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Bernardino Maria Serenari

Mal(e) d’AfricaLa saga dei Piavotto in un secoLo di somaLia

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I edizione: dicembre 2014

Dedico questo mio lavoro alla memoria di mia Mamma.

Prefazione dell’autore

La storia che vado a raccontare è la storia della famiglia Piavotto di Racconigi e narra di tutto ciò che è accaduto dal 1873 (anno di nascita di Vittorina Mai-rano, poi moglie di Nerio Piavotto) al 2010 (anno di morte di Gigliola Trioglio, nipote di Nerio Piavotto).

Anche se i nomi dei protagonisti sono nomi di fan-tasia, molti dei fatti e degli avvenimenti, che qui in forma romanzata vengono raccontati, sono ispirati a fatti ed avvenimenti realmente accaduti ed apparten-gono alla storia di un famiglia che mia Madre cono-sceva molto bene e che io pure, attraverso i suoi rac-conti, altrettanto posso dire di aver conosciuto.

Coprono tutto il XX secolo e narrano delle forti trasformazioni avvenute all’interno di quella famiglia a seguito dell’andata in Africa, più esattamente in So-malia, di alcuni suoi componenti.

Dopo le iniziali difficoltà, a cavallo del 1929, l’at-tività di coloni e produttori agricoli li portò, tra gli anni Trenta e Quaranta, ad arricchirsi notevolmente. Alti guadagni che proseguirono anche dopo la Secon-da guerra mondiale e che, in particolare, furono assai ingenti tra il 1950 ed il 1965.

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Non tutti però ebbero l’opportunità di godere di quelle ricchezze, perché il denaro, come quasi sem-pre accade, crea in chi lo possiede arroganza e potere, ed induce a compromessi, affari poco onesti e di con-seguenza rapporti complicati e difficili, anche tra gli stessi componenti della propria famiglia.

In questo romanzo desidero raccontare alcune del-le spregevoli cose che sono accadute, con fatti anche drammatici e tristi, che hanno poi consumato nell’a-nima alcune persone di quella famiglia, che ad altre hanno fatto del male, e che hanno lasciato tutti con un grande amaro in bocca, per come poi alla fine si sarebbero concluse.

Naturalmente a pagare per quegli inganni e per quelle ingiustizie furono le persone più buone ed oneste, ma nessuno alla fine, a mio parere, ne uscì vincitore.

Io stesso ho potuto trascorrere un breve periodo

in Somalia e vivere dall’interno un‘esperienza afri-cana. Posso dire che l’Africa, quella parte di Africa così equatoriale come la Somalia, quando la respiri e la vivi, ti inietta nelle vene e nel cuore qualcosa di misterioso e di affascinante, qualcosa che rimarrà per sempre nel tuo dna e che ti farà sempre desiderare di poterci tornare… lo chiamano il “Mal d’Africa”… qualcosa che va oltre un sentimento o un’emozione, qualcosa che non riesci a spiegare!

È per questo motivo che, mentre lo stavo scriven-

do, ho desiderato chiamare questo mio lavoro “Mal

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d’Africa”. Ma poi, come tutti gli amori che ti fan-no star bene e che al tempo stesso ti fanno pure star male (considerato i guai che sono accaduti a quella famiglia e che di fatto sono legati all’Africa) anche l’Africa, indirettamente purtroppo, mi ha fatto star male. Allora “Mal d’Africa” è diventato “Male d’Afri-ca” ovvero “Mal(e) d’Africa”.

Dedico questo mio lavoro al ricordo di mia Mam-

ma, che fu una delle persone che maggiormente ri-uscirono a vedere il male che in quella famiglia si era annidato, producendo solo sofferenze e delusioni… e tanta amarezza nel cuore.

Bernardino Maria Serenari

14 agosto 2014

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Precisazioni dell’autore

La storia della famiglia Piavotto, come già ricorda-to nella prefazione a questo romanzo, è ispirata alla storia vera di una famiglia realmente esistita.

L’intento dell’autore, nello scrivere il romanzo, è stato quello di mettere in evidenza i rapporti uma-ni e famigliari dei protagonisti di questa storia, che ovviamente hanno vissuto in un periodo storico ben definito.

Tuttavia da parte dell’autore non vi è stata nessuna pretesa di creare un romanzo storico, ma semplice-mente una saga famigliare, però nella cornice di un determinato momento storico.

Pertanto l’autore desidera precisare che ogni ri-ferimento a trattative ed accordi tra i produttori in Somalia di banane ed il Governo italiano dell’epoca non ha alcun fondamento storico, ma è solo frutto di fantasia.

All’autore era comunque necessario creare l’at-mosfera dell’epoca, per poter meglio sviluppare gli avvenimenti narrati, fatto salvo che realmente, dal-la fine degli anni Venti fino ai primi anni Sessanta, le banane in Italia erano commercializzate in regime di

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monopolio, con l’esistenza di particolari accordi tra il Governo italiano ed i produttori della Somalia.

L’autore desidera precisare inoltre che in alcuni

episodi narrati vengono citate persone la cui immagi-ne è pubblica, vista la notorietà delle stesse.

Queste persone si inseriscono in episodi che han-no un fondamento reale, nelle testimonianze e nei racconti, riscontrati dall’autore, dei veri componenti della famiglia veramente esistita, che nel romanzo si cela dietro la famiglia Piavotto.

Gli episodi sono da ritenersi realmente accaduti, anche se alcuni dialoghi sono ovviamente immagina-ri. Il tutto nel pieno ed assoluto rispetto verso costo-ro da parte dell’autore.

In particolare verso alcuni componenti della fami-glia Agnelli, la nobile Marella Caracciolo di Castagne-to, i marchesi Rossi di Montelera, la guida alpina Lu-igi Carrel, il cardiochirurgo Achille Mario Dogliotti, la first lady americana Jacqueline Kennedy, il tenore Giuseppe Di Stefano, il perito calligrafico Michele Maero, il cardiochirurgo Denton Cooley.

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Capitolo 1

Le origini

«Figliuoli, a tavola… il babbo è appena rientrato ed ora possiamo cenare».

Mamma Vittorina ripeteva ogni sera la stessa cosa ai suoi sei figli, non appena suo marito Nerio alle set-te rientrava dai campi, malgrado il vecchio padre, il nonno, sempre pieno di vino e con la testa più di là che di qua, da oltre un’ora brontolasse in dialetto che aveva fame, che era tardi, che in tutte le case alle sei e mezza si mangia e che quella era una casa di matti.

Mamma Vittorina era una donna piena di energie e di tanta pazienza, sopportava tutto, ma non risparmia-va di commentare ogni volta e rispondere al vecchio padre: «Sta’ citu, tu! Qui comando io, perché questa è casa mia e qui si cena solo quando lo decido io».

Vittorina si era sposata con Nerio nel 1895.All’epoca, a volte, i matrimoni erano combinati

dalle famiglie e così fu pure per lei. C’erano delle persone che lo facevano per mestiere di trovare i ma-riti alle ragazze nubili… erano chiamati ruffiani.

Vittorina era nata nel 1873 e sua mamma era mor-ta di parto, che a quei tempi purtroppo accadeva di

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frequente, ed allora fu allevata dal padre Amelio e dalla nonna e le zie che vivevano in casa con loro.

Era una vecchia famiglia patriarcale dove le figlie ed i figli sposati continuavano a vivere assieme in una grande casa, un vecchio mulino del Settecento tra-sformato in parte in abitazione, nel centro della cit-tadina di Racconigi.

La famiglia era numerosa, le bocche da sfamare erano tante ed i soldi invece erano pochi.

Papà Amelio allora decise di rivolgersi ad un ruf-fiano che gli avevano indicato e che in cambio di po-chi denari avrebbe trovato un marito alla figlia.

Le trattative furono brevi ed un marito le fu tro-vato.

Fu così che da papà Amelio venne immediatamen-te deciso il giorno del Matrimonio, il giorno in cui Vittorina avrebbe visto per la prima volta e conosciu-to il suo futuro consorte.

Vittorina, nel suo intimo, era di certo molto ansio-sa e temeva che quell’uomo, che appunto non cono-sceva, avrebbe potuto non essere di suo gradimento, ma al padre “padrone” che faceva il mugnaio bisogna-va obbedire, poi un uomo in più in casa erano braccia in più a lavorare nei campi ed al mulino.

Quando fu al Municipio, accompagnata dal padre, dalle zie e da alcune cugine, Vittorina avrebbe volu-to scappare, piuttosto farsi monaca, che sposare uno sconosciuto!

Poco dopo Nerio Piavotto arrivò, accompagnato dai testimoni e da un suo fratello. Ebbe un sorriso compiacente nel vedere la sua futura sposa, perché

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lei era una giovane e bella ragazza, le si avvicinò, le porse la mano e le disse: «Sono onorato, farò di voi una sposa felice» ma non tolse il cappello e questo fatto impressionò molto Vittorina.

“Come! – pensò – Costui appare galante, ma non è educazione non cavarsi il cappello!”

Entrarono nella sala dell’ufficiale comunale addetto alla stesura del contratto di Matrimonio ed a quel punto Nerio fu obbligato dalle circostanze a togliere dalla testa il cappello e mostrare così alla sua futura sposa il suo cranio completamente calvo, malgrado la giovane età.

Vittorina, quando vide quell’uomo un po’ cic-ciottello e senza capelli che non le piaceva, ebbe una specie di smarrimento, ma abituata ad obbedire in silenzio, anche in quell’occasione lei non tradì il caro padre e quindi disse “sì” alla domanda di rito e firmò il verbale del contratto di Matrimonio.

La domenica seguente ci fu il Matrimonio religio-so in Collegiata, la chiesa era piena di gente e Vittori-na apparve felice.

Sì, perché quell’uomo che in Municipio aveva co-nosciuto e che non le era piaciuto, in realtà in pochi giorni si era dimostrato più che mai galante, educato e gentile, e poi simpatico ed allegro. Certo, era senza capelli, ma andava bene lo stesso.

L’anno seguente al Matrimonio tra Nerio e Vitto-rina la famiglia patriarcale in cui vivevano fu allietata dalla nascita della prima figlia, alla quale fu dato il nome anche a lei di Vittorina. Non si poteva non dare il nome della nonna paterna e, quarda caso, la nonna paterna si chiamava pure lei Vittorina.

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Era il 6 di gennaio del 1896, il giorno dell’Epi-fanìa, ed allora le fu scelto come secondo nome di battesimo quello di Epifània.

Quella bambina però non venne mai chiamata né col nome di Vittorina né di Epifània, ma più semplice-mente col soprannome di “Verin” (che forse poteva es-sere il diminutivo di Vittorina in dialetto piemontese).

Il giorno che Vittorina Piavotto chiamò i sei figli

a cenare, un giorno uguale a tanti altri, era il 27 di marzo del 1926.

Verin, la primogenita, la prima di sette figli, all’e-

poca aveva già compiuto trent’anni. Era l’unica già maritata e si era trasferita a Guarene, nell’Albese, in casa del marito Leonardo, dal quale aveva avuto due figli, nel 1921 Gigliola e nel 1923 Lodovico.

Gli altri sei figli di Vittorina invece erano ancora tutti a Racconigi in casa con i genitori.

Amelio, primo tra i maschi, nato nel 1899, era un bel ragazzone, molto serio e rispettoso della sua famiglia. Aiutava suo padre nella conduzione della campagna.

Lucia, nata nel 1900, che aiutata dalla parrocchia e da alcune famiglie nobili di Racconigi, dove anda-va a fare compagnia alle vecchie signore, era riusci-ta a studiare, a frequentare l’università a Torino ed a laurearsi in Matematica. Aveva anche imparato a suonare un po’ il pianoforte. Lucia era ben voluta da tutti perché sveglia ed intelligente, ma anche perché gli altri avevano per lei un senso di pietà per le sue

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condizioni, a causa di un incidente infantile. All’età di cinque anni era purtroppo caduta in un paiuolo di acqua bollente, quelli grandi che si preparavano sul camino per fare il bucato o il bagno ai bambini. Si era gravemente ustionata fino alla vita ed ora, che era adulta, le conseguenze erano che era claudicante e che la sua “natura femminile”, come si diceva allora, ovvero le sue parti intime, erano state deturpate a tal punto che le era stato detto e fatto credere che non avrebbe mai potuto sposarsi e quindi avere dei figli.

Antonio, detto Tonio, nato nel 1903, era, al con-trario del fratello maggiore, uno scavezzacollo con non troppa voglia di lavorare.

Alfonsina, detta Nina, nata nel 1906, era una ra-gazza semplice ed ingenua, che aveva un fidanzato in Valle d’Aosta e che presto voleva sposarsi.

Costantino, detto Ceti, nato nel 1912, aveva quat-tordici anni. Un bel ragazzino che stava crescendo velocemente in altezza e che aveva un viso dai line-amenti stupendi, dolcissimi, quasi femminili. Aveva smesso di andare a scuola e qualche volta aiutava suo padre in campagna.

Infine Elisa, la bimba di famiglia, la più coccolata, la più viziata, nata nel 1916, che ancora era adole-scente e frequentava le scuole elementari.

Babbo Nerio si sedette a tavola, non prima di es-

sersi fatto il segno della Croce e ringraziato il buon Dio per il pane quotidiano, e dopo di lui si sedettero la moglie Vittorina ed i sei figli Amelio, Lucia, Tonio, Nina, Ceti ed Elisa.

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Il vecchio nonno invece era già seduto da un pezzo e certo non si alzava a dire una preghiera e poi non ascoltava nulla di quello che si diceva, anche perché era un po’ sordo e forse fingeva di esserlo ancora di più.

Sulla tavola, come succedeva da tempo, non c’e-rano tante cose se non pane, uova, formaggio ed una bottiglia di vino. Il vino però era di quello buono, perché lo faceva il genero Leonardo a Piobesi d’Alba, e là il Barbera ed il Nebiolo lo sanno far bene.

Leonardo era infatti un ottimo vinificatore, aveva una bellissima vigna ed ogni anno vinceva sempre il premio per il miglior Nebiolo prodotto nelle Langhe.

Nerio quella sera sembrava serio. Elisa e Ceti, che scherzavano tra loro, non se ne accorsero, del resto erano bambini o poco più che bambini, ma gli altri figli, già adulti, si resero conto che il padre era im-barazzato e che tardava ad iniziare a mangiare, quasi cercasse il coraggio di parlare ai suoi figli, forse per qualcosa di importante, o di serio, o di grave.

Poi Nerio ruppe quel silenzio imbarazzante: «Ra-gazzi, figli miei, i tempi sono duri e qui tirare avanti questa baracca sta diventando per me ogni giorno più gravoso e difficile… su Elisa e Ceti non ci posso con-tare… tu Nina, vuoi sposarti ed allora sarebbe meglio farlo al più presto, così a te ci penserà tuo marito… Lucia, purtroppo tu nelle tue condizioni non puoi an-dare a lavorare, però sei brava in aritmetica e potresti dare lezioni private ai figli delle tue dame. Il problema è per voi figli maschi, Amelio e Tonio, siete uomini e non più ragazzi, avete braccia robuste, non c’è posto

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per voi nei campi, perché il lavoro è poco, basto io e potrebbe aiutarmi Ceti, che ha già quasi quindici anni… per voi bisogna trovare un lavoro fuori, magari a Torino alle fabbriche, c’è la Fiat che sta ingrandendo i suoi stabilimenti e forse assume operai. Oppure c’è un’idea che io ho in mente, me ne hanno parlato…»

«Un’idea… quale idea?» sobbalzò Amelio.«Li leggete i giornali quando andate al Caffè? Sa-

pete cosa dice il Duce? Sì, il Duce, quel Mussolini là a Roma… dice che l’Impero d’Italia diventerà sempre più grande e che Roma tornerà ad essere a capo del mondo!»

«Ma pa’… che c’entra Mussolini con noi?» in-terrppe Tonio.

«C’entra, c’entra! Ma tu, Tonio, pensi solo alle sottane e non leggi i giornali».

«Pa’, sapete cosa vi dico – rispose Tonio – che a me della politica, del fascismo e di Mussolini non me ne frega un bel niente!»

«Sbagli, fai male! Bisogna sapere le cose e quello che ho in mente è una cosa seria e bisogna ringraziare Mussolini».

Amelio lo interruppe in maniera un po’ brusca: «Babbo, siete partito dai nostri problemi, che le cose stanno andando un po’ male ed adesso voi dite che dobbiamo ringraziare Mussolini!? Scusate, ma a me sembra una sciocchezza quello che state dicendo!»

«Ragazzi, se mi fate parlare, capireste quello che io voglio dirvi».

«Parlate dunque, ma dei nostri problemi e non di Roma».

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«Ed invece Roma c’entra ovvero Mussolini ha fatto le colonie e dicono che la Somalia adesso è italiana, che là è come essere in Italia, si parla italiano ed an-che i negri debbono parlare italiano. Dicono che là si può fare i colonizzatori, che ti danno la terra ed i ne-gri che te la lavorano, basta dargli qualcosa da man-giare e se sei capace puoi far tanti soldi. In piazza ho sentito dire che da Torino sono partiti in molti e che in Somalia vanno a produrre cotone… dicono che il cotone laggiù viene bene e che è molto pregiato».

Tonio sbottò, quasi volesse far cambiare discorso a suo padre: «Papà, quello che state pensando mi sem-bra una follia! Non vorrete sul serio che andiamo in Africa… io non so neppure dove sia la Somalia, co-munque mi sembra che è dall’altra parte del mondo. Volete sbarazzarvi di noi. Questa è solo una follia!!»

Nerio non diede risposta ed iniziò a mangiare.Poco dopo Nina, forse per cambiare discorso, dis-

se rivolta a sua madre: «Mamma, volete sapere che cosa mi ha scritto il mio Giuanin nella lettera che è arrivata stamane? Ha scritto che è venuto a sapere che qui a Racconigi vogliono cedere una macelleria, che la prossima settimana verrà per trattare e se l’af-fare andrà in porto è disposto a cercare un alloggio qui in affitto e poi a sposarmi subito».

«Ah, dopo tante sciocchezze che stavo sentendo, questa sì che è una bella notizia!» rispose mamma Vittorina.

Nina “filava” con Giovanni già da un paio di anni. Lo aveva conosciuto durante una gita nella Valle d’Aosta.

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I suoi genitori avevano una macelleria su al paese e lui da quando era bambino lavorava tra i quarti di manzo, con un camice bianco sempre sporco di san-gue, ma il mestiere adesso, che era un uomo, lo aveva imparato bene e sarebbe stato perfettamente in grado di avere una macelleria tutta sua.

L’anno seguente, nel 1927, Nina ed il suo Giovan-ni si sarebbero sposati, avrebbero messo su una bella casetta tutta per loro e la macelleria in centro a Rac-conigi. Avrebbero poi avuto due figlie nel giro di un paio di anni e per quasi sessant’anni loro avrebbero gestito quella macelleria, lui al banco e lei alla cas-sa. Per quasi sessant’anni quella macelleria sarebbe stata sempre uguale, tutta in marmo bianco e grigio di Carrara, sempre gelida d’inverno, sempre con una bellissima e gigantesca bilancia ornamentale in otto-ne appesa al soffitto, che Nina lucidava ogni giorno.

Quella bilancia fu il simbolo della loro macelleria e lo rimase fino agli anni Ottanta quando loro, invec-chiati, avrebbero deciso di cessare l’attività e chiude-re la bottega.

Dopo cena in casa Piavotto era abitudine e neces-

sità andare presto a dormire, sia per risparmiare pe-trolio per l’lluminazione, sia perché alla mattina alle sei si doveva sempre essere già tutti in piedi.

Quella sera Amelio e Tonio si ritirarono nella loro camera, ma invece di dormire iniziarono a parlare tra loro.

Fu Amelio ad iniziare, rivolgendosi a Tonio: «Sai però che l’dea di papà non è poi così sciocca! Io l’a-

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vevo sentito che stanno andando in Somalia dei colo-ni… in fondo io e te siamo giovani e qui non abbiamo una fidanzata che ci impedisca di partire… a me l’i-dea dell’avventura mi affascina».

«A me no! – rispose Tonio – A me piacerebbe fare la bella vita… io sono appassionato del calcio e mi piace andare a Torino a vedere la Juventus. In Africa penso che si debba vivere come zulù nelle capanne… poi dicono che c’è il deserto e che fa molto caldo tut-to l’anno e che ci sono tante malattie che fanno mori-re… boia faus! Per niente al mondo andrò in Africa… e poi le belle ragazze, là dove le vai a trovare? A me le donne nere non piacciono!»

«Tonio, quanto sei sciocco! – rispose sorridendo Amelio – Le belle donne bianche ci sono anche là, anzi le donne che sono là sono donne di vita, le donne dei coloni sono italiane, inglesi, belle ed abbronza-te. Se andassimo là, andremmo a fare i coloni bian-chi ed i padroni, a farci servire e riverire dai neri, non dico che loro potrebbero essere i nostri schiavi, ma quasi… nel senso che noi daremmo solo ordini e loro dovrebbero soltanto obbedire! E poi alla fine chi ti dice che non si facciano affari? Mettiamo in piedi un’azienda, si dice che in Africa la terra sia molto fer-tile, che gli operai non manchino e costino poco… e poi quello che si produce si carica sulle navi e si spe-disce in Italia o in America e tu incassi dollari, che te li mettono in banca qui in Italia, non certo in Soma-lia, che le banche non esistono! Là dicono che si vive con poco, così quando torni, i tuoi soldi guadagnati te li ritrovi tutti qui e puoi diventare ricco!»

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«Tra te e nostro padre – gli rispose Tonio – sta-sera volete proprio non farmi dormire, mi state mettendo dei pensieri, porca miseria! No, e poi no, scordatevi l’Africa… potremmo fare tante cose qui… se proprio vuoi, vacci tu! Io aspetterò che ritorni ed allora dirai che avevo ragione ed io mi sbudellerò dal ridere quando mi racconterai che sei stato male, che là è brutto, che il sole dell’Africa è insopportabile!!»

La mattina seguente nessuno più nominò la parola Africa.

Papà Nerio alle sette era già andato nei campi.Tonio alle otto partì con la motocicletta per Tori-

no, dicendo che doveva incontrare un tale, ma forse doveva soltanto vedersi con una ragazza.

Amelio alla stessa ora uscì di casa per accompagna-re la sorella Nina a fare delle commissioni.

Lucia alle nove andò all’assemblea delle giovani crocerossine.

Elisa era a scuola e Ceti era ancora a letto, perché diceva di sentirsi la febbre, ma forse era solo una scu-sa per non andare con suo padre in campagna.

Ed infine mamma Vittorina era uscita di prima mattina per andare al mercato.

La figlia sposata Verin era a Guarene, a circa tren-ta chilometri di distanza, che stava portando alla pa-sticceria col calesse due enormi panieri pieni di circa mille uova.

Una volta alla settimana infatti riforniva con le sue uova la pasticceria di via Roma a Guarene.

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Verin certamente non immaginava che dalla sera prece-dente nella sua famiglia l’Africa sarebbe diventata così importante. In effetti il 27 marzo 1926 l’Africa diven-tò la cosa più importante di tutta la famiglia Piavotto, al punto da cambiare in maniera totale ed incisiva la vita a tutti i suoi componenti.Le vicende della famiglia Piavotto si sarebbero per quasi un secolo protratte (fino addirittura al 2008), con even-ti anche drammatici, con rotture di rapporti, con odi e rancori, con cause in Tribunale, con legami famigliari di-strutti.Quasi un secolo di Africa e di Somalia in questo roman-zo, che racconta la vita di tre generazioni, che ne sono uscite sconfitte, sebbene per tutti coloro che facevano parte della famiglia Piavotto e per tutti i loro discendenti che hanno potuto vivere un’esperienza africana, l’Africa ha lasciato dentro un grande ricordo, la voglia di tornar-ci… quello che più comunemente viene chiamato il mal d’Africa.Ma il vero male non è dell’Africa e non sta in Africa, ma nel cuore dei malvagi, dei disonesti, dei truffatori…

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