WordPress.com · 2020. 3. 16. · RITRATTI » LA STORIA DI RAM DASS, GIOVANE E BRILLANTE...

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Reportage da Samara a Kazan Akinbode Akinbiyi Gianni Serra Accame Serena Ranci Libri Riccardo de Sanctis Cometite Musiche in «contemporanea» McCoy Tyner IL VIAGGIO SPIRITUALE DI RICHARD ALPERT: DALLA SPERIMENTAZIONE PSICHEDELICA NEGLI ANNI ’60 CON L’LSD ALLE FILOSOFIE INDIANE CHE LO TRASFORMANO IN RAM DASS, UN’ICONA DELLA CONTROCULTURA SABATO 14 MARZO 2020 ANNO XXIII N.10 INSERTO SETTIMANALE DE IL MANIFESTO

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  • Reportage da Samara a Kazan

    Akinbode Akinbiyi Gianni Serra Accame Serena Ranci Libri Riccardo de Sanctis Cometite

    Musiche in «contemporanea» McCoy Tyner

    IL VIAGGIO SPIRITUALE DI RICHARD ALPERT: DALLA SPERIMENTAZIONE PSICHEDELICA NEGLI ANNI ’60 CON L’LSD ALLE FILOSOFIE INDIANE CHE LO TRASFORMANO IN RAM DASS, UN’ICONA DELLA CONTROCULTURA

    SABATO 14 MARZO 2020 ANNO XXIII N.10 INSERTO SETTIMANALE DE IL MANIFESTO

  • RITRATTI » LA STORIA DI RAM DASS, GIOVANE E BRILLANTE ACCADEMICO, GURU PER MOLTE GENERAZIONI

    Harvard 1960, un giova-ne e brillante ricercatore

    in psicologia costruisce meti-colosamente la sua carriera ac-cademica. Richard Alpert, na-to a Boston nel 1931 da una fa-miglia ebraica dell’alta borghe-sia, era attraente, un po’nerd, vestiva con eleganza e arriva-va al campus sfrecciando alla guida di una Mercedes, o su una motocicletta Triumph. I suoi corsi erano molto seguiti e amati dagli studenti: Freud e la motivazione umana, Svilup-po della personalità e psicolo-gia clinica. Richard, però sotto sotto, soffriva della sindrome dell’impostore; sentiva che qualcosa di molto più profon-do nell’esperienza umana gli sfuggiva. Se le teorie che inse-gnava erano valide, perché non si riflettevano nei suoi comportamenti ed in quelli de-gli altri ricercatori? Il giovane dottor Alpert era tendenzial-mente onesto con se stesso e molto curioso. Si era sottopo-sto a un’analisi freudiana dura-ta cinque anni, durante la qua-le, più volte, conoscendo mol-to bene il lavoro di Freud, ave-va fatto notare all’analista che le sue interpretazioni non era-no corrette, il tutto per la modi-ca cifra totale di venticinquemi-la dollari. Guardando a se stes-so e agli altri colleghi, Richard continuava a vedere un cumu-lo di nevrosi. Nonostante i dub-bi però la sua carriera accade-mica procedeva a gonfie vele. Aveva un ufficio spazioso, tutto per sé, un ampio numero di ri-cercatori che lavoravano sotto la sua guida.

    STUDENTE PILOTAIl piccolo studiolo buio alla fi-ne del corridoio era stato re-centemente occupato da un al-tro giovane docente, appena tornato da un giro dell’Italia in bicicletta. Era un irlandese gio-viale che amava bere e divertir-si, Richard ne fu subito incurio-sito; si chiamava Timothy Lea-ry. I due iniziarono a uscire in-sieme la sera a bere. Verso la fi-ne dell’anno accademico, Tim annunciò che quell’estate sa-rebbe andato in Messico. «Ven-go anch’io! Possiamo volare lì con un piccolo aereo da turi-smo, guido io!» disse subito Al-pert, sapendo che aveva esage-rato. Aveva un brevetto da «stu-dente pilota» che non gli avreb-be permesso di volare senza un altro pilota professionista. In segreto Rich completò il cor-so ottenendo il brevetto pie-no. Tim lo aveva preceduto in Messico. Con il brevetto da pi-lota fresco di giornata Richard non trovò nessuno che gli affit-tasse un’areo, ma non si perse d’animo, ne comprò uno usa-to. Riuscì a farlo sollevare da terra e a partire. Dopo un viag-gio che lui stesso definì terro-rizzante, atterrò a Cuernava-ca. Tim gli raccontò subito di

    un’esperienza straordinaria. Una donna, una «curandera», che viveva sulle montagne, co-nosciuta con il nome di Juana la pazza, gli aveva fatto prova-re i funghi allucinogeni; duran-te il viaggio aveva avuto visioni e intuizioni eccezionali. Rich ne fu invidioso, moriva dalla voglia di provare, ma Juana la pazza era introvabile. Trascor-sero un po’di giorni tra Tepsi-lan e Cuernavaca nell’eventua-lità che Juana potesse palesar-si, per poi delusi risalire sul pic-colo aereo, questa volta, con anche un iguana a bordo, rien-trarono negli Stati Uniti.

    Rich trascorse un breve pe-riodo a Berkeley, mentre Tim tornato nello studiolo di Har-vard, si mise furiosamente a ri-cercare gli agenti chimici degli allucinogeni e i loro effetti. Quando Richard Alpert rien-trò a Harvard, Tim si era procu-rato alcune dosi di psilocibi-na, il principio attivo dei fun-ghi allucinogeni.

    Il 6 marzo 1961 ad Harvard si era posata la nevicata più gran-de degli ultimi anni.

    A Milano io avevo solo sei giorni e non ricordo che tem-po facesse.

    Era sabato, quella sera Ri-chard cenò dai suoi, poi, cara-collando nella neve alta andò a casa di Timothy che abitava po-co lontano.

    ESPERIENZE DISSOCIATIVENella cucina calda e illuminata, Rich, Tim e un piccolo gruppo di amici si calarono una dose di psilocibina. Gradualmente en-trarono in uno spazio senza tempo. Richard si staccò dal gruppo, andò a sedersi da solo nel salotto semi buio, un po’ di luce filtrava dai lampioni della strada, la neve cadeva fitta. Era bellissimo. Richard vide un’om-bra, la sagoma di una figura in piedi, strinse gli occhi per capi-re meglio chi fosse, poi capì che era semplicemente l’ombra di se stesso. Da un punto di vista psicologico sapeva che stava vi-vendo quella che viene chiama-ta «esperienza dissociativa». La figura in piedi era la rappresen-tazione di se stesso in tutta la sua «professoralità», Richard decise di disfarsene, ma pronta-mente, emerse la sua «amabili-tà», poi la sua «saggezza»; ad una, ad una, osservò dissolver-

    si tutte le qualità che formava-no il costrutto della sua perso-nalità sociale. Poi arrivò il pani-co, la paura di stare perdendo tutto, il sudore gli incollava la camicia addosso, il respiro era affannato, emerse il senso di colpa. «Ecco a cosa porta gioca-re con gli psichedelici, ho di-menticato completamente chi sono, verrò ricordato per que-sto nella storia clinica».

    Finalmente riuscì a piazzare due respiri profondi, sentì che l’effetto della sostanza iniziava lentamente a virare, una voce

    calma, persino un po’ scherzo-sa, da dentro, chiese «A chi sta succedendo tutto questo?». Era quello che Richard definì «il punto di consapevolezza», un «punto» che non aveva riferi-menti nel corpo, nella personali-tà, nei ruoli sociali, eppure era un punto di grande lucidità e chiarezza. Richard fu invaso da una sensazione di gioia profon-da, esilarante; balzò in piedi e corse fuori nella neve, si muove-va danzando con i grossi fiocchi che continuavano a cadere, arri-vò a casa dei suoi genitori, e con

    la stessa gioia iniziò a spalare la neve tutt’intorno alla proprietà. La luce di una finestra al secon-do piano si accese, i genitori si af-facciarono guardando la scena, allibiti, il loro figlio professore in piena notte a spalare la neve in maniche di camicia. La madre gridò «Che fai idiota?!» Richard guardò in alto, la voce che ave-va parlato era una voce alla qua-le aveva sempre risposto, quel-la del condizionamento ester-no, ma ora da dentro sentiva un’altra voce che diceva: «Non c’è niente di male a spalare la

    neve nel cuore della notte», co-sì felice riprese a spalare e a dan-zare nella neve.

    A Harvard, nella notte inneva-ta del 6 marzo 1961, mentre io a Milano, nel mio piccolo, emette-vo i primi vagiti di insoddisfazio-ne verso la famiglia e le conven-zioni borghesi e patriarcali in cui ero nata, Richard Alpert iniziava un percorso che avrebbe cam-biato le vite e toccato i cuori di mi-lioni di persone, inclusa la mia.

    LA CACCIATAQuello stesso anno Richard Al-pert e Timothy Leary iniziaro-no ufficialmente, in collabora-zione con l’industria farmaceu-tica Sandoz, una serie di speri-mentazione cliniche con psilo-cibina e più tardi con Lsd. Le so-stanze venivano somministra-te a soggetti volontari. Durante il viaggio psichedelico i parteci-panti venivano «guidati» e os-servati. Il programma conob-be un successo eccezionale tra gli studenti, insospettendo gli organi accademici; gli altri cor-si del dipartimento di psicolo-gia perdevano iscrizioni a vista d’occhio. Fioccavano le prote-ste da parte dei genitori che sborsavano esose rette univer-sitarie, per vedersi i figli com-pletamente trasformati dai viaggi psichedelici.

    Nel 1963 Richard Alpert fu ufficialmente cacciato dall’u-niversità. Leary, alla fine del suo mandato si dimise volonta-

    riamente, lasciando ad Alpert il primato di essere il primo pro-fessore sbattuto fuori da Har-vard che la storia ricordi.

    Fu indetta una conferenza stampa: televisioni, inviati ra-dio, fotografi. La massima umi-liazione per un ricercatore, es-sere cacciato pubblicamente dall’università. Richard legge-va negli occhi di tutti, puntati su di lui, una sola parola: «per-dente». Dentro di sé però era so-stenuto dall’integrità delle mo-tivazioni della sua ricerca, il de-siderio di esplorare i diversi pia-ni di coscienza dell’esistenza umana in tutta la gamma delle loro possibilità, ma capiva an-che l’enormità del peccato ca-pitale per cui ora lo punivano: aveva introdotto nel tempio della razionalità e della scienti-ficità oggettiva, lo studio di sta-ti di percezione alterata. L’establishment accademico li accusava di non essere veri scienziati poiché sperimenta-

    vano la sostanza in settings non considerati ortodossi e soprattut-to sperimentavano su se stessi, facendo così conflagrare la sepa-razione tra il soggetto osservan-te e l’oggetto osservato, infran-gendo un tabù allora molto forte nella comunità scientifica. La di-visione tra soggetto e oggetto ga-rantiva l’autorità della scienza, mascherata da una presunta «og-gettività», strumento potente nelle mani del patriarcato. Que-st’atteggiamento così rigido e au-toritario, è stato radicalmente ri-visto nei decenni successivi, alla luce dell’evoluzione e del recupe-ro delle teorie di fisica e meccani-ca quantistica, secondo cui il semplice atto di osservazione di un fenomeno porta inevitabil-mente dei cambiamenti nel fe-nomeno osservato.

    Dopo la cacciata da Harvard e la pubblica umiliazione, Al-pert e Leary si rifugiarono in una dimora di campagna in Up-state New York, dove iniziarono

    un esperimento di vita comu-ne, continuando il loro labora-torio psichedelico. Allen Gin-sberg and William Burroughs ne erano frequentatori abituali.

    CONFINI ALLARGATIRichard Alpert iniziava ad avver-tire nuovamente una certa in-soddisfazione; gli psichedelici non gli fornivano la mappatura completa della coscienza uma-na che andava cercando, man-cava qualcosa. Nel 1967 parte per l’India, pare influenzato dai racconti di Ginsberg. L’idea era di continuare a sperimentare con gli allucinogeni in una socie-tà dove l’espansione della co-scienza, la ricerca del continuo al-largamento dei confini dell’espe-rienza umana, sono già cultural-mente presenti anche nella vita quotidiana. In India, Richard, che con sé portava alcune dosi di Lsd, sperava di trovare qualcuno che ne sapesse più di lui sull’argo-mento. Così fu.

    Arrivato a Delhi incontrò un personaggio improbabile, un californiano di Laguna Beach, totalmente atteggiato da Sadu indiano, che andavain giro sot-to il nome di Baghavan Das. Ri-chard ne rimase affascinato e decise di seguirlo. Aveva intra-preso un viaggio di più di seimi-la miglia dagli Stati Uniti all’In-dia per ritrovarsi come guru un californiano biondo e allampa-nato di 23 anni? L’ex-professo-re di Harvard girava ora a piedi nudi e pieni di vesciche per le strade di Calcutta, uniche pro-prietà una piccola borsa e un tamburello tibetano.

    IL PELLEGRINAGGIOI due iniziano un pellegrinaggio a piedi da ascetici itineranti. Ri-chard apprende le basi della spi-ritualità indiana, come vivere nel momento, come usare un mala per la ripetizione dei man-tra, come fare un’offerta a una divinità e anche come sopravvi-vere alla dissenteria. Impara ve-locemente, ma senza troppa convinzione. Si sente più at-tratto dalla sobrietà delle prati-che buddiste; il pantheon in-diano gli sembra troppo kitsch e colorato, la devozione indui-sta troppo emozionale.

    Giunge il momento in cui i due devono rientrare a New Delhi per rinnovare il visto. Ba-ghavan Das scopre che per lui ci sono delle complicazioni. In caso debba lasciare l’India, vuole andare a salutare il suo guru. Alpert rimane perples-so, è la prima volta che sente Baghavan nominare «il suo gu-ru» e non ha nessuna idea di chi possa essere; fantastica che si tratti di un austero lama tibetano. Per il viaggio Bagha-van Das suggerisce di chiede-re in prestito la Land Rover di un amico occidentale. Ri-chard inizialmente resiste all’i-dea, teme che la macchina ap-pariscente li inquadri subito come ricchi americani, ma Ba-ghavan non cambia opinione.

    La notte precedente al viag-gio, Richard si trattiene fuori a guardare il cielo limpido, pun-teggiato di stelle. Pensa a sua madre morta sei mesi prima in un ospedale a Boston, in quel momento sente con lei una connessione profonda.

    LA MACCHINA CONTESAL’indomani i due si avventura-no guidando sulla strada tor-tuosa di montagna che porta a Kainchi. Quando arrivano a de-stinazione, una folla di curiosi, apparentemente scaturita dal nulla, come spesso avviene in India, circonda la macchina. Baghavan conosce e saluta molti di loro; subito chiede, do-ve trovare Baba. Alcune brac-cia si tendono a indicare un punto sulla collina. Baghavan inizia a correre in quella dire-zione. Richard lo segue arran-cando, perplesso, a piedi nudi sul sentiero di pietre.

    Dopo poco si trovarono in una specie di altopiano, un campo che affaccia sulla valle sottostante. Era una tersa gior-nata d’inverno, al centro del campo, sotto un albero vedo-no un uomo seduto, la figura massiccia, avvolto in un plaid scozzese, circondato da un pic-colo gruppo di seguaci. Sem-bra la scena di un’antica minia-tura. A quella vista, Baghavan inizia a correre a perdifiato, tra-volto dall’emozione, gli occhi pieni di lacrime, fino a che arri-vato vicino all’uomo avvolto nel plaid, gli si getta ai piedi. Il guru gli accarezza ora la testa, di tanto in tanto sollevando gli occhi, lancia sguardi curiosi verso Richard che era rimasto in piedi, sempre più perples-so, comunque deciso a non prostrarsi davanti all’uomo con la coperta.

    Il guru gli si rivolse allora di-rettamente e gli chiese: «Sei ve-nuto con quella macchina grande?». «Oddio, la Land Ro-ver!» pensò Richard con terro-re. Sapeva che era stato un er-rore presentarsi con quella macchina che non era nean-che sua, una bella responsabi-lità! . «Me la regali?», chiese il guru. Richard incominciò a balbettare «Sì, sì te la regala!» gridava ora Baghavan, saltel-lando su e giù come un bambi-no eccitato. Il guru rideva, mo-strando la bocca sdentata, in verità ridevano tutti, eccetto Alpert. Allora il guru ordinò

    Viaggio alla finedel cammino

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    La scopertadell’Lsdinsieme a Timothy Leary, il Messico, la ricerca di sé stessi, le Hawaii, l’unionetra diverse religioni

    EMI FONTANALOS ANGELES

    Richard fu invaso da una sensazione di gioia profonda, esilarante; balzò in piedi e corse fuori nella neve, si muoveva danzando con i grossi fiocchi

    NEW AGE

    I LIBRIAlcuni testi di riferimento sulle tematiche di cui si parla nell’articolo di Emi Fontana: «Lsd il mio bambino difficile» (’79) del chimico Albert Hoffmann,il primo ad aver assunto e studiato gli effetti del dietilamide dell’acido lisergico (Lsd); «Alla scoperta dei misteri eleusini» di R. Gordon Wasson; «Il nutrimento degli dei» di Terence McKenna, etnobotanico che tracciala storia dell’evoluzione dell’umanità attraverso l’uso delle piante sacre e psichedeliche

    ACCADEVANELLA HARVARDANNI SESSANTA

    Al centro e, in basso a sinistra, due illustrazioni dal libro di Ram Dass, «Be Here Now»; sotto, un ritratto di Ram Dassin meditazione; a sinistra durante una lezione con un gruppo di ragazzi negli anni Settanta

    SEGUE A PAGINA 4

    In copertina, un’opera dell’artista Alex Grey, 2018

    2 sabato 14 marzo 2020

  • RITRATTI » LA STORIA DI RAM DASS, GIOVANE E BRILLANTE ACCADEMICO, GURU PER MOLTE GENERAZIONI

    Harvard 1960, un giova-ne e brillante ricercatore

    in psicologia costruisce meti-colosamente la sua carriera ac-cademica. Richard Alpert, na-to a Boston nel 1931 da una fa-miglia ebraica dell’alta borghe-sia, era attraente, un po’nerd, vestiva con eleganza e arriva-va al campus sfrecciando alla guida di una Mercedes, o su una motocicletta Triumph. I suoi corsi erano molto seguiti e amati dagli studenti: Freud e la motivazione umana, Svilup-po della personalità e psicolo-gia clinica. Richard, però sotto sotto, soffriva della sindrome dell’impostore; sentiva che qualcosa di molto più profon-do nell’esperienza umana gli sfuggiva. Se le teorie che inse-gnava erano valide, perché non si riflettevano nei suoi comportamenti ed in quelli de-gli altri ricercatori? Il giovane dottor Alpert era tendenzial-mente onesto con se stesso e molto curioso. Si era sottopo-sto a un’analisi freudiana dura-ta cinque anni, durante la qua-le, più volte, conoscendo mol-to bene il lavoro di Freud, ave-va fatto notare all’analista che le sue interpretazioni non era-no corrette, il tutto per la modi-ca cifra totale di venticinquemi-la dollari. Guardando a se stes-so e agli altri colleghi, Richard continuava a vedere un cumu-lo di nevrosi. Nonostante i dub-bi però la sua carriera accade-mica procedeva a gonfie vele. Aveva un ufficio spazioso, tutto per sé, un ampio numero di ri-cercatori che lavoravano sotto la sua guida.

    STUDENTE PILOTAIl piccolo studiolo buio alla fi-ne del corridoio era stato re-centemente occupato da un al-tro giovane docente, appena tornato da un giro dell’Italia in bicicletta. Era un irlandese gio-viale che amava bere e divertir-si, Richard ne fu subito incurio-sito; si chiamava Timothy Lea-ry. I due iniziarono a uscire in-sieme la sera a bere. Verso la fi-ne dell’anno accademico, Tim annunciò che quell’estate sa-rebbe andato in Messico. «Ven-go anch’io! Possiamo volare lì con un piccolo aereo da turi-smo, guido io!» disse subito Al-pert, sapendo che aveva esage-rato. Aveva un brevetto da «stu-dente pilota» che non gli avreb-be permesso di volare senza un altro pilota professionista. In segreto Rich completò il cor-so ottenendo il brevetto pie-no. Tim lo aveva preceduto in Messico. Con il brevetto da pi-lota fresco di giornata Richard non trovò nessuno che gli affit-tasse un’areo, ma non si perse d’animo, ne comprò uno usa-to. Riuscì a farlo sollevare da terra e a partire. Dopo un viag-gio che lui stesso definì terro-rizzante, atterrò a Cuernava-ca. Tim gli raccontò subito di

    un’esperienza straordinaria. Una donna, una «curandera», che viveva sulle montagne, co-nosciuta con il nome di Juana la pazza, gli aveva fatto prova-re i funghi allucinogeni; duran-te il viaggio aveva avuto visioni e intuizioni eccezionali. Rich ne fu invidioso, moriva dalla voglia di provare, ma Juana la pazza era introvabile. Trascor-sero un po’di giorni tra Tepsi-lan e Cuernavaca nell’eventua-lità che Juana potesse palesar-si, per poi delusi risalire sul pic-colo aereo, questa volta, con anche un iguana a bordo, rien-trarono negli Stati Uniti.

    Rich trascorse un breve pe-riodo a Berkeley, mentre Tim tornato nello studiolo di Har-vard, si mise furiosamente a ri-cercare gli agenti chimici degli allucinogeni e i loro effetti. Quando Richard Alpert rien-trò a Harvard, Tim si era procu-rato alcune dosi di psilocibi-na, il principio attivo dei fun-ghi allucinogeni.

    Il 6 marzo 1961 ad Harvard si era posata la nevicata più gran-de degli ultimi anni.

    A Milano io avevo solo sei giorni e non ricordo che tem-po facesse.

    Era sabato, quella sera Ri-chard cenò dai suoi, poi, cara-collando nella neve alta andò a casa di Timothy che abitava po-co lontano.

    ESPERIENZE DISSOCIATIVENella cucina calda e illuminata, Rich, Tim e un piccolo gruppo di amici si calarono una dose di psilocibina. Gradualmente en-trarono in uno spazio senza tempo. Richard si staccò dal gruppo, andò a sedersi da solo nel salotto semi buio, un po’ di luce filtrava dai lampioni della strada, la neve cadeva fitta. Era bellissimo. Richard vide un’om-bra, la sagoma di una figura in piedi, strinse gli occhi per capi-re meglio chi fosse, poi capì che era semplicemente l’ombra di se stesso. Da un punto di vista psicologico sapeva che stava vi-vendo quella che viene chiama-ta «esperienza dissociativa». La figura in piedi era la rappresen-tazione di se stesso in tutta la sua «professoralità», Richard decise di disfarsene, ma pronta-mente, emerse la sua «amabili-tà», poi la sua «saggezza»; ad una, ad una, osservò dissolver-

    si tutte le qualità che formava-no il costrutto della sua perso-nalità sociale. Poi arrivò il pani-co, la paura di stare perdendo tutto, il sudore gli incollava la camicia addosso, il respiro era affannato, emerse il senso di colpa. «Ecco a cosa porta gioca-re con gli psichedelici, ho di-menticato completamente chi sono, verrò ricordato per que-sto nella storia clinica».

    Finalmente riuscì a piazzare due respiri profondi, sentì che l’effetto della sostanza iniziava lentamente a virare, una voce

    calma, persino un po’ scherzo-sa, da dentro, chiese «A chi sta succedendo tutto questo?». Era quello che Richard definì «il punto di consapevolezza», un «punto» che non aveva riferi-menti nel corpo, nella personali-tà, nei ruoli sociali, eppure era un punto di grande lucidità e chiarezza. Richard fu invaso da una sensazione di gioia profon-da, esilarante; balzò in piedi e corse fuori nella neve, si muove-va danzando con i grossi fiocchi che continuavano a cadere, arri-vò a casa dei suoi genitori, e con

    la stessa gioia iniziò a spalare la neve tutt’intorno alla proprietà. La luce di una finestra al secon-do piano si accese, i genitori si af-facciarono guardando la scena, allibiti, il loro figlio professore in piena notte a spalare la neve in maniche di camicia. La madre gridò «Che fai idiota?!» Richard guardò in alto, la voce che ave-va parlato era una voce alla qua-le aveva sempre risposto, quel-la del condizionamento ester-no, ma ora da dentro sentiva un’altra voce che diceva: «Non c’è niente di male a spalare la

    neve nel cuore della notte», co-sì felice riprese a spalare e a dan-zare nella neve.

    A Harvard, nella notte inneva-ta del 6 marzo 1961, mentre io a Milano, nel mio piccolo, emette-vo i primi vagiti di insoddisfazio-ne verso la famiglia e le conven-zioni borghesi e patriarcali in cui ero nata, Richard Alpert iniziava un percorso che avrebbe cam-biato le vite e toccato i cuori di mi-lioni di persone, inclusa la mia.

    LA CACCIATAQuello stesso anno Richard Al-pert e Timothy Leary iniziaro-no ufficialmente, in collabora-zione con l’industria farmaceu-tica Sandoz, una serie di speri-mentazione cliniche con psilo-cibina e più tardi con Lsd. Le so-stanze venivano somministra-te a soggetti volontari. Durante il viaggio psichedelico i parteci-panti venivano «guidati» e os-servati. Il programma conob-be un successo eccezionale tra gli studenti, insospettendo gli organi accademici; gli altri cor-si del dipartimento di psicolo-gia perdevano iscrizioni a vista d’occhio. Fioccavano le prote-ste da parte dei genitori che sborsavano esose rette univer-sitarie, per vedersi i figli com-pletamente trasformati dai viaggi psichedelici.

    Nel 1963 Richard Alpert fu ufficialmente cacciato dall’u-niversità. Leary, alla fine del suo mandato si dimise volonta-

    riamente, lasciando ad Alpert il primato di essere il primo pro-fessore sbattuto fuori da Har-vard che la storia ricordi.

    Fu indetta una conferenza stampa: televisioni, inviati ra-dio, fotografi. La massima umi-liazione per un ricercatore, es-sere cacciato pubblicamente dall’università. Richard legge-va negli occhi di tutti, puntati su di lui, una sola parola: «per-dente». Dentro di sé però era so-stenuto dall’integrità delle mo-tivazioni della sua ricerca, il de-siderio di esplorare i diversi pia-ni di coscienza dell’esistenza umana in tutta la gamma delle loro possibilità, ma capiva an-che l’enormità del peccato ca-pitale per cui ora lo punivano: aveva introdotto nel tempio della razionalità e della scienti-ficità oggettiva, lo studio di sta-ti di percezione alterata. L’establishment accademico li accusava di non essere veri scienziati poiché sperimenta-

    vano la sostanza in settings non considerati ortodossi e soprattut-to sperimentavano su se stessi, facendo così conflagrare la sepa-razione tra il soggetto osservan-te e l’oggetto osservato, infran-gendo un tabù allora molto forte nella comunità scientifica. La di-visione tra soggetto e oggetto ga-rantiva l’autorità della scienza, mascherata da una presunta «og-gettività», strumento potente nelle mani del patriarcato. Que-st’atteggiamento così rigido e au-toritario, è stato radicalmente ri-visto nei decenni successivi, alla luce dell’evoluzione e del recupe-ro delle teorie di fisica e meccani-ca quantistica, secondo cui il semplice atto di osservazione di un fenomeno porta inevitabil-mente dei cambiamenti nel fe-nomeno osservato.

    Dopo la cacciata da Harvard e la pubblica umiliazione, Al-pert e Leary si rifugiarono in una dimora di campagna in Up-state New York, dove iniziarono

    un esperimento di vita comu-ne, continuando il loro labora-torio psichedelico. Allen Gin-sberg and William Burroughs ne erano frequentatori abituali.

    CONFINI ALLARGATIRichard Alpert iniziava ad avver-tire nuovamente una certa in-soddisfazione; gli psichedelici non gli fornivano la mappatura completa della coscienza uma-na che andava cercando, man-cava qualcosa. Nel 1967 parte per l’India, pare influenzato dai racconti di Ginsberg. L’idea era di continuare a sperimentare con gli allucinogeni in una socie-tà dove l’espansione della co-scienza, la ricerca del continuo al-largamento dei confini dell’espe-rienza umana, sono già cultural-mente presenti anche nella vita quotidiana. In India, Richard, che con sé portava alcune dosi di Lsd, sperava di trovare qualcuno che ne sapesse più di lui sull’argo-mento. Così fu.

    Arrivato a Delhi incontrò un personaggio improbabile, un californiano di Laguna Beach, totalmente atteggiato da Sadu indiano, che andavain giro sot-to il nome di Baghavan Das. Ri-chard ne rimase affascinato e decise di seguirlo. Aveva intra-preso un viaggio di più di seimi-la miglia dagli Stati Uniti all’In-dia per ritrovarsi come guru un californiano biondo e allampa-nato di 23 anni? L’ex-professo-re di Harvard girava ora a piedi nudi e pieni di vesciche per le strade di Calcutta, uniche pro-prietà una piccola borsa e un tamburello tibetano.

    IL PELLEGRINAGGIOI due iniziano un pellegrinaggio a piedi da ascetici itineranti. Ri-chard apprende le basi della spi-ritualità indiana, come vivere nel momento, come usare un mala per la ripetizione dei man-tra, come fare un’offerta a una divinità e anche come sopravvi-vere alla dissenteria. Impara ve-locemente, ma senza troppa convinzione. Si sente più at-tratto dalla sobrietà delle prati-che buddiste; il pantheon in-diano gli sembra troppo kitsch e colorato, la devozione indui-sta troppo emozionale.

    Giunge il momento in cui i due devono rientrare a New Delhi per rinnovare il visto. Ba-ghavan Das scopre che per lui ci sono delle complicazioni. In caso debba lasciare l’India, vuole andare a salutare il suo guru. Alpert rimane perples-so, è la prima volta che sente Baghavan nominare «il suo gu-ru» e non ha nessuna idea di chi possa essere; fantastica che si tratti di un austero lama tibetano. Per il viaggio Bagha-van Das suggerisce di chiede-re in prestito la Land Rover di un amico occidentale. Ri-chard inizialmente resiste all’i-dea, teme che la macchina ap-pariscente li inquadri subito come ricchi americani, ma Ba-ghavan non cambia opinione.

    La notte precedente al viag-gio, Richard si trattiene fuori a guardare il cielo limpido, pun-teggiato di stelle. Pensa a sua madre morta sei mesi prima in un ospedale a Boston, in quel momento sente con lei una connessione profonda.

    LA MACCHINA CONTESAL’indomani i due si avventura-no guidando sulla strada tor-tuosa di montagna che porta a Kainchi. Quando arrivano a de-stinazione, una folla di curiosi, apparentemente scaturita dal nulla, come spesso avviene in India, circonda la macchina. Baghavan conosce e saluta molti di loro; subito chiede, do-ve trovare Baba. Alcune brac-cia si tendono a indicare un punto sulla collina. Baghavan inizia a correre in quella dire-zione. Richard lo segue arran-cando, perplesso, a piedi nudi sul sentiero di pietre.

    Dopo poco si trovarono in una specie di altopiano, un campo che affaccia sulla valle sottostante. Era una tersa gior-nata d’inverno, al centro del campo, sotto un albero vedo-no un uomo seduto, la figura massiccia, avvolto in un plaid scozzese, circondato da un pic-colo gruppo di seguaci. Sem-bra la scena di un’antica minia-tura. A quella vista, Baghavan inizia a correre a perdifiato, tra-volto dall’emozione, gli occhi pieni di lacrime, fino a che arri-vato vicino all’uomo avvolto nel plaid, gli si getta ai piedi. Il guru gli accarezza ora la testa, di tanto in tanto sollevando gli occhi, lancia sguardi curiosi verso Richard che era rimasto in piedi, sempre più perples-so, comunque deciso a non prostrarsi davanti all’uomo con la coperta.

    Il guru gli si rivolse allora di-rettamente e gli chiese: «Sei ve-nuto con quella macchina grande?». «Oddio, la Land Ro-ver!» pensò Richard con terro-re. Sapeva che era stato un er-rore presentarsi con quella macchina che non era nean-che sua, una bella responsabi-lità! . «Me la regali?», chiese il guru. Richard incominciò a balbettare «Sì, sì te la regala!» gridava ora Baghavan, saltel-lando su e giù come un bambi-no eccitato. Il guru rideva, mo-strando la bocca sdentata, in verità ridevano tutti, eccetto Alpert. Allora il guru ordinò

    Viaggio alla finedel cammino

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    La scopertadell’Lsdinsieme a Timothy Leary, il Messico, la ricerca di sé stessi, le Hawaii, l’unionetra diverse religioni

    EMI FONTANALOS ANGELES

    Richard fu invaso da una sensazione di gioia profonda, esilarante; balzò in piedi e corse fuori nella neve, si muoveva danzando con i grossi fiocchi

    NEW AGE

    I LIBRIAlcuni testi di riferimento sulle tematiche di cui si parla nell’articolo di Emi Fontana: «Lsd il mio bambino difficile» (’79) del chimico Albert Hoffmann,il primo ad aver assunto e studiato gli effetti del dietilamide dell’acido lisergico (Lsd); «Alla scoperta dei misteri eleusini» di R. Gordon Wasson; «Il nutrimento degli dei» di Terence McKenna, etnobotanico che tracciala storia dell’evoluzione dell’umanità attraverso l’uso delle piante sacre e psichedeliche

    ACCADEVANELLA HARVARDANNI SESSANTA

    Al centro e, in basso a sinistra, due illustrazioni dal libro di Ram Dass, «Be Here Now»; sotto, un ritratto di Ram Dassin meditazione; a sinistra durante una lezione con un gruppo di ragazzi negli anni Settanta

    SEGUE A PAGINA 4

    In copertina, un’opera dell’artista Alex Grey, 2018

    sabato 14 marzo 2020 3

  • ai suoi seguaci di portare i due nuovi arrivati a man-

    giare. Fu servito un pasto vege-tariano di eccezionale bontà e i due viaggiatori andarono a ripo-sare. In serata il gruppo si riunì. Questa volta Maharaji invitò Ri-chard a sedersi vicino a lui poi, fissandolo dritto negli occhi, con dolcezza disse: «Ieri notte hai guardato le stelle …Pensavi a tua madre». Poi si ritrasse, soc-chiudendo gli occhi e disse in in-glese: «Spleen» - «È morta per via della milza».

    RAM DASSTutto cambiò. La mente ben al-lenata di Richard cominciò a correre veloce in cerca di spie-gazioni: come faceva Maharaji a sapere? Passò in rassegna tutta la gamma paranoica di possibili complotti, incluso quello che il guru fosse un agente della Cia. Ri-chard non aveva mai detto nem-meno a Baghavan, una parola su sua madre; nessuna delle catego-rie di pensiero che conosceva era applicabile alla situazione. Dopo quella corsa pazza, finalmente, di fronte all’impossibilità di tro-vare una spiegazione razionale, la sua mente si arrese; in quello stesso momento Richard si sentì squassare da un dolore violento al centro del petto, come una for-te scossa che arrivava dall’inter-no più profondo del suo essere, cominciò a singhiozzare in un pianto come non aveva mai pro-vato prima. Il viaggio era finito, fi-nalmente era a casa. Allora Ri-chard Alpert scomparve e iniziò la storia di Ram Dass.

    Ram Dass non si era dimenti-cato della domanda iniziale con cui era arrivato in India. Quel mi-stero della mente che i suoi stu-di di psicologia e gli esperimenti con gli allucinogeni non erano riusciti a risolvere. Dopo qual-che giorno all’Ashram, pensò che probabilmente Maharaji, Neem Karoli Baba, era la perso-na adatta a cui chiedere. La sera, dopo cena, il guru gli si avvicinò «Hai una domanda da farmi?» disse. Ram Dass si emozionò e confuso, dimenticò la doman-da. Il guru parve irritato e chiese: «Dove è la medicina?» Ram Dass

    non capiva di cosa parlasse. Ba-ghavan gli venne in aiuto. «Forse intende l’Lsd». Ram Dass allora andò alla macchina a prendere, il flacone dove teneva le dosi di Lsd. Il guru domandò se la medi-cina conferiva potenza. Ram Dass non capì, pensando che si ri-ferisse a potenza fisica; in realtà la parola usata dal guru era «Sidd-hi» che vuol dire poteri psichici. Maharajii tese la mano con il pal-mo aperto, Ram Dass vi lasciò ca-dere una pillola. Ogni pasticca conteneva 300 milligrammi di Lsd purissimo, una dose cospi-cua per un adulto; il guru ne chie-se un'altra, e un’altra, poi strap-pò dalle mani di Ram Dass la bot-tiglietta, la svuotò, lasciandosi ca-dere in bocca tutte le pillole rima-ste. Ram Dass guardava allibito, terrorizzato di stare uccidendo il suo maestro, ma anche con la cu-riosità del ricercatore.

    Maharaji chiese: «Quanto ci metterà a fare effetto?». «Circa un’ora», rispose Ram Dass. «Im-pazzirò?», chiese di nuovo Ma-haraji. «Probabilmente», rispo-se Ram Dass. Il guru si fece porta-re un orologio, entrambe rima-sero a fissare le lancette. Alla fine dell’ora Maharaji sembrava as-solutamente normale, infatti, chiese: «Hai qualcosa di più for-te?». Poi aggiunse: «Rimanere con la mente fermamente con-centrata sul divino e più forte di qualsiasi sostanza».

    Quando Ram Dass rientrò ne-

    gli Stati uniti, all’aeroporto di Bo-ston lo aspettava il padre Geor-ge che vedendolo arrivare con capelli e barba lunga, vestito di bianco, fece finta di non cono-scerlo e andò ad aspettarlo in macchina. Prima della partenza Maharaji gli aveva raccomanda-to: «Non parlare di me con nes-suno in Occidente!».

    OLTRE IL MATERIALISMORam Dass notoriamente disub-bidì influenzando così genera-zioni di giovani occidentali che cercavano un antidoto al mate-rialismo e al cinismo rampante del capitalismo industriale e po-st. Il resto è storia.

    Ram Dass tiene il primo di-scorso pubblico post-India, in una chiesa Episcopale del New Hampshire, in cui parla del falli-mento delle religioni organizza-te nel creare una connessione con la profondità dell’essenza umana e spiega la parola san-scrita «yoga», nel suo significa-to più comunemente accettato di «unione», unione con l’essen-za divina dell’essere.

    Nel 1972 Ram Dass va in on-da su una popolare radio alter-nativa di Montreal, la trasmis-sione conosce un successo stre-pitoso, verrà replicata da altre radio libere. Molti giovani ini-ziano a riempire gli zaini e a im-barcarsi su voli stand by per l’In-dia. L’Ashram di Neem Karoli Baba, Ram Dass guru, si popola di giovanotti alti e barbuti e di ragazze occidentali con i capel-li lunghi e selvaggi.

    Nel 1971 esce in edizione li-

    mitata e numerata, il libro di Ram Dass Be Here Now. La pri-ma pubblicazione sulle tecni-che e filosofie dello yoga rivolte ai giovani occidentali: in prati-ca come diventare uno yogi se non sei nato induista. Il libro de-finito «bibbia della controcultu-ra», venderà più di due milioni di copie. Steve Job dichiarerà che è il suo libro preferito e Geor-ge Harrison nel 1973 ci scrisse una canzone dallo stesso titolo. Nel libro Ram Dass decifra il co-dice di complicate dottrine filo-sofiche soteriologiche traducen-dole in un linguaggio accessibi-le e accattivante, quasi pop, fil-trato dall’esperienza psichedeli-ca, permettendo, a più di una ge-nerazione, l’accesso a una di-mensione spirituale altrimenti consentita solo a pochi iniziati.

    LA MORTE ESISTELe religioni abramitiche nel cor-so di millenni di lotte egemoni-che per l’affermazione di poteri temporali hanno completa-mente offuscato e inaridito l’i-dea di spiritualità. Ram Dass stesso, che si definiva «ebreo da parte dei genitori» racconta di come la conoscenza delle tradizioni religiose indiane l’a-vesse poi riavvicinato anche all’essenza spirituale delle religio-ni occidentali, rompendo la bar-riera di cinismo che le circonda-va.In India quando chiedevano a Neem Karoli Baba come fare a meditare, il guru spesso rispon-deva: «Meditate come faceva Ge-sù!», provocando una sorta di pa-nico da cortocircuito nel gruppo

    di giovani alternativi provenienti da famiglie ebree o cattoliche, che avevano percorso diecimila chilometri in cerca della saggez-za orientale per sentirsi dire di meditare come Gesù Cristo!

    Già prima di partire per l’India Ram Dass era rimasto colpito dal livello di rimozione della morte nella società occidentale. Dopo un concerto, sotto gli effetti della mescalina andò a trovare la ma-dre che stava morendo in ospeda-le, normalmente una signora bor-ghese molto rigida, era sotto mor-fina per i dolori. Madre e figlio s’in-contrarono così in uno spazio mentale diverso dal solito; nessu-no aveva avuto il coraggio di dirle che stava morendo. Ram Dass sente il dovere di dire la verità, i due si trovarono a parlare del «do-po» e in quel momento ritrovano un’intimità e una vicinanza che avevano dimenticato.

    Al ritorno dall’India il lavoro con i morenti diventa un capito-lo importantissimo nella vita di

    Ram Dass e nella storia di quello che è conosciuto come «hospice movement».

    Nel 1969 esce negli Stati Uniti un libro che farà scalpore, intito-lato On death and dying di Elisa-beth Kubler Ross. Per la società industriale e post, la sola preoc-cupazione era la morte del cor-po, senza riguardo per mente e spirito; la dimensione dell’ani-ma per quelli che ci credevano, era affidata a riti religiosi ormai svuotati di qualsiasi significato, senza nessuna assistenza psico-logica per il morente e i suoi cari. La morte spesso vissuta come una sconfitta della scienza medi-ca, fallimento delle teorie positi-viste di cui la cultura occidenta-le era impregnata.

    Nei primi anni settanta, anco-ra una volta infrangendo un tabù, Ram Dass inizia a tenere confe-renze pubbliche sul tema della morte. La generazione che ascol-tava era quella della Summer of Love. Viene riscoperto l’antico

    Bardho Thodol o Libro Tibetano dei morti che fornisce la mappatu-ra del «viaggio» più importante di un essere umano. Ram Dass rico-nosce in Aldous Huxley, che in-contrò personalmente un paio di volte, un maestro nell’esplorazio-ne del territorio misterioso degli stati liminali della mente, un men-tore in grado di indicare l’inizio di un percorso. «Lasciati andare te-soro, lascia andare questo povero vecchio corpo…Fallo cadere co-me una pila di abiti consunti e vai leggera mia cara…verso la pace che vive nella luce chiara», scrive Huxley nel suo romanzo Isola.

    Per molti anni Ram Dass lavo-ra personalmente e attivamente al capezzale dei morenti, consi-derando questo impegno il più importante per la sua evoluzio-ne spirituale.

    Nella metà degli anni ’80, con l’esplodere della crisi dell’Aids, la «hospice revolu-tion» si rivelerà ancora più pre-ziosa, soprattutto attraverso il la-

    voro nella Bay Area dell’organiz-zazione Livingdying, di cui Ram Dass era stato cofondatore.

    PERDITA DI SÉA nord di San Francisco, il 19 febbraio 1997, il telefono squil-la invano nella casa di Ram Dass. Alcuni amici allarmati ar-rivano nell’abitazione e lo trova-no incosciente. Quella mattina Ram Dass si è svegliato incapa-ce di muoversi e di parlare. In ospedale, capiscono che ha avu-to una massiccia emorragia ce-rebrale, gli danno il 10% di pos-sibilità di sopravvivere. Con tra-gica ironia, il colpo era arrivato mentre lavorava al libro Still He-re: Embracing Aging, Chan-ging, and Dying.

    Ram Dass sopravvive, ma con l’incognita del recupero, la situa-zione sembra disperata. Di fronte al dolore fisico e psicologico, an-ni di pratica e meditazione si di-sintegrarono, intorno a lui tutti lo commiseravano; allora Ram

    Dass si decise a parlare col suo guru, di cui teneva l’immagine sul comodino dell’ospedale e fi-nalmente capì. Ram Dass era già una leggenda, ma nei lun-ghissimi mesi, anni, della riabili-tazione e per il resto della sua vi-ta si troverà a dipendere dagli al-tri per ogni minima cosa, pro-prio lui che nel 1985 aveva pub-blicato un libro intitolato How Can I Help?.

    Dopo aver raggiunto quella consapevolezza, il percorso di recupero diventò molto più fa-cile. La parte destra del corpo rimase paralizzata. Costretto la maggior parte del tempo sul-la sedia a rotelle e affetto da afasia, ma con le capacità co-gnitive miracolosamente in-tatte, Ram Dass continua a in-segnare e a scrivere. Il suo mes-saggio diventerà ancora più profondo e reale.Nel 2004 torna in India, dove contrae un’infezione molto gra-ve. Sulla via del ritorno si ferma

    a Maui, Hawaii, per un ricovero di urgenza in ospedale. Ancora una volta si trova tra la vita e la morte. Nell’ospedale è ricovera-ta anche una donna molto an-ziana, una personalità spiritua-le nell’isola, appartiene a un li-gnaggio sciamanico femminile antico e potente. Le dicono di Ram Dass, lei vuole conoscerlo. Organizzano un incontro. I due si sorridono e restano in silen-zio per un tempo molto lungo, poi la sciamana chiede di esse-re sollevata un po’ di più sui cu-scini, l’espressione attenta e presente, inizia a fare dei gesti ri-tuali in direzione dell’oceano e verso Ram Dass, pronuncian-do parole in lingua hawaiana. È un passaggio di consegne, la donna morirà poco dopo, Ram Dass rimarrà sull’isola per il re-sto della sua vita.

    Nel 2017, cinquantasei anni dopo il primo viaggio psichede-lico di Ram Dass, mi ritrovo su una macchina a noleggio, co-steggiando il mare, in una stra-da piena di curve tra la vegeta-zione lussureggiante di Maui. Seguo le indicazioni che mi ha dato Dassima, svolto a destra su una strada stretta e isolata che si snoda come un nastro bianco a cavallo del verde in-tenso delle colline affacciate sull’oceano.

    Con il favore degli dei, vado in ritiro spirituale a casa di Ram Dass. Il giardino è fitto di piante

    e fiori tropicali, statue di Hanu-man, il dio scimmia, qualche gatto si muove pigro mentre il vento fa tintinnare le piccole campane tibetane appese un po’ ovunque. Il mio alloggio si trova in una casetta separata; appena entro, accompagnata da Rameshwar amico e co-auto-re di molti libri di Ram Dass, so-no sopraffatta con dolcezza dall’odore familiare di sandalo e patchouli, sedersi a meditare sembra l’unica cosa da farsi. Con grande gioia, scoprirò una libreria piena di libri spirituali e di storia delle religioni, molti sottolineati e annotati da Ram

    Dass stesso. Una o due volte al giorno mi incontrerò con lui pri-vatamente nel suo studio che guarda sull’oceano.

    PICCOLO PRINCIPEDurante una delle prime sedu-te vedo sul tavolino accanto al-la poltrona reclinabile, una co-pia del Piccolo Principe di Saint-Exupéry, Ram Dass mi di-ce che lo sta rileggendo dopo moltissimi anni. In fondo è la storia di un aviatore e anche lui lo è stato. Mi offro di leggere ad alta voce. Ogni giorno verso la fine dell’ora stabilita per le no-stre conversazioni spirituali e meditazioni, Ram Dass, ansio-so e sorridente, indica il libro e iniziamo a leggere. Al Piccolo Principe piacciono molto i tra-monti, una volta ne ha visti quarantaquattro in un giorno!

    Il 4 di Luglio dello stesso an-no, aspettando i fuochi dell’In-dependence Day davanti a uno spettacolare tramonto hawaia-no, Ram Dass ha cercato il mio sguardo e ha detto: «Un altro tramonto!». Abbiamo sorriso entrambe pensando al Piccolo Principe e io ho continuato la ci-tazione: «Quando si è tristi, fa bene vedere i tramonti».

    Il 22 Dicembre del 2019 du-rante il solstizio d’inverno, quando il ciclo della luce rico-mincia, Ram Dass ha fatto due respiri profondi, come quelli che fece durante il pri-mo viaggio con la psilocibi-na; dolcemente a 88 anni, si è lasciato scivolare di dosso «la tuta spaziale», come chia-mava il corpo. L’avevo visto dieci giorni prima a Maui du-rante un ritiro di gruppo e ave-vo capito che era pronto. Mi ero commossa di fronte alla sua generosità di voler dare fi-no all’ultimo istante, al piace-re che ancora provava a la-sciarsi scivolare tra le onde dell’oceano.

    Quando mi è arrivata la no-tizia della sua morte ho pen-sato al Piccolo Principe, al vo-lo, ai tramonti e alle tute spa-ziali; le camice hawaiane co-me le indossava lui però non le sa portare nessuno. Sono subito andata a cercarmi un tramonto e ho cantato.

    A sinistra, in alto, Ram Dass al Concert Winterland, 1974, foto Peter Simon ; sotto con Timothy Leary; al centro e in alto a destra, illustrazioni da «Be Here Now»; sotto, Ram Dass insieme al suo guru, Neem Karoli Baba, 1971, foto Balaram Das (Peter Goetsh)

    Infrangendo un tabù, iniziaa parlarein pubblicodella morte,e con la crisidell’Aids, la «hospicerevolution»divienepreziosa

    Nell’Ashram di Neem Karoli Baaba Richard inizia un’esperienza che influenzerà le nuove generazioni in cerca di una spiritualità contro il capitalismo

    MICROMEGAÈ dedicato soprattutto alla crisi climatica il numero di MicroMega in edicola, libreria, ebook e iPad dal 12 marzo, con un’intervista di Telmo Pievani a Piero Angela e interventi di Luca Mercalli, Luca Mercalli in apertura, Gianni Silvestrini, Elisa Palazzi, Peter Wadhams, Stefano Caserini,Marinella Correggia, Matteo Pucciarelli sulla storia del movimento dei Fridays for Future, Serena Giacomin. Inoltre: saggi sull’epopea curda, un inedito di Simone de Beauvoir, Mariasole Garacci su Raffaello, la Xylella in Salento

    CONQUISTANDOMONDI DELL’ALTROVE

    Si ringraziano per il contributo: Love Serve and Remember Foundation Rameshwar Das, Dassima, Lakshman, Rachael Fisher, Vishnu Das.

    SEGUE DA PAGINA 3

    Nel 1971 escein edizione limitata il suo libro,«Be Here Now»,la prima pubblicazionesulle tecniche e filosofie dello yoga rivolta ai giovani occidentali

    4 sabato 14 marzo 2020

  • ai suoi seguaci di portare i due nuovi arrivati a man-

    giare. Fu servito un pasto vege-tariano di eccezionale bontà e i due viaggiatori andarono a ripo-sare. In serata il gruppo si riunì. Questa volta Maharaji invitò Ri-chard a sedersi vicino a lui poi, fissandolo dritto negli occhi, con dolcezza disse: «Ieri notte hai guardato le stelle …Pensavi a tua madre». Poi si ritrasse, soc-chiudendo gli occhi e disse in in-glese: «Spleen» - «È morta per via della milza».

    RAM DASSTutto cambiò. La mente ben al-lenata di Richard cominciò a correre veloce in cerca di spie-gazioni: come faceva Maharaji a sapere? Passò in rassegna tutta la gamma paranoica di possibili complotti, incluso quello che il guru fosse un agente della Cia. Ri-chard non aveva mai detto nem-meno a Baghavan, una parola su sua madre; nessuna delle catego-rie di pensiero che conosceva era applicabile alla situazione. Dopo quella corsa pazza, finalmente, di fronte all’impossibilità di tro-vare una spiegazione razionale, la sua mente si arrese; in quello stesso momento Richard si sentì squassare da un dolore violento al centro del petto, come una for-te scossa che arrivava dall’inter-no più profondo del suo essere, cominciò a singhiozzare in un pianto come non aveva mai pro-vato prima. Il viaggio era finito, fi-nalmente era a casa. Allora Ri-chard Alpert scomparve e iniziò la storia di Ram Dass.

    Ram Dass non si era dimenti-cato della domanda iniziale con cui era arrivato in India. Quel mi-stero della mente che i suoi stu-di di psicologia e gli esperimenti con gli allucinogeni non erano riusciti a risolvere. Dopo qual-che giorno all’Ashram, pensò che probabilmente Maharaji, Neem Karoli Baba, era la perso-na adatta a cui chiedere. La sera, dopo cena, il guru gli si avvicinò «Hai una domanda da farmi?» disse. Ram Dass si emozionò e confuso, dimenticò la doman-da. Il guru parve irritato e chiese: «Dove è la medicina?» Ram Dass

    non capiva di cosa parlasse. Ba-ghavan gli venne in aiuto. «Forse intende l’Lsd». Ram Dass allora andò alla macchina a prendere, il flacone dove teneva le dosi di Lsd. Il guru domandò se la medi-cina conferiva potenza. Ram Dass non capì, pensando che si ri-ferisse a potenza fisica; in realtà la parola usata dal guru era «Sidd-hi» che vuol dire poteri psichici. Maharajii tese la mano con il pal-mo aperto, Ram Dass vi lasciò ca-dere una pillola. Ogni pasticca conteneva 300 milligrammi di Lsd purissimo, una dose cospi-cua per un adulto; il guru ne chie-se un'altra, e un’altra, poi strap-pò dalle mani di Ram Dass la bot-tiglietta, la svuotò, lasciandosi ca-dere in bocca tutte le pillole rima-ste. Ram Dass guardava allibito, terrorizzato di stare uccidendo il suo maestro, ma anche con la cu-riosità del ricercatore.

    Maharaji chiese: «Quanto ci metterà a fare effetto?». «Circa un’ora», rispose Ram Dass. «Im-pazzirò?», chiese di nuovo Ma-haraji. «Probabilmente», rispo-se Ram Dass. Il guru si fece porta-re un orologio, entrambe rima-sero a fissare le lancette. Alla fine dell’ora Maharaji sembrava as-solutamente normale, infatti, chiese: «Hai qualcosa di più for-te?». Poi aggiunse: «Rimanere con la mente fermamente con-centrata sul divino e più forte di qualsiasi sostanza».

    Quando Ram Dass rientrò ne-

    gli Stati uniti, all’aeroporto di Bo-ston lo aspettava il padre Geor-ge che vedendolo arrivare con capelli e barba lunga, vestito di bianco, fece finta di non cono-scerlo e andò ad aspettarlo in macchina. Prima della partenza Maharaji gli aveva raccomanda-to: «Non parlare di me con nes-suno in Occidente!».

    OLTRE IL MATERIALISMORam Dass notoriamente disub-bidì influenzando così genera-zioni di giovani occidentali che cercavano un antidoto al mate-rialismo e al cinismo rampante del capitalismo industriale e po-st. Il resto è storia.

    Ram Dass tiene il primo di-scorso pubblico post-India, in una chiesa Episcopale del New Hampshire, in cui parla del falli-mento delle religioni organizza-te nel creare una connessione con la profondità dell’essenza umana e spiega la parola san-scrita «yoga», nel suo significa-to più comunemente accettato di «unione», unione con l’essen-za divina dell’essere.

    Nel 1972 Ram Dass va in on-da su una popolare radio alter-nativa di Montreal, la trasmis-sione conosce un successo stre-pitoso, verrà replicata da altre radio libere. Molti giovani ini-ziano a riempire gli zaini e a im-barcarsi su voli stand by per l’In-dia. L’Ashram di Neem Karoli Baba, Ram Dass guru, si popola di giovanotti alti e barbuti e di ragazze occidentali con i capel-li lunghi e selvaggi.

    Nel 1971 esce in edizione li-

    mitata e numerata, il libro di Ram Dass Be Here Now. La pri-ma pubblicazione sulle tecni-che e filosofie dello yoga rivolte ai giovani occidentali: in prati-ca come diventare uno yogi se non sei nato induista. Il libro de-finito «bibbia della controcultu-ra», venderà più di due milioni di copie. Steve Job dichiarerà che è il suo libro preferito e Geor-ge Harrison nel 1973 ci scrisse una canzone dallo stesso titolo. Nel libro Ram Dass decifra il co-dice di complicate dottrine filo-sofiche soteriologiche traducen-dole in un linguaggio accessibi-le e accattivante, quasi pop, fil-trato dall’esperienza psichedeli-ca, permettendo, a più di una ge-nerazione, l’accesso a una di-mensione spirituale altrimenti consentita solo a pochi iniziati.

    LA MORTE ESISTELe religioni abramitiche nel cor-so di millenni di lotte egemoni-che per l’affermazione di poteri temporali hanno completa-mente offuscato e inaridito l’i-dea di spiritualità. Ram Dass stesso, che si definiva «ebreo da parte dei genitori» racconta di come la conoscenza delle tradizioni religiose indiane l’a-vesse poi riavvicinato anche all’essenza spirituale delle religio-ni occidentali, rompendo la bar-riera di cinismo che le circonda-va.In India quando chiedevano a Neem Karoli Baba come fare a meditare, il guru spesso rispon-deva: «Meditate come faceva Ge-sù!», provocando una sorta di pa-nico da cortocircuito nel gruppo

    di giovani alternativi provenienti da famiglie ebree o cattoliche, che avevano percorso diecimila chilometri in cerca della saggez-za orientale per sentirsi dire di meditare come Gesù Cristo!

    Già prima di partire per l’India Ram Dass era rimasto colpito dal livello di rimozione della morte nella società occidentale. Dopo un concerto, sotto gli effetti della mescalina andò a trovare la ma-dre che stava morendo in ospeda-le, normalmente una signora bor-ghese molto rigida, era sotto mor-fina per i dolori. Madre e figlio s’in-contrarono così in uno spazio mentale diverso dal solito; nessu-no aveva avuto il coraggio di dirle che stava morendo. Ram Dass sente il dovere di dire la verità, i due si trovarono a parlare del «do-po» e in quel momento ritrovano un’intimità e una vicinanza che avevano dimenticato.

    Al ritorno dall’India il lavoro con i morenti diventa un capito-lo importantissimo nella vita di

    Ram Dass e nella storia di quello che è conosciuto come «hospice movement».

    Nel 1969 esce negli Stati Uniti un libro che farà scalpore, intito-lato On death and dying di Elisa-beth Kubler Ross. Per la società industriale e post, la sola preoc-cupazione era la morte del cor-po, senza riguardo per mente e spirito; la dimensione dell’ani-ma per quelli che ci credevano, era affidata a riti religiosi ormai svuotati di qualsiasi significato, senza nessuna assistenza psico-logica per il morente e i suoi cari. La morte spesso vissuta come una sconfitta della scienza medi-ca, fallimento delle teorie positi-viste di cui la cultura occidenta-le era impregnata.

    Nei primi anni settanta, anco-ra una volta infrangendo un tabù, Ram Dass inizia a tenere confe-renze pubbliche sul tema della morte. La generazione che ascol-tava era quella della Summer of Love. Viene riscoperto l’antico

    Bardho Thodol o Libro Tibetano dei morti che fornisce la mappatu-ra del «viaggio» più importante di un essere umano. Ram Dass rico-nosce in Aldous Huxley, che in-contrò personalmente un paio di volte, un maestro nell’esplorazio-ne del territorio misterioso degli stati liminali della mente, un men-tore in grado di indicare l’inizio di un percorso. «Lasciati andare te-soro, lascia andare questo povero vecchio corpo…Fallo cadere co-me una pila di abiti consunti e vai leggera mia cara…verso la pace che vive nella luce chiara», scrive Huxley nel suo romanzo Isola.

    Per molti anni Ram Dass lavo-ra personalmente e attivamente al capezzale dei morenti, consi-derando questo impegno il più importante per la sua evoluzio-ne spirituale.

    Nella metà degli anni ’80, con l’esplodere della crisi dell’Aids, la «hospice revolu-tion» si rivelerà ancora più pre-ziosa, soprattutto attraverso il la-

    voro nella Bay Area dell’organiz-zazione Livingdying, di cui Ram Dass era stato cofondatore.

    PERDITA DI SÉA nord di San Francisco, il 19 febbraio 1997, il telefono squil-la invano nella casa di Ram Dass. Alcuni amici allarmati ar-rivano nell’abitazione e lo trova-no incosciente. Quella mattina Ram Dass si è svegliato incapa-ce di muoversi e di parlare. In ospedale, capiscono che ha avu-to una massiccia emorragia ce-rebrale, gli danno il 10% di pos-sibilità di sopravvivere. Con tra-gica ironia, il colpo era arrivato mentre lavorava al libro Still He-re: Embracing Aging, Chan-ging, and Dying.

    Ram Dass sopravvive, ma con l’incognita del recupero, la situa-zione sembra disperata. Di fronte al dolore fisico e psicologico, an-ni di pratica e meditazione si di-sintegrarono, intorno a lui tutti lo commiseravano; allora Ram

    Dass si decise a parlare col suo guru, di cui teneva l’immagine sul comodino dell’ospedale e fi-nalmente capì. Ram Dass era già una leggenda, ma nei lun-ghissimi mesi, anni, della riabili-tazione e per il resto della sua vi-ta si troverà a dipendere dagli al-tri per ogni minima cosa, pro-prio lui che nel 1985 aveva pub-blicato un libro intitolato How Can I Help?.

    Dopo aver raggiunto quella consapevolezza, il percorso di recupero diventò molto più fa-cile. La parte destra del corpo rimase paralizzata. Costretto la maggior parte del tempo sul-la sedia a rotelle e affetto da afasia, ma con le capacità co-gnitive miracolosamente in-tatte, Ram Dass continua a in-segnare e a scrivere. Il suo mes-saggio diventerà ancora più profondo e reale.Nel 2004 torna in India, dove contrae un’infezione molto gra-ve. Sulla via del ritorno si ferma

    a Maui, Hawaii, per un ricovero di urgenza in ospedale. Ancora una volta si trova tra la vita e la morte. Nell’ospedale è ricovera-ta anche una donna molto an-ziana, una personalità spiritua-le nell’isola, appartiene a un li-gnaggio sciamanico femminile antico e potente. Le dicono di Ram Dass, lei vuole conoscerlo. Organizzano un incontro. I due si sorridono e restano in silen-zio per un tempo molto lungo, poi la sciamana chiede di esse-re sollevata un po’ di più sui cu-scini, l’espressione attenta e presente, inizia a fare dei gesti ri-tuali in direzione dell’oceano e verso Ram Dass, pronuncian-do parole in lingua hawaiana. È un passaggio di consegne, la donna morirà poco dopo, Ram Dass rimarrà sull’isola per il re-sto della sua vita.

    Nel 2017, cinquantasei anni dopo il primo viaggio psichede-lico di Ram Dass, mi ritrovo su una macchina a noleggio, co-steggiando il mare, in una stra-da piena di curve tra la vegeta-zione lussureggiante di Maui. Seguo le indicazioni che mi ha dato Dassima, svolto a destra su una strada stretta e isolata che si snoda come un nastro bianco a cavallo del verde in-tenso delle colline affacciate sull’oceano.

    Con il favore degli dei, vado in ritiro spirituale a casa di Ram Dass. Il giardino è fitto di piante

    e fiori tropicali, statue di Hanu-man, il dio scimmia, qualche gatto si muove pigro mentre il vento fa tintinnare le piccole campane tibetane appese un po’ ovunque. Il mio alloggio si trova in una casetta separata; appena entro, accompagnata da Rameshwar amico e co-auto-re di molti libri di Ram Dass, so-no sopraffatta con dolcezza dall’odore familiare di sandalo e patchouli, sedersi a meditare sembra l’unica cosa da farsi. Con grande gioia, scoprirò una libreria piena di libri spirituali e di storia delle religioni, molti sottolineati e annotati da Ram

    Dass stesso. Una o due volte al giorno mi incontrerò con lui pri-vatamente nel suo studio che guarda sull’oceano.

    PICCOLO PRINCIPEDurante una delle prime sedu-te vedo sul tavolino accanto al-la poltrona reclinabile, una co-pia del Piccolo Principe di Saint-Exupéry, Ram Dass mi di-ce che lo sta rileggendo dopo moltissimi anni. In fondo è la storia di un aviatore e anche lui lo è stato. Mi offro di leggere ad alta voce. Ogni giorno verso la fine dell’ora stabilita per le no-stre conversazioni spirituali e meditazioni, Ram Dass, ansio-so e sorridente, indica il libro e iniziamo a leggere. Al Piccolo Principe piacciono molto i tra-monti, una volta ne ha visti quarantaquattro in un giorno!

    Il 4 di Luglio dello stesso an-no, aspettando i fuochi dell’In-dependence Day davanti a uno spettacolare tramonto hawaia-no, Ram Dass ha cercato il mio sguardo e ha detto: «Un altro tramonto!». Abbiamo sorriso entrambe pensando al Piccolo Principe e io ho continuato la ci-tazione: «Quando si è tristi, fa bene vedere i tramonti».

    Il 22 Dicembre del 2019 du-rante il solstizio d’inverno, quando il ciclo della luce rico-mincia, Ram Dass ha fatto due respiri profondi, come quelli che fece durante il pri-mo viaggio con la psilocibi-na; dolcemente a 88 anni, si è lasciato scivolare di dosso «la tuta spaziale», come chia-mava il corpo. L’avevo visto dieci giorni prima a Maui du-rante un ritiro di gruppo e ave-vo capito che era pronto. Mi ero commossa di fronte alla sua generosità di voler dare fi-no all’ultimo istante, al piace-re che ancora provava a la-sciarsi scivolare tra le onde dell’oceano.

    Quando mi è arrivata la no-tizia della sua morte ho pen-sato al Piccolo Principe, al vo-lo, ai tramonti e alle tute spa-ziali; le camice hawaiane co-me le indossava lui però non le sa portare nessuno. Sono subito andata a cercarmi un tramonto e ho cantato.

    A sinistra, in alto, Ram Dass al Concert Winterland, 1974, foto Peter Simon ; sotto con Timothy Leary; al centro e in alto a destra, illustrazioni da «Be Here Now»; sotto, Ram Dass insieme al suo guru, Neem Karoli Baba, 1971, foto Balaram Das (Peter Goetsh)

    Infrangendo un tabù, iniziaa parlarein pubblicodella morte,e con la crisidell’Aids, la «hospicerevolution»divienepreziosa

    Nell’Ashram di Neem Karoli Baaba Richard inizia un’esperienza che influenzerà le nuove generazioni in cerca di una spiritualità contro il capitalismo

    MICROMEGAÈ dedicato soprattutto alla crisi climatica il numero di MicroMega in edicola, libreria, ebook e iPad dal 12 marzo, con un’intervista di Telmo Pievani a Piero Angela e interventi di Luca Mercalli, Luca Mercalli in apertura, Gianni Silvestrini, Elisa Palazzi, Peter Wadhams, Stefano Caserini,Marinella Correggia, Matteo Pucciarelli sulla storia del movimento dei Fridays for Future, Serena Giacomin. Inoltre: saggi sull’epopea curda, un inedito di Simone de Beauvoir, Mariasole Garacci su Raffaello, la Xylella in Salento

    CONQUISTANDOMONDI DELL’ALTROVE

    Si ringraziano per il contributo: Love Serve and Remember Foundation Rameshwar Das, Dassima, Lakshman, Rachael Fisher, Vishnu Das.

    SEGUE DA PAGINA 3

    Nel 1971 escein edizione limitata il suo libro,«Be Here Now»,la prima pubblicazionesulle tecniche e filosofie dello yoga rivolta ai giovani occidentali

    sabato 14 marzo 2020 5

  • INTERVISTA » IL FOTOGRAFO ANGLO NIGERIANO AKINBODE AKINBIYI AL GROPIUS BAU

    Il suono dei passi sulla ter-ra rossa delle strade di Ba-

    mako, in mezzo alla marcia convulsa dei taxi gialli di Lagos o nel silenzio carico di tensioni di Johannesburg, ma anche le risate contagiose dei bambini che schiamazzano sulla sabbia della costa africana che guarda l’Oceano Atlantico, come pure il riflesso dell’epressività sui muri dei quartieri multietnici di Berlino - da Wedding a Neukölln - tra incroci, indica-zioni stradali e cartelloni pub-blicitari. Si urla, si canta, si bal-la, si ride, si piange, si parla, si ascolta… nelle immagini di Akinbode Akinbiyi (nato nel 1946 a Oxford da genitori nige-riami è cresciuto a Lagos, at-tualmente vive a Berlino) a cui il Gropius Bau di Berlino dedi-ca la personale Six Songs, Swir-ling Gracefully in the Taut Air, curata da Natasha Ginwala (fi-no al 17 maggio). Il fotografo anglo-nigeriano che ha parteci-pato a importanti esposizioni internazionali, tra cui Africa Re-mix (2004), Documenta 14 (2017) e African Metropolis. Una città immaginaria (2018), restituisce quella visione calei-doscopica e trasversale di un’u-manità che intercetta momen-ti autentici d’incertezza, che sia dolore o felicità, sempre sul-la linea del divenire. Frammen-ti della quotidianità così com’è, senza divagazioni no-stalgiche o superflue «fioritu-re». Anche il mare, come lo cat-tura il suo sguardo (nel forma-to quadrato del fotogramma, perché Akinbiyi usa da sempre la Rolleiflex), è uno spazio fisi-co che contiene elementi flut-tuanti: le storie dolorose di morte e distacco sono messe da parte per lasciare posto ad altri significati, tra cui «l’essere un luogo di divertimento e ag-gregazione per la comunità, con i suoi segreti, le celebrazio-ni, il confronto tra miti antichi e moderni», come precisa la cu-ratrice Natasha Ginwala. «I me-dia europei insistono sull’indi-rizzare il tema del mare verso la tragedia del Mediterraneo, oggi luogo di morte e confini, ma bisogna anche vedere gli al-tri aspetti del mare». Ognuna delle sezioni - Lagos All Roads, African Quarter, Sea Never Dry, Adama in Wonderland e Photography, Tobacco, Sweets, Condoms and their Configura-tions - come suggerisce il titolo stesso della mostra (in italiano «Sei canzoni, turbinando con grazia nell’aria tesa») contiene racconti singoli che diventano corali, in cui la narrazione è affi-data alla relazione tra le imma-

    gini fotografiche (centinaia di foto scattate in oltre qua-rant’anni di attività a cui si ag-giunge il nucleo di provini) e le parole, frammenti di poesie del poeta nigeriano Christo-pher Okigbo (1932-1967). Akin-bode Akinbiyi parla di Okigbo con grande rispetto e ammira-zione, trovando nelle sue paro-le un filo conduttore che passa per il cuore, come si vede nella citazione dei versi di Passage: «Silent faces at crossroads: festi-vity in black… Faces of black li-ke long black column of ants. Behind the bell tower, into the hot garden where all roads mee-ts: festivity in black…» (Volti si-lenziosi all’incrocio: festività in nero… Volti di nero come una lunga colonna nera di for-miche. Dietro il campanile, nel caldo giardino dove si incontra-no tutte le strade: festività in ne-ro…). Bisogna imparare ad ascoltare, prima ancora che vedere, per riuscire ad andare oltre l’apparenza. Lo afferma lo stesso Akinbiyi guardando dritto verso la videocamera nel cortometraggio I wonder As I wonder (2019-2020) girato tra Bamako e Berlino dall’arti-sta visiva, regista e scrittrice Emeka Okerere.«Volti silenziosi all’incrocio: festività in nero...» è uno dei passaggi letterari che ac-compagnano il visitatore in questa mostra. Qual è la rela-zione tra le sue fotografie e la letteratura?

    Ho studiato letteratura inglese e più tardi letteratura tedesca. Avrei voluto diventare scritto-re, ma infine ho scoperto la foto-grafia. Anche la fotografia rac-conta storie! Ho iniziato ad oc-cuparmi seriamente di fotogra-fia alla fine degli anni ’70, prima

    era un hobby. Il percorso espo-sitivo è accompagnato da alcu-ni versi di poesie di Christopher Okipu, un poeta di grande talen-to e con una grande forza mor-to durante la guerra per l’indi-pendenza del Biafra.Nel camminare attraversan-do paesaggi urbani di metro-poli come Lagos, Johanne-sburg, Bamako, Dakar, Berli-no, Chicago… per catturare la memoria del momento c’è un rapporto diretto tra il mondo esterno e il suo mon-do interiore?Ho iniziato a camminare pri-ma ancora di cominciare a foto-grafare. Era un modo per cerca-re di capire il mio ambiente: co-sa vedo, sento, percepisco. Sì, c’è sempre un rapporto ester-no/interno e interno/ester-no… proprio come in una dan-za. È una continua negoziazio-ne dell’equilibrio nel cercare di capire la vita. Quanto ai progetti, ad eccezio-ne di «Adama in Wonderland», realizzato nel 2011-2012 a Jo-hannesburg, tra downtown e i sobborghi, tutti gli altri sono a lungo termine e tutt’ora in cor-so, a partire da «Lagos All roads» e «Sea never Dry» inizia-ti nel 1980. Qual è il suo modo di percepire il tempo?Il tempo è molto importante per me, perché una volta che en-tro in un nuovo spazio non mi fermo. È come quando si ha una relazione profonda che va avanti. Succede agli esseri uma-ni, quando c’è un’amicizia vera non c’è un limite e la relazione continua anche quando soprav-viene la morte. A proposito di morte, la sezio-ne «Sea never Dry » che è dedi-cata al mare prende il nome dalla suggestiva tomba di una donna nigeriana Agnes Nwoli-sa Blankson (1917-95)...La tomba si trova nel vecchio ci-mitero di Lagos e il sopranno-me di quella signora era, come è scritto sull’epigrafe, Sea ne-ver Dry (il mare non si asciuga mai). Ho intenzionalmente ac-costato quest’immagine a quella dei bambini che gioca-no sulla spiaggia. Le mie foto-grafie sono indirizzate verso la ricerca dei diversi momenti in cui l’uomo si rapporta al ma-re, all’acqua, all’aria. L’essere umano, del resto ha un rappor-to privilegiato con questo ele-mento: viene dall’acqua, dal li-quido amniotico.Parlando di linguaggio e tecni-ca, la scelta di fotografare in bianco e nero ha un significa-to specifico?Il bianco e nero, insieme ai pas-saggi tonali del grigio - come di-co sempre - sono i miei colori. Il bianco e nero è più grafico, ma non è che un’altra forma, un al-tro modo per vedere quello che mi circonda.

    Chissà perché avevano deciso di chiamare così

    quella via. E perché una paro-la sola? Mille lire sono due pa-role. Betty e i ragazzi randagi di Mirafiori Sud, frontiera estrema della periferia tori-nese, almeno una volta se lo saranno chiesti. Ma poi, chis-senefrega. In via Domenico Millelire, ufficiale della Re-gia Marina Sarda, i ragazzi randagi, i figli dei «terroni», misurano la vita con il metro del denaro. Non la paga di un padre, guadagnata spu-tando fatica in fabbrica; non gli spiccioli racimolati da una madre facendo lavoretti a domicilio; tantomeno lo sti-pendio modesto di Verdiana e delle altre assistenti sociali del Centro d’incontro.Per i ragazzi randagi, le mille lire possono diventare cin-quemila, cinquantamila, cen-tomila, basta gestire un giro di marchette, spacciare eroi-na e coca, rubare un’auto e ‘trasformarla’, svaligiare un appartamento. Quei soldi ser-vono a sgasare su una moto tra i casermoni e i cumuli di detriti; a esibire stivaletti e ca-micia firmati; a comprarti l’il-lusione di essere diverso da-gli altri. Betty, emarginata in mezzo agli emarginati, prova a scappare, unico compagno il mangianastri rosso. Scap-pa da casa, dalle gabbie delle strutture protette, dalle vio-lenze cui il suo mondo vorreb-be consegnarla. Scappa, e ogni volta torna da Verdiana, chiedendo aiuto senza riusci-re a chiederlo.

    REAZIONI SCOMPOSTEMirafiori Sud è lo scenario di un film, La ragazza di via Mil-lelire. E anche se nulla impe-direbbe di credere che sia sta-to girato oggi, così non è. Gianni Serra, il regista, lo fir-mò esattamente quarant’an-ni fa per Rai 2, scatenando una tempesta che da Torino raggiunse il Festival di Vene-zia e i corridoi della politica. Buona parte dei critici lo fece a pezzi: «Il film più becero dell’anno», Alberto Farassi-no, la Repubblica; «Patrocina-to senza rossore dal comune di Torino... gronda fango d’o-gni parte per colpa di una sce-neggiatura e di una regia com-piaciute del Brutto e dello Sporco fino al cinismo», Gio-vanni Grazzini, Corriere della Sera; «Il film è un cumulo di orrori, provoca solo disgu-sto», Gianluigi Rondi, Il Tem-po. Una manciata di pareri contrari lo difese. Sergio Cro-sati, Il resto del Carlino, «Il meno che si possa dire di un’opera sgradevolissima (ma che vuole esserlo) è che gronda coraggio»; Roberto Silvestri, Il manifesto,«‘Fra strepiti e clamori, presentata a Venezia la prima eroina punk»;«‘In un film che gela l’anima, Serra non va in cerca del pittoresco sottoproleta-rio, non rassicura, non si ar-rende al pianto, al lamento, alla pietà», Mino Argentieri, Rinascita. Umberto Eco e il critico ameri-cano Andrew Morris, membri della giuria del Festival di Ve-nezia, si schierarono per il Leo-

    ne d’oro. La politica approfittò a piene mani dell’occasione. L’allora sindaco di Torino Die-go Novelli venne accusato in consiglio comunale di aver de-turpato l’immagine della città e di aver preso soldi sottoban-co. Bettino Craxi si servì del cla-more negativo che il film ave-va suscitato e silurò il direttore di Rai 2 Massimo Fichera, so-cialista troppo anomalo. Il film passò fugacemente in sa-la, dove l’accoglienza del pub-blico fu ben diversa.

    AL CINEMAGli spettatori che affollarono il Cristallo e il Lirico di Milano tri-butarono ai centodieci minuti di Serra un lunghissimo ap-plauso. Morando Morandini,

    sul quotidiano Il Giorno, con-statò «È un’altra prova che un pubblico di spettatori è spesso più intelligente di un pubblico di critici». Analoga accoglienza, il 29 ottobre, gli riservò, pur fra tensioni e po-lemiche, la platea torinese del cinema Massimo, quat-tromila persone che resero necessarie due proiezioni.

    Lo stesso giorno, tre anni dopo, Rai 2, ormai lontana la tempesta, trasmise La ragaz-za di via Millelire alle 22. 45, introdotto da Tullio Kezich «In questo squarcio di vita tratto dalla realtà sociale del-la Torino degli immigrati, la via è uno dei simboli del quar-tiere Mirafiori Sud, e fa sem-brare Rocco e i suoi fratelli un

    cartone animato... Non sarà gradevole il discorso di Gian-ni Serra, ma non è certo inuti-le. Anche questo è cinema, anche questa è televisione».

    OTTOBREA distanza di quarant’anni, Rai Teche ha recuperato e digi-talizzato il film. L’anteprima era in cartellone al dicianno-vesimo Glocal Film Festival di Torino, cancellato dall’onda del Covid19. Un evento spe-ciale, che suo il curatore Ales-sandro Gaido considera sol-tanto rimandato «Il festival tornerà in ottobre, e ripropor-remo La ragazza di via Mille-lire al cinema Massimo nella stessa data della prima proie-zione». Per quali ragioni il la-

    voro di Serra fu respinto con disprezzo e massacrato al punto da venir definito ‘leta-me’? L’idea di un lungome-traggio sugli adolescenti del-la periferia torinese, in con-comitanza con il 1979 Anno Internazionale del Fanciul-lo, venne a Diego Novelli. Massimo Fichera accolse su-bito la proposta, e fu Ettore Scola, con il quale Novelli aveva scritto Trevico – Tori-no, viaggio nel Fiat Nam cin-que anni prima, a suggerire il nome di Gianni Serra.

    Novelli e Serra ebbero subi-to chiaro ciò che il film non doveva essere «Non un docu-mentario, non una serie di servizi giornalistici, non cine-ma - verità, non una storia

    neorealistica, non -soprattut-to- un’operazione propagan-distica». A film finito, Novelli dichiarò «Serra ci ha offerto uno spezzone di Torino... Uno spezzone è un cuneo in verticale, duro, aspro, pesan-te, terribile ma reale».

    In fase preparatoria si spar-se la voce che quel regista arri-vato da Roma si era documen-tato girando ore e ore di mate-riale in via Artom e in via Mil-lelire, sinonimi topografici di vergogna cittadina; che avrebbe raccontato una sto-ria di droga, prostituzione, furti, stupri, servendosi di at-tori non professionisti, e che la protagonista sarebbe stata una ragazzina quattordicen-ne piccola e grassa; che il Co-mune avrebbe messo a dispo-sizione strutture, servizi e luo-ghi dei set.Ricorda Novelli «Dopo le pri-me indiscrezioni nacquero in-terpellanze e, cosa buffa, co-mitati spontanei per censura-re il film prima ancora di girar-lo». Uno spezzone è un cuneo in verticale, duro, aspro, pe-sante, terribile ma reale. Dice Gianni Serra «Il film fu fatto a pezzi perché non esistevano precedenti di questo genere. Mery per sempre, di Marco Ri-si, altrettanto crudo, arrivò una decina di anni dopo».

    PAESAGGIO URBANOLa ragazza di via Millelire piombò su Torino e sull’Ita-lia con la volgarità di uno slang che mischiava accenti del Sud e accento piemonte-se: diofa (abbreviazione di dio faus, dio falso), picio (cre-tino), purpo (invertito), cago (strizza), playmerda (varian-te di playboy); con quegli ado-lescenti brutti e abbrutiti, ul-timi dal primo giorno della lo-ro esistenza; con un paesag-gio urbano fatto di carcasse d’auto, lampioni e insegne in frantumi, prati mai stati ver-di, strade sterrate ridotte a poltiglia dalla pioggia, andro-ni e cortili di sporcizia e mise-ria; con l’inutile, esasperante tentativo tra Verdiana (una meravigliosa Maria Monti) e Betty (Oria Conforti) di offri-re e di accettare amore.

    Il regista arrivato da Ro-ma aveva compreso che quel mondo si doveva de-scrivere mettendo da parte il catalogo delle buone in-tenzioni, della retorica, del-le utopie salvifiche. Accettò la scommessa. Consegnan-do alla storia del cinema il suo cinico, disgustoso, bece-ro, ripugnante film.

    MANUELA DE LEONARDISBERLINO

    Sei canzoni aggraziate

    ANNIVERSARI » FIRMATO QUARANT’ANNI FA DA GIANNISERRA PER RAI2, SCANDALIZZÒ, ORA TORNA DIGITALIZZATO

    LUCIANO DEL SETTETORINO

    IL FILM

    Al centro ritratto di Akinbode Akinbiyi (foto M. De Leonardis), le foto in pagina: «Lagos, Victoria Island» (2006), courtesy of arstist

    Rifiutato dalletestate dellaborghesiaper lasgradevoleimmaginedi unacittà intoccabile,Torino

    alcune scene di «La ragazza di via Millelire» di Gianni Serra

    La ragazza di via Millelire

    ARCHITECTURE FILM AWARDPromosso da Milano Design Film Festival, in collaborazione con la Fondazione dell’Ordine Architetti PPC della Provincia di Milano, aperto ad opere realizzate nel triennio 2017-2020. Termini di iscrizione e invio dei materiali: entro il 30 giugno 2020. I vincitori verranno annunciati a ottobre 2020, durante l’ottava edizione del MDFF che avrà come tema «Riconnettersi». Una giuria di esperti selezionerà i vincitori tra i film (fiction, documentari, lungometraggi, cortometraggi) sui temi dell'architettura e del paesaggio. info: architecturefilmaward.com

    Un percorsoespositivoaccompagnato da alcuni versi di ChristopherOkipu, un poeta morto durante la guerra di indipendenza del Biafra

    6 sabato 14 marzo 2020

  • INTERVISTA » IL FOTOGRAFO ANGLO NIGERIANO AKINBODE AKINBIYI AL GROPIUS BAU

    Il suono dei passi sulla ter-ra rossa delle strade di Ba-

    mako, in mezzo alla marcia convulsa dei taxi gialli di Lagos o nel silenzio carico di tensioni di Johannesburg, ma anche le risate contagiose dei bambini che schiamazzano sulla sabbia della costa africana che guarda l’Oceano Atlantico, come pure il riflesso dell’epressività sui muri dei quartieri multietnici di Berlino - da Wedding a Neukölln - tra incroci, indica-zioni stradali e cartelloni pub-blicitari. Si urla, si canta, si bal-la, si ride, si piange, si parla, si ascolta… nelle immagini di Akinbode Akinbiyi (nato nel 1946 a Oxford da genitori nige-riami è cresciuto a Lagos, at-tualmente vive a Berlino) a cui il Gropius Bau di Berlino dedi-ca la personale Six Songs, Swir-ling Gracefully in the Taut Air, curata da Natasha Ginwala (fi-no al 17 maggio). Il fotografo anglo-nigeriano che ha parteci-pato a importanti esposizioni internazionali, tra cui Africa Re-mix (2004), Documenta 14 (2017) e African Metropolis. Una città immaginaria (2018), restituisce quella visione calei-doscopica e trasversale di un’u-manità che intercetta momen-ti autentici d’incertezza, che sia dolore o felicità, sempre sul-la linea del divenire. Frammen-ti della quotidianità così com’è, senza divagazioni no-stalgiche o superflue «fioritu-re». Anche il mare, come lo cat-tura il suo sguardo (nel forma-to quadrato del fotogramma, perché Akinbiyi usa da sempre la Rolleiflex), è uno spazio fisi-co che contiene elementi flut-tuanti: le storie dolorose di morte e distacco sono messe da parte per lasciare posto ad altri significati, tra cui «l’essere un luogo di divertimento e ag-gregazione per la comunità, con i suoi segreti, le celebrazio-ni, il confronto tra miti antichi e moderni», come precisa la cu-ratrice Natasha Ginwala. «I me-dia europei insistono sull’indi-rizzare il tema del mare verso la tragedia del Mediterraneo, oggi luogo di morte e confini, ma bisogna anche vedere gli al-tri aspetti del mare». Ognuna delle sezioni - Lagos All Roads, African Quarter, Sea Never Dry, Adama in Wonderland e Photography, Tobacco, Sweets, Condoms and their Configura-tions - come suggerisce il titolo stesso della mostra (in italiano «Sei canzoni, turbinando con grazia nell’aria tesa») contiene racconti singoli che diventano corali, in cui la narrazione è affi-data alla relazione tra le imma-

    gini fotografiche (centinaia di foto scattate in oltre qua-rant’anni di attività a cui si ag-giunge il nucleo di provini) e le parole, frammenti di poesie del poeta nigeriano Christo-pher Okigbo (1932-1967). Akin-bode Akinbiyi parla di Okigbo con grande rispetto e ammira-zione, trovando nelle sue paro-le un filo conduttore che passa per il cuore, come si vede nella citazione dei versi di Passage: «Silent faces at crossroads: festi-vity in black… Faces of black li-ke long black column of ants. Behind the bell tower, into the hot garden where all roads mee-ts: festivity in black…» (Volti si-lenziosi all’incrocio: festività in nero… Volti di nero come una lunga colonna nera di for-miche. Dietro il campanile, nel caldo giardino dove si incontra-no tutte le strade: festività in ne-ro…). Bisogna imparare ad ascoltare, prima ancora che vedere, per riuscire ad andare oltre l’apparenza. Lo afferma lo stesso Akinbiyi guardando dritto verso la videocamera nel cortometraggio I wonder As I wonder (2019-2020) girato tra Bamako e Berlino dall’arti-sta visiva, regista e scrittrice Emeka Okerere.«Volti silenziosi all’incrocio: festività in nero...» è uno dei passaggi letterari che ac-compagnano il visitatore in questa mostra. Qual è la rela-zione tra le sue fotografie e la letteratura?

    Ho studiato letteratura inglese e più tardi letteratura tedesca. Avrei voluto diventare scritto-re, ma infine ho scoperto la foto-grafia. Anche la fotografia rac-conta storie! Ho iniziato ad oc-cuparmi seriamente di fotogra-fia alla fine degli anni ’70, prima

    era un hobby. Il percorso espo-sitivo è accompagnato da alcu-ni versi di poesie di Christopher Okipu, un poeta di grande talen-to e con una grande forza mor-to durante la guerra per l’indi-pendenza del Biafra.Nel camminare attraversan-do paesaggi urbani di metro-poli come Lagos, Johanne-sburg, Bamako, Dakar, Berli-no, Chicago… per catturare la memoria del momento c’è un rapporto diretto tra il mondo esterno e il suo mon-do interiore?Ho iniziato a camminare pri-ma ancora di cominciare a foto-grafare. Era un modo per cerca-re di capire il mio ambiente: co-sa vedo, sento, percepisco. Sì, c’è sempre un rapporto ester-no/interno e interno/ester-no… proprio come in una dan-za. È una continua negoziazio-ne dell’equilibrio nel cercare di capire la vita. Quanto ai progetti, ad eccezio-ne di «Adama in Wonderland», realizzato nel 2011-2012 a Jo-hannesburg, tra downtown e i sobborghi, tutti gli altri sono a lungo termine e tutt’ora in cor-so, a partire da «Lagos All roads» e «Sea never Dry» inizia-ti nel 1980. Qual è il suo modo di percepire il tempo?Il tempo è molto importante per me, perché una volta che en-tro in un nuovo spazio non mi fermo. È come quando si ha una relazione profonda che va avanti. Succede agli esseri uma-ni, quando c’è un’amicizia vera non c’è un limite e la relazione continua anche quando soprav-viene la morte. A proposito di morte, la sezio-ne «Sea never Dry » che è dedi-cata al mare prende il nome dalla suggestiva tomba di una donna nigeriana Agnes Nwoli-sa Blankson (1917-95)...La tomba si trova nel vecchio ci-mitero di Lagos e il sopranno-me di quella signora era, come è scritto sull’epigrafe, Sea ne-ver Dry (il mare non si asciuga mai). Ho intenzionalmente ac-costato quest’immagine a quella dei bambini che gioca-no sulla spiaggia. Le mie foto-grafie sono indirizzate verso la ricerca dei diversi momenti in cui l’uomo si rapporta al ma-re, all’acqua, all’aria. L’essere umano, del resto ha un rappor-to privilegiato con questo ele-mento: viene dall’acqua, dal li-quido amniotico.Parlando di linguaggio e tecni-ca, la scelta di fotografare in bianco e nero ha un significa-to specifico?Il bianco e nero, insieme ai pas-saggi tonali del grigio - come di-co sempre - sono i miei colori. Il bianco e nero è più grafico, ma non è che un’altra forma, un al-tro modo per vedere quello che mi circonda.

    Chissà perché avevano deciso di chiamare così

    quella via. E perché una paro-la sola? Mille lire sono due pa-role. Betty e i ragazzi randagi di Mirafiori Sud, frontiera estrema della periferia tori-nese, almeno una volta se lo saranno chiesti. Ma poi, chis-senefrega. In via Domenico Millelire, ufficiale della Re-gia Marina Sarda, i ragazzi randagi, i figli dei «terroni», misurano la vita con il metro del denaro. Non la paga di un padre, guadagnata spu-tando fatica in fabbrica; non gli spiccioli racimolati da una madre facendo lavoretti a domicilio; tantomeno lo sti-pendio modesto di Verdiana e delle altre assistenti sociali del Centro d’incontro.Per i ragazzi randagi, le mille lire possono diventare cin-quemila, cinquantamila, cen-tomila, basta gestire un giro di marchette, spacciare eroi-na e coca, rubare un’auto e ‘trasformarla’, svaligiare un appartamento. Quei soldi ser-vono a sgasare su una moto tra i casermoni e i cumuli di detriti; a esibire stivaletti e ca-micia firmati; a comprarti l’il-lusione di essere diverso da-gli altri. Betty, emarginata in mezzo agli emarginati, prova a scappare, unico compagno il mangianastri rosso. Scap-pa da casa, dalle gabbie delle strutture protette, dalle vio-lenze cui il suo mondo vorreb-