3 luglio 1999 Alessandria - centesimusannus.org fileliberazione per la terra dalla fatica di dover...

21
«INCONTRO DEI SOCI DELL ’ITALIA SETTENTRIONALE» 3 luglio 1999 Alessandria Globalizzazione, migrazione e Giubileo Relazione di S.E.R. Mons. Fernando Charrier, Vescovo di Alessandria e Presidente del Comitato per ???? sociali della C.E.I. 373 10

Transcript of 3 luglio 1999 Alessandria - centesimusannus.org fileliberazione per la terra dalla fatica di dover...

«INCONTRO DEI SOCI

DELL’ITALIA SETTENTRIONALE»

3 luglio 1999Alessandria

Globalizzazione, migrazione e GiubileoRelazione di S.E.R. Mons. Fernando Charrier, Vescovo diAlessandria e Presidente del Comitato per ???? sociali dellaC.E.I.

373

10

Globalizzazione, migrazione e Giubileo

Fernando Charrier

L’anno giubilare nella Bibbia

Fra l’anno giubilare e i problemi sociali sussiste unlegame profondo che permette di abbracciare in unsolo sguardo i temi fondamentali del messaggio delGiubileo e di proiettarli sulle questioni più gravi cheassillano l’umanità in questo declinare del millennio,soprattutto in rapporto alla giustizia, alla tutela delladignità del lavoratore, all’uso delle risorse del piane-ta e alla responsabilità dell’uomo verso il creato e isuoi beni. Nel perpetuarsi dei ritmi del tempo con tut-te le innovazioni di cui siamo testimoni è possibileleggere il rivelarsi di una direzione e di un terminecarichi di contenuti salvifici, evocando nello stessotempo la stretta relazione che si pone fra il futuro delgoverno delle cose create e il futuro dell’uomo alla lu-ce del progetto di Dio.

Nel documento in preparazione del Giubileo per ilavoratori della terra e l’ecologia che si terrà il 12 no-vembre del prossimo anno si fa notare che l’istituzio-ne degli anni sabbatici viene attribuita nel Pentateu-co a Mosè, il legislatore di Israele, ed è tramandatanel contesto del codice di leggi date da Yahwèh sul Si-nai a suggello dell’alleanza con il popolo. Il senso e loscopo di tutto quel sistema normativo - prescindendodal lungo travaglio storico che ha condotto alla suasistemazione definitiva - era quello di permettere aIsraele, liberato dalla schiavitù d’Egitto, di vivere da

374

popolo libero nella terra promessa. La legislazione re-lativa all’anno sabbatico e all’anno giubilare va dun-que letta nel quadro di questo orizzonte di riscatto edi liberazione degli uomini e della terra. Oltre al ri-poso settimanale, modellato sul riposo del Creatore emotivato dalla memoria ingrata della dura servitùegiziana,1 si prevede un anno di riposo per la terraogni sette anni, chiamato anno sabbatico, quasi unaliberazione per la terra dalla fatica di dover ogni an-no assicurare la sua fecondità In questo anno non so-lo si lasciava riposare la terra, ma venivano in paritempo condonati i debiti e, dopo sei anni di uso del-la terra, se questa era passata in mani estranee allatribù del luogo, doveva ritornare ai proprietari origi-nari.

Dopo sette cicli sabbatici, il suono della tromba ri-tuale, lo jóbel, segnava l’inizio dell’anno giubilare, unanno speciale di perdono e di grazia, durante il qua-le le prescrizioni dell’anno sabbatico venivano am-pliate e celebrate con particolare solennità.2

Questo istituto traduce direttamente, sul piano so-ciale ed economico, la signoria di Dio e intende af-fermare tre libertà fondamentali:

• la libertà della terra, con il suo diritto al riposo,• la libertà dalle cose, con il ritorno delle case e

dei campi agli antichi proprietari,• la libertà delle persone, con il riscatto degli

schiavi.Per questo il cinquantesimo anno è santo: è un an-

375

1 Cfr. Es 23, 10-11; Lv 25, 1-28; Dt 15, 1-6.2 Cfr. Lv 25, 11-12.

no che proclama la volontà liberatrice di Dio sul co-smo e sulla storia e chiama tutti alla libertà:

«Dichiarerete santo il cinquantesimo anno e pro-clamerete la liberazione nel paese per tutti i suoi abi-tanti. Sarà per voi un giubileo; ognuno di voi tornerànella sua proprietà e nella sua famiglia… In que-st’anno di giubileo ciascuno tornerà in possesso delsuo».3

Il libro del Levitico pone esplicitamente in rela-zione il giubileo con la signoria di Dio, sperimentatanell’esperienza dell’esodo.4 Non si poteva essere pri-vati in modo definitivo della terra, dunque, poiché es-sa apparteneva a Dio, né gli israeliti potevano rima-nere per sempre in una situazione di schiavitù, datoche Dio li aveva riscattati come sua esclusiva pro-prietà, facendoli uscire dal paese d’Egitto e avendolicondotti nella terra promessa.

Beni, popolo e liberazione rappresentano il moti-vo conduttore dell’esperienza del popolo eletto. Inparticolare, la terra nella coscienza religiosa di Israe-le, viene ad incarnare e condensare simbolicamenteogni attesa di libertà e di giustizia, configurandosi co-me il contesto di riferimento e il termine positivo diogni itinerario di redenzione. Anni sabbatici e giubi-lei hanno dunque il compito di mantenere popolo eterra in una reciproca e incancellabile relazione di li-bertà, essendo Yahwèh il solo Liberatore e il Signoreunico di entrambi.

La situazione sociale presupposta dall’anno sabba-

376

3 Cfr. Lv 25, 10, 13.4 Cfr. Lv 25, 54.

tico e dal giubileo ci riporta, dal punto di vista stori-co, ad un tempo successivo a quello di Mosè, dopol’avvento della monarchia e i mutamenti di assetto so-ciale ed economico che la nuova istituzione ebbe inIsraele. La monarchia ruppe violentemente la struttu-ra primitiva, accaparrandosi per sé e i suoi innumere-voli funzionari le terre prima lasciate alle singole tribù.Si comprende perché i difensori dell’antica fede, comeil profeta Elia, insorgano con tanta forza contro so-prusi di questo genere, combattendoli aspramente.

La normativa sull’anno giubilare proiettava indie-tro, nella legislazione mosaica del Sinai, il desideriodi giustizia e l’ansia di liberazione dell’Israele storicoe in particolare dell’Israele che assiste, dopo l’affer-marsi della monarchia, al sovvertimento dell’anticastruttura sociale fondata sul clan, la condivisione e lacorresponsabilità, con il costituirsi di una nuovastruttura piramidale marcata da profonde disugua-glianze. Scopo dell’anno giubilare era in definitiva diproclamare l’uguaglianza di tutti i figli di Israele,schiudendo nuove possibilità alle famiglie che aves-sero perso le loro proprietà e perfino le libertà per-sonali. Era un annuncio di speranza. Ai ricchi, al con-trario, l’anno giubilare ricordava che sarebbe venutoil tempo in cui gli schiavi israeliti, divenuti nuova-mente uguali a loro, avrebbero potuto rivendicare iloro diritti.

Di conseguenza essi non potevano assolutizzare laloro condizione e prevaricare sugli altri. È così chenell’anno giubilare ogni povero, debole o sfruttato,poteva aver fiducia di trovare giustizia e liberazione;e ciò in virtù della potenza salvifica del Signore e del

377

suo intervento nella storia:«Egli libererà il povero che invocae il misero che non trova aiuto,avrà pietà del debole e del poveroe salverà la vita dei suoi miseri».5Il senso dell’anno giubilare si proietta così verso il

futuro come un anno atteso, un anno di grazia che ilSignore inaugurerà nei tempi messianici della salvez-za. Vi sono motivi per ritenere che la legge sui giubi-lei non sia mai stata completamente applicata e cheanzi, nella forma in cui la conosciamo, essa non ri-salga oltre il periodo dopo l’esilio babilonese. I pre-cetti dell’anno giubilare restano, in ogni caso, più unaprospettiva ideale che una realtà; una prospettivaideale tesa fra memoria e utopia, ma di rilievo essen-ziale per plasmare la coscienza d’Israele, soprattuttograzie alla predicazione profetica che vi si richiama eli rilegge nella prospettiva della loro realizzazione fu-tura. La celebrazione giubilare viene così a configu-rarsi sempre più come una profezia del futuro, prean-nuncio della vera e definitiva liberazione che sarebbestata operata dal Messia atteso.

A questa prospettiva messianica si richiama Gesùquando, nella sinagoga di Nazareth, riprende il testodi Isaia 61,1-2 e ne proclama l’adempimento nella suapersona.6

378

5 Salmo 72, 12-13.6 «Lo Spirito del Signore Dio è sopra di me per questo mi

ha consacrato con l’unzione, e mi ha mandato per annunziareai poveri un lieto messaggio, per proclamare ai prigionieri la li-berazione e ai ciechi la vista; per rimettere in libertà gli oppres-si, e predicare un anno di grazia del Signore» (Lc 4, 18-19).

La globalizzazione

Come mettere in sintonia Anno giubilare e globa-lizzazione?

Partiamo da lontano.L’«integrazione europea» è il fenomeno storico che

caratterizzerà, si pensa, il passaggio di secolo e dimillennio: per questo essa attira l’attenzione non so-lo degli «addetti ai lavori», ma anche del comune cit-tadino il quale si chiede quale è l’utilità di simile tra-guardo e quanto se ne gioverà la sua attuale ardua si-tuazione.

L’Europa era considerata «vecchia», e da alcuni loè ancora oggi, lontana dalle grandi spinte delle nuo-ve civiltà quali quella americana, quella giapponese,e finanche quella dei Paesi emergenti dell’EstremoOriente. Fino a pochi anni fa, infatti, le speranze delmondo non passavano per l’Europa. Le attuali vicen-de che attraversano il Vecchio Continente, invece,hanno conferito a quest’ultimo un ruolo di responsa-bilità nello sviluppo complessivo del pianeta, chie-dendo implicitamente ai popoli europei il coraggio ela speranza di un nuovo ciclo di propulsione cultura-le, politica, sociale ed economica.

Lo sviluppo europeo, come oggi si prospetta, vivetensioni conflittuali, incertezze di percorso, squilibristrutturali e larvate delusioni che provengono dall’iti-nerario che si è inteso intraprendere privilegiando l’e-spansione economica sullo sviluppo culturale, socia-le e politico. Si è inteso dare vita all’Europa dei mer-cati prima che a quella dei popoli e quella politica.Questa «sfasatura» di partenza sta ponendo oggi osta-

379

coli non indifferenti che, credo, gli esperti chiamati aquesto incontro faranno emergere con competenza echiarezza.

E tuttavia Jacques Delors ha il coraggio di affer-mare: «Dobbiamo scuoterci, dobbiamo riconoscereuna volta per tutte che l’unione fa la forza, attingeredalla nostra volontà e dalla nostra intelligenza l’ener-gia necessaria per proseguire questa formidabile av-ventura collettiva, costituita dall’unione delle nostrevecchie nazioni al servizio dell’universalismo, dellapace, della libertà e della solidarietà».7

A monte della esposizione dei problemi oggi emer-genti nel cammino europeo, si è voluto porre qualcheriflessione sui valori e i principi che debbono presie-dere nel mondo intero al nuovo sviluppo. Su questi,e in riferimento ai mercati, verte questa riflessione,alla luce del risvolto sociale del Giubileo, che ha l’in-tento di far crescere in tutti la coscienza che non sipossono ottenere certi scopi senza mettere le giustepremesse.

Le questioni internazionali riguardanti l’economia,pur presenti dall’inizio della rivoluzione industriale,affiorano con maggior evidenza all’inizio degli anni‘30 dopo la crisi di Wall Street alla luce di un nazio-nalismo e un imperialismo economico, che generò ildominio di alcune Nazioni sulle altre, e un interna-zionalismo del denaro spinto a confluire là dove si sa-rebbe trovato meglio.

I giudizi su tale situazione e il modello di svilup-po che ne poteva venire sono stati, in quegli anni,

380

7 «Europa: l’impossibile status quo» - Prefazione - Il Mulino.

considerati da alcuni un fattore di sviluppo, da altriun disordine cui era necessario porre rimedio. Datutti fu richiesto un certo qual ordine tra le nazioni;lo stesso pensiero sociale cristiano si fece interpretedi tale situazione richiedendo che «le varie nazioni,unendo insieme propositi e forze, poiché in campoeconomico sono interdipendenti e devono aiutarsi avicenda, si sforzassero di promuovere con sagge con-venzioni e istituzioni una felice cooperazione econo-mica internazionale».8 La visione dell’«internaziona-lizzazione dell’economia» era del tutto positiva: nonveniva imposta dalla necessità o dallo sviluppo,quanto dalla libera volontà dei singoli Stati e dall’or-ganizzazione delle economie per una maggior soli-darietà.

I problemi della comunità internazionale in evo-luzione avrebbero dovuto rimanere sempre sotto ilcontrollo dei singoli Stati con una spinta verso la col-laborazione economica internazionale. Da quanto siapprende dalla «storia», questo rimase quasi una uto-pia. In verità il progresso della scienza e della tecni-ca portava ad un infittirsi dei rapporti tra le comu-nità politiche facendo risaltare la inevitabile interdi-pendenza tra di esse; e apparve altrettanto vero che,di conseguenza, i diversi problemi umani (di conte-nuto scientifico, tecnico, economico, sociale, politico,culturale, ecc.) assunsero dimensioni sovranazionalie, a volte, mondiali.9

La tendenza degli economisti mirava ad una ra-

381

8 Pio XI. Quadragesimo anno.9 Cfr. Giovanni XXIII, «Mater et Magistra», nn. 200-201.

zionalità economica il cui frutto era l’«agire ottimo»in economia traendone tutti i risultati positivi possi-bili nella produzione della ricchezza: altri, invece, etra questi coloro che facevano riferimento per i valo-ri al pensiero sociale cristiano, ritenevano opportunoaffiancare alla razionalità economica, considerata ri-stretta solo alla produzione del profitto, la razionalitàetica. Gli economisti più avveduti sottolineavano co-me le due razionalità avessero in comune il «beneagire» e cercavano, di conseguenza, la via per armo-nizzare le due razionalità.

A tutti noi è chiaro che tale «querelle» è presentetutt’oggi, forse per ragioni e punti di vista diversi daquelli di ieri e normalmente non per posizioni pre-concette, come è apparso ultimamente in uno studioche definiva l’unico traguardo del «capitalista» il so-lo profitto, ma per deduzioni che, se pur difficili daaccettarsi, hanno una ragione nella situazione di flui-dità (mi sentirei di dire «di confusione») in cui si tro-va il mondo economico ai giorni nostri.

La dimensione internazionale, accompagnata dauna visione di una economia che si inserisce in tut-ti gli ambiti della vita dei popoli e dei singoli citta-dini, manteneva, in quel periodo, il sapore dell’assi-stenza, o meglio della correzione a valle delle stor-ture prodotte, anche se la si presentava come solida-rietà che avrebbe richiesto di produrre meglio e dipiù per contribuire allo sviluppo solidale dell’uma-nità intera.

Non mancava la richiesta di superare la sola «buo-na volontà» per organizzare meglio e con sempremaggior efficienza la ricerca scientifica e gli obiettivi

382

e i programmi per lo sviluppo della comunità mon-diale.10

Ci si andava convincendo che il potere fosse in lar-ga parte in totale dominio economico, per questa ra-gione da controbilanciare dal potere politico con unaazione che associasse ai vari diritti acquisiti (civili,politici, sociali) anche i diritti di disponibilità, cioègarantire a tutti i beni e i servizi essenziali.

Visioni, queste, capaci di ulteriori sviluppi e, altempo stesso, di inevitabili correzioni quando si fos-sero realizzate favorevoli situazioni derivanti, anche,da una vera e seria mondializzazione. Per il momen-to si tentava di offrire idee per qualche correzione al-le storture di uno sviluppo che appariva squilibratosia nel rapporto tra i settori produttivi e, ancor più,nei meccanismi internazionali del mercato.

Nell’ultimo decennio si è andato sempre più in-staurando un regime per cui le istituzioni sociopoli-tiche, perdendo influenza sul mondo economico,hanno lasciato ampio spazio alla «deregulation». Co-sì alle correzioni dei meccanismi del mercato appor-tate fino a quel tempo dalla «politica» si è sostituitoun certo «vuoto» immediatamente coperto dai vari at-tori economici.

383

10 «Mentre le economie dei vari Paesi si evolvono rapida-mente e con ritmo ancora più intenso in questo ultimo dopo-guerra, riteniamo opportuno richiamare l’attenzione su un prin-cipio fondamentale, che cioè allo sviluppo economico si accom-pagni e si adegui il progresso sociale, cosicché degli incrementiproduttivi abbiano a partecipare tutte le categorie di cittadini.Occorre vigilare attentamente e adoperarsi efficacemente perchégli squilibri economico-sociali non crescano, ma si attenuinoquanto più è possibile» (MM n. 78).

Come risultato si ebbe una concentrazione del ca-pitale e una situazione di «oligopolio» del potere so-cioeconomico: è parso, a volte, che vincesse un veroe proprio «nazionalismo liberale», con la conseguen-za della perdita di presa sulla mondializzazione ditutte le organizzazioni internazionali.

La spinta dei differenti blocchi ad una concorren-za intensificata e senza regole non poteva che provo-care squilibri e difficoltà non indifferenti.

Un’eco delle conseguenze la si trova in un discor-so di Giovanni Paolo II rivolto alle forze economichee sociali dell’Italia che mi permetto di riportare confedeltà: «… nel mondo sempre più numerosi sono iPaesi vittime di sfruttamento nel contesto dei vigen-ti sistemi economici internazionali. Si paga sempredi meno per i prodotti del duro lavoro della terra, siesige sempre di più per quelli dell’attività industria-le ed in questo modo invece dello sviluppo a cui han-no diritto, molte Nazioni vengono come condannateal ristagno, alla disoccupazione, all’emigrazione. Sitratta di un ingiusto sistema che oggi diventa unproblema mondiale… Non viene forse sconvolto sugrande scala l’ordine fondamentale che garantisce lapriorità del lavoro sul capitale? Non diventa forse ilcapitale sempre più potente e disumano? E vittimedi simili situazioni sono sempre di più l’uomo e la fa-miglia».11

In tale situazione credere che la solidarietà, intesacome semplice aiuto assistenziale, potesse porre ri-medio al disordine creato è pura utopia.

384

11 Discorso in Piazza S. Pietro, 19 marzo 1994.

Oggi lo sviluppo economico sta raggiungendo, pura fronte della presente crisi, livelli elevati e tenderàsempre più a dar vita, a livello mondiale, ad una eco-nomia «a più marce», con la tentazione di sganciarei «vagoni» più lenti. Se ne ha un esempio nel cam-mino di integrazione europea.

Se permane la convinzione che si è entrati inun’età caratterizzata dal »primato del contratto» edall’«eclissi del patto di fedeltà», o, peggio in una «so-cietà della pura competitività», non si andrà moltolontano.

Il problema è, come è facile intendere, prima ditutto culturale, e solo in seguito economico e politi-co: se non si comprende, infatti, il significato profon-do e l’esigenza (mi sento di dire: l’ineluttabilità) del-l’interdipendenza, con la conseguenza che ciascuno(singolo, gruppo sociale, Stato) si sente responsabiledell’altro, aumenteranno le conflittualità e le oligar-chie.

Gandi esprimeva queste riflessioni con un motto –che lui riferiva alla singola persona e che noi possia-mo applicare alla dimensione mondiale –: «Dovrem-mo vergognarci di riposare o fare un pasto abbon-dante fino a quando vi siano un solo uomo o una so-la donna validi senza lavoro e senza cibo».12

Il mondo non può costruirsi come luogo ove ogniuomo, ogni popolo, ogni Nazione e ogni Stato può vi-vere una effettiva democrazia sociale, politica ed eco-nomica, se non viene applicato il «principio di sussi-diarietà», divenuto fortunatamente di dominio co-

385

12 Antiche come le montagne.

mune. Tale principio si sostanzia in questa formula:«I poteri pubblici della Comunità mondiale non han-no lo scopo di limitare la sfera di azione ai poteripubblici delle singole Comunità politiche e tanto me-no di sostituirsi ad essi; hanno, invece, lo scopo dicontribuire alla creazione, su piano mondiale, di unambiente nel quale i poteri pubblici delle singole Co-munità politiche, i rispettivi cittadini e i corpi inter-medi possano svolgere i loro compiti, adempiere i lo-ro doveri, esercitare i loro diritti con maggior sicu-rezza».13

Alla luce di quanto si è venuto sin qui ragionando,come si può constatare non in stretta relazione allapura scienza economica poiché chi vi parla non è untecnico quanto un educatore di coscienze che operaalla luce dei valori etici, si può dire che la globaliz-zazione e la finanziarizzazione dell’economia presen-tano luci ed ombre.

Se da un lato, usufruendo della diffusione dellenuove tecnologie, specialmente nel campo telematico,la globalizzazione favorisce modelli di produzione edi consumo più uniformi con i quali si riesce a sod-disfare con minor spesa e con maggiore propagazio-ne i bisogni della gente, dall’altro pone problemi allastessa libertà di scelta e alla naturale differenziazio-ne dei bisogni secondo le diverse culture.

Ma ne potrebbero venire conseguenze assai piùgravi, specie nel campo della democrazia economicae dell’occupazione, se non si stabilissero delle regolee a queste tutti fossero fedeli. Si intende affermare

386

13 Giovanni XXIII, «Pacem in terris», n. 48.

che l’economia deve essere inquadrata in un solidocontesto giuridico che la metta a servizio della libertàumana integrale e la consideri come una particolaredimensione di questa libertà, il cui centro è etico.14

I principi etici cui si fa riferimento sono già statiin parte richiamati, rimane la fondamentale veritàche l’economia è a servizio dell’uomo e non vicever-sa. Questo presuppone e richiede che le logiche o leg-gi economiche siano «relative» all’uomo e non asso-lute e fini a se stesse. Bisogna perciò uscire da unarazionalità economica ristretta per entrare in una ra-zionalità aperta ove l’economia è posta in relazionecon tutte le specificazioni del vivere umano.

Né può essere diversamente se si vuol agire conscienza e con intelligenza, altrimenti si devono am-mettere tutte le storture che «l’utilitarismo» fine a sestesso porta con se, e tra queste anche la «carenza»di lavoro.

L’agire economico, in mancanza di accordi tra ipopoli o di una autorità internazionale efficiente edefficace, specialmente nel suo «connotato mondiale»,invece di una nuova soglia di possibilità per la co-munità dei popoli rischia di diventare nuova forma dioppressione dei paesi più forti sui paesi più piccoli, oanche un fattore di ingiustizia nei singoli Stati dandovita a squilibri nel settore del lavoro e creando disoc-cupazione, la quale è sempre un male e, quando as-sume certe dimensioni, può diventare una vera cala-mità sociale.15

387

14 Cfr. Giovanni Paolo II, «Centesimus annus», n. 42.15 Giovanni Paolo II, «Laborem exercens», n. 18.

Molte sono le cause dell’attuale situazione di diffi-coltà occupazionale; si «accusa» l’introduzione dellenuove tecnologie che, per le ragioni ben note, espel-lerebbe «mano d’opera»; vi si aggiunge il reale svi-luppo industriale dei popoli emergenti, ed anche l’at-tuale crisi economica e finanziaria.

Cause tutte vere, che tuttavia possono nasconderequalche altra ragione; esperti, infatti, sostengono chené le nuove tecnologie, né l’industrializzazione dei po-poli emergenti possono essere la causa ultima delladisoccupazione; lo potrebbero essere se gli orienta-menti e i criteri dell’economia e della finanza rima-nessero quali sono oggi, cioè solo capaci di interpre-tare un’economia della società industriale ormai su-perata mentre ci si trova in una società «qualitativa-mente» diversa. La fuga, o come più elegantemente sidefinisce, la «delocazione» delle aziende non sempreha come scopo di rimediare al fenomeno della sfre-nata concorrenza internazionale; tra gli argomenti visono il minor costo della mano d’opera o le facilita-zioni fiscali garantite da alcuni Paesi in via di svilup-po perché desiderosi di attirare insediamenti indu-striali.

La competizione, l’allentamento dei rapporti di so-lidarietà, la mancanza di adeguate garanzie giuridi-che a tutela del lavoro nel mondo intero, il contrastoe l’ampiezza delle trasformazioni tecnologiche e lapochezza della formazione dell’uomo, il problema diun riequilibrio tra i tempi di vita finora incentratiprevalentemente sul lavoro, il rischio dell’incessanterichiesta di aumenti di produttività con un contrac-colpo sui soggetti più deboli, sono cause che non pos-

388

sono essere trascurate, stanno infatti aggravando lagià precaria situazione occupazionale.

Vi si assommano anche i gravi problemi sociali eculturali che travagliano l’attuale società e le nuoveistanze che emergono al di fuori dell’economia, dellafinanza e del lavoro. Chiudersi nei soli problemi eco-nomici provocherebbe una cecità che renderebbe an-cor più difficile la soluzione, o perlomeno i tentatividi soluzione degli interrogativi che l’ambito econo-mico presenta quotidianamente. Né si può inseguiresolo il contingente lasciando da parte, o disattenden-do le difficoltà e le storture strutturali.

Non condivido tutte le tesi di Jeremy Rifkinespresse nella pubblicazione dal titolo «La fine del la-voro», ma ha attirato la mia attenzione la seguenteconstatazione: «Le vittime della Terza rivoluzione in-dustriale cominciano ad ammassarsi: milioni di lavo-ratori spazzati via per lasciare il posto a surrogatimeccanici più efficienti e redditizi. La disoccupazio-ne è in crescita e la tensione è sempre più forte neiPaesi caduti nel meccanismo perverso del migliora-mento delle performance produttive a ogni costo».16.

L’economia è scienza umana, ha leggi proprie maè a servizio dell’uomo: se nella sua applicazione sipresentano storture o cessa di «essere a servizio», èdovere inderogabile cambiare le regole che generanosimili intralci.

L’economia deve produrre ricchezza, ma non inmodo indifferenziato poiché l’etica umana richiedeche sia rispettata, e non solo nella distribuzione del-

389

16 «La fine del lavoro», pag. 450.

la ricchezza prodotta ma anche nel modo di produr-la, la dignità della persona umana con i relativi dirit-ti inalienabili, inviolabili e universali, e i corrispettividoveri. Sarebbe grave errore, da pagare a caro prez-zo, chiudersi in miopi atteggiamenti difensivi na-scondendosi dietro l’affermazione che l’economia de-ve comunque produrre ricchezza, in qual modo, perchi e perché, non interessa. La rinascita dell’«ideolo-gia liberale» e il capitalismo «libero» non farebberoche ricreare ingiustizie a livello mondiale e squilibrinei singoli Stati.

Ritornando alla questione della mondializzazionedell’economia e della globalizzazione in rapporto al-l’occupazione, come si potrebbe oggi tradurre in pro-getti e in azioni concrete l’affermazione dell’Encicli-ca sul lavoro umano di Giovanni Paolo II: «Per con-trapporsi al pericolo della disoccupazione, per assi-curare a tutti una occupazione… si deve provvederead una pianificazione in riferimento a quel banco dilavoro differenziato, presso il quale si forma la vitanon solo economica, ma anche culturale di una datasocietà».17 Constatato il campo di forza dell’economiamondiale, può essere piegato alla costruzione di unasocietà che rispetti per tutti gli uomini il diritto-do-vere del lavoro?

Tutti sostengono che si è in tempo di cambiamen-to radicale con sfide in ogni campo; la verità di que-sta affermazione si applica in modo speciale all’eco-nomia.

Sono perciò richiesti coraggio e intuito al fine di

390

17 N. 18.

rispondere alle novità che quotidianamente si pre-sentano. Le «convinzioni» del passato (ma anchequelle di oggi) sono poste in discussione; fermarsi al-le analisi o alle constatazioni senza confrontarsi, nonè atteggiamento umano. Bisogna accettare le sfide e,alla luce dei grandi valori umani, incamminarsi neinuovi sentieri che si aprono dinanzi.

Fermarsi o, peggio, volgersi ancora indietro sa-rebbe chiaro segno di mancata capacità di governareil cambiamento e il futuro.

Le trasformazioni quantitative e qualitative, checon impressionante accelerazione investono l’econo-mia e il mondo del lavoro, mentre accendono fonda-te speranze di progresso materiale e morale, solleva-no inquietanti problemi e severe domande.

Non si possono negare le forme di povertà legatealla crisi del lavoro, che escono dai parametri teoricidelle descrizioni sociologiche per assumere il contor-no definitivo e personalizzato dei nuovi emarginati:disoccupati, inoccupati, sottoccupati, ecc.

La crisi che stiamo vivendo, tuttavia, non èun’«agonia», non siamo cioè alla vigilia del disfaci-mento totale; è una crisi di crescita. Gli abiti sociali,politici ed economici ci «vanno stretti», sarebbe insi-piente uccidere chi ci sta dentro al posto di cambia-re gli abiti.

Oggi, perciò, ci vuole acutezza, intuizione, capa-cità progettuale e onestà. Queste virtù non mancanoal popolo italiano; si chiede che esse vengano eserci-tate anche da coloro che sono stati eletti o sono pre-posti al «governo» della cosa pubblica e dalle parti so-ciali.

391

Per questo c’è più che una speranza; per queste ra-gioni il Giubileo che ci sta oramai dinanzi è una oc-casione più che propizia che non dobbiamo eludere,ma accogliere come un «segno dei tempi».

Le migrazioni

Ci rimane da dire qualcosa sul rapporto migrazio-ni e giubileo.

Quando si parla di «migranti» immediatamente sipensa a persone che provengono da paesi lontani,gente senza dimora e senza patria, persone sradicatedalla propria cultura e dalle proprie usanze; in unaparola gente fuori la propria casa.

Così è nella realtà perché la nostra cultura ha eret-to nel tempo barriere tra le culture e le patrie, bar-riere che dividono le persone e i popoli rendendoli gliuni agli altri sconosciuti e lontani se non proprio ne-mici.

Non questa è la cultura che il Giubileo propone eintende creare tra i credenti e non solo. Sin dall’ini-zio si è affermato che Giubileo è liberazione, è ritor-no in patria e in possesso dei propri beni, significafarsi carico dell’altro, specie del forestiero e con que-sti camminare. Non quindi un cammino di singoli,ma di gruppo: non un obiettivo per pochi, ma per tut-ti. «Non c’è più né Giudeo né Greco – ricorda l’Apo-stolo Paolo ai cristiani della regione della Galazia –;non c’è più né schiavo né libero; non c’è più né uomoné donna, poiché tutti voi siete uno in Cristo Gesù».18

392

18 Gal 3, 28.

È difficile da comprendersi ed ancor più difficileda mettere in pratica la legge dell’uguaglianza tra gliuomini! Eppure è l’unica legge che può esistere tra gliesseri umani, tanto più tra credenti per i quali ogniuomo è «figlio di Dio», fatto ad immagine e somi-glianza di Dio stesso.

Anche questo problema è di natura culturale. Unasocietà che accetta l’emarginazione, anzi che la crea;una società che dà valore all’uomo per quello che pos-siede o per le origini storiche, non può che innalzarebarriere verso coloro che sono «diversi» per origine,per cultura e per storia. Barriere che diventano in-sormontabili quando ci si trova di fronte a degli «stra-nieri».

Diciamo di vivere in un «villaggio globale», maquesto non è la realtà, è la «fiction».

Un vero cambio di mente e di cuore è richiesto perchi non vuol partire da pregiudizi; cambio di menta-lità, cioè una cultura alternativa alla separazione;cambio di cuore, cioè amore e accoglienza per l’altro.

Il Giubileo ha anche questo scopo. Lo ha per chiaprirà la mente e il proprio cuore, per chi non seguela legge del «portafoglio» o della «tranquillità» a qual-siasi costo. Lo è per chi ritiene ogni uomo degno dicomprensione e di aiuto.

A noi ora a prepararci e vivere il Giubileo anchenel suo risvolto sociale.

393