da entrambi nel linguaggio. Language is a virus, per citare il titolo di una bella canzone di Laurie Anderson. Ma meglio sarebbe dire che il virus per entrambi è trasmesso dallo speech. Non il linguaggio-sistema, infatti, non il linguaggio-codice, ma la lingua parlata, la lingua della comunicazione quotidiana, la parole che ha luogo tra questi parlanti reali, è l’ambito dell’incubazione, dell’infezione e della propagazione irresistibile del virus. «Il nazismo — scrive Klemperer — s’insinuava nella carne e nel sangue della folla attraverso le singole parole, le locuzioni, le forme delle frasi ripetute milioni di volte». La propaganda esplicita, per quanto martellante fino all’ossessività, da sola non è in grado di spiegare nulla. Per essere efficace la propaganda presuppone un ambiente cognitivo, un eco-sistema

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linguistico, già predisposto ad accoglierla e a trasformarla in prassi quotidiana, in senso comune». (Ronchi, 45-46) 3.2. L’efficacia della lingua nello sfondo ante predicativo (area del “senso”): «La lingua è la nostra seconda natura, è l’aria che respiriamo fin dalla nascita in quanto esseri culturali. Un filologo e linguista tedesco, nutritosi della filosofia idealista del linguaggio (da Hamann a Humboldt), sa bene che la lingua non è veicolo se non derivatamente. La lingua è lo «spirito oggettivo» di Hegel. La lingua è il medio, l’ambito della mediazione fondamentale. È la sorgente della «donazione» originaria, è lei che «ci dà» il mondo, è lei che fornisce l’orizzonte di senso nel quale le cose del mondo si manifestano. I significati, nella loro determinatezza (ad esempio la parola «ebreo» o la parola «psico-reato»), prendono rilievo su di uno sfondo dato per scontato, che, indipendentemente dal suo contenuto, ogni atto comunicativo continuamente e silenziosamente ribadisce. Non vi sarà perciò virus più potente di quello che in questo sfondo antepredicativo e sempre operante trova l’habitat più consono alla sua proliferazione. 3.3. La capacità performativa della lingua vivente (non tanto della lingua scritta, ma di quella quotidiana e conversazionale collocata in un contesto simbolico estremamente vario [descritto accuratamente da Ervin Goffman]). «Il «mistero» dell’«avvento» è tutto racchiuso nella capacità performativa della lingua vivente. […] Ora, la tesi che vorrei sostenere è che, se vi è degenerazione, ciò accade perché c’è una lingua potenzialmente corruttibile, c’è qualcosa come una «materia» intrinsecamente fascista della lingua che il virus, per così dire, attualizza. La lingua vivente, per sua stessa natura, è sempre qualcosa d’altro che un mezzo di scambio. Come la mela offerta a Biancaneve, nella parola che altri mi rivolge e che io rivolgo ad altri circola invisibile, insieme al detto, anche un legame che inquina la libertà mia e quella dell’altro. Il virus totalitario infetta, insomma, un corpo che già nel suo stato normale è predisposto ad accoglierlo, con il quale, cioè, può stabilire un rapporto di mutualistica simbiosi. Nella struttura interna della lingua vivente deve essere già da sempre operante, in qualche modo, un legame che può degenerare in legame totalitario. Sorvegliare la lingua perché questo veleno non sia inoculato è il compito di un pensiero critico». (Ronchi, 46,47) 3.4. Rileggere Babele: per una reinterpretazione o corretta / possibile interpretazione dell’episodio biblico della torre di Babele (Genesi 11, 1-9) «A differenza di quanto era avvenuto nella Palestina dei primi del Novecento, non ci fu nel mio cuore nessuna «guerra delle lingue», nessuna competizione: ebraico e yiddish convivevano felicemente fianco a fianco tra loro e in buona armonia con l'inglese, l'arabo e l'italiano. Moderni commentatori hanno sostenuto che la maledizione di Babele, lungi dall'essere una sorta di seconda cacciata dal Paradiso (il Paradiso dell'unica lingua), è, al contrario, una benedizione. Nell'unità linguistica degli uomini intenti a costruire la Torre essi hanno visto l'anticamera del totalitarismo e del pensiero unico, come può suggerire il primo versetto del capitolo in cui si narra l'episodio: «E tutta la terra era una lingua e una parola uniche» (Genesi 11,1), mentre hanno scorto nella condanna alla diversità degli idiomi la radice del pluralismo e della ricchezza di prospettive. Hanno potuto farlo grazie alla grande libertà offerta loro dal midrash, naturalmente. Se infatti si considera la lettera del testo biblico, difficilmente vi si potrà rintracciare l'ottimismo cosmopolita di queste interpretazioni. Le parole di YHWH suonano come una condanna, e non come lo squillo di tromba che preannuncia una nuova, meravigliosa età dell'oro: «E disse YHWH: “Ecco sono un unico popolo e tutti quanti hanno un'unica lingua e questo è il loro cominciare nel fare, e ora non sarà impedito loro tutto ciò che progetteranno di fare. Orsù scendiamo e confondiamo là la loro lingua in modo che non intendano l'uno la lingua dell'altro!”» (Genesi 11,6-7). L'umanità sembra precipitare in un'era oscura, fatta di scarsa progettualità e assoluta incomprensione, ma è poi stato davvero così? Assolutamente no. La prassi di tutte le epoche dimostra che le barriere linguistiche sono fragili e si possono abbattere facilmente con un po' di buona volontà, che le traduzioni sono sempre possibili, e con un buon margine di riuscita. È vero, Mosè discendente dal Sinai è spesso rappresentato con le corna per una svista di traduzione (la parola ebraica qeren significa sia «raggio» sia «corno», e Mosè era in realtà radioso e non cornuto).

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Questo vuol dire che «non intendiamo l'uno la lingua dell'altro»? No, perlopiù ci intendiamo, e poi c'è qualche residuo di incomprensione, che del resto non manca anche quando si parla lo stesso idioma. Le lingue sono sempre imparabili, insegnabili e traducibili perché nascono da uno zoccolo duro di esperienze umane uguale e comunicabile sotto tutti i cieli, e le differenze che si riscontrano sono solo sfumature. La loro assoluta permeabilità è dimostrata dal fatto che si mescolano spontaneamente (con grande orrore dei puristi). Esperita la benedizione di Babele, si trattava di trovare qualcuno con cui condividerla oralmente, in fondo non si può sempre stare con il naso immerso nei libri». (Callow Anna Linda, 2019, La lingua che visse due volte. Fascino e avventure dell’ebraico, Garzanti, Milano, 184-185). Nella pluralità delle lingue, nella loro evoluzione interna, nella evoluzione che ognuna di loro subisce nel confronto / confine con altre, nei doverosi processi di traduzione si evidenzia la funzione del linguaggio e la sua capacità di sostenere e promuovere comprensione e competenza nei diversi campi della ricerca; di sostenere inoltre l’abilità attiva della mente che proprio nel passaggio da una lingua ad un’altra manifesta e attua le proprie capacità conoscitive, pratiche ed etiche. [possibile….] 4. Parole (performative) a confronto nell’espressione di un ricorrente disagio generazionale (anche tenendo presente le opere di John R. Searle sulla teoria degli atti linguistici) La varietà storica degli atti linguistici performativi del linguaggio quotidiano, riferiti alla stessa situazione sociale (la situazione giovanile), descritta in diversi momenti storici. 4.1. un passaggio del linguaggio del nuovo corso sociale dal 1968 4.2. un passaggio del linguaggio generazionale di fine ‘900 (da Schreck … parla con il “futuro re”) 4.3. un passaggio del linguaggio dei “millenians” (un rap …)