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La citazione di pag. 56 è tratta da Dialoghi con Leucò, Cesare Pavese© 2014 Giulio Einaudi editore S.p.A., Torino

La citazione di pag. 73 è tratta da Il suono dell’ombra, Alda Merini© 2018 Mondadori Libri S.p.A., Milano,

per gentile concessione degli Eredi e dell’Editore

La citazione di pag. 81 è tratta da Vita d’un uomo, Giuseppe Ungaretti© 2018 Mondadori Libri S.p.A., Milano,

per gentile concessione degli Eredi e dell’Editore

La citazione di pag. 149 è tratta da Isole nella corrente, Ernest Hemingway© 2013 Mondadori Libri S.p.A., Milano, per gentile concessione dell’Editore

La citazione di pag. 173 è tratta da Da questa parte del mare, Gianmaria Testa© 2016 Giulio Einaudi editore S.p.A., Torino

© 2019 Edizioni EL, via J. Ressel 5, 34018San Dorligo della Valle (Trieste)

ISBN 978-88-6656-513-0www.edizioniel.com

iLlUsTrAtO DaLoReNzO CoNtI

SToRiE DaLA scUgNiZzErIa dI scAmPiA

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A Morena.Alcune persone le amerò tutta la vita.

Altre, anche dopo.

UNA PIAZZA DI SPACCIO

DI LIBRI

A QUARANT’ANNI dalla nascita di Scampia, abbiamo aperto la prima libreria del quartiere: si chiama «La Scugnizzeria», ovvero la casa degli scugnizzi, i ra-gazzi di strada.

Quando si entra nella nostra libreria, un cartello dice: «Piazza di Spaccio di libri». Dove prima si ven-deva droga, ora si spacciano libri. Per comprare un libro nell’Area Nord di Napoli, prima, bisognava per-correre dieci chilometri: otto fermate della metropo-litana. Oggi ci sono scaffali con libri gratuiti, i libri «sospesi»: c’è gente che compra libri per chi non può permetterselo.

INTRODUZIONE

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carcere, ragazzi che sembrano marchiati a fuoco, giu-dicati sin dalla nascita? Abbiamo trovato la risposta nello sport. Abbiamo iniziato cosí a recuperare storie di perdenti, gente che non ha vinto, ma che è rimasta nella memoria collettiva per le sue gesta, le imprese, l’altruismo, la disobbedienza civile, il saper dire «no». Atleti e atlete che si sono avvalsi del diritto di non es-sere campioni. Abbiamo raccolto venti storie e, con-vinti della bellezza della nostra idea e dell’importanza dei nostri eroi perdenti, abbiamo deciso di riprovarci e di inviare a Edizioni EL la nostra nuova proposta.

La risposta al nostro manoscritto è il libro che avete tra le mani. Perché, in fondo, perdere è un’avventura meravigliosa!

Una mattina, mentre con i bambini stavamo metten-do in ordine la nostra libreria montessoriana, è arriva-to un pacco, spedito da Edizioni EL: una donazione di libri per noi, con una bella lettera allegata. I ragazzi erano al settimo cielo. Finalmente qualcuno comincia-va a prestare attenzione a quello che stavamo facen-do e si accorgevano di noi anche i marchi editoriali che piú amiamo, quelli che producono i libri che leg-giamo in modo comunitario.

Quella mattina è stato un giorno di festa alla Scu-gnizzeria. Cosí, con i bambini, abbiamo deciso di scri-vere un libro con le storie di tutti: c’erano la storia del-la libreria, i papà in carcere, i sogni, i momenti difficili. S’intitolava Piazza di Spaccio di libri. Abbiamo manda-to una presentazione del progetto a Edizioni EL, che ha dimostrato un certo interesse. Esplosione di gioia in libreria: «Ci pubblicano, ci pubblicano!». Ma pochi giorni dopo è arrivato il responso: la casa editrice non avrebbe pubblicato il volume perché il testo, una volta scritto, non era risultato del tutto convincente.

È stato un momento di grande sconforto. Come avremmo fatto a ritrovare l’entusiasmo? Abbiamo de-ciso allora di parlare della sconfitta, che non sempre è una sciagura. Ma come si fa a parlare della sconfitta a ragazzi che hanno papà che non usciranno mai dal

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Nessuna paura che mi calpestino. Calpestata, l’erba diventa un sentiero.

Blaga Nikolova Dimitrova

ADOLF HITLER È IN TRIBUNA insieme al suo braccio de-stro, Rudolf Hess. In campo c’è Helene Bertha Amalie Riefenstahl, detta Leni: è lei la regista scelta dal regi-me nazista per immortalare su pellicola le prodezze degli «ariani» durante le Olimpiadi di Berlino del 1936. Leni è a bordo campo, suda, è frenetica. Sta girando il

L’ULTIMA RIGA BIANCA

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rivale. Owens parte, stacca, vola, vola lontanissimo, at-terra. Il salto è nullo. Ancora una volta l’Olympiastadion gioisce. Jesse abbassa la testa. Luz, mentre altri atleti si apprestano a volare, resta esterrefatto dalla bravura di quel ragazzone americano, dai suoi muscoli, dalla sua tecnica. Leni riprende tutto. Sarà un film epico. Scena al rallentatore, la regista ha già in mente le musiche di sot-tofondo. Tocca ancora a Luz Long. Luz ha ventitre anni; nato a Lipsia, è un atleta della Leipziger Sc, è il favori-to. Incarna l’ideale «ariano»: bello, biondo, capelli folti, un bel sorriso, il prototipo perfetto della Grande Ger-mania. È concentratissimo, ripete a mente tutti i passi che dovrà fare, guarda il punto dove dovrà staccare, già sente la sabbia sulla pelle. Sa perfettamente dove i suoi piedi dovranno sprofondare, il piú lontano possibile. Via, Leni segue rapida i movimenti di Luz, corre insieme a lui. Volo, lo stadio ammutolisce, e poi giú. La sabbia schizza sulla telecamera. Luz Long ha frantumato il suo stesso record. 7,87 metri. Delirio in tribuna, i tedeschi gridano «Luz, Luz, Luz, Luz, Luz!». Hitler stringe la mano ai suoi gregari, si abbraccia con Rudolf Hess. Jesse Owens è pronto per il secondo salto. Muscoli tirati, energia pron-ta a esplodere. Leni fa un primo piano sulla tensione di quei tendini. Parte, è un razzo. Luz Long, ancora intento a festeggiare, si blocca: «Ma quanto corre questo qui».

film piú importante della sua vita: Olympia. Incarica-ta direttamente da Hitler dovrà, con il suo «occhio di vetro», celebrare la superiorità dei biondi sui neri, dei tedeschi sul resto del mondo. Hitler, in tribuna, già so-gna la pellicola proiettata in ogni parte della Grande Germania, già sogna la testa del medagliere, già sogna i suoi ragazzi con l’oro al collo. L’Olympiastadion è pie-no, 100mila spettatori. Il Führer non ha badato a spe-se: materiali pregiati, struttura greco-romana, è senza dubbio lo stadio piú bello della sua epoca. Gli occhi del mondo sono tutti puntati su Berlino, è l’occasione che Hitler ha sempre desiderato.

In campo si sta svolgendo la gara di salto in lungo. Leni è sul suo dolly su rotaie, spinta dai suoi collaboratori: per la prima volta al mondo farà riprese dei primi piani degli atleti. È il turno del tedesco Carl Ludwig Hermann Long, o semplicemente Luz Long. È la finale. Luz parte con la sua falcata, passo dopo passo si avvicina alla linea bian-ca, si stacca da terra, vola e atterra a 7,84 metri. Bandie-ra bianca. Il salto è valido. Record olimpico frantumato. Lo stadio è in piedi, Hitler compreso. Sta per nascere una nuova stella. Tocca all’americano Jesse Owens. Luz, con l’asciugamano al collo e la bottiglietta d’acqua in mano, guarda quell’uomo di colore prepararsi all’eserci-zio. Non si distrae, lo osserva attentamente. Studia il suo

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Stacco, decollo, atterraggio. Ancora salto nullo. Il pie-de di Jesse Owens è nuovamente oltre la linea bianca. «Chapeau, – pensa Luz. – Onore a te, Jesse, tu sei il figlio di Mercurio, hai davvero le ali ai piedi».

I salti si susseguono, Hitler non vede l’ora di mettere al collo di Luz Long la medaglia piú importante. Leni lo riprenderà immortalando quel momento per sempre. Ultimo salto di Jesse Owens. L’americano è a un passo dall’eliminazione, non può piú sbagliare.

Qui succede una di quelle cose che cambiano la storia. Leni la osserva dal suo occhio di vetro e non crede a ciò che sta riprendendo. Luz Long si avvicina al suo rivale, Jesse Owens, parlottano, sembra spiegargli qualcosa. Jesse ride mentre Luz in pedana sistema un fazzoletto bianco trenta centimetri prima della linea bianca. Gli indi-ca il punto in cui staccare e anche lui ride. Mezzo stadio gli sta dando del pazzo. Non si sente piú il coro: «Luz, Luz, Luz, Luz, Luz!». Ultima possibilità per l’americano, corre, corre velocissimo, come il vento, come Mercurio, i passi si susseguono e Jesse si libra nel cielo nel punto preciso indicato da Luz Long. Leni immortala il momen-to. Silenzio in tribuna, tutti attendono l’esito del risultato. 8,06 metri. Nuovo record olimpico e medaglia d’oro. Un salto strepitoso. Jesse festeggia, Hitler e Hess no. Hess lascia la tribuna. Il primo a congratularsi per il salto stori-

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sbarcare in Sicilia. L’Operazione Husky ha inizio. Luz Long si rigira in mano la sua medaglia d’argento, è uno dei soldati della divisione corazzata Hermann Göring. Italiani e tedeschi sono lasciati in balia del destino, sen-za ordini dall’alto. Un manipolo di uomini nella terra dei Ciclopi. Eccoli, gli americani, eccole, le bombe. Le zagare non ci sono piú, il fumo oscura il cielo e l’odo-re acre della cordite seppellisce la salsedine. Non c’è Leni a riprendere a rallentatore le scene di una batta-glia cruciale. Ci sono solo urla disumane, destini che si incrociano, morte tua vita mia. Contro ogni aspetta-tiva, gli italo-tedeschi combattono impavidi. Gli ame-ricani sono in superiorità numerica, hanno armamenti migliori, ma ciò non scoraggia la Wehrmacht e i soldati fascisti. Per un attimo gli americani temono di esse-re ricacciati in mare. Ogni soldato italiano e tedesco sa che tanta ostinazione sarà ripagata dagli americani senza pietà. Il generale a stelle e strisce Patton è stato chiarissimo: «In Sicilia, non fate prigionieri».

Luz Long è in prima linea, vede cadere intorno a lui ragazzi italiani e tedeschi sotto le mitragliate america-ne. Da lontano vede un ragazzo americano di colore far partire una cannonata da un carro armato Sherman, a pochi metri da lui il corpo colpito di un suo commilitone fa un salto ben oltre gli 8,06 metri di Jesse Owens. I sol-

co è Luz Long, che con un sorriso sincero privo di invidia stringe la mano all’afroamericano. I due si abbracciano. Leni riprende tutto, consapevole che quelle scene non saranno mai approvate da Hitler.

È il momento della premiazione. Il podio è già pronto. Un «ariano» è arrivato secondo, alle spalle di un «negro». L’«ariano» ha aiutato il «negro». Il capo degli «ariani», Adolf Hitler, non premierà nessuno. Poco prima della con-segna delle medaglie, Rudolf Hess si avvicina all’orecchio di Luz Long: «Non abbracciare mai piú un negro».

A Luz Long, alla fine delle Olimpiadi del 1936, resta-no una medaglia d’argento, una sconfitta e una strana amicizia con il figlio di Mercurio. Un’amicizia un secolo troppo presto. Un’amicizia non condivisa, fuori conte-sto. Resta l’onore di avere assistito e contribuito a uno dei salti piú belli della storia dello sport.

Sette anni dopo.14 luglio 1943. Seconda guerra mondiale. Piana di Gela,

Sicilia. È una giornata bellissima. Estate piena. Il cielo è blu, blu, blu, senza una nuvola. Il sole alto a mezzogiorno. Il mare poco lontano canta con una brezza leggera. La salsedine si appoggia sulle divise dei soldati e il profumo delle zagare fa dimenticare per qualche istante la guerra.

Stanno arrivando gli Alleati, gli americani stanno per

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dati del primo reggimento della Luftwaffe cadono come mosche.

Luz Long si piega dietro un masso. Maledizione, po-chi minuti prima stava chiacchierando con gli italiani della fine della guerra e ora, benvenuto all’inferno. Luz era stato richiamato alle armi solo pochi mesi prima, per lungo tempo era stato impiegato in un ufficio spor-tivo di Berlino. Da lí, dal cuore della Grande Germania nazista, dalla stessa città dove aveva conosciuto «il fi-glio di Mercurio», faceva partire lettere clandestine de-stinate a Jesse Owens. La loro amicizia andava oltre le dinamiche di una guerra fratricida.

Il capitano di Luz Long, Wolfgang Hartmann, muo-re. Qualche istante dopo perde la vita anche l’artigliere Heinrich Zingsheim. Luz è ancora dietro il masso, rigira la medaglia tra le dita, la posa in una tasca del petto. È pronto per il suo destino.

Spara, spara, spara, Obergefreiter Luz Long, il capo-rale Long, spara e gli americani rispondono con i mitra. Luz è uno degli ultimi a restare in piedi. Una raffica lo colpisce in pieno. Un commilitone lo porta via carican-dolo sulle spalle, ma dopo qualche metro è costretto a lasciarlo a terra in fin di vita. Luz guarda il cielo e pensa a suo figlio e a sua moglie, a casa, in Germania. Cosa stanno facendo in questo momento? Cosa fa mio figlio

mentre il padre muore? Un cacciabombardiere passa veloce squarciando il cielo. Lascia una scia nel blu. L’ul-tima riga bianca. Luz Long è pronto per l’ultimo salto. In petto la sua medaglia è trafitta da una pallottola, il sangue bagna un famoso fazzoletto bianco.

Da qualche parte in America, un postino bussa alla porta di Jesse Owens. Il recordman di Berlino si siede in poltrona. Apre la busta e legge.

Dove mi trovo sembra non ci sia altro che sabbia e sangue. Io non ho paura per me, ma per mia moglie e il mio bambino, che non ha mai realmente conosciuto suo padre. Il mio cuore mi dice che questa potrebbe essere l’ultima lettera che ti scrivo. Se cosí dovesse es-sere, ti chiedo questo: quando la guerra sarà finita, vai in Germania a trovare mio figlio e raccontagli che nep-pure la guerra è riuscita a rompere la nostra amicizia.

Tuo fratello, Luz.Luz Long è stato seppellito dagli americani nel cimitero

di Biscari, in una fossa comune. Successivamente verrà traslato nel cimitero dei caduti tedeschi di Motta Sant’A-nastasia, riconosciuto solo grazie alla sua piastrina.

Kai Long, figlio di Luz, ha incontrato Jesse Owens. Nessuno della famiglia Long ha mai visitato la tomba di Luz. Nel 2009 Julia e Marlene, nipoti di Luz Long e Jesse Owens, hanno inaugurato i mondiali di atletica. A Berlino.

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Non abbiamo perso la partita; abbiamo solo finito il tempo.

Vince Lombardi

PABLO ESCOBAR, NEL 1993, era l’uomo piú ricco della Colombia. Veniva chiamato il Re della Cocaina. Ave-va un patrimonio di 30 miliardi di dollari, guadagnava 60 milioni di dollari al giorno. Escobar era cresciuto a Medellín ed era il capo dell’omonimo cartello criminale. Vendeva droga in Messico, Porto Rico, Venezuela, Stati

L’ALTRO ESCOBAR

Uniti, Spagna e Repubblica Dominicana. L’80 percento della cocaina del mondo era gestita da lui, il 20 percen-to delle armi illegali erano vendute da lui. Secondo la ri-vista Forbes, nel 1993 era il settimo uomo piú ricco del mondo. Pablo Escobar, per evitare, dopo l’arresto, di essere estradato negli Stati Uniti, si autocostruí una pri-gione, detta «La Catedral»: all’interno c’erano vasche idromassaggio e mobili di lusso. Era un patito di calcio e una volta invitò nella sua prigione la nazionale di cal-cio colombiana. Il 5 settembre 1993, Pablo Escobar era davanti alla tivú a guardare la nazionale colombiana piú forte di sempre battere, al Monumental di Buenos Aires, l’Argentina di Diego Armando Maradona 5 a 0 e qualificarsi cosí ai mondiali degli USA. Si potrebbero dire tante altre cose su Pablo Emilio Escobar Gaviria, ma questa è la storia di un altro Escobar.

22 giugno 1994. Fa caldissimo. Stati Uniti d’America, Coppa del Mondo. Le partite si giocano a mezzogiorno per favorire la diretta tivú in tutto il mondo. I giocatori in campo si sciolgono come ghiaccioli nel deserto. Il Brasile è il solito favorito. Tra le corazzate europee e i verdeoro spicca la nazionale di un Paese in crisi: la Colombia. Pablo Escobar è stato ucciso il 2 dicembre 1993 mentre scap-pava sui tetti di Medellín. Il Paese è in mano ai narcotraf-ficanti che si fanno la guerra per il controllo della droga.

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Tutto è in mano a loro, la politica, gli ospedali e anche il calcio. Ogni narcotrafficante che si rispetti gestisce una squadra di calcio. Ci credono tutti in questa nazionale, ci credono pure gli spacciatori: i Cafeteros (come vengono chiamati) sono fortissimi, vengono definiti la Generación dorada, hanno in squadra gente come Carlos Valderrama, Faustino Asprilla, Freddy Rincón e l’allenatore Francisco Maturana, uno dei mister piú quotati di tutto il Sudame-rica. Nonostante le aspettative, la droga e il sangue sem-brano sporcare le magliette di quei calciatori emoziona-ti e tesi per un mondiale alle porte. Un mese prima del campionato del mondo, il figlio di Luis Fernando Herrera, centrocampista della nazionale colombiana, viene rapito. Il leggendario portiere René Higuita rinuncia al mondia-le, o meglio è costretto a rinunciarvi: passa sette mesi in carcere con l’accusa di aver fatto da intermediario in un sequestro di persona. I calciatori di quella nazionale vi-vevano in un clima irreale, i panetti di droga sembravano seguirli anche nelle praterie americane e tra i grattacieli di Chicago. Ma non importa, perché giocare un mondiale è il sogno di ogni bambino che gioca a calcio. È il sogno an-che di Andrés. Andrés ha tre sogni: giocare per la squadra della sua città, giocare un mondiale, sposarsi. Andrés è nato a Medellín, come Pablo. Andres è cresciuto giocando a pallone nei vicoli della città, come Pablo, Andres ama il

calcio, come Pablo. Andres ha un cognome fastidioso, co-nosciuto, temuto, rispettato, come Pablo. Andrés Escobar Saldarriaga non è un campione: ha ventisette anni, è nel pieno della sua carriera, non è uno di quei calciatori straor-dinari che resteranno nella storia per i suoi gesti tecnici. È uno normale: un buon calciatore, ma niente di piú. Uno di quelli che passano, che le generazioni future dimenticano in fretta, un difensore il cui nome probabilmente riempi-rà gli almanacchi di calcio colombiani insieme a quelli di centinaia di calciatori semisconosciuti. Andrés è una bra-va persona, in Colombia dicono che ha la faccia pulita, è soprannominato Caballero, cavaliere. Andrés è negli spo-gliatoi insieme ai suoi compagni. Ha già realizzato due dei suoi tre sogni. È un calciatore dell’Atlético Nacional di Medellín, con la sua squadra del cuore ha già vinto diversi trofei e ora è al mondiale, pronto per sfidare i padroni di casa: gli Stati Uniti d’America. È un leader, è il capitano della Colombia. I Cafeteros devono vincere per forza, la partita d’esordio è andata malissimo. Sono stati battuti dalla Romania con il risultato di 3 a 1. Dopo la partita con i rumeni, alcune persone hanno minacciato di morte il cen-trocampista Gabriel Jaime Gómez Jaramillo, ritenuto da molti responsabile di quella sconfitta. Jaramillo non gio-cherà contro gli Stati Uniti, si è rifiutato. Andrés no, lui non rinuncerebbe mai alla nazionale. La Colombia è favorita,

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tutti sono convinti che lo scivolone con i rumeni sia risol-vibile. Tutti, ma proprio tutti, scommettono sulla vittoria della Colombia. Tutti, compresi i narcotrafficanti.

Finalmente si scende in campo. Andrés Escobar ha la maglia numero 2. La partita è noiosa, niente di epico, niente che valga la pena raccontare, fino alla mezz’ora, precisamente al minuto 33, quando il calciatore ame-ricano Harkes si libera sulla fascia sinistra e fa partire un cross basso nell’area dei Cafeteros. Andrés, d’istinto, interviene con una scivolata per evitare la zampata vin-cente di un avversario. Tocca la palla, la devia e irrime-diabilmente fa goal nella porta sbagliata. Un disastro. Lo stadio americano esplode di gioia, gli USA sono in vantaggio, gli americani si abbracciano. Andrés resta a terra, seduto, per diversi minuti. Non sa a cosa pensare. È il primo e unico autogol della sua carriera. Il primo tempo finisce 1 a 0. C’è ancora tempo per ribaltare il ri-sultato, mister Maturana si fa sentire negli spogliatoi: «Se perdiamo siamo fuori, se perdiamo andiamo a casa. Se perdiamo non è servita a niente la vittoria con l’Argen-tina. Se perdiamo dimentichiamoci gloria e memoria». A inizio secondo tempo, Earnie Stewart fissa il risultato sul 2 a 0 per gli americani. Assalto finale dei colombiani, a tempo ormai scaduto segna Valencia. 2 a 1. Colombia eliminata e Stati Uniti agli ottavi di finale. Non accadeva

dal 1930. Una nazione che fino a qualche mese prima non aveva nemmeno un vero e proprio campionato bat-te la Colombia, quarta nel ranking Fifa. È lutto nazionale. Gli scommettitori hanno perso, hanno perso di brutto, milioni di dollari. Verdoni in fumo per undici calciatori profumatamente pagati che non riescono a battere una squadra di dilettanti. Scommesse perse per un autogol, per uno che non sa in che porta segnare. Dopo sette giorni la nazionale colombiana fa rientro a Medellín: non ci sono tifosi ad aspettare Andrés e gli altri. Viene con-sigliato a tutti i calciatori di mantenere un profilo basso, di non uscire di casa. Per Andrés è una cosa insensata. Lui è un hombre vertical, un uomo tutto d’un pezzo, non si nasconderà per un errore, lui ci ha sempre messo la faccia. È dagli errori che si costruiscono le grandi vitto-rie, è dalla delusioni che nascono le gioie irripetibili. Si nasconde solo chi non ha fatto il proprio dovere. Amici e parenti dicono ad Andrés di scrivere pubblicamente qualcosa, di scusarsi, di rilasciare interviste, l’aria è pe-sante nel Paese. C’è gente che dice che Escobar aveva scommesso sulla sconfitta della Colombia. Andrés lo fa attraverso una lettera sul giornale El Tiempo, la lettera si conclude con le seguenti parole: «La vita continua».

Sabato 2 luglio 1994, manca un mese al matrimonio di Andrés, mancano trenta giorni alla realizzazione del

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suo terzo sogno. Andrés è con gli amici in una disco-teca del centro di Medellín, «El Indio». Vuole divertirsi, vuole dimenticare quella scivolata, le urla di gioia degli americani, le gambe pesanti e gli occhi delusi dei com-pagni. La serata è finita e il difensore colombiano sta per tornarsene a casa. Alcuni uomini a bordo di una To-yota Land Cruiser nera si fermano davanti a lui. Tra loro c’è l’ex guardia giurata Humberto Muñoz Castro, che impugna una pistola. I due si guardano, Andrés sem-bra non capire. Avrà sbagliato persona. Non sarà qui per l’autogol. Castro spara sei colpi e Andrés, colpito, muore dopo pochi istanti. Mentre sparava, quell’uomo gridava: – Autogol, autogol, autogol.

2 luglio 1994. Andrés non c’è piú, come Pablo.Andrés Escobar Saldarriaga è il primo calciatore vitti-

ma innocente delle mafie. Il giorno dopo la sua morte, giornali locali e nazionali dissero di tutto sul suo conto. «È un parente di Pablo Escobar. È stato ucciso dopo una lite. È un narcotrafficante legato ai cartelli in guerra». La verità è che Andrés Escobar è morto per un autogol.

Al suo funerale parteciparono oltre 120mila persone, tra cui il presidente colombiano César Gaviria Trujillo. Un funerale sentito da chi credeva nella faccia pulita di Andrés, da chi non si è lasciato ingannare da una

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casuale omonimia. L’immagine della Colombia fu enor-memente danneggiata agli occhi di tutto il globo, il calcio colombiano diventò sinonimo di mafia. Nessuno voleva piú giocare in Colombia. Calciatori, dirigenti e addetti ai lavori chiesero di essere ceduti in Europa. Il campionato colombiano si spopolò dei suoi campioni. La maglia numero 2 di Andrés Escobar non fu indossa-ta per numerosissimi anni. Qualcuno diceva che fosse stata ritirata, forse non veniva indossata per scaraman-zia, per paura. È rimasta piegata e profumata fino a quando è arrivato un certo Iván Ramiro Córdoba, nato anche lui nella provincia di Medellín, come Andrés, an-che lui calciatore dell’Atlético Nacional de Medellín e della nazionale colombiana, come Andrés. È lui a in-dossare di nuovo la maglia numero 2.

Nel 2001, per la prima volta nella storia, la Coppa America si è svolta in Colombia, nonostante i disagi legati alla guerriglia e ai narcotrafficanti. L’organizza-zione del torneo è stata affidata ai Cafeteros. In finale con il Messico, la Colombia ha vinto il suo primo trofeo internazionale. In panchina c’era mister Francisco Ma-turana. Al 65°, a Bogotà, segna Iván Ramiro Córdoba, con la maglia numero 2.

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L’UOMO DIMENTICATO DALLE STATUE

Tenetevi stretto chi vi ha notato quando eravate invisibili.

Charles Bukowski

UN CANGURO SFRECCIA A TUTTA VELOCITÀ. Nel mar-supio, il suo cucciolo impaurito si nasconde. È l’al-ba. Una jeep corre nelle terre desolate australiane. Il silenzio di un villaggio aborigeno si squarcia. Tre bambini vengono strappati alle loro madri, sono pic-colissimi. Vengono fatti salire sulla jeep e portati in

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città. Vengono sradicati dalla terra rossa australiana e deportati nell’asfalto delle metropoli. Le madri di questi bambini inermi li guardano andare via. Dopo poche ore, a Melbourne, una coppia di bianchi adot-terà illegalmente un bambino aborigeno. Il tentativo barbaro di uno Stato di cancellare un’etnia, un popo-lo, un colore della pelle. I bambini aborigeni vengono educati secondo i precetti cristiani, secondo le tra-dizioni dell’élite bianca, dimenticando i racconti orali davanti al fuoco, dimenticando le ancestrali leggen-de, saghe e storie dei loro avi giunti in Australia piú di 60mila anni fa. Parliamo di oltre 100mila bambini, una generazione rubata.

A Melbourne nasce anche un certo Peter George Norman. Peter è un ragazzo asmatico, un ragazzo qua-lunque, di una famiglia per bene e modesta. Nel 1956 ha quattordici anni e a Melbourne ci sono le Olimpiadi. Peter marina la scuola e abusivamente vende pastic-ci e torte salate agli spettatori dell’evento sportivo piú importante del mondo. C’è anche Peter con il fiato so-speso quando Betty Cuthbert è ai nastri di partenza. Gara dei 100 metri, gara regina. Betty Cuthbert è la favorita, può diventare la prima australiana a vincere una medaglia d’oro in casa. Peter aspetta trepidante lo sparo. Bum. Si parte. Betty vince e vincerà anche

i 200 metri e la staffetta 4x100. Tre ori e due record olimpici. Peter ha una maledetta voglia di correre. In realtà vorrebbe giocare a football australiano, ma il kit costa troppo per le tasche della sua famiglia. Cosí Peter dopo la scuola fa l’apprendista macellaio. Mette da parte un po’ di soldi e prende in prestito un paio di scarpe da corsa. L’immagine dell’oro della Cuthbert sembra accelerare i suoi passi. Peter è basso, un metro e sessantotto appena. Nessuno crede in lui, non ha il fisico per fare il corridore. Ma Peter è testardo e non molla. Cosí, nonostante le sue partenze non siano pro-prio brillanti, sfrutta la progressione per andare a vin-cere le gare. Anno dopo anno migliora sempre piú e ottiene riconoscimenti nei Giochi del Commonwealth e agli Australian Games. Contro tutti i pronostici, riesce a qualificarsi alle Olimpiadi di Città del Messico del 1968. In Messico è sconosciuto al grande pubblico. Ventisei anni e per gli esperti nessuna possibilità di farcela. È un numero, uno di quelli che devono riempire le batterie alla partenza.

I vertici del comitato olimpico australiano sono stati chiari: non arrivare ultimo, ripeti il tuo tempo di quali-ficazione e non farti battere da un britannico. Peter, il ragazzo asmatico, arriva alla finale dei 200 metri. Al suo fianco, ai nastri di partenza, ci sono i favoriti, Tommie

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Smith detto «The Jet» e John Carlos, due afroamerica-ni altissimi. Partenza! «The Jet» vola davvero e straccia tutti i concorrenti tagliando il traguardo sotto i 20 se-condi per la prima volta nella storia delle Olimpiadi. Alle sue spalle Carlos negli ultimi 40 metri rallenta, quasi ap-pagato, non si accorge che dietro di lui sta arrivando la saetta asmatica australiana. Carlos non ha messo in conto la progressione di Peter. Norman vince l’argento. Record personale e record oceaniano tutt’ora imbattuto da cinquant’anni. È un giorno da ricordare per Peter, è arrivato in alto fino a toccare Betty Cuthbert. La sua na-zione sarà orgogliosa delle sue gesta, della sua velocità.

È il momento della premiazione. Peter si accorge che qualcosa non va. Smith e Carlos confabulano. La moglie di Smith ha comprato per «The Jet» un paio di guanti neri. Anche Carlos dovrebbe averne uno, ma li ha dimenticati al villaggio olimpico. I due afroamerica-ni vogliono protestare contro le discriminazioni razziali negli Stati Uniti d’America. Saliranno sul podio scalzi, per testimoniare la povertà dei neri americani, saliranno sul podio indossando i guanti neri per ricordare l’ope-rato e le battaglie del Black Power, le «pantere nere», un’organizzazione rivoluzionaria afroamericana che ne-gli Stati Uniti si batte per i diritti degli uomini di colore. Smith ha una sciarpa nera al collo, Carlos la felpa sbot-

tonata per ricordare gli operai neri, una collana di perle scure per ricordare ogni afroamericano linciato. Peter Norman ascolta, guarda. Vede Carlos e Smith indossare la spilla dell’Olympic Project for Human Rights, il pro-getto olimpico per i diritti umani. Anche Peter ne vuole una, anche Peter vuole protestare contro il malgoverno australiano, a favore degli aborigeni australiani, di tutti i fratelli di tutti i colori. Peter consiglia a Carlos e Smith di indossare un guanto nero a testa. I due lo ascoltano. L’oro, l’argento e il bronzo dei 200 metri di Città del Messico salgono sul podio. L’inno americano cantato da chissà chi si interrompe quando Smith e Carlos alzano al cielo il pugno nero. Lo stadio ammutolisce. Il mondo si ferma. Pochi istanti per fare la storia. Una foto im-mortala quel momento. Tutti gli occhi sono per i due afroamericani. Quella foto e quel gesto resteranno nella storia dei Giochi olimpici, mettendo in ombra l’impresa di Peter, un grandioso secondo posto. Le frecce nere d’America fanno sí che sul momento la spilla bianca sul cuore di Peter passi inosservata. Smith e Carlos ven-gono cacciati dal villaggio olimpico. In patria vengono continuamente minacciati di morte. Sono costretti ad abbandonare la loro carriera di duecentometristi. Le cose a Peter non vanno meglio. L’Australia nel 1968 ha una serie di leggi razziali, pari se non superiori a quel-

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le del Sudafrica. La stampa di un intero continente è contro il ragazzo asmatico. Nessuno si entusiasma per la sua medaglia d’argento, nessuno lo elogia come lui aveva fatto con Betty Cuthbert. Ma Peter non molla e continua ad allenarsi in vista delle Olimpiadi di Monaco del 1972. Per ben tredici volte, Peter ottiene il tempo di qualificazione necessario per andare in Germania. Il comitato olimpico australiano detta di nuovo gli ordi-ni: Peter Norman non dev’essere convocato. L’Australia non schiererà nessun duecentometrista in Germania. Deluso, Peter Norman lascia l’atletica. Finisce per fare l’insegnante di educazione fisica, qualche volta lavora in macelleria per arrotondare. Cade in preda all’alcol e alla depressione.

Nel 2000 a Sidney ci sono le Olimpiadi. Gli australiani hanno l’occasione di riabilitare il piú grande duecento-metrista della storia della loro nazione. Per farlo voglio-no che Peter Norman ritratti, neghi, metta da parte il suo gesto. Norman non lo fa e non parteciperà a nessu-na manifestazione pubblica delle Olimpiadi del 2000.

Nel 2005 a San José, in California, all’università viene inaugurata una statua in memoria del gesto di Tommie Smith e John Carlos. I due corridori americani invitano anche Peter Norman, che li raggiunge negli Stati Uniti. La statua è alta sette metri. Il secondo gradino del po-

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dio è lasciato vuoto, per dare la possibilità a passanti, studenti e turisti di unirsi alla protesta di Smith e Carlos. Peter Norman è stato dimenticato anche dalle statue.

Peter Norman è morto il 3 ottobre 2006 per un ar-resto cardiaco. La sua bara è stata portata a spalla da Tommie Smith e John Carlos. Al suo funerale gli afroa-mericani diranno le seguenti parole: «Peter non era obbligato a mettere quella spilla. Peter non era statu-nitense, non era nero, non aveva il dovere di sentire quello che sentiva. Peter, però, era un uomo. Non ha alzato un pugno quel giorno, ma ha teso una mano. Adesso tornate a casa e raccontate ai vostri figli la sto-ria di Peter Norman».

2012, Parlamento australiano.«Questo Parlamento riconosce lo straordinario ri-

sultato atletico di Peter Norman, che vinse la meda-glia d’argento nei 200 metri a Città del Messico, in un tempo di 20 secondi e 6 centesimi, ancora oggi record australiano. Riconosce il coraggio di Peter Norman nell’indossare il simbolo del progetto oIimpico per i di-ritti umani sul podio, in solidarietà con Tommie Smith e John Carlos, che fecero il saluto del potere nero».

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Non serve far rumore per cambiare il mondo. Guarda la neve.

Anonimo

LEON È NASCOSTO DA SETTIMANE dentro una trincea. Sporco, affamato e con il terrore di sporgere la testa fuori da quel buco nel terreno. Due giorni prima un suo compagno è stato colpito dai tedeschi, un solo centimetro fuori dal buco e bum, viaggio nell’altro mondo. Leon Harris è un caporale del tredicesimo

BOTTONI DI TERRA

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battaglione del London Regiment. La sua famiglia lo aspetta a Exeter, un paesino sperduto dell’Inghilterra meridionale. Leon è uno delle migliaia di soldati fer-mi da mesi sulle trincee lungo il Fronte Occidentale. Una linea lunghissima che spacca Francia e Belgio a metà. Da un lato tedeschi e austroungarici, dall’altro inglesi, francesi e alleati di mezzo mondo. La guerra è in una fase di stallo. Nessuno dei due schieramenti riesce piú ad avanzare. I soldati hanno scavato trin-cee profondissime per proteggersi dai cecchini av-versari. E si sta lí, giorno e notte, raggomitolati su se stessi, guardando foto di fidanzate lontane, speran-do finisca tutto molto presto. È una settimana che la pioggia cade battente, gelida e rigida come l’inverno del Nord. È il 24 dicembre 1914 e la neve ha ricoperto quel lembo di mondo chiamato «terra di nessuno». Leon ha ricevuto un pacco regalo direttamente dal-la famiglia reale inglese. All’interno c’è una pipa, del tabacco, delle sigarette e la fotografia della princi-pessa Mary. «La famiglia reale vi è vicina. Sí, – pensa Leon, – mentre noi dormiamo ricoperti dalla neve». Indossa lo stesso vestito dal 4 agosto, giorno in cui è partito. Ora è nascosto in una trincea di Ypres, vici-no al villaggio di Saint Yvon, nelle Fiandre, in Belgio, ma come gira voce tra i soldati, questo è un posto

dimenticato da Dio, veramente la terra di nessuno. Leon ogni mattina si augura un presto e sereno ri-torno a casa, pensa ai suoi amici morti lí, nel vano tentativo di raggiungere le linee avversarie, abbattu-ti da cecchini che mirano agli uomini come fossero selvaggina. Pensa ai loro corpi lasciati alle intempe-rie, senza una degna sepoltura. Questa guerra non la vuole combattere nessuno. I soldati non ne capi-scono il senso. Ma per chi combattono? Per le loro famiglie a chilometri di distanza? Per pezzi di terra richiesti dai loro governi, lembi di nazioni avversarie, un gioco al massacro per allargare i propri confini. Papa Benedetto XV sono mesi che ripete che tutto ciò è un’inutile strage. Fermatevi, fermatevi, ferma-tevi. Tregua, tregua, tregua. Anche nelle Fiandre, no-nostante Roma sia lontana molti chilometri, è giunta la notizia che il Papa ha chiesto ai governi bellige-ranti di far tacere i cannoni almeno per una notte, per la notte in cui gli angeli cantano. Dalla radio i soldati apprendono che la richiesta è stata rispedita al mittente.

La mamma di Leon è tra le 101 mamme, mogli, figlie, sorelle, nonne, zie che hanno scritto la Open Chri-stmas Letter, indirizzata a tutte le donne di Germania e Austria, poche righe per invitare le donne di tutta

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l’Europa a unirsi per fermare la guerra. Tony Ince è morto questa notte, congelato dal freddo pungente, la sua coperta aveva piú buchi che tessuto. Si è spen-to sorridendo, con la foto di suo figlio di appena un anno in mano. Sono tutti intorno al suo corpo, cer-cheranno di seppellirlo domani. Sono tutti con i cap-pelli in mano, raccolti in silenzio, quando dalle linee tedesche si sente una melodia. Le parole non sono comprensibili, ma Leon conosce quei suoni, quel rit-mo, quella ballata natalizia. I tedeschi cantano. Gli inglesi, ascoltando quel canto, si proiettano con l’im-maginazione a casa, davanti al camino, aspettando i dolci del Natale, aspettando Santa Claus. I tedeschi cantano ancora piú forte, quasi volessero farsi ascol-tare. Al posto dei proiettili dalla trincea avversaria arrivano canzoni. Leon non resiste e mette la testa fuori dal buco. Non crede ai suoi occhi. Lungo i pa-rapetti della trincea tedesca ci sono candele, fuochi. Sono centinaia. Riporta la notizia nel buco e tutti gli inglesi mettono la testa fuori, godendosi quell’albero di Natale steso un attimo prima del nemico. Sono le otto e mezza di sera, nessuno spara piú da un’ora. I tedeschi cantano ancora. Anche Leon, con le lacrime agli occhi, inizia a cantare:

O holy night the stars are brightly shining It is the night of our dear Savior’s birth

Long lay the world in sin and error pining Till He appeared and the soul felt its worth.

In lacrime lo seguono i suoi commilitoni piú vicini e in breve tempo tutta la trincea, deposte le armi, canta. I tedeschi ascoltano e rispondono intonando il famoso brano O Tannenbaum.

O Tannenbaum, o Tannenbaum, Wie grün sind deine Blätter!

Du grünst nicht nur zur Sommerszeit, Nein, auch im Winter, wenn es schneit.

– Merry Christmas! – urla fortissimo Leon. – Frohe Weihnachten! – risponde il bavarese Josef

Wenzl, di anni ventidue. Cosí, dimenticando i cecchini, i tedeschi e la guerra che nessuno di loro mai ha voluto veramente combattere, Leon esce dal buco. Qualcuno dei suoi commilitoni inglesi prova a fermarlo, ma Leon non si ferma e va dritto verso la trincea nemica. Josef Wenzl fa lo stesso. Leon attraversa la terra di nessuno che per mesi aveva visto, intravisto, sperato di supe-rare. Per terra ci sono i corpi senza vita di tedeschi,

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inglesi, amici e nemici. C’è tutto quello che l’umanità dovrebbe ripudiare. Leon vede Josef. Josef vede Leon. Passo dopo passo si avvicinano, mentre dalle retrovie i fucili sono già puntati, pronti a far fuoco al primo ac-cenno di violenza. Leon e Josef sono lontani pochi me-tri. Sono due ragazzi giovanissimi spediti dai loro go-verni in un posto desolato a fare gli interessi di pochi. Si somigliano, stessa altezza, stesso colore degli occhi, stesso taglio di capelli. Josef ha in mano una pala. – Lo ucciderà, – sussurra qualcuno nella trincea inglese. Ma Leon sa che non lo farà.

– Merry Christmas.– Frohe Weihnachten.Josef lancia la pala a Leon e indicando il corpo di un

ragazzo morto da diversi mesi dice: – È mio fratello, aiutami a seppellirlo.

Leon inizia a scavare, scava per il nemico. Centinaia di soldati nelle trincee assistono a quella scena e pian-gono. Il corpo di un giovanissimo soldato tedesco, avrà avuto piú o meno diciotto anni, viene steso in un letto di terra e neve. Leon e Josef piangono insieme e si ab-bracciano. Dalle trincee escono decine di soldati, di en-trambe le fazioni. Il cielo è bellissimo, stellato come mai prima nella terra di nessuno, e qualcuno, sarà forse la stanchezza, la gioia o l’emozione, giura di aver sentito

gli angeli cantare. Si seppelliscono i defunti e la terra di nessuno si trasforma in un gigantesco cimitero di tutti i Paesi d’Europa. Josef riconosce gli occhi di un uomo a cui ha sparato. Li aveva visti persi nel nulla pochi se-condi prima di tirare il grilletto, dalla sua posizione di cecchino.

Gli occhi sono ancora persi nel vuoto. I soldati si scambiano gli auguri e trasformano un albero vivo per miracolo, martoriato dai proiettili e dalle bombe, in un luminoso e speranzoso albero di Natale. Qual-che inglese sa parlare un po’ di tedesco, qualche tedesco conosce qualche parolina d’inglese, cosí si concorda una tregua. Finalmente una tregua, fino a mezzanotte. I soldati si scambiano doni, militari che fino a poche ore prima si sparavano l’un l’altro si do-nano tabacco, sigarette e anche cibo. Leon e Josef fumano insieme, mentre i capitani e gli ufficiali rima-sti in trincea scrutano il susseguirsi degli eventi con i binocoli. Leon, mentre tedeschi e inglesi cantano davanti a un falò canzoni di Natale, scrive una lettera alla sua famiglia:

Questo è stato il Natale piú bello che io abbia mai passato. La tregua di Natale è la dimostrazione che gli uomini sono fondamentalmente buoni e che sono spin-ti alla guerra da governi irresponsabili.

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La tregua dura anche tutta la mattina di Natale. Te-deschi e inglesi, insieme, in una fattoria a poco piú di mezzo chilometro di distanza, tutta bombardata, con il tetto che cade a pezzi, pranzano insieme. Menu metà tedesco, metà britannico. Un tenente inglese si mette a tagliare i capelli a un tedesco che, inginoc-chiato, lascia che la macchinetta scivoli sul suo collo. Improvvisamente da qualche parte sbuca un pallone, probabilmente venuto fuori dalle linee inglesi. Quella sfera che rotola in un cimitero di soldati fa impazzire tutti.

25 dicembre 1914, terra di nessuno. Gli inglesi sfida-no i tedeschi. In campo ci sono anche Leon e Josef. Gli elmetti e i giacconi logori vengono usati per fare le porte. Le linee del campo sono metaforicamente rap-presentate dalle centinaia di soldati che assistono alla partita, dai feriti che non possono correre, dagli uomini in là con gli anni. Il terreno di gioco è piú un campo di patate che uno stadio di erba londinese. Le regole non vengono rispettate al massimo, ma non fa nien-te. I tedeschi vanno subito in vantaggio con Richard Schirrmann, che dopo aver segnato va ad abbraccia-re un avversario. Pareggio degli inglesi con Leon, che dopo pochi minuti raddoppia. Richard viene sostitui-to e, guardando quella partita, pensa al suo ostello in

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Il 26 dicembre 1914 la tregua finí. Il comandante del Secondo Corpo d’Arma della BEF, Horace Smith Dorrien, minacciò la corte marziale per chiunque si fos-se reso colpevole di fraternizzazione.

Le lettere dei soldati giunsero a casa e dal New York Times fino al Daily Mirror si sparse la voce di questa leggendaria partita. La notizia di un ufficioso armistizio venne insabbiata dai potenti di turno che sottolinea-rono la «mancanza di cattiveria» da entrambe le parti.

Il 27 dicembre 1914, Leon è pronto con il suo fucile. In petto, al posto dei bottoni della divisa inglese, ha quelli del suo amico cecchino tedesco Josef. Il generale Walter Congreve, decorato con la Victoria Cross, la piú alta onorificenza britannica al valor militare, si avvicina al suo orecchio: – Ti ho visto fumare un sigaro con il mi-glior cecchino tedesco, era giovane quanto te. Dicono che ha ucciso piú uomini lui che una mitragliatrice. Tu hai visto da dove è sbucato, sappiamo da dove spara. Abbattilo!

La guerra ricomincia, ma nella terra di nessuno ci si chiede ancora se il tre a due tedesco fosse in fuorigioco.

Germania. Schirrmann nel 1912 ha ideato il primo ostel-lo della gioventú e, sentendo il mescolarsi di lingue in campo, si ripete mentalmente «che tutti i giovani di tutti i Paesi dovrebbero essere forniti di un luogo d’incontro adatto, dove poter conoscersi gli uni con gli altri».

Un inglese tira da lontano, la palla rimbalza su una zolla ghiacciata ed è due pari. La partita sta per finire, mentre esausti giocatori da ambo le parti hanno i mu-scoli a pezzi. Josef raccoglie un lancio dalle retrovie, stoppa la palla e tira mentre un mezzo ubriaco por-tiere inglese si lascia cadere. Tre a due per i tedeschi. Qualche inglese storce il naso. Se ci fosse stato un ar-bitro avrebbe fischiato fuorigioco. Nessuno ha voglia di polemizzare. Leon e Josef si stringono la mano a centrocampo. Josef con una tronchesina si strappa dei bottoni e li regala a Leon. – Addosso, amico inglese, ho solo armi capaci di ammazzare il nemico. Tutto è stato concepito affinché io possa ammazzare, tutto tranne i bottoni. Bottoni che uniscono due pezzi di stoffa, bot-toni che servono a tenere uniti, insieme, ad avvicinare come oggi, nella terra di nessuno. Conservali e pensa a me quando tornerai a casa.

Leon raccoglie i bottoni e li mette in tasca, e su un fo-glio sporco di fango lascia a Josef il suo indirizzo: – Scri-vimi quando la guerra sarà finita.

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LA MARATONA DELLA

SPERANZAIl mio tempo non è ancora venuto,

alcuni nascono postumi.Friedrich Nietzsche

PRIMA, SECONDA, TERZA. Rallenta. Incrocio, guarda a destra guarda a sinistra. Stop. Terrance Stanley Fox è nella sua macchina e c’è un po’ di traffico. Prima, seconda, freno, freno. La testa di Terrance, chiama-to da tutti Terry, è piena zeppa di idee, cose da fare, progetti, sogni, un milioni di sogni. La testa di un clas-

sico diciottenne canadese. Freno, freno. Attende che si faccia verde. Prima, seconda. Quaranta, cinquanta, sessanta all’ora. Terry è un tipo elettrico, ama giocare a pallacanestro, è una guardia, ma ama anche il nuo-to. Insomma, Terry è uno nato per gli sport. La sua intelligenza sportiva è fuori dalla norma. Non ha un gran fisico, statura normale, ma ha talento. Winnipeg probabilmente non vi dirà niente e nemmeno Manito-ba, rispettivamente capoluogo e provincia del Canada occidentale. Terry è nato tra le praterie canadesi e da grande sogna di fare il professore di educazione fisi-ca. Ottanta, settanta, wow una bella ragazza, scalo di marcia, freno, freno. Troppo tardi. Bum. Il 12 novem-bre 1976, Terry Fox è vittima di un incidente stradale. Reset. La mente si spegne per pochi secondi. Terry ha tamponato un’auto. La sua macchina è completa-mente distrutta, ma Terry, nonostante lo spavento, sta bene. Esce per miracolo illeso dalle lamiere. Ha solo un forte dolore al ginocchio destro. Terry non vede l’o-ra che il dolore al ginocchio scompaia per poter nuo-vamente nuotare, saltare, andare a canestro. Ma passa un mese, due, tre, quattro, otto, un anno e il dolore al ginocchio destro non sparisce. Cosí, il ragazzone ca-nadese decide di sottoporsi a una visita specialistica. Mentre il dottore lo visita, Terry è con la testa da un’al-

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tra parte, forse a prendere un rimbalzo, a schiacciare, o in piscina a fare vasche su vasche.

– Terry, hai un osteosarcoma. – Un che?– Un tumore maligno osseo. È un tumore che parte

dalle ginocchia, ma poi si espande nei muscoli, nel san-gue, nei tendini.

– E quindi?– Quindi dovrai sottoporti a chemioterapia. Hai il 50

percento di possibilità di salvarti e ritieniti un ragazzo fortunato, Terry, perché due anni fa, senza i progressi fatti dalla ricerca in questo campo, avresti avuto solo il 15 percento.

Altro che campionato di basket, altro che Olimpiadi di nuoto e classi scalmanate che non aspettano altro che l’ora di educazione fisica. A diciannove anni Terry si gioca la sua partita piú importante. Sedici mesi di ospedale e chemioterapia. A letto e poi giú, dentro al corpo, dosi massicce di medicinale che cura e che di-sintegra. Non c’è altra via d’uscita. Intorno a lui ragaz-zi, mamme, umanità varia soffrono e alcune volte spa-riscono, cosí come erano comparsi. I dottori sono tutti concordi: per evitare che la malattia possa espandersi è meglio amputare la gamba destra.

– Ehi, fermi, ho diciannove anni.

– Se non lo facciamo, potresti morire.– Sí, ma poi come faccio con una gamba sola? – Ti impianteremo una protesi.La malattia non dà tregua a Terry Fox, ma il cana-

dese non molla. Risponde colpo su colpo, bracciata su bracciata, canestro su canestro. Terry, nonostante si stia ancora curando, nonostante la chemioterapia, gioca nella nazionale di basket in carrozzina. Non ha piú una gamba, ma le mani sono sempre quelle, ba-sta prendere la mira da un’altra prospettiva. Terry di-venta per tre volte consecutive campione canadese. Terry continua a entrare e uscire dall’ospedale. I suoi compagni di stanza cambiano velocemente. Lui quei volti non li dimentica, perché la malattia puoi batter-la, puoi ritornare alla tua vita di sempre, ma gli occhi di chi vorrebbe fare e non ha piú il tempo, quelli non vanno via con il sapone. Terry sa che l’unico modo per ridurre quegli sguardi è la ricerca. È raccogliere fondi per permettere ai dottori di annientare il cancro. Ha letto da qualche parte che un uomo è riuscito a corre-re un’intera maratona con una protesi. Vuole provarci anche lui, per dare speranza a tutti quelli che credono che il cancro vinca sempre.

È il 1979. Sono passati appena tre anni dall’incidente. Maratona di New York, partenza. Quando inizia a cor-

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rere, Terry sente il solito dolore lancinante che dopo un po’ va via. Mentre, passo dopo passo, macina metri e chilometri, pensa alle tante ore di allenamento, fa-tica, pensa che non è proprio il caso di mollare. Terry Fox riesce a completare la Maratona di New York con un arto artificiale. Arriva ultimo a ben piú di dieci mi-nuti dal vincitore. Ma per lui c’è una folla commossa che lo attende, una folla di gente meravigliata dalla determinazione di questo canadese, pronta a batte-re le mani. Mentre televisioni di mezza America sono puntate su di lui, Terry annuncia: – Voglio tentare l’im-possibile, per mostrare che può essere fatto –. Terry rilancia e il mondo si accorge della grandiosità di que-sto ragazzo. Fox ha un piano. Ha un’idea che si chiama «Maratona della Speranza». Vuole correre ogni giorno una maratona. Quarantadue chilometri al giorno. Par-tire dalla costa atlantica e raggiungere quella pacifica. Terry Fox vuol attraversare l’intero Canada correndo, a piedi, con un piede di plastica. 7091 chilometri da Saint John’s a Vancouver, British Columbia. In macchi-na ci vogliono 79 ore, Terry ha calcolato che se corre-rà 5 ore al giorno impiegherà circa 200 giorni. Ma non è finita qui: Terry vuole raccogliere un dollaro per ogni canadese vivente, cioè 22 milioni di dollari da donare alla ricerca. Vuole essere uno di quei motivi per cui

un malato di cancro si sveglia. Vuole essere quell’ap-puntamento fisso da seguire alla tivú, vuole essere un motivo in piú: «Se l’ha fatto lui posso farlo anch’io». Il 12 aprile 1980, Terry parte. Sa che dovrà attraversare l’isola di Terranova, la Nuova Scozia, l’isola del Prin-cipe Edoardo, il Nuovo Brunswick, il Québec e l’On-tario. Con sé ha solo un amico e una vecchia cartina con l’itinerario. Terry riempie due bottiglie con l’acqua dell’Oceano Atlantico. Una resterà per sempre con lui mentre l’altra vuole riversarla nell’Oceano Pacifi-co, una volta arrivato a Vancouver. Il tempo è nefasto con Terry, neve, pioggia e freddo. Ma non è il clima a spaventare il giovane canadese, a preoccuparlo è piú che altro il disinteresse intorno a questo progetto a cui tiene tanto. Lungo le infinite autostrade canadesi rischia di morire un giorno sí e l’altro pure. La nebbia lo cancella dalla strada e le macchine per poco non lo investono. Pochi credono in lui, ma l’ostinazione di questo ragazzo richiama media e gente comune, che iniziano ad accorgersi che Terry Fox fa sul serio. Molta gente, malata e non, accende la tivú per sapere come va la corsa di Terry. Tra loro c’è anche Isadore Sharp, uno degli uomini piú ricchi del Canada. Il milionario è incollato allo schermo. Quasi corre insieme a Terry. Sharp ha perso un figlio a causa del cancro, e cosí

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la battaglia di Fox diventa anche la sua. Offre gratui-tamente ospitalità nei suoi alberghi sparsi per tutto il Canada e fa un gesto che cambierà le sorti della Maratona della Speranza. Dona 10mila dollari e invi-ta ben 999 uomini d’affari ricchi quanto lui a fare lo stesso. Una catena mediatica che porterà l’attenzione nazionale su Terry Fox. Ora il giovane canadese è una star scortata, annunciata, attesa, voluta. La sua non è piú solo una corsa. Ogni tanto Terry parla da svariati palchi allestiti in tutta la nazione, invita tutti a dona-re, parla della sua esperienza. Cosí si moltiplicano le donazioni. Fruttivendoli che devolvono ore di lavoro, paesi sperduti tra le praterie di 8mila abitanti capaci di raccogliere 14mila dollari, mendicanti che donano le monetine che hanno elemosinato.

11 luglio 1980. Terry Fox arriva a Toronto: ad aspet-tarlo c’è parecchia gente, circa 100mila persone. Terry non si ferma, non bada a stanchezza, condizioni cli-matiche, non si ferma neppure il giorno del suo com-pleanno. Vuole completare e vincere questa battaglia. Il corpo però inizia a protestare. Ha infiammazioni alla tibia e al ginocchio e per non piangere dal dolore as-sume antidolorifici per la caviglia. La gamba amputata è piena di cisti. I medici chiedono a Terry di fermarsi, di curarsi, di sottoporsi a un check-up. Sono tutti nuo-

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Il 28 giugno 1981, a soli ventidue anni, Terry Fox muore. La malattia ha vinto. I suoi funerali vengono trasmessi in diretta televisiva. Le bandiere canadesi sventolano a mezz’asta. Un onore riservato solo ai capi di Stato. Terry Fox viene seppellito al Port Coquiltlam Cemetery. Queste le parole del primo ministro cana-dese: «Accade molto di rado, nella vita di una nazione, che lo spirito coraggioso di una singola persona uni-sca tutto il popolo nella celebrazione della sua vita e nel lutto della sua morte. Non pensiamo a Terry come a qualcuno sconfitto dalla sfortuna, ma come qualcu-no che ci ha ispirato con l’esempio del trionfo dello spirito umano sulle avversità».

Terry Fox non è morto. A lui è dedicata una fonda-zione che ha raccolto oltre 550 milioni di dollari per la ricerca. Terry è il nome di una montagna, di una nave rompighiaccio, di strade, scuole, ferrovie. Isado-re Sharp organizza ogni anno in tutto il mondo la Ter-ry Fox Run.

Tempo dopo la morte di Terry, Steve Fonyo, soprav-vissuto al cancro, percorrerà con la gamba sinistra amputata la distanza che mancava a Terry, comple-tando definitivamente la Maratona della Speranza.

vamente concordi che questa corsa influenzerà il fu-turo di Terry. Corre, corre, corre per altri tre mesi, poi il 1° settembre si ferma a causa di forti dolori al petto. In ospedale gli diagnosticano due grumi tumorali a entrambi i polmoni. Terry annuncia: – Si va tutti a casa –. Ha percorso 5373 chilometri. Ha raccolto 1 milione e 700mila dollari. Terry si cura annunciando all’intero Canada: – Io la finirò –. Poche settimane dopo la fine della Maratona della Speranza, Terry viene nomina-to Companion of the Order of Canada, il piú giova-ne della storia canadese a ricevere la piú importante onorificenza della nazione. Gente da tutto il mondo gli spedisce lettere per ringraziarlo, per raccontare di familiari, di sfide con il cancro.

Un giorno, mentre Terry apre l’ennesimo pacco di corrispondenza, trova un telegramma.

È di Isadore Sharp: Tu hai cominciato. Stop. Noi non ci fermeremo. Stop.

Fin quando il cancro non sarà vinto. Stop. La CTV Television Network organizza una raccol-

ta fondi che riscuote un enorme successo. Appena un anno dopo l’inizio della Maratona della Speranza, Terry Fox riesce a realizzare il suo sogno. Grazie a lui sono stati raccolti 22 milioni di dollari per la ricerca contro il cancro.

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UN LEGGERO TORCICOLLO

Prima di essere schiuma saremo indomabili onde.

Cesare Pavese

UNA GIGANTESCA BOMBA cade nel bel mezzo di un gruppo di soldati. È l’inferno, è la guerra. Un intero reg-gimento tedesco viene totalmente cancellato. A Clave, una piccola cittadina francese, dei mille soldati tede-schi ne rimangono vivi novanta. Gli Alleati continuano a bombardare. Nei paraggi non c’è nessuna truppa di

Hitler, cosí i sopravvissuti decidono di battere in riti-rata e tornare a casa. Tra loro c’è un certo Bernhard Carl Trautmann. È un sergente della Wehrmacht, anche se ha solo ventun anni. Bernhard si è dovuto arruolare per forza. La guerra tanto voluta da Hitler ha portato al fronte anche giovani come Bernhard. Un tranquillo ragazzo di Brema, calciatore del Tura Bremen e tifoso sfegatato del Werder Brema. Dal 1941 al 1944 la vita di questo ragazzone biondo è un’odissea. Viene spedito in Russia dove i sovietici lo fanno prigioniero. Riesce, con-tro ogni pronostico, a scappare. Spedito sul fronte occi-dentale, è ancora fatto prigioniero dai francesi e scappa un’altra volta. A Clave si salva miracolosamente durante un bombardamento americano. È tra quel 9 percento di vivi per miracolo. Il giovane tedesco ora è solo, diretto in una Germania in cenere e fiamme. Diretto a casa ver-so la famiglia. Sulla strada decine di suoi commilitoni vengono fucilati in mezzo alla strada dagli Alleati. Fuci-lati nonostante non avessero armi, fucilati con le mani alzate. Fucilati perché, in fondo, sono tutti figli di Hitler. Bernhard è stanco. Stanco di una guerra lunghissima, che sembra quasi giunta al termine. È quasi notte, cosí cerca riparo in una stalla. Un po’ di fieno come cuscino e magari un po’ di latte per riempire uno stomaco orfa-no di cibo da tre anni. Il tempo di stendersi e due soldati

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americani gli puntano i mitra dritti in faccia. Fermo o sparo. Catturato per la terza volta. Il terrore lo assale. Probabilmente la sua vita finirà o in quella stalla o qual-che metro piú in là, davanti a un muro. Alza le mani. Gli americani, convinti di aver fatto un facile prigioniero, si distraggono e l’inafferrabile Bernhard scappa per la ter-za volta. Russi, francesi e americani, nessuno è in grado di catturarlo. Mentre corre a gambe levate nella sterpa-glia, si trova davanti a una recinzione in ferro. Veloce la scavalca ed è di nuovo sotto il tiro di due mitra, questa volta inglesi. Sono passati poco piú di cinque minuti. Gli inglesi lo alzano da terra e gli dicono: – Hello Fritz, fancy a cup of tea? – «Ciao amico, ti va una tazza di tè?»

Quella dei soldati tedeschi nei territori alleati è una brutta pagina della storia mondiale. La vendetta contro Hitler si riversa sui corpi di migliaia di soldati in Russia e nel resto d’Europa, costretti per anni a lavorare come schiavi per ricostruire quello che avevano bombardato.

Bernhard pensa: «Portatemi pure dove volete, ma io scapperò, sono nato per questo».

Prima viene condotto in Belgio, poi trasferito defini-tivamente in Inghilterra, ad Ashton-in-Makerfield, un’a-nonima cittadina a nord di Manchester. I giudici non sono clementi. Bernhard è un prigioniero di categoria C: nazista.

Questa volta non scappa dal carcere. Ormai la guerra è finita e non ci sono soldati distratti o truppe stanche, secondini attenti lo sorvegliano giorno e notte. In cella Bernhard gira e rigira tra le sue mani le medaglie, ricor-do della Wehrmacht e di Hitler. Ben cinque, tra cui una Croce di Ferro. Quando può, in carcere, non fa altro che giocare a calcio. In fondo è sempre un tifoso sfegata-to del Werder Brema. Nel 1948 Bernhard è una gran-de mezz’ala destra detenuta. Durante una sfida con una rappresentativa locale, Bernhard o, come lo chia-mavano gli inglesi, Bert, si infortuna, cosí, pur di non abbandonare il campo, chiede di poter giocare come portiere. In mezzo ai pali qualcosa cambia in lui, sen-te quasi una vocazione, quella dell’estremo difensore. Nel frattempo, i giudici riconsiderano la sua posizione e diventa un detenuto di categoria B. Si rendono conto che Bert non ha mai supportato l’ideologia nazista. Per lui è un sollievo. Viene rilasciato anche grazie alla sua impeccabile condotta. Appena uscito dal carcere vuo-le andare dalla sua famiglia, che non vede da sei anni. Alcuni abitanti della zona gli consegnano un cesto con tanto cibo, tutta roba razionata: ci sono burro, pancet-ta, zucchero, e una busta con 50 sterline. Bert piange e rifiuta il rimpatrio, decidendo di rimanere in Inghil-terra. Nel torrido agosto del 1948 entra ufficialmente a

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far parte del Saint Helens Town, una squadra del Lan-cashire. Poche centinaia di tifosi, un paesotto di pro-vincia. Partita dopo partita, la popolarità del tedesco Bert cresce e i tifosi diventano migliaia. Il Saint Helens Town FC sfida in un’amichevole il Manchester City. Gli osservatori dei Citizens restano impressionati dal bion-do tedesco. È il 1949 e un uomo arrivato in Inghilter-ra qualche anno prima come nazista è ufficialmente il portiere della seconda squadra di Manchester. Bert è un fenomeno, ma resta per tutta la popolazione inglese un infame, un servitore del Terzo Reich. Bert se la vede brutta. Per prima cosa, davanti a lui per la corsa alla maglia numero 1 c’è un certo Frank Swift, una leggenda dalle parti di Manchester, un titolato, un vincente, uno la cui ascesa ai vertici del calcio mondiale era stata fer-mata solo dalla guerra. Il problema principale di Bert è l’essere nato a Brema. Ai tifosi non va giú la sua prove-nienza. Molti soffrono ancora le perdite dei loro cari in guerra, ammazzati proprio dai tedeschi. Oltre 20mila persone scendono in piazza minacciando di strappare l’abbonamento allo stadio del Manchester City se tra i pali ci fosse stato il nazista Bert. Per non parlare del-la comunità ebraica di Manchester, arrabbiatissima per tale scelta. Tutti gridavano: «Off the Germans». Il rabbi-no in persona dovette placare gli animi, riconoscendo

che Bert era una brava persona. Questo è il clima in cui doveva parare Trautmann. Nella prima gara contro il Fulham, appena tocca palla tutti lo fischiano, sia quelli del Manchester City che quelli del Fulham. I Citizens perdono solo 1 a 0 grazie alle prodezze di Bert. Tifosi e calciatori si complimentano con lui quasi di nascosto. Bert diventa una stella internazionale e lo Schalke 04, blasonata squadra tedesca, prova a riportarlo in patria. Per Bert è una grande occasione: se torna in Germa-nia potrà mettersi in mostra per i mondiali elvetici. I Citizens rifiutano e rifiuta anche Bert, dicendo cosí ad-dio alla nazionale. Appena due anni dopo, a sorpresa la Germania Ovest batte in finale l’Ungheria di Puskás conquistando la prima storica Coppa del Mondo tede-sca, in una partita passata alla storia con il nome di «Miracolo di Berna». Bert ascoltò quella partita alla ra-dio esultando per ogni rete tedesca, senza rammarico. Senza rimorso.

Nel 1956 il City è in finale nella FA Cup. L’anno pre-cedente erano stati battuti dal Newcastle United. Tut-ta la squadra, Bert compreso, vuole rifarsi. 5 maggio, Stadio Wembley, il tempio del calcio. Manchester City contro Birmingham. Segna il City dopo appena tre mi-nuti, gli avversari pareggiano, ma nel secondo tempo è ancora il City a portarsi in vantaggio per ben due

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volte. Ora bisogna solo resistere, a tutti i costi. 22 mi-nuti al termine della gara. Il Birmingham è in attac-co, un cross attraversa l’area, Bert si lancia sul pallone per agguantarlo, Peter Murphy, attaccante avversario, corre a tutta velocità. Bum. Uno scontro terribile. Bert è a terra privo di sensi. Non si muove. Gli amici sono tutti intorno a lui. I medici entrano in campo per ria-nimarlo. Il pubblico è col fiato sospeso. Un giorno di festa sta per trasformarsi in una tragedia. Il massag-giatore cerca di far rinvenire Bert con un secchio di acqua e una spugna. I medici utilizzano anche dei sali. Bert si riprende. I tifosi urlano il suo nome. In panchina all’epoca non c’erano rimpiazzi, quindi niente sostitu-zione, Bert deve resistere altri 17 minuti. Non riesce a muovere la testa e il dolore è insopportabile, al punto che si accascia al suolo per ben tre volte. Non vede bene e nonostante ciò riesce a parare ancora una manciata di tiri. Triplice fischio dell’arbitro. Il City è campione, Bert è un campione. Il nazista, il portiere dei miracoli, il tedesco adottato dagli inglesi porta a casa coppa e medaglia. Mentre il principe Filippo gli infila al collo la medaglia piú bella, Bert si lamenta di un leggero torcicollo. Tutti festeggiano, ma lui ha un dolore terribile. – Non ti preoccupare, – dicono i com-pagni, – è solo torcicollo, vedrai, domani passa.

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ta resiste e, dopo numerosi allenamenti, terapie, inci-tamenti da parte di compagni, dirigenti e tifosi, Bert torna tra i pali piú forte di prima. E diventa leggenda. Rimane il numero 1 del City fino al 1964, totalizzando 545 presenze. Alla sua partita d’addio c’erano 60mila persone, leggende del calcio come Bobby Charlton e Tom Finney. Accolto come un infame, salutato come un eroe.

Bert, tornato in Germania, viene incaricato dal mini-stro degli Esteri tedesco di esportare il calcio in Pae-si in via di sviluppo, di insegnarlo a gente che non ne conosce nemmeno le regole. Chi meglio di lui poteva far capire ai bambini di mezzo mondo cos’è l’ospitalità, cosa significa non abbattersi davanti alle difficoltà, non mollare mai, anche quando hai cinque vertebre spac-cate. Bert è stato allenatore di nazionali di Paesi pove-rissimi, spesso reduci da guerre feroci come la Birma-nia, la Tanzania, la Liberia e il Pakistan. Nel 2004 viene nominato Ufficiale all’Ordine dell’Impero britannico. Da tedesco invasore a eroe dell’Impero, dalla gioventú hitleriana a Cavaliere. La regina Elisabetta gli appunta al petto l’ennesima medaglia. Bert abbassa la testa in segno di rispetto, e mentre la rialza, ha ancora un tre-mendo torcicollo.

E i giorni effettivamente passano, ma il dolore no. Cosí, appena arrivato a Manchester, va in ospedale. Il medico è incredulo. Tu sei vivo per miracolo, dovresti essere morto, o quantomeno su una sedia a rotelle. Cinque vertebre danneggiate, una vertebra cervica-le completamente spezzata in due; fortunatamente la forza dello scontro aveva spostato anche la vertebra sottostante, che aveva mantenuto quella spezzata al suo posto. La stampa lo osanna: è il portiere che ha ri-schiato la vita per far vincere il City. È l’eroe di Manche-ster. Nel 1956 viene eletto miglior giocatore dell’anno, primo straniero a vincere un premio del genere. Bert inizia una lunga riabilitazione. Figuriamoci se uno abi-tuato ai bombardamenti, alle fughe dalle prigioni, al carcere, può essere fermato da un attaccante inglese. Bert si concentra sul suo recupero durante il quale di-viene un vero idolo per i tifosi del City. Ma siccome la vita spesso non segue le regole delle favole, il figlio di Bert viene investito e ucciso davanti a casa sua a soli cinque anni. Sua moglie non riuscirà piú a ripren-dersi da questa tragedia. Bert ritorna in porta dopo sette mesi. Il portiere amato da tutti è solo un ricordo, uscite a vuoto, banali errori, insomma, l’epilogo piú triste per un numero 1. Bert parla con i dirigenti del City, vuole essere ceduto. Il club anche questa vol-

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IL MISTERO DI SOLLENTUNA

Dappertutto, come un esilio aperto.Anonimo

2 ORE, 32 MINUTI E 45 SECONDI. È l’inizio del 1912 e un ventunenne giapponese della cittadina di Tamana realizza questo incredibile tempo per una marato-na sulla distanza di 40,2 chilometri. Amici, parenti e un certo Kano Jigoro sono a bordo pista a guardare questo nipponico stupire il Sol Levante. Kano Jigoro è il preside della Tokyo Normal Higher School, ante-

nata dell’attuale Università di Tsukuba. È il fondatore del judo. Kano Jigoro stravede per Shizo Kanakuri, un suo studente, al quale ha detto: – Tu allenati un’o-ra al giorno e non preoccuparti, al resto penso io –. Ha un sogno, Jigoro, far sí che il Giappone partecipi alle Olimpiadi di Stoccolma del 1912. Ma Stoccolma è dall’altra parte del mondo e non esistono comita-ti olimpici finanziati dai governi per pagare lunghi viaggi. Anzi, i giapponesi si sentono inferiori al re-sto del globo, sportivamente parlando. Però Jigoro sa benissimo che la loro presenza alle Olimpiadi si-gnificherebbe, per la prima volta nell’era moderna, la partecipazione di una nazione almeno per ogni con-tinente e l’Asia potrebbe essere rappresentata pro-prio dal Giappone. Cosí Jigoro organizza una colletta e raccoglie, per il suo studente, 2000 yen, qualcosa come 154mila euro di oggi. Partecipano tutti, pro-fessori, bidelli, studenti. È un momento storico per il Paese e ancora nessuno lo sa. Andranno in Svezia due ragazzi: Shizo Kanakuri e Yahiko Mishima. È il 16 maggio 1912. Gli atleti partono in treno da Shinbashi per il porto di Tsuruga. Ore e ore di viag-gio. Poi Shizo e Yahiko si imbarcano per raggiungere la città portuale della Russia orientale, Vladivostok. At-traversano tutto il Mar del Giappone. Sono esausti e

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Stoccolma è ancora dall’altra parte del mondo. Bisogna raggiungere la capitale russa: Mosca. Cosí i due pren-dono la Transiberiana, la ferrovia che attraversa tutta la nazione piú grande del mondo. Giorni e giorni di viag-gio. A Mosca sono stremati e trovano giusto il tempo di riposarsi per poi ripartire per Stoccolma. Altri giorni di viaggio, altra fatica, altro sudore. Giungono finalmente in Svezia, sono passati diciotto giorni.

Cerimonia d’inaugurazione. Yahiko Mishima è il por-tabandiera mentre Shizo lo segue mantenendo il car-tello con su scritto Japan. Entrambi indossano panta-loncini e polo bianca. Mishima non riesce a qualificarsi nemmeno per una finale. Tutte le speranze ora sono sulle spalle del giovane Shizo.

14 luglio 1912. 69 atleti provenienti da tutto il mondo sono sui nastri di partenza. Sono le 13:48 e incredibil-mente a Stoccolma fa caldo. Trentadue gradi per l’e-sattezza. Si parte dallo Stadio olimpico di Stoccolma e si arriva alla chiesa di Sollentuna, andata e ritorno. Tut-ti guardano con grande ammirazione questo giovane giapponese arrivato dall’estremo oriente con un tempo record. Colpo di pistola, si parte! Shizo con il numero 344 sul petto non soffre il caldo come gli altri, anzi, lui è abituato ad allenarsi al caldo e a metà gara è alle spalle di McArthur, sudafricano che guida la corsa. I chilometri

passano e gli atleti stremati si ritirano man mano. Dieci, venti, trenta, trentacinque. Poi succede l’incredibile. Il ventiquattrenne Francisco Lázaro si sente male. Il gio-vane di Lisbona si è cosparso il corpo di cera per paura delle ustioni. Cosí però la pelle non respira e Francisco perde i sensi. I compagni di squadra lo trovano a bordo strada su una collina al ventinovesimo chilometro. Fran-cisco Lázaro morirà il giorno seguente per disidratazio-ne. Sarà la prima vittima di un’Olimpiade. Un chilometro piú avanti, Shizo Kanakuri svanisce nel nulla. Puf. Come un incantesimo. La Maratona finisce, McArthur vince e di Shizo nemmeno l’ombra. In Svezia tutti si chiedo-no dove sia finito il talento nipponico. Morto anche lui, come il giovane Lázaro? Assassinato lungo la Marato-na? Forse rapito? Non riescono a trovare nemmeno il cadavere, in una Stoccolma scioccata. Shizo Kanakuri è per la polizia svedese ufficialmente disperso in gara. Prima e unica volta nella storia delle Olimpiadi. Passa-no gli anni, i decenni e di Shizo Kanakuri non si sa piú niente. In Svezia è una specie di fantasma, un mito, una leggenda che si racconta ai bambini, a tutti quelli che corrono. Su di lui aleggiano strane storie, a metà tra i troll e gli spiriti maligni giapponesi. Sparito perché rapi-to dalle fate, ucciso da un serial killer... Il primo mago ad aver partecipato a un’Olimpiade.

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È il 1962, ricorre il cinquantesimo anniversario delle Olimpiadi di Stoccolma. Un giornalista della tivú sve-dese, Oscar Soderlund, viene spedito in Giappone sulle tracce di Shizo Kanakuri. Incredibilmente, riesce a tro-vare Shizo Kanakuri nella sua città natale, Tamana. È un insegnante di geografia della scuola elementare. È papà di sei figli e nonno di dieci nipoti. Oscar riesce fi-nalmente a svelare il segreto durato cinquant’anni. Shi-zo racconta che, al trentesimo chilometro, uno spetta-tore della famiglia Petré, che abitava lungo il percorso di gara, gli offrí da bere, non si sa bene se succo di lampone o d’arancia. Il membro della famiglia Petré osservava la gara dal suo giardino: una sorta di Eden per Shizo, che correva già da trenta chilometri. Una specie di Fata Morgana, il forte richiamo di una sirena. Nei pressi di Sollentuna lo spettatore, vedendo Shizo spossato, lo invitò a entrare in casa e riposarsi un atti-mo nella frescura offerta dal tetto. Shizo si sedette in poltrona e in pochissimi attimi si addormentò. Cadde in un sonno profondissimo, meraviglioso, fatto di giardini ameni, fate di bosco e mirtilli. Lo spettatore, non abi-tuato a Olimpiadi, gare e maratone, rispettosamente lo lasciò dormire. Shizo si svegliò a notte fonda, quando ormai la gara era finita, quando la polizia lo cercava ovunque, quando era già un fantasma. Piú che per l’aci-

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do lattico che gli infiammava le gambe, Shizo decise di tornare in Giappone sotto falso nome per l’imbarazzo e la vergogna arrecata al proprio Paese.

Del viaggio di ritorno non si conoscono i dettagli. Si sa invece che nel 1967 il governo svedese invitò Shi-zo a concludere la maratona mai finita. Il padre della maratona giapponese accettò l’invito e dopo giorni di viaggio riprese a correre dalla casa della famiglia Petré. Alla veneranda età di settantun anni, Shizo Kanakuri concluse la sua strepitosa, leggendaria, epica marato-na, con l’imbattibile record di 54 anni, 8 mesi, 6 giorni, 5 ore, 20 secondi e 3 decimi.

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UN ANNO SENZA

PRIMAVERAMa da queste profonde

ferite uscirannofarfalle libere.Alda Merini

PRAGA È AVVOLTA DA UNA CORTINA di silenzio estivo. Strano, niente cicale, grilli o chiacchiericcio di ragazzi innamorati sotto la luna piena. Silenzio. In lontananza si sentono rumori metallici. A letto decine di praghesi pensano sia solo un brutto sogno, un incubo, un’im-

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pressione, ma il rumore metallico diventa rumore di cingolati, rumore di carri armati. Carri armati russi. È la notte tra il 20 e il 21 agosto 1968, quando l’Unio-ne Sovietica invade Praga. Finisce nella repressione la Primavera di Praga, il tentativo di cambiare la Ceco-slovacchia da parte del presidente Alexander Dubček. Quella notte una rivoluzione durata otto mesi si fran-tuma come un cristallo di Boemia. I cuori di tanti ce-coslovacchi che avevano creduto nel cambiamento, in Dubček, si spezzano tra i cingolati dei carri armati. Dopo la repressione ungherese, le truppe del Patto di Varsavia demolivano dignità e libertà. Un brivido percorse la schiena di centinaia e centinaia di ceco-slovacchi che avevano firmato il Manifesto delle Due-mila Parole, poche righe scritte da persone che cre-devano ancora nel socialismo dal volto umano, poco russo e molto europeo. Tra i firmatari c’è anche Vĕra Čáslavská, una ginnasta. Alle Olimpiadi di Tokyo del 1964 ha vinto l’oro alla trave, al volteggio e nel con-corso individuale, l’argento nel concorso a squadre. Una campionessa, la perla dei cecoslovacchi. Vĕra sof-fre guardando dalla sua finestra i lunghi cannoni dei carri armati. Ora cambierà tutto. Vĕra lo sa.

In pochi giorni Dubček viene deposto dai russi e al suo posto arriva il fantoccio Gustáv Husák. Mesi di so-

gni e rivoluzioni cancellate con una firma. Husák annul-la tutte le riforme di Dubček e inizia una vera e propria caccia ai firmatari del Manifesto delle Duemila Parole. Braccata, Vĕra scappa. Mancano due mesi alle Olim-piadi di Città del Messico, le russe sono già in Ameri-ca ad allenarsi, ad ambientarsi al clima. Vĕra invece è nascosta in una baita delle campagne della Moravia. Teme l’arresto, teme di sparire. Sa che il nuovo regime non permetterà mai a una firmataria di partecipare alla Olimpiadi, e lei non va in palestra da settimane, è fuori forma. Ma in cuor suo, in fondo, spera ancora di par-tire per il Messico. Cosí si allena alzando sacchi di pa-tate, appendendosi agli alberi, volteggiando a corpo libero sul prato davanti a casa. Spala carbone per farsi venire i calli alle mani. Sporca, nera, non abbandona il suo desiderio di partecipare alle Olimpiadi. Vĕra è alta un metro e sessanta, pesa cinquantotto chili e sembra piú un’attrice americana che una ginnasta, ma la sua leggiadria è famosa in tutto il mondo. Husák vorrebbe non farla partecipare, ma Vĕra è una star e il nuovo regime non ha bisogno di altre rivolte, di pretesti per scatenare manifestazioni. Husák vuole «normalizzare» la Cecoslovacchia. Cosí, una mattina, nelle campagne della Moravia arriva l’autorizzazione a volare in Ame-rica. Vĕra ha ventisei anni e viene accolta in Messico

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come una regina. Vĕra secondo tutti non ha speranze. Le russe sono delle macchine, devono vincere. Anche nello sport la falce e il martello soffocheranno la Pri-mavera di Praga. Ma la vita è imprevedibile e certe volte spalare carbone ti allena meglio della paura del regime. Volteggio: Vĕra vince l’oro. Parallele: si ag-giudica la medaglia piú preziosa. Diviene la seconda donna piú celebre al mondo dopo Jacqueline Kenne-dy. Questi risultati rendono Vĕra Čáslavská la ginna-sta ceca piú decorata della storia. La quattordicesima atleta piú medagliata dei Giochi olimpici. La ginnasta con piú vittorie a livello individuale di tutto il pianeta. Vĕra è l’unica atleta della ginnastica, sia maschile che femminile, ad aver conquistato l’oro olimpico in ogni specialità individuale. Tutto il mondo dello sport nel 1968 parla di lei. Ma Vĕra non ha ancora esaurito la sua fame di vittorie. Alla trave si classifica seconda dietro la russa Kučinskaja, per uno strano e contestabile giu-dizio. Tutti attendono la gara piú importante: il corpo libero.

Vĕra Čáslavská si esibisce sulle note della danza po-polare messicana «Ballo del Sombrero», il pubblico è in delirio. La ginnasta ceca vince l’oro. È lei la piú brava di tutte. I messicani l’adottano. Improvvisamente però la giuria, pressata dal membro russo, fa qualcosa di

inspiegabile: aumenta il voto delle qualificazioni della russa Larisa Petrik, che si vede aggiudicare l’oro a pari merito con la Čáslavská. Una decisione senza prece-denti. È il momento solenne della premiazione, quello degli inni nazionali, e gli occhi del mondo sono pun-tati sulle due vincitrici. Quando nel palazzetto risuona l’inno russo, le telecamere inquadrano i volti delle due campionesse. Vĕra Čáslavská china la testa. Si rifiuta di guardare la bandiera che rappresenta gli oppres-sori della libertà del suo Paese. In mondovisione, Vĕra protesta senza urla, senza fiamme, molotov, proclami, barricate; il suo dissenso è fatto di una chioma bionda che si rifiuta di onorare un drappo di stoffa, che rappre-senta ideali che calpestano la sua gente. Vĕra non ha degnato nemmeno di uno sguardo l’Unione Sovietica. A casa se ne sono accorti tutti, da tutti i continenti, e se ne è accorto anche il leader del nuovo regime filo-sovietico Husák. Prima di lasciare il Messico, Vĕra sposa un suo compagno di squadra, il corridore cecoslovacco Josef Odložil. A quel matrimonio partecipa il popolo, la gente comune, tanti messicani acclamano, esulta-no per l’eroina bionda. Vĕra avrebbe potuto restare in Messico e invece decide di tornare nel suo Paese senza primavera, un Paese che aveva bisogno di rafforzare la propria autostima anche grazie ai suoi campioni. Fini-

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sce sotto indagine, nel fascicolo c’è scritto «influenze scorrette».

– Semplice, Vĕra: ritratta tutto e sei libera. Togli la tua firma dal manifesto e sei libera.

Ma lei non lo fa. – Forse non ci siamo capiti bene: o lo fai o addio gin-

nastica.Ma lei non lo fa. Bandita da ogni competizione sportiva, divieto di

allenare in patria e all’estero. Vĕra è una persona non gradita. La pluripremiata ginnasta, la piú vincente della storia mondiale, campa facendo pulizie nell’anonimato. Husák vuole cancellare la sua fama, la sua storia, le sue medaglie. Un giorno Vĕra va al Ministero dello Sport e dice al funzionario di turno: – Io me ne andrò da qui solo quando mi avrete dato un incarico sportivo. Altri-menti, non esco da questa porta –. Il governo filorusso le assegna un ruolo di consulente. Niente allenatrice, niente copertine, niente fama. In disparte.

– Quelle come te, le firmatarie, finiscono in disparte.È un periodo durissimo per Vĕra. Oltre allo sport

anche il privato sembra disintegrarla. Il figlio, Martin Odložil, uccide il padre e marito di Vĕra in un locale durante una lite finita male. Vĕra non regge e la depres-sione s’impossessa di lei. Sparisce dalla circolazione e

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le medaglie, le ossessioni, il Manifesto delle Duemila Parole si liquefanno in una casa di cura. Husák ha vin-to, Vĕra non esiste piú. Husak ha girato la telecamera dall’altra parte e la bionda è solo un ricordo sbiadito, poco importante, da non tener conto in piena Guer-ra Fredda. Ma la vita è imprevedibile e chi sembrava soccombere sotto il peso delle proprie medaglie, viene salvata dal crollo di un muro come quello di Berlino. Václav Havel nel 1989 guida la «Rivoluzione di vellu-to», una protesta non violenta che a Praga rovescerà il regime comunista grazie al supporto di oltre 50mila persone scese in strada. Vĕra diventa consigliera di Ha-vel, presidente del Comitato olimpico ceco e membro del Comitato olimpico internazionale. Suo figlio riceve la grazia dal nuovo presidente ceco. Husák ha perso. Praga ha di nuovo la sua PrimaVera.

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IL CAPITANO DELLA SQUADRA

CEMENTOHo tirato su / le mie quattro ossa

e me ne sono andato / come un acrobata / sull’acqua.Giuseppe Ungaretti

FERDINANDO GUARDA IL DUOMO DI MILANO e resta a bocca aperta. Gigantesco, enorme, uno spettaco-lo. Si guarda intorno, Nando, è in una delle piazze piú belle d’Italia. Gira continuamente su se stesso. In mano ha un paio di scarpini da calcio e una chiave inglese. Il suo sogno si è avverato, giocherà nel Milan,

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o meglio nel Milano, come dicono i fascisti. Ferdinan-do Valletti nel 1943 è un veronese trapiantato a Mi-lano, un operaio calciatore. Da poco si è trasferito nel capoluogo lombardo, lavora all’Alfa Romeo e si è subito accasato a Seregno. In Veneto ha giocato nell’Hellas Verona, è uno che ama tremendamente il pallone. Uno con i suoi piedi non poteva certo pas-sare inosservato, cosí i dirigenti del Milano gli hanno offerto un contratto. Nando è felice, lui è un mediano in campo e anche nella vita. Uno che si sacrifica con-tinuamente, per gli altri nel rettangolo di gioco e in fabbrica per la famiglia. È uno tosto, una montagna difficile da spostare.

Ferdinando Valletti a ventun anni indossa la maglia rossonera. Quando ferma gli avversari si dimentica dei fascisti, si dimentica dell’alienante lavoro in fabbrica, si dimentica della guerra. Il suo cervello spegne le cose brutte e per novanta minuti gli regala geometrie ed emozioni. L’arbitro fischia l’inizio di un’amichevole. In mezzo al campo c’è la diga Valletti. Dopo poche azioni, Ferdinando resta a terra in uno scontro di gioco. Sente un forte dolore al ginocchio. In campo tutti hanno capi-to cosa è successo: menisco rotto. Nel 1943 significa la fine della carriera calcistica. Il sogno di Nando si spez-za come la cartilagine del ginocchio, improvvisamente.

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Finisce il calciatore resta solo l’operaio. Gli scarpini al chiodo e le chiavi inglesi in mano.

Nando dopo l’8 settembre, dopo l’armistizio, si av-vicina ai partigiani e in fabbrica distribuisce volantini per il grande sciopero generale del 1944. Bisogna fer-mare il Paese e il mediano Valletti dà il proprio con-tributo. Lascia a ogni uomo, compagno, operaio un foglio che invita a scioperare per far sentire il proprio dissenso.

È notte quando la Brigata Muti, corpo paramilitare fascista, accompagnata dalle SS, preleva con la forza Ferdinando Valletti dalla propria abitazione. Ferdi-nando non ha il tempo di avvertire nemmeno sua ma-dre e sua moglie incinta. Viene portato direttamente nel carcere di San Vittore e dopo pochi giorni viene spedito al campo di concentramento di Mauthausen, in Austria, con l’accusa di attività sovversiva. Insie-me a decine di operai dissidenti, parte dal binario 21 della stazione centrale di Milano. Un treno lo accom-pagna verso quella che potrebbe essere la sua ultima partita. In Austria viene assegnato alla «Squadra Ce-mento», scava gallerie per nascondere le fabbriche belliche tedesche. Un lavoro massacrante. Occultare i centri di produzione delle armi di Hitler, questo è il suo compito. Giorno dopo giorno dimagrisce, e la pa-

rola campo, che nella sua mente richiama prati verdi con linee bianche, si trasforma in un incubo. Al posto degli scarpini ha degli zoccoli e una divisa a strisce sbiadite. La divisa del Mauthausen Football Club. Fer-dinando Valletti è un numero, questa volta impresso sul braccio e non sulla schiena. Nelle gallerie sotto terra non sente piú le gambe, ha i crampi dentro al cuore insieme ai suoi compagni della «Squadra Ce-mento» gioca a non morire. Si sorreggono l’un l’al-tro. Si sorreggono mentre crollano pareti di roccia, mentre sono in piedi per l’appello, mentre la mente scoppia davanti all’orrore. Non si possono chiedere sostituzioni a Mauthausen. Gli spettatori non applau-dono, sparano. La partita dura mesi, senza intervalli, senza borracce per dissetarsi.

Ferdinando Valletti viene trasferito al campo di concentramento di Gusen II. I tedeschi organizza-no una partita, manca un giocatore. Un kapò cerca il ventiduesimo uomo. Ferdinando si offre volontario, il kapò forse lo riconosce e lo fa giocare. Valletti entra in campo al fianco dei suoi aguzzini. Pesa trentano-ve chili ed è scalzo. Novanta minuti dentro l’inferno. I suoi compagni di squadra sono quelli che forse lo fucileranno, quelli che lo umiliano, dovrà passare la palla a chi lo deride, a chi non dà valore alla sua vita.

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Valletti è un fantasma in movimento tra i bestioni im-pettiti delle SS tedesche. Il mediano Valletti blocca a centrocampo il kapò che voleva superarlo. Forse è fallo, forse no. Speriamo che i cartellini gialli da que-ste parti non siano di piombo. Non ha piú forze, non mangia da giorni. I piedi non li sente piú, per il freddo e la stanchezza. Non corre, plana sul campo. L’arbi-tro fischia la fine e Valletti quasi sviene. I tedeschi dopo quella partita lo promuovono sguattero. Un la-voro meno massacrante, un lavoro che può salvargli la vita. Ma Valletti non si accontenta e come tutti i mediani rischia, o il pallone o la gamba, o l’applauso o il cartellino. A Gusen II, o la morte o la vita. Di na-scosto porta cibo ai suoi compagni della «Squadra Cemento», occulta gli scarti dei tedeschi dentro gli zoccoli sporchi, impasta pane e schifezze con i suoi piedi da mediano. Sa bene che se lo beccano morirà. Ogni volta che porta da mangiare ai suoi compagni pensa al menisco, pensa che è successo tutto all’im-provviso, sul piú bello, mentre accarezzava un sogno. E se succede anche qui, a Gusen II, la sua vita sembra appesa a un menisco lacerato. È il 5 maggio. Ferdi-nando Valletti ripete a memoria, come ogni anno, la poesia di Manzoni dedicata a Napoleone.

Ei fu. Siccome immobile, dato il mortal sospiro,

stette la spoglia immemore orba di tanto spiro,

cosí percossa, attonita la terra al nunzio sta.

È un bel giorno per morire, pensa tra sé e sé. E invece il 5 maggio 1945 finalmente viene liberato dagli Alleati. Torna a casa da sua madre, da sua moglie, dopo di-ciotto mesi di prigionia. Il mediano Valletti è diventato papà di una splendida bambina: Manuela. Inizia il se-condo tempo della sua straordinaria vita.

Ritorna a lavorare in fabbrica all’Alfa Romeo, ne di-viene dirigente. Ferdinando Valletti viene riconosciuto come partigiano combattente e riceve la medaglia ga-ribaldina. Nel 1979 il presidente della Repubblica San-dro Pertini gli appunta al petto la Stella al merito del lavoro. Il mediano Valletti nel secondo tempo della sua vita è andato nelle scuole sotto la bandiera dell’ANPI (Associazione Nazionale Partigiani Italiani) a raccon-tare ai giovani cos’è stata la sua vita tra calcio, campi di concentramento e medaglie. È andato nelle scuole a raccontare la barbarie nazista, a insegnare che nella vita bisogna essere mediani, dighe, anche quando da-

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vanti a te c’è un kapò. Ferdinando Valletti è rinato il 5 maggio 1945, non ha vinto uno scudetto, una coppa, un mondiale. Queste cose le ha sempre sognate di not-te, anche a Mauthausen. Sapeva di essere un calciatore grezzo, ma aveva spalle larghe per le proprie idee e nel petto un gran cuore.

Ferdinando Valletti si è spento nell’estate del 2007 nella sua amata Milano. È morto per le conseguenze del morbo di Alzheimer. Prima di morire lui ha dimenti-cato la sua straordinaria vita, ma noi no.

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L’UOMO NATO

TRE VOLTEO troveremo una strada o ne costruiremo una.

Annibale

SHAUL GUARDA IL SUO PAPÀ mentre, tutto sudato, costruisce una casa. Non una casa qualsiasi, la loro casa, la casa della sua famiglia. Mattone dopo matto-ne, crea stanze, tetti per proteggersi, pavimenti per giocare. C’è anche il camino per riscaldarsi durante le notti fredde d’inverno. Shaul è orgoglioso di lui. «Da grande voglio essere come il mio papà!».

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Shaul è un bambino, ma ogni volta che appoggia l’o-recchio alle pareti gli sembra di sentire il respiro affan-nato del suo papà. Shaul ama la sua casa.

Un pomeriggio, mentre è fuori a giocare, sente il ru-more degli aerei. Alza lo sguardo e vede precipitare verso il basso tonnellate di bombe, che cadono come biscotti in un latte fatto di case. Shaul vede la sua casa sgretolarsi sotto il peso dell’aviazione tedesca. Non sono bastati gli affanni e i muscoli del suo papà. I tedeschi hanno bombardato a tappeto Belgrado, è ufficialmente iniziata l’invasione del Regno di Iugo-slavia. Le potenze dell’Asse hanno ridotto Belgrado e le sue campagne in cenere e fango. La quarta flotta aerea della Luftwaffe, bombarda per tre giorni la ca-pitale, di giorno e di notte. I piloti scendono indistur-bati e distruggono tutto quello che è ancora in piedi. Il comandante Hugo Sperrle, incaricato da Hitler in persona, è a capo della Unternehmen Strafgericht, letteralmente «Operazione Castigo». Hitler nel suo foglio d’istruzioni numero 25 ha scritto le seguenti parole:

Cancellatemi Belgrado dalla faccia della terra. In-vadete la Iugoslavia, distruggete l’esercito serbo con spietata durezza, non preoccupatevi di sondaggi di-plomatici, né presenteremo ultimatum. Agite subito!

Separatemi la parte meridionale del Paese, allo scopo di trasformarla in una base per ulteriori operazioni.

Belgrado non è protetta nemmeno da una batte-ria contraerea. Il fumo della città distrutta è visibile a chilometri di distanza. 17mila morti, 20mila feriti. Ha cinque anni Shaul quando sua nonna, in lacrime, vedendolo vivo, grida: – Miracolo! –. Ai bordi delle strade ci sono morti dovunque. Belgrado non esiste piú. Insieme alla nonna di sessantacinque anni, Shaul scappa a piedi per oltre venti chilometri tra i borghi distrutti di una Serbia cancellata. Mentre cammina, sua nonna è una fontana silenziosa di lacrime. Shaul la ama moltissimo.

– Ringrazia Dio, Shaul! Oggi siamo nati un’altra volta.Shaul e tutta la sua famiglia scappano in Ungheria, a

Budapest. Un viaggio durato anni. Ne ha appena otto quando i suoi genitori lo abbandonano in un monastero nella speranza di salvargli la vita. – Mantieni un segreto Shaul: non dire a nessuno che sei ebreo. Promettilo!

Shaul, terrorizzato, crede che da un momento all’altro i tedeschi possano scoprirlo. Suo padre nel frattempo si è unito al movimento sionista, capeg-giato da Rudolf Kastner. Ormai però i tedeschi sono dovunque e stanno per arrivare anche in Ungheria, cosí Kastner trova un accordo: un salvacondotto per

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la popolazione di origine ebraica in cambio di rifor-nimenti per le truppe. Shaul si ricongiunge alla sua famiglia. Quando vede sua madre le dice: – Io non ho piú paura di niente –. Sembra la fine di un incubo. Un treno aspetta Shaul e tutta la sua famiglia per portar-li in salvo in Palestina, lontano dalla guerra e dal ter-rore. Shaul dorme sul petto di sua madre. Il rumore delle rotaie è quasi una ninna nanna per lui, abituato al freddo del monastero. Chissà come sarà la Pale-stina. Il treno viene dirottato dai nazisti e condotto verso il campo di concentramento di Bergen-Belsen. Migliaia di ebrei vedono sogni e speranze distrut-ti a manganellate e tatuaggi sugli avambracci. Poi, dall’altra parte del mondo, un gruppo di ebrei ame-ricani paga un riscatto per salvare 2mila ebrei dal campo di concentramento: Shaul è tra quei 2mila. Lo sono anche i suoi genitori. A Bergen-Belsen furono uccisi nella camere a gas oltre 100mila ebrei, anche Shaul entrò in una camera a gas, ma fu assolto dalla morte: è uno dei pochi sopravvissuti dei 70mila ebrei del Regno di Iugoslavia. Shaul sale nuovamente su un treno. Di nuovo appoggia la testa sul petto della madre e si addormenta. Questa volta il treno giun-ge a destinazione. In Svizzera, le prime parole di sua madre sono: – Sorridi figlio mio, oggi siamo nati una

seconda volta –. In una Svizzera neutrale Shaul La-dany inizia a correre, o meglio, a marciare. Corre per i boschi di una Svizzera che è la meta di tanti ebrei in fuga dalla furia di Hitler.

Nel 1948 ha solo dodici anni ed è già rinato due volte. La sua famiglia si trasferisce in Israele, appena riconosciuto ufficialmente come Stato. Gli anni bui sono ormai alle spalle e Shaul Ladany si mette a stu-diare ingegneria meccanica. Studia alle università di Gerusalemme e di Tel Aviv. Studia e corre. A diciot-to anni è un marciatore. È il 1962 quando partecipa alla sua prima gara ufficiale. L’anno successivo vince il primo dei suoi ventotto titoli nazionali. Batte re-cord su record, anche primati storici non infranti dal 1878. Partecipa alle Olimpiadi del 1968 in Messico, concludendole con un onorevole ventiquattresimo posto. Ma Shaul è un testardo e non si accontenta. Ha trentasei anni quando partecipa alle Olimpiadi di Monaco del 1972. Ormai è una leggenda della grande distanza, uno abituato alla fatica. È l’unico dell’intera spedizione olimpica israeliana a essere sopravvissu-to a un campo di concentramento, particolare che lo rende speciale davanti alla stampa di tutto il mondo. Ritornare in Germania significa per lui gettare sale su ferite mai rimarginate. Tutti vogliono intervistar-

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lo e lui risponde in un tedesco perfetto, imparato a Bergen-Belsen.

Mentre si riscalda, prima della partenza, indossa una maglietta con la stella di David. Shaul Ladany conclu-de la sua gara al diciannovesimo posto con un tempo di 4 ore, 24 minuti e 38 secondi. Stanco morto, torna in albergo e si addormenta. Il resto della delegazione israeliana assiste a una commedia musicale.

È da poco sorta l’alba del 5 settembre 1972 quan-do otto terroristi palestinesi armati di fucili, membri dell’organizzazione Settembre Nero per la liberazione della Palestina, fanno irruzione nel villaggio olimpico israeliano. Sono le 4 del mattino. I terroristi stanno per scavalcare la recinzione con borse piene di armi. Un gruppo di atleti canadesi rientrati dai locali notturni di Monaco li aiuta a scavalcare, credendo siano anche loro atleti. In pochissimo tempo la notizia fa il giro del mondo. Due atleti vengono subito uccisi.

Alle 5:08 alcuni foglietti vengono gettati dal balcone del primo piano e raccolti da una guardia tedesca. I terroristi richiedono la liberazione di 234 detenuti nel-le carceri israeliane e dei terroristi tedeschi della Rote Armee Fraktion. L’ordine deve essere eseguito entro le 9:00 del mattino. In caso contrario, sarà ucciso un ostaggio per ogni ora di ritardo. Tutte le tivú del mon-

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gli anni compiuti. Ha calcolato che in tutta la sua vita ha percorso oltre mezzo milione di miglia, decine di volte il giro del mondo. Corre per non dimenticare la Shoah, i campi di concentramento, il Massacro di Mo-naco di Baviera. «Sopravvivere è un caso, vivere una scelta». Parola di Shaul Ladany, l’uomo nato tre volte.

do sono puntate sul numero 31 di Connollystrasse. Il compagno di stanza di Ladany lo sveglia bruscamente. – Alzati, qui è pieno di terroristi arabi.

Shaul esce dalla sua stanza e immediatamente si rende conto di quello che sta accadendo. Chiude la porta e rientra in camera. Ladany e il suo compagno decidono di lasciare la stanza, vogliono scappare dal retro. Il piano però non li convince, perché devono at-traversare un prato, rendendosi cosí visibili ai terrori-sti. Ma lo fanno lo stesso. Si precipitano entrambi ver-so gli appartamenti della squadra americana. Bussano forte alla porta di Bill Bowerman, allenatore. Bill lancia l’allarme. Nel frattempo le televisioni di mezzo mon-do danno per morto Ladany. Alcuni scrivono: «Ladany non è sfuggito al suo destino in Germania per la se-conda volta». Ladany è uno dei cinque sopravvissu-ti al Massacro di Monaco di Baviera, dove persero la vita undici atleti e tecnici israeliani, cinque terroristi e un poliziotto tedesco. Tornato in patria, Ladany vie-ne accolto da 20mila persone. Mentre tutti tentano di abbracciarlo e baciarlo, capisce che è nato una terza volta.

Shaul Ladany non ha mai smesso di correre. Oggi ha piú di ottant’anni e un by-pass coronarico. Ogni anno festeggia il suo compleanno percorrendo in chilometri

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IL PIÚ FAMOSO PERDENTE

DELLA STORIAChi non ha paura delle mie tenebre, troverà anche

pendii di rose sotto i miei cipressi. Friedrich Nietzsche

1904, CARPI, Emilia-Romagna, Italia. Il piú grande podista italiano Pericle Pagliani corre. Nessuno rie-sce a tenergli testa. Lui è sicuramente l’indiscusso vincitore della gara in corso. All’improvviso sbuca da qualche parte un garzone. Un ragazzo minuto, alto meno di un metro e sessanta. Ha ancora gli abiti da

lavoro. Il ragazzino corre. Pagliani accelera e il ragaz-zino accelera. Pagliani gira e il ragazzino gira. Paglia-ni mette il turbo e il ragazzino mette il turbo. Spalla a spalla la stella delle corse italiana taglia il traguardo insieme a uno sconosciuto apprendista pasticciere di Carpi. Il nome di quello sconosciuto è Dorando Pietri. Figlio di contadini di un paese sperduto, Mandrio, nel comune di Correggio. Gente che ha lasciato il lavoro della terra a inizio secolo per aprire un negozio di frutta e verdura nella vicina Carpi.

Dorando inizia a lavorare giovanissimo, come tutti i bambini di inizio Novecento. Nel tempo libero però, quel poco che gli rimane, lui corre, in bicicletta, a pie-di, tra i campi, lungo le strade. Dorando macina chi-lometri senza mai fermarsi. Sono passati pochi giorni da quando, abusivamente, ha corso al fianco del gran-de Pagliani. Ora è ai nastri di partenza a Bologna, una gara vera. 3mila metri. Dorando ha appena dicianno-ve anni. Al traguardo ha al collo la medaglia d’argento. Secondo, il suo primo successo. Da lí in poi Dorando non smette mai di correre, di correre e stupire. Vince la trenta chilometri di Parigi, con un distacco di ben sei minuti. Dopo due anni si è già qualificato alla marato-na dei Giochi olimpici Intermedi di Atene. Si sente un leone, inarrestabile. Al ventiquattresimo chilometro è

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in testa. I suoi inseguitori sono lontani cinque minuti, sta andando a prendersi la medaglia. Mentre corre sen-te già il peso dell’oro. Ma qualcuno, da qualche parte, ha altri piani per Dorando Pietri e il suo intestino, sí il suo intestino, inizia a far capricci. Il favorito si ritira uf-ficialmente dalla gara per problemi intestinali. L’oro lo metterà al collo qualcun altro. Nonostante l’episodio di Atene, Pietri in Italia non ha rivali. Non lo ferma nessu-no. Vince e stravince di tutto su tutte le distanze.

È il 1908: se non fosse che è un anno bisestile, che Robert Baden-Powell inventa gli scout, l’imperatore ci-nese Pu Yi sale al trono all’età di soli due anni, Olivetti inventa la prima macchina da scrivere, nasce il Corriere dei Piccoli, e se non fosse che nel 1908 ci sono le Olim-piadi di Londra, lo ricorderemmo come un anno come tanti. Nel Regno Unito c’è anche Pietri e come poteva non esserci lui, che per mesi si è preparato a quell’e-vento, lui che a Carpi ha corso quaranta chilometri in 2 ore e 38 minuti, un risultato che nessun altro italiano aveva mai raggiunto prima.

24 luglio 1908. Ore 14:32. Pronti per la partenza ci sono cinquantasei atleti. Due italiani: Umberto Blasi e Dorando Pietri. Dorando, maglietta bianca e calzonci-ni rossi, sul petto ha il numero 19. Al Castello di Win-dsor fa un caldo incredibile, nessuno se l’aspettava. Tutti

già boccheggiano prima della partenza. Ore 14:33. La principessa del Galles dà ufficialmente inizio alla gara. Come pronosticato, in testa c’è un terzetto di britannici pronti a dare tutto per conquistare il metallo piú pre-zioso davanti alla Regina. Pietri è nelle retroguardie, per venti chilometri mantiene un ritmo blando. Conserva energie. Poi, quando nessuno pensa piú a una sua pos-sibile rimonta, mette il turbo cosí come fece con Pericle mentre indossava ancora il grembiule da pasticciere. Via via si sbarazza di tutti gli avversari, uno, due, tre, quattro, otto, dodici, li stacca tutti. Sembra avere le ali ai piedi. La sua progressione è impressionante e gli in-glesi lo guardano stupefatti. Chilometro 32, ne manca-no dieci all’arrivo. Pietri è secondo a soli quattro minuti dal sudafricano Charles Hefferon. L’africano si trascina in balia della stanchezza, cosí Pietri ne approfitta e au-menta inverosimilmente ancora il ritmo. È un dannato che corre senza pietà. Chilometro 39, Dorando Pietri supera Charles Hefferon. Chilometro 40, Pietri è stanco morto. Chilometro 41, Pietri sente i piedi sprofondare e ogni passo è un macigno da trascinare. Chilometro 42, finalmente entra nello stadio. La mente annebbiata gli fa sbagliare strada, cosí i giudici di gara lo correggono, Pietri non capisce piú niente e cade per la prima volta esanime davanti a migliaia di persone, davanti ai sovra-

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ni del Regno Unito. La gente a bordo pista lo aiuta, lo rimette in piedi. Ma Dorando barcolla. Mancano appena 200 metri al traguardo. I 75mila spettatori dello stadio hanno occhi solo per lui. Arrivano anche i medici, ter-rorizzati da quello sguardo spento. Dorando cade per la seconda volta, lo stadio sembra incitarlo ad alzarsi in piedi, a tagliare il traguardo. Lui ci prova, ma crolla. Fa qualche altro passo, qualche metro e di nuovo giú per la terza volta. In tribuna qualcuno piange, si commuove per quell’uomo che incarna perfettamente Fidippide, il soldato che sotto il peso di un’armatura completa corse per 40 chilometri dalla città di Maratona all’Acropoli di Atene per annunciare la vittoria sui persiani, 2398 anni prima. Fidippide era un emerodromo, letteralmente in greco antico «colui che corre un giorno intero». Que-sto sta accadendo a Londra, il tempo si sta dilatando e ogni passo di Dorando sembra un’eternità. 30 metri all’arrivo, 29, 28, 27, 20, 19, Dorando crolla per la quarta volta. Forse sarà stata la mano di Fidippide a rimetterlo in piedi, a dirgli che lui aveva un compito quel giorno, tagliare il traguardo e pronunciare le sue stesse parole. Nenikèkamen, «abbiamo vinto». Con ogni fibra dolente Dorando vince e poi sviene. Viene portato via dai medi-ci in barella. Ha percorso 42,195 chilometri in 2 ore, 54 minuti e 46 secondi. Per percorrere gli ultimi 500 metri

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ha impiegato quasi dieci minuti. Mentre Dorando viene portato via, entra nello stadio Johnny Hayes, americano. Secondo in ordine di arrivo. Immediatamente la squa-dra statunitense presenta ricorso per gli aiuti che Pietri ha ricevuto. Il ricorso viene subito accolto e Dorando squalificato. In tribuna c’è un certo Arthur Conan Doyle, l’inventore del famoso investigatore Sherlock Holmes, inviato del Daily Mail. La sua sensibilità lo porterà a scri-vere il giorno dopo le seguenti parole:

La grande impresa dell’italiano non potrà mai esse-re cancellata dagli archivi dello sport, qualunque possa essere la decisione dei giudici.

Lo stesso Doyle dalle pagine del giornale per cui lavo-rava, avviò una sottoscrizione volontaria per raccoglie-re 500 sterline da donare a Pietri, il denaro necessario per aprire una panetteria. Doyle fu il primo donatore, con 5 sterline. La somma fu ampiamente recuperata. Pietri diventò famoso in tutto il mondo. Famoso per non aver vinto. La regina Alessandra in persona gli do-nerà una coppa d’argento, trofeo che Dorando custo-dirà gelosamente per tutta la vita.

25 novembre 1908. Sono passati pochi mesi dalle Olimpiadi e tutto il mondo aspetta la rivincita tra Do-rando Pietri e l’americano Hayes. Al Madison Square Garden 20mila spettatori riempiono gli spalti. Altre

migliaia sono fuori senza biglietto. La gran parte sono italoamericani. Bisognava correre una maratona all’in-terno dello stadio, 262 giri. La corsa del secolo. Pietri e Hayes corrono testa a testa per tutta la gara, nessuno riesce a superare l’altro, la tensione è alle stelle. Man-cano 500 metri all’arrivo e Pietri questa volta non bar-colla, mette il turbo e va a vincere. Le migliaia di italiani arrivati in America attraversando l’Oceano Atlantico esultano. Dorando Pietri è ufficialmente un corridore professionista. In tre anni correrà 22 gare vincendone 17. A soli ventisei anni abbandonerà le competizioni avendo guadagnato ben 200mila lire in premi e una diaria settimanale di 1250 lire. Morirà all’età di cinquan-tasei anni a Sanremo. Oggi il famoso trofeo donatogli da Sua Maestà la regina Alessandra è custodito in una cassetta di sicurezza a Carpi. Nessuno potrà mai can-cellare quanto inciso su quella coppa:

A Pietri Dorando, in ricordo della maratona da Windsor allo Stadio – 24 luglio 1908. Dalla regina Alessandra.

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PUNIZIONE INVERSAChe ci sia la luna / sul sentiero notturno

di chi porta i fiori.Takarai Kikaku

VENTIDUE CALCIATORI ATTENDONO L’ARRIVO di Mo-butu Sese Seko, il presidente dello Zaire. Per la pri-ma volta nella storia della Coppa del Mondo di calcio una nazionale subsahariana prenderà parte alle fasi finali. Decima edizione, Germania Ovest, 1974. La vil-la del presidente è di un lusso sfrenato, mentre lo

Zaire muore di fame. Mobutu Sese Seko arriva dopo circa mezz’ora. Elegantissimo, indossa un copricapo in pelle di leopardo, detto toque. Occhiali con mon-tatura spessa, un bastone e una giacca grigia. Anche i ventidue calciatori indossano la stessa tipologia di vestito, detta abacost, acronimo di à bas le costum, ovvero «abbasso il costume». Da quando c’è Mobutu alla guida dello Zaire tutti i vestiti occidentali sono vietati, comprese le cravatte. Il divieto fa parte del processo di africanizzazione dello Zaire, per troppi anni colonia europea. Lo stesso nome Zaire è un’idea di Mobutu: prima di lui la nazione si chiamava Re-pubblica democratica del Congo, e in Europa veniva spesso chiamata anche Ex Congo Belga, dal Paese eu-ropeo che l’aveva colonizzato, Congo Leopoldville, in onore del re del Belgio, o Congo Kinshasa, dal nome della capitale. Tutto ciò per distinguere questo pez-zo di mondo da un’altra ex colonia, quella francese, la Repubblica popolare del Congo. Zaire deriva dal modo in cui veniva chiamato il fiume Congo: nzadi, ovvero «il fiume che inghiotte tutti i fiumi». Il program-ma di autenticità africana di Mobutu non si ferma ai ve-stiti. Ai preti viene vietato di battezzare i bambini con nomi europei, pena cinque anni di carcere. Lo stesso Mobutu cambia il suo nome da Joseph-Désiré Mobutu

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in Mobutu Sese Seko Koko Ngbendu Wa Zabanga, let-teralmente «Il guerriero onnipotente che, per la sua infinita e inflessibile volontà di vittoria andrà di con-quista in conquista lasciando il fuoco sulla sua scia». Mobutu è talmente megalomane che il nome del lago Alberto diventa lago Mobutu Sese Seko. È un ditta-tore, la gente ha paura di lui. Si fa chiamare «Padre della Nazione», «Messia», «Guida della Rivoluzione», «Timoniere», «Fondatore», «Salvatore del Popolo» e «Supremo Combattente». Mobutu è un corrotto e con i soldi dello Stato ha acquistato i contratti di tutti i calciatori congolesi che giocano in Belgio. Ora gio-cano tutti in patria, sono tutti di proprietà di Mobutu.

– Benvenuti nella casa del Messia. Ognuno di voi rice-verà un’automobile nuova. Una Volkswagen verde. Al vostro rientro dal mondiale riceverete 45mila dollari a testa.

I giovani della squadra esultano. «Diventeremo ric-chi» pensano. Una barca di soldi e un’automobile per-sonale. Metà squadra ride, l’altra no. L’altra ricorda. I piú anziani ricordano quello che è accaduto nel 1960. Per la prima volta dopo centinaia di anni, veniva eletto democraticamente dal popolo un presidente: Patrice Lumumba. Mai piú belgi, mai piú colonia, libertà, liber-tà, libertà! Queste le prime parole di Lumumba: «A voi

tutti, amici miei, che avete lottato senza tregua al no-stro fianco, chiedo di fare di questo giorno una data illustre che conserverete per sempre incisa nel vostro cuore, una data di cui insegnerete con soddisfazione il risultato ai vostri figli perché essi, a loro volta, facciano conoscere ai loro figli e ai loro nipoti la storia gloriosa della nostra lotta per la libertà».

Quello fu un bel momento per il popolo del Congo. I piú anziani lo ricordano. Ricordano anche che gli stra-nieri fecero finta di andarsene. Controllavano ancora le miniere, l’esercito. Lumumba voleva nazionalizzare tutto, cosí belgi e CIA appoggiarono un colpo di Stato, guidato da Mobutu, che tradí la fiducia del presiden-te, il quale lo aveva nominato Capo di Stato Maggio-re. Durò poco il sogno di Lumumba, troppo vicino al comunismo in piena Guerra Fredda. Il 17 gennaio 1961 Lumumba e due dei suoi fedelissimi compagni di lotta, Maurice Mpolo e Joseph Okito, furono portati in aereo a Elisabethville. Nel pomeriggio furono fucilati e sep-pelliti in tutta fretta.

Mobutu guarda quei calciatori impassibili. Lui ha bi-sogno di loro, ha bisogno di far conoscere al mondo il potere dello Zaire, il potere del Messia. E quale mi-gliore occasione della Coppa del Mondo in Europa? I calciatori partono per la Germania, salutati da una

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folla povera di tifosi. Nel secondo girone, gli africani sfideranno la Scozia, la Iugoslavia e i campioni in cari-ca del Brasile.

14 giugno 1974, Westfalenstadion, Dortmund. La Scozia sfida lo Zaire. L’allenatore degli africani è Bla-goja Vidinić, macedone, già allenatore del Marocco. Lo Zaire indossa una maglietta giallo verde. In pet-to un cerchio con all’interno un leopardo, l’ossessione di Mobutu. Lo Zaire è sfavorito, l’allenatore scozzese Willie Ormond dichiara poco prima della partita: – Se non siamo capaci di battere lo Zaire, possiamo anche fare i bagagli.

Al 26° minuto la Scozia passa in vantaggio con Lori-mer. Al 33° raddoppia Joe Jordan di testa che, solo da-vanti al portiere avversario Mwamba Kazadi, insacca. Il portiere inspiegabilmente si fa passare il pallone sotto-braccio dopo la debole conclusione dello scozzese. Nel secondo tempo lo Zaire ci prova, ma nonostante lim-pide palle goal, la partita finisce 2 a 0 per gli scozzesi. Mobutu nella sua villa non brinda piú. È furioso.

18 giugno 1974. Gelsenkirchen, Parkstadion. Ultima chance. Iugoslavia–Zaire. Decine di delegati, politici, dirigenti al seguito dello Zaire annunciano poche ore prima della gara che nessuno dei calciatori riceverà il premio di 45mila dollari promesso da Mobutu. I calcia-

tori non vogliono scendere in campo. Hanno il sospetto che i politici abbiano intascato le somme di denaro al loro posto. C’è qualcuno che parla di un uomo scappa-to dalla Germania con valigie piene di soldi. I calciatori si sentono presi in giro. Niente partita. La risposta degli uomini di Mobutu è semplice: «O scendete in campo, oppure al ritorno in patria andrete tutti in prigione».

La partita si fa, ma viene completamente boicottata dai calciatori. Iugoslavia 9 Zaire 0. L’allenatore Vidinić, inspiegabilmente, sul 3 a 0 per gli slavi, sostituisce il portiere Kazadi con Tubilandu, alto meno di un me-tro e settanta. Perché? Il rappresentante del Ministe-ro dello Sport dello Zaire, Lockwa, aveva ordinato all’allenatore macedone di sostituire Kazadi. Mobutu decide anche le sostituzioni. Il dittatore non può per-mettere a quei ventidue calciatori di disonorare la sua nazione. Lui è conosciuto in tutto il mondo, lui è stato fotografato alla Casa Bianca con il presidente Nixon, ha parlato alle Nazioni Unite, al Pentagono, la regina Elisabetta II l’ha fatto salire sulla sua carrozza. Lui sta organizzando l’incontro del secolo in cui si sfideran-no, a Kinshasa, Muhammad Ali e George Foreman. Lui non può permettere tanto disonore.

Lo Zaire è ormai eliminato. Manca l’ultima partita con-tro il Brasile campione in carica. In albergo, i calciatori

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vengono tutti avvisati. Ordini di Mobutu. «Se perdete con il Brasile con piú di tre goal di scarto, morirete tut-ti». I calciatori si guardano in faccia. Stanno rischiando la vita per una partita. Qualcuno, impaurito, si mangia le mani, qualcuno piange di rabbia. Si sentono traditi. Loro sono in Germania e rischiano di essere fucilati dai missili brasiliani e Mobutu è nella sua villa con un conto alla Swiss Bank di 5 miliardi di dollari, una cifra equi-valente al debito estero dello Stato. Loro sono in Ger-mania, impauriti, a difendere i colori di una nazione in cui non credono, e Mobutu fa costruire aeroporti come quello di Gbadolite, sua città natale, grandi abbastanza per far atterrare un Concorde. Lo Zaire muore di fame e lui affitta aerei per andare a Parigi a fare spese per la sua famiglia. Lo Zaire muore di fame e lui vende uranio, oro e diamanti agli occidentali che gli passano le armi.

22 giugno 1974, Francoforte. Waldstadion. 36200 spettatori, arbitra il rumeno Rainea. I brasiliani con il 3 a 0 passano il turno. Tra le loro file Jairzinho, Valdo-miro, Rivelino e il diavolo biondo Marinho. Le squadre scendono in campo. Inizia la partita. Al 13° minuto, Jai-rzinho porta in vantaggio i verdeoro. I leopardi lottano su ogni pallone. Nel secondo tempo Rivelino, uno dei piú forti calciatori del mondo, fulmina il portiere con un potente sinistro. Goal del numero 10 brasiliano e risul-

tato sul 2 a 0. I calciatori in campo sudano. Francisco Marinho, il diavolo biondo, mette in difficoltà un certo Joseph Mwepu Ilunga, terzino destro venticinquenne nato nella capitale dello Zaire, anonimo calciatore del campionato del suo Paese. Al 79° minuto, Valdomiro lascia partire un tiro-cross. Il portiere Kazadi fa un’altra mezza papera e il tabellino segna 3 a 0 per il Brasile. Mancano ancora dieci minuti, in cui ventidue calciatori possono vivere o morire. 85° minuto, punizione per il Brasile. Sulla palla va Rivelino, un tiratore eccezionale. In barriera c’è il terrore. Quei ragazzi africani si sento-no come un gruppo di condannati a morte davanti al boia brasiliano pronto a tirare il grilletto. Rivelino calcia con le tre dita e i suoi tiri hanno un effetto incredibile. Kazadi in porta è terrorizzato. Qui accade qualcosa che nessuno è mai riuscito a spiegare. Dalla barriera esce Mwepu e dopo pochi passi lancia con un potentissimo tiro il pallone posizionato da Rivelino. Quasi becca in faccia il calciatore brasiliano. Tutto il mondo ride. Rive-lino è incredulo e l’arbitro ammonisce Mwepu che tor-na in barriera, quasi stupito dall’ammonizione. Come a voler dire: «Che c’è, non posso farlo?». I telecronisti di tutto il mondo ridono, c’è chi dice che i belgi non sono stati nemmeno in grado di insegnare il calcio agli «in-digeni», qualcuno ipotizza che Mwepu non conosca il

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regolamento, qualcuno dice per scherzo che forse in Zaire se un calcio di punizione non viene battuto entro trenta secondi la palla torna in gioco. Il tempo passa. Rivelino tira, il tempo si ferma. In barriera chiudono gli occhi. Kazadi, il portiere, chiude gli occhi. Rivelino non segna. Sono tutti salvi.

Per oltre vent’anni Mwepu è stato deriso da tutto il mondo sportivo, per oltre vent’anni è stato definito l’uomo della punizione all’incontrario. Lui voleva sem-plicemente salvarsi la vita.

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NON MI FERMO

Alcune strade portano piú a un destino che a una destinazione.

Jules Verne

– KATHY, TI HO DETTO DI NO.– Papà, ma io voglio farlo.– E io ti dico che questa cosa delle cheerleader è umi-

liante. Sii protagonista del tuo destino. La storia non la fanno quelli che stanno a guardare seduti in uno stadio, la storia la fanno quelli che scendono in campo.

Sono queste le parole del papà di Kathrine Virginia Switzer pronunciate in una casetta del Wisconsin, ad Amberg. Stati Uniti d’America. Anno domini 1966.

Kathy è iscritta al college di Syracuse. Ha diciotto anni e per non fare capriole e sventolare pon pon in onore del grande sportivo di turno, su consiglio di papà, deci-de di giocare a hockey, ed è anche brava.

Un giorno bussa alla porta della sua stanza un posti-no, o meglio il postino Arnie Briggs. Un cinquantenne. Kathy lo conosce, fa finta di niente, ma sa chi è. Drin drin.

– C’è posta.Arnie ha partecipato a quindici edizioni della Marato-

na di Boston. Vedendolo non si direbbe, ma è un maci-natore di chilometri.

– Io voglio correre, – dice Kathy. – E corri, – risponde Arnie. – Appuntamento domani

ore otto in punto. Non tardare, che se partiamo non ci becchi piú.

Kathy quasi non dorme. Alle otto in punto ha la sua tuta e le scarpe da ginnastica. Parte, si allena insieme agli uomini. Non è un allenamento, non è corsa, è storia. È Arnie Briggs che racconta i miti, gli eroi, i talenti della Maratona di Boston, anno dopo anno, chilometro dopo chilometro. Il tempo passa e le orecchie sono concen-

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trate sui discorsi di Arnie, mentre i piedi volano tenen-do il passo del cantastorie maratoneta. Primo giorno tredici miglia. Mezza maratona. Gli uomini si guardano increduli.

– E brava la ragazzina! Mezza maratona al primo ten-tativo.

– La fortuna del principiante.– Domani sarà cosí stanca che nemmeno si presente-

rà all’appuntamento.Luce rossa, errore. Ritenta. Ore otto, giorno 2. Kathy

Switzer, presente. Giorno 3, presente. Giorno 4, dodi-ci miglia. Giorno 5, presente. Giorno 6 presente, mol-ti maschi assenti. Giorno 7, riposo sacrosanto. Kathy lascia l’hockey, correre è un’altra cosa. Ama tremen-damente la corsa di fondo, solo che siamo nel 1966 e non esiste nemmeno una sola squadra in tutti gli Sta-ti Uniti d’America di corsa di fondo per donne. Atten-zione, danger, pericolo. Le donne sono troppo deboli per correre lunghe distanze, lo sforzo fisico richiesto a una donna potrebbe causare addirittura l’infertilità. Queste sono le tesi di chi giudica inadatta una donna alla corsa. Giorno non ricordo quale, ovviamente Kathy c’è. Arnie ricomincia la solita cantilena di quando sette anni prima improvvisamente dal gruppone si staccò un ragazzo mingherlino che senza mai guardare indietro...

– Arnie, io questa Maratona di Boston voglio correrla. – Ma lo sai che è vietata. Nessuna donna è mai riusci-

ta a correre 26 miglia. – Io domani ti dimostrerò che posso farlo.Giorno importante, mancano solo tre settimane alla

Maratona di Boston. Kathy si allaccia le sue scarpe bian-che, si lega i capelli e start. Miglia numero uno, due, tre, quattro, si sente una leonessa. Otto, dieci, dodici. Sia-mo già alla metà. Quindici, diciotto, venti. Non mollare Kathy, non mollare. Ventiquattro, venticinque, ventisei. Finish line.

Giorno dopo. Drin drin. L’acido lattico nelle gambe non permette a Kathy nemmeno di alzarsi dal letto e aprire la porta.

– Arrivo! Drin drin. – Arrivo!Drin drin. – Ma che c’è, è iniziata la Maratona di Boston e io non

lo so?È Arnie, in mano stringe i moduli per l’iscrizione alla

gara tanto sognata. – Ora mi piaci, vecchio postino.– Aspetta, non mettere il tuo vero nome, non faranno

mai partecipare una donna.

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– Allora che faccio, mento?– No. In questo modulo non c’è scritto da nessuna

parte che una donna non può partecipare. Metti le tue iniziali, K.V. Nessuno se ne accorgerà.

– D’accordo.La neoiscritta Kathy non sta nella pelle, va subito a

dirlo al suo fidanzato, Tom Miller, lanciatore di martello nel giro della nazionale.

– Sono iscritta.– Se tu corri ventisei miglia, posso farlo anche io.Tom Miller iscritto. 19 aprile 1967. Giorno X. Una ragazza di vent’anni è

ai nastri di partenza della Maratona di Boston. Sul pet-to ha il numero 261. È tesa come una corda di violino. Piove, piove come se qualcuno dall’alto avesse dimen-ticato il rubinetto aperto, e sul lato del freddo. La gente inizia a notare la ragazza, lo fanno i corridori e anche i giornalisti. Flash, flash, flash, domande, domande, do-mande. Sono partiti solo da qualche miglio e Kathy non sente nemmeno l’ombra, l’accenno della stanchezza. Kathy mantiene il ritmo, cosí come Arnie, Tom e il resto del gruppo. Improvvisamente una macchina si accosta, la portiera sbatte forte, fa un rumore sgradevole. Kathy sente alle sue spalle scarpe non da ginnastica correre in modo spropositato. Un uomo in pantaloni e giacca

tenta di strapparle la pettorina numero 261. Jock Sem-ple, giudice di gara, urla: – Via dalla mia gara!

L’ex maratoneta Jock vuole la pettorina di Kathy. La ragazza si divincola. Arnie dice a Jock che è a posto, che la ragazza si è allenata con lui, che non deve preoc-cuparsi. Ma niente, Jock strattona, rincorre. Kathy ha uno sguardo cupo, triste, le gambe si fanno pesanti. Si sente attanagliata, quasi Jock fosse un lupo pronto a morderla. Kathy è infastidita, urla preoccupata. Tom se ne accorge e prima che Jock possa mettere le mani ad-dosso alla sua ragazza, lo placca. Fisicamente. Lo spin-ge con tutta la potenza dei suoi muscoli a bordo strada. 106 chili spingono il sessismo un po’ piú in là. Mentre dietro succede il putiferio, Kathy mette il turbo. Tom la raggiunge. Kathy vuole ringraziarlo, ma il lanciatore che l’ha appena protetta, salvata, fatta sentire importante urla: – Per questo casino perderò le Olimpiadi –. Senza nemmeno degnare Kathy e il gruppo di uno sguardo, corre avanti in solitaria. Kathy non ha corso nemmeno mezza maratona e vuole scomparire. Sciogliersi come un ghiacciolo. Vorrebbe avere due pon pon in mano e far il tifo per Arnie a bordo campo.

«Forse hanno ragione, le donne non riusciranno mai a finire una maratona. Ma come mi è venuto in mente? Mi ritiro. Mi fanno male le gambe. Okay, allora mi fermo,

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qualche altro miglio e mi fermo. Ma anche no! Non mi fermo. Non mi fermo perché i Jock di tutto il mondo non l’avranno vinta da una come me».

Kathy accelera, anche Arnie lo fa. Kathy sorpassa Tom che non regge il passo.

«Non mi fermo perché, diamine!, noi donne dobbia-mo lottare pure per correre. Non mi fermo perché mi sono allenata. Non mi fermo per rispetto per Arnie. Non mi fermo perché sto ancora bene. Non mi fermo per-ché correre non porta all’infertilità. Non mi fermo perché una donna può iniziare e finire un’intera maratona».

Le scarpe bianche sono quasi diventate rosse, come i calzini, sporchi di sangue. Le mani sono congelate, pio-ve neve sciolta, come i pregiudizi che si disintegrano metro dopo metro.

«Non mi fermo perché aveva ragione mio padre, vo-glio essere protagonista del mio destino. Non mi fermo perché voglio vedere sventolare i pon pon per me».

La bandiera si avvicina sempre di piú, Kathy la vede ingigantirsi a ogni falcata. Finish line.

«Prima tu, Arnie, taglia il traguardo. Un omaggio per tutto quello che hai fatto per me».

Kathrine Virginia Switzer conclude la Maratona di Bo-ston del 1967 con il tempo di 4 ore e 20 minuti. Non importa se il regolamento la esclude, se la sua parte-

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cipazione non è ufficiale, non importano le regole e le classifiche, da oggi nessuno potrà piú dire che una don-na non può correre insieme agli uomini, come gli uomini, meglio degli uomini, una maratona. L’hanno vista tutti. I giornalisti di tutta l’America sono lí, pronti a farle do-mande e congratulazioni. Il numero 261 ancora appicci-cato sulla tuta. Jock non è riuscito a staccarle la dignità.

Cinque anni dopo l’impresa di Kathy, la Maratona di Boston verrà aperta a tutte le donne. Grazie a persone come Kathy Switzer, il Comitato Olimpico Internazio-nale introdurrà alle Olimpiadi di Los Angeles del 1984 la maratona per donne.

Il 17 aprile del 2017, in occasione dei cinquant’anni del suo traguardo, Kathy ha preso parte nuovamente alla Maratona di Boston, indossando il numero 261. Gli or-ganizzatori, in suo onore hanno deciso di ritirare il 261 da tutte le future competizioni.

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IN GUERRA NON ESISTONO

PAREGGIE sogna chi non crede che sia tutto qui.

Luciano Ligabue

TOC TOC. BUSSANO ALLA PORTA. Mario non si muove. Toc toc. Mario è ancora fermo sulla sua poltrona. Toc toc. – Aprite subito, è la Wehrmacht. Mario Maurelli impallidisce. Ogni passo che fa ver-

so la porta è un quintale di pensieri che cade a terra. Maurelli ha paura. Ha trent’anni, eppure ha paura come un bimbo del buio.

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La porta si apre e due ufficiali tedeschi in divisa sono sull’uscio.

– È lei l’arbitro Maurelli?Mario non risponde. Annuisce. «Cosa vogliono da

me?» pensa. I due ufficiali iniziano a parlare, vogliono organizzare una partita di calcio, tedeschi contro italia-ni. Deve trovare undici ragazzi di pari età dei tedeschi e deve anche arbitrare.

Mario Maurelli è un ex arbitro di serie A. La porta si chiude e lui sprofonda nei pensieri che gli annebbia-no il cervello. «Ma dove li trovo undici ragazzi pronti a sfidare i tedeschi? Qui gli unici rimasti sono partigiani che si nascondono sulle montagne del maceratese, sui Monti Sibillini».

Mario però tira un sospiro di sollievo. Credeva che i nazisti cercassero suo fratello: Mimmo.

Mimmo è un ex soldato del regio esercito: dopo es-sere stato spedito al fronte nelle campagne di Grecia e Albania, dopo aver spalato le macerie del bombar-damento di San Lorenzo a Roma, si è rifugiato sull’Ap-pennino insieme ad altri partigiani ed ex soldati, che dopo l’8 settembre si sono spogliati della divisa mili-tare per tornare a casa in abiti civili. In paese si respira una bruttissima aria. Nessuno cammina per le strade, si temono rappresaglie da un momento all’altro. Appena

un mese prima, tre tedeschi sono stati uccisi durante un’imboscata. I nazisti sono su tutte le furie. Si prepa-rano a rastrellare casa per casa. Per evitare fucilazioni di massa, il comandante della Brigata Val Fiastre, Decio Filipponi, si è consegnato volontariamente ai tedeschi. Dopo alcune settimane è stato condannato a morte. Il 29 marzo 1944 si è sacrificato per altri ragazzi del suo Paese. È stato impiccato, e le urla di gioia dei tedeschi rimbombano ancora a Sarnano, piccola cittadina sulle colline del maceratese.

Tutto il paese ha paura. Come farà Mario a mettere su una squadra? Anche i tedeschi sono a pezzi, il ser-gente in carica sa che il morale dei suoi uomini, lontani da anni da casa, è a terra. Dalla Germania, inoltre, non arrivano buone notizie: la sconfitta sembra imminen-te. E allora cosa c’è di meglio del calcio per rendere un’occupazione, una guerra, le atrocità, meno anorma-li? Maurelli è una persona stimata in paese. «Non accet-terà nessuno, – pensa. – Come si può giocare con loro come se niente fosse?»

Mario vorrebbe rifiutare, giocare una partita mentre la gente muore o soffre lutti quotidianamente è sba-gliato. Il paese, com’era prevedibile, non accetta la gara. Ma come si fa a dire di no ai tedeschi? Il sergente della Wehrmacht non la prende bene. – Forse non avete ca-

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pito, questa partita si deve giocare, Maurelli, altrimenti io vi prometto che non passerà giorno in questo paese senza che voi piangiate un morto o dobbiate temere un rastrellamento.

– Sergente, ma gli uomini hanno paura.– Prometto sul mio onore di soldato che ai giocatori

italiani, siano anch’essi partigiani, sarà evitata la depor-tazione.

Ora non si può piú dire no.– Ah, Maurelli, anche vostro fratello, che si nasconde

sulle colline, deve giocare la partita. Fatevi aiutare da lui a cercare i membri della squadra. Le montagne sono piene di ragazzi.

Un brivido scorre lungo la schiena dell’ex arbitro di serie A. Molti partigiani temono che Mario sia un colla-borazionista. Ciò offende l’onore di Maurelli, che a ga-ranzia delle sue buone intenzioni e della sua dignità schiera, come primo uomo in campo, il fratello Mimmo. In paese cresce la paura. – È una trappola, – gridano mamme e mogli. – Vi fucileranno tutti. È solo un modo per farvi uscire dai vostri nascondigli e uccidervi. Cosa vi aspettate?

Gli undici calciatori scelti pensano e ripensano sem-pre e solo alla stessa cosa. I tedeschi rispetteranno i patti? O ci stiamo consegnando al lupo?

Sarnano, 1° aprile 1944. Campo da calcio del paese, alle spalle della chiesa di San Filippo, sabato mattina. I tedeschi sono già in campo, man mano scendono ve-loci dalle montagne i convocati italiani. Senza fermarsi, entrano direttamente in campo. A bordo campo, sol-dati in divisa impugnano armi. Un pessimo clima per giocare allo sport piú bello del mondo. Tra le file ita-liane lo schema è semplice e non ammette errori. Si deve perdere e ci si salva la vita. – Mi raccomando, – fa Maurelli, – non fingete troppo, altrimenti se ne accor-gono ed è peggio.

Gli italiani sono in attacco, il terzino Lucarelli lascia partire un cross a centro area, Grattini non resiste e insacca: è 1 a 0 per l’Italia. Sugli spalti non esulta nes-suno: terrorizzati, gli spettatori guardano l’arbitro Mau-relli senza parole. «Ma cosa hai fatto, Grattini, vuoi farci fucilare tutti?»

Nemmeno Grattini esulta. Fine del primo tempo. Negli spogliatoi i ragazzi si guardano in faccia. Che succede se vinciamo? Non si può rischiare per una partita di pallone. Bisogna farli pareggiare a tutti i co-sti. Inizia la ripresa, Mimmo Maurelli falcia il tedesco Kobler, il nazista reagisce, l’arbitro espelle entrambi. Gli italiani giocano a perdere, ma i tedeschi sono cosí scarsi che non riescono a buttarla dentro. Senza tec-

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nica, senza velocità, non sono per niente una squa-dra. Il cronometro di Mario corre veloce. Settantesi-mo, settantacinquesimo, ottantesimo. Mancano solo cinque minuti quando Libero Lucarini, ex soldato dell’esercito italiano passato con la Resistenza, si la-scia superare dall’ala sinistra tedesca, facendo finta di scivolare. Il tedesco, eccitato dalla giocata, si trova a tu per tu con il portiere. Tiro. Rete! 1 a 1. I tedeschi con i mitra a bordo campo esultano, ma esultano senza muoversi di un centimetro anche le mogli, le mamme, i calciatori italiani e l’arbitro Maurelli. Ultimo minuto di gioco, ormai è finita. Gli italiani incredibilmente si gettano in attacco, un classico contropiede. L’azione si fa sempre piú pericolosa con il passare degli istanti. I tedeschi sono sulle gambe. Mario Maurelli, per pre-cauzione, fischia tre volte. Tutti a casa. Gli undici ita-liani escono di corsa dal campo, senza fermarsi cor-rono dritti verso le montagne. Vanno a nascondersi nuovamente.

Al rinfresco disertato dalla squadra ospitante i tede-schi mantengono il patto e non uccidono nessuno. La sera, sui monti, davanti a un misero fuoco, i calciatori partigiani ripassano le azioni salienti della partita. C’è un pizzico di rammarico, avrebbero potuto vincere. Gli avversari erano scarsi. Qualcuno spegne il fuoco. Ci si

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addormenta. Domani ricomincia la partita della vita, dove non esistono pareggi.

Mario Maurelli è morto nel 2000, a ottantasei anni. Il comune di Sarnano gli ha intitolato il campo sportivo di calcio.

15

LA LOCOMOTIVA UMANA

Ricorda, mio caro Sancho, chi vale di piú, deve fare di piú.

Miguel de Cervantes

– PAUSA. EHI, TESTONI HO DETTO PAUSA. Gli operai della fabbrica di scarpe piú famosa della

Cecoslovacchia si fermano. – Dite sempre che non volete lavorare, ora vi do pau-

sa e niente, fate finta di non sentire –. Tutti ascoltano il capo. – Abbiamo organizzato una gara di corsa, chi

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vuole partecipare? – Nessuna mano alzata. – Ripeto. Tutti quelli non malati devono partecipare con una ma-glietta con il nostro logo sul petto –. Silenzio, nessuna mano alzata. – Ripeto. Chi non vuol essere licenziato deve partecipare alla gara –. Tutte le mani su. Tutte, compresa quella di Emil Zátopek, un operaio sulle sue, tanta fatica e pochi discorsi. È il 15 maggio 1941. Emil si finge infortunato, si nasconde in biblioteca, ma lo tro-vano e lo costringono a correre. Poi, la gara amatoriale organizzata dalla ditta di scarpe cecoslovacca la stra-corre. Arriva secondo.

– Sei bravo a correre. Ottimo, Emil. Però, ogni tanto, sorridi!

Zátopek non smette piú di correre. 72 chilogrammi per 182 centimetri in continuo movimento. Il ciabattino cecoslovacco fa parlare tutta la nazione. Emil si allena come lavora, con una precisione meticolosa. Crea un suo personale metodo di allenamento. 50 volte 400 metri prima di mangiare e 50 volte 400 metri dopo pranzo. Tra una ripetuta e un’altra, solo 200 metri di riposo. Chilometri come se fossero pillole. La gente quasi non ci crede, perché nessuno lo vede. Lui spari-sce dalle strade, si perde nella boscaglia, nella frescura degli alberi. Emil è sempre in disparte e non sorride mai mentre si allena. Viene da una famiglia povera, se-

sto di otto figli. Non sorride nemmeno quando finisce la guerra. Nel 1948, a soli ventisei anni, si presenta alle Olimpiadi di Londra da perfetto sconosciuto. È lí per correre i 10mila metri. Start. Primo classificato, Emil Zátopek. – Ehi, Emil, guarda che stanno per iniziare i 5mila metri. Se fai in tempo, puoi correre anche quella gara –. Con un misero tempo di recupero, Emil parte-cipa anche a quella gara e arriva secondo. Vince e non sorride. Quando un giornalista gli chiede il perché, lui risponde cosí: – Non ho abbastanza talento per correre e sorridere allo stesso tempo.

Quattro anni dopo a Helsinki, in Finlandia, è attesis-simo. Tutti aspettano «la Locomotiva Umana». Lui è il capitano della sua nazione, ma non si presenta. La Cecoslovacchia, come molte nazioni del blocco sovie-tico, è una pedina dei russi, e quando Emil scopre che Stanislav Jungwirth, suo amico, è escluso dai giochi perché suo padre è ritenuto un pericoloso sovversi-vo, è categorico: – O fate partire Stanislav o io alle Olimpiadi non vengo –. Ottiene quello che vuole, ma il regime non può permettersi intromissioni, e tutto il mondo sa già che al ritorno in patria Emil se la dovrà vedere con i capi della falce e martello. Intanto, in Fin-landia, stravince contro il suo rivale storico, il francese Alain Mimoun: doppio oro, 5mila e 10mila metri. Nello

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stesso preciso momento in cui lui si laurea campione nei 5mila metri, sua moglie Dana, lanciatrice del gia-vellotto, vince l’oro. Insomma, una famiglia dorata. Nei 10mila metri è il primo atleta a infrangere la barriera dei ventinove minuti. «Questo non è un uomo, è un treno» scrivono i giornali. Non è un corridore molto elegante. Sulla pista ansima, barcolla, sembra venir meno.

In Finlandia, poi, accade qualcosa che nessuno si spie-ga. – Ehi, Emil guarda che sta per iniziare la maratona.

– E che ci faccio io con la maratona?– Come che ci fai? Corri.– Ma non ho mai corso una maratona.– Vuol dire che questa sarà la prima.Tutto ciò a pochi minuti dall’inizio della gara. Emil Zátopek, nello stupore generale, è ai nastri di

partenza. – Ma che fa? – chiedono i giornalisti sul posto. Uno che si allena per i 10mila metri non può certo cor-rere una maratona. Emil sí! Il favorito è l’inglese Jim Pe-ters, un primatista. Uno che fa la maratona perché nei 5mila e 10mila metri c’è Emil, e contro Emil non vince piú nessuno. – Piacere, sono Zátopek –. Peters, infasti-dito, gli stringe la mano.

La tattica di Emil è semplice: si attacca al piú forte e mantiene il suo ritmo. Se riesce a stare con il piú forte

è tra i piú forti. Start. Emil è una zecca e Peters se ne accorge. L’inglese rallenta ed Emil rallenta, l’inglese accelera ed Emil accelera. Corrono da 20 chilometri, mezza maratona, e sono in testa entrambi. Emil un passo indietro. Zátopek si avvicina all’inglese, chiede se il ritmo è buono, lui non ne sa niente di maratone. L’inglese bluffa. Dobbiamo accelerare. Vuol far spom-pare Zátopek, farlo scoppiare. Emil ci crede e aumen-ta il passo. Peters non riesce a stargli dietro, va troppo veloce. «Ora si ferma, ora si ferma, ora scoppia e io vinco. Vedrai che si ferma» si ripete l’inglese. Ma la Lo-comotiva Umana sbuffa e non si ferma piú. Jim Peters non tiene il ritmo, scoppia e si ritira. Il treno cecoslo-vacco chiude la gara in solitaria, quasi al galoppo, par-lotta con giornalisti e fotografi, come se niente fosse, come se non stesse per vincere nella stessa olimpiade 5mila metri, 10mila metri e maratona. Ciuf ciuf! Tra-guardo. La Locomotiva Umana giunge alla stazione dorata.

La sua è stata un’impresa unica. Quando torna in pa-tria non c’è nessuna punizione ad attenderlo, Emil è piú famoso del regime. Regime che a Emil non va proprio giú. Lui è un comunista convinto, però qualcosa deve cambiare. Cosí, quando Dubček lancia il Manifesto del-le Duemila Parole, una serie di punti programmatici per

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cambiare la nazione, Emil firma. Il resto è storia. La Pri-mavera di Praga, i carri armati russi per le strade. An-che Emil è in piazza, i russi gli stringono la mano, non hanno capito che lui è il nemico, lui vuole un sociali-smo piú giusto. I suoi applausi a Dubček non vanno giú a Mosca, che crea un governo fantoccio filosovietico. E in tutto questo trambusto politico e civile, che fine fa la Locomotiva Umana? Lo Stato, per ringraziarlo, lo espelle dal partito comunista e anche dall’esercito: gra-di annullati, nessuna pensione. Emil non fa piú ciuf ciuf. Viene spedito ai confini della nazione a Jáchymov, in una miniera di uranio. A tre maratone da casa. Per sei lunghissimi anni vive in un magazzino, sottoterra, tra materiale radioattivo, al buio, senza riflettori, maneg-giando pietre che qualcuno dice diano super poteri, ma lui li ha già! Emil resiste! Senza sole, senza gioia, senza corsa, senz’aria, senza falcate, senza medaglie. Resiste. È questo il suo superpotere. Emil, dopo anni di miniera, viene trasferito a Praga. Spazzino! Ma non si lamenta, e mentre pulisce strade e trascina cassonetti, la gente lo saluta di nascosto dalle finestre. I suoi colleghi gli vietano di raccogliere spazzatura: Emil è il loro eroe! Allora Zátopek corre dietro il camion della nettezza ur-bana, falcata dopo falcata, e la gente lo osanna. Tutte le mattine, gli abitanti del quartiere in cui lavora, svuo-

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tano da soli le pattumiere nel cassonetto, per rispetto al campione.

Ci sono voluti ventidue anni prima che la Cecoslo-vacchia si ricordasse di lui, riabilitando Emil Zátopek. Ci ha pensato il presidente scrittore Václav Havel nel 1990, il primo presidente democraticamente eletto del suo Paese dal 1958. Nel 1998 lo stesso presidente gli riconosce il Leone Bianco, la piú alta onorificenza ceca. Queste le sue parole: «Vantarsi di una prestazione che non sarò in grado di migliorare è stupido; e se posso migliorarla significa che non vi è niente di speciale. Ciò che è passato è già finito. È piú interessante quello che deve ancora venire». Nel 2012 l’International Associa-tion of Athletics Federation l’ha inserito nella Hall of Fame dei corridori. Queste le sue piú belle parole: «Un atleta non può correre con i soldi nelle tasche. Deve correre con la speranza nel cuore e i sogni nella testa».

Ciuf ciuf.

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IL PUGILE CON LE CARAMELLE

C’è una crepa in ogni cosa.È da lí che entra la luce.

Leonard Cohen

– MAMMA, MA PAPÀ DOV’È?– Papà se n’è andato.Soltanto questo sente dalle labbra della madre il

giovane Emile Griffith. Il mare delle Isole Vergini, dove vive, diventa improvvisamente cupo come il futuro. In pochi mesi i numerosi fratelli di Emile vengono smistati

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qua e là, chi in adozione, chi a casa di parenti. Emile finisce da zia Blanche. Lí la vita fa schifo, viene punito un giorno sí e l’altro pure. Zia Blanche urla istericamen-te ogni volta che Emile spreca anche una sola goccia d’acqua. Di notte il ragazzino spera, sogna, desidera, di andare all’orfanotrofio di Saint Thomas: sempre meglio un letto con le pulci che una vipera per zia.

Emile cresce e decide di emigrare negli Stati Uniti d’America. Cerca fortuna lontano dai ritmi caraibici. Finisce per lavorare in una fabbrica di cappelli sulla Trentanovesima Ovest di New York. Lui ha un debole per i cappelli. Fa caldo in fabbrica, molto caldo. Cosí chiede al titolare di potersi togliere la maglia. Albert Howie, ex pugile e proprietario, impazzisce non appe-na vede il suo torace.

– Tu sei fatto per tirare pugni sul ring, figliolo.Albert lo porta con sé in palestra. Da Clancy, Ventot-

tesima strada. Non passano nemmeno sessanta giorni ed Emile è in finale ai Golden Gloves. Lui è cosí: una ca-ramella delle Isole Vergini, pronta a sorridere, educata, gentile, una caramella però che dentro porta i drammi dell’abbandono, di un’infanzia senza padre, madre. Una caramella che quando si arrabbia non la smette piú di bruciare. Emile è uno che non sa che farsene della sua rabbia, e sul ring gli insegnano a canalizzare quell’ener-

gia distruttiva. Però è anche un tipo strano. Siamo negli anni Sessanta e lui è un pugile di colore. Un pugile che ama ballare, con una voce stridula, dolce. Emile com-pra cento dollari di caramelle e le regala ai ragazzi della palestra, ai ragazzi del quartiere. La domenica è sem-pre presente nella chiesa missionaria di Saint James, è lí in prima fila, pronto a cantare nel coro. Un pugile non indossa pantaloncini attillati. Un pugile è un super uomo, super macho.

24 aprile 1962. Terzo incontro tra Emile Griffith e Ber-nardo «Benny» Paret, detto «The Kid». Il primo incon-tro l’ha vinto Emile, laureandosi campione del mondo. Il secondo lo vince The Kid, e ora siamo alla resa dei conti. Benny è un cubano, emigrato anche lui negli Sta-ti Uniti, un tagliatore di canna da zucchero. Uno che sa come incassare cazzotti prima di esplodere. L’incontro sarà trasmesso in diretta dall’emittente ABC. Il Madison Square Garden di New York registra il tutto esaurito con 7600 spettatori. In palio c’è il titolo mondiale dei pesi welter. I due pugili si incontrano alla pesata. Emile sale sulla bilancia; il suo allenatore, il mitico Gil Clancy, gli dice di stare tranquillo. Emile è una corda di violino. Pesa 66 chilogrammi, è arrivato all’incontro preparatis-simo. Il peso però fa ridere The Kid, che reputa quei 66 chilogrammi troppo pochi per uno come lui. Benny gli

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si avvicina e gli stringe il sedere sussurrandogli nell’o-recchio: – Frocio.

Succede il putiferio. Stampa e fotografi in sala vedo-no tutto. Gil riesce a fermare Emile. – Conserva i pugni per stasera, ragazzo.

Il Madison Square Garden è una nuvola di fumo che si perde tra i riflettori blu. Un’intera platea di uomini pronti ad assistere a un massacro. Benny è stato chia-rissimo: questo è il suo ultimo incontro. Dopo si dedi-cherà a suo figlio Benny jr., che lo segue dovunque.

Due immigrati caraibici attendono il suono del gong. Primo round, sangue cazzotti gong. Secondo round, sangue cazzotti gong. Quarto round, sangue cazzotti gong. Sesto round, Benny colpisce forte Emile, che sci-vola al tappeto. Si rialza e la campana suona. Salvo. Ot-tavo round, sangue cazzotti gong. Decimo round, Emi-le è il padrone del ring, sembra avere sotto controllo la situazione. Undicesimo round, Emile, incoraggiato da Gil, spara cazzotti a raffica. Dodicesimo e ultimo round. Benny è stanco morto, non si mantiene sulle gambe. Emile sferra un destro corto a Paret. Black-out per il cu-bano. Benny indietreggia frastornato all’angolo. Emile con il sinistro blocca Paret e con il destro lascia partire una raffica di colpi. Le difese di Benny crollano, come le sue braccia. In sei secondi The Kid incassa diciotto

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colpi alla testa, poi altri ventinove. L’arbitro Ruby Gold-stein blocca l’incontro. Paret scivola al tappeto. Emile è nuovamente campione del mondo. Benny viene por-tato d’urgenza in ospedale. È in coma. Emile vorrebbe entrare nella stanza, nel reparto, ma gli viene vietato. Benny «The Kid» Paret muore al Roosevelt Hospital di New York dopo dieci giorni, a soli venticinque anni. Corteccia cerebrale squassata. Un giornalista commen-ta l’accaduto dicendo: – Abbiamo appena assistito a un delitto gay.

Dopo la morte di Paret, Emile non è piú lo stesso, ha smesso di bruciare. Da Cuba arrivano decine di minacce via posta. Il governatore dello Stato di New York, Nelson Rockefeller, ordina un’inchiesta. La ABC non trasmetterà per anni incontri pugilistici in diretta. Emile si ritira a trentanove anni. 112 incontri. Ha sfida-to Paret, Benvenuti, Monzón, Nápoles, Minter. È il re indiscusso del Madison Square Garden con 26 match e 337 riprese, 69 piú di Muhammad Ali. Cinque vol-te campione del mondo. Emile è ormai un eccentri-co uomo con collane in madreperla e vestiti colora-ti caraibici. «Love and peace, and let the sun shine» sembra dire ogni volta che qualcuno l’incontra. Siamo negli anni Sessanta, i neri vengono uccisi per strada e i gay incarcerati. Emile è campione, pugile, nero e non

dichiaratamente gay. Troppe cose per il cuore di un uomo solo. Emile balla mambo e merengue, discute con le vecchiette dei cappelli di Jackie Kennedy, pas-sa le notti nei bar sull’Ottava strada o al Greenwich Village. Di notte, quando i riflettori dei locali si spen-gono, lui balla stretto con altri uomini. Nello Stato di New York è illegale. Prima che le luci possano riaccen-dersi, lui è già lontano a bere un drink.

Un giorno Emile visita il riformatorio di Secaucus. Lí incontra per caso il sedicenne Louis Rodrigo, un giovane appassionato di pugilato. Louis è orfano di padre e lavo-ra al riformatorio. Emile lo adotta e se ne prende cura.

Non se la passa bene il pugile caraibico. Non ha piú soldi, gran parte li ha spesi per la sua enorme famiglia sparsa qua e là nel mondo. Cosí la mattina va in pale-stra a fare l’allenatore e la sera il cameriere nei pub di New York.

A cinquantaquattro anni torna negli Stati Uniti dopo una trasferta in Australia. Si dirige come sempre al bar gay «Hombre», nel West Side, Quarantunesima stra-da. È notte quando esce dal locale e viene accerchia-to, picchiato, derubato e lasciato in fin di vita su un marciapiede. Una corsa in ospedale e due mesi a letto. Infezione al midollo, costole e mandibola rotta, milza spappolata, un rene gli viene asportato. Dialisi a vita.

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Emile ormai vecchio vive aiutato da Louis con trecen-to dollari di pensione. Al collo porta sempre i guantoni dorati, alle dita gli anelli con le cinture mondiali. Emile soffre di sindrome da demenza pugilistica: ha incassa-to troppi colpi, ha subito troppi traumi cranici. Prima di morire all’età di settantacinque anni, Emile ha incontra-to Benny jr. all’ombra degli alberi di Central Park. Gli ha sussurrato, con la sua voce ancora stridula: – Somigli a tuo padre –. I due si sono abbracciati. – Non volevo far-gli del male, non volevo –. Mentre Benny jr. si allontana, Emile resta fermo su una panchina nel cuore di New York, con i suoi colori caraibici. Ha in tasca ancora le caramelle. «Io uccido un uomo e molte persone lo ca-piscono e mi perdonano. Al contrario, io amo un uomo e per cosí tanti questo è un crimine imperdonabile, che fa di me una persona cattiva. E cosí, anche se non sono stato in prigione, sono rimasto in cella per quasi tutta la vita».

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LA GAZZELLA NERA«Ma di cosa sei fatta tu?»

«Di quello che ami», disse lei. «Piú l’acciaio».Ernest Hemingway

LA SIGNORA BLANCHE TOGLIE LA POLVERE da una vec-chia cornice d’argento. Dentro una foto della famiglia per cui lavora, per cui fa la cameriera. Una gita al lago. Madre, padre e due bellissimi bambini biondi. Blan-che guarda il suo vestito da cameriera, nero come la sua pelle. Blanche ha ancora tanto da fare, non è da

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lei questo ritmo blando, ma è incinta. Sente la sua pancia contorcersi. Non è ancora il momento, com’è possibile? Ma il pancione non sente ragioni. Le acque si rompono! Sta per partorire. Una telefonata avvisa suo marito, Ed Rudolph, facchino delle ferrovie: sta per diventare papà per la ventesima volta. Dopo qual-che ora nasce Wilma Glodean Rudolph. Una bimba prematura, bellissima. Wilma nasce il 23 giugno 1940 a Saint Bethlehem, una frazione di Clarksville, in Ten-nessee, Stati Uniti d’America. La bambina che è volu-ta venire al mondo prima del tempo non se la passa bene, trascorre tutta l’infanzia a letto. La sua salute è messa a dura prova prima da una forte polmonite, poi dalla scarlattina e infine dalla poliomielite. Dopo la polio, la gamba sinistra di Wilma resta paralizzata.

Wilma è a letto, come sempre. Il dottore chiama in disparte sua madre.

– Signora, sua figlia non camminerà piú.Wilma ascolta tutto. Quando il dottore se ne va, sua

madre entra nella stanza. – Cosa ha detto il dottore?– Che non camminerai piú.Wilma perde il sorriso in un istante.– Ma io non gli credo, – aggiunge sua madre sorri-

dendole.

Wilma, in quel momento preciso, decide di credere a sua madre.

A otto anni gira per casa con un tutore d’acciaio, un apparecchio correttivo che l’aiuta a camminare. Se vuole davvero tornare a camminare deve sotto-porsi per forza a delle terapie. Ma siamo in un’Ame-rica stretta nella morsa dell’odio razziale e della se-gregazione. L’ospedale piú vicino riservato ai neri è lontano ottanta chilometri da Clarksville. L’immensa famiglia Rudolph non si abbatte. Cosí, una volta la madre, tante volte i fratelli, accompagnano la piccola Wilma al Meharry Hospital alle porte di Nashville. Solo ed esclusivamente a bordo di un Greyhound, l’unico bus dove sul retro potevano salire gli afroamericani. Wilma e la sua famiglia percorrono trecentoventi chi-lometri alla settimana. Per duecento volte coprono la distanza tra Clarksville e Nashville. I dottori insegnano alla famiglia Rudolph dei massaggi specifici per dare sollievo alla piccola Wilma, per aiutarla a riprendersi. Ogni sera quaranta mani a turno accarezzano la gam-ba sinistra di Wilma, che è diventata un po’ la gamba di tutti. A undici anni Wilma indossa una scarpa con una suola speciale, finalmente il tutore d’acciaio viene rinchiuso in soffitta. Wilma non molla, non molla mai, cosí, quando ha dodici anni, la madre Blanche torna a

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casa stanca morta dal lavoro e la vede giocare a piedi nudi a basket insieme ai maschi. Blanche prende quel-le scarpe diverse e le getta via: sua figlia è guarita. Wilma aveva creduto a sua madre e aveva fatto bene. A tredici anni Wilma è un miracolo sportivo, gioca a basket e gioca seriamente. Fa già parte della squa-dra del suo liceo. Mentre salta, ma soprattutto mentre corre, viene notata dagli occhi esperti di Ed Temple, responsabile dell’area sportiva della Nashville Univer-sity. Inizia a dedicare tempo a quella ragazzina e le offre una borsa di studio, le insegna i segreti della cor-sa, della velocità, dello scatto, della pista. Nel giro di tre anni, Ed fa di lei un fulmine nero.

È il 1956 e a soli sedici anni la bambina che aveva sconfitto la paralisi partecipa alla sua prima Olimpia-de in Australia. Alla staffetta 4x100 metri vince con le sue connazionali la medaglia di bronzo. Solo pochi anni prima si reggeva in piedi grazie all’acciaio. Wilma tor-na a casa con la sua medaglia e la mostra a tutti nella piccola Saint Bethlehem. I suoi numerosi fratelli se la passano tra le mani, la girano e rigirano, e dopo che è stata toccata da quelle quaranta mani magiche, Wilma si riprende la medaglia. È piena d’impronte. Prende un pezzo di stoffa e di nascosto prova a lucidare la sua medaglia. Ma, ahimè, scopre presto che il bronzo non

luccica, il bronzo non è l’oro, non brilla. E cosí mette anima e cuore nel sogno del metallo piú prezioso. La sua occasione arriva alle Olimpiadi di Roma, nel 1960. Per Wilma a soli vent’anni tutto questo è pura magia, come il Colosseo, come il Tevere in festa. Nella semi-finale dei 100 metri, eguaglia il record mondiale di 11 secondi e 3 decimi. Il pubblico italiano s’innamora di quei 180 centimetri che volano in pista, s’innamora del-la sua grazia, della sua eleganza, delle linee dolci dei suoi muscoli.

È il giorno prima della finale, Wilma si allena. Non vede l’ora di scendere in pista. Fa uno scatto e met-te il piede a terra in modo strano. Sente un rumore, la caviglia ruota dentro una buca. Wilma cade a terra dolorante. Ha la caviglia slogata. I dottori le dicono che probabilmente si gonfierà, che sarà impossibile per lei partecipare alla finale. Ma Wilma non ci crede. E infat-ti, il tornado del Tennessee vince la finale dei 100 me-tri con un nuovo record mondiale di 11 secondi. Dopo quella vittoria gli italiani la ribattezzano con il nome di «Gazzella Nera». Questa volta la medaglia luccica, no-nostante le impronte. Dopo tre giorni vince i 200 me-tri in 24 secondi e conquista la medaglia piú preziosa anche nella staffetta 4x100, gara vinta con il nuovo re-cord mondiale di 44 secondi e 5 decimi.

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Wilma Rudolph è stata la prima atleta americana a vincere tre medaglie d’oro in una sola edizione delle Olimpiadi. La Gazzella Nera di Clarksville ha creduto poco ai dottori e molto a se stessa. E ha creduto a sua madre. Wilma, che non doveva camminare piú, ha por-tato le sue gambe e i suoi polmoni sul tetto del mondo e lo ha fatto con eleganza e leggiadria, correndo piú veloce dei virus. Wilma Rudolph, la bambina tenuta in piedi da un tutore, l’acciaio lo aveva dentro.

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LA BATTAGLIA DEI SESSI

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per andare al lavoro e torna la sera. Sua moglie è una casalinga. Il giornalista impettito dietro la sua scrivania racconta di una protesta di attivisti gay. Il signor Moffitt al solo sentire la parola «gay» spegne la tivú. Nessuno protesta, tutti lo seguono per la cena. In casa Moffitt non esistono i gay. Dopo cena Billie Jean, la figlia del signor Moffitt prende il suo borsone. Sta per uscire di casa, per andare a giocare a tennis. Ma è tardi per il signor Moffitt.

– Ci vai domani a giocare a tennis.– Puoi contarci, – risponde Billie Jean con il suo ca-

ratterino, poi fila di corsa nella sua stanza con la pal-lina gialla ancora tra le mani. Tutti i giorni Billie Jean si allena sui campi da tennis pubblici di Long Beach. Tra l’odore di salsedine e il sole californiano, la ragazza diventa davvero forte. La sua vita va al ritmo di una pallina da tennis. Dritto, rovescio, palla corta, servizio, volée. Partitella con amiche, vinta. Dritto, rovescio, palla corta, servizio, volée. Amichevole stravinta. Game, set, tie-break. Campionato provinciale vinto a mani basse. Dritto, rovescio, palla corta, servizio, volée. Campiona-to californiano vinto senza troppe difficoltà.

– Ma questa è forte. Signor Moffitt, sua figlia è forte.– Non pensi al tennis, l’America sta per essere invasa

dai gay.

Sei nata intera, non ti manca nessuna metà.Anonimo

È SERA IN CALIFORNIA. È autunno. Una giornata piovosa, triste. Tutta la famiglia Moffit è davanti alla tivú. Papà al centro con il telecomando in mano e intorno tutti i figli: siamo negli anni Sessanta e la famiglia Moffitt è una fa-miglia tradizionalista, patriarcale. Telegiornale delle ore 20. A ogni notizia il papà commenta, spesso adirato. Il signor Moffitt è un vigile del fuoco che esce la mattina

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– Guardi che sua figlia non perde mai.– Mai i gay a casa Moffitt!– Guardi che sua figlia la settimana prossima parte

per l’Inghilterra.– Cosa? Io non ho autorizzato ancora niente.A diciassette anni, nel 1961, Billie Jean parte per l’In-

ghilterra. Destinazione Wimbledon, uno dei tornei piú prestigiosi del mondo. È la sua prima apparizione. La racchetta è quasi un prolungamento del suo braccio. È in gara con Karen Hantze Susman, sua partner per il titolo del doppio femminile. Mentre il signor Moffitt spegne la tivú per l’ennesima volta davanti a una noti-zia che riguarda gli omosessuali, sua figlia vince senza troppe difficoltà il piú antico e prestigioso torneo della storia del tennis.

Quando Billie Jean torna negli Stati Uniti, a Long Beach non è piú una sconosciuta ragazzina che gioca per ore nei campi da tennis pubblici. È una campiones-sa. In dodici mesi scala le classifiche di mezzo mondo. Nel 1962 batte Margaret Court, numero uno al mondo. Una partita incredibile. In dieci anni vince tutto: Austra-lian Open, Roland Garros, varie volte Wimbledon e gli US Open. Ma c’è una cosa che fa imbestialire Billie Jean piú delle sconfitte, ovvero gli assegni che riceve per le sue vittorie. Non capisce perché i compensi per i suoi

titoli siano sempre inferiori a quelli degli uomini. Come se lo spettacolo che lei offre valesse di meno. Nonostan-te sia ai vertici mondiali del tennis femminile guadagna 100 dollari alla settimana facendo l’istruttrice di tennis. Il caratterino di Billie Jean viene sempre fuori davanti alle ingiustizie e cosí, in una conferenza stampa, critica apertamente l’USTA, la United States Tennis Association. Definisce shamateurism il compenso della vergogna che le giocatrici ricevono dall’associazione, talmente basso che spesso non possono nemmeno iscriversi ai tornei piú prestigiosi. Billie Jean non le manda certo a dire e accusa l’USTA di corruzione, di trattare il tennis come uno sport elitario, destinato solo a una ristretta cerchia di persone, perlopiú ricche. Cosí si impunta e lancia una campagna a favore dell’equiparazione delle vincite in de-naro nei tornei maschili e femminili. L’associazione corre ai ripari e aumenta gli assegni delle vittorie femminili. Billie Jean è la prima atleta a guadagnare 100mila dollari per la vittoria in un torneo di tennis. Ma non basta, per-ché gli uomini guadagnano molto di piú. Nel 1972 vince gli US Open e riceve 15mila dollari in meno del campione maschile Nastase. Billie Jean non molla.

– Forse non mi sono spiegata bene. O l’anno prossi-mo le vincite sono uguali per donne e uomini oppure io non gioco.

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la sua racchetta e pensa: «Se perdo torniamo indietro di cinquant’anni. Se perdo, perderanno insieme a me tutte le donne». La campionessa gioca d’attacco. È ve-loce, non dà tregua a Riggs, che non si aspettava uno stile di gioco simile. Primo set, 6 a 4 per Billie Jean. Sarà fortuna, pensano gli spettatori, alla lunga verrà fuori la forza dell’uomo. Tra le donne, qualcuna incrocia le dita. Secondo set, 6 a 3 per Billie Jean. Due ragazze in tribuna si stringono la mano. «Se vince il terzo set, Billie Jean ha vinto la Battaglia dei Sessi». Ultimo set, ultimo game, Billie Jean conduce per 5 a 3. Match ball. Servizio, risposta, la palla scende dall’alto, Billie Jean la vede arrivare verso di lei, il tempo pare rallentare, si prepara al colpo, lo stadio ammutolisce, ammuto-liscono le migliaia di donne che guardano la partita, 90 milioni di silenzi e poi bam. Punto! Il maschilismo si disintegra sotto il colpo di una racchetta californiana. Bobby Riggs ha perso, e insieme a lui tutti quelli che credevano nell’inferiorità del tennis femminile. Grazie a Billie Jean, alla Battaglia dei Sessi, il tennis femminile raggiunge finalmente i livelli di quello professionistico maschile.

Billie Jean, anche dopo il suo ritiro, ha continuato a battersi in tutto il mondo per i diritti delle giocatrici. Grazie alla sua caparbietà, ha vinto 1966487 dollari in

1973. Gli US Open sono il primo torneo del Grande Slam con uguali vincite in denaro per donne e uomini. Questa sua battaglia non passa di certo inosservata e fa storcere il naso a molti uomini.

«Ma cosa vuole questa donna californiana, è già di-ventata campionessa e ricca, non basta?»

Insomma, in America ci sono molti signor Moffitt, che vogliono lasciare le cose come stanno. Uomini da una parte, donne dall’altra. Ovviamente, uomini un passo avanti. Tra questi c’è Bobby Riggs. Ha cinquantacinque anni ed è stato uno dei piú grandi giocatori di tennis degli Stati Uniti d’America; negli anni Quaranta, il mi-glior giocatore al mondo. Bobby Riggs è un maschilista convinto, e afferma che il tennis femminile è talmente inferiore a quello maschile che anche a cinquantacin-que anni sarebbe in grado di battere una delle migliori giocatrici al mondo come Billie Jean.

Sfida accettata. 20 settembre 1973, Houston Astro-dome, Texas. Billie Jean sfida Bobby Riggs. Stadio pie-no, 30492 paganti. 50 milioni di telespettatori collegati da trentasette nazioni. Sta per andare in onda uno degli eventi sportivi piú importanti del mondo: la Battaglia dei Sessi. In palio ci sono 100mila dollari. Vittoria al me-glio di 5 set. Non c’è nemmeno una giornalista sportiva in tribuna. La partita sta per iniziare, Billie Jean stringe

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premi. È stata inserita tra i primi 100 atleti americani piú importanti del ventesimo secolo.

A cinquantun anni è stata la prima atleta statunitense a dichiarare pubblicamente la sua omosessualità. «Non mi sono mai sentita a mio agio nella mia stessa pelle fino a quando ho compiuto cinquantun anni. Sono cre-sciuta omofobica, in una famiglia tradizionale e omo-fobica».

Ci sono tenniste e ci sono le Billie Jean, che vincono due volte, nello sport e nella vita.

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IL SOLE IN UN SORRISO

Salta! E mentre cadi lascia che ti spuntino le ali. Ray Bradbury

BOLOGNA, 20 MAGGIO 1916. Sono tutti in attesa del nascituro. La famiglia Valla, composta da mamma, papà e quattro fratelli maschi, non attende altro che l’ennesimo batuffolo in casa. In realtà tutti desidera-no un fiocco rosa. Tutti, ma proprio tutti. Guè guè! È nato? È nata? È maschio? È femmina? Insomma, ci fate sapere qualcosa?, gridano dalla cucina mentre la

levatrice esce dalla camera da letto dei signori Valla con una splendida bambina, bella come il sole. Il papà, emozionato, la stringe a sé. Ti chiamerò Trebisonda, la città che piú amo al mondo, città esotica, di ca-rovane e deserti, raccontata ne Le mille e una notte. Trebisonda è l’attuale città turca di Trabzon. La bam-bina cresce in mezzo alla Grande Guerra. Trebisonda è chiamata da tutti Ondina. Ondina corre, corre come una furia. A soli tredici anni è già un’affermata prota-gonista dell’atletica italiana. Corre tra i colli bolognesi e tra le strade dell’infinita pianura padana. È un’atleta eclettica. Corre, salta, supera ostacoli e i suoi risulta-ti sono sempre eccellenti. Ai campionati studenteschi bolognesi sfida una certa Claudia Testoni, anche lei bolognese. Vengono entrambe dalla stessa scuola, la Regina Margherita, entrambe gareggiano per la stessa società, la Virtus Atletica Bologna. Sono senza ombra di dubbio le migliori atlete italiane della loro epoca. Claudia e Ondina sono rivali in pista, ma amiche, pro-fondamente amiche in tutto il resto. Una coppia anta-gonista poco nota, ma di uno spessore simile a quello di Coppi e Bartali. Ondina diventa campionessa italia-na assoluta e viene convocata dalla nazionale. Ci sono le Olimpiadi, quelle del 1932 a Los Angeles. Ondina non sta piú nella pelle. Un viaggio transoceanico, l’evento

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sportivo piú importante per un’atleta come lei. Ma il fascismo ha altri progetti per le donne «italiche»,che vengono sostanzialmente espulse dai programmi di sviluppo agonistico. Renato Ricci, fascista a capo dell’Opera Nazionale Balilla e presidente della Fede-razione Sciistica, durante una riunione del Coni usa le seguenti parole: «Sia eliminata la rappresentanza femminile. Mi sembra ridicolo che a difendere i colori di una nazione potente e civile come la nostra debba essere chiamato di tanto in tanto un gruppo di don-ne piú o meno interessanti e intelligenti». In fondo le donne per i fascisti dovevano procreare, accudire il nido familiare, generare altri fascisti, cucinare, lavare, rassettare la casa e obbedire al marito. Achille Stara-ce, segretario del partito fascista, sempre durante una riunione del Coni, sottolinea quanto già detto da Ric-ci: «Sono sempre stato del parere che la donna debba essere eliminata dallo sport agonistico». Ondina Val-la viene esclusa dai Giochi olimpici. Su pressione del Vaticano e di Papa Pio IX, che da poco ha siglato i Patti Lateranensi con i fascisti, Ondina resta a casa: la Santa Sede reputa sconveniente che una sedicenne, unica donna in un’intera spedizione maschile, affronti un viaggio transoceanico. Addio sogni di gloria, addio medaglia d’oro.

Ondina non si perde d’animo e, nonostante i fasci-sti, nonostante il Vaticano, corre. «Il sole in un sorriso», cosí la definisce la stampa italiana.

1936. Ondina discute ferocemente con la madre che proprio non vede di buon occhio l’attività sportiva del-la figlia. Il padre invece ne è orgoglioso. Olimpiadi di Berlino. Ondina Valla e Claudia Testoni sono presenti alla cerimonia di apertura. Mussolini non vuole che la sua delegazione faccia brutta figura davanti all’alleato Hitler. Le speranze della spedizione italiana sono nelle mani dei mezzofondisti Luigi Beccali e Mario Lanzi, ovviamente due uomini. Primo turno eliminatorio, 80 metri ostacoli, le emiliane vincono senza troppa fati-ca. 5 agosto 1936, semifinali. Ondina e Claudia sono ancora una volta sui nastri di partenza, sulla stessa pista. Vincono entrambe, Ondina addirittura eguaglia il primato del mondo. Giovedí, 6 agosto 1936, Berli-no, Olympiastadion. Fa freddo, nonostante sia estate. Le due non sono al meglio, Ondina ha male alle gam-be, Claudia ha il ciclo. Si aiutano masticando zollet-te di zucchero bagnate nel cognac. Colpo di pistola! Bum. Via! Claudia è una scheggia e si porta subito in testa, Ondina invece è costretta a rimontare. È una gara bellissima, dagli spalti tutti guardano increduli la sfida. 50 metri, Ondina ha recuperato e hanno recu-

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perato anche la tedesca Anny Steuer e la canadese Betty Taylor. Ultimi metri, ultimi ostacoli, il filo di lana è lí, tutte e quattro le atlete lo vedono, raccolgono le ultime energie e si gettano a occhi chiusi verso una possibile vittoria. Finale incredibile, le due italiane, la tedesca e la canadese, chiudono con il tempo pari di 11 secondi e 7 decimi. Per la prima volta si utilizzerà il fotofinish. Le quattro atlete sono sedute su una panca al bordo della pista. Ognuna di loro ha dato il massi-mo, stille di sudore si mescolano alla stanchezza. Si guardano, non parlano. Nei loro cuori, tutte sognano la vittoria. Vittoria che è lí, a un passo, a un decimo. Vittoria che i giudici già conoscono, che guardano in un fotogramma. Quarta classificata, fuori dal podio, Claudia Testoni; medaglia di bronzo per la canadese Betty Taylor; argento alla tedesca Anny Steuer; e oro a Ondina Valla.

Al momento della premiazione ci sono solo Ondina e la tedesca. Betty Taylor, convinta di essere arrivata quarta, ha già abbandonato lo stadio. Le prime dichia-razioni di Ondina vengono trasmesse via radio in tutta Italia. Suona la marcia reale, la bandiera italiana svetta sopra quella tedesca. Hitler in persona stringe la mano a Ondina, la quale non capisce nemmeno una parola di tedesco.

Il fascismo, che tanto aveva ostacolato la partecipa-zione di Ondina alle Olimpiadi di Los Angeles, la elegge a sua eroina, simbolo dell’Italia vincente. Benito Musso-lini la riceve a Palazzo Venezia. Foto ricordo, medaglia speciale dal Duce e assegno da 5mila lire. I gerarchi fa-scisti, vista la popolarità di Ondina, cambiano idea sulle donne e iniziano a servirsi delle vittorie sportive delle «italiche atlete» per la propaganda della razza italia-na. Ondina Valla è stata la piú giovane donna a vince-re un oro olimpico, a soli vent’anni e 78 giorni, record imbattuto fino al 2004. Il fratello scultore di Ondina, Rito, dopo quella vittoria le dedica una statua intitolata L’Ostacolista, oggi conservata nel bolognese dalla fab-brica Carpigiani.

La carriera appena cominciata di Ondina Valla viene bruscamente interrotta dalla guerra e da un fortissimo mal di schiena.

È il 1943 quando Ondina si reca da un ortopedico.– Buongiorno, dottore, sono qui per un terribile mal

di schiena che mi perseguita ormai da anni e mi limita nella mia attività agonistica. Sa, io sono...

– So benissimo chi è lei. Ondina Valla, orgoglio della nostra nazione.

È cosí che conosce Guglielmo De Lucchi, un gran-de medico, atleta di salto in alto e suo futuro marito.

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Dopo appena un anno, Ondina e Guglielmo si sposano in tutta fretta: l’uomo deve prestare servizio a Vicenza. L’unico piatto del menu del ricevimento è una pasta e fagioli preparata dalla mamma della sposa. Ondina e Guglielmo raggiungono Vicenza in bicicletta, ma arri-vati in terra veneta si rendono conto che il posto che cercavano non esiste piú. Cosí tornano a Bologna, sem-pre in bicicletta, sotto i bombardamenti. Gli sposini si rifugiano nella casa della famiglia Testoni; Claudia non c’è, è a Mantova con il marito. Ondina e Guglielmo si salvano anche grazie al tetto della piú acerrima avver-saria sportiva di Trebisonda.

La guerra finisce e Ondina segue Guglielmo in Abruz-zo. Non arriveranno piú risultati sportivi eclatanti. On-dina ha una spondilosi vertebrale. Si ritira negli anni Cinquanta, non prima di diventare campionessa abruz-zese di getto del peso. La medaglia d’oro tanto sudata in Germania le viene rubata nel 1978. Nel 1984 il pre-sidente della Federazione Italiana di Atletica Leggera, Primo Nebiolo, dona a Ondina una riproduzione della medaglia rubata. Lei, commossa, pronuncia le seguenti parole: «Di quella vittoria mi rimane solo la quercia che a Berlino veniva data ai vincitori. L’ho piantata a Bolo-gna ed è cresciuta in un’aiuola vicino alla piscina coper-ta dello stadio». Nel 1998 è venuta a mancare Claudia

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Testoni, con la quale si sfidò ufficialmente novantotto volte. Nonostante la rivalità, le sfide, le gare, i contra-sti, a quella notizia Ondina si sente solo di aggiungere: «Pensare a Claudia è pensare alle cose piú belle della mia vita».

Ondina Valla è morta a novant’anni, il 16 maggio 2006, all’Aquila. È stata inserita nella Walk of Fame del-lo sport italiano al parco olimpico del Foro Italico. Sono passati piú di cento anni dalla nascita di una bambina chiamata come una città magica, e noi siamo ancora qui a ricordare le gesta del «sole in un sorriso».

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LO STUPORE DEI TACCHETTI

Quanto meno / un’ombra / racconta / di una luce.Gianmaria Testa

È IL GIORNO DELLA PRESENTAZIONE di Diego Armando Maradona. El Pibe de Oro torna a giocare in Argen-tina, precisamente nel Newell’s Old Boy, una socie-tà di Rosario. È il 1993, Maradona è reduce da una maxi squalifica per doping. Alla conferenza stampa ci sono giornalisti di tutta l’Argentina, e di tutto il mondo. È la rinascita di Diego dopo il tunnel della

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droga. La conferenza inizia. Un giornalista dal fon-do della sala prende la parola rivolgendosi al miglior calciatore del mondo, al miglior calciatore di sempre, a colui che ha realizzato il goal del secolo, a Dios. – Lei è il miglior calciatore della storia di Rosario –. Maradona lo interrompe. – Il miglior giocatore ha già giocato a Rosario, è El Trinche, il suo nome è Tomas Carlovich –. Tutti ammutoliscono. Silenzio. I giorna-listi stranieri non hanno idea di chi sia Carlovich. Gli argentini invece lo sanno bene.

Tomás Felipe Carlovich è nato alla fine degli anni Quaranta in una Rosario in piena espansione demogra-fica. Figlio di un immigrato croato, non fa altro che gio-care a pallone. Nel quartiere dove vive lo chiamano «El Trinche»: non si sa cosa significhi, non si sa chi gli abbia dato questo soprannome. Papà Mario fa l’idraulico, è uno dei tanti partiti da un’Europa in frantumi in cerca di fortuna nelle terre delle Pampas. Tomás è l’ultimo di sette fratelli. El Trinche inizia a giocare seriamente a calcio, prima nel Rosario Central, Flandria, Indipen-dente Rivadaviva e poi Central Cordoba. Tutte squadre argentine minori. Niente River Plate o Boca Juniors. Roba che in Europa non sanno nemmeno cosa sia. El Trinche è un dribblatore meraviglioso, centrocampista molto tecnico, lento, ma estremamente elegante. La

gente fa la fila per andarlo a vedere. Sembra che la vit-toria sia un effetto collaterale, un risultato a parte, che può arrivare e non arrivare, non importa. Quando i ro-sarini guardano giocare questo calciatore «nuovo» allo stadio Gabino Sosa, restano esterrefatti. Per lui conta lo stupore, gli applausi della gente, la bellezza, la me-raviglia delle giocate. Piú che allo stadio, quando gioca El Trinche, si va a teatro. Tomás è allergico agli allena-menti, a tutto ciò che è ripetitivo. È un dormiglione, uno che non ama svegliarsi presto, soprattutto per fare giri di campo. Lui è innamorato della palla. Ecco cosa dirà di lui «El Flaco» Menotti, storico commissario tecnico dell’Argentina del 1978, anno in cui l’albiceleste vinse il suo primo mondiale: «Carlovich è uno di quei bambini il cui unico giocattolo è stata una palla da quando sono nati. Vederlo giocare a calcio è impressionante». Nes-suno sa come fermare Carlovich perché fa cose diver-se, cose nuove, cose mai viste. Carlovich è un talento di provincia, uno che ama quello che fa, non i palcoscenici che calpesta. El Trinche è famoso per il doppio tunnel. Durante una partita tra il Central Córdoba e Talleres de Remedios de Escalada, un tifoso urla a Carlovich: – Trinche, fai il doppio tunnel! – El Trinche lo fa. Tunnel in avanti con l’interno del piede, tunnel all’indietro con l’esterno. Avversario stecchito e ovazione del pubbli-

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co che impazzisce. Non è un episodio isolato, piú vol-te nella sua carriera Tomás ha deliziato il pubblico con quel trucchetto. Si dice che stringeva accordi con i pre-sidenti delle squadre in cui giocava: avrebbe ricevuto soldi in cambio di ogni doppio tunnel.

Non ci sono video di Carlovich, bisogna fidarsi di chi l’ha visto. Di chi dice che una volta scartò un’intera squadra, di chi dice che durante una partita fu espulso, ma il pubblico minacciò l’arbitro, che ci ripensò. Ma c’è una voce che gira sul conto di Tomás Felipe Carlovich detto El Trinche. E dice che in un pomeriggio di apri-le del 1974, a Rosario, arrivò la Selección, la naziona-le argentina guidata da Vladislao Cap. In rosa gente del calibro di Brindisi, Babington e Houseman. Ancora qualche mese e saranno tutti in campo per i mondiali tedeschi. Cap ha organizzato una serie di amichevo-li preparatorie e una di queste è contro una selezio-ne dei migliori giocatori di Rosario. Tra i convocati ci sono Mario Kempes, Mario Zanabri, Daniel Killer, Carlos Aimar e Carlovich con la sua maglia numero 5, ruolo volante difensivo. El Trinche ha venticinque anni. Per la nazionale, è un massacro. El Trinche è imprendibile. Cap, dalla panchina, guarda incredulo. 1 a 0 per i rosa-rini, 2 a 0 per i rosarini, 3 a 0 per i rosarini. El Trinche a centrocampo è un mostro, lanci perfetti, millimetri-

ci. Accelera e rallenta le azioni, ferma gli avversari con tackle puliti e ovviamente fa tunnel a destra e sinistra. El Trinche umilia gli avversari. Fine primo tempo, nazio-nale argentina 0 selezione di Rosario 3. Vladislao Cap va negli spogliatoi e supplica l’allenatore avversario di sostituire Carlovich. L’allenatore dà ascolto a Cap e sostituisce El Trinche. La Selección accorcia le distan-ze, ma la partita finisce 3 a 1 per i rosarini. Dopo quel match, Tomás torna nella sua squadra di provincia, ma in tutta l’Argentina si parla delle sue prodezze. Viene ingaggiato dal Deportivo Maipú a cento chilometri da Rosario. Sono troppi, è troppo lontano da casa. Non ci pensa due volte e torna al Central Córdoba. La sua non è una vita di eccessi. El Trinche gioca a calcio per intere giornate, pesca trote lungo il fiume e beve vino e birra con gli amici di sempre, quelli di una vita, quelli di Belgrano, del barrio, quelli che probabilmente l’hanno soprannominato El Trinche.

«El Flaco» Menotti, prima del mondiale del 1978, di-sputato in Argentina e vinto dall’Argentina, chiama Carlovich dopo che il suo capitano «El Lobo» Carra-scosa si è infortunato. È l’occasione di sempre. Diret-tamente in nazionale, davanti alla sua gente. Menotti gli dice che vuole che si alleni con la Selección. Vuole includerlo nei ventidue. El Trinche parte per Buenos Ai-

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res e durante il tragitto vede un fiume pieno di trote che schizzano fuori dall’acqua. Si ferma, prende la sua canna e ne pesca cosí tante che poi, tutto contento, inverte la rotta e se ne torna a Belgrano.

Carlovich si è ritirato nel 1986, anno in cui Maradona alzò la coppa del mondo. Non ha mai giocato in serie A, è stato un calciatore di seconda e terza serie, ha vinto competizioni regionali. Non si sa se queste storie sul conto di Carlovich siano leggende o verità, ma non importa: Carlovich è un futbolista de la calle, «un cal-ciatore della strada». Durante un’intervista, El Trinche ha rilasciato le seguenti dichiarazioni: «Sono state det-te tante cose su di me, ma la maggior parte non sono vere. Una cosa è vera, ed è che non mi è mai piaciuto stare lontano dal mio quartiere, la casa dei miei genito-ri, il bar dove vado di solito, i miei amici e il mio allena-tore Vasco Atrola, che mi ha insegnato come colpire la palla quando ero un ragazzo».

El Trinche vive ancora a Belgrano, al barrio 7 de Sep-tiembre. Va ancora a pesca, gioca a carte e beve con gli amici, ma soprattutto ride, ride di continuo. C’è gente che chiede ancora oggi a Carlovich qual è il suo piú grande sogno e lui risponde cosí: «Vorrei poter torna-re in campo e giocare almeno quarantacinque minuti. Avrei potuto giocare in Francia o negli Stati Uniti, sarei

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diventato ricco, ma per me giocare nel Central Córdo-ba è sempre stato come giocare nel Real Madrid».

A questo straordinario talento si rimprovera il fatto di non essere diventato un vero e proprio campione, di non aver giocato in serie A, di non essere sbarcato in Europa, in nazionale, insomma di non essere arrivato. «Cosa significa arrivare? Io volevo solo giocare a pallo-ne e stare con le persone che amo, e loro vivono tutte qui, a Belgrano».

A Rosario sono passati fenomeni del calibro di Lionel Messi, Diego Armando Maradona e Mario Kempes, ma se chiedi alla gente del posto chi è il piú forte, tutti ti risponderanno: «El Trinche».

INDICE

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Introduzione. Una Piazza di Spaccio di libri .......... 5

1. L’ultima riga bianca ......................................................... 9

2. L’altro Escobar ................................................................. 18

3. L’uomo dimenticato dalle statue ............................. 27

4. Bottoni di terra ............................................................... 35

5. La Maratona della Speranza ..................................... 46

6. Un leggero torcicollo .................................................... 56

7. Il mistero di Sollentuna ................................................ 66

8. Un anno senza PrimaVera .......................................... 73

9. Il capitano della Squadra Cemento ......................... 81

10. L’uomo nato tre volte ................................................... 89

11. Il piú famoso perdente della storia ......................... 98

12. Punizione inversa ......................................................... 106

13. Non mi fermo ................................................................. 116

14. In guerra non esistono pareggi .............................. 125

15. La Locomotiva Umana ............................................... 133

16. Il pugile con le caramelle ........................................... 141

17. La Gazzella Nera .......................................................... 149

18. La Battaglia dei Sessi ................................................. 156

19. Il sole in un sorriso ....................................................... 164

20. Lo stupore dei tacchetti ............................................ 173

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Finito di stampare nel mese di febbraio 2019per conto delle Edizioni EL

presso OZGraf, Olsztyn, Polonia

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